We'd make a lovely mess

di Pwhore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


we'd make a lovely mess

Gerard schiuse le palpebre, abituate alla penombra assonnata della sua camera, posò lentamente gli occhi sul soffitto bianco e espirò attraverso le narici, lasciando colare i minuti con qualcosa che non era né placidità né noncuranza o disattenzione. Interruppe il suo stato d'inerzia afferrando una maglietta nera dal cesto dei vestiti puliti che qualche giorno prima era quasi sicuro di aver piegato e si diresse verso il bagno, un cinque-sei passi dal cumulo di piumoni in cui si era rannicchiato.
Quando aveva deciso di volere una stanza tutta per sé ormai tutta la casa era stata arredata e non c'era stato molto da fare, quindi si era fatto bastare il seminterrato in cui idealmente suo padre e sua madre avrebbero giocato a carte ogni venerdì sera, accompagnati dalle chiacchiere controllate dei loro amici. Sua madre aveva un po' storto la bocca all'inizio, pensando ai muri meno isolanti e alle decine di cianfrusaglie che avrebbero dovuto spostare in soffitta, ma non si era mai opposta al volere del figlio e si era anzi detta sollevata dal fatto che almeno ora aveva uno spazio vitale ben stabilito, invece di espandersi e occupare quello degli altri. E Mikey– Mikey aveva sporto il labbro e arricciato le sopracciglia ma non aveva ottenuto risposta, e alla fine aveva dovuto ammettere che non poteva obbligare il fratello a vivere nel suo mondo per sempre.
Gerard s'infilò la maglietta al buio, spostandosi i capelli dagli occhi con un movimento lascivo del polso, raccattò un paio di jeans dal pavimento e si dimenticò di allacciarne il bottone. Uscì dal bagno senza premere l'interruttore della luce, privo d'interesse verso ciò che lo circondava; afferrò il telefono e le cuffie e li infilò nella tasca posteriore, scandagliando la stanza con gli occhi, alla ricerca del suo zaino. Abbandonato ai piedi delle scale, lo raccolse distrattamente e raggiunse il piano terra. 
Il rumore delle stoviglie guidò i sui piedi verso la cucina, dove riempì un termos di caffè nero, indossando una felpa e fermandosi davanti alla porta di casa. Aprì lo zaino e ci fece scivolare dentro il termos, girandosi per chiamare il fratello prima di varcare la soglia.
«Aspetta, ci sono!» arrivò dalla cucina, prima che la corsa impacciata di Mikey lo portasse a un passo da lui. «L'autobus è già qui?» domandò, un baffo di latte a coprirgli il labbro superiore.
Gerard scosse la testa, pulendogli la scia col pollice e sistemandogli la giacca. Mikey tacque, seguendo con lo sguardo il movimento sicuro delle dita dell'altro. Gerard si staccò e lo guardò nel complesso, e Mikey si chiese se lo stesse vedendo davvero. Il suono di un clacson rimbombò alla fine della via e il ragazzo sobbalzò, spostando il fratello di lato e correndo attraverso il giardino. «Ciao Gee, buona giornata!» squittì, salendo sul pulmino e raggiungendo i suoi amici.
Gerard lo guardò scomparire, aspettò che il silenzio tornasse a soffocare il vicinato e si chiuse la porta alle spalle, fermandosi davanti alla cassetta delle lettere. Esitò e poi l'aprì, tirandone fuori uno spesso involucro ocra, che si rigirò fra le mani, in silenzio. Chiuse la cassetta e infilò l'involucro nello zaino, senza mettere a fuoco. Si mise le cuffie e cominciò a camminare.
Non era la prima vola che avevano rifiutato una delle sue storie. Provava e riprovava ma finora non gli era andata bene neanche una volta, e il peso dei pacchetti rispediti al mittente non faceva che schiacciarlo, facendolo crollare sotto l'attacco delle sue insicurezze. Respirò a fondo. Disegnare era la sua unica via d'uscita, ma troppo spesso si trasformava in un dedalo senza soluzione e lui non sapeva come reinventarsi, per ottenere un paio d'ali e volare via. Del tutto, magari.
Abbassò lo sguardo. Odiava pensarlo quando in tanti se la passavano peggio di lui ma aveva superato da tempo la linea tra vita e morte; erano mesi, anni forse, che cercava di resistere e tamponare fontane di rosso sui suoi fianchi, ma alla fine si ritrovava rannicchiato sul pavimento ogni notte, a soffocare singhiozzi e sperare che qualcuno lo portasse via, il battito che lo assordava e il vuoto dentro di lui che si scagliava contro la sua cassa toracica. Cercava di stordirsi bevendo, tagliandosi, iniettandosi quanto più potesse; e l'avrebbe fatto fino a morire se non ci fosse stato Mikey.
Tirò su col naso. Mikey non sarebbe mai sopravvissuto al suo funerale – sempre che ce ne fosse stato uno, sempre che qualcuno oltre a lui lo amasse abbastanza da dare una pacca sulla spalla a suo padre e annuire mogiamente senza incrociare gli occhi vuoti di sua madre. Mikey l'avrebbe seguito, e per questo cercava di evitare il suo pusher quando tutto si faceva annebbiato e l'unica cosa a cui riusciva a pensare era il turbine d'insulti che non poteva smettere di urlarsi contro.
Si portò la mano alla tempia e vacillò, stordito. Dire no alle droghe era già abbastanza difficile, affrontare le conseguenze dell'astinenza da solo, sebbene lo facesse da settimane, poi, era pura tortura. Si appoggiò con le spalle a un muro di mattoni e permise alle ginocchia di cedergli, abbracciandole e affondandovi la fronte una volta a terra. Un altro attacco di nausea gli fece lanciare la testa all'indietro, la gola scoperta tremante e bianca come la neve. Riacquistò il respiro, si spinse su due piedi e riprese a camminare.
Già, Mikey... ma cosa sapeva Mikey? Fino a che punto era in grado di guardarlo negli occhi e sapere che stava cadendo a pezzi? Si era reso conto che ormai non era più lui o pensava che l'entità che gli divorava le pupille fosse solo un'altra sua sfaccettatura?
Scosse la testa. No, Mikey non poteva sapere; non l'avrebbe lasciato da solo ad avvelenarsi e fare esperimenti con il suo corpo per tutto questo tempo; avrebbe provato a scuoterlo, trascinarlo, avrebbe pagato oro per la sua anima infangata in ogni momento; figuriamoci se l'avrebbe mai lasciato lì in balia della marea.
Affondò il mento nella felpa e proseguì a testa bassa. Passo dopo passo il liceo si stagliava davanti a lui, sempre più imponente e grigio man mano che si avvicinava, incurante delle sfumature della sua vita. Gerard s'immaginava sentinelle, alleanze, trattati e tradimenti, tunnel segreti e campi di battaglia mai benedetti; e forse era il mondo fantastico che si tirava dietro e incollava su tutte le pareti che gl'impediva di impazzire del tutto. Alzò a malapena lo sguardo e le porte lo inghiottirono.

«Ammetto che dopo i temi rigeneranti del trascendentalismo, il naturalismo possa sembrare un colpo al cuore» cominciò la professoressa d'inglese, la signorina Phear, «ma vi assicuro che per quanto scettici siate, vi appassionerete allo stesso livello. L'esponente principale di questa corrente…». Gerard scribacchiò distrattamente, reggendo si la guancia con il palmo della mano, poi abbassò lo sguardo. Un altro supereroe. Ricoprì il disegno di striature nere, a disagio, e si morse il labbro, la delusione che tornava a decomporglisi in bocca. Ma perché tra tutti i mondi possibili non poteva essere qualcuno di vincente almeno in uno?
«Gli appartenenti a questa corrente artistica possono anche essere indicati come pessimisti, o fatalisti». Gerard alzò lo sguardo, sentendosi bruciare addosso gli occhi e il giudizio del resto della classe.
«Essi credevano nella totale mancanza di controllo dell'uomo sul suo destino e sulla sua vita, dettati dal fato, a sua volta identificato con la natura». Gerard inclinò distrattamente il collo, indifferente. Ricordò di aver letto da qualche parte che quello era anche uno dei punti dello stoicismo, anche se non sarebbe stato in grado di aggiungere nient'altro.
«Uno dei più famosi sostenitori di questa concezione è il quasi-contemporaneo Ernest Hemingway, nato a Oak Park, Illinois, il 21 luglio 1899. Scrittore dotato e pieno di serietà, vive in prima persona la prima e seconda guerra mondiale e la guerra civile spagnola e sopravvive a due incidenti aerei consecutivi». Gerard osservò la professoressa. Pover'uomo.
«Uomo travagliato e d'incredibile profondità, si sposa numerose volte, sebbene le conseguenze della guerra riemergano sempre a torturare tutti i suoi matrimoni. Dopo una vita di vittorie letterarie, riconoscimenti e gare di caccia in Africa, acquista una villa a Ketchum, Idaho, dove, freddo e calcolato, si toglie la vita». Gerard spostò lo sguardo sui suoi compagni, improvvisamente intrigati, e si chiese se condividessero ciò che lui e lo scrittore provavano, o se la loro fosse solo sete di catastrofi.
«Quando si pensa a Hemingway, vengono sempre in mente i suoi capolavori letterari e i suoi versi più famosi, ma c'è un altro lato, drasticamente dominante nel suo arco di vita, che spesso viene dimenticato o deliberatamente tralasciato. Fiero esponente e sostenitore devoto, Hemingway è un fatalista, convinto dell'irrevocabile e immodificabile piccolezza e fragilità dell'uomo, che diventa una nave fuori controllo nell'oceano in tempesta che è il fato. Alcolista pesante da anni, la visione pessimista di Hemingway non fa che peggiorare, incrementata dall'avvento di una grave malattia che ha colpita prima suo padre, suo fratello e sua sorella, suicidatesi anch'essi. Convinto che l'unico controllo dell'uomo sulla sua vita sia il modo in cui egli muore, lo scrittore inserisce due pallottole nei tamburo della sua arma preferita, s'infila la canna in bocca e preme il grilletto, considerandosi finalmente responsabile del l'unica vera scelta della sua vita».
L'insegnante tamburellò delicatamente con le dita sul suo avambraccio, osservando distrattamente la ventina di alunni attorno a lei, avvolto in un silenzio di tomba ma che sapeva non era dettato da vero interesse. Non sbuffò ma serrò le labbra, scuotendo impercettibilmente la testa, e si sentì dispiaciuta per tutti gli scrittori e artisti degnati di uno sguardo solo quando entrava in gioco il loro decesso. Fece scorrere gli occhi sui suoi ragazzi, cercando d'irrompere nelle loro menti o almeno oltre le barricate della loro indifferenza, e sospirò fra sé e sé, abbassando piano lo sguardo.
Gerard percepì la sua delusione e si sentì in colpa, un altro ascoltatore casuale per un oratore che non aveva altra scelta che sperare. Fu tentato dall'alzare la mano e chiederle qualcosa, qualsiasi cosa, ma un giocatore della squadra di basket lo batté sul tempo, privo dell'ansia che invece incatenava la lingua dell'altro al suo palato ogni volta che voleva emetter suono.
«Quindi l'insegnamento naturalista è che dobbiamo rassegnarci a ciò che ci capita perché tanto non potremo cambiare mai niente?» domandò il mucchio di muscoli e riccioli. «Ci credo che era depresso, sta roba ti ci trascina a tagliarti le vene» scherzò, mimando il gesto con le dita. Parte della classe rise e Gerard si sentì inghiottire dal pavimento circostante, il cuore che gli batteva all'impazzata mentre si sforzava di non guardarsi attorno e vedere chi lo fissava.
«Questa è solo una chiave interpretativa Artavious, non bisogna per forza essere così estremisti per appartenere a questo movimento» ribatté gentilmente la professoressa «anzi, la maggior parte di questi scrittori era consapevole della fragilità della vita e della piccolezza dell'uomo di fronte alla forza impressionante della natura ma viveva comunque fino in fondo la sua esistenza, lavorando, componendo, pregando e faticando per i buoni valori in cui credeva». 
Camminò e si fermò davanti alla lavagna, stringendosi le mani per invocare fiducia e sicurezza, e riprese: «ragazzi, non dimenticate che Hemingway sarà pur stato un genio, ma non aveva tutte le risposte e in questo caso si sbagliava: la vita è influenzata da e riflette tutte le nostre scelte e opinioni, e per quanto nessuno di noi chieda di venire al mondo una volta qui abbiamo tutti il diritto di seguire quello in cui crediamo e applicare il ragionamento che riteniamo più lecito. Tenete sempre a mente che avete più del vostro presente nelle vostre mani, e che per quanto negative le cose possano essere non devono per forza rimanerlo».

Una ragazza a qualche banco di distanza arrossì vivacemente e annuì, congiungendo le mani per sottolineare la sua approvazione. Gerard continuò a cercare di grattar via uno scarabocchio dalla superficie scheggiata cui era appoggiato, trovando la prontezza di spirito per guardarsi attorno solo mentre la campanella suonava. S'infilò lo zaino sulle spalle e scivolò fuori dalla classe prima che il flusso di studenti diminuisse e fosse costretto a rischiare un confronto con Miss Phear.

Cinse le dita attorno a un boccale di birra, sovrappensiero, e si passò l'indice sul labbro, aspettando un paio di secondi prima di abbassarlo assieme allo sguardo, lasciandosi sfuggire un sospiro. La carta d'identità falsa gli permetteva di non venir buttato fuori dal bar ma non di non volersi buttar fuori dalla sua pelle, e alla fine del giro era quello che avrebbe voluto davvero. O essere felice, ma quello sembrava ancora più impossibile.
Disegnò il contorno del boccale con la punta dell'indice e sospirò piano, osservando il suo riflesso distorto dall'alcol. Non condivideva l'opinione di Hemingway ma cristo, lui sì che aveva una ragione valida per essere depresso, non come lui che nonostante tutto aveva avuto un'infanzia anche abbastanza decente.
Si morse il labbro. Più cercava di non pensarci più si sentiva invalido, come se non fosse nient'altro che un bambino viziato distrutto per una caramella all'arancia piuttosto che alla fragola, ma più ci si concentrava più sentiva tutto sfuggirgli dalle dita. Era cosciente che la sofferenza era sofferenza, l'insensibilità era insensibilità e la depressione era depressione indipendentemente da ciò che li aveva provocati, ma saperlo a parole non era come saperlo emotivamente, e emotivamente non era neanche sicuro di non essere già marcito del tutto.
Si strinse la punta del naso tra l'indice e il pollice, strizzando gli occhi per bloccare il frastuono esterno, e cercò di smettere di tremare; non aveva motivo per sentirsi così cristoddio. Riaprì gli occhi e si trascinò in bagno, guardando a malapena il pavimento, giusto quanto bastava a non sbattere contro un altro cliente. Osservò il suo riflesso nello secchio e storse la bocca, insoddisfatto e amareggiato.
Una fitta allo stomaco gli tolse il respiro e si piegò in avanti, aprendo una delle cabine con una spinta frenetica. Schiuse le labbra e sputò, rimanendo piegato per quelle che gli sembrarono ore, il cuore che batteva a perdifiato e i polmoni spappolati tra le costole. Si accovacciò accanto al water finché le vertigini non se ne andarono e si costrinse ad alzarsi, barcollando fino al lavandino per spruzzarsi un po' d'acqua in faccia. Si asciugò il viso con la maglietta e osservò in silenzio i segni rossi attorno all'ombelico, pulsanti ma in via di guarigione. Fece una smorfia e tornò di là.
Il locale era in penombra e l'aria piena fino a fargli girare la testa, le pareti allo stesso tempo colme di cianfrusaglie e completamente asettiche. Avvinghiato al muro si trascinò più all'interno, domandandosi se la foschia attorno a lui ci fosse davvero o fosse un altro trucco della sua mente per spaventarlo e piegarlo. Come se ce ne fosse bisogno.
Strinse le labbra e lottò contro un nodo alla gola, lasciandosi cadere su uno sgabello di fronte al bancone e appoggiandovi contro la schiena, esalando. Si portò una mano davanti agli occhi e la osservò senza riuscire a metterla a fuoco, sconcertato dalla sfumatura cadaverica e segretamente deluso dal suo spessore; chiuse le palpebre per guadagnare un po' di autocontrollo e la abbassò, cingendosela con l'altra e lasciandola riposare sul grembo. La stanza sembrò farsi più opaca e la stanchezza del locale gli si accasciò sul petto e dietro la fronte, impedendogli di udire la voce calma e controllata alle sue spalle.
Il barista lo sfiorò e Gerard sussultò, al sicuro nella sua maschera una volta giratosi. «Tutto bene amico? Non hai una bella cera, vuoi che ti chiami un taxi?».
Gerard fu tentato dall'annuire un sì grazie, sarebbe grandioso, ma qualcosa lo distrasse e tese l'orecchio. C'era qualcuno che cantava in sala. Come aveva fatto a non accorgersene? Si girò e cercò di dare un senso al turbinio che gli stava demolendo le vene.
«Ciao, siamo i Pencey Prep e questa era la nostra prima canzone. Spero non vi abbia fatto troppo schifo ma ad ogni modo ne abbiamo solo un'altra da parte quindi tenete duro solo un altro po' e sarete liberi per il resto della serata». La musica riprese, inascoltata dalla maggior parte dei frequentatori, troppo alterati per essere coscienti anche solo della sua esistenza o di una fascia d'età ben oltre le porte del genere.
Gerard fissò il gruppo senza spostare lo sguardo dal ragazzo che aveva parlato e che ora cantava in un microfono spaventosamente piccolo per chiunque altro ma perfetto per la sua struttura magra, quasi femminea. Gerard sentì un tuffo al cuore e per una frazione di secondo ebbe l'impressione che si fossero scambiati uno sguardo d'intesa, e la cosa gli mozzò il respiro.
Senza staccare gli occhi dal palco quasi inesistente si sporse verso il barista, ancora inchinato verso di lui, e gli chiese chi fossero i cinque ragazzi, trovando a malapena l'ossigeno necessario a muovere le labbra. Il barista arricciò le sopracciglia con un 'hm?', si voltò a osservare la manciata di liceali che stava suonando per lui e scrollò le spalle con un gesto sciolto, scuotendo la testa, allo stesso tempo incurante e stupito che qualcuno se ne potesse interessare.
«Un gruppetto locale, sai uno di questi che bazzicano ai concerti delle band più rilevanti e ti regalano il loro CD sperando che poi tu te lo senta davvero» disse semplicemente, «Pencey Prep mi sembra. Bravi ragazzi, conosco il cantante da una vita». Lo indicò. «Figlio di amici, l'ho praticamente visto crescere». Sorrise. «Gran personalità la sua; peccato solo voglia dedicare la sua vita a questo» e indicò il gruppo con un gesto largo della mano «niente in contrario alla musica, sia chiaro, ma questo genere… ma d'altronde che ci vuoi fare, quando un ragazzo così ti chiede un favore tu gliene fai mille».
Gerard annuì, senza rispondere; ringraziò quietamente, concentrandosi di nuovo sulla band, e si accorse che la canzone era agli sgoccioli. Deglutì, improvvisamente teso, e si scoprì a pochi metri dal palco qualche secondo dopo, le dita schiuse verso il chitarrista in un tocco che sperava non fosse mai successo.
Ritrasse la mano e la guardò, spaventato, la gola improvvisamente colma di cemento e le guance in fiamme. Indietreggiò impacciatamente, gli occhi sbarrati e le sopracciglia incurvate, pregando in ogni lingua di non inciampare in nessun cavo o pestare il piede a qualcuno mentre scappava a una velocità che gli sembrava inesistente.
Quando fu a distanza di sicurezza strizzò le palpebre, stringendosi la punta del naso fra l'indice e il pollice per calmarsi e riprendere fiato, e si appoggiò nuovamente al muro, le voci a rimbombargli contro urla e insulti. Cercò di raccogliersi e quando riaprì gli occhi notò che il gruppo aveva terminato di riporre gli strumenti il palchetto semivuoto di nuovo ripiano per bottiglie e bicchieri mezzi vuoti.
Deglutì e si guardò velocemente attorno, cercando il ragazzo nella penombra crescente, scandagliando la stanza più e più volte. Sentì un macigno posarglisi sulle spalle e si lasciò scappare un battito, dirigendosi il più velocemente possibile verso il bagno. Spalancò la porta sul nulla e l'adrenalina nelle vene gli si bloccò di colpo, lasciandogli un gusto amaro dietro ai denti. Richiuse la porta e abbassò la testa, senza essere davvero sicuro sul perché la delusione gli stesse offuscando gli occhi, e lasciò che i piedi lo guidassero all'esterno.
Varcò la soglia senza dare o ricevere saluti, lo sguardo perso sul marciapiede screpolato da passanti poco interessati e guidatori mai multati abbastanza, e scivolò nel vicolo adiacente, lasciandosi abbracciare dal freddo pungente e dall'eco incostante del pub. S'infilò una sigaretta in bocca e sistemò le mani a coppa, combattendo contro il vento per il futuro della sua fiamma; arricciò le sopracciglia e non si accorse della figura al suo fianco, troppo assorto nella sua battaglia per un po' di nicotina.
«Ehi, credi che me ne lasceresti passare una?». Gerard alzò lo sguardo su un paio di occhi vivi quasi quanto il soffio che gli aveva appena sfiorato le orecchie, incastonati in un viso dai lineamenti dolci, di una delicatezza decisa e sorridente. «So che non ci conosciamo ma posso ricambiare con una birra se vuoi» aggiunse il moro, cercando di smorzare l'ansia tagliente che li circondava. Gerard frugò freneticamente nella tasca della felpa e tirò fuori il pacchetto, porgendolo al ragazzo il meno impacciatamente che poté.
«Ah merda è l'ultima, non so se posso chiederti tanto» esclamò l'altro, esitando.
«Facciamo che è il mio contributo per la tua band visto che non avete merce in vendita» sfuggì a Gerard, che si maledisse internamente subito dopo. Il ragazzo sembrò rischiararsi e abbozzò un sorriso.
«Quindi ci hai sentito suonare?» domandò, cercando di nascondere l'emozione riducendo il sorriso. «Testi stupidi, eh? Dio, ci provo in tutti i modi ma l'inchiostro divora tutti i miei pensieri decenti, giuro che miglioreremo tantissimo col tempo» scherzò, come se sentisse il bisogno di scusarsi per averci messo l'anima. Gerard scosse la testa.
«Per quel che conta a me siete piaciuti un sacco» - si colpì il capo con il palmo - «un sacco, cristo non lo usano più manco in quinta elementare».
Frank rise. «Siamo due sfigati, direi».
Gerard sorrise, sentendo la tensione smorzarsi e farsi un tutt'uno col selciato, e avvicinò di nuovo il pacchetto al chitarrista. «Sigaretta fortunata, sperando che la fortuna si ricordi che non ci sono solo persone fighe al mondo».
Frank rise e la prese, tenendola in equilibrio con le sue labbra di pesca prima di prenderla fra indice e medio, alla ricerca del suo accendino. Quando l'ebbe trovato espirò e una piccola folata sparse cenere nel vicolo, facendola volteggiare quasi un fiocco di neve solitario fosse appena sbocciato dal cielo. Gerard si trovò a sorridere e l'altro ragazzo contraccambiò spontaneamente, il petto che si alzava e abbassava ritmicamente, riempiendosi d'aria che il primo si accorse di star ringraziando.
«Magari mentre la fortuna cerca di svegliarsi possiamo ammazzare il tempo insieme» offrì il più piccolo, portandosi la sigaretta lontano dalle labbra per dirigere il fumo verso un cielo nuvoloso e opaco. «Il mio nome è Frank, ma finché non usi insulti o brutti nomignoli puoi chiamarmi come ti pare».
«Gerard» disse l'altro, sperando di non sembrare l'animaletto terrorizzato che si sentiva. L'altro sorrise e annuì, tirando un altro soffio. Abbassò lo sguardo e buttò la sigaretta per terra, pestandola con un piede.
«Mi piace. Allora alla prossima, Gerard» mormorò con un gesto del capo, riunendosi al resto della sua band.
Cristo, da quanto erano lì? Si portò una mano sul viso e si rese conto di star scottando; impallidì e abbassò entrambe le mani, appoggiandosi al muro per non cadere. Onde d'urto gli si stavano frastagliando contro il petto e da qualche parte nel suo cervello una sirena stava urlando a squarciagola messaggi che si rifiutava di decifrare.
Cristo santo Gerard ma non impari mai niente?!
Si lasciò scivolare sul marciapiede e si prese la testa fra le mani, strizzando gli occhi ed espirando sonoramente. Alla faccia della sigaretta fortunata.




Angolo dell'autrice: Um ciao sono Pwhore e volevo giusto ringraziare chiunque sia arrivato fin qui perché sono cosciente che finora i dialoghi siano pressappoco inesistenti e probabilmente leggere è più pesante di quanto non intendessi all'inizio e ugh scusate tanto. So che la struttura è un po' strana ma sto scrivendo tutto su un quaderno e purtroppo così facendo dividere in capitoli diventa allucinante e per quanto riguarda le mie scelte purtroppo faccio piuttosto schifo quindi sì insomma scusate, so che è un po' un casino. Spero che la grammatica non stia cadendo a pezzi, sono in America da fine luglio e le uniche occasioni che ho per utilizzare l'italiano sono quando canto assieme ai miei gruppi sfigati se sono a casa da sola o quando messaggio No (sappi che ti conoscono tutti così), Frà, Ria, Delf e letteralmente altre due persone massimo quindi probabilmente i costrutti sono tutti sfasati o misti a altre lingue e ugh. Ma ehi, il pensiero è quel che conta, giusto?
Grazie a tutti quelli che si sono sforzati di arrivare alla fine, vi amo da morire

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


«Quindi cosa pensi di fare al riguardo?».
Gerard mandò giù un sorso della sua coca senza rispondere, scrollò le spalle guardando il pavimento e respirò in silenzio. La sua camera-seminterrato era inondata dalla luce del sole, timidamente filtrata da un paio di tende mai tirate, ma il freddo di febbraio continuava ad avere la meglio sulle copertine colorate dei fumetti e sugli schizzi e tazze abbandonati un po' ovunque, facendo sembrare il locale molto meno confortante di quanto fosse in realtà.
Gerard scrollò nuovamente le spalle, lo sguardo fisso nel vuoto, e deglutì. «Niente. Non posso fare niente» rispose semplicemente. Bevve nuovamente e intuì che il fratellino si aspettava una spiegazione; posò la lattina sul gradino su cui era seduto e si prese una mano nell'altra, rassegnato alla sua situazione ma senza sembrare afflitto.
«Vedi Mikey, ci sono cose al mondo che si possono e non si possono fare; e sebbene a me importi ben poco delle regole di una realtà che non rispetto, se vi andassi contro in questo caso ci perderei e basta» s'inumidì le labbra «e purtroppo per una persona nella mia situazione basta un passo falso per passare dalla padella alla brace; o se vuoi, dalle bastardate in bagno e corridoio alle botte e a un'ancora più pubblica umiliazione».
Mikey distolse lo sguardo e giocherellò con le dita, senza poter dar torto al fratello e spaventato di fronte al fardello che il maggiore cercava in tutti i modi di far rimanere solo suo.
«Credimi, mi piacerebbe più che da morire andare in giro e cercarlo, chiedere di lui comprare un suo disco o cose del genere, ma semplicemente non posso» si spostò una ciocca dietro l'orecchio, osservando la base della parete per non fronteggiare il più piccolo, «per me e per lui».
Mikey sembrò sul punto di dire qualcosa ma poi si morse la lingua e tacque, esitante. «E se lo facessi io?» sputò all'improvviso, quasi non fosse riuscito a tenere a freno la sua preoccupazione. «Se fossi io a chiedere di lui e cercare informazioni? Posso dire che un mio amico sta organizzando un party e che va pazzo per una nuova band che gira nella scena post-punk, se per caso qualcuno li conosce di persona» continuò, l'entusiasmo che gli tingeva la voce.
Gerard strinse le labbra e deglutì, a disagio, mentre suo fratello continuava a tessere scenari e scrivere copioni che non avrebbero mai visto la luce come avrebbe voluto; si morse il labbro inferiore e prese un respiro profondo prima d'interrompere l'altro, arrivato a chissà quale fermata col suo ragionamento fuori rotaie. «Mikey, sai bene quanto me che nulla di tutto questo potrebbe mai succedere» disse, soppesando le parole. Sapeva che il fratello capiva ma sperò che capisse anche quanto sperasse che tutto potesse andare per il meglio punto, senza piani, sotterfugi e messinscene.
Mikey si fermò a metà frase, sospirò e diede ragione al moro con un movimento abbattuto delle spalle. Se si fosse messo in moto lui se la sarebbero solo presa di più con Gerard per non avere il fegato da cercare da solo il ragazzo – Ragazzo? Ragazzo, Way? Ma per caso c'è qualcosa che non sappiamo? Ma che mica ti piace il cazzo? Eh Way? Passi mica le giornate a smanettare e succhiar cazzi, Way? È per questo che stai sempre col tuo fratellino? O è lui che organizza i tuoi incontri? Fai anche film, Way? Dio ragazzi l'avete sentita l'ultima? Way è frocio e dieci a uno fa pure filmini e pompe gratis! Me lo dai il culo Way? Prezzo da amico, ve'? – e l'ultima cosa che sarebbe dovuta succedere era quella. Quella, e che il chitarrista si spaventasse e bruciasse tutti i ponti tra di loro. Rabbrividì e guardò il fratello, pensieroso e imperscrutabile. Strinse le labbra e respirò. Chissà che aveva di sbagliato dopotutto.


Frank tirò la palla sopra la testa, la prese con la mano sinistra e ricominciò, nascosto dalla penombra della sua camera. Tende tirate, luci spente e porta socchiusa, era sdraiato sul suo letto in silenzio, avvolto dai suoi pensieri e una morsa allo stomaco che non sembrava volersene andare, come la sensazione di essere a un punto saliente della sua mappa, anche se per quanto il suo rituale stesse proseguendo senza intoppi nessuna risposta sembrava emergere dal suo tutto. Bloccò la sfera e la strinse con entrambe le mani, chiuse le palpebre e cercò di respirare a fondo, tuffarsi nel suo caos e riemergerne senza morsi e ferite per una volta. Cristo, c'era qualcosa in quel ragazzo, ma cosa? E poi che avrebbe potuto farci, una volta scoperta; darsi e dargli una pacca sulla spalla, bravo, bella giocata? Si morse il labbro, voltando il viso e abbassando lo sguardo. Dio Frank, che disastro.


Gerard chiuse lo sportello del suo armadietto con un gesto deciso, come aveva fatto mille e mille altre volte, raccolse lo zaino da terra e se lo sistemò su una spalla, senza fare il gesto d'infilarvi dentro i libri. Respirò a fondo e si avviò verso la sua classe di scienze, schivando i gruppi di ragazzi che affollavano i corridoi e non si facevano problemi a sbattergli contro senza chiedergli scusa o anche solo voltarsi a guardarlo, e fece attenzione a non alzare troppo lo sguardo per non incrociare nessuno. Solo che a volte le precauzioni non erano abbastanza.
«Guarda dove vai, femminuccia» esclamò un ragazzo biondo e alto, continuando a camminare col dorso e il medio rivolto al moro. Nella risata generale della cricca al suo fianco, Bryson sparì tra la folla, lasciandosi alle spalle decine di occhi incollati su Gerard, in ginocchio a radunare i suoi libri.
In silenzio, le guance che bruciavano e un gusto amaro tra i denti, si rimise in piedi e riprese a camminare. Bussò ma non ricevendo risposta provò a ruotare la maniglia, scivolò nell'aula e si sedette al suo posto, coperto da uno dei grandi tavoli da laboratorio. Pian piano la sala si riempì di studenti e un brusio strascicato e attivo allo stesso tempo riempì il vuoto, cessando solo all'entrata del professore, un uomo dall'età indefinibile dalla corporatura vagamente corpulenta ma paternamente rassicurante.
«Tutti pronti per i nostri gatti?» esclamò cingendo le mani, con l'entusiasmo di chi ama davvero il proprio lavoro e cerca di comunicarlo a chiunque sia disposto ad ascoltare; indicò il retro della sala con un gesto ampio finché tutti gli studenti non si furono alzati e diretti verso il loro tavolo e si sfregò le mani.
«D'accordo, sul bancone principale troverete delle fotocopie con delle informazioni generali sul catus domesticus e sulla sua anatomia. Una volta terminato di leggere, alla vostra destra ho sistemato un altro plico contenente una breve descrizione del processo dissettivo, seguito da istruzioni passo passo per la rimozione del tessuto epiteliale» spiegò, accennando ai fogli.
«Scegliete un partner e un esemplare e cominciate pure» esclamò quindi, avviandosi verso due scatoloni da cui sollevò un coperchio col suo nome scritto a caratteri cubitali. Il brusio riemerse e Gerard osservò con angoscia crescente tutti i suoi compagni trovare un partner e avviarsi verso il professore, sorridente e rilassato, e cominciò a scandagliare la stanza alla ricerca di qualcuno, deglutendo a fatica nel realizzare che no, era rimasto solo un'altra volta.
Serrò le labbra e respirò a fondo, cercando di farsi forza; si alzò e raggiunse l'insegnante, stringendosi il polso per farsi coraggio. «Oh, Gerard!» esclamò mister Vaden, salutandolo e tornando a scavare nello scatolone. «Sfortunatamente non mi sono rimasti molti esemplari, qualcuno ha mescolato i gatti della tua classe con quelli di un'altra e trovare quello giusto si sta rivelando più difficile del previsto ora che la maggior parte dei tuoi compagni è sistemata».
Tirò fuori il capo dal suo catalogo 3D e osservò il moro corrucciando le sopracciglia, interrompendo il suo discorso. «E il tuo partner?» domandò stupito, dando un'occhiata veloce alla classe, ormai alle prese con le forbici per aprire le buste. Gerard abbozzò un sorriso impacciato, il cuore in gola e un tremore lungo il busto, e si massaggiò il collo con una mano, imbarazzato.
«Be', sarà un po' più difficile ma immagino non sia poi un così gran problema, vuol dire che farai più conoscenza col tuo felino» disse semplicemente il più alto, tornando a frugare e estraendo un esemplare a metà tra il giallo e il bianco sporco. «Ecco qui, un altro solitario come te» sorrise, passandogli l'animale.
Gerard si sforzò di sorridere e ringraziò il professore, che annuì e si pulì le mani con un gesto deciso prima di ricordarsi di qualcosa e avanzare verso il centro della stanza.
«Ah, ragazzi, prima che apriate le buste, per favore fate attenzione a tagliare il più vicino possibile alla linea tratteggiata visto che continueremo a usarle per le prossime due o tre settimane» ricordò, guardandosi attorno per assicurarsi di avere l'attenzione di tutti. «E un'altra cosa ragazzi: prima di cominciare a tagliuzzare a caso, leggete, leggete, leggete i plichi. Troverete anche una descrizione più dettagliata degli utensili con cui avrete che fare quindi vi prego di non considerarlo materiale superfluo. Vi ricordo che ognuno di questi animali è stato a sua volta vivo e chissà, magari anche madre o pare, quindi vi chiedo di riservargli il massimo rispetto e la massima serietà possibili».
Un ragazzo di colore, meglio conosciuto per il suo posto nel coro della scuola e il suo quinto premio al talent show di qualche mese prima, fece una battuta sciocca e rise assieme al professore, che scosse a testa divertito. «Vedi di non troncarti la mano con lo scalpello Marcus, al resto penseremo tappa per tappa».
Gerard sorrise e posò il suo gatto sottovuoto sul tavolo da laboratorio davanti a lui, accanto a Gabby e Joseph, si diresse verso il bancone e prese in mano i due pacchi di fogli. Scandagliando le istruzioni afferrò la busta, la aprì e cominciò a riempire la busta al suo interno con dell'acqua corrente.
Quando pensò di averla riempita abbastanza la chiuse con le dita e la scosse, lavando l'animale dal liquido conservante di cui era ricoperto. Estrasse l'esemplare, lo distese sul vassoio chirurgico – diavolo, qual era il termine? Eppure l'aveva appena letto, che cavolo di memoria – e lo toccò, esitando e voltandosi a osservare la gente attorno a lui. Joe sembrava più un fantasma che l'amante degli sport leggeri e dei colori acrilici che aveva varcato la soglia del laboratorio quindici minuti prima ma le cheerleader ridevano e squittivano allegramente come se la cosa scivolasse loro addosso senza neanche sfiorarle.
Posò i gomiti sul tavolo e si prese la testa fra le mani, espirò velocemente e prese in mano lo scalpello, fermandosi a guardarne la lama – cristo, era una di quelle che tagliano strati di lattine come se fossero petali, che avrebbe potuto distruggere libri se solo avesse provato. Strizzò gli occhi e si strinse le tempie, cercando di mantenere la calma, ma ogni volta che schiudeva le palpebre non riusciva a non immaginare quanto a fondo sarebbe potuto andare, quanto dolcemente l'avrebbe aperto in due, che enorme differenza avrebbe fatto comparata alle sue.
Scosse la testa e si obbligò a deglutire e pensare ad altro, tornando a guardare il suo esemplare. Ne accarezzò il pelo, digrignando la mascella nello scontrarsi con la durezza del rigor mortis, lo voltò in modo che il ventre potesse vedere la luce e premette le dita sulla cassa toracica, scendendo a individuare l'intestino e i reni. Strinse le dita attorno alla coda e alle zampe, faticando a ricollegarle a un qualcosa di animato e reale, e individuò il punto d'entrata della siringa, a circa metà gamba posteriore, dove il tessuto adiposo era pressappoco inesistente. L'iniezione di siero rosso aiutava a riconoscere le arterie mentre quella di liquido blu esaltava le vene, identiche all'apparenza e nella struttura differenziabili solo in base al movimento del flusso sanguigno rispetto al cuore. Risalì fino al collo e passò lentamente le dita sui punti di sutura che tenevano unita la gola, rimediando a quella che Gerard riteneva una sgozzatura, anche se il taglio era verticale invece che orizzontale.
Si guardò nuovamente attorno e notò che a differenza di Cole indossavano tutti un paio di quanti, così si sciacquò velocemente le mani e ne agguantò un paio, infilandoseli senza troppa attenzione. Deglutì e prese in mano il taglierino.
Com'era possibile che a sé stesso avrebbe fatto di peggio ma a un animale morto, senza la minima possibilità di provare una goccia di dolore, non riusciva neanche a torcere un pelo? Respirò a fondo, chiuse la presa più decisamente e affondò la lama nella gola del gatto, trattenendo il respiro. Dio dio dio quanto voleva essere quel gatto. Posò lo scalpello accanto al torace, si cinse la testa fra i gomiti e perse la concezione del tempo.


«Si può sapere che ti è preso?» Shaun diede una pacca sulla spalla al moro, cercando di buttarlo fuori dallo stato catatonico in cui si era chiuso a doppia mandata una ventina di minuti prima, e quello sussultò, voltandosi a guardarlo con un «uh?».
«Dico davvero, tutto okay? Sono un paio di giorni che sei più strano del solito, c'è qualcosa che non va per caso? Chessò, tua madre è più stretta del solito, tuo papà si è fatto vivo all'improvviso–».
«Non nominare mio padre» l'interruppe il più piccolo; realizzò di essere stato brusco e aggiunse: «per favore. Non c'è niente che non va; sono solo stanco, tutto qui».
L'amico lo guardò in silenzio e non disse nulla, corrugando le sopracciglia in un'espressione preoccupata senza voler invadere lo spazio dell'altro. «Se serve siamo tutti qui però, okay?» gli ricordò, dandogli un pugnetto sulla spalla.
Frank abbozzò un sorriso di circostanza, annuì e cambiò argomento, indicando la porta del garage col capo. «Tuo padre si è rotto delle scrostature?» domandò, realizzando che in qualche modo ci si era stranamente affezionato.
Shaun si strinse nelle spalle, appoggiandosi distrattamente al muro. «Nah. Penso solo che il vecchio bastardo si sia stancato di vederci allargare il problema volta dopo volta» commentò senza troppo interesse, «non sono ben sicuro del perché ma questo rosso fa solo sembrare il resto molto più decrepito».
Frank annuì. Di certo togliere di mezzo un po' di ragnatele sarebbe stata una mossa più azzeccata. «A che ora hai detto che torna?» domandò, lanciando uno sguardo a John, appoggiato a una scala arrugginita e nel bel mezzo di finire di rollare uno spinello.
«Una – due ore» rispose passivamente l'altro, «ma non preoccuparti, tempo di fumare e siamo tutti a chilometri da qui».
Frank annuì nuovamente, stringendo le braccia lungo al tronco, le mani magre irrigidite nelle tasche dei jeans stracciati. John accese la sua meraviglia e diede il primo tiro, esalando una tempesta di foschia bianca mentre la passava a Neil. Neil eseguì la stessa procedura, trattenendo il fumo giusto pochi secondi più dell'altro prima di buttarlo fuori e passare la canna a Tim.
Uno dopo l'altro finirono di fumare e Tim cominciò a ridacchiare scuotendo la testa, mentre Neil apriva la finestra e John la porta del garage, sventolando la mano verso l'uscita con un «coraggio, tutti fuori». Frank rimase alla coda del gruppo, a disagio, e osservò i suoi amici correre lungo i marciapiedi verso casa del batterista, pronti a sfondarsi di patatine e videogiochi.
Attraversarono un vicinato con cui non era familiare e si guardò attorno infilandosi le mani ancora più a fondo nelle tasche, il nodo alla gola che cresceva sempre di più, bloccandogli la circolazione e soffocandogli i pensieri. Si voltò verso una casa bianca a due piani, ammorbidita da dell'edera rampicante, e gli parse di scorgere una sagoma passare davanti a una finestra. Strinse gli occhi ma non percepì nessun altro movimento, senza riuscire a scacciare la strana sensazione che si era impossessata del suo petto.
«Frank andiamo, muoviti!» urlò una voce di sottofondo; il moro scosse il capo per riprendersi e si rese conto che gli altri erano già quasi alla fine della strada. Lanciò un ultimo sguardo alla casa, insolitamente avvolta nel silenzio, e lesse velocemente il nome sulla cassetta delle lettere, sentendo la foschia farsi più e più opprimente nella sua testa e una strana fiamma accenderglisi dietro le clavicole. Un altro grido lo svegliò parzialmente dalla sua realtà a specchio e cominciò a camminare verso i suoi amici, voltandosi di tanto in tanto per osservare l'edificio finché non fu troppo lontano per percepirne dettagli e accelerò il passo, scoprendosi a correre prima di averlo davvero deciso.
Mikey scivolò da dietro la tenda e rimase in silenzio ad osservare il moro allontanarsi sempre di più. Un groppo alla gola gli rubò il respiro e tirò le tende di scatto, dando le spalle alla strada. Gerard non sarebbe mai entrato in un giro del genere.


Gerard mosse il cibo da una parte all'altra del piatto, sorreggendosi la guancia con la mano, lo sguardo assorbito da pensieri di cui lui stesso non era pienamente cosciente. Era stato assente per la maggior parte della giornata e Mikey si chiese se stesse osservando il solito Gerard, intrappolato nell'inferno delle sue emozioni e dei suoi mezzi illeciti di fuga dalla realtà o se quel fantasma, quasi un manichino nelle mani di qualcosa che non riusciva a individuare, fosse il risultato di esplosioni e realizzazioni sottocutanee, ricordi di altri amori finiti in catastrofi e incidenti aerei noti prima della partenza stessa. Strinse le labbra.
«Non hai fame Gee?» domandò accennando col capo alla pasta sfiorata a malapena, sistemata a formare un mucchio con un circolo di pomodori al centro. Gerard sembrò cadere dalle nuvole e rendersi conto solo allora di trovarsi nel bel mezzo di una cena coi suoi genitori e suo fratello minore, ma dopo la frazione di secondo in cui lo stupore era prevalso il suo viso tornò imperscrutabile, né contratto né rilassato.
«C'è forse qualcosa che ti preoccupa?» suggerì il padre, in un tentativo di estrargli parole di bocca che non si aspettava realmente uscissero davvero allo scoperto.
Come previsto, il figlio maggiore scosse la testa, portandosi una forchettata alla bocca senza particolare decisione. «Stavo pensando a come continuare la nuova serie su cui sto lavorando» buttò lì, una mezza bugia per ricordarsi che doveva veramente cominciare a mettere a fuoco qualche nuovo personaggio.
Il padre annuì, senza ulteriori attenzioni o dubbi, e la cena continuò pacatamente, scivolando serena mentre gli eco soffusi della televisione rimediavano al consueto e rilassato silenzio che caratterizzata buona parte dei pasti dei Way.
Appena i genitori si furono alzati da tavolo e il moro ebbe cominciato a sparecchiare e prendersi cura degli avanzi rimasti, il biondo scivolò al suo fianco, si guardò attorno e lanciò un'occhiata al fratello. «Si può sapere che ti prende?».
Gerard arcuò le sopracciglia, ricambiando lo sguardo del minore, e riprese a lavorare, inimpressionato. «Non mi prende niente, non so di cosa stai parlando» tagliò corto, dirigendosi verso la cucina.
Mikey non demorse e lo seguì, inquieto e deciso a far luce sull'abisso che la mente di suo fratello era per lui. «Dico davvero, smettila di fare il finto tonto».
«Che vuoi che ti dica Mikey?» scattò il più grande, voltandosi di scatto. «Seriamente, che risposta cerchi? Mi sembra di essere già abbastanza ovvio così, non c'è poi così tanto da dire su quello che non succede tra me e un ragazzo che ho visto una volta sola in tutta la mia vita e che probabilmente non mi rivolgerà mai più la parola neanche se dovessimo rincontrarci». Serrò le labbra, amareggiato.
Mikey tacque, abbassando gli occhi, e annuì. Forse era stato troppo invadente, dopotutto il fratello non sarebbe mai riuscito a trovarlo di nuovo. «Hai ragione, scusa» disse, annuendo piano un paio di volte, «credo di aver esagerato».
Gerard riprese a lavorare, intrappolato nuovamente nel suo universo parallelo, e il biondo contemplò se dirgli una bugia fosse meglio d'indirizzarlo su una strada non voleva seguisse. Da una parte odiava mentirgli, dall'altra era convinto fosse a fin di bene e che quella del fratello fosse solo una cotta passeggera, una sbandata fugace per cui non valeva la pena fargli imboccare vicoli destinati ad altra gente.
Respirò. «Penso di averlo visto qualche ora fa».
Gerard si voltò di scatto, rischiando di far cadere a terra il piatto che stava per infilare nella lavastoviglie; «che?!».
Mikey osservò i suoi occhi sgranati e la profondità interminabile delle sue pupille, e prima di aprire nuovamente bocca esitò, leggendogli sul viso una speranza che non vedeva da tempo. «Non eravamo spalla a spalla ma sono piuttosto sicuro fosse lui» affermò.
Un sorriso si fece strada sulle labbra del moro, che posato il piatto si spinse in avanti e gli strinse le spalle. «Davvero? E come sta?» domandò, una vitalità crescente nella sua voce di cristallo.
Mikey si scrollò di dosso il senso di colpa ricordandosi che lo stava facendo per lui e trattenne il sorriso che gli stava nascendo in petto, optando per un tono più grave. «Ecco, non sono sicuro ma...» esitò e Gerard pendette dalle sue labbra, «aveva l'aria scombussolata, ha voltato l'angolo verso la fabbrica abbandonata quasi di corsa».
Il sorriso di Gerard sparì.
«Non volevo dirtelo perché sì, insomma, non volevo lo sapessi, ma penso sia meglio che scoprirlo di prima mano» aggiunse mordendosi il labbro inferiore. Gerard sembrò essere rimasto al buio nel bel mezzo del suo momento di gloria, circondato da macerie che sarebbero dovute essere i suoi sogni. Deglutì in silenzio per un paio di secondi, gli occhi incollati al pavimento, poi riacquisì l'abilità di emettere suoni.
«Non hai vere prove però» mormorò.
Mikey esitò, angosciato nel vedere il fratello reagire come aveva temuto sin dall'inizio. «Gerard» cercò di fare appello al suo buonsenso, guardandolo espressivamente negli occhi, «certe volte non hai bisogno di vedere una persona con un ago in endovena per capire che si buca, sniffa o si fa in qualche modo». Tacque, una mano sulla spalla dell'altro, e sperò per il meglio.
«Ma non hai prove concrete» ripeté invece il maggiore, sembrando più e più risoluto a ogni respiro. Mikey provò ad aprire nuovamente bocca ma il fratello scattò in piedi, spostandosi la mano di dosso, e abbozzò un sorriso crescente in quella che il biondo riconobbe come una terribile idea. Si alzò per fermarlo e proseguire la conversazione ma non fu abbastanza veloce e si ritrovò solo accanto al lavello, conscio di aver solo peggiorato la situazione. Si prese la testa fra le mani e imprecò silenziosamente.
«Drogato? Seriamente? Ma non potevi semplicemente dirgli che l'hai visto baciarsi con una?» si sgridò, a metà sibilando e a metà immaginandoselo. Scosse nuovamente il capo e finì di prendersi cura delle stoviglie, cercando di farsi venire in mente un nuovo piano.


Tossicodipendenza? Gerard non riusciva a crederci. O forse sì, dopotutto non sapeva nulla di lui, se non che aveva degli occhi d'ambra antica più della galassia, un sorriso più dolce di ogni cantilena che gli fosse mai stata sussurrata per scacciare i mostri che lo perseguitavano fin dentro ai sogni e un modo di suonare che sembrava snodargli le vene, riempirlo di bollicine e farlo sentire bollente quanto una stella. Si morse un'unghia, preoccupato, e s'inumidì le labbra.
Sì, ma lui che poteva farci?
Si alzò dal pavimento del seminterrato, afferrò una felpa che aveva lasciato sul corrimano e corse al piano superiore, fiondandosi fuori dalla porta di casa. Le troppe sigarette e notti insonni si fecero sentire ancor prima che uscisse dal vicinato e fu costretto a fermarsi, piegandosi in avanti, le mani sulle ginocchia, combattendo il fiatone con quanta forza aveva in corpo. Riprese a camminare a passo svelto ma a metà strada la mente smise di vorticargli e si fermò, improvvisamente lucido. Cosa stava andando a fare?
Si batté il palmo sulla fronte, insultandosi. Era stato un tossico anche lui dopotutto, come aveva potuto pensare che sarebbe stato plausibile trovarlo di nuovo lì se Mikey era rientrato da poco più di due ore?
Abbassò lo sguardo e sentì il cuore stringerglisi mentre girava i tacchi e si dirigeva nuovamente veso casa. Che idea idiota, Gerard.


«Dico davvero, lo conosci o no?» sbottò Frank, stufo fin sopra ai capelli dei giochetti dell'altro; «non ho tutta la vita da buttarti appresso, posso chiedere ad altra gente».
Dayton ridacchiò sotto i baffi, divertito dall'avere il coltello dalla parte del manico e dall'espressione irritata e vulnerabile del moro; prese una lunga boccata dalla sua sigaretta e si sistemò i lunghi riccioli castani dietro l'orecchio, prendendosela comoda. Frank sbuffò di nuovo, accendendosi una Marlboro e fumandola velocemente, cercando di alleviare la tensione che lo stava facendo impazzire da quando aveva menzionato Gerard a quello stupido imbecille. Cristo quanto detestava chiedergli qualcosa.
Dayton sorrise affilatamente, guardando il moro con cattiveria; «e se te lo dico che ci guadagno?».
«Se non la smetti un cazzo di pugno in faccia» sibilò l'altro.
Dayton rise, consapevole del bluff dell'altro, e alzò le mani in segno di resa. «Calma fratello, non è mica una faccenda di stato» lo sminuì, tenendo la sigaretta in bilico tra le labbra fine, «da quanto ne so è una nullità proprio come te».
Frank ignorò l'insulto, continuando ad aspirare e espirare intensamente. «Se vuoi saperla tutta ha debuttato nella mia scuola elementare come un Peter Pan palla di lardo, fregando la parte a uno degli attuali lavacessi giù da Toot's» sorrise di nuovo, divertito «non che lui fosse poi così bravo a cantare, comunque».
Frank arcuò le sopracciglia, improvvisamente in controllo dei suoi sensi. Quindi era un cantante. Ora sì che stava cominciando ad arrivare da qualche parte, magari qualche locale sulla scena avrebbe saputo dirgli qualcosa di più.
«Ad ogni modo, perché lo cerchi? Non pensavo fossi abbastanza uomo da voler fare a botte» lo sfotté nuovamente il riccio, senza sforzarsi per nascondere un ghigno mentre spostava la testa all'indietro e espirava verso l'alto. «È forse un rito d'iniziazione per smettere di essere una ragazzina?».
«Ho un favore da ricambiare» ribatté Frank, senza abboccare all'amo.
«Tutto questo casino per un atto di beneficenza? Non me la bevo» ribatté il castano.
«Non tutti al mondo sono come te» replicò Frank, spegnendo la sigaretta e andandosene. Dayton rimase con la schiena contro la parete scrostata, le braccia incrociate e un disegno cattivo a formarglisi in testa.
Un favore, sì, certo. Sta a vedere che c'è qualcosa di grosso che bolle in pentola. Sputò la sigaretta a terra e mandò un messaggio alla sua cricca, voltandosi a osservare il vicolo imboccato dal moro. Qualcosa di molto grosso.


«Non capisci Gerard, se uno sconosciuto è gentile con te e ti dice “alla prossima” non significa che ti sta chiedendo di cercarlo e accollarti i suoi problemi; ti prego ragiona» insistette Mikey, cercando di far leva sulla parte realista del fratello; «per quanto ne sai potrebbe essere un ragazzo padre che ha messo incinta una delle sue groupie ed è stato buttato fuori di casa dai suoi genitori per lo stesso motivo, e che ora si fa per non dover convivere con l'incredibile pressione che gli è caduta sulle spalle».
«Un motivo in più per essergli amico» ribatté pronto il più grande, deciso; «se è arrivato a drogarsi vuol dire che da solo non è riuscito a ricucirsi tutte le ferite che gli altri gli hanno lasciato addosso e che tutto lo sta schiacciando, è mia responsabilità fare qualcosa».
«No Gerard, non lo è» insistette l'altro, esausto dalle continue conversazioni a vicolo cieco col fratello; «non è neanche detto che sia per la sua vita che si droga, magari ha solo voglia di divertirsi».
«In ogni caso» tagliò corto Gerard, senza mai perdere la sua calma quasi irreale «devo trovarlo e fare in modo che qualcosa succeda». Prese un sorso dal suo smoothie alla frutta e Mikey sospirò, passandosi la mano sul volto, esasperato dalla testardaggine del moro.
«Giuri almeno che ti terrai alla larga da quella parte della città?» supplicò quasi.
«Andrò dove ce ne sarà bisogno» rispose semplicemente il fratello, guardando mitemente l'orizzonte. «E poi non si sa mai, magari potrei incontrarlo al negozio di dischi qui attorno».
«Gerard, quel negozio è a miglia di distanza» gli fece notare il biondo.
«Per me, ma per lui?» obiettò il moro. Osservò l'espressione del più piccolo e posò il bicchiere sul tavolo, alzando i palmi per rassicurarlo: «guarda Mikey, capisco preoccupazioni e tutto ma non mi succederà niente. Sono un perdente, non in pericolo».
Prese a ridere, tranquillo, ma Mikey impallidì e esclamò: «Gerard attento!» pochi secondi prima che una presa decisa lo afferrasse per il colletto della maglietta e lo sollevasse di peso dalla sedia.
Mikey scattò in piedi di riflesso e Gerard si voltò terrorizzato, annaspando nei meandri della sua memoria per portare alla luce il viso semi-familiare che gli stava sorridendo cattivamente in faccia, per niente toccato dall'essere in pieno pubblico. Dopotutto erano in New Jersey, risse e percosse erano l'ordine del giorno.
Prima che potesse mettere assieme i tasselli del puzzle, Gerard si ritrovò a stringersi la mascella con entrambe le mani, gli occhi strizzati per contrastare il dolore e una risata divertita echeggiante nell'aria attorno a lui.
«Gerard!» esclamò il fratello facendosi avanti, superato lo shock iniziale. Un ragazzo di qualche anno più grande di lui, un braccialetto di pelle al polso sinistro e un anello di un colore metallico al medio, lo strinse da dietro e lo tenne fermo mentre il riccio assestava un altro pugno nello stomaco del moro.
«Ehilà sfigato, ti ricordi di me?» gli soffiò in faccia, a pochi centimetri dalla pelle. Gerard rantolò e il ragazzo sentì un'altra scarica di adrenalina attraversargli il corpo. «Siamo cresciuti insieme, te lo ricordi?».
Altro pugno, altro mugolio, altro dolore lancinante. Certo che se lo ricordava, come si scordava uno come Dayton?
«Io non me lo ricordavo mica, ma l'altro giorno un uccellino è venuto da me e mi ha rinfrescato la memoria» cinguettò, maligno «e una delle cose che questo uccellino mi ha detto è una gran puttanata. Ma una cosa che l'uccellino non sa è che io le stronzate le riconosco a chilometri di distanza, e che nessuno muove così tanto le acque per una nullità come te».
Lo guardò quasi con disgusto, senza però decretarlo degno di un sentimento tanto radicale. «Cosa stai combinando sotto il mio naso, insetto del cazzo? In che cazzo di giro ti sei ficcato per essere improvvisamente qualcosa di più della gomma sotto le scarpe dell'intera comunità?».
Lasciò la presa e Gerard cadde a terra, tossendo. «Questo è il mio territorio, siamo intesi? La prossima volta che sento il tuo nome non sarò così clemente» ringhiò il più grosso, sputandogli a pochi centimetri dalla spalla prima di fare un cenno ai suoi amici e scomparire da dove erano venuti.
Mikey corse verso Gerard e si piegò su di lui, mettendogli una mano dietro la nuca per sorreggerlo. Gerard alzò la mano per dirgli che era tutto okay e per una frazione di secondo gli parve di riconoscere un volto nella folla che aveva cominciato a ricomporsi. Quando fu sul punto di metterlo davvero a fuoco tutto si fece nero e si perse in un paio d'occhi d'acero tra le urla d'aiuto del fratello.



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