Ricorda Mi

di Phoebus
(/viewuser.php?uid=251570)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il settimo anniversario ***
Capitolo 2: *** L'incarico del Ministero ***
Capitolo 3: *** Profumo di carta ***
Capitolo 4: *** Il mio nome ***
Capitolo 5: *** Caroline ***
Capitolo 6: *** Vetro di distanza ***
Capitolo 7: *** Tornare ***
Capitolo 8: *** La teoria dei bottoni ***
Capitolo 9: *** Come idea stilnovista ***
Capitolo 10: *** Neville ***
Capitolo 11: *** Emicranie improvvise ***
Capitolo 12: *** D'incanto ***
Capitolo 13: *** Le luci sull' Ha'penny bridge ***
Capitolo 14: *** Mezzo bicchiere d'assenzio ***
Capitolo 15: *** Notizia dell'ultima ora ***
Capitolo 16: *** Echi ***
Capitolo 17: *** Senza istruzioni ***
Capitolo 18: *** Il ballo di inizio inverno ***
Capitolo 19: *** Brancolando nel buio ***
Capitolo 20: *** L'inevitabile ***
Capitolo 21: *** L'alba tra la brughiera ***
Capitolo 22: *** Fuliggine ***
Capitolo 23: *** Coacervo selvatico ***
Capitolo 24: *** Amore poteva ***
Capitolo 25: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 26: *** Vagabonda e nuda. Composta e immortale ***
Capitolo 27: *** Pensieri vorticanti ***
Capitolo 28: *** Il più bello degli incubi ***



Capitolo 1
*** Il settimo anniversario ***


Una nuvola leggera passava lenta e il rumore di sottofondo della città riempiva la stanza di calore Londra si assopiva, respirando piano. Il clacson del taxi che proveniva dalla finestra la dissuase dalla lettura in cui era intenta da tre ore ormai.
Qualcosa, o forse qualcuno, catturò d'improvviso la sua attenzione; guardò fuori e, dopo aver socchiuso gli occhi per meglio vedere, lo riconobbe. E sorrise.
“George! Ehi, bentornato!” – eccolo qui, in orario come sempre. George ra il piccolo gufo scuro che Hermione aveva acquistato durante il suo ultimo anno ad Hogwarts e dal quale non si separò mai più. Le piaceva moltissimo per quel suo piumaggio liscio e grigiastro. Lo curava con ogni premura, le teneva compagnia. E, inoltre, era un ottimo postino e recapitava puntuale tutte le lettere che la ragazza scriveva ai suoi amici sparsi per il mondo magico.
Da quando viveva stabilmente a Londra scriveva loro tutte le settimane con una malinconia leggera, ma vividamente presente, a tal punto che non sempre le riusciva di spedire ogni foglio.
Spalancò la finestra della camera, lasciando il libro di magia orientale giusto in tempo per far entrare George. Lo coccolò e lasciò che si posasse sul trespolo che aveva preparato proprio accanto alla vetrata.
“Le hai consegnate tutte. – un’idea semplice le sollevò l’umore – Come sempre. Bravo George, vado a prenderti la ricompensa.”
Questo poteva significare solo una cosa, rifletté la giovane mentre prendeva i cereali preferiti del pennuto: in qualunque posto, sia anche lontanissimo, i suoi amici erano sani e salvi. Vivi.
Almeno alcuni, per fortuna alcuni.

La serata andò via silenziosa e lei decise di sistemare l'enorme pila di libri poggiata sulla scrivania, prima che qualsiasi altro pensiero triste potesse scalfirla; poi si fermò un attimo, guardò l'orologio e vide che ormai era tardi ed in fondo era meglio andare a dormire.
“E’ già tardi. Buonanotte mio piccolo amico, non andare troppo lontano.” – disse al gufo lasciandolo volar via libero nella notte, come lui tanto amava. E lei abbandonò il suo cuore e la sua mente al meritato riposo.
 
 
 
 
 
Hermione era così: viveva di ricordi.
E lo trovava bellissimo.
 
Nei ricordi puoi essere felice, puoi scegliere solo il bello. Il resto evapora, svanisce senza doloroso preavviso.
La vita invece no, quella non la scegli, accade.
 
 
 
 
Si alzò di buon’ora. Come ormai avveniva da anni, il suo ordine non si fermava ai vestiti, ordinati nell'armadio per colore e stagione, o ai libri, in fila negli scaffali per autore. Per lei l'ordine era un modus vivendi, qualcosa di indispensabile come il respirare o l'essere curiosa.
Raccolse i capelli in una coda non troppo curata, con le solite ciocche ribelli sparse; la camicetta che scelse era bianca e luminosa, coperta appena da un cardigan grigio leggero che portava aperto. E i soliti jeans chiari che le evidenziavano, in una stretta presa, le gambe formate e sode.

 
Tornare è, in fondo, l’esito di ogni viaggio.
Erano passati sette anni, sette lunghi anni da quella crudele guerra. E non ce l’avevano fatta, non l’avevano vinta.
Voldemort era stato quasi sconfitto ma, nell’ultimo istante utile prima della definitiva distruzione, era riuscito ad infliggersi un incantesimo talmente potente, un dissoltum della magia oscura, che lo scisse in una miriade di parti, con un boato assordante.
Per quella tremenda esplosione persero la vita alcuni tra gli studenti più coraggiosi che Hogwarts avesse mai avuto: Sirius per primo, che era proprio lì di fronte all’acerrimo nemico e per cui a nulla valse lo scudo che Harry provò a lanciargli, il preside Silente, Fred, Cedrick, Ginny e molti altri.
Fu un massacro, una strage senza fine, un dolore senza più lacrime da piangere.
 
 
Hermione comprava ogni anno i soliti gigli, i suoi fiori preferiti, e li poggiava lì, in quello spazio sterrato che le riapriva dentro ferite dilanianti, ferite che impiegava un anno a ricucire e che puntualmente si laceravano in quel giorno.
E tutto straripava in silenzio, senza nessun'eco esterna apparente.
C’erano solo lei e quell’immenso dolore.
“Dimenticare non si deve.” – si disse, inginocchiandosi e sentendo la gola improvvisamente rauca, quasi stesse per esplodere in un pianto a lungo rimandato.
 
“Hai ragione, Hermione. Dimenticare non si deve. Non si può.”
La ragazza sussultò, si tirò in piedi ed estrasse lesta la sua bacchetta con cuore di drago.
“Chi va là? – il tempo di mettere a fuoco una lenta figura alle sue spalle e capì di non essere in pericolo. Abbassò l’arma e le si fece incontro – Minerva..”
La sua adorata insegnante di magia, e di vita, le si avvicinò con la stessa calma degli anni della scuola e, dopo averle accarezzato una guancia umida, l'attirò a sé e l’abbracciò.
La strinse così forte che Hermione si abbandonò finalmente al pianto, a quel pianto antico.
Come una madre capisce la sofferenza del figlio, perché lo ha sentito nascere e crescere, così lei la capì fino in fondo, nell’anima.
La giovane si distaccò, ancora lacrimante ma col cuore colmo di gratitudine verso la donna per quel gesto.
“Mi perdoni Preside, le chiedo scusa per questa…per questa mia debolezza…” – la voce di Hermione era rotta e sommessa, come musica di violino interrotta.
“Dovresti chiedermi perdono se non provassi niente tornando qui, ragazza mia. Dovremmo ricordare tutti quel giorno. – la donna si fermò un attimo guardando a terra, su quella maledetta terra – Tutti abbiamo perso qualcosa qui, fosse anche solo la speranza.”
Hermione la guardava con rispetto ed affetto, in riconoscente silenzio. Il vento le accarezzava le gote spente e la chioma fluente. Era anche lei una donna ormai, una bellissima donna di venticinque anni, nonostante per la McGranitt rimanesse sempre quella dolce e curiosa ragazza conoscitrice di ogni magia esistente e possibile.
 
In lontananza spiccavano alte le torri di Hogwarts e i suoi vessilli secolari; tra poche settimane la scuola di magia avrebbe riaperto i battenti per nuove reclute, incuranti di cosa quel posto avesse vissuto.

“Sai bene che se solo volessi potresti iniziare ad insegnare. Hai tutti i requisiti necessari, hai vinto il concorso con il miglior punteggio. La cattedra di Trasfigurazione è tua, nessuno potrebbe togliertela. O di Aritmanzia. Era la tua materia preferita, lo ricordo bene.” – la nuova preside si emozionò quasi ricordandola bambina e tutta intenta sui libri.
Gli occhi nocciola della giovane non brillarono come Minerva aveva sperato; anzi, si chiusero un attimo per fermare un fremito.
“E’ quello che ho sempre desiderato, sì. Ma, – alzò gli occhi al castello – ora so che non posso. Non posso tornare, non mi sento pronta. La prego, provi a capirmi.”
“Sapevo che mi avresti risposto di no Hermione, come tutte le altre volte che ti ho fatto la stessa proposta. Anche se stavolta speravo in un ripensamento. – era sincera e voleva solo aiutarla - Ma non ti lascerò rimanere chiusa in un dolore che ti sta annientando lentamente, anno dopo anno.”
“Sto bene, Signora Preside. Mi creda, non ho bisogno di nulla.”
La McGranitt, incurante di quelle parole, le prese le mani.
“Ho un incarico per te da parte del Ministero.”
Hermione sospirò, colpita da un peso che sapeva di non poter evitare, né sopportare. Ma era decisa e non avrebbe mai accettato. Dentro di lei, Hogwarts era morta tanto tempo fa.
“La ringrazio anche stavolta ma, qualsiasi sia l'incarico, non credo di essere la più indicata.”
“Purtroppo non puoi discuterlo, stavolta è un ordine.”

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** L'incarico del Ministero ***


Decisero di parlarne con calma e sedute davanti ad una fumante tazza di the, naturalmente nero, come lo preferiva la Preside, nel piccolo chiostro della stazione centrale che collegava il mondo magico alla realtà babbana.
Il primo treno del pomeriggio sfumacchiò iniziando la sua corsa e, guardandolo distrattamente, Hermione sapeva che doveva almeno ascoltare quello che il Ministero della Magia voleva da lei, poi sarebbe ripartita per Londra. Senza esitazioni.
Libera da costrizioni e remore.
I tavolini del bar erano pressoché vuoti; la scuola li avrebbe ripopolati a breve. Poterono così godersi la pace necessaria.
 
 
Minerva decise di rompere quel silenzio folto mentre osservava attenta la giovane che aveva davanti che, invece, pareva assorta e lontana. Lontana anni luce.
“Il Ministero ha avuto una notizia molto importante. Pare che alcuni maghi e streghe che hanno combattuto contro Tusaichi siano ancora in vita, dopo che per anni sono stati ritenuti ufficialmente morti. Capisci, Hermione? Ci sono dei sopravvissuti. – fece una pausa per permettere all’altra di comprendere, di metabolizzare quella rivelazione e di prepararsi alle conseguenze – Il Ministro vuole che questi maghi tornino e testimonino sulla guerra che abbiamo affrontato sette anni fa, per condannare così i Mangiamorte prigionieri e ancora reticenti.”
La Granger reagì, come Minerva aveva pronosticato, e staccò la tazza dalle labbra rosee, rimanendo con lo sguardo stralunato e incredulo. Non capiva.
“Con tutto il rispetto Signora Preside, ma io cosa c’entro con questo?”
“Tu devi aiutare gli agenti del Ministero. – la potente strega si fece più severa ed istituzionale, come il suo nuovo ruolo di preside le richiedeva – Proprio in questi giorni stiamo convocando le persone più vicine a questi maghi sopravvissuti e scomparsi, ritenuti fino a ieri morti.”
“Mi scusi ma continuo a non capire. E, in ogni caso, non ho nessuna intenzione di...”
“Tu dovrai riportare qui la signorina Ginevra Weasley.”
 
 
 
 
 
 
La gravita' si fermò. E, se possibile, invertì il suo corso.
 
 
La tazza scivolò dalle mani di Hermione e cadde, frantumandosi e versando tutto il liquido scuro sul pavimento di terracotta.
 
Il tempo sembrava non voler più scorrere. E i pensieri le si gelarono.
 
 
Per un attimo eterno tutto fu sospeso. Il suo respiro, il suo sangue e la sua vita rimasero intrappolate in quelle parole totalmente inaspettate e impossibili da capire.
 
 
 
 
Appena udito il fracasso del bicchiere, subito una cameriera corse al tavolo delle due donne, ma vi trovò solo la più anziana.
 
Hermione si era alzata per fermare quell’emozione improvvisa, lasciando lì la tazza e il suo cuore, entrambi a pezzi.
 
 
“Ci scusi tanto, pagherò ogni cosa tra un momento. Con permesso.” – la Preside seguì la giovane maga, scusandosi con la cameriera – Hermione! Hermione aspetta!”
Ma la ragazza non ne voleva sapere; il suo dolore implorava pietà.
 
 
 
 
“Mi lasci stare.” – camminava svelta.
“Non puoi rifiutarti, Hermione!”
 
 
 
“Se ne vada, la prego.”
 
 
 
 
 
“Ti è stato ordinato e lo farai!”
 
 
 
Hermione non ce la fece più: si voltò finalmente alla donna, con il volto colmo di lacrime e rabbia mai espressa. Il tuppo iniziava a cedere e la voce a tremare.
 
 
“Era la mia migliore amica, la mia speranza. Ed ora… - cercò di fermarsi, ma esplose - Ginevra non c’è più, è morta! Io l'ho vista...capisce, Preside? L'ho vista. Ed ora dovrei dar retta a queste idiozie?? Perché?”
“E’ così, ragazza mia. Devi credermi.”
“No! No. Voi volete aumentare ancora di più la sofferenza di chi è sopravvissuto a quel sangue, a tutti quei corpi stesi… - si coprì gli occhi come per non ricordare, come per fermare quelle immagini ma era impossibile – No. Non ve lo permetterò. Mi dispiace.”
 
 
Minerva lasciò che si sfogasse con tutte quelle parole chiuse dentro a chiave per anni e piene di rancore corrosivo; ne aveva bisogno, l’anziana donna lo sapeva.
 
 
“Secondo le indagini del Ministero Ginevra è l’unica della casa di Grifondoro ad essere sopravvissuta. Vive a Dublino.”
“No…” – Hermione continuava a non credere, a non poter credere.
“La famiglia Weasley non è stata ancora avvisata per non alimentare false speranze. Sono rimasti solo la madre e suo fratello Ronald, non è giusto illuderli prima di avere la certezza assoluta. Anche se raramente il Ministero commette degli errori. Così ho pensato a te, Hermione. So quanto tenevi a lei e quanto lei teneva a te. Solo tu puoi svolgere questo delicato incarico. Se davvero dovesse essere lei, immagina! Immaginalo un momento. Se solo…se solo fosse vero…potrebbe tornare qui ed essere messa in salvo da Tusaichi. E la sua famiglia ritroverebbe la pace.”
Una smorfia di totale incredulità apparve sul volto della diplomata ragazza.
“L’ho vista morire con i miei occhi, l’ho sentita morire…capisce? - una ciocca ambrata fu bagnata di sale - …Ginny…”
 
La preside le alzò il mento, spostandole quel boccolo e guardandola con infinito affetto. Voleva bene a quella ragazza. Gliene voleva davvero.
“Sì, Ginny. La ragazza testarda ed impulsiva che ogni giorno finiva per combinare un disastro nell’aula di pozioni. – la accarezzava maternamente, desiderando solo di infonderle coraggio - Il mondo babbano non può proteggerla per sempre, Hermione. Lo sai anche tu. Trovala. Trovala e portala in salvo.”

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Profumo di carta ***


La giovane maga non capiva.
 
Eppure doveva farlo: le era stato ordinato.
E gli ordini del Ministero non si discutevano.
 
Senza volerlo e senza il minimo entusiasmo si ritrovò catapultata in una missione in cui non credeva per niente e che, in realtà, le avrebbe risvegliato solo ricordi sopiti. Ma non poté tirarsi indietro: il Ministero l'avrebbe processata per alto tradimento e disobbedienza ad ordine governativo. Erano passate due settimane da quel the rovesciato, dalla Preside che la rincorreva, dalle parole disordinate di quella rivelazione; adesso tutto sembrava diverso. Tutto, specialmente il contorno. Hermione passeggiava con snervante lentezza per le viuzze perpendicolari del corso. Il centro di Dublino non era immenso, ma le sembrava a prima vista “troppo” per il suo modo di essere: troppo trafficato, troppo rumoroso, troppo vivace, troppo lontano da lei. Quasi anche troppo luminoso. Troppo, insomma.
 
Tutto questo troppo c’entrava poco con lei, “troppo poco”, forse nulla.
 
Lei amava il silenzio e la solitudine di una storia scritta su fogli di carta rilegati; lei era a suo agio con i suoi libri, la sua vita.
Ormai quelli del mondo babbano erano gli unici che le mancassero da conoscere e, in quella stagione invernale confinata nella città irlandese, si era proposta di farcela: avrebbe letto anche quelli, almeno i più importanti. Per quanto riguarda i libri magici, ormai non aveva lacune di alcun genere.
 
Ad appena venticinque anni avrebbe potuto sfidare a colpi di incantesimi e pozioni anche il più illustre professore di magia!
 
 
 
 
 
Girava per la cittadina a lei straniera come un pesce fuor d’acqua, guardandosi intorno con improvvisa meraviglia e ammirando le ampie vetrine di Grafton Street, la via principale dello shopping dublinese.
Magari avrebbe potuto comprare un abito elegante, raffinato, qualcosa di diverso dalla comodità a cui si era abituata da un po’, tralasciando la cura e il risalto della sua bellezza.
“Sì, dovrei proprio... - si disse fermandosi davanti ad una boutique ben fornita – Appena trovo una sistemazione, questo abito bellissimo sarà il mio primo acquisto irlandese.”
 
Il primo obiettivo di Hermione era trovare una casa, un punto fermo da cui partire.
E ripartire.
 
 
 
 
 
Svoltò l’angolo, rimanendo comunque in una via affluente della celebre via. Mentre cercava un appartamento che potesse accoglierla per il suo periodo di permanenza non definito nella capitale, qualcosa la colpì.
 
Succede a volte di camminare tra la gente e, d’improvviso, sentire un profumo e non sentirlo e basta. Ma sentirlo con l’anima, percepirlo fin dentro lo stomaco.
 
Affiorano così sensazioni soffuse, situazioni passate, essenze di vita credute lontanissime e quasi perse.
 
È un attimo, è un momento che passa in fretta e che, se non si presta attenzione, si rischia di perdere, forse per sempre.
 
 
 
“La biblioteca dei Classici. – lesse Hermione tra sé. Proprio quello che cercava per iniziare ad indagare la realtà babbana – Forse potrei anche concedermi una piccola pausa. In fondo, gli appartamenti non scappano.”
Sì, aveva ragione. Era stata sempre troppo severa con se stessa; un po’ di sano piacere le avrebbe solo giovato.
 
 
Aprì leggera la porta in legno scuro con vetrate di verde acerbo e riflettente.
Era il profumo della carta, quell’incenso che ogni lettore può evocare nei suo pensieri se solo ci prova, se solo chiude gli occhi e pensa ad un titolo che lo ha coinvolto a tal punto da farlo vivere in un'epoca diversa per qualche mese, o forse giorno.
 
Un’ampia anticamera la accolse, una sorta di grande androne circolare e, sulla seconda porta, lesse su un cartello ben tracciato, l'intimazione di far silenzio e spegnere il cellulare.
“Ecco un’altra cosa babbana di cui avrò bisogno!”
 
Poggiò la mano sulla seconda maniglia e socchiuse piano, con delicatezza.
Sapeva benissimo cosa volesse dire, per chi legge assorto, essere interrotto bruscamente da un rumore che lo riporti alla seria realtà, e quindi si assicurò di non provocarne nemmeno il minimo.
 
Una ciocca ribelle, la solita sul viso, le sfiorò le labbra; Hermione la risistemò dietro l’orecchio con grazia innata.
 
Infiniti scaffali la stupirono, erano immensi e alti da capogiro. Le rapirono gli occhi, costringendola ad alzare gli occhi.
“In fondo questi babbani non hanno niente da invidiare alla biblioteca di Hogwarts. Incredibile...”
Stringeva al fianco la sua borsa magica, che però non aveva potere fuori dal mondo fatato, e attraversò così i primi corridoi costeggiati da enormi scaffali e scale spostabili per giungere anche ai libri più in alto.
 
 
Guardava con interminabile curiosità ogni scomparto, ogni divisione assegnata a quelle pergamene così cucite, a quei libri su tutto lo scibile pensabile. Decise di prenderne uno, il primo che la colpisse di più e così fece.
Poi raggiunse un ampio e massiccio tavolo di abete scuro e prese posto tra uno studente intento a scrivere di formule ed un signore ben vestito con libri di legge.
Hermione non era solita guardarsi intorno quando prendeva trovava un buon punto per leggere e non lo fece nemmeno lì, nonostante si trovasse in mezzo a sconosciuti e la McGranitt le avesse raccomandato assoluta prudenza, soprattutto nei luoghi pubblici.
 
 
 
Perché Hermione non leggeva semplicemente i libri: si immergeva in altre vite.
 
Vi entrava dentro così tanto che quelle emozioni finivano per diventare anche le sue. Ed era letterale: viveva ogni avventura scritta come se la provasse sulla sua pelle e nei suoi pensieri liberi, senza frontiere. Riusciva a capire un personaggio, perché lo sentiva, lo respirava, ne percepiva i movimenti dell'animo.
 
 
Quel libro che aveva preso era strano e, allo stesso tempo, intrigante; parlava di una ragazza viziata e triste, che sposa a forza un signorotto troppo buono, troppo accondiscendente per il suo carattere. Inoltre la giovane signora ammaliava mille amanti, tralasciando l’amore che il marito nutriva per lei e rimanendo alla fine insofferente di ogni relazione.
 
Hermione voleva proprio sapere come andasse a finire, era una situazione così bizzarra ai suoi occhi, inconcepibile quasi.
 
 
Guardò di sfuggita l’orologio sottile che aveva al polso, giusto per controllare.
“Accidenti, è tardissimo!” – e balzò in piedi senza preavviso. La sedia struscio' rumorosamente sul pavimento, alla faccia del silenzio! Rischiava di fare tardi all’ennesimo appuntamento con un affitta stanze.
Afferrò in fretta la borsetta e le sue cose per incamminarsi così, quasi correndo stavolta, alla porta mentre i raggi del tramonto le delineavano l’esile ed affascinante figura.
 
 
 “Signorina Bovary? Ehi! – una voce risuonò improvvisa nell’ampia stanza e si faceva più insistente dato che la ragazza straniera non accennava a fermare la sua corsa – Signorina Emma! Ehi! Dico a te con la camicetta bianca! Ferma!”
 
Hermione si bloccò arrossendo di colpo, stava chiamando lei.
Cosa poteva mai volere quella voce irritata? La McGranitt forse aveva ragione: doveva fare maledettamente attenzione e non dare troppo nell'occhio con movimenti così improvvisi e babbanamente anormali.
 
 
 
Decise di voltarsi a quel suono e fu così che tutta la sua vita si fermò lì, per la seconda volta in poche settimane, lì, in quella biblioteca in un comune tramonto d’autunno.
 
“Sì?” – Hermione non poteva crederci. Non poteva...
 
 
 
 
Fu trafitta da un’immagine straziante, da un viso ben noto, vivo in ogni suo ricordo felice, in ogni giorno passato nella amata Hogwarts. Ogni volta che ripensava ad un ricordo bello della sua giovinezza, c'era anche quel viso. Quello sguardo. Quel blu. Il blu...
 
 
Perse quasi l’equilibrio, mentre finalmente quella voce agitata la raggiunse e si fece corpo fino a rivelarne la proprietaria.
 
 
 
Era una ragazza e, di fronte alla maga, sorrise beffarda: ne vedeva quotidianamente di turiste sbadate che dimenticavano libri o facevano rumoracci. E quella che si trovò di fronte con il libro in mano, per quanto bella, non faceva certo eccezione.
 
 
“Signorina Emma, chiedo scusa ma ho l’obbligo di dirle che qui teniamo molto all’ordine. E i libri, una volta letti, vanno riposti dove si trovavano. Senza slabbrature né scritte. Ma... – la giovane bibliotecaria guardava con preoccupazione la sua sconvolta interlocutrice – ...signorina, ehi, tutto bene? Credo che tu abbia bisogno di un medico! O sarà quella lettura così pesante che ti ha confuso! Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma. La prossima volta prova qualcosa di più rilassante magari, che so, un romanzo meno impegnativo. Se vuoi comunque un classico, andrà bene anche L'amante di lady Chatterley per iniziare...”
 
 
Mentre parlava, Hermione non la sentiva ma vide che i suoi capelli erano corti e castani, diversi, ma gli occhi erano di quell’oceano noto che la strega non avrebbe mai dimenticato. Mai.
E quei lineamenti, quell’accento, quel modo strafottente di parlare…nonostante lo stile alquanto mascolino nel vestire…no…non poteva sbagliarsi. Non poteva. Sentiva che non poteva essere un errore.
 
 
"Signorina Emma, ci siete...?"
“No…no, cioè sì! Sì, grazie. Io…chiedo scusa per il libro e… - Hermione non poteva crederci, continuava a dirsi che non era vero, non poteva esserlo. Ma non poteva essere nemmeno una finzione – ...e…scusa. Scusa per tutto…”
 
Filò via, lasciando dietro di sé la bizzarra bibliotecaria senza una risposta sensata.
 
 
Correndo via urtò anche un ragazzino che stava entrando; caddero dei libri, Hermione si scusò si scusò anche con lui, ma in quel momento non era importante.
 
 
 
 
In quel momento nulla era importante, se non quell’immagine.
 
 
 
 
 
Quell’immagine nitida di donna.
 
 
 
 
Quell’immagine di ieri e di sempre.
 
 
 
 
 
 
Non poteva essere.
 
Non poteva.
 
 
 
O forse era vero. E se fosse semplicemente vero...?
 
Forse Minerva aveva ragione. Forse avrebbe dovuto ascoltarla con più attenzione. Forse poteva essere. E perché, più semplicemente era così: Il Ministero della Magia difficilmente sbaglia.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il mio nome ***


Dopo tante peripezie, finalmente Hermione riuscì a prendere un appartamento in affitto su O’Connel Street, anche abbastanza ampio; era in pieno centro e governava con lo sguardo tutta la Dublino più trafficata. I soldi non erano certo un problema, alla ragazza non mancavano. E poi, c’era il Ministero per qualsiasi evenienza.
 
Gli autobus transitavano fino a molto tardi e il traffico la ipnotizzava, non abituata alla vita di città.
 
 
 
La biblioteca era a pochi isolati di distanza, poteva arrivarci benissimo a piedi.
 
 
 
 
Hermione si alzò dal tavolo solitario della sua arieggiante cucina, lasciando la cena a metà, non aveva fame. Non mangiava di gusto da parecchio tempo e quella non sarebbe stata la sera per ricominciare a farlo.
 
 
 
 
La finestra la attirava magnetica: da lì poteva vedere tutto il turbinio di automobili e volti, nonostante fosse al terzo piano della palazzina.
 
 
Chiuse gli occhi e poggiò la fronte bianca alla fredda superficie vitrea. E rivide quella ragazza.
 
 
 
 
 
 
 
Era strana, molto strana.
 
L’andatura agile e svelta, senza intoppi, come un’atleta. Era sicura, quasi superba.
 
 
Hermione poteva ancora vederla limpida con indosso una semplice camicia a quadri scura, ma ben aderente al corpo, e un jeans scuro. Era evidente che voleva apparire dura e lontana, diversa da una comune ragazza della sua età.
Diversa da tutto quello che era stata.
 
 
 
 
Ciò che però la colpì di più fu il viso. Furono quegli occhi incantati.
Gli stessi di sempre, quelli non erano cambiati. Erano come una mareggiata imponente e conquistatrice; tutto ciò che toccavano diventava loro ed Hermione non faceva eccezione.
 
 
In questo non poteva assolutamente sbagliarsi, nonostante quei capelli corti e castani.
L’oceano blu raccolto in quelle iridi era immutato ed immacolato come in ogni ricordo.
 
Certo, il corpo era molto più formato da come lo pensava: le spalle parevano scolpite e il petto, poco accennato, non disdiceva al complesso; le gambe sembravano toniche, allenate, anche se chiuse in abiti scuri e maltagliati ed Hermione si sorprese nel rifletterci.
Forse Ginevra voleva davvero passare per quello che non era, avrà avuto le sue ragioni, incomprensibili ma pur sempre esistenti. Doveva esserci una logica in tutto questo. E lei lo avrebbe scoperto.
 
 
Molto probabilmente la Weasley voleva nascondersi, ma non avrebbe mai potuto farlo agli occhi di Hermione.
La conosceva come le sue tasche, prevedeva ogni smorfia del suo viso, ogni battito indispettito di ciglia.
Erano state così amiche, talmente tanto unite da poter essere quasi un’unica cosa anche se con quattro mani e altrettante gambe ed occhi.
Si capivano e si cum-pativano, nel senso più bello e amorevole del termine. Ridevano l’una per l’altra, vivevano e accompagnavano l’una i passi che l’altra muoveva.
 
 
 
 
 
Poi quella guerra, quella dannata guerra.
E tutto il dolore che ne derivò, irruente e senza scampo.
 
 
 
 
 
Hermione chiuse più forte gli occhi, quasi le facessero male, e rivisse. E rivide tutto.
Rivide il corpo martoriato di Ginny tra le sue braccia. Era così sofferente, così sanguinante, piena di ferite talmente profonde che anche la speranza, dopo un umile inchino al valoroso coraggio, salutò mesta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Due figure rubavano la prospettiva, una in ginocchio e l’altra stesa sulla prima, strette in un dolce e triste abbraccio, finale, senza futuro, popolarono i suoi ricordi.
 
 
 
 
 
 
 
“Non puoi lasciarmi così Ginny! Non puoi! Non te lo perdonerei! – urlava e piangeva disperata tenendola - Non devi! Hai capito?”
 
“Scappa Herm… Scappa e trova gli altri…pensa…pensa a loro adesso. Vai…”
 
“Io non posso! Non puoi chiedermelo…” – la stringeva forte, forte e più forte ancora, tanto forte da essere straziante, finendo per macchiarsi di vermiglio la casacca di strega.
 
“Non ti lascerò… non…non ti lascerò mai… - ormai la sua voce era un sussurro debole, fioco – ...mai, mai Hermione… - un bisbiglio senza più forza, senza più anima - …Herm…Hermio…la mia…Hermione…”
 
 
 
 
 
Fu in quel momento, abbandonato dal tempo e da ogni dio, che il cuore di Hermione Granger si spaccò.
La mano di Ginevra, che fino ad un momento prima asciugava dalle lacrime la guancia dell’amica, cadde inerme.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Il mio nome. – si disse davanti alla finestra - L’ultima cosa che hai detto è stata il mio nome.”
 
 
 
Non aveva più dubbi. Quella ragazza era lei, era la sua Ginny, la sua amica devota e indispensabile per cui tante lacrime aveva versato e innumerevoli sere perduto.
 
L’avrebbe riconosciuta ovunque e in qualunque secolo, con qualunque veste addosso.
 
Aveva la stessa luce nello sguardo, la stessa pelle chiara, la stessa aria dannata. Era così che la ricordava, come uno spirito libero e lontano da qualsiasi divieto, da ogni confine.
 
Non riusciva ancora a spiegarselo, è vero, l'aveva vista morta ma ora non aveva importanza: in un modo o nell’altro, con qualche assurdo incantesimo, ce l’aveva fatta. Era tornata. Ginevra era viva.
 
 
 
 
“Ora devo capire.”
In un attimo prese la giacca di pelle corta e marrone, la sua preferita, e scivolò fuori dalla stanza. Chiuse a chiave la porta di casa e si immise nella città babbana piena di verde acceso ad ogni angolo.
Verde e rosso in ogni direzione.
Iniziava a piacerle. Quell’angolo indisturbato di mondo iniziava a farla sorridere. Dublino, di colpo, le apparì tutt’altro che grigia e triste.
 
 
 
 
 
 
 
 
Camminava svelta, cercando di non urtare nessuno, per quanto possibile alla perspicace maga abituata alle grandi sale di palazzo.
 
Driin driiiiin!!!!
Un suono metallico la fece trasalire! Doveva abituarsi a tutta quella confusione babbana. Eppure non veniva da lontano, era…
 
“La mia borsa?” – la aprì, accostandosi all’ingresso di un fast food davanti al quale stava passando.
Il cielo serale era limpido e, stranamente per il clima nordico, non si preannunciava pioggia fino al giorno dopo.
Alla fine ce la fece, frugando bene trovò uno strano aggeggio canterino e vibrante. Chissà come era arrivato fin lì, la magia è proprio incomprensibile per certi aspetti.
Capì cosa potesse mai essere solo perché in un centro commerciale di Grafton era ben pubblicizzato su locandine altisonanti. Altrimenti, non si era mai interessata troppo di tecnologia babbana.
 
Sullo schermo del cellulare, non proprio di ultima generazione, apparve una scritta molto utile per la ragazza.
 
 
PREMERE IL TASTO VERDE E AVVICINARE ALL’ORECCHIO.
 
 
Hermione ringraziò tra sé assecondando le istruzioni.
 
“Signorina Granger, finalmente! Qui è il Responsabile del progetto Recupera-maghi che le sta parlando, su volere del Ministero. Mi ascolti bene: conosce il pub Dragon?”
 
La giovane fu spiazzata e rimase perplessa. Era la sua prima volta a Dublino, sola, con un marchingegno strano in mano e le chiedevano di un pub?!
 
“Ehm…no signore! Vede, non sono molto pratica del posto a dire il vero…” – una risata la colse.
 
“Eppure lei è una giovane nata babbana londinese, dovrebbe sapersela cavare. Va bene, bando alle ciance della veste di Merlino, stia molto attenta ora. Ecco le indicazioni, le imprima nella sua mente!”
 
La ragazza alzò gli occhi, alquanto infastidita da quell’appellativo ma almeno il funzionario era dotato di innata simpatia e ascoltò le direzioni da prendere e il numero dei semafori che la separavano dal locale in cui avrebbe dovuto addentrarsi.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Caroline ***


“Ehi mon tresor, sembri spaesata! Posso offrirti qualcosa da bere? Potrebbe farti bene fermarti un attimo. Tranquilla! Tranquilla, non ci sto provando, non sei totalmente il mio tipo” – una sorta di drag queen alta quasi due metri le si avvicinò, provocante e imperiosa.
Aveva un abito lungo e rosso che le definiva perfettamente la carnagione olivastra, tipica dei nativi del sud America.
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione la guardò attenta, ma docile; era arrivata da qualche minuto in quel locale e già si sentiva persa, quasi fosse in un universo parallelo. E quella ragazzona era l'unica che sembrava avere una faccia amica.
Un bar gay, così c’era scritto all’ingresso. E non uno qualsiasi, le disse la tipa: il più celebre e frequentato di tutta Dublino.
 
 
 
 
Intorno a lei vagavano anime colorate e piene di luce, ragazzi sorridenti e ragazze di bellezza impressionante che ballavano tenendosi stretti, così stretti come se fuori, nel mondo fuori, non potessero farlo, non potessero esserlo.
 
E, in fondo, era così.
 
 
Hermione non si intendeva di queste cose, ma ne aveva sentito parlare. Sapeva, anche se vagamente, come andavano queste faccende nel mondo babbano e, del resto, non era poi molto diverso in quello magico.
 
 
C’è sempre un confine sottile tra il giusto e lo sbagliato, è risaputo, tra il lecito e il reato. Tra la tranquillità di una falsa e la paura di un'altra felice.
Capire dove questa linea si trovi, questo è il difficile.
O forse possibile a dirsi, impossibile a farsi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La ragazzona guardava la giovane spaesata con tenerezza: si vedeva lontano un miglio che non era lì per rimorchiare qualcuno. E poi era così…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Sei così dolce ragazzina! A prima vista non sembri nemmeno gay. Sicura di aver azzeccato il posto dove passare la serata?” – la drag sorrise e ordinò due cocktail. Uno lo girò con gentilezza ad Hermione.
 
 
“Grazie, non doveva scomodarsi.” – la nuova arrivata sorrise di rimando, alzando gli occhi dal bicchiere alla gentile offerente.
 
La maga indossava una gonna corta che finiva brillantemente sulla metà della coscia, per l’estasi del pubblico femminile del locale.
Le più intrepide l’avevano già puntata e nemmeno troppo silenziosamente.
Sopra, una leggera canottiera nera con cuciture in pizzo le sosteneva il seno, incorniciandolo con una leggera scollatura. Leggera quanto basta per occhi indiscreti.
 
Era radiante, epica come non sapeva nemmeno di essere. Brillava di luce propria e di una bellezza di diamante, talmente pura da annebbiare i sensi dell'incauto osservatore.
 
 
 
 
 
 
“Nessun disturbo cara, bevi pure alla mia salute! Il mio nome è Caroline e sinceramente mi stavo annoiando. Qui si vedono sempre le stesse facce! Così, quando ti ho vista, ho pensato che avrei potuto passare una serata diversa e farmi una nuova amica. – sorseggiò lenta – Non fraintendermi! Non ho cattive intenzioni! Forse ho sbagliato approccio, ma non hai nulla da temere. A me piacciono i bei fusti! E tu? Perché una bella pulzella come te è in questo postaccio?”
 
 
Parlava divertita e divertendo, mettendo a suo agio la giovane maga ancora spaesata.
 
 
“Il mio nome è Hermione e… - era alquanto impacciata - …e sono qui per…ecco…”
“Bellissimo nome! Mai sentito, ma bellissimo davvero. Bevi altrimenti quella laggiù verrà qui a sbranarti. Cerca di sembrare sempre occupata! Fosse anche solo bevendo. Lo dico per il tuo bene!”
 
In effetti una donna molto mascolina, e molto matura, la stava divorando con gli occhi da quando era entrata. Caroline le spiegò che però, finché parlava con lei, non aveva “agguati” da temere; era al sicuro.
 
Per Hermione era tutto strano: non aveva mai ricevuto attenzioni così spinte, così evidenti; non aveva mai frequentato discoteche o luoghi simili. Era tutto così nuovo, così fuori dalla sua gabbia dorata, piena di libri e magia.
 
 
 
 
 
 
 
Caroline la invitò a sedersi in un piccolo tavolino all'angolo bar, proprio avanti alla pista da ballo in modo da poter ammirare e, perché no, sperare di essere invitate. Hermione acconsentì, ringraziando il cielo perché i tacchi le stavano già torturando i piedi.
 
 
 
 
Una accoppiata strana, così bizzarra, si era vista poche volte in quel locale.
E non erano certo il diavolo e l’acqua santa, ma piuttosto l’inferno personificato e biforcuto, il fuoco che può arderti fino a consumarti dentro.
 
Hermione si accarezzò la ciocca che veniva fuori dallo chignon alto: la sua sensualità era come cenere inconsapevolmente accesa, non la intuiva ma emanava gettiti dilanianti e difficilmente si resiste all'innato splendore.
Non poteva passare inosservata e Caroline glielo fece notare più volte.
 
 
Iniziarono a parlare e a raccontarsi, in fondo entrambe non avevano nessun altro, ma allo stesso modo avevano bisogno e voglia di una persona di cui fidarsi a pelle. Fosse anche solo per una sera.
Ed era piacevole, Hermione rise come non faceva da tempo e quella sconosciuta diventò così, nel corso di un paio d’ore, un'amica o qualcosa di molto simile.
 
 
 
Finché una voce interruppe la loro piacevole chiacchierata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Che ne dici di sederci qui tesoro? C’è un tavolino libero giusto per quattro.” – una bionda con tono stridulo urtò l’udito di Hermione, che istintivamente si voltò a guardarla.
Aveva i capelli talmente biondi da parer bianchi, ma un fisico invidiabile e occhi verdi brillanti.
 
Si stava dirigendo con la sua comitiva proprio nell'unico tavolo vicino.
 
“Certo, come vuoi. E come preferiscono le altre.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era quella voce.
Ancora.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era lei. Era ancora lei, quella ragazza. La ragazza della biblioteca.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginny entrò nel locale e si stava avvicinando, nella sua camicia bianca e con i morbidi capelli castani, che le sfioravano le orecchie, corti, incredibilmente corti.
In quel momento Hermione pensò che l’impiegato del Ministero aveva colto in pieno e socchiudendo gli occhi lo ringraziò per l'esattezza dell'indicazione.
 
 
 
 
 
La nuova entrata non era sola, ma con altre tre ragazze, una delle quali le stringeva prepotentemente la mano. Era quella bionda con voce stridula. Acida, naturalmente.
 
Ginny si sedette con l’aria sbruffona che la contraddistingueva fin dal suo primo ingresso ad Hogwarts. Nei modi non era poi cambiata granché.
 
 
 
La biondina, che Hermione scoprì presto si chiamava Luna, le si mise in braccio con fare estremamente malizioso e provocante.
 
 
Le diede fastidio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le bruciava quella confidenza che Ginny aveva con quella ragazza. D'istinto. A pelle.
 
 
 
 
 
 
Ma poi perché? Non lo capiva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Stava per rompere, con il primo incantesimo che le fosse venuto in mente, quel bicchiere da cui stava sorseggiando da un’ora ormai, mentre chiacchierava con la sua colorata interlocutrice sudamericana.
 
Al contrario di quella Luna, Caroline era molto piacevole. Parlare con lei la apriva a nuove visioni e nuovi pensieri.
E naturalmente quella donnona di mondo capì subito il repentino cambiamento sul volto di Hermione.
 
 
 
 
 
 
“Lascia stare quella pollastra, non è brodo per te Hermione.”
 
“Come? – la maga la guardò stupita – Di che parli? “
 
Caroline sorrise con un leggero ghigno, tutt'altro che cattivo.
 
“Quella ragazza che stai guardando da quando è entrata nel locale. Te lo ripeto: non fa per te. Ti farebbe a pezzi il cuore. È…come posso dire…mm…una…sì, sciupa femmine, ecco! Mettiamola così.”
 
 
 
 
 
 
Proprio in quel momento Luna prese Ginny, con forza la attirò a sé mormorandole incomprensibili sussurri e la baciò.
La baciò forte.
Sulle labbra.
E non sembrava volersi fermare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fu una freccia, un segnale scoccato.
 
 
La giovane maga quasi trasalì dalla sedia, non poteva crederci. Ecco perché era stata spedita in quel posto, in quel locale alternativo.
 
 
 
 
 
“Devo conoscerla.”
 
 
 
 
 
 
 
 
“Come dici, dolcezza? – Caroline si carezzò la capigliatura scura e fluente, come un fiume petrolifero in piena. Aveva le labbra carnose che dischiuse incredula a quella richiesta – Te lo ripeto: non è ciccia per te.”
 
 
“Non ci sto provando Caroline! – Hermione si spazientì quasi – Ma devo conoscerla.”
 
“Mm. Non ci stai provando. Certo, come no. Ed io non mi sto alzando per andare da quel bel moretto lì in fondo. E va bene, se proprio insisti, ti aiuterò. Ma poi non dirmi che non ti avevo avvisata! Lo faccio solo perché mi hai fatto simpatia fin da subito. - Caroline poggiò il bicchiere e le si fece più vicina, sussurrandole quasi - Ascoltami bene: tra un minuto esatto Alex si alzerà per andare a prendere da bere al bancone. Solito drink, solito sorriso alla cameriera e solita frase. Andrà sola. Quello è il momento che aspetti, Hermione. Io ora ti saluto, ci vediamo tra un’ora circa mia cara.”
 
 
 
 
Hermione rimase frastornata.
“E chi è Alex?”
 
“La tua preda. O la tua carnefice, dipende dal punto di vista. – Caroline si stava già incamminando, ma tornò un attimo dalla giovane – Ah Hermione, dimenticavo. Tieni! – le scrisse un numero su un fazzoletto lindo che aveva in tasca. – Fammi sapere come è andata se non ci vediamo all’uscita. E' stato un piacere conoscerti, mon tresor!”
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Vetro di distanza ***


La distanza è come un vetro.
La distanza è vetro.
Ci fa vedere, ma non ci fa afferrare.
 
La distanza è come un vetro.
La distanza è vetro che riflette immagini di esistenze passate, di emozioni sbiadite ma che ancora riusciamo a sentire, se ci chiudiamo gli occhi, se ci sforziamo di raggiungerle.
Eppure non le agguantiamo, è impossibile: per farlo bisognerebbe rompere quel vetro malinconico ed accettare il rischio che le schegge che ne fuoriescono ci feriscano. Forse, anche fino in fondo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione si avvicinò preoccupata e lenta al bancone, come Caroline le aveva suggerito.
 
 
 
Aveva paura: paura di sbagliare, paura di non trovare le parole giuste, paura di lei.
 
 
 
 
 
 
 
 
Avrebbe voluto fuggire via, cosa stava facendo in fondo lì? Era giusto così?
 
 
 
 
 
 
 
 
Davvero ce l’avrebbe fatta?
 
Davvero era Ginny quella strana ragazza lì davanti?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La giovane donna che serviva dietro il bancone poteva avere al massimo trent’anni e mescolava un cocktail analcolico e due vodka alla pesca che qualcuno dall’altro lato le aveva ordinato.
 
La maga si sorprese nel vedere la velocità con cui il liquido fluiva e suonava in quei grandi bicchieri metallici, finché non giunse nei calici finali a collo lungo.
Il mondo babbano la affascinava: sapeva di non conoscerlo, se non vagamente e troppo poco.
Non ci aveva mai prestato attenzione. Ma ora avrebbe rimediato, si disse.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Grazie Meg, sei sempre la migliore!”
 
 
La voce della ragazza in camicia bianca sfiorò i ricordi e le fibre più intime di Hermione.
Ora non aveva più dubbi.
Quando la sentiva parlare, quando la vedeva muoversi non potevano esserci dubbi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era lei.
 
 
Ed era lì.
Ora.
 
 
 
Erano gomito a gomito, davanti allo stesso bancone, fissando la stessa cameriera.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
E ad Hermione stava per scoppiare il cuore.
 
 
 
“Non c’è di che, Alex. Per te questo e altro, lo sai. – e le scoccò un sorriso di quelli più che loquaci – Per te invece cosa posso fare? Dimmi pure.”
 
Si rivolse così alla maga che, a bocca aperta, cercò di farfugliare qualcosa e riordinare i pensieri.
 
“Eh…beh…ecco, lasciami guardare e ti dirò subito..” – sorrise di rimando.
“Fa’ pure con calma, tranquilla. Io torno tra un momento.” – la cameriera la lasciò per andare nel retro dove una collega la chiamava a gran voce. Il locale era strapieno quella sera.
 
 
Così rimasero lì, loro due. Due apparenti sconosciute al bancone di un bar.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Come anime distanti, ma intrinsecamente simili.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
E decise di farlo.
 
Sì. Decise di rompere quel vetro di muta distanza.
 
 
Una volta per tutte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non pensavo di…di rivederti, Ginny…io non… - le sembrarono le parole più stupide del mondo, ma era emozionata, era emozionata dentro. E non riusciva a dire altro - …non lo avrei mai creduto…L’altro giorno, in quella biblioteca credevo di sognare, sai? Eri...era così…tu eri così irreale, non…non potevo immaginare che fossi ancora viva. E non sai quanto sono felice di vederti…”
 
Hermione aveva fatto uno sforzo sovrumano, si era tolta un peso dal cuore, un macigno che l’aveva oppressa fin lì, fino a quel momento, fino a quel maledetto bancone su cui l’altra poggiava ancora tranquillamente i gomiti.
 
Aveva quasi sudato per l’ansia e la fatica. Un ricciolo alla tempia lo dimostrava.
 
 
 
 
 
 
 
“Come scusa? Dici a me, bellezza?”
 
“Ginny, perché non hai mai risposto a tutte le mie lettere? – prese coraggio e si voltò verso di lei, verso la sua Ginny, guardandola, incontrando quegli occhi di ghiaccio – Non sai quanto mi sei mancata. A me e a tutti gli altri. Perché non ci hai mai detto nulla?”
 
 
 
L’altra spalancò gli occhi, ora schegge di vetro, non capendo.
 
 
 
 
“Si può sapere di cosa stai parlando? Devi avermi confusa con qualcun altro. Scusa ma devo tornare al mio tavolo. Buona serata.”
 
“Ginny aspetta! Non puoi lasciarmi così, dobbiamo tornare. Devi venire con me!”
 
 
 
“La vuoi smettere? Devi aver bevuto un po’ troppo, signorina Bovary. Con permesso.” – e si voltò, allontanandosi con in mano il vassoio colmo di bevande.
 
 
 
“Ginny!! Fermati, te lo chiedo per favore!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La ragazza castana si bloccò brusca e tornò indietro, poggiando il vassoio momentaneamente sul primo tavolino libero.
 
 
“Ora basta. – sbraitò, avvicinandosi impetuosa – Non so chi tu stia cercando ma il mio nome è Alex e non ho idea di chi sia questa Ginny o come si chiama. Comunque…”
 
“Comunque?”
 
 
“Comunque…devo ammettere che…sì…” – le scappò da ridere. Sembrava essersi tranquillizzata di colpo. Hermione invece si urtò così tanto da divenir rossa per la rabbia.
 
 
“Si può sapere cos’hai da ridere? Mi trovi forse divertente? Mi ignori per anni e mi trovi divertente?” – era collerica, incredula davanti a quel repentino cambiamento.
 
 
 
 
“No, tutt'altro! – la ragazza si avvicinò con fare languido alla guancia della maga, fino a sfiorarle il lobo destro e sussurrarci piano – Ti trovo maledettamente sexy, Hermione…ma talmente tanto che ti farei di tutto. Anche qui, adesso…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Una sonora cinquina le si infranse sul viso, rendendolo violentemente vermiglio.
 
“Sei solo una stupida! E io che…va’ al diavolo Alex o chi diamine sei!” - Hermione prese le sue cose e lasciò il bancone. E poi il locale. E tutte quelle speranze che dentro ci aveva racchiuso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex si sfiorò la guancia dolorante e sorrise tra sé, poi si sistemò i capelli indietro; diede una aggiustata alla camicia, una delle sue preferite in assoluto, bianca e aderente al punto giusto. E poi si incamminò in direzione della combriccola che l'aspettava al tavolo in fondo alla sala.
 
Doveva ammetterlo: quella ragazza aveva fegato.
Mai nessuna, lì dentro, aveva reagito così alle sue avances.
 
Quell’Hermione, venuta da chissà dove, le piaceva. Era diversa.
 
Diversa da tutte le altre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensando questo tornò al tavolo e, presa dalla bruciatura della sberla o della conquista facile non riuscita, strinse Luna e ballò avvinghiata a lei per ore dimenticandosi di bere, per consolarsi con quel corpo di donna sotto le sue mani.
 
 
Quel corpo che poi avrebbe posseduto insensibilmente tutta la notte.
Come una rabbiosa rivincita.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Tornare ***


L’appuntamento era al recinto basso muschiato per il tramonto e lei aspettava già da parecchi minuti; la puntualità poteva dirsi una sua dote innata, dopo l’ordine.
 
 
 
 
Il fatto è che ne aveva bisogno. Doveva arrivare prima.
 
Prima che tutto iniziasse, prima che gli altri iniziassero.
Lei doveva sempre avere, in fondo, il controllo della situazione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Se lo chiedeva ripetutamente, ma ancora non riusciva a spiegarsi come mai avesse quel pregio.
O quel difetto.
 
 
Dipende sempre dai punti di vista.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Hermione! Ehi! Hermione, sono qui!”
 
 
Finalmente una voce. La sua.
Indimenticabile.
 
 
La ragazza si voltò raggiante, sorrideva già al solo sentirlo.
 
E si incamminò, piano.
 
Poi correndo.
 
Lui la guardava estasiato.
 
 
 
 
 
 
Gli corse incontro veloce, più lesta che poteva, quasi con la paura che lui potesse smaterializzarsi e svanire chissà dove. Aveva paura di vederlo per un attimo e perderlo di nuovo.
 
 
 
 
 
 
 
Correva, correva. E correva.
 
 
 
Il vento la lambiva e le scompigliava i capelli.
 
 
 
 
 
 
 
La giacca di pelle era aperta e svolazzava ai suoi fianchi, lasciando intravedere una maglia cobalto con tre bottoni fino alla scollatura. Due erano aperti, l’ultimo rappresentava il pudore.
 
 
 
E naturalmente era chiuso.
 
 
 
Il giovane sorrise ragionando proprio su quei bottoni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Harry…” – Hermione lo raggiunse e non fece in tempo neanche a guardarlo che lui la prese e la abbracciò forte.
 
 
Più forte che poteva, più forte, come il suo cuore suggeriva.
 
 
 
 
 
 
I capelli corvini e corti del ragazzo si unirono e quelli ambrati di Hermione e alla loro felicità mista a spensieratezza ritrovata in un momento.
 
 
Era bastato solo quell’abbraccio.
Era come tornare indietro nel tempo, al tempo delle liti e delle riconciliazioni di Hogwarts.
Si abbracciavano spesso, amavano il contatto fisico che solo loro due avevano istaurato. Nemmeno Ron era arrivato a tanto.
 
Ma loro sì, loro due sì.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Mi sei mancato tantissimo. Non sai quante cose ho da raccontarti! – si staccò da lui, arrivando a sfiorargli il naso con il suo – Sei sempre uguale, sei sempre tu.”
 
 
“E tu sei sempre la secchiona più divertente e bella che io conosca! Anche al Ministero non hai eguali, credimi!”
 
 
 
 
 
 
 
 
Harry lavorava alle dipendenze del Ministero inglese da cinque anni ormai e viveva stabilmente in un appartamento piccolo ma molto accogliente lì vicino: questo gli permetteva di svegliarsi appena una manciata di minuti prima dell’ inizio del suo turno lavorativo. Stava bene.
Era un Auror.
 
 
Uno degli Auror più promettenti. Apprezzato e con una fama senza pari.
Il prescelto.
Per questo, e per un motivo più intimo, era lì.
 
 
 
 
 
 
 
“Dai andiamo, altrimenti Ronald ci darà per dispersi! Sai com’è fatto. Ma sappi che voglio sapere tutto di come te la passi a Londra. Non accetto reticenze.”
 
Harry arricciò il naso e sospirò con finta noia. Non avrebbe mai potuto dire di no alla sua amica.
Qualcosa gli balenava nella testa. Qualcosa di bello, senza dubbio.
 
 
“Non preoccuparti, signorina Granger, saprai tutto. E poi… - si fermò un attimo, sfiorato da una preoccupazione improvvisa che pareva importante – Dopo la cena devo dirti una cosa in privato.”
 
 
Hermione lo guardò accigliata.
“Devo preoccuparmi?” – lo stava già facendo.
 
 
 
“No, è una cosa su cui sto riflettendo da tempo e che non posso più ignorare. – chiuse e aprì velocemente gli occhi, come a cambiar registro – Ma ora basta congetturare, forza! Abbiamo un cenone da affrontare e una bella chiacchierata tra amici!”
 
“E Molly!” – sogghignò la ragazza, scherzando.
“Già, Molly!” – le rise dietro lui.
 
La prese sottobraccio e insieme, sempre con la stessa allegria di un tempo, superarono il giardino e bussarono alla porta della Tana.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Entrarono nell’umile e calda casa come avrebbero sempre immaginato.
Come era sempre stato, fin dalla prima volta, quando avevano solo undici anni.
 
 
 
Quando vi tornavano capivano, nel profondo, il vero senso della parola “tornare”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ma non era tornare semplicemente, era tornare con amore.
Era essere accolti.
 
Era essere voluti. Amati.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ron si fece loro innanzi sulla soglia.
Indossava una classica maglia di mezza stagione che la madre gli cuciva per ogni compleanno; questa era rossa e con un motivetto floreale sul petto.
 
Guardò i due arrivati con il sorriso più sincero che ci possa essere e poi spalancò le braccia. Li strinse forte e con festa, con il solito leggero imbarazzo verso Hermione; eppure si vedeva nitidamente che era al settimo cielo per averli lì, tutti e due. I suoi amici di sempre.
Poi fu la volta di Molly, che vedendoli ritrovò due figli.
 
 
Per lei Harry ed Hermione sarebbero sempre stati parte della famiglia, parte del suo cuore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Dopo i bentornati e un leggero aperitivo accanto al caminetto, acceso per l’occasione, a base di spremuta di bacche di lampone del nord e un pizzico di rum alla vaniglia di fiume, si sedettero a tavola e iniziarono la prima delle tredici portate che la signora Weasley aveva preparato appositamente per loro due.
 
Lo stomaco di Ron, naturalmente, gradì molto l’entusiasmo culinario della madre.
 
 
 
“Dovete mangiare, siete così dimagriti! Harry – la padrona di casa si rivolse al ragazzo come fosse ancora il piccolo bambino indifeso di tredici anni prima – forza, ancora un altro po’ di purè di patate salmastre ti farà bene. E tu, mia cara – non l’avrebbe mai ammesso, ma Hermione era la sua prediletta – prendi altre due polpette di granchio soffritto e un po’ di acquavite blu, hai le guance troppo bianche! Vedrai che poi sarai ancora più bella!”
 
 
I ragazzi risero di gusto e Molly si offese un po’, ma solo per scherzo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era la gioia del cuore vederli seduti uno affianco all’altro, ridere e scherzare, come se il tempo non fosse mai passato, come se quella guerra non fosse mai esistita.
 
 
 
Come se non esistesse più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione si rese conto che il momento era arrivato; aveva un compito da assolvere, un dovere da adempiere.
 
 
 
“Signora Weasley, Ronald. – la ragazza prese la parola, creando il silenzio improvviso e interrompendo le battute allegre degli amici – Devo dirvi una cosa molto importante.”
 
 
 
 
 
“Come sei seria Herm, dovresti vederti! Prendi un altro po' di dolce, che ti fa bene!” – Ron, ad essere serio, non ci riusciva proprio. Aveva in entrambe le mani bignè alla frutta.
 
 
“Ronald, dico davvero. È una questione molto seria. Ho bisogno della vostra totale attenzione.”
 
 
 
 
 
“Scusa Hermione, io non vorrei essere di troppo. Se vuoi vi lascio soli…” – Harry si sistemò l’occhiale tondo, come faceva da bambino quando era in imbarazzo e si preparò a farsi da parte, non capendo, ma intuendo la serietà dell’ex compagna di scuola. 
 
 
“No, Harry resta. È giusto che anche tu lo sappia.” – l’amica lo guardava come se quel ragazzo fosse, in un certo senso, un’ancora per lei, un appiglio, un porto sicuro dove attraccare nei momento di bufera. Nei momenti come quello.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Molly iniziò a temere il peggio, ma cercò di mantenere la calma e di continuare a controllare che il dolce, che aveva preparato per i ragazzi durante tutto il pomeriggio, fosse ben cotto.
 
“Inizi a farci preoccupare, ragazza mia. È successo qualcosa?”
 
 
 
 
 
 
“Sì, è successa una cosa molto bella. E molto triste insieme.”
 
 
 
 
 
 
Ron strabuzzò gli occhi.
 
“Ma, Hermione, come fa una cosa ad essere molto bella e molto triste?” – il rosso di casa iniziava ad essere confuso. E non aveva tutti i torti.
 
La giovane maga sorrise mesta nel notare che, dopo tutti questi anni, non era cambiato di una virgola.
 
 
 
 
“Ronald ti prego, lasciami spiegare. – sistemò dietro l’orecchio destro la solita ciocca ribelle e si fece seria, più seria di ogni altra volta che Harry e Ron potessero ricordare. Persino più seria di quella mattina in cui fece ventidue secondi di ritardo alla lezione di Pozioni e si auto-mise in punizione – Riguarda Ginny.”
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ma cosa dici, ragazza mia?” – a Molly si fermò il respiro al semplice nome della figlia morta anni prima.
 
Hermione si alzò in piedi: sapeva che quella conversazione non poteva essere continuata tranquillamente davanti ad un arrosto in salsa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Spiegò loro ogni cosa, ogni aspetto di quella missione che il Ministro le aveva affidato.
Nemmeno Harry ne sapeva niente, nonostante lavorasse ai piani alti del Ministero della Magia inglese.
 
Hermione giustificò il fatto sottolineando che era per sicurezza: doveva agire in totale segretezza e usando la massima prudenza.
 
Non dovevano esserci inconvenienti o errori. Nessun altro al di fuori di loro, della McGranitt e dell'apposita sezione ministeriale sapeva.
 
 
 
 
 
 
 
Soltanto adesso era stata autorizzata a mettere la famiglia Weasley, cioè madre e fratello sopravvissuti, a conoscenza del fatto che Ginevra fosse ancora viva.
 
E, come è immaginabile, fu una gioia immensa per entrambi. Grandissima. Indescrivibile.
 
 
 
 
 
 
 
Il figlio si affrettò ad abbracciare forte la madre, istintivamente, subito, come non faceva da tempo e lei, per la prima volta dalla battaglia, pronunciò ancora una volta tra le lacrime improvvise il nome della figlia, ma stavolta con speranza.
Con tutti quei sentimenti che fino a quel momento non aveva avuto più per la sua piccola.
 
La sua piccola.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“La mia Ginny… - poi guardò Hermione, l’ambasciatrice dell’insperata gioia – dove…dove si trova adesso?”
 
La madre aveva le lacrime agli occhi.
 
Ad Hermione mancava poco.
 
 
“Questo non posso dirvelo, signora Weasley. – con la tristezza nel cuore la giovane si censurò, doveva farlo - Non è così semplice, per questo non ho potuto dirvi nulla prima.”
 
 
 
 
 
Il rosso si insinuò tra le due donne, afferrando il polso di Hermione.
 
“Perché ho l’impressione che ci sia qualcosa di brutto, Herm?” – Ron in fondo non era così sprovveduto.
 
 
 
 
 
 
 
 
Harry ascoltava in silenzio e quasi con distanza.
Aveva l’occhio clinico, la razionalità che Hermione non si sarebbe aspettata di vedere in lui. E un po’ la sorprese.
E non in positivo.
 
 
 
 
 
“Non so per quale motivo Ronald, ma… tua sorella non ricorda nulla. Nulla di ciò che è avvenuto prima di… - la voce stava per cederle – Prima di quella battaglia. So che siete confusi ora, lo ero anch’io. L’ho vista morire tra le mie braccia, io c’ero…ero lì con lei quando... - dovette fermarsi un attimo - ma credetemi, non so per quale magia…lei…lei c’è ancora. È viva! – un bagliore le riempì gli occhi di castagno - Posso giurarvelo sulla mia vita e sul bene che vi voglio.”
 
Ron e Molly erano la felicità personificata e dai capelli rossi.
 
 
 
 
 
Potter si alzò a sua volta, dubbioso e cupo sussurrando tra sé.
 
 
“Per magia o…per maleficio.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
A Molly fecero male quelle parole, ma non riusciva a rispondere e non era importante adesso: sapere sua figlia viva era una gioia troppo grande e superava di gran lunga qualsiasi preoccupazione sul come.
 
 
 
 
 
 
Ma ad Hermione non sfuggì.
 
 
“Non so come sia possibile, Harry. Non so se sia per magia bianca o nera, ma lei è viva. L’avrei riconosciuta tra un miliardo di persone e la riporterò qui. Fosse l’ultima cosa che faccio.”
 
Si sorpresero nel vedere la determinazione con cui la Granger aveva difeso l’amica e non indagarono oltre sul perché.
 
 
 
Per il momento saperla viva era abbastanza, era fin troppo, era tutto quello che Ron e la madre volevano sapere. Era più di quanto avrebbero mai anche solo sperato.
 
Il resto sarebbe venuto da sé. Ed inoltre non era compito loro, Hermione era stata chiara: loro potevano sapere, ma non dovevano agire; tutto era nelle mani del Ministero.
Dovevano quindi lasciare che le ricerche andassero per il loro corso, senza intoppi spinti dalle emozioni di una famiglia desiderosa di riunirsi.
 
 
 
 
Fu per questo che Hermione non specificò nemmeno il posto preciso e si limitò a descrivere la Ginny di adesso, quella con i capelli corti e la camicia a quadri scura.
Quella che non sapeva del suo passato. Quella che non sapeva che la sua famiglia, ora, la stava aspettando e a braccia spalancate.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La serata, come prevedibile, terminò tardi.
 
Molly e Ron volevano sapere quanto più possibile e lasciarono andare via gli ospiti solo molto tardi, quando ormai era notte fonda.
 
Ron insistette molto affinché i due rimanessero per la notte, i letti non mancavano, ma Harry aveva già prenotato una stanza al Paiolo Magico, non poteva proprio restare alla Tana. Il giorno dopo doveva essere a lavoro di buon’ora, quindi doveva proprio andare. Gli erano mancati tanto i suoi amici, troppo.
Sapeva benissimo che se fosse rimasto avrebbe tardato l’indomani e preso qualche sonoro rimprovero.
 
 
Hermione si offrì di accompagnarlo e così si incamminarono insieme, dopo aver salutato lungamente e con infinita tenerezza Molly e Ron.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ormai era quasi l’alba, ma decisero di passeggiare. Avevano entrambi bisogno di aria fresca.
Avevano bisogno l’una dell’altro.
 
 
 
“Non me lo sarei mai aspettato, sai? Alcuni maghi sopravvissuti, tra cui Ginny. Nel mio ufficio non se ne sa nulla.”
“Tu lavori per scovare i Mangiamorte, non i dispersi. Sei un Auror.”
“Sì, ma credo che ci sia un qualche collegamento. Ci deve essere per forza.”
 
Hermione guardò l’amico stranita. Sentiva che un lontano pensiero lo attanagliava.
E non poteva sapere che, in realtà, erano ben più di uno.
E che c’era dentro anche lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** La teoria dei bottoni ***


La porta in legno di faggio antico si spalancò con lentezza e maestosità cupa, come se il suo unico fine non fosse far transitare gli adepti, ma spaventare e mettere in soggezione chi intendesse oltrepassarla.
 
 
 
 
E forse era proprio così.
 
 
 
 
 
Un incappucciato, vestito interamente di nero, la superò.
 
 
Si fermò nell’atrio circolare della stanza suprema, dove ad attenderlo c’era il suo signore.
 
Il Signore.
 
 
 
 
Il mostro. L’uomo che poteva tutto con un semplice cenno del capo.
E lo avrebbe fatto. Avrebbe chiesto e ottenuto tutto. Tutto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Al vostro cospetto per servirvi, mio Signore.”
La figura scura si inginocchiò chinando il capo, come si conviene davanti all’autorità suprema della vita.
 
 
 
“Bene, ti aspettavo. – la voce macabra e viscida del padrone di quel posto non tardò ad arrivare, viscosa come sempre - Ho grandi progetti per te.”
 
 
 
L’inginocchiato alzò il viso, stando ben attento a non incontrare gli occhi sottili e profondi che aveva davanti.
 
 
 
“Vi ascolto, mio Signore.”
 
 
 
 
 
 
 
Un lampo passò per il viso squamoso e il Signore Oscuro si levò dal trono su cui giaceva per proferire piano due parole. Solo due. Ma pesanti come macigni.
 
 
 
 
“E’ arrivata.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’inginocchiato spalancò gli occhi.
 
“Ne avete la certezza, mio Signore?”
 
L'adepto pareva disorientato, o forse troppo grande era lo sconvolgimento provocato da quelle parole, anche se non voleva darlo a vedere al resto dei presenti.
 
 
 
 
“Finalmente, dopo tante ricerche, l’abbiamo trovata. E con lei, gli altri. E il merito è soltanto tuo. – il Signore Oscuro si avvicinò al servitore, che ancora non osava alzare gli occhi – E grande sarà la ricompensa che ti spetterà quando me la porterai per far sì che io possa avere la mia vendetta sulla sua pelle. Il momento è prossimo. Sarà mia.”
 
 
 
 
Le parole uscivano lente e schiumose, sudice, impregnate d'odio e veleno di serpe.
 
 
 
 
 
 
 
 
Nell’ampio salone tutti i presenti tacevano, in un misto di trepidazione e paura.
Erano disposti a semicerchio intorno al discepolo con lo sguardo basso. Ognuno dava le spalle alle spesse mura e gli occhi al Signore.
 
 
E il Signore aveva parlato: così aveva detto e così sarebbe stato.
 
I Mangiamorte sapevano benissimo che quelle parole sarebbero diventate lo scopo della loro esistenza adesso, almeno finché la vendetta non fosse stata consumata.
Così come lo sapeva quel misterioso proselito dal cui cappuccio, logoro e scuro, fuoriuscivano esili ciocche castane con striature di un opaco rame.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Allora, cosa c’è che ti tormenta tanto? Si vede lontano un miglio che qualcosa c'è e sembra essere anche parecchio ingombrante, sbaglio?”
 
Erano arrivati al Paiolo Magico e, dopo una breve sosta alla hall per scambiare due chiacchiere col proprietario Jeremia, loro vecchio conoscente, Harry ed Hermione erano saliti entrambi nella stanza del giovane.
Harry sembrava così impaziente di parlare all’amica, ma allo stesso tempo era più muto di un pesce.
Una goccia di sudore gli imperlò la chiara fronte.
 
Hermione si sedette sul letto, trovandolo morbido e confortevole. Guardava il verde panorama fuori dalla finestra alta e intanto continuava a cercare di estorcergli le parole.
 
Harry lasciò la sua piccola valigia in un angolo e si sedette accanto alla ragazza, sulla seggiola in vimini posta sotto la grande finestra, accanto al letto. Era l’alba ormai.
 
“Siamo amici da…da quanti anni, Hermione? Dieci?”
 
“Quattordici per l’esattezza, caro il mio auror disattento!” – lo disse con una punta di orgoglio, nemmeno troppo celata. Ne era felice.
 
“Già, quattordici. – lui si fece paonazzo e la giovane iniziò seriamente a preoccuparsi – E dopo tutti questi anni io…io, vedi Hermione, mi sono accorto che non posso più esserti amico.”
 
 
 
 
Lei strabuzzò gli occhi nocciola.
 
 
 
“Ma cosa dici Harry? Sì, abbiamo bevuto un po’ questa sera, Ron ci ha versato un bicchiere dietro l'altro ma non credevo fossi arrivato a tanto. Forza! – lo tirò su e iniziò a sbottonargli la camicia chiusa fino al collo – Ora ti stendi e vedrai che domani andrà meglio! Anche se non credo che ti sveglierai prima del pomeriggio inoltrato!”
 
 
 
Ma lui non poteva, lui non voleva fermarsi così.
E quel leggero contatto, quelle mani intorno al suo collo, fecero partire la miccia; anzi, era più di quanto realmente servisse per partire.
Ed era partire, in tutti i sensi.
 
Il ragazzo afferrò i polsi di Hermione, che gli sfioravano il mento, la attirò a sé.
E, mentre il sole nasceva, la baciò.
 
 
La baciò sulle labbra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il giorno dopo Hermione era troppo sconvolta per fare qualsiasi cosa di impegnativo o legato alla sua missione irlandese.
Tante emozioni, tutte insieme, potevano esserle deleterie.
Doveva parlarne con qualcuno e quel qualcuno stava proprio aspettando dall’altro lato della strada, al civico ventidue di O’ Connor Street, dove si diceva si sfornassero i migliori cornetti di tutta Dublino.
 
 
 
 
“Ciao mon tresour, fatti dare un bacio!” – Caroline la strinse con femminile delicatezza e le scoccò due sonori baci sulle guance.
“Ciao Caroline, come stai? – la strega ricambiò il saluto – Grazie per avermi risposto al messaggio ed essere venuta subito. Avevo proprio bisogno di qualcuno con cui parlare. Grazie, davvero…”
“Lo credo tesoro mio, hai una faccia! Ti sei vista allo specchio? E come mai questi capelli sono così mal raccolti? Dovresti valorizzarli di più, sono così belli.”
 
Ad Hermione scappò un sorriso: la sua vita era un totale casino, ma in compenso Caroline trovava che avesse dei bei capelli.
 
 
 
 
“Allora piccolina, da dove vogliamo iniziare? A te l’onore.” – si accomodarono una di fronte all’altra.
“Ho fatto un macello l’altra sera con Ginny.”
“Mm. Volevi dire con Alex? – Caroline fermò il primo cameriere che passava – Mi scusi. Due bei croissant al miele per le signorine e…che prendi da bere, tesoro?” – sussurrò all’amica.
Hermione era quasi assente.
“Una spremuta qualsiasi, grazie.”
“Due, bel giovane.” – il cameriere prese le ordinazioni e se la diede a gambe, quella donnona scura gli fece paura: lo stava spogliando con gli occhi. E neanche troppo velatamente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sorseggiavano senza fretta, in fondo nessuna delle due aveva impegni improvvisi.
Caroline lavorava, ma solo di pomeriggio, in un negozietto di animali molto carino alla fine est di Grafton. Quindi aveva tutto il tempo del mondo per la sua sconfortata amica.
 
 
“Diciamo che la situazione non è delle più rosee. Hai schiaffeggiato Alex perché ci stava provando spudoratamente con te, come ti avevo preannunciato del resto, e ieri il tuo migliore amico ti ha baciata. E palpata.”
“L’ho fermato.”
“Si è fermato al seno? - Hermione rivoltò gli occhi – Diamine mon tresour, mi stai dicendo che è sceso giu fino alla fonte?”
“L’ho fermato in tempo, Caroline, gli ho detto che devo capire.”
“Capire? E cosa dovresti capire, mia cara?”
 
 
Caroline aveva ragione. Cosa c’era da capire? È il tuo migliore amico da sempre, come puoi trasformarlo in amore? Soprattutto se non c'è quella scintilla, quella strana spinta quasi fastidiosa che aveva provato qualche sera prima quando...
Senza dubbio era, per Hermione, la situazione più assurda mai provata prima.
 
 
“Harry mi ha dato tempo, io…io devo solo capire se posso vederlo come qualcos’altro. Se posso dargli una possibilità. – la strega notò che la sua interlocutrice non pareva troppo convinta – Dovresti vederlo Caroline, è un bel ragazzo…è un ottimo ragazzo! Ha un buon lavoro, mi conosce. Sì, mi conosce come nessun altro. Sarebbe un fidanzato perfetto…”
 
La donna dai lunghi capelli neri allungò una mano fino ad afferrare quella dell’altra, come a fermare la folle corsa di parole vane.
 
“Sì, mia cara, ma non è così che ragiona il cuore. Lo sai?”
 
Hermione sbuffò affranta.
 
“Devo solo fare chiarezza, Caroline. Chiarezza.” – sembrava parlare a se stessa più che all’altra.
 
 
 
 
 
 
 
Alex era già in ritardo, come suo solito. E aveva i capelli spettinati, anche quello come suo solito.
 
Per di più si era appena accorta che la camicia blu, indossata da appena tre minuti, era sbiadita a causa della sua incapacità con la lavatrice.
“Non potevo accorgermene prima? Accidenti a me!”
 
Le otto e trenta arrivano troppo presto la mattina; chissà perché le otto di sera, invece, sembrano non giunger mai.
Odiava il turno di mattina in biblioteca; finiva sempre per svegliarsi all’ultimo momento e aveva la solita emicrania indomabile, da post nottata senza sonno.
 
La fame, però, imponeva una sosta. Iniziava a brontolarle lo stomaco.
Luna le aveva prosciugato tutte le energie quella notte e una buona colazione era quello che ci voleva.
Il tempo di alzare lo sguardo verso il solito bar e, senza far troppo rumore, l’anima le si crogiolò, piegandosi su se stessa.
Come ogni emozione che si rispetti, senza rumore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ma certo, dolcezza. Solo chiarezza! Certo. – Caroline intravide la preda di Hermione attraversare la strada e venire proprio verso di loro – Mm, Hermione…voglio proprio vedere la tua chiarezza ora, guarda chi c’è!”
 
Hermione girò il viso, roba di millimetri e la vide.
 
“Fa che Caroline non la saluti, fa che non mi veda.”
 
 
 
“Alex! Buongiorno! Che bello incontrarsi anche alla luce del sole.”
Perfetto.”
 
 
“Caroline, ciao." – impossibile non riconoscerla, era unica. E per fortuna che non ce n’era un’altra simile, pensò Alex.
 
 
“Posso presentarti la mia amica Hermione? È nuova della città sai?”
 
“Benissimo! Ho anche la camicetta chiusa fino al collo, penserà che sono una suora! Accidenti a te, Caroline!”
 
 
Hermione alzò lo sguardo, cercando di mantenere la calma, e incontrò gli occhi azzurri di Alex che già la fissavano.
 
Fu come nei film, fu un film, il loro.
 
Si guardarono per un momento.
Ma il momento si fermò. Inevitabile e bellissimo. Eterno.
 
“L’ho conosciuta l’altra sera, grazie lo stesso Caroline. Ciao Hermione.”
 
“Ciao…” – la maga rispose, accompagnando il gesto con una mano incerta.
 
 
 
 
 
La sudamericana sentiva puzza di cuori bruciati e intervenne pronta.
 
 
“Alex sai…io e Hermione stavamo cercando un libro…com’è che si chiama? Mm…ho presente la copertina ma non il nome…”
L’espressione fintamente accigliata di Caroline divertì Alex, che sorrise tra sé.
 
“Suppongo che tu voglia un aiuto nel trovarlo. Giusto?”
 
“Wow! Vedo che le mani non sono l’unica cosa che sai usare. Anche il tuo intelletto non scherza!”
 
Hermione voleva sprofondare, Alex rise più apertamente.
 
 
“Va bene, ti aspetto in libreria quando vuoi. Ora, scusate ma devo scappare altrimenti arrivo tardi a lavoro. – si girò verso Hermione, guardandola intensamente, sorprendendo anche se stessa – Ciao Emma, ci si vede.”
E si incamminò svelta verso la prima traversa all’angolo della strada.
 
 
 
 
 
 
Dopo che Alex divenne un punto lontano, Caroline si voltò all’amica.
 
“Emma?! Perché ti chiama così?”
 
“E’ una lunga storia. Te la racconto mentre andiamo in libreria a trovare questo fantomatico libro.” – Hermione fece per alzarsi.
 
“Ops. Accidenti! Che sbadata che sono…” – era una finta peggio dei soldi del monopoli: Hermione la conosceva da poco, ma Caroline sapeva essere alquanto eclatante.
 
 
“Che hai adesso, Caroline?”
 
“Come ho fatto a non ricordarlo prima? – si alzò anche lei – Ho un impegno già in agenda da tempo per questa mattina. Non posso proprio rimandarlo! Credo proprio che dovrai andare da sola, mon tresour, a trovare quel libro per me. Ti dispiace?”
 
“No, no, no! Io non vado da nessuna parte da sola. E soprattutto da quella lì!”
 
 
 
Ma ormai era deciso: Caroline aveva un impegno non ben precisato e non poteva proprio rimandarlo.
 
Pagarono la colazione e fecero un breve tragitto insieme, prima di separarsi all’incrocio.
 
 
 
 
 
Il semaforo rosso le obbligò a fermarsi.
 
“Ricordi, tesoro, il discorso sul tuo amico Harry e sulla chiarezza che devi fare?” – Caroline voleva aiutarla, aveva preso a cuore Hermione e i suoi problemi.
“Certo. – ma la maga era abbastanza confusa – Perché?”
 
“Quando lui ti ha baciata, ieri notte, ti sei sistemata la camicia?”
“Ehm no…”
“Bene. Non so se te ne sei accorta ma quando, dieci minuti fa, Alex ti mangiava con gli occhi ti sei spalancata due bottoni.” – Caroline aveva colto nel segno, come sempre.
 
“Ma cosa c’entra questo adesso?!”
La donnona le si avvicinò e la salutò con affetto; il semaforo era diventato verde.
 
“Rifletti, mon tresor! Rifletti! – si stava incamminando sinuosamente per la sua strada, con passo risoluto – La teoria dei bottoni non sbaglia mai.”

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Come idea stilnovista ***


Da dove viene l’amore?
Dove nasce?
Nel medioevo era credenza popolare che il sentimento più decantato partisse dagli occhi, dal guardare direttamente l’oggetto del nostro desiderio negli occhi e perdersi in esso.
Molti poeti e cantori la vedevano così.
Molti, ancora oggi, si innamorano così.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’ingresso della libreria era particolarmente affollato quel giorno, c’era una convenientissima promozione 3x2. I clienti arrivavano a fiumi. E sembrava ce ne sarebbe stato ancora per molto.
Una massa colorata si accalcava come se non ci fosse altro giorno utile che quello.
 
Alex girovagava veloce per gli scaffali in cerca di una miriade di libri per l’ennesima signora di mezz’età che pareva non avere altri passatempi se non quello di svaligiare la libreria riempiendo il proprio carrellino da spesa di libri.
Alex passava da uno scaffale all'altro evitando come meglio riusciva i clienti assorti nella letture delle trame, cercando di non distrarli.
Si sistemò la camicia blu nei pantaloni e intravide una ragazza in stile dark che, da dietro la copertina alzata di un libro, la fissava. Non le sarebbe certo dispiaciuta e magari poi, si promise, sarebbe andata a sistemare un libro qualsiasi proprio lì accanto. Le occasioni bisogna crearsele, questo era il suo motto.
Ma ora aveva una signora impaziente da soddisfare. Culturalmente parlando.
 
"Ecco qui, Zafon gliel’ho appena messo nel carrello. Altro?” – era almeno il quindicesimo libro che la tizia di mezza età le chiedeva.
“Credo che possa bastare, nel caso ripasserò volentieri nel pomeriggio. Grazie e buona giornata!”
"A lei, signora! Mi raccomando, torni a trovarci quando vuole. E buona lettura!" 
La donna era così appagata che Alex dimenticò quasi i nervi a fior di pelle che le aveva fatto venire per cercare tutti quegli autori. Alcuni dei quali semisconosciuti persino per lei.
 
Un sorriso di arrivederci e tornò svelta alla sua scrivania, decidendo di lasciar perdere la tipa dark di poco prima. Tanto ne avrebbe rimorchiata una quella sera al locale.
Si sedette con un tonfo sordo. Aveva bisogno di fermarsi un attimo.
Voleva arrivasse presto l’orario di chiusura, voleva tornare sul suo bel letto a rilassarsi e non pensare a niente. A niente.
 
 
 
 
 
Poi alzò gli occhi e la vide.
 
 
 
 
 
 
Lei.
 
Timida e leggera.
 
 
 
 
 
 
 
Bellissima e…
 
 
 
 
 
…persa.
 
 
Persa in un mondo fatato tutto suo. Irraggiungibile.
 
Forse, proprio per questo, ancora più bella.
 
 
 
 
 
 
 
Alex si incantò a guardarla entrare. A guardare quella ragazza che sembrava un cucciolo spaesato. Ma aveva il profilo di un'eterea bellezza, di quelle che senti. Di quelle che fanno male.
 
Incredibile.
 
 
I capelli castani leggermente mossi le arrivavano sotto le spalle, quasi sul seno.
 
Alex divenne rossa al solo immaginare quella parte di lei.
 
Chissà come doveva essere…
 
 
 
Come se non ne avesse mai viste o toccate. Eppure quella ragazza…eppure lei aveva qualcosa…
 
Qualcosa di più.
 
 
 
 
 
Forse erano quelle sopracciglia scure e talmente lisce a vedere, che finivano per attirare senza pietà labbra e attenzioni.
 
 
 
 
La camicia chiara che indossava vibrava leggera al ritmo del suo respito e aveva due bottoni aperti, per la gioia di chi l’avesse incontrata.
 
Se c’era una cosa che ad Alex iniziava a piacere di quella giovane disorientata era che le spronava l’immaginazione.
 
E tanto. Davvero tanto.
 
Alex aveva visto Hermione tre volte ed ogni volta aveva fantasticato di vederla nuda e disinibita.
Avrebbe pagato qualsiasi prezzo per vederla così.
 
 
Avrebbe venduto la sua anima.
 
 
 
 
 
La lunga chioma castana della nuova arrivata le si posava sulle spalle come petali ondulati, il corpo era l’ottava meraviglia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex avrebbe potuto fantasticare su di lei per ore intere. Giorni. Forse secoli.
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione scorse Alex in lontananza e la salutò con un cenno timido della mano, interrompendo quel flusso di immagini e desideri, riportandola alla realtà.
 
Scendendo dall'iperuranio e tornando precipitosamente nel mondo dei vivi, Alex rispose al saluto, mentre mille pensieri non raccontabili sulla camicetta della nuova entrata le balenavano ancora in mente.
 
 
 
“Ciao…sono arrivata troppo presto?” – Hermione si avvicinò alla scrivania sorridendo, sembrava quasi a suo agio. La ciocca ribelle di sempre le si mise ancora avanti, fino a sfiorarle le labbra.
 
 
 
Alex si chiese come potesse essere spostarla piano con le sue dita. E si disse che sì. Sì, doveva essere proprio indicibilmente bello.
 
“Sì. No! No, certo che no... – era nel pallone – ...Aspettiamo Caroline?”
 
“A dire il vero mi ha appena detto che ha un impegno improvviso che non ricordava, quindi devi…devi accontentarti di me. Ecco, ho qui un foglietto col titolo del libro e l'autore.” – Hermione sorrise, mentre cercava nella tracolla.
 
 
 
Accontentarti.
 
 
 
Gli occhi della libraia divennero di colpo più scuri. Tutto poteva dire riguardo l’altra, tranne che ci si poteva “accontentare”, come se quella ragazza fosse poco, come se fosse una briciola.
Invece era più di quanto avrebbe mai sperato anche solo di vedere su questa terra.
Era perfetta. Hermione era... Era bella. Bella alla perfezione.
 
 
Nemmeno un abile pittore avrebbe potuto disegnare meglio quei lineamenti, quel viso da dea dell’epoca classica.
 
 
“Va…va bene, non c’è problema. Vieni!” – Alex lasciò l’ampia scrivania, lesse il titolo del libro e fece strada all’altra.
 
Hermione si guardava intorno stupita: la libreria era davvero enorme. Si perse nei cunicoli dove Alex la stava conducendo e in tutte quelle vie alberate di carta.
 
 
 
 
Alex si fermò nel terzo settore e prese una lunga scala; salì una decina di gradini, si sporse e prese un piccolo libro, nemmeno troppo recente, lo si poteva intuire facilmente dalla copertina. Lo controllò e sì, era proprio lui. Era il libro ricercato da Caroline.
 
Poi fece un errore. Un errore che le costò il cuore. Come Dedalo verso Icaro nel mito, Alex guardò da basso: voleva confermare all'ospite la scoperta del libro. Ma la voce le si fermò in gola. Dall’alto, Hermione le appariva ancora più celestiale, di un fascino assoluto, fermo. Lasciava una scia nell’aria che attraversava, come un profumo, la sua anima.
 
 
 
Si diede della stupida e scese dalla scala, cercando di tornare con i piedi e la mente per terra una volta per tutte.
 
 
 
 
“Ecco, tieni.”
Tese il libro all’altra; Hermione lo prese assottigliando lo sguardo ambrato.
 
“Grazie!”
 
 
Alex si sorprese nel fissare la giovane che aveva di fronte, come non ci fosse altro intorno, come se tutto fosse iniziato e potesse terminare lì, con lei. In quella stanza, in quella libreria.
Il resto non aveva importanza, il resto non c’era. Il resto non esisteva.
 
“Hai degli occhi bellissimi...”
 
 
 
Fu così che proprio quegli occhi si alzarono su di lei, Hermione era senza parole. Non si sarebbe mai aspettata un complimento da quella ragazza così strana e così seria.
 
Sorrise, non avendo altra risposta. Divenne muta, non riusciva a mettere in fila due parole, la gola si fece secca all'improvviso.
 
E si guardarono come forse non si può descrivere.
Come forse non si può nemmeno capire. 

Stavolta fu Alex a rompere quel momento di imbarazzo e sottile desiderio che lei stessa aveva creato.
“Scusa Hermione, io non…non volevo metterti in imbarazzo."
 
“No! No, non preoccuparti, non mi hai messa in imbarazzo…” - bugia.
 
 
 
Non riuscivano a togliersi gli occhi di dosso e il vento dal cuore.
Erano come calamite appena avvicinate, ma poste ancora a distanza di sicurezza. Un altro passo e si sarebbero unite. Solo un altro passo ancora e non avrebbero più potuto distaccarsi. Un passo.
Hermione era aria fresca e Alex una scultura lignea in attesa di bruciare. Bastava una miccia e l’incendio sarebbe arrivato inevitabile, come una promessa fatta tanto tempo prima.
 
 
Dagli occhi partiva la scintilla, come idea stilnovista.
 
 
 
 
 
Erano sole, in quella stanza grande. Sole e libere come non erano mai state.
 
 
 
 
“Ginny io… - lo sguardo di Hermione si fece quasi triste, mentre strinse il libro al petto – ...io vorrei solo parlarti… - intravide tristezza improvvisa anche nell’altra - …parlarti di te…”
 
 
Alex si fece indietro, come punta da un ago.
Quelle parole non ci volevano: avevano spezzato la magia. Perché Hermione doveva rovinare quella flebile ma stupenda alchimia che si era appena creata? Perché?
 
“Mi eri quasi simpatica, Emma. – Alex sistemò la scala a posto e si incamminò – Scusa ma ho tanto lavoro da sbrigare, come hai potuto vedere. Ciao e passa una buona giornata.”
 
Ma Hermione non ci stava. “Perché fingi così? Ti stanno aspettando tutti. La tua famiglia, i tuoi amici, io... Io ti sto aspettando Ginny. Eravamo così unite!”
 
“Il libro per Caroline l’hai avuto, ora se permetti, devo lasciarti.”
 
 
 
 
“Mi hai già lasciato sette anni fa.”
 
 
 
 
 
 
Alex si fermò e si voltò di scatto verso Hermione. Un secondo di silenzio apocalittico.
 
 
 
 
 
 
“Ascolta. Io sto cercando di essere gentile con te, anche simpatica. Ho creduto alla scusa del libro, ho assecondato Caroline, ma te lo ripeto ancora una volta. Non sono la Ginny che vai cercando. Mi hai confuso con qualcun altro. Ora – era seria da far paura – se vuoi continuare la nostra conoscenza, il mio nome lo sai. Altrimenti posso vivere benissimo anche senza di te.”
 
Da dove le fossero uscite quelle parole e la convinzione con cui le aveva dette era un mistero anche per lei.
 
 
“No, tu non puoi vivere senza di me.”
 
Alex alzò un sopracciglio.
 
“Wow, modesta la signorina Bovary.”
 
 
Hermione non ce la fece più, le si avvicinò svelta e la afferrò per le braccia.
“Ginevra, io e te eravamo inseparabili, ricordi? Ricordi l’albero di ciliegio ai piedi del Lago Nero? Te lo ricordi? Quante ore abbiamo passato lì sotto? Dimmelo, Quante? – la strattonava pur di tenerla ferma, pur di tenerla lì – Quante volte mi hai consolato sotto quei rami? Te lo ricordi, so che te lo ricordi. La nostra amicizia era tutto per me…”
 
“Ma la vuoi smettere con queste storie?!” – Alex si slacciò dalla presa rovente di quelle mani che rischiavano di scottarle l’anima – Io non so niente di questa Ginevra di cui tanto parli! Basta! Non te lo dico per l'ultima volta.”
 
 
“Ma perché hai la testa così dura? Ti ci vorrebbe un lavaggio del cervello!” – Hermione non voleva arrendersi. Doveva riaverla.
 
“E tu perché hai le labbra così secche? Ti ci vorrebbe un bacio.” – Alex si sporse verso la ragazza castana, era della sua stessa altezza o poco più bassa.
Appena il tempo di avvicinarsi, di sentire quel respiro più vicino, di poggiarsi quasi su quel pendio ed Hermione la spinse via.
 
 
“Stronza! Sei diventata solo questo, solo una stupida e grandissima stronza!” – era odiosa. Hermione non riusciva a sopportarla. Quando faceva così le avrebbe lanciato il primo incantesimo che le passava per la testa se solo avesse potuto.
 
La giovane strega mise il libro per Caroline nella tracolla e lasciò Alex lì, immersa nel suo profumo.
Non ci avrebbe più provato, anche se non gliel’avrebbe data vinta.
 
Per il momento, però, non aveva nessuna intenzione di vederla di nuovo e di scorgere in lei quella somiglianza malinconica che tanto la attirava e, insieme, le spaventava il cuore.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Neville ***


Il cancello era spalancato, come sapeva, esattamente come ricordava.
Era tutto come quando si iniziava. Ed era una delizia, per gli occhi e per il cuore. Le si alleggerì per un po’ l’animo.
 
Niente sarebbe mai cambiato in quel posto di fine magia e questo le dava un senso di speranza e spensieratezza.
Quello di cui tutti lì dentro avevano bisogno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fu accolta con premura dall’usciere; nessuno l’aveva dimenticata.
E come avrebbero potuto? Era stata la migliore, in ogni campo. E lo era ancora.
 
Sembrava appena ieri che, da bambina inesperta di incantesimi ma straordinariamente volenterosa, si apprestava a fare il suo ingresso per la prima volta tra quei cancelli, nella prestigiosa scuola di Hogwarts.
 
 
 
 
L’ampio androne di ingresso era pieno di spiritelli allegri, ognuno col suo motto e il suo risolino echeggiante. Gli alunni invece erano tutti nelle aule per le lezioni mattutine e prima di una buona mezzora non ne sarebbero usciti.
Le prime lezioni, i primi sguardi tra ragazzi e ragazze che sarebbero diventati amici e, forse, per sempre.
E lei, che lo aveva vissuto, lo sapeva bene.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Hermione, mia cara, ben arrivata!” – la preside McGranitt la attendeva con ansia e gioia evidenti. Un enorme sorriso le si dipinse in volto.
 
“Preside! – Hermione le andò incontro svelta e con ferma grazia, autorevolezza – E’ sempre bellissimo tornare qui, sembra come…”
“Come senza tempo, non è vero?” – non resistette oltre e la abbracciò calorosa.
“Già.” – e lo sembrava davvero. Lo era davvero.
 
 
 
Dopo aver salutato alcuni altri suoi conoscenti del palazzo, spiriti antichi e quadri chiacchieroni, le due donne entrarono nella stanza che un tempo fu del preside Silente.
Tutto era al suo posto, come una fotografia scattata e rimasta nella storia di quelle mura colme di ragazzi e aspettative.
 
“Ero davvero ansiosa di vederti, ragazza mia. Qui, come hai potuto vedere, sono ricominciati i corsi e siamo indaffaratissimi. Ci sono certi nuovi ragazzini che, beh… possono essere tranquillamente paragonati ai gemelli Weasley! E quindi puoi ben immaginare come siamo impegnati. Ma ben venga nonostante i grattacapi.”
 
La giovane sorrise. Certo che poteva immaginare: ricordava bene come nessuno riusciva mai a prevederli. Fred e George erano il disordine garantito, il tumulto dell’intero castello. E anche l’anima gioconda di cui Hogwarts aveva ancora bisogno. Di cui avrebbe sempre avuto bisogno.
 
La Preside intuì i pensieri della sua pupilla e sviò ogni possibile triste frase di cortesia, ben sapendo che i conti col passato bisognava pur farli prima o poi.
E faceva male, avrebbe fatto male, tremendamente male.
Minerva decretò, però, che quello non era il momento.
 
 
“Veniamo a noi. Accomodati pure, Hermione. – e la accompagnò con una gesto gentile – Oggi voglio gioire con te di un evento inatteso, che nessuno qui si sarebbe mai aspettato e che ci ha riempito gioia.”
La Preside rimase in piedi mentre Hermione sedeva attenta sulla seggiola in pelle riservata agli ospiti dello studiolo.
Lo sguardo della giovane volò fuori dalla vetrata; il sole splendeva appena, ma era abbastanza.
Quella giornata preannunciava positività, era nell’aria e lei lo avvertiva. Era nella timida frescura che entrava dal finestrone pietroso della stanza.
 
“E’ un piacere per me, Preside. Sono tutta orecchi, mi dica.” – Hermione era curiosissima.
 
L’anziana maga schioccò abile le dita e ne uscì un leggero fumo bianco. Era un segnale, un via.
Fu così che la porta della maestosa stanza si aprì per far spazio a due singolari figure.
 
Una era completamente scura e indimenticabile: una volta visto si imprimeva nella memoria dello sfortunato spettatore e, da lì in poi, sarebbe stato impossibile sbagliarsi sulla sua identità.
In caso di dubbio, sarebbe bastata la sua voce per correggersi: era melmosa e oscura come Hermione la ricordava nelle lezioni più pesanti di tutta la sua carriera scolastica in quelle spesse mura.
 
 
 
 
 
“Ben rivista, signorina Granger. – il professor Piton strisciava nel suo lungo mantello nero e rivolse all’ospite un’occhiata seriosa e penetrante – La trovo in buona salute.”
 
Hermione si alzò svelta, come solleticata sul fianco, mossa da timore e reverenziale rispetto.
“Salve Professore. È…è un piacere rivederla.”
In fondo lo era davvero. Lui era, volente o meno, parte dei suoi giorni migliori ad Hogwarts.
 
Dal canto suo, il professore si limitò ad avvicinarsi con la stessa flemma di sempre e le strinse austeramente la mano. La ragazza non se lo aspettava e il gesto la sorprese.
 
 
 
 
Dietro il cupo professore si fece strada un uomo alto, in calzoni verde bottiglia, camicia chiara e gilet verdone. Perfettamente abbinato, pensò Hermione.
Il nuovo entrato aveva i capelli ben tirati indietro e di un nero lucente, con una riga diligentemente definita sul lato sinistro. Era cresciuto ma la ragazza lo riconobbe subito. Quel viso morbido, quegli occhi timidi.
 
 
 
 
 
“Neville… - ad Hermione quasi si fermò il respiro - …sei tu? Sei proprio tu?”
 
Il ragazzo scoccò uno di quei sorrisi che non si dimenticano e assentì.
 
“Herm! Come...come stai?” – non riuscì a dire altro per l’emozione e si avvicinò spedito per abbracciarla più forte che poté.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Neville Paciock era stato inserito recentemente nella lista dei dispersi che il Ministero della Magia aveva elaborato dopo lo scontro contro Voldemort e il suo esercito. Notizie su di lui erano giunte dal continente asiatico, grazie alla stretta collaborazione che il Ministero britannico aveva con la rappresentanza magica giapponese. Il ragazzo era stato dato per disperso ma, a differenza di quanto accadde per Ginevra Weasley, non fu mai dichiarato morto: il suo corpo non era stato trovato sul campo di battaglia. Inizialmente si suppose che fosse stato dissolto o disperso, ma per fortuna non fu così.
 
Per cercarlo, il Ministero aveva incaricato la professoressa Sprite, insegnante di Erbologia, materia sempre amata dal giovane.
E lei, con l’aiuto di Severus Piton, l’aveva trovato e riportato ad Hogwarts dopo una lunga e meticolosa ricerca.
 
 
 
 
 
 
Hermione era così felice di rivederlo e lui di ritrovare lei, dopo tanti anni, che si ritrovarono ad avere mille cose di cui parlare: non riuscivano a placarsi! Domande e sorrisi, abbracci quasi goffi ma così sinceri che persino Piton evito' per una volta di fare commenti acidi.
La McGranitt decise di lasciare tempo ai ragazzi per metabolizzare, raccontarsi e riscoprirsi; avrebbero discusso il resto delle questioni ministeriali nel pomeriggio.
La Preside sorrise, con cipiglio formale e compiaciuto, a Severus che, naturalmente, non ricambiò. All’anziana donna non dispiacque, ci era abituata: non l’aveva mai visto allegro nemmeno nelle animate feste di palazzo. Figurarsi per due studenti che non aveva mai sopportato troppo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“E così è stata la professoressa Sprite a trovarti? Non l’avrei mai detto!”
“Sì, ma devo ringraziare soprattutto il professor Piton. È stato lui a far cessare l’incantesimo di cui ero prigioniero. E non è stato semplice, ha dovuto evocare un contro incantesimo molto complesso.”
Camminavano accanto e attraversavano, tra risa e nuovi discorsi, il lungo ponte di roccia da cui si potevano ammirare tutti gli ettari di terreno della tenuta della scuola. Di quella scuola che tanto li aveva segnati.
 
Hermione si fermò un attimo, preoccupando l’amico. Lo guardava con un sorriso sincero stampato in faccia.
 
“Ho qualcosa che non va, Herm? – il ragazzo andava in crisi profonda quando veniva fissato troppo a lunga; accadeva così fin da quando era bambino, il suo carattere non era minimamente cambiato – Perché mi guardi così?”
“Sei…Neville, sei… - lei abbassò il capo per rialzarlo subito, incrociando lo sguardo perso dell’amico -…sei proprio cambiato. Sei cresciuto tantissimo! E stai diventato un gran bel ragazzo, a breve avrai la fila dietro! Però sei...sei sempre tu.”
Paciock fu sollevato e gli venne fuori un profondo sospiro di cuore.
“Chissà cosa pensavo stessi pensando! Grazie, mi avevi spaventato! Anche tu stai bene, davvero. – si fermarono davanti all’apertura semicircolare, scavata come parapetto sul ponte – Sai, esser stato ritrovato e poi riportato di nuovo qui mi ha dato tanta speranza nel futuro. Le cose andranno meglio adesso. Lo sento.”
 
Hermione era felice di sentirlo parlare così, si vedeva che il giovane mago aveva negli occhi la fiamma della vera fiducia. Non era un illuso, lui ce l’avrebbe fatta, ce l’avrebbe fatta davvero: Hermione lo sapeva, lo sentiva, perché lo meritava.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Che incantesimo ti avevano lanciato, Neville? Perché è stato necessario proprio l’intervento del professor Piton?”
Paciock parve rabbuiarsi un attimo, ma furono pochi secondi di ricordi. Ricordare gli faceva male.
Lo sguardo premuroso dell’amica lo tranquillizzò. Era al sicuro adesso.
 
 
 
 
“Dopo la battaglia, alcuni Mangiamorte mi hanno catturato e…torturato. Ero completamente senza forze. Credevo di impazzire. Intorno a me c’erano tanti altri maghi che conoscevo. Il signor Weasley, Cedric…erano…erano tutti pieni di ferite e sangue. Quei codardi ci paralizzavano e poi utilizzavano lo Schiantesimo…ripetutamente.”
“Ripetutamente?”
“Sì. Molti dei nostri sono morti così. Per fortuna.”



Hermione non capiva.

“Come per fortuna?”



Neville la guardò per la prima volta da quando aveva iniziato a raccontare.

"Altri, meno fortunati, hanno avuto la stessa sorte ma per mezzo della Maledizione di Antonin Dolohov e credimi…se solo chiudo gli occhi…sento ancora le loro grida...le sento tutte le notti. Avrò le loro urla nella testa per tutte le notti della mia vita.”


Hermione spalancò gli occhi incredula; sapeva bene di cosa stesse parlando l’amico, aveva studiato meticolosamente quel potentissimo incantesimo oscuro. E ne aveva paura. Perché sapeva.





La Maledizione di Antonin Dolohov era una delle peggiori, provocava ferite interne dolorosissime, a volte nemmeno visibili, facendo arrivare lentamente alla morte con atroci emorragie. Salvarsi da una simile fattura era solo un miracolo.
 
 
 
 
 
 
 
“E tu Neville sei…”
L’amico capì e la precedette.
 
“Sì, l’ho subita. Ma per fortuna solo una volta e di lieve intensità. – Paciock sorrise amaramente – Non so perché mi abbiano usato questa pietà. Forse perché chi me l’ha inferta non ha mai studiato troppo e preferiva fare il bullo, prendersela con i più piccoli, invece di impegnarsi qui a scuola. Per assurdo, devo ringraziare la sua incompetenza.”

“Malfoy.” – non era una domanda, Hermione aveva intuito fin da subito chi potesse avercela tanto con Neville. E senza motivo, per giunta. Da sempre.
 
“Già, proprio lui. – una scintilla di rabbia segnò il volto del ragazzp – Ma non finì così. Videro che non ero morto e volevano ancora divertirsi. Perciò mi spedirono dall'altra parte del mondo con un Incarceramus, in un paesino sperduto nel sud del Giappone. Ricordo poco o nulla, so solo che non potevo muovermi. Mi avevano trasfigurato in una vipera di cui Nagini avrebbe dovuto nutrirsi a breve. E ho perso ogni atteggiamento e pensiero umano.”
 
“Cosa...?” – la ragazza non riusciva a capacitarsi di come si potesse essere tanto sadici.
 
 
“Per fortuna la professoressa Sprite mi ha trovato giusto in tempo, tramite una pianta che mi piaceva molto da studente e intorno alla quale mi rifugiavo lì, in Giappone. Lei aveva sentito che ero io quel serpente. – una riconoscenza lucida lo attraversò – Ma, come ti dicevo, è stato il professor Piton a ridarmi la forma e la mente di un essere umano. E c’è voluto molto tempo per tornare in me. Per tornare razionalmente in me. Credimi Hermione, è stato…in una parola…orribile…”
“Non sai quanto mi dispiace Neville...”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ragazzi? – una voce si levò dalla finestra della presidenza spalancata sul cortile – Signor Paciock, signorina Granger per cortesia tornate dentro, vi attendiamo.”
 
 
I due guardarono in alto, riconoscendo il timbro serio della McGranitt.
Hermione prese il braccio dell’amico, lui la ringraziò con un sorriso, e insieme si incamminarono per tornare dentro la scuola e affrontare l’animata conversazione che si preannunciava.
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Emicranie improvvise ***


Ad Alex veniva così e non avvisava mai.
Era un momento, potevano essere in qualunque posto, ma non importava. Le partiva dallo stomaco. E non si fermava.
È come quando hai fame, come quando hai sonno. Come quando vuoi scrivere.
Era roba di un attimo, di un secondo: bastava un dettaglio, una risata sommessa, un accavallamento di gambe diverso, più malizioso.
 
Alex si incendiava davanti a delle belle gambe. Ci perdeva la testa.
 
Alex moriva per una minuzia di donna.
 
 
 
Forse fu proprio quello che quella sera la fregò.
 
 
“Ho voglia di te.” – le disse con la stessa calma con cui si chiede un fazzoletto di carta.
 
Il pub era affollatissimo: una drag queen nuova faceva il suo ingresso nella società gay irlandese e lo avrebbe fatto con stile.
Una miriade di mani alzate e visi sorridenti la accolsero, ma Alex aveva ben altro in mente.
 
 
“Cosa? – Luna la guardò frastornata – Cosa hai detto?”
Tra la folla capirsi era un’impresa.
Erano in piedi, ballando.
 
 
Alex sorrise. Sorrise in quel modo maledetto con cui ogni sera mandava in estasi la barista del locale.
Prese Luna per la vita, la cinse e la costrinse a guardarla negli occhi. Poi la mano le scese voluttuosa sul sedere.
Iniziava ad essere chiara. Iniziava a spiegarsi bene.
“Andiamo da me.”
Spesso dormivano insieme.
Spesso, dopo aver fatto sesso, dormivano insieme.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Signorina Granger, cosa intende dire con “non è chi credevamo”? Sa benissimo che il Ministero della Magia non sbaglia. Ci sono indagini ben approfondite alle basi di ogni sua supposizione.”
Piton la guardava torvo e leggermente adirato: la sua voce uscì più fluida del solito, perché incredulo e scettico verso l’operato dell'ex alunna. Non l’aveva mai vista troppo di buon occhio. Hermione non gli era mai piaciuta del tutto. Perché gli ricordava troppo se stesso.
 
 
 
Iniziava ad essere tardi, ma nello studio non si giungeva ad una conclusione. Testa e cuore, eterna odissea.
 
 
“Vi ho già detto come stanno le cose. Ci avevo creduto anche io, professore. Ci avevo creduto davvero ma… - Hermione gesticolava e vagava per la stanza cercando di farsi capire meglio possibile - …ma non è lei.”
 
La Preside di Hogwarts la fissava imperterrita. Sapeva che quella non era la verità. Non poteva.
 
“Hermione, il Ministero non sbaglia lo sai bene.”
 
“Vi dico che stavolta c’è stato un errore. E un errore madornale! – le scappò un ghigno nervoso, erano tre ore che provava a spiegarlo – Quella ragazza non è Ginevra Weasley! Ne sono sicura. Non ha niente di lei, niente.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Spalancò la porta con la stessa intensità con cui, presto, le avrebbe spalancato le gambe.
 
Non avrebbe resistito, era impossibile. Poteva sentire il fuoco scorrerle nelle vene, il liquore arrivarle fin dentro le viscere.
 
 
Luna buttò la borsa sul pavimento, non c’era tempo ora, non le importava.
 
 
 
 
Alex la prese lì, in piedi, costringendola spalle al muro nell’ampio ingresso a mo’ di salotto.
 
Il muro gelido la fece sussultare e inturgidire.
 
 
Alex sorrise con soddisfatta malizia: sapeva dove doveva rivolgersi. Sapeva dove mettere le mani.
 
 
 
Le tolse la canotta e il reggiseno insieme, in un sol gesto. La foga del momento non permetteva pause né inibizioni.
La baciava con voracità, come se da lì in poi non ci fosse più tempo; il desiderio non le dava pace, la divorava.
Veleno a scadenza prefissata.
 
 
Luna piegò il collo all’indietro e si perse mentre la lingua di Alex girovagava sul suo seno.
Forte, dispettosa, feroce.
 
 
Li succhiò entrambi, tenendoli tra le mani.
 
 
Li morse e li assaporò tra i gemiti dell’altra, tra le urla attutite, soffocate con la stessa mano di Alex davanti alla sua bocca.
 
 
Finché con l’altra sfregò, di punto in bianco, sul vulcano in piena.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“So quanto tu sia meticolosa nel tuo lavoro, ti conosco bene. Sei precisa, accurata e non tralasci nessun dettaglio. Eri la migliore. E voglio che tu lo sia ancora, Hermione. – la McGranitt le si fece più vicina, meno istituzionale – E per esserlo devi riportarla qui, perché è lei. E lo sai anche tu, lo hai percepito. So che lo sai.”
 
“Non ci sono prove. E poi quella giovane non ha nulla di Ginevra. Mi creda, nulla…neanche un dettaglio. Niente di niente.” – scandì quell’ultima parola quasi con dolore fisico, mentre un leggero mal di testa iniziava a farsi spazio in lei.
 
“I calcoli del Ministero sono chiari e portano a quella giovane. Solo tu puoi riportarcela, non ti devi arrendere Hermione.”
“Mi sono già arresa, Signora.”
 
La Preside chiuse un attimo gli occhi per riaprirli subito dopo, come a fermare un nervosismo latente.
 
“Ma perché Hermione? Perché sei così poco combattiva? Perché!?”
 
“Perché non proverò il dolore di perderla una seconda volta.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ti prego non ti fermare…” – il sussurro era rauco e intenso.
Due dita di Alex erano immerse, grondanti, nel paradiso dei sensi.
I loro sudori si mischiarono, fronte a fronte, goccia a goccia.
Erano nude e l’una nell’altra, corpo a corpo, come una danza sinuosa e ritmica.
 
 
Dentro e fuori.
 
 
 
Fuori e dentro. 
 
 
La foga l'aveva accecata, i suoi sensi avevano il totale predominio su di lei. Alex non ragionava: tutto era carne e istinto, sangue e saliva. Tutto.
 
Un lieve dolore alla testa la prese ma certo, in quel momento, non era importante.
 
Si sbottono' svelta e da sola la zip dei jeans e Luna si abbassò fino a sfiorare con la fronte le sue mutande porpora, gliele sfilo' e le fissò estasiata la zona: era umida e accogliente, pronta.
Alex dovette stringere forte i pugni per contenere tutto quel piacere che le arrivo' impetuoso e senza preavviso quando Luna si avvicinò. Stava godendo sentendo la lingua dell'altra muoversi dentro di lei.
Abbasso' gli occhi per vederla e le parve che dei boccoli castani, inaspettati, le sfiorassero la coscia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Vogliate scusarmi, non c’entro molto ma… - Neville si alzò dallo sgabello mal ridotto dove era poggiato. Non aveva pronunciato parola per tutto il tempo -  …ma vorrei, se possibile, parlare da solo con Hermione.”
 
I due professori presenti, la McGranitt e Piton, si guardarono sospetti: Neville non era un ragazzo chiacchierone, se chiedeva la parola era perché aveva davvero qualcosa da dire.
Acconsentirono con un cenno del capo e, dopo un sospiro indispettito del professore, i due senior abbandonarono la stanza.
 
 
 
 
 
Quando furono soli, il ragazzo parlò serio e guardando l'amica negli occhi.
“Hermione, ascolta. Io credo che quella ragazza sia davvero Ginny. – la giovane strega era sfinita e si lasciò cadere sulla poltroncina in pelle scura, mentre il giovane continuava – Dico davvero. Ero suo amico, la conoscevo. Lei si confidava con me e… da come l’hai descritta tu, credo proprio che sia lei.”
 
Ad Hermione alcuni dettagli di quella frase diedero quasi fastidio.
 
“Anch’io ero sua amica. Anch’io sapevo le sue cose e la conoscevo, Neville. Ma Alex ha una luce diversa negli occhi, ha un modo strano di fare. Non mi ha riconosciuta, non ha mostrato il minimo tentennamento. Alex non è Ginny, non ha nulla di lei e di quello che ricordiamo.” – ormai non lo guardava nemmeno più.
 
“Devi insistere!”
 
 
“Non è la ragazzina che ricordi.”
 
 
 
Paciock le si mise davanti, prendendole le mani. Pareva volesse assumere un’aria autorevole, ma non sembrava proprio convincente.
“Se qualcuno mi avesse detto che Ginny si sarebbe salvata…se qualcuno mi avesse detto che Voldemort non l’avrebbe uccisa… - la voce del giovane si incrinò appena - …io avrei scommesso tutto quello che avevo che sarebbe diventata cosi. Che sarebbe diventata l’Alex che descrivi tu.”
 
 
Hermione alzò gli occhi all’amico: Neville sapeva.
Neville sapeva qualcosa che a lei sfuggiva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La mano di Alex si bloccò nell’intimità di quella ragazza, che non era più Luna.
Che non era mai stata Luna.
 
 
Era incredibile. Era una visione.
 
Una visione sublime.
 
 
Sul suo letto, le lunghe ciocche castane ricadevano come piccole onde sulle spalle bianche e preziose della sua amante.
Il mento, una dolce pendice dove Alex poggiò il primo bacio dolce di tutta la sera.
Di tutta la vita.
E gli occhi, cioccolato fuso, emanavano una sensualità mai provata: lo sguardo magnetico e il corpo nudo di Hermione erano un’oasi nel deserto, il sogno proibito, la foresta inesplorata del suo animo.
 
La mano di Alex rallentò, ma non per fermarsi.
 
 
Si fece più lenta e languida, voleva sentire cosa l’altra provava, voleva guidarla.
Il desiderio crudo si stava vestendo di passione, di qualcosa di ben diverso. E ben più potente.
Quegli occhi erano così profondi.
Quel viso era così perfetto.
 
 
Più la guardava e più si perdeva.
Più si perdeva e più non poteva fare altro che guardarla e ripeterle…
 
 
“Dio, quanto sei bella…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non sappiamo quale destino sia toccato a Ginny. Forse anche lei ha subito una tortura o una maledizione. Anzi ne sono sicuro. I Mangiamorte non risparmiavano nessuno, nemmeno i Purosangue.”
 
Hermione sentiva che quella non era tutta la verità; il mal di testa le aumentava a dismisura.
 
 
“Neville, devi dirmi tutto quello che sai.”
 
 
Lui capì di essere stato scoperto, affondato perfettamente in una battaglia navale. Aveva il viso troppo sincero per apparire misterioso.
 
 
“A tempo debito saprai tutto, ora non posso Hermione. Non posso proprio.”
 
 
 
La maga stava per insistere e farlo cedere, ma proprio in quel momento si aprì il portone.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Proprio in quel momento si schiuse la porta intarsiata del piacere e gocce di rugiada colarono dalle cosce tese della ragazza.
Alex tolse la mano e l’incantesimo cessò.
 
 
 
“Mm…Sempre a destinazione con te! – Luna, stremata, scansò l’amica e la sorpassò riprendendo da terra i vestiti. – Vieni, facciamo una doccia.”
 
Alex non rispondeva, era rimasta lì, impalata contro quel muro dove fino a due minuti prima aveva stretto un'altra dea. La sua.
 
“Alex? – Luna le prese un polso e la guidò fino in bagno – Sai una cosa? Ti voglio sentire ancora dentro di me, adesso…”
 
Spesso Alex e Luna dormivano insieme.
Spesso, dopo aver fatto sesso, dormivano insieme.
 
Spesso sì, ma non quella volta.
Quella notte dormì solo Luna perché Alex aveva un inspiegabile e devastante mal di testa. E un pensiero fisso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Abbiamo riflettuto molto e siamo giunti ad una conclusione. – Hermione iniziò a temere il peggio – In quanto Preside della scuola di magia di Hogwarts sono onorata di comunicarvi che avete vinto a pieni voti il concorso indetto dieci minuti fa per la carica di docenti di ruolo.”
 
 
“Co…cosa?” – Hermione balzò in piedi, seguita da Paciock.
 
“Ma noi non abbiamo fatto nessun concorso!” – il ragazzo era a bocca aperta.
 
 
La Preside sfoggiò uno dei suoi sorrisi chiarificatori.
“Il concorso è stato indetto dalla maggioranza del collegio degli insegnanti, ossia la Preside sottoscritta e il Vicepreside altrettanto qui presente, e voi risultate vincitori a pieni voti, come ho appena detto. Signor Paciock – si rivolse in direzione del ragazzo – lei è sempre stato appassionato e integerrimo studioso di Erbologia. Pertanto ritengo che solo lei possa essere il degno sostituto dell'ex professoressa Sprite, ormai in pensione per affaticamento magico. La professoressa le sarà a fianco per i primi mesi, quindi stia pure tranquillo, signor Paciock, avrà tutto il tempo per imparare.”
 
 
 
A Neville brillavano gli occhi.
 
 
 
 
 
“E lei, signorina Granger… - poggiò lo sguardo alla sua pupilla – ...lei prenderà il posto del defunto professor Vitious, caduto con onore durante la dura battaglia svoltasi proprio fuori queste mura. La cattedra di Incantesimi è sua, a partire dal secondo semestre.”
 
“Signora preside, io non credo di…”
 
 
“Per il momento il tuo compito – la Preside tornò più informale – è far ragionare Ginevra Weasley. Non importa in che modo, purché lecito naturalmente. A partire dal secondo semestre, data di inizio del corso, lavorerai qui alle mie dipendenze. E non si discute, Granger!”
 
 
Hermione guardò prima l’amico, e nuovo collega, e poi la Preside. E capì di non avere scampo, mentre la testa sembrava scoppiarle dentro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex fissava il soffitto, con un’emicrania fulminante.
Luna dormiva al suo fianco.
 
Si voltò a guardarla, ora aveva i suoi soliti capelli biondo intenso.
 
Eppure prima, contro quel muro, per un attimo non erano biondi.
Per un attimo quel corpo, quegli occhi, quel seno…
 
 
“Ma che diamine dico…” – si maledisse da sé. Non doveva farlo. Non doveva.
 
Non doveva innamorarsi.
Non doveva farlo mai più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** D'incanto ***


Era un’assurdità se ne rendeva conto. Ma doveva farlo.
 
Era più di un’assurdità, era la pazzia concretizzata.
 
Era forse anche di più ma aveva l’indirizzo e doveva farlo. Doveva almeno provarci.
 
 
Dublino nel primo pomeriggio era un gigante addormentato. C’era abbastanza calma per fare qualsiasi commissione in centro e fuori. La gente avrebbe iniziato a circolare più animatamente appena il tramonto fosse giunto, appena il sole fosse sceso un po’. Non che la città risultasse famosa per il sole.
Alex prese il cellulare e guardò l’ora: aveva ancora tre ore di tempo per provarci.
E per sperare di riuscirci.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non lo so. Quel locale non mi ispira, mon tresor. Sono sincera!”
“Ma perché? Io vorrei vederlo, le guide turistiche dicono che sia un bel pub. Guarda!”
Hermione cercava in tutti i modi di convincere l’amica a visitare un localino ben frequentato, situato sull’altro lato del Liffey. Sfogliava il libricino con cura; aveva gli occhi concentrati e seriamente scuri.
 
“E’ piccolo, stretto, umido. No, tesoro, proprio no. – Caroline si allungò sul divano dell’amica mettendosi comoda – E poi, diciamocelo, non c’è nessuno di carino da conoscere.”
Hermione rise di scatto; sapeva bene dove l’altra voleva andare a parare, l’aveva prevista. E gettò la spugna.
Si lasciò sprofondare anche lei sul tessuto verde del sofà e diede all’amica una pacca di finto rimprovero.
 
Iniziarono a frequentarsi e Hermione la trovava una donna inimitabile e gentile, premurosa, presente. Un'amica.
Una donna.
Ne avevano parlato tanto, ma senza che Hermione chiedesse mai direttamente.
Caroline non aveva avuto problemi ad aprirsi e a parlarle della sua transessualità ormai datata, del suo percorso di vita e rinascita. Era da più di dieci anni che aveva deciso di cambiare, di riappropriarsi di quello che fin dall’inizio le era stato sottratto.
 
Hermione non avrebbe mai creduto di poter capire, non ci aveva mai pensato. Sapeva di non esserne in grado, ma sapeva anche che si stava affezionando a quella donna, insolita e chiassosa. Poteva confidarsi, scherzare, riflettere su qualsiasi cosa: Caroline la ascoltava, la capiva e non la giudicava. Non si sentiva sotto pressione con lei.
La permanenza nella città irlandese assunse tutto un altro taglio con un’amica così accanto.
 
 
 
 
 
 
 
“Driiiiin!”
Il suono improvviso del campanello dissuase le due dall’ennesimo tentativo di decidere come organizzare la serata.
 
Hermione scattò in piedi, chi poteva essere? Non aspettava nessuno, né aveva prenotato la cena. Guardò interrogativa l’altra che, dal canto suo, pareva perfettamente a suo agio.
Hermione le si parò davanti, le mani ai fianchi con fare indispettito.
 
“Caroline.”
“Sì? – l’altra alzò gli occhi con finta indifferenza, mentre si sistemava i capelli – Tutto bene, mia cara?”
“Tu ne sai qualcosa?”
 
 
 
“Driiiiin!” – la porta pareva volersi aprire da sola per la foga dell’insistenza di chi era dall’altra parte.
 
 
“Ascolta Herm, credo proprio che dovresti aprire. Insistono. Forza, vai!”
 
La maga si passò una mano sul viso ricordandosi, improvvisamente, di quanto fosse impresentabile con quella salopette di jeans nera e i capelli raccolti alla bene e meglio.
 
 
“Caroline, guardami!! – spalancò le braccia per poi puntarle il dito contro – Se c’entri qualcosa, giuro, giuro che non la passi liscia.”
Cercò di mantenere la calma e Caroline sorrise soddisfatta tra sé.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Si diresse alla porta e aprì piano.
 
 
 
Due occhi blu le saccheggiarono l’anima, espugnandola e rubandole ogni altro possibile panorama.
 
“Ciao…”
“Ci…ciao Alex…”
 
 
 
 
 
 
Alex si fece coraggio e, con modi titubanti mascherati da sicurezza, cercò di non fregarsi da sola.
 
“Posso entrare?”
“NO!”
Hermione chiuse gli occhi e si maledisse da sola per aver parlato prima di aver pensato.
 
 
 
La donna sulla poltrona rise tra sé e intuì, nell’alchimia di quegli sguardi sulla soglia, un certo imbarazzo. Doveva porvi rimedio, la sua amica aveva bisogno di lei: da sola non ce l’avrebbe fatta.
Caroline si alzò di fretta, riprese le sue cose e spalancò la porta d’ingresso spingendo, con finta distrazione, Alex dentro.
 
“Ragazze, accidenti, mi dispiace dovervi lasciare proprio ora! Sarebbe stata una bella riunione di categorie femminili varie ma, vedete, ho un impegno improrogabile dall’estetista e rischio di far tardi. La mia pedicure non può aspettare.”
 
Hermione bofonchiò qualcosa e in quel momento decise che gliel’avrebbe fatta pagare e anche molto cara.
“Avevi detto che avresti cenato con me? O sbaglio, Caroline?”
“Sbagli dolcezza, sbagli. E non sai quanto! Mi raccomando sii gentile, ricorda quello che dicevano i Greci: gli ospiti sono sacri. Alla prossima, bellezza. Ciao Alex!” – e sganciò un bacio sulla guancia della nuova arrivata per poi scappare a gambe levate, temendo le ripercussioni dell’amica.
 
 
 
 
Alex ed Hermione rimasero sole ed incerte sulla porta.
 
Aversi davanti le confondeva, le rendeva fragili e sofferenti come se qualcosa le attirasse ma, allo stesso tempo, le respingesse senza pietà. Hermione non aveva la vaga idea di cosa fosse.
Ma si disse che, qualunque natura avesse quel legame, doveva essere potente ed incalcolabile.
Voleva evitare Alex in tutti i modi, non stava più passando le serate al pub. Voleva dimenticarla, eliminando dai suoi giorni ogni luogo della città collegato a lei, ogni persona che la conoscesse e potesse essere un tramite.
 
Ma adesso era lì, in casa sua, e non sapeva minimamente cosa dire o fare.
 
 
“Molto bella la salopette, ti dona sai?”
L’autostima della maga toccò il fondo: quello era il suo vestiario da riposo e pulizia casa, non certo il tipo di abito con cui avrebbe voluto che Alex la vedesse.
E poi perché penso a come voglio che lei mi veda?!”
 
 
 
“Ti ringrazio...sì, ma so che non è vero.”
 
“No, dico sul serio. Ti sta d’incanto.”
 
 
 
 
D’incanto.
 
 
 
 
 
Quella parola frantumò ogni tentativo di difesa di Hermione, come un sasso scaraventato contro un palazzo di vetro.
 
 
 
“Sei…sei gentile. Vieni, dai, non restare lì impalata sulla porta. E anzi, scusa per…” – si fermò, interrompendo l'agitazione, la frase e lasciandola cadere a metà.
Alex aveva tolto la giacca e la leggera camicia blu di taglio elegante le delineava il seno e la linea dei fianchi. Hermione si sorprese a guardarla.
 
“Scusa per cosa?” – e si sedette dove prima era ben spaparanzata il loro messaggero di incontri “casuali”.
“Scusa per… - la maga distolse lo sguardo, non poteva più sopportare quegli occhi cobalto, non riusciva a reggerne il peso addosso - …scusa per come ti ho trattata fino…fino a qui.”
 
Sul viso di Alex si dipinse un risolino di trionfo misto alla solita indisponenza latente.
 
 
 
 
“Non pensavo che mi avresti mai chiesto scusa, Emma.” – era una vittoria. Una grandissima vittoria.
 
“Beh, non abituarti!” – Hermione voleva tenerle testa e non mostrarsi come in realtà era dentro, ovvero totalmente in balia di quel mare.
Di quel mare inaspettato e vicino.
 
 
Alex lasciò perdere la provocazione e si voltò un attimo verso la giacca che aveva lasciato lì accanto. Frugò nella tasca interna e ne tirò fuori una piccola busta, ornata da un bel fiocco viola.
Era un regalo, un regalo che aveva portato senza che l’altra lo notasse minimamente.
 
 
 
“Ti ho portato una cosa. Sai, non è molto educato presentarsi a casa degli altri a mani vuote!” – il ghiaccio sembrava ormai rotto e così Alex le porse il bel pacchetto.
 
“Devo preoccuparmi?” – Hermione lo prese con timore e si sedette vicino. Le vennero in mente gli odiosi scherzi che Fred e George erano soliti farle anni quando era dei semplici ed ingenui studenti dei primi anni ad Hogwarts. Sembrava passato solo un giorno, eppure erano anni.
E quella ragazza, adesso, somigliava a loro così tanto.
 
“Certo che no! Forza, aprilo.”
 
 
 
 
 
Hermione amava i regali, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Così come non avrebbe mai ammesso, neanche sotto tortura mortale, che quella ragazza bizzarra aveva qualcosa che le piaceva.
Qualcosa che la affascinava. Che la catturava.
 
 
 
 
Scartò piano il pacchetto, non rompeva mai del tutto le buste: era una sua abitudine da nata babbana.
 
 
 
Fu colpita da un piacevole e delicato odore di carta nuova. Era un libro.
 
“Cime… - finalmente il libro era libero dall’involucro colorato ed Hermione potè scorgerne il titolo - …Cime Tempestose…”
Lo girò il fretta per leggerne la trama e la divorò in mezzo minuto. Alex la guardava assorta, forse aveva centrato i suoi gusti e ne era proprio felice.
 
 
“Qualcuno mi ha detto…”- esordì l’ospite compiaciuta.
 
Hermione alzò gli occhi dal libro alla ragazza con fare interrogativo.
Ad Alex scoppiò qualcosa dentro a quel semplice sguardo.
 
“Caroline ti ha detto!”
 
“Qualcuno! – rise Alex – Sì, insomma...qualcuno mi ha detto che volevi leggere i classici inglesi per eccellenza e questo, beh, secondo me è il cuore del classico. O almeno, di quel classico che piace a me. Amo questo libro e poi voglio fare una promessa. Una promessa sacra, giurando proprio su Cime Tempestose.”
 
 
 
 
Alex parlava scherzosamente ed ascoltava l’altra ridere di gusto. Era come ascoltare lo sciabordio delle onde d’oceano mentre si infrangono sulla spiaggia, come il fruscio delle foglie mosse dal primo venticciolo d’autunno.
Hermione rideva ed era una forza della natura. Una forza della natura bellissima.
 
 
 
“Sono proprio curiosa, sentiamo questa promessa!”
 
 
 
Alex si sistemò il colletto della camicia e le maniche, con fare rigoroso. Voleva apparire davvero seria.
 
“Allora, io prometto solennemente… – Hermione esplose nell’ennesima risata contagiosa – Scusa Hermione, ma non mi sembra il caso di ridere. Sto facendo una promessa importante e ho bisogno di tutta la serietà di cui sei capace.”
 
La ragazza provò a placarsi, ma con scarso risultato, gli zigomi le si arrossirono vistosamente.
 
“Scusami, sei…sei…mm…poco credibile!”
 
“Ah sì? Allora aspetta che mi avvicino.” – con un balzo sul divano, Alex arrivò accanto alla maga e pose sulle sue gambe il libro che le aveva appena regalato.
 
Le loro spalle si sfiorarono; dovette fare uno sforzo sovrumano per non voltarsi leggermente verso lei. Alex sapeva benissimo che, se solo avesse incontrato quegli occhi d’autunno che aveva accanto, non si sarebbe fermata a desiderarla: l’avrebbe baciata. Rovinando, forse, tutto.
 
Hermione non rideva più adesso, il profumo di quell’impertinente ragazza la azzittì. E le ammutolì ogni percezione diversa, ogni sensazione che non fosse lei.
 
 
“Allora, ecco, dicevo. Questo libro è per me come la Bibbia. Lo amo e lo conosco in ogni sua virgola, non potrei mai mentirti con questo di fronte. – Hermione si sorprese nel vederla così seria e, per un momento, umile – Sono stata scontrosa con te e indisponente, ti ho trattata male e non è stato carino.”
 
“Ora sei tu che ti stai scusando, mi sembra.” – lo sguardo della giovane insegnante di Incantesimi era vispo e anche un po’ malizioso, senza sapere di esserlo.
 
E’ questa la malizia che non perdona, la malizia che uccide di bramosia struggente chi ha di fronte.
 
“Sì, ma non abituarti! – le fece il verso – Quindi…ecco…io sono venuta qui per dirti che, se ti va, potremmo ricominciare da capo. Da zero. Ora sai perfettamente il mio nome, quindi spero non mi chiamerai più Ginny o cose del genere. Ed io prometto di non chiamarti più Emma, come l’autrice di quel libro che, diciamocelo, confrontato con Cime Tempestose è ben poca cosa.”
 
Hermione mise la sua mano sul libro e diede la sua parola: potevano ripartire, potevano mettere da parte il male leggero che si erano fatte e ricominciare come persone nuove. Una di fronte all’altra.
 
Eppure entrambe sentivano che nell’aria c’era qualcosa di diverso, qualcosa come un filo invisibile ma teso, qualcosa di totalmente destabilizzante.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Passarono un’ora buona a chiacchierare del più e del meno. Ad Hermione fece piacere, col senno di poi, quell’insolita visita.
E iniziò a credere che davvero si fosse sbagliata, che davvero quella ragazza non poteva essere Ginny. Non lo era.
Con Ginevra non aveva mai provato quella strana sensazione di voler guardare tanto una persona, di voler sapere cosa le passava per la testa, di voler essere guardata, di voler ricevere attenzioni da lei. No, con la sua amica non era così.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Accidenti, ma è tardissimo! Luna mi starà aspettando!” – Alex si alzò di scatto dopo aver sfiorato con lo sguardo l’orologio che l’altra aveva al polso.
“Luna è la tua ragazza?”
Nell’attimo stesso in cui lo disse, Hermione avrebbe voluto avere tra le mani la Giratempo per tornare anche soltanto un minuto indietro e rimangiarsi quella stupida domanda insensata.
 
Alex la guardò alzando le sopracciglia, non se l’aspettava.
 
“Beh, non proprio. Vedi, io sono uno spirito alquanto libero, non so se mi spiego...”
“Scusami. Scusa, non sono affari miei. Dimentica la mia domanda!”
“Diciamo che siamo molto amiche. E, ecco…a volte capita di…”
“No, ti prego! Non voglio saperlo! Sono affari vostri, non avrei dovuto chiedertelo.”
 
Si incamminarono vero il portone e Alex ne uscì, rimanendo impalata con mille frasi incastrate tra i denti.
 
Finché non ne sputò una tutta d’un fiato.
 
“E tu, Hermione, sei…impegnata?”
“Certo! Certo che sì! Assolutamente! Da un paio d’anni!” – Hermione sparò d'impulso la prima risposta che le venne in mente.
“Wow, un paio d’anni...dev’essere una storia importante.”
“Sì, certo che lo è! Lui si chiama Harry.”
 
Non avrebbe potute pensarne di migliori.
 
“Ah, Harry... – Alex abbassò lo sguardo, forse deluso – Beh allora, ci si vede in giro. Ora vado. Fammi sapere se ti piace il libro, mi raccomando!”
“Sicuro! Ti farò sapere! Ciao.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Si chiuse la porta alle spalle come se fosse appena passato un tornado.
Come se le fosse passato sopra un camion e, nonostante tutto, lei fosse rimasta illesa, seppur scalfita dentro. Colpita in modo inguaribile, cronico.
 
Era strano, Alex era strana. La stravolgeva. Perché le aveva fatto quella domanda?
 
E, ancora più strano, perché lei aveva sentito il bisogno di mentirle? Facendo il nome di Harry, poi.
 
Non voleva apparirle sola, non voleva sembrarle la sfigata di turno che non aveva una relazione importante o qualcosa di simile.
Non voleva apparirle debole.
 
“Driiiin.”
 
Il campanello suonò ancora: oggi doveva essere proprio la giornata.
Tornò alla porta e la dischiuse leggermente.
 
“Chi è?”
 
Alex era poggiata con la spalla sulla porta. Si ritrovarono l’una addosso all’altra, il fuoco e il legno intagliato. Erano vicinissime, più di quanto fossero mai state prima.
Hermione avvertì il suo respiro caldo e vibrante.
 
“Ti va di uscire con me stasera?”

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Le luci sull' Ha'penny bridge ***


Si sarebbe mangiata le mani anche stavolta.
Come le era venuto in mente di dire “no”? Perché era così prevenuta con quella ragazza? Di cosa aveva paura, in fondo?
 
 
E perché, adesso, le dispiaceva?
 
 
Mangiò da sola una frittata veloce. Non aveva voglia di cucinare cose troppo elaborate. Non le piaceva nemmeno cucinare, a dire il vero.
E poi era sola. Nemmeno Caroline si era rifatta viva.
Era sempre stata per un pasto veloce, per qualcosa di breve; in questo modo poi aveva tutto il tempo per dedicarsi alle sue letture. E una bella pila di libri la stava già aspettando sulla scrivania della camera.
Li aveva presi in prestito mensile direttamente da Hogwarts.
 
Diventare professoressa di Incantesimi voleva dire, per Hermione, dover sapere tutto sugli incantesimi. E su tutti gli incantesimi! E avere concessioni sui prestiti bibliotecari intermagici, ossia tra il regno babbano e quello magico. Pensò bene di procurarsi anche manuali di magia oscura. Li avrebbe letti e approfonditi a dovere: non doveva sfuggirle niente.
 
“Forza, cominciamo.” – forse voleva incoraggiarsi sul serio. Ne aveva bisogno: l’attendeva uno studio lungo tutta la notte.
 
Doveva farcela e per un motivo ben preciso.
 
 
 
 
Prese il primo libro, “Incantesimi base e come insegnarli nelle scuole”, iniziò dall’indice. Avrebbe diviso il suo studio per capitoli, ed ogni capitolo in paragrafi.
 
Non seppe mai cosa le accadde poi.
Cosa le accadde veramente dentro.
 
 
“Al diavolo.”
Chiuse il libro, lasciandoci dentro il foglio di appunti che aveva già quasi tutto riempito.
 
Corse in camera, buttò dall’armadio l’abitino nero che aveva comprato con Caroline quello stesso pomeriggio e volò nella doccia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Signorina venga fuori, siamo impazienti di vederla!”
Il commesso era troppo insistente per i suo gusti, ma ormai era lì dentro da parecchi minuti. Doveva pur uscirne.
E lo fece.
Incurante della sua bellezza.
 
“Wow, mon tresor, sei una vera milady con queste due pezze addosso!” – Caroline l’aveva aspettata fuori dal camerino e ora, con aria tronfia, la osservava estasiata.
 
Hermione parve preoccupata mentre osservava la sua immagine riflessa allo specchio.
 
“Caroline, credi davvero che siano due pezze? Sono troppo svestita, forse...”
 
L’amica aguzzò lo sguardo e la convinse con poche parole.
“Bellezza, credimi. Sei scosciata al punto giusto.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ricordando lo sguardo d’approvazione dell’amica, esperta in vestiario di seduzione, Hermione uscì dalla doccia, si asciugò in fretta e lo indossò.
Per un momento pensò che fosse davvero troppo, ma fu solo un attimo e passò veloce così come era arrivato.
 
 
 
 
L'abito era nero con una fantasia floreale non troppo definita ed Hermione si ritrovò a riflettere sul fatto che, quando si fosse seduta, avrebbe lasciato ben poco all’immaginazione di chi l’avesse guardata.
 
Le copriva meno di metà coscia, ma nel complesso non risultava volgare. Almeno non su di lei: aveva un portamento particolarmente elegante, anche per gli abitini così succinti.
Non aveva maniche e le braccia si mostravano leggere.
 
 
Raccolse i capelli in un’acconciatura liscia e non castigata, con riga definita ma ciocca sempre ben ribelle da sistemare continuamente.
 
Prese la piccola borsa da sera e uscì. Senza voltarsi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il pub era stranamente poco trafficato ed Hermione riuscì ad entrare senza troppi problemi stavolta.
“Strano.” – si disse, ma forse nel bel mezzo della settimana Dublino non era poi tanto attiva.
 
 
Arrivò al bancone e prese una birra leggera. Bere da sola non era certo il massimo della vita.
Si guardò alle spalle con aria di finta distrazione, ma non scorgeva Alex.
 
Era sicura che l’avrebbe trovata lì ed invece c’erano ben poche facce. E non la sua.
 
 
 
“Cerchi qualcuno?”
 
Hermione si voltò di scatto, qualcuno pareva aver percepito i suoi pensieri.
 
Una ragazza biondissima le rivolse la parola, con preoccupazione poco veritiera. La riconobbe subito.
 
 
 
Era Luna, l’amica di Alex. La stava fissando altezzosa mentre, al suo fianco, sorseggiava un liquore scuro e denso.
 
 
“Ciao...no, non cercavo nessuno. Volevo solo… - Hermione abbassò lo sguardo sul bicchiere – Volevo solo bere qualcosa e fare un giro per il centro.”
 
La bionda continuava ad inchiodarla magneticamente a quel bicchiere, non le staccava gli occhi di dosso.
 
“Stasera non c’è granché.”
 
“Sì, ho notato.”
 
 
 
Hermione provava un certo imbarazzo. Non aveva mai parlato con quella ragazza prima, sapeva solo che era amica stretta di Alex.
Si maledisse per aver ripensato alla “strettezza” della loro amicizia, ma per fortuna non aveva voluto saperne i dettagli.
 
 
“Alex non c’è.”
 
“Come?” – La giovane strega cadde dalle nuvole.
 
 
 
“Se sei venuta per lei hai fatto un buco nell’acqua.”
 
A Hermione andò di traverso la birra.
Quando si riprese alzò finalmente gli occhi fino ad incontrare quelli di Luna; non aveva niente da perdere e, soprattutto si disse, non aveva niente di inferiore a lei.
Eppure quegli occhi la infastidivano.
 
 
 
“Scusami, non sono molto abituata a bere. Comunque, sai dove posso trovarla? Dovrei parlarle.”
 
Stavolta fu Luna a provare una certa seccatura, lo si notava da come aveva arcuato un sopracciglio.
 
 
 
 
“Parlarle con quel vestitino!? – la bionda bevve un altro sorso, molto lentamente - Dimmi la verità, perché ti interessa tanto Alex? Rischi di essere soltanto una delle tante povere vittime.”
 
 
La maga non sopportò quell’affronto.
E non sopportò quel sopracciglio.
 
 
“Non so cosa stai insinuando, ma non credo che ti riguardi. E poi io e te non ci conosciamo nemmeno.”
 
 
“Uh uh, sento puzza di bruciato, devo aver colpito nel segno! Comunque, io sono Luna e sono una sua amica da parecchio. E ci tenevo solo a dirti che non mi piaci, l’ho detto anche a lei. Non mi piaci per niente, Hermione. Sei troppo, come dire…troppo circospetta. – Hermione si fermò, bloccata sui suoi nervi tesi – Sei arrivata dal nulla e le giri troppo intorno per i miei gusti. Gliel’ho detto davvero, sai? Ma…”
 
“Ma?”
 
 
 
 
“Ma Alex ha perso la testa per te, almeno credo. Quindi, beh, chi sono io per evitare che magari sanguini il cuore anche a lei per una buona volta?” – la strana conversante sorrise e parve sincera.
 
Hermione invece non riusciva a capacitarsi.
Si chiedeva se quelle parole fossero vere e se poteva fidarsi di quella stramba ragazza.
 
Un brusio improvviso le interruppe i pensieri: era il suo cellulare che vibrava e richiamava la sua attenzione. Le era arrivato un messaggio.
 
Prese l’apparecchio, ancora titubante sul suo reale uso; sbloccò lo schermo, aguzzò la vista e aprì il testo.
 
 
 
 
 
Direzione da prendere: Ha’penny bridge. Si muova e ricordi che non può usare la magia. Buona serata, professoressa Granger.
 
Un leggero ghigno le si dipinse sul viso: il Ministero doveva essere già stato avvisato circa la sua nomina a docente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Salutò svelta la ragazza insolita e lasciò il locale.
 
Si strinse più che poteva nella giacca in pelle scura: l’aria era fredda ormai e il naso le divenne rosso. Tirò su diverse volte; iniziava a raffreddarsi sul serio.
Quel tragitto lo aveva già fatto altre volte, decine di altre volte ma in quella tarda serata di fine autunno le tremavano le gambe.
Superò una coppia di innamorati, mano nella mano e poco più avanti un gruppo di amici quasi sbronzi.
 
Corse più che poteva, ma di certo quelle eleganti scarpe rosse con tacco non erano l’ideale per essere veloce.
E non poteva servirsi della magia, come il delegato del Ministero le aveva prudentemente ricordato.
 
 
L’ultimo incrocio prima del ponte Ha’penny.
Davanti a lei si aprì uno spettacolo meraviglioso e a dir poco: il ponte in legno, segno immemore di Dublino, era decorato con tante piccole luci bianche sul passo e alle estremità diventavano arancioni e verdi.
Durante la sera la città delle fate regalava ai turisti e ai suoi abitanti quella piccola delizia.
 
 
Hermione arrivò fino all’estremità rossiccia e osservò l’acqua che, sciabordando sotto, rispecchiava i colori e le facce che transitavano sullo storico ponte ligneo.
 
 
 
“Hermione!”
 
La strega alzò gli occhi.
 
E vide una magia.
 
 
 
Alex era sul lato verde, con indosso una giacca grigia di tessuto da cui spuntava il collo di un’immancabile camicia, stavolta bianca.
 
La maga sorrise e, camminando più svelta che poté, attraversò il ponte.
 
 
 
 
“Ciao!”
“Buona sera signorina! Non pensavo di rivederla così presto. – Alex sembrava felice di quell’incontro, come forse non avrebbe immaginato d’esserlo – Come mai da queste parti? Non dirmi che è un caso, perché non ti credo, stavolta non ti credo. I folletti e le fate d'Irlanda non credono alle coincidenze.”
 
E sperava davvero che non lo fosse, perché Hermione era troppo incantevole alle luci di quel ponte.
 
 
“No. Non è un caso, io…io ti stavo cercando.”
 
“Cercavi me? Tu?! E a cosa devo l’onore? Mi avevi detto che non volevi uscire, che non ti sembrava il caso e tutte quelle fantasiose scuse...”
 
 
Il ponte luminoso rifletteva la loro immagine nel Liffey, ascoltatore calmo e silenzioso di quei due spiriti sospesi nello spazio e in un tempo passato.
 
 
 
“Ecco, a dire il vero io…io…”
 
“Shh! – Alex zittì Hermione avvicinandosi e prendendole la mano all’improvviso – Guarda. Guarda e basta...”
 
In quel momento mutarono tutti i colori tenui e il ponte si fece scintillante e vivo, fulgido senza avvertimento.
Tutt'intorno una miriade di sfumature intense luccicava, dando vita ad uno spettacolo di intermittente luce che si rifletteva intatta sui loro visi.
Era incredibile: un improvviso sciacquio di chiarori e un’esplosione dentro.
 
Alex sentiva che quella ragazza le avrebbe cambiato tutto.
 
 
 
O, forse, era già successo. E tanto tempo prima.
 
 
 
 
Hermione si avvicinò alla staccionata per osservare più attentamente quegli effetti stupendi sull’acqua e si sporse. Il vento le scompigliò la chioma, ma non le importava in quel momento. Non aveva senso, era tutto perfetto così. Anche i suoi capelli scompaginati dal vento.
 
Aveva le gambe tese, lisce e scultoree, da brivido, da sensualità fluida. Alex non poté fare a meno di notarlo. E si perse in un mare più denso e profondo di quel fiume.
 
 
“E’ bellissimo qui.” – Hermione pensava a voce alta.
 
“Già. – L’altra le si avvicinò, poggiando i gomiti sul legno e sfiorando il braccio dell’altra – Non immaginavo che ti avrei rivista così presto. E non…non immaginavo che mi avresti cercata tu.”
 
“Nemmeno io. Nemmeno io immaginavo che l’avrei fatto, ma tu…tu mi hai vinta, Alex.”
 
 
Hermione si voltò ad incontrare gli occhi della ragazza irlandese, che però erano fissi sul letto del fiume.
Sentiva che Alex era come bloccata, chiusa a riccio nella sua difesa forzata.
 
Fu allora che la strega prese coraggio e divenne padrona dell’attimo, liberandosi dagli schemi che si era imposta e che l’avevano tenuta prigioniera per troppo tempo.
Con le dita, piano, sfiorò lo zigomo di Alex, il lineamento marcato e, giunta al mento, la costrinse a voltarsi. Finalmente aveva quegli occhi azzurri addosso.
Finalmente non aveva più freddo.
 
 
E si fece più vicina, disarmata come un cervo davanti al cacciatore mirante.
 
Poteva sentire e vedere la nebulosa dei loro respiri, ormai rasenti e sincroni.
Poteva sentire le dita di Alex che, desiderose di sfiorarla, si poggiavano piano sul suo fianco destro.
Poteva sentire il suo sangue, bollire come se stesse per strariparle dalle vene.
 
Si spinse ancora più vicina, ancora di più.
 
E la sentì.
 
 
E le sentì.
 
 
Sentì quelle labbra, finalmente contro le sue, infrangersi ed unirsi in un bacio desiderato e cercato da tanto tempo.
 
Da sempre.
 
 
 
Alex chiuse gli occhi al contatto e poteva sentire, percepire Hermione che, morbida e sinuosa, si liberava: la sentì bussare alla sua porta e, a quel punto, non poté far altro che gettare la resa, aprire e lasciarla entrare; vittoriosa, Hermione le accarezzò la lingua con la sua, tormentandola ininterrottamente.
Quella ragazza aveva un’intraprendenza tutta sua, scatenava un terremoto di sensi impossibile da ammansire.
Le loro bocche non riuscivano a chiudersi né ad allontanarsi, ora che finalmente si erano trovate su quel ponte luminoso e le mani della bibliotecaria, a lungo smaniose, finalmente si posarono su quel viso definito da Apollo, per poi perdersi tra i capelli di Hermione scompigliandoli del tutto, come fili di bronzo scuro in balia della tormenta. 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Mezzo bicchiere d'assenzio ***


Sembrava un sogno.
Sembrava la vita intera e la sua fine. Sembrava tutto insieme, tutto che scorre, si scombina e si chiude tra due bocche.
Quel bacio conteneva tutto quello che Alex aveva sempre desiderato, fin dalla prima volta che l’aveva intravista in libreria mentre, distratta e bellissima, leggeva incurante le vicende di Emma Bovary.
 
Lentamente Hermione staccò le labbra umide dalle sue, ma non si distanziò; era sempre lì, lì davanti, bella come poche cose al mondo, era sempre lì, lì addosso come se non ci fosse altro posto, come se il tempo fosse fermo, come se tutto potesse ridursi a quel ponte di legno sul Liffley.
Era incredibile, eppure era successo. Stava succedendo.
 
Alex sfiorò quel viso, pianissimo, con la paura che potesse scomparire irrimediabilmente sotto le sue dita se solo avesse osato fare di più.
 
“Come si fa ad allontanarsi da te?”
 
Hermione sorrise, felice.
Per la prima volta dopo incalcolabile tempo.
E la baciò di nuovo, d'impeto, stringendosi forte a quella giacca grigia.
 
 
 
 
 
 
 
Attraversarono il ponte e passeggiarono per un po’ senza poggiare i piedi per terra e senza sapere bene dove andassero. Entrambe avevano il cuore troppo leggero per credere che fosse tutto vero, che davvero proprio loro due, le più improbabili, le meno compatibili ora avessero un filo stretto da petto a petto.
 
Dublino si stava addormentando, silenziosa e leggera anche lei, come una nobildonna spossata dalla dura giornata di ozio uggioso. Eppure, senza saperlo, quella donna aveva fatto un miracolo: aveva fatto ritrovare alle due giovani una pietra grezza di indicibile valore.
 
 
 
 
La bibliotecaria si fermò di colpo, la maga si sorprese.
Erano arrivate al suo appartamento, a poca distanza dal Trinity College e dai dormitori degli studenti universitati. Alex abitava lì da anni.
 
 
“Beh io…io abito qui…”
 
“Ah, wow! – rispose Hermione, ammirando la bellissima zona. Aveva un che di ottocentesco, però le piaceva – E’ carino qui. Molto carino! Ho perso ogni capacità stasera e credo che domani non ricorderò dove abiti, né come ci si arrivi!”
 
Erano bellissime insieme, due anime agli antipodi, lontane anni luce ma complementari.
Non era solo questione di spirito, ma di colori, di suoni, di voglie. Di mondi.
 
“Perché non sali?”
 
 
 
“Cosa...?” – ad Hermione si fermò il respiro. Doveva aver capito male.
 
Molto male.
 
 O bene, molto bene.
 
“Ti ho chiesto se ti va di salire. – Alex la guardava, ma senza malizia. Non voleva travisare le sue stesse parole. Non voleva essere precipitosa. Non voleva rovinare tutto. Ed ebbe paura di averlo fatto – Sono al terzo piano, beviamo qualcosa se ti va e poi ti lascio andare, giuro. Non ho cattive intenzioni.”
 
“Giuro solennemente di non avere buone intenzioni...”
 
 
“Come scusa?” – stavolta era Alex a credere di non aver capito.
 
“No, niente! Scusami, un flash...Lo dicevamo quando, ecco…Lo dicevamo sempre a scuola. Non so come mi sia venuto in mente, perdonami!” – invece lo sapeva benissimo. Erano quegli occhi. Era quel blu.
 
“Lo prendo per un sì allora. – Alex mise repentina la mano nella tasca della giacca, prese la chiave e socchiuse piano il portone – Vieni…”
 
 
 
 
 
Fece strada, dopo aver chiuso per bene; voleva essere più naturale possibile e non dare strane idee alla ragazza che stava entrando per la prima volta in casa sua.
Voleva essere galante, voleva conquistarla. Voleva farle capire che le piaceva.
 
E le piaceva da morire.
 
 
 
Osservava Hermione che saliva le scale, come fosse una visione. Quasi uno scherzo, per quanto incredibile.
 
 
 
 
Hermione a casa sua: fino a quel pomeriggio le era sembrata solo un’utopia, un sogno irrealizzabile. Un'assurdità. E invece era lì.
E, forse, sarebbe stata sua…
 
 
E tra mille pensieri che avevano il suo profumo e la forma delle sue gambe, Alex le indicò la strada come ogni buon padrone di casa.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Alex.”
 
 
 
La giovane in camicia si voltò all’altra, temendo che qualcosa non andasse. Proprio ora che c’erano quasi.
 
 
 
“Sì?”
 
 
 
 
 
Ma non fece in tempo a vedere o dire altro.
 
 
 
Hermione salì i due gradini che le separarono e, afferrandole il bavero della giacca, la baciò con tutta la passione di cui era capace
 
 
 
 
Alex le cinse la vita: era così bello poterla stringere, avere la sua pelle contro, talmente bello che finì per chiedersi come dovesse essere spogliarla e farci l’amore.
 
 
Il paradiso in terra, sicuramente.
 
 
 
 
 
 
Anche Hermione la voleva. 
La voleva come non aveva mai voluto nessun altro, come non aveva mai desiderato nessuno dei suoi precedenti ragazzi. Nessuno le aveva mai fatto partire la testa così, nessuno l’aveva mai disinibita tanto. Nessuno le apriva il desiderio come Alex sapeva fare, senza nemmeno impegnarsi troppo.
 
Con le labbra ancora unite, Hermione pose le mani sul seno di Alex, le fece scivolare a terra la giacca e aprì l’immacolata camicia.
 
 
 
“Di questo passo tutti i miei buoni propositi si andranno a far benedire, lo sai vero?”
 
Ma Hermione la guardava con una bramosia che non ammetteva repliche.
 
“Non me ne importa nulla, lo sai vero?”
 
 
 
Alex riuscì, faticosamente, ad arrivare davanti al suo portone con la ragazza ancora contro, con un bacio che descrivere passionale sarebbe riduttivo.
Con quella voglia immane, con la saliva dell’altra e il suo profumo intenso.
Con le mani sulle gambe di Hermione, su quelle gambe che aveva tante volte sognato.
 
 
 
 
La porta era proprio lì, c’erano quasi.
 
La camicia era ormai del tutto aperta e Dio solo sa quanto Alex voleva aprire in fretta quell’ennesima porta e far sì che Hermione gliela togliesse definitivamente.
 
 
Poi d’improvviso…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Aaaleex…” – una vocina leggera le raggiunse dal tappeto sulla soglia.
 
Una donna riccia e bruna si alzò dal giaciglio dove era tutta rannicchiata, accanto alla porta d’ingresso dell'appartamento.
 
 
 
 
 
Hermione si sciolse da Alex che, svelta, si riappropriò della camicia e spalancò gli occhi.
 
“Chi sei tu? E che ci fai davanti la porta di casa mia?” – Alex si frappose tra Hermione e quell’insolita donna che giaceva sul pianerottolo. Nei suoi occhi azzurri si nascondeva, male, un'insolita paura.
 
 
“Fai finta di non conoscermi, eh? Mm posso capirlo, stavi per farcela in fondo...”
 
 
“Che cosa vuoi? Certo che non ti conosco! Vattene o sarò costretta a chiamare la polizia.”
 
La situazione si fece seria, sospesa su un filo troppo labile.
Si poteva avvertire un’ansia recondita.
 
 
 
“Alex, calmati. – Hermione cercò di placare la ragazza che fino ad un attimo prima baciava, poggiandole una mano sulla spalla. La vide molto tesa e per un momento temette il peggio – Sono sicura che è solo un malinteso e la signora se ne stava andando.”
 
Si voltò alla donna e questa non fu da meno: la sconosciuta sostenne con estrema durezza lo sguardo della giovane maga.
 
 
 
 
 
Ma si beffò del tentativo di pace di Hermione e si mise in piedi: aveva un aspetto provocante e altero, incurante e tentatore.
Indossava una gonna con uno spacco laterale molto pronunciato ed un corpetto non propriamente sobrio.
Hermione non conosceva molto bene il mondo babbano, ma donne così le aveva già viste e in strade scure, fuori città. Eppure quelle ragazze avevano sempre lo sguardo triste; questa donna invece emanava superbia.
 
 
 
“Allora Alex, è lei? – la donna si riferiva ad Hermione – E’ lei la tua prescelta? Quella di cui mi parlavi tanto. Hermione, quella che volevi farti a tutti i costi, giusto?”
 
 
 
 
 
Alex stava per esplodere: non l’avrebbe sopportata un momento di più. Quella donna voleva rovinarla.
 
 
“Cosa vuole da me, signora?” – fu Hermione a frapporsi stavolta e ad affrontare la strana donna.
 
 
“Cosa voglio da te? Non lo sai?! Allora, devo dedurre che la nostra amica in comune non ti ha detto proprio nulla sulle nostre abitudini...”
 
 
“Detto cosa?”
 
 
 
 
 
Alex non ce la fece più ed esplose.
 
“Lasciala stare, Bellatrix! Vattene via!” – alzò la voce, spaventando Hermione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ah, vedo che ti ricordi di me allora... – la donna si avvicinò ad Hermione, scrutandola con fare indisponente – Sì, sì. E’ proprio carina, avevi ragione Alex, ottima scelta. Sono sicura che ci divertiremo un mondo, tutte e tre. Non temere Hermione, io ed Alex abbiamo molta esperienza in queste cose tra donne…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La donna, di nome Bellatrix, le pose una mano su un fianco, avvicinandosi provocante. Hermione la scaraventò via e si allontanò, incamminandosi svelta verso le scale.
 
 
 
“Hermione, aspetta!” – Alex la rincorse. Ma la maga non voleva saperne: si era sentita usata ed ingannata – Hermione! Posso spiegarti tutto, aspetta!”
 
 
Ma era tardi, Hermione aveva raggiunto il portone d’ingresso e si era immessa nel viale, lasciando di sé solo una scia di profumo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La folla la accolse nel suo continuo viavai selvaggio, ma lei non ci badava neppure.
 
Aveva gli occhi bassi e le braccia incrociate sul petto; si sistemò la spallina del vestito, spostato fino a poco fa dalla persona di cui si era fidata. E che invece aveva tutt’altri piani.
 
Si disse che era stata una stupida, un’ingenua sognatrice. Una stupida innamorata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex rimase a metà della rampa di scale.
Il cuore le si era fermato. L’aveva ferita. Vederla andar via, l'aveva ferita.
Aveva fatto esattamente l’unica cosa che non voleva fare; era riuscita nel totale inverso della missione che si era prefissata: conquistare Hermione.
L’aveva avuta per un attimo e poi l’aveva perduta, tutto nella stessa sera.
 
 
 
 
 
“Perché? – era entrata nel suo appartamento sbattendo la porta; la donna del malaugurio l’aspettava tranquillamente sul divano – Si può sapere perché l’hai fatto? Che cosa vuoi? Che cosa volete che io non vi abbia già dato?”
 
Bellatrix alzò gli occhi strafottente e rise. Rise di gusto.
 
“Dovresti ringraziarmi! Dovresti solo ringraziarmi, Alex. Se io non fossi intervenuta, avresti perso la testa. E non puoi permettertelo.”
 
“Sono pienamente cosciente del mio ruolo e non ho perso proprio nulla. Mi stavo solo… - si interruppe un secondo – Mi stavo solo divertendo. Posso farlo, ne avrò pur diritto o no?”
 
 
“Non con lei.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex aprì il mobile accanto alla finestra. C’erano delle bottiglie in fila.
Dietro di esse, nascosta, si trovava una piccola bottiglia sudicia e vecchia dalla forma di fata.
La prese; il contenuto era verdognolo.
 
Bellatrix capì cosa voleva fare e le porse un bicchiere vuoto ed una zolletta di zucchero dalla credenza.
 
Alex riempì il bicchiere poggiandovi sopra un cucchiaino con la zolletta. Si corciò la camicia fino ai gomiti e fissò lo zucchero.
 
 
 
 
 
Non con lei…” - improvvisamente, come evocata da quelle parole aspre, una scintilla dette il via alla piccola fiamma che sciolse lo zucchero, facendolo ricadere nel bicchiere sottostante.
 
Tolse il cucchiaino, ormai inutile, e trangugiò il primo mezzo bicchiere d’assenzio in un solo colpo.
Ne seguirono altri.
Ne seguirono tanti.
 
 
 
“Bevi, bevi pure. Ma vedi di non andare su di giri, non troppo almeno. Siamo attesi a palazzo.” - Bellatrix la controllava e lasciò che sfogasse con la fata verde quel momento e quel lacerante dolore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’alba baciò l’orizzonte irlandese.
Un uomo di mezz’età dai lunghi capelli bianchi attraversava il viale alberato di una cascina abbandonata, sperduta nel verde.
Era sempre di bell’aspetto, nonostante le rughe sparse sul viso e la cicatrice evidente sul collo.
Sorrideva sinistro come se pregustasse qualcosa, come se sentisse già sulle labbra il sapore di quella vittoria. Di quella che sarebbe stata la vittoria del suo Signore e quindi anche la sua.
Aveva aspettato quasi dieci anni, si era nascosto e aveva abbandonato la sua famiglia per il suo scopo, per il motivo della sua vita. Niente aveva più importanza che depurare la magia dal putrido in cui uomini pazzi e assurdi, come quel vecchio e per fortuna morto Silente, l’avevano condannata.
 
L'uomo proseguiva tranquillo, avvolto nel lungo mantello nero e lasciando che il cappuccio gli si adagiasse sulla schiena. L’aria gelida del mattino non lo infastidiva, ma anzi sembrava goderne come un balsamo rigenerante.
 
Alla fine del lungo boulevard due figure l’attendevano.
 
Malfoy chinò il capo: davanti vi era il suo Signore. E lo guardava fisso.
Con un veloce gesto della mano, l’Oscuro Re fece segno al suo discepolo di avvicinarsi.
 
“Guarda Lucius. – alzò l’indice – Guarda che spettacolo. Finalmente siamo pronti, ancora un po’ di allenamento e avremo tutto ciò che ci serve.”
 
Malfoy seguì quel dito sporco e ombroso.
Indicava un terzo personaggio che, fisso nella radura incolta, mirava gli alberi innanzi.
L’uomo corrugò la fronte, non capiva.
 
 
“Mio Signore, cosa volete dire? Vi ascolto e sapete che sarò sempre il vostro più devoto servitore.”
 
“Guarda attentamente, stupido. Guarda… Bellatrix aveva ragione. Guarda la potenza. Eccola... - la sua voce pareva un sussurrato brivido – Quella è la chiave di volta per il potere e la distruzione della magia insana. Così io tornerò a governare e a far tremare tutti gli impuri fino sentirli urlare di dolore per poi chiedermi di ucciderli senza pietà. Ricordi la profezia della Camera dei Segreti?”
 
“Certo, mio Signore, l’erede di Serpeverde.”
 
“No, imbecille. – il feroce disappunto poteva leggersi su quel viso cadaverico e teso, con fessure al posto del naso. Ma poi continuò - Nessuno ci prestò attenzione all’epoca, ma la Camera ha una seconda ed ultima profezia. E noi, presto, l’avvereremo. Con questa esplosione di potente magia nera.”
 
Lucius Malfoy non la ricordava, non sapeva nemmeno che esistesse un’ulteriore profezia oltre quella della riapertura per mezzo dell’erede, già avveratasi anni prima.
 
Poi tacquero entrambi e la figura davanti a loro, incappucciata e piena di rabbia, continuava ad agitare le braccia colpendo a suon di magia oscura la foresta stregata. 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Notizia dell'ultima ora ***


Notizia dell’ultima ora: nella notte appena trascorsa, Hogsmeade, una delle nostre più floride città magiche, è stata attaccata da strani maghi incappucciati che, spaventando la popolazione, hanno ucciso diciotto abitanti con violenza inaudita.
Ignote le cause.
I cittadini si sono ribellati e hanno colpito i malintenzionati, riuscendo a ferirne solo uno all'altezza di un fianco.
Il Ministero della Magia mette in guardia: si tratta di Magia Oscura.
In attesa di aggiornamenti più dettagliati, vi auguro una piacevole giornata.
Rita Skeeter.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La ragazza lo guardava minacciosa. Una domanda più di tutte le batteva nella testa.
 
“Perché, di tutti i soggetti possibili ed immaginabili, hanno scelto proprio te per portarmi il giornale?”
 
“Chi meglio di me, Granger? Pensaci.” – il ragazzo sorseggiava amabilmente un succo d’ananas che lei gli aveva offerto, non senza qualche forzatura.
 
Non erano mai stati amici, anzi: tutto ciò che li accomunava era uno schiaffo dato dieci anni prima.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Draco Malfoy era sempre stato altezzoso.
Scorbutico.
Orgoglioso.
Strafottente.
Maledettamente strafottente.
 
 
 
Eppure dal Ministero avevano scelto lui per informare Hermione dell’articolo sulla Gazzetta del Profeta appena edito e per aiutarla in quest’assurda avventura, in questa ricerca impossibile.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“E Neville...? Perché non lui? – la ragazza girovagava per il salone con le braccia incrociate sul petto – Lui e Ginny erano molto amici, sapeva molte cose di lei. E se quella ragazza c’entra qualcosa, lui lo avrebbe capito.”
 
“Mm. – Draco arricciò il muso all’idea di Neville; il succo, per lo meno, era proprio di suo gradimento – Vedi Paciock, anzi…il professor Paciock...ha già iniziato a tenere le lezioni di Erbologia ad Hogwarts. Quindi è molto impegnato, preso totalmente dal suo nuovo incarico al momento. Non che io creda nelle sue potenzialità, per chiarirci...”
 
 
“Un qualsiasi altro professore, chiunque altro!” – lo interruppe Hermione, continuando a guardarlo in cagnesco.
 
 
“La scuola è aperta da poche settimane e sono tutti molto indaffarati. Inoltre, ti ricordo, che l’organigramma dei docenti non è nemmeno al completo. Dovresti saperlo molto meglio di me, Granger.”
 
Odiava quando la chiamava per cognome; aveva un che di denigratorio detto da lui.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Allora, beh…vediamo. – la ragazza rifletté - Un sopravvissuto! Sicuramente mi sarebbe stato più d’aiuto per decifrare i comportamenti della ragazza che sto seguendo.”
 
 
 
 
 
 
 
Che stai seguendo? – Draco sorrise malizioso e scolò le ultime gocce di succo. Poggiò il bicchiere sull’ampio tavolo in vetro e si sistemò l’orologio d’oro sul polso. Non era di certo uno stupido: notò all’istante che aveva destato l’effetto sperato nella ragazza – Se vogliamo definirla così, un semplice inseguimento, va bene. Non metterò oltre il dito nella piaga, ok. Sappi solo che il Ministero è al corrente di tutto. E quando dico tutto intendo tutto.”
 
Hermione avrebbe voluto picchiarlo nuovamente lì, in quel preciso momento. Quella situazione non le piaceva per niente. Lui non le piaceva per niente.
 
 
 
 
 
 
Avrebbe tanto voluto colpirlo con un altro pugno, dieci anni dopo come dieci anni prima, ma da futura professoressa non poteva permettersi certi comportamenti avventati e per di più violenti, anche se pienamente motivati.
 
 
 
 
 
 
 
Finché non le venne una geniale idea.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Harry…Sì, Harry! E’ un auror affermato, perché non lui? – le sembrava la pensata del secolo – Lui sì, che avrebbe saputo come aiutarmi!”
 
 
 
 
 
 
Draco scoppiò a ridere e capì.
Capì che la ragazza non aveva capito.
Non aveva proprio capito niente.
 
 
 
 
 
 
 
Si alzò, allungò un braccio verso il brik del succo di frutta e se ne versò ancora. Gli era piaciuto particolarmente quel gusto babbano insolito.
 
Hermione invece aveva i nervi a fior di pelle: il ragazzo non faceva che riderle dietro ad ogni frase.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Sai, – Draco bevve ancora, con lentezza irritante - credo proprio che Harry non voglia saperne di aiutarti in questo momento.”
 
“Come? – Hermione spalancò gli occhi incredula – E perché? – un barlume di intuizione la colpì finalmente – Ti ha detto…ti ha detto forse qualcosa?”
 
Era leggermente arrosita.
 
 
 
“Siamo molto amici io e lui, lo sai. E si', ammetto che mi ha confidato di essere molto arrabbiato con te. Non ti sei fatta sentire da quando ti ha rivelato i suoi sentimenti. E, se fossi in lui, lo prenderei per un no definitivo. Non credo sia così difficile da intuire. Ma non sono tutti tanto lungimiranti. – finì tutto d’un tiro stavolta – Devi dirmi dove hai preso questo strano intruglio babbano! Mi ci materializzerò appena possibile per acquistarne almeno un paio di litri.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La ragazza non lo sopportava già più: gli tolse il bicchiere di mano e allontanò il brik dal tavolo.
Poi gli si sedette vicino con tutta la foga che aveva in corpo.
 
“Hermione, aspetta! Per favore, non togliermelo!”
 
 
La ragazza batté un pugno sul tavolo, ammutolendolo definitivamente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il silenzio si fece assordante e le amplificò la sensazione di profonda rabbia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Draco, ascoltami bene perché non te lo dirò una seconda volta. – fece una pausa per far sì che lui intuisse la serietà della cosa - Io non so perché abbiano mandato te, ma non provare a fregarmi. Ti ho avvisato.”
 
 
Il giovane strabuzzò gli occhi con fare scenico.
 
“Wow, che paura! Com’è che si dice…? Mago avvisato, mezzo disarmato?”
 
Hermione si limitò a brontolare tra sé e a chiedersi perché mai, tra i mille e più maghi esperti possibili, proprio Draco Malfoy.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Malfoy junior aveva combattuto la guerra magica che sette anni prima aveva distrutto Hogwarts ed ucciso molti dei suoi difensori. Proprio prima dello scontro, per ragioni non ancora appurate, aveva abbandonato la Magia Oscura e la sua famiglia per schierarsi dalla parte di Silente e del suo Ordine della Fenice, o per lo meno, quello che ne rimaneva.
 
 
Ma non fu graziato; Draco pagò per tutte le sue colpe: appena la terribile guerra terminò, il rampollo di casa Malfoy si costituì presso il Tribunale magico, sebbene non fu condannato ad Azkaban.
Il processo venne prosciolto una volta accertata sua redenzione, a cui pochi sembravano comunque credere nonostante avesse combattuto dichiaratamente per Silente.
Felice della sua definitiva assoluzione, Piton lo riaccolse a braccia aperte: il direttore della casata dei Serpeverde era l’unico a credere ciecamente nella buona fede di Draco. Fu così che, supportato da Severus, il giovane tornò in contatto con la scuola di Hogwarts ed iniziò a lavorare per un’ala semisconosciuta del Ministero dedita alla Composizione dei testi didattici per le scuole di magia inglesi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione non era felice di averlo tra i piedi: Draco era comunque un ex Mangiamorte.
Nonostante ciò la ragazza dovette arrendersi alla decisione ministeriale. Non poteva discuterla, come tutte le altre.
E poi quel giovane pareva l’unico dei suoi ex compagni di scuola disposto almeno a tirarle su il morale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione gli mostrò la cittadina irlandese in cui stava portando avanti l’operazione governativa e si sorprese nel vedere Draco molto interessato agli aggeggi tipicamente babbani che incontravano.
Il telefono lo colpì tantissimo! Non si spiegava come la voce, senza l’ausilio della magia, potesse volare fino ad un altro trasmettitore; lo trovava stupefacente.
Non era certo diventato un babbanofilo, come amava definire il defunto signor Weasley, ma sembrava meno incline a commenti negativi e insulti. Aveva capito che anche questi esseri comuni avevano un’intelligenza molto sviluppata.
Non si poteva definirlo neanche buono: trovava sempre battute pesanti, perfettamente calibrate a tiro.
 
In sostanza, però, aveva imparato la lezione.
 
 
 
Malfoy volle sdebitarsi con Hermione offrendole qualcosa e così decisero di prendere dei muffin pieni di strati di cioccolata ad un crocicchio di O’Connor street.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La strega lo ringraziò a denti stretti, ma dovette ammetterlo: il gesto le fece piacere e trascorsero un piacevole pomeriggio.
Ripensare al ragazzino biondo crudele e scontroso degli anni della scuola e vederlo come uomo fatto era una bella botta, ma positiva.
 
 
Ora che finalmente erano un po’ più in confidenza, un pensiero la colse: Hermione moriva dalla voglia di porgli una domanda, ma non voleva che lui ne ridesse. E sapeva che, se avesse chiesto, lui avrebbe sicuramente riso.
Anzi, sarebbe morto dalle risate.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Puoi chiedermi quello che vuoi. Non lo farò.” – disse Draco, senza esitazione.
 
 
La ragazza si fermò con la bocca spalancata e il dolce in mano.
 
 
“Cosa?”
 
 
 
 
“Non riderò. Lo prometto, Granger.”
 
 
 
“Ma tu…tu puoi… - lasciò perdere un attimo il dolce e fissò incredula il ragazzo - …tu puoi leggere il…”
 
 
 
“Sì, posso leggere il pensiero. Oddio, a dirla così, sembra troppo potente. Diciamo che riesco ad intuire i pensieri delle persone che mi sono vicine e che conosco. – si fece riflessivo, voleva spiegarsi bene – Devo avere necessariamente un collegamento con la persona in questione, altrimenti non riesco ad accedere nella sua mente. È come se avessi bisogno di un consenso, di una chiave di apertura.”
 
“Come fai ad avere questo potere?” – nel momento in cui lo chiese, Hermione ebbe paura di sapere la risposta.
 
 
 
Draco si fece scuro, perse il suo cipiglio allegro e lei si pentì di averglielo chiesto.
 
 
“Vedi, quando Tusaichi decide di averti nel suo esercito lo fa per uno scopo. Non è un caso, non è mai un caso. Quelli che lui personalmente sceglie sviluppano doti magiche, più o meno formidabili. – sembrava quasi umile – E’ la sua influenza, è come se lui morisse sempre un po’ per formare un gruppo di adepti disposti a proteggerlo, a cui cede parte dei suoi più grandi poteri. E’ questa la Magia Oscura. Non sei più tu: è la parte di un altro che si unisce a te e da vita ad un essere nuovo.”
 
Sembrava sapesse di cosa parlava; e non scherzava.
 
 
 
 
“Quindi non sono in molti?”
 
 
 
“Sei sempre stata la strega più brillante ed intelligente della scuola, Granger.”
 
 
“Smettila!” – lo guardò in malo modo, ma accennando un sorriso divertito stavolta.
 
 
 
“Sì, sono pochi i suoi discepoli più fidati. Due o al massimo tre, non di più. Se fossero in molti Tusaichi diverrebbe troppo debole cedendo ad ognuno una parte di sé. Gliene bastano pochi e poi li prepara incessantemente... – camminavano uno affianco all’altra, incuranti delle persone che incontravano distratte sulla via principale – …fino allo scontro finale. Io dovevo essere uno di loro, ero destinato a questo. Mio padre me lo ripeteva da quando ero bambino, da quando ho memoria.”
 
“Tuo padre è stato la causa di tutti i problemi di Hogwarts.”
 
 
 
Hermione si rese conto di essere stata indelicata: lui si stava lentamente aprendo e lei lo aveva ricambiato ingiustamente colpendo la sua famiglia.
 
Ma lui non parve ombrarsi.
 
 
 
“Hai ragione. – in fondo anche Draco ne era consapevole – Per questo alla fine non ce l’ho fatta e l’ho abbandonato al suo destino. Sono sicuro che un giorno mio padre pagherà duramente per tutto il male che ha fatto e per l’odio che ha stillato nel mio cuore. Ehi, ma guarda!”
 
Il ragazzo urlò quasi per lo stupore, Hermione alzò gli occhi per vedere cosa ci doveva mai essere di tanto speciale: erano davanti alla biblioteca dove, secondo il Ministero della Magia, lavorava come finta babbana la strega scomparsa, Ginevra Weasley.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“No! Non se ne parla. – Hermione era categorica e gli bloccò la strada – Non faremo quello che pensi.”
 
“Mi dispiace Granger, ma sono io che leggo il pensiero e sono io che prendo l'iniziativa qui. Tu vuoi entrare lì dentro più di me quindi…Andiamo, forza! Sono proprio curioso di rivedere la piccola rossa di casa Weasley.”
 
 
 
 
 
Un leggero sarcasmo impregnava le sue parole e lei non riuscì a fermarlo.
 
Entrarono quasi correndo, lui avanti e lei dietro. Superarono i due portoni di ingresso e giunsero nella sala lettura centrale.
Draco si sorprese nel vedere tanta gente china su libri e libri, montagne di libri.
Non riusciva a spiegarselo: non capiva come si facesse a vivere senza la magia e averne una lontana immagine solo su quella carta scritta.
Di certo Hermione non era dello stesso parere.
 
La ragazza pregò con tutta se stessa di non incontrare nessuno. Non era pronta. Non voleva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non voleva vederla. Non dopo l’altra sera.
 
 
 
 
 
 
“Mm, sai Granger, credo che la tipa laggiù mi abbia segnato con un incantesimo Gnaulante. Avrà sentito odore di Serpeverde. E io avverto puzza di Grifondoro.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex era a pochi metri di distanza e parlava con Luna, la ragazza biondissima che Hermione aveva già conosciuto.
Un gomitolo di ferro le si attorcigliò nello stomaco.
 
 
 
 
 
 
“Andiamo via, Draco. Non mi sembra il caso di....”
 
Ma il ragazzo non l'ascoltò nemmeno; si limitò a sogghignare qualcosa e a guardare in direzione prima di Hermione e poi delle due giovani davanti. Sfiorò, con finta indifferenza, la bacchetta che aveva nell'interno della giacca.
 
 
 
Depulso.” – un sussurro uscì dalle labbra del biondo e, in men che non si dica, la tracolla chiara di Hermione fu scaraventata a terra, veloce come un fulmine, fino ad arrivare ad urtare i piedi di Alex, dall’altro lato della stanza.
La strega lo maledisse all’istante.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La ragazza colpita alzò gli occhi, ancor prima che la borsa giungesse, e vide Hermione con un ragazzo tutto impettito, vestito di un classico pantalone scuro e un ampio giaccone di tessuto stretto intorno al busto.
 
Si avvicinò ai due e rimase quasi di sasso, non riusciva a parlare.
Rivederla, dopo quella sera, non fu semplice come se l'era immaginato.
 
“Ciao Hermione... – era in evidente difficoltà. Il cuore le sobbalzò in petto e aveva i capelli più corti dell’ultima volta, la maga lo notò subito – Credo che ti sia caduta questa. Tieni.”
 
 
Le porse la tracolla; Hermione la prese in fretta senza dire nulla.
Si voltò e fece qualche passo per andarsene, decisa ad ignorarla. E, se non fosse stato per Draco, ci sarebbe anche riuscita.
 
 
 
 
 
 
“Non pensavo di rivederti qui, Weasley. Gran bel posto per un’appassionata di babbani. Tuo padre ne sarebbe entusiasta.” – il biondo la guardava serio e col solito cipiglio strafottente. Provava ancora fastidio di fronte ad un appartenente della famiglia rossa più discussa del mondo magico.
 
 
Alex lo squadrò da cima a fondo; inizialmente non rispose, ma si infastidì. Lo si notava dalla ruga pronunciata sulla fronte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Distante, Hermione iniziò a temere il peggio.
Dagli effetti, pareva proprio che Draco avesse indispettito Alex volontariamente e oltre il lecito, come se avesse rasentato un terreno proibito.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non ci conosciamo e non abbiamo niente da dirci. Se non dovete leggere o visionare qualche libro, vi prego di fare silenzio o uscire dalla biblioteca. – la voce di Alex era come ghiaccio – C’è gente che cerca di studiare qui.”
 
 
“Sì, lo so che vedermi ti ha sconvolto. Non abbiamo mai avuto grande simpatia l’uno per l’altra. – Draco non demordeva – Ma credo di essere l’unico ad essere sicuro che sei davvero tu, Ginevra Weasley. Non sei per nulla come ti ricordavo, ma ti assicuro che è solo questione di tempo e presto scopriremo tutto. A proposito… - lo sguardo di Malfoy si vece più investigatore, ma non riuscì ad usare a pieno il suo potere - …sai nulla dell’attacco della scorsa notte ad Hogsmeade?”
 
 
 
 
 
 
 
“Vedi di allontanarti da qui.” – Alex si fece più vicina al giovane e buia, scura. Gli occhi due fessure azzurre.
 
 
“Altrimenti?” – ma lui non sembrava volersi arrendere, beffardo.
 
 
 
 
 
 
 
Hermione si mise in mezzo, separandoli giusto in tempo.
Le sembrò per un momento di rivivere la situazione di qualche sera prima.
 
 
 
 
“Basta! Ce ne andiamo. – aveva la fronte quasi contro quella di Alex, vicinissima, poteva sentire il profumo di muschio dei suoi capelli – Non abbiamo bisogno di nessun libro. Draco, andiamo.”
 
 
 
 
Il ragazzo la seguì ridacchiando, lasciando la bibliotecaria alle loro spalle.
 
 
Riattraversarono l’entrata controcorrente e in un minuto furono fuori.
Il traffico di Dublino li ridestò dal silenzio di quel tempio della lettura.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non avresti dovuto usare la magia. È vietato, lo sai!” – Hermione lo rimproverò.
 
“Non ho cominciato io! – il ragazzo si sollevò la manica della giacca, aveva una leggerissima ustione sull’avambraccio – Weasley mi ha lanciato una Fattura Pungente e credo avrebbe continuato volentieri. Quando ti sei messa in mezzo l’hai bloccata.”
 
 
 
 
 
Hermione gli guardò il polso: era davvero rosso.
Non poteva spiegarselo, lei conosceva incantesimi e pozioni al pari di un esperto: non aveva sentito nessuna formula magica, nessun Exulcero, non aveva visto movimenti di bacchette, non aveva sentito nulla. Niente di niente. Era stato davvero un incantesimo a procurare quell’ustione che pareva fresca? Poteva realmente fidarsi di Draco Malfoy?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Hermione!” – una voce alle loro spalle li raggiunse. Hermione non ebbe bisogno neanche di voltarsi, le bastava il suono.
Era bastato il vento più aguzzo.
 
 Era lei.
 
Alex era corsa loro dietro, con il fiatone: i due maghi erano già parecchio distanti dalla biblioteca.
 
 
 
 
 
 
“Ne parliamo dopo, Granger. Ti aspetto a casa tua! Vi lascio sole. – Draco tirò fuori la bacchetta dalla giacca nera – Ce la farai, vedrai. A presto!”
Pronunciò una formula lentamente e il fisico asciutto del ragazzo biondo si dissolse in un soffio; si era smaterializzato.
Era vietato farlo nel mondo babbano. Ma, in quel momento, necessario. E Draco Malfoly lo sapeva bene. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ora Hermione era sola, totalmente sola, in balia di quel tumulto che avrebbe dovuto evitare con tutte le sue forse. Che avrebbe voluto evitare.
E che invece la inchiodava lì.
Lì, davanti a quegli occhi.
 
 
 
 
Alex le si fece più vicina e, con una mano, le sfiorò la sua. La maga si ritrasse decisa, ma alla fine decise di voltarsi ed ascoltarla. Non aveva cambiato idea su Alex: era ancora arrabbiata e delusa.
Voleva vedere con che faccia tosta le avrebbe rivolto la parola.
 
“Che cosa vuoi? La borsa me l’hai ridata, quindi ora puoi anche continuare il tuo lavoro.”
 
 
Alex aveva un'espressione triste, ma non si scompose.
 
 
 
“Volevo chiederti scusa per…”
 
 
“Lascia stare. – Hermione la interruppe decisa – Non avrei dovuto cercarti. E non avrei dovuto…avvicinarmi a te.”
 
 
L’attimo di esitazione le fu fatale. Rivelò ad Alex il suo reale animo.
 
 
“Non avresti dovuto baciarmi? – questa volta fu la bibliotecaria a mostrarsi intraprendente – Volevi dire questo?”
 
Indossava una felpa rossa che poco si abbinava con la sua pelle mediterranea.
Hermione stava pensando a questo mentre si accingeva a risponderle: non poteva essere Ginny, la sua amica era sempre stata diafana.
Eppure anche Draco l’aveva notato. Quegli occhi erano inconfondibili e l’intensità che ne veniva fuori era troppo chiara: quella ragazza doveva essere una strega, esattamente come lei.
 
 
“Non avrei dovuto, proprio così.”
 
 
 
“Ma l’hai fatto. E qualcosa vorrà pur significare, non credi?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione stava per lanciarle qualche incantesimo inceneritore. Quella ragazza proprio non voleva capire.
 
Eppure non riusciva a smettere di guardarla.
 
Non riusciva a smettere di ripensare a quella sera.
 
Non poteva smettere di ripensare al suo seno quasi nudo sotto le sue mani e alla fiamma di desiderio che emanavano i suoi occhi.
 
 
Alla voglia che aveva di vederla così.
Alla voglia che aveva di baciarla ancora.
 
E ancora.
 
 
 
 
 
E ancora.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Mi hai scambiato per un gioco e io non sono così. Per un momento mi hai anche illuso di… - si diede della stupida per averlo anche solo pensato - …di contare qualcosa per te.”
 
“Ed è così!”
 
 
Hermione le si fece più vicina, ma senza cederle.
 
“Ah sì? Peccato che tu non possa dimostramelo.” – era evidente: voleva provocarla.
 
 
Elettricità pura, falda d’acqua impazzita ed incontenibile.
Le due ragazze emanavano energia senza argine.
 
 
 
“Io non credo di essere chi tu e il tuo amichetto biondo credete.” - Alex sosteneva il suo sguardo.
 
“Non ho dubbi! - La parola “amichetto” fece ridere Hermione, che vi colse una punta di gelosia – Ora scusa, ma devo andare. Ciao Alex.”
 
La maga le voltò le spalle e decise che l’avrebbe lasciata lì.
Una volta per tutte.
 
 
 
 
 
“Aspetta! – Alex non ci stava, non poteva perderla così. Non adesso. – Hermione! Devo spiegarti. Ti prego fermati!”
 
 
 
 
 
 
 
Ma Hermione continuava camminare, a scappare, a fuggire da lei e dai sentimenti che le imploravano di fermarsi, voltarsi e correre a farsi stringere da Alex.
Questo era quello che il suo cuore chiedeva, con colpi di fucile.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex le corse dietro, urtando e indispettendo molti passanti. Ma non le importava. Non le importava di niente.
Davanti ad Hermione tutto perdeva forma e diventava solo niente.
 
 
 
 
 
 
 
In quel momento non c’era cosa più importante che fermarla.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Sette anni fa! – gridò Alex – Sette anni fa, ebbi un incidente d’auto. Così almeno mi raccontarono nell’ospedale dove mi risvegliai. Persi la memoria e nessuno venne a cercarmi. Io…Io non so altro di me! Io non so…”
 
Hermione si fermò, inchiodata da quella frase.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex sgranò gli occhi, si portò la mano al petto. Una smorfia di dolore le si modellò sul suo viso.
 
Alcuni passanti la guardarono spaventati, si stava sentendo male.
Capovolse gli occhi e, con un rantolo, si accasciò a terra.
 
 
 
 
Hermione le corse incontro, ma era tardi: la ragazza aveva avuto un collasso e aveva perso i sensi, nonostante respirasse regolarmente.
 
 
 
 
Non le ci volle molto per capire: era stata colpita da un incantesimo di assalto e sanguinava.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione la prese tra le braccia e una scena già vissuta le si presentò davanti.
Fu allora che decise che no, non l’avrebbe persa di nuovo senza provare a salvarla.
Anche da se stessa, se fosse stato necessario.
 
 
 
 
 
 
 
Prima che potessero notarle, la maga strinse a sé Alex e si smaterializzarono per apparire, dopo labirintiche peripezie di viaggio, accanto al letto di casa sua.
 
 
 









 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Echi ***


Alex era svenuta e giaceva inerme sul letto di Hermione.
Non aveva nessuna percezione di ciò che le accadeva intorno e non sapeva di essere su quel letto che tanto agognava. E su cui non avrebbe voluto trovarsi certo da svenuta.
 
La strega l’aveva portata a casa sua smaterializzandosi più velocemente che poté e, per fortuna, giusto in tempo per non essere vista dalla folla dublinese.
 
Hermione era preoccupata, girava per la stanza e non sapere cosa fare. Sapeva solo che doveva prendere una decisione. E doveva farlo adesso.
La vita di Alex dipendeva dalla sua scelta.
 
 
 
 
 
Draco Malfoy, che l’aspettava sulla porta ticchettando con la punta della scarpa nera lucida, divenne più pallido di quanto già non fosse nel vederle arrivare insieme e per di più una sorretta dall’altra.
 
 
 
 
“Non restare lì impalato Draco! Aiutami!”
 
Ci volle qualche secondo per riprendersi dallo shock e poi, insieme, sistemarono Alex meglio che poterono, provando a pizzicarla, chiamarla, bagnarle la fronte ma inutilmente: non dava segni di ripresa.
Non si muoveva, non si svegliava e respirava molto lentamente. Il battito era quasi inesistente.
 
I due maghi, per quanto esperti di incantesimi, non capivano da cosa potesse derivare quella perdita di sensi e quello stato catatonico che pareva irreversibile.
Draco non lo immaginava, Hermione però aveva già una sua teoria: aveva studiato per un semestre intero le ferite inferte dalla magia e dal suo uso distorto. Erano pratiche molto complesse e, oltre alle lamentele di Harry e Ron, le era rimasta impressa una nozione basilare. La magia non è fatta per colpire, ma diventa facilmente un’arma incredibilmente potente se in mani sbagliate, arrivando perfino ad uccidere senza troppe difficoltà e a procurare ferite quasi impossibili da curare totalmente.
 
 
E quella ne era sicuramente un esempio.
 
 
 
 
 
 
Hermione cercava di spiegarlo al biondo che, dal canto suo, conosceva poco la teoria e meglio alcuni aspetti pratici; la sua famiglia era celebre per questo.
 
 
 
“Cosa credi che le sia successo? – il ragazzo era realmente preoccupato, gli occhi fissi sulla compagna – Vuoi che prenda qualcosa da bere? Dell’acqua? Facciamo una pozione con quello che trovo in cucina? Cosa si fa in questi casi? Cosa dobbiamo fare, Hermione??”
“Calmati Draco, non mi aiuti così! Una cosa è certa. Non può rimanere qui, è ferita.”
 
“Cosa? E dove...” – lui sembrava non crederci.
“Hai ancora della polvere volante? – lui annuì, continuando a fissarla spaventato – Dammela subito!”
"Cosa aspettiamo? Smaterializziamoci!"
Hermione lo guardo' con cipiglio severo, aveva ripetuto quel rimprovero almeno un migliaio di volte.
"Non ci si può materializzare ad Hogwarts. E questo caso non rientra nelle deroghe. Pensavo che almeno tu lo sapessi." 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Vedrà, Preside, che si rimetterà presto, bisogna solo aspettare adesso. Abbiamo fatto tutto il possibile.”
 
Una voce profonda di donna rispose e le solleticò l’udito.
Alex non la sentiva nitidamente, ma l’avvertiva.
Come accade nei sogni popolati da suoni lontani.
 
“E’ fuori pericolo dunque, Madama Chips?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Aprì a metà gli occhi. Il soffitto era dorato e con stemmi strani, lontani, diversi.
 
Onirici.
 
Sembrava quasi che quei segni le parlassero, le dicessero qualcosa.
Qualcosa di già accaduto, qualcosa di un passato che credeva dimenticato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Aprì gli occhi di nuovo e capì che erano passate ore dalla volta prima.
 
Si svegliava e si riaddormentava. Li apriva e li chiudeva.
 
 
Non riusciva a tenerli aperti. E intanto le ore passavano.
 
Non aveva forze. Non aveva energie.
 
 
Sentiva solo delle voci, come echi lontanissime.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Guardi, Preside! Sembra si stia riprendendo finalmente!”
Due persone si avvicinarono alla donnina vestita di bianco che parlava.
 
La prima era quella che chiamavano “Preside”; Alex l’aveva intuito da tutti i discorsi strampalati che aveva ascoltato nel sonno e nei risvegli, in quel limbo di deboli momenti di coscienza.
 
 
 
 
L’altra non riuscì a metterla a fuoco.
 
 
“Alex…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non aveva avuto la forza di restare sveglia, ma ricordava che qualcuno l’aveva chiamata.
 
Quelle labbra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ricordava che stava correndo dietro alla ragazza che le aveva preso il cuore.
 
 
Poi un colpo, un’apertura.
 
 
Uno squarcio al fianco.
 
 
 
 
 
 
 
E il dolore la travolse, secco e fulmineo.
 
 
 
Poi il vuoto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Una mano le sfiorò la fronte. Era rugosa ma dolce e, dopo aver verificato la diminuzione della febbre, si posò sul suo viso come una carezza.
 
 
 
 
 
 
“Do…dove…dove…” – Alex pensava di riuscire a parlare, ma le uscirono solo sussurri fiochi. La gola si seccò e non ne venne altro.
Le bruciava un fianco.
Le bruciava maledettamente.
 
 
 
 
“Si calmi signorina Wea…ehm…si calmi insomma! - l’infermiera sussultò e chiamò a gran voce - Preside? Dov'è la Preside? Chiamate subito la McGranitt! Immediatamente!!!”
 
Delle strane creaturine filarono fuori dalla stanza, facendo il rumore di cento scarpe battute a terra in gran velocità. Sembravano elfi, alti poco più di un metro e profondamente rispettosi della signora che gli aveva dato l’ordine.
 
Alex li guardava: per la prima volta da chissà quanto riusciva ad essere cosciente e a seguire con gli occhi un movimento per più di qualche secondo.
 
 
 
 
Era emozionante essere ancora in possesso del proprio corpo, non si sarebbe mai aspettata di pensarlo.
Tirò fuori le mani dalla pesante coperta, le sgranchì e le scrutò.
 
 
 
 
 
 
 
 
Si guardò intorno e si disse che doveva essere in un ambulatorio. E, più precisamente, in un letto molto comodo di un ambulatorio.
Accanto al suo ce n’erano altri, una decina scarsa, e mobili con strumenti medici sparsi: qualcuno si era preso cura di lei in fretta.
 
 
Il sole iniziava a farsi placido e a nascondersi; presto sarebbe tramontato. La stanza era immersa nel silenzio. Forse, pur non meritandolo, era il paradiso.

Il silenzio, però, venne interrotto dall’infermiera e dal trambusto che aveva iniziato a metter su appena l'inferma si era svegliata, lasciando senza spiegazione la ragazza. Non capiva cosa doveva esserci di tanto strano in una paziente che finalmente si svegliava. Sta di fatto che la donna bizzarra non glielo spiegò, né diede cenno di avvicinarsi.
 
 
 
 
Eppure quella signora aveva qualcosa di strano. Sollevava pesanti flaconi senza prenderli, solo agitando una bacchetta e dicendo strane formule.
E non si preoccupava di nasconderlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La porta dello studio medico si spalancò. Hermione ed una anziana donna con un’ampia mantella accorsero al suo letto.
 
 
 
 
 
Fu come una visione per Alex, l’ennesima con protagonista Hermione.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Finalmente! – era la voce che aveva sentito nei suoi dormiveglia, la voce roca e seriosa, ma apprensiva – Finalmente signorina Weasley! Ben svegliata.”
 
“Dove mi…” – Alex scansò gli occhi dalla ragazza sulla porta e provò a riformulare la sua domanda sospesa.
 
 
“Stia tranquilla e non si agiti. Penserà a tutto Madama Chips! – la donna dal lungo mantello smeraldo sembrava realmente sollevata nel vederla sana e salva – Come lei ben ricorderà, è la nostra migliore curatrice al castello e, con i giusti infusi e medicinali, saprà come rimetterla in sesto in men che non si dica.”
 
 
“C…ca…castello?”
 
 
La Preside sembrò dispiaciuta per la balbettata domanda.
 
 
 
 
 
“Certo! Al castello. – rispose col suo tono solenne, quasi da rimprovero - Il castello di Hogwarts. Per sua fortuna, signorina Weasley, la professoressa Granger ha avuto l’ottima idea di portarla qui. Ha visto e constatato che perdeva sangue dal petto, dal fianco per l’esattezza, e ha capito che questa era la decisione migliore. L’unica possibile per la sua salute. Ho sempre avuto piena fiducia nel giudizio della signorina Granger, fin da quando era un’alunna alta così!” – descrisse con le mani l’altezza delle creature uscite poco prima dalla stanza.
 
Alex sembrava spaesata e incredula. Ora aveva gli occhi totalmente aperti.
 
 
“La professoressa…la professoressa Granger?” – si voltò ad Hermione che era rimasta sulla porta.
 
La McGranitt aveva voluto parlare prima da sola con la loro cara e nuova ospite. Ed Hermione aveva acconsentito; le era sembrato giusto.
Minerva era la nuova Preside di Hogwarts e aveva dei diritti e dei doveri istituzionali.
 
 
 
“Beh, in effetti, Hermione non è stata sola in tutto questo. Vero, Minerva?” – Madama Chips si intromise. Alex l’aveva quasi dimenticata, sopraffatta dalle nuove arrivate.
 
 
“Hai proprio ragione, Poppy! – la McGranitt le diede man forte – Dovremo ringraziare anche il signor Malfoy. Devo ammettere che la fiducia nutrita in lui da Albus sta iniziando a produrre i suoi frutti, anche se lui non potrà goderne purtroppo. Se lo ricordi, signorina Weasley, quando lo rivedrà e lo ringrazi come merita.”
 
 
 
 
Alex aveva una confusione sconfinata in testa. Tutte quelle facce, tutte quelle parole, tutte insieme, senza spiegazione.
 
 
 
 
 
 
 
L’infermiera sistemò un flaconcino contenente un medicinale che Alex aveva appena ingerito su spinta delle due donne. Non avrebbe voluto, ma controbattere in quel caso sarebbe servito a poco.
 
 
 
 
“E’ meglio lasciarla riposare, Minerva. Ha bisogno di dormire adesso.”
 
“Hai ragione. Signorina Weasley?” – la Preside si rivolse alla paziente stesa.
 
 
Alex fece una leggera smorfia di disappunto.
 
 
 
“Io non sono…” – ma non riuscì ad ultimare la frase, il fianco le impediva di contrarre bene le parole. Chiuse gli occhi per fermarne almeno l’intensità, ma con scarso risultato.
 
 
 
La McGranitt le sfiorò ancora la fronte imperlata; iniziava a scottare, la febbre stava tornando. Il medicinale appena ingerito l’avrebbe fermata. Era al sicuro tra quelle calde mura.
 
 
 
 
“Ci sarà tempo per le spiegazioni, ora pensi a riposare e non si preoccupi del resto. Ci siamo intesi?”
 
Alex non poteva parlare per il dolore, perciò si limitò ad accennare un sì poco convincente.
 
 
 
 
 
 
 
“Signora Preside?” – una voce si levò dall’ampio ingresso.
Hermione era rimasta lì, rispettosa, ad osservare la scena.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Sì?” – Minerva non l’aveva dimenticata e sapeva che quella domanda sarebbe arrivata prima o poi.
 
 
 
 
“Se non le dispiace, e se Madama Chips acconsente, vorrei restare con… - si bloccò. Non riusciva a chiamarla in alcuna maniera, non dentro Hogwarts. Chi era quella ragazza li' dentro? - …vorrei restare un po’ con lei...”
 
 
 
 
 
 
Prima che la Preside potesse rispondere, Madama Chips le si parò davanti col suo cipiglio serioso che tanto suscitava risate tra gli alunni.
 
“Non credo che sia possibile! Proprio no, professoressa Granger. La nostra ospite deve riposare. – specificò con enfasi – Riposo assoluto! E poi lei ha già passato qui molte ore prima che la signorina Weasley si svegliasse, non credo faccia bene neanche a lei stare ancora qui. Venga con noi a bere un the! Le ci vorrebbe, qui non può fare altro.”
 
“La prego.” – Hermione guardò verso il letto, per la prima volta da quando aveva messo piede nella stanza.
La vista di Alex in quelle condizioni la destabilizzò, le fece male, più di quanto desse a vedere.
 
“Non se ne parla. E’ il protocollo!”
 
 
 
“Sa, Madama Chips, - Minerva prese la parola, cogliendo lo sguardo abbattuto della sua pupilla – credo proprio che nei periodi di crisi, come questo, il protocollo perda rilevanza. E debba lasciare il posto a cose ben più importanti.”
 
“Come crede, signora Preside.” – l’infermiera sospirò, cedette all’autorità superiore e si incamminò con Minerva per lasciare ad Hermione la stanza e la paziente.
 
 
 
 
 
 
La Preside salutò ancora l'inferma, poggiandole una mano sulla spalla scoperta.
 
“Buon riposo Ginevra, torneremo domattina. – poi si rivolse all’altra – Hermione, per qualsiasi cosa, sai come chiamarci.”
 
 
 
 
“Grazie…”- La giovane strega sorrise piano, ma senza riuscire a trattenersi.
 
Fu allora che Minerva ebbe tutto chiaro: capì che Hermione era persa, irrimediabilmente persa, di quella giovane e strana ragazza ferita sul fianco.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Senza istruzioni ***


Le settimane successive passarono velocemente e si avvicinò allegro Dicembre, il mese tanto agognato dagli alunni: il mese delle vacanze. Mancavano solo pochi giorni di lezione e poi chiunque di loro, che avesse voluto, avrebbe potuto riprendere il treno e passare due settimane con i propri cari nel mondo babbano.
L’inverno era alle porte e la Foresta Proibita, fuori dal castello, iniziava ad essere scura e caliginosa come solo in inverno poteva vedersi. Ogni mattina la piazzola antistante il gran porticato d’ingresso era coperta di una sottile patina di ghiaccio che rischiava di far scivolare, sempre alla stessa ora, lo scorbutico Filch, guardiano della tenuta magica, con al seguito la miagolante e altrettanto scorbutica Mrs Norris.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Da alcuni giorni Alex aveva iniziato ad alzarsi e ad essere sufficiente a se stessa.
Il fianco era guarito e solo una cicatrice, estesa verticalmente dall’anca al seno, le ricordava l’accaduto.
 
Hermione le era stata accanto nelle dure notti di convalescenza e aveva badato a lei gratuitamente, ma Alex non poteva saperlo: gli stati di delirio e incoscienza perdurarono per settimane intere senza che riuscissero a parlare.
La notte parlava nel sonno agitandosi e rivolgendosi ad interlocutori incomprensibili, parlava di “fate”, di fede a qualcuno e di strane presenze, sbraitava contro potenze che nessuno era riuscito a decifrare, nemmeno Madama Chips.
Di giorno, giaceva inerme, senza forze perse del tutto nella notte.
Ora finalmente quell’incubo sembrata terminato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’orologio sul muraglione segnò le otto in punto di una normalissima domenica quasi invernale; l’aria preannunciava il freddo che inesorabile sarebbe giunto.
Hermione scese l’ampia scalinata che dalla sua stanza personale portava alla sala di ingresso e si sistemò il golfino. Era una professoressa ormai, anche se non ancora effettiva, ma quel maglioncino rosso e dorato del suo ultimo anno da alunna non l’aveva mai abbandonato e decise di indossarlo quel giorno: non c’erano lezioni e molti degli alunni più grandi avevano la gita ad Hogsmeade e lei non avrebbe creato certo scompenso per così poco!
Sotto, indossava la solita gonna corta fino al ginocchio e rigorosamente di velluto nero.
Sembrava essere tornata in dietro nel tempo. Mancavano solo Ron, sempre intento a muovere la mandibola per triturare cibo, ed Harry che invece aveva ogni giorno una prova da superare.
Che bei giorni: Hermione li ricordava come i più spensierati di sempre.
 
 
 
 
 
Girò l’angolo, ancora sovrappensiero, e sbirciò nella Sala Grande ma non vide quello che cercava.
 
 
“Come siamo a tema questa mattina. Una perfetta Grifondoro! Se solo lo avessi saputo, avrei messo la mia cravatta verdeargento.” - Draco Malfoy sembrava seguirla in ogni mossa, in ogni spostamento, era odioso. In fondo però, simpatico.
 
“Buongiorno Draco. Anche per me è bello vederti.” – ma Hermione non lo guardò neppure.
 
“Nelle cucine.”
 
“Sto cercando una persona qui nella Sala Grande per fare colazione insieme. Se non ti dispiace…”
 
“Mi vedo costretto ad insistere, Weasley è nelle cucine.”
 
“Come? - Hermione si voltò finalmente verso il ragazzo – Tu cosa ne sai?”
 
Malfoy rise.
 
“Cosa ne so di dove sia lei o cosa ne so di quello che pensi tu? – un sopracciglio si incurvò divertito - Perché sai, nel caso lo avessi dimenticato, ho un dono.”
 
Hermione si lisciò la gonna e non lo salutò, incamminandosi svelta dal verso in cui era giunta. Il giovane le urlò dietro, continuando a ridere.
 
“Granger, sappi che questa notizia spifferata ti costerà un posto al vostro tavolo per questa sera! Non dimenticarlo!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La giovane professoressa scese le scale in un batter d’occhio, incrociando Frate Grasso, il fantasma dei Tassorosso, che prontamente si levò il cappuccio in segno di saluto.
Anche i fantasmi delle case iniziavano a rispettarla e a trattarla come un’insegnante; ormai lo era a tutti gli effetti, anche se lei per prima stentava a crederci.
 
Le cucine erano nei sotterranei e un gran baccano si sentiva fin sulla loro soglia di ingresso.
Hermione socchiuse la porticciola in legno antico di mogano ed entrò, facendo ben attenzione a non far troppo rumore. Non voleva disturbare, le sembrava di entrare in una stanza proibita, in un terreno non suo.
 
Una bellissima visione le si parò davanti: Alex rideva a più non posso con una elfa, tutta rossa.
 
Per un momento pensò che le avesse fatto uno dei suoi soliti complimenti ammaglianti, con cui riduceva in polvere l’autocontrollo sessuale della barista del pub di Dublino dove era solita passare le serate babbane e dove molte volte si era persa a guardarla così, infastidita ed incantata allo stesso modo.
 
 
“Deve essere stato davvero divertente!” – Alex era divertita e sorseggiava un the.
“Oh sì, signorina Weasley! Può scommetterci. – l’elfa notò Hermione; scattò in piedi e subito riprese nelle piccole mani un pentolone colmo di porridge – Ops…Pro…Professoressa Granger! Professoressa, la colazione arriva subito! Ci scusi per il ritardo!”
 
L’elfa, piccola ed estremamente minuta, corse via con una pentola grande tre volte lei e raggiunse in men che non si dica gli altri elfi intenti a preparare vassoi e piatti pieni di ogni pietanza del mattino, per la prima colazione di studenti e professori.
 
 
 
 
Alex la salutò con la mano e si avviò verso Hermione. Un sorriso fu il reciproco buongiorno ed insieme uscirono dalle cucine febbricitanti e colme di lavoro.
 
“Avrei dovuto dirti che la colazione la prendiamo in Sala Grande. Ti stavo cercando lì ma non ti ho trovata…”
“No, no, non devi preoccuparti. Non è per quello, è che, vedi… - Alex mise le mani in tasca, come segno di leggera vergogna - …io…bhe…non sono abituata a questo, ad essere servita. E così ho chiesto se potevo visitare le cucine. E fare da me, insomma!”
“Hai fatto bene!” – rispose Hermione, tremante vicino a lei.
 
Alex si fermò un attimo, dubbiosa.
“Tu come hai fatto a sapere che ero qui?”
“Ehm…ti va di fare una passeggiata fuori?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pochi alunni erano rimasti nel castello per la domenica, i più piccoli del primo e del secondo anno.
Hermione ed Alex ne incrociarono molti mentre girovagarono intorno alle mura di Hogwarts, chiacchierando.
Hermione con le braccia conserte, stringendosi per non aver freddo ed Alex ancora con le mani in tasca, fingendo entrambe un’indifferenza reciproca che non riuscivano a provare.
 
“Quindi, quel ragazzo odioso riesce a leggere nel pensiero?” – Alex sembrava non crederci.
“Sì, Draco è un abile mago. E leale. Mi ha aiutato a portarti qui quando sei svenuta e, a modo suo, si è sempre preoccupato di come tu stessi in queste settimane.”
“Non mi convince.”
Hermione rise involontariamente.
“Non ti ha mai convinto, sai?”
 
La giornata prometteva bene, era benedetta da un tiepido sole novembrino e quell’aria fresca giovava all’anima.
 
“Per di qua.”- Hermione indicò la strada che scendeva scoscesa a valle, fino ad una casetta rattoppata e dal soffitto molto alto, il celebre rifugio del mezzo gigante Rubeus Hagrid, custode della tenuta di Hogwarts.
 
Alex si sorprendeva a fissare l’amabile figura della sua compagna di passeggio, in quelle poche volte che le faceva strada innanzi.
Il fisico di Hermione era delineato e attraente, straordinariamente attraente. La gonna ne lasciava intravedere le gambe slanciate e bianche. Avrebbe dato tutto in quel momento per sfiorarle con lentezza e sentiva che il solo pensiero produceva nella sua mente la sensazione del tocco, come se le stesse accarezzando davvero, come se potesse sentirne la consistenza e la tonicità.
Mentre era intenta in questi pensieri non proprio puri e il loro seguito, Hermione propose di sedersi su uno dei gradini in pietra che portavano alla dimora di Hagrid.
Il panorama era rilassante e silenzioso
Il panorama a cui Alex ambiva, però, era decisamente migliore e più allettante.
 
 
In quella ragazza dai lunghi capelli d’avellana e dagli occhi della stessa sfumatura trovava un’indescrivibile bellezza.
Una bellezza senza tempo né istruzioni per regolarne il flusso e il dosaggio.
Perché si sa, se vi si indugia troppo, Bellezza può uccidere l’incauto spettatore.
Investiva, travolgeva come una marea implacabile se solo osavi sfiorarla con lo sguardo.
Si poteva impazzire per tanta bellezza ed Alex iniziò a pensare di essere sulla strada giusta.
 
La brezza scompose la ciocca che Hermione aveva sempre davanti al viso e fece stringere ancora di più la ragazza nel suo golfino da Grifondoro.
Le gambe erano chiuse e la gonna, a causa della posizione e dell’aere inquieto, lasciava intravedere l’inizio della parte alta, sopra il ginocchio.
Alex avrebbe potuto osservarla per ore, senza stancarsi, solo con la voglia di perdersi in quell’universo di donna.
Senza smettere di descriverla nella sua mente, come a volerne rubare ogni dettaglio e tenerlo per sé.
 
Entrambe lontane dal mondo.
Perse nella voglia di aversi. Aversi davvero.
 
 
 
 
 
 
 
 
Una voce interruppe quegli assidui pensieri.
 
“Professoressa… - la strega non pareva sentire, era assorta verso l’orizzonte e non aveva ancora chiaro il suo nuovo appellativo - …professoressa Granger? Mi scusi…”
Hermione sobbalzò, una voce dietro di lei le era diventata chiara. Sembrava la voce di una bambina.
 
Guardò meglio: era una ragazzina impacciata e rossa in viso del secondo anno, circondata da un gruppetto di coetanee. Ognuna indossava l’ampio mantello nero con sopra il simbolo della propria casa.
Hermione fu contenta di vedere che i simboli erano diversi tra loro, c’erano ragazzine di tutte e quattro le case. La nuova politica di dialogo della Preside stava funzionando.
 
 
 
 
“Buongiorno ragazze, ditemi!” – Hermione le salutò con un sorriso raggiante. Ognuna di quelle piccole streghe future aveva qualcosa che le ricordava se stessa anni prima.
Una delle alunne colpì la sua attenzione, e non era la ragazzina che le parlava.
 
“Ci scusi se l’abbiamo disturbata, vede, ecco io…”
 
“Dì pure e sta tranquilla, come vedi qui non c’è nessun Professor Piton a rimproverarti in caso di errore!”- Hermione capì che la ragazza era in difficoltà e volle metterla a sua agio, sdrammatizzando. Piton era il bersaglio più semplice per ogni esempio del genere.
 
Le ragazzine risero e la parlante prese coraggio: le porse un libro ed una penna.
 
“Professoressa io…sono una sua ammiratrice, conosco la sua biografia a memoria, sono iscritta al C.R.E.P.A  e…e vorrei chiederle un autografo sulla sua opera sul tempo magico…”
 
“Wow, hai scritto anche un libro. Ho fatto amicizia con una persona di alto livello...” - Alex si meravigliò e sorrise a sua volta.
 
“Già e ti consiglierei anche di leggerlo, è un piccolo volume. Ti farebbe bene! Magari ti torna in mente qualcosa. – poi guardò la ragazzina assorta – Dammi il libro, è un piacere per me e ti ringrazio delle tue parole.” - Hermione, al colmo della contentezza, prese il suo piccolo testo, firmò la prima pagina e lo riconsegnò alla ragazzina.
La piccolina era al settimo cielo e ringraziò tantissimo la strega.
 
Il gruppetto si rincamminò a valle, Hermione però continuava a fissare la più piccolina, la ragazzina bionda di undici anni che proprio quell’anno era entrata per la prima volta ad Hogwarts.
Non poteva sbagliarsi, doveva essere lei. Decise che, forse, poteva valerne la pena e la chiamò a gran voce.
 
 
 
 
 
 
“Signorina Weasley! – essere formale le pesava, ma il suo nuovo ruolo lo richiedeva – Signorina Weasley, aspetti! Voi altre potete andare e non allontanatevi troppo dal confine.”
 
“Hermione è inutile che strilli, sono qui ti sento! L’udito ancora non mi manca.” – rispose Alex.
 
“Non sto chiamando te, ma lei.”
 
“Eccomi professoressa…” – una bambina del gruppo tornò indietro, quella bambina, e raggiunse di nuovo le due ragazze sedute sullo scalino roccioso.
Aveva i capelli biondi fin sotto le spalle e occhi chiari, francesi.
Sembrava spaventata, non si aspettava quell’insolita chiamata dalla sua futura professoressa di Incantesimi. Però sapeva bene che quella ragazza così colta e bella era un’amica dei suoi genitori e dei suoi zii, gliene avevano parlato tanto e sempre con massime lodi.
 
“Ciao Victoire. Vieni!” – Hermione la fece sedere tra sé ed Alex che osservava la scena, incurante.
 
“Salve professoressa.” – aveva gli occhi bassi e pensava che un rimprovero fosse più che prossimo, anche se non sapeva perché. Ma lo attendeva e ad occhi bassi.
 
Hermione le mise una mano sulla spalla gracilina, abbracciandola, e si sciolse in uno sguardo d’affetto infinito.
 
“Ascolta Victoire, quando siamo sole… - sussurrava piano all’orecchio della piccola - …chiamami Hermione, in fondo noi ci conosciamo già. Ed io posso chiamarti semplicemente Vicky? Se non ti dispiace, naturalmente. – la ragazzina annuì sollevata – Bene. Mi fa molto piacere vederti qui! Sapevo che dovevi entrare a scuola da quest’anno e sono molto contenta che Fleur, alla fine, si sia convinta per Hogwarts.”
 
“Sì, mamma ha detto che sarebbe stato meglio così, che qui potevo imparare di più. – la bambina sembrava essersi calmata e rassicurata in quell’abbraccio - E dice sempre che papà ne sarebbe stato felicissimo! Lo dice anche nonna Molly!”
 
 
Hermione sorrise e, stavolta, con un’ombra di tristezza mal nascosta.
Alex guardava quella bambina col cuore fermo in gola. Era così delicata e pura da far venir voglia di stringerla senza motivo. Era dolcissima.
E con Hermione al suo fianco, il quadro era talmente bello da far male.
Male dentro.
 
 
 
“Sì, tuo padre ne sarebbe stato orgoglioso. – scacciò subito via quei pensieri malinconici - Molto bene, allora ci vedremo spessissimo qui! Ora forse è meglio se vai, ti abbiamo già fatto perdere troppo tempo, le tue amiche ormai saranno arrivate da Hagrid per vedere il cucciolo di Drago Ungherese che vi aveva promesso. Mi raccomando, state attente e non avvicinatevi troppo. Ci vediamo questa sera per la cena, se non sbaglio dovrebbe esserci anche lo zio Ron. Non è così, Vicky?”
 
La ragazzina fece segno di sì, una ventata di felicità l’avvolse al sol pensiero: era molto legata al fratello di suo padre e lui stravedeva per lei.
 
 
“Ciao Hermione! – salutò la piccola, poi si rivolse ad Alex - Ciao anche a te!” – la bambina sfrecciò via, saltando gli scalini due a due e raggiungendo in men che non si dica il resto dell’allegra combriccola.
 
 
 
 
Ciao anche a te.
 
 
Alex fu talmente sorpresa da quelle parole dette d’istinto e dal loro inaspettato dolcissimo suono che solo Hermione, posando la testa sulla sua spalla, riuscì a farla rinsavire.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La serata si stava avvicinando e con essa gli innumerevoli preparativi giungevano al termine.
La Sala Grande era già addobbata dalla tarda mattinata e si attendevano ormai gli ospiti.
 
Ai piani alti del castello, ogni ragazzo, ragazza, insegnante era intento a rendersi presentabile per la cena e il ballo della sera.
La McGranitt, trasgredendo per una rara volta all’ordinamento della scuola, aveva voluto festeggiare in maniera più rilassata e frivola l’avvicinarsi delle vacanze e l’anno scolastico che sembrava promettere bene.
 
 
 
Alex aveva una stanzetta al terzo piano tutta per sé. Finché non fosse totalmente guarita, la Preside aveva stabilito che non poteva lasciare il castello e quindi anche lei doveva unirsi al ballo.
Non sapeva come ci si comportasse: a Dublino, al massimo, andava a ballare ma intuì che fosse molto diverso come tipologia di danza. Doveva sembrare elegante, discretamente affabile.
 
 
 
Forse era più indicata una semplice camicia bianca? No, troppo semplice.
O una di quelle colorate, secondo una casata? No, troppo di parte.
Oppure la serata richiedeva il cravattino? Elegante sì, ma non doveva esagerare.
Doveva farsi prestare uno di quegli insoliti mantelli? No, troppo vistoso per i suoi gusti.
 
Insomma, non aveva la più pallida idea di cosa indossare.
 
 
Poi d’improvviso.
 
 
 
 
Un dolore acuto la prese, senza darle il tempo di reagire.
 
 
 
 
 
 
Sentiva le mani indomabili, tremanti, non riusciva a tenerle ferme. Erano attraversate da scariche elettriche e sangue impazzito.
 
 
Nelle vene sentiva pulsare qualcosa, un’assenza.
 
 
 
 
 
 
 
Iniziava a farle male la testa, ma erano le mani a dire tutto: erano “il segno”. Il solito segno che implorava la pace e l’avrebbe ottenuta in un solo modo.
 
 
 
 
Il segno dell’astinenza, della necessità lampante.
 
Puntuale un gufo bussò alla sua finestra; Alex allungò il braccio totalmente dolorante verso il vetro lontano, un fumo leggero uscì dalle dita chiare. Era a metri di distanza ma la finestra si spalancò come se un turbine di vento l’avesse oppressa.
 
Il gufo fu travolto dall’aria e si spiaccicò contro l’armadio.
 
“Stupido pennuto. Non ne hai mai azzeccata una, né qui né in Irlanda.” – Alex prese il carteggio che il povero animale aveva alla zampa e srotolò.
 
Poi lesse tra sé quella calligrafia che sembrava uscita da decenni prima. E da una mano di donna che conosceva bene.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Trova il modo di uscire stasera, dopo il banchetto. Ti aspetto al sedicesimo albero della foresta.
Ho quello che ti serve.
Non farti vedere da nessuno.
                                                                                      B.”
 
 
 
 
 
 
“Bellatrix. Finalmente ce l’hai fatta.” – un ghigno le si disegnò sul viso giovane.
 
Accartocciò il foglio e lo buttò sbadatamente nel cassetto, tra decine e decine di lettere che portavano il timbro postale di Londra ed erano state spedite nel corso degli ultimi sette anni da un'altra mano di donna, che ancora non conosceva come avrebbe voluto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Il ballo di inizio inverno ***


Alex chiuse la porta della sua stanza e si sistemò il gilet nero, chiudendo i tre bottoni di cui era fornito. La camicia bianca, su cui era posto, brillava per la sua limpidezza. Lo stretto pantalone nero le donava uno slancio che altrimenti il suo portamento non mostrava.
Era impeccabile: i capelli ben modellati indietro, senza essere troppo lucidi, plasmavano nel complesso una persona estremamente affascinante.
Sapeva che a qualcuno quel look non sarebbe andato a genio, ma non le importò: non era abituata a vivere per accontentare gli altri e non avrebbe incominciato adesso.
Era l’unica del clan che non sottostava al suo padrone, l’unica che osava tenergli testa e in quel momento pensò che, forse, proprio per questo Lui l’aveva scelta.
Proprio per questo Lui l’aveva salvata.
Una voce dissolse nell’aria la sua riflessione.
 
“Signorina Weasley, finalmente! – alla base della scalinata la Preside Minerva McGranitt l’attendeva con cipiglio altero – Temevo non arrivasse più.”
 
Alex sollevò gli occhi dal gilet fino ad incrociare quelli scuri della donna, finendo di discendere con charme e leggerezza la scalinata.
 
“Mi scusi se ci ho messo tanto. Non sono molto pratica del vostro castello con scale così impertinenti. Per quale motivo cambiano continuamente direzione?” – era alquanto infastidita, ma la Preside non se ne curò.
 
“Dovrebbe saperlo.”
 
“No, non lo so! E, detto sinceramente, non capisco perché io debba partecipare a questa pagliacciata.”
 
L’anziana donna, avvolta nel suo lustro abito verde bottiglia, stava per controbattere duramente ma si frenò proprio prima di pronunciare parole impulsive; si limitò ad accennare un sorriso di cortesia.
 
“Finché non sarà guarita, signorina Weasley, credo che non sia un bene farla tornare a Dublino. Inoltre, questa serata potrà essere per lei molto propizia. – la donna esaminò la giovane da capo a piedi – Bene, vedo che ha trovato un vestiario adeguato. Mi segua.”
 
 
 
Ma Alex la interruppe.
 
“Perché non la smette di chiamarmi così? E di farmi chiamare da tutti qui dentro così. Quante volte ancora dovrò ripeterlo? Io non c’entro niente con questa dannata Ginevra Weasley.”
 
Ma, ancora una volta, la strega non sembrava darle troppa importanza.
 
“Spero tanto che l’anima di Ginevra non sia dannata, anche se non nego di avere una certa paura a riguardo. – rifletté ad alta voce – E lei perché non la smette con queste fisse e si lascia prendere dalla leggerezza per una volta? Dia retta a me, si goda questa serata. L’ho voluta tanto e ho i miei motivi, vedrà. Coraggio! Ci stanno aspettando. Mi raccomando, lei aspetti qui. La chiamerò io appena dovrà entrare. Faccia un bel respiro e si prepari!”
 
Le due figure, antitetiche all’estrema potenza, attraversarono l’anticamera per fermarsi così innanzi alla porta chiusa della Sala Grande; si poteva sentire un brusio crescente che, dall’interno, si andava delineando e muovendo incurante dell’imminente inizio della cerimonia.
“Aspetti! Io non…” – ma era troppo tardi, Minerva era già lontana.
 
Alex non la capiva: era come se quell’anziana donna le nascondesse qualcosa, qualcosa di decisamente importante che però voleva far apparire come secondario e superfluo da spiegare.
Come se rimandasse continuamente, in attesa del momento più propizio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le quattro case erano disposte nei loro lunghi tavoli rettangolari: i Prefetti disciplinavano ogni tavolata e controllavano che ciascun alunno avesse la divisa ottimamente indossata.
La camicia doveva essere ben chiusa, la cravatta stretta al punto giusto senza parer striminzita e il mantello posto morbidamente sulle spalle.
Di fronte, sotto la volta vetrata, si ergeva il tavolo perpendicolare al primo dei professori. Tutti gli insegnanti erano già seduti ai loro posti, una sola sedia rimaneva vuota, oltre quella centrale della Preside.
 
Neville Paciock sembrava alquanto rigido, poco disinvolto, nelle vesti di professore per quella prima cerimonia formale, ma i suoi alunni tifavano per lui: era entrato subito nelle simpatie dei ragazzi per la sua bontà e loro avevano capito bene la passionale competenza del nuovo professore di Erbologia. Solo qualche Serpeverde gli riservò uno sguardo severo e qualche linguaccia.
“Signor Derek?” – Neville si rivolse al Prefetto della tavolata verde e argento.
“Sì, professore.” - Lo studente del sesto anno alzò la testa all’insegnante e lo guardò attento.
“Comunica ai tuoi compagni che saranno tolti 20 punti a Serpeverde.”
Il ragazzo sbuffò; Neville aspettava quel momento da una vita intera.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Tra i due sistemi, cioè tra il tavolo dei professori e le lunghe tavolate degli studenti, era stato posizionato un ennesimo tavolino abbellito con fiori freschi che pendevano dai quattro angoli e un bouquet di gigli posizionato al centro.
La tovaglia era giallo pastello e diversa da tutte le altre della stanza. Il tavolo era ancora vuoto, ma guarnito di sette posti.
 
 
 
 
Il professor Piton, con qualche capello bianco, ma sempre con la stessa cera seriosa, ticchettò sul proprio bicchiere richiamando l’attenzione dell’intera sala.
Un silenzio tombale e uno sguardo d’insieme si posò sul freddo professore di Pozioni.
Ci fu una pausa stressante e, solo dopo qualche secondo di ulteriore attesa, il mago iniziò a parlare.
 
“Con mio sommo piacere ed onere, apro questa serata di gaudio presentando la nostra Preside, affinché si unisca a noi e dia il via al banchetto di benvenuto per l’inverno e le tanto attese vacanze.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Flich spalancò, tra innumerevoli problemi tecnici, il porticato enorme e la Preside fu accolta tra gli applausi di tutta la scuola.
Gli studenti si alzarono in piedi, nella loro tenuta migliore e, tra scroscia di applausi e fischi di approvazione, osservavano acclamanti la loro somma responsabile.
In quel momento Minerva capì di essere davvero rispettata e che il suo lavoro veniva ben visto dai suoi adorati studenti; avrebbe dato la sua vita per loro.
 
 
 
“Troppo buoni, grazie. – Minerva arrivò davanti al tavolo dei professori e da lì iniziò con gli annunci ufficiali – Sono molto contenta di avervi tutti qui questa sera, studenti del primo anno e di tutti gli anni seguenti fino all’ultimo. Come vedete c’è ancora qualche posto vuoto nella sala ed ora lo riempiremo.”
 
I ragazzi erano tutti trepidanti ed attendevano il cenone con avidità; Hogwarts era rinomata per i suoi pasti, soprattutto per quelli delle grandi evenienze. Per quei rari eventi, il personale addetto alle cucine dava il massimo delle sue capacità, per la gioia dei ragazzi della scuola.
La Preside continuò calma.
 
“Innanzitutto, devo presentarvi un’ospite che avremo l’onore di avere con noi ancora per poco e quindi spero ne trarrete il massimo giovamento nel poco tempo rimasto. La strega, finalmente rintracciata e combattente della Grande Battaglia, Ginevra Weasley.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex chiuse gli occhi per frenare quella voglia di urlare e volare via. Ormai era lì, davanti all’ingresso, tutti gli incalcolabili occhietti della sala si voltarono alla porta e lei non poté far niente per evitarli.
La McGranitt era stata tempestiva, l’aveva fregata per bene.
 
La ragazza tolse le mani dalle tasche, come era sua abitudine nei momenti di difficoltà, ed entrò nell’ampio salone illuminato da candele pendenti tra il pavimento e l’altissimo soffitto.
Entrare lì era sbalorditivo, le tolse il fiato: l’immensa sala indirizzava sulla passerella centrale tutta l’attenzione, come se l’attraversatore fosse catapultato di colpo nell’occhio del ciclone.
Era un’emozione strana, nuova, pulita ed immensa.
Alex si sentì benvoluta, nessuno la stava giudicando per il suo modo di vestire. Nessuno la stava evitando, ma anzi tutti le rivolgevano la giusta attenzione.
Dalla tavolata dei Grifondoro, due mani batterono piano e ruppero quell’incantato silenzio.
Victorie, l’esile e bionda ragazzina che aveva incontrato quel pomeriggio, la guardava sorridendo e con una lacrima dispettosa che voleva tanto liberarsi.
Così, applaudì l’ingresso di quella strana ragazza a cui si sentì subito legata.
 
“Benissimo, signorina Victorie. – intervenne Minerva – Facciamo sentire il calore di Hogwarts alla nostra ospite, forza!”
 
Spinte dalla Preside e da quell’avvio, centinaia di mani iniziarono a sbattere tra loro ed Alex giunse al tavolo di mezzo. Prese posto, restando però in piedi in attesa degli altri commensali.
Fu in quel momento che incontrò gli occhi azzurri, e come i suoi, della bambina Grifondoro.
 
 
 
 
 
 
“Adesso vorrei presentarvi un duo che ha fatto tanto disordine qui dentro, fino a qualche anno fa. – continuò la Preside – Sembra solo ieri che girovagavano di notte per risolvere intrighi di magia oscura che noi adulti non avevamo nemmeno lontanamente intuito. Dobbiamo molto a questi due uomini, Ronald Weasley, proprietario dell’emporio “Tiri Vispi Weasley” e uno degli Auror più affermati, Harry Potter.”
 
Dallo stesso porticato entrarono due ragazzi in completo da sera scuro.
 
 
 
Alex li fissava dal tavolo, in lontananza.
Li vide avvicinarsi, uno di fianco all’altro.
 
 
 
Il primo aveva i capelli morbidi fino alle spalle e rossissimi, quasi arancioni; il suo viso era colmo di lentiggini, ma nel complesso risultava estremamente elegante nel suo vestito grigio.
Percorse il salone guardando sempre basso; Alex intuì che si vergognava o era profondamente timido o tutt’e due le cose insieme.
Il secondo ragazzo camminava alla sinistra del primo ed era più fiero, lo si vedeva dal passo cadenzato. Il suo abito era nero e indossava una cravatta molto sottile dello stesso colore.
Anche il loro ingresso fu accompagnato da sonori applausi e Ron, il primo dei due, alzò la mano in segno di saluto verso Victorie, la nipote.
Arrivarono al tavolo degli ospiti e si accomodarono di fronte ad Alex che li osservava seriamente.
Harry tese la mano per presentarsi e poi Ron fece altrettanto.
 
Quando le mani di Ron ed Alex si incontrarono, i due non poterono far a meno di abbassare lo sguardo; erano entrambi molto tesi. E ognuno si chiedeva se l’altro lo fosse per lo stesso motivo. Ma non ci furono parole di troppo, erano misurati. Ed emozionati.
 
 
“La signorina Fleur Delacour. – Minerva annunciò la quarta ospite che, a differenza degli altri, entrò da una porta laterale e si avvicinò pronta al cognato che già sorrise nel sentirne il nome. La giovane madre indossava un abito celeste fino al ginocchio che si sposava perfettamente con l’acconciatura bionda e raccolta – Permettetemi di chiedere un ulteriore applauso, ragazzi, per il compagno decaduto in battaglia della signorina Delacour. Tutti insieme, a Bill Weasley!”
 
“A Bill Weasley!” - Prontamente ogni ragazzo tirò indietro la sedia e si alzò in piedi, pronunciando l’elogio a gran voce e continuando a battere le mani, per omaggiare così il papà della piccola Victorie.
Anche lei si unì all’ovazione e, guardando la mamma e lo zio vicini, ripensò a suo padre e sperò con tutte le sue forze che da lassù lui potesse vederli.
Sperò che suo padre potesse essere contento di loro e si disse che sì, doveva esserlo per forza. Stavano ricostruendo le loro vite, stavano continuando a combattere per ciò in cui lui aveva creduto tanto. Per ciò per cui lui aveva dato la vita.
Victorie vide che anche Alex si era unita al coro di applausi e ne fu molto felice.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La McGranitt riprese la parola, mantenendo sempre l’incantesimo Sonorus sulla voce per far sì che potesse essere ben chiara e nitida anche nella profondità della sala.
 
“Prima di cominciare la cena, vi vorrei presentare una nuova insegnante che da gennaio arricchirà il vostro bagaglio di conoscenze. – la donna proseguì fiera - So che molti di voi la conoscono già o l’hanno vista girovagare per la scuola da qualche settimana a questa parte. Insieme al professor Paciock, è l’insegnante più giovane che questo Istituto di formazione magica abbia mai avuto. E con mio immenso piacere, vi esorto a dare un caloroso benvenuto e un buon inizio di carriera accademica alla nuova professoressa di Incantesimi, la signorina Hermione Granger.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex tolse l’attenzione da qualsiasi oggetto stava fissando fino a quel momento; girò lo sguardo alla porta ed incontrò Bellezza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Pss…Hermione!” – la stupenda ragazza sulla soglia si voltò a destra del porticato spalancato, una voce gutturale la fermò mentre accennava il primo passo per entrare.
Lo riconobbe subito.
“Draco! – finse indifferenza, ma le risultò molto difficile: tutta la scuola si stava volgendo verso di lei proprio in quel momento – Si può sapere cosa diamine…”
Il giovane, con scatto felino, le si fece vicino. Temeva di essere in ritardo, ma per fortuna era riuscito a bloccarla proprio un istante prima che lei facesse il suo ingresso.
“Mi prenda il braccio, madame.” – Draco indossava uno smoking nero, pienamente appropriato alla serata.
Era, senza dubbio, l’uomo più raffinato della sala.
 
Hermione sistemò la ciocca ribelle dietro l’orecchio e si posò sul braccio offerto da Malfoy.
 
Tutta la sala fu stupita ed incantata dall’ingresso di una coppia così inaspettata e perfettamente descrittiva dello spirito di quella scuola: la migliore dei Grifondoro e il più indisponente dei Serpeverde.
 
 
 
 
Hermione attraversava la navata centrale in un vestito da sera lungo a sirena. Era nero, come l’eleganza richiedeva; davanti, una scollatura non troppo audace faceva capolino, ma il punto di fuga dello spettatore era dietro.
La schiena della ragazza era nuda oltre la metà e sotto chiusa in una cerniera lampo provocatoria, che dalla schiena arrivava fino al polpaccio perfettamente in mostra.
I capelli castano chiaro della giovane professoressa erano lucidi e modellati, disposti sul lato destro del viso, lasciando così l’orecchio sinistro scoperto e in balia degli sguardi degli osservatori limitrofi.
 
Un coro di applausi si levò dalle quattro tavolate riunite, e anche dal banco dei professori, tutti concordi nell’ovazione alla nuova insegnante: le ragazze per la sua grazia, i ragazzi più per le sue grazie.
Ma entrambi i lati riconoscevano tutto il valore di quella giovane donna: la sua cultura era leggenda quasi quanto la cicatrice dell’Auror che Hermione aveva raggiunto e a cui già sorrideva.
 
Appena fu presso il tavolo degli ospiti, Hermione salutò affettuosamente Harry, Ronald e Fleur. Davanti ad Alex il suo slancio vacillò appena, ma solo loro due poterono sentirlo: proveniva da dentro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Molto bene! Professoressa Granger, sieda pure vicino al professor Piton. – la McGranitt riprese la parola, con non poca fatica nella confusione generale – Avevo quasi dimenticato il signor Malfoy, per fortuna anche lui ci ha raggiunti. Si accomodi pure al tavolo degli ospiti. E adesso, bando agli incantesimi cianciosi, che il banchetto abbia inizio!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ogni genere di leccornia si materializzò sulle lunghe tavole e i ragazzi quasi impazzirono alla succulenta visione. Una piena cena da evento!
In omaggio agli ospiti furono preparati dagli elfi cuochi molte pietanze dal continente, soprattutto di forgia francese.
Ogni tavolo era intento in mille discorsi sulla bontà del cibo, sulla bravura della nuova professoressa, sulla storia di quell’Auror famosissimo, sul capello biondo precisamente delineato dell’altro ragazzo, sulla stranezza di quell’altra ospite…
 
“Quella assurda pseudo ragazza è la sorella di tuo padre, vero Weasley? Nonché tua zia quindi?” – un piccolo Serpeverde del tavolo di fronte si era rivolto a Victorie dopo averne attirata l’attenzione.
La grifondoro aveva colto il tono derisorio.
“Sì.” – rispose secca.
“Beh, credo proprio che sia un essere bizzarro! Magari non è neanche una strega, guardatela! Ma non dovrebbe certo impressionarci, data la tua sciapa e povera condizione famigliare!”
In quello stesso momento la forchetta che il Serpeverde teneva in mano divenne incandescente e lui fu costretto a schizzarla via in un batter d’occhio, iniziando a frignare come un poppante tra le risate della sua stessa tavolata: Alex lo stava fissando.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Al tavolo degli ospiti la situazione era alquanto tesa. Harry, Ron e Fleur sedevano di fronte a Draco ed Alex. Erano state pronunciate poche parole di cortesia sulla cena, le si potevano contare sulla punta delle dita e un certo disagio la faceva da padrona, finchè…
 
 
 
“Oh mio Dio, vogliate scusarmi signori e signorine! – una donnona scura e altra quasi due metri occupò, dopo una vistosa corsa, il sesto posto e si sedette accanto ad Alex – Il Nottetempo ha avuto mezzora di ritardo e non ce l’ho proprio fatta ad arrivare in tempo! Chiedo umilmente perdono! Ma no vi prego, non interrompetevi, continuate pure la vostra cena!”
Alex divenne rosso fuoco dall’imbarazzo. Non poteva crederci, ci mancava solo questa.
 
Fleur fu l’unica in grado di organizzare qualche parola di senso compiuto.
“Ci scusi, noi non sapevamo dovesse arrivare un’altra ospite altrimenti avremo aspettato per cominciare. – tese la mano alla donna – Io sono Fleur e lei?”
La donnona fu così felice di tanta considerazione che ignorò Alex e il suo cipiglio scoraggiato per stringere calorosamente quella mano candida.
“Piacere tutto mio! Il mio nome è Caroline e sono una magonò al servizio di Minerva McGranitt e del Ministero della Magia.”
Alex sputò il boccone che aveva in bocca e per poco non si macchiò irrimediabilmente la camicia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Con l’arrivo di Caroline il tavolo ospiti prese vigore e tutti iniziarono a sciogliersi.
Malfoy ricordava briosamente a Potter di quella volta in cui aveva preso per colpa sua una bella punizione a seguito di un incantesimo congelatore, ma pronto Ron gli suggerì che poi furono tolti punti anche a Grifondoro e Tassorosso, nel caso lo avesse dimenticato.
“Diamine Weasley, hai ragione! Hai maledettamente ragione!” - Il biondo fu costretto a confermare.
Era bellissimo ridere insieme di ricordi e vedere che, ora, non facevano più male come quando erano ragazzini. Adesso finalmente tutti proteggevano gelosamente quei momenti passati come tesori di inestimabile valore.
I tre continuavano a ridere di gusto e anche Fleur e Caroline si univano alle risa, soprattutto quando iniziarono a descrivere a Caroline il torneo Tremaghi che Harry e Fleur avevano affrontato anni prima.
Alex si sistemò indietro i capelli e guardò oltre.
 
 
 
 
 
 
 
Dal tavolo degli insegnanti, Neville parlava animatamente con Hermione e cercava di rassicurarla sui metodi di disposizione degli alunni durante le verifiche di metà trimestre.
Lui parlava e parlava e parlava ancora, ma lei sembrava distante anni luce, persa, consumata in un’altra realtà.
Hermione annuiva e guardava davanti a sé, all’unica persona che sembrava totalmente incollata a lei da qualche indissolubile sortilegio.
 
 
 
Quando si incontravano, i loro occhi brillavano più di ogni altra decorazione della sala e di tutto il castello.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ragazzi ma… - esordì Draco, cambiando discorso nel tavolo ospiti, mentre ingurgitava ancora dello spezzatino di agnello - …come mai ci sono sette posti e noi siamo solo in sei?”
I tre di fronte si guardarono l’un l’altro, colti nel punto debole.
“Forza Ron, è il momento.” – Fleur prese la mano del ragazzo rosso tra le sue e cercò di fargli coraggio.
Ormai erano al dessert; a breve si sarebbero aperte le danze. Doveva farlo adesso.
Adesso o non lo avrebbe fatto mai più.
 
 
 
Alex capì che lei doveva entrarci qualcosa in quell’incoraggiamento.
 
 
 
 
 
“Sì, hai ragione. – ed infatti Ron guardò Alex, incappando dritto nei suoi occhi azzurri per la prima volta, con rispetto e un po’ di paura – Ecco, io volevo dirti…anzi…anzi noi…noi volevamo dirti che siamo…siamo molto felici di…” - era visibilmente emozionato.   
 
“So tutto, lascia stare. Non devi dirmi nulla.” – Alex rispose rapida. E fredda.
 
“Ti prego fammi finire, altrimenti rischio di non dire più nulla. – si schiarì la voce – Hermione mi ha raccontato un po’ di te. Ci ha detto dell’incidente che hai avuto e che da allora non hai ricordi. Quando, mesi fa, ci ha rivelato che ti aveva trovata, beh noi non…non volevamo crederci. Non potevamo crederci, ti sapevamo morta. Eravamo rassegnati, avevamo visto il tuo corpo senza più vita. Poi…poi questa notizia bellissima ed ora…so che non vuoi essere chiamata Ginny…come noi ti chiamavamo di solito…ma…voglio che tu sappia che anche se sei diversa, anche se hai un corpo che non ti apparteneva prima…noi sentiamo che sei tu e…e vogliamo solo dirti che ci siamo. Ti vogliamo con noi, vogliamo starti vicino e…provare a ricostruire la nostra famiglia, se lo vorrai anche tu.”
 
Ron aveva sudato per lo sforzo, Fleur lo avvertiva dalla sua mano: dire quelle parole era stata la missione più dura della sua vita, dopo la battaglia e la perdita dei suoi fratelli e di suo padre.
 
“Ti ringrazio. – Alex sorrise con sobrietà al rosso e alla ragazza a lui accanto - Vi ringrazio. Ma io non so se sono la persona che state cercando.”
 
“Questa sera, a questo tavolo, avrebbe dovuto esserci anche nostra madre. – Ron aveva preso coraggio da quelle prime frasi dette – Lei però ha deciso di aspettare, vuole incontrarti solo quando tu sarai pronta, solo quando anche tu lo vorrai.”
 
“Potrei non volerlo mai.” – la voce di Alex risuonò come un taglio.
 
“Ha deciso di correre il rischio! – lui finse una serenità che non aveva – Mamma è sempre stata una donna forte e…e vuole tenere duro per te. – si fermò un attimo, fermando la voce e l’emozione di rivederla lì davanti - Per te, Ginny.”
 
Fleur strinse più forte la mano di Ron, mentre Harry squadrava il viso della ragazza dai capelli corti che aveva di fronte per cogliervi quello che le parole fraterne avessero suscitato.
Non riusciva a capirla, nessuno di loro riusciva a capirla veramente a fondo, Alex era indecifrabile.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il Sonorus della McGranitt interruppe tutti i discorsi.
 
 
“Ed ora, credo sia giunto il tanto atteso momento. Signorina Prew! – una ragazza mora e molto bella del settimo anno si levò dal tavolo dei Corvonero – So che lei è una notevole ballerina nel mondo babbano. A lei l’onore di scegliere il cavaliere e cominciare il valzer viennese che l’esimio professor Flitwick ha scelto per l’apertura.”
 
La ragazza, nella sua divisa blu decorosamente lisciata, si avvicinò al tavolo degli ospiti e il suo ambito cavaliere intuì subito.
Draco Malfoy si alzò con destrezza e si sistemò, a sua volta, la giacca e il papillon lucido.
 
 
“Signor Malfoy, mi concede l’onore di essere la sua dama?” – la ragazza tremava nella voce e tutta la scuola la incoraggiò con un applauso, per elogiarne l’intraprendenza.
“Con vero piacere, milady.”
 
 
 
Le tavolate furono accantonate in men che non si dica da un tocco di bacchetta della Preside e Flitwick iniziò a dirigere la Frog Choir, l’ottima orchestra di Hogwarts.
 
 
 
 
 
 
 
Draco Malfoy e la signorina Prew raggiunsero sottobraccio il centro della Sala Grande e, tra l’inchino di lui e il timido sguardo di lei, presero il via leggeri.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La McGranitt ne fu entusiasta e non lo nascose.
 
“Forza ragazzi! Seguiamo la prima coppia come si conviene. Professor Piton?”
 
L’uomo, con fare visibilmente contrariato, prese la Preside per mano e raggiunse la prima coppia.
Uno stormo di ballerini provetti si formò velocemente tutt’intorno . Gli studenti si erano esercitati molto durante l’ultima settimana e aspettavano con trepidazione quel momento, per potersi unire in ballo alla dama da tempo adocchiata. Era la scusa giusta per conoscerla, invitarla a ballare, stringerla e sentirla vicina. E magari chissà, iniziare qualcosa di più.
 
 
 
Non tutti, però, furono così fortunati.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ron corse dapprima a dare un sonoro bacio alla piccolina di casa Weasley, che già teneva per mano il suo migliore amico per cominciare a ballare, poi tornò al suo tavolo ed invitò Fleur senza proferire parole: gli bastò guardarla, con estrema dolcezza. Lei, con un cenno del capo, disse sì.
 
 
Anche Caroline fu presto invitata da un ragazzo molto alto dell’ultimo anno in cravatta verde e argento. Nonostante la sua casata di provenienze, si rivelò molto gentile e galante.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Al tavolo rimasero solo Harry ed Alex.
Il bello era che avevano adocchiato entrambi la stessa dama.
Ancora più bello fu che rimasero tutti e due a bocca asciutta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Professoressa Granger, vuole ballare con me?”
Hermione si voltò al suo più prossimo commensale e si sciolse in un sorriso d’assenso.
Neville tese la mano e, come a mostrare di aver accanto la dama più ambita, raggiunsero anche loro la sala.
“Non ti facevo così intraprendente, professore!”
“Oh mia cara collega, forse non ricordi che al Ballo del Ceppo sono stato l’ultimo a lasciare la pista e a notte inoltrata!” – il ragazzo cinse la vita di Hermione col braccio destro mentre la mano sinistra teneva saldamente la mano della giovane.
Anche Piton dovette ammettere che quell’improbabile professore ballava meglio di qualunque uomo nell’arco di mille miglia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: Hermione faceva scaturire il lei il desiderio più assurdo. Più irrefrenabile. Ed ebbe paura, una paura folle di morirne.
Si può morire di desiderio?
In quel momento si rispose di sì.
Temette di spogliarla col solo pensiero. E si vergognò di tutti gli altri pensieri che la sua mente e il suo cuore le stavano suggerendo.
Se è vero che si può amare anche solo con gli occhi, i suoi sicuramente lo stavano facendo e con passione sanguigna.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ci è andata male.”
 
Alex quasi si spaventò e mise di colpo le mani in tasca; Harry le si era affiancato e le rivolse la parola, mentre in piedi accanto ad una colonna osservavano il girovagare delle coppie e lo smuoversi delle gonne e dei mantelli.
 
“Scusa?”  
 
“Hermione. – continuò Harry – Neville è stato più veloce di noi.”
 
“Io non amo ballare.”
 
“Ma la stai guardando da quando si è alzata.”
 
Se è per questo, la stava guardando da molto prima. Ma decise di non dirglielo. Non le sembrava una buona idea.
Harry non le piaceva: aveva la puzza sotto il naso e aveva la sensazione che la controllasse.
 
 
Notando che Alex non sembrava gradire l’appena iniziata conversazione, Harry proseguì senza aspettare risposta.
“Come si dice, Alex? Audentes fortuna iuvat. – Harry scrutò i ballerini, finché non trovò quelli che cercava - Ehi, professor Paciock!”
Proprio in quel momento la più bella coppia danzante passava lì accanto ed Harry li fermò; i due non se ne rammaricarono, ma anzi gioirono nel rivedere il loro caro amico.
 
 
 
“Harry! E’ davvero stupendo rivederti. Come stai amico mio?” – Neville lo abbracciò.
Hermione e Alex erano l’una di fronte all’altra, ma nessuna delle due riuscì a far altro.
 
 
 
 
Sei… - Alex sospirò - …sei bellissima…” – dalle sue labbra tutto ciò che riuscì a uscire fu un sussurro davanti alla luce che Hermione emanava.
Fu la prima cosa che le venne in mente e si sentì stupida, sicuramente già altri prima di lei l’avevano pensato e detto. Ma non riusciva a pensare ad altro: nessun’altra frase, idea o concetto.
Era come pietrificata, come perduta.
 
“Anche tu stai bene. Davvero... – Hermione sembrava più a suo agio, o almeno voleva sembrarlo – ...Sei molto elegante. Che ne dici se noi due…”
 
 
“Hermione, - Harry le prese la mano, precedendole – vorresti ballare con me?”
La ragazza non seppe dire no e, con piena soddisfazione dell’Auror, tornò in pista.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex avrebbe voluto fulminarlo lì, in quel preciso istante.
Ora capiva perché non le piaceva quel tipo.
Motivo primo: la fissava continuamente.
Motivo secondo: ci stava provando spudoratamente con Hermione.
Un lampo l’attraversò rapido e amaro. Le venne in mente un pomeriggio passato, quando Hermione fece proprio il nome di Harry come suo spasimante.
 
 
 
 
 
Mentre rimuginava sul modo più doloroso possibile con cui uccidere Harry Potter, il giovane professore al suo fianco le rivolse la parola.
“Ginny! – Neville le si avvicinò con un sorriso a trentadue denti – Non sai quanto sono felice di rivederti, come stai?”
Era sinceramente contento.
“Ciao Neville, non c’è male. Anche se quel tuo amico, Harry, non mi piace molto a dirla tutta e mi sta rovinando la serata.”
Alex non comprese perché si era sbilanciata tanto con Neville; le aveva fatto simpatia da subito, rispetto agli altri.
 
“Lo so, me lo dicevi sempre anche anni fa. Vieni, prendiamo qualcosa da bere!”
 
Insieme raggiunsero un banchetto laterale, addobbato in pochi minuti e zeppo di succhi di ogni genere. Neville salutò due alunni che prendevano da bere e riempì a sua volta due bicchieri con un intruglio rossiccio. Poi ne porse uno alla ragazza in camicia e gilet.
 
“Grazie, ma che cos’è?” – Alex lo afferrò, era assetata.
 
“E’ succo di melograno acerbo, il tuo preferito. Lo ricordo bene perché una volta, a forza di berne, ci presi un bel dolore di stomaco! Stavamo facendo l’ennesima gara a chi ne prendeva di più e, inutile dirlo, mi battevi ogni volta.”
 
La ragazza rise di gusto e Neville capì di essere entrato nelle sue simpatie. Per un momento le aveva fatto dimenticare che Hermione stava ballando stretta all’Auror arrogante che avrebbe voluto tanto uccidere e a mani nude.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Come ricordandosi di un improvviso impegno, Alex guardò l’orologio enorme posto all’ingresso della sala. Era il momento.
Il momento tanto atteso. E lei ne aveva tremendamente bisogno.
 
“Scusa Neville, esco un attimo a prendere una boccata d’aria. – scolò il bicchiere e lo rimise in mano al giovane – Torno subito.”
“Ti accompagno.”
“No! – si affrettò a rispondere – No, grazie. So la strada, sarò di ritorno in un attimo.”
Paciock annuì e la vide allontanarsi, sgomitando tra la folla danzante.
 
 
 
Anche Hermione che ballava stretta ad Harry notò quell’improvviso cambiamento e, dopo aver visto che la ragazza usciva dalla sala, fermò Potter scusandosi e lasciandolo impalato come un pesce fuor d’acqua in mezzo alla pista da ballo.
 
 
La giovane professoressa fece cenno a Neville.
 
“Ehi Neville, perché è andata via? Non sta bene?”– era preoccupata.
“No, o almeno non credo. Ha detto che andava a prendere un po’ d’aria, ma credo stia bene. Stavamo chiacchierando tranquillamente.”
“Ti ha detto dove andava?”
 
Neville iniziò a preoccuparsi a sua volta, ma per la sua collega. Aveva capito da tempo che quelle due dovevano avere qualcosa che le univa, e molto.
 
“No, non me lo ha detto ma credo in giardino. Anche se lì non c’è nulla di preparato per la festa. Minerva ci ha indicato espressamente di rimanere in Sala Grande e far sì che gli studenti non vadano in giro.”
“Grazie.” – il lungo abito di Hermione la costrinse ad una camminata moderata, non poteva correre.
Ma era intenzionata a seguire Alex, fosse anche per chilometri. Quell’uscita così in sordina non la convinceva.
 
 
Una ragazzina bionda del primo anno, con casacca rossa e dorata, ebbe la sua stessa idea.
 



 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Brancolando nel buio ***


Victorie si tenne stretto il mantello nero.
 
L’aria fuori era pungente e l’inverno in arrivo iniziava a farsi sentire; una forte brezza accarezzava Hogwarts e il suo giardino. Le fronde e i rami più alti ballavano, mossi senza tregua.
Le poche luci intorno al castello risplendevano dolcemente tutte intorno nella penombra, creando un paesaggio mistico e nebbioso, ma oltre il loro confine nulla era più visibile. L’oscurità avvolgeva ogni creatura.
La ragazzina uscì dal castello in fretta: voleva conoscere la sua unica zia, Ginevra Weasley, combattente della Grande Guerra magica che sette anni prima aveva distrutto ogni speranza, ogni certezza.
Quella sera, l’aveva ritrovata per caso senza che nessuno le avesse preannunciato nulla. Victorie era sconvolta, sconvolta e felice, incredibilmente felice.
Voleva chiedere a Ginevra cosa aveva fatto fino a quel momento, dove aveva vissuto, voleva accarezzarle i capelli corti perfettamente modellati e chiederle perché non fossero rossi come tutti quelli dei suoi zii. La sua famiglia, da parte di padre, doveva avere un gene o qualcosa di ugualmente potente a tal punto che quasi tutti nascevano con ciuffetti color carota in testa.
In effetti, finora, solo due erano le eccezioni che Victorie conosceva: lei stessa e quella ragazza, la sorella più piccola di suo padre data per morta fino a qualche settimana fa.
Ed ora lì, inaspettatamente arrivata ad Hogwarts.
 
Mentre rifletteva sul gene, Victorie sentì un leggero scroscio di foglie.
Qualcuno stava camminando e le pestava con estrema calma, per poi virare verso la foresta. La leggendaria Foresta Proibita.
 
Per un momento Victorie pensò di lasciar perdere e tornare indietro; se l’avessero vista entrare in quella selva avrebbe potuto essere espulsa dalla scuola.
Un pensiero nuovo la colse, inatteso.
Si disse che forse proprio sua zia Ginevra poteva aver bisogno di aiuto: l’aveva vista uscire dal ballo e incamminarsi via fino all’ingresso della foresta segnato da alti arbusti.
E si sa, nessuno esce incolume da quel prato incantato e pieno di incalcolabili creature magiche, non tutte benigne.
Victorie si fermò un attimo presso il cancelletto e strinse ancora più a sé il mantello nero e lucido.
Aveva solo undici anni, ma era una Grifondoro. E il coraggio non le mancava.
 
Senza pensarci ancora, fece la sua scelta.
Così, scattò correndo mentre il mantello l’avvolgeva ed entrò nella foresta, lasciandosi guidare dal fruscio dei movimenti di chi proseguiva lento davanti a lei e da un nuovo affetto, che iniziava a zampillare dal suo cuore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Senza sapere di essere seguita, Alex contava le piante una dopo l’altra.
Aveva ancora indosso l’elegantissimo gilet nero e la camicia immacolata, la più pregiata che avesse.
 
“Quattro. Cinque. Sei. – procedeva tenendo gli occhi socchiusi, per abituarli all’oscurità. Quel posto non le piaceva molto. – Set…”
 
 
 
Uno spasmo la bloccò di colpo, inchiodandola al settimo abete.
 
Si accasciò a terra e chiuse gli occhi per fermare quel dannato, fottuto dolore alle tempie.
 
 
 
 
 
 
 
Quando li riaprì, pochi secondi dopo, vide le mani tremarle come mai prima.
 
 
“No…” – non riusciva a crederci. Non poteva essere. Non poteva accaderle ancora.
 
 
 
 
 
Sembravano impazzite, non le governava più, non le sentiva quasi più sue: le sue mani non rispondevano ai suoi comandi.
Non era la prima volta che le accadeva. Ma stavolta tutto era amplificato di mille volte. Tutto le era più insopportabile e non riusciva a darsi pace. Non riusciva a fermarne il tremore.
 
 
Aveva bisogno d’assenzio.
 
Con tutta la lucidità che quell’atroce fitta le lasciava ancora avere, si mise in piedi sorreggendosi al tronco dell’albero e riprese a camminare.
 
 
Sbandava, brancolando nel buio più nero.
 
 
 
 
 
Non riusciva a vedere bene, tanto era forte la fitta causata dalla contrazione delle mani, e a malapena riuscì a calcolare gli alberi rimasti tastandoli come meglio poteva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Finalmente raggiunse il sedicesimo.
Era quello il punto di incontro descritto nella missiva che aveva ricevuto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Con le dita fredde e totalmente in balia della pazzia, sfiorò qualcosa di poco ligneo e caldo.
Capì che doveva essere un viso.
Un viso di donna circondato da folti riccioli.
E immaginò che dovessero essere scuri.
 
 
 
 
 
“Finalmente! Iniziavo a preoccuparmi.” - una figura femminile, così come Alex aveva sentito col toccando, le si parò davanti.
Era Bellatrix.
 
 
Bellatrix Lestrange obbediva agli ordini dell’Oscuro Signore da tempo immemore e non lo aveva mai abbandonato. Amava e rispettava Lord Voldemort come pochi altri e avrebbe portato a termine, a tutti i costi, la missione che lui le aveva assegnato.
Liberare una volta per tutte il mondo magico dal sangue babbano e instaurare di nuovo il Regno Oscuro, di cui lei sarebbe stata regina.
Per distruggere tutti i nemici dell’Oscuro, però, Bellatrix aveva bisogno di Alex e di quello che solo lei possedeva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Dammi...dammi quello che…che mi serve…” – il bisbiglio di Alex si levò come una supplica.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La donna ricciuta sbuffò e contrasse le labbra, voleva perdere tempo.
 
 
 
“Quanta fretta! Non c’è motivo di accelerare tanto i tempi. Perché prima non mi racconti com’è oggi Hogwarts. È cambiata molto? O c’è sempre gentaccia che non c’entra niente con la magia? – fili sanguigni le irradiavano gli occhi – Dovremo iniziare ad ucciderli, il padrone lo chiede.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Dammelo…” - Alex si piegò sulle ginocchia, tenendosi la testa martellante tra mani farneticanti.
Non riusciva più a parlare né a muoversi. Le mani continuavano a farla impazzire, sentiva i nervi tirarle dentro e le vene vicine a scoppiare.
E, tra gli spasimi, si trascinò ai piedi della donna.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ma Bellatrix non accennava a cedere: voleva vedere Alex in balia del suo potere, voleva annientarla per una volta.
Godeva nel farla soffrire e nel sentirla inferiore.
Per una volta inferiore.
 
 
Osservò attentamente e per un attimo la ragazza piegata sull’erba umida.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non avresti dovuto vestirti così, il padrone non ne sarà felice! Solo a lui è riservato quest’abito nobile che egli stesso ti ha forgiato e che tu hai infangato, indossandolo così…per una stupida festa da studentelli! A proposito, ho saputo che quella bifolca di Minerva sta favorendo politiche di integrazione tra i marmocchi. Non è così? – Bellatrix sogghignava al ricordo dell’anziana Preside – Povera illusa mezzosangue. Presto morirà, come tutti quelli che la seguono. Sarebbe stupendo se potessi essere proprio io a…”
 
 
 
“TI HO DETTO DI DARMELO!” – improvvisamente Alex urlò, cacciando dal petto tutta la rabbia in esso racchiusa, liberando il suo demone più nero.
Era fuori di sé.
Delirava.
 
 
 
Allungò di scatto il braccio tremolante e un alone di denso fumo blu ne uscì, scaraventando Bellatrix contro il diciottesimo albero, distante alcuni metri.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’impatto fu violentissimo.
Tutto accadde in silenzio, in una frazione di secondo, senza nessuna formula magica, senza nessuna bacchetta.
 
 
 
Era bastato il braccio disteso di Alex: il suo strabiliante potere fece il resto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Bellatrix batté violentemente la schiena; sicuramente aveva qualcosa di rotto, forse una spalla. Lo si poteva capire dai suoi movimenti, ora scordinati.
 
Ma si rimise in piedi e, zoppicando furiosa, raggiunse di nuovo la ragazza a terra.
 
 
 
 
 
 
 
 
Fu solo allora che estrasse, dalla tasca del trasudato abito, una fiaschetta porta liquori e la gettò con disprezzo ai piedi di Alex.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Tieni, sfacciata che non sei altro! Bevi. Sei come un cane, un cane rognoso!” – con disgusto pronunciò quelle parole, mentre in basso Alex abbrancò in fretta il piccolo recipiente e ne trangugiò il contenuto con avidità.
 
Come se non bevesse da una vita.
 
 
 
 
 
 
 
Era un quadro dell’orrore, Bellatrix si trastullò nel guardarla.
 
 
 
 
 
 
Verdi gocce scintillarono nell’oscurità mentre scivolavano dalle labbra impregnate di Alex, come sangue dalla bocca di un vampiro.
In due sorsi la fiaschetta era vuota.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le mani della ragazza rallentarono la loro disumana vibrazione e finalmente lei poté rilassare tutti i muscoli tesi.
 
Era come riappropriarsi di sé e del suo corpo, ogni volta.
 
Quel liquido era la sua salvezza: le permetteva di unire la sua materia umana ai suoi incredibili poteri oscuri.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Bene, ora che ti sei abbeverata – riprese Bellatrix con lo stesso disprezzo, tenendosi il braccio – voglio che mi racconti di come proseguono i nostri piani dentro quelle dannate mura. Sei riuscita ad avvicinarla?”
 
Alex si asciugò il volto con la manica della camicia che subito si colorò di verde muschio, ma non accennava risposta.
 
 
Bellatrix non le dava pace.
“Allora? – la donna stava per perdere la pazienza – Si può sapere che altro ti serve per aprire quella boccaccia? Tu hai il compito di uccidere lei e tutti quelli come lei, lo hai dimenticato??”
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex la guardò ostile, alzandosi in piedi.
“Vedi di non alzare la voce, Bellatrix. O anche la spalla sana che ti ritrovi seguirà l’altra.”
 
 
 
L’oscura strega si fece più vicina con aria altezzosa.
“Mi minacci adesso? Ti senti forte, invincibile suppongo. E lo sei, adesso lo sei ma sappi che tutta la tua superiorità dipende solo dalla Fata Verde e dai suoi effetti. Senza quel dolce veleno, tu sei nulla.”
 
“Non è vero.” – Alex rispose secca.
 
 
Ma la Lestrange non dava segno di resa e, anzi, sembrava riempirsi d’odio ancora di più ad ogni negazione di Alex.
 
 
 
 
“Se non potessi dissetarti di lei, ti ritroveresti ancora a tremare e ad impazzire come una trottola senza direzione. Il tuo potere sarebbe talmente vasto ed incontrollabile che finiresti col distruggere ogni cosa intorno a te, senza giudizio, senza pensarci due volte. Non mi credi, eh? Vogliamo provare? – la strega prese una piccola ampolla dalla stessa tasca della gonna lunga e gliela mostrò sogghignando – Questa è la scorta che il padrone mi ha detto di darti. Ma, chissà…magari posso raccontare di averla perduta! O che, per sbaglio naturalmente, mi sia scivolata nella foresta. E sai cosa accadrebbe? – i suoi occhi erano luci di tenebra - Io lo so. Diventeresti una bestia.”
 
“No. – Alex non voleva ascoltarla – Smettila…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 “Sì, una bestia molto cattiva. E magari, tra qualche giorno, potresti anche strangolare a mani nude la nuova, cara e bella professoressa di Incantesimi…”
 
“Non la nominare.” – Alex strinse i pugni, alzando la testa.
 
 
 
 
Bellatrix rise a gran voce.
“Oh, adesso sì che è tutto chiaro, è questo allora il succo della questione. Ti sei ancora avvicinata a lei, a quella sporca nullità! Brava, ottimo lavoro, idiota. – poi la donna ebbe un lampo di genio: forse non tutto era perduto - Beh, allora forse…la Verde Fata potrebbe non servirti più. Lascia che i tuoi sensi si amplifichino, lascia che ti vincano Alex…lasciali esplodere. - voleva realmente convincerla – In questo modo, la faresti fuori molto prima e con la crudeltà che merita.”
 
 
 
 “Dammelo subito, maledetta!” – Alex la strattonò e le strappò dalle mani l’ampolla, giusto in tempo, prima che Bellatrix se ne disfacesse.
 
 
 
 
“Ahahah! Non vuoi farlo, vero? Insolente. - ghignò Bellatrix – Capisci adesso cosa sei? Sei solo un artificio, un trucco. Un’incapace! Il tuo potere finirà per ucciderti ed io sarò di nuovo il braccio destro del Signore Oscuro, come è giusto che sia. Finalmente riprenderò il ruolo che mi spetta e che tu mi hai usurpato.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Tra i cespugli densi e alti, posati a qualche metro dal posto in cui avveniva l’insolito dialogo, una giovane donna vestita da cerimonia e una ragazzina avvolta in un mantello si nascondevano meglio che potevano.
E tra sussurri provavano a chiarirsi le idee, cercando di ascoltare la conversazione che si svolgeva loro innanzi.
 
 
 
 
“Andiamo via Victorie, dobbiamo tornare al castello. È troppo pericoloso qui! Dobbiamo avvertire gli altri. La situazione sta precipitando.”
“No professoressa! Io devo…devo capire. – la ragazzina era molto seria - Quella donna che sta parlando con mia zia, io l’ho già vista quand’ero molto piccola. E’ una Mangiamorte, non è così?”
 
Era la prima volta che Hermione sentiva qualcuno rivolgersi ad Alex in quel modo, con tutto quell’affetto represso per anni. Qualcuno che teneva a quella bizzarra ragazza come ci teneva lei.
 
 
 
“Lo penso anch’io, ma non sappiamo cosa c’entri Ginevra. Proveremo a capirlo quando tornerà, ti prometto che l’affronteremo insieme e la costringeremo a dirci tutto quello che sa e che ci sta nascondendo. Ora andiamo!”
 
Poi la bambina disse qualcosa che inchiodò Hermione alla verità, quella più grande: la verità del cuore.
 
 
“Tu le vuoi bene?” – gli occhi di Victorie erano chiari e puliti. Integri.
Non si può mentire ad occhi così.
 
 
 
Hermione aprì le labbra come a dire qualcosa di molto importante, qualcosa di nuovo che non aveva mai ammesso neanche a se stessa. Qualcosa che colpì lei per prima.
 
“Sì. Io…io tengo molto a…a tua zia.” – sorrise timida.
 
“La salveremo?” – gli occhietti azzurri della piccola le fecero una tenerezza inesprimibile.
 
La professoressa prese la mano dell’alunna e la strinse tra le sue.
“Fosse l’ultima cosa che faccio.”
 
 
 
 
 
Crack.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un calpestio di fogliame e rami secchi fece sussultare le due oscure donne che subito si voltarono, dilatando lo sguardo tutt’intorno.
 
 
 
 
 
 
 
 
Bellatrix estrasse la bacchetta e la indirizzò verso il cespuglio incriminato. Da lì aveva sentito quel rumore, qualcuno o qualcosa le aveva seguite ed ora si stava nascondendo lì dietro.
Era troppo intelligente per non capirlo.
 
Alex protese la mano destra verso lo stesso bersaglio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Deprimo. – Bellatrix pronunciò la formula magica e il cespuglio si sbriciolò all’istante in una carcassa di rovi, rivelando le due figure nascoste – Oh, guarda, guarda! Stavamo parlando proprio di te, cara professoressa. Non fare quella faccia da rimbambita! No, non ti faremo del male. Morirai senza avere il tempo di pensarci. Oh, e tu piccolina… - notò la bambina nel nero mantello da Grifondoro - ...tu chi sei? Appartieni anche ad una casa di poveretti, a quanto vedo.”
 
 
 
 
 
 
Alex abbassò la mano, impotente.
Era bloccata e non riuscì a proferire parola.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione attirò dietro di sé Victorie e rivolse alla donna riccia tutto il suo disprezzo.
 
“Lei non ti interessa. – disse, poi guardò Alex – Che stai facendo? Cosa vuole da te questa donna? Chi sei? – la fissò più duramente, quasi crudele - Chi sei veramente tu?”
 
 
 
 
 
 
 
Alex non riusciva a sostenere lo sguardo di Hermione: stavolta a tremarle fu il cuore.
Sentiva che tutte le bugie, i sotterfugi, le elusioni che aveva creato stavano allontanando Hermione da lei ogni istante un po’ di più.
E poi c’era Victorie. Doveva evitare che succedesse l’irrimediabile; sapeva benissimo che Bellatrix non le avrebbe lasciate andare facilmente.
 
 
 
Così rispose, con gli occhi azzurri e delineati, splendenti anche nell’oscurità.
Alex divenne tenebra, scura e insondabile.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Chi sono io? Lo scoprirai presto, inutile Sanguemarcio.” - il suo essere era sanguinante disprezzo.
 
 
 
“Cosa…” - Hermione rimase agghiacciata da quella frase, da quelle parole. Da quell’odio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ben detto Alex. Così mi piaci!” - Bellatrix ne fu, invece, molto felice e non si curò di nasconderlo.
 
 
 
 
 
Nel silenzio generale, la bambina raggomitolata dietro Hermione, con agile scatto, si fece avanti. Aveva il viso teso e furioso, gli occhi chiari lucidi.
La professoressa non si aspettava quella mossa repentina e non riuscì a fermarla: Victorie avanzava lesta verso le due donne del male.
 
 
 
Arrivò a due passi da Alex e la guardò con tutta la durezza di cui si è capaci ad undici anni.
 
“Io credevo che tu fossi una brava strega! Mi hai difeso durante il banchetto da quel bullo di Serpeverde, tutti dicono che sei la sorella di mio padre ma non è vero. Non è vero! Tu sei solo malvagia! – Victorie le sputò contro tutta la sua rabbia – Non voglio avere più niente a che fare con te, tu non fai parte della mia famiglia!”
 
 
 
 
 
A Bellatrix si illuminò il volto davanti a quelle parole rivelatrici.
 
 
 
 
Rivelatrici di un segreto chiuso in un cassetto della memoria.
 
 
 
 
“Ah! Tu allora devi essere la figlia di Bill Weasley e di quella francesina con la puzza sotto il naso. Poveri illusi, poveri ingenui. – poi richiamò Alex – Tu cosa ne sai di lei?”
Bellatrix ebbe una paura fulminea.
 
 
“Niente.” – fu la risposta della ragazza.
 
Troppo breve per essere vera.
 
 
 
 
 
 
 
 
Bellatrix capì.
Capì che né lei né gli altri Mangiamorte avevano mai capito nulla.
Capì che in tutti quegli anni, Alex aveva mentito. Aveva mentito a tutti.
Aveva ingannato l’Oscuro Signore fingendo di non ricordare, fingendo di aver perso ogni memoria e legame col passato per ottenere così una nuova vita, una vita lontano da tutto quello che era stato prima, da tutto quello che voleva dimenticare.
Eppure non si spiegò il motivo, ma non era importante adesso.
La Mangiamorte comprese tutte le bugie, tutte le stranezze e ci riuscì per mezzo del collante indissolubile con cui Alex lo stava rivelando ora: l’amore, quell’insano sentimento che, nonostante tutto, gli occhi di ghiaccio di Alex sprigionavano davanti ad Hermione Granger e Victorie Weasley.
 
 
 
 
 
 
 
“Bugiarda! – ruggì Victorie contro Alex - Non voglio vederti mai più!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“E infatti non la vedrai mai più, stupida mocciosa! – Bellatrix tese la bacchetta verso piccola e la scaraventò a terra. Doveva risolvere il problema e lo avrebbe fatto a modo suo – Crucio.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“No! – Alex si lanciò addosso alla strega oscura e le imprigionò le braccia da dietro cercando di contenerla. Non era facile, Bellatrix si dimenava, urlava colpendola con calci e gomitate allo stomaco. Le morse le mani, le staccò un pezzo di pelle ma Alex non importava, il dolore lo avrebbe sentito dopo. Non poteva lasciarla andare. Non poteva permetterle di torturarle. La bacchetta, da cui la maledizione non riuscì ad uscire, cadde a terra. Mentre continuava a tenere la strega, Alex guardò disperata Hermione. – Portala via! Andate via! Muovetevi!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione capì che non c’era tempo per aiutarla. Prese Victorie, la bambina era tutta dolorante ma per fortuna la maledizione non l’aveva colpita. C’era mancato poco: Alex era intervenuta proprio un istante prima ed ora lottava a terra contro un’indemoniata Bellatrix Lestrange.
 
Si muovevano entrambe con agilità e forza disumane, tra ringhi e gemiti di dolore.
 
Ognuna cercava di impedire all’altra di usare la magia.
Sapevano entrambe che, se fosse successo, una delle due ci avrebbe rimesso la pelle.
 
 
 
 
 
 
 
Bellatrix graffiò l’altra sul voltò, tagliandole brutalmente il labbro inferiore.
 
“Maledetta traditrice!” – fu così che riuscì a buttare Alex a terra, seminandola e dirigendosi verso le due fuggitive.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Lasciale stare!” – gridò Alex, mentre il sangue le gocciolava copioso sul viso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione teneva per mano Victorie e correva più che poteva.
Il lungo abito si logorò e, tra i rovi bassi, perse pezzi di tessuto nero.
“Forza Victorie! Ci siamo quasi, tieni duro! Non mollare!” - erano abbastanza distanti dalle due streghe oscure, il cancello di Hogwarts si ergeva a pochi metri; potevano farcela.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Da lontano Alex si rialzò, si pulì il labbro con il polso.
Guardò Bellatrix e capì.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capì che stava per farlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Stava per lanciare la maledizione senza perdono.
La maledizione senza perdono per eccellenza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non si chiese su chi: non era importante.
Entrambe quelle creature in corsa verso la salvezza erano parte di lei adesso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Bellatrix fece qualche passò traballando per le percosse subite e con la spalla rotta. Riprese la bacchetta da terra e puntò la bambina.
“Avada…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Avada Kedavra!” – la voce di Alex risuonò nella Foresta Proibita.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un fascio di luce verde invase la Foresta Proibita, creando un boato immenso.
 
 
Un freddo vento avvolse il corpo di Bellatrix Lestrange, come un’entità invisibile, come un cavaliere incappucciato che chiedeva ballare e la invitò cortese.
Era adesso, per lei, il ballo della morte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Hermione! Hermione!” – nuove voci sopraggiunsero dal cancello.
 
 
 
 
 
Ron e Fleur sbucarono correndo dal confine della foresta seguiti da altri volti. Si avvicinarono e Fleur strinse piangendo la figlia: era disperata, pensava di averla persa.
 
“Mamma!” – Victorie era altrettanto spaventata e le volò tra le braccia.
Fleur la strinse come si stringe un dolore, come si stringe l’amore che si stava per perdere, come si stringe la vita con la paura di vederla finire.
 
“Stiamo bene, noi…stiamo bene. Lei… - Hermione non riusciva a continuare, le si era fermato tutto dentro, respito e battito – lei…”
 
Ronald l’abbracciò, come il fratello che non aveva mai avuto e poi la lasciò alle cure di Caroline e Harry.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Dove sei maledetta?” – il ragazzo urlava impazzito.
 
La preside McGranitt gli corse accanto ed insieme arrivarono alla radura, dove videro quello che temevano di più.
 
Anche Hermione, ripresasi, e gli altri li raggiunsero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il corpo di Bellatrix era cadavere inerme e a pochi passi, in ginocchio, Alex aveva ancora il braccio disteso verso di lei.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Alex!” – Hermione voleva raggiungerla, ma Caroline e Harry le sbarrarono la strada.
La ragazza cercò di divincolarsi ma fu tutto inutile.
 
 
 
 
“Non muoverti, Hermione. – Caroline cercò di frenarle anche i pensieri – Non puoi fare nulla per lei, nulla.”
 
 “Ma non la vedi? Ha bisogno di me! – Hermione non voleva lasciarla lì, non poteva permetterlo - Lei ha bisogno di me!”
 
 
 
 
 
 
 
 
Minerva McGranitt la guardò con una solennità che Hermione non ricordava di averle mai visto addosso.
 
“Professoressa Granger, mi ascolti. Dia retta al consiglio dei suoi amici. Si faccia da parte. Altrimenti mi vedrò costretta a mandarla via.”
 
Ad Hermione cadde il mondo addosso.
Tutto si stava logorando, come il suo stupendo abito.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Bastarda! – Ron raggiunse furibondo la sorella e le sferrò un calcio alla schiena. Lei cadde vomitando sangue. – Come hai potuto metterti dalla loro parte? Come hai potuto metterci in pericolo così?”
 
 
“Signor Weasley si calmi! – Minerva provò a placarlo – Così non risolverà nulla, dobbiamo chiamare il Tribunale della Magia affinché sua sorella paghi per quello che ha fatto nel corso di questi anni. Saranno loro a giudicarla, anche per la maledizione senza perdono con cui ha ucciso Bellatrix Lestrange.”
 
 
 
 
 
 
 
“Lo ha fatto per salvarci!” – Hermione, con le ultime forze che le rimanevano, sbraitava tra le braccia di Caroline.
 
 
“Non sta a noi giudicare. Lei per prima, professoressa, dovrebbe sapere che queste maledizioni sono vietate.” – la Preside era molto dura con Hermione, ma non fece in tempo a dire altro.
 
Un oscuro vortice si formò sopra ad Alex.
 
 
 
 
 
 
 
Figure evanescenti presero corpo da nulla.
 
 
 
 
 
Erano incappucciati e neri: Mangiamorte.
 
 
 
 
 
 
 
 
Fleur strinse più forte Victorie, Harry afferrò Hermione, Caroline si fece indietro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il capo dell’esercito oscuro scagliò Ron via da Alex con inaudita violenza e afferrò la ragazza, alzandola con un cenno di bacchetta.
Da sotto la maschera, uscivano lunghi capelli biondo pallido; Draco sapeva che quello era suo padre.
 
 
 
 
Prima che qualcuno di loro potesse fare qualcosa, l’oscuro comandante levò al cielo la bacchetta: tutti gli altri lo seguirono e si dileguarono con la stessa velocità con cui erano arrivati, portando con loro Alex.
 
Il suo gilet era strappato e la camicia ricoperta di bruciature e grumi di sangue.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** L'inevitabile ***


Il Wizengamot, il tribunale del mondo magico con sede presso il Ministero, aveva deciso che la seduta relativa agli ultimi terribili fatti accaduti poteva svolgersi solo nel luogo dove tutto si era verificato, dove tutto stava capitando inspiegabilmente. Ad Hogwarts.
 
Al termine della seconda settimana di Dicembre gli alunni terminarono le lezioni con qualche giorno di anticipo e poterono tornare dalle loro famiglie. Erano entusiasti e l’allegria aleggiava loro intorno.
Anche gli insegnanti, in realtà, non aspettavano altro ma per motivi ben diversi e si erano adoperati per sintetizzare al massimo i programmi didattici, salvando gli argomenti di primaria importanza.
Non c’era tempo da perdere: la scuola non era più sicura. C’era bisogno di affrontare tutto il trambusto che sembrava smuovere di paura anche le anime più impavide.
Una sola cosa era certa e tutti ne erano a conoscenza adesso: Tusaichi era tornato, insieme al suo spietato esercito di Mangiamorte.
Molteplici erano stati gli avvistamenti e, grazie all’eccellente lavoro di sorveglianza svolto da Hagrid e dai centauri guidati da Fiorenzo, la Preside McGranitt aveva scoperto che la scuola era spiata e, sicuramente, anche dall’interno. Non ci si poteva fidare di nessuno, al di fuori degli indubitabili.
Furono sequestrati tutti gli ingredienti utilizzabili per pozioni insicure, come la Polisucco, e ogni piano della scuola era sorvegliato giorno e notte dal personale scolastico. Non potevano permettersi lo stesso errore una seconda volta: non potevano far entrare nella scuola un altro Mangiamorte, come era accaduto con Ginevra Weasley.
 
Minerva lo aveva sospettato da subito, dalla prima volta che l’aveva rivista, da quando cioè Alex giaceva debole in un letto dell’infermeria sotto le cure di Madama Chips.
Era troppo diversa, insolita e non per qualche sua stranezza fisica.
La Preside sapeva bene che doveva esserci qualche magia portentosa che avesse dato a Ginevra un corpo nuovo. La diversità pericolosa che avvertiva era nei pensieri, nei movimenti, negli sguardi di quella giovane. Nel suo essere sempre un passo avanti. Era sempre vigile e attenta, ponderata nelle parole, nonostante fosse così malridotta. Sembrava ricercare qualcosa, o forse un momento, un attimo propizio.
E poi c’era quella cicatrice sul fianco.
Solo adesso, Minerva poteva dare a quel segno una spiegazione: la notte prima che Ginevra, meglio nota come Alex, era giunta ad Hogwarts su iniziativa di Hermione Granger e Draco Malfoy, c’era stato un violento attacco ad Hogsmeade e diciotto persone tra babbani e maghi avevano perso la vita per difendersi. La Gazzeta diceva chiaramente che uno degli aggressori incappucciati era stato ferito lungo il fianco da un incantesimo d’attacco.
Lo squarcio che Ginevra riportava, proprio in quel punto, sanguinava copioso e fresco sul letto dell’infermeria ed era perfettamente coincidente con le ricostruzioni fornite dai testimoni oculari ancora impauriti.
 
Non c’era dubbio: Ginevra Weasley, per ragioni ancora ignote, era viva ed ora combatteva nelle fila dei Mangiamorte al servizio dell’Oscuro Signore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Minerva fu chiamata a dare la sua versione dei fatti davanti ai dotti giudici.
I giuristi del tribunale erano in tre e portavano le classiche toghe con la bacchetta perfettamente riposta nel taschino al petto. Nell’aspetto parevano integerrimi, peccato che ultimamente la legge magica sembrava non essere più sufficiente a reprimere tutto quel dolore causato da assassini a piede libero.
Interrogarono la somma autorità della scuola per due ore e lei rispose dicendo loro tutto ciò che sapeva, tutto ciò che aveva scoperto e che temeva.
 
 
 
“Conferma quindi, Preside McGranitt, che all’interno della scuola si aggirava una Mangiamorte e che la stessa Mangiamorte ha utilizzato una maledizione senza perdono, sotto i suoi occhi?”
La Preside era in piedi davanti agli ambasciatori della giustizia.
 
“Sì, confermo. E per l’esattezza, due sono stati i Mangiamorte ritrovati nei giardini di Hogwarts. Bellatrix Lestrange, ritrovata morta, e…” - le pesava doverlo ammettere. Era per lei come un personale fallimento. Minerva ne sentiva tutto il peso umano.
 
“E?” – intervenne il centrale dei tre giudici, notando la pausa della donna.
L’uomo la guardava e studiava attentamente.
 
 
 
 
 
“E la signorina Ginevra Molly Weasley, ex alunna della scuola.”
 
“Bene. – rispose sempre il centrale dei tre, il Presidente della rappresentanza – Grazie, Preside. Può andare.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fu poi il turno del Vicepreside Piton.
La sua lunga veste sempre nera strusciava il pavimento in mattoni della sala. Quando si trovò di fronte alle autorità, anche a lui furono poste le stesse domande. E lui diede le stesse risposte.
 
 
 
“Conferma quindi anche lei, professore, che Ginevra Weasley sia una Mangiamorte?”
 
Piton fissò i tre uomini tra l’infastidito e l’incredulo: non capiva come potessero esserci dei dubbi; qualcosa lo affliggeva in modo quasi impercettibile. Sembrava dispiaciuto delle riflessioni che stava avendo dentro se stesso.
Lui sapeva cosa significava essere un Mangiamorte e quanti sacrifici si doveva poi fare per togliersi di dosso quel marchio che, in fondo, non sbiadiva mai del tutto.
 
 
 
 
 
 
 
“Sì. Sicuramente Ginevra Weasley lo è. – rispose dopo qualche secondo di pausa, come era solito fare – I segni sono evidenti.”
 
 “Di quali segni parla, professore? - il togato di destra strinse gli occhi in due fessure difficilmente distinguibili - Lei potrà sicuramente darci delucidazioni ulteriori sullo status di servitore di Noisappiamochi.”
 
Come Piton aveva immaginato, ricevette la frecciata nemmeno troppo velata e la incassò senza opporsi. Si schiarì la voce e rispose calmo.
 
“Numerosi sono i segni, per chi sa vederli. Ogni fede comporta il suo linguaggio e la Magia Oscura non è da meno. – Piton sapeva bene quel che diceva - La vestizione, per esempio, è un rito non trascurabile per i seguaci di Noisappiamochi, anche più della celebre maschera che cela i volti dei Mangiamorte. La signorina Weasley aveva un abbigliamento inconfondibile la sera del Ballo di inizio Inverno.”
 
“Cioè?  – chiese curioso il giudice di sinistra, con un mix di ansia e desiderio di sapere – Si spieghi meglio Professore.”
 
 
Sembrò quasi che Piton accennasse un sorriso amareggiato.
 
“Basta osservare il tessuto e il taglio del vestito, entrambi di massimo pregio. Naturalmente di colore nero. Un abito elegante che conferiva alla Mangiamorte un’aura di tenebroso fascino. Una cordicella d’argento pendeva dalla tasca alta del gilet e conteneva sicuramente un orologio, dono del Signore Oscuro a chi ha un patto di tempo con lui. E la signorina Weasley lo ha. – Piton fece una breve pausa, consapevole del peso delle sue parole - Lui le ha donato la prosecuzione della vita per mezzo di un altro corpo e lei la sua obbedienza.”
 
 
 
Dalle panche in legno, poste dietro Piton, gli occhi degli altri testimoni si sbarrarono, increduli.
Poteva davvero essere così?
Nessuno sapeva nulla. Nessuno immaginava che Piton sapesse.
 
Draco buttò la testa tra le mani, in un gesto scoraggiato: anche lui aveva intuito che qualcosa doveva pur esserci, ma non pensava potesse essere così reale. Così profondo.
Non ci poteva credere. Non avrebbe mai immaginato tanto.
 
Hermione era seduta vicino ad Harry e Neville, e le mancò il respiro.
Tutti e tre avevano la stessa espressione sbigottita. Non sapevano cosa pensare.
 
In un banco posto poco di lato, Ronald Weasley assisteva impassibile; lui era l’unico a non sembrare troppo meravigliato. Era già arrivato da solo a quella conclusione; aveva capito che sua sorella era una del branco di Lord Voldemort. E la odiava per questo.
Fleur, che gli sedeva accanto, strinse la mano del ragazzo dai capelli rossi. Voleva dirgli che no, non doveva farsi prendere da un sentimento così accecante.
 
 
 
 
 
 
 
“Cosa intende dire professor Piton? – riprese il giudice – Si…si rende conto della gravità delle sue accuse? Lei capisce che la situazione della signorina Weasley sarebbe fortemente compromessa dalle sue dichiarazioni?”
 
Ma Piton non cambiò nemmeno una virgola della sua espressione. Sapeva quel che diceva. E continuò con la stessa fermezza.
 
“E’ una maledizione, come ce ne sono tante. Risale a tempi lontanissimi. Nessuno di noi ne ha memoria, la sua storia si perde nei secoli. – fissava i togati senza esitazioni - In punto di morte, quando sembra non ci sia più nulla da fare, eppure un attimo prima che venga spirata l’anima, viene invocato un maleficio antico e difficilmente eseguibile. Per non dire impossibile da realizzare. Nessuno in questa sala ne sarebbe capace. Ma Noisappiamochi, in quel tempo, aveva poteri che noi non possiamo nemmeno immaginare.”
 
“Cosa vuol dire questo, Severus? – la McGranitt si era alzata, violando l’obbligo di silenzio durante gli interrogatori – Ora non è più così? Parla!”
 
“Signora Preside, si sieda.” – il giudice intimò.
 
“No! Non posso sedermi! Non possiamo sederci, noi dobbiamo sapere. Io e i miei ragazzi abbiamo diritto di sapere tutto! Severus…”
 
 
 
 
 
Il professore di Pozioni si voltò alla donna e la guardò con la stessa durezza di sempre, ma un rivolo di fiducia sembrava fluttuare tra quei quattro occhi.
 
“Minerva, io non ho più legami con l’esercito dei Mangiamorte. – Piton sosteneva lo sguardo della donna, incurante dei richiami del giudice – Non so molto, non so niente di più purtroppo. Ma da tutto quello che sta succedendo e in base alle mie passate esperienze, posso dire che ora il Signore Oscuro è debole. Deve esserlo per forza, altrimenti avrebbe agito e in prima persona verso la scuola. Dobbiamo reagire ora. Ora che il suo potere è pressoché inesistente.”
 
 
 
 
 
“Allora perché accade tutto questo? – incalzò la donna – Perché tutta questa violenza? Perché i suoi discepoli sono così forti?”
 
 
 
“Signori, stiamo sviando il nostro dibattito processuale! Questa non è la sede più opportuna per parlare di Voisapetechi! Contenetevi!” – ma i due professori discutevano davanti a tutta l’aula giudiziaria improvvisata senza freni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Minerva, - Piton decise di svuotare il sacco, di dire tutto ciò che sapeva. E una volta per tutte. – Lui, Noisappiamochi, ha ceduto tutto il suo potere a tre dei suoi. Questo era il suo progetto da sempre, ne sono certo. Gliel’ho sentito dire tante volte. Il primo dei tre, credo, è il suo braccio destro di sempre. L’essere più viscido che io abbia mai conosciuto. Un verme che tutti qui dentro conosciamo. Indegno anche di essere mago.”
 
 
 
 
 
 
 
 
“Mio padre…” – Draco parlò, rivelatore. Ma era solo un debole sussurro il suo, mentre si teneva la testa tra le mani.
 
 
 
 
 
 
“Esatto, signor Malfoy. - Piton sorrise, ma senza scherno. La sue espressione era dura. – Il secondo dei prescelti è morto e per mezzo del terzo. Sto parlando di Bellatrix Lestrange e Ginevra Weasley.”
 
 
L’aula non era più governabile, tutti si alzarono. Increduli.
Nessuno riusciva a spiegarsi perché, nessuno voleva credere, ma doveva: le prove erano schiaccianti e Piton sapeva come Voldemort intendeva organizzare il suo ritorno.
 
 
 
 
 
“Malfoy, la Lestrange e…Ginny…” – Neville parlò come a se stesso, come per convincersi di quelle parole. Ginny. La sua amica di sempre.
Una Mangiamorte.
E non una qualunque, ma una prescelta dotata di un potere oscuro donatole da Lui.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Dal banco opposto un ragazzo prese la parola, senza chiederla. Troppo era il tumulto che aveva dentro.
 
 
 
“Perché allora, proprio il corpo di una persona qualunque?? Perché Voldemort non ha ridato a mia sorella il suo vero corpo? Mi risponda professore!” – Ron era insorto, gridando dalla rabbia e guardava il suo ex insegnante con aggressività incontrollabile.
 
Ma Piton non si scompose e, dopo aver incontrato il suo sguardo, gli rispose senza tentennamento.
 
 
 
 
 
“Perché il corpo di tua sorella era morto. Tutto ciò che di Ginevra Weasley rimaneva era l’anima, la sua essenza. – Hermione ebbe un brivido a quelle parole del Vicepreside e, seduta, si piegò sulle ginocchia – E tutto ciò che quell’anima conteneva.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Da tutti i racconti e le testimonianze che seguirono emergeva una paura pura, liquida.
Ognuno di loro, compresi i tre togati, sapeva cosa li aspettava: l’ennesimo scontro, ma stavolta definitivo.
Qualcuno avrebbe vinto e una volta per tutte; qualcuno avrebbe perso e tutto.
 
Dopo aver raccolto tutte le testimonianze singolarmente, i maghi furono riuniti nella Sala Grande e attesero per minuti interminabili la decisione delle autorità giudicanti.
I tre giudici ripresero posto di fronte a loro e il Presidente della seduta proclamò a voce alta e risuonante il verdetto.
 
Tutti ascoltavano con le orecchie tese, ben presto però l’elencazione delle norme violate divenne insostenibile e l’attenzione si perse per riaccendersi solo con l’epilogo della sentenza.
 
 
 
 
 
“A seguito di ogni violazione comprovata e dopo aver attentamente esaminato la dichiarazione rilasciata da ognuno dei qui presenti testimoni, dichiaro la signorina Ginevra Molly Weasley – passò un secondo senza fine, mentre tutti avevano il fiato sospeso - colpevole e la condanno, in contumacia, a reclusione e lavoro forzato presso la prigione di Azkaban. Il periodo detentivo verrà sancito a seguito della sua cattura e sottoposizione a formale interrogatorio. Chiunque sia in contatto con l’evasa è tenuto a comunicarlo, altrimenti sarà egli stesso perseguibile per favoreggiamento. – il giudice alzò lo sguardo ai presenti – Prima di lasciarvi alle vostre consuete mansioni, vorrei ringraziare a nome del Ministero le professoresse Pomona Sprite ed Hermione Granger con un riconoscimento per l’accurato lavoro svolto.”
 
Hermione e la Sprite raggiunsero i giudice e, dalle loro mani, ricevettero una targa d’argento per aver portato a termine l’incarico che era stato loro affidato dal Ministero della Magia.
Entrambe avevano ritrovato e riportato nel mondo magico, sia pur con esiti molto diversi, due dispersi a seguito della guerra di sette anni prima.
Si alzò un fioco applauso, nessuno aveva voglia di festeggiare il risultato delle due donne e loro non gioirono come davanti ad un qualsiasi altro possibile premio.
Non poteva essere così, Hermione lo sapeva bene e dai suoi occhi si formarono lacrime troppo rimandate che però voleva vivere da sola, nella solitudine della sua camera.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La sera stessa, dopo aver cenato insieme, gli ospiti lasciarono Hogwarts.
Ron e Fleur salutarono Hermione e gli altri insegnanti senza troppe smancerie, c’era troppo peso amaro nei loro cuori.
Anche Harry fece altrettanto, accompagnato da Malfoy che lasciò parimenti la scuola.
 
“Hermione!” – Harry la chiamò, quando lei si era già voltata di spalle.
La strega tornò indietro verso l’amico di sempre e con gli occhi gli chiese cosa volesse.
 
“Hermione io…volevo solo dirti che se solo tu me lo chiedessi, io resterei.”
 
“Harry… - la ragazza gli accarezzò il viso e poggiò la mano sulla spalla dell’Auror - …tu sei…sei il mio migliore amico, lo sei sempre stato e...”
 
“Non intendevo così.”
 
“Lo so. – Hermione ritirò la mano e si fece indietro, ma senza paura e senza voglia di mentirgli ancora – Ma io non posso darti di più. E non voglio illuderti. Tengo troppo alla nostra amicizia per fare un errore così.”
 
 
 
 
 
 
 
 
“Harry, andiamo! La diligenza sta per partire!” – la voce di Malfoy risuonò da lontano.
E, chissà perché, Hermione pensò che non fosse un caso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Rimasero, tra le mura di Hogwarts, solo i professori: dovevano ancora collaudare programmi e stabilire se e quando riaprire la scuola.
Quella stessa sera, sfiniti ma irriducibili, decisero di discutere e di trovare una soluzione a tutti i quesiti inerenti gli alunni.
Poteva essere un discorso breve, ma c’era disaccordo pressoché su tutto; i giovani docenti e la vecchia guardia non sembravano avere le stesse idee.
 
“Preside, credo sia coscienzioso non riaprire la scuola finché tutto non sarà risolto.” – Piton era in piedi e gironzolava superbo da un capo all’altro della stanza della McGranitt.
I professori più giovani lo guardarono contrariati.
 
 
 
 
“Signora Preside, - Neville, più deciso che mai, prese la parola senza aspettare che il suo esimio collega finisse. – mi permetto di dirle che secondo me la scuola invece deve riaprire. Deve! Dobbiamo dare un segnale forte a chi ci vuole vedere deboli. Altrimenti faremo proprio ciò che si aspettano da noi!”
 
“E’ un’assurdità, Paciock.” – ringhiò Piton.
 
 
 
 
“No professore! – Hermione insorse a dare man forte all’amico – Io sono d’accordo con Neville. Non dobbiamo fare ciò che si aspettano, non dobbiamo tirarci indietro.”
 
“Siete troppo giovani per capire.” – ribatté Piton, con disprezzo.
 
 
 
 
 
I due ragazzi si alzarono pronti a controbattere, ma la Preside li anticipò.
 
“Bene, direi che per oggi può bastare. Continueremo domani. – Minerva fermò tutte le discussioni che si stavano precipitosamente animando e rischiavano di creare ulteriori squilibri – Sono sicura che domani avremo tutti la mente più lucida e rilassata. Buonanotte professori.”
E li congedò con un cenno della mano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione uscì dalla stanza e si avvolse nel mantello grigio. Sotto, la gonna fino al ginocchio, lasciava intravedere le calze scure.
Aveva un aspetto accademico, ben collaudato alla sua professione. Il ciuffo ribelle e lo sguardo vispo, tuttavia, le conferivano sempre la sua reale età di giovane donna molto attraente.
Attese che tutti uscirono e finalmente scorse anche Neville.
Lo stava aspettando.
Anche lui la notò e insieme percorsero il corridoio che portava ai dormitori dei docenti.
 
“Grazie per avermi aiutato prima contro Piton. – le disse gentile il giovane – Non capisco perché ce l’abbia tanto con noi.”
 
“E’ così da sempre, da quando ci insegnava pozioni e ci bacchettava ad ogni minimo errore. Non dovremo lasciarci influenzare ancora dai suoi odiosi commenti. Anche se sono sicura che in fondo capisce le nostre ragioni, anche lui ha preso a cuore ciò che sta accadendo.” – rispose Hermione.
 
“Già, a modo suo…”
 
Poi d’improvviso, Hermione si fece seria e fermò Neville afferrandogli un braccio.
 
“Neville devo parlarti. Non…non posso più aspettare…”
 
 
 
 
 
Neville si fermò proprio sotto la possente scalinata che, cambiando direzione, saliva ai piani alti del castello.
Sapeva, in fondo al suo cuore, cosa Hermione volesse chiedergli.
Sapeva che quelle domande sarebbero giunte.
Forse era giunto il momento di dirle tutto. Glielo doveva.
 
 
 
“Dimmi, ti ascolto.”
 
Ed Hermione cominciò, tentennando ma ansiosa di sapere.
 
“Quando sei tornato, mi hai detto che secondo te quella ragazza era Ginevra. Che non poteva essere altrimenti. – la ragazza abbassò gli occhi - Tu non hai avuto il minimo dubbio. Io invece ho dubitato, dal primo momento. Ancora adesso…” - aveva una tristezza evidente e tutta sua nello sguardo.
 
Neville sorrise.
“Tu non potevi sapere, Herm.”
 
“Allora te lo chiedo adesso! Te lo chiedo perché ne ho bisogno, ne ho tremendamente bisogno Neville!”
 
 
 
 
 
Il ragazzo si guardò intorno, poi si rivolse con sincero affetto la ragazza e rise.
Hermione corrugò la fronte e si chiese cosa avesse da ridere proprio in quel momento, dopo tutta quella giornata; lei era serissima.
Ma vedendo che lui non rispondeva, Hermione gli parlò quasi minacciosa.
 
 
“Io sto perdendo la testa dietro ad Alex e tu…tu ridi??”
 
Neville sembrò darsi una calmata.
“Scusa Hermione, è che… - era come incredulo - …è…è che tutto, sì insomma…tutto è cominciato da…da qui. Esattamente da qui!”
 
La ragazza si guardò intorno a sua volta, anche se sapeva perfettamente dove si trovavano.
Erano giunti all’ingresso della Sala Grande, sotto le scale che salivano ai piani alti. Ma lei continuava a non capire, a non afferrare il punto.
 
 
 
 
 
“Cosa è cominciato qui? Che c’entra con…Ginny?” – frenò il suo impulso di chiamarla Alex.
 
“Il Ballo del Ceppo.” – rispose Neville, come se avesse pronunciato la cosa più ovvia del mondo.
 
“Il Ballo? – Hermione stava per spazientirsi e, dopo la dura giornata di interrogatorio, non voleva certo scaricare la sua rabbia sull’amico – Neville parla!!”
 
E lui le raccontò tutto.
Tutto di lei, tutto di loro.
Le raccontò di come tutto fosse partito lì, da quella sera.
La sera del Ballo del Ceppo.
Le raccontò di cosa era successo a una Ginny piccolissima quando, in attesa che Neville arrivasse per farle da cavaliere per il ballo, alzò gli occhi alla maestosa scala e vide scendere, con indescrivibile grazia, una ragazza castana.
In realtà doveva essere una ragazzina, o poco più. Quattordici anni e tanta ingenuità.
Quattordici anni e piena inconsapevolezza.
Quattordici anni e non accorgersi del crepitio del cuore di Ginny che, proprio quella sera, si era scheggiato e spaccato tutto d’un colpo, e avrebbe per sempre custodito l’immagine di una ragazza castana che sorride e scende la scalinata marmorea facendo attenzione al suo strascico di velo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Portava sempre nella tasca del giubbotto un po’ di Polvere Volante, e per fortuna.
Arrivò nel suo appartamento di Dublino e notò che la sua assenza di mesi si era fatta sentire: una bella ripulita non avrebbe fatto male. Si promise che dopo lo avrebbe fatto.
Ora non poteva, ora non aveva tempo per nient’altro. Ora aveva solo una cosa da fare: quello che le suggeriva qualcosa che le pulsava tra stomaco e gola.
Scese le scale della sua palazzina, ripensando all’ingenuità della ragazzina del Ballo di tanti anni prima, e si diresse correndo dall’altro lato del Liffley.
L’Ha’penny bridge era illuminato come la sera del loro primo bacio.
Hermione si cullò in quel dolcissimo ricordo. Tutto quello che di loro possedeva era racchiuso in quella sera, in quei momenti.
Poi si corresse, non era così. Non era mai stato così.
Il ricordo del bacio era tutto quello che lei aveva, Ginevra aveva milioni di ricordi in più.
Ginevra aveva rubato immagini di lei, fotogrammi del suo tempo, inclinazioni del capo, smorfie del suo viso, abbracci che Hermione non aveva mai saputo decifrare.
Sembrava una vita fa. Ed adesso era tutto chiaro.
 
I lunghi capelli castani le ondeggiavano nella folle corsa.
Forse il suo amico aveva ragione: stava impazzendo.
Ma non era colpa sua se sentiva dentro quel frastuono d’oceano, quel battito nitido. Era come se lei stessa si percepisse per la prima volta.
Si fermò, giusto il tempo di sistemarli in una coda alta mancante di qualsiasi cura.
Niente ora poteva frenarla, nemmeno le raccomandazioni che Neville le aveva fatto prima di salutarla senza riuscire a fermarla.
 
“Hermione no! Non puoi andare da lei adesso! Rischieresti di essere indagata,hai sentito cosa hanno detto i giudici!? Sarebbe solo una pazzia. Te ne rendi conto?? Hermione!!”
Ma lei già non lo ascoltava più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La strada le sembrò interminabile, come un tunnel dove non se ne scorge mai il fine.
Come se non bastasse pioveva e di quella pioggia fina fina ma che non da scampo: in meno di un minuto, Hermione era già bella che zuppa. Dublino le dava così il suo bentornata.
Gruppi animati di ragazzi affollavano il centro della città irlandese e coloravano di allegria la sera appena iniziata.
 
Finalmente giunse davanti ad una porta, a quella porta.
Non sperava di ritrovarla così facilmente ed invece, ripercorrendo i ricordi del loro unico momento, riuscì ad arrivarci da sola. Hermione si asciugò il viso, era sudata e stremata per la corsa.
Una signora di mezz’età usciva dal condominio proprio in quel momento con il figlioletto al seguito; Hermione la ringraziò per tenerle la porta aperta e si intrufolò dentro.
Era una pazzia, sì, Neville aveva ragione.
Ma era anche tutto ciò che lei voleva.
Era tutto ciò di cui aveva bisogno.
Era tutto ciò di cui aveva sempre avuto bisogno, senza saperlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il campanello suonò, inaspettato.
 
Alex sussultò e guardò l’ora: troppo tardi per una visita pomeridiana, troppo presto per un’uscita serale. E poi non aspettava nessuno.
Nessuno sapeva che lei era lì.
Nessuno doveva saperlo, per questo era tornata a Dublino, il posto più banale dove potessero cercarla. Ma non le importava dell’ovvietà.
 
Si levò di malavoglia dal divano su cui era sprofondata e liberò la porta dal catenaccio.
Quando aprì, pensò di non sentirsi bene.
Pensò che forse era tutto un sogno dettato dall’assenzio.
Pensò che forse doveva smetterla di prendere quella roba allucinogena.
 
 
 
 
“Ciao…” - Hermione la guardava sulla soglia, ma aveva lo sguardo diverso. Più vivo.
 
Alex fu inchiodata da quegli occhi ambrati e tutto scomparve, tutto improvvisamente perse consistenza o senso. Tutto era niente.
Ed Hermione era tutto. Come sempre, come ogni maledetta volta. Come succedeva da anni.
Come era accaduto al Ballo di tanti anni prima e a quello di qualche sera fa.
 
Non riusciva a pensare ad altro che non fossero quegli occhi.
E quelle labbra.
Quelle stupende labbra, ora tremanti.
 
 
 
 
 
“Ti prego fammi entrare...” – fu Hermione a rompere di nuovo il silenzio, quel bacio di sguardi.
 
“Tu non dovresti essere qui! Non… - ma era evidente il suo turbamento - …Hermione…passerai dei guai seri, te ne rendi conto? Vattene...”
 
 
 
Ma Hermione aveva già deciso tutto.
E non se ne sarebbe andata. Stavolta no.
 
Aprì la porta ed Alex la lasciò fare. Era inevitabile. Era una nenia capace di cullare ogni altro proposito, per quanto buono.
 
 
 
 
 
 
Era inevitabile perdersi guardandola così, mentre entrava senza essere stata invitata.
Perché lei è così.
Lei non chiede il permesso: lei ti entra dentro e travolge. Travolge tutto quanto.
 
 
Senza altre parole, Hermione si chiuse la porta alle spalle e ci si adagiò, mentre scie sottili d’acqua le attraversavano il viso.
 
“Ma sei tutta fradicia, così ti prenderai qualcosa...”
 
 
“Adesso ti preoccupi per me?” – disse già rauca Hermione e con inconsapevole malizia.
 
 
Ad Alex mancò la terra sotto i piedi: non sapeva per quanto tempo sarebbe ancora riuscita a reggere quella sensualità latente.
 
 
 
 
 
“L’ho sempre fatto, mi sono sempre preoccupata per te. Anche se io… - Alex si coprì il viso con una mano, come a schiaffeggiarsi. Stava crollando, inevitabilmente. Stava crollando davanti a lei - …Io non…io non dovrei preoccuparmi per te, io non…accidenti Hermione! Lo capisci che tutto questo è sbagliato?!”
 
“No…” – quel respiro.
 
Quel respiro, affannato, presente. Vivo.
 
 
 
“Invece sì! Io non dovrei badare a te, non dovrei neppure pensarti e invece… - non riusciva ad allontanarsi dalle labbra di Hermione ormai contro le sue, ormai sulle sue –…invece non faccio altro che…che pensarti e…”
 
 
C’era una nota rabbiosa nel suo tono: Alex si maledisse. Era evidente, era chiaro come il sole.
 
 
“Smettila di parlare… – Hermione si fece più vicina - …basta Ginny, basta…”
 
 
 
Era troppo vicina.
Era troppo bella.
 
Attirò Alex a sé.
Accadde l’inevitabile e l’inaspettato.
Accadde quello che doveva accadere dal primo momento, dalla prima volta che esplode dentro l’amore.
Le loro labbra erano sovrapposte, Alex poteva sentire quel respiro tanto agognato sul suo viso. Ne sentiva il calore. E le labbra morbide, delicate ma corpose come le aveva sempre immaginate.
 
Poteva sentire la voglia nelle sue mani di stringerla. La voglia di sfiorarle il seno.
La voglia di stringere il seno di Hermione, per mille notti sognato da lontano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione accarezzò piano il collo delicato dell’altra, continuando a baciare la bocca di Alex. La guerra dell’amore divampava in tutta la sua brutale ferocia.
 
Non c’era parte del corpo e della mente di Alex che non sentisse dolore fisico nel provare a rifiutare Hermione; chiuse gli occhi per far sì che fosse tutto più facile. Ma sentiva che era inutile.
 
Fece appello a tutta la razionalità di cui era in possesso: doveva proteggere Hermione da ogni pericolo e lei stessa era per Hermione il pericolo più grande. Non poteva cedere davanti a quella divinità fatta di gambe da brivido, fascino senza pari e occhi d’ambra.
Non poteva cedere anche se le sue mani non invocavano altra sete che quel seno.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Hermione no…” – anche le ultime mura difensive di Alex erano sotto attacco.
 
 
 
“Sta zitta e spogliami... – il boato di quelle parole fu totale - …spogliami…”
Una parola. Una parola sola: l'ultima torre di difesa cadde e la fortezza fu definitivamente saccheggiata.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** L'alba tra la brughiera ***


C’è un momento in cui tutto comincia.
C’è un esatto momento che segna il confine tra quello che c’era prima e quello che nasce.
Prima di quel secondo, di quell’accenno di secondo, di quella frazione di istante…insomma, prima di quel preciso tempo, siamo in grado di avere certezze. E le abbiamo davvero.
Siamo tranquilli e senza troppe idiozie per la testa.
Siamo sicuri di conoscere tutto e, soprattutto, di conoscere noi stessi: sappiamo i nostri pregi e li difendiamo, intuiamo i difetti e capiamo le nostre reazioni. Le possiamo prevedere, le possiamo spiegare. Possiamo controllarci.
Poi succede qualcosa, accade un fatto, si sente una voce, sorge un’idea, esplode un sorriso e tutto cambia, ma tutto proprio tanto che non resta nulla. È un terremoto, la terra ti scuote ma dentro. Intorno tutto sembra fermarsi per riflesso, muto, tutto si trasforma, portandoci a chiedere se sia vero.
Se sia davvero accaduto.
È come quando butti a terra un bicchiere e lui si rompe. È normale che si rompa.
Ma lui si romperà senza darti il tempo di capirlo.
E tu rimani lì, sospeso tra il ricordo appena formatosi del bicchiere integro che era tra le tue mani fino a un momento fa, e quelle schegge, ora sparse senza logica sul pavimento tutte intorno a te.
È la mancanza di senso a destabilizzarti, a colpirti.
E ti ritrovi a guardarle.
 
Niente ha più lo stesso sapore, non è vero?
Niente puoi riconoscere per quello che era prima.
Prima di quel momento. Prima della caduta.
E la cosa bella è che non puoi prepararti, non puoi dire “ecco sono pronto, cadi ora”.
No, la vita non va così, lei non ti avverte.
I bicchieri si rompono quando non te lo aspetti, quando meno lo vorresti.
E non è semplice retorica.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il sole sorge tutti i giorni, non c’è eccezione. Non c’è festa notturna che tenga e lui non risparmia nessuno.
Una leggerissima luce, quasi impercettibile, passò dalla persiana non del tutto bassa e le colpì.
 
E rivelò l’inizio.
E coprì ogni fine.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La brughiera irlandese è un immenso campo verde che conquista lo sguardo del viandante, senza lasciargli il tempo di capire. Sovrasta ogni idea di grandezza, qualunque lui possa avere.
E rompe, rompe, i paesaggi visti prima, superandoli nel suo cuore.
Prende il primato e non lo chiede, perché la bellezza non ha gentilezza.
La bellezza non chiede di essere vista, non chiede supplichevole di essere amata. La ami e basta.
La trovi per caso, la guardi e la ami.
È così e basta.
E per sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Guardarla, avvolta solo di se stessa e della sua incontrastata bellezza, era come avere davanti agli occhi un dipinto rinascimentale.
Ma senza distanza di sicurezza.
Perché ora lo sa, è la distanza che avrebbe potuto salvare Stendhal.
E invece lei era lì.
Lei era davvero lì, con i suoi occhi scuri e la sua pelle chiara.
Le mani esili, i fianchi nudi e la curva morbida del seno.
Ginevra desiderava tutto di lei, tutto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La brughiera ha il suo fascino, molti l’hanno capito.
 
Scoscese rocce delimitano i confini del verde e scendono a picco fino all’oceano che, lento ed inesorabile, bacia senza fermarsi mai quelle coste frastagliate.
 
 
 
Bacia.
 
 
Senza potersi fermare, senza volersi fermare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Come Hermione baciava lei.
Senza fermarsi, senza volersi fermare mai più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Quell’acqua scura, di un blu spento ed opaco, chiude l’isola fatata quasi con noncurante violenza e la costringe alla prigionia. Ad essere prigioniera del tempo e della fantasia popolare, piena di miti e ancestrali, bellissime superstizioni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ed Hermione era la sua superstizione.
Il suo credo.
Prigioniera volontaria di quelle braccia che la costringevano, che le stringevano insieme.
Che le premevano l’una sull’altra senza pace, senza tregue, senza alternativa.
Strette come a volersi maledire a vicenda.
Strette fino a non sentire più dove finisce la mia pelle e dove inizia la tua.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Qualche tenue fiore colora quei campi, ginestre spinose del Wicklow, rododendri e luminosi biancospini, giusto appena pronunciati per lasciare alle fate e agli elfi una via, un passaggio e non obbligarli a guardare le stelle per orientarsi. Non costringerli a guardare il cielo, come fanno gli uomini, ogni volta che non sanno cosa dire.
Ma loro non ne hanno bisogno, le fate vivono di reminiscente magia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione le attraversava la schiena con le mani, piano, lentamente, come si percorre un sentiero per la prima volta. Vergine d’anima.
Con la paura di sbagliare, con la paura tremenda di urtare qualche punto di dolore, ma con la voglia, la terribile voglia di fare sempre di più.
Di averla di più.
Di scendere sempre più nel profondo di quella nuova via, rivelata così, per caso.
Per un caso bellissimo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Eppure non si può stare tranquilli, non lo si può essere mai, perché il tempo può cambiare. E bisogna essere pronti, bisogna aspettarselo. La verità, però, è che non ce lo aspettiamo e quando il cielo cambia colore ci sorprende, un po’ sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra la sorprese voltandosi, così, senza avvisarla.
Pelle contro pelle, sudore nelle mani.
Hermione si piegò, bocciolo di maggio, cadendo di schiena su quelle lenzuola grondanti senza nessuna resistenza. Non poteva dire no a quel cielo, a quegli occhi di cielo, incastonati nel viso che aveva sempre cercato, e a quella mani di fata celtica.
E, senza parlare, le disse sì.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il tempo di capire e sorgere, è un momento. Il sole sorge in un attimo.
Possiamo stargli dietro una nottata intera e non servirebbe a nulla, perché quando poi arriva il momento nessuno sarà in grado di dire il preciso istante, l’attimo esatto in cui ora c’è e prima non c’era.
Te ne rendi conto solo quando è già tardi, quando è già passato.
Eppure, se solo guardassi più attentamente, se solo chiudessi un attimo i pensieri al mondo, se solo aprissi il tuo cuore e i tuoi occhi alla bellezza della natura, vedresti che sta passando proprio in quel momento…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
I lunghi capelli castani erano umidi e sparsi sul cuscino, le braccia tese a raccoglierli dietro la nuca e gli occhi chiusi.
Chiusi per la paura di aprirli e vedere che era tutto un sogno, solo un sogno. L’ennesimo.
Ma no, non poteva essere così stavolta.
Perché la sentiva, la sentiva contro il suo viso, la sentiva sui suoi fianchi, la sentiva nel suo mondo.
In un mondo meraviglioso e mai visto, di cui adesso lei era il centro.
 
Possibile che avesse potuto vivere fino a quel momento, calma e rassegnata, senza averla mai cercata, senza averla mai voluta?
Senza averci mai fatto l’amore?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra era nuda su di lei, avvolta solo alla vita da un leggero lenzuolo ricamato.
China sul suo petto e con gli occhi persi, persi per sempre su di lei.
Su di lei.
Sulla sua pelle d’incantato alabastro.
 
 
 
Su di lei.
E le accarezzava ogni centimetro di pelle, ogni delicata curva.
Avrebbe potuto scrivere un trattato filosofico sul corpo di Hermione.
Perche lei era filosofia, in un calice di piacere sconfinato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Con una mano stretta in quella di Hermione oltre il cuscino e l’altra più giù, Ginevra sfiorò le acque del paradiso e credette di morire. Così, lì, in quel momento.
Aveva affrontato il male in ogni sua manifestazione, era una Mangiamorte, lei era il male e rischiava la vita ogni volta ma non aveva mai avuto così quella paura, la paura di morire.
Morire lì, con la mano bagnata dal nettare di Hermione.
E pensò che in fondo no, non sarebbe stata una brutta morte.
 
 
 
Il corpo di Hermione, unico sepolcro della sua anima, per sempre.
Lì tutto di lei moriva e nasceva l’aurora.
 
 
 
Tutta la sua vita era racchiusa in quell’attimo, piccolo ed eternamente vero.
In quel momento in cui il cuore di Ginevra si è rotto e la passione di Hermione è esplosa, tra i gemiti gridati, come piena del Mississippi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione alzò gli occhi a lei, confessando così di aver raggiunto il piacere, e la guardò in un modo che Ginevra ricorderà per tutta la vita. Come si guarda l’amore una volta sola.
La prima volta che arriva, la prima volta che viene.
 
 
 
 
 
 
 
Poi inarcò le spalle, si tirò su, seduta sulle lenzuola disfatte e circondata, ancora stretta tra le braccia della Mangiamorte più provocante che avesse mai visto.
 
 
 
I corti capelli di Ginevra erano incollati a tempie e fronte, bagnati anche loro per lo sforzo di tenerla così, sempre addosso, sempre unita come una seconda pelle donandole tutta se stessa.
Tutta se stessa.
Tutto.
 
 
 
 
Tutto.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Hermione…” – la chiamò come si fa con una divinità. Invocandola.
E la guardava, la guardava e la toccava, la accarezzava e la guardava.
Non riusciva a crederci, davvero aveva lì la ragazza che aveva sempre sognato, che aveva sempre voluto possedere. Sempre.
 
 
 
Non era passata notte senza che il corpo di Hermione si incarnasse tra i suoi desideri più forti. Perché, in fondo, lei c’era sempre stata.
Era il ricordo più marcato, la ragazza e poi la donna che le aveva fatto perdere la lucidità.
Il profilo che avrebbe potuto disegnare ad occhi chiusi.
C’era ad Hogwarts, c’era d’estate sui campi di grano della sua infanzia, c’era quando aveva voluto un’amica, c’era nei suoi silenzi più oscuri, c’era quando indossava la maschera e c’era quella sera di festa, quando si innamorò per la prima volta.
Quando si innamorò per la prima ed unica volta.
 
A Ginevra passò davanti agli occhi tutta la vita, tutti i suoi anni passati aspettandola, passati a cercare di dimenticarla. Passati a cercare di scordare quella ferita del cuore.
Tutte le ragazze, Luna, tutti i diversivi a quel tormento, tutti gli onori, tutti i visi che aveva cercato di amare e che aveva finito per odiare, perché deformandosi nell’atto dell’amore rivelavano sempre Hermione.
 
Eppure quello no. Adesso quel profumo, quel tocco non lo confondeva con nessun altro.
Non c’era paragone, non c’era niente accanto a lei.
Non c’era niente che valesse un suo bacio, un suo sguardo, la sua pelle.
E sarebbe stato sempre così, lo sapeva. Come poteva essere diversamente?
 
 
 
 
 
 
“Shh… - Hermione, ansimando, le posò l’indice sulle labbra e si fece ancora più vicina, fermandole i pensieri. Fermandole il respiro - …non dire niente, guardami e basta. Guardami, Ginevra…sono tua.”
 
Tra i loro bacini c’era solo lo spazio di una mano: una mano che, silenziosa ma presente, si era insinuata là dove tutto sorgeva.
Hermione inclinò la testa all’indietro e si lasciò andare, di nuovo, al rinato desiderio che Ginevra aveva di lei.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Intanto ad Hogwarts, un professore correva come impazzito sulle scale.
Si era vestito come meglio era riuscito, senza badare a tanti formalismi. Non c’era tempo.
Non c’era più tempo.
Doveva raggiungere la Preside al più presto.
Ci mancò poco che scivolasse sul pavimento lucido, per fortuna però arrivò indenne alla porta dello studio della responsabile della scuola.
Era solo l’alba, ma Minerva McGranitt era solita iniziare presto le sue giornate.
Neville spalancò la porta senza che bussare.
 
 
 
 
“Ma cosa? – la Preside, colta alla sprovvista, alzò lo sguardo – Professor Paciock! Si può sapere cosa ci fa sveglio a quest’ora e per di più, senza preavviso?”
Il giovane aveva gli occhi sbarrati e scoppiò in lacrime, senza riuscire a contenersi.
 
Minerva lo raggiunse, lasciando la scrivania. Una profonda paura la percorse.
 
 
 
 
 
“Neville che succede? – capì che qualcosa era successo. E non fece difficoltà ad immaginare che dovesse essere qualcosa di grave - Parlami!”
 
“Sono entrati…” – rispose il ragazzo, senza guardarla. Non ne aveva la forza.
 
 
 
 
“Chi? – la Preside lo strattonò per le spalle – Chi è entrato, Neville??”
 
“Lui.”
 
 
“Cosa…” – era rimasta sconvolta.
 
 
 
 
“Lui e… - Neville la guardò con gli occhi colmi di paura - …lui e…i suoi…i Mangiamorte…”
 
Alla McGranitt si fermò il cuore.
“Non può essere, Neville! Non può essere. Nessuno può materializzarsi ad Hogwarts! Nessuno!”
 
 
Il ragazzo tirò su col naso e rispose con la voce ancora impastata.
“Non lo so come, ma…è successo Preside. Piton…”
 
La frase di Paciock si fermò a metà.
Minerva pensò al peggio.
 
“Non c’è tempo da perdere, andiamo!” – senza pensarci due volte, la donna sfoderò la bacchetta, uscì dal suo studio e corse giù per l’ampia scalinata marmorea. Paciock la seguì, terrorizzato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il vasto androne d’ingresso sembrava non terminare mai.
Ad ogni corridoio ne seguiva sempre un altro.
Strano come, quando si corre, lo spazio sembri infinito.
 
 
“Minerva…” – poi una voce, la voce di uomo.
 
Il tempo di guardare a terra e, a pochi metri, la Preside trovò Piton disteso a terra sanguinante dalla cintola in su, in pieno petto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Severus! – Minerva si voltò al ragazzo al suo fianco – Paciock, chiama Madama Chips, svelto!”
 
 
 
Ma il giovane non si muoveva. Era impietrito.
 
 
“Non mi hai sentita? Neville muoviti! Non c’è un minuto da perdere.”
 
 
 
“Non…non posso chiamarla, l’hanno…l’hanno uccisa… – disse piano il giovane, senza quasi farsi sentire - …sono…sono entrati dall’infermeria e lei…lei non…”
 
 
 
 
“Non è possibile…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Minerva… - la voce di Severus Piton era debolissima, ma la chiamò ancora. Voleva l’attenzione della donna a cui aveva imparato a voler bene, anche se a modo suo - …Minerva non…non c’è tempo… dovete…dovete scappare…”
 
“Non parlare, non affaticarti! Ti portiamo via di qui!” – la strega era confusa e senza indicazioni.
Come una mappa senza frecce, come un cielo senza più stelle. Tutto si stava spegnendo intorno a lei.
Sentiva che stava perdendo la lucidità. Tante cose, tutte insieme.
 
 
 
 
“Dovete andare…a me…a mettervi in salvo prima…prima che…prima che tornino…”
 
 
“No! No Severus! Ti porteremo al San Mungo. – Minerva tirò indietro quelle stupide lacrime che stavano per rigarle il volto e si fece forza – Sì, al San Mungo. Paciock, cosa gli hanno fatto??
 
 
 
Il ragazzo si inginocchiò vicino al professore e lo fece poggiare a sé, tenendogli la testa alzata leggermente.
 
 
 
“La maledizione Cruciatus…non so come…come faccia ancora a…a respirare… - Neville era scioccato - …sono stati brutali…ed io non ho potuto fare nulla. – il ricordo lontano dei suoi genitori gli invase i pensieri - Quando sono arrivato, mi hanno scaraventato lontano e sono scappati. Li guidava Malfoy. Lucius Malfoy, non ho dubbi.”
 
“Quanti erano?” – la Preside voleva capire. Pendeva dalle labbra del suo giovane collega.
 
“Almeno dieci. Non so come abbia fatto Piton ad essere risparmiato…”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Minerva!” – da lontano una rude voce di uomo e rumori di passi avanzavano rapidi.
Anche gli altri professori avevano assistito all’attacco, avevano combattuto i Mangiamorte e accorrevano ora in aiuto della donna.
Alastor Moody le si fece vicino e le poggiò una mano sulla spalla; poi osservò con sgomento Piton, ferito a terra.
 
 
“Li abbiamo respinti.” – disse Alastor, ma non sembrava troppo sicuro di sé stavolta.
 
Flitwick, piccolo e panciuto, intervenne avvinandosi a sua volta.
“Siamo stati fortunati. Erano parecchi, ma sparpagliati. – si rivolse alla Preside – Ce l’avevano con Piton, cercavano tutti lui. Forse perché è stato proprio lui li a denunciarli al Wizengamot...Comunque, non avevano calcolato che noi arrivassimo, quindi li abbiamo presi di sorpresa. Ma non saremo sempre così fortunati.”
 
 
 
“Che intendi dire, nano?” – rispose Alastor, innervosito.
 
“Intendo dire, guercio, che abbiamo bisogno di aiuto. Da soli non resisteremo ad un altro attacco così.”
 
 
Davvero, stavolta, Hogwarts rischiava di venire spazzata via e per sempre.
 
 
 
 
 
 
Piton grugnì per attirare la loro attenzione, era tutto quello che più si avvicinava ad un richiamo possibile per lui.
 
“Devono…devono pagare…”
 
 
 
Minerva gli strinse la mano e notò che era gelida.
Non l’aveva mai sfiorato prima.
 
“Sta tranquillo Severus, tra qualche minuto saremo al San Mungo.”
 
 
Alastor strabuzzò l’occhio sano, seguito a raffica da tutti gli altri docenti della scuola.
“Preside ma…non possiamo smaterializzarci qui.”
 
Neville seguì il collega più anziano.
“Il professor Moody ha ragione. Hermione mi ha sempre detto che nel libro Storia di Hogwarts….”
In un attimo Neville si rese conto di aver parlato troppo. Avrebbe voluto tagliarsi quella linguaccia troppo impertinente e ingenua!
 
 
“A proposito, professor Paciock - lo fermò la Preside, scrutandolo – dov'è la professoressa Granger? Hanno ferito anche lei?”
Per un attimo la donna ne ebbe seriamente paura. E trattenne il respiro in attesa della risposta.
 
 
Neville ebbe un groppo in gola e deglutì così rumorosamente che temette di sentirne l'eco.
 
“Ecco, lei…lei è…è scappata. – cercò di riprendersi, come meglio poteva – Credo sia andata alla Tana dei Weasley. Sicuramente! Sì, sì non ci sono dubbi.”
 
 
 
La Preside non fu molto convinta, ma decise che in quel momento poteva solo fidarsi dei suoi colleghi.
 
“Bene, allora avviserò anche loro.”
 
“Avvisare?” – fece Alastor, scettico.
 
 “Sì! Non c’è un minuto da perdere. Alastor, occupatene tu. Neville, anche tu e gli altri resterete qui. Voglio che vi mettiate in contatto con la professoressa Granger. Mandate un gufo alla Tana Weasley e un altro al Ministero. Anzi, scrivete loro più che potete! Un gufo può essere facilmente intercettato, uno stormo no. Scrivete a chiunque possa aiutarci. Tutti devono essere al corrente del pericolo di un eventuale nuovo attacco. Non siamo più al sicuro. Il Ministero dovrà agire. – poi tornò con lo sguardo all’amico steso e ferito – E tu non fare scherzi, siamo intesi? Ho bisogno di te, Severus…non mi puoi abbandonare così facilmente.”
 
Il mago a terra si mosse appena, il dolore era lancinante ed in pieno petto.
Ma Minerva fu certa che, con quel movimento, volesse rincuorarla a modo suo.
 
 
 
La Preside afferrò saldamente la mano di Piton e poi guardò il suo gruppo ancora una volta, come un capitano che deve abbandonare la nave sapendo che però tornerà, e tornerà presto.
 
“Hogwarts è nelle vostre mani, professori. Difendetela come avete sempre difeso i ragazzi che qui sono cresciuti e difendete l’amicizia tra voi. Non permettete a nessuno di dividervi, l’unione è la vostra più grande difesa. Noi torneremo presto. – la polvere nella sua mano era grigioverde ed opaca – E ricordate, davanti all’importanza della vita non c’è regola istituzionale che non possa essere infranta. Ma fatelo sempre col cuore e lui vi giustificherà. A presto, miei cari."
 
E scomparvero, inghiottiti da una luce blu acceso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La luce era ormai entrata dalle persiane ancora basse per metà e dava alla stanza del terzo piano un tepore particolare.
O forse, era più quell’odore di nudo a dare alla ragazza, seduta sul letto, una sensazione di caldo leggero.
L’odore del nudo.
L’odore inconfondibile della sua pelle, di quella pelle. Di lei.
Era passata almeno un’ora da quando si era svegliata e non era ancora riuscita ad alzarsi dal letto. L’immagine che aveva davanti la inchiodava lì, senza uscita.
Il quadro rinascimentale di carne viva tornava ad imprigionarla, anche se ora era ferma e pacata.
Tra le lenzuola stropicciate c’era una donna, una donna con lineamenti delicati, sdraiata con armonia involontaria su un fianco e coperta dall’ombelico in giù.
Ferma, come il mare del mattino: trasparivano solo piccoli movimenti del petto che, come lievi onde sulla battigia, ne tratteggiavano il respiro.
Aveva l’aria strapazzata, aveva dormito al massimo un paio d’ore.
Eppure…eppure era così attraente e bella che Ginevra non riusciva a staccarsi.
Avrebbe voluto avere un altro potere, un potere che Voldemort non le aveva dato: fermare il tempo.
Fermarlo lì, cristallizzarlo in quel momento, in quel quadro, nell’attimo che è già dopo, quando il bicchiere è già rotto in frantumi a terra; perché solo in quel momento sai cosa significa.
Solo in quel momento sai di essere innamorata di lei.
 
 
 
 
 
 
Un respiro più evidente della ragazza e i suoi occhi si aprirono leggeri.
Hermione, con movimenti lenti, si portò le mani al viso, stropicciandosi tutta.
 
“Buongiorno…” – Ginevra la osservava ancora da un angolo del letto, lontana, per vederla tutta.
 
 
 
 
 
Hermione divenne rossa di vergogna improvvisa, timida in un momento, totalmente l’opposto della ragazza disinibita e carnale che era stata nella notte appena trascorsa.
Nascose il viso, affondandolo nel cuscino e rivolgendo a Ginny la schiena nuda.
 
La schiena nuda…
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non ci posso credere!” – sibilò Hermione sul cuscino.
 
 
 
 
 
Ginevra le osservava le spalle e il collo caldo che aveva riempito di baci e, dovette costatarlo, anche di qualche marchio.
Non decise di risponderle con un sorriso, ma lo fece. Con un sorriso involontario, il più vero che avesse mai avuto.
 
 
 
 
 
 
“Beh…invece è tutto vero. Ci ho messo un po’ anch’io a crederci quando mi sono svegliata, sai? – la schiena di Hermione le captava lo sguardo, era una tela bianca da riempire di paesaggi e colori – Come stai?”
Ginevra le si fece più vicina, andandosi a sdraiare accanto a lei e spostandole una ciocca ribelle. Aveva sognato di farlo così tante volte...
 
 
 
 
Hermione si voltò a lei, la vicinanza dei loro corpi emanava ancora quel calore umano che tanto avevano ricercato. E che, finalmente, avevano trovato.
 
 
 
 
E poggiò le labbra su quelle di Ginevra, sorprendendola ancora.
Si sarebbe mai abituata a tanto?
 
 
 
“Sei meravigliosa, sai?  – sussurrò Hermione, ancora trasognata – Volevo tutto questo dal primo istante, solo che non…non lo sapevo.”
 
Ginevra fu felice di quelle parole, la riscaldarono più di quanto già fosse.
Poi qualcosa le passò per la mente e negli occhi.
Un’ombra la segnò.
Un’ombra oscura la circondò. E ricordò che quella ragazza, per quanto bellissima e sorprendente, non avrebbe dovuto essere lì in quel momento. Era troppo rischioso.
La loro unione era rischiosa.
Si scurì, di colpo.
E, peggio ancora, la mano, con cui aveva accarezzato i morbidi capelli di Hermione, tremò.
 
Fu un segnale.
Il segnale dell’incubo che tornava.
Il segnale che l’Oscurità si avvicinava, ancora.
Stava accadendo qualcosa. Qualcosa di negativo.
Qualcuno la chiamava.
 
 
 
 
 
 
 
 “Ginny, che c’è?” - Hermione vide la ragazza davanti a sé cambiare, inaspettatamente.
 
 
 
 
Ginevra si voltò di spalle e si tirò via da quell’abbraccio, e le fece male.
Molto male. Ma doveva farlo.
“Te ne devi andare, adesso.”
 
 
Ad Hermione cadde il mondo addosso e la felicità di quella notte si ruppe.
Cocci di bicchiere sparsi sul pavimento.
 
 
 
 
 
 
 
“Ma che dici? Non puoi dire davvero. Ginevra…Ginevra!”
 
Ma era tardi: Ginevra si era alzata e indossò svelta i suoi vestiti, che fino a un minuto fa giacevano sparsi per la stanza. Riprese il maglione verdone e i pantaloni e tornò in sé, poi raccolse gli indumenti della ragazza nel suo letto e glieli passò.
 
“Non c’è tempo, devi andartene.”
 
 
 
 
“Perché? Perché fai così adesso? Che succede? – Hermione non sembrava decisa a cedere, non più – Devi dirmelo, Ginny.”
 
 
“Vestiti e muo…” – poi la mano vibrò più forte.
Ancora e ancora.
E anche l’altra.
Di nuovo, più forte.
Tremavano come impazzite.
 
Ginevra fu percorsa da una scossa.
Una scossa che l’avvertiva, come un richiamo, dicendole che stavano tornando, i suoi poteri stavano tornando.
Proprio in quel momento.
 
 
 
 
 
 
 
Hermione si alzò dal letto e corse da lei, le prese le mani che erano come impazzite e fuori controllo.
 
 
 
 
 
“Lasciami stare… - Ginevra si tirò indietro brusca - …vattene.”
 
“No. No! Io resto con te. Come devo dirtelo? – Hermione raccolse in fretta gli indumenti e li indossò – Cosa ti succede? Perché tremi così?”
 
 
 
 
Ginevra, vacillando e semivestita, aprì il cassetto del comodino e prese una fiala.
Quella fiala.
Hermione ricordò di aver visto quel piccolo contenitore la sera del Ballo d’Inverno, nella Foresta Proibita.
Era stata Bellatrix Lestrange a consegnarla a Ginevra, per conto del Signore Oscuro.
 
 
 
 
 
 
“Non berla, Ginny! Non lo fare.”
 
 
 
“Se non la bevo, potrei u… - la boccetta vibrava tra le sue mani - …potrei…io potrei ucciderti!”
 
 
 
Ma a Hermione non importava, era come se non avesse sentito quell’ammonimento, come se non potesse essere vero.
Non ci credeva.
Non ci avrebbe mai potuto credere dopo quella notte, dopo che avevano fatto l’amore.
E fece quello che le venne, quello che reputò giusto per chiudere con l’assenzio una volta per tutte.
 
 
 
 
La strega prese la sua bacchetta, posata sul comò e non ci rifletté due volte.
Non ne avrebbe avuto il tempo.
Non avrebbe potuto farlo mai più.
 
Accio!” – la luce argentata arrivò alla fiala e la scaraventò verso Hermione, che l’aveva invocata.
Lei prese la fiaschetta al volo e, senza guardarla nemmeno, la scagliò a terra, rompendola in miriadi di schegge e sperdendo il suo verde liquido denso sul pavimento.
 
 
Ginevra spalancò le labbra e rimase sbalordita.
Non riusciva a dire nulla, nulla che avesse senso. Era perduta, definitivamente.
“Cosa…cosa hai fatto…”
 
 
 
Il tremore la costrinse a piegarsi su se stessa, il dolore era lancinante. Implacabile e da adesso senza rimedio.
 
Hermione lasciò la bacchetta, superò il liquido a terra e si avvicinò alla Mangiamorte.
“L’ho fatto per te. Tu non hai bisogno di quella roba, credimi Ginny.” – le teneva il viso tra le mani, mentre si ritrovava ad osservarle l’orrendo terremoto che aveva fuori e dentro.
 
“Lasciami stare. – Ginevra era dura, petrosa – Lasciami!” – e l’allontanò, pentendosene nello stesso momento.
 
 
Un bagliore sconosciuto invase la stanza, le due ragazze si guardarono senza capire.
Hermione pensava che derivasse da Ginevra, ma lo sguardo della Weasley era incredulo quanto il suo. Non dipendeva da loro stavolta.
La luminosità si fece ancora più accecante finché, dal quell’immenso bianco, si delinearono i contorni di tre uomini.
Ginevra, avvezza a quelle visioni improvvise e a quelle apparizioni, abituò presto gli occhi e li riconobbe.
Erano tre Mangiamorte vestiti di nero e avvolti in lunghi mantelli, fino alle ginocchia.
I loro visi erano coperti da una preziosa maschera imperlata d’oro, ma non impedirono a Ginevra di sentire i loro ghigni.
 
 
“Bene, bene Alex. – il centrale si fece più vicino – Vedo che l’hai trovata molto presto. Questa squallida nata babbana sarà la prima. Le tue mani fremono, non è vero? Senti il suo richiamo, il richiamo del Signore Oscuro.”
 
Hermione riprese la bacchetta e si preparò a difendersi.  
“Cosa volete? Arrendetevi o il Ministero non avrà alcuna pietà di voi.”
 
 
La maschera rise, rimanendo ferma.
“E così tu, tu incapace sanguemarcio, minacci noi di arrenderci! Alex – l’uomo si rivolse a Ginevra, rimasta muta e in preda al dolore degli arti – Alex, allora, vuoi farlo tu?”
 
“Fare cosa?” – Hermione non capiva, ma teneva sempre puntata la bacchetta sui tre.
Sapeva benissimo che da sola non poteva riuscire ad uscirne viva.
 
“Ucciderti. – disse lentamente l’uomo – Finalmente, dopo tante rincorse, sei nostra, signorina Hermione Granger. La strega nata babbana più scomoda. E dopo di te, tutti i tuoi blasfemi amici soccomberanno a Lord Voldemort. Dovrete riconoscere il suo regno e, sai… - una piccola pausa fermò l’aria – …credo proprio che, in questo stesso momento, Hogwarts stia subendo un grave attacco.”
 
 
“Cosa?” – Ginevra si svegliò dal letargo e prese coscienza, tenendosi una mano con l’altra.
 
 
 
Ma l’uomo iniziava a spazientirsi.
“Muoviti Alex. O lo farò io e con vero piacere.”
 
I tre uomini erano sempre più vicini, Hermione puntava la sua arma in un raggio circoscritto.
 
 
“Indietro, lasciatela a me. Non aspettavo altro.”
Ginevra riacquistò vigore e si frappose tra il gruppo e la strega indifesa.
I tre ubbidirono alla loro superiora e si allontanarono di qualche metro.
 
Lei, a piccoli passi, si avvicinò ad Hermione.
Le mani le tremavano ancora, ma meno. Era come se la paura, la tremenda paura di perderla, le avesse placato per un attimo ogni dolore fisico.
Ogni sua energia, ora, era concentrata in quella ragazza.
 
Ginevra tese il braccio, fonte del suo immenso potere magico. Hermione era lì, a pochi centimetri, bella come solo lei poteva essere, anche in quei momenti.
Tana. – sussurrò la Weasley, in modo che solo Hermione potesse sentirla. Poi si fece più austera – Addio, infamante creatura.”
Dalla mano della Mangiamorte uscì un fumo bianco, Hermione lo allontanò pronunciando un incantesimo semplice e corse via.
Via, più veloce che poteva.
 
“Dove scappi, maledetta? – urlò l’uomo mascherato – Seguitela!”
Ma era troppo tardi: accanto al camino, Ginevra era solita tenere una ciotola con della Polvere Volante e, quando i Mangiamorte raggiunsero il focolare, Hermione era già evaporata via.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Fuliggine ***


“A cosa pensi? Sei così serio…” – la giovane donna lo abbracciò, ancora calda, ma con dolcezza non più rimandabile.
Ne avevano bisogno. Avevano bisogno di loro stessi, della vicinanza delle loro anime e dei loro corpi. La pelle non può attendere oltre i confini del cuore.
Si erano avuti, dopo essersi in mille giorni cercati.
Era una follia, era irrealizzabile, impensabile. Si erano promessi di non ricaderci più; era stato un errore: uno sbaglio bellissimo, ma da non ripetere.
Poi era risuccesso. C’erano caduti ancora, uno nelle braccia dell’altra, come ogni volta che stavano insieme.
E poi ancora.
E ancora fino a diventare l’abitudine più ricercata, fino a perdersi in quel labirinto di pensieri e moniti non ascoltati.
E capirono che non era per ripicca, né per mancanza di chi non c’era più: era solo per amore.
Inaspettato e sorprendente amore, inatteso come quei fiocchi di neve che, silenziosi e abbondanti, sorpresero Ron in quell’attimo tiepido.
E lui serio lo era davvero: guardava fuori dalla bassa finestra incastonata nel legno di quella piccola casa e aveva lo sguardo tra il sognante e il malinconico.
 
Accanto alla Tana dei Weasley, più di dieci anni prima, era stata costruita una piccola e accogliente abitazione, che in realtà, per l’amore che racchiudeva, somigliava più ad una reggia.
Tra quelle mura erano passate solo anime innamorate della vita e di ciò che essa può dare, nel bene e nel male.
E di male ce n’era stato tanto, tanto da far piangere per giorni interi. Da far male sempre: qualcuno se n’era andato troppo presto, strappato da quella casa senza il tempo di un saluto, senza il tempo di un ultimo “ti amo” a lei e alla loro piccolina.
E forse, era proprio questo a rendere Ron troppo serio in quel letto, proprio dopo averci fatto l’amore.
 
“Nulla. – a sentirla sul suo petto, Ron si voltò a lei – A te. Penso a te…”
“Solo?”
“Sì.”
Gli occhi azzurro lucente dell’uomo nascondevano mille pensieri. Non c'era solo lei.
Fleur lo sapeva bene, ma non voleva farlo soffrire più di quanto già gli costasse.
Voleva dirgli qualcosa che lo placasse, qualcosa che gli facesse capire che non doveva. Non doveva farsi così male solo perché era innamorato.
Solo perché si era innamorato di lei, della moglie di suo fratello Bill.
E così Fleur decise di non dire nulla. Decise di poggiare la testa sull’ ampio petto di Ron e restare così lì, assorta, dove finalmente aveva trovato una nuova pace, una nuova possibilità.
Un nuovo amore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il lungo corridoio in pietra era percorso da tre oscuri personaggi.
Al centro, svettava un’immacolata camicia bianca su cui si posava morbido il solito gilet di tessuto nero. Alex si sistemò nel taschino l’orologio, senza nemmeno guardarlo.
Seth e Jacob erano due Mangiamorte come lei, ed ora la scortavano tenendola sotto il tiro delle loro bacchette.
Erano stati incaricati di portarla da lui, dal loro Signore, affinché lui potesse parlarle in privato nella sua dimora. Sembrava un richiamo urgente: lui non chiamava mai per fare due chiacchiere.
Il portone della stanza rettangolare si spalancò; Alex l’aveva aperto con un leggero ed impercettibile movimento delle dita. Il suo potere era al culmine della forza.
Poteva uccidere con un mano.
Poteva salvare la vita con una mano.
Poteva avere ai suoi piedi maghi e streghe, poteva soggiogarli, poteva torturarli, senza sforzarsi troppo. Bastava la sua mano e un movimento. Un gesto.
La sua mano era la sua bacchetta: Lord Voldemort le aveva donato un potere estremo, in grado di far tremare, sotto il suo tocco, chiunque osasse contraddire lui o lei.
Ma adesso lui ne chiedeva il conto.
Alex sapeva che sarebbe stato salato, forse troppo.
Forse anche più di quanto lei avrebbe potuto sopportare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Eccoti, mia devota.”
La voce serpentina dell’Oscuro Signore la raggiunse come un vento gelido.
Non era proprio una voce, era più uno strisciare lento.
 
“Mio Signore.” – l’elegante ragazza chinò appena il capo.
 
Lui ne fu estasiato. Amava essere riverito dai suoi seguaci, soprattutto da lei che era la più potente e la più rispettata tra i suoi.
E, allo stesso modo, amava sottomettere le loro menti al suo volere.
 
 
 
“Voi due potete andare. – congedò senza esitazioni i Mangiamorte che avevano scortato Alex e poi si voltò appena – Lucius.”
 
 
 
 
 
 
Dietro Voldemort, Lucius Malfoy si ergeva in tutta la sua aura minacciosa.
Indossava anche lui un abito di elevato pregio, nero e con camicia in bavero settecentesco.
Alex rise tra sé: sapeva che Malfoy non abbandonava mai il suo gusto retrò. I lunghi capelli chiarissimi erano raccolti una coda morbida, tenuta da un laccio argento. Era un conte di un altro secolo e vedeva se stesso come il proseguimento di una linea genealogica estremamente lunga ed altrettanto pura. Da mantenere incontaminata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ora che sei qui, Alex – bisbigliò ancora Voldemort – possiamo finalmente sapere il punto della situazione.”
 
Malfoy alzò indispettito un sopracciglio: non sopportava la stima che Alex vantava davanti al loro capo. La invidiava, ma sapeva che non sarebbe durato per molto. Lei stava fallendo. Stava crollando su macerie appuntite.
“Se permettete, mio Signore, vorrei ricordarvi…”
 
“Zitto, Malfoy. Ti ho forse chiesto di intervenire?”
 
“Scusatemi.” – l’uomo biondo si morse la lingua ed arretrò nell’intento.
 
“Tu sarai il testimone. – la voce dell’Oscuro era subdola e viscida, come il suo viso magro e incavato – Il testimone dell’operato della mia più fidata ancella. Allora… - si rivolse ad Alex - …l’hai uccisa? Dov’è il suo sangue?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il volto della ragazza era impassibile, ma i suoi occhi furono attraversati da un’emozione palpabile.
“No.”
 
 
“No?” – il tono di Voldemort si fece ostile, con una sola sillaba.
 
“Ve l’avevo detto, mio Signore…” – bisbigliò ancora Malfoy, sfidando il precedente rimprovero.
 
 
 
 
Alex lo guardò incenerendolo.
Avrebbe voluto alzare un dito e distruggerlo. Sarebbe bastato un cenno di mano.
 
 
 
 
 
“Non sono riuscita ad avvicinare Minerva McGranitt, mio Signore. Era sempre costantemente protetta. – un’inclinazione particolare della sua stessa voce la sorprese – Ho bisogno di più tempo.”
 
 
 
 
 
 
 
L’Oscuro Re la guardò con fare volutamente leggero.
“Non c’è tempo, Alex. – gli occhi, fessure di rettile, divennero lentamente fuoco – Siamo pronti, ormai. Attaccheremo noi. E la finirò io stesso.”
 
Voldemort aveva un debito con la Preside di Hogwarts. Era lei che voleva.
Era lei che lo aveva quasi ucciso sette anni prima.
Minerva era l’unica strega a conoscerlo in ogni sua inclinazione: lo aveva visto da bambino, lo aveva osservato da adolescente ed ora lo temeva da uomo. Conosceva i suoi poteri e poteva provare a contrastarli.
Solo lei, solo lei rimaneva da abbattere. E poi tutti i suoi sostenitori sarebbero caduti con lei e per sempre.
Una volta per tutte.
 
 
 
 
 
“Datemi ancora una settimana! Solo una settimana.” – la richiesta di Alex riecheggiò nel salone.
 
 
 
 
 
Voldemort si alzò dal suo trono di pietra cinerea.
“La mia bacchetta. – Malfoy, da servo fedele com’era sempre stato, passò al suo re l’arma da lui richiesta – Una settimana, quindi?”
 
“Sì. Solo una settimana, mio Signore.”
 
 
Lucius sogghignò.
 
 
 
 
“E per fare cosa, Alex? – Voldemort era a pochi passi da lei e la guardava come si guarda l’oggetto della propria collera – Cosa riusciresti a fare in una settimana se fino ad ora non hai fatto nulla?”
 
 
“Mio Signore, non credo che…”
 
Ma lui la interruppe brusco, rivelando la sua rabbia.
“Nulla. Non hai fatto nulla.”
 
 
Alex sentì un brivido percorrerle la schiena.
Per la prima volta ebbe paura. Sentiva che Malfoy stava vincendo uno a zero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ve l’ho detto, non sono riuscita ad avvicinarla da sola. Ma con più tempo ci riuscirò, credetemi.”
 
“Non ci sei riuscita? Davvero? Commovente. Veramente commovente. Questo allora cos’è?” – Lord Voldemort agitò a mezz’aria la bacchetta con violenza e una nebbia densa riempì lo spazio intorno a loro.
Una scena di film si propose davanti ai loro occhi.
 
 
 
Una scala ed Alex al suo culmine, intenta a discenderla svogliatamente.
“Signorina Weasley, finalmente! – alla base della scalinata la Preside Minerva McGranitt l’attendeva con cipiglio altero – Temevo non arrivasse più.”
Era la sera del Ballo di inizio inverno.
Alex, dalle scale, sollevò gli occhi dal gilet che indossava fino ad incrociare quelli scuri della donna, finendo di discendere con charme e leggerezza la scalinata.
Erano sole.
Totalmente sole.
“Mi scusi se ci ho messo tanto. Non sono molto pratica del vostro castello con scale così impertinenti. Per quale motivo cambiano continuamente direzione?” – era alquanto infastidita, ma la Preside non se ne curò.
“Dovrebbe saperlo.”
“No, non lo so! E, detto sinceramente, non capisco perché io debba partecipare a questa pagliacciata.”
L’anziana donna, avvolta nel suo lustro abito verde bottiglia, stava per controbattere duramente ma si frenò proprio prima di pronunciare cattive parole; si limitò ad accennare un sorriso, anche se forzato.
“Finché non sarà guarita, signorina Weasley, credo che non sia un bene farla tornare a Dublino. Inoltre, questa serata potrà essere per lei molto propizia. – la donna esaminò la giovane da capo a piedi – Bene, vedo che ha trovato un vestiario adeguato. Mi segua.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ad Alex tremò l’anima. Sentiva che non era finita lì.
Sentiva che lui non l’avrebbe finita lì.
 
 
 
 
 
 
 
“Allora, Alex? – la bacchetta di Voldemort si abbassò sotto la mano agghiacciante – Non eravate forse sole in questo ricordo?”
 
“Sì.” – capì che negare non sarebbe servito a nulla.
 
 
“E qui?” – la bacchetta risputò caligine bianca.
 
 
 
 
 
 
Infermeria di Hogwarts, qualche settimana fa.
“Finalmente! – la voce della Preside l’accolse al risveglio – Finalmente signorina Weasley! Ben svegliata.”
“Dove mi…” – Alex scansò gli occhi dalla ragazza sulla porta e provò a riformulare la sua domanda sospesa.
“Stia tranquilla e non si agiti. Penserà a tutto Madama Chips! – la donna dal lungo mantello smeraldo sembrava realmente sollevata nel vederla sana e salva – Come lei ben ricorderà, è la nostra migliore curatrice al castello e, con i giusti infusi e medicinali, saprà come rimetterla in sesto in men che non si dica.”
“C…Ca…castello?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Alex insorse, facendo scomparire la scena fuligginosa.
“Qui non eravamo sole! C’era la responsabile dell’infemeria e… - si fermò, non voleva dirlo, ma dovette farlo - …e un’altra professoressa.”
 
 
Voldemort evitò quel discorso. Non era ancora il momento.
Ma i suoi occhi erano ancora ira liquida.
 
“Ah, capisco. Non eravate sole. – la sua voce divenne una ridicola lagna apposita – Certo, come avresti potuto fare? Tu non hai mica un potere mortale. Non hai la forza di mettere fuori gioco una stupida curatrice e una inutile sanguemarcio, non è vero?”
 
 
 
 
Il sangue di Alex ribollì.
Era inoltre sicura di aver scorto un ghigno sul viso di Malfoy. Due a zero.
 
 
“Una settimana. Vi chiedo ancora una settimana e avrete la testa di Minerva McGranitt.”
 
 
 
 
 
 
 
Voldemort ammirava il coraggio di quella ragazza.
Osava ancora chiedergli qualcosa nonostante sapesse che non c’era più tempo.
 
 
 
 
 
“Sai, - ormai erano vicini, a distanza di bacchetta e lui gliela puntò contro – sei sempre stata coraggiosa, Alex. Sempre. Sei proprio una vera Grifondoro.”
 
Disse quella parola con astio infinito. Alex sgranò gli occhi: possibile che lui avesse capito tutto?
Come poteva fare a sapere?
Ma non ebbe la forza di dire nulla e lui proseguì.
“Avrei dovuto capirlo molto tempo fa, anni fa… - i dubbi della ragazza stavano diventando certezze – Tu hai finto. Hai sempre finto, vero Alex? O forse, dovrei dire…Ginevra.”
 
Era in trappola.
In balia del suo destino.
E del suo patto col diavolo.
Con Lui.
 
“Come…” – non riuscì a dire nulla.
 
 
 
Voldemort poggiò la sua bacchetta sul volto di Ginevra e lo percorse, dalla fronte alle labbra, con freddezza controllata.
“Non è importante come. Lucius ti spiegherà tutto. Ma adesso… - un crescente desiderio di vendetta accartocciava le sue parole - …adesso devo ripristinare l’ordine. Tu mi appartieni. Tu mi appartieni dal giorno in cui io ti ho ridato un corpo, salvandoti da morte certa ed unendoti a me e alla magia nera. Sei mia e non osare, nemmeno per un momento, deludermi ancora o provare a fregarmi di nuovo. Il nostro patto è ancora valido, anche se hai tentato di nascondermi la verità.”
 
“Non l’ho fatto per…”
 
“Non mi importa per cosa l’hai fatto. Il tuo sangue mi appartiene. – fermò la bacchetta sul collo della ragazza – Tutto di te è legato a me da una maledizione senza tempo. Lucius?”
 
 
L’uomo biondo si fece vicino.
“Sì, mio Signore.”
 
 
“Ti ho detto, tempo fa, che due furono le profezie della Camera dei Segreti.”
 
“Sì, mio Signore. Lo ricordo.” – rispose lui ed Alex ebbe un conato di vomito a tanto servilismo.
 
 
“Il potere diviso unisce i discepoli. E voi siete uniti a me nel mio potere. Bellatrix non c’è più, ma non importa. – si fermò un attimo. La bacchetta ancora puntata - Non ricordo esattamente le parole, ma è così che mi sembra di ricordarla…”
 
Agitò la bacchetta, allontanandola momentaneamente da Ginevra, e dirigendola intorno a loro.
Un fulmine prese forma lesto e l’aria fu invasa da denso fumo scuro che delineò nel nulla dell’aria la profezia, la seconda profezia della Camera dei Segreti con calligrafia di altro tempo.
 
 
 
 
 
 
Due innesti puri alla morte occorrono.
Una bacchetta e un potere estremo.
Senza ricordo del futuro alla fine del sentiero.
Nessuna mano umana o ibrida spezzerà il manto
e il potere vivrà finché viva sarà la sua fonte
d'incenso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Adesso, Malfoy e Ginevra avevano lo stesso sguardo: incredulo e incerto.
Nessuno di loro due aveva mai realmente creduto che ci fosse una profezia e che li riguardasse.
L’oscuro Signore li aveva chiamati così, i suoi due innesti puri.
 
“E adesso… - riprese Lord Voldemort, godendo della loro incredulità - …adesso che sapete, colpiremo l’impudicizia. Adesso ho voi due e tutto il vostro potere, legato a me dal nostro patto di sangue, vita e morte. Insieme, sconfiggeremo una volta per tutte il marcio e il meticcio della magia. Ma prima… - riadagiò piano la bacchetta sul collo di Ginevra - …prima voglio che tu, Ginevra Weasley, strega purosangue, capisca l’importanza di questo corpo che io ti ho donato, sottraendoti sette anni fa alla morte. E quindi, Crucio.”
 
Una scarica elettrica avvolse il corpo della ragazza: i suoi occhi si capovolsero divenendo bianco perlato e la ferita, sul fianco, si riaprì sradicando i punti di sutura. Tre a zero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Molly adorava cucinare.
Sapeva preparare a puntino tutte le pietanze preferite della sua nipotina, della bambina che da sola valeva ogni sua fatica.
Quella bambina era stata una benedizione per la Tana: ricordava ancora quel giorno, di anni ed anni fa, quando Bill e Fleur le annunciarono felici fino alle lacrime di aspettare un bambino.
Molly riteneva quel momento il più bello di tutta la sua vita. C’era la gioia, la gioia vera, c’erano tutti i suoi figli, tutti e c’era suo marito. C’era la sua famiglia e quella nuora che le stava offrendo il regalo più bello.
Il più prezioso.
Victorie la guardava assorta mentre lei avviava il forno con la bacchetta e pensava che sua nonna dovesse proprio avere una eccellente qualità: il dono di far felici, con i suoi piatti prelibati, chiunque transitasse per quella casa.
A volte la nonna si straniva, si perdeva in un mondo tutto suo, un mondo lontano e Victorie non sapeva a cosa stesse pensando, non sapeva dove fosse. Ma bastava una sua carezza, bastava che le si avvicinasse e sul viso della donna riaffiorava un dolcissimo sorriso.
Le vacanze di Natale erano iniziate da alcuni giorni e Vicky le trascorreva quasi tutte lì, al fianco della madre di suo padre che, ancora giovane e in forze, la adorava. Letteralmente.
 
“Mm…ci siamo quasi, tesoro! Il pasticcio di fegato di drago e cosciotto di lepre selvatica è pronto. Tu hai preparato la tavola?”
“Sì, nonna!”
La donna la guardò curiosa.
“E quanti posti hai messo, sentiamo! Ricordi che stasera saremo tutti?”
 
La piccolina di casa sbuffò: non le piaceva essere presa per una “dimentica-cose”.
 
“Nonna, non sono così sbadata come credi! Ci siamo io e te, mamma, zio Ron e la professoressa Granger.”
“Brava tesoro! Abbiamo anche Hermione ospite da qualche giorno e ne sono proprio contenta. – si fermò, riflettendo ad alta voce – Peccato che Harry non abbia potuto essere dei nostri. Sono sicura che sarebbe stato felice di rivedere Ron e Hermione. Sai, loro tre sono amici fin dai tempi della scuola.”
 
La ragazzina annuì, lo sapeva bene.
Si sistemò la lunga chioma bionda sulle spalle, liberandola dalla castigata treccia. Amava portare i capelli liberi, come libero era il suo spirito, non sopportava imposizioni o chiusure di alcun tipo.
 
“Vicky! La tua bella treccia!” – la nonna la rimproverò appena con lo sguardo.
Ma alla bambina non importava.
“Nonna, non mi piace la treccia. Non mi piace e basta!”
 
 
 
“Peccato, ti sta così bene…” – una melodiosa voce scese dalle scale in legno della Tana.
 
 
Vicky si voltò per vedere a chi appartenesse e subito divenne rossa rossa.
“Professoressa! – non sapeva cosa dire. Anche se Hermione era una giovanissima insegnante, le incuteva comunque rispetto. Nonostante questo, sentiva che Hermione Granger era da sempre parte di quella famiglia, di quella grande famiglia – Ehm…vede io…non amo molto le…le pettinature difficili…”
 
Hermione rise raggiungendola per poi salutarla calorosamente: quella bambina era l’esatta copia di suo zio Ron, buffa nella timidezza e profondamente rispettosa.
“Stai benissimo anche così, Vicky. – poi si rivolse alla donna addetta ai fornelli – Non è forse vero, Molly?”
 
“Oh, ma certo Hermione cara! Solo che, a volte, sarebbe richiesta una certa formalità! – rispose fintamente adirata la donna – Cosa che la nostra bella Vicky non ha! E pensare che sua madre ci tiene tanto.”
 
“Si vede che ho ripreso da papà. A lui non piacevano queste cose! Me lo dice sempre la mamma.”
 
Hermione e Molly risero tra loro: la ragazzina aveva ragione.
Bill era sempre stato particolare, fuori dagli schemi. Amava portare i capelli lunghi e arruffati fin da ragazzino e a nulla erano serviti i mille rimproveri di sua madre.
Faceva di testa sua, sempre. Ed era questa la sua profonda bellezza: era un’anima pura ed indomita.
Mentre erano ancora intente a chiacchierare e controllare il pasticcio pronto in forno, la porticciola d’ingresso si aprì rivelando una donna tutta imbacuccata di bianco.
Aveva sciarpa, guanti, un cappello di pelo. Tutto totalmente bianco. Fuoriuscivano solo ciocche biondo cenere.
 
 
“Mamma!” – Vicky volò incontro alla nuova arrivata e le si buttò tra le braccia.
“Amore! – lei, dal canto suo, la strinse forte. Ma forte davvero – Hai fatto la brava e hai aiutato la nonna, vero?”
“Sì. E vedrai che buono quello che abbiamo preparato! Ti piacerà moltissimo!” – sprizzava gioia da tutti i pori.
“Sono proprio curiosa di assaggiarlo! – la donna si spostò dall’abbraccio, giusto per poggiare cappotto e soprabiti vari, finché non scorse l’altra ragazza in casa – Hermione!”
“Ciao Fleur, come stai?” – anche la professoressa era felice di rivedere la donna francese.
 
Fleur si avvicinò all’ospite della Tana e la abbracciò calorosa.
“Bene, molto bene. E tu? Pensavamo che saresti rimasta ad Hogwarts, Vicky ci aveva detto così.”
 
Sul volto della professoressa si dipinse un’espressione evasiva.
Di colpo, fu a disagio.
“Dovevo ma…le cose sono…come dire, cambiate. E non…non mi è stato possibile.”
 
“Capisco, magari ne parleremo dopo se vorrai. – qualcosa distrasse Fleur – Ma cosa…brr…”
Una volata di aria gelida le raggiunse.
La porta si era aperta di nuovo e stavolta per accogliere dentro un uomo rossiccio che, di spalle, trascinava dentro a fatica un lungo tronco.
 
“Accidenti, Draco, mettiti dritto. Così rischiamo di romperci la schiena!”
Ron, conoscendo la strada, entrò sicuro di schiena e spinse dentro il grande tronco; all’altra estremità un ragazzo biondissimo e con un perfetto doppiopetto fece il suo ingresso, non proprio come avrebbe voluto.
“Ah, finalmente! – sospirò il ragazzo, sistemandosi l'abito una volta poggiato il tronco – Buona sera a tutti! Spero che ci sia posto per un commensale in più!”
 
“Draco!” - Hermione spalancò gli occhi. Era felice di vederlo, iniziava ad affezionarsi a quell’aristocratico giovane.
 
“Signor Malfoy! – Molly si avvicinò all’ingresso e strinse energicamente la mano del ragazzo – Venga pure, è un piacere averla qui!”
“La ringrazio, signora Weasley. Ma la prego, mi chiami col mio nome. – salutò tutt’intorno, stringendo a sua volta la mano a Fleur e alla piccola Victorie, guardandola con finta serietà – Tu devi essere Victorie, la nipote tanto lodata del mio amico Ron, non è così?”
 
La bambina lo guardava assorta.
“Sì…”
 
Malfoy estrasse la sottile bacchetta dal cappotto nero.
“Allora aspetta un attimo, signorina. Accio donos.” – il ragazzo pronunciò l’incantesimo e, in men che non si dica, un pacchetto colorato ed una bottiglia con una coccarda rossa raggiunsero le sue mani.
 
“Wow…” – Vicky lo guardava sbalordita. Il ragazzo biondo l’aveva già conquistata con i suoi modi eleganti.
 
 
 
 
Intanto Hermione bisbigliava a Fleur.
“Sapevo che avrebbe fatto qualcosa del genere, e' proprio nel suo stile." – Hermione conosceva Draco. Sapeva che voleva farsi benvolere e lo avrebbe fatto con la sua ironia sottile e la garbata gentilezza dei suoi gesti. Voleva, così, pulire le sue colpe passate e non essere etichettato come semplice e freddo figlio di suo padre.
 
 
Draco parlò risoluto e con tono affabile.
“Signora Weasley, mi permetta di omaggiare la sua ospitalità con una bottiglia di buon vino. – la porse alla donna – Viene dalla mia personale cantina e sono sicuro che qui sarà ben spesa. E in ottima compagnia.”
“Grazie Draco, non dovevi.” – Molly ne fu piacevolmente colpita.
“E’ solo un piacere, mi creda.” – poi prese il pacco tutto colorato e si avvicinò a Victorie.
 
 
 
L’atmosfera era calda e sorridente.
Da dicembre. Pronta alla festa per eccellenza.
 
Ron osservava la scena soddisfatto per aver invitato l'inaspettato ospite; sapeva che sarebbe stata un’ottima idea e sorrise tra sé.
Accorgendosi però che nessuno più badava a lui, mise un broncio talmente plateale che subito si intuì quanto fosse fittizio.
Tossì piano, nessuno parve prestargli ascolto.
Tossì una seconda volta: Vicky lo aveva notato, ma fu subito riassorbita dalla fine cortesia del ragazzo biondo che, come un cavaliere, le stava porgendo il regalo.
Ron tossì di nuovo e stavolta, per lo sforzo, ne venne fuori un vero starnuto!
 
“Ron, figlio mio! – intervenne sua madre - Perché non ti copri di più? Non senti che sei tutto infreddolito!”
Uno stormo di risate si alzò nell’aria.
Si preannunciava una piacevole e allegra serata dicembrina.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La cena era agli sgoccioli, ma la compagnia aveva ancora voglia di stare insieme e non pensare a cosa accadeva fuori. C’è sempre bisogno di uno spazio lontano dal mondo che scorre inesorabile.
 
“E così lavori al Ministero? Complimenti, Draco. Davvero!” – Fleur sedeva di fronte al biondo incravattato e ascoltava la descrizione del suo lavoro, assorta.
“Sì, diciamo che mi occupo di controllare tutto il materiale didattico che può giungere nelle nostre scuole. Devo valutarne il valore e la conformità a certi standard decisi dal Ministero.”
“Capisco, sembra interessante.”
“Puoi scommetterci, Fleur. Lo è davvero!”
 
Fleur sedeva tra Ron ed Hermione. La piccola di casa era già corsa sul divano, accanto la cucina, a provare la nuova collezione di trucchi magici regalatele da Draco Malfoy e ne era entusiasta. L’aveva conquistata definitivamente con quell’azzeccatissimo regalo!
Molly sedeva accanto al ragazzo biondo, ma era più il tempo che passava avanti e indietro trasportando piatti e pietanze.
“Ti aiuto Molly, ai piatti ci penso io.” – Hermione si alzò e prese tutti i piatti dei commensali. C’era bisogno di prepararsi per il dolce.
“Lascia stare, cara. Resta pure seduta!”
Ma la professoressa continuò, rispondendo con un solare sorriso e abbandonando la stanza dietro la padrona di casa con le braccia colme di piatti.
 
In sala rimasero Draco, Ron e Fleur.
I due uomini discussero animatamente dei piani del Ministero, ora che le cose nel mondo magico iniziavano a mettersi male.
Non volevano affrontare l’argomento ma sapevano che era inevitabile, come nascondere la testa sotto la sabbia per evitare di scorgere il mare.
Alla Tana, proprio quel pomeriggio, era giunto un gufo express da Hogwarts, quello per le comunicazioni d'urgenza, che avvisava e ordinava ai Weasley di avere la massima attenzione: molti Mangiamorte si aggiravano nelle cittadine magiche e non ci si poteva fidare di nessuno che non fosse strettamente conosciuto. Il pericolo era alle porte e finché i Dissennatori non li avessero scovati tutti, non si poteva stare tranquilli.
Ron era molto preoccupato, credeva poco nei Dissennatori e nella loro buonafede; Malfoy cercò, come poteva, di rasserenarlo.
 
“Ce l’abbiamo fatta sette anni fa, Ron. – il biondo sorseggiò lento il vino – Sono sicuro che possiamo farcela anche stavolta.”
“Ma stavolta Tusaichi ha un esercito vero. Hanno una forza immensa che prima non avevano.”
“Io credo che gliene rimangano pochi di seguaci. Ne ha persi molti, tra cui...” – si fermò giusto in tempo.
“Draco ha ragione. – intervenne Fleur – Non devi abbatterti così, Ron. Tua madre conta su di te, sei la sua forza. Ed anche la mia.”
 
L’ultima frase della donna fu un sussurro, udito solo dall’orecchio di Ron che però non rispose.
Draco spalancò gli occhi, aveva letto qualcosa di molto interessante nel pensiero di quei due giovani. E parlò non collegando cervello e bocca.
“Immagino che tua madre ne sarà stata contentissima, Ron! E anche Victorie!”
Proprio in quel momento, rientrarono in sala Hermione e Molly: la prima con piattini puliti e la seconda con una torta alle stalattiti di cacao.
“Contenta di cosa, caro?” – Molly non aveva seguito il discorso e, sorridendo, si rivolse al ragazzo biondo.
 
Hermione temette il peggio.
 
“Magari per diventare ancora nonna è un po’ presto, ma immagino che lei, signora Weasley, sia contenta di vedere Ron e Fleur insieme ed innamorati. Sì, se lo meritano proprio tanto dopo quello che hanno sofferto! Bravi ragazzi.”
 
Hermione avrebbe voluto fulminarlo o riempirlo di schiaffi. Le sarebbe anche bastato piantargli nel petto uno di quei piccoli coltelli da dolce.
E non perché Molly non ne sapesse nulla: Hermione conosceva bene la madre di Ronald e sapeva che sicuramente sarebbe stata dalla loro parte, li avrebbe capiti e forse li avrebbe anche benedetti.
Hermione avrebbe voluto schiaffeggiarlo perché, proprio in quel momento, dalla porta era sbucata la testolina bionda di Victorie. E lei aveva capito, aveva capito tutto.
E i suoi occhi divennero fessure lucide.
 
“Oh, Merlino dimmi che non ho fatto quello che penso.” – si disse Draco.
Hermione esplose.
“Come è possibile? Come?! Hai un dono così forte, tu…tu leggi il pensiero, possibile che non sapessi che qui dentro nessuno ne sapesse niente?” – Hermione aveva davvero gli occhi incandescenti.
“Chiedo scusa io non…”
 
 
“Bambina mia, aspetta!” – Fleur si era alzata per raggiungere la figlia, ma non era servito.
Victorie aveva lasciato cadere i suoi trucchi; il recipiente di vetro degli smalti si frantumò sul pavimento e lei era corsa su per le scale, rifugiandosi in una delle camere del primo piano e sbattendo energicamente dietro di sé la porta.
Qualcosa si era rotto dentro di lei.
E, forse, per sempre.
 
“Fleur, andiamo a parlarle.” – Ron, alzandosi a sua volta, poggiò una mano sulla spalla della donna.
Lei lo ammutolì con uno sguardo e le parole furono semplice conseguenza.
“Io vado a parlarle. - si rivolse agli altri, non notandoli nemmeno più - Scusatemi.”
 
Anche la donna francese sparì sulle scale, con la speranza di non aver perso la fiducia di sua figlia.
Ron rimase immobile, pietrificato.
 
 
 
 
 
 
 
 
Molly capì che doveva intervenire. Lo doveva alla sua famiglia. Lo doveva a suo figlio.
Poggiò senza altri pensieri la torta sul tavolo e raggiunse il suo unico figlio sopravvissuto.
In quel momento, in quel breve tragitto che lo separava da lui, capì che Ron aveva sempre vissuto con dolore il fatto di essere sopravvissuto, di essere stato l’unico a restare in vita dei suoi fratelli.
Su lui gravava ogni peso, ogni ricordo, ogni speranza.
Non meritava tutto questo, non meritava che il barlume di felicità che aveva finalmente agguantato scomparisse così, per un peso che gli gravava dentro.
 
“Ron. – la madre lo chiamò, ma lui non riusciva nemmeno a guardarla. Fissava un punto indefinito del pavimento – Ronald, guardami.”
 
Il rosso alzò gli occhi alla donna: erano lucidi e pieni di paura.
Paura di aver perso la fiducia di sua madre, deludendola.
Paura di aver perso sua nipote, sostituendosi al suo vero padre.
Paura di aver perso la donna di cui si era innamorato, mettendola davanti ad una scelta in cui lui poteva solo perdere. E perdere tutto.
Non riusciva a parlare, non riusciva a dire niente.
 
“Ron, non hai fatto niente di male. Vedrai che anche Vicky lo capirà, devi darle tempo.”
 
A quelle parole, il cuore di Ron tornò a battere e i suoi occhi ripresero il colore del mare.
“Mamma… - era incredulo - …tu…puoi…puoi accettare…”
 
“Io non devo accettare niente, se non la felicità che tu e Fleur potete darmi. – Molly accarezzò il viso cresputo di suo figlio, la sua barba era incolta e rossiccia - Non me lo aspettavo, è vero, ma non hai niente di cui vergognarti. Sei innamorato di lei e vuoi farla felice, io so che puoi farcela. E so che te lo meriti…Tuo fratello non tornerà. Purtroppo non tornerà e tu hai diritto di vivere, non devi chiuderti nel passato. Anche lui ti direbbe così, ne sono sicura. Bill vorrebbe vederti felice. E vorrebbe che lo fosse, finalmente, anche lei.”
 
Ron fu talmente sollevato, ma talmente tanto che pianse sulla spalla della madre tutte le sue paure fatte di lacrime.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione e Draco si allontanarono di qualche metro, per dare a madre e figlio quell’intimità di cui avevano bisogno.
“Ti rendi conto di cosa hai combinato??” – Hermione era ancora nera di rabbia verso quelle parole pronunciate senza riflettere dall’amico.
“Ho letto dentro di loro che la loro storia va avanti da molto tempo ormai. E ho dato per scontato che lo avessero detto agli altri.”
“Beh, sappi che hai fatto proprio un bel macello!”
La ragazza incrociò le braccia al petto e distolse lo sguardo da lui. Non riusciva neanche a guardarlo. Sentiva che se lo avesse avuto ancora sotto tiro lo avrebbe schiaffeggiato davvero.
“Prendo la giacca e vado, ne ho già fatte fin troppe stasera. Non vorrei proseguire nel…”
 
Nessuno seppe mai cosa Draco non volesse proseguire.
Un boato assordante giunse dal camino davanti a loro e una densa fuliggine si sparse tutta intorno.
Qualcosa era sceso dal camino. Qualcuno.
Anche Molly e Ron interruppero ogni discorso e piombarono accanto ai due ragazzi, con le bocche aperte per lo stupore.
 
“Che succede?” – Ron si rivolse ai due.
“Non lo so, non si vede granché.” – Draco aveva ragione: il soggiorno fu invaso da cenere che si sparse senza permettere di mettere a fuoco quello che ne usciva.
 
“Qualcuno si è materializzato nel nostro camino.” – Molly intuì la verità. La sua esperienza superava quella dei ragazzi.
 
Ma non avrebbe mai potuto immaginare chi si trovasse ora in casa sua.
Non avrebbe mai potuto capire chi era quell’anima sola che, ora seduta lì a terra, si puliva alla bene e meglio la camicia chiara ormai irrimediabilmente stropicciata.
La nera figura si passò una mano tra i corti capelli che, spolverati, divennero di un castano molto scuro.
Hermione ebbe un tuffo al cuore. Possibile che fosse proprio lei?
 
“Credo proprio che tu abbia ragione.” – Draco parlò rispondendo al dubbio dell’amica ed estrasse la bacchetta.
 
Molly non capiva ancora e Ron rimase impassibile finché non vide quegli occhi, quegli occhi chiari ma scuri di tonalità, esattamente come i suoi.
Furono gli occhi a rivelare a Ronald Weasley che chi si era materializzato nel camino della Tana era proprio lei, sua sorella.
O colei che il Wizengamot considerava sua sorella.
 
 
“Hermione, mamma! Allontanatevi subito!” – anche Ron prese la sua bacchetta dalla credenza vicino. E la puntò, insieme a Malfoy, sulla figura ancora inginocchiata e dolorante, ordinando alle due donne di farsi da parte.
 
 
 
 
 
“Ron, lasciala stare.” – gli urlò di rimando Hermione.
 
 
 
Ma il ragazzo non accennava a calar la bacchetta, così come Draco.
Anzi, circondarono la giovane accasciata sul pavimento innanzi al camino e ne sfiorarono il corpo con le loro bacchette.
“Alzati. – ordinò Ron alla ragazza che non pareva ascoltarlo – Alzati o te la vedrai con noi.”
 
 
“Non…” – un lamento uscì dalle labbra di Ginevra. Era dolore, era estremo dolore fisico.
Solo in quel momento Ron, Draco, Hermione e Molly videro il sangue che scorreva sul fianco della giovane.
Hermione aveva già visto quella ferita, durante la loro notte, la loro notte d'amore. Ma era sicura che fosse rimarginata: ora sanguinava di nuovo e come se fosse fresca.
 
“Ti ho detto di alzarti!” – Ron la colpì con uno schiantesimo facendola accasciare totalmente a terra.
 
 
 
Hermione non ci vide più e non resistette oltre.
Non le importava di niente ora: sarebbe andata contro i suoi amici, contro il Ministero, contro il Wizengamot, contro tutti ma non l’avrebbe abbandonata al suo destino. Non così.
La professoressa estrasse la bacchetta dal golfino grigio che indossava e la punto verso i due uomini.
 
“Lasciatela stare ho detto! – la sua voce era sicura, come il suo cuore – E’ ferita, non lo vedete?”
 
 
“Hermione – Ron non intendeva lasciare che l’amica si mettesse in guai più grandi di lei e perderla – dobbiamo spedire questa Mangiamorte nell'unico posto che le spetta, Azkaban. E se non vuoi seguirla anche tu, dovresti lasciarla a noi. Dobbiamo avvisare i Dissennatori.”
 
“E’ tua sorella!”
 
 
Molly ascoltò quelle parole e le mancò il respiro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Hermione ascoltaci tu, Ron ha ragione. – Draco intervenne ed era estremamente serio – E’ una Mangiamorte. Dobbiamo contattare le autorità, potrebbe ucciderci con una facilità che nemmeno immagini.”
 
 
 
 
 
Hermione superò i ragazzi e si frappose tra loro e la giovane a terra.
“In nome della carica di docente che rivesto e di organo ausiliare del Ministero della Magia inglese, vi ordino di poggiare le bacchette ed allontanarvi da lei o dovrete rispondere per altro tradimento e disubbidienza ad ufficiale ministeriale incaricato.”
 
Draco e Ron si guardarono: poteva davvero farlo? Si rendeva conto, davvero, di cosa stava facendo?
Il Wizengamot l’avrebbe accusata di favorire una Mangiamorte e quindi il ritorno del Signore Oscuro. Poteva essere condannata ad Azkaban per questo.
Ne era davvero consapevole?
 
 
 
“Hermione, non sai cosa stai facendo.” – Ron non accennava a placarsi.
 
 
 
 
 
 
“Basta…” – sua madre intervenne.
 
“Mamma, non lasciarti convincere, lei non è…” – ma non lo lasciò finire.
 
 
 
 
“Hermione ha ragione…ha ragione...” – Molly superò i due ragazzi ed Hermione.
Raggiunse quella strana ragazza ripiegata a terra su se stessa e si inginocchiò al suo fianco.
Non riusciva a dirle nulla, perché non c’era nulla che valesse la pena di essere detto in quel momento. Nulla.
 
Tutte e tre le bacchette si piegarono davanti allo strazio di quella immagine, di quella nuova natività.
Draco si fece indietro, Ron non capiva ancora: come poteva sua madre avvicinarsi a lei? A quella Mangiamorte. Come?
Eppure un vecchio e seppellito amore materno stava riaffiorando lento dal suo cuore; Molly sentiva, sentiva, che quella ragazza era una parte di lei.
Quella ragazza era Ginny. La sua Ginny…
E pianse.
Iniziò a piangere senza riuscire a fermarsi e, tremando, con mano incerta accarezzò quei lineamenti, quel viso così diverso da come lo ricordava, ma suo.
Suo.
Di sua figlia.
 
E non perché la riconoscesse con gli occhi, Molly la riconobbe col cuore. Con il cuore di una mamma che aveva creduto per anni morta la sua bambina.
 
 
 
 
 
Mamma…”
 
 
 
 
 
Figlia mia…” - a Molly scoppiò il sangue nelle vene, si fermò il tempo, si arrestò ogni bisogno.
Una semplice parola, la più naturale, la prima che si impara, l’unica che non scorderemo mai, nemmeno volendolo.
 
 
Hermione si intromise, afferrando Ginny ed aiutandola a mettersi seduta, la teneva da dietro; ma Ginevra aveva bisogno di essere medicata. Poi vide dei lividi sul suo collo, su quel collo che aveva a lungo baciato.
“Cosa ti hanno fatto?”
 
 
 
 
 
 
 
“Ron…  – Ginevra alzò gli occhi da sua madre fino a giungere, con fatica immane, a suo fratello.
Lui la guardò con disprezzo, con rabbia inenarrabile, ma manteneva la bacchetta puntata a terra.
E lei continuò, impiegando tutte le forze per quelle poche parole - Ti…ti spiegherò…tutto…tutto…ma non… - era finalmente seduta, poggiata totalmente al petto di Hermione che la teneva salda, insanguinandosi a sua volta - …ti prego non…non usare la…la magia…”
 
“Perché?” – lui era duro. Continuava a guardarla senza vederla.
Senza riconoscerla.
 
 
“Voldemort...lui… - non riusciva a proseguire ma, con una smorfia di dolore, lo fece lo stesso, aggrappandosi forte alle braccia di Hermione - …Lui può…può sentirla…e ci…ci troverebbe…”
 
 
 
Molly guardò il figlio con più durezza ancora.
“Fa’ come dice, Ron! – poi si voltò alla figlia e l’abbracciò, tenendola a sé e attenta a non stringerla troppo – Ginevra…la mia Ginevra…”
Piangeva.
Piangevano tutte e due.
Finalmente insieme.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Dalla scalinata in legno anche Victorie guardava la scena che si era profilata di sotto.
Aveva sentito dei rumori diversi e si era precipitata a vedere cosa fosse. E sorrise.
Sorrise rivedendo quella ragazza che, come redenta, tornava da loro. Da loro che erano la sua famiglia.
Vicky guardò sua madre che le teneva la mano senza sapere cosa stesse accadendo e, senza rifletterci, gliela strinse più forte.
“E’ la sorella di papà.” – disse piano e accompagnò le sue parole con lo stesso sorriso.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Coacervo selvatico ***


Dicembre continuò a fare il suo corso, senza rallentare.
Galoppava indomito ma, prima che potesse rendersene conto, fu superato da Gennaio.
Il tempo non si può fermare, così come non si possono fermare i pensieri, una volta partiti, o i ricordi quando formati.
Quest’ultima cosa, forse, non è poi così vera per tutti.
 
Ron continuava a frugarsi il cervello in cerca di una soluzione per uscire da quell’immenso problema che aveva scombussolato la sua vita: da quando aveva scoperto di lui e sua madre, Victorie lo evitava, come si evitano le pulci, come si evita la peggiore delle malattie.
Sua nipote non riusciva più a tollerarlo e, anche se involontariamente, non gli aveva più sorriso né lo aveva abbracciato, come era solita fare ogni volta che lo incontrava. Erano sempre stati molto legati fin da quando era nata. Lui era una guida, un'ancora certa.
E questo rendeva Ron ancora più sofferente adesso.
Se lei si trovava in casa e lui arrivava, Victorie si trasformava: mutava espressione, diventava scorbutica, nervosa, misteriosa e altalenante, per poi far in modo di dover uscire, fosse anche per il più banale dei motivi. Le veniva in mente qualsiasi scusa possibile, una visita ad un’amica che abitava vicino, il tempo per una passeggiata, gli incantesimi da provare.
Qualsiasi cosa pur di non stare per più di una manciata di secondi nella stanza con lui.
Ron stava iniziando davvero a pensare di perderla, proprio ora.
Proprio ora che tutti avevano bisogno gli uni degli altri.
Proprio ora che aveva trovato un briciolo di stabilità con Fleur.
Proprio ora che ci si era messa anche sua madre, convinta fin nel midollo che quella scorbutica Mangiamorte, ora in casa loro, fosse sua sorella.
 
 
 
 
Anche quella mattina Victorie lo ignorò totalmente e, salutando velocemente la madre, prese la sua piccola tracolla viola, la bacchetta in legno di nocciolo e il berretto di lana bordeaux. Se lo sistemò velocemente sulla bionda chioma fluente e spalancò il portone, diretta fuori.
“Vado a fare un giro lungo il sentiero per il paese, mamma.” – superò Ron come se lui non ci fosse, come se avesse bevuto per errore una qualche pozione d’invisibilità.
“Non fare tardi! Ti aspetto dalla nonna! – rispose a voce alta Fleur – Hai capito Vicky?”
Ma era tardi; Victorie era già lontana e Ron, sulla soglia, ne osservava triste la scia.
Assomigliava così tanto a sua madre nel portamento, bionda e leggiadra già da bambina ma quel carattere solitario doveva averlo preso dal padre, amante quanto lei del silenzio e della introversa riflessione. Alle cose, insomma, doveva arrivarci da sola.
 
 
 
“Che ci fai tu qui?” – Fleur lo sorprese come un leggero sole in pieno inverno.
 
 
Ron entrò superando l’ingresso, anche se non invitato e posò gli occhi chiari su di lei.
Era strano per lui sentirla fredda e distante, ma capi' che lei si stava auto imponendo di essere così. Fleur non lo era, lui lo sapeva, lo sapeva bene. La conosceva, aveva imparato a comprenderla e ad apprezzarne il sorriso sempre presente.
 
“Io…io volevo parlarti. – alzò gli occhi alla donna e cercò di trovare tutta la dolcezza che, era sicuro, sua madre doveva pur avergli trasmesso in qualche modo – Volevo parlarti di noi.”
La Veela sembrò infastidita, ma fu solo un attimo; lo superò e, come se niente fosse, si mise a preparare un the.
 
“Siediti Ron.” – lo invitò stavolta. Non riusciva ad avercela con lui, per quanto si impegnasse.
 
 
Fleur preparò il the, scuro e caldo e, dopo averne riempite due abbondanti tazze fumanti, ne porse una a lui.
Ron ricordò in quel momento tutti i the bevuti, quasi d’obbligo, nella capanna rattoppata di Hagrid: quelli erano i suoi ricordi più cari di tutti gli anni trascorsi ad Hogwarts, li custodiva come cimeli di valore incalcolabile. E, nonostante non fosse mai diventato un grande amante della bevanda inglese per eccellenza, quell’odore dolciastro e avvolgente li fece riemergere tutti, come evocati da un pensatoio. C’erano Harry ed Hermione, c’era la loro spensieratezza.
 
“Io credo… – Fleur interruppe i pensieri malinconici del ragazzo – …credo che sia meglio, per un po’, evitare di farci vedere insieme.”
 
A Ron si infranse un vetro dentro il petto.
 
“Perché? – tralasciò anche il the – Non credo che sia la soluzione migliore. Noi…noi dobbiamo parlarne con Vicky.”
“No.” – rispose lei, dopo un sorso bollente.
“Perché no?” – incalzò Ron, mentre i cocci acuminati di vetro iniziavano a tagliargli le viscere all’idea di perdere la ragazza per la quale aveva già perso se stesso.
“Perché Victorie non capirebbe.”
“Non è vero! – Ron si alzò dalla sedia e la guardava forte, inchiodandola con quel blu – Questo lo pensi tu. Sei tu che non capisci. Sei tu che pensi che lei non capirebbe. Lo so, ci vuole tempo! Lo so bene. Ma dobbiamo parlarle chiaramente, dobbiamo darle la nostra versione. Dobbiamo, Fleur, altrimenti non le daremo la possibilità di capire.”
“Lei non è pronta…” – la voce di Fleur divenne un sussurro, come se avesse paura di sputare il rospo.
 
E allora lo fece lui, per tutti e due.
 
“Io non posso essere suo padre, giusto?”
Fleur lo guardò con dolcezza, per la prima volta da quando era arrivato.
Sembrava impaurita, spaesata a quella domanda, ma capì che Ron era nel giusto, aveva ragione: nascondere ancora le cose, come se niente fosse accaduto, non sarebbe servito a nulla. Anzi, avrebbe solo moltiplicato il disagio di sua figlia.
E loro sarebbero stati condannati all’infelicità.
 
Poi accadde qualcosa che Fleur non si sarebbe mai aspettata.
 
Ron lasciò il suo posto, come un pugile che abbandona il ring e decide finalmente di cedere all’orgoglio di una vittoria di rabbia. Si avvicinò a Fleur, seduta ad occhi bassi, e si pose alle sue spalle. E l’abbracciò, da dietro.
La ragazza poteva sentire il respiro agitato dell’uomo sulla sua nuca, quel respiro che l’aveva salvata dall’apatia dei suoi giorni vuoti.
La mano di Ron si poggiò delicata, ma decisa, sulla sua e la strinse.
 
Era una mano grande, di un uomo vivo e passionale, che teneva una mano piccola e delicata, di una donna smarrita e bella.
E in quell’attimo lui pensò che, anche se fortemente spaventata, lei era e sarebbe stata sempre una donna bellissima.
Era la mano di un uomo che voleva prendere quella donna e le responsabilità che ne sarebbero derivate.
 
“Non potrò mai essere Bill, lo so. E non voglio neanche provarci. – anche la sua voce era sincera, così come i suoi occhi – Non voglio fare il padre, perché so che io non sarò mai il padre di Vicky. Ma so che ti amo e che non posso perderti. Non posso, Fleur…Mi capisci? Permettimi di starvi vicino.”
 
Lei guardava le loro mani unite, così perfette insieme. E, voltandosi a lui, lo baciò, avvolta ancora stretta tra le sue braccia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il portone fu dischiuso con un leggero calcio ed Hermione, in jeans chiari e cappotto in lana, entrò nella Tana. Sebbene fosse mattina da appena qualche ora, vi era già un’aria ospitale e sicura.
Quella casa era l’accoglienza fatta di mura, legno e cemento.
La giovanissima professoressa di Incantesimi camminava a passi molto lenti ed incerti, balzando da un punto all’altro con scarsa stabilità, e con in braccio un carico di legna ben al di sopra delle sue evidenti capacità e, per di più, senza usare nessuna bacchetta.
Il tappeto d’ingresso notò la sua difficoltà e, con frusciante garbo, si distese per bene al suo passaggio, evitandole così qualche stramba e dolorosa caduta.
Hermione poggiò la legna accanto al ripostiglio in vimini e si asciugò la fronte.
Amava fare quei piccoli gesti babbani, la rendevano soddisfatta, le ricordavano da dove veniva e la sua famiglia d’origine londinese. E poi pensò che forse l’odore di talco impresso nella Tana avrebbe potuto accompagnarla un po’ ovunque se i suoi vestiti ne fossero stati impregnati e se lei avesse vissuto piccole imprese in quello spazio, ripagando così quella casa della serenità che le donava.
Lì si sentiva a casa, si sentiva protetta. Lì si sentiva amata, fin da quando era poco più che una bambina saccente e a tratti antipatica.
 
Era appena arrivata: Dublino non richiedeva per il momento la sua presenza ed Hogwarts era sotto il controllo costante del resto del corpo insegnanti; inoltre, la scuola era stata sospesa fino a data da destinarsi. Tutto era ancora in subbuglio e, per il momento, Hermione non poteva fare altro se non attendere nuove comunicazioni; aveva ricevuto, per di più, il divieto categorico di intraprendere qualsiasi azione senza consultare i suoi superiori, cioè la Preside di Hogwarts o il Ministero della Magia.
Tutto ciò che poteva fare era quindi godersi quei momenti di forzata libertà che la McGranitt le aveva accordato dopo la stressante ricerca della signorina Weasley.
Hermione decise così che quella mattina avrebbe aiutato, e molto volentieri, la padrona di casa come meglio poteva.
 
 
“Molly! Molly sei qui?” – chiamò, e proprio poggiando il pesante carico aveva scovato la signora Weasley super indaffarata nella pulizia del camino.
Nonostante l’apparente quotidianità della scena, Hermione capì subito che quella era della normalità solo una parvenza: Molly non era solita usare olio di gomito per fare le pulizie, aveva sempre trovato la magia molto più efficiente.
Per questo la ragazza si sorprese nel vederla con la testa, piena di ciuffetti grigiastri, dentro la canna fumaria.
 
Hermione si avvicinò, sfilandosi la giacca pesante e poggiandola su una sedia.
“Molly, va tutto bene? – la donna sembrava molto assorta nel suo lavoro, tanto che Hermione si fece ancora più vicina senza che lei la notasse – Molly?”
“Hermione! – la strega sobbalzò e la salutò sbadata. Poi uscì dal camino col viso tutto fuligginoso, sbattendo le mani sul grembiule pieno di disegni di gnomi stilizzati – Sì, tutto bene cara. Stavo pulendo, sono molto impegnata oggi! Se vuoi scusarmi!”
Hermione le passò uno strofinaccio pulito, appeso sulla parete di destra in maniera alquanto bizzarra: col chiodo sotto invece che sopra. Non la stupì più di tanto, la Tana era piena di magia.
 
La ragazza si sistemò la solita ciocca, portandola dietro l’orecchio, e continuò a guardare la donna totalmente presa dal suo lavoro.
“Sì, vedo che stai pulendo ma di solito non…”
 “Sai, è buona abitudine ripulire i camini. - Molly non le diede tempo di finire - Li utilizziamo così spesso per spostarci da un posto all’altro, non possiamo tenerli sudici, non è igienico. Devono essere sempre idonei al servizio!”
“Sì, ma la magia potrebbe aiutarti come sem…”
“Ed è un lavoro faticoso, poi a Ron non piace farlo! Proprio no, lui non è portato per queste cose!” – non dava segno di volersi fermare.
E, pensò Hermione, forse era una scusa come un’altra per non pensare.
 
La signora Weasley stava per rituffarsi nel camino impolverato quando la ragazza le afferrò rapida un braccio, costringendola alla resa.
 
“Molly, ti prego fermati! – la tenne ferma per le spalle. E la costrinse a guardarla – Qualcosa non va?”
“No, io stavo solo pul…”
 
Stavolta fu Hermione ad interromperla nella sua parlantina super scattante.
“Che cosa ha combinato stavolta Ginevra?”
 
 
La signora Weasley si sciolse come neve ai tropici al solo sentire il nome della figlia.
 
Ginevra era arrivata alla Tana qualche settimana prima, nell’incredulità di tutti i suoi abitanti.
Appena Hermione aveva un pomeriggio libero, correva a farle visita per vedere come stesse. Sapeva che cure ed attenzioni non le mancavano, ma aveva paura del difficile e burrascoso rapporto che si era creato tra lei e Ronald.
Ginevra non dava cenno di voler andare incontro al fratello, aveva la testa dura. E lui era fatto della stessa identica pasta.
Ron era il solo che incontrava l’aperta ostilità della nuova arrivata.
 
 
 
Per i primi tempi era stato abbastanza semplice parlarle, per tutti quelli che non fossero Ron: Ginevra era ancora debilitata per il profondo e ampio taglio che le segnava il fianco, ma rispondeva ad ogni domanda per quanto difficile e dolorosa.
Sua madre, la signora Weasley, era sempre stata un’abilissima guaritrice; aveva appreso quest’antica arte dalla sua famiglia anni addietro e, con incantesimi studiati appositamente da Hermione e con le conoscenze in tema di ferite da magia di Fleur, riuscirono a chiudere definitivamente il taglio a forma di squarcio di tenda.
Ne rimase solo una superficiale cicatrice che solcava il bianco fianco.
Era stato molto doloroso per Ginevra, e non solo per il fisico. Anche il suo orgoglio di lupo solitario ne aveva risentito: per una volta, forse per la prima volta, dovette ammettere di dipendere letteralmente dalle cure di altre persone.
Eppure, proprio in quei momenti, lei si era aperta.
Aveva potuto parlare liberamente, chiarire ogni dubbio, ritrovare se stessa in quelle persone che la circondarono attente e premurose: poteva riavere così il suo corpo intero e la sua anima originale, proprio come l’aveva lasciata in quella casa. Quelle mura brulicavano della sua vita passata e di quello che Ginevra era stata.
Molly scoprì di avere ancora sua figlia, era lei, anche se chiusa in un corpo diverso.
 
L’anima era la sua.
I pensieri, i gesti e quegli occhi vispi.
 
Ginevra era troppo stanca di dire bugie e confessò di sapere tutto su come questo fosse successo: quella pelle era appartenuta ad una dipendente pubblica dello Stato dove adesso viveva e che, prima di morire per un incidente stradale mai perfettamente chiarito dalla polizia, lavorava in una grande biblioteca nel centro della capitale irlandese.
Ginevra raccontò anche come aveva avuto il privilegio di non morire sette anni addietro: Colui-che-non-deve-essere-nominato l’aveva salvata, condannandola ad essere maledetta per sempre.
 
Era così diventata una Mangiamorte, una dei suoi.
E non una qualsiasi: era la più potente e lo aveva dimostrato. Aveva ucciso Bellatrix Lestrange, la seguace prima, in ordine di tempo, del Signore Oscuro.
Lui non l’aveva punita per questo, anzi la ringraziò a modo suo perché Bellatrix stava diventando scomoda e sempre più invasata.
Ginevra, invece no. Lei una dei due innesti puri di cui la profezia parlava. Il Signore Oscuro aveva bisogno di lei e lei lo sapeva.
A lui doveva la vita, in cambio di incontrastata obbedienza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fleur, addetta alla ricucita della carne con filo elfico, aveva a volte movimenti bruschi ma sapeva bene quel che faceva. Il suo cucire, l’impugnatura dell’ago, la tempistica del riprendere: niente di tutto questo era casuale. Lavorava come infermiera specializzata al San Mungo, fin da appena diplomata.
Nonostante la sua professionalità, era comprensibilmente impaurita da quella ragazza che sua suocera e la sua amica Hermione si ostinavano a chiamare Ginevra.
Fleur non sapeva se potesse essere vero; non sapeva se la Magia Nera, per quanto portentosa, potesse addirittura congelare la morte e permettere la vita dell’anima in un altro corpo.
Era assurdo, impiegabile, fuori da tutto quello che aveva studiato sui libri o appreso sul campo.
E ora lei doveva scegliere.
Doveva scegliere se credere a quella pazzia, come facevano Molly ed Hermione o se rifiutarla categoricamente, come sembrava fare Ron che, dopo un primo tentativo di comprensione, ci aveva rinunciato del tutto.
E lei, contro ogni avvertimento del ragazzo di cui era innamorata, decise di crederci.
Di crederci e basta, senza troppe domande e lo fece in un momento ben preciso.
 
Decise di credere che quella strana ragazza dai capelli corti e scuri fosse Ginevra quando vide come Victorie la guardava, come Vicky iniziava ad affezionarsi, anche senza rendersene davvero conto.
Era per affetto. Amore innato. E quello non nasce: c’è o non c’è, non puoi costruirlo con le menzogne.
Quindi se c’era, si disse Fleur, quella ragazza era davvero Ginevra.
Fine della storia. E di ogni incertezza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Con Hermione lì davanti, Molly ripensò a quei giorni e a tutti i piccoli momenti che aveva passato con sua figlia, dopo così tanti anni.
E tornò alla realtà, tornò ad Hermione che la fissava e le chiedeva se andava tutto bene.
 
“Ginny sta…sta bene…davvero.”
“E allora cosa c’è che non va, Molly? – Hermione era realmente affezionata a quella donna di mezz’età che avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutarla – Le sue mani hanno ripreso a tremare?”
 
Molly sapeva anche questo, glielo aveva rivelato Hermione.
E Ginevra era andata su tutte le furie: avrebbe voluto risparmiare a sua madre quel dolore. E a lei stessa quell’ulteriore umiliazione.
Le mani di Ginevra erano un segno: il segno del richiamo, della convocazione del suo Signore, di una sua richiesta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Molly socchiuse gli occhi per fermare qualcosa che faceva male. Forse troppo.
“No, no, le sue mani stanno bene. Per il momento…”
“Molly, siediti. – Hermione l’accompagnò alla prima sedia del soggiorno. Un dubbio le germogliò dentro – Non dirmi che le hai procurato dell’assenzio? Ginevra non ne ha bisogno, ok? Hai capito, Molly?”
“Lo so, Hermione, ti giuro che non ha fatto niente di male. Io sono solo…solo preoccupata...”
“Per cosa?” – incalzò la giovane.
“Per…per i miei figli…”
La donna sospirò come se qualcuno avesse trasfigurato un macigno al posto del suo cuore.
Le faceva male ammetterlo, le faceva male avere quella paura.
 
“Posso aiutarti in qualche modo? – Hermione le prese le mani - Lo sai, non devi che chiedere.”
 
“Sei una così cara ragazza, Hermione. Lo so, ma…tu non…tu non puoi farci niente… - Molly iniziò a singhiozzare, ma cercava di nasconderlo tirando su col naso - …loro due si odiano…Ron e Ginevra e…e temo…temo che non si perdoneranno mai.”
“Non dire così, vedrai che col tempo le cose si sistemeranno. Hanno solo bisogno di tempo.”
 
La donna alzò gli occhi: una angoscia nuova li riempì, senza darle il tempo di celare tutto ancora.
 
“Stamattina presto è….è arrivato un gufo da Hogwarts, l’ennesimo. Al San Mungo, Piton è ancora sospeso tra la vita e la morte, Minerva non mi sembra per niente tranquilla. Dice che…che dobbiamo stare all’erta perché Vold… - le tremò la voce, aveva ancora difficoltà a pronunciare quel nome, quel nome nefasto - …Lui…col tempo potrebbe…lui potrebbe costringerla a… - Molly capì che Hermione non la stava capendo – …Tusaichi potrebbe sterminarci, tutti e Ginevra…lei dovrebbe…”
 
Poi Hermione comprese la paura di Molly, la paura più terribile di una madre per i suoi figli.
 
 
 
“Lei non lo farà. – Hermione strinse più forte le mani della donna – Lo so per certo. Ginevra non tornerà da Voldemort e non farebbe mai del male a suo fratello. Mai! Devi credermi Molly, io lo so. E lo sai anche tu. So che, in fondo al tuo cuore, lo sai anche tu che questa è solo una paura insensata.”
 
Il dolore della signora Weasley esplose e lei si scostò, lasciando Hermione alle sue spalle.
 
 
 
Piangeva, piangeva e lasciò che ogni sua preoccupazione sulla figlia sfociasse come un tuono in un temporale preannunciato.
 
“Ron non…non dovrebbe rifiutarla così e lei…lei… - non riusciva a proseguire, ma sapeva che Hermione poteva capire - …lei ha tutta quella forza disumana che…”
“Molly calmati! Ginevra sa controllarsi!” – la ragazza cercò di rassicurarla.
 
“E quando le sue mani tremeranno ancora?? – Molly alzò la voce. Era disperata. – Quando non potremo fermarla? Quando avrà quello sguardo…io…io non voglio perderla…”
“Non la perderai.”
“E non voglio perdere Ron…”
 
Hermione la abbracciò d’impeto e lasciò che si sfogasse.
Molly era sempre stata forte per tutti: per il suo unico figlio sopravvissuto, per sua nuora, per sua nipote, per quello che le chiedeva il Ministero, per tutti. Per tutti quelli che gravitavano intorno a lei e che in lei vedevano la loro guida, la loro ancora.
Ora però aveva paura.
Paura di perdere tutto in un colpo solo.
In un colpo che poteva sgorgare dalle mani di sua figlia.
 
 
 
 
“Che altro dicono da Hogwarts? – Hermione si sciolse dolcemente da lei e le prese un bicchiere d’acqua; poi si rimise la giacca di lana cotta – C’è qualche altra novità?”
 
“Dicono che ci faranno sapere… - quell’abbraccio sembrava avesse placato, almeno in parte, l’agitazione di Molly. Era un po’ più calma e un po’ meno sconvolta, ma non libera dalla preoccupazione - …e che siamo fortunati ad averti. – la donna guardò la ragazza e si soffiò il naso – Non ti ho mai ringraziata a dovere, Hermione, per quello che fai per noi…per quello che hai fatto per me, riportandomi Ginny.”
 
“Non devi ringraziarmi, siete la mia famiglia. E vi voglio bene. Farei qualunque cosa. – il cuore di Hermione batté più forte, le suggeriva di dire ancora, di parlare più apertamente. Era giunto il momento – Molly, io…io forse dovrei…dovrei dirti una cosa…”
 
Hermione divenne purpurea e la voce le tremò appena.
Pensò che forse era meglio dire tutta la verità a Molly e adesso: tutta la verità su lei e Ginevra, tutta la verità su quello che stava loro succedendo e sul perché lei tenesse tanto a quella ragazza ritrovata. Stava mettendo tutta se stessa in quella missione. E non solo perché il Ministero gliel’aveva ordinato.
Sua madre aveva il diritto di saperlo.
Era faticoso ed ebbe paura, ma capiva che era la cosa giusta da fare.
 
“Tieni. – Molly si alzò, a sua volta, e porse ad Hermione una sciarpa rossiccia – Fa molto freddo fuori, mettila.”
“Molly io…”
“Non devi dirmi niente. – per la prima volta da quando era entrata alla Tana, Hermione vide un barlume di sorriso sul viso della signora Weasley – So cosa vuoi dirmi e non hai bisogno della mia benedizione, tu sei un dono prezioso, Hermione. Ed io sarei la madre più felice del mondo se mia figlia potesse averti al suo fianco. Perciò vai avanti e non sentirti mai a disagio per quello che provi, né con me né con Ron.”
 
“Lo sa anche Ron?” - Hermione spalancò gli occhi.
 
La donna divenne rossiccia a sua volta.
“Beh, a dire il vero, lo sa tutto il Ministero della Magia! Eri pedinata e seguita a vista…”
Molly sorrise più liberamente, ma Hermione si vergognò e parecchio.
 
 Pedinata…allora Draco aveva ragione: ormai tutti sapevano della loro storia.
Bene, si disse la ragazza, almeno non dovrò raccontarlo ogni volta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
A parecchi passi di distanza dalla Tana, proseguendo verso est, c’era una piccola radura nascosta da una leggera boscaglia.
Molti pensavano che fosse incantata e, a vederla, lo sembrava davvero.
E non perché fosse vicino ad un’abitazione di maghi, né perché vi erano fate, elfi o altre creature portentose.
Semplicemente perché aveva un fascino tutto suo. E lo aveva sempre avuto.
 
Ginevra pensò che somigliasse molto all’Irlanda, alla sua Irlanda, a quella terra che aveva imparato ad amare in silenzio, senza far rumore. Così come aveva scoperto di amare Hermione.
 
“Che cosa vera…” – si disse, pensadosi sola.
 
Era seduta a terra con la schiena poggiata ad un grande tronco di quercia e osservava la valle che le si dipanava davanti.
 
Verde.
Verde ed incolto.
Verde brado, libero.
Verde la collina, come un mantello grandissimo su cui si può correre scalzi.
Verde lo stelo del piccolo fiore che aveva accanto.
Verde.
Verde, come sempre quel posto era stato.
Un amalgama selvatico.
Il fiume, eterno e taciturno, incastonato tra la valle.
I pendii scoscesi e difficili da percorrere, il tempo così mutevole, regolato dalle stagioni.
Tutto era movimento, eppure tutto era fermo, disegnato dalla volontà della natura.
Esattamente come lei.
 
 
 
 
 
Ginevra si sorprese a riflettere sul paragone tra Hermione e l’Irlanda.
Su quel corpo da fata e sulla terra delle fate, la brughiera.
E si disse che sì, le due cose avevano per lei lo stesso fascino puro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ormai stava benone, la ferita al fianco rimarginava lenta e continua.
Sapeva che avrebbe lasciato il posto ad una cicatrice, forse anche estesa. Fleur era stata chiara.
La cicatrice del rifiuto.
Il rifiuto di tornare da Lui.
Avrebbe potuto davvero allontanarsi dal suo Signore per sempre? Si poteva?
Non c’era notizia di qualcuno che fosse riuscito in tale impresa, se non da morto.
Ginevra non lo sapeva e si fece una domanda.
Una domanda semplicissima ma devastante.
Si chiese se, davvero, avrebbe mai potuto riavere quella semplicità e legarla così finalmente alla purezza incantata di Hermione, senza più mentirle.
Era un modo come un altro per chiedersi se la meritava, se poteva ambire a lei, da pari a pari, quando tutto il male sarebbe cessato e se lei fosse sopravvissuta.
 
 
 
 
 
 
“Ciao…” – una voce risuonò dalle fronde basse dell’enorme quercia su cui poggiava la schiena.
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra scattò in piedi con la velocità che ha un proiettile per colpire.
Si voltò e allungò il braccio.
 
Era la sua bacchetta corporea, la sua difesa, la sua mortale torre d’avorio. Tutto ciò che aveva contro il mondo.
Per un attimo ebbe paura che Lui l’avesse sentita pensare, che Lui l’avesse scovata e fosse già arrivato, per rimetterla sulla via che gli aveva tracciato e che lei doveva seguire: sterminare i suoi oppositori.
Ucciderli nel più brutale dei modi.
Obbedire. Obbedire a Lui.
O morire.
Morire e, stavolta, per sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La vocina proseguì e svelò una ragazzina bionda che, per volere o fortuna, passava lì in quello stesso prato gran parte del tempo lontano da casa.
 
 
 
 
“Perché stai tenendo il braccio teso? – Victorie, senza mostrare la minima paura, continuò a camminare e raggiunse Ginevra, incurante del monito – Non sono pronta per duellare. A scuola ancora non ce l’hanno ancora insegnano. Quindi sono ufficialmente disarmata!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra abbassò il braccio e sospirò, buttando via la stupida paura che l’aveva oppressa un attimo prima.
 
“Non ve l’insegnano ancora? E cosa stanno aspettando?”
“Non lo so. – rispose la piccola Victorie – Dovevamo iniziare questo semestre ma la scuola è stata chiusa, perciò niente!”
 
Senza aspettare inviti a mettersi comoda, Victorie guardò dalla pianta alla cima il grande albero e, col sorriso stampato in viso, si sedette alle sue nodose radici.
Il suo sguardo da bambina vagò sulla vallata, come prima stava facendo quello adulto di Ginevra.
 
 
“Peccato. –  Ginevra si risedette a sua volta, accanto alla ragazzina – Sai credo…sì, credo che ne avrai bisogno.”
 
“Insegnami tu!” – gli occhi di Victorie erano accesi e peperini. Di un azzurro chiarissimo.
 
 
 
 
 
 
“Io?!” – l’espressione di Ginevra era, invece, meravigliata dalla semplicità di quelle veloci parole.
 
 
“Sì, tu! So che sei molto brava!” – il suo entusiasmo era disarmante.
“Mm. E tu come lo sai?”
 
 
“Nonna mi ha raccontato che, quando frequentavi la scuola, eri una delle migliori!”
 
“Lei ti ha detto così?!” – Ginevra pareva incredula, ma la bocca le inciampò in un sorriso involontario.
 
 
 
“Sì, mi ha parlato moltissimo di te! – la sua espressione si fece più compiaciuta - Scommettiamo che so tante cose?”
 
 
 
“Sentiamo.” – stavolta Ginevra rise apertamente; quella bambina era incredibile, le apriva qualcosa dentro.
Una caverna che non credeva di possedere in petto.
Uno spazio che forse poteva chiamare cuore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La bambina cominciò la serietà e la concentrazione che si addicono ad un’interrogazione.
Aveva una scommessa da vincere e non voleva fare brutta figura davanti a quella sfida.
 
“Allora, so che ti piaceva molto Cure delle Creature Magiche, perché zio Charlie ti mostrava sempre i suoi draghi e tu lo aiutavi a medicarli. Eravate molto accurati! Alle prime armi, certo, ma volenterosi e attenti. Poi, so che odiavi Pozioni, la trovavi una materia stupida. – Victorie era energica e sempre sorridente, Ginevra si chiese come facesse. Come facesse ad avere tutto quell’entusiasmo nel parlare di lei – Non ti piacevano proprio i calderoni e i miscugli puzzolenti, no. Tu volevi combattere! Preferivi le cose concrete! Facevi esplodere tutto ciò che ti andava, eri imbattibile in queste cose! E amavi volare. Giocavi a Quidditch come cacciatore ed eri una forza! E poi, sapevi com’è fatto il tuo Patronus!”
 
“Perché, c’è chi non lo sa?” – le chiese saccente Ginevra.
 
 
“Certo, la maggior parte dei maghi e delle streghe non riesce ad evocarlo se non dopo anni e anni di studio. Il tuo è un cav…”
 
“Io non ho un Patronus.” – la interruppe brusca Ginevra.
 
 
 
 
 
 
Victorie si scurì un po’, ma non allentò la presa.
Era come se sapesse di avere un certo ascendente su Ginevra. Ne era consapevole e voleva che lei lo ammettesse, apprezzandola.
Perciò continuò.
“Io credo che tu lo abbia ancora. – poi aggiunse piano – Anche se zio Ron dice di no.”
 
“Cosa dice zio Ron?” - Ginevra la guardò seria e alquanto disturbata dalla presenza del fratello nella loro conversazione.
 
 
 
“Dice che non puoi più evocare il tuo Patronus a forma di cavallo… - Ginevra la rimproverò con lo sguardo tanto che, senza volerlo, lei abbassò la voce di una ottava - …sì, insomma…che non…che non puoi evocare più il tuo Patronus perché non hai più ricordi felici…”
 
“Ah sì? È questo che dice mio fratello?”
Le sopracciglia di Ginevra erano tese, come anche il suo carattere e i suoi nervi.
 
 
“Sì, dice così…” – anche Victorie sembrava essere cambiata. Era diventata triste in un attimo e, improvvisamente, poco ciarliera.
A Ginevra fece male vederla così: quella ragazzina non c’entrava niente con i battibecchi tra lei e suo fratello. Non era giusto che soffrisse.
Non era giusto che loro la facessero soffrire così per una colpa non sua.
 
 
 
“Mente.” – disse secca Ginevra, sistemandosi i corti capelli scuri.
 
 
 
“Come?”
 
 
“Tuo zio Ron mente.”
 
“Davvero??” - gli occhi di Victorie si risvegliarono, così come il suo entusiasmo.
 
“Certo! Ron è sempre stato un po’ invidioso della mia superiorità in fatto di incantesimi. Forse avrà detto così per farti credere che lui sia più abile di me.”
 
“Allora… - riflettè la ragazzina - …allora tu non sei una persona triste! Tu hai ricordi felici, non è vero?”
 
Ginevra fu quasi commossa da quella domanda.
Perché capì che a Victorie non importava niente del suo Patronus a forma di cavallo.
Ciò che la feriva era sapere che sua zia non avesse ricordi felici, che potesse essere una persona triste e condannata a guardarsi indietro e a non vedere nulla per cui valesse la pena di sorridere.
Che potesse essere infelice, insomma.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra si alzò in piedi scattante, Victoria la seguì con lo sguardo rimanendo seduta.
“Guarda. – poi poggiò delicata l’indice sulle labbra della bambina – In silenzio però. Mi devo concentrare.”
Victorie non rispose nemmeno, tanto era attenta e desiderosa di vedere.
 
 
Ginevra unì le mani, come si fa per pregare, e chiuse gli occhi.
Un attimo dopo li riaprì. Sembravano di un blu più scuro del solito; le sue mani si allontanarono leggermente l’una dall’altra, come se stessero avvolgendo una piccola sfera. Ma, al posto di una forma tonda, tra di esse si formò una nebbiolina sottile.
Pian piano, il vapore divenne chiaro, bianco e poi argenteo.
Divenuto un lucente riflesso d’argento, Ginevra allargò le braccia e dolcemente sospinse il vapore, come per accompagnarlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
C’era una stanzetta, una stanzetta che Ginevra e Victorie conoscevano bene: era la camera che Charlie aveva alla Tana tanti anni addietro, ma che ben presto divenne una cameretta diversa, il posto per ogni necessità.
In fondo, lui non ne aveva bisogno dato che era sempre in viaggio dietro ai suoi amati draghi.
Vi regnava un’atmosfera calda ed una luce soffusa.
Dalla finestra entravano alcuni raggi di sole che si poggiavano morbidi su una culla color verde pastello e con lenzuolino abbinato, posizionata al centro della stanza.
Una ragazzina, di tredici anni o poco più, socchiuse la porta e, dopo essersi assicurata che nessuno l’avesse vista, entrò furtiva.
Muoveva passi leggeri e lenti, per non far rumore.
Nessuno doveva sapere che fosse lì o, più probabilmente, aveva avuto ordine di non metterci piede per almeno un paio d’ore.
Ma la ragazzina dai lunghi capelli rossi non poteva resistere, doveva entrarci assolutamente e da sola!
Finalmente, giunse accanto alla culla e sbirciò dentro: una creaturina biondissima vi era adagiata e riposava tranquilla, come un angelo arricciando nel sonno il naso non più grande di una bilia.
“Vicky… - sussurrò pianissimo la ragazzina, poggiando le mani alla culla - …Vicky, sono io, la tua zietta!”
La piccola creatura rumoreggiò muovendo le corte braccine, ma non si svegliò. Si girò dall’altro lato e riprese a dormire beata.
“E va bene! - continuò tra i bisbigli la ragazzina – Va bene, riposa! Ma appena ti svegli mettiti a piangere, così ti veniamo a prendere e ci divertiremo un mondo! Abbiamo tante cose da fare insieme! Fred e George ti hanno già preparato dei piccoli marchingegni a marchio Weasley, vedrai che spasso!”
Dei passi risuonarono pesanti dal corridoio fuori la stanza; arrivava qualcuno.
La ragazzina mancò un battito di cuore.
“Ora devo andare. Mi raccomando!” - e si chinò sulla neonata biondina, posandole sulla piccola fronte un dolcissimo bacio.
E poi sgattaiolò via, felice.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Finis memoriae!” – urlò la Ginevra adulta e la scena evaporò, come fosse schiuma di mare agitata di colpo dal vento.
Victorie era ancora assorta, non riusciva a crederci, sembrava un sogno.
Aveva appena visto…aveva appena visto se stessa, da poco più che neonata! E si sorprese nello scoprirsi davvero beata in quella copertina verde.
E poi c’era Ginevra, una Ginevra di tanti anni prima ma con i capelli rossi, le lentiggini e la pelle diafana. Com’era cambiata, pensò.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Allora? – Ginevra interruppe tutti i pensieri della ragazzina e le parlò sorridendo a quello sguardo stupito – Credi ancora che tuo zio Ron abbia ragione?”
 
“Eh…no! Decisamente no. Hai vinto tutte le scommesse possibili, zia!”
 
 
 
 
 
 
 
Dal sentiero una figura stretta in un cappotto di lana cotta scura si avvicinava, incurante dell’incanto che si era appena creato in quel posto.
Hermione le salutò da lontano mentre continuava a camminare verso di loro, con l’aria che le agitava i capelli.
 
Ginevra si risollevò da quella visione.
Non dal suo ricordo, ma da quel sogno che aveva di fronte e che stava per sopraggiungere.
 
 
Si ridestò giusto un attimo prima.
“Ascolta Victorie, non voglio che mi chiami zia. Intese?”
 
“Perché?” – la bambina fu così abbattuta da quella richiesta che la mano con cui sventolava un saluto ad Hermione le cadde di fianco, senza più entusiasmo.
 
 
 
“Perché non è giusto illuderti. – Victorie stava per dire qualcosa, ma Ginevra la fermò – Non so cosa succederà da adesso in poi e non so se potrò mai essere davvero una zia per te.”
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ehi ragazze!” – Hermione le arrivò e posò, delicata, una mano sulla schiena di Ginevra.
Fu un gesto semplice, ma intimo e caloroso. A Victorie non sfuggì.
 
“Ciao. – le rispose Ginevra a sua volta – Come mai anche tu qui? Non si può proprio stare tranquille, eh!”
 
“Molly rivendica la nostra presenza! E anche tua madre, signorina.” – fece rivolta con cipiglio serioso a Victorie.
 
Ma a Vicky non importava più di tanto, non adesso almeno.
“Zi… - si fermò e ricominciò in modo platealmente costruito – Ehm, volevo dire…Ginevra mi ha mostrato un suo ricordo felice, con me appena nata e lei poco più che poppante! Zio Ron si sbaglia riguardo lei. È…sì, è stato proprio bellissimo!”
 
 
 
Ginevra corrugò la fronte, con finta irritazione.
“Non ero poco più che poppante!”
 
 
 
 
Hermione si voltò a guardarla.
Faceva sempre un certo effetto averla vicina; quella ragazza sapeva essere dolce a modo suo, tenera a modo suo.
Hermione poteva sentirne l’odore muschiato, poteva desiderarne il calore, ma si impose di essere seria e di non cedere alla tentazione di stringerla lì.
“Cosa le hai mostrato, Ginevra?”
 
 
 
 
“Un ricordo! – rispose pronta Victorie – Un ricordo felice! Perché non mi fai vedere papà adesso? Ti prego, un attimo solo…”
 
 
 
 
 
 
Hermione temette il peggio, sapeva com’era facile rovesciare l’umore di Ginevra: aveva ancora dentro di lei la facile spinta al rifiuto e alla rabbia verso tutto ciò che la infastidiva. Bastava una miccia. Il resto sarebbe venuto dalle sue mani.
E forse, questa condanna, l’avrebbe sempre avuta. Ma stavolta Hermione si sbagliò.
L’espressione di Ginevra era più comprensibile e sembrava soffrisse, senza volerlo dare a vedere.
 
“Vicky io… - disse lenta alla ragazzina - …non voglio. Non voglio farti vedere nessun ricordo che riguardi tuo padre.”
 
“Ma perché? – scoppiò di rimando Victorie – Perché devi essere così? Io non capisco…sembravi così gentile fino a un attimo fa! Perché ora fai così?! Cosa ti ho detto?”
 
“Perché non voglio. Fine della storia.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hermione prese la mano di Ginevra e la strinse, senza preavviso, spontanea come i fiori di quella valle: come diretta conseguenza lei alzò gli occhi a guardarla.
Fu come se il vento si fosse improvvisamente fermato e la sua natura ora la guidasse lei.
“Diglielo. Non vuoi farlo ok, ma devi essere chiara con chi ti sta intorno. Altrimenti come potremo capirti? Provaci.”
 
Per un momento Ginevra non seppe cosa fare.
Se restare a guardarla parlare, a guardarla muovere le labbra, quelle labbra, a guardarla esistere o…
Si voltò alla nipote, perché in cuor suo la considerava tale, e un pizzicore le prese gli occhi; sembravano tristezza rinviata.
“Vedi io non posso mostrarti il tuo papà…”
 
 
“Non hai ricordi di lui?” – fu la prima domanda della ragazzina. La rabbia stava sfumando già al sentire “posso” invece che “voglio”.
“No, no. Anzi ad essere sincera…ora che ci penso…ho un solo ricordo di lui, gli altri li ho usati tutti.”
 
“Usati?”
“Sì, usati.”
“E che significa?”
Per fortuna che Victorie la aiutava a tirar fuori le parole, altrimenti Ginevra era sicura di non poterlo mai fare da sola.
 
 
“Io non ho il potere di evocare i ricordi. Non stabilmente almeno.”
 
“Ma nonna dice che sei molto forte!”
“Nonna Molly dice così?” – la voce di Ginevra parve un attimo più accentuata.
 
Victorie si guardò intorno, come a sincerarsi che non ci fosse nessuno oltre loro tre.
“Lo dice a mamma e papà, non a me. Ma io li sento, anche se loro non lo sanno…”
 
 
 
Scoppiarono in una risata fragorosa tutte e tre e Ginevra strinse di più quella mano che le dava fiducia e calore, calore infinito. E voglia di provare, di provarci davvero.
Così non ebbe paura di continuare.
“Quando tiro fuori da me un ricordo, posso guardarlo per un momento. Come abbiamo fatto prima insieme, ma poi non ce l’ho più. Lo perdo. Lo perdo per sempre e dentro di me non ne rimane traccia. Non potrò più evocarlo ancora, né ricordarlo. Per questo non lo faccio quasi mai, altrimenti rischio di perdere tutto ciò che ho di più bello per la felicità di un momento. Capisci adesso cosa voglio dire?”
 
Victorie si caricò la tracolla e rimuginò sulla spiegazione.
“Sì…sì capisco. – una luce le si accese in viso – Allora però, perché prima mi hai mostrato noi due tanti anni fa? Ora non lo ricorderai più.”
“Sì ma tu sei qui. Non ho più bisogno di ricordarti. E potremo vivere questi momenti ogni volta che vorrai, adesso. Quindi…beh…consideralo un regalo!”
 
Victorie saltellò sulla zia, le baciò una guancia e corse via senza altra domanda.
Fili biondi balzavano dietro di lei durante la sua corsa.
Correva sul sentiero di casa, salutando Hermione e Ginevra con la mano. Correva e correva, sicuramente la nonna la stava già aspettando con qualcosa di appetitoso e pronto.
Correva pensando che davvero suo zio Ron si era sbagliato e di grosso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ho fatto bene?”
“A far cosa?”
“Ad aprirmi. Con Victorie, intendo.”
Erano sedute.
Davanti a loro si stendeva il verde di quei campi. Anche Gennaio può avere le sue belle giornate.
“Sei un coacervo selvatico.”
“Cosa?! E cosa significa?” – Ginevra si voltò leggermente, ridendo.
Hermione la abbracciava da dietro, forte. Stretta per difenderla dal freddo fuori e dentro di lei.
“Sei un miscuglio di sensazioni, di gesti. Ronald ne è la prova.”
“Che c’entra Ron adesso? Possibile che me lo ritrovo sempre in mezzo.”
“Con lui sei l’esatto opposto di te stessa. Tuo fratello ha bisogno di te.”
“Non credo.”
“Ha bisogno di te, per Victorie. Tu potresti aiutarlo più di quanto pensi.”
 
Stanca di sentirla blaterare al vento, Ginevra si voltò. Aveva gli occhi luminosi: specchiavano nel bagliore di quella tarda mattinata nel verde sperduto. E fissavano la musa che avevano di fronte.
Spinse Hermione, costringendola a stendersi sulla copertina su cui prima erano sedute.
La ragazza provò a resistere, ma servì a poco: Ginevra la sovrastava.
“E tu? – le chiese la ragazza dagli occhi blu – Tu hai bisogno di me?”
“Vedi di fare poco la prepotente oppure…” - Hermione sorrise scaltra, con quel movimento di sopracciglia che la contraddistingueva e che mandava Ginevra alla pazzia.
“Oppure?”
“Oppure ce ne andremo a notte fonda da qui.”
Il sapore del vento.
L’odore dei rami.
Il tocco del cielo.
Le labbra di Hermione erano tutto questo e molto, molto di più.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Amore poteva ***


Il Wiltshire, nell’Inghilterra del sud, distava più di settanta miglia da Londra e così Harry decise di utilizzare la magia. Non poteva aspettare autobus, treni o aerei; non c’era tempo, non aveva tempo. Non poteva lasciare che ore preziose passassero così inutilmente, ne andava del suo lavoro, ne andava di tutto quello che aveva fatto fino a quel momento.
Aveva bisogno di aiuto e l’unico che potesse aiutarlo era a settanta miglia da lui, sicuramente disteso beato sul divano ad angolo della sua maestosa tenuta.
Villa Malfoy, pensò Harry, aveva senza dubbio tutti i confort di cui un piccolo lord inglese ha bisogno.
 
 
“Afferra il mio braccio.”
“Ce la fai per tutti e due?” – gli chiese il suo accompagnatore.
“Ce la farò.” – disse risoluto Harry e, in men che non si dica, vorticarono perdendosi nell’aria della sua stanza londinese.
 
 
Pochi istanti dopo si ritrovarono in un ampio giardino predisposto a labirinto.
Harry lo ricordava bene e aveva sempre pensato che il proprietario di quella ricca tenuta, Lucius Malfoy, avesse qualche perversione nascosta; non riusciva altrimenti a spiegarsi l’avido fascino per il mistero, per l’oscuro, per le tenebre che il Mangiamorte aveva fin da quando era appena un ragazzino. E quel labirinto ne era la prova: una volta entrati, se ne usciva solo cambiati.
Si poteva trovare la via d’uscita solo ad un prezzo stabilito, ad un prezzo altissimo, il cambiamento. Inteso in senso lato, l’importante è che ci fosse una mutazione. D’umore, d’opinione, di forma. Una modifica.
Il cambiamento di una certezza che si aveva fino a un momento prima di metter piede in quel verde vortice.
 
Harry ignorò volutamente l’attrazione per il labirinto e puntò verso la dimora di granito affilato.
“Bene, siamo arrivati. Vedrai che Draco ci aiuterà.”
 
Un uomo trentacinquenne gli stava al fianco e lo aveva accompagnato silenziosamente, materializzandosi con lui tenendogli il braccio. Il viaggio era stato breve e lui non aveva proferito parola, non aveva sentito il bisogno di dir niente da minuti che parevano interminabili.
Harry lo scrutò appena, senza farglielo percepire, come a volersi capacitare che fosse davvero lui e per vederne la fisionomia distinta. Esattamente come la ricordava.
L’uomo possedeva dei lineamenti marcati, molto marcati, occhi chiari e tagli profondi, ma ormai cicatrizzati, che gli attraversavano il viso come scorci.
Le linee rossastre erano tre, tutte sulla parte sinistra del volto: una sugli occhi e due sulla guancia fino al mento; sull’altro lato c’era solo qualche abrasione, niente di troppo vistoso o profondo. Ma, per la parte est, era davvero raccapricciante.
Harry non riusciva a guardarlo e a non chiedersi quanto male potessero fare quei tagli chiusi ma ancora vividi.
L’uomo forse intuì i suoi pensieri e li fermò con una domanda.
“Sei sicuro che Draco Malfoy potrà aiutarci?”
Harry si ridestò e annuì, senza proferire parola.
 
 
 
 
 
Fianco a fianco, superarono il giardino e raggiunsero il portone illuminato su cui regnava vistosa un’insegna di serpente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Bene e Male non erano mai stati concetti tanto intrecciati come in quegli scombussolati anni di battaglia.
Era come avere un unico ed immenso tavolo addobbato delle più prelibate pietanze, e dovervi prendere posto. Niente di impossibile insomma; eppure, non è così semplice come a primo impatto potrebbe sembrare.
Il tavolo del Bene e del Male è rotondo.
Per combattere bisogna sedersi e sperare di essere capitati tra chi è della stessa idea, tra chi è della stessa fazione, altrimenti il banchetto si pagherà caro. Ci si può solo fidare di chi è intorno, di chi è comodamente adagiato sulla sedia di destra e su quella di sinistra.
Ci si può solo sedere, si possono solo chiudere un attimo gli occhi e sperare che, nel riaprirli, il commensale accanto sorrida di rimando, impeccabile nel suo vestito migliore.
Non c’è una linea di demarcazione netta, non si vede con gli occhi: il confine si potrebbe avvertire solo con i sensi, ma in pochissimi hanno ricevuto dal fato tale acuta sensibilità. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Negli ultimi anni, Lucius Malfoy aveva reso palese da che parte sedeva e quei piccoli segni, di cui la sua tenuta era piena, erano più eloquenti di tanti ridondanti discorsi.
Draco, nonostante disapprovasse le idee purosanguiste del padre e dell’intera famiglia, quando rimase solo nella sua grandissima casa non tolse quei simboli: erano per lui il ricordo del passato.
Un passato triste e difficile, fuori d’ogni dubbio, e non giustificabile.
Ma era pur sempre il suo passato.
Quello che era stato, quello per cui tanto aveva vissuto, quello per cui era stato addestrato anche se poi aveva cambiato sedia per passare con chi, prima, aveva tanto osteggiato.
Quei segni servivano a Draco da monito e, in fondo, versavano nei suoi solitari bicchieri di cognac qualche goccia di Nostalgia, l’ambrosia afrodisiaca di cui ogni uomo infelice è assuefatto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Harry poggiò la mano sul batacchio serpentesco ma, prima che potesse batterlo contro il portone, due mastini ringhianti gli corsero contro sguainando le zanne aguzze.
I due ospiti estrassero all’istante le bacchette,
 
 
 
 
 
“Cos’è tutto questo rumore? Cosa fate voi qui all’ingresso, cagnolini? A cuccia, forza!” – un elfo, alto molto meno dei cani sbucò dalla porticina che, Harry non lo aveva notato, si trovava accanto al portone principale.
 
 
 
“Dobby!” – Harry lo chiamò senza esitazioni.
L’elfo alzò gli occhioni, lo riconobbe all’istante e la sua bocca si aprì in uno sfavillante sorriso.
Non si vedevano spesso da quando lui abitava a Villa Malfoy, ma ogni volta che Harry veniva a fargli visita era come se il tempo non fosse mai veramente passato.
Erano sempre e ancora loro due, un ragazzino e un elfo libero, più piccoli di una decina d’anni, che combinavano disastri spettacolari a casa Dursley.
“Harry…Harry Potter!”
“Come stai Dobby?” – l’Auror sorrise alla creatura e gli tese la mano. Dobby la prese e la strinse forte, dimostrando in una stretta tutto il suo affetto.
“Harry Potter! – ripeté ancora l’elfo, sembrava incredulo e felicissimo – Harry Potter fa visita ai suoi amici!”
“Sì, sì Dobby sono venuto a trovarvi. Draco è in casa? Vorrei vederlo.”
“Certo, il Signorino è nel Salone delle Carte. Harry Potter segua Dobby, lui lo guiderà!”
“Spero che Draco ti tratti bene e non come accadeva con suo padre.” – disse Harry a mo’ di domanda schermata.
“Ah no, no! Il signorino Malfoy è molto diverso dal suo genitore. In questa grande casa Dobby ha spazi e stanze tutte per lui. Dobby è più che libero adesso, è quasi un re! – poi il piccolo elfo notò un’austera figura al fianco di Harry e si arrestò, come se i piedi gli pesassero di colpo tonnellate – Ehm…lui è…è un altro amico del mio amico?”
“Sì, Dobby. – rispose Harry, sorridendo più vistoso – Il signore è un carissimo amico sia mio che di Draco. Sono sicuro che lui sarà felicissimo di rivederlo!”
Dobby sospirò e i suoi piedi sembrarono tornare agili e scattanti.
Eppure il solo guardare quella figura alta lo spaventata terribilmente.
Lo paragonò nei suoi ricordi al suo vecchio padrone, Malfoy senior. Quante gliene aveva fatte passare, solo a pensarci poteva ridiventare triste.
Anche il nuovo arrivato indossava un vestito molto elegante, ma viola scuro. La camicia, a colletto leggermente alzato nelle punte, era bianca e impreziosita da una cravatta opaca. Un gilet nero e ricamato con cura gli rivestiva il petto. Nero come la pece.
Dobby provò un istintivo disagio, ma cercò in tutti i modi di non darlo a vedere mentre a passo spedito accompagnava i due ospiti nella Sala delle Carte.
Attraversarono un androne di ingresso freddo e imponente a pari livello del labirinto, salirono al primo piano passando per una scalinata in legno e balaustre e arrivarono davanti alla porta della sala preferita dal padrone di casa.
 
 
 
 
“Eccoci qui, il Signorino starà sicuramente leggendo. Entrate pure! – squittì Dobby, poi si ricordò di un dettaglio importante – Ah, Dobby dimenticava di dire una cosa! Dovrebbe esserci anche un’altra ospite col Signorino. Ma prego, entrate, non fatelo aspettare!”
 
Harry si irrigidì.
“C’è Hermione?”
 
“Oh no, no! Una nuova amica del mio amico! Harry Potter sa che Dobby è molto felice di vivere con Draco, ovviamente. Ma lui ha bisogno anche di un’amica con capelli lunghi, curve giuste e un bel viso. Dobby spera tanto che l’amico Draco trovi la felicità! A volte lui è così triste, anche se Dobby sa che il Signorino non vuole darlo a vedere.”
“Grazie Dobby, a dopo allora. – poi guardò il terzo personaggio che, naturalmente, non aveva pronunciato una parola neanche per sbaglio – Tu aspetta un attimo qui, Draco non sa niente. Vorrei dirglielo da solo prima.”
L’uomo annuì ed Harry si incamminò lento.
 
 
 
“Qualcosa non va Harry Potter? Perché Harry Potter non cammina bene? Dolori al fianco per Harry Potter?”
Harry si ricompose meglio che poteva. Non credeva di essere osservato.
“No, amico, va tutto bene. Ero sovrappensiero! A dopo.” – Harry sorrise a Dobby, si tenne il fianco ed entrò nella Stanza delle Carte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era davvero incredibile lo sfarzo di quella casa, lo notava stanza dopo stanza e lì, forse, toccava il punto più alto.
Tutto l’ambiente era scolpito nel marmo bianco, risalente ad almeno un paio di secoli prima. Sulla parete di destra vi erano mensole in pietra lavorata, con libri rilegati in pelle scura; al di sopra, svettavano dipinti di uomini a mezzobusto.
Erano quasi tutti biondi; Harry capì che quello doveva essere una specie di albero genealogico della famiglia: Abraxas Malfoy teneva lo sguardo duro ed impassibile, come a voler sminuire chiunque lo osservasse. Harry, in effetti, si sentì davvero fuori luogo nel guardarlo.
Suo figlio Lucius, nel ritratto a destra, aveva gli stessi occhi chiari e maledetti del padre. E lo stesso sdegno.
Il dipinto di Draco era l’ultimo e, accanto al suo, c’era già istallato uno spazio vuoto. Anche lui aveva qualcosa di malvagio in quella foto. Qualcosa che aveva perso nel tempo.
 
L’odio.
 
Proprio Draco raccontò ad Harry, qualche anno prima, lo strano sortilegio che un suo antenato doveva aver scagliato su quella parete. Ogni volta che veniva sistemato un quadro raffigurante un Malfoy immediatamente, al suo fianco, si creava un nuovo posto vuoto.
I Purosangue dimostravano anche così il loro amore per la stirpe.
 
 
 
 
 
 
 
Al centro della stanza, troneggiava un tavolo lungo e in legno massiccio. Harry lo aveva visto mille volte, ma faceva sempre un certo effetto rientrare tra quelle mura e trovarselo di fronte.
Era come trovarsi in una reggia, in un disusato covo di Magia Nera.
 
 
 
 
 
 
“Già, proprio per questo l’ho ribattezzata Sala delle Carte. Trovo che sia più indicato dato che ora qui, al massimo, organizzo dei tornei di poker con alcuni colleghi del Ministero.”
 
Harry non aveva parlato, ma non ce n’era stato bisogno; sapeva bene qual era il prezioso dono del suo amico: Draco era diventato un legilimens eccelso.
Poteva conoscere ogni pensiero nato nelle mente di chi gli era vicino, purché avesse con lui una qualche relazione. E con Harry, da alcuni anni, aveva un legame bellissimo, d’amicizia vera.
 
 
Il padrone di casa si alzò dalla poltrona in pelle scura, sulla quale bivaccava con la compagnia di un libriccino, e venne incontro al suo amico appena entrato. Gli strinse la mano con fare serioso e poi subito lo abbracciò.
Dobby, dal portone d’ingresso, sgranò gli occhi: anche quello faceva un certo effetto, nonostante gli anni passati.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Sempre chiuso nel tuo esilio dorato, eh? – gli chiese Harry, prendendolo un po’ in giro per la sua abitudine a passare ore ed ore su uno dei suoi libri – Hermione sarebbe fiera di te!”
 
Draco sorrise e sgorgò da lui un’elegante bellezza.
“Granger è sempre nei tuoi pensieri, vedo. – le osservazioni sottili non gli mancavano e non avrebbe certo perso tempo nel dar loro vita – Devo ricordarti, amico mio, che la cara prof ti ha dato un bel due di picche, se non vado errando.”
“Non ricominciare.” – lo rimproverò Harry.
“Era solo per restare in tema con il nuovo epiteto della mia stanza. Inoltre, ho scoperto che il poker può essere davvero rilassante. E poi non devo preoccuparmi dei soldi che potrei perdere, ne ho a quantità per giocare giorno e notte. Ma prego, Potter, accomodati! Posso offrirti un buon brandy? Sono sicuro che non ne bevi uno degno di nota da anni.”
 
 
 
Una donna proruppe nella stanza dopo aver sceso la scalea che collegava il locale ai piani alti della zona notte.
Era una donna insolitamente alta, con forme pronunciate nei punti giusti e la pelle olivastra, rivelativa della sua nascita in un paese dell’America del sud.
“Draco ma quand’è che ti deciderai a chiamare un idraulico? Il lavandino perde dalla prima volta che ho dormito qui con…” – la ragazzona si inchiodò alla fine delle scale dopo aver incontrato gli occhi di Harry che la fissavano ignoranti di tutto.
 
“Mi scusi, io non sapevo… – Harry era forse ancora più imbarazzato - …se avessi saputo sarei venuto in un altro momento…”
 
 
Draco, con tutta la calma possibile e senza mostrare il minimo tentennamento, si sistemò il colletto della camicia, svelando alcuni bottoni aperti e una macchia rossastra appena pronunciata, e puntò la bacchetta verso la credenza di mogano intagliato che si aprì senza alcuna obiezione.
 
Accio snifters. – tre bicchieri planarono verso di lui e si adagiarono sul vassoio d’argento che era sul tavolo. Il ragazzo prese la bottiglia quadrata e scura accanto e versò il suo contenuto nel bicchieri a stelo che lo avevano raggiunto – Ecco qui, prego Potter.”
“Grazie…” – disse a mezza voce l’amico, ancora rosso di vergogna.
Malfoy prese il secondo bicchiere e si voltò alla donna.
“Mia cara, gradisci un po’ di brandy con noi?”
Caroline scoppiò in un involontario sorriso: avrebbe voluto sgridarlo, rimproverarlo ad alta voce per quella situazione imbarazzante, ma Draco Malfoy aveva gesti e sentimenti talmente gentili ed eleganti che le facevano dimenticare ogni meritata tirata d’orecchi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Draco indicò ad Harry l’ampio divano e lo invitò a prendere posto.
Anche Caroline, dopo essere risalita a darsi una sistemata alla chioma scura e fluente, si sedette accanto ai due ospiti.
 
“Bene, allora Potter – esordì Draco, preso posto di fronte ad Harry – come prosegue il tuo tentativo di conquista del cuore della professoressa più ambita che Hogwarts abbia mai avuto? Dovrei scoraggiarti, in realtà. Devo pur ammettere che, in un certo senso, siamo stati tutti innamorati di lei ai tempi della scuola. Ma adesso pare che lei sia, come dire…impegnata…”
 
“Prima vorrei presentarti qualcuno. – disse Harry a bruciapelo – e dovrei chiederti un favore.”
L’espressione divertita di Draco si trasformò in una maschera di indescrivibile serietà.
Non era il solito viso serioso di un ragazzo ironico e attento; non era solamente attento, era captivo. Capì che stava per conoscere qualcuno che gli avrebbe cambiato la giornata.
E sicuramente non immaginava la portata della rivelazione di Harry.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La porticciola si aprì piano; Ron e Victorie alzarono gli occhi all’unisono ma da angolazioni differenti.
Lei sedeva al tavolo, china sul quaderno, ancora intenta a fare i compiti delle vacanze; per fortuna, in un certo senso, la scuola aveva prorogato le vacanze. In fondo, non tutto il male veniva per nuocere.
Ron invece aspettava la cena sfogliando per l’ennesima volta La Gazzetta del Profeta di quella mattina, come a voler ricercare qualcosa di nuovo che ancora non avesse letto. Qualcosa che lo distraesse e che facesse sì che il suo cuore non gli martellasse così forte in petto per la distanza fredda che lo separava dalla nipote.
 
“Professoressa! – strillò acuta la ragazzina quando la porta si spalancò – Ehm…Hermione!”
“Ehi! Eccoci, siamo tornate. – la giovane si voltò all’ingresso, giusto in tempo per prendere qualcosa dalle mani della sua accompagnatrice – Aspetta Ginny, non puoi portare tutto tu. Lascia che ti aiuti!”
Dietro di lei infatti, Ginevra rientrava con l’ennesima caricata di legna della giornata.
L’inverno si faceva sentire e il camino era scoppiettante durante tutto il giorno; e per esserlo quei pieni erano necessari come le bacchette che ognuno di loro custodiva gelosamente tra i vestiti. Tutti, tranne una.
 
 
“Vicky che ne dici di darmi una mano? – chiese Hermione con fare ostentato – Così facciamo prima e vediamo a che punto si trova la nonna ai fornelli, ci stai?”
La ragazzina però pareva alquanto scoraggiata. Le pesava dover rifiutare un invito, soprattutto perché le avrebbe permesso di fuggire da quei compiti così pesanti.
“Non posso purtroppo, sono pienissima di formule che devo studiare e ricopiare, ricopiare e studiare, studiare e provare…non posso proprio…”
 
“Herm, se vuoi ti aiuto io.” – disse pronta Ginevra.
In tutta risposta un calcio poco velato le colpì lo stinco.
Hermione socchiuse gli occhi e trattenne a stento l’ennesimo rimprovero sull’argomento di conversazione che aveva riempito la loro passeggiata a piedi dalla valle alla Tana.
 
 
 
“Che materia stai studiando?” – chiese poi avvicinandosi al tavolo e piegandosi sulla spalla della bambina per meglio vedere.
“Incantesimi… - rispose Victorie con tono disperato - …la nuova professoressa ci ha già dato una caterva di compiti…e tutti difficilissimi!”
Forse aveva parlato troppo. Giusto un po’. Si pentì subito e la sua espressione passò dalla preoccupazione del non riuscire a finire i compiti in tempo alla paura che la professoressa di Incantesimi, lì presente, potesse assegnargliene di nuovi.
Victorie era diventata fucsia per l’agitazione e si chiese perché ad Hogwarts non le avessero insegnato a tenere la bocca chiusa nei momenti meno opportuni.
 
 
“Se mi aiuti – sentenziò Hermione, sistemandosi la ciocca ribelle – prometto di darti una mano con le formule più complicate.”
 
Victorie sgranò gli occhi.
“Lo faresti davvero?? – sembrava passata dalla tristezza più profonda alla felicità più smisurata – Oh, ma tu Hermione sei la professoressa migliore del mondo!”
 
Anche Ron sorrise da dietro il quotidiano: era sicuro che l’amica avrebbe avuto un futuro promettente nell’insegnamento, perché aveva empatia, dote ignara a gran parte dei professori che lui, Hermione ed Harry avevano conosciuto nei loro anni scolastici.
 
 
 
“Sì, ma solo per le formule difficili. E non te le detterò, sia chiaro, dovremo arrivarci insieme. Affare fatto?”
“Affare fattissimo!” – disse Vicky, immaginando già come avrebbe potuto impiegare le ore che avrebbe così guadagnato.
 
“Bene, allora noi andiamo. Prendi questi Vicky. – disse Hermione e le porse una piccola cassetta non troppo pesante, poi guardò Ron e Ginevra scrutandoli speranzosa, cercando di allontanare l’immagine della prossima quotata lite tra i due – Ci vediamo tra poco ragazzi.”
 
Ginevra aprì la bocca, stava per rispondere a tono a quell’ordine implicito della professoressa Granger ma lei fu più tempestiva.
“Fate pure con calma, vi chiameremo noi quando sarà pronta la cena. Forza Vicky, a noi due!”
E scomparvero, lasciando nel soggiorno solo silenzio, tepore di fuoco e malinconia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra si sedette sulla stessa poltrona dove stava Ron, attenta a rispettare una distanza minima di sicurezza. Nonostante ciò, lui non la degnò di uno sguardo né di una parola. Anzi, appena lei si fu sistemata, Ron accavallò le gambe.
Era un segno, l’inizio di un cambiamento: dalla quiete prima di lei al trambusto che lei apportava.
 
Ginevra si passò una mano tra i capelli corti e scuri chiedendosi perché doveva essere così difficile stare nella stessa stanza con qualcuno che aveva il suo stesso sangue.
Suo fratello.
Perché doveva essere così difficile stargli vicino, parlargli, chiedergli come stava, cosa pensava.
Cosa voleva. Cosa vedeva in lei. Perche non l’aveva denunciata.
Ginevra aveva mille domande da fargli, così tante che non riusciva a classificarle per importanze; tutto ciò che pensava Ron era necessario, avrebbe davvero voluto conoscerlo bene, sentire come lui era diventato da adulto. Come aveva passato quegli anni con la loro madre. Cosa le diceva per consolarla nelle giornate no.
Poi le piombò addosso la risposta come una doccia gelata, come una lama fredda e affilata sul collo.
La risposta a tutte le domande che si era fatta. Tutti quei dolorosi interrogativi per un solo, cinico esito.
Eccola: facile e d’impatto, anche un bambino l’avrebbe intuita.
 
Lei e Ron non avevano più lo stesso sangue.
 
E se per lei questo non contava, per Ron era imprescindibile: era la base di tutto, del loro “non rapporto” e dei loro contrasti.
Per colpa di questo piccolo dettaglio, Ginevra sapeva bene che ogni suo tentativo con lui sarebbe stato vano ed anzi deleterio. Ma, cocciuta come il fratello, decise comunque di darsi un’ultima possibilità.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Che cosa leggi?” – gli chiese, mettendosi comoda al suo fianco.
 
 
 
 
 
 
Ron strinse più forte il giornale tra le mani, finendo per arricciarlo leggermente ai margini.
Ma non rispose: le labbra erano sigillate.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Immagino sia qualcosa di importante. – continuò Ginevra, scrutandolo  di sbieco – Altrimenti potresti degnarti di poggiare un attimo quel pezzo di carta e rispondermi. Oppure, mah…forse avrai dimenticato come si comunica tra persone.”
 
 
 
“So benissimo come si comunica.”
La risposta di Ron fu talmente scandita che l’aggettivo gelido non sarebbe sufficiente.
Ginevra sapeva bene come pungolarlo, lo conosceva ed era sicura che non fosse cambiato poi molto in quegli anni.
 
 
“Ah bene, facciamo progressi! – la ragazza distese la schiena, poggiandosi al tessuto e incrociando le mani dietro la nuca – Quindi, dicevamo, cosa leggi?”
 
 
 
 
“Un articolo.”
 
 
 
 
 
“Mm, wow. Entro domattina riusciremo a fare una conversazione completa senza bisogno che io usi la tenaglia per carpirti un paio di sillabe alla volta. Ce la faremo, vedrai. Sono fiduciosa.”
 
 
 
Di colpo Ron chiuse nervosamente il giornale.
La mano destra di Ginevra tremò, improvvisa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Sai cosa stavo leggendo? Vuoi proprio saperlo?” – chiese lui, accigliato e ancora distante.
“Certo, te lo sto chiedendo per la terza volta.”
 
“Leggo di un certo attentato ad Hogsmeade, ti dice niente?”
“No. Dovrebbe forse?” – Ginevra si impose di rimanere calma.
Fredda, non doveva farsi prendere dai nervi e dalle sue mani. Fredda, doveva mantenere il controllo anche per lui.
Doveva farlo per tutti e due.
 
“Sì dovrebbe, dato che hai ucciso degli innocenti. E non venirmi a dire che non sei stata tu! Quella ferita che hai al fianco ne è la prova. Il giornale descrive un taglio perfettamente coincidente al tuo, non può essere un caso. Stanno ancora cercando il colpevole e sparano ipotesi a raffica...”
“Quindi?”
 
 
“Quindi io mi chiedo solo una cosa. – Ron iniziava a surriscaldarsi, i suoi occhi erano cenere pronta a tornare fiamma – Mi chiedo come. Come sia possibile che mia madre ti creda? E anche Fleur. Come sia possibile che Hermione si fidi di te? Come…come le hai affatturate?!”
 
Era teso, come corda di violino quasi spezzata per la vibrazione improvvisa ed eccessiva.
Ron non parlava ma, se decideva di farlo, andava fino in fondo. Anche senza rendersene conto.
Era il suo carattere quiete che diventava eruttivo nei momenti più duri.
Si era imposto di non avere nulla a che fare con lei, di non rivolgerle la parola. Di non lasciarsi coinvolgere dalle sue spiegazioni fasulle. Di non guardarla nemmeno. Ma Ginevra lo provocava, lo spronava per portarlo al contrasto e sapeva farlo. Ci riusciva benissimo, senza neanche sforzarsi più di tanto.
E non le importa chi ne sarebbe uscito vincitore: avrebbero finito entrambi per ferirsi.
 
 
“Ti sbagli, fratellino. Non ho fatto proprio nulla a nostra madre, né a Fleur. – si fermò un attimo, quasi come non volesse continuare – Né tantomeno ad Hermione.”
 
 
 
“La devi lasciar stare.”
“Grazie, ma non ho bisogno dei tuoi consigli.”
 
“Lei è una ragazza eccezionale. Bella, pulita e ha un futuro grandioso davanti. Tu…”
“Riesco a vederla da sola com’è.”
“Tu… - Ron aveva i nervi a fior di pelle, tanto che dovette alzarsi - …Le stai togliendo tutto! Accuseranno anche lei! Il Wizengamot sospetta già il suo coinvolgimento, Hogwarts non potrà difenderla per sempre. Oramai lo immaginano e quando Hermione perderà tutto, perché credimi accadrà, fatti i complimenti perché sarà tutto merito tuo.”
 
 
La mano di Ginevra si mosse ancora.
E stavolta più forte.
“Non accetto consigli da nessuno. Tanto meno da chi non ha il coraggio di quello che fa.”
 
 
Ron la squadrò muovendo un altro passo verso di lei. L’aveva capita: sapeva a cosa si riferiva.
“Io mi sono assunto le mie responsabilità.”
“A me non sembra. – rispose presto Ginevra scontrosa - Fleur cosa ne pensa?”
“A differenza tua, io non ho paura di uccidere la persona che amo.”
 
Colpo basso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Colpo bassissimo.
 
 
 
Ginevra si alzò, abbandonando quel comodo giaciglio e si mise di fronte al fratello. Lui era più alto ma sapeva benissimo che lei avrebbe potuto annientarlo con la forza di un dito.
Le bastava dispiegare il braccio e lo avrebbe azzittito lì, all’istante.
Per sempre.
Lo avrebbe voluto, lo avrebbe fatto davvero.
Il formicolio dell’arto indicava che era il momento giusto: erano soli, i suoi poteri erano carichi e lui l’aveva provocata a dovere istillandole rabbia cieca.
Tutti gli elementi necessari erano sul tavolo: bastava mescolarli a dovere.
Bastava la volontà.
La volontà di un gesto…
 
 
 
 
 
 
Ginevra strinse il pugno e si costrinse a fermarsi.
Non poteva farlo.
Doveva resistere a quella forza selvaggia che dentro le chiedeva vendetta.
Che le chiedeva sangue.
Che le chiedeva silenzio, obbedienza.
Che le chiedeva di Lui.
 
Doveva saper dire no. Doveva farlo. Doveva.
 
A qualsiasi costo. A costo di soffrire. A costo di impazzire dal dolore, come ogni volta che cercava di controllarsi.
 
Doveva meritarla.
A costo di ogni supplizio.
 
 
 
 
 
 
“Ascoltami, stronzetto. Parliamo chiaramente. – Ginevra si obbligò a non avvicinarsi oltre, doveva mantenere una distanza di sicurezza altrimenti il suo lato oscuro avrebbe prevalso – Proprio Hermione mi ha chiesto di parlarti e di provare a trovare una soluzione. Ma non preoccuparti, le dirò che non c’è stato verso. Quindi ne uscirai salvo, questo punto è assodato. Ora apri quelle cazzo di orecchie, ho un patto da proporti.”
 
Ron alzò il sopracciglio sinistro: era il suo modo per dimostrare l’infinita incredulità del momento.
“Un patto?”
 
 
“Sì, un patto. E credo proprio che ci guadagnerai più tu che io.”
“Io non prenderò accordi con te.” – rispose, lapidario, Ron.
“Beh dovresti.”
“E perché?”
“Perché so quanto tieni a Victorie e io posso aiutarla a farle capire…”
 
Ron la fermò avvicinandosi, valicando il confine di sicurezza che li divideva.
 
“Non ti intromettere in cose che non ti riguardano! Non osare.” – scandì ogni sillaba dell’ammonimento.
 
 
 
Ma Ginevra non intendeva fermarsi: non ora che riusciva a vincere se stessa, prima che lui.
 
“Victorie si fida di me molto più di quanto ultimamente faccia con te. Ti sto solo dicendo che potrei aiutarti con lei. Non lo vuoi? Bene. Non hai che da dirmelo e la chiudiamo qua. Però è un peccato, sai. Ho visto come la guardi e lo so che ti manca.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Stavolta il ragazzo non ebbe la prontezza di rispondere subito. Non riuscì a dire no, perché non voleva dire no. Nonostante l’orgoglio gliel’avesse suggerito.
 
Sapeva che Ginevra aveva ragione: lei era molto più vicina a Victorie di quanto fosse lui e, dovette ammetterlo, la invidiava per questo.
E, cosa peggiore, Ron sapeva di non poter riuscire a riconquistarla senza un aiuto.
Un aiuto che ora gli pioveva da quella ragazza che diceva di essere sua sorella.
Avrebbe fatto qualunque cosa per riavere sua nipote accanto, per riascoltare la sua voce che lo chiamava sorridendo e gli chiedeva di aiutarla a capire come si usasse la metro polvere, che gli chiedeva timorosa cosa si studia nel secondo anno, che gli chiedeva consiglio per il regalo che avrebbe potuto fare alla nonna per Natale…
A Ron mancava tutto di lei. Tutto.
 
 
“In cambio cosa vuoi?”
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra sorrise sbruffona.
“Ah, vedo che siamo interessati!”
 
“In cambio cosa vuoi?” – richiese Ron freddo, ma alzando la voce.
 
 
 
 
 
 
La ragazza si fece solenne ed estrasse dal taschino del gilet bordeaux dei fogli malriposti.
Erano quasi del tutto accartocciati, vissuti e pieni di frasi ad inchiostro nero.
Lentamente, riordinò i fogli. Li piegò con cura e li mise in una busta bianca che preso dalla stessa tasca.
 
Chiuse la busta e la porse a Ron, senza indugio.
Senza fermarsi a riflettere oltre.
 
 
“Voglio che, quando me ne andrò, e sta tranquillo sarà presto, tu dia questa ad Hermione.”
 
 
 
“Nient’altro?” – chiese Ron, incredulo, afferrandola.
Doveva esserci sotto qualcosa, pensò.
“Nient’altro. – rispose lei – Non ho altri desideri.”
“Perché la vuoi lasciare così?”
 
Furono di nuovo le parole di lui a colpire lei.
 
Ginevra si sentì come uno di quei bersagli tondi a strati: Ron, con le sue poche parole, aveva centrato la sfera più vicina al centro del bersaglio. Il cuore.
 
 
“Ho scelto così.”
 
“Non se lo merita.” – obiettò lui.
 
 
 
 
Ginevra sganciò il primo bottone della camicia scura e tornò a fissare il fratello.
“Prima mi dici che non la merito e adesso che non dovrei lasciarla. C’è qualcosa che mi sfugge.”
 
 
Ron rigirò la busta tra le mani e la fissò.
All’improvviso si sentì triste, la sua rabbia si struccò e divenne tristezza. Ma una tristezza sconfinata e che mai avrebbe creduto di provare per quella ragazza.
Capì inoltre che lui sarebbe stato per Hermione l’ambasciatore di un dolore inaspettato e lacerante.
E Ron sapeva bene cosa significava perdere da un momento all’altro ciò che ti tiene in vita.
 
 
Perciò parlò piano.
“Lei ci crede. Ci crede davvero. – Ron alzò gli occhi alla sorella. Era la prima volta che si guardavano da così vicino – Non puoi farle questo.”
 
 
 
Prima che Ginevra potesse rispondere, da fuori la porta d’ingresso si udì una voce, sembrava un uomo.
“C’è nessuno? Ron? – alla voce si unirono dei colpetti alla porta - Sono io, Draco!”
 
 
 
 
Ronald si voltò alla porta ed accorsero, come api al miele, anche le donne di casa lasciando i fornelli e il tavolo metà apparecchiato per la sorpresa di una visita non prevista.
“Ron forza! – lo richiamò sua madre correndo. Indossava stavolta un grembiule cremisi, pieno di disegni di unicorni – Non startene lì imbambolato, va ad aprire!”
Victorie, Hermione e Fleur erano dietro di lei.
Ron rimase inchiodato: le parole di Ginevra lo avevano scombussolato e Fleur lì davanti ma distante, con i suoi lineamenti perfetti, gli fece male solo ad incontrarne lo sguardo.
Poteva l’amore fare così male?
 
 
 
“Vado io.” – intervenne Ginevra.
 
Ron le fu silenziosamente grato, poi il suo cervello riprese a girare: che ci faceva Draco lì a quell’ora? Perché stava bussando così “trepidante”? Lui non era certo il tipo da nervi tesi, aveva sempre il controllo della situazione e il suo tagliente umorismo onnipresente ne era la prova.
Ma Ron avvertì che stavolta non lo avrebbe visto ridere.
 
 
 
 
 
 
“Ciao… - la chioma bionda e ben pettinata del ragazzo fece capolino dalla porta - …buona sera a…tutti…”
 
La signora Weasley superò le ragazze, Ron e si affiancò a Ginevra che aveva ancora la mano sul pomello.
“Draco, entra presto! Che bello vederti! – Molly era realmente felice di averlo lì. Trovava quel ragazzo adorabile – Non ti aspettavamo ma sei arrivato giusto in tempo per un pollo arrosto che promette proprio bene! Fleur lo stava giusto insaporendo quando abbiamo sentito suonare!”
 
“Grazie Molly ma io non…non sono qui per mangiare. Sono qui per…per lui.”
 
Ginevra dischiuse ancora la porta, finché fu totalmente aperta e un uomo dai lunghi capelli rossi si fece avanti ad occhi bassi e con tre indimenticabili cicatrici sul volto.
Draco continuò mentre i visi di tutti i presenti davanti a lui mutavano espressione.
 
“Lo hanno trovato gli Auror…io…io non sapevo che fare e ho pensato di venire subito qui…”
 
 
 
Hermione non riusciva a crederci.
Ron divenne pietra.
A Fleur mancò il respiro.
Molly si avvicinò ma senza più parole.
 
“Mamma ma lui è…” – solo Victorie trovò la forza di provare a reagire.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Piccolina mia… - l’uomo parlò e fu come sentire l’eco del tempo. Si avvicinò alla ragazzina bionda, si inginocchiò e senza aspettare altro tempo la abbracciò, la strinse fortissimo. Vicky iniziò a piangere come una fontana azionata a getto - …non piangere tesoro mio, sono qui…sono qui con te adesso…”
 
Bill Weasley accarezzava piano i capelli di sua figlia. E, nel farlo, alzò gli occhi a Fleur e sorrise, incrinando una delle tre cicatrici lupesche.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ron guardò sua sorella Ginevra, inchiodata con la mano ancora sulla porta. E capì che aveva ragione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Amore poteva.
 
 
 
 
 
 
 
 
Sì, l’amore poteva fare davvero molto male. 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** L'inizio della fine ***


Il giorno dopo iniziarono le parole.
Quella sera no. In quella sera erano stati solo gesti, solo mani e desideri talmente veri, talmente tangibili da potersi toccare e da rimandare qualsiasi altra cosa, qualsiasi altra idea: erano solo abbracci. Abbracci ad una madre che credeva di avere solo un figlio ed ora ne aveva ritrovati due; abbracci ad una moglie che si diceva vedova, seppur ancora giovane e bellissima nel suo sorriso più luminoso; abbracci dati ad una figlia che chiedeva di lui da sempre e che aveva iniziato a dimenticarne l’odore.
Tutti erano increduli, sembrava impossibile eppure era lì, lui era lì davanti a loro. La tristezza che la sua scomparsa aveva fatto esplodere sembrava già essere solo un ricordo lontano, distante anni luce. Ora tutto era diverso da allora, da quando lui non c’era più, da quando tutti credevano che lui non ci fosse più.
Bill non aveva occhi che per loro, per loro tre che erano la sua vita. Sua figlia, sua moglie, sua madre. Le sue donne. Erano tutto ciò che aveva avuto e che aveva sempre voluto avere.
Ed ora, riavere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il mattino dopo Ron si alzò di buon’ora.
Non aveva chiuso occhio e a che serviva restare a girarsi e rigirarsi nel letto se il sonno non sarebbe giunto? Se non era arrivato fino all’alba, c’erano poche possibilità che arrivasse poi.
Era stufo di guardare il soffitto ed immaginare lei.
Lei, ora con lui.
Con i capelli in ordine, anche se ormai gli toccavano quasi sulle spalle, Ron indossò il maglione blu con la solita gialla R intessuta a fronte e uscì dalla sua stanza.
Prima di incamminarsi per le scale si voltò verso la camera di suo fratello maggiore, proprio accanto alla sua. Guardò la porta di legno chiaro, avrebbe dovuto essere felice, sollevato ma si ritrovò a fissare quella porta con improvviso malessere: la stanza era vuota, Bill e Fleur erano a casa loro, la piccola e accogliente dimora accanto alla Tana. Era molto presto e sicuramente loro due erano ancora a letto.
Stretti, magari dopo aver fatto l’amore.
Il cuore di Ron pulsò più forte in un battito brusco che gli fece male al petto. Non aveva diritto di pensare a quelle cose, non aveva diritto di essere geloso né di chiedersi cosa loro stessero facendo. Non aveva diritto a niente con lei. In fondo, era sposata e aveva appena riabbracciato suo marito creduto per tanto tempo morto; sarebbe stato naturale riavvicinarsi.
Nonostante ogni giustificazione, continuava a provare quel dolore misto a rabbia crescergli dentro come una malattia. Si voltò secco e decise di scendere per mangiare qualcosa.
Il camino crepitava già, era stato appena acceso, lo capì dai rametti secchi per metà: qualcuno doveva averlo preceduto e forse, come lui, non era riuscito a chiudere occhio in quella stranissima notte invernale.
 
 
 
 
 
“Buongiorno.” – Ginevra alzò lo sguardo con una tazza bollente tra le mani.
Era seduta di schiena, ma lo aveva sentito. Ron aveva sempre avuto il passo pesante e riconoscibile, soprattutto quando era di malumore.
 
“Buongiorno.” – rispose il ragazzo guardandola ed abbozzando un’espressione cordiale.
A Ginevra fece piacere vederlo senza la scorbutica durezza con cui era solito parlarle.
“Anche tu hai l’abitudine di alzarti prima che nasca il sole?”
 
“No, no! – si affrettò a rispondere Ron – E’ solo che…che devo fare mille cose e ho pensato di farle presto, così non farò tardi per il pranzo. Sì, ecco.”
 
 
Ginevra sorrise dell’espressione confusa del ragazzo e si alzò. Andò in cucina e ne uscì con un’altra tazza fumante che posò sul tavolo nel posto apparecchiato accanto al suo; così invitò il fratello a sedersi.
Lui la ringraziò silenzioso e le si mise a fianco per poi fissare il the, mentre con mano fredda si costringeva a zuccherarlo, come una macchina senz’emozione.
 
“Neanche io sono riuscita a chiudere occhio, sai. – la giovane sorseggiò ancora una volta e ruppe quella cortina di muta e condivisa sofferenza – Non me lo sarei mai aspettato, non credevo che Bill fosse ancora vivo, io non…”
Le parole le si bloccarono in gola rotte, sopraffatte dall’inspiegabilità della situazione.
 
“Già.”
 
 
 
Lo scrutò, tralasciando totalmente la bevanda. Fuori albeggiava e la prima luce del mattino toccò la finestra alle loro spalle.
La Tana era ancora calma, come in pochi altri momenti della giornata.
“Ron, io posso solo immaginare come stai e…mi dispiace. Mi dispiace davvero credimi.”
“Già.” – lui continuava ad annuire e a guardare quel liquido scuro che aveva davanti. Preso da un improvviso slancio ne bevve un sorso, poi riabbassò la tazza sul tavolo ed incrociò le braccia. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, sembrava non aver molta voglia di parlare.
 
“Non è detto che tu e Fleur non possiate…”
Fu in quell’attimo che Ron si ridestò dal letargo in cui era sprofondato e si voltò alla sorella, guardandola dritto negli occhi.
“No.”
 
“Pensaci. Magari anche Fleur starà pensando la stessa cosa e ne parlerà presto con Bill.”
“Non voglio parlarne.”
 
Ma lei non demordeva, non lo aveva mai fatto e non avrebbe iniziato certo adesso che Ron aveva più bisogno di lei, anche se non lo avrebbe mai ammesso nemmeno sotto la minaccia di un troll.
“Ma voi due vi siete avvicinati mentre lui non c’era, vi siete innamorati e avevate raggiunto un equilibrio, stavate bene insieme.”
 
“Ginny no, diamine! Ti è tanto difficile capirlo?? Loro sono sposati, spo-sa-ti. Cosa potrei fare ora io? Non capisci proprio? Forse tu sei abituata a prenderti tutto quello che vuoi, beh io no.”
Gli occhi di Ron non erano cattivi, solo tristi.
Infinitamente tristi e rispecchiavano il trambusto che sconvolgeva la sua anima: non era mai stato un ragazzo cupo o meschino. E’ solo che teneva sempre tutto dentro e finiva per essere profondamente triste da solo, senza appoggi.
 
Ginevra tacque un momento, riflettendo sul fatto se fosse giusto dirgli o no quello che aveva già fatto. Era la prima volta, da quando era tornata, che suo fratello la chiamava così, Ginny, come era solito fare quand’erano piccoli.
Sorrise mentre beveva ancora del the, riscaldandosi per entrambe le cose.
 
Ron fu più veloce di lei.
“Non voglio che Fleur soffra quindi mi farò da parte. In fondo è giusto così. Devo farlo per lei, per mio fratello e soprattutto per Victorie. Immagino che lei… - a Ron uscì un risolino triste - …immagino che lei sia molto contenta adesso. Ed io non sono nessuno per rovinarle questo momento.”
 
“E pensare che io le avevo appena parlato.”
 
 
 
 
 
Ron ebbe bisogno di un attimo per deglutire bene ed assorbire il colpo.
 
 
“Cosa? - spalancò incredulo gli occhi – Tu hai…”
“Sì.” – rispose risoluta la sorella.
“Tu hai parlato con…”
 
 
“Sì, ho parlato con Vicky. E ti dirò di più, lei stava iniziando a capire che tu non volevi essere un sostituto di suo padre ma una speranza per sua madre.”
“Ma se…se solo ieri mi hai detto che lo avresti fatto, com’è possibile? Lo hai fatto stanotte?!” – Ron non riusciva proprio a capirla. Eppure era sicuro che sua sorella non avesse ricevuto da Colui-che-non-deve-essere-nominato il dono dell’ubiquità.
 
Ginevra si grattò la nuca. Sembrava spontanea, a tratti vera.
“A dire il vero, le avevo già parlato quando ti ho proposto il nostro patto.”
 
 
“Cosa? – Ron sembrò meditarci un momento, poi le chiese posato - E se io avessi rifiutato? Se ti avessi detto no al nostro accordo?”
 
Lei sorrise di nuovo e lo sorprese mentre ormai la luce era evidente.
“Sei mio fratello. – a quelle parole Ron tacque. Non se lo sarebbe mai aspettato – E sono sicura che un giorno riuscirai anche a dirmi grazie per questo e scusa per un calcio che mi hai dato tempo fa.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fecero colazione tra altre poche frasi e mille domande che aleggiavano nell’aria, impressioni non dette, speranze mozzate, desideri remoti.
La signora Weasley sbucò dalle scale dopo qualche minuto e, dopo aver bevuto anche lei una tazza di the, uscì allegra dicendo ai due che presto Bill li avrebbe raggiunti per parlare con più calma.
Ron sospirò, Ginevra la guardò neutra. Lei non diede a quelle espressioni molta importanza, baciò entrambi i suoi due figli e sgattaiolò via. Anche se ormai erano grandi e autosufficienti, lei li avrebbe visti sempre come due cuccioli. I più bisognosi di cure, i più piccoli del branco Weasley. E forse, per assurdo, i più simili.
Era così bello vederla sorridere che né l’uno né l’altra riuscirono a rivelarle le proprie inquietudini.
Eppure le sorprese non erano finite lì.
 
“Che ne dici di sistemare un po’ l’orto qui dietro? – propose Ron togliendo le tazze ormai vuote e sistemandole accanto a quella lasciata da loro madre.
“Mm, certo. Magari senza usare la magia così ci stanchiamo un po’. D’accordo?”
“E sia.” – anche lui aveva poca voglia di pensare e così si avviarono insieme, straordinariamente uno affianco all’altra, nel retro della Tana.
Il piccolo giardino adibito ad orto era alquanto mal ridotto: Ron non amava curarlo e la signora Weasley ormai aveva poco tempo tra i compiti di Victorie, i mille imprevisti e le altrettante cose inaspettate che sembravano susseguirsi senza sosta. Tutto andava troppo velocemente, anche per raccogliere l’insalata.
 
“Ron, passami le forbici.” – disse Ginevra, preda di un arbusto che non la smetteva di agitarsi tra i suoi piedi e che la rendeva alquanto nervosa.
Iniziò a saltellare su una gamba sola per evitare che le si attorcigliasse di nuovo intorno alla caviglia. Era maledettamente fastidiosa.
“Eccole ma sta attenta! – la avvertì il fratello facendosi vicino – Mamma è molto gelosa delle sue zucchine rampicanti.”
“Contenta lei!” - Ginevra alzò un sopracciglio tutt’altro che concorde con sua madre.
Con tre ore di buon lavoro ripulirono la zona, tagliando le erbacce di troppo che ostruivano il vialetto di passaggio. Potarono le fronde in eccesso e raccolsero alcune bacche ormai smaniose di staccarsi dai rami.  Il sole splendeva alto mentre l’orto ridivenne attraversabile senza il rischio di perdersi nei suoi intrichi verdi.
Ron si asciugò la fronte dalle piccole gocce perlacee, era soddisfatto: a lui erano toccate le piantine più odiose, le orchidee di vaniglia profumosa. Le curò con la massima concentrazione, cercando di non rovinarne nemmeno una foglia; raccolse le piccole stecche nere ormai pronte e lasciò la pianta pulita e umida; se così non avesse fatto sua madre lo avrebbe cacciato di casa, teneva molto a quelle piante babbane. Avrebbe sicuramente pianto se fossero andate a male. E, in fondo, Ron sapeva perché.
 
“Ricordi quando stavamo correndo qui come due gnomi indemoniati? – gli chiese all’improvviso Ginevra, rapendolo dalle sue elucubrazioni sulla pianta - Per cos’era poi? Avevamo litigato, credo.”
Stava ancora innaffiando un arbusto e non aveva modo di guardare il fratello che, a quella frase, si era come immobilizzato. I ricordi lo catapultarono in quello stesso giardino ma qualche anno addietro e con mille fronde in più.
“Sì, io ti avevo fatto calpestare una caccabomba di Fred dicendoti che era una pietra incantata, e che si sarebbe illuminata con un bel salto sopra. Tu ci credesti in pieno.” – a Ron scappò un sorriso.
“Ah, bravo! Te lo ricordi bene!” – lo apostrofò con finta rabbia la sorella.
“E come potrei dimenticarlo? Sei sprofondata letteralmente nella…”
Ron si fermò, gli sorridevano gli occhi al solo pensiero di quanto avevano riso quel giorno. E di quanto lei lo aveva poi rincorso per fargliela pagare. Lo ricordava benissimo. Ricordava ogni cosa. Così come ricordava quanto lui, negli anni a venire, l’avrebbe presa in giro per quell’indignitosa scivolata nella melma.
“Direi che non è necessario specificare in cosa sono caduta, grazie!”
Ron stava per rispondere quando dei passi risuonarono lenti e dubbiosi.
Doveva essere qualcuno poco esperto dei campi ed infatti, subito dopo, arrivò il primo gridolino.
 
 
“Mon Dieu!”
“Fleur, tesoro, va tutto bene?”
Un uomo e una donna, una poggiata al braccio dell’altro.
 
Istintivamente Ron e Ginevra alzarono lo sguardo: lui impugnò la bacchetta che aveva sempre nella tasca, ma capì subito che non ce n’era bisogno. E Ginevra li riconobbe infastidita dalla scena ma, a differenza del fratello, in grado di sopportarne il peso.
“Fleur.”- il cuore di Ron non avrebbe retto a lungo e tra le sua labbra scivolò via quel nome, come un rantolo dei sensi incapace di essere fermato dalla ragione.
 
 
Bill indossava un pantalone scuro e una comoda camicia color sabbia; l’abito serioso della sera prima non c’era più e lui appariva molto più solare. I capelli erano legati in una coda di cavallo bassa e le cicatrici brillavano al sole mattutino. Salutò il fratello e, dopo aver per un attimo lasciato la mano di Fleur, andò a dargli una pacca calorosa sulla spalla. A Ginevra riservò solo uno sguardo.
 
“Buongiorno Ron, scusa se siamo arrivati così presto. Ero ansioso di farti visita!”
“Non preoccuparti, noi siamo svegli da un pezzo. – Ron si girò leggermente per includere nel discorso anche la sorella alle sue spalle - Io e Ginevra abbiamo dato una rattoppata qui in giardino, ma rientriamo subito. Voi andate pure.  – poi guardò oltre il fratello fino ad incontrare quei lunghi capelli di grano – Fleur si è fatta male?”
“Oh, no. Nulla di grave! Credo che abbia preso una storta ma niente di cui preoccuparsi. Ora entriamo dentro e le massaggio la caviglia. Sono sicuro che passerà presto! Ti aspetto dentro.” – e così detto, Bill tornò verso sua moglie, la baciò, la sollevò lentamente, troppo lentamente pensò Ginevra, e la portò in soggiorno rientrando dalla porta sul retro che collegava al giardino.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“E’ strano.”
“Cosa è strano?” – Ron non aveva capito a cosa si riferiva la sorella, era ancora confuso da quei capelli chiari andati via troppo velocemente. E da quel bacio.
“Bill.”
 
Ginevra raccolse i guanti che aveva usato per non scorticarsi le mani, le forbici e le canne adoperate come scheletro per le piante. Li sistemò tutti in un portaoggetti lì vicino, dove Molly era solita tenere tutto l’occorrente per la cura delle sue adorate creature verdi.
Ron fu stupito della prontezza con cui Ginevra vi andò. Forse, davvero, quella ragazza conosceva quella casa e faceva parte della loro famiglia. Era così ben inserita, sapeva muoversi, conosceva le zone d’ombra e di luce di ognuno dei suoi abitanti.
 
“Che ha Bill?” – le chiese il giovane, impalato tra le piante di insalata peperita.
Lei parve rifletterci un attimo, come se volesse spiegarsi bene, come se volesse riuscire ad essere il più delicata possibile ma allo stesso tempo chiara. Arricciò il naso e gli occhi diventarono due sottili fiumi azzurri.
“E’ scenico.” – rispose, tornandogli vicino.
“Beh, è preoccupato per sua moglie, è… - Ron era in evidente difficoltà nel parlare di suo fratello e di Fleur come se non gli facesse male - …è normale, credo, che sia apprensivo.”
“Lo saresti anche tu con lei, immagino…”
“Certo! – rispose Ron fiero – Certo che lo sarei anche io. Tu no? Non lo saresti con Hermione?”
Un nome, solo un nome. E diventava fuoco.
Bastava poco.
Un nome e diventava manifesta l’incontrollabile metamorfosi.
“Lo sarei anch’io, certo. Ma se Harry passasse di là, non la palperei davanti ai suoi occhi. – Ron stava per risponderle ma lei fu più tempestiva, come al solito – Lo trovo, come dire…irrispettoso. E Bill non è mai stato scortese nemmeno con uno sconosciuto.”
 
Ron si avvicinò alla sorella, diventando quasi furente nello sguardo e parlò pianissimo, sottovoce.
 
“Ti ricordo che Bill non sa di me e Fleur. E non deve saperne nulla, intesi?”
Ma lei non doveva esserne molto convinta: Ginevra guardò la finestra della Tana che dava sul giardino e notò ombre muoversi.
“Da come si comporta non direi che non ne sa nulla. È come se volesse provocarti, come se volesse spingerti a scoppiare.”
“Ma cosa dici?!”
Quelle ombre non la convincevano. Stava accadendo qualcosa, un nuovo mutamento. Lo sentiva.
“Rientriamo Ron, abbiamo ospiti.”
 
Ron si voltò di scatto: Ginevra aveva ragione, come sempre. E si chiese se per caso ce l’avesse davvero anche con Bill.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’ elfo, alto meno di un metro, correva come il vento tra i lunghi corridoi freddi.
Villa Malfoy non gli era mai apparsa così grande.
Tutti quei cunicoli sembravano non avere mai fine.
“Signorino?? Signorino Draco??” – Dobby urlava chiamando il suo amico, ma non riceveva risposta.
Corse ancora di più, doveva trovarlo.
Una donna alta tre volte lui spalancò una porta che dava sul corridoio da dove aveva sentito gridare. Caroline si strinse nella vestaglia: le mura di quella casa erano davvero intrise di gelo, poteva sentirlo insinuarsi sotto la sottile stoffa ed entrarle nella pelle, fine nelle ossa. O forse era solo una sensazione.
“Dobby! Che succede?”
L’elfo inchiodò davanti alla donna, sfiancato: aveva girato quasi tutta la tenuta prima di incontrare lei.
“Un gu…un gufo… - ansimò - …è a…è arr…arrivato…ad…adesso…”
Caroline sbiancò nonostante la sua pelle fosse scura.
“Un gufo? Cosa dice?”
“Hog…Hogwarts.”
Dall’espressione dell’elfo, anche una maganò come lei avrebbe capito che la situazione stava precipitando.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le alte torri svettavano come vessilli, baluardi di antica resistenza: il castello di Hogwarts conservava intatto il suo fascino primigenio.
Era tutto come lo ricordava, tutto come doveva essere, come doveva essere per sempre secondo gli altri.
Come non sarebbe stato mai più, secondo Lui.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Peccato che la scuola sia ancora chiusa. Ne avremo potuti uccidere molti di più, mio Signore.”
Un uomo dai lunghi capelli biondi aveva parlato premonitore. Lucius Malfoy amava soddisfare anche con le parole il suo Re.
 
Ma Voldemort non lo guardò neppure.
 
 
 
 
 
 
 
 
Alle loro spalle, un esercito di incappucciati neri era schierato e pronto all’assalto. Finalmente, il momento era arrivato. La scuola di Silente sarebbe stata sua e quella donna che lo aveva quasi ucciso, Minerva McGranitt, sarebbe stata la prima a perire sotto le sue stesse maledizioni.
 
“Lucius?”
Al suono del suo nome pronunciato dalla bocca sacra del suo unico messia, Malfoy ebbe un fremito e lo raggiunse. Teneva il capo leggermente chino, segno di devozione; nessuno poteva osare guardarlo senza essere stato invitato a farlo.
“Mio Signore.”
 
Lui, il freddo fatto carne, fece un passo lento e viscido verso Malfoy e, con mano eburnea, gli sollevò il mento fino a che gli occhi del suo servo non incontrarono i suoi.
Malfoy ebbe a quel tocco la sensazione orgasmica che provava ogni volta che era in sua presenza. Avrebbe dato la vita solo per la considerazione che aveva presso di Lui in quel momento: tutto per quell’attimo. Tutto. Qualunque cosa per il suo Signore.
 
“Lucius, sei sicuro che il nostro piano funzionerà?”
Malfoy deglutì, ebbro di orgoglio.
“Sì, mio Signore. È tutto come stabilito.”
 
Voldemort aveva occhi assassini gialli e verticali.
“Cosa ne è adesso della Weasley? – un ghigno gli si disegnò sul viso, qualcosa di molto simile ad un sorriso crudele – Spero che finalmente abbia capito da che parte stare.”
 
“Sono sicuro che l’ha capito, mio Signore. Se così non fosse, perirà per mano dei suoi stessi simili.”
 
In quel momento Voldemort lo guardò in un modo che Lucius Malfoy non avrebbe mai più dimenticato.
“Molto bene, Lucius. Così voglio sentir parlare i miei uomini. Ottimo lavoro. Ginevra Weasley non ci tradirà. Deve la sua vita a me. A me che l’ho ricondotta qui dalle tenebre. Lei sarà la nostra esca e tutti quei sudici babbanofili stanno già abboccando. – la mano dell’Oscuro si posò leggera, ma incredibilmente pesante, sulla spalla dell’uomo biondo – Quando avremo finito qui, avrai la ricompensa del potere eterno.”
“Non vi deluderò, mio Signore.”
“Ora basta parlare, si è fatta l’ora. È il momento di agire. Tu, Lucius, guiderai tutti i miei adepti. Loro ascolteranno ogni tua indicazione. Comandali con pugno fermo e spazzate via quanto più marcio possibile. Il Marchio Nero risplenderà su ognuno di voi e vi darà la forza. Ma ricorda, a me e solo a me spetta Minerva. Non dimenticarlo. Ora va’.”
 
Le dita sottili dell’Oscuro Signore abbandonarono la spalla del suo luogotenente. Ancora uno sguardo silenzioso alle torri di Hogwarts e poi, eccolo.
Nel cielo scuro d’inverno le nuvole si agitarono, vorticarono frettolosamente come mosse da mani invisibili, da mani bianchissime.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Come la più temuta delle rivelazioni, il serpente uscì dalla bocca del teschio. Dipinse il cielo d’inchiostro nero e riempì di terrore gli occhi del professore di Erbologia, affacciato alla finestra del suo studio.
 
“Hermione?”
La ragazza non lo degnò di considerazione: era nella scrivania di fronte, immersa nella lettura di un libro di Incantesimi che le stava piacendo molto; forse l’avrebbe scelto come nuovo manuale di testo per i ragazzi del primo anno.
 
“Hermione?” – Paciock era ancora paralizzato alla finestra, incapace di qualsiasi movimento.
“Ora non posso Neville, ti prometto che più tardi ti aiuterò a svasare qualsiasi pianta tu voglia.”
 
“Hermione?”
“Qualsiasi pianta, va bene. Ma adesso ti ho detto che non posso.” – gli occhi d’ambra erano ancora incollati alle pagine del libro.
 
 
 
“E’ arrivato. Lui..lui è arrivato...”
La ragazza alzò finalmente gli occhi con un movimento talmente impetuoso che il libro le scivolò di mano cadendo, la rilegatura si ruppe e le pagine si staccarono sparpagliandosi sul pavimento.
Fu così che Hermione capì che la fine era appena iniziata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Quando i due Weasley più giovani rientrarono in casa furono accolti da almeno trenta persone che gironzolavano, in lungo e in largo, per tutta la Tana.
“Salve a tutti…” – Ron cercò di non darlo a vedere ma quel trambusto lo infastidiva.
Che stava succedendo? Perché tutta quella gente era in casa sua? Cosa volevano da lui?
La folla era composta da uomini e donne di età avanzata ed indossavano, tutti indistintamente, una tonaca amaranto. Erano senza dubbio maghi e streghe, eppure quel colore gli ricordava qualcosa.
Aveva già visto quelle persone.
 
“Ron vieni, dobbiamo parlare e risolvere una questione una volta per tutte.” – suo fratello Bill, in maniche di camicia, lo prese per le spalle e gli presentò una strega attempata. Dai lineamenti della donna, Ron intuì che da giovane doveva essere stata molto bella.
Quel pensiero non lo distrasse molto, continuava a chiedersi cosa volessero tutti quei maghi e se sua sorella avesse ragione sullo strano comportamento del loro fratello maggiore.
 
 
 
 
Nel lato opposto della stanza, il camino continuava a scoppiettare gioioso e incurante di ciò che succedeva intorno.
Ginevra si tirò indietro i capelli scuri, come ogni volta che si sentiva a disagio, fuori luogo. Erano lucidi e castani, corti e pungenti. Mentre lo faceva, ripensò a quando Hermione glieli carezzava piano: lei sapeva essere lenta e attraente, scatenando in Ginevra le voglie più intense. Ogni volta che le sfiorava i capelli, Ginevra l’avrebbe svestita lì, ovunque si fossero trovati. Era un richiamo impellente, non rinviabile. Un’esigenza. Un’emergenza vitale.
Fu quel ricordo a disorientarla ancora di più.
 
Tutti quei maghi e quelle streghe intorno a lei fingevano di essere indaffarati nel cercare qualcosa, indizi di una colpevolezza che lei non capiva ma, di sottecchi, ne era certa, la scrutavano. Poteva sentirne gli sguardi addosso come fucili mirati ed erano pesanti, indagatori, crudeli nella loro ambiguità. Da un lato volevano apparire semplici occhiate, dall’altra volevano carpire la sua essenza.
 
 
 
 
 
 
Una mano sfiorò la sua, trascinandole via le paure. Per un attimo Ginevra di illuse che fosse lei.
 
“Fleur! – l’illusione passò presto, appena sfiorò il biondo scuro dei capelli della donna che aveva accanto – Come va la tua caviglia?”
La donna pareva sconvolta, ma cercava di non darlo a vedere. Ginevra non sapeva cosa pensare: tutta la situazione intorno le sfuggiva ed iniziò ad innervosirsi. La mano vibrò.
“Sto bene, non preoccuparti per me. – gli occhi della ragazza parevano sconvolti – Ginevra io…io…”
Ginevra le afferrò le mani per darle conforto, mentre da ogni parte volti sconosciuti continuavano a volteggiare.
“Che succede, Fleur? Cos’hai?”
A quelle parole, si voltò anche Ron.
Fleur iniziò a piangere, mentre si aggrappò al braccio di Ginevra.
“Mi dispiace Ginevra… - singhiozzava ormai forte - …ho detto mille volte a Bill di non farlo…mi dispiace tanto…”
 
Prima che Ginevra potesse capire, Bill le fu vicino e le strappò via Fleur che ancora piangendo fu scaraventata tra le braccia di una strega vestita di rosso.
“Ma che diamine fai?” – Ginevra fu circondata da maghi e streghe.
Formarono un cerchio intorno a lei ed ognuno di loro sfoderò la bacchetta: incantarono la Tana con formule complesse affinché nessuno potesse entrare o uscire, poi rivolsero le punte magiche all’interno della circonferenza, sulla loro preda. Su Ginevra.
 
Bill accarezzò il volto della moglie e la rincuorò, le disse che andava tutto bene e che presto sarebbe finito tutto: ogni sofferenza stava per terminare, avrebbero concluso una volta per tutte quella sceneggiata.
 
Ron lasciò il discorso che aveva avviato con un mago barbuto, amico d’infanzia di suo padre, e raggiunse il cerchio rosso, ma ne rimase fuori; non gli permettevano di avvicinarsi.
“Che state facendo? – urlò sgomento – Siamo in un luogo sicuro, fermi!”
Ma il gruppo vermiglio non accennava ad abbassare le armi. Ginevra era inchiodata nel centro esatto.
 
 
Fleur non riusciva a smettere di piangere, Bill si affiancò ai maghi di rosso vestiti; il cerchio si aprì e lui ne fece parte, puntando la sua bacchetta su Ginevra.
 
 
 
“Cosa volete da me?”
Un uomo, il più anziano del gruppo, si fece avanti. Entrò nello spazio delimitato da tutte quelle bacchette tese e si avvicinò, arrivando ad un paio di metri da Ginevra.
 
“Noi siamo i giurati del Wizengamot, il tribunale magico che da tempo aspettava di giudicarti e fare giustizia sui misteriosi reati di cui sei colpevole.”
 
Ginevra sgranò gli occhi: stavolta era in trappola. Non aveva alternative, se non...
 
 
 
 
 
“Lasciatela parlare, lei collaborerà!” – Ron cercò di farsi strada, ma a nulla valse. Appena si avvicinò al cerchio di tonache rosse fu sbattuto indietro da una forza immane, un vento incantato che avrebbe allontanato qualsiasi intruso non facente parte del tribunale.
“Ron!” – Fleur lo soccorse, chinandosi su di lui. Erano gli unici rimasti fuori dal cerchio.
Bill li guardò con la coda dell’occhio, senza parlare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il togato non degnò Ron nemmeno della minore delle considerazioni possibili.
“Signorina Weasley, - proseguì l’uomo che si era intanto sporto verso di lei – suo fratello ha ragione? Lei intende collaborare con questo tribunale?”
 
“Non so cosa volete.”
Iniziava a sentirsi in trappola, braccata.
 
 
“C’è pervenuta una profezia, abbiamo dovuto faticare non poco per averla. Comunque, è una profezia che parla di Noisappiamochi e che vede coinvolta anche lei. Ne è a conoscenza?”
 
 
 
 
 
 
 
La mano di Ginevra tremò brusca.
I giurati trattennero il respiro: sapevano che quello era il segno oscuro che la contrassegnava come prescelta del Male.
 
 
“Voi… - Ginevra cercò con tutte le sue forze di placarsi, di fermare quella scossa - …voi mi giudicate per una semplice profezia?! Che razza di tribunale siete?”
 
La folla intorno non accennava ad abbassare la guardia.
 
“Mi faccia ricordare, aspetti… - la voce del giudice si fece solenne - …Due innesti puri alla morte occorrono. Dice così non è vero? – era cantilenante, come se volesse farsi beffa di lei ora che era una contro mille – Nessuna mano umana o ibrida spezzerà il manto e il potere vivrà finchè…”
 
“…finchè viva sarà la sua fonte d’incenso. – Ginevra lo precedette – E’ una profezia come tante, non è detto che riguardi me. Anzi, le dirò di più. Sto iniziando a dubitarne vivamente.”
Un secondo ancora e la mano riprese il suo palpito, Ginevra si accasciò sulle ginocchia.
Con la mano destra provò a tenere la sinistra: stava accadendo qualcosa, doveva essere successo qualcosa. Era un richiamo, un segno.
Stava accadendo qualcosa di Oscuro.
 
Il giudice Alberts, capo del Wizengamot, era ad un passo da lei e fu allora che lo vide.
La maglia di Ginevra era corciata e, nello spasimo che la pervadeva, si tirò su ancora di più rivelando il Marchio Nero tatuato sull’avambraccio.
 
“Ginevra Molly Weasley – tuonò serio, con una punta di malcelata paura – lei è stata già giudicata da questo tribunale che l’ha dichiarata colpevole e ora la condanna a reclusione a causa degli omicidi commessi ad Hogsmeade. Per tanto…”
“Io non… - Ginevra si contorceva per il dolore, ora lo sapeva, le era chiaro: Lui stava agendo da qualche parte. Ne era sicura - …io non ho ucciso…non ero….non ero ad Hogsmeade…”
 
Ron e Fleur assistevano alla scena, straziati. Lui poggiava la testa sul grembo di lei e ciocche chiare gli cadevano sul viso.
“Forse davvero lei non…”
Entrambi provarono un’implosa pietà per lei. Per la prima volta, Ron pensò che forse quella ragazza diceva la verità.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ah, lei dice di non essere stata ad Hogsmeade! E allora come spiega la ferita riportata sul fianco?”
Ginevra era ancora a terra, urlò imprecando ma il togato non cedette.
 
“Vold…è stato…è stato lui…”
 
 
 
Il giudice rise ed insieme al suo si levarono risolini in tutto il soggiorno.
“Quindi lei, signorina Weasley, mi sta dicendo che Colui-che-non-deve-essere-nominato, proprio lui, le avrebbe inferto quella ferita! Proprio a lei, che era il suo braccio destro. Ops, mi correggo. Proprio a lei che è tutt’ora il suo braccio destro.”
 
“E’ la verità…”
 
 
 
 
“Signor Alberts – fu Bill a prendere la parola – non crederà a quello che questa Mangiamorte sta dicendo? Io ho capito subito che stava dalla parte oscura e vi ho chiamato per fare giustizia. Guardate, - si rivolse a tutti i giudici girando su se stesso - ha annebbiato anche la mia famiglia, facendo leva sull’affetto che proviamo per lei. Per quello che lei era per noi. Una figlia, una sorella ed ora…”
 
 
 
 
 
 
 
 
“Vigliacco.”
 
 
 
“Come…Come osi?  – gli occhi di Bill divennero cenere – Come osi dire così a me, a tuo fratello?”
 
Stesa a terra, il sorriso maligno di Ginevra lo colpì come un fulmine.
“Tu non sai niente…tu non sei…”
 
 
Fu una frazione di secondo, un momento.
Bill agitò la bacchetta pronunciando una formula che Ginevra non ebbe il tempo di capire; dalla punta ne sgorgò un filo incandescente giallo diretto al petto della giovane.
La ragazza si poggiò su un fianco, deviò la maledizione e allungò il braccio.
La disputa si consumò in così pochi secondi che tutto ciò che si riuscì a vedere nitidamente fu il volo di dieci metri di Bill, terminante contro la parete accanto al camino.
 
I giudici impallidirono.
Fleur rimase immobile, Ron respirava a stento.
 
 
Incarceramus!” – il giudice Alberts puntò su Ginevra e, in men che non si dica, fu alzata e scaraventata di nuovo a terra con i polsi legati dietro la schiena.
“Ci penso io, Alberts.” – una strega poco più giovane di lui si avvicinò alla ragazza e le stregò le mani affinché non potesse più muoverle.
Solo così, finalmente, Ginevra Weasley poteva essere definita innocua.
 
 
 
 
 
“Molto bene, Matilde. Ti ringrazio. – sotto lo sguardo schifato di Ginevra, la signora si allontanò e il giudice le tornò vicino. Erano sempre al centro di un cerchio perfetto – Torniamo a noi, signorina Weasley. Così facendo, mostrandosi non collaborativa e per di più attaccando un testimone, lei sta solo aggravando la sua situazione. Da quando è una Mangiamorte al seguito di Tusaichi?”
 
Ginevra non parlava. Non guardava neppure l’anziano giudice. Il suo sguardo disgustato era fisso sul fratello più grande.
 
 
 
 
 
 
“Ginny, ti prego…” – una voce si udì, rauca e lenta. Ginevra alzò lo sguardo e Ron, dall’altro lato della stanza, la guardava affannato.
In un attimo ripensò alla bellezza del loro orto e alla caccabomba su cui era caduta.
Nella sua mente vorticarono rimproveri e abbracci lontani. Suo fratello.
Quello vero.
 
Fu quell’attimo di esitazione a vincerla.
Fissò dura l’uomo che aveva davanti e lo sfidò, stavolta con le parole.
 
 
“Stanno attaccando.”
 
“Come, prego? Adesso cerca di risultare pazza per evitare la prigione?”
 
 
 
 
 
Ginevra si sollevò appena, per quanto le fosse possibile da legata.
“Stanno attaccando… - il Marchio iniziò a bruciarle sulla pelle - …sta succedendo adesso…”
 
 
 
Ron, Bill e Fleur rimasero muti.
 
 
 
 
 
 
“E lei crede che dicendo questo noi la libereremo o avremo pietà? Lei è una Mangiamorte. Chi ci dice che non stia facendo così per distrarci dal reale obiettivo? Tutto il mondo magico è in subbuglio, anche i babbani presto saranno in pericolo.”
 
 
 
“Liberatemi…”
 
“Lei è in stato d’arresto, a partire da oggi, fino a quando il processo non potrà concludersi con l’ascolto di tutti i testimoni e con un verdetto giusto.”
 
 
 
“Liberatemi, io devo…devo andare…”
 
 
 
 
 
 
Una bussare improvviso e rumoroso arrivò dalla porta. Gli occhi di tutti i presenti si voltarono istintivamente all’ingresso.
Il giudice Alberts puntò la bacchetta alla porta e l’esito dell’ispezione fu positivo, così ordinò ad un suo inferiore di aprire senza timore ed interrompere momentaneamente il blocco magico scagliato sulla Tana.
Una donna scompigliata, mulatta e con vestiti in disordine entrò stralunata nella stanza adibita a patibolo.
 
“Caroline…” – nessuno udì il sussurro di Ginevra.
 
 
“Si può sapere chi è lei e con quale autorità è qui?”
 
La donna avanzava senza sapere come dire, senza sapere cosa dire per prima. Era tutto così doloroso, era tutto così confuso dentro di lei.
 
 
Il giudice le puntò la bacchetta addosso.
“Si fermi o sarò costretto a bloccarla!”
 
 
“Hogwarts… - Caroline si poggiò al muro - …hanno…attaccato…”
 
Tutte le bacchette, che fino ad un istante prima erano su Ginevra, ora scesero al fianco di ogni possessore. Gli occhi di tutti si spalancarono davanti alla cruda verità che quella donna stava portando, come la più luttuosa dei messi. Tutti ora avevano capito.
La donna che prima aveva legato Ginevra, Vice Inquisitore Massimo del Wizengamot, si affiancò al giudice primo.
“Dobbiamo andare Alberts, potrebbe…potrebbe essere già troppo tardi!”
“Ma cosa sta dicendo, Matilde? Qui abbiamo una criminale.”
“Ad Hogwarts sta iniziando la guerra e se non ci muoviamo potremo avere una marea di morti e la fine del nostro mondo, andiamo. Seguitemi tutti!”
Alberts si arrese: la sua collega aveva ragione. E, dopo aver lasciato due giudici di guardia, con un gesto della mano guidò il resto del gruppo, dopo aver ricordato a Ginevra che non sarebbe finita lì, ormai l’avevano identificata.
Il tribunale sparì così com’era arrivato, come un’ombra. Nel frastuono che ne venne, Ginevra riuscì a liberarsi ma, ancora debole, sedeva a terra poggiando la testa alla parete.
 
“Ginevra? Ginevra mi senti?”
La Weasley aprì gli occhi, mentre sentiva sgretolarsi ogni filo intessuto della sua anima. Caroline la guardava piangendo.
“Cosa c’è?”
“Devi…dovete andare anche voi!”
“Io non posso, Caroline. Non posso…” – Ginevra voltò il viso e la guancia toccò il freddo muro, gelido quasi quanto il suo cuore in quel momento.
Ron, Fleur e Bill presero in fretta le loro bacchette.
 
“Draco…lui è corso là appena ha saputo e adesso…adesso chissà come…” - Caroline piangeva sempre di più.
 
Ron raggiunse Ginevra inginocchiandosi al suo fianco e le scosse le spalle.
“Dobbiamo andare Ginny! Dobbiamo salvare quella scuola e tutto quello che rappresenta, dobbiamo proteggerla. Muoviti! Alzati!”
 
Ma la ragazza non accennava a spostarsi dal pavimento.
“Io non posso venire.”
“Ma cosa dici? Andiamo, hanno bisogno di noi! Dobbiamo andare!”
“No! Io non posso, non capite?! Andatevene, lasciatemi qui, dannazione!”
 
Ron si alzò di colpo, nero di collera e con gli occhi lucidi per la furia.
“E pensare che iniziavo davvero a crederti… va al diavolo, tu e tutte le tue stronzate!” – Ron non ci provò più, non la considerò più. Guardò Bill e poi Fleur e insieme, senza dire altro, uscirono di corsa per smaterializzarsi appena fuori la Tana.
 
 
 
 
Caroline era l’unica rimasta oltre lei. Sentiva il peso di tutte quelle assenze, mentre gli occhi di Ginevra si fecero sempre più vuoti. Non poteva finire così.
“Come fai a…a startene lì, per terra, così? Come?  Proprio tu… – Ginevra non rispose, era insensibile. Il Marchio le bruciava come un incendio appiccato su un mucchio di paglia secca – …a Hermione non ci pensi?? Eh?! Lei avrebbe dato la sua vita per te! Lei farebbe qualsiasi cosa per te.”
Ginevra la guardò, ma non c’era luce in lei. L’Oscurità la stava rapendo. La stava divorando da dentro
“Lei non ha bisogno di me.”
Caroline singhiozzò più forte, più dolorosamente di quanto non avesse fatto nel nominare Draco.
“L’hanno ferita…è stata…è stata la prima a rispondere agli attacchi…”
Un impercettibile bagliore attraversò il viso della Mangiamorte a terra.
“Cosa stai dicendo?”
“Pensi che ti stia mentendo?! Beh, a te cosa importa? In fondo tu…tu sei dall’altro lato e te ne lavi le mani della guerra, te ne freghi di quelli che ti sono accanto. Ma lei no. Lei non è una codarda come te! Lei non merita un’inetta senza fegato. Forse Harry aveva ragione. Forse davvero lui avrebbe potuto farla felice… - ma il cervello di Ginevra si era scollegato totalmente a quella unica parola. Ferita - …lui non l’avrebbe fatta soffrire così e avrebbe fatto l’impossibile per difenderla!” – Caroline continuava a parlare, parlare e urlare. Piangere e parlare. Urlare e piangere.
Un raggio viola la centrò dritta su una spalla spingendola fino a schiantarsi contro il portone: Ginevra si era alzata e, dopo aver teso il braccio ed averla azzittita a modo suo, spalancò la porta e corse via.
 
 
 
 
Caroline ebbe paura nel vederla così forsennata, così maledettamente fuori di sé come non mai.
Si chiese dove, in quale lato del tavolo imbandito la Mangiamorte si sarebbe seduta, ora che Bene e Male, commensali femminee, le sorridevano invitanti allo stesso modo.
 



 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Vagabonda e nuda. Composta e immortale ***


 
 
Il giudice Alberts non avrebbe mai creduto che tutto quello fosse vero. Gli occorsero i sensi, il tatto, l’odore del fuoco e la vista dello sfacelo. Solo allora, forse, poteva credere.
Solo così poteva davvero essere. O non ancora.
Tutto era così vero da parer finto.
Il Wizengamot era arrivato ad Hogwarts il più velocemente possibile e ad accoglierli non ci fu nessun preside, nessun corteo come era solito accadere nei grandi eventi che avevano segnato il prestigio di quella scuola. Nessun alunno dava fiori ai giudici donna, nessun prefetto li guidava all’interno del mastodontico edificio. Nessun sorriso.
Nessuno.
 
Morte.
 
 
 
 
 
 
 
 
Morte e disperazione.
 
 
 
Morte e feriti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Morte.
 
Morti.
 
 
 
 
Cadaveri.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un ragazzetto, piccolo piccolo, lo guardò un attimo. Era sdraiato a terra, dalla bocca gli colava un filo di sangue; molto altro era già rappreso sulla sua divisa di Corvonero.
Il giudice rimase immobile.
Fu un attimo, un istante solo e poi gli occhi del ragazzo divennero opachi: la vita era fuoriuscita da lui, in silenzio. Sembrava quasi che non facesse poi così male.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il castello, magnifico anche nella sua caduta, bruciava al torrione nord; l’ingresso era spalancato in modo innaturale e un fumo denso e nero veleggiava tutt’intorno.
La fine era iniziata, parendo ormai inesorabile.
 
“Dividiamoci! – urlò ai suoi il giudice – E cerchiamo di salvare chi possiamo. Niente colpi di testa!”
Dalla sua voce traspariva agitazione e incertezza, quello che era nel cuore di tutti, posa stantia.
 
Le toghe rosse dietro di lui fecero come aveva ordinato.
Solo una donna osò avvicinarsi, non riuscendo a distogliere lo sguardo da quello spettacolo, da quel ragazzo morto davanti ai loro piedi. Da tutto quello che mai, mai, avrebbe voluto vedere di nuovo.
Qualsiasi cosa ma non quello, tutto ma non la scuola: i ragazzi, la storia, la speranza erano racchiusi nelle mura di quella visione delirante.
“Se ci dividiamo potrebbe essere peggio, dobbiamo stare uniti!” – disse più ferma la donna.
 
Alberts era sempre stato un mago tutto d’un pezzo, non si scomponeva; lo aveva dimostrato nelle tante sentenze emanate contro i Mangiamorte più incalliti. Eppure, mentre si voltò a Matilde, la sua rigidità vacillò, colpita nel profondo.
“Matilde, dobbiamo provare a raggiungere tutti e se restiamo in blocco non ce la faremo. Meglio che muoia qualcuno di noi e si salvi anche solo un ragazzo in più. Andiamo adesso! E che la Magia, quella vera, possa indicarci la strada.”
 
Non disse altro e piccoli gruppi si allontanarono verso ogni ingresso, verso ogni anta, verso ogni speme. Non c’era tempo, non c’era più tempo.
Il tempo, forse, non c’era mai stato davvero.
Erano sempre allo stesso punto: Voldemort veniva sconfitto e poi tornava, più forte di prima, più forte di sempre, più forte di tutti. E adesso era anche circondato da uno stormo nero, nero come il petrolio più raffinato, oscuro più di lui stesso.
Vista così, Alberts si disse che doveva essere una battaglia persa in partenza ma si costrinse a non crederci, non del tutto.
Forse era una pazzia credere di farcela anche stavolta. A volte, però, il cuore ha bisogno proprio di pazzie per sopravvivere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un urlo disumano si issò dalla serra di Erbologia.
Il giudice Alberts si voltò celere e scorse tre uomini e due ragazzi; davanti a loro un professore giovanissimo teneva levata la bacchetta e combatteva contro gli uomini con una luce chiarissima negli occhi. Forse erano lacrime, oppure il bisogno disperato di credere. Lo stesso che il giudice sentiva in se stesso.
Un boato e poi il fuoco: la serra divenne rossa e bruciò le tende e le panche. I ragazzini, ancora protetti, disarmarono uno dei tre ma gli altri due si avventarono sull’insegnante.
 
“Professore!” – a nulla valsero le abilità degli alunni, lo avevano preso.
“Poveri idioti. Pensate davvero di avere anche solo una possibilità?” – la voce del Mangiamorte era ferro stridente. La sua maschera non si muoveva ma lasciava trapelare un sorriso tetro e alito pungente.
 
Freddafiamma! – i ragazzi videro il giudice proprio un attimo prima che iniziassero ad avvertire un formicolio piacevole sulla pelle, li stava salvando. Il giudice si palesò, venne fuori e spinse di lato i ragazzi e si rivolse ai servi dell’Oscuro – Maledette creature del male! Lasciateli stare!”
 
 
 
Uno dei tre guardò il giudice, apparso inaspettatamente sulla scena.
“Guarda, guarda che onore. Il capo del Wizengamot in persona! Hogwarts è così importante per voi? Presto non ne resterà che cenere.” – il Mangiamorte continuò a ridere fissandolo e brandendo la bacchetta.
“Non ce la farete mai, ditelo al vostro padrone.”
“Non credo proprio, inetto senza cervello. Sei bravo solo a sputare sentenziole inutili, questa è la guerra vera. Quella che voi non avete mai saputo combattere.”
“Ho detto che non ce la farete mai!”
Proprio allora altri cinque togati apparvero alle spalle del primo e, con le bacchette tutte rivolte alle maschere nere, gridarono una formula latina.
Un bagliore accecante e luce bluastra e, delle tetre figure dei Mangiamorte rimasero solo i mantelli neri che si afflosciarono a terra, seguiti dal clangore delle maschere che caddero qualche passo più indietro.
Ai ragazzi mancò la parola e il professore fu libero dalla presa che, fino ad un secondo prima, gli opprimeva il collo.
 
 
“Molto bene colleghi! Ottimo lavoro. – Alberts sorrise ai suoi e mostrò loro una porta seminascosta – Non c’è un momento da perdere, presto, le cucine. Io vi raggiungo subito, andate avanti!”
E così, velocemente come erano arrivati, i giudici lasciarono la stanza seguendo le indicazioni del loro mentore.
 
 
“Grazie…grazie signore, le siamo debitori. – Neville si avvicinò e, dopo aver raccolto la propria bacchetta, strinse la mano al giudice – Ci ha salvato la vita, non lo dimenticheremo.”
L’uomo rispose con una pacca sulla spalla del professore e guardò i ragazzini: non sembravano molto maturi, al massimo del terzo anno. Gli fecero tenerezza.
Tutto quel male stava violando occhi così innocenti.
“Siamo tutti debitori e creditori di tutti qui. Ora, professore, sistemi questo posto. Lo adibisca a tenda di primo soccorso, manderemo qui tutti i feriti che riusciamo a trovare. Io procedo. Ci sono gruppi dei nostri sparsi in tutto il castello. Colui-che-non-deve-essere-nominato dov’è?”
Aveva paura della sua stessa domanda e Neville lo intuì.
Aguamenti! – dalla bacchetta del professore di Erbologia uscì un viottolo consistente d’acqua e la serra emanò una fuliggine enorme che si alzò lenta fino a sovrastarli. Corsero fuori, tutti e cinque, e osservarono il laboratorio da adibire ora ad ospedale – Intende dire Voldemort?”
“Pronunciate il suo nome?”
“Tutti, qui, pronunciamo il suo nome.” – rispose uno dei tre ragazzi.
“Non è qui. – intervenne Neville - Non ancora. Sono sicuro che sta aspettando il momento più propizio.”
“Propizio per cosa, professore?”
Neville lo guardò fisso: era mille passi avanti nel capire la mente di Voldemort rispetto a tutto il Wizengamot.
“Vuole saperci deboli. E stremati. Prima di allora non si svelerà, ha un esercito intero a cui ha assegnato la prima linea. Prima di quel momento saranno solo…prove intermedie. Per lui uccidere è come un gioco. Ma non glielo permetteremo. L’Ordine della Fenice non glielo permetterà.”
“Ha riconosciuto qualcuno dei suoi?” – gli chiese il giudice.
“Sì, uno di quelli che ha appena ucciso era Mulciber. Poi ho visto Nott, che saliva sulla torre di Corvonero.”
“Bene, io vado lì allora.” – e il giudice si incamminò.
“Vengo con lei, aspetti. – Neville si voltò alla serra ormai parzialmente salva – Protego Maxima!”
La serra si riempì di una luce d’argento che, lenta ma consistente, si posò sui suoi tendaggi bruciacchiati.
 
“Professore, - uno dei tre ragazzini parlò forte – veniamo anche noi.”
“No. – rispose categorico inarcando le sopracciglia folte – Restate lì dentro, vi manderemo gli altri studenti che riusciremo a tirare fuori dal castello. Non voglio scherzi.”
“Professore ma noi…”
“Non voglio altri eroi da compiangere, Jack.”
“Allora provvederemo a sgomberare la serra dalle piante e quant’altro per far posto ai feriti che manderete.”
“Ben detto, signor Jack Steal.”
Il giovane Tassorosso chinò il capo e, insieme agli altri due, si rifugiò nel laboratorio protetto da ogni fattura maligna mentre il professor Paciock e il giudice Alberts corsero alla volta del castello.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sulla scalinata marmorea Hermione, Minerva, Ron, Malocchio, Fleur e Bill duellavano contro una schiera di almeno dieci servitori dell’Oscuro Signore.
Erano in cerchio e ognuno toccava con le spalle quelle di altri due. Erano desiderosi di farcela eppure, in quella posizione, non riuscivano ad aiutarsi e non ne avevano il tempo: ogni attacco che subivano era troppo forte per pararlo, controbattere e voltarsi a dare man forte ad un altro dell’Ordine.
Minerva stava per perdere la bacchetta quando Ron riuscì a schiantare per miracolo l’incappucciato di fronte alla preside.
“Ti diverti, eh babbeo? Pensi che davvero tu possa farcela contro di noi?”
Poi una luce chiara e Ron fu ferito, ma non cadde: Fleur lo prese giusto in tempo. Il ragazzo si accasciò e lei lo afferrò per la vita, tenendolo.
Bill alzò la bacchetta contro il Mangiamorte e lo schiantò contro il muro alle sue spalle, batté violentemente la testa ed il sangue iniziò a colargli dalla fronte. Era inerme. Era morto.
 
“Ron!” – Fleur non riusciva a lasciarlo, nemmeno nel bel mezzo di quel putiferio.
Non era mai riuscita a lasciarlo davvero.
 
Impedimenta!” – Hermione scaraventò il suo avversario lontano, ma era stata ferita anche lei; la spalla le sanguinava. Non se ne curò, aiutò Minerva e, molto faticosamente, riuscirono a bloccare un altro Mangiamorte.
 
Bill era solo contro tre.
Nel frastuono dello scontro lo avevano allontanato dal gruppo, accerchiato ed ora poggiava la schiena contro una delle porte che davano sulle scale.
“Sei nostro, sfregiato.”
“Ho sentito dire che questo tipo mangia bistecche crude, sapete mica perché?” – chiese un altro dei tre.
“Io un’idea ce l’avrei. Puzza come un cane! – rispose ridendo smoderatamente un altro – Dolohoferio!”
Il Mangiamorte pronunciò l’incantesimo e il petto di Bill urtò ripetute volte contro il muro. Era come sospeso e sbattuto di volta in volto contro quel gelido divisorio. La maledizione di Antonin Dolohov. Era lui, uno dei Mangiamorte più temuti.
 
“No!” – Fleur non aveva più la bacchetta, le era caduta per reggere Ron. Ma suo marito adesso aveva bisogno di aiuto, altrimenti sarebbe sicuramente morto per il dolore e le ferite interne.
Malocchio giaceva colpito da una fattura stritola ossa e non poteva intervenire.
Ron avrebbe voluto tanto soccorrere il fratello, come Bill aveva fatto con lui poco prima ma non riusciva ad alzare nemmeno la mano, doveva avere il polso slogato; Hermione era ancora impegnata con altri due Mangiamorte.
 
 
Waddiwasi.
A quella parola, l’ampia vetrata alle spalle di Ron e Fleur si ruppe in mille pezzi, con rumore fracassante.
 
Mille frammenti vitrei vorticarono, limati dall’aria.
 
Le schegge si fermarono sospese per poi puntare i tre uomini vestiti di nero.
Il primo fu colpito al petto e le schegge entrarono così in profondità da non potersi più vedere; il secondo perse gli occhi, entrambi centrati; il terzo Mangiamorte urlò imprecando e fu costretto a togliersi la maschera. La buttò via mentre davanti a lui, Draco Malfoy aveva ancora la bacchetta levata.
 
“Draco!” – Hermione fu così felice di vederlo lì, dalla loro parte, che lo ringraziò e allo stesso tempo gli intimò attenzione, senza parlare.
“Tranquilla Herm, so quello che faccio! Mi conosci, un giovin signore come me sa quando è il momento di intervenire. E credo proprio che voi abbiate bisogno di me. – poi si rivolse all’unico Mangiamorte dei tre rimasto in vita – Alzati! Alzati e butta la bacchetta se non vuoi fare la fine dei tuoi due amici! Non costringermi a…”
Ma le parole gli si congelarono sulle labbra.
Vedere lui, lì davanti, ferito, indifeso.
Anche quello era doloroso come uno squarcio di vetro.
 
In quel momento Draco e gli altri dell’Ordine videro che una delle schegge vorticanti aveva reciso ciocche biondissime che cadevano a terra, leggere.
 
 
“Proprio tu…” – l’uomo era in ginocchio e aveva il volto coperto dalle sue stesse mani. Lucius Malfoy.
“Padre…” – Draco barcollò, la voce era roca, ferita.
“Non chiamarmi così. – Lucius si alzò continuando a tenersi il volto per metà – Tu non sei degno del nome che porti.”
“Vieni con me, dalla nostra parte. – Draco abbassò la bacchetta e gli tese la mano, indicando gli altri dell’Ordine – Non è Voldemort che renderà il nostro nome migliore, noi lo faremo. Puoi ancora scegliere, datti una possibilità.”
“Ti hanno fatto il lavaggio del cervello. – con difficoltà, Lucius si avvicinò di qualche passo al figlio, soddisfatto di vederlo inerme – Un purosangue, ecco cosa sei. E guarda, guarda cosa sei diventato. Hai rinnegato il tuo stato sociale, peggio di un Weasley. Guarda in mezzo a che feccia…”
“Io ti voglio bene papà, te ne ho sempre voluto.”
“Io non più. – lo guardava gelido - Tu non sei mio figlio e io devo punirti. È Lui che lo vuole…”
“Non ragioni più con la tua testa, non capisci? Parli come un servo. – Draco allungò ancora la mano, ancora di più, affinché il padre potesse afferrarla. Era lì, ad un passo da lui – Usciamo da qui insieme, io e te, papà. Ricostruiamo la nostra famiglia, senza più padroni da ascoltare né servi da comandare. Noi, solo noi.”
“Te la fai con un travestito.”
Hermione rabbrividì a quella frase, non riuscì nemmeno a guardare Draco. Ma percepiva che era stato colpito. Ferito dentro da suo padre. Minerva strinse più forte la bacchetta.
“Non la conosci, papà. Lei non merita questo tuo odio, né quello di chiunque altro. Quante cose non sai… – tirò su col naso e ricambiò quello sguardo duro - …E non ti permetto di chiamarla così.”
Nonostante tutto, Draco sembrava ancora avere del rispetto. Dell’amore per lui.
“Con te si estinguerà il nome dei Malfoy, tu hai disonorato tutto, hai infangato la nostra famiglia…sei la nostra rovina, tu sei la mia fine!”
Draco era impotente: le parole di suo padre, più di tutto, lo avevano quasi ucciso.
Lucius alzò la voce e la bacchetta.
Qualcuno però lo precedette.
Expelliarmus!” – Hermione fece volare l’arma di Malfoy senior e lui ricadde in ginocchio, tenendosi il viso scorticato.
 
“Fermi tutti! – una schiera di uomini incappucciati entrò nell’androne e circondò i ragazzi. Erano guidati da un uomo nascosto dalla maschera – Tutti con le mani alzate, ora.”
L’Ordine intero seguì quel comando, non avevano scelta. Erano circondati. Chiusi in un recinto di bacchette con punte luminose puntate verso di loro.
Il capo della schiera di Mangiamorte si fece avanti, fino a raggiungere i prigionieri.
“Tu. – si fermò davanti a Bill – Vieni con noi, facciamo una chiacchierata. Che ne dici? Sono sicuro che con qualche buon incoraggiamento potrai dirci tante cose. Legatelo. Prendete anche la vecchia.”
Tre Mangiamorte presero Bill e Minerva, strappandoli dal resto della truppa hogwartiana. Legarono loro le mani dietro la schiena e li portarono via, in un’altra stanza.
“Che ne facciamo degli altri, capo?”
“Aspettiamo che il Signore Oscuro ce lo dica. Sono sicuro che, oltre allo sfregiato, potremo divertirci con molti altri di loro.”
“No!” – Fleur provò a districarsi ma mani troppo forti la tenevano. Uno schiaffo sul viso e ogni suo tentativo di inveire si assopì, mentre una lacrima scendeva indesiderata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Professore dove sistemo questi unguenti?” – mentre Jack Steal, studente Tassorosso, lo chiedeva al suo insegnante di Difesa contro le arti Oscure ebbe paura.
Intorno alla serra esplodevano granate di suoni assordanti e urla; erano già arrivati i primi feriti riusciti ad evadere dalle mura del castello. Ma erano pochi, molto pochi: la maggior parte giaceva sul pavimento freddo della scuola, senza più vita negli occhi.
“Teneteli tutti qui, ci servono. Ne abbiamo una scorta insufficiente per tutti.” – Piton parlava tenendo la schiena curva in avanti, dopo l’attacco ricevuto settimane prima non riusciva più a stare perfettamente dritto. Era già tanto che fosse ancora vivo.
“Vuol dire che non potremo curarli tutti? Il professor Paciock ha detto che avremo…”
“Il professor Paciock insegna Erbologia.”
A quella risposta secca, Steal capì che forse era meglio non mescolare vecchi rancori alla paura già opprimente che doveva esserci anche nel cuore del professor Piton.
 
“Ehi Jack!” – un piccolo sussurro fece voltare il Tassorosso. Era un suo compagno che lo avvicinò con la scusa di passargli un medicinale.
“Che c’è?”
“E se Piton fosse uno di loro…”
Jack lo guardò serio, aveva capito dove il suo amico voleva andare a parare.
“Lui è il migliore.”
“Stiamo parlando pur sempre di Piton.”
Jack sbottò, alzando un po’ i toni.
“E’ quasi morto per difenderci. Ed è ancora qui, nonostante tutto.”
 
“Basta perdere tempo, signori. – li interruppe il professore col suo tono suggestivo – Prendete queste tende mal messe e sistematele. Muovetevi.”
La voce di Piton era sempre languida, ma i suoi occhi non avevano opacità.
 
Da fuori la serra, un passo leggero e sinuoso fece troppo rumore.
Il professore si immobilizzò ed estrasse la bacchetta che aveva nella tasca interna della sua lunga veste nera. I ragazzi, nel vederlo così teso, ebbero paura e si fermarono a loro volta.
“Professore cosa…”
“Silenzio.”
Era evidente che qualcosa lo aveva colpito, lo aveva spaventato. Poteva esserci chiunque e, molto probabilmente, se non si mostrava doveva essere qualcuno della fazione opposta.
Altre foglie furono calpestate, ma piano. Il crepitio era comunque chiaro.
Piton lo percepì e continuò a tenere la bacchetta pronta.
“Professore?”
“Prendete le bacchette. Quando ve lo dirò, pronunciate con tutta la volontà che avete la parola Sectumsempra.
“Ma non conosciamo quest’incantesimo, non l’abbiamo studiato.”
“Fate come vi dico e zitti.” – lo sguardo di Piton era sempre più concentrato. Ormai quei passi erano fermi all’ingresso, velati dal tendaggio bianco.
Severus poteva scorgere l’ombra che vi era dietro: una figura mediamente alta, un mantello intorno alle spalle sicuramente scuro e viso scoperto.
Viso scoperto.
Allora non poteva essere un Mangiamorte, si disse. Oppure…
Oppure era talmente noto come Mangiamorte da non aver bisogno nemmeno della maschera.
E mentre Piton iniziava a propendere per la seconda ipotesi, una mano si insinuò tra le tende, scostandole del tutto. E la figura entrò.
I capelli erano neri e corti, acuminati. Lo sguardo era serio, rivelato da occhi chiarissimi.
La camicia era bianca, il gilet sopra nero, con l’orologio da taschino che Piton conosceva bene.
Il patto di tempo.
Anche i pantaloni stretti erano neri, dello stesso tessuto raffinato del gilet, come nero era il mantello che ricopriva le spalle della figura fino ai polpacci: esattamente come il professore aveva previsto.
“L’innesto puro… – la voce di Piton venne fuori da sola, evocativa. Ma non vi era paura, non solo almeno. Era comprensione. E un briciolo di compassione: finalmente aveva capito davvero l’idea di Voldemort - …tu sei…sei uno dei due Innesti. Tu, Ginevra Weasley…”
Ginevra si fece più vicina, il viso impenetrabile. Chiuso.
I tre ragazzini istintivamente fecero un passo indietro; sentirono un vento freddo gelare le loro nuche.
 
“Professore, come vedo, è sempre il più intelligente. Ma stavolta, alla fine di tutto, non so se avrà ragione.” – e mosse dei passi verso di loro.
 
 
“Ferma dove sei. – Piton levò la bacchetta – Anche i miei studenti sono preparati, moriresti in pochi minuti.”
"Scusi signore, ma… - Ginevra sorrise, beffarda - …non credo proprio che i suoi alunni possano anche solo riuscire a mirare bene. E poi lei sa di cosa io sia capace.”
 
Piton sposto' appena lo sguardo per vederli: in effetti aveva ragione, i tre erano troppo spaventati per provare a colpirla. Avevano davanti la Mangiamorte più temuta e ricercata. Non avrebbero mai potuto farcela.
 
Il mantello di Ginevra le accarezzava la schiena mentre continuava ad avvicinarsi all’uomo che per anni le aveva fatto odiare Pozioni.
“Abbassi la bacchetta.”
“Non ti lascerò fare i miei stessi errori.” – lui non sembrava voler cedere.
Ginevra alzò il braccio sinistro. Con minimo sforzo, una luce soffusa colpì i tre ragazzi Tassorosso: immediatamente questi ripresero fialette e preparati terapeutici, ignorando totalmente il professore e la nuova ospite della serra. Furono confusi all’istante e continuarono a fare ciò che stavano facendo fino a pochi minuti prima.
 
“Bene.”
“Weasley cosa…Sectum…”
Ginevra cambiò direzione alla sua mano, agitandola appena e stavolta verso Piton; gli tolse la bacchetta che iniziò a vorticare nell’aria verso di lei.
Ginevra la afferrò.
 
“Adesso lei mi deve ascoltare.”
 
Piton la guardò con tutta la rabbia possibile. Era lei la causa di tutto quello che stava accadendo. Poteva essere solo colpa sua.
 
“Io non ho nessuna intenzione di ascoltarti né di essere tuo complice, Weasley!”
“Lei lo farà invece.”
“Sei diventata come loro, non capisci?”
“Lei deve aiutarmi a capire.”
“Io ho scelto anni fa da che parte stare. Devi farlo anche tu e devi smetterla! – gli occhi di Piton erano caverne profondissime, piene di ricordi – Non ha senso stare con Lui.”
“Professore, io non sono l’Innesto puro.”
 
A quelle parole, Piton spalancò gli occhi.
Non riuscì più a controbattere e la ascoltò.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Bill era ancora chissà dove, Minerva era appena stata portata via in una zona altrettanto ignota del castello. Malocchio era disteso senza sensi poco distante.
Fleur, Ron, Hermione e Draco erano legati spalla a spalla con catene affatturate.
 
“Non è morto, lo sento. Vedrai Herm, riusciremo a salvarlo.”
“E’ gravemente ferito!”
“Fidati di me.”
Hermione serrò le labbra, come ogni volta che non trovava soluzione. Come tutte quelle volte in cui non riusciva a credere.
“Spero che sia come dici tu.”
Nonostante i tentativi di Draco di leggere il pensiero di chiunque gli passasse vicino, i loro morali erano a pezzi. Malocchio era davvero ridotto male; loro erano prigionieri nel loro stesso rifugio e il nemico agiva indisturbato, prendendo possesso di tutto ciò che trovava. Il Male li stava vincendo.
Da dentro.
 
“Ron…”
La voce della Veela li distrasse da tutto quel dolore.
“Sono qui, Fleur. Va tutto bene…” – Ron si ridestò e tornò a lei, alla sua ragione di vita. Erano legati a ridosso, i loro gomiti si toccavano ma non potevano guardarsi.
“Mi dispiace…mi dispiace per tutto…”
Fleur piangeva: per il marito torturato chissà da chi, per la figlia lontana ma almeno lei al sicuro, per il suo amore lì stremato. Per la sua incapacità. Per tutta quella impotenza che li inondava.
“Non dire così, ti prometto che troveremo Bill e starà bene. Tu sei… - Ron le parlò con tutta la calma che riuscì a trovarsi in cuore, per quanta poca fosse - …sei un’ottima medimaga, lo curerai. E voi…voi sarete felici, ne usciremo vivi…”
“Ron…”
“Te lo prometto, Fleur.”
“Ti amo…”
Il ragazzo tese il collo più che poteva e riuscì a guardarla con la coda dell’occhio, era bellissima. Era sempre bellissima, anche quando non poteva essere sua.
 
 
 
“Hermione! – dall’altro lato del cerchio di prigionieri, Draco strattonò l’amica – Lo sento, è lui! È lui!”
“Cosa? – la ragazza si spaventò e parecchio – Cosa senti? Chi?”
“Eccolo, è lui! Harry!”
“Harry…”
Nei combattimenti davanti ai loro occhi, sotto le scale, adesso anche Hermione lo riconobbe: era lui, il Prescelto, il ragazzo in cui tutti loro avevano sempre riposto la speranza. Lui, Harry Potter.
 
“Harry! – Hermione lo chiamò più forte che poteva – Harry!”
Con più intensità che riusciva.
Con tutto il fiato che aveva in gola.
 
Il ragazzo dal centro della sala alzò gli occhi e li vide, vide tutti i suoi amici stretti in quella morsa di prigionia concentrica.
Schiantò il Mangiamorte che aveva davanti e poi corse sulle scale.
Poggiò la bacchetta nella tasca dei jeans e si inginocchiò.
“Chi vi ha legato così? Hermione…” – la baciò sulla fronte e depositò una pacca sulla spalla di Draco.
“Liberaci, cosa aspetti? Forza, Harry!” – lo apostrofò Ron.
Harry riprese maldestro la bacchetta e la puntò alle spalle dei suoi amici, dove si originava la corda che li teneva, succhiandogli le forze. Con una formula complessa, e dopo vari tentativi, riuscì a liberarli.
“Bene amico, grazie.” – disse Ron, accertandosi che Fleur stesse bene.
“Cos’hai al polso?”
“Oh, niente. Frutto di un colpo mortale evitato per poco grazie a mio fratello. Ma niente di preoccupante, andiamo.”
“Dov’è Bill?” – chiese Harry all’amico.
“Non lo sappiamo. L’hanno portato via, come la McGranitt.”
 
Harry richiamò l’attenzione di tutti e descrisse come il castello era circondato e occupato dalle forze del Signore Oscuro. Evitò di dire loro quanti corpi avesse visto stesi e cercò di motivarli. Dovevano farcela.
Dovevano agire con la massima attenzione, non potevano fidarsi di nessuno se non di chi conosciuto, se non di quei pochi.
“Avete capito?”
“Va bene. – disse Hermione – Io salgo alla torre di Grifondoro, ci sono degli studenti. Hanno bisogno di aiuto.”
“Vengo con te.” – intervenne Draco, intuendo la ruga sulla fronte di Harry che, infatti, stava già nascendo.
“Sì, in due sarà meglio.”
“Saremo in tre. Vengo anch’io con voi.” – disse Harry.
 
“Io e Fleur andiamo nella torre di Corvonero. Sono sicuro che anche lì ci saranno dei ragazzi in difficoltà. Dovremo trovare anche qualcun altro dell’Ordine.”
“Aspetta Ron. – lo interruppe la donna – Prima dobbiamo portare Malocchio alla serra.”
“La serra?”
“Ho sentito dire da quei ragazzi laggiù che Piton ne sta facendo un ospedale improvvisato.”
“Va bene, andiamo. State attenti voi altri, dove ci rincontriamo?”
Harry guardava ancora Draco.
Draco guardava la mente di Harry.
Hermione intervenne, intuendo la situazione.
“Tra un’ora qui. Ci ritroveremo qui.”
“Va bene, - le rispose Ron – chiunque di noi trovi dei feriti, li accompagnerà alla serra di Erbologia allora. A dopo e mi raccomando.”
Lui e Fleur scomparvero in direzione della torre est, mentre i tre rimasti continuarono a studiarsi ancora per qualche istante in quel trambusto senza tempo.  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Piton camminava avanti e indietro nella serra di Erbologia, dove il suo collega Paciock era solito tenere le sue lezioni.
Ma adesso non pensava a lui; sembrava impaziente ed incredulo.
Tutto quello che stava succedendo era impossibile.
Tutto quello che Ginevra Weasley gli aveva raccontato era assurdo.
 
 
“Come sei arrivata a questa conclusione? È…è fuori da ogni logica, te ne rendi conto?”
“Se pensassi che fosse logico lo avrei già raccontato al Wizengamot. Invece loro hanno già emesso la loro sentenza, come tutti quanti qui dentro.”
Ginevra, dal canto suo, sembrava tranquilla nonostante le enormità delle sue rivelazioni.
 
“Non può essere.”
“Se lo sto dicendo a lei, un motivo ci sarà.” – i loro sguardi si incrociarono e Piton si rammaricò di non avere la sua bacchetta con sé.
“Non posso crederti.”
“E’ questo il problema, professore. Nessuno può credermi. Per questo lo sto dicendo a lei. Solo lei può provare a capirmi e ad aiutarmi.”
Piton batté un pugno sul tavolo in legno.
“Tu sei una Mangiamorte!”
“Lo era anche lei, se non sbaglio.”
“Ma io non lo sono più!”
“Io lo sono ancora invece. – ribatté rapida Ginevra – E lo sarò sempre. Lo sono e non posso farci niente, è la mia condanna. Ho stretto un patto di tempo con Lui e su questo non possiamo farci nulla. Ma possiamo evitare tante cose. – fece una breve pausa. – Tante morti.”
 
Piton la squadrò perplesso. Per un attimo, pensò a cosa sarebbe successo se si fosse fidato di lei e delle sue parole.
“La tua vita, Weasley. Potresti morire, lo sai?”
 
Lei non rispose pronta stavolta; abbassò gli occhi a terra, ma li risollevò lesta per rincontrare quelli di lui.
 
“Lo so.”
“Lui ti ucciderebbe.”
“Potrebbe valerne la pena.”
 
 
La tenda della serra si spalancò di nuovo: Fleur accompagnava il corpo di un uomo svenuto e, levitandolo, lo fece entrare.
“Professor Piton, Malocchio ha bisogno di cure e…”
La ragazza si interruppe nel vedere Ginevra e Piton parlare nella stessa stanza senza bacchette o magia dispiegata.
“Signora Weasley, venga pure. – Piton precedette ogni domanda della donna – Lo poggi pure qui, ci penseremo io e questi ragazzi Tassorosso.”
 
Fleur fece come Piton aveva detto, non aggiunse altro; adagiò Malocchio sul tavolo in legno, attenta a non farlo cadere troppo duramente.
“Grazie professore. Io e Ron torniamo al castello, la situazione è molto critica.” – e fece per uscire.
 
 
 
 
Le chieda di Victorie.
 
 
 
 
 
“Signora Weasley.”
“Sì?”
“Dov’è sua figlia?”
Fleur capì che quella domanda non veniva propriamente dal professore.
“In un posto sicuro. Con sua nonna e altri dell’Ordine. Adesso mi scusi, Ron è qui fuori e dobbiamo proprio andare. A presto.”
Ed uscì.
 
 
 
 
 
Nella serra ci furono secondi di sereno silenzio. Quasi la guerra fuori non esistesse, non fosse reale.
“Grazie. – Ginevra porse a Piton la bacchetta che gli aveva preso minuti prima – Ho sempre saputo che lei era un ottimo occlumante.”
“L’occlumanzia potrebbe aiutare anche te. – Piton afferrò la bacchetta e la sistemò nella parte interna della veste – Draco Malfoy ne è esperto quasi quanto me.”
“Non voglio avere niente a che fare con Malfoy. Devo andare adesso, quello che dovevo dirle gliel’ho detto.” – girò i tacchi e lasciò che il mantello l’avvolgesse.
“Astuto non farti sentire da tuo fratello, non credo sarebbe stato contento di saperti qui. Fleur deve essere pienamente dalla tua parte se ha deciso di coprirti. E tu devi tenere molto a sua figlia.”
“A presto, professore.”
“Mi devi un favore adesso, Weasley.”
Ginevra si voltò con sguardo torvo: i ricatti morali non le erano mai piaciuti.
“Quale.” – la sua voce esprimeva perfettamente il suo umore.
“Draco Malfoy. Lascialo entrare nella tua mente.”
Ginevra bofonchiò qualcosa, diede le spalle a Piton e chiuse la tenda della serra alle sue spalle; la puzza di bruciato e il fetore della putrefazione le invase le narici.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La torre di Grifondoro era davvero pullulante di studenti spauriti. Eppure capivano benissimo cosa dovevano fare, cosa Grifondoro volesse veramente dire.
Hermione e Draco si occuparono di proteggere la sala comune e Harry ne sorvegliava l’ingresso; fino a quel momento non c’erano state perdite umane nella torre. Era, insieme alla torre di Corvonero, il punto più difficile da raggiungere.
Quella però era una guerra di trincea: gli attacchi venivano studiati per bene e avvenivano improvvisamente. Far uscire incolumi gli studenti si prospettava come un’ipotesi ardimentosa e, a tratti, inverosimile.
 
Protego Totalum. Cave Inimicum.”
Harry si voltò a guardarla.
“Che stai facendo, Hermione?”
Lei era ancora tutta concentrata con la bacchetta puntata alle pareti. Nel pronunciare quegli incantesimi levando le braccia, la camicia di jeans le si sollevò appena, rivelando qualche centimetro della schiena.
“Cerco di proteggere più possibile questa parte. Spero solo che sia sufficiente per guadagnare tempo e che ci venga in mente un piano.” – si sistemò i capelli con un bastoncino in legno e continuò.
 
“Professoressa Granger, - una ragazza del sesto anno la interruppe di nuovo – quando potremo uscire di qui? Noi vogliamo combattere.”
“Sì, Nicol ha ragione. – gli diede man forte un ragazzino un paio d’anni più piccolo – Noi vogliamo difendere la scuola insieme a voi. E io voglio farlo anche perché sono un nato babbano!”
 
Hermione tirò giù la bacchetta e si avvicinò ai suoi studenti. Passavano appena dieci anni di differenza tra lei e loro. Rivedeva in quegli occhi tutte le sue aspettative del passato.
“Anche io sono una nata babbana e…”
“Davvero professoressa?” – chiese sbigottito il ragazzino.
“Sì e capisco cosa intendi, capisco la tua rabbia ma non dobbiamo agire insensatamente. Per il momento voi starete qui. Siete quasi tutti minorenni e non avete le capacità.”
“Ma noi…”
 
“Granger ha ragione. – fece Draco – Per il momento, è meglio stare qui dentro. Anche se, devo ammettere, che avrei preferito la mia vecchia sala comune. Era, come dire…più confacente ai miei gusti.”
“Smettila Draco. Non siamo qui per discutere delle sale comune. – lo rimproverò Hermione – E pensavo di averti detto quanto non sopporti quando mi chiami per cognome.”
Il biondo rise, divertito come non mai.
Assurdo come, anche in quella situazione così estrema, trovasse del divertimento.
 
“Hermione?” – Harry chiamò la ragazza con serietà, interrompendo qualsiasi altro discorso.
“Che succede?” - La professoressa gli si avvicinò, pronta ad ascoltarlo.
Non fecero in tempo a dire altro che un acutissimo suono, come di sveglia, riecheggiò per tutta la stanza e poteva voler significare solo una cosa; i tre dell’Ordine lo sapevano bene.
“L’incantesimo difensivo che hai lanciato, Herm! – urlò Harry, cercando di superare il suono stridente – Vuol dire che si sta avvicinando qualcuno. Le bacchette, presto!”
 
Il suono si fermò e i tre si disposero uno affianco all’altro, schierati davanti al dipinto della Signora Grassa. In un attimo, il quadro fu sganciato e l’ingresso aperto.
Un lampo rosso fuoco colpì Harry, spostandolo di diversi metri. Era il più vicino all’ingresso prima di volare via fino a raggiungere la finestra.
Impedimenta!” – gridò Hermione, ma un mantello nero si frappose tra il bersaglio e l’oggetto lanciato contro, impedendo l’impatto.
Draco, visto che nulla aveva funzionato fino a quel momento, scansò Hermione e si avvicinò alla porta.
Serpensortia!” – dalla sua bacchetta uscì un serpente che formò una spirale avvolta su se stessa.
La figura alla porta tirò indietro il mantello e, rivelatasi, produsse dei fili sottilissimi dalle dita che raggiunsero il serpente e lo neutralizzarono fino a farlo scomparire, come inghiottito dall’aria.
 
“Ginny! - Hermione spalancò gli occhi incredula e le corse incontro. La raggiunse e l’abbracciò – Come sei arrivata fin qui?”
“Non è importante adesso, sono qui per aiutarvi.”
 
Harry si rialzò e a vederle così, strette una nell’altra, gli ribollì il sangue; Draco aveva perso le parole.
“Non ci caschiamo. – e le puntò la bacchetta contro – Non abbasseremo la guardia, Hermione spostati.”
Ginevra lasciò da parte Hermione e gli si fece incontro, in tutta la sua sontuosità.
“Che c’è, Potter? Ti impressiona il vestiario di un Mangiamorte? Dovrei credere che non…”
Stupeficium!”
Ginevra incrociò le braccia, l’incantesimo rimbalzò portando Harry ad un'altra caduta.
“Smettila di essere così melodrammatico.”
 
Draco la osservava accomiatato e, mentre lo faceva, si perse in altri pensieri. Ginevra lo intuì.
“E tu, Malfoy, hai forse perso il tuo spirito?”
“Dov’è mio padre? Che ne è stato di lui?”
“Ti apro la mia mente, prego. Leggilo pure da solo.”
 
Malfoy non ci volle credere subito, ma appena azionò il suo potere poté scorgere una distesa incontaminata di pensieri mai esplorati.
Vide la Ginny bambina, la ragazzetta sveglia amante del Quidditch, tutta la loro infanzia gli passò davanti come non ricordava nemmeno lui stesso. C’era tutta la famiglia Weasley, c’era la scuola intatta. Poi c’era il Marchio Nero, la condanna, l’orologio dal laccio d’argento. E c’era Hermione, vagabonda e nuda, composta e immortale…
 
“Tu non lo sai…”
“Esatto, non lo so che fine ha fatto tuo padre. Sono arrivata da poco, ho visto soltanto Piton e so che ci sono molti cadaveri sparsi per il castello.”
 
“Ti ha detto Lui di ucciderci? Non è vero? – urlò Harry, sdraiato a terra – E come lo farai, eh?”
Draco lo aiutò ad alzarsi.
“Non vuole ucciderci, Harry. Nella sua mente non c’è niente di tutto ciò.”
“Non è vero! Guardala Draco, è peggio di qualsiasi altro Mangiamorte.”
“Lo so, ma per il momento non ha cattive intenzioni. – poi Draco la guardò, di nuovo incredulo – Cosa vuoi fare?”
Ginevra si girò intorno e vide tutti quei ragazzi spaventati che la fissavano attoniti. Provò pietà.
Non per loro, ma per se stessa: non avrebbe mai voluto essere guardata così.
“Vuoi farli uscire?! – Draco le lesse nella mente – E come? È impossibile, Weasley. Ci sono Mangiamorte a tutte le entrate.”
“Lo so.”
 
Un boato esplose nel cielo fuori la finestra della torre. Si potevano intravedere i giganti che da chissà dove accorrevano, con la loro naturale lentezza, per lo scontro contro Voldemort.
“Bene, abbiamo rinforzi.” – si rincuorò Harry.
 
Draco non ce la fece più. Corse su Ginevra e la inchiodò alla porta, sbattendola energicamente.
“Se ci tradirai, giuro su Caroline che te la farò pagare.”
“Io non leggo nel pensiero, Malfoy, ma credo che se non fosse stato per me non avresti mai incontrato Caroline quindi…abbi fiducia. – lo scrollò via contraendo la mano – I ragazzi Grifondoro davanti a me, tutti. E anche voi tre.”
Draco sostenne Harry, tenendolo per una spalla. Aveva battuto davvero forte contro la parete, era stato colpito inoltre da parecchi schiantesimi in battaglia ma, in definitiva, stava bene. I due uscirono dalla stanza, organizzando la ciurma dei ragazzi.
 
“Ginevra.”
La Mangiamorte stava per uscire, ma non si era dimenticata di lei.
Non avrebbe mai potuto dimenticarsi di lei.
E sentire la sua voce che pronunciava il suo nome, le fece mancare un battito.
Si voltò e le si avvicinò. Erano a due passi. Per un istante, sole.
Hermione le sfiorò la camicia bianca e poi quel mantello nero e il suo viso rimase serio. Ma quando salì al mento di Ginevra, e poi alle labbra, gli zigomi e i capelli non ebbe dubbi. Era lei, lo era sempre stata.
“Hermione, non abbiamo tempo. E non possiamo più.”
“Quando tutto questo sarà finito, io sarò tua. E tu sarai finalmente mia. – le baciò le labbra, disperata e libera - E mia soltanto.”
“Non possiamo più, non potrà essere…”
“Non è una promessa, Ginny. È la verità, è quello che sarà.”
Le mani di Ginevra si posarono sui fianchi di Hermione, lì dove vorrebbero posarsi sempre.
Lì dove tutto muore e poi ricomincia.
 
 
 
Vagabonda e nuda.
Composta e immortale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non potrei trovare parole migliori.”
“Che dici, Draco?”
All’esterno della porta della sala, si era alzato un certo brusio di ragazzi impauriti.
“Oh, niente Harry, niente! Ero sovrappensiero. – il biondo si sistemò davanti ai ragazzi rosso dorati – Preparatevi, c’è una guerra qui fuori.”
Ginevra li raggiunse e si mise alla guida del gruppo, Hermione chiudeva la fila.
In un attimo, i polsi dei tre dell’Ordine furono ricoperti da fili di ferro.
“Ehi, ma cosa…” – Harry iniziò a sbraitare, contorcendosi.
Ginevra non si voltò nemmeno a guardarlo, sorrise tra sé e si avviò, lasciando definitivamente, insieme a tutto il resto della carovana, il rifugio dei Grifondoro.
“Muovetevi.”
Sotto la scalinata che porta alle torri, era già pronto ad accoglierli un incarognito gruppo di Mangiamorte.

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Pensieri vorticanti ***


Il gruppo scese le scale composto, per quanto si possa essere composti da legati, e silenzioso, almeno apparentemente. Qualche bisbiglio si agitava, incurante dell’ordine perentorio di muoversi e tacere.
 
“Ed ora cosa facciamo?” – Harry era uno dei pochi che ci provava.
“Niente, ci fidiamo.”
“Di chi, Hermione? Della tua dolce innamorata che ci sta portando alla morte?! Oppure, perché no, fidiamoci direttamente di Voldemort e facciamola finita da soli.”
Hermione non poteva scuoterlo, eppure avrebbe voluto tanto farlo: erano legati ai polsi e le bacchette erano troppo lontane dalla loro portata. Disarmati, in un’unica parola.
“Ha detto che è qui per aiutarci. Saprà quello che sta facendo.” – rispose lei, cercando di non farsi sentire, cercando di sussurrare il più piano possibile. L’intonazione però la tradiva.
“Certo! Certo, fidiamoci. Fidiamoci di un Mangiamorte e diciamo addio alla possibilità di vivere e di salvare Hogwarts.”
 
“Smettetela voi due. – Draco, a pochi passi e incatenato allo stesso modo, li aveva sentiti fin dall’inizio, cercando di ignorarli. Adesso però iniziava a spazientirsi – Ci ha detto di seguirla. Non abbiamo altra scelta, Harry!”
Harry lo guardò come si guarda il nemico mortale, pensando per la prima volta dopo tanti anni a qualcosa di cui si stava già pentendo in partenza.
“E’ inutile che ti arrovelli tanto. – continuò Draco, il ciuffo biondo spettinato – E smettila di pensare quelle cose.”
“Non sto pensando proprio a niente.”
“Ah no? Ricordati che io non sono un Mangiamorte. Non lo sono più e non vi sto tradendo, come devo dimostrarlo? Ho quasi ucciso mio padre prima! Non ti basta per smettere di avere tutti quei dubbi che ti circolano nel cervello?”
“Potrebbe essere una finta. E smettila di leggermi il pensiero, non lo sopporto.”
“Harry!” – anche Hermione sussultò a quella insinuazione poco schermata.
“Una finta?! – riprese Malfoy con gli occhi divenuti scuri – Credimi, lo avrei preferito. E invece siamo su due strade del tutto opposte. Non ci salveremo entrambi, o io o mio padre. Se pensi che sia io il traditore qui dentro ti sbagli di grosso.”
“Draco, non ho detto questo.”
“In tutti questi anni non hai capito proprio niente di me.”
Ad Hermione balenò qualcosa nella mente, doveva muoversi. Il loro tempo stava per scadere! Erano quasi arrivati ai piedi della scala e lei sapeva benissimo che poi non avrebbero più avuto l’opportunità di parlare tra loro.
“Draco, che cosa sai? Che cosa hai letto finora? – la voce le tremò appena, spaventata da quella che poteva essere la verità – Chi ci ha traditi, chi ha detto ai Mangiamorte come entrare e soprattutto che questo era il momento più propizio per farlo?”
Ma Hermione non sentì mai la risposta dalla bocca del suo amico. Le scale erano terminate e una dozzina di uomini e donne incappucciate stava già bramando la loro fine.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Proprio un bel lavoro, Weasley. – una delle tenebrose figure si avvicinò alla sua alleata appena giunta. Entrambe erano vestite di nero, ma Ginevra non aveva la maschera e risaltava su di lei il bianco immacolato della camicia. Dalla voce però, era chiaro che anche quella nuova arrivata fosse una donna – Non avrei mai pensato che, con un colpo solo, tu potessi riunire tutti i marmocchi Grifondoro, Draco Malfoy, una professoressa e il Prescelto.”
La sua voce era una miscela mal riuscita di ammirazione e disprezzo.
 
Ginevra rise più cupa di quanto già non avesse fatto l’altra. I suoi denti si scoprirono, rivelando un candore che si opponeva alla veste che indossava.
Tutti i suoi sottoposti presenti pendevano da quelle che sarebbero state le sue parole. La donna lì di fronte per prima.
 
“Vedi Selwyn, - disse Ginevra - a differenza di molti di voi, io agisco. E quando decido di farlo, è sul serio.”
 
La donna si fece piccola, ancora più piccola di quanto già fosse.
La sua maschera era d’oro e rame.
“Non ho mai dubitato sul fatto che tu saresti stata la nostra carta vincente. L’Innesto puro.”
A sentire quella parola, tutti i Mangiamorte chinarono il capo: rispetto. Era il loro modo di dire che da quel momento in avanti avrebbero accettato qualsiasi suo ordine perché lei agiva per conto diretto del Signore Oscuro. Era il suo rappresentante, il suo luogotenente primario.
 
 
 
 
 
“Cosa…tu…tu sei l’Innesto puro!? Non…non può essere…”
“Zitta Hermione!” – Draco richiamò la sua amica all’ordine, ma era troppo tardi: su di loro si abbassò lo sguardo di Selwyn e di altri coperti dalla maschera.
La Mangiamorte, di costituzione esile e dalla pelle liscia e scura, si avvicinò: il suo passo spedito lasciava trasparire il fastidio provato per essere stata interrotta. Arrivò così vicina ad Hermione che lei poté coglierne il respiro e percepirne la giovane età; dalla maschera, sbucavano fluenti ciocche castano chiaro.
 
 
 
“Hermione Granger, la professoressa più giovane che Hogwarts abbia mai reclutato. – il tono di Selwyn era del tutto derisorio. Afferrò i capelli di Hermione senza preavviso e tirò, provocandole una scossa al cuoio capelluto - E così, Weasley, è lei quella di cui tanto si parlava. Non è vero?”
Ginevra non si voltò, dava le spalle alla situazione. Come aveva sempre fatto.
“Sì, è lei.”
“Oh! Ma che piacere, mia cara. – continuò Selwyn. Hermione la trovò più odiosa di chiunque altro. Sorrideva così sguaiatamente che le si rivoltò lo stomaco – Sai, ora possiamo dirtelo. È giusto che tu lo sappia. Anzi! È giusto che tutti voi, coraggiosi Grifondoro, sappiate come abbiamo fatto ad entrare qui.”
“Io non ho paura di te.” – rispose Hermione, dura come non lo era mai stata.
“Invece dovresti. E come, se dovresti.”
“Né di te né di quello che dirai.”
La donna alzò la mano, mentre con l’altra continuava a tenere la giovane per i capelli. E con un sonoro ciaff le colpì tre volte il viso.
Con tutto l’odio che aveva.
 
“Dovresti. Dovresti avere molta paura di noi. – poi prese il mento di Hermione e la costrinse a guardarla tramite le fessure della maschera mortuaria – E’ tutto merito tuo se siamo qui.”
 
 
 
 
Harry e Draco sgranarono gli occhi. Ginevra continuava a restare voltata, fredda.
I ragazzi della scuola non riuscivano nemmeno a respirare per la paura: i Mangiamorte li avevano circondati.
 
 
 
 
 
Hermione non poteva crederci. Non poteva. Non ci riusciva.
Qualcosa dentro le gridava che non poteva essere.
 
“Io non...non ho fatto niente!”
 
 
“Esatto, mia cara! – rispose la donna - Non avrei potuto dirlo in modo più azzeccato. Tu non hai fatto niente per ostacolarci, niente di niente. Al nostro arrivo, era già tutto pronto. Le porte erano spalancate e non abbiamo dovuto far altro che…entrare. Qualcuno ha agito alle tue spalle, ti ha raggirata come voleva e, tramite te, ha scoperto che oggi era il momento perfetto. Sei stata così ingenua…così sdolcinata…così… - una risata amara, l’ennesima – …innamorata! Talmente rimbecillita da non vedere niente. Complimenti, professoressa Granger.”
 
Gli occhi di Hermione erano fessure incandescenti.
Si alzò in piedi furiosa, continuando ad avere le mani legate dietro la schiena.
“Dimmi che non è vero! – urlò, più forte che poteva, più rabbiosa e incazzata di quanto fosse mai stata in vita sua – Dimmi che non è come dice lei! Dimmelo!”
Si agitava, stretta nelle morse di quelle catene saldamente affatturate.
E non si rivolgeva a Selwyn. Non si rivolgeva al destino, insensibile ai suoi sentimenti.
Non si rivolgeva a Draco, che tentava in tutti i modi di placarla. Non si rivolgeva ad Harry, l’unico che aveva provato a reagire.
Né a tutti quei neri uomini incappucciati.
Hermione sbraitava solo a lei.
Solo a quella che pensava fosse lei.
Tutta la sala d’ingresso era vuota in quel momento.
Non c’erano finestre, porte, morti, rumori, odori, ansia.
Non c’era niente, nient’altro che non fossero loro due. Come sempre, solo loro due. Sempre.
Continuamente.
Come una danza senza tregua. Estenuante.
“Dimmelo Ginevra!” - c’era solo quella ferita al costato, appena inferta.
 
 
Ma Ginevra non si voltava.
Ginevra non l’ascoltava. Era chiusa nel mantello nero da cui si riusciva a vedere solo il bianco perlaceo della camicia, l’unica parte chiara della sua figura. Nemmeno gli occhi splendevano d’azzurro.
Era chiusa dentro se stessa.
Prigioniera.
Fuori dal mondo. Dentro di lei.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Fa male, vero? – continuò a inveire la Selwyn, come un coltello che scende più a fondo nel taglio fresco, godendo di ogni centimetro di pelle dilaniato – Cosa si prova a capire di essere stata usata? Tradita. Tradita da chi ti ha promesso tutto solo per averti una volta. Solo per possedere il tuo corpo che, per quanto delizioso, non basterà. Le belle parole, i bei gesti, la gentilezza. Oh, credimi Granger, so benissimo quanto deve essere stato bello essere conquistata da lei. Ci sa fare, tremendamente. Ma è finita e ora lo senti. Lo senti il vuoto, vero? E chissà cosa proverai, quando tu e tutti i tuoi amichetti morirete per mano sua. Per la stessa mano a cui ti sei concessa come una stupida, incurante della verità.”
“Maledetta! – Hermione continuava a sbraitare – Maledetta!”
Exulcero.”
 
La voce della Mangiamorte fu delicata, ormai aveva raggiunto il suo obiettivo. Era calma, estasiata e placata, ma l’esito del suo incantesimo non fu altrettanto docile.
Dalla sua bacchetta, poggiata sul fianco di Hermione, si sprigionò una scossa potente che investì la ragazza e la circondò di un alone denso.
 
 
 
 
“Hermione!”
“No!” – Harry non poteva niente, nonostante provasse in tutti i modi a liberarsi dalla stretta.
“Ginevra! – anche Draco era totalmente inerme, ma gridò verso la Mangiamorte di spalle che, fino a poco fa, credeva di conoscere - Dannazione, fa qualcosa!”
 
 
Miasma scuro.
Colore indefinito. Niente.
Ginevra era ancora di spalle, ferma come il tempo che scorreva attraversandola, per poi spaccarle il cuore con quella visione non guardata con gli occhi.
Ma la sentiva.
La sentiva come il per sempre che aveva rincorso disperatamente e che ora le stava scappando di mano, proprio ora che Hermione urlava di dolore e lei rimaneva così. Ferma. Di spalle. In silenzio.
 
Epismendo.
Draco avvertì qualcosa nell’aria: qualcuno aveva lanciato la contro fattura. Senza parlare e senza muovere bacchetta.
 
 
Ancora qualche secondo ed Hermione stramazzò a terra, con un tonfo sordo. Aveva perso i sensi.
 
 
 
 
 
 
 
“Bene. – disse soddisfatta Selwyn – Per il momento può bastare. Ti assicuro, Granger, che non finisce qui. Purtroppo però non spetta a me tale onore.”
 
 
 
Finalmente un mantello nero si mosse, se pur impercettibile.
“Prendi Potter e portalo via.” – la voce di Ginevra intervenne gelida.
“Dove?”
“Dove sai.” - non osava ancora voltarsi.
“Subito. – la donna puntò il dito a due Mangiamorte molto robusti al suo fianco – Forza, avete sentito? Prendetelo e andiamo.”
Senza far troppo rumore, le catene di Harry si divisero da quelle di Draco ed Hermione con un colpo di bacchetta e il ragazzo fu sollevato di forza e condotto, tramite le scale in movimento, in una delle innumerevoli zone ai piani alti del castello.
 
Draco si precipitò a terra accanto ad Hermione e, col cuore che picchiava all’impazzata, sentì che la ragazza respirava ancora.
Selwyn portò con sé gran parte dell’esercito oscuro: per il Prescelto occorrevano tutte le precauzioni possibili.
Con Ginevra rimasero solo tre di loro.
 
 
 
 
“Professoressa…” – un vocio sommesso proveniva dai ragazzini, alcuni piangevano senza avere il coraggio di far rumore. Tremavano.
 
 
 
Ma il ragazzo biondo a terra no: gli avevano tolto quasi tutto per aver ancora paura.
“Non hai nemmeno il coraggio di guardarla! – urlò Malfoy, rosso di rabbia. Una vena sul collo sembrò quasi aprirsi – Che razza di persona sei, Ginevra Weasley? Guarda che cosa le hai fatto! Guardaci!”
 
 
La stanza parve sprofondare in un silenzio irreale; ogni suono, che non fosse di passi in lontananza, cessò.
 
 
 
 
 
 
 
“Tiger.”
“Sì.” – il Mangiamorte chiamato si avvicinò alla sua comandante.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Al mio tre, afferra Hermione e voltatevi.
 
L’ha quasi uccisa! Respira a malapena!
 
Al tre. Prendila e voltati.
 
 
 
 
 
Ginevra continuò, incurante, a dare ordini. Draco era ipnotizzato da quella loro conversazione tra i pensieri.
 
“Io mi occupo dei ragazzi, Tiger. Tu di Malfoy e Granger.”
“Va bene, con vero piacere.” – Tiger sfoderò la bacchetta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Nessun altro rumore.
Nello stanzone sembravano aleggiare solo i pensieri che, sopra le teste di tutti, vorticavano per poi intrecciarsi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Uno.
 
Stai per farci uccidere e mi apri la tua mente per cosa? Che senso ha?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Tiger, un’ultima cosa.” – disse Ginevra, slacciando il mantello e facendolo posare solo sulle spalle.
“Sì?”
“Vedi di non deludermi.”
“Non preoccuparti di questo. Li ucciderò con tutta la crudeltà che meritano una Sanguemarcio e un infedele Purosangue.”
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra parlava a Tiger guardando finalmente la scena che aveva davanti. Ma fissava Draco e in modo intenso, come volesse trasmettergli qualcosa, fosse anche solo l’intensità del momento.
 
 
 
 
Prendila e voltati. Fa’ come ti dico. Ai ragazzi ci penso io.
 
Tu non capisci. Harry aveva ragione, aveva ragione su tutto, tu ci stai facendo uccidere. Per quanto mi riguarda posso anche capirlo, non ti sono mai andato a genio, ma lei che colpa ne ha!? Lei si è solo innamorata di te!

Due.
 
 
 
 
 
 
 
“Bene, Tiger. Non mi resta che salutarti.”
“Ti raggiungo appena termino qui, Weasley. Non ci vorrò molto.”
“No. Temo che tu non abbia capito. – Ginevra si sgranchì le dita – Noi due ci rivedremo sì, ma all’inferno, non più qui.”
“Cosa?” – Tiger non capì, vide solo che Ginevra Weasley alzò la mano verso di lui e allora, prima di qualsiasi altra mossa, puntò la bacchetta su Draco ed Hermione e gridò.
 
 
 
 
 
 
 
Tre.
 
Ginevra, rifletti…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Crucio!”
 
Draco prese Hermione, semicosciente, l’avvolse stringendola a sé e la costrinse a voltarsi.
Una luce accecante si liberò nell’androne di ingresso, seguita subito da un fuoco immenso.
Tiger era troppo vicino all’origine della fiamma: per lui e gli altri due Mangiamorte, l’impatto fu letale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Al secondo piano del castello, due uomini studiavano le prossime mosse. C’era una guerra da vincere.
“Bene Bill, ci siamo quasi. Passami la maschera.”
“Quanto durerò ancora?”
“Questo non so dirlo. Dipende da quello che il Signore Oscuro ha voluto quando ti ha creato.”
L’uomo che stava parlando prese l’ampia tenuta nera e una maschera in gesso d’ottone ridefinito in oro bianco. La guardò estasiato e poi la indossò, cercando di nasconderci dentro tutta la chioma corvina.
 
“Lucius Malfoy ti aspetta all’ingresso della Stanza delle Necessità. Il Padrone ha deciso che lì si realizzerà l’unione degli Innesti. Voi due siete la sua linfa vitale.”
“Molto bene.” – disse il Mangiamorte, finendo di sistemarsi.
Il servitore si bloccò un momento, rapito in tutti i suoi sensi.
“Sei perfetto. – lo guardava pervaso da un’ebbrezza contemplativa – Sei davvero perfetto. Nessun altro avrebbe potuto essere più appropriato. In te splende la purezza della magia più vera e la brama di potere, propri del Padrone.”
“Smettila adesso. Nessun altro deve sapere che io sono il secondo Innesto! O il piano fallirà. E stavolta, dopo sette lunghi anni, il Signore Oscuro deve avere la sua vendetta. Hogwarts sarà nostra.”
 
I due non parlarono oltre. Presero tutto ciò che avevano utilizzato per il cambio d’abiti e uscirono dalla stanza in penombra.
 
 
 
“Mangiamorte! Attenzione, ci sono Mangiamorte nei corridoi!”
Un ragazzino in blusa gialla con risvolto nero aveva dato l’allarme vedendoli sbucare di soppiatto. “Avada Kedavra.”
Il Tassorosso non ebbe nemmeno il tempo di essere udito da altri: il suo cadavere giaceva in una pozza di sangue lungo il corridoio con la testa staccata dal busto.
I due Mangiamorte lo calpestarono con disprezzo e corsero via.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Adesso statemi bene ad ascoltare! Correte, correte più che potete verso la serra di Erbologia e restateci per tutto il tempo. Non una parola, nemmeno un sussurro deve uscire da voi mentre andate. È pieno di Mangiamorte qui intono! Avete capito o devo confondervi per farvi correre da muti?”
Ginevra risultava al quanto difficile da capire per un gruppo di studenti ignaro di tutta la storia.
Del resto, lei era un rebus anche per i protagonisti.
Fino ad un attimo prima aveva quasi fatto uccidere Hermione, l’aveva difesa udita solo dall’Occlumanzia di Malfoy, poi aveva ordinato a Tiger di ucciderla davvero aggiungendoci anche Draco, poi aveva steso Tiger ostacolando il suo attacco ed ora…ammoniva gli studenti affinché facessero massima attenzione ai Mangiamorte nel castello.
Ma non si curò oltre delle facce stralunate dei ragazzini Grifondoro e tese le braccia su di loro.
Desilludo. - su tutte le teste scese una cappa di nebbia che li avvolse, indifferente al loro sospiro di sorpresa – E adesso via, correte! Alla serra, svelti!”
Lo scalpitio che si udì fece capire che i giovani stavano ascoltando il consiglio di quella stranissima strega.
 
 
“Vado con loro! – Draco adagiò Hermione e si alzò velocemente – Mimetizzami.”
Ginevra, invece di mimetizzarlo, gli cinse il collo: lo abbracciò.
Fu un gesto che nemmeno la migliore delle premonizioni della professoressa Cooman avrebbe mai dato come minimamente possibile.
“Grazie.”
“Ora non… - Draco era in evidente imbarazzo, non se lo aspettava ma dovette ammettere che, in un meandro sperduto del suo cuore, gli fece piacere - …non c’è tempo. Prenditi cura di lei e, appena potete, mettetevi in salvo. Ci incontreremo alla serra e ce la faremo.”
Così si staccarono, increduli della loro stessa vicinanza.
“Portala con te…”
“No! – rispose subito il ragazzo, senza pensarci due volte - No, Ginevra. Guardala, si sta riprendendo e tu hai bisogno di lei. Hermione sa tutto di Hogwarts ed è uno dei membri più capaci dell’Ordine. Ne avrai bisogno, non puoi affrontare tutto da sola.”
“Dì a Piton che l’ho ascoltato, ho seguito il suo consiglio.”
“Non preoccuparti di questo, lo saprà appena mi vedrà arrivare con uno sciame di Grifondoro alle calcagna! È un ottimo legilimens. Tu piuttosto, sta attenta a lei e non preoccuparti, parlerò subito con Fleur. Appena possibile.”
“E’ proprio necessario?” – Ginevra appariva umana per la prima volta dopo tantissimo tempo.
“Era suo marito, lei deve sapere. – poi come se si fosse ricordato di qualcosa di estrema urgenza, Draco saltò sul posto – Non perdiamo altro tempo! Forza, altrimenti quei ragazzini mi scapperanno. Rendimi invisibile!”
Ginevra gli prese la mano e, dopo aver pronunciato la stessa formula che aveva usato sui Grifondoro, lo sentì allontanarsi. Era leggero.
E, per la prima volta, un amico.
 
 
 
Fu solo quando realizzò che i ragazzi si sarebbero salvati, perché avevano Draco e gli altri dell’Ordine vicini, che si voltò.
E la vide.
Le corse incontro mentre il mantello svolazzava e, raggiuntala, le si inginocchiò accanto. Hermione era seduta, con la schiena poggiata al muro ed ormai quasi del tutto cosciente, si teneva il braccio destro da cui usciva del sangue.
Gli occhi avevano ripreso quel guizzo luccicante che li caratterizzavano. Era lì la sua essenza.
Lentamente le stava tornando nello sguardo la curiosità che li ha sempre riempiti, seppur ora stanchi.
Era lei, bellissima e coraggiosa com’era sempre stata da quando la conosceva.
Com’era sempre stata fin dalla prima volta che, da piccolissima, l’aveva vista a King’s cross.
“Hermione… - Ginevra si chinò sul suo ventre mentre qualcosa le bruciava gli occhi. Che fossero lacrime,che fosse l’Amore, che fosse semplicemente lei - …Hermione…potrai mai… - Ginevra era tutta su di lei, rannicchiata nel più dolce dei modi - …potrai mai perdonarmi…”
E mentre parlava, gocce salmastre tinsero la maglia strappata di Hermione.
La professoressa socchiuse gli occhi, incurvando un sorriso; lasciò il braccio dolorante e, lenta, prese con entrambe le mani il viso di Ginevra fino a portarlo alla sua altezza e le baciò la fronte, gli occhi e le labbra.
Con la pace del dolore, la voglia della stanchezza e il bisogno irrequieto.
Su quelle labbra, Hermione trovò la forza per rialzarsi.
Su quelle labbra, Ginevra ritrovò la speranza di vivere oltre quella guerra.
Su quelle labbra, scoprirono di appartenersi ancora e da sempre, come un unico eterno richiamo di falco.
Poi Hermione la tirò a sé e l’abbracciò, stringendola come Ginevra aveva bisogno.
 
Nello stesso istante, alle spalle di Ginevra, la giovane Mangiamorte Selwyn tornava allegramente sui suoi passi, esaminando la propria bacchetta ed elencando i morti di cui si era glorificata. Alzò lo sguardo e le vide. Gli occhi le divennero braci.
“Weasley! Cosa…cosa stai facendo avvolta come una serpe a quella lurida nata babbana? Questa il Signore Oscuro non te la perdonerà. La pagherai cara. – strinse la bacchetta, la puntò sul mantello di Ginevra distante pochi metri – Molto cara!”
“Avada Kedavra.” – ma Hermione, stavolta, fu più veloce.
 
Ginevra riuscì a voltarsi appena in tempo per vedere la Mangiamorte stesa, avvolta dal verde intenso; un ultimo respiro e poi il rigore della morte.
E pensò che Draco, in fondo, aveva ragione: lei aveva tremendamente bisogno di Hermione.
“Bel colpo, accidenti. Mi hai…salvata…”
“Adesso che ci condannino insieme.”
“Cosa?” – Ginevra si perse un attimo. Stava aiutando Hermione ad alzarsi e fu colta dall’improvvisa e nuova vicinanza di quel volto da cui poteva scorgere il piacere del paradiso.
Possibile che anche nel bel mezzo del nulla, l’uomo senta l’amore?
“Il Wizengamot. – rispose Hermione, chiudendo un attimo gli occhi per il dolore al braccio – Ti hanno condannata per aver utilizzato la maledizione mortale su Bellatrix, ricordi? Mentre stava per uccidermi. Ora… - li riaprì, ambrati e profondi, intimi - …ora l’ho usata io…”
“Per me.”
“Sì, per te.”
“Che ci rinchiudano nella stessa cella, allora!”
Hermione rise: era in piedi e si reggeva abbastanza bene. Il viso liscio e luminoso, pieno di spietata perfezione.
“Non potrei chiedere di meglio.” - così dopo un bacio rubato, si incamminarono svelte alla volta della torre di Corvonero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La serra si aprì al suo tocco senza esitazioni; le protezioni funzionavano solo contro i Mangiamorte che, in effetti, non erano ancora riusciti a violare quel luogo. E lui, Mangiamorte non lo era più.
“Professore!”
Piton, nel bel mezzo della serra, sussultò.
“Draco! – lasciò per un attimo l’unguento che stava per cospargere sulla gamba di Malocchio, che naturalmente sbraitò nel vederlo allontanarsi, ma lui incurante andò incontro al ragazzo biondo – Sei solo? Come hai fatto a raggiungerci? Pensavo fossi con gli altri nel castello.”
“Lo ero. Ma a dire il vero, professore, non sono per nulla solo. Revelio.”
E, come funghi precoci, spuntarono tanti giovani quanti Godric Grifondoro avesse tra le sue fila scolastiche, uniti a tutti quelli che Malfoy era riuscito a portare via dal castello in fiamme.
“Ottimo lavoro Draco. Voi tutti, – il professore si rivolse ai suoi alunni appena arrivati e salvi – vi esorto all'assoluto silenzio. I maggiorenni aiutino i tre Tassorosso infondo alla serra nella preparazione di tutte le misture che vi verranno ordinate. Svelti!”
Malfoy rise tra sé ripensando a tutti gli ordini perentori che aveva ricevuto da quell’uomo in tema di Pozioni quand’era uno studente come loro.
Poi di colpo si fece serio, impaziente di parlare, di rivelare tutto quello che aveva scoperto.
“Professore, io devo dirle…”
“So tutto. Ma Fleur non è qui.”
Il giovane lord inglese impallidì, immaginando la risposta alla domanda che gli era sorta spontanea.
“Dov’è?”
“Lei… - Piton pareva esitare - …è venuta qui quando c’era anche Ginevra Weasley e non sapevamo ancora da che parte stesse. Perciò poi è andata via in fretta, con Ronald Weasley suppongo. Credo fossero diretti alla torre di Corvonero.”
“Perché non l’ha trattenuta?!”
“Non sapevo, Draco! Non sapevo niente. È stata Ginevra a dirmi tutto, non appena Fleur se n’è andata. Ero all’oscuro di ogni cosa!”
Draco imprecò prendendosi la testa tra le mani. Ed ora cosa ne sarebbe stato? Chi dirigeva tutto questo? Quella domanda gli tormentava l’anima.
Abbassò le mani, lo sguardo risoluto e freddo, e afferrò le spalle del professore.
“La prego. La prego, sia sincero! Secondo lei… - il giovane Malfoy tremava dalla rabbia di non comprendere - …secondo lei, chi c’è dietro tutto questo?”
Ma Piton non dovette nemmeno sforzarsi di parlare: Draco lesse la sua risposta pensata prima che lui potesse aprir bocca, con la semplicità con cui si nota tra miriadi di giornali un titolo a grandezza cubitale. E rimase scioccato.
Tutto stava precipitando e per colpa di colui che aveva sempre creduto suo amico.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Per di qua!”
Come schegge sparate, due figure galoppavano per il corridoio del terzo piano senza esitazioni.
“Sei sicura? Ho sempre pensato che alla torre Corvonero si accedesse dall’altro lato.”
“Vuol dire che hai sempre pensato male!” – la rimproverò, scherzando, Hermione.
Le due ragazze erano così tanto diverse da sembrare di mondi del tutto opposti: una, coperta di nero con la catena d’argento pendente dal taschino, come moda d’altri tempi; l’altra, luminosa e trasparente, con una camicia di jeans logora e aperta, audace quanto sarebbe bastato per entrambe.
Le finestre lungo il tragitto erano spalancate e il sole si intravedeva ormai basso. Stava per scendere la sera.
Ma, della fine di quella guerra cieca, non se ne scorgeva nemmeno l’ombra.
“Almeno non ci sono morti in questa zona del castello. – disse Ginevra continuando a correre – E’ già tanto. Nella nostra casa comune, la situazione non è così rosea.”
Hermione rallentò fino a fermarsi; si mise una mano sul fianco, non aveva molto fiato per correre così disperatamente. La compagna la vide e, scivolando, fece marcia indietro.
“Non… - sospirò - …non è… - altro sospiro - …un…”
“Non affaticarti, Hermione! Non sprecare il fiato. Rilassati.” – Ginevra la sostenne e la portò a poggiarsi ad un arazzo appeso alla parete, raffigurante un giovane Merlino imberbe.
“Non è…un…”
“Hai la testa dura, Granger.”
“Mai…mai quanto te. – Hermione si teneva in piedi con un braccio ciondolante intorno alle spalle di Ginevra, le dita incespicavano nella seta del mantello – Non è un bel segno.” – riuscì alla fine ad ultimare la frase.
Ma la compagna sembrava non cogliere.
“Cosa, la tua testa dura? Si', lo so, anch'io ho sempre pensato che non fosse un bel segno. Preferisco quanto non pensi troppo.”
“Che non… - Hermione tenne duro - …che non ci sono cadaveri…né feriti, né altri. Non è…normale.”
Stavolta Ginevra non pote' fraintendere: forse aveva ragione. Se Hermione aveva una qualità superiore a lei, era che riusciva a vedere tutto un attimo prima.
C’era uno scontro aperto lì, una battaglia. Possibile che lungo quelle centinaia di metri non ci fosse nemmeno un'anima? Anche i fantasmi sembravano spariti.
“Che ne è stato di…Harry?”
“Non lo so.”
Hermione si ridestò, cercando di mettere più a fuoco la situazione.
“Sei stata tu, prima, a ordinare che fosse separato da noi. L’hai mandato via con Selwyn.”
“Sì, ma solo perché mi era stato ordinato di isolarlo e ho dovuto obbedire. Avrei dato troppo nell'occhio se non lo avessi fatto. Poi, se devo essere sincera, penso che lui se la possa cavare. A meno che…”
“A meno che?” – chiese con un tono di voce in più Hermione.
“A meno che non sia vero tutto quello che penso.”
“Cosa pensi? Credi che Voldemort sia con lui, che lo stia già torturando per poi ucciderlo? – Hermione chiedeva e immaginava mille cose, spinta dalla paura di perdere il suo migliore amico – Se è così, dobbiamo muoverci. Andiamo!”
Ginevra le cinse la vita e la bloccò dal tentativo di rincamminarsi. Le accarezzò il viso e, per un momento, desiderò fortemente di non doverglielo dire.
“Hermione…”
“Andiamo! Cosa stiamo aspettando? Potrebbe già essere troppo tardi. Io sto bene, posso farcela. Dobbiamo salvarlo!”
“Lui non sarebbe così clemente con te.”
Hermione si tirò indietro da quell'abbraccio, scansandosi da lei. Voleva guardarla bene negli occhi mentre ripeteva quello che aveva appena insinuato.
“Lui farebbe la stessa cosa per me.”
“Sì, forse sì. Per te sì, so che è innamorato di te. Lo so da quando eravamo a Dublino. – convenne Ginevra, facendo un passo verso di lei – Ma non farebbe la stessa cosa per tutti quanti noi. Non per Hogwart. Non per il mondo magico, né per quello babbano. Hermione, io…ho provato a leggere la sua mente e non ci sono riuscita, non so granché di Occlumanzia ma…”
“Parla chiaro, Ginny. Che vuoi dire? – Hermione aveva bisogno di vederci chiaro – Basta giri di parole. Io ho scelto di crederti, di stare con te. Vorrei che tu fossi sincera. Credo di meritarlo, almeno una volta.”
“Sì, certo ma…”
“Harry è importante per me. Non come io lo sono per lui, ma farei qualsiasi cosa pur di tirarlo fuori di qui sano e salvo.”
“Lo so e non è gelosia la mia, non del tutto almeno.”
“La verità, ti chiedo solo questo.” 
“Non la so la verità ma...”
Hermione non volle più ascoltarla: non le interessavano più le parole subliminali di tutti quei discorsi al vento e si incamminò, a passo zoppicante; era intenzionata a raggiungere la torre di Corvonero, a trovare il suo migliore amico, Ron, Fleur e tutti gli altri e a finire per sempre quella guerra che da anni toglieva loro ogni sogno di libertà.
La voce di Ginevra, però, la raggiunse ed infranse la sua aspettativa.
“Io credo che sia lui l’Innesto puro!”
A distanza di metri, Hermione si bloccò. Il braccio le diede una scossa allucinante e, per un attimo, senti' che il suo cuore non avrebbe retto l’urto.

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Il più bello degli incubi ***


“Io credo che sia lui l’Innesto puro.”
Hermione non poteva credere a quelle parole: con la testa poteva provarci, ma il cuore non gliel’avrebbe mai permesso. Harry non era l’Innesto, non per lei. Doveva esserci un’altra spiegazione.
Una cosa era certa: doveva esserci una talpa, un doppiogiochista ed era tra loro.
Ora però c’erano gli studenti Corvonero da tirare giù dalla torre, tutto il resto poteva aspettare ancora un po’. Priorità: lei aveva sempre scelto in base a ciò che era più importante.
Perciò decise senza bisogno di pensarci due volte; continuò a correre, finché un improvviso boato fermò ogni movimento, costringendoli ad ascoltare la voce che si levava decisa.
 
 
 
“Il Signore Oscuro è caduto. Potete uscire dal castello! L’ultimo baluardo del male è stato sconfitto, Voldemort è morto! Grazie a tutti voi Hogwarts è salva, anche se non del tutto intera ma per questo ci sarà tempo. Avremo tutto il tempo da qui in poi per riportarla al suo splendore. Lunga vita al mondo babbano e magico, da oggi uniti più di prima!”
Un’ovazione seguì quelle parole di gioia: urla, scalpitii, bacchette alzate che emettevano luci nel buio della sera. Il sole calava e il cuore, finalmente, si rasserenava. Incredulo ma felice.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il Sonorus risuonava ancora nelle loro orecchie e in tutto lo spazioso corridoio che stavano per attraversare. A quelle parole però le loro gambe si bloccarono: fu una sorpresa smisurata. E improvvisa.
La voce proveniva dall’esterno del castello, ma Hermione e Ginevra non ebbero dubbi: era la voce di Minerva McGranitt. E stava dicendo proprio così, proprio che…
 
Che tutto era finito.
Che tutto poteva ricominciare, da capo.
Da lì, da chi c’era, da loro.
Ricominciare di nuovo.
Stavolta davvero.
 
Eppure sembrava così irreale, come poteva essere possibile?
Le due ragazze erano distanti alcuni metri l’una dall’altra sul grande varco in pietra che le avrebbe condotte alla torre di Corvonero; c’erano quasi. Ma, ora, sembrava non avere più importanza.
Niente contava più del fatto che tutto era finito, che finalmente la paura era stata disfatta. Che erano insieme e fuori pericolo, come i superstiti fuori dal castello.
 
“E’ tutto finito. – Ginevra bisbigliò più a se stessa che all’altra – Tutto finito…”
Il mantello nero continuava a circondarle le spalle. I suoi pensieri erano saldati, impossibilitati ad ogni altra mossa. Come se, di colpo, fosse giunta la consapevolezza di non aver capito nulla. Mai nulla, ma sembrava essere finita.
E’ finita.
Quella voce continuava a dirle che ce l’avevano fatta. Era finita davvero.
Ed erano vive.
Vive.
Il suo cervello faticava a crederci. Era troppo…assurdo. La ragione implorava una spiegazione sicura.
Vive.
Insieme.
Era quasi troppo facile.
 
“Ce l’abbiamo fatta, Ginny. Noi… – Hermione la raggiunse, tornando indietro sui suoi passi, quasi correndo senza che l’altra se ne accorgesse. E dimenticò la questione di Harry e tutti i discorsi amletici. Le parole sembravano non voler uscire, ma il suo profumo era inconfondibile – E’davvero finita stavolta. Vieni qui, abbracciami!”
“Herm…” – Ginevra si ritrovò a chiamarla piano, sussurrando il suo nome anche se non ce n’era bisogno, mentre la prese e la strinse.
Era lì: il resto si eclissò, oltre l’orizzonte, col sole.
L’entusiasmo che le pervadeva era troppo forte e si ritrovarono a ridere e piangere, tutto insieme, senza riuscire a spiccicare una sola parola sensata.
Tutto quello che era accaduto passò loro davanti, da tanti anni prima ad allora. E, adesso, solo adesso, tutto aveva un senso: quell’abbraccio smanioso lo racchiudeva integralmente, quasi fosse un prisma di cui finalmente avevano trovato la sequenza logica dei pezzi.
Finirono per perdersi tra i sorrisi bagnati l’una nell’altra, senza sentire altro che non fossero le loro braccia avvinghiate, le loro labbra che incappavano in un bacio e quelle grida di libertà fuori la finestra.
Cosa si può dire davanti alla fine di tutti gli anni di tormento? Cosa si può pensare davanti alla fine del doppio gioco necessario? Davanti all’apparenza di una vita che sembrava scappare e che invece adesso le aveva salvate, non sapendo nemmeno come.
Era tutto così.
Così inspiegabile. Metafisico.
Eppure bellissimo, come un attimo di un’altra epoca.
Il tempo si era fermato: il tempo non esisteva, non era reale; somigliava più a un bambino che si faceva beffa di loro da sempre, ridendogli alle spalle.
 
Solo il corpo di Hermione era vero.
E soprattutto ora che era schiacciato contro il suo.
 
Ginevra abbandonò tutti i pensieri razionali che aveva provato a rincorrere e si fece vincere da lei, dalla sua pelle, dal suo odore misto di sudore e magia. Erano lì, sanguinanti ma insieme. Vive, entrambe. Era la migliore delle ipotesi, quella che mai avrebbe nemmeno sognato.
I suoi fianchi erano gli stessi, definiti e di linea impercettibilmente convessa. In quei capelli sconvolti e scuri affondò il viso e il bisogno di sentirla ancora di più la prese. Da tanto la aspettava e i suoi lunghi capelli glielo ricordarono. La sua schiena tesa, i suoi occhi socchiusi. E la sua bocca, che Ginevra salutò in fretta con la sua, per la paura che tutto potesse svanire ancora.
Per un attimo, pensò che dovesse essere un’illusione dettata da qualche incantesimo che doveva averla colpita mentre correva dietro ad Hermione.
“Hermione…” – continuava a non credere al sogno lì davanti e fuori. Hermione era sempre così bella, così lei.
 
E decise di spingerla, senza nemmeno rendersene conto, contro il primo muro del corridoio.
 
Hermione sussultò appena, la parete di pietra era gelida ma non importava; Ginevra la stava scaldando accarezzandole le braccia, i fianchi, stringendoli, e baciandola con tutto il fervore che aveva in corpo.
Era ancora spaventata di fronte alla possibilità che fosse solo un magnifico sogno e, per capire che non lo era affatto, dovette guardare Hermione mentre, con sguardo complice, le slacciava il mantello e le sollevava la camicia, sbuffandola dalla cintura placcata. Dovette scorgere nei suoi occhi quel barlume di lussuria, già di per sé eccitante oltre l’ennesima potenza.
Non era finto, non poteva esserlo: lei era lì, stretta, incollata come una seconda pelle. Ed era bellissima e pronta a tutto. E la stava baciando di più, mentre con le mani si impossessava del suo seno appena scoperto.
 
 
 
 
“Uno spettacolo sublime. – dall’angolo del corridoio emerse una figura scura coperta in viso – Oh, ma vi prego. Continuate, non badate a me.”
 
Ginevra si fece indietro, staccandosi dalla strega che stava per amare disperatamente e riacquistò la consapevolezza che, come le suggeriva la ragione, sembrava essere tutto troppo semplice.
“Chi sei? Fatti avanti! – richiuse la camicia ampia che le era ricaduta fin oltre la vita, stavolta luminosa, senza nessun mantello scuro a coprirla – Chi sei?”
 
Un semplice riso sogghignante fu la risposta. Capirono che doveva essere un uomo.
Hermione levò la bacchetta, pronta al primo incantesimo le venisse in mente. Ma Ginevra la sorprese: con la mano, abbassò la bacchetta tesa della Granger.
“Ginevra che fai?”
“Aspetta.”
L’uomo si fece avanti col ghigno ancora stampato in faccia.
“E’ un Mangiamorte sopravvissuto, non possiamo lasciarlo scappare.” – disse Hermione tra i denti.
Ma Ginevra continuava ad abbassarle la bacchetta.
“Voglio vedere chi è.”
 
 
L’uomo si tolse il cappuccio e la coda di cavallo rossa scintillò alla luce dell’unica torcia che illuminava il freddo corridoio.
 
“Bill…” – stavolta Hermione non ebbe bisogno di Ginevra; la bacchetta l’aveva abbassata da sola, come la volontà di attaccare quell’uomo che per anni tutti avevano creduto disperso e poi era tornato grazie ad Harry.
Harry, pensò Hermione, proprio lui che ora sembrava lontano anni luce.
Ginevra gli andò incontro, lasciando da parte Hermione.
 
 
“E così, voi due siete, come dire, molto affiatate. – disse Bill, a voce bassa ma ben udibile a causa dell’eco del corridoio vuoto – Mi dispiace di avervi interrotto sul più bello.”
 
Il tono fintamente dispiaciuto non intaccò la durezza dello sguardo di Hermione.
“Perché sei vestito così?” – gli chiese a bruciapelo.
“Ha cercato di passare per uno di loro. E salvare così qualcuno dei nostri. – lo precedette Ginevra, alzando il tono e rispondendo al posto del fratello – Non è vero, Bill? Non sai quanto sono contenta di vederti vivo. Fleur sarà felicissima! E tutti gli altri.”
Gli occhi di Bill si rivelarono: erano vuoti.
“Fleur. Che devota moglie, non è vero sorellina?”
“Teneva molto a te e ha sofferto tantissimo quando sei…”
“Ma poi si è consolata. L’ho saputo, sai? – la interruppe Bill, che prese a girare a passi trainanti intorno Ginevra, come sulla linea un cerchio di cui lei era il centro. Hermione, poco indietro, strinse piano le dita sulla bacchetta – E, tra tutti gli uomini esistenti, indovina con chi? Sono sicuro che lo sai benissimo.”
“Non è così, lei ti credeva morto! Non devi avercela con lei. Non adesso che sta finendo tutto finalmente! Devi parlarle, devi provare a capire.”
“Non doveva! – l’uomo si avvicinò a Ginevra, superando il cerchio immaginario, con una rabbia smisurata e mal repressa - Non doveva. Ha rovinato tutto, tutto. Ma, hai ragione, è cosa fatta ormai e non mi sconvolge più. Vieni, vieni con me Ginevra. Voglio mostrarti una cosa. L’unica che conti adesso.”
 
Hermione non sapeva che pensare. Non le piaceva Bill e quello che diceva, non le piaceva per niente. Non aveva nemmeno abbracciato sua sorella.
Lei lo avrebbe fatto: lei, se avesse avuto un fratello e avesse appena rischiato di perderlo per sempre, lo avrebbe stretto fino a piangergli addosso per la felicità di rivederlo. Ma lui no, sembrava non ragionasse così. Lo rivelavano i suoi gesti, netti.
Bill non badò alla professoressa: con Ginevra al seguito, spalancò l’ampia finestra e indicò qualcuno tra la folla che si agitava di sotto.
“Guardala. – l’indice scheletrico puntava una precisa figura – Lei è quello che conta, nient’altro. Solo lei, Victorie. – poi urlò forte - Victorie!”
La chiamò a gran voce e, come un incantesimo portentoso, la ragazzina sentì la voce del padre; levò gli occhi al castello e lo vide con la zia al fianco. Sbracciandosi a più non posso, rispose al saluto, scoppiando quasi a piangere per l’emozione. Lui le intimò di raggiungerli e lei non lo fece nemmeno finire di parlare: stava già correndo.
 
“No! – insorse Hermione, agitandosi e capendo le intenzioni dell’uomo, ma Victorie si era precipitata dentro e ormai dalla finestra non si vedeva più – Perché l’hai chiamata? Perché le hai detto di entrare? Non siamo ancora sicuri che il castello sia del tutto libero dai Mangiamorte, è stata una mossa molto stupida, Bill.”
Ginevra le andò vicino, le prese la mano e cercò di calmarla, mitigando la tensione che si era creata.
“Tranquilla Herm, fin qui non c’è pericolo. Non abbiamo incontrato nessuno e poi ci siamo noi tre. Se servisse, sapremo difenderla meglio di chiunque altro.”
“Un genitore coscienzioso non l’avrebbe fatto.”
Bill la guardò con disprezzo, da dietro le spalle di Ginevra.
“Non mi risulta che tu sia genitore, sbaglio?”
“Non lo sei neanche tu, sei solo un…”
 
“Papà!” – un gridolino acuto spezzò l’aria; Victorie li aveva già raggiunti.
Lo strano trio si voltò di scatto, lasciando ogni discussione e la piccola corse loro incontro, volando tra le braccia del padre. Lui le accarezzò i capelli.
“Vicky… - la voce di Ginevra si spezzò ad opera di un singhiozzo che provò a reprimere, con scarso risultato - …come…come stai? La nonna dov’è?”
La bambina si accomiatò dal padre e si voltò a lei; e, senza risponderle, allargò le braccia. Prima di qualsiasi vana parola, Ginevra l’aveva già abbracciata forte liberando il dispettoso singhiozzo che le faceva sobbalzare il petto ad intervalli irregolari.
 
 
Hermione non capiva: c’era nell’aria qualcosa di strano. C’era quell’insolito comportamento. E iniziò a pensare che, forse, davvero non era finita come Minerva continuava a proclamare ad alta voce dallo spiazzo.
 
 
 
 
 
“Victorie! – dal corridoio, una donna dalla fluente chioma biondo cenere correva cercando disperatamente la sua piccola - Victorie!”
E non era sola: dietro di lei, Ron le teneva il passo con difficoltà.
 
 
“Parli del diavolo...” – Bill Weasley estrasse la bacchetta, ostentandola senza sentire più il bisogno di nasconderla.
“Bill… - Fleur aveva poco fiato, ma non poteva permettere che accadesse qualcosa a sua figlia. Doveva allontanarla da quelle mura - …portiamola fuori di qui! Dobbiamo fare presto, c’è ancora qualche Mangiamorte nel castello!”
“Ah sì?”
“Sì! – si intromise Ron, i capelli scombussolati erano bagnati e attaccati alla fronte – Minerva crede che la Stanza delle Necessità sia ancora occupata dai Mangiamorte e noi non siamo riusciti a trovarla. È stata spostata.”
“Ci pensiamo io e Fleur a nostra figlia. Non serve che ti immischi, grazie Ron.”
 
“Che significa spostata?” – chiese Hermione ignorando Bill.
Ron la raggiunse.
 
“Tusaichi è morto ma qualcuno dei suoi non si arrende ed è qui, da qualche parte. Non sappiamo che intenzione abbia, ma il castello non è davvero salvo finché sarà qui. E io credo che ce l’abbia con qualcuno di noi. Non c’è altra spiegazione.”
“E’ un’assurdità! Con chi potrebbe avercela? Noisappiamochi è morto. Non c’è altro da temere.” – Bill sembrava serio e sicuro di ciò che diceva.
 
“Dov’è Harry?” – Hermione lo ignorò di nuovo, guardando solo Ron. Si ricordò improvvisamente dell’assurda teoria di Ginevra, che in quel momento parlava commossa con la nipote senza badare a loro.
“Non lo so, non lo abbiamo trovato. Tu sai qualcosa?”
 
In quell’attimo, Fleur li stava superando mentre incurvava le labbra in un sorriso stanco rivolto al marito. Voleva raggiungerlo, voleva abbracciarlo, voleva spiegargli, voleva dirgli tante cose, tutte quelle che aveva fatto sua figlia senza di lui. Ma la bacchetta di Hermione fu più veloce e la scaraventò lontana.
“Stagli lontano, non avvicinarti! È un Inferius.”
 
Ginevra sgranò gli occhi, lasciando in sospeso la domanda che la nipote le stava facendo.
Ron puntò i suoi al fratello. I suoi occhi e quelli della sorella erano della stessa identica intensità in quel momento.
Victorie, vedendo gli zii così disorientati e la madre a terra per colpa di Hermione, provò a spiegarsi quella parola; Inferius: la definizione la sapeva, l’aveva studiata qualche mese prima.
Cadaveri riportati in vita da magia molto oscura, il cui unico scopo è quello di servire il mago che li ha creati. Così aveva detto il professor Piton, durante una lezione molto pesante.
E adesso, senza preavviso, la bacchetta di Hermione si diresse dritta su di lei.
 
 
 
 
Bill sembrò non scomporsi, come chi sa che la verità rivelata è meno distruttiva se affrontata con contegno.
 
 
 
 
In un lampo Victorie fu catapultata vicino alla madre, riportando solo un piccolo graffio alla mano: la bacchetta di Hermione fumava ancora di sottile nebbia grigiastra che ora girò a Bill.
 
 
 
“Si può sapere che diavolo fai?! – stavolta fu Ginevra ad intromettersi, fermando l’incantesimo non verbale di Hermione – E’ finita Hermione, smettila. Lo ucciderai così! Fermati!”
“Come fai a non capire? Lui è guidato da qualcun altro. Qualcuno che vuole uccidere noi! O te!”
“Non è così, non è come pensi. Io lo capisco.”
Hermione la guardava incredula.
“Cosa c’è da capire in lui che non sia chiaro?”
“Lui è stato ritrovato, ricordi? Draco l’ha ricondotto alla Tana. Come tu hai fatto con me. Io so cosa significa tornare e non ritrovare più quello che avevi. Bill è disorientato! Ma ora finalmente abbiamo di nuovo la nostra famiglia e non lasceremo che ce la portino via.”
“Lui non è tuo fratello! Bill è morto tanti anni fa!”
“Ti ho detto di smetterla! Voldemort è morto, non mio fratello. Non c’è più niente da temere, basta! Non voglio vedere altro sangue.”
 
“Molto bene, sorella. Ho sempre saputo che eri la più coscienziosa della famiglia.” – Bill le si fece vicino, sfiorandole appena la schiena. E lei sentì freddo dentro, nelle ossa.
 
 
Ron affiancò Hermione e mirò ad entrambi.
Stupeficium!” -  il suo incantesimo di schianto fu potentissimo e lanciò Ginevra contro uno dei ritratti alla parete che si staccò e le piombò addosso.
In tutto il trambusto, Bill non si era mosso. Non aveva fatto una piega. Niente.
 
 
Ginevra si rialzò subito, nera di rabbia. Questo non lo avrebbe permesso.
Se loro, suo fratello ed Hermione, avessero continuato ad insinuare tutte quelle idiozie, non si sarebbe fermata nemmeno lei.
E tese il braccio: la mano le tremò, dopo tanto tempo che non l’aveva fatto più. Il segno.
Dentro di lei, bruciò ancora il desiderio di uccidere. Il Marchio nero la richiamava all’ordine dopo mesi di calma apparente. Era una Mangiamorte, anche se da un po’ voleva dimenticarlo.
Per un attimo, ebbe paura di se stessa e di quello che avrebbe potuto fare.
 
Ron evitò per un soffio il potente gettito affatturato della sorella, grazie ad Hermione che svelta lo aveva trascinato via appena aveva scorto il tremore della mano di Ginevra.
“Ginny fermati, per tutti i troll! Hermione ha ragione, lui è un Inferius! – le urlò contro il fratello – Non vedi? L’ho colpito e non si è fatto nemmeno un graffio!”
“Vi ho detto basta!”
“Ginevra attenta!” - ma stavolta Hermione non poteva salvarla: era troppo lontana, era troppo tardi.
 
Bill l’aveva agguantata, legandole il busto e le mani lungo i fianchi, irrigidendola e poi aveva gridato l’ennesima formula oscura. In un attimo, di Ginevra e Bill non rimase altro che fumo che saliva ai piani più alti. 
 
Hermione corse forsennatamente dove, fino ad un secondo prima, c’era lei.
“Ginevra!” – la disperazione in un grido. La tremenda paura, quell’unica tremenda paura di averla persa proprio quando l’aveva ripresa, la stava vincendo; Hermione chiuse gli occhi dicendosi che no, ora non poteva permetterselo. Non ora, non adesso. Doveva lottare, doveva crederci.
“La ritroveremo, te lo giuro. – Ron l’aiutò a farsi forza e a tornare in sé – Lei ed Harry.”
Victorie e Fleur uscirono, ad attenderle c’era la McGranitt e il resto della scuola. Alla preside non servirono parole: sapeva che da quel momento in poi, tutti loro erano nelle mani della professoressa di Incantesimi e del suo amico.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra riaprì gli occhi.
Quanto tempo era passato? Se lo chiese ma non seppe darsi una risposta. Forse un secondo, magari un’ora o, perché no, un giorno. Non poteva saperlo.
Sapeva solo che aveva addosso sempre quella camicia chiara macchiata su un fianco di rosso e da cui pendeva l’orologio da taschino; lo aprì.
Era rotto.
Qualcuno lo aveva fracassato e le lancette non giravano più, il quadrante era graffiato.
Il Patto di Tempo era stato infranto. Presto ne avrebbe pagato le conseguenze. Ma ora non importava.
 
 
 
 
 
 
Ginevra.”
 
 
A quel suono, si alzò di scatto. La gamba destra le faceva male. Si guardò intorno, ma non vedeva niente. Era tutto buio, buio pesto come un incubo.
Non una finestra, né uno spiffero, o una luce. Niente.
Nero.
 
“Dove sono?” – gridò.
 
 
 
 
 
 
 
 
Ma quell’insolita voce continuava solo a chiamarla.
 
 
Ginevra...”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era una nenia, una musica dolce che rischiava di ipnotizzarla. Era così bella. Era così armoniosa. Quel tono, o forse quell’accento, la stavano rapendo. Ginevra si sentì fluttuare via, lontano da ogni confine del suo corpo; eppure doveva resistere, doveva rimanere cosciente. Se lo impose.
Ma la voce continuava, ancora e ancora e ancora di più, a pronunciare solo il suo nome come il più sensuale dei canti gitani.
E a Ginevra stava per mancare il respiro.
Poi un capogiro, gli occhi le si socchiusero. La trance in cui stava per sprofondare l’avrebbe vinta presto.
 
 
 
 
“Dove…dove so… – cadde in ginocchio, le braccia inermi distese – Non…non devo chiudere gli occhi. Non devo…cedere. Resisti…non devi…non devi lasciarla entrare…”
Continuava a ripeterselo con poca convinzione; tanta, invece, era quella sprigionata da quell’armonia di sirena.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra…”
 
 
Non ce la faceva quasi più, non poteva farcela ancora per molto: con l’ultima parte di forze rimasta prese il primo oggetto che trovò, un vaso smaltato, e lo scaraventò nel punto da cui proveniva il canto.
Il vaso si ruppe e produsse un suono fracassante che la ridestò. Di colpo, la voce cessò e lei ne approfittò per guardarsi intorno.
Era in una stanza che non conosceva ma che poteva essere solo una.
“Che ci faccio nella Stanza delle Necessità? Rispondimi Bill! Dove sei?”
Ma, al posto della voce di Bill, rispose ancora quella sirena avvolta nell’ombra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Bill non è qui. E tu devi restare con me, per sempre…”
 
“Chi sei? Cosa vuoi da me?” – Ginevra continuò a guardarsi intorno come un animale braccato, girando su se stessa. Eppure non riusciva a scorgere nulla che non fosse una sottilissima luce avanzare. La stanza era stata addobbata a dovere. Quella poteva essere solo una vendetta.
 
 
 
 
 
 
 
Voglio amarti…”
 
 
 
 
 
 
Una vendetta crudele.
 
 
 
 
“Cosa?” – la ragazza pensò di essere impazzita.
Voglio innamorarmi di te. E voglio che tu t’innamori di me, come è scritto che deve essere...”
 
 
Poteva essere solo pazzia, quella.
 
“Fammi uscire di qui! Oppure non avrò pietà. – cercò di atteggiarsi per quello che era: forte e sola - Sono una Mangiamorte e il mio potere non…non è nemmeno lontanamente paragonabile al suono della tua voce. Sarai anche in grado di ammaliare, ma io potrei ucciderti. E lo farò, se non ti riveli e non mi lasci andare. Subito!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La voce rise.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
E lo fece più forte.
Amabilmente.
 
 
 
 
 
 
 
 
E va bene. Prova pure. Prova ad uccidermi…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Uno sventolio di tende.
Un vento caldo.
E finalmente un lungo abito bianco.
Un imponente strascico si disegnò dal nulla su un corpo d’alabastro definito dalla notte.
Lunghi capelli scuri si posarono sulle spalle appena apparse, fino a raggiungere la vita della donna che, a passi lenti, ondeggiava sui fianchi come divinità in attesa.
 
“Hermione…” - solo adesso Ginevra capì perché quella voce l’aveva incantata tanto. Solo adesso la vedeva. Solo adesso aveva un senso.
Era lei.
Era l’unica.
 
 
 
 
 
 
 
 
Uccidimi adesso, se ne sei capace…
“Ma cosa dici? Dobbiamo uscire di qui e subito!”
 
 
 
La donna non si curò del monito; e sorridendo, arrivò a pochi metri da Ginevra.
Il suo viso era quello di sempre, perfettamente ridefinito.
I suoi occhi erano bianchi.
Bianchi.
Come la sua pelle, i suoi denti e il suo vestito.
Tutto di lei era talmente bianco che fuoriusciva da lei l’unica luce che illuminava la stanza.
Era lei.
 
 
 
 
 
“Hermione muoviti, maledizione! Come siamo arrivate qui? E perché sei vestita così?! Dobbiamo uscire e trovare Bill! Forse avevi ragione tu. Ci ho pensato, forse davvero lui c’entra qualcosa con tutto questo.”
 
 
 
 
 
 
Non puoi uscire di qui.”
 
“Hermione ma che dici? Sei impazzita? – un’altra paura colpì diretta il cuore di Ginevra, come freccia lanciata da una millimetrica balestra– Ti hanno fatto qualcosa…”
 
Puoi solo scegliere. Uccidimi o amami…” – ancora quella voce. Ancora quel sussurro di sirena. Maledettamente dolce.
 
 
 
Ginevra fece un passo indietro e si portò le mani alle orecchie: non riusciva ad ascoltarla e a pensare a qualcosa che non fosse lei. Le toglieva ogni forza, ogni ragionevole obiettivo. Le faceva dimenticare che dovevano uscire e subito.
 
“Smettila, ti prego…smettila!”
Non avendo altra facoltà intatta, Ginevra decise di utilizzare l’unica cosa possibile: il suo corpo, mentre la sua volontà iniziava a piegarsi irrimediabilmente.
Prese un baule senza lucchetto, ma stavolta era troppo pesante perché riuscisse a sollevarlo e romperlo.
Le mani le tremavano.
“Maledette mani!” - allora le adagiò sul legno. Si muovevano come elettrizzate, ma concentrandosi, riuscì a farlo esplodere. Altro rumore assordante.
La voce di Hermione si interruppe di nuovo, ma lei era ancora lì a guardarla dolcemente.
Per fortuna però non parlava più. L’incantesimo sembrava infranto; forse adesso sarebbe tornata in sé.
 
 
 
 
 
 
 
Un attimo di silenzio immobile.
Un attimo di respiro.
 
 
 
 
 
 
 
Ma poi.
 
Alle sue spalle.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra.
 
 
 
 
Si voltò si scatto: la fronte era madida di sudore. Uccidere un Mangiamorte non sarebbe stato così difficile.
“Chi c’è? Dimmi chi sei e facciamola finita! Perché ci hai condotto qui? Vieni fuori e combatti, codardo!”
Ma era tutto inutile e Ginevra non l’aveva ancora capito.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ginevra. – la seconda voce di donna incalzò, prese possesso della sua mente e continuava, continuava e non sembrava volersi fermare - Non parlare così alla tua padrona.”
 
 
 
 
 
 
“Io non ho nessun padrone…vieni fuori, maledetta!” – iniziò a pensare che rispondere potesse essere l’unico modo per vedere chi l’aveva portata lì, aveva poi incantato Hermione e adesso le stava costringendo a quel gioco perverso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
che ce l’hai. E non è quella Hermione, dolce fino alla nausea, che hai appena zittito. Lei è candida e ti amerebbe di un amore pulito. Banale. Io no. Io voglio conquistarti senza pietà e vederti cadere ai miei piedi, implorandomi. Io ti voglio, Ginevra Weasley, come il vagabondo dalla gola secca prega l’acqua nel deserto. E ti avrò. Qui, davanti a lei.”
 
 
Ginevra non capì, non capì nulla; si voltò ad Hermione che era ancora lì dietro di lei, ma che continuava a stare ferma con occhi bianchi e persi. E non si muoveva, non diceva niente, non l’aiutava.
E lei non riuscì a scioglierla da quell’immobilità.
 
Anche la seconda voce la stava guidando lontano, lontano chilometri infiniti da tutto, nella terra incontaminata del piacere, fosse anche solo per l’intensità con cui pronunciava il suo nome.
“Hermione aiutami!” – fu tutto quello che riuscì a dire con la disperazione dipinta in viso.
L’azzurro nei suoi occhi vacillò.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Lasciala e guarda me. Guardami, Ginevra.”
 
 
 
“No…” - si portò le mani agli occhi.
Inutilmente.
Mossa sbagliata. Prevedibile più di qualunque altra.
 
Quella nuova entità era così lussuriosa, così audace, così peggio della prima, che bastò sentirla sussurrare poche sillabe per desiderare di possederla.
E possederla brutalmente.
Non avrebbe mai rivelato quel pensiero ad Hermione, nemmeno se fossero riuscite ad uscire vive da lì; ed Hermione, del resto, sembrava essere solo una statua fissa dagli occhi bianchi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Lasciala al suo destino e guardami. – la seconda donna emerse dall’oscurità opposta. Il suo abito era rosso. Rosso come il fuoco - Guardami Ginevra e, se ci riesci, dimmi che non mi vuoi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
Rosso come il sangue che la Mangiamorte sentì ribollirle nelle vene, troppo piene.
Rosso come l’amore che aveva abbandonato il suo cuore, lasciando il posto ad un cieco pulsare più basso. Inguinale.
Rosso come il colore delle maledizioni quando sono pronunciate da labbra carnose.
Rosso come tutto ciò che riusciva a sentire.
Rosso.
 
Non c’era strascico in quella veste troppo aderente, ma uno spacco profondo e generoso da cui non si nascondeva una gamba tesa e liscia, perfettamente forgiata e galoppante verso di lei.
Pensò di essere pazza; e, forse, lo divenne davvero.
In quel momento, Ginevra avrebbe dato tutto per sentire quella donna sotto le sue mani. Così come avrebbe dato tutto per non desiderarla. Ma più la voce echeggiava nella stanza, più il vestito rosso si avvicinava aderendo a quelle cosce, più Hermione non reagiva…e più lei si perdeva in quell’infangato bisogno pulsante.
 
Voleva quella seconda donna più della prima.
Voleva sbatterla sul primo tavolo che avesse trovato in quella maledetta stanza.
Voleva farle male, e provarci piacere.
Voleva sentirla tremare ed invocare il suo nome mentre la trapassava senza pietà.
E non l’anima: non le importava niente della sua anima.
Il corpo. Solo le gambe aperte di quella donna. Solo le sue mani. Solo il suo centro esatto.
Il baricentro del desiderio.
 
 
Così la guardò, smaniosa di sapere quanto potesse essere svergognata. Al diavolo Hermione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Se la vita si potesse racchiudere in un attimo, quello sarebbe stato, fra tutti, l’attimo da dimenticare. Quello da non raccontare a nessuno, mai.
 
Decise così di guardarla, una volta per tutte.
Incrociò occhi di brace, dipinti sul volto di un’altra Hermione.
 
 
Una lama ghiacciata la attraversò dalla fronte alle caviglie.
“Non…non è…possibile…”
 
 
 
 
 
 
 
 
Sì. – continuò la voce superba e sdegnosa, tra labbra rosse anche più del vestito – Non negarlo, non chiuderti in confini avvilenti che risucchiano la tua voglia di vivere. E vivere di piacere, come tu sai fare. Tu mi vuoi, mi hai sempre voluta. Hai sempre voluto sentirmi gemere sotto di te, sotto il tuo potere, sotto la tua mano esperta. Potevi avere chiunque, ma volevi me. Solo me. Hai sempre voluto prendermi con la forza, governarmi, come un marinaio con i mari che attraversa. Ed io voglio essere il mare in cui entrerai, una volta e poi ancora e ancora, che passerai e che ti travolgerà con il suo sapore di sale. Voglio essere tua, prendimi. Sono qui. Fammi tua, Ginevra. Fammi tua.”
 
 
 
 
Le parole uccidono.
Adesso lo capiva.
 
 
“No! No, tu…tu sei solo un trucco! Un’invenzione! – Ginevra trovò la forza di scostarsi da lei, allungando un braccio che però non partorì incantesimi. Non poteva, non voleva – Stammi lontana o…”
O cosa? – la figura dalle sembianze hermionesche, tracciate in maniera perfetta, avanzava come un felino appena liberato dalle catene. Vivido e voglioso – O mi toccherai? Sai che accadrà. Non puoi evitare di desiderarmi.”
 
 
“No…Io no! – Ginevra tese ancora il braccio – Allontanati da me o stavolta non mi fermerò!”
Non ci credeva nemmeno lei. Il suo viso diceva chiaramente che quelle parole non venivano dalla sua bocca.
 
 
La donna dovette accorgersi della sua esitazione e proseguì: arrivò a Ginevra e aderì perfettamente col suo seno alla camicia della Mangiamorte, guardandola da vicino.
Troppo vicino. Un respiro.
Un respiro di distanza.
Voglio sentirti, adesso. – poi quelle labbra più vicine – Di più.”
 
Più vicine.
 
 
 
E ancora.
 
 
La nebbia avvolse tutto, ogni idea, ogni ricordo.
La matrona continuava a parlare con la voce di Hermione, a sbattere le ciglia come faceva Hermione, a sorridere come faceva Hermione. Continuava ad avere i suoi fianchi e l’abito mostrò a Ginevra che anche la curva del seno era di Hermione.
Era tutto di lei, era come lei.
Era lei.
Eppure non aveva mai sentito Hermione parlare così.
E l’altra allora? Cosa ne era dell’altra Hermione bianca?
Si girò a guardarla: era ancora ferma.
 
Poi tutto precipitò.
 
L’erotica Hermione le prese una mano; Ginevra era del tutto inerme ormai: non poteva niente contro di lei. Niente.
Non ci poteva essere magia che tenesse.
Hermione le succhiò l’indice con lentezza asfissiante, baciò il palmo con troppa lingua e se lo portò sul seno, superando l’ostacolo rosso della veste.
La sua pelle era calda.
Bollente.
Tutto urlava il bisogno di stringere.
 
 
E Ginevra, assuefatta della sua droga prediletta, strinse.
 
 
 
 
 
 
 
A quel tocco, così tanto provocato quanto voluto, la stanza parve farsi poco più luminosa; si formarono figure nuove, tutte intorno.
La prima Hermione riprese vita e portò avanti il suo strascico; al suo fianco, decine di altre Hermione si avvicinarono per congiungersi poi verso centro, dove la regina delle controfigure aveva raggiunto il suo obiettivo.
 
 
 
 
 
La donna vestita di bianco arrivò alle spalle della dama rossa. Aveva un calice in mano.
 
 
 
 
Aspetta Hermione. Prima che ti possegga, lascia che Ginevra riacquisti le forze necessarie e possa così soddisfarti come meriti.
 
Ginevra mosse gli occhi per vedere cosa accadeva intorno.
Avrebbe preferito perdere i sensi una volta per tutte e non essere condannata a ricordare per sempre quella scena: era il peggiore dei sogni e il più bello degli incubi.
 
La matrona rossa non si oppose alla richiesta; cedette il posto alla dama bianca che, dopo aver tolto la mano di Ginevra dal vestito rosso, le porse il calice.
Ginevra non ragionava più. Tutto intorno girava e lei vedeva solo quella dama rossa che aveva tutto di Hermione, unita a tanta eccitante sfrontatezza.
Bevi e saremo tutte tue. L’assenzio ti darà la forza…
A quelle parole, un ricordo si accese nella sua mente. E il cuore tornò a picchiarle in petto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Erano cadaveri di uomini e donne, di Mangiamorte che si erano sacrificati per provare a farla fuori.
Era stata la cosa più difficile che avesse mai fatto.
Uccidere Hermione tante volte.
Così tante volte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La torre di Corvonero era vuota. Almeno in apparenza.
Eppure lì doveva esserci l’ingresso: ne erano sicuri, avevano studiato ogni zona della torre e quella era l’unica possibile. La migliore per scegliere di non essere trovato troppo facilmente. Il miglior posto per un nascondiglio o, peggio, una stanza d’esecuzione.
 
“Eccoci, è questa! Ne sono certo.”
Ron martellò sulla porta di imponente legno nobile. Per essere un ingresso da tenere nascosto, dava parecchio nell’occhio.
“Ginevra!” – Hermione lasciò ogni prudenza ed urlava, mentre colpiva con tutte le sue forze quel legno. Ma capì presto, e molto prima di Ron, che non sarebbero riusciti ad entrare facilmente.
Provò anche con la magia, ma non servì a molto. La porta ebbe solo qualche taglio.
“Ginny! Ginny!” – nemmeno la forza di Ron fu sufficiente, né la sua voce.
La porta della Stanza delle Necessità era chiusa dall’interno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Nessuno poteva sentirli, oltre lui. Erano soli.
Bill Weasley era in piedi di fronte ad una finestra che dava sul cortile. Vedere tutta quella feccia esultare come se avessero veramente vinto gli faceva saltare i nervi.
Con la mano destra impugnò la bacchetta, con il piede destro premeva sulla gola di Ginevra.
Lei, dal canto suo, non rispondeva. Era svenuta.
 
“Non preoccuparti, sorellina. La tua ora è quasi giunta. – e, con evidente eccitazione, premette ancora di più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non si apre Hermione, è inutile. Non si apre!”
“Ci deve pur essere un modo! – scalpitava la strega – Ginevra è lì dentro!”
Ron si spostò i capelli dal volto; iniziavano ad essere troppo lunghi.
“Non si sente niente!”
“Ti ho detto che è lì!”
“Potrebbe essere ovunque.”
“No, è lì! Io lo so. – disse Hermione, scandendo ogni parola come se fosse l’ultima di tutta una vita – E la tirerò fuori a qualunque costo.”
 
 
 
 
“Spostatevi! Toglietevi di mezzo!”
 
 
Ron si voltò al rimbombo della voce di Draco che gli raggiunse improvvisamente il timpano.
Il ragazzo biondo correva verso di loro brandendo la bacchetta.
 
Ma non fu per lui che Weasley spalancò gli occhi.
 “Harry…”

Al sussurro di quel nome, anche Hermione tornò alla ragione. La ragazza girò su se stessa e li vide arrivare.
Dopo tutti gli anni trascorsi, Draco Malfoy ed Harry Potter continuavano ad essere un’accoppiata veramente difficile da capire.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2704845