Resistance: A Punk Story

di Aagainst
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Under The Knife ***
Capitolo 2: *** Prisoner's Song ***
Capitolo 3: *** Young 'Til I Die ***
Capitolo 4: *** Like You To Me ***
Capitolo 5: *** Unknown Soldier ***
Capitolo 6: *** Equals ***
Capitolo 7: *** Never Alone ***
Capitolo 8: *** Killing In The Name ***
Capitolo 9: *** Give It All ***
Capitolo 10: *** In It For Life ***
Capitolo 11: *** Punx & Skins ***



Capitolo 1
*** Under The Knife ***


1.

Il suono della sveglia mi riscuote dal sonno. Provo a girarmi a pancia in su, ma sento solo un grande, grandissimo dolore al fianco e alla schiena. Me lo tocco: le costole non sembrano rotte. Stringo i denti e riesco ad alzarmi. Mi avvio verso il bagno e mi sciacquo la faccia. Lo specchio riflette un enorme livido sul mio occhio. Provo ad aggiustarmi il più possibile e vado a fare colazione. Mi verso nel bicchiere quel poco che rimane di un cartone di succo aperto, rancido. Mi guardo intorno: questa casa cade a pezzi. Questo letamaio, questo schifo, cade a pezzi. Vivo in questo appartamento con mio fratello da ormai due anni. Lui, Mitch, ne ha appena tre. I nostri genitori sono morti due anni fa e, per noi, l'unica prospettiva sarebbe stata quella dei servizi sociali. Una notte ho deciso di scappare: ho preso Mitch e me la sono data a gambe. Purtroppo, però, le grandi città non lasciano scampo a nessuno. Il destino non lascia scampo a nessuno. Non avevo calcolato che, per sopravvivere, avremmo avuto bisogno di soldi e sono finita per chiederli alle persone sbagliate. Persone che ieri sono state abbastanza chiare riguardo a ciò che mi succederà se non pagherò i debiti.
Finisco di vestirmi e, lavato Mitch, mi incammino verso il centro. Rifletto sul fatto che, prima o poi, dovrei riuscire a iscrivere mio fratello all'asilo o, come minimo, a trovare una babysitter. Non fa bene a un bambino essere sballottato di qua e di là. Mentre penso a tutto ciò, mi accorgo che è ora di pranzo. Entro in un fast food e ordino due hamburger semplici, da novanta centesimi l'uno. Ho a malapena due dollari e la cassiera mi guarda malissimo. Porgo il panino a Mitch, che lo mangia lentamente. Pranziamo in silenzio, come sempre. Odio il silenzio. Odio mio fratello che mi fissa con quei suoi occhi enormi. 
«Angie, la mamma quando torna?». La domanda mi spiazza. 
«Presto Mitch, mamma torna presto.» mento, freddamente. Ormai sono una professionista, le bugie sono il mio pane quotidiano, soprattutto verso me stessa. Mi ripeto ogni fottuto giorno che andrà tutto bene, ma non ci credo nemmeno io. La dannazione incomincia sempre con un illusione: Lucifero si illuse di essere pari a Dio, io mi illudo di essere pari a qualsiasi altro essere umano, mentre invece sono pura feccia. Una dannata nel mondo dei vivi. E più provo a non sprofondare, più affondo nella melma della mia vita. 
«Angie, ho la pipì». Mitch mi riporta alla realtà con la sua pipì. Lo accompagno in bagno. Una volta finito, ci avviamo verso il locale in cui lavoro. Entro, salutando Carl, il gestore e mi metto subito al lavoro, preparando i tavoli insieme a Samantha e a Pete, gli altri due camerieri. Mitch ci guarda, seduto su uno sgabello. Mi sento inquieta, ho brutti presentimenti. Pete sembra accorgersene e mi sorride per tranquillizzarmi. Rispondo facendo lo stesso e continuo a lavorare. 
Odio questo locale e, soprattutto, odio i clienti di questo locale. Odio gli uomini, odio come mi guardano, come mi bramano. Odio sentirmi sporca. Una mano mi tocca il sedere e io tiro un calcio alla sedia posta dietro di me. Pessima scelta: un omone si alza e mi schiaccia contro la parete «Cosa hai fatto, puttana?» urla. Mi molla uno schiaffo, poi mi prende dalla maglia e mi trascina sul retro. Tutti hanno visto, ne sono sicura, ma nessuno muove un dito. Il mio aggressore mi sbatte per terra e mi sferra un calcio al fianco, già dolorante. Grido dal male, imploro pietà, ma quello continua. Poi mi fa sedere e mi molla un pugno in volto. Sputo sangue. Ormai non c'è nemmeno più posto per le lacrime. Poi, improvvisamente, qualcosa lo blocca, ma non faccio in tempo a capire cosa succede che il mondo diventa nero.


Angolo dell'Autrice

Sono tornata con una nuova storia (purtroppo). 
Questo primo capitolo è corto, dai prossimi scriverò di più.
Non ci fu niente di più noioso e inutile di questo angolino, quindi mi ritiro. Adios!

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Capitolo 2
*** Prisoner's Song ***


2.
 
Mi sveglio di soprassalto. Mi sento ancora più a pezzi di ieri. Ho la gola in fiamme e il labbro mi fa malissimo. Ricordo di colpo ciò che è successo stanotte. Urlo e provo ad alzarmi, ma stavolta nemmeno impegnandomi riesco a mettermi seduta sul letto. La porta della stanza si apre ed entra un ragazzo che non conosco. «Calma, va tutto bene!» prova a rassicurarmi. Per tutta risposta vomito. «Mi... Mi dispiace, scusami.» biascico a fatica, per poi rimettere nuovamente. «Martha!» esclama lui. Subito compare alla porta una ragazza non troppo alta, dai capelli arancioni e di costituzione magrolina. «Ci penso io, tu vai di là, Matt.». Il giovane annuisce e, dopo avermi lanciato un sorriso, esce dalla stanza, lasciandomi sola con Martha. «Vado a prendere il secchio e lo straccio, stai tranquilla.» dice, forse per rassicurarmi. Attendo il suo ritorno stropicciandomi gli occhi e studiando per bene la camera dove sono. Si tratta di una stanza abbastanza grande, con il pavimento di legno e i muri bianchi, freschi di imbiancatura. Martha sopraggiunge e lava per terra. Una volta finito e posati secchio e straccio, si avvicina a me. Ci guardiamo, in totale silenzio. Mi rendo conto di non aver ancora aperto bocca. «Te la senti di farti un bagno caldo?» mi domanda. Io annuisco, poco convinta. La ragazza mi aiuta ad alzarmi e, dopo un quarto d'ora passato ad urlare e piangere dal dolore, riesco finalmente ad arrivare in bagno. C'è uno specchio, nel quale mi rifletto: ho il labbro deforme e un occhio nero, ma pensavo peggio. «Ti aiuto a svestirti e a lavarti.» afferma. Rispondo annuendo e mi svesto, grazie al suo aiuto. Poi mi immergo nella vasca e chiudo gli occhi. Sento le lacrime bagnarmi le guance. «Mitch.» sussurro. È la prima parola che dico da quando ho vomitato. «Il bambino sta bene, è con Kyle e Jane.». In quel momento dovrei forse domandare chi sono quei due, con chi è Mitch e dove diamine sono finita, ma sto troppo male per farlo. In fin dei conti, una volta che mi sono rimessa posso sempre ringraziare, salutare e andarmene e, se vedo che sono brave persone, potrei anche lasciare mio fratello con loro. A quel pensiero mi sento orribile e scoppio a piangere. Martha non dice una parola e mi guarda, mi fissa. «Mai visto nessuno piangere?» abbaio, infastidita. «Più gente di quel che pensi.» mi risponde lei, calma, lucida. Non ribatto e mi sciacquo il viso. La mia ospite mi aiuta ad alzarmi e mi copre con un asciugamano. Mi siedo su uno sgabello appoggiato accanto alla vasca e mi asciugo. Martha mi porge dei vestiti. «Io sto meglio, riesco a fare da sola.» affermo. Lei capisce ed esce. «Ti aspetto in cucina.» aggiunge, prima di chiudere la porta. Io sospiro e osservo i vestiti che Martha mi ha dato. Si tratta di una maglietta dei Nirvana e di un paio di jeans oltre, ovviamente, alla biancheria. Mi vesto con calma e, pur con fatica, mi alzo e vado in cerca della cucina. Non sono tranquilla, tuttavia non mi sembra un luogo ostile, solamente molto grande. Probabilmente prima di diventare un luogo abitabile doveva essere una specie di capannone. Convinta di aver finalmente trovato la cucina apro una porta, ritrovandomi però in una camera da letto in cui un ragazzo stava dormendo. Imbarazzata, faccio per uscire, quando un cuscino mi colpisce in pieno la schiena, facendomi cadere a causa del dolore. «Tom, ti ho detto che volevo dormire!» esclama il ragazzo. «Oh, ma tu non sei Tom.» osserva successivamente, con una nota di disappunto. «Eh, no.» ribatto io, provando ad alzarmi. «Aspetta, ti aiuto.» si propone il ragazzo, alzandosi dal letto. È a petto nudo e indossa solo un paio di pantaloncini. È abbastanza alto, magro, dai capelli biondi e gli occhi verdi. Porta un labret che si tortura mordicchiandosi nervosamente il labbro. Mi porge la mano e, nonostante le mie gambe siano stremate, riesco ad alzarmi. «Tu devi essere quella ragazza che hanno portato qui ieri.» «Sai, sei perspicace, davvero.» rispondo, acida. «Io sono Luke, comunque.» si presenta, ignorando la mia maleducazione.«Io mi chiamo Angel.» replico. Ci stringiamo la mano e lui mi sorride. «Allora, che ci facevi in camera mia?» mi chiede. «Stavo cercando la cucina.» rispondo. Luke scoppia a ridere, cosa che mi lascia interdetta. «Ti accompagno io, seguimi!» esclama. «Bel tatuaggio.» dico, colpita dal drago tatuato sulla sua schiena. «Grazie.» ringrazia il ragazzo, facendomi cenno di andargli dietro. Lo seguo a fatica, a causa dei colpi subiti la notte. Avevo ragione, questo posto è enorme, ma non è un capannone, ma semplicemente una grande costruzione piena di stanze. Mi aiuta a scendere delle scale e arriviamo, finalmente alla cucina, ovvero un'enorme sala da pranzo con un'enorme piano per cucinare. «Ehilà, ben arrivata! Allora, latte o succo?» domanda Matt. Non so minimamente cosa rispondere, così dico di non volere nulla e mi siedo al tavolo. Martha mi versa comunque del succo in un bicchiere e mi porge un pezzo di torta, invitandomi a mangiare. Senza farmelo ripetere due volte addento il dolce, il mio primo vero dolce da due anni a questa parte. Luke si siede accanto a me, con una tazza di latte in cui aggiunge del cioccolato in polvere. «Sì, ho ventidue anni e mi piace il latte con il cioccolato.» afferma. «Tu, invece? Quanti anni hai?» mi chiede. «Diciannove.» rispondo, fredda. Non mi piace parlare di me a persone di cui non so nulla. «Tranquilla, se hai intenzione di parlarci di te lo farai, sennò non importa.» mi rassicura Martha, come se mi avesse letto nel pensiero. Inizio a sentirmi a disagio in mezzo a queste persone: mi trattano bene, nessuno mi ha mai trattata così se non per un secondo fine. «Hey, davvero, guarda che non ci interessa sapere la storia della tua vita.» continua la ragazza. Non mi sono mai sentita più disarmata di così. Sbatto violentemente il bicchiere in cui c'era il succo sul tavolo e mi spingo indietro con la sedia. Mi alzo di scatto, ma le gambe mi tradiscono e cado per terra. Inizio a sentire freddo e un gran mal di testa. Luke mi sorregge e Martha mi tocca la fronte. «Scotta.» afferma, mesta. «Mitch.» biascico. «Lo vedrai tra poco, promesso.» mi tranquillizza Matt. Mi riportano nella camera in cui mi sono svegliata e mi adagiano sul letto. Chiudo gli occhi, mentre un sovrapporsi di volti e violenze bussano alla mia testa.


Angolo dell'Autrice

Grazie a Sassanders e Eilan21 per le recensioni. 
I titoli dei capitoli sono titoli di canzoni di gruppi punk o pop punk.

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Capitolo 3
*** Young 'Til I Die ***


3.
 
Sono sdraiata a letto da almeno tre ore e inizio a sentirmi un po' meglio. Martha è seduta accanto a me, silenziosa. Volto il capo verso di lei e la fisso. La ragazza mi sorride. «Chi diamine siete?» domando flebilmente. Martha sospira e, estratta dalla tasca una sigaretta, se la accende. «Allora, secondo te chi siamo?». Devo ammetterlo, è brava a rigirare la frittata dalla sua parte. «Se lo chiedo è perché non lo so.» rispondo io. «Sì, ma puoi sempre immaginarlo.» replica lei, impassibile. «Siete degli psicopatici?» chiedo. Proviamo entrambe a trattenere le risate, ma non ci riusciamo. Le costole mi fanno malissimo, ma non posso non ridere. «Sai, forse lo siamo. Ma, andiamo, chi è che non è un po' psicopatico?». Ci giriamo entrambe: a parlare è stato Matt. Il ragazzo si avvicina a noi e posa le mani sulle spalle di Martha. Noto solo ora che entrambi indossano pantaloni strappati e magliette di gruppi punk come The Clash e Sex Pistols. Mi sento sempre più confusa e fuori posto. «So cosa pensi, ma non devi avere paura. Capirai ogni cosa a tempo debito.» asserisce Matt. Questa storia che riescono a capire cosa penso e provo mi irrita da morire, ma non ho la forza per replicare. «Hai fame?» mi chiede Martha. Annuisco, pensando al fatto che non ho mai pranzato seduta ad un tavolo in una casa negli ultimi due anni. «Ce la fai a tornare di sotto?» domanda la ragazza, visibilmente preoccupata per le mie condizioni di salute. «Ce la faccio, tranquilla.» rispondo, abbastanza stufa di tutte queste premure. Mi alzo con calma e arrivo in cucina, dove trovo Mitch seduto con quelli che presumo essere Kyle e Jane, un ragazzo e una ragazza di poco più grandi di me e con due mohawk da far paura, quello del ragazzo tinto di biondo e quello della ragazza rosso. Appena mio fratello mi vede mi corre incontro, un po' impacciato come tutti i bambini di tre anni. Lo abbraccio con affetto, accovacciandomi per essere alla sua altezza. «Kyle e Jane mi hanno dato il gelato.» annuncia orgoglioso. «Il gelato? Al cioccolato?» «Alla crema!» esclama lui. Sorrido e gli schiocco un bacino sulla guancia. Lo prendo per mano e ci accomodiamo a tavola. Kyle e Jane si presentano e io li ringrazio per essere stati con Mitch. Accanto a me si siede Luke. «Come stai?» mi domanda. «Meglio. Ho anche fame.» rispondo. Martha si sistema di fronte a me e mi porge un piatto pieno di zuppa. Ringrazio e passo il piatto a Mitch. Il bambino prende il cucchiaio e inizia a mangiare, quando io gli faccio cenno di attendere che tutti abbiano il cibo. Mi guarda e posa il cucchiaio sul tavolo, diligente. Matt e Kyle servono il pranzo agli altri e accomodano. Luke mi fa cenno di mangiare, ma la mia attenzione viene catturata dal posto a capo tavola non occupato, ma apparecchiato. «Lì non si siede nessuno?» chiedo, curiosa. «Quello è il posto di Tom.» risponde Jane. «È il nostro mentore, in un certo senso. È un punto di riferimento. È lui che ha creato questo posto.» spiega Kyle. «E perché non lo aspettiamo?» insisto. «Perché lui e Rose, sua moglie, arrivano sempre tardi. Li aspettiamo di rado. E poi tuo fratello non può mangiare alle quattro, e nemmeno tu.». Chino lo sguardo sul piatto pieno di zuppa. Affondo il cucchiaio in quel liquido fumante e verde, leggermente denso, ne raccolgo quanto più possibile e lo gusto intensamente. Saranno secoli che non mangio una zuppa come si deve. «Mitch, attento!» esclamo, vedendo mio fratello che si sbrodola tutto. Cerco di pulirlo il più possibile con il tovagliolo, sotto lo sguardo divertito di Luke, a cui tiro una gomitata. «Ragazzi, metto un po' di musica!» annuncia Matt, alzandosi. Si avvicina a uno scaffale pieno zeppo di cd e ne sceglie uno, per poi inserirlo nello stereo posto accanto al tavolo. «No, la merda rap metal, no!» si lamenta Kyle. «I Rage Against The Machine non sono merda, sono ottima musica.» replica Matt, facendo partire il cd. Subito le note di "Bombtrack" si diffondono per la stanza e Matt si esalta. «Dai, buffone, torna a mangiare!» lo prende in giro Jane. Io osservo, in silenzio. Soprattutto, ascolto. Quell'album lo conosco fin troppo bene. Era uno dei preferiti di mio padre. Parte "Killing In The Name" e inizio a cantare, seguendo la voce di Zack De La Rocha. «Matt, abbiamo trovato qualcun altro a cui piace quella roba!» esclama Kyle. Arrossisco violentemente e taccio. «Kyle, sei una testa di cazzo bella e buona!» lo rimprovera l'amico. «C'è un bambino, smettetela di dire parolacce!» li sgrida Martha, severa. I due ragazzi le lanciano un'occhiataccia, per poi tornare a discutere riguardo ai Rage Against The Machine. «Uomini...» si rassegna la ragazza.  Sorrido divertita, pensando se intervenire o meno nella discussione, quando un uomo altissimo entra, seguito da una donna. «Sempre a discutere su cose futili voi due!» afferma, indicando Matt e Kyle. In questo momento mi sento altamente fuori luogo. Si tratta di un uomo molto alto, sui due metri. Avrà circa quarantacinque anni e porta, come Kyle e Jane, il mohawk colorato, stavolta di blu. Indossa una maglietta nera, un giubbotto di pelle e dei pantaloni attillati strappati sulle ginocchia. La donna, invece, è una signora aggraziata, più o meno della stessa età, dai capelli castani. Inizio a pensare di essere finita in una gabbia di psicopatici punk. Stringo Mitch al mio petto, in cerca di una certezza. L'uomo abbassa lo stereo e mi guarda, dall'alto della sua notevole stazza. «Tu devi essere quella ragazza che Matt ha soccorso ieri notte. Come stai?» «Io sto abbastanza bene, grazie.» rispondo, con tono timido. «Io sono Tom e lei è mia moglie Rose.» si presenta, gentilmente. Mi sento davvero troppo al centro dell'attenzione. «Scusatemi.» biascico, alzandomi da tavola e correndo su per le scale, cercando il bagno. Lo trovo e mi getto sul lavandino. Mi sciacquo la faccia e mi specchio. Troppa gente nuova, troppa gente nuova e gentile. Non so cosa si fa in questi casi. Quando ti trattano male le reazioni sono essenzialmente due: o stare male e sentirsi enormemente in colpa oppure la rabbia. Spesso la prima reazione segue la seconda oppure la seconda segue la prima. Ma quando ti trattano bene come si reagisce? Cosa si fa? Cosa si dice? Mi sento stramaledettamente confusa. In più nessuno mi spiega dove diamine sia finita. Magari non sono psicopatici, ma i miei ospiti sono sicuramente fuori dal normale. E quel Tom sembra il più strano di tutti. Mi siedo per terra, quando Luke entra nel bagno. «La privacy non sai cos'è?» mi innervosisco. «Volevo solo sapere come stavi.» spiega. Lo guardo, fissando i suoi occhi verde smeraldo. «Io vorrei solo capire chi siete.» affermo, seria. Il biondo sospira, torturandosi il labret. «Tom ti spiegherà ogni cosa. Vieni.» dice, porgendomi la mano. Mi rialzo e lo seguo verso la cucina, curiosa di capire, finalmente, se sono finita tra gente a posto o in una gabbia di matti.


Angolo dell'Autrice

Grazie a Sassanders, Eilan21, Hailtothematty e bersa1 per le recensioni. Il mohawk è l'acconciatura più comunemente chiamata "cresta", tipica dei punk. 

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Capitolo 4
*** Like You To Me ***


4.
 
Io odio essere al centro dell'attenzione. Mi mette a disagio. Che cosa ci faccio, perciò, seduta in una stanza su un divanetto, sotto gli sguardi curiosi dei miei ospiti? La risposta è abbastanza semplice: non ne ho la più pallida idea. I miei occhi incontrano quelli di Luke. Quel ragazzo ha un che di magnetico e inafferrabile al tempo stesso. Mi accenna un sorriso e io provo l'incontenibile desiderio di strappargli quel labret e farglielo ingoiare. 
«Dunque, forse dovremmo darti delle spiegazioni su chi siamo, così che poi potrai decidere se restare o meno.» esordisce Tom. Sono sgomenta: restare? Secondo loro io vorrei restare? Per carità, mi hanno aiutata e tutto, ma non ho la minima intenzione di rimanere qui. 
«Cosa vi fa pensare che io voglia restare con voi?» domando. Tom sembra ignorarmi e continua a parlare.
«Io e mia moglie creammo questo posto cinque anni fa. È una sorta di rifugio da questa società, che vorrebbe imporci una determinata modalità di vita. Noi abbiamo deciso di opporci a tutto questo, a chi ci vuole costringere a fare quello che non vogliamo.» spiega. Aggrotto la fronte, indecisa se scoppiare a ridere o meno.
«È per questo che vi vestite da punk?» chiedo. Tom strabuzza gli occhi, confuso.
«Insomma, tu, Kyle e Jane avete queste creste enormi.» «Mohawk! La cresta si chiama mohawk!» interviene Kyle. Divento rossa come un peperone e vorrei solo sprofondare.
«Ci vestiamo da punk perché lo siamo.» asserisce Tom, con il tono di chi afferma una banalità. Effettivamente, la cosa in sé era abbastanza ovvia. Mi mordo il labbro, come se volessi dire qualcosa, ma non so nemmeno io cosa. 
«Poi c'è chi, come Luke, Martha e Matt non la vuole fare, per il momento.» continua l'uomo. Rivolgo lo sguardo verso Mitch, seduto accanto a me. In fin dei conti sono brave persone e mi hanno offerto un posto decente dove stare. Non sono, tuttavia, convinta se rimanere o no. Mio fratello mi scruta, pensieroso. C'è troppo silenzio in questa stanza ora.
«Ascoltami, sembri una brava ragazza, ma non credo tu sia messa molto bene. O sbaglio?» domanda Tom. Annuisco timidamente. 
«Perché non resti qui? C'è spazio per tutti, potrai andare al lavoro e lasciare tuo fratello qui e avrai vitto e alloggio.» mi propone, definitivamente. Sospiro, guardandolo negli occhi uno a uno. La tensione è alle stelle, la posso quasi toccare con mano. Ho paura, paura di diventare un peso. Sono terrorizzata dall'idea di essere solamente un problema per gli altri. Non posso accettare la proposta di Tom, non posso gravare sulle spalle di qualcuno. Mi alzo dal divano e faccio per uscire, quando Luke mi blocca, afferrandomi il braccio. Mi guarda, con quegli occhi verdi così rassicuranti e familiari. 
«Mitch, perché non vai a giocare fuori?» dico. Il bambino si alza e corre via dalla stanza in cui siamo. Mi siedo per terra, scoppiando a piangere. Luke mi circonda le spalle con il braccio. Mi sento osservata, tutti mi fissano. Martha si avvicina, guardandomi con tenerezza. 
«Noi saremmo onorati di averti in questa famiglia.» asserisce. Alzo la testa. Famiglia. È da due anni che questa parola non ha più un senso per me. Due anni in cui mi risuona così vuota, così falsa. Famiglia. No, per me non significa assolutamente nulla. Eppure, potrei provare a riscoprirne il valore. Voglio sentirmi parte di qualcosa e forse ora ne ho, finalmente, la possibilità. 
«Io... Va bene, resterò.» cedo, infine. Tom sospira di sollievo, mentre la moglie gli batte una pacca sulla spalla. 
«Solo una cosa, anzi, due.» aggiungo.  Vedo Kyle che si allarma. Tom e Matt si guardano negli occhi, impanicati. Rido interiormente, divertita.
«S-sì?» balbetta Jane. 
«Per prima cosa chiederei una mano per il trasloco. Poi...» 
«Poi?» domandano tutti, all'unisono. 
«Poi, per favore, non costringetemi a farmi un mohawk colorato.» concludo. Scoppiano tutti a ridere e io li seguo. Forse devo semplicemente non avere paura di cercare la mia strada. 
Usciamo dalla stanza e troviamo Mitch accucciato, addossato al muro. 
«Ehy, piccolo, che succede?» gli domanda Luke. 
«Mia sorella vuole andare via, vero?». Lo prendo in braccio e gli schiocco un bacino in fronte. 
«Quindi restiamo?» chiede, speranzoso. Annuisco e lui mi circonda il collo con le sue braccia, gracili e mi bacia una guancia. Vedo Luke sorridere e lo guardo, con aria interrogativa. 
«Ti va di vedere una cosa?» propone.
«Va bene.» rispondo, facendo scendere mio fratello per terra. Luke mi porge la mano. Lo seguo fuori dal "rifugio". 
«Dove mi stai portando?» chiedo. Il ragazzo mi sorride, senza rispondere. Alla fine arriviamo ad uno skate park. Mi sento confusa. Non capisco il senso di tutto questo. 
«Vieni, ti presento Ralph, un mio amico.» dice, portandomi da un ragazzo di colore, abbastanza alto, che stava armeggiando con il suo skateboard. 
«Luke! Ehy!» lo saluta quello, battendo il pugno. 
«Ralph, lei è Angel.» mi presenta. 
«Ehm, piacere.» mormoro. Ralph mi fa battere il pugno. Sembra simpatico.
«Angie, sai usare uno di questi?» mi chiede Luke, indicando uno skateboard. Nego, scuotendo la testa. Il biondo alza gli occhi al cielo e, salito su una tavola, improvvisa delle evoluzioni su una un half-pipe. 
«Questo è un Ollie.» spiega dopo aver fatto un salto facendo sì che lo skate rimanesse attaccato ai piedi. 
«Fratello, metto della musica!» esclama Ralph, avvicinandosi a una cassa che noto solo ora. Collega a essa un iPod e subito le prime note di "Like You To Me" dei Set Your Goals si diffondono. 
«Pensavo ascoltassi punk, non pop punk.» dichiaro, riferita a Luke. 
«E pensavo frequentassi solo gente come quella del rifugio.» continuo. 
«Io sono suo fratello, bella!» ribatte Ralph. Obietto con lo sguardo.
«Siamo fratelli in anima e spirito.» esplica il ragazzo. Luke ci osserva, divertito e ci raggiunge. 
«Io non sono come Kyle e Jane. Me ne fotto della rivoluzione sociale. Per me le rivoluzioni, prima che politiche, partono dalla testa di ognuno. Ralph e io siamo cresciuti insieme, per strada. Quando Tom mi ha trovato avevo sedici anni ed ero un povero orfanello che si divertiva a derubare le persone. Ora sono un povero orfanello che vorrebbe gridare al mondo quanto questa società sta distruggendo l'anima di ogni persona.» spiega il biondo. Lo fisso, ammirata. Lo conosco da poche ore, eppure mi sento capita quando gli parlo. Risalta sullo skateboard e si dirige nuovamente verso l'half-pipe. 
«E ricorda: don't be afraid, to find a way.» aggiunge, ricominciando a fare salti e acrobazie. 


Angolo dell'Autrice

Scusate il ritardo, ma la scuola ha avuto il sopravvento. Mi scuso se il capitolo non è all'altezza dei precedenti.
Grazie a Sassanders e Eilan21 per le recensioni.

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Capitolo 5
*** Unknown Soldier ***


5.
 
Sto dormendo di gusto, quando un rumore mi sveglia. Provo a ignorarlo, ma si fa sempre più insistente. Mi alzo e mi scaravento in corridoio, non trovando, però, nessuno. Faccio per tornare a dormire, quando, di nuovo, sento quel rumore. Capisco che si tratta di una batteria: qualcuno sta suonando. 
Mi reco nuovamente in corridoio e seguo il suono. Ora si sono aggiunte anche delle chitarre. Continuo a camminare e scendo al piano della cucina, giungendo a una porta. Stanno suonando alla grande lì dentro. Provo a bussare, ma, ovviamente, non mi sentono. Apro la porta di scatto, catapultandomi dentro e interrompendo quelle che dovevano essere prove a tutti gli effetti. Kyle è seduto alla batteria e mi guarda, allucinato. Jane mi fissa tenendo la chitarra in mano, mentre a Matt per poco non cade il microfono. Martha molla il basso per terra, non rompendolo per un soffio. 
«Io... Ehm... Non volevo interrompervi.» mormoro, imbarazzata.
«Potete continuare.» asserisco. 
«Noi... Cioè... Se vuoi restare ad ascoltare puoi farlo.» mi propone Kyle, muovendosi per la prima volta da quando sono entrata. 
Mi accomodo per terra e attendo che ricomincino a suonare. Si sistemano e Kyle dà l'attacco. Stanno suonando una cover, ne sono sicura. Riconosco la canzone, mia madre l'ascoltava spesso. Si tratta di "Unknow Soldier" dei The Casualties. Matt ci sa fare con lo scream, devo ammetterlo. Inizio, quasi inconsapevolmente, a fare headbanging. Non l'avrei mai detto, ma sono proprio bravi.
 
«Joe is out of school, didn't fucking ask for much
Couldn't get a job, the marines his last hope
Down at the frontline, with a gun not a toy
Kill many men, not asking what for»
 
Le parole mi rimbalzano nella mente. Ricordo mia madre che mi prendeva in braccio, da piccola, e che parlava dei The Casualties e dell'hardcore punk. Avrò avuto sì e no otto anni e sapevo già cantare "Fuck The USA" dei The Exploited.
 
«Joe's family, the comrades next to him
Die one by one, his luck is running out
Joe wrote back home, his parents unemployed
The rich is fuckin laughing, profits from the war
»
 
Ho la pelle d'oca. Capisco, all'improvviso, che a nessuno dei miei creditori interessa veramente di me. Aspettano solo che io li paghi. Servo solo a questo: a fabbricare soldi. Mi faccio schifo da sola e un conato di vomito mi sale. Mi precipito in bagno e faccio per vomitare, ma riesco a trattenermi. Riesco a percepire il fetore della mia esistenza. Mi sono svenduta al sistema. La mia vita è diventata un inferno, ma sono stata io la creatrice di esso. Sono il Lucifero di me stessa. Come Joe, il protagonista della canzone dei The Casualties, ho preferito combattere la guerra sbagliata. Mi odio per questo. I miei genitori non l'avrebbero mai voluto. Mi sento infinitamente in colpa. Ho tradito la loro memoria.
Qualcuno bussa alla porta, riportandomi alla realtà. 
«Occupato!» esclamo. Non voglio che nessuno mi possa vedere così. A quanto pare, però, in questa casa se ne fregano se i bagni sono occupati. Martha, infatti, entra. Fortunatamente riesco a sistemarmi abbastanza velocemente in modo da non apparire del tutto orribile. 
«Stai bene?» mi domanda.
«Mai stata meglio.» mento, spudoratamente. Odio mentire. Mi sento maledettamente sporca, ingrata. Ma non posso fare altro.
«Lo vedo. Andiamo, che succede? Sei qui da quasi tre giorni, ho capito quando dici le bugie.» dice, facendomi sedere per terra e mettendosi, poi, accanto a me. Sospiro profondamente.
«Non è nulla, davvero. Solo brutti pensieri che ora sono passati. Mi dispiace di aver interrotto le vostre prove.» mi scuso. Mi sento un verme schifoso. Martha non insiste oltre e si alza, aiutandomi a fare lo stesso. 
«Quasi quasi vado a controllare se Mitch si è svegliato.» asserisco. La ragazza annuisce.
«Io vado a provare un po' con gli altri. Ci vediamo per pranzo allora!» si congeda.
Sono sola, in corridoio. Mi reco in camera. Mitch sta ancora ronfando della grossa. Lo prendo in braccio, dolcemente e gli accarezzo il capo. 
«Piccolo, è l'ora di svegliarsi.» sussurro. Mio fratello apre gli occhi e mi sorride. Gli mordo il naso, affettuosamente. 
«Dai, ci vestiamo?»
«Ma a me mi piace stare in pigiama.» afferma.
«"A me piace".» lo correggo, prendendo la camicetta per vestirlo. Lui fa spallucce e si toglie la maglietta del pigiama. Lo aiuto a vestirsi e lo accompagno in bagno. Una volta finito di prepararlo guardo l'ora e reputo non necessaria la colazione, tuttavia lo porto in cucina, dove trovo Rose ai fornelli, intenta a cucinare il pranzo.
«Posso un biscotto?» chiede gentilmente mio fratello.
«È tardi, mangiamo tra meno di un'ora.» risponde la moglie di Tom. Sorrido a Mitch, scompigliandogli i capelli con la mano. 
«Io vado a fare un giro fuori.» annuncio. La donna mi sorride. 
«Sii puntuale per pranzo.» mi raccomanda. Annuisco e, dopo aver salutato, esco dal rifugio. 
Inspiro a pieni polmoni. Non c'è freddo, anzi. Si sta piuttosto bene. Il sole splende alto, incorniciato da un fantastico cielo azzurro. Cammino per la via, provando a guatarmi la brezza primaverile. Tutta questa bellezza, però, stona altamente con ciò che provo. Mi siedo sul marciapiede antistante quella che sembra una casa abbandonata.
«Che cosa dovevo fare? Voi non c'eravate e mi avrebbero portato via Mitch!» esclamo, alzando gli occhi al cielo e lanciando un sasso verso una finestra, senza colpirla. 
«Mi sono svenduta, lo so! Ma dovevo pensare a lui!». Mi sento un po' a disagio pensando che sto parlando ai miei genitori senza sapere se, effettivamente, possano, in qualche modo, sentirmi. 
«E poi, come posso sapere se fidarmi o no di questi tipi da cui sono finita?» domando, più a me stessa, in realtà.
«È vero che mi ricordano un sacco voi. Ascoltano anche le stesse cose.» rifletto. 
Rimango seduta per un bel po', perdendo la cognizione del tempo.  Se solo provassi a fidarmi un po' di più di me stessa forse le cose sarebbero più facili.
«Mitch si trova bene con loro. Abitiamo al rifugio da tre giorni e, effettivamente, ci trattano bene. Poi Tom mi ha detto che mi troverà un lavoro.» continuo. Sospiro: ma dove la trovo gente che mi aiuta così? 
«Fanculo!» impreco. Guardo l'ora. È ora, per me, di tornare a casa. Mi avvio verso il rifugio, quando vedo un padre con il proprio figlio. Il ragazzino avrà avuto quattordici anni ed è vestito con una felpa, un paio di jeans e una maglietta nera, dei Pink Floyd, se non sbaglio. L'uomo, invece, indossa un completo elegante. 
«Te l'ho detto mille volte, devi vestirti in modo decente!» sbraita il padre, tirando una manata al figlio. Il ragazzino sembra spaventato. Corro per intervenire, prima che lo colpisca nuovamente.
«Levati dalle palle ragazzina! Oppure finisci nei guai!» mi minaccia. 
«Lei finisce nei guai se lo colpisce ancora!» ribatto, con un coraggio che non sapevo nemmeno di avere.
«Per favore, vattene. Finisci davvero nei guai.» mormora il ragazzino. Inspiro ed espiro profondamente, indietreggiando. Fisso l'uomo negli occhi mentre mi allontano, stampandomi il suo volto nella mente. È tempo per me di seguire le orme dei miei genitori.
 
«Joey, Joey, Joey Tell me what you see now
Joey, Joey, Joey Please come back home now
»
 
È tempo per me di tornare a casa.
 
 


Angolo dell'Autrice

Grazie a Sassanders e Eilan21 per le recensioni. Spero che il capitolo vi piaccia, finora è il mio preferito.

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Capitolo 6
*** Equals ***


6.
 
Mi sento morire. Angoscia. Tantissima angoscia. Quale sia la causa non lo so. Non conosco cause, motivi, fini. Se l'uomo è causa o fine, io non lo so. Oppure, magari, non è nessuno dei due. Forse è solo un essere senza cause e senza scopo. Un essere inutile. 
Improvvisamente, mi sento cadere in un baratro. È tutto Buio. Nero. 
 
«Tutto a posto?» mi riporta alla realtà Tom, schioccando le dita. Siamo a pranzo e il piatto di pasta cucinato da Rose mi guarda, chiedendo solo di essere mangiato.
«Stavo solo pensando.» rispondo. 
«A cosa?» domanda Matt. Scuoto la testa e alzo le spalle.
«A nulla di importante.» affermo, affondando la forchetta in mezzo agli spaghetti. Arrotolo la pasta intorno ala posata e ne mangio un boccone.
«Oggi sono andata a fare una passeggiata.» inizio a raccontare, dopo aver ingoiato il cibo.
«Ottimo, così inizi a prendere confidenza col quartiere.» si rallegra Tom. 
«Mentre stavo tornando a casa ho visto un signore vestito di tutto punto, elegantissimo, che picchiava suo figlio solo perché indossava una maglietta dei Pink Floyd.» continuo. I miei ospiti mi guardano, non troppo sorpresi. 
«Pensavo che la cosa vi toccasse un po'.» asserisco, un po' delusa. 
«Penso di sapere di chi stai parlando.» interviene Kyle, stringendo i pugni. 
«Si tratta di Roman Lopez, uno dei più potenti industriali della città.» afferma il ragazzo, con tono schifato. 
«E abita qui?» chiedo, stupita.
«Cioè, non mi sembra uno dei quartieri migliori.» chiarisco.
«No, abita verso il centro città, ma il figlio credo sia in una gang locale o qualcosa del genere.» spiega Martha.
«Non è in una gang. L'ho visto ogni tanto con Oliver e Frank, i due figli di Camille.» ribatte Rose. Rimango interdetta, non conoscendo minimamente quelle persone e non capendo, perciò, il discorso. 
«Quei due mocciosi non sono in una gang?» chiede Matt.
«Sono in una band, semmai. Suonano entrambi.» risponde Jane.
«Ti dico che sono due piccoli delinquenti, mi hanno bucato le ruote della bicicletta!» esclama Martha.
«Ma guarda che sono stato io a bucartele.» scoppia a ridere Kyle.
«Cosa? Brutto bastardo!» si arrabbia la ragazza, tirandogli un piatto addosso. Il ragazzo lo schiva e la stoviglia si rompe non appena tocca il muro.
«Calmati, hey!» prova a tranquillizzarla Matt. 
«Quel figlio di puttana mi ha bucato le ruote!» sbraita Martha. 
«Figlio di puttana a chi? Mia madre era una santa donna!» si innervosisce il punk.
«Oh, Gesù, siamo alle solite.» sospira Luke.
«Tua madre era una puttana, sennò non si capirebbe come mai ti ha mollato nella merda.» continua Martha. Provvedo a tappare le orecchie a Mitch, per risparmiargli un'ondata di parolacce e bestemmie, non proprio adatte a un bambino di tre anni.
«Tua madre, invece? Cos'era? Non frequentava i bordelli?» ribatte Kyle.
«Vaffanculo!» lo insulta Martha, tirandogli uno schiaffo.
«La mamma è sempre la mamma.» commenta Tom, sconsolato. Si alza molto tranquillamente e va a prendersi altra pastasciutta. 
«Ne vuoi ancora?» domando a Mitch. Mio fratello scuote la testa. 
«Sei tutto sporco di sugo.» osservo. Prendo il tovagliolo e gli pulisco per bene tutta la faccia.
«Ehm, per quanto ne avranno?» chiedo poi, rivolta a Luke.
«Prevedo il lancio della pentola piena di pasta tra tre, due, uno...».
«Eh, no! Stavolta no!» esclama Rose, alzandosi e togliendo dalle mani di Martha il tegame che la ragazza aveva afferrato per lanciarlo in testa a Kyle.
«Ma Rose...» prova a protestare la giovane, invano.
«Sarete anche degli aspiranti punk, ma ciò non giustifica l'essere incivili e irrispettosi nei confronti dei propri amici e delle persone più care. Inoltre, qui con noi c'è un bambino di tre anni! Vi sembra il modo di comportarvi? Dovreste dare il buon esempio, non fare gli sciocchi!». La donna è alquanto alterata e, sia Kyle che Martha si siedono ai loro posti, mogi. 
«Rose, non abbiamo i piatti.» annuncia il ragazzo.
«Per forza, ve li siete tirati addosso. Vi arrangiate.» replica la moglie di Tom, sedendosi.
Io, Luke, Jane e Matt ci guardiamo negli occhi. Il biondo accenna un sorriso e si passa una mano tra i capelli. 
«Oh, ora sì che si mangia in modo decente!» esclama Rose, con un tono misto tra sollievo e soddisfazione. Martha e Kyle sospirano, alzando lo sguardo. 
«Stavate parlando di questo ragazzo.» riprende il discorso Tom.
«Sì, ecco... Io ho provato a difenderlo.» racconto. Ammetto di essere davvero nervosa. Nessuno dovrebbe essere trattato in quel modo per cosa ascolta o per come si veste. Anzi, nessuno dovrebbe, per qualsiasi ragione, meritare un tale trattamento.
«Suo padre tiene molto all'apparenza.» spiega Luke.
«Una volta mi vide camminare per il centro. Ricordo come fosse ieri il modo sprezzante con cui mi ha riso in faccia. Solo perché ho questi capelli e un septum.» racconta Jane. 
«Ma si può sapere chi si crede di essere?» sbotto io.
«Uno potente. Ma di quelli che possono decidere il destino di centinaia di persone. È un essere abietto, di quelli senza scrupoli.» afferma Tom.
«Un tempo lavoravo per lui, in una delle sue fabbriche. Mi ha licenziato perché mi ero fatto un tatuaggio.» racconta, mostrando un'aquila tatuata sul braccio. 
«Che gente.» riflette Matt, bevendo un sorso d'acqua. Mi sento nervosa, sul punto di scoppiare. Ho una rabbia dentro incommensurabile e moltissimi pensieri che mi arrovellano la mente. Tantissimi ricordi bussano al mio cervello e io posso solo farli entrare. Batto un pugno sul tavolo, furiosa.
«Non è giusto! Assolutamente! Ed è ancora più sbagliato il fatto che nessuno dica nulla!» esclamo.
«Non ti sembra di esagerare? Insomma, ha solo sgridato suo figlio.» replica Luke. Chino il capo. Se solo sapessero! 
«Già, avete ragione.» desisto. Mi sento così debole. Mi sto arrendendo di nuovo, ma non posso fare nient'altro. 
«C'è qualcosa di cui vuoi parlarci?» mi domanda Tom. Scuoto la testa. 
«Angie, mi versi dell'acqua?» chiede Mitch, spezzando la tensione che si è creata. Gli verso il liquido nel bicchiere e gli accarezzo la fronte. 
«Io devo dire una cosa.» esordisce Martha. Tutti ci giriamo verso di lei, stupiti e curiosi.
«Mi hanno licenziata, Tom. Ho preso a pugni il mio capo.» annuncia.
«C-come?» sobbalza l'uomo.
«Ero stufa di sottostare a quello schifo di uomo. Mi schiavizzava!» si sfoga la ragazza, trattenendo le lacrime.
«Martha, ti ha denunciata?» chiede Kyle, preoccupato.
«No, basta che io gli stia alla larga.» risponde la giovane. 
«Scusate.» mormora, alzandosi e correndo via in lacrime, sotto i nostri occhi. E, mentre Matt la rincorre, io riesco solo a pensare a quanto il mondo sia ingiusto. 



Angolo dell'Autrice

Scusate il ritardo, la scuola mi sta uccidendo. Grazie a tutti per le recensioni! Davvero!

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Capitolo 7
*** Never Alone ***


7.
 
Sono le cinque del pomeriggio. Mi preparo per uscire e andare al lavoro. Il mio capo mi ha chiamata e mi ha informata che il posto non l'ho perso, nonostante ciò che è successo. Come se fosse stata colpa mia e non di quel pazzo che mi ha assalita, ovvio. Devo ammettere che, da quando sono al rifugio, mi sto rendendo conto di diverse cose.
Innanzitutto, sto finalmente imparando ad accettare il fatto che potrebbero essere anche gli altri la causa del mio malessere. È un'ipotesi nuova per me. Finora mi sono sempre addossata colpe per ogni, singola cosa. Iniziare a pensarla diversamente è una novità.
In secondo luogo, sto aprendo gli occhi su quanta gente subisca ingiustizie senza muovere un dito, me compresa. Non ha senso vivere da duri quando si è con gli amici e non ribellarsi a ciò che non è giusto. È da vigliacchi, da accomodanti, da ignavi. E Dante gli ignavi li ha inseriti all'Inferno.
«Dove vai?» mi chiede Jane, curiosa.
«A lavorare.» rispondo, un po' mesta a dire il vero.
«Noto il tuo entusiasmo.» osserva sarcasticamente la punk.
«Già.» mormoro. Mi sento proprio a terra al solo pensiero di dover andare a lavorare in quel lurido pub, in mezzo a quella gente sbronza e puzzolente. 
«Se ti succede qualcosa chiamaci pure.» mi rassicura la ragazza. Io annuisco, poco convinta. 
«Ah, non preoccuparti per Mitch, ci pensiamo noi.» afferma. Faccio un sospiro di sollievo: almeno non sarò costretta a portarlo in quello schifo di locale. 
Saluto Jane e mi avvio verso il pub. Entro e subito Karen, l'altra cameriera, mi squadra dall'alto al basso. 
«Ma dov'eri finita?» chiede con aria smorfiosa. Chiudo gli occhi, inspiro ed espiro. Non posso permettermi di risponderle male.
«Pensavo sapessi che sono stata aggredita qui al locale.» dico, fredda.
«Sì, tre sere fa, lo so.» si secca.
«Però potevi tornare a lavorare prima di oggi. Anche se non capisco come non ti abbiano licenziata, hai fatto un tale casino.». 
Mi trattengo, a fatica, dallo sbatterle la testa al muro e continuo a lavorare. L'orario di apertura si avvicina e io non sono pronta ad affrontare nuovamente tutto questo. 
«Sbrigarsi, su! Tra qualche minuto apriamo e i tavoli non sono ancora sistemati!» si innervosisce il nostro capo. È un uomo magrolino, viscido e puzzolente. Lo odio, ma almeno non mi ha licenziata dopo il casino dell'altra sera. Faccio appena in tempo ad apparecchiare l'ultimo tavolo, che subito apriamo. Il pub si riempie immediatamente di gente. L'orario di apertura mi piace anche abbastanza, almeno ci sono famiglie con bambini e non solo luridi ubriaconi. Purtroppo il tempo passa in fretta e la situazione cambia. 
Cammino per il locale tra ordinazioni e servizi e mi sento sporca e in gabbia. Vorrei solo urlare, ma non posso. Corro in cucina e esco dal retro, rifugiandomi in strada. Mi accuccio al muro, inspirando ed espirando profondamente. Mi sento alienata, totalmente fuori posto. 
«Tutto a posto?» chiede una voce. Mi volto di scatto. Phil, l'altro cameriere, mi scruta, preoccupato.
«Sì, sì, tranquillo.» rispondo frettolosamente, troppo impegnata a incamerare ossigeno.
«Sei pallida. Vuoi dello zucchero?» mi propone. Lo guardo, diffidente: non mi ha mai proposto nulla e non mi sento per niente a mio agio.
«Ti porto dell'acqua e zucchero se ti va.» continua. 
«Io...» tentenno. Phil si reca in cucina e torna fuori dopo qualche minuto, portando un grosso bicchiere pieno di acqua torbida. 
«Ehm... Guarda, fa lo stesso.» provo a rifiutare. 
«Solo un sorso.» insiste il ragazzo, sorridendomi. Lo ricambio, nervosa, e ne bevo un sorsetto, sputandolo subito dopo. 
«Che roba era?» mi infurio.
«Acqua e zucchero.» risponde il mio collega.
«Non dire stronzate! Che volevi fare? Drogarmi?» urlo, in lacrime, spingendolo verso il muro.
«Sei un maiale!» affermo, lapidaria. 
«Sei così bella.» mormora, toccandomi il braccio. Rabbrividisco e faccio per allontanarmi, ma lui mi afferra per il braccio. 
«Lasciami andare!» esclamo.
«Non potrei mai.» ribatte, avvicinandomi sempre di più. 
«T-ti p-prego, l-lasciami.» balbetto, spaventata. Ora ho davvero paura. Inizia a toccarmi e io, nonostante provi a ribellarmi, sono nelle sue mani. Ricaccio indietro le lacrime, totalmente inerme. 
«Stai tranquilla, non farà male.» prova, assurdamente, a rassicurarmi. Come se fossi consenziente! 
«Shhh.» sussurra. 
«Lasciala stare!» esclama qualcuno nel buio. Colto di sorpresa, Phil allenta la presa e io ne approfitto per allontanarmi. Il misterioso soccorritore si avvicina e afferra il mio collega per il colletto della maglia. 
«Non osare toccarla mai più!» abbaia, sbattendolo al muro. Riconosco Luke in quel ragazzo che mi sta salvando e che sta ricoprendo Phil di pugni. 
«Luke, fermati!» mormoro, prima che uccida il mio aggressore.
«Ti prego.» lo scongiuro. Il biondo sputa per terra e mi conduce in cucina. 
«Dove cazzo eri finita? E chi è questo? Devi lavorare, non andare a zonzo!» mi rimprovera il mio capo, indicando Luke. 
«Quando aggiungerò anche un bordello a questo locale potrai andare con tutti gli uomini che vorrai!» aggiunge. 
«Ho appena salvato la sua dipendente da un ragazzo che la stava aggredendo. Lavora per lei ed è steso sul retro, dormirà per le prossime ore.» asserisce il mio amico. 
«Cosa, scusa?» sobbalza l'uomo. 
«Devi smetterla di ficcarti nei guai e di creare questi casini!» si imbestialisce. Chissà perché la cosa non mi sorprende. 
«Sa, lei ha ragione. Per questo Angie si licenzia.» dichiara Luke. Lo guardo storto. 
«Luke!» bisbiglio, piuttosto contrariata. 
«Tu non ci resti più qui! Andiamocene!» esclama, sciogliendomi il grembiule, lanciandolo per terra e trascinandomi via. Mi fa correre per non so quanto, finché non mi stufo e mi fermo. 
«Che c'è?» si volta il ragazzo, seccato. 
«Che c'è? Che c'è? Ho appena perso il lavoro!» mi arrabbio. 
«Ti ho salvata da quel maniaco!» si infuria Luke, a ragione. Chino il capo, piena di vergogna. Mi siedo per terra, sul marciapiede, con la testa fra le mani. Scoppio a piangere. Le lacrime mi bagnano le guance, copiose. Vorrei solo sparire. 
«Angie, tranquilla.» mi rassicura Luke, stringendomi a sé. Appoggio il capo al suo petto e provo a calmarmi. 
«Angie, va tutto bene. Nessuno ti farà più del male, mai più.» mi tranquillizza.
«Non funziona così. Dipende da me.» osservo, mesta. Luke non dice nulla e mi fa rialzare. Iniziamo a camminare verso casa. Finalmente arriviamo al rifugio. Mi reco in camera. Mitch sta già dormendo della grossa. Esco per andare in bagno, quando Martha corre verso di me e mi abbraccia. 
«Come stai, tesoro?» domanda Rose, preoccupata. Capisco che Luke deve aver raccontato l'accaduto a tutti. Provo vergogna e mi ritraggo. Mi sento così sporca. Tutti quanti mi fissano. Rose si avvicina a me e mi abbraccia, con fare materno. Non posso piangere di nuovo. Mi sforzo di resistere, ma cedo alle lacrime. 
«Andrà tutto bene. Non sei sola, ci siamo noi con te.» mi rassicura la donna. Mi accompagna in camera e aspetta che mi stenda sotto le coperte. 
«Noi avremmo preparato un camomilla.» annunciano Matt e Kyle, entrando in camera con una tazza fumante. Scorgo Tom e Jane sulla soglia che parlottano tra loro. Mi appresto a bere la camomilla e mi stendo per bene, chiudendo gli occhi e scivolando tra le braccia di Morfeo. Nella mia mente risuonano le parole di Rose:«Andrà tutto bene. Non sei sola, ci siamo noi con te.»

Angolo dell'Autrice
 
Scusate il ritardo, ma la scuola e la mancanza di un computer (scrivo dal cellulare) si fanno sentire. 
Spero che il capitolo vi piaccia, spero di riuscire a far decollare la storia dal prossimo capitolo. 
Un grazie sincero a Eilan21 e a Sassanders per le recensioni e a quanti leggono la storia! Alla prossima!

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Capitolo 8
*** Killing In The Name ***


8.
 
«Angie, Angie! Sveglia!» urla Mitch con la sua vocina. Bofonchio qualcosa e, girandomi dall'altra parte, riprovo a riaddormentarmi. 
«Angie, dai!» si lamenta mio fratello. Non capisco cosa voglia. Provo a ignorarlo per un po', ma non lo sopporto più e mi alzo di scatto.
«Che c'è?» gli chiedo, seccata. Lui si accuccia, facendosi piccolo piccolo. 
«Tesoro, scusa, non volevo spaventarti.» mi scuso, prendendolo in braccio. 
«Angie, Luke ha fatto i pancakes.» annuncia il bimbo, tutto felice. Proprio in quel momento il biondo entra in camera mia, con un piatto colmo di cibo e con un bicchiere di succo d'arancia. 
«Non dovevi.» lo rimprovero.
«Non ti preoccupare.» mi rassicura, poggiando il tutto sul comodino. Gli sorrido e incomincio a mangiare. 
«Ieri... Come hai fatto a intervenire in tempo?» domando, improvvisamente, mentre mangio. 
«Vorrei poterti dire che non ti ho ho seguita e che passavo di lì per caso, ma non è andata così.» ammette lui.
«Guarda che non sono arrabbiata.» lo tranquillizzo.  
«Bene, meno male.» afferma lui, riordinando il piatto e il bicchiere. 
«Se ti va possiamo fare una passeggiata. Gli altri sono al lavoro, mentre Martha ne è andata a cercare uno.» dichiara.
«Si può fare, sì.» rispondo. Mi vesto e aiuto Mitch a fare lo stesso. Luke è pronto con le chiavi di casa. Usciamo e ci aggiriamo per il quartiere. Ogni volta che passeggio qui intorno mi sembra sempre più pieno di poveracci. Ci sediamo sul marciapiede. Mitch scarabocchia sulla strada con un gessetto, mentre io e Luke iniziamo a conversare.
«Qui vicino c'è della gente che ha a malapena un tetto sulla testa.» esordisce.
«È incredibile di come non freghi un cazzo a nessuno.» osserva, amaramente.
«Voi non potete aiutarli?» chiedo.
«Angie, Tom si fa in quattro per questo quartiere. Lui e Rose cercano sempre di dare qualche soldo ai più poveri. L'anno scorso hanno fatto sì che una ragazza, rimasta incinta, non fosse costretta ad abortire solo perché non aveva soldi. Il fidanzato l'aveva mollata subito dopo l'annuncio della dolce attesa. Rose e Tom l'hanno portata al rifugio e l'hanno assistita per tutti e nove i mesi.» mi racconta il biondo.
«Purtroppo, una volta nato il bambino, le nostre strade si sono separate. Lei è riuscita a contattare dei parenti che vivono a New York e si è trasferita. Come biasimarla? Questa città cade a pezzi ormai.». Sospiro, concordando mutamente. 
«Perché non trasformate il rifugio in un punto di riferimento per il quartiere? Magari i bambini e i ragazzi possono venire a fare i compiti.» suggerisco.
«E i soldi dove li troviamo?» sbotta Luke.
«Già.» mormoro. Improvvisamente, veniamo entrambi attirati da quelle che sembrano urla. 
«Resta qui con Mitch, vado a vedere cos'è stato.» 
«Voglio venire anche io!» esclamo. Mitch ci guarda con aria curiosa. Lo prendo in braccio e corro, seguendo il ragazzo. Svoltiamo l'angolo e ci ritroviamo in un vicolo. La scena che ci si presenta davanti è agghiacciante: due ragazzini di colore stanno fronteggiando due agenti di polizia. 
«Ma cosa state facendo? Sono solo dei bambini!» esclama Luke, frapponendosi tra i piccoli e i poliziotti.
«Levati dalle palle!» esclama l'agente più alto. 
«Cosa avrebbero fatto questi due bambini?» chiede il ragazzo.
«Ci hanno rubato il portafoglio.» risponde il poliziotto più basso. 
«Non è vero!» si difende uno dei due bimbi.
«Noi stavamo semplicemente andando sullo skateboard, quando ci siamo scontrati con loro. Hanno iniziato a inseguirci così, senza motivo!» si infuria il ragazzino, che avrà sì e no dodici anni. 
«Cosa vuoi insinuare, moccioso? Che ti siamo venuti dietro solo perché sei una pulce di colore?» 
«Questo lo sta dicendo lei, agente.» asserisce Luke, con tono stranamente calmo. Il poliziotto più alto estrae la pistola dalla tasca e la punta contro il ragazzo. 
«Siamo disarmati e loro sono solo dei bambini!» esclama il biondo. Vengo attirata da quello che sembra un portafoglio. Lo prendo da terra e lo apro, per guardare i documenti.
«Le è caduto questo, agente!» dichiaro. L'uomo si volta e afferra il taccuino, imbarazzatissimo. 
«Direi che ci scusiamo per l'accaduto. Arrivederci.» tenta di svignarsela.
«Non ve la caverete così! Sporgerò una regolare denuncia!» annuncia Luke. 
«Senti ragazzo, se taci ti paghiamo.» propone l'altro agente. 
«Sì, possiamo pagarvi tutti profumatamente.» prova a convincerlo anche il collega.
«Fate sul serio? Non mi piegherò mai ai vostri sporchi trucchi!» esclamo io. 
«Andiamo!» faccio poi, prendendo Mitch per mano e Luke dal braccio e incamminandomi verso casa.
«Siete stati mitici!» ci fa i complimenti uno dei due ragazzini. Entrambi ci hanno raggiunti di corsa. 
«Sentite, siamo stati felici di aiutarvi, ma ora è meglio che ve ne andiate a casa vostra.» afferma Luke.
«Ma nostra mamma non è in casa.» affermano. Mi volto dolcemente verso di loro.
«Come vi chiamate?» domando.
«Hai presente Oliver e Frank, i due bambini di cui parlavamo ieri a pranzo? Eccoli qui!» risponde Luke al posto loro.
«Oliver ha tredici anni ed è il più grande, mentre Frank ne ha dodici.» conclude. 
«Io sono Angel.» mi presento.
«E lui è Mitch.» aggiungo, indicando mio fratello. 
«Allora, tornate a casa o devo chiamare vostra madre?» li minaccia il biondo.
«Mamma è al lavoro ora, non possiamo tornare a casa.» risponde Oliver. Io e Luke ci guardiamo, sconcertati.
«Potrebbero venire da noi.» propongo candidamente.
«D-d-da noi?» balbetta Luke.
«Sì, da noi.» ribadisco io. 
«Così non stanno in mezzo alla strada, non rischiano di cacciarsi nei guai e noi avremo della compagnia.» concludo. Luke rimane a bocca aperta. Prova a dire qualcosa, ma non riesce a pronunciare altro che qualche verso sconnesso.
«Vi va di stare da noi? Quando vostra mamma avrà finito di lavorare vi riaccompagneremo a casa.» spiego. I due fratelli si lanciano un'occhiata d'intesa.
«Per noi va bene.» asserisce Oliver.
«Bene, allora andiamo.» esorto. Luke scuote la testa, sconsolato.
«Andiamo, non fare così! Li avresti lasciati in mezzo alla strada?» chiedo, accostandomi a lui.
«Oh, andiamo! Loro vivono in mezzo alla strada!» ribatte.
«Beh, non dovrebbero. Nessuno, e tantomeno due bambini, dovrebbe essere costretto a stare fuori fuori casa tutto il giorno. È pericoloso.» affermo.
«Giocano, si divertono. Cosa dovrebbero fare? Stage tutto il tempo chiusi in casa a studiare?» replica il biondo.
«Non ho detto quello. E so anche che pure tu sei cresciuto in mezzo alla strada. Però non è stato il massimo e lo dico perché anche io, prima di incontrare voi, ho vissuto in questo modo di merda.» dichiaro.
«Non voglio rogne. E quei due là ne portano parecchie. Ricordi quando ti abbiamo parlato di Lopez? Il figlio più piccolo, che hai conosciuto, se la fa con quei due! Quindi figurati chi hanno contro! Quel figlio di puttana li odia. Non mi stupirei se quei due poliziotti avessero ricevuto l'ordine di portarli via, in modo da allontanare i figli di Lopez da questo quartiere.» ipotizza Luke. 
«I figli? Pensavo ne avesse solo uno che venisse qui.» mi stupisco.
«Ha un'altra figlia, Ann. Ha diciassette anni e ha denunciato più volte il trattamento che l'autorità e gli industriali serbano verso chi vive qui.» risponde il ragazzo. 
«Deve essere una ragazza in gamba.» osservo.
«Ostinata. Diciamo che ogni tanto rischia di finire davvero nei guai. Suo padre le rinfaccia sempre il fatto che sarebbe già in galera da un pezzo se non fosse per lui.».
«E lei?» domando.
«Lei dice che se non ci fosse lui non ci sarebbero così tanti poveri.» dice, scoppiando a ridere. 
«Il ragionamento non fa una grinza.» noto. 
Finalmente arriviamo a casa. Entro nel rifugio, chiudendomi la porta alle spalle e chiedendomi se mai potrò vedere la fine di tutta questa violenza nella mia vita o se, per caso, la vita stessa non sia violenza.


Angolo dell'Autrice
 
Ehilà! Capitolo lunghetto, ma spero vi piaccia. 
Grazie a LaylaSassanders e Eilan21 per le recensioni e a quanti seguono la storia. 

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Capitolo 9
*** Give It All ***


 
9.
 
«Grazie mille per aver tenuto i miei bambini. Ve ne sono grata.» ringrazia Camille, una donna di colore esile, vestita con abita vecchi e sgualciti. Eppure appare fiera e pienamente dignitosa.
«Figurati Camille. Oliver e Frank sono i benvenuti qui.» afferma Tom.
«Almeno non stanno per strada tutto il tempo.» sospira la donna.
«Beh, andiamo. Su ragazzi, venite.» esorta Camille. Frank e Oliver le vanno incontro e i tre si avviano verso casa loro.
«Aspettate! Vi accompagno!» esclamo, senza pensarci due volte.
«Angie, sei sicura? Insomma, ieri sei stata aggredita e...»
«Luke, so badare a me stessa.» provo  a tranquillizzarlo.
«Già, ho visto.» fa lui, ferendomi un po' nell'orgoglio. Effettivamente, però, ha ragione: se non fosse per lui a quest'ora chissà che fine avrei fatto.
«Magari puoi venire anche tu.» gli propongo. Il biondo sospira e mi segue. Raggiungiamo Camille e i suoi figli e ci avviamo con loro lungo la via.
«Tu e Luke state insieme?» chiede Frank, candido.
«C-c-come?» balbetto.
«No Frank.» afferma Luke, stranamente freddo. Non ha battuto ciglio alla domanda del bambino.
«Te la porti a letto?»
«Oliver!» lo rimprovera Camille.
«Tutte queste cose le imparano dalla tv che guardando a casa di quel loro amico, Richard.» chiarisce la donna.
«Sì, ma Rick non ne può parlare, o suo papà lo picchia.» spiega Frank. Dei due, pur essendo il più piccolo, sembra il più vivace. Sorrido. In fin dei conti sono alle scuole medie, è normale che a quest'età si inizino a toccare certi argomenti. 
«Chi è Richard?» chiedo.
«Richard Lopez, il figlio del proprietario della High Steel Society. È ricco, ma simpatico. Non come suo padre, quello è un porco.» risponde Oliver.
«Ahia!» esclama poi, colpito da uno scapaccione di Camille. 
«Niente brutte parole in mio presenza.» lo rimprovera la donna. 
«Quindi voi sapete dove abita.» osservo.
«Beh, ovvio.» risponde Frank. Assumo un'aria pensierosa, che Luke nota immediatamente. 
«Che hai?» domanda.
«Nulla, nulla. Solo... Sto pensando.» rispondo, piuttosto evasiva.
«Bene, siamo arrivati. Grazie per averci accompagnati.» afferma Camille, entrando in casa.
«Figurati. Ci vediamo in giro!» replica Luke. La porta si chiude e rimaniamo solamente io e lui. 
«Allora, sputa il rospo.» esordisce. 
«Cosa?» esclamo, stupita.
«Oh, andiamo! Che cosa ti frulla nel cervello?» insiste il ragazzo.
«Niente.» rispondo, evasiva.
«Certo, come no. E io sono Babbo Natale!» fa lui, ironico.
«Gne, gne, gne.» gli faccio il verso. Luke mi guarda storto.
«Va bene, non ti costringo a rispondere. Torniamo a casa?» propone. Scuoto la testa e lo seguo fino al rifugio. Ci sediamo davanti alla porta. 
«Luke, posso farti una domanda?» chiedo.
«Certo, tutto quello che vuoi.» risponde.
«Perché non avete mai provato a fare qualcosa contro la povertà di questo quartiere? Voglio dire, qui la gente vive proprio in miseria.». 
Sento il suo sguardo su di me. Mi volto e i suoi occhi mi scrutano. 
«Angel, noi non siamo dei supereroi. È già tanto se riusciamo a permetterci di vivere qui. Tom fa mille sacrifici per noi e...»
«E tu non fai nient'altro che ronfare tutto il santo giorno!» esclamo, irritata.
«Ehy, ma che ti prende?» mi chiede il ragazzo, confuso.
«Che mi prende? Luke, ma guardati! Hai mai lavorato nella tua vita? Hai mai provato a renderti indipendente? A costruirti una famiglia? Guardati! Io ho cresciuto mio fratello, ho cercato di dargli il meglio!» gli urlo addosso.
«Dargli il meglio? E per te portarlo con te al lavoro in quel locale di merda era dargli il meglio?» replica lui. Forse ho esagerato con i toni. Forse non sono stata così brava con mio fratello. Forse Mitch non merita uno schifo di sorella come me. Mi chino in avanti, appoggiando la testa alle ginocchia. Cerco di soffocare le lacrime, ma non ce la faccio. Mi ritrovo a piangere, di nuovo. 
«Angie, scusami. Ti prego.» prova a scusarsi Luke. Ma scusarsi di cosa, poi? Di aver detto la verità? Alzo la testa. Il cielo è limpidissimo e si vedono le stelle. C'è un po' di vento che mi scompiglia i capelli. Mi asciugo gli occhi con il braccio. 
«Quella sera non è stato Matt a salvarti.» esordisce Luke. Mi volto, sorpresa.
«Sono stato io. Solo che non volevo lo sapessi.». Lo guardo, stranita, senza capire cosa stia provando a dirmi.
«Luke io... Io non capisco.» mormoro, confusa.
«Non importa. Non è nulla di importante.» afferma, accarezzandomi i capelli. Ci guardiamo negli occhi, in silenzio. Improvvisamente, mi sembra così familiare, come se lo conoscessi da una vita. 
«Beh, io vado a dormire. Buonanotte.» si congeda, schioccandomi un bacio sulla guancia. 
«Buonanotte.» replico, restando seduta davanti alla porta e guardandolo entrare nel rifugio. Sospiro. Devo smetterla di piangere. Ormai il passato è passato, andato, finito. Non si può cambiare e né, tantomeno, riviverlo. Posso solo provare a vivere il presente nel migliore dei modi. In fin dei conti, ora come ora, non ho nulla di cui lamentarmi. Ho mio fratello, un tetto sopra la testa e degli amici. Mentre rifletto, sento un rumore improvviso, una sorta di fruscio. 
«Chi... Chi è là?» domando, senza ricevere alcuna risposta. 
«Ripeto: chi è là?» richiedo, inutilmente. Inizio seriamente ad avere paura e faccio per recarmi alla porta, quando un ragazzino sui quattordici anni e con una maglietta degli Agnostic Front mi si para davanti, facendomi urlare.
«No, no, ti prego, non urlare!» cerca di zittirmi.
«Ma tu... tu sei...»
«Sì, sono Richard Lopez. Ti prego, non urlare, ti scongiuro.». Inspiro profondamente, totalmente sconvolta.
«Okay, cosa diamine ci fai qua? Se tuo padre ti scopre io e la gente che vive qui saremo nella merda fino al collo.» gli spiego, senza mezze misure. 
«Se suo padre lo scopre se la vede con me.». Mi volto: una ragazza dai lunghi capelli neri mi fissa, imperterrita. Deve essere più piccola di me di qualche anno. 
«E tu saresti?» chiedo.
«Ann Lopez, sorella di questo moccioso.» risponde, accennando un mezzo sorriso. Sembra una tipa tosta.
«Non sono un moccioso!» replica Richard.
«Beh, piacere. Però continua a sfuggirmi il motivo per cui siete qua.»
«In realtà io stavo solo cercando mio fratello.» risponde Ann.
«Cercando? Aspetta, che vuol dire?» domando.
«Sono scappato di casa. Ho litigato di nuovo con papà e ti ho vista insieme con un altro ragazzo. Ho visto che vi siete fermati qui e così pensavo che magari avreste potuto ospitarmi.» spiega il ragazzino.
«Oh, Gesù. Ospitarti? Richard, mi dispiace se hai litigato con tuo papà, ma quello ci fa a fette se ti ospitiamo qui.» dichiaro.
«Aspettate, mi sono persa qualcosa? Tu come diamine conosci mio fratello?» si altera Ann.
«Ehy, calma. Una mattina sono intervenuta mentre vostro padre lo stava schiaffeggiando a causa del suo abbigliamento. Tutto qui.» rispondo. La ragazza si volta verso il fratello, con uno sguardo tenerissimo. Ha due occhi neri, due pozzi scuri che celano un mondo intero dietro di essi.
«Richard, perché non me l'hai detto? Che ti ha fatto oggi? Perché sei scappato?»  chiede, preoccupata.
«mi ha bruciato tutti i cd e le magliette.» risponde il ragazzino. Mi mordo il labbro, pienamente consapevole del fatto che sono in più.
«Se volete, posso chiedere per due posti letto.» propongo.
«Grazie mille, ma non credo sia il caso, ce ne torniamo a casa. Piuttosto, ci vivete in due qua, sembra una struttura enorme!» esclama.
«No, siamo una decina. Questo è il nostro "rifugio”.» rispondo. 
«Figo! Senti, io lavoro con un'associazione, denunciamo povertà, situazioni di abusi eccetera. Se ti interessa o se magari volete aiutarci, questo è il mio numero.» afferma, porgendomi un bigliettino. 
«Ehm, grazie.» ringrazio, afferrandolo.
«Ci si vede.» mi saluta, andandosene. 
«Ci si vede.» mormoro, giocherellando con il biglietto. Poso lo sguardo sul fogliettino, guardando il numero. E se avessi trovato un modo per rendere il rifugio un punto centrale per il quartiere? 


Angolo dell'Autrice
 
Scusate il ritardo, ma ho dovuto studiare per la maturità e ora sono libera! 
Allora, capitolo in cui succedono un po' di cose e vengono introdotti nuovi personaggi. Ann è un tipo tosto, vedrete. 
Grazie a chiunque ha recensito, letto e a chiunque seguirà ancora questa storia. 

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Capitolo 10
*** In It For Life ***


10.
 
Cammino nervosamente su e giù per la via, tenendo il biglietto con il numero che mi ha dato Ann in una mano e il telefono nell'altra. Sono indecisa: chiamare o non chiamare?
Sospiro e compongo il numero, per poi cancellarlo.
“Se solo potessi parlarne con qualcuno.” penso tra me e me. Ricompongo il numero e premo il tasto verde del telefono. Fisso l'apparecchio col cuore in gola. Il cuore mi martella nel petto. 
“Andiamo Angie, non fare la smidollata.” mi incita una vocina all'interno della mia testa. 
“E se Tom si dovesse arrabbiare?” mi terrorizzo. 
“Non mi importa!” concludo.
«"People Care". Pronto?». 
«Ehm... Salve. Mi chiamo Angel. Cioè... Ho ricevuto il numero da Ann Lopez.».
«Possiamo aiutarti in qualche modo?» chiede la voce femminile dall'altra parte del telefono, con tono gentile. Mi stupisco di ciò, io mi sarei mandata a fanculo.
«Beh, ecco... Vivo intorno a Pendleton Street e mi chiedevo se... Insomma, vorrei fare qualcosa di utile.» asserisco. 
«Vuoi collaborare con noi?» domanda la voce.
«Sì.» affermo. 
«Beh, una mano in più va sempre bene. Vieni pure quando vuoi alla nostra sede, a Cross Street. È abbastanza vicino a Pendleton Street.» mi spiega la centralinista.
«Grazie mille, verrò appena potrò. Va bene per il pomeriggio?» chiedo.
«Va benissimo, così ci sarà anche Gus, il presidente dell'associazione.» dichiara la ragazza, entusiasta. 
«Bene, allora... A dopo! Grazie mille.».
«Grazie a te!» esclama la centralinista, concludendo la chiamata. Sospiro. Mi volto e sobbalzo: Luke mi fissa, con aria curiosa.
«Che stai facendo?» mi chiede.
«Io... Ehm...» balbetto.
«Angie, non ti uccide nessuno, calma.» prova a tranquillizzarmi. Mi avvolge le spalle con un braccio e mi guarda, rivolgendomi un sorriso. 
«Ho deciso di collaborare con un'associazione. Si chiama "People Care". Così, tanto per sentirmi utile.» spiego.
«Beh, non c'è nulla di male in questo. Ti pagano o è volontariato?» mi chiede il biondo.
«Non lo so, vado alla sede oggi pomeriggio. Spero che a Tom vada bene e che non abbia nulla in contrario.».
«Nah, non credo.» mi rassicura il ragazzo. Mi ritrovo a fissare quei suoi bellissimi occhi azzurri. 
«Angie.» mi chiama, ma non lo sento.
«Angie!» esclama, riportandomi alla realtà. 
«Ehm, scusa, mi ero incantata un attimo.» ammetto.
«Ho notato. Tutto a posto?» si preoccupa.
«Sì, sì.» rispondo, entrando in casa. Ma che mi prende? 
«Buongiorno ragazzi!» saluta Martha, entrando in casa.
«Dove sei stata?» le chiede Luke.
«La signora Wilkinson aveva bisogno di una cameriera al bar e sono andata a vedere se mi potesse assumere.» spiega la ragazza.
«E ti ha assunta?» domando, speranzosa.
«Mi farà sapere.» risponde Martha. Mi mordo il labbro, indecisa se parlare o no. Mi decido.
«Dopo pranzo vado a vedere se posso collaborare per un'associazione, la "People Care". Magari potresti venire anche tu.» le propongo. 
«"People Care"? Ma non è l'associazione di Gus Connor?» sobbalza la ragazza. Faccio una faccia stranita, non capendo.
«Gus Connor era molto amico di Tom.» esordisce Luke.
«Hanno litigato?» chiedo, un po' preoccupata.
«No, no. So solo che si sono un po' persi di vista. Fino a qualche tempo fa veniva spesso a trovarci. Probabilmente dover gestire un'associazione gli ha tolto tempo.» spiega Martha. 
«Comunque ci sto! Sai già l'indirizzo?»
«Sì, è a Cross Street. La strada è facile.».
 
«Ci siamo perse, vero?» asserisce Martha. 
«Oh, ehm... Ecco...» balbetto. 
«Cross Street non è di qua?» chiedo poi, scocciata.
«Ti sembrerà strano, ma non ci sono mai stata.» mi risponde Martha, con una punta di imbarazzo. Sospiro e alzo lo sguardo al cielo. Scoppio a ridere, improvvisamente. 
«Che succede?» domanda la mia amica, non capendo. Per tutta risposta, le indico di guardare l'edificio di fronte a lei. L'insegna "People Care" ci fa sobbalzare.
«Direi che siamo arrivate.» osserva la ragazza, ironica. 
«A quanto pare.» ribatto, scoppiando di nuovo a ridere. 
Decidiamo di entrare e rimaniamo abbastanza di sasso: si tratta di una sorta di centro, pieno di persone dall'età variabile dagli zero ai novantanove anni. 
«Angel!» esclama una voce. Mi volto: Ann Lopez mi fissa, quasi incredula, con un pennello e dei colori a tempera in mano e con la faccia sporca di colla vinavil e colore. 
«Non pensavo saresti venuta davvero.» ammette.
«Lei è una tua amica?» chiede, indicando Martha.
«Martha Cromwell, sono una sua coinquilina. Piacere.» si presenta la ragazza, porgendole la mano. Ann risponde con una stretta poderosa, scusandosi successivamente per le sue condizioni.
«Ero con dei bambini. Facciamo fare loro dei lavoretti e beh, non sono gli unici a sporcarsi.» spiega. 
«Avete già incontrato Gus?» domanda. Noi scuotiamo il capo.  
«Vi accompagno io.» si propone, accompagnandoci verso un ufficio e bussando delicatamente alla porta. 
«Chi è?» domanda una voce maschile.
«Sono la Lopez!» esclama la ragazza. 
«Entra pure.» risponde quello che penso essere Gus. 
Seguiamo Ann dentro l'ufficio e ci troviamo davanti a un uomo calvo, dall'aria simpatica.
«Ciao Gus! Loro sono Angel e Martha. Vorrebbero aiutarci.» spiega la Lopez.
«Volete fare le volontarie per l'associazione?» chiede Gus.
«Beh... Sì.» rispondo io.
Gus ci scruta, attento. Sembra pensieroso.
«Perché dovrei prendere proprio voi?». Quella domanda ci spiazza. Io e Martha ci guardiamo, sorprese. La mia coinquilina abbassa lo sguardo, mordendomi il labbro.
«Prendo solo chi ha grosse motivazioni. Il nostro compito non è semplice.» spiega l'uomo. 
«Ho passato gli ultimi anni con un fratello a carico, lavorando in uno squallido locale in cui non facevano nient'altro che toccarmi. Un uomo mi ha aggredita e nessuno ha mosso un dito, se non un amico di Martha. Sono poi tornata al lavoro e hanno provato a drogarmi e violentarmi. Direi che le motivazioni le ho.» dico, tutto d'un fiato, facendo calare un silenzio imbarazzante.
«La tua amica? Ha qualche motivazione?» domanda Gus, con voce tremante.
«Io... Sono stata licenziata perché ho osato reagire a un maltrattamento sul luogo di lavoro.» mormora Martha. 
«E vorrei tanto far capire alla gente che, solo perché si è dipendenti, non vuol dire che non si è persone.» conclude, a denti stretti. Sembra quasi si stia trattenendo dal dire altro.
Gus ci scruta, da cima a fondo. Poi ci porge dei moduli da compilare. 
«Va bene ragazze. Io sono Gus Connor e mi scuso per il benvenuto poco cordiale, ma voglio sempre visionare le motivazioni che spingono una persona a venire qui. Non basta essere intenzionati a voler fare del bene, occorre mettersi in gioco e agire. Come si dice? "La strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni.".» spiega. Questi moduli vanno compilati e restituiti entro il primo giorno di servizio, quindi entro domani, direi.» continua. 
«Ora scusatemi, ma devo fare una telefonata importante. Domani venite qui verso le undici. Vi spiegheremo in dettaglio cosa dovrete fare.» conclude, congedandosi e spingendoci ad uscire.
«Mi dispiace se lo trovate un po' brusco, è fatto così.» afferma Ann.
«Tranquilla. Allora, ci vediamo domani?» chiede Martha.
«Sì! A domani!» asserisce la Lopez.
Io e Martha usciamo dall'associazione e ci rechiamo verso casa, curiose di sapere cosa avremmo dovuto fare l'indomani.


Angolo dell'Autrice

Scusate il ritardo, ma ho avuto un blocco assurdo (e ci voleva il concerto dei Linkin Park a sbloccarmi, pazzesco!). 
Grazie a Eilan21 e Layla per le recensioni e spero che il nuovo capitolo vi piaccia!

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Capitolo 11
*** Punx & Skins ***


11.
 
 
La cena si consuma in perfetto silenzio. Io e Martha ci guardiamo di sottecchi, sentendoci un po' colpevoli per non aver detto nulla a Tom riguardo alla nostra giornata passata alla People Care.
-Certo che è bello passare serate così allegre.- ironizza Rose. Luke mi lancia un'occhiata di rimprovero.
-Allora, che avete fatto oggi?- chiede curiosa la donna. 
-Matt mi ha aiutato a costruire un razzo.- risponde Mitch, entusiasta. Sorrido, scompigliandogli i capelli con la mano, in segno di affetto.
-Davvero, Matt? Wow.- si complimenta Rose.
-Sì, con una bottiglia e del cartone!- spiega il bambino.
-E voi? Luke, te cos'hai fatto?- domanda Tom.
-In realtà niente di che.- risponde il biondo, evasivo. 
-Non ti va di parlare?- insiste Tom.
-Non ho fatto nulla. Dobbiamo per forza parlare della nostra vita ogni fottuta, schifosa, sera?- ribatte Luke. Non l'ho mai sentito parlare così e la cosa mi sorprende.
-Non parlare in questo modo davanti a Mitch!- lo rimprovera Rose.
Per tutta risposta, Luke si alza da tavola. Faccio per inseguirlo, ma Matt mi blocca.
-Lascialo sbollire.- mi consiglia. Guardo la porta che si chiude e chinò il capo. Mi mordo il labbro. Poi sospiro.
-No.- mormoro, liberandomi dalla presa di Matt, che non oppone resistenza. 
 
Trovo Luke seduto sul tetto, che osserva il cielo.
-Ehi! Ti va una birra?- gli propongo. Il ragazzo si volta.
-Non ti hanno detto di lasciarmi sbollire?-
-Sì, mi hanno suggerito di farlo.- rispondo.
-Ma, per una volta, ho deciso di fare a modo mio.- aggiungo, porgendogli una birra.
-Capisco. Sai, sei prevedibile, in realtà.-
-Come, scusa?- mi innervosisco. 
-Rilassati. È solo che me l'aspettavo che saresti venuta qui.- mi spiega.
-Arriva al punto o potrei spaccarti il cranio- lo minaccio, ridendo.
-Me lo aspettavo, tutto qua.- afferma, guardandomi. Mi mordo il labbro, abbassando lo sguardo. Non riesco a sostenere il suo, è troppo intenso. 
-Ehi.- sussurra, posando una mano sulla mia spalla, un gesto che mi fa sussultare.
-Voglio solo capire che succede.- mormoro. Tra noi cala il silenzio. Luke sospira, poi scoppia a piangere. Non me lo aspettavo. Lo stringo a me, dolcemente, rimanendo in silenzio. Lo lascio sfogare, come lui ha più volte fatto con me. 
-Oggi ho... Oggi ho rubato.- confessa. 
-Perché?- gli chiedo, cercando di non sembrare delusa dal suo comportamento. 
-Avevo bisogno di soldi. E non riesco a trovarmi un lavoro decente.- spiega.
-Soldi per cosa? Luke, se non mi racconti per bene tutto non posso aiutarti.- insisto. Il biondo china il capo. Si vergogna, lo sento.
-Ho bisogno di soldi per fumare.- dice, tutto d'un fiato.
-E per pagare dei debiti. Ho fatto un po' di scommesse qua e là.- aggiunge.
-Mi dispiace, non... Non sono chi credevi che io fossi, Angel.- piagnucola. Lo costringo a guardarmi negli occhi. E costringo me a sostenere quello sguardo. 
-Perché, cosa credevo che tu fossi?- gli chiedo. I nostri volti sono vicinissimi.
-Io... Io non lo so.- mormora. Deglutisco. Gli accarezzo delicatamente la guancia.
-Ognuno sbaglia, ognuno cade. L'importante è provare a smettere.- gli dico. Poi gli bacio la fronte, socchiudendo gli occhi. Forse sto facendo il passo più lungo della gamba oppure, al contrario, sto perdendo un'occasione. Scuoto la testa. Che occasione starei perdendo? 
"Angel, rilassati." prova a tranquillizzarmi una vocina interiore. Mi sento smarrita e incredibilmente insicura.
-Tu... Tu perché non hai detto dell'associazione di Gus a Tom?- mi riporta alla realtà Luke.
-Beh, perché... Perché voglio prima capire com'è. Io e Martha glielo diremo, prima o poi.-. 
Cala nuovamente il silenzio tra noi due. È un momento piuttosto imbarazzante, almeno per me. Non ho la minima idea di cosa fare. E, a quanto pare, nemmeno lui.
-Ehm... Forse è meglio che scenda. È tardi e domani devo andare presto all'associazione.- mi decido. Scendo e mi dirigo in camera. Mi sento una stupida. Una grande, grandissima stupida. Come si può non accorgersi di provare un sentimento del genere per una persona? O meglio, come diamine ho potuto nasconderlo a me stessa? 
Mi tolgo la maglietta e i jeans e mi butto sul letto, fissando il soffitto. Improvvisamente, la porta si apre. Istintivamente, mi copro con un lenzuolo, essendo in reggiseno. 
-Luke, devi bussare prima di entrare.- lo ammonisco.
-Scusami.- mormora, avvicinandosi. Afferra le mie mani e le accarezza, dolcemente. Ho i brividi.
-L-Luke, f-forse è meglio che tu...- balbetto.
-Forse è meglio che io?- chiede, carezzandomi la spalla nuda.
-Che tu te ne vada.-
-Forse. O forse no.- asserisce. All'improvviso, inizia a baciarmi il collo. Sbarro gli occhi, mollando la presa sul lenzuolo, che cade, lasciandomi in intimo davanti a lui. Ma cosa stiamo facendo?
-Luke.- lo chiamo. Mi ignora.
-Luke.- lo chiamo nuovamente.-
-Che c'è?- domanda.
-Non dovremmo... Ecco, forse è meglio che noi non... Forse è meglio che ci fermiamo qua.- riesco a dire. Il biondo mi guarda. 
-Sì, hai ragione. Mi... Mi dispiace.- si scusa. Si allontana da me e esce dalla stanza. Mi sento doppiamente stupida.
"Complimenti Angel, brava." Mi rimprovero. 
Mentre ripenso a ciò che è successo pochi minuti fa, un rumore mi riporta alla realtà: spari. Mi vesto e mi scaravento in corridoio.
-Cos'è stato?- chiedo a Kyle, la prima persona che trovo.
-Non ne ho la più pallida idea, viene da fuori!- afferma. 
Ci rechiamo tutti all'esterno dell'edificio e ciò che vediamo fa urlare di terrore Rose: c'era uno scontro a fuoco tra una banda e la polizia.
-Amore, prendi Mitch e le ragazze e nasconditi!- ordina Tom. La donna non se lo fa ripetere due volte e, afferrato Mitch da un polso, inizia a correre, seguita da Martha e Jane, ma non da me.
-Angel, vai con lei!- mi urla addosso Luke.
-No!- replico io.
-Ascolta, so che obbedisci molto difficilmente, ma in questo caso fa come ti diciamo!- esclama Matt.
-Ho detto no! Non è una gang quella! Sono solo dei ragazzi! Riconosco Ann Lopez lì in mezzo!- ribatto, disperata.
-Ann Lopez? La figlia di Lopez? Quella Ann Lopez?- 
-Sì, quella Ann Lopez, Kyle.- rispondo, piuttosto seccata, avanzando verso la sparatoria.
-Dove cazzo vai, idiota?- grida Matt. Sento qualcuno che mi afferra dalla maglietta: Luke.
-Farsi ammazzare non è una buona idea.- 
-Nemmeno lasciare che quei poliziotti facciano il bello e il cattivo tempo in questo quartiere lo è.- ribatto, a denti stretti. Ci fissiamo per un tempo che mi pare infinito, fino a quando non cede. 
-E va bene. Ma non sai nemmeno chi è dalla parte della torto.-
-Visti i precedenti, non è difficile immaginarlo.- dichiaro estraendo una pistola dai pantaloni.
-E quella dove l'hai presa?- 
-Ci sono tante cose che non sai di me, Luke. Tante cose.- affermo, raggiungendo Ann e i suoi amici.
 

Angolo dell'Autrice

Sono tornata! E con un capitolo che, inizialmente, non avevo la più pallida di come scrivere.
La situazione si fa bollente e ne vedremo delle belle!
Grazie a Layla e a Eilan21 per le recensioni e a chiunque leggerà e recensirà!
Alla prossima!

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