Il Centro Arcobaleno di rossella0806 (/viewuser.php?uid=773369)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo psicologo, la fisioterapista e il treno in ritardo ***
Capitolo 2: *** Sophie ***
Capitolo 3: *** La panna cotta ai frutti di bosco ***
Capitolo 4: *** Adrien ***
Capitolo 5: *** Sport estremi e nuovi incontri ***
Capitolo 6: *** Chloe ***
Capitolo 7: *** Le due donne di Philippe ***
Capitolo 8: *** Chiarimenti e confusione ***
Capitolo 9: *** Birra e torta al cioccolato ***
Capitolo 10: *** Il derelitto e il poliziotto ***
Capitolo 11: *** Fuoco & Manette ***
Capitolo 12: *** Amal, Fatima e il banchetto di re Alexis ***
Capitolo 13: *** Suzanne ***
Capitolo 14: *** Il gancio ***
Capitolo 15: *** Un sabato assai movimentato ***
Capitolo 16: *** Chiarimenti ***
Capitolo 17: *** Che pasticcio, Philippe! ***
Capitolo 18: *** Damien ***
Capitolo 19: *** La speranza si trasforma in realtà ***
Capitolo 20: *** Il colloquio ***
Capitolo 21: *** L'incontro ***
Capitolo 22: *** L'orologio traditore e la cena con confidenze ***
Capitolo 23: *** La voce della coscienza ***
Capitolo 24: *** La resa dei conti ***
Capitolo 25: *** Qualcosa di cui parlare ***
Capitolo 26: *** Addio o arrivederci? ***
Capitolo 27: *** Le disavventure continuano... ***
Capitolo 28: *** Il colpo della strega ***
Capitolo 29: *** Fiesta! ***
Capitolo 30: *** Un pizzico di agitazione per una tonnellata di felicità ***
Capitolo 1 *** Lo psicologo, la fisioterapista e il treno in ritardo ***
“Il treno degli emigranti”
Non è grossa, non è pesante
La valigia dell'emigrante
C’è un po’ di terra del mio villaggio,
per non restar solo in viaggio …
un vestito, un pane, un frutto
e questo è tutto.
Ma il cuore no, non l’ho portato:
nella valigia non c’è entrato.
Troppa pena aveva a partire,
oltre il mare non vuole venire.
Lui resta, fedele come un cane,
nella terra che non mi dà pane:
un piccolo campo, proprio lassù …
Ma il treno corre: non si vede più
Gianni Rodari
Il monotono cigolare delle ruote del treno era molto simile al rumore delle lancette di un orologio per nulla silenzioso, un celere picchio indaffarato nel costruire il suo nuovo nido.
Philippe Soave era, a suo modo, indaffarato allo stesso modo del volatile sopra citato: stava infatti dividendo i disegni dei bambini dai temi dei ragazzi più grandi del "Centre Arcenciel" di Rue des Parisienne n°17, un anonimo edificio risalente agli anni Trenta, nella periferia più periferia di Versailles.
Per quanto potesse apparire semplice e infantile, l’uomo impiegava una certa dose di perizia nell’eseguire quel compito, strappandosi di tanto in tanto anche qualche sorriso dovuto alle buffe forme impresse sul foglio e agli strafalcioni grammaticali dei suoi alunni.
Quel giorno era mercoledì e, come il resto della settimana eccetto il giovedì che non andava all’ “Arcenciel”, Philippe si era alzato alle sette, si era recato alla stazione di Montigny, il paese dove abitava a una quarantina di chilometri dal luogo di lavoro, si era seduto al solito tavolino del solito bar della stazione, aveva ordinato il solito succo di ACE, vi aveva inzuppato il solito biscotto a forma di otto e ricoperto di cioccolato, e poi era finalmente salito sul treno, direzione Versailles, dove i suoi bambini – come amava definirli lui stesso- lo stavano attendendo.
Philippe aveva trenta anni, e da due lavorava come psicologo infantile al “Centre Arcenciel”, dopo i primi tre trascorsi dalla laurea a impartire ripetizioni scolastiche e universitarie.
Era l'unico uomo in quella sorta di scuola dell’anima, e questo all'inizio gli dispiacque un po’, in quanto aveva un’idea più che precisa di cosa volesse dire avere a che fare ogni giorno con delle donne: Philippe, infatti, era il quarto figlio –primo e unico maschio- dopo tre femmine, di una famiglia in cui persino il cane e il criceto erano femmine, solo il gatto André teneva compagnia a lui e al padre.
Insomma, quando la direttrice dell’ ”Arcenciel” si era complimentata con lui per le brillanti prove scritte psicoattitudinali e fisiche sostenute, il tutto accreditato da un colloquio ineccepibile, lo aveva ironicamente deriso sul fatto che fosse il solo esponente dell’ormai superato sesso forte.
Così, il primo giorno di lavoro, il giovane psicologo aveva avuto un attimo di panico, proprio per la certezza matematica di dover sopportare i pianti nervosi postumi alle puntuali crisi d’amore esistenziali delle colleghe; tuttavia, a questa sua nuova condizione, il povero malcapitato ci fece presto l'abitudine perché, fino ad allora, non si era verificato nulla del genere.
Stretto nel suo sedile, addossato al finestrino che non vedeva una goccia di acqua da mesi, Philippe, camicia rosa tenue con le maniche arrotolate fino ai gomiti e un paio di jeans sbiaditi dai troppi lavaggi, sorrise ancora una volta nel vedere i precari tentativi dei bambini a scrivere correttamente il titolo dell’esercizio grafico che aveva proposto loro quel pomeriggio.
"Stazione di Montigny" avvisò la solita quotidiana voce metallica dell'altoparlante, intromettendosi dal finestrino abbassato per metà.
Il giovane psicologo si riscosse dalla sua metodica operazione di mistaggio: racimolò lentamente i fogli, li ripose nella cartelletta rossa da cui li aveva tirati fuori, e mise il tutto nella vecchia ventiquattr'ore di pelle marrone abbandonata nel posto libero di fianco al suo, valigetta che usava ancora da quando era studente.
Si alzò dal sedile e, attraverso il vetro che rifletteva debolmente la luce del sole al tramonto, lanciò un'occhiata indagatrice verso l'orologio sospeso ad una parete della stazione: le sei e un quarto, constatò con un sorriso Philippe.
Anche per quel giorno aveva vinto la scommessa con Vivianne, la sua vicina di casa, che come lui prendeva la stessa coincidenza, ma un'ora dopo.
I soliti sette minuti di ritardo, pensò l'uomo, anche questa sera mi deve una birra!
Il “Centre Arcenciel” di Versailles non era propriamente un edificio adibito per accogliere i futuri membri della società francese, perfetti eredi di famiglie medio borghesi e ricche.
Gli ideali di uguaglianza, libertà e fratellanza trovavano però un equilibrio perfetto e un modo di esprimersi degno delle migliori intenzioni dei rivoluzionari, proprio all'interno della scuola, che accoglieva bambini e ragazzi dai sei ai quindici anni.
I piccoli ospiti che, a causa di situazioni famigliari a dir poco disastrate potevano alloggiare permanentemente o temporaneamente all'interno del complesso, provenivano dai più disparati Paesi: il Nordafrica in primis, ovvero dall’Algeria, dalla Tunisia e dal Marocco, ma anche dalle antiche colonie francesi, come l'Île de la Reunion, nell'Oceano Indiano, oppure dal Senegal e dalla Guinea.
Ad essere del tutto sinceri, tra i cento bambini e ragazzi che andavano e venivano dal centro, una trentina era discendente di Napoleone al mille per mille, nel senso che erano figli, nipoti e pronipoti di francesi DOC.
Philippe Soave, anche lui in effetti discendente del Bonaparte per le sue origini italiane, insieme alle sue cinque colleghe, si occupava dell'educazione di queste anime: capitava per nulla di rado che, oltre alle sedute terapeutiche, il giovane psicologo si dedicasse anche ad aiutare i bambini -piccoli e grandi- a fare i compiti assegnateli per il giorno dopo, sebbene a volte capitasse che quei dettati o quelle tabelline fossero vecchie già di un paio di giorni.
Fare mansioni extra, era una cosa che non gli dispiaceva affatto, trascurando con piacere gli straordinari di cui non chiedeva mai il rimborso.
Philippe, infatti, si occupava principalmente della classe degli Orsetti lavatori, ovvero dei bambini di otto anni e, da sei mesi a quella parte, anche dei ragazzi di dodici, i quali però si erano categoricamente rifiutati di aver affibbiato un nome, per il rischio che questo fosse troppo simile a quello dei piccoli dell'altra sezione.
Così, semplicemente, Philippe li chiamava i "ragazzi di mezzo".
La TV era accesa sul canale principale: il volume era basso quel tanto che bastava da percepire le prime note di una canzone che lo psicologo -seduto al tavolo quadrangolare di vetro del salotto, e intento a confrontare i lavori di quel giorno con quelli della settimana passata- conosceva molto bene, perché era stata composta da un suo amico musicista per la pubblicità di una nota casa produttrice di automobili.
La storia di François veniva spesso raccontata da Philippe ai suoi ragazzi, per dimostrare che, oltre alla fortuna, in tutte le cose ci vuole anche tenacia, voglia di fare e bravura, il resto – in un modo o nell’altro- sarebbe venuto da sé.
Il suo amico, infatti, era stato preso per partecipare ad uno show di giovani talenti: dopo essersi qualificato terzo, era stato notato da una band dalla popolarità già navigata, e così la carriera di François aveva avuto una vera e propria svolta, tanto da essere scelto come secondo musicista del gruppo in questione.
I pensieri dello psicologo, i capelli neri arruffati dopo la doccia che aveva preceduto la frugale cena di pomodori, pane e insalata, furono interrotti dal suono acuto del campanello: alzò lo sguardo dal mare di fogli disposti metà a ventaglio e metà uno sotto l'altro sul momentaneo ripiano di lavoro, e abbozzò un sorriso.
Si alzò dalla sedia trascinandola leggermente e, la tuta blu indosso e delle pantofole grigie ai piedi nudi, Philippe andò ad aprire la porta di casa.
"Hai vinto, ma non ricominciare con una delle tue solite noiosissime e sempre uguali prediche!" lo salutò una giovane sui venticinque anni, che gli arrivava alle spalle, i capelli biondi naturali raccolti in una coda sgangherata, gli occhi verdi a mandorla, arrabbiati ma divertiti allo stesso tempo.
"Buonasera anche a te, Vivianne!" la punzecchiò Philippe.
"Io davvero non so come sia possibile! Quando lo prendo io, alle sette e zero otto precise entra in stazione! Quando lo prendi tu, appena un'ora prima, arriva in ritardo di sette minuti! Sempre sette minuti, dannazione! E poi, da quando mi sono informata che il macchinista è lo stesso, mi sale ancora di più il nervoso! Come è possibile, dimmi?!"
Lo psicologo la invitò ad entrare con un abbozzato gesto del capo e, precedendola di un paio di passi, la fece accomodare al tavolo su cui stava smistando i disegni nuovi da quelli vecchi.
"Lavoro?" domandò sbuffando, abbandonandosi in equilibrio precario sul gomito, il capo sorretto dalla mano chiusa a pugno.
"Sì” le rispose Philippe, alla ricerca del taccuino verde su cui prendeva appunti e scriveva le sue impressioni, sommerso, come la penna, da quel campo di fogli “devo rendermi conto se la terapia sta facendo effetto! E poi, dopo, passerò a leggere i temi dei mezzani. Tu, invece? Come è andata in palestra?"
"Normale ... “ spiegò faticosamente la ragazza, giocherellando con il lembo di un disegno che era scappato all’ordine frettoloso che la mano di Philippe stava riproducendo.
“Si sono iscritte due nuove signore al corso di respirazione addominale: peccato che avrebbero dovuto prima dimagrire di una cinquantina di chili!"
"Immagino ... dovrebbero essere tutti anoressici come te, per andare d'accordo con il tuo ideale di persona sana!"
Vivianne storse ironicamente la bocca sottile, sbuffando con fare annoiato.
La ragazza lavorava da tre anni in una piccola palestra riabilitativa di Versailles, dopo essersi laureata in fisioterapia: le piaceva molto quello che faceva, ed era anche particolarmente brava e auto critica, tuttavia aveva una strana concezione dell’individuo che generalmente si definisce normale; se pesava infatti oltre i cinquantacinque chili -il suo peso per intenderci - beh, allora la smistava nella categoria Over, l'opposto dei Forme, alla quale lei apparteneva da tempo immemore.
"Ti devo ricordare il motivo per cui mi trovo qui?! Io sarò fissata con il corpo, ma tu, caro mio, se non ti comportassi come uno di quei poveri ragazzini di cui ti occupi, divertendoti a scommettere sull'orario del treno, non dovrei ogni maledetto mercoledì invitarti formalmente a bere una birra!"
Philippe sorrise divertito e, in un gesto di resa, ammise:
"Hai ragione! Ma cosa vuoi farci? Sono fatto così! E poi, non mi sembra che ti costi molta fatica! Dopotutto tuo fratello ha un birrificio, quindi non le devi nemmeno pagare!"
Vivianne si alzò indispettita dalla sedia di fronte a quella dello psicologo.
"Benissimo! Allora ti aspetto di là! La porta, per te, è sempre aperta!"
La ragazza uscì a passo di marcia in direzione del suo appartamento, lasciando Philippe a scuotere il capo, ancora una volta vincitore di quel battibecco settimanale.
NOTA DELL’AUTRICE:
Ciao a tutti! Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto!
Questa storia rappresenta un esperimento che mi piacerebbe riuscisse: non ho ancora le idee chiare, quindi vi chiedo clemenza e pazienza!
Grazie a chi ha letto e grazie a chi vorrà lasciare un proprio commento!
A presto!
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Capitolo 2 *** Sophie ***
La prima volta che vidi Sophie, futuro membro degli “Orsetti lavatori”, stava picchiando Liliane, una delle mie nuove colleghe.
Era un lunedì, ed io mi ero presentato alle otto in punto per prendere servizio nel posto che, da lì in poi, sarebbe stata la sede del mio lavoro per un tempo che speravo – e spero tutt’ora- fosse molto lungo.
La direttrice dell’ "Arcenciel”, Madame Betancourt, mi stava mostrando il centro in tutta la sua magnificenza, illustrandomi il compito educativo e terapeutico di cui si aspettava sarei stato promotore; cercavo di sforzarmi di ascoltarla, rivolgendo ogni pensiero alle sue parole, tuttavia la sua voce era come una ninnananna, monotona e cantilenante, tanto che, quando fummo attratti dalle urla stridule di una bambina, quasi fui felice per quel diversivo che mi avrebbe allontanato dalla prigionia fisica e mentale a cui la donna mi stava sottoponendo per il mio bene.
Ci incamminammo prontamente lungo il corridoio dalle pareti grigie, svoltammo a destra e infine percorremmo quella manciata di passi in direzione della seconda porta a sinistra, il luogo da dove proveniva quel misterioso putiferio di sospiri rabbiosi.
Una signorina di sei anni –età che seppi qualche minuto dopo- dalla pelle color ebano, i capelli ricci stretti in tante treccine colorate, indosso una maglietta bianca e una gonna rosa sbiadita, stava dirigendo i suoi piccoli pugni contro una donna alta il triplo di lei, magra e ossuta, avvolta in un tailleur color pervinca, con i capelli biondi che si muovevano scombinati per seguire il corpo che cercava debolmente di parare i colpi della piccola pugile, che rispondeva al nome di Sophie.
“Non ci faccia caso, signor Soave!” cercò di spiegarmi la direttrice “ è un nostro nuovo “acquisto”: non siamo ancora riusciti a domarla!”
“Domarla?” domandai piuttosto allibito “non mi sembra sia un animale feroce …”
Le guance della integerrima sessantenne vicino a me avvamparono visibilmente e, balbettando parole senza troppa convinzione, cercò di difendersi:
“Ma no, non intendevo questo. E’ solo che è appena arrivata da due giorni, si deve ancora ambientare e …”
“È qui per quale motivo?” domandai sempre più interessato, non accennando minimamente a spostarmi dalla mia postazione, a pochi passi dall’entrata dell’aula dove si stava svolgendo quell’impari lotta.
“Beh, perché… perché … Liliane! Puoi venire un attimo?!”
“No, aspetti” la bloccai io, dirigendomi verso la donna che era appena stata chiamata in causa.
La bambina-pugile si bloccò di colpo, ansimando visibilmente: chinò la testolina piena di treccina, sciolse i pugni e cominciò a piangere.
Poi rimase lì, in mezzo alla stanza, a mezzo metro da un basso tavolo di legno chiaro, attorno a cui erano seduti una decina di altri bambini bianchi e neri.
“Ti presento Philippe Soave, il vostro nuovo collega” cercò di darsi un contegno la direttrice.
Io allungai una mano in direzione della giovane donna di fronte a me che, ad occhio e croce, avrebbe dovuto avere la mia età, come effettivamente scoprii in seguito.
Ci sorridemmo per un breve istante e, dopo che lei mi strinse il palmo destro, le domandai:
“Ciao! Piacere, Philippe. Posso chiederti perché quella bambina si comporta in modo così … particolare?”
Liliane annuì con un’incrinatura timida della bocca sottile:
“Non lo sappiamo ancora con esattezza: si chiama Sophie ed è arrivata da noi due giorni fa, accompagnata da un’assistente sociale. E’ stata tolta alla madre, o meglio, è stata la madre ad abbandonarla davanti a una stazione della Gendarmerie. La bambina ha solo sei anni ed è originaria del Senegal: parla pochissimo, gioca per qualche minuto insieme ai suoi compagni, ma poi si alza e comincia a piangere o a picchiare il primo adulto che le passa vicino. I suoi pugni non fanno male al corpo ma, come puoi ben immaginare, fanno male al cuore, motivo in più che non siamo ancora riusciti a sapere il motivo del suo comportamento”.
Io annuì abbassando lo sguardo per un paio di secondi, poi posai gli occhi su Sophie che, intanto, si stava avviando per riprendere il suo posto: le due bambine sedute di fianco a lei si allontanarono all’istante, strisciando di qualche metro le loro sedie.
“Si sa dove abitava prima? Il nome della madre?” domandai alla mia nuova collega, che scosse il capo e prese a spiegarmi:
“Più o meno. La madre, come ti ho detto, l’ha lasciata davanti ad una stazione della Gendarmerie, tre mattine fa. Quando l’hanno trovata, Sophie aveva solo una borsa con qualche indumento di biancheria intima, un paio di magliette, altrettanti pantaloni, quella gonna che indossa, e un biglietto con scritto “Aiutatela”.
Dal permesso di soggiorno e dal passaporto risulta abitasse in Rue du Chemin de Fer n°51, a una decina di chilometri dalla centrale di polizia.
Solo che, quando quel giorno stesso gli agenti sono andati all’indirizzo indicato, tutti hanno detto di non conoscere Sophie, anzi, per l’esattezza non c’era alcuna famiglia di colore. Forse sono scappati prima del loro arrivo …”
La direttrice continuava a fissare alternativamente il viso di Liliane e il mio, nel nostro ping-pong di sguardi e battute reciproche.
Dietro gli occhiali da miope dalle lenti allungate e le asticelle ricoperte di strass, i capelli grigio scuro tagliati a caschetto e uno sbiadito completo blu elettrico, Madame Betancourt non batteva ciglio, né emetteva un sospiro ad udire quella storia che, con tutta probabilità, non conosceva affatto.
“Quindi la Gendarmerie ha chiamato gli assistenti sociali tre giorni fa?”
Mi stavo rendendo conto che quel mio interessamento stava prendendo la piega di una sorta di interrogatorio, tuttavia era una mia fissazione sapere il più possibile dei bambini con cui avrei voluto e dovuto lavorare da quello stesso giorno, quindi scacciai all’istante quel breve momento di imbarazzo che mi attraversò la mente.
“Sì. Loro, gli assistenti sociali intendo, ce l’hanno portata la mattina successiva al suo ritrovamento. Sai, Philippe, noi siamo un po’ il punto di riferimento per Versailles e, in un certo qual modo, anche per Parigi: i loro centri, molto spesso, sono al collasso”
Io annuii dubbioso circa la storia che Liliane mi aveva appena raccontato, mettendomi al corrente di una verità non del tutto svelata: era terribile immaginare ciò che aveva preceduto la scelta della madre di Sophie di abbandonarla, probabilmente spinta dalla necessità economica, o dalla paura o dal pericolo per la loro incolumità: quel biglietto con la chiara richiesta di aiuto, era infatti una prova dei sentimenti angosciosi che avevano obbligato la donna a separarsi dalla figlia.
“Madame Betancourt” mi voltai in direzione della direttrice, che rappresentava il vertice di quella specie di triangolo che stavamo rappresentando, appena oltre la soglia dell’aula in cui, tutti i bambini eccetto Sophie la pugile, erano impegnati a disegnare o a scarabocchiare sui fogli sparsi sul tavolo di fronte a loro, e le domandai:
“E’ d’accordo se, per stamattina, mi fermo in quest’aula?”
La donna mi guardò sbattendo per un paio di volte le ciglia, come riscuotendosi dall’ipnosi delle nostre parole che l’avevano esclusa fino a quel momento.
“Oh beh, io non saprei. Ci tenevo a completare il giro del centro, così da fornirle un’idea più chiara di cosa vedrà, di come lavorerà e con chi. Però, se proprio insiste, va bene. Le ricordo, signor Soave, che questa non sarà un’aula di sua competenza. Lei è stato assegnato ai bambini di otto anni e …”
“Sì, certo, lo so … appena finirò, se lei sarà libera, proseguiremo più tardi il nostro giro” mi affrettai a completare la frase, giusto per tranquillizzarla “è solo che vorrei aiutare Liliane a capire il motivo per il quale Sophie continua a comportarsi in questo modo. Da domani mattina mi assegnerà completamente al mio lavoro. Grazie per la sua comprensione” tagliai corto, entrando con estrema solennità nell’aula.
Tutti i bambini alzarono le loro teste lisce o ricciute che fossero: con il pennarello nella manina dominante bloccata a mezz’aria e lo stupore tipico infantile negli occhi, fissarono il loro sguardo nel mio.
Alzai la destra in segno di saluto, accompagnando il mio gesto con un sorriso:
“Ciao a tutti! Sono Philippe, e per qualche ora vi farò compagnia insieme a Liliane. Vi va di parlare un po’ con me?”
I dieci ospiti della stanza –esclusa la piccola pugile- si misero comodi sulle sedie piccole e basse: appoggiarono sul tavolo gli strumenti da lavoro con cui fino a quel momento si erano divertiti, mentre quattro di essi annuirono ricambiando il mio sorriso di incoraggiamento.
“Molto bene!” incominciai, prendendo posto di fianco a Sophie, in uno dei lati lasciati volutamente vuoti, come fossero le due sponde del Mar Rosso al passaggio di Mosé.
“Dunque, il mio nome ve l'ho già detto. Ho trent’anni, vivo da solo a Montigny, un paesino abbastanza vicino da qui. I miei genitori si chiamano Edmond e Nadine, hanno origini italiane, però abitano a Lione. Ho anche tre sorelle più grandi, Claire, Jeanne ed Agnése, un cane di nome Sylvie e un gatto, almeno lui maschio, André. Quando ero poco più grande di voi, avevo un criceto che si chiamava Lise.
Mi piace molto il mio lavoro, ma nel tempo libero adoro suonare il pianoforte, leggere romanzi storici e d’avventura, ascoltare la musica pop e guardare un bel film in Tv o al cinema! Ah, e poi, qualche volta, vado anche a teatro! I miei colori preferiti sono l’azzurro e il verde, e adoro tutti i tipi di dolci, soprattutto quelli al cioccolato! Ecco, questo è quello che sono! Adesso voi mi conoscete un po’ di più di …” guardai l’orologio come se fosse la cosa più importante del mondo “ quattro minuti fa! Ora, se Liliane me lo permette e se voi volete, mi farebbe piacere che vi presentaste! Mi basta sapere il nome, per il resto decidete voi che cosa raccontarmi: io non ho fretta!” conclusi tutto d'un fiato.
E la magia era stata creata: i bambini avevano cominciato a guardarmi con vivo interesse e una montagna di curiosità nei loro occhi. Ero riuscito nel mio primo intento, quello di risvegliare l’attenzione verso l’altro, verso un perfetto estraneo, è vero, che però era stato sincero, e aveva avuto il coraggio – o meglio, la sfacciataggine, vista la noiosissima descrizione personale che avevo elargito- di aprirsi a quello spicchio di mondo davanti a loro, al sicuro nella loro aula, con la loro insegnante e psicologa.
Liliane si avvicinò e, in piedi dietro di me, esordì:
“Avanti, bambini! Philippe è stato così gentile da raccontarci della sua famiglia! Cosa ne dite se anche noi facciamo lo stesso?!”
Posai subito lo sguardo in direzione di Sophie, la quale non accennava ad alzare il suo.
La testolina riccioluta era costantemente abbassata verso la parte del tavolo su cui sedeva, le mani affondate tra le pieghe della gonna rosa.
“Potete alzarvi in piedi, se volete, oppure rimanere al vostro posto!” continuai per incoraggiarli, sebbene mi rendessi perfettamente conto che non era necessario, in quanto scoppiavano letteralmente dalla voglia di parlare, ma aspettavano solo un segnale, ovvero che il più coraggioso prendesse la parola per primo.
“Potete anche disegnare su quella lavagna ... ” mi voltai verso Lilianne, per avere la muta conferma che effettivamente ottenni.
Un bambino piuttosto alto per i suoi sei anni, magro e dalla pelle chiara, si alzò in piedi, le braccia lungo i fianchi, ritto come un soldatino.
“Io mi chiamo Françoise, sono nato il 14 luglio ad Aix en Provence: non ho mai conosciuto mio papà, perché ha lasciato la mia città quando avevo pochi mesi. Dopo se ne è andata via anche la mamma, così sono cresciuto con la nonna, la mamma della mamma. Però adesso si è fatta male ed è in ospedale, così, fino a quando non si rimetterà, dovrò rimanere qui al “Centro”. Va bene?” mi domandò solennemente.
“Certo, Françoise, va benissimo! Sai che anche un mio amico si chiama come te? Lui è un musicista! A proposito, a qualcuno di voi piace la musica?”
“A me piace la batteria!” alzò la mano una bambina di colore, i capelli ricci raccolti in una piccola coda “il mio papà la suona ed è bravissimissimo!”
L’ora che seguì fu un susseguirsi di sorrisi e di riflessioni: ciascuno di quei dieci bambini mi raccontò un pezzettino della loro storia di abbandoni momentanei o apparentemente duraturi, ma tutti lo fecero con il tipico candore che caratterizza la loro età.
Solo Sophie, la piccola pugile, non ebbe il coraggio o la forza di dirmi nulla, almeno fino a quando mi rimisi in piedi, soddisfatto per la confessione di gruppo a cui avevo dato avvio.
Le gambe si erano intorpidite, ma non mi era pesato affatto rimanere su quella sedia troppo minuscola per il mio metro e ottanta.
Nonostante le insistenze gentili ma costanti di Liliane rivolte a Sophie, lei continuava a mantenere lo sguardo basso.
Mi avvicinai alla mia nuova collega, la quale ne approfittò per dirmi:
“E’ stato bello: il tuo modo di esprimerti li ha affascinati. La sincerità è fondamentale per creare un buon rapporto con loro, eppure non sempre serve. Il nostro centro è diviso in classi, un po’ come una scuola: alcune sono aperte già al mattino, come questa, altre invece si riempiono solamente il pomeriggio, per fare il vero lavoro terapeutico. Tutto dipende dalle varie esigenze di noi psicologi ma, soprattutto, dal fatto se i vari gruppi che seguiamo frequentino regolarmente o meno la scuola pubblica, venendo qui solo in appoggio.
Ogni bambino e ragazzo che incontrerai ha una storia più o meno traumatica alle spalle, tanto che molti di loro sono costretti a rimanere qui per chissà quanto tempo ancora. Ci vuole pazienza, Philippe, ma sono sicura che con la tua classe ti troverai bene …” Liliane mi appoggiò una mano sulla spalla, sorridendomi come per incoraggiarmi.
Condividevo le sue parole, però non riuscivo a giustificare quella sorta di rassegnazione che vedevo trasparire dai suoi occhi blu.
“Certo, capisco. Mi ha fatto molto piacere trascorrere quest’ora con voi. Prima di pranzo tornerò a farvi un saluto, adesso vado a recuperare la direttrice, così potrà finire di farmi fare il giro del “Centro”!”
Salutai calorosamente i bambini, chiamandoli ad uno ad uno con il proprio nome, in modo da aumentare quell’abbozzo di complicità che speravo si fosse formato.
Rivolsi un sorriso anche alla mia nuova collega, subito dopo avevo già un piede oltre la soglia, quando sentì un rumore provenire dal tavolo dove erano seduti i bambini: la sedia su cui, fino a un minuto prima, era incollata Sophie, la bambina pugile, era stata scaraventata a terra, mentre lei si stava dirigendo a passo spedito verso di me.
Quando arrivò al traguardo che si era prefissata, chiuse i pugni e cominciò a batterli contro le mie cosce, o meglio, contro le mie ginocchia, data la sua ancora scarsa altezza.
Dopo una decina di quei colpì sferrati con la più cupa disperazione, si fermò, mi guardò negli occhi e, senza piangere, mi spiegò:
“Tutti sono cattivi! Tutti! La mia mamma me lo dice sempre! La picchiano, e lei mi chiude in bagno perché così mi protegge e non posso vedere! Ma io sento che lei grida, soprattutto all’inizio, poi non sento niente. Fa i singhiozzi, quelli li sento bene. Poi, quando il signore se ne va, lei apre la porta del bagno, si asciuga gli occhi con il braccio, e mi abbraccia forte e tanto … io picchio per difendermi, come mi ha insegnato la mamma”.
Ebbi appena il tempo di guardare Liliane, in piedi vicino a me, perché poi ci portò fuori, a me e a Sophie, mentre imponeva agli altri bambini di stare zitti e fermi, fino al nostro ritorno.
Io mi abbassai e presi le mani della piccola pugile: gliele strinsi con delicatezza, ma lei non si ribellò al nostro primo vero contatto, e di questo fui felice.
“La tua mamma ha ragione, Sophie: ci sono molte persone cattive, ma non tutte. La tua maestra ed io non lo siamo, vogliamo solo aiutarti a stare bene con gli altri tuoi compagni. Qui ti vogliamo bene, per questo ci preoccupiamo per te. Hai sentito prima? Gli altri bambini hanno avuto dei problemi con le loro famiglie, così sono stati portati qui per un po’ di tempo, fino a quando le loro mamme e i loro papà potranno tornare a riprenderli e a portarli a casa”
“Lei si chiama Aimée … “
“La tua mamma?” domandai con voce bassa e comprensiva, sempre accucciato di fronte alla piccola pugile.
“Sì … mi ha promesso che presto tornerà a prendermi, proprio come hai detto tu”
“E adesso dov’è andata? Lo sai?”
Sophie fece di no con la testa intessuta di trecce:
“In un’altra città, mi ha detto, perché non voleva farsi trovare dal signore cattivo. Però poi torna, me lo ha promesso!”
“E il tuo papà? Non viveva con voi?”
“No. Lui è tornato nel nostro Paese, in Africa. Ma io ero piccola, mi ricordo pochissimo di quando stavamo insieme”
“Posso abbracciarti?” domandai titubante, ma speranzoso che mi concedesse questa opportunità.
“Sì … però forte e a lungo, come fa la mamma …”
Io obbedii con gioia: dopo minuti che ovviamente non contai, mi rialzai.
Liliane aveva gli occhi lucidi, così cercai di sorriderle e di farle l’occhiolino.
Presi nella mia la mano destra di Sophie e, guardandola ancora una volta, la riportai in classe.
A distanza di due anni da quel turbolento incontro, Aimée aveva contattato la figlia solo cinque volte, telefonicamente per il suo compleanno e per Natale, e con una lunga lettera che la piccola ex pugile teneva sempre con sé, e di cui nessuno è mai riuscito a sapere il contenuto di quei cinque fogli che Sophie legge ogni giorno, quando si alza al mattino e quando va a dormire.
Quando abbiamo provato a domandarle come avesse fatto la madre a trovarla, la piccola ex pugile rispose che era stata una stella a mostrarle l'indirizzo del centro.
Per quanto riguarda il "signore cattivo", non siamo ancora riusciti a scoprire dove si nasconda e chi sia, ma voglio e devo scoprirlo.
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Capitolo 3 *** La panna cotta ai frutti di bosco ***
Aprii l’armadio della camera da letto e una sensazione molto simile a un attacco di panico s’impadronì di me: mi accorsi, infatti, di non avere abiti che si potessero definire particolarmente eleganti, soltanto un paio di completi di velluto a coste, ma scartai subito l’idea di indossarne uno, dal momento che era aprile e faceva decisamente troppo caldo: perciò chiusi l’anta a sinistra, e mi concentrai su quella alla mia destra.
In questa parte del mobile, il guardaroba era invece prettamente estivo: T-shirt extra colorate, camicie color pastello a maniche corte, calzoncini sopra il ginocchio con le tasche laterali, due paia di pantaloni bianchi di lino, qualche jeans … per farla breve, nulla che potesse anche solo lontanamente assomigliare ad un vestito adatto per l’occasione a cui di lì a poco avrei partecipato, ovvero una cena con una donna.
Richiusi anche quell’anta e, sospirando leggermente, andai a tuffarmi sul letto.
Allargai braccia e gambe a ventaglio, serrando gli occhi pigramente: la luce del tramonto filtrava appena dalle pesanti tende color panna che nascondevano la finestra, a un paio di metri da dove ero sdraiato.
Con un occhio lanciai uno sguardo alla sveglia verde mela appoggiata sul comodino alla mia sinistra, sobbalzando all’istante: le sei e quaranta, accidenti!
Ero in ritardassimo: era giovedì, quindi non ero andato al “Centre Arcenciel” dove lavoravo da tre mesi, e avevo trascorso il mattino e il pomeriggio a bighellonare in giro per il paese, prima a fare la spesa, poi a passeggiare nel parco, arrivando fino al fiume, infine, dopo un pranzo tipicamente da single, mi ero stravaccato sullo sgangherato dondolo del fazzoletto di giardino che possedevo a leggere “La famiglia Karnowski” di I.J. Singer, fratello del premio Nobel per la letteratura.
Arrivato a metà del meraviglioso romanzo, chiusi malvolentieri il libro e, facendo leva sulle forze che mi erano rimaste, mi rifugiai in bagno per prepararmi alla grande serata, in perfetto orario con la mia tabella di marcia.
Dopo essermi reso conto dell’ora, mi alzai dal letto da una piazza a mezza, e mi pentii per una manciata di secondi di averle detto di sì: ero l’uomo più abitudinario che conoscessi, forse perché di persone del mio sesso non ne conoscevo così tante, dal momento che la mia famiglia era composta quasi esclusivamente da donne, e gli amici che avevo erano pochi e abitavano tutti a Lione, la città in cui ero nato ventotto anni prima.
Anzi, ripensandoci, la cena di quella sera venne fuori un po’ per scherzo, dal momento che lei era solita invitare le colleghe a casa, una volta a settimana, per trascorrere una serata insieme, e quella volta decise di invitare me, forse per non farmi sentire in minoranza, anche se effettivamente, attorniato da quattro donne più la direttrice, lo ero eccome.
Ritornando a quel tardi pomeriggio di due anni fa, mi diressi strascicando i piedi avvolti nei calzini verso il caro e vecchio armadio che non mi aveva aiutato, appena un paio di minuti prima, a trovare il giusto abito per la serata.
Riaprii entrambe le ante contemporaneamente, nella speranza che potesse apparire un completo elegante di cui non mi ero accorto, ma così non fu.
Quindi decisi che, la prima cosa su cui mi fosse caduto l’occhio, sarebbe stato la mia mise per la cena.
Purtroppo devo ammettere che la dea bendata, la Fortuna, era evidentemente indaffarata a fare qualcosa di più interessante, perché lo sguardo si focalizzò su una Polo color ciliegia e un paio di jeans che definire eleganti sarebbe stato un insulto al produttore.
“Poteva anche andare peggio”, mi consolai e, con una scrollata di spalle, agguantai l’impeccabile completo che avevo rimediato per, rassegnato, indossarlo.
Scesi le scale di legno che dal soppalco -dove avevo stabilito la camera da letto e ricavato un bagnetto- portavano nel piccolo soggiorno adiacente ad un’altrettanta minuscola cucina.
Qui aprii il frigo e presi la bottiglia di vino bianco che avevo deciso di portare per celebrare quella serata.
Dopodiché andai verso la credenza azzurro chiaro dove, quel mattino dopo la grande spesa, avevo riposto la scatola di cioccolatini che avrei portato.
Ero indeciso se comprare anche dei fiori, ma non mi sembrò una bella idea: in effetti, quella non era una cena galante, o meglio, lo era sì, però non in quel senso.
Nessuno dei due, infatti, si stava impegnando in una relazione che non era ancora minimamente iniziata, quindi perché creare false illusioni?
Soddisfatto almeno per il bottino che avrei portato, ero pronto per indossare il mio giubbotto di tela blu, l’indumento più elegante che indossassi -dopo le scarpe sportive, per intenderci- quando sentii il campanello.
Mi diressi verso la porta d’entrata, un braccio infilato nell’eskimo e l’altro penzolante sulla maniglia.
“Ciao, Philippe!” Vivianne, la mia vicina di casa, la giovane e peperina fisioterapista, mi si parò davanti tutta sorridente, con una confezione da sei bottiglie di birra tra le mani.
Allora, due anni fa, non facevamo ancora la gara a scommettere sui minuti di ritardo del treno Parigi-Montigny, perché fino a sei o sette mesi fa –non ricordo bene con precisione- il nostro mezzo arrivava invariabilmente e ovviamente in orario.
Quindi, il mercoledì sera dopo cena, giorno che in seguito avremo fissato per gustarci la mia vittoria – sì, perché ahi lei vincevo sempre io- non brindavamo con l'artigianale birra di suo fratello, ma ognuno se ne stava rintanato a casa propria.
“Ciao, hai bisogno di qualcosa?” la salutai un po’ perplesso per quell’inaspettata incursione: erano le sette e, fino a prova contraria, non sarebbe dovuta essere ancora arrivata, perché il treno che la portava fino a Montigny, dove per l’appunto abitavamo, rallentava in stazione solo dieci minuti dopo.
“No no, tranquillo! Oggi pomeriggio sono uscita prima, così mi sono ricordata del tuo appuntamento galante, ed eccomi qua a portarti un piccolo regalino da dare alla tua bella!”
I suoi occhi azzurri e i capelli biondi naturali raccolti nell’immancabile coda sprizzavano un’allegria di cui non riuscivo a comprendere la fonte.
“Ehm … ti ringrazio” cercai di balbettare, purtroppo non troppo convinto “però non credo sia adatto: sai, una confezione di birre da regalare a una donna non so se le farà piacere … ”
“Oh Cielo, Philippe! Ci conosciamo da un anno, e questo è il tuo primo appuntamento galante! Non dirmi che appartieni a quella categoria di uomini che crede che le donne non possano bere più di un bicchiere di vino ai pasti perché altrimenti si ubriacano?! Beh, se è così, mi cade un mito, sai?! Insomma, mica ve le dovete scolare tutte stasera, lasciatene un po’ per le cene che verranno, no?!” e mi strizzò l’occhio in maniera ammiccante, come se avessi dovuto cogliere al volo la non troppo velata allusione a cui si stava riferendo.
“Adesso sei tu quella che non mi conosce!” sbottai, facendo un tono e una smorfia da offeso, che però non mi si addicevano per nulla “ per chi mi hai preso, scusa? Per un incallito dongiovanni?!”
“Ho capito …” sbuffò sconfitta Vivianne “ vorrà dire che la tua quasi fidanzata si perderà queste meraviglie artigianali del mio caro fratellone! Io, comunque, te le lascio” e mi mollò il carico da undici tra le mani, un secondo prima che finisse per terra.
“Agli ordini, capo!” la accontentai, reggendo le sei piccole bottiglie come se pesassero un quintale.
“Bene, io il mio compito l’ho portato a termine! Ora tocca a te! Domani fammi sapere come è andata, sempre se tornerai prima di sera … “ e giù un'altra strizzatina d’occhio.
“Certo che tornerò, stupida! Domani devo andare al lavoro!”
Vivianne mi regalò un altro dei suoi formidabili sorrisi e se ne andò, attraversando sculettando esageratamente il vialetto che separava la sua casa dalla mia.
Alle otto meno dieci, trequarti d’ora dopo il viaggio sulla mia Peugeot rossa, suonavo alla porta di un’elegante palazzina a tre piani dai lunghi balconi di ferro nero, poco fuori Parigi.
Non posso dire di essere stato nervoso nel momento in cui il mio indice si avvicinava deciso al campanello in finto oro del videocitofono, perché più che altro non pensavo a nulla, davvero.
Dopo che lei mi ebbe aperto, salii l’unica rampa di scale che mi divideva dall’appartamento: aprii titubante la porta d’ingresso socchiusa, nella speranza di trovare qualcuno che mi attendesse.
“Permesso …” avanzai cauto, nel timore che avessi capito male il piano che mi era stato detto pochi secondi prima.
“Vieni, Philippe! Sono in cucina! E’ la prima porta a sinistra!”
Attraversai il lungo corridoio che si affacciava su un grazioso salotto arredato in stile Country.
Quando arrivai nel luogo designato, attratto da un forte odore di bruciato, trovai Liliane intenta a far raffreddare una pentola sotto l’acqua fredda del rubinetto, tegame che –una volta- avrebbe dovuto contenere qualcosa di commestibile, ma che adesso sembrava un’accozzaglia di fumo e poltiglia nera.
“Oh scusami se non ti sono venuta incontro!” mi salutò quasi con le lacrime agli occhi: era bella, sì, molto carina con quel grembiule giallo e le margherite stampate sopra, che le copriva in parte il tubino nero di pizzo che indossava, un abito che non poteva competere minimamente con l’eleganza del mio sontuoso completo.
“No, figurati. Uhm … vuoi una mano?” le domandai titubante, cercando di non metterla ulteriormente in imbarazzo.
“Non preoccuparti. Anzi, scusami ancora se ti accolgo in questo modo: penserai che sono un’imbranata, che non sono in grado di fare nemmeno una stupida cena e … perdonami, davvero!”
La poverina lasciò andare senza troppi complimenti la padella e il suo contenuto bruciacchiato, che sfrigolò all’istante contraddetto nel lavandino mezzo inondato.
Poi sbuffò vistosamente, e andò a sedersi su una delle quattro sedie lì vicino, abbandonandosi a qualche lacrima.
Devo ammettere che provai una certa pena per la mia collega del “Centre”, perché capivo quanto ci stesse rimanendo male: anch’io, infatti, quando prendevo un impegno a cui tenevo particolarmente, cercavo in ogni modo che tutto andasse per il meglio.
“Cosa vai a pensare, Liliane?! Adesso siediti, per favore, a tutto il resto penserò io!”
Appoggiai sul tavolo quadrangolare ricoperto da una graziosa tovaglia verde con delle grandi rose rosse, la borsa più piccola con i cioccolatini e la bottiglia di vino bianco, seguita da quella più grande con la confezione di birre.
“Ti ho portato … beh, non so come definirlo. Sono giusto due cose per ringraziarti della serata”
“Ma quale serata, Philippe?! Quale?! E’ per quello che non riesco a trovare uno straccio di fidanzato dopo Matthieu: aveva ragione a dirmi che sono una buon annulla!”
“Non dire così” le andai vicino e mi sedetti nel posto di fianco al suo “possiamo sempre rimediare! Io non sono molto bravo, ma sono sicuro che insieme riusciremo a preparare qualche cosa che assomigli ad una cena!”
Riuscii finalmente a strappare un sorriso a Liliane, la quale, come illuminata da un’idea favolosa, propose entusiasta:
“Che ne dici se prenoto dal cinese? O dal giapponese! O anche dall’indiano! O magari preferisci un ristorante italiano?!”
“Frena un attimo!” la bloccai io, non riuscendo a reprimere un sorriso “a questo punto permettimi almeno di invitarti fuori a cena: dal momento che abbiamo capito che da soli non siamo in grado di mangiare qualcosa di decente, perché non far cucinare agli altri?!”
I suoi begli occhi verdi smisero all’istante di piangere:
“Sei stato così gentile da farti tutta questa strada in macchina solo per assecondare una mia sciocca richiesta, e poi ti faccio anche uscire? No, Philippe, non credo sia una bella idea”
“Insisto!” m’impuntai io, mettendola sul ridere “sono venuto con piacere solo perché me lo hai chiesto, Liliane, quindi sarei molto felice se tu accettassi il mio invito fuori a cena! Dopotutto, sono solo le otto e dieci, abbiamo tutta la notte davanti a noi!”
La mia collega si asciugò gli occhi con un fazzoletto di stoffa che tirò fuori dal grembiule ancora indosso, quindi sorrise stancamente ed annuì, ringraziandomi per la pazienza che le stavo riservando.
Lanciò un’occhiata sconsolata in direzione del lavello, ora camposanto per la padella e il nostro ex banchetto, quindi agguantò la borsetta e una giacca di panno bianco dall’appendiabiti vicino all’entrata, ed uscimmo di casa.
Sarei un bugiardo se dicessi che quella sera mi annoiai: mi divertii molto, invece, perché Liliane era ed è una donna veramente simpatica e spiritosa, molto acculturata, dai gusti letterari e cinematografici pressoché uguali ai miei.
Aveva un gatto anche lei, Leon, perché con un sorriso mi confessò di essere“ troppo pigra persino per portare fuori un cane a passeggio”, felino che aveva pensato bene di scappare sotto il letto quando aveva sentito le urla di disperazione della padrona e, soprattutto, l’odore pungente delle crespelle e della ratatouille che la poverina aveva cercato di preparare.
Solo il dolce si era salvato, perché l’aveva comprato nella pasticceria dell’ Arrondissement vicino a casa, una panna cotta ai frutti di bosco che non ebbi nemmeno il piacere di vedere.
La portati in un tipico ristorante italiano, una trattoria che avevo scoperto durante gli anni dell’Università, arredato con delle grandi stampe a muro dei film di maggiore successo del mio Paese d’origine.
Mentre gustavamo il tiramisù, Liliane mi disse:
“Sei stato davvero molto gentile, Philippe, a portarmi fuori a cena! Te ne sarò grata per il resto della vita!”
“Addirittura?!” scherzai a mia volta “dovevamo pur mettere qualcosa sotto i denti, giusto?”
“Sì, hai ragione! E poi questo è veramente un bel posto: si mangia benissimo e non è nemmeno lontano da casa! Credo proprio che ci verrò molto spesso!”
Ridemmo entrambi, poi lei ridivenne seria e, affondando per l’ultima volta il cucchiaino nel dolce, confessò:
“Sai, quando la scorsa estate io e Matthieu ci siamo lasciati, ero a pezzi. Avremmo dovuto sposarci ad agosto, appena due mesi dopo, ma sapevamo entrambi che quel matrimonio non ci sarebbe mai stato” mentre beveva un sorso di vino, io ne approfittai per domandarle:
“Era da tanto che stavate insieme?”
“E’ stato il mio primo e unico ragazzo: ci siamo conosciuti una decina di anni fa, durante una gita alle superiori. Lui faceva parte di un’altra classe del Liceo che frequentavo: prima di quei giorni, l’avrò vistò due o tre volte, eppure ne rimasi subito affascinata” Liliane abbassò imbarazzata la chioma bionda e liscia, avvolta in un piccolo chignon da cui scendevano due ciocche ai lati.
“Ci scambiammo i numeri di telefono e, una volta rientrati a Parigi, cominciammo ad uscire. Per farla breve, la nostra storia stava andando a gonfie vele fino allo scorso anno, quando lui vinse un concorso per andare a lavorare in Australia. Sai, Matthieu è un ingegnere biomedico, e in quel Paese cercano persone qualificate in questo campo … ”
Liliane sorrise per un attimo.
“Perché ridi?” le chiesi, facendo lo stesso a mia volta.
“E’ buffo: una psicologa che dopo tre anni di questo mestiere racconta le sue disavventure amorose a un collega! Non avrei mai pensato di ridurmi così, almeno non in tempi così brevi!”
In quel mentre mi ricordai della “paura” che mi aveva attanagliato quando venni a sapere da Madame Betancourt, la direttrice, che al “Centro” sarei stato l’unico uomo, convinto di dovermi sorbire le isteriche lamentele delle mie colleghe donne.
Ebbene, la confessione di Liliane non la classificai in questi termini, perché lei stava raccontando senza isteria o pianti a non finire la sua storia, era semplicemente conscia del dolore che aveva provato e per cui, molto probabilmente, soffriva ancora a parlare, ciononostante non me la faceva pesare come se fosse l’unica al mondo ad aver passato una situazione del genere.
E di questo ne fui contento, tanto che la incoraggiai a proseguire nel suo racconto.
“Non c’è molto altro da dire. Matthieu mi chiese di partire con lui per l’Australia, ma non ero pronta. Mollare ogni cosa, la famiglia, il lavoro, le amicizie, la mia casa, non era una cosa che mi sentivo di fare.
Lui partì alla fine di febbraio: ci sentivamo tutti i giorni tramite Skype, è vero, ma non era la stessa cosa, Philippe. Fatto sta che, a giugno, due mesi prima del matrimonio, abbiamo deciso di lasciarci. O meglio, è stato lui a darmi il benservito, ma non gli do tutti i torti …”
“La ragione non sta mai tutta da una parte. Se non te la sentivi, hai fatto bene! Vorrà dire che non era l’uomo adatto per te e che, forse, non ti meritava!”
Liliane mi sorrise arrossendo leggermente:
“Sei troppo gentile, Philippe, non devi dire queste frasi di circostanza, non sono necessarie, davvero. Adesso sto meglio, e mi rimetterò completamente, ne sono sicura!”
“Sarà così sicuramente: sei una donna forte, e con il lavoro che abbiamo scelto, so che ci vuole ben altro per lasciarti intimidire da qualcosa o da qualcuno! Pensa a questo, e vedrai che ogni cosa troverò il giusto incastro nella tua vita …”
“Ti vorrei dire una cosa che non ho detto a nessuno, però promettimi di non giudicarmi …”
Io annuii concentrato, ormai coinvolto dalle parole che uscivano dalla sua bocca sottile e ben disegnata.
“Dimmi, ti ascolto”
“Dopo che ci siamo lasciati, scoprii di essere incinta. O meglio, già lo sapevo, ma non lo avevo ancora detto a Matthieu, per la paura che, a causa mia, rinunciasse al suo sogno e alla carriera.
Così abortii: non sono orgogliosa di quello che ho fatto, Philippe, anzi, appena ogni volta che ci penso, mi pento terribilmente, però non si può tornare indietro …” Liliane sospirò e abbassò gli occhi verdi, poi concluse dicendomi:
“Ecco, mi sembrava giusto dirtelo, non so perché, però me lo sentivo. Scusa, ho parlato solo io!” sghignazzò per stemperare la tensione.
“Non ti devi scusare di nulla” le sorrisi, sfiorandole una mano “ sono onorato di aver ascoltato la tua storia: mi fa piacere che tu ti sia fidata a tal punto di me da arrivare a confidarti. Quindi permettimi di ringraziarti”
“Smettila, dai!” ribatté, sottraendosi al mio sguardo e al mio contatto “così mi fai arrossire e ricomincerò a piangere!”
Poi ci guardammo negli occhi e cominciammo a ridere: senza un perché, felici di aver parlato e di aver ascoltato.
Riaccompagnai la mia amica e collega a casa, dopo aver fatto una breve passeggiata lungo la Senna, mentre una leggera brezza primaverile ci accarezzava.
Erano quasi le undici quando mi rimisi in macchina per tornare a Montigny, un po’ assonnato ma contento di quella serata.
“Aspetta …” mi fermò Liliane, avvicinandosi alla portiera della Peugeot “domani mattina io andrò a lavorare, quindi avrai casa libera. Se vuoi, puoi fermarti a dormire da me: uno spazzolino nuovo e un pigiama di mio fratello ce li ho, quindi non ti fare problemi a rimanere … sempre che ti faccia piacere, ovviamente”.
Aveva ragione: lei, l’indomani, come ogni giorno, sarebbe andata al “Centro” per le lezioni del mattino, mentre a me spettavano quelle del pomeriggio.
Quindi, in realtà, non ci sarebbe stata alcuna vera ragione di assecondare la sua gentile richiesta, però devo ammettere che non avevo alcuna voglia di fare tutta quella strada a quell’ora, timoroso di essere vittima di un colpo di sonno.
“Va bene, grazie per la tua ospitalità” dissi semplicemente, riscendendo dalla macchina.
Lanciai un’occhiata verso il cielo illuminato di stelle e con al centro la Luna, una palla chiara e lattescente, bellissima.
Aspettai che le luci della mia fuoriclasse si spegnessero, e seguii Liliane nell’androne di casa.
Per la cronaca e per Vivianne a cui lo ripetei una trentina di volte, quella notte non successe nulla; o meglio, una cosa accadde: ci sdraiammo sul divano – io in realtà sulla poltrona- del soggiorno a vederci un bel film horror, con Leon, il gatto cenerino della mia amica e collega, allungato vicino alla sua padrona.
Andammo a dormire alle tre di notte, con le lacrime agli occhi dal ridere per lo spavento, e nello stomaco una bella cena italiana.
Mi svegliai facendo colazione con la panna cotta ai frutti di bosco che, appena la sera precedente, rimpiansi di non aver visto né assaggiato.
Liliane, infatti, mi lasciò il dolce intatto nella confezione, sul tavolo con la tovaglia verde e le grandi rose rosse, accompagnato da un bigliettino: “Grazie per ieri”.
Io sorrisi e, assaporando il dessert, pensai che sì, era valsa la pena di accettare quell’invito, perché mi ero inaspettatamente e tanto divertito.
NOTA DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Spero che questo capitolo, così come la storia in generale, continui a piacervi!
Come avete capito, Philippe sta raccontando avvenimenti di due anni prima, quando ha iniziato a lavorare al “Centro”: più avanti vi spiegherò in quale occasione sta utilizzando il flashback!
Per alleggerire un po’ la narrazione, credo che continuerò ad alternare capitoli in cui vi racconterò le storie dei bambini seguiti dal nostro protagonista, a quelle degli altri personaggi che incontreremo.
Grazie moltissimo a chi legge e recensisce!
Ripeto, mi farebbe un immenso piacere sapere cosa ne pensate del mio “esperimento”: lasciatemi un messaggio, quando e se volete/avete tempo, accetto anche critiche costruttive!
Grazie ancora!
A presto!
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Capitolo 4 *** Adrien ***
arcobaleno 2
Quando comunicai a mia madre Nadine, dopo essermi diplomato
al liceo linguistico ormai undici anni fa, che mi sarei iscritto a
Psicologia, lei mi guardò come se le avessi appena
preannunciato la catastrofe del secolo:
“Ma Philippe, ti rendi conto di quello che stai dicendo? Lo
psicologo serve a te, se davvero vuoi intraprendere una strada del
genere! E’ un lavoro molto pericoloso, caro, potresti
incontrare dei pazzi criminali, degli assassini! Non pensi anche a
questo?! insomma, sei il mio unico figlio maschio”
Io cercai di spiegarle in modo ragionevole, stritolato come il Laocoonte, che una
simile evenienza era qualcosa da mettere in conto, ma non ai livelli
tali con cui lei stava affrontando il discorso, tanto più
che era solo un’idea che si era formata nella mia testa, dopo
aver assistito ad una conferenza al liceo che frequentavo, dove un noto
psicologo infantile era venuto a tenerci una lectio magistralis
sul tema dell’immigrazione e delle problematiche ad essa
correlate, con particolare attenzione ai bambini e ragazzi delle banlieues parigine.
Quando invece, la stessa sera a cena, informai mio padre Edmond della
decisione che ormai avevo preso, conseguenza del battibecco infinito con mia madre, lui, forchetta a mezz’aria con cui aveva appena
infilzato un broccoletto, mi guardò in faccia e, sorridendo
e brandendo il pezzo di verdura, si congratulò dicendomi:
“Oh molto molto bene, Philippe! Finalmente avremo un medico
in casa! Che immensa soddisfazione! Domani mattina, al lavoro,
sarà la prima cosa che dirò ai colleghi!
Bravissimo, davvero un’ottima scelta, figliolo!” e
coronò l’apologia con una considerevole pacca
sulle spalle.
A quelle parole -anzi, a quella vera e propria eresia- mia madre si
voltò verso di lui, gli lanciò
un’occhiata di fuoco e lo colpì con uno schiaffo
sul braccio, rimproverandolo per la “scarsa mancanza di polso”
che aveva sempre avuto con me, “solo perché
è il nostro unico figlio maschio!”
Io, dato che ero il diretto interessato, cercai di ribattere con calma,
facendogli capire che Psicologia non è Medicina, anche se mi
avrebbero chiamato dottore, ma non ci fu verso.
Soltanto il giorno della laurea, quando vide il diploma con la scritta
nero su bianco, mio padre si convinse che non avrei fatto parte della
categoria dei camici
bianchi, eppure la prese piuttosto bene: infatti mi
abbracciò e, stringendomi la mano, riuscì solo a
dire “bravo,
davvero bravo!”, mentre mia madre piangeva e
zampillava lacrime come i giochi d'acqua di una fontana.
Si tranquillizzò nel momento in cui le dissi che avrei
scelto la specialistica in Psicologia infantile: mi strinse tra le sue
braccia e mi baciò, sussurrandomi con voce trasognata,
proprio come se avesse appena assistito ad un miracolo “sono molto orgogliosa di te,
Philippe!”.
Non so quale differenza notò nelle parole che le avevo
comunicato, rispetto a quando la misi al corrente della
Facoltà a cui mi sarei iscritto: forse pensò che
bambini e ragazzi non avrebbero potuto rivelarsi pericolosi criminali e
assassini, e questo bastò a tranquillizzarla.
Adrien è uno dei dieci ragazzi che costituiscono la sezione
dei “Mezzani”.
Ha dodici anni, è nato a Saint-Denise, la capitale
dell’Ilê de la Reunion, ma vive a Parigi da quando
ha iniziato le elementari.
E’ arrivato all’ “Arcenciel”
qualche mese dopo la mia assunzione, due anni fa, in una situazione
veramente disastrosa.
Aveva trascorso parecchio tempo in ospedale e in una casa famiglia, a
causa dei numerosi incidenti di cui era stato vittima per mano della
madre.
La donna faceva uso quotidiano di LSD, una droga allucinogena, che
manda in estasi ma che rende l’individuo pericoloso per se
stesso e per gli altri.
La prima volta che Adrien si trovava in casa nel momento in cui il
genitore era ancora sotto l’effetto della sostanza, aveva
sette anni, e se la cavò solamente con qualche graffio ed
ecchimosi sul collo e sulle mani, perché la madre lo aveva
scambiato per un pericoloso mostro da catturare e sconfiggere; dopo
un’altra decina di episodi del genere -l’ultimo
che, per l’appunto, lo portò al “Centre”qualche
mese dopo il mio arrivo- non gli andò così
fortunatamente come per le volte precedenti, tanto da doverlo
ricoverare per quattro settimane in ospedale, nel reparto di
Traumatologia.
Il ragazzino, infatti, aveva fatto un volo dal primo piano del piccolo
appartamento in cui abitava con la madre e il compagno di lei, molto
probabilmente l’uomo che le procurava la droga, spinto dallo
stesso genitore, mentre Adrien cercava di accontentarlo, recuperando il
braccio e la gamba che la donna sosteneva irosamente di aver perso
fuori dalla finestra.
I vicini di casa che poco dopo rientrarono dalla spesa, lo videro e
chiamarono immediatamente l’ambulanza, la quale
arrivò e, una volta accertata la situazione, si
premurò insieme ai medici del reparto di contattare la
polizia e i servizi sociali.
I genitori di Adrien vennero portati in una comunità di
recupero, mentre il figlio, dopo essere guarito dalle fratture di
omero, coste e caviglie, divenne ospite di una casa famiglia parigina,
dove trascorse cinque mesi prima di essere destinato al “Centre”.
Dico destinato perché credo sia stato il Fato, la buona
sorte, la dea bendata, insomma definitelo come preferite, a unire la
sua sfortunata strada alla nostra.
All’inizio Adrien era naturalmente spaventato e, soprattutto,
chiuso in se stesso: la sua classe non rientrava nelle mie
“mansioni”, occupandomi solamente dei bambini di
otto anni, ma durante le attività ricreative in giardino o
nei laboratori comuni, notavo quanta difficoltà avesse nel
rapportarsi con i suoi coetanei e con noi adulti.
Poi, però, appena riusciva a spogliarsi
dell’armatura con cui era solito proteggersi, diventava un
bambino assolutamente come tutti gli altri, allegro e di compagnia.
Adesso che, da sei mesi a questa parte mi occupo anche dei “Mezzani”,
posso affermare con orgoglio quanto Adrien sia un ragazzino sveglio e
intelligente, con un dono meraviglioso tra le mani
–è proprio il caso di dirlo-.
Dipinge con gli acquerelli come se avesse fatto quello da tutta la
vita: non ama molto scrivere, anche se quando lo obbligo – a
volte, purtroppo, devo anche fare il “maestro
cattivo”, altrimenti Madame Betancourt, la direttrice del
“Centre”
mi bacchetterebbe con quella sua voce monotona e cantilenante -riesce
bene anche in questo.
Ma dategli un foglio, un cartoncino, un giornale, un pennello e i
colori, e diventa un vero e proprio artista!
Quando durante il primo intervallo pomeridiano che facemmo insieme,
tutti i suoi compagni corsero fuori come fossero stati colpiti
da una tarantola, per godersi la torta della mensa, lui mi
fermò, mi diede un colpetto sul braccio e mi chiese il
permesso di rimanere in aula, io lo guardai e gli domandai
semplicemente il perché di questa misteriosa richiesta.
Insomma, la merenda era il momento che i ragazzi aspettavano con
trepidazione per poter sfuggire alle mie “grinfie”,
ovvero alle mie richieste di disegni, dettati e colloqui.
Adrien, invece, in piedi davanti sulla soglia, con il suo viso magro,
la maglietta arancione e un paio di pantaloncini beige, mi
spiegò con una certa dose di timidezza:
“E’ l’unico momento in cui posso
dipingere. Quando le lezioni finiscono, chiudete le aule fino al giorno
dopo, così non riesco mai a trovare un po’ di
tempo per farlo. Ma ti prometto che metterò tutto in ordine
prima che finisca la merenda! Te lo prometto, Philippe!”
sancì solennemente, mettendosi la mano sul cuore.
Io sorrisi e, spettinandogli con dolcezza i capelli biondi e
già arruffati, lo presi per mano e lo condussi verso
l’armadio in cui teniamo l’occorrente per disegnare
e dipingere: lo aprii e tirai fuori una confezione di fogli A4, un
album di cartoncini colorati, una specie di tavolozza di plastica con i
colori, ma poi mi fermai.
“Non trovo i pennelli … tu sai dove
sono?” domandai ad Adrien, mentre infilavo la testa ancora
più dentro, spostando disordinatamente le scatole di
pennarelli, matite e pastelli a cera che adesso non servivano.
“Devi guardare nel cassetto in basso a sinistra: la signora
Trevoir li teneva lì” mi rispose entusiasta,
indicandomi con gli occhi lucenti il luogo esatto.
Allungai la mano in quella direzione, presi l’unica
confezione che vidi, e porsi anche l’ultimo pezzo del
malloppo ad Adrien.
“Ecco! Ti serve qualcos’altro?” domandai,
richiudendo le ante dell’armadio.
“No, va benissimo! Grazie, Philippe, è perfetto!
Con tutto l’occorrente, il ragazzino andò a
sedersi ad uno dei due tavoli dell’aula, quello vicino alla
finestra: appoggiò con delicatezza i fogli,
l’album, la tavolozza e la confezione con i pennelli.
Poi la aprì, e scelse accuratamente un paio di essi, uno con
la punta sottile, e l’atro con una più
rotondeggiante.
Rivolse l’attenzione ai plichi di carta bianca davanti a lui:
tirò fuori due fogli e li dispose in bella vista a fianco ai
pennelli.
“Adrien, cosa vuoi dipingere?”
Nel tempo in cui era concentrato a sistemare i suoi strumenti
da lavoro, io mi ero avvicinato e, prendendo posto di fianco a lui, mi
informai sul progetto che avrebbe messo in atto di lì a poco.
“Oh, beh, non saprei …”
ribatté timidamente “di solito mi guardo attorno e
scelgo così, a caso. Altre volte, invece, vado alla finestra
e aspetto di vedere qualcosa che mi colpisce tanto da sceglierlo.
Però, il tempo è poco, così, la
maggior parte delle volte, chiudo gli occhi e penso a dove vorrei
essere, e dipingo quello che immagino”
“Allora sei un vero artista! Non credo sia semplice dipingere
in mezz’ora! Voglio dire, se uno è davvero un
pittore, il tempo di certo non ti aiuta, e questo dimostra che sei
molto bravo!”
“Grazie, ma come fai a dirlo, se non hai mai visto nessuno
dei miei acquerelli?” arrossì Adrien.
“Perché mi fido di te. Ufficialmente ci conosciamo
solo da oggi, ma non è la prima volta che ti vedo, e so
–anche dalle belle parole che la signora Trevoir mi ha detto-
che sei un ragazzino che s’impegna molto in quello che fa, e
se rinunci a fare la merenda insieme ai tuoi compagni per fermarti qui
e dipingere, allora vuol dire che è una cosa che ti piace
tanto da essere importante per te”
Lui annuì e abbassò gli occhi: prese il pennello
con la punta rotondeggiante, quella all’apparenza con le
setole più morbide e, cominciando a passarlo sul dorso della
mano opposta, confessò:
“La signora Trevoir mi piaceva molto: era brava con me, e mi
ha aiutato quando sono arrivato qui. A lei piacevano molto i miei
disegni, tanto che gliene ho regalati due, adesso che se ne
è andata.
Diceva che da grande sarei diventato famoso in tutto il mondo, come
quei pittori di cui ci parlava sempre, gli Impressionisti. Io non lo so
che cosa voglio fare da grande, però mi dispiacerebbe darle
un dispiacere. So solo che, quando dipingo, mi sento felice! La signora
Trevoir ci diceva che la felicità è una cosa
difficile da raggiungere, ma quando uno riesce ad afferrarla, deve fare
di tutto per tenersela stretta. Anche papà, quando
dipingeva, era felice …”
“Stai parlando del signore che viveva con te e la
mamma?”
“No!” ribatté quasi arrabbiato Adrien,
alzando lo sguardo e smettendo di giocherellare con il pennello.
“Il mio vero papà, intendo! Quando siamo arrivati
in Francia, lui non è venuto con me e … la mamma.
Poi, dopo un po’, lei ha conosciuto Edouard, ma da allora
è cambiata. Sorrideva con una faccia strana,
perché era diventata strana. Quando prendeva la sua
medicina, diventava un’altra persona: prima era come se
dovesse svenire, poi si trasformava. E allora era allegra, rideva in
continuazione, ma diceva un sacco di cose che non capivo. Io, quando la
vedevo così, uscivo di casa e andavo da Maximilien, il mio
migliore amico: lui abita nella strada dietro la mia, cioè,
dietro quella in cui vivevo. Me ne stavo lì fino a cena, a
volte anche a dormire, perché dicevo ai suoi genitori che
lei ed Edouard erano andati a lavorare fuori Parigi. Loro ci credevano,
tanto non la vedevano mai … “
“Ti manca la mamma?”
Adrien arricciò il naso e, riprendendo tra le mani il
pennello, mi rispose con voce sicura:
“No, non mi manca. Però vorrei tanto ritornare a
casa, magari insieme al papà”
“Sai dov’è?”
“Quando ero in ospedale, mi chiamava tutte le sere, ed
è venuto a trovarmi qualche volta. Ma lui lavora
a Saint-Denis ... fa il pittore!”
Mi fece una grande tenerezza, mentre pronunciava con orgoglio quella
parola: era come se avesse detto che il padre fosse il Presidente della
Repubblica, o un eroe decorato con una medaglia d’oro per
qualche missione super segreta.
Sapevo dalla signora Trevoir che il genitore di Adrien non poteva
prendersi cura del figlio, a causa delle precarie condizioni economiche
in cui versava: non aveva un lavoro fisso, viveva di espedienti, e la notte era ospite in una sorta di dormitorio per senzatetto.
Per questo non tentai nemmeno di intavolare un discorso a riguardo,
perché ero a conoscenza del fatto che, per fortuna, suo
figlio era all’oscuro dell’esistenza alla giornata
che il padre conduceva.
“Ah, davvero?! Ecco da chi hai preso la passione per il
disegno con gli acquerelli! Fossi in lui, sarei molto orgoglioso di
te!”
“Oh ma lo è! Io gli scrivo sempre, tutte le
settimane! Gli parlo di quello che faccio qui al centro, dei miei
compagni, di voi insegnanti, di quello che mangio, delle belle cose che
imparo! Gli ho anche mandato la fotografia della signora Trevoir! Ah, e
una volta al mese Madame Betancourt mi permette di chiamarlo!”
“E di cosa parlate?” domandai, le braccia
incrociate sul tavolo.
“Mi racconta che è diventato famosissimo, che
adesso è impegnato con un quadro molto importante, del
sindaco e della sua famiglia, per questo non può venire a
trovarmi! L’ultima volta che ci siamo visti è
stato l’anno scorso, per il mio compleanno, e spero tanto che
anche quest’anno mi faccia la stessa sorpresa!”
Io gli sorrisi, pizzicandogli una guancia: in quel momento mi
ritornò in mente l’abbraccio affettuoso e le
carezze che mi elargì mia madre il giorno della laurea,
quando mi confessò di essere orgoglioso per la specialistica
che avrei conseguito.
Ebbene, sei mesi fa, quando Adrien mi stava raccontando parte della sua
storia di cui ero già a conoscenza, mi sentivo allo stesso
modo: era come se fosse mio figlio, non so bene come spiegarlo.
Lui un genitore ce lo aveva, certo, ma non potevano
ricongiungersi a causa del maledetto dio denaro, e la cosa mi sembrava e
mi sembra squallida ed ingiusta.
Si crogiolava in una bugia detta a fin di bene, e questo mi infondeva
una tenerezza infinita.
Aveva rischiato la sua stessa vita, a causa della madre, la persona che
per definizione avrebbe dovuto proteggerlo da qualsiasi male, da
qualsiasi situazione sgradevole e che, invece, vittima del compagno e
della droga che le forniva, lo aveva ridotto in un modo tale da
mandarlo in ospedale per quasi un mese.
Tra tutti i bambini e i ragazzi che avevo conosciuto in quei due anni
al “Centre”,
Adrien mi appariva come uno tra i più sfortunati, da
difendere dalle sofferenze che avrebbe dovuto incontrare ancora nella
sua vita, lungo la strada dell'esistenza che ancora lo attendeva.
Eppure, sembrava così ingenuo, molto più
infantile rispetto ai dodici anni anagrafici, ma allo stesso tempo era
–ed è- un ragazzino sensibile ed estremamente
intelligente, versatile in qualsiasi situazione in cui lo si mette: non
si lamenta dei compiti che assegno alla classe, è tra i
primi ad arrivare in aula, il pomeriggio, e l’ultimo ad
uscire.
E quando penso che dal “Centre”
non esce mai, perché è diventato la sua casa da diciotto mesi, che ogni mattina e ogni sera scende e sale da quelle
scale che conducono alle camere da letto e ai bagni comuni, che vive
nella convinzione che il padre sia un pittore famoso, che
per questa fantomatica carriera non può occuparsi di lui
– un controsenso, se si ragiona con la nostra mente da adulti
e da estranei alla situazione-, non posso far altro che provare una
grande rabbia, un impotente senso di ingiustizia che mi attanaglia le
membra e si spinge fin dentro la bocca dello stomaco, impedendomi di
fare o di pensare a qualsiasi altra cosa.
Vorrei solo che fosse felice, esattamente come tutti i piccoli ospiti
dell’ ”Arcenciel”,
perché deve essere così, perché non
può essere così per sempre, perché la
vita che hanno passato è già stata abbastanza
difficile per qualsiasi persona, perché devono riacquistare
la fiducia in essa … semplicemente perché non
posso sopportarlo.
“Philippe … a cosa pensi?”
Adrien mi riscosse dall’arringa che mentalmente stavo
costruendo, appoggiandomi una mano sul mio braccio.
“A niente. Anzi, pensavo che tra un po’ arriveranno
i tuoi compagni, e che per colpa mia non hai ancora potuto cominciare
il tuo disegno! Scusami, adesso me ne vado e ti lascio
lavorare!”
“Non devi scusarti! Mi ha fatto piacere parlare con te! Sai
una cosa?!”
Io mi alzai in piedi, le mani nelle tasche, e scossi il capo:
“No, che cosa?”
“Sei quasi simpatico come la signora Trevoir!”
Sorrisi felice per quel paragone di cui ero stato protagonista.
Mi stavo già avviando in corridoio, per andare anche io in
mensa, quando mi voltai in direzione di Adriene, lo sguardo affranto
per la dimenticanza di cui mi ero macchiato:
“Non abbiamo preso l’acqua! Come farai altrimenti a
dipingere?!”
Rientrai in aula alla ricerca di un bicchiere o di un piattino di
plastica da riempire: trovai una scatola abbandonata di latta, forse di
pennarelli, la agguantai e andai dritto di filato in direzione del
bagno a qualche metro di distanza dall’aula.
Quando ritornai, porsi l’elemento fondamentale al ragazzino,
che mi guardò ed esclamò un grazie.
Lo vidi aprire la tavolozza, intingere il pennello dalla punta fine
nell’acqua, poi in uno dei colori:
“Vorrei farti un ritratto … vuoi?” mi
domandò semplicemente.
Annuii stupito, pronto a lasciarlo al suo lavoro, ma ritornai per la
seconda volta sui miei passi:
“Veramente ti piacerebbe? Ne sarei molto orgoglioso, Adriene,
davvero molto!”
Presi posto sulla sedia di fronte a lui, dall’altro lato del
tavolo: mentre mi mettevo in posa, dando un certo tono da modello al
viso sbarbato, pensai che, un giorno, avrei voluto avere un figlio
così, forte nelle avversità, capace di rialzarsi
e di credere in un sogno, portando avanti la sua passione con tenacia ed
ottimismo.
Sì, ne sarei molto orgoglioso …
NOTA
DELL’AUTRICE
Ciao a tutti, e
grazie per aver letto anche questo capitolo!
Spero tanto che vi
sia piaciuto!
Ringrazio con
affetto e gratitudine chi recensisce!
Un abbraccio,
a presto!
|
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Capitolo 5 *** Sport estremi e nuovi incontri ***
Tutte le mattine raggiungo la stazione mezz’ora
prima rispetto l’orario in cui prendo il treno, solo per
osservare la moltitudine di gente che mi scorre davanti.
Mia madre avrebbe davvero da ridire, perché questa mia
curiosità verso il mondo lei non l’ha mai compresa
fino in fondo: ha sempre avuto un occhio esageratamente di
riguardo nei miei confronti, forse perché sono
l’unico figlio maschio, considerando ogni volta con
una certa dose di scetticismo le mie idee strampalate –
leggasi la maratona sotto la pioggia che ho voluto a tutti i costi
correre per due anni di seguito, quando avevo sedici e diciassette
anni, oppure quella volta in cui mi iscrissi di nascosto ad un corso di
arrampicata all’età di dodici anni, o ancora
quando decisi di praticare hockey su ghiaccio con, devo ammettere,
scarsi risultati-.
Ritornando al motivo per cui punto la sveglia alle sei e mezzo, la
spiegazione è semplice: adoro veder passare le persone nella
loro quotidianità, a gruppi o anche da sole, perse nella
loro fretta, nella loro tranquillità, con una semplice
ventiquattr’ore come il sottoscritto, o con valigie riempite
per chissà quale destinazione.
La voce degli altoparlanti mi fa compagnia nella mia attesa silenziosa:
quando piove, c’è anche il rumore ticchettante
delle gocce che cadono sulla tettoia non del tutto nuova a tenere il
tempo insieme al grande orologio bianco, che controllo per non
rischiare di rimanere lì, seduto su una delle panchine di
pietra, invece di salire sul treno per Parigi.
Tutto questo mi da la giusta carica per affrontare al meglio la
giornata che mi attende e, spesso, per fortuna, funziona.
A volte penso che dovrei essere più coraggioso, poi
però mi viene in mente che, l’unica volta in cui
ho provato a fare qualcosa di diverso rispetto ai miei soliti
standard, ho quasi finito con lo spaccarmi l’osso del collo.
E’ successo circa tre anni fa, qualche mese prima che mi
trasferissi da Lione a Montigny, dove tutt’ora vivo.
Un mio amico, André, era riuscito a strapparmi una sciocca
promessa, in seguito ad un altrettante stupido gioco come quello che si
fa da ragazzini con la bottiglia: solo che, quella volta, invece di
regalare un bacio alla persona più brutta lì
presente, cantare a squarciagola, saltellare su una gamba sola o cose
del genere, André, con il pallino per gli sport estremi, mi
aveva obbligato a partecipare ad una gara – se
così si può definire un
“duello” all’ultimo sangue tra me e lui-
di slacklining,
una sorta di sport, anche se io non lo definirei proprio in questi
termini, per certi versi simili al funambolismo.
Peccato che, l’equilibrio e il sottoscritto, non vadano molto
d’accordo, anzi, a dire la verità, siamo come il
giorno e la notte, come il caldo e il freddo, il mare e la montagna,
per farla breve due perfetti estranei.
Così, quella mattina di tre anni fa, il mio caro e fedele
amico di gioventù, mi ha letteralmente rapito dalla mia casa
di Lione, segregato in macchina e buttato giù da essa per
atterrare sul piatto e calmo paesaggio dei prati poco fuori la
città.
André aveva già preparato tutto
l’occorrente, perché lui, quella sottospecie di
sport, lo stava praticando da mesi, in un apposito centro dove chi va
è perché è realmente interessato, non
come me, obbligato solo per una stupida scommessa estorta in un momento
in cui ero un tantino alticcio.
Ma nel posto in cui mi ritrovai, quel giorno, non
c’era nessun’armatura a proteggermi, nessun elmetto
protettivo, ginocchiere, polsiere o qualsiasi cosa del genere,
c’era solo quel maledetto pezzo di poliestere –
come il mio caro e fedele amico ebbe la compiacenza di spiegarmi- su
cui io avrei dovuto percorrere qualche metro per superare
brillantemente la prova che si era intestardito a farmi sostenere.
Io, finalmente lucido e nel pieno delle mie facoltà mentali
e fisiche, cercai di far ragionare André, supplicandolo che
non aveva avuto una grande idea quando aveva deciso di portarmi
lì, in mezzo ai prati, lontani dal più elementare
mezzo di soccorso.
Di solito non la butto così sul tragico, però ero
davvero terrorizzato, anzi no, dubbioso e titubante: continuavo a
ripetermi e a ripetergli perché avevo accettato,
perché non mi ero rifiutato, tuttavia, quando
André mi diede l’ennesima pacca sulla spalle e mi
spinse a pochi centimetri dal filo che avrei dovuto percorrere, obbedii
come se fosse l’unica e la cosapiù
giusta da fare.
“Bene”
mi sono detto “è
soltanto una stupida scommessa: sali su questo stupido aggeggio, metti
un piede avanti l’altro, continua così per qualche
passo, e poi puoi scendere! Sì, farò
così, devo fare solo così!”
Quello che successe un paio di minuti dopo la mia coraggiosa decisione,
non mi rende molto orgoglioso, però, come credo si sia
intuito, mi sono letteralmente spappolato al suolo, spalmato
sull’erba autunnale, alta e soffice, ma pur sempre terra dura
e incolta, con una gamba rotta.
Devo ammettere che, vedendomi in uno stato abbastanza pietoso,
André giunse finalmente in mio soccorso e, blaterando
confusamente “Philippe,
stai bene?! Cosa è successo?!”, si
profuse in scuse a non finire, mentre chiamava l’ambulanza,
unico segno di civiltà in quel posto sperduto.
Per farsi perdonare, il mio caro e fedele amico -tramite la sorella del
cugino acquisito del suo collega-, mi diede il numero del centro
fisioterapico in cui lavorava e lavora Vivianne, che allora non
conoscevo ancora.
Dopo l’operazione per riaggiustarmi la gamba, cominciai il
percorso di riabilitazione insieme a lei.
Il primo giorno che la incontrai pioveva. Avevo appuntamento di
pomeriggio: con le mie stampelle e con André che aveva
insistito per accompagnarmi, percorsi il breve corridoio con andatura
insicura e zoppicante a causa del gesso che avevo tolto da poco e per
quegli aggeggi infernali che mi sorreggevano.
La segretaria truccata e sorridente come se stesse sul set di una
pubblicità di dentifricio, mi indicatò la stanza
numero 5, quella in cui mi stava aspettando la mia fisioterapista.
Feci un gesto ad André per dirgli di aspettarmi seduto su
una delle poltrone arancioni poste sulla parete di fronte, quindi
bussai un paio di volte alla porta davanti a me: mi aprì una
ragazza decisamente magra e bassa rispetto a come immaginavo il personal trainer
che mi avrebbe seguito per diverse settimane, i capelli raccolti in una
coda bionda e due occhi azzurri.
Indossava una tuta completamente bianca, che mi diede
un’impressione per nulla positiva, anzi, sembrava di essere
nel laboratorio di uno scienziato pazzo, perché anche
l’intera stanza era arredata con mobili del medesimo colore,
solo la finestra era arancione come le poltrone sparpagliate a pochi
metri oltre la soglia.
“Io sono Vivianne!” si presentò
allegramente, aiutandomi ad entrare.
Mi fece accomodare su un lettino in eco-pelle, rivestito da un lenzuolo
di carta: appena provai ad appoggiare la gamba sana, lei mi
bloccò con un urletto stile soprano:
“Cosa sta cercando di fare?! Deve aiutarsi con le mani! Dia a
me questi affari! ( ovvero
le stampelle) Ecco bravo, si appoggi su una mia spalla e
… piano piano, non abbia fretta! Ok, dunque, dicevo? Ah
sì, si appoggi e si dia la spinta con queste due forti
braccia di cui è provvisto! Oh benissimo, perfetto!
Così: piano, lentamente, benissimo! Ora la
aiuterò a sdraiarsi …”.
Non posso negare che già ero in un bagno di sudore: mi
sentivo una marionetta, un bambolotto riccioluto tra le mani di quella
specie di Barbie – soprannome che le attribuisco ancora
adesso quando la voglio punzecchiare gratuitamente- tutta moine e
divieti.
“Molto bene” continuò una volta che mi
ebbe steso sul lettino degli esperimenti “ le dispiace se ci
diamo del tu?! No, vero?”
In realtà non mi aveva neppure dato il tempo di ribattere
ma, d’altronde, come dice il proverbio, chi tace acconsente.
“Ehm … io sono qui perché
…”
“Ma certo che so il motivo per cui sei qui, tra le mie
grinfie … Philippe, giusto? Beh, comunque, ho già
letto la tua cartella, quindi non devi spiegarmi nulla! Lavoro qui da
poco, ma sei già il secondo paziente che tratto per la
rottura di una gamba! Quindi, non devi preoccuparti! Allora, a casa
stai facendo qualche esercizio? In ospedale ti hanno seguito, ti hanno
detto come devi muoverti?”
Mi grattai meccanicamente la nuca, abbassando lo sguardo come per
sottolineare le mie colpe:
“Più o meno … diciamo che non mi sto
dando da fare quanto dovrei e …”
“Così non va per niente bene, caro il mio
Philippe! No no no, proprio per niente!”
Vivianne mi stava guardando con occhi infuocati, altro che
l’azzurro calmo e tranquillizzante del cielo: scuoteva il
capo e muoveva il dito indice come mia madre faceva quando, da piccolo,
cercavo di convincerla ad assecondare un capriccio a cui non volevo
assolutamente rinunciare.
“Sto approfittando di questo periodo per rilassarmi
…” proseguii molto stupidamente.
“Eh no! Questo davvero non me lo dovevi dire! Noi siamo qui
per lavorare, Philippe, e questo lavoro deve continuare anche a casa,
altrimenti ci vorrà il doppio del tempo per recuperare
questa tua gambetta!”
Credo che arrossii, anzi, ne sono convinto: nessuna donna estranea si
era rivolta a me usando quel tono di voce e quelle parole, quindi
perché non riuscivo a ribellarmi? Perché le
permettevo di trattarmi come un poppante?
“Sto cercando di dirti che …”
“Non voglio ascoltare mezza parola delle tue scuse, Philippe,
perché di questo si tratta! Quindi, voltiamo
pagina!”
Si voltò in direzione dell’orologio da muro,
appena sopra la mia malcapitata testa, arancione come la finestra e le
poltrone lì fuori, esordendo con un sorriso:
“Bene! Ci rimangono quarantotto minuti! Al lavoro,
Philippe!”
In questi tre anni, il carattere di Vivianne non si è
modificato in nulla: è sempre la stessa ragazza esuberante,
allegra, un po’ ficcanaso, che ho conosciuto in
quell'occasione poco fortunata.
I mercoledì sera che, da sei mesi a questa parte,
trascorriamo insieme a brindare con birra e pizza l'esito vittorioso
delle mie scommesse sull’arrivo del treno Parigi-Montigny,
trascorrono sempre velocemente, forse troppo velocemente, soprattutto
se, dopo cena, ci spaparazziamo sul divano a guardare qualche film,
lottando per il genere da scegliere.
Dopo un paio di sedute riabilitative, anche la mia lingua si sciolse,
così il discorso cadde per caso sulla mia ricerca forsennata
di un appartamento nei pressi della capitale dove, con l’anno
venturo, avrei preso servizio al “Centre Arcenciel”,
almeno era quello che speravo, dal momento che avevo passato
brillantemente i test scritti, e mi separava dalla meta solamente il
colloquio con la direttrice.
Quando Vivianne venne a sapere che ero uno psicologo, si
zittì, nel vero senso della parola: mentre con le mani mi
aiutava a muovere su e giù la gamba, non profferì
verbo per un paio di minuti abbondanti.
“Ti senti bene?” cercai di riportarla alla
realtà “forse non sto facendo bene
l’esercizio?”
Ma da lei il nulla, solamente un sospiro appena accennato.
Poi, improvvisamente, alzò lo sguardo su di me e, aprendo e
richiudendo la bocca, finalmente si decise a spiegarmi:
“Scusa, non c’è niente che non va: ti
stai applicando, non preoccuparti, è solo che mi hai fatto
venire in mente una cosa che … beh, che non ricordo
volentieri. Scusa, continuiamo pure”.
“Forse è meglio, anche perché tu sei
molto brava, ma comincio a stancarmi un po’ ... ”
Finito la mia pedalata virtuale con una gamba sola, Vivianne riprese a
parlare, il tono ironico ma non troppo:
“Visto che ho la possibilità di avere una specie
di strizzacervelli qui davanti a me, ne approfitto per chiederti una
cosa: tu credi nel tuo lavoro? Cioè, faresti qualsiasi cosa
pur di ottenere dei potenziali clienti?”
Questa volta rimasi io senza profferir parola: sbattei per un paio di
volte le ciglia, aprii la bocca come un povero pesce
nell’acquario, quindi, con voce a metà tra il
scioccato e il divertito, risposi:
“Certo che no! Anche se non ho ancora esercitato, ti posso
assicurare che non mi abbasserei mai ad usare dei mezzucci poco leciti
per guadagnarmi dei clienti! Ma perché mi fai una domanda
del genere? Non mi sembra che tu ne abbia bisogno, né
tantomeno sei una bambina!”
Cercai di smorzare la tensione che si stava insinuando tra di noi,
sebbene, dallo sguardo triste che era comparso nei suoi occhi azzurri,
mi resi subito conto di aver ottenuto l’esatto contrario.
“Hai ragione” ribatté lei, sempre con
espressione fin troppo seria “ adesso sono cresciuta, ma
quando ero piccola, le mie maestre avrebbero voluto che ci andassi
davvero da uno psicologo, uno come te: dopo che mio padre si
ammalò, erano più le notti insonni che
trascorrevo di quelle che passavo a dormire. Per questo ero strana, a
scuola, non riuscivo a chiudere occhio: ero troppo preoccupata per lui
…”
Non posso negare che mi sentii molto in imbarazzo: come avevo detto
anche a Vivianne, non avevo avuto ancora alcun tipo di esperienza con
la pratica di ciò che avevo studiato, quindi ero in
difficoltà su quale approccio scegliere per far
sì che si sfogasse, sempre che lo volesse ovviamente, ma,
dal momento che era stata lei ad addentrarsi in quella selva oscura di
confessioni, beh, mi ingegnai per uscire a testa alta dal terreno
minato in cui ero capitato.
“Tu non hai mai provato a spiegarglielo? Insomma, mi sembra
che c’era un motivo più che valido
perché non fossi così attenta durante le
lezioni!”
“Ma loro lo sapevano, per questo insistevano con mia madre
perché mi portasse da uno psicologo.
Però né io né lei abbiamo dato ascolto
a quelle arpie! E, come puoi vedere, credo abbiamo fatto
bene!” mi sorrise per la prima volta da oltre dieci minuti,
poi cominciò a sollevare la gamba con delicatezza,
spronandomi a continuare con l’esercizio successivo del
nostro programma riabilitativo.
Io, però, non potevo ritenere l’argomento chiuso:
adesso che mi aveva stuzzicato per bene la curiosità sopita
dentro la mia mente, sarebbe stato davvero
“ingiusto” non continuare in questa confessione
monocorde.
“Tutto qui? Se vuoi proseguire, ti ascolto volentieri! Non lo
hai detto anche tu, poco fa, che volevi approfittare della mia presenza
per sfogarti?!”
“Beh, in realtà sì”
Vivianne riappoggiò sul lettino il mio arto stile
pagliaccio nella scatola a molla, quindi proseguì:
“La storia è un po’ lunga,
però cercherò di semplificarla”.
Trasse un profondo respiro e cominciò a raccontare
dall'inizio:
“Mio padre era un ingegnere: circa trent’anni fa
conobbe mia madre. Lei andò nel suo studio per fare
praticantato, dopo aver vinto una borsa di studio
all'Università. Era molto più giovane, mentre mio
padre era appena uscito da un matrimonio con una donna thailandese che
era tornata nel suo Paese, lasciandolo da solo a Parigi.
Nonostante la differenza di età, si piacquero subito, almeno
è quello che mi hanno sempre raccontato: mia madre ha
imparato molto da lui, erano tanto affiatati sul lavoro quanto nella
vita di tutti i giorni.
Dopo due anni, infatti, si sposarono e, dopo nove mesi esatti, nacque
mio fratello. Quattro anni dopo fu la mia volta: eravamo la famiglia
perfetta, ogni cosa andava a meraviglia, fino a quando, a causa di un
importante incarico di lavoro, mio padre si trasferì per
qualche tempo in Nigeria, per coordinare la costruzione di un
acquedotto …”
Vivianne si fermò di colpo: aveva tenuto lo sguardo basso
fino ad allora, e continuò a mantenerlo, tuttavia mi accorsi
del suo labbro inferiore che prese a tremare quasi impercettibilmente,
mentre appoggiava una mano sulla mia gamba.
“Scusa … non volevo rievocarti ricordi
spiacevoli” mi mossi imbarazzato sul lettino, la voce
titubante.
Lei scosse il capo e, cercando di sorridere, riprese:
“No, oramai che ho iniziato voglio finire, è
giusto così. Dove ero arrivata? Ah sì
… “ si passò due dita tra le ciocche di
capelli biondi fuoriuscite dalla coda, portandole dietro
l’orecchio “ lì, in Nigeria
intendo, la poliomelite è una malattie endemica, in pratica
è come l’influenza dalle nostre parti. Mio padre
non era stato vaccinato, così, quando tornò in
Francia, cominciarono a comparire i primi sintomi: la diagnosi non
venne fatta subito, purtroppo, perciò il tempo
passò e le sue gambe si atrofizzarono sempre di
più. Io avevo dieci anni quando successe: ero abbastanza
grande e matura per capire quello che stava succedendo attorno a me,
per questo la notte non dormivo.
Da quel momento in poi, crebbe in me la convinzione e la decisione che
avrei dovuto fare qualcosa per lui, che avrei studiato per aiutarlo.
Per questo ho studiato fisioterapia, perché ho visto quanta
riabilitazione è servita, serve e servirà in
queste patologie, anche se, purtroppo, non è
sufficiente”.
Deglutì a fatica e chiuse gli occhi per qualche secondo.
“Bene! Adesso sai tutto della tua “personal
trainig”, caro il mio psicologo!”
Sorridemmo entrambi, sebbene la sensazione di imbarazzo continuava a
non abbandonarmi.
“Mi dispiace molto, Vivianne. Adesso tuo padre come
sta?”
“Allo stesso modo di come stava dodici anni fa …
beh, è stato sottoposto a diversi interventi ortopedici, ma
aveva già cinquant’anni quando si è
ammalato: i suoi muscoli non erano più quelli di un
ragazzino. Però non dobbiamo lamentarci, perché
sarebbe potuto andare molto peggio: mia madre ha rinunciato al suo
lavoro per stargli accanto, mentre mio fratello ha dovuto cercare un
impiego terminate le superiori. Solo io sono potuta andare avanti con
gli studi: credo che in famiglia non sopportassero più i
consigli e i rimedi che suggerivo, così adesso, con un
supporto scientifico, non possono dire che non avevo ragione!”
Mi scappò da ridere: pensai che fosse la persona
più speciale che avessi incontrato fino ad allora.
Dai suoi occhi, finalmente rivolti verso di me, trasparivano al
contempo una forza e un’allegria che non avevo mai visto
possedere da nessuno.
“Saranno molto orgogliosi di te, Vivianne”
“Sì … spero di sì”
un sorriso fugace piegò le sue labbra, ma subito ridivenne
seria, indirizzando l'indice ammonitore verso l'orologio arancione da
muro:
“Allora! Abbiamo trascorso ben venti minuti senza fare nulla,
caro il mio Philippe! Rimbocchiamoci le maniche, perché
così non va affatto bene! Tu non sei qui per lavorare, sono
io che devo rimetterti in sesto! Forza, ricominciamo!”
All’uscita da quella seduta riabilitativa un po’
anomala, telefonai immediatamente al numero di telefono della donna che
affittava la villetta di fianco a quella di Vivianne.
Per mia fortuna nessuno aveva ancora chiamato: così,
approfittando meschinamente di André e della sua
disponibilità, mi feci accompagnare a Montigny, a una
cinquantina di minuti da Parigi.
La proprietaria della mia futura casa era una vecchietta molto
simpatica, che gestiva l’affare
per conto del figlio in America.
Non ebbi alcun dubbio: pretesi subito di visionare il contratto, lo
firmai e, tre settimane dopo, quando avevo recuperato l’uso
della gamba, presi possesso della villetta, in cui tutt’ora
abito.
La donna che mi aveva rimesso in piedi divenne la mia vicina di casa:
quando glielo comunicai, alla seduta successiva, mi
abbracciò e si complimentò con me, scherzando sul
fatto che avrei dovuto sopportarla anche fuori di lì.
“Dici che sono ancora in tempo per disdire
l’affitto?!” la punzecchiai.
“Ma smettila! Senza di me, a quest’ora, saresti
bloccato a letto come il prossimo vecchietto che mi aspetta!”.
Le rivolsi un occhiolino complice, certo che non mi sarei pentito della
scelta.
E così, infatti, a distanza di questi tre anni, ho avuto
ragione: Vivianne è la migliore vicina di casa che avessi
sperato di avere!
NOTA DELL'AUTRICE
Ciao a tutti! Spero che questi continui flashback vi piacciano:
capiremo prossimamente il motivo che si nasconde dietro di essi!
Mi auguro anche che non vi annoi questo tipo di narrazione, un
pò altalenante: in questo capitolo abbiamo conosciuto meglio
Vivianne, l'esuberante vicina di casa di Philippe, anche lei con un
passato mica da ridere.
Per il resto, vi rinrazio tantissimo per aver letto, ed essere arrivati
fino a qui!
Un grazie speciale a chi legge e recensisce!
A presto!
Un abbraccio
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Capitolo 6 *** Chloe ***
Quando ero piccolo, non vedevo l'ora che arrivasse l'estate,
perché sapevo che avrei trascorso l'intero periodo delle
meritate vacanze a Rouge, un minuscolo paese valdostano da cui proviene
la famiglia di mia madre, incastrato in una delle valli ai piedi del
Monte Bianco.
Partivamo il 1 di luglio e tornavamo a Lione il 30 di agosto, giusto il
giorno prima di preparare lo zaino con tutto l’occorrente per
iniziare l'ennesimo anno scolastico, far finta di ricontrollare i
compiti che avevo frettolosamente e stancamente eseguito tra una
partita di calcio all'oratorio e una passeggiata tra i sentieri di
montagna in compagnia di mio padre e delle mie sorelle o,
più spesso, con i miei amici italiani, Luca, Alberto e
Matteo.
Quelli erano i momenti che preferivo, avventurarmi in mezzo alla natura
assieme a loro tre, avvolti dalla maestosità dei pini,
calpestando il sottobosco ricco di sassolini e di humus, avaro dei
croccanti e umidi fili d’erba che abbondavano prima di
addentrarci nel profondo di quel paesaggio, cercando al contempo di non
schiacciare i formicai disseminati lungo la strada, le rare lucertole e
i più abbondanti ricci, sotto lo sguardo vigile degli
sparvieri.
Il sole filtrava appena, facendosi largo tra quel tetto di aghi
secolari, riscaldandoci assai fiocamente, cosicché le
temperature erano sempre piuttosto basse, tanto da essere necessario
portare con sé almeno un pullover da legare in vita o da
appoggiare sulle spalle.
Con mio padre e le mie sorelle, invece, andavamo a caccia di funghi
estivi, ma quasi mai eravamo fortunati nella nostra ricerca.
Venivamo ripagati assai scarsamente, molto probabilmente
perché non sapevamo quali luoghi battere, nonostante il
manuale del perfetto cercatore che il mio intrepido genitore insisteva
a portare con noi.
Mia madre non si fidava del magro bottino che portavamo a casa, quindi
buttava – devo ammettere con una certa dose di
altezzosità mal celata- il contenuto mezzo putrefatto del
cestino in legno e tessuto, che io prontamente le porgevo.
La seconda o terza estate in cui ritornammo a casa senza aver portato
nulla di certamente commestibile, cominciò a proibire a me e
alle mie sorelle di continuare quell'inutile perdita di tempo: io,
però, le disobbedivo puntualmente, perché adoravo
quei momenti trascorsi nei meandri del bosco, tutto il contrario di
quelle coraggiose
delle sue figlie, le quali non ci pensarono un solo secondo a evitare
di assecondare l'entusiasmo di nostro padre, ben felici quindi di
rinunciare alle nostre salutari passeggiate di montagna, preferendo
invece sculettare vanitosamente tra le vie del paese, alla ricerca di
qualche affascinante garçon
italiano.
Quando, rispetto alle inutili battute di caccia ai funghi, mi
addentravo tra i sentieri in compagnia dei miei amici, ci divertivamo a
fare il countdown
per decretare il vincitore che toccava per primo il pino rosso, un
albero dalla corteccia naturalmente bruna, ma dai riflessi
insolitamente carmini.
Sopra le radici forti e robuste che avvallavano il terreno in maniera
sinuosa, stendevamo un fazzoletto di tessuto, una specie di tovaglia
rubata a turno dalle nostre case, aprivamo il sacchetto delle provviste
- che consisteva sempre in un paio di baguette tagliate a
metà, farcite con maionese, pomodori, lattuga e tonno, il
tutto innaffiato da una borraccia di the alla pesca- e cominciavamo a
gustare il succulento pranzo, fingendo che fossimo famosi esploratori
nel posto più remoto del mondo, membri di una spedizione
internazionale di fondamentale importanza per le sorti del pianeta.
Tornavamo a casa nel primo pomeriggio, dopo che i nostri stomaci erano
stati abbondantemente ripagati dalle fatiche, e le menti si erano
rigenerate dalla pennichella post pranzo; imbrattati di terra, con le
ginocchia escoriate, esito delle corse per raggiungere nel
più breve tempo possibile il pino rosso, un po’
intimoriti dalle puntuali sgridate dei rispettivi genitori, eravamo
però sempre felici per le ricchissime ore trascorse insieme.
Ho avuto la fortuna di imparare discretamente l'italiano, dal momento
che i miei genitori si sono battuti -fin dalla cosiddetta fase della lallazione-
perché imparassi la nostra lingua d'origine, quindi non mi
era difficile riuscire a comunicare con loro, i miei tre amici intendo,
tralasciando qualche strafalcione grammaticale che gioivano sempre nel
puntualizzarmi, con pazienza ed ironia al contempo.
Durante quei due mesi scarsi di autentico paradiso, la mia famiglia ed
io alloggiavamo a casa dello zio, il fratello di mia madre, che viveva
con la moglie e i due figli, un maschio e una femmina più
grandi di me di una decina d'anni: questa differenza di età
-ai miei occhi assai notevole- mi impediva di considerarli degnamente
ma, d’altro canto, neppure loro si preoccupavano
così tanto della mia presenza, atteggiamento che non mi
dispiaceva affatto, perché io avevo i miei amici e, questo,
era di gran lunga migliore della compagnia che avrebbero potuto
concedermi.
La prima estate che trascorremmo da loro, avevo sei anni, mentre Zia
Arianna ne aveva appena compiuti quarantotto.
A distanza di quasi cinque lustri, è rimasta un donnone come
allora: portava sempre i capelli tagliati sopra le spalle, di un rosso
naturale ma ora macchiato di bianco, il viso rotondo
disseminato di efelidi.
Aveva le mani rovinate dai calli per l’uso prolungato e
intensivo della zappa, ma questa sua caratteristica la circondava di
un’aura misteriosa, perché credevo fosse una sorta
di super eroina che andava a caccia dei folletti dispettosi che
–leggenda vuole- abitassero i meandri del sottobosco,
punendoli per le loro marachelle.
Zio Paolo, invece, era arrivato al traguardo dei cinquant'anni, alto
quanto la moglie, l'ho sempre visto indossare camicie rosse a quadretti.
Portava occhiali leopardati, dalle lenti rotonde, i capelli castani
striati di grigio, e aveva sempre un bel sorriso stampato sulle labbra.
I loro figli, Marco di venti e Alessia di sedici anni, sembravano due
gemelli da tanto si assomigliavano (adesso le cose sono un
po’ cambiate, ma la somiglianza rimane comunque notevole).
Avevano ereditato il colore di capelli della madre, mentre gli occhi
avevano la tonalità cerulea uguale a quella del
padre.
Tutti e quattro vivevano in una specie di fattoria, a un centinaio di
metri o poco più dall’inizio del bosco, circondati
da cavalli, mucche e galline a volontà, oltre a due cani e
tre gatti.
Al contrario della sorella Nadia ( il cui diminutivo è
diventato il francese Nadine), mio zio non aveva voluto lasciare la
piccola azienda di famiglia; lei, infatti, dopo gli studi da segretaria
d'azienda, si era trasferita per lavoro a Lione e, qui, dopo un paio di
anni, aveva conosciuto un giovane dentista, Edmond, anche lui di
origini italiane, ma nato in Francia, a Bordeux.
Mia madre, di tanto in tanto, soffre e soffriva di mal di denti,
così si era decisa -durante un attacco più forte
degli altri- di farsi visitare da uno specialista che, guarda a caso,
era mio padre, cioè, ancora ovviamente non lo era,
però, grazie alle gengive infiammate della futura moglie,
era sulla buona strada per diventarlo.
Cominciarono così a vedersi ogni sei mesi per il controllo
di routine, poi ogni tre e, infine, ogni settimana, grazie agli inviti
galanti del giovane dentista che, tra una cena al ristorante e
un'uscita al cinema o a teatro, non voleva proprio farsela scappare
quella ragazza.
Otto mesi più tardi, la Vigilia di Natale, decisero di
sposarsi, coronando il loro sogno d’amore con una cerimonia
molto intima, giusto i genitori degli sposi, i testimoni, qualche
parente e il sindaco, l'officiante della cerimonia in comune.
Dopo due anni nacque mia sorella Claire poi, a distanza di tre, fu la
volta di Jeanne, seguita un lustro dopo
da quella di Agnése e, quando l’ultima
aveva quattro anni, arrivò il pezzo forte della collezione,
ovvero il sottoscritto.
Ritornando alla fattoria degli zii, quello sì che era una
vera oasi!
Ho già raccontato le scampagnate a cercar funghi nel bosco o
a bighellonare con i miei amici alla ricerca di insetti, volatili e
altri abitanti del sottosuolo a quattro zampe, però un altro
passatempo degno di menzione era sicuramente la mansione di aiuto
giardiniere che, dall'età di nove anni, assunsi
ufficialmente.
Mia zia, infatti, si occupava delle calle, dei tulipani, dei gigli, dei
ciliegi e dei peschi come fossero i suoi stessi figli, alla stregua del
giardino dell’Eden.
Gongolava orgogliosa
quando faceva notare il rosso brillante dei
pomodori, oppure la lunghezza delle zucchine o, ancora, la perfetta
rotondità dei cespi di insalata.
Zia Arianna, gelosissima delle creature che aveva piantato anni
addietro, permetteva solo a me di avvicinarsi, persino al
marito non dava possibilità di calpestare quel sacro suolo
perché, un anno prima che noi arrivassimo a villeggiare
nella loro fattoria, le aveva quasi ammazzato
–questo era il termina che era solita ripetere- mezzo orto.
Così, grazie alla pazienza con cui trascorrevo i miei
pomeriggi a guardarla dissestare le zolle di terra, mi promosse suo
aiutante in campo, mansione che prevedeva il quasi quotidiano
annaffiamento di piante e fiori.
Quando, il 30 di agosto, i miei genitori annunciavano la nostra
imminente e già nota partenza, salutavo con grande rammarico
Luca, Alberto e Matteo, zia Arianna e zio Paolo, i cugini Marco e
Alessia un po’ di meno e, ovviamente, l'orto di cui tanto
avevo avuto cura.
Intrappolato dentro la nostra Peugeot, carica di bagagli a non finire,
cercavo di ritagliarmi un angolino per voltarmi indietro e salutare il
capannello di persone che, senza sventolare fazzoletti carichi di
lacrime e moccolo, si era solennemente riunito per darci il proprio
arrivederci al prossimo anno –mi consolava il fatto che,
almeno, avremo rivisto gli zii a Natale- intristendomi nel vedere i
miei amici che, puntualmente, già mi mancavano.
Non appena giungeva Pasqua, dopo gli auguri per telefono che Luca,
Alberto, Matteo ed io ci scambiavamo, cominciavo a contare le settimane
che ci separavano, trovandole infinitamente lunghe e noiose.
Adesso, a distanza di quasi venticinque anni, noi quattro ci vediamo
più raramente, ma sappiamo che, se uno ha bisogno, gli altri
sono pronti ad andare in suo aiuto, partendo anche subito e lasciando
tutto il resto, perché la vera amicizia è anche
questo.
Lo scorso autunno, all'incirca sei mesi fa, abbiamo portato i ragazzi
del "Centre"
in campagna, a una ventina di chilometri da Versailles.
Erano tutti eccitati, i bambini di sei anni e gli Orsetti lavatori in
particolare: moltissimi di loro, infatti, non aveva mai messo piede
fuori città, quindi quella era l'occasione perfetta per
approfittarne -soprattutto per i nuovi arrivati- e conoscere il mondo
al di fuori delle quattro mura dello stabile che adesso era diventata
la loro casa.
Madame Betancourt, la direttrice dell’ “Arcenciel”,
aveva prenotato personalmente l'autobus, insistendo per aggregarsi al
gruppo, cosa che non faceva praticamente mai, ma la destinazione della
scampagnata le ricordava la sua infanzia, un po’ come la
ricordava a me.
Ogni anno, alle porte dell'autunno, quando il
vento è una brezza gentile e timida,
e le foglie sono ancora attaccate ai rami degli alberi, non del tutto
intirizzite e indebolite dal freddo pungente dei mesi che ci attendono,
è consuetudine del nostro "Centre" portare i
ragazzi alla scoperta di un luogo particolare, cercando di accontentare
sia i più grandi che i più piccoli e,
soprattutto, optando per un posto all'aperto, in modo da non
imprigionarli sempre in spazi chiusi.
Da tre anni a questa parte, da quando cioè ho preso servizio
all' "Arcenciel",
oltre alla scampagnata
a cui ho già accennato, abbiamo portato i bambini al parco
acquatico e alla riserva di fauna selvatica di Parigi.
La gita autunnale ha una sorta di significato propiziatorio, oserei
dire quasi apotropaico, in quanto noi insegnanti ci auguriamo che anche
l'anno scolastico che sta per cominciare sia ricco di occasioni
favorevoli per la crescita di bambini e adulti, oltre alla speranza mai
accantonata di trovare una casa definitiva per i nostri giovani ospiti
del centro.
E le nostre buone intenzioni sembrano venire ripagate, anche se non con
i numeri che vorremmo: in questi tre anni, infatti, ho visto
ricongiungersi alle loro famiglie o trovarne di nuove, venticinque
ospiti, solo un quinto del totale, è vero, però
è già una piccola vittoria, che ci lascia ben
sperare per il loro futuro.
Ritornando alla gita autunnale, quella mattina alle sette, eravamo in
fila indiana davanti all'entrata del “Centre”,
in attesa dell'arrivo del super
pullmino, come i più piccoli chiamavano il
mezzo che ci avrebbe condotti a destinazione.
Non faceva freddo, però il cielo era disseminato da nubi
all'apparenza innocue -almeno era quello che volevamo credere- quindi
controllammo che ciascun partecipante avesse nello zaino un ombrello,
oggetto che, per fortuna, i ragazzi più grandi avevano
ricordato ai più piccoli di portarsi appresso.
Madame Betancourt era vestita con una tuta color blu elettrico che
metteva in risalto il seno florido e i fianchi generosi che, con i
soliti tailleurs, riusciva a mascherare assai bene.
Era eccitata quanto i bambini, forse addirittura di più.
Liliane ed io ci guardavamo di sottecchi, reprimendo a stento una
risata.
Prendemmo posto uno di fianco all’altra, in seconda fila,
dietro la direttrice, già in pole position con
il naso appiccicato al finestrino e un sorriso gongolante sulle labbra
spalmate di rossetto color fragola.
Le altre quattro colleghe – Mireille, Gabrielle, Juliette e
Nicole- si sedettero in fondo, tenendo così sotto controllo
la situazione e gli eventuali litigi dei ragazzi.
Dopo aver sistemato sul sedile
il giubbotto e la macchina fotografica con cui avremo immortalato
quella memorabile giornata ( le foto sarebbero andate ad aggiungersi a
quelle delle bacheche appese nel corridoio d’entrata del
“Centre”),
mi alzai per assicurarmi che ci fossimo tutti.
Cominciai a contare i bambini una prima volta poi, per sicurezza, anche
una seconda e, certo che nessuno mancasse all’appello,
ritornai indietro, sedendomi composto al mio posto.
Avevamo già fatto fin troppe raccomandazione ai ragazzi,
fornendoli anche del solito cartellino di riconoscimento con il loro
nome e il numero dell’ “Arcenciel”
che appuntavamo ad ogni gita fuori porta sulla maglietta,
nell’infausta evenienza che qualcuno si perdesse, quindi mi
limitai a riservare un’occhiata eloquente ai più
scalmanati.
L’autista del pullman, un uomo sulla cinquantina, dal viso
rubicondo e le braccia all’apparenza burrose come madleines, si
girò nella nostra direzione, domandandoci se potevamo
partire.
Liliane ed io annuimmo con un sorriso, mentre la direttrice
s’intrometteva per sapere quanto tempo ci avremmo impiegato,
com’era la strada “perché sa, io soffro
un po’ di chinetosi, quindi la prego di affrontare le curve
con dolcezza, di non correre e di non fermarci per soste inutili!”,
ricompensando il povero malcapitato con un’ appena accennata
pacca sulla soffice spalla.
“Dici che riusciremo a sopportarla tutto il
giorno?!” attirò la mia attenzione Liliane,
chiamandomi con una gomitata e lanciando un’occhiata
divertita verso Madame Betancourt.
“Dobbiamo … “ le risposi con
fare affranto, sospirando teatralmente “dai,
consolati con il pensiero che vedremo un mucchio di piante, fiori e
animali interessantissimi! Il tempo passerà talmente
velocemente che non ci accorgeremo della sua presenza!”
“Con un po’ di fortuna potremo anche ripartire
senza di lei. M’ingegnerò a trovare un modo per
lasciarla alla fattoria!”.
Sorridemmo divertiti e, qualche attimo dopo, il pullman si mise in moto.
Chloe era arrivata al “Centre”
circa un mese prima della nostra gita autunnale.
Ha otto anni, quindi, grazie alle regole interne della direttrice,
l’ho accolta sotto la mia ala protettiva, diventando a tutti
gli effetti uno dei membri degli Orsetti
lavatori.
E’ una bambina estremamente solare ed espansiva, desiderosa
della compagnia dei suoi coetanei e di noi adulti.
Prima di entrare a far parte della nostra famiglia allargata, viveva in
una sorta di campo nomadi, alla periferia di Parigi, in una sottospecie
di baracca insieme ai genitori e ai sei fratelli.
Non era mai andata a scuola: non sapeva contare, leggere e neppure
scrivere il suo nome.
Quando la solita assistente sociale è venuta a portarcela,
ci comunicò che era appena stata letteralmente disinfestata
dalla scabbia e dalle zecche, e che perciò sarebbe stato
meglio farla ricontrollare da un pediatra la settimana successiva.
Nel campo in cui abitava, infatti, le basilari condizioni igieniche
erano lontane anni luce, addirittura proprie di un altro pianeta: Chloe
non sapeva cosa fosse una doccia o una vasca, l’unica acqua
che conosceva era quella di una sorta di pozzo rudimentale che i capi
della tribù nomade avevano costruito per cuocere il cibo che
riuscivano a racimolare e per lavare quei pochi indumenti che
possedevano.
Trascorreva parte dei pomeriggi aiutando la madre a badare ai tre
fratelli più piccoli, mentre al mattino, insieme a quelli
più grandi, si recava a piedi –percorrendo una
decina di chilometri al giorno- nella Parigi bene, sistemandosi al di
fuori dei supermercati e dei mercati rionali, a chiedere
l’elemosina ai clienti.
Quando i negozi chiudevano e le bancarelle venivano smantellate, Chloe
approfittava della desertificazione di quei luoghi per raggiungere i
cassonetti dell’immondizia, rovistare alla ricerca degli
scarti di cibo - magari scaduto quel giorno stesso- e di vestiti non
conformati alle perfezionistiche richieste della
società, caricarsi del suo più o meno misero
bottino e fare marcia indietro per ritornare a casa, insieme ai tre
fratelli che nel frattempo l’avevano raggiunta.
Un giorno, però, una donna, disturbata dalla presenza della
bambina, ferma e sorridente al di fuori del supermercato del quartiere
chic in cui la signora dal cuore grande
abitava, si decise a informare la polizia della presenza che le turbava la spesa
quotidiana.
Nonostante il motivo per nulla magnanimo che l’aveva spinta a
telefonare alle forze dell’Ordine, per Chloe si
rivelò una vera e propria fortuna, l’inizio di un
futuro che, speriamo, sia felice e migliore del passato che ha vissuto
fino a qualche mese fa.
Occupandomi io dei bambini della sezione degli Orsetti lavatori,
un paio di giorni dopo il suo arrivo al centro, affrontai con lei il
solito colloquio che si riserva ai nuovi ospiti.
Pur sapendo in anticipo, dal resoconto fin troppo dettagliato e
burocraticamente noioso degli assistenti sociali, la storia che
l’aveva portata da noi, era prassi porle le domande di
routine: quale fosse il suo nome, con chi avesse vissuto fino ad
allora, se fosse mai stata picchiata, se frequentasse la scuola, come
si trovava al campo, un medico l’aveva mai visitata?, era
stata vaccinata? ( e a questo interrogativo, lei mi guardò
sgranando gli occhi, chiedendomi delucidazioni sul significato di
questo termine) eccetera eccetera.
“Sei capace a disegnare?” il nostro colloquio stava
quasi volgendo al termine: per capire se mi stava tenendo
all’oscuro di qualcosa, per paura o per semplice
dimenticanza, l'ultimo passo sarebbe stato l’abituale disegno
che chiedevo di eseguire a tutti i nuovi arrivati, dopo averli
sottoposti al test di Corman*, risultato per fortuna negativo.
La bambina abbassò lo sguardo e, corrugando la fronte,
scosse il capo indecisa:
“Non molto. Però, se mi spieghi cosa devo fare,
credo di poterci riuscire!”
“Va bene …”
Mi alzai dalla sedia della stanza in cui facevamo i colloqui con i
ragazzi -ciascuna parete dipinta di un colore differente, il soffitto
raffigurante le montagne, il sole, la luna e le stelle, il pavimento
come uno scorcio di mare ricco di pesci e conchiglie-, per andare a
racimolare su uno scaffale dietro di noi gli oggetti che mi sarebbero
serviti per l’esperimento.
“Adesso, Chloe, ti chiedo un favore: dovresti disegnarmi la
tua famiglia e la casa in cui abiti! Qui ci sono delle matite e dei
pennarelli “le spiegai, indicandole i mezzi che
avrebbe utilizzato “mentre questo pezzo di carta si chiama
foglio! Ti farò vedere come li devi usare.
D’accordo?”
“Oh, ma io queste cose le ho già viste! Una volta,
mio fratello Emeric, ha portato al campo delle scatole di …
matite, giusto?! Le ha regalate a me e alle mie sorelle più
piccole, però poi noi ci abbiamo fatto giocare anche gli
altri nostri amici! Le abbiamo usate sul legno! E’ stato
divertentissimo!”
Era entusiasta come non l’avevo ancora vista, batteva le mani
come se avesse appena scartato un super regalo: tutti questi indizi mi
facevano ben sperare, perché Chloe di certo non era una
bambina che aveva sofferto, o meglio, non si era resa conto che la vita
che le avevano imposto era sbagliata, non adatta a nessuno, figuriamoci
a una bambina della sua età.
“Allora affare fatto!” ripresi “ se li
hai già usati, è inutile che ti spieghi! Inizia
quando vuoi, Chloe, io sarò fuori dalla porta ad aspettarti!
Appena finisci, chiamami e commenteremo insieme il tuo
disegno!”
Dopo averle spiegato cosa volesse dire commentare, feci
come le avevo detto: uscii e attesi che mi desse il benestare per
rientrare.
Non c’impiegò molto: devo dire che il disegno che
aveva realizzato non poteva definirsi un capolavoro, ma assomigliava,
seppure lontanamente, a uno dei dipinti a metà tra il
Futurismo e il Surrealismo, un pot-pourri
discretamente riuscito.
“Vediamo un po’ quello che hai fatto,
Chloe!” le dissi, sistemandomi nuovamente sulla sedia di
fronte a lei.
La invitai a prendere posto di fianco a me, così da creare
un rapporto di parità, visto che mi aveva aperto la sua
mente a ricordi tanto privati.
“Questi sono la mamma e il papà …
“ cominciò, indicandomi una serie di righe
verticali e di cerchi, tutti coloratissimi “ mentre loro sono
i miei fratelli e le mie sorelle! Emeric è il più
grande, ha sedici anni, mentre Zahra ha tre anni, ed è la
più piccola. Qui c’è la nostra
casa” mi spiegò, mentre puntava il dito ossuto su
una specie di rettangolo grigio e nero, con delle ruote di difficile
interpretazione, spostando poi la mia attenzione su un ammasso di altre
righe rosse e verdi.
"E questo, invece? Che cos'è?" domandai, cercando di
decifrare numerose striscie d'ocra, macchiate da puntini neri e grigi.
“In questo pezzo di campo, la moglie del signor
Radinzkij, il capo tribù, ha messo dei fiori bellissimi e
che profumano tanto! Quando mi sveglio, esco fuori per vederli,
perché mi piacciono moltissimo!”
“Vicino al campo ci sono delle altre case?”
continuai interessato.
Chloe scosse la testa, spiegandomi solennemente:
“No, ci siamo solo noi lì. Dopo che il campo
finisce, c’è la campagna, è tutta
gialla, però la mamma non vuole che ci vado,
perché ha paura che mi perdo e non torno più.
E’ più grande di dove viviamo noi, qualche volta
ci sono anche degli uccelli che vengono e urlano, forse hanno fame
…” concluse rattristita.
“E tu, invece, riuscivi a mangiare ogni giorno al campo? La
mamma cosa ti preparava?”
Lei ci pensò su per qualche secondo poi, scrollando le
spalle, mi rispose come se fosse la cosa più naturale del
mondo:
“Eravamo io e i miei fratelli più grandi a portare
la roba da cucinare! La mamma deve badare a Zahra e alle altre sorelle
più piccole, non ha tempo per queste cose! E poi, al campo,
ci dividiamo le cose da mangiare, tutto è di tutti: se a
qualcuno manca qualche cosa, va da chi ce l’ha e se la fa
dare! Ma perché mi fai queste domande, Philippe? Qui al
centro non si fa così?”.
In quel momento l’avrei voluta abbracciare, sul serio:
l’innocenza e la gioia di Chloe nel raccontare le abitudini
in cui era cresciuta, mi lasciavano senza parole.
Non si poteva definire una bambina come gli altri ospiti, sia
fisicamente che caratterialmente: di corporatura era terribilmente
magra ed ossuta, con quei capelli scuri, lunghi e sottili come
spaghetti, gli occhi neri troppo grandi in quel viso dai riflessi
olivastri.
Mi aveva subito conquistato con il suo meraviglioso sorriso, la bocca
carnosa per una signorina della sua età, i denti irregolari
e dallo smalto un po’ sbiadito, un neo dai contorni
irregolari sul sopracciglio sinistro.
“Beh, qui non funziona proprio così,
Chloe” le spiegai sorridendo, sebbene mi sentissi invadere da
una certa dose di imbarazzo “ la vita al centro non
è come quella che conducevi al campo. Però non
sarà peggiore, te lo prometto” continuai,
appoggiandomi la destra cuore.
“Perché hai fatto così? Cosa vuol
dire?” domandò incuriosita, ripetendo il gesto che
avevo appena compiuto.
“Si porta la mano qui, in questo punto, quando ci
s’impegna a fare qualcosa per una persona, nello stesso modo
in cui ti ho promesso che qui starai bene, che non ti
mancherà nulla …”
“Ma a me manca già qualcosa, Philippe. Io voglio
tornare a casa, dalla mamma, dai miei fratelli, dal papà. Tu
mi porterai da loro?”
Rimasi spiazzato dalla richiesta che mi aveva formulato: il centro non
è sicuramente un albergo, però si preoccupa di
accogliere bambini e ragazzi in difficoltà, molti dei quali
sono costretti a vivere all’ “Arcenciel”
per chissà quanto tempo, mentre altri – pochi in
effetti- vengono da noi solo di pomeriggio, dopo le lezioni
scolastiche, perché a casa non hanno nessuno fino a tarda
sera, così li aiutiamo a fare i compiti e,
spesso, offriamo loro anche la cena.
Quando l’assistente sociale aveva portato Chloe e, insieme a
Madame Berancourt, avevamo discusso su come comportarci nei confronti
della nuova arrivata, eravamo tutti d’accordo che la bambina
sarebbe appartenuta alla prima “categoria”, dal
momento che i suoi genitori avevano momentaneamente perso la patria
potestà su di lei e i fratelli, fintanto che non avessero
trovato un impiego a tempo indeterminato.
Questo, ovviamente, Chloe non lo sapeva, però dal colloquio
che potevo dichiarare concluso, non era emerso nessun particolare
agghiacciante sulla condotta che impiegavano il padre e la madre nei
confronti della prole: non c’erano segni di violenza sul
corpo della piccola, le condizioni di salute erano discrete -se non si
contavano la scabbia e le zecche da cui era stata disinfestata, certo-,
avrebbe recuperato peso e altezza con una corretta e regolare
alimentazione, così come il problema della mancata
frequentazione scolastica sarebbe stato fin dal giorno successivo
prontamente supplito; forse, se avessi chiesto un appuntamento con
l’assistente sociale e la polizia che aveva riaccompagnato
Chloe dal supermercato al campo, sarei riuscito ad ottenere almeno un
incontro a settimana tra la bambina e la sua famiglia.
Mi venne in mente che anche i fratelli e le sorelle erano stati
sparpagliati nei vari centri d’accoglienza limitrofi, i tre
più grandi a Parigi e i tre più piccoli affidati
a una coppia senza figli del campo, il cui marito lavorava e si era
impegnato a sottoporsi a periodici controlli settimanali per verificare
lo stato di salute fisico e mentale dei piccoli, ma neppure questo
potevo dirle.
“Devo chiedere a quella signora che ti ha portato qui da noi,
l’altro giorno. Se lei mi dirà di sì,
allora potrai vederli! Però, purtroppo, non puoi vivere con
loro, non ancora, Chloe. Prima i tuoi genitori devono trovare un lavoro
e devono promettere che ti manderanno a scuola, perché sono
due cose molto importanti: tutti i bambini devono mangiare e studiare,
altrimenti non potranno crescere forti e sani. Capisci quello che
voglio dire? Lo so che non è bello stare lontano da chi ti
vuole bene, però tu sei più importante della vita
al campo. E poi, devi pensare che non sarà per sempre ...
”
Le sfiorai con delicatezza una mano, cercando di sorriderle per farle
capire che quel discorso complicato era solo per il suo bene.
“Non m’importa se dovrò stare qui con
voi, l’importante è poter vedere la mamma e tutti
gli altri. Anche solo per un po’, però io voglio
vederli, perché mi mancano tanto …”
Chloe cominciò a singhiozzare e poi a piangere: mi sentivo
uno stupido, un imbecille, perché il mio ultimo desiderio
era quello di ridurla in quello stato, di farla stare male.
“Ti prego, non fare così” alzandomi
dalla sedia, mi inginocchiai e l’abbracciai, cercando di
consolarla:
“Ricordati quello che ti ho promesso, Chloe: qui vivrai bene,
ci occuperemo di te come facciamo con gli altri bambini. Anzi, prometto
che ti porterò dai tuoi genitori e dai tuoi fratelli, il
prima possibile …”
Lei ricambiò la mia stretta affettuosa e, staccandosi
lentamente, si asciugò gli occhi innacquati con il dorso
delle mani.
“Va bene …” annuì
“credo alla tua promessa, Philippe”
La gita autunnale di sei mesi fa, indimenticabile nonostante la pioggia
e le curve che destabilizzarono Madame Betancourt, mi ha riportato alla
memoria l’incontro con la piccola Chloe, forse per il disegno
della campagna che aveva realizzato, una campagna immensa e "gialla”,
come l’aveva definita, con stormi di uccelli che
gracchiavano, forse alla ricerca di cibo come lo era lei, quando viveva
nel campo e chiedeva l’elemosina alle uscite dei supermercati
e agli ingressi dei mercati rionali.
A me, in quanto Philippe uomo e non psicologo, invece, quella splendida
giornata mi ha ricordato la mia infanzia a Rouge, allegra e
spensierata, le ore trascorse nel bosco e i picnic a mangiare le
baguette ripiene di maionese, pomodori, lattuga e tonno, insieme a
Luca, Alberto e Matteo.
I ricordi sono la cosa più preziosa che abbiamo: cerchiamo
di custodirli gelosamente, al riparo dagli estranei e
dall’oblio del tempo che potrebbero danneggiarli
irrimediabilmente.
Però sono anche la cosa più fragilmente emotiva
che possediamo, pericolosi quanto preziosi, ci fanno paura e ci
intristiscono, rimanendo lì, indelebili per sempre, piccoli
o grandi che siano, timidi o ingombranti che si rivelino,
perché i ricordi sono parte della nostra esistenza, sono
semplicemente noi stessi.
E, per questo, non possiamo cancellarli.
NOTA DELL'AUTRICE:
Il test di Corman o Disegno della famiglia, è stato
presentato per la prima volta alla fine degli anni Sessanta.
Viene sottoposto in psicologia ai bambini dai 5 ai 15 anni per capire,
in base alle forme, agli spazi e ai colori utilizzati, le reali
dinamiche famigliari in caso di rapporti conflittuali, quali ad esempio
separazioni e divorzi, evidenziando le eventuali problematiche che
potrebbero danneggiare la loro psiche e crescita emotiva.
Nel capitolo e in questa nota, ho molto semplificato il tutto,
però spero di avervi incuriosito a tale proposito!
Grazie come sempre a chi legge e a chi commenta!
Spero che questi flashback che caratterizzano il racconto vi piacciano!
A presto e scusate per la lunghezza del capitolo!
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Capitolo 7 *** Le due donne di Philippe ***
Due settimane fa sembrava che il mare si fosse capovolto,
che avesse preso il posto del cielo, tanta era l'acqua che si era
riversata su Versailles.
Il temporale era durato non più di mezz'ora, ma aveva
lasciato danni come se si fosse abbattuto sulla città per
giorni interi.
Mancava poco alla chiusura del Centro
e, quel pomeriggio, era il mio turno nell'aiutare e controllare che i
nostri ospiti svolgessero i loro compiti scolastici: stavo seguendo
Sophie a completare l'ennesimo esercizio sulle tabelline, quando
sentimmo un improvviso rumore che ci fece sobbalzare.
Mi voltai nella direzione da cui proveniva, dietro le mie spalle, oltre
la porta dell'aula in cui una ventina di bambini e ragazzi, insieme al
sottoscritto, non vedevano l'ora di chiudere libri e quaderni per poter
andare a cenare.
Ebbene, guardai stupito verso Sophie, la piccola ex pugile, che mi
fissava con i suoi grandi occhi neri e, facendo spallucce, mi
riportò alla realtà:
"Tra poco pioverà, Philippe ... forse dovremmo controllare
di aver chiuso tutte le finestre, altrimenti l'acqua entrerà
dentro e poi chi la sente Madame Betancourt!".
Ma certo, che sciocco ero stato! Quel rumore che ci aveva
destato improvvisamente e sgarbatamente dal nostro quotidiano e
monotono lavoro, non poteva che essere il segno un pò troppo
tangibile di un tuono, preludio di un imminente temporale che veniva a
turbare la quiete primaverile.
"Bambini, ragazzi!" apostrofai tutti i presenti affinché
ottenessi la loro attenzione: venti teste con relative quaranta paia di
occhi si fissarono su di me, aspettando che continuassi.
"Visto che tra dieci minuti avremmo comunque finito e vi avrei lasciati
liberi dalla vostra prigionia pomeridiana, cosa ne dite di fare una
gara?! Prima che inizi a piovere, dobbiamo andare a chiudere tutte le
finestre di ciascun piano! Mi raccomando, dovete controllare benissimo
ogni stanza! Vince chi chiude per primo il maggior numero di finestre
in ... quindici minuti da adesso!"
Non so come mi venne quell'idea, forse un tantino pericolosa, dal
momento che non tutti i presenti erano degli angioletti in fatto di
comportamento, eppure volevo che si meritassero un piccolo
divertimento, una sorta di premio per aver trascorso in modo
così impeccabile l'intero pomeriggio.
"Philippe!" la voce squillante di Simon, un ragazzino di dieci anni,
più alto dei suoi coetanei e dai capelli biondi e ricci,
attirò la mia attenzione.
"Non ci hai detto che cosa avremmo in cambio, se facciamo come ci hai
detto! Non credi che ci meritiamo qualcosa? Dopotutto le finestre del Centro sono
tantissime, saranno almeno un centinaio!" cercò di
dissuadermi il furbetto, sgranando gli occhi azzurri e allargando le
braccia in modo spropositato.
"Simon, per favore, non cominciare con i tuoi racconti da Pinocchio!
Per prima cosa, le finestre presenti in questo edificio non sono
così tante! In secondo luogo, hai ragione: al vincitore
andrà un ... "
"Che cosa?!" cercò di spronarmi il ragazzino, avvicinandosi
e tirandomi per un lembo della T-shirt a maniche corte.
"Beh, voi cosa vorreste?"
"Una nuova bambola! Un
trenino elettrico! Un libro sui pirati! Una gonna con i fiori blu! Una
trousse di trucchi! Una pizza!"
"Va bene, va bene, fermatevi!" li bloccai sorridendo, stupito da quella
disparità di interessi e relative richieste.
"Oh no! Tutte quelle cose che avete detto sono oggetti di cui vi
stufereste presto! Io, invece, proporrei qualcosa di molto
più ... ghiotto! Qualche cosa che, sia che vinciate oppure
no, vi farà ricordare del vostro povero
Philippe in quel pomeriggio in cui vi chiese di chiudere le centinaia di
finestre del Centro!
Cosa ne dite, quindi, di un super gelato?!"
Un silenzio degno di quello che segue la rivelazione dell'assassino in
un dramma teatrale, seguì le mie parole.
"Un gelato? Ma dove? Spero che non è uno di quelli di
Monsieur Victor: ce li da sempre e solo alla crema e pistacchio, non ha
altri gusti!"
"Alexis, si dice spero
che non sia!" risposi a metà tra il serio e il
divertito ad un bambinetto di sei anni, pallido pallido come il latte,
con gli occhi verdi grandi e profondi e i capelli neri spettinati
"E poi non stavo pensando ai gelati di Monsieur Victor, anche se io li
adoro. No, in realtà avevo in mente di portarvi alla
“Grande
Patisserie”, però se voi preferite un
... libro dei pirati, Edouard? Beh, allora chiederò a Madame
Betancourt di procurarvi ..."
"Sì, sì, sì!" un coro entusiasta si
levò dai tavoli posti di fronte a me.
Sapevo che la mia proposta non avrebbe potuto sortire effetto diverso!
La “Grande
Patisserie” è la gelateria e
pasticceria più importante della città,
distaccamento della sua omonima nel centro di Parigi e, ogni bambino
che si rispetti -che viva o passi anche solo nei dintorni-, sa della
sua esistenza e, almeno una volta alla settimana, chiede ai genitori di
potervi andare a dare un'occhiatina.
Il mastodontico edificio copre un'area di tre piani e, al suo interno, è il Regno
degli Amanti dei Dolci: si può scegliere di nuotare in vasche di cioccolatini ripieni, caramelle alla
frutta, di addentare morbide crostate alla crema pasticcera e al fondente, di sbocconcellare statue di
marzapane, dolcetti alla ricotta oppure di bearsi davanti ad intere vetrate di gelato artigianale!
La casetta della strega cattiva di Hansel e Gretel o la Fabbrica di
Cioccolato di Dahl non avrebbero di certo retto al suo confronto.
Subito dopo la mia richiesta, però, mi pentii di avergliela
proposta, in quanto mi accorsi dell'insensatezza delle parole che avevo
pronunciato, non tanto per la necessità di spostare venti
ragazzini desiderosi solo di naufragare in quel mare di ghiottonerie
ma, soprattutto, per la mancanza di liquidi da spendere in un posto del
genere, adatte più alle rigonfie tasche di una grandama che
a quelle vuote e mezze bucate di uno psicologo infantile quale il
sottoscritto.
"Forse ... " tentai timidamente di fare marcia indietro, inutilmente
però, in quanto il secondo tuono si frappose tra me e il mio
goffo tentativo di riportare le cose come stavano appena dieci minuti
prima.
Un violento scroscio seguì l'ingombrante rumore e, mentre un
terribile presentimento cominciava a balenarmi in testa,
esortai nuovamente tutti i bambini e ragazzi a dare inizio
alla gara che poi gara non era, dal momento che avevo promesso lo
stesso succulento premio all'intero gruppo.
Li seguii a ruota, non appena uscirono dall'aula saltellando e
parlottando tra di loro, già sicuri di pregustarsi un enorme
cono gelato ai mille gusti.
Ma il loro entusiasmo si bloccò dopo appena qualche passo in
corridoio, mentre io, con la mia stazza da un metro e ottantasette, a
momenti li travolgevo.
"Perchè vi siete fermati?" cercai di indagare, nell'istante
stesso in cui Chloe, l'ex zingarella, mi invitò a guardare
davanti a noi:
"Philippe, cos'è successo?" domandò stupita,
puntando un indice a pochi metri più in là
rispetto a dove eravamo, ritti e immobili "sembra che sia
caduto un pezzo di tetto!"
Se avessi potuto avere uno specchio, in quel momento, credo che lo
avrei fatto cadere in mille pezzi, dopo aver visto la mia immagine
riflessa, pallida e incredula come quella di un bambino che scopre che
Babbo Natale non esiste come Nonno Creagiocattoli ma, semplicemente,
come genitori amorevoli.
"E' - è davvero caduto?" volle sapere Gabrielle, otto anni e
due trecce alla Pippi Calzelunghe.
"Wow! E adesso cosa facciamo?!" domandò a bocca aperta
Simon, dopo essersi ripreso dal comprensibile stupore.
"Ritornate tutti in aula. Immediatamente!" ebbi solo la forza di
pronunciare, non riuscendo nemmeno a guardarli in viso, tanta era la
disperazione che trapelava dalle mie parole, mentre osservavo spaesato quella mostruosa apertura sopra le nostre teste.
"Possiamo aiutarti a raccogliere le tegole, se vuoi ..." si fece avanti
Adriene, il mio piccolo Adriene, sempre premuroso e gentile verso tutti.
"No, Adriene, non è necessario" cercai di rivolgergli un
sorriso, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo da quell'immane
disastro che si stagliava beffardo davanti ai nostri occhi, un ammasso
di un centinaio di tegole, rami e foglie, a pochi passi da una delle
finestre che si apriva sullo stesso lato di muro della stanza in cui
eravamo rintanati appena pochi istanti prima.
"Se volete davvero darmi una mano, allora tornate subito in aula.
Disegnate, colorate, giocate, finite i compiti se dovete terminarli, ma
non voglio vedervi in giro! Potrebbe essere molto pericoloso!
Maximilien!" voltandomi per la prima volta dopo quella catastrofica
scoperta, mi appellai al più grande del gruppo, un ragazzino
di tredici anni, i capelli tagliati a spazzola e gli occhi color ambra
infossati in un viso troppo magro.
"Da questo momento e fino a quando non torno, ti affido l'intera
classe! Sei il caposquadra! Dovrai accertarti che nessuno dei tuoi
compagni esca ..."
"Nemmeno per andare in bagno?" domandò timidamente Sophie
"No, nemmeno per andare in bagno, mi dispiace Sophie. Scriverai sulla
lavagna i nomi dei bambini e dei ragazzi che ti disobbediranno,
così poi lo diremo a Madame Betancourt. E sapete benissimo,
tutti quanti, che io odio fare la spia e che non l'ho mai fatta,
però, in questo momento, ne va della vostra sicurezza,
quindi non esiterò a riferirle i nomi di chi non si
è comportato bene! Quindi, fate i bravi e obbedite a
Maximilien! Avete capito?! Sì? E ora, marsch! Un due un
due un due!"
Tutti annuirono e, facendo dietrofront, tornarono ordinatamente in
aula, i maschietti sull'attenti come dei veri soldati.
"Ma Philippe ..." richiamò la mia attenzione Adriene, mentre
passava di fianco a me "tu dove vai?"
"A cercare Liliane, vado a cercare Liliane" gli ripetei come un automa,
forse più a me stesso che a lui, come per infondermi
coraggio.
Coraggio di che cosa non lo sapevo: male che andava, mi sarebbe
precipitato sulla testa un altro mucchietto di tegole.
Chissà che non mi avrebbe aggiustato quella testa dura che mi ritrovo,
come ama sempre ripetere mia madre.
Cinque minuti più tardi tornai alla base, seguito dalla mia
fedele compagna di disavventure.
"Per fortuna ti sei fermata a sbrigare la contabilità!" fu
la prima cosa che dissi a Liliane, non appena la trovai al secondo
piano, rintanata nell'archivio a prendere muffa e a respirare polvere.
Poi, prendendola per mano e facendole fare gli scalini più
velocemente di Cupido provvisto di ali, raggiungemmo l'avamposto, la
zona del nemico,
a pochi metri dal nostro quartier
generale, mentre i nostri sottoposti erano
ancora trincerati ai loro posti, sotto lo sguardo attento del caporale Maximilien.
"Oh no! Ma cosa è successo?!" Liliane fece per avvicinarsi,
ma io le bloccai un polso e, sprezzante del pericolo, la feci
indietreggiare dicendole:
"No, è meglio che vada io! Non voglio che ti accada nulla di
male!"
"Ma ... dobbiamo capire cosa sia successo, forse c'è qualche
altra falla, forse potrebbe cadere qualche altro pezzo e ..."
Il terzo tuono negli ultimi venti minuti si fece sentire, se
possibile, ancora più forte dei precedenti ma, forse, era
solo la conseguenza della sensazione di smarrimento che stavo provando, terrorizzato che
potesse cadere o sprofondare ancora qualcosa.
"Appunto, Liliane! Tu vai dentro, insieme ai ragazzi. Io
farò un giro di perlustrazione,
giusto per vedere se il pericolo è ancora in
agguato ed, eventualmente, chiamare i rinforzi!"
Un lieve sorriso fece capolino dalle belle labbra sottili di Liliane.
"Ma come parli?! Mi sembri un soldato mandato in avanscoperta!
Forza, mio prode e valoroso capitano,
non ti lascerò da solo nel momento del bisogno! Affronteremo
insieme la strada che ci attende, sicuramente irta di pericoli e, coraggiosamente,
faremo scappare a gambe levate il nemico!"
Non potei fare altro che sorridere, consapevole delle parole che avevo
appena pronunciato, più adatte ad un attore da quattro soldi
che ad uno psicologo un pò troppo fantasioso.
"Hai ragione, tenente,
forse mi sto calando in un ruolo che non mi compete! Sai cosa facciamo?
Andiamo a chiamare i vigili del fuoco: loro sì che sapranno
liberare il nostro cammino da eventuali altri pericoli!"
"E bravo il mio capitano!
Philippe ..."
Improvvisamente Liliane tornò seria e la preoccupazione si
fece largo sul suo viso incorniciato dai capelli biondi sciolti sulle
spalle.
"Sai chi altri dovremmo avvisare, vero?"
Ecco, in quel momento il prode
e valoroso capitano andò a farsi benedire
chissà dove, perché mi resi conto che, oltre alle
tegole che avrebbero potuto piombare sulle nostre belle teste, c'era un
pericolo ancora più grande a doverci far paura: quel
pericolo aveva un nome ...
"Lo so, purtroppo: dobbiamo chiamare Madame Betancourt"
"Chi lo fa?" mormorò insicura, come se così
facendo non le potesse toccare quell’ingrato compito.
"Che cosa? Telefonare ai vigili del fuoco posso farlo io ... " cercai
di rabbonirla con il migliore dei miei sorrisi.
"Ma smettila!" Liliane sembrava non aver ceduto al mio fascino da
seduttore, perché mi rispose dandomi un piccolo schiaffo sul
braccio destro.
"D'accordo, ho capito. Data la mia grande generosità e lo
sprezzo del pericolo, contatterò entrambi! Contento, mio tenente?!"
I vigili del fuoco vennero dopo una dozzina di minuti e, per fortuna,
rimossero senza difficoltà il mucchietto di tegole, rami e
foglie dal corridoio al primo piano, accertando, dal loro competente
sopralluogo, che l'edificio non aveva altre falle o danni in corso.
Per precauzione avevano recintato la zona del misfatto, in modo da
impedire ai ragazzi di darci occhiate indiscrete e, soprattutto,
pericolose.
Andarono via con la promessa di ritornare per un controllo di puro
scrupolo due giorni dopo e, nel caso ci fossimo accorti di qualche cosa
che non andava, accordarono la loro piena disponibilità per
venire prima.
La parte più dura, però, fu quella di contattare
Madame Betancourt, la nostra amata direttrice del Centro.
Premesso che feci squillare il telefono di casa e il cellulare una
decina di volte senza mai ottenere risposta, ringraziai la mia buona
stella per non dover subire, alle otto meno un quarto di sera, una
ramanzina con i fiocchi a cui non sarei sopravvissuto.
"In nemmeno due ore ho perso cinquant'anni della mia vita!" sospirai
dopo l'ennesimo tentativo andato a vuoto.
"Ma se hai appena trent'anni!" mi rispose divertita Liliane
"Appunto, era per dire ..."
Eravamo rintanati al secondo piano, nell'archivio ammuffito e polveroso
con i vecchi libri della contabilità: avevamo atteso che i
bambini e ragazzi che avevano la fortuna di tornare a casa fossero
recuperati dai genitori o da un loro tutore, poi ci preoccupammo di
sfamare gli altri ospiti permanenti del Centro e, infine,
cercammo di fare una stima del danno che ci aveva colpito.
"Dimmi che il nostro fondo cassa trabocca di oro, diamanti e altre
pietre preziose ..."
Ero stravaccato su una delle due sedie di legno mezzo marcio presenti
nella stanza, mentre Liliane, che mi dava le spalle, stava rovistando
tra gli scaffali.
"Ma certamente! Che domande fai! Siamo talmente ricchi che potremmo
sfamare l'intera Francia!" mi rispose divertita, stando al mio gioco.
Solo in quel momento mi venne in mente della promessa che avevo fatto
ai ragazzi, appena qualche ora prima, di portarli nel Regno degli
Amanti dei Dolci.
"Molto bene, questo mi rincuora ..."
Liliane si tolse le ballerine e, i piedi nudi, si issò
sull'altra sedia, alla ricerca di non so che cosa sull'ultimo scaffale
davanti a noi.
"Attenta!" mi precipitai a salvarla, prima che si sfracellasse sul
pavimento.
Le circondai la vita con presa sicura, nello stesso istante in cui il
suo volto si girò verso il mio e i suoi capelli soffici e
profumati di vaniglia mi solleticarono il naso.
Rimanemmo per qualche secondo con le bocche semiaperte, le mie mani che
non volevano allontanarsi da lei.
Mi avvicinai sempre di più in direzione delle sue labbra, in
quel momento così invitanti: non riuscivo a capire che cosa
mi stesse succedendo; forse, qualche tegola invisibile mi era caduta in
testa e stava cominciando a farmi uscire di senno, perché
non avrei potuto spiegare in altro modo il mio comportamento.
Liliane era lì, però, a un soffio da me,
così bella nella camicetta bianca e attillata, dalle maniche
a sbuffo e la gonna nera a pieghe, lunga fino al ginocchio,
così simpatica, così sbarazzina con quella ciocca
bionda che le penzolava sulla fronte, dividendo il sopracciglio
sinistro.
Per la prima volta da quando stavo con lei, da quando l’avevo
conosciuta due anni addietro, provavo un’attrazione
particolare, più forte di tutte le volte in cui eravamo
usciti a cena.
La vedevo perfetta nel suo vestito, chiedendomi come avesse potuto
Mathieu gettare all’aria il rapporto con una donna favolosa
come lei, la compagna ideale che, per non impedirgli di buttare alle
ortiche i suoi progetti lavorativi, aveva addirittura abortito
…
La baciai, così, tutto d’un fiato,
all’improvviso, senza preavviso, beandomi delle sue labbra
che non sapevano di nulla, erano normalissime e, per questo, sapevano
di tutto.
La strinsi con foga contro di me, mentre cercavo con ansia le sue mani:
la condussi sul tavolo che era a un passo da noi e cominciai a
sbottonarle la camicetta, continuando, piuttosto goffamente, a baciarle
le labbra, per poi scendere fino al candido collo.
“No!” Liliane mi scacciò con un gesto
secco, deciso, improvviso.
Rimanemmo ad ansimare per qualche secondo: mi sentii sciocco, inebetito
dal profumo di vaniglia che mi era stato impedito di assaporare oltre e
quasi mi vergognai.
Non mi sembrava che lei non gradisse, per così dire, le mie
attenzioni, anzi, avevo avuto la netta sensazione che ricambiasse con passione i miei baci e le carezze,
eppure qualcosa si era rotto tra di noi.
“Io … scusami, Liliane, non volevo mancarti di
rispetto. Perdonami, io … sono molto stanco e …
davvero, ti prego di accettare le mie più sentite scuse. Ora
me ne vado”
“Sì, forse è meglio”
tagliò corto lei, senza neppure guardarmi in faccia.
La vidi distrattamente ricomporsi, allacciandosi i primi bottoni della
camicetta, rassettandosi la gonna e ravvivandosi i capelli.
Ero già pronto a compiere quei dieci metri che mi separavano
dalla porta, magari anche ad ampie falcate pur di non rimanere un
attimo di più nella stessa stanza con lei, quando mi venne
in mente una cosa, davvero stupida e fuori luogo da dire in quel
momento, tanto più che era l’ennesima promessa,
fatta a distanza di poche ore, che non avrei potuto mantenere:
“Domani mattina parlerò con Madame Betancourt e mi
offrirò di pagare le spese. Buonanotte”
Quando arrivai in macchina erano quasi le otto e mezza. Sarei arrivato
a casa dopo quasi un’ora e, in quelle condizioni, non me la
sentivo di mangiare da solo.
Così mi recai in una trattoria poco distante dal Centro:
ordinai uno sformato di patate e formaggio, una macedonia e una lattina
di Sprite.
Mi sentivo davvero uno stupido; non riuscivo ancora a spiegare il
comportamento che avevo tenuto con Liliane.
Ero come stordito, incapace di reagire: la verità, pensai,
è che non ho alcuna esperienza con le donne, non ho mai
avuto una vera fidanzata e, stasera, ho creduto che invece fosse tutto
così semplice, così naturale, invece ho rovinato
tutto.
Forse Liliane non avrebbe voluto mai più parlarmi, non
avrebbe voluto rivedermi, avere a che fare con me.
Pagai il conto e, solo grazie all’onestà del
cassiere, mi accorsi di aver dato dieci euro in più rispetto
al totale.
Ringraziai mestamente e uscii dal locale.
Erano le nove e quaranta: ero troppo stanco per rimettermi in macchina
e guidare per cinquanta minuti.
Cosa avrei potuto fare? Dormire all’addiaccio, come un
quindicenne, non mi sembrava il caso.
Andare in un hotel? No, non se ne parlava, lo trovavo abbastanza
deprimente.
Mi rassegnai all’evidenza: non mi rimaneva altro che
incamminarmi verso Montigny e, una volta arrivato, buttarmi sul letto
per non pensare a nulla, né alle tegole e neppure alla
figuraccia che avevo fatto con Liliane.
Forse non tutto era perduto, però: con una
rapidità all’opposto rispetto alla lentezza dei
miei movimenti, mi balenò un’idea che non mi
sembrò poi così male.
Guardai distrattamente l’orologio da polso: sì,
non era così tardi da non poter disturbare la mia cara
sorella Agnése, donna in carriera e sposa novella, che si
era trasferita a Parigi da sei mesi, se non mi ricordavo male.
Cercai il cellulare nella tasca destra dei pantaloni di stoffa blu e
composi il numero della sua abitazione: al terzo squillo mi rispose una
voce assonnata.
“Pronto … ?”
“Ehm, Agnése? Sono Philippe. Ti
disturbo?”
“Philippe!” la voce impastata di poco prima si
tinse improvvisamente di una nota allegra.
“Sì, sono io. Avrei bisogno di un favore: posso
venire a dormire da te?”
Una risata si levò dall’altro capo del telefono.
“Oh Philippe! Cosa hai combinato? Ti sei già
stancato della vita di compagna a Montigny?!”
“Smettila di canzonarmi! Ho semplicemente fatto tardi al
lavoro e non ho voglia di rimettermi in macchina: lo sai che odio
guidare di notte. Allora?! Mi ospiti oppure no?!”
“D’accordo, non c’è bisogno
che ti alteri, sai? E comunque, per la cronaca, io stavo già
dormendo.
Fabrice è via per lavoro, torna domani sera, e io domani
mattina mi devo alzare alle sei perché ho una riunione a
Vendée e … oh, ma sì, certo, vieni
pure! Ti aspetto! Però non fare tardi, altrimenti troverai
la porta chiusa! A dopo!”
Cercai di biascicare un grazie, ma mia sorella aveva già
riattaccato.
Ritornai sui miei passi, verso la mia Peugeot rossa: potevo essere
soddisfatto di me stesso, in una sola serata avevo avuto la compagnia
di ben due donne.
Misi in moto e, con un sorriso a metà tra
l’affranto e il divertito, avviai la macchina.
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Capitolo 8 *** Chiarimenti e confusione ***
Il
giorno successivo al nostro disastroso incontro, Liliane non venne al
lavoro; la stessa cosa avvenne per quello dopo ancora e per il mattino
del terzo giorno.
Dopo la cena con mia sorella, la poca autostima che mi era rimasta si
era definitivamente inabissata nel fondale più
recondito della mia mente: Agnése, infatti, non faceva altro
che elogiare le innumerevoli qualità che caratterizzavano il
suo Fabrice, così perfetto e premuroso con lei, il marito
che ogni donna vorrebbe avere, mentre io mi sentivo uno stupido idiota,
che annuiva vagamente alle domande retoriche che continuava a fare
più a se stessa che a me.
Così, una volta a casa, la sera successiva dopo il lavoro,
cominciai a chiudermi in un mutismo selettivo: ero insensibile persino
alle insistenze di Vivianne, stranamente arrendevole per aver perso per
l’ennesima volta alla nostra infantile gara
sull’orario d’arrivo del treno da Versailles, ma
morbosamente insistente nell’offrirmi la solita pizza e
boccale di birra che caratterizzavano da mesi i nostri
mercoledì sera.
Vivianne, infatti, ha la rara qualità di capire ogni cosa le
capiti attorno; senza fare domande imbarazzanti, adotta i comportamenti
necessari per risolvere la situazione, peccato che, a volte, il suo non
chiedere informazioni porti la persona interessata a trattarla male:
ammetto, infatti, di essere stato un po’ troppo maleducato
con lei, chiudendole la porta in faccia e mormorandole un
impercettibile "scusa, ma stasera ho mal di testa", il pretesto
più stupido, antiquato e fuori luogo del mondo.
Così, dopo averla gentilmente accomiatata insieme alla sua
sfilza di rimproveri ( “Anche
se non lo ammetterai neppure sotto tortura, lo so che c’entra
una ragazza! Non capisci nulla, Philippe, in fatto di donne! Se
continuerai di questo passo, rimarrai solo come un’eremita,
anzi peggio! Se mi fai rientrare, stileremo insieme un elenco di
consigli che ti possano aiutare! Sei proprio uno stupido, ecco quello
che sei!" Ecc ecc ecc), cercai di togliermi dalla mente
l’insulsa figura che avevo fatto con Liliane: non provai
neppure a chiamarla o a mandarle un messaggio, talmente mi sentivo in
colpa; semplicemente sprofondai nel letto, le persiane accostate per
far entrar un po’ d’aria primaverile, con
l’unica compagnia della radio come sottofondo.
Forse Vivianne aveva ragione, dopotutto: nella materia del secolo
“Come
conquistare l’universo femminile” il
massimo voto che avrei potuto prendere sarebbe stato uno zero tondo
tondo.
Guardando il soffitto bianco e forse necessitante di una passata di
bianco, mi venne in mente che quello di cui avevo bisogno, oltre ai
saggi consigli della mia vicina di casa, fosse un cane.
Sì, un bel cucciolo con cui andare a passeggio per le strade
di Montigny: al parco, in riva al fiume, tra le vie affollate del
centro … ho sempre avuto la certezza che, un uomo in giro
con il proprio cane, avrebbe suscitato ammirazione e tenerezza nella
donne che gli passavano vicino, mentre si fermavano per accarezzare la
testa e il manto del piccoletto, cominciando ad attaccare bottone con
il proprietario bipede.
Da piccolo e fino all’adolescenza, nella casa di Lione, avevo
felicemente convissuto con tre animali: Silvye, la mia bellissima
labrador, André, l’impavido micione ( unico
maschio della famiglia insieme a mio padre e al sottoscritto) e Lise,
la criceta più ghiotta che possa esistere.
Ebbene, quando portavo fuori a spasso Sylvie, la tattica che mi era
venuta in mente in quel momento di sconforto che stavo vivendo, aveva
sortito i suoi frutti: bambinette di cinque anni e anziane signore over
settantacinque, si avvicinavano entusiaste alla mia ragazza,
chiedendomi emozionate di poterla accarezzare.
Quei tempi ormai erano finiti, però l’idea di un
nuovo amico a quattro zampe non mi dispiaceva affatto: forse, adesso
che ero cresciuto, si sarebbero fatte avanti donne della mia
età …
Mi rigirai su un fianco e, un braccio piegato sopra il cuscino come
poggiatesta, mi addormentai di un sonno senza sogni.
Il pomeriggio di venerdì, però, poco dopo le
cinque e mezza, Liliane si presentò al Centre: io ero nel
giardino con il gruppo degli Orsetti lavatori, i bambini di otto anni,
tutti indaffarati a svolgere al meglio la caccia al tesoro che avevo
preparato per farli distrarre dagli ultimi avvenimenti che ci avevano
colpito.
Riconobbi subito la sua automobile blu elettrico, una Mini Cooper la
cui carrozzeria brillava sotto i raggi perpendicolari del sole tiepido
di fine aprile.
Cercai di non dare troppa importanza alla figura sinuosa che avanzava
verso il vialetto di ghiaia e terra, al rumore ritmico dei suoi sandali
sul selciato, forse troppo estivi per la stagione, ai pantaloni neri
abbinati alla maglietta arancione con le maniche a trequarti.
Deglutii come se quel gesto naturale avesse potuto togliermi da
quell'impiccio in cui, io stesso, mi ero cacciato, l'unico responsabile
di quella situazione forzata dentro la quale eravamo stati catapultati.
Le urla di gioia dei bambini mi distrassero per qualche istante dalle
mie riflessioni: Maurice e Gerard, l'uno nero quasi come un africano e
l'altro albino come un discendente dei popoli del Nord Europa,
saettavano tra le mie gambe, cercando di rubarsi a vicenda l'ennesimo
bigliettino che avevo disseminato per il giardino.
"Ciao ..." mi salutò Liliane, i capelli biondi raccolti in
una coda lunga poco oltre la nuca. Non sembrava imbarazzata, era
semplicemente apatica, quasi come se non mi vedesse realmente.
"Oh, ciao. Ehm come stai?"
Credo che divenni rosso come un pomodoro oltremodo maturo: distolsi lo
sguardo per mezzo secondo dal suo viso troppo pallido, mentre notavo
gli occhi leggermente cerchiati, sfuggenti ai miei.
Lo rialzai subito dopo, però, perché non volevo
perdermi un solo istante di quella conversazione che, speravo, si
sarebbe svolta non come un mordi e fuggi, ma con tutta la calma di cui
necessitava.
"Ho bisogno di parlarti ..." anche lei abbassò lo sguardo,
posandolo su un timido accenno di viole del pensiero, che faticavano a
crescere in mezzo a quella ghiaia e a quella terra scadente.
"S-sì, sì, certo. Adesso?"
Liliane annuì poco convinta; un sorriso fugace si diffuse
sulle labbra, anch'esse pallide come il resto del viso, quando mi
domandò:
"Come mai i bambini sono tutti agitati?!"
Io mi girai nella direzione dei suoi occhi:
"Stanno facendo una caccia al tesoro. Credo che Nicholas abbia trovato
il quarto o quinto biglietto che ho disseminato in giro: ormai ho perso
il conto di quanti siano!" tentai di giustificarmi goffamente.
“Una caccia al tesoro …?”
ribadì Liliane, una nota nostalgica nella voce bassa
“che bella idea che hai avuto, Philippe!”
Cercai di non dare alcun peso al complimento non troppo velato che mi
aveva fatto, continuando a spiegarle:
"Chi ricostruirà per primo la frase che conduce al tesoro,
vincerà tre libri a sua scelta!"
"Ma un tempo non si utilizzava una mappa?!"
"Beh sì, ma io non sono così bravo a disegnare,
quindi ho ripiegato su un'altra idea che ..."
“E la gita alla Grande
Patisserie?” un lampo d’inquietudine
attraversò i suoi begli occhi verdi.
“Quella dovrà aspettare, purtroppo. I ragazzi
hanno capito la situazione, chi più chi meno,
così, almeno per questa settimana, si dovranno ancora
accontentare dei gelati di Monsieur Victor!”
Cercavo di essere il più naturale possibile, eppure avevo
paura di rovinare ancora ogni cosa e, questa volta, per sempre.
"Hai parlato con la direttrice?"
Liliane si rabbuiò a quella domanda che lei stessa mi aveva
posto, cambiando bruscamente discorso.
La vedevo tesa, eppure speravo che quel suo comportamento non fosse
dettato da ciò che era successo tra di noi appena tre sere
prima.
"Abbiamo fatto una riunione straordinaria ieri mattina, nella pausa
pranzo dei ragazzi. I vigili del fuoco sono tornati e hanno dato il
loro nullaosta a riaprire la zona del corridoio in cui erano cadute le
tegole: hanno messo un telo provvisorio, al posto del buco nel tetto.
Purtroppo la nostra situazione finanziaria non è positiva:
siamo già in rosso di duecento euro e, questo improvviso
incidente, non ha di certo migliorato le cose. Madame Betancourt non sa
cosa fare, non sa a chi rivolgersi" le spiegai tutto d'un fiato, nel
timore che potesse interrompermi e farmi perdere il filo del discorso
con la sua voce, più di quanto la sua presenza non stesse
già facendo.
"Lo so, lo immaginavo. Quando l'ho avvisata che mi sarei presa questa
settimana di ferie, mi ha ribadito che non versiamo in buone acque, che
se continuiamo di questo passo ..."
"Perché non sei venuta?" la interruppi quasi senza
rendermene conto: volevo capire, dovevo capire se era per me che stava
rinunciando al suo lavoro.
"Dove?"
"In questi giorni: mercoledì, alla riunione di ieri mattina,
oggi ... insomma, è per me? E' successo qualcosa? Non stai
bene?"
Liliane sospirò, mordendosi il labbro inferiore e
riprendendo a guardare verso i bambini, sempre più impegnati
nella loro caccia al tesoro.
Il sole stava quasi tramontando, una palla di fuoco incandescente che
si abbassava gradatamente sull'orizzonte tinto di rosso, arancione e
rosa, prendendo il posto dell'azzurro slavato che aveva caratterizzato
quel venerdì.
Quando ritornò a guardarmi, il suo sguardo era vacuo,
assente, e la sua voce era leggermente incrinata da una combinazione di
sentimenti di cui io non possedevo la traduzione per poterli
interpretare.
"E' tornato ..." mi rispose semplicemente.
Subito non capii quelle parole, sebbene una strana sensazione si
impadronì di me: temevo che proseguisse, come se sapessi
perfettamente il nome che mi avrebbe sputato in faccia, da
lì a pochi istanti, un gancio di un pugile assestato a
tradimento.
Allora tutto mi fu chiaro e, per la prima volta da quando era successo,
mi sentii meno in colpa per l'assalto
che le avevo riservato tre giorni prima.
"Lui è tornato, vero? Mathieu è di nuovo qui, non
è così?"
Liliane annuì poco convinta, come se non riuscisse a
rendersi conto della situazione che le stava capitando.
"E' arrivato lunedì sera, per questo mi sono bloccata quando
… sì, insomma, quando è successo del
bacio e di tutto il resto. Si è presentato alla porta come
se nulla fosse” cominciò a spiegarmi con la voce
leggermente incrinata “come se in questi due anni
non se ne fosse mai andato. Mai una telefonata, mai una cartolina, solo
qualche rado messaggio per il mio compleanno e per Natale... poi nulla,
capisci?! Il nulla, il vuoto! Io ..."
"Vuoi sederti?" domandai per cercare di farla sentire a suo agio;
vedendo l'espressione smarrita e desolata sul suo viso, mi pentii
subito della mia stupida richiesta: ultimamente non riuscivo proprio a
comportarmi normalmente con lei, facevo una gaffe dietro l'altra,
un'insensatezza dopo l'altra.
"N-no, non è necessario. Ho bisogno di parlare. Anzi no,
forse ho sbagliato a venire. Volevo solo sapere se si era trovata una
soluzione per il tetto, ma tu mi hai già risposto, quindi
forse è meglio che vada ..."
"Aspetta, ti prego!" le bloccai un polso, nello stesso istante in cui
Liliane cercava di allontanarsi da me.
"Philippe, io sono confusa, non so cosa fare ..."
Si portò un indice alle labbra, cominciando a mordicchiarsi
la rispettiva unghia.
"Non mi sono mai mangiata le unghie in trent'anni, proprio adesso
dovevo cominciare!" mi spiegò, abbozzando un sorriso
malinconico.
Si allontanò di qualche passo dalla postazione che aveva
mantenuto fino a quel momento: Sophie, Isabelle e di nuovo Nicholas si
stavano pericolosamente avvicinando a noi e, credo fosse per loro, che
non voleva farsi vedere in quello stato stravolto.
Liliane si voltò nella direzione opposta a quella in cui i
tre Orsetti si stavano avvicinando, seguiti ancora da Maurice, Gerard,
Michael e Benedette.
"Scusami se ti ho annoiato con i miei problemi, ora me ne vado. Ciao,
Philippe"
Di nuovo le bloccai un polso, questa volta con un gesto talmente
perentorio che la fece fermare all'istante, ma non voltare.
"Non andartene, aspetta ancora un attimo. Voglio solo dirti una cosa,
poi non ti annoierò più con le mie parole, te lo
prometto: ricordati, sei hai bisogno di qualunque cosa, di qualsiasi
consiglio, puoi contare su di me, sempre.
L'altra sera sono stato impulsivo e maleducato e, se dovesse essere
necessario, continuerò a domandarti scusa all'infinito,
sperando che tu possa perdonarmi. So solo che non voglio perderti: per
questo spero che potremo rimanere almeno amici e colleghi, Liliane
…”
Allargai le braccia in un gesto di arrendevolezza e, guardando verso la
Mini Cooper, conclusi la mia arringa da avvocatuccio:
“Ecco, se ora non vuoi più parlarmi, se non ti
vuoi aprire, puoi andartene, quello che mi premeva dirti, te l'ho detto
... tutto qui"
Mi guardò di soppiatto, con la coda dell'occhio, sempre
continuando a mangiucchiarsi l'unghia dell'indice.
Dopo essersi voltata, vedendo i bambini di nuovo lontani, mi si
avvicinò e, abbracciandomi con tutta la forza e il calore di
cui fu capace, disse semplicemente:
"Grazie ... grazie per esserci sempre stato, Philippe, grazie di tutto!"
"Sono tuo amico e ti voglio bene: è il minimo che avessi
potuto fare, credimi ..."
"Vuol dire che posso rimanere ancora un po’? Che posso
raccontarti cosa mi ha detto, cosa è successo?!"
Io annuii, sorridendo; poi la presi per mano e la condussi su una delle
sgangherate panchine del giardino, a una ventina di metri da dove
stavamo parlando, sempre un'ottima postazione per tenere sottocontrollo
i bambini e la loro caccia al tesoro.
"Forse ho sbagliato,
forse avrei dovuto insistere perché tu venissi,
perché mi seguissi. Ecco cosa mi ha detto,
l'altra sera: con quel suo sorriso sornione, con quel suo fare affabile
e quella carezza inconfondibile su una guancia! Io avevo il cuore che
mi batteva a mille, Philippe, non sapevo cosa stava succedendo, non
capivo più nulla! Non sapevo se era un sogno, se era
realtà, se era solo il frutto della mia fantasia!"
"E poi, cos'è successo?" cercai di modulare la voce, roca e
fremente.
"Nulla. L'ho fatto accomodare, ma solo perché mi ha chiesto:
non mi fai entrare?
Ha cominciato a scusarsi per il suo comportamento e poi mi ha detto che
non aveva mai smesso di pensare a me. Ma ti rendi conto?! Due anni
all’altro capo del mondo, in Australia, ed io qui, da sola! E
cosa ho fatto?! Al posto di insultarlo, di mandarlo via, di odiarlo,
non ho saputo reagire, non ho saputo dire nulla! Mi sono sentita
così stupida, così ingenua, così
confusa! Io avevo rinunciato al nostro bambino, lo avevo fatto solo per
l'amore che provavo per lui e per proteggere la sua maledetta carriera!
E adesso, ecco che si ripresenta come la più innocente delle
persone!"
"Lo ami ancora?" la mia voce era ferma e sicura, però, nel
pronunciare quelle parole, avvertii un tuffo al cuore: non sapevo se
fosse una proiezione del sentimento che provavo per Liliane o se,
semplicemente, fosse paura e preoccupazione per lei.
"Credo di sì, ma non ne sono sicura. La cosa più
brutta è che non capisco se è qui per restare, se
vuole portarmi con sé, quali sono le sue reali intenzioni! E
poi non capisco cosa voglio io, Philippe, se è solo
attrazione quella che provo pensando a lui, se ne sono ancora
innamorata ..."
"Ma non ne avete parlato?"
"Non gli ho dato il tempo” si portò una mano a
coprirsi gli occhi, tirò su con il naso e poi
continuò:
“Dopo lunedì sera non gli ho più
risposto al telefono; mi ha lasciato una decina di messaggi in
segreteria, ma io non so cosa dirgli. Ho paura ad affrontare il
discorso, a sentire le sue eventuali proposte, ho paura della sua e
della mia reazione!"
"Quindi non gli hai detto nulla del bambino che hai perso?"
Liliane scosse il capo, riprendendosi a mangiucchiarsi un'unghia,
questa volta del pollice.
"Avrei voluto dirglielo, forse solo per farlo sentire in colpa,
però qualcosa mi ha bloccato. Non avevo il coraggio,
Philippe, non ho trovato il coraggio ... non valgo nulla, ecco
perché se ne è andato …"
A quelle parole una rabbia crescente s'impadronì di me:
"Ma ti stai ascoltando, Liliane?! Tu non hai nulla di cui
rimproverarti! Ti sei innamorata dell'uomo sbagliato, una persona che
non ti merita, che vale molto meno di te e delle tue ottime
qualità come donna e come psicologa! Non devi lasciarti
abbattere, hai capito? Tu vai benissimo così come sei,
mettitelo in testa!"
In quel momento delle grida ci fecero voltare nella direzione in cui i
bambini stavano conducendo la loro gara.
Mi alzai di scatto dalla panchina: Nicholas, i capelli chiari tagliati
particolarmente corti e gli occhi azzurri, era finito a terra, le mani
sul naso.
Ci precipitammo verso di lui, immobile a pochi metri da noi.
"Nicholas, cos'è successo?! Cosa ti sei fatto?!"
"Maurice mi ha spinto! Ho picchiato contro questo sasso: m-mi fa
t-tanto male il naso!" cominciò a lamentarsi, rimanendo
fisso nella sua posizione, le gambe allungate e i piedi intraruotati.
“Riesci ad alzarti?”
“Non lo so … “
Liliane si fece avanti e, senza dire una parola, mi aiutò a
sollevare il bambino.
“Ascoltami un attimo, Nicholas, fammi vedere il naso
…”
Gli scostai le mani con delicatezza e guardai il bel risultato di
quello che era successo: sanguinava un po’ ma, cosa
più importante, non sembrava nulla di grave.
“Tieni premuto per qualche minuto: inclina la testa in avanti
… bravo, così” gli allungai un
fazzoletto di carta che Liliane aveva prontamente pescato dalla
borsetta.
“Hai male da qualche altra parte?”
Nicholas scosse insicuro il capo, spiegandomi con voce bassa e
imbronciata:
“Solo un pochino il polso e le ginocchia. Però non
tanto”
Mi abbassai verso le zone che aveva indicato, esaminandole come un vero
esperto in anatomia: anche quelle non sembravano rotte.
“Domattina presto chiamerò il dottor Brice
perché ti visiti. D’accordo, Nicholas?”
“Ma domani è sabato! Tu dici che
verrà?”
“Sì, io credo di sì, però,
se ti fa tanto male, andiamo subito al pronto soccorso! Non facciamo
passare neppure un minuto”
“No no, Philippe! Sto benissimo, davvero! Guarda, non mi esce
nemmeno più sangue!”
Lui annuì, come per convincermi delle sue parole e,
mostrandomi il fazzoletto macchiato, ricambiò il mio
interesse con un mezzo abbraccio.
“Tu continua a tenerti il naso schiacciato,
però!” lo rimproverai, arruffandogli i corti
capelli biondi.
"Ha cercato di prendermi l'ultimo biglietto!" s'intromise Maurice, due
occhi scuri e i ricci sparati, indicandomi il movente che sventolava
tra le sue mani, forse geloso per tutto quell’affetto che
stavamo mostrando al suo compagno.
"E tu cosa c'entri, Maurice? Perché hai fatto cadere
Nicholas?" gli domandai, girandomi nella sua direzione.
"Io non ho fatto nulla, assolutamente nulla! Ho solo cercato di
recuperare l'ultimo pezzo della frase, così poi avrei vinto!
E’ colpa di Nicholas che non ha visto il sasso!"
"Non è vero, Philippe!" s’intromise Isabelle, un
vestito giallo canarino e due codini biondi, diventando tutta
rossa "è stato lui, Maurice, a spingerlo,
perché voleva rubargli il foglietto!"
"No, Philippe! E' stato Nicholas!" cercò di
spiegarmi Benedette, gli occhi grigioverdi e una maglietta
bianca in abbinamento ai pantaloni rossi, le guance del medesimo colore
per l'affanno.
"Hanno ragione Isabelle e Benedette, è stato Maurice!"
continuò Gerard, un po’ meno pallido del solito,
le scarpe sporche di terra, le mani e le ginocchia sbucciate.
"No, è stato Nicholas! Lui ha spinto Maurice per prendersi
il biglietto! Mancava solo quello per finire la frase!" prese le difese
dell'amico Michael, un piccoletto dai capelli e gli occhi castani.
"Basta! Adesso finitela, tutti quanti!" sbottai " vi state smontando
come neve al sole! Tu, Gerard, sei pieno di escoriazioni! Come
spiegherai alla zia, questa sera, come hai fatto a farti male, eh?!
Nicholas ha rischiato di rompersi il naso e, cosa più grave,
vi state addossando la colpa uno contro l’altro, ve ne
rendete conto? Voi siete un gruppo, una squadra, degli amici! Avreste
dovuto aiutarvi, giocare insieme, invece vi siete comportati
come dei … nemici!” li guardai negli occhi, ad uno
ad uno, cercando di aggrottare le sopracciglia il più
possibile e di dare un’aria minacciosa alla mia faccia.
“La caccia al tesoro era un modo per farvi distrarre dagli
ultimi giorni, un modo per farvi divertire, e voi cosa avete fatto?! Vi
siete approfittati della situazione, diventando dei rivali e giocando
pericolosamente! Sapete che vi sareste potuti fare molto male, vero?!"
Nessuno di loro ribatté, ebbero solo la forza di abbassare
la testa, sentendosi in colpa per l'accusa che gli era appena stata
mossa.
"Bambini, io vi voglio bene, lo sapete: promettetimi che non vi
comporterete mai più così, per favore”
ripresi a guardarli negli occhi ad uno ad uno, sorridendo e smettendo
di sgridarli, cosa che detestavo fare.
“Anzi, per dimostrarmi che avete capito, vi chiedo di darvi
la mano, tutti quanti, e di chiedere scusa al vostro vicino:
così!"
Presi la mano di Liliane, immobile davanti a quello spettacolo, poi con
l'altra, agguantai la mano di Michael, lui quella di Sophie, lei quella
di Isabelle; dopo fu la volta di Gerard, di Benedette, di Maurice e,
infine, di Nicholas.
"Avanti, non credo di aver sentito quello che avete detto!"
Gli Orsetti lavatori pronunciarono, legati da una catena invisibile che
unisce invece di obbligare, quell'unica parola che magicamente mette a
nudo le emozioni di ciascuno di noi: scusa!, urlarono,
facendosi scappare un sorriso.
Quando incrociai lo sguardo di Liliane, capii che avevo ottenuto il suo
perdono: se la nostra relazione, da semplice amicizia, avesse dovuto
trasformarsi in qualcosa d'altro, allora io avrei saputo aspettare.
Poi, sciolta la catena, un’illuminazione divina
s’impadronì della mia mente e, sorridendo felice,
esclamai:
“Forse so chi può aiutarci a trovare i soldi per
riparare il tetto!”
I bambini e Liliane mi guardarono dubbiosi, mentre io mi allontanavo
verso l’ingresso, alla ricerca di Madame Betancourt,
un’idea fissa in testa.
“Ma Philippe, dove stai andando?!” Liliane mi corse
dietro, la ghiaia che scricchiolava sotto la suola dei suoi sandali.
“Devo parlare con la direttrice, subito!” le gridai,
fermo davanti alla vetrata d’ingresso del Centre, aspettando
che mi raggiungesse.
Appena mi fu accanto, non le diedi il tempo di ribattere,
perché le agguantai una mano e la trascinai dentro, su per
le scale, dopo aver chiesto a una nostra collega mezza travolta in
corridoio, di occuparsi dei bambini ancora fuori.
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Capitolo 9 *** Birra e torta al cioccolato ***
BIRRA
E TORTA AL CIOCCOLATO
Trovammo
Madame Betancourt seduta alla sua scrivania, tutta concentrata a
leggere una rivista: appena vide spalancare la porta,
sobbalzò leggermente dalla sedia, premurandosi di nascondere
il misfatto sotto il sedere.
“Oh,
ma che modi! Signor Soave, le sembra educato aprire la porta con tutta
questa … foga?! E tu, Liliane, cosa ci fai qui? Non mi avevi
chiesto una settimana di ferie perché non stavi
bene?!”
Se
la situazione non fosse stata così urgente, le sarei
scoppiato a ridere in faccia, vedendo il rossore che aveva soffuso le
sue guance mezze scheletriche e spalmate di fondotinta, le dita lunghe
e affusolate riempite di una mezza dozzina di anelli costosissimi.
“Gabrielle,
hai ragione. Vedi, ero venuta per sapere cos’era uscito fuori
dalla riunione che avete fatto ieri mattina. In giardino ho incontrato
Philippe che, purtroppo, mi ha detto che siamo in rosso di duecento
euro. Stavamo parlando con i bambini, quando gli è venuta in
mente un’idea e siamo venuti qui. Ma se hai da fare, torniamo
lunedì, non c’è problema …
” balbettò confusamente Liliane, indirizzando
un'occhiata titubante al sottoscritto.
“A
chi è venuta un’idea, cara?”
domandò seraficamente la Signora
degli anelli, mentre
si arrabattava a nascondere il giornale che stava scivolando dalla
sedia: lo agguantò e lo catapultò nella sua
borsetta, nello stesso istante in cui riuscii a leggere
l’accattivante titolo “Anime
gemelle cercasi”.
“A
me, Madame Betancourt, a me! Credo di aver trovato un modo per
raccogliere i fondi necessari a rifare il tetto del Centre, ancora
meglio di quello che avevamo. Sarà indistruttibile, glielo
assicuro!”
Incrociai
lo sguardo di Liliane, continuando a sorridere come un ebete,
rendendomi conto che mi stava fissando come fossi un mostro a tre
teste: era stupita e, forse, un po’ impaurita, di fronte alla
mia insana e ancora inspiegata reazione.
“Ma
è meraviglioso, signor Soave!” Madame Betancourt
si sollevò dalla sedia saltellando felice e battendo le mani
per la notizia che le avevo appena comunicato, il vestito
mille colori volteggiante per l’entusiasmo.
“Philippe,
vuoi gentilmente spiegarci di cosa stai parlando?!” si
sbloccò Liliane, tirandomi una gomitata nel costato.
“Certo,
signore mie! Possiamo accomodarci?” domandai entusiasta,
rivolgendomi alla direttrice.
“Che
domande fa! Prego prego, fate come se foste a casa vostra!”
Non
avevo mai visto Madame Betancourt così espansiva, anzi no:
la prima volta in assoluto fu quella in cui andammo in gita in
montagna, lo scorso autunno, quando si era emozionata nel ricordare i
tempi della sua gioventù.
Liliane
ed io prendemmo posto sulle due sedie di plastica colorata di fronte
alla Signora
degli anelli.
Dopo
aver sorriso ancora una volta e aver incrociato gli occhi di entrambe,
mi schiarii la gola e cominciai a svelare il mistero:
“Mia
sorella si è sposata sei mesi fa e, da allora, si
è trasferita a Parigi. Lavora da molti anni in una ditta di
import export, dove si occupa dell’area amministrativa. Una
volta all’anno l’azienda organizza un evento
benefico in favore di terzi – associazioni no profit,
progetti per finanziare la costruzione di scuole e ospedali in Africa e
sud America, raccolta di denaro per fondazioni pubbliche e altre decine
di cose su questa lunghezza d’onda- "
“Oh,
ma è meraviglioso …”
commentò a bocca aperta la direttrice, mentre mi ascoltava
trasognata, una mano ossuta e ingioiellata a sorreggerle il mento
prominente.
“Si
tratta di una cena con relativa lotteria, i cui premi vi assicuro
costano migliaia di euro, che si tiene l’ultima domenica di
maggio; i partecipanti – chi poi, in pratica,
sborserà i soldi- sono i principali esponenti
dell’economia nazionale e internazionale, accompagnati da
ospiti provenienti da tutto il mondo: scienziati, letterati, musicisti,
manager, modelle, insomma l’elite della società
priva di pensieri e dalle tasche strapiene!”
Mentre
esponevo il preambolo di un discorso ormai chiaro di dove volessi
andare a parare, gesticolavo e contornavo il tutto con sorrisi di
circostanza, ridiventando serio per l’ultima parte
dell’orazione, la più importante:
“Le
associazioni che intendono presentare la propria, chiamiamola pure
candidatura, hanno tempo due mesi da quando la ditta indice il bando
d’iscrizione, a fine marzo: lo so, ormai manca poco
più di un mese alla cena e ancor meno alla proclamazione del
progetto che appoggeranno, ma le chiedo, Madame Betancourt, di poter
presentare la nostra candidatura per poter ottenere i soldi e riparare
il tetto e, perché no?, rimettere a posto parte del Centre! Sono
sicuro che mia sorella ci aiuterà!”
“Le
ha già parlato?” domandò la direttrice,
gli occhi spalancati come quelli di un pesce palla, speranzosa nella
mia risposta.
“Ecco,
n-no, non ancora. L’idea è di appena qualche
minuto fa, però stasera stessa la chiamerò per
dirglielo. Allora, approva?!”
“Trovo
sia una bellissima proposta, signor Soave, davvero molto generosa e
… originale!” continuò la Signora
degli anelli,
ridacchiando contenta.
Poi
si rabbuiò un istante:
“L’unica
cosa che non ho capito è se vuole chiedere un …
aiutino a sua sorella, affinché vinciamo. Non che lo trovi
sbagliato, però mi sembra un tantino forzato. E poi, cosa le
fa pensare che tutta quella gente ricca come Paperon
de’ Paperoni”
e qui le scappò l’ennesima ridacchiatina
“ scelga il nostro Centre come
destinazione finale del loro denaro? Sa benissimo che, adesso, vanno di
moda le associazioni per l’Africa o il Sudamerica, come ci ha
giustamente illustrato poco fa, per cui temo che avremo poche
possibilità di ottenere i soldi che ci servono per
ristrutturare il tetto e, volendo, tutto il resto
…”
Scosse
desolata la testa, mentre la luce degli strass sulle asticelle degli
occhiali, quasi mi abbagliava.
“Philippe,
Gabrielle forse ha ragione …” Liliane mi
appoggiò una mano sul braccio, come per infondermi coraggio
e testimoniarmi la propria vicinanza.
“Sarebbe
come barare … “ concluse poi, incrociando
supplicante i miei occhi.
“Ma
cosa state dicendo?!” sbottai, agitandomi sulla sedia
“ davvero pensate che, ogni anno, vinca il migliore?! Che
vinca il progetto che abbia realmente bisogno del denaro offerto da
quella banda di arricchiti?! In che mondo credete di vivere, signore?!
Mia sorella è stata testimone di decine di truffe!
Ovviamente le prove non è mai riuscita a trovarle,
però è stata tentata più di una volta
di denunciare ogni cosa alla polizia e, prima ancora al suo Capo ma,
senza prove, non ha mai avuto nulla in mano: verba
volant, scripta manent! Peccato
che abbia solo assistito a delle squallide riunioni informali, piene di
parole e di documenti illegali! La gente non è innocente
come voi credete! Non siamo nel mondo delle favole! So benissimo che
non abbiamo molte possibilità di vincere rispetto alla moda, come la
chiama inappropriatamente e, mi permetta, squallidamente lei, Madame
Betancourt, di dare una mano a quei poveri disgraziati, molto
più di noi, dell’Africa e del Sud America!
Dopotutto, chi siamo?! Solamente degli psicologi pagati dal Comune per
fare al meglio il nostro lavoro! Siamo la famiglia sostitutiva per
moltissimi dei bambini e dei ragazzi che vivono qui, da anni o da mesi
ormai! Ci sacrifichiamo ogni giorno con amore e dedizione per loro, ma
a chi interessa tutto questo?! A chi importa quello che facciamo?! A
nessuno e, a questo punto, ho capito che non importa neppure alle
persone che ci lavorano! Scusate se vi ho disturbato, signore care!
Buona serata!”
Feci
un beffante e inappropriato inchino verso Liliane e la direttrice, per
poi andarmene a passi svelti, verso la porta, senza voltarmi
indietro.
Attraversai
il giardino ormai vuoto e mi diressi come una raffica verso la mia
Peugeot rossa, parcheggiata a una decina di metri
dall’ingresso del Centre: aprii
arrabbiato e deluso la portiera dell’auto, per poi appoggiare
la testa contro il volante.
Diedi
una manata violenta al clacson, che prese a suonare una, due, tre volte.
Perché,
ultimamente, tutto era così difficile? Perché non
riuscivo a fare bene neppure una cosa? Perché, ogni idea che
avevo, ogni gesto, ogni parola, suscitava un rifiuto?
La
mia unica intenzione era quella di aiutare il Centre, volevo
solo rendermi utile e cercare una soluzione all’ incresciosa
situazione in cui c’eravamo ritrovati: e poi, chi lo sa?,
forse Agnése non avrebbe voluto neppure aiutarci, si sarebbe
rifiutata di darci una mano per paura di diventare come
quell’esercito di gente squallida che aveva incontrato in
tutti quegli anni di lavoro.
Io
volevo solo presentare la nostra candidatura, illustrare le nostre
necessità e tutto il lavoro che ogni giorno facciamo per i
nostri ospiti!
Non
chiedevo la carità di nessuno, non avrei dato mazzette a
nessuno, non avrei promesso nulla a nessuno, se non che avremmo
utilizzato al meglio il denaro eventualmente vinto!
Sarei
stato orgoglioso di far conoscere al mondo il Centre, sarei
stato onorato di fare qualcosa per migliorare la vita dei bambini e dei
ragazzi che ci abitano!
E
allora perché nessuno mi aveva capito? Perché le
persone pensano subito e sempre che tu le voglia fregare?
Guardai
l’orologio digitale del cruscotto: le sei e diciassette.
A
parte il mercoledì, non uscivo mai così presto
dal Centre, quasi
un’ora prima rispetto al mio solito orario di fine lavoro.
Per
fortuna che, quel giorno, avevo deciso di andare a Versailles con la
macchina, invece che con il treno: misi in moto ancora arrabbiato e
deluso e, sgommando, mi diressi verso una birreria artigianale qualche
arrondissement più in là, desideroso solo di
annebbiare ogni mio senso, per dimenticare e ripartire da zero.
Tornai
a casa intorno alle nove: il mio proposito di bere fino alla nausea, si
sgretolò quasi all’istante, non appena varcai la
porta del pub.
Mi
sedetti ad un tavolino rotondo, stile saloon del Far West, le luci
artificiali che illuminavano solo il bancone, le tende bianche e
arricciate da cui provenivano gli ultimi bagliori del giorno:
guardandomi attorno, scoprii che il locale, nonostante fosse fin troppo
presto, era già occupato per metà da ragazzi
appena maggiorenni e da qualche quarantenne in preda a una crisi
esistenziale simile alla mia.
Non
diedi nemmeno un’occhiata al menù colorato che
campeggiava a mezzo metro da me: volevo solo una birra grande, niente
cibo e niente altro da tracannare.
All’improvviso,
mi sentivo un perfetto idiota, un imbecille che si era lasciato
trascinare dalla marea di sentimenti che avevano messo in subbuglio la
mia mente e le mie certezze, negli ultimi tre giorni.
Dopo
mezz’ora non ero riuscito neppure a finire di bere il
boccale, il liquido sempre chiaro ma non più spumoso e ricco
di aromi: il cameriere, forse per pietà o forse
perché il venerdì sera si usava così,
mi portò un piccolo assaggio di tartine di cui non riuscii a
indovinare gli ingredienti.
Erano
amare e dolci al contempo, una nera, l’altra rosa e la terza
grigia: nonostante i colori poco invitanti, le divorai, buone e gustose
com’erano, dimenticandomi della mia certezza di non voler
ingoiare nulla.
Trangugiai
a fatica gli ultimi sorsi di birra e andai a pagare.
Appena
tentai di aprire la porta di casa, troppo sobrio e afflitto peggio di
tre ore prima, sentii lo scatto della serratura dell’ingresso
di fronte al mio, dall’altro lato del vialetto.
Non
ci feci molto caso, fino a quando qualcuno mi avvinghiò da
dietro e mi si parò di fronte.
“Oh
Philippe, finalmente! Credevo fossi scappato o, peggio, avessi fatto
qualcosa di terribile! Stai bene?!”
“Vivianne!
Mi hai fatto prendere un colpo! Sì, sto bene, mai stato
meglio! E smettila di farneticare e di spiarmi, per favore!”
La
redarguii con il tono più serio che potessi avere, sebbene
mi resi conto che era semplicemente preoccupata per me.
Indossava
una T-shirt grigia e dei pantaloncini blu elettrico, i piedi erano nudi
e i capelli biondi spettinati in una treccia improvvisata.
“Ah
complimenti, davvero! Io che sono stata in pena fino adesso, che ero
tentata di chiamare i rinforzi, come vengo ripagata? Con degli insulti
belli e buoni! Ma che dico? Degli insulti brutti e cattivi! Scusami
tanto se ti ho disturbato e ho temuto per la tua incolumità!
Non succederà mai più, te lo assicuro! Tsè,
ingrato!”
Riuscii
appena in tempo a realizzare la figuraccia che avevo fatto,
l’ennesima che stavo collezionando in tre giorni.
La
rincorsi lungo il vialetto e, bloccandole il passo, le dissi:
“Non
avevo intenzione di trattarti male, Vivianne! Ti prego di scusarmi,
davvero! E’ che è stata una giornata molto
faticosa e stressante! Tu non c’entri nulla, anzi, ti
ringrazio per esserti così tanto preoccupata per me. Vuoi
entrare a farmi compagnia?” conclusi, abbozzando un gesto in
direzione della mia casa, le chiavi ancora in mano.
Incrociò
le braccia e mise il broncio:
“Se
pensi di cavartela così, ti sbagli di grosso!”
“Hai
ragione. Scusami mille volte …”
Mi
inginocchiai davanti a lei e, sciogliendole le mani da
quell’intreccio sotto le ascelle, le baciai teatralmente.
“Ora
sei soddisfatta?”
Si
abbassò alla mia altezza – o per meglio dire,
bassezza- e, aiutandomi a riprendere la stazione bipede, mi
stampò un bacio su una guancia, confortandomi:
“Sì,
certo, ora posso perdonarti! Se aspetti un attimo, vado a recuperare un
paio di birre dal frigo!”
“No!”
la bloccai all’istante “per almeno una settimana
non voglio né vedere né sentir parlare di birre!
Ne ho appena ingoiata una a fatica e, ti assicuro, che al solo pensiero
mi sento male!”
“Oh
Philippe, sei sempre il solito! Non lo sai che non si beve mai e poi
mai da soli? E’ la cosa più triste e
più brutta che esista! Va beh, ho capito, dai! Almeno ti va
una fetta della torta al cioccolato che ho preparato apposta per
te?!”
Con
i suoi occhioni azzurri e il suo sguardo da civetta, impossibili da
resistere, la abbracciai e ricambiai il bacio di poco prima,
dandogliene uno sulla fronte:
“Come
farei senza di te?”
Passammo
l’intera serata, fino a mezzanotte, a parlare dei miei
problemi: mi sentivo un adolescente alle prime armi e alle prime
sconfitte della vita, eppure, la presenza rassicurante e divertente di
Vivianne, furono un piacevole calmante.
“E’
meglio che te la levi dalla testa questa Liliane, almeno per un
po’ … entrambi dovete chiarirvi le idee. In
più c’è l’ex, un tipo da cui
è meglio stare alla larga, te lo dico io. Un bellimbusto
bello e buono, ecco che cos’è: pensa forse che
tutte le donne siano ai suoi comandi?! Ma dimmi te
…”
“E’
quello che voglio fare. Non può succedere nulla tra di noi,
e poi, adesso, il problema principale rimane il tetto”
tagliai corto, seriamente preoccupato.
“Bravissimo,
Philippe. La prima parte della lezione l’hai già
imparata!”
Agguantò
un’altra fetta di torta: me la offrì e poi ne
prese un’altra per sé.
“Per
quanto riguarda il Centre, scusa,
non potete rivolgervi al Comune? Non sono loro che lo
gestiscono?”
Scossi
la testa, desolato, spiegandole tristemente:
“E’
vero che ci pagano quel misero stipendio che ci ritroviamo, a fine
mese, ma la struttura non è più di loro
proprietà da otto anni, ormai: lo ha detto Madame
Betancourt, alla riunione di ieri mattina.
La
precedente direttrice, poco prima che andasse in pensione, ha deciso di
chiedere il permesso al sindaco, per poterla gestire, tramite la
creazione di una fondazione interna, in completa autonomia! Mannaggia a
lei e alle sue stupide idee!”
Vivianne
si pulì la bocca con il tovagliolo di carta che si era
appoggiata sulle ginocchia e, sospirando vistosamente, sancì:
“Questo
sì che complica un bel po’ le cose …
quindi, a tua sorella, non vuoi nemmeno provare a domandare?”
“No,
assolutamente no! Forse avrei dovuto prima consultarmi con
Agnése, ma né la Signora
degli anelli …”
“Chi?!”
“Ehm
scusa, la direttrice … comunque, né lei
né Liliane avrebbero dovuto aggredirmi così,
facendomi passare per il più infimo dei delinquenti! La cosa
che mi da fastidio e che mi preoccupa davvero è che, se
dovesse piovere, ci ritroveremo il piano rialzato completamente
allagato, così i danni che già abbiamo
raddoppierebbero! E’ questo che vogliono?! Non possono
aspettare che una manna dal cielo venga in loro aiuto,
perché non accadrà mai! Ed io, di altre idee,
purtroppo, non me ne vengono in mente!”
Trangugiai
l’ennesimo bicchiere di ACE e, offrendogliene uno anche a
Vivianne, mi stravaccai meglio sul divano, disperato e angosciato
più che mai.
“Forse
a me ne è venuta una … “
“Di
cosa?” mormorai a bassa voce, imbronciato.
“Ma
come di cosa?! Non stiamo parlando del tetto e dei soldi che non avete
per ripararlo?! Ecco, credo di sapere chi vi può
aiutare!”
“Dici
sul serio?! Ti adoro, Vivianne, ti adoro!”
l’abbracciai, improvvisamente contento e risollevato.
“Aspetta
a cantare vittoria, però!”
“Certo
certo, hai ragione. Ma di cosa si tratta? Dimmi!”
Accavallò
le gambe in una mossa sensuale e, assumendo il suo miglior sguardo da
predatrice, mi spiegò:
“Dunque,
caro Philippe, devi sapere che, in palestra, c’è
un paziente, un gran bell’uomo, che si è
fratturato un braccio mentre faceva climbing. Alexis è un
tipo molto sportivo e affascinante …”
“Sei
qui per elogiare le mille virtù di questo tizio o sei venuta
per tirarmi su il morale?! …” la presi in giro,
punzecchiandole una gamba.
“Non
essere impaziente, altrimenti prendo e me ne vado!”
“Scusami!
Continua pure, mia salvatrice!”
“Uhm,
così va meglio! Dunque, dov’ero rimasta?! Ah
sì: Alexis, oltre a tutte le sue qualità fisiche
e morali, è anche l’amministratore delegato
dell’azienda di famiglia che, guarda a caso, si occupa di
edilizia. Ecco, se vuoi, visto che è già dalla
scorsa seduta che insiste per portarmi a cena, potrei accennargli il
vostro problema e, se riesco a convincerlo, sono sicura che vi
farà un ottimo prezzo e vi riparerà il tetto in
men che non si dica! Cosa ne pensi?!”
“A
parte che sono geloso, mi sembra carina come idea
…”
“Ma
smettila! Non ci casca nessuno!”
Sbuffai
divertito e, ridiventando serio, continuai:
“Lo
faresti davvero? Voglio dire, non è che devi uscire con
questo tizio solo per me, lo sai, vero? …”
“Ecco
che ci risiamo! Credi davvero di essere così
importante?!” mi rispose, facendomi un lieve buffetto su una
guancia.
“Come
tutti gli uomini, pensi che ogni cosa ruoti attorno a te e alla tua
esistenza, caro Philippe, ma, per fortuna, non è affatto
così! E poi sei arrivato troppo tardi, perché ho
accettato questo pomeriggio il suo invito per domenica sera! Non
preoccuparti” proseguii coscienziosa
“riuscirò a convincerlo e a portarlo dalla nostra
parte. Avrete il vostro tetto, anzi, farai capire a quelle due ingrate
quanto vali e quanto ti preoccupi per i vostri ragazzi! Oh Cielo, si
è fatto tardissimo!” sentenziò
disperata, lanciando un’occhiata all’orologio sul
camino.
“Domani
mattina io devo andare a lavorare, è il mio sabato di
turno!”
Si
alzò dal divano come punta da una tarantola e, trangugiando
un altro po’ di ACE, mi salutò mandandomi un bacio
con la mano, dicendomi:
“La
torta la puoi tenere! Buonanotte!”
La
accompagnai alla porta, ringraziandola ancora una volta per il suo
gesto di generosità e per il colpo di fortuna che aveva
avuto nell’incontrare il bello e ricco Alexis, con il lavoro
perfetto per le necessità del Centre.
“Chissà
se accetta assegni a tempo indeterminato … con la cassa in
rosso, anche se dovesse farci un super sconto, non avremmo comunque
abbastanza soldi per pagare il lavoro”
Ritornai
in soggiorno, dove sistemai velocemente le ultime fette di torta
rimaste e la bottiglia di ACE; poi lavai velocemente i bicchieri e
andai a letto, più sollevato di quando mi ero alzato, ma
ancora con numerosi punti di domanda nella testa.
Puntai
la sveglia per le otto e trenta, così da chiamare il dottor
Brice e chiedergli di passare al Centre per
visitare Nicholas.
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Capitolo 10 *** Il derelitto e il poliziotto ***
IL DERELITTO E IL POLIZIOTTO
Mi
risvegliai su una barella, un lenzuolo a metà tra il bianco
e il verde buttato addosso.
Non riuscivo
ad aprire gli occhi: sbattei più volte le palpebre, in modo
da abituare la vista a tutte quelle luci che mi colpivano
l’iride appena cercavo di focalizzare l’ambiente e
la persona che mi stava vicino.
Avevo la mente
confusa, tanto che non ricordavo cosa fosse accaduto; la schiena mi
doleva, forse per colpa di quella specie di materasso su cui mi avevano
adagiato.
Cercai di muovere il braccio e la gamba destra, perché
sentivo la circolazione quasi come se si fosse arrestata: voltai la
testa in quella direzione e, con mio grande stupore, vidi che entrambi
gli arti che mi pulsavano e che non sentivo con la solita
sensibilità, erano avvolti da delle bende, macchiate di
sangue e di un giallo che speravo fosse solo del disinfettante.
Quando tentai
di slegare quell’intrico di fasciature che mi
facevano assomigliare a una mummia a metà, una mano
bloccò il mio goffo tentativo.
“Non
deve toccare, ordini del medico …” mi
sgridò un poliziotto, guardandosi attorno l’attimo
dopo.
“Lei
chi è?” domandai, nello stesso istante in cui ogni
cosa ritornò al proprio posto: quell’uomo era
l’agente che mi aveva arrestato – suonava buffo e
incredibile anche solo pensarlo- quando avevo tentato di allontanarmi
dalla guerriglia urbana in cui ero capitato, dopo aver congedato il
dottor Brice.
“C’è
stato un malinteso, signor Soave … è questo il
suo nome, giusto?, almeno da quanto risulta dai documenti che le ho
trovato addosso. Si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato,
non è così?”
“Sì,
sì, è andata così!" gli diedi man
forte, agitandomi sulla barella "io sono uno psicologo,
lavoro al Centre
Arcenciel, a mezz’ora di strada da dove
è successo tutto quel putiferio …”
“Come
le ho detto, ci siamo sbagliati" mi interruppe paziente "non
risulta schedato e non aveva con sé nessun tipo di arma;
inoltre, se fosse stato davvero uno di quegli squilibrati, avrebbe
tentato di divincolarsi con forza, invece si è rivelato
mansueto come un passerotto …”
“Ho
anche cercato di spiegarle il motivo per cui mi trovavo lì,
ma lei mi ha messo le manette come fossi un delinquente, ancora prima
di riuscire a concludere una frase e … ”
“Me
lo ricordo, mi ricordo tutto, signor Soave. Adesso che si è
svegliato, ha qualche parente che vuole far venire? Io non posso
rimanere qui tutto il giorno”
Il poliziotto,
un cinquantenne robusto e non molto alto, pelato e dagli occhi scuri,
era tutt’altro che disposto a tenermi compagnia, eppure,
nonostante lo spiacevole disguido che si era creato tra di noi, aveva
un viso simpatico e dai lineamenti gradevoli, che incuteva
tranquillità e sicurezza.
“Non
lo so, è necessario?”
“Credo
di sì. Intanto che ci pensa, vado ad avvisare il medico che
lei si è svegliato …”
“Aspetti”
lo bloccai, cercando di alzare il tono di voce, la bocca asciutta e
secca “da quanto tempo sono qui?”
“Beh,
un’ora e dieci minuti, ormai” rispose, controllando
l’orologio da polso “ha perso conoscenza
dopo che la bomba carta l’ha colpita. Le hanno messo dei
punti e l’hanno medicata, di più non so”
Poi, si
allontanò a passi sicuri, in direzione di una stanza recante la scritta sala medica, a una cinquantina di
metri da dove mi trovavo.
In quel lasso
di tempo, ne approfittai per guardarmi attorno: quella che mi era
sembrata una barella, in realtà era una specie di letto,
molto stretto e lungo, con delle sbarre alzate per impedirmi di cadere.
Era una camera
decisamente grande, con altri letti simili a quello in cui mi avevano
adagiato, tanto da farmi pensare che assomigliasse a una sorta di zona
di smistamento, prima di decidere la sorte dei poveri malcapitati.
Con mio
stupore e sollievo, però, ero l’unico che si
trovava lì.
“Ah,
molto bene, si è svegliato!” mi salutò
una giovane donna, più o meno della mia età:
aveva la carnagione scura, forse era tunisina o marocchina, e i capelli
neri e folti raccolti in una lunga treccia.
“Sono
la dottoressa Aziz: come si sente, signor Soave?”
“Vorrei
alzarmi e capire quello che mi è successo
…” mormorai, sentendomi però stanco e
intontito.
“E’
ancora presto: ha perso conoscenza, per questo dobbiamo tenerla sotto
osservazione ancora per qualche ora. Per quanto riguarda il suo braccio
e la sua gamba” continuò, indicandomi le
fasciature agli arti di destra “abbiamo dovuto
darle dei punti e medicarla con queste bende, perché
è stato colpito da delle schegge di bombe carta che le hanno
lacerato la pelle in più zone, per fortuna senza andare in
profondità. Guarirà in un paio di settimane, non
si preoccupi, quando i fili di sutura si riassorbiranno da
soli”
Guardai
piuttosto allibito la dottoressa e il poliziotto che, senza aspettare
una mia replica, s’intromise nel discorso:
“Ora
devo andare. Si riguardi e cerchi di non bazzicare più in
quella zona, altrimenti mi costringerà a pensare
che ho sbagliato a lasciarla andare e che, davvero, era lì
per creare confusione. Arrivederci” mi salutò
l'uomo con un mezzo sorriso, poi, dopo aver stretto la mano
al giovane medico, si avviò verso l’uscita.
“Vuole
chiamare qualcuno per farle compagnia?”
La sua voce
era dolce e pacata, così come il tocco gentile sulla spalla.
Non volevo
disturbare nessuno, forse perché non avevo la più
pallida idea a chi rivolgermi: Agnése
sarà in compagnia del suo dolce maritino Fabrice, Vivianne
lavora, Liliane non se ne parla nemmeno, il dottor Brice l'ho scomodato
appena qualche ora fa … passai in rassegna,
pensando desolato che i veri amici e tutta la mia famiglia si trovavano
lontano da lì, a Lione, quindi,
conclusi, dovrò
rimanere da solo, senza uno straccio di persona con cui condividere le
mie sofferenze.
“Nessuno,
non è necessario” tagliai corto, senza guardarla
negli occhi.
“Se
per il momento preferisce così, va bene" mi
accordò il giovane medico, facendo spallucce e aprendo le
mani in un segno di rassegnazione "ma non potremo dimetterla fino a
quando non farà venire qualcuno che la riaccompagni a casa.
Immagino non voglia rimanere qui a farci compagnia per
l’eternità, giusto?”
Tentai di
sorridere, sebbene lei non fosse molto propensa a scherzare.
“Certo,
ha ragione. Più o meno a che ora penserete che possa
andare?”
“La
dimetteremo questa sera. Per quell’ora spero ben che trovi
qualcuno, signor Soave”
Alle otto, finalmente, potei rimettere piede in casa mia: ero ancora
molto stanco, però non ero più intontito, a causa
degli antidolorifici che mi avevano largamente somministrato in
ospedale.
Al posto dei
pantaloni sbrindellati e della maglietta a maniche corte con cui ero
uscito quella mattina –entrambi ammucchiati come un fagotto
di vecchi abiti in un sacchetto di carta buttati oltre la soglia
– indossavo un pigiama abbastanza indecente da vedere, di un
colore a metà tra il fucsia e il turchese, con degli
orsacchiotti le cui zampe stavano affogando nel miele.
“Vivianne,
ti ringrazio molto, però, ti prego, vai in camera mia a
prendermi una tuta o qualcosa che non sia questo!” la invitai
desolato, mentre mi dirigevo, stampella alla mano, in direzione del mio
caro divano.
“Sì,
Philippe, non essere impaziente! Prima ti sistemi per bene, poi potrai
cambiarti! Vuoi bere o mangiare qualcosa?”
“No,
adesso no …”
Le sorrisi
grato per quell’ennesimo gesto di amicizia che mi aveva
dimostrato: alla fine, infatti, per venire a salvarmi e
riportarmi a casa, avevo chiamato lei che, ancora una volta,
non mi aveva deluso.
Dopo il
lavoro, infatti, si era subito precipitata a recuperarmi e, adesso, ero
di nuovo a casa.
“Devi
stare tranquillo per qualche giorno, fino a quando non tornerai a fare
la visita. Ci penserò io a coccolarti, almeno fino a domani
sera!” Vivianne mi fece
l’occhiolino, poi si sedette accanto a me, sospirando
trasognata.
“Ah
già, la cena con il meraviglioso Albert
…” la punzecchiai, guardandola con fare allibito.
“Alexis,
si chiama Alexis, Philippe! Se non la smetti subito di fare il
sarcastico, te lo puoi scordare il mio aiuto! Anche perché,
ti ricordo, che la cena di domani è stata organizzata solo
per il tuo amatissimo Centre!”
“D’accordo,
ho capito, mi arrendo, anche se non è completamente la
verità, e tu lo sai!"
Mi schiarii la gola con un paio di colpetti di tosse imbarazzanti,
quindi, senza incrociare i suoi occhi e puntando la mano sinistra verso
quell'ammasso di colore che avevo indosso, la supplicai:
"Ora, per favore, andresti a prendermi qualcosa di più
… maschile?!”
Intrappolato
nelle bende, e con l’aiuto di quello scomodo aggeggio per
reggermi in piedi, la mattina successiva mi alzai dal divano che, per
la prima notte da invalido, si era trasformato nel mio letto.
Avevo dormito
per oltre dieci ore, dopo che Vivianne mi aveva lasciato mezzo
addormentato, la sera precedente, sempre nel medesimo posto.
Realizzai, a
malincuore, che quelle quattro pareti sarebbero state la mia prigione
per quasi due settimane, fino alla visita di controllo dalla dottoressa
Aziz.
Non avrei
potuto andare al Centre
ancora per qualche giorno, mi aveva raccomandato il giovane medico, per
evitare che i punti si aprissero; poi, con tutte le accortezze del caso
che mi aveva largamente elencato, avrei potuto condurre una vita
normale.
Andai verso la
finestra, a pochi passi dal divano, e guardai fuori: il fazzoletto di
terra che avevo trasformato in un piccolo giardino verde e con un paio
di aiuole ereditate dal precedente proprietario, era bagnato.
Probabilmente
aveva piovuto e non me ne ero neppure accorto, tanto avevo dormito
profondamente.
La strada,
oltre il vialetto d’entrata, era deserta: mi dispiaceva non
vedere nessuno, avrei potuto fantasticare sulla destinazione degli
eventuali avventori, se solo ce ne fosse stato qualcuno.
Dal momento
che erano le undici passate, decisi di non fare colazione, ma di andare
in cucina a preparare qualcosa da mangiare, in modo da pranzare un
po’ più presto del solito.
Caracollando
fino alla meta, speranzoso in quello che avrei trovato nella mia sempre
ben rifornita dispensa, rimasi invece ampiamente deluso: quando aprii
il frigo prima e le ante della credenza dopo, non potevo credere ai
miei occhi; non c’era quasi nulla, infatti, le riserve di
cibo erano praticamente inesistenti.
Mezza bottiglia di latte, una
confezione di ACE, due zucchine, una mela, una tavoletta di cioccolato
al riso soffiato, degli spaghetti … elencai
mentalmente.
Tutto quello che era successo – l’incidente del
tetto, Liliane e Madame Betancourt, la caduta di Nicholas, il mio
fortunato arresto e la permanenza da recluso in casa- mi aveva fatto
dimenticare di andare a fare la spesa, cosa assolutamente inusuale per
me, dal momento che, almeno due volte a settimana, prima di tornare a
casa, mi recavo nel supermercato poco fuori Montigny.
Mi stavo
ingegnando con i pochi ingredienti che avevo per realizzare qualcosa di
commestibile – optai per una pasta e zucchine che mi faceva
spesso mia madre, una ricetta italiana- quando squillò il
telefono di casa.
Per un momento
rimasi interdetto: chi mai poteva essere, a quell’ora e di
domenica mattina?
Per un momento
pensai a Liliane, che magari era venuta a conoscenza del malinteso e
dell’incidente di cui ero stato vittima, poi,
però, cancellai quell’eventualità,
perché io non l’avevo avvisata e Vivianne, non
avendo il suo numero e non standole particolarmente simpatica, non
poteva essere stata.
Arrancai
quindi, con la mia ormai solita andatura elegante che avevo
assunto da ieri sera, nella piccola anticamera prima del salotto, dove
agguantai l’apparecchio.
“Philippe,
sono io …” forse
sono un mago, constatai mentalmente, lo sapevo che era lei!
“Ciao”
risposi abbastanza freddamente, ritornando verso la cucina e sedendomi
su una sedia attorno al tavolo.
“Sei
ancora arrabbiato per la storia di ieri?”
continuò, con la voce palesemente in colpa.
“No,
perché dovrei? Mi avete semplicemente fatto passare per un
vile ricattatore! Ovvio che non ho niente contro di te e la tua amica Gabrielle!”
“Ti
prego, non dire così! Lo sai benissimo che non volevamo
trattarti in quel modo! Sei stato tu ad aver travisato le cose, come il
tuo solito!”
“Come
il mio solito?!
Non ho alcuna voglia di litigare, Liliane, perciò vieni al
dunque!”
Ero tentato di
ringraziarla per la telefonata, per essersi interessata delle mie
condizioni di salute, quando quell’ennesima accusa infondata
nei miei confronti, mi fece fieramente desistere: che ingratitudine,
che indifferenza!
“Ti
ho chiamato perché è successa una cosa: ieri
mattina ci sono stati degli scontri verso Pauligny; le bande rivali
della zona si sono affrontate ed è intervenuta la polizia.
Hanno evacuato gli stabili perché inagibili, a causa degli
incendi che i manifestanti hanno fatto scoppiare. Molte famiglie hanno
dovuto abbandonare le loro case e ci sono diversi minori i cui genitori
sono stati arrestati: essendo degli immigrati, non hanno parenti nelle
vicinanze, così, questa mattina, l’assistente
sociale mi ha chiamato perché vorrebbe portarci un gruppetto
di ragazzi: li accompagnerebbe domani, verso le nove. Volevo sapere se
te la sentivi di venire anche tu, anche se so che hai le lezioni solo
dalle undici e … cosa ne pensi?”
L’avevo
fatta parlare senza interromperla: mi ero illuso che avesse chiamato
per sapere come stavo, che fosse venuta a conoscenza di quello che mi
era capitato...
“Lo
so” le risposi semplicemente, rabbuiato per la notizia che mi
aveva appena comunicato: il Centre
era al collasso, le donazioni degli esterni erano abbastanza stabili,
era vero, ma le nostre casse erano pur sempre al rosso, senza contare
che un paio di colleghe sarebbero andate in pensione prima
dell’estate, senza avere ancora nessuno che le sostituisse.
“Come,
lo sai già?! Il signor Batignole mi ha detto che ha provato
a contattarti sul cellulare ma ce lo avevi sempre spento: chi ti ha
avvisato?”
“Nessuno,
sei stata tu la prima a farlo. Lo so perché ero
lì, ieri, quando è successo tutto. Sono stato
persino arrestato e ferito ad un braccio e ad una gamba”
Avrei voluto
vedere la faccia che avrebbe fatto a sentire le mie parole, invece
dovetti accontentarmi del tono della sua voce, irrequieto e preoccupato.
“Tu
arrestato?! Ma come hai fatto?! Stai bene, adesso? Come hanno fatto a
ferirti?!”
Ecco che avevo
ottenuto la mia piccola rivincita.
“Sto
bene, non è necessario agitarti così. Un
poliziotto credeva che facessi parte dei manifestanti: mi stava
portando via, quando una bomba carta mi ha colpito e ho perso
conoscenza. Mi sono risvegliato più di un’ora dopo
all’ospedale, con vicino il mio angelo custode,
l’agente che mi aveva arrestato”
“Non
potrai venire al lavoro, quindi?” continuò
Liliane, già più sollevata.
Avrei voluto
stuzzicarla, dicendole che la sentivo felicemente a posto con la
coscienza: io, al suo posto, non avrei esitato a precipitarmi da lei, a
sapere se aveva bisogno di me o, più semplicemente, di
qualcosa.
“No,
per tutta questa settimana dovrò rimanere a riposo, per
evitare che si lascino andare i punti …”
“Ah,
va bene. Allora, domani, ti farò sapere come sono i ragazzi
e cosa mi ha detto l’assistente sociale. Ci sentiamo presto,
ciao … “
Attaccai
mormorandole un veloce saluto, piuttosto disgustato da come si era
comportata.
Mi resi conto
che non le avevo nemmeno domandato come si sentisse, se aveva sistemato
le cose con Matthieu ma, dopotutto, avrei avuto tempo per farlo.
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Capitolo 11 *** Fuoco & Manette ***
FUOCO
& MANETTE
Sabato mattina, mi svegliai molto prima del trillo della
sveglia delle otto e trenta: avevo passato metà della notte
insonne, sia per il disguido incomprensibile accaduto con Liliane e con
Madame Betancourt sia, cosa di gran lunga più importante,
per il problema – ancora irrisolto- del tetto.
Per prima cosa, contattai il dottor Brice per metterlo al corrente
della rovinosa caduta di Nicholas, avvenuta il pomeriggio precedente.
E’ un bravo medico, che offre gratuitamente le sue
prestazioni di pediatra in cambio di qualche cioccolatino e di qualche
disegno fatto dai bambini del Centre:
tre anni fa, qualche mese prima che io arrivassi, ha adottato una
bambina, una piccola turca di sei anni ospite della struttura, Alma,
che però io non ho mai conosciuto.
Mi promise che sarebbe passato per le dieci a valutare le condizioni
fisiche di Nicholas: così, dopo aver fatto una frugale
colazione con la torta di Vivianne avanzata la sera prima e un
bicchiere di ACE, la mia bevanda preferita, mi diressi con la mia
fiammante Peugeot verso Versailles.
Essendo in pieno week end e data la bella stagione primaverile, trovai
un po’ di traffico sulla tangenziale: mancava ancora
un’ora all’appuntamento con il dottor Brice,
eppure, tra una coda qui e un’altra più avanti,
arrivai giusto in tempo.
Parcheggiai in una maniera che è meglio tralasciare di
spiegare e mi avviai lungo il viale d’ingresso del Centre.
Il piano rialzato era completamente deserto: dopotutto era sabato, le
lezioni sarebbero riprese solo a inizio settimana e, gli ospiti che non
avevano famiglia e che quindi alloggiavano notte e giorno presso la
nostra struttura, erano impegnati o in biblioteca o in sala giochi, i
luoghi ideali per svagarsi e divertirsi un po’.
Non ebbi neppure il coraggio di guardare verso la fine del corridoio,
dove avrei trovato l’anonimo nastro apposto dai Vigili del
fuoco per delimitare la zona in cui era precipitato quell'ammasso
informe di tegole e, al posto dei rettangoli di mattone caduti, un
anonimo telo di plastica trasparente.
Una rabbia crescente, mista a delusione, s’
impadronì di me: la proposta innocente e appassionata che
avevo fatto a Liliane e a Madame Betancourt, appena il giorno prima,
era stata bocciata senza alcuna ombra di replica, con una tale
arroganza velata che non potevo non esserne rattristato.
“Signor Soave!”
Alzai lo sguardo dove finiva la prima rampa di scale: il dottor Brice,
un quarantenne alto e ben proporzionato, la carnagione ambrata ed i
capelli ricci, mi salutò con un cenno della mano.
Gli andai incontro, salendo a due a due i gradini, così da
avere una scusa per smettere, almeno per qualche minuto, di pensare al
problema pressante del tetto.
“Perdoni il ritardo …” esordii,
stringendogli una mano.
“Non si preoccupi, sono io che ero in anticipo! Allora, come
sta? Ero andato a fare un saluto a Madame Betancourt, ma nel suo
ufficio non c’è”
“Può darsi che il sabato non venga. Le confesso
che, anche a me, capita raramente di venire qui, durante il
finesettimana” gli spiegai, sorridendo forzatamente per non
dover parlare della direttrice.
L’uomo ricambiò il mio sorriso: indossava una
maglietta verde con l'immagine di una barca vela stampata sopra, lo
stesso colore dei suoi occhi, e dei pantaloni beige larghi ai polpacci,
in contrasto con le scarpe da ginnastica blu.
“Andiamo dal nostro avventuriero?” mi
domandò, indicando la tromba delle scale più in
alto.
Annuii sospirando e feci strada, avanzando fino al secondo piano, dove
si trovavano le camere dei maschi.
Per fortuna, Nicholas non aveva nulla di rotto, solo qualche ecchimosi
ed escoriazione alle ginocchia, ai gomiti e al viso: accompagnai
all’uscita il dottor Brice, ringraziandolo ancora una volta
per la sua pronta disponibilità.
“Che cosa è successo lì?!” mi
domandò sbalordito, quando, ormai sulla soglia, si accorse
del luogo del misfatto.
“Oh quello … durante il temporale di
martedì sera è caduto un pezzo di tetto, niente
di che”
Cercai di non dare troppo peso alle mie parole, perché non
avevo nessuna voglia di affrontare per l’ennesima volta il
discorso ma, invano, dal momento che l’uomo insisteva,
volendo saperne di più:
“E’ terribile! Avete già chiamato
qualcuno perché ve lo aggiusti? Non potete rimanere senza
tetto: se dovesse piovere, se dovesse capitare di nuovo, rischiate che
vi si allaghi l'intero piano e …”
“Lo so, lo so!” lo interruppi bruscamente: sapevo
perfettamente la gravità della situazione e, soprattutto,
che cosa avremmo dovuto fare, se solo avessimo avuto del denaro.
“Signor Soave, c’è qualcosa che non va?
Voglio dire, a parte quello che è successo,
c’è qualche altra cosa di cui avete bisogno? Se
posso fare qualcosa, sa che sono disposto ad aiutarvi, basta
chiedere!”
Il dottor Brice mi fece sentire la sua vicinanza appoggiandomi con
delicatezza una mano sul braccio.
“Mi scusi, non volevo essere scortese. E’ che ci
sono state delle incomprensioni, negli ultimi giorni, con la direttrice
e una collega, proprio a proposito della gestione del problema. Diciamo che
non navighiamo in buone acque, quindi, a malincuore, quel telo di
plastica trasparente tappezzerà il soffitto ancora per un
bel po’ …”
L’espressione mortificata e impotente che apparve sul volto
dell’uomo era esattamente ciò di cui non avevo
bisogno per tirarmi su di morale.
“Mi dispiace molto, signor Soave. Sono sicuro che presto
troverete una soluzione. Se vuole, posso prestarvi il denaro che vi
serve …”
“No, certo che no!” mi affrettai subito a
precisare, quasi offeso da quel disinteressato gesto di
solidarietà, eppure non potevo e non volevo accettare; ce
l'avremmo fatta solo con le nostre forze ...
“La capisco, sa: anch’io sono molto orgoglioso ma,
a volte, questo nobile sentimento va messo da parte in favore del bene
comune. Si fidi di ciò che le sto dicendo
…”
“Ha ragione, però il fatto non è
questo, non solo almeno. E’ che stiamo vivendo una situazione
complicata, sotto tutti i punti di vista, e non sappiamo come
uscirne…” conclusi mortificato, distogliendo per
un attimo lo sguardo dal mio interlocutore, così accorato
per le nostre disgrazie.
“Aspetti! Non avete pensato di allestire una vendita di
beneficienza?! Sono sicuro che la maggior parte dei bambini abbia una
qualità che potrebbe mettere al servizio del Centre! Potreste
creare dei piccoli quadri con la pittura ad olio, oppure vendere
qualche vecchio oggetto o vestito che non usate più!
Preparando dei banchetti, proprio qui, nel giardino della struttura,
sono sicuro che riuscirete a guadagnare il denaro necessario per rifare
il tetto! Contate pure sulla mia pubblicità!
Tappezzerò l’ambulatorio e la città con
dei volantini: mia moglie, lo sa, è grafico, non le
costerà nulla farlo! Allora, cosa ne pensa?!”
Quando congedai il dottor Brice erano quasi le undici.
Liquidai lui e la sua idea promettendogli che ne avrei parlato con gli
altri insegnanti e la direttrice, sebbene fosse l’ultima cosa
che avrei voluto fare.
Avevo bisogno di pensare, di riflettere sulle parole che mi erano state
dette.
Il suggerimento che l’uomo mi aveva proposto non era affatto
male, eppure lui sopravvalutava le doti dei ragazzi: è vero,
alcuni di essi, come Adriene, sono davvero dotati della
capacità di disegnare; altri, grazie ai laboratori musicali
e di pasticceria che si organizzano una volta a settimana, suonano con
grazia e solennità il pianoforte o il flauto e sanno
preparare delle crostate e delle madleins
molto buone ma, nessuno di loro, è così bravo da
poterlo fare da solo e per un pubblico di … quante persone?
Due, dieci, cinquanta? Forse la proposta non avrebbe trovato
accoglienza, forse solamente la famiglia del dottor Brice sarebbe
venuta a farci un saluto e a curiosare tra la mercanzia: la nostra
situazione finanziaria era troppo grave per poter essere risolta con la
vendita di qualche disegno, qualche torta o qualche vecchio abito (
quest’ultima ipotesi da scartare, dal momento che gli ospiti
del Centre
avevano a malapena il ricambio estivo e invernale).
Il tetto sarebbe costato almeno mille euro e, tenendo conto che la
nostra cassa era già sotto di duecento, le cose non si
sarebbero messe a posto con tanta facilità.
Chissà, magari avremmo potuto usare parte dei nostri
stipendi per risolvere il problema…
Mentre pensavo a tutto questo, sentii in lontananza lo scoccare di un
orologio: avevo camminato abbastanza, mezz’ora perso tra i
vari arrondissements
del centro.
A un certo punto, senza accorgermene, mi ritrovai in mezzo ad una
guerriglia -non saprei in che altro modo definirla-
a poche centinaia di metri da me: dovevo essere arrivato in una banlieu, nella
periferia più degradata e abbandonata della città.
Erano anni che, per fortuna, a Versailles e a Parigi non si sentiva di
scontri tra gli abitanti della zona e le forze dell’ordine.
Eppure, lo spettacolo che si stava presentando alla mia vista, era
tutt’altro che testimonianza di tranquillità e
pacifica convivenza tra le varie etnie.
Con incredulità, riuscivo a scorgere almeno una cinquantina
di manifestanti, perlopiù giovani di colore e bianchi,
vestiti di nero e a volto scoperto che, armati di bastoni e spranghe,
minacciavano un altro gruppo di ragazzi, questi ultimi asiatici.
Che strano,
pensai, una volta erano
i bianchi e i neri a fronteggiarsi, non ad allearsi ...
In mezzo, cercando di contrastare entrambe le divisioni, uno sparuto
numero di poliziotti della Gendarmerie,
la metà rispetto a tutta quella gente: gli agenti, con le
maschere antigas, i giubbotti antiproiettile, i manganelli e gli scudi di plastica
– come li avrebbe definiti qualche bambino del Centre- si stavano
proteggendo con l’apposito armamentario, parando colpi e
rimandandone indietro altri, come dei veri guerrieri romani.
Provai una grande tristezza e spaesamento nell’assistere a
quello spettacolo indegno, violento e privo di qualsiasi senso umano.
I palazzi, alti fino a tredici piani, erano lambiti dalle fiamme delle
bombe incendiarie, mentre altre bombe carta venivano lanciate oltre i
due schieramenti, in una folle rincorsa a chi le gettava più
lontano, colpendo il maggior numero di bersagli possibile.
Le vittime di questo pazzo gioco cadevano come barattoli di latta sotto
i colpi dei proiettili, completamente inermi, senza alcuna
possibilità di replica, rimanendo distesi a terra, mentre
tutto intorno nessuno si curava di loro.
Sembrava di essere in una zona di guerra: mi chiesi come avessi fatto
ad arrivare fino a lì, senza accorgermi di quello a cui
stavo andando incontro.
Cercai di tornare indietro, ma venni fermato da un uomo in borghese,
con la casacca recante la scritta Gendarmerie:
mi bloccò con forza le braccia e, prendendomi per i polsi,
mi fece inginocchiare.
Avvertii un tremendo bruciore alla schiena e ai palmi, come se fossi
stato sferzato da dei colpi improvvisi di cinghia.
Le urla dei manifestanti erano assordanti e demoniache:
l’intero spettacolo era dantesco, dal colori delle fiamme ai
visi grotteschi degli assalitori, trasformati in ferali maschere di
carne.
Cercai più di una volta di divincolarmi dalla stretta del
poliziotto, tentando di spiegargli che non c’entravo nulla,
che ero capitato lì per caso, che volevo solo tornare
indietro e, per questo, mi stavo allontanando così in fretta
…
In tutta risposta, l’uomo mi ammanettò e, senza
troppi complimenti, strattonandomi, mi condusse verso un blindato:
stava già - con modi assai poco cortesi - invitandomi a
salirvi, quando, un fragore più forte degli altri, fece
tremare la terra sotto i nostri piedi.
Sentii di nuovo un violento bruciore, questa volta più forte
rispetto a quello che avevo avvertito pochi attimi prima alla schiena e
ai palmi: era come se la pelle del braccio e della gamba destra fosse
stata aperta con una lama incandescente.
I rumori, le urla, il fuoco e tutte quelle persone in divisa e non, si
confusero nella mia mente, giusto l’attimo prima di cadere a
terra e perdere i sensi, le manette ancora strette ai polsi.
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Capitolo 12 *** Amal, Fatima e il banchetto di re Alexis ***
Amal,
Fatima e il
banchetto di re
Alexis
Stavo guardando in televisione l’ennesima replica del dottor
Zivago, quando sentii il trillo insistente del campanello alla porta.
Era quasi l’una oppure la vista, annebbiata dal sonno con cui
stavo combattendo da un’ora, mi stava tirando un brutto
scherzo?
Forse sto sognando,
pensai. Mi rimisi perciò comodo sul divano, le braccia
incrociate e la testa appoggiata ad uno dei cuscini.
Stavo riflettendo su quanto quel film mi piacesse, quando il campanello
riprese a suonare, questa volta con maggiore insistenza.
Sbuffai scocciato, poi, recuperando la stampella, mi misi in piedi e,
già in pigiama, andai verso l’ingresso.
Prima di aprire, guardai fuori dallo spioncino, preoccupato e curioso
di sapere chi fosse quel folle che veniva a disturbarmi a
quell’ora di notte.
Strabuzzai un attimo gli occhi, vedendo la figura in semiombra oltre la
porta: certo, era buio, la lampadina del lampione alla fine del
vialetto si era bruciata due settimane prima, però era lei,
non c’era alcun dubbio.
“Ciao, Philippe! Ti disturbo?!”
Vivianne, elegantissima e sensuale in un tubino nero con le maniche a
sbuffo e ricamate in pizzo, mi si stava parando davanti: i capelli
biondi, all’apparenza soffici, erano raccolti in uno
chignon – volutamente?- spettinato.
“Ma sei impazzita? Cosa ci fai in giro a
quest’ora?! E poi, togliti quelle scarpe! Sei più
alta di me e quasi non riesco a vederti!” la agguantai
divertito e preoccupato allo stesso tempo.
Una volta in casa, lei mi regalò uno dei suoi sorrisi
più sinceri e compassionevoli:
“Ah Philippe, quante cose devi ancora imparare dalla vita!
Sono appena tornata dalla cena con Alexis, non ti ricordi
più? Sai com’è, prima di andare a
dormire, volevo passare a farti un salutino, a vedere come stavi e
… ad aggiornarti sulla serata, ma se non vuoi, me ne vado a
letto e non ne parliamo più”
Mi risvegliai all’istante dall’intorpidimento in
cui ero caduto: quando, alle sette, Vivianne era uscita di casa, ero
appostato dietro le tende della finestra della cucina, con poche
speranze di ottenere qualche buona notizia dalla serata mondana della
mia vicina.
Avevo sentito il rombo -elegantissimo
e silenziosissimo- di una Maserati color antracite
risuonare davanti al vialetto della villetta.
Un uomo sui quarant’anni, decisamente più vecchio
di Vivianne –dato che lei ne aveva appena venticinque- era
sceso come se camminasse sospeso da terra: devo ammettere che fosse
vestito con ricercatezza, forse fin troppa, avvolto dal completo blu di
Versace o Dior che indossava, i capelli castani mossi pettinati con cura.
Invece, nonostante lo sgommare assordante e i modi decisamente
affettati per i miei gusti, sembrava che le mie speranze fossero andate
in porto.
“Stai scherzando?! Certo che mi interessa sapere ogni cosa!
Vieni, andiamo sul divano, sono stanco …”
Una volta seduti, abbassai il volume del televisore:
“Oh che bello il dottor Zivago! Ce lo guardiamo?!”
“Non vorrei dire, ma, per prima cosa, sta quasi per finire e,
seconda e più importante di tutte, vorrei sapere il
risultato di questa cenetta romantica! Ne va del mio futuro
lavorativo!”
“Come sei tragico, Philippe! Sei comodo? Hai bisogno di
qualcosa? Un altro cuscino, un bicchiere di ACE?”
“Una camomilla, magari … Vivianne! Insomma, vuoi
raccontarmi come è andata prima che faccia l’alba
o preferisci tormentarmi ancora un po'?!”
Assunse un’aria afflitta e, per un momento, temetti il peggio.
“Eh, caro, caro ragazzo, purtroppo Alexis non ha accettato di
aiutarvi. Dice che sono più le perdite rispetto ai guadagni
e …”
“Basta così, non c’è bisogno
che continui …” la interruppi, smettendola di
guardarla come se fosse la Madonna.
Restammo in silenzio per, più o meno, mezzo minuto, poi, una
risatina irriverente si fece largo tra le labbra di Vivianne, vagamente
macchiate di rossetto.
“Ci sei cascato come una pera matura! Ma davvero hai
così poca fiducia nelle mie qualità di
seduttrice?!”
Tornai a fissarla con sorpresa e stupore: a che gioco stava giocando?
Io non avevo affatto voglia di divertirmi alle spalle del Centre,
perché invece lei stava facendo tutto
quell’inutile teatrino?
“Dimmi la verità, altrimenti ti butto fuori da
casa mia!” cominciai, guardandola storto.
“Va bene, va bene, adesso ti spiego tutto: dunque, Alexis mi
ha portato in un ristorante alle porte di Parigi, un posto a dir poco
stupendo, chiccosissimo!
Si è mangiato divinamente: dovevi vedere quanta roba ha
prenotato, tutta di primissima qualità, eh! Poi, siamo
andati a fare una passeggiata lungo la Senna, al chiaro di luna:
è stato molto romantico!”
“Vivianne, tralascia questi particolari irrilevanti, per
favore …” la bloccai, pizzicandole con delicatezza
una guancia.
“Non sono irrilevanti, insensibile! Comunque, dopo cena e
dopo la nostra meravigliosa promenade,
ha cominciato a sciogliersi un po’, anzi, un po’
troppo: voleva accompagnarmi a casa, la sua però, ma io
l’ho fermato in tempo. Dice che è innamorato perso
di me, che vuole sposarmi e presentarmi alla sua famiglia: diventerai la regina dei mattoni,
mi ha detto, un’immagine davvero brutta, a pensarci bene.
Comunque, dopo qualche scambio di effusione, gli ho parlato della
vostra situazione, della necessità di rifare il tetto del Centre nel
più breve possibile …”
Sospirò trasognata, interrompendosi improvvisamente.
“E cosa ha detto?” la sollecitai a proseguire,
fiducioso nell’epilogo.
“Per te farei
qualsiasi cosa, mio caro pasticcino! Ha detto proprio
così, Philippe, pasticcino:
mah, forse è un po’ troppo melenso, ma con un
po’ di lavoro, riuscirò a cambiarlo,
vedrai!”
“E con un braccio fratturato è riuscito a fare e a
dire tutto questo?!” commentai sarcastico.
“Sei il solito stupido, devo ammetterlo. Il braccio ora lo
muove bene, deve solo rinforzare il tono muscolare e … ma
cosa t’interessa?! Uffa, è noioso parlare con te
di queste cose, pensi sempre e soltanto al tuo interesse!”
cominciò a lamentarsi, mettendomi il broncio e alzandosi dal
divano.
“Aspetta, Vivianne! Prometto che non dirò
più nulla, anzi, lo considererò un santo il tuo
… Albert, no scusa, Alexis! Però, ti prego,
dimmi, ha accettato per davvero di riparare il tetto oppure
no?!”
“No, guarda, per finta!” proseguì,
rimettendosi seduta e alzando il volume della TV.
“Certo che ha accettato, avevi forse qualche dubbio?! Mi ha
promesso che ti incontrerà per parlarne, appena tu vorrai.
Anche per il prezzo, non preoccuparti, ci penserò
io!”
“Lo sapevo, sapevo di poter contare su di te!” la
avvolsi in un abbraccio stritolatore e, sorridendole, le proposi:
“Una birra?”
“Ma non eri tu quello che, appena due sere fa, non voleva
saperne per un pezzo di birra?!”
“Beh, le persone cambiano, no?”
“Sì, hai ragione, però, data
l’ora e tutto quello che ho bevuto, forse è meglio
un po’ del tuo ACE”
Si levò finalmente quei trampoli che aveva ai piedi e,
sculettando come suo solito, si diresse in cucina, mentre io la seguivo
con lo sguardo, finalmente sereno e grato per quella bellissima notizia
che mi aveva portato.
Passarono cinque giorni dal mio, chiamiamolo così, incidente
con relativo arresto: la gamba e il braccio erano in netto
miglioramento, riuscivo a camminare quasi senza appoggiarmi a
quell’aggeggio che la dottoressa Aziz aveva così
insistito per rifilarmi.
Sebbene fisicamente mi stessi riprendendo piuttosto velocemente,
mentalmente ero ancora pieno di preoccupazioni: a inizio settimana,
Liliane mi aveva contattato telefonicamente –ormai non
speravo nemmeno più che si prendesse la briga di uscire di
casa, prendere la macchina e venire a verificare di persona le mie
condizioni di salute- per dirmi che, a causa della lite avvenuta nella
banlieu di Pauligny, avevamo ereditato cinque nuovi ospiti, tre ragazzi
di dodici, quattordici e quindici anni, e due bambine di sette e nove
anni, tutti originari del Mali.
La cosa che maggiormente mi preoccupava, riguardo l’arrivo
delle nuove reclute, era la tragica storia di cui si erano fatte carico
le due sorelle, vittime infatti di quel girone infernale che sono le
mutilazioni genitali femminili.
Insieme alla famiglia, erano arrivate a Calais un
paio di anni prima, dopo un lungo viaggio attraverso
l’Italia; da qui, avevano cercato di raggiungere
l’Inghilterra, ma inutilmente, perché erano stati
bloccati durante uno dei tanti tentativi di passare la Manica.
Alla fine, l’anno scorso, sono approdati a Versailles: Amal e
Fatima, insieme ai loro genitori e al fratello più grande
Abdul, si erano inserite senza troppe difficoltà nella
comunità, a parte qualche iniziale diffidenza da parte delle
altre famiglie dello stabile, per lo più immigrate come
loro; la madre, che nel suo Paese era un’insegnante
elementare, si rassegnò a fare la casalinga, mentre il padre
trovò lavoro come muratore stagionale, per poi essere
licenziato sei mesi prima dei fatti di Pauligny.
Da allora, la situazione della famiglia di Amal e Fatima si era
irrimediabilmente aggravata, in un altalenarsi di eventi che le avevano
portate nella nostra struttura; la casa famiglia parigina che si era
resa disponibile ad ospitare la madre era al collasso, così,
per qualche giorno, avremo dato loro stallo; il fratello più
grande, Abdul, si trovava lontano dalla stupida guerriglia urbana di
quel terribile sabato mattina, così non era stato fermato
dalla polizia, cosa che invece era avvenuta per il padre.
L’uomo, infatti, si era fatto coinvolgere negli scontri
contro la popolazione asiatica della banlieu, ed ora si
trovava in stato di fermo per ulteriori chiarimenti.
“Il dottor Brice le ha visitate …”
continuò Liliane, durante la nostra telefonata di inizio
settimana “ha riscontrato, senza alcun ombra di dubbio, che
le due bambine sono state vittime della barbarie delle mutilazioni
femminili! E’ veramente terribile, Philippe!”
“Certo che lo è, per questo dobbiamo fare
qualcosa! Come pensate di agire? Siete riusciti a sapere qualcosa in
più a riguardo? Dove lo hanno praticato? Qui,
clandestinamente, o nel loro Paese natale? Si riesce a risalire a
quegli aguzzini!?” continuai disgustato e in apprensione, con
la gamba destra distesa sul tavolino di fronte al divano.
“E’ molto difficile, almeno è quello che
dice il dottor Brice. Nel loro Paese, in Mali, è una pratica
comune nei villaggi, che si fa a tutte le ragazze, inoltre il lavoro
sembra, se così si può definire, ben fatto
…”
“Ma sono solo due bambine! E poi, come ha potuto permetterlo
la madre, una donna che sceglie di essere insegnante, non dovrebbe
essere complice di queste atrocità!” mi affrettai
a precisare, cambiando orecchio, mentre mi massaggiavo il braccio
destro ferito, intorpidito da quella posizione fissa, dovuta alla
cornetta in mano.
“Sì, lo so anch’io che sono solo due
bambine, ma ti sto riferendo le parole del medico!
L’assistente sociale, il signor Batignole, mi ha promesso che
domani mattina andrà a parlare con la madre, per sapere
qualche cosa in più riguardo questa pratica disumana
…”
Sospirai profondamente, rabbioso per quella condizione forzata in cui
mi trovavo: non potevo fare nulla per quelle bambine, per tutti i
ragazzi del Centre,
perché dovevo rimanere fermo, bloccato tra quelle quattro
mura ancora per tre giorni, fino al benestare – almeno
è quello che speravo- da parte della dottoressa Aziz,
durante la visita di controllo di lunedì.
“Philippe, ci sei ancora?”
“Stavo pensando. Ascolta, dimmi una cosa, che ne è
degli altri bambini di Pauligny? E dei tre ragazzi che sono da noi,
stanno bene?”
“Sì, per fortuna non hanno subito alcun trauma,
né fisico né psicologico. Sono tre cugini, venuti
qui con lo zio, mentre i genitori si trovano ancora in Mali: lo zio
è stato fermato dalla polizia per un controllo, ma dovrebbe
essere rilasciato questa sera o, al più tardi, domani
mattina. Tutti gli altri minorenni residenti nella banlieu, circa
un’ottantina, sono stati mistati a Parigi, ma solo fino a
quando non verranno completati i controlli necessari a capire le
eventuali responsabilità dei loro parenti …
“
“Bene, almeno queste sembrano delle belle notizie
… “ commentai sempre pensierono.
In quel momento, sentii suonare alla porta; guardai
l’orologio in vetro soffiato sul camino, che segnava le
undici e mezza.
Mi ricordai all’istante dell’appuntamento che avevo
fissato il pomeriggio precedente con Vivianne, per discutere dei
preparativi della cena che la mia cara vicina aveva deciso di preparare
quella sera stessa a casa sua, per farmi conoscere Alexis e parlare con
lui dei particolari relativi alla ristrutturazione del tetto.
“Scusami, ma ora devo lasciarti. Tienimi aggiornato riguardo
Amal e Fatima e, se hai bisogno, chiamami” salutai Liliane,
mentre mi apprestavo ad alzarmi dal divano, barcollando leggermente per
la leggera fitta che ancora avvertivo a livello dei punti di sutura
sulla gamba e sul braccio destro.
“S-ì, sì certo. Allora a presto.
Philippe, tornerai lunedì, vero?” la voce della
mia interlocutrice risultava in parte confusa e in parte speranzosa:
non riuscivo a capire questo improvviso cambiamento da parte sua, tutto
era precipitato da quel martedì in cui avevano avuto inizio
le nostre disgrazie; da allora, infatti, la sentivo distaccata e sempre
impensierita.
C’era qualcosa che preoccupava Liliane, ne ero sicuro, non
poteva essersi trasformata, così improvvisamente, nella
donna menefreghista e quasi fredda con cui stavo parlando.
Ma preferii non indagare, disturbato dal trillo insistente del
campanello.
“Lunedì, sì, tornerò
lunedì. Ciao, e scusa ancora…” tagliai
corto.
Mentre aprivo la porta, mi accorsi che, di nuovo, nel giro di pochi
giorni, non mi ero informato della situazione tra lei e Mathieu, il suo
ex tornato dall’Australia; dopotutto, pensai, neppure Liliane si è
premurata di domandarmi come stessi.
Ormai, ci avevo fatto una terribile abitudine a quel gioco infantile di
colpe non affrontate, di accuse puntate ma mai dette.
Ancora impensierito, mi avviai più veloce di un bradipo
verso la porta d’ingresso.
“Oh, finalmente! Credevo fossi sprofondato nel divano, oppure
nel letto, o nel gabinetto… beh, lasciamo stare
quest’ultima eventualità” mi travolse
Vivianne, avvolta in un vestito fucsia con i girasoli stampati sopra.
“Sei molto … estiva,
con questo abito” le dissi, mentre si dirigeva in cucina.
“Sì, lo so, oggi mi sento già in
vacanza, sebbene manchino quasi quattro mesi alle tanto, troppo
sospirate ferie. Comunque, parliamo di cose momentaneamente
più importanti. Hai già pensato al
menù di questa sera?”
Prese posto su una delle quattro sedie bianche che circondavano il
tavolo in eco-legno del medesimo colore, quindi estrasse, da dietro la
schiena, un piccolo taccuino con la copertina in pelle sgualcita e,
brandendo in mano la matita –tutti oggetti di cui non mi ero
accorto, quando era entrata- cominciò:
“Immagino di no. Dunque, io avrei pensato di partire con un petit antipasto,
una cosuccia da niente. Che so, delle capesante aȗ gratin
accompagnate da un’insalatina primaverile di mele e cetrioli;
poi, passerei al primo, delle crêpes
alla parigina; come secondo, invece, proporrei un gateȗ di patate,
pomodorini, e fromage
et en peu de besciamelle che non guasta mai; infine, per
concludere in bellezza e con un tocco esotico, delle banane flambé
ricoperte di top al
cioccolato! Allora, cosa ne dici? Pensi che ad Alexis possa piacere una
cosa semplice come questa?!”
Rimasi abbastanza di stucco: per prima cosa, non ero minimamente al
corrente che Vivianne sapesse cucinare tutto quel bendiddio di
banchetto che mi aveva appena elencato; di solito le nostre cene si
componevano di pizza e birra e, in rare occasioni, della sua super
torta al cioccolato; in secondo luogo, quando avrebbe avuto il tempo di
preparare quei deliziosi manicaretti, se il pomeriggio, ovvero tra meno
di tre ore, avrebbe dovuto andare al lavoro? Va bene che
l’avevo sempre considerata un tipo alla wonder woman,
però così mi sembrava fosse un po’
troppo.
“Beh, direi che se riusciamo ad arrivare sani e salvi al
dolce, siamo dei miracolati, Vivianne! Non credo che i nostri stomaci
riuscirebbero a saziarsi con così poco
…” la stuzzicai, mentre aprivo il frigorifero per
prendere una bottiglia di ACE.
“Ne vuoi?” le domandai, mentre tiravo fuori un
bicchiere dalla credenza di fianco a me.
“No, grazie. Cavoli, tu dici? Lo sapevo che era troppo poco!
Forse potrei aggiungere una quiche
lorraine
“Ma stavo scherzando!” la riportai alla
realtà, finalmente seduto.
“Philippe, santo Cielo, ti sembra questo il momento di
metterti a fare lo sciocco?! Qui c’è in ballo la
mia vita sentimentale, il tetto del tuo amatissimo Centre, e tu cosa
fai? Mi prendi in giro! Oh, quanta pazienza che ho con te, davvero non
so come faccia a sopportarti!” concluse sbuffando
rumorosamente, alzando gli occhi al cielo – o, per meglio
dire, al soffitto-
“Beh, scusami, non vorrei mai contribuire alla tua
infelicità, facendoti diventare una vecchia zitella
acida”
Vivianne mi tirò un colpo ben assestato sul braccio
sinistro, quello non ferito; poi continuò tutta seria:
“Comunque sia, la aggiungo, non vorrei che Alexis si alzi da
tavola non soddisfatto e con la pancia vuota, poverino
…”
“Per carità, non sia mai!” continuai con
fare scherzoso, per poi domandarle incuriosito e stupito:
“Perdona la domanda indiscreta, ma quando avresti intenzione
di cucinare questo banchetto regale? Sai, è quasi
mezzogiorno e non penso che ci voglia lo stesso tempo di quando prepari
una omelette
…”
Smise di rimirare incantata le pagine del taccuino e, rivolgendomi
un’occhiata di pura compassione e tenerezza, mi
svelò:
“Ah, Philippe, caro, innocente e ingenuo amico mio
… credi davvero che la sottoscritta sia così
folle e brava da mettersi a cucinare tutti questi piatti?! Beh, ti
rispondo io: certo che no! Ho già chiamato il negozio di
gastronomia vicino alla palestra; quando uscirò dal lavoro,
andrò a ritirare tutto quanto! L’unica cosa
è che adesso dovrò richiamare Helene per dirle di
mettermi da parte un po’ della sua insuperabile quiche. Bene, ora
devo andare. Ah, hai già pronto il pranzo?”
La guardai interdetto e, dopo qualche secondo, riacquistai
l’uso della parola, per dirle:
“Ne studi una più del diavolo, cara mia,
altroché. Sì, non preoccuparti: non voglio
approfittare oltre delle tue doti culinarie. Mi accontenterò
di riscaldare un po’ di sformato di pasta che ho preparato
ieri sera”
“Ottimo! Allora io vado … no, aspetta, ancora una
cosa: sei sicuro di farcela ad attraversare il vialetto fino a casa
mia?”
Vivianne si fece improvvisamente riflessiva, preoccupata per le mie,
secondo lei -e forse non aveva tutti i torti-, precarie condizioni di
salute.
Fissandola con aria impensierita, annuii desolato:
“Eh, forse hai ragione, sarò costretto a rimanere
qui dentro per il resto dei miei giorni, bisognoso di ogni cosa
… ma smettila, va!” conclusi con un largo sorriso,
cacciandola dalla cucina e spingendola, come potevo, fino alla porta
d’ingresso.
“Alle otto il qui presente vecchietto, con l’aiuto
del suo fedele bastone da passeggio, si presenterà alla sua
porta, signorina!”
Lei mi guardò sorridendo e, mandandomi un bacio, si
allontanò verso casa.
Quando le mie sorelle più grandi cominciarono ad uscire, mia
madre, puntualmente, trovava sempre una scusa per unirmi a loro.
E’ inutile dire quanto mi sentissi di troppo, il classico
terzo incomodo, eppure non c’era verso di far cambiare idea
al mio genitore dalle idee un tantino antiquate.
Di solito sono i padri quelli gelosi delle attenzioni che i giovanotti
riservano alle loro figlie, invece, nella mia stramba famiglia, era
esattamente l’opposto: quella opprimente e possessiva era
sempre ed esclusivamente mia madre.
I pomeriggi estivi, dopo aver giocato con i miei amici, li trascorrevo
a inseguire le mie tre sorelle – ovviamente non uscivano
tutte insieme, ma i miei ricordi, per fortuna, non sono del tutto
nitidi al riguardo- che tentavano di divertirsi innocentemente al
cinema, al bar o in qualche negozio alla moda di Lione.
Le prime volte, quando ero solo un bambinetto carino e privo di
malizia, riuscivo a farmi portare da Claire, Jeanne ed
Agnése, in una gelateria poco distante da casa, dove
trascorrevo almeno un’ora a mangiare due coppette tregusti;
poi, se il giro andava per le lunghe, la sorella di turno ritornava a
prendermi per andare al negozio di cioccolatini, due rue più
avanti, e qui passavo un’altra ora a bighellonare tra gli
scaffali stracolmi di dolciumi di ogni forma e gusto.
Alla fine, quel supplizio aveva la sua conclusione e, come se niente
fosse, ritornavamo tutti a casa.
Adesso, l’unica domanda che mi pongo, è come abbia
fatto a non farmi venire il diabete con tutti quegli zuccheri semplici
che ero costretto ad ingerire per tenermi occupato.
Quella sera, dopo che i ricordi d’infanzia furono
nuovamente spariti dalla mia mente e, con grande soddisfazione personale ero finalmente riuscito a
vestirmi in modo presentabile nonostante le contorsioni causate dal
braccio e dalla gamba feriti, ero affacciato alla finestra per ritirare
le scarpe da ginnastica che avevo lasciato fuori dal giorno prima,
quando avevo disubbidito agli ordini della dottoressa Aziz per andare a
fare due passi per il quartiere (ma proprio due di numero, perché
poi ero rimasto mezzo bloccato a pochi metri da casa).
Mancava un quarto d’ora all’appuntamento con quel
bellimbusto, e cercai di autoconvincermi dell'esito dell'incontro pensando positivo: se la cena fosse andata a buon fine, infatti, ciò avrebbe voluto dire un tetto nuovo per
il Centre,
senza più pensieri in caso di pioggia o altre catastrofi
naturali.
Stavo richiudendo la finestra, quando sentii il solito ruggito elegante
della Maserati di Albert, ehm pardon,
di Alexis.
Davvero non riuscivo a capire come facesse Vivianne ad essersi
invaghita di quell’essere così borioso e ricoperto di lusso all'inverosimi
all'inverosimile.
Non mi era mai apparsa una ragazza interessata ai soldi, ma
d’altronde, il Dio Denaro era sempre in agguato, pronto a
colpire tutti.
Scossi la testa desolato e, ripetendomi come un mantra ce la devo fare, ce la posso
fare, ce la devo fare, mi avviai verso la porta
d’entrata, da una parte la stampella e dall’altra
la bottiglia di vino che avevo scelto dagli scarsi rifornimenti in
cantina, esclusivamente per la grande occasione mondana.
“Così tu sei il famoso Philippe!”
l’energumeno – devo ammettere un gran pezzo di
marcantonio, già abbronzato, dagli occhi azzurro ghiaccio,
i capelli castani e vagamente ricci- mi strinse la mano come se io
potessi, con quel gesto da stritolaossa professionista, anche solo
lontanamente competere con lui.
Feci una smorfia di dolore, dal momento che la mano in questione
apparteneva al braccio che, appena cinque giorni prima, era stato mezzo
dilaniato da una bomba carta.
Ma il tizio sembrò non accorgersi dell'espressione contrita che devo aver assunto.
“Sì, sono io” tagliai corto, cercando
con lo sguardo Vivianne per incenerirla, imbambolata di fianco a noi,
stupenda nel suo tubino blu notte, ma rincretinita a guardare quella
specie di superuomo accanto a lei.
“Spero non ti dispiaccia se ci diamo del tu!”
aggiunse l’attimo dopo, come per scusarsi Albert-Alexis,
regalandomi una pacca, questa volta leggera, sul braccio.
Io feci un mezzo sorriso di circostanza, quindi risposi di non
preoccuparsi, che mi avrebbe fatto molto piacere.
“Benissimo!” s’intromise quella vipera
della mia vicina di casa, giuliva e perdutamente innamorata del
marcantonio “cosa ne dite se prendiamo posto? Ci aspetta una
lunga serata!”
A mezzanotte e trentadue, minuto più minuto meno, stavo per
tirare in testa la stampella a quel tipo tutto sorrisi ma senza
cervello.
Indubbiamente era affascinante e sapeva parlare con, come si dice,
proprietà di linguaggio: ammaliava con i suoi discorsi
sull’edilizia, i mattoni, le proprietà sparse
per l’Europa, i viaggi di lavoro (“Vedi, Philippe, per saper
costruire bene, bisogna anche viaggiare bene, in modo da conoscere i
trucchi del mestiere dei Paesi avversari: Argentina, Australia, Sud
America, Sud Africa, ma nessuno batte le rigorose costruzioni del Nord
Europa e le graziose palafitte della Polinesia francese! Ricordati,
amico, il mondo è il centro del mondo!”)
e altre decine di cose di questo genere.
Eppure, nonostante la sua convivialità, non riuscivo a
togliermi dalla testa che fosse un uomo senza arte né parte,
uno dei tanti, troppi bellimbusti che circolano sulla faccia della
terra.
“Allora, Philippe, Vivianne mi ha più volte
parlato della necessità di ristrutturare il tetto della
struttura in cui lavori, è così?”
continuò gioviale Albert-Alexis, finalmente toccando
l’argomento che tanto mi premeva.
“Sì, è così”
risposi, rianimato di una nuova forza interiore, smettendo di fissare
psicopaticamente il risvolto della tovaglia bianca e rossa.
“Mi farebbe piacere se tu potessi venire a fare un
sopralluogo per valutare l’entità del disastro ed
effettuare, senza impegno, un preventivo… ”
“Ma non c’è alcuna necessità,
te lo assicuro!”
Per un attimo, rimasi di ghiaccio: forse aveva cambiato idea e non
voleva più aiutarci?!
“Non preoccuparti” continuò, dopo
qualche secondo di pausa ad effetto “vedo dalla tua
faccia che stai pensando al peggio, ma ti rassicuro subito dicendoti
che non è come pensi! Ho detto che non
c’è alcuna necessità di venire a
Versailles per verificare di persona il disastro accadutovi,
perché ho già deciso di prendere in mano la
situazione e darvi una mano a ricostruire il tetto, del tutto
gratuitamente!”
Rimasi interdetto per un paio di secondi.
Guardai lui e poi Vivianne, anche lei stupita da cotanta
generosità.
“Gratuitamente hai detto?” cercai di capire bene.
Albert-Alexis mi abbagliò con un sorriso a trentadue denti
e, annuendo, ribadì il concetto:
“Certo che sì, amico mio! Gli amici di Vivianne
sono amici miei e, se si tovano in difficoltà,
lo sono ancora di più! Quindi, permettimi di farti questo
piccolo regalo! Lunedì potrebbe andare bene per cominciare i
lavori? Sai, ho sentito che dal fine settimana prossima dovrebbe
riprendere a piovere per un paio di giorni … quindi, direi che prima
iniziamo e meglio è, non credi? Affare fatto?”
Mi mossi imbarazzato sulla sedia e, stringendo la mano che mi porgeva,
ripetei dopo di lui:
“Affare fatto”
NOTA DELL'AUTRICE:
Ciao a tutti! Grazie a chi è arrivato fino a qui a leggere
e, spero, recensire!
Scusate se pubblico a distanza così ravvicinata, ma poi, per
questioni personali, non potrò farlo per una decina di
giorni, più o meno.
Spero tanto che il capitolo vi sia piaciuto!
A presto!
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Capitolo 13 *** Suzanne ***
SUZANNE
Mi svegliai calmo e rilassato come se dovessi andare a fare bunjee
jumping per la prima volta nella vita, come se dovessi scalare
l’Himalaya in solitudine, come il bambino che comincia a
nuotare senza braccioli.
Insomma,
per farla breve, non ero per nulla tranquillo.
Tutta
quell'ansia che provavo era dovuta al fatto che, finalmente, era
arrivato lunedì, il giorno della verità: prima di
andare al Centre, infatti,
avrei dovuto andare a farmi visitare dalla dottoressa Aziz, per
valutare le condizioni del braccio e della gamba feriti negli scontri
di Pauligny.
Ancora
non riuscivo a credere che, in neppure due settimane, erano
avvenuti così tanti cambiamenti: il disastro del tetto,
l’approccio mal riuscito con Liliane, il ritorno del suo ex,
l’incomprensione con lei e con la direttrice, il mio arresto
con conseguente ferimento, la cena da Vivianne e relativa conoscenza di
Albert-Alexis … sembrava passato un secolo, invece erano
trascorsi appena quattordici giorni.
Mi
vestii il più comodamente possibile, indossando la mia
T-shirt rossa portafortuna e un paio di bermuda blu scuro, le sneakers
ai piedi a completare la mise da
gentiluomo, sebbene, in un primo momento, avessi voluto scegliere un
abbigliamento elegante, forse per far capire alla troppo premurosa
dottoressa Aziz che ero in grado di badare perfettamente a me stesso e,
di conseguenza, potevo anche ritornare al lavoro, ovviamente scortato
da una guardia
del corpo.
Tre
giorni prima, infatti, all’alba dell’una di notte
di venerdì, dopo che mi stavo addormentando sul divano della
mia vicina di casa, lo stomaco appesantito dalla cena che avrebbe
sfamato l’intero continente africano e a causa delle
chiacchiere senza capo né coda del marcantonio
Alexis,Vivianne mi accompagnò alla porta, persa nelle sue
fantasie da innamorata, gettando uno sguardo da pesce lesso a me ed uno
sognante al bellimbusto in salotto, rassicurandomi sul fatto che, "stai
tranquillo, Philippe", il
lunedì seguente, mi avrebbe accompagnato alla
visita con la dottoressa Aziz.
Così,
alle otto in punto, dopo un week end passato a deprimermi davanti alla
TV, ero già fuori sul vialetto d’entrata ad
aspettare la mia accompagnatrice, quando notai la Maserati del
bellimbusto- non poteva che essere la sua, dal momento che, nel nostro
tranquillo e anonimo quartiere, nessuno con un po’ di sale in
zucca e il portafoglio normalmente rifornito, avrebbe potuto
permettersi un’automobile del genere-
Non
provai né imbarazzo né stupore, anzi, forse un
pizzico di stupore sì, più che altro
perché non sapevo come comportarmi; dovevo andare a suonare
il campanello? Oppure dovevo farle uno squillo sul cellulare? O magari
attendere un paio di minuti e prendere l’autobus che mi
avrebbe portato in stazione, così non avrei disturbato le
due cocorite intente, quasi sicuramente, ad amoreggiare?
Appoggiato
al mio fedele bastone da passeggio, con la mia divisa da principiante
cercatore di funghi, cominciai a guardarmi in giro, giusto per far
passare il tempo.
Alla
decima occhiata, improvvisamente, la porta d’entrata di
Vivianne, a pochi metri dal vialetto opposto rispetto a quello in cui
mi trovavo, si aprì, per far uscire lui
& lei, eleganti
e sorridenti, l’una a braccetto dell’altro.
Notando
l’abito elegante dell’ ex ragazza normale che
conoscevo - un vestito giallo canarino, probabilmente di
seta, smanicato, con i sandali in tinta- e quello da perfetto damerino
del suo accompagnatore, pensai che forse si era dimenticata della
proposta che mi aveva fatto venerdì di accompagnarmi alla
visita, brilla d’amore e del vino che avevamo portato
Albert-Alexis ed io.
Stavo
per agitare debolmente la mano sinistra, non del tutto sicuro di quel
gesto, quando incrociai lo sguardo della mia vicina di casa,
l’occhio da pesce lesso già visibile in lontananza.
“Philippe!
Siamo qui, Philippe, stiamo arrivando!”
La
guardai non capendo tutto quell’entusiasmo che trapelava
dalla sua voce, leggermente in falsetto, mentre il marcantonio mi
degnava di un sorriso smagliante.
“Vivianne
temeva di essere in ritardo!” mi salutò il
bellimbusto, dandomi una pacca sul braccio sano.
“E’
da tanto che aspetti?” s’informò lei,
sebbene non sembrasse si stesse rivolgendo a me, dal momento che
continuava a fissare Alexis.
“N-no,
non sono nemmeno cinque minuti … forse tre. Sei ancora
sicura di accompagnarmi?” domandai titubante e imbarazzato da
tutte quelle sdolcinerie.
“Hai
forse qualche dubbio che, nelle tue condizioni, ti lasceremo andare da
solo? Tranquillo, Philippe” rispose per lei il damerino,
“sono venuto apposta per accompagnarvi, così, se
tutto va bene come credo, dopo la visita verrò insieme a te
al Centre, in
attesa che ci raggiunga la mia squadra! Ho dato loro appuntamento alle
dieci, pensi possa andare bene?”
Annuii
sollevato, concentrandomi nuovamente sull'incombenza che mi aspettava.
Tuttavia
mi assalì il dubbio che il danaroso lì davanti si
fosse fermato a dormire dal pesce lesso, nonostante non avessi sentito
l’elegante e silenzioso suono del
motore della Maserati, la sera prima, ma questa era una storia che non
doveva interessarmi: l’appuntamento dalla dottoressa Aziz era
per le nove e un quarto, quindi avevamo tutto il tempo per arrivare
tranquillamente al Centre e
aspettare tutti insieme appassionatamente l’inizio dei lavori
di ristrutturazione al tetto.
“E
tu Vivianne? Non vai a lavorare?” era inevitabile
chiederglielo, a causa del suo abitino, poco adatto ai ritmi della
palestra di riabilitazione.
“Cosa?!”
domandò trasognata “no, oggi ho preso un giorno di
ferie! Alexis mi ha promesso che mi porterà a fare un giro
in barca, lungo la Senna, poi mangeremo su un battello e
proseguiremo la nostra gita salendo fin sulla Tour Eiffel! Non
è elettrizzante?!”
“S-sì,
certo, è stupendo …” commentai poco
entusiasta, cercando di spostare il peso dalla gamba sana a quella
malata, e viceversa, nel vano tentativo di spazzar via l'imbarazzo che
percepivo avvolgermi.
“Forse
è meglio andare!” mi salvò Alexis,
facendo un gesto con il mento in direzione della sua fuoriserie, una
cosuccia da niente, parcheggiata su un lato della casa di Vivianne.
Mi
avviai come una scheggia.
La
dottoressa Aziz mi accomiatò con uno dei suoi sorrisi,
genuini e disinteressati: i punti al braccio e alla gamba si stavano
rimarginando, tuttavia sarebbe stato meglio mantenere il fedele
bastone da passeggio, come
ormai definivo la stampella, ancora per tutta la settimana, in modo da
non caricare troppo e permettere una corretta cicatrizzazione delle
ferite.
Mi
rassicurò dicendomi che potevo riprendere a camminare come
prima, così come avrei potuto ricominciare, da quel giorno
stesso, a lavorare, con le dovute accortezze, naturalmente.
Ci
saremmo rivisti ancora una volta, il lunedì successivo, per
l’ultima visita di controllo.
Le
strinsi la mano riconoscente e, scortato dalle mie fedeli guardie
del corpo, persi
nei loro sguardi da pesci innamorati, mi ritrovai, finalmente, davanti
al Centre: in quel
momento, mi sembrò non ci fosse posto più bello
al mondo.
Scesi
felice dall’ automobilina del
marcantonio, dimenticandomi per un istante delle leggere fitte alla
gamba, desideroso solo di entrare e ritrovare i miei bambini.
“Philippe!
Come stai? Liliane ci ha detto che hai avuto un piccolo incidente, ora
è tutto a posto?”
Nicole,
una delle mie colleghe, camicetta bianca con le maniche a sbuffo e un
paio di jeans attillati, mi venne incontro in corridoio, reggendo in
mano un paio di faldoni mezzi impolverati.
La
guardai sorridendole, rassicurandola sul mio stato di salute: non
volevo dilungarmi troppo su ciò che mi era accaduto,
soprattutto per la presenza continua e innervosente di Alexis.
“Vado
dai mezzani” conclusi con gentilezza, riferendomi ai
ragazzini di dodici anni.
“No,
aspetta! Oggi non sei da loro! Dovrai occuparti della classe di Louise,
non te lo ricordi? Suo figlio si è sposato ieri, a Nizza, e
ha chiesto qualche giorno di permesso: non tornerà prima
della prossima settimana”
Rimasi
per qualche secondo interdetto; fissai i suoi occhi scuri, in contrasto
con i capelli lunghi e fluenti di un castano ramato, poi le domandai a
voce troppo acuta, lo sguardo perso:
“Nicole,
io non so nulla. Cosa dovrei ricordarmi? Sì, Louise ce lo
aveva detto del matrimonio del figlio, ma cosa c’entra la mia
classe con lei?”
Capii
subito, mio malgrado, di averla messa in difficoltà:
“Credevo
che Liliane ti avesse avvisato: ha portato i ragazzi della tua e della
sua sezione in gita, a vedere il nuovo Museo di Scienze Naturali che
hanno aperto l’altro giorno … scusa, ma pensavo ne
fossi al corrente” concluse la ma collega, distorcendo le
labbra in una smorfia di desolazione.
“N-non
fa niente, davvero … “ cercai di riprendere un
po’ di colore e di sangue freddo, scosso da quella sorpresa
di cui non riuscivo a comprendere il motivo: avevo sentito Liliane
appena quattro giorni prima, perché allora non mi aveva
detto nulla? Una gita del genere, un’uscita con
così tanti bambini e ragazzi, non si organizza nel giro di
mezza giornata, tanto più che servono i permessi dei
genitori o dei tutori dei ragazzi momentaneamente affidati alla nostra
struttura.
“Se
vuoi ti accompagno dai ragazzi … “ mi
riportò alla realtà Nicole, avvicinandosi di
qualche passo.
“No,
grazie, non ce n’è bisogno: la loro aula si trova
sempre al terzo piano, giusto?”
Lei
annuì, poi, dando un’occhiata ai miei due
accompagnatori, immobili dietro di me, si accomiatò,
assicurandomi che ci saremo rivisti in mensa, all’ora di
pranzo.
“Philippe
… “ Vivianne mi aveva appoggiato una mano sul
braccio ferito: per la prima volta da quella mattina, mi accorsi che
aveva finalmente ritrovato un po’ di sano buon senso.
Il
tono della sua voce era preoccupato, mentre i suoi occhi, non
più da pesce lesso, guardavano con attenzione me, soltanto
me, e non il marcantonio mezzo imbambolato al suo fianco.
“Va
tutto bene. Ora scusatemi ma devo andare. Ah, Alexis, mi affido nelle
tue mani: procedi come meglio credi, l’importante
è che ricostruiate al più presto il tetto. Grazie
… ”
Avevo
parlato come un automa, tuttavia lui sembrò non accorgersi
del turbamento che si era impadronito di me.
“Non
preoccuparti, amico! La mia squadra ed io non ti deluderemo, stanne
certo!”
Abbozzai
un sorriso che speravo non prendesse i contorni di una smorfia: avrebbe
mai smesso di chiamarmi amico?!
“Ci
vediamo all’orario di uscita … alle sette,
d’accordo?” domandò Vivianne, ancora in
parte preoccupata per la sorpresa che avevo avuto: lei sapeva cosa
c’era stato tra me e Liliane, cosa stava passando con
Mathieu, il suo ex, per questo era così partecipe.
“Alle
sette andrà benissimo”
Li
guardai ancora una volta, dopo aver detto loro di accomodarsi in attesa
sulla fila di sedie mezze sgangherate davanti alla zona in cui erano
cadute le tegole.
Poi
lanciai un’occhiata all’orologio da polso: erano le
nove e cinquanta, non avrebbero dovuto aspettare più di
dieci minuti, almeno da quello che aveva detto Alexis a proposito
dell’appuntamento con i suoi operai, per iniziare i lavori di
ristrutturazione.
Mi
diressi verso l’ascensore, appena sotto la rampa di scale:
premetti il bottone di chiamata e, quando il parallelepipedo di ferro e
acciaio arrivò, schiacciai il pulsante raffigurante il
numero tre.
Mentre
salivo, mi guardai allo specchio: avevo il viso dimagrito e palesemente
preoccupato, che stonava rispetto ai capelli pettinati con cura e
all’aria sportiva che mi dava la T-shirt rossa, quella che
avrebbe dovuto rappresentare il mio portafortuna.
“Che
cos’hai da lamentarti, dopotutto?”
pensai, “la
visita è andata benissimo, sei finalmente al lavoro, eppure
…
“
Eppure
Liliane mi aveva deluso per l’ennesima volta: non riuscivo
ancora a capire perché non mi avesse detto nulla della gita;
si trattava pur sempre della mia classe, dei miei ragazzi, non avrebbe
dovuto fare le cose di nascosto, senza mettermi al corrente, senza
accennarmi della sua intenzione di portarli al Museo, iniziativa che mi
avrebbe entusiasmato e trovato completamente d’accordo, tanto
più necessaria in quei giorni, per svagare i mezzani dalle
ultime vicende capitate al Centre.
Accantonai
tutti quei dubbi e quelle riflessioni: il rumore di assestamento
dell’ascensore mi annunciò di essere arrivato a
destinazione.
Quando
aprii la porta dell’aula, non trovai nessuno: era
completamente deserta, i banchi erano vuoti, le sedie in ordine, la
lavagna pulita.
Pensai
di essermi sbagliato, ma non poteva essere, perché su quel
piano, quella era l’unica aula scolastica, il resto delle
stanze era adibito a magazzino e ai laboratori di musica e di
pasticceria che si tenevano una volta a settimana.
Sempre
appoggiandomi al bastone da passeggio, ritornai in corridoio: mi
guardai in giro, nella speranza di vedere qualcuno, ma non scorsi
nessuno.
L’intero
piano era immerso nel silenzio, e non riuscivo a capirne il motivo.
All’improvviso,
una stanchezza infinita mi fece barcollare, come se fossi stata la
persona più vecchia del mondo.
Con
l’incedere non del tutto sicuro, raggiunsi la porta del
bagno, uno sgabuzzino angusto e con una misera finestrella su una
parete, aprendola: mi rinfrescai il viso con l’acqua fresca
che sgorgava dal rubinetto, assaggiandola con la mano a cucchiaio,
subito pentendomi di quel gesto audace, non ricordandomi di quanto
sapesse di cloro.
Cercai
di sputarla, ma ormai l’avevo praticamente tutta ingoiata.
Quando
finalmente ero pronto ad uscire da quel tugurio e riprendere
l’ascensore per raggiungere Alexis e Vivianne al piano terra,
sentii la porta di uno dei gabinetti aprirsi con cautela.
Una
ragazza pallida e dai lineamenti smunti, i capelli corti e neri, gli
occhi verdi, mi guardò come se avesse visto un fantasma.
Intuii
che doveva trattarsi di una dei ragazzi di Louise, così
ripresi tutto il mio self
control e
abbozzai un sorriso:
“Ciao,
io sono Philippe! Oggi sostituirò Louise: sono venuto nella
vostra aula ma non ho trovato nessuno. Dove sono tutti gli
altri?”
Lei
non rispose: si avvicinò alla finestrella sulla parete
dietro le sue spalle e guardò fuori, dandomi la
schiena.
“Scusami,
hai ragione, non ti ho chiesto come ti chiami …”
continuai avvicinandomi e mettendole una mano su una spalla, per
invitarla a girarsi e a presentarsi.
La
ragazza si scostò violentemente, come se le avessi trasmesso
una scossa elettrica, poi si voltò e prese a guardarmi
esterrefatta, gli occhi sbarrati per la paura, bagnati di lacrime.
“Che
cosa è successo?! Non ti senti bene? Se mi dici che cosa
hai, posso provare ad aiutarti …”
Avevo
capito che non desiderava alcun contatto fisico, quindi ritrassi la
mano e la appoggiai sopra l’altra che agguantava la stampella.
Rimanemmo
in silenzio per un paio di minuti, forse meno, poi mi addossai a una
parete e continuai il monologo inaspettato:
“Se
non vuoi parlare, non importa, aspetterò. Però
vorrei solo sapere cosa posso fare per te … fammi un cenno
della testa: se vuoi che resto, dimmi di sì, altrimenti me
ne vado, promesso”
Lei
non annuì né negò il mio aiuto,
semplicemente rimase immobile, a guardare fuori dalla finestra,
così da non poterla vedere in viso.
Riuscivo,
però, a distinguere i singhiozzi silenziosi e continui che
le sconquassavano timidamente le spalle.
La
guardai ancora una volta, poi mi apprestai ad uscire.
Richiusi
la porta e rimasi lì fuori per un buon quarto
d’ora, in attesa che la ragazza misteriosa uscisse.
A
un certo punto, sentii un rumore di vetri rotti provenire
dall’interno del bagno: dimenticandomi la gamba e il braccio
feriti, ritornai dentro, giusto l’attimo prima che la ragazza
si issasse sul termosifone e raggiungesse la finestra, i vetri in
frantumi tutto attorno.
“No!”
la bloccai urlando “non andare, ti prego! Prometto di
ascoltarti, te lo giuro, ma prima dimmi perché vuoi fuggire!
Che cosa ti è successo?!”
Stupita
da quel mio gesto, non aspettandosi di trovarmi ancora lì,
si girò di scatto: ora i suoi occhi erano asciutti, ma pur
sempre spalancati, un abisso nero, profondo e immensamente triste.
Aveva
il viso macchiato di sangue, le mani erano coperte di tagli dovuti ai
vetri rotti, e anch’esse sanguinavano abbastanza vistosamente.
“Non
voglio … “ rispose semplicemente la ragazza, ora
accovacciata sul termosifone, girandosi a guardarmi “non
voglio … non voglio … non voglio
…” continuava a ripetermi solo quelle due parole,
senza aggiungere che cosa o chi non volesse.
“Va
bene, se è questo che desideri, faremo come vuoi. Ti prego,
scendi di lì e raccontami che cosa ti preoccupa, sono qui
per ascoltarti …”
Allungai
una mano nella sua direzione, sempre avendo cura di non toccarla e di
non muovermi dalla mia postazione, in modo da non metterla in allarme.
“Non
voglio … non voglio” riprese a singhiozzare.
Poi,
finalmente, dopo essersi toccata il viso con le mani sporche, scese dal
termosifone e cominciò a guardarmi, ma era come se non mi
vedesse.
Aveva
gli occhi vacui, lo sguardo lontano, mi stava trapassando con
quell’abisso nero e triste che aveva nel viso, le mani
tremavano e continuavano a macchiarsi di gocce di sangue.
“Ascoltami,
vuoi dirmi il tuo nome?” le domandai ancora, la voce dolce ma
sicura.
“Non
voglio … non voglio …”
Deglutii
e trassi un respiro impercettibile: la gamba cominciava a dolermi, a
causa della posizione eretta prolungata, e il braccio era intorpidito
per tutta la tensione che stavo accumulando.
“Ti
ripeto il mio nome, d’accordo? Io sono Philippe e
sostituirò Louise, la tua insegnante. Tu, invece? Hai voglia
di dirmi come ti chiami?”
Lei
annuii, senza battere ciglio.
“Mi
chiamo Suzanne, ma non voglio … non voglio
…”
“Va
bene, Suzanne. Hai un bellissimo nome, lo sai? Se ti va, possiamo
andare a sederci in aula, tanto non c’è nessuno,
così potrai raccontarmi cos’è che non
ti piace … “
La
ragazza non disse nulla, però si avvicinò a uno
dei lavandini e cominciò a far scorrere l’acqua,
mentre posizionava le mani sotto il getto forte e limpido.
A
poco a poco, il sangue scivolò via; poi, senza guardarsi, si
risciacquò il viso e, una volta chiuso il rubinetto, mi si
avvicinò.
Sempre
senza degnarmi di uno sguardo, oltrepassò la porta e si
diresse in aula.
Esultai
mentalmente: il pericolo più grosso, speravo,
l’avevamo scampato.
Una
volta raggiunta anch’io la stanza, mi sedetti nel banco
vicino a quello in cui aveva preso posto Suzanne.
“Eccoci,
Suzanne, ora puoi raccontarmi cos’è che ti
sconvolge così tanto: poi, se vuoi, possiamo cercare una
soluzione insieme, cosa ne pensi?”
“Sono
incinta … ma non volevo. Loro mi hanno obbligato, io non
volevo …”
Cercai
di mantenermi calmo, sebbene era come se avessi ricevuto un pugno in
pieno stomaco, improvviso e perciò ancora più
potente.
Non
la interruppi, aspettai invece che fosse lei a continuare.
“I
mie fratelli, in Serbia, mi hanno venduta a un uomo, un cugino
dicevano. Io non so dove sono i miei genitori, per questo ho seguito
Marduk nella sua casa: lì era tutto lussuoso, aveva un sacco
di persone che lavoravano per lui, uomini, donne, ragazzi. Marduk aveva
sette mogli, un paio della mia età, altre più
piccole o più grandi.
Un
giorno decise che era arrivato il momento di sposarmi; era inverno, me
lo ricordo, sono passati due anni, ma ancora me lo ricordo. Faceva
tanto freddo …”
Parlava
un francese sconnesso, come quello di un bambino di tre anni, eppure le
frasi scioccanti che mi stava rivelando si capivano benissimo, fin
troppo.
“Lui
mi ha detto che, da quel momento, avrei lavorato per guadagnarmi da
vivere, per meritarmi il diritto di vivere, altrimenti mi avrebbe
venduta o, peggio, uccisa. Ha cominciato a farmi prostituire, prima con
i suoi amici, poi con gli uomini che lavoravano in casa.
Ogni
sera, dopo che Marduk si era ritirato con le altre mogli, mi faceva
andare in una camera, nascosta dietro un muro, e lì dovevo
attendere che arrivassero. Era una camera bellissima, piena di candele
e di profumi, aveva dei mosaici bellissimi, e un letto grande, molto
grande ... ”
Suzanne
fece un’altra pausa, mentre io continuavo a deglutire,
inorridito da quel racconto surreale.
“Poi,
tre mesi fa, ho cercato di fuggire: Marduk ormai si fidava di me,
così mi ha lasciata andare al mercato, insieme a
un’altra sua moglie. Però, mentre lei stava
scegliendo i melograni, io sono riuscita a scappare. Ho corso, ho corso
tanto, fino a quando non ho raggiunto una corriera e lì,
grazie ai soldi che avevo rubato a uno di quegli uomini, la sera
precedente, ho comprato un biglietto per la capitale, dove ho
cominciato a girovagare, fino a quando non sono arrivata davanti a una
porta: Alexandra mi ha salvata, lei si occupa di ragazze come me, come
i ragazzi che si trovano qui al Centre.
Mi
ha comprato un biglietto per la Francia, per questo adesso sono qui.
Alexandra conosce Louise … ma io non voglio … non
voglio questo bambino … io non so di chi è
… non voglio … per favore, aiutami
…”
Per
la prima volta da quel racconto devastante, cercai il contatto delle
mani ferite di Suzanne, che adesso avevano smesso di sanguinare.
“Troveremo
una soluzione, te lo prometto. Lo hai già detto a
qualcuno?”
Lei
scosse la testa e, senza allontanare le sue mani dalle mie, me le
strinse, ricominciando a piangere, sommessamente e con discrezione.
“Non
preoccuparti, Suzanne, qui con noi sei al sicuro. Non appena
tornerà Louise, prenderemo una decisione. Ora
però, devi promettermi che non cercherai di fuggire. Va
bene?”
“Ero
così disperata … “ mi rispose soltanto.
L’abbracciai
goffamente, perché lei, giustamente, non riusciva a
ricambiare quel contatto così intimo.
“Ora
il peggio è passato, hai tutta una vita davanti, una vita
lunga e felice, e noi ti aiuteremo a costruirla e a sceglierla. Nessuno
ti costringerà mai più a fare qualcosa che tu non
desideri …”
Restammo
in quella posizione scomoda e persino buffa, per certi versi, per
qualche secondo.
“Sono
in biblioteca, a guardare la TV …” mi
comunicò Suzanne, una volta sciolto l’abbraccio.
“Chi,
i tuoi compagni?”
Lei
annuii e si alzò, andando verso la finestra:
guardò fuori per qualche istante, poi mi fissò
con quell’abisso nero e triste che aveva al posto degli
occhi, per dirmi:
“Mi
fido di voi …”
Nonostante
tutto quello che mi aveva raccontato, da quella sfortunata ragazza
traspariva una forza interiore che l’avrebbe aiutata a
risollevarsi e a rinascere, a sotterrare i tempi bui in favore di nuovi
giorni pieni di speranza.
Come
la famosa fenice mitologica, ero sicuro che Suzanne sarebbe risuscitata
dalle sue ceneri.
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Capitolo 14 *** Il gancio ***
IL GANCIO
Avevo recuperato alla grande il braccio e la gamba feriti: i punti si
erano riassorbiti nel
giro di due settimane,
proprio come aveva assicurato la dottoressa Aziz, e non dovevo
più camminare con quell’affare che mi faceva
sentire ancora più imbranato e impedito di quanto in
realtà fossi.
I lavori di ristrutturazione del tetto stavano procedendo a meraviglia:
Alexis veniva a dare un’occhiata ai suoi operai tutti i
pomeriggi, verso le cinque, elegante nel suo completo blu o nero, tanto
da farmi pensare, più di una volta, se quel marcantonio
avesse mai realmente lavorato nel corso della sua lussuosa esistenza.
Durante i nostri incontri fugaci, ovvero mentre mi requisiva sulla
soglia dell'aula in cui stavo facendo lezione, mi rassicurava con i
suoi sorrisi a trentadue denti, dandomi delle pacche affettuose sul
braccio sano e continuando a chiamarmi amico.
Ero così felice, che nemmeno mi accorsi della rimozione
delle impalcature, ad appena una settimana dall'inizio dei lavori.
Il tetto, infatti, aveva ripreso il suo aspetto originario, anzi, mi
sembrava addirittura migliorato, più solido alla vista,
tanto che, quando la squadra di lavoranti di Alexis se ne
andò, quasi mi dispiacque, in quanto era diventata una
presenza fedele e costante al Centre.
Si trattava di cinque ragazzi, un paio di essi più giovani
di me, capeggiati da Gerard, un uomo massiccio, dalle spalle larghe
come un nuotatore esperto; portava perennemente un cappellino simile ai
giocatori di baseball, bianco con dei pois rossi, forse per nascondere
l’alopecia – ma non ci giurerei, dal momento che
non gliel’ho mai visto togliere- e aveva gli occhi azzurri,
di un azzurro che non saprei descrivere, tanto erano piccoli e nascosti
da due sopracciglia folte e nere.
L’intera squadra vestiva abiti da lavoro, naturalmente, jeans
strappati e rovinati in più punti, accompagnati da una
salopette dello stesso materiale e da un paio di scarponi con la suola
rinforzata.
Sebbene, come era prevedibile, trascorressero quasi tutte le ore
sospesi a dieci metri da terra, arrampicati su scale e impalcature, tra
una lezione e l’altra, mi piaceva osservarli per qualche
minuto, perso nei ricordi di quando ero bambino, quando, in mezzo alla
marea di mestieri che avrei voluto fare, spuntava anche
l’equilibrista e, loro, con quel lavoro sempre più
verso il cielo, mi avevano fatto ritornare alla mente quel sogno ormai
messo da parte.
Il penultimo giorno di lavoro, insistetti con Gerard e gli altri
ragazzi per cenare assieme la sera successiva, in modo da poterli
ringraziare per tutto quello che avevano fatto.
Stavamo uscendo dal Centre,
dopo che loro si erano cambiati in uno degli sgabuzzini, quando andai a
controllare la mia cassetta delle lettere: ogni psicologo, infatti, ha
a disposizione una specie di contenitore di legno dipinto - in
realtà, delle assi incollate alla bell'e meglio- in cui i
bambini e i ragazzi della struttura che ne sentono la
necessità, possono depositare le loro lettere o disegni,
critiche o complimenti, insomma, uno scrigno artigianale in cui si
trova la disparità più assoluta dei sentimenti
resi materiali e da loro espressi.
Con le chiavi mezze ammaccate, aprii soprappensiero la cassetta:
c’erano un paio di disegni e una busta bianca, con nessuna
scritta sopra.
La rigirai tra le mani un paio di volte, curioso e titubante al tempo
stesso: stavo quasi per aprirla, quando sentii la tipica risata di
Gerard, gutturale e sincera.
Misi il bottino nell’interno della giacca grigia di lino, per
poi andare a raggiungere il gruppo di operai che mi stava attendendo
all'ingresso.
Tornai a casa piuttosto tardi: per fortuna, uno dei ragazzi di Gerard
abitava nei pressi di Montigny, così gli strappai un
passaggio, dal momento che odio guidare di notte.
Lasciai la Peugeot rossa davanti al locale in cui avevamo cenato e,
dato che ormai conoscevo il proprietario perché andavo
spesso lì, gli domandai di darci un’occhiata, ogni
tanto, in modo da evitare che la rubassero, anche se sapevo che non
avrebbe potuto fare la ronda di notte.
La cena fu molto piacevole, bevemmo birra e mangiammo degli involtini
di melanzane squisiti e una meringa al cioccolato a dir poco esemplare.
Quando Fredéric mi lasciò davanti alla porta di
casa, lo ringraziai e lo salutai invitando lui e il resto della squadra
a venire una sera a casa mia, per ripetere quella bella esperienza di
convivialità e di risate tra uomini.
Mi sentivo un po’ brillo, non perché avessi
esagerato con l’alcool, tutt’altro, ma stavo
provando una sensazione che da tanto tempo non mi era
più famigliare: ero di nuovo tranquillo, in pace con me
stesso, quasi sereno, sensazioni che, pochi giorni prima, avrei pagato
a peso d'oro, pur di viverle.
Tutte le preoccupazioni che mi avevano attanagliato la mente, in quelle
ultime settimane, avevano trovato una soluzione.
Persino Suzanne, quella creatura messa così a dura prova da
una vita ingiusta e sofferente, stava ricominciando a rinascere: lei e
Louise, la sua insegnante, avevano parlato a lungo, quando la mia
collega era tornata dal matrimonio del figlio, a Nizza, e avevano
deciso di andare da uno specialista, per scegliere insieme che cosa
fare del bambino che la poveretta aspettava.
Avrei voluto accompagnarle, non lo nego, perché in parte mi
sentivo responsabile: dopotutto avevo raccolto per primo la
testimonianza straziante della ragazza, quindi mi sentivo in dovere di
esserci fino in fondo, qualsiasi decisione il cuore e la mente
l’aiutassero a prendere.
Poi, però, pensai che Louise, in quanto donna e madre,
sarebbe stata la persona più indicata per sorreggere Suzanne
in quella difficile e dolorosa scelta, perciò aspettai con
ansia al Centre,
fino a quando non le vidi tornare.
Entrambe mi guardarono a lungo, senza parlare, poi la mia collega mi
pose una mano su un braccio, facendomi cenno di entrare.
Seduti in corridoio, a lezioni ormai terminate, mentre il resto della
ciurma si trovava a mangiare, capii che avevano deciso per non tenere
il bambino.
Fu la stessa Suzanne a dirmi che, due giorni dopo, sarebbe andata in
clinica per abortire: non essendoci tutori legali, in quanto minorenne,
ma affidata al Centre
in via ufficiosa, Louise si rese disponibile per accompagnarla e
sostenerla anche nel labirinto burocratico che avrebbe dovuto
affrontare, di lì a breve.
Non la giudicai, anzi, la ritenni una scelta coraggiosa e ovviamente
penosa: nessuno di noi conosceva così bene la ragazza per
poterla influenzare, nel bene o nel male, solo lei sapeva quanto avesse
sofferto, cosa aveva passato, per cui decidemmo, silenziosamente, di
accettare la sua volontà.
Tutto, per fortuna, era andato bene: adesso la piccola grande Suzanne
avrebbe avuto tutto il tempo per decidere cosa diventare nella sua
nuova vita di persona libera, tutto il resto, per quanto doloroso,
rappresentava un passato da seppellire quanto prima.
Pensando al tetto e a lei, mi addormentai sul divano, stanco ma felice
di tutte quelle emozioni.
Il giorno dopo era martedì: presi il solito treno delle
sette e un quarto per Versailles, ricordandomi che la sera sarei dovuto
passare davanti al locale per recuperare l’auto che avevo
lasciato lì.
Una volta arrivato al Centre,
passai, per caso, davanti alla cassetta della posta: solo allora mi
tornarono in mente i disegni e, soprattutto, la lettera che avevo
raccolto la sera precedente.
Tastai nelle tasche interne della giacca mezza stropicciata, poi,
però, mi venne in mente di aver cambiato abito, quella mattina :
all’inizio mi diedi dello stupido, perché temevo
che ci fosse scritto, dentro la busta bianca e senza nome o mittente
sopra, qualcosa di importante, ma mi rassicurai quasi
subito, in quanto non era la prima volta che leggevo le lettere dei
ragazzi con qualche ora di ritardo e, per fortuna, non era mai accaduto
nulla di grave.
Quel mattino non avevo lezione: pensai, così, di dedicarmi a
riordinare le schede dei nostri ospiti, facendo il punto della
situazione su quanti fossero affidati a noi in pianta stabile, e quanti
invece venissero solo di pomeriggio, per fare i compiti e per i
colloqui con cui noi psicologi li tormentavamo
almeno una volta a settimana.
Era da oltre due anni che non facevo quel lavoro di pura, noiosa ma
vitale burocrazia, eppure ero quasi convinto che la situazione non
fosse cambiata più di tanto; dei cento bambini e ragazzi del
Centre,
quasi la metà -se ricordavo bene- era affidato
momentaneamente alla nostra struttura, a causa di situazioni famigliari
poco stabili e legali.
Stavo salendo le scale per andare al secondo piano, dove
c’erano le due stanze adibite ad archivi, quando sentii una
voce flebile chiamarmi.
Mi girai e trovai Liliane, un piede sul primo gradino e una mano
appoggiata al corrimano.
“Ciao …” la salutai, la voce
più normale possibile, bloccandomi e scendendo nella sua
direzione.
Da quando ero tornato a lavorare, ovvero da otto giorni, ci eravamo
incontrati sì e no tre volte: faceva di tutto per evitarmi e
ancora non riuscivo a capirne il motivo.
Non poteva essere per la storia del bacio, ormai quella era acqua
passata, quindi perché mi trattava in quel modo?
“Hai un attimo?” mi domandò, mentre
ormai ero di fronte a lei.
“Ah, sì, certo. Stavo andando in archivio, a
mettere a posto le schede dei ragazzi. Se vuoi venire
…” ribattei nel modo più gentile che
riuscissi a ricordare, indicando con l’indice i due piani
sopra di noi.
“No, cioè, preferirei un posto più
tranquillo. Ieri sera ti ho visto” continuò,
abbassando lo sguardo e posandolo sulla punta delle sue scarpe, dei
mocassini beige scuro “e volevo sapere cosa ne
pensi …”
La fissai per qualche secondo, non capendo il senso di quello che stava
cercando di dirmi:
“Scusa, ma di cosa stai parlando? Mi hai visto dove e a fare
cosa?”
Stupidamente pensai che si stesse riferendo alla cena con Gerard e gli
altri cinque ragazzi, ma subito interruppe le mie sbagliate
supposizioni e, arrossendo violentemente, balbettò:
“Oh, pensavo … credevo che tu … beh,
certo, magari non hai avuto tempo … sì, sono
stata troppo frettolosa … ne riparliamo, non preoccuparti
…”
Scossi la testa, disturbato e stupito da quella scenetta patetica che
Liliane stava recitando; squadrai lei e il suo vestito color albicocca,
quindi la ripresi con tono deciso e impaziente:
“La vuoi smettere di essere così
sfuggevole?! E’ da una settimana che sono tornato e quasi fai
finta che non esista! Ho rischiato di essere arrestato, sono stato
ferito e tu non ti sei degnata di passare un’ora a trovarmi!
Insomma, mi vuoi dire che cosa sta succedendo, che cosa ti ho fatto,
oppure devo scoprirlo da solo?!”
Gli occhi azzurri della mia interlocutrice si spalancarono come due
fari nella notte e, singhiozzando e con le lacrime agli occhi, disse:
“Andiamo in un bar? Ho bisogno di parlarti”
Seduti ad un tavolino, sotto una specie di ombrellone giallo, stavamo
sorseggiando un cappuccino.
“La lettera te l’ho scritta io, Philippe, anzi,
l’ha scritta quel mascalzone di Mathieu! Dio mio, ventimila
euro, dove li trovo?!”
Mentre mi parlava, nella mia mente scorreva un’immagine a dir
poco galante: io che tiravo un cazzotto a quell’ingegnere da
strapazzo, il mio gancio destro lo buttava a terra e, con il piede
sulla sua pancia, incitavo un pubblico invisibile ad applaudirmi
più forte, in primis Liliane adorante.
“Sì, hai ragione, è una bella cifra
…” le risposi, lanciando un’occhiata
distratta ad un cameriere che passava accanto a noi “e in
più non se la merita. Ascolta” continuai,
prendendole una mano, la voce bassa ma sicura “non sei
costretta a darglieli, ormai non siete più legati. Se non te
la senti, se non vuoi, caccialo via, questa volta per sempre, Liliane,
insomma, non permettere che ti faccia altro male!”
Lei riprese a sorseggiare il suo cappuccino, poi abbassò lo
sguardo in direzione della tovaglia di tela con le ciliegie e i
grappoli d’uva.
“Lo so, lo so anch’io che non gli devo nulla, ma
è più forte di me! Con quei soldi vuole ripartire
da zero, insieme ai suoi risparmi desidera aprire uno studio in Australia,
insieme a me! Per questo non riesco a capire se mi stia prendendo in
giro o se davvero mi pensa ancora!”
La guardai strizzando gli occhi, perché un raggio di sole si
stava insinuando sotto l’ombrellone:
“Hai un bel lavoro, una bella casa, degli amici …
perché vuoi rovinare tutto per lui?!”
Liliane abbassò lo sguardo, poi, con voce bassa e
incredibilmente sicura, mi confessò:
“E’ vero, la nostra storia è finita da
due anni, ho sofferto molto, ho perso il nostro bambino, e allora ho
promesso che non avrei mai più permesso a nessuno, uomo o
donna che fosse, di farmi soffrire come mi ha fatto soffrire lui. Ho
lottato tanto per questo lavoro, Philippe, per diventare quello che
sono: ho promesso in punto di morte a mia madre che sarei stata
indipendente e che avrei agito sempre e solo con la mia testa! Va bene,
lo affronterò ancora una volta per capire cosa voglia
realmente, poi giuro che non mi vedrà mai
più!”
Rimasi sbalordito da quelle parole: finalmente, dopo tanto tempo, avevo
riscoperto la Liliane di un tempo, quella sicura di sé,
decisa nelle cose che sceglie, grintosa, quella di cui mi ero
invaghito, ma che adesso consideravo poco più di
un’amica.
“Scusami se non ti sono stata vicino come meritavi, perdonami
se non ci sono stata quando tu, invece, per me ci sei sempre stato
…”
Questa volta fu lei ad appoggiare una mano sopra la mia, fredda
rispetto al mio dorso caldo.
“Ormai è passato, l’importante
è che adesso stiamo bene entrambi”
Richiamai l’attenzione di uno dei camerieri che stava
passando, un ragazzino dall'apparenza di diciotto anni, e ordinai due
prosecchi: bisognava festeggiare al meglio il ritrovamento di
un’amica.
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Capitolo 15 *** Un sabato assai movimentato ***
Un sabato assai movimentato
Chi
di voi non vorrebbe vivere in una città affacciata su questo
bellissimo paesaggio?!
Quel sabato mi svegliai con una sola idea in testa, prendere la mia
Peugeot rossa e andare a fare un giro al lago, dove avrei gustato un
buon piatto di pesce e magari ne avrei approfittato per fare una
nuotatina fino all'altra sponda, per poi tornare a casa dopo il
tramonto, stanco ma soddisfatto di come era andata la giornata.
La sera prima, in televisione, facendo zapping per
l’inspiegabile solita penuria di programmi di fine stagione
televisiva, dopo lunghe e faticose ricerche, ero approdato su un canale
dedicato ai documentari in giro per il mondo.
Tra i servizi, quello che più mi aveva colpito - e non so
spiegarne il motivo- riguardava il Michigan lake, nel
cosiddetto stato dei Grandi Laghi, nelle vaste terre
d’America.
Il lago in questione, comprendente gli Stati del Wisconsin,
dell'Illinois, dell'Indiana e dell'omonimo Stato da cui prende il nome,
vanta un'origine glaciale e il termine con cui è ormai noto
da oltre tre secoli deriva da una parola dei pellerossa, meicigama, che
significa grande acqua.
Le sue spiaggie sono famose per essere ricoperte di una sabbia soffice
e bianchissima, ricca di quarzo e, per questo, definite anche singing sands, la
sabbia che canta.
Il documentario concludeva il viaggio con una veduta aerea di Chicago, una delle
città che si affacciano sul Michigan lake.
Certo, il laghetto che si trova a una trentina di chilometri da
Montigny non è esattamente uguale al suo cugino
d’oltreoceano, tuttavia è il solo che conosco nelle
vicinanze e l’unico facilmente raggiungibile.
Quella notte, però,
non
avevo sognato alcun bacino lacustre, nemmeno una misera fontanella che
spruzzava acqua sporca, niente di niente.
Avevo invece immaginato di trovarmi insieme ad Odisseo - o
Ulisse, se preferite chiamarlo alla latina- sulla sua nave, proprio
durante il temibile canto delle sirene, i mostri marini metà
donna e metà pesce, che ammaliavano con la loro
sovrannaturale voce gli sventurati marinai che passavano rasenti le
coste sorrentine, nel sud Italia, facendoli impazzire e di conseguenza,
ormai troppo vicini alle rocce, naufragare per poi divorarseli.
Ma grazie all'ingegno del nostro condottiero greco e ai consigli della
maga Circe, riuscimmo a cavarcela, le orecchie tappate con la cera,
Odisseo legato a un albero della nave, apparentemente incurante e
sprezzante del pericolo mortale che stavamo rischiando di correre; alla
fine, le furbe sirene, vistesi sconfitte, si affogarono in mare ...
Proprio nel momento in cui mi stavo congratulando con l'eroe, mi ero
svegliato improvvisamente.
Altro che singing sands
... non devo più farmi suggestionare da certi programmi ...
Mezzo addormentato, la testa inabissata sotto il cuscino, una mano a
tastare sul comodino, avevo finalmente afferrato le antenne in plastica
dell’ape regina che mi faceva da lampada; immerso nella
penombra mattutina, con la finestra alle spalle, non riuscivo
però a leggere con chiarezza le cifra sul quadrante della
sveglia lì accanto.
Sbattei un paio di volte le palpebre e, scattando come
un’anguilla in amore, mi misi a sedere sul letto: accidenti,
come era possibile che fosse così tardi?
Erano le dieci, un’ora decisamente tarda per i miei
canoni.
Sbuffai
arrabbiato con me stesso: gli unici due giorni di relax dal lavoro,
ovvero quelli del week end, non potevo certo passarli a poltrire sotto
le coperte!
Chi dorme non piglia
pesci! come amava ripetermi mia madre e, in effetti, quel
proverbio italiano lo trovavo decisamente azzeccato, dato il mio
proposito di recarmi al lago.
Balzai dall’altro lato del letto, scostai le tendine e tirai
su le veneziane: c’era un sole meraviglioso e caldo di fine
aprile.
Mi ricordava le giornate all’alba, in riva al mare
– non che io avessi mai fatto un risveglio sulla spiaggia,
intendiamoci- così, dal momento che a Montigny o nei paraggi
non c’è neppure mezzo litro di acqua di mare,
l’idea formidabile
che
avevo avuto poco prima, attraversò con maggior
vigore la mia mente, ora perfettamente sveglia: sì, era
deciso, sarei andato al lago, trenta chilometri di strada per
assaporare un po’ di brezza lacustre!
Niente e nessuno avrebbe potuto fermarmi!
Mentre facevo colazione con il solito succo d’ACE, mezzo
bicchiere di latte e un croissant spalmato di marmellata ai mirtilli
–lusso che mi permettevo quando ero a casa dal lavoro- mi
accorsi dal frigo mezzo vuoto e la credenza che reclamava attenzione,
che avrei dovuto andare a fare la spesa: forse è meglio
andarci al ritorno, così magari ci sarà meno
gente al supermercato. Oppure è meglio andare prima, in modo
da non avere il pensiero di tornare in fretta a casa?
Stavo ragionando su quelle due possibilità, quando sentii
suonare alla porta.
Guardai il dolce mezzo mangiucchiato davanti a me, la confezione di
succo ormai in procinto di finire e, asciugandomi con il tovagliolo la
bocca sporca di latte, mi alzai dalla sedia.
Certo,
pensai, non sono
propriamente presentabile: avevo i capelli ancora
arruffati, sconosciuti a quello strano arnese che si chiama spazzola,
una maglietta bianca con la scritta rossa Rock e una specie
di Medusa a tre teste stampata sopra - quello era proprio il giorno
dedicato alla mitologia, dovevo ammetterlo- e un paio di pantaloncini
leopardati a completare il quadro di fantascienza.
Mi avviai incuriosito verso la porta d’entrata e, dopo aver
dato un’impressione vagamente normale alla folta chioma
castana che mi incornicia il viso, la aprii.
Mai stupore fu più gradito e sgradito al contempo:
“Papà?!”
“E chi sennò?!”
Uhm, iniziamo bene!
pensai: mio padre, infatti, quando scherza ancor prima di cominciare un
discorso, non promette nulla di buono; di solito, infatti, ha qualche
brutta notizia da comunicare.
“Vuoi entrare?” tentennai, non sapendo bene cosa
dire o come comportarmi.
“No, grazie. Sai com’è, passavo di qua,
giusto dietro l’angolo rispetto a Lione, e mi sono detto:
perché non passare a salutare Philippe, il mio unico figlio
maschio? L’intelligente di famiglia? Ma che razza di
domande fai, figlio?! Secondo te, ho fatto cinquantasei chilometri per
che cosa? Per rimanere ad aspettare fuori casa tua come
l’ultimo dei randagi? Su, spostati!”
Non ebbi il tempo necessario a farmi da parte, che già
Edmond, il mio caro e affettuoso genitore, mi aveva gentilmente levato
di torno.
Lo guardai interdetto mentre attraversava l’anticamera e il
breve corridoio, per dirigersi come un missile con il radar incorporato
verso il salotto: da quando ho preso casa, ormai tre anni prima, la mia
famiglia è venuta a
trovarmi
solo due volte, quindi rimasi piacevolmente stupito che si ricordasse
ancora così bene la planimetria della villetta.
Richiusi la porta automaticamente, la bocca semi aperta per la
sorpresa: squadrai mio padre dalla testa sale e pepe fino ai piedi
calzati da un paio di mocassini in stile hawaiano, data
l’eccentricità dei colori.
Il suo viso dalla mascella greca –come amava definirla lui
stesso- era più accentuata e scolpita che mai, sotto gli
occhi grigioverdi e quei pochi capelli brizzolati ma folti che gli sono
rimasti.
Indossava una camicia verde acqua con le maniche tirate su a trequarti
e un paio di pantaloni lunghi color petrolio, con due grandi tasche
laterali.
Edmond si piazzò vicino al divano e, le mani sui fianchi,
sbuffò:
“La vuoi piantare di guardarmi con quell’aria da
rincitrullito!? Forza, Philippe, ho fame: avresti un po’ di
caffè e delle madleins da offrire a un povero, stanco e
triste vecchio?”
Quelle gentili parole mi fecero chiudere il forno in mezzo alla faccia
all’istante: annuì debolmente, per poi ribattere
cantilenante:
“No, papà, in realtà non ho
né caffè né madleins. Sai che quella
brodaglia quasi non mi piace. Però ho della marmellata ai
mirtilli, del latte, dei croissant e dell’ACE
…” elencai prontamente, con il cipiglio da
cameriere e ritrovando la mia solita calma.
“Puah!” mio padre scacciò dal suo viso
una mosca invisibile, poi, sempre con parole lusinghiere,
continuò:
“Per carità! Bevi ancora quell’affare?!
Preferisco di gran lunga dell’acqua, piuttosto che quella
specie di concentrato di frutta rinsecchita!”
Poi, pensandoci su un attimo, domandò innocentemente:
“I croissant sono freschi?”
Feci di no con la testa.
“Dovevo aspettarmelo! Almeno sono alla ciliegia?”
Feci di sì con la testa.
“Ah, molto bene, figlio, davvero molto bene!”
Dandomi una pacca sulla spalla destra, si avvicinò al
sottoscritto, che si era rintanato di fianco al caminetto, impalato
come uno stoccafisso.
“Vieni, andiamo in cucina …” riuscii
solo a mormorare.
Una volta seduti, ricollegai una cosa che, di primo acchito, mi era
sfuggita: cosa ci faceva mio padre con una valigia? E per di
più a casa mia, lontano, come aveva precisato
lui, cinquantasei chilometri da Lione?
Formulai ad alta voce quel dubbio.
“Allora l’hai vista …” mi
rispose enigmatico, mentre addentava il terzo croissant e lo inzuppava
nel secondo bicchiere di latte.
“Beh, non sono ancora orbo, papà
…”
Lui annuì serio e, smettendo di mangiare, con voce mesta, mi
annunciò:
“Tua madre mi ha cacciato di casa”
Avevo preso posto all’altro lato del tavolo quadrangolare
rispetto a dove si trovava, per poter affrontare faccia a faccia gli
eventuali chiarimenti che sentivo mi avrebbe dato di lì a
poco e che, infatti, non tardarono ad arrivare.
“Cosa?!” sbraitai, facendo quasi oscillare il
tavolo “ma cosa vuol dire?! Cosa stai
dicendo?!”
Mio padre allargò le mani in un gesto di sconforto, come a
voler significare che non fosse colpa sua, che lui non
c’entrava nulla.
“Non so dirti il perché, Philippe, so solo che tua
madre dice in continuazione di aver bisogno di una pausa di riflessione
e dei suoi spazi per fare ... beh, fare tutto quello di cui sente la
necessità. Ed io, evidentemente, non faccio parte delle sue
priorità” concluse amareggiato mio padre,
guardando ipnotizzato il croissant mezzo mangiucchiato.
“Ma santo Cielo, papà!” sbottai
“siete sposati da quarant’anni
…”
“Quarantaquattro il prossimo 24 dicembre, figlio, esattamente
la Vigilia di Natale” mi corresse affranto.
“Sì, insomma, quello che è …
piuttosto, che cosa diavolo le è saltato in mente?! E tu? Tu
non hai fatto nulla per fermarla, per capirla?! Possibile che di botto
sia saltata fuori con questa richiesta?!”
“Non te la prendere con me, figlio! Se ti dico che non ne so
nulla, non ne so nulla! Da quando siamo entrambi in pensione, tua madre
è diventata troppo indipendente: non ha più
voglia di stare da sola con me, insiste per uscire con i suoi ex
colleghi, s’intestardisce per andare a trovare Claire e
Jeanne, perché dice che senza di lei sono perse!”
Claire e Jeanne sono le mie due sorelle – rispettivamente di
dodici e nove anni più di me- che ancora abitano a Lione, a
differenza di Agnése – di quattro anni
più grande- che abita a Parigi.
“Ah beh, certo … sono ancora due
bambine” puntualizzai ironico, per vedere se riuscivo a
tirargli su un po’ il morale.
“Sai che per tua madre siete ancora tutti dei poppanti,
sebbene abbiate passato da un pezzo i trent’anni
…”
“Io no!” balzai sull’attenti
“li devo fare quest’anno, il 2 agosto, o
già te ne sei dimenticato?”
“Volevo vedere se stavi attento a quello che ti stavo
dicendo, Philippe” mi redarguì mio padre, ma si
vedeva che non lo aveva detto per finta.
“Sei proprio sicuro che tra voi due non sia successo nulla? A
me puoi raccontarlo …” cominciai con tono
conciliante, sistemandomi meglio sulla sedia bianca.
“Non cominciare ad atteggiarti da psicologo!”
“Ma è quello che sono, papà”
ribattei con un sorrisetto sardonico.
“Sì, ma non con me! Non sono uno dei tuoi
ragazzini bisognosi di strizzacervelli!”
“Non sono uno psichiatra …” puntualizzai
cantilenante, le mani incrociate davanti a me.
“Oh, smettila di correggermi, Philippe!”
Sorrisi divertito.
“Scusa, papà, hai ragione! Allora, se sei
assolutamente certo di non aver fatto nulla, forse la mamma ha solo
bisogno di stare un po’ con se stessa, di trovare la sua
strada, ora che anche lei è in pensione. Sai, credo che da
quando è a casa tutto il giorno, le ore non le passino
più. L’ultima volta che l’ho sentita al
telefono era talmente allegra che non mi ha fatto parlare per un minuto
di fila! Ha bisogno di capire come impiegare il proprio tempo senza
dare fastidio agli altri, a te per primo …”
“E per fare questo doveva per forza sbattermi fuori di casa e
mettermi contro Zeus e Salomone?!”
Per la cronaca, Zeus e Salomone sono rispettivamente il cane e il gatto
dei miei, che hanno preso il posto dei miei adorati Sylvie e
André, i quattro zampe che avevo quando ero piccolo.
Di criceti, invece, oltre a Lise, non avevano più bissato.
Mio padre continuò ad addentare il suo terzo cornetto,
prendendo a borbottare frasi che non capivo.
“Non devi comportarti da bambino offeso, non è
così che l’aiuterai, credimi. Perché
non provi a chiamarla e a dirle che ti manca, che le darai maggior
spazio per fare quello che vuole, da sola, senza che ci sia sempre tu,
dietro ogni uscita, ogni idea…?”
“Ci avevo già pensato, figlio, che ti credi?
Quando
stamattina
me ne sono andato via di casa, era già pronta per andare da
Jeanne, a curare i nipoti! Figuriamoci! Prima o poi sarà lei
ad essere cacciata, te lo dico io! Mi ha salutato frettolosamente, da
lontano, e mi ha detto che non avrebbe sentito la mia lontananza ...
è impazzita, Philippe, non ho altra spiegazione!"
Scossi la testa pensieroso:
"Non è diventata matta, papà, le è
solo venuta addosso una gran voglia di fare, di rendersi utile.
Desidera fare qualcosa per gli altri, si preoccupa che il suo lavoro
venga riconosciuto come importante, forse addirittura fondamentale! E
tu devi capirla, se davvero le vuoi bene ..."
"La fai facile tu, chi ti vede, ormai, da quando ti sei trasferito qui?"
Per un secondo mi sentii in colpa: forse non aveva tutti i torti, forse
avrei dovuto essere più presente, essere maggiormente
partecipe alle vicende della mia famiglia ... ma non si è
mai fatto nulla con i forse,
con i se,
e quella era la mia vita, è la vita che ho scelto, da cui
non voglio certo tornare indietro.
"Ah, ha anche detto di salutarti e ti manda un paio di confezioni di
quei dolci che tanto ti piacciono …”
Mio padre si alzò da tavola, andò in salotto e
tornò poco dopo con un sacchetto di carta dorata, con una
grande scritta a lettere gotiche nel mezzo: Famille Livor.
Presi il regalo dalle sue mani e, sbirciando golosamente, tirai fuori
tre pacchetti di blanche soleil, una sorta di meringa farcita con del
pandispagna al cacao, che io letteralmente adoravo e divoravo.
“Ringrazierò la mamma oggi stesso. Tu, intanto,
chiamala, almeno le dici che sei arrivato sano e salvo! Le
farà piacere, ne sono convinto!” ripresi,
spostando l'attenzione su papà.
“Io per nulla, sono certo che non le importa un bel niente
del sottoscritto…” ribatté amareggiato,
finendo finalmente la sua lunga colazione.
“Se non la chiami immediatamente e non vi chiarite, lo
farò io e, anzi, non ti ospiterò, mi spiace! Non
potete comportarvi da ragazzini alla prima cotta!” lo
ricattai, mentre ero tentato di assaggiare una di quelle meraviglie che
avevo davanti a me.
“Arriviamo anche a questi sporchi giochetti! Bravo, Philippe,
sono davvero orgoglioso di te!”
Scossi la testa sconsolato: prevedevo un sabato a dir poco disastroso.
La mia brillante idea della gita al lago stava piano piano
sgretolandosi.
“Quanto tempo hai intenzione di rimanere,
papà?” domandai innocentemente, con
l’intenzione di posticipare il giro lacustre per il giorno
successivo.
“Non lo so: fosse per me, me ne andrei via anche subito.
Senza togliere nulla a questo gioiellino,
s’intende!” si affrettò a precisare,
guardandosi attorno compiaciuto e riferendosi alla mia casa.
“Mentre tu chiami la mamma, perché so che lo
farai, io andrò a fare un po’ di spesa
… d’accordo?”
“Cos’é? Mi vuoi far rimanere qui a
guardia del tuo castello?”
Alzai gli occhi al cielo, nella speranza di non perdere le staffe.
Altro che mia madre,
pensai, da quando
è andato in pensione, lui è diventato peggio,
burbero e sucettibile come non l’ho mai visto!
Mi stavo alzando per riordinare il tavolo, quando sentì di
nuovo suonare alla porta.
“Ma vi siete messi d’accordo, oggi, per rovinarmi
la giornata?!” sbottai, mentre facevo scorrere
l’acqua corrente nei bicchieri.
Chiusi il lavandino e, asciugandomi distrattamente le mani, mi diressi
verso l’ingresso, per vedere chi fosse.
Sperai inutilmente che si trattasse di Vivianne, almeno lei saprebbe come trovare
il lato comico della situazione, ma sapevo che non poteva
essere la mia vicina di casa, dal momento che la sera prima mi aveva
avvisato che avrebbe trascorso il finesettimana in compagnia di Alexis
il marcantonio.
Quando aprii la porta, rimasi ancora più sbalordito e a
bocca aperta rispetto a quando avevo visto mio padre, nemmeno
mezz’ora prima.
“Liliane?! Cosa ci fai qui?!”
Questa volta, purtroppo, notai subito la valigia blu notte che portava
con sé.
“Posso entrare?” mi domandò,
singhiozzando impercettibilmente.
Deglutii un paio di volte e, rassegnato, le feci cenno di sì.
Se si presenta
un’altra persona, giuro che cambio casa! promisi,
seguendo mestamente la nuova venuta.
Addio, lago,
chissà quando ci saremo visti …
riuscii solo a pensare, per poi essere risucchiato in cucina, in mezzo
alla facce stupite di entrambi gli ospiti.
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Capitolo 16 *** Chiarimenti ***
Chiarimenti
“Che diavolo hai fatto a quella povera ragazza?!”
mi incolpò mio padre.
Liliane guardò imbarazzata prima lui e poi il sottoscritto
e, con quel che rimaneva di un fazzoletto di carta ormai a brandelli
nel pugno chiuso, riprese a singhiozzare mestamente, senza
più lacrime:
“Che figura … scusatemi tanto, ora me ne vado. Non
volevo disturbare, scusami Philippe!”
“Ehi, aspetti un attimo, signorina! Se questo mascalzone del
mio unico figlio maschio le ha mancato di rispetto o l’ha
fatta soffrire, basta che me lo dica, e gli farò vedere io
chi comanda, altroché!”
Guardai sbalordito quel sant'uomo di mio padre: mi sembrava di essere
il povero tapino in quel gioco che si fa da bambini, in cui il
più piccolino, di solito quello debole, doveva mettersi in
mezzo e cercare di saltare il più in alto possibile per
afferrare la palla che gli altri due della combriccola, più
furbi e più lunghi, si lanciavano sopra la testa del
pivellino.
Ecco, io mi sentivo esattamente come quel poveretto, la vittima
sacrificale di turno, che non riusciva quasi mai a recuperare la palla.
“No, eh!” sbottai, recuperando un po’ di
sangue freddo e di lucidità “per prima
cosa, papà, non ti intromettere in questa storia,
perché non è come pensi! Secondo, vai subito a
chiamare la mamma, mentre io qui parlo con lei! Terza cosa, che
accidenti ti è successo, Liliane?!”
La nuova arrivata smise di singhiozzare e, sorridendo debolmente, come
se io non esistessi, allungò una mano in direzione di mio
padre, presentandosi come se nulla fosse:
“Tanto piacere, signor Soave! Sono una collega di suo figlio,
è un piacere conoscerla”
Il mio genitore, scattando in piedi, gongolante e arrossendo,
balbettò di rimando:
“Che gioia conoscerla, signorina! Avevo molto sentito parlare
di lei, davvero! E ora che è qui, quello che mi ha
raccontato Philippe è solo la metà di tanta
bellezza e grazia! Ma non si preoccupi, ho capito: ora tolgo il
disturbo e vi lascio da soli, a parlare!” e
sottolineò stupidamente l’ultima parola.
Rimasi interdetto per qualche secondo: non avevo mai neppure accennato
una volta di Liliane, né a mio padre né a mia
madre, perchè adesso stava mentendo così
spudoratamente?!
Intuendo che, come al solito, Edmond capiva Roma per toma
–come amava dire mia zia Arianna a mio zio Paolo - rinunciai
a controbattere, sbuffando contrariato e arrabbiato per tutto
quell’enorme abbaglio che si stava verificando.
Che caspita stava succedendo in casa mia, quel sabato di fine aprile in
cui avrei dovuto andare al lago, fare una passeggiata sul molo,
pranzare con un buon piatto di pesce, magari fare una nuotatina e bla
bla bla?!
E’ una congiura,
pensai tristemente, prima
il tetto, poi il ferimento e l’arresto sventato, la
convalescenza forzata, adesso la villetta invasa da genitore e collega!
“E’ davvero molto simpatico, tuo padre
…” mi riportò alla realtà
Liliane, sorridendo nella sua direzione, che nel frattempo si era
allontanato in salotto.
“Sì, moltissimo … “
biascicai, dandole per un momento le spalle.
Ripresi infatti a lavare i bicchieri e le posate abbandonati nel
lavandino, li asciugai e li riposi nella credenza.
Poi, aspettai che la nuova venuta mi fornisse qualche delucidazione
circa la sua improvvisa visita mattutina: mi sedetti su una sedia,
incrociai le mani sul tavolo e attesi.
Lei, sempre in piedi, rovistò nella borsetta, fino a quando
esclamò:
“Ora ti spiego tutto, Philippe, hai perfettamente ragione a
guardarmi in quel modo! Anzi, hai sempre ragione, ecco la
verità …”
Prese a guardarmi in modo auto consolatorio: si accorse del rimasuglio
di fazzoletto che ancora aveva tra le mani e, indicandomelo, le feci
cenno di dove buttarlo.
Solo allora ritornò verso di me, si sedette di fronte e
rovistò nuovamente nella borsa, mormorando:
“Ma dove li ho messi … ne ho portati almeno tre
pacchetti … ah, ecco!” ed esultante
tirò fuori un altro povero e innocente quadrato di carta.
“Sto aspettando, Liliane … “ la guardai
piuttosto demoralizzato, ma anche con una punta di impazienza, le
labbra piegate a sottolinearlo.
“Sì, sì, un attimo e ti racconto ogni
cosa”
“Lasciami indovinare: c’entra Mathieu, è
così?”
Mi pentii subito di aver pronunciato quel nome, perché la
mia interlocutrice riprese a singhiozzare, sempre senza lacrime.
“E’ un mascalzone, ecco quello che è, un
farabutto fatto e finito! Avevi ragione tu, hai sempre avuto ragione
tu, Philippe, ed io torto!”
Cambiai sedia per esserle più vicino, quindi le presi le
mani tra le mie, in un gesto che ormai mi era diventato famigliare,
tante erano state le volte, nelle ultime settimane, che lo avevo fatto.
“Ti ha picchiata? Ti ha insultata in qualche modo? Se vuoi,
andiamo insieme dalla polizia …” azzardai, con
tono conciliante e partecipe.
“No, no, per fortuna nulla di questo!” si
affrettò a precisare, tirando su con il naso.
“Voleva solo i miei soldi, solo quelli … "
proseguì, soffiandosi il naso "mi ha rinfacciato ogni cosa,
dicendomi come faccio ad essere sempre la solita indecisa, che in
realtà non l’ho mai amato, mentre lui, ancora
adesso, mi pensa e vuole stare con me. Allora non ce l’ho
fatta più e gli ho urlato in faccia del bambino.
E’ rimasto come imbambolato: mi ha chiesto di quale bambino
stessi parlando, perché lui non ne aveva mai saputo nulla e
…”
Liliane si fermò per qualche istante, persa probabilmente in
quel mare di ricordi dolorosi; poi, seria e precisa, riprese:
“In realtà, il farabutto, si è tradito
da solo, perché poi mi ha detto che aveva intuito qualcosa,
che gli ultimi mesi prima della sua partenza gli ero apparsa strana,
pensierosa, quasi distante. Vedendo che stavo vacillando, ne ha
approfittato, quell'ingrato mascalzone che non è altro, e ha
ripreso ad insistere perché lo seguissi!
Però, appena gli ho detto che non lo avrei fatto, non
adesso, almeno, mi ha afferrato per le spalle e mi ha implorato di
dargli i soldi, che gli servivano solo quelli! A quel punto, non so
cosa mi abbia trattenuto dal non sputargli in faccia, l’ho
cacciato di casa e lui, senza opporre resistenza, se
n’è andato, senza neppure voltarsi a guardarmi
… voleva solo ingannarmi, solo questo. Ho fatto bene a
sfogarmi con te, Philippe, altrimenti, a quest’ora,
chissà che fine avrei fatto … ingannata e
derubata, ecco come sarei andata a finire!”
Aveva smesso di singhiozzare appena aveva cominciato a raccontare: di
nuovo, come pochi giorni prima seduti al tavolino del bar, una luce le
attraversò gli occhi, specchio della sua consapevolezza di
potercela fare anche da sola, di essere forte e volitiva, a dispetto di
tutto ciò che gli altri avrebbero potuto dirle.
“Non voglio disturbarti, Philippe. Passavo di qui
perché non me la sento di tornare a casa, ho paura che
Mathieu possa essere ancora lì, ad aspettarmi fuori dalla
porta. Pensavo di andare al lago, oggi e domani, per questo ho portato
con me la valigia …”
Drizzai le orecchie all’istante:
“Ti adoro Liliane, davvero! Era la stessa idea che mi era
venuta in mente! Beh, prima che arrivasse mio padre
…”
“Sembra un uomo simpatico! Davvero gli hai parlato di
me?” volle sapere, ritrovando il sorriso.
Che cosa avrei dovuto dirle? Ammettere che, in realtà, non
si era mai verificata un’evenienza di quel genere, oppure
mentirle, solo per farla contenta?
“Sì, una volta, per telefono, gli ho accennato di
te …”
“Sei stato molto carino … “
Le sorrisi imbarazzato per quella bugia a fin di bene che avevo appena
raccontato.
“Comunque, se ti fa piacere, puoi rimanere”
“Ma come faremo? Ho visto una valigia in salotto, immagino
sia quella di tuo padre ... ”
“Sì" ammisi, allargando le braccia in un gesto di
resa "ma non devi preoccuparti. Al più tardi, domani mattina
ritornerà a casa con il primo treno: è qui solo
di passaggio ... ”
“Se le cose stanno così, te ne sono molto grata,
davvero. Si tratterà solo di un paio di giorni, promesso.
Lunedì mattina tornerò nel mio appartamento e ...
Philippe” mentre Liliane mi si avvicinava, la sua borsa
cadde sul pavimento; gliela raccolsi e gliela porsi, poi lei
continuò:
“Vorrei sdebitarmi per la gentilezza che mostri sempre nei
miei confronti: se posso fare qualcosa, qualsiasi cosa, non esitare a
chiedere, per favore. Se vuoi che cucini, che ti pulisca casa, che
vada a farti la spesa, dimmelo e lo farò”
Controllai che mio padre non stesse origliando: allungai il collo in
direzione del salotto e, vedendo che non c’era, proseguii
più tranquillo.
“In effetti, ci sarebbe una cosa: avrei dovuto andare a fare
un po’ di rifornimenti perché ho la credenza
praticamente vuota…”
“Benissimo!” m’interruppe, sorridendomi
felice “consideralo già fatto! Vado
subito, prima però devi dirmi dove posso trovare un
supermercato!”
La guardai abbozzando un sorriso, contagiato dal suo sincero entusiasmo:
“Non devi sentirti obbligata, però: sei
un’ospite e gli ospiti vanno trattati con ogni
riguardo”
“Toglitelo dalla testa! Ho detto che desidero fare qualcosa
per sdebitarmi, e non sarai certo tu a fermarmi! Quindi, ti obbligo a
dirmi …”
“Non è necessario, sul serio
…”
“Sì che lo è!”
“No, davvero!”
“Oh, ma insomma! La vuoi smettere, Philippe?”
Liliane si girò sulla sedia, guardando verso la porta
aperta, da cui spuntava quell’impiccione di mio padre.
“Papà, cosa stai facendo?!”
“Se pensi che stessi origliando, ti sbagli di grosso, figlio!
Ho dimenticato qui il cellulare e volevo riprenderlo per chiamare tua
madre …”
“Non c’è nessun telefono, smettila di
dire bugie!” lo redarguì, alzandomi e girando
attorno al tavolo per controllare che dicesse o meno la
verità.
Infatti, come previsto, non trovai alcun cellulare.
“Avresti potuto usare il telefono di casa, non avrei fatto
storie, sai?!”
Mio padre sbuffò e, tirandomi per una manica, approfittando
del fatto che mi ero avvicinato, si scusò con Liliane,
dicendole:
“Solo un attimo, signorina …”
Poi, rivolgendosi al sottoscritto con espressione paonazza, mi
puntò un dito contro, bisbigliando:
“Ma vuoi farti scappare un bocconcino così,
figlio?! Ti si presenta in casa senza preavviso, con una valigia al
seguito, mezza singhiozzante, e tu, al posto di essere felice come una
pasqua, te ne stai lì a cincischiare su eventuali
ringraziamenti! Accetta, Philippe, accetta ogni cosa sia disposta ad
offrirti!” concluse, stritolandomi un braccio.
“Papà!”
“Cos’hai capito?! Io sono un galantuomo, non mi
riferivo a mezzucci per … insomma, se vuole rendersi utile,
lasciaglielo fare! Solo così potrai capire se
sarà una buona moglie! Dai retta a un vecchio come me, che
di donne e matrimoni se ne intende!”
“Non mi sembra che tu sia nella condizione più
propensa di emanare giudizi o sentenze …” lo
punzecchiai, subito pentendomi, tanto da proporgli un accordo:
“Se tu chiamerai la mamma, prometto che la lascerò
fare e disfare a suo piacimento! Affare fatto?”
Lui mi guardò di sottecchi, poi lanciò
un’occhiatina a Liliane, seduta a pochi metri da noi, dandoci
le spalle.
“E va bene, figlio, hai vinto! Però, parlaci prima
tu, per favore. Non vorrei mi attaccasse il telefono in faccia
… quella donna è capace di tutto, di
tutto!”
Ringraziai mia madre per le blanche
soleil, assicurandole che stessi bene e che il lavoro
stava procedendo alla grande: non le avevo accennato della piccola
disavventura di cui ero stato vittima -l'arresto e il ferimento-
preferendo raccontarle tutto a voce o, eventualmente, tramite mio
padre, se mai avesse smesso di fare il cascamorto con la mia collega.
Mentre moglie e marito si chiarivano al telefono, ritornai in cucina da
Liliane, che stava guardando fuori dalla finestra aperta.
“Senti, se ti va ancora, potresti accompagnarmi a fare la
spesa …”
Lei si voltò e, sorridendomi, puntualizzò:
“Certo che mi va ancora, però devi promettermi che
farai pagare me! Non accetto obiezioni di alcun tipo,
intesi?!”
Annuii senza riserve: mi avvicinai al frigo, poi alla credenza e infine
le dettai il biglietto dei generi alimentari che avremo dovuto
comprare, dal momento che insistette anche per scrivere.
Qualche minuto dopo, mio padre fece capolino dalla porta e, tutto
gongolante, annunciò:
“Tua madre mi permette di ritornare a casa, ma non prima di
domani pomeriggio. Ha detto che stasera ha un’uscita molto
importante con una sua amica, a teatro, quindi non vuole nessuno
intorno”
“Ah, bene …” cercai di sorridere,
sebbene voleva dire stringersi ulteriormente per una notte, in modo da
ospitare sia lui sia Liliane.
Mentre stavo riflettendo su dove li avrei sistemati – sul divano? Sul materasso
gonfiabile che avevo comprato chissà per quale motivo con
una rivista sportiva? O forse sarebbe stato più signorile
cedere il mio comodo letto da una piazza e mezza?-
l’ospite in gonnella domandò:
“Allora sei pronto, Philippe? Se vogliamo andare al lago,
sarà bene sbrigarci ad andare al supermercato. Signor Soave,
verrà a farci compagnia? Saremo molto contenti della sua
presenza!”
Mio padre arrossì lievemente e, guardandomi,
borbottò:
“Conti pure su di me, signorina! A proposito, mi chiami
Edmond, e lei? Qual è il suo nome, sicuramente incantevole
quanto la sua persona?”
Guardai piuttosto interdetto Liliane e poi il mio astuto genitore: da
una parte, ero felice di ammetterlo, mi faceva piacere che la nuova
arrivata volesse condividere la stessa idea che mi ballonzolava per la
testa da quella mattina, dall’altra parte, però,
mi arresi all’evidenza che non sarei stato solo a godermi
l’aria lacustre, la passeggiata in riva al lago, il pranzetto
a base di pesce e magari la nuotata fino all'altra sponda.
Quella libertà che avevo appena potuto gustare nella mente,
infatti, si stava dissolvendo come la nebbia con il sole estivo.
Dopo le presentazioni reciproche e la capatina a fare rifornimenti,
finalmente partimmo alla volta della meta da me tanto agognata, sebbene
nulla si stesse svolgendo secondo i miei piani.
Arrivammo che erano quasi le due: il sole era caldo ed opprimente.
Il parcheggio dove di solito infilavo la Peugeot era completamente
occupato: alla fine, dopo aver perso la pazienza un paio di volte,
riuscii a incastrarmi in un angolino che dava su un promontorio; la
vista era a dir poco spettacolare, tuttavia pregai che né la
macchina né nessuno dei suoi occupanti facesse un viaggetto
lì sotto.
Mangiammo in un locale che dava direttamente sulla spiaggia di piccoli
sassi bianchi, mentre una leggerissima brezza s’infiltrava
nel gazebo dove stavamo consumando il pranzo.
Poi, per smaltire il pasto, portai mio padre e Liliane a fare un giro
sul lungolago, dove una decina di barche bianche e blu erano attraccate
una in fila all'altra, e dove un’altra mezza dozzina stava
levando l’ancora.
Alle cinque e mezza il sole stava quasi per tramontare, così
proposi di tornare a casa, preoccupato per la serata che mi avrebbe
atteso; ma i miei due ospiti si coalizzarono contro il povero
malcapitato, insistendo per concludere la giornata in bellezza facendo
una gita su uno dei tanti battelli ormeggiati dall’altro lato
della battigia.
Se non fosse stato mio padre, avrei azzardato che ci stesse provando
con la trentenne seduta al suo fianco, ovvero la collega del
sottoscritto.
Sembravano due ragazzini, infatti, intenti a scambiarsi confidenze e
parole d'amore: ridevano di gusto alle battute che lui le rivolgeva,
quasi dimenticandosi della mia presenza, evidentemente nella parte del
terzo incomodo.
Scendemmo per ultimi dal battello e, finalmente, raggiungemmo la
Peugeot, miracolosamente intatta e ancora al suo posto.
Ora il parcheggio si era svuotato, così da permettermi di
fare manovra in tutta tranquillità.
Mentre stavo salendo al posto di guida, Liliane mi raggiunse e,
appoggiandomi una mano sul braccio, mi sussurrò:
“Grazie per la bella giornata, sei sempre una persona
speciale …”
La guardai raggiungere il sedile posteriore, un attimo prima che mio
padre insistette per farla andare davanti, sostenendo di essere un vecchio che cede volentieri
il posto ad una bella signorina come lei.
Sorrisi divertito all'assistere a quella scenetta, poi saltammo tutti e
tre in macchina e ci avviammo verso casa, il sole che stava lentamente
tramontando.
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Capitolo 17 *** Che pasticcio, Philippe! ***
CHE
PASTICCIO, PHILIPPE!
Mio padre se ne andò, come concordato, il giorno successivo.
Era gongolante come non lo vedevo da anni, da quando era nata la sua
prima nipote, la figlia di Jeanne.
Dopo colazione, recuperò prontamente la valigia con cui
aveva invaso l’appartamento, poi Liliane ed io lo
accompagnammo alla stazione, mentre il sole si alzava nel cielo.
Andammo con la mia macchina, sebbene l’altra ospite
insistette per guidare: era davvero premurosa e accondiscendente e la
cosa mi faceva, ovviamente, molto piacere.
Una volta accertata l’effettiva partenza di mio padre (che si
prodigò in assurde battutine sulla mia furbizia di non farmi
scappare un bocconcino
tanto prelibato come la gallinella, mentre Liliane era
impegnata a parcheggiare), averlo salutato con mille raccomandazioni e
saluti alla mamma e alle mie sorelle, ritornammo a casa.
“Allora, Philippe, che facciamo? Un po’ mi dispiace
che Edmond se ne sia andato: è davvero molto simpatico!
Pensa che mi ha raccontato un sacco di cose di te, di quando eri
piccolo! Non sapevo che collezionassi album di figurine di piante
tropicali!”
Stavamo attraversando il vialetto, alle prese con le chiavi per
recuperare la posta dalla cassetta delle lettere che il giorno prima
avevo dimenticato di controllare.
Arrossii lievemente, almeno è quello che percepii:
“E quando ti avrebbe raccontato il mio torbido
passato?”
“Dopo che te ne sei andato a dormire! Non avevamo ancora
sonno, così abbiamo bevuto un po’ di birra e tuo
padre ne ha approfittato per farmi qualche piccante
confessione!”
La guardai storto, per poi farle un sorriso: aprii la porta e posai sul
tavolino posizionato in un angolo dell’anticamera i due
volantini pubblicitari di una nuova azienda elettronica, le bollette di
luce e telefono e la rivista dell’associazione Psicologi
Infantili Francesi.
“Spero tu non ti sia arrabbiato …”
Liliane si avvicinò e mi accarezzò un braccio: io
mi irrigidii e rimasi fermo per qualche secondo, dandole le spalle.
Feci di no con la testa, poi mi voltai per rassicurarla e lei, come se
nulla fosse, mi prese il viso tra le sue mani e avvicinò la
bocca alla mia, iniziando a baciarmi con una passione smisurata per i
rapporti abbastanza precari in cui versavamo.
La ricambiai inizialmente con poco entusiasmo, per infine abbandonarmi
a quel gesto improvviso ma piacevole.
Per un istante, il tempo ritornò indietro di quasi tre
settimane, se non ricordavo male, quando, dopo il crollo di parte del
tetto del Centre in
seguito al temporale che aveva inondato mezza città,
nell’archivio polveroso della struttura aggredii Liliane,
allo stesso modo di come lei si era appena butatta tra le mie braccia.
Non sapevo cosa pensare, sempre se era opportuno perdere tempo a
pensare, semplicemente la accolsi in un abbraccio che aveva tutta
l'intenzione di non lasciarla andare, ricambiando i suoi baci e le sue
carezze fin troppo abbondanti sulla mia schiena, avvolta da una nuova
camicia di jeans che indossavo per la prima volta.
Lei, invece, vestiva un abito a fiori gialli e rossi, leggermente
attillato sui fianchi: non mi vergogno a dire che cercai la cerniera
per farglielo finalmente scivolare di dosso, mentre Liliane faceva lo
stesso con i bottoni della mia camicia.
Sentii i capelli arruffati scivolarmi sulla fronte, il fiato corto per
quei baci che non finivano mai, eppure quella sensazione non mi
dispiaceva affatto.
Avevo finalmente trovato la lampo e la stavo aprendo, nel
frattempo ci stavamo dirigendo verso le scale, per raggiungere
la camera da letto, quando sentii il trillo prolungato del campanello.
Staccai le labbra inumidite e allontanai il corpo di Liliane dal mio,
entrambi ansanti e sudati.
Fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso: quel rumore alla porta mi
riportò alla realtà e, rispetto a quanto era
successo tre settimane prima, fui io a pentirmi di quello che stavamo
facendo.
Non era il momento giusto, forse nemmeno il luogo adatto, per consumare
quella passione che, di nuovo e improvvisamente, ci stava consumando.
“Hanno suonato …” cercai di schiarirmi
la voce, mentre mi riabbottonavo la camicia, le dita tremanti
e la coscienza che mi rodeva.
Lei annuii e, con la mano destra, si ricompose con nonchalance,
tirandosi su le spalline del vestito e ravvivandosi una parte dei
capelli lasciati sciolti.
La guardai di soppiatto, mentre lasciavo il corridoio che conduceva
alle scale e, attraversando di nuovo l’anticamera, aprii la
porta, il cuore che mi batteva a mille.
“Allora ci sei! Credevo stessi ancora dormendo,
pigrone!”
Il tono squillante ed entusiasta di Vivianne fece capolino ancora prima
che potessi rendermi conto della sua visita: rimasi lì
fermo, imbambolato come se non fossi in grado di riconoscerla.
“Beh, hai perso la voce? Il gatto ti ha mangiato la lingua?
Che poi, detto tra di noi, non ho mai capito cosa voglia dire
… comunque, ti ricordi chi sono, vero? La tua favolosa
vicina di casa, la donna che ti ha fatto conoscere Alexis,
l’uomo che ha ricostruito il tetto del tuo amato Centre!”
Deglutii, sentendomi in colpa con il mondo intero:
“S-sì, sì certo che so chi sei.
E’ che non mi aspettavo che tu venissi a quest’ora
…”
Vivianne mi dedicò uno delle sue occhiate sinceramente
allibite, le iridi azzurre, sgranate e attente:
“Sono le undici, Philippe caro, non le sette di mattina! Mi
stai forse nascondendo qualche cosa?!”
Il suo sguardo indagatore mi fece sentire ancora, se possibile,
più in torto.
Abbassai il mio e, lisciandomi le pieghe della camicia, le risposi:
“Ma cosa vai a pensare?! A proposito,
cos’è successo? Voglio dire, ti serve qualcosa?
Zucchero, sale, formaggio?”
“Lo sapevo, stai nascondendo qualcosa. Si tratta forse di ...
una donna?!”
Vivianne si entusiasmò come fosse una ragazzina a vedere per la prima volta dal vivo il
suo mito, in carne ed ossa di fronte a lei:
“Mi racconterai i particolari più tardi! Comunque,
perché devi sempre essere così catastrofico? Sono
solo venuta a farti un salutino e ad invitarti a pranzo, se ti va! Oggi
pomeriggio Alexis mi porterà a fare un giro al
lago, così volevo approfittare per stare un po’
con te, come ai vecchi tempi delle nostre serate pizza & birra!”
Le sorrisi forzatamente, preoccupato che, da un momento
all’altro, potesse saltare fuori Liliane: in fondo, non avevo
nulla di cui vergognarmi o da nascondere, però non mi
sentivo a posto con la coscienza e, cosa più importante, non
riuscivo a capirne il motivo.
“Ah ... è che oggi non posso, ho un altro impegno.
C’è, beh sì, c’è
un’altra persona, qui con me …”
“Allora è vero! C’è una
donna! Se è così, capisco, non insisto.
Però, chiedo troppo se ti chiedo di conoscerla?”
Un brivido di paura mi percorse la schiena, già madida di
sudore freddo: cosa avrei dovuto fare? Dirle di sì e
mettermi in un pasticcio, ben sapendo l’avversione di
Vivianne per la mia collega? Oppure dirle di no e passare per un
maleducato ed ingrato, dopo tutto quello che aveva fatto per me,
nell'ultimo periodo?
“Non so se è una bella idea …
cioè, non che non voglia presentartela, è solo
che, forse, non è il momento adatto …”
Lei mi guardò con aria interrogativa, poi
spalancò gli occhi come se avesse avuto la più
brillante delle illuminazioni; infatti aprì la bocca, la
richiuse e finalmente esclamò:
“Adesso ho capito, Philippe: eravate impegnati a …
beh sì, a divertirvi. Certo, che stupida, avrei dovuto
capirlo prima … bene, vi lascio alle vostre incombenze! Fai
finta che non sia mai venuta!”
Stavo già tirando un sospiro di sollievo, quando avvertii i
passi leggeri e titubanti di Liliane raggiungermi: mi voltai appena,
esultando per l’impeccabile presenza; si era infatti
risistemata perfettamente l’acconciatura e si era ricomposta
il vestito, come fosse fresco di stiratura.
“Ciao!” proruppe la mia vicina di casa, lanciandomi
un’occhiatina che voleva significare tutto, ma che in
realtà testimoniava che non aveva capito nulla.
"Io sono Vivianne, abito nella casa di fronte! Ero passata per sapere
se Philippe voleva tenermi compagnia per pranzo, ma ora me ne vado
subito. Anzi, no!”
Sobbalzò leggermente e, guardando fisso Liliane, si
entusiasmò dicendole:
“Cosa ne dici se mangiamo qualcosa insieme? Oh che sbadata,
non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami!”
L’interpellata si voltò verso di me, dopo essersi
fatta cautamente avanti: era visibilmente imbarazzata, si capiva dal
colorito pallido che era subentrato alla carnagione rosea e fin troppo
accesa di pochi minuti prima.
La tolsi dall’imbarazzo all’istante, mormorando una
flebile protesta:
“Ma … forse … Liliane non ha voglia di
…”
Ed ecco che mi pentii all’istante di aver pronunciato quel
nome: Vivianne, infatti,
con la sola forza dello sguardo, mi
trapassò da parte a parte, come meglio non avrebbe potuto
fare un lanciatore di giavellotto.
In un battibaleno, intuito femminile o sesto senso non
saprei quale dote attribuirle, aveva compreso tutto: l'irreale
situazione che aveva interrotto – se per fortuna o per
sfortuna ancora non ero in grado di dirlo-
l'identità della donna con cui stava parlando, che
non era altri che quell’ insensata,
pazza, maleducata di una collega che ti ritrovi, per dirla
con parole sue.
Ce l’aveva a morte con lei per come si era comportata
–o forse sarebbe stato meglio dire, per come non si era
comportata- durante la mia convalescenza a seguito
dell’incidente che mi era capitato tre settimane prima.
Inoltre, le avevo raccontato del mio goffo tentativo di approcciarmi a
Liliane, la sera in cui era crollato il tetto e con esso erano
cominciati tutti i miei guai, e di come, sempre lei, mi aveva dato
contro, insieme a Madame Betancourt, riguardo la possibilità
di chiedere aiuto a mia sorella Agnése per risolvere la
questione della ristrutturazione.
“Tu, quindi, saresti la famosa Liliane? Philippe mi ha molto
parlato di te, sai?” continuò, punzecchiandola e
mordicchiandosi il labbro inferiore.
“Davvero?” mormorò lei, virando il
colorito del viso dal bianco marmoreo al rosso sbiadito.
Stavo combinando l’ennesimo pasticcio della giornata, ne ero
pienamente consapevole, e non sapevo come e cosa avrei dovuto fare per
tirarmene al più presto e al meglio fuori.
“Faremo un’altra volta, Vivianne, non preoccuparti.
Tanto più che oggi pomeriggio verrà a prenderti
Alexis e non puoi farlo aspettare” tagliai corto,
già pronto a richiudere la porta.
Di nuovo, la mia vicina di casa mi trapassò da parte a
parte, lo sguardo intrigante, la bocca stretta e dalle labbra
arricciate.
“Sì, forse hai ragione” mi
accontentò con fare altezzoso ma impensierito
“ormai si è fatto tardi e devo andare a
prepararmi. E’ stato un vero piacere conoscerti, Liliane, spero di
rivederti molto presto. Ciao, Philippe, buona giornata”
La salutai con un cenno della mano sinistra, senza avere il coraggio di
ribattere neppure un saluto.
Poi, arrabbiato con me stesso, entrai in casa, seguito a ruota da
Liliane.
Trascorremmo il resto della mattinata e gran parte del pomeriggio al
parco: mangiammo dei panini caldi fatti con della baguette morbida e
croccante al tempo stesso, farciti con salsa rosa, pomodoro, lattuga e
tonno, il tutto innaffiato con un paio di bottiglie di birra chiara,
per poi concludere il pic-nic con un gelato alla cannella.
Il giardino pubblico di Montigny è davvero un’oasi
verde, di pace e tranquillità: in realtà, ce ne
sono due in città, ma a me piace andare in quello
più raccolto, il primo che s'incontra una volta oltrepassato
l'arco di rosmarino e rose rosse, che precede l'ingresso in paese.
Al centro, troneggia una grande fontana, che ricorda piuttosto
vagamente e decisamente in miniatura quella del Bernini, a Roma; decine
di panchine di pietra e di legno dipinto di rosso o verde sono
disseminate sotto le fronde dei sempreverde, per la maggior parte pini
e abeti.
C’è un unico salice, in tutta l’area, ed
io cerco sempre di rifugiarmi lì sotto, anche
perché solo così posso godere di una magnifica
visuale, con il sentiero che s’inerpica su una delle colline
del paese, la terra brulla ad accogliermi, le radici sommerse da un
fazzoletto di erba verdissima e soffice.
“Quella tua amica, Vivianne, mi guardava come se fossi un
extraterrestre! Che cosa le hai detto di me?”
Liliane non era più tornata su quello che era successo tra
di noi, quella mattina, ed io mi stavo adeguando comodamente.
Ci stavamo comportando come se nulla fosse accaduto, come se fossimo ad
una normale rimpatriata tra vecchi amici; ma sapevo anche che, presto o
tardi, lei mi avrebbe chiesto spiegazioni almeno riguardo lo strano
atteggiamento a cui aveva assistito poche ore prima.
“No, cioè, le ho solo raccontato del nostro
… incontro in archivio e di come ti sei comportata quando ho
proposto di chiedere aiuto a mia sorella, per la questione del
tetto” le spiegai tutto d'un fiato, non guardandola
negli occhi per gran parte della confessione.
“E basta?” mi interrogò a voce bassa,
bevendo un sorso di acqua frizzante dalla bottiglietta che aveva
comprato poco prima.
“Sì, no, cioè, anche di come ti sei
comportata dopo quello che mi è successo
…”
Tralasciai di dire che avevo accennato alla sua storia finita con
Mathieu, rendendomi conto che c’era già
materiale a sufficienza per piantarmi lì e non rivolgermi la
parola per almeno qualche ora.
“Beh, sei stato davvero molto … esaustivo, non
c’è che dire. Mancava solo che parlassi di
quell’ingrato del mio ex fidanzato e le avevi raccontato
proprio tutto!”
Prese a rigirarsi tra le mani la bottiglietta, scuotendo la testa in
maniera quasi impercettibile, come se si trovasse davanti ad uno
spettacolo di cui non riusciva a comprendere la natura.
“Senti, Liliane, scusami, è solo che Vivianne
è la mia migliore amica, la mia confidente, non volevo
mancarti di rispetto, credimi …”
Lei ci mise qualche secondo per alzare lo sguardo e incrociare il mio:
le appoggiai con delicatezza una mano sulle sua, poi le presi il volto
con delicatezza e decisione, per farle sentire la mia vicinanza e il
calore.
“Philippe, hai ragione, ultimamente non mi sono comportata
bene, non ti sono stata vicino come avrei voluto. Però, da
adesso in poi, sento che posso esserci, che voglio esserci! Ti
prego, permettimi di starti accanto, desidero solo questo
…”
Si avvicinò sempre più, fino a quando pose le sue
labbra umide di acqua sulla mia guancia, per spostarsi subito dopo
sulla bocca, lasciando un bacio a stampo, semplice ma
d’effetto.
Si allontanò guardandomi dolcemente, non riuscendo a
reprimere un timido sorriso: ero così confuso, mi sentivo
impreparato, eppure avevo voglia di lasciarmi andare, di farmi
trasportare da quel sentimento che mi inebriava la mente, che mi
riempiva lo stomaco, che mi solleticava la schiena.
Incuranti di chi avrebbe potuto vederci, continuammo a baciarci ancora
per molto tempo, fino a quando l’aria che avevamo nei polmoni
non si era esaurita.
Il mattino successivo, alle sette e mezza, eravamo già in
macchina, seduti sulla Mini Cooper blu notte di Liliane: avevamo
dormito insieme, beandoci dei nostri corpi, delle carezze e dei baci
che ci scambiavamo con incredibile desiderio.
Stavamo percorrendo la strada appena fuori Montigny, ricca di campi di
pannocchie alternati a file di cipressi, in ordine come soldati giganti
sull’attenti.
Uno stormo di rondini stava planando a terra, rasentando una
coltivazione di grano giallo oro, una distesa accecante che faceva da
tutt’uno con la sgargiante palla del sole che si apprestava a
sorgere all’orizzonte.
Oltre le zone coltivate, in pratica quasi attaccate ad essi, si trovano
i casolari di campagna, molti dei quali ormai adibiti solamente a
rimesse degli attrezzi, adiacenti a un ramo del fiume che attraversa il
paese vicino, ma che, inspiegabilmente, non lambisce anche i nostri
confini.
Il riverbero del sole sull’acqua creava dei giochi di luce
abbaglianti, che mi fecero abbassare lo specchietto parasole per
proteggermi la vista dai suoi potenti raggi.
“Ti dispiace se prima passo da casa?”
Liliane guidava sicura e canticchiando sommessamente una canzone di cui
non riuscivo ad afferrare il titolo.
“No, figurati” la rassicurai, smettendo di guardare
fuori dal finestrino: le sorrisi e posai una mano su quella di lei, che
agguantava sicura il volante.
“Ho bisogno di cambiarmi, prima di andare a fare delle
commissioni. Oggi ho pomeriggio, però puoi usare la mia
macchina per andare al Centre,
non mi servirà!”
Annuii distrattamente: avevo voglia di vedere i ragazzi e di parlare
con loro; quel mattino avrei avuto i mezzani, mentre il
pomeriggio gli Orsetti
lavatori, per fare, con entrambe le classi, un ripasso di
tutto quello che avevano imparato durante l’anno, in vista
della fine delle lezioni del mese successivo, anticipatamente rispetto
alle scuole cosiddette normali.
Durante l’estate, la struttura si sarebbe in gran parte
svuotata, soltanto la metà o poco più degli
ospiti sarebbe rimasta a trascorrere le vacanze, mentre noi insegnanti
ci saremmo alternati, insieme ad altri psicologi precari assunti
apposta per i tre mesi di chiusura ufficiale, a tenerli compagnia e a
coinvolgerli in attività quali gite o mostre.
L’anziano guardiano, monsieur Chamonix, insieme alla moglie,
rimaneva sempre al suo posto, nella casetta color mattone sul retro del
Centre,
nell’ala più nascosta alla vista di chi non
conosce bene il posto, grazie agli alberi di limone.
I ragazzi e i bambini li portano sempre delle madleins preparate
da loro, durante i laboratori di pasticceria o in occasione delle
festività o del compleanno dei due vecchietti.
“Sono stata molto bene con te, in questi due giorni
…” mi riportò al presente Liliane,
svoltando all’incrocio che dava il benvenuto a chi entrava a
Versailles, prima di percorrere il viale dei ciliegi per andare nel suo
appartamento.
“Anch’io …” ero sincero,
tuttavia avevo voglia di riappropriami della mia indipendenza.
Era già sufficiente avere Vivianne a sorvegliarmi quasi
tutti i giorni, a spiare i miei spostamenti, quando non era troppo
occupata con Alexis il marcantonio, ovviamente, dopo che aveva scoperto
che la mia misteriosa compagna di avventure era la collega di cui le
avevo così malamente parlato, appena poche settimane prima.
Dopotutto ero un uomo e, un maschio, si sa, ha pur sempre bisogno dei
propri spazi.
Quando entrai in classe, trovai una grande confusione ad accogliermi:
quasi tutti i mezzani erano infatti assiepati attorno ad un banco,
l’ultimo della fila di sinistra, di fianco a una delle
finestre, rendendo un muro impenetrabile a chiunque volesse
avvicinarsi, anche solo per dare un’occhiata.
Parlottavano e gesticolavano con entusiasmo, mentre alcuni mostravano i
loro quaderni alla persona che nascondevano così bene alla
vista.
Non li avevo mai visti così in fermento, oserei dire neppure
durante una delle uscite fuori porta.
Quando mi avvicinai, il mar Rosso si aprì
all’istante, per poi chiudersi l’attimo dopo, senza
avermi dato il tempo di vedere chi si celasse dietro di loro.
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Capitolo 18 *** Damien ***
DAMIEN
“Ragazzi, cosa sta succedendo?!” mi precipitai
verso di loro, mentre, con le mani, tentavo di dividerli, riuscendoci
con maggiore facilità di quanto avessi pensato in un primo
momento, appena entrato.
“Philippe, guarda! E’ tornato Damien!”
Fissai stupefatto Adrien che mi aveva parlato – il viso
magro, uno spruzzo di efelidi sul naso e il solito ciuffo biondo e
ribelle a ricadergli sulla fronte- e poi il bambino mulatto che ci
stava sorridendo, seduto composto dietro il banco, con gli altri
compagni che continuavano ad affollarglisi intorno, come un orso sulle
arnie di miele.
“Damien, sei proprio tu!?” esclamai incredulo,
approfittando di quell’attimo di entusiasmo generale per
avvicinarmi.
Lui annuì, poi si alzò e venne verso di me, un
paio di passi che ci dividevano.
D’istinto lo abbracciai, stropicciandogli
l’elegante camicia bianca che lo rendeva un vero ometto,
felice e sorpreso per il suo ritorno.
Damien è un ragazzino di dodici anni, che dimostra molti
più anni di quelli che in realtà ha, se ci si
ferma solo ad osservare la sua altezza: l’ho conosciuto
relativamente poco, in quanto è rimasto al Centre
solo il primo anno e mezzo successivo al mio arrivo, per poi
essere portato via, senza neanche troppo preavviso, dalla madre kenyota.
Allora, l’insegnante e la psicologa che si occupava di lui
era Mireille, che non faceva altro che parlarcene molto bene durante le
nostre riunioni mensili, adoperate per valutare i progressi relazionali
ed emotivi dei ragazzi.
Per questo, ancora più del resto del corpo docenti e della
direttrice, fu molto dispiaciuta per il suo allontanamento dalla nostra
struttura, tanto che, in un primo momento, riuscì persino a
tenersi in contatto con lui telefonicamente, fino al suo
ritorno nella patria della madre.
Damien – esclusa la triste parentesi della sua vita che aveva
dovuto condividere obbligatoriamente con noi- aveva sempre abitato fin
dalla nascita, se non ricordo male, ma ne sono praticamente certo- in
uno dei sobborghi più eleganti di Versailles, insieme ai
genitori: è assai raro che i nostri bambini e ragazzi
possano permettersi più di un bilocale in periferia, magari
condiviso con altri tre o quattro tra fratelli e sorelle e qualche
parente non troppo alla lontana, per questo mi ricordo ancora piuttosto
bene la vicenda di Damien, in quanto rappresenta l’eccezione
che conferma la regola.
Il padre, più vecchio della moglie di una ventina
d’anni, era un francese con la mania per i safari, durante
uno dei quali aveva conosciuto la futura compagna, da cui poi avrebbe
avuto il figlio.
La madre di Damien, invece, inizialmente era una ragazza analfabeta e
viveva in un villaggio molto povero, ai limiti di Nairobi, la capitale
del Kenya.
Il capo del suo villaggio non aveva acconsentito a darla in sposa allo straniero venuto da lontano,
perché lo riteneva pericoloso e culturalmente troppo
distante rispetto alle loro tradizioni e, sempre per lo stesso motivo,
l’Uomo Bianco ne aveva approfittato per sedurre la ragazza
– verbo usato da Mireille- e portarla in Francia insieme a
lui, dove qualche mese più tardi nacque Damien.
La giovane, però, non era mai riuscita ad adattarsi
completamente alla vita occidentale, ai ritmi frenetici e alla lingua,
dal momento che, oltre a quella semplice e quasi esclusivamente
gestuale e fatta di incisioni sul legno o sulla pietra che si adottava
nel suo villaggio, si esponeva in un misto di inglese e dialetto
locale, quasi incomprensibile a chi non lo conoscesse.
Tre anni dopo, perciò, la madre approfittò di un
viaggio in Kenya del marito per ritornare al suo villaggio: ma la sua
gente non volle più saperne nulla di lei, additandola
addirittura come una traditrice, tanto che si rifiutarono di intessere
qualsiasi tipo di rapporto con la donna, la quale, abbandonata e
incompresa persino dal popolo che l’aveva cresciuta, si era
vista costretta a ritornare in Francia.
Quando Damien cominciò ad andare a scuola, le giornate della
donna iniziarono a rivelarsi sempre più vuote e prive di
significato, senza la compagnia dell’unico figlio;
così, per cercare di dare un senso alla propria esistenza e
al tempo che sembrava infinito, decise seriamente di imparare a leggere
e a scrivere.
In quei primi sei anni, aveva imparato discretamente la sua nuova
lingua, sebbene si esprimesse prevalentemente con parole semplici e
frasi decisamente elementari: domandò aiuto al compagno che,
forse troppo occupato ad organizzare safari in giro per il continente
nero o semplicemente cieco alle reali necessità della donna,
la iscrisse ad un corso pomeridiano di lingua francese, gestito da un
gruppo di conoscenti di un’associazione no profit.
Durante le due ore quotidiane in cui si recava a lezione, la giovane
– che ormai aveva quasi trent’anni- prese talmente
tanta dimestichezza con la carta e la penna, che in pochi mesi sapeva
scrivere intere pagine di quaderno in francese – sempre
stando al resoconto di allora di Mireille, sebbene su
quest’ultimo punto non ci metterei la mano sul fuoco,
perché non ricordo esattamente se fossero quaderni o
lettere, su cui la donna amava scrivere - tanto da riuscire a trovare
un lavoro come cameriera in uno dei bistrot di
Versailles.
La sua vita, finalmente, sembrava aver preso la giusta direzione,
seppure lontana dal suo villaggio natio.
Damien, nel frattempo, aveva finito le scuole elementari e dava anche
lui una mano nei progressi linguistici della madre, aiutandola ad
esprimersi sempre meglio; un giorno d’estate di due anni fa,
però, il fragile equilibrio che si era faticosamente creato,
rischiava di cedere una volta per tutte.
Il padre del ragazzino, infatti, decise di partire per
l’ennesimo safari, questa volta da solo.
Fu l’ultima volta che la compagna e il figlio lo videro vivo:
non si seppe più nulla di lui per diverso tempo, fino
all’inizio dell’autunno, quando una telefonata
dell’ambasciata kenyota avvisò la famiglia che il
suo corpo era stato ritrovato ai confini di una riserva naturale, in
uno dei parchi nazionali del Paese, in condizioni assai pietose.
Vi era la necessità di un riconoscimento ufficiale, i
documenti che aveva addosso, infatti, non erano sufficienti e,
soprattutto, era fondamentale eseguire un test del DNA:
così, Damien e la madre partirono alla volta di Nairobi,
dove il cadavere dell’uomo era stato trasportato per
ulteriori accertamenti medico-legali.
Il test confermò, senza ombra di dubbio, che si trattava
effettivamente del padre del ragazzino: la salma venne tumulata in uno
dei cimiteri della città, forse in memoria
dell’amore che l’uomo nutriva per quella terra.
La moglie, da allora, entrò in una specie di amnesia post
traumatica: riconosceva a stento il figlio, mentre riprense a parlare
in quella lingua incomprensibile che era propria del suo villaggio
d’origine.
Perciò, Damien venne riportato a Versailles e, tramite le
ambasciate kenyota e francese che non erano riuscite a rintracciare
alcun parente da parte di entrambi i
genitori, diventò uno dei ragazzi del Centre.
Rimase con noi per un anno e mezzo, poi, fortunatamente per lui, la
madre tornò a riprenderselo, perfettamente sana e con
l’autorizzazione in tasca del giudice minorile, accompagnata
persino da monsieur
Batignole, l’assistente sociale.
Si era ristabilita, infatti, senza alcuna ripercussione fisica o
psicologica, così aveva potuto riavere con sé il
figlio e, insieme, erano ritornati a vivere nella casa elegante del
padre di Damien, a Versailles.
Adesso, a distanza di tutto questo tempo, vedendolo di nuovo tra di
noi, ebbi un brutto presentimento, pensando che la donna fosse ricaduta
in quel malessere che l’aveva colpita due anni addietro,
mettendo così a repentaglio anche il relativo breve sprazzo
di normalità che aveva riavvolto lei e il figlio.
“Siamo molto contenti che tu sia tornato, Damien
…” esordii con voce premurosa, mentre i suoi
compagni cominciavano a prendere posto ai loro banchi.
“Grazie, anch’io lo sono, Philippe,
tantissimo!”
Gli sorrisi, concentrandomi poi ad osservare il volto degli altri mezzani: erano
palesemente felici per quella visita inaspettata e, proprio come il
diretto interessato e festeggiato, non sembravano né
afflitti né tantomeno preoccupati.
Sapevo, infatti, che se fosse successo qualcosa di brutto, i loro occhi
avrebbero parlato per loro, per cui cercai di non pensare al peggio,
tuttavia la mia ormai deformazione professionale di vedere, anche se
solo all’inizio di ogni caso, il bicchiere mezzo vuoto, stava
prendendo il sopravvento.
In pratica, non sapevo come affrontare il discorso: forse era meglio
portarlo nella sala riunioni, dove avremmo potuto parlare in
tranquillità e senza essere disturbati, gli occhi e le
orecchie degli altri ragazzi puntati addosso.
Decisi prima di fare un timido tentativo davanti a tutti, ovvero di
prenderla alla larga e, con tono il più naturale possibile,
mi sedetti vicino a lui:
“Come stai? Ci sei mancato!”
Lui annuì felice, regalandomi uno dei suoi bianchi e sinceri
sorrisi.
“Anche voi! Ho parlato molte volte dei miei compagni alla
mamma, talmente tante che le è venuto male alle orecchie, a
furia di sentirmi: mi ha detto proprio così!”
Annuii a mia volta, poi continuai realmente interessato e divertito da
quella battuta:
“E lei sta bene?”
“Sì, vi ringrazia ancora molto per quello che
avete fatto per me e vi manda una torta che ha cucinato apposta per
oggi! L’ho portata a Mireille, perché è
stata la mia insegnante, ma mi ha promesso che la farà
assaggiare a tutti voi, persino alla direttrice!”
Ridemmo tutti a quell’allusione poco lusinghiera: cominciavo
a pensare che le cose non fossero così tragiche come
sembravano; infatti, subito dopo, le mie false supposizioni vennero
prontamente sgretolate.
“Non sono qui per rimanere, Philippe, tranquillo. La mamma mi
ha semplicemente portato a farvi un saluto: se per voi non è
un problema, verrà a riprendermi dopo pranzo, verso le
tre!”
Credo che il cuore disaccelerò i battiti e la voragine che
sentii aprirmi nello stomaco scomparve all’istante, per
lasciare posto al sollievo.
“Oh bene, anzi, sono davvero felice che tu abbia insistito
così tanto con lei da essere qui con noi!”
sospirai, senza dare a vedere la mia contentezza per quelle parole: le
situazioni dei bambini e dei ragazzi del Centre, infatti,
risultano spessissimo assai precarie, appese al filo della Legge e
legate indissolubilmente ai capricci degli assistenti sociali, per non
parlare dei problemi che possono sempre riemergere a carico dei
genitori dei nostri ospiti.
Venire a sapere che Damien si trovasse lì solo per stare un
po’ con noi, per stare ancora in compagnia dei suoi
amici, era una sensazione bellissima; provavo una leggerezza e una
soddisfazione senza eguali!
Mi alzai dalla sedia e, dirigendomi verso la parete che ospitava la
lavagna immacolata, girai loro le spalle e presi a scrivere con il
pennarello nero:
Gita al museo di Scienze
naturali: cosa mi è piaciuto, che cosa ho visto e che cosa
ho imparato!
“Allora, ragazzi, dato che lunedì scorso il nostro
Damien non è andato con voi e con Liliane in gita, avete
voglia di raccontargli la vostra esperienza? Poi, se anche lui ne
avrà voglia, potremo ascoltare qualche cosa di bello che gli
è successa in tutto questo periodo in cui non ci ha visto!
Bene, allora, chi è d’accordo alzi la
mano!”
Tutti i mezzani,
compreso il nostro graditissimo ospite, furono entusiasti della mia
proposta e cominciarono ad agitarsi sulle sedie: presero a confabulare
tra di loro, poi si accalcarono attorno a Damien, ridendo e parlando,
sussurrandosi parole e, chissà, magari anche confessioni a
lungo taciute.
Per mettere fine a quell’allegro pollaio, decisi che era
arrivato il momento di mettere un po’ di ordine; battei le
mani un paio di volte e, ad alta voce, spiegai:
“Su, ragazzi, riprendete i vostri posti, per favore! Verrete
qui alla lavagna uno alla volta e racconterete della gita al nostro
ospite! Potete disegnare, scrivere o anche solo parlare! Anzi, dato che
non sono venuto neppure io e quindi non so che cosa avete visto, ne
approfitterò per fare da secondo spettatore! Damien, posso
sedermi vicino a te?”
Il ragazzino annuii sorridente e mi fece cenno di andare ad accomodarmi.
“A proposito” gli mormorai con fare
complice “non è che hai saltato la
scuola per venire da noi, vero?”
“Ma no, cioè sì: la mia classe
è andata in gita, però io ho preferito venire
qui, quindi non ho perso neppure un’ora di
lezione!” mi spiegò entusiasta il ragazzino,
mentre gli accarezzavo teneramente i ricci capelli scuri.
L’ora e mezza che seguì fu un divertente e
accurato viaggio nel tempo, in compagni di dinosauri e animali
preistorici, passando per fossili e pietre preziose, fino ad arrivare
ad esplorare virtualmente pianeti, rocce, insetti e uccelli, per
concludere con numerose curiosità su stravaganti modellini
di astronomia, di meccanica e di elettronica.
Ero molto orgoglioso dei miei ragazzi e, ovviamente, della loro ottima
memoria: si ricordavano una quantità davvero considerevole
di dettagli e di nomi, illustrandoli con semplicità ed
efficienza.
Damien ed io non potevamo far altro che ascoltare le loro parole
rapiti, lui più di me: si vedeva dagli occhi lucidi e dalla
bocca semi aperta per il continuo interesse che i discorsi dei compagni
gli suscitavano.
Poi, dopo l’ennesimo applauso rivolto ai mezzani, fu la
volta del nostro ospite di raccontare: decise di parlarci del suo
viaggio in Kenya, l’anno passato, insieme alla madre che
aveva deciso di portarlo nel villaggio natio dove, fortunatamente, il
nuovo capo villaggio si era rivelato ben favorevole
ad accogliere a braccia aperte i due arrivati.
Quando ci parlò dei suoi primi goffi tentativi di mungere
una mucca, di quanto erano buffe le galline quando gli si attorniavano
fameliche per mangiare il granoturco, oppure di come fosse faticoso
andare avanti e indietro dal pozzo con i secchi di latta colmi di
acqua, o di quel pomeriggio che trascorse a raccogliere le bacche per
aiutare la nonna a fare il dolce tipico della tribù, non
riuscimmo a trattenere delle sonore risate.
Ci divertimmo e imparammo molto da Damien, come è giusto che
sia quando si ascoltano delle semplici ma sempre nuove storie di vita.
Ah, e anche la colossale torta al cioccolato e cocco fu squisita: dei
tre piani di dolce non ne rimase neppure una fettina!
Adesso, dopo che Vivianne se ne è andata, ho ripreso in mano
i disegni e i compiti di tutti i miei bambini e ragazzi: attraverso le
immagini e le parole che hanno disegnato e scritto, ho potuto
idealmente ripercorrere le loro storie, le loro emozioni, le loro
vite...
Sophie, Françoise, Adrien, Chloe, Nicholas, Maurice,
Geràrd, Michael, Benedette, Maximilien, Fatima e Amal,
Suzanne, Damien, loro e tutti gli altri mi hanno donato moltissimo, mi
hanno fatto crescere umanamente e professionalmente: ho imparato a fare
meglio il mio lavoro, almeno spero, a dare sempre il massimo in tutto
ciò che faccio, a non arrendermi mai –o,
perlomeno, a cercare di combattere sempre-, esattamente come loro non
hanno mai demorso.
Grazie ai miei ragazzi ho capito l’importanza della
caparbietà e della fratellanza, dell’amicizia e
dell’amore disinteressato.
Senza la loro presenza, pura e sincera, sarei un uomo più
povero e insoddisfatto.
Per questo non potrò fare altro che ringraziarli, adesso e
per tutti gli altri giorni che ancora sapranno donarmi.
NOTA
DELL’AUTRICE
Ciao
a tutti e grazie immensamente a chi ha letto anche questo capitolo!
Da
adesso in poi, la narrazione ritornerà ad essere in terza
persona, com’è stato all’inizio della
storia: non so quanti di voi si ricorderanno che, a un certo momento
del racconto ( precisamente dal secondo capitolo), il punto di vista ha
cominciato ad essere quello di Philippe, perché, come ho
cercato di farvi capire in queste righe dopo la storia di Damien, il
nostro psicologo, sfogliando i disegni e i temi di cui aveva accennato
anche a Vivianne nel primo capitolo, ne ha approfittato per
ripercorrere mentalmente la storia dei suoi ragazzi.
Per
me, invece, è stato un ottimo escamotage per narrarvi le
vicende dei piccoli ospiti e per farvi partecipe dei suoi pensieri in
maniera, spero, non troppo noiosa e verosimile.
Scusate
il linguaggio un po’ confusionario di questa nota!
Grazie
infinite a chi ha inserito la storia in una delle liste, mi avete reso
molto felice: a voi, cari timidoni, invito a lasciare un commento!
Inoltre,
ringrazio dal profondo del cuore e con un affetto immenso e sincero i
fantastici recensori che non hanno mai abbandonato questo mio
esperimento letterario!
Tante
grazie a tutti e a presto!
|
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Capitolo 19 *** La speranza si trasforma in realtà ***
LA SPERANZA SI TRASFORMA IN
REALTA'
Philippe stava guardando fuori dalla finestra: si stava terribilmente
annoiando, come ogni volta che prendeva la parola Madame Betancourt, la
direttrice del Centre
in cui lavorava da tre anni.
La giornata di metà maggio era stupenda e poterla viverla
solo attraverso dei pannelli di vetro lo rendeva irrequieto e
indispettito.
Si trovava nel bel mezzo di una riunione per approvare il bilancio di
fine anno, dal momento che la struttura avrebbe chiuso ufficialmente
per la pausa estiva nel giro di due settimane, sebbene lui e gli altri
psicologi avrebbero fatto dei turni per stare con i bambini e i ragazzi
che sarebbero rimasti nella struttura anche in quei tre mesi.
Il ragazzo aveva trovato posto nell’ultima fila, sulla sedia
più esterna proprio vicino alla finestra, in modo da
lanciarvi attraverso occhiate intense -ma all’apparenza
distratte- ogni qualvolta ne avrebbe sentito la necessità
vitale.
Si era seduto vicino a Liliane, con cui nelle ultime settimane stava
intrattenendo una sorta di relazione fisica, di cui però non
era troppo convinto: la ammirava e la desiderava come donna, non poteva
negarlo, tuttavia, quando lei usciva da casa sua o lui usciva da quella
di lei, non ne sentiva la mancanza impellente, il desiderio straziante
di riaverla accanto a sé, semplicemente prendeva a fare
altre cose: leggere, guardare la TV, passeggiare nel parco di Montigny,
districarsi con successo tra gli scaffali del supermercato,
chiacchierare con Vivianne … insomma, riusciva sempre a
trovare un valido sostituto alla collega ed ora anche amante.
Philippe diede una rapida occhiata alle sedie davanti, distraendosi da
quei pensieri: c’erano Louise, Nicole, Mireille, Gabrielle e
Juliette, oltre alla direttrice, in piedi a parlare o, per meglio dire,
a emettere gridolini pietosi in direzione della platea.
Lo psicologo notò che tutte le colleghe sembravano essersi
messe d’accordo nel modo di vestire e
nell’acconciatura: indossavano infatti un elegante tailleur
– Louise color prugna, Nicole color pervinca, Mireille color
cenere, Gabrielle blu cobalto, Juliette rosso amaranto e Madame
Betancourt uno blu notte molto simile al nero-
Le loro teste agghindate in carré più o meno
lunghi erano curate e tagliate alla perfezione.
L’unica che differiva da quello strano spettacolo era Liliane
che, come sempre, riusciva a stupire piacevolmente Philippe: era
semplicemente bella nella sua blusa verde limone e un paio di jeans
attillati, i capelli biondi lasciati sciolti.
Il ragazzo lanciò un’occhiata anche verso di lei,
ritrovando i suoi occhi azzurri scrutare nei propri; poi,
percepì la mano della donna accarezzargli una gamba, in un
gesto di impellenza mal celata.
“Allora, signor Soave! Vuole, per cortesia, dirci cosa ne
pensa riguardo ciò che abbiamo detto poco fa?”
La direttrice lo aveva colto in fallo, doveva ammetterlo: non la stava
più seguendo da un buon quarto d’ora, ormai, da
quando si era addentrata ad elencare cifre e nomi di rifornitori a lui
completamente sconosciuti.
La cosa che più gli premeva, che gli era sempre importata
davvero da quando aveva cominciato a lavorare al Centre, era il
benessere degli ospiti della struttura, che non avessero problemi di
salute, che riuscissero a frequentare la scuola, a fare i compiti e
che, alle sedute psicologiche che si svolgevano una volta alla
settimana, risultassero il più spensierati possibile.
Il resto non era affar suo, doveva sbrigarsela la direttrice, quella
donna che non sopportava, che pensava solo al proprio interesse e alla
necessità – se così si poteva definire
alla sua età- di trovare l’anima gemella.
“Philippe … hai sentito? Cosa ti è
preso? Stai male?”
Liliane prese ad interrogare l’uomo a bassa voce, facendo
finta che le fosse caduto qualcosa.
Lui tossì lievemente e, cercando la mano della donna, la
strinse, come a voler dire che era tutto a posto, che non doveva
preoccuparsi di nulla.
“Mi scusi, madame Betancourt, non mi sento molto bene. Potrei
uscire un momento?”
“Oh ma certo, certo!” cominciò a
blaterare l’interrogata, arrossendo sulle gote mezze
rinsecchite, già cariche di fondotinta.
Lo psicologo guardò con un sorriso la collega sedutagli
accanto, rassicurandola con un occhiolino.
Quindi, finalmente, riuscì ad uscire da quell’aula
che stava diventando una prigione.
Una volta in corridoio, tirò un profondo sospiro di
sollievo, sentendosi persino un po’ in colpa per la scarsa
opinione che continuava ad avere per il suo superiore: si
passò una mano fra i capelli arruffati e tastò
nelle tasche alla ricerca delle chiavi di casa, dopo che il terrore di
averle dimenticate chissà dove lo aveva assalito pochi
minuti prima, quando la direttrice aveva pronunciato la parola casa.
Gli strani scherzi della
mente, tagliò corto Philippe.
Poi, scese velocemente le scale: una volta nell’androne del
palazzo, controllò che non ci fosse nessuno in giro,
così, solamente per puro scrupolo senza alcun fondamento,
ben sapendo che i cento bambini e ragazzi si trovavano in gita a
Parigi, assieme alle quattro insegnanti che la struttura assumeva per
il periodo estivo, alternandosi appunto con gli psicologi del Centre.
Ogni anno, infatti, durante il giorno dedicato alla fatidica e
noiosissima riunione di approvazione del bilancio, madame Betancourt
spediva gli ospiti a vedere l’acquario della capitale,
approfittando dell’entrata pressoché gratuita,
dovuta alla presenza di una cugina che soprintendeva al museo acquatico.
Una volta uscito nel giardino, si guardò intorno: le solite
tre panchine di acciaio, qualche cespuglio mal potato, una manciata di
abeti, la bellissima quercia già visibile dalla strada, uno
spruzzo di margherite selvatiche sull’erba non troppo curata
e, infine, l’area giochi composta da due scivoli e sei
altalene.
Pensare che era impiegato
un
altro anno a lavorare con passione per quei meravigliosi ragazzi,
inorgogliva immensamente Philippe, ma lo rendeva anche piuttosto
triste, in quanto nessuno di essi si era riunito alle proprie famiglie
di origine, non definitivamente perlomeno: alcuni dei genitori o dei
parenti più prossimi aveva ottenuto il permesso dal
tribunale e, di conseguenza, dagli assistenti sociali di poter vedere
regolarmente i bambini e i ragazzi, ma le loro situazioni economiche o,
più spesso, giudiziarie, impedivano di potersi ricongiungere
per sempre, almeno nell’immediato futuro.
C’era un sole piacevolmente caldo, talmente caldo che
l’uomo dovette mettersi all’ombra per non
cominciare a sudare, che quasi lo indusse ad abbandonare quei pensieri
così tristi.
Si accomodò perciò sotto la quercia, un albero
maestoso, di una magnificenza senza uguali, che sapeva infondergli
tranquillità e stupore al contempo.
Si sedette ai suoi piedi, facendo attenzione a non calpestare le sue
radici e, la schiena addossata al tronco possente, sollevò
le ginocchia, fino a farle appoggiare al petto, i piedi ben saldi al
terreno, le mani congiunte, abbandonate mollemente sulle gambe
rannicchiate.
In quel momento, avrebbe voluto trovarsi lontano, non avrebbe saputo
spiegarne il motivo: voleva fare un viaggio, magari in un posto
esotico, da solo, lontano da tutto e da tutti.
Durante l’estate, si sarebbe recato in Italia, a fare visita
agli zii, Arianna e Paolo, e ai cugini, Alessia e Marco.
Ovviamente avrebbe trascorso un paio di settimane anche dai suoi,
approfittando per ritrovare gli amici, le sorelle e i nipoti.
Infine, sarebbe andato qualche giorno al mare, sulla famosa Cote
d’Azur, per rilassarsi davvero, in solitudine e in assoluta
libertà.
Philippe alzò la testa, assorto in quei pensieri e progetti
che ripeteva ogni anno, ormai da molto tempo.
Con Liliane aveva parlato di visitare la Normandia, dal momento che
entrambi erano appassionati di Storia.
Avevano controllato i loro turni al Centre e,
fortunatamente, avrebbero potuto organizzare quella vacanza, magari
verso fine agosto, la settimana prima di riprendere ufficialmente
l’attività nella struttura.
E poi, voleva tanto prendere un cane o un gatto, forse entrambi,
perché aveva nostalgia di qualcuno che lo attendesse al suo
arrivo a casa, proprio come quando era un ragazzino, che lo amasse in
maniera incondizionata, che lo facesse divertire con la propria
innocenza, magari anche arrabbiare perché a volte si
rivelava disobbediente, ma si trattava pur sempre di un compagno
instancabile di giochi e di avventure.
Anche di quello aveva parlato alla sua … beh, quasi
fidanzata, e anche lei si era trovata d’accordo nello
scegliere un animale domestico.
Sì, ormai ne sentiva la necessità …
“Mi scusi, vorrei entrare, come faccio?”
Una voce di donna interruppe il flusso di pensieri di Philippe:
l’uomo si alzò in piedi, come punto da un insetto
fastidioso.
Rimase per qualche secondo fermo, senza sapere e vedere chi gli aveva
rivolto la parola.
Allontanandosi titubante dalla quercia, riuscì a scorgere la
persona che si trovava a pochi metri da lui: una signora sui
quarant’anni, i capelli ricci tagliati corti e un vestito
color mostarda, stava agitando timidamente una mano verso di lui.
“Arrivo …” mormorò lo
psicologo, affascinato da quella presenza.
La donna, infatti, era indubbiamente molto bella, se ne stava
accorgendo mentre si avvicinava: gli occhi erano scuri, ambrati, la
voce aveva un vago accento straniero.
“Mi scusi, ho bisogno di parlare con la direttrice”
“In questo momento non la può ricevere, signora.
E’ in riunione” precisò da perfetta
segretaria Philippe, ormai ad un passo dalla nuova arrivata, solo il
cancello in ferro a dividerli.
“Ho suonato, ma non risponde nessuno. Non
c’è una sua, come si dice, sostitutta,
giusto?”
“Sostituta, sì, con una sola t. Mi dispiace, ma la direttrice è impegnata: dovrà attendere la fine della riunione. Non credo ci
vorrà molto …”
Lo psicologo si diede dello stupido per aver precisato come si
pronunciasse un’altrettanto stupida parola, sentendosi
assolutamente fuori luogo in quel momento.
“Non parlo bene il vostro francese. Io vengo dal Senegal e
lì parliamo un mix di dialetto e francese”
La donna gli sorrise, mostrando una dentatura curata e bianchissima.
“Non si preoccupi, non è un problema. Ha bisogno
di qualcosa in particolare?” proseguì Philippe,
credendo che la signora avesse sbagliato posto, scambiando il Centre per una
struttura di accoglienza riservata agli adulti.
“Sì, sono qui per mia figlia. Il giudice mi ha
dato il permesso per portarla via, a casa. Io ho comprato un piccolo
appartamento per noi due, non comprare, come si dice?
Affittare?”
Philippe annuì sorridendo: forse le sue speranze di poco
prima si stavano avverando, forse quella donna era la madre di una
delle bambine o ragazze di cui si occupavano e che, finalmente, avrebbe
di nuovo riscoperto il significato della parola famiglia.
“Ha ricevuto il permesso dal giudice?"
"Sì, dal giudice!" precisò felice, annuendo.
"Io sono uno degli psicologi della struttura, nonché loro
insegnante. Mi chiamo Philippe Soave, molto piacere”
“Io sono Aimée Zoukra, la madre di Sophie, lei
conosce? Ha otto anni e so che è qui da voi. Monsieur
Batignole viene dopo per confermare mie parole”
L’uomo sbiancò per un attimo in volto: il sogno
dell’ex bambina pugile, come l’aveva scherzosamente
soprannominata dopo il loro primo burrascoso incontro, ormai quasi tre
anni prima, si stava finalmente avverando.
Sebbene la donna avesse sempre più diradato le telefonate e
le lettere nel corso di quei due anni abbondanti, la figlia non aveva
mai perso la fiducia che la madre sarebbe tornata a riprenderla.
E così, infatti, stava avvenendo.
Philippe si sentì confuso ma felice, non sapeva nemmeno
più come comportarsi, cosa dire, se aprire il cancello e
fare accomodare la donna nell’ufficio della direttrice, in
attesa che quella noiosissima riunione finisse, oppure se attendere
l'arrivo dell'assistente sociale.
“Venga con me, signora” decise, sancendo le sue
parole con un gesto di sollecitudine della mano destra.
Il clic
dell’inferriata mise fine alla distanza tra i due: sì, è
decisamente bellissima, concluse mentalmente lo psicologo.
Come aveva osato il suo compagno a picchiarla, a farla soffrire, a
rovinare quel bel viso, quelle braccia lasciate coraggiosamente nude e
abbruttite da una vistosa cicatrice in prossimità del polso
sinistro?
L’uomo deglutì, disgustato da ciò che
la donna aveva dovuto passato e, facendole strada, la condusse oltre il
giardino, nell’androne, fin su per le scale,
nell’ufficio di Madame Betancourt.
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Capitolo 20 *** Il colloquio ***
IL COLLOQUIO
Philippe era decisamente imbarazzato: di solito, quelle pochissime
volte – solo due, per quanto gli riguardava- in cui i
genitori o i parenti di uno dei ragazzi del Centre si erano presentati alla struttura per trascorrere del tempo con loro, lui
partiva in quarta nel raccontare i progressi del figlio o del nipote, a
spiegare l’importanza dell’istruzione
affinché potessero crescere con un proprio pensiero critico,
a elogiare le caratteristiche e a disapprovare le marachelle o le
disobbedienze, soprattutto dei più piccoli.
Spesso, lo psicologo si sentiva -se mai fosse stato possibile- ancora
più emozionato da quel ricongiungimento rispetto agli stessi
genitori, ma quella volta, davanti alla madre di Sophie, non riusciva
quasi ad aprir bocca.
La donna, avvolta nell’abito color mostarda che le arrivava
fino alle ginocchia, era seduta su una delle due sedie poste di fronte
alla scrivania della direttrice: teneva una pochette nera appoggiata al
ventre, quasi come se temesse che qualcuno o qualcosa potesse
strappargliela dalle mani.
Lanciava occhiate impazienti verso la porta, almeno una ogni cinque
secondi, poi ritornava a tormentarsi il polso sinistro, quello dove
l’uomo, pochi minuti prima, aveva riconosciuto una vistosa
cicatrice, in parte nascosta da un grosso bracciale in legno.
Philippe si soffermò ad ammirare i capelli ricci e
scuri, all’apparenza soffici e profumati, forse dello stesso
profumo che aveva vagamente annusato quando la signora le si era
avvicinata, per sedersi: lui non se ne intendeva per nulla di essenze o
di aromi che non fossero quelli di un buon piatto, quindi non riconobbe
la lieve fragranza di fresia.
L’uomo, appoggiato al termosifone spento posto di fianco alla
finestra, se ne stava in piedi, le braccia conserte, lo sguardo
abbassato: metà del suo corpo proiettava un’ombra
che si andava a riflettere sul pavimento, allungandosi fino a dove era
seduta la signora Zoukra.
“Sua figlia è molto brava: al mattino, insieme ai
suoi compagni, segue il programma ministeriale, mentre il pomeriggio l'
aiutiamo a fare i compiti. E’ una bambina molto giudiziosa e
intelligente … parlava spesso di lei …”
La voce dello psicologo risultava calma e piatta, sebbene avvertisse i
battiti del cuore accelerare vertiginosamente e una morsa
stritolatrice avvinghiargli lo stomaco.
Deglutì, sperando di non aver detto né una parola
offensiva né una parola di troppo: si sentiva come un
collega alle prime armi, appena laureato e ancora completamente
insicuro di sé.
“Parlava è passato? Io penso sempre a Sophie, lei
mia vita e mia gioia. Scrivo lettere ogni mese e prima telefonavo
…”
La donna guardò fisso negli occhi Philippe, come a volerlo
sfidare del suo amore incondizionato per la figlia.
“Sì, sì lo so, è quello che
volevo dirle. Sapevamo che Sophie riceveva delle lettere e delle
telefonate, poi non risulta che abbia più chiamato.
Perché?”
La signora abbassò gli occhi ambrati, grandi
e luccicanti:
“Il giudice ha mandato me in una comunità, insieme
ad altre donne picchiate da uomini. Non potevo chiamare nessuno, solo
scrivere poco. Ma io ho sempre pensato a mia figlia, tutti i giorni di
questi due anni”
Lui deglutì ancora, sentendosi immensamente stupido e
inadeguato, le fauci improvvisamente secche.
“Non lo sapevamo, cioè, non eravamo al corrente
che lei si trovasse in una comunità, mi scusi. Sophie lo
sapeva?”
Aimée scosse la testa:
“Io scrivere che stavo bene, ma ero lontana perché
non sicura. Poi promettevo che tornare da lei ed eccomi qui, per
prendere mia bambina e vivere insieme, lontano da questa
città pericolosa!”
L’orgoglio e la fierezza che trasparivano dal suo sguardo
erano qualcosa che Philippe non aveva mai visto: erano dei sentimenti
puri, sinceri, che solo una donna ferita e umiliata poteva trasmettere.
Per l'ennesima volta in quei pochi minuti, l'uomo si sentì
nuovamente attratto da quella donna: sebbene non la conoscesse,
nonostante fosse la madre di una dei suoi ragazzi, benché
avesse dieci anni più di lui, seppure venisse da un Paese
lontano, da una situazione degradata … era più
forte di lui, come se lei incarnasse l’oasi nel deserto,
l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi per sopravvivere
durante una catastrofe non annunciata.
“La capisco, signora" riuscì solo a balbettare,
recuperando il controllo necessario. "Ma le assicuro che qui, insieme a
noi, Sophie è sempre stata al sicuro. L’abbiamo
trattata come fosse una figlia, non le abbiamo mai fatto mancare nulla.
Può esserne orgogliosa …”
In quel mentre, avvertirono la porta dell’ufficio aprirsi: in
tutta quella baraonda di emozioni e di ricordi, Philippe si era
completamente scordato di andare ad avvisare la direttrice, per
metterla al corrente che c’era una visita per lei.
“Oh, signor Soave! Cosa ci fa qui? Si sente meglio adesso? E
questa donna chi è?”
La voce fatta di gridolini acuti tartassò di tutte quelle
domande l’uomo che, scattando in avanti, cominciò
a spiegare:
“Sì, va meglio, la ringrazio. Ehm, madame
Betancourt, mi scusi l’intrusione, ma questa donna avrebbe
urgente bisogno di parlarle. E’ la madre di una nostra
ospite, Sophie Zoukra, una bambina della mia classe
…”
La donna, ancora in piedi e avvolta nel suo tailleur blu notte simile
al nero, un plico di fogli tra le mani, si avvicinò ai due,
scrutandoli con circospezione:
“Ah, piacere … “ e strinse debolmente la
mano della signora, ora anche lei alzata e palesemente più
alta della direttrice di una spanna abbondante.
“Prego, accomodatevi …”
continuò l’altra, prendendo posto sulla poltrona
all’altro lato della scrivania.
“Sono Aimée Zoukra e sono qui per portare via mia
figlia. Ho qui la lettera del giudice e presto viene anche monsieur
Batignole, assistente sociale, per confermare che io non dico
bugie”
Aimée aprì finalmente la pochette che tanto le
stava a cuore e, rapida e sicura nei movimenti, tirò fuori
una busta bianca, di forma rettangolare, che porse alla direttrice.
Philippe aveva seguito quello scambio di battute, intuendo senza troppe
difficoltà quanto madame Betancourt fosse piuttosto
diffidente nei confronti della nuova arrivata; così, decise
di intervenire:
“Direttrice, la signora Zoukra desidera solo riabbracciare e
rivedere la figlia. Come ben si ricorderà, la sua
è una storia molto delicata che …”
“Me la ricordo, dottor Soave” lo interruppe
bruscamente la donna, con un’occhiata gelida attraverso gli
occhiali ricoperti di strass, le mani ossute e cariche di gioielli
appoggiate al bordo della scrivania.
Solamente in presenza di estranei, si appellava allo psicologo con quel
titolo, forse per rispetto o, forse, ricordandosi improvvisamente della
sua laurea che comportava per diritto quel suffisso prima del cognome.
“La mia memoria è ancora buona, grazie.
Semplicemente, e mi sembra lecito averne, mi sorge qualche dubbio:
perché il tribunale o anche solo gli assistenti sociali non
mi hanno avvisata prima dell’arrivo della qui presente
signora?”
In effetti, non aveva tutti i torti: in prima istanza, la
responsabilità dei bambini e dei ragazzi
all’interno del Centre
era principalmente sua, quindi doveva garantirne sempre e comunque
l’incolumità più assoluta.
“Avvisare prima non è compito del
giudice” cominciò a spiegare Aimée, la
voce alterata “io adesso donna libera, lui e
monsieur Batignole hanno dato permesso per venire a prendere Sophie,
quando voglio. Ed io sono qui, capito?”
Madame Betancourt si alterò un tantino: si mosse agitata
sulla poltrona e farfugliò qualche parola del tipo:
“Non si rivolga a me con questo tono, signora!”
Philippe, percependo la gravità della situazione, che stava
diventando sempre più incandescente, intervenne nuovamente
per cercare di placare gli animi:
“Direttrice, forse, prima di tirare qualsiasi conclusione
affrettata, non è meglio attendere l’arrivo
dell’assistente sociale? Sono sicuro, da quanto ci ha
riferito la signora, che sarà qui a momenti”
La donna sembrò calmarsi, annuendo non del tutto convinta.
“Anzi, intanto che aspettiamo, volete del
caffè?”
Aimée disse di no, mentre l’altra
biascicò:
"Grazie, dottor Soave, macchiato andrà benissimo
…"
L’uomo, lanciando un’occhiata preoccupata dietro di
sé, si allontanò
dall’ufficio: scese le scale pensieroso, per andare
al piano di sotto, il posto più vicino dove trovare un
distributore automatico di bevande calde.
“Philippe! Dove ti eri cacciato? Mi stavo
preoccupando!”
Si girò di scatto, come se fosse stato colto in fallo a fare
qualcosa che non avrebbe dovuto fare:
“Liliane! Io ... io stavo andando a prendere un
caffè per madame Betancourt. Vuoi venire anche tu?”
La ragazza lo guardò stupita, come se parlasse
un’altra lingua:
“Cosa stai combinando?!” lo punzecchiò,
avvicinandosi e stampandogli un bacio sul collo.
“Nulla: è solo che, di là, nel suo
ufficio, si sta svolgendo una sorta di duello all’ultimo
sangue. E’ tornata la mamma di Sophie …”
concluse, abbassando gli occhi con fare colpevole.
“La bambina che adesso è nella tua classe, intendi
dire? Ma è una notizia bellissima! E come sta?”
I due, intanto, erano arrivati davanti alla macchinetta: Philippe mise
dentro la moneta necessaria per il caffè macchiato, poi
domandò a Liliane se ne volesse uno.
“No, grazie, ne ho bevuto uno poco fa … allora,
raccontami!”
“In realtà non so ancora nulla, a parte il fatto
che la donna ora non è più in comunità
protetta e quindi può di nuovo muoversi come meglio crede.
E’ venuta per riprendersi la figlia e portarla via da qua,
dal Centre
e dalla città …”
Al segnale acustico, Philippe prelevò il bicchierino di
carta, per poi avviarsi di nuovo sulla rampa di scale, zittendosi
all'istante.
“Stai bene? Ti vedo un po’ silenzioso
…”
Arrivati davanti alla porta dell’ufficio della direttrice, i
due si fermarono:
“Sì, va tutto bene, sono solamente scosso per
questa notizia. Ma sono felice per Sophie e per sua madre”
Liliane annuì sorridendo e, baciandolo su una guancia, gli
propose:
“Se hai bisogno del mio sostegno, entro dentro con te. Tanto,
prima di oggi pomeriggio i ragazzi non torneranno dalla gita!”
Lo psicologo la guardò sorridendo, contagiato
dall'entusiasmo di lei:
“No, non è necessario, grazie. Anzi, stiamo
aspettando anche monsieur Batignole perché testimoni la
veridicità delle parole della donna. Comunque, ci vediamo
dopo, per pranzo …”
Philippe le sorrise debolmente, gli occhi riconoscenti ma confusi per
la presenza della ragazza.
Cinque minuti più tardi, arrivò anche
l’assistente sociale.
Monsieur Batignole era un ometto sulla sessantina, pingue, che
ricordava vagamente l’investigatore belga più
famoso della letteratura; vestiva meno formale, però, con
una camicia bianca fermata da delle bretelle a fantasia scozzese e un
paio di pantaloni di velluto, decisamente pesanti per la stagione.
“Oh bene, finalmente è arrivato!” lo
salutò la direttrice, alzandosi e dirigendosi verso il nuovo
venuto.
“L’appuntamento mi sembra fosse
per le undici,
perlomeno ero rimasto d'accordo così con la signora Zoukra
…”
La madre di Sophie guardò intensamente l’uomo, in
attesa che proseguisse: la tensione tra le due donne, infatti,
continuava ad essere palpabile.
“Ha già fatto vedere la lettera del giudice,
signora?”
Aimée annuì due volte, rincuorata dal tono
gentile dell’uomo.
“Sì, l’ho letta e non capisco
perché non ci abbiate avvertito prima, monsieur
Batignole!” s’intromise la direttrice, acidula.
“Vede, madame Betancourt, la decisione ultima non spettava
né al tribunale né tantomeno al sottoscritto.
Madame Zoukra è la madre della bambina e, adesso che il suo
ex compagno è stato definitivamente condannato a
vent’anni, è tornata ad essere una persona libera,
che può muoversi come, dove e quando lo ritiene opportuno.
Per questo, non ci sembrava giusto avvisarvi, tanto più che
ho saputo solo ieri pomeriggio le intenzioni della signora di venire
qui, stamattina”
La direttrice impallidì per qualche secondo, aprì
la bocca e, con il migliore dei sorrisi di circostanza,
acconsentì:
“Va bene, se è la verità e non ho alcun
dubbio di dubitarne, la signora può vedere la figlia e, se
lo desidera, portarla via. La prego di scusare il mio
comportamento” continuò rivolta ad
Aimée “ma spero comprenderà
quanto sia affezionata ai ragazzi del Centre e quanta
responsabilità abbia nell’assicurarmi che non li
accada nulla di spiacevole … “
“Sì, io perdono, ma dov’è
Sophie?!” il volto dell’altra donna si
illuminò di gioia, supportata dalla stretta
amichevole alla spalla di monsieur Batignole.
“In
questo momento,
sua figlia si trova in gita a Parigi. Tornerà per le quattro
…” rispose Philippe, sorridendo a sua volta.
“Posso aspettare qui?”
“Credo non ci saranno problemi, vero madame
Betancourt?”
La direttrice guardò prima l’assistente sociale
che le aveva rivolto la parola e poi lo psicologo; infine, sorrise e,
annuendo, confermò:
“Certo, certo, signora Zoukra. Si può accomodare
nella sala riunioni, al piano di sotto. Anzi, perché non
l’accompagna a fare un giro della struttura, dottor
Soave?” L'uomo
annuì e, sentendosi avvampare in volto, si avviò
verso la porta: la aprì e attese che Aimée lo
precedesse, poi scomparvero alla vista.
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Capitolo 21 *** L'incontro ***
L'INCONTRO
Aimée si sentiva agitata ed emozionata: il solo pensiero di
rivedere sua figlia, di riabbracciarla e baciarla, le procurava un'
infinita sensazione di gioia e di amore.
Quel ragazzo così tanto gentile, l’insegnante di
Sophie, le aveva tenuto compagnia per tutta la mattinata: dopo
l'iniziale imbarazzo che non le era affatto sfuggito, l'uomo si era
lanciato in un entusiasmante tour
dei ricordi; per prima cosa, l'aveva accompagnata nell’aula
in cui faceva lezione la sua bambina, sulle cui pareti erano stati
messi in bella mostra i disegni che, in quei due anni di lontananza
forzata, la piccola aveva ritratto; poi, fu la volta dei quaderni, in
gran parte ordinati, su cui riportava ciò che diligentemente
imparava.
Da un armadio della stessa stanza, l'uomo aveva recuperato le foto di classe
in cui l'ex pugile bambina appariva sorridente; infine,
l'accompagnò nei laboratori di pasticceria e in quello
musicale, tra gli scaffali e le poltrone della biblioteca, nel
giardino, piccolo ma molto grazioso, della struttura.
In tutto quel lungo percorso della memoria, attraverso gli occhi del professor Philippe
- come la donna aveva insistito per chiamarlo, nonostante le
rassicurazioni dell'altro-, Aimée aveva ascoltato
affascinata e commossa.
Il ragazzo le aveva assicurato che, dal punto di vista
psicologico, sa petite
non aveva subito forti ripercussioni: durante le prime sedute, ormai
due anni prima, Liliane, la collega che si era occupata inizialmente di
Sophie, aveva notato una certa aggressività ma,
già dall’anno successivo, le aveva pazientemente
spiegato l’uomo, i miglioramenti erano stati netti e in
continuo aumento.
La donna era molto orgogliosa di sua figlia e di tutte le belle parole
che il professor Philippe le stava riferendo: la direttrice, invece,
non la trovava particolarmente simpatica ma, da ciò che
aveva capito durante quel veloce scambio di battute alla presenza
dell’assistente sociale, era stata troppo precipitosa nel giudicarla, perché in realtà era lì solo per fare al
meglio il proprio lavoro, tra cui svettava un compito
decisamente difficile, ovvero quello di
proteggere la sua bambina e tutti gli altri ragazzi da eventuali
pericoli.
“Presto potrà rivedere Sophie
…” continuò lo psicologo, notando il
silenzio di Aimée.
Dopo il breve giro lungo il perimetro irregolare del giardino, adesso
si trovavano seduti su una delle tre panchine in mezzo al prato, poco
distanti dallo scivolo e dalle altalene, gli unici giochi presenti, se
non si contava la rete per le partite di pallavolo o il canestro per
quelle di basket, che venivano montati all’occorrenza.
“Sono molto felice, monsieur,
sono tantissimo felice!”
“Lo immagino, signora Zoukra. Anche sua figlia
sarà contenta di rivederla, non abbia paura
…”
Philippe le sorrise dolcemente e posò una mano su quelle di
lei, incrociate in grembo, la pochette nera adagiata sulle ginocchia.
Mancava poco più di un’ora al rientro previsto dei
ragazzi dalla gita all’acquario di Parigi: durante quegli
attimi trascorsi a fare da improvvisata guida turistica,
l’uomo non era riuscito a non sentirsi in colpa, a desiderare
di essere in un altro posto.
Il motivo di quel groviglio di sentimenti che non lo lasciava in pace,
era da attribuire al semplice fatto di aver dato buca a Liliane,
dicendole che la direttrice aveva più volte insistito con
lui affinché portasse in giro per il Centre la spaesata
Aimée, pur sapendo che quella non era la corretta versione di
ciò che era accaduto.
La sua collega, ignara della confusione che stava provando Philippe,
si era limitata ad annuire, comprensiva, l'aria raggiante ed
emozionata per quell’imminente ricongiungimento.
Si erano perciò dati appuntamento a fine giornata,
all’uscita dal cancello della struttura.
“Dove pensate di andare? Non vuole più stare qui
a Versailles, giusto?” riprese a parlare lo psicologo,
rimuovendo ancora una volta quei pensieri.
La donna scosse la testa, fissandolo con i suoi grandi occhi ambrati.
“Questa città è cattiva: il padre di
Sophie è morto poco dopo la nascita della bambina, in Senegal.
Allora io partita per Francia, a raggiungere miei fratelli che vivono
nella capitale. Loro hanno ospitato me e mia figlia, ma io volevo
lavorare e così ho conosciuto Thoulouse, un uomo bello ma
con mani pesanti.
Lui era geloso di me, perché io facevo parrucchiera in un
piccolo negozio: quando tornavo a casa la sera, lui picchia forte,
pazzo! Io dico pazzo perché non ubriaco, lui non beveva. In quei momenti, chiudevo Sophie
nel bagno, così lei non poteva vedere e sentire le mie urla,
cosa lui fare a me.
Poi, un giorno, ho trovato forza e ho preso vaso e dato sulla testa di
Thoulouse.
Allora, io approfittato per scappare e andare da polizia, per
denunciare: loro hanno portato qui Sophie e me in una
comunità insieme ad altre donne picchiate. Ho lasciato mia
figlia davanti a casa della polizia, con dei vestiti e un biglietto in
cui scritto di aiutarla, perché avevo paura che non
credevano alle mie parole.
Ma il giorno dopo, loro arrivati a prendermi e a portarmi in
comunità, sgridando perché Sophie non era con me,
ma io ho detto che fatto per il suo bene, per l’amore che
provo per lei.
Il giudice permesso me di telefonare e scrivere a mia figlia, fino
all’inizio del processo: poi non ho più potuto
telefonare per mia sicurezza, ma solo mandare lettere.
Adesso, Thoulouse in prigione per tanti anni e noi di nuovo libere e
insieme, per sempre!”
Se la situazione non fosse stata palesemente tragica, Philippe si
sarebbe messo a ridere di quegli strafalcioni verbali che la donna
abbondava quando si esprimeva: il ragazzo rimase a guardare ancora per
una manciata di secondi il viso perfetto ed elegante di
Aimée, deglutendo non appena si rese conto di quel silenzio
imbarazzante che stava creando.
Avrebbe voluto farle capire tutta l’empatia che provava per
lei, mentre un desiderio quasi insopportabile di stringerla a
sé gli stava annebbiando la lucidità; eppure,
semplicemente, le sorrise, trattenendosi dal fare altro:
“Quello che avete passato, signora Zoukra, appartiene al
passato. Farà sempre parte della vostra vita, ma dovete
cercare di non pensarci, perché il dolore e la sofferenza
non vi aiuteranno a costruirvi una nuova esistenza
…”
“Esistenza?”
“Sì, è come dire vita ... una nuova
vita, lei e Sophie, lontano dai tristi ricordi, lontano da
qui”
Aimée annuì, gli angoli della bocca incurvati
all'insù:
“Le sue parole sono molto importanti, professore, mi danno
coraggio. Adesso so che la mia bambina si trova bene con voi, che siete
brave persone!”
Lo psicologo abbassò gli occhi verdi, felice per quei
complimenti sinceri.
“Manca poco all’arrivo di sua figlia. Nel
frattempo, vuole mangiare qualcosa?”
La donna annuì: entrambi si alzarono dalla panchina e si
avviarono fuori dal cancello, in direzione del chioschetto ad un lato
della strada, dove spesso l’uomo, se aveva fame tra una
lezione e l'altra, si recava per prendere una baguette o una
focaccia farcita.
“Vorrei offrirle il pranzo, signora Zoukra, mi farebbe molto
piacere …” esordì con una punta
d'imbarazzo, appoggiando la mano destra sulla corrispettiva tasca dei
pantaloni, alla ricerca del portafoglio.
“Oh no, pago io, professore, per ringraziare lei e tutte le
persone di aver voluto bene a Sophie. Per favore ... ”
Philippe non ebbe neppure il tempo di ribattere, che Aimée
era già intenta a parlare con il venditore, indicando con
l'indice due appetitosi panini.
“Aranciata o acqua, monsieur?”
gli sorrise lei, le mani occupate da quegli invitanti e
profumati involucri caldi.
“Come vuole: quello che sceglie, andrà benissimo
anche per me …”
E così, seduti composti su una panchina del giardino del Centre, l'aspetto
di due scolari intenti a seguire una lezione all'aria aperta,
sfiorandosi appena, l’attesa fu più piacevole in
compagnia di baguette e orangeade.
Il pullman arrivò poco dopo le quattro: la madre di Sophie
sembrava impassibile; da tanto che era agitata appena qualche minuto
prima, adesso sembrava insensibile a qualsiasi emozione.
Respirava appena, per poi ricaricarsi d’aria, a intervalli
regolari, con profonde inspirazioni ed espirazioni appena percettibili.
Lo psicologo l'aveva sostenuta fino a quel momento, rassicurandola sul
buon esito dell'incontro che si sarebbe svolto a breve.
“Eccoli!” esclamò Philippe, un passo
dietro di lei, non appena la vettura si rese visibile ai loro occhi,
entrando nello spiazzo di fronte la cancellata aperta.
L’uomo avvertì dei passi dietro di loro: madame
Betancourt e monsieur Batignole li avevano appena raggiunti, sorridendo
emozionati.
Li degnò appena di uno sguardo, troppo in fermento per
l’imminente arrivo dell’ex pugile bambina.
Non stava più nella pelle, perché sapeva da
quanti mesi Sophie aspettasse quel momento, così come era
facile ed ovvio intuire quanta ansia e quanta felicità
stesse provando Aimée.
Lei e lo psicologo avevano parlato sull’eventuale
necessità di preparare la bambina a quell’incontro
così emotivamente forte, ma poi Philippe aveva optato per
uno strappo alla regola: non sarebbe andato dalle colleghe, sul mezzo
con il motore ancora caldo, per avvisarle della meravigliosa sorpresa
che attendeva una delle piccole ospiti, appena avrebbe messo piede a
terra; non sarebbe salito sul pullman per sprecare tempo prezioso in
inutili preamboli di circostanza, sicuro di angosciare inutilmente
Sophie.
Semplicemente, avrebbero aspettato che lei scendesse e riconoscesse sua
madre, la donna che da troppi mesi aveva desiderato riabbracciare.
Non
appena vide la prima coppia di ragazzini scendere dagli scalini,
seguiti da una fiumana non più così in ordine,
Aimée fece qualche passo in avanti, la bella bocca carnosa
semi aperta, la mano destra già alzata verso quella folla
indistinguibile.
Philippe la stava per seguire, sentendosi sospinto da una forza
invisibile, che gli suggeriva di andare, di partecipare a
quell’immensa gioia.
Poi, il suo buon senso e i suoi anni, pochi ma buoni, di esperienza
come cercatore
dell'anima, lo bloccarono all’istante: non
avrebbe dovuto immischiarsi in quell’avvicinamento tra madre
e figlia, era un momento troppo intimo, troppo forte da reggere, forse
persino per le due dirette interessate.
Perciò, rimase fermo al suo posto, mentre i metri che lo
separava da quella donna che riteneva bellissima, aumentavano
di secondo in secondo.
“Sei emozionato, vero?”
L’uomo si voltò e vide Liliane, sorridente e
pronta a stringergli con forza e dolcezza la sua mano sinistra.
“S-sì, sì, un po’. Anzi,
parecchio …” concluse con un sorriso nervoso
Philippe, ricambiando l’intreccio.
“E’ un momento bellissimo: anch’io
l’ho vissuto con due fratellini, l’anno prima che
tu venissi a lavorare qui. Ho pianto come se fossi stata io la
madre!”
Lo psicologo distolse lo sguardo dalla ragazza, mentre una nuova ondata
di senso di colpa lo invase: trovarsi vicino a lei, a quella che a
tutti gli effetti poteva e doveva considerare la sua fidanzata, gli
incuteva al contempo tranquillità e nervosismo, sentendosi
legato da un doppio filo invisibile che aveva il potere di confonderlo
ulteriormente.
Guardò verso l'alto, il sole caldo di metà maggio
che trapelava dalle fronde della quercia, come a cercare conferme che
il mondo non stava cambiando, che era lì a fare il suo
lavoro, con la donna che amava, nulla di più e nulla di meno.
Poi, finalmente, sia Aimée che loro due scorsero Sophie, lo
zainetto rosso sulle spalle, la maglietta bianca in contrasto con la
pelle d’ebano e dei semplici jeans sopra delle altrettanto
normalissime scarpe da ginnastica, consumate ai lati.
“Sophie, Sophie, Sophie!!!”
La giornata primaverile di metà maggio venne piacevolmente
squarciata dalle grida di giubilo della donna, che prese a correre
verso la figlia, sempre più vicina.
La bambina rimase immobile per qualche secondo, forse non realizzando
appieno ciò che stava per avverarsi, addirittura
non riconoscendo la persona che le stava venendo incontro, le braccia
aperte e pronte ad accoglierla.
“Mamma, mamma, sei tu! Oh mamma!!!”
Ed ecco che anche lei si era resa conto
dell’identità di Aimée che, finalmente,
l’aveva raggiunta e stretta in un tipico abbraccio materno.
Philippe avvertì un brivido corrergli lungo la schiena, gli
occhi che bruciavano per le lacrime che stentavano a scendere,
perché lui non voleva che corressero giù a
rovinare quel meraviglioso e magico momento.
“Ho la pelle d’oca … “
commentò Liliane, per nulla imbarazzata a trattenere il
pianto di gioia.
Solo allora, l’uomo si voltò verso di lei e le
cinse la vita, avvicinandola: girando il volto nella sua direzione, si
accorse di madame Betancourt che singhiozzava sommessamente, pochi
passi dietro di loro, sorretta da monsieur Batignole, anche
lui commosso, ma un maggior distacco nell’esprimere
le proprie emozioni.
Philippe sorrise brevemente ad entrambi, ritornando subito dopo ad
osservare la scena in lontananza.
Sophie e Aimée erano ancora avvinghiate in
quell’abbraccio tenerissimo, mentre le insegnanti e gli altri
ragazzi si stavano allontanando, creando una sorta di cerchio di
protezione attorno a loro.
I più piccoli avevano le bocche aperte dalla sorpresa, i
più grandi sorridevano e piangevano, desiderando di trovarsi
nella stessa situazione della loro compagna.
Persino l’autista del pullman era sceso dal mezzo,
impeccabile nella sua divisa composta da una camicia azzurra e i
pantaloni blu scuro, eppure emozionato da quello spettacolo sincero e
lungamente desiderato.
Lo psicologo strinse con maggior forza la vita di Liliane, come ad
essere sicuro che fosse lì con lui, poi riprese a godersi
quello spettacolo meraviglioso.
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Capitolo 22 *** L'orologio traditore e la cena con confidenze ***
L'OROLOGIO
TRADITORE E LA CENA CON
CONFIDENZE
“Si avvisa la
gentile clientela di affrettarsi alle casse. Il supermercato
chiuderà tra dieci minuti”
Philippe
stava cercando disperatamente il paté di olive che amava
spalmare sul pane tostato, le famose bruschette italiane da lui
personalizzate, ma che non riusciva a trovare in nessuno scaffale.
Al
lavoro, aveva avuto una giornata decisamente pesante e, quella ricerca
snervante, lo stava irritando ancora di più.
“Hanno
cambiato tutto, qua dentro!” sbuffò a bassa voce
l’uomo, dirigendo il carrello, per la terza volta in poco
tempo, nell’ultima corsia, a pochi passi
dall’uscita.
Rovistando
dietro i barattoli di verdure sott’olio, lo psicologo stava
quasi per far cadere una delle latte di fagioli, quando
un’impiegata, una polo blu e i pantaloni scuri con il logo
della catena di alimentari stampato, si avvicinò a Philippe,
domandandogli in extremis:
“Ha
bisogno?” il tono era gentile, nonostante fosse sommersa da
una pila di scatoloni vuoti, un ciuffo di capelli biondo cenere sulla
fronte, proprio in mezzo agli occhiali da vista dalla montatura nera.
“Oh,
sì, in effetti sì! Stavo cercando il
paté di olive nere, quello che era qui … sa dove
posso trovarlo?” la guardò con aria supplichevole,
ringraziando mentalmente la Provvidenza.
La
donna appoggiò il carico da undici su una scala a pochi
metri da loro e, abbassandosi con grande nonchalance,
agguantò la piccola confezione tanto agognata
dall’uomo.
“Ecco
a lei! Le consiglio di recarsi alle casse, tra poco chiuderemo
…”
“Certo,
grazie, ora vado subito”
Philippe
si sentì un perfetto idiota: come aveva fatto a non vedere
il barattolo?
Era esattamente davanti ai suoi occhi, nell’ultimo scaffale,
tra i sottaceti, i fagioli e i barattoli di salsa di pomodoro.
“Si avvisa la gentile clientela
di affrettarsi alle casse. Il supermercato chiuderà tra
cinque minuti”
Lanciò
un’ultima occhiata desolata in direzione del luogo del
misfatto, poi, stanco e avvilito, si avviò verso le casse,
pronto ad affrontare la bolgia ed incamminandosi nella lunga colonna
che lo precedeva.
Erano
le nove e un quarto, ormai, quando finalmente Philippe
riuscì a districarsi in quell’ammasso di affamati
e assetati: il suo carrello era pieno quanto bastasse per sopravvivere
per qualche giorno, quelli degli altri, invece, assomigliavano
paurosamente a una marea di rifornimenti in vista di una nuova guerra
mondiale.
Era
pur vero che lui, ufficialmente, si doveva considerare single, ma non
trovava normale un assalto del genere a dei poveri scaffali innocenti,
stracolmi di goloserie troppe volte anche inutili.
Aprì
il portabagagli della Peugeot rossa con grande gioia, per sistemare la
grande borsa di carta rettangolare con le cibarie comprate:
l’unica cosa che desiderava, era tornare il prima possibile a
casa, farsi una doccia, mettersi la tuta, mangiare e andare a dormire
…
Stava
andando a rimettere a posto il carrello, quando questo andò
a cozzare contro un altro: lo psicologo, sovrappensiero, lo sguardo
abbassato, emise un piccolo gemito di scuse, in direzione della persona
che aveva involontariamente urtato.
“Philippe,
sei sempre il solito!”
“Vivianne!?
Cosa ci fai qui?”
La
sua vicina di casa, infatti, i capelli lasciati sciolti sulle spalle e
un grazioso vestito color pervinca con le maniche a trequarti,
sbuffò e strabuzzò gli occhi:
“Sai,
questo strano e immenso posto mi sembra sia un supermercato,
così, già che mi trovavo nei paraggi, ho pensato
di venire a fare rifornimento! Ti piace come spiegazione?”
L’uomo
aprì la bocca per ribattere, sfoderando, subito
dopo, un sorriso
sincero:
“Scusa,
colpa mia. Ho fatto una delle mie solite domande insensate
…”
“Accetto
le scuse ma ... non noti nulla?” proseguì lei, un
finto broncio a sottolineare le parole.
I
due, carrelli alla mano, erano proprio in mezzo al vasto parcheggio,
che ormai si era svuotato di macchine e biciclette.
Anche
il sole era calato, lasciando il posto alla luce artificiale di una
mezza dozzina di lampioni lì vicino, posizionati a distanza
pressoché maniacale.
“Se
è una domanda retorica, non è divertente
… “ ribatté Philippe.
"Sono molto stanco e non mangio da questa mattina … ah,
cavoli, i tuoi capelli! Cosa hai fatto!? Sono diventati
castani!” si ringalluzzì all’stante
l’uomo, finalmente accortosi della novità.
“Castano
ramato, per la precisione! Avevo voglia di cambiare look!”
“Hai
rotto con Alexis?” domandò allusivo e in parte
speranzoso, appoggiando le braccia sulla maniglia del carrello.
“Faccio
finta di non aver sentito, invidioso che non sei altro! Con il mio Alexis, va
tutto a gonfie e vele! Siamo innamorati più che mai e
… beh, è una storia lunga. Ma dobbiamo rimanere
qui impalati come due statue di sale?!”
Philippe,
notando la direzione del carrello verso l’entrata del
supermercato, si affrettò a redarguire Vivianne circa il suo
lieve ritardo:
“Ehm,
credo avrai tutta la sera per raccontarmi cosa ti è successo
…”
“Perché?”
domandò la donna, sistemandosi su una spalla la borsa verde
limone che le stava scivolando.
“E’
chiuso”
“Ma
cosa stai dicendo?! Sono appena le otto e un quarto, il supermercato
chiude alle nove!”
“Mi
dispiace contraddirti, però è così.
Non vedi che hanno spento le luci principali e che sono illuminate solo
le casse?”
La
fisioterapista scosse la testa, sbuffando rumorosamente:
“Lo
sapevo, lo sapevo che prima o poi mi avrebbe tradito!”
“Chi,
scusa?” continuò Philippe, sistemando una volta
per tutte il suo carrello ormai vuoto negli appositi spazi
lì vicino.
“L’orologio!
E’ da due giorni che si è fermato, ma sono sempre
riuscita a farlo ripartire, tranne adesso che mi serviva
veramente!” precisò la ragazza, piagnucolando e
controllando il polso, che prese ad agitare a destra e a sinistra.
“Non
è che se lo sbatacchi di qui e di là ritorna a
funzionare come per magia … ”
puntualizzò lo psicologo, le mani in tasca e
un’espressione di compatimento per l’orologio
maltrattato.
“Grazie
per il tuo illuminante consiglio … non saprei come avrei
fatto senza di te”
L’uomo
le sorrise furbescamente e, prendendola per le spalle, la condusse
verso la macchina.
“Mentre
io sistemo il carrello, tu aspettami qui. Non vorrei che ti perdessi
…”
“Ah
ah ah, davvero molto divertente, ma non ho bisogno di te! Ho la mia di
auto, l’ho parcheggiata dall’altra parte del
parcheggio. Almeno, di questo, sono sicura”
Vivianne
si avviò sculettando nella direzione indicata, passando
prima a recuperare il carrello e a rimetterlo a posto.
“Va
bene, va bene, era solo una battuta!” le gridò di
rimando Philippe, raggiungendola.
"Senti, visto che sono curioso di sapere gli sviluppi sulla tua
meravigliosa, fantastica e bla
bla bla storia con Alexis e ho bisogno di parlare con
qualcuno, posso invitarti a cena a casa mia?”
La
donna si portò un indice all’angolo della bocca
con fare pensieroso e, dopo qualche secondo di suspense,
profferì magnanima:
“D’accordo,
ma solo perché il supermercato è chiuso, non di
certo per la tua compagnia. Tra dieci minuti sono da te
…”
I
due si avviarono in direzioni opposte, sorridendo sotto i baffi che non
avevano.
Philippe parcheggiò la Peugeot nel vialetto vicino a casa, a
fianco del fazzoletto di terra che gli faceva da giardino.
Una
volta dentro la villetta, si diresse subito in cucina, dove
sistemò la borsa della spesa sul tavolo bianco rettangolare.
Poi,
ritornò verso l’ingresso, si tolse le scarpe da
ginnastica per indossare delle comode pantofole bordeaux, e
sistemò le chiavi della macchina in un posacenere di
ceramica che non aveva mai utilizzato per il suo reale impiego, non
essendo un fumatore.
Stava
andando in bagno, quando suonarono alla porta.
“Eccomi
qua! Ho portato una bottiglia di bianco e due birre: la serata si
preannuncia molto lunga!” lo salutò Vivianne,
entrando trionfalmente.
“Grazie,
ottima scelta. Se aspetti un attimo, vado a cambiarmi
…” spiegò l’uomo, indicando
con lo sguardo la T-shirt amaranto e i jeans mezzi sgualciti che aveva
ancora addosso.
“Ti
consiglierei anche di darti una sistematina ai capelli: sono sempre
più arruffati …” lo
punzecchiò lei, scompigliandoli con una mano, dopo aver
appoggiato le bottiglie sul tavolino in ferro battuto
dell’anticamera.
Philippe
la guardò con i suoi occhi verdi, l’espressione
falsamente torva.
“Vado,
che è meglio … ”
Nel
microonde si stava scongelando il timballo di pasta che Philippe aveva
preparato la settimana scorsa.
La
tavola, già apparecchiata, era imbandita con un cestino di
bambù intrecciato contenente una baguette e una focaccia
tagliata in quattro parti, le bevande che aveva portato Vivianne e una
ciotola colma di pomodori e cetrioli.
Il
rumore del timer fece capire che il primo era pronto.
“Se
vuoi, possiamo tirare fuori del formaggio e il paté di olive
nella … ahi,
mi sono scottato … credenza” concluse
l’uomo, soffiandosi sul pollice sinistro, abbrustolito
nonostante la presina a proteggerlo.
Depose
la pirofila in vetro sull’apposito poggia pentola sul tavolo,
poi si diresse verso il rubinetto, il getto d’acqua fredda
sul dito.
“Quante
storie per una piccola bruciatura!” lo canzonò
Vivianne, prendendo la paletta per tagliare il timballo.
Philippe
prese posto e, porgendo i piatti, invitò la ragazza a fare
altrettanto.
“Lasciamo
perdere le formalità …”
“Che
hai? Ti vedo strano …”
L’uomo,
la forchetta nella mano sinistra, cominciò a tagliare la sua
porzione, mentre il fumo e il profumo si sprigionavano da essa.
“Ho
dei problemi con Liliane, cioè, in realtà sono io
che li ho. Lei, per una volta, non c’entra nulla”
“Ecco,
lo sapevo che, prima o poi, ne avrebbe combinata un’altra
delle sue, nonostante tu voglia continuamente proteggerla!”
“No”
precisò Philippe, scuotendo la testa e bevendo un sorso di
vino bianco “è davvero come ti ho detto.
Sono io che l’ho combinata grossa ... ”
La
fisioterapista, le braccia distese sul tavolo, appoggiò con
malagrazia la schiena contro il bordo della sedia.
“Cos’è
successo?”
“Mi
sono invaghito di un’altra donna …”
Vivianne
mise da parte il piatto con il timballo ancora fumante e, spostando
anche i bicchieri che le intralciavano la visuale completa del suo
commensale, proseguì seria:
“Beh,
se sono io, posso anche capirti … sono irresistibile, lo
so!”
La
frase strappò un sorriso all’uomo, che le prese le
mani, stringendogliele con muta disperazione:
“Si
tratta della mamma di una mia bambina. L’ho conosciuta una
settimana fa e, da allora, non riesco a dimenticarla”
“Ma
scusa, prima non l’avevi mai vista?”
Philippe
scosse la testa, passandosi pensieroso una mano tra i capelli
scompigliati.
“E’
una storia complicata: la donna ha dovuto abbandonare la figlia due
anni fa, adesso però che la sua situazione famigliare ed
economica si è stabilizzata, rivuole indietro Sophie, come
è giusto che sia”
La
ragazza sospirò, le labbra arricciate in una smorfia:
“Liliane
lo ha scoperto?”
“No,
ultimamente cerco di non invitarla a casa e neppure provo ad andare io
da lei. Ci vediamo solo al lavoro. Il fatto è che io le amo
entrambe, almeno è quello che credo: con Aimée mi
sento attratto come non lo sono mai stato! E’ una sensazione
che non riesco a spiegare, Vivianne, non faccio altro che pensarla,
l’ho sognata persino di notte, più di una volta,
capisci?! Non so che cosa devo fare!”
“Ne
hai parlato con questa donna? Se è davvero così
profondo e importante quello che provi per lei, forse sarebbe bene
parlarne con la diretta interessata …”
“Ci
ho pensato, ma non so se sia la soluzione più giusta. Non
voglio far soffrire Liliane, ha già sofferto troppo a causa
degli uomini, però …”
“Neppure
tu vuoi soffrire. E' comprensibile, Philippe, non devi fartene una
colpa”
L’uomo
si grattò distrattamente la fronte, poi, cercando di
sorridere, continuò:
“Scusami,
non voglio coinvolgerti, è una questione che devo risolvere
da me. E’ solo che, se non lo avessi detto a qualcuno, sarei
scoppiato! Ora mangiamo, altrimenti si raffredderà
…” tagliò corto, riposizionando le
posate e i bicchieri al proprio posto.
“Se
credi di cavartela così, caro mio, ti sbagli di grosso! Se
posso aiutarti, sai benissimo che lo faccio con piacere! Io ti sono
amica, ti considero il mio migliore amico, il più caro e
importante che ho, stupido che non sei altro!”
Vivianne
si alzò dalla sedia e, facendo un mezzo giro del tavolo, si
abbassò su Philippe, abbracciandolo d’istinto:
“Ti
voglio bene …”
L’uomo
deglutì e, il viso immerso nei soffici capelli di lei,
replicò serio:
“Anch’io,
anch’io ti voglio tanto bene”
Poi,
staccandosi, domandò, speranzoso che i due fossero agli
sgoccioli:
“A
proposito, cosa volevi dirmi di te ed Alexis?!”
“Oh
beh … dopo cena ti racconterò tutto, fin nei
minimi dettagli!”
La
ragazza tornò al suo posto e, finalmente, cominciarono a
mangiare.
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Capitolo 23 *** La voce della coscienza ***
LA VOCE DELLA COSCIENZA
Si trovavano nel bel mezzo di una mossa assai difficile da compiere,
forse addirittura vitale: se Philippe avesse mosso proprio quella
pedina, avrebbe di sicuro guadagnato un ottimo sorpasso rispetto alla
sua avversaria; tuttavia, era da considerare il fatto che, se Vivianne
avesse continuato a non accorgersi di quella povera torre, immobile da
troppe mosse, forse la vittoria sarebbe stata comunque nelle mani
dell’uomo.
Ma
anche lei, osservando meglio, non se la stava cavando così
male: era in svantaggio di una sola pedina, quindi le sorti della
partita si potevano considerare ancora ampiamente aperte …
“Allora,
cosa aspetti?!” lo punzecchiò la ragazza, il
gomito appoggiato sul bordo del tavolo e il mento sulla mano destra
chiusa a pugno.
“Un
attimo, accidenti, ho bisogno di concentrazione! Prima mi hai battuto,
ma non credere che ti permetterò di bissare, cara la mia
furbetta!”
Quel
duello a dama li stava incalzando fino allo sfinimento: avevano
terminato di cenare da quasi un’ora, ormai, poi Vivianne si
era offerta di lavare le poche stoviglie che avevano utilizzato e,
esortata da Philippe che la stava tampinando con mille domande a
trabocchetto, aveva cominciato a raccontare ciò che era
accaduto tra lei e Alexis, l’amministratore delegato di una
ditta di costruzioni edili che aveva conosciuto qualche
settimana prima durante le sedute di riabilitazione per il braccio
fratturato dell’uomo, conseguenza di una rovinosa caduta
durante le sue solite avventure estreme di climbing.
Adesso,
tra una mossa e l’altra, ne stavano approfittando per
gustarsi il terzo bicchiere di vino bianco e i biscotti che Philippe
aveva comprato quella sera al supermercato, delle pastefrolle ripiene
di scorzette all’arancia e ricoperte di glassa al cioccolato
fondente.
“Senti,
finiamola qui …” propose lo psicologo, appoggiando
la schiena contro la sedia e massaggiandosi il collo, allontanando la
scacchiera.
“Non
riesco più a concentrarmi, scusami”
continuò, alzandosi e andando a recuperare una bottiglia di
acqua frizzante dal frigo.
“Eh
già, troppo comodo! Solo perché prima ti ho
battuto e adesso siamo praticamente pari, ti vuoi arrendere
così?! Se vuoi, possiamo fare una pausa, ma dobbiamo
assolutamente concludere la partita, perchè non ho
intenzione di andarmene via senza prima aver vinto!”
La
donna trangugiò gli ultimi sorsi di vino bianco dal piccolo flȗte di
cristallo, per poi versarsi un po’ di sana e naturale acqua.
“Aspetta,
ti do un bicchiere pulito …”
“No,
non serve” lo bloccò lei, mentre Philippe riprese
la sua postazione sulla sedia bianca, di fronte alla fisioterapista.
“Cosa
c’è che non va? Ti avviso che non accetto bugie,
ma solo la verità!” continuò con fare
perentorio la ragazza, ammiccando in maniera cospiratoria.
Lui
distolse lo sguardo, cominciando a soffiare ritmicamente con le guance
riempite di aria.
“E’
che sono rimasto turbato da quello che mi hai raccontato …
insomma, ne sei davvero sicura?! Sei così giovane, Vivianne,
avete quindici anni di differenza …”
“Per
l’esattezza sono tredici” precisò lei,
continuando a versarsi quel liquido chiaro e insapore.
“Beh,
sono comunque tanti per due persone che si conoscono da poco. Un mese
non basta per …”
“Trentotto
giorni domani, sempre se vogliamo essere esatti … ”
“Oh,
ma insomma, la smetti di precisare tutto ciò che ti
dico?!” sbottò l’uomo, rubandole la
bottiglia di acqua frizzante per versarne un po’ anche nel
suo bicchiere macchiato di vino bianco.
“Vuoi
farmi la morale ed io cerco solo di spiegarti le cose come
stanno! E poi, non mi sembra che tu sia nella condizione privilegiata
di dirmi cosa sia giusto o sbagliato: dispensare consigli amorosi,
proprio in questo periodo della tua vita, Philippe, è una
prerogativa che spetterebbe a qualcun altro, credimi
…”
L’uomo
la fissò con tanto d’occhi e, le labbra incurvate
in un mezzo sorriso, ribatté amaro, strappando un sorriso a
Vivianne, lo sguardo in fiamme come non glielo aveva mai visto:
“Touché,
mi arrendo: sai, in realtà mi stupisce molto di
più il tuo linguaggio forbito rispetto alle tue sagge
parole che, ammetto a malincuore, essere sensate e giuste, però
…”
“Senti,
lo so che ti preoccupi solo per il mio bene, ma non è che mi
sposo domani!" tentò di farlo ragionare, avvicinando la
sedia sotto il tavolo.
"Alexis me lo ha semplicemente chiesto, non c’è
ancora nulla di deciso! Anzi, mi ha dato persino tutta
l’estate per pensarci a fondo, per riflettere sulla sua
proposta! Se io accetterò, com’è mia
intenzione, il matrimonio non sarà prima dell’anno
prossimo, addirittura a maggio o a giugno! Quindi, caro il mio amico
preoccupato inutilmente, avrai tutto il tempo per digerire questo
affronto!”
Philippe
la guardò per qualche secondo, mentre lei recuperava la
scacchiera e la riponeva al centro del tavolo, di fronte a
loro.
“Allora,
pigrone? Vogliamo riprendere a giocare o hai troppa paura di
perdere?”
Lo
psicologo le prese le mani tra le sue e, la voce seria, così
come gli occhi verdi concentrati in quelli azzurri della sua
interlocutrice, la redarguì:
“Promettimi
che ci penserai, che userai tutta l’estate per rifletterci
bene: non fare nulla di affrettato, Vivianne, perché
potresti pentirtene. Ti chiedo solo questo …”
La
ragazza sbuffò, sciogliendosi da quella sorta di abbraccio:
deviò lo sguardo verso un punto imprecisato della parete,
poi si morse contrariata le labbra e replicò, cercando di
mantenere un tono di voce calmo.
“Ho
capito perfettamente che Alexis non ti è mai andato a genio,
non ci vuole un indovino per accorgersene. Ma il fatto che a te non
piaccia, per chissà quale stupido motivo, non vuol certo
dire che anch'io non debba farmelo piacere o che, peggio
ancora, rinunci alla mia felicità solo per un tuo
scrupolo morale o per un'infondata gelosia! Adesso, se vuoi finire la
partita, ne sarei molto felice, altrimenti posso anche
andarmene! Intesi?”
L'uomo
aprì la bocca per replicare, cercando di non mostrare
l'amarezza che la reazione dell'amica gli aveva suscitato;
così, decise di capitolare, dimostrando che
l’ultimatum aveva sortito l’effetto desiderato:
“D’accordo,
scusami se continuo a farti la paternale e mi preoccupo per te, non
volevo offenderti. Dov’eravamo rimasti?”
Quella
sera, a letto, Philippe non riusciva a dormire: accese la lampada dalle
fattezze di ape regina e sbirciò l’orario sulla
sveglia di fianco ad essa, sistemata sul comodino.
Sono appena le tre e dieci,
constatò sbuffando e alzando gli occhi al soffitto: si era
coricato da più di due ore, ma il sonno tardava ad arrivare,
snobbandolo senza ritegno.
Si
consolò convincendosi che, almeno, non avrebbe dovuto
preoccuparsi di come fare l’indomani mattina ad alzarsi, dal
momento che era venerdì sera, anzi, ormai sabato mattina e,
per questo, non sarebbe dovuto andare al Centre dai suoi
ragazzi.
Vivianne
aveva ragione, doveva ammetterlo: con quale diritto poteva arrogarsi la
moralità di quella scenata che le aveva fatto?
Si
era reso ridicolo e inutilmente preoccupato, rischiando di rovinare
quella bellissima serata che avevano trascorso insieme.
Obiettivamente
e senza troppi giri di parole, lui era l’ultima persona sulla
faccia della Terra che avrebbe dovuto permettersi di parlarle in quel
modo, di dirle di non sposare Alexis solo perché lui,
Philippe, lo aveva sempre ritenuto un borioso fannullone, ricco da fare
schifo e geloso della sua effimera bellezza, così simile a
quella di una statua greca, altezzosa, ammirata e invidiata da tutti.
Parlo io che dico di amare
Liliane, ma in realtà penso ad un’altra, che ha
dieci anni più di me ed è la madre di una dei
miei ragazzi! Sono davvero uno stupido!
Non
sapeva cosa fare, come togliersi da quell’assurda situazione:
l’ultima cosa che desiderava era far del male a Liliane; le
era affezionato e ormai credeva di amarla, perciò non voleva
farla soffrire inutilmente, allo stesso modo di come non avrebbe voluto
far soffrire nessun'altra persona.
Aimée,
invece, molto presto non l’avrebbe più rivista:
martedì sera ci sarebbe stata la cena al Centre per salutare
Sophie, che avrebbe lasciato la struttura alla fine della settimana
successiva, quando tutte le pratiche burocratiche fossero state
finalmente e debitamente compilate e depositate presso il tribunale dei
minori.
Philippe
era conscio che, molto probabilmente, per non dire sicuramente, non le
avrebbe mai più riviste: l’intenzione della donna,
infatti, fin da subito era stata quella di
scappare da Versailles e, insieme alla figlia ritrovata, stabilirsi in
una città lontana da tutto e da tutti, forse addirittura
sarebbe tornata in Senegal, il suo Paese natale, sebbene lo psicologo
nutrisse dei dubbi a tal proposito, dal momento che Sophie era sempre
vissuta in Francia, parlava benissimo la lingua ed era abituata alla
cultura occidentale.
Non dovrò
più incontrarla, è la cosa migliore per tutti.
Anzi, a questo punto, forse è meglio che non vada neppure
alla cena di martedì … sarebbe troppo
imbarazzante ritrovarmi faccia a faccia con entrambe.
Il
beep del
cellulare catapultò nella realtà attuale
Philippe: si era dimenticato di spegnere il cellulare, sommerso da
tutte quelle preoccupazioni, per questo, in un primo momento, non
realizzò subito da dove provenisse e cosa fosse quella
vibrazione.
Accese
nuovamente l’ape regina e tastò sul comodino, non
trovando nulla a conferma di ciò che aveva udito.
Si
alzò dal letto e, abbassandosi sul parquet, scorse
finalmente il telefonino che era finito, chissà come, quasi
sotto il mobile adiacente, un comò sormontato da una
specchiera dorata, regalo di sua madre.
Rimessosi
in piedi, il cellulare in una mano, ne approfittò per
fissare la sua immagine allo specchio: aveva i capelli arruffati e
un’espressione preoccupata sul volto in penombra.
Stava
sorridendo debolmente, quasi come gesto di auto compatimento, quando
l’occhio gli cadde sulla maglietta che gli faceva da pigiama,
raffigurante il viso di un ragazzo intento a fare una linguaccia,
incredibilmente rossa, i pantaloncini neri che si confondevano
con l’oscurità.
Ritornò
a concentrarsi sull’oggetto che teneva saldo ma che non aveva
il coraggio di guardare: gli venne una strana voglia di scendere le
scale, uscire di casa e andare a fare un giro sulla Pegeout rossa,
senza meta, senza un vero motivo, solamente per cercare di svuotare la
mente, concentrandola sulla guida.
Ma
subito abbandonò quel pensiero, perché si
ricordò con non troppa difficoltà
che odiava spostarsi in macchina, di notte, sebbene quello
sarebbe stato un semplice giro a vuoto per le strade della
città: si diede dello stupido e persino del pazzo,
ripensando all’idea che gli era appena venuta in mente.
Preferì
quindi tornare sui suoi passi, non prima di rimettersi a letto;
così, si diresse verso la finestra e la aprì
leggermente: alzò le veneziane quel tanto che bastasse per
permettergli di vedere il retro del giardino e sbirciare fuori.
L’albero
di melo, più simile a un arbusto troppo cresciuto che a una
vera pianta da frutto, era lì sotto, a pochi metri da lui:
le fronde, ricoperte per metà dai frutti ancora immaturi e
per l’altra metà dai fiori appena sbocciati, si
muovevano impercettibilmente al ritmo della leggera brezza notturna.
Philippe
voltò lo sguardo verso destra, dove due anni prima aveva
piantato un ciliegio, i cui primi boccioli erano ben visibili sui rami
sottili.
Il
vialetto d’entrata si trovava dall’altra parte,
protetto da una siepe di glicine.
Rimase
affacciato al davanzale ancora per qualche secondo, poi
abbassò le veneziane e richiuse le
imposte.
Solo
allora trovò la forza di ritornare sotto le lenzuola e di
affrontare il display del cellulare, la stanza ancora immersa nel buio
notturno.
"Scusa per l’ora, ma
non riesco a dormire. Vorrei fossi qui con me. Ti aspetto domani a
pranzo. Ti amo"
L’uomo
deglutì, avvertendo un senso di ansia mentre leggeva il
mittente del messaggio: era Liliane, anche lei insonne, ma per un
motivo molto diverso dal suo, esattamente l'opposto.
Si
sentì di nuovo in colpa per quel doppio sentimento per cui
non riusciva a trovare una soluzione; la sua fidanzata -ormai era
giusto definirla in quel modo- desiderava solo essergli accanto, voleva
Philippe e basta, nessun altro, solo lui.
Gettò
il cellulare sul comodino, senza preoccuparsi di danneggiarlo, poi
spense la luce e si tirò il cuscino sulla testa.
A
pancia in giù, chiuse per l'ennesima volta gli occhi e
cominciò a contare, sperando che il sonno arrivasse
finalmente a fargli visita.
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Capitolo 24 *** La resa dei conti ***
PHILIPPE
LA RESA DEI CONTI
Da come era cominciata, la giornata non si preannunciava tra le
più idilliache che avesse mai vissuto: durante la notte,
infatti, dopo che Morfeo gli aveva gentilmente posato le sue mani
soporifere su di lui, Philippe
era stato svegliato
da una bufera di vento in piena regola,
poco prima dell’alba,
quando finalmente era riuscito a prendere sonno e a far tacere la
propria coscienza.
Probabilmente non aveva chiuso bene la finestra, la sera precedente,
quando si era affacciato al davanzale e aveva scrutato il giardino,
alla ricerca di chissà cosa, mentre attendeva il messaggio
di Liliane da leggere: un rumore di vetri che sbattevano uno contro
l'altro lo fece sobbalzare e quasi spaventare, costringendolo ad
abbandonare l'accogliente nave dei sogni.
L’uomo si mise seduto e, nella penombra, cercò di
scrutare la sveglia sul comodino, accanto alla lampada dalle fattezze
di ape regina: erano le sei meno un quarto e lui aveva dormito
appena tre ore, anzi, nemmeno, due ore e quarantacinque minuti.
Sospirò assonnato e arrabbiato: andò a chiudere
le imposte, poi ritornò a letto.
Rimase immobile supino per qualche minuto, ma, capendo che non avrebbe
ripreso sonno, si alzò ancora più nervoso di
pochi istanti prima; scese le scale e si diresse in salotto, il pigiama
blu ancora addosso.
Improvvisamente, a nemmeno metà rampa, lo psicologo si
ritrovò a pensare a quanto quella casa, la sua casa, gli
apparisse vuota e si accorse che ciò che gli mancava era la
presenza rassicurante di Liliane: fino a una settimana prima, quando
lei, il lunedì mattina, se ne andava dopo un week end
trascorso a divertirsi,
essere andati al supermercato o al parco a passeggiare, aver visto un
film insieme ed essersi sbafati una succulenta pizza extra large in
due, non si sentiva affatto perso, semplicemente e pienamente
soddisfatto per il tempo vissuto con la sua fidanzata (gli suonava un
pò strano pensare a quella parola) e subito si metteva a
fare altro, senza sentire nostalgia alcuna, aiutato anche dal suo
lavoro al Centre.
Quella mattina, invece, una strana sensazione gli stava invadendo la
mente e lo stomaco, una sorta di bruciore martellante che gli
risaliva l'esofago.
Una volta a destinazione, si buttò sul divano e chiuse gli
occhi: non avrebbe retto ancora a lungo quella situazione, fatta di
un’esistenza precaria sul filo del rasoio che, non solo
coinvolgeva lui stesso, ma anche Aimée e Liliane.
La cosa migliore, adesso più che mai ne era convinto,
sarebbe stata quella di non andare alla cena di martedì
sera, organizzata da madame Betancourt e dalle altre colleghe in onore
della piccola Sophie e della madre.
Avrebbe trovato una scusa, doveva semplicemente ingegnarsi
perché risultasse valida e veritiera.
Fece un rapido calcolo mentale, che gli strappò un sorriso a
metà tra il malinconico e il soddisfatto: mancavano ancora
tre giorni, rifletté, quindi il tempo gli sarebbe bastato
per mettere in piedi il suo piano.
Dovrebbero chiamarmi
Arsenio Lupin, il
ladro gentiluomo di idee
e macchinazioni.
Mentre guidava in direzione dell’appartamento di Liliane, nel
centro di Versailles, lo psicologo allungò la strada,
passando in prossimità del Centre: aveva
appuntamento con lei all’una,
per pranzare insieme, perciò aveva una buona
mezz’ora per arrivare in orario e, magari, addirittura in
anticipo di qualche minuto.
In realtà, non sapeva bene neppure lui perché
avesse deciso di andare fino a lì: sebbene la sua parte
razionale non volesse ammetterlo, Philippe sperava di vedere
Aimèe, per quanto la cosa potesse risultare impossibile, dal
momento che era sabato ed erano appena le dodici e venticinque.
La donna, infatti, in attesa di partire con la figlia il
venerdì successivo, viveva ancora presso la
comunità che l’aveva accolta in quei due anni,
tuttavia andava a trovare Sophie tutti i pomeriggi alle tre, dopo le
lezioni.
L’uomo, seduto in macchina, il finestrino abbassato a
metà, scosse la testa, quasi spaventato da
quell’ossessività che si era impadronito di lui.
Ritirò il gomito sinistro appoggiato sul lato interno della
portiera e premette l'acceleratore: poi, accese a tutto volume la
radio, nello stesso momento in cui veniva trasmesso l'inzio di "In
The end",
una delle canzoni degli Snow Patrol, un gruppo che ascoltava sempre con
piacere e trasporto.
Ecco, quella era la verità: tutto ciò che provava
per Aiméè doveva concludersi, finire per sempre,
glielo stava dicendo anche quella chanson.
Un nuovo senso di consapevolezza fece capolino nella mente di Philippe,
che diede gas bruscamente, approfittando del fatto che la strada fosse
vuota.
A un certo punto, mentre stava svoltando sul lungo viale che lo avrebbe
condotto da Liliane, la vide: non aveva alcun dubbio, era lei, era la
donna per la quale non dormiva la notte, per la quale faticava a
concentrarsi, per lei stava rovinando un rapporto d’amore
appena nato, per lei stava rischiando di mettere a repentaglio la
propria carriera e di far del male alla sua fidanzata.
Inchiodò e frenò, aspettando che la sagoma
arrivasse più vicino: qualche secondo dopo, Philippe non
ebbe più dubbi; per quanto fosse bella, desiderabile e
bisognosa di affetto, non sarebbe stato lui la persona al suo fianco,
l’uomo che l’avrebbe di nuovo resa felice e amata.
Represse un moto di stizza e colpì violentemente il clacson,
facendolo suonare.
Aimée si voltò nella sua direzione e, per un
lungo ed interminabile attimo, i loro sguardi si incrociarono,
sfiorandosi da lontano.
Al cenno di saluto incerto che gli rivolse, lo psicologo non rispose,
riprendendo ad accelerare e a mormorare addio per sempre.
Non avrebbe mai più pensato a lei, lo giurava.
“Ciao! Mi sei mancato!” Liliane aprì la
porta sorridendo, una tuta blu attillata ad esaltarne le forme ben
proporzionate e per nulla esagerate.
I capelli biondi erano più corti del solito, forse
perché raccolti in una spilla dietro la nuca, e profumavano
di camomilla e bergamotto.
“Anche tu, molto … adesso, però, non ho
voglia di mangiare, vieni di là …”
Philippe la baciò con passione, mentre la donna,
piacevolmente stupita, assecondò il gesto, cominciando a
togliergli la polo rossa, mentre lui faceva lo stesso con la casacca di
cotone.
Se si fosse fermato anche solo un secondo a ragionare, si sarebbe
sentito terribilmente in colpa per come stava usando Liliane,
perché era quello il vile e meschino sentimento che
avvertiva attraversagli la mente e il cuore.
Aveva deciso di dimenticare Aimée, ora non poteva e non
voleva negarlo, e così avrebbe fatto: non sarebbe tornato
indietro, però non aveva ancora il coraggio di guardare in
faccia la donna a cui sentiva di essere stato infedele, di aver
mentito, che sapeva e voleva amare.
Desiderava solamente sentirla vicino, farsi accarezzare e accarezzarne
il corpo, baciarla e farsi baciare, per poi rimanere avvinghiati per
tutto il tempo del mondo.
Una volta sul letto, Philippe si sentì finalmente appagato e
felice: Liliane era la sua scelta e non l’avrebbe mai e poi
mai fatta soffrire.
Quando l’uomo si svegliò, si ricordò
all’istante di dove fosse, i sensi all’erta: aveva
il lenzuolo stropicciato posato sulle gambe, il cuscino messo
di sbieco.
Allungò una mano a sinistra, cercando il contatto caldo e
morbido della donna che aveva amato.
Ma, non
appena si accorse che non era al suo fianco, si
levò a sedere: si guardò in giro, nella stupida
speranza che potesse essere nascosta in qualche angolo della stanza,
magari a fargli uno scherzo per testare la sua fedeltà.
Non vedendola da nessuna parte, si rivestì in fretta e,
preoccupato, lanciò un’occhiata
all’orologio posto su una parete, di fronte al letto: segnava
le tre meno venti.
Ecco perché avvertiva un certo senso di fame attanagliargli
la bocca dello stomaco: sorrise tra sé e sé
all’idea di quale meraviglioso manicaretto la donna gli
avesse preparato, quando, arrivato nel salotto, il sorriso gli
morì sulle labbra.
“Liliane … hai pianto?”
La ragazza gli dava le spalle, seduta sul divano, la radio accesa a
volume bassissimo e la televisione sintonizzata su un programma che
stava trasmettendo una commedia.
Sentendo i passi dell’uomo, però, lei si era
voltata a mezzo busto, rivelando le guance arrossate e gli occhi
vagamente gonfi.
“Cos’è successo, amore?”
Credendo che la donna avesse dimenticato l’apparecchio
musicale acceso, fece per andare a spegnerlo; a pochi passi dal
sofà, tuttavia lei lo bloccò, urlandogli:
“Non toccare niente! Anzi, vattene e non farti più
vedere!”
“Ma... io ... non capisco! Perché dici
così? Cosa ti ho fatto?!”
Liliane non rispose, le braccia abbandonate sulle gambe, lo sguardo
fisso puntato sullo schermo della TV.
“Per favore, dimmi perché ti comporti in questo
modo! Siamo stati bene, prima, non è capitato niente che
possa averti fatto cambiare idea, quindi non capisco il motivo per cui
fai queste ... scenate!”
“Tu
non capisci?!
Tu non capisci, Philippe?!
Davvero?! Per favore, vattene immediatamente!”
La donna, sempre immobile sul divano color crema, fulminò
con lo sguardo lo psicologo, in piedi a qualche passo da lei.
Quando fece per avvicinarsi e toccarle una spalla, la ragazza si
ritrasse come se avesse preso la scossa.
“Non-mi-toccare” scandì Liliane,
ritornando a guardare fisso lo schermo.
“No! No che non me ne vado! Voglio sapere perché
mi stai trattando così! Guardami, guardami mentre ti parlo,
dannazione!”
Philippe le agguantò un braccio, nello stesso istante in cui
si alzò e lo spintonò con forza:
“Mi hai mentito! Ti sei preso gioco di me! Io … io
non so nemmeno da che parte iniziare, cosa dirti, talmente sono
disgustata, delusa!”
L’uomo corrucciò le sopracciglia e aprì
leggermente la bocca, non riuscendo a capire il motivo di tanta
improvvisa rabbia.
“Io non ti ho mai mentito, io ti amo, Liliane, non sarei qui,
altrimenti!”
“Anche adesso lo stai facendo? Perché continui a
farlo?! Perché continui a mentirmi! Ti ho sentito che
pronunciavi il suo nome, nel sonno, ho sentito che le parlavi, che le
dicevi che non l’avresti mai dimenticata, ma che non volevi
farmi soffrire, per questo avevi scelto me! Solo perché io
ti faccio pietà,
ecco quello che provi per me, non amore, ma compassione! Mi fai schifo,
Philippe, mi fai schifo!”
La psicologa rimase in piedi davanti a lui, i pugni chiusi, lo sguardo
abbassato: si morse il labbro fino a farlo sanguinare, ma dai suoi
begli occhi azzurri le lacrime non avevano più
intenzione di scendere.
Solo allora gli fu tutto chiaro: la sua coscienza non era riuscita a
starsene zitta, lo aveva tradito, aveva parlato al proprio posto,
com’era giusto che fosse.
Si sentiva sporco e crudele: l’ultima cosa che avrebbe voluto
fare, fin dall’inizio, era far soffrire la donna che amava,
che realmente aveva capito di amare.
E’ vero, Aimée era stata una tentazione enorme, ma
si era rivelata irraggiungibile, era riuscito a tirarsi indietro prima
che succedesse l’irreparabile: appartenevano a due mondi
diversi, lei sarebbe partita tra pochi giorni, non si sarebbero
più rivisti, perché quindi continuare a soffrire
inutilmente?
“Perdonami … Liliane, perdonami. Ti giuro, ti
giuro su me stesso, su quello che vuoi, che non è come
pensi. Tra me e lei non c’è mai stato niente: mi
ero invaghito di lei, lo ammetto, ma non ci siamo scambiati
né un bacio né un abbraccio, nulla di nulla. Ti
prego, ti prego amore mio, perdonami, scusa se ti ho fatto soffrire, ma
non volevo, per favore, credimi, ti chiedo solo questo
…”
La ragazza sospirò, portandosi una mano sulla bocca e poi
sugli occhi:
“Va bene … va bene, ti credo. Ma adesso vattene,
sono io a pregarti. E non farti vedere più qui, mai
più ... ”
“Liliane …”
“Ho detto vattene!” urlò nuovamente,
indicandogli con un braccio l’uscita.
Philippe rimase per una manciata di secondi fermo davanti a lei: la
guardò ancora una volta, mentre si voltava indietro,
rassegnato a lasciarla da sola.
Poi, aprì la porta e, l’ultima cosa che
sentì mentre scendeva velocemente le scale, trattenendo la
rabbia che avvertiva premergli per scoppiare, fu la risata di una
bambina, proveniente dall’appartamento di fronte a quello della
donna che amava, la TV e la radio ancora accese e con il volume assordante.
Snow Patrol, "In The end"
It’s
the price I guess
For
the lies I’ve told
That
the truth it no longer thrills me
And
why can’t we laugh?
When
it’s all we have
Have
we put these childish things away?
Have
we lost the magic that we once had?
In the end, in the end
There’s
nothing more to life than love, is there?
In the end, in
the end
It’s
time for us to lose our weary minds
Will you dance with me?
Like we used to
dance
And remember
how to move together
You
are the torch
And
it all makes sense
I’ve
waited here for you forever
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I’ve
waited here for you forever
In
the end, in the end
There’s
nothing more to life than love, is there?
In
the end, in the end
It’s
time for us to lose our weary minds
We’re
lost ‘til we learn how to ask
We’re
lost ‘til we learn how to ask
We
are lost ‘til we learn how to ask
So
please, please just ask
In
the end, in the end
There’s
nothing more to life than love, is there?
In
the end, in the end
It’s
time for us to lose our weary minds
There’s
nothing more to life than love, is there?
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Capitolo 25 *** Qualcosa di cui parlare ***
QUALCOSA
DI CUI PARLARE
Liliane si stava vestendo di malavoglia: erano tre giorni che pensava
ad una buona scusa da fornire a madame Betancourt per non partecipare
alla cena d’addio in favore di Sophie.
Ovviamente, non era a causa della bambina che non aveva alcuna
intenzione di andare: le era affezionata e le voleva bene, alla stessa
maniera di tutti i ragazzi del Centre, ma il
problema era sua madre, Aimée, la donna
per la quale il sogno d’amore di realizzare una
solida e sincera relazione con Philippe si era improvvisamente
sgretolato.
Ma Gabrielle, la direttrice, non ne aveva voluto sapere di approvare la
sua richiesta e aveva invece incentivato la presenza della psicologa
alla cena di quella sera.
“Sei stata la
prima ad accogliere Sophie, la prima a insegnarle qualcosa e ad
occuparsi di lei, Liliane!" le aveva ripetuto fino allo
sfinimento, nei giorni precedenti "non
puoi permetterti di non esserci: sono sicura che, se tu non venissi, la
bambina resterebbe molto male per la tua assenza! E poi, c'è
già il signor Soave che non potrà raggiungerci,
ma tu, insomma, non puoi assolutamente deludermi!”
La cerniera del vestito si bloccò a metà, mentre
la mente viaggiava fino a Philippe, chissà dove in quel
momento e impegnato a fare chissà cosa: pensare a quell'uomo, a
ciò che era successo, a come si era comportato, le faceva
troppo male al cuore, lasciandola stordita e di cattivo umore per il
resto della giornata.
"Per fortuna"
rifletté per l'ennesima volta "è riuscito a trovare
una buona scusa per non partecipare alla cena: un
grave problema famigliare ... banale ma efficace".
Già, la famiglia, quella precaria condizione sentimentale
che lei aveva così tanto cercato di costruire da dieci anni:
prima con Mathieu e con il bambino che aveva dolorosamente abortito,
per salvargli, scioccamente e inutilmente, la carriera da ingegnere
biomedico in Australia, poi con Philippe, il collega così
affettuoso, premuroso e simpatico... tutto svanito.
Alla soglia dei trent’anni, Liliane si sentiva nuovamente
tradita e incompresa.
Cosa aveva sbagliato? Perché era di nuovo sola? Eppure si
era data con passione e sincerità all’uomo che
credeva la amasse, senza riserve, quasi mettendo da parte
l’irrazionalità che aveva caratterizzato la sua
vita, da quando la morte della madre l’aveva talmente scossa
da dover assumere degli psicofarmaci, ormai anni addietro.
Da quella dolorosa esperienza, ne era uscita più forte e
consapevole di quello che voleva diventare: una donna sicura,
ambiziosa, ma anche generosa.
La sua vita le stava scorrendo davanti come se stesse vedendo un film
dal retrogusto amaro, peccato che ancora non avesse trovato
l’interruttore per spegnere quelle scene da incubo, il
telecomando per cambiare programma e sintonizzare lo schermo su una
commedia, allegra e dall’immancabile lietofine.
Indossato l’abito di pizzo rosso, con uno scollo a V e le
maniche a sbuffo, Liliane passò a scegliere le scarpe, dei
semplici sandali di tela intrecciata.
Controllò il trucco appena sfumato, lo chignon stretto e
bloccato da un filo di lacca, poi aprì la porta
d’entrata, non prima di aver agguantato la pochette giallo
oro.
Parcheggiò sul lato principale della struttura, in
prossimità del grande cancello automatico in ferro battuto.
Era insolito trovarsi lì, al Centre, a
quell’ora di sera: il piano terra e il
primo
erano illuminati a giorno e, dalle tende accostate, si riuscivano a
scorgere le sagome di dozzine di persone che si spostavano da una
camera all’altra.
Liliane scese dalla Mini Cooper blu notte e si avviò lungo
il vialetto, salutando Nicole e Louise che le venivano incontro.
“Credevamo di essere in ritardo, la macchina si è
fermata dopo che sono andata a prendere Louise!”
spiegò l’altra collega, una camicetta rosa antico
e una gonna nera, come il coprispalle di seta, sfiorando il braccio
della ragazza.
“Sono appena arrivata anch’io, non preoccupatevi.
Entriamo?”
“Ho una fame! Oggi a pranzo i ragazzi mi hanno tenuta
impegnata nella lettura di un libro e …”
La voce di Louise, una maglia bianca plissettata e dei pantaloni grigio
perla, si perse in mezzo al rombo di altre macchine, nello stesso
istante in cui Nicole aprì la porta d'ingresso.
La sala ristorazione, adibita al primo piano, era incredibilmente
affollata: Liliane non era abituata a vedere tutti i bambini e i
ragazzi insieme, perché, di solito, era necessario fare dei
turni per mangiare, in modo da non creare troppa confusione e
accontentare tutti, senza litigare.
I quattro tavoli di mogano erano stati rivestiti di tovaglie verdi,
gialle e rosse, i colori della bandiera senegalese, il Paese
d’origine di Sophie.
Sulla parete di sinistra, il servizio di cattering -prenotato da madame
Betancourt- aveva posizionato un altro tavolo, lungo e ricco di cibarie
e bevande dai colori sgargianti.
Le forti luci provenienti dai due grandi lampadari a goccia
proiettavano calore e illuminavano la stanza in maniera quasi
prepotente, creando degli intensi bagliori bianco dorati.
Liliane si guardò intorno, volendo assicurarsi che Philippe
avesse mantenuto la parola e non si presentasse alla cena.
Uno dei camerieri si avvicinò per offrirle un flȗte contenente un
liquido rosso brillante, un aperitivo analcolico e fruttato.
La donna si portò il bicchiere alle labbra, lasciando una
lieve traccia di rossetto.
Si approssimò al banchetto, osservando ancora una volta gli
invitati: salutò con la mano le sue due classi, i bambini di
sei anni e i ragazzini di dieci, mentre alcuni di loro si avvicinavano
allegramente per parlarle.
Liliane prese un piattino di carta e lo riempì con degli
sfiziosi e appetitosi voul-â-vent,
degli involtini di melanzana e qualche fetta di rollé di
mozzarella.
Chiacchierò ancora un po’con il gruppo dei
piccoli, che poi tornarono dai loro compagni.
La donna riprese a concentrarsi sul cibo, alternandolo a qualche sorso
di analcolico, il secondo che beveva da quando era arrivata.
Dopo l’ennesimo giro di antipasti, finalmente arrivarono i
primi, serviti impeccabilmente da uno stuolo di camerieri in livrea
bianca e verde.
I convitati presero posto lungo i quattro tavoli di mogano disposti ad
U: la donna, insieme alle altre colleghe, si premurò di far
sistemare i bambini e i ragazzi, in modo da non creare diatribe inutili.
Poi, Liliane cercò con lo sguardo madame Betancourt, non
riuscendola però a rintracciare in nessun angolo della
stanza.
“Vieni, andiamo a sederci!” le gridò
Mireille, mentre Juliette veniva loro incontro, entrambe avvolte in un
vestito verde scuro.
“Ho trovato dei posti, poco più in là!
Così potremo tenere sotto controllo la
situazione!” scherzò l’altra collega,
ora vicina.
Bisognava urlare, infatti, per farsi capire, in quella babele di suoni
e rumori: le stoviglie che sbattevano sulla tavola, i bicchieri che
tintinnavano, le risate dei bambini, i passi leggeri e veloci dei
camerieri.
“Sì, forse è meglio!”
assentì Liliane, chiedendo subito dopo dove fosse la
direttrice.
“E’ influenzata! Ha chiamato poco prima che
arrivassi!” le spiegò Mireille, che infatti aveva
salutato da lontano lei, Nicole e Louise, quando avevano fatto il loro
ingresso poco meno di un’ora prima.
“Come mai?” domandò la psicologa,
mettendosi finalmente a sedere.
“Non ha voce! Anzi, ha detto che una di noi dovrà
dire due parole per ringraziare e salutare la madre di
Sophie!” replicò Juliette, dopo che un cameriere
riempì i piatti di carta con delle crespelle profumatissime.
La convinzione che non avrebbe dovuto venire affatto a quella
pagliacciata si fece sempre più largo nell’animo
di Liliane: l’ansia le attanagliò lo stomaco e,
improvvisamente, le girò la testa.
“Cos’hai? Non ti senti bene?”
gridò Mireille, proteggendosi l’abito scuro con un
tovagliolo.
“Non molto: forse è meglio se vado a prendere un
po’ d’aria …”
“Un po’ d’acqua?!”
“No, ha detto aria!” puntualizzò
Juliette, correggendo la collega.
La psicologa alzò lo sguardo in direzione dei due tavoli
davanti a lei: all’inizio non riuscì a scorgere
Sophie, poi la vide sorridente, accanto alla madre, trionfale in un
abito molto colorato e che le metteva in risalto l’incavo
della schiena.
Liliane deglutì, spostando gli occhi dietro di loro, verso
gli altri convitati: si sentì in trappola, accerchiata da
quelli stessi bambini e ragazzi che amava.
Tutti le sembravano dei nemici, per questo doveva scappare, uscire e
respirare dell’aria più
salubre, cercando di riordinarsi le idee, di godersi almeno in
parte la serata e quell'appetitoso banchetto, dimenticandosi per
qualche ora di quel traditore di cui ancora era innamorata.
“Scusatemi: esco un attimo. Ci vediamo più tardi
…”
“E le crêpes?!
Si raffredderanno!”
“Non preoccuparti, Juliette, io non le mangio! Non le ho
toccate, quindi, se volete, ve le lascio volentieri! Buon
appetito!”
La donna si districò a fatica da quel groviglio di sedie e
camerieri pronti e scattanti, facendosi strada fino
all’uscita.
Imboccò le scale e raggiunse il più velocemente
possibile l’androne, per poi ritrovarsi nel giardino.
La serata era splendida, non tirava un filo di vento, e il cielo era
trapuntato di piccole e numerosissime stelle.
La luna, tonda e piena, illuminava magnificamente e infondeva un senso
di pace.
Liliane si sedette su una panchina, all’ombra della quercia,
non sapendo che quello era il posto preferito in cui amava rifugiarsi
Philippe.
Aveva lo stomaco sottosopra, addirittura pensò di tornare a
casa e di dimenticarsi della cena.
Le dispiaceva solamente non abbracciare Sophie, ma sapeva che mancavano
ancora tre giorni alla sua partenza, quindi avrebbe avuto tutto il
tempo per salutarla come meritava.
Rimase lì fuori per un buon quarto d’ora, intenta
ad osservare il firmamento e i rari passanti, al di là del
cancello.
Poi, decise di affrontare le sue paure e ritornare dentro: con un
po’ di fortuna, era molto probabile che avessero
già distribuito i secondi piatti, quindi avrebbe dovuto
resistere solo fino al dolce, una nota piacevole in quella sfumatura
amara che stava caratterizzando la sua vita.
Stava salendo le scale, stanca ma decisa, quando una voce femminile la
bloccò:
“Lei è Liliane, vero? Mia figlia ha visto prima:
voleva venire a salutare, ma poi cominciato a mangiare crêpes
e, quando voltata in sua direzione, lei sparita. Io sono
Aimée Zoukra, molto piacere”
La giovane psicologa deglutì: porse titubante la mano alla
donna, indubbiamente affascinante e magnetica, che arrivava dalla
direzione opposta.
“Sì, sono io. E’ ...
è una bella festa, siamo tutti molto felici per Sophie
… per voi” continuò, abbozzando un
sorriso.
Non sapeva se far finta di niente e, con l’ennesima scusa,
dirigersi in bagno e rimanere lì per il resto della serata,
oppure affrontarla e chiederle spiegazioni.
“Grazie, anche noi siamo molto felici di tutto. Voi siete
delle brave persone, Dio vi darà ricompensa”
Liliane fece per scusarsi, perché non aveva alcuna
intenzione di perdere il tempo e le poche forze che le erano rimaste,
quando non riuscì più a resistere e
domandò, il tono basso e apparentemente distaccato:
“Ha conosciute il dottor Soave, vero?”
“Sì, certo. Lui è stata la prima
persona che ho visto qui, davanti al cancello. E’ molto buono
e gentile, è l'insegnante di mia figlia. Ma stasera non
c’è, perché?”
La psicologa alzò lo sguardo verso le scale, alla disperata
ricerca di qualcuno che la venisse a salvare da quella situazione
imbarazzante, pentendosi di essersi addentrata in quel discorso.
“Ha avuto dei problemi in famiglia. Signora Zoukra, lei e il
dottor Soave vi siete visti anche fuori dal Centre?”
La donna che aveva parlato arrossì e avvertì il
cuore accelerare i battiti.
“No, fuori da qui mai. Anzi, sabato, mentre tornavo
alla comunità, ero convinta di aver visto Philippe, ma,
quando salutato, lui non ha risposto: con la macchina è
andato via, veloce, senza fermarsi”
Liliane si inumidì le labbra, sentendo la bocca secca e dal
retrogusto amaro.
“E’ sicura?”
“Sì, io l’ho visto solo due volte:
quando sono arrivata e lui mi ha accompagnato da direttrice, poi
mangiato insieme e ha aspettato con me arrivo di Sophie, la mia
bambina. E altra volta, quando l'ho visto sabato, come le ho detto, ma,
forse, pensando, non sono sicura che era lui …”
La psicologa deglutì, abbassando lo sguardo e sospirando:
“Va bene. Adesso torniamo alla festa. A proposito, cosa ci
faceva qui?”
“Io cercavo un bagno” sorrise Aimée,
risalendo le scale e ricambiando il cenno d’intesa con
l’altra donna.
Liliane lasciò che andasse avanti di qualche gradino,
rassicurandola sul fatto che le avrebbe mostrato la stanza, rendendosi
conto di essere ancora più confusa di pochi attimi prima: le
avrebbe dovuto credere oppure era giusto continuare a covare dei
sospetti e troncare la relazione con Philippe, non dandogli una seconda
possibilità?
Si convinse che quello non era né il momento e neppure il
posto adatto per darsi una risposta.
Scosse la testa e raggiunse la madre di Sophie, sorridente sul
pianerottolo.
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Capitolo 26 *** Addio o arrivederci? ***
ADDIO O ARRIVEDERCI?
Monsieur Batignole arrivò alle dieci del mattino,
accompagnato da un’euforica Aimée:
l’assistente sociale era infatti passato a prendere la donna
nella sede della comunità che l’aveva ospitata
fino ad allora.
Era un venerdì in cui già si respirava aria
d’estate, sebbene fosse passata da una manciata di giorni la
metà di maggio: il giorno prima aveva piovuto, ma, adesso,
finalmente, era tornato a splendere il sole e il caldo la stava facendo
da padrone.
Philippe non era riuscito a chiudere occhio per gran parte della notte:
il pensiero di dover dire addio a Sophie e, di conseguenza, ad
Aimée e il rapporto ormai agli sgoccioli con Liliane,
avevano di gran lunga contribuito alla sua insonnia.
Si era rigirato nel letto fin dal primo istante in cui aveva posato il
suo corpo stanco, tanto che, quando la sveglia era inutilmente suonata
alle sei e mezza, quasi si stupì di come avesse conciato le
lenzuola, un groviglio senza senso, testimonianza dei suoi incubi ad
occhi aperti.
Aveva deciso di prendere il treno, sebbene, in un primo momento, avesse
optato per recarsi al Centre
con la sua Peugeout rossa: poi, l’agitazione si era fatta
largo nella mente, inducendolo a non azzardarsi a muoversi sulla
quattro ruote, la testa letteralmente tra le nuvole, ingombra di
preoccupazioni e pensieri.
La breve passeggiata dalla stazione di Versailles alla struttura gli
aveva, almeno in parte, rinfrescato le idee: si sarebbe comportato con
estrema naturalezza con tutti i presenti, Aimée in primis,
poi, si convinse che avrebbe parlato con Liliane,
perché quella situazione senza capo né coda
avrebbe dovuto terminare entro breve, non poteva e non voleva che la
sua fidanzata –ormai era quello il termine corretto da
affibiarle- continuasse a non rivolgergli la parola, facendo persino
finta che non esistesse.
Fermo in piedi davanti all’ingresso del Centre, la
ristretta veduta del giardino davanti, spostò il peso da una
gamba all’altra, per scaricare la tensione che avvertiva.
Era una giornata molto speciale, nonostante lui e il resto dei docenti,
la direttrice per prima, avessero deciso di non stravolgere le abitudini
dei bambini, in modo che il distacco dalla loro compagna e le eventuali
invidie non sfociassero in maniera troppo accentuata.
Per questo, dopo le prime due ore di lezione, tutte le classi avevano
anticipato la pausa mattutina, in attesa del grande evento.
L’uomo guardò l’orologio da polso:
mancava mezz’ora al momento convenuto con la direttrice
all'inzio dei lavori,
ovvero all’arrivederci ufficiale a Sophie; nonostante i buoni
propositi, infatti, di addio Philippe non ne voleva affatto sentir
parlare.
Deglutì e si preparò a sorridere, mentre avanzava
in direzione di monsieur Batignole e di Aimée.
Dopo i brevi convenevoli, lo psicologo enunciò con voce
bassa e piatta, un insolito luccichio negli occhi a tradirlo:
“La bambina è quasi pronta. Sta salutando tutti i
suoi compagni, credo che tra poco scenderà
…”
“Molto bene, dottor Soave” replicò
l’assistente sociale, un sorriso incoraggiante sul volto
pingue e glabro contornato da una chioma vagamente brizzolata, la
camicia bianca fermata da eccentriche bretelle a fantasia scozzese e un
paio di pantaloni di velluto, decisamente pesanti per la stagione.
“Nel frattempo, possiamo caricare la valigia sulla
macchina?” continuò il sessantino, indicando il
vialetto oltre il cancello d’ingresso.
Il giovane annuì, concentrandosi sui baffi
dell’uomo: cercava infatti di non guardare in volto la donna
che aveva davanti, semplicemente bella, i capelli ricci
tagliati corti, i grandi occhi ambrati, la bocca carnosa e un
meraviglioso ed esotico vestito blu e fucsia; eppure, appena lei gli rivolse la
parola, egli cedette ad incontrare il suo sguardo:
“Sono tanto felice, signor Philippe, è il giorno
più bello di tutta la mia vita: il mio cuore è
pieno di gioia! Ho paura che dire grazie non basta!”
Lo psicologo annuì imbarazzato, rivolgendole
un’occhiata distratta:
“Non deve dire niente: ho fatto solo il mio lavoro, nulla di
più, mi creda. Allora, prego, intanto che aspettiamo Sophie,
vi accompagno nella sua camera per prendere la valigia: è al
secondo piano, non ci impiegheremo molto …”
Il giardino del Centre
assomigliava ad un lunapark mezzo sgangherato e affollato di un
centinaio tra ospiti e insegnanti: ogni volta che, rarissime per altro,
uno dei bambini o dei ragazzi riusciva a ricongiungersi con i loro
genitori o parenti, il consiglio presieduto da madame Betancourt e
dall’intero corpo psicologi, aveva optato per promuovere un
arrivederci il più soft possibile e lontano dal clamore mediatico
che, una situazione del genere, avrebbe inevitabilmente suscitato negli
altri ospiti.
Tuttavia, quella volta, avevano deciso di fare un' eccezione, dal
momento che la stessa interessata aveva espressamente richiesto la
presenza della sua classe e delle sue insegnati, oltre che del resto
dei ragazzi: così, la voce si era sparsa fin troppo
velocemente – complice anche la cena d’addio di
appena tre giorni prima- e, da una dozzina di partecipanti a quella
sorta di party sul prato che avrebbero dovuto essere, ora si poteva
contare almeno il quintuplo delle persone.
Philippe, il più in disparte possibile, si guardò
intorno, alla ricerca di Liliane: quella mattina, infatti, non era
ancora riuscito neppure a vederla, figuriamoci a parlarle.
Cercò di aggirarsi in mezzo a quella folla con la massima
discrezione di cui fosse capace, tentando di non urtare nessuno dei
presenti, fino a quando la scorse seduta su una delle due panchine del
giardino, intenta ad allacciare le scarpe a Fredéric, un
tipetto di dieci anni, magro e con i capelli pel di carota, gli occhi
nocciola.
L’uomo attese che il bambino si allontanasse, poi, in piedi
davanti a lei, richiamò la sua attenzione, salutandola con
voce neutra:
“Posso sedermi?”
“Non c’è bisogno, perché mi
stavo giusto alzando … “
“Aspetta, ti prego, devo parlarti!” la
bloccò lui, prendendola per un braccio, il cuore che
accelerava.
“Lasciami” sibilò la ragazza, senza
guardarlo, graziosa con i capelli raccolti in uno chignon scomposto,
una camicetta larga color cobalto e dei pantaloni in simil-jeans.
“Va bene, va bene. Però, devi ascoltarmi Liliane,
ti supplico!” continuò insistente lo psicologo,
mentre la rincorreva lungo
il giardino–
se si poteva scegliere quel verbo per descrivere i brevi movimenti dei
due, dovuti all’ammasso di persone
tutt’intorno- , dopo aver costeggiato la grande
quercia.
“Hai ricevuto le rose?” domandò
speranzoso.
“Sì” tagliò corto la donna,
continuando a non fissarlo.
“Ti sono piaciute o forse preferivi degli altri fiori? Magari
dei girasoli o dei gladioli erano più appropriati
… ?”
“Le rose andavano benissimo, grazie” lo interruppe,
continuando a dargli le spalle.
“E la scatola di cioccolatini? Anche quella ti è
piaciuta?”
“Sì” confermò senza
entusiasmo, bloccandosi per un istante e voltandosi nella sua direzione.
“Mi fa piacere, voglio dire, sono contento che i miei regali
ti abbiano …”
“Senti Philippe, non è il momento adatto
per discutere dei nostri problemi. Io apprezzo i tuoi gesti di pace, ma
non sono ancora pronta, dovresti cercare di capirmi. Non mettermi
fretta, per favore. Adesso scusa, ma devo andare a recuperare la mia
classe …” gli spiegò, guardandolo per
la prima volta negli occhi, lucidi ma sicuri, il tono roco.
Lo psicologo deglutì per l’ennesima volta in pochi
minuti, poi aprì la bocca per cercare di replicare qualcosa
di sensato, ma dalle sue labbra non uscì nulla, solo un
sospiro un po’ più forte dei precedenti.
Liliane era già pronta per sgattaiolare lontano da lui,
quando il coraggio ritornò ad impossessarsi del ragazzo, che
proruppe:
“Io … sì, insomma, ti capisco, va bene.
Aspetteremo che finisca tutto e ne parliamo questa sera. Torniamo a
casa insieme?”
“No” ribatté meno sicura di prima.
“No nel senso che preferisci che venga io a casa tua o che
sia tu a venire da me?”
L’uomo, mentre parlava con voce titubante, gesticolava con le
mani per sottolineare le due scelte.
“Non posso venire da te o tu da me. Ho un appuntamento, dopo
il lavoro”
“Un appuntamento?” domandò interdetto,
scansando un gruppetto di bambini che si stava scontrando contro le sue
gambe.
“Se pensi ad un incontro galante, ti sbagli” lo
redarguì incolore, ferma davanti a lui, ritrovando la forza
di replicare acida.
“Devo vedermi con una persona …”
“La conosco?”
“E’ una donna, puoi stare tranquillo. Almeno la
puoi smettere di fare il finto geloso”
Philippe annuì, come per confermare la veridicità
di quelle frasi, facendo credere di non aver sentito l’ultima
parte della frase.
“Certo, ti credo. Non volevo mettere in dubbio le tue parole.
Allora, non so, potremo fare domani sera?”
“Può darsi … ma non ti mettere in testa
strane idee. Se vuoi accompagnarmi a casa, per me va bene,
però oltre non possiamo andare"
Liliane sospirò e cominciò a giocherellare con la
lingua, gonfiando prima una guancia e poi l'altra.
Non era facile respingerlo in continuazione, se ne rendeva
perfettamente conto, ma la sensazione di essere stata ferita e presa in
giro, non riusciva ancora ad abbandonarla.
"Dobbiamo capire cosa vogliamo l’uno dall’altra, se ci
vogliamo l’uno con l’altra. Mi capisci,
vero?“
L’uomo annuì una seconda volta, sospirando
impotente.
Avrebbe voluto ribattere che non era totalmente d’accordo,
che non riusciva a comprenderla fino in fondo, ma la festeggiata del
giorno gli corse incontro, abbracciandolo.
“Eccovi! Tra un po’ parto e non vi ho ancora
salutato per bene!” spiegò Sophie, i capelli
raccolti in fitte treccine, una maglietta gialla con
l’immagine di una Minnie sorridente e una gonna rossa,
tuffandosi anche su Liliane, che si abbassò al suo livello e
le stampò un bacio su entrambe le guance paffute.
“Madmoiselle,
credeva davvero che l’avremmo lasciata andar via senza un
saluto, un abbraccio e … una buona dose di
solletico?!”
La ragazza cominciò a mettere in pratica i suoi
avvertimenti, mentre la bambina rideva di gusto, cercando di ricambiare
il simpatico pizzicore che le stava attraversando le braccia.
“Ti accompagneremo fino alla macchina, non
preoccuparti” la tranquillizzò poco dopo,
staccandosi da quel groviglio di mani.
“Ora vado a recuperare la mia classe, tesoro. Ci vediamo
dopo”
Non appena la psicologa si allontanò, Philippe
focalizzò l’attenzione sulla piccola presente.
“Allora, cosa mi racconti?”
L’uomo la prese per mano e, dopo averle chiesto con tono
serio se potesse parlarle da solo, in disparte da tutta quella gente,
la condusse verso l’ingresso dell’androne,
l’unico posto nelle vicinanze a godere ancora di un certo
grado di relativa tranquillità.
“Oh, finalmente possiamo farci una bella chiacchierata, tu ed
io!” la canzonò con affetto, mentre si lasciavano
scivolare su una parete del muro, fino a ritrovarsi seduti, le schiene
contro i mattoni freddi.
“Come sei pensieroso … ”
Lei lo scrutò con attenzione, le mani appoggiate sulle
ginocchia.
“Hai ragione: è che sono un po’ triste
…”
“Perché me ne vado?”
Lo psicologo annuì, smettendo per un istante di guardarla
negli occhi.
“Sai, vorrei ringraziarti per tutti i bei momenti trascorsi
insieme, Sophie. Da te ho imparato molto e mi sono anche tanto
divertito. Ti ricordi il primo giorno che ci siamo incontrati? Eri una
bambina molto introversa, chiusa, arrabbiata con tutti. Adesso, invece,
sei una bambina splendida, affettuosa e sensibile, intelligente,
simpatica … mi mancherai, principessa …”
Philippe la abbracciò, perché avvertiva che, di
lì a breve, se non si fosse fermato ad elencare quella
valanga di pregi, si sarebbe messo a piangere: non riusciva, o forse
non voleva, reprimere quel moto di sentimenti che avvertiva turbinargli
nel cuore e nella mente, sempre più confusa.
La bambina ricambiò il gesto con la massima naturalezza di
cui fosse capace e, stampandogli un bacio su una guancia sporcata di
barba incolta, replicò euforica:
“Sono così felice che non vorrei sognare! Non
riesco ancora a credere che la mamma è tornata, che da
questa sera potremo mangiare insieme, dormire nella stessa casa, vivere
sempre sempre e ancora sempre insieme!” gli spiegò
entusiasta, battendo le mani dalla contentezza.
“Lo so, ed è una cosa bellissima, la
più bella che un bambino possa desiderare. Ricordati,
però, che anche se saremo lontani, anche se non potrai
venire a trovarci spesso, tutti continueremo a pensarti. Sarai sempre
con noi e noi con te: ogni volta che avrai bisogno, che sentirai la
necessità di ricevere un consiglio, io ci sarò,
Liliane ci sarà, le altre insegnanti e i tuoi compagni ci
saranno, sempre che anche loro non siano tornati a casa!” le
fece presente, pizzicandole il naso e stemperando così
l’atmosfera che si era creata, forse troppo seria per una
bambina di quell’età.
Sophie si rabbuiò per un istante e, dopo un attimo di
riflessione, constatò con voce dubbiosa:
“La mamma ha detto che non abiteremo più qui a
Versailles, anzi, nemmeno in Francia. E’ vero?”
L’uomo avvertì come un pugno colpirgli lo stomaco:
non capiva se era solo un mero riflesso di tutte le fantasie che si era
creato in quella testa dura che si ritrovava, oppure se, ascoltando
quella domanda, davvero sentiva un dispiacere sincero aggrovigliargli i
visceri.
“Perché mi chiedi se è la
verità? Non credi alle sue parole?”
Lei abbassò per qualche secondo lo sguardo, le ginocchia
flesse e le mani con i palmi rivolti sul pavimento.
“No, certo che credo a quello che mi ha detto, è
solo che ho sempre abitato qui. Il Senegal, dove sono nata, non me lo
ricordo, perché quando siamo venuti qui avevo due anni. La
mamma vuole tornare lì …”
“E non sei curiosa di vedere posti nuovi, conoscere persone
diverse da quelle che hai incontrato fino adesso?”
cercò di tranquillizzarla, spostandole una ciocca di
treccine dal viso pensieroso.
“Non lo so …” spiegò la
bambina, facendo spallucce “a me piaceva stare qui,
con voi e con i miei amici, per questo mi piacerebbe che starebbe anche
la mamma. Ma lei dice che non può, perché questo
non è un posto che va bene per lei. Però, quando
ci penso, sono tanto felice di averla ritrovata!” concluse,
sorridendo e abbracciando nuovamente l’uomo.
“E’ la cosa più importante, Sophie,
l’unica che conta: tu e la tua mamma vivrete finalmente
insieme e, anche se sarà lontano da qui,
l’importante è che vi vogliate bene e che
continuiate a stare unite. Tutto il resto verrà con il tempo
… ”
Philippe l’aiutò a sollevarsi e, mano nella mano,
la invitò a ritornare alla sua festa dell’arrivederci,
il vociare degli altri bambini e degli adulti che si levava a poche
centinaia di metri da loro.
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Capitolo 27 *** Le disavventure continuano... ***
LE
DISAVVENTURE CONTINUANO ...
Lo squillo del cellulare raggiunse improvvisamente Philippe nel bagno:
era sabato mattina e la sua intenzione sarebbe stata quella di andare a
casa di Liliane, a Versailles, per convincerla a riprendere la loro
relazione.
In quei giorni di astio e di lontananza, infatti, aveva compreso quanto
l’amasse, quanto le volesse bene e le fosse affezionato, per
cui non l’avrebbe persa per nessun motivo al mondo.
Era appena uscito dalla doccia, e adesso si stava strofinando con un
asciugamano i capelli grondanti che, da bagnati, assomigliavano sempre
più a una criniera di leone, solo un po’
più scura.
Fissò nello specchio sopra il lavandino gli occhi arrossati
dalla schiuma dello shampoo: il verde dell’iride era marcato
dalle venuzze in rilievo; l’uomo si stropicciò le
palpebre e aprì il rubinetto, in modo da risciacquarsi il
viso ed eliminare eventuali residui di sapone intrappolati tra i pori
della pelle.
Poi, lo sguardo fisso nel vetro, si passò una mano sulla
barba, leggermente incolta: prima
di uscire, sarà meglio darci una spuntatina,
constatò sottovoce.
Il telefono lo sorprese mentre stava recuperando il filo del phon, in
procinto di inserire la spina nella presa vicino al mobiletto
in ceramica.
Philippe si voltò in direzione della suoneria, il cellulare
appoggiato sulla mensola sopra la cassettiera contenente gli
asciugamani.
Con la mano sinistra continuò a reggere il phon, mentre con
l’altra agguantò l’apparecchio:
“Pronto?”
“Sono io,
Liliane …”
Lo psicologo avvertì un tuffo al cuore, mentre sentiva il
tono di voce all’altro capo del filo, decisamente preoccupato
e imbarazzato:
“Liliane! Sono felice che tu mi abbia chiamato. Volevo farti
una sorpresa e venire da te: non ci crederai, ma stavo finendo di
prepararmi! Sei a casa?” balbettò, deglutendo e
sentendo i battiti accelerare.
“Sono in
stazione … ho bisogno di te”
Philippe appoggiò l’asciugacapelli sul coperchio
del water, quindi si sedette anche lui, cercando di rendersi conto se
aveva capito bene le parole della donna.
“Ah, quindi stai partendo … ?”
Un sospiro velato gli fece attendere la risposta:
“Non la
stazione dei treni, Philippe, quella di polizia. Mi hanno …
mi hanno arrestata, cioè, sono in stato di fermo da questa
mattina”
L’uomo aprì la bocca per replicare:
avvertì una strana sensazione, come se avesse ricevuto un
improvviso pugno allo stomaco.
“Arrestata?! Che cosa è successo? Tu stai
bene?”
“S-sì,
sì, non mi hanno fatto niente, è che …
è una storia lunga. Per favore, sei l’unica
persona che ho pensato di avvisare. Puoi venire? Sono in Rue de la
République 22. Sai dov’è?”
“Sì, vagamente. Ma non preoccuparti, per strada
chiederò a qualcuno. Comunque, certo che vengo, arrivo il
prima possibile, amore”
“Grazie
… allora, ti
aspetto”
Quando attaccò, dopo lo stupore che non tendeva a diminuire,
il ragazzo considerò due cose: la prima è che era finalmente
riuscito a chiamare Liliane con l’appellativo che più le si
addiceva, in quel momento,
confessandole finalmente il sentimento che nutriva per lei; in secondo luogo, si
ritrovò a pensare, forse persino scioccamente, che erano
davvero fatti l’uno per l’altra, se persino lei era
stata arrestata, proprio come gli era successo ormai un mese addietro,
durante gli scontri con i manifestanti di Pauligny.
Mentre recuperava le chiavi di casa, i capelli metà asciutti
e metà bagnati, sperò con tutto se stesso che,
anche in quell’occasione, tutto si risolvesse per il meglio.
Decise di prendere il treno, perché ci avrebbe impiegato
meno tempo e, soprattutto, non aveva la benché minima testa
di guidare per cinquanta minuti sulla statale mezza trafficata di un
sabato mattina di metà maggio, la mente che vagava da un
problema all'altro.
Arrivò davanti alla centrale di polizia che era passata
quasi un’ora, da quando Liliane lo aveva informato di dove si
trovasse; erano le undici e mezza e, mentalmente,
calcolò che era riuscito a guadagnare appena un
quarto d’ora di tempo.
Con il fiato corto, la maglietta bianca abbellita da una stampa blu e
un paio di jeans mezzi consumati, Philippe entrò trafelato
e, rivolgendosi all’agente in guardiola, si
presentò come il compagno della donna arrestata.
“Sì, attenda un attimo. Vado ad avvisare
l’ispettore Duran …” gli rispose il
trentenne davanti a lui, i capelli neri e lisci tagliati cortissimi, un
occhio grigio e l’altro azzurro.
Dopo una breve attesa di qualche secondo, lo psicologo
sbiancò in volto: aveva avuto un semplice ed immaginario deja-vù
oppure aveva già visto l’uomo corpulento che gli
stava venendo incontro, un cinquantenne di media altezza, pelato e
dagli occhi scuri?
“Ah, allora è lei! Credevo si trattasse di un caso
di omonimia: quando mademoiselle
Satine mi ha comunicato che avrebbe contattato il suo fidanzato, beh,
l’ultima cosa a cui andavo a pensare era che si trattasse
proprio di lei …”
Philippe lo fissò in volto, cercando di trovare le parole
giuste per togliersi da quell’imbarazzo:
“Io … sì, sono proprio io. E lei invece
è l’agente che mi ha arrestato a causa dei tumulti
accaduti a Pauligny, vero?”
L’altro annuì, il volto serio ma per nulla ostile.
“Esatto, sono l’ispettore Duran. Sa, a causa dei
tagli del personale, mi sono autoreclutato
per dare un aiuto ai miei uomini a sedare le risse che ci sono state.
Sbaglio o, anche allora, si trattava di un sabato mattina?”
Finalmente l’uomo si presentò, stringendo la mano
del ragazzo, che lo ricambiò nervoso, stupendosi
dell’ottima memoria di cui godeva il poliziotto.
“Non sbaglia. Ispettore, cos’è successo?
Perché avete arrestatato Liliane?” proruppe
Philippe, in preda ad un’ansia incontenibile.
“E’ una faccenda abbastanza delicata, ma non
irrecuperabile, non si preoccupi. Prego, da questa parte
…”
I due si avviarono lungo un breve corridoio, ai cui lati si aprivano
una serie di porte verde acqua.
Il poliziotto gli fece cenno di entrare nella terza stanza a sinistra;
appena ebbe messo piede, Philippe sentì chiudersi ancora di
più lo stomaco, le mani che gli tremavano
impercettibilmente, il cuore che continuava ad accelerare i battiti.
“Liliane!”
La giovane donna si alzò da una sedia grigia, assolutamente
anonima, posizionata dietro un tavolo rettangolare di legno sistemato
al centro dell’ambiente, un’ampia finestra con le
sbarre alle sue spalle.
“Oh Philippe, sono così felice di
vederti!” lo salutò con un sorriso tirato,
abbracciandolo con forza.
“Stai bene?” sorprendentemente lo psicologo la
baciò sulla bocca, mentre le teneva le mani tremanti.
Lei annuì, gli occhi azzurri velati di lacrime.
“Mi dispiace fare il terzo incomodo, signori, ma non siamo
qui per le riappacificazioni tra innamorati. Signor Soave, la prego, si
sieda. Anche lei, mademoiselle
Satine”
Entrambi gli obbedirono senza riserve, quasi come fossero stati degli
autòmi: quando tutti e tre si furono sistemati,
l’ispettore cominciò a spiegare, la voce forte e
chiara:
“Dunque, la sua fidanzata si trova in stato di fermo
perché questa mattina è stata denunciata per
appropriazione indebita da Mathieu Gilbert. Lei lo conosce?”
“E’, cioè, era il precedente fidanzato
di Liliane” precisò lo psicologo, gli occhi fissi
in quelli dell’uomo.
L’ispettore annuì, poi aggiunse:
“Sì, questo me lo ha già riferito la
signorina. Quello che vorrei sapere da lei, però,
è se lo ha mai incontrato di persona e se, soprattutto, monsieur Gilbert
è al corrente della vostra attuale relazione”
Philippe cercò con lo sguardo la ragazza, immobile al suo
posto, mentre continuava a stringerle la mano destra.
“No, non l’ho mai visto. Anzi, non so neppure se sa
della nostra relazione. Liliane mi ha parlato di lui pochissime volte,
due o tre, non di più. Ma perché mi chiede
questo? E perché l’ha accusata di appropriazione
indebita?!” si accalorò il ragazzo, sistemandosi
meglio sulla sedia grigia, la schiena leggermente incurvata.
“Il signor Gilbert accusa mademoiselle Satine
di aver prosciugato il suo conto corrente quasi quattro anni fa,
esattamente nel novembre 2011” riferì
l’ispettore, leggendo da un foglio stampato che aveva
recuperato da una pila di documenti alla sua sinistra.
“E di essersi accorto di tale furto, sempre a sentire le sue
parole, solamente ieri pomeriggio, quando si è recato nella
banca dove teneva il denaro per recuperarlo e ripartire alla volta
dell’Australia dove, da quanto mi ha confermato anche la sua
fidanzata, tutt’ora vive e lavora. Lei, signor Soave, ha mai
saputo dell’esistenza di questo conto?”
Lo psicologo scosse la testa, non capendo il senso –sempre se
ce ne fosse stato- di tutte quel folle ed inconcludente discorso:
“No, nella maniera più assoluta. Ma
perché mi fa tutte queste domande? Liliane non
c’entra nulla, non è in grado di fare del male a
nessuno! E poi, insomma, non aveva motivo di prelevare quei soldi, ne
sono sicuro!"
L’ispettore, una camicia a maniche corte bianca a quadretti
gialli e rossi, si protese in avanti sulla poltrona imbottita in pelle,
i palmi appoggiati alla scrivania:
“Sto facendo il mio lavoro, ecco il motivo di tutte queste
domande. E’ importante sapere se lei possa essere coinvolto
in qualche modo in questa faccenda … ”
“Ispettore, ho conosciuto Philippe dopo aver lasciato
Mathieu, mesi dopo questo fantomatico furto che le giuro di non aver
commesso! Non ha mai saputo nulla del conto corrente, glielo giuro su
quello che vuole!”
“Va bene, signorina, non c’è bisogno di
prestare alcun giuramento. Adesso si calmi …”
acconsentì l’uomo, guardando la donna che si stava
agitando sulla sedia, i capelli biondi spettinati, le gote arrossate e
gli occhi lucidi.
“Di quale cifra stiamo parlando?” volle sapere il
ragazzo, stringendo con tenerezza un ginocchio della collega.
“Cinquanta mila euro: una cifra che definirei più
che ragguardevole, non trova?”
Lo psicologo fissò lo sguardo sbalordito in quello di
Liliane, stanco ed incomprensibile, riprendendo la mano che la ragazza
aveva fatto scivolare dalla sua, mentre tentava di difenderlo.
“Che cosa rischia?”
L’uomo assottigliò gli occhi scuri e li
piantò in quelli del suo interlocutore:
“La pena per il reato di appropriazione indebita è
equivalente a tre anni di reclusione: bisogna anche tenere in
considerazione il fatto che la signorina è incensurata,
quindi si potrebbe scendere a compromessi con un patteggiamento o con
gli arresti domiciliari. Sarà poi il giudice e, ovviamente,
le prove concrete che riusciremo a rintracciare che faranno la
differenza. Non dimentichiamo, infatti, che sono trascorsi quasi
quattro anni. Allora, ha qualche altra domanda, signor
Soave?” concluse Duran, con una nota di sarcasmo.
“Sì, ispettore. Dov’è
l’accusatore? Perché quel vigliacco non
è qui ad affrontare Liliane di persona?!
Cos’è? Si vergogna perché sa di essere
in pieno torto?!”
“La prego di moderare i termini!” lo riprese il
poliziotto, guardandolo torvo “stiamo indagando e,
per il momento, dobbiamo dare credito principalmente alle parole del
signor Gilbert. Lei non è tenuto a sapere dove si trova
l’uomo! E' suo dovere, invece, rispondere con
onestà e chiarezza alle domande che le sto porgendo. Ha
capito?!”
Philippe abbassò lo sguardo, passandosi la lingua sulle
labbra, per cercare di calmare i nervi.
“Allora, la sua fidanzata sostiene che i cinquantamila euro
le sono stati donati, diciamo così, dallo stesso Gilbert,
per intraprendere dei lavori nella casa nella quale, mi corregga
signorina se sbaglio, adesso vive da sola. E'
così?”
Liliane annuì, sibilando un debole sì.
“Bene, fino a qui ci siamo. Il fatto, signor Soave,
è che non posso credere alle parole di mademoiselle Satine
per il semplice fatto che non ho delle prove, non ho un pezzo di carta
che mi confermi ciò che la qui presente signorina sta
sostenendo da quasi due ore, ormai. Mi capisce?”
“E lei, ispettore, perché crede ciecamente alle
parole di quell’uomo?!”
“Le ripeto per l’ultima volta di mantenere un certo
contegno, la prego! Rispondo subito alla sua domanda: Gilbert ha sporto
regolare denuncia e, cosa più importante, è
l’unico titolare del conto corrente in questione. Per questo
motivo, devo dare credito, almeno per il momento, alle sue parole,
piuttosto che a quelle della sua fidanzata”
“Ma io sono innocente! Non gli ho mai rubato neppure un
centesimo! E’ stato lui a darmi quei soldi, per ristrutturare
la nostra casa!” s’intromise la ragazza,
sporgendosi dalla sedia.
“Che adesso, a quanto pare, è solo sua. A questo
proposito, signorina, a chi è intestata?”
Liliane si voltò alla sua destra a guardare Philippe, come
per recuperare la forza e il coraggio che la stavano abbandonando.
“Era cointestata. Anzi, in realtà lo è
ancora”
“Però il conto era solo a nome del suo ex
compagno, giusto?” incalzò con sguardo serio e
corrugato Duran, le mani incrociate sulla scrivania.
“Sì” sibilò lei, abbassando
gli occhi sulle ginocchia, avvolte da un paio di leggins di cotone.
“Dal momento che stiamo parlando di una cifra che non
è possibile prelevare in contanti, in quanti tempi e in che
modo ha ottenuto il denaro? Il suo ex fidanzato le ha compilato un
assegno o le ha fatto un bonifico?”
La giovane lasciò la mano destra stretta in quella di
Philippe e, in un gesto di pura rassegnazione, si coprì il
viso, sospirando forte:
“Non mi ricordo, ispettore. Forse ho prelevato un acconto per
cominciare i lavori nell’appartamento e poi Mathieu mi ha
fatto un assegno, ma non ne sono sicura … a volte, non
ricordo neppure quello che ho fatto ieri, come pretende mi possa venire
in mente una situazione che è successa più di tre anni
fa?!” lo supplicò con lo sguardo, il volto
impallidito.
“Capita a molte persone, a me per primo, lo ammetto, di non
ricordare cosa si è mangiato il giorno prima, persino chi si
è incontrato. Ma, in questo caso, signorina, le conviene
farsi tornare la memoria e, possibilmente, dirmi la verità.
Le ripeto la domanda: perché ha prelevato quei cinquantamila
euro senza il consenso di Mathieu Gilbert?”
“Perché me lo ha detto lui, ispettore, mi ha dato
lui il permesso! Quante volte glielo devo ripetere?!”
“Ma non vede che è stravolta!” si mise
in mezzo lo psicologo, alzando nuovamente il tono di
voce “la lasci in pace, la prego!”
Il poliziotto, le mani incrociate sulla scrivania, lo fissò
con attenzione, gli occhi scuri socchiusi e la fronte aggrottata:
“Sto solo facendo il mio lavoro, signor Soave. Se mademoiselle Satine
sta dicendo la verità, lo scopriremo, stia tranquillo. Ma,
fino ad allora, è mio compito considerarla colpevole,
cercate di capirmi. Comunque, per il momento può andare bene
così” sancì l’uomo, alzandosi
dalla poltrona e sorridendo.
“Signor Soave, può riaccompagnare a casa la
signorina, ma dovrete rimanere a disposizione, soprattutto
lei” precisò l’ispettore, guardando
Liliane.
“Non scapperemo, se è questo che
intende” ribatté Philippe, sfidandolo con lo
sguardo.
“Vedo che avete compreso al volo. A proposito, mentre la
aspettavamo, ho chiamato il giudice per metterlo al corrente della
situazione: lunedì mattina contatteremo la banca in cui il
signor Gilbert ha depositato il conto corrente incriminato,
così da cercare di ricostruire cosa sia successo quel
giorno. La attendiamo per le nove, mademoiselle,
per interrogarla: perciò, da qui a dopodomani,
dovrà assicurarmi che non si muoverà da
Versailles, per nessun motivo, altrimenti sarò costretto a
convalidare lo stato di fermo”
La donna annuì, abbozzando per la prima volta un sorriso di
speranza.
“Dimostrerò la mia innocenza, ispettore”
“Lo spero per lei, signorina. Bene, allora arrivederci. Ci
vediamo lunedì”
I tre si alzarono e, dopo una sbrigativa stretta di mano, Philippe e
Liliane uscirono dalla stanza, liberati dalla ragnatela invisibile che
li aveva imprigionati nella sua rete.
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Capitolo 28 *** Il colpo della strega ***
IL COLPO
DELLA STREGA
Era un sabato mattina relativamente tranquillo: in giro, infatti, non
sfrecciavano molte macchine, sostituite invece da passanti frettolosi
ed accaldati, che si riversavano sui bordi delle strade, lungo i
marciapiedi in buona parte affollati, mentre la carregiata era presa
d'assalto da impavide biciclette che, abbandonata la pista ciclabile
per improbabili acrobazie, tentavano di districarsi con successo nelle
file infinite di automobili e motorini parcheggiati.
“Sono venuto in treno …”
esordì Philippe, dopo che erano rimasti in silenzio per una
manciata di minuti interminabili: da quando erano usciti dalla stazione
di polizia, infatti, le loro bocche avevano cominciato a tacere, solo
le loro dita si sfioravano di tanto in tanto, cercando la prova che
erano davvero lì, in carne ed ossa, uno di fianco all'altra,
nonostante tutte le difficoltà che stavano accadendo.
“Non fa niente, possiamo anche fare due passi ...”
La voce di Liliane risultava stanca e provata: mentre pronunciava
quelle brevi frasi, lo psicologo notò la preoccupazione sul
suo volto, lo sguardo basso sulle ballerine, i capelli biondi
spettinati in quella che, diverse ore prima, doveva essere una treccia.
“Andrà tutto bene, ne sono sicuro” la
consolò, cingendole le spalle e dandole un bacio sul capo,
senza rallentare l'andatura.
“Non capisco perché Mathieu mi abbia fatto questo
… è assurdo!”
Philippe strinse i pugni: a sentir pronunciare il nome di quell'essere
spregevole, uno strano formicolio cominciava a pervadergli le mani, le
braccia e le gambe, così cominciò a sciogliere la
tensione, aprendo e chiudendo le dita, in attesa che la rabbia si
attenuasse.
“Perché è un pazzo, ecco
perché! Dopo che tu gli hai negato i trentamila euro per
aprire uno stupido studio in Australia, ha voluto vendicarsi del tuo
rifiuto, incolpandoti di qualcosa che, solamente a pensarci, mi viene
da ridere, talmente è impossibile che tu possa avergli
rubato quei soldi … E' davvero una cosa da matti!”
I due si fermarono sul ciglio della strada, il semaforo davanti a loro
che segnava il rosso.
Una volta in marcia, lo psicologo riprese con tono più
sereno:
“L’ispettore Duran è lo stesso
poliziotto che mi ha fermato in seguito agli scontri di Pauligny,
più di un mese fa. Quando i manifestanti mi hanno ferito e
ho perso i sensi, mi ha portato in ospedale – o ha chiamato
l’ambulanza, questo non l’ho mai saputo- ed
è stata la prima persona che ho visto, non appena mi sono
risvegliato. E’ un brav’uomo e sono convinto che
saprà svolgere al meglio il suo lavoro, Liliane. Dobbiamo
avere fiducia in lui: molto presto, tutto si risolverà, amore”
La donna, il volto sempre abbassato a terra, si fermò di
colpo, mentre stavano percorrendo la via parallela a quella del parco,
a pochi minuti dal suo appartamento.
“Come mi hai chiamata? A-amore?”
Philippe si voltò e sbatté le palpebre,
imbarazzato, temendo di aver fatto l'ennesima gaffe, dato lo
sguardo crucciato della psicologa, pochi passi dietro di lui:
“S-sì, perché? Forse non avrei dovuto
farlo? Ascolta Liliane, tra me ed Aimée non è mai
successo nulla, devi credermi! Io sono innamorato di te ed è
questo che conta, tutto il resto non ci deve interessare! Adesso,
dobbiamo solo trovare una prova che ti possa scagionare e
…”
La ragazza lo raggiunse e, sorridendogli, lo abbracciò,
sollevandosi sulle punte.
“Andiamo a casa, Philippe, abbiamo tante cose da
recuperare…”
Fu un pomeriggio, allo stesso tempo, dolce e teso: quando arrivarono
nel piccolo stabile in cui viveva la psicologa, era ormai
l’una e mezza passata.
Nessuno di loro due aveva voglia di mangiare, così si
sdraiarono sul letto e rimasero abbracciati fino al primo pomeriggio,
dopo essersi addormentati stretti l’uno all’altra.
Fuori c’era un bel sole, invitante e gioioso: dalle persiane
accostate, si riuscivano ad intravedere le ombre delle altre abitazioni
che la palla infuocata proiettava sui muri, se veniva momentaneamente
oscurata da qualche rarissima nuvola.
In lontananza, il rombo di un paio di aerei diretti
all’aeroporto di Parigi li svegliò completamente.
“Forse è meglio alzarci …”
propose Philippe, levando il braccio intorpidito dalla schiena di
Liliane.
“Abbiamo meno di due giorni per cercare qualcosa che possa
provare la tua innocenza” continuò
l’uomo, girandosi sul fianco sinistro per guardare la
compagna e scostarle una ciocca di capelli dagli occhi verdi.
“Lo so, ma non mi ricordo nulla di quel fantomatico giorno! A
dir la verità, non so neppure perché Mathieu
abbia deciso di utilizzare solamente i suoi soldi invece che i nostri
risparmi in comune …” gli rispose affranta,
mettendosi a sedere.
“Che lavori dovevate fare?”
Liliane si passò una mano sul volto stanco e tra i capelli
biondi, ormai scarmigliati.
“Abbiamo rifatto i pavimenti e cambiato gli infissi. I
proprietari precedenti erano dei vecchietti che si erano trasferiti in
una sorta di casa di riposo statale, perché non riuscivano
più a mantenere le spese per la casa, quindi, quando venne
messa all’asta, passarono diversi mesi prima che qualcuno
l’acquistasse: un giorno, quando ormai stavamo perdendo le
speranze, trovammo l’annuncio su un giornale e decidemmo di
comprarla. Quando entrammo, qualche mese dopo, era autunno inoltrato e,
trovandosi all’attico, a causa delle abbondanti piogge
dell’ultimo mese, l’acqua si era infiltrata
praticamente dappertutto. I cinquantamila euro sono serviti per questo
e per completare l’arredamento di quello che avrebbe dovuto
essere il nostro nido d’amore” concluse ironica,
abbassando lo sguardo.
“E non ricordi se in giro, da qualche parte, c'è
ancora una ricevuta dei lavori che avete fatto? Qualcosa che dimostri
che quella sottospecie di uomo era consenziente quando ti ha dato i
soldi?!”
“Può darsi che ci sia, Philippe" ammise a voce
bassa, sfiorandogli una mano "ma quando Mathieu partì per
l’Australia, si portò via tutte le sue cose,
compresi i documenti e decine di pile che, per me, erano solamente
carta straccia! Io non so se, in mezzo a quella roba, ci potesse essere
quella ricevuta! Non lo so, non lo so…”
Liliane gli si avvinghiò, cercando di reprimere le lacrime.
“Tranquilla, non devi lasciarti abbattere. Ascolta”
cercò di rincuorarla, prendendola per le braccia e
obbligandola a guardarlo negli occhi “almeno ti ricordi se,
per utilizzare quel denaro, ti ha girato un assegno o ti ha fatto un
bonifico?”
“Ma l’ho già detto
all’ispettore che non lo ricordo!”
mugolò la ragazza, coprendosi il viso e cominciando ad
agitarsi sul letto.
“Riesco a ricordarmi perfettamente il motivo per cui abbiamo
utilizzato quei maledetti soldi, ma non mi viene in mente
perché e come sia entrata in possesso dei cinquantamila euro
e … aspetta un attimo!”
“Cosa? Cosa ti è venuto in mente?!”
domandò speranzoso Philippe, avanzando carponi sul letto.
“Mathieu aveva deciso di donarmi la cifra come regalo di
inizio della nostra convivenza insieme, una sorta di gesto
beneaugurante!” si entusiasmò Liliane,
gesticolando con le mani e sistemandosi sulle ginocchia.
“Sì, ma anche questo lo hai già detto a
Duran!” tentò di farla ragionare, mettendosi
seduto come lei.
“No, Philippe, questo non gliel'ho detto! Ero talmente in
subbuglio ed in soggezione che, stupidamente, non ne ho fatto parola!
Adesso, però, mi è tornato in mente tutto! Il
mese prima era il mio compleanno e Mathieu era via per lavoro. Quando
tornò, mi promise che saremo andati a vivere insieme,
perché aveva fatto un colpo grosso e, come risarcimento per
non essere stato presente alla festa e non avermi regalato nulla,
decise di pagare le spese di ristrutturazione! Ora che mi ci hai fatto
pensare, sono sicura di avere ancora da qualche parte il biglietto che
mi aveva scritto e in cui mi spiegava il motivo di una donazione tanto
generosa!”
Il ragazzo rimase in silenzio per qualche secondo, poi,
l’espressione seria, domandò:
“Conservi ancora i suoi biglietti
d’amore?”
“Non sarai geloso?! Finalmente ho una prova con cui
scagionarmi e ti metti a fare il geloso?!”
“Ma stavo scherzando, amore! Non m’interessa nulla
delle sue stupide parole, l’importante è che puoi
gridare a tutti la tua innocenza!”
I due si abbracciarono per un tempo che sembrò infinito,
finalmente consapevoli del loro sentimento.
“Ti amo, Philippe …” lo
baciò, mentre copiose lacrime le rigavano il volto.
“Ti amo, Liliane …”
Trascorsero il resto del pomeriggio alla ricerca di quel biglietto,
l’àncora di salvezza per evitare temibili ed
illegittime conseguenze con la giustizia.
Misero a soqquadro l’intero appartamento: aprirono cassetti,
tirarono fuori vestiti e scarpe dagli armadi, spulciarono tra gli
scaffali, controllarono sulle mensole del salotto e nei faldoni del
piccolo studio, esaminarono i contenitori sotto il letto, studiarono
gli angoli di ciascuna stanza, ma, dopo un’ora, non erano
riusciti a trovare neppure l’ombra di quel fantomatico
foglietto.
Sembrava un crudele scherzo del destino: scovarono, infatti, quasi due
dozzine di biglietti per gli auguri più disparati, ma,
quello che avrebbe significato la libertà incondizionata per
Liliane, sembrava essersi volatilizzato nel nulla, disintegrato, perso.
“Forse l’ho buttato …”
considerò amareggiata la ragazza, buttandosi sul divano,
tenendo a bada la rassegnazione che si stava nuovamente impadronendo di
lei.
“Abbiamo ancora tutta la notte per cercare! E anche domani,
se dovesse essere necessario! Non devi abbatterti: non puoi farlo,
Liliane, non puoi!”
Philippe le si avvicinò e le si sedette vicino, prendendole
le mani tra le sue.
“Non mi sto dando per vinta, sono solo realista. Se non
troviamo quel biglietto, non avrò più modo di
dimostrare la mia innocenza! E’ il mio unico appiglio,
l’unica prova che testimoni che Mathieu ha sempre
mentito!”
I due rimasero in silenzio per qualche secondo: erano quasi le sei e, i
loro stomaci, ricordarono loro che non si rimpinzavano da quella
mattina.
“Ascolta, perché non ci fermiamo per
mezz’ora, così mangiamo e poi riprendiamo fino ad
oltranza? Con la pancia piena, si ragiona meglio, fidati di uno chéf stellato
…”
Lei lo guardò negli occhi verdi e abbozzò un
sorriso tirato:
“Hai ragione. Non volevo dirlo, ma mi è venuta una
certa fame"
L’acqua per la pasta stava bollendo: lo psicologo aveva
apparecchiato la tavola e adesso stava per buttare i rigatoni, quando
gli cadde un’oliva.
“Uhm,
accidenti!”
“Cos’è successo?”
domandò Liliane, mentre stava recuperando l’acqua
e il vino dal frigo.
“Niente, mi è scivolata un’oliva.
Dov’è la scopa?”
“E’ sul balcone, sulla sinistra: c'è
ancora da togliere il prezzo. Stamattina, con tutto quello che
è successo, non ho fatto in tempo: sai, di quella che avevo
prima, ieri sera mi è rimasto in mano il manico!”
gli spiegò, mentre il ragazzo apriva la portafinestra per
recuperare la ramazza.
“Non preoccuparti, il cartellino l’ho
già staccato …” continuò,
cercando di recuperare il cibo incriminato.
“Ma non ti capita mai di far cadere qualcosa?”
“No, caro, non sono così sbadata come
te!” lo punzecchiò, accovacciandosi e stampandogli
un bacio su una guancia.
“Oh, finalmente! Rotolava e non riuscivo a
…” tentò di spiegare, dopo qualche
secondo di quella lotta impari.
Poi, d’improvviso, lo psicologo si bloccò, carponi
sul pavimento, la scopa abbandonata da un lato.
“Philippe …? Ti è venuto il colpo della
strega? Vuoi che ti aiuti a rialzarti?” s'informò
preoccupata, abbandonando il cestino con la baguette appena
tagliata.
“L’ho trovato! Liliane, ho trovato il
biglietto!”
Si alzò in piedi, più scattante che mai e,
brandendo il cartoncino a lungo cercato, esclamò:
“Sei salva, amore! Guarda, la data corrisponde a quella del
tuo compleanno, cioè, ad un mese dopo il tuo
compleanno!”
Lei rimase immobile per un istante, la bocca semiaperta:
“L’hai trovato! Oh Philippe, ti adoro, non ho mai
amato nessuno come amo te!”
Lo abbracciò con tutta la forza e la passione di cui fosse
capace e, le lacrime agli occhi, gli promise:
“Ti sarò per sempre riconoscente di tutto quello
che hai fatto per me, amore mio, non potrò e non
vorrò mai dimenticarlo, te lo giuro …!”
Il ragazzo la baciò e, sorridendo, sdrammatizzò:
“Benissimo! Allora questo vorrà dire che ti
avrò in pugno per il resto della mia vita ... cosa ne pensi?
Sei d'accordo?”
“Credo proprio che sarà così!”
Il biglietto tra le mani, Philippe consigliò:
“Adesso mangiamo: dobbiamo festeggiare la fine di questo
incubo! Più tardi, appena finiremo, chiameremo
l’ispettore e gli spiegheremo ogni cosa!"
L' uomo abbracciò nuovamente la compagna: chiuse gli occhi
verdi per un istante, sentendosi pervadere da una felicità e
da una tranquillità mai provata prima.
Poi, incrociò le dita in quelle di lei e, strappandole un
bacio, le promise:
"Nessuno ti farà più del male, Liliane, nessuno
…”
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Capitolo 29 *** Fiesta! ***
FIESTA!
Vivianne spiò fuori dalla finestra della cucina: nessun
segnale, nessuna presenza umana, al di là del vialetto, e
questo voleva dire che poteva dare inizio al suo piano.
Recuperò la chiave dal tavolo in finto legno di pino,
raccattò una delle due borse della spesa, stracolme
all’inverosimile e appoggiate contro lo stipite, quindi
urlò:
“Amore, sei pronto?!”
Alexis il marcantonio, sprint in una tuta grigia e blu,
spuntò da dietro il divano, sfoggiando raggiante la
dentatura bianca e perfetta:
“Certo che sì, tesoruccio! Ho
recuperato i festoni in quel negozio che mi hai suggerito e poi ho
scelto le bottiglie di vino: uno bianco fruttato e uno rosso. E la
torta l’ho già sistemata in frigo!”
La ragazza gli si avvicinò gongolante: gli
pizzicò con tenerezza una guancia, chiuse gli occhi azzurri
e avvicinò la bocca a quella di lui, dove gli
stampò un appassionato bacio.
“Bravo, amore, sapevo di poter contare su di te! Dobbiamo
solo andare a ritirare la cena da Hélene, ma manca ancora
un’ora abbondante!” constatò
soddisfatta, controllando l’orario sul quadrante
dell’orologio da polso.
“Ora sbrighiamoci a trasferire tutto dall’altra
parte, altrimenti arriverà prima che sia tutto
pronto!”
Due ore più tardi, ogni cosa era al proprio posto: nel
piccolo lembo di giardino sul retro della casa, appesi alla porta,
Vivianne ed Alexis avevano sistemato delle lanterne, grigie e tozze,
che tenevano compagnia ad un lungo addobbo azzurro, con la scritta
rossa arzigogolata, le cui parole di augurio erano quasi indecifrabili;
disseminati sul fazzoletto di terra ed erba, i due piccioncini si erano
divertiti a sparpagliare una dozzina di palloncini coloratissimi, la
cui numerosità quasi impediva il libero passaggio da un lato
all’altro del giardinetto.
Sul tavolo nero da picnic, recuperato nella cantina di Vivianne, dove
era stato dimenticato da chissà quanto tempo, imbruttito
dalla polvere e da generose ragnatele, spiccavano numerose
prelibatezze: sformati di pasta, verdure pastellate, fondute di
formaggi ed omelette ripiene creavano un grazioso effetto ottico
insieme alla tovaglia verde e arancione.
“E’ tutto perfetto!” esultò la
giovane, battendo le mani in un gesto di puro entusiasmo.
“Mi sembra che non manchi nulla!”
continuò, guardando in brodo di giuggiole il
bell’imprenditore, indaffarato a sistemare i bicchieri di
cristallo.
“Tranne la torta! Con la fatica che ho fatta per portarla a
casa sana e salva, non possiamo dimenticarcene!” la
redarguì il marcantonio, alzando lo sguardo e sorridendole.
“Hai ragione, amore!” si scusò
zuccherosa Vivianne, e si affrettò a consolarlo,
stampandogli l’ennesimo bacio sulla guancia.
“Mi è venuto in mente che, forse, dovremmo mettere
anche qualche bottiglia di acqua e di bibite …”
sentenziò titubante la ragazza, ricordandosi della presenza
dei bambini.
“Non ne abbiamo?” s’informò
Alexis, non particolarmente allarmato, troppo preso a sistemare i
tovaglioli di carta, verdi e arancioni come la tovaglia.
“Di acqua sì, di bibite no. Fa niente,
chiederò a Liliane di recuperare qualche bottiglia: non si
sa mai!”
Mentre lei riesumava il cellulare dalla borsetta, Alexis
terminò di apparecchiare: adesso toccava al centrotavola,
una composizione floreale piuttosto pacchiana, ma dai colori sgargianti
e di grande effetto, che il suo tesoruccio aveva tanto insistito per
comprare al mercatino dell’antiquariato di qualche giorno
prima: e si sa, un uomo innamorato, per la sua pulzella, è
disposto a tutto.
Alle sei e trentasette, quattro macchine – due Peugeot nere,
una rossa e una Renault giallo senape- parcheggiarono davanti alla
villetta di Philippe.
Dall’auto color canarino abbronzato, scese una coppia di
mezza età: l’uomo era vestito con un completo di
lino che, per le sue tinte, ricordava una grossa castagna troppo
matura, mentre dalla giacca spuntava una camicia bianca e un cravattino
striminzito a pois verdi.
Il viso dalla mascella alla greca si aprì in un sorriso,
quando sollevò gli occhiali da sole e lascò
intravedere gli occhi grigio azzurri: sistemò la montatura
sui capelli sale e pepe, radi in certi punti ma folti dove la chioma
traboccava ancora.
Alla sua destra, dal lato del passeggero, fece capolino una bella
donna, di media altezza, i capelli ramati e freschi di messimpiega, gli
occhi verdi.
Avvolta in un tailleur leggermente datato, di un cobalto accecante,
attese che anche il resto della comitiva scendesse dalle altre tre auto.
Dalle Peugeot scesero per primi due maschietti di sette e quattro anni,
rossi di capelli e con gli occhi nocciola, intenti a contendersi una
tracolla da cui spuntava un videogame.
Poi, come delle principesse ereditarie, fu la volta delle quattro
fanciulle adolescenti, inglobate in vestiti semitrasparenti color
pastello, con tanto di coprispalle coordinati e capelli lunghi e setosi
arricciati in chignon o sciolti sulle spalle.
Infine, dalle postazioni anteriori, fecero la loro entrata trionfale i
genitori dei teppistelli: le donne assomigliavano parecchio al signore
con il cravattino a pois, soprattutto per gli occhi azzurri e il
profilo del volto, ma vantavano la chioma ramata della consorte.
“Forza, ciurma!” li apostrofò con un
gesto del braccio l’uomo dalla mascella alla greca,
assicurandosi di aver chiuso l’automobile.
Quindi, attraversò la strada, dietro di lui il resto del
gruppo, ubbidienti come soldatini ma sbuffanti come locomotive di un
treno.
“Eccoli! Sono arrivati!” esclamò
Vivianne, mentre andava incontro agli ospiti.
“Signori Soave! Siamo qui, venite!” li
salutò sbracciandosi, mentre Alexis le arrancava alle
calcagna: si era cambiato d’abito, adesso indossava una Polo
a maniche corte, bianca, che metteva in risalto
l’abbronzatura, e dei bermuda appena sopra le ginocchia,
eleganti e sportivi al contempo, in perfetta sintonia con i mocassini
color cammello.
“Uh lalà! Lei dev’essere la vicina di
casa di Philippe, giusto? Ėnchanté,
mademoiselle, vraiment énchanté!”
“Che galantuomo! Suo figlio non mi avevo detto di avere un
padre così gentile!”
La ragazza, spumeggiante in un vestito turchese e i capelli biondi
raccolti sulla nuca, si lasciò fare molto volentieri il
baciamano.
“I ragazzi non sono ancora arrivati?”
domandò sornione il nuovo venuto, mentre la moglie gli dava
una gomitata.
“Edmond, non ci presenti?”
L’uomo sbuffò impercettibilmente e, strabuzzando
gli occhi in direzione di Vivianne, prontamente si scusò con
la sua dolce metà:
“Ma certo, Nadine, perdonami, cara. Volevo fare un
po’ il farfallone con questa bella giovincella: dunque,
questa è mia moglie …”
Le due donne si strinsero cortesemente la mano, mentre il padre di
Philippe proseguiva con le presentazioni:
“Queste sono le nostre figlie: Claire, Jeanne ed
Agnése, con i loro rispettivi mariti, François,
Vincent e Fabrice. Infine, ecco gli adorati nipoti: i piccoli Raymond e
Fréderic e le madamigelle Sophie, Julie, Valerie e
Christine!”
“Siete una famiglia stupenda, signor Soave, davvero
complimenti! Però, adesso, sarà meglio entrare:
Philippe e Liliane arriveranno tra poco! Suo figlio non sa nulla della
festa a sorpresa: crede di passare una tranquilla serata con la
fidanzata, da soli, invece … non sa cosa gli
aspetta!”
“Così si fa! Mi piacciono le donne con
iniziativa!” continuò Edmond, facendole
l’occhiolino e seguendola in casa, ovviamente dopo aver fatto
passare la consorte.
Liliane era emozionata come non le capitava da mesi: non vedeva
l’ora di incontrare la madre e le sorelle di Philippe, di
condividere con loro la meravigliosa notizia che avevano tenuto segreta
fino a quel momento, fino alla festa di compleanno che ci sarebbe stata
quella sera.
Con una scusa, era riuscita a tenere fuori casa Philippe per
l’intero pomeriggio, convincendolo ad andare a fare due
spesucce in città, a Versailles, mentre Vivianne e il suo
fidanzato allestivano la cena in giardino: le stava davvero simpatica,
quella ragazza, era cordiale e molto generosa; si era offerta di
preparare ogni cosa, senza addossarle alcuna responsabilità,
come se fossero state migliori amiche.
Dopo che le aveva fatto avere il doppione delle chiavi della villetta,
Liliane era andata ad intercettare Philippe all’entrata del
supermercato, convincendolo a rimandare i rifornimenti per il giorno
successivo.
Erano le sette e mezza, ormai, il sole sarebbe tramontato di
lì a poco, e l’atmosfera era a dir poco perfetta:
la giornata era stata piacevolmente calda, illuminata da un sole estivo
di inizio agosto.
Non c’era molta gente, per strada, quasi tutti si erano
riversati nelle piscine o nei parchi, per godere di un po’ di
fresco e allontanarsi dalla calura, le fronde dei sempreverde e il
zampillio delle fontane ad alleviare le temperature tropicali.
Era stanca, ma felice e immensamente soddisfatta: alla fine, dopo i
primi tre negozi, si erano rifugiati in un bar con i tavolini
all’aperto, sotto un gazebo in mezzo ai frassini; avevano
chiacchierato di quello che li avrebbe aspettati, di lì ai
prossimi mesi, si erano divertiti a sparare nomi, a immaginare viso e
colore degli occhi, la forma del naso e quella delle labbra; avevano
prenotato due Schwepps e poi gli immancabili ACE, ottimi per
accompagnare una fetta di torta alla crema di limone.
Adesso, nonostante i piedi che le dolevano e la schiena che cominciava
a dare segni di tensione, Liliane non avrebbe potuto reputarsi
più fortunata ed appagata: guardando al passato, a
ciò che era accaduto per colpa di quel mascalzone bugiardo
di Mathieu e dei suoi sporchi traffici di riciclaggio di denaro, si
sentì sollevata a pensare che, nonostante
l’apprensione e la paura di essere ingiustamente arrestata,
il loro bambino stesse bene.
La visita dalla ginecologa, il giorno prima del suo fermo, quasi tre
mesi prima, aveva confermato la gravidanza di poche settimane: ecco
perché, quel pomeriggio, dopo la partenza di Sophie dal Centre, aveva
dovuto declinare l’invito di Philippe a cenare insieme.
“Amore, sei stanca?” le domandò il
compagno, aiutandola a scendere dalla Mini Cooper blu notte e
baciandola sulla bocca, ormai spoglia di rossetto.
“Un pochino, ma non preoccuparti. Allora? Pronto a
festeggiare? Ci aspetta una serata spettacolare!”
“Lo so: solo tu ed io, sdraiati a letto, con la luce soffusa,
una bella pizza al metro, la TV a basso volume, anzi, meglio della
musica, possibilmente romantica ma non troppo e …”
cominciò ad elencare lo psicologo, mentre si avviava lungo
il vialetto di casa, intento a sbaciucchiare il collo e una guancia di
Liliane.
“Che ne dici di mangiare fuori, in giardino?” gli
rispose con noncuranza, una volta entrati, lanciando occhiate ansiose
in direzione della veranda.
“Oh, beh, sì, perché no? E’
una serata così bella, che è un peccato starsene
al chiuso! La pizza potremo mangiarla al chiaro di luna!”
Philippe, l’ingresso in penombra per il sole che stava
calando, si affrettò ad andare in cucina per bere
dell’acqua: tutte quelle bibite gli avevano fatto venire
ancora più sete, così trangugiò, uno
dietro l’altro, due bicchieri di acqua frizzante.
“Uhm, a proposito, le bottiglie di coca cola e di aranciata
sono ancora in macchina, vero?”
“Sì, le ho messe nel bagagliaio. Se le vai a
prendere, quando torni possiamo chiamare la pizzeria
…” ribatté Liliane, sorridendogli e
togliendosi le scarpe.
“Ti aspetto in giardino!” gli gridò,
mentre il ragazzo era già sul vialetto.
“Eccomi! Mi stavano cadendo: non capisco perché
abbiamo preso tutte queste bottiglie … chi li beve sei litri
di … Liliane?! Dove sei andata?”
Philippe era ritornato con il carico da undici, la coca cola biologica
e l’aranciata: quando alzò lo sguardo, dopo aver
posato le due confezioni per terra, si accorse che la fidanzata non era
più in piedi, ad attenderlo; per l’esattezza, non
era nemmeno seduta, sembrava sparita.
Forse è
andata un attimo in bagno, a cambiarsi, o magari in camera, a sdraiarsi,
passò mentalmente
in rassegna, cercando di non farsi aggredire da un attacco insensato di
panico: se non ricordava male, gli aveva gridato qualcosa, mentre stava
uscendo a recuperare le bottiglie, ma non ci aveva dato peso, anzi, non
l’aveva proprio sentita.
Salì preoccupato al piano di sopra: aprì,
chiamandola per nome, le porte della toilette e della stanza in cui
dormiva, ma di lei nessuna traccia.
E se si fosse sentita
male? Se qualcuno l’avesse rapita?
Nella testa di Philippe, cominciarono a balzare mille interrogativi,
uno più infelice e poco probabile del precedente.
L’unica
soluzione, cominciò a convincersi, è che sia
già andata in giardino, ad apparecchiare.
Scese a due a due gli scalini e, attraversando il salottino e la
cucina, finalmente aprì la porta della veranda …
“Sorpresa!! Tanti auguri di buon compleanno! Tanti auguri a te, tanti auguri
a te! Tanti auguri a Philippe, tanti auguri a teeeeeeeee!!!”
“Ma … io …” tentò
di replicare l’interessato, riuscendo più che
altro a biascicare invano.
“Perché
è un bravo ragazzo, perché è un bravo
ragazzo, perché è un bravo ragaaazzooo, nessuno
lo può negar! Nessuno lo può negar, nessuno lo
può negar, nessuno lo può negaaaar!”
“Evviva! Auguri, fratellino!”
“Trent’anni e non sentirli, figlio!”
“Buon compleanno, tesoro della mamma!”
“Auguri, zio”
Philippe cercò lo sguardo di Liliane, che gli stava
sorridendo e, con le labbra, tentava di sussurrargli un appassionato ti amo.
Finalmente, dopo che la bolgia di parenti gli
lasciò tirare un attimo il fiato, dopo che il
marcantonio gli stritolò per benino la mano e Vivianne
desisté dall'incriccargli le spalle con un morsa degna di
un pugile, riuscì a raggiungere la fidanzata, sulla quale
tutti gli occhi dei presenti erano puntati.
L’unica persona che la ragazza conosceva, infatti, era
Edmond: se lo ricordava esattamente allo stesso modo, farfallone e
sorridente, proprio come in quell’occasione, ormai tre mesi
addietro, in cui lo aveva incontrato in seguito allo sfratto momentaneo
da parte della moglie, Nadine.
Liliane non ebbe neppure il tempo di realizzare dove fosse la futura
suocera, che si ritrovò a baciare dozzine di guance, a
stringere mani, a condividere sorrisi e sguardi, occhiate amichevoli e
incuriosite, per nulla inquisitorie o recriminatorie.
Forse, l’idea
della festa a sorpresa non è stata così ottima,
si disse, con tutta
questa gente e questa confusione, ho paura di non trovare il momento
adatto per dare la bella notizia.
“Un attimo di attenzione, per favore!”
Philippe richiamò all’ordine la ciurma che,
eseguito il proprio dovere, adesso non vedeva l’ora di
avventarsi sul ricco e succulento buffet.
Lanciò un’occhiata ai due piccioncini (alias
Vivianne ed il marcantonio), compressi in un angolo del giardino,
illuminato da esagerate candele rosse e verdi, che continuavano a
sbaciucchiarsi e a sorridere come ebeti alle battute l’uno
dell’altra; incrociò gli sguardi dei suoi
genitori, delle sorelle e dei cognati, che tentavano di tenere a bada i
due teppistelli, intenti a litigare per accaparrarsi il videogame;
intravide le dita veloci delle nipoti scorrere sul display del
cellulare. Infine, incontrò gli occhi verdi e sinceri di
Liliane: le strinse la mano, con forza e sicurezza, come a confermare
la sua presenza e a ricevere il benestare per iniziare il discorso che
avrebbero affrontato. Insieme.
“Dunque … dato che mi avete stravolto i piani per
la serata …”
“Philippe!”
“Scusa, mamma. Riformulo la frase: allora, dato che mi avete piacevolmente
stravolto i piani per la serata, vorremmo approfittarne per dirvi una
cosa molto importante ...”
“Sì, ma prima, vorrei ringraziare Vivianne ed
Alexis” s’intromise la psicologa “per
aver contribuito a rendere speciale e perfetta questa festa: grazie di
aver pensato a tutto voi, di aver preparato con cura la tavola e gli
addobbi … siete stati davvero splendidi”
Partì un applauso di congratulazioni rivolto ai due pesci
lessi che, sentendosi nominare, si riscossero dal loro torpore di
colombi innamorati.
“Liliane ed io abbiamo da darvi una notizia fantastica,
stupenda!”
Gli occhi di tutti i presenti si concentrarono sul festeggiato e la
fidanzata: calò un silenzio irreale, nessuna brezza a
solleticare le fronde degli alberi, nessun uccello notturno a librare
nel cielo stellato, nessun motore o clacson di automobile a disturbarli.
“Lo diciamo insieme?” cercò
l’approvazione Philippe, stringendo più forte la
mano della ragazza e guardandola.
“Sì … ecco ... sono
incinta!!!”
“Oh … ma, Edmond, hai sentito! Il nostro tesoro
aspetta un bambino!”
“Più che lui, è la nostra futura nuora
che attende un pargolo”
“Sottigliezze, testone!”
E giù l’ennesima caterva di auguri e
congratulazioni agli interessati, fino a quando, improvvisamente, la
voce di Vivianne si fece largo tra i mormorii di approvazione:
“Ma Philippe, uffa, sei sempre il solito! Passi che sia il
tuo compleanno e che devi stare al centro dell’attenzione, ma
così mi hai rovinato la mia di sorpresa!”
“Quale sorpresa?” s’informò
incredulo il ragazzo, mentre tentava di non sputare in faccia al
marcantonio, che aveva appena finito di stritolarlo per benino.
“Anche noi abbiamo un annuncio importante da dare!”
sentenziò gongolante la fisioterapista, facendosi avanti tra la folla.
Prese uno dei calici, un coltello e, colpendo delicatamente il vetro
con la posata, lanciando un’occhiata complice ad Alexis,
comunicò estasiata:
“A giugno … ci sposiamo!!! Non è
fantastico?!”
Ed ecco nuove congratulazioni e felicitazioni ai futuri sposi: tutta la
ciurma si sposta nella loro direzione, dimenticandosi per un istante
dei quasi genitori, increduli e solitari all’altro lato del
giardino.
“Che cosa?!” domandò allibito Philippe,
facendosi largo tra la folla, mentre Liliane ripeteva quanto fosse
felice per i fidanzati.
“Ma … ma … insomma … non
… “
Lo psicologo si gettò sconsolato su una delle sedie e,
inabissato dagli spintoni dei parenti, che presero quel gesto come
l’inizio dei festeggiamenti e si catapultarono prontamente sul buffet,
non riuscì più a spiccicar parola: avrebbe dovuto
sorbirsi quell’energumeno per sempre?! Era questo il suo
triste destino? Le strette omicide del marcantonio sarebbero diventate
il suo incubo; per non parlare di come l’amore aveva
completamente rincretinito la sua cara e dolce Vivianne, trasformata in
una confezione di caramelle al miele.
Si guardò in giro, deluso che nessuno lo capisse: al momento
del soffio delle candeline, quasi non riuscì a spegnerle;
doveva infatti risparmiare fiato prezioso per ridere alle stupide
battute del marcantonio, futuro sposo di Vivianne e suo stritolatore
personale.
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Capitolo 30 *** Un pizzico di agitazione per una tonnellata di felicità ***
UN PIZZICO DI AGITAZIONE PER
UNA TONNELLATA DI FELICITA'
I
ciottoli del cortile avevano diverse forme e colori: alcuni erano
pentagonali, altri esagonali, altri ancora rettangolari o
quadrangolari; il grigio e il bianco prevalevano in quella composizione
ma, se si guardava con maggiore attenzione, si riusciva ad intravedere
anche una sfumatura brunastra correre lungo i bordi.
Philippe aveva contato quelle pietre almeno una ventina di volte, lo
sguardo abbassato e opaco, come se in realtà non stesse
vedendo quei sassi di chissà quale epoca, ma uno
spettacolo a lui solo noto.
In realtà, stava pensando a molte cose, ai suoi ragazzi del Centre, prima di
tutto, che il giorno prima gli avevano preparato una meravigliosa festa
a sorpresa e gli avevano regalato una cornice con una poesia inventata
da loro, tanto da farlo commuovere fino alle lacrime; purtroppo, madame
Betancourt non era riuscita ad ottenere i permessi necessari
affinchè potessero partecipare almeno alla cerimonia,
così aveva promesso di scattare tante fotografie, in modo da
mostrargliele, appena tornato dal viaggio di nozze.
Persino Sophie, venuta a conoscenza del grande evento, gli aveva
spedito una lettera e una sua fotografia, che la raffigurava cresciuta
e sorridente, nel bel mezzo della savana africana, dove si era
trasferita insieme alla madre, Aimée, la donna che lo aveva
abbagliato, poco più di anno addietro.
Avvertiva i bisbigli e i mormorii degli invitati all'interno della
chiesa, lo sbuffare ironico del padre, la presenza rassicurante delle
sorelle Claire, Jeanne ed Agnèse con i mariti e i figli,
delle colleghe -Mireille, Nicole, Juliette e Gabrielle- sedute accanto
alla direttrice, dei suoi amici di Lione, di zia Arianna, di zio Paolo,
di Marco e Alessia, del dottor Brice con la famiglia ... mancavano solo
loro, i suoi bambini, i suoi ragazzi: Adriene, Chloé,
Nicolas, Suzanne, Amal, Fatima e tutti gli altri.
Prima che s'intristisse del tutto, scacciò quei pensieri
così tanto cari, eppure insopportabili in quel momento.
Si accorse sbuffando che la camicia bianca a maniche corte gli si stava
appiccicando alla schiena: percepiva dei vergognosi rivoli di sudore
scendergli dal collo, mentre, con il fazzoletto di stoffa che aveva nel
taschino della giacca gessata, tentava inutilmente di acchiappare le
goccioline, prima che facessero ulteriore danno.
Si tastò nelle tasche dei pantaloni, alla ricerca di un
gingillo con cui passare il tempo che ancora gli rimaneva prima del
grande momento; oltre al pezzo di stoffa ormai zuppo con cui si era
asciugato, non trovò nulla, neppure il cellulare che era
rimasto spento in macchina.
Sospirò rumorosamente, mordendosi le labbra per
l’agitazione.
“La vuoi smettere di andare avanti e indietro?! E’
mezz’ora che siamo qui e non sei stato fermo per
più di un minuto!”
François, il testimone e amico dello sposo, gli si
avvicinò, dandogli una pacca di incoraggiamento su una
spalla.
“Scusa, hai ragione. E’ che sono un po’
emozionato … non vedo l’ora che arrivi e che tutto
finisca”
“Bravo, per uno che sta per convolare a nozze, non
è propriamente una frase felice!”
“Ma io … insomma, non intendevo dire questo
…”
“Lo so, stupido! Stai tranquillo, vedrai che la tua Liliane
non ti lascerà da solo sull’altare!”
Lo psicologo abbracciò l’altro ragazzo,
restituendogli la pacca di poco prima.
“Che ore sono? Nella fretta mi sono dimenticato di mettere
l’orologio” continuò, toccandosi i polsi
nudi.
“Le undici e quaranta. Siamo arrivati troppo presto, te
l’ho detto che dovevamo aspettare ancora un po’
prima di uscire di casa!” lo punzecchiò
François, appoggiandosi a una colonna di basalto, posta
all'entrata del grande portone di legno massiccio.
“D’accordo, hai ragione, la prossima volta ti
darò retta!”
“La prossima volta che ti sposerai?!” lo
canzonò l’amico, sistemandosi gli occhiali da sole
sul naso.
“Sei davvero insopportabile! Non ti sceglierò mai
più come testimone … oh, accidenti, che cosa mi
fai dire?! Uffa, lasciami camminare, così almeno mi
sembrerà di essere meno nervoso”
“Philippe …”
“Che c’è?”
“Dal momento che la sposa, si sa, per tradizione è
sempre in ritardo, che ne dici di cambiarti la camicia? Sembra che sei
appena uscito da una nuoata in piscina!”
Il futuro marito aprì la bocca per replicare: in effetti, il
16 giugno, con il sole di mezzogiorno che pulsava sulla testa,
l’idea di sua madre Nadine di fargli indossare una camicia
che, per quanto avesse le maniche corte, pesava almeno il doppio di una
maglia normale, non era stato quello che si definisce un buon consiglio.
“Non posso andare a casa! Devo attraversare mezza
città e, così facendo, arriverò in
ritardo …!”
“Ehi, calmati! A cosa servono gli amici e, in questo caso, il
fedele testimone di nozze, se non ad andare in macchina e recuperare
una camicia decente, adatta per la stagione e
l’occasione?!”
François scoppiò in un sorriso a trentadue denti
e, le chiavi in mano, si affrettò ad andare verso il
parcheggio, a pochi metri dallo spiazzo della chiesa.
Ritornò dopo una manciata di secondi, la salvezza in una
mano e la riconoscenza perpetua di Philippe che, nascosto sul retro
dell'edificio sacro, compì lo spogliarello più
liberatorio della Storia dello streptease mondiale.
Liliane non aveva dormito molto quella notte: aveva festeggiato l'addio
al nubilato insieme alle colleghe, alle cognate e a Vivianne, ma era
dovuta rientrare a casa presto, anzi, per lei era fin troppo tardi.
In realtà, non aveva voluto lasciare Estelle, la
sua bambina, da sola con i suoceri: non perché non
si fidasse, tutt’altro, il problema era più suo
che di altri, non sapeva spiegarlo bene.
Nutriva una sorta di gelosa ancestrale, di senso di possesso nei
confronti delle persone che stavano con la figlia per più di
un minuto, perlomeno quando lei non era lì a controllare che
tutto stesse andando come voleva.
Nonostante la piccola avesse quattro mesi e fosse stata, fin dai primi
giorni, abituata agli estranei, ai rumori, alle voci, ai suoni in
generale, la madre si sentiva scioccamente e incredibilmente possessiva
della sua cucciola.
Philippe la rimproverava di essere troppo apprensiva ma, lei stessa,
più di una volta, lo aveva sentito bisbigliare alla figlia
di essere contento di poter stare da soli, senza nessuno intorno, per
spupazzarsela a proprio piacimento.
Adesso, quando mancava meno di mezz’ora al fatidico
sì, Liliane era in piedi davanti allo specchio
dell’armadio della camera da letto, che le rimandava
l’immagine felice e radiosa di futura sposa.
Non riusciva a vedersi completamente la figura, ma solo metà
busto, quindi si avvicinò al letto e vi salì,
facendo attenzione a non calpestare il risvolto dell’abito e
a sollevarlo con delicatezza.
Rimase piacevolmente stupita dell’effetto generale: aveva
scelto un vestito poco pretenzioso, senza lunghi strascichi o pesanti
balze, ma che fosse il più lineare possibile.
I capelli biondi, morbidamente arricciati e tenuti fermi da qualche
rosa di campo, erano freschi di lacca; gli occhi azzurri vantavano un
filo di ombretto scuro e di mascara, mentre le guance erano state
imporporate da un sottile strato di cipria, appena accennato.
La ragazza si passò una mano sulla bocca, adombrata da un
rossetto color lillà: si sentiva veramente felice,
orgogliosa, appagata, in pace con se stessa.
Dopo anni di sofferenze, di indecisioni, aveva raggiunto un equilibrio
duraturo e, di questo era convinta, completo, che mai avrebbe pensato
di ottenere.
Scese dal letto con un balzo, reggendosi l'abito con entrambe le mani.
Poi, andò a recuperare la scatola con le scarpe, bianche e
con poco tacco, che aveva abbandonato vicino al calorifero: una volta
indossate, si guardò ancora una volta allo specchio, quindi,
con la borsa del cambio e della pappa per Estelle, già
pronta tra le braccia di nonna Nadine, aprì la porta della
camera, pronta per andare incontro al suo destino di madre e moglie.
Vivianne temeva di arrivare in ritardo, proprio il giorno del suo
matrimonio: per la prima volta, da quando aveva deciso la data insieme
ad Alexis, otto mesi prima, si stava pentendo di aver scelto di
sposarsi insieme a Philippe.
Che poi, a pensarci bene, era lui che aveva fissato la data dopo di
loro, quindi, se bisognava dare la colpa a qualcuno, era del suo amico.
Beh, forse era esagerato parlare di colpe, ognuno è libero di
fare quello che vuole, pensò la ragazza, tanto più che i
preparativi sono stati ancora più eccitanti.
Lei e Liliane si erano consigliate ed aiutate in moltissime occasioni,
durante quel periodo di organizzazioni, dalla location per il
banchetto, al menù, alle canzoni da suonare in chiesa a
quelle da ballare nel pomeriggio.
Solo per la scelta dell’abito erano state entrambe
d’accordo sull' essere autonome, di non lasciarsi
influenzare l’una con l’altra
né, tantomeno, dai rispettivi partner.
Il vestito era una cosa privata, una decisione che andava presa
singolarmente, intimamente, senza condizionamenti esterni.
Persa in quel mare di ricordi appena trascorsi, la fisioterapista si
accorse che il tempo, ormai, stava pericolosamente incalzando,
rischiando di mandare a monte la sua scaletta di priorità.
“Scusi, non può andare un po’
più veloce?”
“Non è colpa mia se la gente non è in
grado di guidare e se i semafori diventano subito tutti
rossi” esclamò monocorde l’autista della
Mercedes in affitto, senza degnarla di uno sguardo.
Ci mancava solo la
simpatia di questo rincitrullito! pensò
Vivianne, sbuffando irritata.
Guardò fuori dal finestrino: il traffico di certo non
abbondava, tanto più se si pensava che era un sabato di
metà mattina, alle porte dell’estate, quando la
gente cominciava a riempire le piscine comunali e a passare le prime
vacanze fuori città, alla ricerca di un minimo di refrigerio.
Si passò le mani sull’organza del vestito,
sistemando pieghe invisibili.
“Senta, tra dieci minuti mi dovrei sposare, lo capisce
questo? Se non preme un minimo sull’acceleratore, rischio di
arrivare in ritardo!” piagnucolò la ragazza,
protraendosi verso l’uomo, un cappellino blu calato sulla
fronte.
“Adesso non è più usanza che la sposa
arrivi in ritardo? Mia moglie, cara signorina, è arrivata
all’altare con quasi due ore di ritardo!”
“Due ore?!” ribatté, sperando di aver
compreso male.
“Sì, ma solo perché aveva le doglie.
Falso allarme, per fortuna, altrimenti non sarebbe mai arrivata in
chiesa, nemmeno il giorno dopo!”
L’autista si lasciò andare ad una risata sguaiata,
battendo entusiasta le mani sul volante.
La quasi neosposa si abbandonò allo schienale della costosa
automobile: chiuse gli occhi per qualche istante, pregando che ogni
cosa andasse per il verso giusto.
Non conosceva le strade che stavano percorrendo, perché di
Versailles era pratica solo della zona in cui lavorava, esattamente
all’opposto del loro percorso, altrimenti sarebbe scesa dalla
Mercedes senza troppe storie, andando a piedi fin dal suo Alexis,
trascinandosi dietro la coda di tulle e sballottando il bouquet di
girasoli e violaciocche.
Abbassò il finestrino, per respirare un po’
d’aria fresca, ma subito si pentì,
perché la raggiunse un’ondata di vento caldo.
Ritornò ai suoi tristi pensieri, immaginando che non sarebbe
mai riuscita ad arrivare in orario per la cerimonia di mezzogiorno.
Nei suoi piani, non avrebbe fatto aspettare il suo amore neppure per un
secondo, sebbene la tradizione volesse altrimenti: la sola idea di far
soffrire quel patatino che sarebbe presto diventato l’altra
metà della mela per l’eternità, le
provocava una fitta dolorosa alla bocca dello stomaco, facendola
agitare ancora più del necessario.
Poi, finalmente, come un miraggio in mezzo al deserto, Vivianne la
vide: la guglia del campanile stava svettando proprio davanti a lei, a
un centinaio di metri dal traguardo.
Appena l’autista bloccò la Mercedes, lei scese,
felice di essere giunta alla tanto sospirata meta.
E, quasi, non si accorse che le sue meravigliose tulle stavano
rischiando di rimanere impigliate nella portiera.
I polsini gli stavano dando un fastidio terribile: si era slacciato e
riallacciato i bottoni una dozzina di volte, ma non riusciva a trovare
una soluzione che gli permettesse di lasciare in pace
l’estremità delle maniche della camicia di seta,
rischiando di rovinare i gemelli in oro bianco, regalo della madre per
il grande evento.
Tossì nervosamente per l’ennesima volta,
allentando il nodo del cravattino rosso, quindi si ritrovò a
fissare le lancette sul suo Rolex, silenziose ma veloci:
constatò a metà tra il soddisfatto e
l’agitato che mancava ancora una manciata di minuti
all’inizio di quella grandiosa giornata, per questo
avvertì l’adrenalina aumentare nelle vene,
scorrere ancora più rapidamente.
Philippe era appena entrato in chiesa, dopo avergli fatto un cenno di
saluto: quel giorno si stavano accuratamente evitando, seppure la cosa
gli dispiaceva alquanto, dal momento che stimava e trovava simpatico
quel buffo e strampalato psicologo.
Vivianne aveva un’alta considerazione di lui, ne parlava
sempre bene e sapeva che, se c’era una persona a cui avrebbe
chiesto un consiglio, di qualsiasi tipo, quella sarebbe stata proprio
il vicino di casa, ormai ancora per pochi minuti, precisò
gongolante, fino a quando la sua cocchina non sarebbe diventata madame
Duval.
Alexis si grattò una guancia e cominciò a contare
fino a dieci, decidendo che, dopo il countdown, sarebbe entrato anche
lui.
Quando stava per finire, Sebastien, il suo testimone, collega e braccio
destro dell’azienda edile di cui la sua famiglia era
proprietaria, tornò all’attacco, invitandolo a
sbrigarsi.
“Le campane stanno suonando! Tra poco Vivianne
arriverà e ti troverà ancora qui! Dai, muoviti,
vieni dentro!”
Il quasi novello sposo annuì a vuoto, ma non si mosse di un
millimetro: quando sentì il rombo di una macchina, riconobbe
il motore della Mercedes, l’automobile su cui avrebbe dovuto
viaggiare il suo tesoruccio, la futura regina dei mattoni del suo cuore.
Diede un’ultima occhiata dietro di sé,
sistemandosi i polsini che, inspiegabilmente, avevano smesso di
tormentarlo.
Reclinò la testa in avanti e indietro, poi di lato, infine
sorrise, pronto ad affrontare il grande sì.
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