Holding on and letting go di ranyare (/viewuser.php?uid=39783)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lost cause ***
Capitolo 2: *** Kiss the rain ***
Capitolo 3: *** Broken. ***
Capitolo 4: *** Let it go. ***
Capitolo 1 *** Lost cause ***
base capitoli HOLG
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[Ray]
Londra
in estate è una delle cose più irritanti di
questo mondo.
Non
che io non adori questa città in ogni singolo giorno
dell'anno,
ma... insomma, è proprio necessario che sia tutto sempre
così
umido!?
D'accordo, va bene, non c'è caldo e questo è un
essenziale punto a
favore, ma... dannazione, non c'è un giorno in cui non piova
o,
peggio ancora, in cui non ci sia questa dannata umidità che
ti
infradicia i vestiti e ti si appiccica alla pelle, rendendo
difficoltoso persino il respiro.
Sospiro,
riemergendo dalla mia enorme borsa con in pugno – dopo almeno
cinque minuti di forsennata ricerca – le chiavi di casa.
Lancio
un'occhiata al vialetto laterale e vedo l'auto di Ben parcheggiata al
solito posto, accanto alla moto che, dato che oggi sembrava
essere una bella giornata, avevo deciso di non utilizzare, preferendo
andare al corso in metropolitana... e, ovviamente, la bella giornata
è diventata una giornata di pioggerelline e continue
schiarite, col
risultato di rendere ancora più difficoltosa la mia
traversata della città e intasata di persone la metro.
Le
lezioni che
sto seguendo sono
interessanti e
meritano lo
sforzo, è
vero, ma le
trecento ore di corso che devo seguire su tutto ciò che un bobby
– un rinomato membro della Metropolitan
Police Service,
meglio conosciuta come Scotland Yard –
dovrebbe sapere stanno diventando eterne.
Mi infilo in casa con un gemito di sollievo: l'aria condizionata e
deumidificata mi accoglie in una bolla dove, finalmente, riesco a
riempirmi i polmoni senza l'impressione di star respirando attraverso
una spugna bagnata.
-Ben?
Sei a casa?- chiamo, abbandonando disordinatamente la borsa, la felpa
madida di pioggia e le scarpe nell'ingresso.
-Sì.-
Qualcosa
non va.
Vivendo
al suo fianco tanto a lungo ho imparato
a riconoscere ogni singola sfumatura della voce di Ben, ogni
inflessione del suo accento ricercato, ogni traccia di turbamento
nelle sue parole... e, in quel “sì”,
c'era una tensione tale da far irrigidire ogni singolo muscolo del
mio corpo, improvvisamente pronto a scattare o, per quanto ne so, a
ricevere un colpo.
Ben appare sulla soglia del salotto e, nel suo volto, riesco a
riconoscere il medesimo nervosismo che ho ravvisato nella sua
risposta.
-Abbiamo
un ospite.- mi annuncia, rivolgendomi uno strano sguardo dispiaciuto
che non riesco proprio a comprendere. Chi mai potrebbe essere venuto
a casa nostra per ridurre Ben in questo stato?
-Chi...-
comincio, avvicinandomi a lui per sbirciare oltre la sua spalla; ma,
per appena un istante, Ben mi trattiene contro di sé, quasi
come se
volesse impedirmi di capire, di vedere – per
proteggermi,
realizzo, nello stesso attimo in cui il volto di una persona che non
ho mai potuto dimenticare si presenta davanti a me.
Mi sembra che il tempo rallenti e si fermi in questo preciso momento,
nel secondo stesso in cui i miei occhi incrociano quelli dell'uomo di
mezz'età rigidamente seduto sul divano.
Tutto si blocca come per un qualche sadico gioco di magia,
congelandosi in quella faccia, in quella persona, nelle rughe di
preoccupazione che gli solcano la fronte e le guance.
-Papà.-
Questa
parola sembra così sbagliata, sulle mie labbra... la sento
stridere
fra i denti, sulla lingua, e ne avverto il saporaccio metallico
–
lo stesso sapore che ha il sangue.
-Ciao,
Ray.- anche il mio nome sembra strano, detto da lui. Non lo sentivo
da almeno quattro anni.
Mio
padre si alza e, stranamente, mi sembra meno alto e imponente di
quanto fossi in grado di ricordare, ma forse sono io ad essere
cresciuta. Ho ereditato da lui la mia altezza fuori dalla media
femminile, la forma degli occhi, il colore dei capelli... eppure,
nonostante le somiglianze fra noi, lui mi sembra talmente alieno
–
qui, in casa mia, nel mio salotto, sul mio divano
– da stridere con tutto ciò
che lo circonda – da stridere con me.
-Sei__-
comincia, incerto, ma io scosto bruscamente Ben e faccio un passo
avanti, senza nemmeno accorgermi delle sue dita che mi sfiorano le
braccia e poi scivolano via, rinunciando anche soltanto all'idea di
trattenermi.
-Viva.-
lo interrompo, avvertendo il familiare brivido freddo che preannuncia
un'incazzatura spettacolare scorrermi dal collo alla base della
schiena. -E non certo per merito tuo.- aggiungo, cercando di
mantenermi calma e controllata nonostante io senta le mani tremare
dalla rabbia.
Todd
Cooper si passa una mano fra gli ormai radi capelli bianchi, a
disagio.
-Ray,
sono qui per__-
-Non
mi interessa.- sbotto, piantando le unghie nei palmi delle mani per
tentare di arginare il gelo che mi sta riempiendo l'anima,
annegandomi in un mare di ricordi che speravo di aver represso
abbastanza in fondo perché non tornassero più a
tormentarmi.
-Lascia
che__-
Qualcosa
si spezza nello stesso attimo in cui vedo la supplica nei suoi occhi.
-Non
voglio ascoltarti.- il tocco di Ben – freddo al confronto con
la
mia pelle che scotta, ma bollente rispetto al ghiaccio che mi sta
divorando dentro – mi fa capire di aver rivolto a mio padre
qualcosa che assomiglia più ad un ringhio che ad un tono
normale.
-Puoi anche andartene, perché non ho nemmeno nulla da dirti.-
Tutto
ciò che avrei potuto dirgli è morto, dentro di
me, troppi anni fa.
-Ray...-
mormora, ma non capisce che continuare a dire il mio nome non fa
altro che farmi infuriare sempre di più: quale diritto ha, lui,
di parlarmi, di guardarmi, di chiamarmi con quel nome che speravo
avesse dimenticato!? -...mi dispiace.-
Ben mi serra la mano sulla spalla nel momento stesso in cui sento gli
argini in cui stavo cercando di trattenere la mia rabbia, il mio
dolore, spaccarsi.
-Ti
dispiace?-
sibilo,
liberandomi bruscamente dal tocco di Ben e avanzando verso mio padre
fino a trovarmi ad un soffio da lui; è ancora più
alto di me, di
almeno una spanna, ma non mi intimorisce più – ha
smesso di
intimorirmi da molto, molto tempo.
-A te dispiace, papà?-
-Avrei dovuto cercarti molto tempo fa, solo che__-
Non
ci vedo più.
-Tu
saresti dovuto venire a prendermi quando lei mi ha cacciata via!- mi
rendo conto di aver urlato solo quando lo vedo tremare sotto il peso
delle mie parole.
Sarebbe
dovuto venire a prendermi. Avrebbe dovuto proteggermi.
-Saresti
dovuto venire quella sera e invece no,
tu sei rimasto là, tu mi hai lasciata sola e ora
vieni qui con la faccia tosta di volermi porgere le
tue
scuse?-
Avrebbe
dovuto salvarmi. Avrebbe dovuto.
-Ra__-
-Io ti ho aspettato, quella sera. Ti ho aspettato per tutta la notte,
seduta su quella pensilina, mentre sentivo l'umidità
arrivarmi fino
alle ossa.- per la prima volta nella mia vita desidero ardentemente
fare del male a qualcuno – a lui. Gli
punto l'indice contro
il petto, stringendo le labbra e assottigliando le palpebre. -Io
speravo che tu mi proteggessi, papà, che risolvessi le cose.
E
invece non sei venuto.-
Invece
mi ha abbandonata.
-Quando ho visto l'alba, dopo tutte quelle ore, ho capito che non
saresti arrivato. E mi sono arrangiata.-
Invece
mi ha lasciata sola.
La rabbia scema nello stesso momento in cui la sua espressione sembra
spaccarsi a metà, ridursi in briciole: nonostante tutto,
nonostante
io sappia che lui merita tutto questo, continua a
non piacermi
fare del male. Non a qualcuno a cui ho voluto bene. -Ora, per favore,
vattene.- sospiro, lasciando cadere il braccio lungo il fianco e
voltandomi – perché non posso più
sopportare di guardarlo, di
vedere il mio passato scritto in quello sguardo pieno di senso di
colpa.
-Non vuoi nemmeno sapere perché sono venuto qui?- mi chiede,
ma
quando lo sento fare un passo verso di me mi ritraggo come se avessi
ricevuto uno schiaffo.
-A meno che non riguardi mia sorella, no.-
Posso quasi vedere Ben trasalire: lui non sapeva che io avessi una
sorella. Anzi, a dir la verità lui non sapeva nemmeno che io
avessi
ancora un padre... -Shirley sta bene?- chiedo, stancamente,
allontanandomi ancora e accostandomi alla finestra: ha ricominciato a
piovere.
-Sì.- quella risposta è tutto ciò che
mi basta per sentire la
morsa rilasciare un poco la sua presa sul mio cuore.
-Bene. Fuori.-
Questa volta, per fortuna, mio padre mi dà retta e se ne va,
lasciandomi sola con Ben e con dei demoni che credevo di aver
seppellito dentro di me.
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[Ben]
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Il silenzio cala come
una cappa di fumo nello stesso momento in cui
la porta si richiude dietro la figura piegata dal dolore di Todd
Cooper.
Non so come sentirmi nei confronti di quell'uomo: vedere una persona
in quel modo non è un bello spettacolo, e scorgere il
tormento che
lo ha dilaniato ogni volta che ha guardato sua figlia in faccia mi
renderebbe molto più partecipe e solidale nei suoi confronti
– se
solo sua figlia non fosse Ray.
Ray è una delle persone più pazienti che abbia
mai conosciuto,
nonostante il suo carattere focoso. È raro che alzi la voce,
che si
arrabbi tanto da tremare, che esploda così come ha fatto
pochi
istanti fa: è questo, più delle parole piene di
sofferenza che ha
sputato in faccia a suo padre, a confondermi e a trattenere la
compassione che, se non fosse coinvolta lei, proverei di certo per il
signor Cooper.
Torno in salotto in tempo per vederla accucciarsi, come un animale
braccato, nel suo angolo preferito del divano: stringe le braccia
intorno alle ginocchia e fissa il nulla davanti a lei con gli occhi
spalancati, vitrei.
-Non ho fatto in tempo ad avvertirti.- mormoro, col cuore pieno
d'angoscia nel riconoscere quell'atteggiamento che ho già
visto, in
lei – che avevo sperato, dopo la lunga convalescenza che ha
attraversato dopo l'incidente d'auto, di non rivedere mai
più sul
volto della donna che amo.
-Non è colpa tua.- mormora, talmente piano che debbo
avvicinarmi a
lei per sentire le sue flebili parole.
Mi spaventa questa sua voce sottile, vacua. Ray non permetterebbe mai
alla creaturina lacerata e traumatizzata che ho davanti agli occhi di
prendere il sopravvento sul suo carattere energico, sulla sua intensa
voglia di vivere – non vorrebbe che la ragazzina spezzata che
è
stata riaffiorasse in questo modo, sfuggendo alle maglie del suo
autocontrollo.
-Non è stato un bello spettacolo, vero?- mi chiede quando mi
siedo
accanto a lei senza, però, sfiorarla, rispettando il suo
bisogno di
spazio.
-Direi che “illuminante” sia il termine adatto.- la
correggo, e
lei annuisce in risposta, debolmente.
La conosco abbastanza bene da sapere che cos'è che il suo
sguardo
vuoto mi sta silenziosamente chiedendo: se la lasciassi in pace, se
non insistessi per sapere che cosa è successo fra lei, suo
padre e
probabilmente la sua intera famiglia, Ray si chiuderebbe in se stessa
e lascerebbe che il tormento la divorasse da dentro, strappandole
ogni oncia di serenità fino a lasciare, di lei, solamente un
guscio
vuoto.
Vuole parlare, io lo so... ma so anche che ogni
fibra del suo
autocontrollo sta lottando, adesso, per tornare a schiacciare i
ricordi ed il passato sul fondo di quel pozzo infinito che è
la sua
anima, complessa e splendente in tutti i suoi rattoppi, le sue
cuciture, i suoi rammendi.
-Ray, io ti ho raccontato molte cose sul mio passato. Ti ho
raccontato di Tamsin, ti ho raccontato della scuola, dei miei
genitori, del college.- comincio, con tutta la delicatezza e il
savoir faire di cui sono in possesso: so che, se
esagerassi
appena un poco di più, Ray si rifugerebbe in se stessa,
spaventata
anche solo dal pensiero di aprirsi. -Tu, invece, sembri essere nata
nel momento in cui ti ho incontrata in quel locale.- aggiungo,
dolcemente, allungando con cautela una mano per sfiorarle un ricciolo
che, dispettoso, è sfuggito alla coda disordinata in cui
raccoglie i
capelli d'estate.
-Non volevo raccontarti nulla del mio passato.- mugugna, allungandosi
un poco per cercare il tocco delle mie dita, socchiudendo gli occhi
quando le accarezzo una tempia. -Non fa più parte di me da
molto
tempo.-
-Permettimi di dissentire.- scuoto la testa, inarcando un
sopracciglio in risposta alla sua espressione perplessa. -Vedere tuo
padre ti ha ridotta in briciole.-
La bellezza del rapporto che Ray ed io abbiamo costruito, negli anni,
permette ad entrambi di essere sinceri e diretti come, credo, non
siamo mai stati nei confronti di nessun altro: è una
sensazione
incredibilmente rassicurante quella che trasmette la consapevolezza
che, nella tua vita, esiste una persona davanti a cui non devi
fingere mai nulla, con cui puoi essere semplicemente te stesso, con
cui non devi soppesare le parole per timore di essere frainteso.
-Già.- sbuffa, roteando gli occhi verso il soffitto prima
che, con
uno di quei movimenti fluidi ma repentini che ho imparato ad
aspettarmi, si sciolga dalla rigida posizione in cui si era raccolta
per accostarsi a me, rifugiandosi fra le mie braccia.
Il sollievo che provo nel poterla stringere finalmente a me
dev'essere pari solo a quello che, a giudicare dal profondo respiro
che la sento prendere, a pieni polmoni, sta probabilmente provando
anche la mia Ray, che si rilassa fra le mie braccia mentre King, che
era fuggito a nascondersi sotto il letto – non apprezza gli
ospiti,
proprio come la sua mamma umana –, ci raggiunge e salta sul
divano,
appoggiando la testolina bionda sulla coscia di Ray fino a che lei
non si allunga per grattarlo dietro un orecchio.
-Presumo di doverti una spiegazione.- mugugna lei, dopo un po',
sfregando il viso sulla mia maglietta. Scuoto la testa, chinandomi
per baciarla sulla fronte.
-Tu
non mi devi né mi dovrai mai nulla, Ray.-
___
-Fuori
da casa mia!-
La
voce di mia madre è piena d’odio, di rabbia, di
rancore. Per
l’ennesima volta provo a ricordarmi che non è lei
che parla, è la
sua malattia, è il dolore che la attanaglia, ma…
non ci riesco
più.
Il
veleno nelle sue parole mi penetra le orecchie ed il cervello,
trafiggendomi e piantandosi lì, da dove non credo
riuscirò più ad
estrarlo.
-Non
la voglio una puttana in casa mia!-
Non
so bene dove la vedi la puttana in me, mamma, ma non fa niente. Ho
smesso di cercare una spiegazione ai tuoi insulti senza senso, al tuo
odio senza ragione, alla tua rabbia immotivata.
Tu,
papà, non dici niente.
Ti
limiti a tenerla indietro per evitare che si scagli su di me o,
più
probabilmente, si faccia del male da sola nel tentativo di picchiare
me. Sento mia sorella piangere, al piano di sopra, e mi strazia il
cuore il pensiero di doverla lasciare qui…
-Fuori!
Prendi le tue stronzate e vattene da qui!-
Mia
madre mi tira addosso libri, vestiti, scarpe. Con le lacrime che mi
rigano le guance, costringendomi però a rimanere in
silenzio, ficco
tutto il possibile in uno zaino, ripromettendomi di venire a prendere
il resto non appena lei sarà fuori di casa; in un lampo di
lucidità,
infatti, ho infilato anche le chiavi della porta sul retro sotto
tutto il resto, e lei non se n'è accorta.
-Non
voglio più vederti!-
…per
la prima volta da tanto tempo, mamma, sono d’accordo con te.
Eppure
vorrei non andarmene, vorrei restare e prenderti a calci
perché
davvero non se ne può più di te, del tuo odio che
riversi
sull’unica persona che non è più
disposta ad essere il tuo
scorticatoio morale e che, per questo, nella tua distorta visione del
mondo va allontanata e cancellata al più presto per
riportare la tua
supremazia al predominio incontrastato.
Vorrei
restare, vorrei lottare per la bambina che ho cresciuto come se fosse
mia mentre tu facevi carriera e, dopo, mentre ti lasciavi sprofondare
nella malattia che covi dentro da chissà quanto tempo, ma ho
solamente sedici anni e non posso portarla via con me. Non esiste
legge che me lo permetterebbe.
Vorrei
almeno riuscire a dirle addio, ad abbracciarla un’ultima
volta.
Ma
tu non me lo permetti. Mi spingi fuori di casa con veemenza,
ignorando le urla di quel padre che solamente ora sta cercando di
rimediare ad un danno che non può più essere
aggiustato, ed io cado
per terra, scorticandomi le ginocchia ed i palmi delle mani.
Vorrei
restare, mamma, ma non posso farlo.
Se
tu ci fossi ancora, là dentro, da qualche parte in quel
cancro di
rabbia e di sofferenza che ti è cresciuto
nell’anima e ti ha
divorata, rimarrei. Lotterei per avere indietro la mia mamma, fino
all’ultimo.
Ma
tu non ci sei più, mi dico, mentre mi rialzo e mi allontano
lungo il
vialetto di quella che non è più casa mia.
Non
ci sei più.
___
-Mia
madre era malata.-
Rimango
in silenzio, cercando d'impedire che il mio intero corpo
s'irrigidisca per la tensione che sento scuotermi dentro mentre Ray
continua a raccontare, incapace di fermarsi, incapace di trattenere i
ricordi che, come il contenuto del vaso di Pandora, una volta liberi
d'imperversare sembrano impossibili da rinchiudere una seconda volta.
-Ha
cominciato a soffrire di depressione quando aveva appena otto anni ed
aveva appena iniziato un ciclo di chemioterapia...- sospira, e sento
la sua voce incrinarsi e riempirsi di malinconia e di una densa,
pesante ironia che probabilmente, una volta, è stata
rancore.
-...certo, questo non significa che avesse il diritto di ridurre
anche me e mia sorella in quello stato.-
-Quanti
anni ha?- le domando, accarezzando lentamente la pelle morbida del
suo braccio. -Shirley.- preciso, in risposta alla sua espressione
confusa; lei sorride, mesta, abbassando lo sguardo.
-Ne
farà quindici il mese prossimo.-
La
tenerezza che vedo lampeggiare nello sguardo di Ray mi stringe il
cuore: non mi ha mai parlato di sua sorella, non mi ha mai nemmeno
detto
di avere una sorella,
ma la dolcezza e l'affetto che traspare dalle sue parole e dai suoi
gesti quando si riferisce a lei sono quasi palpabili.
Chissà
quanto le manca.
Sono molto affezionato a mio fratello Jack: siamo cresciuti insieme e
non saprei immaginare la mia vita senza di lui... non voglio nemmeno
provare ad immaginare la sofferenza che Ray ha provato, e
probabilmente prova tuttora, nell'essere tanto lontana dalla sua
sorellina.
-Le
scrivo tutte le settimane e lei mi risponde dopo appena un'ora al
massimo, mi scrive delle mail lunghissime per raccontarmi tutto
quello che le succede e tutti i pensieri che le girano in testa...-
sorride lievemente e tira su col naso, stringendosi ancor di
più a
me. -Aveva undici anni quando mia madre mi ha cacciata.- aggiunge,
cupa, abbassando lo sguardo.
Istintivamente
la stringo ancora più forte, perché i pezzi in
cui si sta riducendo
nel parlare di tutto questo hanno bisogno di essere tenuti insieme
–
e lo sa anche lei, perché si arrotola contro il mio petto e
appoggia
la fronte nell'incavo della mia spalla, respirando diverse volte per
recuperare l'autocontrollo.
-Perché
lo ha fatto?- le chiedo, infine, quando sento il suo corpo rilassarsi
un poco.
-Ufficialmente,
perché volevo uscire con un ragazzo.- risponde, con uno
sbuffo che
vorrebbe essere divertito ma che, ai miei occhi, appare soltanto
infinitamente triste. -Avevo sedici anni e un ragazzo mi aveva
invitata ad uscire con lui, era un ragazzo gentile e molto timido,
voleva solo offrirmi un cinema e una pizza...- si rannicchia un po'
di più, nascondendo il viso fra le ginocchia e lasciando che
solo la
sua arruffata massa di riccioli biondi e i suoi occhi blu spuntino da
sopra le sue braccia incrociate. -Non riesco nemmeno più ad
odiarla,
ora. Se ripenso a come si era ridotta provo solo una gran pena...-
Annuisco,
capendo il significato delle sue parole: i miei genitori mi hanno
insegnato a non odiare nessuno, per quanto male gli altri possano
fare, perché nove volte su dieci il dolore che infliggono
non è che
una minima parte di ciò che hanno subito loro... tuttavia,
nonostante questa mia convinzione, so che per Ray dev'essere stato
difficile lasciar andare il livore che ha sicuramente provato nei
confronti di sua madre.
-Invece
sei ancora arrabbiata con tuo padre.-
-Oh,
sì.- annuisce, e la rabbia lampeggia nuovamente fra le sue
parole e
nei suoi occhi. -Lui è un vigliacco.-
___
-Papà?-
La
mia voce trema mentre serro le dita sulla cornetta del telefono
pubblico – incredibile eppure vero, esistono ancora i
telefoni
pubblici –, spaventata all'idea che non sia mio padre ad aver
risposto al telefono o, ancora peggio, che sia lui ma che non abbia
intenzione di parlare con me.
-Ray!-
il sollievo che mi riempie quando sento l'esclamazione rasserenata di
mio padre è enorme. -Stai bene? Dove sei?-
-Sono...
alla fermata degli autobus. Papà...-
Non
devo piangere, non devo piangere, non devo piangere. No, no, no,
respira, prendi fiato, calmati e stai tranquilla: andrà
tutto bene.
Papà sistemerà le cose, ha sempre sistemato le
cose, vedrai che
andrà tutto bene... non piangere, Ray.
-...papà,
vieni a prendermi.-
-Arrivo
appena posso.-
___
-E
non è mai arrivato?- le chiedo, ma conosco già la
risposta.
-Mai.-
Come
può, un padre, fare una cosa del genere ad una figlia?
Non
sono un illuso, so che sono fin troppe le cronache di padri violenti
che abusano delle figlie, di genitori senza un briciolo di
moralità
che le sfruttano, le maltrattano e, purtroppo, le uccidono... ma
ciò
che mi sta raccontando Ray è comunque inconcepibile,
perché sono
cresciuto in una famiglia in cui tutti mi hanno sempre amato e
incoraggiato a diventare la persona migliore che io potessi essere:
per me è difficile, se non quasi impossibile, pensare a come
dev'essere stato essere seduti là, alla fermata di un
autobus,
aspettando un padre che non era mai arrivato.
-Passai
la notte all'addiaccio. Era primavera, ma di notte faceva ancora
molto freddo... a volte mi sento ancora quel gelo dentro.- continua,
e rabbrividisce nonostante l'afa estiva che permea l'aria – ecco
perché odia così tanto sentirsi
l'umidità addosso,
realizzo.
-Al
mattino, quando riuscii a smettere di piangere, presi il primo
autobus e andai da mia nonna. Le spiegai che cosa era successo e lei
mi disse che dovevo andare via, che dovevo scappare ora che ne avevo
la possibilità. Io però non volevo lasciare
Shirley in balia di mia
madre...- la voce di Ray scema e muore nello stesso momento in cui i
suoi pugni si serrano.
-Così
chiamai i servizi sociali.-
Il
tono incolore con cui pronuncia queste poche parole mi fa accapponare
la pelle.
Dev'essere
stato orrendo, per Ray, affrontare la consapevolezza di aver
strappato sua sorella ai genitori, di aver sicuramente ferito quel
padre e quella madre che, in fondo, aveva amato, di aver
probabilmente traumatizzato quella bambina che stava solo cercando di
proteggere...
-Portarono
via mia sorella due giorni dopo che io avevo lasciato quella casa.-
prosegue, animata da un'urgenza febbrile che posso spiegarmi solo con
un bruciante desiderio di buttare fuori tutto, di liberarsi di quel
fardello che ha portato nascosto dentro di sé per tanti anni
– sa
che nulla di ciò che mi sta dicendo mi farà mai
cambiare opinione
su di lei, ma sbaglia: la stima che provo nei suoi confronti
è
appena aumentata considerevolmente.
A
sedici anni Ray ha compiuto una scelta difficile e drammatica, che la
maggior parte degli adulti prega, in segreto, di non dover mai
affrontare... ed è stata l'unica scelta possibile per
assicurare a
sua sorella Shirley un futuro sereno.
-La
affidarono alla nonna, diffidando mia madre dall'avvicinarsi... io
però non potevo restare lì.- ammette, ed un
sorriso triste le si
disegna in volto. -Io non ero sotto la tutela di nessuno, non__-
-Perché?-
la interrompo, perplesso, ma qualcosa mi dice che potrei già
conoscere anche questa risposta. -Perché non hai chiesto il
loro
aiuto?-
Ray
mi rivolge quella che vorrebbe essere una smorfia divertita ma che,
purtroppo, assomiglia molto di più all'espressione
perennemente
contratta ed angosciata di un veterano di guerra... ed un veterano
lei lo è davvero, realizzo, perché la battaglia
che ha combattuto –
contro sua madre, contro se stessa – le ha lasciato dentro
molte
più cicatrici di quante se ne possano contare.
-Volevo
andare via.- afferma, semplicemente, e c'è talmente tanta
tristezza
in quelle sillabe che anche King, che è rimasto silenzioso e
fermo
fino ad ora, si rianima per avvicinarsi a noi, sfregando la testa
contro il fianco di Ray per confortarla, per trasmetterle tutto
l'amore che prova nei suoi confronti.
-Amavo
mia madre, nonostante tutto. Sapevo che non sarei stata in grado di
stare lontana da lei se fossi rimasta in città, sapevo che
sarebbe
tornato tutto come prima... ma avevo fatto un passo troppo grande nel
toglierle mia sorella e sapevo che mi avrebbe solamente odiata e,
probabilmente, fatto anche del male.-
La
calma con cui Ray pronuncia queste frasi è agghiacciante.
Mi
accorgo di averla quasi soffocata nella mia stretta quando lei,
comprensiva, mi accarezza il dorso di una mano e intreccia le dita
alle mie, che si sono serrate sulla sua spalla con tanta forza da far
sbiancare le nocche.
Non riesco ad affrontare l'idea che qualcuno – sua
madre! –
possa aver desiderato di farle del male. Non posso,
è più forte
di me: soltanto il pensiero mi manda il sangue agli occhi, mi offusca
la vista, e la rabbia mi allaga i pensieri annebbiando il mio
giudizio.
Ray, che di sicuro ha capito cosa mi stia passando per la testa,
scuote i riccioli e si sporge per lasciarmi un soffice bacio sul
mento irruvidito dalla barba.
-Mia
nonna, quando avevo dieci anni, mi regalò un corso di
scherma per
principianti... io ne feci una passione e, più tardi, un
vero e
proprio talento.- continua, sapendo che solo la sua voce ed il suo
racconto potranno distogliermi dall'orrida consapevolezza che la sua
stessa madre,
la donna che
avrebbe dovuto amarla e proteggerla da ogni bruttura, abbia
desiderato di ferirla e di vendicarsi per un affronto che, in
realtà,
non è mai esistito. -Il mio insegnante era un
amico di nonna
e lei mi riferì che di lì a qualche mese ci
sarebbe stato un
concorso per un posto di apprendista a New York in una palestra in
cui insegnano tuttora la scherma e le arti marziali agli attori
famosi.-
Ray
riesce nel suo intento di distrarmi, me ne accorgo nello stesso
momento in cui ricollego i fatti di cui mi sta parlando e quelli di
cui, invece, ero già a conoscenza: Ray ha conosciuto Will
proprio
durante l'allenamento del suddetto biondo a New York, nella pausa fra
i due film di Narnia...
-Era
l'unica possibilità che avevo.- ammette, ed una luce
conosciuta
rianima quegli occhi blu che tanto adoro.
-Mia
nonna mi diede tutto quello che aveva e mi raccomandò di
stare
attenta. Abbracciai mia sorella e presi il primo autobus per New
York.-
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___
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My space
Salve a tutti!
L'avevo detto
o no che sarei tornata su questa coppia e su questa
storia? Ed eccomi qui, con una mini-long che durerà 4
capitoli
contati (che sono già scritti, quindi non temete, gli
aggiornamenti saranno regolari e sicuri!) e che, finalmente, mostrerà ai
lettori e al povero Ben quello che Ray ha attraversato prima, in
America, quando ha conosciuto William.
In questo
primo capitolo possiamo vedere una sedicenne Ray molto
diversa da quella che abbiamo conosciuto nelle precedenti storie che ho
scritto su di lei: a sedici anni si è turbolenti, inquieti e
si
ha la testa calda, ed è così che lei si comporta:
scappa
da una situazione familiare molto difficile e si butta in un'avventura
assurda e senza garanzie di successo, fuggendo da una vita che non le
appartiene per poter cercare un posto dove imparare ad essere libera. Chi non l'ha desiderato, a
sedici anni, di fuggire? Vi confesso che io ci penso anche adesso, a
volte.
Spero che
questo progetto vi entusiasmi come ha entusiasmato,
emozionato e fatto soffrire anche me. Devo dire che tengo molto a
questi quattro capitoli, e il finale sarà una gradita
sorpresa
un po' per tutti, spero :)
Questa storia
è ambientata nel 2010, mentre Ben stava per cominciare a
lavorare per Killing Bono. Ho
fatto una faticaccia immane per far quadrare i conti temporali,
sappiatelo. Ed è tutta colpa di Ben che non sta mai buono.
Mi sono presa
una piccola licenza poetica: William Moseley non ha
seguito i corsi di scherma (e di recitazione) a New York ma a Los
Angeles, dove attualmente risiede. I bobby
sono i poliziotti inglesi e le informazioni che ho citato nel capitolo,
relative alle modalità di entrata in questo corpo di
polizia,
sono state prese da Google. Il titolo e la citazione presente
nell'introduzione della storia vengono dalla canzone Holding
on and letting go di Ross Copperman., mentre il titolo del
capitolo è quello dell'omonima canzone degli Imagine
Dragons, Lost cause.
Questa
è la tabella degli aggiornamenti: sarò
puntualissima, promesso.
NB: per chi
segue "Leggi per me", ho avuto qualche problema con il capitolo VI ma,
promesso, arriverà in tempi brevi anche quello!
CAPITOLO |
DATA |
I.
Lost Cause |
01/04/2015 |
II. Kiss the rain |
11/04/2015 |
III. Broken |
23/04/2015 |
IV. Let it go |
05/05/2015 |
E niente, ho
finito di sproloquiare! Spero vogliate farmi sapere che cosa ne pensate
:)
Un
grandissimo saluto,
B
|
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Capitolo 2 *** Kiss the rain ***
base capitoli HOLG
___
___
___
___
[Ben]
.
Dopo
due coppette di gelato alla nocciola, che ho provvidenzialmente
recuperato dal freezer nel momento stesso in cui ho sentito la sua
voce tremare, Ray mi sembra abbastanza tranquilla da continuare il
suo racconto.
-Passai
un mese in periferia, facendo da babysitter per qualche famiglia
benestante o la lavapiatti a chiamata.- mi spiega, dopo avermi
descritto per filo e per segno l'aspetto trasandato, eppure
affascinante, dei sobborghi di New York in cui ha vissuto da
ragazzina. -Stavo in una stanzetta che mi aveva affittato una vecchia
arpia ricca sfondata che possedeva tipo mezzo isolato... era una vera
catapecchia, non c'era il riscaldamento e nemmeno l'acqua calda,
però
costava poco e io ero arrivata lì con soli cinquecento
dollari in
tasca.-
Scuoto
la testa, incredulo. Per me, che non ho mai patito né il
caldo né
il freddo e che sono cresciuto in un ambiente tutto sommato
benestante, quel che mi sta raccontando è quasi alieno.
-Dev'essere
stata dura.- commento, mentre gli occhi imploranti di King hanno la
meglio sul mio buonsenso e mi spingono a concedergli la tazzina di
plastica, ancora sporca di gelato, da ripulire; quello, tutto felice,
la afferra fra i denti e corre via, con la coda bionda che sventola
come una bandiera.
-Non
quanto può sembrare.- mi contraddice Ray, posando vaschetta
e
cucchiaio sul tavolino di fronte a noi e stirando le lunghe gambe sul
divano, prima di lasciarsi sprofondare fra i cuscini e appoggiare la
testa sulle mie gambe. -La cosa peggiore era essere sempre da sola.-
ammette, guardandomi da sotto in su prima di distogliere lo sguardo,
pensierosa. -Avevo così tanta rabbia dentro... ero
arrabbiata con
mio padre, con mia madre, con il mondo intero. Ero sempre stata una
brava bambina, una brava ragazza, non mi ero mai ubriacata
né ero
mai andata a letto con nessuno, non uscivo nemmeno alla sera e non
andavo quasi mai in discoteca... avevo persino dei buoni voti a
scuola.-
Le
accarezzo una spalla, intrecciando le dita dell'altra mano ad una
ciocca dei suoi capelli sempre disordinati. C'è
così tanta
frustrazione, nelle sue parole, che quasi posso sfiorarla, avvertire
quel magone di rabbia e di rancore annodarsi appena sotto il velo
della pelle di Ray: queste sono ferite che bruciano ancora, che non
si sono mai davvero rimarginate...
-Mi
faceva così arrabbiare quella situazione... e stavo male, e
mi
sentivo sola, e tutto questo si accumulava sempre di più.-
sospira,
voltandosi su un fianco ed abbracciandomi in vita, stringendomi con
una forza che deve assomigliare molto a quella con cui, tanti anni
fa, stringeva il suo cuscino, là, nella sua stanzetta in
periferia.
-Quando vinsi la selezione per diventare l'apprendista di Jetta
Flores quasi spaccai un braccio al mio avversario, in finale.-
ammette, e dall'alto scorgo i suoi zigomi imporporarsi per
l'imbarazzo.
-Fu
allora che conoscesti Will?- le chiedo, mio malgrado estremamente
curioso di sapere, finalmente, come si sono conosciuti i due biondi
della mia vita.
-Esatto.-
.
-Un
ragazzino, Jetta!?- sbotto, incredula, quando la mia datrice di
lavoro mi spiega quale sarà il primo povero squinternato che
avrà
la sfortuna di allenarsi con me.
-Non
è un ragazzino, ha diversi anni in più di te.- mi
corregge Jetta,
divertita, mostrandomi le foto del ragazzo che, dopo un istante,
riconosco come il protagonista di uno dei miei film preferiti,
“Le
Cronache di Narnia”.
…ma
stiamo scherzando!?
-Ma
sembra un ragazzino! Sembra un bambolotto, o il fidanzato di Barbie!-
protesto, inseguendo Jetta quando lei, sorda alla mia isteria, si
avvia lungo il corridoio che porta alla palestra dove ci alleniamo
tutti i giorni. -Cosa dovrebbe imparare, il balletto?- domando,
sarcastica, ricordando la faccia innocente e un po' stolida di Peter
Pevensie – ma ha davvero più
anni di me? Sembra un bambino!
-No.
Vuole perfezionare la scherma per un film in cui dovrà
recitare.-
Jetta
è una santa: ancora non ha capito che, in questi casi,
rispondermi
equivale a darmi il tacito consenso per continuare a blaterare.
-Quindi
lo avremo fra i piedi per chissà quanto tempo. Fantastico.-
mugugno,
afferrando la spada che uso sempre dalla rastrelliera e provando due
affondi senza impegno, per riscaldarmi i muscoli. Quasi subito,
però,
sono costretta a balzare indietro, schivando per un pelo il fendente
rapido e preciso di Jetta.
-Abbassa
la cresta, signorinella.- mi avverte, e non posso far altro che
ammirare la postura perfetta, tesa ed elegante del suo corpo
slanciato, che sembra prolungarsi naturalmente lungo il profilo della
spada che stringe in pugno. -Secondo me ti piacerà.-
aggiunge, ma io
scuoto la testa e mi metto in posizione, sperando di arrivare, un
giorno, a possedere almeno una briciola della grazia letale che Jetta
emana quando combatte.
-Secondo
me, invece, sarà guerra!-
.
-E fu guerra?- le chiedo e lei, col viso illuminato dal primo, vero
sorriso che scorgo da quando è tornata a casa, annuisce.
-Oh, sì.-
.
-Più
in alto! William, punta verso le gambe e non tenere le ginocchia
rigide!-
Gli
ordini secchi di Jetta, per me, appartengono alla bizzarra routine a
cui mi sono ormai abituata da quando, tre settimane fa, ho cominciato
a lavorare con questa brusca ma geniale spadaccina; ma per William
Moseley, il bambolotto semovente che mi sta davanti e che stringe i
denti per non darmi la soddisfazione di sentirlo imprecare, i latrati
aggressivi di Jetta sono una novità a cui non è
di certo facile
prendere le misure.
Di
persona sembra ancora più giovane di quanto non appaia sugli
schermi: ha le guance piene, un taglio di capelli a scodella davvero
osceno e le labbra a forma di cuore, proprio come i bambolotti con
cui giocavamo sempre io e Sh__
-Ma
dove hai imparato a tirare di spada, Ken? Seguendo un corso su
Youtube?- sbotto, flettendo le ginocchia e balzando in avanti per
prenderlo di sorpresa con un attacco frontale che non si aspettava:
il pensiero di mia sorella svanisce nel momento stesso in cui il
bacio del metallo stride acuto nelle mie orecchie, assordando il mio
udito e i miei ricordi.
Moseley,
furente, balza indietro e si rimette in posizione.
-E
tu dove hai imparato le buone maniere, in una caverna del
Paleolitico?-
.
-Avrei dato un polmone per assistere a quegli allenamenti.- ammetto,
senza riuscire a trattenere le risate: dev'essere stato uno
spettacolo memorabile vedere Will e Ray accapigliarsi come due
bambini permalosi – due bambini permalosi e armati,
soprattutto.
-Jetta si divertiva quanto te.- ridacchia, Ray, ma negli occhi ha una
dolcezza che non scorgo più da molto tempo: quello sguardo
colmo
d'affetto e di complicità appartiene a William... ma
già da diversi
mesi lui e Ray, malgrado il rapporto che li unisce, sono stati
costretti ad allontanarsi.
So che le manca, so che l'assenza di Will nella sua vita è
qualcosa
che nessuno può e potrà colmare: si sentono, ogni
tanto, ma da
quando lei ed Angel hanno interrotto ogni rapporto tutti e due
cercano di proteggersi a vicenda, nascondendosi la malinconia che
provano nel vivere separati.
-Jetta aveva capito che io e Will eravamo due bombe ad orologeria...
e trovarsi davanti una come me fu la cosa migliore che potesse
capitargli: ci detestavamo, ma quell'astio lo spinse a migliorare
molto in fretta.- mi spiega, ed io annuisco: fin da quando conosco
lei e William ho capito che il loro rapporto si basa proprio su
quella rivalità antica, che sprona entrambi a dare il meglio
di sé
pur di poter guardare l'altro dall'alto in basso.
Hanno uno strano modo di volersi bene.
Un brivido attraversa improvvisamente Ray, che serra le dita sul mio
fianco e chiude gli occhi, mordendosi nervosamente le labbra mentre
le sue guance, già pallide, si fanno ancora più
bianche.
-Ehi.- mormoro, sfiorandole uno zigomo con la punta dell'indice.
-Non è niente.- mi rassicura, aprendo faticosamente gli
occhi –
lucidi – per rivolgermi uno sguardo di
scuse. -Solo... è
difficile parlarne dopo tanto tempo.- aggiunge, e capisco subito
quanto ciò che dev'essere appena riaffiorato fra i suoi
ricordi le
faccia male.
Mi curvo su di lei per baciarla a fior di labbra, dedicandole il
sorriso più caldo e rassicurante che sono in grado di
produrre.
-Sono qui.-
.
-Occhio,
ragazzina!-
La
voce aspra del soggetto contro cui sono appena andata a sbattere mi
irrita all'istante, ma so di aver torto e quindi ingoio la
rispostaccia caustica che mi è istantaneamente salita in
punta di
lingua – dopotutto, gli sono andata addosso io.
-Scusa!
Non volevo, io__- comincio, accorgendomi che lo sconosciuto che ho
appena travolto, uscendo di corsa dallo spogliatoio, sta trattenendo
il mio braccio contro il suo petto.
Non
sono una persona che ama il contatto fisico, a meno che non sia parte
di una zuffa. Alzo lo sguardo, pronta a mandare a quel paese questo
tizio che non ha nemmeno la buona creanza di accettare le mie scuse e
di lasciarmi andare, ma le parole mi muoiono sulle labbra quando mi
trovo davanti un giovane uomo che sembra uscito direttamente
dall'immaginario collettivo delle adolescenti arrapate di tutto il
mondo.
Ha
i capelli dello stesso nero intenso e lucido che ho visto solamente
nella chioma di Jetta: sono lunghi, sembrano fatti di seta, e sono
tenuti insieme da un elastico annodato sulla nuca. Ha dei lineamenti
affilati e tanto belli da sembrare finti, la barba di un giorno e due
occhi azzurri che potrebbero benissimo essere catalogati come arma di
distruzione di massa.
È
più alto di me di almeno una spanna, ha le spalle abbastanza
larghe
ma in generale il suo fisico è asciutto, più
slanciato di quello
ancora in crescita di Moseley – no, questo è un
uomo fatto e
finito che sembra essere uscito direttamente da una
pubblicità di
intimo maschile.
-E
tu da quale film sei spuntato!?- esalo, esterrefatta: dev'essere di
sicuro un divo del cinema, non può esistere un comune
mortale così
innaturalmente bello.
Sexyman
mi rivolge un'occhiata confusa.
-Scusa?-
-Dai,
io ti ho già visto, sembri quasi...- distolgo lo sguardo da
questo
soggetto altamente disturbante, aggrottando le sopracciglia mentre
cerco di ricordare. -Assomigli un sacco ad un personaggio di un
libro! Sei affascinante ugua__- mi mordo la lingua, sentendo le
guance andare a fuoco quando mi rendo conto dell'epica figura di
merda che ho appena fatto.
Il
divo di Hollywood inarca un sopracciglio e mi soppesa, divertito,
arricciando le labbra in un sorrisetto sardonico.
-Beh,
ragazzina, grazie per il complimento, ma mi spiace deluderti. Io sono
fatto di carne ed ossa.- mi canzona, stringendo volontariamente il
mio braccio contro il suo petto: sotto le dita sento delinearsi le
forme di muscoli affusolati, ben proporzionati, e devo fare violenza
su me stessa per sottrarre bruscamente la mia mano dalla sua presa
ferrea.
-Ah.-
.
-Si chiamava Anthony.- mi spiega e, nei suoi lineamenti, affiora una
tenerezza del tutto nuova, che curva le sue labbra in un piccolo
sorriso malinconico e le riempie gli occhi di dolcezza.
Non mi ha mai parlato di lui, e comprendo quanto sia prezioso questo
momento, questa sua decisione di condividere con me un pezzo della
sua vita che, per qualche motivo, ha tenuto serbato dentro di
sé
tanto a lungo.
-Era il nipote di Jetta ed era venuto a trovare la zia durante le
vacanze estive.-
.
Gli
occhi fissi degli spettatori non mi hanno mai dato fastidio, e ho
smesso di preoccupami di chi mi guarda mentre faccio qualcosa in cui
so di essere brava.
Distendo
il braccio sinistro e volteggio su me stessa con una grazia che
solitamente non possiedo, parando l'affondo laterale che Jetta sta
spiegando a William. Solo quando ha finito di parlare con lui mi
azzardo a contrattaccare, lievemente, ed il sorrisetto divertito
della mia insegnante è l'assenso che stavo aspettando.
Mi
slancio contro William senza preavviso, con tutta la forza che ho
–
ho imparato a convogliare in questa lama e nelle mie braccia tutta la
rabbia che provo, tutta la frustrazione, tutto il dolore: tutto
sembra placarsi, in questi momenti, quando il clangore e la furia mi
riempiono e mi svuotano allo stesso tempo, donandomi qualche ora di
pace dal martirio interiore a cui mi sento sottoposta.
Affondare,
parare, scartare e attaccare di nuovo: la scherma medievale non
è
una danza, come il fioretto, ma un vero e proprio massacro a cui sono
sempre felice di sottopormi: non mi spaventano i lividi orrendi che
scovo sul mio corpo al mattino, non mi preoccupa lo scontro fisico
né
il dolore – è tutto così leggero,
effimero, in confronto alla
dolcezza del bacio dell'adrenalina.
Alla
fine dell'allenamento è William, furibondo e stremato, ad
abbandonare la palestra per primo. Non m'importa un accidente del suo
amor proprio ferito: è qui per imparare, e di certo non si
impara
niente con le maniere buone. Io lo so bene.
-Ragazzina,
da dove la tiri fuori quella furia?-
Faccio
un salto incredibile quando la voce di Anthony risuona proprio alle
mie spalle e, se avessi ancora in mano la spada, probabilmente il mio
primo istinto sarebbe quello di voltarmi e menare un fendente,
rovinando per sempre quel bel faccino da divo rompiballe che si
ritrova.
-Mi
stavi spiando?- sbotto, voltandomi e lanciandogli un'occhiataccia di
fuoco che non lo scuote neanche un po'.
-Non
avevo niente di meglio da fare.- fa spallucce e io devo fare leva
sull'antipatia che mi causa per non ricordarmi di notare quanto sia
bello. -Allora? Da quale oscuro baratro dietro quel bel faccino viene
tutta quella rabbia?-
.
-Anthony era una persona incredibile. Sembrava sapere sempre quale
fosse la cosa giusta da dire, da fare...-
.
-Ti
va una birra, William?-
Mi
sta perseguitando, non c'è altra spiegazione. Anche se ha
appena
rivolto la parola a William, uscito dallo spogliatoio maschile nello
stesso momento in cui io abbandonavo quello femminile, io so
che è qui per continuare a rompere le scatole a me.
Sarò
paranoica, ma so riconoscere un testardo quando lo vedo.
-Con
piacere, sono esausto.- risponde William/Ken, sorridendo a Anthony
con tutta quell'aria amichevole che, con me, non ha mai modo di
dimostrare.
Si
accorge di me soltanto quando Anthony, come
volevasi dimostrare, sposta il suo sguardo oltre
la spalla
del biondastro per guardare me.
-Oh.
Ray.- mi saluta William, aspramente, senza nemmeno degnarmi di uno
sguardo.
-Ken.-
replico, ignorando il suo nervosismo: ha tutte le ragioni per
detestarmi. D'altronde, dopotutto, io preferisco così: non
ho né
tempo né voglia di farmi degli amici, e di sicuro non fra
gli
attorucoli di serie B con troppa boria e sicumera da vendere.
-Ken?-
chiede Anthony, confuso, ma William scuote la testa.
-Non
chiedere, per favore.- mugugna, e io non posso che ridacchiare quando
lo sento tanto contrariato. Di solito sono una persona che non ama i
battibecchi, ma devo dire che azzuffarmi quotidianamente con questo
ragazzone mi sta dando delle soddisfazioni. -Andiamo?- domanda poi,
rivolgendosi ad Anthony. Quest'ultimo, però, torna a
guardarmi.
-Tu
vieni, ragazzina?- mi domanda, ed io non riesco proprio ad evitare
che lo sbigottimento mi si disegni in faccia.
Sta
davvero chiedendomi di andare con loro? Ma siamo impazziti?
-O
sei troppo giovane per bere con i ragazzi più grandi?-
aggiunge,
assottigliando le palpebre e facendomi un occhiolino. La voglia che
ho di prenderlo a schiaffi è incredibile.
-Ha
sedici anni, lasciala perdere!- interviene William, irritato, ma io
afferro la mia borsa e mi avvicino a passo marziale a questi due
coglioni, sentendo la mia eredità genetica di ubriacona
texana
ruggire d'indignazione dentro di me.
-Ma
chi vi credete di essere tutti e due!?-
.
-Quella sera presi la prima sbronza della mia vita.- Ray scoppia a
ridere, divertita, mentre io non riesco a far altro che domandarmi
come William riesca a fare danni in qualunque posto
e in
qualunque situazione si trovi.
-A causa di William.- mormoro, scuotendo la testa. -Non poteva essere
altrimenti.-
-Fu divertente. Andammo in un bar karaoke e finimmo a cantare le
canzoni dei cartoni animati, stonando tutto lo stonabile.- continua a
ridacchiare Ray, e non riesco a non unirmi a lei quando immagino lei
e quell'altro imbranato abbracciati ad un microfono a cantare a
squarciagola vecchie sigle televisive.
Darei anche un rene per poter vedere quella scena con i miei occhi.
-Anthony non bevve nulla. Riportò a casa William e poi mi
domandò
dove abitassi io, ma mi vergognavo – stavo ancora in
periferia,
e...- prosegue, arruffandosi i capelli con fare imbarazzato.
-Insomma, alla fine mi portò da Jetta, e lei mi
ospitò quella sera
e per molte altre, in seguito.-
.
Morire
dev'essere infinitamente meno doloroso dell'hangover.
Alzo
debolmente le mani per premerle sulle tempie, tentando di tenere
insieme i pezzi della mia testa prima che si spacchi a metà.
Il
suono di qualcuno che si avvicina allo sconosciuto giaciglio su cui
sono sicuramente collassata è tanto sconvolgente da
strapparmi un
mugolio di protesta.
-Chiunque
tu sia, vattene.- mugugno, afferrando un cuscino stranamente morbido
e premendomelo sulla faccia; la persona che mi si è
accostata, però,
me lo toglie di mano, lottando per qualche istante per riuscire a
sottrarmelo.
-Tieni,
ragazzina.-
Riconosco
questa voce all'istante e, sempre all'istante, mi maledico.
L'odore
conosciuto del caffè e l'improvvisa consapevolezza di essere
in uno
stato pietoso davanti all'uomo più bello del creato mi
spingono a
schiudere cautamente le palpebre, bestemmiando mentalmente contro
chiunque abbia deciso di rendere la luce solare tanto tagliente.
-Il
caffè è la cura per ogni male. Specialmente per
la sbornia.-
decreta Anthony, porgendomi un bicchiere di Starbucks che io accetto
con circospezione, lottando contro lo stomaco in subbuglio che
vorrebbe rinunciare a qualunque contatto con cibo e bevande per un
tempo indefinito.
-Abbassa
la voce.- ringhio, costringendomi a bere un sorso e tirandomi
pesantemente a sedere, guardandomi intorno senza, però,
muovere la
testa – mi cadrebbe a pezzi se solo provassi a girarmi. -Dove
sono?- chiedo, senza riconoscere il bel divano su cui ho dormito e
l'appartamento ampio e luminoso – troppo – in cui
mi trovo.
-A
casa di mia zia.- mi risponde Anthony, sedendosi accanto a me e
dedicandomi uno sguardo divertito. -Eri conciata proprio male, eh?-
mi canzona ma, lungimirante, io non me la prendo: devo prima scoprire
se ho fatto qualcosa di immorale, stupido o illegale.
-Non
mi ero mai ubriacata, prima.- ammetto, passandomi una mano fra i
capelli e sentendoli tutti annodati e spettinati. Favoloso,
chissà
che aspetto di merda che devo avere.
-C'è
una prima volta per tutto.- sentenzia, ilare, questo bellimbusto,
prima di allungare una mano per scostarmi la frangia dalla fronte
appiccicaticcia. -Come ti senti?- mi chiede, gentilmente, ma io non
riesco a fare a meno di allontanarmi dal suo tocco, sprofondando di
nuovo nel divano.
Odio
essere toccata.
-Se
mi fosse passato sopra un camion starei meglio, credo.-
mormoro, e mi godo qualche minuto di silenzio
ristoratore
mentre il caffè entra in circolo e restituisce un po' di
chiarezza
al mondo.
-Devo
farti i miei complimenti, però.- esordisce, ad un certo
punto,
Anthony. Lo fisso, senza muovermi da dove mi trovo, e probabilmente
riesce a leggermi in faccia tutta la perplessità che sto
provando.
-Di solito, quando una persona beve troppo, si lascia sfuggire i
propri segreti... tu, invece, sei stata zitta come un pesce.-
Non
è ancora stato distillato un liquore in grado di scavarmi
dentro
abbastanza a fondo da strapparmi una confessione.
Non
capisco perché Anthony si stia impegnando così
tanto per scoprire
chi sono e da dove vengo e, sinceramente, mi dà fastidio:
non voglio
parlare dei miei genitori, non voglio essere guardata con
pietà e
compassione, non voglio essere affidata a nessun servizio sociale o,
peggio ancora, essere riportata indietro.
Jetta
è l'unica persona che sa che cosa mi è successo
e, in virtù
dell'amicizia con il mio vecchio insegnante di scherma, mi ha
assicurato che non ne parlerà con nessuno a meno che non sia
io a
decidere diversamente – sento un fiotto di gratitudine
soppiantare,
per qualche attimo, la nausea, quando mi rendo conto che Jetta non ha
detto niente nemmeno a suo nipote.
-Sono
brava a controllarmi.- mormoro, prima di mandare giù quel
che rimane
del caffè tutto d'un fiato, cercando di ignorare quello che,
un
attimo più tardi, mi risponde.
-Ma
io sono più bravo ad aspettare.-
.
-Ti sarebbe piaciuto, sai? Credo che sareste andati d'accordo.-
.
La
pazienza non è mai stata il mio forte, devo ammetterlo.
È
proprio per questo che, quando esco dallo spogliatoio e trovo Anthony
di nuovo
qui ad
aspettarmi, sento l'irritazione raggiungere il punto di non ritorno.
-Oh,
insomma, si può sapere che cosa vuoi da me?
Perché continui a
seguirmi ovunque, non hai qualcosa di meglio da fare!?- sbotto,
fronteggiandolo apertamente, ma quello non si smuove nemmeno di un
millimetro. Che
odio.
-Sei
interessante.- replica, e il desiderio di prenderlo a pugni si
ripresenta, all'istante, più forte che mai.
-Ma
vaffanculo!- sibilo, trattenendomi per puro miracolo dallo strillare.
Poi sospiro, dicendomi che non posso esagerare e che, in fondo, lui
con me è sempre stato gentile. Stressante, magari, ma
gentile.
-Senti, davvero, non voglio avere problemi con Jetta o con te, voglio
solo fare il mio lavoro ed essere lasciata in pace.- gli spiego,
guardando da un'altra parte mentre parlo per non permettergli di
capire quanto questa situazione ferisca anche me: vorrei davvero
essere una ragazza normale e poterlo conoscere più a fondo,
vorrei
essere in grado di intessere un rapporto di amicizia con lui come con
chiunque altro, vorrei avere la capacità di fingere che gli
sguardi
penetranti che mi rivolge siano dettati da una bruciante attrazione
amorosa.
Ma
io non sono una ragazza normale. Io sono una ragazza spezzata che non
vuole più affezionarsi a nessuno, che non vuole
più sognare, che
non vuole più essere né una ragazza né
una donna.
-Come
preferisci.- mi rassicura, annuendo con un cenno elegante –
lui è
sempre
elegante, in
tutto ciò che fa – della testa. -Comunque volevo
chiederti
solamente una cosa.-
-Cosa?-
chiedo, stancamente, dicendomi che, se lo ascolto ora, poi magari mi
lascerà in pace.
-Usciresti
con me?-
La
morsa che mi stritola è talmente repentina da non darmi
nemmeno il
tempo di prendere fiato per urlare.
Posso
avvertire il già poco colore della mia faccia scivolarmi via
lungo
il collo quando, dai recessi in cui li avevo relegati, i ricordi ed
il dolore allungano una zampata che mi squarcia il petto da parte a
parte.
“Vuoi
uscire con un ragazzo? E magari farti anche scopare per bene!”
La
voce di mia madre mi riempie la testa e spezza, per l'ennesima volta,
quel poco che rimane del mio cuore.
“Ma
sì, vai pure! Tanto sei solo una puttanella che non
aspettava
altro!”
Non
è vero, mamma. Non è vero. Non ho mai fatto
niente di male, mamma,
perché mi fai questo? Perché mi tratti
così? Io ti voglio bene...
“Non
osare rispondermi in questo modo, piccola troia!”
-Ray?-
è la prima volta che sento Anthony pronunciare il mio nome,
ma sono
troppo sconvolta per riuscire a registrare la cosa: per me, in questo
momento, ci sono soltanto le urla di mia madre, il dolore lacerante
che ho provato nel cercare di difendere me stessa e la mia innocenza,
lo schiocco degli schiaffi.
“Fuori
da casa mia!”
Chissà
poi se sei riuscita a tenerla insieme, quella tua fottuta casa, senza
la tua schiava personale a pararti il culo e a farti da sguattera...
-Che
cosa sta__- registro le parole di William solo quando pronuncia il
mio nome, sbalordito ed allarmato come non l'ho mai sentito: -Ray!-
Si
precipita accanto a me, afferrandomi e trascinandomi per terra prima
che sia io stessa a crollare: la sua faccia di stupido bambolotto
riempie la mia visuale, e tutti i miei sensi impazziti si concentrano
istintivamente su di lui.
Ha
un'espressione risoluta e tranquillizzante, in volto, che non gli
avevo mai visto prima: mi aggrappo alla fermezza in quegli occhi
celesti per non affondare, per strapparmi dagli artigli che, dai miei
ricordi ancora troppo freschi, sono emersi e stanno cercando di
ghermirmi e tirarmi di nuovo giù.
Soltanto
nel momento in cui le sue mani si stringono sulle mie spalle riesco
finalmente a tirare fiato, recuperando quel minimo di autocontrollo
che mi serve per non scoppiare in un pianto isterico davanti a tutti.
Mi
tengo stretta ai polsi del biondo con tutta la forza che ho,
sbattendo freneticamente le palpebre per ricacciare indietro
l'angoscia che mi ha assalita; William non si lamenta, non dice
niente... si limita a tenere gli occhi piantati nei miei – e
in
quell'azzurro scorgo una consapevolezza che mi spaventa più
di tutto
il resto.
Lui ha capito tutto.
Il
mio primo istinto è quello di fare ciò che so
fare meglio:
scappare.
-Sto
bene... sto bene. Davvero. È stato solo un... un calo di
zuccheri.-
mormoro, cercando di liberarmi dalla stretta d'acciaio di Moseley. Ha
visto troppo, ha capito troppo e non posso restare qui, devo
allontanarmi da questi occhi che mi hanno scrutata dentro e che hanno
visto la ragazzetta patetica che sto cercando di soffocare da troppi,
troppi mesi.
-Cosa
è successo?-
Jetta.
La mia speranza.
-Jetta,
non è nulla, non__- comincio, cercando di alzarmi.
-Sembrava
un attacco di panico.- risponde istantaneamente William, senza dare
il minimo segno di volermi lasciare andare.
-Zitto
tu!- sbotto, cercando di spingerlo via, ma lui mi blocca con una
facilità impressionante e, per la prima volta –
complice il mio
cervello che, per riprendersi, cerca qualunque cosa su cui ragionare
per non sprofondare di nuovo nella disperazione –, capisco
quanta
forza abbia nelle mani e nelle braccia e quanto debba essersi
trattenuto durante gli allenamenti. Ma perché?
Perché combatte
contro di me? Perché sono una ragazza? È davvero
così stupido?
Jetta
osserva la situazione per un istante, spostando il suo sguardo da me
a William e poi su Anthony, che si è fatto da parte e che
sta
attento a non guardarmi nemmeno per sbaglio – sento qualcosa
stridere, dentro di me, quando capisco che avei davvero voluto dirgli
di
sì.
-Anthony,
andiamo a casa.- ordina, infine, con quel tono brusco a cui mi sono
tanto affezionata. -Will, rimani con lei e poi portala da me.-
.
Ray si raggomitola e si stringe a me, piantandomi le unghie nella
schiena, senza più parlare per un bel po'.
Mi sento malissimo, e vorrei poter fare di più che
stringerla a me e
accarezzarle i capelli.
Non riesco a concepire l'orrore di sentirsi rifiutati dalla propria
madre. È qualcosa che non dovrebbe nemmeno esistere.
-Will mi portò in un caffè, pagò il
doppio una cioccolata calda
perché non era stagione e mi costrinse a raccontargli
tutto.-
sospira, infine, con il volto nascosto nella mia pancia.
-Tipico di William.- è tutto ciò che riesco a
dire, con la voce
rauca di chi si ritrova la gola riarsa da qualcosa che non è
pietà
e non è nemmeno dispiacere ma, piuttosto, un dolore vero e
proprio:
mi sento uno schifo al pensiero di ciò che ha passato Ray,
mi sento
impotente perché non posso fare nulla per toglierle dalle
spalle
questo dolore e, soprattutto, perché darei tutto
ciò che possiedo
pur di tornare indietro per poter essere lì, con lei.
-Funzionò, però.- ammette Ray, sempre senza
muoversi nemmeno di un
millimetro, rimanendo stranamente ferma sotto le mie carezze. -Gli
raccontai tutto quanto. Lo avevo trattato talmente male, glielo
dovevo...- sussurra, ma so anche io che questa non è tutta
la
verità: Ray, in quel momento, aveva avuto bisogno di contare
su una
persona – e Will era stato
lì per lei.
Finalmente riesco a capire tante cose che, fino a questo momento, mi
sono perennemente apparse poco chiare: Will è sempre stato
protettivo nei confronti di Ray – persino troppo, certe volte
–
ed ha sempre cercato di proteggerla anche quando lei se la sarebbe
potuta cavare benissimo da sola...
Will ha visto Ray nel momento peggiore della sua vita e, come la
persona splendida che è, ha fatto ciò che gli
diceva il cuore: l'ha
amata. Non come uomo, non in senso romantico, niente del
genere:
Will ha amato Ray come si ama una sorella e io so
che è una
cosa che tuttora non potrà cambiare, mai, nemmeno dovessero
passare
cent'anni separati l'uno dall'altra.
Non posso che sentirmi sollevato, adesso: Will era con lei e, per
Ray, è e sarà sempre uno dei posti più
sicuri al mondo.
Ray tira su col naso ed un sorriso incerto le si schiude sulle
labbra.
-Diventammo amici. Lui fu il primo vero amico della mia vita.-
.
-Anthony
è un bravo ragazzo.- mi fa Will, seduto all'altro capo del
tavolo
del pub in cui abbiamo preso l'abitudine di fermarci a bere qualcosa
dopo gli allenamenti quotidiani.
Scuoto
la testa, facendo ondeggiare gli orecchini pesanti, rotondi e di
metallo, che indosso. Will mi prende in giro a profusione per questo
mio modo di vestire “da rocker
anni Ottanta”, come dice lui, ma a me
piace. Stupido Ken
senza senso estetico.
-Non
posso uscire con lui, come devo dirtelo!?- gli afferro una mano e la
premo sulla mia gola, dove io stessa posso avvertire il martellare
furibondo del mio cuore. -Senti? Mi salgono i battiti al sol
pensiero!- sbraito, accorgendomi soltanto quando Will scoppia a
ridere e mi arruffa i capelli che non mi dà fastidio essere
toccata
da lui – ed è la prima volta che il disagio non si
fa vivo da
quando me ne sono andata di casa.
-Questo,
raggio di Sole, non è panico. Si chiama libido.-
.
.
.
[Ray]
.
Ben scoppia a ridere assieme a me quando gli spiego quanto imbecille
e stupido fosse il William che ho conosciuto in quel periodo: era
proprio un coglione, devo ammetterlo, ma io a quel coglione volevo
bene e mi ci ero affezionata come non avevo più creduto
possibile.
-Will non cambierà mai.- commenta Ben, divertito, ed io
annuisco
vigorosamente.
-Credo anch'io.-
No, Will non cambierà mai davvero: rimarrà sempre
quel bambolotto
gigante con un cuore da bambino e tanta di quella bontà,
dentro, da
riempirci il mondo intero.
-Alla fine accettasti quell'invito?- mi domanda Ben quando
l'ilarità
scema e la sua curiosità torna a farsi viva.
Avrei dovuto parlargli di tutto questo molto, molto tempo fa.
Non so nemmeno io perché non gli ho mai detto nulla di tutto
questo:
forse avevo paura – non della sua reazione, perché
sono sicura
dell'amore e della comprensione di Ben come non lo sono mai stata di
niente o nessun altro, ma... forse avevo paura di riportare a galla
tutto il dolore che ho provato e che mi ha profondamente,
indelebilmente cambiata.
-Più o meno.-
.
Io
sono una gran vigliacca, Will lo dice sempre.
Io
mi arrabbio e protesto ma lui, con quella sua faccia che sarebbe da
prendere a pugni dal mattino alla sera atteggiata in un sorrisetto
irritante, decreta saggiamente che, se fossi davvero coraggiosa,
sarei già andata da Anthony a scusarmi per non avergli
più parlato
per dieci giorni dopo quello stupido, stupido pomeriggio.
Forse
è proprio perché voglio dimostrare a me stessa di
non essere una
codarda che, adesso, sto correndo a perdifiato giù per le
scale
della palestra e poi giù in strada, sperando di non aver
perso
Anthony nella folla che sembra essere onnipresente in questo
quartiere di New York.
-Anthony!-
chiamo, sollevata, quando lo vedo fermo sul marciapiede,
probabilmente in attesa di un taxi e, nel momento in cui si volta e
mi sorride, il mio cuore sussulta e il mio stomaco fa una capriola:
è
sempre più bello, accidenti a lui.
-Stai
meglio, ragazzina?- mi chiede, osservandomi con un misto di
curiosità
ed ilarità mentre io incespico e spintono poco carinamente
le
persone per raggiungerlo.
-Sì,
io...- esito. Come glielo spiego? Accidenti a Will!
Mi
mordo l'interno della guancia, sapendo – e maledicendomi per
questo
– di essere arrossita.
-Volevo
scusarmi per la reazione dell'altro giorno, io...- balbetto, ma non
mi sento ancora pronta a fidarmi completamente di una seconda
persona, non in così poco tempo: voglio dargli il beneficio
del
dubbio, però, e voglio concedere a me stessa la
possibilità di
rischiare di essere di nuovo felice.
Quindi
opto per dirgli una parte della verità, quella meno
compromettente,
quella che mi permette di aprirmi un pochino senza, però,
sentirmi
denudata completamente di tutte le mie difese.
-La
verità è che non sono mai uscita con un ragazzo,
ecco. Ho qualche
problema con tutta quella roba di come vestirsi, di dove andare,
dell'imbarazzo e__-
Anthony
alza una mano, ridacchiando, mettendo la parola fine al mio
sproloquio.
-Facciamo
così: se ti offrissi un caffè fra, vediamo, venti
minuti, al bar
della palestra?-
Una
luce nel buio.
-Direi
che si possa fare.- sorrido, entusiasta, voltandomi di scatto per
lanciare un'occhiata alla palestra, enorme e bellissima, alle mie
spalle. -Faccio una doccia e arrivo, puoi aspettarmi lì...?-
gli
chiedo, incerta, tornando a voltarmi verso di lui. Non mi sono
nemmeno lavata dopo l'allenamento, sono subito corsa fuori, sperando
di vederlo.
Anthony
scuote la testa, sempre con quel bel sorriso un po' canzonatorio
sulle labbra.
-Assolutamente
no. E se poi tu mi scappassi di nuovo?-
.
-Era determinato, il ragazzo.- osserva Ben, inarcando le sopracciglia
– come se lui non lo fosse, no?
– e guardandomi con quegli
occhi scuri e caldi in cui so sempre di poter trovare la mia
metà
migliore.
-Oh, sì. Era un vero testardo.- annuisco, con più
serenità di
quanta me ne sarei aspettata: per anni ho provato un vero e proprio
terrore al pensiero di parlare di Anthony, di soffrire di nuovo per
la sua perdita, di sentire ancora la sua mancanza... invece
è così
semplice, ora, raccontare a Ben la mia storia, la storia di Anthony.
Non so se sia perché è passato abbastanza tempo o
perché, molto
più probabilmente, parlare con lui è sempre stato
facile e
meraviglioso come prendere un profondo respiro in alta montagna.
-Anthony fu il mio primo ragazzo, la mia prima volta e il mio primo
amore.-
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My space
Ciaone a tutti, so' Paola
Marella!
Ignoratemi. Vi prego. Ho il
ciclo da nove giorni, non ci sto più con la testa.
Buongiorno a tutti voi!
Puntuale come un orologio,
incredibilmente, eccomi qua ad aggiornare!
Innanzitutto vorrei
ringraziarvi per l'entusiasmo: mi ha fatto davvero un piacere immenso
vedere che non vi siete dimenticate di Ben e Ray e che vi ha
entusiasmato questo mio nuovo progetto!
Poi, qualche considerazione:
Anthony, il primo amore di Ray, era oggettivamente un ragazzo
bellissimo. Può capitare, nella vita, di incontrarne di
così, no? Okay,
Ray ha tutte le fortune di questo mondo, prima quello e poi Ben. Che
invidia. Però ci tengo a sottolineare che non
è la sua bellezza ad aver colpito lei, ad averla
conquistata, ma l'atteggiamento che ha sempre tenuto nei suoi
confronti: Anthony è stato una spalla per sostenersi, un
punto di partenza, una speranza, per Ray. Questo, più della
bellezza di Anthony (che a Ray non importa proprio un accidente),
è ciò che l'ha conquistata.
La canzone del titolo di
questo capitolo è Kiss the
Rain di Billy Myers.
E niente, direi che questo
capitolo si spiega da solo! Per qualsiasi cosa (complimenti, insulti,
pomodori, critiche costruttive, erroracci che mi saranno di sicuro
sfuggiti nonostante le mille riletture) vi invito a lasciarmi un
commentino!
Alla settimana prossima!
B.
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Capitolo 3 *** Broken. ***
base capitoli HOLG
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[Ben]
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-Non mi hai mai
parlato di lui.-
-E mi sto chiedendo
anch'io il perché.- sospira, alzandosi in piedi per
sgranchirsi le
giunture ed avvicinandosi alla finestra che dà sulla strada,
scostando delicatamente le tende.
-Anthony non c'è
più, Ben.- mormora, piano. Nella sua voce riesco ad
avvertire una
tristezza profonda, radicata, eppure quieta e remissiva allo stesso
tempo: è la voce di chi ha accettato un lutto, di chi
è sceso a
patti con la perdita, di chi ha imparato a guardare al di là
della
sofferenza.
Tuttavia io non sono
in grado di guardarla e di sentirla così standomene fermo
dove sono.
Mi alzo e la raggiungo, abbracciandola e appoggiando il mento sulla
sua spalla, intrecciando le mani sul suo ventre; lei sorride,
chiudendo gli occhi, e il suo corpo si rilassa contro il mio.
-Fu un'estate
spettacolare, quella. Anthony era meraviglioso e io mi sentivo amata,
mi sentivo bene, per la prima volta nella mia vita potevo scoprire me
stessa e raggiungere i miei traguardi. Non avevo mai potuto farlo,
prima...- mi racconta, piano, come se i ricordi di quell'estate ormai
sfumata siano qualcosa di cui parlare sottovoce con la paura che
possano scivolare via fra le dita, come acqua.
-Mi convinse a dare
gli esami per finire il liceo, mi aiutò a trasferirmi in una
stanza
in affitto molto più carina... Era un bravo ragazzo e ci
volevamo
bene, davvero.-
Non fatico a
crederle nemmeno per un secondo: il modo in cui parla di lui
è
troppo denso di tenerezza e di amore per farmi dubitare del
sentimento che ha provato nei confronti di quel ragazzo.
-Era più grande di
me e anche di Will, e decise di prendersi un anno sabbatico dal
college per rimanere a New York a lavorare... per rimanere con me.-
aggiunge e, sulle sue labbra, si disegna un sorriso sincero ma
imbarazzato.
Lui la amava.
Di questo non posso
che essere certo: il modo in cui Ray mi parla di lui, di ciò
che
l'ha aiutata a realizzare per se stessa, di come le donasse
serenità
e sicurezza in se stessa, tutto questo mi urla a gran voce il
sentimento che Anthony provava per lei.
Sarebbe sciocco
essere gelosi, adesso, per di più di una persona che non
c'è più.
No, io non sono geloso, perché – anche se non l'ho
mai incontrato
e non potrò mai farlo – ammiro e rispetto quel
ragazzo per un
semplice motivo: ha amato, protetto e rispettato Ray come lei
meritava e meriterà sempre.
-Eri felice.-
constato, abbassando la testa per appoggiare la fronte alla sua
spalla. Ray annuisce.
-Con lui e con Will
mi sentivo finalmente... a casa.-
A casa.
Quanto devono aver
significato William ed Anthony per quella Ray più giovane,
più
fragile, più sola, per farle ammettere una cosa del genere?
Ray dice sempre che
“casa è dove ti senti amato e al sicuro”
ed io ho
imparato a capire il significato di questa frase solamente quando ho
rischiato di perderla, durante il coma, trascorrendo ogni giorno
accanto a quel letto a pregare perché si svegliasse e
tornasse da
me. In quel periodo orribile ho compreso quanto la casa
non
sia un luogo fisico, un edificio o parte di esso, ma le persone da
cui sai di poter tornare...
La stringo più
forte, sentendo il cuore martellarmi il petto quando i pensieri
tornano a quei mesi maledetti e la paura, l'angoscia e l'impotenza si
riaffacciano per un istante sulla soglia della mia anima.
Io ho rischiato di
perderla e, lo so, sarei sicuramente impazzito se fosse successo. Mi
chiedo come abbia fatto a sopravvivere al dolore di aver perso
Anthony...
Solo dopo quella che
mi sembra un'eternità Ray parla di nuovo, con un tono pacato
e
tranquillo che riesce a scacciare la mia inquietudine.
-Poi Will terminò
il suo corso e dovette partire per la Nuova Zelanda.-
_
Stringo
convulsamente a me questo stupido bambolotto biondo, afferrandolo poi
per le spalle per tirarmelo su di dosso e guardarlo in faccia,
ansiosa.
-Stai attento,
c'è freddo in Nuova Zelanda in questo periodo, e se poi il
tuo
co-protagonista è più bravo di te? Non fargli
male, nessuno può
essere più bravo di te, ti ho addestrato io!- blatero. Lo so
che sto
blaterando, ne sono conscia!
Will mi prende le
mani, spazientito, stringendosele sul petto.
-Ray, puoi farmi
il piacere di prendere fiato?- mi chiede, esasperato, ma io scuoto la
testa e mi butto di nuovo contro il suo petto, stringendolo fra le
braccia come se, così facendo, potessi davvero impedirgli di
salire
su quel maledetto aereo.
-Non voglio che
tu vada via. Sul serio.- brontolo, e lo sento ridere sommessamente
mentre mi accarezza i capelli. -Mi mancherai troppo, non è
giusto.
Voglio venire con te.-
-Ray.- sospira,
prendendomi il viso fra le mani e costringendomi a guardarlo negli
occhi. Il modo in cui Will dice il mio nome ha sempre un effetto
calmante, su di me. Dovrei provare a brevettarlo.
-Ho comprato un
telefono satellitare apposta.- mi ricorda, inarcando un sopracciglio
ed accennando un sorriso. -Sarà come se fossi sempre qui con
te,
d'accordo?- mi rassicura, alzando poi la testa per baciarmi sulla
fronte. Io tremo e sento gli occhi pizzicare tanto violentemente da
costringermi ad abbracciarlo di nuovo per nascondere le lacrime.
Non so se posso
farcela a stare senza di lui.
-E poi tu devi
tenermi aggiornato su tutto. Da quando hai una vita sessuale attiva e
soddisfacente sei molto più simpat__ahi!-
In fondo, credo
che starò benissimo
senza di lui.
-Stupido Ken.-
_
-Ecco a chi
telefonava sempre.- realizzo, spostando lo sguardo da lei alle strade
umide ed afose di Londra, smarrito nei ricordi.
Rammento che Will
passava anche tre quarti d'ora alla volta attaccato quel maledetto
telefono satellitare, durante le riprese di Prince Caspian,
e
rammento anche che, allora, avevo creduto che avesse una compagna
oltreoceano o una mamma particolarmente apprensiva... ma, di certo,
non avrei mai potuto immaginare quanto le mie supposizioni potessero
avvicinarsi alla realtà.
-Eri tu... sei
sempre stata tu.- soffio, scuotendo piano la testa. Il ricordo di
tutte le volte in cui Will mi passava accanto, parlottando fitto in
quel cellulare, mi attraversa la mente: è strano pensare a
quanta
poca distanza Ray fosse da me in quei momenti...
-Già.- annuisce di
nuovo, accennando un sorriso e voltandosi per lasciare un rapido
bacio sulle mie labbra, socchiudendo poi gli occhi e, dopo un
istante, serrando la mascella. -Will mancò solo una
telefonata. La
più importante di tutte.-
_
-Dannazione,
Will.- sbotto, pigiando con furia i tasti del cellulare e
ficcandomelo in tasca, esasperata.
-Signorina?- mi
sento chiamare e, di scatto, balzo in piedi quando l'infermiera che
si è rivolta a me apre la porta della stanza d'ospedale
davanti a
cui sto marcendo nel terrore da almeno due ore. -Ora può
entrare.-
mi invita ed io, sfregandomi velocemente una manica sulle guance per
cancellare le lacrime, mi fiondo letteralmente dentro.
-Anthony!-
La voce mi esce
più strozzata e stridula di quanto, in realtà,
vorrei che suonasse:
vorrei sembrare salda sui miei piedi, sicura di me, ottimista, ma
vedere Anthony sdraiato su questo letto, pallido come un cencio e
pieno di lividi, tagli e con un braccio ingessato...
Crollo come una
cogliona sulla sedia accanto al suo letto, con gli occhi pieni di
lacrime e, probabilmente, un'espressione terrorizzata e sconvolta
dipinta in faccia.
Lui però
sorride, perché è più forte di me, e
allunga una mano per prendere
la mia: è l'unica cosa concreta, la sua stretta, l'unica
certezza
che ho – quella e i suoi bellissimi occhi azzurri, stanchi e
cerchiati dalle occhiaie, che mi raggiungono e mi restituiscono il
respiro che solo ora mi rendo conto di aver trattenuto da quando mi
ha chiamato Jetta, disperata, per dirmi cos'era successo.
-Ehi, ragazzina.-
mi saluta, ed io sbuffo un qualcosa che, in un altro momento,
potrebbe essere l'inizio di una risata. -Tranquilla. Sto bene.- mi
rassicura, e forse è proprio la sua pacatezza e la sicurezza
che
emana –
come sempre
– a farmi andare completamente fuori di testa.
-Stupido,
stupido, stupido!- sibilo, e capisco di aver perso la mia battaglia
contro il pianto quando sento le lacrime rotolarmi lungo gli zigomi.
Stringo forte la sua mano e lui ricambia la stretta, mentre io serro
gli occhi e, sconfitta, mi lascio prendere dall'isterismo.
-Non osare mai
più farmi uno scherzo del genere, dannato imbecille!-
_
-Che
incidente
stupido...- mormora Ray, socchiudendo le palpebre e scuotendo la
testa: ha le labbra piegate in una smorfia terribile, forzata, come
se la sua bocca contratta fosse l'unico fermo per non lasciar cadere
a pezzi tutto ciò che ha fatto per superare quel momento.
Vorrei fermarla,
vorrei dirle che non è necessario rivivere tutto, vorrei
proteggerla
dal ricordo di quel dolore che si sta affacciando dentro di lei dopo
tanti anni di silenzio... eppure taccio, perché so che
è la cosa
giusta da fare per lei.
-Un tizio non gli
aveva dato la precedenza e lo aveva investito. Anthony aveva appena
preso quella moto...- pigola, piano, e improvvisamente si volta e
affonda il viso sul mio torace, stringendo fra i pugni la stoffa
della mia maglietta.
La racchiudo nel mio
abbraccio e la tengo qui, stretta, premendo una guancia contro i suoi
capelli e sentendomi lacerare da ogni lacrima che avverto bagnarmi il
petto, pregando di riuscire ad essere abbastanza forte
per darle la possibilità di lasciar andare tutto il dolore
che ha
serbato nel cuore fino ad ora.
_
-Ray...-
Mi sveglio
bruscamente e di botto quando la voce sofferente di Anthony mi
trapassa le orecchie e l'anima, strappandomi al sonno.
-Ehi...-
comincio, alzando gli occhi e accendendo la plafoniera sopra il
letto, sfregandomi gli occhi cisposi e stanchi. Ho dormito per...
quanto? Jetta è andata via dopo cena, io però
sono rimasta, e... e
quello che vedo mi fa sgranare gli occhi e mi riempie di terrore.
È
più pallido
di prima. Ha gli occhi sbarrati e le labbra esangui, mentre un rivolo
scarlatto gli scende lungo la mascella.
No.
Scatto come una
molla verso la porta, tirando un pugno all'interruttore per le
emergenze.
-Sta male! Venite
subito!- ruggisco alle prime due infermiere che vedo, tornando poi di
corsa accanto ad Anthony. Rantola, non riesce a respirare, e mi
afferra le mani che tendo istintivamente verso di lui, stringendole
spasmodicamente al petto.
-No, no... va
tutto bene, andrà tutto bene...- balbetto, cercando di
rassicurarlo,
cercando di sorridergli e vorrei poter fare qualcosa, vorrei non
vedere quegli occhi affogare nella sofferenza e nel terrore.
-Ray...- mi
chiama, ed io libero a fatica una mano dalla sua stretta per
accarezzargli la fronte, scostando i suoi splendidi capelli neri
perché voglio ricordare il suo bellissimo volto, i suoi
lineamenti,
la consistenza della sua pelle, perché lo so cosa sta per
succedere
e voglio solo che lui veda che non ho paura, che non soffra anche per
me, che io sono qui e che non è da solo, che non deve
affrontarlo da
solo.
Gli sorrido di
nuovo e lui capisce tutto, lo so che anche lui ha capito, e mi tira
vicino a sé per sussurrare una parola al mio orecchio.
-Sopravvivi.-
Vorrei dirgli
quanto lo amo, vorrei dirgli di non andare via, di resistere, ma non
ci riesco.
Voglio solo che
non abbia paura. Voglio solo essere io, per quest'unica volta, ad
essere forte per lui, a sostenerlo, a scacciare tutto il dolore che
riesco a vedere aggrumato sul fondo del suo sguardo spiritato.
Annuisco, gli
accarezzo una guancia, gli rivolgo un sorriso che spero sia pieno
d'amore, e poi qualcuno mi strattona e mi strappa da lui.
-Signorina, vada
fuori!- mi ordinano, ma non li sento. Rimango lì dove sono
andata a
finire, ai piedi del letto, sentendomi lacerare dai suoi occhi che
hanno seguito i miei e che io non lascerò andare per niente
al
mondo, fino alla fine.
-Ha i polmoni
pieni di sangue.-
-Non riesco a
intubare, ha le vie respiratorie completamente ostruite.-
-Dobbiamo farlo
respirare!-
-Il cuore si sta
fermando!-
_
-Il medico
dichiarò
il decesso alle 6 e 42 del mattino del quattro marzo.-
_
Al decimo squillo
a vuoto del sesto tentativo fallito spengo tutto e abbandono il
telefono satellitare sulla sedia di fianco alla mia, ricacciando
indietro le lacrime in quel vuoto orrendo che mi si è
spalancato
dentro.
Will non mi ha
risposto.
Anthony non c'è
più.
-Ray!-
La voce
spaventata di Jetta, che ho chiamato nel momento in cui un velo
bianco ha nascosto il volto di Anthony e un'infermiera robusta mi ha
trascinata fuori da quella stanza, risuona nel corridoio buio e vuoto
dell'ospedale.
Anthony non c'è
più.
Alzo lo sguardo,
vedendola correre verso di me, e vorrei non avere le mani macchiate
dal sangue del nipote che ha appena perduto quando mi crolla fra le
braccia, scoppiando in un pianto disperato.
_
-Una deformazione
della costola rotta ha perforato un polmone.- spiega la voce
dispiaciuta di un medico, più tardi.
Come ci sono
arrivata qui? Non mi ricordo di essermi spostata da quel corridoio.
-Dalle lastre e
dalla TAC questa deformazione non__-
-Siete degli
incompetenti!- esplode Jetta, balzando in piedi, ma io resto dove
sono. A cosa serve arrabbiarsi? Anthony non c'è
più.
-Mio nipote
è
morto per colpa vostra!-
_
-Ray...-
Vorrei dirle che mi
dispiace di essermi incrinato una costola, vorrei dirle che non mi
perdonerò mai di averle fatto provare per colpa mia
una parte
di quella sofferenza, vorrei dirle mille cose ma non riesco a fare
altro che stringerla più forte quando lei si abbandona
contro di me,
come una marionetta a cui abbiano tagliato i fili.
-Va tutto bene.- mi
rassicura ma io so che non è vero, la conosco troppo bene,
non può
andare tutto bene e l'espressione straziata del suo
viso non
ne è che la conferma. -È passato tanto tempo...-
aggiunge, ma il
tempo non è stato abbastanza e credo che non lo
sarà mai: una parte
di lei soffrirà sempre questo lutto e non c'è
nulla che io possa
fare se non essere qui, in questo momento, offrendole le mie spalle
per portare, assieme a lei, questo peso terribile.
La cullo fra le mie
braccia a lungo, in silenzio, finché Ray non si rianima un
poco e
alza le mani per aggrapparsi alle mie spalle, sforzandosi di alzare
la testa per appoggiarsi alla mia clavicola.
-Lui mi aveva
chiesto di sopravvivere, e io cercai di farlo.-
_
-Signorina?-
Balzo indietro
quando un'infermiera che forse ho già visto mi si avvicina,
provando
a sorridermi.
-Non mi tocchi.-
riesco a dire, abbassando lo sguardo e stringendomi le braccia sulle
spalle, sperando che il gelo che sale da quella voragine che mi ha
squarciata da parte a parte mi avvolga e mi porti via.
L'infermiera si
ritrae, comprensiva, ma non riesco ad essergliene grata.
-Posso chiamarle
qualcuno?- mi domanda, quindi.
Può?
-No.-
Dal fondo del
corridoio vedo arrivare Jetta, esausta e con gli occhi gonfi.
-Ray...- mi
chiama, ma non prova a toccarmi anche lei e ne sono sollevata. Forse
dovrei abbracciarla, forse dovrei essere più forte, ma non
ce la
faccio. Non posso tollerare di sentire il calore di un qualsiasi
corpo umano quando quello di Anthony è diventato freddo,
immobile,
spento.
-Io... puoi darmi
le chiavi della palestra?- le domando, quindi, e Jetta comprende e
s'infila una mano in tasca per recuperarle, lasciandole poi cadere
sul mio palmo aperto.
La ringrazio e me
ne vado, camminando spedita lungo le strade sempre caotiche di New
York, senza accorgermi del Sole che sta lentamente facendo capolino
per annunciare un nuovo giorno di cui, a me, non importa proprio un
accidente.
Passo tutto il
giorno in palestra, allenando gli allievi di Jetta con una freddezza
che li sorprende ma che, intimoriti dalla pesantezza dei colpi che
sferro, li scoraggia a farmi domande.
Non penso a
niente se non alla meccanica della scherma, agli schiocchi
dell'acciaio che coprono i suoni della notte che è appena
passata,
ed è solo quando arriva sera e tutti se ne vanno che, dopo
essermi
lavata via di dosso il sudore e la stanchezza, mi ritiro nell'ufficio
di Jetta, dove riaccendo finalmente il telefono. Il primo messaggio
che ascolto è quello che mi ha lasciato Jetta.
-“Ray, sono
Jetta... prenditi tutto il tempo che vuoi, io
non... non verrò
a lavorare per un po'.”-
Annuisco, come se
lei fosse qui, e lo cancello, passando al successivo.
-“Ray, sono
Will. Avevo lasciato il cellulare in roulotte, ero fuori con Angel!
Dovresti proprio conoscerla, sono sicuro che ti piacerebbe. Chiamami
quando vuoi!”-
L'odio che mi
travolge è più di quanto io ne abbia mai provato
in tutta la mia
vita.
È
più forte di
quello che ho provato nei confronti dei miei genitori, è
più forte
della solitudine che mi ha divorata, è più forte
di me: per un
istante provo la magnifica illusione che abbia riempito il baratro
che sento spalancato nel petto... ma, dopo qualche secondo, anche
quello viene risucchiato nel nulla, nel buio – nel niente,
lasciandomi soltanto ancora più esausta, ancora
più vuota.
Spengo il
telefono e lo butto sul tavolino di vetro, sdraiandomi sul divano con
gli occhi spalancati che fissano il soffitto.
_
-Quei giorni furono
molto confusi, per me.-
_
Sono passati
diversi giorni, ma non saprei dire quanti. Ho semplicemente lasciato
che tutto continuasse così com'è: al mattino
esco, vengo qui in
palestra, e alla sera torno a casa a dormire, troppo stanca anche
soltanto per pensare.
-Ray?-
La voce che mi
chiama non mi distrae dal duello che sto sostenendo. Lancio solo
un'occhiata alla porta, riconoscendo Jetta sulla soglia.
-Jetta. Solo un
attimo...- le chiedo, lanciandomi poi con violenza contro il mio
avversario e allievo, spaccando a metà la sua difesa e
colpendolo
allo stomaco con il pomolo della mia spada, facendogli perdere la
presa sulla sua.
-Ehi!- esala,
senza fiato, mentre l'arma cade a terra.
-Tu non hai
bisogno di lezioni, hai bisogno di un miracolo.- commento,
inespressiva, abbassando la mia lama e dirigendomi verso Jetta.
Questo però è un coglione egocentrico e continua
a sbraitare,
ignaro di quanto le sue parole non mi sfiorino nemmeno.
-Ciao, Jetta.
Come stai?- saluto, raggiungendo la mia insegnante. Lei mi sorride,
debolmente, lanciando uno sguardo che abbraccia l'intera palestra,
piena di studenti.
-Non era
necessario che tu continuassi a lavorare in questi giorni...- mi
dice, ma io scuoto la testa.
-Quel poveraccio,
là, ha bisogno di lezioni supplementari.- commento,
accennando con
la testa al povero demente che sta ancora blaterando improperi nei
miei confronti. -Avevi bisogno di me?- le domando, poi.
-Ci sono delle
persone che vogliono vederti.-
-Chi?-
-I genitori di
Anthony.-
Impallidisco di
botto e, per la prima volta, qualcosa di diverso dall'inerzia si
smuove dentro di me; scuoto immediatamente la testa, cercando di
scacciare quella sensazione che non
voglio, allontanandomi di un passo da Jetta.
-No, io...
davvero, non è il caso...- mormoro, debolmente, ma quando mi
volto
vedo due persone a pochi metri da me e riconosco all'istante, negli
occhi azzurri dell'uomo e nella bellezza incredibile della donna al
suo fianco, ciò che speravo di poter evitare.
No. Non vi voglio
vedere. Andate via.
-Salve...-
sussurro, con gli occhi sgranati, quando loro mi si avvicinano. Non
ce la faccio a guardarli in faccia per più di due secondi:
abbasso
lo sguardo sul pavimento, stringendo con più forza l'elsa
della
spada.
-Tu sei Ray?- mi
chiede la voce dolce della donna ed io annuisco bruscamente,
incassando involontariamente la testa nelle spalle. -Mio figlio mi
aveva parlato tanto di te...- aggiunge, ma io non posso affrontare il
suo lutto e nemmeno il mio, non posso lasciare che la tenerezza e la
compassione, che sento nelle sue parole, mi tocchino.
-Signora, io...
non so dirle quanto mi dispiace, non...- balbetto, sentendomi una
stupida: che cosa si può dire a due genitori che hanno
perduto il
loro unico figlio?
Forse è
questo
pensiero che mi spinge a sforzarmi, ad alzare lo sguardo per
rivolgere ai signori Flores la prima ed unica espressione sofferente
che mi permetto di lasciar andare da quando è successo.
-Vi porgo le mie
condoglianze...- mi sento patetica e forse lo sono, ma la bella
signora mi sorride con un amore incredibile – troppo,
probabilmente, perché io possa accettarlo.
-Gli volevi bene
anche tu, piccola.-
No. Non
chiamatemi così. Andatevene. Lasciatemi sola.
Sento che potrei
spezzarmi a metà, adesso, davanti a due persone che hanno
tanto
amato Anthony, e vorrei dire loro quanto meraviglioso fosse l'uomo
che avevano cresciuto, quanto anche io lo amassi dal profondo del
cuore, quanto la consapevolezza che lui non ci sia più mi
abbia
completamente annientata.
-Non è...
non
c'è paragone, io... l-lui parlava tanto di voi, voleva...-
Ma non posso. Non
posso permettermi questo. Non posso spezzarmi, Anthony mi ha chiesto
di sopravvivere.
Scuoto
violentemente la testa, lanciando un'occhiata fredda all'interno
della palestra.
-Mi spiace ma
devo tornare al lavoro, hanno bisogno di me.- mi scuso, trincerandomi
dietro una freddezza che, per fortuna, non sembra ferire o stupire
nessuno dei tre adulti che ho intorno.
-Solo un istante,
Ray.- mi implora questa donna di cui non so nemmeno il nome, e io
sento i piedi inchiodarsi qui dove sono: non riesco a muovermi, a
fuggire, quando lei mi porge un piccolo cartoncino bianco con una
mano curata e tremante. -Se tu avessi bisogno, per qualunque cosa...
questo è il mio numero.-
Afferro il
biglietto e me lo stringo al petto, senza riuscire a guardarlo.
-Io... grazie.-
biascico, e finalmente il mio corpo risponde alle mie suppliche e si
muove, ritraendosi da queste persone di cui non riesco a tollerare la
presenza. -Devo andare.- ripeto, e finalmente posso dare loro le
spalle e allontanarmi da qui.
Faccio però
in
tempo a sentire la voce dell'uomo, che parla per la prima volta e che
mi pugnala proprio lì, alle spalle, in mezzo alle scapole,
perché
ha la stessa identica cadenza di quella di suo figlio.
-Jetta... quella
ragazza ha qualcuno da cui andare?-
-Purtroppo no.-
_
-Non la chiamai.-
non mi sorprende, a dire il vero: Ray è schiva, ritrosa e
ombrosa
come il più puro dei cavalli arabi.
-Non chiamai
nessuno, a dire il vero... quando Jetta tornò a lavorare,
dopo il
funerale, ricominciai tutto come se non fosse successo niente. Diedi
gli ultimi esami e presi il diploma a pieni voti, continuai a
lavorare per pagarmi dove vivere... la mia vita si era ridotta a
quella routine che mi teneva la testa impegnata.-
Ray continua a
parlare ed io riesco quasi a vederla, in questo momento, quella
ragazza smagrita e pallida con gli occhi spenti che cammina lungo le
strade di New York.
-Will tentò di
chiamarmi tante volte, ma io buttai via il telefono. Ero arrabbiata
con lui e con il mondo intero, mi sentivo sola e...- la sua voce
muore in un borbottio confuso, imbarazzato.
Mi ricordo quel
periodo, mi ricordo la frustrazione di Will: e rammento di essere
andato a recuperarlo assieme ad Angel, una sera, perché per
sfogare
la rabbia e la preoccupazione aveva esagerato con i superalcolici e
si era buttato in una zuffa, guadagnandosi un occhio nero che aveva
fatto quasi saltare le coronarie allo staff dei truccatori.
È proprio
perché
ho visto William macerarsi nell'angoscia che non mi sorprende troppo
quello che Ray, passandosi una mano fra i riccioli, mi dice un
istante più tardi: dopotutto, questi due si sono sempre
assomigliati
anche nel modo di affrontare le preoccupazioni.
-Quando non riuscivo
a ignorare tutto uscivo e bevevo. Non troppo, non ho mai esagerato,
ma... era più facile non pensare.-
-William era
disperato.- mormoro, continuando inconsciamente ad accarezzarle i
capelli. -Ha gettato il telefono nel fiume, ad un certo punto.-
aggiungo, e lei mi risponde con uno sbuffo che è a
metà fra il
divertito e l'esasperato.
-Si è meritato quel
cazzotto. Quei telefoni costano un occhio della testa.- brontola, ed
io inarco un sopracciglio.
-Hai preso a pugni
William?- le domando, giusto per vedere se ho ben capito quel che ha
detto e, finalmente, Ray alza gli occhi e mi sorride, nonostante la
profonda stanchezza che scorgo nei suoi tratti.
-Non sembri
sorpreso!-
__
-Ray!-
Nel momento
stesso in cui sento quella
voce
risuonare nel corridoio della palestra, a pochi metri da me, un gelo
che non ha nulla a che fare con le temperature rigide ed umide
dell'inverno di New York mi riempie le braccia di pelle d'oca e la
carne di una familiare sensazione di repulsione.
Vorrei scappare
via, fuggire da questa situazione che sta per precipitare, ma sarebbe
impossibile: l'uscita è proprio dietro di me, da
dov'è venuta
quella voce... per questo, stancamente, mi volto, ignorando la morsa
che mi serra il petto quando, nella vivida luce delle lampade al
neon, riconosco il profilo di Will.
“Non
sembra più Ken” è
il primo, stupido pensiero che mi
attraversa il cervello. Ha sempre i tratti fini, per niente scolpiti,
ma le guance sono più scavate e la barba di un giorno gli
disegna un
paio di primavere in più su quella faccia che sembra sempre
troppo
giovane per l'età che ha.
Al suo fianco, e
la riconosco anche senza averla mai vista prima d'ora, c'è
Angel: è
piccolissima – ma io, oggettivamente, trovo la maggior parte
delle
persone basse
–, ha
i capelli e gli occhi marroni e un sorriso imbarazzato e gentile
sulle labbra.
Mi stanno
guardando, tutti e due, ed il disagio che provo aumenta ad una
velocità incredibile. Sapevo che questo momento sarebbe
arrivato,
sapevo che Will non sarebbe stato tanto intelligente da lasciarmi in
pace, ma vorrei comunque avere una via di fuga per evitare quel che
sta per succedere.
-Sei tornato.-
è
l'unico commento che riesco a fare, ma il significato che
c'è dietro
le mie parole amare è molto chiaro.
Vattene
via.
Will incassa le
spalle quasi inconsciamente, come faceva sempre per difendersi da un
assalto particolarmente feroce della mia spada. -Che gelo.- commenta,
aspro, fissandomi con qualcosa negli occhi di molto simile al
tormento che potrei ritrovare in me stessa, se non mi sentissi sempre
così stanca.
Lo ignoro,
spostando la mia attenzione sulla ragazza. È sicuramente
più grande
di me o, almeno, lo spero, perché non penso sarebbe una
buona idea
che un attore famoso frequentasse una minorenne –
però, forse,
guardandola meglio, non deve avere poi così
tanti anni in più di me. Forse è sulla ventina, o
giù di lì.
-Tu devi essere
Angel.- constato, con un tono incolore che ben s'addice a come mi
sento io ormai da mesi – chissà se Will lo sa che
è anche colpa
sua... e chissà se un giorno me ne importerà
qualcosa.
-Sì, ehm...
piacere?- tenta, e vorrei davvero essere una persona diversa: non
credo si meriti la risposta secca e tagliente che mi sale in bocca e
mi sfugge prima che possa trattenerla.
-Tutto tuo.-
La vedo, li
vedo avvicinarsi, vedo Will stringere la mano in cui tiene quella di
lei. Mi dispiacerebbe fare del male alla tua ragazza, Will, se ancora
riuscissi a provare qualcosa che non sia la spossatezza abissale in
cui vegeto ormai da mesi e che, giorno dopo giorno, mi ha tolto ogni
cosa.
-Se non avete
qualcosa da fare, qui, vi chiedo di andarvene. Sto lavorando.-
__
-Jetta
aveva
chiamato Will per spiegargli cosa era successo, ma questo non
sembrava averlo convinto a starmi fuori dai piedi.- borbotta, Ray,
alquanto contrariata – e, ci scommetto, tuttora offesa
– dal
ricordo di William, ritornato negli USA soltanto per lei: è
sempre
stata decisamente poco incline ad accettare l'aiuto e la compassione
altrui, persino da me.
-Ero felice di
vederlo, ma avevo passato così tanto tempo a chiudermi in me
stessa
da ritrovarmi incapace di fare altro che allontanarlo...- aggiunge,
distogliendo lo sguardo, ma io so bene che questa è soltanto
una
mezza verità: Ray era arrabbiata, con
Will, ed io lo so
perché ricordo benissimo la reazione indignata di Angel, che
mi
aveva chiamato per sfogarsi dopo quel primo incontro a dir poco
disastroso, e quella silenziosa di Will, che non aveva detto nulla
perché pensava di meritarselo.
-Però Will non ha
desistito.- osservo, e lei scuote la testa, accennando un sorriso un
po' sarcastico.
-E quando mai?-
__
Sono passati
quattro giorni e io credo che la mia pazienza sia arrivata al limite.
Will sembra
essersi stabilito in palestra: mi segue, cerca di parlarmi, ha
persino sostato davanti allo spogliatoio per impedirmi di darmela a
gambe ed evitare le sue domande e la sua stessa presenza –
peccato
(per lui) che arrampicarsi dalla finestra del camerino a quella del
corridoio sia anche troppo facile... insomma, è uno strazio.
Avevo sperato che
qui, in un baretto abbastanza lontano sia da dove vivo io sia dalla
palestra, non potesse trovarmi: e invece eccolo qua, grande e grosso
e stupido, che mi s'avvicina con un cipiglio severo che mi farebbe
anche ridere se non fossi così stufa
di lui e della sua testardaggine.
-Jetta mi ha
detto che ti avrei trovato qui.- esordisce.
Promemoria per
me: non dire più a Jetta dove trovarmi nel caso avesse
bisogno di
me.
-Non era un
segreto.- commento, atona, fissando con anche troppo interesse il
liquore trasparente che rotea voluttuosamente nel bicchiere che tengo
in mano.
Non sono ubriaca,
ho bevuto soltanto un paio di shot, ma già avverto il mio
campo
visivo farsi sempre più ridotto. -Non provare nemmeno a
farmi la
predica. Sei stato tu ad insegnarmi a bere, Moseley.- lo avverto,
prima di mandare giù in un sorso quel che rimane del terzo
drink,
assaporando il bruciore che mi scende in gola e che, per qualche
istante, riscalda questo corpo morto che ancora si ostina a
respirare.
Oh, che sollievo.
Will sembra persino più tollerabile, ora.
-Non mi hai mai
chiamato per cognome.-
Quasi.
-C'è una
prima
volta per tutto.- ribatto, rovesciando gli occhi al cielo.
-Ray, senti__-
No. Ray non
sente.
Afferro la mia
borsa ed alzo un braccio, richiamando l'attenzione del barista.
-Il conto, per
favore! Paga questo qui!- gli faccio cenno e lui, che ormai mi
conosce, annuisce; mi defilo in fretta, prima che Will possa
fermarmi, e l'aria fredda di gennaio mi accoglie in un abbraccio
umido e pesante che mi trasmette un sollievo effimero eppure
incredibile.
Mi avvio verso
casa mia, ascoltando il suono delle mie scarpe da ginnastica che
picchiettano sull'asfalto bagnato del marciapiede, godendomi questa
quiete momentanea nel caos ovattato di New York e il vago senso di
sbandamento concessomi dall'alcool – ma, come avevo previsto,
il
mio momento di pace dura poco.
-Ray!- mi chiama,
Will, ed io sospiro. Spero solo di riuscire a liberarmene in fretta.
-Ti pare il modo?- aggiunge, indignato, piazzandosi davanti a me per
cercare di fermarmi.
-Devo ripetermi?-
gli domando, esausta, ma la sua espressione perplessa è una
risposta
sufficiente. -Puoi andartene, Moseley. Sto tornando a casa.- affermo,
tentandolo di superarlo; lui però mi afferra un braccio,
guardandomi
con quegli enormi occhi azzurri che, in un'altra vita, mi
riempirebbero di senso di colpa.
Solo che quella
vita non c'è più. Quella Ray
non c'è più.
-Ubriaca!?-
esclama, incredulo, ma io do uno strattone, cercando di liberarmi
dalla sua presa.
-Sono lucida
quanto basta per liberarmi di te.- forse, se lo minaccio, se ne
andrà. Dopotutto sa che potrei davvero fargli del male,
non... lui
non...
Oh, ma chi voglio
prendere in giro? Will è più grosso di me e ha
imparato – e
proprio da me, maledizione – ad essere svelto e attento come
una
volpe.
-Ray, non puoi
continuare a vivere così.- ed ecco arrivare, prevedibile
come la
pioggia a settembre, la predica che sto cercando di evitare da
quattro giorni. Favoloso.
-Anthony non lo
avrebbe voluto, lo sai...-
Quest'ultima
frase è l'unica che riesco a recepire davvero.
L'ira che mi ha
sommersa quella notte, mentre ascoltavo il suono ripetuto degli
squilli del telefono e mi rendevo lentamente conto che non mi avrebbe
risposto, fa capolino dalla voragine, premendo agli angoli dei miei
occhi e offuscando momentaneamente l'autocontrollo che, fino ad ora,
mi ha tenuta insieme.
“Rispondi,
Will... ti prego...”
Con uno strappo
più forte riesco a sottrarmi alla sua stretta, facendo due
passi
indietro e distogliendo lo sguardo per non dargli la soddisfazione di
vedere che è riuscito a scuotere qualcosa.
“Will...
ho bisogno di te...”
-An__lui
mi ha chiesto di sopravvivere, ed è quello che sto facendo.-
il
ringhio soffocato che mi sale direttamente dalla gola non lo fa
arretrare, ma scorgo nei suoi occhi un lampo d'allarme e di
preoccupazione; io, però, mi sento soltanto ancora
più esausta.
Torno a voltarmi,
stringendo le dita sulla cinghia della borsa e ignorando il desiderio
di lanciargliela in faccia. -Perciò sono a posto
così, grazie per
l'interessamento e arrivederci.- sbotto, ricominciando a camminare e
facendo del mio meglio per ignorare lui e la voce, la mia
voce, che mi echeggiano nella testa con una prepotenza straziante.
-Non puoi
chiudermi fuori in questo modo!-
Ossia come hai fatto
tu?
-Voglio solo
aiutarti! Noi siamo amici, ricordi?-
No, non ricordo.
Ricordo solo che tu non c'eri quando avevo bisogno di te.
-Questa non sei
tu!-
Infatti. La Ray che
conoscevi tu è morta mesi fa.
Mi sembra che la
mia testa stia per spaccarsi in due.
-Vattene,
Moseley.- la mia voce assomiglia disgustosamente ad un'implorazione,
ma non ce la faccio più: voglio solo che lui e la mia mente tacciano
e mi lascino in pace...
-Non fino a che
non riavrò indietro la mia amica!-
Troppo tardi
capisco di aver raggiunto il punto di non ritorno.
Mi volto di
scatto e in due falcate sono proprio davanti a lui e non so come
succede ma tutto l'odio che ho provato nei suoi confronti esplode, mi
travolge e prima che io possa capire cos'è successo vedo la
mia
stessa mano chiudersi a pugno e stamparsi sulla faccia di Will con
tanta forza da spaccargli un labbro.
Vai via.
Will barcolla,
stupito, ma è soltanto quando vedo il sangue che comprendo
quel che
è appena successo.
Vai via.
Balzo indietro e
qualcosa dentro di me si frantuma quando Will mi guarda, incredulo,
ed io capisco di avergli fatto del male.
Mi volto e scappo
via, verso casa, stringendomi al petto la borsa e perdendo dietro di
me i pezzi di qualcosa che è irrimediabilmente andato in
frantumi
nello stesso momento in cui ho scorto il dolore, il mio dolore,
riflesso negli occhi azzurri di Will.
Nel mio baratro
vuoto qualcosa sta ribollendo, protestando, scalciando, ci sono
artigli spessi e taglienti che mi si piantano dentro per risalire in
superficie, avviluppandosi alla mia gola e soffocandomi.
Crollo in
ginocchio davanti alla porta di casa mia, fissando il vuoto senza
vederlo perché il vuoto è dentro di me, enorme,
gigantesco, ma ci
sono anche gli occhi sofferenti di Will e sono due cose che non
possono convivere, in cui io
non posso convivere, che sembrano sul punto di incenerirmi in uno
scoppio che potrebbe definitivamente squarciarmi da parte a parte.
È proprio
qui
che Will mi trova, qualche minuto più tardi. Buttata per
terra come
l'immondizia e gli scarti che restano di me.
-Ray...- mormora
il mio nome ma io non sento lui: io sento Anthony e la sua voce
rantolante, morente, soffocata.
“Sopravvivi.”
Ma come faccio a
sopravvivere senza di te?
-Non volevo...
non dovevo, io...- balbetto, alzando gli occhi su Will e vedendolo
impallidire quando mi guarda – che aspetto ho? Che cosa
è rimasto
di me?
Anthony...
Will
s'inginocchia accanto a me e sono troppo stanca per cacciarlo via,
non voglio cacciarlo via, lui è caldo e vivo e se mi sta
vicino mi
sembra di essere ancora viva anche io.
“Sopravvivi.”
Ho sbagliato
tutto, Anthony...
Will mi tocca una
spalla ed è forse la prima volta che qualcuno lo fa da
quando__
ancora una volta non mi dà fastidio, è Will,
è il mio amico e__
-Lui non c'è
più...-
Ma io sono ancora
qui.
È
nell'impeto
dell'orrenda consapevolezza di essere ancora viva, di sentire di
nuovo le mie carni stremate lanciarmi grida d'aiuto mentre la mia
mente collassa su se stessa, che mi accartoccio contro il petto di
Will e qualcosa mi percuote il petto, con violenza, nel momento in
cui la mia faccia si bagna di lacrime.
-Va tutto bene.-
Mi aggrappo al
battito del cuore di Will e mi sembra di non aver mai sentito nulla
del genere – perché il suo è
così sereno, così forte, mentre il
mio agonizza ad ogni palpito?
-Sono qui io,
adesso.-
Perché non
ci
sei stato, finora? Avevo così tanto bisogno di te...
-Andrà tutto
bene.-
__
Mi sveglia la
luce del Sole che filtra fra le persiane e la voce bassa di Will che
riverbera nel suo petto, sotto la mia guancia.
Ho gli occhi
gonfi e, quando li apro, ci metto un po' a capire dove sono,
perché
la testa mi pulsa e non mi ricordo molto di quel che è
successo ieri
sera. Pian piano riconosco il luogo e capisco di tovarmi nel mio
monolocale, nel mio letto – e credo di aver dormito
stringendo Will
come se fosse un peluche.
-Sì, sono
rimasto con Ray.- mormora Will, nel telefono, con la voce
più bassa
possibile. Ha un braccio stretto intorno alle mie spalle e continua a
stringermi, come ha fatto durante tutta la notte, mentre io piangevo
tutte le lacrime che ho accumulato durante gli ultimi mesi e che,
credo, abbiano riempito almeno un po' quel buco nero che mi porto
dentro da quando Anthony se n'è andato.
-Oh, sta
piangendo. Ha pianto tutta la notte.- aggiunge, Will, abbassando gli
occhi e arricciando le labbra in un mezzo sorriso quando vede che
sono sveglia. -Ti va una pasta?- mi chiede, e soltanto ora mi rendo
conto di avere una fame incredibile.
-Io... sì.-
biascico, rotolando giù dal letto per trascinarmi in bagno.
Evito di
guardarmi allo specchio, mentre mi lavo i denti e mi spazzolo i
capelli tutti aggrovigliati: non sono ancora pronta a rivedermi dopo
tutto questo tempo.
Venti minuti
più
tardi suona il campanello e sono io, mentre Will è in bagno,
ad
andare ad aprire. È il sorriso accecante di Angel,
più dell'enorme
pacco di pasticcini che regge in mano assieme ad uno zaino che credo
essere per Will, a farmi trasalire: come si fa ad essere
così pieni
di vita, di luce, di serenità? È inconcepibile!
-Prego...-
mormoro, abbassando lo sguardo e facendomi da parte per farla
entrare. È inconcepibile anche il modo in cui si sta
comportando con
me perché, e sono sicura che non se lo sia dimenticato
neppure lei,
io l'ho trattata malissimo.
-Non sapendo che
cosa ti piacesse ho preso un po' di tutto!- trilla, allegra, e la
coda alta in cui ha raccolto i capelli le dondola allegramente sulle
spalle. -Posso?- mi fa, accennando al tavolo, ma scarica tutto
prim'ancora che io possa risponderle.
Mi passo una mano
fra i capelli, sedendomi perché mi sento ancora
più a disagio
nell'essere tanto più alta di lei – d'accordo, io
sono decisamente
alta, ma lei è proprio in versione tascabile e a me non va
di
torreggiare su nessuno.
-Senti...-
comincio, sfregando i piedi sul pavimento e lanciandole
un'occhiata pentita. -Mi dispiace per... per come mi sono comportata.
Sono
stata un mostro.- mugugno ,abbassando lo sguardo.
-Nah,
non fa niente. Ricominciamo daccapo.- risponde, però, Angel,
tendendomi una mano e rivolgendomi un altro sorriso. -Piacere, io sono
Angel.-
-Ray.-
sorrido anche io, un po’ a fatica, stringendo quelle dita
piccole e paffute nelle mie, lunghe e piene di calli. -Il piacere
è tutto mio.-
aggiungo, e sono davvero felice di poterla conoscere, finalmente: Will
mi ha
parlato così tanto di lei, mesi fa.
-Molto
meglio.- Angel scioglie la stretta e si avvia verso il tavolo,
spalancando poi l’enorme scatola per pescare un cannolo
siciliano e addentarlo
con gusto. -Will ti ha già spiegato le sue intenzioni?- mi
chiede, ed io sgrano
gli occhi.
-Le
sue intenzioni?- biascico, perplessa. -Will, vuoi sposarti?- urlo,
alzando la voce per farmi sentire dal biondastro, non riuscendo a
pensare ad
altro che a questa bizzarra possibilità. -Sei incinta?-
domando ad Angel,
ancora più confusa.
-Oh, per l'amor
del cielo!- scoppia a ridere, scuotendo la testa, e proprio adesso
arriva Will che, perplesso, ci guarda entrambe, una dopo l'altra,
cercando di capire che cosa sta succedendo. -Will, non le hai ancora
detto nulla?- gli domanda quindi Angel, recuperando un po' di
contegno e guardandolo con un cipiglio bonario e divertito che gli fa
diventare le orecchie paonazze.
-Ha pianto tutto
il tempo!- si difende, gesticolando verso di me.
-Ehi!- protesto,
afferrando una scarpa da sotto il tavolo e tirandogliela addosso.
-Devo picchiarti di nuovo!?- sbotto poi, ma lui mi sorride con un
entusiasmo tale da riempirmi di tenerezza e so per certo che non
riuscirei mai a picchiarlo ancora. Per adesso.
-Ora ti
riconosco.- commenta solo, felice, prima di avventarsi sui dolci con
l'entusiasmo tipico dei bambini.
Io ed Angel ci
scambiamo un'occhiata esasperata: ci vuole pazienza, ragazza, ce ne
vuole parecchia.
-Allora? Che
intenzioni hai?- domando, salvando una brioche alla crema di
pistacchio prima che questa cavalletta bionda faccia fuori tutto.
Will alza gli
occhi dalla scatola e, con la faccia tutta sporca di zucchero a velo
e gli occhi azzurri e limpidi, mi rivolge un altro sorrisone
incredibile, di quelli che, se io fossi chiunque altro, mi farebbero
sorridere a mia volta – ma ci vorrà un po'
perché io torni a
sorridere, e lui lo sa.
-Ti porto via da
qui. Ti porto a Londra.-
__
-Lo ha deciso lui.-
Devo dire che,
nonostante sia un coglione, Will ha almeno fatto una cosa buona nella
sua vita.
-Oh, sì. Ha fatto
tutto da solo.- sorride, Ray, tornando a sedersi sul divano e
abbandonando la testa sullo schienale, esausta. -Ha parlato con Jetta
e lei mi ha dato una buona uscita abbastanza cospicua, ha pagato due
facchini per impacchettare e spedire la mia roba qui, ha convinto
me...- la sua voce sfuma e io accenno un sorriso,
sapendo
quanto dev'essere stato difficile, per Will, convincere Ray a
partire: nonostante tutto ciò che ha passato là,
tutto quello che
vi ha vissuto, Ray ha sempre amato la sua terra.
-Prima di partire
chiamai la mamma di Anthony.- ammette, ed un sorriso debole le appare
sulle labbra. -Ci sentiamo a tutti i Natali e a tutti gli
anniversari.- aggiunge, prima di rilasciare un profondo respiro e
massaggiarsi stancamente le tempie, lanciando un'occhiata dubbiosa al
biglietto su cui suo padre ha frettolosamente lasciato scritto un
numero di telefono.
-Che cosa vorresti
fare?- le domando, prendendo il foglio di carta e osservandolo per
qualche secondo prima di tornare a guardare lei; Ray me lo toglie di
mano, fissandolo con quella che a me sembra proprio rassegnazione
prima d'infilarselo in tasca.
-Lo chiamerò.-
decide, prima di rivolgermi uno dei più bei sorrisi che le
abbia mai
visto in volto – e c'è tutto, in questo sorriso:
la Ray che è
stata, quella che è diventata e quella che sarà
domani e che io non
potrò fare a meno di amare ancora di più.
Allunga una mano per
prendere la mia e mi avvicina a sé, tirandomi sul divano per
abbracciarmi e chiudere gli occhi, stanca ma serena, con la testa
appoggiata al mio petto e le mani che cercano le mie.
-Domani.-
___
___
___
___
My space
Lo
so, avrei dovuto aggiornare ieri ma ero talmente stanca che non ce l'ho
proprio fatta ^^' per farmi perdonare, però, ecco il
capitolo
più lungo dell'intera mini-long!
E sì, non è il capitolo più
allegro di questo
mondo, ma davvero questa storia meritava di essere scritta. Perdere
Anthony, per Ray, è stato un colpo talmente duro che l'ha
proprio deformata, che ha adattato la sua anima e il suo modo di vivere
a quella sofferenza quieta e silenziosa che si porta dentro da tanto
tempo. Non ha mai dovuto parlarne con Will, perché Will
sapeva
già tutto, ed ha semplicemente evitato
di parlarne con chiunque altro: Ray, dopotutto, non è un
animale
da palcoscenico, ma colei che sta dietro le quinte e controlla che
tutto vada bene. Ray è la vera
protagonista, ma non si mette mai in luce in prima persona e, proprio
per questo, nessuno ha mai saputo del suo passato sino a questo momento.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto: è molto
importante,
per me, riuscire a trasmettere le emozioni di questi personaggi al
meglio delle mie capacità. Credo che lo meritino, come lo
meritano tutti i personaggi che creo.
Per chi me l'ha chiesto: no, non parlerò di Simon e
delle
burrascose vicende londinesi di Ray, non in questa fic. Magari,
più avanti, spiegherò il tutto in una one-shot,
ma
è un progetto ancora molto fumoso. Quel che invece non
è
fumoso è il "seguito" di questa fanfiction! Ebbene
sì,
dopo il quarto capitolo (ma non so bene quando) pubblicherò
una
one-shot che, alla fine del prossimo capitolo, capirete tutti di cosa
tratterà. Ma non voglio spoilerare nessun finale!
La canzone che dà il titolo a questo capitolo
è Broken,
di Amy Lee ft. Seether.
Come sempre, sia che vi sia piaciuto o meno il capitolo, vi
invito a
lasciarmi un commento. Non lesinate sulle critiche, se ce ne sono da
fare, non mi offendo!
Al prossimo capitolo!
Un abbraccio,
B.
EDIT
29/04/2015: mi sono accorta soltanto ora che era rimasto indietro un
paragrafo, chiedo perdono! Ho risolto tutto, ora è a posto :)
|
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Capitolo 4 *** Let it go. ***
base capitoli HOLG
___
___
___
___
[Ray]
___
Nonostante tutto, l'aria che si
respira in Texas non ha eguali in
nessun altro luogo al mondo.
Mi sono disabituata alla dolcezza
del sapore di questo vento perenne,
che spira dagli altopiani del profondo Ovest e giunge fin qui,
sciogliendosi in
mille brezze che non smettono mai di accarezzare le immense pianure
baciate dal
Sole. Mi sono assuefatta al profumo di fuliggine e di pioggia che
permea Londra
in qualunque stagione dell'anno ma qualcosa, dentro di me, riconosce e
gioisce
in questa calura che, ad altri, potrebbe sembrare opprimente.
Io sono nata qui.
Io sono cresciuta qui e, nonostante
io non abbia avuto un'infanzia e
un'adolescenza particolarmente felici o serene, ricorderò
sempre con affetto
l'odore del manto dei cavalli, che sembra essere onnipresente persino
in città,
il calore tutt'altro che spiacevole di questi raggi che non mi hanno
mai bruciata
nonostante io sia pallidissima, il colore che sembra innaturale di
questo
magnifico cielo azzurro.
Questa non è
più casa mia, ma rimarrà sempre la mia terra.
Mi calco inconsciamente il mio
vecchio Stetson sui capelli arruffati –
ed è un gesto che credevo di aver dimenticato, che
credevo non facesse più
parte di me – mentre mi volto verso Ben.
Vederlo qui, anche lui con un
cappello a tesa larga in testa per
proteggersi dalla calura, che cammina tranquillamente accanto a me come
se non
stesse crepando in queste temperature atroci a cui non è
abituato, mi suscita
un insieme di emozioni che districo solo dopo un po' d'impegno: come
sarebbe
stata la mia vita se non me ne fossi andata? Lo avrei conosciuto
comunque?
-Sei sicuro di volerlo fare?- gli
domando, dando voce ad uno soltanto
dei se e dei ma che mi si
stanno affollando nella mente, alzando
gli occhi verso la villetta a schiera che, uguale a tutte le altre,
stiamo
lentamente raggiungendo.
Hanno cambiato casa.
Questa non è
l'abitazione stretta e buia da cui sono scappata io: è
una bella casetta su due piani, modesta ma dall'aspetto confortevole,
con tanti
fiori esposti nelle fioriere che sporgono dai davanzali e le finestre
tutte
aperte.
Ben aggrotta le sopracciglia ed
è davvero adorabile, quando lo fa – diventa
una cosa sola con quel cappello, ti scongiuro –,
mentre allunga una mano
per intrecciare le dita alle mie.
-Non sarà piacevole.-
borbotto, mandandomi mentalmente a quel paese
perché, lo so, la mia testa sta cercando tutti gli appigli
più strambi per
distrarsi da quello che sta per succedere; ma io devo rimanere
concentrata,
determinata, perché questa non è una cosa da poco
e in gioco ci sono il
benessere di mia sorella e la mia stessa libertà... la
libertà che, dopo tanti
anni passati a trascinarmi dietro il peso del passato, credo di essermi
ampiamente meritata.
-Sono con te. Ora, domani, fra un
anno o per sempre.- afferma, e la
determinazione nelle sue parole rimpingua anche la mia, tutt'altro che
entusiasta.
È vero.
Lui è accanto a me da
molto tempo e lo è stato anche durante queste
ultime giornate, passate negli uffici dall'odore pestilenziale degli
assistenti
sociali, in banca, da mia nonna – che credo abbia una cotta
per lui, a
giudicare da come l'ha guardato dopo essersi ripresa dalla sorpresa e
dalla
gioia di avermi trovata sulla sua soglia.
Sorrido, fra me e me, socchiudendo
gli occhi e riportando alla mente
la sensazione meravigliosa che ho provato fra le braccia di mia nonna,
la persona
che mi ha dato tutto, che mi ha insegnato tutto, che mi ha concesso la
possibilità di diventare la donna che sono.
Ben si avvicina a me e il ricordo
di quell'abbraccio si mescola a
quello in cui mi stringe lui, adesso, davanti alla casa in cui vivono i
miei
genitori, sotto il Sole cocente del Texas. Respiro, concentrandomi
sull'odore
della sua pelle, aggrappandomi alla sua camicia per qualche istante
mentre
anche il mantra che mi sono ripetuta per sedici anni torna a galla: sono
forte, sono invincibile, sono una donna.
Mi sciolgo dalla stretta di Ben,
gli sorrido e poi mi volto verso
quella porta che mi sembra molto più minacciosa di quanto,
solitamente,
dovrebbe essere una porta.
Prendo un lungo, lunghissimo
respiro, forse per prepararmi all'apnea
che potrebbe salvarmi dall'annegamento se l'odio di mia madre si
dovesse
riversare su di me, prima di fare questi ultimi passi – quanto
sembra lungo,
questo vialetto –, allungare una mano verso il
campanello – da quando ho
le mani tanto pesanti? – e premere, finalmente, il
fottuto bottone.
Posso ancora darmela a gambe, vero?
Dopo qualche secondo sento un
tramestio dall'altra parte della parete
e il suono di un catenaccio che viene aperto; poi la maniglia si
abbassa,
togliendomi ogni possibilità di fuga, inchiodandomi qui dove
sono quando gli
occhi scuri di una donna di mezz'età si riempiono di
sorpresa e sgomento nel
riconoscermi.
Sei cambiata anche tu, mamma.
Ora è meno scheletrica
di quanto la ricordassi: la depressione le
aveva tolto ogni appetito e, me lo ricordo, convincerla a mangiare
qualcosa di
più di un pacchetto di grissini era davvero un'impresa
impossibile... è persino
truccata, lei che non si truccava mai, e credo che sia stata dal
parrucchiere
di recente perché ha un taglio corto dall'aspetto nuovo
fiammante, che ben si
sposa con i suoi – i miei –
tratti affilati.
-Ciao, mamma.- esordisco e, per un
istante, mi sento fiera di me:
nella mia voce e nella mia faccia non c'è niente
– niente che faccia
trapelare l'angoscia e la paura che sto provando, niente della tensione
che ha
tirato ogni singolo muscolo del mio corpo, niente dell'attesa dello
schiaffo
che posso quasi già sentire sulla pelle.
Forse se ne accorge, lei,
perché scorgo un lampo di sofferenza
attraversarle il viso e, se fossi ancora la ragazzina che ha cacciato
di casa
anni fa, potrei anche provare compassione e rimorso nei suoi confronti.
-Ray...-
Sentire il mio nome pronunciato da
lei non fa così male come avevo
preventivato. È solo un nome, dopotutto, pronunciato da
un’estranea che non
credo di aver mai conosciuto davvero.
-Possiamo entrare?- domando,
sostenendo il suo sguardo incerto e
colpevole con una serenità e una pacatezza che non mi
appartengono, che devo
aver momentaneamente preso in prestito da Ben perché
è sempre stato lui quello
tranquillo, fra noi due, quello glaciale, quello pragmatico.
-Certo... prego.- entro in casa per
prima, seguita da Ben che, senza
una parola, supera mia madre e mi si affianca. Nonostante io non sia
mai stata
in questo posto riconosco i mobili, i colori caldi che mia madre ama
vedere
sulle pareti e che io invece ho sempre detestato, i quadri, i
soprammobili…
Mi accomodo in salotto e
l’odore della stoffa un po’ consunta di
questo divano, per un istante, mi fa vacillare: mi sono accoccolata
proprio lì,
in quell’angolo fra il bracciolo e lo schienale, almeno un
migliaio di volte…
Ben si siede accanto a me e l’ombra di quel ricordo svanisce,
evaporando come
un miraggio nel deserto.
Maddy Cooper si siede di fronte a
me, sulla poltrona, attorcigliandosi
le mani piccolissime in grembo e guardandomi dal basso verso
l’alto, a disagio.
-Ti trovo bene...- mormora, dopo
diversi secondi di spiacevole
silenzio.
-Anche tu mi sembri in forma.-
replico, sempre in questo tono di voce
calmo e serafico che, sulle mie labbra, sembra quasi alieno. -Ascolta,
sono qui
per Shirley.- esordisco, impedendo che altro silenzio si dilati in
questa
stanza già pregna di tensione: voglio che tutto questo
finisca al più presto. -So
che avete riottenuto l'affidamento.- aggiungo, ed una punta di
disprezzo
colora, per un momento, le mie parole.
È stato per Shirley che
mio padre è venuto a cercarmi: dopo anni di
cure psichiatriche e dietro ferrei controlli dei servizi sociali,
infatti, a
lui e a mia madre è stato concesso di riavere indietro mia
sorella, ma mio
padre – dando prova di un amore paterno che mi ha sorpresa,
considerando i
precedenti – ha voluto che io lo venissi a sapere prima che
gli accordi
definitivi venissero firmati, in modo che, se avessi voluto farlo,
avrei potuto
oppormi.
Mia madre coglie il sarcasmo che ha
spezzato la mia calma e sospira,
abbassando lo sguardo. Anni fa non lo
avrebbe fatto: avrebbe reagito.
-Sono cambiata, Ray. Mi sono
curata.- sussurra, fissandosi
insistentemente le ginocchia.
-Mi è stato detto.-
replico, ma mi costringo a prendere un profondo
respiro per non lasciar uscire nemmeno mezza delle miriadi di parole
che vorrei
urlare in faccia a questa donna. Devo
pensare a Shirley. -Sai quante volte ho chiesto il suo
affidamento?- le
domando, quindi, non più tranquilla ma con un odioso
tremolio nelle parole, nelle
dita che, istintivamente, cercano quelle di Ben.
-Undici volte.- annuisce lei,
tornando a guardarmi: ha gli occhi
marroni, mamma, al contrario di me. -Mi dispiace che te lo abbiano
sempre
negato.- aggiunge e, se non avessi imparato da tantissimo tempo a non
prendere
per vera nemmeno una sillaba delle sue frasi stucchevoli e piene di
sentimento,
questa affermazione avrebbe anche potuto sorprendermi.
-La mia unica consolazione era
sapere che stava con la nonna.-
commento, respirando di nuovo e poi ancora una volta, cercando di
riportare la
calma nella ragazzina spaventata in fondo al mio cuore che, nonostante
tutto,
vorrebbe davvero riabbracciare la sua mamma. -Non mi pento di avertela
tolta.-
mormoro, piano, inclinando la testa di lato per osservarla con
più attenzione.
-Hai fatto bene.- ammette, e vorrei
davvero poter credere al rimorso e
al senso di colpa che sento e vedo in lei. Lo vorrei con tutta me
stessa. -Non
ero una persona in grado di essere una buona madre.-
La morsa che mi serra il petto
è, ormai, qualcosa che conosco molto
bene.
-Direi che su questo siamo
d'accordo.- sibilo, fra i denti,
assottigliando le palpebre e stringendo la mano di Ben nella mia.
Mamma mi guarda, e vedo qualcosa
luccicarle fra le ciglia.
-Vorrei che tu potessi perdonarmi.-
-Non posso.- la risposta che mi
sale sulle labbra è talmente
istantanea che anche io impiego un secondo per registrare di averla
pronunciata. -Non lo farò.- aggiungo, drizzando la schiena
ed ergendomi in
tutta la mia altezza.
Se c’è
qualcosa di cui sono assolutamente certa è questa: non
riuscirò
mai a perdonare a questa donna l’avermi tolto la mia mamma
nel momento in cui
avevo più bisogno di lei.
-Ma posso sperare che tu sia, per
Shirley, una madre migliore di
quella che sei stata per me.- aggiungo, e sono queste mie parole ad
illuminarle
il viso e a strapparle un sorriso sollevato, pieno, che mi fa
più male di tutto
il resto.
Ho passato gli ultimi tre giorni ad
ascoltare gli assistenti sociali
che hanno seguito la mia famiglia, a leggere le relazioni stilate
durante
questi anni dagli psichiatri e dagli specialisti che hanno gestito la
riabilitazione dei miei genitori e il sostegno per Shirley.
Ho domandato fino allo sfinimento,
ho spremuto da quelle persone e da
quei documenti ogni goccia del mio passato e del loro, affogando nel
dolore e
nel senso di colpa fino a che non ho dovuto, per forza, infrangere il
pelo
dell’acqua, salata di lacrime, per respirare. Ho letto della
malattia di mia
madre, ho letto dei suoi rimpianti, ho visto il mio nome tante volte,
spesso
sbavato dalle lacrime cadute sul foglio su cui lei vergava tutti i suoi
rimorsi
nel tentativo di impedire che la lacerassero dentro.
Da quei documenti mancava solamente
la mia firma: se io avessi voluto
impedire che Shirley tornasse in questa casa avrei potuto farlo. Avrei
potuto,
finalmente, portarla via con me.
Non sono una sciocca né
una sprovveduta: i servizi sociali terranno
sotto stretto controllo la situazione fino a che Shirley non
avrà diciott’anni,
mia nonna continuerà ad essere estremamente presente nella
vita di questa
famiglia e, al minimo sgarro, mia sorella verrà riportata da
lei… ma ho deciso
che Shirley merita di avere dei genitori.
Almeno lei.
-È più di
quanto io meriti da te.- esala, mia madre, appoggiandosi una
mano sul petto come per aiutarsi a respirare. Ho insistito per essere
io a
portarle la notizia, per infliggere a me stessa l’ultimo
calvario, per spezzare
definitivamente ogni legame fra me e lei con questa decisione che, e
lei lo sa,
ho preso solamente per il bene di Shirley.
-Indubbiamente.- scuoto la testa,
chiudendo gli occhi per mezzo
secondo, esausta. -Non cercatemi mai più, né tu
né tuo marito. Non voglio avere
nulla a che fare con nessuno di voi due.-
Le mie parole, fredde come
ghiaccio, la colpiscono e vanno a segno con
una crudeltà e una precisione incredibili.
Forse sperava che io tornassi da
lei, dopotutto. Forse sperava davvero
che io la perdonassi, che io
desiderassi riallacciare un qualche tipo di rapporto con loro.
Sbagliava.
Annaspa, senza saper cosa dire, per
un paio d’attimi; poi, però, si
affloscia, abbassando la testa e annuendo, sconfitta. -Lo capisco.- no, non è vero. Ma va bene
così.
-Shirley è di sopra, se vuoi andare da lei.- aggiunge, ed io
sono in piedi
prim’ancora che lei abbia finito di parlare. Guardo Ben,
rivolgendogli una muta
domanda a cui lui risponde con un sorriso.
-Va'.- mi incoraggia e, prima che
io stessa possa accorgermene, sono
già davanti alla porta della stanza di mia sorella, che
riconosco perché, come
quando era bambina, è tappezzata di poster e di disegni
coloratissimi.
Le domande si affollano,
all’improvviso, nella mia testa, facendomi
esitare proprio quando la mia mano è, ormai, sul pomello:
chissà com’è
diventata, la mia Shirley. Chissà se mi assomiglia, se ha
ancora qualcosa in
comune con me, se mi odia per quello che ho fatto…
Stringo i denti, ricacciando
indietro le lacrime e abbassando di
scatto la maniglia, socchiudendo la porta.
-Shir?- chiamo, esitante, facendo
appena in tempo a scorgere un
piccolo, vivace mondo pieno di colori in questa stanza prima che una
marea
bionda mi travolga, affogandomi in un’onda di capelli sottili
e spettinati.
-RAY!- urla una voce nel mio
orecchio destro, mentre le mie costole
scricchiolano sotto la stretta spasmodica, terrorizzata, di queste
braccia che
sono più lunghe e più forti di quelle che
ricordavo, ma che conservano la
morbidezza della bambina che ho lasciato anni fa.
Mi aggrappo a questo corpo acerbo
con tutte le forze che ho, chiudendo
gli occhi nel lunghi capelli arruffati della mia sorellina – e c’è lo stesso profumo, lo
stesso che mi
cullava di notte, quando lei si nascondeva nel mio letto per dormire
con me.
-Ciao, sis...-
mormoro, allargando le dita sulla schiena di mia
sorella e stringendola al petto lentamente, assaporando ogni istante di
questo
abbraccio che mi è mancato più di qualsiasi altra
cosa al mondo: più di
Anthony, più di Will, più di tutto, è
Shirley che avevo bisogno di stringere
ancora ed è lo spazio vuoto nel mio petto che nessuno, a
parte lei, potrà mai
colmare.
Trema, la mia sorellina che oramai
è alta quasi quanto me, freme e
affonda il viso nel mio petto, come quando era bambina. Lacrime calde
mi
bagnano le spalle scoperte e le sue unghie mi si piantano nella
schiena, ma non
protesto. -Non ti vedo da così tanto...- mugola la stessa
voce che mi ha quasi
assordata, così simile a quella che rammentavo eppure
più adulta, diversa, ancora
infantile ma con un retrogusto di donna che mi sconvolge più
di tutto il resto.
-Oh, Ray...-
-Sssh.- sussurro, cercando di
inghiottire il grumo di lacrime e di
commozione che mi si è annodato in gola e accarezzandole la
testa, appoggiando
la guancia alla sua tempia. -Va tutto bene. Sono qui con te.-
Rimaniamo strette su questa soglia
molto a lungo, riappropriandoci
ognuna della propria sorella: gli anni non sono stati capaci di
smorzare il
legame che ci ha unite da sempre, fin da quell’assolato
giorno di agosto in cui
ho visto i suoi occhi blu schiudersi per la prima volta e ho promesso a
lei e a
me stessa che avrei protetto quella creaturina appena nata da ogni
bruttura, da
ogni sofferenza.
Solo dopo molti minuti Shirley si
separa, a malincuore, da me, ed io
posso finalmente guardare questo bel visetto che ricordavo
più paffuto, più
rotondo e più infantile.
-Sei qui per portarmi via?- mi
chiede, sfregandosi lo zigomo con il
dorso della mano. È diventata
stupenda,
la mia bambina. -La mamma è cambiata davvero, non
credo che ce ne sia
ancora bisogno e__-
-No.- la interrompo, sforzandomi di
sorridere. Ogni cellula del mio
corpo vorrebbe scappare, andare via da qui e portarla con me, ma non
voglio strapparle
la possibilità di essere amata dai suoi genitori. Non posso.
-Voglio sperare
che lei sia cambiata davvero, ma non posso esserne certa.- aggiungo, e
so che
posso essere completamente sincera con questa ragazzina che, nonostante
tutto,
ho scorto crescere e maturare fra le righe delle sue e-mail, nelle foto
che mi
mandava, nei suoi sorrisi e nella sua voce attutita attraverso un
telefono
cellulare.
Le accarezzo i capelli e la seguo,
sedendomi con lei sul suo letto. È una
camera ampia, accogliente e piena di luce e di colori: al contrario di
me, Shirley
ha sempre amato la vita, ha sempre cercato di portare la
vivacità e l’allegria
nella sua esistenza… ed è merito anche mio,
realizzo, sentendo il cuore mancare
un battito.
È anche grazie a me se
Shirley è cresciuta in modo più sereno,
protetta dalla malattia di sua madre e dai suoi scatti d’ira,
lontana il più possibile
da ciò che avrebbe potuto segnarla così
com’è successo a me.
Ho
mantenuto la mia
promessa, ma manca ancora qualcosa.
Shirley mi guarda, curiosa, mentre
prendo un lungo respiro e infilo
una mano nella borsa, estraendone un plico di fogli ben stretti in una
cartellina trasparente. -Sono qui per offrirti la libertà.-
affermo,
scaricandole tutto in grembo. Lei mi guarda, confusa, strappandomi un
altro
sorriso.
-Questi sono i dati di un conto
corrente a te intestato a cui potrai
accedere presentando in banca il tuo diploma, e solo se avrai ottenuto
un
punteggio encomiabile.- le spiego, e lei si morde un labbro,
arrossendo: è
brava, a scuola, ma tende a non impegnarsi molto. -Inoltre, potrai
usare questi
soldi esclusivamente per frequentare un college a tua scelta o, se non
vuoi
fare il college, un qualsiasi master di specializzazione o di
preparazione al
lavoro.- continuo, guardandola diventare sempre più
incredula mentre, con le
dita abili di una pittrice, scorre rapidamente i fogli e sgrana gli
occhi,
scorgendo la cifra a cui ammonta il suo fondo fiduciario. -Potrai
usarli per
andare dove più desideri: potrai venire a Londra e, in quel
caso, ti aiuterò a
trovare una casa e un eventuale lavoro, oppure restare qui, oppure
ancora
viaggiare e studiare e fare tutte le esperienze che desidererai fare.-
Ho lavorato per cinque anni,
accumulando questa piccola fortuna per
dare a mia sorella una chance di
essere felice. Ho accumulato ogni centesimo, ogni gratifica, ogni
straordinario, ho persino rischiato di dovermi prostituire pur di non
perdere
tutto, ma sono stati sforzi che, e me ne rendo conto quando lacrime
commosse cominciano
a scendere lungo le guance di mia sorella, rifarei.
-La scelta sarà solo ed
esclusivamente tua, ma solo ad una
condizione.- la avverto, ma lei ha già capito.
-Nessuno oltre la nonna ne
saprà nulla.- mormora, alzando lo sguardo:
i suoi occhi blu, innocenti e pieni di voglia di vivere, sono rimasti
gli
stessi di quella neonata spelacchiata di tanti anni fa. Annuisco.
-Ti servirà comunque la
controfirma della nonna per ogni movimento, a
proposito. Lei è il tuo garante.- le espongo, indicando la
firma della nonna
accanto alla mia.
-Come hai fatto a mettere da parte
questi soldi? Voglio dire… sono
troppi, io non posso__-
-Tu puoi e devi
accettarli, perché non ho faticato per anni per
lasciare che tu rifiuti tutto questo.- la redarguisco, inarcando un
sopracciglio: non le permetterò di rifiutare questo regalo.
Ha troppa
importanza, sia per lei che per me. -Ti sto dando una
possibilità, Shirley. Non
perderla.- la avverto, ma subito capisco che mia sorella non
rinuncerà a tutto
questo, lo leggo sul suo viso entusiasta: ha troppa fame di vita, di
felicità,
per rifiutare.
-Verrai a trovarmi più
spesso, ora?- mi chiede, speranzosa.
Scuoto la testa, lentamente. Non
tornerò mai più in questo posto, ne
sono perfettamente conscia. -Verrai tu. In quella busta ci sono anche
alcuni
biglietti prepagati di andata e ritorno per Londra.-
A queste parole Shirley si apre in
un sorriso accecante, incredibile,
che in un battito di ciglia mi riporta indietro di anni, a quando quel
sorriso
era l’unico motivo per andare avanti, per continuare a
lottare.
-E hai l'obbligo morale di
continuare a scrivermi tutte le volte che
ne sentirai il bisogno.- aggiungo, strizzandole l’occhio
appena prima che,
travolgente come sempre, Shirley mi si butti letteralmente addosso per
stritolarmi di nuovo, scoppiando in un pianto irrefrenabile contro la
mia
maglietta.
-Ti voglio bene, big sis.-
singhiozza, stringendo nei pugni i
lembi dei miei vestiti. Sorrido, stringendo forte questo pezzo di
bellezza che
renderà un po’ più luminoso il mondo di
ogni persona che incontrerà sulla sua
strada.
-Ti voglio tanto bene anche io,
Shirley.- mormoro, piano, sorridendo.
-Te ne vorrò sempre.-
___
§
___
Lake Cliff Park è sempre
stato uno dei posti più belli di questa
città. Tante volte, da bambina, mi sono trovata qui assieme
ai miei amici,
inscenando avventure e battaglie che possono esistere solamente nel
mondo pieno
di fantasia che è prerogativa dei bambini e degli scrittori.
Chiudo gli occhi, assaporando la
brezza calda che mi accarezza le
spalle e mi spinge un ricciolo in faccia, facendomi il solletico. Sento
senza
vederli gli occhi di Ben, in piedi accanto a me, percependo il tocco
della sua
attenzione sulla pelle, come una carezza.
-Credi che se la
caverà?- mi chiede, ed io annuisco, piano, allungando
una mano verso di lui ed incontrando le sue dita sulla mia strada.
-È mia sorella. Ce la
farà.- non aggiungo quello che, per Ben,
dev’essere
ormai ovvio: abbiamo una tempra forte,
noi Cooper.
Apro gli occhi, sorridendo quando
mi specchio negli occhi scuri e
caldi di questo meraviglioso uomo che ho imparato ad amare nel corso
degli anni,
avvicinandomi per lasciare un bacio lieve sulla sua bocca. Lui mi cinge
la vita
con una mano, allargando piano i polpastrelli sul mio fianco,
solleticandomi
lievemente e strappandomi un mugolio che vorrebbe davvero
essere di protesta.
-Hai fatto una cosa stupenda per
lei.- soffia, a bassa voce, sulle mie
labbra. -Sono fiero di te.-
Sorrido, socchiudendo gli occhi e
abbandonandomi in questo mezzo
abbraccio, negli abbacinanti raggi del Sole che gli colorano gli zigomi
di un
rosa più acceso e che profumano d’estate e di
qualcosa che, finalmente, posso
chiamare libertà.
Sono
libera.
Finalmente, dopo tanti anni
trascorsi a fuggire dal mio stesso
passato, in questi giorni ho scritto la parola fine
di un racconto perduto che non avevo mai avuto il coraggio di
scrivere, chiudendo definitivamente un capitolo di una vita che non mi
appartiene più.
Qui, con Ben, immersi in un bagno
di luce e di quiete, io sono finalmente
libera.
-Lo sono anche io.- bisbiglio,
abbandonando nel vento questa verità
che mi vede finalmente protagonista di una storia tutta nuova, che ho
iniziato
a narrare nel momento stesso in cui Ben è entrato nella mia
vita.
Ben ricambia il mio sorriso e mi
accarezza una guancia, indugiando con
il pollice sulla fossetta del mento – lo
fa
sempre quando riflette – e guardandomi per lunghi
istanti in cui non riesco
a comprendere quali siano i pensieri che si stanno affollando dietro
quei due
pozzi color cioccolato.
-Devo domandarti una cosa.-
esordisce, ad un certo punto,
riscuotendosi e scostandosi un poco da me. Inarco un sopracciglio,
divertita
dal suo repentino cambio d’espressione.
-Cosa?-
-Beh... avrei dovuto chiedertelo
tempo fa, ma non ho mai trovato il...
momento adatto?- mi osserva, passandosi le lunghe dita fra i capelli
prima di
prendermi entrambe le mani e stringersele al petto. -Ray, io voglio
tutto di
te. Il tuo passato, il tuo presente e, soprattutto, il tuo futuro. Ti
amo come
non amerò mai nessun'altra e adesso dimmi, per favore, che
vale lo stesso per
te, perché altrimenti non so davvero come potrò
continuare questo discorso
senza capo né coda.- pronuncia questo ragionamento tutto
d’un fiato,
continuando a guardarmi con quel misto di esitazione e di
determinazione che
proprio non riesco a comprendere.
-A volte sei davvero stupido.-
sospiro, scuotendo la testa. -Ti amo,
Ben. Ti ho amato da subito e ti amerò per ogni giorno della
mia vita. Non
dovresti nemmeno avere dei dubbi su questo, ormai.-
La semplicità con cui
queste parole, che non ho mai detto a nessuno e
che credo non ripeterò mai più nella vita a
qualcuno che non sia lui, escono
dalla mia bocca e dal mio cuore è disarmante tanto per me
quanto per lui.
-Era per esserne certo una volta
per tutte.- commenta, accennando un
mezzo sorriso un po' da psicopatico che mi inquieta più di
qualunque altra cosa
al mondo.
-Ben, che cosa diav__- comincio, ma
gli basta uno sguardo per
zittirmi.
Infila una mano in tasca,
estraendola chiusa a pugno per non farmi
vedere che cosa tiene stretto. Poi s'inginocchia sull’erba
tagliata di fresco,
alza gli occhi verso di me, mi mostra un anello che varrà
tipo mezza Londra e
pronuncia le parole più sconvolgenti che una donna
potrà mai sentir dire dal
proprio compagno:
-Ray, vuoi sposarmi?-
___
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___
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___
My space
Ho scritto questo capitolo a
tempo di record, oggi pomeriggio, pur di finirlo in orario.
Sono ancora capace di scrivere qualcosa di decente spero in
tempi brevi, miracolo! Perché vi avevo detto di aver finito
anche questo capitolo, ma il salvataggio dev'essere andato storto, ho
dovuto riscriverlo -.-
Il parco della scena finale è il Lake Cliff Park di
Dallas, che potete vedere in
questa bella immagine trovata sul web. Invece la sorella di
Ray, Shirley, la potete vedere nell'immagine di copertina: il suo volto
è quello di Lily
Osment, mentre quello della madre è di Jamie
Lee-Curtis e quello del padre è di John Schneider
somebody
saaaaaave meeeeeeeeeeeeeeeeeee. La frase "sono forte, sono
invincibile, sono una donna" ("I'm strong, I'm invincible, I'm woman")
viene dalla canzone di Helen Reddy, I am Woman.
La canzone del titolo, Let it Go, non
è quella di Frozen, ma di Tim McGraw
e non c'entra proprio niente con la mia Snow Queen preferita.
E finalmente ce l'ho fatta a finire qualcosa in orario! Per me
è una soddisfazione non da poco, devo ammetterlo. Sono
assolutamente incapace di portare a termine le cose che comincio nei
tempi prestabiliti, ed è stata una bella sfida riuscire a
fare tutto in modo decente, una volta tanto. Per chi segue anche
Leggi per me, non temete! Sono tornata al lavoro anche su
quella ed
era ora.
Ed eccoci arrivati alla mia "sorpresa" finale, ossia alla
proposta di matrimonio di Ben a Ray! Sapevate già del
matrimonio e della pargoletta, Sinéad, ma spero comunque che
questo finale zuccheroso vi sia piaciuto. Inoltre ho adorato il
discorso di Ben, e sono sempre più convinta che dovrei
scrivere una guida per gli uomini su come conquistare le donne. Tizi
come il "mio" Ben si stanno estinguendo, temo!
Una scena che mi ha commossa davvero è stata quella
fra Ray e Shirley. Il rapporto fra queste due sorelle è
stato bellissimo da descrivere, lo ammetto. Inoltre queste due sono
agli antipodi: Ray è un personaggio un po' ombroso, un po'
malinconico, mentre Shirley è letteralmente un'esplosione di
vitalità: è stato bello poter descrivere queste
due personalità tanto contrastanti eppure così
legate.
Spero che questa mini-long vi sia piaciuta almeno quanto
è piaciuto a me scriverla! Vi annuncio che
pubblicherò, fra non troppo tempo, una one-shot direttamente
successiva a questa storia... ebbene sì: matrimonio is coming.
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito, che hanno letto,
che hanno Preferito/Seguito/Ricordato o che, in silenzio o meno, hanno
dato un'occhiata a questa storia. Vi adoro tutti.
A presto!
B.
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