High hopes

di Acinorev
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno - Another face ***
Capitolo 2: *** Capitolo due - Missed call ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre - Caution ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro - Scars ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque - Photograph ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei - Again ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette - Coherence ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto - All the other human beings ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove - Prove it ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci - Time out ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici - Sex and loneliness ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici - Without you ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici - Can I? ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici - Housebreaking ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici - Whatever you want ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici - My little girl ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette - Replay ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto - Right in the middle ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove - Make me ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti - I don't care ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno - Fear ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue - Yes ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitré - Reminder ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro - Broken ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque - Nobody like that ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei - Comparison ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette - This far ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto - Differently ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove - Click ***
Capitolo 30: *** Epilogo - Our war ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno - Another face ***




 

Capitolo uno - Another face
 
 

I raggi torridi ed insistenti del sole pomeridiano facevano sudare persino il bicchiere in vetro, dentro il quale il thé alla pesca non era più fresco come appena versato, né invitante come appena ordinato.
Emma osservava il gioco di luci sulla sua superficie, restando immobile e rilassata sulla sedia intrecciata in vimini, che imprimeva la propria fantasia sulle sue cosce, lasciate scoperte dalla gonna leggera che indossava. Non sentiva il bisogno di farsi sconvolgere dalla tensione, né di irrigidirsi, perché la situazione nella quale si trovava non le era nuova, né necessitava di una reazione particolare.
«Non intendevo dire questo, lo sai», ripeté stancamente, accavallando le gambe magre sotto il tavolino in ferro battuto. Con una mano si sistemò i capelli mossi sulla spalla destra, sospirando piano: aveva iniziato a contare le goccioline di condensa che stavano scivolando lente sul vetro del bicchiere.
«Tu intendi sempre questo», fu la risposta che ottenne.
A quelle parole, Emma alzò lo sguardo sul suo interlocutore, velocemente e con un velo di stizza mal celata: Miles la stava osservando con un sopracciglio alzato e le labbra umide, sottili. I capelli di un biondo sporco erano resi più lucenti e chiari dal sole che li accarezzava, mentre le iridi nere e consapevoli sembravano ribellarsi a qualsiasi sfumatura meno scura. Incastrata fra i particolari spigolosi del suo viso olivastro, c'era la convinzione di avere ragione.
Lei alzò gli occhi al cielo ed appoggiò i gomiti sul tavolino, distogliendo lo sguardo da quello che la stava sfidando e che non voleva sopportare oltre: lo conosceva sin troppo bene, per potergli dare una soddisfazione.
«Emma-»
«Vado a prendere qualcos'altro da bere», lo interruppe, alzandosi in piedi senza fermarsi ad ascoltare, perché sicura di quello che avrebbe dovuto sentire. Entrambi sapevano che quella scusa aveva un altro significato, ma nessuno avrebbe protestato. Miles non la richiamò e lei se lo lasciò alle spalle, allontanandosi almeno momentaneamente dal suo profumo dolciastro che le piaceva sin troppo e dalla sua t-shirt nera che evidenziava sin troppo bene il suo fisico asciutto.
Il Rumpel era affollato, quella domenica pomeriggio: Ty, dietro il bancone ed indaffarato come spesso nell'ultimo periodo, stava usufruendo dell'aiuto di due nuovi camerieri, ancora in prova ed ancora inesperti. Da quando aveva ampliato il locale, occupando anche l'esterno con cinque o sei tavoli, il lavoro era aumentato e si era intensificato, pesando sulle sue spalle.
«Vuoi un altro tè?» le chiese, non appena la vide avvicinarsi. Aveva la fronte imperlata di sudore ed i capelli un po' più corti, dopo l'ultima visita al barbiere di fiducia: non la guardava nemmeno, mentre preparava un caffè, per poi passare a lavare delle stoviglie ad una velocità necessaria.
«No, dovevo solo...» Emma fece una pausa, appoggiandosi al bancone, e sospirò. «Andarmene», concluse con un fil di voce.
Ty sorrise appena, scuotendo la testa. «Tutto nella norma, allora», rispose ironico.
Lei annuì con un sospiro sommesso: non le andava di tornare al tavolo, perché avrebbe significato tornare ad una discussione affrontata più e più volte senza mai arrivare ad una conclusione. Eppure, non poteva restare lì ancora per molto, perché Miles si sarebbe innervosito e perché lei non si sentiva così immatura.
«Ci vediamo dopo», salutò sbuffando, mentre Ty le rivolgeva un cenno con la mano: ormai anche lui aveva smesso di allarmarsi per ogni loro disguido, anzi, si preoccupava se non se ne ripresentavano.
Emma prese a camminare lentamente tra i tavoli del bar, osservando con attenzione ogni cliente sul quale le capitava di posare lo sguardo: cercava un blando conforto nei particolari di quelle persone, nei loro gesti automatici e spontanei, in modo da non pensare troppo a se stessa. Con il passare del tempo, quella strategia si era consolidata in lei, tanto da diventare un'abitudine che spesso la salvava dalla monotonia o da eccessive rimuginazioni.
Si soffermò su una bambina di circa sette anni che stava giocando svogliatamente con una Barbie dai capelli arruffati e gli abiti smessi: gli adulti al tavolo con lei, che avevano l'aria di essere i genitori, dati i lineamenti simili, litigavano a bassa voce ma urlando con gli occhi. Era una scena piuttosto malinconica, che in qualche modo le ricordava se stessa e Miles: i loro litigi sempre uguali, ma diversi in piccoli dettagli, e le espressioni ormai spente e già studiate.
Strinse i pugni spontaneamente, tentando di fuggire da quella verità che le recava disturbo: quando si voltò per proseguire ed uscire dal bar, però, non fece nemmeno un altro passo.
Impiegò qualche secondo per realizzare su chi effettivamente le proprie iridi si stessero concentrando: il suo corpo si rilassò all'istante, forse per concedere tutte le energie alla sua mente, che doveva processare quello che stava analizzando contro ogni previsione, il viso che stava confrontando con quello dei suoi ricordi. Ogni cellula che la componeva prese a fremere violentemente, quasi avesse perso il controllo e non sapesse come riacquistarlo, in seguito ad un dettaglio inaspettato e di impatto eccessivamente intenso.
Harry non era cambiato molto.
I capelli più lunghi erano disordinati come sempre, ma un po' meno mossi: il viso che circondavano era ormai adulto, dai tratti ben definiti e marcati. Gli occhi, anche in quel momento fissi su di lei, avevano mantenuto la loro profondità, la loro sfumatura attenta, nonostante la loro forma si fosse modificata impercettibilmente a causa del tempo trascorso: il colore, invece, era rimasto lo stesso in ciascuna variante. Emma ripercorse ogni suo particolare, soffermandosi anche sulla linea delle sue labbra schiuse e della sua mascella non più da adolescente, il collo meno sottile ed il fisico più definito, forse prodotto di un allenamento apposito. La canotta grigia le offriva nuovi tatuaggi sulle braccia rilassate e vecchi ricordi di ciò che invece già conosceva.
Non seppe riconoscere quello che stava provando, né aveva interesse nel farlo, perché voleva concentrarsi solo sulla sua esistenza, sulla certezza che qualcosa la stesse animando, in modo nostalgico e completamente nuovo: non avrebbe mai creduto di rivederlo, né di trovarselo a poco più di un metro, immobile ad osservarla, probabilmente con gli stessi pensieri ad affollargli la mente cresciuta e forse ormai estranea.
«Ragazzina», mormorò lui con un fil di voce, come se avesse appena compreso fino in fondo di averla effettivamente incontrata, di averla effettivamente così vicina. Il suo viso era plasmato dallo stupore, dall'incredulità.
Ad Emma venne da sorridere per quell'esclamazione involontaria, mentre il suo corpo si risvegliava pigramente da un torpore noto ma sottile, cercando l'equilibrio che aveva momentaneamente perso: era strano sentirsi chiamare in quel modo, non riconoscersi più in quella parola, fingere che non fosse passato nemmeno un giorno dall'ultima volta che invece l'aveva udita uscire da quella bocca e con quella voce graffiata.
«Be', forse è ora di trovare un altro soprannome», scherzò, lasciandosi scappare un sorriso divertito ma anche vagamente nervoso. Si sentiva frastornata, isolata dal chiasso del bar e dal calore che le si appiccicava sulla pelle: la confusione che provava la aiutava a reagire, senza permetterle di bloccarsi in uno stato sbigottito.
Harry abbozzò una risata e scosse la testa, con un'espressione sincera e spensierata che la rassicurò in minima parte. «Questo è da vedere», rispose, avvicinandosi con le braccia leggermente aperte in segno di un invito.
Lei lo colse senza alcuna esitazione o imbarazzo e, l'attimo dopo, si strinse al suo corpo lasciandosi circondare dalle braccia un po' più forti e un po' più estranee che ricordava. «Sei sempre il solito, a quanto pare», esclamò sul suo petto, chiudendo gli occhi per godersi silenziosamente un profumo diverso, al quale avrebbe dovuto abituarsi: era più aspro, quasi troppo forte. Percepì il respiro di Harry leggero sulla propria pelle, lontano dai suoi ricordi ma comunque abbastanza familiare da farla rabbrividire.
«Solo in certe cose», replicò lui, sciogliendo la presa ed allontanandosi di un passo, con le labbra ancora inclinate in un sorriso. Emma non si lamentò per la conclusione di quel momento appena più intimo, perché era impegnata a decifrarlo e a coglierne i dettagli più significativi: moltissime volte aveva immaginato un loro incontro ed aveva accolto decine di possibilità diverse e contrastanti, ma la realtà si era rivelata semplicemente differente. Non c'era stato alcun imbarazzo, alcuna tensione a caratterizzare la loro interazione: anzi, si erano salutati come due vecchi amici, nonostante conoscessero a memoria il corpo l'uno dell'altra ed i difetti più profondi. Inoltre, sebbene l'avesse temuto, il suo cuore non aveva sobbalzato: non si era rotto un'altra volta.
«Cazzo, non mi sembra vero», esclamò Harry, con gli occhi vivaci a scrutarla. «Quanto è passato? Sei anni?»
Se verbalizzata, quella quantità di tempo sembrava ancora più lunga: Emma l'aveva vissuta ad una velocità difficile da spiegare o accettare, senza lasciare nulla in sospeso e senza privarsi di niente. Le sembrava eccessivamente strano doversi confrontare con una parte del suo passato tanto lontana, che ormai dentro di lei si era cicatrizzata senza lasciare alcun dolore residuo.
«Sì, più o meno», confermò Emma, sorridendo sinceramente. Nonostante l'incredulità, nonostante il frastuono provocato da quell'incontro inaspettato, non riusciva a mettere a tacere il senso di calore che provava, la nostalgica sensazione di essersi riappropriata di un pezzo mancante: in fondo, Harry portava con sé frammenti di quella ragazzina di sei anni prima, frammenti che non le era stato dato di rivedere o ricreare e che in quel momento si presentavano a lei quasi timidamente, nascosti dal loro nuovo proprietario. 
«Come stai?» domandò lui, passandosi una mano tra i capelli. Nonostante i suoi gesti fossero marchiati dagli anni trascorsi, nonostante fossero stati usati in migliaia di altre circostanze che non la includevano, per Emma non covavano alcun segreto. «Sei... Cresciuta», continuò, osservando velocemente il suo corpo come a voler confermare la sua affermazione. Aveva esitato, in minima parte, quasi avesse dovuto scegliere con attenzione le parole giuste da utilizzare.
Lei alzò un sopracciglio e trattenne un sorriso. «Sì, succede», scherzò. La divertiva il modo in cui lo sguardo di Harry la stava studiando, alla ricerca di tutti quei particolari che erano cambiati senza di lui: Emma aveva acquistato qualche centimetro di altezza in più, il suo corpo era ormai caratteristico di una giovane donna ed ogni sua forma morbida era armoniosa, priva di difetti visibili, tranne che ai propri occhi. E se lui si era ovviamente accorto di quella evoluzione, non voleva immaginare come avrebbe reagito nel rapportarsi con la sua interiorità, con quella parte di lei cambiata inesorabilmente e tanto lontana dai suoi quindici anni.
«Tu, piuttosto, cosa fai da queste parti?» domandò un paio di secondi dopo, per riscuotersi dai troppi pensieri che rischiavano di distrarla. Era curiosa di sapere cosa l'avesse spinto a tornare: durante gli anni di lontananza, che avevano trasformato la loro storia in qualcosa di quasi irreale, non aveva più messo piede a Bradford, almeno non che lei sapesse. Cosa era cambiato? Era una decisione definitiva o era solo in visita?
«I-»
«Ah, sei qui», li interruppe qualcuno, attirando l'attenzione di entrambi su di sé.
Emma reagì irrigidendosi appena, mentre Miles le si avvicinava a passi svelti: il suo tono di voce non aveva incluso una nota di rimprovero, ma una semplice constatazione. Improvvisamente, sentì il bisogno di nascondere Harry, di sminuirlo: non che provasse ancora dei sentimenti per lui, ma in qualche modo, il riaverlo accanto aveva risvegliato in lei l'abitudine di dargli una certa importanza. Si sentì sollevata, nel rendersi conto di non aver motivo di preoccuparsi, e un po' stupida per quell'allarme spontaneo ed ingiustificato.
«Scusa, stavo-»
«Non fa niente», esclamò Miles, impedendole di continuare. I suoi occhi imperscrutabili diedero una rapida ed incurante occhiata ad Harry, poi la sua mano si posò sulla schiena di Emma, facendola muovere impercettibilmente in una reazione ormai naturale, fatta di brividi indiscreti. «Devo andare, Seth mi sta aspettando», spiegò, posandole nelle mani la borsa che lei aveva lasciato al tavolo.
Sapeva che il loro incontro al Rumpel non avrebbe potuto continuare ancora per molto, perché gli impegni di entrambi lo impedivano, ma nonostante la loro discussione, non voleva che durasse così poco. Non riusciva a sbarazzarsi del bisogno che sentiva di averlo vicino, anche solo per sfiorarlo con gli occhi o con le parole.
Colpita da quella consapevolezza, annuì appena, stringendosi nelle spalle. Miles si sporse verso di lei e, incastrando una mano tra i suoi capelli, le baciò le labbra velocemente, ma senza fretta: Emma accolse quel gesto con il cuore in subbuglio, ma si impose di mantenere la sua fermezza e di non cedere alla tentazione di chiedere di più. In fondo, era ancora nervosa per quello che era successo solo pochi minuti prima e, anche se lui sapeva imporsi senza l'uso delle parole, lei era in grado di perseverare e di resistere ai suoi attacchi.
«Ci vediamo dopo», lo salutò, mentre Miles le accarezzava un braccio, per poi rivolgere la propria attenzione ad Harry: gli riservò una pacca amichevole sulla spalla, una stretta leggermente più accentuata, e se ne andò senza un'altra parola.
Emma lo guardò allontanarsi, vagamente stordita da quelle dinamiche veloci: in pochi istanti, aveva letteralmente messo Harry in secondo piano, dimenticandosi della sua presenza perché troppo concentrata su quella di qualcun altro. E lui, in silenzio, aveva assistito a quella scena quotidiana ed estranea senza reagire in alcun modo. Era assurdo pensare che fosse davvero accaduto: un tempo, Emma non avrebbe toccato nessun altro come osava toccare Harry, mentre ora il punto focale di ogni suo gesto aveva un altro nome ed un altro volto.
Spostando lo sguardo nelle iridi di Harry, le trovò assorte e stupite, quasi pensierose: avrebbe voluto sapere quali pensieri stessero celando e se anche per loro, quel piccolo episodio, fosse risultato stonante rispetto a ciò che avevano precedentemente condiviso.
«Si sarebbe presentato, se fosse stato un po' meno di fretta», si scusò Emma, usando una piccola bugia. In realtà, conosceva perfettamente Miles ed ogni sua motivazione: non si era presentato semplicemente perché non gli interessava farlo, tanto meno con un ragazzo che ai suoi occhi non rivestiva alcuna importanza, né preoccupazione. Nutriva troppa fiducia in se stesso e in Emma, per sentire il bisogno di imporre il proprio ruolo o per essere lontanamente geloso; gli era stato sufficiente uno sguardo ed un gesto di finta bonarietà, per ricordare la propria importanza, e non avrebbe perso tempo in altro modo: tu non esisti per me, né per lei
«Davvero?» la provocò Harry, con un sorriso consapevole. Perspicace come sempre, forse aveva capito tutto nonostante il mite sforzo di Emma di mascherare la cosa.
Lei sorrise e sospirò, abbassando per un istante lo sguardo. Quando lo rialzò, si scontrò con un'intima confidenza che la sfiorò con una sorta di malinconica nostalgia: nonostante il periodo di separazione e nonostante gli eventuali cambiamenti subiti, conoscevano l'uno l'essenza dell'altra e viceversa, cosa che impediva loro di tenere troppi particolari nascosti.
«Harry Edward Styles!» urlò una voce bassa, chiaramente proveniente da Ty. «Vieni subito qui, razza di idiota! Dove sei stato per tutto questo tempo?!»
Harry rise dedicando un cenno del capo al barista, che non poteva abbandonare il suo lavoro: si rivolse ad Emma ed alzò le spalle. «È meglio che vada a salutarlo», esclamò, infilando le mani nelle tasche dei jeans scuri, una delle cose che apparentemente era rimasta uguale. «È stato bello rivederti», continuò, abbassando la voce ma intensificando il suo sguardo per lasciar trasparire la propria sincerità.
Emma inclinò le labbra in un sorriso, ma non rispose, limitandosi a guardarlo mentre si allontanava. Le sembrava uno scherzo del destino il fatto che si fossero incontrati nuovamente per la prima volta nello stesso locale. O anche solo che si fossero incontrati di nuovo.
Sospirando, si diede un'occhiata intorno, come se avesse momentaneamente dimenticato cosa fare e dove andare. Subito dopo, ricordò di dover pagare il conto, dato che Miles aveva dimenticato il portafoglio a casa: si voltò verso la cassa e calcolò la distanza da Harry, appoggiato al bancone ed intento a chiacchierare con Ty. Qualcosa, dentro di lei, la spingeva improvvisamente a stargli lontano, nonostante si fossero ritrovati in completa serenità: forse era semplicemente perché, trascorso lo stupore, rimanevano la delusione ed il passato che non era ancora stato affrontato. Amaro ed insistente.
Sbuffò silenziosamente e si incamminò verso la sua meta, con lo sguardo fisso davanti a sé ed una finta indifferenza a guidarla nei movimenti: appoggiò la borsa sul ripiano ed aspettò che qualcuno la raggiungesse, sperando che i tre metri scarsi che la dividevano da Harry rimanessero tali. Non si sentiva più così tranquilla ad averlo vicino, anzi, si sentiva destabilizzata: era sommersa dai ricordi e da tutto ciò che era rimasto in sospeso, sopraffatta da una subdola forma di fastidio, pungente ed impossibile da ignorare.
Tamburellando con le dita sul legno scuro, si sentì costretta a voltarsi di scatto, quando un trambusto di piatti caduti a terra le arrivò alle orecchie: il Rumpel si ammutolì e tutti i clienti si soffermarono per un attimo sull'apprendista cameriere che si apprestava a raccogliere i pezzi da terra, maledicendosi a bassa voce. Ad Emma venne naturale indagare la reazione di Ty, che probabilmente era diventato paonazzo e poi di altri dieci colori, ma i suoi occhi si fermarono prima sulla figura di qualcun altro.
Non sapeva se Harry la stesse guardando da molto tempo o se invece fosse stato del tutto casuale, ma le loro iridi si incontrarono quasi spontaneamente. Lui, appoggiato al bancone con i gomiti, teneva le mani giunte davanti a sé, mentre sedeva su uno degli sgabelli alti e talvolta instabili: le labbra erano increspate in una sorta di sorriso, una smorfia istintiva e prolungata, ma appena accennata. Emma sbatté le palpebre e per un attimo si sentì più tranquilla, come se quel semplice contatto visivo potesse rassicurarla o placarla: non c'era malizia in esso, né qualsiasi altra macchia che avrebbe potuto renderlo pericoloso o spiacevole. Conteneva solo uno stupito sollievo, un placido saluto un po' più intimo e sincero.
Le venne naturale ricambiare il gesto, sorridendo debolmente, ma non prolungò quel momento: si voltò lentamente verso la cassa e si ripromise di non ricascarci, forse spinta dalla strana sensazione che l'aveva pervasa. Così, quando l'altra aspirante cameriera la raggiunse, pagò in tutta fretta e uscì dal locale senza nemmeno salutare Ty.

Girò la chiave nella toppa e, contemporaneamente, diede una spinta alla porta usando il proprio corpo: conosceva bene i capricci di quel pezzo di legno rovinato, quindi non ebbe alcun problema ad entrare nell'appartamento di Miles.
Era più in ordine del solito, con sole tre maglie sparse sul parquet chiaro, nessun piatto da lavare abbandonato sulla cucina ad angolo ed una bacchetta d'incenso accesa sul tavolo piccolo e al centro del salotto. 
«Miles?» chiamò Emma, chiudendosi la porta alle spalle e sfilandosi le Nike smesse. Erano passate le dieci di sera, ormai, quindi lui avrebbe dovuto essere già a casa, dato che gli incontri con Seth non duravano mai più di due ore.
Appoggiò la borsa sul divano schiacciato contro la parete e si guardò intorno, in ascolto: aveva trovato la luce accesa ed il televisore sintonizzato su un canale musicale, ma non aveva ancora ricevuto alcuna risposta. 
«Miles, ci sei?» domandò con un sospiro, massaggiandosi il collo con una mano. La stanchezza le stava consumando ogni muscolo del corpo, costringendola a sentirsi privata di qualsiasi forza: aveva appena finito di badare alle gemelle dei Winsor, al fondo del viale. Aggiungendo gli impegni di baby-sitting, riusciva ad arrotondare i suoi guadagni, nonostante non si parlasse di grandi somme.
Qualche istante dopo, Miles apparve dal corridoio scarsamente illuminato: indossava solo un paio di bermuda di jeans scuri. Appena lo vide, Emma si rilassò come se avesse appena ottenuto qualcosa di tanto agognato: percorse con lo sguardo il suo petto poco definito e l'addome piatto, le mani sottili lungo i fianchi ed il piccolo neo sullo zigomo sinistro.
«Hey», la salutò lui, con il viso serio e gli occhi determinati. Stava camminando verso di lei, senza alcuna fretta ma con una certa decisione.
La loro intimità era ancora condizionata dal pomeriggio al Rumpel, ma sapevano entrambi che non ne avrebbe realmente risentito. Quella velata tensione che stavano affrontando era solo una formalità, solo un pretesto per decretare un vincitore di fatto: era una sfida, una prova di forza nella quale non sempre lo stesso riusciva ad emergere.
Emma fece un passo verso di lui, in modo da andargli incontro, e fu sufficiente per arrivare a condividere lo stesso ossigeno e la stessa tenacia. Lo osservò attentamente, forte davanti al suo corpo che la implorava di sfiorarlo, mentre Miles la provocava con l'intenzione di farla cedere: i suoi respiri erano lenti, regolati, ma nascondevano qualcosa di irrequieto.
La mano sinistra di Miles si alzò lentamente per posarsi sulla schiena di Emma, fermandosi prima sul suo braccio per accarezzarlo: la strinse contro di sé con movimenti controllati, come se si stesse divertendo a prolungare i tempi di attesa, mentre con gli occhi le consumava le labbra e le iridi. Con l'altra mano le spinse delicatamente il capo verso il suo, in modo da respirare sulla sua pelle ed in modo da ridurre le sue possibilità di ribellione, dato che conosceva perfettamente le sue debolezze.
Nonostante la stizza per il non riuscire ad imporsi come avrebbe voluto, nonostante l'amarezza per quel discorso che tra loro non riusciva ancora a trovare una vera risoluzione, nonostante il passato che continuava a tormentarli, Emma agognava un contatto più profondo, un contatto che la facesse tremare come la prima volta che l'aveva fatto tra le sue braccia. Per questo, si avvicinò ancora un po' al suo corpo, percorrendo con le dita leggere la sua spina dorsale ed ogni muscolo contratto o rilassato. Alzò il viso per sfiorargli il naso con il proprio e schiuse le labbra, in un linguaggio che non necessitava di altro.
Miles non esitò nemmeno un istante nell'accogliere la sua richiesta implicita ma non celata: le baciò la bocca con un tale impeto da costringerla ad indietreggiare di un passo, ad arrancare per poter respirare ancora. Era quello, il suo modo di ricordarle ciò che era e che erano insieme.
«Io sono tuo», sussurrò contro le sue labbra, tenendole il viso con le mani: i palmi aperti e caldi a coprirle le guance arrossate. Le parole li avvolsero in una rassicurazione che voleva essere la continuazione della discussione di poche ore prima ed una promessa per tutto ciò che ne sarebbe seguito.
Ed Emma, specchiandosi nella voragine nera dei suoi occhi, non seppe dire se avesse appena vinto o se invece fosse successo l'esatto contrario.

 





 


Cccccccccccccciao gente :)
Vi sono mancata, ammettetelo!! (Lasciatemelo credere hahah) Voi mi siete mancati un sacco, soprattutto con la vostra impazienza! E mi è mancata anche questa storia, DIO, non potete capire quanto! È tutta (quasi) nella mia testa, ma come sempre non riesco a scrivere prima tutti i capitoli, quindi non ho resistito a pubblicare (anche senza banner haha arriverà, giuro!) anche per questo!
Per prima cosa: se siete nuovi lettori, benvenuti! Vi consiglio davvero di leggere prima "Little girl", perché altrimenti non so quanto potreste davvero apprezzare questa storia e forse non capireste molte cose! E in ogni caso, grazie per aver letto :)
A chi invece ha già letto LG, bentornati!!! Spero sul serio che questo primo capitolo sia stato di vostro gradimento, perché io non so cosa pensarne ahah È stato super strano dover scrivere di Emma con qualcun altro (cosa pensate di Miles? Come vi sembra il loro rapporto?), così come è stato super-mega strano dover scrivere di Emma ed Harry in questi termini, a sei anni (SEI!) di distanza e completamente cambiati nel modo di rapportarsi! Quindi non so se io abbia fatto un buon lavoro o meno! Insomma, lei ora ha 22 anni e lui 26, quindi ci divertiremo ad avere a che fare con i loro cambiamenti e le loro nuove vite! Ovviamente verrà spiegato cosa è successo in questi anni e in quali rapporti si siano lasciati, dopo il loro ultimo incontro, ma io vorrei sapere lo stesso le vostre ipotesi :)
Come avete visto, si sono incontrati senza alcun imbarazzo ed è grazie al fatto che è passato così tanto tempo da sfumare qualsiasi altra emozione, almeno ad un primo impatto. Come se voi aveste incontrato la vostra cotta delle elementari, ecco (?). Cosa ne pensate? Cosa vi aspettavate? Come pensate che si evolverà la situazione?
Vi ho sottoposto qualche informazione, senza scendere nello specifico, quindi sono curiosa di conoscere i vostri pareri! (Piccola premessa: anche se è presente Miles, non ci sarà il solito triangolo amoroso e bla bla bla!)
Fatemi sapere qualsiasi cosa vi passi per la testa (critiche anche e soprattutto!)!
È bello tornare :))

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 


       
    
  

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Capitolo 2
*** Capitolo due - Missed call ***




 

Capitolo due - Missed call
 
 

«Lasciami!» Gli ordinò Emma, masticando le lettere in una risata trattenuta. Miles continuava a tenerla stretta a sé, con l'addome che accoglieva la sua schiena ed il viso che si confondeva sulla sua pelle e tra i suoi capelli ormai disordinati.
«Sta' ferma» ribatté lui, sorridendo in un bacio fuggevole mentre cercava di bloccarla anche con le gambe. Il divano sul quale stavano lottando non era abbastanza spazioso per poter soddisfare le loro momentanee esigenze, quindi rischiavano di cadere a terra con un movimento troppo brusco o avventato.
«Me la sto facendo addosso!» Protestò Emma, inarcando il corpo per sfuggire alla sua presa ferrea ma scherzosa. L'aveva sempre divertita il suo lato dispettoso ed infantile, nonostante spesso la facesse dannare nei momenti meno opportuni: come, per esempio, quando doveva correre urgentemente in bagno e lui si dilettava nel torturarla.
«Non vorrai lavare il divano…» la prese in giro, mordendole giocosamente il lobo dell'orecchio destro.
«Laverò te, se non mi lasci andare» lo ammonì lei, cercando di liberarsi delle sue mani giunte e solide.
A quelle parole, Miles dissolse la sua stretta all'improvviso e per poco non le fece perdere l'equilibrio. «Che schifo che fai» esclamò, accompagnato da quella risata bassa che l'aveva conquistata la prima volta.
Emma gli fece un gestaccio sorridendo e corse subito verso il bagno, divertita dalla loro spensieratezza, ma preoccupata per la propria vescica.
Quando ebbe soddisfatto i suoi bisogni, udì il proprio cellulare squillare mentre stava tornando in salotto per prendersi una piccola rivincita su Miles. Entrò nella stanza del ragazzo e, oltre al letto disfatto, trovò il telefono sul comodino: sullo schermo rigato lampeggiava un numero che non ricordava né riconosceva.
«Pronto?» Rispose, incastrando una mano tra i propri capelli e piegandosi a raccogliere un calzino da terra.
«Ah, lo sapevo!» Esclamò la voce dall'altra parte della cornetta, suggerendo una lieve risata. Ed erano passati sei anni, è vero, ma Emma sapeva ancora riconoscere il timbro di Harry senza particolari sforzi. Allontanò per un istante il cellulare, in modo da poter sbirciare ancora una volta il numero sullo schermo e per confermare che fosse a lei sconosciuto.
Inarcò le sopracciglia, stupita. «Harry?» Domandò, nonostante sapesse già con chi stesse parlando.
«Volevo accertarmi che avessi ancora lo stesso numero» le spiegò velocemente, come se fosse stata una cosa normale, all'ordine del giorno. C'era da sperare che si rendesse conto di quanto invece la sua curiosità fosse fuori luogo ed inaspettata, imprevedibile e sospetta.
«Io sì» commentò lei dopo un paio di secondi, con un certo fastidio nell'intonazione. Ricordava sin troppo bene quando, circa due mesi dopo la sua partenza da Bradford, aveva provato a chiamarlo ed il numero era risultato inesistente. Aveva messo da parte l'orgoglio e la paura, la nostalgia ed il dolore insistente, solo per sentire di nuovo la sua voce, ma aveva scoperto di essere semplicemente in ritardo, perché Harry aveva cambiato scheda telefonica senza preoccuparsi di lei, dell'impossibilità di trovarlo che le avrebbe imposto.
Quello che la stupiva, però, era che avesse conservato il suo numero.
«Ti va di uscire per un caffè?» Le chiese senza indugi, quasi non avesse colto quel rimprovero implicito: più probabilmente, comunque, aveva deciso di ignorarlo.
Dopo quattro giorni dal loro incontro, la sua richiesta le consigliò che si fosse trattenuto in città oltre il tempo necessario per una semplice visita, soprattutto perché non sapeva quando effettivamente fosse arrivato. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Cosa avrebbe dovuto scegliere tra l'istinto e la ragione, che non avevano ancora deciso che posizione prendere?
«Adesso, intendi?» Tergiversò, mordendosi un labbro.
«E quando altrimenti?» Sorrise lui. «Ci vediamo tra un'ora al Wallace?»
Emma si era quasi dimenticata di quante iniziative fosse solito prendere, ma non se ne stupì. Se da una parte provava un marcato rancore nei suoi confronti, dall'altra era impaziente di saperne di più: era stato un duro colpo cancellarlo dalla sua vita così bruscamente, quindi la sua indole curiosa non poteva resistere alla tentazione di carpire tutti i dettagli persi nel tempo.
«Va bene» acconsentì semplicemente, cercando di tenere a bada la confusione creata dai suoi pensieri contrastanti. Non voleva che trasparisse.
«Perfetto» commentò Harry, con la voce squillante e del rumore indistinguibile in sottofondo. «Allora a dopo, ragazzina.»
Lei aprì la bocca per ribattere, per chiedergli o ordinargli di smettere di chiamarla in quel modo, dato che aveva percepito il tono divertito che aveva utilizzato, ma fu interrotta dal suono computerizzato della fine della chiamata: oltre a non essere più appropriato, quell'appellativo le provocava uno strano senso di inadeguatezza, come se potesse essere addirittura fastidioso.
Impegnata a decifrare le proprie emozioni, restò con il telefono accanto all'orecchio ancora per qualche secondo. Avrebbe voluto avere le idee un po' più chiare ed uno stato d'animo più definito, anziché dover sottostare a ricordi e domande prive di risposta. Harry era tornato all'improvviso, intrufolandosi nella sua vita per la seconda volta e senza domandarsi se fosse lecito. Era tornato ed Emma si sentiva leggermente più in disordine.
Quando rientrò in salotto, Miles era ancora steso sul divano: le gambe nude e magre allungate sul tavolino e gli occhi concentrati sullo schermo del suo iPhone. Era banalmente ed inesorabilmente bello, racchiuso nella sua espressione concentrata e con la luce diurna che gli illuminava il viso. Per Emma, il suo fascino non convenzionale era quasi inebriante.
«Ha risposto qualcun altro all'invito?» Domandò lei, avvicinandosi a piedi scalzi ed ipotizzando che stesse controllando la sua pagina Facebook, cosa che recentemente era divenuta piuttosto frequente.
Lui non alzò lo sguardo, ma sospirò. «Sono comunque troppo pochi.»
Emma gli si sedette accanto, incrociando le gambe e sistemandosi i capelli dietro la schiena. Indossava unicamente una canottiera di Miles, che ormai si poggiava solo sulla sua pelle da diverso tempo. «Invece sono molti. Devi smettere di pretendere così tanto, sempre di più: in fondo te la stai cavando bene per essere agli inizi» continuò, incastrando il viso sulla sua spalla.
Miles aveva indetto una mostra d'arte che si sarebbe tenuta da lì a due settimane: avrebbe esposto le sue opere, i dipinti che tanto lo scoraggiavano ma che alla fine si tramutavano nella sua più grande soddisfazione. Il suo amico Seth gli aveva offerto un vecchio stabilimento di famiglia, spazioso e particolarmente semplice da sistemare a proprio piacimento: si incontravano spesso per decidere gli ultimi dettagli, per apportare le ultime modifiche.
Anche Emma era emozionata ed impaziente per quella mostra: se per Miles non era una novità esporsi al giudizio di altre persone, per lei era tutto il contrario. Per la prima volta, infatti, si sarebbe sottoposta a critiche costruttive o meno, approfittandone per mostrare al pubblico alcune delle sue fotografie.
«Sicura?» Domandò Miles, cercando i suoi occhi per trovarci una rassicurazione.
Emma sorrise per la fiducia che lui nutriva nelle sue parole, annuì. «Sicura» affermò, baciandogli le labbra lentamente, come a cullarlo in un piccolo conforto.
«Dimentico sempre quanto tu sia brava a distrarmi» commentò lui ancora sulla sua bocca.
Lei rise e lo strinse un po' di più tra le braccia. «Avevi qualche programma per oggi?» Domandò a bassa voce qualche secondo più tardi, con la guancia destra schiacciata sul suo petto.
«No, perché?» Rispose Miles, bloccando lo schermo del telefono e abbandonandolo sul divano, prima di sistemarsi meglio.
«Tra un'oretta devo andare al Wallace» spiegò piano, accarezzandogli l'addome. «Ricordi Harry? Il ragazzo che ho incontrato al Rumpel qualche giorno fa.»
«Hmhm…» annuì lui, prima di sbadigliare.
«Be', è tornato in città dopo sei anni. Mi ha chiesto di prendere un caffè con lui» aggiunse.
Miles non sapeva chi fosse esattamente quel ragazzo dalle iridi verdi che aveva sottovalutato, perché Emma non gliene aveva mai parlato. Non era stata sua intenzione ometterlo dai vari racconti sulla propria vita, fingendo che non fosse mai esistito, né temeva di parlarne: semplicemente era stata un po' più egoista e si era preoccupata di nasconderlo anche a se stessa.
«Andavate a scuola insieme?» Domandò lui, vagamente incuriosito.
Istintivamente le venne da sorridere per quell'ipotesi tanto lontana da quella che era stata la loro modalità di conoscenza e dal percorso che avevano successivamente condiviso. Pensare ad Harry come ad un compagno di scuola era semplicemente assurdo e ilare.
«No» rispose, arricciando il naso per smorzare la propria reazione. La sua espressione tornò seria subito dopo, rispecchiando il dubbio che le attraversò la mente: avrebbe dovuto raccontargli tutto? «Ci siamo conosciuti proprio da Ty, in effetti.»
Optò per il silenzio, mossa dalla necessità di prendere una decisione veloce ed efficace: non aveva voglia di soffermarsi su quella parte della sua vita, perché sapeva che con Miles sarebbe dovuta scendere nei dettagli e perché sarebbe stato inevitabile farlo. Come avrebbe potuto spiegare la propria storia con Harry in un riassunto di poche parole? Nemmeno dopo tutto quel tempo, nemmeno dopo aver sconfitto i propri sentimenti, avrebbe potuto farcela.
«Scommetto che cercava di abbordarti» commentò Miles, abbozzando una risata. «E magari ci è anche riuscito.»
Emma alzò il viso verso il suo e corrugò la fronte. «Cosa?» Chiese con un fil di voce, inclinando le labbra in quello che doveva essere un sorriso incredulo.
«Ho indovinato?» Ribatté lui, guardandola negli occhi con uno sprazzo di divertimento.
«Perché pensi che abbia cercato di abbordarmi?» Rispose con un'altra domanda, stando al gioco: «Per quanto ne sai, potrebbe esser stato lo sfigato della situazione o un semplice amico di amici». Emma stava cercando di mantenere una certa compostezza, perseverando nella sua scelta di omettere la verità: probabilmente, se anche l'avesse rivelata, per Miles non sarebbe cambiato molto, ma in quel momento stava pensando più a se stessa che ad altro, ai propri limiti.
«Non lo so» sbuffò lui, alzando le spalle. «Forse perché doveva essere davvero uno sfigato, se non ha nemmeno pensato di farlo» spiegò con la voce piegata dal peso della malizia. Le sue iridi esprimevano i suoi reali pensieri ed Emma sentì la propria vanità riscattarsi, insieme ad un vago senso di sollievo: per un attimo aveva creduto di aver lasciato trasparire qualcosa, un piccolo indizio nascosto in uno sguardo o in un movimento, che avrebbe potuto svelare ciò che lei ed Harry avevano condiviso.
Gli baciò il collo, mordendo appena la sua pelle in una sorta di ringraziamento provocatorio, ma non accennò a rispondere, sperando che l'argomento potesse finire lì.
«E lo sarebbe anche ora, se non ci provasse» aggiunse Miles, infrangendo la sua speranza. Con due dita sotto il suo mento sottile, le sollevò il viso per poter incontrare i suoi occhi di un blu sporco. Era sollevata per la chiusura del discorso riguardo il passato, ma preoccupata per la nuova piega che aveva intrapreso.
Emma sbatté le palpebre, confusa. «Stai dicendo che dovrebbe provarci?»
«No, ti sto chiedendo se devo preoccuparmi» precisò lui seriamente, ma senza troppa convinzione. Per come aveva posto il problema - se così poteva essere chiamato - non gli interessava quali fossero le intenzioni di Harry, perché gli bastava sapere che non avrebbero ricevuto alcun incoraggiamento.
Il suo tono di voce aveva lasciato intendere quanti pochi dubbi avesse a riguardo, quasi come se la risposta fosse ovvia. A volte Emma avrebbe voluto notare un po' più di gelosia nelle sue parole, una punta di preoccupazione, invece di dover fare i conti con l'indiscutibile fedeltà che gli aveva assicurato con il tempo, senza nemmeno sforzarsi.
Lo osservò attentamente reprimendo una protesta interiore che non aveva voglia di affrontare, nonostante le costasse fatica. «No, non devi» sussurrò con sicurezza. E ne era convinta, perché per quanto Harry potesse portare del momentaneo disordine nella sua quotidianità, non aveva più il potere di prenderne possesso.
«Bene» esclamò Miles, senza sorridere.
 
Nell'armadio aveva trovato degli abiti che credeva di aver riportato a casa: tra di essi aveva scelto un paio di pantaloncini in jeans ed una canotta color panna da abbinare alle Nike che aveva ai piedi. Era quasi in ritardo, ma in fondo non credeva che Harry sarebbe stato in orario.
Si stava specchiando nel bagno, quando intravide Miles appoggiarsi allo stipite della porta aperta: la guardava tramite la superficie riflettente, con le braccia incrociate al petto ed il labbro inferiore vittima di un morso assorto.
Emma si lavò il viso e rimuginò sulle lentiggini che aveva imparato ad accettare, ma che con l'estate si erano moltiplicate. Sentiva i suoi occhi bruciarle la pelle.
«Mi manca averti a casa» furono le parole appena mormorate da Miles, quelle che la colpirono alle spalle senza preavviso o traccia di pietà. Strinse tra le mani il bordo del lavandino e trattenne il respiro, sostenendo il suo sguardo tramite lo specchio. Capiva a cosa si stesse riferendo, perché anche per lei quella scena si era rivelata sin troppo familiare, perché anche a lei si era stretto lo stomaco in una morsa.
«Lo sai, vero?» Continuò Miles. Era la prima volta che lo ammetteva, la prima volta che sfiorava l'argomento delicatamente. Da quando il loro rapporto si era frammentato, da quando Emma aveva deciso di porre fine alla loro convivenza e di tornare a casa dei suoi genitori, nessuno dei due aveva osato riportare a galla vecchi ricordi, vecchie ferite.
«E tu sai che è meglio…»
«Non ti sto chiedendo di tornare» la interruppe. Emma avrebbe voluto accartocciarsi a terra, gemere. Eppure si limitò ad annuire e ad abbassare lo sguardo. Miles sapeva bene cosa gli fosse concesso e quali battaglie non avrebbe potuto vincere, per questo l'aveva subito rassicurata: le aveva promesso una protezione da un altro eventuale dolore, ricordandole, però, cosa comportasse per lui.
Emma sospirò silenziosamente quando lo sentì avvicinarsi, quando sentì il suo corpo spingersi contro il proprio e sorreggerlo. Chiuse gli occhi e si lasciò baciare la gola, la spalla sinistra. Si mise nelle sue mani come per consolarsi del passato che non l'aveva ancora abbandonata.
«È solo che mi manca averti qui» ripeté Miles, continuando la sua offensiva.
Ma è solo colpa tua, avrebbe voluto dirgli, anzi, urlare a pieni polmoni. E l'avrebbe fatto, se non avesse preferito evitare un'ulteriore discussione senza fine, un ulteriore screzio tra di loro. In fondo ci stavano provando: stavano provando ad andare avanti, a perdonare più che a dimenticare, quindi era inutile creare problemi là dove altri erano appena stati risolti.
Emma si voltò e cercò la sua bocca con desiderio cieco, guidando le mani sulla sua schiena contratta e lasciando che le sue percorressero ancora una volta il proprio corpo, centimetro dopo centimetro. Quel tipo di contatto era in grado di garantirle un conforto unico nel suo genere, così puro da farle dimenticare la causa dei suoi tormenti. La sua cura era peggiore della malattia stessa.
«Dimmi che ci penserai» esclamò Miles, sbottonandole i pantaloncini e sfilandole la canotta per baciarle la pelle nuda.
E certo, certo che non le stava chiedendo di tornare, perché lui non chiedeva. Lui prendeva. Così come quella richiesta non avrebbe potuto essere esplicitata in altro modo, se non evidenziando il fatto che fosse sottintesa e quanto più simile ad un imperativo che ad una reale preghiera.
«Ci penso ogni giorno» ammise Emma, ricalcando le cicatrici che portava ancora con sé e che forse lui tendeva a dimenticare.
Con le sue mani a sostenerla, si sedette sul lavandino e lo strinse tanto forte da desiderare di fargli del male, come a ripagarlo, come ad obbligarlo a ricordare. Miles si liberò velocemente dei propri indumenti, pur senza distanziarsi da lei più del necessario, più di quando gli fosse concesso: il desiderio e la necessità scorrevano tra i loro petti ansanti e sotto le dita esigenti.
Fragile nella sua apparente forza, Emma gli si concesse senza alcun freno né ripensamento. Lo accolse come se non si fossero mai separati, sperando che quell'unione potesse cancellare momentaneamente la consapevolezza del contrario, e cercò di accettare tutto ciò che lui le stava offrendo, che si sforzava di concederle per redimersi e per cercare un perdono un po' più profondo.
Quando minuti più tardi il suo telefono prese a squillare, sulla mensola dello specchio, Emma si chiese se potesse essere Harry che reclamava una spiegazione per il suo ritardo, si chiese se potesse essere chiunque altro, ma non le importò. Rapita dalle labbra che la stavano catturando, allungò una mano e tenne premuto il tasto di spegnimento, ponendo fine alla vibrazione che li aveva disturbati.
Miles ancora contro di lei. Dentro di lei.
 
Pete le camminava affianco, lentamente a causa delle stampelle, ma con un cipiglio caparbio sul viso: il gesso alla gamba destra, posizionato per la rottura della tibia in seguito ad un fallo in una partita di calcetto, doveva accompagnarlo ancora per qualche settimana. Lui si ostinava a non lamentarsi, ma era evidente che odiasse quella situazione e che si stesse stancando delle energie richieste anche solo per muoversi da una stanza all'altra.
«Sediamoci qui, avanti» esordì Emma, mostrandogli una panchina in pietra, cementata sul marciapiede poco affollato. Il giovedì sera, Bradford non era molto frequentata, soprattutto d'estate, quindi era più semplice e piacevole godersi il clima mite.
Pete sbuffò, ma non si perse in proteste che sarebbero risultate inutili: da quando si erano conosciuti, forse era quello ad aver subito meno cambiamenti di tutti. Il suo carattere da orso era sempre uguale, così come il suo essere di poche e dirette parole. Persino i suoi modi a tratti infantili erano rimasti gli stessi.
Emma osservò i capelli un po' più lunghi e la carnagione abbronzata, grazie al sole che prendeva sul balcone. Nonostante le fotografie testimoniassero il contrario, quando si specchiava nel suo viso si ritrovava di fronte all'adolescente con il quale era cresciuta e non notava i lineamenti adulti o l'esperienza dei ventidue anni.
«In pratica mi stai dicendo che per farti Miles, ti sei dimenticata di Harry?» Esclamò Pete con la sua immancabile delicatezza, appoggiando le stampelle alla panchina ed i gomiti sulle ginocchia.
Ad Emma scappò una risata, che però si affievolì subito. «Non me ne sono dimenticata» precisò. In fondo, mentre si abbandonava tra le braccia che voleva sentire intorno a sé, sapeva perfettamente a quali conseguenze sarebbe andata incontro.
«Quindi gli hai dato buca di proposito» continuò lui.
Lei si inumidì le labbra e sospirò, abbassando lo sguardo a terra: non era la completa verità, perché non era stato qualcosa di premeditato, ma sembrava comunque l'ipotesi più adatta. Aveva scelto di non incontrare Harry.
Talvolta era estenuante essere conosciuta così bene da qualcuno, soprattutto se quel qualcuno si chiamava Pete Butler ed era testardo ed insistente quasi più di lei.
«Non ti sembra strano?» Domandò Emma a bassa voce, riflettendo su quello che era accaduto nel pomeriggio. Non riusciva a non confrontare il presente con il proprio passato, le priorità completamente ribaltate ed i sentimenti tanto diversi. Per lei Harry aveva rappresentato qualcosa di così totalizzante e fondamentale, che non avrebbe mai pensato di poterlo declassificare tanto facilmente. Si sentiva vagamente in colpa: oltre a non essersi presentata al Wallace, infatti, non aveva nemmeno ricambiato la telefonata ricevuta o scritto un messaggio di scuse. Era semplicemente scomparsa.
«Strano? Sono passati sei anni, è normale che lui non sia più al primo posto per te e che tu preferisca una bella maratona di sesso con il tuo ragazzo, ad un semplice caffè con un tuo ex» rispose Pete.
Emma gli riservò una gomitata divertita nel costato. «Sei davvero pessimo.»
«Però ho anche ragione» ribatté lui, con un sorriso ad increspagli le labbra sottili.
«In un certo senso sì» ragionò lei, tornando seria: «È solo che... Quando ci siamo lasciati, per me era tutto. Letteralmente. Ora è tornato ed io lo ignoro senza troppi problemi. È un bel cambiamento». Se fosse stato più graduale, forse sarebbe riuscita ad accettarlo più facilmente, invece in quel momento le sembrava tutto troppo affrettato, troppo estraneo. Non aveva avuto l'opportunità di sfumare il rapporto con Harry, di abituarsi alla sua presenza in altri termini, perché erano semplicemente scomparsi l'uno dalla vita dell'altra: era come se non sapesse vivere a contatto con lui in altri modi, come se dovesse ancora imparare.
«Kent, se vuoi vederlo, devi solo prendere il telefono e chiamarlo. Anzi, prima fatti una cazzo di ricarica, perché sono stufo di finire tutto il mio credito per te» le fece presente Pete.
Emma alzò gli occhi al cielo. «Io non voglio vederlo» puntualizzò, lasciando da parte l'altro argomento e senza sapere se fosse totalmente sincera o meno.
«Bugiarda» la schernì l'amico, andandole involontariamente in soccorso. «È impossibile che tu non abbia nemmeno la più piccola curiosità di rivederlo. Cazzo, ce l'ho persino io. Magari non è più in cima alla lista delle tue priorità, ma è di Harry che stiamo parlando. E poi, se devo essere sincero - e sai che devo -, sei stata proprio una stronza a non avvertirlo.»
Neanche la sua schiettezza era mutata.
«Lo so» sospirò Emma, passandosi le mani sul viso. «Avrei dovuto dirgli che non sarei andata, ma in quel momento non mi è sembrato nemmeno un problema, capisci? Non so se effettivamente non me ne freghi niente o se abbia solo scelto la strada più semplice: in fondo cosa avrei potuto dirgli, visto che solo un'ora prima avevo accettato l'invito senza problem-»
«Avresti potuto mentire» la interruppe lui, con un tono ovvio. «La gente usa continuamente la scusa di un imprevisto o roba del genere, quindi non hai giustificazioni.»
«Be', mi dispiace non averci pensato, ma ero troppo impegnata a fare altro» borbottò Emma, incrociando le braccia al petto. Pete aveva ragione, ma sul momento aveva preferito concentrarsi sulle mani di Miles, piuttosto che perdere tempo per scrivere un messaggio ricco di bugie. Scosse la testa e chiuse gli occhi per qualche secondo. «Sai una cosa? Se l'è meritato. In fondo lui non si è fatto problemi a scomparire e a cambiare numero di telefono sei anni fa, quindi perché io dovrei farmene adesso?» Rimuginò tra sé e sé, inasprendo il tono di voce e cercando una giustificazione.
Pete sospirò e si alzò in piedi, aiutandosi con le stampelle. «Avete così tanto di cui parlare, voi due, che se fossi in te non aspetterei nemmeno un minuto per chiamarlo» commentò, guardandola negli occhi come a volerle ricordare di non poterlo contraddire.
Emma lo seguì riflettendo su quelle parole. «Odio quando hai ragione» bofonchiò.





 


Buooongiorno!
Ebbene sì, sono in anticipo! Ho fatto un rapido calcolo dei tempi a mia disposizione e mi sono accorta che pubblicare oggi mi sarebbe stato immensamente più comodo, tanto credo (spero) che a voi non dispiaccia hahaha
Per prima cosa, un gigantesco grazie a Dalilah Efp, che mi ha sopportata per l'ennesima volta e ha creato il banner lassù :)
Poi, poi, poi: mi ha fatto davvero molto, molto piacere rivedervi così numerose per questo sequel! Non me l'aspettavo e ve ne sono grata :) Mi sono divertita a leggere le vostre recensioni, i vostri pensieri riguardo i sei anni ormai trascorsi e riguardo Miles!
Da questo capitolo forse si capiscono un po' di cosette in più:
- Miles/Emma: innanzitutto, per chi aveva dubbi a riguardo, Emma non vive con Miles, ma hanno convissuto in passato (ipotesi riguardo quello che può esser successo tra di loro?). Si capisce che Miles è nel mondo dell'arte e che presto anche lei ci entrerà, ma presto verranno svelati altri particolari sulle loro vite. Molte di voi lo hanno preso in antipatia, per il suo comportamento troppo sicuro di sé, e sono curiosa di scoprire cosa ne pensate ora, soprattutto dopo il loro discorso su Harry: la cosa divertente è che si ricerca sempre la fiducia in una coppia, ma quando ce n'è sul serio, viene vista con sospetto ahahah In ogni caso, avrete modo di conoscerlo meglio (e lo stesso vale per me!!).
- Harry/Emma: vi aspettavate la chiamata e l'invito di Harry? Che avesse conservato il suo numero per tutto questo tempo, nonostante avesse cambiato il proprio dopo soli due mesi? E come interpretate la cosa? :) Ripeto, per me è stranissimo scrivere di un'Emma che ha altre priorità e che non ruota più intorno a lui, infatti la scena di lei che spegne il telefono senza troppi problemi è stata il colmo hahah Eppure, non sarebbe potuto essere altrimenti! Cosa vi aspettate nei prossimi capitoli? Un confronto o un allontanamento?
- Pete/Emma: amore mio della mia vita hahahah Non poteva mancare nel sequel, gli sono troppo affezionata! E poi, come sempre, è la bocca della verità senza nemmeno peli sulla lingua! Per quanto riguarda Tianna e Dallas, non posso anticiparvi nulla!
- Emma: è cambiata in diverse cose, se avete notato, ma a tutto c'è una spiegazione :)
Detto questo, ovviamente ne è venuto fuori l'ennesimo papiro ahhah Scusate! Spero vivamente che il capitolo vi sia piaciuto e che mi farete sapere le vostre opinioni!


Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 


       
    
  

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Capitolo 3
*** Capitolo tre - Caution ***




 

Capitolo tre - Caution
 
 

Dopo la partenza di Harry, Rawson Street era diventata una via dalla quale Emma tentava a tutti i costi di tenersi lontana: non voleva posare gli occhi su quell'edificio grigio nel quale aveva passato innumerevoli ore, tra le lenzuola azzurre che l'avevano accolta la prima volta e le braccia che invece non l'avrebbero più stretta. Non voleva e non poteva sottoporsi a quel genere di tortura.
Impiegò diverso tempo ad accettare l'idea di passare davanti a casa Styles, magari senza alzare lo sguardo e stringendo i pugni, magari con il respiro strozzato in gola. Voleva riscattare l'immagine che aveva di sé e che doveva conservare, quindi era disposta a soffrire un po' di più per poterne ricavare beneficio. In fondo, i ricordi la tormentavano ovunque lei fosse.
Era un pomeriggio anonimo ed immerso nella quiete, quando per la prima volta non si accorse nemmeno di trovarsi in Rawson Street, di passaggio per raggiungere Tianna in un negozio. Provò un profondo senso di liberazione e di fierezza per se stessa, nel capire di aver finalmente conseguito il suo obiettivo.
Così, anche quel sabato mattina di fine Agosto, i suoi passi erano decisi sull'asfalto del marciapiede ed il suo viso mostrava alterità e sicurezza. Dopo tutti quegli anni, non sapeva se Harry abitasse ancora in quell'appartamento con il padre, ma era decisa a fare un tentativo: due giorni prima l'aveva ignorato senza nemmeno scusarsi, quindi temeva che lui potesse covare nei suoi confronti una buona dose di risentimento, se il suo orgoglio non era mutato. Aveva pensato di chiamarlo e di ricambiare l'invito, ma non si fidava: se doveva basarsi sulle conoscenze passate della sua indole, era facile che Harry decidesse di non rispondere al telefono o di ingannarla per ripagarla con la stessa moneta solo per riscattarsi.
Sospirò a lungo e si sistemò il leggero golfino color ocra, prima di avvicinarsi al citofono: tra i vari nomi, cercò quello che le interessava e lo trovò con un vago senso di sollievo. Il suo era un terno al lotto, dato che vi erano una decina di possibilità alle quali poter andare incontro: Harry avrebbe potuto essersi trasferito altrove, avrebbe potuto essere ripartito o uscito, lasciando solo il padre ad occupare gli scarsi metri quadri. Avrebbe potuto non volerle parlare. O avrebbe potuto essere lì, cambiato ed imprevedibile.
Premuto il pulsante, aspettò qualsiasi cosa le fosse destinata.
«Chi è?» gracchiò la voce metallica, dopo un minuto buono.
Lei increspò le labbra in un sorriso spontaneo e si dondolò sulle punte dei piedi. «Sono Emma», rispose. 
Era lui.
Il silenzio che seguì il breve scambio di battute enfatizzava l'attesa, ma non durò a lungo. Dopo qualche istante, infatti, Emma udì il rumore dato dal riposizionamento della cornetta del citofono e lo scattare della serratura del cancello d'entrata: non era stata rifiutata -almeno non ancora - ed in un certo senso ne era stupita.
Camminò lentamente lungo il breve vialetto, guardandosi intorno per riconoscere qualcosa di già visto e per scoprire ciò che invece le era nuovo, e proseguì lungo le scale scandendo nella mente i propri respiri: doveva ancora interpretare la strana e blanda agitazione che aveva iniziato ad affacciarsi nella sua integrità, ma credeva fosse dovuta esclusivamente all'ignoto verso il quale stava avanzando. Lei ed Harry non potevano essere definiti altrimenti, in circostanze simili: quasi fossero un esperimento, nessuno aveva il coraggio di scommettere su ciò che avrebbero potuto creare nel frangente del nuovo rapporto che li univa, sempre se così era possibile chiamarlo.
Lo trovò appoggiato allo stipite della porta. Le braccia nude incrociate al petto e lo sguardo basso, concentrato: indossava un paio di blue jeans consumati ed una t-shirt completamente bianca, di una leggera trasparenza. I capelli erano legati bonariamente in una piccola coda, lasciando libero il suo viso ancora assonnato: nonostante fossero le undici passate, gli occhi gonfi rivelavano che probabilmente si era appena svegliato.
Emma gli si fermò davanti, inumidendosi le labbra. «Hey», sussurrò, infilando le mani nelle tasche posteriori dei propri shorts solo per non restare ferma. Sperava che lui potesse scorgere nei suoi movimenti e nel suo timbro di voce quelle scuse che forse non avrebbe pronunciato.
Harry alzò le iridi su di lei e serrò la mascella, ma non rispose. Entrambi conoscevano quello sguardo, quel modo di farle pesare un rimprovero: la stava osservando come se si aspettasse di essere compreso senza nemmeno parlare o come se si stesse trattenendo dal cedere il posto alla propria impulsività. Per Emma fu strano confrontarsi di nuovo con qualcosa di così familiare, quasi non fosse trascorso nemmeno un giorno dalla loro separazione: riuscì a ripercorrere i momenti simili già vissuti, i disappunti affrontati, ogni discussione superata, perché aveva l'impressione che fosse tutto racchiuso in quegli occhi che la conoscevano sin troppo bene.
All'improvviso, Harry sospirò profondamente e si passò una mano sul viso, probabilmente arreso ad un pensiero o ad una decisione. Si massaggiò distrattamente il collo, ignorandola per qualche istante, e quando tornò a guardarla con attenzione, la sua espressione era completamente mutata: aveva eliminato qualsiasi traccia di risentimento, sostituendola con un calore appena tiepido ma di conforto.
Emma sentì il petto più leggero, come se avesse appena ricevuto una sentenza in grado di scagionarla, e godette di nuovo di quello stupore che aveva percepito in precedenza: sei anni prima, si sarebbe tenuta un'accesa discussione fatta di accuse e permalosità, mentre in quel momento era bastato loro presentarsi l'uno all'altra. Non poteva ancora sapere se fosse stato dovuto ad un reale cambiamento in entrambi, perché era più propensa a credere che la loro fosse stata solo cautela.
«Facciamo due passi?» domandò allora, accompagnando quelle parole con l'abbozzo di un sorriso. 
Lui si leccò le labbra e annuì, divertito. «Prendo le chiavi».
Nei secondi di attesa nei quali Emma restò sul pianerottolo di fronte all'appartamento, si chiese come sarebbe stato passare del tempo insieme e a cosa avrebbe portato: eppure, si rese conto di non volerci pensare troppo.
«Vivi ancora con tuo padre?» domandò, non appena Harry uscì chiudendosi la porta alle spalle.
«Sì, per ora», rispose lui, schiarendosi la voce e guardandola per un istante, prima di iniziare a scendere le scale.
«Nel senso che ti tratterrai qui a Bradford ancora per poco?» indagò Emma, curiosa, mentre lo seguiva gradino dopo gradino. Era dietro di lui, quindi poteva osservarlo attentamente senza alcun freno, pronta a cogliere qualsiasi indizio.
Harry si voltò senza fermarsi, corrugando la fronte in un'espressione confusa e allegra. «No», la contraddisse. «Nel senso che sto cercando un appartamento per me».
«Ah, quindi...» Emma deglutì a vuoto, senza sapere come reagire a quella verità appena rivelata. «Quindi sei tornato per restare?»
«Sì», confermò lui, aprendo la porta del palazzo e lasciandola passare. «Per restare», ripeté sorridendo, seguendola lungo il vialetto ed oltre il cancello in ferro battuto.
Camminando fianco a fianco, restarono in silenzio per diversi minuti, avvolti esclusivamente dal rumore dei loro passi lenti. Molte volte si era chiesta cosa avesse spinto Harry a tornare a Bradford, ma era sempre stato più semplice per lei ipotizzare che presto se ne sarebbe andato un'altra volta: il fatto che stesse cercando un appartamento, invece, riusciva in qualche modo a confondere le sue certezze. Aveva cercato di nascondere la propria reazione evitando di guardarlo, di rispondere o di fermarsi sulla soglia della porta nel momento in cui aveva udito la sua risposta, ma non sapeva se ci fosse riuscita.
«Quindi», esordì lui, con il manifesto intento di smuovere la situazione. Era aumentata la tensione ed era evidente desiderio di entrambi ridurla a zero. «Sei fidanzata», continuò.
Emma schiuse le labbra e si fermò, obbligandolo a fare altrettanto. Lo scrutò per qualche secondo, senza riuscire a trattenere una smorfia incredula e divertita. «Non ci vediamo per anni e la prima cosa di cui vuoi parlare è il mio fidanzato?» domandò, sollevando un sopracciglio.
Harry alzò le spalle, con la finta innocenza a mascherare la sua furbizia. «È un argomento come un altro», si giustificò. «Ed è l'unica cosa certa che so di te».
Lei annuì dopo qualche istante e riprese a camminare, inspirando a lungo. Poteva sentire il suo profumo estraneo, che la distraeva dalla concentrazione che stava cercando di raggiungere: non sapeva nemmeno da dove iniziare, per parlare con Harry del suo ragazzo. Voleva solo una conferma o voleva sapere tutto?
«Sì, sono fidanzata», esclamò semplicemente. Non si sarebbe sbilanciata, risoluta nel dargli solo ciò che aveva l'intenzione di chiederle.
«È un bel ragazzo», commentò lui, così seriamente da provocare in lei una genuina risata.
Emma cercò i suoi occhi e non nascose l'ilarità della situazione. «Già», affermò, senza sapere cos'altro aggiungere. Tutto quello era irreale, assurdo ed in qualche modo imbarazzante.
«Non dovresti ridere in questo modo, quando qualcuno fa un complimento al tuo fidanzato. Perdi di credibilità», la rimproverò scherzosamente.
«Ma piantala», ribatté lei, dedicandogli una leggera gomitata nel fianco, che fece sorridere entrambi. Era bizzarro riuscire a divertirsi in quelle circostanze, con ancora troppe cose taciute ed in sospeso, e lo era ancora di più accorgersi di non appartenere più ad Harry. Un conto era saperlo mentre lui era e rimaneva a chissà quanti chilometri di distanza, un conto era averlo accanto e poterlo sentire.
«E da quanto state insieme?» chiese ancora Harry, invitandola ad attraversare la strada con un cenno del capo.
Emma controllò che non arrivasse alcuna automobile e camminò sulle strisce pedonali. «Quasi due anni», rispose, con una stretta allo stomaco. «Ci siamo conosciuti quando lui era appena arrivato in città ed io gli sono finita addosso con la macchina», aggiunse, sorridendo a quel ricordo. Presa dalla fretta di andare a lezione, non aveva calcolato bene la distanza dalla propria auto a quella che le era stata posteggiata dietro: era bastato ingranare la retromarcia e partire con un po' più foga del solito, per realizzare il danno. Miles era subito uscito dal bar nel quale si era fermato e, la volta successiva, ci era rientrato per poter offrire ad Emma qualcosa da bere.
«Hai preso la patente?» domandò Harry, incredulo.
«Era meglio così», confermò lei, stringendosi nelle spalle. Non voleva attribuire a lui troppe responsabilità, ma era come se, dopo la fine della loro storia, salire in macchina con qualcuno fosse diventato ancora più difficile. Forse a causa della ferita che si portava dietro. Forse a causa della mancanza di fiducia esasperata. Persino con Miles non era riuscita a raggiungere un completo grado di tranquillità, quando sedeva in un'auto altrui.
«E tu? Sei fidanzato?» domandò lei, decisa a non esporsi troppo, ma a ricavare quante più informazioni sarebbero state necessarie a placare la sua curiosità.
«No», negò Harry, senza aggiungere altro ma mantenendo un'espressione rilassata. Avrebbe voluto scoprire se si fosse innamorato in tutto quel tempo, se avesse avuto delle relazioni importanti oppure solo una serie di Denice in successione, quindi quella risposta la lasciava insoddisfatta.
«Adesso cosa fai? Lavori, studi?» incalzò lui, quasi a compensare la sua riservatezza distraendola.
«Sto studiando architettura, anche se in questo periodo non ho lezioni», spiegò, calciando un sassolino sulla propria strada. Senza alzare lo sguardo, seguì le azioni di Harry mentre si accendeva una sigaretta: non aveva perso il vizio. «Nel frattempo faccio da baby sitter ad alcuni bambini e lavoro come cameriera in un piccolo ristorante fuori città, tre giorni a settimana. Ho bisogno di risparmiare qualcosa, sai, per aiutare i miei».
Non ricevette risposta, quindi decise di sbirciarne il motivo: Harry aveva appena espirato del fumo, guardando a terra con l'accenno di un sorriso indecifrabile sul volto. Non le piaceva il non avere completo accesso ai suoi pensieri, o almeno non più.
«Non dici niente?» indagò, senza smettere di scrutarlo.
Lui sembrò riscuotersi ed incontrò il suo sguardo. «Riguardo cosa?»
«Riguardo te», replicò Emma, corrugando la fronte divertita per sottolineare l'ovvietà. «Insomma, credo che in sei anni tu ti sia costruito una vita a Bristol», esclamò, senza nemmeno sapere se fosse rimasto lì o se si fosse spostato anche in altri posti. «Ora che sei tornato stai già cercando un appartamento, quindi o sei ricco sfondato e te lo puoi permettere, oppure dovrai cercare un lavoro, a meno che tu non ne abbia già uno».
Le labbra di Harry si inclinarono lentamente, scoprendo i denti bianchi: sembrava si meravigliasse di alcuni suoi comportamenti. «A Bristol ho fatto il meccanico, il commesso in un negozio di scarpe e poi in un supermercato, ho insegnato basket ai bambini delle elementari per qualche tempo, in un centro ricreativo, e... Ah, ho anche distribuito stupidi volantini per la città», elencò saccentemente, alzando un dito della mano libera ad ogni lavoro nominato, nonostante sembrasse che la lista non fosse ancora terminata. «Quindi sì, ho un po' di soldi da parte, ma non sono ricco sfondato», continuò, ripetendo le sue parole quasi in una presa in giro.
Emma non rispose, intenta ad immaginarselo in ogni contesto ed in ogni sforzo compiuto per mantenersi. Presumeva che avesse preferito non continuare gli studi, ma non ne era sorpresa, perché durante la loro storia aveva sempre espresso la mancanza di determinazione nell'ambito scolastico.
«Ora mi tocca cercare qualcosa di più... Stabile. E redditizio», spiegò, mentre le palpebre si socchiudevano per il gesto di aspirare del fumo. Il tentativo di Harry di sistemarsi e di assicurarsi a qualcosa di certo destabilizzava Emma, almeno quanto il pensiero che non fossero più i due adolescenti che ricordava: entrambi dovevano confrontarsi con le proprie responsabilità, ormai, con i propri doveri e le aspirazioni che covavano nel profondo.
Improvvisamente, provò un forte dispiacere per non aver avuto la possibilità di vederlo crescere e maturare, affrontare una vita differente.
«Hai già qualche idea?» chiese allora, tentando di riacquistare il controllo sulle proprie emozioni.
Harry si voltò verso di lei e «No», esclamò in una leggera risata.
«Bene», commentò sorridendo.
Presto si accorse di essere succube del contatto visivo che stavano condividendo e che non sembrava volersi interrompere: continuavano a camminare, passi lenti e senza meta, ma le loro iridi erano più che ostinate nel volersi conoscere ancora, nel voler scoprire tutto ciò che non avevano osato chiedere. Le parole che li avevano avvolti, le chiacchiere che avevano riempito il silenzio originario, davano l'impressione di esser state un semplice diversivo: di nuovo, Emma percepì la cautela che nessuno voleva accantonare, il respiro che era meglio trattenere ancora per un po' prima di dover affrontare ciò che li seguiva in ogni gesto. 
La suoneria di un cellulare interruppe bruscamente quegli istanti troppo lunghi, così entrambi si riscossero distogliendo lo sguardo. Lei deglutì a vuoto e si strinse nelle spalle, fissando il cemento rovinato sotto i propri piedi.
Harry rispose al telefono, gettando a terra la sigaretta terminata. La voce dall'altra parte della cornetta sembrava maschile, ma le sue parole non erano distinguibili. 
«Sì, arrivo», esclamò lui, cercando per un istante gli occhi di Emma, che avevano appena compreso quanto breve sarebbe stato il loro incontro. «Che coglione», commentò ancora Harry, scuotendo la testa con un'aria divertita. «Aspettami lì», concluse.
Emma non proseguì oltre, attendendo l'inevitabile saluto: in fondo, si era presentata a casa sua senza alcun preavviso, dando per scontato che avrebbe avuto del tempo libero.
«Devo vedermi con Walton tra cinque minuti», si giustificò lui, con la voce ferma e seria.
«Sì, certo», lo rassicurò. «Avrei dovuto avvertirti prima di venire».
«A quanto pare hai perso l'abitudine», rispose Harry mostrando un sorriso provocatorio. Ed eccola lì, la sua accusa, la prova che il loro incontro mancato gli stesse ancora logorando lo stomaco: forse aveva cercato di trattenersi per tutto quel tempo, ma evidentemente non ci era riuscito.
«No», lo contraddisse Emma, pronta a difendersi. «Semplicemente, ho deciso di non chiederti nulla e di andare sul sicuro», raccontò, certa che lui avrebbe compreso il senso delle sue azioni.
«Anche quando dovevamo vederci al Wallace?» ribatté l'altro, inasprendo impercettibilmente l'espressione, ma continuando a guardarla intensamente. C'era stato un cambiamento di atmosfera tra i loro corpi, quasi come se le precauzioni fossero sul punto di cedere.
«Perché non sei venuta?» incalzò, senza darle il tempo di articolare una risposta.
«Ho avuto un imprevisto», sputò fuori Emma, aggrappandosi alle parole di Pete.
«Un imprevisto?» ripeté Harry, alzando un sopracciglio per la scarsa fiducia che voleva dimostrare. Le sue labbra continuavano ad essere increspate da un vago sorriso, ma erano nervose. «Quindi io sono rimasto lì ad aspettarti come un idiota perché questo imprevisto ti ha fatto perdere l'uso delle mani? Perché, insomma, non era difficile scrivere un messaggio. Oppure, al posto di spegnere il telefono, rispondere e dirmi chiaramente che-»
«Harry», lo riprese fermamente, come ad imporgli un freno.
Lui si interruppe e serrò la mascella.
Il suo sfogo si era sviluppato in crescendo, partendo dal tentativo di trattenersi ed evolvendo verso parole decise e rapide, sfuggite al controllo della bocca loro padrona. Eppure Harry non sembrava pentito, anzi, era risoluto nel ricevere una risposta: probabilmente la sua apparente buona condotta aveva rappresentato una mera maschera a ciò che invece era il suo istinto, quello che Emma aveva inizialmente ipotizzato e per il quale si era preparata.
La pretesa di sincerità era implicita, silenziosa ma insistente.
«Ero con Miles», disse a bassa voce, sostenendo il suo sguardo. Vi colse una crepatura di confusione, quindi si affrettò a precisare. «Il mio ragazzo».
Harry si mosse impercettibilmente, assottigliando gli occhi che avevano già cambiato sfumatura, ad esprimere la mancanza di convinzione: come se quella spiegazione non fosse sufficiente, sembrava aspettare qualcos'altro. Emma non pensò nemmeno per un istante che potesse essere geloso, perché era convinta che a guidarlo fosse solo il suo orgoglio oltraggiato.
«Avevi detto di essere libera», le fece presente.
Lei non era a suo agio nel parlarne: non perché fosse ancora stordita dal non appartenere più ad Harry, ma perché la spiegazione che lui ricercava andava a scavare nella sua intimità, in quella che condivideva con Miles e che le sembrava sin troppo delicata. Inoltre, non sopportava di essere giudicata così aspramente: in un'altra occasione sarebbe stato  ragionevole, ma non tra loro due, non dopo ciò che li aveva divisi e ciò che Harry aveva dimostrato.
«Smettila di guardarmi così», lo ammonì, incrociando le braccia al petto. Non le piaceva la pretesa ostinata che leggeva sul suo viso. «O vuoi davvero giocare a chi dovrebbe chiedere spiegazioni a chi?»
Il suo tono di voce era rimasto piatto, calmo nella sua decisione: non c'era la necessità di alterarsi, perché la verità era indiscutibile e lo sapevano entrambi.
Harry serrò le labbra, abbassò per un attimo lo sguardo e annuì lentamente. «No», rispose seriamente, tornando con gli occhi nei suoi. «Tanto so già come andrebbe a finire». Era una critica senza alcun velo, che li riportava indietro nel tempo a quando le incomprensioni erano all'ordine del giorno, a quando il darsi per scontati era la normalità.
Ad Emma scappò una breve risata incredula, mentre scuoteva la testa. «Ciao, Harry», lo salutò semplicemente, prima di voltarsi e camminare via dal suo corpo e dalla sua sfrontata sicurezza. Non si aspettava di certo di essere richiamata, né voleva che accadesse: non era ingenua e sapeva che, se davvero Harry avesse osato protestare o ribattere qualcosa, la situazione si sarebbe presto evoluta in una discussione, nella stessa che durante quella passeggiata avevano cercato di rimandare silenziosamente, sostituendola con parole ed ancora altre parole.

«Dio, perché  ti fai schiavizzare in questo modo?» domandò Emma, non appena fu entrata in cucina. La stanza era ancora immersa nei profumi della cena, nel tepore rilasciato dal forno utilizzato minuti prima e nella luce calda del lampadario pendente dal soffitto.
Zayn le dava le spalle, intento a caricare gli ultimi piatti nella lavastoviglie con lentezza e cura: la camicia nera e forse di una taglia in più lo rendeva ancora più magro di quanto già non fosse, tanto da sembrare sostenuta solo dalle sue scapole. I suoi capelli disordinati, la barba non rasata e gli scarponi neri e spessi costituivano elementi di contrasto, in quella scena in pieno stile casalingo.
«Non mi cadranno le braccia, se per una volta do una mano a tua madre», si giustificò lui, senza voltarsi a guardarla. Ormai riconosceva la sua voce senza doverla ricondurre ad un viso. «E a te non cadrà la lingua, se per una volta chiudi quella boccaccia».
Emma gli tirò giocosamente i capelli, passandogli accanto e sedendosi sul bancone vicino al lavandino. «Sei senza speranze, mi dispiace per te», replicò con un tono falsamente serio. Non era affatto la prima volta che Zayn si offriva di aiutare Constance in cucina, anzi, succedeva quasi sempre quando lui e Melanie li raggiungevano per cena: testardo come un mulo, non voleva sentire proteste o complimenti, né la sua fidanzata avrebbe mai potuto fargli cambiare idea.
«E tu sei...» Zayn si interruppe con un sospiro profondo, ricco di arrendevolezza, mentre scuoteva la testa con un sorriso.
«Ecco, appunto», lo sbeffeggiò Emma, vittoriosa. Era in grado di portarlo all'esasperazione: ormai li univa un rapporto quasi fraterno, nato grazie al consolidamento sempre più evidente della sua storia con Melanie - sfociata nella convivenza -, e non mancavano mai di stuzzicarsi o tormentarsi. Poteva orgogliosamente dire di essere quasi sempre la prima ad iniziare, ma anche l'ultima a finire: voleva fingere che lui non la lasciasse vincere per la maggior parte delle volte. Era troppo buono per risponderle a dovere, nonostante entrambi sapessero che ne sarebbe stato capace.
«È tornato Harry», cominciò lei, abbassando il tono di voce e dondolando le gambe nell'aria. Le chiacchiere in salotto facevano da sottofondo. «Lo sapevi?»
«Certo che lo sapevo», rispose Zayn, senza reagire in alcun modo. Aveva appena terminato il suo piccolo lavoro: chiuse lo sportello della lavastoviglie e la avviò, asciugandosi poi le mani con uno straccio appoggiato sulla cucina.
«E perché non me l'hai detto?» lo rimproverò, imbronciandosi appena. Non avevano mai parlato apertamente della questione, forse perché era talmente implicita per loro da non sentire la necessità di esprimerla a parole, ma Emma non poteva dire con certezza che lui e Zayn avessero mantenuto e migliorato i rapporti. Per questo aveva posto la domanda.
Lui la guardò per la prima volta negli occhi, mostrandole le ciglia nere e stanche. «Credevo non ti interessasse», rispose alzando le spalle, a metà tra la provocazione e la realtà.
Sì, perché in teoria non avrebbe dovuto interessarle.
«L'hai già visto?» le chiese dopo qualche istante.
«Sì», disse soltanto, senza spingersi oltre e chiedendogli silenziosamente di fare lo stesso. L'idea di commentare il loro incontro non la attirava particolarmente, perché stava ancora cercando di rielaborarlo e di sbarazzarsi della stizza che l'aveva invasa.
«Sai chi altro è tornato in città proprio oggi?» domandò allora Zayn, comprendendo le sue necessità e compensandole con ben altro. Aprì le labbra in un largo sorriso e si appoggiò all'isolotto al centro della cucina, standole di fronte.
Emma corrugò la fronte e «Chi?», curiosò.
«Louis», scandì bene l'altro, in attesa di una reazione prevedibile che non tardò ad arrivare.
«Che diavolo...?» borbottò lei, sbattendo le palpebre più volte. «Cosa...?» continuò. «Quando?» esclamò poi, alzando la voce. «Voglio dire, quando esattamente ha messo piede a Bradford senza nemmeno avvertirmi?! Voglio sapere l'ora e anche i minuti, perché più tempo è passato e più sarà cruento il modo in cui lo ucciderò!»
Zayn rise sguaiatamente, mentre Emma saltava giù dal bancone farfugliando insulti a labbra strette e cercando il proprio cellulare nelle tasche dei jeans. Non poteva credere che fosse davvero tornato ed era ovvio che non le importasse di non essere stata avvertita - ovvio -, perché non voleva altro che riabbracciarlo dopo cinque mesi di lontananza e messaggi vocali idioti su Whatsapp.
Digitò il suo numero di telefono e diede una falsa spinta a Zayn, che stava ancora ridendo. Attese pazientemente che si stabilisse la linea e, dopo soli due squilli, ricevette una risposta.
«Sai, ho scommesso venti sterline con quel coglione di Zayn che mi avresti chiamato entro i primi tre minut-»
«Louis Tomlinson, muovi il culo e vieni immediatamente qui!» 





 


Buongiorno!
Sono ancora mezza addormentata, quindi andrò per punti e spero di fare dei discorsi sensati ahahha
- Emma/Harry: ovviamente è lei a cercarlo, dato che è stata lei a sbagliare, ed il modo in cui si rapportano è abbastanza particolare. Emma stessa ragiona su questa diversità, definendola semplice cautela: voi cosa ne pensate? Spero di aver reso chiaro il concetto! (Ah, ho notato stupore per la "freddezza" di Emma nei suoi confronti, ma io non la definirei affatto così, anzi!)
In questo capitolo si scoprono un po' di cose su di loro: Harry è tornato sul serio, ha dato qualche indizio sulla sua vita a Bristol ed è single. Mentre anche Emma si sbottona un po', venendovi incontro: per chi se lo chiedeva, è fidanzata da quasi due anni con Miles, quindi potete capire che non sia proprio una storiella di poca importanza. E lavora e studia, ma non è una fotografa di professione, come qualcuno aveva ipotizzato :)
So perfettamente che la loro piccola passeggiata possa sembrare irreale, visto che arrivano anche a scherzare, ma ripeto, era tutta una facciata, un modo per tastare il terreno e per studiarsi un po', come quando si cerca di evitare il centro reale della questione: infatti, non appena se ne presenta l'occasione, le incomprensioni ricominciano senza problemi. Aspetto le vostre opinioni a riguardo, perché sono curiosa :)
- Emma/Zayn; Zayn casalingo è il top ahhaha Molte erano impazienti di sapere che fine avesse fatto, ma io non potevo anticipare niente: convive con Melanie e direi che il loro rapporto è ormai su un altro livello, ma si saprà qualcosa in più andando avanti con la storia. Anche il suo rapporto con Emma verrà approfondito!
- LOUIS: per chi non ha letto "It feels like I've been waiting for you" è un'incognita, quindi un personaggio nuovo (spero vi piacerà, ma credo di sì dai ahahha). Per chi invece già lo conosce, SORPRESA ahhaha In realtà avevo in mente di farlo entrare in scena già in LG, però poi ho cambiato idea etc etc: un po' mi mancava, quindi ho colto l'occasione :)
Detto questo, vi ringrazio come sempre per tutto quello che fate/dite/pensate!!!!!!!!!


Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 




       
    
  

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro - Scars ***




 

Capitolo quattro - Scars
 
 

La domenica mattina, a Bradford, era dedicata al mercato: numerose vie e diversi vicoli venivano chiusi al traffico e farciti di bancarelle più o meno pittoresche, che offrivano ai passanti qualsiasi genere di prodotto a prezzi scontati.
Emma stava passeggiando lentamente in una delle strade principali del mercato, alla ricerca di una collana che potesse soddisfare un suo capriccio e di una borsa vintage per la sua macchina fotografica: con gli occhiali da sole a ripararle le iridi, si sventolava il viso con una rivista comprata poco prima, sperando di contrastare l'afa.
Louis Tomlinson, alla sua destra, evitava in modo più o meno efficace le altre persone senza alzare lo sguardo dal proprio telefono. Potevano considerarsi amici da quattro anni: lui era il famoso Louis che aveva ospitato Zayn a Londra durante la sua fuga da Bradford, in seguito all'irruzione di Harry in casa del signor Dumbel. Di tanto in tanto tornava in città, per far visita al suo amico e a Melanie e per altre faccende personali, come gli piaceva chiamarle, ma Emma non ci aveva avuto direttamente a che fare se non dopo circa due anni. 
«Che cazzo di caldo», sbuffò all'improvviso, riponendo l'iPhone nella tasca dei suoi blue jeans stretti e passandosi una mano tra i capelli castani. Si massaggiò anche il collo ricoperto di tatuaggi, quelli che aumentavano ogni volta di più e che gli ricoprivano anche il braccio sinistro.
«La tua finezza mi ha sempre affascinata», lo prese in giro Emma, sorridendo senza guardarlo.
«Tutto di me ti ha sempre affascinata», la corresse lui, con il tono saccente che lo accompagnava in quasi ogni scambio di battute: prese a giocherellare con il piercing che gli decorava il lato destro del labbro inferiore - unico superstite dei due originari -  e poi con quello sulla lingua.
«Forse mi hai scambiata per Aaron», ribatté Emma: la prima volta che aveva visto Louis, tutto avrebbe pensato meno che fosse omosessuale fino alla punta dei capelli. La notizia l'aveva visibilmente sconvolta, perché un tale ben di Dio non poteva andare sprecato e perché, nonostante sapesse già di Aaron, lo storico migliore amico di Melanie, non avrebbe mai immaginato che i due potessero avere una qualche relazione.
«Sei sempre più simpatica, hun», fu la risposta che ricevette, compresa di nomignolo del quale probabilmente non si sarebbe mai sbarazzata.
«A proposito, come vanno le cose tra di voi?» gli domandò allora, incuriosita. Louis non era un tipo molto sentimentale, anzi, era completamente l'opposto, quindi era raro sentirlo parlare spontaneamente di ciò che più si avvicinava ad un rapporto duraturo per i suoi standard, anche se non del tutto esclusivo.
Lui distese le labbra sottili in un sorriso soddisfatto. «Scopiamo», disse semplicemente. «Scopiamo parecchio. E ti dirò, credo sia anche una delle migliori scopate della mia promiscua vita».
Emma rise scuotendo la testa, lasciando spazio ad una signora anziana che doveva passare con due enormi buste piene di prodotti appena comprati. «È il tuo modo per dire che-»
«Emma, hun, è il mio modo per dire quello che ho detto», la interruppe, voltandosi a guardarla con un sopracciglio alzato. Gli occhi, del colore del cielo sereno di quella mattina, non lasciavano spazio ad alcuna replica.
Lei assunse un'espressione contrariata. «Andate avanti così da anni: perché non puoi semplicemente ammettere di tenere parecchio a lui? O magari anche di amarlo?»
«Sai benissimo che non credo a stronzate del genere», ribatté lui, corrugando la fronte. «Sono un convinto difensore dell'amore verso se stessi: quello per gli altri fa schifo e rovina tutto, è scomodo, porta ad un sacco di problemi e dopo un po' diventa semplice abitudine».
Emma non lo contraddisse, perché sapeva di non avere speranze nel convincerlo: quella di Louis era una credenza connaturata e ben salda, che non poteva essere corrotta dai tentativi esterni di qualcun altro. Aaron non ci era riuscito, quindi nessun altro avrebbe potuto avere maggiori possibilità.
«Però lui a queste stronzate crede eccome», riprese per citarlo. «Farebbe di tutto per te». In un certo senso le dispiaceva per Aaron e per i suoi sentimenti costretti in un limite imposto da chi li scatenava: pur di stare accanto a Louis, aveva rinunciato a qualsiasi definizione avesse mai dato all'amore e allo stare insieme, adattandosi alla sua visione delle cose e reprimendo parte delle proprie intenzioni. E avevano litigato, avevano discusso notte e giorno, poi avevano fatto pace ed erano scomparsi per un po', erano tornati separati e avevano ripreso a litigare, solo per poi trovarsi di nuovo nella camera di uno dei due. Tutto questo, per cinque anni.
«Hey, lo so, ok?» rispose Louis, con la voce un po' più stridula. «Ma anche io faccio molto per lui: un paio di volte gli ho persino permesso di fare l'attivo, non so se ti rendi conto di cosa significhi».
Emma si abbandonò ad una risata e gli riservò una gomitata scherzosa nel fianco. «Sei davvero impossibile: guarda che il tuo sedere non vale così tanto».
«Lo dici solo perché non l'hai mai provato», le assicurò, vanitoso. «Comunque, parliamo di cose di minor importanza: tu e Miles come ve la cavate? State sopravvivendo al ritorno del famigerato Harry Styles?»
Lei spalancò gli occhi e lo osservò allibita. «Come fai a saperlo, se sei tornato solo ieri?»
«Me ne ha parlato Zayn, quando ha saputo che sarebbe ricomparso sulla scena», le spiegò, avvicinandosi ad un venditore di frutta, ma senza trovare qualcosa di accattivante.
«Quindi fammi capire, ero l'unica stupida ad ignorare il fatto che Harry sarebbe tornato da un momento all'altro?» esclamò indignata. Zayn lo aveva saputo dal diretto interessato, ma l'aveva detto a Louis, a chilometri di distanza e senza un motivo preciso, al posto di dirlo a lei, che ne avrebbe avuto tutto il diritto. E a sua volta, nemmeno Tomlinson aveva accennato alla cosa.
«Sì, a quanto pare», rispose lui con tranquillità e scrollando le spalle.
«Che amici del cazzo che ho», si lamentò Emma, incrociando le braccia al petto ed irrigidendosi. Perché, al posto di fare i pettegoli, non avevano pensato che forse sarebbe stata un'idea carina avvertirla? E perché, soprattutto, credeva di avere il diritto di essere avvertita?
«Ora che voi due non vi... Intrattenete più, insomma, ora che tu hai anche un altro di cui occuparti, pensi che potrei provare a farlo diventare gay?» domandò Louis, con una tale nonchalance da essere irreale. Aveva visto Harry per la prima volta quando lui era già impegnato con Emma, e aveva sperato con tutto se stesso di potergli mettere le mani addosso, ovviamente in senso positivo: non avevano mai avuto l'occasione di conoscersi davvero, ma sapeva di lui grazie ai racconti della sua amica e di Zayn, racconti che ai suoi occhi lo avevano reso ancora più affascinante.
«Anche se non credo che mi darebbe molte soddisfazioni», ragionò ancora, come dialogando con se stesso.
Emma sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «No, ma puoi sempre provare a farlo innamorare con il tuo culo», lo prese in giro, facendolo ridere.
«Credo proprio che ci proverò, e poi verrò a vantarmi da te», le assicurò Louis. «Però non mi hai risposto, come va con Miles?» continuò, ripescando il telefono dalla tasca e scrivendo velocemente un messaggio.
Lei respirò profondamente e aspettò qualche istante, prima di usare la sincerità che gli doveva. Era doloroso doverlo ripetere ad alta voce, quando per così tanto tempo era rimasto solo un pensiero nella sua mente, qualcosa che gli altri non osavano più menzionare e che era diventato un suo demone personale.
«Mi ha tradita».
Louis si immobilizzò all'istante, alzando lo sguardo su di lei con una fermezza disarmante. «Ma che cazzo stai dicendo?»



«Emma, il tuo ragazzo ti s-»
La voce della signora Grace Winsor si disperse nei pochi e silenziosi metri quadri dell'appartamento, mentre Emma entrava in salotto a passo svelto, cercando di allacciare il braccialetto fine intorno al proprio polso.
«Ah, vedo che sei già pronta», sorrise poi la padrona di casa, dando una frettolosa occhiata a quella che non considerava solo come la baby-sitter delle sue figlie.
«Le bambine stanno già dormendo, quindi ho pensato di approfittarne», si giustificò, stringendosi nelle spalle. Non voleva pensasse di aver a che fare con una negligente: erano le nove e mezza di sera, Miles probabilmente la stava aspettando da più di tre quarti d'ora chiuso nella sua auto fuori dal portone, ma non aveva potuto liberarsi prima, perché aveva dovuto aspettare che la signora Winsor facesse ritorno.
«Come ci riesci?» sospirò la donna, togliendosi i tacchi da ufficio e sciogliendosi i capelli ramati sulle spalle. Gli occhi stanchi riflettevano gli sforzi compiuti durante la giornata lavorativa, che le impediva di passare il tempo necessario con le figlie di appena sette anni. «Io dovrei corromperle per farle andare a dormire a quest'ora».
Emma abbozzò una risata e le si avvicinò. «Il segreto è farle stancare il più possibile», le confessò.
Grace annuì divertita e la osservò calorosamente. «Grazie di tutto», esclamò dolcemente. «Ma ora vai: quel giovanotto mi ha guardata con un certo rimprovero quando sono arrivata. Chiedigli scusa da parte mia per il ritardo», continuò scherzando, mentre Emma poteva immaginare nella propria mentre l'espressione spazientita di Miles, probabilmente intento a tamburellare le dita nervose sul volante dell'auto.
«Lo farò», le assicurò lei, infilandosi la giacca nera. «Buona serata», salutò, prima di aprire la porta e percorrere velocemente le scale. Le decolleté blu che indossava erano alquanto rumorose sul marmo dei gradini, ma lo stomaco le brontolava così tanto per la fame che non avrebbe rallentato per nessun motivo.
Quando uscì dal portone dell'edificio, sbirciò in strada per individuare la macchina di Miles: era parcheggiata un paio di metri più avanti e si poteva udire della blanda musica provenire dall'interno. Emma sorrise e si ravvivò i capelli mossi, forse un po' disordinati per la fretta, ma piuttosto soddisfacenti: aveva dovuto portare con sé uno zaino con tutto l'occorrente, perché sapeva che non avrebbe avuto tempo per tornare a casa e prepararsi.
Aprì lo sportello dell'auto e si sedette al posto del passeggero, mentre il motore si accendeva senza esitazioni, a manifestare la fretta del proprietario.
«Grace mi ha chiesto di porti le sue scuse», esordì con un tono divertito, mentre osservava il viso imbronciato di Miles: un bambino capriccioso sarebbe stato meno determinato.
«Sì, be', spero per lei che le sue scuse bastino a non farci cancellare la prenotazione», borbottò in risposta, senza ingranare la marcia ma ostinandosi a guardare dritto di fronte a sé.
Emma ridacchiò silenziosamente e si sporse verso di lui, appropriandosi del profumo della sua pelle: gli baciò delicatamente il collo e lo sentì rilassarsi con un sospiro trattenuto.
«Sei sleale», la rimproverò a bassa voce, portando una mano tra i suoi capelli.
«Molto», confermò lei, percorrendo la sua mascella con le proprie labbra, fino ad arrivare a quelle che la attendevano increspate e nervose.
«E siamo in ritardo, quindi allontanati o rischiamo di non arrivarci nemmeno, al ristorante», la ammonì riluttante, nonostante la sua mano si fosse posata possessivamente sulla gamba nuda di Emma. Sapeva quanto gli piacesse quella gonna e si divertiva nel provocarlo.
«Come vuoi», rispose maliziosa, generando in lui una leggera risata di tensione, esplicita prova di quello che era un conflitto d'interessi.
Impiegarono quindici minuti ad arrivare all'Oak, un locale vicino al centro di Bradford: il proprietario non si fece problemi a dimostrare la sua stizza per il loro clamoroso ritardo, ma fortunatamente era una serata tranquilla ed il ristorante non era pieno, quindi riuscirono a recuperare la loro prenotazione non senza una buona dose di occhiate di rimprovero.



«Ordiniamo il dolce?» domandò Miles, appoggiando i gomiti sul tavolo quadrato e al centro della sala: la tovaglia color crema era macchiata in qualche punto, ma conservava la sua eleganza. «So che qui fanno un'ottima panna cotta».
Emma prese tra le mani il menù che il cameriere aveva lasciato loro e lo sfogliò distrattamente. «Non so, sento di star per esplodere», ammise arricciando il naso.
«Possiamo prenderne una in due», propose lui, alzando le spalle.
Lei annuì e ripose il cartoncino sul tavolo, osservando Miles con il cuore che le batteva ancora un po' più forte per ciò che le aveva sussurrato all'orecchio solo pochi minuti prima. Una promessa ed un inganno, qualcosa che non le lasciava diritto di scelta, perché corrispondeva anche alla sua volontà.
Si riscosse dall'analisi attenta del suo fisico racchiuso in una camicia leggera e pallida, quando udì il telefono squillare per l'arrivo di un messaggio. Lo recuperò dalla borsa e si ritrovò a trattenere il fiato.

Un nuovo messaggio: ore 23.42
Da: Harry

"Non riesco a capire se tu sia cambiata"

Sbatté le palpebre e rilesse quelle parole inaspettate, prima di stringere un po' più forte il cellulare in una mano e bloccare lo schermo senza ulteriori indugi. 
«Che c'è?» chiese Miles, probabilmente dopo aver colto il cambiamento della sua espressione.
Emma alzò velocemente lo sguardo su di lui e respirò profondamente, scuotendo la testa. «Una collega vuole un cambio di turno, l'ennesimo», spiegò, con un velato senso di colpa a macchiarle il timbro di voce. No le piaceva mentirgli, ma le sarebbe piaciuto ancora meno raccontargli di Harry e di tutto ciò che implicava: in qualche modo, avrebbe voluto che quella storia potesse essere semplicemente dimenticata e cancellata.
Il commento di Miles fu arrestato dall'arrivo del cameriere, che era venuto a prendere le ultime ordinazioni: Emma ebbe il tempo di riflettere frettolosamente sul messaggio ricevuto e sul suo significato, ma non riuscì nemmeno ad arrivare ad una conclusione.
«Quel ragazzo ti sta guardando da quando abbiamo messo piede in questo posto», esclamò il suo fidanzato, con un tono divertito ed un sorriso sulle labbra. Lei si voltò per capire di chi stesse parlando e, due tavoli più a destra, incontrò lo sguardo di un ragazzo che avrebbe potuto avere la sua età: era di bell'aspetto, grazie al viso proporzionato e cosparso di lentiggini simili alle sue, gli occhi grandi e chiari, i capelli di un biondo chiarissimo. La guardava senza alcun timore e senza alcuna riserva, come se avesse avuto il diritto di sorriderle con tanta malizia.
Emma tornò con le iridi in quelle di Miles e corrugò la fronte. «Non l'avevo nemmeno visto», commentò soltanto.
«Mi fa ridere, perché è come se io non ci fossi», continuò lui, sorseggiando l'ultimo bicchiere di vino bianco. «Mi aspetto che da un momento all'altro venga qui a chiederti di raggiungerlo al suo tavolo», scherzò ancora, aprendo le labbra sottili nell'accenno di una risata.
Lei sorrise appena, abbassando lo sguardo e stringendo i pugni.
Era arrivata al limite di sopportazione: non riusciva più a tollerare l'assoluta ed imperturbabile tranquillità di Miles, l'ostentata sicurezza che mostrava in ogni occasione. Non che si lamentasse dalla fiducia che riponeva in lei, ma avrebbe semplicemente voluto sentirsi desiderata anche in quelle occasioni. Era pura vanità, un semplice bisogno da donna, ma c'era ed era insistente.
«Vado un attimo in bagno», esclamò a bassa voce, afferrando istintivamente anche il proprio cellulare. Forse perché era anche colpa sua se era diventata così reattiva e nervosa, tanto da poter scattare da un momento all'altro per qualcosa di poco conto. Forse perché le era venuto spontaneo pensare a quando Harry non la lasciava appartenere allo sguardo di qualcun altro. Forse perché quel pensiero non si sarebbe dovuto nemmeno formare. Forse perché non aveva nessun diritto di chiedersi se fosse cambiata dopo sei anni.
Entrata all'interno del bagno, si appoggiò con la schiena ad una delle porte chiuse e sospirò profondamente, guardando la propria immagine riflessa nella parete di specchi che le stava di fronte: il cipiglio che marchiava la sua espressione era più eloquente di qualsiasi ragionamento avesse potuto tentare.
A ventidue anni, ormai, aveva una buona capacità di controllo sui propri pensieri e sulle proprie emozioni, o almeno il più delle volte: per questo si fermò a riflettere sfruttando la logica ed una visione obiettiva delle cose. Ripromettendosi di occuparsi di Miles non appena tornata al tavolo, stanca di dover mettere da parte le proprie richieste solo per non compromettere anche solo temporaneamente il loro rapporto, si dedicò ad Harry.
La infastidiva il fatto che potesse ancora farla innervosire con un mucchio di parole, che potesse avere ancora qualche sorta di potere su di lei, che potesse avere delle pretese. Perché voleva sapere se fosse cambiata? Perché avrebbe dovuto interessargli? Se così fosse stato, la curiosità l'avrebbe sicuramente dovuto colpire in uno qualsiasi dei momenti che avevano composto i sei anni trascorsi lontani. Se così fosse stato, non le avrebbe imposto una lontananza assoluta.

Messaggio inviato: ore 23. 51
A: Harry

"Ti importa davvero?"

Quando uscì dal bagno, trovò il ragazzo di poco prima appoggiato contro il muro. Alzò gli occhi al cielo e lo ignorò, ma lui reclamò la sua attenzione.
«Scusa?» la richiamò infatti, obbligandola a fermarsi a qualche passo di distanza.
Emma si inumidì le labbra e si voltò, cercando di sfoggiare tutta la cordialità che le era concessa in quel momento. La lusingava il fatto di ottenere delle attenzioni, ma non le piaceva chi non mostrava un minimo di decenza, chi non era in grado di scegliere le occasioni adatte.
«Sono Brett», esclamò lui, allungando una mano verso di lei e sorridendole bonariamente. «Piacere».
«Emma», rispose, stringendogli la mano per qualche istante, ma ritraendola subito dopo. Voleva tornare velocemente al tavolo, perché voleva mettere le cose in chiaro con Miles e perché aveva bisogno dei suoi occhi su di sé.
«Ti ho vista di là e-»
«Sì, me ne sono accorta», lo interruppe. 
Brett non sembrò cogliere la nota pungente nella sua voce, quindi abbozzò un sorriso imbarazzato e continuò. «Sei davvero molto bella», disse.
Emma incassò il complimento e addolcì spontaneamente la propria espressione. «Ti ringrazio».
«Pensavo che magari potresti darmi il tuo numero, sai, per fare due chiacchiere qualche volta».
Lei sbatté le palpebre più volte e sentì il nervosismo che già la padroneggiava infiammarsi ancor di più. «Brett, sei molto gentile, davvero», iniziò, avvicinandosi di un passo. «Ma non credo che tu sia così stupido da non aver capito che quello al tavolo con me sia il mio ragazzo, quindi no, preferisco non darti il mio numero e fare con lui le due chiacchiere delle quali parlavi».
Si voltò subito dopo, senza aspettare una risposta che nemmeno arrivò, e per un attimo si sentì in colpa per i suoi modi duri e distanti: forse avrebbe dovuto utilizzare una maggiore gentilezza, ma non era da lei fingersi propensa ad una nuova conoscenza quando il suo corpo era scosso dalla tensione. E poi, magari sarebbe servito a Brett di lezione.
Tornata al tavolo, si sedette compostamente e osservò Miles che prendeva un cucchiaino di panna montata, porgendogliela subito dopo.
«Il ragazzo di cui parlavi mi ha appena chiesto il numero di telefono», esordì, ignorando il piatto di dolce davanti a sé e appoggiando i gomiti sul tavolo. Il tono di voce fermo, gli occhi fissi nei suoi.
Lui rise con la bocca piena. «È coraggioso», commentò.
Ed Emma attese qualsiasi altra parola, attese persino una piccola ruga sulla sua fronte che potesse manifestare un filo di fastidio, ma niente.
«Tutto qui?» chiese incredula.
Miles alzò lo sguardo su di lei e si fece immediatamente più serio. «Come?»
«Questo è quello che hai da dire? Che è stato coraggioso
«Devi esserlo per provarci con qualcuno mentre è con il suo fidanzato», le spiegò, mantenendo un certo grado di tranquillità.
«Sì, e in teoria il suddetto fidanzato dovrebbe essere almeno un po' infastidito da questo. O sbaglio?» Emma sperava in una risposta soddisfacente, in qualcosa che potesse evitare la discussione che aveva ricercato ma che avrebbe voluto evitare, eppure sapeva di non doversi aspettare molto.
Lui la osservò immobile per qualche istante, poi sospirò e posò il cucchiaino nel piatto. «Non farmi domande retoriche, dimmi direttamente cosa non ti sta bene».
«Sei assurdo», sussurrò Emma a denti stretti, abbandonandosi sullo schienale della sedia. Le mani le fremevano per il nervosismo: non si capacitava di come Miles non riuscisse a capire il suo punto di vista.
«Ti stai incazzando perché non ho fatto una scenata di gelosia?» chiese lui, con un evidente tono allibito.
«No. Mi sto incazzando perché per te va sempre tutto bene», lo contraddisse, cercando di regolare la voce in modo da non urlare. «Gli altri possono guardarmi fino a consumarmi, possono farmi i complimenti che vogliono e possono chiedermi il numero mentre ci sei anche tu, ma va sempre tutto bene».
«Stai esagerando», la ammonì Miles. «Lo sai bene».
«Non sto esagerando, è solo la verità».
Lui si inumidì le labbra e aspettò una manciata di secondi prima di rispondere. Si sporse leggermente in avanti, con gli avambracci sul tavolo. «Mi conosci, sai come la penso su queste cose», cominciò. «Se non reagisco è semplicemente perché so che non ho nulla di cui preoccuparmi. È perché mi fido di te: so che sei abbastanza matura da rifiutare qualcuno quando questo oltrepassa il limite, come sono certo del fatto che tu non abbia dato il tuo numero».
«Sì, ma perché ne sei così sicuro?» sbottò Emma, pentendosi subito dopo di aver alzato la voce.
«Non dovrei esserlo?» ribatté lui, corrugando la fronte. «Te lo giuro, Emma: dimostrami che non dovrei esserlo ed io ti dimostrerò che posso essere schifosamente geloso».
Lei restò a fissare le sue iridi scure e terribilmente serie: sapeva quanto potesse essere possessivo, perché all'inizio della loro storia, quando i sentimenti erano ancora in forse ed in fase di accrescimento, il suo comportamento era diverso e così anche la sua tolleranza. Eppure, non riusciva ad accettare il suo attuale atteggiamento, forse solo a causa di ciò che li aveva divisi.
«A prescindere da me, dovrebbe farti innervosire che qualcuno possa pensare certe cose sulla tua ragazza, che possa farlo in maniera così evidente davanti ai tuoi occhi. Invece non te ne importa un cazzo, quindi forse non è fiducia, ma semplice menefreghismo». Emma si morse un labbro dopo aver pronunciato l'ultima parola: aveva esagerato e ne era consapevole. Conoscendolo, sapeva quanto odiasse che qualcuno mettesse in dubbio i suoi sentimenti, anche quando ne aveva tutti i motivi: voleva essere l'unico a poterli interpretare, anche perché non mancava mai di esporli sinceramente o di interpretarli al meglio.
Miles assottigliò gli occhi e serrò la mascella. «Senti, tra i due sei tu quella con i problemi di fiducia, quindi non venire a sfogarti su di me per qualcosa che non esiste».
Lei trattenne il respiro per qualche istante, immobile nella sua incredulità, mentre anche lui si pentiva della risposta data dalla rabbia: aveva davvero osato rinfacciarle qualcosa del genere e lei non l'avrebbe accettato.
«Sai, io sarò anche quella con i problemi di fiducia, ma tu tra i due sei sicuramente il coglione», sibilò nervosa, alzandosi subito dopo dalla sedia per allontanarsi dal lui e dal locale e da qualsiasi altra cosa. Sentì il proprio nome esser chiamato un paio di volte, ma poi sentì solo il tepore della notte di Bradford.
Camminando velocemente lungo il marciapiede, i tacchi le si incastravano nelle fughe dei ciottoli irregolari, facendola innervosire ancora di più e ritardando le sue intenzioni. Era allibita, furiosa, ferita ed una decina di altre cose: ognuna di esse si dimenava in ogni suo angolo fino ad estenuarla. Ecco perché nessuno parlava mai di ciò che era successo, ecco perché lei cercava di sopportare e stringere i denti e far finta di non aver voglia di litigare fino a farsi male. Entrambi finivano per esagerare, per dar spazio al loro istinto che spesso era guidato solo dalla rabbia e perdeva di sincerità. Entrambi finivano per ferirsi.
«Emma, fermati», udì dopo qualche minuto: era la voce di Miles, ma non riusciva a sentire i suoi passi, né poteva sentirlo correre per raggiungerla.
«Vattene», ordinò aspramente, accelerando il passo per quanto possibile. Non ricevette risposta, né si preoccupò di captarne una: percorse ancora qualche decina di metri, in silenzio e con le braccia incrociate sul petto come per contenere il terremoto che lo scuoteva, fin quando non arrivò di fronte ad un pub nel quale era stata un paio di volte.
Senza ulteriori indugi, vi entrò e camminò svelta verso il bancone. Si sedette su uno degli sgabelli alti e morbidi, aspettando che qualcuno la degnasse di attenzione e abituandosi alla musica alta e frenetica. Ordinò una birra doppio malto, senza preoccuparsi di risultare cortese e senza rilassare le spalle rigide, che riflettevano la sua tensione. Aveva solo voglia di bere.
Era stanca di quella situazione, di quella macchia nel passato della quale non riusciva a sbarazzarsi: avrebbe voluto essere in grado di andare avanti, avrebbe voluto che Miles fosse diverso per certi aspetti e avrebbe voluto essere la prima a cambiare in qualche modo. Eppure sembrava non essere forte abbastanza per fare delle sue intenzioni qualcosa di concreto, nonostante tutti i suoi sforzi. I loro sforzi.
Dopo un paio di minuti, sentì qualcuno spostare uno sgabello accanto al suo e sedersi su di esso. Non si voltò a guardare chi fosse, perché aveva riconosciuto il profumo e perché conosceva a memoria ogni spostamento d'aria provocato dai suoi più piccoli movimenti.
Strinse tra le mani il bicchiere di birra già mezzo vuoto e sentì il gomito sinistro di Miles sfiorare il proprio. Lui ordinò del Whiskey, ma non le rivolse la parola, perché non ce n'era bisogno: entrambi seduti a quel bancone, covavano silenziosamente la consapevolezza della propria storia. Non avevano domande da porsi, perché conoscevano già le risposte. Non avevano scuse da esplicitare, perché si erano già perdonati. Non avevano sillabe da sprecare, perché erano troppo stanchi per ripeterle. Avevano solo il silenzio ricco di significati che potevano condividere, il sottinteso desiderio di riprovarci fino allo sfinimento, nonostante non fossero bravi e nonostante i fallimenti fossero più delle vittorie.
Emma non voleva inveirgli contro, perché non si sentiva in diritto di farlo: lui aveva sbagliato a ricordarle la sua mancanza di fiducia, ma lei aveva messo in dubbio i suoi sentimenti, nonostante si stesse sforzando di confermarli giorno dopo giorno e nonostante ci stesse riuscendo, anche con i suoi dubbi a fargli da ostacolo. Sapeva che quei conflitti frequenti fossero dettati da un danno più profondo, difficile da riparare: ognuno aveva le sue colpe ed i suoi meriti, ognuno conosceva quelli dell'altro.
Miles avvicinò un po' di più il gomito al suo, facendola rabbrividire: quella semplice reazione le bastava a confermare quanto bisogno avesse di averlo accanto e sulla pelle, le bastava a placare il suo animo senza ragione. Emma deglutì a vuoto e si mosse impercettibilmente: lasciò che le sue labbra si posassero sul proprio braccio destro, in un bacio lento e delicato tramite la stoffa sottile della giacca nera.
Miles posò la mano sinistra sulla sua schiena, con cautela per testare le sue eventuali reazioni, e la accarezzò con leggerezza: sapeva toccarla nei punti giusti, sapeva smuoverla con la giusta intensità e sapeva trattenerla con la giusta fermezza. Per questo Emma chiuse gli occhi, quando sentì la sua mano incastrarsi tra i capelli e la sua fronte appoggiarsi contro la sua tempia: lo sentiva così vicino, non solo fisicamente, da avere l'impressione di non aver più spazio per se stessa.
Percependo il suo respiro regolare sulla propria pelle, si voltò in modo da avere le iridi nelle sue: i loro visi erano ad una distanza inutile ed intima, di quelle che è come se nemmeno esistessero, perché sono comunque piene di tutto ciò che sottintendono.
«Non lo fare più», sussurrò lei, con un tono tra il supplichevole e l'imprescindibile.
Miles scosse piano la testa. «No», le assicurò, prima di sporgersi quanto bastava per sfiorarle le labbra in un respiro trattenuto: la baciò lentamente come per prometterle qualcosa, come per baciare anche la ferita che le aveva procurato e che ogni tanto si riapriva in piccoli ma dolorosi punti.



Un nuovo messaggio: ore 01.15
Da: Harry

"A quanto pare non sei cambiata così tanto"





 


Buooooooooongiorno :)
È meraviglioso poter aggiornare con puntualità: è uno dei vantaggi dell'essere in vacanza hahah
Ma comunque, passiamo a questo capitolo:
1. LOUIS: io sono innamorata di lui, che vi devo dire? hahah Chi l'aveva conosciuto in "It feels..." sapeva già dei suoi modi vanitosi, volgari ed egocentrici, e sapeva già di Aaron: come avrete capito, i due sono in una sorta di "relazione" ancora da definire, proprio perché Louis ha una visione abbastanza distorta dell'amore. Vi avverto, non vi aspettate grandi discorsi sentimentali o un finale in cui lui corre da Aaron per dichiararsi suo a vita, perché siete fuori strada hahaha
Chi invece ha avuto a che fare con lui per la prima volta, spero l'abbia apprezzato :) È un personaggio molto particolare, con la sua visione delle cose e con i suoi modi di fare! È gay fino al midollo, come lo aveva definito Zayn in "It feels...", ma non vi aspettate modi da effeminato o cose del genere, perché è proprio il contrario! Detto questo, ribadisco che lui è stato quello che ha ospitato Zayn a Londra durante il suo allontanamento da Bradford: visto che non avete letto "It feels..." posso dirvi che i due si sono conosciuti lì, quando in un pub Louis gli si è avvicinato per provarci spudoratamente hahaha
Quindi, per chi se lo chiedeva, Louis ed Emma si sono conosciuti due anni dopo la fine di "Little girl", grazie alle sue visite a Bradford. Ah, e ci saranno delle scene anche con Aaron.
2. Miles/Emma: ho voluto dedicare questo capitolo a loro, se così si può dire, per fare chiarezza su alcuni punti che per ora vi avevano lasciate abbastanza basite. Innanzitutto, si scopre che Miles l'ha tradita, anche se non viene specificato come/quando/perché/dove (presto capirete): alcuni l'avevano già ipotizzato, ma io non potevo dire nulla! Sono curiosa di scoprire i vostri commenti, soprattutto su Emma, che sta ancora insieme a lui nonostante tutto: vi do un aiuto, aspettate a condannarla per stupidità e non datela per scontata.
Esce di nuovo fuori il problema della gelosia: io spero che ora sia più chiaro il ragionamento di Miles, il motivo per cui non si agita se qualcuno si avvicina ad Emma. E può essere strano, ma è più logico di quanto sembri, infatti vi accorgerete di quanto lui sia sincero su questo :) 
Spero anche che dalle loro scene si possa percepire la stanchezza che li caratterizza: ho cercato di farla emergere al meglio, nel loro modo di litigare e nel loro modo di riavvicinarsi, ma se avete qualche dubbio scrivetemi pure :)
3. Harry/Emma: lui non poteva certo mancare hahah Come interpretate i suoi messaggi? Cosa pensate della reazione di Emma? 
Bene, direi che ho parlato davvero troppo, quindi la smetto! Vi ringrazio infinitamente per tutto, come sempre! E spero vi farete sentire :)
Posso anticiparvi che nel prossimo capitolo ci sarà un bel litigio, di quelli che piacciono a mmmme ahhaha
A presto!!

Vi lascio tutti i miei contatti:
ask - facebook - twitter 

Un bacione,
Vero.

 





       
    
  

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque - Photograph ***




 

Capitolo cinque - Photograph
 
 

La superficie della sua scrivania era stata trasformata in un mosaico di fotografie, incastrate secondo un filo logico, ma comunque apparentemente disordinate: illuminate dalla fioca luce proveniente dall'esterno, si offrivano ad Emma come sprazzi di vita catturati contro la propria volontà.
Era sabato sei Settembre, il giorno della mostra d'arte che l'avrebbe vista come co-protagonista.  La sua sarebbe stata un'esposizione introspettiva, dedita ad illustrarla indirettamente: nessuna delle sue fotografie la ritraeva, perché erano state studiate appositamente per lasciarla sottintesa, per raccontarla tramite altre immagini. Non sapeva se sarebbe stata apprezzata, compresa o guardata con una smorfia di insoddisfazione, ma era impaziente ed elettrizzata al pensiero di scoprirlo.
Sospirando sonoramente, Emma si abbandonò contro lo schienale della sedia girevole. Si sentiva vagamente in colpa per non aver concesso alla sua famiglia di visitare la mostra: non che se ne vergognasse, ma essendo la prima esperienza simile, temeva che una reazione negativa da parte del pubblico potesse incrinare la sua sicurezza ancora di più, se di fronte alle persone alle quali più teneva. Preferiva affrontare da sola quella sfida contro la quale si stava dirigendo.
Cercando una piccola fuga dai propri pensieri e tentando di smorzare la tensione, afferrò il telefono e curiosò in varie cartelle, controllò Facebook e si divertì con qualche gioco imbranato per Android: infine decise di scrivere a Pete, che quella sera non avrebbe potuto raggiungerla per problemi con il lavoro. Aprì la cartella dei messaggi e, cercando la conversazione che le serviva, i suoi occhi si posarono su quella con qualcun altro, risalente ormai ad una settimana prima: "Forse non sei cambiata così tanto" c'era scritto, come a ricordarle quella verità.
Non aveva risposto ad Harry, perché non voleva dargli ragione: era inevitabile che una parte di sé fosse rimasta la stessa, immutabile perché quanto di più vicino poteva esserci alla sua essenza. Se mille piccoli frammenti si erano smussati e trasformati, durante quegli anni, qualcosa era rimasto illeso e si era rinforzato: le doleva ammetterlo, eppure Harry aveva conosciuto proprio quella parte, arrivando a comprenderla più di chiunque altro e a poterla riconoscere anche se travestita da ventidue cicli di stagioni ed un corpo maturato.
Pensandoci bene ed osservando le fotografie sulla propria scrivania, si accorse di non esser riuscita a catturare nessun istante che potesse essere un degno rappresentante della Emma immutabile che era ancora così forte: nessun particolare era soddisfacente, nessun colore abbastanza intenso. E fu allora che capì che forse, per una volta, avrebbe dovuto lasciare che qualcun altro contribuisse alla sua descrizione, con una visione esterna ma intima, sincera e semplice.
Aprì il secondo cassetto della scrivania e accarezzò un vecchio quaderno di ricordi, come indecisa sul da farsi, poi lo scostò e chiuse gli occhi quando percepì sotto le proprie dita il vetro della cornice che stava cercando. Ne percorse i bordi e gli spigoli, la figura che racchiudeva e che lei poteva ricostruire senza alcun problema nella propria mente.
Subito dopo, con una nuova determinazione a farle da incoraggiamento, cercò il numero di Seth ed avviò la chiamata, sperando che non fosse troppo tardi.
«Seth, so che la mostra è tra meno di quattro ore e che sei più impegnato di me, ma ho un favore da chiederti.»
 

♦♦


Miles continuava a camminare avanti ed indietro, giocherellando con il primo bottone della camicia bianca che indossava, incastrandolo nell'asola solo per poi cambiare idea e liberarlo. Aveva tagliato di poco i capelli biondo cenere ed era di un'eleganza fine, nei pantaloni neri che fasciavano accuratamente le sue gambe magre e nelle scarpe lucide comprate appositamente per l'occasione: le iridi di pece vagavano nervose su ogni oggetto della piccola stanza nella quale si trovava con Emma. L'arredamento era spoglio, essenziale.
«Sei pronta?» Le domandò senza guardarla e senza arrestare i suoi movimenti frenetici. «Perché io non lo sono affatto.»
Emma sorrise ed inspirò profondamente prima di avvicinarsi lentamente a lui e posargli le mani sulle spalle, osservandolo attentamente. «È pieno di gente là dentro e sono tutti qui perché sanno che ne varrà la pena» cercò di incoraggiarlo. «Quindi respira e calmati, perché non hai nulla di cui preoccuparti» continuò, accarezzandogli il collo e baciandolo delicatamente.
«Tu mi farai sfigurare» sussurrò lui sulla sua bocca, ammorbidendo le labbra in un sorriso.
«Come?» Domandò Emma, curiosa. Sentiva le mani di Miles percorrerle la schiena, su e giù, leggere e possessive.
«Hai un talento assurdo» le spiegò lui, respirandole sul viso. «E hai un vestito più bello del mio» scherzò poi, facendola ridere liberamente. Emma indossava un tubino blu spento, che si modellava fedelmente sul suo corpo, arrivandole sin sopra il ginocchio: nella sua semplicità, riusciva ad essere sobrio ed elegante. I capelli raccolti in una veloce acconciatura lasciavano libero il suo collo sottile, mentre il viso poco truccato era macchiato da leggere tracce di rossetto e mascara. Le lentiggini erano più di quelle che in altri tempi avrebbe sopportato.
«Vuoi fare cambio?» Ribatté lei, cercando di sciogliere i nodi di tensione che lo stavano torturando e fingendo che i propri non esistessero. «Sono sicura che faresti una gran bella figura con questo addosso.»
Miles rise e scosse la testa, prendendosi ancora qualche minuto per trovare conforto nel corpo che stava stringendo, nelle labbra delle quali si stava saziando. Condividevano gli stessi timori e la stessa impazienza, cose che non potevano non affrontare insieme.
«Andiamo, ci stanno aspettando» esclamò infine Emma, accarezzandolo un'ultima volta ed intrecciando la mano nella sua, per ricavarne un po' di coraggio in uno scambio equo e spontaneo. Miles annuì e sospirò sonoramente, prima di aprire la porta: percorsero un breve corridoio nella penombra ed inspirarono profondamente quando arrivarono alla fine.
Il grande magazzino era stato riverniciato con pittura bianca, che dava l'impressione che gli spazi fossero ancora più ampi e luminosi: avevano scelto di posizionare delle pareti in cartongesso chiaro che potessero creare un percorso che gli ospiti avrebbero seguito. In una piccola area all'angolo della sala più grande, vi era un modesto buffet di intrattenimento, mentre diverse casse nascoste in vari punti trasmettevano musica a basso volume.
Quando Emma e Miles si affacciarono nella prima tappa della mostra, era gremita di persone intente ad osservare i vari quadri esposti, che portavano la firma incerta del ragazzo venticinquenne che le stava camminando accanto: quando il pubblico si accorse di loro, si diffuse un chiacchiericcio estasiato e soddisfatto, pronto ad accoglierli e forse anche ad imbarazzarli. Emma sentì le fibre che la componevano tendersi fino al punto di rottura e, quando le percepì cedere, sembrò assorbirne ogni briciola di determinazione e di sicurezza.
Seth fu il primo che si avvicinò loro, con un largo sorriso sulle labbra: i capelli corvini e lunghi fino alle spalle erano racchiusi in una coda bassa, mentre gli occhi piccoli e furbi li guardavano con calore, superando gli occhiali dalla montatura sottile.
«Amico, ancora grazie di tutto» esordì Miles, con una mano dietro la schiena di Emma e l'altra sulla spalla di Seth, in una stretta fraterna.
«Non dirlo nemmeno per scherzo» rispose lui con la sua voce placida e profonda. «Ah, Emma, ho fatto le modifiche che mi avevi chiesto, quindi è tutto in ordine.»
«Perfetto, grazie infinite. E scusa se ti ho avvertito con così poco preavviso, è stata una scelta dell'ultimo minuto» spiegò, mentre Miles veniva rapito dall'entusiasmo di un altro suo conoscente.
«Non preoccuparti, e goditi da serata» la incoraggiò sorridendo.
Lei annuì e si guardò intorno, mentre lui si allontanava. C'era ancora più gente di quanta se ne aspettasse ed in qualche modo si sentiva gli occhi puntati addosso: non solo per le ovvie ragioni, ma perché chiunque spiasse le sue fotografie anche da lontano arrivava fino a lei. Era come essere sotto una lente di ingrandimento, pronta ad essere studiata e sezionata, ma non era affatto una sensazione spiacevole.
«Avete fatto proprio un bel lavoro» esordì qualcuno alle sue spalle.
Emma trattenne il respiro e chiuse per un attimo gli occhi, voltandosi con la certezza di chi si sarebbe ritrovata di fronte. Harry le stava sorridendo con la furbizia che lo caratterizzava, tenendo un bicchiere di spumante nella mano destra e l'altra mano in tasca. Aveva i capelli sciolti, ribelli in ogni loro onda spontanea, ed il viso rilassato di chi crede di avere il gioco nelle proprie mani: indossava uno dei suoi soliti pantaloni neri ed un maglione a trama larga dello stesso colore, che gli cadeva addosso come se fosse stato di taglie più grandi.
«Cosa ci fai qui?» Domandò subito Emma, senza dar voce all'istinto di indietreggiare. Miles stava ancora chiacchierando al suo fianco e udire la sua voce spensierata serviva a darle un controllo.
Harry alzò un sopracciglio e schioccò la lingua contro il palato. «Speravo in un'altra accoglienza» esclamò lentamente, bevendo un sorso e leccandosi le labbra umide. «Avete fatto dei volantini per questa cosa, no? Ho letto uno di quelli che avete lasciato da Ty.»
Emma si trovò a maledirsi per l'idea di quegli stupidi volantini, ma non lo diede a vedere. Non avrebbe mai immaginato di vederlo lì, né l'avrebbe sperato. «Già…» commentò soltanto, distogliendo lo sguardo e disperdendolo distrattamente nella sala.
«È esattamente per questo che non ti ho chiesto se ti avrebbe fatto piacere che io venissi» si spiegò Harry, indurendo appena il tono di voce e ottenendo di nuovo la sua attenzione. Proprio come lei non aveva voluto avvertirlo quando si era presentata a casa sua, lui aveva deciso di evitare un rifiuto e di imporre la propria presenza.
Emma aprì la bocca per rispondere qualcosa di tagliente, ma venne preceduta da Miles.
«Henry, giusto?» Domandò, avvicinandosi a loro e porgendo la mano al ragazzo che stranamente aveva riconosciuto.
«Harry, in realtà» lo corresse lui, afferrando la sua mano con tranquillità. «E tu sei...?»
Ad Emma venne da ridere e poi da sospirare, ma si trattenne dal fare entrambe le cose: se poteva facilmente immaginare che Miles davvero non ricordasse il nome del suo interlocutore, sapeva perfettamente che non era lo stesso per Harry ed era assurdo rivederlo nelle vesti del diciannovenne che aveva conosciuto, provocatorio e falsamente innocente.
«Miles, Miles Webb» disse lentamente, piccato dal suo gioco e dalla sottile presa in giro.
Emma guardò un'ultima volta Harry e si soffermò sul contatto visivo che lui e Miles stavano condividendo. «Noi dobbiamo andare, scusaci» si congedò, osservandolo mentre sorrideva ancora con malizia, e si voltò senza esitazioni per allontanarsi da tutto ciò che rappresentava: la mano di nuovo stretta a quella di Miles.
«Non mi avevi detto che sarebbe venuto anche lui.»
«Perché non lo sapevo» sospirò Emma.
«Va tutto bene tra di voi?» Le domandò, voltandosi per osservarla con attenzione.
Lei si irrigidì appena, sperando che non se ne accorgesse. «Sì, perché?»
Temeva che avesse notato una particolare inclinazione nella sua voce, uno sguardo troppo esplicito o chissà quale altro particolare. Temeva di essere stata scoperta nel suo disagio.
Miles si strinse nelle spalle e non rispose. «Vieni, dobbiamo salutare un po' di persone.»
 
In quel momento voleva sfilarsi uno dei tacchi alti e lanciarlo proprio contro la testa di Harry Styles. Non sopportava più la sua presenza, non sopportava i suoi silenzi ed i suoi sguardi apparentemente indifferenti. Non sopportava il fatto che fosse sparito per gran parte della serata e che fosse magicamente ricomparso proprio quando lei aveva iniziato ad introdurre le proprie fotografie. Non sopportava il fatto che la seguisse senza commentare, restando quasi in disparte ma rendendo evidente la propria presenza senza alcuno sforzo. Non sopportava il fatto che non lo sopportasse.
Cercava di non guardarlo, di fingere che nemmeno esistesse: si concentrava sugli occhi del restante pubblico e sui loro commenti, sperando di intercettare qualsiasi critica ed ogni più piccolo apprezzamento. Ciascun timore riguardo la propria esposizione era svanito, rimpiazzato dalla soddisfazione derivante dai complimenti che continuava a ricevere, e questo poteva distrarla quanto bastava.
C'erano cinque o sei persone, in quel momento, ad osservare la penultima fotografia esposta, ma mancava qualcuno.  Emma controllò che Miles fosse ancora al suo fianco e lo trovò intento ad ammirare un particolare dell'opera, insieme ad un'amica comune: il suo sorriso fiero la nutriva di coraggio. Contro il proprio buon senso, allora, controllò che anche Harry fosse ancora con loro, ma non lo era.
Si era spostato più avanti, fermandosi dinanzi all'ultima fotografia del suo percorso di esposizione: immobile, con le mani giunte dietro la schiena, teneva gli occhi fissi su quella figura ingrandita e non ritoccata. Emma si agitò improvvisamente: assorta dalla situazione, aveva dimenticato della modifica che aveva apportato alla mostra.
Quando dovette guidare le altre persone verso la tappa finale, camminò come se stesse andando incontro a morte certa, ma si decise a non lasciarsi intimorire: per un attimo le sue iridi si posarono sulla figura di Harry, captando la mascella serrata e l'espressione nervosa. Non sapeva cosa stesse provando in quel momento, né voleva provare ad indovinare o a sperare.
Schiarendosi la voce, osservò gli altri presenti e le loro espressioni stupite. Ciascuno di loro era intento a comprendere ciò che era stato offerto loro: cercavano di percorrere e distinguere le linee che contornava la schiena morbida che era ritratta, macchiata da lentiggini ed accarezzata da lenzuola stropicciate. Il profilo confuso del volto che affondava nel cuscino e che era mascherato dai capelli disordinati. La qualità dell'immagine sgranata, sia a causa del parziale ingrandimento sia a causa del telefono con il quale era stata immortalata.
Per Emma quello era ciò che più si avvicinava alla definizione di se stessa, anche dopo tutto quel tempo: era un modo per ricordarsi che la vita non era riuscita a smorzare l'ardore con cui era solita affrontarla.
«Questa non l'ho mai vista» le sussurrò Miles all'orecchio, scostandosi subito dopo per prendere posto di fronte a lei, nel semicerchio che restava in attesa.
Emma si inumidì le labbra e ricercò un certo contegno. «Siamo arrivati alla fine, a quanto pare» esordì, insoddisfatta del suo tono di voce compromesso. «Come potrete notare, questa fotografia si discosta dalle altre: innanzitutto, non è stata scattata da me, né…»
«Chi è l'autore?» Fu la domanda che la interruppe e che riuscì subito a ricondurre ad Harry. Spostò il proprio sguardo nel suo con un certo sforzo, ma non gli diede la soddisfazione di vacillare: dalla sua espressione sembrava carico di furia, di quella stessa furia che talvolta amava mascherare con della malizia o con del sarcasmo. In quel momento, per esempio, aveva tutte le intenzioni di metterla in difficoltà, ma in un modo subdolo che poteva essere compreso solo da lei.
«Vuole rimanere anonimo» rispose decisa, stringendosi le mani l'una con l'altra. Era una menzogna, ma questo non lo sapeva nessun altro.
Harry sorrise appena. «È una bella fotografia, perché dovrebbe volere una cosa del genere?»
Non avrebbe vinto.
«Me l'ha dimostrato» ribatté. «Inoltre, chi l'ha scattata non è importante ai fini di questa mostra» continuò, consapevole del colpo che avrebbe sferzato, ma anche della propria sincerità. E proprio come tante volte lei aveva dovuto sopportare quella di Harry, lui avrebbe dovuto fare i conti con la sua.
Harry serrò la mascella e sembrò respirare con un po' più di tensione, anche se probabilmente agli occhi degli altri erano dettagli invisibili. «Deve essere una persona abbastanza vicina a te, dato che ha potuto ritrarti in queste vesti» insistette sfidandola apertamente, mentre gli altri seguivano lo scambio di battute con interesse, ma senza cogliere i sottintesi che li stavano schiacciando.
Emma vide Miles inasprire lo sguardo, prima di spostarlo nel suo. «Lo era» precisò lei.
Non ricevette risposta, ma gli occhi di Harry le riversarono contro ogni più piccolo significato che stessero celando. L'attimo dopo, le stava dando le spalle e si stava allontanando.
 
«Ancora complimenti» esclamò cordialmente una signora di mezza età, stringendole calorosamente la mano e provocando in lei un sorriso sincero e soddisfatto.
Era così felice dei risultati ottenuti, da aver voglia di gridare a pieni polmoni e di ridere fino allo sfinimento: sentiva il suo modesto sogno sfiorare la realizzazione, nonostante le difficoltà passate e i vari ostacoli che avevano cercato di allontanarla dai suoi obiettivi.
«L'avevo detto, che mi avresti fatto sfigurare» esordì Miles, afferrandole con delicatezza la mano e baciandole il dorso.
«Grazie per avermi dato questa possibilità» sussurrò Emma. «È tutto merito tuo ed io…»
«Zitta e dammi un bacio» la interruppe lui. «Ho bisogno di un incentivo per continuare la serata» scherzò, attirandola contro il suo corpo per avvicinare le loro labbra.
Emma appoggiò il viso sulla sua spalla e lo strinse per assorbirne il profumo ed il tepore. Quel contatto poteva ristabilire un certo equilibrio dentro di lei ed era intenzionata a reclamarlo e ad ottenerlo senza alcuna esitazione. Lasciò un bacio leggero sul suo collo e ritornò alla sua precedente posizione, guardandosi intorno.
A metri di distanza, distinse Harry mescolarsi tra la folla.
«Miles, scusa» esclamò, ponendo delle riluttanti distanze tra di loro. «Devo andare a parlare con una persona, prima che se ne vada.»
«Certo» annuì lui. «Ci vediamo dopo, così mi racconti di quella fotografia. Non credere che me ne sia dimenticato» le promise con un sorriso, facendola rabbrividire: le sue parole mostravano la sua ignara ingenuità e la sua pura curiosità macchiate da un sospetto.
Emma impiegò pochi secondi a raggiungere con passo deciso Harry. Lo afferrò per un braccio, stupendolo, e lo trascinò all'interno della stanza nella quale si era preparata con Miles prima di comparire alla mostra.
«Si può sapere che diavolo ti passa per la testa?» Gli urlò contro, gesticolando. Non sapeva perché lo stesse aggredendo in quel modo, ma aveva detto addio a qualsiasi freno si fosse mai imposta, a qualsiasi cautela avesse cercato di sfruttare: era arrivato il momento di fare i conti con il passato, perché non avrebbe resistito oltre. «Con che diritto ti presenti qu-»
«Non sapevo ci fosse bisogno di un invito» la interruppe lui, a voce alta e su una linea di difesa con la quale voleva anche attaccarla. Entrambi non erano intenzionati a trattenersi, questa volta. «E non azzardarti a puntarmi il dito contro, quando sei tu ad aver esposto quella fotografia davanti a decine di persone!»
Emma sbatté più volte le palpebre, con il petto che si agitava per i respiri accelerati. Non credeva possibile che per lui potesse essere un problema. «Questi non sono affari tuoi! Tu non dovresti nemmeno essere qui!»
«Non sono affari miei?!» Ribatté Harry, avvicinandosi di un passo. «Te l'ho scattata io, quella maledetta foto, e non hai nessuno diritto di sbandierarla ai quattro venti senza nemmeno avere il coraggio di dire a tutti che significato abbia per te! Ma forse nemmeno ce l'ha un significato, altrimenti avresti avuto almeno un po' di ritegno e non ne avresti fatto u-»
«Ti è mai passato per la mente che se ho deciso di esporla deve avere un significato?!» Lo contraddisse. Ringraziava il fatto che la stanza nella quale si trovavano fosse appartata, rispetto alla sala della mostra, altrimenti tutti li avrebbero sentiti senza alcun problema. «E poi come osi metterlo in dubbio?! Chi ti credi di essere?!»
«Quindi tu puoi insinuare che a me non importi niente di te, ma io non posso fare altrettanto?!» Replicò, rimarcando il messaggio con il quale lei aveva risposto a quello riguardante il suo eventuale cambiamento.
«Tu non puoi farlo dopo sei anni!» Gridò, con la voce che le bruciava ed il cuore che aveva perso ogni contegno. «Non puoi giudicarmi e non puoi insinuare un bel niente, se per sei anni sei sparito!»
«E tu cosa hai fatto, invece? Visto che ti piace tanto sputare sentenze, dimmi che cazzo hai fatto durante tutto questo tempo!» Le inveì contro con aria di sfida.
«Non ti azzardare» lo ammonì Emma, puntandogli un dito contro e assottigliando gli occhi. «Tu hai disattivato il tuo numero di telefono. Mi hai tagliata fuori, impedendomi qualsiasi contatto! Quindi non venirmi a fare la predica!»
«Scusami se ho aspettato per due fottuti mesi che tu mi chiamassi o che facessi qualsiasi cosa! E scusami se alla fine mi sono stancato di aspettarti! O devo ricordarti che sei stata tu a lasciarmi?» Le sue iridi erano così turbate e accanite da essere quasi insopportabili.
«E sei stato tu a trasferirti a tre ore da qui! Direi che forse non hai mai avuto voglia di aspettare!» Lo accusò ancora, ormai ad un passo da lui. Entrambi ansimavano il rancore che li animava, finalmente venuto allo scoperto e finalmente urlato fuori.
Harry strinse i pugni e soffocò un respiro carico di ira, trattenendosi dall'urlare chissà quale pensiero. «Proprio tu parli di aspettare?» Quasi sussurrò.
Lei colse subito il riferimento a quel passato tanto lontano, alla sua impossibilità di sperare che il suo amore potesse essere ricambiato: ripercorse ciascun istante e ciascuna emozione, tutte cose che credeva di non dover mai più affrontare e che invece si stavano ripresentando al suo cospetto in una maledizione ricorrente.
Serrando la mascella, si impose una maschera di durezza. «Che cosa fai ancora qui?» Gli chiese a bassa voce, con una tale nota di ribrezzo e stanchezza da risultare sgradevole persino a se stessa. Non voleva più averlo di fronte, né doversi confrontare con il suo sguardo attento o le sue parole taglienti. Voleva solo che se ne andasse, lasciandole la possibilità di ricostituire le forze che le aveva prosciugato in una manciata di minuti: aveva dimenticato quanto fosse estenuante relazionarsi con lui.
Harry si inumidì le labbra e la osservò per interminabili secondi, poi le diede le spalle e si allontanò a passi svelti e nervosi, sbattendo la porta dietro di sé quando uscì dalla stanza.
Rimasta sola, Emma si riempì i polmoni d'aria e chiuse gli occhi. Doveva affrontare una valanga irrequieta di sensazioni familiari ed improvvise per le quali non si era preparata: aveva bisogno di ristabilire l'equilibrio che si era frammentato e di trovare un modo per accettare il fatto che Harry l'avesse frastornata ancora una volta. Il litigio che si era appena tenuto non era diverso dagli innumerevoli altri che avevano caratterizzato la loro storia, anzi, era così simile a loro da bloccarle il fiato in gola: eppure c'era comunque qualcosa a distinguerlo, perché era stato cosparso di rancori e convinzioni, ma isolato dai sentimenti. Non avevano discusso su ciò che sentivano, forse perché non erano mai stati bravi a farlo, e si erano limitati all'aspetto pratico e concreto del loro rapporto, concentrandosi su gesti mancati o esasperati e tralasciando le loro motivazioni.
Quando la porta si riaprì, Emma si stupì nell'accorgersi di aver sperato anche solo per un istante che fosse Harry.
Miles aveva una mano sulla maniglia della porta e lo sguardo ricco di interrogativi: la osservava per cogliere tutti i dettagli che gli stava offrendo inconsapevolmente e che contribuivano a fondare le sue supposizioni. Lei deglutì via le emozioni di troppo, pur senza riuscirci del tutto, e cercò di regolarizzare il proprio respiro: non sapeva se le mani le stessero ancora tremando.
Lui respirò piano, con arrendevolezza, e chiuse la porta dietro di sé avvicinandosi a lei di un paio di passi. I suoi occhi erano colmi di una nuova consapevolezza, ma anche di attesa: Emma lo conosceva abbastanza bene da sapere che non l'avrebbe forzata a parlare, che non avrebbe chiesto ciò che lei non era ancora pronta a dargli, ma che avrebbe comunque fatto presente la pretesa di sapere. Era evidente che Miles li avesse visti allontanarsi insieme e che magari avesse anche notato Harry che se ne andava con il nervosismo ad esasperargli i movimenti, cosa che l'aveva portato a raggiungerla: gli era bastata quella prova indubbia, unita a tutti gli altri particolari che aveva raccolto silenziosamente, per arrivare ad una conclusione.
Emma si passò una mano sul viso e poi sull'acconciatura, si sistemò il vestito con gesti controllati e rialzò lo sguardo in quello che la stava ancora aspettando. Sospirando silenziosamente, si avvicinò a lui e si prese qualche istante per ringraziarlo stancamente, semplicemente specchiandosi nelle sue iridi pronte a concedere, ma anche a riscuotere. Miles le prese la mano e la strinse nella propria, permettendole di concentrarsi su sentimenti presenti e non frutto di un ricordo sbiadito.
Uscirono dalla stanza in silenzio, rimandando tacitamente qualsiasi parola stessero nascondendo.

 

♦♦♦
 

La camera di Miles era confusa dal buio della notte inoltrata: l'afa avvolgeva i corpi animati o meno, vincendo sull'aria che entrava placidamente da una finestra aperta.
Emma aveva il viso struccato ed i capelli umidi per la doccia che l'aveva rilassata poco prima: seduta contro la testiera del letto, teneva le gambe nude piegate contro il petto, circondandole con le braccia esili, ed il mento appoggiato sulle ginocchia ossute. Sentiva i respiri di Miles scandire il trascorrere dei secondi e non sapeva come interpretarli al meglio: le stava imponendo una certa distanza, sdraiato sul fianco destro e con il viso schiacciato sul cuscino, con gli occhi che non la guardavano e lei che ne sentiva il bisogno.
La gola secca ed il cuore agitato erano il risultato delle infinite parole che le avevano lasciato il corpo: aveva appena terminato di raccontare la sua storia con Harry. Mossa da un dovere che percepiva, adesso più forte del disagio che ne sarebbe conseguito, spinta dal diritto che Miles reclamava implicitamente, incoraggiata dalla necessità di lasciar andare almeno una parte di ciò che sentiva, si era completamente sciolta dai propri limiti: era partita dall'inizio, prima con estrema difficoltà e poi priva di qualsiasi forza per continuare ad averne. Con la voce bassa e resistente che non venne mai interrotta, era arrivata ad animarsi per quei nodi che ancora la facevano innervosire e a trattenersi su quelli che non voleva ripercorrere apertamente.
Miles spezzò il silenzio dopo diversi minuti.
«Mi hai mentito» commentò piano.
«No» lo contraddisse piano. «Ma ti ho nascosto tutte queste cose e so che non avrei dovuto farlo.»
Aveva buoni motivi per accusarla e lei non sarebbe stata così ipocrita da contestarli.
«Esatto» confermò lui, inasprendo il tono e alzando il viso per cercare i suoi occhi blu nell'oscurità che li divideva. «Perché così mi spingi a pensare ch-»
«Che è qualcosa di cui non mi piace parlare» lo precedette, prima che lui potesse dire qualcosa di errato - o di troppo giusto. «Che non voglio che Harry possa essere un danno per me o per noi.»
«Se non ne hai parlato è perché hai paura che possa farlo» le fece presente. E forse in fondo aveva ragione. Emma serrò le labbra e rifletté in silenzio: la principale motivazione che l'aveva spinta a non precisare ciò che Harry aveva rappresentato per lei, era di certo egoistica, perché stava solo cercando di evitare ricordi dolorosi che non riteneva potessero risalire in superficie. Eppure, era anche vero che in un angolo della propria coscienza risiedeva il timore di sfiorare qualcosa che credeva di aver annientato, con il dubbio che potesse essersi solo assopito.
«Ora l'ho fatto» si giustificò osservando il suo viso, ora sulla mano destra mentre si teneva appoggiato con il gomito puntato al centro del cuscino.
«Non prendermi in giro» la ammonì Miles, incredibilmente serio.
Lei sospirò e nascose il volto contro le ginocchia per qualche istante. Quando tornò a guardarlo, lo trovò nella medesima posizione. «Vuoi sentirti dire che hai ragione?» Gli domandò retorica, in un'ammissione implicita e fiera che quasi la faceva vergognare: non voleva sentirsi minacciata da Harry o da qualsiasi cosa lo riguardasse, eppure una parte di lei non poteva farne a meno. «Lui è... Qualcosa che non so gestire» confessò dopo aver scelto con cura i vocaboli da usare, abbassando la voce ed il proprio orgoglio.
Miles respirò più profondamente, ma non si scompose in modo evidente. «Pensavi che da sola ci saresti riuscita meglio?» La rimproverò, rinfacciandole la verità nascosta.
«No, pensavo che non ci sarebbe stato niente da gestire» precisò piano. Come aveva fatto a sperarlo? Come aveva fatto a dimenticare quanto Harry potesse essere presente, anche se distante?
Quando non ricevette risposta, Emma sentì il cuore stritolarsi con le stesse vene che lo nutrivano: allungò le gambe sul materasso e si distese al fianco di Miles, mentre lui tornava a supino e con lo sguardo rivolto verso il soffitto all'apparenza inesistente. Lo osservò attentamente, notando la stizza nei tratti del suo viso stanco, e gli si avvicinò fino a poggiare la guancia sulla sua spalla destra. Aveva un buon profumo.
Sapeva di doversi aspettare un'accusa che avrebbe avuto anche delle giustificazioni, perché sapeva di aver inevitabilmente instillato il dubbio in lui con il proprio comportamento: non avrebbe potuto biasimarlo.
«Non mi piace che tu mi nasconda le cose» esordì lui poi, con la voce che aveva accumulato tutta la rabbia che provava. «Non mi piace che tu mi escluda da quello che ti disturba, perché non era questo che ci eravamo ripromessi» continuò, andando a toccare il loro passato, quello che la minacciava ancora di più di mille altri. Quella promessa sigillata da entrambi e che avrebbe dovuto proteggere il loro rapporto da screzi futuri, da errori già commessi.
«Lo so» respirò lei. «Infatti ti ho raccontato tutto e-»
«L'hai fatto solo perché ti ho vista in quello stato, altrimenti saresti tornata nella sala e avresti finto che non fosse successo nulla» affermò con sicurezza. Continuava a non guardarla ed era snervante.
«Questo non è vero» ribatté Emma, pur non essendone certa. «E poi di quale stato parli? Avevamo appena litigato, era normale che fossi nervosa.»
Miles distese le labbra in un sorriso incredulo, amaro. «Dimentichi che ti conosco» esclamò lentamente. «E ho già visto quegli occhi un paio di volte.»
Quando sono stato io a ferirti, intendeva dire.
«Non puoi davvero paragonare le due cose. Stai esagerando» replicò stizzita. «Con te è stato diverso, con te è stato...»
Peggio.
Non terminò la frase, ma il suo significato fu abbastanza chiaro da ferire entrambi ancora una volta.
«Ma credo sia normale» riprese Miles dopo pochi istanti, sorvolando sulle ultime parole come per evitare qualcosa. «In fondo è stata una persona importante per te e avete troppe cose in sospeso per potervi parlare senza urlarvi contro. Dovreste vedervi e chiarire».
Emma sbatté più volte le palpebre e attese qualcos'altro, che non arrivò. «Non ti darebbe fastidio?» Domandò stranita. Sapeva di dover seguire il suo consiglio, lo doveva a se stessa e alla stabilità della propria salute mentale, ma non voleva che il suo proposito potesse circondarsi di sospetti.
Miles si voltò finalmente verso di lei, guardandola intensamente. «No» rispose rigido. «Dovrebbe?» La provocò, sicuro dell'effetto che avrebbe prodotto.
Lei infatti sbuffò sonoramente, cogliendo il tentativo di infastidirla solo per dispetto. «Sei davvero l'unico ragazzo sulla faccia della Terra che non ha niente da dire se la sua fidanzata ha ancora a che fare con il suo ex. Dopo sei anni» lo sbeffeggiò seriamente. Se fosse accaduto il contrario, lei non l'avrebbe tollerato: la gelosia l'avrebbe logorata fino a non lasciare nient'altro ad ammansirla.
«Forse sono l'unico che preferisce sopportare e permettere alla propria fidanzata di chiudere un capitolo della propria vita. Dopo sei anni» precisò sicuro di sé. Nelle sue parole vagava l'ombra della pretesa che come sempre non aveva espresso direttamente: si aspettava che chiudesse con Harry, che se lo lasciasse alle spalle in modo da non concedergli più il potere di disturbarla. E lei sperava con tutta se stessa che potesse accadere senza alcuna difficoltà e senza ostacoli.
Emma, come poche volte in precedenza, si sentì rincuorata dal suo tono di voce e dall'assenza di malizia: Miles non temeva la sua infedeltà, perché non era contemplata tra le varie possibilità, era certo dei suoi sentimenti e questo le permetteva di sentirsi più coraggiosa. Senza accorgersene, stava traendo forza da quella sicurezza che sentiva riposta in sé: percepì una bella sensazione al pensiero di non essere messa in dubbio, forse perché lei non era in grado di fare lo stesso.
«Ti amo» gli sussurrò sulla spalla, avvicinandosi ancora di più al suo corpo.
Lui le cinse le spalle e se la premette contro il petto nudo, baciandole la fronte con delicatezza e brama, come a manifestare una velata preoccupazione: bastò quel gesto così intimo a far insospettire Emma. Si accorse che probabilmente tutta quella ostentata sicurezza avrebbe potuto essere un tentativo di scacciare i sospetti che l'avevano colpito. In fondo, aveva parlato dei suoi occhi. Li aveva visti. E per quanto non potessero essere simili a quelli con i quali l'aveva guardato quella volta, dovevano aver manifestato più di quanto lei avrebbe voluto.
«Ti amo anche io» mormorò lui sulla sua pelle. «Anche quando te ne freghi di esporre una foto post-sesso ad una mostra» continuò, facendola sorridere. «E anche se quel sesso non l'hai fatto con me» aggiunse un po' più serio, mostrando il possesso che sentiva di dover dimostrare almeno in quella occasione. Quando avevano parlato della modifica effettuata alla mostra, di quella fotografia improvvisa, Miles si era risentito e poi rilassato: aveva compreso il significato che lei attribuiva a quella figura rannicchiata in un letto disfatto e aveva accettato il fatto che fosse svincolato dalla persona con cui l'aveva condiviso, dal ricordo.
«Rimediamo?» Gli propose Emma, con un sorriso ad incresparle le labbra maliziose.
Lui alzò un sopracciglio. «Mi stai proponendo di fare delle foto ment-»
«Idiota» lo rimproverò ridendo e baciandogli le labbra, mentre Miles le percorreva la schiena con le mani giocose e finalmente libere dalla tensione. Si era sdraiata sul suo corpo, appoggiandosi con le ginocchia sul materasso a lato dei suoi fianchi magri: i capelli gli solleticavano il torace e le dita gli torturavano il collo sottile. Emma sentiva il sollievo riempirle lo stomaco, il calore offuscarle la mente esausta e sentiva il respiro di Miles a ricordarle chi volesse essere.

 





 


Buongiorno bella gente!
Finalmente sono riuscita a finire questo capitolo e sono anche in tempo, quindi sono fiera di me ahhaha In questi giorni sono stata parecchio impegnata e lo sarò anche durante questa settimana, quindi abbiate pietà di me!
Passando al capitolo in sé, EH:
1. Emma/Harry: finalmente si rivedono ahahha Stavo aspettando da molto questo momento, perché volevo scrivere della fotografia e del loro litigio. Direi che non c'è bisogno di commentare, dato che è tutto abbastanza chiaro: ad Harry ha dato parecchio fastidio il fatto che lei abbia esposto la foto, qualcosa di tanto intimo, e da lì si scatena tutto. Ovviamente il loro relazionarsi è fatto solo di accuse e rancori, che non portano assolutamente a nessun chiarimento, anzi, ad un peggioramento della situazione! Voi che commenti avete da fare? Che ne pensate?
2. Emma/Miles: spero di esser riuscita a far trasparire i sospetti di Miles già da quando vede Harry alla mostra, nonostante non gli piaccia molto darlo a vedere. Forse Emma non si rende conto di quanto lei ed Harry siano cristallini, insieme. However, spero che questo capitolo ve lo abbia fatto apprezzare un po' di più: come vedete, è una persona molto razionale, quando ce n'è la necessità, e non si lascia sconvolgere dagli impulsi se non sono sufficientemente fondati. Ma lascio a voi i commenti, anche riguardo la sua reazione al comportamento di Emma: vorrei sapere cosa pensate del loro modo di relazionarsi, consolidato da due anni passati insieme.
Insomma, direi che ora posso smettere di blaterare! Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi ringrazio per tutto :)



Vi lascio tutti i miei contatti: ask - facebook - twitter 

Un bacione,
Vero.

 
  

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Capitolo 6
*** Capitolo sei - Again ***




 

Capitolo sei - Again
 (Per favore, leggete lo spazio autrice :))
 

Aveva impiegato due giorni a digitare poche parole sul suo cellulare, un asciutto "Dobbiamo parlare" che le era costato un po' troppo orgoglio: inizialmente aveva categoricamente scartato l'idea di cercare Harry in qualsiasi modo, profondamente convinta che non spettasse a lei ed ancora succube dell'ira che l'aveva animata durante la discussione alla mostra d'arte. Eppure voleva sfoggiare la maturità che aveva conquistato con gli anni, dimostrandogli di avere a che fare con una persona piuttosto diversa e magari stupendolo: Miles aveva ragione, doveva assolutamente liberarsi di quel peso che si trascinava dietro come un continuo promemoria di una vecchia ferita, quindi doveva mettere da parte qualsiasi sua protesta e sforzarsi di raggiungere un chiarimento.
I brevi messaggi che si erano scambiati non contenevano che una manciata di sillabe, persino prive di punteggiatura: erano così poveri e reticenti, da rispecchiare la tensione che imperversava nei mittenti e da far serrare i pugni a chi li riceveva.
Si erano dati appuntamento da Ty per il giorno dopo, verso le cinque del pomeriggio e prima che Emma iniziasse il turno di lavoro al ristorante: la scelta non era stata contestata, perché in qualche modo il Rumpel rappresentava un luogo rassicurante e neutro, nel quale avrebbero potuto muoversi con libertà senza sentirsi troppo osservati. Il proprietario, infatti, li conosceva abbastanza da non stupirsi se avessero alzato la voce.
Emma era arrivata qualche minuto in anticipo senza nemmeno accorgersene, o forse senza volerlo fare: aveva salutato Ty da lontano, temendo domande ed insinuazioni, e si era concentrata sull'agitazione che sentiva. Seduta su una delle sedie attorno al tavolo all'angolo che aveva scelto, non riusciva a stare ferma o a non stringersi nervosamente le mani l'una con l'altra: avrebbe voluto essere a proprio agio ed un po' più spavalda, ma sapeva che era impossibile. Si trattava di ripercorrere una strada chiusa e tortuosa, di immergersi in vecchi ricordi anche se vivi, di litigare per l'ennesima volta, probabilmente, e di arrabbiarsi ancora un po'.
Spinta da queste possibilità, si ripromise di sforzarsi di mantenere la calma e di non infervorarsi.
Harry arrivò puntuale, entrando al Rumpel con una t-shirt grigia ed i pantaloni della tuta neri, abbinati a delle Nike vagamente rovinate: i capelli nuovamente raccolti in una piccola coda disordinata, le iridi coperte da un paio di occhiali da sole e le labbra umide. Rivolse un cenno del capo a Ty e si guardò intorno con attenzione, cercandola tra i pochi clienti di quel pomeriggio.
Emma lo stava già osservando, in attesa che si avvicinasse e cercando di non far trasparire alcuna goccia di tensione: poteva ancora sentire le urla con le quali si erano attaccati pochi giorni prima, il loro effetto inaspettato.
Lui si avvicinò lentamente, togliendosi le lenti ed appendendole distrattamente allo scollo della maglietta: spostò la sedia di fronte alla sua e ci si sedette con tranquillità, tirando su con il naso e strofinando per qualche istante le mani grandi sulle proprie cosce, a tradire una vaga impazienza.
Si guardavano in silenzio, come se volessero capire qualcosa prima di dirne un'altra: Emma appoggiò gli avambracci nudi sul tavolo tiepido e si sporse di poco e meccanicamente in avanti. «Dobbiamo chiarire questa storia» esordì a bassa voce, incrociando le gambe sotto il tavolo.
Harry non si mosse, ancora contro lo schienale della sedia e con il viso pulito a fronteggiarla, e non rispose, nonostante i suoi occhi parlassero per lui.
«E siamo adulti ormai, possiamo farlo anche senza urlarci addosso» continuò lei, con studiata lentezza. Quelle non erano parole spontanee, erano parole che aveva precedentemente deciso di pronunciare per iniziare il discorso: mettere le cose in chiaro sin dall'inizio le sembrava una buona tecnica precauzionale.
Lui si inumidì le labbra e prese un respiro più profondo, muovendosi per imitare la sua posizione: i loro volti si stavano affrontando apertamente, ma con un controllo più che precario. «Inizia pure» disse soltanto, in un falso gesto di galanteria che stentava a nascondere lo stesso risentimento che aveva palesato alla mostra.
Emma sbatté le palpebre e corrugò impercettibilmente la fronte: non si aspettava di poter avere la prima parola e di conseguenza non sapeva da dove cominciare. Nessun preludio e nessuna preparazione, Harry ricercava un confronto con la stessa decisione.
Lei si frizionò i capelli sciolti sulle spalle e si sistemò la canottiera bordeaux, che le si era arrotolata intorno al bacino: si sentiva i suoi occhi addosso, quindi recuperò il contatto visivo il più in fretta possibile per non lasciargli alcun vantaggio.
«Perché te ne sei andato, esattamente?» Domandò piano, optando per un filo logico cronologico. «E non dirmi che volevi cambiare aria» aggiunse subito dopo, ricordando la scusa che lui le aveva imposto e che non era stata sufficiente.
«Però è la verità» rispose Harry, mantenendo una certa compostezza. Aveva incrociato le mani sul tavolo. «E sai anche cosa significa.»
Emma sospirò silenziosamente e lo osservò per qualche istante. «Non voglio tirare ad indovinare» esclamò. «Se siamo qui è per essere il più chiari possibile e per…»
«Tu mi avevi lasciato» la interruppe lui, cogliendo la sua richiesta e rigettando qualsiasi altra spiegazione superflua. «Non mi piaceva doverti stare lontano, avendoti così vicina. Ed ero stanco della mia reputazione per la storia dell'irruzione. Avevo finito la scuola e non avevo più niente a trattenermi, ma un lavoro sicuro ad aspettarmi: ho fatto quello che dovevo.»
Aveva parlato con un tale stoicismo, da essere irreale: nessuna parola masticata dallo sforzo di esprimersi, nessuna smorfia di disagio, nemmeno stesse recitando un copione. Emma arrivò persino a sospettarlo, ma non doveva cedere all'immagine che conservava di un Harry ormai passato: dopo sei anni, era comprensibile che lui avesse imparato ad aprirsi in maniera più o meno protetta, dicendo ma non troppo.
Forse aveva semplicemente creduto che avrebbe fatto trasparire almeno un'ombra di dolore, nel ricordo di quel periodo.
Annuì piano, ragionando sulla risposta appena ottenuta: effettivamente tornava tutto al proprio posto, perché sapeva molto bene quanto la verità sul suo passato costituisse un peso per lui e quanto la sua codardia non fosse del tutto assopita, e perché era logico che apprezzasse un lavoro che avrebbe potuto aiutare la situazione economica della sua famiglia, nonostante si trovasse in una città tanto distante. Ciò che l'aveva stupita era l'ammissione dell'incapacità di starle lontano: non poteva negare di averlo immaginato, un paio di volte, ma aveva sempre scartato la possibilità per proteggersi e non illudersi. Conoscendo i suoi sentimenti mancati, aveva preferito convincersi che non gli importasse di averla vicino o meno.
«Avresti indovinato?» Le chiese, osservandola attentamente.
Emma soppesò le conseguenze di ogni risposta che avrebbe potuto dargli. «No» confessò.
Harry distolse lo sguardo e scosse il capo, come scocciato dal suo scetticismo.
«Perché credere il contrario era più facile» spiegò lei, per fargli capire cosa l'avesse spinta a metterlo in dubbio.
Lui tornò a scrutarla, serrando la mascella, ma non rispose né commentò quella verità appena svelata. Era evidente come entrambi si stessero trattenendo dal loro solito impeto ed Emma si stupiva nell'accorgersi di quanto fosse difficile contenere una natura che pensava di aver messo a tacere molto tempo prima.
«Perché non mi hai fermato?» Domandò Harry, accaparrandosi il diritto di sapere.
Lei trattenne per un attimo il fiato, colpita da quel dubbio con il quale non pensava di doversi confrontare. Parlare di quel periodo era ancora più difficile di quel che pensasse e non riusciva a capacitarsene.
«Volevi che lo facessi?» Chiese allora, nonostante stesse venendo meno alla promessa di chiarezza che avevano implicitamente condiviso. Ricordava ancora tutti gli interrogativi che l'avevano colpita quando lui si era presentato alla sua festa di compleanno, dandole la notizia e mandandola in confusione.
Eppure non avrebbe avuto senso, perché anche in quel momento era convinta che nulla l'avrebbe portato a rimanere: entrambi sapevano che la loro storia non avrebbe potuto continuare, quindi l'unica possibilità era quella di dividersi, e lui aveva appena ammesso di non essere riuscito a sopportarlo. No, non voleva davvero essere fermato.
«Volevi che ci provassi…» sussurrò Emma, lentamente e con una maggiore comprensione delle cose.
Harry si irrigidì appena, senza esporsi, e lei sentì qualcosa di tumultuoso disturbarla per un attimo. Poteva ricostruire il loro ultimo incontro senza troppi sforzi, ritrovarsi davanti al suo volto serio e da adolescente, percepire ogni emozione provata o sperata: forse Harry avrebbe voluto cogliere ancora un segno di amore da lei, prima di andarsene, e forse avrebbe voluto scatenare in lei una reazione in grado di scaldarlo almeno un po'.
«Non hai risposto» le fece presente. Non confermò né smentì la sua ipotesi, perché non ce n'era bisogno e perché se con il tempo aveva imparato ad aprirsi un po' di più, non gli era comunque facile.
Emma deglutì a vuoto e si diede un contegno. «Ti sei presentato lì dopo un mese, dopo le ultime cose che mi avevi detto: mi ero persino illusa che volessi riprovarci, dopo aver visto il tuo regalo. E mi hai semplicemente detto che te ne saresti andato entro due giorni, senza nemmeno avermene parlato» raccontò quindi, stringendo i pugni. «Non credevo che un mio parere potesse servire, né che lo volessi» concluse, lasciando sottinteso il risentimento che aveva provato a quel tempo, per non essere stata coinvolta in una decisione tanto importante e per la sofferenza di doverlo salutare una volta per tutte.
«Avresti voluto darmene uno?» Le domandò a bassa voce.
La stupiva parlare con lui in quei toni, soprattutto perché sapeva di non doversi abituare: erano una bomba ad orologeria.
«Sì.»
«Sarebbe cambiato qualcosa, se io fossi rimasto?»
«No» rispose flebilmente.
Restarono in silenzio, respirando con lentezza ed in modo trattenuto. Entrambi erano consapevoli della veridicità di quelle parole ed Emma era convinta che Harry conoscesse la risposta alla propria domanda prima ancora di pronunciarla: era qualcosa che dovevano esplicitare ad alta voce, rendere un po' più reale, quasi con lo scopo di rassicurarsi. A prescindere da tutti gli errori che entrambi avevano commesso, l'unica cosa della quale potevano essere certi era l'incompatibilità delle due parti nel loro rapporto. Emma avrebbe potuto pregarlo di restare ed Harry avrebbe potuto deciderlo di sua spontanea volontà, ma lei sarebbe comunque stata affetta dall'insoddisfazione per un sentimento non ricambiato e lui avrebbe continuato a stridere con le sue differenze, portando il tutto ad una fine inevitabile.
I secondi passavano, costituendo interminabili minuti, ed i loro occhi non si lasciavano: fermi nelle loro intenzioni, continuavano a scrutarsi e a riconoscere quelle sfumature che avevano caratterizzato il loro primo incontro, studiando cautamente quelle che invece si rivelavano essere un po' più estranee.
Emma non resistette oltre ed abbassò lo sguardo sulla superficie del tavolo.
«Mi sono stancato» esordì lui, attirando nuovamente la sua attenzione su di sé: aveva il volto serio, le labbra socchiuse ed un sospiro in procinto di liberarsi. «Abbiamo sbagliato talmente tante volte ed in talmente tante cose che...»
Si interruppe, come per cercare le parole adatte. «Non c'è bisogno di elencare uno per uno tutti i nostri errori, perché sappiamo entrambi che non arriveremo mai a capirli: sicuramente tu stai continuando a pensare che non avrei dovuto cambiare numero e che sono stato uno stronzo, mentre io continuo a pensare che tu sia stata un'ipocrita. E allora? Parlarne fino allo sfinimento non cambierà le cose.»
Lei lo ascoltò con attenzione, soppesando i significati che esprimeva con controllata calma e cercando di dosare le proprie reazioni. Aveva ragione, ma non credeva che quello che avevano fatto fosse stato completamente inutile: sicuramente non avrebbe cambiato il passato, ma almeno avrebbe insinuato tra di loro una maggiore sincerità ed una maggiore chiarezza, senza lasciare punti in sospeso e facilmente soggetti a fraintendimenti. «Cosa proponi di fare?» Gli chiese allora, incrociando le braccia sul tavolo.
Harry si inumidì le labbra: «Niente» rispose semplicemente.
Lei inarcò un sopracciglio e attese un'ulteriore commento, qualcosa che la aiutasse a capire.
«Lasciamo perdere, Emma» riprese infatti. La pronuncia del suo nome la scosse impercettibilmente, come se fosse ancora abituata ad essere chiamata diversamente da quella voce. «Lasciamo perdere questa storia. Tu non sei stanca?»
No, non lo era.
Emma era esausta. Ogni fibra del suo corpo la pregava per una tregua che lei non era in grado di concedersi: per tutti quegli anni si era convinta di aver seppellito il suo passato sotto le fondamenta di una nuova vita, ma con il ritorno di Harry vi era stata una frana che aveva scoperto ogni punto debole ed ogni danno mai riparato.
Credeva che il motivo per cui non riuscisse a lasciar andare quegli avvenimenti fosse la mancanza di un chiarimento: lei ed Harry non si erano mai confrontati a riguardo, non avevano mai discusso e lei non aveva mai potuto arrabbiarsi, gridargli contro il proprio rancore. Ma ora che era successo, a cosa si stava aggrappando? Per quanto ancora era disposta a farsi condizionare da vecchie ferite? Perché avrebbe dovuto farlo?
La possibilità di sbarazzarsi di quella che vedeva come una maledizione la attirava come una fonte di luce: voleva tornare ad essere libera, in ogni accezione, e spettava solo a lei scegliere di farlo. Nessuno glielo avrebbe impedito, nessuno l'avrebbe contrastata e lei ne avrebbe giovato: si sentiva persino una stupida, dato che per tutto quel tempo non si era impegnata fino in fondo, rimandando il momento in cui sarebbe riuscita ad accettare qualcosa risalente a sei prima.
«Non immagini quanto» rispose allora, pronunciando quelle parole come se fossero state un sollievo immenso. Poteva leggere la stessa emozione negli occhi di Harry, la stessa stanchezza che aveva ammesso e che le aveva permesso di riconoscere: chissà se durante quel lungo periodo di lontananza aveva anche lui pensato alla loro fine, a tutte le cose che avrebbe voluto rinfacciarle. Chissà se l'aveva maledetta fino a non ricavarne più alcuna soddisfazione, chissà se anche per lui il loro litigio alla mostra aveva stipulato un punto di rottura, un limite superato ed in grado di spingerli verso una svolta.
«Ok, allora è deciso» commentò Harry, abbozzando un sorriso soddisfatto e stringendosi nelle spalla larghe. Lei rispose con un sorriso simile, ma forse più insicuro: tutto qui? si trovò a pensare.
Improvvisamente le sembrava tutto troppo facile, quasi azzardato: era intontita dalla velocità con la quale erano scesi ad un compromesso, tanto da dubitare della sua fondatezza. Che stessero solo mascherando problemi più radicati? Che stessero solo cercando di mostrarsi maturi e di fingere per non darla vinta all'altro?
«Che c'è?» Le chiese Harry, notando forse l'espressione del suo viso.
«È così strano…» sospirò lei.
«Si può provare» le rispose serio. «Nel peggiore dei casi, tra due minuti staremo di nuovo litigando e Ty dovrà cacciarci da qui» sdrammatizzò.
Si sarebbe sforzata di dargli ascolto, ma non poteva prevedere cosa sarebbe derivato dal passare del tempo insieme. In fondo si trattava di accettare, non di dimenticare, quindi i ricordi sarebbero rimasti dentro di lei ogni volta che lo avrebbe visto o gli avrebbe parlato: doveva solo sperare che smettessero di fare male.
Emma si passò una mano sul viso e poi tra i capelli, percependo il nodo di tensione sciogliersi e lasciarla respirare un po' più facilmente. «Ci credi che siamo riusciti a parlare come due persone civili?» Scherzò debolmente, sinceramente stranita da quel passo in avanti.
Harry rise appena, guardandola con la sua disarmante spontaneità. «Facciamo progressi» commentò.
E ci fu un insignificante istante, un attimo scollegato da quella realtà, che le fece trattenere il fiato: forse si era rilassata sin troppo, forse era solo stordita dalle novità, ma le era sembrato che il suo tono di voce si fosse macchiato di discreta malizia, come di una promessa.
«Offre la casa» esclamò qualcuno al suo fianco, interrompendo i suoi pensieri. Millicent, una delle cameriere del Rumpel, stava poggiando sul loro tavolo un bicchiere di birra ed un thè alla pesca, sorridendo con professionalità e spensieratezza. Entrambi i clienti corrugarono la fronte e si voltarono istintivamente verso Ty, che li salutò con un cenno della mano ed una smorfia soddisfatta: quell'impiccione doveva aver assistito da lontano a tutta la scena, arrivando a voler festeggiare i sorrisi che non poteva interpretare con bibite gratis.
Ringraziarono Millicent e scossero la testa, divertiti da quel gesto.
«Allora...» sospirò Emma, giocherellando con il proprio bicchiere. Sembrava che, una volta affrontate le questioni spinose, non avessero più nulla di cui parlare, nonostante ci fossero sei anni da indagare e curiosare.
Harry bevve un sorso di birra e si leccò le labbra, alzando un sopracciglio. «Mi è piaciuta la tua mostra» esclamò dopo una manciata di secondi.
Lei temette che volesse di nuovo criticarla per la decisione di esporre quella fotografia, quindi il suo corpo si ritrasse leggermente, come a porsi sulla difensiva. «Grazie» rispose: perché non riusciva a formulare frasi che andassero oltre le poche parole?
«L'altra volta non me ne avevi parlato» continuò lui, evidentemente riferendosi alla breve passeggiata che li aveva coinvolti in surreali discorsi sulla loro situazione lavorativa.
«Non è il mio lavoro» si giustificò lei, felice di potersi rilassare con un argomento nel quale si sentiva a proprio agio. «Ed è stata la prima mostra alla quale io abbia mai partecipato» continuò con un'improvvisa fierezza ad occuparle il cuore. I risultati ottenuti erano ancora in grado di sorprenderla e di riscaldarla.
«Be', direi che è andata bene» disse Harry, inclinando il capo e prendendo un altro sorso di birra.
Emma annuì e lo imitò, chiedendosi se fosse il caso di fare alcune precisazioni sull'esposizione: se erano disposti a lasciarsi alle spalle i passati screzi, avrebbero dovuto occuparsi anche dei presenti. «Non ho esposto quella foto per dispetto, non sapevo nemmeno che saresti venuto» esordì piano, guardandolo in modo che non potesse dubitare della sua sincerità.
Harry la osservò in silenzio, irrigidendosi appena.
«Non volevo sminuirla, come tu hai pensato, anzi» continuò, come se l'assenza di una risposta le avesse dato il consenso a continuare. «E non ho mentito riguardo l'autore per sminuire te.»
Lui serrò la mascella e restò immobile.
«È che davvero non era importante che si sapesse» riprese, sperando di non essere fraintesa. «Ho scelto quella fotografia perché mi ricorda qualcosa di me, non... Non mi serviva nient'altro, né serviva a loro: per come la vedo io, ti avrei davvero mancato di rispetto se avessi raccontato quando e come mi sia stata scattata» concluse.
Harry l'aveva accusata di averla sbandierata di fronte a decine di persone, senza preoccuparsi dell'intimità che essa portava con sé e del suo significato. Eppure lei aveva cercato di tutelarla al meglio, quell'intimità, perché aveva evitato di riportare qualsiasi particolare in grado di tradirla, in grado di rendere pubblico quel ricordo.
Forse lui non si era fermato a riflettere su quel piccolo particolare, perché la sua espressione si smorzò e le sue spalle si rilassarono. «Cosa ti ricorda?» Le chiese, accordandole implicitamente un perdono non necessario e garantendole la propria attenzione, che non si era lasciata sfuggire nemmeno un dettaglio.
Emma si pentì di aver svelato troppo, nonostante non potesse più rimangiarsi niente. «Non si parlerebbe di arte, se venisse tutto spiegato» rispose con aria soddisfatta, sperando che lui non insistesse. Si sentiva sin troppo scoperta, in quel momento, quindi non voleva rendersi ancora più fragile, farlo entrare troppo nei propri pensieri.
Ogni tanto doveva ricordarsi che non erano più gli Harry ed Emma di una volta.
«Touché» disse lui con un sorriso.
Almeno all'apparenza.
C'erano ancora tonnellate di orgoglio a dividerli, poteva percepirli nell'aria che condividevano: decine di particolari che entrambi non avevano ancora superato, ma che non nominavano per evitare di sembrare un po' più deboli. Li avvolgeva un'atmosfera simile a quella della loro prima passeggiata.
«Il tuo ragazzo che ne pensa?» Le domandò qualche istante dopo, con un tono vagamente provocatorio: le diede l'impressione di volerla mettere in difficoltà, come se fosse stato certo che lui non ne sapesse nulla.
«Della fotografia?» Ribatté lei, senza scomporsi e cogliendo la sfida.
Harry si strinse nelle spalle. «Anche.»
«È una delle sue preferite, tra quelle che ho esposto» spiegò lentamente, cogliendolo di sorpresa. «Ed è stato lui ad insistere affinché noi due parlassimo» continuò, infierendo un po' di più. Quei giochetti non la potevano più intrappolare.
Lui assottigliò gli occhi, pensieroso. «Tu non volevi venire?» Le chiese, più teso.
«Non proprio, no» ammise, ricordando quanto avesse desiderato di farlo scomparire da Bradford e dai propri ricordi. Fare ciò che è giusto non sempre corrisponde a ciò che si preferirebbe.
«Allora che ci fai qui?» Harry aveva serrato la mascella, indurendo lo sguardo.
Lei corrugò appena la fronte, allarmata dalla sua reazione. «La stessa cosa che stai facendo tu» gli rispose, come se fosse stato ovvio. Entrambi erano lì per chiarire, per mettere un punto ad uno sproloquio infinito.
«Non credo» la contraddisse a denti stretti, alzandosi nervosamente dalla sedia e allontanandosi a passi svelti, senza nemmeno guardarla un'ultima volta. Pochi attimi dopo, era già al di fuori del Rumpel.
Emma restò pietrificata sulla propria sedia, alla ricerca di una spiegazione e forse anche di una smentita.
 

♦♦


Il Nameless era un ristorante poco frequentato, ma con una clientela fedele e soddisfatta. Incastrato in una via alla periferia della città, era composto da sole due ampie sale, con la moquette bordeaux alle pareti ed il parquet scuro ad amplificare il suono di ogni passo. L'arredamento vintage gli conferiva un'atmosfera intima ed accogliente, che anche alla fine di un estenuante turno di lavoro era ancora piacevole.
Emma si allacciò nuovamente il grembiule nero intorno alla vita, maledicendo il tessuto logoro che si faceva sempre più capriccioso: la camicetta bianca non mostrava ancora macchie di cibo - stranamente - e lo chignon in cui aveva legato i capelli era accettabilmente in ordine. Erano solo le nove di sera ed era già esausta.
Battendo alla cassa il conto di un cliente, alzò lo sguardo verso l'ingresso quando udì lo scampanellio che annunciava l'arrivo di qualcuno: vide entrare un gruppo di amici abbastanza numeroso e, tra di loro, distinse i capelli biondo grano di Lea. Non si aspettava la sua presenza, ma la rallegrava.
«Ci penso io» borbottò frettolosamente Nikole, dandole una scherzosa ed indiscreta pacca sul sedere e dirigendosi verso i nuovi clienti. Emma sorrise divertita e ringraziò il cielo di avere una collega ed amica in grado di sollevarle il morale, poi si apprestò a concludere il suo compito.
Qualche minuto più tardi, mentre si dirigeva in cucina per riferire alcune ordinazioni, Nikole la affiancò. «Perché non mi hai detto di aspettare ospiti importanti?» La rimproverò bonariamente, alzando un sopracciglio fine. I suoi occhi grigi la stavano osservando con curiosità, quasi fossero impegnati in un'analisi approfondita.
«Ospiti importanti?» Ripeté Emma con un sorriso, aprendo la porta della cucina e respirando quel mucchio di profumi culinari che talvolta le faceva venire la nausea, per quanto era intenso.
L'altra le lasciò riferire il dovuto, prima di riprendere. «Sì, quelli appena arrivati» confermò. Si strinse la coda nella quale aveva intrappolato i capelli corvini e si passò una mano sul viso poco truccato: le labbra carnose socchiuse ed il naso all'insù a conferirle un'aria perennemente buffa. «Una di loro mi ha detto che le avevi promesso il tavolo migliore, anzi, il migliore per la migliore, giusto per citarla, e mi ha fatto l'occhiolino» continuò, marcando quelle parole per enfatizzare la sua incredulità. Respirava velocemente, perché, come aveva spiegato lei stessa, "guarda quanto grasso devo portarmi dietro, credi che sia facile?". E in fondo sì, Nikole non era al massimo della forma e talvolta la confusione del ristorante la debilitava.
Emma rise di gusto, immaginandosi la scena. «Non è un'ospite importante ed io non le ho promesso proprio niente: è la sorella di Miles ed è solo molto furba» le spiegò liberamente. Lea si divertiva nell'ammaliare le persone.
«Stai dicendo che mi ha fregata?» Chiese l'altra, sbattendo più volte le palpebre.
«No, non la metterei proprio così» cercò di rassicurarla con una risata, recuperando dalla tasca del proprio grembiule il taccuino per le ordinazioni. «Penso io al suo tavolo, ok?» Le propose.
«Vai pure» le concesse Nikole. «Quella è così figa che potrebbe farmi diventare lesbica, ed io non voglio diventarlo.»
Emma scosse la testa e le diede le spalle, divertita. Quella ragazza paffuta e di qualche centimetro più bassa di lei, compresa di passione per i negozi di Camden Town e per i loro commessi, era ciò che più si avvicinava al concetto di migliore amica, una definizione che non vedeva più con gli stessi occhi.
Aveva condiviso tutto con Tianna fino all'estate dell'ultimo anno di liceo, prima che lei si spostasse a Londra per l'università e prima che i messaggi diminuissero gradualmente, affievolendo anche il loro calore, sempre più gelido. Pian piano si erano allontanate fino a non aver più nessun tipo di contatto ed Emma avrebbe giurato che non sarebbe mai potuto succedere a due come loro, eppure forse è così che dicon tutti.
Nikole era arrivata dopo circa un anno e aveva stravolto tutto.
Mancava ancora qualche metro alla sua destinazione, ma Lea la intravide da lontano, alzandosi in piedi subito dopo e correndole incontro per abbracciarla calorosamente. Il suo profumo la invase fino a scacciare quello al quale era abituata per lavoro, mentre i capelli fini le solleticavano il viso.
«Emma, Santo Cielo!» Esclamò concitata, baciandole una guancia e allontanandosi di poco per poterla guardare negli occhi. Le sue iridi brune erano colme della spensieratezza che caratterizzava i suoi venticinque anni. L'abito rosso fuoco le accarezzava delicatamente la pelle. «Mi sei mancata!»
Lei sorrise sinceramente. «Anche tu» rispose. «Pensavo fossi ancora in Irlanda» ammise subito dopo. Lea lavorava nell'ambito della moda, anche se non aveva ancora capito quale fosse effettivamente il suo ruolo, dato che ogni volta che prendevano l'argomento lei divagava e nominava almeno dieci mansioni diverse: spesso viaggiava per tener fede ai propri impegni, mancando da casa anche per diversi mesi.
«Sono tornata due giorni fa: sono riuscita a convincere il mio capo» raccontò, fiera e maliziosa. Lea era racchiusa in un corpo snello e benedetto da curve armoniose, che ad una prima occhiata permetteva a chiunque di etichettarla come donna: il viso sottile e gli occhi intraprendenti erano simili a quelli di Miles, ma erano caratterizzati da un fascino diverso, femminile fino all'ultimo particolare. Ogni suo movimento era elegantemente spontaneo, ammaliante, e lei sapeva molto bene come sfruttarlo.
«Miles non mi ha detto niente», spiegò Emma, stupita da quella mancanza di comunicazione.
«Ah, lascialo stare. Sono stata io a chiederglielo: volevo farti una sorpresa, dato che ti avevo promesso che prima o poi sarei passata in questo posto» le spiegò allegramente, arricciando il naso dalle linee morbide.
«Hai fatto bene, ne avevo proprio bisogno» le confessò Emma, riferendosi alla stanchezza che le pesava sulle spalle: inoltre Lea le era mancata, insieme all'atmosfera di leggerezza che portava ovunque andasse ed insieme alle chiacchierate che era in grado di dedicarle.
«Posso immaginare» sospirò lei amaramente, rattristando la proprio espressione. «Mi dispiace per quello che stai passando.»
Emma corrugò la fronte, cogliendo un riferimento che le sfuggiva, e Lea sembrò accorgersene, quindi si affrettò a specificare. «Ieri mi sono vista con Miles e mi ha detto che siete di nuovo in crisi.»
Il suo cuore sobbalzò senza esitazione, facendola irrigidire e mozzandole il fiato in gola. Strinse i pugni così forte che sentì la carta del taccuino rovinarsi sotto la sua pelle, sotto il suo risentimento: c'era abbastanza confidenza, tra loro, da spingerle a parlare di qualsiasi argomento, ma non di ciò che neanche Emma conosceva. Miles aveva azzardato una confessione a sua sorella, forse senza pensare che non fosse al sicuro, e le aveva rivelato un particolare del quale la sua ragazza era all'oscuro.
Non che Emma fosse stupida e non cogliesse le difficoltà che minavano il loro rapporto, ma Lea era stata chiara: di nuovo in crisi. Dato che conosceva alla perfezione ogni loro problema, forse anche quelli più indiscreti, non poteva riferirsi al periodo che aveva seguito il tradimento, altrimenti avrebbe usato altre parole, avrebbe detto ancora. Invece aveva accennato a qualcosa di nuovo, a qualcosa di diverso e che Emma forse non era nemmeno riuscita a distinguere.
Era così furiosa nei confronti di Miles, che stava continuando ad indossare la sua maschera da ottimista e a privarla di una sincerità che invece pretendeva da lei, così piccata da se stessa, che era stata tanto cieca, e faceva così male, che le costò molto fingere indifferenza di fronte a Lea. «Sì, purtroppo non ce la caviamo molto bene» esclamò, distogliendo lo sguardo per non affrontare una discussione su due visioni contrastanti della situazione.
Lea la abbracciò nuovamente, inconsapevole dello screzio appena provocato, e le massaggiò la schiena. «Se non stessi lavorando, ti inviterei a mangiare con noi e ti pagherei tutte le porcate di cui avresti voglia. Il cibo è sempre il miglior rimedio» le disse all'orecchio, cercando di farla sorridere.
Emma la accontentò con difficoltà, accompagnandola al tavolo per potersi allontanare il più in fretta possibile. Presto avrebbe abbassato le sue difese e avrebbe mostrato le proprie ferite agli occhi attenti di Lea, ma sapeva già che sarebbe stata così impegnata da non aver tempo di fermarsi a parlare. A costo di pulire tutte le cucine fino all'indomani.

 
Messaggio inviato: ore 00.12
A: Miles
"Stanotte dormo dai miei"





 


Buoooongiorno e buona domenica :)
Dato che so che alcuni lettori di solito non leggono lo spazio autrice, do subito il piccolo annuncio, che per alcuni non sarà una novità: ho pubblicato un missing moment ambientato tra la fine di Little girl e l'inizio di High hopes, dal punto di vista di Harry! Si intitola "And then what?" (cliccate
qqqqqqui) e mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate :)
Detto questo, passiamo al capitolo! So di essere un po' in ritardo, scusatemi! 
- Harry/Emma: so benissimo che il loro """chiarimento""" è quasi surreale, per come si è svolto e soprattutto se si pensa a come si erano lasciati l'ultima volta, ma è proprio questo il punto :) Infatti lascio a voi i commenti, anche se nel testo ho già lasciato qualche indizio su cosa stia realmente accadendo! Io ho provato a scrivere tutto diversamente, a farli agitare un po' di più, ma quei dannati dei miei personaggi hanno protestato e hanno voluto a tutti i costi che andasse così hahaha Più che altro mi piacerebbe conoscere le vostre interpretazioni della parte finale del loro incontro eheheh Harry che se ne va così, all'improvviso (sai che novità)!!
- Tianna/Emma: finalmente avete la vostra risposta hahah Con Tianna il rapporto è andando logorandosi senza nemmeno un motivo, come spesso capita nelle amicizie nate fra i banchi di scuola. Nessun litigio, nessuno screzio, solo due vite che continuano per conto proprio. Inoltre, ora c'è la paffuta Nikole a rappresentare un degno rimpiazzo :) Non so ancora di preciso lei e Lea che ruolo avranno e che importanza, ma don't worry! Spero non vi siano dispiaciute!
- Miles/Emma: EH! Altri problemi all'orizzonte, dato che Miles si è lasciato sfuggire un po' troppo. Spero sia chiaro il ragionamento di Emma! Secondo voi a cosa è dovuta questa "nuova crisi"? Credete che Harry c'entri qualcosa? Dico solo di ricordarvi che è di Miles che si parla :)
Bene, ho parlato abbastanza, quindi mi dileguo!
Come sempre, grazie infinite di tutto! Nello scorso capitolo ho notato un calo nelle recensioni e, dato che sono uno dei pochi mezzi che ho per avere un confronto su ciò che scrivo, vi chiedo se avete notato qualcosa che magari non vi è piaciuto! Fatemi sapere, sia in positivo, sia in negativo :)


Vi lascio tutti i miei contatti: ask - facebook - twitter 

Un bacione,
Vero.

 
  

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Capitolo 7
*** Capitolo sette - Coherence ***




 

Capitolo sette - Coherence

 

Quella notte, Miles le aveva chiesto spiegazioni tramite Whatsapp e successivamente aveva provato a chiamarla, ma lei l'aveva ignorato per poi spegnere il cellulare. Emma, d'altro canto, non aveva dormito né era riuscita a trovare una posizione che fosse almeno rilassante: i pensieri rimbalzavano energicamente nelle membra stanche, portandola all'esasperazione.
Si era comunque ripromessa di affrontare la questione a testa alta e senza rimandare ulteriormente, nonostante si sentisse estremamente debole: i problemi con Miles la debilitavano oltre ogni misura.
Era quasi ora di pranzo e lei era davanti alla porta del suo appartamento, con il mazzo di chiavi in una mano e l'altra stretta a pugno. Sentiva il vociare sommesso della televisione ed immaginava Miles sdraiato sul divano, con un cipiglio annoiato a fargli compagnia.
Inspirò a fondo ed aprì la porta, entrando cautamente e quasi senza far rumore: non si guardò intorno mentre lasciava la borsa sul tavolino lì affianco, né mentre camminava verso il centro del piccolo salotto. Alzò lo sguardo solo quando intravide la figura di Miles seduta a terra, con la schiena contro il divano e le gambe distese sul tappeto morbido: la stava osservando con gli occhi nervosi di chi non capisce e di chi aspetta una spiegazione. Capelli in disordine ed occhi assonnati, indossava una canottiera grigia ed un paio di boxer scuri: il suo corpo sembrava teso.
«Che succede?» le chiese a bassa voce, senza muoversi.
Emma era ancora in piedi a poco più di un metro da lui: la frustrazione le logorava l'autocontrollo. «Non lo so, volevo chiedertelo io», ribatté piccata.
«Di cosa stai parlando?» La calma nella sua voce le dava sui nervi, nonostante la conoscesse molto bene.
«Ho incontrato Lea ieri sera», rispose allora. «E dovrei ringraziarla, perché è stata lei ad informarmi di una nuova ipotetica crisi tra di noi: strano, vero?»
Miles distolse lo sguardo e sospirò, improvvisamente consapevole dell'argomento che si accingevano ad affrontare. Si passò una mano sul viso e poi dietro al collo, alzandosi in piedi lentamente. «Emma-» esclamò, avvicinandosi di un paio di passi ed allungando una mano verso di lei.
Emma si ritrasse e lo interruppe. «No, Miles», disse seriamente, sostenendo il contatto visivo. «Solo pochi giorni fa mi hai detto che non dovrei tenere nulla per me, perché non è questo che ci eravamo promessi, e poi ti comporti così. Sono io la tua ragazza, non Lea, e dovresti parlare con me di qualsiasi cosa tu stia passando».
«C'è davvero bisogno che te ne parli?» le domandò senza scomporsi, come se si aspettasse che sapesse a cosa si stava riferendo.
Lei corrugò la fronte, confusa. «Certo!» rispose, alzando di poco la voce. «O preferisci fare come l'ultima volta?» lo accusò, con una fitta al centro del petto. A nessuno dei due piaceva ricordare il periodo che li aveva divisi con un abisso di risentimento e colpevolezza, quel tradimento che li aveva spezzati, ma Emma era troppo spaventata per non ricordarlo, per non confrontare le due situazioni. Anche allora Miles le aveva nascosto un momento difficile, che poi l'aveva portato a quel gesto estremo: non gli avrebbe permesso di assumere di nuovo quell'atteggiamento.
«Perfetto», esclamò lui a denti stretti, gesticolando per l'improvviso nervosismo che lo colpì. «Torniamo sempre alla stessa storia. Per quanto tempo ancora vorrai rinfacciarmelo?» La sua voce stava cedendo, stava perdendo la pacatezza che la caratterizzava.
«Fino a quando continuerai a comportarti allo stesso modo!» replicò Emma, avvicinandosi di un passo. Non poteva sopportare un replay così sgradevole, un silenzio che le sembrava troppo minaccioso.
«Allo stesso modo?!» sbottò Miles, reagendo sul serio. «Non mi sembra di averti tradita, ho solo parlato con mia sorella!» Nonostante nella maggior parte delle situazioni riuscisse a mantenere un certo auto-controllo, appoggiandosi alla sua razionalità e mettendo da parte gli istinti, c'erano dei piccoli particolari che erano in grado di farlo vacillare.
«Sì, ma di cosa?!» urlò Emma in risposta. «Perché devi tenerti tutto dentro? Non avevamo deciso di parlare di qualunque problema? Di evitare di arrivare di nuovo a quel punto?!»
«Credi davvero che potrei ripetere quell'errore?! Cristo, Emma, a volte n-»
«Nemmeno la prima volta pensavo che tu potessi esserne capace, eppure guarda cos'è successo!» lo interruppe, ansimando. La paura ed i ricordi la stavano monopolizzando, guidando le sue parole ed i suoi pensieri, mentre il suo metro di giudizio si annebbiava. La sua reazione forse era esagerata, ma spontanea ed irrefrenabile: provava ribrezzo per la persona che era diventata, per il timore che riusciva a paralizzarla e che tempo prima avrebbe schiacciato senza alcuno sforzo.
Miles serrò la mascella e non ribatté, forse ferito dalla verità appena uscita dalla bocca di Emma. Lei sapeva quanto il loro passato lo tormentasse, minacciandolo con il senso di colpa e spronandolo a non commettere più gli stessi sbagli, ma non riusciva a paragonare i due tipi di dolore, né a compatirlo fino in fondo.
«Perché mi hai chiesto di tornare a vivere insieme, se poi dici che siamo in crisi? Cos'è, uno stupido modo per aggiustare le cose?» lo accusò. «Ed io che pensavo che lo volessi perché stava andando tutto meglio, finalmente», continuò, abbassando il tono di voce ed anche l'orgoglio.
«Anche se fosse un modo per aggiustare le cose, sarei davvero da biasimare?» ribatté lui.
No, non lo sarebbe stato, o almeno non del tutto: in fondo, era un tentativo di averla ancora più vicina, tra le lenzuola e la mattina a colazione. Eppure, lei era stordita dal fraintendimento del quale era stata vittima: aveva creduto che il loro rapporto si stesse lentamente risanando e che quindi lui volesse compiere di nuovo quel passo, ma aveva capito male.
«È per Harry?» domandò Emma, tirando ad indovinare la causa di quella situazione. Forse ne era rimasto turbato, forse si era preoccupato nel vederla tanto sconvolta dopo il loro litigio. «È per lui che-»
Miles corrugò la fronte e la sua espressione si macchiò di incredulità, mista ad una punta di disprezzo. «No, lui non c'entra niente», esclamò duro. «Ma forse dovrei preoccuparmi, dato che fra tutti i problemi che abbiamo lui è il primo che ti è venuto in mente».
Emma trattenne il fiato e si irrigidì, colpita da quell'affermazione dalla quale non sapeva come difendersi: quella domanda le era sorta spontanea, senza nemmeno bisogno di formularla in precedenza, ma non era realmente fondata su un rischio. Semplicemente, l'arrivo di Harry era l'unica cosa diversa che avrebbe potuto segnare in modo negativo il rapporto con Miles: accecata dalle parole di Lea - di nuovo in crisi - e credendo che non ci fossero stati cambiamenti significativi, quella era l'unica variante che le era venuta in mente.
O almeno sperava fosse così.
«Ti sbagli», si affrettò a contraddirlo. «Ti ho chiesto di lui solo perché il resto mi sembra uguale a prima».
Miles la guardava con sospetto. «E non capisci che è proprio questo il punto?» le domandò, lasciando da parte Harry ed il suo ruolo marginale: era sempre stato bravo a perseguire le proprie priorità.
Il cuore di Emma batteva forte, arrancando per una paura che era stanco di sopportare. «Perché non mi dici semplicemente cosa non va?» lo pregò piano, sia con le parole che con le iridi. In cosa stava sbagliando?
Lui si inumidì le labbra e respirò profondamente, appoggiandosi le mani sui fianchi magri e poi arrivandole a pochi centimetri di distanza. In silenzio, le prese una mano e la strinse delicatamente, in un contatto semplice e forse di conforto. «Tu stai scivolando via», sussurrò. «Ed io non riesco più a tenerti».
Lei sentì gli occhi bagnarsi di una patina di dolore, ma si trattenne dal lasciarsi condizionare. Ecco perché aveva parlato in quel modo a Lea: si era accorto di non aver ancora allontanato i fantasmi che li tormentavano, nonostante a volte avessero l'impressione di essersene liberati. Si era accorto di essere di nuovo al punto di partenza.
«Sono passati quattro mesi, ma siamo ancora qui», riprese a bassa voce, con una tale intensità da renderla inerme. Era strano pensare a quanto fosse relativamente recente la ferita con la quale credeva di combattere da tutta una vita. «Mi guardi ancora in quel modo ed io non sono ancora riuscito a... Farti stare meglio», concluse con un respiro spezzato.
Emma quasi si aggrappò alla sua mano, per resistere al peso di quelle parole e del loro significato: non era del tutto vero, perché il dolore si era un po' affievolito, rispetto a quattro mesi prima. Solo un po', ma era già qualcosa.
«Non ti fidi di me», riprese Miles. «Hai ancora paura che io possa andarmene da un momento all'altro e me lo dimostri in continuazione, persino se non sono geloso di qualcuno che osa guardarti. E lo so che è normale, che ti serve del tempo, ma non so più cosa fare», continuò piano, sfiorandole la pelle con il suo respiro e specchiandosi nei suoi occhi lucidi. «Cosa devo fare, Emma?»
Lei singhiozzò sommessamente, in un disperato tentativo di non piangere, non per l'ennesima volta. Tirò su con il naso e sentì la gola bruciare per lo sforzo, mentre il viso di Miles si deformava a causa delle lacrime che le velavano le iridi. «Non lo so», disse soltanto. «Io non lo so», ripeté, mentre faceva ancora un po' più male.
Non poteva dargli una risposta soddisfacente, perché non ne aveva una: con tutta se stessa avrebbe voluto rivivere la loro storia, quella che l'aveva di nuovo fatta vivere a pieno, che l'aveva plasmata inesorabilmente, ma non sapeva come avrebbe potuto fare e si sentiva troppo debole per cercare una soluzione. Era difficile mantenersi intera, troppo difficile per poter pensare ad altro.
Miles appoggiò la fronte alla sua e chiuse gli occhi, con le labbra socchiuse. Emma serrò le palpebre e respirò il suo profumo, cercando di controllarsi: non sapeva cosa dire, come muoversi, né dove guardare, ma fu lui a guidarla. Le circondò il corpo con le braccia delicate e nascose il viso tra i suoi capelli mossi, lasciandole un bacio prolungato sul collo sottile.
Restarono così per un po', in cerca di conforto.
 
 
 
Emma stava tornando a casa, dopo aver pranzato con Miles e dopo averlo salutato mentre lui si preparava per andare a lavoro: ricopriva il ruolo di segretario in un ufficio commerciale, ruolo che gli dava ben poche soddisfazioni e che non era retribuito a dovere.
Non avevano parlato molto, anzi, si erano circondati di silenzi fino a trovarsi a proprio agio: cosa avrebbero potuto dirsi? Ma si erano guardati e studiati, comunicando tramite una carezza casuale o un sorriso accennato. Lei non era ancora riuscita a sbarazzarsi del peso sul proprio petto, quello che le ricordava di avere il cuore bloccato a quattro mesi prima, nonostante Miles cercasse in tutti i modi di farlo ripartire e nonostante lei lo volesse con tutta se stessa.
Camminando lungo il marciapiede, ormai ad un chilometro scarso da casa, fu distratta dalla suoneria del proprio cellulare.
 
Un nuovo messaggio: ore 14.33
Da: Harry
"Forse ho trovato un appartamento decente: vieni a vederlo con me?"
 
Emma sbatté più volte le palpebre e rise, rise di gusto e sentendosi parte di uno scherzo piuttosto dispettoso. Nemmeno Harry doveva essere cambiato significativamente, se era ancora in grado di essere tanto lunatico ed imprevedibile: l'aveva lasciata al Rumpel senza una parola o una spiegazione, per poi ricomparire il giorno dopo con un messaggio pacifico e privo di qualsiasi risentimento.
L'incredulità le faceva da padrona e, se in un'altra occasione avrebbe semplicemente risposto in modo piccato, in quel momento sentiva la necessità di accogliere il suo invito, solo per potersi sfogare una volta che si fossero incontrati: la tensione derivante dalla discussione con Miles fungeva da carburante per qualsiasi suo altro istinto.
 
Messaggio inviato: ore 14.36
A: Harry
"Dammi l'indirizzo"
 
 
 
L'appartamento era vicino al centro di Bradford, in una via a senso unico poco trafficata e poco rumorosa: l'edificio era di circa sei piani, dall'intonaco bianco sporco e con gli infissi in legno scuro. Sembrava di costruzione piuttosto recente, anche se le tegole del tetto apparivano leggermente rovinate: probabilmente era frutto di una ristrutturazione.
Harry la stava aspettando davanti al portone d'ingresso, appoggiato con le spalle al muro e con il capo chino: indossava un maglioncino leggero, in cotone grigio, e dei blue jeans aderenti. I capelli sciolti e ancora troppo lunghi.
«Hey», lo salutò, avvicinandosi ed annunciando la propria presenza.
Lui si riscosse e spostò lo sguardo su di lei. «Ciao», rispose, inclinando le labbra umide in un sorriso.
Emma corrugò la fronte e valutò ogni possibilità, poi abbassò il capo scuotendolo appena e si lasciò di nuovo contagiare da una lieve risata allibita. «Sul serio?» domandò soltanto.
Harry alzò un sopracciglio. «Cosa?»
«Te ne vai in quel modo e poi mi chiedi con tranquillità di accompagnarti a vedere il tuo nuovo appartamento?» gli spiegò, nonostante potesse immaginare che lui già sapesse a cosa si stava riferendo. «Non potresti essere più coerente di così».
Il suo tono era duro, forse anche troppo, ma era forzato dall'agitazione che le tendeva ogni singolo muscolo, fino a farla sentire al limite della propria resistenza: sapeva che avrebbe potuto reagire in un altro modo, sicuramente più pacato e maturo, ma sapeva anche che avrebbe dovuto buttar fuori il malessere, o ne sarebbe stata divorata. Harry, semplicemente, sembrava un valido mezzo per il proprio fine.
«Perché ti lamenti, se sei qui?» replicò lui, tra il contrariato ed il cauto. Sembrava di essere tornati a quando le ripeteva che era tutto nelle sue mani, che non avrebbe dovuto disprezzare le conseguenze delle proprie azioni se era stata tanto decisa a provocarle.
Emma si lasciò sfuggire una smorfia di disprezzo, leggera ma visibile. «Sei impossibile», borbottò a denti stretti, voltandosi per allontanarsi. Perché aveva deciso di incontrarlo? Perché gli aveva dato un'altra opportunità di avere ragione e di farla sentire un'ingenua? Perché si era messa in quella situazione con le sue stesse mani?
Harry le afferrò il braccio destro e la costrinse a voltarsi. «Va bene», esclamò in un sospiro, senza mollare la presa. «Hai ragione. Non avrei dovuto lasciarti lì in quel modo, ma-»
«Perché l'hai fatto?» lo interruppe.
«Perché tu avevi appena ammesso che se non fosse stato per il tuo ragazzo, non avresti avuto il minimo interesse a vedermi», le rispose con ovvietà, corrugando la fronte. In realtà la sua reazione era stata dettata da un'altra frase in particolare, ma nessuno dei due ci fece caso.
«Non ho detto esattamente questo e non puoi davvero pensare che io fossi impaziente di discutere ancora una volta, perché sappiamo entrambi che era molto probabile che accadesse. Ho anche altri problemi di cui occuparmi», specificò, mordendosi nervosamente un labbro. Stava perdendo il proprio auto-controllo.
Solo a quel punto Harry interruppe il contatto che si era prolungato più del previsto. «Be', mi dispiace essere solo un altro problema nella tua lista», ribatté offeso.
Emma sospirò e distolse lo sguardo: ogni volta che apriva bocca peggiorava la situazione.
«Che ti prende?» domandò Harry dopo una manciata di secondi, ammorbidendo la voce e rendendola quasi preoccupata. Doveva essere evidente quanto lei fosse sconvolta, nel suo piccolo, e probabilmente lui era disposto a lasciar correre l'ultimo screzio, giustificandolo.
«Non è una delle mie migliori giornate», sussurrò Emma, stringendosi nelle spalle e non guardandolo. «Mi dispiace», aggiunse poi, sentendosi in dovere di assumersi le proprie responsabilità. Si stava comportando scorrettamente.
Dopo diversi istanti passati in silenzio, lei alzò lo sguardo sul suo viso solo per carpirne l'espressione, dato che non le era stata concessa una risposta: Harry aveva le labbra schiuse ed il respiro leggero, con gli occhi concentrati e forse stupiti da quelle che assomigliavano a delle scuse.
Emma accarezzò l'idea di porre fine a quell'incontro, per poter ristabilire un equilibrio e per evitare ulteriori danni, eppure non si sentiva a suo agio nella possibilità di rimanere sola: preferiva tenere la mente ed il corpo occupati, forse sperando di poter trovare una valida distrazione dai suoi stessi pensieri. «Entriamo?» chiese quindi, a bassa voce e con un tono che doveva sembrare una proposta di tregua, una supplica.
Harry rilassò l’espressione e le sue labbra le dedicarono un lieve sorriso, prima che lui infilasse le chiavi nel portone.
 
L'agente immobiliare gli aveva lasciato l'opportunità di mettersi a proprio agio in quella che probabilmente sarebbe diventata la sua casa, chiedendogli di prendere una decisione al più presto, per evitare la possibilità che in qualcun altro nascesse il suo stesso interesse.
L'appartamento era al quarto piano e vi erano arrivati usando il piccolo ascensore al centro delle rampe di scale in marmo ormai vecchio: non era molto grande, comprendeva solo un salotto con cucina ad angolo, un bagno e due camere, ma gli spazi erano ben distribuiti ed illuminati da ampie finestre che davano sulla strada.
Mentre Harry le mostrava ogni angolo, fantasticando su come avrebbe potuto arredarlo, il rumore dei loro passi veniva amplificato dal vuoto che li circondava.
«Allora, che ne pensi?» le domandò alla fine, con aria soddisfatta.
Emma si guardò ancora intorno, al centro di una delle due camere. «Mi piace», ammise con un debole sorriso. «E da come ne parli, sembra che piaccia molto anche a te».
«Non è una reggia, certo, ma costa poco ed è quasi in centro», si giustificò Harry, mentre lei si avvicinava alla finestra e sbirciava all'esterno. «E non puzza di piedi o di spazzatura come gli ultimi che ho controllato», aggiunse, ridendo sommessamente.
Lei aveva smesso di ascoltarlo, senza nemmeno rendersene conto: si sentiva talmente ridicola da vergognarsi profondamente. L'incontro con Miles l'aveva colpita più di quanto si sarebbe aspettata e più di quanto fosse logico, ponendola di fronte ad un groviglio di problemi ed emozioni che non riusciva a sciogliere né ad accettare: ad ogni respiro che compiva, pensava a quanto fosse tutto sbagliato e a quanto lei fosse debole.
Harry fece qualche passo verso di lei, lentamente e con la consapevolezza di avere a che fare con qualcosa di incompreso. «Dimmi cosa ti sta succedendo», esclamò alle sue spalle, in un imperativo che non poteva risultare brusco. Non la stava toccando, ma era come averlo addosso. La voce morbida.
Emma non rispose, ma chiuse gli occhi per un lungo istante, poi si voltò lentamente per poterlo guardare negli occhi e per mostrarsi, anche senza le parole. Era sul punto di cedere e, sebbene non volesse farlo, ne sentiva un impellente bisogno.
Lui aspettò in silenzio, forse impaziente ma impegnandosi per non darlo a vedere, e la osservò mentre si faceva scivolare contro la parete fredda, per sedersi a terra e raccogliere al petto le ginocchia piegate: aspettò ancora, sbattendo le palpebre per confrontarsi con la debolezza che gli veniva offerta con difficoltà, e la imitò, prendendo posto alla sua destra e sospirando piano.
Emma lo sentì sistemarsi un po’ meglio, ad una distanza che gli permetteva di sfiorarla e con le gambe distese sul pavimento, e nascose il viso tra le proprie ginocchia. Accadeva raramente che la stanchezza fosse così insopportabile da portarla ad un tale stato di passività, ma quando accadeva, le era difficile reagire e farsi forza, perché non riusciva a trovarne. Le capitava di estraniarsi dal suo ruolo e di trovarsi di fronte ad una realtà che, proprio come un attore, aveva provato a dimenticare: l’impatto era così devastante da spegnere qualsiasi suo desiderio di riscatto.
Quella consapevolezza la spinse a mancare un respiro per trattenere le lacrime, ma non riuscì nel suo tentativo di resistere e dovette arrendersi alla sua necessità, per quanto la disprezzasse.
Harry dovette accorgersi del singhiozzo sommesso che si lasciò scappare, perché si avvicinò lentamente, circondandole con un braccio il corpo scosso e appoggiando le labbra tra i suoi capelli, per consolarla tramite un bacio leggero. La toccava come se non avesse mai smesso di farlo: sapeva come e dove premere per ottenere una reazione e magari un sollievo, con quale delicatezza sfiorarla e con quale decisione proteggerla. Ed Emma, che forse si sarebbe presto pentita di essersi mostrata tanto fragile, accolse i suoi semplici gesti per trarne del sollievo: si sentì autorizzata ad abbattere le esitazioni che cercavano di trattenere il suo sfogo.
Pianse.
Dopo qualche minuto, Harry aveva il capo appoggiato alla parete e lei era stretta contro il suo petto, come una bambina incapace di sorreggersi da sé. Per quanto fosse strano un contatto del genere, non era nelle sue intenzioni interromperlo: ne avrebbe approfittato, sperando di poterne ricavare un aiuto.
«Sei mai stato tradito, Harry?» gli domandò in un sussurro, mentre una mano stringeva il suo maglioncino grigio nel proprio palmo e l’altra un fazzoletto usato. Non poteva vedere il suo viso, né decifrare i suoi occhi, ma cercava di immaginare tutti quei particolari.
Lui non rispose, forse perché sapeva che non ce n’era bisogno.
«Io sì e non… Non riesco a dimenticarlo», continuò infatti Emma, con gli occhi che si arrossavano un po’ di più. Lo sentì irrigidirsi appena, muoversi impercettibilmente in reazione a quelle parole e forse anche serrare la mascella: riusciva a contare i suoi respiri, i movimenti regolari del suo petto.
«Quando è successo?» le domandò soltanto, a bassa voce. Il suo braccio sinistro le stava ancora circondando le spalle, mentre la mano destra era posata su una delle sue gambe, leggera e familiare.
«Quattro mesi fa», mormorò lei, colma di vergogna: quattro mesi ed era ancora tanto patetica, avvolta in un dolore che stava avendo la meglio. «Il solito momento difficile, la solita ragazza che ci prova un po’ troppo… Il solito, banale tradimento», continuò con rabbia, mentre una nuova lacrima le solcava una guancia. Una storia così ordinaria e apparentemente insignificante, che le faceva provare disgusto.
Dopo più di un anno di relazione, stabile e sfociata nella convivenza, Emma credeva che fossero felici e che niente avrebbe potuto dividerli, eppure Miles l’aveva esclusa dai suoi reali pensieri: aveva tentato di aggiustare ciò che provava senza coinvolgerla e senza farla preoccupare, sforzandosi di nascondere un momento di debolezza del quale non si capacitava. Nemmeno lui riusciva a decifrarlo, a trovare una causa a quel dubbio riguardo la loro storia, perché stava andando alla grande e perché non le mancava niente. Eppure, una sera era uscito con i suoi amici – senza sapere che sarebbe stata presente anche Margaret, quella ragazza sulla quale più volte Emma aveva espresso il suo giudizio negativo, mettendolo in guardia e dimostrando una forte gelosia – e si era ubriacato. Aveva bevuto così tanto da confondere una momentanea insoddisfazione con una tragica verità, da pensare che Margaret avrebbe potuto distrarlo anche solo per poco.
Miles non era tornato a casa, quella notte, ripresentandosi solo il mattino dopo: Emma era rimasta ad aspettarlo per ore, dopo essersi svegliata e non averlo trovato al proprio fianco, dopo averlo chiamato ripetutamente al cellulare, con la preoccupazione a rubarle il sonno.
«Come l’hai scoperto?» indagò Harry, prendendo ad accarezzarle la gamba. La sua voce nascondeva una buona dose di emozioni, che però lei non voleva decifrare.
Emma chiuse gli occhi ed attese qualche istante. «Me l’ha detto lui», rispose piano. «Il giorno dopo».
Ricordava alla perfezione quel momento, come se per lei costituisse un eterno presente. Ricordava le parole usate e la forma delle sue labbra mentre le pronunciava. I suoi occhi colpevoli e la camicia stropicciata, che profumava di un’altra.
Miles avrebbe potuto nasconderle l’accaduto e circondarla di ignoranza, ma aveva preferito essere sincero ed ammettere quell’errore che lo stava torturando: non era uno stupido e sapeva di aver sbagliato nel peggiore dei modi. Non aveva nemmeno provato a giustificarsi, perché non avrebbe saputo come farlo, accettando le grida di dolore di Emma e combattendo solo fin dove gli era concesso. Persino nel tradimento era riuscito a comportarsi con dignità.
«Io so che mi ama, so che non ha mai fatto nulla con l’intenzione di ferirmi e so che sta provando con tutte le sue forze a rimediare, ma non… Non ci riesce, perché io stessa non glielo permetto», riprese Emma. Doveva sembrare un’illusa, agli occhi di Harry, ma lui non poteva conoscere la loro storia fino al punto di poterla giudicare: solo Emma sapeva dell’onestà di Miles, smorzata da un unico momento di difficoltà in due anni. Solo lei sapeva dei suoi sentimenti e dei suoi tentativi di ricucire il loro rapporto, che altri avrebbero cessato molto prima. «Ed io non ce la faccio più, non voglio più sentirmi così. Voglio fidarmi di nuovo, voglio potergli dire che può anche smetterla di sforzarsi così tanto perché ormai va tutto bene, ma non so quando ci riuscirò».
Trattenne altre lacrime, imponendosi di smettere di piangere e di riacquistare una certa fierezza, e sentì la mano di Harry ritrarsi dalla propria gamba, il suo respiro intensificarsi di poco. Non sapeva a cosa stesse pensando, quali giudizi stesse formulando, ma aspettò che lui la rendesse partecipe di ciò che lo stava attraversando, proprio come lei aveva appena fatto.
Tutto quello che ottenne, però, fu un lungo silenzio.
«Non dici niente?» gli domandò allora, sussurrando.
«Meglio di no», rispose lui, troppo duramente.
Emma corrugò la fronte e fece leva sul suo petto per raddrizzarsi, per sedersi al suo fianco senza distogliere lo sguardo dal suo viso teso. Finalmente poteva vedere i suoi occhi turbati, i lineamenti nervosi e le labbra serrate in una forma rigida.
«Perché no?» chiese tirando su con il naso, mentre si asciugava gli occhi con il fazzoletto di carta.
Harry abbassò il capo e lo scosse con un sorriso incredulo, sospetto. «Non posso credere che tu voglia davvero perdonarlo», esclamò, alzando lo sguardo su di lei ed avvelenandola con le sue sfumature. «Ti ha tradita», ripeté lui, come se cercasse di rendere più chiaro il concetto.
«Credi che non lo sappia?» ribatté Emma, sulla difensiva. «Sarò anche patetica in questo momento, ma non sono stupida e so se qualcuno può essere perdonato o se se lo merita. Tu non puoi parlarne come se ci conoscessi, come se conoscessi lui», aggiunse con più enfasi, difendendo le proprie scelte e Miles, mentre Harry si alzava e si passava una mano tra i capelli.
«Va bene, allora parliamo di noi», esclamò nervoso, guardandola con irrequietezza.
«Questo cosa c’entra adesso?» gli chiese lei, restando seduta a terra e macchiandosi di confusione.
«C’entra, perché proprio non capisco come tu abbia fatto a tornare con lui, come tu possa anche solo pensare di poter perdonare una persona che ti ha tradito, quando con me non hai nemmeno voluto provarci!» urlò gesticolando.
Emma sbatté più volte le palpebre, allibita da quelle parole inaspettate e da un rancore improvviso. Scattò in piedi e gli si avvicinò di un passo. «Immaginavo che avresti trovato qualcos’altro da rinfacciarmi! Perché diavolo ti ho creduto quando hai detto di voler chiudere questa storia, visto che ora sei ancora qui a-»
«Volevo davvero metterci una pietra sopra, ma non avevo ancora capito quanto tu sia incoerente!» la interruppe, in preda alla rabbia. «Piangi tra le mie braccia parlandomi del tuo perfetto ed innamorato ragazzo, che non è altro che uno schifoso traditore, e non pensi nemmeno per un secondo che forse è tutto sbagliato!»
«Non osare parlare di lui in questo modo!» lo ammonì gridando. Era impossibile spiegare a qualcuno di esterno ciò che provava nei suoi confronti. «Come se tu fossi perfetto!»
«Io non ti ho mai tradita, né ho mai tradito nessun altro! E guarda che ironia, tu non puoi sapere quanto io possa essere perfetto in una relazione, dato che non mi hai neanche dato la possibilità di dimostrartelo!» le urlò contro, aggrappandosi di nuovo al loro passato. Quella era la dimostrazione di come entrambi si fossero illusi di poterlo accettare senza ulteriori discussioni, la dimostrazione di come entrambi avessero finto di poterci passare sopra.
«E tu non puoi sapere quanto io sia cambiata, quindi smettila! Pensi davvero di poter tornare qui e giudicare la vita di tutti, senza nemmeno fermarti a riflettere sul fatto che non si è bloccata a quando tu te ne sei andato?!»
«Cosa dovrei fare?! Fingere che tutto questo mi vada bene?» gridò Harry di rimando. «Mi dispiace, ma non è così! Mi fa terribilmente incazzare il fatto che tu voglia dare una possibilità a qualcuno che ti ha ferita così tanto, se a me non hai nemmeno concesso di amarti!»
«Avevo quindici anni, Cristo santo!» precisò Emma, stanca delle continue accuse e delle infinite critiche. Erano passati sei anni, il suo modo di vivere le relazioni ed i sentimenti era cambiato. «E te lo ripeto anche ora, tu non mi avresti mai amata!»
Harry la osservò con le labbra schiuse ed il petto ansimante, gli occhi sottili per il rancore. «Non pensavo che saresti mai arrivata al punto di giustificare con l’età una tua decisione», sibilò a denti stretti, colpendola nel profondo. Emma non aveva mai fatto dei suoi quindici anni una scusa per le sue azioni, li aveva sempre distaccati da ciò che realmente era: eppure, in quel momento aveva dovuto difendersi per una verità che non era disposta a concedergli, perché era difficile ammetterla persino a se stessa.
«Complimenti», ribatté lei con stizza, piegandosi per recuperare la borsa da terra. «Hai appena trovato qualcos’altro per cui criticarmi», concluse con lo sguardo nel suo, prima di voltarsi per andarsene. Non sarebbe rimasta un minuto di più in quell’appartamento, non al suo fianco.
 
 
 
«Secondo me dovreste solo sfogare la vostra tensione sessuale», sospirò Louis, masticando rumorosamente una nuvola di drago. Era sdraiato su un fianco sul tappeto, con una mano a sostenersi il capo ed un sorriso divertito sul volto.
Erano le dieci passate di sera: Emma era riuscita a raccogliere i suoi più cari amici in una specie di gruppo di sostegno, all’insegna di maratona di film horror e cibo spazzatura da sgranocchiare.
«Un appartamento vuoto aspetta solo di essere inaugurato, si sa», rincarò Nikole, con malizia e sporgendosi verso di lui per rubargli una patatina. Era seduta sul divano di casa sua, scalza e con indosso un pigiama a pois relativamente imbarazzante.
«Ammetto che è abbastanza eccitante, lo dico per esperienza», le rispose l’altro.
«Siete dei ninfomani», borbottò Pete, dall’altro lato del divano e con un’espressione disgustata, ma comunque arresa. La gamba ingessata appoggiata sul tavolino che gli stava di fronte.
Emma sospirò sonoramente ed incrociò le gambe, sfiorando quelle duei due amici tra i quali era seduta. «Vi ricordo che il mio fidanzato è un altro», ci tenne a precisare. «E tra me ed Harry non c’è nessuna tensione sessuale».
«Che c’entra?» domandò saccentemente Louis. «Anche io sono ufficialmente fidanzato con Aaron, ma il suo culo non è il solo che conosco».
«E questo è il motivo per cui Aaron ti lascerà da un momento all’altro», ribatté Emma, tirandogli addosso uno dei piccoli cuscini quadrati del divano. Non capiva ancora come facesse ad essere così insensibile nei confronti del ragazzo che più teneva a lui: anzi, forse non era insensibile, semplicemente non si accorgeva del reale significato delle sue azioni, perché gliene attribuiva uno completamente diverso.
«Ha ragione», esclamò Nikole, annuendo convinta. «Non puoi essere così stronzo, io ti avrei già mandato a quel paese».
«Motivo per il quale a me piacciono gli uomini», scherzò il diretto interessato, per niente toccato dalle critiche che stava ricevendo. Nulla avrebbe potuto fargli cambiare la propria visione delle cose.
«Dovresti venire a letto con me», lo invitò lei, alzando un sopracciglio e rivolgendogli un provocante occhiolino.
Louis rise a bocca piena. «Mi dispiace, ma a meno che tu non abbia un pendente in mezzo alle gambe, sono sicuro che non mi piacerebbe», le rispose consapevole.
E mentre i due andavano avanti con battute e sorrisi divertiti, Pete diede una leggera spallata ad Emma, in modo da ottenere la sua attenzione. «Kent, ti faccio solo una domanda», le disse a bassa voce, seriamente. «Perché hai parlato per tutto il tempo di Harry?»





 


Buonasera e... Sorpresa?? hahah
Giuro che fino a mezz'ora fa avevo tutte le intenzioni di aspettare domenica, o almeno domani, ma si sa che sono poco attendibile in queste cose. In ogni caso, sono abbastanza sicura che a voi non dispiaccia ahhaha
Andiamo sempre per punti, che è meglio:
- Miles/Emma: io spero davvero che almeno con questo capitolo voi abbiate cambiato idea su Miles. A me personalmente piace moltissimo come personaggio, non è nulla di quello che voi pensate (arrogante, montato o troppo sicuro di sé), anche se capisco che la prima impressione non possa essere ignorata: come avevo già detto a qualcuno, probabilmente lo vedete in questo modo perché non avete avuto tempo di conoscerlo e perché siete capitate nel bel mezzo delle dinamiche di una coppia già fatta e consolidata, dove molte cose sono scontate o già affrontate. Inoltre, non potete dirmi che Harry in LG non fosse ugualmente arrogante, montato e sicuro di sé ahhah
La "nuova" crisi non è altro che la riaffermazione della vecchia, dato che Miles si accorge di quanto siano inutili tutti i suoi sforzi: Harry non c'entra! C'entrerà?
Riguardo il tradimento, ho dovuto pensarci su per un po': ho davvero cercato di trovare una "motivazione" più profonda al gesto di Miles, ma ho dovuto arrendermi all'idea che spesso i tradimenti non rispettano la razionalità, anche nelle relazioni più stabili. Quando Emma definisce ciò che è successo il "solito, banale tradimento" è proprio quello che io avevo in mente: nessuna storia complicata alle spalle, nessun grandiosità. Spero sia chiaro cosa intendo e che sia riuscita ad assicurarvi che comunque Miles ama Emma, a prescindere da quello che ha fatto. Ha sbagliato e ne è consapevole, ha confessato subito e non ha cercato in alcun modo di giustificarsi, impegnandosi solo a rimediare. Insomma, aspetto i vostri pareri :)
- Harry/Emma: per chi mi aveva chiesto di descrivere questo capitolo con una parola, io ho detto "finalmente" non per baci o chissà cos'altro, ma perché finalmente sono veramente di nuovo loro. Con questa scena mi è sembrato di tornare a LG più di ogni altra volta e spero che a voi abbia dato la stessa impressione!
La loro discussione alla fine penso sia abbastanza chiara e penso anche che molte di voi daranno ragione ad Harry, ma io vi chiedo di sospendere per un attimo il giudizio o per lo meno di avere una visione più ampia delle cose, analizzando sì le scelte di Emma, ma anche il comportamento di Harry. Vi avevo già detto di non condannare subito Emma per la decisione di perdonare Miles, ma vediamo se mi ascolterete o se farete come Harry :)
Scusate se non scendo nei dettagli, ma non voglio spoilerare!!
Ah, in questo capitolo emerge davvero la debolezza di Emma, molto più marcata rispetto al passato: cosa ne pensate?

Ho parlato davvero troppo, scusate ahhaha Come ultima cosa, vi ringrazio moltissimo, come sempre! E vi chiedo di farvi sentire, di esprimere i vostri pareri e di non "scomparire" nel nulla se qualcosa non è di vostro gradimento: se vedo che le recensioni diminuiscono, non posso che pensare che qualcosa non vada nella storia, quindi piuttosto scrivetemi anche in privato, se smettete di seguirla, ma fatemi sapere hahaha


Vi lascio tutti i miei contatti: ask - facebook - twitter 

Un bacione,
Vero.

 
  

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Capitolo 8
*** Capitolo otto - All the other human beings ***




 

Capitolo otto - All the other human beings

 

Era così smaniosa di porre fine alla propria impazienza da non averlo nemmeno avvertito: si era semplicemente alzata dal letto frettolosamente, con l’orologio che segnava le 10.23 am, senza preoccuparsi di cambiarsi e di sostituire la tuta leggera che indossava o la canottiera bianca un po’ troppo scollata, e si era precipitata fuori di casa, con il viso struccato ed i capelli quasi in disordine. Aveva guidato fino a casa sua e aveva approfittato di un inquilino appena uscito dal portone per potersi intrufolare all’interno, senza annunciare la propria presenza. Aveva percorso le rampe di scale senza fermarsi, accelerando il proprio respiro, e si era arrestata solo davanti alla porta in legno che le interessava.
In quel momento, immobile e con i pugni serrati per l’adrenalina, si sentiva pronta ad un reale confronto, privo di qualsiasi debolezza l’avesse affetta il giorno precedente: osservò il campanello decorato dal nome “Adam Styles” e lo suonò senza alcuna esitazione. Le piaceva quel suo nuovo impeto, quel sentirsi inarrestabile.
La porta venne aperta dopo un minuto buono, tanto da farle temere che la casa fosse vuota, e sulla soglia comparve un uomo dalla schiena leggermente curva e gli occhi di una forma familiare, bruni: i suoi capelli ormai radi sfumavano sul grigio, nonostante il viso dimostrasse una certa tonicità, forte dell’assenza di rughe marcate o di segni evidenti di vecchiaia. Il padre di Harry doveva avere all’incirca cinquant’anni ed i suoi lineamenti testimoniavano una passata bellezza, sfiorita con il tempo.
Gli somigliava molto: gli aveva donato le labbra ed il cipiglio sulla fronte.
«Buongiorno», disse subito Emma, improvvisando un sorriso cordiale: aveva considerato la possibilità di essere accolta da lui, ma non l’aveva valutata come un ostacolo significativo. Era la prima volta che incontrava Adam, nonostante i mesi di relazione che l’avevano legata ad Harry. In quel periodo non si era mai sentita pronta per quel passo e lui non aveva mai premuto affinché lo compisse.
«Buongiorno a te», rispose l’uomo, vagamente divertito.
«Mi chiamo Emma», si presentò, porgendogli una mano che lui non esitò a stringere educatamente. «Stavo cercando Harry. Sono…. Una sua amica», continuò, sforzandosi di adattarsi a quella definizione dovuta ma non esatta. Sperava che il suo viso non si fosse lasciato sfuggire l’estraneità nei confronti di quelle parole e si frizionò i capelli lisci con una mano.
«Oh, certo», acconsentì Adam. «Te lo chiamo subito, credo sia in camera sua a fare non so cosa. Puoi entrare ed accettare qualcosa da bere, se ti va», continuò gentilmente.
Emma scosse la testa, affrontando una purezza di intenzioni che non sempre poteva essere riconosciuta nel figlio. «La ringrazio, ma preferisco aspettare qui».
«Insisto», esclamò lui, spostandosi per aprire del tutto la porta e per invitarla ad entrare. «Io sto uscendo, quindi non disturberò».
«Non sarebbe affatto un disturbo, i-»
«Avanti, non farti pregare», la interruppe. La stessa determinazione di Harry nel perseverare.
Lei sospirò e gli rivolse un sorriso cordiale, ma insicuro: quell’appartamento non la metteva a proprio agio, perché era una culla di ricordi ed una distrazione per i propri intenti. Nonostante la sua riluttanza, decise di accogliere l’invito e fingersi forte: non voleva più cedere a sciocche premure, voleva resistere.
«Harry, c’è qualcuno che ti cerca!» chiamò Adam ad alta voce, mentre Emma faceva i primi passi nel salotto e lui le richiudeva la porta alle spalle. L’arredamento era solo più spoglio rispetto a come lo ricordava, ma non meno vissuto: ogni mobile ed ogni altro particolare sembrava essere stato lasciato nella stessa posizione per farle un dispetto, solo la televisione era stata sostituita con un modello più moderno. Nell’aria, c’era ancora profumo di caffè.
«Posso lasciarti da sola per qualche istante?» le chiese l’uomo, affrettandosi a recuperare una leggera giacca dalla poltrona nell’angolo. «Devo proprio scappare! Fa’ come se fossi a casa tua, Harry arriverà subito», le spiegò velocemente. «Harry!» gridò ancora una volta, per rinforzare la sua pretesa.
«Non si preoccupi, buona giornata», lo salutò Emma, immobile al centro della stanza, mentre Adam le sorrideva ed usciva senza ulteriori indugi. Le solite frasi d’accoglienza avevano uno strano effetto su di lei, dato che aveva vissuto quei pochi metri quadri in modi diversi e con diversi gradi di intimità: spostò lo sguardo sul bancone della cucina dove la loro prima notte era stato sussurrato quel “grazie” leggero, sul divano dove si erano avuti per l’ultima volta prima di discutere ancora, sulla sedia sulla quale aveva aspettato che Harry finisse di prepararle la colazione e su-
«Che stai facendo?» fu la domanda che interruppe i suoi pensieri.
Si riscosse da quei ricordi e deglutì il disagio, concentrandosi su Harry. Era in piedi ad un paio di metri da lei, davanti al corridoio che entrambi conoscevano bene: indossava una t-shirt bordeaux un po’ stropicciata ed un paio di pantaloni scuri e aderenti. I suoi occhi la stavano osservando curiosi, confusi. Irritati.
Improvvisamente, Emma percepì riaffiorare tutta la determinazione che l’aveva portata fino a quel punto, solo momentaneamente smorzata dal passato nel quale aveva dovuto immergersi. «Devo parlarti», esclamò con sicurezza.
«Non è la prima volta, eppure non mi sembra che fino ad ora abbia funzionato», replicò lui, incrociando le braccia al petto. Ogni particolare nella sua espressione le suggeriva ostilità, segno che la discussione del giorno prima non era ancora stata cancellata.
«Non mi importa», asserì seria.
«E-»
«No, ora stai zitto e mi ascolti», lo interruppe, senza lasciargli alcuna possibilità di ribattere. Notò la sua fronte corrugarsi, forse a causa dello stupore per quella improvvisa presa di posizione. «Ieri… Dio, ieri sei stato proprio uno stronzo», cominciò, marchiando ogni parola con una punta di rabbia ed avvicinandosi di un passo. «Io ti ho raccontato di Miles, ti ho fatto vedere a cosa mi sono ridotta, e tu non hai speso nemmeno una parola di conforto. Hai preferito comportarti di nuovo da egoista, iniziando a giudicarmi senza neache darmi il tempo di spiegare. Ma in fondo a te nemmeno interessa una spiegazione, giusto? Ti basta costruire ipotesi su ipotesi, ripetermi quanto io sia una stronza incoerente ed urlarmi contro!» Alzava la voce poco alla volta, forse per nascondere il rumore delle proprie ferite. «Perché non mi hai chiesto niente? Perché non mi hai parlato? Sarebbe bastato un semplice “razza di idiota, perché vuoi perdonarlo?” e forse avresti capito, invece no, eri troppo preso da te stesso e dalle tue convinzioni per fare un piccolo sforzo!» concluse.
Si era avvicinata ancora, senza rendersene conto, ed i suoi occhi erano fissi in quelli di Harry. La stava osservando in silenzio, senza concederle il beneficio di poterlo decifrare, mentre lei traeva coraggio dalle sue stesse parole, dalla stessa enfasi con la quale le stava pronunciando.
«Sono così stanca di te, delle tue contraddizioni, delle tue infinite critiche», cominciò dopo qualche istante, quasi a bassa voce. «Non sai fare altro che giudicare, che guardarmi dall’alto in basso ogni santa volta che compio un errore. Ma dimmi, Harry, se ti dà così fastidio la mia sola presenza, se hai così tanto rancore da dimostrarmi, perché diavolo continui a cercarmi? Mi inviti a prendere un caffè, ti presenti alla mia mostra, mi chiedi di accompagnarti a vedere il tuo nuovo stupido appartamento… È questa la coerenza di cui ti vanti? Quella che vorresti vedere in me? Io non la voglio e non voglio riaverti qui a Bradford, se appena capita l’occasione sei pronto ad accusarmi».
Il petto le si muoveva velocemente, a riflettere ogni fibra di irrequietezza e di sollievo: aveva lasciato scivolare via i suoi pensieri più profondi, sfogandosi per una situazione che non riusciva a comprendere e che non voleva accettare. L’aveva fatto senza interruzioni, senza repliche piccate, e non riusciva a credere di potersi sentire meglio per qualcosa di così banale.
Harry non aveva ancora aperto bocca: la scrutava con i pugni chiusi e le labbra unite in una linea dura, trattenuta, ma non sembrava voler intervenire. Stranamente, non aveva osato contraddirla: era difficile dire se fosse perché d’accordo con le sue parole, o solo per evitare di pronunciarne di più crudeli.
Emma serrò la mascella ed ascoltò il silenzio che li stava circondando, disturbato solo dai lontani rumori provenienti dalla strada. Schiuse le labbra per dire qualcosa, per imporgli di rispondere, ma fu inaspettatamente anticipata.
«Dimmelo, allora», esclamò Harry, ancora immobile. «Spiegami perché vuoi perdonarlo», continuò. Aveva tralasciato gran parte del discorso di Emma: non aveva commentato la stanchezza che lei gli rinfacciava, lo sconfinato disagio che il suo comportamento le infliggeva, né il tono duro ed infastidito. Forse voleva avere l’informazione mancante per poter preparare un attacco più fondato, perché lei non credeva che fosse davvero in grado di accettarla.
Emma corrugò la fronte ed incrociò le braccia al petto. «Perché dovrei? Così puoi di nuovo giudicarmi?» gli domandò. Il sospetto nella sua voce.
Era stata colta alla sprovvista: per quanto credesse che Harry dovesse sapere prima di parlare, in quel momento l’atmosfera non la metteva a proprio agio, non le permetteva di aprirsi di nuovo, non con la possibilità di ripetere una scena simile a quella del giorno prima.
«Non lo farò», le assicurò lui. Gli occhi seri, intensi.
«Bugiardo».
Harry sospirò e si passò una mano tra i capelli, interrompendo per una manciata di secondi il loro contatto visivo e permettendole di trarre un respiro più libero. «Se hai tutta questa paura che io possa criticarti, forse è perché ne avrei motivo», replicò piano, senza traccia di durezza nella sua intonazione. Nei suoi limiti, stava cercando di andarle incontro e di spingerla a fidarsi quanto bastava: lo si poteva notare dal modo in cui stava trattenendo tutti i suoi pensieri, dal modo in cui il suo corpo non compiva alcun movimento non necessario per imporsi un controllo.
«No, è tutto il contrario», lo contraddisse Emma. «Ieri non hai avuto bisogno di un motivo per farlo», gli ricordò. L’aveva ferita il suo comportamento, la sua mancanza di delicatezza nel rapportarsi con un dolore tanto intimo: aveva calpestato le sue orgogliose lacrime per dare retta al proprio egoismo, senza preoccuparsi di comprenderla o di rispettarla. Quindi perché in quel momento avrebbe dovuto agire diversamente?
«Infatti abbiamo già appurato che ieri io sia stato uno stronzo», esclamò Harry, utilizzando le sue stesse parole ed intingendole in una sorta di ironia. Non era chiaro se fosse poco convinto di quella affermazione o se fosse una reale ammissione di colpa, perché si ostinava a mantenere una maschera imperturbabile. «Sta a te darmi la possibilità di rimediare».
Emma si morse un labbro, soppesando ogni sua sillaba ed ogni possibilità che le si prospettava. Ormai era ovvio che Harry non fosse cambiato radicalmente, durante quegli anni, perché la rabbia e le ferite nell’orgoglio gli facevano ancora perdere la testa, erano ancora in grado di offuscare la sua ragionevolezza: per questo motivo, lei era incline a sospettare che anche la sua capacità di ascoltare fosse rimasta integra, così come quella di prestare conforto a qualcuno. In fondo, quando il giorno prima la situazione non era ancora degenerata nell’ennesimo litigio, lei si era sentita al sicuro stringendosi al suo petto, con le sue dita ad accarezzarla lentamente.
«E sta a te non deludermi di nuovo», rispose soltanto, quasi in un sussurro.
Harry annuì.
 
Era seduta compostamente sul divano del salotto, con i piedi uniti a terra e le mani sulle ginocchia, la schiena dritta ed il viso teso, quasi fosse sul punto di scappare: si sforzava di non pensare ai momenti trascorsi in quel medesimo punto, concentrandosi solo sul presente, su Harry al suo fianco e sulle parole che non era ancora riuscita a lasciar libere.
Si trovavano in quella situazione da diversi minuti, ormai, senza che nessuno parlasse o tentasse di smorzare la tensione: Harry forse era sul punto di cedere, seduto sull’altro cuscino morbido con i gomiti appoggiati sulle ginocchia ed il capo chino, perché aveva iniziato a sospirare silenziosamente.
Lei strinse i pugni sulle proprie gambe e si inumidì le labbra. Era difficile esplicitare qualcosa che non aveva mai espresso ad alta voce, qualcosa che aveva sempre nascosto nella parte più profonda di sé, mascherandolo per proteggersi: non sapeva nemmeno perché volesse farlo proprio con lui.
«Quando Miles mi ha detto la verità, io non ho sentito più niente», sussurrò senza preavviso, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento ai suoi piedi. Harry si mosse piano al suo fianco, forse per voltarsi ad osservarla. «Parlo di emozioni, io… Per un attimo sono stata completamente vuota: lo  guardavo ed era come se lui non avesse ancora detto niente, come se nemmeno lo conoscessi. Ma l’attimo dopo è arrivato il dolore. Mi ha riempita di nuovo».
Emma raccontava lentamente, scegliendo i termini più adatti e censurando ciò che era ancora in grado di farle eccessivamente male: stava cercando di ricordare quel momento nel modo più oggettivo possibile, come se fosse stata una testimone esterna e non coinvolta.
«Era così forte, Harry, che non riuscivo a sopportarlo», riprese. «Non voglio sembrare patetica, ma è stata la cosa peggiore che io abbia mai provato. Mi ha distrutta ed io non pensavo di poter essere così fragile: non riuscivo a rialzarmi, ad affrontare la situazione. Provavo persino pena per me stessa».
Le costava molto ammettere una tale debolezza, non solo perché si trattava di Harry, ma perché era uno sfregio che voleva nascondere anche a se stessa.
Le parole ricominciarono dopo una breve pausa, il tempo di sbattere le ciglia e di deglutire. «Miles mi ha ferita così tanto, da impedirmi di lasciarlo. Stare senza di lui era insopportabile, e so che non ha alcun senso, ma ho così… Paura di provare di nuovo quel dolore…»
Si fermò di nuovo, impugnando il contegno che sentiva cedere secondo dopo secondo, ed alzò lo sguardo sulla parete che le stava di fronte, sulla mensola ricca di oggetti di famiglia. «Io non sto dando una possibilità a lui», sussurrò. «La sto dando a me stessa».
Sperava di aver dato un senso a quel discorso, sperava di aver trasmesso il terrore che la governava senza risultare infantile. Sperava di non suscitare in lui del disgusto per quel comportamento così distante da ciò che aveva conosciuto: voleva dimostrargli che l’indole che l’aveva sempre governata non era mutata, perché in nessuna circostanza lei sarebbe riuscita a perdonare davvero un tradimento, e questo avrebbe dovuto fargli capire quanto si fosse sbagliato nel giudicarla così aspramente.
«Emma», la chiamò a bassa voce. «Tu lo ami?» furono le uniche parole di Harry, appena mormorate e prive di qualsiasi rimprovero.
Lei si voltò velocemente verso di lui, si specchiò nei suoi occhi attenti e concentrati, quasi a volerne testare l’affidabilità. Quella semplice domanda toccava un tasto troppo delicato, che non era ancora pronta a sfiorare.
«Non è questo il punto», gli rispose. Non volle confessare di non esserne più sicura, di non riuscire più a distinguere l’amore che l’aveva paralizzata dal disperato tentativo di stare meglio. «Il punto è che per tutto questo tempo io ho cercato di cambiare, di non dare così tanto a chi avrebbe potuto non ricambiare,  non apprezzare: e con Miles avevo finalmente allentato la presa, ma poi mi ha tradita ed è stato ancora peggio. Ho dovuto di nuovo… Ho dovuto di nuovo fare un passo indietro».
Nonostante avesse distolto lo sguardo, nel proferire quell’ammasso di sillabe riluttanti, lo riportò nelle iridi di Harry trattenendo il respiro, forse in attesa di un giudizio: si vergognava così tanto della propria debolezza, da essere convinta di poterla suscitare in chiunque altro.
Lui era ancora immobile, con le labbra schiuse ed umide: avrebbe voluto poter scoprire i suoi pensieri uno alla volta, srotolarli davanti a sé con chiarezza, al posto di doverli indovinare senza successo.
Harry prese un respiro più profondo e strinse i pugni. «Mi dispiace di averti fatto questo», disse piano, senza che la sua espressione lasciasse trasparire altro se non sincerità.
Emma colse subito il collegamento: evidentemente aveva pensato che fosse partito tutto dalla loro storia, da quell’amore non ricambiato che l’aveva tramortita, e aveva dato per scontato che fosse stato il responsabile di quel cambiamento, della paura che lei provava.
Decise di rassicurarlo. «Andiamo, Harry. Non essere così presuntuoso», sospirò, scuotendo la testa. «Tu mi hai fatto male, certo, ma non sei stato l’unico né il più importante».
Provò un vago senso di colpa dopo aver lasciato andare quella verità, perché l’aveva pronunciata con troppa durezza. Inconsciamente, stava cercando di proteggersi: si era esposta così tanto con Harry, da sentire il bisogno di imporre delle distanze, delle misure di sicurezza contornate da cinismo, per quanto potessero essere sgradevoli.
Harry si indispettì, offeso dal suo comportamento, e lei poté notarlo grazie alla sua mascella che si serrava. «Mi chiedi di consolarti e questo è il ringraziamento», esclamò piccato.
«Non ti ho chiesto di consolarmi, ti ho chiesto di ascoltare prima di riempirmi di accuse», precisò Emma, corrugando la fronte. Sentiva la tensione insinuarsi nuovamente tra di loro: era assurdo come i ruoli si fossero capovolti, come in quel momento toccasse ad Harry accettare la sua schietta sincerità, quando anni prima era stata lei ed esserne vittima.
«Ed io ti ho ascoltato», ribatté lui, irrequieto. «Adesso che si fa?»
Lei assottigliò gli occhi e fece caso al tono che aveva utilizzato, alla stizza insensibile che era tornata a tormentarla. «Ho capito», sbuffò, alzandosi dal divano con gesti spazientiti: l’istinto di andarsene a guidarla nei movimenti, nella conferma dell’impossibilità, per due persone come loro, di restare nella stessa stanza per più di un numero definito di minuti.
«Emma», la chiamò lui, con la voce ferma e seria, così decisa da obbligarla a fermarsi. Gli dava le spalle, con gli occhi chiusi ed il respiro nervoso, mentre udiva dei passi lenti avvicinarsi.
Il cellulare nella tasca della propria tuta interruppe quel momento con la sua suoneria squillante.
«Pronto?» rispose, schiarendosi la voce.
«Hey, ti passo a prendere e andiamo a pranzo da Dino’s?» La voce di Miles era pacata, serena, e fu un sollievo poter sfruttare il suo potere di tranquillizzarla.
«Certo», sorrise appena. «Per mezzogiorno va bene?»
«Mezzogiorno sia. A dopo», la salutò, con un’adolescenziale impazienza nel tono.
Emma annuì nonostante non potesse essere vista e ripose il telefono in tasca: si voltò e trovò Harry ad una distanza minore di quella che aveva previsto.
«Devo andare», disse soltanto, improvvisamente più seria.
Lui annuì senza scomporsi e le camminò di fianco, fino ad arrivare alla porta per aprirla lentamente: attese in silenzio che lei si avvicinasse, una mano sul pomello in ottone ed i capelli che gli incorniciavano disordinatamente il volto.
Emma non sapeva nemmeno in che rapporti fossero, in quel momento, non sapeva come sentirsi né come comportarsi: si alternavano così tanti screzi, sia da parte di uno che da quella dell’altra, da essere impossibili da conteggiare e valutare. Poteva solo imparare a convivere in quella confusione inarrestabile.
Appena mise un piede oltre l’uscio della porta, le dita di Harry raggiunsero quelle della sua mano destra, accarezzandole in un leggero tentativo di trattenerle: le sfiorava con una tale delicatezza da farle trattenere il fiato. Quando due mani si toccano, è tutto più intimo di quanto si pensi, tutto più intenso di quanto si possa immaginare: e quelle di Harry avevano ancora la stessa morbidezza, le stesse linee di contorno che lei aveva imparato a memoria e che in quel momento le si ripresentavano in un ripasso sbiadito.
Emma si irrigidì: per un attimo, aveva percepito una sensazione simile a quando per la prima volta aveva avuto le sue mani su di sé, certe e beffarde, ed era stata vittima di un infimo brivido, che sembrava volerla riscuotere.
«Non chiedermi perché io continui a cercarti, se tu fai lo stesso con me», sussurrò lui, senza avvicinarsi ma senza allontanarsi, con la voce vellutata e sicura di chi sta guardando oltre le piccole cose. Aveva sicuramente colto l’accenno di ipocrisia nel rimprovero di Emma, che non si capacitava del suo comportamento, quando lei stessa tornava da lui pur non comprendendolo, sempre. Quello era il suo modo di dimostrarlo, un modo più subdolo e con un maggior impatto delle solite urla.
Emma alzò il mento, ma non rispose.
Se ne andò senza voltarsi, e solo quando si sedette di nuovo al volante della propria auto si concesse di stringere la mano in un pungo serrato, come a voler scacciare la sensazione che poteva ancora sentire, o come a volerla trattenere.
 
 
 
«Tu non mi bacerai per almeno qualche ora», rise Emma, porgendo un fazzoletto di carta a Miles ed assumendo un’espressione esageratamente disgustata.
«Non potresti mai resistere», rispose lui con la bocca piena, pulendosi le labbra e masticando con gusto. Il kebab che aveva ordinato conteneva quantità industriali di cipolla, senza contare tutti gli altri ingredienti, ed Emma temeva che lui non si sarebbe sbarazzato in fretta di quel sapore.
«Te lo dimostrerò, senza dubbio», ribatté con un sorriso, mordendo di nuovo il secondo trancio di pizza: accavallò le gambe sotto al tavolo e si spostò di poco verso destra, per poter sfuggire al sole che le colpiva insistentemente il viso.
Dino’s era un chiosco alla periferia di Bradford, nascosto da palazzi grigi addossati l’uno all’altro: pochi e minuti tavoli all’esterno, due soli responsabili dell’attività e tante calorie da regalare.
«Tutto bene?» chiese Miles dopo qualche minuto, osservandola con attenzione. Gli occhi neri erano sottili, impegnati nella loro analisi, ed i capelli sembravano di un biondo più scuro solo per la sua posizione: si leccò le labbra fini e si grattò il naso dritto con la nocca di una mano, per evitare di sporcarsi con il polpastrelli bagnati d’olio.
Emma annuì, corrugando la fronte e deglutendo il boccone. «Sì, perché?» domandò, bevendo un sorso di CocaCola. Sapeva che la curiosità di Miles non fosse semplice routine, perché sembrava esser stata stimolata da qualcos’altro, da un particolare sfuggito al proprio controllo: sperava di non portare ancora i segni della tensione sperimentata a casa di Harry, di non avere le impronte delle sue dita sulle proprie, ma aveva dei deboli dubbi a riguardo.
«Non so, sembri strana», si giustificò Miles, stringendosi nelle spalle. «Stanca», precisò più seriamente.
Emma accennò un sorriso, abbassando lo sguardo: talvolta dimenticava quanto fosse semplice per lui interpretarla senza alcuno sforzo. Decise di essere sincera e di non nascondergli troppo.
«Stamattina sono andata da Harry», esclamò, sostenendo il suo sguardo e leggendovi un vago stupore. «Discutere con lui è abbastanza estenuante».
Miles si inumidì le labbra e posò il kebab nel piatto. «Discutere riguardo cosa?» le domandò, pulendosi le mani con il tovagliolo stropicciato.
«Sembra essere ancora particolarmente attaccato al passato», spiegò Emma, con una calma che in realtà non provava. «Sai anche tu che abbiamo sempre avuto molte cose da rimproverarci», continuò, riferendosi al racconto che gli aveva regalato riguardo la loro storia.
«Be’, forse è il momento di lasciar perdere tutto», commentò Miles, senza guardarla: una tranquillità controllata nei suoi movimenti studiati e, inconsapevolmente, le stesse parole di Harry nella sua bocca.
«Cosa intendi?» indagò Emma, ipotizzando un’eventualità che la metteva a disagio.
«Quello che ho detto anche l’altra volta», riprese lui, appoggiando i gomiti sul tavolo instabile e tornando a parlarle con gli occhi. «Forse dovreste metterci una pietra sopra, mettere da parte ogni rancore e continuare ognuno per la propria strada. Forse dovreste persino smettere di vedervi».
La soluzione a parte dell’agonia emozionale di Emma le era appena stata offerta su un piatto d’argento, ma non sembrava allettante come aveva sperato.
«Mi stai chiedendo di smettere di vederlo?» domandò a bassa voce, assottigliando gli occhi: conosceva Miles, conosceva le sue iridi scure ma cristalline, e quelle parole non erano state dei semplici consigli.
«Tu lo faresti?»
Lei corrugò la fronte e si ritrasse impercettibilmente, senza riuscire a comprendere fino in fondo le sue e le proprie intenzioni. «Perché dovrei?»
«Perché ti condiziona», rispose lui, ancora immobile. «Ed ora come ora la nostra storia non ha di certo bisogno di questo».
Emma era allibita. «Sei stato tu a dirmi che avremmo dovuto parlare e chiarire quello che era rimasto in sospeso: perché ora vuoi tutto il contrario?»
Miles sbatté le palpebre e respirò profondamente. «Voglio la stessa cosa invece, ma in modo diverso. Non pensavo che ci sarebbe voluto così tanto, né che per te sarebbe stato così difficile».
«Questo non significa niente», lo contraddisse, iniziando ad alterarsi ma cercando di non dimostrarlo. «I problemi tra me ed Harry non hanno nulla a che fare con noi».
«Ne sei certa?»
Non riusciva a capire se fosse solo geloso o se la sua preoccupazione fosse più profonda: il suo spirito di osservazione non aveva di certo surclassato ogni segnale che lei lasciava trasparire involontariamente, ma non poteva interpretarlo ad occhi chiusi. Era vero, gli incontri e gli scontri con Harry la sconvolgevano più di quanto fosse normale, ma non per il motivo che lui stava immaginando.
«Ti stai comportando da stupido», lo rimproverò stizzita. «Harry non ha nessun ruolo nella nostra storia, a differenza di quello che pensi: non provo nulla per lui e trovo assurdo che tu possa anche solo ipotizzare una cosa simile».
«Io invece trovo assurdo che tu voglia farmi credere che lui ti sia indifferente, quando dimostri il contrario», ribatté Miles, con una decisione tale da valere quanto un tono di voce in più.
Emma lo guardò con forte risentimento, serrando la mascella: proprio lui osava mettere in dubbio i suoi sentimenti e non concederle fiducia. «Non smetterò di vederlo per un qualcosa che non esiste, così forse ti accorgerai di quanto ti stia sbagliando», esclamò a denti stretti. «E non ho intenzione di continuare questo discorso», lo liquidò, distogliendo nervosamente lo sguardo.
Miles restò ad osservarla per qualche istante, stringendo nel pugno della mano il fazzoletto di carta, e da quel momento non parlarono oltre.
 
 
 
Il salotto di casa Clarke era immerso nel buio, contrastato solo dai colori provenienti dalla televisione accesa: stava trasmettendo vecchie puntate di America’s Got Talent, rendendo l’atmosfera leggera e piacevole.
Melanie era sdraiata su uno dei divani, con le braccia incrociate dietro la testa, appoggiata su uno dei braccioli: il viso pulito e dalla carnagione pallida si tingeva di sfumature diverse ad ogni cambio di immagine, mentre le labbra ben definite le si increspavano frequentemente in un sorriso.
Era passata a far visita alla sua famiglia, dato che Zayn era uscito con degli amici e che lei era sempre stata una persona fin troppo nostalgica: i loro genitori erano già andati a letto, dopo aver cenato tutti insieme, e Fanny si era addormentata pochi minuti prima.
Emma la osservò di nascosto: era raggomitolata sul suo stesso divano, con l’innocenza dei suoi tredici anni a cullarla silenziosamente. La sua bellezza stava fiorendo grazie all’età dello sviluppo, nonostante qualche fisiologica imperfezione del viso e qualche capriccio superfluo. I capelli bruni e mossi da onde ampie le arrivavano oltre la metà schiena, mentre il corpo asciutto si modellava in base alle sue lezioni di nuoto.
«Alcune persone non sanno davvero cosa significhi la parola talento», mormorò Melanie, commentando uno strano tizio in tv, che era appena stato eliminato.
Emma non era in vena di grosse distrazioni, quindi sospirò e si passò una mano sul viso e dietro il collo. «Tu e Zayn state insieme da quasi sette anni», esordì allora, attirando la sua attenzione. «Spiegami come diavolo fate».
Melanie rise piano. «Problemi con Miles?»
«Quando non ci sono problemi con Miles, ultimamente?» sbuffò lei, rabbuiandosi appena.
«Be’, non credere che tra me e Zayn non ce ne siano mai stati», fu la risposta che ottenne, forse in un tentativo di consolazione.
«Ma per favore, mi aspetto che da un momento all’altro qualcuno bussi alla porta per consegnarvi il premio “miglior coppia di sempre”», la prese in giro, sorridendo divertita.
Melanie accolse la battuta e scosse la testa, arresa. «Ti sbagli», la corresse con un sospiro. «Altrimenti non ci saremmo lasciati cinque volte».
Emma spalancò gli occhi e sbatté più volte le palpebre. «Che fai, tieni il conto?» domandò ironica, per nascondere lo stupore di quella rivelazione. «Comunque il punto è che… Voi non vi lasciate come fanno tutti gli altri esseri umani. Voi vi lasciate solo per tornare insieme».
La sorella rise sonoramente a quelle parole, abbassando la voce solo quando Emma le ricordò di Fanny addormentata al suo fianco. «Ti posso assicurare che due… No, tre di quelle volte sembravano piuttosto definitive», specificò. «Ma sì, in un certo senso sappiamo sempre come ritrovarci».
Lei restò in silenzio, spostando lo sguardo distratto sullo schermo della televisione: non voleva credere che quella che provava fosse invidia per la relazione della sorella, cercava di definirla come senso di ingiustizia.
«Vuoi parlarne?» le chiese Melanie, assumendo il tono con il quale sembrava caricarsi di qualsiasi peso le persone intorno a sé potessero portare.
Emma scosse la testa. «No, o rischio di impazzire», sussurrò.





 


Buooooooooooooongiorno!
Questo capitolo è stato un PARTO, santo cielo. Sul serio, questi personaggi prima o poi mi manderanno al manicomio.
Comunque, passiamo alle cose "serie":
- Emma/Harry: dopo il litigio dello scorso capitolo e dopo il comportamento di Harry, Emma non poteva di certo starsene zitta EH. Da qui nasce il suo monologo/sfogo compreso di epiteti poco carini ahahah Delle persone che ho sentito, non tutte si erano soffermate sull'assenza di delicatezza da parte di Harry nell'urlarle contro in un momento del genere: inoltre, avevo "spoilerato" che aveva parlato senza sapere tutto. INFATTI, si scopre il reale motivo per cui Emma è ancora con Miles: io spero davvero che sia chiaro, però ho dei seri dubbi ahhah In pratica lei non è incoerente come dice Harry, non ha usato un peso e due misure e non ha davvero intenzione di perdonare il tradimento di Miles: vorrebbe farlo con tutta se stessa, è vero, ma è anche consapevole di non poterlo fare. Nonostante questo, stare senza Miles le è risultato ancora più straziante (immaginate la solita Emma, innamorata - come ama lei! - di una persona e costretta a fronteggiare una realtà del genere: se aveva reagito in quel modo nello scoprire che Harry non la amava, figuriamoci come è stato scoprire che il ragazzo con cui stava da più di un anno se l'era spassata con qualcun altro e senza un reale motivo) e ne è rimasta talmente ferita, da esserne quasi traumatizzata: rifiuta la possibilità di stare ancora così male, quindi si sforza di continuare la loro relazione. UN CASINO, ma in fondo si parla di Emma.
Lo ama o non lo ama? Domanda da un milione di dollari buttata lì, a metterla ancora un po' di più nei casini.
Ed Harry, il solito presuntuoso, che crede di essere l'unico responsabile della nuova debolezza di Emma hahaha Sì, forse lui è stato il primo a ferirla davvero, ma non può davvero pensare che dipenda tutto da lui, che Miles possa davvero averla ferita in misura minore!
Comunque solite cose, quindi la parte finale la lascio a voi :)
- Emma/Miles: come vedete, Miles sta iniziando a porre dei limiti, sempre in modo razionale e senza sfuriate, ma lo sta facendo. Ed Emma non è disposta ad accettarli, figuriamoci! Ribadisco: niente triangoli! Emma è sincera quando dice che la storia con Miles non è influenzata da Harry: le due storie sono su due binari separati :) In ogni caso il loro rapporto è sempre più in crisi...
- Emma/Melanie: patatine piccine picciò!!!!!! E poi lo Zelanie è il top, come sempre hahahaha
Bene, come sempre ho straparlato, quindi vi lascio ai vostri commenti, sperando di non aver reso tutto un casino!!

Ah, piccolo appunto:
so perfettamente che la storia si sta sviluppando lentamente, con continui piccoli avvenimenti che sembrano non portare da nessuna parte, e so che questa cosa possa "stancare", ma non ho intenzione di stravolgere tutto solo per accelerare le cose: devo tener fede ai personaggi, che non sono di certo la cosa più semplice del mondo come ormai sapete, e devo rendere realistica la situazione. Quindi, mi dispiace che alcuni di voi risentano di questo andamento, ma non può esere altrimenti!

Me ne vado sul serio adesso ahhaah


Vi lascio tutti i miei contatti: ask - facebook - twitter 

Un bacione,
Vero.

 
Il trio: Harry, Melanie (strafiga terribile) ed Emma (strafiga ++)
 
   

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Capitolo 9
*** Capitolo nove - Prove it ***




 

Capitolo nove - Prove it

 

Emma aveva indossato un abito in cotone leggero, di un azzurro pastello interrotto da fantasie floreali bianche: con le maniche a tre quarti e lo scollo dritto che le lasciava scoperte le spalle, aderiva al suo corpo sin sotto al seno, per poi ammorbidirsi in una gonna più ampia e non molto lunga. Era stata coraggiosa nel non portarsi alcuna giacca, convinta che il clima sarebbe stato clemente, ma se ne era presto pentita.
Dopo aver mostrato un documento all’uomo della Security che intralciava la porta a vetri d’ingresso, Emma entrò all’interno del Keller, un pub in pieno centro di Bradford: nonostante fossero solo le dieci di sera, era colmo di persone e molto caotico. Tutti i tavoli in legno erano occupati e ricchi di frastuono, parzialmente nascosto dalla musica suonata da un gruppo al fondo del locale. Le luci erano soffuse, calde.
«Hun, cazzo, dovevi arrivare prima!» esordì qualcuno alla sua destra, afferrandole un braccio e porgendole senza esitazioni un bicchiere mezzo pieno. «A quest’ora saresti stata già ubriaca», continuò Louis, baciandole velocemente una guancia e stordendola con quell’accozzaglia di gesti e parole.
«Sai com’è, alcune persone lavorano», lo prese in giro, annusando con un sorriso quella che sembrava Vodka liscia e bevendone un sorso. Era riuscita a finire prima il turno di baby-sitting alle bambine e aveva fatto di tutto per arrivare ad un orario decente alla festa di Zayn. Ventisette anni si compiono una volta sola.
Louis finse una risata, con la voce stridula e gli occhi già brilli. «Dov’è Aaron?» gli chiese, anticipando qualsiasi frase piccata avesse avuto intenzione di pronunciare.
Lui si voltò e si guardò intorno, alzandosi sulle punte dei piedi, poi tornò a guardarla e si strinse nelle spalle. «Da qualche parte», rispose soltanto. «Ma adesso muovi il culo, devi salutare il festeggiato».
Emma si lasciò trascinare via, con il polso destro bloccato dalla mano del suo amico e con il bicchiere in precario equilibrio: riconobbe diverse persone, vecchi amici di sua sorella e di Zayn o semplicemente coetanei che le era capitato di intravedere per le strade di Bradford, salutò velocemente qualcuno e si nascose da qualcun altro.
Zayn era seduto intorno ad un tavolo, con Melanie sulle sue ginocchia ed un largo sorriso ad illuminargli il volto allegro: stava ascoltando attentamente le parole di uno degli invitati, ma appena la vide, si scusò e le si avvicinò con spensieratezza. Indossava una camicia bianca, con le maniche arrotolate fino al gomito, ed un paio di pantaloni neri, che slanciavano ancora di più la sua figura.
«Che onore», la prese in giro bonariamente.
«Non rompere», rispose lei, divertita. «E tanti auguri», continuò, sporgendosi per baciargli entrambe le guance e passargli una mano tra i capelli, in un piccolo dispetto. Lui alzò gli occhi al cielo e scosse la testa.
«Miles?» domandò Melanie, salutandola con una leggera carezza sul braccio e frizionandosi i capelli mossi: era meravigliosa. Il tubino di un rosso acceso evidenziava ogni curva del suo corpo snello, mettendo in risalto la sua carnagione lattea e la lucentezza azzurra dei suoi occhi.
«Sarà qui a momenti», spiegò Emma. «Era stato invitato anche ad una cena di lavoro, ma a quest’ora dovrebbe essere quasi finita».
«Ah, eccoti», li interruppe qualcuno, attirando l’attenzione su di sé. «Ti sto cercando da un quarto d’ora». Aaron sospirò e lasciò un veloce bacio sulle labbra di Louis, che sorridevano finalmente soddisfatte: le sue iridi nere e vivaci, assumevano sempre una certa espressione quando riuscivano a posarsi su quelle nelle quali erano abituate a specchiarsi, come se potessero trovarci un costante sollievo.
«Emma! Quando sei arrivata?» esclamò subito, dopo essersi accorto di lei, raggiungendola con un passo e abbracciandola calorosamente.
«Proprio adesso», gli rispose contro il collo, inspirando il suo profumo aspro e marcato.
«Zayn Malik deve compiere ventisette anni affinché io e te riusciamo a vederci, ti rendi conto?» la rimproverò ironicamente, lasciandola libera. «Potrei addirittura pensare che tu non senta nemmeno un po’ la mia mancanza», continuò, fingendosi offeso e ritornando accanto a Louis, che fece scivolare con naturalezza la propria mano sinistra sulla sua schiena. E più in basso.
«Se anche ti chiamassi, tu saresti troppo occupato con qualcun altro», ribatté lei, bevendo un altro sorso di Vodka. Le bruciava la gola.
«Esattamente», intervenne Louis, con tono saccente e facendo schioccare la lingua sul palato. «Difatti, anche ora abbiamo da fare».
Aaron corrugò la fronte e lo guardò con aria confusa. «Cosa?»
«Non ti dovevi lavare le mani?» domandò l’altro, sbattendo con finta innocenza le palpebre. Zayn rideva in silenzio, con Melanie che cercava di trattenersi.
«Mi devo lavare le mani?» ripeté Aaron, senza riuscire a cogliere il reale riferimento.
«Oh, Dio». Louis alzò gli occhi al cielo e lo prese per mano con fare possessivo. «Malik, di’ pure ai tuoi invitati che il bagno degli uomini sarà off-limits per… Un po’», annunciò, con la malizia ad accentuare ogni sillaba ed ogni movimento. «E forse dovresti far alzare la musica nel locale», aggiunse, sorridendo apertamente e facendo abbozzare una risata a tutti gli altri.
Aaron sembrava arreso a quel suo comportamento, ma gli diede una spallata scherzosa, prima di seguirlo ed allontanarsi senza protestare in alcun modo.
«Di che ti stupisci?» sospirò Melanie, rivolta alla sorella. «Prima era quello delle donne, ad essere off-limits».
Emma non trattenne una risata e Zayn la invitò a sedersi al tavolo con loro, presentandola cordialmente ad alcuni amici. Lei conversò con educazione per qualche minuto, poi decise di mandare un messaggio a Miles per chiedergli dove fosse e quando sarebbe arrivato.
Quando rialzò lo sguardo dal proprio cellulare, incontrò quello di Harry.
Aveva immaginato che anche lui sarebbe stato presente, ma semplicemente si era imposta di non pensarci: la stava osservando da qualche metro di distanza, appoggiato con la spalla sinistra ad uno dei pilastri spessi del locale. I piedi incrociati ed i capelli legati in una coda, indossava dei pantaloni scuri ed una t-shirt grigia, coperta parzialmente da una giacca nera che gli arrivava quasi alle ginocchia.
Per qualche istante, entrambi restarono semplicemente a guardarsi da lontano, in un’immobilità che contrastava con l’ambiente concitato che li circondava: poi, Harry alzò una mano per salutarla, in un gesto semplice ed accompagnato dall’inclinarsi leggero delle sue labbra. Emma si soffermò sui suoi lineamenti, sul modo in cui erano evidenziati dalle luci del pub, e si trattenne dal pensare a quanto fossero armoniosi. Non voleva ammettere la loro bellezza.
Accennò un sorriso e gli rivolse un cenno del capo, poi si voltò verso Melanie e si perse in discorsi che l’avrebbero distratta dalle sue tentazioni, o dal fatto di averne.
 


Dopo poco più di mezz’ora, Emma era appoggiata con la schiena ed i gomiti al bancone del locale: osservava distrattamente le persone che si agitavano dinanzi ai suoi occhi ed aspettava che il secondo bicchiere di alcolici facesse effetto.
Non appena il telefono le vibrò tra le mani, pensò che finalmente Miles si fosse deciso a risponderle, dato che sembrava essere sparito.
 
Un nuovo messaggio: ore 22.41
Da: Harry

“Smettila di cercarmi tra la gente…”
 
Emma rilesse il messaggio e corrugò la fronte, mentre un sorriso spontaneo combatteva per comparire sul suo volto: alzò lo sguardo e tentò di scorgere Harry tra la folla, ma non riuscì a trovarlo.
 
Messaggio inviato: ore 22.42
A: Harry

“Non ti sto affatto cercando. Tu, piuttosto, smettila di spiarmi”
 
Un nuovo messaggio: ore 22.42
Da: Harry

“Non ti sto spiando, ho solo tirato ad indovinare”
 
Emma si inumidì le labbra e scosse la testa, senza nascondere il divertimento piccato: Harry aveva giocato con lei, facendole credere di essere nascosto da qualche parte per poterla osservare ed in qualche modo toccando la sua vanità, ma solo per poi rivelare le proprie carte.
 
Messaggio inviato: ore 22.44
A: Harry

“Peccato che tu non abbia indovinato.”
 
Un nuovo messaggio: ore 22.45
Da: Harry

“Peccato che io non ti creda”
 
Si morse un labbro e pensò ad una risposta sufficientemente tagliente da digitare, ma fu interrotta prima di poter premere la prima lettera sulla tastiera touch.
«Non c’è bisogno che tu risponda».
Harry le si era appena affiancato, con un sorriso beffardo a divertirlo ed il gomito destro appoggiato al bancone. Non indossava più la giacca ed il suo profumo era più forte del previsto.
«Se non mi stavi spiando, come mai sapevi esattamente dove fossi?» lo mise alla prova, assottigliando gli occhi.
«Be’, passavo di qua», rispose, alzando le spalle con noncuranza.
Emma sospirò e scosse la testa. «Certo».
Erano passati tre giorni dall’ultima volta che si erano visti o parlati e, in qualche modo, era come se tutta la tensione fosse scivolata via, lasciando il posto ad una leggerezza confortevole.
«Avevo iniziato a pensare che non saresti venuta», esclamò Harry, più seriamente.
Lei lo guardò solo per un istante, a disagio per quell’affermazione. «Ma eccomi qua», sospirò. Non si chiese se l’avesse aspettata, se si fosse domandato dove fosse, né perché: preferiva credere di fraintendere le sue parole ed il suo tono, nonostante conoscesse entrambi molto bene.
«Da sola?» domandò lui, senza distogliere lo sguardo dal suo viso: se lo sentiva addosso, incollato alla pelle, come se la stesse ridefinendo accuratamente. Si passò una mano tra i capelli sciolti e si sforzò di cercare un contatto visivo che avrebbe potuto difenderla.
«Miles sta arrivando», spiegò con sicurezza.
Harry annuì e lei tornò a guardare di fronte a sé.
«Questo vestito ti sta bene», esordì di nuovo dopo qualche istante, facendole trattenere il respiro per un breve secondo.
Emma sbatté le palpebre e serrò la mascella. Era lusingata da quel complimento inaspettato, come ogni donna lo sarebbe stata, ma non si fidava della sottile differenza che provava quando era lui a provocare quella sensazione. Si voltò per osservarlo, per dare una conferma o una smentita alle proprie supposizioni: le iridi di Harry erano serie, velate da quella sincerità che era rimasta invariata e troppo ostinata, e si rendevano a lei come per assicurarle un dubbio. Ogni cosa di lui, in quel momento, persino il suo modo di respirare, le era tanto familiare da non poter essere sottovalutata.
«Che cosa stai facendo?» gli chiese a bassa voce.
«Ti faccio un complimento», rispose lui, rilassando l’espressione con una malizia evidente e beffarda, consapevole.
«Perché devi fingere che io non ti conosca?» ribatté Emma, contrastando le sue parole vaghe e fintamente innocenti. Non capiva a che gioco stesse giocando, cosa l’avesse portato a quel repentino cambio di atteggiamento nei suoi confronti, soprattutto dopo i loro ultimi trascorsi.
«Perché è più divertente», disse, alzando un sopracciglio ed inumidendosi le labbra inclinate.
Lei inspirò a fondo, senza riuscire a sconfiggere un sorriso incredulo, e si guardò intorno solo per cercare qualcosa da ribattere, che potesse scuotere lui allo stesso modo. Proprio in quel momento, però, notò qualcuno accanto a Zayn e Melanie.
«Allora spero ti sia divertito abbastanza», esclamò quindi, allontanandosi dal bancone, «perché ora devo andare», continuò. Harry sembrò confuso per qualche istante, ma ben presto si accorse del motivo di quella interruzione, dato che riconobbe Miles a pochi metri da loro. Annuì e la lasciò andare via, senza esporsi.
Emma raggiunse il suo ragazzo con un sorriso: gli si strinse contro senza nemmeno dargli il tempo di accorgersi di lei, baciandogli il collo profumato. «Di’ un po’, non si usa più rispondere al telefono?» lo rimproverò, mentre lui le avvolgeva il corpo con un braccio e le sorrideva sulle labbra.
«Me ne sono dimenticato», ammise, per poi avvicinarsi al suo orecchio come per raccontarle un segreto. «Sono un po’ brillo», sussurrò.
«Confermo», esordì una voce femminile.
Emma non si era accorta della presenza di Lea, ma la trovò una piacevole sorpresa. «E tu che ci fai qui?» le chiese allegramente, ancora tra le braccia di Miles. I capelli biondi erano racchiusi in una treccia sfatta sulla spalla sinistra, mentre il corpo era coperto da un abito blu notte che le si legava intorno al collo per scendere morbidamente sulle sue curve.
«È sabato sera ed io non avevo nessun programma, stranamente», si spiegò. «Quindi mi sono imbucata alla cena con il mio fratellone – cosa per la quale dovresti ringraziarmi, dato che gli ho evitato una bella sbronza – e poi mi sono imbucata anche qui, per ricompensa personale», continuò, stringendosi nelle spalle.
«Sei comunque la benvenuta», la accolse Zayn, con la gentilezza che il festeggiato deve manifestare. Melanie, al suo fianco, per un attimo lo guardò con sospetto: era normale sentirsi in qualche modo intimorite da Lea, da ogni suo movimento ricco di fascino.
«Andiamo a ballare?» domandò intanto Miles, stringendole il fianco sinistro con una mano. Emma lo osservò divertita, carpendo una spensieratezza nei suoi occhi che non percepiva da un po’ di tempo: lo afferrò per un polso e lo trascinò via, dirigendosi verso il centro del locale ed in mezzo alle numerose persone che li avevano anticipati.
Miles non era un grande ballerino, non lo era mai stato: consapevole di questa sua pecca, però, non ne faceva un dramma e scherzava sui propri movimenti scoordinati per renderli ancora più buffi. Così, anche in quel momento teneva gli occhi chiusi ed il viso rivolto verso l’alto, con un labbro stretto tra i denti in una smorfia di concentrazione, mentre si muoveva secondo il ritmo della canzone, o almeno mentre ci provava.
Emma gli stava di fronte, con gli occhi pieni di lui e della sua leggerezza: erano sempre più rari i momenti in cui riuscivano ad abbandonare qualsiasi problema li minacciasse, quelli in cui Miles riusciva a liberare il proprio sguardo dal rimorso e dal dolore, e lei era intenzionata a non lasciarsene scappare nemmeno uno.
Miles le prese entrambe le mani ed improvvisò qualche passo confuso, facendola ridere, poi la guidò in una giravolta ed in un casqué per niente adatto a quel genere di musica. Se la strinse contro respirando sul suo collo, imprimendo le proprie mani sulla sua schiena. Lei si aggrappò al suo maglioncino in cotone grigio.
«Mi sei mancata oggi», le disse, costretto ad alzare la voce per sovrastare tutto il resto.
Emma gli baciò la mascella. «Ti sta bene: la prossima volta impari a dormire fino all’una del pomeriggio», ribatté, rinfacciandogli il mancato appuntamento di quel giorno. Da quando si era svegliata, aveva aspettato un suo messaggio o una chiamata, ma era stata costretta a darlo per disperso.
«Per questo ti sei messa questo vestito? Per farmela pagare?» le chiese, accarezzandole un fianco con la mano, fino a scendere sulla sua coscia nuda, dove l’orlo del suo abito le solleticava la pelle. Emma chiuse gli occhi e si morse un labbro.
«Forse», ammise: sapeva che quel vestito era uno dei suoi preferiti e non poteva negare che la sua scelta non fosse stata del tutto casuale. Per un brevissimo istante, la sua mente ostinata le ricordò che anche qualcun altro aveva apprezzato il suo abbigliamento: si sforzò di non perdersi in paragoni, forse spaventata dal possibile esito.
«Sei crudele, Emma Clarke».
Lei sorrise soddisfatta e gli baciò le labbra, più e più volte, fin quando persero interesse persino nel muoversi, fin quando si sentirono obbligati a restare immobili e al di fuori da tutto resto, concentrati l’uno sull’altra e sulle proprie mani.
 
 
 
Emma gli si avvicinò a passi svelti e lo spintonò con poca energia, attirando la sua attenzione. «Quella è la sorella di Miles», esclamò diretta.
Harry strabuzzò gli occhi e deglutì il sorso di bibita che aveva in bocca: era seduto su uno dei divanetti del pub, con lo sguardo più assente e l’alito più aromatizzato. «Di chi stai parlando?»
«Di quella ragazza con la quale ti sei strusciato fino a due minuti fa».
«E allora?» ribatté, sorridendo a labbra chiuse.
«Lo stai facendo per dispetto?» insistette lei, appoggiando le mani sui fianchi. Li aveva visti ballare in modo inequivocabile, li aveva visti guardarsi in modo inequivocabile e persino toccarsi in modo inequivocabile: e non era gelosa, non gli dava fastidio che Harry potesse avere qualcuno – ovviamente -, ma trovava alquanto curioso che quel qualcuno dovesse essere proprio Lea.
«Come, scusa?» chiese Harry, corrugando la fronte.
«Tra tutte le ragazze che sono presenti a questa festa, hai deciso di fartela proprio con lei?»
«Dal momento che le ragazze più carine sono tutte fidanzate o terribilmente ubriache, sì, me la faccio proprio con lei», rispose con calma, stringendosi nelle spalle. «E poi forse non l’hai vista bene, ma è una gran f-»
«L’ho vista molto bene, credimi», lo interruppe, indispettita. «Ma non è questo il punto: trovo comunque una strana coincidenza il fatto che-»
«Per caso sei gelosa?»
Emma sbatté le palpebre, circondandosi di incredulità. «Assolutamente no», affermò.
«Bene, allora il discorso è chiuso», continuò Harry, bevendo ancora un sorso dal proprio bicchiere. «Non capisco nemmeno come tu abbia avuto tempo di immischiarti negli affari miei, dato che eri tanto impegnata con il tuo ragazzo». Il tono che si faceva più duro.
«Per caso sei geloso?» lo imitò.
«No», negò. «Fino a prova contraria sei tu ad essere venuta a farmi la predica».
«Non ti sto facendo la predica», lo contraddisse. «Ti sto solo dicendo che, se il tuo obiettivo è quello di farti Lea solo per darmi fastidio, sei sulla cattiva strada».
«Perché dovrei farmi qualcuno per dare fastidio a te? E comunque, il problema non sussiste: ti ho già detto che tu non c’entri niente, quindi non vedo perché continuare questa…. Cosa».
Emma lo osservò attentamente, con una punta di rabbia a sollecitarla. «Hai ragione», sospirò, prima di voltargli le spalle ed andarsene.
 
 
 
Miles era in piedi alla sua sinistra, con un braccio intorno alle sue spalle ed il corpo in precario equilibrio: stava fingendo di non essere così ubriaco, ascoltando con stentata attenzione il discorso di due colleghi di Zayn. Emma gli sussurrava qualcosa all’orecchio ogni volta che rischiava di cedere, divertita dalla sua perseveranza.
«Perché non lo porti a casa?» le chiese Aaron, abbozzando una risata.
«Sì, tra poco ce ne andiamo», rispose lei: era tardi ormai, gran parte delle persone se ne erano andate ed i tacchi le stavano torturando i piedi. «Tu invece quando porti a casa lui?» ribatté, indicando con un cenno del capo Louis, con troppo alcool nelle vene.
«Certo che Zayn se li sceglie bene gli amici», mormorò Louis stesso, mordendosi un labbro e seguendo con lo sguardo un ragazzo che passò loro di fianco.
Aaron sospirò e strinse un po’ di più il bicchiere che teneva tra le mani.
«Louis, per quanto ancora resterai a Bradford?» domandò Emma, cercando di attirare la sua attenzione e di dare una tregua al suo amico.
«Una settimana, credo. O due», rispose quello. «È bello quando tuo padre è anche il tuo capo: hai molte più ferie degli altri».
«Solo se si tratta di tuo padre», precisò, abbozzando un sorriso teso.
«Cristo, puoi smetterla di fare la radiografia a qualsiasi essere di sesso maschile ti passi di fianco?» sbottò all’improvviso Aaron, attirando l’attenzione di Louis, che si era di nuovo perso nei dettagli di qualche altro sconosciuto. Anche Miles ed i suoi compagni di conversazione si ammutolirono all’istante.
Emma sospirò silenziosamente e fu tentata di allungare una mano verso la schiena di Aaron, per farla rilassare insieme ad ogni altro suo muscolo.
«Babe, calmati», esclamò Louis, corrugando la fronte.
«No, devi piantarla», fu la risposta che ottenne: il tono così duro ed imperativo da non lasciare spazio ad alcuna esitazione, ad alcuna scusa. Era evidente che avesse raggiunto il limite di sopportazione. «È tutta la sera che non fai altro e mi sono davvero rotto».
«Non dire stronzate. Sbaglio o mi sono scopato te nei bagni, solo poco fa?»
A quel punto, i due intrusi si allontanarono in silenzio ed Emma allungò davvero la sua mano per donargli un po’ di conforto. «Hey, è ubriaco, lo sai», esclamò piano, tentando di riparare ciò che difficilmente poteva essere riparato con tanta semplicità.
Aaron respirava velocemente: si scansò dal suo tocco e guardò Louis con disprezzo. Gli diede una spinta che quasi lo fece cadere a terra, più per la sua scarsa lucidità che per la forza con la quale era stata impressa. «Vaffanculo. Mi fai proprio schifo», gli urlò contro, prima di allontanarsi velocemente ed uscire dal locale.
Miles strinse un po’ di più il corpo di Emma contro il proprio, come per chiederle cosa sarebbe stato meglio fare. Louis, invece, abbassò per un attimo lo sguardo e strinse i pungi: l’aria persa, ferita e forse consapevole. L’attimo dopo, alzò lo sguardo su di loro e sorrise apertamente, con le labbra che quasi gli tremavano. «Di cosa stavamo parlando?» domandò, come se non fosse successo nulla.
«Louis-»
«Vado a prendere da bere, ci vediamo dopo», la interruppe, forse per anticipare parole che già prevedeva: e se Emma sperava di vederlo seguire Aaron, dovette guardarlo mentre si allontanava nella direzione opposta.
«Wow», sospirò Miles, passandosi una mano tra i capelli disordinati.
«L’avevo avvertito», disse lei, abbracciandogli il busto. «Sarebbe accaduto, prima o poi: spero solo che riescano a chiarire, questa volta». Quella scena era stata un semplice remake di innumerevoli altre, nonostante Aaron avesse espresso un più profondo grado di esasperazione, di malinconica arrendevolezza.
«Secondo te ce la fanno?»
«Ho paura di no», rispose Emma, abbassando il tono: non sapeva per quanto ancora avrebbero resistito e la speranza si era esaurita diversi mesi prima.
Miles si guardò intorno, forse per controllare che Louis fosse davvero andato a prendere da bere, ma il suo sguardo si inasprì all’improvviso, facendo increspare anche le sue labbra. Emma se ne accorse e corrugò la fronte, ma non ebbe il tempo di chiedergli una spiegazione, perché dovette accettare un bacio improvviso ed irruento. Sentì le sue mani circondarle il volto, accarezzandola con possesso, e non riuscì a comprendere cosa stesse accadendo.
Allontanò il viso dal suo senza rifiutarlo, guardandolo con aria interrogativa e poi voltandosi per poter scoprire il motivo di quel comportamento inaspettato: non appena scorse Harry dall’altra parte della sala, seduto ad uno dei tavoli con gli occhi fissi su di loro, strinse i pugni e tornò con lo sguardo sul viso di Miles.
«Non devi dimostrare niente», gli disse, sfiorandogli il collo con le dita. Era ovvio che lui avesse voluto imporre la propria posizione, confermare il proprio ruolo a chi credeva potesse minacciarlo. Per tutta la sera avevano cercato di evitarlo, intenti a non rovinare l’atmosfera con alcun probabile intralcio: Emma l’aveva notato più volte tra tutti gli altri invitati, in conversazioni casuali ed impegnato a ballare con divertimento, ma talvolta l’aveva anche scoperto con gli occhi su di sé, come a controllarla.
«Sarò anche ubriaco, ma non devi trattarmi da stupido», la rimproverò, con l’espressione a riflettere il suo stato d’animo, la sua preoccupazione. «Odio come ti guarda».
Emma respirò profondamente e fu tentata di girarsi ancora una volta verso Harry, per avere un’ulteriore conferma: anche lei aveva subito notato l’intensità con la quale li stava osservando, così come si era accorta del suo comportamento più malizioso durante la serata. Poteva comprendere che Miles si sentisse a disagio nel saperla nelle sue vicinanze, anche se non voleva che dubitasse di lei: non voleva dar credito a qualsiasi intenzione stesse muovendo Harry.
Per dimostrarglielo, gli si avvicinò lentamente, con una dolcezza che avrebbe dovuto essere una richiesta di perdono, e gli baciò le labbra senza fretta. «Io sto guardando te».
«Ragazzi, che serata!» strillò Lea, fiondandosi su di loro e stringendo entrambi tra le sue braccia magre. Gli zigomi arrossati erano un timido segno del fatto che fosse quasi ubriaca. «Emma, non mi avevi detto di avere amici così divertenti!»
Lei sorrise appena, mentre veniva lasciata libera da quel goffo abbraccio: subito il suo pensiero tornò ad Harry e Lea. Per fortuna Miles non li aveva visti, perché non sapeva che reazione avrebbe avuto: probabilmente sarebbe stato sollevato dal constatare che il suo presunto rivale avesse altri interessi, o, più probabilmente, si sarebbe infuriato ancora di più.
«Sì, ma ora è meglio andare», esclamò Miles, portandosi una mano sulla fronte. «Potrei vomitare da un momento all’altro».
«Voi andate pure», rispose la sorella, con una energica euforia nella voce. «Io torno più tardi: mi faccio dare un passaggio».
Il fratello sospirò arreso ed Emma annuì, prendendolo per mano. «Non hai idea del ragazzo assurdamente figo che ho rimorchiato stasera», le sussurrò Lea all’orecchio, prima di scappare via.

 





 


Buonasera :)
Sì, sono in anticipo: spero l'abbiate apprezzato! Oggi sono giù di morale e avevo bisogno di sfogarmi, quindi entrano in gioco Harry ed Emma :)
Fino all'altro ieri non avevo idea di quello che sarebbe accaduto, l'unica cosa che avevo in mente era Harry che le mandava quel messaggio, quindi ho dovuto creare una situazione in cui fossero presenti quasi tutti i personaggi per le diverse dinamiche:
- Harry/Emma: spero sia chiaro il nuovo (e familiare) atteggiamento di Harry, ma non ho intenzione di commentarlo! Lascio a voi il "compito" ahhaa
- Harry/Lea: bocca cucita, quindi non venitemi a chiedere se avranno una storia oppure no etc etc :) Ciò che importa è che Emma si è sentita in dovere di mettere in chiaro alcune cose ahhaha Secondo voi era gelosa o credeva davvero che fosse un modo per infastidirla? (Anche lei è presuntuosa, in ogni caso ahha) Ed Harry si è avvicinato di proposito a Lea oppure no?
- Emma/Miles: la loro spensieratezza non è stata molto libera di svilupparsi, data la presenza di Harry, ma ci hanno lavorato tu! Nella scena finale Miles, nonostante sia ubriaco, cerca ancora una volta di manifestare il suo disappunto (come vedete, nelle giuste circostanze sa essere geloso): persino Emma si sente in grado di giustificarlo, dato che si è accorta del comportamento di Harry.
- Louis/Aaron: mi dispiace di avervi messo quello spoiler, illudendovi ahahha È successo un piccolo disastro: Aaron ha perso la pazienza e Louis... Be', lui è sempre il solito. Cercherò di approfondire la loro storia, ma devo ancora capire se sia possibile farlo durante questa o se dovrò scrivere un missing-moment! 
In ogni caso, spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto: so che tante persone sono deluse da me e dalla storia, ma spero di rifarmi!
Grazie ancora per tutto! Vi prego di farmi sapere cosa ne pensate, altrimenti io cado in paranoia e CIAO.



Vi lascio tutti i miei contatti: ask - facebook - twitter 

Un bacione,
Vero.

 
 

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci - Time out ***




 

Capitolo dieci - Time out

 

«Anche io voglio andare a giocare!» protestò Camille, imbronciando il suo viso tondo e facendo oscillare le sue gambe magre dalla sedia troppo alta. Portava i fini capelli biondi in due trecce ordinate, che quasi contrastavano con la ribellione nei suoi occhi bruni e determinati.
Emma si sedette al suo fianco, gettando una veloce occhiata a Susan, nell’altra stanza, che aveva iniziato a giocare con le sue bambole. «Potrai farlo anche tu, quando avrai finito i compiti», rispose con pazienza, indicando con un cenno del capo il quaderno che la bambina aveva di fronte a sé, sul tavolo della cucina.
«Ma i miei sono più difficili!» insistette Camille, torturandosi le labbra della bocca piccola e rosea.
«Non si dicono le bugie», esclamò Emma, sospirando stancamente. «Pensi che mi sia dimenticata che andate in classe insieme?»
«Non è giusto», borbottò lei, smorzando la decisione nella sua voce.
«Dovresti fare come tua sorella», le consigliò Emma. «Se al posto di lamentarti ogni cinque minuti ti fossi concentrata, a quest’ora avresti già finito tutto».
La bambina non ribatté, ma sbuffò impugnando malamente la penna cancellabile ed iniziando a leggere ad alta voce l’esercizio di matematica. La voce spensierata di Susan a disturbare il silenzio della casa.
Erano appena le sei del pomeriggio ed il turno di lavoro di Emma sarebbe durato ancora per tre ore: paradossalmente, quella dei compiti scolastici era la parte più rilassante, se paragonata ai capricci per la cena e a quelli caratteristici del momento di spegnere le luci e andare a letto.
Si passò una mano sul volto e sbadigliò, abbandonandosi contro lo schienale della sedia: sul tavolo in legno scuro, lo schermo del suo cellulare si illuminò senza far rumore segnalando l’arrivo di un SMS.
 
Un nuovo messaggio: ore 18.03
Da: Pete!Calciatore mancato
“Kent, tra una settimana mi tolgono il gesso: mi accompagni? Ah, ti saluta Dallas”
 
Emma fissò quelle poche parole con astio, alzando gli occhi al cielo.
«Camille: cinque più tredici non fa diciassette», disse nel mentre, seguendo distrattamente i calcoli della bambina pronunciati ad alta voce.
 
Messaggio inviato: ore 18.05
A: Pete!Calciatore mancato
“Primo: sì, ti accompagno. Secondo: PIANTALA di chiamarmi Kent. Terzo… Il deficiente è tornato in città?”
 
Non capiva con quale faccia tosta Dallas potesse inviarle i suoi saluti e sperava che Bradford non fosse interessata da un altro ritorno inaspettato.
Si era trasferito a Manchester nemmeno dieci mesi prima, per continuare la convivenza con Ruth nella sua città natale: non che fosse stato quello il motivo del loro allontanamento, dato che il loro rapporto si era logorato nemmeno un anno dopo la maturità. Emma non aveva mai pensato che lui potesse essere il tipo di ragazzo che è disposto a rovinare un’amicizia, pur di non compromettere la sua relazione, soprattutto perché non aveva mai creduto che la loro amicizia avrebbe mai potuto compromettere qualcosa.
Eppure, quando Dallas si era innamorato della sua nuova vicina di casa, Ruth Deily, e quando lei aveva iniziato a temere la presenza di Emma, lui aveva cambiato comportamento: sicuro che, quella che avrebbe dovuto essere la sua migliore amica, non l’avrebbe mai abbandonato per alcune difficoltà, si era preso la libertà di allontanarla sempre di più, arrivando persino a fingere che tra di loro si fosse interrotto qualsiasi rapporto. E se Emma da una parte non se ne capacitava, trovando assolutamente ingiusto il suo comportamento sia nei propri confronti sia in quelli di Ruth, dall’altra aveva cercato di accettare quella nuova situazione, mettendo al primo posto la felicità di Dallas. Presto o tardi, però, gli incontri segreti ed il proprio numero salvato in rubrica sotto falso nome avevano iniziato a starle stretti.
E Dallas non le aveva chiesto di restare.
 
Un nuovo messaggio: ore 18.06
Da: Pete!Calciatore mancato
“Scommetto che nel tuo telefono sono ancora salvato con quel nome di merda, quindi NO, non smetto di chiamarti Kent. Comunque l’ho sentito per telefono”
 
Messaggio inviato: ore 18.09
A: Pete!Calciatore mancato
“Allora appena si rifà vivo mandalo a ‘fanculo da parte mia: non ha nemmeno le palle di salutarmi di persona”
 
Le sembrava di essere al centro di una commedia: mentre Dallas era ancora a Bradford e da quando non potevano nemmeno più considerarsi amici, il massimo che si concedevano era un cenno del capo in segno di saluto – solo quando Ruth non era presente, ovviamente. Con il suo trasferimento a Manchester, invece, era come se non fosse mai esistito: Emma si infuriò, la prima volta che Dallas usò Pete per cercare un contatto o qualsiasi cosa avesse in mente, e si infuriò anche le successive dieci volte.
«Questo non lo so fare. Posso andare a giocare?» esclamò Camille, con una falsa innocenza nel tono di voce acuto.
«Camille…» sospirò soltanto Emma, guardandola con blando rimprovero. La bambina sbuffò e riprese il suo dovere.
 
Un nuovo messaggio: ore 18.11
Da: Pete!Calciatore mancato
“Sapevo come avresti reagito, quindi l’ho già fatto”
 
Messaggio inviato: ore 18.12
A: Pete!Calciatore mancato
“E lui che ha detto?”
 
Un nuovo messaggio: ore 18.14
Da: Pete!Calciatore mancato
“Che è un coglione. E non hai idea di quanto io abbia aspettato che lo ammettesse: forse è dalla quinta elementare”
 
Messaggio inviato: ore 18.15
A: Pete!Calciatore mancato
“Dio, quanto è stupido”
 
Probabilmente era infantile aggrapparsi così tanto a qualcosa attraversato anni prima, ma provava una tale dose di rancore da essere impossibile far finta che non esistesse.
 
Un nuovo messaggio: ore 18.15
Da: Pete!Calciatore mancato
“Per una volta che dice una cosa sensata!”
 
Messaggio inviato: ore 18.16
A: Pete!Calciatore mancato
“Sei il migliore”
 
Un nuovo messaggio: ore 18.17
Da: Pete!Calciatore mancato
“Non fare la lecchina, mi devi ancora le dieci sterline che ti ho prestato l’altro giorno”
 
 
 
 
Emma scese le scale lentamente, massaggiandosi il collo e ravvivandosi i capelli meno voluminosi del solito: era leggermente in ritardo, quindi doveva fare in fretta per arrivare a casa di Melanie ad un orario decente. La sorella l’aveva infatti invitata ad uscire, promettendole una serata di placido svago.
Premette il pulsante per aprire il cancelletto della casa delle gemelle ed uscì a passi lenti, facendo mente locale per ricordarsi dove avesse parcheggiato l’automobile.
«Stavo per chiamarti», esordì una voce al suo fianco. Scherzosa, bassa. Sua.
Emma sobbalzò e si portò una mano al petto, spaventata da quell’intrusione. Sbuffò e si voltò alla propria destra, fermando il proprio sguardo sulla figura di Harry: in piedi con le mani nelle tasche dei jeans neri, sembrava infreddolito nel suo maglioncino scuro.
«Harry, santo cielo…» borbottò, passandosi una mano sul viso in segno di arrendevolezza.
«Ciao», sorrise lui, come se si stesse divertendo oltre ogni misura.
«Si può sapere cosa stai facendo?» gli chiese, corrugando la fronte stancamente. «Come fai a sapere dove lavoro?»
Lui alzò le spalle e si avvicinò di un passo, permettendo alle luci dei lampioni di illuminargli meglio il volto rilassato. «Sono venuto a prenderti, ovvio», le rispose, ricordandole di quando due sere prima si era svolta una scena simile. Un complimento inaspettato e la richiesta di spiegazioni, una risposta scontata ed uno sguardo di sospetto.
«Torna a casa, devo vedermi con Melanie», gli suggerì, facendo per allontanarsi. Si sentiva indisposta, quasi la sua sola vista potesse metterla a disagio: doveva ancora capire se fosse a causa della stanchezza o di qualche altro assurdo particolare.
«Melanie è a cena con Zayn, in questo momento».
Emma si fermò e si voltò a guardarlo, con gli occhi confusi ed una decina di domande a stuzzicarle le labbra. «Tu che ne sai?»
Harry si limitò ad alzare un sopracciglio.
«Ah, non importa», lo liquidò con un sospiro. «Ti sbagli, mia sorella mi sta aspettando a casa».
«No», la contraddisse senza scomporsi. Nell’aria una sfida, un sottinteso ilare.
Lei assottigliò gli occhi e si fece più nervosa, grazie alle dinamiche che non riusciva a cogliere. «Parla», gli ordinò soltanto, scandendo ogni lettera: non le piaceva essere in una posizione di svantaggio, ma poteva contrastarla.
«È stata la piccola Melanie a darmi l’indirizzo», sospirò Harry, indicando con un cenno del capo l’edificio alle loro spalle. Emma ignorò il protratto utilizzo di quel soprannome e si concentrò sullo strano gesto di sua sorella. Finalmente poteva capire cosa fosse realmente accaduto: Melanie l’aveva incastrata in un impegno in modo che non potesse prenderne altri, per esempio con Miles, ed in modo che Harry potesse aspettarla e farle una sorta di sorpresa. Quello che ancora non comprendeva era il perché di quell’improvvisa alleanza contro di sé.
«Che stronza», mormorò Emma, mordendosi il labbro inferiore e distogliendo per un istante lo sguardo dal viso compiaciuto di Harry. «E tu… Non potevi semplicemente chiedermi di vederci?»
«E rischiare di ricevere un no come risposta?» ribatté lui, facendo schioccare la lingua sul palato. Le mani ancora in tasca ed i capelli sciolti un po’ disordinati. «Senza contare che è divertente vederti così infastidita».
Di nuovo quelle parole.
«Per te sembra essere tutto molto divertente», lo rimproverò senza rabbia, scuotendo la testa e dirigendosi verso la propria auto. Era sinceramente allibita dalla sua presenza, dai sotterfugi ai quali era ricorso solo per non ricevere un rifiuto: e sì, era infastidita dalla sicurezza che ostentava nel credere che, una volta presentatosi sul suo posto di lavoro, lei avrebbe di certo accettato di passare del tempo insieme. A che scopo poi?
«Allora? Dove andiamo?» la rincorse Harry, affiancandola con un ghigno sul volto. La sua insistenza era familiare, era un ricordo di ciò che avevano condiviso: spesso l’aveva impugnata Emma, ma non erano state poche le volte nelle quali Harry stesso si era mostrato intraprendente.
In un certo senso, temeva il significato di quel comportamento, proprio come l’aveva temuto due sere prima.
«Io torno a casa, tu fai quello che ti pare», rispose lei, aprendo lo sportello della propria auto e gettando sul sedile posteriore del passeggero la borsa che teneva sulla spalla destra.
«Come sei scortese», commentò Harry, trattenendola con uno sguardo.
«Non ho le forze per sopportarti, in questo momento», replicò, con un sorriso beffardo sul volto.
Lui ricambiò il gesto, divertito. «Ce ne vogliono così tante?»
Emma sbatté le palpebre e «Sì?» esclamò, come se fosse stato ovvio.
«Ok», le concesse Harry, alzando le mani in segno di resa. «Ma almeno accompagnami a casa».
«La tua macchina dov’è?» indagò, cercando di sventare il suo volersene approfittare.
«Sono venuto a piedi».
«Fin qua?» domandò incredula: diversi chilometri dividevano casa Styles da quella delle gemelle.
«Che c’è, ti preoccupi per me?»
«Harry», lo ammonì, trattenendo un sorriso esasperato. Era combattuta: se da una parte la divertiva quel loro modo di rapportarsi, dall’altra si sentiva in dovere di tenere alta la guardia, come se un improvviso attacco avesse potuto indebolirla da un momento all’altro.
«Avanti, non vorrai farmi attraversare la città nel buio, da solo, in balìa di tutti i pericoli ch-»
«Non sono nemmeno le dieci», lo interruppe, per metter fine alla sua patetica messa in scena.
«Accompagnami a casa», ripeté Harry, in una pretesa smorzata, morbida.
Emma alzò gli occhi al cielo e sbuffò sonoramente, forse anche per fargli notare quanto le pesasse quel gesto. E per convincersene. Non gli rispose, limitandosi a salire in auto e a rabbrividire per lo sbalzo di temperatura: Settembre stava portando con sé temperature sempre più ingannevoli e la sua vecchia Golf blu non era in grado di gestirle a dovere.
Harry camminò velocemente, con la soddisfazione dipinta sul volto, e prese posto sul sedile del passeggero: il capo sfiorava il tettuccio dell’auto, mentre le gambe lunghe erano piegate leggermente più del normale per potersi adattare allo spazio ridotto.
«Sei migliorata o guidi ancora come sei anni fa?» le chiese, allacciandosi la cintura ed accendendo la radio.
Emma lo guardò stralunata, confusa dalle libertà che si stava concedendo. «Faccio sempre in tempo a lasciarti a piedi», lo avvisò, ingranando la retromarcia per fare manovra ed uscire dal parcheggio stretto. Il ricordo della sua prima volta al volante a riempire l’abitacolo.
Lui rise e non ribatté, impegnato a cambiare stazione musicale ogni tre secondi, alla ricerca di qualcosa che lo incuriosisse. Era strano rapportarsi con il suo nuovo umore, non trovare traccia della tensione che l’aveva irrigidito oltre ogni limite di sopportazione o del rancore che le riservava: lei non credeva fosse possibile che avesse superato ed accettato tutto ciò su cui avevano discusso, ed era per questo motivo che stentava a fidarsi della sua spensieratezza, del suo giocoso atteggiamento.
«Qui gira a destra», la istruì, una volta arrivati alla fine della via nella quale si trovavano.
«Conosco la strada», gli ricordò. E svoltò a sinistra.
Harry la osservò indispettito, con le labbra inclinate in un mezzo sorriso. «Infatti», confermò in una palese presa in giro.
Emma si arrestò ad un semaforo arancione e strinse il volante nella mano destra. «Passando per Lays Street si arriva prima», si giustificò, guardando dritto di fronte a sé per non dargli alcuna soddisfazione. Non le importava nemmeno di avergli suggerito che volesse porre fine a quel momento il più in fretta possibile, anche se non era del tutto vero.
Lui si accigliò, sospettoso, ed allungò una mano per cambiare nuovamente stazione musicale.
Emma sbuffò, allungò una mano e tornò sulla stazione precedente, alzando il volume in un chiaro divieto a privarla per una seconda volta della canzone che stava ascoltando.
«Rallenta», le ordinò, poco dopo esser ripartiti.
«Non siamo più nella tua macchina», gli fece presente, senza prestargli ascolto. A differenza sua, rispettava i limiti di velocità e tutte le norme stradali, nonostante lui diventasse paranoico se non si trovava alla guida.
Harry sospirò ed aumentò i riscaldamenti dell’auto, canticchiando a labbra chiuse l’ultima hit del momento. Si muoveva come se si trovasse nel suo ambiente, con una straordinaria tranquillità, e chissà se fosse solo un modo per mettersi a proprio agio.
«Non dovevi girare a sinistra?» domandò all’improvviso, voltandosi all’indietro per potersi accertare dell’errore.
Emma alzò gli occhi al cielo, di nuovo, e si sistemò meglio sul sedile. «No».
«Invece sì», la contraddisse Harry.
«Ti ho già detto che conosco la strada, piantala».
«E mi hai già dimostrato due volte di conoscere una strada del cazzo», cantilenò.
Lei si obbligò a non ribattere: semplicemente, accostò alla prima occasione ed inserì le quattro frecce, mentre il traffico continuava a scorrere intorno a loro. Si voltò a guardarlo con un sopracciglio sollevato e lo sfidò, in una tacita minaccia: sarebbe davvero tornato a piedi, se non avesse smesso di importunarla.
Harry si concesse un iniziale sorriso incredulo, solo per poi trasformarlo in una risata sommessa: gli occhi quasi chiusi e le fossette ben visibili, infantili anche se su un viso ormai da uomo. Emma ne fu contagiata, ma cercò di trattenersi il più possibile, ingranando la prima ed immettendosi di nuovo in strada.
 
«Continuo a pensare che se avessimo fatto la mia strada, saremmo arrivati più in fretta», esclamò Harry, slacciandosi la cintura mentre Emma parcheggiava di fronte casa sua: avrebbe potuto semplicemente accostare, ma le era venuto naturale.
Sapeva che il problema non era arrivare prima o dopo rispetto ad una tabella di marcia, ma solo vincere una delle loro solite schermaglie: dopo sei anni, non erano ancora scomparse.
«Che palle che sei», si lamentò lei, accennando un sorriso nel voltarsi ad osservarlo. La radio era ancora accesa, i riscaldamenti erano stati spenti.
«Va bene, time out», sospirò lui.
Emma prestò attenzione all’atmosfera che li circondava, alla leggerezza che l’aveva sostenuta per tutto il tragitto impedendole di pensare: i lineamenti di Harry così rilassati, però, la obbligavano ad interrogarsi sulla loro natura.
Si fece più seria, accogliendo con naturalezza il silenzio che si fece spazio tra di loro.
«Non riesco a capirti», sussurrò dopo una manciata di secondi, rischiando di essere sopraffatta dalla voce concitata dello speaker radiofonico. Le sue iridi lo stavano studiando, per avvicinarsi ad una risposta.
«Cosa non capisci?» le domandò lui, senza alcun tono beffardo o compiaciuto.
«Non capisco perché tu sia cambiato così all’improvviso», gli rispose con decisione. «Perché tu ti comporti in questo modo, se fino a poco fa eri disposto solo a rinfacciarmi tutti i miei errori». Non c’era bisogno di spiegare in quale modo si stesse comportando, perché era evidente e loro, per quanto potessero giocare a non accorgersene, non erano stupidi.
«Mi hai chiesto di smettere di farlo», le spiegò Harry, risoluto.
Emma assottigliò gli occhi. «Sì, ma tu non sei il tipo che fa qualcosa solo perché gli viene chiesto. Non lo sei mai stato», rifletté. La sincerità che si era evoluta con la loro crescita era confortante, come se le difficoltà di un tempo, nella comunicazione, potessero essere smorzate e ridotte.
Harry attese qualche istante prima di rispondere con serietà, stringendosi nelle spalle. «Magari lo sono diventato».
«È questo il punto: ogni tanto scorgo qualcosa dell’Harry di sei anni fa, ma poi penso che forse è solo un’illusione, che forse sei davvero un’altra persona, e allora non sono più sicura di conoscerti, di sapere quello che ti passa per la testa».
«Perché, cosa credi mi passi per la testa?» chiese lentamente, come se fosse stato sinceramente curioso di avere una risposta. Stava riflettendo, lo si notava dal mondo in cui la osservava con attenzione, e probabilmente stava valutando se scoprirsi un po’ di più oppure no.
«Sembra quasi che tu ci stia provando con una ragazza fidanzata», spiegò Emma: il suo essere diretta e consapevole non era affatto cambiato. Non era ingenua, sapeva riconoscere le attenzioni di un ragazzo ed era abbastanza sicura di sé da non dubitarne: aveva incluso in quella risposta la puntualizzazione su Miles per stabilire un limite prima ancora che fosse necessario, come a ricordargli la situazione, come a sottolinearla anche a se stessa.
«Lea è fidanzata? Non lo sapevo», commentò Harry, corrugando la fronte.
Emma sbatté più volte le palpebre e schiuse le labbra, allibita da quelle parole inaspettate ed inaspettatamente serie: che diavolo c’entrava Lea? E perché si era sentita pungere da uno spillo affilato proprio quando aveva compreso l’allusione? Percepì una sensazione simile a quella che aveva provato quando li aveva visti insieme.
«Lea non è fidanzata», disse a denti stretti. Si sentiva una vera stupida ed un’illusa.
Harry inclinò le labbra in un sorriso e si inumidì le labbra. «Lo so, stavo scherzando», esclamò, con un’espressione compiaciuta. Aveva sicuramente notato i lineamenti di Emma tendersi per la stizza e si stava sicuramente crogiolando nella soddisfazione: stava evitando il discorso, puntando su una breccia di debolezza che aveva scorto.
Lei lo fulminò con lo sguardo e sbuffò, osservando qualcosa di indefinito fuori dal parabrezza.
«Sai, non credo che parlare di me e Lea dovrebbe farti ingelosire in questo modo», riprese Harry, sferrando l’attacco che era prevedibile.
Emma serrò la mascella, ma non si mosse. «È la seconda volta che lo insinui, e per la seconda volta ti ripeto che non sono gelosa», replicò dura. La gelosia era un’altra, ai suoi occhi: la gelosia era quella che l’aveva consumata al pensiero di Miles con le mani e le labbra sul corpo di un’altra donna, la gelosia era quella che l’aveva condannata ad una perenne insicurezza non degna della sua risoluzione. Quella che provava per Harry era una forma blanda di possesso: come ogni donna che si trovi al centro delle attenzioni di un uomo, si sentiva mancata di rispetto, in un certo senso, nel sapere quello stesso uomo con qualcun’altra, nel sapersi scartata via.
Era vanità, la sua: ne era convinta.
«Sì, hm… Riguardo questo argomento…» ricominciò lui, lentamente. «Posso portarmi a letto chiunque io voglia senza che tu mi accusi di tramare alle tue spalle, giusto? Perché sarebbe un po’ scomodo se tu ti comportassi come l’altra sera con ogni ragazza».
Emma tornò a guardarlo, questa volta, infastidita. «Sei andato a letto con Lea?» gli domandò, tralasciando l’allusione a diverse altre ragazze. Lei e la sorella di Miles non si tenevano in stretto contatto, anche perché quella ragazza aveva un cellulare solo perché tutti gli altri ne possedevano uno, dato che raramente lo utilizzava. Di conseguenza, non sapeva nulla se non quello che aveva visto.
Lo sguardo di Harry si fece provocatorio. «Non vedo come dovrebbe interes-»
«È una mia amica, Harry», lo interruppe.
«E allora?»
«E allora è strano!» esclamò con più enfasi. Il pensiero di loro due avvinghiati in chissà quale posizione la infastidiva a livelli preoccupanti.
Vanità, si ripeté.
Nel rimuginare su quell’ultimo scambio di battute e non ricevendo alcuna risposta, si intestardì. «Comunque sai benissimo che prima non stavo parlando di lei», esordì, mettendolo alla prova. Voleva capire fino a che punto si sarebbe spinto.
«Sì, lo so», disse lui, seriamente.
«E non hai niente da dire?» lo incalzò. Se Harry non aveva ancora negato, era perché non c’era nulla da negare: le attenzioni che le stava rivolgendo erano più chiare di quanto lei temesse, mentre la sua pseudo-relazione con Lea era ancora più fastidiosa.
«Sei fidanzata», rispose lui, con la voce calda, diretta.
Era un promemoria a se stesso o ad Emma?
«Appunto», confermò lei, nel tentativo di comprendere il fine del discorso.
«E anche io non riesco a capirti», continuò Harry, ripetendo le sue parole di poco prima e quelle che lui stesso le aveva rivolto in un messaggio nei giorni precedenti. «Sto cercando di capire alcune cose».
Emma si sentì trascinata nuovamente nel passato: le sembrò di essere tornata nel famoso mezzo che li aveva segnati e guidati. Anche allora Harry non era convinto delle sue azioni e continuava a criticarla e respingerla, solo per poi avvicinarsi ed accoglierla. Che la situazione fosse simile? Che i suoi comportamenti contraddittori fossero un simile tentativo di comprendere meglio lei, se stesso e tutto il resto?
Era come se fossero condannati ad un ripetersi stancante delle stesse dinamiche.
Non gli rispose, troppo impegnata a riordinare le idee.
Harry aprì lo sportello ed un flebile soffio d’aria raffreddò l’abitacolo, scontrandosi con i vetri appannati a causa delle loro voci e dei loro respiri. Sarebbero rimasti impressi lì? Sperava di no.
«Devo andare», annunciò lui, strofinandosi per un attimo le mani grandi sulle cosce. Sul viso la bozza di un sorriso che avrebbe dovuto rappresentare un ringraziamento per il passaggio, come sempre troppo difficile da far pronunciare al suo orgoglio.
Lei annuì e si schiarì la voce. «Ciao», lo salutò semplicemente, girando la chiave per avviare il motore.
Harry la osservò per qualche fuggevole istante, uscendo dall’auto e lasciando una mano sul bordo dello sportello: la schiena piegata per non perderla di vista. Emma intercettò il suo sguardo, cercando di mantenere il proprio il più neutrale possibile, e questo gli diede il permesso di congedarsi definitivamente.
Lei ripartì subito dopo, attivando nuovamente il riscaldamento e sperando che le parole ancora impresse sui finestrini se ne andassero insieme alla patina di umidità.





 


HOLA!
Pubblico in un orario strano perché ho ricominciato l'università e sono appena tornata a casa (uccidetemi....): coooomunque, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che abbiate capito qualcosa in più! Io mi sono divertita a scriverlo, quindi spero che abbia fatto sorridere anche voi :)
- Emma/Dallas: FINALMENTE il vostro Dallas ahhaha Ormai non so più quante volte mi è stato chiesto di lui! Era evidente che i due non fossero in buoni rapporti, dato che non è mai stato nominato fino ad ora, ma ecco svelato il perché: so perfettamente che molte non se lo sarebbero mai aspettato da lui, ma vi assicuro che situazioni del genere non sono così rare (il mio "migliore amico" non si è affato comportato così INFATTI, no, no, no............................). However, che ne pensate? È ovvio che lui abbia sbagliato, ma secondo voi è possibile un riavvicinamento?
- Emma/Harry: Emma non è mai stata ingenua o insicura, quindi sa perfettamente quando qualcuno ci sta provando senza esitazioni, soprattutto se quel qualcuno è Harry. Infatti non si fa problemi a dirglielo: come commentereste il loro discorso? I loro comportamenti? Non voglio approfondire più di tanto, perché credo non ci sia molto da svelare: la situazione è un po' come quella di LG, in fondo, loro due che si respingono e si attraggono con la stessa forza, l'attimo prima urlandosi contro le peggiori cose e l'attimo dopo a stupirsi con un comportamento opposto! Insomma, entrambi hanno ammesso di avere qualcosa da capire: secondo voi, qual è questo qualcosa nel caso di Harry? E qual è il reale ruolo di Lea? (avete opinioni contrastanti su di lei :))
- Melanie/Zayn: loro continuano la loro amorevole vita amorosa in tutta tranquillità aahhaha Questa volta è la "piccola Melanie" ad aiutare Harry per concedergli di vederla: perché?

Detto questo, ci tengo a ringraziarvi infinitamente per tutti i commenti allo scorso capitolo (mi hanno fatto stra-felice, anche perché non me li aspettavo!!) e per tutto l'appoggio che mi dimostrate continuamente :) Spero di non avervi deluse con questo capitolo!



Vi lascio tutti i miei contatti: ask - facebook - twitter 

Un bacione,
Vero.

 
Vi lascio con due simpatici Harry ed Emma :)


  
 

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Capitolo 11
*** Capitolo undici - Sex and loneliness ***




 

Capitolo undici - Sex and loneliness

 

L’appartamento di Louis era piccolo ed arredato con gusti discutibili: la vecchia signora che lo possedeva non permetteva a nessuno di apportare alcuna modifica, ma lui era disposto ad accettarlo, approfittando della scarsa somma da pagare.
Emma era sdraiata sul suo letto, matrimoniale e con alcun molle che non rispettavano il loro dovere: lo osservava distrattamente nella sua ricerca di qualcosa da indossare, arrotolandosi una ciocca di capelli intorno alle dita.
«Aaron?» domandò soltanto, sperando di comprendere meglio la situazione: era in sua compagnia da più di mezz’ora e nessuno aveva toccato l’argomento. Louis sembrava possedere la solita esuberanza e la solita spensieratezza, ma era risaputo che avrebbe indossato quella protezione anche nella peggiore delle situazioni.
«Formula una reale domanda, hun», rispose lui, schioccando la lingua contro il palato ed afferrando una t-shirt solo per poi scartarla: continuava a darle le spalle, senza scomporsi in alcuna reazione.
Emma sbuffò e si mise a sedere, incrociando le gambe sul lenzuolo color crema. «Avete chiarito?»
Louis si voltò lentamente nella sua direzione, guardandola con marcata malizia mentre inclinava un angolo della bocca per abbozzare un sorriso. «Abbiamo fatto sesso», esclamò, tornando ad occuparsi del suo armadio.
«Questa non è una risposta», protestò lei, sospettosa. Nelle loro dinamiche di coppia il sesso non era propriamente qualcosa su cui basare un chiarimento, o almeno non per entrambi.
«Oh, sì che lo è», la contraddisse, con la voce acuta. Scelse un maglioncino in cotone leggero, di un azzurro molto simile ai suoi occhi, lo indossò e si passò una mano tra i capelli, piegandosi per recuperare le sue Vans rovinate da sotto il letto ed indossarle.
«Louis», lo rimproverò Emma.
Lui si sedette sul bordo del letto e la osservò. «Emma, hun», le fece eco, beffardo. «Non capisco dove tu voglia arrivare». Era difficile arrivare da qualsiasi parte con lui, perché non era mai propenso ad aprirsi realmente e perché certe cose nemmeno solleticavano la sua criticità, come se fossero giuste al di fuori di ciò che tutto il resto del mondo pensava.
«Fare sesso non vuol dire discutere e risolvere i problemi», spiegò lei allora, sperando di metterlo di fronte alla realtà. «E tu sai benissimo che Aaron è arrivato al limite: solo perché ti ama abbastanza da cedere ogni volta che ti avvicini, non vuol dire che gli stia bene e non vuol dire che continuerà a farlo. Quindi cerca una soluzione, o presto potrai dire addio al tuo caro Aaron».
Louis indurì lo sguardo, senza però rinunciare alla sfumatura che sembrava urlare di avere tutto sotto controllo, una sicurezza ostentata. «Non mi piacciono le minacce», la ammonì, accompagnato da un sorriso falso.
«Non è una minaccia, è la verità. E non sei così stupido da non accorgertene».
«Hun», sospirò, inumidendosi le labbra. «Non vuoi davvero immischiarti negli affari di due omosessuali che fanno questo da anni».
«Hai dimenticato di contare tutti gli altri omosessuali che ti sei portato a letto mentre facevi questo», rispose piccata. Non riusciva a comprendere come Louis potesse essere così sicuro delle proprie azioni: certo, aveva una propria visione della vita, dell’amore e della libertà, ma si trattava di rispetto.
Per un breve istante, fu in grado di notare la mascella di Louis che si serrava ed il suo corpo che si irrigidiva appena. «Lui sa che gli altri non contano», ribatté.
«No, lui finge che gli altri non contino. Lo fa perché altrimenti la vostra storia sarebbe finita subito dopo essere iniziata, e proprio non capisco perché tu non sia disposto a cambiare per lui, a dargli per una volta quello che merita. Aaron vive in funzione di te e tu lo dai per scontato, ma credimi, è molto probabile che presto o tardi tu tornerai dopo l’ennesima scappatella priva di significato e lui non ci sarà».
L’espressione di Louis si fece più seria: sicuramente quelle parole non erano nuove per lui, sicuramente sapeva perfettamente quanto fossero vere, ma sicuramente era troppo narcisista ed egoista per poter sopportare che qualcuno gliele rinfacciasse. Sospirò subito dopo e riacquistò il controllo, rivolgendosi a lei con un nuovo accenno di sorriso. «Eppure è ancora con me», rispose soltanto, come se avesse appena vinto una piccola battaglia, per poi alzarsi ed entrare nel minuscolo bagno canticchiando una canzone.
Emma alzò gli occhi al cielo e si lasciò cadere sul materasso.
«È senza speranze», sussurrò.
 
 
 
L’entrata spaziosa era piena di luce, grazie alle pareti interrotte da ampie finestre che si affacciavano sulla strada: il via vai del personale movimentava l’atmosfera seria ed impegnata, mentre Emma restava seduta su uno dei piccoli e scomodi divanetti che non venivano utilizzati spesso.
L’ufficio di Miles era al terzo piano, ma lei preferiva non disturbarlo: lavorava come segretario per un imprenditore che, nonostante fosse sempre molto impegnato, teneva particolarmente all’ordine nel proprio ambiente. Di conseguenza, gli estranei – non clienti – non erano ben accetti.
Si sistemò il vestito grigio topo, che con le linee morbide le si posava sulle cosce coperte da calze scure, e controllò ancora una volta l’orologio: erano le tredici passate, quindi non avrebbe dovuto aspettare ancora molto. Recuperò il cellulare dalla borsa e controllò che non ci fossero nuovi messaggi, mandò il buongiorno a Nikole e sbuffò, bloccando lo schermo subito dopo.
Miles uscì dall’ascensore qualche minuto più tardi, cogliendola di sorpresa e ponendo fine alla sua attesa: Emma si alzò subito in piedi e gli si avvicinò con un sorriso radioso, osservando il suo andamento stanco ed il completo nero da lavoro che indossava, la cravatta che gli donava ed il nodo leggermente allentato, i capelli in ordine ed il viso pulito.
Ma notò anche la sua espressione dura.
«Hey», lo salutò con un bacio sulle labbra, accarezzandogli casualmente il petto. Probabilmente era stanco, dato che, per quanto fosse poco retribuito, il lavoro da svolgere era spesso un forte peso: sperava che il pranzo che gli aveva promesso potesse rallegrarlo.
Lui rispose con un respiro profondo, salutando con un cenno della mano qualcuno di passaggio.
«Brutta giornata?» gli chiese in conferma, mentre si apprestavano ad uscire dall’edificio fianco a fianco: avrebbero avuto appena quaranta minuti, quindi si sarebbero dovuti accontentare del chiosco all’angolo della strada.
Dal modo in cui Miles inasprì lo sguardo, ostinandosi a non posarlo su di lei, comprese che ci fosse qualcosa di più, qualcosa che stonava e che la preoccupava.
«Dove sei stata ieri sera?» le domandò al posto di darle una risposta, camminando a passi svelti e con le mani in tasca. I lembi della giacca aperta che venivano scostati dalla brezza leggera.
Emma corrugò la fronte ed attese qualche istante prima di ribattere: era strano che le chiedesse una cosa del genere, dal momento che, una volta tornata a casa, gli aveva scritto di essere stata a prendere una birra in un pub e di essere tornata presto perché troppo stanca. Non le piaceva mentirgli, ma non voleva che si incupisse per la bravata di Harry. «Te l’ho già detto, sono stata con Melanie», raccontò quindi, con la voce controllata.
Miles serrò la mascella e si fermò, prendendo un respiro profondo: lei gli si posizionò davanti, osservandogli il viso teso.
«Perché menti?» sussurrò lui, guardandola per la prima volta negli occhi e trasmettendole più di quanto Emma avrebbe voluto ricevere. Come faceva a saperlo? Perché si era insospettito a tal punto? «Ieri sera ho visto Melanie e Zayn in centro. Tu non c’eri», aggiunse, stringendo i pugni.
Lei mancò un respiro e per poco non cedette all’istinto di scappare e porre fine a qualsiasi cosa fosse in procinto di iniziare: sapeva che lui era uscito con degli amici, ma non aveva pensato alla possibilità che potesse incontrare sua sorella, che non l’aveva avvertita perché sicuramente non si era nemmeno accorta della sua presenza. E Miles non le aveva detto nulla: le aveva dato l’opportunità di essere sincera, per ben due volte, e l’aveva osservata fallire, entrambe le volte.
Gli doveva sincerità, non poteva negarlo, ma aveva così paura delle ripercussioni da essere paralizzata.
Miles non la richiamò, limitandosi a guardarla con quella pretesa dalla quale non riusciva mai a scappare. «Melanie ha dato l’indirizzo delle gemelle ad Harry», ammise, rendendosi alle conseguenze delle proprie azioni, ma non senza la caparbietà che la obbligava a mantenersi comunque oggettiva. «Io non lo sapevo, non-»
«Sei uscita con lui?» la interruppe, assottigliando lo sguardo e facendo un passo in avanti.
«No», si difese, prendendo atto del tono di voce con il quale si era appena scontrata, aspro, incredulo, rabbioso. «L’ho solo accompagnato a casa».
«Eppure hai comunque sentito il bisogno di mentirmi», replicò Miles: restava composto nella sua tensione, rendendo tutto più fragile, come in procinto di un danno ben più grave. «Che cazzo ti prende…» sospirò, passandosi una mano tra i capelli. Emma si stupiva nel vederlo reagire in quel modo, perché era da tanto, troppo tempo che i suoi ammonimenti mancavano o si susseguivano in blandi e rassicuranti rimproveri: era evidente che Harry lo intimorisse più di chiunque altro.
«Ne ho sentito il bisogno perché sapevo che avresti reagito così: sapevo che ti saresti arrabbiato, che mi avresti ripetuto di smettere di vederlo, che avresti pensato che io pro-»
«Se tu non mi nascondessi le cose, forse mi preoccuperei di meno!» sbottò, per poi irrigidirsi e riacquistare il suo solito contegno. Erano nel mezzo del marciapiede, in una strada poco trafficata ma comunque frequentata, e non era il caso di fare una scenata: anche lei si impegnò per non urlare.
«Forse te le nascondo perché tu non sei in grado di sopportarle», gli rispose: non era disposta ad ammettere una completa colpevolezza, quando entrambi avevano le proprie responsabilità.
«Ah, ora è così?» domandò retorico, abbassando la voce. «Prima ti lamenti del fatto che io non sia geloso, ma quando ne ho tutti i motivi e quando ti chiedo di darmi ascolto, pretendi che invece me ne stia zitto?»
Si sentì colpita da quella accusa, perché era fondata; da tempo ricercava in lui una scintilla di possesso ed ora che l’aveva finalmente ottenuta, faceva di tutto per sbarazzarsene: non era sicura che riguardasse Harry, però, perché era più propensa a pensare si trattasse della mancanza di fiducia alla quale si sentiva soggetta.
«Di quali motivi parli?» lo contestò, alzando di poco il proprio tono. «A me sembra solo che tu non abbia uno straccio di fiducia in me, e proprio non capisco il perché! Ti ho detto e ripetuto che Harry non rappresenta alcun pericolo per noi, ma tu continui a mettermi in dubbio: fino a poco tempo fa mi ripetevi di essere sicuro dei miei sentimenti, di essere sicuro che io non avrei mai dato peso alle attenzioni degli altri, mentre ora non posso nemmeno nominare Harry senza ridurti in questo stato. Che cosa è cambiato?»
«Tu! Sei cambiata tu», rispose Miles, colorando la sua voce di un’enfasi che si rifletté anche nel modo in cui le afferrò un braccio per farsela più vicina. «Perché credi che io mi preoccupi tanto? È ovvio che ci sia qualcosa di diverso, rispetto alle altre volte, ed è ovvio che sia qualcosa di evidente, per farmi reagire così!»
«E la mia parola non ha alcuna importanza?» domandò Emma, punta sul vivo. Capiva le sue motivazioni – in parte – perché in fondo aveva colto in prima persona le dimostrazioni di interesse da parte di Harry, ma era anche consapevole delle proprie emozioni e della propria volontà. «Ti contraddici da solo! Per tutto questo tempo non importava quante attenzioni gli altri mi dedicassero, perché tu eri sicuro di me: perché ora dovrebbero avere importanza le attenzioni di Harry, se io stessa ti sto dicendo di non provare niente di simile per lui?»
«Perché tu gli dai corda! Continui a vederlo e lui continua sicuramente a guardarti in quel modo, e non te ne importa niente di quello che io potrei pensare: che diavolo ti costa lasciarlo perdere e dedicarti a noi? Guarda a cosa siamo arrivati: tu mi menti riguardo quello che fai la sera ed io nemmeno riesco a fidarmi. Il prossimo passo qual è, il-»
«Non ti azzardare a dirlo», lo ammonì, rilassando il viso in un’apatia gelida, che lo ferì. «Non osare dire che io arriverei a tradirti».
Miles notò il dolore nei suoi occhi e percepì quello nei propri, ma si sentì in dovere di continuare, di non lasciarsi fermare per l’ennesima volta dalla paura del passato. «Perché non dovrei?» disse a bassa voce, cauto, ma deciso. «Perfino tu hai detto che non te lo saresti mai aspettata da me: perché io non posso aspettarmelo da te?»
Emma sentì il cuore contrarsi fino a far male, il suo corpo tendersi per quello stesso dolore, e non riuscì a trattenersi. «Perché io sono qui!» quasi urlò, spintonandolo con i palmi delle mani sul suo petto. «Perché sono rimasta con te nonostante tutto! E tu non hai nessun diritto, nessun diritto, cazzo, anche solo di pensare che io potrei sopportare tutta questa merda per ricambiarti con la stessa moneta!»
Miles indietreggiò con gli occhi venati da stupore e confusione, da una ferita inaspettata che si rifletteva su di lui come succedeva ormai da quattro mesi: la guardò ansimare e la guardò voltarsi per andarsene, ma non lo accettò.
«Dove vai?» le chiese, bloccandola per una spalla ed obbligandola a fronteggiarlo di nuovo. «Non puoi andartene dopo aver-»
«Non ho intenzione di restare qui e continuare a litigare per qualcosa del genere», sibilò tra i denti, liberandosi dalla sua presa.
«Continui a dirlo, ma non puoi scappare per sempre», le fece presente, corrugando la fronte. Le sue parole dure erano mitigate dall’amara consapevolezza che quella merda fosse dovuta solo a lui.
«Non pensi che forse io non sia scappata affatto?»
Tutto quel dolore che le pesava addosso prescindeva da Harry o da qualsiasi altro problema superficiale: il rapporto con Miles aveva crepe tanto profonde da non essere sufficiente il nasconderle alla vista, perché avrebbero presto rimarcato l’instabilità del tutto e si sarebbero allargate, peggiorando fino al punto limite. E non le importava scappare o meno, chi avesse ragione e chi torto, perché  riusciva a sentire solo la stanchezza e l’impotenza: ogni giorno di più, le sembrava impossibile riuscire a risanare la loro storia e non era capace di accettarlo, di conviverci.
A quelle parole, Miles fece un passo indietro, come scottato dal loro suono: la sua espressione si dipinse di sofferenza e rassegnazione, non una sillaba lasciò le sue labbra schiuse, prive di speranza.
Emma se ne andò l’istante dopo, stremata.
 
 
 
Fanny stava canticchiando la canzone di sottofondo di una pubblicità, dondolando la gamba che le penzolava dal divano sul quale si era sdraiata da poco. Constance e Ron erano sull’altro divano, con le mani a sfiorarsi con quella discrezione dettata dagli anni e da sentimenti consolidati, guardando distrattamente la televisione e rilassandosi in attesa della fine della giornata.
Emma entrò in salotto con indosso una vecchia tuta azzurro pastello, portando con sé un contenitore ricolmo di popcorn che di sicuro avrebbe provocato discussioni con sua sorella minore: si accoccolò al suo fianco e subito lasciò che lei si rifornisse, prima che il volto attraente di Brad Pitt ricomparisse sullo schermo.
«Quando ricominci le lezioni?» domandò Ron, sbadigliando. I capelli spruzzati di grigio resi disordinati dalla stanchezza.
«La prossima settimana», rispose Emma, sbuffando al solo pensiero. Doveva ancora licenziarsi dal ristorante nel quale serviva da cameriera e sollecitare Grace, la madre delle gemelle, affinché si ricordasse di trovare un’altra persona disposta ad aiutarla: con il carico di studio che doveva sopportare e con la vita sociale che voleva conservare, non le rimaneva molto tempo.
Ron fece per chiedere qualcos’altro, ma il campanello di casa glielo impedì: corrugò la fronte, chiedendosi chi fosse a quell’ora e senza preavviso, e si alzò per andare a controllare. Emma lo seguì con lo sguardo, masticando con gusto un altro paio di popcorn.
«Miles, ciao!» salutò l’uomo, sporcando la sua voce di allegra sorpresa. Tutti i componenti della famiglia si ricomposero, assumendo posizioni più consone alla visita di qualcuno, tranne la figlia maggiore, che si limitò a trattenere il fiato e ad aspettare qualsiasi risvolto.
«Buonasera, Ron», rispose cordialmente Miles, sorridendogli senza eccessi ed alzando una mano per salutare anche il resto dei presenti, mentre entrava nel salotto: il suo sguardo cercò subito Emma, soffermandosi su di lei per qualche istante.
«Non ti aspettavamo, ma è sempre un piacere vederti», continuò Ron, afferrandogli calorosamente una spalla: erano sempre andati d’accordo, nonostante l’iniziale gelosia del capo famiglia. Emma era convinta che, se avesse raccontato la verità riguardo la loro rottura, se avesse svelato il tradimento confessato, suo padre non avrebbe esitato a rinnegare qualsiasi passata simpatia, promettendo violenza fisica.
«Mi dispiace di essermi presentato così all’improvviso, ma dovrei parlare con Emma», spiegò lui, stringendosi nelle spalle: il maglione in lana spessa gli cadeva morbido sul busto infreddolito.
«Vuoi qualcosa da bere, prima?» intervenne Constance, da elegante padrona di casa. «È avanzata anche della torta al cocco», continuò.
Emma sospirò silenziosamente e si mise a sedere, lasciando il contenitore nelle mani di Fanny, che era sprofondata ancora di più nel divano per nascondersi agli occhi di Miles: non aveva ereditato l’esuberanza della sorella più vicina, ma nemmeno la timidezza della maggiore. Semplicemente, preferiva essere schiva con chiunque non potesse godere della sua confidenza: nulla a che vedere con la bambina vivace ed espansiva che era stata, ma forse era colpa dell’imminente sviluppo.
«Grazie, ma preferisco di no», declinò Miles, abbozzando un sorriso e concentrandosi subito dopo sulla sua ragazza: lei non disse nulla, deglutendo il disagio che provava e dirigendosi verso le scale. Sapeva che l’avrebbe seguita senza bisogno di spiegazioni e non voleva nemmeno darne di fronte alla sua curiosa famiglia: per quanto fossero abituati alla presenza di Miles, non avevano ancora smesso di studiare le dinamiche che lo coinvolgevano.
«Potevi almeno avvertirmi», lo rimproverò Emma, non appena la porta della propria stanza si chiuse dietro di loro, isolandoli placidamente da tutto il resto. Lo guardava a debita distanza, come se quello spazio vuoto potesse farle da scudo.
Miles fece subito un passo avanti, con il volto turbato: aveva deposto la sua maschera di cortesia, usata per affrontare Constance e Ron, e le stava mostrando ciò che in realtà non poteva nascondere. «È stata una decisione improvvisa», si giustificò. Gli occhi scuri le imponevano di non allontanarsi, di aspettare e di capirli: non avrebbe mai compreso come potessero essere tanto indiscutibili.
«Non sono sicura di volere che tu rimanga», mormorò Emma, stringendo i pugni lungo i fianchi: dopo aver ricordato il loro litigio di sole poche ore prima, aveva sentito il subdolo istinto di accarezzargli il viso ed il petto. Era troppo confusa.
«Emma, cazzo», sibilò lui, raggiungendola velocemente e portando le proprie mani sul suo volto, a coprirle ed accarezzarle le guance arrossate. Appoggiò la fronte contro la sua e le respirò sulla pelle, abbassando le palpebre come per concentrarsi meglio su ciascuna sensazione.
Lei si aggrappò alle sue braccia definite, respirando a fatica e cercando di capire se avesse bisogno di divincolarsi dalla sua presa o se le sue mani fossero proprio ciò che le avrebbe impedito di sgretolarsi. Il cuore accelerato le intimava di decidere in fretta, in un modo o nell’altro.
Miles spostò una mano tra i suoi capelli, stringendoli tra le dita sottili, e le sfiorò le labbra con irrequietezza, con la paura che potessero sfuggirgli all’improvviso: Emma liberò un respiro sofferto, ricambiando quel bacio leggero con sempre maggiore enfasi ed abbandonandosi al contatto con il suo corpo. Non avrebbe voluto cedere tanto facilmente, perché in fondo non era così che avrebbero risolto i loro problemi, ma doveva trarre forza da lui, anche se per usarla contro la sua stessa fonte.
«Credi che sia difficile solo per te?» sussurrò Miles, facendola indietreggiare di un passo e circondandola con le proprie braccia, per baciarle il collo e per respirarle addosso. Aveva un modo singolare di trasmettere passione, di far mancare l’aria senza alcun preavviso: raramente la toccava con irruenza, con frenesia, ma ogni suo movimento era calibrato ed egualmente intenso. Emma, dopo tutto quel tempo, non riusciva ancora a capacitarsi di come delle mani così leggere potessero avere delle impronte tanto profonde e resistenti.
«Continua a rinfacciarmi ogni cosa», le sussurrò all’orecchio, mentre lei gli si stringeva contro per trovare rifugio dalle sue stesse parole. «Continua a portarmi rancore. Insultami», continuò, accarezzandole la schiena con i palmi aperti, bisognosi. «Ma non pensare nemmeno per un momento che per me sia più facile».
Emma serrò le palpebre e scosse lentamente il capo, per poi allontanarsi quanto bastava per poter scrutare il suo viso. «Tu non sei stato tradito», gli ricordò.
Gli occhi di Miles si spensero per un breve attimo, mentre anche la tensione nel suo corpo si smorzava solo per rinvigorirsi l’istante successivo. «Ma ho tradito», mormorò, con le labbra sottili ed arrossate, colpevoli tentatrici. «Ho tradito te».
Quelle parole le si incastrarono nel petto nell’ennesimo monito di ciò che era sicura non sarebbe riuscita a nascondere alla propria consapevolezza. Respirò profondamente, tentando di controllare le proprie emozioni per evitare che la guidassero nelle decisioni, e si scostò da Miles, indietreggiando lentamente fino a sedersi sul bordo del proprio letto: le ginocchia piegate contro il petto e le braccia a circondarle, in una posizione che ormai aveva assunto troppo spesso.
Lui si passò una mano tra i capelli e sul volto, forse costretto a confrontarsi con una nuova distanza e con la solita impotenza: la sua perseveranza era ammirevole. Mai una volta, durante quei quattro mesi, si era arreso al muro che Emma aveva innalzato tra di loro. Ma una volta si era stancato di combattere e di insistere e di ricordarle quanto l’amasse. Mai una volta l’aveva lasciata o aveva rinnegato le proprie responsabilità.
Ma perché non poteva essere abbastanza?
Cosa avrebbe potuto esserlo?
Emma continuava a chiederselo e a non scovare una risposta, o almeno non una risposta che la guidasse verso ciò che Miles desiderava. Se solo avesse trovato qualcosa in grado di superare il dolore, se solo avesse capito come sconfiggere la paura e lasciare che fossero di nuovo i sentimenti a legarla a lui.
Miles le si sedette accanto, così vicino da farle percepire il calore della sua pelle, ed aspettò ancora qualche istante prima di rivolgerle un’ultima preghiera. Ultima, perché anche ai suoi occhi era chiaro quanto Emma fosse in bilico. Ultima, perché forse anche lui si stava avvicinando al limite, nella speranza di non raggiungerlo mai.
«Proviamoci ancora», disse a bassa voce, senza guardarla e senza che lei alzasse il viso dalle proprie ginocchia. Una bambina spaventata. «Per favore».
E sarebbe stato così semplice dirgli che non l’avrebbe mai riavuta come in passato.
«No, io…»
Emma sospirò e si morse un labbro, ancora immobile nella sua posizione. «Lasciami del tempo».
Era tutta colpa sua, anche se preferiva scaricarla su Miles. Era colpa sua perché se fosse stata meno codarda, se fosse stata meno fragile, non sarebbe stata costretta a sopportare un dolore solo per evitarne un altro. E lui non sarebbe stato costretto a lottare inutilmente, con una speranza che non vedeva luce né obiettivo.
«Come potrebbe servirti?» le chiese cauto, mentre la voce lasciava trasparire un velo di spavento.
«Non lo so», sussurrò lei. Non voleva guardarlo, non voleva vedere i suoi occhi. «Ma è l’unica cosa che non ho ancora provato».
Miles rispose con un lungo silenzio, che forse avrebbe voluto interrompere con mille parole ragionevoli e con altrettante preghiere disperate: con un tocco esitante ma consapevole, le sfiorò la schiena e le baciò a lungo una spalla, costringendola a chiudere gli occhi per fingere che il suo corpo non avesse reagito.
Emma lo ascoltò alzarsi in piedi lentamente, lo sentì fermarsi dopo pochi passi e forse osservarla ancora una volta, sospirare ed allontanarsi. Lo seguì con l’attenzione mentre scendeva le scale e mentre salutava la sua famiglia, scusandosi ancora una volta per l’intrusione.
Fu libera di respirare a pieni polmoni solo quando udì la porta di casa chiudersi dietro di lui.
 
 
 
Quando il cellulare squillò per la seconda volta, nel buio della sua stanza, si decise ad afferrarlo per scoprire chi fosse il mittente dei messaggi. La luminosità dello schermo la accecò, dato che per ore era rimasta immobile nel suo letto e nella più totale oscurità, sperando di riuscire a mettere a tacere i propri pensieri.
 
Un nuovo messaggio: ore 22.16
Da: Harry

“Facciamo un salto da Ty, domani?”
 
Un nuovo messaggio ore: 01.24
Da: Miles

“Ti amo. E lo sai”
 
Strinse il telefono nel palmo della propria mano e fu tentata di gettarlo contro il muro: sia perché Harry era ancora presente, sia perché Miles – paradossalmente – era in grado di farla sentire una persona orribile. Non si era mai fermata a riflettere davvero su ciò che era realmente accaduto all’amore che l’aveva legata a quel ragazzo dalle maniere composte e razionali: come se fosse troppo fragile per essere anche solo sfiorato con il pensiero, quel sentimento era custodito in un angolo irraggiungibile, che Emma non voleva esplorare per non doversi confrontare con una realtà mutata. Un conto era credere che qualcosa fosse cambiato. Un conto era averne la prova.
Decise di non rispondere al suo messaggio, perché non avrebbe saputo come farlo senza mostrare ciò che provava e perché il tempo che gli aveva chiesto doveva avere dei limiti ben precisi, se doveva essere d’aiuto.
Per Harry, invece, era un altro discorso.
 
Messaggio inviato: ore 01.31
A: Harry

“No. È meglio non vedersi più, almeno per un po’ di tempo. Non farmi domande, ho solo bisogno di tranquillità”
 
Non aveva preso quella decisione per paura che Harry condizionasse la sua storia con Miles, né per paura di tornare a provare qualcosa nei suoi confronti. Era pienamente convinta di essere abbastanza forte da sapere come gestirlo e contenerlo, come respingerlo per sicurezza.
Ma Miles aveva ragione: non avrebbe dovuto rappresentare un grande sacrificio, l’allontanarlo per potersi concentrare su se stessa e su di loro, senza essere costretta a confrontarsi con le sue attenzioni sfrontate. Erano evidenti ed erano evidenti anche al suo fidanzato: in una situazione così delicata, era abbastanza rispettosa da saper riconoscere i limiti che le erano concessi.
 
Un nuovo messaggio: ore 01.35
Da: Harry

“Che significa che è meglio non vedersi più? Perché?”
 
Messaggio inviato: ore 01.37
A: Harry

“Quale parte di ‘non fare domande’ non ti è chiara?”
 
Quando lui tentò un approccio differente, Emma rifiutò la chiamata e sospirò esasperata. Non avrebbe dovuto rispondere nemmeno al suo messaggio.
 
Un nuovo messaggio: ore 01.41
Da: Harry

“Non credi di dovermi almeno una spiegazione?”
 
Messaggio inviato: ore 01.43
A: Harry

“Te l’ho detto, ho bisogno di tranquillità”
 
Un nuovo messaggio: ore 01.44
Da: Harry

“Che scusa del cazzo”
 
Messaggio inviato: ore 01.44
A: Harry

“Buonanotte”
 
Un nuovo messaggio: ore 01.46
Da: Harry

“Buonanotte? Te ne esci così dal nulla e pretendi che io non faccia nemmeno domande. Siamo tornati all’asilo per caso?”
 
Ma Emma spense il telefono, senza nemmeno chiedersi a cosa stesse pensando e come si sarebbe comportato.





 


Buoooongiorno!
Cercherò di fare in fretta, quindi passo subito all'abitudinario elenco puntato!
- Louis: è molto particolare, ormai questo è chiaro, e nemmeno la perseveranza di Emma è in grado di scalfirlo. Dato che non ama parlare di sé, né dei propri problemi, mi è difficile darvi una visione completa di ciò che pensa e di ciò che realmente succede con Aaron: per farlo, potrei inserire un POV Louis, oppure scrivere un missing moment. Voi vi accontentate di questi piccoli indizi o preferite leggere qualcosa di più approfondito? POV o missing moment?
- Emma/Miles: quando si dice che la sfiga ci vede benissimo, ecco di cosa si parla ahhah Miles che scopre la bugia di Emma e che non esita a rinfacciargliela, nonostante le abbia prima dato l'opportunità di essere sincera. Come vedete, la discussione parte da Harry, ma finisce inevitabilmente su problemi ben più gravi, che fanno da sfondo a qualsiasi discussione: questo è per sottolineare che il vero problema non è Harry in sé, ma ciò che fa riaffiorare. 
Il modo di rapportarsi di Emma e Miles è molto più "placido", rispetto a quello che ci si aspetterebbe, ma è solo perché in quattro mesi hanno ripetuto scene simili innumerevoli volte: lei inoltre sta iniziando a vacillare, soprattutto riguardo ciò che effettivamente la lega a lui e che alla fine pesa su entrambi. Miles prova con tutto se stesso a recuperare quello che avevano, ma non sa che si sta scontrando contro un muro e che non ce la farà mai. E insomma, da qui prende vita il bisogno di tempo: come lei stessa ha detto, è l'unica cosa che non hanno mai provato, dato che lei non si è mai presa del tempo per schiarirsi davvero le idee, troppo spaventata per sopportare la sua assenza. Secondo voi a cosa porterà?
- Emma/Harry: lui ovviamente se ne esce come i cavoli a merenda hahaha Ma non riceve un trattamento molto diverso, dato che viene allontanato allo stesso modo: Emma non è stupida, sa che in fondo non è giusto continuare a frequentarlo quando il suo interesse è evidente e quando Miles non lo sopporta, soprattutto data la situazione critica della loro storia. In fondo, nemmeno lei sopporterebbe che Miles uscisse con una ragazza che gli fa il filo. Quiiiindi cosa pensate di questa cosa? Harry non l'ha presa molto bene: cercherò un confronto? Oppure l'orgoglio glielo impedirà?
E niente, alla fine non ho fatto in fretta ma amen hahaha Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Per qualsiasi cosa, scrivetemi :)
Come sempre, grazie infinite per tutto!!


Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
  
 

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici - Without you ***




 

Capitolo dodici - Without you

 

Un nuovo messaggio: ore 08.23
Da: Miles (resisti)

“Buongiorno amore”
 
 
 
«Morirò sola», sospirò Nikole.
Nonostante fosse quasi ora di pranzo, le temperature non si erano affatto smorzate, incoraggiate dalla brezza fredda ed umida che continuava a far rabbrividire chiunque: Emma non avrebbe mai dovuto acconsentire a quell’idea malsana, dato che fare esercizio fisico all’aperto non era tra i suoi hobby, né lo era il guardare la sua migliore amica mentre faceva lo stesso. Eppure, tra gli impegni di entrambe, quella era l’unica occasione disponibile per poter parlare in tutta tranquillità.
«Mi sento una persona orribile», sussurrò Emma, incrociando le braccia dietro la nuca: con indosso una vecchia tuta di Melanie, era sdraiata sull’erba di rugiada del parco nel quale si trovavano. Sopra di lei, le fronde degli alberi impedivano al sole di colpirle il viso con troppo vigore.
«Sono grassa», continuò l’amica, pronunciando quelle parole con uno sforzo dovuto agli strani esercizi di rassodamento che stava eseguendo: le guance paffute arrossate dall’attività e la fronte corrugata per la concentrazione e la consapevolezza.
«Credo che anche io morirò sola, perché non so… Non so cosa fare. Non riesco nemmeno a pensare».
«Mangiare solo frullati di cavolo non sta affatto funzionando. Forse dovrei provare qualche altro stupido vegetale».
«Ho sbagliato tutto e Miles è ancora qui. Dovrebbe odiarmi».
«E poi non posso continuare a fare la cameriera per tutta la vita».
«Harry mi odia di sicuro».
«È triste che sia l’unica cosa che so fare, no? Che razza di fallita».
«Sono davvero una persona orribile».
«Sono davvero una grassa fallita», sbuffò Nikole in risposta, lasciandosi cadere a terra al suo fianco, ansimando con le mani sullo stomaco e le ginocchia piegate.
Emma si voltò nella sua direzione e aspettò di incontrare il suo sguardo. «Devi smettere di provare tutte queste diete ipocaloriche che ti fanno mangiare solo segatura: hai sempre detto che ti piacciono i tuoi chili in più, quindi tieniteli e vedrai che prima o poi troverai qualcuno a cui piaceranno allo stesso modo», la rassicurò, nonostante non fosse certa che la sua autostima fosse suscettibile a determinati discorsi. «E non sei una fallita: lavori, sei in grado di mantenerti senza l’aiuto di nessun altro e hai un appartamento in centro che paghi con i tuoi soldi. Se proprio sei stanca di fare la cameriera, licenziati, ma non farlo prima di aver trovato un altro lavoro».
Nikole si mordicchiò le labbra secche mentre il respiro cercava di tornare regolare: si strinse nelle spalle e le si avvicinò di qualche centimetro, strisciando goffamente sul terreno umido. Qualche filo d’erba le si incastrò nei capelli legati in una coda ormai sfatta.
«Tu non sei una persona orribile». Fu il turno di Emma di essere rassicurata. «Sei solo estremamente confusa: e ti chiedi perché Miles non ti odi? Insomma, guardati, dove la trova un’altra così? Ci credo che è disposto a tutto pur di non perderti», continuò con un sorriso malizioso e carico d’affetto.
«Niki, so che mi vuoi bene, ma le lusinghe non mi sono d’aiuto», scherzò Emma, voltandosi su un fianco. Sapeva che le parole dell’amica erano volte a consolarla – e le apprezzava – ma aveva anche bisogno di qualcos’altro.
«E va bene», sospirò Nikole, imitandola nei movimenti ed aggiustandosi la canottiera, che si era mossa aumentando la porzione di petto scoperta. «Gli hai chiesto del tempo, no? Be’, se metti in conto che non sono passate nemmeno ventiquattro ore, direi che è normale che tu non sia ancora arrivata ad una conclusione».
«Secondo te cosa deciderò?»
«Secondo me lo lascerai», rispose Nikole, senza esitazioni ma riducendo il tono di voce.
Emma abbassò lo sguardo e strinse i pugni: nell’udire quelle parole, aveva provato l’opprimente sensazione di conoscere la loro veridicità. «E sarebbe giusto?»
«Questo è quello che devi capire tu».
«Non hai un indizio, un consiglio? Qualsiasi cosa che potrebbe aiutarmi?» la pregò. Ovviamente la sua mente ed il suo cuore avevano una volontà sin troppo forte per essere facilmente influenzabile, ma avere il parere di qualcun altro era comunque rassicurante: sapeva che qualsiasi decisione avrebbe preso sarebbe scaturita da se stessa, eppure voleva ricercare un confronto.
«Emma, ti rendi conto che il livello di difficoltà delle mie relazioni sentimentali si ferma al “non mi ha più chiamata”, vero?» le ricordò Nikole, abbozzando un sorriso autoironico. «Comunque, secondo il mio modestissimo ed inesperto parere da zitella, credo che tu debba semplicemente cercare di immaginare cosa succederebbe se decidessi di rimanere con lui. Non tornarci insieme se non sei assolutamente sicura di riuscire a ricostruire tutto, di riuscire a perdonarlo una volta per tutte. Non avrebbe senso e vi trovereste di nuovo nella stessa situazione. Se invece credi che potresti farcela, provaci: sarà terribilmente difficile e a volte quasi impossibile, ma se è quello che vuoi davvero potrai ottenerlo».
Emma si rabbuiò impercettibilmente, ragionando attentamente: ovviamente la sua amica non le aveva detto nulla di nuovo e nulla di falso, ma era comunque riuscita a darle una risposta. Nonostante non conoscesse la verità sui sentimenti di Emma, sulla sua paura del dolore di una vita senza Miles, sapeva quanto lei che non avrebbero potuto continuare a fingere di aver superato quel tradimento.
Se vista da quella prospettiva, solo una decisione sembrava plausibile.
«E sei ancora in tempo per dare una spiegazione ad Harry».
Al suono inaspettato di quel nome, Emma acquistò una maggiore lucidità. «Il piano era quello di non vederlo», la contraddisse.
Nikole si alzò e ricominciò con esercizi completamente inventati e di dubbia efficacia. «Perché, credi davvero che lui si accontenterà di qualche messaggio schivo?»
«No», sbuffò lei, mettendosi a sedere. Sarebbe stata una stupida a pensarlo, ma ci sperava.
«Allora preparati».
«Per essere una zitella grassa e fallita sai fin troppe cose», la prese in giro per sdrammatizzare.
«Lo so», commentò Nikole. «Mi chiedo perché i ragazzi non riescano a vedere tutta questa saggezza».
Emma sorrise e si alzò in piedi, stiracchiandosi la schiena.
«Dici che il mio culo è talmente grosso da oscurare tutto il resto?»
«La smetti di mortificarti?»
 
 
 
Data la confusione implacabile che regnava nella sua testa, si sentiva obbligata a cercare un disperato ordine almeno nelle cose di minor importanza: dopo aver saluto Nikole – ancora intenta a fare una stentato jogging nel parco – era passata al ristorante per rassegnare le proprie dimissioni, scusandosi per il breve preavviso, ed aveva chiamato la madre delle gemelle per avvertirla che, come le aveva già accennato, avrebbe potuto darle una mano solo fino alla fine della settimana. Era passata in libreria per cercare l’ultimo libro che le mancava per l’imminente inizio delle lezioni e si era ricordata di pranzare.
Tutto quel movimento le aveva concesso di distrarsi e di non pensare a quanto fosse difficile resistere alla mancanza di Miles: era strano ignorarlo in quel momento, avere del tempo solo per se stessa, ma era necessario.
Così come era necessario liberarsi anche dell’ultimo peso che la disturbava più del tollerabile: aveva mandato un messaggio ad Harry chiedendogli di incontrarla e lui aveva risposto dopo poco, dandole appuntamento davanti al suo nuovo appartamento. Se la sera prima Emma aveva cercato di liquidarlo velocemente, troppo stanca per sopportare una discussione che lui sicuramente avrebbe cercato, in quel momento si sentiva in dovere di rimediare: era ingiusto allontanarlo in quel modo senza nemmeno dargli una motivazione, immaturo.
Harry la stava aspettando seduto sul gradino del portone d’ingresso, con una sigaretta tra le dita della mano sinistra ed i capelli disordinati, dello stesso colore della giacca che indossava: la vide solo quando li dividevano ormai pochi passi e si alzò in piedi lentamente, con uno sguardo riluttante. Se non l'avesse cercato per prima, avrebbe sicuramente dovuto aspettare una sua comparsa improvvisa ed irruenta.
«Che significa?» le chiese subito, gettando la sigaretta a terra dopo un ultimo tiro, senza darle il tempo di salutarlo o anche solo di sospirare.
Emma si strinse nel maglione a trama larga e lo guardò con determinazione. «Rilassati», si difese. Non le piaceva il tono che aveva usato, nonostante in parte lo meritasse.
Harry alzò un sopracciglio e serrò la mascella. «Posso essere almeno infastidito dal tuo comportamento?»
«Ed io posso almeno spiegarti il mio comportamento?» ribatté, incrociando le braccia al petto. Iniziare un discorso con tanta tensione non era mai stata una buona idea, ma potevano dirsi abituati. «In fondo se ti ho chiesto di vederci dovrà pur esserci un motivo».
«Sicuramente, ma di certo non rende le cose più chiare, dato che fino a poche ore fa sembravi piuttosto determinata a far finta che non esistessi», precisò. Giusto.
Emma sospirò e si inumidì le labbra, mentre rabbrividiva per il collo scoperto dalla coda di cavallo. «Ieri non è stata una giornata semplice e se ti ho risposto in quel modo è solo perché sapevo che avremmo discusso. Era l’ultima cosa di cui avevo bisogno, a dir la verità», ammise.
«Adesso invece ne hai bisogno?»
«Harry», sbuffò lei, quasi pregandolo silenziosamente di non infierire. Capiva che fosse irritato da quella situazione, ma con quel suo atteggiamento non migliorava di certo le cose. «Se sei disposto ad ascoltarmi ok, altrimenti faccio in tempo ad andarmene».
Lui si morse nervosamente un labbro e non rispose, manifestando la sua caparbietà con un respiro più profondo.
«Io e Miles stiamo attraversando un periodo… Difficile», riprese a stento, irrequieta al pensiero di ammettere una debolezza. Era paradossale che il ragazzo con il quale si sentiva meno a proprio agio in certi argomenti, fosse anche quello che ne sapeva di più. «Ci siamo presi una pausa, o una cosa del gener-»
«Ed io che c’entro?» la interruppe Harry, corrugando lievemente la fronte e facendo un passo avanti. Sapeva ancora di fumo.
Emma temporeggiò, valutando se fosse proprio necessario spiegargli tutto o se avrebbe potuto aggirare la questione, ma si rese conto che la verità era l’unica cosa che avrebbe retto qualsiasi ulteriore indagine. «Miles mi aveva chiesto di smettere di vederti, perché crede che io possa essere influenzata da te e perché crede che tu provi un interesse nei miei confronti. In questo momento è giusto che io gli dia ascolto».
L’espressione di Harry si rilassò. «Perché?»
«Come perché?» domandò, credendo fosse ovvio. Non capiva che era una questione di rispetto?
«Se tu fossi sicura di non poter essere influenzata da me, non mi chiederesti di non vederci più. Non ne avresti motivo», spiegò, con una nuova consapevolezza nella sua voce.
Emma colse il suo ego che si ingrandiva, la soddisfazione nel suo sguardo. «Non si tratta di questo», lo contraddisse. «Nonostante io ne sia certa, non trovo giusto passare del tempo con un ragazzo che prova interesse per me, non mentre io e Miles continuiamo a litigare».
«Quindi quando non litigate non fa differenza? Non capisco», commentò, senza alcuna traccia di confusione nelle sue parole. Sapeva perfettamente quali tasti premere, dove colpirla.
«Cristo, Harry, sto solo cercando di fare la cosa più giusta», sospirò Emma, passandosi una mano sul viso. «Smettila di trovare significati nascosti ed inesistenti dietro ogni mio gesto».
«Continui a parlare di ciò che è giusto e ciò che non lo è, ma dovresti parlare di quello che vuoi», la contraddisse lentamente. Un altro passo avanti.
Lei socchiuse gli occhi e fu tentata di indietreggiare. «Vedi perché non volevo incontrarti? Perché sapevo che saremmo arrivati a questo».
«A cosa?» domandò Harry, inclinando le labbra in un accenno di sorriso. «Alla verità?»
«Puoi smettere anche solo per un secondo di essere così egocentrico?!» sbottò, cercando un rifugio. Il discorso stava prendendo una piega scomoda, la stessa che lei voleva evitare aumentando le distanze tra di loro.
«Allora parla chiaramente», la spronò lui, indurendo per un istante lo sguardo.
«È evidente che tu sia… Attratto da me, in qualche modo, visto che hai anche ammesso di dover capire chissà cosa», rispose esasperata, gesticolando. «Ed io devo concentrarmi sulla mia storia con Miles, non posso occuparmi anche di te che mi giochi intorno. Non voglio dovermi costantemente chiedere a cosa tu stia pensando o se ti ritroverò fuori dal mio posto di lavoro. Ho bisogno di spazio ed ho bisogno che tu mi stia lontano».
Harry si inumidì le labbra e la osservò minuziosamente, ma senza riuscire ad intimorirla. «Quindi è vero che sono in grado di condizionarti», disse soltanto.
Emma si rese conto di come il suo precedente discorso potesse portare solo a quella conclusione e si maledisse. «Non nel modo in cui credi».
«Illuminami», la sfidò.
«Se fino ad ora non ho dato ascolto a Miles è proprio perché so di non provare niente per te, ma questo non significa che tu non sia in qualche modo… Presente. E lui non lo sopporta, quindi faccio un favore ad entrambi e ti sto alla larga».
«Presente? È così che mi definiresti?» domandò Harry. «Continuo a non capire e continuo a pensare che, se io ti fossi davvero indifferente come dici, non avresti nessun motivo per chiedermi di non vederci».
«Ma siccome per me non fa alcuna differenza, preferisco smettere di far soffrire ancora il mio fidanzato per qualcosa che si può evitare!» ribatté con enfasi, stufa di quel confronto che la stava confondendo ancora di più. Era difficile riordinare i propri pensieri ed era ancora più difficile esporli in maniera chiara e completa, quindi non si stupiva se Harry era in grado di contestarla così frequentemente, perché nemmeno lei stava capendo qualcosa del proprio discorso.
Harry aspettò qualche secondo in silenzio, senza abbandonare nemmeno per un istante i suoi occhi coraggiosi e pronti a difendersi, poi si avvicinò lentamente, tanto da costringerla ad alzare di poco il viso per poterlo guardare. «Per te è davvero indifferente, se ci vediamo o meno?» sussurrò, con una tale intensità da stupirla. «Non provi niente?» Era ovvio che lui avesse registrato ogni sua parola solo per poi restituirla con maggior decisione, era ovvio che quei particolari non potessero passare inosservati alla sua meticolosa attenzione.
Emma inspirò involontariamente il suo profumo, con il cuore a disagio, ma non ancora in tumulto. «Allontanati», gli ordinò a bassa voce ma con decisione.
Lui sorrise appena, quasi amaramente, ma non si mosse. «Non rispondi?»
E per lei era impossibile lasciar cadere una provocazione. «Non provo niente di simile a quello che provavo», gli rispose, altera. «Quindi se devo smettere di vederti per il bene della mia relazione, non c’è problema».
Solo a quel punto Harry fece un passo indietro, ma non perché sconfitto. «Sei una pessima bugiarda», commentò.
Emma sbuffò silenziosamente e si innervosì un po’ di più, tornando ad avere abbastanza spazio per sentirsi libera. «Se sei così sfacciato da avere la presunzione di conoscere meglio di me i miei sentimenti, allora non dovresti preoccuparti delle mie decisioni», lo accusò con stizza. «Tanto sai già che tornerò da te, quindi di che ti preoccupi?» continuò, colorando la propria voce di una spiccata ironia. «Ma perché spreco tempo? È evidente che tu ti stia solo divertendo: non devi capire proprio niente, è solo un gioco e tu sei solo un bambino a cui è stato improvvisamente negato».
Harry sembrò confuso da quella insinuazione, assottigliò gli occhi. «E questa da dove esce?»
Lei alzò un sopracciglio e riacquistò un contegno. «Mi è impossibile credere che tu provi qualcosa di vero per me, se non ti sei nemmeno interessato a cosa stia succedendo tra me e Miles: non sai neanche come sto, ti sei solo preoccupato di te e del motivo per cui il tuo faccino egoista è stato messo da parte così facilmente», spiegò, con le parole che uscivano spontaneamente dalle proprie labbra, conquistando sempre più credibilità. Emma non si era nemmeno preoccupata di quel particolare, ma era evidente che il suo inconscio ci avesse velocemente lavorato su.
«Ma di che diavolo parli?» domandò Harry, corrugando la fronte ed offendendosi. «Non credi che se mi sono preoccupato è perché mi hai praticamente proibito di vederti? Non mi sembra che in questo sia coinvolto solo il mio faccino egoista».
«E a me non sembra che per te possa essere una grande mancanza, dato che ti porti a letto un’altra!» replicò, cercando di esporre al meglio il proprio scetticismo.
Lui respirò lentamente, con le labbra schiuse e gli occhi attenti. «Ancora questa storia?» le chiese.
«È la verità».
«Io non l’ho mai detto».
Emma lo studiò infastidita, soppesando le sue parole e ripescando quelle che avevano già condiviso. Effettivamente non le aveva mai confermato il suo rapporto con Lea, né la ragazza le aveva detto qualcosa dopo la sera in cui li aveva visti insieme: che si fosse comportato in quel modo solo per lasciarle credere ciò che voleva? Per farla ingelosire?
«Sei un tale idiota», disse a denti stretti, serrando i pugni. Si era lasciata prendere in giro troppo facilmente, e la soddisfazione nel viso di Harry ne era la conferma.
«Hai fatto tutto da sola», rispose, stringendosi nelle spalle.
«E tu non hai fatto niente per impedirmelo», lo accusò. Alzò lo sguardo al cielo e scosse la testa: era esausta e, nonostante non avesse voglia di discutere, era ancora lì, davanti a lui e con lui.
«Per me non è indifferente se non ci vediamo», esordì Harry, interrompendo il silenzio teso e stupendola con la sua schiettezza. L’espressione più seria.
«Perché?» gli domandò, decisa a partecipare al suo stesso gioco. Cercò di non badare al tremito che era stato provocato da quella confessione inaspettata.
«Non lo so ancora», rispose lui.
La mente dell’Harry adolescente era sempre stata affascinante e ricca di processi complicati ma armoniosi: con la maturità degli anni passati doveva essersi arricchita ancora, impedendo ad Emma di avere su di lei lo stesso potere e la stessa capacità di comprensione. Non poteva scovare fino all’ultimo suo pensiero e non poteva collegare efficacemente tutti gli altri, poteva solo provare ad indovinare e sperare di avere ragione.
«E forse io non voglio saperlo», ribatté allora, senza esserne sicura.
Passarono diversi secondi in assoluto ed immobile silenzio, scrutandosi a vicenda. Fu nuovamente Harry a spezzarlo. «Allora immagino che dovremmo salutarci», esclamò, porgendole una mano in un gesto che sembrava sin troppo formale.
Emma osservò brevemente i lineamenti delle sue dita, riconobbe i suoi anelli spessi ed annuì piano, afferrando la sua mano con una certa cautela. L’attimo dopo, però, Harry se la tirò contro, stringendola tra le braccia velocemente e con una certa intensità. Lei si ritrovò schiacciata contro il suo petto, con gli occhi spalancati per la sorpresa e per il suo profumo opprimente: si sentì a disagio, perché in realtà non lo era affatto, e trattenne il fiato quando sentì le sue labbra baciarle piano la base del collo.
«In certe cose non sei più una ragazzina», sussurrò Harry, accanto al suo orecchio. «E questo è un problema», aggiunse subito dopo, allentando la presa sul suo corpo e permettendole di allontanarsi, frastornata.
Emma deglutì a vuoto e restò immobile ad osservare i suoi movimenti: mentre lui entrava nel portone di casa, la sua mente – e non solo – si interrogava su ciò che aveva appena provato, sui brividi appena nascosti e sulle verità appena stuzzicate.
 
 
 
L’appartamento di Melanie e Zayn era più spazioso di quanto sembrasse dall’esterno: al secondo piano di un edificio moderno e con ampie finestre, aveva il pavimento completamente in parqué scuro. Il salotto era arredato in modo essenziale, ma riusciva ad essere ugualmente caloroso ed accogliente: la cucina, invece, necessitava ancora di qualche modifica, dato che stavano cercando di risparmiare per rinnovarla e comprare finalmente un forno completamente funzionante.
«In che modo non dovrebbe essere sospetto il fatto che tu mi abbia invitata qui mentre Melanie non c’è?» domandò Emma, guardando Zayn con giocosa curiosità: lui era seduto a terra, sul tappeto di fronte alla televisione accesa ma ignorata, con una sigaretta tra le labbra e l’espressione rilassata. La barba non curata e gli abiti smessi di casa.
Un barbone, pensò Emma.
«Non ho mai detto che non dovrebbe esserlo», ribatté, alzando le spalle ossute. Effettivamente le aveva semplicemente ordinato – nemmeno chiesto, ordinato – di andare a casa loro a quell’ora, senza specificare altro. E sì, erano abbastanza legati da essere in confidenza, ma era comunque strano il fatto che Melanie non ci fosse.
Emma incrociò le gambe sul divano e prese un’altra cucchiaiata di gelato al fior di latte: la vaschetta intera le era stata gentilmente donata dal proprietario - ovviamente dopo svariate minacce di ritorsioni. «Be’, cosa c’è?» indagò allora, impaziente di scoprire i motivi di quell’incontro.
Zayn alzò un sopracciglio ed espirò del fumo. «Deve per forza esserci qualcosa? Volevo solo controllare che stessi bene».
«Perché?» chiese, insospettita. «Con chi hai parlato?» L’unica possibilità era che Harry gli avesse raccontato qualcosa, dato che lei non aveva parlato di Miles con nessuno oltre Nikole.
Lui alzò gli occhi al cielo e sospirò arreso. «E va bene, in realtà devo chiederti un favore».
«Ah», esclamò Emma, sollevata: se da una parte sarebbe stato divertente sapere cosa Harry si fosse lasciato scappare, dall’altra preferiva abbandonare una volta per tutte quel discorso. «Che tipo di favore?»
«Si tratta di Melanie», disse Zayn, schiarendosi la voce. Era… Imbarazzato?
«Allora dovrei andarmene immediatamente, dato che lei si è divertita a dare il mio indirizzo di lavoro ad “Harry passione stalker”», commentò, torturando ancora un po’ la vaschetta di gelato. Doveva ancora fargliela pagare.
Zayn rise genuinamente, con una mano sullo stomaco, e fece sorridere anche lei. «Credo che mi aiuterai lo stesso», esclamò sicuro.
«Di cosa si tratta? Festa a sorpresa? Regalo inaspettato? Cucina nuov-»
«Voglio chiederle di sposarmi».
 
 
 
Un nuovo messaggio: ore 23.52
Da: Miles (resisti)

“Quando sono uscito dall’ufficio, per un attimo ho pensato che saresti stata lì ad aspettarmi, come sempre... Buonanotte”
 
 
 
Louis era appoggiato con la schiena al muro della camera da letto di Aaron: il petto ancora nudo ed il suo odore ancora sulla pelle. Teneva le braccia incrociate come per non lasciare andare nulla di ciò che stava provando e pensando, consapevole delle ripercussioni che avrebbe incontrato: i suoi occhi si perdevano nel buio rischiarato della notte, nel quale poteva riconoscere facilmente il candore delle lenzuola e quello del corpo che le interrompeva.
Aaron stava piangendo.
Cercava disperatamente di non lasciarsi sfuggire alcun suono, arreso allo scorrere delle lacrime, ma era come se ogni suoi singhiozzo trattenuto arrivasse a scuotere anche Louis. Louis, che l’aveva visto piangere solo un’altra volta, in tutti quegli anni, ovvero quando gli aveva detto del primo ragazzo con il quale l’aveva tradito: per questo motivo, le lacrime di quelle notte, che non riusciva a vedere e alle quali non si voleva avvicinare, non preannunciavano niente se non un punto di rottura ben peggiore.
«Smettila», sussurrò, con un certo fastidio nella voce. Sapeva di essere la causa del crollo di Aaron, ma non voleva ricordarlo.
«Vaffanculo», ringhiò l’altro, strisciando tra le lenzuola per raggomitolare le ginocchia al petto.
Louis sospirò e si passò una mano tra i capelli: provò ad avvicinarsi, sedendosi su un bordo del letto e facendo cigolare alcune molle sotto il suo peso. Allungò una mano verso Aaron, ma quello si scansò velocemente.
Avevano appena fatto sesso, per ore, e non poteva nemmeno più toccarlo. «Non serve a niente fare il bambino», lo rimproverò, infastidito per la distanza che gli era stata imposta.
Ebbe il tempo di udire un insulto urlato a denti stretti, prima di sentire il pugno debole di Aaron piantarsi tra le sue scapole nude e graffiate. «Cazzo, sei impazzito?» mormorò con la voce strozzata, senza riuscire a sottrarsi ai suoi colpi sempre più carichi di rancore, di forza. Louis non voleva ricambiare la violenza, ma non voleva nemmeno riceverla, quindi cercava di trattenerlo e di allontanarlo, ma senza successo.
«Vaffanculo», esclamò di nuovo Aaron, facendolo cadere a terra e rotolandoci sopra senza esitazione. «Ti odio, vaffanculo! Sei un pezzo di merda, uno stronzo! Vaffanculo tu e tutti questi anni! E vaffanculo al giorno che ti ho incontrato!»
Ad ogni parola un nuovo colpo.
«Adesso basta!» urlò Louis, sforzandosi di bloccargli i polsi e cercando di ignorare il dolore pungente in alcuni punti.  Lo aveva sopra di sé, ancora nudo e ancora sudato.
«Sono io a dire basta!» ribatté l’altro, dimenandosi senza risultati.
«Allora avresti dovuto dirlo prima di farti scopare per ore!» replicò, mentre l’ira aumentava anche nel suo sangue. Non doveva preoccuparsi di moderare il linguaggio in presenza di Aaron, perché erano arrivati ad un livello di complicità tale da conoscersi oltre ogni mezzo di civiltà.
“Scopiamo, facciamo sesso, andiamo a letto insieme… Che differenza c’è? Significa comunque io dentro di te, significa comunque che muoio un po’”, gli aveva detto una volta, con l’aria maliziosa ed i pantaloni già abbassati.
«No, avrei dovuto dirlo la prima volta che mi hai toccato, la prima volta che hai toccato un altro!» lo contraddisse Aaron, singhiozzando rumorosamente, ma cercando di controllarsi. «Invece sono stato un coglione e ho continuato a-»
«L’hai fatto perché lo volevi! Sei adulto, cazzo, hai sempre saputo di cosa si trattava, quindi non iniziare con questa maledetta storia!»
«Di cosa si trattava, Louis? Di cosa si tratta?»
Louis serrò la mascella e si sporse in avanti per raggiungere la sua bocca, per baciarla con foga e rabbia, per farla tacere e per saziarsene. Ma un morso lo fece gemere sommessamente, obbligandolo a ritrarsi.
«Hai smesso di aggiustare tutto con un bacio», gli assicurò con il respiro accelerato, riuscendo a liberarsi dalla sua presa e ad alzarsi in piedi, barcollante. Iniziò a cercare i propri abiti, ad indossarli alla rinfusa, mentre Louis lo osservava con le labbra schiuse.
«Dove credi di andare?» gli domandò, confuso.
«Da nessuna parte, idiota, questa è casa mia. Sei tu che te ne devi andare».
Era letteralmente fuori controllo. Non l’aveva mai visto così sconvolto, nemmeno nel peggiore dei litigi, e non sapeva come gestirlo: il contatto gli era vietato, quindi gli era vietato tutto.
«Io non me ne vado fin quando non ti sarai dato una calmata, invece».
Aaron borbottò parole inudibili ed uscì dalla stanza, con i capelli corvini in disordine e la t-shirt al contrario: sbatté qualcosa in salotto e poi tornò il silenzio più totale.
Louis aveva quasi paura di raggiungerlo, perché sapeva, sapeva cosa sarebbe successo: se lo sentiva e non sapeva come evitarlo. Eppure si sentì in dovere di agire: si alzò lentamente e si rivestì indugiando più del dovuto, poi respirò a fondo e camminò fino al salotto, dove lo trovò seduto sul divano. Le mani a nascondergli il viso ed i gomiti appoggiati sulle ginocchia.
«Tu non sei capace di amare», esordì Aaron, senza muoversi. La voce così rovinata dalle urla da essere quasi irriconoscibile. «Ed io ho provato con tutto me stesso ad accettarlo, ma non… Non ci riesco».
«Sai come la penso», rispose Louis, serio ed irremovibile. Avevano affrontato quel discorso centinaia di volte e centinaia di volte avevano raggiunto la stessa conclusione.
«Sì, lo so», annuì l’altro, tornando a guardarlo. Alla luce soffusa della stanza i suoi occhi di pece erano ancora più arrossati. «So che pensi di poterti scopare qualsiasi ragazzo per poi tornare da me come se fosse tutto normale, so che io te l’ho permesso e che mi pento di ogni cazzo di volta che mi sono spogliato davanti a te!» ammise, aumentando il tono di voce ad ogni parola.
«Non dire stronzate», lo ammonì Louis, facendo un passo avanti. «Non osare dire stronzate del genere», continuò, puntandogli un dito contro. Non poteva davvero rinnegare ogni momento passato insieme, non poteva semplicemente rinnegare loro, per quanto diversi potessero apparire agli occhi di entrambi.
«E cosa dovrei fare?» gli chiese allora Aaron, più debolmente. «Cosa posso dire per lasciarti?»
Louis trattenne il respiro e strinse i pugni. «Vuoi… Lasciarmi?» ripeté in un sussurro incredulo.
«Voglio cancellarti».
Due parole e Louis vacillò, stordito.
«Voglio cancellare ogni tradimento ed ogni sentimento».
La risolutezza di Aaron gli dava la nausea: si sarebbe piegato su se stesso per scacciarla, se il risentimento non l’avesse conquistato.
«Ogni volta che ci sono stato per te, come uno stupido».
«Ed io?! Io non ci sono mai stato per te?!» sbottò Louis, gesticolando. «Ci sono stati altri, è vero, ma per te sono sempre stato presente, ogni volta che ne hai avuto bisogno!»
«Anche quando ti chiedevo di non tradirmi?! Anche quando sapevi che mi avresti fatto a pezzi?! Sei soltanto un’ipocrita: ti accorgi solo di quello che vuoi vedere, altrimenti non parleresti così!»
«Tu non sei tanto ipocrita quanto me?! Vuoi a tutti i costi farmi cambiare, ma non sei disposto a pagare lo stesso prezzo!»
Aaron sapeva quale fosse la sua indole, fino a che punto potesse essere piegata ed in che modo potesse essere indebolita, ma sapeva anche non avrebbe mai potuto mutarla: Louis e la sua concezione dei sentimenti erano fuori dalla sua portata, da qualsiasi suo tentativo di adattamento. Per Louis i legami erano diversi, di una profondità che lui non riusciva a raggiungere, persino più puri, in un certo senso: non riteneva importanti gli altri ragazzi con cui si divertiva, non li riteneva all’altezza di Aaron ed era sinceramente convinto che non potessero intaccare la loro connessione, perché troppo genuina per essere sporcata da tali futilità. D’altra parte, però, Aaron non riusciva a tollerare la presenza di qualcun altro, le mani di qualcun altro sulla pelle che credeva di possedere, le labbra di qualcun altro sul corpo che lo faceva sentire posseduto.
«Io ne ho pagato il prezzo fino ad ora, invece! E non ho più intenzione di farlo!»
Louis indietreggiò di un passo, spezzato.
«Non riesco più a sopportare tutto questo, e sai quanto io ci abbia provato. Con tutto me stesso», continuò Aaron. «Se nessuno di noi è disposto a cambiare, se dopo tutto questo tempo non siamo ancora riusciti a trovare un compromesso, non credo che ne saremo mai in grado».
I loro sguardi non si perdevano, abituati a vivere in sincrono, ma erano fragili, consapevoli della separazione che presto avrebbero dovuto sopportare e che non potevano combattere. «Io non ci sto senza di te», sussurrò Louis, in un tentativo disperato. Non sapeva cos’altro dire, perché non poteva promettergli nulla.
«Nemmeno io», mormorò Aaron, con una nuova lacrima a solcargli la guancia destra. «Ma restare insieme sarebbe peggio».
Non riusciva a capire come potessero esistere due forme d’amore così intense e così inconciliabili, quale destino le avesse fatte incontrare solo per condannarle ad un continuo tormento.
«Aaron», lo chiamò piano, immobile a pochi metri da lui.
«Vattene via», fu la preghiera che ottenne in risposta. «Per favore».
Quando le iridi scure che tanto agognava abbandonarono il contatto visivo, Louis si sentì congedato, cacciato con la forza e con una determinazione che gli impediva di ribattere, di protestare ed urlare. Ogni briciolo di forza defluì dal suo corpo inerme, scappando verso quello che invece gliene aveva sempre fornita, come a rinnegare ciò che fino a quel momento aveva animato.
Così, vuoto, uscì dalla casa senza ascoltare i respiri strozzati di Aaron, senza pensare alle mani che fino a poco prima l’avevano stretto e colpito, senza pensare al dolore straziante che gli lacerava la volontà. Uscì e decise di tornate a Londra, quella notte stessa.





 


Buonasera!
Strano orario per aggiornare, I know, ed è anche sabato sera, quindi molte di voi non saranno nemmeno a casa, ma io sto facendo la pantofolaia e oggi mi sono dedicata interamente a questo capitolo, quindi non potevo aspettare per pubblicarlo!
Ci sono un po' di cose da dire, quindi iniziamo:
- Nikole/Emma: si commentano da sole, direi ahha
- Harry/Emma: ALLORA, so perfettamente che la parte iniziale del loro discorso è confusa e contraddittoria (soprattutto quella di Emma), ma non è colpa mia hahah Mi sono propria impegnata affinché risultasse così, tanto che ad un certo punto non ci ho capito niente nemmeno io, perché ho cercato di lasciare da parte me stessa e scrivere come se fossi stata Emma in persona. Risultato? Un casino. Ma in fondo è quello che sono! Su di loro vi lascio la parola, tanto credo siano abbastanza chiari, per quanto complicati :)
- Zayn/Emma(/Melanie): io GIURO che non so da dove mi è uscita questa cosa hahha Zayn non doveva nemmeno esserci nel capitolo, figuriamoci la proposta di matrimonio ahahha Ma sono sicura che vi farà piacere :) In fondo, Melanie e Zayn non potrebbero avere un futuro diverso!
- Louis/Aaron: I PIANTI ahahhaah giuro che mi sono commossa come una scema ad un certo punto, sono senza speranze ahhaha Anche loro non dovevano esserci nel capitolo (Bah), perché ero più propensa a scrivere un missing moment, MA a quanto pare si sono intrufolati nelle vicende e non ho potuto cacciarli! Detto questo, spero che la "sorpresa" vi abbia comunque fatto piacere: avevo bisogno di farvi entrare nella loro vita perché sono talmente particolari da essere sprecati come comparse e perché sarebbe stato impossibile descriverli indirettamente! Aaron perde completamente la testa, spero di essere riuscita a trasmettere bene il suo stato d'animo, e Louis si comporta come gli è concesso.
Molte volte è stato definito un puttaniere, in pratica, e molto stronzo, ma la verità è che vive tutto in base alla propria concezione di un rapporto: per lui Aaron è qualcos'altro, quasi un amore etereo che non può essere infettato da divertimenti passeggeri. I suoi tradimenti, paradossalmente, non lo sminuivano, ma anzi, lo rendevano ancora migliore ai suoi occhi. È difficile da spiegare, spero di non avervi confuse hahaha E nonostante questo, per Aaron non è abbastanza: il suo amore, tanto diverso, non concepisce tutto questo (come credo che non lo concepirebbe nessuno). Che ve ne pare? Fatemi sapere :)
- Miles/Emma: ho notato che molte si sono lasciate intenerire dell'indole di Miles e poi non dovrei dire "ve l'avevo detto!!!" ahhahaha Ma comunque, secondo voi come si evolverà la situazione? Ieri, mentre preparavo la cioccolata calda, ho avuto un'illuminazione divina e ho cambiato una "piccola" cosa nei futuri avvenimenti :)))))))))))

Be', come sempre GRAZIE di tutto!!!!!!!!!!!!!


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Un bacione,
Vero.

 


  
  

 

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici - Can I? ***




 

Capitolo tredici - Can I?

 

Emma e Miles non si vedevano da sei giorni e non si sentivano da tre. Lui aveva continuato a scriverle riguardo le proprie giornate, inizialmente, ma i messaggi erano diminuiti sempre più, fino a scomparire definitivamente: era difficile dire se la mancanza di risposte lo avesse fatto semplicemente innervosire, o se avesse deciso di lasciarle ulteriore spazio.
Lei, d’altra parte, non si era risentita per quel particolare variato, anzi, l’aveva apprezzato con un certo sollievo: le parole di Miles erano in grado di distrarla, quindi era meglio non essere costretta ad aspettarle, essere in grado di pensare liberamente e di condurre una vita diversa, anche se solo per poco tempo. I suoi sentimenti si stavano rischiarando sempre più, conducendola verso lo spiraglio di soluzione che aveva da sempre desiderato, nonostante non si sentisse ancora pronta per un ulteriore confronto o per una presa di posizione definitiva.
Per questo motivo, trovare Miles al di fuori della sua università la stupì e quasi la spaventò: non l’aveva avvertita e lei non se lo sarebbe aspettato, ma era lì, appoggiato alla sua auto con le braccia incrociate. Un giaccone verde militare a coprirgli il busto magro e le labbra secche.
Emma rallentò il passo, incontrando subito il suo sguardo attento ed imprescindibile: avrebbe voluto saper definire la sua espressione, ma non riusciva a concentrarsi, perché era sommersa da domande e pulsioni. Nonostante l’istinto di voltarsi e camminare nella posizione opposta fosse insistente, decise di non rendersi ancora più ridicola ai propri occhi e di affrontare i risultati delle proprie azioni.
«Ciao», esclamò debolmente, schiarendosi subito dopo la voce.
Miles si inumidì le labbra e le si avvicinò per avvolgerla con le braccia, in un contatto gentile e forse contenuto: Emma chiuse gli occhi e si strinse nelle spalle, come per raggomitolarsi in un angolo protetto. Sentiva una differenza nel modo in cui le stava respirando tra i capelli, nel modo in cui le sue mani la stavano tenendo.
«Come stai?» le chiese, tornando a guardarla negli occhi: non sorrideva, ma la sua espressione non era dura.
«Tu?» ribatté Emma, lasciando sottintesa la verità: non sapeva nemmeno definire come stesse realmente, tanto più in quel momento.
Miles annuì piano con un sospiro e si passò una mano dietro il collo, evidenziando involontariamente la tensione stridente che li stava unendo.
«Possiamo parlare?»
 
Andarono a casa di Miles, sia perché vicina all’università, sia perché avrebbe garantito loro un livello di intimità e protezione al quale avrebbero dovuto rinunciare in qualunque altro posto.
Emma non sopportava più il silenzio che li stava condannando: era snervante, la preoccupava, ed il fatto di non riuscire a contrastarlo la infastidiva oltre ogni limite. Seduta sul divano, aspettò inquieta che Miles si togliesse la giacca e prendesse posto al suo fianco.
«Non so se tu sia arrivata ad una decisione», esordì lui, con la placida sicurezza che l’aveva sempre caratterizzato: la stava osservando con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, reclamando il suo sguardo per poi ottenerlo con riluttanza.
«Non ancora», rispose Emma, determinata a non relegarsi ad un tale livello di passività. «Credo», aggiunse subito dopo. Le iridi nere che aveva di fronte non le lasciavano altra possibilità se non quella di essere sincera.
«Allora forse ti sarò d’aiuto», commentò Miles, sospirando appena.
«Cosa vuoi dire?» gli chiese, corrugando la fronte ed esponendo il dubbio che la stava torturando da quando l’aveva visto. Cosa voleva dire con quegli occhi? Con quelle mani esitanti? Con quelle labbra tese?
Un respiro più profondo e nuove parole. «È stato difficile starti lontano», spiegò lui, con la voce bassa e seria, pronta a cullarla ma anche ad intimorirla. Emma temette di doversi di nuovo confrontare con i suoi sentimenti incontrastati, che erano in grado di ravvivare la sua colpevolezza e di risultare ancora più genuini di quanto non fossero. «Ma non è stato difficile come pensavo».
Miles restò in silenzio dopo quell’affermazione, forse per concederle il tempo di comprenderla fino in fondo e di metabolizzarla, ed Emma, che era stordita dai propri interrogativi e dalle altrettante certezze, si limitò a sbattere le palpebre, assottigliando gli occhi.
«Io mi sono sentito…»
Fece una pausa, abbassando per un istante lo sguardo e serrando la mascella: le sue mani si stavano stringendo l’una con l’altra, ma accompagnate da un certo contegno. «Libero», sussurrò poi.
Emma indietreggiò impercettibilmente, come se quella parola l’avesse colpita con forza e l’avesse obbligata ad arrendersi, a farsi da parte. Schiuse le labbra, forse per ribattere qualcosa, ma le serrò subito dopo.
Miles sospirò sonoramente, chinando il capo. «Non so nemmeno come dirlo», ammise, esasperato.
Lei lo osservò attentamente, cercando in tutti i modi di tenere insieme i propri frammenti, sempre più danneggiati. «Non c’è bisogno di spiegarlo», disse soltanto, aspettando di incontrare di nuovo il suo sguardo per condividere la verità.
Sapeva perfettamente a cosa si stesse riferendo, come avrebbe potuto essere altrimenti? Era naturale che Miles avesse ripreso a respirare in sua assenza, perché non c’era più lei a toglierle il fiato, a costringerlo in una costante riparazione di ferite aresponsive. Non c’erano più i suoi occhi a ricordargli gli sbagli di entrambi, né le sue mani a tremare per il passato.
Come avrebbe potuto essere altrimenti?
Eppure per Emma era una sorpresa: per tutto quel tempo aveva ammirato la sua capacità di resistere, di perseverare nonostante le eterne difficoltà, e si era chiesta perché non si fosse ancora stancato. In quel momento, aveva capito che a Miles era bastato un semplice spiraglio di una possibilità diversa per sentire il peso della loro relazione.
Trattenne il respiro. Strinse i pugni.
«Ero così impegnato a cercare di risolvere questa situazione, che… Non mi sono accorto che lo stavo facendo da solo, che stavo lottando per niente». Le iridi di Miles erano sempre state estremamente pacate, quasi come se la loro assenza di sfumature potesse garantire loro una costanza di equilibrio, ma mentre la guardava in attesa, sembrava volessero risucchiarla. Non erano più placide incastonature del suo viso spigoloso, quanto più fosse in burrasca. «Perché tu non riesci a perdonarmi, vero?» riprese piano. «Non vuoi farlo».
Era consapevolezza, quella che macchiava la sua voce, consapevolezza del tempo trascorso a perderne, delle emozioni forzate che non avevano avuto nemmeno un secondo per poter prendere coscienza del proprio significato e dei propri cambiamenti.
«Non posso farlo», lo corresse Emma. Le sillabe ridotte a dei flebili soffi.
Miles si alzò in piedi con nervosismo, in una prima manifestazione delle incrinature della sua integrità: sospirò mentre si passava le mani tra i capelli, sul volto stanco. «Allora perché? Perché sei rimasta?» le domandò con più energia, standole di fronte.
Non gliel’aveva mai chiesto, non si era mai posto il dubbio. L’amore che Emma gli aveva dimostrato era talmente incontrastato, da impedirgli anche solo di pensare che non fosse quello il motivo per cui lei aveva deciso di provarci, di resistere. Quell’amore era lo stesso che alimentava il suo corrispettivo.
Emma si guardò le mani che teneva in grembo, decisa a non lasciare ulteriore spazio alla fragilità che la stava già intorpidendo. Forse erano davvero arrivati al limite, forse quel giorno sarebbe finito tutto.
«Emma!» la richiamò Miles, alzando la voce e facendo un passo avanti.
«Non sono riuscita a lasciarti andare», fu la spiegazione che gli diede, spostando gli occhi su di lui ed ascoltando il suo cuore che bramava di darle consigli con un battito in più o uno in meno. «Ci ho provato, va bene? Ho provato a stare senza di te, ma non ci sono riuscita», continuò, mentre i ricordi tornavano ad affollarle la mente.
Miles corrugò la fronte, respirando più velocemente. «Quindi… Quindi stai con me solo perché non puoi fare altrimenti? Non capisco, Emma, davvero».
Avrebbe voluto contraddirlo, avrebbe voluto dirgli che no, non era così, e che , sì che lo amava ancora con tutta se stessa. Eppure non poteva mentirgli. Non poteva continuare a mentire anche a se stessa.
«Mi dispiace», sussurrò invece, senza interrompere il contatto visivo, al quale aveva affidato il compito di parlare al proprio posto.
Lui fece un passo indietro e sbatté le ciglia più volte, poi si irrigidì ed il suo sguardo si trasformò in una tortura rancorosa.
Consapevolezza.
«Stai scherzando?» le chiese con un fil di voce, alla disperata ricerca di una smentita.
Emma non rispose.
«Per tutto questo tempo…» disse lui tra sé e sé, guardandosi intorno. «Ma che cazzo ci fai, qui?!» sbottò subito dopo. Lei si alzò in piedi come se il suo corpo avesse obbedito ad un ordine senza nemmeno consultarla.
«Miles-»
«No», la interruppe, puntandole un dito contro. «No».
«Fammi spiegare», esclamò, spaventata dalla sua reazione. Non aveva mai voluto ferirlo, né credeva che la verità l’avrebbe colpito in quel modo, o avrebbe colpito lei: perché quei sei giorni di lontananza l’avevano spinta verso una maggiore chiarezza, certo, ma una chiarezza subdola e dolorosa, che forse avrebbe preferito ignorare.
«L’unica cosa che devi spiegarmi è perché cazzo hai passato quattro mesi a rinfacciarmi quello che ho fatto, quattro mesi a farmi sentire uno schifo, mentre tu… Tu sapevi che non sarei mai riuscito ad aggiustare tutto! E non te ne è importato, hai continuato ad insistere e insistere, ed io mi sono annullato per te!»
«Tu hai annullato me!» ribatté Emma, con la voce alta, ma anche tremante. «Cristo, Miles, io ti amavo così tanto! E mi hai tradita, mi hai tradita senza nessun motivo, mi hai tolto tutto!»
«Allora avresti dovuto lasciarmi!»
«L’ho fatto! Non ti ricordi? Ti ho lasciato e dopo nemmeno due settimane ho bussato alla tua porta e mi sono obbligata a resistere, perché era meglio convivere con il tuo tradimento, piuttosto che starti lontana!»
Sentiva gli occhi bagnarsi, ma non voleva cedere a quei ricordi, alla vergogna che provava per se stessa. Aveva fatto scelte sbagliate delle quali non si capacitava e che non si sarebbe mai aspettata, aveva calpestato ciò che in realtà era e si era abbassata a servire una fragilità che disprezzava.
Miles la osservò in silenzio, con gli occhi che dovevano affrontare qualcosa di stridente. «Non ha senso», mormorò, quasi non riuscisse a realizzare il tutto. «Tu non sei così».
Quelle parole la ferirono in profondità, obbligandola a concentrarsi sul proprio respiro per mantenerlo regolare, attivo. «No, io non sono così», ripeté in un soffio. «Questo è solo quello che è rimasto», spiegò.
Lui si passò una mano sul volto e mosse qualche passo davanti al divano, inquieto: si potevano udire solo i suoi respiri profondi, il rumore delle sue Vans sulle mattonelle e poi sul tappeto, in un alternarsi che scandiva il passare dei secondi e dei minuti. Mentre Emma lo osservava con gli occhi spenti, vuoti dei segreti che avevano dovuto nascondere per intere settimane e che era persino stato difficile ammettere, lui continuava ad escluderla dai suoi pensieri.
Quando si arrestò, alzò le iridi nelle sue e vi riversò ogni briciola di sentimento.
«Mi ami?» le chiese a bassa voce.
Lei serrò la mascella e rilassò le mani lungo i propri fianchi. «Non lo so», ammise, mentre si riempiva di ridicolo per la propria insicurezza.
Non lo so più.
«Non puoi non saperlo», la contraddisse Miles, scuotendo il capo lentamente.
«Non lo so», ripeté. Era difficile distinguere i propri sentimenti: l’amore porta inevitabilmente ad un bisogno viscerale del suo oggetto, quasi per definizione, quindi cosa succede quando il rapporto di causa-effetto si spezza? Quando resta solo il bisogno, ma non si è più certi che sia riconducibile ad un amore?
«Mi hai preso in giro», la accusò lentamente. Aspettò qualche istante prima di riprendere, forse con la speranza di essere corretto. «Tu non sei tornata perché non potevi stare senza di me, sei tornata perché non potevi stare da sola. È diverso, è… Egoista». Si interruppe e la sua espressione si macchiò di una punta di doloroso disprezzo.
La verità era ormai stata liberata, le era stato concesso di divertirsi con le reazioni che avrebbe provocato, proprio come una bestia rinchiusa per troppo tempo e che smania di ripagare i suoi carnefici. Ed Emma l’aveva temuta per così tanto, l’aveva custodita così segretamente, che il terrore di lasciarla andare si era irrimediabilmente trasformato in sollievo: nessun peso da portare, nessun pensiero da rifuggire. Così, stare di fronte a Miles e non avere più nulla da difendere la rendeva più coraggiosa, almeno un poco.
«Io ho sbagliato tutto», cominciò piano, avvicinandosi a lui di un passo. «Me ne rendo conto e me ne vergogno, perché avrei dovuto essere un po’ più forte ed evitare questi quattro mesi sia a te sia a me stessa. Ho sbagliato in mille modi, Miles, e in nessuno di questi ho mai voluto farti male», continuò, sperando che quelle parole banali e prevedibili potessero comunque esprimere la loro viscerale sincerità. «E puoi arrabbiarti con me, ma non puoi giudicarmi oltre, perché io avrò fatto un sacco di cazzate, ma tu… Tu non puoi biasimarmi se non posso perdonarti. E sai una cosa? È vero, io vorrei che fosse tutto diverso, vorrei ricominciare, anzi, vorrei che non ce ne fosse nemmeno bisogno, ma non voglio perdonarti. Non voglio passarci sopra, non voglio dimenticare quello che hai fatto, non voglio far finta di non aver dato tutto e di non aver ricevuto in cambio una scopata immotivata».
Miles la ascoltò senza interromperla e quasi senza muoversi, se non per il suo petto irrequieto. Reagì solo dopo aver recepito anche l’ultima sillaba, coprendo la distanza tra di loro con passi lenti e tesi: le si avvicinò fino a coprirle il viso con il proprio respiro e poi con le proprie mani fredde, ferme non per la sicurezza, ma per la paura di tremare troppo. Le rapì gli occhi in un modo tutto nuovo, che sapeva di impotenza sfinita e di addio, mentre lei restava inerme per conservare le poche forze che percepiva. Muovendosi impercettibilmente, arrivò a sfiorarle le labbra finalmente sincere, per poi appropriarsene con foga e senza alcuna resistenza: se Emma gli aveva rinfacciato di averle tolto tutto, in quel momento sembrava che Miles volesse prendersi ancora di più, come in una conferma dispettosa e stizzita.
Lei non rifiutò quel contatto, perché doveva affrontare il suo significato: si lasciò baciare e baciò a sua volta, con la bocca aperta e sfacciata, delicata subito dopo, esausta. E quando entrambi sentirono la necessità di rallentare, di riprendere a respirare, Miles posò la fronte sulla sua, continuando a tenere le mani sul suo viso.
«Vattene via», le sussurrò sulla pelle, chiudendo gli occhi.
Emma represse un singhiozzo involontario, più simile ad un sussulto, e comprese di non poter fare altro se non dargli ascolto. Di non volere altro.
Si allontanò lentamente, mentre lui continuava a non guardarla, e gli sfiorò casualmente una mano con la propria. Era consapevole che molto probabilmente sarebbe stata l’ultima volta, ma era come se la reale ultima volta fosse stata quattro mesi prima, come se tutte le successive fossero state semplici e sbiadite copie di qualcosa di irripetibile.
Miles riaprì gli occhi solo quando lei gli diede le spalle per uscire di casa. Dopo il chiudersi della porta, si inginocchiò sul tappeto e si coprì il volto con le mani.
 
 
 
Aveva provato a restare in casa, ad isolarsi nella propria stanza con i pensieri che le vorticavano in testa e con la speranza che la lasciassero sola, ma non aveva ottenuto alcun risultato. Le era sembrato di soffocare, di essere spiata dalla curiosità della sua famiglia, che l’aveva scrutata con occhi indagatori quando l’aveva vista rientrare sconvolta e priva di parole da dispensare.
Allora Emma era uscita e aveva raggiunto l’unico posto nel quale nessuno le avrebbe fatto domande, se non quelle necessarie, dove nessuno avrebbe cercato di capire e di sapere.
Arrivò al Rumpel quasi completamente bagnata, data la sottile pioggia che l’aveva colta di sorpresa durante il tragitto: i capelli le si attaccavano al viso, infastidendola, così come i vestiti le aderivano al corpo facendola rabbrividire.
Ty si accorse di lei immediatamente, più che altro perché attirato dal rumore delle sue suole umide sul pavimento: corrugò la fronte ed in un primo momento si indispettì – Emma stava letteralmente gocciolando ad oggi passo che muoveva – rilassandosi subito dopo, nel percepire che la situazione richiedeva un altro atteggiamento.
Il locale era quasi vuoto e ancora rischiarato dal tiepido sole delle quattro del pomeriggio: lei si avvicinò al bancone e si sedette su uno degli sgabelli alti, come innumerevoli volte aveva già fatto, appoggiando gli avambracci sottili sulla superficie liscia e che avrebbe dovuto darle conforto. Ty continuò ad osservarla in silenzio, liberandosi le mani dai bicchieri che stava sciacquando fino a pochi secondi prima: la conosceva ormai da abbastanza tempo da sapere che avrebbe semplicemente dovuto aspettare.
Emma si leccò le labbra, ancora umide di pioggia e recuperò un paio di fazzoletti di carta per asciugarsi il volto, poi sospirò piano. «Io e Miles abbiamo rotto», sussurrò, guardando Ty negli occhi, come se non ci fosse bisogno di altre parole o richieste.
Lui alzò un sopracciglio e storse le labbra in una impercettibile smorfia di dispiacere, poi annuì e si mosse velocemente. Pochi istanti dopo, con Emma ancora immobile ed infreddolita, le porse il primo bicchiere di birra bionda. Doppio malto.
 
 
 
«Perché cazzo è tutta bagnata?»
Emma si svegliò confusamente, chiedendosi perché il suo capo non fosse più appoggiato sul bancone del Rumpel e perché fosse costretta a reggersi in piedi. Aprì gli occhi, abbagliati dalle luci del locale, e si guardò intorno: qualcuno la stava sorreggendo con una mano intorno alla vita, saldamente, e stava cercando di farla camminare anche se con scarsa collaborazione.
Conosceva quel profumo, i bottoni di quel giaccone marrone. Spalancò gli occhi e si divincolò velocemente, come scottata dal corpo che le stava facendo da sostegno: barcollò per l’improvvisa instabilità, ma Harry le afferrò nuovamente un braccio e se la tirò contro per non farla cadere.
«Fai la brava», mormorò, sicuro che lei l’avrebbe sentito e ricevendo in risposta un inutile movimento di ribellione.
Le faceva male la testa.
«Ci vediamo», esclamò poi lui. Emma seguì il suo sguardo e si accorse di Ty, che li stava osservando con aria preoccupata e sollevata al tempo stesso: perché gli permetteva di portarla via?
«Lasciami», protestò allora, non appena Harry riprese a camminare verso l’uscita del bar. I vestiti erano ancora umidi, così come i capelli ormai disordinati: dalle vetrate non entrava più la luce del pomeriggio.
«No», rispose lui, stringendola un po’ di più ed aprendo la porta del Rumpel.
Emma inciampò nella porta e avvertì un fastidioso capogiro: quanto aveva bevuto?
«Non voglio venire con te. Dove… Dove mi stai portando?» protestò, guardandolo negli occhi: erano concentrati e forse lievemente preoccupati, ma sicuramente divertiti.
«Prima dovresti chiedermi dove stiamo andando e poi dovresti dirmi di non voler venire», la corresse Harry, costringendola a seguirla fino alla sua macchina: sembrava sempre la stessa, anche se con una nuova verniciatura nera e lucida. Non voleva negare che il corpo contro il quale era premuta fosse un luogo piacevole dove riposare, ma era comunque qualcosa di cui non aveva bisogno, non in quel momento.
«Ti ho detto di lasciarmi», ripeté lei, cercando di liberarsi. «So camminare anche da sola».
Harry sospirò ed aprì lo sportello dell’auto. «Va bene», acconsentì. «Allora cammina da sola fino a qui e sali in macchina».
Emma cercò un proprio equilibrio, finalmente libera dalla sua stretta intransigente. «No», lo contraddisse.
«Per favore, possiamo saltare la parte in cui ti convinco a darmi ascolto?» domandò retorico, appoggiandosi con un gomito allo sportello dell’auto. Aveva i capelli legati in modo disordinato, il viso pulito e provocatorio.
«Io non vengo da nessuna parte con te!» ribadì, con la voce stridula.
«Per tua informazione, tra i miei programmi di oggi non compariva quello di farti da balia, quindi smettila di fare i capricci e sali in macchina», esclamò Harry, in tono quasi infastidito. «E poi non ti sto portando in mezzo ad un bosco per stuprarti, devo semplicemente portarti da tua sorella».
«Be’, allora se non ero nei tuoi programmi non ti dispiacerà lasciarmi in pace», gli fece presente lei, incrociando i piedi come a darsi maggiore stabilità. La sua mente era leggermente annebbiata, quindi non riusciva ad affrontare quel discorso con lucidità. «E cosa c’entra mia sorella?»
«Se preferisci che ti porti a casa dal tuo affabile padre, mentre sei ubriaca e completamente bagnata, dimmelo subito», rispose ironicamente.
No, era fuori discussione tornare a casa in quelle condizioni, ma non voleva nemmeno andare da Melanie e Zayn, che sicuramente si sarebbero chiesti e le avrebbero chiesto cosa fosse successo.
«Non voglio andare da nessun parte», precisò.
Harry sbuffò e si morse il labbro inferiore. «C’è almeno qualcosa che tu voglia fare?»
«E tu quando sei arrivato?» domandò lei invece, cercando di fare ordine nella confusione dei propri ricordi. Sapeva di aver ordinato qualche birra, ma non era sicura del numero né di quanto tempo fosse trascorso: dal tramonto che stava oscurando il cielo poteva dire che fossero più o meno le sei, ma non di più.
«Dieci minuti fa», spiegò Harry. «Mi ha chiamato Ty, dicendomi che una certa ragazza si era appropriata del suo bancone e che non voleva restituirglielo».
Si chiese subito se Ty gli avesse detto anche altro, ma si convinse di no, altrimenti Harry avrebbe sicuramente usato una delicatezza diversa: eppure perché aveva chiamato proprio lui? L’alcool nel suo circolo le diede tregua e le ricordò che il barista aveva solo il suo numero, oltre quello di Miles – che ovviamente non avrebbe potuto contattare – anche perché lei era uscita senza nemmeno il cellulare, determinata a distaccarsi il più possibile da lui.
Emma rimuginò per qualche istante su quelle informazioni, dato che la sua capacità di processarle era piuttosto compromessa, poi si voltò e prese a camminare lungo il marciapiede.
Sentì lo sportello dell’auto sbattere e subito dopo i passi di Harry. «Si può sapere dove stai andando?»
«Sono libera di fare quello che voglio, non ti pare?» rispose, appoggiandosi con una mano alla parete dell’edificio per procedere con più sicurezza.
«Sei ubriaca», le ricordò lui.
«Non così tanto», lo contraddisse. «E tu dovresti tornare a fare qualsiasi cosa stessi facendo».
«Credimi, sono davvero tentato», ammise, sottolineando le barriere con le quali si stava scontrando nonostante stesse cercando di aiutarla. «Peccato che non sia così stupido da lasciarti sola in questo stato».
«In questo stato?!» sbottò Emma, fermandosi all’improvviso. Si morse le labbra, nel prender nota della reazione stupita che provocò in lui, e decise di non dar voce ai suoi pensieri alterati che premevano per uscire. Tornò sui suoi passi e non aprì bocca.
Harry aspettò qualche secondo, prima di ritentare. «Sta per piovere di nuovo», esclamò, sperando che potesse essere un incentivo a fermarsi.
Non ottenne risposta e cessò di cercarne una.
Sospirò e si limitò a seguirla.
 
«Ti odio», borbottò Harry, incrociando le braccia al petto. «Ti odio, cazzo».
Emma chiuse gli occhi e si appoggiò al portone in vetro, respirando velocemente: avevano dovuto correre per mettersi a riparo dal violento scrosciare d’acqua che li aveva colti di sorpresa.
Davanti a loro, l’intero paesaggio era coperto da lastre d’acqua che battevano violentemente sull’asfalto, quasi a ricordar loro cosa li avrebbe attesi se solo fossero stati più coraggiosi. Emma, di nuovo completamente bagnata, si fece scivolare contro il portone fino a sedersi a terra, con le ginocchia piegate contro il petto: era passata più di mezz’ora da quando si erano allontanati dal Rumpel e l’aria fredda le aveva concesso una ripresa più veloce, anche se non completa.
Harry sospirò e si sfregò le braccia con le mani, nella speranza di riscaldarsi, poi la imitò e si sedette alla sua destra: la prima cosa che fece fu controllare che il suo pacchetto di sigarette fosse ancora in buone condizioni, la seconda fu accendersene una.
La sua presenza non risultava più invadente o fastidiosa: Emma si era abituata ai suoi passi vicini, alle sue esclamazioni tra i denti e all’odore del fumo che ogni tanto l’aveva circondata. Aveva smesso di chiedersi quando si sarebbe stancato di seguirla e aveva iniziato a chiedersi per quanto ancora l’avrebbe fatto: una sottile ed insistente differenza.
Era rimasto con lei, nonostante l’avesse allontanato e poi rifiutato. Questo la fece riflettere:  forse lui sapeva, forse solo il sapere l’avrebbe spinto a vincere il suo orgoglio e a perseverare. Forse era quella la delicatezza che aveva usato.
«Ty te l’ha detto?» gli domandò a bassa voce, appoggiando la testa contro il vetro e guardandolo con attenzione.
Harry espirò del fumo, nella sua stessa posizione ma con lo sguardo fisso davanti a sé, ed annuì piano.
«Grazie».
«Per cosa?» le chiese, stavolta spostando le iridi scure su di lei.
«Per non aver detto niente», rispose. Non avrebbe tollerato commenti o domande, erano proprio ciò da cui stava fuggendo.
«Ah, non per averti seguito anche sotto la pioggia?» scherzò, abbozzando un’espressione di finto oltraggio.
Sorprendentemente, Emma riuscì ad inclinare le labbra in un sorriso. Subito dopo nascose il viso tra le ginocchia, ricordando il dolore che l’alcool era riuscito ad alleggerire ma che le si attaccava addosso proprio come quei vestiti bagnati.
Harry si mosse dopo qualche minuto di silenzio, dopo aver terminato la sigaretta e dopo aver aspettato invano che tornasse il sereno. Le si avvicinò e le circondò le spalle con un braccio, stringendola contro il proprio petto. «Non me ne frega se mi hai detto che devo starti lontano», mormorò tra i suoi capelli: il suo corpo era determinato, una sfida alla sua tolleranza, e non lasciava spazio a repliche.
Emma si stupì del suo gesto, ma non poté dirsene infastidita: allungò una mano per aggrapparsi alla sua giacca, stringendola nel pugno, e chiuse gli occhi sul suo petto, adattandosi meglio a quell’incastro di caldo umido. In qualche modo e contro ogni logica, era l’unica persona che aveva lasciato avvicinarsi ed era assurda quanta ilarità ci fosse, in un così semplice fatto.
Improvvisamente, si sentì in dovere di respingerlo di nuovo: lo spinse via con le mani e si spostò quanto bastava a non toccarlo più. «Non posso», esclamò velocemente, decisa.
«Che ti prende?» domandò lui, corrugando la fronte.
«Non posso stare qui con te, non posso essere così egoista», ripeté, scuotendo la testa.
«Emma, calmati», le ordinò, rilassandosi.
«Io ti ho praticamente costretto a non cercarmi più», gli ricordò, alterando la voce per la consapevolezza delle proprie contraddizioni. «E non posso rimangiarmi tutto solo perché in questo momento mi serve, non posso». Si sentiva terribilmente egoista, pronta a riavvicinarsi a lui solo per un momento di debolezza: e perché Harry non si ribellava a quel trattamento? Perché non si accorgeva di quanto fosse sbagliato?
«Puoi, se io te lo permetto», rispose. La voce bassa, rassicurante.
Emma trattenne il fiato e poi cercò di trattenere le proteste del cuore, ma senza riuscirci: non era in grado di trovare delle repliche efficaci a quelle parole, nessuna motivazione un po’ più forte che la potesse spingere a cacciarlo, a chiedergli di starle ancora più lontano. Aveva fatto il suo dovere, aveva cercato di spezzare il suo egoismo, ma il consenso di Harry aveva semplicemente reso vani i suoi tentativi, autorizzandola a sbagliare.
Doveva provare a resistere, almeno in quello. «Appena smette di piovere-»
«Come vuoi», la interruppe con aria infastidita, riportando lo sguardo verso la strada.
Restarono in silenzio per diversi minuti, sul marciapiede si accumularono altri due mozziconi di sigaretta ed Emma contò i centimetri che la dividevano dal suo corpo, per metterli in relazione alla difficoltà che provava nel doverli rispettare. Era irreale trovarsi in quella situazione, strano esserci di nuovo.
«Harry», lo chiamò, infilando le mani nelle tasche umide della propria giacca. La testa le pulsava in protesta, promemoria dell’alcool ingerito. «Perché sei tornato a Bradford?»
Non glielo aveva mai chiesto, sempre troppo concentrata sul passato, e lui non aveva mai accennato al motivo, altrettanto concentrato sul passato.
Lui sospirò e si mosse appena, prima di rispondere. «Mi mancavano i miei amici. Mio padre».
Doveva esser stato difficile ricominciare una vita così giovane in una nuova città, fra estranei e facce nuove da imparare a conoscere. Evidentemente, non aveva raggiunto risultati sufficientemente appaganti, se la nostalgia era bastata a renderli vani.
Osò.
«Io ti mancavo?»
Harry mantenne un’espressione seria, imperscrutabile. «Non più».
Non aveva pensato di essere tra le motivazioni del suo ritorno, sarebbe stato ridicolo sperarlo, ma era comunque un dubbio che si era sempre posta. Eppure non era stato un no secco: si chiedeva per quanto tempo gli fosse mancata e se gli fosse mancata fino ad impazzire, come lui era mancato a lei.
«Ti sei mai innamorato a Bristol?» gli chiese poi, spinta da una curiosità sincera, ma anche strumento per dimenticare i propri problemi.
«Sì».
«Perché è finita?» Forse era troppo invadente, forse lo era sempre stata.
Harry si voltò per guardarla negli occhi. «Non è mai cominciata», precisò. «Lei non amava me».
Emma tenne per sé i commenti, non gli chiese come potesse essersi invaghito di una persona così cieca, né si chiese perché avesse spontaneamente formato quel pensiero. Per lei era stato così semplice innamorarsi di lui, che non concepiva come non potesse essere altrimenti. E non aveva conosciuto il lato di Harry in grado di amare fino in fondo, certo, ma poteva immaginare molto bene quanto potesse colmare qualsiasi riserva: come era possibile che non fosse stato abbastanza?
 
La pioggia cessò dopo circa venti minuti, minuti riempiti solo dal suo rumore e da nessun’altra parola.
Emma si alzò subito in piedi, sollevata dall’idea di potersi allontanare e ricercare una solitudine meno piacevole, ma più efficace. Harry la imitò lentamente, tenendo una sigaretta tra le labbra umide.
«Sicura che sia una buona idea?» domandò soltanto, riferendosi alla loro imminente separazione. Lei aveva bevuto un po’ troppo, era vero, ma non così tanto da avere bisogno di protezione.
«Sì, preferisco tornare da sola», rispose annuendo.
Harry si strinse nelle spalle ed assottigliò gli occhi mentre aspirava del fumo, poi la salutò con un cenno della mano e si allontanò. Camminava lentamente, con le mani in tasca ed il capo chino: Emma lo osservò a lungo, prima di andare nella direzione opposta.
 
 
 
Un nuovo messaggio: ore 00.13
Da: Harry

“Mi manchi adesso”





 


Stranamente sono riuscita a scrivere il capitolo: stamattina, al posto di studiare, il disastro che alberga dentro di me in questo periodo mi ha permesso di dedicarmi interamente a questa storia. Se il risultato è discutibile mi dispiace, ma non sono nelle condizioni più adatte per scrivere: dato che però è un mio dovere, mi sono sforzata.
Detto questo, soliti commenti:
- Miles/Emma: la piccola variazione di cui avevo parlato è proprio la consapevolezza di Miles. Inizialmente avevo pensato che sarebbe stata Emma a lasciarlo, o comunque a prendere l'iniziativa, poi invece ho pensato a come si sarebbe sentito lui in quei giorni senza di lei: il resto è venuto di conseguenza. Se c'è qualche punto poco chiaro, non esitate a chiedere! 
Aggiungo una cosa: quando dicevo che non ci sarebbe stato un triangolo mi riferivo a questo. Emma e Miles hanno una loro storia ed i loro problemi, che sono indipendenti da Harry e da tutto ciò che rappresenta.
- Emma/Harry: spero siano chiare le dinamiche di quello che è successo (Emma morta sul bancone e Ty che non sa cos'altro fare). Harry sa quello che è successo tra lei e Miles e si comporta... Così ahha Cosa ne pensate? Riguardo a tutto il resto e al messaggio.... Lascio a voi i commenti!
AH, per chi mi aveva chiesto più volte se si sarebbe saputo qualcosa in più sulla vita di Harry a Bristol: partendo dal presupposto che è stata una vita normalissima, esce fuori un nuovo particolare, ovvero un amore non ricambiato (oltre ovviamente a diverse avventure)! Lasciamo perdere come sia possibile che qualcuno non l'abbia voluto....
Be', sono di poche parole oggi: torno nel mio angolo di tristezza e agonia! Mi auguro davvero che il capitolo vi sia piaciuto! Una domanda per voi: secondo voi in cosa è cambiata Emma, principalmente? Posso dirvi che Harry se ne è già accorto!
Vi prego di darmi i vostri pareri e vi ringrazio infinitamente per tutto!!!

PS. se volete, QUI c'è una flashfic pubblicata pochi giorni fa!


Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 



  

 

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici - Housebreaking ***




 

Capitolo quattordici - Housebreaking

 

Il materasso si modellò sotto il peso di un’altra persona ed Emma aprì con difficoltà gli occhi, confusa. Si portò una mano alla fronte e se la massaggiò, prendendo nota del dolore alle tempie e della pigrizia di tutti i suoi muscoli.
«Bella addormentata, è ora di svegliarsi», annunciò una voce.
Emma si voltò a pancia in su e vide Pete completamente sdraiato alla sua sinistra, con un braccio piegato dietro la testa: gli occhi cerulei sullo schermo del proprio cellulare ed i capelli tagliati da poco.
«Cosa vuoi?» borbottò lei, abbandonando di nuovo il capo sul cuscino.
«Sono venuto ad accertarmi che fossi ancora viva, dato che non ti sei fatta vedere per accompagnarmi in ospedale», spiegò Pete con voce piccata. «E a proposito, grazie per avermi dato buca».
Si era completamente dimenticata di quell’impegno.
«Credo di avere la febbre», si giustificò soltanto, tirandosi le coperte sopra il volto.
«Ed io credevo di avere un’amica», protestò lui svogliatamente, facendola sorridere di nascosto.
«Mi dispiace davvero», si scusò, tornando a guardarlo.
«Non è vero», la contraddisse, spostando su di lei gli occhi saccenti. «In realtà ti è piaciuto riposare il culo nel tuo bel lettino».
Emma sbuffò e si passò una mano sul viso: non sapeva nemmeno che ore fossero, né come avesse fatto ad essere così egoista da tralasciare l’impegno preso con Pete. Alzò il capo quanto bastava per controllare se il suo amico avesse rimosso il gesso e sorrise quando notò la sua gamba ormai libera da qualsiasi impedimento.
«Da chi ti sei fatto accompagnare?» indagò, voltandosi su un fianco.
«Ho chiamato mio padre», rispose Pete, stringendosi nelle spalle e sistemandosi meglio.
«Perché non hai chiamato me, per buttarmi giù dal letto?» domandò, allungandosi oltre il suo corpo per recuperare il proprio cellulare dal comodino. Quando sbloccò lo schermo, si accorse di numerose chiamate perse e di diversi messaggi non letti: la suoneria era disattivata.
«Credi davvero che non l’abbia fatto?»
Sospirò di nuovo.
Scorrendo tra le varie minacce di torture fisiche e morti atroci, gentilmente inviate dal suo amico in attesa, scorse un messaggio che non proveniva dal suo numero di cellulare.
Mi manchi adesso.
«Cazzo», disse soltanto, chiudendo gli occhi.
«Che c’è?» chiese subito Pete, rubandole il telefono dalle mani e spiando la causa di quella sua reazione. Subito dopo, inclinando le labbra sottili in un sorriso sornione, si lasciò scappare un respiro più profondo ed eloquente. «Si chiama karma, mia cara».
Emma afferrò il cuscino e glielo lanciò sul viso.
 
 
 
Dire che una persona ti manca non è una cosa da niente. Ha un significato, ha delle conseguenze e soprattutto dei vincoli: non puoi ammetterlo e poi scappare, né puoi contraddirti o rimangiarti quelle poche parole. Perché in fondo le parole non contano come i fatti, ma a volte contano molto di più: hanno un peso, un peso insistente che può rappresentare una condanna ed un sollievo, un peso che non puoi scrollarti di dosso perché ti schiaccia e tu non hai abbastanza forze per liberartene.
E quel peso stava schiacciando anche Emma, nascosta sotto il calore dei due piumoni aggiunti al proprio letto: raggomitolata per combattere il mal di testa ed i brividi febbricitanti, non riusciva a non pensare al messaggio ricevuto, all’espressione di Harry nel digitarlo - alla sua faccia tosta nel digitarlo. Dire che non se lo sarebbe aspettato era riduttivo, dire che la consapevolezza di mancargli non la lusingasse era una menzogna.
Cos’avrebbe potuto rispondergli? Anzi, cosa avrebbe dovuto rispondergli? Perché ormai era sera, erano passate quasi ventiquattro ore e lei non aveva ancora digitato nemmeno una lettera sul proprio cellulare: si stupiva che lui non si fosse presentato a casa sua urlando il suo disappunto, dato che era risaputo quanto odiasse non ricevere una risposta, soprattutto in determinate situazioni, ma ne era sollevata, perché questo le lasciava più tempo per pensare.
Pensare a cosa?
Harry le mancava? No, non avrebbe potuto dirlo, così come non avrebbe potuto dire il contrario con assoluta certezza.
Optò per la sincerità.
 
Messaggio inviato: ore 21.56
A: Harry
“Non so cosa rispondere”
 
E Dio, se lei avesse ricevuto un messaggio del genere al suo posto, avrebbe sicuramente dato di matto. Per questo, quando il cellulare squillò tra le sue mani dopo pochi minuti, temette che Harry stesse per avere quella stessa reazione.
Eppure il mittente era un altro ed il dolore anche.
«Miles?» rispose a bassa voce, abbassando le palpebre come per proteggersi un po’ di più.
«Hey…» respirò lui, probabilmente massaggiandosi il collo con una mano.
Emma restò in silenzio, tossicchiando appena quando la gola le diede un po’ più di fastidio: se riguardo Harry non era sicura, su Miles non aveva dubbi. Le mancava in ogni istante della giornata, come qualcosa con la quale hai vissuto per troppo tempo senza mai separartene e senza la quale niente è lo stesso.
«Sei raffreddata?» le chiese piano.
Lei si strinse tra le coperte, riscaldata dal suo tono preoccupato ma esitante. «Ho la febbre», spiegò soltanto, omettendo la causa della sua malattia. Era paradossale parlare con lui di certe cose, quando solo il giorno prima le loro bocche avevano lasciato andare parole di separazione, ma era comunque confortante.
Di nuovo silenzio.
«Poco fa mi ha chiamato un’agenzia», esordì lui dopo qualche istante. «Vorrebbe esporre i miei quadri in una mostra che si terrà tra poco più di una settimana».
«È una buona opportunità», rispose Emma, sinceramente lieta delle possibilità che si prospettavano nella sua carriera, nonostante non capisse perché volesse metterla al corrente.
«Vorrebbero anche le tue fotografie», precisò lui.
Lei sbatté più volte le palpebre e trattenne il respiro. «Cosa?»
«Un dirigente di questa agenzia era alla nostra mostra ed è rimasto colpito», spiegò lentamente. «Ci vuole entrambi».
Era entusiasta all’idea di aver lasciato il segno nella memoria di qualcuno, di essere richiesta in modo specifico per ciò che evidentemente era riuscita a trasmettere: era una grande soddisfazione, un traguardo raggiunto e confermato inaspettatamente.
Fu Miles ad esporre l’altra faccia della medaglia.
«Se per te è un problema lavorare insieme, possiamo metterci d’accordo e chiedere una diversa organizzazione», sospirò. «Fino al giorno della mostra potremmo anche non incontrarci, ma sarà comunque inevitabile».
«Per te è un problema?» tergiversò. Si erano appena separati e veniva già concessa loro la possibilità di riavvicinarsi.
Miles attese pochi secondi. «No», rispose fermamente.
Avrebbe preferito che fosse il contrario, avrebbe preferito essere odiata e odiare, piuttosto che dover sopportare una tale tolleranza: era doloroso pensare a quanti sogni avessero costruito insieme sulla carriera artistica di entrambi, quanti progetti avessero ideato e scartato, mentre ormai era sempre più marcata la strada differente che stavano percorrendo.
«Nemmeno per me», sussurrò Emma: non ne era sicura al cento per cento, ma doveva almeno fingere di esserlo. Non poteva compromettere l’opportunità che le era stata fornita e non poteva di nuovo scappare dalle difficoltà.
«Bene, allora… Allora ti farò contattare e ti daranno tutte le indicazioni», continuò Miles, cercando di fingere indifferenza.
«Sì, grazie».
Lo udì respirare profondamente e fu tentata di fare altrettanto. «È imbarazzante», le confessò a bassa voce.
«Cosa?»
«Questa telefonata, questo modo di parlare come se… È assurdo».
«Migliorerà, credo», mormorò: parole banali e di circostanza, ma comunque vere.
Miles non rispose, quasi non volesse contraddirla o si stesse trattenendo dal lasciar libere troppe verità. Si limitò a salutarla con la voce bassa, lenta. «Buonanotte, Emma».
«Buonanotte».
 
 
 
Harry le scrisse più tardi, quando tutta la sua famiglia stava ormai dormendo e lei era l’unica ad avere gli occhi ben aperti, sebbene le bruciassero: era scesa in cucina per prepararsi una tisana che mettesse a tacere il disappunto del suo corpo e che le conciliasse il sonno, ma non aveva potuto finirla, perché il messaggio che aveva ricevuto l’aveva distratta.
 
Un nuovo messaggio: ore 23.48
Da: Harry
“Sei a casa?”
 
Messaggio inviato: ore 23.48
A: Harry
“Sì, perché?”
 
Un nuovo messaggio: ore 23.50
Da: Harry
“Giardino sul retro?”
 
Messaggio inviato: ore 23.51
A: Harry
“No, non sto bene e fuori si congela”
 
Un nuovo messaggio: ore 23.52
Da: Harry
“Copriti ed esci”
 
Messaggio inviato: ore 23.53
A: Harry
“Ho la febbre! Non possiamo vederci domani?”
 
Un nuovo messaggio: ore 23.53
Da: Harry
“Domani non ho tempo”
 
Messaggio inviato: ore 23.54
A: Harry
“Harry, per favore…”
 
Un nuovo messaggio: ore 23.54
Da: Harry
“Sto arrivando”
 
 
 
Non riusciva nemmeno a ricordare l’ultima volta che si erano visti in quel modo, né l’ultima volta che aveva cercato di dissuaderlo dallo scavalcare la recinzione del proprio giardino. Eppure poteva ricordare molto bene quanto potesse essere ostinata la sua determinazione.
Era uscita con due maglioni addosso, la giacca che si abbottonava a stento ed uno dei piumoni a circondarle il corpo: aveva i capelli arruffati, ma almeno decenti, e gli occhi gonfi per la spossatezza. Harry era comparso poco dopo, saltando giù dallo steccato in legno e pulendosi le mani contro i jeans neri che indossava.
Le si avvicinò lentamente, osservandola con attenzione. «Stai per morire?» le domandò, con la fronte corrugata e le labbra umide. Evidentemente il suo viso era in condizioni più pietose del previsto, ma non le importava: doveva vedere quanto il suo egoismo e la sua testardaggine andassero a discapito della sua salute.
«È già tanto che io non ti denunci per violazione di domicilio, quindi chiudi la bocca», gli intimò, disprezzando la propria voce nasale. «Non potevi aspettare fino a domani?» gli ripeté, poco convinta della scusa addotta minuti prima.
Harry fece un passo in avanti, sistemandosi la giacca pesante e ravvivandosi i capelli sciolti. «Ho aspettato fino ad ora», ribatté seriamente, confermando i suoi dubbi.
Emma non sapeva se quell’impazienza fosse dettata da un’effettiva mancanza o solo dall’irrefrenabile desiderio di far valere il proprio orgoglio, probabilmente ferito dalla risposta alla sua confessione, ma non poté evitare di chiedersi cosa provasse nel rivederla.
Conseguenze.
«Perché mi hai mandato quel messaggio?»
Poteva sembrare una domanda banale, ma qualcosa stonava in quella rivelazione improvvisa e così facile.
«Perché è la verità», disse semplicemente. I suoi occhi la scrutavano intensamente, come per impedirle di scappare. «Tu, piuttosto, perché non sai cosa rispondere?»
Un altro passo nella sua direzione.
Emma alzò un sopracciglio, mentre la necessità di sedersi diventava più urgente: sapeva di aver appena iniziato un gioco sottile, ma sapeva anche di poterne prendere il controllo. «Secondo te?»
Proprio non ci arrivava? Proprio non lo sfiorava l’idea che quella piccola ed inaspettata rivelazione avesse potuto sconvolgerla?
«O ti manco o non ti manco», rispose lui, con una semplicità disarmante.
E semplice lo era davvero, o forse lo sarebbe stato in un’altra occasione. Lei sospirò e si strinse un po’ di più nelle spalle, rabbrividendo. «Harry, Miles mi ha lasciata ieri», gli ricordò a bassa voce. «Come credi che io abbia tempo per provare qualcos’altro?»
La mancanza di Miles era così asfissiante da portarle via energie e caparbietà, così assordante da impedirle di concentrarsi su altro: e certo, la fronte bollente ed i muscoli indolenziti non aiutavano, ma non era la sua salute fisica a condizionarla sin nelle ossa.
Harry serrò la mascella ed assottigliò lo sguardo, forse alla ricerca della reazione più appropriata da sfoderare. «Quindi non puoi darmi una risposta certa», le fece presente, scavando più a fondo nelle sue parole.
Aveva ragione ed era la stessa consapevolezza che l’aveva sfiorata nel digitare quel primo messaggio: doveva soffermarsi a valutare le proprie emozioni, per capire se fosse solo l’appoggio che Harry le aveva offerto a stuzzicarla, o se si trattasse di altro.
«Te l’ho già detto», ribatté.
Lui non fiatò.
Lei sospirò sonoramente.
«È per questo che ti ho chiesto dello spazio», esclamò, con la voce carica di esasperazione, passandosi una mano sul volto. «E non è cambiato niente da allora, anzi, forse adesso è ancora peggio. Io non ho bisogno di questo, non posso occuparm-»
«Ieri ne hai avuto bisogno, però», la interruppe, con una sottile stizza nel tono: le stava rinfacciando l’aiuto prestatole, come il suo orgoglio gli comandava di fare.
La infastidiva il modo in cui fosse sempre pronto ad utilizzare i loro trascorsi come difesa e attacco, ma non sarebbe di certo rimasta in silenzio. «Ti ricordo che sei stato tu ad impormi la tua presenza, io ti ho più volte chiesto di andartene».
«Certo, ed io stavo per piangere da solo tra le mie braccia», sbuffò Harry, increspando le labbra in una smorfia imitativa.
Lei lo osservò quasi disgustata, ma sicuramente indispettita. «Senti, vaffanculo», sputò tra i denti, voltandosi per andarsene: al diavolo lui ed i suoi isterismi da prima donna. Non aveva voglia di un’altra discussione, non aveva voglia di peggiorare il mal di testa e non aveva voglia di giustificarsi per qualcosa di cui l’aveva sempre avvertito: se gli aveva chiesto una certa distanza, perché si aspettava che la azzerasse senza alcun ripensamento?
«Vaffanculo tu!» ribatté Harry, afferrandola per il piumone e costringendola a voltarsi. «Sei capace di affrontare le cose senza andartene?»
Emma avrebbe voluto avere le forze per sferrargli un pugno sul viso, ma dovette limitarsi a divincolarsi dalla sua presa. «Io le sto affrontando!» lo contraddisse, abbassando subito dopo la voce: era meglio non svegliare casa Clarke. «A modo mio, ma ci sto provando! Invece tu continui a pretendere, ma cosa vuoi che ti dica? Che mi manchi? Non è così, Harry, e non voglio scavare a fondo nella cosa, né…» Sospirò sonoramente, con la gola che le bruciava. «Ho solo bisogno di un benedetto momento per realizzare il fatto che io e Miles ci siamo lasciati, ok? Un momento per me».
«Tra te e lui è già finita da un pezzo», le fece presente, infilando le mani nelle tasche della giacca.
Lei assottigliò gli occhi, infastidita. «Grazie», sibilò. «Sei proprio d’aiuto».
«Ah, ora dovrei essere d’aiuto?» domandò lui, avvicinandosi di un passo ed indossando una maschera incredula. «Da come parli sembra che tu abbia intenzione di chiedere un ordine restrittivo nei miei confronti, ma se per caso dico qualcosa che non ti piace ti incazzi».
«Era un modo di dire!» si lamentò, alzando gli occhi al cielo per l’esasperazione. «Santo cielo, perché dobbiamo litigare per cose del genere?»
Harry si passò una mano tra i capelli ed abbassò lo sguardo sui propri stivaletti neri, lasciandole il tempo di sbollire la stizza e forse prendendone anche per sé. Pochi istanti dopo, respirò profondamente e serrò le labbra in una linea dura, repressa: le si avvicinò con un solo passo e la guardò dall’alto, schiudendo la bocca come per dire qualcosa.
Emma sostenne il contatto visivo con tutta l’alterità di cui disponeva, pronta a difendersi da qualsiasi attacco stesse per ricevere: conosceva quegli occhi, quel taglio con il quale la stavano testando, e sebbene stessero cercando di intimorirla, dovevano confrontarsi con una resistenza piuttosto caparbia. «Cosa c’è?» domandò in un sussurro, sfidandolo.
Lei, sommersa da strati di calore e con le occhiaie a dipingerle il viso, e lui, statuario nel suo benessere.
Harry le sfiorò le labbra con le iridi, in un fuggevole istante, ed inclinò le proprie nell’accenno di un sorriso provocatorio. «Niente», le rispose, facendosi impercettibilmente più vicino.
Emma decise di ammonirlo, prima di eventuali danni. «Non fare-»
«Cosa?» la interruppe, respirandole sul volto.
«Harry».
«Emma», la canzonò.
«Allontanati», gli impose, restando immobile: voleva dimostrarsi resiliente, certo, ma c’era anche un’innegabile sollievo nel respirare il suo profumo e nel giocare a quella vicinanza.
«Allontanati tu».
«E dartela vinta?»
«Vuoi dire che ti lasceresti baciare, pur di non darmela vinta?» Il suo tono lascivo la stava distraendo.
«No, voglio dire che ti tirerò uno schiaffo, se proverai a farlo», lo corresse. In realtà non sapeva con certezza come avrebbe reagito, ma voleva convincere se stessa prima di dover affrontare la verità: non poteva negare che le labbra di Harry la stessero tentando, ma insomma, avrebbero tentato chiunque, quindi non poteva di certo attribuire quella crepa nella sua determinazione ad una vera e propria attrazione.
Lui si fece più serio, ancora inerme a pochi centimetri da lei: non la stava nemmeno toccando, ma riusciva comunque a farsi sentire. «Peccato», mormorò, osservandole la bocca. «Perché vorrei proprio baciarti, in questo momento», ammise semplicemente, inumidendosi le labbra e compiendo un insignificante ma notevole movimento verso di lei.
Emma accettò quelle parole trattenendo il fiato, stringendo i pugni. Per un istante sentì il suo corpo fremere, come accarezzato dal loro suono, e si sforzò di non pensare a cosa significasse: era difficile restare coerente con le proprie intenzioni, se Harry si sforzava così tanto per fargliele dimenticare, distorcere.
Fece un passo indietro, continuando a tenere gli occhi nei suoi.
La brezza notturna tornò ad infilarsi tra loro, quasi a volerli svegliare, e le restituì un respiro più semplice.
Harry chinò il capo e sospirò. «Si sono invertiti i ruoli, hm?» domandò retorico, riacquistando il controllo e forse maledicendola per la distanza interposta. Effettivamente era assurdo paragonare il loro attuale rapporto con quello costruito a fatica anni prima: era stata Emma ad insistere, a tenerlo legato a sé contro ogni logica, a corteggiarlo. Forse proprio per questo motivo le riusciva difficile vedere di buon occhio i suoi comportamenti, accettarli senza farsi troppe domande, perché non l’aveva mai visto insistere così tanto, se non quando l’aveva già avuta, né combattere per lei.
«Come ci si sente?» lo provocò, più che altro per smorzare l’atmosfera che li stava ancora circondando.
«Stronza», commentò lui, sorridendo appena.
Emma nascose il viso nel colletto della giacca e restò in silenzio per qualche istante, insicura sul da farsi. Non sapeva più cosa dire, cosa rispondere, ma la necessità di tossire le ricordò cosa fosse meglio.
«Devo rientrare», esclamò, senza negare a se stessa che in minima parte le dispiacesse.
Harry annuì piano. «Dovrei provare a fermarti o…?»
La fece ridere, inaspettatamente. «No, non devi», gli assicurò. Subito dopo, si strinse nelle spalle e lo salutò in silenzio, prima di voltarsi e camminare sul prato umido verso la veranda.
Forse sperò di sentire di nuovo la sua mano ad avvolgerle il braccio per trattenerla, forse sperò anche solo in una parola, forse percepì la delusione quando le sue aspettative vennero spezzate dai rumori provocati dal suo arrampicarsi oltre lo steccato.
Ma solo forse.





 


Non so perché ormai gli aggiornamenti capitino sempre di sabato sera, ma spero non vi dispiaccia :) Anche stavolta ho scritto tutto di getto, nonostante abbia dovuto pensare parecchio a questo capitolo, perché Harry mi ha dato qualche problema!
However, passiamo ai fatti:
- Pete: perché non esiste e perché non viene a svegliare me????
- Emma/Miles: piccolo colpo di scena, dovranno partecipare ad una mostra (e ho una bella idea a riguardo :)))))))))))))). Vi aspettavate che lui la richiamasse per pregarla di tornare insieme? Ebbene, è troppo maturo e consapevole per farlo, ma anche troppo ferito. 
- Emma/Harry: ammetto di essere diventata nostalgica ripensando alla prima volta che si sono visti nel giardino sul retro!! Maaaa comunque: Emma dà una risposta un po' del cazzo ad Harry, ammettiamolo ahahah E ne è anche consapevole, però non avrebbe potuto fare altrimenti (o forse sì, ma così era più facile). Ovviamente lui è fin troppo egoista per lasciar correre e lasciarla riposare, quindi se ne frega bellamente delle sue condizioni di salute (anzi, gliele rinfaccia anche nel modo in cui tutte le fanciulle vorrebbero essere accolte, con un bel "stai per morire?" ahhaha) e ignora il suo divieto di presentarsi a casa sua. Ovviamente litigano come sempre, basandosi un po' sul nulla: ora, io capisco che Emma abbia le sue paturnie ed i suoi difetti, però pure lui non scherza. Voglio dire, Emma ti ha già detto dieci volte che ha bisogno di un momento di pausa per riprendersi e tu sei peggio di un tarlo: e scollati un attimo!!! (TVB) Ma a parte i miei commenti, so che il suo comportamento possa essere "strano" ed inaspettato (per esempio alcune di voi sono rimaste stupite dal fatto che lui abbia ammesso così facilmente che lei gli mancasse), ma c'è da tener conto che ora è un uomo (sempre orgoglioso, certo, ma non nel modo in cui potrebbe esserlo un ragazzo di diciannove anni, che tra l'altro combatte con una quindicenne tutta pepe) e che - come sottolinea anche Emma - ora è LUI a doverla corteggiare: in Little girl questo suo lato non è mai uscito fuori per bene, perché è sempre stata lei a movimentare la storia (almeno per la maggior parte). Infatti anche per lei è tutta una novità!
E insomma, ammette anche di volerla baciare :)))) E poi se ne va :)))) Faccia da culo :)))) Questa è solo la prova che lui è ancora MOLTO orgoglioso, infatti si è abbastanza sbilanciato in questo capitolo, ma quando lei gli dice di non fermarla, lui è già arrivato al limite e non le dà la soddisfazione di farlo! Sempre il solito provocatore!
Cosa vi aspettate nei prossimi capitoli? Cosa pensate del comportamento di Emma? Sta iniziando a cedere? Cederà?
Be', come sempre ho parlato troppo: spero che il capitolo vi sia piaciuto e che mi farete sapere le vostre impressioni/perplessità/critiche!
Scappo a fare l'albero di Natale (in anticipo)!


Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
  
  

 

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici - Whatever you want ***




 

Capitolo quindici - Whatever you want

 

Contraddittoria.
Nella sua testa non avrebbe potuto scovare un aggettivo più appropriato da affibbiarsi, anche con una punta di intimo disgusto. Nessuna definizione le sarebbe calzata così a pennello, descrivendo perfettamente l’insita lotta che la stava dilaniando.
Era contraddittoria ed era solo colpa di Harry.
Gli aveva chiesto di lasciarle del tempo, dello spazio, qualsiasi altra dimensione avesse potuto nominare, e l’aveva fatto numerose volte, come un disco rotto incapace di procedere oltre. Eppure erano passati due giorni, Harry era svanito nel nulla e lei era infastidita.
La stizza le irrigidiva i pugni chiusi improvvisamente, durante la giornata, e lei si intestardiva nel disprezzare quella sua incoerenza: perché, se poteva dirsi finalmente libera di godersi la solitudine tanto ricercata e l’opportunità di recuperare una certa dignitosa integrità, si sentiva anche irrimediabilmente irritata dal fatto che Harry l’avesse presa in parola e avesse cessato ogni tentativo di contatto.
Non perché necessitasse delle sue attenzioni, ovviamente, ma semplicemente perché la sua vanità – ormai fedele compagna quando si trattava di ergere delle giustificazioni - le reclamava, troppo a lungo stuzzicata dalla loro presenza ed infine abbandonata all’improvviso. Non poteva neanche metterla su un piano personale: in fondo i suoi sentimenti non erano mutati, anzi, non erano nemmeno sentimenti. Continuava a ripetersi che fosse naturale sentirsi nostalgici nei confronti di piccole e sfrontate accortezze, soprattutto in un momento di tale fragilità: chi non avrebbe rimpianto i modi provocanti di Harry?
E no, non voleva davvero un riavvicinamento, l’ennesima violazione del suo spazio vitale, ma sarebbe stato più giusto sostenere che non le sarebbe affatto dispiaciuto, se lui si fosse mostrato sfacciato ancora una volta: l’avrebbe subito rimproverato e magari avrebbero di nuovo litigato, ma almeno il suo ego avrebbe avuto delle briciole delle quali saziarsi, dopo aver assaggiato dimostrazioni ben più sostanziose.
Terribilmente contraddittoria.
 
 
 
La febbre che l’aveva praticamente allettata nei giorni precedenti si era rivelata effimera e di breve, ma intensa durata. Emma, dopo quarantotto ore di riposo, si poteva definire in forma e solo vagamente raffreddata: unico rimasuglio della fronte bollente era la sua voce ancora un po’ nasale.
Quel giovedì era tornata di nuovo all’università, nonostante avrebbe preferito darsi ancora per malata: aveva delle lezioni importanti ed i suoi genitori, che proprio non riuscivano ad accettare la sua quasi totale indipendenza, non avrebbero taciuto riguardo la sua uscita pomeridiana con Melanie. “Se sei malata per non andare all’università, allora lo sei anche per lo shopping”, le avrebbero detto.
Melanie era passata a prenderla alla fine delle lezioni, nel primo pomeriggio: avevano vagato per la città per qualche ora, affrontando argomenti leggeri e comprando sciocchezze che in realtà non servivano, ma che funzionavano comunque da distrazione. Emma conosceva lo sguardo cauto della sorella, quello con il quale le voleva far capire di sapere, ma di non osare chiedere: per questo era determinata ad ignorarlo, almeno ancora per un po’.
«Entriamo qui?» propose invece, indicando con il capo una gioielleria intima, ma ben rifornita.
Melanie alzò un sopracciglio ed annuì senza fare domande, troppo ingenua e di buone intenzioni per poter sospettare di essere caduta in qualcosa di simile ad un piano.
Emma decise di costruirsi comunque un alibi, così, entrando all’interno del locale e salutando con un sorriso l’unica commessa presente, si diede in giustificazioni. «Sai, Nikole compie ventitré anni tra pochi giorni: pensavo di prenderle un bracciale, o una collana», disse piano, guardando distrattamente le vetrinette splendenti e ricolme di gioielli più o meno costosi. Mentre Melanie la seguiva genuinamente interessata, individuò con la coda dell’occhio la posizione degli anelli in vendita. «Come direbbe lei, “un bel ciondolo distrarrebbe gli occhi dei ragazzi dalla mia ciccia e li attirerebbe verso le mie tette”», continuò subito, ridacchiando al solo pensiero.
«Nikole dovrebbe smettere di essere così dura con se stessa», commentò la sorella, controllando il prezzo di un paio di orecchini in argento. Le sue iridi brillanti potevano fare concorrenza alle pietre preziose lì esposte: aveva legato i capelli in una coda alta ed ordinata, lasciando il viso pulito e struccato in bella vista. Era fastidiosamente delicata.
«Essere autoironici non è così male», rispose Emma, alzando le spalle. «Ah, guarda questo», esclamò subito dopo, indicando un sottile bracciale.
Melanie si avvicinò e le prestò attenzione, ma dimostrò immediatamente la determinazione che fino ad allora si era decisa a smorzare. «Allora? Cos’è successo con Miles?» le domandò a bassa voce, senza alcuna pretesa.
Emma si voltò quasi bruscamente, colta di sorpresa.
«Be’, se… Se non vuoi parlarne, ecco, v-»
«Ci siamo lasciati», la interruppe, rassicurandola implicitamente prima che iniziasse ad incespicare sempre più nei suoi borbottii insicuri. Non le aveva confidato nulla riguardo quella situazione, ma sicuramente i suoi genitori avevano spifferato le sue condizioni d’animo degli ultimi giorni, collegandole alla strana ed inaspettata visita di Miles tempo addietro. L’intuito aveva fatto il resto.
«Perché?» chiese allora Melanie, allungando spontaneamente una mano sottile per accarezzarle un braccio, in modo esitante, e dipingendo il proprio volto di un sottile dispiacere. La sua domanda poteva sembrare scontata, dato che la situazione era sempre stata critica, ma era evidente che si riferisse a ciò che aveva effettivamente dato una svolta al tutto.
«Non lo avrei mai perdonato», tagliò corto Emma: non le era ancora facile parlarne, perché in fondo avrebbe comportato passare in rassegna tutti gli errori commessi e subiti.
La sorella rilassò le braccia lungo i fianchi magri, assumendo un’aria comprensiva. «Solo lui non l’aveva capito», commentò piano.
Aveva ragione, in fondo: chissà perché proprio il ragazzo con il quale aveva convissuto per più di un anno non aveva realizzato quella schiacciante prospettiva.
«Tu non mi hai mai consigliato di lasciarlo: come mai?»
«Non… Non toccava a me scegliere. E poi, be’, non ero sicura che tu fossi così propensa a prendere in mano l’argomento o addirittura ad accettare consigli», sorrise Melanie, abbassando lo sguardo. Chissà quante volte era stata tentata di parlarle con il calore che solo lei era in grado di dispensare, chissà quante volte si era morsa la lingua nel vederla cadere negli stessi sbagli…
Chissà quante volte aveva macchinato alle sue spalle con Harry Styles.
Emma assottigliò subito gli occhi indagatori, appoggiando una mano sul proprio fianco. «Di’ un po’, è per questo che hai dato l’indirizzo delle gemelle ad Harry?» chiese direttamente, quasi certa della risposta. «Speravi che lui potesse metterci lo zampino e magari farmi capire qualcosa? Che so, che di Miles non mi importava nulla? O forse lo speri ancora?» insistette, avvicinandosi di un passo.
Melanie sbatté le palpebre intimorite e le sue guance si fecero più rosse, dimostrando la sua difficoltà. «No, no… Certo che no», balbettò, schiarendosi la voce. «Voglio dire… Ho sempre pensato che tra te e Miles non ci fosse quello che c’era tra te ed Harry, ma… È stato lui a venire da me a cercarti. Io, ecco-»
«Tu ti sei solo lasciata intenerire da una piccola vipera», concluse la minore, mordicchiandosi un labbro.
«Be’, non vedrei Harry come una vipera», precisò Melanie, scettica. «Voleva solo vederti, sai, farti una sorpresa».
Emma sospirò nel confrontarsi con la sconfinata purezza della sorella. «Mel, potrei stare qui a spiegarti come Harry forse sia interessato a vedere qualcosa di più… Specifico, di me. Però preferisco lasciarti nella tua bolla di arcobaleni».
L’altra sbuffò un sorriso. «Sul serio!» protestò, con gli occhi vispi e sinceri. «Non voglio dire che Harry non abbia istinti o non… Sì, be’, hai capito. Ma non è fatto solo di ormoni e quella volta voleva davvero solo vederti», spiegò ancora. «Poi, certo, io non so se tu ti diverti a provocarlo e a-»
«Melanie!» la rimproverò Emma, sorridendo incredula per quell’allusione. «Senti, lasciamo perdere questo discorso: mi sta facendo tornare il mal di testa. Piuttosto…» Abbassò la voce in un sussurro pensieroso, dirigendosi verso la vetrina degli anelli. «Vorrei proprio comprarne uno», commentò con aria sognante, ma studiata.
Zayn aveva già trovato l’anello di fidanzamento adatto all’occasione, ma non sapeva assolutamente quale fosse la misura esatta per la sua futura sposa – perché nemmeno in un distante universo parallelo le cose sarebbero potute andare diversamente: in casa aveva trovato un paio di anelli che solitamente lei utilizzava, ma non si fidava, soprattutto perché diverse volte glieli aveva visti scivolare dalle dita. Per questo aveva chiesto il suo aiuto, l’aveva ingaggiata in veste di detective discreto ed efficace.
«Costano davvero molto», rifletté Melanie, curvando le sopracciglia in un cipiglio pensieroso. Le sue iridi, però, lasciavano trasparire il fascino derivante dai gioielli che stavano osservando.
Emma si decise ad agire, fingendo disinvoltura. «Fammi vedere la tua mano», esclamò, allungando anche la propria. «Ammettendo che io riesca a risparmiare abbastanza soldi da comprare uno di questi affari, non so nemmeno di che misura dovrei prenderlo», continuò con noncuranza, paragonando distrattamente le sue dita con quelle della sorella. «La tua qual è?»
Melanie imbronciò le labbra e diede un’ultima occhiata alle loro mani affiancate. «N, ma forse a te serve un numero in più», ragionò. «Dovresti provare a chiedere alla commessa».
Lei sorrise, annuendo soddisfatta. «Sì, ma forse è meglio non fantasticare troppo», ammise in un sospiro. «Prima devo mettere i soldi da parte».
Allontanandosi dalla vetrina e assicurandosi di non farsi vedere, inviò un messaggio a Zayn: la missione era andata a buon fine, ma si aspettava una ricompensa.
 
 
 
Era riuscita a trovare un equilibrio, una sorta di compromesso tra la realtà e ciò in cui lei avrebbe voluto trasformarla: circondata dal tepore della cucina e dal profumo di farina, si sentiva in grado di sorridere liberamente nello sperimentare biscotti con la piccola Fanny. Momentaneamente spensierata – e affamata – si stava concentrando solo sulla quantità dei vari ingredienti, sulla presenza di tutto il necessario.
Fanny aveva una faccia seriamente assorta, mentre sfogliava un vecchio libro di ricette, soddisfatta di essere riuscita a cacciare Constance dal suo ambiente preferito: come sempre di poche e schiette parole, occupava più tempo a canticchiare qualcosa a bassa voce, facendo ondeggiare i morbidi capelli raccolti in una treccia disordinata.
«Non ho ancora capito questa tua improvvisa passione per i dolci», ammise Emma, legandosi un grembiule azzurro dietro il collo.
L’altra si limitò ad alzare le spalle e ad indicare una pagina del libro. La scelta era evidentemente caduta su semplici biscotti di cioccolato: puntare troppo in alto era rischioso.
«Spero che tu non abbia intenzione di imparare per poi regalarli a qualche ragazzino brufoloso», scherzò, allacciando anche dietro la sua schiena un grembiule simile al proprio, che però le arrivava alle ginocchia.
Fanny assunse un’espressione disgustata ed Emma sospirò di sollievo: per fortuna la sua piccola e – non tanto – indifesa sorellina era ancora in quella fascia d’età dove gli esseri di sesso maschili non sono contemplati. O almeno, se pure vengono degnati di una scarsa considerazione, sono comunque relegati a posizioni più basse nella scala sociale e nella catena dell’alimentazione.
«Perfetto», esclamò allora, bendisposta. «Continua così: lascia perdere i ragazzi, loro sono… Be’, spesso fanno male», concluse abbassando la voce.
Fanny la osservò e si aggirò per la cucina alla ricerca del cioccolato fondente, sicura di esserne in possesso. Emma, intanto, fissava l’isolotto al centro della cucina con la mente che vagava per sentieri pericolosi.
Poi, improvvisamente, dalle ferite accettate da Miles, la sua attenzione si soffermò a quelle ben più lontane e sfumate ricavate da qualcun altro.
«E sono fastidiosi», rincarò allora, accentuando il proprio tono di voce con un certo sdegno.
Mentre mescolava la farina, il lievito ed il cacao, il viso di Harry si dipingeva tra quegli ingredienti e lei accelerava i movimenti solo per cancellarlo.
Fanny si trovò d’accordo con lei, apparentemente, perché annuì con vigore, mentre infilava il cioccolato nel microonde per farlo sciogliere.
«E sono terribilmente egocentrici».
Si sporse ad afferrare lo zucchero.
«E ti fregano», continuò. «Perché non capiscono mai un caz-un accidenti di quello che devono fare e di quando devono farlo». Con un’enfasi maggiore del richiesto, prese ad amalgamare lo zucchero con il lievito: il viso inspiegabilmente livido.
«E ti tradiscono!» sbottò, ormai senza nemmeno più un controllo, in balia di una stizza più profonda, saltata di nuovo verso un altro volto. «Ti stregano con il loro bel faccino e ti fanno innamorare, ti fanno vivere con loro e poi escono, e indovina? Stregano anche qualcun’altra, con quel bel faccino: così tu ti ritrovi ad aspettarli nel letto, magari anche con un bel completino addosso costato l’ira di Dio, anche se non arrivano. Almeno non subito, no: arrivano solo dopo averti tradita! E sono così subdoli e crudeli, da renderti stupida e debole, perché comunque tu faresti di tutto pur di non farli andare via, ti ci metti d’impegno: e ce ne vuole per sottrarsi all’incantesimo, ah, se ce ne vuole. Tanto che poi, alla fine, hai la testa talmente confusa da tutte le loro frottole, da non capire nemmeno che una buona parte della colpa è solo tua!».
Fanny era rimasta ferma accanto al microonde acceso, con gli occhi spalancati: la guardava come se fosse completamente impazzita – cosa del tutto ragionevole – e come se, fortunatamente, fosse davvero ancora molto lontana da ciò che l’aspettava. Forse se ne sarebbe tenuta ancora più alla larga, nel constatare quali effetti le pene d’amore avessero provocato nella sorella.
Emma respirò profondamente ed arrestò i suoi movimenti irrequieti: si maledisse per quello sfogo del tutto inappropriato ed irrefrenabile, che aveva lasciato andare ben più cose di quelle che si sarebbe concessa, soprattutto in presenza di Fanny. Assunse un’espressione talmente crucciata e pentita, ma allo stesso tempo quasi dolorante, che la più piccola si sentì in dovere di intervenire.
«Se ti può consolare, i ragazzi della mia classe non hanno proprio un bel faccino», esclamò soltanto, piegando le sue labbra rosee per manifestare un certo disappunto.
L’altra sbuffò e sorrise apertamente, scuotendo il capo. Prima che potesse tornare a quei poveri ingredienti che fino ad allora aveva torturato, però, il telefono prese a squillarle nella tasca del pantalone.
Pulendosi le mani sul grembiule, lo afferrò e rispose alla chiamata di Louis.
«Finalmente», lo salutò, meno cordiale di quanto fosse lecito. Era sparito da diversi giorni, senza lasciare traccia e senza avvertirla: aveva scoperto del suo ritorno a Londra solo grazie a Zayn, che aveva risposto con ritrosia alle sue domande incalzanti. Era venuta a sapere anche della sua rottura con Aaron, ma voleva che fosse lui a parlargliene: a tempo debito, certo, ma presto.
«Hun, hey», rispose la voce acuta di Louis, stranamente allegra.
«Ti sei appena ricordato che esisto, per caso?» lo accusò, cercando di regolare il tono e voltandosi per dare le spalle a Fanny. «Non dovevi, sul serio».
«Andiamo, hun. Sai come sono fatto», sospirò lui, forse gettandosi sul divano o sul letto.
«Sì, so che sei terribilmente egoista», confermò. Ecco, forse avrebbe dovuto enumerare anche quello, tra difetti maschili elencati alla sorella.
Louis sorrise. «In modo viscerale», precisò.
Emma sapeva che la sua fuga improvvisa era stata dettata da un dolore troppo grande da trattenere, che la sua scomparsa era stata la manifestazione di come Louis fosse crollato inesorabilmente: lo capiva, ma non riusciva a trattenere il proprio affetto, a non dispiacersi per il ruolo nullo che era relegata a ricoprire quando si trattava di dargli un appoggio, un minimo conforto.
Un improvviso trambusto attirò la sua attenzione: Fanny aveva appena fatto cadere delle stoviglie, con aria innocentemente tranquilla.
«Che stai combinando?» le chiese Louis, curioso.
«Io e Fanny stiamo preparando dei biscotti», spiegò.
«Hun, ma tu non sai cucinare».
«Io so cucinare».
«Sì, ma solo cose orribili».
«Senti, quella volta ho solo calcolato male la quantità di sale da aggiungere, ma per il resto sono una cuoca provetta», affermò, nonostante sapesse di non essere completamente sincera. Ai fornelli poteva dire di cavarsela, ecco, ma niente di più.
«Certo, come no».
Emma sbuffò sonoramente e si passò una mano tra i capelli, ripetendo il gesto quando si accorse di averli macchiati di farina.
«Aaron non sta più con me», furono le inaspettate parole provenienti dall’altro capo della cornetta. Erano parole ben selezionate, pesate in ogni loro sottile significato, ed Emma lo sapeva bene: Louis era stato attento a sceglierle, in modo da spiegare più di quanto potessero dire ad un primo ascolto passivo. Era Aaron ad averlo lasciato, perché Louis probabilmente stava ancora con lui nel suo cuore, tra le coperte la notte. Era solo Aaron a non volerlo più.
«Lo so», rispose lei a bassa voce, accogliendo quella minuscola confidenza come se si fosse trattato del più delicato dei segreti. «È proprio finita o…?»
Sapeva solo vagamente ciò che era realmente successo, e ciò che sapeva era stato filtrato dalla discrezione di Zayn, al quale era stato trasmesso con la discrezione di Melanie. Di conseguenza, non trattandosi di una situazione molto diversa dalle innumerevoli precedenti, c’era ancora la possibilità che la loro storia fosse terminata solo fino al prossimo incontro in un letto.
«Non mi vuole più», mormorò Louis.
E se inizialmente Emma aveva sentito il bisogno di sfogarsi con lui degli avvenimenti degli ultimi giorni, in quel momento decise di non farlo, di evitare qualsiasi discorso personale e di non dargli nemmeno mezza possibilità di cambiare argomento. Sarebbe rimasta al telefono il tempo necessario, parlando di ciò che lui avrebbe preferito, ma l’avrebbe ascoltato in tutta la sua riluttanza.
 
 
 
Zayn era seduto sul divano, con una lattina di birra nella mano destra ed una sigaretta mezza consumata nella sinistra: guardava un documentario sulla produzione del mais in scatola – o almeno così credeva – e no, non era affatto interessante, ma almeno era un pretesto per aspettare senza distruggersi.
Finalmente, Melanie entrò in salotto pochi istanti dopo, con indosso il pantalone celeste del pigiama in cotone ed un vecchio maglione rubatogli dall’armadio. Sembrava aver studiato un attento piano per torturarlo, per rimandare il momento in cui l’avrebbe potuta finalmente avere, dopo un’intera giornata di lontananza: persino pulire a fondo la doccia si era rivelato un ottimo mezzo per temporeggiare.
«Zayn», lo rimproverò, sbuffando contro il ciuffo di capelli che le era scivolato davanti al viso e spegnendo per un attimo l’aspirapolvere.
Lui alzò un sopracciglio e tentò di non dare retta all’istinto di prenderla lì, con le mani stanche per le pulizie che proprio non riusciva a lasciar perdere. «Che c’è?» le chiese ingenuamente.
«Ho dovuto mettere lo stendino dei panni in casa, visto che sta diluviando, e tu non vuoi che le tue preziose mutande sappiano di fumo, vero?» esclamò ironica e quasi minacciosa, indicando con un cenno del capo gli indumenti stesi accanto alla porta, con un asciugamano abbandonato sul pavimento per accogliere le gocce d’acqua.
Zayn sbuffò e si allungò verso il tavolino di fronte a sé, per spegnere la sigaretta dentro il posacenere in finto marmo. «Va bene?» domandò retorico, rivolgendole uno sguardo divertito.
Lei alzò gli occhi al cielo e sorrise senza guardarlo, poi fece per accendere di nuovo l’aspirapolvere e ci ripensò subito dopo. «Sei andato a buttare la spazzatura?» indagò, sfidandolo.
«Sì», rispose lui, lieto di poterla combattere con la stessa moneta. «E , ho anche portato a lavare la macchina», la precedette, assumendo un’espressione soddisfatta.
La loro vita insieme si era consolidata fino a diventare assoluta, inevitabile: Zayn si svegliava ogni mattina al suo fianco, con la paura di percepire un cambiamento, ed ogni mattina ringraziava il cielo per averla ancora accanto, con i capelli sparsi sul cuscino o su di lui. Perché doveva chiederle di sposarlo, quando la risposta era così implicita? Quando aveva l’impressione di poter iniziare ad organizzare un matrimonio da un momento all’altro, senza che lei si stupisse o cercasse spiegazioni?
Melanie increspò le labbra definite in un sorriso, ammettendo la sconfitta. «Bravo», commentò soltanto, tornando a concentrarsi sui suoi doveri. Si muoveva con leggerezza, ogni tanto canticchiando motivi inudibili ed inciampando nel filo di quell’attrezzo che si ostinava a non cambiare, nonostante funzionasse solo due settimane al mese.
Zayn bevve un altro sorso di birra, con gli occhi inesorabilmente fissi sulla sua figura, sul suo viso arrossato e sui suoi fianchi morbidi, che avrebbe voluto stringere.
«Alza le gambe», gli ordinò Melanie, intenta a pulire il parqué di fronte al divano. Lui le diede ascolto e piegò le ginocchia al petto, per lasciarle spazio.
«Melanie?» la chiamò, terminando la birra con impazienza e rimpiangendo la nicotina: era sicuro che, se lei avesse saputo il perché di tutte quelle sigarette consumate con avidità, gliene avrebbe concesse altre cento dimenticandosi dell’odore che avrebbero impresso sui loro vestiti. Ma forse, nella sua crudele ingenuità, sapeva perfettamente perché Zayn fosse così impaziente: semplicemente, si divertiva ad esasperarlo con una innocenza snervante.
«Melanie?» riprovò, alzando la voce.
Lei si voltò con la fronte corrugata. «Hai detto qualcosa?» chiese, inumidendosi le labbra.
Zayn si limitò a sorridere, come a provocarla, e negò con il capo stringendosi nelle spalle. Quando la vide guardarlo con sospetto per poi tornare alle proprie mansioni, afferrò il filo dell’aspirapolvere e lo tirò.
«Che ti prende?» si lamentò lei, sbuffando. Non era infastidita, perché non si era ancora ravvivata i capelli in quel modo, né aveva ancora appoggiato le mani sui fianchi in quell’altro modo.
«Non ho fatto niente», replicò lui, improvvisando un’espressione innocente.
«Smettila», gli intimò comunque.
Zayn ripeté lo stesso dispetto appena lei si voltò, cercando di trattenere una risata.
E Melanie si ravvivò i capelli e spense quell’aggeggio infernale, appoggiando le mani sui propri fianchi. «Ti prego, voglio solo finir-»
Lui la interruppe tirandola a sé per un polso: se la fece cadere sulle ginocchia, circondandole il busto con le braccia sottili e facendola ridere inevitabilmente. Respirò il suo profumo e aspettò di non riuscire più a distinguerlo.
«Hai bisogno di una pausa», annunciò, baciandole il collo e facendole il solletico, mentre lei tentava di ribellarsi a quella trappola anche troppo piacevole.
«Sei come un bambino», lo rimproverò a bassa voce, nonostante avesse incastrato le dita tra i suoi capelli, come se avesse trovato il loro posto naturale.
«E tu sei noiosa», ribatté Zayn in un respiro, muovendosi per farla sdraiare sul divano e per racchiuderla con il proprio corpo. Non avrebbe mai potuto spiegare a parole cosa significasse sentire la sua pelle sulla propria, perché anche dopo tutti quegli anni, anche dopo tutte le carezze dispensate e bramate, non era riuscito ad accettare qualcosa di così intenso: si era semplicemente arreso, sottomesso a quel significato.
«Il resto del salotto non si pulirà da solo», commentò Melanie, lasciandosi baciare le labbra con lentezza estenuante.
Zayn le sorrise sulla guancia, mordendola subito dopo. «Sono arrivato al punto di temere che tu possa amare il nostro salotto più di me».
«Be’, lui… Lui almeno non russa».
Dovette trattenere il respiro per qualche istante, pur di non pensare al fatto che avesse iniziato a balbettare, che avesse iniziato a sentire il desiderio. Era sempre stato così facile interpretare ogni sua intonazione, ogni cambiamento nella sua voce e nei suoi gesti, da destabilizzarlo: non aveva dovuto conoscerla, scoprirla, l’aveva sempre avuta, come se fosse sempre stata sua.
«Io russo, ma tu sbavi», la prese in giro, fermandole le mani sopra la testa.
Melanie si accigliò, respirandogli sul viso. «È successo una volta», protestò, provando a divincolarsi. Non avrebbe mai smesso di rinfacciarle quell’unico e minuscolo episodio.
Zayn inclinò le labbra in un sorriso aperto, sincero, e le sfiorò il naso con il proprio. La osservò attentamente, incapace di rinunciare a dettagli che aveva impressi nella memoria e che non cessavano mai di affascinarlo: i suoi zigomi si erano colorati di calore, ad esprimere i suoi sentimenti prima ancora che la bocca li lasciasse trasparire.
«Stai arrossendo», le fece presente, come mille altre volte in precedenza e come mille altre volte avrebbe ripetuto. Come la prima volta che l’aveva avuta sotto di sé, tremante ed irresistibile nei suoi timori coraggiosi. Come l’ultima volta che l’aveva presa contro il muro del bagno, incastrati dietro la doccia e sudati per lo sforzo di non lasciarsi ancora andare. Come ogni volta che quel colorito improvviso e puro si manifestava prima di qualsiasi parola, ancora prima di una reale consapevolezza, pronto a dichiararsi a lui senza alcuna resistenza.
Melanie lo baciò con foga, probabilmente solo per nascondersi ai suoi occhi e svelarsi alle sue sensazioni: era priva di pietà, anche se inconsapevolmente, perché proprio non riusciva a capire che tutta la sua timidezza aveva su di lui un effetto totalizzante. Ed era assurdo che dopo tutto quel tempo riuscisse ancora ad arrossire per una sua carezza, a rabbrividire per uno sguardo: era assurdo ed era tutto per lui.
Zayn si tirò su con la schiena e la obbligò a seguirlo, continuando a torturarle le labbra e la pelle scoperta e le mani ed il seno morbido. Se la premette contro ed inspirò a pieni polmoni, con le palpebre abbassate ed un sollievo tanto intenso da somigliare a dolore inestinguibile.
Le aveva preparato una sorpresa: l’avrebbe portata a cena in un ristorante elegante e si sarebbe inginocchiato, avrebbe pronunciato parole premeditate e l’avrebbe fatta sorridere e probabilmente piangere. Ma in quel momento, con il documentario sul mais in scatola ancora all’inizio, con il profumo della cena ancora nell’aria, con i suoi capelli tra le dita, si sentì in dovere di mandare all’aria quel programma: che senso aveva inginocchiarsi formalmente, con un bell’abito indosso ed i capelli in ordine, se lui viveva ai suoi piedi? E non in modo passivo, non in qualche strano rapporto di sottomissione, ma come nella più profonda delle adorazioni. Che senso aveva, se ogni giorno si rendeva alla sua persona? Che differenza avrebbe fatto?
«Melanie», sussurrò contro le sue labbra, portando le mani ai lati del suo viso e appoggiando la fronte contro la sua. «Voglio vederti arrossire per il resto della mia vita», continuò, respirando velocemente, senza riuscire a trattenere le parole.
Lei accettò quella pretesa come altre volte aveva fatto, come altre volte aveva suggellato promesse ancora valide, ma non ne capì subito l’importanza, il vincolo. Lo baciò di nuovo, però, con una dolcezza diversa e rassicurante.
Tutto quello che vuoi, sembrava volergli dire.
Zayn quasi gemette. Per il desiderio. Per quell’amore che somigliava più ad una tortura. «Melanie, mi senti?» le chiese piano. «Resta con me tutta la vita, per favore».
E a quel punto, il momento di realizzazione fu di un tale impatto da farle irrigidire la schiena. Si allontanò quanto bastava per guardarlo negli occhi, per cercare in quelle sfumature scure ed irrequiete una spiegazione, una conferma, una parola.
«Tu…» sussurrò, schiudendo le labbra arrossate e sbattendo le palpebre su quelle iridi cristalline, crudeli nella loro espressività.
Lui le lasciò il suo spazio, sicuro che invaderlo avrebbe portato solo alla rottura di un precario equilibrio, e resistette alla tentazione di rispondere con i gesti, di farle sentire quanto le sue intenzioni fossero asfissianti. «Io voglio sposarti, Melanie Clarke».
Melanie si lasciò scappare un respiro veloce, fuggevole, quasi sofferto: restò immobile tra le sue braccia, con il petto unico testimone del tumulto che stava ospitando. Spalancò gli occhi, che si stavano sforzando di non bagnarsi, di non cedere, e quando si accorse di non avere le forze per resistere, si alzò velocemente dal divano e corse via.
 
Zayn non aveva mai chiesto a nessuno di sposarlo, ovviamente, ma era piuttosto certo che la reazione ottenuta fosse un tantino diversa da quella che bisognava attendersi nella migliore delle possibilità. Insomma, essere lasciato solo, con la consapevolezza di averla fatta piangere, non era di certo un fattore rassicurante. E sì, conosceva la sua sensibilità, ma non poteva di certo aspettarsi un tale superamento del limite: che la risposta non fosse quella che lui aveva sperato?
Decise di raggiungerla, impossibilitato a fare altro e vagamente impaurito da un’eventualità che non aveva nemmeno mai preso in considerazione. Percorse il corridoio e si fermò davanti all’unica porta chiusa, quella che aveva sentito sbattere poco prima e che si apriva nella loro stanza.
Bussò piano, cercando di distinguere i singhiozzi attutiti dal legno che li separava.
Melanie non rispose, ma forse cercò di trattenere le lacrime: Zayn odiava non riuscire a vederla, perché voleva dire non avere la possibilità di decifrarla, di scoprire i suoi pensieri sul suo viso e tra le sue mani. Continuava a chiedersi come avrebbe dovuto interpretare la reazione provocata e se avesse sbagliato in qualcosa: non poteva mettere in dubbio i sentimenti di Melanie – quelli erano qualcosa di semplicemente indiscutibile, solidi come un dogma – e di conseguenza il suo cervello ed il suo cuore gareggiavano nell’indovinare la teoria più astrusa.
Schiuse la bocca per pronunciare il suo nome, forse persino per implorarla di dire qualcosa, ma fu anticipato. Melanie aprì la porta e restò in piedi davanti a lui, con il respiro accelerato e le guance umide, arrossate oltre ogni decenza: la sua espressione era sconvolta e non lasciava presagire prospettive piacevoli.
Zayn si limitò a sbattere le palpebre, a deglutire, a nascondere persino una bestemmia, e fece un passo avanti, lento ed esitante. Osservò il suo viso con meticolosa attenzione, tentò di decifrare le sue iridi umide per scoprirci una rassicurazione e scrutò le sue labbra come in attesa di un’assoluzione.
Ma quelle non si lasciarono sfuggire alcuna parola. Subdole nella loro purezza, si inclinarono in un sorriso interrotto da un buffo singhiozzo, regalandogli una speranza. L’attimo dopo, prima ancora che Zayn si rendesse conto di ciò che stava a significare, Melanie gli si lanciò tra le braccia, baciandogli ripetutamente il collo, la mascella, gli zigomi, la bocca: le sue mani lo accarezzavano febbrili, quasi non sapessero dove posarsi, chi ringraziare. E lui, che aveva ancora gli occhi spalancati ed il cuore in soqquadro, recuperò il respiro da quello che gli si infrangeva delicato sul volto.
Poteva percepire sotto le dita la genuina lietezza che Melanie probabilmente non era riuscita a contenere, costretta a scappare e a ricomporsi. La sentiva sulla sua pelle familiare, lattea, tra i suoi capelli disordinati e sulle sue labbra insaziabili.
«Dio», sospirò, stringendola contro il proprio corpo con una smaniosa intensità, rassicurato, sollevato, pieno di tutto ciò che stava provando. «Dio, Melanie, non farlo mai più», esclamò, scoprendo solo subito dopo quanto quella frase fosse un paradosso.
Lei gli baciò il petto, come se la t-shirt non fosse nemmeno presente, ed alzò il viso per cercare i suoi occhi. Un sorriso irresistibile ad illuminarle l’espressione, ad illuminargli la vita. «Io… Be’, non credo che tu… Che tu mi farai un’altra proposta, no?» gli fece presente, con la voce talmente spezzata da risultare estranea.
Zayn scosse piano il capo, come arreso alla confusione che non gli permetteva di pensare. «Giusto per essere sicuro», esclamò, incapace di trattenere un sorriso. «Questo è un sì, vero?»
Melanie si strinse ancora di più contro il suo corpo e di nuovo le sue guance si resero color porpora. «Sì, certo, questo-»
Lui non le diede il tempo di terminare la frase, si rifiutò persino di bearsi di quegli imbarazzanti borbottii, e la baciò con foga, spingendosi contro la sua pelle come a pretendere di più, anche se di più non poteva avere, anche se Melanie si era già data completamente.
Avrebbe passato la vita con lei, ufficialmente. Era strano, perché era sempre stato convinto che sarebbe stato così, anche senza doverlo esplicitare, ma dirlo e ripeterselo e prometterselo era tutta un’altra cosa. Era tanto bello da essere straziante, insopportabile.
«Quando te ne sei andata in quel modo, ho pensato che...»
Lasciò in sospeso la frase, incapace di sfiorare quella eventualità, e nascose il viso nel suo collo magro, profumato.
«Mi dispiace, io… Non volevo reagire in quel modo, non… Ecco…»
Non riusciva a parlare e lui la trovava irresistibile. Il modo in cui poteva condizionarla era un nettare di cui non si sarebbe mai stancato di nutrirsi: sin da quel primo giorno in biblioteca, sin da quel primo bacio rubato, ma guadagnato.
«Forse è stato un po’ inaspettato», provò a spiegare, prendendosi le proprie responsabilità. Non era di certo stata una proposta di matrimonio in perfetto stile, anzi, nemmeno lui poteva ancora crederci. «È che non sono riuscito a resistere, Melanie. Non sono riuscito ad aspettare».
Lei gli respirò sul collo: aveva smesso di piangere, ma il suo corpo esile veniva ancora scosso da radi singhiozzi. «Aspettare cosa? Io… Non c’era nemmeno bisogno di chiederlo».
Zayn sorrise apertamente, inspirò il profumo dei suoi capelli. «E dire che ti ho comprato un anello e ho anche prenotat-»
Melanie si mosse velocemente, allontanandosi quanto bastava per cercare i suoi occhi. «Mi hai… Mi hai comprato un anello?» domandò in un sibilo. Le iridi incredule, acquose.
Per un attimo ebbe l’impressione di aver commesso un errore. Annuì lentamente, pronto a qualsiasi risvolto.
Lei sbatté più volte le palpebre e le sue labbra si incresparono verso il basso, nel chiaro preavviso di altre lacrime: fece per divincolarsi dalla presa, probabilmente per chiudersi di nuovo in camera ed escluderlo, ma Zayn stavolta reagì più velocemente. «Non di nuovo», sussurrò tra sé e sé, tenendola stretta ed accogliendo il suo viso bagnato sul proprio petto.
Non voleva un anello? Lo voleva e quindi era ancora più felice?
O voleva semplicemente mandarlo al manicomio?
Quando Melanie si adattò al suo corpo, gli lasciò capire che le sue lacrime non portavano traccia di disappunto o delusione. Tutt’altro.
Lui prese ad accarezzarle il capo, baciandolo teneramente. «Non pensavo che tenessi così tanto a queste cose», ammise, aspettando che si calmasse. Certo, immaginava che la sua indole sognatrice simpatizzasse per dichiarazioni in pieno stile romantico, ma l’aveva sempre considerata un’indole modesta.
Melanie si accigliò e si ritrasse appena, tirando su con il naso: aveva il viso completamente rosso, esausto. «Non è questo», negò, scuotendo il capo. «È che… Zayn, tu… Be’, noi non possiamo permetterci un anello di fidanzamento. Oggi ho visto quanto può arrivare a costare e tu… Tu sei stato… Mio Dio, non so nemmeno come ringraziarti, ma dobbiamo pagare la rata della macchina e la lavatrice è da riparare, capisci? E tu vuoi sposarmi
Aveva gettato fuori talmente tante parole in un così ristretto lasso di tempo, che Zayn per un istante ne fu travolto: dopo averla osservata sbigottito, dopo aver colto il suo stato d’animo ed i genuini pensieri che la stavano condizionando, decise di rispondere a modo suo.
Le rapì le labbra e le fece tacere, senza possibilità di replica.





 


Sì, sono impazzita e ho aggiornato terribilmente in anticipo! Ma ahimé, quando riesco a scrivere un capitolo non resisto alla tentazione di pubblicarlo!
- Harry/Emma: Harry è completamente assente in questo capitolo, nonostante compaia tra le rimuginazioni di Emma, ed è letteralmente scomparso. Che abbia capito di doverle lasciare del tempo? Che si sia semplicemente stancato di cercarla? A voi le ipotesi! Per quanto riguarda la parte iniziale del capitolo, direi che Emma si sta di nuovo confrontando con una certa difficoltà ahahha Si appella di nuovo alla vanità e, giuro, in buona parte è davvero così, nel senso che lei è sempre stata molto consapevole e vanitosa, quindi le attenzioni di Harry non le dispiacciono affatto: chissà però, se la cosa vada un po' più in profondità :)
- Emma/Melanie: ecco il favore che Zayn aveva chiesto alla sua ormai futura cognata :) Per la misura dell'anello ho sbirciato un po' su internet e ho scoperto che in Inghilterra la misura è in lettere e non in numeri, quindi quell'N non è un "numero x", ma una reale misura :) Le sorelle Clarke sono agli antipodi, in pratica, se non fosse per la loro perseveranza in tutto ciò che fanno!
- Louis/Emma: eccolo che risorge! Tra lui ed Aaron non c'è stato alcun riavvicinamento e, ve lo anticipo, stroncate le vostre speranze! (Spero vi abbia fatto sorridere lo "sfogo" di Emma mentre prepara i biscotti ahhaha Me la sono immaginata mentre crede di essere relativamente tranquilla, quando invece è tutt'altro)
- MELANIE E ZAYN, ZAYN E MELANIE, I MIEI GRANDIOSI ZELANIE!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Raga, io li amo ahahahah Mi è piaciuto moltissimo scrivere di loro!! Inoltre è la prima volta che scrivo dal punto di vista di Zayn!! Che dire? Spero di avervi trasmesso a dovere tutto il sentimento che c'è tra loro (per chi non ha letto "It feels...": Zayn ha un serio problema con le reazioni di Melanie, nel senso che ne è dipendente hahah Ama vedere l'effetto che ha su di lei, ama vederla arrossire e balbettare... Ma insomma, dirlo così è davvero riduttivo ahaha). All'inizio avevo pensato di scrivere di una proposta di matrimonio in grande stile, ma poi, proprio come Zayn, non sono riuscita ad aspettare: questa versione la trovo più vera e spontanea, più loro! E Melanie ha reagito come al solito, con un bel pianto (all'inizio anche preoccupante) ahahahhaah Piccino lui, che l'ha vista scappare in quel modo! Per sottolineare l'indole genuina di Melanie, vorrei farvi notare come - quando Zayn le dice di averle comprato un anello - lei non pensa nemmeno per un attimo che Emma l'abbia portata in gioielleria proprio per quello :)
E niente, spero davvero che tutti questi contenuti vi siano piaciuti!!!

Riguardo il capitolo scorso: so che è passato poco tempo per dirlo con certezza, ma ho l'impressione che sia piaciuto di meno o che comunque ci sia stato un ammutinamento tra i lettori ahhaha Vi prego, se qualcosa non vi piace di ciò che scrivo, non sparite: parlate :)
Spero mi farete sapere le vostre opinioni riguardo questo capitolo :)


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Un bacione,
Vero.

 
    
  

 

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici - My little girl ***




 

Capitolo sedici - My little girl

 

Un nuovo messaggio: ore 14.25
Da: Harry
“Alle 4 pm al mio appartamento?”
 
Per diversi minuti era rimasta bloccata ad un bivio: rispondere con una sviolinata sulla sua prolungata assenza dal mondo dei vivi avrebbe significato esporsi, dimostrare quanto si fosse indispettita per qualcosa che lei stessa aveva chiesto. Rispondere  positivamente, con la promessa di incontrarlo, sarebbe stato troppo accomodante: non voleva lasciargli credere di poter comparire e scomparire senza alcun problema – e di nuovo, nonostante fosse stata lei a chiedere una lontananza momentanea – soprattutto perché non era sicura che lui, testardo ed egoista come pochi, avesse semplicemente abbandonato i propri intenti per una richiesta. E per ben cinque giorni.
Fu tentata di non rispondere, in modo da evitare il problema e dimostrarsi in qualche modo troppo impegnata per potergli dedicare delle attenzioni.
Fallì clamorosamente.
 
Messaggio inviato: ore 15.07
A: Harry
“Perché?”
 
Una domanda neutra: non troppo interessata, non troppo disinteressata.
Patetica.
 
Un nuovo messaggio: ore 15.10
Da: Harry
“Perché no?”
 
Emma sbuffò come una bambina capricciosa, affondando il viso nel cuscino fresco e reprimendo un verso stizzito.
 
 
 
Harry l’aspettava sulla porta, con indosso un maglioncino grigio smesso e macchiato di bianco, abbinato casualmente ad un paio di shorts da basket. Aveva una sigaretta mezza consumata tra le labbra, che gli faceva assottigliare gli occhi mentre inspirava a lungo, ed i capelli legati in una crocchia alta e disordinata.
Quando Emma gli fu davanti, non si trattenne dal sospirare, alzando un sopracciglio.
«Sei in ritardo», la salutò lui, facendosi da parte per farla passare, mentre sul suo viso compariva un ghigno appena accennato.
Lei si morse il labbro inferiore ed evitò di guardarlo, arricciando il naso nel percepire un pungente odore di vernice fresca. «Stai pitturando?» domandò, sbirciando tutto intorno.
«No, è un nuovo profumo per ambienti», la prese in giro con un sorriso, chiudendo la porta e camminandole affianco.
Emma si voltò indispettita giusto in tempo, colpendogli il braccio con un pugno poco convinto. «Smettila di essere così simpatico, potrei non riuscire a smettere di ridere», lo canzonò, rivolgendogli una impercettibile smorfia che non poteva vedere, dato che lo stava seguendo in quello che ricordava sarebbe diventato un piccolo salotto.
«O potresti innamorarti di me», la corresse con noncuranza, dedicandole uno sguardo provocatorio ed inumidendosi le labbra, nello spegnere la sigaretta in un bicchiere di plastica, con poche dita d’acqua, appoggiato sul davanzale della finestra socchiusa.
Emma scacciò lo strano effetto di quelle parole, soprattutto per non dargli una soddisfazione. «Le tue battute scadenti non hanno il fascino che credi», precisò.
Sul pavimento era disteso un telo in plastica trasparente, che aveva già raccolto diverse gocce di pittura pallida: la stanza era vuota, luminosa e con una sola parete ancora da trattare, sporca di una vecchia verniciatura color paglierino. Osservò Harry chinarsi per raccogliere un pennello dal secchio che aveva ai propri piedi.
«Infatti tendo a sottovalutarle», concordò lui, dandole le spalle e cominciando a pitturare la parete con gesti decisi.
Emma alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Sbruffone».
Harry la ignorò, sicuramente nascondendole un sorriso. «Avanti, prendi il rullo e dammi una mano», la esortò, costringendola a guardarsi intorno per cercare l’oggetto in questione e per chiedersi se fosse uno scherzo.
«Mi hai fatta venire qui per farmi… Lavorare?» gli chiese scettica, corrugando la fronte. Non che si fosse creata delle aspettative, ma a tutto c’era un limite.
«Non la metterei proprio così», rispose lui, continuando a non guardarla. Ad ogni movimento del suo braccio, le sue scapole si muovevano sicure sotto il tessuto del maglioncino. «Ho solo pensato che di questo passo non avrei più finito».
Non poteva dire se stesse mentendo, se quella fosse solo una scusa per motivare il suo invito a casa. Poteva averne solo il sospetto.
«Quindi negli ultimi giorni è qui che ti sei nascosto?» indagò, muovendo un paio di passi nella sua direzione. Era certa che la domanda implicita che gli stava rivolgendo, troppo orgogliosa per poterla effettivamente pronunciare, fosse chiara e che stesse rimbalzando rumorosamente contro le pareti ancora impregnate di un aroma vagamente fastidioso.
Harry si voltò e la osservò con un sopracciglio sollevato, poi si passò il polso sulla fronte e si piegò per intingere il pennello nel secchio. «Sono stato impegnato», spiegò con un’alzata di spalle, tornando a preoccuparsi del muro, forse nella speranza di infastidirla.
«Davvero?» perseverò, senza arrendersi di fronte ai suoi tentativi di depistaggio. «Oppure hai semplicemente pensato di darmi ascolto?»
Era un azzardo, ma aveva un fondamento: Harry non sarebbe mai scomparso in quel modo, se fosse stato per uno screzio, anzi, si sarebbe ripresentato con più urgenza delle volte precedenti solo per dire la propria. Di conseguenza, c’erano poche possibilità che il suo silenzio fosse stato causato da un’insoddisfazione o da una ferita al suo ego.
Lui la guardò di sfuggita, inclinando le labbra in un sorriso aperto e lento. «Non sono troppo egoista per cose del genere?» domandò soltanto, riferendosi alle innumerevoli occasioni nelle quali Emma l’aveva considerato tale.
«Già», sospirò lei, nascondendo un sorriso. «Hai ragione».
Qualcosa di aspecifico nell’espressione di Harry insisteva per confermare la propria ipotesi: qualcosa nel suo modo di non guardarla, o di guardarla solo a modo suo, qualcosa nel suo modo di parlare ma di non dire tutto, qualcosa nel suo tono lascivo. E lei si sentiva in dovere di ringraziarlo, di dar credito a quel gesto compiuto sotto mentite spoglie, genuinamente soddisfatta e lusingata: così, tenendo fede a quel gioco di sottintesi, non si espresse a parole, ma camminò verso la parete opposta della stanza, raccolse il rullo da terra e tornò accanto ad Harry, intingendo l’attrezzo nel secchio e fingendo che un paio di occhi divertiti non la stessero osservando.
 
Emma controllò il tessuto del proprio maglione a trama larga e storse il naso, delusa dalle piccole macchie circolari che si era procurata. «Avresti dovuto dirmi di portarmi qualcosa di ricambio», mormorò.
«Avresti dovuto fare più attenzione», ribatté Harry, con una nuova sigaretta tra le dita: seduto a terra, aveva le gambe incrociate ed una lattina di Sprite di fronte a sé.
Lei corrugò la fronte e raccolse le ginocchia al petto. «Senti chi parla: ti sei sporcato persino i capelli».
Si erano presi una pausa, nonostante fosse passata poco più di mezz’ora, soprattutto perché avevano iniziato a discutere su come bisognasse effettivamente tenere un pennello e su quante passate di vernice fossero necessarie.
Harry si portò una mano sui capelli ancora raccolti e scosse piano la testa, inspirando del fumo: l’odore si mischiava a quello più forte della pittura, creando una strana combinazione alla quale si erano abituati. «È da stamattina che io sgobbo qui dentro, mentre tu ti sei conciata in questo modo nell’arco di pochi minuti», precisò, pronto a difendersi e a stuzzicarla.
«Be’, scusa se è la prima volta che faccio qualcosa del genere», replicò con una smorfia, rubandogli la lattina per poter godere di un sorso dissetante.
«Mi sento onorato», commentò Harry, sorridendole ancora con le fossette accentuate.
Pensandoci lucidamente, era assurdo che lei avesse deciso di aiutarlo senza alcuna esitazione, come se il loro rapporto fosse in ordine ed ordinario, fatto anche di piccolezze del genere. «Non ti ci abituare», lo ammonì infatti, come per smorzare la sua consapevolezza.
Lui alzò le mani in segno di resa, scherzando silenziosamente.
«Quando ti trasferirai qui?» chiese Emma, incuriosita dalla sue tempistiche.
«Non ne ho idea», sospirò lui. «Ci sono state diverse spese impreviste, quindi ora è un casino con tutti i mobili e il resto. Non ho ancora trovato un lavoro e non posso di certo prosciugare tutti i miei risparmi: credo che ci vorrà ancora un po’», spiegò.
Lei si limitò ad annuire, pensando che forse era anche quello il motivo per cui Harry aveva deciso di ridipingere casa con le proprie mani, anziché chiedere un aiuto professionale.
«E tu?» le domandò, espirando lentamente del fumo. «Come stai?»
Emma trattenne il respiro senza nemmeno accorgersene, continuando a sostenere il contatto visivo.
«Bene», mentì velocemente, deglutendo a vuoto.
Non stava bene, anche se cercava di convincersene ed anche se cercava di non pensarci. Le difficoltà derivanti dall’assenza di Miles, il rimpianto di tutti i propri errori ed il peso di quelli di qualcun altro, la presa di coscienza degli effettivi danni riportati, erano tutti fattori che incrinavano il suo umore, la sua integrità. E lei tentava di nasconderli, sorridendo e parlando tanto, persino dipingendo il nuovo appartamento di Harry Styles, ma era comunque consapevole della loro deleteria presenza.
Harry alzò impercettibilmente un sopracciglio, restando immobile a fissarla e come prendendo nota della menzogna di quella singola parola. Respirò lentamente. «Miles?»
Senza soffermarsi sullo sventare i suoi tentativi di protezione, le aveva fatto una domanda apparentemente generale, ma piuttosto infida: non le aveva chiesto in modo diretto come stesse andando la situazione con lui, non le aveva chiesto se l’avesse sentito o visto, ma avrebbe potuto averlo fatto, così come avrebbe potuto voler sapere se Miles fosse ancora nella sua testa, nelle sue giornate.
Di conseguenza, non sapendo a cosa rispondere, Emma cercò rifugio in qualcosa di più pratico. «Lo rivedrò tra qualche giorno, immagino», rispose, abbassando per un istante lo sguardo e reprimendo la stretta allo stomaco. «Dobbiamo partecipare ad una mostra».
«Un’altra?»
Lei annuì piano, chiedendosi quale strana ironia avesse deciso di giocare con la sua vita. «È stata una cosa improvvisa, l’abbiamo saputo nemmeno una settimana fa», commentò, con l’abbozzo di un sorriso amaro.
Harry aspirò a lungo dalla sua sigaretta, finendola. «Posso venire?»
Emma sbatté più volte le palpebre e corrugò la fronte, osservandolo gettare il mozzicone della sigaretta nella lattina di Sprite ormai vuota. «Perché?» si lasciò scappare.
«Cosa si fa ad una mostra d’arte, scusa?» rispose lui, in tono ovvio ma non annoiato.
L’idea della sua presenza non la rassicurava: avrebbe già dovuto confrontarsi con Miles e tutti i loro fantasmi, con l’opinione dei partecipanti che forse li sapevano ancora insieme, figurarsi se qualsiasi altro elemento disturbante si fosse aggiunto alla lista.
«Allora, posso venire?» ripeté, schiarendosi la voce sicura, quasi di pretesa.
«No», esclamò lei. «Meglio di no».
Harry assottigliò lo sguardo, infastidito. «E per quale motivo? Si può sapere?»
«Non voglio che Miles ci veda insieme», spiegò.
«Insieme?»
«Non voglio che veda te», precisò.
Lui sospirò e scosse il capo. «Dovrebbe essere felice di avere un fan in più», ribatté piccato.
«Non se quel fan sei tu», gli ricordò. Non voleva turbare Miles con la sua presenza, mostrarsi così insensibile nei suoi riguardi, obbligarlo a sopportare qualcuno del quale non si era mai fidato e fargli dubitare della propria buona fede.
«Tu vuoi che venga?» le chiese Harry all’improvviso, con un’espressione seria.
«Te l’ho già detto».
Si inumidì le labbra, lentamente. «No, mi hai detto se posso venire. Io ti ho chiesto se lo vuoi».
Emma si lasciò accarezzare dalla durezza altera di quelle parole, permettendosi per un istante di immaginare come sarebbe stato avere Harry al proprio fianco, tra una fotografia e l’altra a sostenerla o a prenderla in giro, tra la folla ad osservarla parlare con qualcuno di più o meno sconosciuto e a lasciarsi osservare a sua volta.
Non poteva negare che le sarebbe piaciuto.
«Non ha importanza», rispose, alzandosi in piedi solo per non dover sottostare al suo sguardo: sapeva dove voleva arrivare e non gliel’avrebbe permesso così facilmente. Le sue difese dovevano rimanere solide ed inespugnabili, persino e soprattutto per lui.
«Invece sì», la contraddisse Harry.
Lo sentì alzarsi da terra, mentre lei si avvicinava al muro per riprendere a pitturare: improvvisamente era diventata la sua occupazione preferita. «Hai già visto le  mie foto e hai già visto i suoi dipinti, non c’è motivo per cui tu debba insistere così tanto».
«Vorrei essere io a deciderlo, se non ti dispiace», replicò con un accento di stizza.
Nell’aria, oltre la nicotina e l’aroma della vernice, si stava infiltrando anche il preavviso del litigio che quasi sicuramente sarebbe esploso da lì a pochi istanti.
«Harry, smettila», sbuffò Emma, imprimendo più energia nei suoi movimenti. «Non puoi venire, non sarà questa grande mancanza». Non capiva se si divertisse a metterla in difficoltà – altamente probabile – o se fosse in qualche modo preoccupato da Miles, quasi volesse esserci a tutti i costi per controllare qualcosa.
«Credi davvero che basti un tuo “non puoi”?» le chiese in modo provocatorio, mentre i suoi passi sul telo di plastica trasparente risuonavano nel vuoto della stanza. Le si stava avvicinando sempre di più.
«Confido nella tua intelligenza, sì», esclamò caparbia, sperando che si arrendesse in fretta.
«Non mi sono mai vantato della mia intelligenza», le ricordò. «Solo del mio egoismo».
«Quante volte ancora pensi di tirarlo fuori?» si lamentò lei, intingendo il rullo nel secchio.
«Fino a quando mi servirà», fu la risposta beffarda che ottenne.
Si morse un labbro e serrò la mascella, tornando a dedicarsi ad una porzione della parete che non aveva nemmeno bisogno di un’ulteriore passata di vernice. Alzandosi sulle punte dei piedi, cercò di arrivare più in alto.
Quando la mano di Harry si posò sulla sua per rubarle il rullo, Emma quasi sobbalzò.
«Sei sempre stata troppo bassa», mormorò lui, restando alle sue spalle e sostituendola nel suo ruolo.
Lei finse di non riuscire a percepire il suo profumo e di non poter immaginare il suo addome contro la propria schiena, chiuse per un attimo gli occhi e riacquistò un contegno. «E tu sei sempre stato troppo gentile», protestò, dandogli una leggera gomitata ed insistendo per riappropriarsi del suo fedele attrezzo.
Harry non si allontanò.
«Sai», sussurrò invece, avvicinandosi in modo da parlarle accanto all’orecchio, «c’è ancora la mia ragazzina, qui da qualche parte», continuò, muovendosi lentamente fino a posarle le mani sui fianchi magri. Leggere, inattaccabili.
Emma spalancò gli occhi ed arrestò qualsiasi intenzione, abbassando il rullo mentre il proprio petto si agitava con una nuova intensità. Le parole appena udite le avevano inferto un colpo difficilmente tollerabile, reso più aspro dal contatto con le mani di Harry, con le sue dita: non aveva mai voluto chiedersi se averle di nuovo su di sé avrebbe potuta sconvolgerla, non aveva mai voluto essere costretta a darsi una risposta.
«Esce fuori quando litighiamo», riprese lui, accarezzandole il viso con il proprio respiro regolare. «Quando scherziamo, quando mi guardi. Quando ti tocco».
Non era vero, la stava ingannando. Si rifiutava di credere di essere tanto trasparente.
E si rifiutava di dar peso a quelle mani, ancora lì. La stavano schiacciando pur rimanendo immobili.
Harry le sfiorò il collo con il naso, con le labbra, facendola irrigidire. «Ma ora c’è anche qualcos’altro», soffiò sulla sua pelle. Il tono basso, ipnotico. «Qualcosa che a volte ti fa pensare a qualcuno che non sia tu, prima di tutto il resto, che ti fa addirittura riflettere prima di parlare e di agire. Qualcosa che è meno egoista, meno infantile. Qualcosa che ti fa piangere di fronte a me», continuò, senza concederle il tempo di ribattere, come se di tempo nemmeno ce ne fosse. Una parola dopo l’altra, la stava forzando ad ascoltarlo, persino a dargli ragione. «Qualcosa che mi manda fuori di testa».
Emma si lasciò sfuggire un respiro più intenso, serrando i pugni e cercando di controllare il disastro che stava ospitando. Il pensiero che Harry stesse scavando così a fondo in tutti i suoi cambiamenti la destabilizzava: si sentiva quasi violata, come se non volesse che qualcuno potesse accorgersi delle sue sfumature. Allo stesso tempo, si sentiva accolta.
«È questo che volevi capire?» mormorò Emma, vergognandosi della propria voce spezzata. «Quanto di me fosse rimasto? Cos’altro ci fosse?»
Sentiva di aver finalmente ottenuto una risposta: si sarebbe spiegato il comportamento di Harry che, nonostante la disprezzasse per la metà del tempo, tornava sempre a cercarla – proprio come faceva lei – ma senza mai provare a prendersela davvero. La stava studiando, alla ricerca di informazioni e di squarci della sua interiorità, forse diversa o forse no.
Harry le strinse appena i fianchi, premendosela contro, e appoggiò le labbra sulla linea del suo collo. Non in un bacio, ma in un semplice e crudele contatto: sembrava volerla spingere a ricordare. «Volevo capire se fosse solo curiosità», rispose in un sussurro naturale, senza nemmeno sforzarsi di ottenere la sua completa attenzione, «nostalgia».
Non riusciva più a sopportare il contatto, avrebbe voluto semplicemente abbandonarsi contro il suo petto e restare con gli occhi chiusi, libera di non resistere.
«O se invece, nonostante tu faccia piuttosto schifo a gestire questi due lati di te», proseguì lui, «tu sia ancora in grado di farmi lo stesso effetto».
Emma cedette.
Si voltò velocemente, in modo da averlo di fronte, in modo da poter respirare e da poter osservare quelle iridi che avrebbero potuto dirle molto di più. Scottata dalle sue parole e dai suoi respiri che sentiva ancora tra i capelli, sulla pelle, doveva cercare delle conferme, qualcosa a cui aggrapparsi.
«E cos’hai capito?» riuscì a chiedere, sforzandosi di mantenere un certo contegno e sforzandosi di non guardare le labbra che le stavano così vicine.
Era come impaurita, frastornata dall’idea di provare un disagio così forte nello stare accanto a qualcuno. Qualcuno che non era Miles, qualcuno che era Harry.
Lui restò serio, imperscrutabile, spostando gli occhi su qualsiasi centimetro del suo viso ed una mano sul suo collo, ad accarezzarla con movimenti impercettibili dei polpastrelli. «Ho capito che fino ad ora mi hai allontanato solo perché lo credevi giusto, ma non perché lo volessi sul serio», le rispose. Più vicino al suo volto. «Ho capito che mi hai fregato di nuovo».
Quel sussurro si spense a pochi centimetri dalla sua bocca, spingendola quasi a chiedere pietà, mentre le loro fronti si incontravano. Emma non era più in grado di ragionare lucidamente e non voleva nemmeno trovare le forze per farlo: era semplicemente incredula, confusa dal ritrovarsi di fronte a sensazioni che aveva lasciato anni prima, a desideri impellenti che credeva fossero sfumati definitivamente.
Si ostinava a restare immobile, a non toccarlo nemmeno per errore: temeva di scoprire qualcosa di troppo intenso, che l’avrebbe portata ad un punto di non ritorno.
«A cosa stai pensando?» le chiese lui a bassa voce, giocando a sfiorarle il naso con il proprio. E da quando parlava così tanto? Da quando lei non riusciva a fare altrettanto?
Lei si leccò le labbra, senza pensarci, e questo provocò una carezza più sofferta da parte di Harry. «A tutto», rispose soltanto: sbrogliare ogni sua più piccola ed ingombrante riflessione avrebbe richiesto troppo tempo, troppe energie.
«È davvero importante che sia giusto o sbagliato?» indagò lui, come in un blando ma deciso tentativo di dissuaderla: era facile immaginare le esitazioni di Emma, i pensieri che la ponevano al centro di una lotta tra pulsioni, la sua necessità di mettere ordine, Miles.
Lei serrò la mascella e continuò a tenere le iridi in quelle di Harry, tanto vicine da fare male. Avrebbe voluto schiudere le labbra e dire qualcosa, persino urlarla.
Il trillare del citofono, però, stroncò qualsiasi suo sforzo, facendola sobbalzare.
Harry tremò appena, forse non in attesa di una così brusca interruzione, e represse un respiro più profondo. Per una manciata di secondi si ostinarono a restare nella stessa posizione, forse chiedendosi se fosse meglio ignorare qualsiasi elemento di disturbo e perseverare. Ma il citofono richiamò ancora la loro attenzione e questo bastò a spezzare le loro intenzioni.
Emma fece un passo indietro, lasciando che la mano di Harry abbandonasse il posto sul suo collo e riappropriandosi di aria che non fosse intrisa del suo respiro e del suo profumo. Lui sospirò e la guardò un’ultima volta, allontanandosi lentamente per adempiere ai doveri del padrone di casa.
Lo osservò muoversi tranquillamente, o almeno all’apparenza: sperava di non essere l’unica ad avere un tale trambusto al centro del petto.
«È Walton», esclamò Harry pochi istanti dopo, aprendo la porta d’ingresso.
Emma non poteva vederlo dal salotto ed era meglio che anche lui non potesse vedere lei: temeva di avere ancora gli occhi sbarrati, in una reazione eccessiva a qualcosa di tanto inaspettato. Dio, non l’aveva nemmeno toccato. Sei anni prima, se lo sarebbe preso senza nemmeno pensarci: avrebbe portato le mani tra i suoi capelli, sulle sue scapole e sul suo petto, bramando sempre di più.
Attimi dopo, l’appartamento si riempì di una voce concitata e allegra, un po’ rozza e familiare. Walton entrò nella stanza con passi lenti, guardandosi intorno come per constatare a che punto fosse il lavoro. Appena la vide, ancora immobile nello stesso punto, corrugò la fronte e sorrise appena. «Clarke, hey», la salutò, accompagnato da un cenno del capo. «Non sapevo avesse chiamato anche te».
Emma gli andò incontro e si sporse per baciargli una guancia, sperando di risultare meno impacciata di quanto in realtà si sentisse: lei e Walton si erano mantenuti in contatto, durante tutti quegli anni, e si erano visti crescere e cambiare. Il ragazzo esile e dai lineamenti poco armoniosi aveva conquistato un carisma in grado di oscurare tutto il resto: portava i capelli corvini più corti e gli esercizi in palestra gli avevano garantito muscoli più definiti e qualche chilo in più.
«Ed io non sapevo avesse chiamato anche te», rispose Emma, stringendosi nelle spalle con un sorriso forzato. Credeva che Harry avesse chiamato lei e non anche qualcun altro, credeva che avesse voluto compensare quei giorni di lontananza, invece sembrava che non avesse capito un accidenti: probabilmente era vero, Harry aveva solo bisogno di una mano per ridipingere. Poco importava chi fosse ad aiutarlo.
«Be’, più si è meglio è», commentò Walton. «Anche se mi pare che siate già a buon punto».
«In realtà mancano ancora la cucina ed il bagno», intervenne Harry, riordinando secchi e pennelli. Senza guardarla.
Emma sentiva la stizza intorpidirle le mani. «Quindi… Buon lavoro», esclamò, con un’enfasi accentuata di proposito.
«Che significa? Te ne vai?» domandò lui, voltandosi verso il suo amico.
Harry incrociò le braccia al petto e la osservò a lungo, senza parlare.
«Dato che sono stata attirata qui con l’inganno, posso anche andarmene, ora che qualcuno può sostituirmi», spiegò velocemente, affrettandosi a recuperare la borsa dal davanzale sul quale l’aveva lasciata. Non voleva nemmeno inventare una scusa per congedarsi, voleva che la sua delusione fosse ovvia: le dava sui nervi il pensiero che Harry l’avesse sfiorata in quel modo, rivolgendole parole che l’avevano immobilizzata, quando in realtà l’aveva invitata per pura utilità. Ed era un capriccio, lo riconosceva, ma non le importava.
«Voi donne siete proprio assurde», la prese in giro Walton, scuotendo la testa mentre si toglieva la felpa scura.
«Non vuoi davvero iniziare un discorso con me su quale genere sia il più assurdo», lo ammonì lei, sorridendogli nervosamente.
«No, è vero», acconsentì lui. «Non ho proprio voglia di rovinarmi il pomeriggio».
Emma alzò gli occhi al cielo e gli infilò una mano tra i capelli per dispetto. «Buona giornata», salutò, senza voltarsi in direzione di Harry. Lo sentì comunque seguirla, senza fretta.
«Perché ti stai incazzando, adesso?» le chiese, non appena si trovarono davanti alla porta d’ingresso. Lei con una mano sulla maniglia e lui con una tra i capelli.
«Ti sbagli», tagliò corto, aprendo la porta e spostandosi sul pianerottolo: quando si diresse verso le scale, Harry la fermò per un polso.
«Non fare la stupida», la rimproverò, con lo sguardo duro.
Emma si divincolò dalla sua presa. «Lo stupido sei tu!»
«Si può sapere che ti prende?» domandò ancora, corrugando la fronte.
«Non lo so, Harry! Forse credevo che mi avessi chiamata perché volevi effettivamente vedere me, anche se con una scusa del cavolo, soprattutto dopo cinque giorni! Invece no, l’hai fatto solo per i tuoi comodi».
Lui sospirò e si passò una mano dietro il collo. «Secondo te, tra tutte le persone che potevo chiamare, la scelta è stata casuale?»
«Oh no, sono sicura che tu abbia studiato per bene la presenza di Walton».
«Sì, hai ragione», confermò lui, senza sforzarsi di mentire. «E sai perché? Perché non sapevo se tu saresti venuta o se te ne saresti di nuovo andata chiedendomi altri mesi di tempo», le rinfacciò, alterato.
Emma si sentì una stupida, arrivò persino a vergognarsi: si era lasciata talmente trasportare dagli attimi appena trascorsi, dal suo respiro sul proprio viso, da perdere di vista la reale situazione. Harry aveva rischiato, nel cercarla un’altra volta: aveva provato a capire se avrebbe potuto riavvicinarsi oppure no, forse dopo aver aspettato fin troppo, e l’aveva fatto unendo l’utile ad dilettevole. Lei non gli aveva nemmeno risposto al messaggio, non aveva confermato o smentito la propria presenza, e di conseguenza l’aveva lasciato in dubbio, obbligandolo a chiedere aiuto anche ad uno dei suoi più cari amici.
Era stata lei ad illudersi, a dare un’interpretazione personale a ciò che in realtà era molto più semplice, a non capire l’incertezza di Harry.
«Tu mi confondi troppo», sbuffò, voltandosi per andarsene.
Per scappare.





 


Buoooooooooooongiorno!
Data l'impazienza che avete dimostrato per questo capitolo, spero di non aver deluso le vostre aspettative ahhaha
Ho deciso di dedicare uno spazio esclusivamente a loro, soprattutto per compensare l'assenza di Harry nello scorso capitolo (alla fine sì, ha cercato di lasciarle del tempo)! E credo che vi abbia fatto piacere :)
Che dire? Finalmente si ha una visione un po' più chiara di Harry e di ciò che doveva capire: la stava solo studiando, cercando di interpretare anche le proprie sensazioni (lui stesso dice che non era sicuro si trattasse di curiosità/nostalgia dettate da sei anni di lontananza, o proprio una bella botta: e direi che ora la cosa è stata appurata hahah). Quindi forse adesso sono un po' più chiare alcune sue parole, alcuni suoi comportamenti!
E lo stesso vale per Emma: diverse volte vi ho chiesto in cosa secondo voi fosse cambiata, ed Harry lo spiega piuttosto bene. C'è questa nuova parte di lei che "lo manda fuori di testa", perché è una parte più matura, molto distante dalla ragazzina che conosceva. Voi cosa ne pensate?
Poi poi poi, so che vi aspettavate un bacio, LO SO: ma c'è dell'altro a cui dare importanza e poi è meglio aspettare e fare le cose per bene :)))) E spero sia chiaro il perché Emma sia così "spaventata", inerme, così come spero di aver spiegato bene il motivo per cui lei si arrabbia e per cui poi scappa via sentendosi una stupida (l'ha proprio rincoglionita, poverina hahaha)! Se qualcosa non è chiaro, vi prego di farmelo sapere :)
E niente, grazie per tutto, come sempre!!! 
Vi avviso: nel prossimo capitolo ci sarà l'introduzione :)



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Un bacione,
Vero.

 
   
  

 

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette - Replay ***




 

Capitolo diciassette - Replay

 

Emma arrivò al Rogers Museum con un certo anticipo, come richiesto: nonostante il museo si estendesse su due piani, la mostra avrebbe occupato solo il primo, dal pavimento in marmo scuro e dalle venature di un grigio pallido, ripreso dalle pareti alte.
All’entrata, ebbe modo di guardarsi intorno ed accertarsi velocemente che tutte le opere fossero disposte come da programma: Miles era a qualche metro di distanza, immobile dinanzi ad uno dei suoi ultimi dipinti. Le dava le spalle, tenendo le mani nelle tasche dei pantaloni scuri: aveva un abbigliamento più casual rispetto alla mostra precedente, ammorbidito da un maglioncino beige ben stirato e dal quale faceva capolino il colletto di una camicia bianca.
Emma dovette chiudere gli occhi ed inspirare profondamente, stringendo tra le mani la pochette nera e lucida. Camminare verso di lui necessitava di uno sforzo immane, in grado di mettere a dura prova la sua perseveranza: non poteva tirarsi indietro, non poteva evitarlo, ma come poteva incontrarlo senza sentirsi schiacciare da un peso asfissiante sul petto?
A pochi passi da lui, si trovò a riflettere su quanto fossero ormai distanti e diversi, dall’ultima volta che si erano trovati in una situazione simile.
«Miles», lo chiamò piano, alzando lo sguardo verso il suo viso ed attirando la sua attenzione: i lineamenti spigolosi, ma non privi di armonia, le si rivolsero contro come per sfidarla con i ricordi che trascinavano con sé.
«Hey», sussultò lievemente lui, schiarendosi la voce e guardandosi intorno per un istante. «Non ti ho sentita arrivare», confessò: i suoi pensieri dovevano esser stati piuttosto profondi, se erano riusciti a coprire il rumore dei tacchi di Emma, sempre più vicini.
Lei si strinse nelle spalle e si obbligò a spiare il quadro di fronte a sé, nel disperato tentativo di sentire un po’ di meno. Miles la stava osservando senza essere insistente, ma privo di esitazione: l’aveva sempre fatto, aveva sempre dimostrato la sua sicurezza inespugnabile, ed anche in quel momento non si tratteneva dal reclamare dei diritti.
«Manca solo mezz’ora», sospirò Emma, incapace di sopportare il silenzio e le proprie emozioni. Quando si voltò nella sua direzione, vide il suo sguardo spostarsi dalle sue gambe ai suoi occhi, come di ritorno da un’attenta analisi: le venne da chiedersi se si fosse soffermato sul suo corpo con una certa amara nostalgia, se anche lui si stesse confrontando con il naturale istinto di toccarla, se fosse stato attratto solo dalla jump suit nera ed elegante che indossava.
«Sembra un’infinità di tempo», rispose lui a bassa voce. L’espressione delle sue iridi, tanto scure da sembrare vuote, sembrava volerle suggerire un riferimento più intimo nascosto tra quelle parole di circostanza.
Emma inspirò lentamente e strinse i pugni, rabbrividendo.
Un’infinità di tempo da quando Miles aveva rappresentato il tutto del quale nutrirsi.
«Sai, stasera ci sarà anche Lea», aggiunse lui poco dopo, quasi si fosse accorto dell’atmosfera nella quale erano improvvisamente precipitati.
Lei forzò un sorriso, ma dovette abbassare lo sguardo: non le dispiaceva per la sua presenza, ma temeva che avrebbe commentato la loro rottura ed era proprio quello di cui non aveva affatto bisogno. Non si sentivano da molto, praticamente dalla festa di compleanno di Zayn, ma non era lei l’unica fonte di informazioni.
«Le ho chiesto di farsi gli affari suoi», aggiunse Miles, come leggendole nel pensiero ed ammorbidendo la voce in una leggera rassicurazione. Era  difficile ammonire Lea, perché la sua vivacità non era pienamente controllabile, ma si poteva comunque tentare.
Emma fu nuovamente attirata dai suoi occhi, sollevata. «Grazie», esclamò semplicemente: nemmeno si meritava un aiuto simile, Miles avrebbe dovuto disprezzarla, almeno quanto lei avrebbe dovuto disprezzare lui. Sarebbe stato tutto più semplice.
«Verrà qualcuno della tua famiglia?» le domandò curioso, ma forse anche lievemente preoccupato.
«No», rispose, scuotendo la testa. «Ormai hanno smesso di chiedermelo», spiegò, arricciando il naso e sperando di spezzare la tensione con un sorriso. 
L’unico che aveva insistito era stato Harry.
«Prima o poi dovrai invitarli ad una di queste mostre», le ricordò Miles. Nonostante la loro lontananza, non mancava di andarle incontro.
E lei non mancava di rispondere con la propria caparbia. «Non fino a quando non avrò la certezza di fare un buon lavoro».
«Tu stai facendo un ottimo lavoro, lo sai bene».
«Se ti riferisci ad un mucchietto di fotografie, mi semb-»
«Va bene», la interruppe, abbozzando una risata arresa e scuotendo la testa. «Va bene», ripeté, inumidendosi le labbra ed osservandola attentamente.
Emma gli sorrise appena, cogliendo la nostalgia nelle sue iridi, ma subito dopo tornò a scrutare il quadro astratto che stava facendo loro da testimone: erano pochi gli attimi in grado di farle dimenticare ciò che era successo, e una volta terminati, il dolore pungente tornava ad infastidirla.
«Io… Vado a controllare una cosa», esordì Miles dopo una manciata di instabili secondi. «Ci vediamo dopo».
Lei annuì, senza guardarlo: non si sentiva in grado di poterlo fare e non voleva rischiare di averne una conferma. Si concentrò solo sul rumore dei suoi passi lenti, lo immaginò passarsi una mano dietro il collo ed abbassare le palpebre, magari imprecare e poi allentarsi il colletto della camicia.
Sarebbe stata una lunga serata.



Dopo circa un’ora, Emma ebbe il presentimento che stesse per andare tutto a rotoli: la sensazione di un imminente disastro le innervosì ogni centimetro di pelle, ogni parola da pronunciare.
E quella sensazione portava il nome di Harry Styles.
Lo osservò varcare la porta d’ingresso con indosso un giaccone nero, i capelli liberi che gli sfioravano il volto attento e gli occhi che probabilmente la stavano già cercando: non poteva credere che fosse davvero lì, che avesse avuto così poca considerazione della sua richiesta e delle sue motivazioni. Lo odiava per essere così sprezzante del volere degli altri, per la semplicità con la quale riusciva a metterla in difficoltà.
Emma restò immobile tra tutti i presenti, aspettando di controllare i propri istinti più violenti  per lasciare il posto a qualcosa di più diplomatico: non aveva nemmeno voglia di parlargli, di rimproverarlo, di dargli importanza. Se lui era disposto a tenerla così poco in considerazione, lei era pronta ad ignorarlo senza alcuna esitazione: non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione, non si sarebbe scomposta di fronte a lui. Avrebbe vinto.
Stizzita, lasciò scappare un sospiro e si passò una mano sull’acconciatura poco articolata che le teneva in ordine i capelli: decisa ad evitare Harry, mosse il primo passo nella direzione opposta, ma si arrestò subito dopo. I suoi occhi si soffermarono su Miles, che la stava osservando con un bicchiere di vino in una mano: la sua espressione era tesa, furiosa.
Ebbe la conferma della sua supposizione, quando lui si voltò verso Harry e poi di nuovo verso di lei: sembrava disprezzarla con tutto se stesso, sembrava glielo stesse già urlando di fronte a tutte quelle persone, tanto che Emma sentì la necessità di nascondersi e allo stesso tempo di ribellarsi. Quando lo vide camminare nella sua direzione, quindi, non esitò a fare lo stesso.
«Che diavolo ci fa lui, qui?» chiese Miles a denti stretti, ormai a nemmeno un metro da lei. Ogni tratto del suo viso era stressato da un fastidio acuto, sofferente. «Mi prendi in giro?»
«Non gli ho detto io di venire», precisò lei.
«Certo, tu non gli dici mai niente, eppure è sempre dappertutto», esclamò lui in risposta, bevendo nervosamente un sorso di vino bianco.
«Secondo te sono talmente stupida ed insensibile d-»
Miles serrò la mascella, prima di interromperla. «Non mi interessa», sussurrò con rabbia. «Io so solo che non mi è per niente facile stare qui con te, e cazzo!, come credi che possa sopportare che ci sia anche lui?»
Emma indietreggiò impercettibilmente, trovandosi di fronte alla conseguenza tanto temuta e che aveva tentato di evitare. «Nemmeno per me è facile, nemmeno io vorrei che Harry fosse qui!»
«E dovrei crederti?» domandò scettico, corrugando la fronte. «Non c’è bisogno di mentire, puoi tranquillamente dirmi che sei già andata avanti e che hai già trovato di meglio».
C’era un tale disappunto, nella sua voce, da scuoterla più di un’offesa. Si avvicinò di un passo e gli afferrò un mano, senza nemmeno pensarci. «Non sai neanche di cosa stai parlando», mormorò. Era solo per lui che stava lottando così tanto con se stessa, solo per lui se non riusciva più a capire cosa volesse e cosa potesse ottenere. 
Miles scrutò le loro mani a contatto, poi si divincolò lentamente dalla sua presa. «Tienilo lontano da me», disse soltanto, prima di voltarsi ed allontanarsi, prima di portare via con sé un po’ dell’aria che le serviva per respirare e andare avanti.
Strinse i pugni con così tanta energia da farsi male, poi si massaggiò la fronte e chiuse gli occhi per isolarsi dalla confusione che la circondava e per cercare una maggiore chiarezza, una maggiore lucidità. Quando li riaprì, Harry era distante alcuni metri e la stava osservando: probabilmente aveva assistito alla loro discussione, probabilmente ne aveva persino goduto, probabilmente era proprio un maledetto stronzo.
Emma lo guardò con un disprezzo aspro ed inconfondibile, imponendogli in silenzio di non avvicinarsi a lei nemmeno per sbaglio: un ordine così chiaro e determinato, da smorzare qualsiasi dubbio a riguardo. Si voltò velocemente, bisognosa di strappare le proprie iridi dalla sua figura, ed imprecò tra sé e sé. E lo fece di nuovo, quando subito dopo andò a sbattere contro qualcuno: per un attimo temette di essersi dimostrata troppo rude nei confronti di uno dei presenti inconsapevoli, ma il sollievo la fece sospirare nel riconoscere Lea.
«Emma, hey!» la salutò, abbracciandola calorosamente. «Scusa il ritardo, ho avuto da fare».
«Non ti preoccupare», borbottò lei, cercando disperatamente di sbarazzarsi di almeno metà della tensione.
«Cos’è quest’aria cupa?» le chiese Lea, accarezzandole un braccio. «Qualche ipocrita ignorante dell’alta classe ha osato criticare le tue fotografie?» ipotizzò, assottigliando lo sguardo scuro e guardandosi intorno circospetta. I capelli biondo grano le incorniciavano il volto con onde morbide, che rimbalzavano sulle sue spalle ad ogni parola pronunciata con un po’ più di enfasi. 
«No, nessuno si è ancora permesso di mettermi in dubbio», rispose Emma, forzando un sorriso divertito ed usando la propria consapevolezza per difendersi. «È solo che ho appena incontrato qualcuno che non è esattamente il benvenuto», spiegò, abbassando la voce per non tradire la rabbia che le ribolliva all’interno.
«Ah, ignoralo», le consigliò l’altra, facendo una smorfia di indifferenza. «Anzi, a proposito, sai chi mi ha chiesto di questa mostra?»
Emma soppesò la sua espressione euforica, ma aspettò una spiegazione.
«Ti ricordi quel ragazzo di cui ti avevo parlato? Quello assurdamente bello della festa di compleanno del tuo amico?»
Non può essere.
«Io pensavo fosse acqua passata, sai, dopo che mi ha scaricata senza troppi giri di parole, ma evidentemente deve essersi reso conto del madornale errore commesso: un paio di giorni fa mi ha scritto chiedendomi se sarei venuta, stasera, ed eccolo qui!» Lea continuava a parlare con il suo solito entusiasmo, senza nemmeno fermarsi per riprendere fiato. «Avrebbe almeno potuto darmi un passaggio, ma immagino non sia proprio il tipo. Ho l’impressione che sia abbastanza riservato, forse anche un po’ stronzo, e che di sicuro sappia quanto ben di Dio Madre Natura gli abbia donato… Dovrei fartelo conoscere, ti piacerebbe».
Emma semplicemente non poteva credere che il destino potesse accanirsi in quel modo nei suoi confronti, non poteva accettare una tale sequenza di eventi beffardi: si sentiva presa in giro e si sentiva una completa idiota, incapace di guardare oltre le misere emozioni provate in miseri istanti, che stando alle ultime novità non erano state altro che… Niente. In fondo Harry non poteva essere davvero così contraddittorio, non poteva riempirla di parole e poi ignorare le sue richieste, chiedere a Lea di vedersi alla mostra, in un’ulteriore schiaffo alla sua dignità.
«Ma scusa, ti sto annoiando con tutte le mi chiacchiere», continuò Lea, arricciando il naso con aria dispiaciuta. «Immagino che tu abbia altro a cui pensare: per esempio, devi ideare un autografo per tutti quelli che te lo chiederanno», scherzò, aprendo le labbra in un largo e spensierato sorriso.
Emma si strinse nelle spalle e si limitò ad annuire lentamente: era talmente incazzata, da non riuscire a fare altrimenti. E proprio quando credeva di essere arrivata al limite della tortura sopportabile, Lea si preoccupò di smentirla.
«Allora è peggio di quanto credessi…» sussurrò, con una nuova consapevolezza negli occhi neri. «Stare qui con Miles non deve essere così facile. Mi dispiace davvero molto per voi due-»
«Devo andare», la interruppe Emma, quasi bruscamente: non ascoltò nemmeno un’altra parola, troppo impegnata ad impedirsi di crollare, e si allontanò velocemente con la viva speranza di non essere fermata da nessuno.



Era riuscita ad evitare Harry per tutta la sera e forse lui glielo aveva concesso: talvolta aveva percepito la sua presenza, altre volte lo aveva notato al fondo della sala nell’attento ascolto delle spiegazioni delle sue fotografie – compresa la loro, sulla quale non era però intervenuto – e altre volte ancora lo aveva visto fissarla intensamente, o in compagnia di Lea. Ma era stata forte nella propria determinazione, si era sempre voltata dall’altra parte, aveva sempre finto che non esistesse e, purtroppo, si era sempre preoccupata di quanto fosse difficile.
Non era ancora riuscita a smaltire il nervosismo accumulato, né a processarlo a dovere: era ancora lì, incastrato ed intrappolato dalle ossa rigide del proprio corpo, a ricordarle in ogni istante qualcosa che preferiva non fosse presente. A nulla servivano i complimenti dei presenti, gli approfondimenti richiesti su alcuni aspetti della mostra, la pretesa di un’altra esposizione: qualsiasi cenno di soddisfazione personale era scacciato da un’ombra di delusione, fedele persecutrice.
Approfittando dell’approssimarsi del termine della mostra, Emma raggiunse velocemente l’uscita del museo, cercando di sfuggire a sguardi indiscreti che avrebbero potuto carpire sul suo volto emozioni contrastanti: Miles si era accorto di lei, ma era subito tornato ad ignorarla, proprio come aveva fatto per tutta la durata della serata. 
Rabbrividendo per le braccia nude e l’aria fredda della sera, si appoggiò alla parete dell’edificio e chiuse gli occhi: respirava temperature più basse nella speranza che potessero congelare il fuoco che la stava animando, pregando per un attimo di tregua.
Tregua che, ovviamente, sembrava essere lontana anni luce.
«Ti ammalerai di nuovo», furono le parole che la fecero sobbalzare.
Harry le stava di fronte, con le mani in tasca e senza giacca: una camicia in lino bianco gli accarezzava il torso definito.
«Ti consiglio di andartene», quasi ringhiò Emma, senza guardarlo ed incrociando le braccia al petto.
«È una minaccia?» domandò lui, inarcando un sopracciglio.
Lei alzò gli occhi al cielo e serrò la mascella, prendendo a camminare lungo il marciapiede per allontanarsi da lui e dalla sua espressione provocatoria. Stava cercando di non urlare, di non colpirlo fisicamente.
«Non puoi evitare il teatrino, restare qui e magari parlare?» le chiese alle sue spalle, obbligandola a fermarsi. 
«Parlare?!» sbottò lei, tornando verso di lui e chiedendosi perché mai si stesse trattenendo, se in fondo aveva tutti i diritti di essere infuriata. «Dio, sei un tale idiota!»
«Non iniziare ad insultare», la ammonì, come se ne avesse avuto il diritto.
«È quello che ti meriti!» ribatté lei, alzando la voce. «E smettila, smettila di guardarmi così! Sai perfettamente perché io sia così incazzata, quindi risparmiami tu il teatrino e assumiti le tue responsabilità!» Non riusciva a sopportare il suo sguardo fintamente innocente, la sua tranquillità, il contrasto tra i loro stati d’animo.
«Tutto questo solo perché sono venuto?» domandò lui, facendo un passo avanti. «Non mi sembra il caso di farne un dramma».
Emma spalancò gli occhi, incredula. «No, razza di stupido!» lo contraddisse, puntandogli un dito contro. «Tutto questo perché non te ne frega un cazzo di quello che ti chiedo e del perché io lo faccia! Ti basta ascoltare il tuo immenso ego e tutto il resto perde di importanza! Dovrei ringraziarti per essere venuto? Per avermi fatto litigare con Miles per l’ennesima volta, quando io stavo cercando di mantenere quello straccio di rapporto che era rimasto?! Per avere portato qui Lea?! Di’ un po’, credi davvero di potermi prendere per il culo in questo modo?!» 
Harry sbatté le palpebre, con il nervosismo che gli conquistava il corpo centimetro dopo centimetro. «E a te? A te frega qualcosa di quello che io ti chiedo?!» ribatté lui, imitando il suo tono e gesticolando. 
«Tu non chiedi niente! Vuoi solo prendere, prendere tutto quello che vuoi, e non importa se per farlo devi calpestar-»
«Ah, piantala di dipingermi come un cazzo di mostro!» la interruppe, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.
«Non voglio continuare questo discorso», mormorò Emma, scrutandolo senza deporre le armi. «Mi hai già rovinato abbastanza la serata», continuò, superandolo per tornare dentro il museo. 
«Perché cazzo te ne stai andando?» domandò dietro di lei, ma senza seguirla. «Dio, sembra che tu non sappia fare altro!»
«Perché non ti sopporto!» gli rispose lei, voltandosi solo per dedicargli altro disprezzo.
«Certo, perché non fai che incolpare me per qualsiasi cosa ti succeda!»
«E in questo caso non è colpa tua?!»
«Sarebbe colpa mia se la tua amica Lea non capisce assolutamente niente? Ma tu hai un’opinione troppo bassa di me anche solo per pensare che forse sia stata lei a fraintendere, vero? Perché io non sono venuto con lei, le ho solo chiesto se sapesse l’ora ed il posto di questa cazzo di mostra!»
«Ed io non ti credo!» asserì Emma, caparbia. «Ti ricordo che volevi portartela a letto, non molto tempo fa, quindi niente ti vieterebbe di averne ancora voglia! E lei non è così stupida da immaginarsi tutto!»
«Niente me lo vieterebbe?» chiese Harry, assottigliando lo sguardo e la voce. Avvicinandosi ancora. «Stai attenta a cosa rispondi, Emma», precisò subito dopo, rendendo ancora più esplicito il riferimento.
Lei si sentì smarrita, per un istante, ma non perse il suo coraggio. «Qualsiasi cosa sia successa con Lea, non puoi negare di essertene fregato di me e Miles!» esclamò, cercando di riportare il discorso su qualcosa di indiscutibile, non in grado di metterla in difficoltà.
«Credi che dipenda da me se tu litighi con il tuo ex-ragazzo?! Sai, forse è merito tuo se non si fida delle tue parole, se crede che tra noi ci sia qualcosa e se la mia sola presenza gli fa girare le palle!»
«Merito mio?!»
«Sì, merito tuo! Pensaci, cos’ho mai fatto di così assurdo per farlo preoccupare tanto?! Mi ha visto due volte in tutta la sua vita ed è come se fossi il suo peggior nemico! Sei stata tu a non dargli abbastanza certezze, quindi non prendertela con me per delle tue mancanze!»
Emma lo spinse con le mani sul suo petto, così forte da farlo indietreggiare di qualche passo. «Tu non sai niente!» urlò, con i polmoni alla disperata ricerca di aria. C’era traccia di verità, nelle parole che le erano state rivolte, ma non era una giustificazione per il cinismo con il quale erano state pronunciate.
«Forse, o forse non sono così cieco da non vedere che tu tieni a lui più di quanto voglia ammettere!» la contraddisse. «E non lo ami! Cristo, Emma, non lo ami! Eppure vivi in base a quello che potrebbe ferirlo o renderlo felice! Ti trattieni in tutto solo perché hai paura di sbagliare ed io mi chiedo cosa diavolo te ne importi!»
Lei fece un passo indietro, rabbrividendo nell’incontrare la parete fredda alle proprie spalle: lo sguardo vacuo e le parole spezzate in gola, si sentiva improvvisamente priva di energie.
«Lui è importante per me», sussurrò, fissando il marciapiede ai suoi piedi. «Non l’ho mai negato», continuò, come alla ricerca di una giustificazione con la quale difendersi. Era vero, aveva paura di commettere un altro errore, ma non si trattava di vera e propria debolezza, si trattava di rispetto nei confronti di una relazione che, a prescindere dalle sue complicazioni e dalla sua fine, era stata un pilastro per due anni della sua vita.
«Ed io? Io lo sono?» domandò Harry, eliminando la distanza tra di loro e sovrastandola con la sua altezza, mentre il suo petto si alzava e si abbassava velocemente.
Emma spostò lo sguardo sul suo volto, inerme: qualsiasi fosse la risposta, alla quale comunque avrebbe dovuto pensare, non voleva pronunciarla. Voleva solo porre fine a tutte quelle infinite discussioni, a tutte le urla e le ferite. «Lasciami stare», gli ordinò, più debolmente di quanto avrebbe voluto.
«No».
«Devo tornare dentro, lasciami… Lasciami stare», ripeté, nonostante non osasse muoversi di un millimetro. Harry le era semplicemente davanti, non la stava trattenendo, ma era come se la sua sola presenza potesse fungere da prigione.
Subito dopo, la fine.
«Respiri, quando sei con lui?»
Lo ami?
«Non azzardarti ad usare contro di me le mie stesse parole», lo ammonì Emma, facendo aderire un po' di più la sua schiena alla parete fredda: il ricordo della prima volta che aveva usato quel paragone le serrava lo stomaco, il cuore. Stringeva i pugni per scaricare su di essi tutta la tensione, perché non voleva mostrarla: ormai era migliorata moltissimo nel confinare e nascondere le proprie emozioni, fino a riuscire ad ingannare persino se stessa.
Harry le si avvicinò ancora, appoggiando l'avambraccio destro accanto alla sua testa e piegandosi lievemente verso di lei. Le stava respirando sul viso. «Rispondi».
Emma serrò le labbra in una linea dura, come a voler sigillare dentro di sé le parole che fremevano per uscire.
«Respiri?» ripeté lui a bassa voce.
Lo ami?
«Sì».
No.
Harry inspirò profondamente e si inumidì le labbra con un movimento lento: sembrava dovesse compiere un ultimo sforzo per ottenere ciò che più bramava. E quello sforzo si riversò in una semplice domanda.
«E con me? Respiri, quando sei con me?»
Mi ami?
A quel punto, Emma lo spinse di nuovo. «Che razza di domanda è?» chiese allibita. «Come credi che potrei amarti, adesso?»
Il pensiero di provare ancora una volta qualcosa di tanto forte nei suoi confronti la paralizzava: era troppo presto, era troppo pericoloso, prematuro ed irragionevole.
«Curiosa scelta di parole», commentò Harry, immobile di fronte a lei, con la camicia stropicciata e le labbra umide di brama. Aveva evidentemente prestato una meticolosa attenzione alla risposta ricevuta, a quell’adesso che era fuggito inconsapevolmente ed in modo innocente e che forse poteva essere frainteso.
Emma scosse la testa, respirando velocemente, e sentì la necessità di prendere una posizione. «Cerchi sempre di cambiare discorso, di…» Sospirò profondamente, massaggiandosi la fronte con una mano. «Tu stasera non saresti dovuto venire», gli ricordò. «Invece l’hai fatto lo stesso, l’hai fatto e vuoi farmi sentire in colpa per tutto il resto solo per non ammettere il tuo errore: ma la verità è che se tu non ti fossi presentato, io e Miles saremmo riusciti a convivere civilmente almeno per poche ore, Lea non mi avrebbe sbattuto in faccia il suo ipotetico appuntamento con te e tu non saresti stato ovunque. Non mi avresti rovinato la serata!», spiegò lentamente, con il nervosismo e la frustrazione a marcare ogni sillaba.
Harry la osservò a lungo, con un’espressione indecifrabile. «Non vuoi nemmeno fermarti a pensare al perché io sia venuto lo stesso», le rinfacciò.
«Ci ho pensato da quando mi hai detto di volerlo fare, ma io ti ho comunque chiesto di darmi ascolto», precisò. «E odio, odio il fatto che tu mi abbia ignorata: forse anche tu dovresti fare come me, forse dovresti pensare prima di parlare o di fare qualsiasi cosa».
Lui sembrò scottato dalle sue parole, prese da quelle che le aveva rivolto un paio di giorni prima. «Credi che non lo faccia?» le domandò.
«Non importa, se il risultato è questo!» rispose, alzando la voce e rendendo evidente quanto fosse stridula.
«Bene», disse lui soltanto, dopo qualche istante. Il viso impietrito in una maschera fiera.
Emma aveva temuto altre urla, ma si sentì sollevata nell’udire solo un insidioso silenzio. Harry serrò la mascella e schiuse le labbra, solo per poi richiuderle e scuotere la testa: mentre si voltava per andarsene, lei ebbe l’impressione di non avere le forze di restare in piedi. 
Le sembrava assurdo essersi di nuovo invischiata in un litigio del genere: era stanca della continua incompatibilità, che sembrava l’unico modo in cui potessero relazionarsi. Perché diavolo si erano incontrati di nuovo, quel giorno al Rumpel? Solo per confermare ancora una volta le loro diversità? Per soffrire ripetutamente come sei anni prima? Quale forma di sadismo li aveva legati in un’ulteriore rapporto autodistruttivo?
«Vorrei che tu non fossi mai tornato a Bradford», sussurrò appena, con lo sguardo fisso sul marciapiede, così spontaneamente da stupirsi persino dell’effettivo suono delle sue parole.
Harry si fermò, stringendo i pugni lungo i fianchi: quando si voltò a guardarla, nei suoi occhi vigeva puro ed orgoglioso risentimento. «Tranquilla», esclamò, con più foga di quanta ne fosse necessaria. «Non dovrai sopportarmi ancora per molto, tanto tra tre giorni torno a Bristol».
Emma spostò le iridi nelle sue e sentì il respiro mancare: non poteva sopportare un replay tanto crudele, una ferita tanto inaspettata e profonda. «Cosa?» chiese soltanto, senza muoversi.
Lui si strinse nelle spalle e le dedicò l’accenno di un sorriso, senza concederle altri dettagli da interpretare, altri particolari che avrebbero potuto rassicurarla. «Te l’ho detto, mi serve un lavoro per permettermi l’appartamento: quel mio amico me ne ha fornito uno sei anni fa, può farlo di nuovo», spiegò con una gelida tranquillità. 
Non aspettò alcuna risposta, si congedò con un cenno del capo e si allontanò con le mani di nuovo in tasca: Emma restò con gli occhi fissi nello stesso punto, anche quando Harry rientrò nel museo e ne uscì pochi istanti dopo con la giacca addosso ed i passi lenti.



«Emma?»
La voce di Miles le sembrò di velluto, così morbida da poterla rassicurare. Lo sentì sedersi accanto a lei, su uno dei gradini che portava al secondo piano del museo: la mostra era ormai conclusa, le sale erano ormai vuote.
«Cosa ti è successo?» le domandò, cercando il suo sguardo ma non riuscendo ad ottenerlo.
Lei scosse la testa e non rispose.
Lui sospirò piano.
«Mi dispiace», riuscì a dire Emma, sperando di poter includere nelle sue parole qualsiasi colpa le fosse stata accreditata, consapevole o meno.
«E a me dispiace per la scenata di prima», continuò Miles: non le chiese se si stesse davvero frequentando con Harry, forse perché sapeva di aver esagerato o forse perché ne era semplicemente convinto, e lei gliene fu immensamente grata.
Trascorsero diversi minuti prima che qualcuno trovasse il coraggio o le forze di parlare di nuovo.
«Perché non possiamo essere come tutti gli altri?» sussurrò Miles, lentamente. «Perché non possiamo odiarci?»
Emma si voltò a guardarlo per la prima volta, nascondendo le innumerevoli occasioni nelle quali si era chiesta la stessa cosa: talvolta si chiedeva se si fossero presi cura delle proprie ferite a vicenda, con meticolosa dedizione e fino a risanarle per quanto possibile, rendendo il recupero meno doloroso e meno ostico. Talvolta aveva il dubbio che non fossero stati in grado di ferirsi come credevano.
«Perché non posso semplicemente smettere di amarti?» continuò lui, con una tale amarezza nella voce da farle tremare le mani. 
Gli si avvicinò piano, arrivando ad appoggiare la testa sulla sua spalla magra e a respirare il suo profumo. Non sapendo cosa dire, lasciò che lui la interpretasse come era sempre stato bravo a fare.
Miles le riservò un bacio tra i capelli, chiudendo gli occhi.

 





 


Buongiorno :)
Stavate aspettando questa benedetta introduzione ed eccola qui, finalmente hahaha Anche se temo che possa esser stata un po' deludente, per quanto ci avete fantasticato sopra! Ma spero di no, dai ahhaha
- Emma/Miles: il loro incontro è stato piuttosto difficile da scrivere, perché ho dovuto tener conto di tante cose e mi hanno fatto un po' dannare. Entrambi sono ancora piuttosto scossi da tutto quello che è successo, Miles ha anche ammesso di amarla ancora: la sua gelosia ed il suo sospetto nel vedere Harry alla mostra credo siano più che giustificabili, chiunque avrebbe reagito così o comunque in modo simile! Voi cosa pensate del loro rapporto? Del modo in cui influisce su Emma? 
- Emma/Harry: SANTO CIELO. Due deficienti ahahha Harry si presenta lo stesso alla mostra, con un contorno piuttosto sospetto, ed Emma dà di matto, dopo aver accumulato un bel po' di tensione. Mettici il litigio con Miles, mettici l'egoismo di Harry, mettici la propria confusione, mettici Lea che ha preso la richiesta di informazioni come un invito ad uscire, mettici lo stress della mostra... È scoppiata. Sul loro ennesimo litigio non ho molto da dire, anzi, più che altro vorrei che foste voi a commentare!
Riguardo la decisione di Harry di tornare a Bristol... Be', a voi la parola!!
Insomma, fatemi sapere :)
Grazie mille per tutto, come sempre, e buone feste :)



Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
   
  

 

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto - Right in the middle ***




 

Capitolo diciotto - Right in the middle
Se volete, qui c'è un nuovo missing moment di "Little girl".
Mi farebbe piacere un vostro parere!


 

Messaggio inviato: ore 11.06
A: Zayno

"È vero che Harry vuole tornare a Bristol?"

Un nuovo messaggio: ore 11.13
Da: Zayno

"Sì"



Emma non voleva esattamente fermarlo, né pregarlo di restare o di non lasciarla - lasciarla?: non era nella posizione adatta per farlo, non c'era nulla che potesse sostenere solidamente una tale pretesa, nessuna briciola d'orgoglio a permetterle anche solo di pensarci. E lui non se lo meritava.
Più che altro, voleva fargli capire quanto la sua intelligenza stesse diminuendo in proporzione al passare del tempo, tanto da rasentare un'assurda idiozia che la urtava oltre ogni limite.
Innanzitutto, la sua idea di partire per Bristol era inequivocabilmente insensata: se Harry non poteva permettersi ulteriori lavori nel nuovo appartamento, come poteva affrontare una vita parallela in un'altra città, per quanto temporanea? L'instabilità del progetto l'aveva più volte portata a dubitare della sua veridicità, ma persino Zayn era a conoscenza della sua imminente dipartita e c'erano ipotesi che potevano sostenerla: per esempio, questo fantomatico amico in grado di offrirgli un lavoro - e che Emma aveva davvero iniziato ad odiare - avrebbe potuto disporre di un posto in cui ospitarlo gratuitamente, che quindi gli avrebbe concesso di avere più guadagni che spese.
Non si era soffermata più del dovuto su interrogativi simili, comunque, perché non voleva ammettere di essere così disperata da aggrapparsi a qualsiasi possibilità avesse potuto cancellare la partenza di Harry.
Secondariamente, tralasciando la discutibilità di quel progetto, Emma non gli avrebbe permesso di andarsene senza prima aver compreso quanto in basso fosse caduto con il suo comportamento: a costo di calpestare la propria dignità, a costo di cercarlo dopo due giorni di un silenzio ancora pieno delle loro ultime grida, non glielo avrebbe permesso.
Emma non voleva fermarlo, né pregarlo di restare o di non lasciarla, ma non era una bugiarda, almeno non con se stessa: non poteva negare che se per caso Harry avesse deciso di cambiare idea, lei avrebbe potuto sorridere di sollievo, respirare senza dolore.



Dopo essersi presentata tramite il citofono gracchiante del vecchio appartamento di Harry, si appoggiò con la schiena ad una macchina lì parcheggiata ed incrociò le braccia al petto: continuava a torturarsi un labbro e a muovere nervosamente una gamba, imprecando contro il cielo scuro del tardo pomeriggio.
Lui comparve dopo un paio di minuti - troppo tardi, secondo l'irremovibile pazienza di Emma - e si limitò ad osservarla in silenzio, con una strana espressione a dipingergli il volto: indossava una tuta smessa e grigia, con un paio di sneakers allacciate male.
«La tua idea fa schifo», esordì lei, senza muoversi. I suoi occhi mangiavano avidamente la distanza che Harry continuava a rispettare, fermandosi con nervosismo nei suoi. Avrebbe voluto iniziare il discorso in un altro modo, con accuse ben più significative, ma era stata tradita dalla sua stessa smania di dire qualcosa. «Non ha senso tornare a Bristol e pagare una vita lì, quando non puoi nemmeno permetterti un appartamento qui».
Continuava a mantenere un tono solido, duro, esclusivamente per nascondere il reale problema.
«Sei venuta solo per darmi il tuo parere a riguardo?» domandò quindi Harry, con la voce ricca di snervante tranquillità. 
«Anche», rispose lei, facendo un passo avanti ed inasprendo lo sguardo. Stargli così vicino non faceva che ricordarle l'ultima volta che si erano visti, che si erano respirati e disprezzati. Aveva i brividi. «Ma più che altro sono venuta per dirti che anche tu fai piuttosto schifo», riprese, senza usare mezzi termini. Harry alzò un sopracciglio, ma non si scompose: il suo essere impassibile incentivava a dismisura la stizza di Emma. «Da quanto tempo avevi in mente di andare a Bristol, hm? Per quanto tempo me l'hai tenuto nascosto? E quando avevi intenzione di dirmelo? Magari mentre eri già in macchina, con uno dei tuoi soliti messaggi ad effetto? Mi è davvero difficile prendere sul serio tutte le cose che dici, tutto quello che fai, se ti smentisci in questo modo. Non riesco nemmeno a pensare alla possibilità che tu avessi già queste intenzioni quando abbiamo pitturato quel tuo maledetto salotto: non voglio credere di essere stata così stupida e non voglio credere che tu possa essere davvero così stronzo. E un po' lo sei di sicuro, questo è ovvio, perché altrimenti non mi avresti detto della tua partenza in quel modo, avresti avuto un minimo di tatto, un minimo di decenza».
Stranamente, la sua voce non si era alzata, né aveva tremato: quello che contava, però, era che si fosse impregnata di tutta la delusione che l'aveva tenuta sveglia nelle notti precedenti. Notti che aveva cercato di utilizzare per domare le proprie emozioni e limitarle ad un qualcosa di tollerabile, notti nelle quali aveva tentato di sopportare anche la verità schiacciante che l'aveva colpita con tutta la sua stroncante forza: per quanto si sforzasse di disprezzarlo, per quanto la gola le bruciasse ancora per le urla, non voleva che Harry partisse. 
Non di nuovo.
«Hai finito?» chiese lui dopo qualche istante.
Emma serrò la mascella e stese le braccia lungo i fianchi, incapace di contenere il fastidio dettato da tanta indifferenza. Non credeva di meritarsela e non l'avrebbe di certo accettata. «Sì, ho finito», replicò tagliente, sistemando meglio la cinghia della borsa e voltandosi per allontanarsi: si erano dati le spalle talmente tante volte, che il gesto aveva ormai perso di importanza, di significato.
«Non sto partendo».
Quelle parole la avvolsero con decisione, impedendole di compiere anche solo un altro passo. «Cosa?» domandò a bassa voce, tornando a guardarlo. Il cuore quasi fermo, come se si stesse sforzando di riservare dei battiti fondamentali ed utili per i momenti di bisogno, che sembravano terribilmente vicini.
Harry alzò le spalle e si inumidì le labbra. «Non vado a Bristol».
Non capiva cosa stesse succedendo, ma se si fosse fermata a riflettere avrebbe sicuramente reso più debole il proprio scudo di protezione. «I tuoi cambi di programma non mi interessano, grazie dell'informazione», sbottò. E mentiva, certo, mentiva spudoratamente, ma perché avrebbe dovuto dargli la soddisfazione di vederla cedere? Senza contare il fatto che quell'ulteriore incuranza nei suoi confronti la feriva un po' di più: evidentemente Harry aveva davvero una bassa considerazione di lei, se credeva di poter entrare e uscire dalla sua vita così liberamente.
«Non è un cambio di programma», disse lui soltanto, facendo un passo nella sua direzione.
Emma indietreggiò spontaneamente, con la necessità di riempire i polmoni di aria e contegno. Avrebbe preferito non aver compreso il significato di quell'ammasso di sillabe dolorose, avrebbe preferito non sapere che Harry si era nuovamente impegnato a raggirarla e a prenderla in giro, dedito ai suoi scopi e sprezzante della sua sensibilità.
Se non era un cambio di programma, significava che non aveva mai avuto intenzione di lasciare la città, spingendo persino Zayn a mentirle. Che l'aveva detto solo per ripicca, in un momento di rabbia. Che l'aveva detto per ferirla. Per difendere il proprio orgoglio. Per uscire comunque vittorioso, a prescindere dalle conseguenze. 
«No, Harry», sussurrò lei, con la voce strozzata. «Questo è davvero troppo», continuò, con le forze che le venivano meno e la sua integrità che si arrendeva ai continui assalti dai quali tentava di difendersi.
Lui non rispose, serio nella sua immobilità: forse sapeva di aver commesso un grosso errore, forse non gli importava, forse non aveva il coraggio di dimostrare il contrario.
«Troppo», ripeté Emma in un sussurro. Strinse i pugni e fu tentata di scappare un'altra volta, di sfuggire ad emozioni che la torturavano e ad occhi che la perseguitavano, ma il suo istinto ripiegò su un'altra possibilità. Restare ed affrontarlo.
«Perché?» chiese Harry, marcando il suo sguardo di una sottile consapevolezza.
«Hai anche il coraggio di chiederlo?» ribatté incredula, corrugando la fronte.
«Io ti ho solo dato quello che cercavi», le ricordò, avvicinandosi ancora. «Non è la prima volta che dici di non volermi a Bradford, quindi-»
«Sai perfettamente che non intendevo questo!» lo interruppe: la prima volta aveva posto delle condizioni, quando ancora non erano riusciti a trovare un compromesso alla presenza di entrambi nella città; la seconda non era stato un invito ad andarsene.
«No, non lo so!» si alterò lui. «Hai detto che vorresti che io non fossi mai tornato, che diavolo avrei dovuto risponderti?! È facile puntare il dito contro gli altri, ma non pensi mai a quello che fai tu
Emma non aveva riflettuto su come potesse essersi sentito Harry nell'udire quelle parole, non le aveva soppesate e non aveva nemmeno programmato di pronunciarle.
«Allora dimmelo! Dimmi che ti ho fatto male, piuttosto dimmi che sono una stronza, ma non fare questi giochetti!» gli urlò contro: sembrava che tonalità simili fossero le uniche in grado di farli comunicare a dovere. «Non mentirmi, non dirmi che partirai di nuovo e non farmi credere che dovrò sopportare tutto come l'ultima volta!»
Gli occhi di entrambi furono attraversati da un lampo di disagio, sia per il ricordo di un momento risalente ormai a sei anni prima, sia per una disarmante sincerità non voluta.
«E tu chiedimi di non andarmene!» rincarò Harry, facendo un passo avanti. «Quando ti ho detto che sarei partito per Bristol non hai mosso un dito, cazzo! Secondo te cosa avrei dovuto pensare?!»
«Che ero incazzata! Che non potevo credere che lo stessi facendo di nuovo!»
Harry sospirò sonoramente e si passò una mano tra i capelli, forse masticando qualche imprecazione e distogliendo lo sguardo da lei: l'esasperazione era dipinta sul suo volto teso, spruzzata nell'aria che li circondava ed irritava. 
Vivevano di fraintendimenti, di cose provate e non dette, di sottintesi non colti e ferite più o meno intenzionali.
«Il punto è che hai ventisei anni, Harry», riprese Emma, tornando ad un tono più placido e massaggiandosi stancamente una tempia. «Ventisei. C'è davvero bisogno di comportarsi come un bambino dell'asilo? Ha portato a qualcosa?»
«Oh, andiamo, come se tu non avessi mai fatto lo stesso», rispose piccato. «Non fare la donna vissuta, adesso».
«Strano, credevo che questo lato di me ti mandasse fuori di testa», replicò spontaneamente: la sua era stata una difesa, un modo per restituirgli il colpo e metterlo a tacere.
Lui serrò la mascella, evidentemente disturbato da quel riferimento. «Posso sempre cambiare idea», sibilò, sfidandola.
Emma scosse il capo e si concentrò per un attimo su un passante al proprio fianco, scansandosi per lasciargli spazio: si era persino dimenticata di essere su un marciapiede, in mezzo ad una via nemmeno tanto isolata. 
Cosa stavano facendo?
«Sei tu a farmi comportare così», esordì lui, attirando di nuovo la sua attenzione.
Lei corrugò la fronte, confusa. «Io?»
«Sì, tu».
«Non incolpare me per i tuoi errori», lo rimproverò.
Harry si passò la lingua sulle labbra, distrattamente, e guardò per strada per un istante. «Peccato che io li commetta solo quando ci sei tu, intorno».
«Va bene, cosa dovrei dirti? È sempre e solo colpa mia, sono una persona orribile e ti porto sulla cattiva strada!» sbottò irritata: perché non si assumeva le sue responsabilità, al posto di puntare il dito contro di lei?
Harry sbuffò e si passò una mano dietro al collo, più nervoso. «Odio quando ti metti in testa una cosa e non capisci più un cazzo».
«Cosa dovrei capire?!» gli domandò, alterata dalla sua accusa.
«Niente», mormorò lui, fiero e capriccioso.
«Ed io odio quando fai tutto da solo», ribatté allora, incrociando le braccia al petto e rimuginando su ciò che era o non era accaduto.
Harry alzò un sopracciglio. «Certo che faccio tutto da solo, tu non... Ah, lascia perdere», sospirò, tastando le tasche della sua tuta forse alla ricerca delle sigarette: non le trovò, alzò gli occhi al cielo e sospirò di nuovo.
Lei si arrese, stanca di seguire i suoi ragionamenti incompleti.
Le era a nemmeno un metro di distanza, con i capelli disordinati e meno mossi, le spalle larghe e quel profumo maledetto. Lei si soffermò sulle sue labbra schiuse, rosee. «Emma?» la chiamò piano dopo una manciata di secondi. «Vuoi baciarmi?»
I suoi occhi saettarono in quelli verdi che evidentemente l'avevano colta in flagrante: le si seccò la gola e fece un passo indietro, mentre lui ne faceva uno in avanti. «Che stai dicendo?» tergiversò, tentando di mascherare l'improvvisa difficoltà.
«Puoi farlo, se vuoi», continuò lui: una nuova determinazione lo stava animando, dettata dalla crepa nell'imperscrutabilità di Emma. Era assurdo passare dall'urlarsi contro al parlare di baci in un così breve lasso di tempo.
«Non voglio», dettò secca, stringendo i pugni.
Bugiarda.
Ma non con se stessa.
«Sicura?» 
La voce di Harry era diventata quasi un sussurro, quasi sensuale. E la sua fonte era sempre più vicina.
«Harry, non potrebbe esserci cosa più sbagliata in questo momento», gli fece presente, poggiando una mano sul suo petto solo per impedirgli di farsi più vicino. «Abbiamo appena finito di discutere per l'ennesima volta, anzi, lo stiamo ancora facendo». Per quanto irrazionali potessero essere i propri istinti, non era ancora pronta a dar loro il libero arbitrio: cedere alla tentazione di accarezzare le pieghe di quelle labbra sarebbe stato deleterio, inappropriato. E avrebbe portato a delle conseguenze, imprevedibili come loro stessi e magari ancora più dolorose.
Harry chiuse una mano sulla sua. «Già», mormorò: le iridi che cadevano sulla sua bocca e risalivano lentiggine dopo lentiggine, fino ad incontrare quel blu tanto irriverente. «Non siamo mai stati bravi a corteggiarci», affermò, accennando un sorriso consapevole e divertito, in grado di smorzare l'atmosfera di irrequietezza.
Emma trattenne una debole risata, sforzandosi di rimanere salda nei propri propositi: se si soffermava su tutto ciò che aveva preceduto la loro storia, non poteva che dargli piena ragione. Non erano in grado di comportarsi come due persone normali, di starsi attorno senza esplodere e ricomporre i pezzi in vista di una nuova distruzione. Non erano capaci di fare le cose per bene. E quella prima volta il risultato era stato magnifico, a prescindere dal suo destino, ma avrebbe potuto esserlo anche la volta successiva?
«Io non ti sto corteggiando», precisò Emma, per alleggerire i propri pensieri.
«Sì, che lo stai facendo», la corresse. «È solo che non te ne sei ancora accorta».
«Così come tu non ti sei accorto della tua sconfinata presunzione?»
«No, quella la conosco bene».
«È questo il problema».
«Ma ti piace, ammettilo».
«La odio».
«C'è differenza?»
«Harry».
«Visto? Stiamo già migliorando».
E anche i loro visi erano già più vicini, a respirarsi contro e a testare la propria resistenza. Emma sentiva la lucidità scivolare via, disperdersi un po' di più ad ogni impercettibile movimento del petto di Harry, sul quale erano ancora premute le loro mani.
Aveva paura, era terrorizzata e non voleva darlo a vedere.
Aveva paura perché averlo a quella scarsa distanza era così naturale, da farle credere che fosse troppo semplice: una trappola dentro la quale sarebbe caduta, che l'avrebbe rovinata ancora un po'.
«Non baciarmi», disse soltanto. 
Non gli chiese di allontanarsi, solo di non baciarla.
Poteva restare a quella vicinanza se voleva, poteva farle ricordare ciò che significava.
«Sto aspettando che lo faccia tu», la rincuorò lui: il suo tono era protettivo, quasi conscio della difficoltà che lei stava affrontando, ma allo stesso tempo era macchiato di provocazione, impazienza.
«Ma io non posso».
Vorrei.
«Anche Miles troverà qualcun altro, prima o poi», soffiò lui.
Emma sentiva il cuore vacillare, scosso ancor di più da quel nome e da quei ricordi.
«Non si tratta di questo», ammise, con gli occhi incollati ai suoi, con la fronte a sfiorare la sua. «È che si tratta di te. Di noi».
Il problema non era rifarsi una vita al fianco di un'altra persona, sentirsi in colpa per una relazione appena conclusa: l'intensità di Emma e di nuovi sentimenti avrebbe fatto impallidire e sbiadire tali esitazioni. Il problema era ciò a cui si andava incontro, il rapporto che lei ed Harry avrebbero potuto instaurare, il dolore che avrebbe potuto provocare, la debolezza che avrebbe potuto accentuare, le crepe che avrebbe potuto peggiorare.
Dove poteva trovare il coraggio di rischiare? 
Era ancora troppo fragile.
«Sì, si tratta di noi», ripeté lui lentamente, forse in un blando tentativo di convincerla, di ritorcerle contro una sua stessa motivazione.
«Siamo un disastro», precisò lei. In quel momento, avrebbe voluto che la ragazzina intravista da Harry uscisse fuori e le impedisse di essere così patetica, così riflessiva e spaventata: se avesse potuto, l'avrebbe pregata di fare qualcosa, di aiutarla e di spingerla verso qualcosa di incerto, ma attraente.
«Terribili», rincarò Harry, spostando l'altra mano sul suo fianco sinistro e stringendolo appena.
«Non prendermi in giro», sussurrò, chiudendo gli occhi per un istante. Sembrava che ad ogni inspirazione di Harry, un po' della propria energia venisse risucchiata via: lui se ne stava nutrendo, lei stava soccombendo.
«E tu baciami».
«No».
«Emma...»
Le accarezzò il naso con il proprio, avvicinandosi così tanto da farle temere un bacio, e le sfiorò una guancia con le labbra: percorse la sua pelle lentamente, mentre lei si sentiva costretta a chiudere gli occhi e a chiedere mentalmente pietà. Quando percepì il suo respiro tra i propri capelli, a farle rabbrividire il collo, deglutì a fatica.
«Ragazzina...»
Fu lui a chiamarla al suo posto: un sussurro al suo orecchio, poche lettere lasciate scivolare via per scuoterla oltre il consentito. Fu lui a reclamarla.
E quella ragazzina, che solo con lui era cresciuta e si era formata, non fu in grado di resistere ad un obbligo così sottile ed irremovibile. Strinse la mano intorno al tessuto della sua tuta, sfiorando con le dita il suo petto, e si tese fino a rappresentare un invito: Harry si sentì in diritto di tornare sul suo viso, di guardarla di nuovo negli occhi per scoprirvi un permesso agognato.
Emma schiuse le labbra e respirò profondamente, alzandosi sulle punte per raggiungere meglio la sua altezza e per distaccarsi da qualsiasi esitazione: non riusciva più a resistere, non poteva farlo. 
«Baciami», le ordinò ancora, stringendole il fianco con più intensità. «Avanti».
.

Era sicura di esser rimasta lontana da quelle labbra per sei anni, allora perché, perché era come se non se ne fosse mai separata? Come se fossero sempre state sue, alla sua portata e a sua disposizione? Le toccava, le mordeva, ed il loro sapore era così familiare da farle girare la testa: erano giuste, in un contesto assolutamente instabile e disordinato, nonostante qualsiasi sua remora.
Gli portò le mani sul collo, accarezzandone la pelle e spostando le dita tra i suoi capelli: faceva male, faceva male lasciarsi andare tra le braccia di qualcun altro, ma non così tanto, se quel qualcuno sapeva come farla rabbrividire per una sola carezza, se conosceva a memoria le sue lentiggini e ci giocava con soddisfazione. Faceva un po' meno male, se Harry se la stringeva contro e la faceva sentire così viva, ardente.
Era smanioso. Forse era stata l'attesa, forse era merito di qualsiasi altra cosa covasse di nascosto, senza permettersi di lasciarla trasparire: la toccava con una tale brama da farle tremare le gambe, con una tale impazienza da farle desiderare di non essere nel mezzo di una strada, sotto gli occhi di qualunque passante.
Ed Emma aveva quasi dimenticato come ci si sentisse ad essere desiderata da Harry: perché un conto è saperlo, un conto è percepirlo tra le ossa ed in ogni movimento irrazionale. Aveva quasi dimenticato quanto fosse in grado di nutrirsi e trarre forza da una sensazione simile.
Quando le loro labbra si fecero più lente, gli respirò sulla bocca, con le sue mani sul proprio viso, e la baciò ancora una volta. Due, tre, innumerevoli volte, fino ad essere incapace di smettere: continuò lungo la sua mascella, mentre lui le passava le braccia dietro la schiena e se la premeva contro, e si fermò sul suo collo, dove vi nascose il volto.
«Ma che stiamo facendo?» mormorò Emma, improvvisamente inquieta all'idea di avere di nuovo qualcosa da perdere.
Harry le morse piano il lobo dell'orecchio. «Quello in cui siamo bravi».
Lo strinse un po' di più solo per reclamare serietà. «Sono seria», disse infatti.
Lui si allontanò quanto bastava per tornare a possedere i suoi occhi: la osservò con una tale spontaneità da essere disarmante. «È vero che vorresti che io non fossi mai tornato?» le chiese all'improvviso.
«A volte sì», rispose sinceramente: si sarebbe concentrata sulle sue mani, qualsiasi loro movimento avrebbe potuto darle un ulteriore indizio sulla reazione scatenata. «Quando litighiamo. Ma non vuol dire che io voglia che tu te ne vada».
«Quindi sei felice che io sia ancora qui?» domandò in conferma, sfidandola cautamente. I suoi occhi manifestavano quanto la precedente affermazione non fosse passata inosservata, mentre le sue mani premevano un po' di più sulla sua schiena.
«Io non voglio che tu te ne vada», ripeté, troppo orgogliosa per rispondere in modo troppo diretto.
«Lo prendo come un sì», mormorò Harry, appoggiando la fronte alla sua.
«Sono ancora arrabbiata con te», precisò Emma, decisa a ricordarsi la reale situazione: l'atmosfera poteva ingannarla, la loro vicinanza poteva stordirla, ma non doveva assolutamente perdere di vista i loro limiti. «Ci sono ancora cose di te che non... Che non sopporto».
«Emma, è stato solo un bacio», esclamò lui, lentamente e quasi con cautela.
Sei anni prima, quell'affermazione aveva e avrebbe scatenato l'ennesimo litigio: lei si sarebbe sentita sminuita e l'avrebbe accusato di essere un egoista, di prendere decisioni con troppa leggerezza. Ma in quel momento, tra le sue braccia e nelle proprie esperienze, quella semplice frase era in grado di rassicurarla: Harry voleva solo tranquillizzarla, ricordarle di non aver preso alcun impegno e di avere ancora una possibilità di fuga. In un certo senso la stava aiutando a metabolizzare qualcosa che non la lasciava libera di agire.
«Certe cose non cambiano mai, a quanto pare», commentò lei, abbozzando un sorriso nel ricordo di un passato da rivivere e modificare.
«Siamo di nuovo nel fantomatico mezzo», scherzò Harry.
«Oh, mio D-»
Ma le ultime lettere si persero nel bacio che lui le impose.





 


Buonasera :)
Questo capitolo è stato un benedettissimo PARTO PLURIGEMELLARE! Santo cielo, che angoscia!!!!!! Infatti, è inutile dire che si sono delle parti che mi fanno piuttosto schifo ma che  comunque non riesco a modificare. Ma lasciamo stare le mie paranoie e passiamo al contenuto.
Emma va da Harry per fargli il caziatone, in poche parole, e non per fermarlo (ovviamente secondo la sua testolina): e voi, VOI lettrici, come avete fatto a non capire che Harry voleva solo ferirla dicendole di Bristol? Dovreste conoscerlo ormai, dovreste sapere che alla ferita di uno corrisponde una ferita dell'altra e viceversa! Emma non gli ha detto una cosa di poco conto alla mostra, gli ha detto che avrebbe preferito che non fosse tornato: ci sarei rimasta pure io di merda, figuriamoci un tipo come lui ahhaha POI, ovviamente ha sbagliato, per carità, ma chi dei due fa mai una cosa giusta? (AHIMÈ)
Insomma, discutono un po' di questa cosa, ma c'è un repentino cambio di argomento: bacio, non bacio? Harry è sempre stato un buon osservatore, motivo per cui non si è ancora arreso con Emma, infatti la becca subito: come lui stesso dice, non sono mai stati bravi a corteggiarsi e secondo me tutti questi litigi, tutte queste urla, non sono altro che preliminari nella loro storia. C'è chi si avvicina con coccole e bacini, loro si avvicinano scontrandosi fino all'ultimo sangue, svelando ogni punta di difetto che hanno in corpo e infine accettandosi: o almeno, così è successo in LG, chissà se avverrà la stessa cosa :)
Spero di aver reso bene la paura di Emma, così divisa tra i suoi istinti e la sua razionalità (a proposito di questo, spero anche che abbiate apprezzato l'uso di quel "ragazzina" :)): per quanto un bacio sia solo un bacio, è comunque di Harry che si parla, quindi una CATASTROFE. E anche se lui ha cercato di contenere un po' questa paura, Emma è ancora molto indecisa: l'attimo prima si stavano per uccidere, l'attimo dopo erano spalmati l'uno sull'altra! Ovviamente le loro difficoltà non sono cancellate, ma solo momentaneamente messe da parte: è come se entrambi avessero bisogno di una tregua, di un bacio che confermasse quel qualcosa che continuava a farli litigare! Credo che in questo capitolo siano uscite abbastanza differenze tra gli Harry ed Emma di HH e quelli di LG, con tanto di ruoli invertiti e comportamenti smorzati!
Vi prego di farmi sapere cosa ne pensate, perché io credo di aver fatto un disastro, quindi conto sulle vostre opinioni per conferme e/o smentite hahahah
Spero davvero di non avervi deluse e vi auguro di nuovo buone feste!!
Grazie di tutto!

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
   
  

 

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove - Make me ***




 

Capitolo diciannove - Make me

 

Il salotto di casa Clarke si era fatto silenzioso come una tomba - e la similitudine non poteva essere più giusta, se si osservava l'espressione tragica del capo famiglia: Ron era seduto su una poltrona, con le mani aperte sui braccioli ed il corpo pietrificato da sensazioni troppo intense per essere manifestate. Aveva gli occhi sbarrati, le labbra schiuse ed il viso teso, persino privato dalle deboli rughe dell'età.
Constance, in piedi al suo fianco, sembrava aver reagito meglio: la sua bocca si era distesa in un sorriso perenne e sempre più grande, che presto sarebbe sicuramente esploso in esclamazioni di congratulazioni e soddisfazione. Le iridi chiare erano talmente assorte, da dare l'impressione che stessero già vagliando ipotetici scenari futuri.
Fanny era la più disinteressata, compatibilmente con la sua tenera età e con la sua diversa concezione dei sentimenti e degli impegni tra un uomo ed una donna: non appena udita la notizia, aveva reagito con una smorfia di difficile comprensione, per poi tornare ad osservare il programma televisivo a basso volume, senza alzarsi dal tappeto sul quale era sdraiata.
Emma era radiosa, ma anche infastidita.
Io e Melanie ci sposiamo.
Aveva parlato Zayn, dato che gli iniziali tentativi della sua ormai ufficiale fidanzata erano andati in fumo a causa del suo imbarazzo: le aveva accarezzato la schiena con riguardo, sempre ligio nel dedicarle certe attenzioni solo in privato, ed aveva pronunciato quelle semplici parole senza alcuna esitazione, muovendo le labbra in un sorriso sincero.
La sua futura cognata era affascinata dall'espressione della sorella maggiore, dalla sua intaccabile purezza di sentimenti e dalla sua sincera e serafica devozione: non aveva mai visto il suo viso brillare così tanto per un sentimento ed una promessa, mai si era specchiata in occhi tanto increduli di fronte alla propria fortuna. Avrebbe voluto assistere al momento della proposta, scorgere qualsiasi istante di perfetta felicità e mantenere quel ricordo per tutta la vita.
E Melanie, o Zayn - che in fondo doveva anche a lei la riuscita della proposta -, avrebbe dovuto dirle subito ciò che era successo, invece di aspettare che l'anello ordinato fosse pronto per essere indossato e mostrato: i due avevano atteso diversi giorni prima di dare la notizia, forse anche approfittandone per collaudare al meglio il loro prossimo futuro, e si erano presentati in casa Clarke solo quando l'anulare sinistro della figlia maggiore aveva potuto sfoggiare un diamante di piccole dimensioni, ma sufficientemente eloquente. Constance aveva subito sospettato qualcosa, facendo segno al marito, ma aveva preferito aspettare prima di dare in escandescenze.
L'istante successivo, la situazione cambiò totalmente sfumatura: Emma corse verso i promessi sposi con un sorriso allegro stampato sul viso, congratulandosi vivamente per la lieta notizia.
«Non che sia una novità, in fondo», aggiunse, ancora abbracciata saldamente alla sorella. «Credo che mamma stesse preparando il corredo da... Quanto? Cinque anni?» spiegò, facendo ridere i presenti ed anche la diretta interessata.
Constance, infatti, si era avvicinata con gli occhi lucidi e le labbra appena tremanti, baciando più volte sia la propria figlia che il ragazzo artefice di tanta felicità. La sua voce euforica e commossa spezzava il silenzio fino ad allora radicato tra ognuno di loro. «Non ci posso credere!» continuava a ripetere, instancabile. «Non ci posso credere!»
Notando il cambio di atteggiamento della famiglia, Fanny si convinse che forse la notizia non poteva proprio passare inosservata, quindi si alzò di malavoglia dal tappeto e si diresse stancamente verso il gruppetto di persone: fu Melanie, con le guance arrossate e la commozione dipinta in qualsiasi tratto del volto, a stringerla a sé. La piccola rivolse a Zayn una semplice occhiata ed un mezzo sorriso forzato, che però lui accettò di buon grado, conoscendola.
«Dopo il favore che ti ho fatto, avresti almeno potuto dirmi che le avevi già fatto la proposta!» lo rimproverò Emma, dedicandogli una gomitata nel fianco.
Lui la guardò divertito, con ancora una mano sulla schiena di Melanie. «Sai che con tua sorella non si discute, quando ci si mette», le rispose con una scrollata di spalle.
«E a proposito di legami di parentela», intervenne la sua compagna, facendosi più vicina e rivolgendosi alla sorella, «be', tu non avresti dovuto ingannarmi in quel modo, nella gioielleria», scherzò bonaria, nascondendo in realtà una sconfinata gratitudine.
«Ingannarti?» domandò Emma, incredula. «Chiunque si sarebbe fatto qualche domanda, al tuo posto, soprattutto se fidanzato con Zayn Malik da tempi immemori».
«Ron, per l'amore del cielo!» esclamò Constance ad alta voce. «Di' qualcosa! Cosa fai lì impalato?»
Tutti si voltarono verso l'uomo, ancora seduto sulla poltrona e con la stessa espressione impietrita a distendergli il volto: lo sguardo di Melanie mostrò una certa preoccupazione, forse già accortosi della - non - reazione del padre.
Furono istanti inquieti, mentre tutti cercavano di decifrare la situazione ed arrivare alla conclusione più adatta o più ottimista. Ron si piegò improvvisamente in avanti, coprendosi il viso con le mani grandi, e gli altri trattennero il fiato.
«Papà», sussurrò Melanie, spaventata da quel silenzio.
Emma non credeva che suo padre potesse essere contrario alla loro unione: sapeva quanta stima riponesse in Zayn e questo bastava a dissipare qualsiasi dubbio. Doveva esserci dell'altro.
Ron confermò la sua ipotesi quando rese di nuovo visibile i lineamenti del suo volto: gli zigomi virili erano solcati da rapide lacrime, mentre gli occhi arrossati si posavano su Melanie e poi su Zayn. Le labbra si incresparono in un sorriso liberatorio, interrotto quasi subito da un singhiozzo imbarazzato, e lui aprì le braccia in un affettuoso invito a raggiungerle: la figlia maggiore represse la commozione ed il sollievo e si accoccolò in quell'abbraccia infantile e sincero.



Dopo metà pomeriggio trascorso a parlare di un futuro matrimonio, Zayn e Melanie l'avevano invitata a trascorrere una serata a casa loro: avevano organizzato un'intima rimpatriata di amici, ai quali avrebbero annunciato la propria decisione, e volevano che anche lei fosse presente.
Emma si era preparata velocemente, mangiando poco a cena con la speranza che la sorella tenesse fede alle proprie abitudini, cucinando infinite delizie per i suoi ospiti. Aveva indossato una gonna nera, corta ed aderente, abbinata a stivaletti bassi dello stesso colore e sulla quale cadeva molle un maglioncino bordeaux senza scollatura: osservandosi allo specchio, aveva cercato di mitigare la consapevolezza che quelle gambe scoperte potessero in qualche modo colpire Harry. Sicuramente anche lui sarebbe stato presente, sicuramente l'avrebbe guardata e sicuramente lei avrebbe tratto sicurezza dal proprio aspetto e dalle sue reazioni.
Quel semplice nome bastò a farla agitare impercettibilmente, nel ricordo del bacio ancora troppo presente e del profumo della sua pelle: nonostante si fossero scambiati miti messaggi, era il secondo giorno che non si vedevano, che Emma non poteva toccarlo. Quell'improvviso bisogno non lasciava spazio ad altro, la spaventava, nonostante i suoi inefficaci tentativi di mascherarlo con dell'orgoglio.
Quando Zayn l'accolse alla porta, con un sorriso spensierato ed i capelli più in ordine del solito, Emma entrò senza alcun complimento, a proprio agio in un appartamento che poteva considerare la sua seconda casa: il salotto ospitava già una decina di persone, tra le quali riconobbe Aaron - occupato a strimpellare qualcosa su una chitarra acustica - e dei colleghi di lavoro di Melanie. Si trattenne dal cercare qualcun altro e si avvicinò invece a sua sorella, che stava posando sul tavolino tra i divani dei dolci comprati nella solita pasticceria.
«Ho fatto bene ad avanzare l'arrosto di mamma, allora», esordì, sorridendo alla vista di tanta bontà.
Melanie quasi si spaventò per la sua presenza, ma subito ne fu rallegrata. «Sei stranamente in orario», si complimentò, mentre Zayn le affiancava.
«Almeno in questa occasione...» commentò in risposta.
«Vedi di esserlo anche al matrimonio, magari», la provocò lui, ghignando: i suoi modi erano più sciolti, liberi dalla compostezza che si imponevano di fronte alla loro famiglia. Il rispetto che Zayn si ostinava ad esercitare in tutte le sue forme era scioccante.
«Arriverò in ritardo solo per farti un dispetto», gli assicurò allora, alzando un sopracciglio.
Melanie rise piano, poi la prese per mano e la tirò gentilmente verso di sé, per guidarla in direzione della cucina. Emma alzò gli occhi al cielo e la seguì: mentre camminava tra quelle persone, il suo sguardo si posò su qualcuno in particolare.
Harry.
Era appoggiato al mobile che occupava la parete più lunga, intento a bere qualcosa e a chiacchierare con un ragazzo che lei non aveva mai visto, o che forse non ricordava. Aveva legato i capelli, scoprendo il collo chiaro ed invitandola implicitamente ad immaginare come potesse essere baciarlo di nuovo, fino allo sfinimento. Era vestito tutto di nero, come spesso accadeva, ed il suo viso era sereno.
Non assorto dalla conversazione, però.
Difatti, l'istante successivo, i suoi occhi si spostarono su Emma senza nemmeno il bisogno di cercarla, come se avesse saputo esattamente dove trovarla - pensiero che solleticò la sua vanità: la sua espressione si fece più attenta, le sue labbra divennero più maliziose nel piegarsi nell'ombra di un sorriso. Emma si ritrovò a serrare i pugni, forse per non badare al calore che l'aveva appena investita, sostenne il suo sguardo ancora per poco, poi lo distolse imprecando mentalmente.
Entrata in cucina, sfruttò il profumo del cibo per distrarsi dalle proprie emozioni.
«Dio, Mel», commentò, osservando i mobili ricolmi di piatti pronti e bibite ancora da servire. «Pensavi di dover sfamare un esercito, mentre cucinavi?»
«No, ecco... Volevo che ce ne fosse abbastanza per tutti», rispose lei, sfornando dei biscotti e nascondendo le guance arrossate.
«Hai fatto anche la Sacher?» domandò incredula, avvicinandosi a quella meraviglia di torta al cioccolato: si piegò appena per annusarla, godendo del suo profumo. «Dimmi che ci hai messo la marmellata ai frutti di bosco», la pregò, tornando a guardarla mentre si sfilava i guanti da cucina.
«Ovvio», confermò Melanie, sapendo che quel dolce fosse il preferito della sorella. «E poi, be', se deve servire a convincerti, deve anche essere invitante».
Emma corrugò la fronte, vagamente confusa. «Convincermi?» ripeté.
L'altra si fece immediatamente più esitante, abbassando lo sguardo ed appoggiando le mani sul bancone alle proprie spalle, come a sostenersi. «Io... Vorrei chiederti una cosa, ecco», mormorò piano: la camicetta azzurra che si adeguava ai respiri del suo petto.
«Sono curiosa di sentirla, se può in qualche modo portarmi alla mia Sacher», esclamò ilare Emma, soprattutto per cercare di metterla a suo agio.
«Vedi, io e Zayn ci sposiamo e...»
«Ma dai?» intervenne, sorridendo per quell'introduzione scontata.
Melanie sorrise di rimando, consapevole della tensione che l'aveva spinta a parlare in quel modo. «Vorrei che tu... Be', che tu fossi la mia testimone di nozze».
Le iridi blu di Emma si fecero più vivide, stupite da una tale richiesta, mentre il suo cuore si dilatava per far spazio ad una felicità inaspettata e pura.
«Se non vuoi, non sei obbligata, certo. È solo ch-»
«Zitta, stupida», la interruppe lei, fiondandosi tra le sue braccia incerte e nascondendo il viso tra i suoi capelli che sapevano di farina. Non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma era onorata della proposta appena ricevuta: non poteva credere di avere l'occasione di ricoprire una tale posizione nella realizzazione del sogno più grande di sua sorella. E dopo tutti i loro trascorsi, dopo l'adolescenza turbolenta ed il loro rapporto fatto di oscillazioni destabilizzanti, non poteva chiedere di sancire il loro legame in altri modi.
«Certo che ti faccio da testimone», aggiunse, sicura che Melanie avrebbe presto chiesto una risposta più esplicita.
«Davvero?» sussurrò l'altra, ricambiando la stretta e forse sorridendo sincera.
«Sì», disse ancora, chiudendo gli occhi e beandosi della sensazione che la stava conquistando poco a poco. «Però anche io ho una cosa da chiederti», aggiunse, separandosi da lei quanto bastava per osservarla in volto.
Melanie si allarmò. «Cioè?»
«Non hai dovuto convincermi, ma... Posso mangiare lo stesso la Sacher?» le domandò, facendola ridere.

Tornando in salotto con un vassoio di pizzette tra le mani, avvistò Zayn e lui le fece cenno di raggiungerla. Passando tra alcuni degli invitati, scorse anche Harry e pregò affinché le sue mani non fremessero troppo nel passargli accanto.
Fu lui a cercare un contatto.
Emma non lo aveva nemmeno guardato, se non prima di arrivargli vicino, ma la mano di Harry era comunque riuscita a sfiorarla con discrezione, senza che gli altri si accorgessero dell'intenzionalità di quel gesto: le aveva accarezzato la schiena con le dita, con una tale leggerezza da farle chiedere se l'avesse solo immaginato, dopo averlo sperato tanto a lungo.
Proseguì spedita verso il tavolo dove erano raccolte le altre pietanze, fingendo indifferenza per imporla a se stessa: posò il vassoio al suo posto e sospirò in direzione di Zayn, ad un passo da lei.
«Mi correggo», esordì, assumendo un'espressione soddisfatta. «Dato che sarò una testimone al tuo matrimonio e che quindi avrò un ruolo fondamentale, arriverò ancora più in ritardo».
Lui rise con un bicchiere di birra in mano, scuotendo la testa. «Le avevo detto che avresti accettato», sbuffò, forse ripensando agli sforzi compiuti per convincere Melanie a non temere una risposta negativa.
Emma si fece all'improvviso più curiosa, pensando a chi sarebbe stato il testimone dello sposo, ed una lontana possibilità la rese inquieta. Quando schiuse le labbra per porgli la domanda, però, il campanello di casa suonò fastidioso e Zayn fu costretto a dare la precedenza ai suoi doveri.
La voce che arrivò alle sue orecchie richiamò subito la sua attenzione: Louis era tornato in città, forse solo per quell'occasione, e lei non ne sapeva niente, come sempre. Lo osservò piacevolmente sorpresa, andandogli incontro con un sorriso incredulo e trovando subito accoglienza tra le sue braccia sottili.
 «Hun, se non ti copri quelle gambe rischi di farmi diventare etero», la salutò, lasciandole un bacio tra i capelli. 
«Pensavo che il possedere un organo di riproduzione maschile fosse un fattore determinante, nelle tue attente selezioni», lo prese in giro.
«Potrei fare un'eccezione», la rincuorò. «Ma non dirlo a nessuno».
Lei rise allegra, separandosi dal suo corpo e rimandando ad un altro momento le domande che premevano di uscirle dalle labbra. Era bello riaverlo accanto, anche se probabilmente solo per poco tempo: ne aveva sentito la mancanza, soprattutto alla luce degli ultimi avvenimenti.
Quando lo strimpellare della chitarra si arrestò improvvisamente, Emma si ricordò della presenza di Aaron: spostò subito il suo sguardo su di lui, che stava osservando Louis con una maschera stupita e dura, sofferente. Quest'ultimo si era irrigidito senza preoccuparsi di non darlo a vedere: era impossibile che i due non sapessero della presenza di entrambi a quella serata, impossibile che non avessero già preso in considerazione le conseguenze, impossibile che non avessero deciso di affrontarle. O di ignorarle.
Aaron distolse lo sguardo e si schiarì la voce, mentre tutti gli altri continuavano a parlottare tra loro, ignari della tensione: riprese a suonare un motivo diverso, più allegro, nonostante alcune note stonate manifestassero la sua inquietudine.
Louis strinse una mano sulla spalla di Zayn, in un gesto amichevole, poi si voltò verso Emma e le rivolse un sorriso. «Dicevamo?»

Non si accorse dell'arrivo di Harry, se non quando morse un pasticcino alla crema e si voltò a fronteggiare il salotto. Se lo ritrovò alla propria sinistra, con la schiena dritta e gli occhi inesorabilmente su di lei.
Finse di non esserne sorpresa, né di apprezzare particolarmente la sua vicinanza, e lui finse di non notare la sua messa in scena. Le sorrise presuntuoso e continuò ad osservarla: mentre lei terminava il pasticcino, ebbe modo di riflettere sul silenzio che li stava ingabbiando. Sembrava che entrambi stessero aspettando che fosse l'altro a parlare per primo: e forse era la stessa cosa che era successa nei due giorni precedenti, quando nessuno aveva osato chiedere di vedersi.
«Non mi hai salutato».
Harry aveva ceduto, parlando a bassa voce.
«Nemmeno tu», gli ricordò. , si erano guardati e , lui l'aveva sfiorata, ma sapeva che non poteva soddisfare le loro aspettative.
«Ci ho provato», precisò, alludendo a quei miti tentativi che lei aveva appena riportato alla mente. Probabilmente erano stati il suo modo di invitarla ad avvicinarsi.
«Non abbastanza».
Harry alzò un sopracciglio, divertito dal loro scambio di battute. «Non abbastanza?» ripeté. «Ho fatto anche troppo».
Emma alzò le spalle e riportò lo sguardo sugli invitati davanti a sé, ancora euforici per le nozze appena annunciate: voleva provocarlo, mettere a tacere l'agitazione che il suo solo profumo le infliggeva e dissimulare qualsiasi bisogno avesse di allungare una mano e sfiorargli il volto. Era assurdo come la scarsa distanza tra loro non lasciasse nemmeno spazio a tutti i loro problemi.
Per un istante si concentrò su Aaron, diretto in cucina, e su Louis, che lo seguì dopo qualche istante.
«Dal momento che l'ultima volta sono stato io a sforzarmi per convincerti a baciarmi», ricominciò Harry, cercando la sua attenzione, «credo sia giusto che stavolta sia tu a fare qualcosa a riguardo».
«Pensavo stessimo parlando di un saluto, non di un bacio», gli fece presente lei, mantenendo la compostezza che si era imposta. In realtà, la possibilità che Harry volesse essere messo alla prova e attratto la stuzzicava più del dovuto.
«E non è la stessa cosa?» domandò lui, assottigliando gli occhi con fare provocante.
Emma si ribellò silenziosamente a quella verità. «Chi ti ha detto che io voglia convincerti a baciarmi?»
«Nessuno», le rispose ovvio. «Ma so che vuoi baciarmi, quindi sto ponendo delle condizioni».
«Sai? Hai ragione», disse lei, abbassando la voce e facendosi più vicina. Un felino sottile e giocoso. «Ho davvero voglia di baciarti: ci penso da due giorni», ammise, provocando in lui la reazione sperata: nonostante il suo orgoglio, sapeva quando indebolirlo potesse portare a qualcosa di soddisfacente. E se la scelta era solo sua, non le costava gran fatica. «Ma è più interessante guardarti aspettare che io faccia qualcosa, magari cedere per sfinimento».
Da quando era tornata a sedurlo in quel modo? Da quando era tornata ad essere così sicura di sé e temeraria? Con Miles - e al solo pensiero un vago tormento si insinuò in lei - la fase delle provocazioni era sfumata con il tempo, riemergendo solo raramente in un rapporto consolidato e dalla passione più tiepida.
Harry la riaccendeva, invece, la faceva fremere e le imponeva di comportarsi come i suoi più profondi istinti le suggerivano, stupendosi da sé.
«Convincimi», disse lui soltanto, con uno sguardo abbastanza intenso da azzardarsi a dissuaderla, come se lei non avesse nemmeno parlato e come se lui contasse ciecamente sull'attrazione palpabile che li stava legando. Si congedò afferrando un pasticcino e mordendolo lentamente, per poi leccarsi le labbra e fingere che anche quello non fosse un invito.

«Credi che Louis ed Aaron finiranno per uccidersi davanti a tutti?» esordì Melanie, seduta sul divano accanto a lei. «È tutta la sera che si rincorrono e ho già notato occhiate assassine da parte di entrambi».
«Probabile, sì», annuì Emma, distrattamente. A qualche metro da lei, Harry la stava osservando in silenzio, o meglio, stava osservando le sue gambe coperte da leggeri collant: quegli occhi tanto attenti accendevano ancora di più la propria consapevolezza. Per dispetto, accavallò le gambe lentamente. Lui alzò di scatto lo sguardo sul suo viso, come in un ammonimento, ma non appena capì di aver mostrato la propria difficoltà, si concentrò cupamente su qualcun altro all'interno del salotto.
«Ho parlato con Miles, oggi», ricominciò Melanie, più cautamente.
Emma sussultò impercettibilmente, stringendo le mani l'una all'altra per nascondere qualsiasi reazione improvvisa. «Di cosa?» domandò, schiarendosi la voce. Le sue iridi si sentirono costrette ad alzarsi nuovamente su Harry, più insicure, smarrite: lui, che era tornato a scrutarla, si accorse di quel cambiamento.
«Be', in fondo anche lui è stato parte della famiglia, per un po' di tempo», spiegò l'altra, con una decisione timorosa nella voce. «Ho pensato fosse giusto invitarlo».
Era ovvio che il rapporto instaurato in due anni non potesse essere cancellato solo per via della loro rottura: sarebbe stato irrispettoso e terribilmente infantile.
«Ma non è venuto», constatò Emma, guardandosi intorno come se avesse potuto scorgerlo, nonostante la sua assenza. Non sapeva come sentirsi a riguardo, se sollevata oppure crucciata da una tale difficoltà di convivenza: la sua concentrazione era ormai completamente focalizzata su quel viso spigoloso e passato.
«No», sospirò Melanie. «Ha preferito darti la precedenza: ha pensato che fosse più giusto lasciarti godere la serata, in... In qualità di mia sorella».
Quella rivelazione assestò un duro colpo alla fermezza di Emma, che prese a fissarsi le mani in grembo: come poteva essere così previdente, nonostante ciò che era successo tra loro? Continuava a comportarsi bene, fin troppo, e questo non la aiutava a distaccarsi da lui, a dimenticare i suoi modi controllati e rassicuranti. E mentre lui si privava di qualcosa, seppur di importanza mediocre nella sua vita, lei si divertiva ad accavallare le gambe per qualcun altro.
Provò disgusto per se stessa, sebbene sapesse di non averne il dovere: la sua storia con Miles era terminata dopo che entrambi avevano tentato qualsiasi rimedio, dopo che entrambi si erano rovinati ulteriormente nella disperata ricerca di una soluzione. Non aveva niente da rimpiangere, null'altro che avrebbe potuto fare: ricominciare non poteva essere un peccato, nonostante sembrasse comunque così ingiusto.
Melanie le posò delicatamente una mano sulla coscia. «Secondo me, invece, non è venuto perché sarebbe stato lui a non godersi la serata», le sussurrò in una rassicurazione, modificando il punto di vista. La possibilità che anche Miles potesse essere egoista la rincuorò appena, ma sentì comunque la necessità di alzarsi ed allontanarsi.

Si era rintanata sul balcone della stanza di Melanie e Zayn, che dava sulla strada poco trafficata e sul cielo nero privo di stelle, oscurate dalle luci della città. L'aria era fredda, tanto che lei si stringeva le braccia per contrastare i brividi, ma non abbastanza da farla desistere e rientrare.
Odiava quei momenti di smarrimento, che la colpivano improvvisamente senza lasciarle via di fuga: non le permettevano di distogliere i pensieri o di addolcirli, obbligandola a snocciolare accuse rivolte a se stessa che finivano inevitabilmente per farla innervosire. Doveva continuamente ricordarsi di non aver fatto nulla di male, per non cedere a certe visioni tentatrici.
«Ultimamente temo che tu voglia proprio prenderti un accidente», esclamò qualcuno alle sue spalle: riconobbe subito la voce, nonostante il leggero sussulto di sorpresa, e per questo non si voltò. Harry si stava evidentemente riferendo alla volta in cui Emma si era ubriacata ed era finita per trascinarlo con sé sotto il diluvio, che le aveva regalato una passeggera influenza, e alla volta in cui era fuggita dalla mostra d'arte per fuggire anche da lui.
«Non fa così freddo», gli assicurò lei, alzando le spalle. Non era stupita del suo arrivo, ormai era abituata ad averlo attorno, soprattutto nei momenti più scomodi.
Harry sospirò piano e si avvicinò con passi lenti, strascicati. Si appoggiò con i gomiti alla ringhiera in ferro del balcone e si accese una sigaretta, lasciando che il fumo si insinuasse tra i loro corpi.
«Di cosa parlavate tu e Melanie?» le domandò, con curiosità mascherata. Le aveva risparmiato l'appellativo "piccola" per sua sorella, forse cercando di non irritarla. Doveva aver notato una vaga stonatura, un cambiamento nell'atteggiamento di Emma.
«Perché?» chiese di rimando, quasi alla ricerca di un qualcosa a cui aggrapparsi, di una consolazione. Era strano come la sua sola presenza potesse rassicurarla, nonostante non la stesse guardando, né toccando.
«Perché te l'ho chiesto, secondo te?» ribatté ovvio, fiero. Gli interessava.
Emma lo osservò con la coda dell'occhio. «Mi ha detto che Miles non è voluto venire, stasera», spiegò allora.
Harry si limitò ad inspirare della nicotina, lentamente. Aspettò qualche secondo prima di domandare «E ti dispiace?».
Lei digerì il tono più distaccato, sospettoso. «Non mi dispiace che non sia venuto, mi dispiace che debba essere tutto così complicato. È stancante», precisò. Non voleva che pensasse che sentisse la sua mancanza, in qualche modo.
«Cosa ti aspettavi?» indagò, come infastidito dalla sua risposta.
Emma si risentì del tono con il quale le si era rivolto. «E tu cosa ti aspettavi?» replicò aspra. Era inutile giudicarla per qualcosa di scontato, torturarla ancora un po'.
Harry sbuffò e si passò una mano sul volto.
«Non mi piace quando ti distrai da me», disse a bassa voce, come se gli costasse fatica ammetterlo: era evidente che si fosse sforzato di essere sincero, di porre una chiarezza inequivocabile là dove stavano per addentrarsi in un'ulteriore incomprensione.
Emma si stupì del suo tentativo di smorzare i toni, tanto che si voltò a cercare i suoi occhi, per scoprirne la corrispondente sfumatura. Percepì un certo ego nelle sue parole, nel suo disdegno di una competizione, ma anche una richiesta: forse la presenza di Miles nei suoi pensieri lo disturbava più di quanto lei credesse, forse l'aveva infastidito ancora di più nel momento in cui l'aveva fatto passare in secondo piano.
Nonostante la sua presunzione, vi era anche la ricerca di un legame più forte e non macchiato da intrusioni: sentiva di non poterlo biasimare, perché lei avrebbe reagito allo stesso modo.
«Allora impediscimelo», rispose Emma, quasi in un sussurro: anche lei avrebbe voluto non distrarsi, dimenticare tutto ciò che aveva passato e dedicarsi a sensazioni nuove o riscoperte. Ed era rischioso affidarsi in quel modo ad Harry, concedergli un tale potere ed una così determinante responsabilità, ma era un rischio invitante.
Lui la osservò intensamente, forse soppesando le sue parole, mentre la sigaretta si consumava quieta tra le sue dita. «Ne sei sicura?» le chiese, con una provocazione pericolosa nella voce, come se lui fosse il Diavolo resosi umano e lei stesse per stringere un patto per una condanna.
No.
«Sì».
Mentire non le dava sempre soddisfazione, ma poteva rivelarsi utile: in quel momento, tra tutte le sue remore ed i suoi ripensamenti su un probabile futuro tra lei ed Harry, serviva a darle forza e a mostrarne. Voleva essere sicura, voleva avere in pugno la situazione e poterla guidare nella direzione giusta: voleva convincersi di poterlo fare.
Harry non abbandonò le sue iridi nemmeno nel prendere un ultimo tiro dalla sigaretta, socchiudendo le palpebre e riempendo i polmoni di fumo e coraggio. Nemmeno nel gettare il mozzicone spento in strada e nemmeno nell'avvicinarsi di un passo.
Poteva già immaginare il suo respiro sulla propria pelle, con il cuore in soqquadro per un qualcosa di non ancora avvenuto o percepito. Ebbe la conferma della propria sensazione quando Harry si piegò lento su di lei, posando la mano sinistra sul suo braccio e lasciandole un bacio sulla spalla, mediato dalla stoffa del maglioncino, ma comunque caldo del suo alito ancora amaro.
Emma chiuse gli occhi, inspirando a fondo, ed aspettò qualcos'altro.
Miles era già più lontano, sfocato.
Harry proseguì verso il suo collo, leggero e poi più insistente, sfiorandole la pelle nuda e poi mordendogliela senza forza. Lei rabbrividì, quando le dita della sua mano destra raggiunsero l'attaccatura dei suoi capelli, accarezzando le prime vertebre sporgenti: si alzò sulla punta dei piedi e si aggrappò al suo maglione spesso.
«Avida», le sussurrò all'orecchio, forse sorridendo beffardo nel prender nota delle sue reazioni al proprio tocco e delle sue pretese.
«Non ti è mai dispiaciuto», gli ricordò lei, sopraffatta dal suo corpo tanto vicino, ma comunque pronta a difendersi e ad attaccare. Harry non aveva mai rifiutato la sua intraprendenza, il suo essere insaziabile, anzi, se ne era sempre lasciato stregare e condizionare, finendo per accontentarla con evidente piacere.
«Al contrario», confermò lui, muovendo la mano sinistra per accarezzarle la forma del seno, il fianco, la coscia. Una discesa estenuante, calcolata e sadica, che voleva solo farla cedere di aspettativa: mentre si dedicava ancora al suo collo, prese a giocare con l'orlo della sua gonna, alzandolo appena per raggiungere un'altra porzione di pelle coperta dai collant.
Emma trattenne un respiro più profondo, reprimendo pensieri meno pudici insieme al desiderio che quella dannata mano si spostasse ancora. Più alto.
«Mi piaceva come stavi cercando di provocarmi», mormorò sulla sua guancia, facendole socchiudere gli occhi. Nessuna carezza troppo intensa, nessun bacio, e lei stava già capitolando verso la propria fine: il desiderio e l'attesa di un movimento erano più eccitanti dell'atto stesso. «È un peccato che tu abbia smesso così presto», continuò, artigliandole con più fervore la coscia e costringendola a stringersi maggiormente contro il proprio corpo.
Emma gli ansimò sul collo, inspirandone l'odore. «Non voglio rivelare subito tutte le mie carte», scherzò provocatoria, nonostante la sua voce fosse uscita ovattata, soffocata dal momento.
Harry portò entrambi le mani grandi tra i suoi capelli, perdendo per un istante la lucidità e baciandole la mandibola con una certa impazienza, poi rinsavì e respirò profondamente. «È una minaccia...» Scese di nuovo sulla sua schiena e si fermò sui suoi glutei, afferrandoli saldamente per spingerla contro di sé. «O una promessa?»
Emma l'avrebbe definita più come una tortura, anche per se stessa, ma non riuscì a rispondere: avrebbe voluto che quel momento non terminasse mai, che lei ed Harry potessero risolversi in quella sola realtà, senza dare spazio ad altro. Sarebbe stato tutto più facile se quello avesse potuto essere il loro unico modo di rapportarsi, per quanto fosse già uno dei più determinanti, perché avrebbe escluso la possibilità di litigi e problemi. Di una separazione.
Harry avvicinò il viso al suo, leccandosi le labbra già umide e sfiorando pericolosamente le sue: aveva le iridi colme di desiderio, lo si poteva riconoscere distintamente. 
«Stai ancora aspettando che ti convinca a baciarmi?» gli chiese Emma in un fil di voce, sostenendo il suo sguardo e portando le mani sul suo collo, sulle sue spalle.
Lui sorrise appena, prima di occuparle la bocca con la propria: era prepotente, pretenzioso, incapace di reprimere desideri ben più intimi, presuntuoso e lascivo. Lo erano entrambi: lui e quel bacio.
«A volte sei così stupida», decretò sulle sue labbra, mordendole con dispetto.
Ed Emma non si aspettò un'ulteriore spiegazione, né l'avrebbe ricevuta: era sottintesa, evidente come l'impossibilità di porre una distanza tra i loro respiri. 
Harry non aveva bisogno di essere convinto, per baciarla.

«Be', almeno qualcuno sta vivendo una delle mie più sfrenate fantasie erotiche».
Emma trattenne il respiro e si voltò immediatamente verso l'intruso: aveva ancora una mano di Harry sul seno, sfacciata ed insaziabile, e l'altra che aveva appena deciso di spostarsi dal suo gluteo alla sua schiena. Le labbra sicuramente gonfie ed arrossate.
Louis era appoggiato con una spalla all'uscio della porta-finestra, con le braccia incrociate. «Magra consolazione, in effetti», aggiunse subito dopo, come rispondendo ad un ragionamento silenzioso.
Harry sospirò qualcosa, forse un'imprecazione, mentre il suo petto si agitava ancora tra di loro. «Che cazzo vuole?» borbottò, distanziandosi di malavoglia da Emma.
«Non è prudente chiedere ad un convinto omosessuale quale cazzo preferisca», rispose Louis, dopo aver evidentemente udito quel colorito commento. «Potresti scoprirti tra i suoi desideri», lo ammonì, con la voce graffiata e stridula, punta da una sfumatura che la sua amica riconosceva essere sospetta. «E per la cronaca, tu lo sei davvero».
Emma soffocò un sorriso nell'assistere ad un tale teatrino, attendendo una reazione di Harry, che non tardò ad arrivare. «Avvicinati a me con quel tuo affare e giuro che te lo taglio», ringhiò, infastidito sia per l'esser stato interrotto, sia per una avance tanto esplicita ed indesiderata.
«Hun, dimmi», la interpellò, imbronciando le labbra sottili in una smorfia interrogativa, «è così violento anche a letto?»
«Hun, un cazzo», rispose Harry al suo posto, mentre lei si massaggiava la fronte per la frustrazione e l'ilarità.
«Piuttosto fissato con questo termine, per essere etero», commentò l'altro. «Immagino sia comunque un buon punto di partenza», continuò, sorridendo beffardo e forse sincero.
Harry fece per ribattere qualcosa di tagliente o di cattivo, ma Emma gli afferrò un braccio. «Devo parlare con lui: mi aspetti di là?» gli propose, dando voce alle intenzioni di Louis: conoscendolo, aveva notato come le sue esclamazioni si fossero fatte più insistenti, più fastidiose ed ironiche, e questo era stato abbastanza per convincerla che non avesse altra intenzione se non quella di far spazientire Harry, spingendolo ad andarsene e a lasciarli soli. Troppo orgoglioso per chiederlo o per ammetterlo, sapeva quali alternative sfruttare.
Harry non se lo fece ripetere due volte: la osservò piccato ed annuì, per nulla propenso a rimanere in una così sgradita compagnia. Si allontanò dopo averle posato brevemente una mano sulla schiena, come a ricordarle ciò che era stato così brutalmente interrotto, e rientrò in casa stando attento a non toccare Louis.
«Era proprio necessario?» domandò Emma, incrociando le braccia al petto.
«Non sai da quanto aspettassi di farlo», le spiegò lui, avvicinandosi lentamente. «Aspetto anche di farmelo, effettivamente».
«La vedo dura, sinceramente».
«Anche io, fidati».
Lei si rese conto del doppio senso l'attimo successivo, ridendo e scuotendo la testa per arrendevolezza. Per quanto Louis potesse dimostrarsi sfacciato e simpatico in quelle vesti, Emma sapeva riconoscerle: erano troppo forzate, per essere tranquille.
Aspettò qualche istante, prima di indagare. «Cosa succede?» gli chiese piano.
Lui si appoggiò con la schiena ed i gomiti alla ringhiera, trattenendo un sospiro pesante e sottostando al suo sguardo.
«Hai parlato con Aaron?» continuò, sperando che una domanda più precisa potesse rendere più semplice la risposta.
«Gli ho parlato, l'ho toccato, l'ho persino pregato ad un certo punto», sibilò, carico di esasperazione e di vergogna. «Non mi ascolta, non mi vede nemmeno».
«Non vuole farlo», precisò Emma, prendendo atto della criticità della situazione.
«Ed io non posso fare altro».
«Basterebbe davvero poco, Louis», lo incoraggiò piano. Aaron stava chiedendo semplice fedeltà, bramava una priorità che non aveva mai avuto.
«Per me non è... Poco», sbottò lui. «Chiamami egoista di merda, pensa quello che vuoi, ma io non sono mai cambiato per nessuno e non ho intenzione di farlo».
Per Louis non si trattava semplicemente di porre fine ai fugaci rapporto con i quali si intratteneva, si trattava di distorcere la propria libertà, l'unica cosa che per lui contasse davvero: e agli occhi degli altri era una visione terribile, disgustosa, ma per lui era una forma d'amore. Così come Aaron non capiva come fosse possibile agire in quel modo, per Louis era inconcepibile non vedere oltre i propri gesti, non vedere la dipendenza che provava nei confronti di Aaron, la differenza tra lui e tutti gli altri. Una differenza così palese, dal suo punto di vista, da rendere effimera qualsiasi definizione di tradimento.
«Lui si è comportato peggio di me, sai?» ricominciò dopo un paio di minuti, a bassa voce. «Ha sempre saputo a cosa andava incontro, cosa io potessi dargli: e nonostante sapesse anche di non volere niente di tutto questo, invece di ritrarsi, invece di... Mi ha incastrato, hun. Mi ha proprio fottuto».
Emma lo guardò con tenerezza, desiderando di poter dissipare qualsiasi ombra dalle sue iridi così sporcate. Si fece più vicina, appoggiando il capo sulla sua spalla. «Pensavo fossi tu l'attivo, tra i due», sospirò, in un mite tentativo di farlo sorridere con i suoi stessi metodi.
Louis inarcò le labbra brevemente, abbassando lo sguardo e scuotendo piano la testa. «Non dirlo a me».

 





 


Finalmente!!
In casa mia è tornato internet e ho potuto pubblicare questo capitolo, che aspettava da troppo tempo! E voi aspettavate con lui ahhaha
Ho persino dovuto tagliarlo, perché c'erano altre 2/3 pagine e sarebbe stato TROPPO lungo hahah Tanto era una scena di contorno, quindi credo che la inserirò nel prossimo capitolo! Comunque, passiamo alle cose più importanti:
- Melanie/Zayn: due PATATINI ahhaha Grazie al loro annuncio (spero che la scena in famiglia vi sia piaciuta :)) mettono in moto diverse dinamiche e raccolgono la maggior parte dei personaggi in una sola occasione! (Chi sarà il testimone di Zayn, secondo voi? Non è poi così scontato che sia Harry, stando alla sua amicizia con Louis!)
- Miles/Emma: di tanto in tanto Miles torna a galla e porta un po' di scompiglio, come è giusto che sia! Inizialmente avrebbe dovuto esserci anche lui a casa dei due promessi sposi, ma poi ho cambiato idea: sia perché preferivo questa versione, sia per lasciare un po' tranquilli Emma ed Harry (giusto un po'!)
- Louis/Aaron: Louis torna in città per l'occasione - e vi avviso che non rimarrà molto - perché ovviamente tiene troppo a Zayn per non farlo. Implicitamente, lui ed Aaron accettano di provare a "convivere" sotto lo stesso tetto per qualche ora: ho voluto presentarli indirettamente, tramite l'osservazione di Emma e quella di Melanie, e la parte tra Louis ed Emma l'ho aggiunta solo all'ultimo. Credo meritasse un po' di spazio e poi era un OTTIMO pretesto per inserire il prossimo punto dell'elenco, ovvero...
- LOUIS/HARRY ahhahaha Con tutti i tormenti di  Louis, mi sembrava giusto dargli una soddisfazione hahahha
- Emma/Harry: su ask avete tirato fuori qualsiasi ipotesi sul loro probabile comportamento, ma alla fine è stato tutto più semplice di quanto credevate ahhaah Nessuno dei due avrebbe potuto ignorare quel bacio, comportarsi come non ci fosse stato! E nonostante abbiano aspettato due giorni per farsi avanti, costretti in questa occasione hanno dovuto arrendersi alla propria volontà! Spero vi sia piaciuto il loro modo di stuzzicarsi! La stizza di Harry riguardo Miles dipende dal'influenza che Miles riesce ancora ad avere su di lei: certo, se ne accorge per lo più quando Emma parla con Mel e smette di provocarlo, rapita da altri pensieri, ma è comunque un fastidio più profondo, che si manifesta tramite un pretesto in questo caso. Quindi, il "Non mi piace quando ti distrai da me" è riferito sì a quella situazione particolare, ma anche in senso lato!
E ODDIO, ho scritto davvero troppo, quindi basta! Lascio a voi qualsiasi altro commento, sperando di riceverne :)
Grazie di tutto come sempre! 

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
    
  

 

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Capitolo 20
*** Capitolo venti - I don't care ***




 

Capitolo venti - I don't care

 

Pete si era rintanato nel piccolo bagno del suo appartamento da una manciata di minuti ormai, lasciando Emma sdraiata a pancia in giù sul letto di camera sua: gli unici indizi su ciò che stesse facendo erano lo scrosciare ad intermittenza dell'acqua ed il rumore di alcuni oggetti presi o posati con scarsa delicatezza.
«Non pensavo ci mettessi così tanto a prepararti», esclamò lei, dondolando le gambe nell'aria e sostenendosi il capo con una mano.
«Ed io non pensavo che avrei dovuto sopportarti», rispose Pete, imbronciando la voce come solo lui poteva e sapeva fare e stimolandole un sorriso. Si riferiva alla sua visita improvvisa e non annunciata, che l'aveva sorpreso in flagrante.
«Dovresti essere felice del fatto che ci sia ancora qualcuno disposto a stare in tua compagnia, nonostante le tue scarse capacità di socializzazione», gli fece presente: in realtà, Pete era pieno di amici. Sebbene avesse dei modi bruschi e da orso, sebbene la sua pazienza fosse assente ed i suoi borbottii insoddisfatti perenni, era comunque in grado di farsi accettare e cercare.
«Non se quel qualcuno sei tu», la corresse, comparendo in camera da letto e rivolgendole uno sguardo saccente. Aveva indossato dei semplici blue jeans, abbinati ad un paio di Vans nere e ad un maglione a trama larga color ocra, che gli cadeva morbidamente sul fisico asciutto.
Emma ignorò il suo commento e si soffermò su altro. «Esci con me, ti prego», scherzò, osservandolo con evidente apprezzamento e soffocando una risata. Pete era infatti in procinto di uscire con una ragazza conosciuta ad una delle solite partite di calcio alle quali presiedeva: non aveva voluto svelarle il luogo dell'appuntamento, etichettando la questione come poco importante, mentre Emma era sicura che il suo fosse solo imbarazzo. Eppure, stando al suo aspetto, avrebbe potuto portarla anche in una fogna e quella ragazza sarebbe comunque rimasta affascinata dal suo accompagnatore: il viso pulito e ormai virile era ammaliante, sostenuto da quegli occhi cerulei apparentemente tanto duri ed in fondo altrettanto inoffensivi, da quelle labbra sottili che chiedevano solo di essere spinte a sorridere.
«Assolutamente no», declinò Pete, stringendosi nelle spalle e dandosi un'ultima occhiata allo specchio appeso alla parete.
L'amica sorrise oltraggiata. «Ti faccio così schifo?» gli chiese bonariamente: lo invidiava per la tranquillità nella quale si sarebbe svolto quel nuovo primo appuntamento, per l'assenza di timori e difficoltà.
Sperava che fosse arrivato anche per lui il momento di amare incondizionatamente - e forse comprendendo meno dolore: non l'aveva mai visto struggersi per una persona, amarla nel senso più puro del termine. Si era illusa che Tianna potesse essere quella giusta, ma la loro relazione si era presto rivelata una passeggera infatuazione adolescenziale. 
«È che lei mi fa meno schifo», scherzò lui, nascondendo un sorriso divertito dandole le spalle. «E poi, tu sei già occupata».
Emma alzò un sopracciglio e si inumidì le labbra. «Devo smettere di raccontarti tutto», borbottò con uno sbuffo.
«È quello che ho sempre detto anche io», si trovò d'accordo, sedendosi accanto a lei sul bordo del letto. «Voi ragazze non capite che, a noi pochi eletti dotati di un coso in mezzo alle gambe, della maggior parte delle cose che ritenete importanti non frega un emerito-»
Lei lo bloccò con un pugno sul braccio, scherzoso e poco efficace, ma che gli fece abbozzare una risata. «Sei sempre il solito», lo rimproverò piano, abbandonando il capo sul materasso e guardandolo dal basso.
«Per fortuna», aggiunse Pete, schiarendosi la voce. «Piuttosto, tu ed Harry cosa avete intenzione di fare?»
Le si chiuse lo stomaco, al solo pensiero. Non avevano progettato nulla, non si erano fatti promesse né prefissati degli obiettivi da raggiungere più o meno velocemente: stavano semplicemente rimanendo l'uno accanto dell'altra, in attesa di una svolta spontanea e magari determinante.
Prima che potesse rispondere alla domanda di Pete, udì il proprio cellulare squillare: per un istante sperò che fosse Harry a chiamarla, ma dovette ricredersi quando sullo schermo lampeggiante apparve il nome di Nikole.
«Nik!» la salutò allegra.
Un singhiozzo sommesso dall'altra parte della cornetta la fece preoccupare. «Puoi venire qui?» le chiese la ragazza, senza perdersi in preamboli inutili.
Emma corrugò la fronte. «Hey, tutto bene? Che succede?»
«No, fa tutto schifo», fu la risposta che ottenne e che la fece allarmare ancora di più. Non era da Nikole parlare in quel modo, perdere la solita ilarità anche nelle situazioni più gravi.
«Arrivo subito... Ehm, porto i rinforzi?» propose allora, guardando Pete e facendogli intendere quale sarebbe stato il suo destino, mentre lui sbuffava e gesticolava in evidente disaccordo.
«Sì», esclamò Nikole. «E porta anche da mangiare», aggiunse, prima di interrompere la chiamata.
«Sei idiota? Ti ricordo che sto per uscire», la rimproverò Pete, alzandosi in piedi.
«Non puoi scriverle e rimandare di un'oretta?» insistette Emma, mettendosi seduta. «C'è qualcosa che non va, non ho mai sentito Nik in quelle condizioni».
«Non se ne parla», disse irremovibile.
«È anche una tua amica!»
«Ha chiamato te, non me».
«Ma tu potresti essere d'aiuto! Per favore».
«Kent, ho la possibilità di fare del sano vecchio sesso e tu stai cercando di sabotarmi».
«Hai davvero intenzione di portartela a letto al primo appuntamento?»
«Dipende».
«In ogni caso, non credo che questa ragazza se la prenderà per così poco. Anzi, sarà affascinata dal tuo essere disponibile nel momento del bisogno: le apparirai come un piccolo eroe imbronciato».
«Non prendermi per il culo».
«Avanti, non farti pregare!»
«No».
«Nikole sarebbe felice di vederti».
«Non sai nemmeno cosa le sia successo! Magari è solo morto il protagonista della sua serie tv preferita, magari le si è rotta un'unghia».
«Pete».
«Kent».
«Stava piangendo».
«...»
«Singhiozzava».
«Vaffanculo, sarà meglio per te che sia sul punto di morte».



Salirono velocemente le scale che portavano al terzo piano dell'edificio, con il cibo spazzatura del McDonald's che rimbalzava nelle buste ad ogni gradino. Emma suonò il campanello con una certa impazienza, mentre Pete sospirava per l'ennesima volta.
Nikole aprì la porta lentamente, voltandosi subito di spalle per dirigersi verso il divano trasandato del piccolo e spoglio salotto del suo appartamento. I due entrarono in casa quasi in punta di piedi, guardandosi intorno come se avessero potuto trovare degli indizi.
Quando Emma posò gli occhi sulla figura della sua amica, rannicchiata con le ginocchia al petto e con il volto tondo arrossato dalle lacrime, sentì un peso schiacciarle il petto. Che diavolo era successo?
«Nik, che cos'hai?» le chiese subito, avvicinandosi a lei ed abbassandosi alla sua altezza. Le accarezzò un braccio ed incontrò il suo sguardo turbato, indifeso e capriccioso: le sue iridi chiare avevano perso in parte la loro vitalità, lasciando il posto a qualcosa di più cupo.
Lei non rispose, ma si affrettò a strapparle dalle mani la busta con il cibo, afferrando subito un panino e mordendolo con foga, per poi addentare anche delle patatine ancora calde. Subito dopo, con la bocca ancora piena e con nuove lacrime sulle guance, parlò velocemente. «Sono un'obesa! Una ridicola palla di grasso che cammina, faccio schifo!» si sfogò gesticolando, per poi riprendere a piagnucolare con la testa nascosta tra le ginocchia.
Pete indietreggiò di qualche passo, alzando gli occhi al cielo. «Oh, Cristo», borbottò, evidentemente insoddisfatto dello scenario al quale doveva assistere: non era un grande sostenitore delle debolezze femminili e la sua tolleranza diminuiva notevolmente, quando doveva rimandare un appuntamento per sopportarle.
Emma si stupì delle parole di Nikole, perché troppo abituata a sentirla scherzare sul proprio peso e sul proprio aspetto: non era certo stupida, poteva immaginare che non si sentisse propriamente bene con il proprio corpo, ma non credeva che arrivasse a disprezzarsi a tal punto. Evidentemente, i suoi tentativi di mascherare un tormento più profondo non erano stati efficaci, portando alla rottura dei suoi limiti e al crollo definitivo.
Dopo aver lanciato un'occhiata a Pete, che dietro di lei aveva incrociato le braccia con un'espressione impaziente, si sedette accanto a Nikole e le passò un braccio intorno alle spalle. «Iniziamo con il togliere di mezzo questi, hm?» le propose a bassa voce e dolcemente, recuperando il panino e le patatine dalla sua stretta.
Poteva sentire Pete che si lamentava del fatto che lui avesse speso dei soldi per quella roba, ed inutilmente, ma perseverò e gli fece cenno di raggiungerle: lui sbuffò, si passò una mano tra i capelli ed imprecò di nuovo, poi si avvicinò lentamente e prese posto alla sinistra di Nikole. I gomiti appoggiati sulle ginocchia e la schiena china in avanti.
«Tu non fai schifo, Nik», le sussurrò Emma: era consapevole della banalità di quelle parole, ma non poteva trovarne altre, né sarebbero state molto più utili. 
Quella non reagì, così lei osservò Pete e si schiarì la voce, invitandolo silenziosamente a dare il suo contributo. Lui trattenne malamente un sospiro. «Ci sono ragazzi a cui piace tutta questa... Rotondità».
Emma spalancò gli occhi e fu tentata di massaggiarsi la fronte per la frustrazione.
«E a te? A te piace?» domandò Nikole, con il viso ancora nascosto ed i singhiozzi ancora evidenti.
Pete alzò gli occhi al cielo e si maledisse. «Be', certo...» borbottò, mentendo innocentemente.
«Sei solo un bugiardo!» lo accusò l'altra, dimostrando la scarsa efficacia del suo intervento.
«Il punto è», esordì Emma, guardandolo con rimprovero e dedicando un'altra carezza alla sua amica, «che non devi preoccuparti degli altri: devi prima piacere a te stessa», continuò, sapendo che avrebbe presto ricevuto dei veri rinforzi, non appena Pete avesse abbandonato la sua stizza e si fosse concentrato davvero sulla situazione.



Si era ritrovata ad ammirarlo senza nemmeno rendersene conto: quasi sfacciatamente, i suoi occhi non si spostavano dai tratti del suo viso, né i suoi passi osavano muoversi in altro modo se non in quello adatto a rimanergli sempre accanto, alla giusta vicinanza. 
Harry continuava a parlare senza sosta: con una mano in tasca e l'altra a trattenere distrattamente una sigaretta consumata con lentezza, sapeva di essere vittima del suo sguardo, ma si ostinava a godere di quella mite soddisfazione senza renderla esplicita. Parlava del cane che aveva dovuto riportare al canile di Bristol, dopo esser entrato in casa e aver trovato il divano a pezzi - e più di una volta. Parlava dei lavori che aveva abbandonato per insoddisfazione, anche se gli sarebbero serviti. Parlava del paio di jeans avvistati in un negozio, ma terminati il giorno dopo.
Parlava e la incantava.
Patetica, pensò tra sé e sé, scuotendo debolmente la testa come a rimproverarsi silenziosamente: distolse lo sguardo e si schiarì la voce. Forse distrarsi con i dettagli che la circondavano le sarebbe stato utile: era da molto tempo che non sentiva la necessità di farlo e non sapeva se fosse perché non c'era stato spazio per altro, se non per le proprie preoccupazioni, o se la sua valvola di sfogo fosse semplicemente cambiata.
«Continua a guardarmi», si interruppe Harry, espirando del fumo ed inclinando le labbra in un sorriso pigro, beffardo. Fu una richiesta leggera, ma comunque irremovibile.
Emma alzò un sopracciglio e lo osservò piccata. «Non pensavo avessi bisogno di così tante attenzioni», lo canzonò, solo per smorzare il proprio imbarazzo.
Lui le cinse le spalle con un braccio e se la strinse contro, baciandole il capo ed una tempia. «Sembrava fossi disposta a darmene», precisò sorridendo. «Ed anche parecchie», aggiunse, senza render chiaro se si stesse riferendo solo a quel momento.
«Vorrà dire che smetterò solo per dare una lezione al tuo ego», gli assicurò, rivolgendogli una smorfia capricciosa.
Harry rise sommessamente e smise di camminare, obbligandola a fare lo stesso: inspirò dalla sigaretta, guardandola in viso con gli occhi sottili, e gettò il fumo alla sua sinistra, per non indirizzarlo verso la sua figura. Emma aspettava con le braccia incrociate al petto ed un sopracciglio alzato: la sua maschera imperscrutabile, però, non si oppose a ciò che in fondo desiderava. Lasciò che la mano libera di Harry le si posasse sul collo e poi sul mento, per alzarle il volto con le dita, e lasciò che lui si avvicinasse lentamente.
Fu lei a baciarlo.
Senza toccarlo se non con le labbra, si era sbilanciata per mettere a tacere la necessità che provava di quel contatto. La sua impulsività l'aveva appena spinta a contraddirsi nel giro di nemmeno un minuto.
Ed Harry non perse l'occasione di ricordarglielo. «Sai proprio come mantenere la parola data», la prese in giro, ancora sulla sua bocca. Conoscendo il suo orgoglio ed ipotizzando la sua reazione, le cinse la vita con entrambe le braccia e nascose il viso nell'incavo del suo collo, ridendo sulla sua pelle mentre lei cercava di divincolarsi dalla stretta.
«Lasciami», gli ordinò Emma, sbuffando nonostante un leggero sorriso ad ammorbidirle il volto. «Idiota», rincarò, arrendendosi qualche istante dopo.

Il centro commerciale si era affollato ancora di più, mentre loro continuassero a girovagare per negozi senza una reale meta: non avevano nemmeno capito chi esattamente avesse avuto l'idea di uscire, quel pomeriggio, ma non potevano che godere dei risultati.
Si erano momentaneamente seduti su una delle panchine semivuote situate al centro del largo corridoio, quando Emma controllò il cellulare in un gesto automatico: si stupì nello scorgere l'avviso di un nuovo messaggio.
Ma fu il mittente a renderla inquieta.

Un nuovo messaggio: ore 18.16
Da: Miles

"So che forse non dovrei scriverti, che forse dovremmo solo scomparire l'uno dalla vita dell'altra. E giuro che ci sto provando, perché altrimenti non avrei cancellato e riscritto le stesse cose per almeno dieci volte. Ogni giorno. Ma voglio vederti, Emma: non ho intenzione di chiederti di tornare insieme, niente di tutto questo. Solo... Vediamoci"

Strinse con forza le dita intorno al cellulare, serrando gli occhi per brevissimi istanti.
La sua mente combatteva per scorgere significati più chiari nelle parole appena lette, mentre il suo cuore tentava di fuggire a qualsiasi cosa fosse in procinto di provare. Grazie all'improvvisa confusione, Emma brancolava in un'assenza di emozioni che sapeva sarebbe stata temporanea, ma che avrebbe voluto durasse molto più a lungo, in modo da trovarvici un covo di protezione.
Subito dopo, invece, fu colpita dall'impatto della richiesta di Miles: così semplice, così normale. E si sentì tremare.
Non sapeva cosa rispondere, cosa fare: voleva vederlo? Poteva vederlo?
Alla mostra avevano avuto una scusa, un alibi per la loro vicinanza: si erano sentiti legati da un dovere e quindi giustificati. Ma se Emma avesse accettato di incontrarlo, che scusa avrebbe potuto apporre al proprio masochismo?
«Cosa c'è?»
La voce di Harry la riportò alla realtà troppo bruscamente: si accorse di aver trattenuto il fiato, quindi sospirò passandosi una mano tra i capelli. Percepiva le sue iridi seguirla in ogni movimento, aspettarla: si sentì a disagio, braccata.
Scosse il capo velocemente. «Niente», borbottò, con un tono spontaneamente infastidito, di quelli che si usano quando qualcuno fa un passo di troppo nell'intimità degli altri. Non avrebbe voluto rispondere in quel modo: eppure, se da una parte avrebbe preferito essere sincera e parlarne, dall'altra sapeva di non poterselo permettere. Non con Harry. Non quando si trattava di Miles.
«Sì, certo», sbuffò lui, mordendosi il labbro inferiore per la stizza.
Emma serrò la mascella.
«Guarda che non te lo chiedo di nuovo», aggiunse Harry, dopo aver aspettato per qualche istante delle parole che poi non erano arrivate. Non gli piaceva essere trattato da stupido e non esitava a dimostrarlo.
«Credi che se ti comporti così, per me sia più facile dirti la verità?» lo rimproverò, sottolineando la sua scarsa delicatezza. Era proprio quello il punto: aveva quasi timore della reazione che avrebbe scatenato in lui. 
E non tanto per il messaggio di Miles, quanto più per la risposta che lei sentiva di volergli concedere. Ragionandoci con maggiore lucidità e superato lo stupore, così come l'abitudine di allarmarsi per un tale contatto, aveva raggiunto una conclusione che forse aveva solo dovuto ripescare dal suo inconscio.
«Ah, allora c'è davvero qualcosa da dire», commentò Harry, innervosendosi appena.
Il suo essere tanto permaloso la irritò a tal punto da spingerla a ricambiare con un dispetto. «Miles mi ha chiesto di vederci, se proprio ci tieni a saperlo», esclamò acida.
Lui la osservò attentamente, con i lineamenti del volto rigidi e gelidamente cauti. «E quindi?» domandò, sforzandosi per non lasciar trasparire un fastidio ben più radicato.
Emma si inumidì le labbra, inspirando a fondo. «Quindi credo che accetterò», rispose più piano, come dopo aver perso gran parte delle sue energie, spese a controllare minuziosamente qualsiasi segnale in quegli occhi tanto accesi.
«Che cazzo significa?» sbottò Harry, ritraendosi leggermente e corrugando la fronte.
Lei fu tentata di alzare gli occhi al cielo, ma si impose di resistere. «E ti chiedi perché io non voglia dirti niente», soffiò, manifestando la propria delusione.
«Forse è solo perché sai che non dovresti vederlo!» la contraddisse, gesticolando.
«O forse è perché tu non sei in grado di... Dio!» sospirò Emma, passandosi una mano sul volto. «Non hai di che preoccuparti, non succederà niente», tentò.
Sapeva che la sua fosse anche gelosia, poteva immaginarlo, e sapeva che ci fosse una certa inquietudine, dietro i suoi comportamenti così impulsivi, ma non voleva che tingesse solo di quelle due sfumature tutta la realtà.
«Fammi capire», iniziò Harry, assumendo un'espressione dura e confusa, «tu reagisci in quel modo per un messaggio del tuo ex ragazzo, decidi di incontrarlo nonostante tutto, cerchi anche di tenermelo nascosto, ed io dovrei stare tranquillo
«No», lo corresse, avvicinandosi impercettibilmente. «No, non sto dicendo che non deve darti fastidio, perché so che io reagirei allo stesso modo. Sto dicendo che non devi attaccarmi così, che non c'è bisogno di farne un dramma e che non voglio litigare ancora. Se prima ho cercato di nascondertelo non è stato perché non ho la coscienza pulita o perché conto di fare chissà cosa con Miles, ma solo perché sapevo che avresti reagito in questo modo. Ed io non voglio sentirmi giudicata per qualcosa del genere».
«Cosa dovrei fare, allora? Accompagnarti da lui? Prenotarvi una cena in un romantico ristorante in centro? Che cazzo devo dirti?»
Harry si alzò di scatto e si allontanò senza guardarla: camminava velocemente, troppo nervoso per fermarsi a riflettere, ma Emma si sentì in dovere di raggiungerlo, di toccarlo per fornirgli una rassicurazione ma anche un imperativo.
Quando gli si parò davanti, non ebbe bisogno di dire niente.
«Non voglio che tu lo veda», esclamò infatti Harry, osservandola con una tale irrequietezza da stordirla.
«Non succederà niente», insistette lei, facendo un passo avanti. Comunque si sentisse nei riguardi di Miles, sapeva che nulla avrebbe mai potuto spingerla di nuovo tra le sue braccia, e credeva nelle sue parole e nella sua promessa di non volerla convincere a tornare insieme. Non poteva combattere i propri bisogni, per quanto miti: aveva il dovere morale di porre una conclusione più dolce alla loro storia, di levigare il loro rapporto in modo da renderlo sopportabile.
Harry non aveva nulla da temere.
«Questo lo dici tu», la provocò. I pugni serrati.
«Sì, lo dico io», confermò, come a dare man forte alla propria determinazione, come a ricordargliela.
«Non guardarmi così», le intimò. «Non ti ricordi cosa mi hai detto a casa di Zayn? Che significato ha, se alla prima occasione scappi da lui? Non puoi davvero credere che io me ne stia qui a farmi prendere per il culo».
«Se pensi che è questo che sto facendo, se pensi che ti stia prendendo per il culo, allora non hai capito proprio niente!» lo accusò, spintonandolo appena: odiava essere messa in dubbio, odiava veder sminuite sensazioni che avevano provato entrambi e con la stessa intensità. «So cosa ti ho detto quella sera e tu sai che intendevo qualcosa di diverso: non puoi pretendere che io finga che Miles non esista!»
Gli aveva chiesto di non farla distrarre, è vero, ma non voleva dire ignorare ombre comunque presenti.
La rabbia di Harry si accentuò. «Oh, per te esiste eccome!»
«Smettila» gli ordinò, puntando un piedi a terra. «Ho detto che non volevo litigare e guarda cosa stiamo facendo! Perché non riesci a prendere le cose con più maturità?! Ti ho semplicemente detto che vorrei vederlo, ma tu non mi hai chiesto nemmeno perché, hai preferito barricarti dietro le tue stupide convinzioni! E sono davvero stupide, se comprendono la possibilità che io possa tornare con Miles!»
«E tu non ti chiedi perché io abbia queste convinzioni, vero? Così come non ti sei mai chiesta perché Miles non ti abbia mai creduto riguardo me! Rassicuravi anche lui, mentre capivi di provare ancora qualcosa per me? Gli dicevi le stesse cose, sforzandoti di fare la vittima?»
Harry aveva sempre avuto la capacità di individuare le sue debolezze più intime e di utilizzarle come armi: la crudeltà con la quale era in grado di accusarla la destabilizzava oltre l'accettabile. Emma, quindi, si sentì obbligata a barricarsi dietro un muro di protezione ancora più alto, ancora più solido: l'avrebbe chiuso fuori e gli avrebbe impedito di colpirla ancora.
«Pensa quello che vuoi», sibilò, svuotata della propria enfasi. «Non mi importa».
E le importava, certo che le importava, ma non poteva darlo a vedere o Harry, preso dalla sua rabbia e dal suo desiderio di riscatto, avrebbe fatto di quella consapevolezza un nuovo appiglio da sfruttare a proprio vantaggio.
«E tu vacci a letto insieme», rispose quello, inasprendo il tono. «Non mi importa», ripeté, prima di voltarsi e camminare via.
Ancora.
Emma serrò la mascella con una tale forza da provare una vaga fitta di dolore, mentre lo osservava allontanarsi senza avere le forze - o la volontà - di richiamarlo. Sapeva che le sue parole erano state una provocazione, un modo per apparire disinteressato là dove l'interesse era troppo evidente, ma non poteva impedirsi di sentirsene ferita ed in qualche modo umiliata. 
Non potevano continuare a discutere in quel modo.



Emma era leggermente in ritardo, senza un motivo particolare, ma esclusivamente per una lentezza di movimenti e pensieri che la intorpidiva da quel pomeriggio. Aveva preferito camminare fino al luogo dell'appuntamento, un vecchio parco che lei e Miles erano soliti frequentare quando ancora erano legati indissolubilmente: avevano deciso di incontrarsi quella sera stessa, senza ulteriori indugi.
Lui la stava aspettando seduto su una delle prime panchine in legno, che delimitavano il percorso in ghiaia e terra battuta tra il verde spento dell'erba umida e degli abeti. Indossava abiti scuri ed era talmente immobile, da confondersi con l'ambiente silenzioso.
Gli si avvicinò piano, annunciata dallo scricchiolare dei suoi passi sui sassolini ai propri piedi. «Ciao», lo salutò a bassa voce, prendendo posto alla sua destra e guardandolo solo per un istante: manteneva una postura rigida, come se cercasse di controllarsi.
«Grazie per essere venuta», rispose lui, con un tono caldo, che in altre occasioni l'avrebbe rassicurata e resa più malleabile. 
Emma si sentiva a disagio: era arrivata fino a lì di spontanea volontà, aveva fatto una scelta, ma allo stesso tempo il viso di Harry continuava a tormentarla e ad infastidirla. Non stuzzicava la sua colpevolezza, perché era convinta di dover compiere quel passo e di essere nel giusto, ma minava la sua concentrazione: la loro ultima discussione era ancora tanto fresca, da impedirle di dare la priorità ad altro.
Era con Miles, ma pensava ad un altro profumo.
«Perché mi hai chiesto di vederci?» domandò, voltandosi lentamente verso di lui: trovò i suoi occhi ad osservarla con meticolosa attenzione, con nostalgia, ma si costrinse a non distogliere lo sguardo. Il suo volto era illuminato fiocamente dalla luce gialla dei lampioni circostanti, che gli conferiva ombre solitamente non presenti.
Miles schiuse le labbra, pronto a rispondere, ma si sciolse prima nell'abbozzo di un sorriso incredulo, quasi affranto: appoggiò i gomiti sulle proprie cosce e lasciò penzolare le mani rilassate, mentre disperdeva l'attenzione in lontani particolari del parco. 
«Perché mi manchi».
I loro respiri erano lenti, più eloquenti delle rade parole che si lasciavano scappare.
Emma non si stupì di quell'affermazione, perché l'aveva prevista: sin da quando aveva letto il suo messaggio aveva ipotizzato cosa stesse succedendo nel suo cuore, ma questo non l'aveva fermata nei suoi propositi, anzi, li aveva incendiati.
«Non posso dire lo stesso», esclamò, cercando di moderare il proprio tono in modo da renderlo morbido, carezzevole come la mano che era stata tentata di posarsi sulla sua spalla, ma che era rimasta sul proprio grembo.
Provava compassione per lui, per quei sentimenti che evidentemente lo animavano ancora, ma non voleva alimentare le sue speranze o rendere più difficile una separazione annunciata ed inevitabile. Se aveva deciso di incontrarlo, era per permettergli un migliore distacco: entrambi avevano bisogno di starsi lontano, di non influenzarsi e di fare i conti con i propri fantasmi senza interferenze. Emma non ci sarebbe più stata per lui, non nella misura in cui serviva solo per acquietare una mancanza, non mentre anche lei stava tentando di divincolarsi da un passato tanto temuto. Forse avrebbero potuto riprendere i contatti quando fossero nuovamente tornati autonomi, indipendenti dai ricordi, ma non in quel momento.
Miles sospirò, forse accettando il colpo appena infertogli, e si massaggiò il viso con le mani. «Perché no?» le chiese, in una sottile accusa. «Perché non ti manca niente
Lei non rispose, limitandosi ad irrigidirsi appena: sapeva che il suo era un modo per sfogarsi e non di giudicarla, forse spinto dall'ingiustizia che provava nei confronti di emozioni che era l'unico a provare. Non poteva scusarsi in alcun modo, né credeva che lui si aspettasse davvero un gesto simile.
«Non voglio che tu mi cerchi ancora», disse invece, quasi in un sussurro, osservando il suo volto ancora coperto dalle mani sottili: eclissò la verità, ovvero la patina di nostalgia che ricopriva una routine sicura e confortante.
Lui alzò di scatto il capo, tornando a guardarla: negli occhi una sorpresa inquieta, che la invitò a proseguire il suo discorso.
«Ora come ora, vederci non ci fa bene», continuò Emma, con la gola secca. «Non puoi cercarmi ogni volta che senti la mia mancanza, né io posso risponderti di conseguenza. Devi andare avanti, Miles. Io lo sto facendo e... Voglio concentrarmi su quello che ho».
Una parte di sé si dava dell'ipocrita, dato che anche per lei non era stato facile separarsi da lui, ma si rendeva conto che essere così distaccata e dura poteva avere dei vantaggi.
E se solo Harry avesse capito il motivo per cui aveva accettato di incontrare Miles, forse avrebbero evitato di litigare, di fare un passo indietro.
«Stai andando avanti con qualcuno?» indagò lui, corrugando la fronte con mite sospetto. La sua calma era ancora intatta. «Con Harry?»
Emma annuì lentamente, stupendosi del calore che l'idea le provocava: la prospettiva di qualcosa di nuovo le sollecitava i muscoli, la invogliava a sorridere di speranza. A prescindere dalle difficoltà che incontrava e che ancora avrebbe incontrato.
Miles sembrò voler dire qualcosa, ma le sue labbra si serrarono con decisione, insieme ai pugni chiusi. Si stava trattenendo dal commentare, forse dal lasciarsi scappare un "Te l'avevo detto", e dall'arrendersi alla tentazione di rinfacciarle tutti i suoi passati dubbi a riguardo: sapeva che non poteva più appellarsi ad alcun diritto di intervenire.
«Non ti cercherò più», le assicurò piano, appoggiando la schiena alla panchina e guardando dritto di fronte a sé. Il corpo abbandonato, di una mollezza arresa.
«Grazie», mormorò Emma, con le emozioni strette in una morsa per la visione di ciò a cui si erano ridotti. Loro, che avevano vissuto momenti colmi di serenità e pace, che avevano amato così tanto la loro vita insieme da rovinarla, che erano nati con un incidente goffo e che si erano lasciati per un destino ancora più beffardo.
Si sporse verso di lui, lenta per assicurargli cautela, e gli baciò una guancia, accarezzando il sottile strato di barba con le labbra fredde: lo vide abbassare le palpebre e respirare profondamente, senza però muoversi in risposta.
Alzandosi dalla panchina, si chiese se dovesse fare qualcos'altro, si chiese come dovesse comportarsi in una situazione simile e se avrebbe potuto compensare meglio la deprivazione che gli aveva imposto. 
Fu Miles a risponderle, raggiungendola velocemente e stringendola tra le braccia.
Il viso sul suo collo, le mani tra i suoi capelli ed il cuore volto a guardare qualcos'altro, per resistere un'ultima volta.



Messaggio inviato: ore 22.03
A: Harry

"Deficiente"





 


HOLA.
Voglio subito precisare una cosa: ogni settimana sono moltissime le richieste di aggiornamento, le domande su quando sarò in grado di pubblicare un nuovo capitolo, ma dovete capire che io sono umana e che ho anche altre cose da gestire al di fuori di EFP. Per esempio l'università, l'incombenza degli esami, la mancanza di tempo, la mia necessità di una vita sociale soddisfacente: di conseguenza, e ormai dovreste saperlo, non posso trasformarmi in una macchina sforna-capitoli e lasciare da parte tutto il resto. Fino ad ora ho sempre avvertito, in caso di un "notevole" ritardo negli aggiornamenti, e mi sembra di aver comunque mantenuto una certa costanza: per questo vi chiedo di lasciarmi dello spazio e di manifestare la vostra impazienza, certo, ma entro i limiti della decenza. Per cui, se io stessa sono la prima a dire che non ho ancora scritto niente, che ho bisogno di più tempo e che NON SO quando pubblicherò, chiedermelo in continuazione non mi aiuterà di certo, anzi, mi metterà solo pressioni inutili.
Come vedete, infatti, nonostante i miei impegni, sono riuscita a pubblicare piuttosto in tempo e nessuno è morto, nel frattempo. 

Comunque, tralasciando questa precisazione, passo al capitolo:
- Pete: mi mancava da morire, lo ammetto ahhaha La sua scena è quella che avrei dovuto includere nel capitolo precedente e che poi avevo tagliato. Ma forse è stato meglio inserirla in questo, di capitolo, almeno per smorzare i toni! Insomma, si scopre che con Tianna alla fine non erano andati molto oltre e che è in procinto di andare ad un appuntamento. Io ci uscirei, con uno come lui, e anche subito hahaha Spero che il suo solito comportamento vi abbia fatto sorridere almeno un po' :)
- Nikole: la solare e spensierata Nikole, che crolla improvvisamente a causa del malumore per il proprio aspetto. Capita a moltissime persone di nascondere tutto dietro una buona dose di ironia e di cedere subito dopo, e questo è ciò che è avvenuto. Ma avere persone come Emma e Pete intorno le è decisamente d'aiuto, tranquille :)
- Harry/Emma: piccolo momento di serenità e poi il DRAMMA. Penso sia evidente che la reazione di Harry sia stata dettata da gelosia e preoccupazione, dato che Emma talvolta si mostra ancora piuttosto scossa dalla sua storia con Miles. E su alcuni punti ha anche ragione (il comportamento che lei aveva con Miles, quando si difendeva dalle accusa di provare ancora qualcosa per Harry, è analogo a quello che ha in questo capitolo, nonostante in questo caso sia veramente disinteressato. Ma Harry questo non lo sa, o almeno, può solo sperarlo), ma sono i modi quelli che lasciano a desiderare. I due si lasciano di nuovo in malo modo, as usual, ma si sa che dai conflitti si possono ricavare dei miglioramenti :)
- Miles/Emma: spero sia chiaro il gesto di Emma, nonostante il loro dialogo sia povero ed essenziale. E non ho molto altro da dire su di loro, quindi lascio a voi i commenti!
- Credo che Emma non abbia mai insultato così tanto Harry, nemmeno in LG hahhahaha Come interpretate il suo messaggio? Harry risponderà?

Nello scorso capitolo ho notato un calo delle recensioni, che sono l'unico strumento che ho per capire le vostre opinioni: se è stato dovuto ad altri impegni, va benissimo, se invece rispecchia un ipotetico malcontento, vi chiedo di manifestarlo, perché è sempre meglio una critica di un silenzio di tomba :)
Spero di avervi proposto un bel capitolo, o almeno accettabile ahhaha E spero vi farete sentire!

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
   


  

 

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Capitolo 21
*** Capitolo ventuno - Fear ***




 

Capitolo ventuno - Fear

 

Emma lo vide non appena varcò i cancelli dell'università: aveva la testa pesante a causa delle lezioni impegnative e del pranzo ancora da addentare, ma la figura di Harry era certamente il fattore più determinante nel suo stato d'animo.
Sbuffò e si spostò i capelli sciolti sulla spalla destra, camminando lentamente ma con fare deciso: lui stava fumando davanti alla propria auto, con indosso dei pantaloni scuri, una camicia celeste e gli occhiali da sole, nonostante il cielo fosse reso meno brillante da una coltre di nubi chiare.
Posare lo sguardo sul suo viso teso le ricordava la discussione risalente al pomeriggio precedente: ovviamente, Harry non aveva risposto al suo messaggio - per quanto il contenuto potesse essere discutibile - ma almeno aveva avuto il riguardo di cercarla, forse di tentare un chiarimento.
Emma si arrestò di fronte a lui, senza dire una parola ed incrociando le braccia al petto, dopo aver sistemato meglio la cinghia della borsa colma di libri. Era stanca ed irritata, ma pronta a raggiungere un compromesso.
Harry si limitò a terminare la sigaretta con una lunga inspirazione, per poi buttarla a terra e spegnerla con la punta dello stivale rovinato: con un distratto cenno del capo le intimò di seguirlo e lei gli diede ascolto, aspettando di poter entrare in macchina. Ogni movimento che compivano era avvolto nel silenzio di fruscii e nervosismo.
Non gli chiese dove avesse intenzione di portarla, sia perché il vecchio timore delle automobili la stava nuovamente minacciando, sia perché il modo in cui Harry stava stringendo il volante le suggeriva di non interpellarlo. Si decise quindi ad aspettare, approfittando di quel lasso di tempo per formulare delle idee coerenti.

Distratta dallo scorrere veloce del paesaggio al di là del finestrino, Emma quasi sobbalzò quando l'auto accostò all'improvviso, pochi minuti più tardi. Cercò di non manifestare la sorpresa scaturente dal non essere giunti ad una meta particolare, ma solo nei pressi del modesto parcheggio vuoto di un ristorante ancora chiuso: credeva che Harry avesse semplicemente abbandonato l'idea di arrivare fino in fondo, decidendo di fermarsi prima solo per poter sfogare la sua irrequietezza.
Lo osservò in silenzio, mentre scendeva dalla macchina e la aggirava a passi svelti, mentre apriva il suo sportello, invitandola implicitamente a raggiungerlo: Emma inspirò a fondo, appoggiò la borsa ai piedi del sedile ed abbandonò l'abitacolo, tornando vittima di una brezza pungente.
Harry le fu addosso in un istante.
Con le mani sul suo volto, le coprì la bocca con la propria in un impeto di tale foga da costringerla ad indietreggiare, fino ad incontrare la carrozzeria dell'auto, dura contro la sua schiena. La baciò famelico, arrabbiato, e lei non si sottrasse ad una simile dimostrazione, molto più eloquente di qualsiasi parola: da come il suo respiro si mostrava spezzato e veloce, da come le sue dita premevano sulla sua pelle, poteva capire il grado della sua irritazione, ma anche la profondità del legame che ormai li univa.
Emma raccolse le mani contro il suo petto, desiderosa di assecondarlo, nonostante potesse leggere nei suoi gesti anche una punta di presunzione: anche lei aveva bisogno di quel contatto, sebbene fossero nel bel mezzo di un problema irrisolto e di peso, nel loro percorso. Harry, però, si arrestò proprio quando la frenesia della loro brama si azzardò a sfiorare un limite di non ritorno.
Fece un passo indietro, alzandosi gli occhiali da sole sul capo, a trattenergli i capelli disordinati, e stringendo i pugni lungo i propri fianchi: la mascella serrata e gli occhi furenti indicavano che fosse pronto ad un confronto, adesso, dopo aver soppresso un altro tipo di inquietudine.
Lei lo scrutò con il petto ansante, leccandosi le labbra dove poteva ancora trovare tracce del suo sapore.
«Come pretendi che io ti creda, se con lui ti sei comportata allo stesso modo?» esordì Harry, gesticolando e andando dritto al punto. La voce già alta, anche se roca. 
«Ed io come posso dimostrarti qualcosa, se tu non me ne dai la possibilità?» gli rispose, avanzando verso di lui. Si erano appena baciati ed erano subito tornati ad uccidersi: sempre che le due cose non fossero una.
«Sarebbe un rischio, non una possibilità!» le ricordò aspramente.
Emma si lascio pervadere da un effimero senso di tenerezza, derivante dalla paura di Harry. «Evitare il problema sarebbe più utile, secondo te?»
«Il punto è che non dovrebbe esserci nessun problema!»
«Ma c'è!» precisò, sovrastando le sue parole. «Io e Miles siamo stati insieme, ci siamo lasciati ed il nostro legame esiste
Lui la guardò torvo, sbuffando un'offesa evidente: era chiaro che si fosse indispettito per il riconoscimento esplicito di qualcosa che lo turbava fino a quel punto. Emma se ne accorse e decise di rimediare, addolcendo la voce.
«Ci siamo visti ieri sera», spiegò, lasciando sottintesi i soggetti e premurandosi di carpire qualsiasi reazione, in modo da affrontarla prontamente. Lo vide tendersi, schiudere le labbra per dire qualcosa, imprecare o forse insultarla, quindi lo precedette. «Gli ho detto di non cercarmi più, di andare avanti da solo», osò. «È per questo che ho voluto vederlo».
La bocca di Harry si serrò duramente, mentre le sue iridi si concentravano su ogni particolare del viso che avevano di fronte: sembrava cercare di soppesare ciò che aveva sentito, il comportamento da adottare, le domande da porre e le accuse da snocciolare. Optò per il silenzio, forse anche grazie alla smentita tanto evidente dei suoi dubbi, forse grazie alla vergogna di essersi dimostrato tanto geloso.
Emma capiva i suoi tentennamenti, per quanto la indignassero: sapeva perfettamente di aver attraversato momenti simili con Miles, dubbi analoghi e scuse analoghe, ma sapeva anche che le situazioni erano completamente diverse, per caso o per destino. Con Miles aveva negato qualsiasi coinvolgimento nei confronti di Harry, fin quando non aveva potuto farlo con sé stessa: era stata costretta ad ammettere il contrario, ad un certo punto, e a confermare i suoi dubbi. Con Harry, invece, era certa che la propria attenzione non avrebbe potuto rivolgersi di nuovo verso Miles e che non sarebbe mai dovuta arrivare a tanto.
Era comprensibile che lui non si fidasse delle sue parole, ma lei non poteva dimostrarle concretamente e la cosa andava a proprio svantaggio, oltre che innervosirla: Emma sapeva di essere nel giusto, ma non poteva appellarsi ad altro, se non a rassicurazioni verbali. Anzi, non aveva potuto farlo fino alla sera prima.
«Perché non me l'hai detto subito?» domandò Harry, senza esporsi sulle proprie emozioni. «Perché non mi hai detto che volevi vederlo per allontanarlo, al posto di continuare a litigare?»
«Perché la tua reazione mi ha dato sui nervi!» si giustificò malamente, gesticolando.
«Quindi la colpa sarebbe mia?» si ribellò lui, avvicinandosi un poco. «Perché non ti prendi le tue responsabilità? A prescindere da come mi sono comportato, spettava a te fermarmi e farmi ragionare!»
«Ragionare?! Eri davvero in grado di farlo?!»
«L'avrei fatto, se mi avessi detto la verità!»
Emma sospirò sonoramente, passandosi una mano sulla fronte e mordendosi il labbro inferiore. Cercò di calmarsi, chiudendo gli occhi per qualche istante: se pretendeva un cambiamento da parte di Harry, doveva essere la prima ad andargli incontro. Di conseguenza, dato che era orgogliosa, ma non stupida, e dato che sapeva riconoscere i propri errori, decise di agire di conseguenza. «Ho sbagliato», esclamò, debolmente. «Avrei dovuto dirti sin da subito perché avevo intenzione di incontrarlo, ma mi sono lasciata prendere dalla rabbia e ho finito per... Ho sbagliato», ammise nuovamente.
Si sentì vagamente meglio, dopo essersi liberata di quella confessione - che probabilmente altre persone avrebbero affrontato con molta più leggerezza. Harry sembrava soddisfatto di aver ottenuto qualcosa e lei aspettò che anche lui si piegasse ad ammettere i propri errori: lo osservò per diversi secondi, sentendo l'incredulità aumentare man mano che il silenzio si prolungava. Era impossibile che Harry non si rendesse conto del problema di fondo, della loro difficoltà nel comunicare.
«Io ho ammesso la mia parte di responsabilità: so di essere troppo orgogliosa e cieca, mentre discutiamo. Ma tu? Non hai proprio niente da dire?» gli domandò, corrugando la fronte e sperando di sbagliarsi.
«Per esempio?» ribatté lui, in una sottile provocazione - o almeno era quello che sperava fosse Emma.
«Per esempio qualcosa riguardo i tuoi ventisei anni suonati e la tua incapacità di comportarti da persona matura in certe circostanze!» lo accusò, piccata dal suo stoicismo e dall'aria innocente nella quale si stava avvolgendo.
C'era una cosa che rimpiangeva, in un certo senso, della relazione con Miles: il suo modo di contenerla, di confrontarsi con lei in toni morbidi e comunque determinati. Era qualcosa che non aveva mai provato prima e che l'aveva conquistata, regalandole una certa dose di serenità, ma che con Harry mancava quasi sempre: loro esplodevano, più che discutere. Si ferivano, urlavano e poi si privavano di qualsiasi pietà per terminare con un colpo ben assestato: sapeva che avrebbero potuto agire diversamente, ci credeva davvero, ma sapeva anche quanto potessero essere lontani da quell'obiettivo. Erano ancora troppo instabili, per permettersi una tale tranquillità.
«A me non sembra che tu sbraiti meno di me, quando ce n'è bisogno», le ricordò Harry, con aria di sufficienza.
Emma spalancò gli occhi, allibita. «Con la differenza che io lo ammetto!» precisò, alzando nuovamente la voce. «E poi, non hai appena finito di dirmi che ognuno deve pensare alle proprie colpe? Perché, adesso che tu dovresti davvero farlo, ti ostini a puntare il dito contro di me?» lo provocò, usando le sue stesse motivazioni. Non gli avrebbe permesso di fuggire.
Harry la osservò senza articolare nemmeno una misera sillaba, con le labbra ben decise a rimanere serrate: allungò una mano nella tasca dei pantaloni e ne tirò fuori il solito contenitore in metallo - che talvolta sostituiva un pacchetto cartaceo - dal quale recuperò una sigaretta, fabbricata da sé. La accese lentamente, inspirando a fondo.
Lei aspettò ancora insopportabili secondi, ma quando comprese che non avrebbe ricevuto alcuna risposta, l'onda di delusione la colpì troppo duramente: si ritrovò a rabbrividire e a respirare con più fatica, mentre gli occhi bruciavano per lo sforzo di trattenere una sensazione più incerta e subdola, che sapeva di paura.
Si voltò di scatto e si allontanò a passi svelti, senza curarsi di ipotizzare una reazione da parte di Harry e senza aspettarsela. Non se ne stava andando, aveva solo bisogno di tempo e spazio per negare a degli occhi immeritevoli una debolezza tanto improvvisa. Si fermò a qualche metro di distanza, con le braccia incrociate al petto per consolarsi da sola, e fuggevoli lacrime a rigarle il volto: non sapeva perché avesse avuto una reazione tanto intensa, ma sapeva che la base sulla quale si poneva poteva essere anche più crudele.

Harry la raggiunse dopo diversi minuti, senza far troppo rumore: la affiancò in silenzio, mentre lei sfuggiva al suo sguardo voltando il viso nella direzione opposta. Doveva aver terminato la sigaretta - o forse ne aveva fumate più di una - perché non c'era un forte odore di fumo, ma solo una vaga fragranza, simile a quella che spesso gli imbrattava i vestiti.
Mosse una mano con cautela sfiorandole un braccio, mentre lei si scostava bruscamente, quasi ne fosse appena stata ferita. Era infuriata con se stessa, con l'incapacità di darsi un contegno, ed il fatto di dover sottostare alla sua indole indagatrice la irritava ancora di più.
Harry non si arrese. Con le dita leggere le percorse la spalla, fino ad arrivare al suo collo e alla guancia sinistra, coperta da ciocche di capelli indisciplinati: li scostò piano, forse temendo un altro rifiuto, e le sfiorò la pelle ancora umida.
Emma percepì l'esitazione e lo stupore nel tocco dei suoi polpastrelli, quindi si affrettò a passare la manica della giacca sulla propria guancia, in modo da eliminare ogni traccia di vergogna. Continuava a non guardarlo.
«Non serve a niente piangere», esclamò lui, con un tono di voce più vellutato, ma comunque troppo duro per fungere da rassicurazione. Non si sentiva ridicolo a pronunciare parole simili, quando solo poco prima si era rifiutato di compiere quell'unico sforzo che sarebbe davvero servito a qualcosa?
Emma trattenne un sospiro e si morse con forza il labbro inferiore.
Lui tentò di attirare la sua attenzione, spostandole il mento nella sua direzione, ma lei si ritrasse con più energie.
«Stiamo solo discutendo», provò ancora, forse stupido da una tale ed improvvisa falla nella sua armatura da guerriera.
Nessuna reazione.
«Emma», la richiamò, con più autorità.
Lei si voltò finalmente nella sua direzione, ma con movimenti così tesi e nervosi da farlo sobbalzare. Le sue iridi gli stavano rovesciando addosso più cose di quelle concesse, ma non c'era modo di arrestarle.
Harry corrugò la fronte, spaesato da un tale rancore, e subito dopo indossò una maschera di durezza per difendersi. «Che ti prende?» le chiese, con poca delicatezza.
Questo fu sufficiente a sbloccare gli istinti di Emma, a liberarla dai limiti che si stava imponendo e dai sigilli che aveva imposto alle proprie parole. Si sentì in grado di reagire, di attaccare.
Anche se, contro ogni sua previsione, ciò che ottenne fu solo una patetica ammissione.
«Tu mi spaventi!» gridò, indietreggiando di un passo e trattenendo il respiro.
Lui fece lo stesso, assumendo un'espressione confusa e cauta al tempo stesso.
«Cosa?» domandò fioco.
Emma si pentì di aver utilizzato un tono tanto misero, ai propri occhi: avrebbe preferito non risultare così fragile, ma ormai poteva solo sperare che Harry comprendesse finalmente ciò di cui si stava realmente parlando.
Distolse lo sguardo e si torturò una guancia, tirando su con il naso.
«Non stiamo solo discutendo. Stiamo discutendo di nuovo, per l'ennesima volta», esordì, controllando la propria voce per renderla più decisa e tornando a scrutarlo in viso. «Ed io non voglio rischiare ancora di... Ora come ora non sono in grado di rischiare che non funzioni». Non poteva permettersi un ulteriore sfregio alla propria resistenza, non dopo quello subito con Miles: non aveva le forze per affrontarlo. Doveva avere qualcosa di cui fidarsi, qualcosa che le assicurasse una reale possibilità.
Harry rifletté su quelle parole, o forse si limitò a ripeterle nella propria mente, perché non commentò in alcun modo. Emma colse l'occasione per continuare.
«Quindi sì, tu mi spaventi, perché litighiamo sempre per gli stessi motivi, perché ci facciamo male sempre nello stesso modo. Ma nonostante questo le cose non cambiano, non importa quanto io mi sforzi. E parlo di me, perché quando ti chiedo di ammettere un tuo errore e tu stai zitto, dimostri soltanto di non voler fare uno sforzo in più per noi, o di non poterlo fare. Ed in entrambi i casi la conclusione è una sola, ovvero che finirà di nuovo uno schifo!»
Non c'erano più lacrime a bagnarle il viso, ma le tremavano le mani.
«Questa possibilità mi terrorizza», riprese, abbassando lo sguardo per un solo istante. «Ma mi terrorizza ancora di più il fatto di non riuscire a mettere fine a tutto questo, nemmeno fosse una condanna».
Era la verità: nonostante tutto il male che lei ed Harry erano in grado di procurarsi, nonostante i difetti che erano in grado di accentuarsi a vicenda, lei non riusciva a distaccarsi definitivamente, né riusciva a scovare la volontà di farlo. Si sentiva costretta a restare impigliata in una prospettiva che non aveva nulla di rassicurante e che probabilmente non avrebbe avuto un lieto fine, senza avere le forze per agire e crearsi un proprio destino. Sapeva di andare incontro a qualcosa di spiacevole, ma non aveva il coraggio di allontanare la possibilità, per paura di escludere anche quella opposta.
Harry si avvicinò di un passo, stupendola, e si inumidì le labbra come per prepararsi a parlare. Allungò nuovamente le dita verso il suo viso, ma chiuse la mano in un pugno nell'abbandonare l'intento.
«Prima non ho risposto solo per... Orgoglio, immagino», confessò, con l'intento di rassicurarla: i suoi lineamenti contriti manifestavano la difficoltà d'espressione. Emma l'avrebbe ascoltato fino alla fine, con la speranza ad attanagliarle lo stomaco.
«Io non sono così», continuò lui, stavolta con una punta di disprezzo nella voce. Disprezzo per se stesso. «Non è da me reagire come un bambino infastidito, urlare come una prima donna. Voglio dire, è da me, ma tu... Tu peggiori tutto: qualsiasi mia reazione, qualsiasi mio pensiero».
Emma ricordò all'improvviso ciò che le era stato detto la sera della mostra, quando Harry aveva ammesso di comportarsi in un certo modo solo quando lei era presente: sul momento l'aveva interpretata come un'accusa e si era sentita una vittima, ma a distanza di tempo e alla luce dei nuovi significati scaturenti dalle sue labbra, poteva vedere tutto in un'altra prospettiva.
«Tiri fuori il meglio di me in certe occasioni, lo facevi anche sei anni fa», ricominciò lui. Le iridi a testimoniare la sua sincerità. «Ma tiri fuori anche il peggio. Così, quando mi fai incazzare - e succede spesso - io perdo il controllo: qualsiasi cosa tu faccia o dica, ai miei occhi si ingigantisce ed io agisco di conseguenza. E mi faccio schifo da solo certe volte, perché in effetti potrei comportarmi diversamente, eppure non riesco a fare altrimenti. Ma sai una cosa? Non fa niente, perché a me piace. Mi piace poter essere me stesso, mi piace come tu riesca a togliermi qualsiasi inibizione, anche se poi finiamo per litigare, perché mi fai vivere le cose cento volte più intensamente. E ne vale la pena».
La sua voce si era fatta più morbida, così come molli si erano fatte le gambe di Emma, malferme per l'emozione. Non erano le parole più romantiche che le fossero mai state rivolte, ma conservavano un tale significato da essere migliori di qualsiasi dichiarazione avesse mai potuto desiderare: essere in grado di plasmare Harry e tutto ciò che rappresentava, era un potere che stuzzicava la consapevolezza di Emma e la propria vanità, aizzandola ad alimentare a sua volta emozioni, sensazioni e sentimenti ben più importanti. Harry aveva abbassato le proprie difese e le aveva concesso di scoprire la propria arrendevolezza, permettendole di valutare quanto fosse simile alla propria.
Con il cuore scosso, tentò di non lasciarsi guidare dalla sola emotività. «Ma che senso ha vivere le cose così intensamente, se per poco tempo?» domandò infatti, con una certa amarezza sulle labbra. «Io voglio costruire qualcosa, Harry, e voglio che sia qualcosa di promettente, in grado di durare e resistere», ammise, sentendosi una bambina alle prese con sogni fiabeschi. «E se lo vuoi anche tu... Dobbiamo lavorarci su e dobbiamo sforzarci di cambiare alcune cose, anche se ci viene naturale comportarci in un certo modo, anche se io tiro fuori il peggio di te e tu mi rendi isterica nel novanta per cento delle volte che ci vediamo».
Harry si fece ancora più vicino, fino a respirarle sul volto e ad accarezzarle il collo con entrambe le mani fredde. Appoggiò la fronte alla sua e forse sperò di poter parlare solo tramite i gesti: entrambi sembravano esausti per la chiarezza alla quale si erano costretti negli ultimi minuti, per lo scontro privo di difese che stavano affrontando, per le possibilità che si srotolavano dinanzi a loro senza alcun consiglio.
«Pensavo che stessimo già costruendo qualcosa», sussurrò, facendole mancare il respiro e costringendola a cibarsi del suo. Pronunciò quelle parole con un tale calore da farle dubitare di qualsiasi remora l'avesse mai preoccupata.
Emma si leccò le labbra involontariamente, rilassandosi sotto il suo tocco. «Sì, ma non stiamo facendo un buon lavoro», commentò piano: troppo concentrati sull'accusarsi l'un l'altro - lei per prima - rischiavano di rovinare qualsiasi cosa in cui si stessero impegnando, a modo loro.
«No», mormorò lui, sfiorandole la bocca, «ma è bello lo stesso».
Lei non si ritrasse all'idea di baciarlo, di suggellare in altri termini una verità tanto confortante, quindi lasciò che le labbra di Harry premessero sulle sue: riversò in un respiro tutta la dolcezza esasperata e tutta la tensione frustrata che li stava intrappolando, concedendogli di accarezzarla con la lingua e con le mani.
«Ti va di impegnarci un po' di più?» gli domandò, senza separarsi troppo dalla sua pelle, mentre le proprie mani raggiungevano le sue spalle per stringerle appena. Voleva una rassicurazione, una promessa che potesse incoraggiarla a non avere troppa paura.
Harry sorrise lentamente, baciandole con delicatezza la punta del naso. «Va bene», le soffiò su una guancia, mordendola piano. «Va bene, Emma», ripeté, poggiando le labbra sul suo collo scoperto ed inspirando il suo profumo.
Emma si strinse al suo corpo e serrò le palpebre, sollevata da una nuova prospettiva ed una nuova sicurezza: gli passò le braccia intorno al busto e nascose il viso sul suo petto, beandosi dei movimenti regolari del suo respiro e dei suoni più miti del suo cuore.
«Cercheremo di fare piano, hm?» sussurrò Harry, scostandole i capelli con una mano, in modo da non averli a solleticargli il volto. 
Lei annuì, sorridendo per il paradosso: le sembrava impossibile essere in grado di rallentare, non quando Harry la stava travolgendo senza possibilità di resistenza. E le sembrava divertente che fossero scesi ad un tale compromesso, quando sei anni prima Emma l'avrebbe disprezzato aspramente.
«Ma ho una condizione», aggiunse lui, stupendola. 
«Quale?» gli domandò, calibrando il suo tono serio pur senza escludere l'ipotesi che potesse essere un inganno beffardo. Alzò lo sguardo su di lui, incontrando i suoi occhi.
«Chiamami un'altra volta stupido, idiota o deficiente, e la punizione sarà corporale», esclamò, sciogliendosi in un sorriso provocatorio e malizioso che subito trovò un riflesso sulle labbra di Emma, schiuse dall'ilarità.
Lei si sollevò sulle punte dei piedi e rubò un rapido bacio dalla sua bocca. Harry non le permise di allontanarsi, però, coprendole di nuovo le labbra con le proprie ed approfondendo quel contatto: dapprima con dolcezza, si appropriò di ciò che riteneva un suo diritto con passione sempre maggiore, fino ad avere il respiro corto e le mani insaziabili. Gliele fece scorrere tra i capelli, fino ad incastrarle in deboli nodi creati dalla sua stessa presa.
«Quindi...» le sospirò accanto ad un orecchio, mentre lei gli mordeva leggera la mandibola, «... posso smettere di preoccuparmi di Miles?» continuò, abbassando la voce.
Emma si indispettì appena per quella domanda ai suoi occhi banale e si separò dal suo corpo il necessario per guardarlo negli occhi. Un sopracciglio alzato e le labbra imbronciate: sapeva che Harry fosse difficile da distogliere dalle sue convinzioni, ma sperava che almeno in quel momento potesse metterle a tacere e fidarsi un po' di più.
Lui si accorse dell'ombra di rimprovero sul suo volto. «Sto solo cercando di parlarne da persona matura», le assicurò, assumendo un'espressione più giocosa e continuando ad avvolgere il suo corpo con le braccia.
Lei alzò gli occhi al cielo ed evitò una leggera risata. «Inizio a pensare che tu non avresti dovuto preoccuparti di Miles nemmeno quando stavo con lui», sussurrò, abbassando lo sguardo e torturando tra le mani uno dei bottoni della sua camicia: il torace di Harry era scoperto in una piccola porzione, facendole bramare una carezza. «E tu puoi anche non credermi, adesso, ma è così. Immagino che te ne accorgerai da solo», aggiunse, riportando l'attenzione nelle sue iridi. Si sentiva impacciata nel pronunciare una promessa simile, ma per convincerlo di ciò che provava, ne avrebbe pagato il prezzo.
«Lo spero», rispose Harry, senza nascondere un vago turbamento. «Lo spero davvero», ripeté, avvicinandosi nuovamente al suo viso e permettendole di saggiare un ennesimo bacio. La sua voce si premurò di lasciar trasparire una certa tensione: le sue parole si erano macchiate di amarezza, non dovuta ad una visione romantica del loro rapporto, quanto più alla riluttante speranza di avere ragione, di escludere una qualsiasi delusione alla quale l'azzeramento delle sue premure lasciava spazio. Aveva deciso di rischiare e di accettare la sfida, ma la sua fierezza si era apertamente dichiarata contraria.
«Non dire più che non ti importa se vado a letto con qualcuno», mormorò Emma dopo pochi istanti, vagamente risentita: nonostante sapesse che quelle parole erano state dettate da un istinto vendicativo, l'avevano irritata sensibilmente.
Harry la strinse un po' di più.
«No».



Un nuovo messaggio: ore 18.02
Da: Harry (il più bello)

"Domani sera hai da fare?"

Emma rilesse il messaggio un paio di volte, curiosa della prospettiva, e rilesse il mittente il doppio delle volte, ridendo spensieratamente sui libri dell'università.

Messaggio inviato: ore 18.11
A: Harry (il più bello)

"No, perché? (quando hai avuto il tempo di cambiare il tuo nome nella MIA rubrica?)

Un nuovo messaggio: ore 18.13
Da: Harry

"Ti passo a prendere alle 8 pm, andiamo a cena fuori (forse eri troppo distratta ad ammirarmi e non te ne sei accorta)"

L'idea di una serata in sua compagnia, come da diverso tempo non accadeva - anni, letteralmente -, la agitava non poco: l'impazienza aveva già iniziato a pervaderle ogni centimetro del corpo, insieme alla placida sensazione di un nuovo inizio.
Si chiese se Harry non le avesse accennato dei programmi nelle ore che avevano trascorso insieme quello stesso pomeriggio per imbarazzo, o se ci avesse pensato solo successivamente.

Messaggio inviato: ore 18.15
A: Harry

"Cena fuori al McDonald's o...? Insomma, come devo vestirmi? (idiota)

Un nuovo messaggio: ore 18.16
Da: Harry

"Forse finirò per pentirmene, ma vestiti elegante (punizione in arrivo, tranquilla)"

Emma si strinse il telefono al petto, divertita dai loro messaggi spensierati e allegri: cercava di immaginare Harry che l'attendeva fuori casa, con indosso un completo serio ed elegante, magari contraddistinto da vizi personali, come il colletto della camicia sbottonato. E non le importava di doversi aspettare una punizione, perché tutto il resto l'avrebbe compensata e perché, di questo era quasi certa, poteva indovinare che non fosse una procedura spiacevole, quanto più un semplice dispetto di lascivia.





 


Buongiorno!
Sì, sono piuttosto in anticipo: il capitolo era pronto già da qualche giorno e a causa degli esami all'università ho dovuto aggiornare oggi, per organizzarmi meglio.
Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto, perché è piuttosto significativo: come sempre, qualsiasi cosa non sia chiara o non vi convinca, non esitate a parlarmene.
Solito commentino:
Harry, senza sapere dell'incontro tra Miles ed Emma, la cerca di sua spontanea volontà, evidentemente non soddisfatto dal modo in cui si sono lasciati il pomeriggio prima: hanno di nuovo una discussione ed Emma cerca di rimediare a quello che ha riconosciuto come un proprio errore (entrambi non ragionano più quando iniziano a discutere, ahimé) e spera che sia una dimostrazione sufficiente a convincerlo che Miles non è una minaccia (Harry ha tutte le ragioni del mondo per dubitare delle sue rassicurazioni, dato che lei stessa ammette la loro similitudine a quelle che dava a Miles: però , per quanto Emma sia sicura della loro sincerità, fino ad ora non ha avuto un modo concreto di dimostrarle).
Molte di voi si sono chieste, in base allo spoiler, cosa fosse mai successo per spingere Emma a piangere: niente di eclatante, come avete visto. Semplice e crudele paura, di quelle un po' infantili che abbiamo tutte, ma aggravata da esperienze che segnano: Emma sta rischiando molto nello stare con Harry, cosa che aveva già detto prima del loro primo bacio, e le loro continue discussioni - sempre uguali - la terrorizzano, perché segnano una grande difficoltà ad andare avanti. Dopo la batosta di Miles, proprio non ce la fa a sopportare altro e ha paura che con Harry possa finire di nuovo male, nonostante lei stessa non riesca ad allontanarsi. Quiiiiindi, lui smette di fare il coglione orgoglioso ed arrivano ad un compromesso: diciamo che cercano di ricominciare, di impegnarsi davvero per fare qualcosa del loro rapporto.
Harry le chiede un appuntamento, che descriverò nel prossimo capitolo: vi anticipo che sarà... Intenso :)
Piccola parentesi: si ritorna a ciò che Harry aveva già detto alla mostra, durante l'ennesimo litigio. Lui semplicemente sbotta quando si tratta di Emma: tutti i suoi difetti si amplificano, così come i suoi istinti un po' orgogliosi e un po' stronzi. Spero sia chiaro il suo ragionamento, il fatto che a lui questo piaccia: in fondo non capita spesso di essere dei coglioni e di sentirsi comunque giusti, al fianco di qualcuno, né di poter essere se stessi completamente, anche nel peggio.
Scusate per il solito poema, ma ci tengo a chiarire qualsiasi cosa nella narrazione si sia persa per strada. Spero mi farete sapere le vostre impressioni!!
E grazie infinite per tutto, come sempre: allo scorso capitolo ho ricevuto recensioni che mi hanno fatto sorridere molto e vi ringrazio per questo :)
(Risponderò alle recensioni stasera, perché sono piuttosto impegnata!)

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
   
  

 

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Capitolo 22
*** Capitolo ventidue - Yes ***




 

Capitolo ventidue - Yes

 

Harry le aveva già inviato un messaggio con scritto di uscire di casa, ma Emma si stava ancora guardando allo specchio: non era in panico, quasi. Sconcertata dalla propria insicurezza, il peso di quell'appuntamento la stava facendo sprofondare in un moto di insoddisfazione.
I capelli raccolti con forcine fastidiose sulla spalla sinistra, mossi e poco voluminosi, le sembrarono all'improvviso solo disordinati. L'eyeliner nero la ingannava divertendosi a risultare asimmetrico, sui due occhi brillanti e contornati da un ombretto chiaro quasi quanto la sua pelle. L'abito color panna, dalle maniche a tre quarti e ricoperto da fantasie in pizzo, tutto ad un tratto le evidenziò qualsiasi difetto fisico lei potesse elencare, mentre l'ampia scollatura sulla sua schiena nuda le appariva volgare, più che elegante. Le decolleté in velluto nero non erano più tanto comode, ma solo una trappola mortale.
«Un disastro», mormorò, afferrando la pochette dal letto disfatto ed ignorando la suoneria del proprio cellulare. Abbassò le palpebre e respirò profondamente, come se avesse dovuto prepararsi ad una prolungata apnea: sapeva di non avere nulla da temere, di aver ricontrollato ogni particolare decine di volte, prima di scegliere quello adatto, e di aver raggiunto un risultato invidiabile, ma il solo pensiero che Harry l'avrebbe guardata camminare verso di sé, carico di aspettativa e magari di brama, la disorientava: un'assurdità, se si teneva conto dell'innata vanità e sicurezza di Emma Clarke.
Constance e Ron erano sdraiati sul divano, in attesa di cenare: sapevano che la figlia stesse per uscire, ma non sapevano con chi o in che termini. Così, la prima la osservava con sfacciata curiosità, sorridendo cauta e maliziosa. Il secondo, invece, la scrutava con sospetto e minaccia, quasi a volerla mettere in guardia nonostante i suoi ventidue anni.
Emma indossò il cappotto beige e si inumidì le labbra dipinte di un rosso accesso, in un vago richiamo alle lentiggini poco visibili: ormai qualche minuto in ritardo, salutò flebilmente i genitori ed uscì di casa.

Harry la stava aspettando in macchina e lei poteva già immaginare il cipiglio sul suo volto, dovuto all'impazienza e all'attesa - forse snervante come la sua. Camminò lentamente verso il cancelletto d'entrata, sempre più confidente nel proprio aspetto e fiduciosa nello svolgersi della serata.
Quando aprì lo sportello udì una canzone proveniente a basso volume dall'autoradio: prese posto sul sedile e si schiarì la voce, voltandosi lentamente e con finta indifferenza verso di lui.
Harry aveva una mano abbandonata mollemente sul volante, che subito si chiuse con nervosismo intorno ad esso, e le iridi ferme su di lei: in silenzio, stava percorrendo ogni tratto del suo volto, senza accorgersi delle labbra che si schiudevano spontaneamente, e poi ogni curva del suo corpo forse troppo coperto, a giudicare dall'espressione indispettita che per un brevissimo istante si trovò ad assumere.
Emma si sentì subito soddisfatta, desiderata, e sorrise apertamente. «Ciao», lo salutò con semplicità: non credeva che avrebbe ricevuto un complimento verbale, ma aveva a disposizione altri indizi per compensare quella lieve mancanza.
Harry alzò un sopracciglio e la guardò negli occhi. «Quanto volevi farti aspettare?» la rimproverò a bassa voce, mettendo in moto l'auto e leccandosi le labbra, per poi morderle appena. Lo conosceva abbastanza bene, ormai, da capire facilmente quali suoi comportamenti fossero duri per natura e quali invece una mera copertura per emozioni da nascondere.
Si sporse verso di lui, prima che ingranasse la marcia, e gli baciò un angolo della bocca. «Scusa», esclamò in tono infantile, divertendosi a stimolare delle reazioni nella sua maschera impassibile.
Harry fece schioccare la lingua sul palato, si voltò nella sua direzione ed assottigliò gli occhi. «Mi stai provocando?» le chiese, senza però aver bisogno di una reale risposta. Lo sguardo che si posava per un fuggevole attimo sulle sue gambe coperte dai collant.
«No», si difese lei, assumendo un'aria da piccola innocente che non lo convinse affatto: non riusciva a capire cosa indossasse, oltre il cappotto nero che più volte gli aveva visto addosso, e la curiosità la stava divorando.
Lui annuì piano, sospettoso, ed uscì dal parcheggio.

Non avevano sprecato parole, durante il tragitto, ma si erano guardati molto: Emma si sentiva logorare da quelle iridi maliziose, in qualche modo inquiete ed infastidite dalla presenza di uno strato di vestiti  di troppo. La comune ansia provata nei viaggi in automobile era stata completamente sovvertita dal gioco di osservazione al quale entrambi si ostinavano a partecipare: forse scomodi nell'alba di una sfumatura diversa del loro rapporto, forse eccitati dal profumo l'uno dell'altra, forse agitati come due adolescenti.
Il Des Artistes era un ristorante aperto da poco, con una facciata nuova di restauro collocata nella periferia di Bradford: Emma non ci era mai stata, ma era deliziata dalla prima impressione a riguardo. Il parcheggio non era molto grande, a rispecchiare la clientela ristretta ma non per questo immeritevole, e l'intera struttura dell'edificio - di un piano solo - alternava elementi in cemento chiaro ed in legno, con decorazioni floreali ad ogni finestra ampia.
Dopo aver posteggiato l'auto, mentre Harry si slacciava la cintura e toglieva l'autoradio, Emma si ritrovò ad imprecare contro se stessa. Sollevando la pochette dalle proprie gambe, scorse un lungo graffio nei collant comprati il giorno stesso per l'occasione: scosse la testa e sbuffò, ricordandosi di non averne portato un paio di riserva e di non poter uscire in quel modo, dato che il danno era evidente e ben esposto.
«Qualcosa non va?» le chiese Harry, più per fretta che per reale preoccupazione.
«Mi si sono rotte le calze», brontolò lei, passando le dita sul primo - e magari ultimo - inconveniente della serata.
Lui si accertò delle sue parole, soffermandosi più del dovuto su quello screzio di nylon. «Quindi?» le domandò a bassa voce, provocandola.
Emma sospirò. «Quindi scendi, ed io me le tolgo», propose: non che provasse alcun senso di pudore in sua compagnia, ma ci teneva a stuzzicarlo e a mantenere una certa immagine di sé.
Harry le offrì un sorriso sghembo, poi si inumidì le labbra lentamente e la osservò con una vaga malizia negli occhi, che le fece desiderare di rimangiarsi ogni parola appena pronunciata e di lasciarsi scrutare ancora un po', in ciascun movimento che avrebbe compiuto. Quando lui abbandonò l'abitacolo, lasciandola sola, il ritorno brusco alla realtà e l'allontanamento di pensieri asfissianti la fecero arrossire impercettibilmente.
«Datti una regolata, stupida», si rimproverò da sola, incredula dinanzi alla propria impazienza di uno sguardo lascivo e di un contatto altrettanto carico di attesa. Non capiva perché proprio in quelle circostanze si sentisse tanto accaldata, quando già diverse volte in precedenza le loro mani avevano varcato la soglia dell'innocenza. 
Controllando che Harry non si voltasse a spiare - o forse il contrario - si sfilò i collant con una certa difficoltà, a causa dei limiti nella disposizione di spazio, e si sistemò il vestito in modo da coprirsi a dovere. Inspirò a fondo e lo raggiunse al di fuori dell'automobile.
«Tutto il resto è intatto?» le domandò subito, chiudendo a chiave le portiere e mostrandosi più chiaramente alla luce dei lampioni. Aveva i capelli sciolti, forse ancora umidi di doccia o di qualche prodotto usato per ammaestrarli: il viso pulito e riposato era reso più vivo dalla lucentezza delle sue iridi.
«Sì», rispose Emma, sorridendo appena nel cogliere le sue reali intenzioni, mentre si incamminava verso l'entrata del ristorante.
«Peccato», mormorò lui lentamente, avvicinando le labbra al suo orecchio ma senza toccarlo: una mano a sfiorarle la schiena, a farla rabbrividire.

L'interno del locale era avvolto da un'illuminazione calda, fioca, proveniente da grossi lampadari in stile orientale che pendevano dal soffitto alto e costituito da travi in legno. Dello stesso materiale erano fabbricati i tavoli rettangolari e coperti da semplici tovaglie bianche, dagli angoli ricamati elegantemente: la sala principale non era molto affollata, né rumorosa, ed il profumo di incenso si confondeva a quello di pietanze invitanti.
«Wow», sussurrò Emma, sinceramente stupita da una tale atmosfera: quando le era stato proposto di andare a cena fuori, si era aspettata davvero di tutto, ma non tanto. Si pentì immediatamente di aver ipotizzato un salto al McDonald's.
Harry non rispose a quell'apprezzamento, impegnato ad annunciare il proprio arrivo ad uno dei composti camerieri accanto al bancone: questo li accolse con un lieve inchino e li guidò in rispettoso silenzio verso un tavolo per due, in una delle minute sale secondarie e davanti ad una delle grandi finestre, che dava sul giardino nel retro del ristorante.
«Come hai trovato questo posto?» chiese Emma, continuando ad osservare ogni particolare dell'ambiente e sfilandosi il cappotto: le tinte delle pareti erano più calde rispetto a quelle dell'entrata, e c'era solo un altro gruppo di clienti a sporcare la loro intimità.
Notando il silenzio che seguì la sua domanda, tornò con lo sguardo su Harry e mancò un respiro: non la stava osservando, sarebbe stato riduttivo definire così quell'analisi mista a bramosia alla quale i suoi occhi la stavano sottoponendo. Forse avevano sopportato troppo a lungo la presenza di quel pesante cappotto, perché il sollievo e lo stupore che manifestarono nel posarsi sul suo abito le provocarono una piacevole fitta al petto.
Nonostante il desiderio di non interrompere quel momento, decise che fosse più soddisfacente riconoscerlo. «Harry?» lo chiamò, quasi in un sussurro. L'espressione divertita, consapevole.
«Hm?» si riscosse lui, per poi accorgersi della situazione e distogliere lo sguardo improvvisamente più fiero. «Ah, ci sono stato qualche settimana fa», spiegò con noncuranza, sedendosi frettolosamente. Anche Emma dovette resistere alla tentazione di spiarlo più a lungo, perché le piaceva il modo in cui i pantaloni neri ed eleganti gli accarezzavano le gambe, così come la giacca sbottonata creava un brusco contrasto con la camicia bianca, ben stirata. Il tessuto sottile lasciava trasparire alcuni tratti dei tatuaggi sul suo petto.
«È molto bello», affermò quindi, cercando di distrarsi, mentre prendeva posto di fronte a lui: sul tavolo, due sottili menù aspettavano di essere sfogliati e dei bicchieri lucenti aspettavano di essere riempiti da un vino incoraggiante.
«Lo so», rispose Harry, sciogliendosi in un sorriso più rilassato e beffardo come al solito.
Emma alzò gli occhi al cielo per la sua presunzione ed appoggiò gli avambracci sul tavolo, concentrandosi per un istante sulla composizione costituita da un tovagliolo in stoffa, appoggiata sul proprio piatto. «Anche tu sei agitato?» domandò cauta, senza curarsi di tener per sé quell'impressione: non poteva negare di non sentirsi irrequieta, vittima di un fremito in parte inspiegabile, ed era sicura che nemmeno i propri gesti potessero farlo.
Harry alzò lo sguardo dal menù che aveva iniziato a sfogliare. «Al pensiero di quanto spenderò alla fine della serata? Sì, un po'», ammise, stringendosi nelle spalle.
La fece ridere, forse intenzionalmente. «Ah, quindi paghi tu?» lo stuzzicò lei: in realtà, fino a quel momento non era stata sicura di quel piccolo ma significativo particolare. Non che non confidasse nelle buone maniere di Harry, ma... Be', aveva imparato ad aspettarsi di tutto dai suoi modi a volte bruschi e poco galanti: bastava pensare a quante volte l'aveva lasciata a piedi all'altro capo della città.
«Sei sempre in tempo a dissuadermi», le ricordò, vivace.
Lei scosse il capo, arricciando il naso. «No, credo che approfitterò della gentilezza».
Lo scambio di battute si concluse con due larghi sorrisi, senza che la domanda di Emma ricevesse una risposta concreta.

«Harry?»
La bocca di Emma si distorse in una smorfia di disgusto, masticando lentamente il boccone quasi intatto.
Lui la osservò stupito, sbattendo le palpebre. «Che c'è?» indagò, quasi divertito dalla vista che gli si prospettava: dal modo in cui il suo piatto si stava svuotando velocemente, era facile pensare che la pietanza ordinata a base di pesce lo avesse conquistato.
«Non mi piace», sussurrò lei, sperando di non farsi sentire dagli altri clienti, sempre più numerosi. «Non mi piace per niente», ripeté, scuotendo il capo e deglutendo a fatica. Fino ad allora - ovvero dopo due antipasti ed altrettanti primi - la cena si era rivelata squisita, ma Emma non poteva dire lo stesso per il secondo che le era stato preparato e che lei stessa aveva scelto: ricordava solo che si trattava di filetto e che c'era del tartufo, anche se non poteva dire quale formaggio condisse il tutto, insieme ad una salsa dal sapore acre.
«Non lo mangiare», le propose Harry con praticità, riempendole il bicchiere di vino e suggerendole di berne un sorso per sovrastare il disgusto.
«Ma mi dispiace avanzarlo: non l'ho praticamente toccato», mormorò: oltre che per lo chef, le dispiaceva per il portafoglio che avrebbe pagato i suoi gusti strampalati, ma questo non lo disse.
«Il cameriere non si offenderà», le fece presente.
«Tu non lo vuoi?»
«Ho già il mio».
«Sicuro?»
«Mi hai confuso con tuo padre?» la prese in giro, riferendosi a lei come se fosse stata una bambina capricciosa.
Emma sospirò e spinse un po' più avanti il piatto. «E va bene», acconsentì.
«Vuoi farti portare qualcos'altro?»
Con lo scorrere del tempo, la tensione tra loro si era allentata ed i modi di Harry si erano rivelati più posati di quanto non si fosse aspettata: sembrava si stesse impegnando per regalarle una serata quantomeno piacevole, accontentandola in piccoli gesti che probabilmente qualunque ragazza avrebbe apprezzato. «No, grazie», gli rispose gentile.
«Fa così schifo?» le domandò subito dopo, corrugando la fronte e bevendo un po' di vino. «Fammi assaggiare».
Emma tagliò un angolo di filetto e lo intinse nella salsa raccolta a lato, poi allungò la forchetta verso Harry ed aspettò che lui addentasse il piccolo assaggio. Non si fece distrarre dal movimento lento delle sue labbra, né dalla sua aria attenta.
«Non è male», concluse, pulendosi la bocca con il tovagliolo: lei gli rivolse un'altra espressione di ribrezzo, alla quale rispose con un sospiro. «Vuoi fare cambio?»
Il suo secondo aveva di certo un profumo più invitante, doveva ammetterlo. «Lo faresti?» domandò, sorridendo in modo infantile.
Harry sbuffò: prese il proprio piatto e lo sostituì con quello di Emma. «Pago io, mi assicuro che tu mangi tutto... Devi davvero avermi preso per tuo padre», insistette.
«Mio padre non mi avrebbe mai ceduto un secondo di pesce», precisò, accavallando le gambe sotto al tavolo. «E di certo non mi guarda come fai tu», continuò, più sottile nei modi di fare e di accarezzare le parole.
Lui la osservò serio, forse per valutare come ribattere. «Te l'ho ceduto solo per pietà», disse soltanto, concentrandosi sulla nuova pietanza ed evitando volutamente di commentare l'altra sua affermazione. Non riusciva a farlo sbottonare, a farlo cedere: i suoi occhi parlavano chiaro ogni volta che si soffermavano su di lei, ma quando i discorsi si facevano più personali e lui sembrava sul punto di darle una soddisfazione, la delusione tornava a stuzzicarla.
Talvolta si chiudeva talmente tanto in se stesso, da risultare imbronciato: in un certo senso le ricordava un'altra occasione nella quale la sua tensione l'aveva incuriosita e spinta ad insistere, in modo da infrangere qualsiasi freno si stesse imponendo. 
La notte del ballo di primavera, sei anni prima, nel salotto di casa sua: la voglia di toccarla che gli paralizzava ogni intenzione.
Emma sospirò appena, immersa nei pensieri ed in ricordi inopportuni, che rischiavano di torturarla più del dovuto: si sistemò i capelli e addentò un gamberetto. Masticando senza fretta, per godersi un sapore finalmente apprezzato, riportò lo sguardo sul viso che aveva di fronte: scoprì Harry ad osservarla, come ormai si premurava di fare da quando l'aveva vista uscire di casa.
«A cosa stai pensando?» gli domandò lei, dopo aver deglutito: la sua aria assorta era una tentazione irresistibile per la propria curiosità, soprattutto se poteva avere lei al suo centro.
Harry si mosse lentamente, affascinandola con ogni più piccolo gesto: si leccò le labbra e lasciò le posate nel piatto, pulendosi nuovamente la bocca con il tovagliolo che teneva sulle gambe. «Devo solo sopravvivere a questa cena», rispose: la voce calda e bassa che sapeva di promessa.
«In che senso?» indagò, incantata dal suo sguardo.
Lui alzò un angolo della bocca nell'accenno di un sorriso. «Vuoi davvero sapere a cosa sto pensando?»
Emma annuì.
«Sto pensando al tuo corpo», proseguì in un sussurro fermo, provocante. Lei capitolò prima ancora che la sua mente si appropriasse di quella confessione, e la tensione la irrigidì fino a darle l'impressione di potersi spezzare da un momento all'altro. «A cosa vorrei vedere. A cosa vorrei fare».
Emma si mosse involontariamente, serrando le gambe e schiudendo le labbra per respirare piano, con un certo sforzo: la consapevolezza di essere oggetto di pensieri poco casti, di pensieri di Harry, le accarezzò il basso ventre e la colpì con più forza di quanta fosse in grado di sopportarne. Cercando di non lasciarsi sfuggire una così patetica impazienza, si congedò per potervi porre un limite.
«Vado... Vado un attimo in bagno», annunciò, schiarendosi la voce non appena la scoprì tremante. Lui non si oppose, ma la osservò mentre si alzava e camminava verso la toilette.

Al fondo di un corridoio, i bagni erano costituiti da due semplici anticamere - una per le donne ed una per gli uomini: Emma entrò senza nemmeno bussare, per poi afferrare con disperazione il bordo del lavandino.
Desiderava Harry. 
Lo desiderava così intensamente ed in modo così totalizzante, da non poter resistere un istante ancora: per tutta la sera era stata tediata da preliminari d'eccezione, da lascivia sottintesa ed incenso sicuramente costituito da afrodisiaci. E quando le parole di Harry erano arrivate alle sue orecchie, semplici come se fossero state scontate e prevedibili, la realizzazione di non riuscire più a controllare la propria libidine l'aveva spinta ad allontanarsi, a fuggire dal suo profumo anche solo per un attimo. Non era riuscita a rispondere a quella provocazione, come in altre occasioni si sarebbe divertita a fare: era semplicemente scappata.
Si guardò allo specchio e sospirò sonoramente: si sarebbe lavata la faccia con dell'acqua gelida, se solo non fosse stata preoccupata di rovinare il trucco. Provava imbarazzo per quella dipartita improvvisa: con che coraggio sarebbe tornata al tavolo, dopo aver mostrato una così ridicola cedevolezza? Con che orgoglio avrebbe dovuto affrontare la crescita del suo ego?
All'improvviso, la porta del bagno si schiuse ed Emma si spaventò, portandosi una mano al petto. Harry entrò con movimenti misurati, forse per cautela o forse per imporsi un limite: sembrava che il suo respiro fosse impercettibilmente più accelerato, da come il suo torace compiva movimenti regolari e a tratti insoddisfatti.
Immobili a poco più di un metro di distanza, entrambi si stavano studiando con attenzione, intenti a scoprire le reciproche intenzioni.
«Perché te ne sei andata?» le domandò Harry, senza alcuna preoccupazione nel tono di voce: conosceva già la risposta, ma era evidente che volesse anche sentirla.
«Esci, torno subito», rispose lei, lasciando il bordo del lavandino per darsi un contegno più credibile.
«No».
Emma si morse un labbro, chiedendosi fin dove sarebbe stata in grado di resistere.
«È per quello che ho detto?» perseverò lui, statuario.
Un predatore che gioca con la sua vittima, sadico e attento.
Lei scosse il capo, deglutendo a fatica.
«È perché tu vuoi lo stesso?» rincarò Harry, come se avesse smesso di credere alle sue risposte e volesse basarsi solo sulle reazioni del suo corpo.
Si sentì in dovere di riscattarsi. «Avevamo deciso di fare con calma», gli ricordò, dando ormai per scontato l'argomento d'interesse: era una scusa insensata, dato che le loro difficoltà erano di tutt'altro tipo e che, anzi, un contatto più intimo avrebbe solo potuto aiutarli. Il punto era che non si sentiva in grado di cedere proprio in quel momento, perché temeva di non riuscire ad uscirne illesa.
«Sì».
Harry chiuse a chiave la porta e fece un passo avanti.
Con calma.
«Siamo nel bagno di un ristorante», tentò ancora, indietreggiando solo per invitarlo ad avvicinarsi ancora. Altra scusa scadente.
«Sì».
Era sempre più vicino e le sue iridi non la abbandonavano nemmeno un istante.
Sicuramente non gli sarebbe sopravvissuta.
«Potrebbe entrare chiunque da un momento all'altro», esalò Emma. Motivazione anche più banale, dato che la porta era ormai bloccata: difatti, la sua voce si era svuotata di qualsiasi enfasi, come arrendendosi a ciò che non poteva e non voleva più respingere.
«Sì», sussurrò ancora Harry, ormai a pochi centimetri dal suo volto, confermando qualcosa che probabilmente non aveva nemmeno ascoltato o, forse, ripetendo sempre la stessa parola nella speranza di sentirla uscire dalle labbra che stava cercando.
Emma inspirò a fondo, per disperato bisogno di ossigeno, e pregò affinché il proprio cuore battesse più silenziosamente e la lasciasse pensare. «Harry», sussurrò infine, mentre sentiva le sue mani sui propri fianchi, avide e tenaci: nonostante l'intenzione, quel semplice nome si era rivelato essere un invito arreso.
Le loro bocche si avvicinarono a tal punto da illudersi di un bacio già avvenuto.
«Sì», disse lui ancora una volta, in un soffio flebile e quasi inudibile.
L'istante successivo, Emma aveva le palpebre serrate e la bocca occupata da labbra familiari, sfacciate ed irruente. Tutta l'aspettativa che entrambi avevano accumulato nell'arco di una serata si riversò in quel contatto, privandoli di qualsiasi accenno di lucidità: si baciarono stanchi di aspettare, impazienti di avere tutto e non solo di più.
Harry le avvolse la vita tra le braccia, premendosela contro e sospirando per il contatto, per la prepotenza delle mani di Emma strette tra i suoi capelli: la fece indietreggiare contro la parete, dove i loro corpi poterono aderire meglio e nell'assaggio di una tortura.
Si toccavano come se temessero di non essere reali, come se servissero le loro dita ed i loro palmi aperti a definire i confini dei loro corpi, come se non avessero molto tempo a disposizione: e tempo non ne avevano davvero, perché il desiderio di possedersi era troppo forte per poter essere dilazionato o messo a tacere. Emma lo sentiva nelle vene, a scorrerle al posto del sangue, e lo sentiva nei muscoli tesi della schiena che stava stringendo a sé, nonostante la camicia le impedisse di sfiorarne la pelle, di graffiarla.
Harry le morse un labbro, provocando in lei un lieve verso di dolore, e si abbassò a baciarle voracemente ogni millimetro del collo, del petto: lo sentì mormorare qualcosa di simile ad un'imprecazione, forse a causa del vestito poco scollato che non gli permetteva di arrivare al suo seno. Le sue mani le percorsero i fianchi più e più volte, senza sapere dove fermarsi.
Emma, invece, non sapeva nemmeno da dove cominciare. Gli accarezzava il volto e si ricordava del suo torace, scosso da respiri ormai spezzati e furenti. Gli sbottonava la camicia, tracciava il suo petto con le dita e poi si ricordava delle sue scapole. In un percorso estenuante di particolari da riconoscere, da riscoprire e da godere, non riusciva a trovare il modo di averlo completamente senza perdere alcun dettaglio. E faceva quasi male.
«Voglio averti qui, adesso», esclamò Harry sulla sua clavicola, con la voce sporca di volgarità, mentre spingeva una gamba tra le sue e la bloccava tra sé e la parete in mattonelle fredde. «Io ti voglio, Emma», ripeté. Lei chiuse gli occhi e abbandonò il capo all'indietro, persa.
«Lo sai, vero?» continuò lui, cercando ora la sua bocca, ora un particolare più attraente, per poi tornare sulle sue labbra. Le stava arrossando a furia di succhiarle, leccarle, morderle.
«Lo senti», aggiunse, premendo di più contro di lei e facendole mancare il fiato. Ed era un riferimento fisico, certo, ma includeva anche ogni istante in cui precedentemente l'aveva sfiorata, ogni parola che l'aveva indebolita per il suo significato, ogni sguardo che l'aveva fatta sentire nuda.
Emma non ebbe tempo di fermarsi a riflettere, né voleva farlo: riusciva solo ad adattarsi alle sue mani, pronta a ricevere tutto ciò che avevano intenzione di offrirle. Non voleva pensare, voleva accertarsi che il corpo di Harry fosse tra le sue braccia: ricordava bene la passione che erano in grado di sperimentare sulla propria pelle, distinta da quella scaturente da chiunque altro e unica nella sua crudele purezza, ed era irreale poterla provare di nuovo, potersene cibare avidamente. 
Nella cecità del suo impeto, provò a sfilargli la giacca, ma la loro posizione glielo impedì: Harry era sordo a qualsiasi movimento che non fosse mirato a toccare lei e lei soltanto, quindi non si curò del suo tentativo, né del tessuto che gli era rimasto incastrato sulle spalle tese. Le afferrò i glutei, invece, e le respirò velocemente accanto all'orecchio: Emma raggiunse il cavallo dei suoi pantaloni ed il solo contatto fece gemere entrambi. Lui per il piacere, lei per il modo in cui riusciva a farlo reagire.
Harry si abbandonò per un solo istante contro il suo corpo, rapito dai suoi movimenti privi di imbarazzo, ma subito dopo si fece ancora più irruento: con le mani tremanti le sollevò l'orlo del vestito, arrotolandolo con decisione sui suoi fianchi, e le accarezzò l'intimità senza delicatezza, con ardore.
Le gambe di Emma cedettero appena, nell'ombra di un piacere tanto atteso, ma lei si aggrappò alle sue spalle e gli ansimò sul collo. I loro movimenti erano scoordinati e rozzi, perché guidati da un istinto ben più ammaliante: si toccavano e lo facevano male, respiravano e non assimilavano sufficiente ossigeno, cercavano di parlare e non avevano voce per farlo.
Quando una delle mani di Harry abbandonò il suo seno, fu tentata di protestare infastidita e lo fece mordendogli il lobo di un orecchio: quello sembrò strattonarsi i pantaloni, forse per sbottonarli, ma lei lo precedette senza smettere di baciarlo. Qualche istante dopo sentì qualcosa cadere a terra, ma la sua attenzione migrò dal portafoglio sul pavimento a ciò che Harry stava tenendo stretto in un palmo: la confezione traslucida di un preservativo la istigò ad accelerare i movimenti sulla sua eccitazione, tanto da fargli serrare la mascella e le palpebre. Lui si abbassò i pantaloni e gli slip, in modo da essere più comodo, e si infilò il preservativo senza aspettare oltre, ma le bloccò le mani quando Emma provò a sfilarsi l'intimo.
Harry le afferrò la coscia destra, marchiandola con le proprie impronte, e la sollevò verso l'esterno, sostenendola sul proprio avambraccio: il palmo della sua mano si schiuse contro la parete ed il suo bacino si avvicinò ancora di più a quello di Emma, in attesa. 
Un cauto bussare alla porta la distrasse, obbligandola a voltarsi nella direzione di provenienza con un sobbalzo di stupore: quasi non si accorse che Harry le aveva già scostato gli slip, ma dovette trattenersi dall'urlare a pieni polmoni quando lo sentì entrare dentro di sé. Una spinta decisa, rapida, incapace di aspettare oltre.
Emma si morse il labbro ed inclinò il capo all'indietro, mentre si abituava alla sensazione di un contatto tanto intimo ed irruento, in grado di sgretolarle le ossa e qualsiasi forza muscolare: si abbandonò nella stretta di Harry, mentre lui gemeva in silenzio.
«È occupato?» domandò una voce al di fuori dell'anticamera, ma senza ricevere alcuna attenzione.
Harry si spinse di nuovo nel suo corpo, con la stessa intensità e con un suono roco bloccato nella gola. Lei si tese e si contrasse intorno alla sua eccitazione, facendogli sbattere un pugno chiuso contro il muro: aveva l'impressione di non poter sopportare oltre, di non poter sostenere il peso di una sensazione così totalizzante. Ne era schiacciata, non riusciva ad espandere i polmoni in modo adeguato.
Dalle sue labbra vibrò un suono simile ad un gemito, acuto ed indiscreto. Harry lo bloccò con una mano, mentre con l'altra si sforzava di sorreggere la sua gamba: le coprì la bocca con il palmo umido e le leccò il collo, sfacciato e delicato al tempo stesso.
Un'altra spinta.
«Piano», le intimò con la voce in frantumi, per poi iniziare a muoversi più velocemente, senza sosta e senza alcuna esitazione. Emma era scossa dalla mancanza di fiato, dalla lussuria irruenta che sentiva conquistarle ogni lembo di pelle e dall'impossibilità di ansimare rumorosamente, costretta a tenere dentro di sé qualsiasi emozione stesse provando.
Ed era assurdo, assurdo che lui le ordinasse qualcosa del genere: doveva essere un dispetto, un modo per torturarla ancora più subdolamente, costringendola al silenzio quando le sue azioni la spronavano a disubbidire. 
La mano di Harry si mosse in modo strascicato fino a posarsi sulla sua guancia, sul suo collo, e lì rimase come per aggrapparsi ad un qualcosa di concreto, mentre la sua fronte si posava stancamente sulla spalla di Emma, incapace di sorreggersi e svuotata di qualsiasi funzione naturale di pensiero. Lei gli strinse le braccia intorno al collo, soffocando innate grida con baci roventi ed instancabili, fin quando i sensi persero il contatto con la realtà e le sue gambe iniziarono a tremare in preda al piacere.
Harry ne sembrò tratte forza e veemenza: velocizzò le proprie spinte mentre il corpo di Emma era ancora intorpidito dall'orgasmo ed impiegò solo pochi istanti per seguirla nello stesso percorso, venendo ancora dentro di lei.
Quei pochi metri quadri si fecero silenziosi, colmi solo dei loro respiri irregolari, profondi perché inefficaci: Emma deglutì a fatica, inumidendosi le labbra per assaporare il ricordo degli ansiti che lui vi aveva lasciato contro. Lo guardò senza osare muoversi, continuando ad accoglierlo e a fremere: i suoi occhi erano torbidi, offuscati dall'irrazionalità, e la veneravano ciecamente. Aveva la pelle sporca di rossetto sbiadito, che testimoniava le innumerevoli carezze di baci che aveva subito.
«C'è qualcuno o no?» domandò ancora la stessa voce femminile, dall'esterno, accompagnando le parole spazientite con un tentativo di aprire la porta.
Harry inclinò le labbra in un sorriso sghembo: indietreggiò lentamente per uscire da lei, baciandola con dolcezza come per compensare quella sottrazione inevitabile. Le permise di abbassare la gamba, percorsa da un vago formicolio dovuto alla posizione, e le accarezzò il viso umido di sudore e respiri troppo vicini. Si lasciò rubare un altro bacio e poi un altro ancora, e per entrambi fu spiacevole dover imporre una distanza tra i loro corpi.
Non appena Harry si allontanò di un passo, sfilandosi il preservativo e gettandolo nel cestino, lei si osservò distrattamente allo specchio: disordinata e con la pelle arrossata da morsi e contatti esigenti, si sentì leggera. Schiarendosi la voce, si voltò a recuperare un paio di fazzoletti di carta dal dispensatore fissato alla parete, per pulirsi quanto più possibile, mentre Harry faceva lo stesso e si rivestiva.
Quando entrambi furono di nuovo in ordine, presentabili, e quando le tracce del loro coinvolgimento furono nascoste sotto l'apparenza, sospirarono con sottile imbarazzo e sollievo. L'uno di fronte all'altra, non sapevano se toccarsi ancora una volta e rischiare di non smettere, o se resistere, per quanto potesse essere difficile.
«Tu hai ancora fame?» le chiese Harry, inumidendosi le labbra ed osservandola attentamente: il suo respiro non era ancora tornato pienamente regolare e rendeva ancora più evidente il reale significato di quella domanda.
Emma scosse il capo, decisa: sapeva a cosa avrebbe portato la propria risposta e non poteva che aspettare le conseguenze in trepidazione.
«Bene», affermò lui con un sorriso, passandosi una mano tra i capelli. «Allora andiamo», continuò, indicando con un cenno la porta alle sue spalle.
Improvvisamente l'idea che qualcuno potesse vederli uscire insieme da quel bagno, con addosso un'aria estremamente sconveniente, la imbarazzò molto: Harry però stava già aprendo la porta, costringendola ad affrontare le proprie premure e a trasformarle in divertimento mal celato.
Una signora di età avanzata, dal portamento elegante e la corporatura tozza, dava l'impressione di essere sul punto di esplodere per l'impazienza e per - evidentemente - l'urgenza dei propri bisogni: scorgendoli in quelle condizioni, il suo viso si tinteggiò di un rosso indignato e le sue labbra si strinsero per l'irritazione.
«Signora», la salutò Harry, rivolgendole un sorriso provocatorio e superandola senza aspettare una risposta: allungò una mano verso Emma e lei l'afferrò, ridendo in silenzio.

.

 





 


HELLO!
Direi di passare subito ai commenti, anche perché ho pochissimo tempo: capitolo interamente dedicato al tanto atteso appuntamento tra Emma ed Harry, che per una volta si concedono di comportarsi come una coppia normale. Non sono affatto sicura che l'effetto ottenuto sia quello che io avevo in mente, ma giuro che avevo un programma hahaha Come avrete notato, per quasi tutto il capitolo non succede... niente. Battutine, sguardi, forse a volte si è caduti persino nella noia: ma l'ho fatto di proposito, sia perché a volte accade proprio così - senza grandissimi avvenimenti - sia perché volevo sottolineare la loro calma. Harry era eccessivamente composto , Emma molto tesa: lui stava solo pensando a quanto fosse eccitato - senza troppi giri di parole - e lei ci macinava sopra. INSOMMA, tutto sfocia nella scena del bagno: niente (seconda) prima volta romantica. Ho preferito farli avvicinare così, tesi ed impazienti, incapaci di aspettare di uscire dal ristorante.
Gli scrupoli di Emma non riguardano affatto problemi di incertezza e bla bla bla, ma solo la paura di non riuscire a contenere tutto quello che avrebbe provato (spero di esser stata chiara, non saprei come altro spiegarlo): difatti, a lui poco importa hahaha Si erano ripromessi di fare piano (ammetto che il "piano" che le impone Harry era anche un parallelismo con la promessa dello scorso capitolo :)), ma non era di questo che parlavano: forse è l'unica cosa in cui non ci sono mai problemi, tra loro ahhaha
Il "sì" finale era per riprendere il comportamento di Harry, per sottolineare il definitivo abbandono di Emma (e di nuovo, un parallelismo al capitolo del ballo di primavera in LG: non so se qualcuno ricorda, ma lui le aveva chiesto di tornare a casa sua e lei aveva risposto "sì": effettivamente, nel prossimo capitolo andranno a casa di Harry......).
E quiiiiiiindi, spero che il capitolo vi sia piaciuto: io ho i miei soliti dubbi (scrivere di loro in questi termini è stata una liberazione, ma anche un parto), ma confido che sarete voi a comunicarmi eventuali perplessità/problemi. 
Grazie di tutto, come al solito!!
Alla prossima settimana :)

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
    

  

 

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Capitolo 23
*** Capitolo ventitré - Reminder ***




 

Capitolo ventitré - Reminder

 

«Devi...»
Le parole morirono nella gola di Emma, proprio nel punto in cui Harry le stava posando baci caldi ed umidi. Socchiuse gli occhi e respirò profondamente, aderendo ancora di più con la schiena al legno dietro di sé. «Devi aprire la porta», mugolò, per poi tornare in silenzio sulle sue labbra, sorde a qualsiasi richiamo razionale. 
Erano sul pianerottolo dell'appartamento di Harry da qualche minuto, ormai: avevano arrancato per le scale, provando a non cercarsi e a non toccarsi troppo, ma erano stati costretti a cedere proprio quando lui aveva recuperato le chiavi da una delle tasche del cappotto. Il solo tintinnio metallico aveva sancito un'anticipazione troppo invitante, per essere ignorata.
«Harry», lo chiamò ancora, senza interrompere quel bacio affannato né togliere le mani dai suoi capelli informi.
Lui sospirò in modo sofferto e le morse un labbro, per dispetto: tenendola ancora stretta contro di sé, si sforzò di individuare la toppa dove inserire le chiavi e fece scattare la serratura con movimenti secchi, infastiditi da procedure superflue. Quando la porta si schiuse, Emma rischiò di cadere all'indietro a causa dell'impeto con il quale il corpo di Harry le stava facendo pressione: indietreggiò goffamente di qualche passo, ancora vittima di morsi e carezze, mentre lui chiudeva la porta con un debole e distratto calcio.
«Tu devi spogliarti, invece», le sussurrò all'orecchio: una replica pronunciata in ritardo, ma irremovibile. 
Emma era sopraffatta dall'assenza di tempo e di respiro per riflettere, era asservita all'impossibilità di perdere un solo secondo in qualcosa che non comprendesse i loro corpi ed il loro desiderio. Quindi eseguì l'ordine senza alcun orgoglio a mascherarla: continuando a baciarlo con la bocca aperta ed il petto ansante, cercò alla cieca i bottoni della propria giacca e sentì lui fare lo stesso con i propri. Costretta ad aprire gli occhi per capire perché l'ultimo bottone stesse opponendo una così capricciosa resistenza, si accorse di essere ancora circondata dal buio: il salotto era riconoscibile solo grazie al bagliore delle luci in strada, con il suo arredamento più ricco dell'ultima volta, ma ancora troppo spoglio per poter essere considerato accogliente.
Harry le coprì le guance con le mani, senza smettere di torturarle le labbra, e lei si sfilò i tacchi, abbandonandoli accanto al cappotto ormai caduto a terra. Le piaceva essere rapita da una sensazione tanto opprimente da non lasciare spazio ad altro, perdere la lucidità ed affidarsi agli istinti più incontrollabili ed asfissianti.
Lasciato il ristorante – dopo aver pagato di tutta fretta, nonostante le domande stupite del cameriere e diverse pietanze ancora da assaggiare – ogni loro movimento era stato dettato dall'impazienza di un nuovo contatto: non c'era stato bisogno di specificarlo o, peggio ancora, di chiederlo, perché entrambi sapevano di non poter aspettare. Se lo erano detti con i gesti, con le mani avide e gli sguardi di preghiera.
Harry le morse una spalla. 
«Voglio vederti nuda».
Lei avvolse le braccia intorno al suo collo ed ansimò sulla sua pelle. «Cosa stai aspettando?» ribatté. Gemette silenziosamente, quando lo sentì sollevarla da terra, e gli circondò il bacino con le gambe, provocando un attrito che fece sospirare entrambi. Non riuscivano ad essere meno sfacciati e più controllati, a mettere da parte la piacevole volgarità che li stava nutrendo ed aizzando.
Harry si mosse in modo scoordinato, provando a toccare ogni centimetro del suo corpo senza farla cadere e, nel mentre, cercando di indovinare la porta giusta e di non sbattere contro le pareti del corridoio: barcollarono entrambi per un istante, mentre lui si toglieva le scarpe senza smettere di camminare. Accese la luce con una mano, dopo alcuni tentativi inconcludenti, ed Emma si ritrovò a sorridere sulle sue labbra: proprio come la prima volta, Harry non le avrebbe concesso di nascondersi nel buio, non avrebbe rinunciato al piacere di averla nuda nei propri occhi, visibile in ogni angolo. Né lei avrebbe voluto il contrario.
Piegandosi in avanti, si appoggiò con le ginocchia sul letto e le permise di sedersi su di esso: le loro gambe ancora intrecciate e le loro bocche ancora unite. Si sdraiò su di lei, compensando con il proprio calore la freschezza solitaria delle coperte blu notte. Emma appoggiò il capo sul cuscino ed inarcò la schiena per un brivido più intenso, provocato dalle mani di Harry: aveva iniziato ad accarezzarle i fianchi, ad alzarle l'orlo del vestito e ad immergerla in un'aspettativa poco tollerabile.
Lui sollevò il busto con un respiro trattenuto, come se gli costasse fatica distanziarsi dalle sue labbra anche solo per pochi secondi: sotto i suoi occhi attenti ed il suo tocco invitante, si tolse la giacca con movimenti rapidi e frementi. Emma pregustò il momento in cui avrebbe potuto finalmente osservare la sua pelle nuda e non poté che sentirsi ancora più propositiva: si tirò a sedere e cercò di sfilarsi l'abito, combattendo con il suo tessuto aderente e sbuffando per l'impazienza.
Quando riuscì a sbarazzarsi di quello che ormai era visto solo come un ostacolo, il suo respiro era più accelerato ed Harry stava ancora cercando di sbottonarsi la camicia, con gli orli fuori dai pantaloni: aveva le mani tremanti, che gli rendevano difficoltosi i movimenti più fini. Emma si soffermò sul suo petto scoperto, sulle rondini d'inchiostro, e si inumidì le labbra spontaneamente: si avvicinò per baciargli il torace, mentre lui sospirava e per un istante si irrigidiva, e si lasciò sfuggire un flebile lamento. Posare la bocca su di lui era irreale e non faceva che sconvolgere ogni suo pensiero, ogni sua intenzione.
Harry si tolse la camicia con più enfasi, forse bramando di poter tornare a toccare lei: le incastrò le mani tra i capelli e le baciò la nuca più volte, come per ringraziarla di ciò che gli stava facendo provare e per pregarla di non fermarsi. Emma non smise di accarezzarlo con le labbra e con la lingua, mentre cercava di slacciargli i pantaloni: furono istanti confusi, annebbiati da un desiderio cieco, nei quali Harry la aiutò a disfarsi di quella stoffa di troppo e nei quali lei si trovò il reggiseno sganciato e molle sul suo petto, in attesa di essere sfilato.
Emma se ne liberò senza guardare dove sarebbe finito e posò lo sguardo sul corpo che le stava di fronte: entrambi ansanti, in ginocchio sul materasso e a pochi centimetri di distanza, si osservavano come animali in gabbia che si accingono a scontrarsi, che si studiano per scoprire i punti deboli ed attaccarli, in modo da stabilire un vincitore assoluto. Harry era lì, disordinato ed esausto, anche solo per la fatica che gli costava guardarla senza fare altro: ormai completamente nudo e così bello, che Emma avrebbe potuto singhiozzare da un momento all'altro.
Erano spogli, indifesi, disarmati del loro orgoglio insolente.
Svuotata dell'impeto che l'aveva animata sino a pochi istanti prima, allungò una mano verso il suo addome: gli sfiorò la pelle spostando gli occhi dai suoi al percorso che stava tracciando con leggerezza, senza una meta e senza l'intenzione di fermarsi. Lui rabbrividì e strinse la mascella, serrò i pugni: si stava trattenendo e forse non ci sarebbe riuscito ancora per molto, ma Emma volle sfidarlo per un egoismo puro ed insaziabile. Si avvicinò impercettibilmente e con entrambe le mani gli accarezzò le spalle, scendendo sui muscoli tesi della schiena e poi tornando su quelli meno definiti delle braccia: doveva accertarsi che quello fosse il suo corpo, che fosse in grado di farla reagire allo stesso modo, nonostante i sei anni di cambiamenti invisibili ad un occhio poco attento. Le sembrava semplicemente impossibile potersi soffermare ancora una volta su un nettare mortale che per molto tempo l'aveva nutrita.
Harry le afferrò delicatamente le mani, inumidendosi le labbra per nascondere un'emozione prepotente: senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi, le baciò i palmi. Una volta, due, tre. Fino ad invitarla implicitamente ad avvicinarsi e a coprirgli la bocca con la sua, per rubarle le parole che non voleva lasciarsi scappare, per carpire i significati che poche lettere avrebbero solo screditato. Si baciarono lentamente, di quei baci delicati e comprensivi che gli adolescenti si scambiano quando hanno ancora tanto da imparare sui sentimenti, quando hanno quasi paura di accelerare e perdersi qualcosa di nascosto.
Emma tornò a sdraiarsi sul letto, portandolo sopra di sé con una mano dietro il suo collo: lasciò che  i loro corpi nudi si accarezzassero solo con la pelle, lasciò che si abituassero a quel tepore che avevano rischiato di dimenticare perché non trovato in nessun altro. Fu una sensazione così forte, da farle mancare il fiato.
«Dio», disse soltanto, stringendolo a sé e serrando le palpebre per l'incapacità di arginare le proprie emozioni.
Harry appoggiò la fronte alla sua, tenendo gli occhi chiusi e posando una mano sulla sua coscia: le sue dita la sfioravano senza essere in grado di scegliere la delicatezza adatta, portando la sua resistenza all'esasperazione.
«Il pensiero che qualcun altro ti abbia toccata così, che qualcun altro ti abbia avuta...» sussurrò, tanto piano da farla tremare ancora di più. «Non lo sopporto», aggiunse dopo qualche istante, serrando la mascella e riaprendo gli occhi: incastrata nella sfumatura delle sue ridi, la rabbia per una mancanza che aveva portato a troppe conseguenze.
Harry era stato il primo. Si era impossessato della sua inesperienza e l'aveva plasmata con il proprio corpo e nel proprio letto.  Nessun altro l'aveva mai sfiorata oltre l'innocenza, nessun altro l'aveva mai avuta come a lui era stato concesso: era sempre stata sua, sua e basta. In quel momento invece, con anni di esperienze separate ed inevitabili, non poteva più vantare quel primato: come se non avesse avuto più alcun diritto su di lei, si sentiva scalzato da un ruolo privilegiato, derubato di un possesso che qualcun altro aveva macchiato. Emma glielo leggeva negli occhi lacerati da un'orgogliosa ferita.
Anche lei provava lo stesso, nonostante per lui, all'epoca, non fosse stata la prima né l'unica.
«Sono stata toccata da altri, è vero», gli confermò a bassa voce, accarezzandogli il viso: i suoi lineamenti che si tendevano per quel plurale scomodo. Si sentiva costretta alla verità, come se la sua pelle nuda la obbligasse a non sporcare tanta purezza, quindi inspirò a fondo prima di riprendere. «Ma nessuno era te».
Non le importava di risultare patetica, voleva essere sincera. Non sapeva se fosse questione di chimica o di chissà quale altra diavoleria, ma non aveva bisogno di una spiegazione per crederci: era come se fosse pervasa da qualcosa di simile alla fede, da una cieca fiducia in ciò che erano in grado di condividere e che non aveva bisogno di testimonianze per essere accettato. Qualsiasi fosse il motivo, le emozioni provate con Harry restavano prive di confronto: nemmeno con Miles – anche lui riuscito a rubarle amore – si era mai sentita così.
Miles.
Aveva temuto di essere sovrastata dai ricordi, ma le braccia di Harry, così avvolte intorno al proprio corpo, impedivano a qualsiasi pensiero estraneo di condizionarla.
«Altri?» chiese lui, muovendosi tra le sue gambe come per prometterle un dispetto. L'espressione ancora seria, imbronciata duramente.
Lei restò in silenzio e fu una risposta sufficiente.
Harry sospirò piano e chiuse una mano sul suo seno, baciandole le labbra per un solo istante. «Te li farò dimenticare tutti», annunciò, con la voce impregnata di possesso e lascivia, abbassandosi a sfiorarle il collo con il naso. «Uno alla volta», continuò, per poi morderle una clavicola. «Ti avrò così tante volte... Rimarrò dentro di te così a lungo, da farti dimenticare di essere mai stata di qualcun altro».
Emma schiuse la bocca, incapace di respirare a dovere: si sentiva frastornata da quelle parole, dalla solida volontà che trascinavano con sé e che l'avrebbe fatta soccombere. Provò a dire qualcosa, anche se la sua mente si rifiutava di articolare pensieri elaborati, ma fu costretta a mordersi un labbro per resistere alla tentazione di gemere.
Harry, infatti, stava scivolando sul suo corpo senza darle una tregua: la sua bocca si posava su ogni particolare che fosse in grado di catturare la sua attenzione, bagnandolo di aspettativa e bramosia, mentre le sue mani seguivano un percorso opposto e cieco, che si basava su puro istinto e su una necessità più basilare. 
Ad ogni tocco, una conferma di incontestabile proprietà.
Per brevi istanti restò immobile: i suoi occhi a percorrere inquieti ogni sprazzo di pelle candida, come a volersi convincere della sua esistenza. Emma si sentì logorare, ma si lasciò osservare.
«Resterei ore a guardarti», confessò lui, rivolgendosi più a se stesso. Sembravano parole spese per accontentare solo le proprie emozioni, pensieri troppo insistenti per restare segregati in un silenzio, ma che finivano inevitabilmente per colpire entrambi.
Subito dopo si soffermò sul suo seno, leccandolo e suggendolo: ne accarezzò la forma più piena, rispetto a sei anni prima, e lo strinse nei suoi palmi ampi, imprimendo su di esso l'impronta dell'anello all'anulare destro. Poi scese verso il basso, sul suo addome morbido e latteo, dai lineamenti più carnosi: lo percorse con le labbra, semplicemente sfiorandolo, e baciò la pallida cicatrice di un'operazione della quale non era stato testimone, come dandole il benvenuto. Soffiò sul suo ombelico, facendola sorridere, e respirò sul suo bacino: alzò gli occhi su di lei e le sfilò gli slip con lentezza, senza allontanarsi troppo.
Emma soffriva. Soffriva per i suoi movimenti misurati e contenuti, per il desiderio di sentirli con più intensità: e lui lo sapeva, perché la guardava con malizia. Forse anche per lui non era facile imporsi un limite, ma era evidente che torturarla fosse un buon compenso ai propri sforzi. Forte del suo viso fatto di pretese, infatti, posò le labbra sulla sua intimità: vi respirò con leggerezza, obbligandola a serrare le gambe, ma con le mani le impedì quell'azione. 
«Harry», lo rimproverò lei, con la voce rotta e priva di qualsiasi decisione: non capiva perché si fosse fermato, perché non si decidesse ad agire. Ma lui non le diede ascolto: si dedicò al suo interno coscia, mordendolo piano, e con una carezza apparentemente casuale la fece gemere di nuovo.
«Cosa vorresti?» le chiese in un sussurro, nell'incavo del suo ginocchio: la sentiva agitarsi sotto di sé, indispettita dal suo modo di tergiversare e di infliggerle una lenta agonia. E ne godeva. «Ti avevo promesso una punizione», continuò, parlando sul suo inguine, ma senza toccarlo. «Te ne sei dimenticata?»
Emma si imbronciò, con il respiro accelerato e le mani che si tenevano alle coperte: lo guardava in quella posizione, in una visione che bastava a toglierle il fiato, e doveva combattere la tentazione di obbligarlo a fare qualcosa. Non poteva accettare una tale punizione, come a lui piaceva chiamarla, e non era pronta a cedere così facilmente, non quando era il suo egoismo ad essere minacciato tanto apertamente: decise di lottare con altrettanta determinazione, sicura che avrebbe vinto.
«No», affermò, leccandosi le labbra per provocarlo. «Ma ricordo anche che c'era un ragazzo... Jimmy, si chiamava. Era dav-»
Le parole si persero in un ansito profondo, di stupore ma anche di soddisfazione: Harry si era mosso infastidito - o furioso – per quel colpo basso. Si era chinato sulla sua intimità e l'aveva baciata con impudenza, per farle un dispetto e per riscattarsi di quell'affronto. Emma chiuse gli occhi e reclinò il capo all'indietro, portando le mani tra i suoi capelli, come per paura che potesse interrompersi da un momento all'altro.
Sentiva le sue labbra giocare con i suoi punti più sensibili, forse spinte dai ricordi di ciò che l'aveva sempre fatta sorridere per il piacere, e non sapeva come poterle affrontare. Sentiva la sua lingua e desiderava solo di morire, piuttosto che saperla lontana. Non riusciva a capire se avesse fatto bene ad istigarlo fino a quel punto, perché la soglia tra il piacere e la tortura era davvero sottile e lei vi era in bilico, oscillante tra due estremi contrapposti ed in grado di disorientarla.
«Ti vieto», precisò Harry, lambendole un inguine, «di nominare qualcun altro mentre sono tra le tue gambe», continuò, sfacciato come al solito. Ad ogni parola era avanzato di pochi centimetri, fino a ritrovarsi di nuovo sul suo seno, con le mani tra i suoi capelli.
Tornaci, avrebbe voluto gridargli Emma, ma decise di mantenere un certo contegno.
«Ed io ti vieto di provocarmi, mentre sei tra le mie gambe», replicò a bassa voce, accarezzandogli il volto per invitarlo a baciarla. Colse un sorriso sulle sue labbra e lo ricambiò, affondando il capo nel cuscino soffice.
La foga che li aveva guidati in ogni gesto fino a pochi minuti prima sembrava essersi dissolta: al contrario, Emma aveva l'impressione che si fossero decisi a rallentare e a torturarsi a vicenda con una lentezza estenuante. Nessuno dei due sembrava voler terminare quel momento, né quello successivo o quello ancora dopo. Ed era terribilmente piacevole.
Harry spinse il bacino contro il suo, permettendole di sentire quanto la loro impazienza fosse simile. «Mi piaceva il vestito che avevi stasera», le sussurrò all'orecchio, mordendole il lobo, «ma non hai idea di quanto l'abbia odiato», continuò, pronunciando quelle parole con una tale decisione  da renderle semplice comprendere il perché.
«Allora ti confesso una cosa», rispose lei, premendo con le mani sul suo petto per farlo ricadere sul materasso: lui spalancò gli occhi, stupito, ma si lasciò scivolare di lato. La osservò sdraiarsi su di lui ed accettò i capelli che gli solleticavano la pelle. «Sapevo che ti sarebbe piaciuto e che l'avresti odiato: l'ho scelto di proposito», ammise, sorridendo maliziosa sulla linea della sua mandibola.
Lui sospirò, accarezzandole la schiena con le mani aperte, come fino ad allora non era riuscito a fare. «Non avevo dubbi», commentò soltanto.
Emma si dedicò al suo corpo, prendendosene cura come se fosse stato il suo bene più caro: con le dita sottili e smaltate di rosso, si divertì a contornare ogni suo confine ed ogni sua forma. Ne tracciò i limiti e li ripassò con la bocca, facendolo rabbrividire e rendendolo quasi irrequieto. Sapeva che il suo tocco potesse risultare piacevole, ma non era solo per lui che si stava muovendo con una così minuziosa attenzione: serviva anche a lei, schiava di un ricordo che doveva riconfermare e adattare alla realtà, vittima di un'adorazione che non riusciva a nascondere.
Quando arrivò alla sua eccitazione, Emma alzò lo sguardo su di lui, senza nemmeno sfiorarlo: Harry aveva chiuso gli occhi, con una mano sulla fronte ed un'espressione che rispecchiava il suo stato d'animo. L'aspettativa lo stava consumando.
Lei sorrise per vanità e soddisfazione: gli baciò prima il basso ventre, provocando in lui un grugnito di disappunto e di delusione, ma anche un invito a spostarsi. Quando prese in mano la sua intimità, cercando di essere delicata ma decisa, sentì il suo corpo tendersi: aveva sempre trovato affascinante il modo in cui dei semplici gesti erano in grado di renderlo così indifeso, privo di qualsiasi barriera si fosse mai premurato di ergere contro gli altri – contro di lei. Era disarmante percepirlo così arrendevole e perso.
«Non-»
Harry sollevò il capo per guardarla, senza terminare la frase, ma si coprì gli occhi con una mano e si abbandonò di nuovo sul cuscino, respirando intensamente. Doveva essere stata una reazione al movimento di Emma, che si era spinta un po' troppo oltre con la bocca sul suo membro: forte del piacere appena provocato, ci riprovò.
Lui imprecò a mezza voce, arpionando le coperte sotto di sé. «Non vuoi che finisca come la prima volta, vero?» la minacciò poco dopo, terrorizzato, con un tono strozzato ed incontrollato che quasi la fece ridere. Harry era così vicino all'orgasmo, da non riuscire a risultare convincente mentre la pregava di non tentarlo: eppure, lei si ritrasse e gli dedicò solo un'ultima carezza, sorridendo mentre tornava ad accoccolarsi sul suo corpo.
Per pochi istanti restarono inermi, ignorando i loro petti ansanti: come se un senso di realizzazione li avesse colpiti, come se finalmente non ci fosse nient'altro da fare, si limitarono a guardarsi, a chiedersi un tacito consenso. Volevano unirsi di nuovo, ne sentivano la necessità: e proprio come una cosa a lungo attesa, che arriva all'improvviso e lascia spaesati, entrambi si sentirono sopraffatti dall'anticipazione di ciò che stava per accadere.
Harry si sporse per baciarle le labbra lentamente, con dolcezza: le sfiorò il viso con il dorso di una mano e la guidò sotto di sé, per potersi posizionare tra le sue gambe. Nel bagno di quel ristorante, nemmeno un'ora prima, si erano avuti senza sapere aspettare e senza sapersi apprezzare davvero: si erano lasciati guidare da un impeto irrefrenabile, finendo per consumarsi senza rendersene conto. In quel momento, invece, avevano tutta l'intenzione di non perdere nemmeno il più piccolo particolare scaturente dal loro contatto.
Non c'era più spazio per le provocazioni, per i dispetti maliziosi ed i sorrisi carnali: niente avrebbe sporcato il significato che volevano sottolineare, e questa consapevolezza inflisse un duro colpo al cuore di Emma. Si agitava nel suo torace senza possibilità di darle tregua, smanioso di avere un di più che gli spettava di diritto.
Harry respirò sul suo collo, limitandosi ad accarezzarlo quasi con pudore. Aveva iniziato a muoversi contro di lei, dondolandosi sui gomiti con i quali si teneva in equilibrio sul suo corpo: involontariamente, si era incastrato in un preliminare subdolo ed incantevole, che però era in grado di esasperare.
Emma cedette quasi subito, infatti. «Harry», lo richiamò, con una certa urgenza mascherata da un tono di voce basso. Lui si riscosse, inumidendosi le labbra e deglutendo evidentemente.
«Prendo solo-»
Prima che potesse terminare la frase, il respiro corto gli impedì di continuare: si allungò oltre il bordo del letto, dove poco prima aveva lasciato cadere i pantaloni, ed Emma continuò a tracciare percorsi fantasiosi sulla sua schiena contratta, come per ricordargli ciò che entrambi bramavano di ricominciare.
Una manciata di secondi dopo, Harry era di nuovo su di lei, a sfiorarle l'intimità con le dovute precauzioni: i suoi capelli le solleticavano la fronte ed il suo profumo era ancora in grado di inebriarla. Emma era stranamente irrequieta, come se un sottile imbarazzo le stesse intorpidendo le membra: non credeva fosse dovuto all'atto in sé, quanto più a quello che avrebbe significato. Si sentiva impotente dinanzi ad una tale e disarmante importanza, una vittima pronta al sacrificio. Arresa.
«Non voglio che tu abbia paura di me», mormorò Harry sulla sua bocca, stupendola: si stava riferendo a ciò che lei aveva confessato solo il giorno prima, in una dimostrazione di debolezza della quale si era quasi vergognata. Lei l'aveva fatto oggetto dei suoi timori e lui, sul momento, non aveva commentato: si era dedicato ad altri aspetti del discorso, aspetti meno delicati.
Ma in quell'esatto istante, nelle vene di Emma scorreva solo impavido coraggio.
Gli strinse le mani tra i capelli, incapace di altro.
Lui si spinse dentro di lei, trattenendo il fiato e facendole inarcare la schiena. Restò immobile, respirando a fondo come per controllarsi. «Come fai ad aver paura di questo?» le domandò, specchiandosi nei suoi occhi e permettendole di scorgere una tenera dolcezza, dedicata solo a lei. Un tentativo di rassicurarla. Una verità schiacciante.
Emma serrò le palpebre ed accolse un nuovo movimento, poi un altro ancora. Forse lui aveva ragione: non poteva essere spaventata da qualcosa di così giusto, da qualcosa che era in grado di farla sentire bene, nel senso più banale del termine. O forse era il contrario: forse proprio perché era qualcosa di così prezioso, la paura di vederlo scomparire poteva essere altrettanto paralizzante.
«Tu come fai a non averne?» replicò quindi, con le braccia intorno al suo collo ed il suo viso sulla propria spalla. Harry non cessò di muoversi, regalandole un piacere vagamente doloroso.
«Perché non ho intenzione di perderlo», le rispose piano, accompagnandosi ad una spinta più profonda, che fece gemere e tendere entrambi.
Emma sorrise di quella promessa e cercò la sua bocca, per ringraziarlo silenziosamente con un bacio dopo l'altro: si chiedeva come sarebbe stato essere legata ad Harry in un qualcosa che non erano ancora riusciti ad ottenere, vederlo impegnato con anima e corpo in un rapporto, nel loro rapporto. E per quanto i timori fossero ben radicati in lei, almeno per quel momento si sarebbe lasciata cullare dalla consapevolezza della sua volontà.
Portò una mano sul suo volto, toccandogli le labbra umide con le dita. «Sono felice che tu sia tornato a Bradford», ammise in un sussurro, come a voler liberare il più indiscreto dei segreti: prima che il piacere la distogliesse da qualsiasi pensiero logico, doveva disfarsi di quella piccola confessione. Era quella la responsabile di gran parte dei cambiamenti che li avevano coinvolti, perché Emma non avrebbe aperto gli occhi facilmente sui propri sentimenti, se quella subdola gioia non avesse instillato in lei il sospetto.
Harry la strinse sotto di sé, tornò con la fronte sulla sua. «Ed io sono felice che tu sia tornata da me». Perché Emma ci era già stata, tra le sue braccia e contro il suo corpo. Impigliata tra i suoi difetti e trattenuta dai suoi pregi. Ed evidentemente non le era bastato.
Gli circondò i fianchi con le gambe, avvicinandolo ancora di più a sé, e gli baciò ancora una volta la bocca, mordendola ad ogni movimento che la faceva ansimare e semplicemente sfiorandola quando il respiro mancava per osare fare altro. Harry si lasciò sfuggire un verso di piacere, stringendo tra le mani le coperte ormai stropicciate e chiudendo gli occhi per trovare la forza di non cedere troppo presto.
Dopo qualche istante, Emma decise di sollevarlo da un carico così impegnativo: lo spinse di nuovo sul letto, facendolo sospirare forse per il sollievo o forse per la lascivia, e si sedette delicatamente su di lui, con le gambe ai suoi fianchi e le mani sul suo petto. Serrò le palpebre, invasa dal piacere che quella nuova profondità era in grado di darle, ed iniziò a alzarsi ed abbassarsi lentamente sul suo corpo, con movimenti regolari.
Harry le afferrò la vita, lasciandole guidare la libidine di entrambi, e subito dopo le posò le mani sul seno: non doveva nemmeno muoverle, perché era Emma stessa ad andargli incontro, a seconda dei propri intenti. Quando non si obbligava a chiudere gli occhi e a resistere, le era semplice spiare le reazioni di Harry: le sue iridi che si soffermavano sul punto in cui i loro corpi su univano, le sue labbra che si increspavano di lussuria e poi si schiudevano per gemere ad alta voce, i muscoli che gli si contraevano per piaceri più intensi.
Emma si piegò verso di lui, respirandogli sulla bocca e bloccandogli le mani sul materasso con le proprie. «Ti piace?» gli domandò, ruotando il bacino e facendogli reclinare il capo: gli baciò il mento, la mandibola, ed accettò la risposta non verbale. Qualsiasi cosa volesse sapere era scritta sul suo viso, nel ritmo del suo cuore. «Anche a me», ammise, più a se stessa: aveva assunto quella posizione per rendersi più partecipe e carnefice, ma ormai non riusciva nemmeno più a coordinare al meglio i movimenti.
Harry ansimò sonoramente e si mise a sedere, stringendola a sé, ma lasciandole la libertà di continuare ad ondeggiare su di lui. Le lambì un seno, giocandoci con la bocca aperta e volgare. «Emma», la chiamò, risalendo verso il suo collo e lasciandovi un segno violaceo. «Perché non vieni?» domandò con la voce roca, istigandola sia con quelle parole sia con una mano, che aveva spostato per accarezzarle l'intimità.
Lei gemette forte, forse per il contatto inaspettato, e per un istante si irrigidì.
«Avanti», continuò lui.
Bastava il suo timbro a sconvolgere ogni suo tentativo di prolungare il piacere: stava cercando di aspettare, di aspettarlo, ma se le sue moine riuscivano a scavare così a fondo nella sua determinazione, aveva scarse possibilità di riuscita.
Vieni.
Ogni suo gesto era un invito, una provocazione irresistibile.
Vieni.
Anche la più pudica delle carezze. Uno sguardo più languido. Un movimento involontario del suo bacino, che fremeva per andarle incontro.
Vieni.
E lei lo fece.
Il suo corpo tremò, scosso da quella cecità simile alla morte che si manifestò anche in un gemito incontrollato ed acuto. Emma si strinse ad Harry, ignorando l'accenno di un sorriso sul suo volto, e respirò contro la sua pelle, cercando di sfuggire alla sensazione di non avere un cuore abbastanza forte per battere velocemente come richiesto.
Fu lui a tentare di riportarla alla realtà: la sollevò quanto bastava per poi farla scivolare di nuovo su di sé, in un attrito umido e piacevole. Ripeté lo stesso gesto più volte, fino a quando fu Emma stessa a recuperare le energie e a muoversi senza bisogno di alcun aiuto: sentiva il suo respiro farsi sempre più difficoltoso, le sue mani farsi sempre più esigenti, e non desiderava altro che fargli provare ciò che lei aveva sperimentato, essere il movente del suo piacere.
«Sì, così», lo sentì sussurrare sulla sua spalla, in un incoraggiamento a continuare.
Le stringeva i glutei, assecondando i suoi movimenti, e le mordeva la pelle per soffocare ansiti che invece lei bramava.
«Così», ripeté un'ultima volta.
Emma dovette aspettare solo pochi secondi, prima di sentirlo irrigidirsi privo di fiato: gli baciò la mascella prima ancora che l'orgasmo finisse, continuando a sfiorarlo gentilmente mentre lui riprendeva a respirare a stento. Harry le cinse le spalle con le braccia e riposò il capo sul suo petto, serrando le palpebre e probabilmente ascoltando il battito incontrollato del suo cuore.
Come fai ad avere paura di questo?



La luce nella stanza era spenta, ma i loro occhi erano ancora ben aperti.
Emma aveva il viso sul suo torace, che si alzava e si abbassava con regolarità: la sua pelle profumava ancora dalla doccia che avevano fatto insieme – ovviamente dietro sua insistenza. Lei lo stava accarezzando con delicatezza, percorrendo confini che conosceva a memoria e che non aveva bisogno di vedere.
Lui aveva appena finito di fumare un'altra sigaretta, con un braccio intorno al suo corpo e le gambe intrecciate alle sue. Era tardi, ma non riuscivano a dormire. Non volevano.
«Ora puoi dirmelo?» domandò Harry all'improvviso, con la voce fatta di fumo, bassa.
Emma corrugò la fronte, ma non si mosse. «Cosa?»
«Cosa ti ricorda quella fotografia», spiegò lui, lento. «Quella che ti ho scattato io».
Lei sorrise nel buio, incredula: non credeva che se ne sarebbe rammentato, né era semplice pensare che fosse davvero arrivata al punto di poterlo ammettere in sua presenza. Si spostò in modo da posare il mento sul palmo della propria mano, appoggiata sul suo petto.
«Mi ricorda la ragazzina che tu vedi in me», gli rispose in un sussurro, abbassando lo sguardo nonostante l'oscurità. «Quello che con Miles avevo smesso di essere, ma che c'era».
Dopo il tradimento, ogni briciola della sua forza si era smorzata a causa del dolore, lasciando dietro di sé una fragilità da disprezzare e che finiva spesso per ostacolarla: si era privata della vitalità che l'aveva sempre caratterizzata, della determinazione che avrebbe dovuto obbligarla a lasciare Miles, dell'amore per se stessa che si era affievolito fino a condurla verso diversi errori.
Quella fotografia era il ritratto di ciò che a quindici anni non aveva timore di mostrare, di ciò che la Emma di ventidue anni le invidiava segretamente: era ciò che Harry era in grado di evidenziare senza sforzi, obbligandola ad essere tutto quello che era potenziale. Era spontaneità, irruenza e passione. Una vita ardente.
«Una specie di promemoria?» indagò Harry, tracciando il percorso della sua spina dorsale con la leggerezza dei suoi polpastrelli.
Lei inclinò le labbra in un sorriso. «Sì, una specie di promemoria», affermò flebilmente.
Harry sollevò il capo per sfiorarle la fronte con la bocca. «Allora ne voglio uno anche io», sussurrò sulla sua pelle.
«Cosa dovrebbe ricordarti?» curiosò lei, rapita dalla sua proposta. Gli baciò le labbra, quando loro glielo chiesero.
«Quello che sono con te», rispose senza alcuna esitazione, ma accarezzando ogni lettera con morbidezza. «Per te», precisò.
Emma respirò a fondo, restando immobile in balìa di quelle parole. Non rispose nemmeno alla mano di Harry, che si era chiusa sulla sua guancia.
«Un po' di tempo fa ti ho chiesto cosa avresti ritratto di me», esclamò lento, scavando in memorie lontane, e per questo quasi irreali: nella sua mente si dipinse un tavolo del McDonald's di sei anni prima e due adolescenti che dovevano ancora conoscersi, seduti l'uno di fronte all'altro con gli occhi attenti. Ripercorse i dettagli che all'epoca l'avevano stregata e che presto avrebbe amato - la linea del collo, la mascella, le mani: le linee sui suoi palmi grandi, i tratti delle dita, il piccolo tatuaggio a forma di croce, le vene sul dorso e le nocche arrossate per il freddo - e riprovò la stessa sensazione di familiarità e di curiosità.
«Sì», rispose piano: nascose il calore che percepiva, derivante dal fatto che Harry conservasse così tanti particolari del loro passato.
«Voglio che tu mi fotografi».



Avvolta da un discreto tepore, fu costretta a rabbrividire appena quando qualcosa al suo fianco si spostò, provocando un movimento nell'aria e dei brividi lungo la sua schiena.
Avvertì delle dita sfiorarle i capelli, gli zigomi.
Mugolò qualcosa, ma non alzò le palpebre.
«Emma», le fu sussurrato all'orecchio, con del fiato caldo a percorrerle la pelle. «Svegliati».
La voce di Harry era ancora più roca del solito, a causa del mattino e forse a causa di altro.
«Che ore sono?» domandò lei, continuando a tenere gli occhi chiusi: era crudele volerla strappare ad un tale benessere, obbligarla a rinunciare a quelle carezze e a quel calore umano.
Un bacio sulla spalla nuda.
«Quasi le otto».
Emma si voltò dall'altra parte, a pancia in giù.
«Ci siamo addormentati tre ore fa», si lamentò: aveva le palpebre pesanti, che reclamavano il silenzio ed una nuova incoscienza.
«Devi andare all'università».
«È domenica».
«Non vuoi fare colazione?»
«Più tardi».
«Emma».
«Harry».
Un sospiro lasciò le labbra di entrambi, anche se per motivi diversi. Lei abbracciò il cuscino sotto il proprio volto e sperò che Harry avesse un briciolo di pietà nei suoi confronti.
Ma dovette ricredersi.
Lui inspirò a fondo – lo sentì sulla pelle tra le proprie scapole – e si sporse nella sua direzione fino a sdraiarsi sul suo corpo. La fece borbottare indispettita, nonostante la loro nudità smorzasse qualsiasi protesta. Con le mani le strinse i fianchi e con la bocca tracciò il profilo del suo collo, scoprendolo dai capelli capricciosi e disordinati.
«Non riesco a respirare», esclamò Emma, incapace di trattenere un sorriso sotto il suo peso. Lo nascose nel cuscino, mentre ogni suo muscolo si rilassava al suo tocco.
Un morso leggero sul suo braccio.
«Ed io non riesco ad aspettare», le mormorò all'orecchio, con una sensuale imposizione.
Emma si mosse spontaneamente, costringendosi ad aprire gli occhi. Si voltò quanto bastava per incontrare il suo viso, le sue iridi assonnate, ma non abbastanza: la guardava malizioso, con le labbra impregnate di una dolcezza che contrastava con i suoi intenti.
«Buongiorno», la salutò a bassa voce, prima di baciarla e di ricordarle a chi appartenesse.



Emma tornò a casa verso l'ora di pranzo: la sera prima, a causa dell'improvviso cambio di programma, aveva avvertito i suoi genitori che avrebbe dormito a casa di Zayn e Melanie. Una scusa forse poco plausibile, ma in accordo con la lucidità che in quel momento le era concessa.
Constance stava spolverando il mobile del salotto, con un fazzoletto in stoffa a raccoglierle i capelli di grano: canticchiava spensierata, facendo ondeggiare in modo buffo il suo corpo ancora giovane.
«Ciao, mamma», la salutò Emma: il volto raggiante, incapace di non sorridere con tutta la solarità della quale era dotata.
La donna si spaventò appena, ma si voltò con una strana espressione sul viso. «Emma», disse soltanto, increspando le labbra come se stesse valutando quale decisione prendere.
«Che c'è?» domandò lei. Forse la sua pelle sapeva ancora di Harry. Forse sul suo viso erano ancora visibili le impronte dei suoi baci. Forse il suo cuore batteva ancora troppo forte. Forse ogni sua emozione era troppo evidente, per non poter destare sospetti. Fu tentata di nascondersi.
Constance assottigliò gli occhi e camminò guardinga nella sua direzione. «Stamattina ho fatto un salto da Melanie», spiegò, rendendo più chiare le sue intenzioni. Emma inspirò a fondo, mentre la sua innocente menzogna veniva così facilmente smentita. «Pensavo di trovarti lì, di poterti dare un passaggio a casa».
«Non vol-»
«Non mi piace che tu mi menta, signorina», la rimproverò lei. Il divano a dividerle.
«Lo so», ammise Emma, mordendosi un labbro. «È che ieri sera c'è stato un imprevisto e-»
«Hai dormito a casa di un ragazzo, giusto?» la anticipò.
Lei assunse un'espressione colpevole: il solo ricordo della notte appena trascorsa poteva rendere qualsiasi altra cosa sfocata, di debole importanza, ma era comunque un dispiacere notare la punta di delusione negli occhi cristallini di sua madre.
«Sì, be'... Non sapevo come dirlo ai miei genitori», confessò, gesticolando per l'ovvietà. Intrattenere un discorso simile non era esattamente facile. «Ho dovuto dirvi una bugia».
«Effettivamente credo sia stato meglio, almeno per tuo padre», valutò Constance, inumidendosi le labbra. «Ma non per me», aggiunse.
«Mamma, mi dispiace, n-»
«A me puoi dire se stai uscendo con qualcun altro», la interruppe, più dolcemente. «Anche se con Miles è finita ed anche se non ci hai nemmeno fatto capire perché, non voglio che ti senta in imbarazzo. Va bene ricominciare con una persona diversa».
Emma sbatté le palpebre più volte, stupita: il problema non era ammettere di provare interesse – trasporto, sentimenti – per qualcun altro, non si sentiva di certo a disagio nel doverlo svelare alla sua famiglia, o a chiunque. Più che altro le era sembrato indiscreto dover annunciare ai propri genitori la notte di sesso che le si prospettava dinanzi. Qualunque fosse la motivazione, però, la premura di Constance la commosse, così decise di non sporcarla.
«Grazie», sussurrò, stringendosi nelle spalle.
«Spero solo che sia una brava persona», commentò la madre, mentre sul suo volto si dipingevano spirito di protezione ed aspettativa, «e che possa renderti felice».
Emma accennò un sorriso, con il cuore in subbuglio.
Harry poteva renderla felice?
Forse sì. 
Forse poteva renderla qualsiasi cosa.
«Ma non credere che sia finita qui», riprese Constance, appoggiando le mani sui fianchi con aria minacciosa. «Di' un po', da quanto conosci questo ragazzo? Spero almeno da una vita! Andare a casa sua solo perché ti ha portata a cena! Insomma, Emma, cosa ti passa per la testa?»
«Mamm-»
«Non mi interessa, non voglio saperlo. Anzi sì, ma ho paura di ascoltare cose che probabilmente non mi piacerebbero».
«Se tu m-»
«Insomma, spero che almeno vi siate conosciuti un po', prima di passare subito al... Al divertimento. Tuo padre darebbe di matto se sapesse che hai passato la notte fuori. Un infarto. Gli verrebbe sicuramente un infarto».
«Papà non lo s-»
«E voglio sperare che abbiate usato le giuste precauzioni, signorina».
«Ok, questo discorso si sta facendo decisamente troppo imbarazzante».
«Meglio, così la prossima volta ci penserai due volte, prima di non tornare a casa, nel tuo letto».





 


HOLA!
Sì, sono un po' in anticipo, ma di volta in volta devo organizzarmi con i miei impegni e lo studio, quindi è un casino: spero abbiate apprezzato (premetto che forse ritarderò un po' con la prossima pubblicazione).
Alcune di voi sanno già che questo capitolo mi ha fatto dannare e che non mi soddisfa: non so quante volte l'ho modificato, ma adesso mi sono stufata hahaha Ho capito che non verrà mai come nella mia mente, quindi mi arrendo. Spero solo che a voi piaccia un po' di più ahahha
Che dire? Capitolo nuovamente dedicato solo a loro due: sapete anche voi che non riescono ad essere troppo sdolcinati, infatti hanno sempre alternato sfacciataggine e delicatezza (tolto l'imbarazzo della prima volta, non resta che passione!). Non so davvero cosa sia potuto uscirne, ma vi chiedo di commentare per poter capire se sia venuta una totale schifezza oppure no ahahah Tornando a loro: Harry è decisamente molto più deciso di lei, cerca di rassicurarla dopo quel "tu mi spaventi" che ovviamente non era passato inosservato e le garantisce di non essere disposto a perdere quello che hanno. 
Bacini e bacetti a parte, si scopre il significato che Emma dà a quella famosa fotografia e spero che sia chiaro: difatti, aveva deciso di includerla nella mostra solo all'ultimo, solo dopo la ricomparsa di Harry (che aveva evidentemente sottolineato ciò che lei era stata con lui e che non riusciva più ad essere con Miles: a lui non l'aveva detto proprio per orgoglio, per non ammettere un qualcosa di così significativo, dal momento che il loro rapporto era ancora in alto mare). Ed Harry le chiede di fotografarlo :))))))))))))))
La scena del risveglio non ha un senso particolare haha Era solo per continuare un po' il parallelismo con la loro prima volta: quella volta era stata Emma a svegliarlo, dato che era rientrato suo padre, mentre ora è lui a fare il bambino capriccioso, che cerca di svegliarla con qualsiasi scusa prima di ammettere di avere un certo bisogno.
Constance non era nemmeno prevista in questo capitolo, ma vabbé hahah Spero vi abbia fatto sorridere la sua reazione :) Harry non è mai entrato in famiglia e anche durante LG non ha mai conosciuto nessuno di loro, né Emma si è mai preoccupata di parlarne apertamente: i suoi genitori sapevano solo che aveva un ragazzo. Pensavo che stavolta le cose potessero essere leggermente diverse.
Per il resto... Be', spero che mi farete conoscere i vostri pareri!! Ne ho davvero bisogno per questo capitolo! E vorrei anche sapere cosa pensate possa accadere da qui in avanti :)
Grazie di tutto, as usual!

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
      
  

 

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Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattro - Broken ***




 

Capitolo ventiquattro - Broken

 

Quel pomeriggio, Emma costrinse Pete e Nikole ad incontrarla a casa di quest'ultima: li aveva caldamente invitati a rimandare qualsiasi impegno, in modo da concederle una valvola di sfogo. Non riusciva a trovare pace, ad attenuare le emozioni che continuavano a farle fremere le mani e ad incresparle le labbra in un sorriso costante: aveva bisogno di parlare con qualcuno del fuoco che le ardeva dentro, della notte appena trascorsa e delle sensazioni che ne aveva ricavato.
Come una bambina estasiata.
Fu Pete ad aprirle la porta, infagottato in una sciarpa in lana nera ed in un maglione sformato, che cadeva morbido sui pantaloni neri ed aderenti. «Il giorno che arriverai in orario, ti darò un bacio in bocca. Con la lingua», la salutò, alzando un sopracciglio con sufficienza: aveva le guance arrossate ed i capelli spettinati, la voce nasale a storpiare il suo solito stoicismo.
«Ci conto», ribatté Emma, sorridendo per il raffreddore che lo rendeva più irritabile del solito. «Sai? Sei carino quando stai male», aggiunse, seguendolo in casa e lasciando la porta a chiudersi alle proprie spalle.
«Gliel'ho detto anche io: è così tenero, con quel nasino rosso», esordì Nikole, comparendo dal corridoio che portava alle altre stanze: il volto finalmente più sereno, anche se solo in apparenza. «Ho anche provato a coccolarlo un po', ma è peggio di una donna mestruata», scherzò subito dopo, baciando l'amica su una guancia, mentre Pete si sdraiava stancamente sul divano del piccolo salotto, grugnendo qualcosa.
«Pensa quando va a letto con qualcuno», le confidò Emma all'orecchio, sicura che le sue parole fossero udibili anche a distanza. «Come farà?» domandò con divertimento, togliendosi la giacca ed avvicinandosi a lui.
«Giusto», esclamò Nikole, assumendo un'espressione pensierosa. «Insomma, in occasioni del genere dovrai pur farti toccare. Sai- »
«Piantala», la interruppe Pete, con il viso nascosto in uno dei cuscini del divano.
«Come funziona, esattamente, quando sei un caso sociopatico?» riprese lei, con sincero interesse. «Voglio dire, hai dei limiti? Del-»
«Vuoi smettere di dire stronzate?» sbottò lui nuovamente, stavolta lanciandole il cuscino.
Emma rise di gusto, mentre Nikole sbuffava allegra: i capelli corvini erano raccolti in una coda disordinata, alla quale sfuggivano ciocche indisciplinate.
«A proposito, com'è andato l'appuntamento con quella ragazza?» gli domandò, ricordandosi all'improvviso di quel particolare: ovviamente lui non ne aveva parlato, tenendo fede alla propria riservatezza, ed ovviamente lei si sentiva in dovere di indagare.
Pete trattenne uno starnuto, ma non si mosse per guardarla negli occhi. «Bene», borbottò.
«Solo bene?»
«Solo bene».
«Nient'altro?»
«Cos'altro vorresti sapere?»
Nikole intervenne, sedendosi ai piedi del divano. «Sei proprio un maschio».
«Andiamo, non puoi essere così apatico», commentò Emma, accarezzandogli la schiena e dandogli un pizzicotto.
Lui sospirò sonoramente e si mise a sedere, solo per impedirle di infastidirlo ancora. «Non sono apatico, è solo che non ho voglia di confidare i miei piccoli segreti sbrilluccicanti di arcobaleni con le mie amichette del cuore», esclamò, con il tono irreprensibile a contrastare con l'evidente ironia delle sue parole.
Entrambe sorrisero, scuotendo la testa. «Be', almeno ha ammesso che siamo le sue amichette del cuore», sottolineò Nikole, rivolgendosi ad Emma con un occhiolino soddisfatto.
«Piuttosto, non ci hai chiesto di vederci per un motivo?» domandò Pete, passandosi una mano dietro al collo ed incrociando le gambe.
Emma sobbalzò come se qualcosa l'avesse punta sul vivo ed increspò le labbra per nascondere l'ennesima espressione eccessivamente felice.
«Oh, mio Dio. Guardala! È arrossita», constatò Nikole, sbattendo le palpebre con stupore.
«Non è vero, smettila», la contraddisse la diretta interessata, distogliendo lo sguardo per un solo istante.
«Sì che è vero!»
Pete abbandonò il capo contro lo schienale del divano e chiuse gli occhi: era difficile dire se si stesse preparando ad ascoltare discorsi alle sue orecchie poco stimolanti, o se il raffreddore gli stesse dando del filo da torcere.
«Cos'è successo?» domandò Nikole, facendosi più vicina e mordendosi un labbro. «Si tratta di Harry, vero? Sicuramente, sì».
«Fammi almeno rispondere», precisò Emma, abbozzando una risata imbarazzata: nonostante i suoi ventidue anni, tutta la sua sicurezza era facilmente intaccabile da un nome e da emozioni che le impedivano di non reagire come una ragazzina alle prime armi. Quel contatto ritrovato, intimo, le aveva inflitto il colpo di grazia.
«Avanti, racconta».
«Be'», cominciò quindi, stringendosi nelle spalle, «ieri sera mi ha portata a mangiare fuori: non pensavo avrebbe scelto un posto così romantico, sul serio. Eravamo tesi: giuro che persino parlare normalmente sembrava difficile». La sua voce sfumò in un ricordo tiepido, che la riportava alle sensazioni di nemmeno ventiquattro ore prima: raccontarle era riduttivo, non poteva rappresentare la loro intensità.
«Ok, ma ora passa al momento in cui ti porta a casa sua e fate sesso tutta la notte», la incitò l'amica, annuendo come per sottolineare l'invito.
Emma corrugò la fronte, reprimendo una risata. «Cosa ti fa pensare che sia andata così?» le domandò, fingendosi offesa per quell'insinuazione.
«Perché non dovrebbe essere andata così?»
Pete si intromise, aprendo gli occhi solo per poterle rivolgerle uno sguardo apparentemente annoiato. «È ovvio che un ragazzo che ti porta a cena fuori, per di più in un ristorante tanto romantico, abbia intenzione di portarti anche a letto».
«Mi dispiace deluderti, allora, ma la tua ampia esperienza nel campo ha dei punti deboli», decretò Emma, assumendo un'espressione altera e raddrizzando la schiena, come a conferirsi maggiore credibilità.
«Vuoi dire che ti ha riaccompagnata a casa senza nemmeno sfiorarti?» domandò Nikole, quasi delusa da quell'eventualità.
Le labbra dell'amica si tesero in un sorriso malizioso. «No, voglio dire che non siamo riusciti ad aspettare di arrivare a casa».
Pete sospirò.
L'altra spalancò la bocca. «L'avete fatto sul tavolo, davanti a tutti? Tra le ostriche ed il vino?» chiese, ovviamente fantasticando su possibilità poco probabili.
Emma rise piano. «In bagno», la corresse a bassa voce, mentre otteneva in risposta un gridolino soddisfatto ed un applauso rapido di trepidazione.
Pete mugolò qualcosa, infastidito. Gli occhi di nuovo chiusi.
«E poi siamo andati a casa sua».
E quello fu troppo.
«Che diavolo, Kent, è mai possibile che ogni volta che vai a letto con Harry Styles tu mi costringa ad ascoltare i tuoi resoconti?» sbottò lui, con la voce nasale ad accompagnare e smorzare la sua irritazione. La sua gelosia fraterna. «Non è che mi interessi particolarmente sapere quando, dove e quante volte il suo aggeggio si sia incastrato nel tuo», aggiunse gesticolando, mentre un ricordo si insinuava nella memoria di entrambi: anche quando Emma aveva perso la verginità si era svolta una scena simile.
«Sei un bugiardo», lo rimproverò bonariamente lei, rivolgendogli un sorriso affettuoso. «Anche perché, se ti desse così terribilmente fastidio, non rimarresti ogni volta ad ascoltarmi».
«Ecco, allora facciamo in modo che non ci siano molti atri racconti del genere, hm?» propose lui, starnutendo subito dopo.
«Così tenero», ripeté Nikole in un sospiro incantato, osservandolo in viso con l'intento di punzecchiarlo.
«Se la mia faccia raffreddata ti piace così tanto, posso presentarti mio fratello: tanto è in città», esclamò Pete, arrestandosi immediatamente nell'accorgersi di aver parlato troppo.
Emma indietreggiò impercettibilmente, quasi a volersi allontanare da quella novità inaspettata. Non era certamente la prima volta che Dallas tornava a Bradford – città che negli ultimi tempi era interessata da troppe partenze e da troppi ritorni - eppure la notizia aveva incrinato il suo equilibrio per un solo, ma significativo istante.
«Da quanto?» domandò soltanto, fingendo indifferenza.
«Due giorni», rispose lui, stringendosi nelle spalle e tirando su con il naso. Si era prima accertato di non aver causato una reazione eccessivamente negativa.
«Quando se ne va?»
«Non lo so».
Nikole si accorse del clima teso e, essendo al corrente dei loro trascorsi, si sentì in dovere di smorzare l'atmosfera. «Bene, allora cosa aspetti a darmi il suo numero?»
«È fidanzato, Nik», rispose Emma, alzando entrambe lo sopracciglia: era un particolare noto a tutti, ma era la sua amarezza a parlare. «E la ragazza è piuttosto gelosa, non te la consiglio affatto», precisò con stizza, ricordando i danni che aveva contribuito ad apportare.
Per una manciata di secondi il salotto restò in un placido silenzio.
«Ok, cambiamo discorso», esordì nuovamente Nikole, inumidendosi le labbra. «Non stavamo parlando del tuo focoso appuntamento?»
Un debole sorriso tornò sulle labbra di Emma: Pete nemmeno protestò – almeno non ad alta voce.
«Com'è andata? Non che io sia un'esperta in materia, dato che al massimo mi intendo degli orgasmi fasulli dei siti porno, ma so che è necessario ci sia una certa chimica, e dopo sei anni non sempre è la stessa cosa».
«Forse sarebbe meglio se davvero non fosse la stessa cosa», sospirò, abbassando lo sguardo.
Avrebbe davvero voluto che fosse tutto riducibile ad un simile concetto. Che le mani non tremassero al solo pensiero di essere lontane dalla sua pelle. Che il suo cuore non accelerasse nel ritmo nel ricordare momenti troppo intensi.
«Ti stai innamorando di nuovo di lui?»
Le domande di Pete non erano mai discrete, né prevedibili: troppo sincere nella loro semplicità, erano in grado di travolgere qualsiasi muro di protezione fosse stato alzato contro di loro.
Emma lo guardò con gli occhi sbarrati, allarmati da una possibilità che non era affatto estranea o improbabile. «È... Possibile?» sussurrò, in un'affermazione dubbiosa.
Pete alzò gli occhi al cielo, lasciando apparire un mite sorriso sulle sue labbra sottili, ed abbandonò di nuovo il capo contro il divano.
 
 
 
Lea le stava di fronte, a suo agio nel mezzo dell'attenzione di qualsiasi persona le passasse casualmente accanto: chiunque nel pub si era sentito obbligato a soffermarsi anche solo per un istante sulle sue gambe nude sotto il tavolo, sul suo viso truccato con naturalezza e sui suoi capelli mossi in onde morbide. Emma, dal canto suo, si divertiva nel tenere il conto di quanti ragazzi ed uomini avessero bofonchiato qualche silenziosa imprecazione nel ritrovarsi dinanzi al corpo di Lea.
«Sono davvero felice, sai?» esclamò lei, bevendo l'ultimo sorso di un coktail colorato. Avevano entrambe la gola secca per l'ora e mezza trascorsa a raccontarsi ininterrottamente.«È bello sapere di poter parlare nonostante quello che è successo con mio fratello».
Emma annuì con un vago sorriso. «Sì, è bello anche per me», confermò: quel pomeriggio, aveva accolto con piacevole sorpresa l'invito di Lea ad incontrarsi per qualcosa da bere e per quattro chiacchiere. Non la vedeva dalla mostra d'arte, né si erano sentite nel frattempo, e le sarebbe dispiaciuto veder sfumare il loro rapporto solo per i problemi con Miles.
«Devo ammetterlo: è anche merito suo se ti ho chiesto di vederci», continuò lei, inumidendosi le labbra ed osservandola con cautela.
«In che senso?» indagò Emma, curiosa.
«Abbiamo parlato di te, l'altro giorno: ovviamente non voglio farti impietosire raccontandoti i vari stati depressivi di mio fratello, anche perché credo che stia un po' meglio ormai. In ogni caso, mi ha detto una cosa che mi ha fatto pensare».
Emma corrugò la fronte: non le piaceva sapere della sofferenza di Miles, per quanto in via di recupero, e non riusciva a capire dove il discorso l'avrebbe portata. «Una... Cosa?» domandò infatti, sperando in ulteriori spiegazioni. Lea era una perfetta oratrice, ma le sue pause ad effetto riuscivano a risultare snervanti, quando troppo personali.
«Mi ha detto che tu sei già andata avanti con un'altra persona, o almeno che ci stai provando». Un respiro lento. «E che questa persona è Harry».
Lei trattenne un respiro, improvvisamente più a disagio: Miles non si era mai premurato di mettere la sorella al corrente di questioni che pensava non la riguardassero, soprattutto perché non era mai venuto a sapere del suo flirt passeggero con Harry. Evidentemente, però, il momento della verità era arrivato.
«Mi dispiace non averti detto di me e lui», esclamò quindi: più di una volta l'aveva ascoltata parlare di lui, ma mai aveva accennato al loro passato o al loro presente.
Lea scosse la testa con un sorriso mite. «No, non preoccuparti: capisco che non erano affari miei», la rassicurò: le sembrò un discorso vagamente superficiale, ma non la interruppe. «E mi fa piacere che tu non ce l'abbia con me, nonostante quello che è successo con Harry».
Stavolta fu Emma a scuotere il capo, stringendosi nelle spalle. «Non sono quel tipo di persona», le ricordò, forse mentendo in minima parte: sapeva essere terribilmente gelosa, e non poteva negare di aver sentito un forte risentimento nei confronti di Lea, ogni volta che pensava alle sue attenzioni per Harry, ma non le avrebbe sicuramente portato rancore. «E poi, tu stessa hai detto che tra voi è durata pochissimo: non ti ha scaricata subito, per citarti?»
E lui stesso aveva chiarito come l'avesse usata per avere una reazione da Emma.
Lea si accigliò appena, ma le sue labbra continuarono a formare un sorriso esitante. «Sì, diciamo che ci siamo visti solo un paio di volte», confermò. «Però non ero certa che per te fosse indifferente il fatto che siamo andati a letto insieme: per questo mi ha fatto piacere sapere che... Be', che va tutto bene».
L'ambiente che le circondava svanì in un silenzio surreale: Emma restò con lo sguardo sul suo viso, le mani abbandonate sul tavolo in legno ed il respiro immobile. Rielaborò le parole appena udite, ripercorrendole mentalmente più e più volte solo per accertarsi di non star vivendo una brutta illusione, uno scherzo di cattivo gusto.
«Come?» riuscì solo a sussurrare, senza nemmeno sbattere le palpebre.
Lea la osservò con confusione, ma capì immediatamente: si appoggiò allo schienale della sedia e schiuse le labbra. «Io... Pensavo che tu lo sapessi. L'ho dato per scontato, voglio dire... Non so nemmeno perché, è solo-»
Emma non ebbe bisogno di interrompere verbalmente le sue scuse, perché fu il suo volto a parlare al suo posto: strinse i pugni sul tavolo, per cercare di contenere l'inferno che si agitava a livello del suo stomaco in quel momento. Non poteva credere che Harry fosse stato con Lea, che le avesse mentito a riguardo – facendole intendere di esser stata solo una provocazione – e che avesse osato disprezzare il comportamento di Miles, quando il suo si era rivelato così simile.
«Quando è successo?» domandò meccanicamente, serrando la mascella.
Lea si mostrò dispiaciuta. «Emma, mi dispiace davvero: non volevo fartelo sapere in questo modo».
Stava pregando che lei le dicesse che era successo solo all'inizio, prima di tutto.
«Va bene, non fa niente», la rassicurò, con una freddezza glaciale: non ce l'aveva con lei, non voleva incolparla, ma le era impossibile trattenere la delusione. Arginarla. «Quando è successo?» ripeté.
«Più o meno una settimana prima della mostra al Rogers Museum», rispose Lea. «Prima che mi scaricasse».
Cercò di aggrapparsi a quella briciola di sollievo derivante dalla consapevolezza di un episodio lontano, non in grado di macchiare i loro recenti passi avanti. Ma non fu sufficiente.
Harry aveva goduto nel presentarsi a paladino della giustizia e della sincerità, accusando Miles di essere un vile per il suo tradimento e lei di avere sospetti infondati: a quella stessa mostra – e dopo essersi riavvicinato in mille modi, dopo essere andato a letto con Lea – le aveva rimproverato di essere troppo cieca, di aver frainteso le sue intenzioni nel chiedere proprio a Lea informazioni sull'evento. Aveva indossato una maschera ben progettata, in modo da risultare la vittima, ma aveva taciuto su ciò che effettivamente avrebbe dovuto confessare.
Lo disprezzava per questo.
Poteva accettare il fatto che fosse stato con un'altra, dal momento che la loro storia in quel periodo non era nemmeno ricominciata, ma non poteva accettare la sua disonestà. Non con lei, non nel sospetto di tutte le sue paure. Non un'altra volta.
Era la menzogna a farle male, la lucida volontà di nasconderle la verità, anche quando lei lo rimproverava ed anche quando si esponeva nel dichiararsi spaventata da ulteriori ferite. Non era facile sentirsi presa in giro per l'ennesima volta: era solo terribile.
«È meglio che io vada, adesso», si congedò, alzandosi lentamente dalla sedia ed infilandosi la giacca.
Lea la imitò nei movimenti, allarmata. «Mi dispiace davvero tanto», ripeté di nuovo.
«Non sono arrabbiata con te, Lea: tu non potevi saperlo e, in fondo, in quel periodo tra me ed Harry non c'era nulla di certo», disse a bassa voce. Nemmeno in quel momento poteva più essere sicura della solidità del loro rapporto. «Non hai nessuna colpa, davvero», cercò di rassicurarla: la verità era che non voleva sfogare la propria rabbia in sua presenza, perché sentiva di averle ceduto anche troppo, inconsapevolmente. Voleva solo andarsene.
«Ok, m-»
Emma si allontanò, senza nemmeno lasciarle terminare la frase.
 
 
 
Un nuovo messaggio: ore 22.56
Da: Harry
“Perché continui a staccarmi le chiamate?”
 
Un nuovo messaggio: ore 23.14
Da: Harry
“Che sta succedendo?”
 
Un nuovo messaggio: ore 23.23
Da: Harry
“Mi sono stancato di chiamarti: quando hai voglia, fatti sentire”
 
 
 
Emma percorse le scale velocemente, con la mascella serrata con tanta rabbia da provare dolore: suonò il campanello, poi bussò alla porta ed infine suonò un'altra volta. Temeva che il proprio viso potesse sgretolarsi da un momento all'altro, data la tensione che lo stava plasmando fino all'inverosimile: sapeva che quella momentanea assenza di espressività fosse sul punto di lasciare il posto alle sue reali emozioni, ma non voleva che accadesse mentre era sola.
Udì Pete borbottare un «Arrivo» infastidito, e l'istante successivo la porta era aperta: per pochi istanti non fecero altro che osservarsi. Emma aveva le braccia rigide lungo i fianchi e gli occhi sicuramente in grado di allarmare chiunque li avesse conosciuti un po' più a fondo. Difatti, il suo amico corrugò la fronte, con le labbra ancora schiuse per l'intenzione di maledire chiunque l'avesse disturbato con così tanta insistenza. La osservò attentamente, comprese.
«Aspetta un attimo», mormorò serio, prima di chiudere di nuovo la porta e lasciarla sul pianerottolo: Emma abbassò le palpebre e si trattenne, cercò di resistere alla confusione ed alla necessità di rompersi. Non capiva il perché di quell'attesa, ma si decise a contarne ogni secondo solo per restare aggrappata alla realtà.
Dopo settantré secondi esatti, la porta si spalancò di nuovo, ma sulla sua soglia comparve una ragazza minuta e dai lineamenti paffuti: un viso dolce e roseo a studiarla con curiosità, forse compassione, e due occhi castani a riprendere il colore dei capelli ricci, voluminosi.
Emma capì di aver interrotto qualcosa, ma non riuscì a sentire il peso di quella responsabilità: la ragazza la superò velocemente, stringendo a sé una borsa forse recuperata in fretta, sotto sollecitazione di Pete.
Pete.
Aspettò che non ci fosse più nessun'altro oltre loro, su quel pianerottolo, ed aspettò che i passi sulle scale si facessero sempre più deboli: subito dopo, fece un passo avanti e si tirò Emma contro il petto, stringendola tra le braccia con così tanta energia da impedirle un'inspirazione. Lei singhiozzò sul suo torace, aggrappandosi alla sua t-shirt smessa, e cercò di godere del suo calore, del suo profumo familiare. Cercò di sentire la fiducia che poteva riporre in quella stretta asfissiante, sicura. Cercò di compensare tutto ciò che percepiva come una mancanza.
«Sei qui», le sussurrò Pete all'orecchio, accarezzandole i capelli con movimenti fermi, ma delicati. «Sei con me», continuò.
Emma nascose il viso contro il suo collo, continuando a piangere.
 
Strinse tra le mani la tazza di thé ancora caldo, inspirandone il profumo aromatico. Raggomitolata su una delle sedie intorno al tavolo, si ostinava a tenere gli occhi fissi sul liquido ambrato.
Pete, dall'altra parte del tavolo, la osservava senza alcuna insistenza: non cercava di scavare nei suoi pensieri, né stava aspettando che gli venissero illustrati. La stava semplicemente controllando.
L'aveva accolta in casa sua senza alcuna esitazione, persino cacciando più o meno delicatamente la ragazza che probabilmente aveva invitato con modi di fare più o meno delicati: l'aveva stretta e le aveva asciugato le lacrime, ma non aveva parlato, se non per ricordarle di respirare piano e per offrirle quel dannato thé.
Emma si sentiva in dovere di dargli almeno una spiegazione, ma dire qualcosa avrebbe significato ammetterne la reale esistenza. E lei non era pronta a prendere reale coscienza della propria debolezza, della patetica ferita che si ostinava a non rimarginarsi: in altri periodi della sua vita non avrebbe reagito così, sarebbe stata forte e decisa, avrebbe urlato e si sarebbe fatta rispettare sin dal principio. Mentre ormai, dal tradimento di Miles, sembrava aver perso qualsiasi forma di resilienza: non riusciva ad affrontare le cose al modo giusto, permetteva loro di spaventarla a tal punto da renderla inerme. Inutile.
«Quella era la ragazza dell'appuntamento?» domandò flebilmente, come per mettere alla prova la propria voce. Se la schiarì, quando la percepì troppo spezzata.
Pete probabilmente annuì. «Si chiama Mandy».
«È carina», si complimentò, alzando lo sguardo su di lui.
«È brava a letto», scherzò lui, forse sperando di spezzare la tensione: dovette pentirsene subito dopo, però, quando il viso di Emma si incupì di nuovo. «Cosa è successo?» le domandò quindi, insospettito da una reazione tanto sensibile: il suo tono di voce era intriso di minaccioso sospetto, come se l'ipotesi che si era appena formulata nella sua mente si fosse rivelata semplicemente intollerabile.
Non voleva raccontarlo.
I suoi occhi si specchiarono nuovamente nella tazza ancora piena.
«Non mi piace quello che sono diventata», sussurrò, così piano da chiedersi se fosse stato solo un proprio pensiero. «E non riesco... Non so come fare a tornare quella di prima», aggiunse: le mancava il suo essere combattiva in ogni aspetto della vita, ma se ultimamente aveva sentito di poter riacquistare la stessa forza, con la delusione appena subita – ed ingigantita dai suoi timori – sentiva di esser tornata al punto di partenza.
«Non puoi decidere di cambiare da un momento all'altro», le ricordò Pete, lentamente. «Sarebbe troppo semplice, non credi?»
Emma sospirò. «Vorrei solo che fosse un po' meno difficile».
«Lo so».
Le piaceva come Pete fosse in grado di ascoltarla senza essere indiscreto, né di parte: sapeva come affrontarla anche nei momenti più duri – ne aveva dato prova in seguito al tradimento con Miles, quando l'aveva accompagnata in ogni istante di debolezza con costante tenacia – e sapeva quando parlare, quando stare in silenzio e quando aspettare.
Passarono diversi minuti in silenzio, nei quali lui non le chiese di nuovo cosa fosse accaduto: non avendo ricevuto una risposta la prima volta, sapeva che non l'avrebbe ricevuta nemmeno in seguito, a meno che lei non avesse deciso di confidarsi spontaneamente.
«Vuoi restare qui, stanotte?» le domandò invece, alzandosi dalla sedia e togliendole di mano la tazza di thé: non ne aveva bevuto nemmeno un sorso.
Emma scosse la testa. «No, grazie».
«Vuoi che ti riaccompagni a casa?»
«No».
Pete la osservò per qualche istante. «Sai? Mandy è un'appassionata di cinema», esordì poi, tossicchiando fintamente. «Il suo film preferito è Notting Hill e be', diciamo che mi ha lasciato il compito di vederlo. Le ho anche detto che partiamo già male, se pensa di rifilarmi ogni straccio di film da diabete, ma... Il fatto è che l'idea di chiudermi in stanza con Hugh Grant e Julia Roberts che amoreggiano a ritmo di canzoni sdolcinate mi fa venire la nausea, quindi se tu mi facessi compagnia, magari sarebbe tutto meno deprimente».
Lei sorrise a labbra chiuse. «Streaming o DVD?» domandò soltanto, accettando la proposta.
«Streaming, ovviamente. Non ci tengo ad avere le prove materiali di una cosa tanto patetica».
 
 
 
Un nuovo messaggio: ore 01.02
Da: Harry
“Emma cazzo rispondi”




 


Sono di un'incostanza allucinante, me ne rendo conto ahahahha Nello scorso spazio autrice avevo detto che avrei ritardato nell'aggiornamento, ieri stesso ho rieptuto che avrei aggiornato la prossima settimana, ed invece eccomi qua, due giorni in anticipo.... Vi avverto: se andrete all'università, mettete in conto di perdere il potere decisionale sull'organizzazione della vostra vita. E se ci siete già, siate comprensive hahaha
Detto questo:
- Pete/Nikole/Emma: mi era mancato scrivere di un'atmosfera così leggera, quinsi spero vi abbia fatto sorridere almeno un po' :) Dopo la notte trascorsa, Emma è davvero tornata uan ragazzina che ha bisogno di confidarsi con i suoi migliori amici: ed ammette anche che forse stanno nascendo dei sentimenti per Harry (Pete stesso lo sospetta). Dallas è in città: secondo voi si incontreranno?
- Lea: TA DAAAAAAAAAN! Piccola novità, ma non per questo di scarsa importanza: dopo aver scoperto di Emma ed Harry, si sente in dovere di assicurarsi che tra loro vada tutto bene. Svela addirittura di essere andata a letto con Harry (sinceramente, conoscendo Emma, anche io avrei cercato di capire se davvero a lei stesse bene hahaha), particolare che lui non ha mai confessato: ogni volta che si è parlato di lui e Lea, infatti, Harry ha sempre fatto l'enigmatico, lasciando intendere ad Emma che fosse solo un modo per indispettirla (ma non ha mai negato nulla, attenzione: eheheh si sa che lui non mente, al massimo omette). Preciso anche qui che Emma non è sconvolta dal fatto che tra loro ci sia stato qualcosa, ma dalla presa in giro e dalla mancanza di onestà: la sua fiducia è terribilmente precaria al momento (indebolita dal tradimento di Miles e dalla paura di essere ferita di nuovo), quindi reagisce davvero male. E si odia per questo, il che peggiora ancora di più il suo stato d'animo.
- Harry/Emma: Emma lo ignora completamente, ovviamente. Secondo voi chi andrà da chi?
- Pete/Emma: CUORE DELLA MIA VITA, voi non avete idea di quanto io ami Pete hahahah Sarà anche un orso brontolone e scorbutico, ma nel momento del bisogno sa esserci (ha anche mandato via la sua bella ragazzuola, non appena ha visto lo stato in cui era Emma). Gli voglio un sacco bene <333333333333333333333333333
E niente, spero che il capitolo vi sia piaciuto :) Sono curiosa di sapere quali sono le vostre congetture riguardo ciò che accadrà ed i vostri parei su ciò che si è scoperto!
Il numero delle recensioni è un po' incostante ultimamente (ahimé, sono comunque un parametro fondamentale per capire le reazioni ai capitoli), quindi non sono sicura che vada proprio tutto bene, ma ringrazio chiunque si sia fatto vivo (anche su Ask e su Facebook), perché siete dei cuori giganteschi!!! :)

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
     
  

 

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Capitolo 25
*** Capitolo venticinque - Nobody like that ***




 

Capitolo venticinque - Nobody like that

 

Piangersi addosso non era mai stata una sua prerogativa, qualcosa di cui andare fiera. Aveva sempre trovato inutile e deleterio il crogiolarsi nei propri problemi in attesa di una soluzione: sempre, anche quando non riusciva a fare altro ed era costretta ad assumere l'atteggiamento che tanto criticava.
Era ora di smetterla.
Harry l'aveva ferita e lei lo aveva allontanato, scappando dal problema e logorando i propri pensieri intorno a mille debolezze: non avrebbe più continuato ad esercitare un ruolo così passivo. In fondo, se disprezzava tanto l'Emma che era diventata, toccava solo a lei fare qualcosa per rinnovarsi e rinforzarsi: nessuno avrebbe potuto farlo al posto suo, nessuno avrebbe potuto smuoverla senza una sua predisposizione al cambiamento.
Per questo motivo, la mattina dopo chiese ad Harry di raggiungerla all'università, una volta terminate le lezioni: non voleva più fuggire dalle proprie ferite, ma affrontarle apertamente ed accettare qualsiasi conseguenza.
 
 
 
L'auto di Harry era parcheggiata dall'altra parte della strada, in ombra dal sole pallido di ottobre: Emma la raggiunse a passo svelto, stringendo con una mano la cinghia della propria borsa e sistemandosi i capelli vagamente arruffati per l'umidità. Il suo cuore scalciava nella cassa toracica, intimorito dalla sua determinazione: le ordinava di tornare indietro, di proteggersi.
Salì al posto del passeggero sbarazzandosi di un sospiro silenzioso: prima ancora di posare gli occhi su Harry, sentì il suo profumo accoglierla con prepotenza, ricordandole che l'ultima volta che l'aveva percepito erano ancora tra le stesse lenzuola.
Si schiarì la voce e si inumidì le labbra, stringendosi le mani sul proprio grembo: quando si voltò nella sua direzione, con una forzata decisione, lo trovò ad osservarla seriamente. Il cipiglio sulla sua fronte leggermente accentuato e la bocca serrata, forse nel tentativo di non parlare troppo presto. Era ovvio che presagisse qualcosa di strano, di minaccioso, ed era altrettanto ovvio che fosse spazientito dal silenzio di Emma e dal modo in cui l'aveva ignorato per più di dodici ore: non tentò di salutarla, né di avvicinarsi per imitare almeno pallidamente l'intimità che solo un giorno prima avevano condiviso.
Per pochi istanti nessuno parlò, sottolineando una tensione sbilanciata e non compresa da entrambe le parti. Poi, Harry girò la chiave nel cruscotto ed il motore si accese placidamente.
«No», lo fermò Emma, prima che lui potesse inserire la marcia. «Restiamo qui», lo informò: non era stato un invito, ma un metterlo al corrente di una decisione irremovibile. Non aveva intenzione di allontanarsi con lui e di litigare chissà dove – perché sarebbe sicuramente successo: preferiva rimanere in quell'esatto punto, dove la sua determinazione non aveva tempo per dissolversi.
Harry corrugò la fronte e mise a tacere la propria auto, con gesti lenti. La scrutava con un'espressione confusa, ma anche irritata dal non capire: era stranamente preoccupato.
Lei inspirò a fondo ed ignorò i brividi sulle braccia. «Perché non mi hai detto di aver fatto sesso con Lea?» chiese soltanto, senza distogliere lo sguardo dalle sue iridi: nonostante fosse piuttosto doloroso, non voleva perdersi nemmeno una loro sfumatura, nulla che avrebbe potuto aiutarla in quella discussione.
Il viso di Harry si rilassò, come scoperto della sua maschera: schiuse le labbra e per un istante si voltò a guardare fuori dal finestrino. Quando tornò su di lei, si passò una mano tra i capelli. «È stata lei a parlartene?» ribatté, serrando la mascella per un'irrequietezza improvvisa e fastidiosa. Evidentemente avrebbe preferito che quel particolare scomodo fosse rimasto un segreto.
Una minuscola e timida parte di Emma aveva sperato in una reazione oltraggiata, in una pronta smentita di quell'accusa tanto ingiuriosa: si era soltanto illusa e, anche se aveva cercato di dare poco peso a quella remota possibilità, non poté negare una vaga delusione. Dall'altra parte, il ricevere una conferma indiretta la colpì meno profondamente di quanto avesse immaginato: aveva passato gran parte della notte precedente e delle lezioni universitarie a cercare di metabolizzare quella nuova verità, quindi non poteva esserne ferita in misura maggiore. Restava solo il dolore di sentire la voce di Harry avvalorare le sue azioni.
«Sì», confermò, estraniandosi da quei pensieri. «Almeno lei ne ha avuto il coraggio».
Lui assottigliò gli occhi, teso. «Credi che l'abbia fatto per paura?» le domandò, incredulo.
Emma non sopportava la sua aria spavalda, seppur minata da un mite timore. «Cosa? Scopartela, o fingere di non averla nemmeno toccata?» sbottò quindi.
Il respiro di Harry si fece più profondo. «Io non ti ho tradita», scandì lentamente, come a ricordarle un particolare non indifferente, come ad ammonirla per le parole future.
«In un certo sì, l'hai fatto», lo contraddisse. Combatteva per mantenere la calma, per impregnarsi della forza che sapeva di avere ma che non riusciva a sfruttare come un tempo: la percepiva e voleva solo che fosse sempre più facile raggiungerla.
«In un certo senso?» ripeté lui, corrugando la fronte e spostandosi sul sedile per poterla fronteggiare meglio. «Di che stai parlando?»
Emma inspirò profondamente e si morse un labbro nervosamente. «So perfettamente che tu e Lea siete andati a letto prima che tra noi succedesse di nuovo qualcosa, so che non posso avanzare nessuna pretesa su questo e so che, anche se odio il fatto che tu sia stato con lei, non è una cosa che posso rimproverarti», cominciò, parlando velocemente per l'inquietudine. In fondo, in quel periodo era lei la prima ad allontanare Harry, a chiedere spazi che evidentemente lui aveva compensato con un'altra, anche se solo per una volta: sarebbe stata un'ipocrita nell'obbligarlo ad una fedeltà platonica. «Ma non è questo il punto, non capisci? Il punto è che tu mi hai presa in giro: mi hai fatto credere che tra voi non fosse successo niente, che fossi io quella troppo gelosa. Mi hai mentito».
«Non ti ho mai mentito», precisò Harry, iniziando ad alterarsi. «Ho solo omesso qualcosa c-»
«Che razza di scusa è?» lo interruppe bruscamente. «Credi che detto così suoni meglio?»
«No, credo che potresti almeno sforzarti di chiedermi perché io l'abbia fatto!»
«Che bisogno c'è di chiederlo? È ovvio che stavi agendo nei tuoi interessi, e solo per nascondere qualcosa che sapevi avrebbe compromesso le cose!»
Harry si accigliò e si ritrasse impercettibilmente, stringendo il volante con la mano destra. «È davvero questo che pensi?» domandò a bassa voce, macchiando il suo tono di risentimento.
«Cos'altro dovrei pensare?» perseverò Emma, osservandolo con attenzione. «Ti stavi impegnando così tanto per riavvicinarti a me, perché mandare tutto all'aria? Perché dirmi che sì, ti eri divertito a farti Lea chissà dove? Perché rischiare di allontanarmi?»
«Perché?» la imitò lui, abbozzando un sorriso incredulo ed irato. «Non meriti nemmeno una risposta», sibilò, muovendosi per recuperare ed accendere una sigaretta.
Emma respirò il fumo aspro e serrò la mascella, confusa ed incapace di concentrarsi per ragionare lucidamente: sentiva solo il bisogno di spingersi oltre ogni limite dettato dalla sua paura, di dire tutto e subito per non tralasciare niente, di insistere fino a non averne più le forze. «Invece me ne devi una», lo provocò, ricordandogli i suoi doveri ed i propri diritti.
Harry non la guardava più: abbassò il finestrino quel poco che bastava per sporgere la sigaretta al di fuori e far cadere della cenere, poi si leccò le labbra secche ed inspirò di nuovo. «È vero», iniziò piano, «ho pensato che ti saresti incazzata nel sapere di Lea».
Lei aprì la bocca per infierire, per reclamare la ragione, ma fu anticipata. «Ma non è questo il motivo per cui non ti ho detto niente», continuò Harry, con gli occhi fermi sul cruscotto. Aspettò una manciata di lenti secondi prima di riprendere. «L'ho fatto per te. Per quello che mi avevi detto di Miles».
Emma trattenne il respiro e rabbrividì intensamente, paralizzata da quelle parole.
«Pensi che dopo tutto quello che mi hai raccontato, dopo aver pianto di fronte a me, sarebbe stato facile dirti con tranquillità di Lea?»
C'era un certo tepore, in quei significati masticati dall'orgoglio, un calore rassicurante: Harry aveva cercato di proteggerla, di non farle ricordare situazioni che voleva dimenticare. Nonostante anche lui sapesse che il suo non poteva essere considerato un vero tradimento, aveva tentato di evitare qualsiasi analogia.
Ma non era abbastanza.
«Così hai pensato di fare di peggio?» sussurrò lei, con gli occhi che reclamavano un contatto visivo, un contatto che non tardò ad arrivare. Harry la accontentò con rabbia e stupore.
«Di peggio?» ripeté sprezzante. «Ho cercato di-»
«Avresti dovuto dirmelo in ogni caso, soprattutto dopo le cose che ti ho raccontato!» lo interruppe Emma, alzando la voce e chiudendo gli occhi per un paio di istanti. Il suo petto si muoveva velocemente, per manifestare la sua reale irrequietezza.
Silenzio.
«Avresti dovuto essere sincero», continuò flebilmente, tornando a guardarlo: le iridi blu che si sbarazzavano di parte della loro imperscrutabilità. «Invece sei riuscito a farmi sentire di nuovo-» Si interruppe per nascondere una debolezza, per serrare le labbra e deglutire parole dolorose.
Harry la osservò con un'espressione tesa. Dispiaciuta. «Non volevo», disse soltanto. Il timbro roco a coprire i respiri di entrambi.
Emma colse quelle poche sillabe come ciò che di più simile ad una scusa avrebbe mai potuto ottenere: le accettò, ma non riuscì a cibarsene, ancora troppo diffidente. Abbassò lo sguardo.
«Emma», la richiamò lui, alzandole delicatamente il viso con due dita sotto il mento. «Non volevo», ripeté nei suoi occhi, cercando disperatamente di convincerla.
Lei indietreggiò di poco, fino ad interrompere il contatto con la sua pelle ed i ricordi delle sue carezze, consigliandogli di ritrarsi di conseguenza. «Io te l'avevo detto», mormorò. «Ti avevo detto di avere... Paura», precisò, facendo una pausa per riconoscere la vergogna di quei sentimenti che aveva iniziato ad odiare. «E queste cose non mi aiutano».
Harry dovette cogliere qualcosa di sospetto nei suoi occhi, perché si premurò di ammonirla. «Stai esagerando», disse stoicamente, gettando la sigaretta mezza consumata dal finestrino.
«Sì, forse sì. Forse faccio più pena di quello che dovrei o che vorrei, ma le cose stanno così», affermò, in parte infastidita dal suo tono distante. «Non ne posso più di dare tanto e di dover tornare indietro subito dopo. Con Miles ho dato tutto e-»
«Non azzardarti a paragonarmi a Miles», la interruppe duramente.
Lei lo ignorò. «Gli ho dato tutto e lui mi ha ripagata tradendomi, per di più senza nemmeno un motivo. Tra me e te le cose sembravano andare finalmente meglio, ma poi vengo a scoprire che anche tu mi hai mentito».
«E vorresti mettere a confronto le due cose?» la rimproverò, indignato dalle sue parole.
«Sì, perché vorrei solo della dannata onestà!» rispose, alzando nuovamente la voce a causa della frustrazione. «Vorrei potermi fidare di nuovo fino in fondo di qualcuno, invece quando ci provo sono costretta a pentirmene!»
«Quindi cos'hai intenzione di fare?» la provocò, con aria di sfida. «Scaricarmi solo perché ho cercato di non farti soffrire? Cercare qualcuno di assolutamente perfetto che non sbagli mai? Be', mi dispiace per te, ma non esiste nessuno del genere».
Emma lo guardò con una vena di rancore: sapeva che Harry aveva ragione, che era assolutamente ridicolo essere così timorosa di rischiare, e sapeva che faceva bene a metterla di fronte alla realtà delle cose, ma non riusciva ad accettare il suo tono. Come una bambina, avrebbe voluto solo... Lui doveva solo consolarla.
Non stava cercando di scaricarlo, stava cercando di pregarlo di non sbagliare: voleva una rassicurazione, voleva che lui capisse in che guaio si fosse cacciato immergendosi nelle sue debolezze senza nemmeno chiedere permesso, voleva che la guardasse negli occhi e che le promettesse di non farlo più, di impegnarsi.
«Grazie», disse soltanto, serrando i pugni. «Ora devo andare», aggiunse in un soffio, aprendo velocemente lo sportello. E mentre Harry borbottava un «Sì, vai», lei si allontanò con il cuore traboccante di rabbia e delusione.
 
 
 
Appena entrò in casa, sentì la necessità di urlare a pieni polmoni e poi di uscire ed urlare di nuovo: doveva essere uno scherzo del destino, per di più di cattivo gusto, perché trovava terribilmente assurdo che Dallas Butler fosse comodamente seduto sul divano del proprio salotto, a chiacchierare amorevolmente con i coniugi Clarke.
«Emma, ti stavamo aspettando!» la salutò Constance, alzandosi dalla poltrona ed invitandola ad avvicinarsi con un cenno della mano, mentre le sorrideva apertamente e con curiosità.
«Sei in ritardo», le fece presente Ron, senza scomporsi più di tanto: probabilmente stava valutando la situazione, impegnandosi a mantenere un certo educato contegno nonostante sapesse che sua figlia e quel ragazzo avevano perso di vista la loro amicizia.
Lei sospirò sonoramente, indispettita, ma lo ignorò. «Che ci fai tu, qui?» domandò bruscamente a Dallas, osservandolo con le braccia incrociate al petto. Lui si era voltato nella sua direzione, distendendo le labbra sottili in un sorriso cauto ed interrotto dalla familiare cicatrice all'angolo destro della bocca. I suoi occhi cerulei la guardavano come se non avessero mai smesso di farlo, come se avessero ancora il diritto di capirla: brillavano della stessa spensieratezza che l'aveva affascinata, della stessa vitalità che poi aveva interposto delle distanze.
«Sono venuto a trovarti», le rispose, passandosi una mano sul capo rasato e sul collo magro: sembrava abbronzato, o forse erano solo i suoi ricordi ad essere sbiaditi.
«Non si usa più avvertire?» sbuffò Emma, voltandosi per appendere la giacca al suo posto e per masticare delle imprecazioni.
Constance la rimproverò a bassa voce per i suoi modi scortesi, ma non si trattenne oltre: afferrando Ron per un braccio e costringendolo a seguirla, si diresse in cucina per lasciare soli i diretti interessati. Emma li osservò con le mani sui fianchi e le labbra increspate dal nervosismo: intravide Fanny nascosta nel corridoio, che si ritrasse velocemente non appena si accorse di esser stata scoperta.
«Se ti avessi avvertita, probabilmente saresti rimasta fuori casa tutto il giorno pur di non vedermi», sospirò Dallas, alzandosi in piedi ed assumendo un'espressione più morbida, forse pentita. «O saresti partita per il Venezuela e avresti cambiato nome in Consuelo», aggiunse con un sorriso.
Lei non lo ricambiò. «Sì, probabilmente l'avrei fatto», confermò con fierezza. Non era esattamente il momento adatto per scontrarsi anche con lui.
Dallas si fece più serio, forse consapevole del muro di distanza con il quale doveva confrontarsi: si aggiustò il maglioncino nero e si inumidì le labbra, guardandosi intorno. «Possiamo parlare?»
«Solo se hai qualcosa di intelligente da dire, altrimenti non sprecare nemmeno energie: la mia giornata fa già abbastanza schifo senza il tuo contributo», rispose Emma, senza muoversi.
Lui annuì ed inspirò a fondo, come sollevato dall'aver ricevuto una possibilità. «Andiamo di sopra?» propose, indicando le scale con un cenno del capo.
Emma corrugò la fronte per la libertà che si era preso, decisa a non concedergli nulla, ma dovette riconoscere che l'idea non era priva di fondamento: i suoi genitori stavano sicuramente origliando tramite il legno chiaro della porta della cucina. Acconsentì con uno sbuffo e si diresse velocemente verso la propria meta: con Dallas a pochi passi da sé, sentì Fanny sgattaiolare nell'ombra per non farsi vedere. Alzò gli occhi al cielo e si impose di non pensare.
Percepiva il suo profumo e non riusciva a riconoscerlo: era così diverso da quello che l'aveva cullata anni prima, estraneo. La discussione con Harry l'aveva debilitata, ma in qualche modo la consapevolezza di essere in procinto di intraprenderne un'altra era in grado di distrarla: Dallas riusciva ad aiutarla anche non direttamente, anche nel peggiore dei modi.
Quando entrarono nella stanza di Emma, ancora disordinata e con il letto disfatto, Dallas la afferrò per un polso e la attirò a sé: se la strinse contro respirando sul suo collo, facendole trattenere il respiro per un corpo che non era più abituata a toccare. Lei spalancò gli occhi e si irrigidì, incapace di realizzare ciò che era appena accaduto o di ricambiare l'abbraccio.
Si dimenò con tutte le sue forze, obbligandolo a lasciare la presa. «Che diavolo ti prende, si può sapere?» sbottò, indietreggiando di un paio di passi ed osservandolo con incredulità: doveva essere impazzito, se pensava di poterla escludere dalla sua vita per poi ricomparire all'improvviso ed imporle un contatto simile.
Gli occhi di Dallas si mostrarono feriti, incerti. «Ci ho provato», sospirò, stringendosi nelle spalle con aria arresa.
Aveva voglia di tirargli un pugno.
«Hai un minuto per dire quello che devi», lo avvertì, sistemandosi i capelli su una spalla. Il suo gesto l'aveva scossa, l'aveva costretta a ricordare gli innocenti abbracci con i quali si erano aiutati a crescere, gli stessi che l'avevano lasciata più debole e sola. Non poteva che armarsi di tutta la propria determinazione per difendersi.
«Ok», sussurrò Dallas, come per accettare la sfida. «Sono stato un coglione e mi manchi, Ruth non sa che ti ho cercata, ma io sono venuto lo stesso», spiegò velocemente.
Emma assottigliò gli occhi e si morse l'interno di una guancia, valutando le sue parole. «Sono stato un coglione e mi manchi», lo scimmiottò con una smorfia. «Da quale commedia hai rubato questa battuta?»
«Emma-»
«No!» lo interruppe, alzando una mano per suggerirgli di non avvicinarsi. «Non ti credo nemmeno un po', lo sai? Non credo nemmeno lontanamente che tu abbia sentito la mia mancanza in tutto questo tempo, perché altrimenti non mi avresti messa da parte così facilmente! E ti presenti qui, pretendendo chissà cosa, quando hai appena ammesso che la tua preziosa Ruth non sa nemmeno delle tue intenzioni! È evidente che le cose non siano cambiate, quindi cosa vuoi? Riavvicinarti a me e tenere di nuovo la nostra amicizia segreta? Dio, Dallas!» si sfogò, gesticolando.
«Voglio rimediare ai miei errori», precisò lui, senza alzare la voce. Lo sguardo serio e deciso.
«E come? Commettendo di nuovo gli stessi?» indagò lei, senza capacitarsi di come non potesse rendersi conto della situazione paradossale. «Io non me ne starò di nuovo in disparte, mentre tu giochi a fare il bravo fidanzatino! Scordatelo!»
«Glielo dirò», promise Dallas, facendo un passo avanti. Lei ne fece uno indietro. «Glielo dirò e stavolta non le lascerò-»
«Non le lascerai farti il lavaggio del cervello?» lo interruppe di nuovo, urlando un po' di più. «Lei sarà anche una stupida, ma sei stato tu a darle ascolto. Sei stato tu a trattarmi come se fossi la persona più insignificante del mondo. Sei stato tu ad allontanarmi e a dimostrarmi quanto poco fossi importante ai tuoi occhi! Chi mi dice che non lo farai di nuovo? Che non appena lei si mostrerà gelosa ed incazzata, tu non deciderai di sparire un'altra volta? Dimmi, hai già pensato ad un nuovo nome con cui salvarmi in rubrica? Hai già pensato ad un posto dove incontrarci senza che lei lo sappia?»
Non riusciva nemmeno a controllare le parole che pronunciava: i suoi pensieri erano talmente caotici ed insistenti, da trovare il modo di manifestarsi senza sottostare ad un ordine razionale. L'instabilità di Emma, già minacciata da Harry, era stata attaccata da un altro dolore: era difficile sopportare tutto il carico senza perirne.
«Lo so, ho sbagliato, ma è proprio per questo ch-»
«Hai sbagliato?!» La sua voce le imponeva di inveirgli contro, senza dargli tempo per ribattere: ogni sua parola era un incentivo a continuare, una provocazione al suo autocontrollo. «Sei stato un immenso stronzo, che è diverso!»
«Cristo, Emma, lasciami parlare!» sbottò lui, frustrato. «Sto cercando di scusarmi!»
«E allora fallo!» gridò lei, spintonandolo con le mani sul suo petto. Si guardarono negli occhi respirando velocemente, cercando di comprendersi oltre i torni alterati. «Fallo», ripeté Emma, più flebilmente ed abbandonando le braccia lungo i propri fianchi. «Perché te ne sei andato senza nemmeno una parola», sussurrò.
Dallas schiuse le labbra e le sue iridi si fecero più comprensive, più colpevoli. Lentamente, come per paura di essere respinto, appoggiò le mani sul suo collo e lo riscaldò con i propri palmi. Lei sussultò, ma non si allontanò. «Lo so», disse piano. «Lo so, e mi dispiace».
Emma serrò la mascella e sentì gli occhi bruciare appena.
«Mi dispiace tanto», ripeté Dallas, avvicinandosi per sfiorarle la fronte con la propria. Lei abbassò le palpebre, per fare chiarezza in ciò che stava percependo, ma se ne pentì subito dopo: standogli davanti, resistendo alle sue parole, si era accorta di quanto si sentisse diversa nell'affrontarlo. Dallas era scomparso dalla sua vita quando lei poteva ancora riconoscerla come tale, piena di tutta la sua euforia instancabile e della sua forza indiscussa: l'aveva lasciata quando era ancora intera. In quel momento, non poteva nemmeno immaginare cosa covasse sotto quegli occhi riluttanti, non poteva sapere delle sue debolezze e dei suoi timori: in qualche modo, Emma gli era immune. Si sentiva libera di osare un po' di più, sfruttando il vantaggio di essere sconosciuta ai suoi occhi almeno per certi aspetti: poteva fingere ancora, almeno fino a quando lui non si fosse accorto dell'inganno.
«Non credere che parole del genere bastino», gli disse, continuando a non rifiutare le sue mani su di sé: le erano mancate.
Dallas scosse la testa, piano. «No, però un po' aiutano», le rispose, accennando un sorriso fugace.
Emma si inumidì le labbra e strinse i pugni per obbligarsi a non accarezzarlo. «Io non mi fido di te», gli ricordò.
«Lo so».
«Sì, lo sai, come sai di aver sbagliato, eppure l'hai fatto lo stesso».
«Tu dovresti sapere quanto sia facile sbagliare quando si tratta di una persona che si ama».
«Io non ti ho mai messo da parte», precisò, rimediando alla sua velata accusa.
«No», confermò Dallas in un sospiro, allontanandosi dal suo volto quanto bastava per spostarle dalla fronte una ciocca di capelli. «Tu non l'hai mai fatto».
Quelle parole, impregnate di un affetto mal celato, la portarono a cedere spazio ad un'emozione più tenera e malleabile: non sapeva se sarebbe mai riuscita a perdonarlo, almeno fino in fondo, ma le era impossibile ignorare i suoi tentativi di rimediare. Provava ancora un infinito risentimento, ma non poteva non considerare tutto il resto.
«Mi manchi davvero, Emma», riprese Dallas. «Può sembrare una frase fatta, ma non lo è. Voglio solo... Mi sono pentito di essermi comportato in quel modo, ma voglio rimediare».
La sua pretesa la indispettì: fece un passo indietro e si liberò del contatto che la stava soggiogando, alzando il mento per darsi una maggiore dignità. «Che tu voglia non significa che ci riuscirai», gli fece presente. «Non ho intenzione di perdonarti molto facilmente, non ci riuscirei nemmeno volendo».
«Mi lascerai provare?»
«Fai quello che vuoi, Dallas», esclamò Emma, «ma sbaglia un'altra volta e giuro che ti ammazzo».
Lui sorrise apertamente, ammorbidendo i tratti adulti e rendendoli più simili a quelli di un quindicenne vivido nei suoi ricordi: tornò ad abbracciarla di slancio, baciandole una guancia più volte.
«Piantala», lo rimproverò lei, nascondendo l'ombra di un sorriso.
«Hai detto che posso fare quello che voglio», le ricordò Dallas, ignorando i suoi tentativi di liberarsi dalla sua stretta.
«Non scherzare», lo ammonì, arrendendosi lentamente. «Sono ancora arrabbiata con te».
«Vuol dire che ci tieni», le sussurrò all'orecchio, come svelandole un segreto.
Emma gli pizzicò un fianco solo per reagire in qualche modo, ma dovette cessare qualsiasi resistenza: con esitazione, gli circondò il busto con le braccia ed appoggiò il viso sul suo petto.
Non lo avrebbe perdonato facilmente, certo, ma poteva almeno ringraziarlo per essere tornato a prenderla. Per averci provato.
 
 
 
«Kent?»
«Tuo fratello è stato qui, oggi».
«Aspetta, non sento niente: la ricezione in questo posto fa schifo».
«Mi senti?»
«Adesso sì».
«Ho detto che tuo fratello è venuto a casa mia, oggi pomeriggio».
«Devo organizzargli il funerale o sei riuscita a risparmiarlo?»
«È ancora vivo, per sua fortuna».
«Peccato».
Emma sorrise alla luce del tramonto che filtrava nella sua stanza, raggomitolata nel letto.
«Be', se non l'hai ucciso, cosa è successo?»
«Quello che doveva: ovviamente ha ammesso di essere stato un coglione, ovviamente io ho urlato, lui mi ha chiesto scusa ed io gli ho detto che comunque dovrà sudare per farsi perdonare».
«E con Ruth cosa farà?»
«Ma voi due non siete fratelli? Non parlate mai? Comunque mi ha assicurato che questa volta sarà diverso: stento a credergli, ma... Vedremo, immagino».
«Vedremo».
«Sai? Anche se è fondamentalmente uno stupido, mi ha fatto piacere che mi abbia cercata».
«Hm».
«Insomma, almeno ha smesso di mandarmi i saluti tramite te e ha riconosciuto i suoi errori».
«Già».
«È assurdo che io gli voglia ancora bene nonostante tutto, vero?»
«È assurdo che tu gli voglia bene, punto».
«È che la sua presenza mi... Non so, Pete, sono persino riuscita a distrarmi da tutta la storia di Harry».
«Il magico Dallas...»
«Pete?»
«Che c'è?»
«Non sarai geloso?»
«Di chi?»
«Di Dallas».
«Io?»
«Sì, tu».
«Quando smetterai di dire cazzate del genere?»
«Non so... Il tuo tono sembra più annoiato del solito, quindi ho pensato che forse ti dia un po' fastidio non essere più l'unico Butler della mia vita».
«Piantala di ridere e di dire stronzate!»
«Va bene, ok. Ma sappi ch-»
«Devo andare, ciao».
Emma sorrise di nuovo, stringendosi il cellulare al petto ed immaginando il viso di Pete contrarsi per orgoglio ed arrossire. Qualsiasi suo ulteriore pensiero, però, fu stroncato da un leggero bussare alla porta. «Chi è?» domandò, mettendosi a sedere.
«Io», rispose Fanny a bassa voce.
«Vieni, entra», la invitò Emma, stupita da quella visita inaspettata.
Sua sorella aprì la porta lentamente, aggrappandosi alla maniglia come per trarne del coraggio: teneva lo sguardo basso e le labbra strette in una linea dura. Non si capiva se le sue guance fossero rosse per l'imbarazzo o per la luce calda del tramonto.
«Che succede?» domandò Emma, insospettita dal suo comportamento così cauto.
Lei non rispose.
«Fanny?» la richiamò dopo qualche istante. «Hai combinato qualche guaio?»
L'altra scosse vigorosamente la testa, continuando a rimanere accanto alla porta. Sembrava estremamente indifesa, con i capelli folti che le coprivano in parte il volto.
«Ti ricordi quando mi hai parlato dei ragazzi?» domandò Fanny, senza guardarla.
Emma spalancò gli occhi e fu invasa da un brutto presentimento. «Sì?»
«Ecco, mi hai detto che sono fastidiosi ed egocentrici. E poi hai blaterato qualcosa su quando escono e non tornano-»
«Sì, ricordo», la interruppe, in modo da non riprercorrere quella sfuriata involontaria ed imbarazzante.
«Volevo chiederti... Quel ragazzo che è venuto oggi... Anche lui è così?»
Emma trattenne il fiato e per poco non rise fragorosamente: si limitò a sorridere a labbra chiuse e ad immaginare la sua sorellina alle prese con una cotta clamorosa. «Ti piace Dallas?» le domandò, mentre ogni suo comportamento si rendeva più facilmente interpretabile.
Fanny raddrizzò la schiena e sbarrò gli occhi, ancora più rossa in viso.
L'attimo dopo, era già scomparsa in corridoio.
«Dovrei dirlo a Pete», commentò Emma tra sé e sé, continuando a sorridere ed abbandonandosi sul cuscino sotto di sé.




 


Hola!
Scusate il ritardo, ma a parte impegni personali ho avuto alcune difficoltà con il capitolo! Passo subito ai commenti:
- Harry/Emma: stavolta è proprio Emma a cercare un confronto, in modo da riscattarsi. Come lei stessa dice, è inutile rimproverarsi di una debolezza se poi non si fa niente per contrastarla. La loro discussione si tinge di toni un po' più calmi rispetto ad altre volte, ma spero che vi siate fatte un'idea di ciò che è realmente accaduto: forse potete immaginare perché Harry abbia reagito così, e sapete perché Emma se ne sia andata. Cosa ne pensate? Vi aspettavate un litigio in piena regola? Io non ho sentito la necessità di descriverlo, mi sono immaginata tutto in modo molto più soft, anche se con le solite dinamiche che coinvolgono Emma ed Harry: in ogni caso, se non riuscite a capire fino in fondo la reazione di Harry, sarà lui stesso a spiegare tutto!
- Dallas/Emma: FINALMENTE ahhaha Moltissime mi hanno chiesto di farlo rientrare in scena, senza sapere che io l'avevo già in programma EHEHEH Altrimenti non avrei nemmeno nominato la sua presenza in città :) Dallas prende in mano la situazione e si presenta direttamente a casa di Emma: ovviamente i suoi tentativi di chiedere scusa sono un po' banali, nel senso che in situazioni come queste non si può fare altro che iniziare così e poi dimostrare le cose passo per passo. Voi credete che riuscirà a farsi perdonare? Due paroline su Emma: all'inizio gli riversa addosso tutto il suo rancore, ma poi si scioglie un po'. Vorrei precisare che non è perché abbia accettato davvero le sue scuse, ma solo perché Dallas è comunque stata una persona importantissima per lei ed il fatto che si sia reso conto dei suoi sbagli, o almeno che stia provando a dimostrarlo, le fa piacere. Inoltre, essendo già abbastanza provata per Harry, non ha proprio tutte le energie per opporsi davvero.
- Pete/Emma: Pete geloso sarà sempre il mio preferito ahhahaha
- Fanny/Dallas: che dire? hahah Anche lei è stata colpita dal suo fascino!!

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che mi farete sapere le vostre opinioni! Ormai manca pochissimo alla fine della storia (OH MAMMA), vi avverto!
Grazie di tutto, as usual!!

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
     
  

 

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Capitolo 26
*** Capitolo ventisei - Comparison ***




 

Capitolo ventisei - Comparison

 

Nikole camminava lentamente lungo il marciapiede, tra i radi passanti distratti dai loro problemi: sbirciava le vetrine con poco interesse, smorzato dai propri pensieri e dalle parole di Emma, al suo fianco.
«Tu cosa?» sbottò all'improvviso, voltandosi nella sua direzione e sbattendo le palpebre, come indignata da ciò che aveva appena udito.
Emma indietreggiò appena, stupita da quell'improvvisa ed animata partecipazione al discorso. «Io... Me ne sono andata», ripeté, riacquistando sicurezza.
«Perché?» domandò l'altra, corrugando la fronte: aveva smesso di camminare, troppo impegnata a rimproverarla con quello sguardo plumbeo. Non attese una risposta. «Emma, cara», continuò infatti, rivolgendole un sorriso nervoso e posando le mani sulle sue spalle, «ogni tanto mi fai proprio cadere le braccia».
«Cosa avrei dovuto fare, scusa?» si lamentò lei, sbuffando e divincolandosi da quel contatto. Si imbronciò, vagamente confusa.
Nikole sospirò e scosse il capo. «Restare lì? Continuare a parlare? Baciarlo? Non so, fartelo in qualche modo?»
Emma le scoccò un'occhiata minacciosa, alzando un sopracciglio ed incrociando le braccia al petto. «Grandiosa strategia, non c'è che dire», borbottò.
«Sempre meglio che andarsene in quel modo», precisò l'amica, osservandola come in attesa di un cenno di assenso.
Emma aveva appena finito di raccontarle l'accaduto con Harry, risalente ormai a due giorni prima, in cerca di un velato conforto e magari anche di un consiglio. Era convinta che lui stesse aspettando una sua mossa, un suo riavvicinamento, e che non avrebbe ceduto molto facilmente, ma se da una parte lei credeva fermamente che quel diritto non gli spettasse, dall'altra covava un muto sospetto riguardo l'adeguatezza dei propri pensieri: qualcosa continuava a tormentarla, come un tarlo ancora troppo piccolo per essere scovato, ma comunque in grado di apportare fastidiosi danni.
Nikole le aveva appena fornito un indizio per individuarlo.
«Secondo me hai reagito in modo esagerato», continuò, stringendosi nelle spalle ed acquisendo un'aria affettuosa, per quanto accusatoria.
Emma si morse l'interno di una guancia, con una pungente sensazione all'altezza del petto. «È stato istintivo», disse flebilmente, come per giustificarsi a se stessa. La verità era che, da quando era scesa dall'auto di Harry, il dubbio di aver agito con correttezza o meno l'aveva assediata: tutto il suo corpo le aveva urlato di allontanarsi e mettersi al riparo, ma la sua testa si era mostrata caparbia nel volerla costringere a riflettere sulle proprie azioni. Aveva fatto bene a lasciarlo in quel modo? Ad interrompere quel confronto senza nemmeno darsi un'altra possibilità?
«Istintivo non è sinonimo di giusto», le ricordò Nikole, ammorbidendo la sua espressione. Continuò subito dopo, forse notando qualcosa incrinarsi nella sua amica. «Emma, capisco che per te certe cose non siano facili, ma non puoi...» Sospirò. «Harry si è scusato, a modo suo. È stato sincero, ha ammesso di non averti detto di Lea per paura di ferirti... Cosa vorresti di più? È vero, non è stato onesto sin da subito, ma l'ha fatto per te e tu dovresti apprezzarlo, invece di tenere in considerazione solo quello che ti spaventa di più».
Cosa vorresti di più?
Emma si incupì appena, intenta a rielaborare quelle parole: non le erano nuove, o almeno non lo erano per il suo inconscio. Avrebbe voluto che non fossero così vere, avrebbe voluto non sentirsi in colpa per un errore dettato ancora una volta dai suoi timori, ma non poteva fuggire ancora a lungo da quella consapevolezza.
Harry si è scusato, a modo suo.
«Sono una stupida», borbottò per la frustrazione, passandosi le mani sul viso e liberando un profondo sospiro.
invece di tenere in considerazione solo quello che ti spaventa di più.
«Una stupida», ripeté, inspirando a lungo e tornando a guardare Nikole, con le mani appoggiate sui propri fianchi.
«Devo contraddirti o...?» domandò l'amica, sorridendo scherzosamente ed assumendo un'espressione buffa.
Emma alzò gli occhi al cielo con divertimento e si inumidì le labbra. Doveva rimediare ai propri sbagli, doveva cercare Harry ed attenuare la mancanza che provava e che si era imposta inconsapevolmente, incolpando la persona sbagliata. Doveva vederlo.
«Nik, devo andare da lui», disse velocemente, macchiando di scuse la propria voce.
«Non so cosa tu stia aspettando», rispose l'altra, fingendosi confusa ed incredula.
Emma sorrise e si sporse per baciarle più volte una guancia. «Grazie», le sussurrò sulla pelle, mentre lei le stringeva appena un fianco, prima di guardarla allontanarsi quasi correndo.
 
Messaggio inviato: ore 17.02
A: Harry
“Mi dispiace. Dove sei?”
 
Un nuovo messaggio: ore 17.09
Da: Harry
“Al nuovo appartamento. Vieni solo se non te ne vai come l'altra volta”
 
 
 
Emma trovò la porta socchiusa, senza nessuno ad aspettarla: deglutì il fiatone che la scuoteva per aver corso fino a quel momento ed entrò nell'appartamento, guardandosi attentamente intorno. Gli spazi erano illuminati fiocamente, a causa del cielo nuvoloso e cupo di quel pomeriggio: sembravano disabitati, nonostante i pochi oggetti d'arredamento già presenti ed in ordine.
La presenza di Harry si manifestò con un fioco rumore proveniente dalla cucina: mentre lei si chiudeva la porta alle spalle e si dirigeva in quella direzione, si chiese se il fatto di non essere accolta da nessuno fosse un fattore scoraggiante. Non sapeva se Harry fosse troppo arrabbiato per mostrarsi cordiale, o se quella fosse solo una propria preoccupazione.
Lo trovò in piedi di fronte al lavandino, intento a sciacquare un bicchiere per poi riporlo nella credenza appesa al muro. Le dava le spalle, larghe sotto la t-shirt bianca e morbida sui suoi fianchi stretti: teneva i capelli legati in modo disordinato, lasciando il viso scoperto e vittima dello sguardo attento di Emma.
«Ciao», lo salutò, rimanendo sulla porta e stringendo i pugni, mentre il respiro faticava a tornare regolare. Harry non si voltò, né rispose al suo saluto: si asciugò le mani con uno straccio e se le strofinò sui pantaloni neri, più per nervosismo che per eliminare ulteriori tracce di umidità. Solo dopo diversi istanti fu costretto a prestarle attenzione.
Quando Emma incontrò i suoi occhi, poté darsi una risposta: era davvero arrabbiato.
«Hai comprato il frigorifero», mormorò, senza distogliere lo sguardo dal suo. Si maledisse volgarmente nella propria mente per quell'osservazione completamente fuori luogo, ma si costrinse a tornare lucida: aveva ceduto alla tensione, al disagio di dover ammettere il proprio errore.
Harry, d'altra parte, non reagì se non alzando un sopracciglio. Si era appoggiato al mobile dietro di sé, stringendo le mani sui confini della superficie: stava serrando la mascella, in attesa. Sembrava non volesse andarle incontro, costringerla a fare tutto da sé senza alcun aiuto, senza nessun briciolo di comprensione: non per cattiveria, ma per riscatto.
Lei si schiarì la voce ed inspirò a fondo, cercando di recuperare parte della propria fierezza. Non appena schiuse le labbra per prender parola, però, Harry la precedette, come cedendo al suo istinto. «Giuro che mi fai incazzare oltre ogni limite», sbottò nervosamente, allontanandosi dal bancone della cucina e facendo un passo avanti. Un piccolo tavolo ancora a dividerli.
Emma trasse coraggio dall'enfasi delle sue parole. «Mi dispiace», gli ripeté, decisa ad assumersi le proprie responsabilità. Non le era facile, certo, ma doveva fingere che lo fosse e riprendersi ciò che voleva.
Harry sembrò non fare caso alle sue scuse. «Devi fare un po' di chiarezza, Emma», continuò infatti, ancora irrequieto. «Devi capire cosa diavolo vuoi, altrimenti non andiamo da nessuna parte».
«Lo sai», gli ricordò, piccata dalle sue pretese.
«Vuoi me?» provò lui, avvicinandosi ancora di un passo. «Perché a me sembra che tu voglia solo vivere in una dannata bolla di sapone al sicuro da tutto e tutti, anche a costo di allontanarti».
Emma si accigliò, colpita da quell'accusa che non poteva smentire. «Può sembrare così, m-»
«Hai paura, lo so», la interruppe Harry, sospirando. «Ma credi di essere l'unica? Anche io ho paura a volte. Per esempio, l'ho avuta due giorni fa, quando tu te ne stavi lì a ripetermi quanto ti avessi ferita e quanto avessi sbagliato. Mancava tanto così e mi avresti detto che era meglio lasciar perdere tutto!»
Emma si immerse nel ricordo di quel confronto, riassaporò il suo profumo e la tensione che vi era legata indissolubilmente: osservò di nuovo la sua espressione turbata, preoccupata, ed il suo mettersi sulla difensiva ad uno sguardo più attento. Percepì un certo timore, che in quel momento aveva interpretato come mancanza di sensibilità nei confronti del suo stato d'animo, e lo usò per riscaldarsi. Harry aveva avuto paura di essere lasciato a causa di ciò che lei non era in grado di affrontare.
«Credi davvero che avrei potuto dirlo?» ammise Emma, ammorbidendo la voce ed ammettendo qualcosa di intimo. Lo guardava negli occhi e lo vedeva irrigidirsi per ciò che si era appena lasciato sfuggire, persino a discapito del proprio orgoglio.
«Sì», rispose dopo una manciata di secondi, andando contro le aspettative di Emma. «Ed è questo il problema, perché a volte sembra davvero che tu possa impazzire da un momento all'altro ed andartene».
«Non lo farei senza una ragione», si difese Emma: non si capacitava dell'incertezza che sembrava gettare inconsapevolmente sulla loro relazione. Evidentemente le sue paure non si limitavano a divorare un corpo solo.
«E quale sarebbe questa ragione?» domandò Harry, scettico. «Perché a quanto pare anche l'averti nascosto qualcosa che non ti avrebbe fatto piacere sembra un gesto imperdonabile. E Cristo, io non credo proprio di aver sbagliato così tanto», aggiunse con più nervosismo.
«Non è un gesto imperdonabile», lo citò, senza alzare la voce, «ma è qualcosa che mi ferisce più di quanto farebbe con altre persone». Era davvero stanca.
«Ed io questo lo so, Emma», rincarò lui, sospirando di nuovo. «Ma c'è una grossa differenza tra l'essere ferita ed il mettere in mezzo Miles, il tradimento, la fiducia. Se basta così poco a farti mettere in dubbio tutto, che cosa dovrei fare io? Dovrei aver paura anche solo di fare un passo, perché tu potresti vederlo come un grave attacco alla tua persona e lasciarmi?»
«Io non ho mai parlato di lasciarti!» puntualizzò Emma, iniziando ad alterarsi. Affidare i propri timori alle mani di qualcuno era pericoloso, soprattutto se quel qualcuno sapeva maneggiarli così bene.
«Ed io non ho mai parlato di tradirti! Eppure tu continui ad avere paura di questo!»
Questa volta Harry urlò un po' di più, aprendo le braccia in un gesto esasperato. Emma trattenne il fiato, con gli occhi ancora fissi nei suoi ed il cuore a vacillare nella cassa toracica immobile: era circondata da una tensione pungente e si ostinava a non compiere alcun movimento, come per non rimanerne ferita.
Dopo un lungo respiro, fu Harry a riprendere la parola. Fu lui ad insistere, a non darle tregua. «Credi di essere l'unica a dare tanto? L'unica che potrebbe perdere qualcosa? Le cose si fanno in due, Emma, e se tu non sei disposta a vedere oltre le tue paure, se non sei disposta a vedere me, allora c'è davvero qualcosa di sbagliato».
Era stata cieca, anzi, aveva desiderato esserlo: perché lei aveva compreso le motivazioni di Harry, il suo tentativo di proteggerla dall'ombra di un dolore scomodo, ma le aveva accantonate e nascoste sotto la coltre dei propri timori. Le aveva distorte fino a renderle vane. Aveva perso di vista Harry ed i suoi significati.
Emma strinse i pugni lungo i fianchi, rabbrividendo per la colpevolezza che provava: le era più chiaro come il suo comportamento stesse danneggiando entrambi, e non voleva che fosse così. «Io sto cercando di cambiare, di avere meno paura», mormorò, fallendo nel risultare decisa e sicura. La voce che le tremava appena. «Ci sto provando davvero, e mi dispiace creare questi problemi, io... So di esagerare, a volte, ma non lo faccio di proposito».
Harry si inumidì le labbra lentamente, senza distogliere il suo sguardo nemmeno per un fuggevole istante. Il suo respiro era regolare, profondo. «Vieni qui», disse soltanto.
Lei si stupì di quella richiesta, improvvisamente più fragile e bisognosa, e riuscì a muoversi solo dopo qualche istante: gli si avvicinò con cautela, forse per avere il tempo di arginare le proprie emozioni, e gli si fermò di fronte, con il viso sollevato per poter continuare ad osservare le sue iridi.
Harry le scostò una ciocca di capelli dal viso, con le mani tiepide e ferme in ogni più piccolo movimento: subito dopo, la attirò a sé e le circondò il corpo con le braccia, nascondendo il viso nell'incavo del suo collo e respirando sulla sua pelle. Un contatto asfissiante, sicuro.
Ed eccolo, ecco il conforto che Emma aveva desiderato due giorni prima in quell'auto parcheggiata all'ombra. Quello che non era riuscita a chiedere, quello che aveva allontanato con il proprio atteggiamento timoroso, respingendolo prima ancora di poterlo vedere. Quello che solo il corpo di Harry era in grado di fornirle così generosamente, senza possibilità di dubbi o sospetti.
Emma chiuse gli occhi contro il suo petto, aggrappandosi alla sua t-shirt ed inspirando il suo profumo, sempre presente. Non sapeva come contenere tutto ciò che stava provando, e si sentiva tanto stupida da vergognarsene: era così semplice ritrovarsi l'uno tra le braccia dell'altra, che non capiva come avesse fatto a renderlo mille volte più complicato. O perché fosse stata così masochista.
Harry portò una mano sul suo volto, posando il palmo aperto sulla sua guancia, e la invitò ad incontrare il suo sguardo: le si avvicinò fino a sfiorarle il naso con il proprio ed intrecciò le dita tra i suoi capelli arruffati, prima di accarezzarle le labbra e baciarle lentamente. Emma si avvolse di quella dolcezza inaspettata, macchiata da un fervore che non poteva essere nascosto in nessun caso, e si abbandonò a quel contatto per poterne ricavare tenacia e calore. Ricambiò il bacio alzandosi sulle punte dei piedi, nascondendo le mani sotto la sua maglietta e negli angoli del suo corpo che non conoscevano più confini con i propri.
I respiri di entrambi si fecero più veloci, manifestando sempre più pretese: Harry fece un passo in avanti e la fece sbattere delicatamente contro il tavolo montato da poco, al centro della stanza. Le afferrò i fianchi e la fece sedere sulla superficie in legno, che per un istante si dimostrò instabile: continuò a baciarla con sempre più ardore, fino a dover recuperare ossigeno dalla pelle del suo collo. Mentre Emma si liberava della giacca in pelle, rabbrividì per un morso leggero e per le dita di Harry sotto il proprio maglioncino.
«Io non sono Miles», le ricordò contro la sua bocca, appoggiando la fronte alla sua. Il tono duro di chi non vuole essere messo in dubbio, di chi disprezza un simile paragone o ne è addirittura ferito. «Non sono il ragazzo che ti ha tradita», continuò, respirandole sul viso ed impedendole di distogliere lo sguardo. «Non sono il ragazzo che quella notte non è tornato a casa».
Emma soppresse un singhiozzo determinato da emozioni difficili da distinguere, mentre nelle sue iridi era costretta a leggere quelle verità insidiose, non sempre facili da confermare.
«Non voglio essere paragonato a lui», aggiunse Harry, spostando le mani ai lati del suo viso, mentre lei premeva i polpastrelli contro la pelle calda della sua schiena. «Non azzardarti a farlo, mai più».
Emma si sentì infinitamente piccola di fronte a quell'intimazione, per quanto comprensibile: era difficile districarsi tra le convinzioni dettate dai tentativi di proteggersi e quelle che invece sembravano più precarie solo perché più vere. Doveva fidarsi di Harry, ma non era semplice distinguerlo dalle passate esperienze, e quello che più la faceva innervosire era il fatto che non dipendesse da lui: le paure di Emma fungevano da lente per qualsiasi cosa lei guardasse, come una patina opaca che confonde qualsiasi cosa su cui si posi, rendendo impossibile una visione oggettiva e veritiera. Eppure, doveva sforzarsi di raggiungere Harry a prescindere da tutto il resto: doveva imparare a trovarlo anche sotto quintali di timori più o meno fondati, grazie a quei particolari che non potevano essere fraintesi, particolari che solo lui avrebbe potuto portare con sé.
 
 
 
L'aveva riaccompagnata a casa dopo un paio d'ore, quando il cielo era ormai scuro e l'ora di cena vicina. Chiusi al caldo della sua auto, parcheggiata di fronte al cancello in ferro battuto, sembravano due adolescenti incapaci di lasciarsi andare: Emma non riusciva a separarsi dalla sua bocca, nonostante ci avesse già provato più volte, e lui era assolutamente deciso a non interferire.
«Ci vediamo stasera?» le domandò invece, mordendole un labbro.
Lei sorrise appena, con il cuore in subbuglio. «So che non ti basto mai», rispose in una provocazione vanitosa, accarezzandogli il collo, «ma devo andare al cinema con Melanie».
Passò una mano sulla sua coscia. «Vengo anch'io», la informò, senza preoccuparsi di chiedere il permesso. «La sala sarà buia, non mi vedrà».
Emma arricciò il naso e giocò con le sue labbra. «Non mi fido delle tue intenzioni», decretò, conoscendo la sua malizia e combinandola alle condizioni presenti in un cinema.
Harry non la contraddisse, limitandosi a sorridere per confermare quella previsione. «Allora vattene, perché sono le stesse che ho ora», la informò. «E tu sei in ritardo».
Lei accennò una risata, nonostante non riuscisse a saziarsi di ciò stava provando e che non le sembrava mai abbastanza. «E va bene», sospirò, passando una mano tra i suoi capelli e sforzandosi di allontanarsi dal suo viso. Sperava di essere fermata, ma Harry sapeva come imporre delle distanze, soprattutto quando gli servivano da provocazione.
Recuperando la borsa dalla nicchia nel cruscotto, però, vide qualcosa che le fece trattenere il respiro. «Oh, mio Dio», sussurrò, impallidendo.
Harry corrugò la fronte, osservandola con curiosità. «Che c'è?»
«Oh, mio Dio», ripeté lei, sospirando sonoramente e nascondendosi il volto nelle mani.
«Sei impazzita?»
«Sapessi quanto vorrei che fosse solo un'allucinazione».
«Hai voglia di spiegarmi qualcosa o...?»
Emma sbirciò fuori dal finestrino e poi tornò a guardarlo in viso, con un'espressione atterrita ed arresa. «C'è mia madre».
Lui alzò un sopracciglio e spostò le iridi oltre il parabrezza: quando individuò la causa di tanta preoccupazione, si lasciò sfuggire un sorriso divertito. L'attimo dopo, la voce di Constance Benson arrivava ovattata nell'abitacolo, salutando calorosamente la figlia.
Emma tenne le palpebre abbassate per un solo istante, fingendo che fossero ore, e si sforzò di fingere spensieratezza: si voltò ed abbassò il finestrino. «Mamma, ciao», la salutò, mentre lei si avvicinava alla macchina con una busta della spesa in una mano e le chiavi di casa nell'altra.
La ignorò completamente, piegandosi all'altezza del finestrino per spiare all'interno con un sorriso curioso e calcolatore. «Ciao!» esclamò, rivolgendosi ad Harry come se fosse stato un amico di vecchia data. «Tu devi essere il ragazzo di mia figlia», aggiunse, porgendogli una mano.
Lui ricambiò il gesto con gentilezza, forse ridendo dentro di sé per l'imbarazzo in cui Emma stava sprofondando: i suoi occhi blu, infatti, fissavano terrorizzati le due mani che si stavano stringendo davanti al proprio volto, quasi avessero potuto ucciderla da un momento all'altro.
«Io sono Constance, piacere», continuò sua madre, studiando il viso della sua nuova conoscenza con un'attenzione eccessiva.
«Harry, piacere mio», rispose lui, schiarendosi la voce. Sembrava completamente a suo agio, per nulla turbato da quella situazione inaspettata: Emma avrebbe voluto scuoterlo e chiedergli perché fosse così tranquillo.
«Sai, Emma non parla molto della sua vita privata», perseverò Constance, decisa a non lasciarsi sfuggire l'occasione. «Ho saputo di te quando ho scoperto che si era fermata a casa tua, anziché dormire dalla sorella come mi aveva detto».
Stronza, borbottò Emma nella propria mente, reprimendo un sorriso isterico e voltandosi verso Harry: era evidente che sua madre non l'avesse ancora perdonata per quella bugia, evidente che volesse vendicarsi in modo sottile, evidente da chi Emma avesse ereditato il suo spirito dispettoso.
Lui reagì con un sorriso largo, lento. «Sì, be', quella sera c'è stato un improvviso cambio di programma», si giustificò, stringendosi nelle spalle con assoluta nonchalance.
Emma spalancò gli occhi, incredula di fronte alla piega che stava prendendo quel discorso. Non solo Costance si divertiva a rinfacciarle pubblicamente la sua delusione, Harry sembrava persino deciso a peggiorare il tutto: come diavolo gli veniva in mente di usare quelle parole in una situazione del genere?
Serrò le mani sulla pelle del sedile sul quale stava sprofondando ed aprì la bocca per intervenire, per porre fine a quella tortura. Sua madre fu più veloce. «Oh, non preoccuparti: cose che capitano».
Cose che capitano?
«Non voglio fare l'ipocrita: in fondo, anche io e mio marito ci siamo divertiti, ai nostri tempi».
io e mio marito? Divertiti?
«Mamma», sibilò Emma, incapace di sopportare oltre: l'occhiata che le rivolse fu piuttosto eloquente, tanto da sortire l'effetto contrario. Constance, infatti, le sorrise quasi gelidamente: agli occhi di un estraneo sarebbe potuta apparire come la più gentile ed affettuosa delle donne, ma ai più vicini era ben noto anche l'altro lato della sua indole, che per quanto più raro nell'apparire, sapeva essere anche più incisivo.
«Ok, me ne vado. Me ne vado», acconsentì, mentre Harry osservava entrambe con estrema curiosità per le varie dinamiche. «Ma Harry, sarebbe bello conoscerti meglio: che ne diresti di venire a cena da noi, una di queste sere? Ci farebbe molto piacere».
«A cena?» ripeté lui, rivolgendo uno sguardo ad Emma come per spiare la sua reazione: lei scosse impercettibilmente la testa, suggerendogli la risposta.
«Mamma, non credo che Ha-»
«Ci sarò», la interruppe Harry, sorridendo apertamente.
«Ci sarai?» domandò Emma, incredula.
«Fantastico!» commentò Constance con entusiasmo, contemporaneamente. «Allora aspetterò di sapere quando sarai libero, così potremo organizzarci: oh, non vedo l'ora di dirlo a mio marito, ne sarà felice».
Lui la ascoltò con educazione, annuendo per seguire le sue parole.
«Va bene», si intromise Emma, spazientita. «Ora che vi siete messi d'accordo, è proprio ora di andare. Forza, mamma, ti aiuto a mettere a posto la spesa», propose con una falsa espressione cordiale. L'altra mormorò qualche saluto ad Harry, mentre lei apriva lo sportello: prima di scendere dall'auto, con Constance che si avviava verso casa, si voltò verso di lui e lo fulminò con lo sguardo.
«Io e te ne riparliamo», gli promise, con un tono così deciso da farla sembrare una minaccia. E forse lo era davvero.
Harry rise appena, il viso sereno ed una mano sul volante: si sporse velocemente verso di lei e le baciò le labbra. «Cucinerai per me?» le domandò, determinato a torturarla fino all'ultimo secondo.
Lei assottigliò gli occhi, progettando vendette poco piacevoli, e si allontanò velocemente, sbattendo la portiera alle sue spalle e nascondendo un mezzo sorriso.
 
Quando entrò in casa, si irrigidì sul posto e sbuffò. «Mamma!» urlò, proseguendo a passo di marcia fino alla cucina. «Si può sapere che diavolo ti viene in mente?!»
Ma Constance non le rispose, troppo occupata a tenersi una mano sulla pancia per la risata che non riusciva a controllare.




 


Buonasera!!
Stavolta sono puntuale, sono fiera di me ahahha Contando che ho scritto tutto tra ieri sera e stamattina, direi che sono stata anche fortunata: spero che sia uscito anche un buon risultato, dai ahahha
- Nikole/Emma: molte di voi hanno giustamente riconosciuto l'errore di Emma nel rapportarsi in quel modo ad Harry (non vi scusate quando criticate i suoi comportamenti, io non mi offendo ahahha Non ho mai detto che si comporti sempre bene, anzi, spesso e volentieri io stessa le darei un calcio per farla svegliare!), e lei nei aveva già un vago sospetto. Nikole gliene dà solo la conferma, spingendola a fare qualcosa: anche perché , come Emma stessa dice, Harry non si era fatto sentire per due giorni = era incazzato. Preciso che Emma non è una stupida: per quanto le sue paure la spingano a reagire in modi anche sbagliati, a mente fredda sa ragionare e riconoscere i propri errori, ammetterli e chiedere scusa.
- Harry/Emma: come vi avevo già anticipato, è Harry stesso a dare una visione più completa di quello che è successo nello scorso capitolo. Effettivamente, se Emma stava esagerando nella reazione, anche lui si è dimostrato piuttosto distante, ed è solo perché si era spaventato: lo dice anche a lei, ha avuto l'impressione che da un momento all'altro sarebbe scappata via, giustificandosi con le sue paure. Da qui, tutto il discorso sul fatto che non è l'unica a rischiare qualcosa. Ovviamente da uno come Harry non riceverà mai un conforto sdolcinato fatto di parole smielose, ma funziona lo stesso, dai ahahah Difatti, nonostante la sua rabbia, anche lui non è completamente cieco, infatti non esita a consolarla quando si trova di nuovo di fronte le sue debolezze: diciamo che si sono fraintesi di nuovo! 
Alla fine le ripete di non confonderlo con Miles: effettivamente deve essere brutto vivere una relazione con il fantasma di un altro, soprattutto se ogni cosa che si fa viene vista in paragone ad un tradimento subito. Io spero che tutto sia chiaro hahaha Altrimenti ditemi pure :)
- Harry/Emma/Constance: vi immaginavate la dolce Constance così vendicativa? hahahahaha Mi sono divertita a descrivere la scena, quindi spero che vi abbia fatto sorridere! Emma è completamente sbiancata, terrorizzata da quella svolta improvvisa ed imbarazzata come chiunque lo sarebbe stato: se io fossi con il mio ragazzo e vedessi mia madre avvicinarsi, credo che scapperei, conoscendola hahaha Cosa pensate dell'invito a cena e del comportamento di Harry? La cena si terrà davvero? Come ve la immaginate? :) Ovviamente se ne riparlerà nel prossimo capitolo, compreso di pro e contro a riguardo!!
Ripeto che mancano pochi capitoli alla fine, quindi preparatevi :)

Ancora una volta grazie di tutto!!! E buona serata :)

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Un bacione,
Vero.

 
     
  

 

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Capitolo 27
*** Capitolo ventisette - This far ***




 

Capitolo ventisette - This far

 

Emma rabbrividì con un sorriso trattenuto sulle labbra, a causa del bacio leggero che Harry le lasciò sulla caviglia fine: non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo corpo nudo, dalle linee che definivano i suoi muscoli.
Era quasi ora di pranzo e la stanza di Harry era pienamente illuminata dal sole freddo di quella giornata: circondati dalle lenzuola stropicciate del suo letto, entrambi sapevano che avrebbero finito per possedersi ancora una volta da un momento all'altro. Nell'attesa, ad Emma non restava che pazientare e godersi la cura che lui le mostrava nel percorrerle il corpo con la bocca e le dita.
Anche se i suoi pensieri erano macchiati da una vaga preoccupazione, ben distante da quell'atmosfera.
«Sei sicuro di voler venire?» domandò lentamente, osservandolo attentamente con la schiena appoggiata alla testiera del letto.
Harry alzò il viso e continuò ad accarezzarle il polpaccio destro: con i capelli disordinati, la guardò sollevando un sopracciglio e sorrise malizioso.
Lei alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. «Intendo dire a cena a casa mia», rettificò.
Era giovedì e mancavano poco più di ventiquattro ore al fatidico avvenimento. Emma non riusciva a trattenere la propria inquietudine: senza contare la breve discussione sul quando avrebbe dovuto sottoporsi alla tortura, era la prima volta che accennava al discorso. Aveva disperatamente desiderato che Harry cambiasse idea, nei due giorni precedenti, ma nessun indizio era riuscito ad illuderla di quella possibilità: dal momento che persino suo padre non si era rivelato restio all'idea, messa alle strette, doveva evidentemente occuparsene da sé.
Harry sospirò sonoramente, piegandosi per respirarle sul ginocchio. «Vuoi parlarne proprio adesso?» le domandò a bassa voce, dimostrando il suo interesse per tutt'altra occupazione.
Lei increspò le labbra e si morse l'interno di una guancia. «Prima o poi dovremo farlo», perseverò, senza rifiutare le sue attenzioni.
«Allora rimandiamo a più tardi, hm?»
Emma inspirò a fondo per sopportare le piacevoli labbra di Harry sul proprio interno coscia, ma non si lasciò scoraggiare. «Dico solo che dovresti pensarci bene», continuò quindi.
Lui sbuffò, arrendendosi alla sua insistenza, e si lasciò cadere al suo fianco: si coprì il viso con un braccio, poi si voltò a guardarla con un'espressione contrariata. «Ci ho già pensato», le rispose.
«Mia madre ti ha invitato solo per farmi un dispetto, dato che le ho mentito riguardo quella ser-»
«Così mi offendi», la interruppe Harry, senza particolare entusiasmo.
«E non è vero che mio padre sarà felice di averti a cena con noi», proseguì lei, incrociando le braccia sul petto nudo e citando le parole di Constance. «Sono sicura che starà progettando un interrogatorio al quale sottoporti, e fidati, non sarà affatto piacevole».
«Penso di poter resistere ad un padre protettivo», le ricordò Harry. «In fondo devo già sopportare la figlia».
Emma lo ignorò. «Senza contare il fatto che è... Be', è un passo importante. Incontrare la mia famiglia, intendo. Non devi sentirti obbligato solo perché mia madre ti ha invitato: sarebbe comprensibile se tu non volessi-»
«Emma», la chiamò lui, senza darle l'opportunità di continuare l'elenco delle sue riserve riguardo la cena che li attendeva.
Lei si voltò a guardarlo, in attesa di parole che non riusciva ad immaginare: non era contraria al fatto che Harry potesse conoscere l'intero patrimonio genetico dei Clarke, ma non si era preparata all'eventualità. Tra tutti gli avvenimenti con i quali aveva dovuto confrontarsi, una simile evoluzione della situazione non era assolutamente comparsa nella sua sfera di eventualità. Non riusciva ad abituarsi all'idea, né a concepirla del tutto, senza contare che non sapeva cosa aspettarsi: se fosse stato troppo presto? Troppo azzardato? Se Harry e suo padre avessero litigato?
«Non ho capito quale sia il problema, esattamente», riprese lui, strisciando sul materasso fino ad imitare la sua posizione. «Prima hai detto che tutto questo è solo una strategia di tua madre per fartela pagare, poi la tua preoccupazione si è spostata su tuo padre ed infine hai tirato in ballo il fatto che è un passo importante».
«Il problema è che sono tutti dei problemi», gli spiegò Emma, imbronciandosi appena.
«Lo sono per te», precisò Harry, osservandola intensamente.
Lei non interruppe il contatto visivo, ma si sentì vagamente in colpa per quelle rimuginazioni delle quali non riusciva a sbarazzarsi.
«Ascolta», ricominciò lui, sospirando mentre si inumidiva le labbra, «se dovessi chiedermi se avrei mai pensato di conoscere la tua famiglia in questo momento, ti risponderei di no. Non ci ho pensato, è forse l'ultima cosa che mi è passata per la testa in questo periodo».
«Allora perc-»
«Ma», la interruppe con decisione, «quando tua madre mi ha invitato a casa vostra, non mi è sembrato... Sbagliato. Non mi ha dato fastidio né ho pensato che fosse troppo presto, anzi». Le sue iridi riflettevano la sua sincerità, lo sforzo di aprirsi a lei per permetterle una migliore comprensione: il modo in cui Harry accarezzava le parole descriveva la sua velata difficoltà nel dar voce alle proprie sensazioni. La loro capacità di comunicare stava finalmente migliorando.
«Non mi importa se è solo un dispetto nei tuoi confronti e di certo non mi preoccupa il fatto di dover rispondere alle domande di tuo padre: anzi, credo che mi divertirò. Il punto è se a te sta bene che io conosca la tua famiglia», continuò, abbassando la voce. «Se hai anche solo un minimo dubbio, lascia perdere». Qualcosa nella sua espressione aveva il sapore di delusione, come se quella possibilità potesse ferirlo impercettibilmente.
«Non ho dei dubbi...» mormorò Emma, spostando lo sguardo su qualcosa di indefinito nella stanza.
Harry si mosse infastidito, non convinto dalle sue parole, e si sedette sul bordo del letto per rivestirsi. «Se non vuoi che venga, hai solo da dirlo», esclamò duramente, alzandosi subito dopo per scomparire nel corridoio. Si era offeso, era evidente.
Emma si massaggiò il viso con le mani, borbottando qualcosa, e recuperò i propri vestiti da terra: quando si fu rivestita, lo raggiunse in soggiorno. «Non c'è bisogno di mettere il broncio», gli fece presente, osservandolo mentre si dirigeva in cucina con aria indispettita. Nonostante la situazione, era divertente essere testimone del suo lato infantile, delle sue labbra increspate con orgoglio.
«Il broncio?» ripeté lui, senza fermarsi. «Non darti tutta questa importanza».
Lei sorrise alle sue spalle, alzando gli occhi al cielo, e lo guardò tornare in salotto. «Harry».
La ignorò.
«Harry», riprovò, avvicinandosi a lui e posando una mano sulla sua schiena ancora nuda.
«Che c'è?» le chiese, brusco.
Emma gli si posizionò di fronte, scrutando la sua espressione. «Non ho mai detto di non volere che tu conosca i miei genitori», provò, cercando di districarsi tra i propri pensieri.
«Però sembra che tu abbia parecchie cose da dire a riguardo», precisò lui, serrando la mascella: era impressionante come il suo umore potesse guastarsi da un momento all'altro, dopo un solo istante di consapevolezza o sospetti.
«Sono solo... Preoccupata», ammise Emma, sperando di essere credibile. «Continuo ad immaginarmi la scena di te seduto al nostro tavolo, con mia madre che probabilmente farà domande imbarazzanti e mio padre che impugnerà un coltello per qualsiasi evenienza. Fanny che non dirà nemmeno una parola, l'arrosto che magari farà schifo e...» Si arrestò con un sospiro profondo. «Nemmeno a me dà fastidio l'idea che tu incontri la mia famiglia, ma non riesco a fare a meno di cercare qualsiasi scusa, perché è tutto così strano. Improvviso. Inaspettato. Assurdo?»
Gli occhi di Harry avevano perso la loro momentanea durezza, dopo aver compreso che tutte le riserve di Emma altro non erano che tentativi di mascherare la propria inquietudine. «Assurdo che Emma Clarke ed Harry Styles siano arrivati a questo punto?» domandò, senza riuscire a nascondere uno sprazzo di divertimento per quella verità. Sembrava esser riuscito a ricavare una rassicurazione dalle sue parole.
«E senza vittime», scherzò Emma, per sdrammatizzare: il sollievo le rilassò ogni muscolo, al pensiero di come il loro rapporto si stesse evolvendo con migliori prospettive. Nonostante fosse a dir poco spaventata dalla serata che li attendeva, non riusciva a non essere ugualmente elettrizzata per le basi sulle quali si poneva.
Harry portò le mani sui suoi fianchi, obbligandola ad avvicinarsi al proprio corpo: un sorriso sulle labbra umide. «Chi l'avrebbe mai detto?»
Lei si alzò sulle punte e spense l'accenno di una risata sulla sua bocca, che non si ritrasse al bacio, ma lo incoraggiò. Per qualche istante si abbandonarono entrambi a quella tenerezza che sapeva di conforto, di speranza.
«Sei sicuro che sia una buona idea?» gli chiese senza dividersi dalla sua bocca, guardandolo con poche certezze: ormai non sapeva nemmeno lei cosa pensare, come reagire.
«No», rispose lui in un respiro, avvolgendole il busto con le braccia.
Emma si agitò nella sua stretta, per ribellarsi alla sua risposta. «Così non mi aiuti», lo rimproverò, arrendendosi subito dopo e facendolo sorridere.
«Ci stai pensando troppo».
«E se fosse un passo azzardato?»
«Potrebbe esserlo».
«E se tu te ne pentissi?»
«Magari sarai tu a pentirtene».
«E se non andrai d'accordo con i miei genitori?»
«Me ne farò una ragione».
«E se-»
«E se chiudessi quella bocca?» la interruppe Harry, alzando gli occhi al cielo con un sorriso. «Non pensavo potessi essere così paranoica».
Emma gli rivolse una smorfia, imbronciandosi subito dopo. «Sto diventando patetica», sussurrò a se stessa, realizzando il proprio comportamento esageratamente ansioso.
«Sì», confermò lui, ricevendo in risposta un pizzico sul fianco.
«In fondo, come diresti tu, è solo una cena», continuò, tentando di auto-convincersi.
Harry annuì.
«Potrebbe andare tutto bene».
«A meno che tu non combini dei disastri in cucina: sappi che la presenza della tua famiglia non mi fermerà dal prenderti in giro».
«Non l'ho sperato neanche per un istante», gli assicurò, conoscendolo sin troppo bene. «E comunque nessuno ha detto che sarò io a cucinare».
«Non vuoi fare buona impressione sul tuo ragazzo?» la provocò, stringendola un po' di più.
Lei sorrise con vanità e dispetto. «Non ne ho bisogno»,mentì, mentre a se stessa ammetteva il contrario.
Si baciarono di nuovo, ma solo per giocare.
«Quindi domani sera si mangia arrosto?» domandò Harry, attento come sempre a qualsiasi parola lei si lasciasse scappare.
Emma fu sul punto di rinnegare quella fuga di informazioni, ma la suoneria del proprio telefono smorzò le sue intenzioni: si divincolò dalla sua stretta con una smorfia dispettosa, correndo in camera sua per recuperare il cellulare. Sullo schermo lampeggiava il nome di Dallas.
Non rispose. Dopo la loro riconciliazione, se così si poteva chiamare, era la prima volta che la contattava, ma non doveva pensare che sarebbe stato così semplice riavvicinarsi. Inoltre, in quel momento non aveva voglia di sporcare il tempo a disposizione con Harry.
Tornò in salotto e lo trovò con una sigaretta tra le labbra, il viso notevolmente più rilassato.
«Chi era?» si informò distrattamente, accendendo la televisione che suo padre gli aveva dato in prestito. A pensarci bene, anche Emma aveva conosciuto la sua famiglia e, certamente, in circostanze meno appropriate: aveva incontrato suo padre quando il suo corpo era scosso dal risentimento, piombando in casa Styles senza nemmeno avvertire, ma questo non aveva assolutamente interferito con la sua storia con Harry, né le era parso di grande importanza. Probabilmente era solo l'agitazione ad ingigantire la prospettiva di quella cena in casa Clarke.
«Dallas», rispose lei, stringendosi nelle spalle.
Harry corrugò la fronte e la guardò confuso, ricordandole di non avergli detto nulla riguardo la sua ricomparsa. «Quel Dallas?» domandò infatti.
Emma si sedette sul divano, raggomitolando le ginocchia al petto. «Mi sono dimenticata di dirtelo, ma qualche giorno fa è venuto a casa mia a chiedermi scusa».
«Buongiorno, principessa», commentò ironicamente lui, improvvisamente più cupo: anche a distanza di anni, la sua simpatia per Dallas non era aumentata, soprattutto dopo aver saputo dello sviluppo nell'amicizia con Emma. «Spero tu l'abbia rispedito da dove è venuto», aggiunse.
«Più o meno», rispose lei, lentamente. «Vuole farsi perdonare, così ho deciso di dargli una possibilità».
Harry espirò il fumo bruscamente. «Stai scherzando?»
«È così strano?» indagò Emma, intenta a comprendere le sue espressioni.
Lui scosse la testa e si allontanò a passi svelti, sbuffando nel dirigersi nella propria camera da letto: lei sbatté le palpebre più volte, sorpresa dalla sua reazione.
«Che ti prende?» domandò ad alta voce, seguendolo per non perderlo di vista: stava riordinando le lenzuola che i loro corpi avevano confuso. Non le rispose.
«So che non siete mai stati migliori amici, ma-»
«Non me ne frega un cazzo di lui», la interruppe Harry, voltandosi velocemente per rivolgerle uno sguardo rancoroso. Teneva la sigaretta tra le labbra.
«Allora perché ti comporti così?»
«No, perché tu ti comporti così?»
«Non capisc-»
«Se lui fa lo stronzo e sparisce per anni, tornando solo quando magicamente gli ricrescono gli attributi, tu sei pronta a riaccoglierlo senza nessuna esitazione, mentre se io decido di non dirti di Lea p-»
«È davvero questo il punto?» gli chiese incredula, senza lasciargli finire il concetto.
«Certo che lo è!» replicò Harry, alterato.
«E invece di arrabbiarti, non potresti semplicemente chiederti perché ci sia questa differenza?» continuò Emma, indispettita dal suo tono di voce e dalle sue insinuazioni. Era vero, aveva accettato le scuse di Dallas molto più facilmente rispetto a quelle di Harry, ma c'era un motivo, e non sopportava che lui non lo vedesse.
Harry serrò la mascella e la superò, uscendo dalla stanza senza dire una parola.
 
Emma aspettò seduta sul letto parzialmente rifatto: con le mani strette tra le cosce ed un labbro tra i denti, era determinata a non fare il primo passo. Per diversi minuti aveva sperato che fosse Harry a tornare nella stanza, magari anche urlando la sua rabbia capricciosa, ma almeno con gli occhi su di lei: invece aveva dovuto ricredersi, scontrandosi con una caparbietà più resistente della propria.
Quindi, stanca di attendere invano e desiderosa di riprendere ciò che i propri discorsi preoccupati avevano interrotto, afferrò il cellulare sul comodino e agì.
 
Messaggio inviato: ore 12.25
A: Harry
“Idiota!”
 
Non passarono nemmeno dieci secondi da quando Emma udì la suoneria del telefono in salotto a quando Harry entrò con urgenza nella camera da letto.
«Ti ho già detto di smettere di chiamarmi idiota!» sbottò ad alta voce, con il viso arrossato dall'orgoglio ferito.
Lei si trattenne dal ridere, sforzandosi di non soffermarsi sul suo petto nudo. «Allora tu non comportarti da tale!»
«Io?!»
Emma si alzò in piedi per fronteggiarlo, avvicinandosi fino ad essere costretta a sollevare il viso per poterlo guardare negli occhi. «Sì, tu! Non credi che se per me è più facile perdonare Dallas, è solo perché può farmi meno male?!»
I metri quadri che li circondavano furono riempiti di un silenzio teso, ma sollevato: Emma fu tentata di abbassare lo sguardo e di nascondere le guance coloratesi di porpora per quella confessione indiscreta, ma resistette solo per continuare a spiare le iridi di Harry, improvvisamente meno nervose.
Lui strinse i pugni lungo i fianchi, respirando profondamente. Subito dopo, si voltò per uscire per l'ennesima volta dalla stanza. Emma ebbe l'occasione di notare una variazione impercettibile nella sua espressione, che le suggerì quanto in realtà Harry fosse stato colto impreparato dalla sua ammissione: forse si era persino sentito lusingato, ma non pronto a mostrarlo.
Sorridendo come una bambina soddisfatta, gli corse dietro sgattaiolando davanti al suo corpo: lo abbracciò nonostante i suoi tentativi poco convinti di allontanarla, poi gli baciò l'addome più volte, percorrendo la sua pelle fino al collo. Desiderava trasmettergli ciò che non riusciva a controllare dentro di sé, ciò che dopo esser stato espresso ad alta voce sembrava essersi ingigantito oltre il ragionevole: Harry non si rendeva nemmeno conto di quante armi letali potesse usare contro di lei, quanto fosse rischioso per Emma accettarlo nella propria vita con la consapevolezza di metterla a repentaglio, di consegnarla nelle mani di qualcuno che avrebbe potuto disintegrarla con una sola stretta.
Harry si lasciò accarezzare dalle sue labbra, restando immobile, e solo dopo diversi istanti si rilassò contro il suo corpo. Appoggiò la fronte alla sua e tenne gli occhi chiusi, la mascella serrata. «Non so più come starti dietro», sospirò.
 
 
 
Per la prima ora e mezza, Dallas aveva guidato il discorso verso argomenti innocui: attento a non dire niente di rischioso, a non nominare Ruth, a non farla indispettire. E ci era riuscito, perché Emma gli camminava accanto con un bicchiere di cioccolata calda tra le mani, pronta a cogliere qualsiasi parola sospetta, ma comunque a proprio agio: aveva appreso dalle loro parole talvolta imbarazzate che Dallas sarebbe rimasto in città ancora per una settimana, costretto a tornare a casa per il lavoro, e aveva letto nelle sue intenzioni la voglia di usare quel tempo per recuperare tutto il possibile.
«Quindi quanto ti manca alla laurea?» le domandò, dopo averla invitata a sedersi su una panchina della via principale di Bradford. Continuava ad osservarla con attenzione, ricordandole l'adolescente premuroso con il quale era cresciuta.
«Questo è l'ultimo anno», rispose lei con fierezza. «Spero di riuscire a passare tutti gli esami che mi rimangono, anche se alcuni sono una vera tortura».
Dallas annuì con un sorriso, ma non utilizzò nessuna frase di circostanza: sapeva che Emma non ne avrebbe avuto bisogno e sembrava anche dipendesse da un proprio cambiamento. I suoi modi di fare erano vagamente diversi, più controllati e maturi, mentre il suo contegno si era ispessito: non c'era quasi più traccia dello sbruffone di anni prima, perché sembrava esser stato sostituito da una persona più moderata, nonostante la sua indole non fosse stata stravolta. Emma si chiese se fosse solo cresciuto, o se Ruth avesse colpe per quelle differenze.
«Tu hai intenzione di restare a lavorare alla concessionaria?» indagò quindi, per sviare i propri pensieri da una strada più cupa. Dallas vendeva automobili e talvolta partecipava a congressi al di fuori dell'Inghilterra, aveva uno stipendio che gli permetteva di vivere dignitosamente e di pagare metà dell'affitto della casa, risparmiando per quando ne avrebbe comprata una: non avevano parlato di chi ci sarebbe andato a vivere.
«Fin quando non mi licenziano», rise Dallas, passandosi una mano dietro il collo. La cicatrice sulla bocca si muoveva insieme alle sue labbra. «È un posto sicuro, mi pagano bene: non voglio e non posso rischiare, in fondo il mio lavoro mi piace», continuò con più serietà. «A volte riesco anche a fare un giro su macchine che non potrei permettermi nemmeno dopo sessant'anni di stipendio», scherzò.
«Cosa fondamentale», precisò Emma, sorridendo e terminando la cioccolata calda. Si alzò per gettare il bicchiere nel cestino più vicino e, non appena prese di nuovo posto al suo fianco, sentì il cellulare vibrare nella tasca della propria giacca.
 
Un nuovo messaggio: ore 16.13
Da: Harry
“Cosa state facendo?”
 
Un nuovo messaggio: ore 16.32
Da: Pete
“Che fate?”
 
Un nuovo messaggio: ore 16.33
Da: Harry
“Emma”
 
Ad Emma venne da ridere, ma seppellì l'istinto dietro un sorriso trattenuto: non poteva credere che due ragazzi come loro potessero essere così bambini nella loro ingenua gelosia.
Harry non si era mostrato contrario al fatto che Emma avesse poi richiamato Dallas per invitarlo a vedersi, ma quasi. Mentre Pete si era palesemente indispettito per aver ricevuto una risposta negativa alla sua proposta di uscire, soprattutto quando gli era stato detto il motivo.
 
Messaggio inviato: ore 16.35
A: Harry
“Siamo in centro: abbiamo preso qualcosa in un bar ed ora stiamo facendo una passeggiata. Non sono stata rapita, né ho intenzione di scappare con lui, puoi stare tranquillo (forse)”
 
Messaggio inviato: ore 16.36
A: Pete
“Giuro che il prossimo pomeriggio lo dedico solo a te!”
 
«Cosa vuole mio fratello?» indagò Dallas, sorprendendola.
Lei ritrasse istintivamente il telefono dal suo campo visivo, corrugando la fronte. «Non ti hanno detto che spiare è da maleducati?» lo rimproverò bonariamente. In realtà, dovette scendere a patti con la sensazione che la sua intrusione non fosse affatto minacciosa, né fastidiosa. Come sempre.
Lui si strinse nelle spalle, assumendo un'aria di sufficienza. «Mi è caduto l'occhio».
«Certo», borbottò Emma, scuotendo il capo.
«Mi ha detto che stai di nuovo con Harry», esordì dopo qualche istante, attirando la sua attenzione insieme alla vibrazione del cellulare.
 
Un nuovo messaggio: ore 16.40
Da: Harry
“Ne riparliamo domani, quando dirò davanti alla tua famiglia che il tuo arrosto faceva schifo”
 
«Sì», confermò Emma, momentaneamente distratta. «Ci siamo ricascati», aggiunse con una vaga nostalgia nel tono di voce.
 
Messaggio inviato: ore 16.41
A: Harry
“Ok. Ora però sono impegnata, non posso parlare: mi dispiace”
 
«La cosa non mi ha stupito, sinceramente», commentò Dallas, osservandola sorridere per il messaggio appena digitato.
«Siamo così prevedibili?» gli domandò divertita.
Lui le dedicò una debole risata. «Siete più... Una scommessa».
«E tu scommetti su di noi?»
«Io scommetto su di te», precisò Dallas.
 
Un nuovo messaggio: ore 16.44
Da: Harry
“Vaffanculo :)”




 


Buonasera!
Finalmente!!!!!!!!!!!!!!! Questo capitolo mi ha fatto dannare senza un motivo, e in più ho avuto diversi impegni e diverse distrazioni che mi hanno impedito di scrivere. Scusate per il ritardo! Spero che almeno l'attesa sia valsa la pena ahahha Probabilmente molte di voi si aspettavano che in questo capitolo ci fosse la cena a casa di Emma (sono felice che abbiate apprezzato così tanto l'idea :)), ed effettivamente avevo pensato che sarebbe stato così: in realtà poi mi sono resa conto che il capitolo sarebbe venuto troppo lungo, perché non potevo tagliare la parte iniziale tra Emma ed Harry, né volevo togliere spazio alla descrizione della cena. QUINDI, ho inserito Dallas e la cena verrà ampiamente descritta nel prossimo capitolo :) Vi avviso che ormai mancano solo tre capitoli alla fine della storia (non mi sembra vero.......): come pensate che finirà?
- Harry/Emma: spero sia chiaro che Emma non è contraria a far conoscere la sua famiglia ad Harry, ma che è semplicemente uscita fuori di testa hahaha È molto agitata all'idea, quindi si aggrappa a qualsiasi cosa per trovare una scusa plausibile, anche se Harry è più deciso di lei. Vi è piaciuto come hanno affrontato la cosa? Cosa pensate a riguardo? E cosa vi aspettate dal prossimo capitolo?
Strano che nessuna di voi abbia fatto caso al comportamento in parte diverso di Emma: ha perdonato molto facilmente Dallas, se si pensa al casino che ha fatto con Harry per la storia di Lea. E infatti Harry se ne accorge eccome, e si incazza (te pareva): ma il tutto si risolve molto facilmente, perché ogni tanto essere sinceri ed ammettere qualcosa può essere molto d'aiuto :)
- Dallas/Emma: non ho dato molto spazio a loro perché non me la sento di farlo e perché il loro rapporto non tornerà mai quello di un tempo. Non so, sono piuttosto scettica su Dallas, un po' come lo è Emma: senza contare il fatto che quello che è successo a loro è successo a me, quindi credo di avere una specie di blocca nella mia mente. IN PRATICA, per me Dallas (aka il mio mio migliore amico) è caduto in basso, quindi mi rivendico così. Ma si sentirà comunque parlare ancora di lui :)
- Messaggi vari tra Emma, Pete ed Harry: i due piccini si sono ingelositi ahahhahah Pete rimane il TOP del TOP, mentre Harry.... BE', è Harry!! Il "vaffanculo :)" finale spero vi abbia fatto sorridere hahahah In realtà lo smile non doveva esserci, ma l'ho scritto inconsapevolmente e alla fine ho deciso di lasciarlo così :)
E niente, spero che il capitolo vi sia piaciuto! Ancora una volta vi chiedo di farmi sapere cosa ne pensate, soprattutto perché la storia sembra aver perso un po' di lettori, quindi i pareri mi sono fondamentali in questo momento.
Grazie come sempre per tutto <3 <3

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Vero.

 
     
  

 

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Capitolo 28
*** Capitolo ventotto - Differently ***




 

Capitolo ventotto - Differently

 

Melanie entrò in cucina quasi senza far rumore, osservando con gli occhi limpidi il tavolo apparecchiato per sette persone: la tovaglia color panna era macchiata da posate disposte in perfetto ordine, bicchieri allineati tra loro ed antipasti già posizionati al centro, a debita distanza l'uno dall'altro. Tutto era stato preparato con estrema attenzione – persino Fanny aveva impiegato dieci minuti buoni a piegare i tovaglioli in forme geometriche – tanto che Emma aveva più volte alzato gli occhi al cielo, chiedendo con nervosismo se fosse in arrivo la Regina Elisabetta in persona.
Ma anche Emma, sotto la sua farsa mal costruita, scalpitava per quella cena.
«È in ritardo», sbuffò infatti, al limite della sua resistenza, lavando l'ultima pentola e riponendola frettolosamente nel ripiano d'appartenenza: indossava un grembiule lungo e sporco di diversi ingredienti, che aveva lo scopo di proteggere i suoi jeans chiari ed il suo maglioncino celeste, selezionati con nascosta cura per l'occasione. Tutti i Clarke della casa, in realtà, sapevano quanto tempo avesse speso per scegliere l'abbigliamento più adatto, indecisa tra qualcosa di più o meno formale.
Melanie sbirciò l'ora sul proprio cellulare, avvicinandosi alla sorella lentamente. «Di ben tre minuti e mezzo», precisò, prendendola bonariamente in giro.
Emma sospirò sonoramente e chiuse gli occhi velati da un ombretto leggero, asciugandosi le mani. «Sono le otto, dovrebbe essere già qui», perseverò, sfilandosi il grembiule e voltandosi per scrutare la stanza: tutte le ore passate a cucinare e tutti gli utensili sfruttati erano stati cancellati alla vista da un'attenta pulizia, tanto che si sarebbe potuto pensare che ogni pietanza fosse stata ordinata e ricevuta già pronta.
«Ems, calmati», le consigliò Melanie, sorridendo incoraggiante. «Stai per avere una crisi isterica».
Lei le riservò uno sguardo irrequieto, ma determinato. «Senti chi parla», rispose. «Devo ricordarti le tre crisi isteriche che tu hai avuto quando Zayn è venuto a pranzo da noi per la prima volta?»
L'altra si lasciò sfuggire una debole risata nostalgica. «E non eri tu quella che non riusciva proprio a capire di cosa mi preoccupassi?» le fece presente, provocatoria.
«Sì, ma solo perché si parlava di Zayn», precisò Emma, sorridendo a sua volta. «Cosa sarebbe mai potuto succedere di tanto catastrofico? Il peggio a cui sarebbe potuto arrivare era il non alzarsi in piedi ogni volta che mamma entrava o usciva dalla stanza».
«Si chiama galanteria», intervenne il soggetto delle loro parole, comparendo in cucina con passi lenti. Aveva le labbra inclinate in un debole sorriso divertito, mentre si avvicinava a Melanie. Entrambi erano stati invitati per alleggerire l'atmosfera, nonostante Emma non riuscisse ancora a capire se fosse una cosa positiva o meno.
«Si chiama leccare il c-»
«Ok», la interruppe Melanie, per evitare di sviare il discorso. «Resta il fatto che anche tu non hai molto di cui preoccuparti: Harry non è uno stupido e sa come comportarsi. Andrà bene».
«Sarà divertente», aggiunse Zayn, alzando un sopracciglio per suggerire dell'altro.
«Attento a quello che fai», lo ammonì Emma, sicura che la propria agitazione sarebbe stata un ottimo pretesto per il suo divertimento. Oltre a doversi preoccupare per la riuscita della cena, doveva anche stare attenta a non assumere nessun comportamento che il suo futuro cognato avrebbe potuto rinfacciarle.
Il loro scambio di battute fu interrotto dalla voce di Ron Clarke, proveniente dal salotto. «Emma, vieni un attimo!»
La diretta interessata sospirò, chiedendosi di cosa avesse bisogno suo padre, ma non esitò a raggiungerlo: muoversi l'avrebbe distratta dal pensare, o dal dare in escandescenze. Lo trovò seduto comodamente sulla poltrona, con gli occhiali abbassati sul naso e l'attenzione su un giornale quotidiano: «Siediti», le ordinò distrattamente.
Emma corrugò la fronte, stranita. «Cosa c'è?» domandò, invece di dargli ascolto.
«Non ne posso più di vederti dare di matto», le spiegò, continuando a non guardarla e voltando una pagina: evidentemente aveva sopportato troppo a lungo la sua impazienza per l'evento. «La cena è pronta, è tutto pronto. Allontanati da quella cucina e siediti».
Lei represse uno sbuffo, ma mentalmente ringraziò suo padre per aver cercato di porre un freno alla sua agitazione: per tutto il giorno si era affaccendata per l'intera casa, decisa a fare del proprio meglio ed affettuosamente irritata al pensiero di come Harry avrebbe sorriso nell'accorgersi di tutti i suoi sforzi. Solo un ordine piuttosto irremovibile come quello di Ron Clarke avrebbe potuto riportarla più velocemente alla realtà delle cose.
È solo una cena.
«Non è ancora arrivato?» domandò Constance, tornando in salotto dalla sua stanza: aveva lasciato la cucina in mano a sua figlia, approfittandone per fare una doccia e per cambiarsi. Entrambe si erano date da fare, nelle ore precedenti, soprattutto perché Emma avrebbe sicuramente fatto un disastro senza la sua guida esperta. «Oh, be', in fondo sono appena le otto passate», si rispose da sola, sbirciando l'ora.
Zayn e Melanie li avevano raggiunti, prendendo posto su uno dei divani: con sguardi divertiti invitarono Emma a seguirli e lei stavolta non oppose alcuna resistenza. Tesa sul bordo del divano, osservò sua madre raccogliere i capelli di Fanny in una coda alta.
«Papà?» esordì infine, incapace di trattenersi.
Lui spostò gli occhi sulla figlia ed alzò un sopracciglio. «Hm?»
«Promettimi che sarai gentile», esclamò, facendo ridere Constance.
«Che richiesta stupida», commentò lui, altero. «Ovvio che lo sarò».
«E che non lo tratterai come un delinquente che ha intenzione di dannare la mia anima», aggiunse Emma, esagerando per poter chiarire meglio il concetto: Ron non era mai stato propenso ad accettare facilmente una relazione delle proprie figlie, sempre pronto a difenderle da pericoli inesistenti, geloso come pochi altri avrebbero potuto essere.
«Questo non può prometterlo», si intromise Constance, raggiungendolo e sedendosi sul bracciolo della poltrona. «Ormai è un vecchietto, non ha altri divertimenti se non quello di spaventare i vostri pretendenti. Giusto Zayn?»
Zayn sospirò divertito. «Non posso negarlo», ammise, ricevendo in risposta uno sguardo di ammonimento. «Non che lei sia vecchio», precisò infatti, sorridendo: ormai Ron pendeva dalle labbra del suo futuro genero, affezionato a lui come ad un figlio. Aveva impiegato diverso tempo ad accettarlo completamente, ma alla fine aveva dovuto arrendersi all'assenza di difetti da rimproverargli: la sua condotta irreprensibile e la sua devozione nei confronti di Melanie lo rendevano inattaccabile.
Ma Harry era diverso.
«Tratterò questo... Harry come merita, non preoccuparti», le assicurò il padre, tornando a leggere il giornale, mentre la moglie intavolava con gli altri una discussione sul clima previsto nei giorni a seguire. Emma lo osservò ancora per qualche istante, incerta: era la prima volta che affrontavano l'argomento, dato che Ron si era semplicemente limitato ad acconsentire alla cena senza dilungarsi a riguardo, e non sapeva cosa aspettarsi. Oltre ad essere esageratamente apprensivo, era molto probabile che provasse ancora un vago risentimento nei confronti della figlia: Miles si era integrato bene nella famiglia e suo padre gli si era avvicinato sempre più, apprezzando il suo atteggiamento formale e composto. Ai suoi occhi, Emma se l'era lasciato scappare e, come se non bastasse, l'aveva presto sostituito con un certo Harry: Ron avrebbe potuto mostrarsi piuttosto capriccioso a riguardo.
Il campanello suonò all'improvviso, facendola balzare in piedi.
Constance si affrettò ad aprire il cancello e la porta, precedendo Emma in qualsiasi movimento: questa si voltò verso l'entrata ed aspettò con il fiato sospeso, mentre tutta la famiglia si riordinava in silenzio.
Poco dopo, poté scorgere la figura di Harry superare in altezza quella di sua madre: quest'ultima lo salutò calorosamente, come se fosse un amico di vecchia data, e gli riservò persino due baci sulle guance, che destarono l'attenzione di Ron. Harry aveva i capelli sciolti, stropicciati in onde disordinate, ed indossava dei pantaloni scuri con una camicia nera: Emma sorrise nel vedere tutti i bottoni infilati ordinatamente nelle rispettive asole, persino quelli che lui era solito ignorare, lasciando scoperta la parte alta del petto.
Era bello mentre sorrideva a sua madre, mentre entrava in casa sua e si avvicinava alla sua famiglia.
Emma restò immobile, in attesa.
Osservò Fanny nascondersi discretamente dietro Melanie, mentre quell'ospite estraneo camminava lentamente e con fermezza verso Ron Clarke: «Lei deve essere Ron», esclamò, inumidendosi le labbra inclinate in un sorriso e porgendogli una mano. L'altro ricambiò il gesto – la sua mano era stranamente più piccola. «E tu devi essere Harry», rispose compostamente, togliendosi gli occhiali e guardandolo con attenzione: probabilmente stava già cercando qualcosa da non farsi piacere. «Il ragazzo di mia figlia», aggiunse con tono più sottile: ad Emma sembrò una minaccia.
Harry non accettò il colpo, forse nemmeno ritenuto tale. «Esattamente», rispose soltanto, voltandosi per un brevissimo istante verso di lei: le sue iridi verdi erano illuminate da qualcosa di rassicurante. «A proposito, si è calmata o sta ancora dettando ordini qua e là per questa cena? Non deve essere stato facile sopportarla per l'intera giornata», scherzò rivolto a Ron.
«Harry!» lo rimproverò Emma, imbronciando le labbra in un mezzo sorriso incredulo, ma anche in una lamentela orgogliosa. Per sdrammatizzare – se quello era il suo intento – avrebbe sicuramente potuto usare un altro intervento, magari uno che non comprendesse una presa in giro.
«Allora la conosci davvero bene», intervenne Constance, reduce da una risata silenziosa. Il marito non rispose, anche se la sua espressione si era ammorbidita: forse anche lui era stato tentato di sorridere – sicuramente d'accordo con le sue parole – ma aveva preferito mantenere alta la guardia.
«Credo proprio di sì», ammise Harry. «Pensi che ho dovuto spegnere il telefono: stava cercando di far impazzire anche me».
Un'altra stoccata.
«Bene», si intromise Emma, assumendo un'espressione vendicativa mentre gli altri apparivano piuttosto divertiti, «una volta appurato questo, che ne dite di iniziare?»
Constance la ignorò. «Harry, so che conosci già Melanie e Zayn», esclamò, indicandoli con un sorriso ed appoggiando delicatamente una mano sul suo braccio. «Ma voglio presentarti anche qualcun altro. Fanny, lascia stare tua sorella e vieni a salutare».
Melanie si spostò di lato, lasciando scoperta la fuggitiva: lei sbuffò e camminò controvoglia verso Harry, tenendo lo sguardo fisso alla propria sinistra. «Ciao», bofonchiò svogliatamente, stringendo i pugni lungo i fianchi.
«Fanny», la riprese Ron, richiedendo più educazione.
«Non fa niente», lo rassicurò Harry, poi si rivolse alla ragazzina che gli stava di fronte: negli occhi una sfida simile a quella che Emma spesso sfoggiava. «Ricordo che quando avevi sei o sette anni saltellavi ovunque», le disse, provocandola volontariamente: difatti, Fanny assunse un'espressione confusa e stupita al tempo stesso. Probabilmente si stava chiedendo chi fosse quel ragazzo che pretendeva di avere ricordi di lei, o perché non riuscisse ad associarlo a nessuno che conoscesse.
Emma sorrise, divertita dai suoi modi di fare scherzosi.
«Andiamo, o la cena si raffredda», propose Ron, schiarendosi la voce e dirigendosi verso la cucina: evidentemente non gli era piaciuto il fatto che Harry – la persona per la quale doveva armarsi di protezione paterna fino ai denti – fosse legato non solo ad una delle sue figlie, non solo a due, ma persino alla terza. Era un notevole svantaggio.
Constance lo seguì parlottando di alcune pietanze e Fanny si dileguò in un batter d'occhio.
«Benvenuto in famiglia, amico», esclamò Zayn, sorridendo sinceramente per qualcosa che aveva già dovuto affrontare. Gli diede una pacca affettuosa sulla spalla e l'altro rispose con un leggero spintone.
«Qualche consiglio dalla trincea?» domandò Harry, tentando uno scherzo, ma lasciando finalmente trasparire un po' della tensione che aveva accuratamente nascosto di fronte agli altri.
«E privarmi di tutto il divertimento? Non ci penso neanche», rispose Zayn, dandogli le spalle per ridere sommessamente ed allontanarsi.
«Che stronzo», borbottò lui di rimando.
«Non c'è bisogno di nessun consiglio», intervenne Melanie, con la sua voce tranquilla. «Mia madre sarà al settimo cielo se tu mangerai tutto, e mio padre... Be', non è terribile come vuol sembrare».
Un sorriso incoraggiante ed anche lei se ne andò.
Emma sospirò profondamente, restando sola con la fonte di tutta la sua agitazione, che paradossalmente poteva anche essere la fonte del suo conforto. Harry si voltò verso di lei e fece un passo in avanti per averla più vicina. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma fu anticipato.
«Avevi detto che mi avresti preso in giro per l'arrosto, non anche per tutto il resto», lo rimproverò in modo infantile, incrociando le braccia al petto. Aveva davvero voglia di baciarlo.
«Non ho mai detto che ti avrei preso in giro solo per l'arrosto», precisò, portando una mano tra i suoi capelli. La voce bassa.
«Certo, hai tenuto il telefono spento per tutto il giorno: come avresti potuto dire altro?»
L'altra mano dietro la sua schiena.
«E perché sei arrivato in ritardo?»
Emma lo guardò negli occhi, cercando di ignorare il sorriso provocatorio che le stava donando.
«Non mi hai nemmeno salutata», lo accusò un'ultima volta, rilassandosi contro il suo corpo per prepararsi a ricevere ciò che implicitamente stava chiedendo.
Harry le sfiorò le labbra delicatamente, giocando con la sua resistenza. «Ciao», sussurrò sulla sua bocca, prima di baciarla con il respiro trattenuto: lei si premurò di trarre da quel contatto il coraggio che le serviva per continuare la serata, la forza di affrontare qualsiasi piega degli eventi, e si strinse a lui per averne ancora di più.
«Ho spento il telefono...» mormorò Harry sul suo collo, «... perché ero già agitato di mio, non potevo sopportare anche te».
Emma sorrise al soffitto, chiudendo gli occhi e godendosi i baci in cui quelle parole si erano trasformate. La rassicurava il fatto che anche lui avesse dei timori, per quanto avesse cercato di dimostrarsi completamente tranquillo e pronto: forse, con l'avvicinarsi della cena, anche la sua sicurezza aveva iniziato a creparsi, a cedere.
Si baciarono ancora, ma presto si arresero al loro dovere: Harry la prese per mano in un gesto ormai spontaneo, mentre entrambi muovevano i primi passi verso la cucina.
La famiglia aveva già preso posto: Ron e Constance a capotavola - anche se questa era momentaneamente impegnata a sistemare alcuni vassoi; Fanny, Melanie e Zayn ad un lato del tavolo; due sedie vuote che aspettavano i ritardatari sul lato opposto.
Ron si voltò non appena li udì arrivare, soffermandosi sulle loro mani unite: Emma vide le sue labbra incresparsi involontariamente e subito si ritrasse per imporre una distanza al corpo che la attraeva. Harry la guardò confuso, senza accorgersi del perché di quel gesto improvviso, ma nascose presto la punta di fastidio provata: si sedette accanto al capofamiglia, di fronte a Zayn, e lasciò che Emma si occupasse di altro.
Al centro del tavolo, incastrati tra i bicchieri e le bibite, erano disposti gli antipasti che Constance aveva tanto insistito ad includere nel menù: crema fredda di formaggio, pasticcini gallesi e bruschette con olio e pomodori; fudge al cioccolato e all'arancia – consigliati invece da Emma stessa – e bocconcini di donut con zucchero e cannella, proprio accanto ad alcune frittelle di mela al limone. Un ammontare di bontà che da sola avrebbe potuto saziare tutti i presenti.
«Le lasagne hanno bisogno di ancora qualche minuto», esordì Constance, sorridendo soddisfatta mentre prendeva posto. «Intanto assaggia pure uno di questi, Harry», aggiunse, porgendogli un pasticcino gallese. Lui non rifiutò, anzi, non fece alcun complimento prima di iniziare a testare qualsiasi pietanza su cui potesse posare lo sguardo: Emma lo studiava con attenzione e cercando di essere discreta, decisa a carpire qualsiasi reazione a gusti magari troppo intensi oppure ben serviti.
«Tua madre cucina davvero bene», le disse Harry qualche minuto più tardi, con la voce dedicata solo a lei. Stava masticando una frittella, sorridendo per la provocazione.
«Quelle le ho fatte io, infatti», rispose lei, rivolgendogli una smorfia. «Abbiamo fatto tutto insieme», precisò quindi, determinata nel volersi pendere i meriti che le spettavano.
«Ah, ecco perché qui manca un po' di-»
Prima che potesse finire la frase, Emma gli pizzicò una coscia sotto il tavolo, facendolo ridere silenziosamente.
«Allora, Harry», esordì Ron, attirando l'attenzione su di sé: il tavolo si ammutolì, lasciando spazio solo al tintinnio delle posate o dei bicchieri. «Cosa fai nella vita?»
Domanda innocua, pensò Emma, può andare.
«Da poco ho un appartamento tutto mio: trovare un lavoro per mantenerlo è stato difficile, ma proprio oggi mi hanno assunto per un periodo di prova in un'officina».
«Cosa?» esclamò Emma, quasi strozzandosi con la propria saliva. «Perché non me l'hai detto?»
Harry si strinse nelle spalle, calmo. «Sorpresa», disse soltanto, sorridendole.
Ron non diede loro del tempo per affrontare il discorso, anche se Emma riuscì comunque a dare dell'idiota al suo ragazzo. A bassa voce, senza essere sentita, ma lo fece. «È il tuo primo lavoro?»
«No, ho lavorato diversi anni a Bristol».
«Bristol, hm? Sei di quelle parti?»
«Nato e cresciuto a Bradford», rispose Harry, alzando lo sguardo su Zayn per un solo istante. «Mi sono trasferito lì solo momentaneamente, per lavorare».
«Quanti anni hai?»
«Papà, non credi di essere un po' troppo-»
«No, Emma, non credo».
«Ho ventisei anni».
«Allora immagino che tu non abbia intenzione di laurearti, arrivato a questo punto».
«Esatto».
«Potrebbe esserti utile: una laurea è una garanzia».
«Fino ad ora non ne ho avuto bisogno, anzi».
«Capisco. Da quanto tu e mia figlia vi frequentate?»
Emma serrò la mascella, deglutendo forzatamente.
«Non saprei dirle con precisione, a dir la verità», rispose Harry, senza scomporsi e gettando un'occhiata veloce ad Emma. «Ufficialmente, solo da quando la sua storia con Miles è finita, direi».
Non era una risposta adeguata. Per niente.
«Ufficialmente?» ripeté infatti Ron, assottigliando gli occhi. «Stai dicendo che vi siete frequentati anche mentre lei era impegnata? Emma, cos'è questa storia?»
«N-»
«Sua figlia non avrebbe mai tradito Miles», specificò Harry, sovrastando le proteste di Emma. «Ma sono piuttosto certo che i suoi sentimenti fossero presenti anche durante quel periodo».
Lei condannò la sua sfacciataggine, la sua smisurata sicurezza nell'affermare qualcosa del genere, per di più di fronte a tutta la sua famiglia: era un terreno pericoloso, soprattutto se suo padre era disposto a cogliere qualsiasi dettaglio a cui aggrapparsi per opporsi alla loro relazione.
L'atmosfera era diventata improvvisamente più tesa, contrastando con l'allegria di pochi minuti prima.
«Quindi devo pensare che tu abbia avuto un ruolo nella fine della loro storia».
«Papà, basta», gli ordinò Emma, già stanca di quel discorso. Era comprensibile che lui divagasse in ipotesi più o meno fondate, dal momento che non gli era mai stata concessa una visione completa di ciò che era realmente successo. Forse, se avesse saputo del tradimento, avrebbe cambiato atteggiamento e avrebbe smesso di accusare per difendere. «Io e Miles ci saremmo lasciati lo stesso, anche se-»
«Sì, credo di aver avuto un... Ruolo, se così vuole chiamarlo», la interruppe Harry: era deciso a sbrigarsela da solo, era evidente. Voleva confrontarsi con Ron riguardo ogni suo dubbio ed ogni suo interrogativo, senza badare ai tentativi di moderazione di Emma.
Ron sembrò innervosirsi ed Emma avrebbe potuto scommettere tutti i suoi averi sul perché: Harry era tanto spavaldo da risultare stonante agli occhi attenti di un estraneo. «Sembri andarne fiero», gli disse, con una punta di sottile diffidenza.
«Infatti è così».
Emma sospirò in silenzio, voltandosi verso sua madre per ricevere un aiuto: Constance le consigliò di non intervenire, mentre Melanie scuoteva la testa per darle la stessa dritta. Non capivano che quella discussione sarebbe potuta degenerare da un momento all'altro?
«Harry», lo chiamò quindi, sperando di mettere un freno alle sue intenzioni. Lui la ignorò.
«Miles rendeva felice mia figlia», perseverò Ron.
Harry si lasciò scappare un sorriso amaro, di chi sa ma non può dire: Emma ebbe paura di sentirgli pronunciare la verità, era terrorizzata da quell'idea.
Ma dovette ricredersi. «Chi dice che io non faccia lo stesso?» ribatté con fermezza.
Ron si irrigidì appena, sorpreso da una risposta che non poteva contraddire. Diede una veloce occhiata a sua figlia, come per trovare una conferma nei suoi occhi, e lei lo pregò senza parlare di non continuare oltre.
«Da quanto vi conoscete?» domandò invece lui, sviando di poco il discorso. Il suo interrogatorio – già preannunciato da Emma più e più volte – non era ancora finito.
Harry si schiarì la voce, bevendo un sorso di vino. «Da sei anni circa».
«Così tanto?» commentò Constance, sinceramente sorpresa: entrambi i genitori non sapevano che lui fosse lo stesso Harry che tanto avevano disprezzato, credendo che avesse traviato la mente di Emma spingendola a rubare dei soldi in casa propria. All'epoca, lei non aveva mai raccontato molto sulla propria relazione, anzi, non aveva mai raccontato niente: si era protetta con la riservatezza, mentre i suoi quindici anni la obbligavano a vivere quelle emozioni come in un sogno segreto.
«E come vi siete conosciuti? Andavate nella stessa scuola?» continuò Ron, deciso a scoprire di più.
Harry sorrise, probabilmente a causa dei ricordi: una risposta sincera avrebbe comportato qualcosa come “Sua figlia ha spudoratamente cercato di rimorchiarmi ad una festa”, ma Emma sperava con tutta se stessa che la sua sincerità avesse un limite di decenza.
«No, io andavo nella scuola di Zayn e Melanie. Ho conosciuto Emma tramite amici di amici», spiegò, mentre la sua gamba sinistra si avvicinava a quella di lei.
«Quindi hai aspettato per sei anni che mia figlia si fidanzasse, per renderti conto di provare qualcosa per lei?»
«Papà!»
«Ron, non esagerare», lo ammonì anche Constance.
«In realtà non è la prima volta che io ed Emma ci frequentiamo», affermò Harry, resistendo a quelle accuse. «Poco dopo esserci conosciuti abbiamo iniziato ad uscire insieme».
«E poi cos'è successo?»
«Non eravamo compatibili».
«Ora invece lo siete?»
«Più di prima».
Per qualche istante la cucina restò nel silenzio più totale: solo Fanny aveva perso di interesse nella discussione, preferendo occuparsi di una bruschetta decisamente più invitante. Emma si sentiva letteralmente esausta: non riusciva a capire se quello scambio diretto di battute potesse essere un bene o un completo disastro. Non voleva che continuasse, voleva solo mangiare in tranquillità e non avere un peso sullo stomaco.
«Hai detto che siete stati insieme circa sei anni fa», ripeté Ron, corrugando la fronte come se fosse stato immerso in pensieri profondi, sospetti.
Constance dovette capire prima di tutti ciò che stava per accadere, quindi tentò di temporeggiare o distrarre l'attenzione. «Le lasagne devono essere pronte», esclamò, con accentuata impazienza. «Harry, non ti ho nemmeno chiesto se ti piacciono», continuò, alzandosi per avvicinarsi al forno.
«Sono una delle sue cose preferite», rispose Emma al suo posto, senza distogliere lo sguardo da suo padre.
«Non sarai lo stesso Harry?» domandò infatti, all'improvviso.
«Lo stesso Harry?» ripeté lui, confuso dall'aumentare della tensione.
«Papà, mi passi il vino?» tentò Emma, ma senza ricevere alcunché in cambio.
«Che razza di memoria ha?» mimò Melanie con le labbra, sospirando appena.
«Ron, vieni ad aiutarmi con i piatti, per favore».
«Lo stesso Harry per cui mia figlia ha rubato trecento sterline in casa nostra», continuò imperterrito il capofamiglia, ignorando chiunque altro.
Harry non si aspettava un tale ritorno al passato, lo dimostrò corrugando la fronte ed aspettando qualche istante prima di parlare: guardò Emma e poi serrò la mascella, mentre lei gli posava una mano sulla gamba, senza sapere se per ammonirlo o incoraggiarlo.
«Sono passati sei anni, non c'è davvero bisogno di parlarne», intervenne, con la vana speranza di mettere da parte quell'argomento. Improvvisamente, avrebbe preferito tirar fuori il tradimento di Miles, piuttosto che essere testimone di un processo nei confronti di Harry.
«Invece io ho sempre sperato di poterne parlare con lui», la contraddisse il padre, assumendo un'espressione nervosa.
«Cosa vuole sapere?» lo spronò Harry, senza sottrarsi a quella situazione, anzi, andandole incontro privo di timori. Constance si riavvicinò al tavolo, senza le lasagne.
«Come ti è venuto in mente, per esempio, di lasciare che Emma facesse qualcosa del genere!»
«Non le ho consigliato io di prendere i soldi da casa vostra».
«Ah, no? E perché dovrei crederti?»
«Perché è la verità».
«A cosa ti servivano i nostri soldi?»
«Non mi servivano i vostri soldi: a quei tempi io e mio padre avevamo gravi problemi finanziari».
«Quindi la cosa più semplice era chiedere ad una quindicenne di-»
«Glielo ripeto, io non le ho chiesto niente».
«Adesso smettetela!» li interruppe Emma, agitandosi sulla sedia. «Basta!»
«Emma!»
«Emma!»
La voce di Ron e quella di Harry tuonarono su di lei nello stesso momento, intimandole di non intervenire. Lei spalancò gli occhi, sia per l'impotenza che le piegava l'orgoglio, sia per il modo in cui quei due si erano trovati d'accordo spontaneamente, nonostante le loro infinite differenze. Il suo corpo si tese sulla sedia, mentre la madre le posava una mano sulla spalla per confortarla.
«Io non ho mai chiesto niente del genere ad Emma», riprese Harry, con la voce decisa e graffiata. «Anzi, lei stessa può dirle come io abbia reagito quando mi ha portato quei soldi. So perfettamente che è stato un gesto sbagliato, Emma non avrebbe mai dovuto farlo, e so anche che sua figlia è già stata punita abbastanza per questo: prendersela con me non ha senso, in questo momento».
Ron lo fissò in silenzio, altero nella sua posizione: stava lottando contro se stesso, con l'istinto di cacciarlo di casa e quello di credergli.
«È stata solo una mia idea, Harry non c'entra assolutamente niente», rincarò Emma, piegando il tono di voce in una sorta di preghiera. Non aveva minimamente pensato alla possibilità che quella storia tornasse a galla: aveva passato il tempo a preoccuparsi di cose ben più futili, senza toccare i problemi più concreti. Si chiedeva cosa avrebbe fatto suo padre, se avesse saputo del passato di Harry, del tentativo di furto che aveva macchiato la sua coscienza: per diverso tempo aveva creduto fosse stato Zayn a commettere ogni particolare che le persone gli attribuivano, ma Melanie era riuscita – con infinita pazienza e perseveranza – a fargli credere alla sua innocenza, aiutata anche dalle nuove voci in città, che avevano spostato l'attenzione su qualcun altro. Fortunatamente, non era mai stato fatto nessun collegamento ad Harry, o sarebbe stata davvero la fine.
Ron distolse lo sguardo dai due ragazzi, bevendo le ultime gocce di acqua nel proprio bicchiere. «Allora, queste lasagne?» domandò, decretando una tregua.
 
L'atmosfera si era notevolmente alleggerita: Emma si ritrovò ad essere grata della presenza di Melanie e Zayn, che con i loro ricordi adolescenziali riuscivano a far trasparire la reale essenza di Harry, obbligando Ron a vederlo come un semplice ragazzo di ventisei anni: non si era ancora tranquillizzato, ma sorrideva sempre più, anche se in silenzio e senza dare grosse soddisfazioni.
«Io non ti ci voglio al mio matrimonio con quei capelli», scherzò Zayn.
«Allora dovrai fare a meno del tuo testimone», replicò Harry, alzando un sopracciglio per furbizia. Emma a volte si dimenticava di quel particolare.
«Louis andrà più che bene anche da solo», si intromise Melanie, arrossendo sia per il vino bevuto sia per l'audacia di provocare Harry: dopo tutti quegli anni, era ancora in grado di metterla in soggezione. La sorella minore riusciva persino ad esserne gelosa.
«Pic-Melanie, non si dicono le bugie», replicò lui, sorridendole consapevole: sapeva benissimo quanto lei fosse felice di vederlo accanto a Zayn nel giorno più importante della sua vita, non era in grado di mascherare quella verità.
Zayn prese la parola appoggiando i gomiti sul tavolo. «Piuttosto, cercate di restare insieme almeno fino a quel giorno, voi due. Non voglio situazioni imbarazzanti».
Emma rise debolmente, scuotendo la testa, mentre Harry si voltava per osservarla. «Vedremo cosa possiamo fare», disse scherzosamente, posando un braccio sullo schienale della sua sedia ed accarezzandole la spalla con delicatezza: non riusciva a non toccarla, a non sfiorarla anche solo distrattamente. E lei traeva vita da quei brevi contatti, ma allo stesso tempo notava suo padre perdere sempre di più la pazienza: avere a cena un pretendente era un conto, vederlo addosso a sua figlia ne era un altro. Probabilmente era abituato a Zayn, che per innata riservatezza si concedeva il corpo di Melanie solo quando erano da soli o in particolari circostanze. O si era abituato a Miles, che la toccava, sì, ma con maggiore discrezione. O ancora – possibilità ben più plausibile – era semplicemente Harry a metterlo a dura prova.
Per questo motivo, e per evitare qualsiasi altro pretesto per una nuova discussione, si allontanò dalla mano di Harry.
«Emma, è ora del roastbeef», esordì Constance, notevolmente più rilassata, grazie al buon andamento della cena. «Aiutami a sparecchiare, così possiamo servirlo». Lei la seguì velocemente, forse anche per sfuggire allo sguardo accusatorio di Harry, e si affaccendò intorno al tavolo per rimuovere i piatti ormai vuoti: anche Melanie si unì a loro.
«Santo cielo», sussurrò sua madre, una volta raggiunto il lavandino, «hai visto come ti guarda?»
«Chi?» domandò Emma, posando meno delicatamente un piatto per fare rumore.
«Harry, chi altro? Potrebbe far arrossire anche me».
Lei si voltò nella sua direzione spontaneamente, trovandolo ad osservarla senza alcun imbarazzo. Distolse lo sguardo velocemente. «Non mi guarda in nessun modo», disse, cercando di sminuire quel particolare: come aveva potuto pensare che solo lei potesse accorgersi di quelle iridi intense?
«Allora te ne sei accorta, pensavo fossi cieca», mormorò Melanie alle loro spalle, rivolta a Constance. «Scommetto che anche papà se ne è accorto», aggiunse, sorridendo.
«Oh, sicuramente: ha avanzato le lasagne, deve essere davvero sconvolto», precisò la madre, ridendo piano per non dare nell'occhio.
Emma non poté mettere a tacere la propria vanità di donna, quei sentimenti che solo Harry poteva raggiungere. «Volete piantarla voi due?» tentò, nascondendo il volto stranamente arrossato. «Pensate ai vostri, di uomini», continuò, rivolgendo ad entrambe una smorfia dispettosa ed allontanandosi con il secondo: era fiera di quel piatto, roastbeef in crosta di sale con pudding, una ricetta che lei non avrebbe mai e poi mai deciso di tentare, se Constance non l'avesse incoraggiata.
 
Quando Emma uscì dal bagno, sobbalzò per la sorpresa: nell'ombra del corridoio, infatti, non si sarebbe mai aspettata di trovare Harry, appoggiato al muro con le mani nelle tasche dei pantaloni.
«Cosa fai qui?» gli domandò, chiudendo la porta ed avvicinandosi a lui. «Devi andare in bagno?»
Harry fece un passo verso di lei, senza sorridere. «No», negò.
L'attimo dopo, le intrappolò i fianchi nelle proprie mani, baciandola senza alcun pudore: il sapore del dessert appena mangiato, quella torta di mele tradizionale, tingeva di dolcezza movimenti e respiri che invece apparivano crudi e privi di controllo. Harry sembrava famelico, indispettito.
«Fermo», sussurrò lei sulla sua bocca, nonostante il proprio corpo chiedesse il contrario.
Non fu ascoltata.
«Dobbiamo tornare di là», riprovò, portando le mani tra i suoi capelli.
Lui le morse un labbro. «Perché non vuoi che ti tocchi?» le chiese, andando dritto al punto: troppe volte era stato rifiutato con nonchalance per essere tollerabile.
Emma gli respirò sul viso, mentre le loro bocche cercavano di resistere alla tentazione di unirsi di nuovo. «Mio padre è geloso, molto geloso», provò a spiegare, nonostante sapesse che non sarebbe stato abbastanza.
«Ed io voglio toccarti», precisò, sfiorandole il naso. «Anche se c'è tuo padre».
Non poteva dargli torto, perché lei provava lo stesso desiderio: si era dovuta sforzare parecchio per non cedere al proprio istinto, durante l'intera cena. «Non voglio farlo innervosire ancora di più», si giustificò allora. «La storia dei soldi l'ha già turbato abbastanza».
«Per me non è un problema», ammise Harry, premendola ancora di più a sé.
Lei sorrise appena. «Qualsiasi cosa io dirò a te non andrà bene, vero?»
«Perspicace», rispose lui, attento provocatore. Il suo ghigno soddisfatto si spense sulle sue labbra.
«Dovrai fartelo andare bene, invece», continuò Emma, determinata. «Almeno per stasera».
Ebbe il tempo di scorgere nei suoi occhi in penombra una punta di stizza, un capriccio non consentito, prima di divincolarsi dalla sua presa e scappare in cucina.
 
Tutti riuniti in salotto, la stanza era avvolta da un pacato chiacchiericcio. Le due coppie erano pronte ad uscire, per continuare la serata in un pub in centro e per smaltire qualsiasi tensione avessero dovuto affrontare nelle ore precedenti.
Fanny si avvicinò ad Emma, forse pronta a proferire una delle poche parole della serata. «A volte è simpatico», disse soltanto, senza esporsi eccessivamente, ma abbastanza da rendere chiara la propria posizione. La sorella maggiore le sorrise, scompigliandole i capelli che aveva sciolto da quella scomoda coda alta, e l'altra scappò via subito dopo, in modo da non dover salutare Harry.
«È stato davvero un piacere», esclamò Constance, sinceramente soddisfatta della serata. «Torna quando vuoi», aggiunse, sorridendo ad Harry: non solo perché aveva mangiato tutte le sue pietanze senza alcuna esitazione, ma anche perché si era dimostrato determinato e coraggioso nell'affrontare Ron Clarke, lasciando all'attenzione di tutti il suo legame con Emma.
«È stato un piacere anche per me», rispose lui, notevolmente più a suo agio: i suoi comportamenti non erano più finalizzati a mantenere la calma e a nascondere l'inevitabile agitazione, ma si erano sciolti e fatti più sinceri, cristallini.
«Io non sono facilmente influenzabile come mia moglie», intervenne Ron, statuario. «Quindi fai attenzione».
«Oh, andiamo, Ron! Ammettilo: questo ragazzo ti piace», rise Constance, accarezzandogli la schiena e guardandolo con una conoscenza che non poteva essere compresa dall'esterno.
Harry osò. «Certo che gli piaccio», precisò. «Altrimenti non mi avrebbe sopportato per tutto questo tempo».
Ron si sforzò di non sorridere, tanto da sembrare buffo. «Infatti è ora che tu vada via», lo salutò, senza macchiare di alcuna durezza quelle parole.
«Buonasera, allora», si congedò lui, sorridendo con i denti scoperti, mentre Constance si chiedeva dove fosse Fanny.
Emma aspettò di essere in macchina, per tirare un profondo sospiro di sollievo: aveva vissuto gli ultimi minuti con superficialità, salutando i propri genitori ed aspettando che tutti facessero lo stesso, senza una particolare attenzione. Stava scalpitando per potersi finalmente rilassare e questo le impediva di concentrarsi sulle proprie azioni: ma nell'auto di Harry, con un vago odore di fumo e con il suo corpo accanto, senza che nessuno potesse spiarli, poteva chiudere gli occhi e sorridere.
Harry uscì dal parcheggio l'istante successivo, accedendo la radio per riempire il silenzio ed una sigaretta per riempirsi i polmoni. Guidò per qualche minuto senza parlare, ascoltando Emma canticchiare a bassa voce e litigare con il regolatore del condizionatore: nessuno dei due sembrava in grado di dire qualcosa, come se avessero avuto bisogno di tempo per ricostituirsi o semplicemente godersi quell'intimità. Dovevano raggiungere Melanie e Zayn, ma si fermarono prima.
«Non è qui il posto», constatò Emma, corrugando la fronte nel guardare fuori dal finestrino. Era una via a senso unico, piuttosto isolata e buia, che correva tra due palazzi alti e datati.
«Facciamo una piccola sosta, hm?» rispose Harry, afferrandola da un polso ed invitandola a sedersi su di sé, al posto del guidatore.
«Aspetta», squittì lei, sbattendo un piede contro la carrozzeria interna dell'auto. «Ahia», si lamentò ridendo, subito dopo, quando diede una gomitata al finestrino per potersi mettere a cavalcioni su di lui. Sorrideva apertamente, stupita dal suo impellente bisogno di averla accanto, e lui faceva lo stesso, forse pregustando ciò che bramava e che presto avrebbe ottenuto.
«Ora non c'è tuo padre», sussurrò Harry, così piano da essere quasi inudibile a causa della radio ancora accesa. «Cosa farai?» domandò malizioso, portando le mani sul suo addome e poi sulla sua schiena.
Emma non si tirò indietro a quel gioco provocante, perché non poteva rimandare oltre quel momento. Si avvicinò al suo viso, alla sua bocca, ma non lo toccò. «Tu cosa vuoi che faccia?»
Harry riuscì a baciarle il collo, nonostante i suoi tentativi di sfuggirgli, e le mormorò qualcosa all'orecchio. «Tante cose piuttosto volgari».
Lei rise in un tacito consenso, udendo una risposta che era esattamente ciò che anche lei stava pensando, e si lasciò accarezzare con impazienza: si tolse la giacca ed Harry poté posare le mani insaziabili sul suo seno, poté alzarle la maglia per poggiare la bocca sulla sua pelle nuda, mentre Emma lo abbracciava e lo stringeva a sé, respirando tra i suoi capelli.
Quando lo sentì sorridere, cercò i suoi occhi e portò le mani sulle sue guance, rabbrividendo appena per la fine del contatto. «Sto facendo tutto io», la rimproverò lui, schiarendosi la voce ed imponendosi maggiore serietà, come a voler nascondere qualcos'altro.
«Perché continui a sorridere?»
«E tu perché continui a parlare?» la distrasse Harry, baciandole la bocca per impedirle di rispondere. Emma non poteva cedere spazio alla razionalità, alla curiosità: riusciva solo ad assecondare le sue labbra, a gemere nella sua bocca e a riscaldarsi con il suo respiro. Iniziò a muoversi sul suo bacino, per un'aspettativa che la stava logorando, e lui ansimò sulla sua mandibola.
Stavolta fu lei a sorridere.
Ed Harry la imitò subito dopo.
Non sapevano se continuare a consumarsi o se guardarsi con le labbra piegate ed i cuori leggeri.
«Lo stai facendo di nuovo», mormorò lei, con il petto quasi nudo premuto contro di lui.
«Che cosa?»
«Stai sorridendo».
«Sembra che tu non mi abbia mai visto sorridere».
«Forse non ti ho mai visto sorridere così».
Harry le morse un labbro, abbandonandosi subito dopo contro lo schienale del sedile. Aveva un'espressione indecifrabile, un respiro troppo profondo per essere semplicemente dovuto all'eccitazione. Spostò una mano sul suo viso, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte ed osservando ogni tratto del suo volto.
«Non hai l'impressione...»
Si fermò.
«L'impressione che stavolta potrebbe andare diversamente, tra di noi?»
Il cuore di Emma vacillò a quelle parole, tremando per il loro significato.
Gli occhi che aveva di fronte la osservavano con cautela, come se fossero spaventati da una verità che avevano visto scivolare via così facilmente: aspettavano con ardore una conferma, un motivo per sperare che , era davvero così.
«Sta già andando diversamente», rispose in un sussurro, altrettanto timoroso ed altrettanto fiducioso. Come poteva credere diversamente, quando i suoi sentimenti le urlavano quella consapevolezza? Quando Harry, con la bocca arrossata e la voce ancora macchiata dei discorsi con suo padre, la metteva al corrente delle proprie speranze?
Un altro sorriso, ed Emma glielo strappò dalla bocca con un bacio irrequieto ed estatico.
Percorse ogni centimetro della pelle che la sua giacca le concedeva, insistendo affinché se ne liberasse: e quando fu accontentata, sotto le voraci carezze delle sue mani, continuò a baciarlo senza sosta e senza respiro, sbottonando la camicia nera e succhiando il principio della sua clavicola destra.
«Ricordami di fotografare questo punto», lo pregò con la voce rotta, mentre Harry infilava una mano nei suoi pantaloni e la faceva gemere.
«Per una mostra?» indagò lui.
Emma sorrise sulla macchia rossastra che restò sulla sua pelle a testimoniare il suo passaggio. «Per il mio portafoglio».




 


Ebbene sì, alla fine ce l'ho fatta!!
Mi dispiace del ritardo, ma come ho più volte ripetuto il mio tempo scarseggia e lo ammetto, anche la mia ispirazione non è stata proprio abbondante. Colgo l'occasione per dire che un conto è dimostrare impazienza per l'aggiornamento, un conto è pretendere tutto e subito, senza sforzarsi di comprendere che dietro questi capitoli c'è una persona con una vita, degli impegni e dei bisogni. Non mi sembra di essermi mai sottratta ai miei "doveri" di autrice, quindi me la sento di sorbirmi le paternali. Nemmeno a me fa piacere non riuscire a scrivere, quindi "sgridarmi" non serve a niente, se non a farmi passare la voglia di aggiornare.
Detto questo, passiamo direttamente a questo capitolo! Tutti lo aspettavate ed io spero di non avervi delusi! Ho cercato di riportare tutte le cose fondamentali, perché non potevo scrivere tremila pagine hahah Quindi fatemi sapere se aveste preferito altri aspetti o meno!
Ron è un osso duro, ma Harry sa come tenergli testa: non si tira indietro di fronte alle sue provocazioni, anzi, diciamo che entrambi sono due testoni. La storia dei soldi doveva uscire fuori, perché sarebbe stato improbabile se se ne fossero semplicemente dimenticati. Il passato di Harry invece rimarrà tale! Per il resto spero che tutte le altre dinamiche vi siano piaciute (sì, Harry ha finalmente trovato un lavoro: non poteva continuare a vivere di rendita. E sì, sarà lui il testimone di Zayn!)
Per quanto riguarda la parte finale, ho voluto darvi un assaggio di ciò che Harry sta provando: me lo sono immaginato davvero come un bambino felice, tutto sorridente ed accaldato ahahha Voi cosa ne pensate? Credete che le cose andranno diversamente tra di loro? Ormai mancano solo più due capitoli alla fine della storia, cosa vi aspettate? Mi farebbe piacere sapere su cosa fantasticate per Emma ed Harry, cosa vi aspettate dal loro futuro :)

Grazie mille per tutto come sempre!

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
     (Emma che si prepara per la cena e manda foto a Pete con frasi disperate)


  

 

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Capitolo 29
*** Capitolo ventinove - Click ***




 

Capitolo ventinove - Click

 

Un mese dopo

Emma inciampò distrattamente a causa dei tacchi alti, recuperando subito dopo l'equilibrio ed accertandosi che nessuno l'avesse vista: sospirò profondamente, inumidendosi le labbra e passando le mani sul proprio addome, per eliminare eventuali pieghe del tubino celeste che indossava.
In piedi accanto alla parete, dispensava eleganti sorrisi a chi le si avvicinava per scambiare poche e gentili parole: controllò l'ora ancora una volta, mentre i minuti passavano ed Harry continuava a non vedersi. Sapeva della possibilità che arrivasse in ritardo, ma sperava di non doverlo aspettare oltre l'accettabile: era sinceramente felice del nuovo impiego di Harry, ma era difficile apprezzarlo fino in fondo, quando il suo capo gli imponeva orari intollerabili ed una mole di lavoro al confine della schiavitù.
Si voltò alla propria destra sbuffando sommessamente e si rilassò nel posare lo sguardo sulle labbra di Harry: incastonate in una fotografia, della quale erano protagoniste indiscusse, avevano perso il solito colorito roseo ed umido, sostituito da tonalità di grigio mischiate nel creare un naturale contrasto. Schiuse distrattamente, si lasciavano sfiorare dalle dita che erano solite torturarle per il nervosismo: Emma poteva riprodurre senza alcuno sforzo l'esatto movimento che compivano sul labbro inferiore.
Ricordava bene quando aveva scattato quella fotografia.
 
 
Harry era seduto al tavolo in cucina: dal suo cellulare appoggiato sulla superficie in legno, Spotify stava riproducendo una playlist creata tempo prima con poca attenzione, obbligandolo a tenere il tempo con il piede destro, che dondolava sul ginocchio opposto. Il tè caldo che aveva preparato era ancora interamente nella tazza al suo fianco, lasciando che il proprio profumo avvolgesse la tiepida stanza.
Stava leggendo una rivista, con i capelli raccolti malamente e l'espressione concentrata: gli avambracci sdraiati sul tavolo e la mano sinistra a giocare lentamente con l'angolo superiore di una pagina. La luce proveniente dalla finestra stretta si imbatteva in lui con placidità, creando un gioco di ombre in grado di affascinare.
Emma indietreggiò senza far rumore, sorridendo in silenzio e raggiungendo la propria borsa: recuperò la macchina fotografica e decise le prime impostazioni, poi tornò a spiarlo dalla porta – protetta dalla sua imperturbabile concentrazione e dal volume basso della musica – ed avvicinò il viso al suo fedele strumento. Harry acquistò una posa inconsapevole, come seguendo delle indicazioni che Emma poteva solo sussurrare tra sé e sé per non farsi sentire: nel momento giusto, anzi perfetto, lo scatto fu accompagnato da un breve rumore caratteristico.
Lui si riscosse sulla sedia, sospirando subito dopo nel vederla appostata ad un paio di metri di distanza. Scosse la testa e si rilassò contro lo schienale, ma non disse nulla riguardo la fotografia che gli era stata rubata: la sua vanità ne gioiva senza alcun pudore e lui non si sforzava di nasconderlo.
«Che ne dici di questa?» domandò invece, indicando qualcosa sulla rivista ed invitandola implicitamente ad avvicinarsi. Emma lasciò la macchina fotografica sul tavolo e posò una mano sulla schiena di Harry, mentre si piegava in avanti per osservare la libreria che aveva attirato la sua attenzione.
«Carina», commentò. «Ma non dovresti occuparti di cose più importanti
Harry le circondò il bacino con un braccio, pizzicandole un fianco e consigliandole di sedersi sulle proprie gambe. «Tipo?» indagò, respirandole vicino.
«Non saprei», rispose lei ironicamente, voltandosi per incontrare i suoi occhi. «Un forno che funzioni sarebbe un buon punto di partenza».
«Forse sì», sbuffò Harry, chiudendo la rivista con una mano e mordendo la spalla di Emma delicatamente. Sorrideva sulla sua pelle, padrone degli avvenimenti, decretando ufficialmente la fine della sua ricerca per il rinnovo dell'arredamento.
 
 
Molte persone superavano le sue fotografie senza fermarsi ad osservarle davvero, ma spiandole a debita distanza per decidere se fossero degne di studi più attenti: ad Emma non pesava particolarmente, perché – nonostante la propria consapevolezza e la propria intraprendenza volessero ribellarsi – sapeva che faceva parte del gioco e che non tutti potevano apprezzare qualsiasi opera esposta. In fondo si trattava di una mostra plurima, con una decina di artisti novellini che cercavano di emergere e farsi notare: in quel contesto, non avrebbe potuto chiedere molto di più.
Ogni partecipante aveva una sala a disposizione ed Emma non poteva lamentarsi della propria posizione: era forse la terza, a partire dall'inizio del percorso obbligato della mostra, quindi riusciva a godere di un'attenzione più fresca da parte dei visitatori. Era convinta di aver fatto un buon lavoro ed aveva tutte le intenzioni di prendersene il merito senza alcun complimento: forse la scelta di esporre dei dettagli così personali ed intimi era stata azzardata, perché poteva compromettere il punto di vista di chi doveva osservarli, ma non era riuscita a resistere. Le fotografie di Harry erano semplicemente cresciute in numero e qualità nella memoria della sua macchina fotografica, fino ad obbligarla a renderle conosciute ed apprezzabili anche da terzi.
Ovviamente, lui non aveva avuto obiezioni a riguardo: il suo ego aveva subìto ed accettato un immenso incoraggiamento, nel sapere che sarebbe stato il soggetto di una mostra d'arte, nel sapere che Emma l'avrebbe reso tale. Lei era disposta a dargli una tale soddisfazione, semplicemente perché aveva bisogno di lasciar andare parte delle proprie emozioni e dei propri sentimenti: incapace di controllarli tutti a dovere, disperderne alcuni frammenti in quelle fotografie e mostrarli ad altre persone poteva portarla in salvo. Doveva esprimersi in qualche modo, far sapere anche ad altri cosa le stesse succedendo e magari anche il perché.
Controllò di nuovo l'ora, fissando con dispiacere le lancette che continuavano a muoversi senza pietà, e spostò lo sguardo sull'entrata della sala: aveva sperato di trovare Harry in piedi, intento a guardarla con la solita aria da sbruffone, ma dovette accontentarsi di Miles.
Spalancò gli occhi, trattenendo il fiato per la sorpresa, ed istintivamente si guardò intorno: l'unico appiglio che riuscì a trovare fu un'altra fotografia di Harry, del suo profilo sorridente ed ignaro, coperto in parte da occhiali scuri e decorato da una fossetta accentuata dal bianco e nero. Persino in un'immagine immobile e lontana riusciva a prendersi gioco di lei, a ridere di quella situazione.
Intanto, Miles le si era già avvicinato.
«Ciao», la salutò, schiarendosi la voce e tenendo gli occhi inesorabilmente fissi nei suoi: Emma non sapeva se si fosse già reso conto di essere circondato da dettagli di Harry o se invece non si curasse del resto perché non era quello che gli interessava.
«Miles», ricambiò lei, cercando di nascondere lo stupore ed un certo grado di disagio. «Non mi aspettavo di vederti qui», ammise, facendo un passo verso di lui: nonostante i mesi trascorsi, il suo viso non era cambiato nemmeno in una impercettibile ruga, o forse era lei a non ricordarsene. Ogni suo tratto era ancora intriso della naturale sicurezza nel portamento, segno del suo stoicismo e maschera delle sue debolezze.
«Ed io non pensavo di venire per davvero», rispose Miles, sorridendo con sincerità. «Ma poi mi sono detto... Perché no? In fondo sono io ad aver avuto l'onore di iniziarti a tutto questo», continuò, mostrandosi più apertamente. E non aveva tutti i torti, Emma l'aveva ringraziato innumerevoli volte per le occasioni concesse.
«Questo è vero», riconobbe lei, annuendo. «Anche se-»
«Anche se è un po' imbarazzante?» la anticipò, stavolta guardandosi intorno per sottolineare il motivo delle proprie parole: le sue iridi si incupirono appena.
Emma inspirò a fondo. «Sì», confermò. «Lo è».
La sua affermazione introdusse un silenzio teso.
«Come hai saputo della mostra?» esordì Emma, per recuperare. «Conosci qualcuno?»
Miles corrugò la fronte, ma la sua espressione tornò tranquilla subito dopo. «Ho parlato con Harry, in realtà».
Harry?
«Harry?» domandò lei, incredula dinanzi a quella possibilità.
Lui annuì. «Ci siamo incontrati per caso pochi giorni fa», cominciò, stringendosi nelle spalle. «Non me lo sarei mai aspettato, ma è stato lui ad avvicinarsi, anche se sono stato io a chiedergli di te. È stato a quel punto che mi ha detto che avresti partecipato ad una mostra, anche se credo mi abbia fregato in pieno», concluse, sorridendo amaramente e forse maledicendo Harry tra sé e sé.
«Perché?» indagò Emma.
«Be', quando io gli ho chiesto che tipo di mostra sarebbe stata, lui mi ha semplicemente detto che ci sarebbe stato un po' di tutto, per citarlo. Non mi ha detto che sarebbe stata una specie di... Hai capito anche tu».
Emma si morse un labbro, stringendo i pugni lungo i propri fianchi. «Mi dispiace, non ne sapevo niente», esclamò: Harry era davvero un idiota. Riusciva ancora a scorgere la fotografia del suo sorriso, quella che si prendeva gioco di lei con una tale innocenza da renderla ancora più nervosa: sembrava che lui fosse davvero lì, a sbeffeggiarla per quella sorpresa, per quella rivincita. Nonostante fosse una propria opera, ad Emma venne voglia di correre verso la cornice essenziale e romperla in due.
«Immagino», sospirò Miles, distogliendo lo sguardo per un solo attimo. «Spero che non te la prenda, se ora me ne vado».
«Miles...»
«Non fraintendere, Emma», la rassicurò. «Anche io sto andando avanti con la mia vita, con qualcun altro, e se sono venuto qui, oggi, è stato solo per vedere le tue fotografie, per vedere come stavi. Ma queste fotografie non mi interessano: non perché non riesca a tollerare il fatto che tu abbia qualcun altro, ma perché Harry non è... Diciamo che è un po' troppo stronzo, per i miei gusti: la sua faccia stampata ovunque non mi attira particolarmente».
Emma non riuscì a trattenere una debole risata, forse rassicurata dalla confessione di Miles, forse felice di sapere del progredire della sua vita, forse divertita dall'immagine di Harry ai suoi occhi. «Capisco», disse poi. «Vai pure. Quando Harry arriverà, gli dirò che sei rimasto per molto tempo a studiare ogni fotografia, apprezzandole tutte, così magari non avrà la soddisfazione di essere riuscito nel suo stupido piano».
Miles le sorrise calorosamente, scuotendo la testa. «Grazie. E buona fortuna», si congedò, continuando a curvare le labbra umide.
Lei non gli rispose con parole poco sentite, si limitò ad osservarlo con un vago sorriso grato e contemporaneamente carico di scuse: guardandolo darle le spalle ed allontanarsi, si chiese se la fortuna dovesse servirle con la mostra o con Harry stesso.
«Signorina... Clarke, giusto?» la distrasse una voce proveniente dalla sua sinistra: una signora di mezza età, vestita elegantemente e con sobrietà, la scrutava in viso dal basso, non aiutata dalla sua scarsa altezza. Teneva tra le mani la brochure di presentazione della mostra, dove evidentemente aveva letto il suo nome.
«Sì, sono io», confermò Emma, riacquistando un gentile contegno e mettendo da parte il resto.
«Oh, bene», constatò l'altra, affrettandosi ad infilare nella borsa il volantino ripiegato malamente. I capelli tinti di un nero innaturale le ricadevano sulle spalle, dritti e leggeri. «Sa? Ho apprezzato molto le sue fotografie. Molto più particolari ed interessanti di tante altre, in questo posto: le faccio i miei complimenti».
Emma non poté mettere a tacere la propria soddisfazione, il proprio entusiasmo. «La ringrazio di cuore», esclamò quindi, con un largo sorriso ad illuminarle il volto truccato.
«Anche se, devo dirglielo, la sua è stata una scelta piuttosto crudele».
«Crudele?» ripeté lei, incuriosita dall'aggettivo utilizzato.
L'altra assottigliò gli occhi ambrati, assumendo un'espressione furba. «È chiaro che abbia voluto stuzzicare la fantasia dei qui presenti», constatò con sicurezza, manifestando dei modi fini e posati. «Ha esposto dei frammenti di qualcuno, qualcosa di troppo vago per essere certo, ma altrettanto indiscutibile per non essere un vincolo alla stessa immaginazione. Non so chi sia il ragazzo di queste fotografie, forse un suo amico, un parente, o più probabilmente il suo fidanzato, ma resta il fatto che lei sembra esserne piuttosto gelosa».
Emma la ascoltava con attenzione, soffermandosi sulla sua voce bassa e ferma, mentre insieme muovevano i primi passi nella sala.
«Lo ha messo a disposizione di tutti noi, in vesti anche piuttosto intime, aggiungerei», ricominciò la signora, sorridendo appena nel passare accanto alla schiena di Harry, nuda e china sul letto, nel quotidiano tentativo di riordinare le lenzuola. «Ci ha dato il permesso di fantasticarci su, ma non vuole concederci questo ragazzo fino in fondo. È impossibile ricostruire il suo volto in ogni dettaglio, manca sempre qualcosa: è ritratto da varie angolazioni, con luci diverse ed espressioni varie, ma è impossibile averne una visione d'intero. Ci ha voluto regalare i vostri momenti più intimi e personali, ma è stata ben attenta a non darci lui».
Emma non riuscì a rispondere subito, spiazzata dalla chiarezza con la quale le proprie intenzioni – anche quelle più difficili da ammettere – erano state svelate: nemmeno lei avrebbe potuto descrivere così bene l'essenza di quella mostra, si sarebbe di certo incastrata nei propri sentimenti senza alcun risultato più che accettabile, mentre quella donna l'aveva semplicemente messa a nudo.
«È strano essere scoperti così», sospirò infine, sorridendo appena. «Pensavo di potervi ingannare meglio».
«Posso vantarmi di avere un occhio molto attento, una mente molto perspicace», replicò lei, schiarendosi la voce con una buffa fierezza. «Quindi, mia cara, dato che ha appena ammesso di aver cercato di ingannare tutto noi, le do due possibilità per rimediare».
«Ovvero?»
«Primo, dovrebbe dirmi chi è il soggetto di queste fotografie», spiegò la donna, continuando a camminare verso la parete opposta della sala.
«È il mio ragazzo», ammise Emma, «anche se credo che lei lo sapesse già».
«Sì, ma volevo esserne certa. La ringrazio. E secondo...» proseguì, fermandosi di fronte ad una delle fotografie, «... Vorrei che mi spiegasse questa: l'unica in cui il suo ragazzo non è presente».
Lei alzò lo sguardo su quell'immagine, fedele ai propri ricordi, ed il suo cuore ne risentì.
 
 
Casa Clarke era immersa nel silenzio, almeno al di fuori di quella stanza: era pomeriggio inoltrato, il cielo si stava scurendo e la luce del tramonto filtrava calda dalle finestre.
«Mio padre vuole riaverti a cena», esordì Emma, raggomitolata contro il fianco di Harry: aveva il viso sul suo petto e respirava il suo calore, mentre entrambi i loro corpi riposavano coperti da uno spesso piumone.
«Deve proprio amarmi», sospirò lui, divertendola con una debole risata. «Non è passato nemmeno un mese».
Emma alzò lo sguardo sul suo viso e gli accarezzò il mento con le dita. «Io credo che voglia solo farti altre domande, magari terrorizzarti un po'», disse a bassa voce.
«La tua scarsa fiducia in me e nelle mie doti di conquistare tuo padre inizia a darmi sui nervi, ti avverto», la ammonì Harry, abbassando le palpebre.
«Io ho fiducia in te», lo contraddisse.
«Ah, sì? Allora perché ti è tanto difficile credere che io stia semplicemente simpatico al fantomatico Ron Clarke?» Il suo tono di voce era lento e masticato, simile a quello di chi non vuole discutere.
«Perché hai visto anche tu com'è Ron Clarke».
«Esatto», sbuffò lui, muovendosi per farla sdraiare sul materasso e per baciarle il seno. «Ed è per questo che sono convinto di stargli simpatico: forse non si aspettava qualcuno con le palle, che sapesse tenergli testa».
«Attenzione a tutta questa ammirazione verso te stesso», lo riprese lei, infilando una mano tra i suoi capelli ed invitandolo a guardarla negli occhi, «a mio padre potrebbe non piacere».
Harry le fece una smorfia, mordendole subito dopo un fianco. «Me ne occupo io, tu non preoccuparti».
Emma alzò gli occhi al cielo e si obbligò a mettere da parte l'argomento: non l'avrebbe ammesso ad alta voce, ma sapeva anche lei quanto Harry incuriosisse suo padre – per non parlare di Constance. Per essere previdente, però, preferiva non montarsi la testa e procedere con cautela.
«Mi fai il solletico», rise subito dopo, dimenandosi sotto il suo corpo mentre lui le accarezzava giocosamente il retro del ginocchio.
Il viso di Harry sbucò fuori dalle coperte, vagamente arrossato per il calore e per il desiderio, e le sue labbra si inclinarono in un sorriso divertito. «Devo dirti una cosa», annunciò, chinandosi per baciarle il basso ventre. «Anzi, due cose».
Emma chiuse gli occhi, momentaneamente distratta dalle sue carezze. «Hm?» riuscì a dire.
«Primo, quello stronzo del mio capo vuole che stasera lo raggiunga in officina», cominciò, facendola borbottare appena per quella notizia. «A quanto pare ha fatto un casino con degli ordini, quindi abbiamo del lavoro in più da sbrigare oltre l'orario di chiusura».
«Non può chiamare qualcun altro?» si lamentò lei, costretta a dire addio alla loro serata.
La bocca di Harry era sulla sua coscia destra. «Sono l'ultima ruota del carro, non mi lascerà in pace fino a quando non gli dimostrerò che le sue manie da psicopatico mi sono indifferenti».
«Spero presto, allora», mormorò lei, ancora ad occhi chiusi. «Lasciando da parte la dannata tesi che ancora mi aspetta sulla scrivania, tra poco inizia la sessione esami: questo vuol dire che avremo ancora meno tempo per stare insieme, e se il tuo capo continua a farti lavorare anche quando non devi, potrei seriamente innervosirmi».
Harry rise sul suo addome, facendola rabbrividire: tracciò un percorso umido verso il suo petto, con baci e deboli morsi, fino a fermarsi nuovamente sul suo seno.
Emma respirò a fondo per la gratitudine che provava nei suoi confronti, per il benessere che le regalava. «Cos'altro dovevi dirmi?» domandò distrattamente.
Harry si separò dalla sua pelle, alzò il viso verso il suo e «Secondo», disse, «credo proprio di amarti un bel po'».
Le palpebre di Emma si alzarono spontaneamente, con un movimento meccanico che contemporaneamente le tolse il fiato: le sue iridi, quindi, furono libere di specchiarsi in quelle che avevano di fronte, per testarle, per capire se fosse tutto vero o se avessero solo sognato, a causa dei baci tentatori appena accettati. Ma Harry era proprio lì, su di lei e contro di lei, ad osservarla con attenzione: era lì, dopo averle detto di amarla come parlando delle prossime previsioni meteorologiche. E non accennava ad ammettere lo scherzo, a dichiarare una presa in giro di cattivo gusto.
Credo proprio di amarti un bel po'.
Che razza di dichiarazione era? E da quanto Emma sperava di poterne udire una di simile, pronunciata dalle sue labbra? In cuor suo, non sapeva nemmeno darsi una risposta: forse lo aveva desiderato da sempre, dai suoi quindici anni in poi, o forse da altrettanto tempo lo stava temendo. E non riusciva a crederci, a capacitarsi di una cosa del genere: non sapeva come reagire a ciò che più di tutto il resto aveva desiderato, come se non si fosse mai realmente preparata alla possibilità, nonostante credesse di averlo fatto. Un conto era percepire la premura di Harry, i suoi respiri contro la propria pelle ed i suoi sentimenti in ogni litigio ed in ogni carezza; un conto era sentirseli ricordare a parole, quelle parole alle quali devi reagire con qualcosa di altrettanto significativo, perché altrimenti ti fregano. Ti obbligano a dire qualcosa, anche se vorresti semplicemente sorridere e piangere al tempo stesso, anche quando sei troppo impegnato a rielaborarle per aprire bocca. Così, se non le accontenti in un tempo ben stabilito, ti fregano di nuovo.
E quelle di Harry non erano molto pazienti.
«Lascia perdere», mormorò nervosamente, allontanandosi dal suo corpo bruscamente.
Emma ebbe il tempo di corrugare la fronte e di allungare una mano per trattenerlo, per afferrargli un braccio e pregarlo di ragionare, ma lui si divincolò dalla sua stretta. Si stava già rivestendo, seduto sul bordo del letto.
«Harry, cosa stai facendo?» domandò, con la voce tremante di chi non è padrone dei propri gesti. «Dove stai andando
«Hai solo questo da dire?» le rispose secco, mentre lei poteva cogliere la durezza dei suoi occhi, la ferita che non le era dato di curare.
E no, certo che non aveva solo quello da dire, ma le sue labbra erano immobili, persino mentre Harry si alzava dal letto ed usciva velocemente dalla stanza.
Dalla casa.
Emma restò sola in quell'assenza, nella patetica sensazione di sentirsi impotente: senza nemmeno un valido motivo, senza nemmeno una scusa accettabile, aveva vissuto i sentimenti di Harry solo per rimanere inerte di fronte a loro. Li aveva lasciati scappare via insieme al suo corpo che sapeva ancora del proprio, aveva lasciato credere loro di essere i soli.
 
 
«E così ha scattato questa fotografia?» dedusse la signora, osservando la porta spalancata della camera di Emma: immobile come lo era stata per tutto il tempo in cui lei l'aveva fissata, sperando di poterla varcare o di vedere lui tornare indietro.
«Stupido, eh?» commentò lei, sorridendo per nascondere una punta di imbarazzo. «Invece di seguirlo, mi sono messa a giocare con una macchina fotografica». Nemmeno lei sapeva perché l'avesse fatto: aveva semplicemente sentito il bisogno di descrivere l'assenza che aveva causato, di immortalarla.
«È stupido solo se per lei una macchina fotografica è stupida», la corresse l'altra, comprensiva. «E poi cos'è successo?»
Emma inspirò a fondo, rallegrata dai suoi stessi ricordi: fece qualche passo alla sua destra e le mostrò un'altra fotografia, l'unica a colori. La guancia di Harry era schiacciata contro un cuscino candido, mentre le labbra schiuse e leggermente secche lasciavano uscire respiri lunghi e profondi. Aveva la schiena rilassata, il braccio sinistro allungato verso uno spazio vuoto, dove poco prima aveva dormito Emma: la mano sembrava ancora posarsi possessivamente sull'addome sul quale aveva riposato per diverso tempo.
 
 
Non l'aveva chiamato, per paura di una sua reazione, e non gli aveva scritto per paura di non ricevere una risposta. Era andata direttamente a casa sua, armata di tutto il suo coraggio e di gran parte della sua determinazione.
Con un profondo sbuffo, si fermò di fronte al citofono: se non l'avesse trovato a casa, l'avrebbe aspettato fino a quando lo avesse visto parcheggiare l'auto ed uscirne con un broncio a rovinargli il viso. Pregò che fosse lì, invece, e premette il pulsante.
Pochi istanti dopo, la voce metallica di Harry chiese chi fosse ed Emma fu così sollevata, da perdere il controllo sulle proprie azioni per un brevissimo, ma significativo istante.
«Ti amo anche io», furono le parole che uscirono velocemente dalle sue labbra, senza che lei avesse nemmeno pensato di pronunciarle. Spalancò gli occhi e si tappò la bocca con entrambe le mani, abbassando le palpebre per maledirsi mentalmente.
Patetica, patetica, patetica, continuava a ripetersi.
E si aspettava che anche lui glielo dicesse, magari con una bella risata ridicolizzante ad accompagnare il tutto. Invece Harry non disse niente, si limitò ad aprire il portone e ad invitarla implicitamente a raggiungerlo.
Emma si passò una mano tra i capelli, scuotendo il capo per i propri errori, ed aspettò interminabili secondi prima di ricostituire il coraggio che le serviva. Lentamente si trascinò fino alla porta d'ingresso dell'appartamento, trovandola socchiusa, ed altrettanto lentamente scivolò all'interno, senza sapere cosa aspettarsi.
«Ti conviene non dirmi cazzate», esordì Harry, in piedi ed appoggiato allo schienale del divano con le braccia conserte. La voce irrequieta, al confine dell'autocontrollo.
Emma si risentì appena. «Non sono cazzate», tentò di contraddirlo, senza però riuscire ad aggiungere altro.
«Allora perché hai aspettato un'ora per dirmelo, hm? Perché io ti ho detto di amarti e tu mi hai... Tu sei rimasta a guardarmi?» Il suo nervosismo si poteva leggere nelle sopracciglia aggrottate, nella mascella serrata e nella sua postura rigida, in procinto di sfogarsi.
«Questo non vuol dire niente!» si difese Emma. «E magari te l'avrei detto un'ora fa, se tu non te ne fossi andato in quel modo. “Lascia perdere”», lo imitò, «Lascia perdere, Harry? Sul serio?» Si sentiva rinvigorita, come se quella discussione potesse donarle la forza della quale necessitava.
«Cos'altro avrei dovuto dirti?» sbottò lui, aprendo le braccia in un gesto esasperato.
«Qualsiasi cosa?» rispose lei, incredula.
Entrambi sospirarono, già stanchi di quel confronto: come sempre, erano in grado di perdere di vista il punto focale di ogni loro disguido, i dettagli più importanti.
«Io non so cosa mi sia preso», riprovò Emma, facendo un passo in avanti. La giacca che aveva ancora indosso la faceva sudare, aveva le guance in fiamme. «Tu mi hai detto... Non lo so, continuavo a pensarci e a chiedermi se fosse vero e-»
«C'è davvero bisogno di chiederselo?» la interruppe Harry, vagamente offeso per quell'insinuazione. Il tono meno accusatorio.
«Sai perfettamente cosa intendo», lo rimproverò piano. «Non me l'aspettavo, non me l'aspettavo in quel momento, mentre parlavamo del tuo capo e dei miei esami. Immagino sia solo rimasta... Scioccata?»
Non riusciva a spiegarsi come avrebbe voluto, perché in realtà non sapeva nemmeno cosa spiegare esattamente. Sapeva solo che i suoi sentimenti erano veri e che un simile errore non poteva comprometterli.
Harry le si avvicinò di qualche passo, cauto e diffidente. «Tu sei sicura di amarmi?» domandò, tentando di mantenere un registro distaccato, ma fallendo miseramente. Era chiaro che stesse cercando delle conferme che potessero smentire le proprie paure, chiaro che fosse scappato per il dolore di un sentimento probabilmente non ricambiato. Ed era assurdo che Emma capisse perfettamente cosa avesse provato, dal momento che sei anni prima i ruoli erano invertiti.
«Sì, io... Certo che sì», rispose con sicurezza, continuando a mantenere il contatto visivo.
Harry era sempre più vicino, ma non ugualmente convinto.
«Sì, Harry», riprovò lei, andandogli incontro ed alzando il viso per poterlo guardare negli occhi nonostante la differenza d'altezza. Poteva sentire il suo respiro inquieto sulla pelle: le sembrava di dover conquistare la fiducia di un animale in gabbia, furente e spaventato. Non le erano concesse mosse azzardate, parole incaute e gesti imprudenti: poteva semplicemente aspettare di farsi riconoscere.
Lui si irrigidì, stringendo i pungi lungo i fianchi, ma si rilassò subito dopo: altero nello sguardo, si lasciò scovare dietro le sue paure orgogliose. Alzò una mano per sfiorarle una tempia con le dita, scendendo lungo la guancia e poi sul mento, fino a posare i polpastrelli sulle sue labbra: Emma ci respirò contro, incapace di resistere oltre. Cercò le sue spalle per attirarlo a sé, per chiedergli un maggior contatto, e lui si lasciò guidare, nonostante fosse ancora restio.
«Nemmeno tu puoi avere dubbi su di me», sussurrò, usando le sue stesse parole come un'arma. Ed Harry, a quel punto, riuscì a seppellire qualsiasi suo timore: raggiunse la sua bocca e la baciò con foga, per liberarsi di un peso indesiderato. La toccò avidamente, senza trovar pace su un lembo di pelle, né con la forza di spogliarla, e lei si arrese nelle sue mani e tra i suoi respiri.
Sorrise contro le sue labbra, mentre lui faceva lo stesso, e si arrestò solo quando entrambi dovettero riprendere aria, mettere a tacere almeno per un istante i cuori sotto sforzo, esausti. Harry portò entrambe le mani tra i suoi capelli, leccandosi le labbra e curvandole come un bambino estasiato. «Me l'hai detto al citofono», ricordò a bassa voce, lasciandosi sfuggire una leggera risata.
Emma cercò di trattenersi dal fare lo stesso – invano – e lo spinse senza forza. «Non credere che tu abbia fatto una figura migliore», ribatté, riferendosi alle parole da lui usate.
«Mi dispiace, niente batte il citofono», insistette lui, dispettoso.
«Piantala!»
«A proposito», continuò Harry, resistendo ad un morso vendicativo sul mento. «Credo che quell'affare non funzioni benissimo: prima non ho sentito bene».
Emma colse subito le sue intenzioni e si sentì in imbarazzo. «Però lo hai sentito, quindi smettila», borbottò.
«Avanti, dimmelo di nuovo», la pregò lui, baciandole delicatamente una guancia.
«Non dovresti chiedermelo», riuscì a protestare lei, nonostante la bocca di Harry la stesse distraendo con piccoli baci sul collo.
«Emma».
Lei chiuse gli occhi, stringendolo di più a sé.
«Emma...»
«E va bene», cedette, assumendo un'espressione imbronciata. Harry tornò con la fronte appoggiata alla sua, lentamente e con movimenti studiati: le mani sulle sue guance e gli occhi a non lasciarle via di fuga. Emma si schiarì la voce, si inumidì le labbra e contò mentalmente senza nemmeno un ordine, solo per rimandare il momento e combattere il nervosismo: poi si diede della sciocca, nel voler posticipare una gioia che ben conosceva e che non poteva farle alcun male.
«Ti amo», sussurrò, sbattendo le palpebre e sentendo la bocca di Harry curvarsi in un sorriso. Lui chiuse gli occhi, come per godersi quelle parole tanto attese, e li riaprì con lentezza.
«Sai cosa mi hai fatto passare quando non mi hai risposto, a casa tua?» le domandò serio, mettendo allo scoperto le proprie emozioni. Il pensiero che il suo cuore avesse vacillato, nel confrontarsi con il silenzio di Emma, le incrinò il proprio: c'era un vago senso di colpa, in quello che stava provando, ma anche un calore indescrivibile per ciò che non era altro che la prova del loro stare insieme.
«Scusa», mormorò lei, dispiaciuta dell'aver rovinato quel momento: non sarebbe più tornato, non sarebbe più comparsa la stessa, nuova emozione.
Harry la baciò di nuovo, a lungo.
«Ora che ci penso», gli disse poi, ancora sulle sue labbra, «sei un tale ipocrita».
Lui corrugò la fronte, circondandole il busto con le braccia e stringendola a sé.
«Appena hai avuto il dubbio di non essere ricambiato, sei scappato alla velocità della luce», gli fece presente, attenta. «Quindi tutte quelle cose che mi hai detto sei anni fa, sull'aspettare e dare tempo ai sentimenti, valevano solo per me?»
Harry sorrise brevemente. «Ti amo».
Emma sospirò e cercò di dargli un debole pugno. «La smetti di dirlo così, all'improvviso? E comunque non credere di poterlo usare per salvarti, d'ora in poi», lo ammonì, divertita.
Lui rise arreso, prima di rispondere seriamente. «Credo che trovarsi nella situazione sia semplicemente diverso», ammise a bassa voce: quante volte le aveva dato dell'immatura, quante volte aveva criticato le sue prospettive, mentre alla fine, quando lui stesso si era trovato in una situazione simile, si era sentito costretto ad imitarla.
«Ma non mi dire», commentò Emma, rivolgendogli una smorfia e baciandolo in una risata.
 
La notte successiva, quando gli impegni di entrambi permisero loro di dormire insieme, Emma si svegliò presto e lo trovò addormentato accanto a sé. Sgattaiolò dalla sua presa cercando di non disturbarlo, corse a prendere la macchina fotografica e ritornò nella sua stanza: salì in piedi sul letto, rischiando di cadere per il precario equilibrio, e per un istante si godette l'immagine di Harry che, nonostante il sonno profondo, continuava a cercarla con naturalezza al proprio fianco.
Click.
 
 
«E lui dov'è, in questo momento?» domandò la donna, spiazzando Emma con una domanda non inerente al suo breve racconto, meno ricco di dettagli in confronto ai suoi ricordi.
«Oh, dovrebbe essere qui a momenti», spiegò. «Il lavoro non lo lascia respirare, ultimamente».
«Quindi potrò finalmente incontrarlo?» sorrise l'altra, enfatizzando il suo desiderio.
«Può starne certa: Harry non si perderebbe per nulla al mondo una mostra che parla di sé», scherzò Emma, rassicurandola.
«Allora non vedo l'ora».
«Di cosa state parlando?»
Harry si annunciò così, senza saluti o convenevoli, ma con la sua innata curiosità: con un ultimo passo arrivò accanto ad Emma, sistemandosi le maniche della camicia bianca che indossava. Respirava velocemente, come se avesse corso per arrivare più in fretta. Lei si stupì della sua comparsa improvvisa e, se in un primo momento ne fu rallegrata, subito dopo lasciò trasparire parte del risentimento derivante dallo scherzo giocato a Miles.
«Tu sei Harry, giusto?», cominciò la signora, porgendogli una mano: lo osservava con occhi sognanti, come se avesse appena trovato qualcosa cercato per anni. Emma alzò un sopracciglio, sorpresa dal suo atteggiamento ed incredula davanti alla confidenza che non aveva mostrato nemmeno a lei, nonostante i suoi complimenti.
«Sì», confermò lui, sorridendo. «Lei chi è, invece?»
«Una tua ammiratrice, direi», rispose Emma, con una punta di gelosia che la infastidiva ad ogni sguardo della signora: nei minuti in cui avevano parlato, non aveva pensato di doverla veder consumare il proprio ragazzo.
Harry sembrava confuso, ma non in difficoltà.
«Esattamente», esclamò la donna, con i suoi modi eleganti. «Sono Mary, Mary Stan, e anche io ogni tanto perdo tempo a dipingere o fotografare. Mi piacerebbe averti come modello, qualche volta».
Emma corrugò la fronte con tutta l'incredulità possibile: non aveva appena finito di dirle quanto fosse gelosa del soggetto delle sue fotografie? Era comunque pronta a sottrarglielo senza alcun pudore?
«Ci penserò e le farò sapere più tardi, se sarà ancora qui», le assicurò Harry, sorridendo nello scorgere l'espressione oltraggiata di Emma. «Ma ora dovrà scusarci, io e la mia ragazza abbiamo qualcosa di cui parlare».
Si congedarono senza molte parole, mentre una mano di Harry dietro la sua schiena la guidava ad un paio di metri di distanza. Emma incrociò le braccia al petto, infastidita e possessiva. «Di cosa dovremmo parlare?»
«Di niente, in realtà», rispose lui, stringendosi nelle spalle. «Anche se immagino tu abbia qualcosa da dire», aggiunse, dopo averla studiata con attenzione.
Lei non se lo fece ripetere due volte. «Sai? Miles è venuto qui, prima».
Harry sorrise apertamente. «Ah, sì?»
«Si può sapere cosa ti salta in mente?» lo rimproverò a bassa voce, avvicinandosi appena. «Giochi del genere sono adatti ai bambini delle elementari, santo cielo».
«Non ho fatto niente di male», si scusò lui, fingendo indifferenza.
«No? Non gli hai per caso consigliato di venire alla mia mostra c-»
«Che c'è, ora non non posso nemmeno vantarmi delle capacità artistiche della mia ragazza?»
«E non gli ha detto che nella mostra ci sarebbe stato “un po' di tutto”, quando invece sapevi che ci saresti stato solo tu?»
«Credevo non ci fosse alcuna differenza», commentò Harry, posandole le mani sui fianchi e sorridendole in una chiara provocazione. Emma non riuscì a resistere molto a lungo, costretta ad arrendersi ai suoi gesti e al suo profumo di bagnoschiuma.
«Sei proprio un bambino», esclamò infine, sospirando sonoramente.
«Sai che novità», rispose divertito, spegnendo ogni parola sulle sue labbra. Frenato dal luogo in cui si trovavano e dai loro ruoli, Harry non si abbandonò alla passione che sicuramente provava, ma la baciò lentamente e con dolcezza. Le diede il tempo di ripensare al loro breve scambio di battute, alla verità che celava: in fondo era vero, Harry era banalmente il tutto di Emma, senza nemmeno essersi sforzato di diventarlo.
A volte Emma doveva fare i conti con questa consapevolezza, che nasceva spontaneamente senza bisogno di alcun richiamo: ed ogni volta, doveva riconoscere come i sentimenti che covava si fossero sviluppati privi di freni, costellati da errori ed incentivi a crescere. Ogni volta, doveva arrendersi all'amore che non riusciva a nascondere e del quale era sempre più certa, secondo dopo secondo.
«Dio, guarda che mani», esclamò qualcuno alle loro spalle, attirando l'attenzione di entrambi.
Si voltarono per cogliere la fonte di quell'entusiasmo ed Emma si trovò subito a sospirare, arresa, mentre Harry rinvigoriva la propria vanità.
Un paio di ragazze stavano osservando un insieme di tre fotografie, tutte raffiguranti le mani di Harry: nella prima, erano intente a sbottonare una camicia scura; nella seconda, erano semplicemente intrecciate tra loro, in una posa rilassata e quotidiana; nella terza, scrivevano un veloce messaggio sul cellulare.
«Mi piacciono gli anelli», continuò una delle ragazze.
«E i tatuaggi no?» replicò l'altra.
«A parte che, anche senza anelli e tatuaggi, restano comunque delle gran belle mani».
«Ho sempre avuto un debole per quelle così grandi, non come quelle di Andrew: un motivo in più per lasciarlo».
«La fidanzata di questo tizio è davvero fortunata... Non so se mi spiego».
«Sei sempre la solita ninfomane».
«Grazie dei complimenti», intervenne Harry, con un sorriso sornione sul viso ed un braccio ancora intorno alle spalle di Emma: le due ragazze si voltarono stupite, forse non facendo subito i dovuti collegamenti. «In effetti sì, la mia ragazza è piuttosto soddisfatta delle mie mani», continuò, narcisista, mentre quelle arrossivano per l'imbarazzo dei commenti che si erano lasciate scappare.
«Harry», lo chiamò Emma, divertita, ma comunque intenta a mantenere una certa dignità.
«Buon proseguimento», le salutò lui, allontanandosi di nuovo, questa volta verso il centro della sala.
«Inizio ad essere un po' gelosa», confessò lei, guardandosi intorno e facendo più attenzione agli sguardi di qualsiasi essere di sesso femminile. La donna di poco prima stava aspettando in un angolo della sala.
«Lo so», ammise Harry, passandosi una mano tra i capelli ancora umidi per la doccia. «Per questo sarà molto divertente».




 


Buooongiorno!
Giusto ieri mattina mi stavo lamentando della mancanza di ispirazione, poi non so cosa sia successo ma ho iniziato a scrivere e non ho più smesso hahahaah Da molto tempo avevo in mente questo capitolo, anche se non sapevo bene come strutturarlo e cosa ne sarebbe venuto fuori: sapevo solo che avrei dovuto metterci la dichiarazione (...), Miles e dei flashbacks (avrei voluto inserirne di più, ma il capitolo sarebbe venuto davvero troppo lungo!).
- Emma/Miles: in vista della fine della storia, sentivo di dover far comparire ancora una volta il buon vecchio Miles! All'inizio avevo pensato di farlo venire alla mostra per sentito dire, dato che è dell'ambiente, ma poi mi sono detta "ultimamente Harry è troppo tranquillo", ed ecco fatto hahah Diciamo che si è preso una piccola/infantile rivincita! Come Miles stesso ha detto, il suo turbamento non è dovuto molto ai vecchi sentimenti per Emma (che comunque stanno scomparendo), ma per la faccia tosta del suo compagno, tra l'altro spalmata su ogni parete della sala.
- Emma/Harry: BE', CHE DIRE? È da LG che desiderate un benedetto "ti amo" dalle labbra di Harry hahahah Spero solo che non abbia deluso le vostre aspettative! Ho pensato molto a come sarebbe successo e a cosa si sarebbero detti, e devo dire che non è stato facile: Emma ed Harry sono tutto, tranne che sdolcinati. I discorsi sui sentimenti sono fuori dalla loro portata (e credo che in due storie sia diventato evidente hahah), quindi infilare un "ti amo" da qualche parte - tenendo fede alle loro caratteristiche -  non è stato semplice. Difatti, Harry stesso lo dice così, all'improvviso, mentre stanno parlando di tutt'altro (e con parole tutte sue): vi ho sempre detto che non appena Harry avesse sentito di provare amore l'avrebbe detto, e questo ne è la prova. In quel momento l'avrà pensato e poi si sarà detto "Ma sì dai, ora glielo dico": easy going proprio ahhaha Ed Emma... be', ci è rimasta un po' male ahahhaa Non potevano quasi-litigare anche in questa occasione, non sarebbe stato da loro: Harry è letteralmente scappato (alla fine ha davvero reagito come Emma in LG e probabilmente, se lei non avesse ricambiato i suoi sentimenti, sarebbe successo di tutto e di più: infatti lei glielo rinfaccia e lui ammette di aver parlato prima di saperne qualcosa. Questo a dimostrazione che anche Harry è umano e non è tutto d'un pezzo), mentre Emma lo ha rincorso per poi dirgli "ti amo" al citofono...... Non so se ci rendiamo conto del disastro che sono questi due......
However, per il resto non ho molto da dire: spero solo che questo capitolo vi sia piaciuto, perché ci tengo particolarmente. E spero vi sia piaciuta anche la sua struttura, la presenza di Harry tramite le fotografie e poi la sua entrata in scena. 
Vi prego di farmi sapere cosa ne pensate, perché per me è importante! Soprattutto dal momento che il prossimo sarà l'ultimo capitolo!!
Grazie di tutto!!

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Un bacione,
Vero.

 
    
  

 

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Capitolo 30
*** Epilogo - Our war ***




 

Epilogo - Our war

 

3 Febbraio 2017
 
 
«Sto solo dicendo che hai l'aria da porca», ripeté Pete con sguardo indifferente e stringendosi nelle spalle, mentre gli occhi sottili seguivano il fumo espirato.
Emma sbuffò, ignorando la risata di Nikole ed il sorriso di Dallas. «Grazie, sei gentile».
«Ad Harry piaceranno», la distrasse l'amica, rivolgendole un'occhiolino malizioso ed accavallando le gambe sotto il tavolo. Il nuovo taglio di capelli di Emma si era presto trasformato nell'argomento del giorno: aveva detto addio a qualche centimetro di lunghezza ed aveva coperto la fronte lentigginosa con una frangia sottile e nuova.
«Non so», sospirò in risposta, mordendosi l'interno di una guancia: non che li avesse tagliati per lui o per attirare la sua attenzione, era chiaro, ma forse sarebbe stato più semplice accettare quel mite cambiamento con la sua approvazione.
«Ma se anche non gli piacessero», intervenne Dallas, allungando i piedi scalzi sul tavolo e massaggiandosi il collo con una mano, «non sarebbe la fine del mondo, giusto?» Era nuovamente tornato in città, mettendo a dura prova la pazienza della sua fidanzata: lei non lo sapeva ancora, ma presto avrebbe dovuto affrontare la proposta di trasferirsi a Bradford.
«Ti ricordo che noi ci mangiamo, qui», commentò Emma, spingendo via le sue gambe per obbligarlo a spostarle.
«A proposito, mi meraviglio che questo posto sia ancora tutto intero», continuò, guardandosi intorno con fare curioso e divertito. La cucina era in ordine, illuminata dal sole del primo pomeriggio.
«Intendi per il sesso?» tentò Nikole, avvicinandosi e calcando le parole come per discutere di un segreto.
Emma alzò gli occhi al cielo, Pete scosse la testa.
«Anche», sorrise Dallas, riportando i piedi sul tavolo, «ma soprattutto per i litigi: non mi meraviglierei s-»
«Come sei esagerato», lo interruppe la diretta interessata, raggomitolando le gambe al petto. «Anche se litighiamo spesso, non vuol dire che siamo soliti lanciarci addosso pezzi dell'arredamento o appiccare incendi», continuò borbottando.
«Ah, no?» la provocò l'altro, ridendo accompagnato dalla cicatrice sulle sue labbra.
Lei gli rivolse una smorfia, evitando di rispondere per mettere fine al discorso: era capitato solo una volta che Emma, in preda all'ira, avesse accidentalmente scagliato contro Harry – sempre accidentalmente nei paraggi – un posacenere. Aveva mirato ai piedi, mancando di proposito il bersaglio, ma l'aveva fatto. In sua difesa poteva dire di aver avuto un solido movente.
«L'importante è che le vostre abitudini – qualsiasi esse siano – non mettano in pericolo la vostra convivenza», ironizzò Nikole, raccogliendo i capelli in una coda alta e scoprendo il viso notevolmente più snello. La soddisfazione per il peso perso con tanti sacrifici le dava un'aria raggiante. «Anche se sono sicura che la rendano solo più eccitante».
Quando Emma aveva annunciato ad i suoi amici la novità, quattro mesi prima, aveva dovuto affrontare una reazione sbigottita, incredula e terrorizzata: ai loro occhi era sembrato azzardato compiere un passo del genere, ma non perché troppo presto, semplicemente perché temevano che una coppia simile potesse giungere all'autodistruzione in pochi minuti, se racchiusa in uno stesso spazio per troppo tempo.
In realtà, si erano sbagliati.
«Esattamente», commentò Emma, assumendo un'espressione soddisfatta nel ripercorrere nella propria memoria il motivo di quell'affermazione.
Litigavano spesso, lei ed Harry, e quasi sempre per futilità: urlavano molto, talvolta portavano i vicini all'esasperazione, ma si amavano altrettanto. E se la discussione era stata più aspra del solito, se i termini si erano fatti più taglienti e dolorosi, bastava guardarsi intorno per trovare un compromesso: bastava ricordarsi dei vestiti di entrambi mischiati nell'armadio, delle due tazze ancora sporche nel lavandino, delle scarpe all'entrata dell'appartamento e degli accappatoi in bagno. Bastava ricordarsi di essere lì insieme, per porre fine a qualsiasi disguido.
Emma, in particolare, si focalizzava sempre sullo stesso ricordo, quando uno dei due usciva di casa sbuffando o imprecando: le piaceva rivivere il giorno in cui Harry aveva comprato un armadio più capiente, senza dirle niente e senza motivare la sua spesa. Gliel'aveva fatto vedere come per caso, mezzo vuoto per la sua ampiezza, e con finta indifferenza; e lei, dopo averlo osservato con stupore e dopo aver osservato lui, aveva semplicemente compreso, sorriso e detto: «Non credere che basti, ci sarà bisogno anche di un'altra scarpiera».
Era quel ricordo a calmarla in ogni occasione, gli occhi di Harry ed i progetti fatti insieme, senza pronunciarli ad alta voce per non rovinarli.
«La pianti con quel telefono?» squittì Nikole, tirando un debole calcio alla sedia di Pete: la sigaretta ormai spenta e gli occhi concentrati su uno schermo touch.
«Non rompere», la liquidò lui, senza degnarla di troppa attenzione.
«Guarda che sono gelosa!»
«Gelosa di mio fratello? Lascialo perdere, è un caso perso: senza contare che ultimamente si sta frequentando più o meno con quattro ragazze».
«Lo so... Magari fosse monogamo come te».
«Non so se augurarglielo, in realtà».
Emma seguiva lo scambio di battute con uno spontaneo sorriso sul volto: Nik era solita scherzare su argomenti del genere, nonostante fosse risaputo che Pete non le interessasse se non come un fratello minore, e Dallas amava darle corda, dal momento che la competizione con il suo imperturbabile gemello si era fatta più aspra – anche a causa dell'invidia del rapporto molto stretto con Emma, che lui non era più riuscito a recuperare.
«Siete esasperanti. E noiosi», commentò Pete, inumidendosi le labbra e posando il telefono sulla superficie lucida del tavolo.
 
Un nuovo messaggio: ore 14.02
Da: Pete
“Io e Kristy usciamo di nuovo stasera”
 
Emma lesse con una certa sorpresa quel messaggio inaspettato e subito alzò lo sguardo sul suo amico, esattamente di fronte a lei: Pete le sorrise appena, senza esporsi troppo, e questo fu sufficiente. Se Dallas e Nikole non fossero stati presenti e se lei non avesse esplicitamente ricevuto il divieto di renderli partecipi, si sarebbe volentieri alzata per abbracciarlo fino a dargli fastidio, per trasmettergli il sincero sollievo che provava.
Non era affatto vero che stava frequentando quattro ragazze, come invece credeva il fratello gemello, anzi: quella era solo una maschera per sviare i loro pettegolezzi. Pete si stava dedicando solo ad una persona, si stava logorando solo per lei, e non aveva nessuna intenzione di contaminare la propria silenziosa felicità con le loro supposizioni e le loro prese in giro: prima o poi anche loro avrebbe scoperto della sua insospettabile monogamia – come l'avrebbe chiamata Nik – ma non prima che Pete se la fosse goduta a pieno.
Le loro chiacchiere, ormai ruotanti sul nuovo pub aperto in un angolo della città, vennero interrotte dallo scattare della serratura della porta d'ingresso: Emma si tese sulla sedia, mentre gli altri si scambiavano dei sorrisi impazienti.
I passi di Harry erano lenti, stanchi.
Emma li contò e cercò di seguire il loro percorso, conoscendo le loro abitudini: dopo qualche istante si voltò e, alle proprie spalle, Harry la guardava dalla soglia della porta della cucina. Indossava una tuta blu sgualcita, macchiata di olio e gasolio e chissà cos'altro: i capelli raccolti malamente sul capo erano disordinati, unti per il suo vizio di passarci le mani in mezzo, anche se sporche. Aveva appena terminato un turno di dieci ore ed il suo viso ne portava tutto il peso, segnato da leggere occhiaie violacee.
«Ciao, Harry», lo salutò Nikole, allegra nella sua solita indole socievole.
Lui corrugò la fronte, schiudendo le labbra, e le rivolse un cenno del capo: i suoi occhi si mossero su Pete, che era tornato a parlare con Kristy in segreto, e poi su Dallas. Emma notò i suoi pugni serrarsi lungo i fianchi, il suo petto trattenere un sospiro infastidito: i rapporti tra di loro non sarebbero mai migliorati, non c'era alcuna possibilità.
«Hey», lo salutò Dallas, forse solo per provocarlo.
L'altro alzò un sopracciglio, si rilassò. «Leva quello schifo dal mio tavolo», gli ordinò, riferendosi ai suoi piedi ancora allungati sulla superficie lignea. Non ottenne delle resistenze, ovviamente.
Emma continuava a tenere lo sguardo su di lui, soffermandosi sulla pelle del collo sporca come la sua mandibola: poteva sentire l'odore della sua stanchezza, mischiato a quello aspro del gasolio, e non riusciva a nascondere il debole che provocava nel suo corpo.
Harry spostò l'attenzione su di lei: la guardò negli occhi senza dire una parola, sbatté le palpebre per la sorpresa – o qualcos'altro? - di un nuovo taglio di capelli e continuò a non parlare. Serrò la mascella, respirò a fondo e scomparve nel corridoio.
Non c'era da aspettarsi altro: in fondo, stavano ancora litigando.
«Avete intenzione di andare avanti così per molto, voi due?» bisbigliò Nikole, con un certo rimprovero nel tono di voce.
Emma sospirò, accogliendo lo sbattere di una porta. «Fin quando sarà necessario», rispose, senza preoccuparsi di modulare il volume.
«Vivere sotto lo stesso tetto e non parlarsi può essere un po' scomodo, non credi?»
«Non così tanto».
«Non ricordo nemmeno perché abbiate litigato, stavolta».
Nemmeno Emma lo ricordava, esattamente, perché dalla causa principale si erano evolute tante discussioni satelliti che avevano confuso il quadro generale: in ogni caso, qualunque fosse il motivo, non avrebbe ceduto per prima a quella guerra che si stava tenendo da quasi due giorni.
«Sembra quasi che tu ti diverta», le fece notare Dallas, scuotendo il capo con fare arreso.
«Infatti è così», sostenne lei, sorridendo con furbizia: agli occhi di esterni, quella situazione poteva sembrare irrazionale e semplicemente insostenibile, ma per Emma ed Harry era un modo alternativo di vivere la propria realtà di coppia. All'apparenza si poteva scorgere solo l'espressione indispettita di Harry, il tono indisposto di Emma, ma nessuno, a parte loro, poteva sapere e ricordare tutto il resto: i baci rubati nel sonno, nella vana speranza di non farsi scoprire; le carezze apparentemente casuali durante la giornata; tutti quei piccoli e significativi particolari che sostituivano l'assenza di parole.
Harry entrò in cucina con passi pesanti, senza curarsi di nessuno di loro: la stanza si fece silenziosa, perché gli ospiti non osavano dire niente o semplicemente aspettavano di assistere a qualcosa. Lui aprì il frigo, recuperò una bottiglia d'acqua e bevve generosamente. Emma osservò i suoi movimenti, la goccia d'acqua che sfuggì alle sue labbra e gli percorse il mento per cadere sul suo petto, coperto da una canotta che era stata bianca; le dita intorno alla plastica, nere ed ormai callose; le spalle contratte.
Distolse lo sguardo prima che Harry potesse accorgersene, deglutendo il suo tentativo di metterla alla prova e di prendersi una rivincita. Quando uscì dalla stanza, sbattendo di nuovo la porta come per ricordare la propria presenza, gli altri tornarono a respirare tranquillamente.
«Mi sto perdendo qualcosa», mormorò Nikole.
«Intendi dire che ti stai perdendo le dinamiche di questa sottospecie di coppia», intervenne Pete, «o che ti stai perdendo un uomo
Lei lo fulminò con lo sguardo. «Che c'è, le tue numerose ammiratrici non ti bastano? Ora ti piace anche Harry?» replicò piccata, ma non offesa.
«No-»
Fu interrotto dal soggetto delle loro battute, che entrò nuovamente nella stanza: Emma quasi si strozzò con la propria saliva, quando si accorse del suo petto nudo: una nuova sfida. Lui li ignorò di nuovo, rubò un tovagliolo dalla credenza, si grattò distrattamente l'addome definito e si defilò.
La porta sbatté per la terza volta.
Emma perse per la seconda volta.
Nikole era ancora sconvolta.
Le diede una spinta per farla rinsavire, gelosa del suo sguardo sognante e dei pensieri sicuramente impuri – come i propri.
«Scusa se te lo dico, ma sei proprio una stupida», esordì l'amica, riferendosi a ciò che si stava lasciando scappare. Emma alzò gli occhi al cielo, le diede ragione nella propria testa e restò in silenzio, a braccia conserte.
 
Nemmeno quindici minuti più tardi, si poteva sentire lo scrosciare dell'acqua della doccia: Emma era talmente concentrata nell'immaginarsi il corpo bagnato di Harry – sì, era così patetica – da non accorgersi dello squillare del suo telefono.
«Kent, svegliati», esclamò Pete, in piedi accanto ai fornelli nell'attesa che il caffè fosse pronto.
Lei si riscosse, schiarendosi la voce per fingere un certo contegno: sullo schermo del suo iPhone appena comprato lampeggiava un lapidario “Mom”.
«Mamma?» rispose, vagamente indispettita da quella chiamata inaspettata: da quando si era trasferita nell'appartamento di Harry, Constance aveva subìto un brusco colpo nella propria identità di madre, cosa che l'aveva portata a chiamarla anche più di una volta al giorno per assicurarsi che stesse bene. Ovviamente prima che Emma si arrabbiasse.
«Emma, grazie a Dio hai risposto!»
Corrugò la fronte: la sua voce era carica di agitazione, irrequietezza.
«Che succede?»
«Tua sorella! Oh mio Di-Ron, rallenta! Dobbiamo arrivare vivi, possibilmente!»
«Mamma?» ripeté Emma, raddrizzandosi sulla sedia ed iniziando a preoccuparsi. «Cosa c'entra Melanie? Cosa sta succedendo?»
Poteva vedere i suoi amici con un'espressione allarmata sul volto, che forse rifletteva la propria.
«Si tratta di tua sorella, è in ospedale!»
«In ospedale?!»
«Sì, certo! Lei... Le si sono rotte le acque, capisci? Oh mio Dio, sto per diventare nonna
Emma spalancò gli occhi, trattenendo il fiato inconsapevolmente: lo sguardo perso nel vuoto, sentiva il sangue raggelarsi nelle proprie vene millimetro dopo millimetro.
Le si sono rotte le acque.
Pete fu il primo a tentare di riscuoterla. «Kent?»
«Avanti, sbrigati e vieni all'ospedale!»
Il segnale di fine chiamata seguì nuovi ordini rivolti a Ron, che probabilmente non riusciva a rallentare semplicemente per il terrore di un nipotino, di una figlia ormai madre, di un amore incontenibile. Emma restò con il telefono accanto all'orecchio, sbattendo le palpebre lentamente.
«Cosa c'è? Qualcuno sta male?» si preoccupò Nikole: strano che le esclamazioni concitate di Constance non fossero state udite da tutta la casa.
Lei scosse la testa lentamente.
Non riusciva a crederci, non riusciva a muoversi.
Sua sorella stava per avere...
«... Un cazzo di bambino!» esordì ad alta voce, alzandosi in piedi in uno scatto e coprendosi le mani con la bocca.
«Un bambino?»
«Melanie!» continuò, già uscendo dalla cucina. «Melanie sta per partorire!»
 
Spalancò le ante della doccia, lasciando che il vapore umido le si depositasse sulla pelle.
Harry sussultò e fu tentato di coprirsi il corpo, per poi rilassarsi e contravvenire al suo istinto. Stranamente, Emma non riuscì a soffermarsi sui suoi muscoli lucidi e sul profumo di bagnoschiuma, né sui suoi capelli bagnati che gli ricadevano sul viso in onde morbide.
«Dobbiamo muoverci», disse invece, afferrando l'accappatoio e porgendoglielo.
«Come, scusa?» domandò lui, con le sopracciglia aggrottate per la confusione.
«I miei stanno già andando in ospedale, Melanie sta per partorire!»
Ripetere quelle parole contribuì a renderla ancora più irrequieta ed impaziente: aveva avuto quasi nove mesi per prepararsi all'idea, ma in quel momento, quando tutto si stava facendo più reale, le era semplicemente impossibile accettare ciò che stava accadendo.
Harry schiuse le labbra e restò immobile, inebetito: «Cosa?»
«Muoviti, muoviti!» lo esortò Emma, saltellando sul posto per l'incapacità di rimanere ferma.
«Oh, cazzo», imprecò Harry, arrestando il flusso d'acqua ed infilandosi velocemente l'accappatoio.
Mentre lui usciva dalla doccia, asciugandosi in tutta fretta, Emma recuperò il phon ed iniziò a gettare aria calda sui suoi capelli, massaggiandoli con le mani tremanti: Harry fece una smorfia, ma la lasciò fare. Si lavò i denti e, nel frattempo, le permise di infilargli i calzini e gli slip, proprio come un bambino troppo lento quando è già in ritardo.
«Questi posso mettermeli io», mormorò Harry, prendendo i pantaloni ed il maglione tra le mani, in modo da impedirle di continuare a dare in escandescenze.
Lei si morse un labbro, picchiettando il piede a terra, e lo osservò in trepidante attesa. «Hai fatto?» domandò, senza aspettarsi una risposta e fiondandosi fuori dal piccolo bagno.
In corridoio, i suoi amici stavano attendendo istruzioni sul da farsi ed eventuali notizie.
«Vuoi che veniamo anche noi?» chiese Dallas, seguendola in salotto mentre lei recuperava le giacche e le scarpe.
«No, saremo già in tanti», esclamò frettolosamente, infilandosi un paio di Vans. «Andate pure, vi farò sapere io».
«Mio Dio, Emma, sono così felice per te», esclamò Nikole, abbracciandola con una enfasi non necessaria. L'altra si lasciò sfuggire un sorriso liberatorio, ma non si oppose a quella dimostrazione d'affetto: in fondo, la sua amica aveva un'indole troppo romantica e sognatrice, per non emozionarsi a tal punto in un'occasione simile.
«Chiamami», le disse Pete con un'espressione seria, per poi rivolgerle un sorriso a labbra strette, senza però avvicinarsi.
«Chiama anche me», si intromise Dallas, nella sua estenuante lotta per recuperare un posto nel cuore di Emma che aveva perso da tempo.
«Va bene», acconsentì lei, aprendo la porta per farli uscire: Harry, intanto, entrò in salotto con le chiavi dell'auto tra le labbra.
«Il cellulare?» domandò a sé stesso, guardandosi intorno.
Emma palpò la sua giacca e gliela porse. «È qui», lo rassicurò, infilandosi la propria.
«Ok, allora andiamo».
 
 
 
La sala d'attesa era affollata: i divanetti rossi erano occupati fino all'ultimo posto, senza contare le persone in piedi.
I genitori di Zayn, insieme ad altri parenti stretti, continuavano a parlottare tra loro con fremente impazienza: avevano un maggior contegno nel dimostrare il loro affettuoso entusiasmo, ma era ugualmente possibile percepire il loro stato d'animo. La famiglia Clarke, invece, sembrava un treno in corsa: tralasciando nonni e zii che proprio non erano riusciti ad aspettare a casa, Ron e Constance non erano in grado di restare seduti per più di tre minuti consecutivi. Si agitavano, camminavano avanti ed indietro e si avvicinavano alle porte del reparto nella speranza di attirare fuori una delle ostetriche: non avrebbero mai perdonato Melanie per la sua decisione di avere solo Zayn con sé.
Mentre Fanny sedeva a terra, in un angolo, forse spaventata da quell'atmosfera opprimente, di tanto in tanto Constance e Trisha – la bellissima madre di Zayn – si riunivano per esprimere comunemente le proprie emozioni: i mariti le guardavano sforzandosi di non intaccare la propria dignità, ma forse invidiandole per la libertà che avevano nell'esprimersi.
Zayn e Melanie si erano sposati esattamente un anno dopo la proposta di matrimonio: era stata una cerimonia semplice e romantica, iniziata nel pomeriggio e terminata tra le luci soffuse e calde della sera. La sposa, nel suo abito color avorio, poteva già mostrare al mondo una timida curvatura nel suo addome, testimone della sua gravidanza di quattro mesi inoltrati. L'arrivo di un bambino – un maschio – aveva rallegrato e stupito ogni membro della famiglia, che aveva accolto la notizia con un'ulteriore celebrazione.
Emma si era abituata alla rotondità della sorella maggiore: Melanie, con il suo pancione teso e scalciante, aveva guadagnato qualche chilo armonioso ed un'andatura buffa, portatrice di un peso insolito. Aveva spesso le caviglie gonfie, la stanchezza a torturarle i muscoli, ma i suoi sorrisi restavano raggianti ed impazienti, propri di una madre. Non riusciva ad immaginare come Melanie avrebbe guardato suo figlio, come e quanto l'avrebbe amato.
E Zayn era probabilmente la persona più felice al mondo, nel modo più semplice e banale: inutile dire che l'idea che l'amore per Melanie avesse portato alla nascita di qualcosa e qualcuno gli impediva di smettere di sorridere come un ebete. Non poteva arrendersi alla prospettiva di un bambino che magari avrebbe avuto i suoi occhi celesti o che magari sarebbe arrossito proprio come lei, nei momenti di difficoltà: scalpitava per conoscerlo, per amarlo anche di più.
I dottori avevano previsto una data per il parto, ma il bambino sembrava impaziente di nascere due settimane prima: Emma aveva ingenuamente chiesto a Constance se questo fosse normale e quanto avrebbero dovuto aspettare per vederlo, ma la donna l'aveva rassicurata. Era perfettamente normale e non c'era modo di predire la durata del travaglio: essendo la prima gravidanza di Melanie, sarebbe potuto durare anche dodici ore o più.
Emma sospirò sonoramente, abbandonandosi contro lo schienale del divanetto: alla sua destra, Harry aveva il busto piegato in avanti, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e lo sguardo concentrato. Da quando gli aveva detto dell'imminente parto, non avevano scambiato nemmeno più una parola: forse tornando alle tradizioni della guerra in atto, forse semplicemente ammutolendo per l'estenuante attesa. A prescindere da questo, poteva immaginare quanto fosse agitato, anche se non dava a vederlo.
Si voltò ed incontrò lo sguardo di Aaron: li aveva raggiunti non appena appresa la notizia, scappando dal lavoro ed arrivando di corsa. «Stai tranquilla», le disse soltanto, rivolgendole un sorriso rassicurante.
«Come potrei?» ribatté lei, debolmente: l'idea che sua sorella stesse lottando in una di quelle stanze, a metà tra una felicità indescrivibile e un dolore indicibile, la rendeva così tesa da farle temere il peggio, pur senza un motivo.
«Trova un modo», sospirò Aaron, stringendosi nelle spalle. «È possibile che dovremo aspettare parecchio», si spiegò, allungando una mano sulla coscia del compagno, al suo fianco: si chiamava Branson, era scozzese ed aveva i capelli ramati, gli occhi sottili e neri. Si frequentavano da qualche mese ed Aaron sembrava aver finalmente trovato una certa stabilità: non era abituato a vivere un rapporto caratterizzato dalla fedeltà, di conseguenza gli era difficile rilassarsi tra le braccia di qualcuno, ma Branson sembrava deciso a vincere le sue paure. Ad Emma piaceva, era come una boccata d'aria fresca dopo un caldo torrido e secco, e sperava che la sua mite passione ed i suoi modi di fare rassicuranti riuscissero a conquistare definitivamente il cuore di Aaron.
A qualcun altro, Branson piaceva meno.
Emma spiò Harry con la coda dell'occhio, sorrise per i suoi capelli arruffati ed ancora umidi: il suo profumo avrebbe contribuito a tranquillizzarla quanto bastava.
 
 
 
Dopo circa quattro ore, alcuni parenti si erano assentati per recuperare qualcosa da mangiare o da bere: Emma si svegliò con un sussulto, sbattendo più volte le palpebre ed abituandosi nuovamente alle luci della sala d'attesa. Si stupì nel trovarsi assopita sulla spalla di Harry, ma si allontanò da lui lentamente: sentì il suo sguardo seguirla e quasi trattenerla, ma lo ignorò. Non sapeva perché si ostinassero a non parlare, soprattutto in un momento simile, ma era convinta che semplicemente non sapessero come fare.
Stiracchiandosi sul posto, sbadigliò e controllò che sua madre non fosse svenuta tra le braccia di Ron: la sua attenzione, però, fu subito rapita dal movimento di qualcuno oltre le vetrate della sala. Louis Tomlinson stava correndo lungo il corridoio.
«Louis!» lo chiamò, alzandosi in piedi e distraendo tutti i presenti: Louis si arrestò proprio di fronte all'uscio della porta, ansimando notevolmente.
Lo raggiunse velocemente, stringendolo tra le braccia senza alcuna esitazione. «Non pensavo saresti venuto», ammise sulla sua spalla.
«Hun, per chi mi hai preso?» le domandò, con il fiato corto ed un sorriso a riscaldarle il collo. Si separarono con lentezza, guardandosi negli occhi come da cinque mesi non potevano fare. «È già nato?»
«No», sospirò Emma, scuotendo il capo. «Melanie è ancora in travaglio: non sappiamo quanto ci vorrà ancora, ma poco fa un'ostetrica ci ha detto che sta andando tutto bene e che ci faranno sapere appena ci saranno novità».
«E Zayn? È dentro?» indagò Louis, voltandosi come se avesse potuto scorgerlo.
«Sì, non credo che oserà lasciare la mano di mia sorella», scherzò lei, immaginando la ferrea morale di Zayn. «I miei genitori ce l'hanno un po' con lui, per questo».
«E perché mai? Sono così ansiosi di sentire urla di dolore e di vedere la vagina del-»
«Louis», lo interruppe, con un tono di rimprovero divertito.
Lui le sorrise, abbracciandola ancora una volta. «Perché quello è qui?» le domandò contro la pelle, assottigliando la voce e rendendola più minacciosa.
Emma si voltò spontaneamente, posando lo sguardo su Branson: non sapeva nemmeno che se ne fosse già accorto. «È con Aaron: erano insieme, quando l'hanno saputo».
«Be', poteva lasciarlo in un angolo delle numerose strade di Bradford: a nessuno serve la sua presenza».
«Ad Aaron sì, quindi comportati bene», lo ammonì, puntandogli un dito contro il petto.
«Hun, lo ripeto: per chi mi hai preso?» replicò, assumendo un'espressione calcolatrice mentre la seguiva verso il proprio posto.
A discapito di tutte le previsioni e le scommesse, la rottura tra Aaron e Louis era davvero stata definitiva: avevano affrontato bene la lontananza – rispetto all'atteso, ovviamente – ed avevano ceduto solo una volta, ovvero al matrimonio di Zayn e Melanie. Durante il ricevimento erano sgattaiolati via, diretti al parcheggio sotterraneo, e lì si erano abbandonati ai loro istinti meno controllabili: dopo quell'episodio, erano tornati a non parlarsi, a fingere di non esistere se non da separati.
Louis avrebbe continuato ad amare Aaron di un amore tutto suo, inconcepibile a chiunque altro, ed Aaron avrebbe continuato a cercare di sostituirlo con le mani di qualcun altro, forse illudendosi di esserci riuscito.
«Hey, Harry», esclamò Louis, inumidendosi le labbra inclinate in un sorriso malizioso. «Ancora etero, eh?»
«Come se questo potesse farti stare zitto», constatò lui: nonostante ciò che si ostinasse a dire – cose poco piacevoli – Emma era convinta che in realtà ad Harry stesse molto simpatico. «Almeno oggi, dammi tregua».
«E cosa mi dai in cambio?» ribatté prontamente l'altro, sedendosi al suo fianco. Ricevette in risposta solo un sospiro arreso che lo fece sorridere, poi si voltò alla sua sinistra e guardò Aaron senza alcun imbarazzo. Veniva ignorato consapevolmente, ma non gli importava.
«Ciao», salutò ad alta voce, attirando l'attenzione dei due ragazzi che gli sedevano accanto.
Branson si sporse per controllare chi avesse parlato, nonostante avesse già un sospetto, ed assunse un'espressione smarrita: probabilmente aveva già avuto a che fare con lui e probabilmente non in occasioni incoraggianti. Aaron si voltò per un solo istante, dedicando a Louis un'occhiata truce.
Emma lo osservò, osservò il suo viso incupirsi brevemente per la mano che lui amava e che era stretta in quella di un altro, e le costò non ammettere un certo dispiacere: per quanto tenesse a Louis, sapeva che semplicemente non era fatto per Aaron.
 
 
 
«Vado a prendere qualcosa da bere», sbuffò Emma, sempre più stanca con il passare delle ore. La sua voce non era diretta a nessuno in particolare, forse solo a Louis, che si stava rilassando con la testa contro le sue gambe ed il corpo sdraiato per metà a terra.
L'ospedale era illuminato solo dalle luci bianche, ormai, e dalle finestre ampie si scorgeva il buio della sera: l'attesa era sempre più snervante ed ogni traccia di entusiasmo si era smorzata per lasciare spazio all'esasperazione.
Si avvicinò ad una delle macchinette del caffè, nascoste al fondo di uno dei corridoi, e selezionò una cioccolata calda, sperando che non avesse un sapore troppo orribile. Canticchiava un motivo sconosciuto, improvvisato sul momento, e teneva il tempo con il piede che batteva contro il pavimento chiaro. Dopo qualche istante, fece per recuperare il bicchiere bollente, ma fu trattenuta.
Delle mani le strinsero i fianchi, mentre un respiro caldo si infrangeva sul suo collo nudo.
«Harry», sussurrò appena, chiudendo gli occhi per quel contatto che poteva finalmente assaporare.
«Hey», ricambiò lui, posando le labbra su di lei.
Emma serrò la mascella, maledicendosi per non essersi arresa subito e per aver prolungato un periodo di agonia non più necessario: si voltò lentamente, lasciando le mani sul suo petto ed alzando il viso per poter incontrare i suoi occhi.
«Come stai?» le chiese a bassa voce, sfiorandole il naso con il proprio e stringendola contro di sé: la sua dolcezza compariva all'improvviso, questo ormai era noto ad Emma, ed era sempre in grado di stupirla e paralizzarla.
«Come una sorella apprensiva e patetica», rispose, sorridendo per quanto si sentiva ridicola.
Accettò un bacio sulla fronte, leggero.
«Anche io sono preoccupato per quello stupido di Zayn, e non è nemmeno mio fratello», le fece presente, con un respiro più profondo. La stanchezza gli intorpidiva i movimenti: nonostante fosse fuori casa dalle quattro del mattino, non aveva ancora ceduto o dato segni di averne intenzione.
«Hai paura che qualcosa vada storto?»
«Immagino di sì», sospirò piano. «E ho paura che svenga», scherzò subito dopo.
Lei rise. «È probabile».
Harry spense il proprio sorriso sulle sue labbra, sfiorandole delicatamente: le accarezzò con lentezza, più volte e senza mai approfondire il bacio. Sembrava non aver fretta, ma tutte le intenzioni di vivere quel semplice contatto per compensare ogni istante di lontananza.
Emma lo sapeva, sapeva che erano entrambi degli stupidi ed infantili bambini capricciosi, in grado di rovinare molto per poter ottenere di più, ma non riusciva a ribellarsi alla loro natura: nonostante fosse discutibile, era quella che li teneva insieme e che impediva loro di guardare qualcun altro. Non poteva rinnegare la fonte della loro unione, il fondamento della loro relazione, poteva solo imparare a conviverci, sperando di renderlo compatibile ad un qualcosa di stabile. Giorno dopo giorno, secondo dopo secondo.
«Ti amo, Harry», sussurrò con gli occhi chiusi, portando le mani ai lati del suo viso. Lo sentì trattenere il respiro: non si era ancora abituato a quelle parole, nonostante fosse deciso a dimostrare il contrario. «Così tanto che a volte non capisco nemmeno come sia possibile».
Come avrebbe potuto spiegare i propri sentimenti a qualcuno, senza essere giudicata come un'illusa? Come avrebbe potuto farli comprendere? A causa della loro entità, a causa della loro nascita stentata ed irrazionale, sarebbero stati etichettati come improbabili e cestinati tra ciò che magari qualcuno vorrebbe, ma nel quale non vuole credere per non restare deluso.
«Ti ricordi quando mi hai detto che non respiravi, quando eri con me?» le domandò piano, accarezzando ogni parola con le propri labbra, come per imprimerci una destinazione ben precisa.
Emma annuì: non avrebbe mai potuto dimenticarlo.
«Ora so cosa volevi dire», ammise Harry, appoggiando la fronte alla sua e restando a pochi millimetri di distanza dalla sua bocca. «So cosa significa non avere spazio nemmeno per un respiro».
E proprio quel respiro di troppo fu costretto a lasciare il corpo di Emma per concedere ai suoi sentimenti di espandersi ancora di più, di conquistarla in ogni millimetro di pelle ed organi. Quasi singhiozzò tra le sue braccia, prima di baciarlo con un trasporto che non riusciva e non voleva controllare.
Harry era in grado di rendere tutto migliore: poteva rubarle un'emozione, impadronirsene e sfoggiarla con un effetto più apprezzabile; poteva imitare una provocazione ed ottenere una vittoria più assoluta; poteva copiare una sua espressione e darle un significato più intenso. Poteva amarla dopo, e amarla meglio.
Era questo che Emma sentiva, un amore che non riusciva ad accettare se non a piccole dosi: talvolta temeva di essere meno brava, di non essere in grado di farlo sentire amato allo stesso modo. Pur impegnandosi di più, pur sforzandosi di più, aveva paura di non arrivare a lui con lo stesso impatto, con la stessa indiscutibile intensità.
Mossa da questa consapevolezza, cercò di compensare quella mancanza con un bacio vorace, con delle carezze gentili e dei sospiri arresi: provò a dimostrargli qualcosa, qualcosa che lo spinse a reagire.
«Vuoi davvero provocarmi in un posto come questo?» le chiese sulle sue labbra, senza opporsi alle sue mani delicate, ma decise.
«No», mentì.
«No?»
Emma non rispose, stavolta, incapace di mentire ancora: si aggrappò alle sue spalle e si alzò sulle punte dei piedi, per poter far fronte allo slancio di passione che era sfuggito al suo controllo. Harry la fece indietreggiare fino a farle incontrare il muro con la schiena, entrambi nascosti dalla spessore delle macchinette del caffè.
«E questi capelli?» domandò lui, spostando le mani sui suoi glutei e baciandole la fronte coperta da una frangia ormai disordinata. «Anche con questi non volevi provocarmi?»
Lei sorrise sul suo collo. «Ti piacciono?»
«Mi eccitano».
 
 
 
«Da questa parte, ora potete entrare», li informò una delle ostetriche, che probabilmente aveva già ripetuto quella frase circa un centinaio di volte nell'arco di una giornata.
Emma ed Harry erano i terzi ad entrare, dopo i nonni del neonato: entrambi restarono dietro la porta chiusa interminabili istanti, prima di recuperare il coraggio di entrare. Non importava di aver aspettato per bene nove ore quel momento, non potevano fare altro che restare immobili l'uno accanto all'altro, con le mani unite.
Emma si schiarì la voce, alzando il mento, e bussò alla porta per pura abitudine: quando la aprì, la prima cosa che vide fu Melanie.
Era sdraiata nel letto, avvolta da un paio di coperte bianche e pulite, con lo schienale inclinato per darle sollievo: aveva raccolto i capelli in malo modo, lasciando che qualche ciocca le ricadesse sul viso ancora provato. I suoi occhi non si alzarono dal fagotto che teneva tra le braccia, nemmeno quando sentì qualcuno intrufolarsi nella stanza. Gli sorrideva dolcemente, senza che niente potesse dissuaderla.
Non era mai stata così bella.
Zayn era in piedi accanto a lei, con lo stesso sguardo adorante sul volto: era completamente in disordine, dai capelli corvini agli abiti, eppure riusciva ad apparire giusto. Fu lui ad accoglierli con un sorriso largo, sincero.
«Scusate l'attesa», li salutò, scherzando imbarazzato.
Harry mosse il primo passo, cauto e lento, mentre Emma continua a guardare tutto e tutti dal fondo della stanza. Aveva quasi paura di avvicinarsi e di incontrare un viso che avrebbe ricoperto una tale importanza nella sua vita.
«Piccola Melanie», esclamò, una volta che le fu vicino: alzò una mano per spostare appena la coperta in cui il bambino era avvolto e per guardarlo meglio, gli sorrise. «È ora di cambiare soprannome», constatò, divertito e forse anche emozionato.
«Preferisco di no», rispose lei stancamente, sollevando lo sguardo riconoscente su di lui per un breve istante. «In fondo mi sono affezionata a questo».
Harry annuì e per una manciata di secondi la stanza restò nel silenzio più assoluto. «Ti somiglia», esclamò poi, con un tono indecifrabile.
«Intendi dire che anche io sono rugosa e paffuta come lui?» rise Melanie. «Grazie, mi fa piacere che tu l'abbia notato: fino ad ora... Be', fino ad ora hanno detto tutti che somiglia a Zayn».
Zayn non la contraddisse, forse per godersi la soddisfazione di aver regalato dei tratti a suo figlio.
«Dirò io a chi somiglia», esordì Emma, riscuotendosi dalla sua momentanea paralisi ed avvicinandosi lentamente.
Melanie la guardò con un sorriso sul volto, aspettando di averla accanto per porgerle il bambino. «Christopher, questa è tua zia Emma», disse dolcemente, mentre la sorella cercava di tenere nel miglior modo possibile quel peso piuma che gemeva innocentemente tra le sue braccia inesperte. Constance le aveva detto che era “un angelo di tre chili e quattrocento grammi”, e per una volta doveva trovarsi d'accordo con lei: la sua espressione inconsapevole, in pace e soddisfatta, era in grado di calmare anche la stessa persona che nelle ore precedenti aveva temuto di rischiare un attacco di nervi. Emma guardava il suo viso rugoso ed i suoi occhi chiusi, le labbra sottili e rosee ed il nasino appena schiacciato, e non riusciva a non sorridere in completa adorazione.
«È davvero bellissimo», commentò a bassa voce, cullandolo delicatamente. «Ed è vero, Mel, ha preso tutto da te».
«Non esagerare solo perché ho sopportato nove ore di travaglio», scherzò la sorella, sistemandosi meglio nel letto.
«E va bene», sospirò Emma, lasciandosi sfuggire un sorriso. «Zayn, anche tu hai fatto un buon lavoro», si concesse, prima di alzare lo sguardo su di lui.
Zayn stava piangendo.
Aveva il volto contratto in un'espressione buffa, le guance solcate da lacrime umide e le labbra imbronciate per lo sforzo di trattenersi.
«Amico, io credevo che saresti svenuto, ma questo è ancora peggio», lo prese in giro Harry, cercando di sdrammatizzare la situazione. Melanie strinse nella propria la mano di suo marito e del padre di suo figlio, che forse aveva resistito troppo a lungo alla tensione solo per proteggere lei, ed Harry lo raggiunse per abbracciarlo bonariamente. «Piantala di frignare, impara da tuo figlio».
Ma Zayn non lo ascoltò, lo strinse a suo volta e probabilmente si limitò a sorridere sul suo collo.
Emma scosse il capo, godendosi l'atmosfera di tepore familiare che inondava quella stanza ancora disordinata, ed incontrò lo sguardo sereno di Melanie, prima di spostarlo su suo nipote.
«Christopher», sussurrò, sorridendo ancora.
Harry la guardò a lungo, di nascosto.

 
 
«Secondo me sarà un disastro», commentò Harry, entrando in macchina ed assicurandosi con la cintura.
«Smettila, Zayn sarà un buon padre», lo difese Emma, seguendolo ed accendendo la radio mentre il motore si avviava.
«Questo sì, ma scommetto tutto quello che ho che sarà uno di quelli iper-protettivi e che vizierà quel povero bambino fino alla bancarotta».
«Possibile, ma non sottovalutare Melanie», lo ammonì. «Non credo proprio che se ne resterà in disparte a guardare».
Harry si incolonnò ad una fila di macchina, ferme ad un semaforo. «In disparte?» ripeté, incredulo. «Certo che no, diventerà una specie di generale delle forze armate, altro che».
Emma rise di gusto, con il corpo finalmente rilassato e svuotato di qualsiasi tensione. Si sentiva libera di tirare un sospiro di sollievo: Christopher era finalmente tra loro, Melanie stava bene, Zayn aveva smesso di piangere – dopo un po' – e lei aveva già scattato alcune fotografie al nuovo arrivato. Accanto a sé aveva l'uomo che amava con tutta se stessa e non riusciva a trovare un solo particolare che stonasse in quella giornata perfetta.
«Non posso ancora crederci», sospirò Harry, scuotendo il capo con un sorriso sul volto. «Hai visto come piangeva
«Sì, ho visto», rispose lei, senza riuscire a trattenere una piccola risata. «Ma tu non dovresti prenderlo in giro così tanto: chi ti dice che al suo posto non farai lo stesso?»
«Me ne preoccuperò quando sarà il momento, ma fino ad allora, lasciami divertire», la pregò con fare divertito, spostando una mano dal cambio alla sua coscia.
Lei alzò gli occhi al cielo, guardando al di là del finestrino le strade umide di Bradford. Si abbandonò a fantasie forse non autorizzate, a pensieri che altre volte le avevano solleticato la mente, ma che lei aveva respinto con determinazione: immaginare Harry con un figlio – un figlio loro – era rischioso e dannoso per la sua salute. Avrebbe sicuramente ereditato la sua bellezza grezza e casuale, o forse anche i suoi modi a tratti bruschi e troppo freddi: sarebbe stato un bambino non amante dell'immancabile affettuosità materna, con due grandi occhi verdi innocenti e saccenti. E forse sì, forse anche Harry avrebbe pianto, nel prenderlo tra le braccia per la prima volta: di nascosto e di spalle ai presenti, ma l'avrebbe fatto.
Emma si voltò per osservarlo e rendere più reali i propri pensieri, quelli che non avevano mai occupato il centro dei loro discorsi e che chissà se avevano almeno sfiorato la sua curiosità: lo trovò a guardarla con una strana espressione sul viso, che per un fugace attimo la impregnò di imbarazzo.
«Che c'è?» indagò, sbattendo le palpebre e sorridendo appena.
Un clacson attirò l'attenzione di Harry, che ripartì come consigliato dal semaforo ormai verde da un pezzo.
«Niente», disse, schiarendosi la voce e tornando a guardare la strada. «A cosa pensavi?» le domandò qualche istante dopo, stringendo il volante tra le mani.
Emma spalancò gli occhi, dissimulando la sottile inquietudine: avrebbe voluto parlarne con Harry, ricevere delle risposte e sentire il suo tono di voce nel commentare le sue fantasie. Non perché sentisse il bisogno di costruire un futuro più solido tra loro, ma semplicemente per accarezzarne la possibilità.
«Se te lo dicessi mi prenderesti per stupida», borbottò, incrociando le braccia al petto ed ignorando il suo sguardo.
«Ti prenderei per stupida se non me lo dicessi», la contraddisse.
Lo spiò di soppiatto, con la coda dell'occhio. «Ti avverto», disse soltanto, imbronciandosi come una bambina.
Harry assunse un'espressione innocente, alzando le mani in segno di resa e riafferrando il volante subito dopo, per evitare di sbandare. Entrambi risero appena.
«Stavo pensando... A come potrebbe essere un bambino... Nostro».
Emma aveva temuto il silenzio che seguì le sue parole, ed in quel momento si ritrovò ad affrontarlo senza alcuna difesa: guardò Harry con timore, quasi pregandolo di dire qualcosa, mentre lui si limitava a tenere lo sguardo fisso su di lei, mentre l'auto rimaneva ferma ad un altro semaforo.
Lentamente, le labbra di Harry si incurvarono nell'abbozzo di un sorriso, mentre le sue iridi si tingevano di una sfumatura più calda e vicina. «Già...» disse piano, con la voce bassa e roca. «Te lo immagini?» domandò, prima di ingranare la marcia e continuare a sorridere.




 


HOLA!
Non so bene come impostare questo angolo autrice, perché il pensiero che  sia l'ultima in assoluto per questa serie mi mette un po' (tanta) di tristezza. 
Partiamo dai vari commenti, che è meglio (ricordo che dallo scorso capitolo c'è stato un salto temporale di ben 15 mesi!! È tanto, lo so, ma per tutto il periodo le cose sono state relativamente stabili, quindi raccontarle tutte avrebbe portato ad una caterva di capitoli di passaggio):
- Emma/Vari amici: ho voluto inserire quella parte introduttiva per presentare tutti i personaggi in ques'ultimo capitolo. Dallas ha intenzione di trasferirsi di nuovo a Bradford e non è riuscito a riottenere il suo precedente ruolo nel cuore e nella vita di Emma; Pete ha ancora la sua aria da dura addosso, ma si sta quasi innamorando di qualcuno, in gran segreto; Nikole ha perso diversi chili, ma è sempre la solita. E insomma, tutti felici e contenti ahahha
- Aaron/Louis: non potevano mancare anche loro, e quale migliore occasione? Aaron sta cercando di andare avanti, Louis non ha mai smesso, ma è anche vero che non smetterà mai di amare Aaron: come ho detto nel capitolo, i due non sono mai tornati insieme, tralasciando una scappatella al matrimonio di Mel e Zayn. So che molte di voi saranno dispiaciute, perché vi ho viste molto affezionate a questa coppia, ma non poteva essere altrimenti!
- Melanie/Zayn: i miei PATATINI <3333 So per certo che gran parte di voi voleva leggere del loro matrimonio, però io non avevo voglia di scriverci su ahahha Soprattutto perché ho sempre immaginato di descrivere la scena del travaglio/parto, ma soprattutto il nostro Zayn che piange come un BIMBO <3333 Quando vi ho chiesto di consigliarmi un nome su Facebook, mi serviva proprio per il pargolo di casa Malik :) Christopher vi piace? Anyway, spero che questa mia scelta non vi abbia deluse, anche se forse il matrimonio vi resterà un po' sullo stomaco!!
- EMMA/HARRY del mio CORAZON: se pensavate che il loro rapporto sarebbe migliorato con il tempo, vi sbagliavate hahaha Infatti ho voluto impostare il capitolo in questo modo proprio per questo, per dimostrarvi che sono ancora i soliti e che, anzi, si divertono persino a litigare per cazzate solo per poi fare pace: spero sia chiaro che quando Harry torna a casa stia cercando di farla innervosire (soprattutto perché, come ammette più tardi, quella frangetta proprio non gli va giù). Sì, i due piccioncini sono andati a convivere e non c'è stata nessuna proposta per questo: semplicemente un "hey, guarda, ho comprato un armadio più grande!", "ah, wow, grande idea!". E non credo che ci siano speranze per un cambiamento in questo loro lato di coppia hahah Mi è piaciuto scrivere la parte dedicata a loro di fronte alle macchinette del caffè, soprattutto per quello che Harry le dice: non so da dove mi sia uscito, non era in programma, ma spero l'abbiate apprezzato hahahah Eeeee, ultima ma non meno importante, la scena in macchina: probabilmente alcune di voi mi avranno maledetta per questo finale aperto, ma l'ho immaginato sempre così. La nascita di Christopher ha fatto pensare ad entrambi, anche se nessuno voleva ammetterlo: voi cosa pensate che riservi il futuro per questa coppia? Li vedete sposati? Separati? Morti? hahha Fatemi sapere, sbizzarritevi pure: io ho la mia chiara idea, e se vorrete parlarne sapete dove trovarmi :)

QUINDI, che dire? Mi vien da piangere, ora che sono davvero alla fine hahah
Non so come ringraziarvi, sul serio: mi sembra ieri che ho iniziato LG, con 0 idee in testa e tanta voglia di scrivere. Non avrei mai immaginato che sarei arrivata fin qui, con un sequel e dei missing moments. Mi avete aiutata tantissimo: credo di essere migliorata molto grazie a voi, ai vostri incoraggiamenti e ai vostri pareri. Quindi grazie di CUORE per avermi seguita per tutto questo tempo!!
Ho raccolto LG, HH ed i missing moments in una serie, se vi siete perse qualcosa.
Come alcune già sanno, questa è stata la mia ultima fanfiction: da qui in poi scriverò solo long originali, e spero che voi non abbandoniate per questo.
Spero di sentirvi presto e in molte, perché alla fine di questo percorso mi piacerebbe che anche chi non si è mai espresso in proposito mi facesse sapere le proprie impressioni!
Grazie ancora!!

Ah, ho iniziato a pubblicare anche Little girl su Wattpad, se vi può interessare: nella mia bio di EFP trovate il link al mio profilo :)

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.

 
    



  
 

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