Passaggio a Nord-Ovest

di evelyn80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Dutch Harbor ***
Capitolo 3: *** Una cena all'Elbow Room ***
Capitolo 4: *** Una settimana da dimenticare ***
Capitolo 5: *** Vendetta ***
Capitolo 6: *** Bomba Boomerang ***
Capitolo 7: *** Una decisione importante ***
Capitolo 8: *** Tre settimane di attesa ***
Capitolo 9: *** Partenza ***
Capitolo 10: *** Un'aringa per Natale ***
Capitolo 11: *** Saetta Grigia in pericolo ***
Capitolo 12: *** L'inizio e la fine di un sogno ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.

 

 

 

Prologo

 

Quando mio marito mi annunciò, dopo quattro anni di matrimonio, che voleva divorziare, la mia prima reazione fu mettermi a ridere:

"È uno scherzo, vero?"

Ma lui non era mai stato così serio. Mi spiegò che aveva trovato un’altra ragazza, più giovane e più bella di me, che lo faceva sentire felice ed appagato e così mi scaricava senza tanti complimenti.

Inutile dire che mi cadde il mondo addosso. Per diversi giorni rimasi chiusa in casa a piangere e disperarmi, rifiutando le visite di chiunque cercasse di darmi un po’ di conforto. Avevo bisogno di stare sola, ma farlo nella casa in cui avevamo vissuto insieme per tutto quel tempo non mi aiutava. In ogni stanza rivivevo ogni momento passato con lui. Dovevo andarmene dai luoghi a me familiari.

Durante quel periodo, spesso pensai a quando a volte, per scherzo, con una delle mie migliori amiche dicevamo che, in caso di bisogno, saremmo potute andare in Nuova Zelanda, dove lei aveva dei lontani parenti. Nella mia mente non si trattava più di una burla: sarei potuta veramente andare laggiù.

Poi, senza sapere perché, ebbi un’altra idea: avevo sempre considerato la mia automobile – Saetta Grigia, come la chiamavo io – come una specie di sorella. Se fossi andata in Nuova Zelanda avrei dovuto lasciarla a casa. Perché non fare un giro del mondo in auto? Avrei visitato posti nuovi in sua compagnia, lontano da casa e da tutto quello che mi ricordava mio marito.

Certo era un rischio, perché la mia Fiat Punto aveva già 165.000 chilometri, portati non proprio alla grande. Qualche anno prima aveva avuto un "attacco di cuore", come lo chiamavo io, ed il meccanico aveva fatto di tutto pur di rimetterla in carreggiata, ma si era anche raccomandato caldamente di non farci spostamenti lunghi. Affrontare un viaggio di ventimila e più chilometri non era proprio una grande idea. Stavo quasi per rinunciare quando, navigando su Internet, scoprii che la Sector stava giusto cercando nuovi incoscienti da sponsorizzare. Tentar non nuoce, mi dissi; così compilai il modulo con la mia idea e non molto tempo dopo ricevetti la loro risposta: erano entusiasti di finanziarmi! Era la prima volta che si tentava un viaggio simile con un’utilitaria vecchia di quindici anni, e con quel chilometraggio poi!

Ovviamente non sarei stata sola: un team della Sector mi avrebbe seguito giorno e notte con tanto di medico, meccanico e cameramen vari, per testimoniare la mia impresa. Incoraggiati dalla presenza di uno sponsor tanto importante, anche alcuni dei clienti e dei fornitori della ditta di mio padre e mio zio aderirono e così, dopo due check up – uno per me ed uno per la mia auto – un portapacchi ed una serie infinita di bagagli e raccomandazioni, il dieci di ottobre lasciai la mia amata Italia a bordo di Saetta Grigia per il primo "Giro del Mondo in utilitaria".

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Capitolo 2
*** Dutch Harbor ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.


 

Dutch Harbor

 

Con alle spalle più di un mese di viaggio, dopo aver percorso tutta la penisola iberica, il Marocco fino ad Agadir, aver attraversato l’Oceano Atlantico e gli Stati Uniti da Miami all’Alaska, mi ritrovai a Dutch Harbor, il porto principale delle Isole Aleutine.

Secondo il programma avrei dovuto prendere un traghetto che da Anchorage mi avrebbe portato fino a Vladivostok, da dove avrei attraversato tutta la Russia asiatica per poi rientrare in Europa; ma il problema era che il suddetto programma era andato a gambe all’aria quando, circa due settimane prima, i tecnici della Sector mi avevano abbandonato al mio destino.

Il patatrac si era verificato al momento di ripartire da Miami quando, dopo più di due settimane di forzata immobilità sul traghetto, Saetta Grigia aveva dato segni di non volerne sapere di continuare il viaggio. I meccanici messi a disposizione dallo sponsor si erano subito messi all’opera e ben presto avevano scoperto il "principio d’infarto" che la mia macchina aveva subìto. Non appena lo vennero a sapere, gli organizzatori ritirarono immediatamente il loro benestare alla mia impresa: era logico che una macchina vecchia come la mia avrebbe potuto dare qualche problema, e questo l’avevano messo in conto, ma non certo il fatto che il motore della mia Punto fosse già stato messo a dura prova dalla mia negligenza. Non avevano certo soldi da buttare via, mi dissero sprezzanti, perciò in un attimo mi ritrovai senza sponsor e senza scorta. Anche gli altri, non appena avevano saputo che la Sector si era ritirata, si erano affrettati a chiedere la rimozione dei loro nominativi dalla carrozzeria della mia auto, perciò ero arrivata in Alaska lasciandomi dietro una scia di adesivi e quasi più senza il becco di un quattrino. Quei pochi sponsor che mi erano rimasti – mio padre, mio zio ed altri due loro clienti – mi passavano quel poco che mi bastava per tirare a campare. Dovevo comprarmi i viveri e trovare posti dove dormire – almeno una volta alla settimana avevo pur bisogno di una doccia calda! – per cui quando dovevo risparmiare dormivo in auto e mangiavo poco o niente.

Avevo speso quasi tutti gli ultimi soldi che mi rimanevano per pagare il traghetto dal porto di Anchorage all’isola di Unalaska, dove mi avevano assicurato che forse avrei trovato un traghetto ancora attivo per farmi attraversare il mare di Bering, mentre dalla terraferma il servizio era sospeso fino a primavera. Avrei quindi dovuto richiedere altri fondi da casa per pagare l’attraversata.

Stavo percorrendo la strada in direzione del porto, con lo sferragliare delle catene che mi accompagnava ormai da un paio di giorni, visto che in quel posto dimenticato da Dio era già inverno inoltrato e la neve la faceva da padrone, e già potevo vedere le banchine deserte, a parte un peschereccio bianco, quando Saetta Grigia cominciò a singhiozzare e a saltellare come un canguro.

"Oh no, Saetta, cosa ti prende adesso? Non ti ci mettere anche tu, che non ho soldi nemmeno per comprare un pezzo di pane, figuriamoci per farti riparare!" borbottai, lanciando uno sguardo preoccupato al cruscotto su cui si era accesa una spia rossa. Un secondo dopo il motore si spense e non ne volle sapere di ripartire. Provai un paio di volte a girare la chiave, ma per paura di scaricare del tutto la batteria desistetti ben presto; mi misi il giaccone, scesi, aprii il cofano, diedi un’occhiata al motore senza sapere esattamente cosa o dove guardare, toccai un manicotto con la punta dell’indice come a dire: "Ehi, c’è nessuno?", poi mi raddrizzai, mi grattai la testa e mi guardai intorno. A parte il peschereccio, su cui vedevo un po’ di movimento, intorno non c’era nessuno. Erano le quattro di pomeriggio e già cominciava ad imbrunire. Forse avrei dovuto aspettare la mattina dopo, ma non mi allettava certo l’idea di passare la notte in macchina all’addiaccio: se non riuscivo a mettere in moto non avrei avuto nemmeno il riscaldamento; per cui, dopo un attimo di esitazione, richiusi il cofano e mi incamminai verso le uniche forme di vita presenti in tutta quella desolazione.

 

 

* * *

 

 

Sig Hansen, capitano del motopeschereccio Northwestern, dall’alto della sua timoniera vide spuntare nel crepuscolo ormai incipiente il veicolo più buffo che avesse mai visto. Era un’utilitaria color grigio topo, con un portapacchi troppo grande stracarico di roba e con strani adesivi appiccicati qua e là. Camminava lentamente, alzando nuvolette di neve con le catene. Ad un tratto la macchinetta si mise a saltellare come impazzita prima di fermarsi del tutto.

Soffiò fuori il fumo della sigaretta che stava fumando, scosse la cenere nel portacenere accanto allo schermo del gps e si rimise a seguire la scena con una certa curiosità. Nel frattempo si era aperta la portiera e ne era scesa una ragazza infagottata in un piumino nero. Con un mezzo sorriso sulle labbra la vide aprire il cofano, grattarsi la testa e poi guardarsi intorno, spaesata.

"Da dove viene non lo so, ma di sicuro non è Americana", disse tra sé guardando la targa della macchina. Spense la sigaretta e si voltò di nuovo, appena in tempo per vedere che la giovane si era incamminata in direzione del suo peschereccio.

 

 

* * *

 

 

Mi avvicinai alla banchina dove era ormeggiata la barca e non appena riuscii a leggerne il nome mi bloccai: Northwestern. Quell’appellativo non mi era nuovo: dove l’avevo già sentito? Dopo un attimo di riflessione mi si accese una lampadina: era uno dei pescherecci protagonisti di Deadliest Catch, un docu-reality sulla pesca dei granchi reali in onda su Discovery Channel. A mio marito piaceva, perciò l’avevo guardato anch’io, qualche volta.

"Andiamo bene", pensai: "Un gruppo di gretti pescatori dell’Artico, volgari e maleducati… Mi ci voleva anche questa!".

Ripresi a camminare e mi rivolsi all’uomo più vicino alla murata, un ragazzo di qualche anno più vecchio di me, con corti baffi e barbetta.

"Scusa? Buonasera…"

Quello continuò imperterrito a fare il suo lavoro, ed io insistei.

"Scusa? Posso disturbarti? Avrei bisogno di un’indicazione…"

Come se neanche esistessi, l’uomo continuò imperterrito nella sua occupazione, avvolgendo cime e sistemando boe colorate. Con una faccia degna del Don Camillo di Guareschi televisivo mi misi le mani prima sui fianchi e poi agli angoli della bocca per farmi sentire meglio.

"Oh, ma sei sordo? Mi serve un’indicazione! Dove posso trovare un meccanico?"

Il giovanotto mi lanciò un’occhiata di sottecchi, come se volesse valutarmi, poi mi voltò le spalle e riprese a lavorare.

"Ecco, lo sapevo! Maleducato ignorante!" pensai piena di rabbia. Senza riflettere afferrai una manciata di neve, che era bella ghiacciata, la compattai in una palla e gliela tirai, senza peraltro sperare di colpirlo. Ed invece lo presi in piena nuca. Lo sentii bestemmiare come un turco prima di voltarsi verso di me:

"Ma si può sapere che vuoi? Non rompere, non lo vedi che sto lavorando?"

"Alla buon’ora, il signore finalmente si degna di rispondere! Volevo solo sapere dove posso trovare un meccanico, sono rimasta in panne!" e con la mano indicai Saetta Grigia ferma qualche metro più in là.

"Non ci sono meccanici per auto qui a Dutch Harbor, solo per navi!" e fece per voltarmi nuovamente le spalle ma io continuai:

"Fa lo stesso, credo che i motori a scoppio siano più o meno tutti uguali, a maggior ragione che lei ha quindici anni e non è proprio più una giovinetta. Si accontenterà!"

Lui si raddrizzò e mi guardò, sorpreso:

"Accidenti!"

"Che c’è?"

"O sono io che non sono normale, oppure sono circondato da suonati!"

"Perché? Che ho detto?"

"Ti sei rivolta alla tua automobile come se fosse una persona."

"Sì, e allora?"

"Anche mio fratello si comporta così con questo peschereccio. A volte credo che voglia più bene alla Northwestern che non al resto della famiglia…" aggiunse, pensieroso.

"Allora, questo benedetto meccanico, dove lo trovo?"

"Ci stai parlando!" si soffiò sulle unghie e se le strofinò sul giubbotto, facendomi ridacchiare. "Modestamente stai parlando con il miglior meccanico di tutta Dutch Harbor!"

Un altro giovanotto, di qualche anno più vecchio, che aveva seguito la scena e si era avvicinato a noi, lo apostrofò:

"Cala, cala, fratello!"

"Bè, diciamo il migliore di tutta la Northwestern."

"Cala!" insisté ancora l’altro uomo ed il più giovane sbuffò. "Ok, il secondo dopo mio fratello Sig!"

"Chi è, quello che parla con la barca?" gli chiesi, quasi divertita dallo scambio di battute intercorso tra i due pescatori.

"Sì proprio quello. Comunque, ti stavo dicendo…"

Fu interrotto da un vocione rombante proveniente da un altoparlante:

"Cos’è, si batte la fiacca?! Forza Edgar, non abbiamo tempo da perdere, lo sai che domani all’alba dobbiamo ripartire!"

Non me l’aspettavo e per lo spavento sobbalzai, scivolai all’indietro e caddi a sedere per terra. Il giovanotto che, come capii, si chiamava Edgar, scoppiò a ridere mentre io mandavo la voce a quel paese in Italiano:

"Vaffanculo, tu e tutti i tuoi parenti!" esclamai mentre mi rialzavo da terra, scuotendomi la neve dal fondo dei pantaloni.

Edgar si asciugò le lacrime dagli occhi mentre mi chiedeva se stavo bene.

"Sì, grazie… Chi è quel disgraziato che mi ha fatto spaventare?" mugugnai con il muso lungo.

"È mio fratello Sigurd! Ehi Sig, vieni fuori, ho trovato una più suonata di te!" lo chiamò facendogli cenno di scendere con un braccio.

 

 

* * *

 

 

Sig vide la ragazza avvicinarsi, poi fermarsi per un attimo solo, ed infine ripartire per avvicinarsi a suo fratello Edgar. Lui continuò a lavorare come se niente fosse mentre la ragazza continuava a cercare di attirare la sua attenzione. La vide passare dallo spaesato allo spazientito e poi all’infuriato quando gettò una palla di neve a suo fratello. Scoppiò a ridere nel vedere la faccia inorridita di Edgar prima di voltarsi e seguì attentamente il dialogo muto che avveniva al di là del vetro. Quando vide che suo fratello si stava prendendo troppo tempo libero lo richiamò all’ordine, chiamandolo con l’interfono. La ragazza evidentemente non se lo aspettava, poiché sobbalzò ed andò a finire con il sedere per terra. Rise ancora più forte nel vedere la sua faccia inviperita e la vide sbraitare mentre si rialzava:

"Ho la vaga impressione di essere stato mandato a quel paese!" disse ancora a voce alta, come spesso gli accadeva quando era solo nella timoniera. Lui parlava con la sua barca, e poco gli importava che tutti gli altri membri dell’equipaggio, i suoi due fratelli compresi, lo prendessero per svitato.

In quell’istante vide Edgar che gli faceva cenno di scendere sul ponte, per cui si alzò dalla sua poltrona, si mise la giacca a vento e uscì.

 

 

* * *

 

 

La porta della timoniera si aprì e ne uscì un uomo di una quarantina d’anni, non molto alto ma muscoloso, con una criniera di capelli biondo cenere segnata da un’incipiente calvizie e una barba di due settimane dello stesso colore. Ad una prima occhiata mi fece pensare ad un leone, grande e fiero, mentre scendeva la scaletta e raggiungeva suo fratello Edgar.

"Allora, cosa è successo? Come mai hai smesso di lavorare?" chiese al giovanotto che mi stava di fronte.

Non seppi perché, ma la sua voce calda e leggermente roca mi fece correre i brividi giù per la schiena.

"La signora qui presente ha bisogno di un meccanico. Lo sai che anche lei parla con la sua auto? Forse dopo tutto non sei un caso isolato!"

"Ah ah ah, molto spiritoso… Non farci caso" disse, puntandomi addosso un paio di occhi blu scuro come il mare in burrasca: "Mio fratello non riesce a fare a meno di guardare i difetti degli altri, ma non bada mai ai suoi. Sig Hansen, capitano della Northwestern!"

"Michelle Ranieri, piacere. Lei invece è Saetta Grigia!" dissi, indicando la mia Punto e felice di aver trovato qualcuno che capiva quello che provavo per lei.

Edgar fece una faccia stralunata, poi scosse la testa e si rimise al lavoro, mentre Sig riprendeva:

"Qual è il problema?"

"In realtà non lo so, fino a dieci minuti fa camminava, poi ha cominciato a singhiozzare e si è spenta, ed ora non si mette più in moto…"

"Forse è la pompa della benzina… Potrei dargli un’occhiata, se non fossimo in ritardo. Siamo in piena stagione di pesca e domattina all’alba dobbiamo ripartire."

"Sì, capisco. A me serve solo qualcuno che me la ripari, ma tuo fratello mi ha detto che non ci sono meccanici per auto, qui."

"Diciamo che, da queste parti, ognuno è autodidatta. Quanta fretta hai? E, se non sono indiscreto, cosa ci fa una ragazza da sola in questo posto sperduto?"

"Sto facendo il Giro del Mondo per la Sector… anzi, dovrei dire stavo, perché la Sector mi ha abbandonato a Miami, comunque in qualche modo devo tornare a casa mia…" conclusi la frase quasi mugugnando tra me e me.

"Da dove vieni?"

"Dall’Italia."

Strabuzzò gli occhi. "Italia? E sei venuta fin qui dall’Italia con quella carretta?"

Mi rabbuiai e lui se ne accorse subito. "Scusa, non volevo offendere. È solo che… wow, sono un sacco di chilometri!"

Annuii e gli raccontai per sommi capi la mia avventura, dalla partenza fino a lì.

"Quindi sono rimasta senza più sponsor, o quasi, e pressoché senza un cent! Se anche gli ultimi due finanziatori rimasti mi abbandonano dovrò chiedere la residenza qui! Mio padre e mio zio mi hanno già sovvenzionato anche troppo… Quindi direi che sì, ho abbastanza fretta!"

"D’accordo, ti darò una mano. Non si venga a dire che Sig Hansen non ha aiutato una donzella in difficoltà!"

Con un agile balzo scese sulla banchina, seguendomi poi fino alla mia Fiat.

"Apri il cofano e prova a metterla in moto."

Obbedii, ma Saetta Grigia non volle saperne. Sig si chinò e si mise ad armeggiare. Io scesi e mi misi a guardare le sue mosse, con le mani giunte davanti al petto. Dopo pochi istanti lo sentii esclamare.

"Ah, ecco cos’è… Edgar!" urlò, rivolgendosi al fratello: "Portami la chiave inglese, due fascette e un cacciavite… e anche uno straccio!" Rivolse la sua attenzione verso di me e mi informò. "Si è staccato il manicotto che dal serbatoio va al motore: dovrei potertelo sistemare, anche se ti consiglio di farla vedere da qualcuno più qualificato di me al più presto possibile."

Edgar arrivò con gli attrezzi e dopo un quarto d’ora Sig dichiarò che il problema era risolto:

"Prova un po’, adesso?"

Saetta Grigia andò in moto al primo colpo, diedi gas un paio di volte e quando vidi che non si spegneva scesi esultante:

"Grazie, signor Hansen! Senza di te non so cosa avrei fatto! Quanto ti devo per il disturbo?"

"Non voglio niente, è stato un piacere, e chiamami Sig" disse mentre chiudeva il cofano e si puliva le mani con lo straccio.

Spensi l’auto e lo seguii mentre tornava verso il peschereccio: "No, sul serio, voglio sdebitarmi!"

"E io ti ripeto, sul serio, che non voglio niente."

"Almeno lascia che vi offra una cena, a te e al tuo equipaggio!" buttai là senza riflettere.

"Ma non mi hai appena detto che sei senza un soldo?" mi chiese, con un sorrisetto sornione.

"Bè, sì, ma dovrei avere qualcosa da parte per le emergenze! Per favore…"

Lo guardai con sguardo languido e lui si mise a ridere, una risata roca che mi fece emozionare.

"Ok… Più avanti, sull’angolo, c’è un locale, si chiama Elbow Room. Non ti puoi sbagliare, dato che è l’unico. Chiedi di Dana e di' che ti mando io. Ci vediamo stasera alle nove."

Lo guardai risalire sul ponte, preceduto da Edgar, e lo sentii gridare: "Allora, cos’è questa storia, quando il gatto non c’è i topi ballano? Forza, al lavoro!"

Tornai alla mia macchina, la rimisi in moto ed in un attimo arrivai al locale che Sig mi aveva indicato.

 

* * *

 

Seduto di nuovo nella sua poltrona nella timoniera, Sig continuò a pensare alla ragazza che aveva appena incontrato. Era alta quasi quanto lui, con lunghi capelli color rosso rame raccolti in una coda di cavallo ed occhi verdi molto profondi, esaltati da un paio di occhiali dalla sottile montatura. Era parecchio più giovane di lui, doveva essere sulla trentina a suo giudizio, mentre lui aveva quarantacinque anni.

Scosse la testa per scacciare quell’immagine e cercò di concentrarsi sul suo lavoro, ma l’idea di rivederla per cena in qualche modo lo elettrizzava. Fece scorrere il pollice sulla fede che aveva al dito, pensando al fatto che, quando era partito da casa sua, a Shoreline, quell’ottobre, sua moglie gli aveva chiesto la separazione, perché era stufa della sua vita per mare. Chissà, forse quella ragazza che aveva deciso di fare il giro del mondo era la persona adatta a seguirlo durante il suo lavoro.

Si diede uno schiaffo: "Cosa stai pensando, Sig! L’hai appena conosciuta e già fantastichi di portartela appresso?!" esclamò a voce alta. Poi, con un sospiro, si mise a controllare le sue carte nautiche.

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Capitolo 3
*** Una cena all'Elbow Room ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.

Una cena all’Elbow Room

 

 

In pochi minuti arrivai all’Elbow Room: una specie di bar, tavola calda e affittacamere, da quello che potei capire dalle indicazioni scritte sull’insegna. Lasciai Saetta Grigia proprio davanti all’ingresso ed entrai nel locale.

Era composto da una sala vasta ed accogliente, con le mura ricoperte di tavole di legno, con un grande camino in un angolo. Appese alle pareti facevano bella mostra di sé diverse teste di animali impagliati e varie fotografie dei pescherecci. Individuai subito quella della Northwestern, con Sig e Edgar in primo piano. Sul lato destro della stanza troneggiava il bancone di un bar; davanti alla porta d’ingresso si apriva un altro ambiente in cui si intravedeva un tavolo da biliardo. Una campanella aveva squillato argentina quando avevo aperto la porta, e ben presto udii un rumore di passi.

"Arrivo subito!"

Dalla stanza di fronte uscì una donna di una sessantina d’anni, alta e magra, con i capelli grigi e un paio di occhi azzurro brillante. Mi guardò quasi sorpresa e si scusò subito per la sua espressione:

"Scusami cara, ma ero convinta che fosse uno dei pescatori… Cosa posso fare per te?"

"Cercavo la signora Dana."

"Sono io."

"Mi manda Sig Hansen. Mi ha aiutato a rimettere in moto la mia auto, e siccome non ha voluto soldi ho invitato lui e tutto il suo equipaggio a cena. Mi ha detto di venire qua e di chiedere di te."

Lei annuì sorridendo, ma il suo sorriso vacillò quando ripresi a parlare:

"Però c’è un problema… Non ho molti soldi a disposizione, ma in macchina ho un po’ di roba da mangiare. Potrei cucinare quella, così potrei pagarti solo il consumo del gas… se sei d’accordo, ovviamente!"

Il sorriso tornò più smagliante di prima:

"Ma certo mia cara, non preoccuparti, però ad una condizione!"

La guardai interrogativamente.

"Mi devi raccontare tutta la tua storia. Si vede da lontano un miglio che ne hai di cose da dire! Siediti, ti offro una tazza di caffè!"

Così, senza neanche riflettere, raccontai a quella donna sconosciuta tutta la mia storia, anche la parte che riguardava mio marito che avevo invece tralasciato con Sig.

Alla fine del mio racconto Dana mi diede una pacca sulla mano:

"Bene, ora che so tutto di te ti faccio vedere la tua stanza."

"Stanza?! Ma io non pensavo di dormire qui!"

"Invece credo proprio che dovrai, mia cara… Per quello che ne so, non ci sono traghetti a Dutch Harbor. Puoi chiedere a Sig, stasera, ma credo che ti darà la mia stessa risposta. Dovrai rimandare di sicuro tutto a domani. Vieni, seguimi, così potrai riposarti un pochino prima di metterti ai fornelli."

Una volta sola nella stanza mi concessi una doccia formato "Cascate del Niagara", mi pettinai accuratamente, mi cambiai e scesi di nuovo, in qualche modo impaziente, senza sapere perché, di rivedere Sig. Per smettere di pensare a lui andai a prendere tutto l’occorrente per preparare una cenetta coi fiocchi.

Mia zia, al momento di partire, mi aveva riempito di cose, fatte in casa e non, che sapevo che non avrei mai mangiato. La stagione invernale mi aveva consentito di conservare quasi tutto quello che mi aveva preparato, così ero arrivata fino in Alaska con un carico di dieci barattoli di marmellata di vari gusti – mirtilli, mele, pesche, ciliegie, prugne e perfino pomodori verdi – un barattolone di vetro pieno di funghi secchi, un sacco di iuta pieno di riso del vercellese, un pezzo sottovuoto di parmigiano, una bottiglia d’olio maremmano ed altre cose inutili per le quali avevo bestemmiato non poco quando mia zia me le aveva affibbiate.

In quel momento l’idea di preparare un bel risotto con i funghi porcini, da far mangiare a gente che probabilmente non l’aveva mai assaggiato, mi piacque assai, e per la prima volta ringraziai mia zia per avermi fatto portar dietro tutto quel ben di Dio.

La marmellata mi fece invece pensare ad una bella crostata: non avevo uova né burro né farina, ma speravo che fossero cose piuttosto comuni anche nelle isole Aleutine.

Dana fu piacevolmente sorpresa nel vedermi tirare fuori dalla mia auto tutte quelle cose: mi confermò che il risotto con i funghi non era proprio un piatto tipico di Unalaska, e acconsentì volentieri a prestarmi il resto degli ingredienti per preparare il dolce. Lei avrebbe cucinato dello spezzatino per secondo.

Preparai la pasta frolla e poi la misi in una bella teglia in attesa che il forno fosse caldo. Dopo mezz’ora di cottura la crostata fu pronta. Dopodiché mi misi a preparare il riso.

Misi una bella manciata di funghi secchi ad ammorbidire in una bacinella di acqua calda, poi chiesi a Dana se aveva le verdure per fare il soffritto.

"Ho delle cipolle."

"Carote e sedano?"

Scosse la testa: "Da noi non li usiamo molto spesso…"

"Poco male! Tra l’altro, il sedano neanche mi piace! La cipolla andrà più che bene!"

Ne tritai una bella grande e la feci rosolare; poi una volta imbiondita buttai il riso nella pentola. Lo feci tostare e poi aggiunsi i funghi con tutta l’acqua. Dana osservava attentamente tutti i miei movimenti:

"Devo prendere nota della ricetta" disse, andando a prendere penna e blocco notes. Poi, quando un odorino di funghi cominciò a spandersi per tutta la cucina, aggiunse: "Farai morire di invidia Edgar!"

"Perché?"

"È convinto di essere il miglior cuoco di tutta Dutch Harbor."

"Anche cuoco?" Dana mi guardò interrogativamente, e io ripresi. "Con me ha sostenuto di essere il miglior meccanico…"

La donna si mise a ridere.

"Sì, Edgar ne è convinto! Non è male come cuoco, ha anche studiato, ma ce ne sono di più bravi di lui! Vedrai, lo farai schiattare!"

Feci cuocere il tutto per un quarto d’ora, fino a che l’acqua non fu completamente evaporata, poi aggiunsi una bella noce di burro ed una grattugiata abbondante di parmigiano per mantecarlo. Dana si mise ad apparecchiare e stava giusto finendo di mettere le posate su un tavolo rotondo, il più vicino al caminetto, quando la porta si aprì e tutta la ciurma della Northwestern entrò nel locale, Edgar in testa.

"Ehilà, Dana, cosa ci hai preparato di buono stasera?" chiese il più giovane degli Hansen.

"Un po’ di spezzatino…"

"Solo?! Io ho una fame da lupi!"

Anche gli altri mormorarono all’unisono in segno d’assenso: avevano lavorato tutto il giorno come schiavi, ed ora stavano morendo di fame.

"Tranquilli, io ho preparato solo lo spezzatino, ma al primo piatto e al dolce ha pensato qualcun altro."

"E chi, di grazia?" sentii la voce calda di Sig chiedere.

In quell’istante feci il mio ingresso nella stanza con un vassoione colmo di riso fino all’orlo e non appena posai gli occhi sul capitano rischiai veramente di farmelo cadere di mano. Si era fatto la doccia e si era rasato, domando la criniera di capelli biondi pettinandoseli all’indietro. Indossava un paio di jeans attillati che esaltavano la forma delle sue cosce, dai quali spuntava la punta di due stivali da cowboy. Sotto la giacca a vento blu con il logo del suo peschereccio portava un maglione di lana color beige con lo scollo a V, al di sotto del quale si intravedeva una camicia bianca. Aveva la bocca atteggiata in un lieve sorriso, che si accentuò non appena mi vide. Mi sentii le guance andare a fuoco mentre allungavo il passo per appoggiare il vassoio sul tavolo prima che mi sfuggisse di mano.

 

 

* * *

 

 

Quando Sig la vide uscire dalla porta della cucina con tra le mani un vassoio stracolmo di roba da mangiare il suo cuore perse un colpo. Si era cambiata ed aveva ripettinato i suoi lunghi capelli in un morbido chignon. Aveva le guance arrossate per la vicinanza ai fornelli, e sotto al suo sguardo la vide arrossire ancora di più. Il cuore cominciò ad accelerargli, come se fosse stato un ragazzino al suo primo appuntamento. Si rimproverò mentalmente per questa sua reazione prima di mettersi a sedere, ma sperò con tutto il cuore che gli altri lasciassero un posto libero per farla accomodare accanto a lui. Suo fratello Edgar, che lo conosceva meglio di chiunque altro, vide il suo sguardo e capì immediatamente: mise le mani su due sedie, quelle accanto a suo fratello maggiore dal lato sinistro, ed aspettò che tutti gli altri si fossero seduti prima di accomodarsi a sua volta, lasciando un posto fra lui e Sig. Il fratello gli lanciò un’occhiata e lui gli strizzò impercettibilmente l’occhio. Edgar era l’unico che sapeva che Sigurd era in rotta con sua moglie, e se stare accanto a quella strana ragazza gli faceva piacere, perché non accontentarlo?

 

 

* * *

 

Attesi che tutti si fossero accomodati e quando vidi che avrei dovuto mettermi a sedere tra Sig e Edgar il mio cuore perse diversi battiti. Per nascondere l’imbarazzo mi mossi per riempire i piatti, ma Dana mi bloccò:

"Mettiti comoda, ci penso io!"

"Ma…" tentai di protestare.

"Non preoccuparti, il servizio non te lo faccio pagare!" rise, per poi aggiungere subito dopo. " Forza gente, passatemi i piatti!"

Mi misi seduta e mi strinsi le mani in grembo, prendendo a tormentarmi le unghie per il nervosismo, ma fui costretta a smettere ben presto perché Sig cominciò a presentarmi il resto dell’equipaggio:

"Lui è mio fratello Norman" disse indicandomi il primo alla sua destra. Riconobbi quello che aveva detto "cala, cala" a Edgar.

"Lui è Nick Mavar" proseguì il capitano, e ad ogni nome che pronunciava io stringevo la mano corrispondente. "Lui è Matt Bradley e lui è Jake Anderson."

L’ultimo era il più giovane di tutti, doveva avere più o meno la mia età, mentre gli altri due mi parvero all’incirca sulla quarantina abbondante.

"Mio fratello Edgar lo conosci già…" concluse Sigurd, chiudendo il giro di presentazioni. Il minore mi fece un cenno con il capo, mentre già inforchettava il riso.

Per i primi minuti rimanemmo tutti zitti, il silenzio rotto solo dal rumore di posate sbattute contro i piatti e di mascelle al lavoro. Con la coda dell’occhio guardai Edgar che scrutava il riso come se avesse voluto studiarlo al microscopio, e mi venne da sorridere ripensando alle parole di Dana:

"Ti piace, Edgar?"

Borbottò un: "Sì, non è male…" che andò spegnendosi piano piano.

"È buonissimo! Cos’è?" mi chiese Jake.

"Risotto con i funghi porcini, per gentile concessione della mia zietta e di Dana."

"Perché di tua zia?" chiese Nick.

"Perché se lei, prima di partire, non mi avesse caricato in auto un chilo di funghi secchi ed un sacco di riso non sarei stata in grado di prepararlo. Gli ingredienti sono tutti rigorosamente italiani, a parte la cipolla per il soffritto."

"Veramente squisito, complimenti! Edgar, dovresti segnarti la ricetta…" il commento di Sig mi fece prima arrossire e poi sorridere.

Il minore degli Hansen borbottò ancora qualcosa, poi si affrettò a ripulire il piatto senza lasciare nemmeno un chicco. Il capitano si rivolse a me:

"Non farci caso: lui ha studiato da cuoco, e non ammetterà mai che qualcuno possa cucinare meglio di lui."

"Oh, ma io non so cucinare! Però ogni tanto qualcosa mi viene bene, se mi impegno…" dissi, per non svilire proprio del tutto il povero Edgar che aveva ripreso a borbottare come una pentola di fagioli.

Dana portò lo spezzatino e non appena i piatti furono svuotati fu la volta della crostata.

Tutti gli uomini mugolarono di piacere non appena videro apparire la grossa teglia, Edgar compreso, che aveva più fame che orgoglio.

"Marmellata di mirtilli, anche questa per gentile concessione di mia zia" li informai prima di cominciare a tagliarla in grosse fette.

I pescatori fecero onore alla portata, divorandosi quasi tutto il dolce; ne rimase solo un pezzettino, che tutti i membri dell’equipaggio cominciarono a reclamare per sé; Sig per primo, che riteneva di esserne il legittimo proprietario in quanto capitano. Per risolvere la questione si rivolse a me:

"Michelle, tu che sei un giudice imparziale, risolvi il diverbio, per favore!" mi disse ridendo ed io mi immedesimai subito nella parte, mettendomi gli occhiali sulla punta del naso ed afferrando il coltello per la parte terminale della lama in modo da usarlo come se fosse stato un martelletto:

"Secondo quanto dice la legge di Saetta Grigia, dichiaro che questo pezzo di crostata debba rimanere a Dana in qualità di proprietaria del locale nonché delle attrezzature che ne hanno consentito la realizzazione". Tutti emisero un "no" sconsolato, mentre Dana sollevava le mani sopra la testa in segno di vittoria, ma io continuai. "Dichiaro altresì che ne venga immediatamente preparata una nuova per tutto l’equipaggio, cosicché se la possano mangiare quando saranno in alto mare. La seduta è tolta!" conclusi, sbattendo il coltello sul tavolo.

Un grido di giubilo proruppe da tutte le gole mentre io tornavo in cucina per preparare un’altra crostata.

"Avete preferenze per la marmellata?" urlai dall’altra stanza.

"Che gusti hai?" mi risposero in contemporanea Sigurd e Edgar.

"Pesche, mele, ciliegie, prugne e pomodori verdi!"

"Pomodori verdi?!" la testa del minore fece capolino nel vano della porta, seguita dal resto del corpo. "Si fa la marmellata anche con i pomodori verdi?"

"In Italia sì! Tieni!" dissi mettendogli in mano il barattolo. "Te la regalo!"

"Ehi, grazie! Ragazzi, domani biscotti e marmellata di pomodori verdi a merenda!" gridò mentre tornava nel salone.

"Io mangerò la crostata" gli rispose Sig, incrociandolo sulla porta. Si mise accanto a me mentre finivo di preparare il dolce. Il cuore cominciò ad andarmi a mille e con la scusa di quello che stavo facendo riuscii a tenere lo sguardo basso. Deglutii per far calmare il tremito nella voce e gli chiesi se sapeva dove avrei potuto trovare un traghetto per Vladivostok.

"Devo darti una brutta notizia purtroppo! Ho paura che ad Anchorage ti abbiano presa in giro! Per quello che ne so, da qui non partono traghetti, ma io non vivo qui per tutto l’anno…" aggiunse quando vide la mia faccia delusa. "Forse c’è qualcuno che non conosco che fa questo servizio. Puoi chiedere in giro, qui più o meno sono tutti ospitali, vedrai che, se potranno, ti aiuteranno volentieri!"

"Lo spero… Non vorrei rimanere qui tutto l’inverno, senza soldi!"

Cadde il silenzio: misi la crostata in forno e poi ripulii il piano della cucina, con gli occhi di Sig fissi sulla nuca. Dall’altra stanza giungevano le voci allegre degli altri uomini, ma nelle mie orecchie risuonavano solo come un brusio indistinto, accompagnato dal tamburellare del mio cuore.

"Quanto dobbiamo aspettare perché sia cotta?"

"Mezz’ora, più o meno."

"Allora torniamo di là, facciamo una chiacchierata. Vuoi?"

Alzai il viso e lo guardai. Sorrideva ancora, con le labbra lievemente socchiuse. Chiusi gli occhi e scossi mentalmente la testa per sgombrarla da pensieri strani:

"Sì, d’accordo."

Mi precedette e si appoggiò con un gomito al camino, accendendo una sigaretta. Dana lo vide e lo rimproverò:

"Sig, lo sai che è vietato fumare qui dentro! Sul tuo peschereccio fai come ti pare, ma qui comando io!"

"E dai, Dana" rise. "Sto qui vicino al camino, il fumo se ne va via su per la cappa! Non vorrai mandarmi fuori con questo freddo!"

"E sia" concesse lei. "Ma non muoverti da lì, chiaro?"

"Sissignora!"

Gli altri avevano tirato fuori un mazzo di carte e si erano messi a giocare a poker. Io raggiunsi Sigurd e mi misi a sedere sul piano del camino, che era molto ampio. Lui mi imitò, scuotendo la cenere con la mano sinistra nelle braci.

Per spezzare il silenzio che era sceso tra noi commentai:

"La tua ciurma è molto simpatica, perfino tuo fratello Edgar, anche se all’inizio l’avevo giudicato un emerito maleducato."

"Sì, ho seguito la scena… L’hai preso in pieno con quella palla di neve! Era l’ultima cosa che si aspettava."

"Domani ripartirete?"

"Sì, all’alba. Siamo in piena stagione di pesca, e dobbiamo ancora catturare un sacco di tonnellate di granchi." Si interruppe per un attimo, poi riprese. "Sai, a volte penso che mi piacerebbe smettere, ma poi capisco che non potrei mai farlo. Mio padre era un pescatore di granchi, proprio come me, ed io non posso proprio farne a meno, di pescare."

Aspirò profondamente e soffiò via il fumo socchiudendo gli occhi.

"Il vostro cognome non mi pare americano… o sbaglio?" gli chiesi, per timore di far cadere la conversazione.

"No, non ti sbagli. Siamo norvegesi, o meglio i miei genitori lo sono. Noi tre siamo nati qui, perciò a tutti gli effetti siamo americani. Comunque le tradizioni nordeuropee sono molto radicate nella mia famiglia. Parliamo ancora il norvegese quando siamo tutti insieme, e noi tre siamo molto orgogliosi delle nostre origini!" disse, senza nascondere il tono di compiacimento che aveva nella voce.

"Così mi spiego il tuo carnato ed il colore dei tuoi capelli."

Vi passò una mano in mezzo, ravvivandoseli un po’.

" Sai…" gli dissi, senza riuscire a trattenermi: "Quando ti ho visto scendere dalla timoniera, oggi pomeriggio, mi hai fatto pensare ad un leone, con quella criniera di capelli biondi tutti scompigliati e la barba lunga."

Arrossii senza volere, e con meraviglia mi accorsi che anche le sue guance si erano imporporate.

"Fino ad ora nessuno mi aveva mai paragonato ad un leone."

Scosse la mano sinistra, come a schernirsi, ed un luccichio dorato catturò la mia attenzione. Guardai meglio e vidi che era stata la sua fede nuziale a baluginare. Fu come se un macigno mi cadesse sulla testa: "È sposato… Diamine, come ho fatto a non pensarci? È normale che sia sposato… Perché mi devo sempre innamorare di uomini già impegnati?" pensai alla rinfusa mentre non riuscivo a distogliere lo sguardo dall’anello che portava al dito.

Per fortuna lui si alzò e si mise a guardare gli altri che giocavano, così ebbi un po’ di tempo per radunare le idee.

Dopo mezz’ora la crostata fu pronta. Dana la confezionò ben bene e la consegnò a Norman, che la prese con una cura tale che sembrava stesse accingendosi a trasportare una reliquia.

Era giunto il momento di separarsi: i pescatori mi salutarono con strette di mano e frasi beneauguranti per il mio viaggio. Sig rimase per ultimo: con la giacca a vento posata su una spalla, mi diede la mano a sua volta per dirmi addio.

"Bè, Michelle, è stato un piacere conoscerti."

"Anche per me Sig. Grazie ancora per aver riparato Saetta Grigia!"

"È stato un piacere. Grazie a te per le cose buone da mangiare!"

Mi strinsi nelle spalle. "Bè, non vorrei sembrare maleducata, ma spero proprio di non rivederti… Non perché non voglia" aggiunsi subito, forse con più veemenza di quanto avrei voluto. "Ma perché se non ci rivedremo vorrà dire che avrò ripreso il mio viaggio verso casa!"

"Te lo auguro con tutto il cuore. Busserò sul legno per te!"

"Bussare sul legno?! Cosa significa?"

"È una frase beneaugurante! Per attirare la fortuna!"

"Capisco… Un po’ come "toccare ferro"!"

"Esattamente, solo che, quando si è in mare, si dice "bussare sul legno", forse perché il legno galleggia…" concluse il capitano, rimuginando sul significato del proverbio.

"Bene. Allora tu bussa sul legno per me, ed io toccherò ferro per la tua pesca dalla terraferma!"

"Grazie!" mi rispose sorridendo.

Protesi il viso verso di lui per dargli due baci sulle guance: era l’unica occasione che avevo per stargli più vicino possibile senza fargli venire pensieri strani, ma lui rimase a guardarmi interdetto.

"Volevo solo salutarti come si usa fare dalle mie parti, con un bacio sulla guancia…"

Arrossì e si piegò lievemente verso di me. Io accostai prima la mia guancia sinistra e poi la destra contro le sue e mi riabbassai.

"Buona pesca, e buon lavoro!"

"Grazie, e buon viaggio!"

Si mise la giacca a vento ed aprì la porta; indugiò per un momento sulla soglia, poi afferrò la maniglia e richiuse l’uscio dietro di sé.

 

 

* * *

 

 

Mentre tornava verso la Northwestern, Sig si strofinò le gote con le mani: si sentiva la pelle in fiamme là dove le guance di Michelle l’avevano sfiorato. Sulla porta era stato sul punto di tornare dentro, afferrarla per la vita e baciarla teneramente, ma il pensiero che non si sarebbero mai più rivisti l’aveva trattenuto: che senso aveva approfondire quel sentimento verso una persona che se ne sarebbe andata da lì a poco e che non sarebbe mai più tornata?



Spazio autrice:
Salve a tutti! Nel rileggere questo capitolo mi sono accorta di quanto sia stato ispirato dalla "Prova del cuoco", con tutte queste ricette! Ma, cosa volete... Con tutti questi programmi di cucina che ci sono al giorno d'oggi, è praticamente impossibile sfuggire ai ricettari! ;-)
Ringrazio con tutto il cuore Lapoetastra per la sua gentilissima recensione!
Evelyn

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Capitolo 4
*** Una settimana da dimenticare ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.


 

Una settimana da dimenticare

 

La mattina dopo, all’alba, mi alzai appena in tempo per vedere la Northwestern che lasciava il porto. Con un sospiro pensai a Sig ed al fatto che non l’avrei più rivisto, e per togliermelo definitivamente dalla testa andai a farmi una doccia e mi concentrai con tutta me stessa al raggiungimento del mio scopo, in altre parole trovare un dannato traghetto per raggiungere Vladivostok, e da lì continuare il mio viaggio.

Dana mi diede una lista di nomi e indirizzi di persone che forse avrebbero potuto aiutarmi, e una piantina dell’isola per orientarmi. Rimasi fuori per tutta la mattina e anche buona parte del pomeriggio, ma senza alcun risultato. Tutti mi ripetevano la stessa cosa: non c’erano traghetti, né per la Russia, né per nessun altro luogo che non fosse Anchorage.

Tornai all’Elbow Room all’imbrunire, a metà tra il frustrato e l’avvilito, e mi lasciai cadere su una sedia frenando a stento la voglia di piangere a dirotto.

Non appena mi vide, Dana mi portò una tazza di caffè e mi chiese notizie. Scossi la testa sporgendo il labbro inferiore all’infuori e lei cercò di risollevarmi il morale:

"In settimana dovrebbero tornare anche gli altri pescherecci della flotta. Puoi chiedere a loro se conoscono qualcuno che possa aiutarti."

"Sì, ma io non ho il becco di un quattrino! Come salderò il mio debito?" mi lamentai, prendendomi la testa tra le mani.

"Mi è venuta un’idea: tu hai bisogno di soldi, io ho bisogno di un’aiutante. Lavorerai per me ed io ti pagherò!"

"E il vitto e l’alloggio? Non posso mica mangiare e dormire a tue spese!"

"Li detrarrò dal tuo stipendio… Allora, cosa ne dici?"

Non avevo altra scelta, perciò accettai la sua proposta, che mi avrebbe consentito quantomeno di mettere di nuovo qualche soldo da parte.

Quella sera non ci fu molto movimento, ma la mattina successiva notai un certo fermento sulle banchine: un peschereccio era già arrivato ed un altro stava attraccando. Lessi i loro nomi: Cornelia Marie e Lisa Marie. Mi venne da ridere e Dana, contenta nel vedermi allegra, si affacciò alla finestra insieme a me e chiese il perché di tanta ilarità:

"Quelle due barche hanno il nome molto simile, ed una e molto più piccola dell’altra, perciò mi hanno fatto pensare a mamma e figlia… Scusami, è un’idea scema!"

"È vero, lo sai che non ci avevo mai pensato?" ridacchiò anche lei mentre tornava dietro il bancone. Prese un pezzo di carta e mi scrisse una lista.

"Abbiamo bisogno di rifornimenti per sfamare quei marinai! Tieni, vai al magazzino a fare la spesa!" mi disse mentre mi consegnava il foglio. Mi spiegò dove dovevo andare ed io saltai a bordo di Saetta Grigia e mi diressi dove indicato.

Un’ora dopo, quando tornai, erano arrivati i camion che portavano via i granchi e il movimento sulle banchine era a dir poco frenetico. Si riuscivano a sentire le grida e le bestemmie dei pescatori persino da dentro il locale.

Nel pomeriggio aiutai Dana a preparare la cena e alle otto cominciarono ad arrivare i primi avventori: il capitano e l’equipaggio della Lisa Marie, che essendo la più piccola della flotta conteneva meno granchi, e quindi bastava meno tempo per svuotarla. Furono sorpresi nel trovare una nuova aiutante nel locale, si stupirono tutti quando seppero che stavo facendo il giro del mondo in automobile, ma nessuno di loro seppe aiutarmi a continuare il mio viaggio. Tutti dicevano la stessa cosa: niente traghetti.

Lo stesso accadde con quelli della Cornelia Marie: stessa sorpresa, stesso stupore, stesse risposte. Avvilita, alla fine della serata andai a dormire esausta.

La mattina dopo i due pescherecci erano già ripartiti per il mare aperto. Al loro posto vidi un’altra grossa imbarcazione, la Wizard.

La giornata si svolse esattamente come la precedente: andai a fare la spesa, aiutai Dana in cucina e chiesi informazioni al capitano Keith Colburn, a suo fratello e al resto della sua ciurma, ma neanche loro mi diedero una risposta positiva.

Il giorno dopo era Domenica, il tempo era brutto e nevicava. Non arrivarono pescherecci né tantomeno gente a piedi, a parte quei due o tre habitué che ormai avevo imparato a conoscere.

Con la ramazza in mano per spazzare nel salone principale, ogni volta che passavo davanti alla foto della Northwestern mi fermavo e sospiravo, appoggiandomi al manico della scopa. Nonostante tutto non riuscivo a togliermi dalla mente l’immagine di Sig, e visto che i giorni passavano senza che avessi buone notizie cominciai quasi a sperare di poterlo rivedere.

Durante una delle fermate la voce di Dana alle mie spalle mi fece sobbalzare:

"Vediamo se indovino quale dei due ti fa battere il cuore…"

Credevo di essere sola, perciò mi voltai verso di lei con aria colpevole:

"Scusami Dana, non volevo perdere tempo."

Lei scosse le spalle e continuò il suo discorso:

"Scommetto che stai sospirando per il bel capitano Sig, non è vero?" mi chiese, pungolandomi con un gomito.

Annuii semplicemente: "Sono così evidente?"

"Come un libro aperto, mia cara. È tutto il giorno che ti fermi, lo guardi e sospiri. Se non fosse di carta a quest’ora gli avresti fatto prendere un bel raffreddore" rise.

Sospirai ulteriormente, guardando a terra:

"Purtroppo è sposato… perciò non ho speranze! E poi io ripartirò presto, o almeno spero…"

"Mai dire mai, mia cara. Tutto è possibile al mondo!" rispose la donna, dandomi una pacca sulla spalla.

"Tranne l’uomo incinto…" commentai in italiano. Dana mi guardò interrogativamente e io tradussi la mia frase. Lei scoppiò a ridere e si allontanò verso la cucina.

"Questa è proprio bella! Tutto è possibile tranne l’uomo incinto! Me la devo proprio ricordare! Ah ah ah!"

Il lunedì mattina un nuovo peschereccio, l’Incentive, aveva attraccato al porto. Quella sera feci un nuovo tentativo con i suoi marinai, ma non ebbi miglior fortuna.

Il tempo passava e io mi abbattevo sempre più: una volta al giorno ricevevo una telefonata da mio padre che, in ogni chiamata, mi comunicava che la situazione sponsor peggiorava:

"Allora? Ci sono novità?" mi chiedeva ogni volta.

"No… L’ho chiesto persino ai sassi, ma tutti mi dicono che non ci sono traghetti! Per il momento la signora Dana mi sta dando un lavoro, ma non posso mica rimanere qui per tutto l’inverno! Come minimo fino a maggio non si smuoverà niente!"

"Mi ha chiamato un altro dei tuoi sponsor. Dicono che se non ti sbrighi a tornare smetteranno di finanziarti!"

"Come se fosse colpa mia… Almeno mi trovassi alle Maldive!" rispondevo ogni volta, con rabbia sempre crescente.

Dana ascoltava attentamente le mie conversazioni in italiano, come se sperasse di capirci qualcosa, poi mi chiedeva notizie. Io non potevo fare altro che risponderle sconsolatamente.

"I miei ultimi sponsor minacciano di abbandonarmi. Devo andarmene da qui prima possibile!"

Ma non succedeva niente, e io rimanevo bloccata a Dutch Harbor.

Il mercoledì arrivò una delle navi più grandi della flotta: la Time Bandit. Dana, mostrandomi la loro foto, mi spiegò che era capitanata dai fratelli Hillstrand – Johnatan, Andy e Neal – e di non aspettarmi troppo da loro.

"Quei tre non possono proprio essere definiti un esempio di educazione!" esclamò, additandoli e aggrottando le sopracciglia.

La sera, quando il gruppo di pescatori entrò nel locale, con Andy in testa, la prima frase che egli pronunciò fu:

"Ehi! Di chi diavolo è questo catorcio parcheggiato qui fuori? Non dirmi che è tuo, Dana! Dovresti farlo demolire subito, è un oltraggio alla vista!"

Ovviamente si riferiva a Saetta Grigia, che di solito parcheggiavo a pochi metri dalla porta d’ingresso per poter scaricare meglio la merce quando andavo a fare la spesa. Sentirla insultare in quel modo mi fece andare il sangue alla testa. Dana notò la mia espressione e mi bloccò sulla porta del salone, mettendomi una mano sulla spalla e scuotendo lievemente la testa.

"Lascia fare a me…" mi intimò, superandomi.

La donna si avvicinò al mezzano dei tre fratelli Hillstrand e lo apostrofò:

"La tua opinione non mi interessa, Andy! Davanti al mio locale tengo quello che voglio! Quella macchina è della mia nuova aiutante, che sta facendo il Giro del Mondo!"

L’uomo scoppiò a ridere:

"E chi è quella deficiente che si è messa in testa di fare il giro del mondo con quel trabiccolo?!"

Non potei trattenermi, e con una nuvola temporalesca al posto delle sopracciglia entrai a mia volta nella sala.

"Sono io! E il Giro del Mondo lo faccio con cosa cavolo mi pare! Hai qualcosa da dire?"

Andy alzò le mani come a dire: "mi arrendo":

"Calma, calma, non devi offenderti per così poco. Non ci ho mica sputato sopra, anche se forse lo farò all’uscita…" ridacchiò, imitato dai suoi compagni.

"Provaci, e ti farò ingoiare i denti!" gli sibilai in risposta, le mani strette a pugno, già pronta a scagliarmi su di lui.

Dana mi afferrò per le spalle, tentando di farmi calmare, mentre il pescatore riprendeva:

"Ohhh, che paura… Ehi, Johnatan, a quanto pare abbiamo un’altra matta da legare! Potresti chiedere a quel mentecatto di Sig Hansen di assumerti a bordo della sua bagnarola, insieme alla sua ciurma di morti di fame! Anche lui è innamorato della sua carretta, proprio come tu della tua!"

Il riferimento a Sig e agli altri mi fece perdere il lume dagli occhi. Dana mi spinse via a pura forza, impedendomi di replicare. Cominciai a bestemmiare in italiano; quando ero emozionata tornavo alla mia lingua madre:

"Lasciami andare che gliene dico quattro! Figlio di puttana! Testa di cazzo!"

Mentre Dana mi trascinava in cucina vidi Johnatan puntarsi un dito alla tempia e muoverlo in senso circolare, come a dire "questa è completamente andata fuori di zucca". Gli altri annuirono, poi la porta si chiuse e io non li vidi più.

Dana si mise le mani sui fianchi, e mi fissò con sguardo serio:

"Calmati Michelle, sei fuori di te! È inutile che sbraiti nella tua lingua: loro non ti capiscono e io nemmeno! Ti avevo chiesto di lasciar fare a me! Capisco che tieni molto alla tua auto, e che ti sei invaghita di Sig, ma quegli uomini, per quanto maleducati siano, sono pur sempre dei clienti, e io non posso accettare il tuo atteggiamento! Ti sei comportata peggio di loro! Ora ti ordino di rimanere in cucina e di non uscire fino a quando non se ne saranno andati! Sono stata chiara?" mi disse, secca, con le guance rosse dall’ira.

Era la prima volta che vedevo Dana infuriata, e la sua lavata di capo mi fece tornare in me.

"Sì, Dana, chiarissima. Scusami, ho perso la testa…"

Lei serrò le labbra in una linea sottile.

"D’accordo. Gli chiederò io se sanno niente di un possibile traghetto, anche se non mi aspetto una risposta gentile, a questo punto. Comunque, qualsiasi cosa dicano, non ti muovere da qui, ok?"

Annuii e mi misi a riempire i piatti.

Mentre sparecchiava, la donna chiese loro del traghetto e, dalla cucina, sentii Johnatan rispondere:

"Dille che, se vuole, glielo do io un passaggio, su un traghetto molto speciale… Dall’atteggiamento, mi pare di capire che ne abbia un gran bisogno!"

Gli altri scoppiarono in una risata sguaiata ed io me la presi con il povero canovaccio con cui stavo asciugando le stoviglie, arrotolandolo su se stesso come se volessi strangolarlo.

Alla fine, finalmente, si alzarono. Stavo per tirare un sospiro di sollievo quando udii la voce di Andy:

"Bene ragazzi! Andiamo a sistemare la carretta qui fuori! Vediamo se quella povera scema ci farà ingoiare i denti!"

Un’altra risata sguaiata accompagnò la loro uscita. Feci per andargli dietro, ma un’occhiata di Dana mi bloccò sulla soglia della cucina. Si affacciò alla finestra cercando di non essere vista e dopo pochi minuti tornò ad informarmi.

"Gli hanno sputato tutti contro, e Andy ha orinato sul vetro. Ha tentato di aprire lo sportello, ma non c’è riuscito. Ora se ne sono andati."

Ringraziai la mia buona abitudine di chiudere sempre le portiere a chiave, poi mi armai di secchio e detersivo per darle una ripulita.

"Povera Saetta" le sussurrai mentre lavavo via i ricordi di quei porci. "Ti è toccata anche questa… Speriamo di andarcene presto, eh?"

Involontariamente pensai a Sig: "Chissà dove sarà adesso…" mi chiesi guardando il mare in burrasca prima di rientrare.

 

* * *

 

A sei miglia di distanza da Dutch Harbor, la Northwestern veniva sballottata dalle onde come un guscio di noce. Sig, seduto nella sua poltrona della timoniera, si tolse gli occhiali da vista – da qualche tempo a quella parte non riusciva più a mettere a fuoco, da vicino – e si strofinò gli occhi: quella era stata una settimana tremenda, il mare non gli aveva mai dato tregua, le nasse erano mezze vuote e per due volte aveva dovuto sospendere la pesca perché le onde erano troppo grandi e spazzavano il ponte con troppa veemenza, mettendo a rischio le vite dei suoi compagni.

Aveva la barba lunga e necessitava assolutamente di una doccia, ma doveva ancora aspettare qualche ora.

Per l’ennesima volta si ritrovò a pensare a Michelle: "Chissà dove sarà adesso?" si chiese, convinto che la ragazza avesse lasciato Dutch Harbor almeno una settimana prima.

Diede un’occhiata allo schermo del gps: quella mattina sarebbero arrivati in porto. Oltre a tutti gli altri problemi che aveva avuto, anche il motore principale aveva dato segni di sofferenza. Doveva revisionarlo per bene prima di ripartire. Ma, questa volta, non ci sarebbe stato nessuno a chiedere il suo aiuto, pensò con un velo di tristezza. Sospirò e si rimise gli occhiali, riprendendo a scrivere numeri sul suo taccuino.

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Capitolo 5
*** Vendetta ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.




 

Vendetta

 

La mattina dopo, quando mi affacciai alla finestra della mia camera, con disappunto notai che la Time Bandit era ancora ormeggiata. Non c’era movimento sul ponte, o almeno qualcosa che potesse indicare una sua imminente partenza. Scesi le scale ma Dana mi fermò con il piede sull’ultimo gradino.

"Devo darti una brutta notizia…"

Il suo tono mi spaventò.

"Cos’è successo?"

"Mettiti seduta…"

"Dana, non farmi spaventare! Che c’è?" le chiesi, piena di apprensione, sedendomi in cucina. La mia mente corse veloce alla Northwestern: che fosse successo qualcosa a Sig e agli altri? Ma la notizia che mi diede la donna mi colpì:

"Si tratta della tua automobile."

"Saetta Grigia? Cosa le hanno fatto? Dimmelo, Dana!" feci per alzarmi e correre fuori ma lei mi fece sedere di nuovo.

"Le hanno tranciato tutte e quattro le gomme ed hanno lasciato anche dei ricordi… solidi sul cofano. Ho preferito essere io a dirtelo, prima di fartelo scoprire da sola."

Apprezzai molto il gesto:

"Grazie Dana… Sono stati gli Hillstrand?"

"Sì. Hanno lasciato la loro firma." La guardai interrogativamente e lei riprese. "Hanno disegnato sul cofano un teschio con le tibie incrociate usando una bomboletta di vernice spray."

Mi alzai con le gambe che mi tremavano e andai fuori: la mia povera Fiat Punto era in condizioni pietose. Avevano tranciato le gomme con un coltello – così sarei stata costretta a sostituirle. Sul cofano, avevano ammucchiato dello sterco che, a giudicare dalla forma, era di loro produzione, e avevano scarabocchiato la carrozzeria con un teschio, il simbolo della Time Bandit ben visibile sulla sua prua. Strinsi i pugni e lanciai un accidente agli Hillstrand.

"Che almeno vi venga il fuoco di Sant’Antonio sotto le palle!" sbraitai in italiano, dopo di che tornai dentro per armarmi di guanti di lattice, acqua e detersivo, per rimuovere almeno gli escrementi.

Quando tornai dentro, non appena finito il lavoro sporco, Dana stava sfogliando un’agendina telefonica.

"Sto cercando il numero di Steve, il gommista dell’isola" mi informò. "È a Unalaska. Posso chiedergli di venire qua e portare via le gomme per cambiarle."

"Purtroppo, Dana, non ho soldi per pagarle…"

"Ti darò un acconto sullo stipendio!"

"Ti ringrazio, sei veramente molto gentile, ma non posso accettare!"

"Se non le ripari non te ne potrai mai andare. Gli chiederò anche di portare qualcosa per ripulire la carrozzeria dallo spray!"

Il gommista arrivò mezz’ora dopo, portando una tanica di detersivo industriale molto aggressivo, e mentre smontava le ruote io mi misi a lavare via il teschio. Quando ebbe finito mi chiese se volevo andare con lui mentre riparava le gomme, così da scegliere quale tipo di copertone volevo. Dana mi diede "libera uscita", così salii sul suo camioncino ed andai con lui nella sua officina.

Scelsi un tipo di pneumatici non troppo costosi ma nemmeno troppo economici e rimasi a guardarlo mentre li rimontava sui cerchioni e li ricalibrava, controllandone la convergenza.

 

 

* * *

 

 

Quando la banchina di Dutch Harbor e l’Elbow Room furono ben visibili nella bruma mattutina il cuore di Sig perse un colpo: Saetta Grigia era ancora lì, parcheggiata davanti alla porta del locale. A una seconda occhiata, però, il cuore gli perse altri due colpi. La macchina non aveva le ruote ed era posata su quattro pezzi di legno.

"Cosa diavolo è successo!" esclamò a voce alta, rivolgendosi, come suo solito, alla sua imbarcazione.

Non poteva aspettare la sera. Non appena la Northwestern fu attraccata al molo scese di corsa le scale della timoniera, si fiondò sul ponte e saltò giù sulla banchina. Suo fratello Edgar gli gridò:

"Ehi! Dove diavolo stai andando così di corsa?" e, seguendo il suo sguardo, vide anche lui l’automobile posteggiata poco più il là su quattro ceppi di legno. Sorrise tra sé e scosse la testa, mentre suo fratello attraversava la strada correndo e si fiondava dentro l’Elbow Room.

La campanella tintinnò selvaggiamente quando Sig spalancò la porta gridando:

"Michelle, dove sei? Cosa è successo?"

Gli rispose Dana:

"Buongiorno Sig" lo accolse la donna, con un sorriso quasi eccessivo per la situazione, ma proprio non riusciva a trattenersi: era chiaro che anche Sig provava qualcosa di più che una semplice amicizia per quella ragazza che era piombata dal nulla nelle loro vite.

"Che cosa è successo a Saetta Grigia? Dov’è lei? Sta bene?"

"Calmati, Sig, una domanda alla volta!" ridacchiò lei. "Michelle è da Steve, a farsi sostituire le ruote; sì, sta bene, a parte forse che è furiosa! Gli Hillstrand se la sono presa con la macchina, perché secondo loro non merita di esistere. Hanno tranciato le gomme, ma forse vorrà raccontarti lei tutta la storia…"

Sig fece per prendere la porta:

"Vado da lei…" disse in fretta, ma Dana lo richiamò:

"Aspetta Sig!"

Lui si fermò guardandola interrogativamente e lei gli buttò le chiavi della sua macchina.

"Non puoi andare a piedi fino a Unalaska. E forse è meglio se ti metti un giubbotto o ti beccherai un malanno!"

Lui si guardò: era in maniche di camicia. Era sceso dalla Northwestern talmente agitato che si era dimenticato persino di mettersi la giacca a vento.

La ringraziò, tornò di corsa a bordo per indossarla, avvertì gli altri che sarebbe stato assente per un po’, poi tornò al garage del locale, prese la macchina della donna e si diresse a Unalaska.

Dopo dieci minuti arrivò all’officina di Steve: lasciò la macchina di traverso fuori del portone, senza curarsi di parcheggiarla, ed entrò nel garage.

La vide subito: era in piedi, vicino alla macchina per la convergenza. Aveva i capelli un po’ arruffati che gli sfuggivano a ciuffetti dal fermaglio, le guance arrossate per il freddo e gli occhi lucidi per la rabbia. La trovò assolutamente irresistibile e capì in quel momento di essersi innamorato di lei.

 

 

* * *

 

 

Quando, con la coda dell’occhio, vidi un movimento e mi voltai in direzione del portone, lì per lì pensai di aver avuto una visione. Sbattei le palpebre per schiarirmi la vista, ma Sig Hansen era ancora lì, in piedi, con la barba di una settimana e i capelli tutti arruffati.

Senza pensare mi fiondai fra le sue braccia, che lui spalancò per accogliermi e poi riserrò subito dopo, stringendomi in un caldo abbraccio. Ora che lui era lì la mia rabbia si sciolse in lacrime.

"Oh, Sig!" singhiozzai. "Meno male che sei arrivato tu! È stato terribile!"

Affondai la testa nella curva del suo collo: olezzava di sudore, salmastro e fumo di sigarette, ma il suo odore non mi diede fastidio, anzi, rese la sua presenza ancora più reale.

Lui cominciò ad accarezzarmi la schiena, sussurrandomi di stare calma e baciandomi la testa e la fronte.

"Shh, non fare così, ci sono io con te adesso…"

Mi crogiolai nel suo calore, cercando di riguadagnare un certo controllo. Sentivo il suo cuore battere forte e lento nella sua cassa toracica, e quel rumore cupo e costante mi rilassò. Alzai gli occhi su di lui, che mi asciugò le lacrime con la mano.

"Raccontami cosa è successo" mi chiese, guidandomi fuori dell’officina.

"Sono stati gli Hillstrand! Sono arrivati ieri sera, e hanno offeso prima Saetta Grigia e poi te e gli altri ragazzi! Hanno detto che sei un mentecatto, e gli altri dei morti di fame… Io volevo difenderti, ma Dana mi ha portato via!"

Sig scosse lievemente la testa:

"Non avresti dovuto prendere le mie parti. Quei tre sono dei bastardi!" disse, sibilando con amarezza. Io ripresi il mio racconto confusionario.

"Quando sono andati via, ieri sera, hanno riempito Saetta Grigia di sputi e Andy ci ha pisciato sopra! Poi, stamani, quando sono scesa Dana mi ha avvertito che non avrei trovato un bello spettacolo. Le hanno tranciato le gomme, le hanno riempito il cofano di merda e le hanno disegnato un teschio addosso… Le ho tolto subito gli stronzi e il teschio e ora stavo aspettando le gomme!"

Mentre parlavo, avevo continuato a rivolgermi alla mia auto come se fosse stata una persona e Sig aveva annuito con serietà.

"I fratelli Hillstrand sono tre figli di puttana!" esclamò rudemente, stringendo i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. "Non so perché, ma ce l’hanno con la mia famiglia da anni! Parlerò con i ragazzi: vendicheremo te e Saetta Grigia, te lo prometto!"

Mi lasciai nuovamente andare tra le sue braccia:

"Grazie Sig… Oh, sono così felice di vederti! Credevo che saresti rimasto via più a lungo!"

"Bè, in effetti era mia intenzione trattenermi di più in mare aperto, ma la Northwestern non è stata troppo bene ultimamente, ha un motore che fa le bizze. Abbiamo rischiato di rimanere bloccati in alto mare, perciò ho deciso di rientrare per ripararlo."

Notai che anche lui si era riferito al suo peschereccio come a una persona, e questo mi fece sentire ancora più in intimità con lui: solo Sig poteva capire quello che provavo in quel momento.

Subito dopo, Steve mi avvertì che le ruote erano pronte: potevamo tornare a Dutch Harbor. Sig mi offrì di salire con lui sull’auto di Dana e io accettai.

Una volta a bordo gli chiesi:

"Ma tu non saresti dovuto rimanere a bordo a controllare i lavori?"

"I miei fratelli se la cavano anche senza di me!" mi rispose con un sorriso dolce. "Io… quando ho visto Saetta Grigia senza ruote non ho potuto aspettare: dovevo sapere cosa era successo, e se tu stavi bene. Ora che lo so, posso tornare a bordo. Ci vedremo stasera da Dana!"

"Sì! Voglio prepararvi un’altra specialità italiana!"

"Bene, non vedo l’ora di assaggiarla!"

Parcheggiò l’auto nel garage e mi diede un bacio sulla fronte prima di tornare a bordo. Io rimasi fuori, osservando Steve che rimontava le ruote e non appena Sig fu risalito nella timoniera sentii la sua voce amplificata che chiamava i suoi compagni all’interno.

 

 

* * *

 

 

Non appena si furono tutti seduti al tavolo della cambusa, Sig raccontò agli altri quello che era successo.

Quando seppero tutto per filo e per segno si alzarono voci indignate: potevano anche far passare il "morti di fame", ma non potevano sopportare che quei pezzi di merda si fossero comportati in quel modo con la ragazza che, per sdebitarsi con il loro capitano, aveva preparato una buona cenetta per tutti loro. Jake si alzò in piedi e disse, battendo il pugno sul tavolo:

"Propongo di ripagarli con la stessa moneta: merda alla Time Bandit!"

"Sì!" gridarono gli altri all’unisono, alzando i pugni al soffitto.

"Bene ragazzi!" disse loro Sig, serio. "Voglio che produciate un bel po’ di merda da spargere sul loro ponte! Io darò il buon esempio!" e afferrando un sacchetto di nylon che spuntava da un cassetto si chiuse nel bagno della sua cabina.

 

* * *

 

Fra le altre cose che mia zia mi aveva affibbiato alla partenza, c’era anche un sacco di farina di mais. Se Dana avesse preparato ancora lo spezzatino, cui pensavo di aggiungere un po’ di funghi secchi per arricchirne il sapore, avrei potuto cuocere una bella polenta.

Illustrai la mia idea alla donna, che accettò subito con entusiasmo: le piaceva molto sperimentare in cucina.

Stavamo armeggiando intorno ai fornelli quando la campanella suonò, annunciando che qualcuno era entrato. Con sorpresa di entrambe, Edgar e Jake fecero capolino in cucina.

Dana li guardò interrogativamente, e quelli prima le fecero un inchino, poi si rivolsero a me.

"Sig ci ha raccontato quello che è successo, e abbiamo deciso di ripagare gli Hillstrand con la loro stessa moneta. Non so se mi spiego" cominciò Edgar, e io annuii.

"Perciò siamo venuti a chiederti se volevi contribuire alla vendetta!" concluse Jake.

"Con molto piacere! Ho giusto un certo stimolo…"

Edgar sorrise e tirò fuori dalla tasca un sacchetto di nylon. Lo afferrai per i manici e dissi: "Mi ritiro per deliberare!" prima di chiudermi in bagno.

Tornai fuori cinque minuti dopo, con la bustina appesantita da una buona dose di rifiuti corporali, che Jake prese in consegna e soppesò con espressione piuttosto soddisfatta. I due marinai stavano per andarsene quando Dana afferrò un altro sacchetto ed esclamò:

"Aspettate un momento! Ho anch’io un regalo da fare a quei porci!"

Noi tre ci guardammo stupiti, e mentre aspettavamo che tornasse mi balenò in mente un’altra idea.

"Ehi, ragazzi, come pensate di consegnargliela?"

"Gliene faremo un bel mucchio davanti alla porta per scendere sotto coperta. Domani dovranno spalare se vorranno uscire" ridacchiò Jake.

"Mi è venuta un’idea! E se gliela spargessimo per tutto il ponte?"

"Ci vorrebbe troppo tempo. Potrebbero sentirci e accorgersene" disse Edgar, anche se a malincuore. Si vedeva da lontano un miglio che aveva una voglia matta di combinarla grossa.

"E se utilizzassimo un’esplosione per spargerla?" continuai io, più che mai determinata ad arrivare fino in fondo alla vendetta.

"Un’esplosione?! Ma sei impazzita?" urlò Jake, sobbalzando, ma sia io che Edgar gli facemmo cenno di stare in silenzio.

"Spiegati meglio…" mi chiese il minore degli Hansen.

"Si tratta di un’esplosione controllata, ma di notevole effetto. Ci vuole un palloncino di gomma gonfiato di ossigeno e gas di acetilene. È stato mio cugino a insegnarmelo. Fanno un gran bel botto, e un bello spostamento d’aria. Se mettiamo il pallone vicino alla timoniera, con accanto i nostri ricordi, l’onda d’urto farà il resto, spargendo la merda da tutte le parti. Allora, cosa ne dite?"

Mentre parlavo il sorriso di Edgar si era allargato sempre più.

"Finalmente una ragazza come si deve!" esclamò, battendosi il pugno sul petto. "Ti stai rivolgendo proprio alla persona giusta! Non per niente, a bordo tutti mi chiamano "il piromane"! Possiamo andare da Steve a farci prestare l’ossigeno e il gas di acetilene, ma tu lo sai come vanno miscelati?"

"Sì, con mio cugino ne abbiamo fatti parecchi."

"Perfetto! Così, domani, dovranno lavare tutta la nave se vogliono togliere la merda! Sei grande, Michelle! Se Sig non avesse già messo gli occhi su di te, ce lo farei io un pensierino… Dove lo troviamo un palloncino abbastanza grande, però?"

Fu costretto a ripetere la domanda prima che io potessi assimilarla. Ero rimasta bloccata alla frase precedente: "Se Sig non avesse già messo gli occhi su di te…". Il mio cuore perse parecchi battiti, in quel momento e anche più tardi, ogni volta che quella frase mi tornò alla memoria.

"Se non ricordo male, ne ho visto un sacchetto da qualche parte… Possiamo chiederlo a Dana!"

In quel momento la donna riemerse dal bagno con il suo contributo, che anche lei consegnò a Jake.

"Cosa dovete chiedermi?"

"Hai mica per caso dei palloncini di gomma?" si informò Edgar, già in fibrillazione per la splendida idea. Lei aggrottò la fronte mentre ci pensava.

"Mi sembra di sì… Ne devono essere rimasti dall’ultimo compleanno di mia nipote. Perché, a cosa vi servono?"

"Per fare una consegna" risposi, ridendo sotto i baffi e guardando di sottecchi il fratello di Sig.

"Ha qualcosa a che fare con la vendetta?" chiese lei, indicando i sacchetti.

"In un certo senso…"

Si mise a rovistare nei cassetti della cucina, e dall’ultimo tirò fuori due sacchetti di palloncini, uno di taglia normale e l’altro formato gigante. Presi subito un palloncino bianco da quest’ultimo sacchetto e lo consegnai a Edgar.

"Quando lo dobbiamo riempire?" mi chiese lui.

"Potremmo farlo anche subito, ma se poi il nodo non è abbastanza stretto potrebbe perdere potenza. Sarebbe meglio farlo sul momento!"

"Ok. Allora vado da Steve a prendere le bombole! Posso prendere la tua auto, Dana?"

Lei per tutta risposta gli buttò le chiavi.

"Perfetto! Jake, tu torna a bordo e aggiungi quelli al resto!" riprese Edgar, indicando le bustine. " Ci vediamo a cena! A proposito, sento un odorino… È per noi?"

"Sì, è per voi… E ora smammate, quei sacchetti cominciano a puzzare un po’ troppo per i miei gusti!" Dana li minacciò con un cucchiaio di legno e quelli se ne andarono ridendo.

"Cos’avete in mente di fare?" mi chiese la donna, mescolando lo spezzatino.

"Oh, lo sentirai Dana, lo sentirai, non preoccuparti!" gli risposi, enigmatica.

 

 

* * *

 

 

Mezz’ora dopo, Edgar tornò a bordo della Northwestern trascinando un carrello carico di due bombole di gas complete di tubi di gomma. Jake aveva già aggiunto gli escrementi delle due donne a quelle del resto della ciurma, a cui aveva poi mischiato le viscere dei pesci usati come esche per la pesca dei granchi. Il fetore era insopportabile, ma non potevano certo lasciare fuori quella mistura, altrimenti avrebbero sentito la puzza anche dalla Time Bandit, che era ormeggiata poco più avanti, e i marinai avrebbero potuto accorgersi di qualcosa. Erano tutti impazienti di lasciare la barca e Sig non fu contento di vedere le bombole. Sapeva molto bene che suo fratello minore amava qualsiasi tipo di fiamma, perciò non appena lo vide entrare dentro con il carrello lo bloccò subito.

"Cos’hai intenzione di fare con quelle?"

"Michelle ha avuto un’idea fantastica, fratellone! Non vedo l’ora di metterla in atto! Sai, se tu non le avessi già messo gli occhi addosso, ci farei io un pensierino…" scherzò, mentre sistemava l’attrezzatura.

Sig sentì un impetuoso moto di gelosia salirgli alla gola, e Edgar se ne accorse, poiché continuò:

"Non preoccuparti Sig, non te la rubo!"

Il capitano sospirò: "Sono così evidente?"

"Come un libro aperto… Sai, forse potrebbe proprio essere la ragazza giusta per te. Ce la vedrei bene al tuo fianco nella timoniera!"

Sig arrossì e Edgar gli strizzò l’occhio, poi andò a cambiarsi e non appena fu pronto andarono tutti all’Elbow Room, lieti di lasciarsi alle spalle l’odore pestilenziale della loro vendetta.

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Capitolo 6
*** Bomba Boomerang ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.



 

Bomba Boomerang

 

 

Quando Sig e gli altri arrivarono all’Elbow Room, i pescatori della Time Bandit stavano già cenando. Gli Hansen ed i fratelli Hillstrand si scambiarono solo un secco cenno del capo, poi la ciurma della Northwestern al completo si mise a sedere al tavolo che aveva già occupato una settimana prima. Solo quando furono tutti seduti si accorsero che mancava un posto.

"Come mai Michelle non cena con noi?" chiese Sig a Dana, visibilmente deluso di non poterla avere al suo fianco.

"Non vuole stare nella stessa stanza troppo a lungo con quelli là" gli rispose la donna, indicando con il mento la ciurma della Time Bandit. "Ma non preoccuparti, la vedrai, vi servirà lei… Stasera vi ha preparato un piatto tipico del suo paese: "polenta con spezzatino e funghi"."

"Polenta? E cosa sarebbe?" chiese Norman, lievemente dubbioso.

"Mah, una specie di farinata, fatta con la farina di mais. L’ho assaggiata, e non è affatto male!"

"Quando uno ha fame mangia di tutto!" commentò Nick, con lo stomaco che brontolava. "Falla entrare, perché ci vedo già doppio, e non mi pare il caso di vedere doppia Time Bandit…"

Risero, Dana compresa, mentre dall’altro tavolo giungevano sprazzi di conversazione riguardo alla loro bravata su Saetta Grigia.

Quando entrai con il vassoio della polenta, Andy stava raccontando di come aveva orinato sulla mia Punto, e dovetti fare appello a tutta la mia buona volontà per non rovesciargli il vassoio con la polenta bollente sulla testa.

Dana mi seguì con lo spezzatino, e io servii per primo il capitano. Gli porsi il piatto colmo di cibo e lui prese subito una forchettata di polenta.

"Intingila nel sugo…" gli suggerii, posandogli una mano sulla spalla.

Lui se la portò alla bocca e annuì, soddisfatto:

"Particolare, ma molto buona!" disse, con la bocca piena.

Gli altri si riempirono i piatti e si misero a mangiare di gusto, spolpando la carne fino alle ossa e grattando il vassoio della polenta per raccoglierne ogni briciola.

Gli Hillstrand e la loro ciurma allungarono il collo per vedere cosa stavano mangiando gli altri e quando, dopo aver portato loro altre birre, mi allontanai dal tavolo della Northwestern passando accanto a quello della Time Bandit, Johnatan mi afferrò per un polso.

"Come mai loro mangiano quel pastone e noi no?" mi chiese rudemente.

Sig e gli altri alzarono immediatamente lo sguardo dai piatti.

"Se ve lo avessi proposto, l’avreste voluto?" chiesi, cercando di contenere l’astio nella mia voce.

"Forse no… Ma se tu mi avessi proposto un’altra cosa forse avrei potuto accettare…"

Fece ondeggiare la lingua da un lato all’altro della bocca in una posa oscena. Con la coda dell’occhio vidi Sig stringere convulsamente il tovagliolo; ma non avevo bisogno del suo intervento.

"No, grazie, gli scorfani li butto via anche quando li pesco, sennò mi vien voglia di vomitare" risposi, utilizzando una battuta del film "Rimini Rimini" che mi era sempre piaciuta.

Il tavolo della Northwestern esplose in una sonora risata; con uno strattone mi liberai dalla sua presa e tornai in cucina.

Quando rientrai nel salone per sparecchiare Jake mi accolse, esclamando:

"Sei stata grande!"

Gli strizzai l’occhio e chiesi, mentre raccoglievo i piatti:

"Allora, vi è piaciuta?"

"Ottima!" esclamarono in coro.

"Bene, mi fa piacere! È un piatto tipico della nostra tradizione! Mio marito ne va matto…" dissi, senza nemmeno sapere perché e pentendomene subito dopo.

 

 

* * *

 

 

Sig si sentì cadere una tegola in testa: "È sposata! Come ho potuto non pensarci prima?" pensò, mentre il suo sguardo correva alla mano sinistra di lei: non indossava nessun anello. Avrebbe voluto saperne di più, ed Edgar lo prevenne.

"Sei sposata?" le chiese.

"Sì" rispose lei. "O meglio, lo ero… Mio marito mi ha lasciato qualche mese fa, prima della mia partenza… È per questo che ho deciso di fare il Giro del Mondo: per cambiare aria."

"È per questo che non hai la fede?" le chiese Sig con la gola secca. Lei fissò la sua mano sinistra.

"Sì, togliermi la fede è stata la prima cosa che ho fatto."

Senza volere, il pollice del capitano corse alla sua, di vere: lui, al contrario, non aveva avuto il coraggio di togliersela.

Tirò comunque un sospiro di sollievo. Michelle non aveva vincoli sentimentali.

 

 

* * *

 

 

Una volta in cucina misi subito i piatti nella lavastoviglie. Quando tornai di là trovai la stanza vuota. Dana era alla finestra e mi fece cenno di raggiungerla: l’equipaggio della Northwestern era uscito in massa compatta e tutti si erano messi a fumare, appoggiati contro Saetta Grigia, come un picchetto d’onore. I marinai della Time Bandit avevano pagato ed erano usciti, ma non avevano potuto avvicinarsi alla mia auto, scortata com’era da tali guardie del corpo. Dana mi diede di gomito indicandomi Sig e i suoi due fratelli, al centro della scena, appoggiati alle portiere, che guardavano fissi i fratelli Hillstrand, fermi dall’altra parte della strada. Sembravano pronti per un duello alla Far West. Dopo qualche attimo quelli della Time Bandit sparirono nell’oscurità, diretti al loro peschereccio, e Sig e gli altri buttarono via i loro mozziconi quasi all’unisono prima di rientrare nel locale.

Andai loro incontro ridendo:

"Ehi… Mi aspettavo solo di vedervi tirar fuori le pistole, come in un duello che si rispetti!"

Edgar fece finta di tirare fuori una pistola dalla fondina, mimandola con la mano, e sparò qualche colpo in direzione della Time Bandit; soffiandosi poi sulla punta del dito indice.

Gli altri risero ed io mi avvicinai al capitano:

"Grazie, da parte di Saetta Grigia: con tali guardie del corpo non ha più niente da temere!"

"È stato un piacere."

"Spero solo che la vendetta di stasera non porti a conseguenze nefaste per la Northwestern. Non me lo perdonerei mai!"

Sig si strinse nelle spalle. " Sappiamo come difenderci… Non preoccuparti per noi."

Rimanemmo a guardarci negli occhi senza parlare: fu come se il tempo si fosse fermato. Quando Edgar richiamò la nostra attenzione, solo un minuto più tardi, ebbi l’impressione che fossero passate ore.

"Allora, andiamo? È il momento di agire, ragazzi!"

Il capitano annuì, pagò ed uscimmo.

Cercando di fare meno rumore possibile, per non farci sentire dalla Time Bandit, la nostra comitiva si mosse in fila indiana lungo il marciapiede. Salimmo sul ponte della Northwestern e da lì scendemmo sotto coperta.

L’odore nauseabondo che proveniva dalla sala macchine mi colpì come un pugno.

"Mamma mia!" esclamai, tappandomi il naso: "Mangerete bene ragazzi, ma vi dico io che cacate male però eh…"

Jake rise: "Ho aggiunto un ingrediente segreto."

"Vale a dire?" chiesi, facendomi vento con la mano per tentare di rendere l’aria almeno un pochino più respirabile.

"Le viscere delle nostre esche!"

"Ahhh! Ora capisco… Bene! Edgar, dove hai messo il palloncino?"

"Eccolo!" Lo tirò fuori dalla tasca dei pantaloni e lo sventolò davanti ai nostri nasi, prima di posarlo sul tavolo della cambusa.

"Molto bene. Sig, hai per caso una penna, o un pennarello?"

"Sì, su nella timoniera. Perché?"

"Vallo a prendere, che firmo la bomba!"

Il capitano sparì su per la stretta scaletta che conduceva nella timoniera, mentre Edgar andava a prendere il carrello con le bombole.

Tornarono in contemporanea. Io stesi bene il palloncino e con la penna che il capitano mi aveva portato cominciai a disegnare: prima feci un fulmine e scrissi una S ed una G, le iniziali della mia auto, poi sotto scrissi F/V Northwestern; e mentre lo facevo spiegai cosa e perché lo scrivevo.

"S.G. sta per Saetta Grigia, che è la prima parte lesa in tutta questa vicenda, e poi ho messo il nome del peschereccio, perché Andy ha offeso sia lei, chiamandola bagnarola, che voi, chiamandovi morti di fame… Volete aggiungere qualcosa?"

Tutti annuirono, e uno dopo l’altro scrissero varie volgarità assortite. Quando la penna tornò a me, nell’ultimo spazio rimasto bianco scrissi "Bomba boomerang".

"Perché "bomba boomerang"? Cosa vuol dire?" mi chiese Matt, grattandosi il mento ruvido di barba.

"Vedi, Matt" spiegai, "in un’esplosione, quanto più è potente l’onda d’urto che allontana gli oggetti dal punto dello scoppio, tanto più lo è l’onda di richiamo, che riporta l’aria nel punto dell’esplosione stessa… Sì, è un po’ complicato, anch’io ci ho messo un po’ a capirlo quando mio cugino si ostinava a spiegarmelo" aggiunsi, nel vedere che aveva cominciato a grattarsi anche la testa. "Un'esplosione provoca un vuoto d’aria" ripresi, "ma un vuoto d’aria non dura in eterno, e tanto più velocemente l’aria si allontana, tanto più velocemente torna al suo posto. Ecco perché boomerang: perché l’aria torna indietro proprio come un boomerang. Se i miei calcoli sono esatti, tutto quello che non è fissato sul ponte della Time Bandit cambierà di posto. Oltre a dover pulire un bel po’ di merda, dovranno anche rimettere a posto un bel po’ di roba."

"Non sarà troppo?" chiese Norman che, ormai avevo capito, era il più pacato dei fratelli Hansen; ma Edgar lo bloccò.

"Non preoccuparti fratello, quelli si meritano anche di peggio! Allora, lo gonfiamo? Non vedo l’ora di provare questa bellezza!"

Il minore degli Hansen non stava più nella pelle. Gli feci aprire le bombole, miscelare i due gas ed infine infilai il palloncino sul beccuccio che stava in cima al tubo di gomma che collegava le due bombole.

Quello che avevo scelto era molto grande, perciò ci volle quasi un quarto d’ora per riempirlo. Una volta pieno e legato ben bene Edgar chiuse le bombole e Jake andò a prendere il sacco degli escrementi.

"Aspettate! Ci vuole un pezzo di carta, qualcosa che faccia da miccia… e dello scotch per fissarlo!" li richiamai.

"Ci penso io!" disse Matt, e con stoicismo andò a staccare dalla parete della sua branda il poster di una donna nuda. "Ormai mi aveva stufato" disse, arrotolando la carta che io attaccai al fondo del palloncino con il pezzo di nastro adesivo che Nick mi porgeva.

"Bene, siamo pronti! Edgar, mi raccomando, accendi la carta in fondo" e gli indicai la coda del rotolino. "Non farti prendere dalla smania! Non lo accendere nel centro, non voglio che il pallone scoppi prima che tu sia tornato a bordo, siamo intesi?"

Scattò sull’attenti, saltò giù dal ponte e si incamminò verso la Time Bandit, mentre noi altri ci accostammo contro la parete esterna della timoniera da dove, pur rimanendo nell’ombra, potevamo seguire tutta la scena.

Vedemmo Edgar salire furtivo sul ponte del peschereccio; sistemò con cura il palloncino esplosivo accanto al sacco di merda, poi con l’accendino incendiò l’estremità del rotolino di carta. Dopo di che, saltò giù al volo sul molo e tornò di corsa da noi, sistemandosi accanto a me, con il fiato corto.

"Fatto! Ora quanto dobbiamo aspettare?" sussurrò ansimando.

"Non molto… il tempo che la fiamma raggiunga il palloncino."

Dalla nostra posizione riuscivamo a vedere alla perfezione la fiammella che, verdolina per l’inchiostro della fotografia, si spostava lentamente verso la bomba. Io ero l’unica a sapere cosa aspettarmi, così involontariamente mi accostai a Sig, stringendogli un braccio con entrambe le mani, in cerca di protezione ma anche per resistere alla tentazione di tapparmi le orecchie.

Il silenzio era rotto soltanto dal quieto sciabordio dell’acqua contro lo scafo della Northwestern e, quando il pallone esplose, il boato risuonò per tutta Dutch Harbor ed anche oltre.

La fiammata provocata dal gas incendiato si stampò sulle nostre retine, mentre il sacco si lacerava spedendo la nostra miscela fin sulle finestre della timoniera e per tutto il ponte. Le boe, allineate in una pila ordinata accanto alla murata, furono proiettate in avanti come sospinte da una molla; le nasse più vicine furono catapultate prima all’indietro e poi in senso contrario, fino a ricadere con fracasso sul ponte; il secchio di plastica che veniva utilizzato per contenere le esche volò via come un pezzo di carta, andando a sfasciarsi sulla banchina. Dopo pochi istanti i marinai, sconvolti, apparvero sulla porta, guardandosi intorno, allucinati, per cercare di capire cosa fosse successo. Furono accolti dalla fragorosa risata che intanto si era scatenata a bordo della Northwestern.

"Baciateci il culo, Hillstrand!" gridò Jake, mettendosi le mani a coppa ai lati della bocca per farsi sentire meglio. "Chi di merda ferisce di merda perisce!"

L’equipaggio aveva cominciato a darsi "il cinque", esultando di gioia come se avessero vinto una guerra. Edgar mi travolse in un abbraccio.

"Questa sì che è un’esplosione, sorella! Edgar il piromane è molto soddisfatto!" mi gridò nelle orecchie, poi tornò correndo da suo fratello Norman e dagli altri, scambiando con tutti abbracci e strette di mano.

Solo Sig rimase fermo al suo posto: quando alzai gli occhi vidi che mi stava guardando. Io lo stavo ancora tenendo sottobraccio e lui mi fece voltare verso di sé, stringendomi le mani tra le sue. Mi persi nei suoi occhi blu e mi resi conto che si era piegato verso di me solo quando le sue labbra si posarono sulle mie. Rimasi di pietra, incapace di reagire. Dopo un istante si ritrasse e mormorò, semplicemente:

"Ti amo."

Quelle due parole mi riscossero dal mio torpore. Scossi la testa.

"No, non puoi…" balbettai, ma lui mi interruppe.

"Credo di essermi innamorato di te dal primo momento che ti ho vista…"

"No Sig, no… Tu sei sposato…" balbettai ancora, incredula, convinta di non aver ben capito, ma quella volta fu lui a scuotere la testa.

"Mia moglie mi ha lasciato pochi giorni prima di lasciare Shoreline…"

"No, non è possibile… Hai la fede al dito…" biascicai, sempre più confusa.

"Non ho avuto il tuo coraggio… Non fino ad ora…" rispose, e lentamente si sfilò l’anello dal dito, lasciandolo cadere sul ponte.

Un gemito strozzato mi morì in gola quando le sue labbra si posarono di nuovo sulle mie, socchiudendosi subito dopo per approfondire il bacio. Non opposi resistenza: lui mi afferrò per la vita, stringendomi a sé, mentre io gli passai le braccia intorno al collo. Il resto del mondo sparì dalla mia mente, e rimanemmo solo io e lui.

 

 

* * *

 

 

Quando Michelle lo afferrò per un braccio, prima dell’esplosione, Sig si sentì mancare: nella sua mente il boato e le sue conseguenze furono solo immagini marginali di quello che era il più bell’istante della serata. Quando lei alzò lo sguardo su di lui, Sig non ebbe più dubbi: l’amava.

Si piegò verso di lei e la baciò, mentre lei tentava di protestare che non doveva, perché era sposato. Per tutta risposta lui si tolse la fede e la fece cadere sul ponte, tornando poi a posare le sue labbra su quelle di lei, che si schiusero in contemporanea con le sue. Il resto del mondo sparì dalla sua mente e rimasero solo loro due.

Quando Edgar, dopo diversi minuti, si voltò verso di loro per richiamarli all’interno, si rese conto che suo fratello e Michelle erano avvinghiati l’uno all’altra, impegnati in un bacio mozzafiato. Non avrebbero certo prestato attenzione a lui. Scosse la testa ed entrò sotto coperta, dove gli altri membri dell’equipaggio stavano continuando a festeggiare la loro bravata.

 

 

* * *

 

 

L’incantesimo fu rotto dallo squillo stridulo del mio cellulare. Riluttante, mi staccai dalle labbra di Sig.

"Non mi va di rispondere…" mormorai, tornando subito a baciarlo.

Questa volta fu lui ad allontanarsi:

"Almeno guarda chi è."

Sospirai ed estrassi il cellulare dalla tasca del piumino. Era mio zio, perciò risposi, anche se a malincuore. Sig fece per allontanarsi, ma io lo afferrai per un braccio, attirandolo verso di me.

"Pronto?"

"Ehi, sono io! Stavi dormendo? Non ho ancora mica capito che ore sono lì da te!"

"No, sono ancora alzata… Dimmi, cosa c’è?"

"Ha appena chiamato la ditta "Vattelappesca"."

Il cuore mi perse un colpo: era uno degli ultimi miei due sponsor.

"E che cosa ti hanno detto…?" chiesi, timorosa di ascoltare la sua risposta.

"Che loro si ritirano. Sei ancora bloccata in Alaska e non vogliono più finanziarti. Il problema è che anche noi siamo nei casini! Con tutte le tasse da pagare non ce la facciamo più a mandarti tutti i soldi che ti servono!"

"E la ditta "Pinco Pallino"?" mi informai. Anche loro avevano continuato a finanziarmi nonostante le difficoltà.

"Macché, loro si sono ritirati quindici giorni fa! Ci eravamo dimenticati di dirtelo… Ora cosa pensi di fare?"

"Bè, per il momento un lavoro ce l’ho e posso tirare a campare" mormorai cupamente. "Il problema è che più passa il tempo e meno probabilità ho di trovare traghetti! È un bel dramma… Comincio a temere che dovrò rimanere qui fino a primavera! Cercherò di trovare il modo di partire, caso mai tornerò più a sud. Ora ti saluto, altrimenti questa telefonata ti costerà una fortuna. Ciao…"

"Ciao."

Non appena riattaccai cominciai a recitare una fila di bestemmie a mo’ di rosario. Sig rimase a fissarmi sconcertato mentre imprecavo in italiano come una turca. Quando finalmente rimasi a corto di improperi mi si avvicinò e mi chiese se, come gli era parso di capire, c’erano problemi.

"Eccome se ce ne sono! Sono rimasta senza sponsor! Niente più quattrini dall’Italia, neanche da mio padre e mio zio! Hanno molte altre cose da pagare, più importanti, per la ditta! Se non trovo qualcuno che mi porti in Russia alla svelta dovrò tornare verso il Canada, o ancora più giù, per attraversare il Pacifico! Che rottura!"

Il capitano mi carezzò amorevolmente una guancia, mentre io mi stringevo nuovamente a lui.

"Ti va di venire a cena con me, domani sera? Forse non risolverà i tuoi problemi, ma almeno te li dimenticherai per un po’" mi sussurrò all’orecchio con la sua voce roca, che ogni volta mi faceva rabbrividire.

"Molto volentieri! Dovrò chiedere un paio di ore libere a Dana, ma credo che non ci saranno difficoltà. A parte voi pescatori, non c’è molto altro movimento da queste parti. Ma… tu non devi ripartire?"

"Il motore non è ancora a posto; ripartiremo dopo domani."

"Allora a domani…"

Protesi il viso verso di lui per un altro bacio, che durò ancora più a lungo del primo poi, euforica, tornai all’Elbow Room.

Dana era affacciata alla finestra e non appena entrai mi affogò di parole, sulla bomba e sul momento di intimità successivo che lei aveva osservato dalla finestra. Le risposi con sguardo sognante e le chiesi il permesso per uscire con Sig la sera successiva.

"Ma certo, cara, che ti do il permesso! Tu vai tranquilla a cena con lui, che con il resto dell’equipaggio me la vedo io. Ora vai a dormire! Buonanotte!"

"Buonanotte Dana" e camminando a tre metri da terra andai nella mia camera.

 

 

* * *

 

 

Quella notte, prima di addormentarsi, Sig rifletté a lungo: tra meno di tre settimane la stagione di pesca ai granchi reali si sarebbe conclusa, e sarebbe passato un mese prima dell’apertura di quella agli Opilio; avrebbe potuto traghettarla lui fino in Russia, anche se non avrebbe potuto portarla fino a Vladivostok, ma magari alla penisola di Kamchatka… Certo, avrebbe dovuto contattare le autorità russe per farsi rilasciare il permesso di ingresso nelle loro acque territoriali, ma non pensava di avere grosse difficoltà per ottenerlo. Decise che ne avrebbe parlato con i suoi fratelli l’indomani stesso.

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Capitolo 7
*** Una decisione importante ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.






 

Una decisione importante

 

 

La mattina dopo, mentre lui ed Edgar si erano appena messi a smontare il motore del peschereccio per la seconda volta, Sig affrontò l’argomento su cui aveva meditato per tutta la notte.

"Edgar, devo chiederti una cosa importante!"

Suo fratello lo guardò di sottecchi, mentre continuava a svitare i bulloni del motore.

"Dimmi, fratellone."

"Cosa ne diresti di fare un viaggio fino alla Kamchatka?"

"Dove?! Dai russi? E a fare che?" chiese Edgar, incredulo, prendendo nel contempo un martello e cominciando a battere sui bulloni che la ruggine aveva bloccato.

"Ho pensato che potremmo traghettare noi Michelle dall’altra parte…"

Per la sorpresa, Edgar sbagliò la mira e si diede una martellata su un dito.

"Ahia! Merda, mi sono fatto male!" imprecò, scuotendo vigorosamente la mano ferita prima di riprendere. "Sei per caso impazzito, Sig?! Vorresti portarla tu di là?!"

"Non io, noi… Ho bisogno del tuo aiuto e di quello di Norman."

"E quando avresti intenzione di farlo?"

"Tra tre settimane finisce la stagione dei Reali: nel mese di tempo che abbiamo prima che cominci quella degli Opilio potremmo andare e tornare." Il tono del capitano non era mai stato così pacato: di solito, quando voleva qualcosa lo otteneva con la forza; ma in quel momento sapeva che, se si fosse impuntato, non avrebbe ottenuto nulla.

"Forse te ne sei dimenticato, ma in quel mese di pausa che abbiamo ci sono le vacanze di Natale, ed io vorrei tornarmene a casa, dalla mia famiglia! Non è colpa mia se Juna ti ha scaricato e tu non sai dove andare!" gli rispose sgarbatamente il minore, puntando il martello contro di lui. Lo sguardo di Sig si incupì ed Edgar si pentì subito di quell’ultima frase. "Scusa fratello, non volevo… Sono stato un idiota."

Sig si strinse nelle spalle, e l’altro riprese.

"Però, da quello che ho visto ieri sera, non mi pare che tua moglie ti manchi poi tanto, eh? Dimmi la verità" e cominciò a pungolarlo con il gomito.

"Bè… devo ammettere che è vero" disse il capitano, arrossendo violentemente. Ultimamente lo faceva un po’ troppo spesso, si ritrovò a pensare.

Edgar continuò:

"Bè, capisco la tua situazione, fratello… ma, rinunciare alle vacanze di Natale! E poi, se la porti di là, non la vedrai più."

"Lo so, ma lei ha il diritto di tornare a casa. Non appartiene a questo posto. Potremmo rimanere amici… forse."

Edgar lo guardò ancora una volta di sottecchi:

"Non dirmi che non te la porteresti a letto!"

"Sì, lo farei" ammise Sig, "ma non posso e non voglio illudermi. Lei tornerà in Italia ed io rimarrò qui a pescare granchi. Non posso approfondire un rapporto che non potrà mai durare. L’unica cosa che posso fare per lei è aiutarla a tornare sana e salva a casa sua, e se questo significa portarla di là con la Northwestern sono disponibilissimo a rischiare. Se tu e Norman mi date una mano, però, sarebbe meglio."

Una voce li sorprese parlando alle loro spalle:

"Conta pure su di me, fratellone!"

Si voltarono. Norman era sceso per controllare il lavoro e li aveva sentiti parlare.

"Edgar mi ha raccontato quello che è successo tra te e Juna. Se portare Michelle in Russia ti rende felice, io sono con te!"

Sig si alzò ed abbracciò suo fratello.

"Grazie! Sapevo che avrei potuto contare su di te, Norm!"

Edgar sospirò, passandosi il martello da una mano all’altra.

"A quanto pare siamo due contro uno. E va bene, la porteremo dai russi, ma poi di volata a casa, eh?"

Sorridendo come un idiota, Sig si rimise al lavoro con suo fratello minore: dovevano sbrigarsi se volevano ripartire alla svelta! Il pensiero gli volò alla cena di quella sera: aveva prenotato nel migliore ristorante di Unalaska. Non vedeva l’ora di annunciarle la notizia, di vedere la gioia negli occhi di Michelle.

A mezzogiorno il motore fu finalmente riparato, perciò poterono dedicarsi tutti ai preparativi per l’ennesima battuta di pesca.

 

 

* * *

 

 

La mattina raccontai tutto a Dana per filo e per segno, senza tralasciare nemmeno un particolare. Le avevo già dato le notizie principali la sera prima, ma a mente fredda fui in grado di manifestarle tutti i miei sentimenti per Sig.

"Sono contenta che tu sia felice! Te lo meriti dopo tutto quello che ti è successo. E se lo merita anche Sig! Non sapevo che fosse tornato single. Hai visto, che avevo ragione, quando ti dicevo che tutto è possibile?" mi disse la donna, strizzandomi l’occhio e passandomi la lista della spesa.

Andai al magazzino con Saetta Grigia – la Time Bandit era ripartita all’alba, perciò non avevo timore di fare brutti incontri – ed una volta là, la vista di una confezione di cacao amaro mi fece venire voglia di "salame al cioccolato", un dolce che mia madre faceva spesso quando ero piccola. Afferrai la scatola al volo, subito seguita da un pacco di biscotti secchi, uno di zucchero ed un panetto di burro, poi tornai all’Elbow Room e mi misi a prepararlo.

Ne feci due: uno più piccolo per me e Dana ed un altro, ben più grande, da portare ai miei amici della Northwestern.

Poco prima di mezzogiorno fu pronto, perciò lo sistemai in un piatto di plastica, lo avvolsi nell’alluminio e mi incamminai lungo la banchina, fino a raggiungere il peschereccio bianco.

Sul ponte Norman, Matt, Nick e Jake stavano sistemando le nasse in file ordinate, legandole le une alle altre perché non si spostassero accidentalmente durante la navigazione. Mi accolsero tutti con grandi sorrisi e sguardi pieni di curiosità per l’involto che tenevo in mano.

"Cos’hai lì?" mi chiese Jake, tentando di alzare un lembo di carta d’alluminio.

"Giù le mani" gli risposi, schiaffeggiandogli la mano. "Lo vedrete a pranzo, abbiate un po’ di pazienza!"

Entrai sotto coperta e trovai Edgar, con un grembiule bianco mezzo sciupato, che trafficava ai fornelli. Pensai subito ai tre grembiuli che avevo comperato con gli ultimi spiccioli quando avevo iniziato a lavorare all’Elbow Room: per me due erano già anche troppi ed il terzo non mi serviva. Potevo regalarlo a lui, visto che il suo era tutto rovinato.

"Ehi sorella, salve!" mi accolse il minore degli Hansen, voltandosi verso di me e notando il fagotto che avevo in mano. "Cos’hai lì?"

"Sorpresa…"

"Per tutti, o solo per una persona in particolare?" mi chiese strizzandomi l’occhio e facendomi arrossire violentemente.

"Per tutti. Ma, guardandoti meglio, penso di avere anche qualcosa di specifico solo per te!"

"Per me? Non facciamolo sapere a Sig, o morirà di gelosia!"

"Sì, per te… Lo vado a prendere!" feci per tornare sul ponte, ma mi voltai subito indietro. "Guai a te se apri la sorpresa!"

Mi guardò come a dire: "Io? Giammai!", ma sapevo che sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto non appena fossi uscita.

Tornai di corsa all’Elbow Room, frugai nel mio cassetto in cerca del grembiule di troppo e poi corsi di nuovo al peschereccio. Edgar stava annusando il salame quando entrai: si tirò su di scatto e cercò maldestramente di ricoprirlo, ma senza risultato.

"Ecco… io…" balbettò, imbarazzato per essere stato colto con le mani nel sacco.

"Non fa niente, Edgar, immaginavo che lo avresti fatto! E poi dicono che la curiosità è femmina. Tieni, questo è per te!" e gli porsi il grembiule.

Edgar lo tolse dalla confezione e lo ammirò:

"Un grembiule nuovo tutto per me? Grazie! Mi ci voleva proprio!"

Il minore degli Hansen si tolse il vecchio spolverino e indossò quello nuovo mentre gli altri entravano dal ponte.

"Allora Edgar, è pronto il pranzo?" gli chiesero in coro gli altri, ma lui ignorò la domanda.

"Guardate che bel grembiule! Ora sono proprio un cuoco come si deve! Grazie sorella!" e mi diede un bacio con lo schiocco.

"Devo diventare geloso?"

La voce di Sig alle mie spalle mi fece trasalire: mi voltai appena in tempo per vederlo scendere gli ultimi gradini della scala della timoniera. Mi schiacciai contro di lui e gli sussurrai:

"Per te ho un regalo migliore…" e lo baciai sulle labbra. Le sue mani mi cinsero la vita mentre il bacio si approfondiva. L’oooohhh di scherno della ciurma mi giunse attutito mentre con riluttanza mi allontanavo da Sig.

Il capitano si avvicinò al tavolo della cambusa e vide il dolce.

"Cosa hai portato di buono?"

"Un salame di cioccolato!"

"Un… che?"

"È un dolce! Si chiama così perché somiglia ad un salame, ma questo non è salato: è fatto di cacao, burro, zucchero e biscotti triturati."

Sig mugolò di piacere:

"Mmm… Io vado matto per la cioccolata! Non vedo l’ora di assaggiarlo!"

"Rimani a pranzo con noi?" mi chiese Edgar che, attento a non sporcare il suo grembiule nuovo, mescolava qualcosa in una padella.

"No, grazie ragazzi, ma devo tornare a lavoro. Ho bisogno di soldi, e perdo già anche troppo tempo. Ci vediamo stasera Sig. A che ora ti passo a prendere?" Lui mi guardò interrogativamente ed io ripresi. "Perché mi guardi così? Ci andiamo a piedi?"

"No, è piuttosto lontano da qui."

"Allora dobbiamo andarci in auto, perciò devo passare a prenderti… anche se di solito dovrebbero essere gli uomini ad andare a prendere le donne!"

"Se vuoi posso guidare io."

"Senza offesa, Sig, ma io non metto volentieri Saetta Grigia nelle mani di qualcun altro."

Egli annuì, capendomi al volo: lui stesso lasciava il timone a Norman o ad Edgar solo in caso di assoluta necessità. Preferiva essere lui a guidare.

"Allora ci vediamo alle otto. Ho prenotato per le otto e mezzo."

"Bene, allora a stasera!"

Mi avvicinai per ricevere un altro bacio, che fu interrotto da un applauso da parte della ciurma. Con il sorriso stampato sul viso tornai all’Elbow Room in attesa che venisse sera.

Il pomeriggio passò in un lampo, e alle sette andai a prepararmi: mi feci una bella doccia, acconciai i miei lunghi capelli color rame e mi vestii. Non avevo portato niente di troppo elegante con me, durante un Giro del Mondo non si ha certo il tempo di andare a cena in ristoranti di lusso, ma pensavo che ad Unalaska non avessero troppe pretese, perciò optai per una maglia di lana d’angora azzurra, una minigonna bianca a pieghe ed un paio di calze pesanti. Ai piedi misi un paio di scarpe con il tacco che avevano a dir poco dieci anni e, bardata in un cappotto di lana ancora più vecchio delle scarpe, dieci minuti alle otto saltai su Saetta Grigia e percorsi i 500 metri che mi separavano dalla Northwestern.

Sig era ancora dentro, per cui salii a bordo e scesi sotto coperta. Li trovai tutti riuniti al tavolo della cambusa, intenti a fissare un vecchio atlante geografico aperto sulla pagina dell’Europa meridionale.

"Ehi, ragazzi! Ciao! Che cosa fate con quell’atlante?"

"Ciao Michelle, stavamo…" Sig cominciò poi si interruppe, fissandomi stralunato. Mi guardai intorno e vidi che anche gli altri mi stavano osservando alla stessa maniera. Un fischio sommesso uscì dalle labbra di Jake.

"Bè? Perché mi guardate così? Cos’ho che non va?"

Edgar fu il primo a riscuotersi:

"Mi sa che ti sei dimenticata i pantaloni, sorella…"

Mi guardai le gambe coperte dalle calze: il cappotto era più lungo della minigonna, che quindi non si vedeva. Scoppiai a ridere.

"No, non me li sono dimenticati. Ho messo una gonna!" e così dicendo mi tolsi il pesante indumento. Questa volta da tutte le labbra uscirono fischi di ammirazione, che mi fecero arrossire fino alla radice dei capelli. "Così mi mettete in imbarazzo!"

"Il fatto è che a Dutch Harbor le ragazze in minigonna e con i tacchi sono una rarità" mormorò Sig: " Sei sicura di non avere freddo?"

Mi strinsi nelle spalle, prima di chiedere di nuovo:

"Si può sapere cosa state facendo, con quella cartina?" e mentre parlavo appesi il cappotto all’attaccapanni e mi accostai al tavolo, piazzandomi tra Sig e Norman. Mi rispose Nick:

"Stavamo cercando di indovinare da quale parte dell’Italia provieni."

"Sì, dai…" sorrisi, "voglio proprio vedere se ci arrivate!"

"Dacci un indizio" mi implorò Jake, ma io scossi la testa.

"Prima provate senza, poi vediamo."

Edgar fu il primo, e puntò il dito su Reggio Calabria, guardandomi speranzoso. Io scossi la testa, dicendogli:

"Non togliere il dito, vediamo chi si avvicina di più!"

Norman mise il dito su Napoli, e si beccò un altro cenno di diniego.

Nick indicò Venezia, Matt Ancona e Jake Roma, e tutti e tre si presero un bel no. Sig, rimasto per ultimo, indicò Aosta.

"Magari" sospirai, "ma non hai indovinato nemmeno tu! Comunque, Jake è quello che si è avvicinato più di tutti: io abito qui!"

Indicai con il dito, mentre Jake alzava le mani in gesto di vittoria e Sig e gli altri protestavano ridendo.

Edgar andò a prendere una penna e porgendomela mi chiese:

"Facci un puntino, e scrivi il nome della tua città!"

"Città è una parola grossa… paese, piuttosto" commentai mentre lo accontentavo e scrivevo il nome sull’atlante. Edgar lo rimise a posto tutto soddisfatto, poi io ed il capitano salutammo ed uscimmo per andare al ristorante.

Una volta a bordo di Saetta Grigia Sig si guardò intorno: il caos aveva sempre regnato sulla mia Punto, ma negli ultimi tempi era diventato impressionante: sacchi e sacchetti buttati alla rinfusa si mescolavano con fogli, cartine e documenti, scatole e scatolette frammiste ad audiocassette varie.

"Scusa per il disordine" dissi mettendo in moto. Sig si strinse nelle spalle.

"Nessun problema. Ci sono abituato."

"Dove devo andare?"

"In fondo alla strada gira a sinistra, poi sempre dritto per un chilometro."

Raggiungemmo il ristorante in un quarto d’ora. Parcheggiai e scendemmo dalla macchina. Sig aveva prenotato al Grand Aleutian Hotel, l’unico di tutta l’isola, una lunga costruzione color grigio fumo che aveva l’aria di una fabbrica degli anni venti. Un po’ lugubre, ma l’unico posto un po’ più elegante, anche se senza troppe pretese.

Un cameriere ci accolse all’ingresso e ci accompagnò al nostro tavolo, vicino ad una vetrata che dava su una baia illuminata da lampioni al fosforo. Non c’era molta gente, perciò era tutto molto tranquillo.

Da vero gentiluomo Sig mi scostò la sedia e mi fece accomodare; poi, non appena il cameriere ci portò i menù, mi consigliò su cosa ordinare.

"Ti piace il pesce?" Annuii. "Allora devi provare l’Halibut! Quello del Mare di Bering è il più fresco in assoluto!"

"Ci credo!" commentai, seria. "L’acqua è talmente fredda che lo pescate già congelato! Più fresco di così!"

Sig scoppiò a ridere:

"Non in quel senso! Lo sai che sei proprio buffa, a volte?"

"Sì, me lo dicono tutti, che sono una buffona!"

"Non volevo offenderti!" disse, tornando serio di colpo.

"Non mi hai offeso, è la verità! A me non dispiace… Non è mica facile, sai, far ridere la gente! Io però sono curiosa di assaggiare anche il frutto delle tue fatiche" aggiunsi, vedendo che nel menù c’erano anche granchi reali e granseole artiche.

"Fai pure, ma io non ti terrò compagnia. Mi fanno venire la nausea solo a sentirne parlare" e tirò fuori la lingua in una smorfia disgustata.

"Posso immaginare. Però, da quello che mi è sembrato di capire vedendovi a volte in televisione, è un lavoro che rende abbastanza bene."

Il cameriere, venuto a prendere le ordinazioni, interruppe la nostra conversazione. Una volta soli Sig riprese l’argomento.

"Quello stupido docu-reality è stato trasmesso anche in Italia?" mi chiese, piuttosto sorpreso dalla notizia, e dopo che ebbi annuito lui riprese. "Sì, rende bene. Si guadagnano un sacco di soldi. Ma si rischia anche la vita tutti i giorni. Ho visto affondare troppi pescherecci in questi anni" disse, abbassando lo sguardo e riducendo gli occhi a due fessure. Dopo un istante di silenzio, continuò. "E tu, invece, che lavoro fai?"

"Mio padre e mio zio hanno una falegnameria. Io gli faccio da segretaria" sospirai, pensando alla mia casa lontana.

"Ti manca molto la tua famiglia, vero?" mormorò il capitano, allungando le braccia sul tavolo per prendermi le mani.

"Non sai quanto!" ammisi. "Darei qualsiasi cosa pur di poter tornare a casa! Ma purtroppo devo aspettare."

 

 

* * *

 

 

Sig si decise: "Ecco, questo è il momento giusto per dirglielo", considerò.

"Ho una proposta da farti. Ho riflettuto a lungo e i miei fratelli sono d’accordo. Cosa ne dici se ti accompagniamo noi in Russia?"

La vide spalancare la bocca per lo stupore.

"Mi stai prendendo in giro?" esclamò Michelle, le mani che si stringevano convulsamente alle sue.

"Non sono mai stato così serio."

"Veramente mi porteresti a Vladivostok?"

"Non proprio fino a là, è troppo lontano. Avevo pensato a Petropavlovsk, nella penisola di Kamchatka."

La ragazza continuava a fissarlo, gli occhi ancora pieni di incredulità.

"E come farai con la stagione di pesca?"

"Tra tre settimane finirà quella dei granchi reali. Nel mese che abbiamo di tempo libero, possiamo portarti in Russia e tornare, in tempo per ricominciare quella degli Opilio a gennaio."

La vide fare un calcolo con le dita.

"Ma così passerete le vacanze di Natale in mare!" gli disse, preoccupata, ma lui scosse le spalle.

"A me sta bene, in fondo non ho nessuno che mi aspetta a casa, a parte le mie figlie; ma loro sono grandi e capiranno. Norman è stato subito disponibile, ed entrambi siamo riusciti a convincere Edgar. Allora, cosa ne dici?"

 

 

* * *

 

 

Fui costretta a farmelo ripetere due volte prima di convincermi che non fosse un sogno: Sig mi avrebbe portato in Russia con la Northwestern. Non riuscivo a crederci: avrei lasciato quel posto dimenticato da Dio e avrei potuto riprendere il viaggio verso casa! Ma, nello stesso tempo, non l’avrei più rivisto. Glielo dissi e lui rispose:

"È l’unica cosa che mi ha fatto titubare, ti giuro. Se dessi retta al mio cuore ti terrei qui anche quest’estate! Ma capisco che questa non è la tua casa, e che hai bisogno di tornare nel tuo paese. Ma potremo sempre rimanere in contatto, e vederci anche, se tu lo vorrai."

"Sig, non sai quanta gioia e quanta tristezza mi dai al tempo stesso! Gioia, perché mi permetti di tornare a casa. Tristezza, perché so che un rapporto a distanza non può durare… Ma ti prometto che farò il possibile, da parte mia, per non dimenticarti mai!"

"Neanch’io ti dimenticherò mai!" mi disse stringendomi le mani, ma dentro di me sapevo che non era possibile una cosa del genere: lui mi avrebbe dimenticata, ed anch’io con il tempo avrei dimenticato lui; era inevitabile.

Cambiammo argomento, per non crucciarci inutilmente, e dopo la cena, che fu veramente squisita, accompagnai Sig al molo. Prima di scendere mi prese le mani e mi chiese:

"Allora, accetti la mia proposta?"

"Sì, Sig, accetto…" mormorai, senza riuscire a trattenere il tremito nella voce.

"Bene… Tra tre settimane sarò di ritorno, ed una volta scaricati i granchi potremo partire."

Io annuii e mi accostai al suo corpo, protendendo il viso verso di lui. Rispose subito al bacio, anche se mi parve un po’ più riluttante del solito. Io insistei e piano piano lo sentii sciogliersi. Gli passai la mano sinistra tra i capelli e lui fece altrettanto, scompigliandomi le ciocche ribelli. Con la destra cominciai ad esplorare il resto del suo corpo: volevo andare a letto con lui; ne avevo avuto voglia per tutta la sera ed in quel momento, con la separazione di tre settimane che ci attendeva, il desiderio era tornato a ripresentarsi sempre più violento. Quando arrivai a sfiorare la sua virilità lo sentii irrigidirsi e staccare le sue labbra dalle mie.

"No…" ansimò, "non devi farlo… non ti ho invitato a cena perché speravo in qualcos’altro… non ti devi sentire obbligata a…" balbettò, ma io lo interruppi posandogli un dito sulle labbra.

"Non mi sento obbligata. Io ti voglio, Sig…"

 

 

* * *

 

 

Quelle ultime quattro parole, sussurrate al suo orecchio, fecero andare in fumo tutti i buoni propositi che si era prefissato: senza riflettere scese dall’auto, le aprì lo sportello, la fece scendere, la prese tra le braccia e la portò nella sua cabina. La distese sulla coperta di pelliccia di renna, che era stata di sua nonna, e cominciò a svestirla, mentre lei faceva lo stesso con lui. Una volta nudi, scivolarono sotto le coltri e si abbandonarono l’una tra le braccia dell’altro, incoscienti di tutto tranne che della loro passione.

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Capitolo 8
*** Tre settimane di attesa ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.



 

Tre settimane di attesa

 

Un "toc toc" ripetuto due volte mi fece svegliare di soprassalto: mi ci volle qualche secondo prima di riuscire a mettere a fuoco la stanza in cui mi trovavo. Realizzai che si trattava della cabina di Sig sulla Northwestern solo quando la porta si aprì ed entrò Edgar, indignato per il ritardo di suo fratello.

"Allora Sig, si può sapere che ti prende, stamani? Sei in ritardo! Dobbiamo salpare per…"

Non appena i suoi occhi si posarono sul letto si interruppe: dalle coltri spuntavano due teste e non solo una. Lo vidi spalancare occhi e bocca mentre io mi avvolgevo nella coperta di renna e Sig si stropicciava il viso.

"Oh… Scusate… Io non credevo che…" balbettò, diventando rosso come un peperone. Richiuse la porta di scatto, continuando a borbottare parole di scusa mentre si allontanava.

Guardai Sig, scioccata: ci eravamo addormentati l’una nelle braccia dell’altro ed avevamo dimenticato di puntare la sveglia. Il capitano si mise a ridere quando vide la mia espressione.

"Non preoccuparti! Mio fratello è adulto e vaccinato! Lo sa che tra un uomo e una donna possono succedere certe cose!"

"Non lo metto in dubbio" mormorai, "ma sono comunque in imbarazzo! Ieri sera pensavo di andarmene prima che si svegliassero tutti gli altri, e invece…"

Mi chiuse la bocca con un bacio, poi si alzò e cominciò a vestirsi.

"Mi piacerebbe molto poterti dire di fare con comodo, ma purtroppo dobbiamo salpare."

Scesi anch’io dal letto e mi vestii a mia volta. Avrei voluto andarmene subito, ma Sig mi convinse a fare colazione con loro. Raggiunsi la cambusa senza sapere da che parte guardare, convinta che gli altri mi avrebbero fissato con curiosità morbosa, e invece fui piacevolmente sorpresa nello scoprire che tutti, anche Edgar che ormai si era ripreso dallo stupore iniziale, considerarono la mia presenza a bordo come la cosa più naturale del mondo.

Finita la colazione salutai tutti quanti e tornai all’Elbow Room dove Dana – che non vedendomi rientrare la sera prima aveva capito dove mi ero fermata – mi chiese di raccontarle tutto con dovizia di particolari.

Le dissi che Sig mi aveva proposto di traghettarmi fino in Russia e che io avevo accettato, e che poi avevo passato la notte a bordo. Lei mi strizzò l’occhio e io andai a cambiarmi e mi misi subito al lavoro, per affrontare al meglio le tre settimane che mi separavano dal mio ritorno a casa.

I giorni passavano lenti, tutti uguali; soltanto i pescherecci che di tanto in tanto attraccavano al molo modificavano un po’ la monotonia. Tornarono la Wizard prima e la Cornelia Marie poi. I capitani raccontarono che avevano entrambi raggiunto la quota dovuta di granchi, ma che avrebbero approfittato dei giorni rimanenti per incrementare un po’ il guadagno.

Una mattina, invece, Dana mi venne a svegliare all’alba, facendomi trasalire:

"Sta arrivando la Time Bandit! Ho pensato che forse vorresti mettere la tua auto al sicuro, nel mio garage. L’ultima volta che ti sei scontrata con gli Hillstrand non credo che l’abbiano presa molto bene!"

Annuii ed andai subito a chiudere Saetta Grigia in garage. La donna mi disse che, se volevo, sarei potuta rimanere nella mia camera finché non se ne fossero andati: avrebbe detto loro che ero già ripartita per l’Europa; ma rifiutai. La mia Punto era al sicuro, e io sapevo difendermi da me.

Per fortuna non accadde niente. Andy, Johnatan e il resto della ciurma mi guardarono in cagnesco dal momento in cui entrarono a quando lasciarono il locale, ma non mi dissero nemmeno una parola, e io non volli infierire, chiedendo loro quanto tempo ci avessero messo a rimettere a posto il casino che avevamo provocato.

Per mia fortuna anche loro avevano raggiunto la quota e mancando ormai più solo una settimana alla chiusura della stagione avevano deciso di tornarsene a casa, dalle loro famiglie, in anticipo. Con un sospiro di sollievo accolsi quella notizia: non avrei più rivisto quei brutti musi, se non forse in televisione.

 

 

* * *

 

 

Sig era soddisfatto: mancava ancora una settimana alla chiusura della stagione di pesca e le stive erano quasi piene. Nel giro di un paio di giorni avrebbe riempito la Northwestern a tappo, assicurandosi così un buon guadagno extra. Per l’ennesima volta si ritrovò a canticchiare a mezza voce una canzone dei Beatles, uno dei gruppi preferiti della sua gioventù, che bene si adattava a lui.

"Michelle, ma belle… These are words that go together well, my Michelle… I love you, I love you, I love you…"

Con un sospiro, l’occhio gli cadde sul telefono satellitare: di solito veniva utilizzato solo per le chiamate d’emergenza, ma in quel momento gli venne un’idea. Senza pensarci troppo, alzò la cornetta e compose il numero dell’Elbow Room. Dopo un paio di squilli, la voce di Dana gli rispose.

"Pronto?"

"Ciao Dana, sono Sig."

"Sig?! Oh mio Dio, è successo qualcosa?"

"No, volevo solo parlare con Michelle!"

"Accidenti a te, Sigurd John Hansen, mi hai fatto prendere un accidente! Di solito chiamate solo quando siete in difficoltà!" gli gridò la donna dall’altro capo del filo, costringendolo ad allontanare la cornetta dall’orecchio per non essere assordato dalle sue parole.

"Hai ragione, scusami" ridacchiò, "ma non ho saputo resistere! Allora, posso parlare con lei?"

"È andata a fare la spesa e non è ancora rientrata…" si interruppe nel sentire squillare la campanella appesa sopra alla porta. "Ah, no, aspetta, sta arrivando proprio adesso! Stai lì, che te la passo. Michelle? Ti vogliono al telefono!"

 

 

* * *

 

 

Avevo appena aperto la porta dell’Elbow Room, con un sacchettone di carta pieno di viveri per ogni braccio, quando Dana mi chiamò:

"Michelle? Ti vogliono al telefono!"

"Al telefono? Me? E chi sarà?" pensai mentre posavo i sacchetti su uno dei tavoli e raggiungevo l’apparecchio.

"Pronto?" dissi titubante.

"Ti amo!"

Riconobbi immediatamente la voce leggermente roca di Sig.

"Sig! Amore mio, sei tu! Che bella sorpresa!"

Senza riflettere, lo avevo chiamato "amore mio". Me ne accorsi solo dopo aver finito la frase, e non me ne pentii.

"Sì, piccola mia. Avevo una voglia matta di sentire la tua voce. Non ho potuto resistere."

"Ma con cosa mi chiami? C’è segnale anche in alto mare?"

"No, sto usando il telefono satellitare di bordo. In teoria dovrei utilizzarlo solo per le urgenze, ma… in fondo avevo "urgenza" di sentirti!"

"Non sai quanto mi fa piacere! Come va la pesca?"

"Bene, le stive sono quasi piene! Entro una settimana al massimo saremo di ritorno."

"Non vedo l’ora" dissi, abbassando la voce in un sussurro. "Ho una voglia matta di provare di nuovo il letto della tua cabina…"

Lo sentii mugolare di piacere.

"Non dirmi così, oppure inverto la rotta immediatamente, abbandono anche le nasse!" mi rispose con la voce resa ancora più roca dall’eccitazione. "Purtroppo devo salutarti, non posso tenere occupata la linea troppo a lungo."

"D’accordo. Salutami gli altri!"

"Lo farò. A presto! Ti amo…" mormorò ancora, facendomi rabbrividire per l’emozione.

"Anch’io ti amo Sig. Un bacio! Ciao!"

"Ciao…"

Riappesi con un sospiro: mi ero innamorata proprio come una ragazzina! Anche se ero ben conscia che il nostro rapporto non sarebbe potuto durare mi ero lasciata andare; e in fondo in fondo mi andava bene così.

 

 

* * *

 

 

Con un sospiro, Sig riagganciò la cornetta: l’aveva chiamato "amore mio"! Con il cuore che gli andava a mille, si disse ancora una volta che la loro relazione non sarebbe potuta durare, che non doveva lasciarsi andare in quel modo. Ma in fondo non gli importava: era contento così! Prese l’interfono e riprese a cantare "Michelle" dei Beatles: la sua voce amplificata spazzò il ponte del peschereccio e fece alzare gli occhi al cielo a tutta la ciurma.

 

 

* * *

 

 

L’ultima settimana fu la più lunga di tutte: il tempo sembrava non passare mai; le vacanze di Natale si stavano avvicinando e quindi tutti gli equipaggi avevano già lasciato i luoghi di pesca. Solo la Northwestern era rimasta in alto mare. Non c’era quasi niente da fare per cui, fra una sosta e l’altra davanti alla foto del mio peschereccio preferito, avevo cominciato a risistemare le mie cose in attesa della partenza. Avevo inventariato tutto quello che avevo a bordo di Saetta Grigia e mi ero liberata delle cose inutili.

Avevo deciso di lasciare la maggior parte della roba da mangiare a Dana, a parte qualche primizia – come ad esempio i funghi secchi – che volevo lasciare a Edgar. Buttai via i documenti che mi avevano rilasciato gli incaricati della Sector - con i quali potevo ormai soltanto soffiarmi il naso - e rimisi in ordine il bagagliaio. In mezzo a tanto ciarpame ritrovai anche la macchina fotografica digitale da pochi spiccioli che avevo comprato prima di partire. Avevo fatto molte foto prima di arrivare in America, ma i miei successivi grattacapi avevano fatto passare la fotografia in terzo piano. Le guardai con un pizzico di nostalgia, poi scattai qualche foto al molo deserto, all’Elbow Room sia dall’interno che dall’esterno – con Saetta Grigia in primo piano – e poi con l’autoscatto ne feci una a Dana e me.

L’ultimo giorno svuotai quella che era stata la mia camera per un mese abbondante, sistemando tutti i bagagli a bordo, e Dana mi pagò per il lavoro che avevo fatto. In realtà mi diede molto più del dovuto, e quando glielo feci notare mi disse che non si era mai divertita così tanto da quando aveva aperto il locale e che la mia compagnia le aveva fatto bene, perciò meritavo un piccolo extra.

Non potei fare a meno di scoppiare a piangere per la gratitudine e per la tristezza: in fondo era stata un’amica per me, non solo una datrice di lavoro.

La donna rimase sconcertata quando mi vide scoppiare in lacrime e, nonostante la sua grande forza di volontà, si mise a piangere anche lei mentre mi abbracciava cercando di consolarmi. Se qualche cliente fosse entrato in quel momento avrebbe potuto pensare che fosse successa una disgrazia; ma per nostra fortuna nessuno si fece vivo e potemmo sfogare le nostre lacrime in santa pace.

Quella sera Sig telefonò di nuovo, solo per avvisarmi che la mattina dopo all’alba sarebbero arrivati in porto, e di tenermi pronta. Saremmo partiti non appena le stive fossero state svuotate e lui avesse pagato Nick, Matt e Jake.

Durante la notte non riuscii quasi a chiudere occhio e, quando la Northwestern si accostò al molo la mattina dopo alle sei e mezzo, io avevo già fatto colazione ed ero già uscita ad attendere il loro arrivo.

Non appena il peschereccio fu ormeggiato Sig scese dalla timoniera e si incamminò sulla banchina, e io feci altrettanto non appena lo vidi scendere. Ci incontrammo a metà strada e non ci occorsero parole: semplicemente scivolai tra le sue braccia e ci baciammo, come se fosse trascorso un anno e non tre settimane, dalla sua partenza.

Rimanemmo fermi a lungo a guardarci negli occhi, mentre lui mi carezzava le guance e sorrideva, e forse saremmo rimasti così per sempre se Norman non avesse gridato a suo fratello maggiore che prima avessero scaricato e prima sarebbero ripartiti.

Con un ultimo bacio mi sussurrò: "A dopo" e ritornò alla Northwestern per dare una mano agli altri, mentre io tornavo all’Elbow Room ad attendere il momento di partire.

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Capitolo 9
*** Partenza ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.

Partenza
 
Alle tre del pomeriggio Jake, Matt e Nick scesero dalla Northwestern con i loro stipendi in tasca. Avrebbero preso l’aereo da Dutch Harbor fino ad Anchorage, e da lì avrebbero poi raggiunto le loro case per trascorrere il Natale in famiglia. Era il ventidue di dicembre. Sarebbero tornati sull’isola di Unalaska il quindici di gennaio, per partire con la pesca ai granchi Opilio.
Sig li accompagnò al piccolo aeroporto con l’auto di Dana, e non appena il Cessna ebbe lasciato la pista tornò all’Elbow Room.
«Allora, sei pronta per partire?» mi chiese, non appena ebbe riconsegnato le chiavi alla donna.
«Sì, sono pronta!»
«Bene! Allora porta Saetta Grigia al molo, che la issiamo a bordo. Arrivederci Dana, ci vediamo tra un mese.»
«Arrivederci Sig! Addio mia cara… mi mancherai!»
Ci abbracciammo e versammo ancora qualche lacrima, mentre Sig strusciava i piedi a terra, pieno di imbarazzo.
Una volta fuori del locale lui tornò al peschereccio a piedi, mentre io lo seguivo con la mia Punto a passo d’uomo.
Avevano scaricato tutte le nasse per far posto alla mia auto: l’avrebbero issata a bordo con la gru e poi l’avrebbero assicurata con delle funi alla murata di sinistra, proprio ai piedi della gru stessa.
Li osservai con un misto di perplessità e preoccupazione mentre Edgar e Sig imbracavano Saetta Grigia, e quando Norman iniziò a far correre il verricello in salita cominciai a temere che potesse succedere qualcosa di veramente brutto, come vederla sfracellare al suolo. Il capitano dovette interpretare il mio sguardo, poiché si chinò verso di me e mi rassicurò.
«Non ti preoccupare, non le succederà nulla!» ma io tornai a tranquillizzarmi solo quando la mia Fiat fu di nuovo con le ruote poggiate al suolo, al sicuro sul ponte di legno del peschereccio.
A quel punto i tre fratelli Hansen la legarono come un salame alla murata e, dopo gli ultimi controlli di rito e la chiamata via radio alla capitaneria di porto di Petropavlovsk per chiedere la conferma del permesso di attraccare – anche se solo il tempo necessario per scaricare me e la mia auto – il capitano si dichiarò pronto per partire.
Scattai una foto del peschereccio dalla banchina prima di salire a bordo e, mentre la Northwestern si allontanava lentamente dalla riva, scattai diverse foto a Dutch Harbor che, nell’aria rossa del tramonto, sembrava prendere fuoco.
L’oscurità calò alla svelta e l’aria fredda mi costrinse a scendere ben presto sotto coperta. Edgar e Norman erano seduti al tavolo in cambusa e parevano imbarazzati; forse si sentivano di troppo e di sicuro avrebbero preferito andarsene a casa, così mi venne naturale chiedere loro scusa.
«Perdonatemi, ragazzi… È tutta colpa mia se quest’anno passerete il Natale a sballottare in alto mare piuttosto che al calduccio delle vostre case. Mi dispiace…»
Norman scosse la testa, si alzò e mi poggiò le mani sulle spalle.
«Non devi scusarti. Nessuno ci ha obbligati. Lo facciamo volentieri! Non voglio più sentirti dire così…»
Nel concludere la frase mi scosse leggermente ed io gli risposi con un timido sorriso. Edgar mi fece il “pollice in alto” prima di aggiungere: «Sig è su, nella timoniera. Perché non lo raggiungi? Chissà, magari piloti meglio di lui!»
Annuii e salii la stretta rampa di scale che conduceva nel regno di Sig. Era la prima volta che vi salivo, e fu con il cuore a mille che bussai alla parete di legno prima di entrare.
«Avanti» mi rispose la voce roca del capitano.
Entrai con circospezione e mi fermai a guardarlo dalla soglia. Aveva indossato un paio di occhiali da vista e stava facendo il “punto nave” sulla cartina, verificando i suoi calcoli con i numeri sul gps. Alzò lo sguardo su di me e mi sorrise.
«Ciao piccola! Vieni, entra! Tu ci sai fare con la matematica? Io non ci ho mai capito un tubo con questi calcoli!» e riabbassò lo sguardo sulla carta nautica grattandosi la testa.
«Purtroppo no… senza calcolatrice non so fare neanche due più due!»
«Aiutami lo stesso, vediamo un po’ se in due riusciamo a cavare un ragno dal buco!»
Mi accostai a lui, che cominciò ad elencarmi una fila infinita di numeri. Persi subito il conto.
«Scusa se te lo chiedo, ma… finora, questi calcoli, chi li ha fatti?»
«Per la pesca non servono, basta il gps» mi rispose, interrompendo la sua litania di cifre ma continuando a tenere gli occhi fissi sulle sue carte. «Ma nel caso di una navigazione, diciamo così, “civile” sono obbligatori. Come potrai immaginare io, a parte pescare granchi, non è che faccia grandi gite con la Northwestern.»
«Mi dispiace Sig! Ti sto causando un sacco di grane!»
Alzò la faccia di scatto e si tolse gli occhiali:
«Non dirlo neanche per scherzo!» disse, prendendomi le mani. «Sono io che ho deciso di farlo, non mi ha obbligato nessuno, ricordalo. Vieni qui…» mi attirò a sé e mi fece sedere sulle sue ginocchia, carezzandomi la schiena. «L’unico rimpianto che potrò avere è che poi, di sicuro, non ti vedrò per molto tempo. Ma, per il resto, sono pronto ad affrontare tutti i rischi che Madre Natura vorrà proporci. Più il tempo passa e più ti amo!»
Accostò il suo viso al mio, riempiendomi di piccoli baci, finché non gli ricordai che doveva finire i calcoli. Feci per scendere, ma lui me lo impedì.
«No, ti prego… Rimani qui…» mi mormorò all’orecchio con quella sua splendida voce leggermente roca.
«Sei sicuro che non ti do fastidio? Che non sono troppo pesante?»
«Il tuo è un peso che vorrei sentire su di me in ogni momento…» sussurrò ancora, il tono sempre più cupo, baciandomi delicatamente il collo.
Rabbrividii tra le sue braccia e replicai:
«Se vuoi, possiamo recuperare un po’ del tempo che abbiamo perso in queste tre settimane…»
Mi rispose con un gemito strozzato dal fondo della gola, poi si alzò in piedi e, senza posarmi a terra, scese le scale della timoniera e si diresse alla sua cabina, baciandomi appassionatamente.
Edgar ci vide passare ed ironicamente chiese a suo fratello:
«Non dovresti fare il punto nave?»
Sig staccò a malapena le sue labbra dalle mie per rispondere. «Pensaci tu, Ed…» biascicò, prima di entrare nella sua stanza e richiudere la porta alle sue spalle.
Dopo aver fatto l’amore per due volte di seguito, Sig si appisolò ed io ne approfittai per dare un’occhiata alla sua cabina, visto che alla prima occasione non avevo avuto molto tempo per guardarla.
Era interamente rivestita in legno, dal pavimento al soffitto, in modo da renderla il più calda possibile; il letto era stato sistemato proprio all’entrata, appoggiato da un lato contro la parete del bagno, che rimaneva sulla destra della porta d’ingresso. Davanti al letto c’era un armadio, ed accanto a quello si trovava una scrivania con sopra televisione, lettore DVD e stereo, oltre a diversi libri e ad una fotografia, che ritraeva Sig e la sua famiglia al completo vestiti con abiti tradizionali norvegesi. Mi avvicinai e la presi in mano, per osservarla meglio: sua moglie era proprio una bella donna, alta e con lunghi capelli biondi. Non riuscivo proprio a capire come potevo io aver fatto breccia nel suo cuore, dato che non ero poi niente di speciale. Rimisi la foto al suo posto e lasciai scorrere lo sguardo lungo le pareti, a cui erano appese una foto della Northwestern nel mare in burrasca, una cartina del Mare di Bering ed un disegno piuttosto stilizzato che sicuramente era stato fatto dalle sue figlie. Dal lato opposto della porta si apriva un oblò, che dava luce alla stanza. Aprii la porta scorrevole del bagno e sbirciai all’interno: come su ogni imbarcazione che si rispetti, non c’era il bidè, ma in compenso vi si trovava una bella doccia spaziosa.
Stavo per richiudere la porta quando due mani robuste e callose mi strinsero la vita nuda.
«Che ne diresti di farci una doccia…?» mugolò Sig contro la mia nuca.
«Buona idea…» e, sotto il getto d’acqua, esplorammo i nostri corpi per l’ennesima volta, quel giorno.
Riemergemmo dalla sua cabina solo all’ora di cena: Edgar aveva fritto carne e patatine ed aveva apparecchiato per quattro, aiutato da Norman. Durante la cena nessuno dei due fratelli minori accennò alla nostra permanenza piuttosto prolungata nella stanza del capitano, e di ciò fui molto lieta. Anche se sapevo che i due fratelli erano a conoscenza del fatto che Sig si era separato, mi sentivo comunque molto in imbarazzo nei loro confronti.
Dopo cena il maggiore degli Hansen tornò sul ponte di comando per controllare la rotta e mi chiese di accompagnarlo. Dopo aver verificato la direzione con il gps – al punto nave sulla carta nautica aveva pensato per davvero Edgar – si accomodò sulla poltroncina, prendendomi a sedere sulle sue gambe e facendomi poggiare la testa sulla sua spalla sinistra.
Il mare non era molto mosso, ma la Northwestern era un guscio di noce rispetto ai traghetti che avevo provato a volte per andare in Sicilia e in Sardegna, perciò il rollio era sempre di casa. Per fortuna non avevo mai sofferto il mal di mare, almeno fino a quel momento. Anche Sig dovette pensarci, poiché mi chiese:
«Per caso soffri di mal di mare?»
«Finora no, mai… ma non ho mai navigato tanto a lungo su un peschereccio, e nel mare di Bering per giunta! Di solito il dondolio mi concilia il sonno ma, da quello che ho potuto vedere in tv, stare su una di queste navi da pesca è un po’ come sballottare dentro al cestello di una lavatrice gigante!» conclusi sorridendo.
Anche lui rise sommessamente. «Sì, in effetti è così. Ormai noi siamo abituati, ma capisco bene cosa può provare chi non ha mai affrontato queste acque! Ricordo che Jake, la prima settimana a bordo, vomitò anche l’anima!»
Ridacchiò ancora e mi strinse ancor di più a sé, baciandomi la fronte. «Comunque, la dieta dei pescatori di granchi del mare di Bering è: caffè, cioccolato e sigarette! E modestamente io sono uno che la segue alla lettera…» e, come per rimarcare le sue parole, si allungò sul banco dei comandi, recuperò il pacchetto e se ne accese una.
«Invece i pescatori del mar Mediterraneo consigliano acciughe salate, e rifiutano categoricamente il caffè. Oppure, ho sentito dire da qualche parte, bisogna mangiare e bere cose che fanno gonfiare lo stomaco, come la birra, per esempio.»
«Come cambiano le usanze» mi rispose, dopo aver aspirato una lunga boccata. «Io non permetterei mai ai ragazzi di bere birra, soprattutto se poi devono lavorare per quindici ore di seguito!»
Quell’accenno mi fece tornare alla memoria ciò che avevo visto a Deadliest Catch su di lui: non era proprio magnanimo nei confronti del suo equipaggio. Per dirlo in francese elegante, era un pezzo di merda!
Non potei trattenermi, e glielo dissi:
«Posso dirti una cosa? Però non ti offendere.»
«Sono tutto orecchie!»
«Da quello che ho visto in tv, non è che ti comporti proprio bene con i ragazzi! Lasciatelo dire, ma ti ho dato dello stronzo più di una volta!»
Lui ridacchiò: «Il lavoro è lavoro! Quando pesco divento l’uomo più esigente sulla faccia della terra. Io sono il primo a stare sveglio per quindici o anche più ore di seguito, quindi non vedo per quale motivo non debbano farlo loro!»
«Sì, ma loro sgobbano a trenta gradi sotto zero, spaccano il ghiaccio con le mazze, tirano su nasse piene di granchi e le ributtano giù vuote tutto il santo giorno; mentre tu te ne stai qui, in maniche di camicia, a fumare come un turco e a sbraitare come un ossesso all’interfono se le cose non vanno come dici tu!» continuai, alzando la voce e scostandomi dal suo petto per guardarlo in faccia.
«Si da il caso che sono io a decidere dove buttare giù le nasse! Sono io che studio i fondali! senza il mio lavoro non si concluderebbe un bel niente!» mi rispose a tono, toccandosi la tempia con l’indice, come a dire: “Il mio è lavoro di intelletto!”.
A quel punto, piena di rabbia mi alzai dalle sue gambe e andai verso la sedia del capitano in seconda.
«Allora sarà per questo che stai perdendo i capelli! Ti devi spremere troppo le meningi!» gli sibilai velenosa, dandogli la schiena, riferendomi alla sua incipiente calvizie che lui tentava di mascherare pettinandosi la criniera di capelli all’indietro.
 
* * *
 
Il riferimento alla sua prematura calvizie lo colpì come un pugno nello stomaco. I suoi capelli erano una delle poche cose che amava di sé, ed il fatto di averli cominciati a perdere a quarant’anni non gli andava molto giù. Dovette mordersi le labbra per evitare di mandarla a quel paese, ma mentre si raddrizzava sulla poltroncina non poté fare a meno di risponderle duramente.
«Pensala come ti pare, ma la mia ciurma è con me da più di dieci anni! Se tornano vuol dire che si trovano bene, e soprattutto che li pago bene! E se li pago bene è perché sono un bravo pescatore! Due anni fa, quando a Jake è morta sua sorella io l’ho riportato subito a terra, fregandomene della pesca! In casi del genere un uomo deve stare con la sua famiglia, non su una barca in mezzo al nulla! E gli ho mantenuto il posto di lavoro! Non so quanti altri capitani l’avrebbero fatto! Però se per te sono uno stronzo, bene, che stronzo sia!»
Schiacciò la sigaretta con veemenza nel posacenere, come se la colpa di quel diverbio fosse sua. Vide Michelle voltarsi lentamente mentre gli rispondeva a mezza voce.
«Non sapevo che a Jake fosse successa una cosa del genere…»
«Bè, allora non hai seguito tutte le puntate, perché quella tragedia è andata in onda in quella trasmissione del cazzo!» gridò, incapace di contenersi. La vide incassare la testa nelle spalle.
«Mi dispiace, Sig… Non avrei dovuto giudicarti così duramente. Io non so niente di te. Scusami, non volevo offenderti. Vado a mettere in moto Saetta Grigia, non vorrei che il freddo le bloccasse il motore.»
Michelle scese le scale interne e dopo pochi istanti la vide riapparire attraverso la finestra della porta che dalla timoniera portava sul ponte: la vide salire in macchina e mettere in moto. Stava ancora fissando il fumo azzurrino che usciva dalla marmitta dell’auto quando la voce di suo fratello Edgar lo fece trasalire.
«Cosa è successo? Vi ho sentito alzare la voce.»
Sig sospirò e si passò una mano tra i capelli: «Mi ha detto che sul lavoro sono uno stronzo.»
«Bè, ma è la verità!»
«Lo so… ma lo sai che non sopporto che me lo si dica!»
«Ora dov’è?»
Sig gli fece un cenno con il mento verso il ponte ed Edgar si affacciò al vetro: anche lui, alle luci dei riflettori, vide che la macchina era in moto. Dopo averla guardata per un attimo tornò a rivolgersi a suo fratello.
«Che intenzioni hai?»
«In che senso, scusa?»
Con un cenno della testa, Edgar indicò l’auto.
«Cosa pensi di fare quando lei sarà andata via?»
«Tornerò alla pesca, come sempre. Perché?»
«Credevo che tu avessi intenzione di… approfondire il rapporto.»
«Mi piacerebbe… Ma lo sai anche tu che non posso. Lei non può rimanere qui, e io non posso andare da lei.»
«Perché no?»
Quella domanda lo lasciò interdetto. Non sapeva cosa rispondere, ma suo fratello lo tolse dall’imbarazzo.
«Bè, sappi solo che qualunque scelta tu farai, io e Norman saremo sempre al tuo fianco. Ora me ne vado a letto. Buonanotte Sig.» Fece per ridiscendere la scala, ma si bloccò: «Ah, dimenticavo… Domani ho intenzione di farle mangiare l’aringa!»
«L’aringa ?! Ma lei non è stata assunta per lavorare!»
«No, ma è comunque la prima volta che affronta il Mare di Bering con la Northwestern, e la tradizione vuole che mangi l’aringa. Volevo solo che tu lo sapessi…»
Sig annui e diede la buonanotte a suo fratello. Dopodiché rimase in silenzio nel buio della timoniera, illuminato solo dal chiarore del gps, a riflettere sulle parole di Edgar.
 
* * *
 
La durezza nella voce di Sig mi colpì come uno schiaffo. Mi ero lasciata troppo andare e l’avevo giudicato male, senza sapere in realtà niente di quello che accadeva a bordo della Northwestern durante la stagione di pesca. L’avevo offeso e lui si era difeso nell’unico modo che conosceva: con la rabbia. Quello che avevo appena visto era il vero Sig: non quello che scendeva a terra ogni tanto, ma quello che viveva su quel peschereccio tutti i giorni.
Misi in moto Saetta Grigia, che partì al primo colpo, e mentre aspettavo che il motore si scaldasse strinsi le mani sul volante mentre tornavo col pensiero a quello che era appena successo.
«Oh, Saetta… Ma perché sono sempre così stronza? Faccio sempre arrabbiare la gente. Io mi sono innamorata veramente, ma se lui ora non volesse più saperne, di me?» mi sfogai con la mia Punto, che parve rispondermi con una lieve innalzata del minimo. Abbracciai il volante e rimasi così per un buon quarto d’ora, prima di decidermi a spegnere nuovamente il motore ed a scendere. Le luci nella timoniera erano spente, ed io non sapevo se Sig fosse andato a letto oppure no.
Salii la scaletta esterna che portava alla timoniera e mi affacciai al vetro. Lui era lì, seduto sulla sua poltrona, e il suo viso era illuminato solo dal naso in su dal tenue chiarore del gps. Forse mi vide con la coda dell’occhio, perché si voltò verso di me, si alzò e venne ad aprirmi la porta, che era chiusa a chiave.
Si scostò per farmi entrare, richiuse l’uscio e rimase fermo in piedi dietro di me, in silenzio.
Io mi voltai verso di lui e poi mi buttai tra le sue braccia, scoppiando in lacrime. Non si aspettava una mossa del genere, perciò barcollò all’indietro e andò a sbattere contro la porticina; ma fu solo per un istante, perché un attimo dopo mi strinse tra le sue braccia e mi coprì la fronte di baci.
«Scusami Sig… sono una cretina… non volevo farti del male…» ansimai, tra un singhiozzo e l’altro.
«Sshh… Non è niente. È tutto passato. Calmati ora» mormorò carezzandomi la schiena, sospingendomi lentamente verso la poltrona. Io continuai a piangere, inzuppandogli la camicia di lacrime, mentre lui si metteva a sedere e mi issava nuovamente sulle sue gambe. Mi fece appoggiare nuovamente la testa sul suo petto mentre continuava a sussurrarmi parole dolci.
«Basta così, sciocchina. Anch’io mi sono comportato come un imbecille. Ho dato sfogo ad una rabbia che in realtà non provo. Ti amo piccola mia.»
E, cullata dal dolce suono della sua voce, ben presto mi addormentai tra le sue braccia, sulla poltrona nella timoniera.
 
* * *
 
 
Con Michelle che gli dormiva in grembo, Sig tornò con la mente alle parole di Edgar: perché non poteva andare con lei? Lì aveva il suo lavoro, la sua barca; ma i suoi fratelli erano perfettamente in grado di gestire tutto. Lui aveva messo da parte un bel po’ di soldi: avrebbe potuto rifarsi una vita, in Italia, al suo fianco…
E con questi pensieri che gli frullavano in testa, sollevò la ragazza tra le sue braccia e si diresse alla sua cabina.

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Capitolo 10
*** Un'aringa per Natale ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.
 



 

Un’aringa per Natale

 

 

La mattina dopo mi trovavo nella cabina del capitano a sistemare i miei pochi vestiti nell’armadio – perché non si rovinassero con la salsedine – quando la voce di Edgar, amplificata dall’interfono, mi fece trasalire.

"Ehi, sorella, ho bisogno di parlarti. Ti aspetto sul ponte!"

Stupita e anche un po’ seccata, perché non avevo alcuna voglia di andare fuori a prendere freddo, mi misi il giaccone e le scarpe e uscii.

Edgar e Norman erano in piedi dietro Saetta Grigia, nella zona dove di solito tenevano le esche per le nasse, ed erano vestiti con le loro tute impermeabili, proprio come quando erano impegnati con la pesca. Norman aveva le labbra incurvate in un sorrisetto impacciato, mentre Edgar era perfettamente serio. Sig non c’era, ma con la coda dell’occhio vidi che in quel punto, attaccata alla fiancata della timoniera, c’era una piccola telecamera a circuito chiuso accanto all’altoparlante dell’interfono: di sicuro lui stava osservando la scena dall’alto.

Non appena arrivai davanti a Edgar, il minore dei fratelli Hansen stese verso di me il braccio destro, con la mano chiusa a pugno.

"Bè?" chiesi, senza capire dove volesse andare a parare. Per tutta risposta lui protese ancora di più il braccio e, guardando meglio, vidi che nel pugno chiuso stringeva un pesce morto.

Lo guardai con espressione stupita, poi alzai gli occhi sul suo viso.

"Scusa Edgar, ma non capisco cosa vuoi…"

"La tradizione vigente a bordo della Northwestern vuole che tu, in qualità di ultima imbarcata a bordo del peschereccio, debba mangiare la testa dell’aringa!" disse con un tono da banditore.

Sgranai ancora di più gli occhi: "Cosa dovrei fare?!" dissi, rendendomi conto di aver pronunciato la frase in italiano solo quando vidi i due fratelli scambiarsi uno sguardo dubbioso. Tradussi a loro beneficio ed Edgar riprese, aprendo il palmo e adagiandoci sopra il pesce:

"Devi staccare la testa dell’aringa con un morso! È una tradizione norvegese. E noi siamo molto rispettosi delle tradizioni! In teoria dovresti anche masticarla per un po’, ma ci accontenteremo solo del morso."

Mi porse nuovamente il pesce. Prima di prenderlo dissi, rivolta alla telecamera: "Non venirmi a dire che tu non lo sapevi, eh?"

Norman mi passò il microfono dell’interfono.

"Parla qui dentro: ti ha visto ma non ti ha sentito."

Afferrai il microfono e ripetei la frase, ma non ottenni risposta. Riconsegnai l’apparato a Norman ed afferrai il pesce morto con faccia risoluta; lo fissai per qualche istante, poi mi ficcai la testa in bocca e strinsi i denti, che affondarono nella carne tenera senza incontrare alcuna resistenza, a parte quella della lisca. Tirai e spezzai l’osso. Edgar era già pronto a riprendere il resto del pesce, ma si bloccò a metà del gesto quanto vide che cominciavo a masticare.

Un saporaccio amaro mi riempì la bocca, e quello avrei anche potuto sopportarlo; ma quando gli occhi dell’aringa mi scoppiarono sotto i denti con un terribile "plop" sordo persi il controllo. Buttai via il pesce che avevo ancora in mano e corsi alla murata a sputare tutto in mare. Fu solo per un puro caso se non vomitai la colazione, ma fui costretta a sciacquarmi la bocca più volte, con l’acqua che Edgar mi porse, prima di riuscire a togliermi dalla lingua il gusto amaro delle cervella dell’aringa.

Quando tornai davanti ai due fratelli entrambi mi accolsero con grandi pacche sulle spalle, mentre la voce di Sig risuonava dall’altoparlante:

"Sei stata grande! Sapevo che ce l’avresti fatta! Avresti fatto invidia a Jake! È stato così che ha cominciato a vomitare, quella famosa settimana!" esclamò, scoppiando subito dopo in una delle sue roche risate. Per tutta risposta gli feci un gestaccio, poi tornai dentro a finire di mettere a posto le mie cose.

Dopo pranzo andai nella timoniera con Sig. Come al solito mi fece sedere sulle sue gambe, accendendosi una sigaretta subito dopo.

"Non ti sembra di fumare un po’ troppo?" gli chiesi, con aria di finto rimprovero.

"Me lo dice anche il dottore. Ma credo che farò la fine di Phil, che è morto con la sigaretta tra le labbra" mi rispose, di colpo malinconico.

"Chi era Phil?"

"Era il capitano della Cornelia Marie… Josh e Jake sono i suoi figli. Devi averli visti all’Elbow Room."

Annuii contro la sua spalla e lui continuò, aspirando e soffiando fuori il fumo in una lunga boccata:

"Phil era il mio migliore amico; l’unico su cui ho mai veramente potuto contare in questo inferno di ghiaccio. Nonostante avesse già avuto problemi di cuore non ha mai abbandonato la pesca… e nemmeno le sigarette. Mi manca molto."

Dopo qualche attimo di silenzio riprese: "Sei stata fantastica stamani. Non credevo che tu ti mettessi a masticarla sul serio. Sai, finora nessuno è mai riuscito ad inghiottirla. Ti ho registrato! Se non ti dispiace, ti farò vedere agli altri, quando torneranno!"

Scossi la testa: "Nessun problema… ma ricordati che prima o poi te la farò pagare per non avermi avvisato."

"In realtà non pensavo che Edgar volesse sottoporti alla prova! E che tipo di vendetta hai in mente?" mi chiese, abbassando il tono.

"Mah, magari potrei lasciarti a stecchetto per qualche giorno" mormorai contro la morbida curva della sua gola. "Oppure potrei farti il solletico fino a farti implorare pietà" proseguii, risalendo lungo il profilo della sua mascella.

Lo sentii rabbrividire: "Se continui così ho l’impressione che non farò in tempo neanche a portarti in cabina…" ansimò con voce roca.

"Ma sei proprio insaziabile eh…" sussurrai mordicchiandogli il lobo dell’orecchio.

Rispose con un verso inarticolato e stava già per sollevarmi tra le sue braccia quando mi alzai dalle sue ginocchia, mi misi il giubbotto ed uscii per andare a mettere in moto Saetta Grigia.

"Bè? Mi lasci così?" mi chiese, con il tono di un bambino indispettito.

"Ho preso la mia rivincita" risposi, sorridendo tra me mentre chiudevo la porta alle mie spalle.

Il giorno dopo era la vigilia di Natale. Il mare aveva cominciato ad agitarsi, e fu con una certa difficoltà che riuscii a raggiungere la mia auto per la "messa in moto" quotidiana. Stavo giusto rientrando – con i pantaloni inzuppati da un’onda più violenta delle altre, che aveva superato la murata proprio mentre stavo arrancando verso la porta – quando Sig scese dalla timoniera.

"Sei uscita?" mi chiese, notando i calzoni fradici.

"Sì, sono andata a mettere in moto Saetta Grigia."

"Ti prego di non farlo più. La radio ha appena annunciato l’arrivo di un fronte temporalesco, con venti a cinquanta nodi ed onde di sette, otto metri. Mi sa che balleremo un po’, e preferirei che tu non andassi a farti spazzare via dal ponte!"

"Non ci tengo nemmeno io", gli risposi, andando a cambiarmi i pantaloni.

"Scusami se non ti aspetto, ma preferisco tornare di sopra. Con questo mare non fido del pilota automatico" e risalì la scaletta alla svelta.

Una volta pronta, tornai anch’io nella timoniera. Il capitano era concentratissimo nella guida: le onde avevano cominciato a crescere di volume e nella timoniera il rollio era già molto forte. Con entrambe le mani sui comandi, Sig cercava di far prendere le onde alla Northwestern nel miglior modo possibile. Ogni tanto uno spruzzo d’acqua superava la murata della prua e ricadeva con un tonfo sul ponte sottostante. Aggrappata alla spalliera della poltroncina del capitano in seconda guardai fuori per qualche minuto, finché non cominciò a girarmi la testa. Andai barcollando alla porticina che dava verso il ponte e guardai per un attimo Saetta Grigia: ogni tanto un’onda colpiva il peschereccio sulla fiancata e l’acqua spazzava le tavole di legno, colpendo anche la mia auto.

"L’acqua salata non le farà per niente bene" pensai sospirando, ma ormai eravamo in ballo e avremmo dovuto ballare, anche nel senso letterale del termine.

Mi aggrappai alla poltrona di Sig e gli chiesi:

"Vi trovate spesso in queste condizioni quando pescate?"

"Adesso è niente" mi rispose, senza distogliere lo sguardo dalle onde. "Ci siamo imbattuti in tempeste ben peggiori. Di solito con un mare del genere si lavora a pieno ritmo. Ma se le previsioni del tempo sono azzeccate, mi sa che stanotte proverai anche tu cosa significa. Forse è meglio se ti vai a sdraiare" concluse, lanciandomi un’occhiata di striscio.

"No, finché posso voglio rimanere. Così avrò qualcosa di emozionante da raccontare quando tornerò a casa!"

"Bè, tutto il tuo viaggio lo è. Anche tu hai rischiato la vita, la stai rischiando e la rischierai finché non sarai tornata a casa; questo lo sai, vero?"

Annuii: "Sì, ma non voglio pensarci. Dalle nostre parti diciamo: "Da qualcosa si deve morire!""

Mi lanciò una lunga occhiata poi tornò a fissare il mare.

"Scusa se non ti prendo tra le braccia, ma devo tenere i comandi ben saldi."

"Nessun problema."

Mi misi a sedere sull’altra poltroncina e rimasi a fissare fuori con sguardo teso, mentre le onde diventavano sempre più alte ed il vento aumentava di intensità.

All’ora di pranzo Edgar salì nella timoniera ad annunciare che il pasto era pronto: io mi alzai subito ma Sig rifiutò l’invito.

"Preferisco rimanere qui. Divento sempre troppo nervoso per mangiare quando il mare si incattivisce troppo. Mi basterà un pezzo di cioccolata."

Edgar annuì, serio.

Dopo pranzo, mentre lui e Norman rimettevano in ordine, Edgar mi diede una tavoletta di cioccolata da portare su nella timoniera, ed io risalii traballando la scala, mettendomi a cantare.

"Ondaaaaa su ondaaaa, il mare ci porteràaaaa, allaaaa derivaaaa in balia di una sorte bizzarra e cattivaaaa…" e non appena riuscii ad aggrapparmi alla poltrona di Sig gli sventolai la cioccolata sotto al naso.

"Tieni" gli dissi, porgendogliela.

"Meno male che sei allegra! Cosa cantavi di bello?"

Cercai di tradurglielo e lui chiuse la mano sinistra a pugno e bussò sul piano di legno che aveva di fronte.

"Non avrei proprio intenzione di andare alla deriva" commentò, lanciando un’occhiata al gps – tanto per essere sicuro – mentre scartava la cioccolata.

"Ne vuoi un pezzo?" mi chiese, staccandone una buona parte con un morso. Scossi la testa e mi misi di nuovo a sedere sulla seconda poltroncina, fissando il mare.

All’imbrunire la situazione peggiorò: le onde raggiunsero i nove metri d’altezza, il vento soffiava furibondo e, per concludere in bellezza, iniziò pure a nevicare. I fiocchi bianchi turbinavano davanti alle finestre della timoniera, facendo girare la testa e confondendo la vista.

Sig non scese nemmeno per cena e, quando tornai su, lo trovai intento ad ascoltare le previsioni del tempo alla radio: ormai avevamo raggiunto il cuore della tempesta, ma sarebbe durata così ancora per qualche ora.

Il capitano aveva la faccia tirata e stanca, e quando mi accostai a lui per dargli un bacio sulla fronte mi rispose con un sorriso forzato.

Ogni volta che la Northwestern raggiungeva la cima di un’onda potevo vedere soltanto il cielo nero e quando scendeva dall’altra parte, nel buco che si formava tra un’onda e l’altra, il panorama veniva sostituito dalla schiuma ribollente del mare, illuminata dai riflettori del peschereccio; il tutto accompagnato da fiocchi di neve sempre più fitti sospinti da un vento che fischiava a più di centoventi chilometri orari. Nella timoniera era impossibile stare in piedi. Provai una volta ad alzarmi per controllare Saetta Grigia e per poco non andai a finire sotto la poltrona di Sig, ma solo perché lui fu lesto ad afferrarmi per un braccio mentre gli cadevo accanto.

"So a cosa stai pensando… ma non devi avere paura, l’abbiamo legata bene."

Annuii, anche se dentro di me avevo uno strano presentimento. Mi rimisi a sedere e cadde il silenzio, che fu interrotto solo da Edgar quando venne ad annunciarci che lui e Norman andavano a dormire.

"Quando hai bisogno di riposarti chiamami, che vengo io al timone!" disse a suo fratello prima di congedarsi. Sig annuì ed il minore scese di nuovo sotto coperta.

A mezzanotte in punto mi ricordai che era Natale: nelle tre settimane di attesa a Dutch Harbor avevo comprato un regalino per tutti e tre i fratelli, e mi sembrò carino dare subito a Sig il suo. Mi alzai dalla poltrona, e dopo aver tranquillizzato il capitano, che temeva mi sentissi male, scesi in cabina e frugai nelle mie cose in cerca del regalo.

Non avendo idea dei loro gusti avevo dovuto scegliere qualcosa di non troppo impegnativo e, visto che tutti gli uomini, di solito, hanno il portafogli rovinato, ne avevo comperati tre, uno per ognuno. Su quello di Sig, però, avevo fatto incidere sulla pelle le sue iniziali e le mie, circondate da uno svolazzo.

Recuperai il pacchetto dal fondo della borsa e tornai nella timoniera, canticchiando a mezza voce:

"È arrivata la bufeeeeeraaaa, è arrivato il temporaaaaaleeee, chi sta bene e chi sta maaaaleeee, e chi sta come gli paaaaar…"

Con la mano sinistra dietro la schiena raggiunsi la poltroncina di Sig.

"Beata te che hai voglia di cantare" mi disse, non appena avvertì la mia presenza alle sue spalle.

"Dalle mie parti si dice: "canta che ti passa". Buon Natale amore mio" e, così dicendo, gli misi il pacchetto sotto al naso. Lui rimase fermo a guardarlo, con le mani strette sui comandi, senza accennare a prenderlo.

"Scusa… Hai ragione, sono proprio una stupida! Questo non è certo il momento adatto per darti un regalo" feci per togliere la mano ma lui mi bloccò.

"No… È solo che non me lo aspettavo. Io non ti ho comperato nulla."

Mi fissò con sguardo triste, ma io lo rincuorai:

"Non ti preoccupare… Tu mi hai già fatto il regalo più grande che avrei mai potuto immaginare."

"E cioè?"

"Il tuo cuore."

Sig sorrise come un ebete, scoprendo gli incisivi, poi inserì il pilota automatico ed afferrò il pacchetto.

"Cosa mi hai regalato?"

"Aprilo!"

"Non so perché, ma quando devo scartare un regalo mi sembra di tornare bambino!"

Un’onda si infranse contro la prua, e lui mi afferrò al volo prima che finissi a gambe all’aria.

"Siediti" mi disse, e con un unico movimento fluido mi fece sedere sulle sue gambe e strappò la carta.

"Non è niente di eccezionale…" cominciai a dire, ma lui mi interruppe non appena aprì la scatola e vide cosa conteneva.

"Oh… Grazie! Ne avevo proprio bisogno. Il mio è da buttare!"

Lo guardò meglio e vide le iniziali; vi passò sopra i polpastrelli, poi si voltò verso di me.

"Grazie tesoro mio, lo terrò sempre con me!"

Mi strinse tra le sue braccia mentre con le labbra cercava le mie, ma un’onda più forte delle altre ci costrinse a rinunciare all’idea di continuare a baciarci troppo a lungo.

"Mi spieghi come funzionano i comandi?" gli chiesi allora, desiderosa di rimanere ancora un po’ seduta sulle sue ginocchia.

"Veramente ti interessa?"

"Certo!"

Lui spense il pilota automatico, prese le mie mani e le posò sui comandi, mostrandomi come accelerare e virare, per prendere sempre le onde di prua. Alle tre, quando Edgar venne comunque a dare il cambio a suo fratello, eravamo ancora nella stessa posizione, con le sue mani strette sulle mie mentre muovevo i comandi.

"Mi pareva che stessimo andando meglio" commentò Edgar: "Te l’avevo detto, sorella, che avresti pilotato meglio di lui!"

Con una risata, io e Sig lasciammo la timoniera e ci rifugiammo nella sua cabina, dove ci addormentammo pochi minuti dopo, stretti in un caldo abbraccio.

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Capitolo 11
*** Saetta Grigia in pericolo ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.


 

Saetta Grigia in pericolo

 

 

Alle sette Sig si svegliò, tornando subito nella timoniera e, dopo una veloce colazione, lo raggiunsi anch’io. Il mare si era un po’ calmato anche se, di tanto in tanto, onde alte cinque metri ancora spazzavano il ponte.

La prima cosa che feci fu andare alla porta che dava sull’esterno per controllare la mia Punto e quello che vidi mi bloccò il fiato in gola.

Il rollio provocato dalle onde e le sciabordate d’acqua che si erano ripetute durante l’intera nottata avevano quasi sciolto i nodi che tenevano la mia auto legata alla murata; la fune si era allentata e Saetta Grigia era quasi del tutto libera. Incapace né di muovermi né di parlare, osservai la scena come in un film in bianco e nero al rallentatore: vidi l’ennesima onda scavalcare la murata di dritta ed abbattersi sul ponte, infrangendosi contro la mia Fiat, che scivolò in avanti verso la gru. Il riflusso trascinò con sé la corda che la bloccava all’altezza del cofano e, quando arrivò, la seconda onda fece sgusciare l’auto dal resto delle funi che passavano sul tetto; solo l’ultima corda, che Edgar aveva fatto passare nel gancio di traino, continuava a tenere. Quell’unico appiglio fece ruotare la mia auto su se stessa, facendola puntare verso lo scivolo delle nasse. La terza onda arrivò dal lato sinistro, fece scivolare l’unica fune rimasta e mandò Saetta Grigia con le ruote anteriori sullo scivolo.

In quel momento recuperai la voce e l’uso delle gambe. Gridai in italiano:

"Oh Dio Saetta Grigia finisce nell’acqua!", afferrai la maniglia e mi fiondai giù per la scaletta senza nemmeno mettermi il giubbotto.

Soltanto quando arrivai alla mia auto mi resi conto che, da sola, non potevo fare un bel nulla, perciò mi aggrappai al parafango sinistro e cominciai a gridare:

"Non ti lascio Saetta, non ti lascio!"

 

 

* * *

 

 

Di tutta la frase, Sig non capì nemmeno una parola, ma il tono della voce di Michelle fu sufficiente a fargli alzare gli occhi di scatto dalle carte nautiche, appena in tempo per vederla spalancare la porticina e fiondarsi giù per la stretta scaletta. Si alzò dalla poltrona e gli bastò un’occhiata per capire che la situazione era critica: l’auto si era slegata, anche se non riusciva a capire come potesse essere successo, e si era incastrata con le ruote anteriori sullo scivolo delle nasse, minacciando di finire in acqua ad ogni scossone. Michelle si era aggrappata al parafango e la sentiva gridare attraverso la porta, che era rimasta aperta. Afferrò di corsa il microfono dell’interfono:

"Norm! Ed! Sul ponte, presto!" gridò, poi anche lui si lanciò fuori della timoniera.

Si incontrò con i suoi fratelli in fondo alla scala. Anche gli altri due erano rimasti basiti: avevano stretto bene i nodi, non riuscivano a capire come avessero potuto sciogliersi, ma ormai era inutile farsi domande idiote, dovevano agire.

Edgar afferrò la prima cima che gli capitò a tiro, la passò intorno al mozzo della ruota posteriore destra, poi la lanciò a Norman, che si era posizionato alla gru.

Sig, intanto, aveva afferrato la ragazza, cercando di rimandarla sotto coperta.

"Michelle! Torna dentro! È troppo pericoloso qui! Ci pensiamo noi!" gridò, per farsi sentire nel frastuono delle onde e del vento. Ma la ragazza scosse la testa, cercando di aiutare Edgar che nel frattempo stava legando la cima al mozzo della ruota sinistra.

"Michelle, ragiona! Non puoi fare nulla ed un’onda potrebbe trascinarti via!" insisté e, come a rimarcare le sue parole, un’onda di quattro metri si abbatté contro la fiancata di sinistra, inzuppandoli tutti da capo a piedi.

La ragazza si voltò a guardarlo con una strana luce negli occhi:

"Tu abbandoneresti mai la Northwestern?"

Dopo un attimo di esitazione l’uomo fu costretto a rispondere:

"No…"

"E allora io non abbandono Saetta Grigia!"

Con un sospiro Sig cedette, sperando che tutto andasse bene.

Norman aveva appena cominciato a tirare con l’argano per far tornare indietro l’auto quando un muro d’acqua improvviso si abbatté di nuovo su di loro, togliendogli il respiro. Quando fu in grado di vedere di nuovo, vide Michelle stesa a terra contro la gru, priva di coscienza. Con un grido la raggiunse, la afferrò tra le braccia e la portò dentro, mentre i suoi due fratelli riportavano l’auto al suo posto.

La depose a terra in cambusa, la svestì e poi la portò in cabina, avvolgendola nella calda coperta di renna. Vide che aveva un taglio sulla fronte, perciò andò a prendere la cassetta del pronto soccorso, disinfettò la ferita, le mise un cerotto, e rimase ad aspettare che tornasse in sé.

 

 

* * *

 

 

Il muro d’acqua mi colpì in pieno, senza lasciarmi nemmeno il tempo di dire: "A". Persi la presa sul ponte e scivolai all’indietro finché non andai a sbattere con la testa contro qualcosa di duro. Davanti agli occhi chiusi mi esplosero una miriade di puntini bianchi, che poi si tramutarono in nero assoluto mentre perdevo i sensi.

Quando tornai in me, la testa mi faceva male da impazzire:

"Oh Dio, la mia povera testa…" mormorai, prima ancora di aprire gli occhi. Immediatamente ricordai cos’era successo, perciò mi tirai su a sedere di scatto, gridando: "Saetta Grigia!" prima di rendermi conto che ero nuda.

"Stai tranquilla, è tutto a posto" mi rispose la voce calda di Sig. "Edgar e Norman sono riusciti a legarla nuovamente alla murata. Non so come sia potuto succedere, ma ti assicuro che questa volta la tua auto non andrà da nessuna parte!"

Mi voltai verso di lui: il capitano era seduto sul letto e mi guardava con occhi preoccupati e quasi spaventati.

"Ho dovuto spogliarti perché eri fradicia. Lo eravamo tutti in realtà… Mi sbaglio, o ti avevo chiesto di non uscire sul ponte?"

"Sig! Come potevo rimanere immobile? Saetta Grigia ha rischiato di finire in acqua!"

"Anche tu hai rischiato di finire in acqua! Quell’onda ti ha quasi spazzato via dal ponte! Ti ha mandato a sbattere contro la gru! Hai un bel taglio sulla fronte, ti ho messo un cerotto."

Mi tastai e sentii il bernoccolo sottostante, mentre Sig continuava.

"Mi hai quasi fatto morire di paura! Se tu fossi caduta in mare, io…" rabbrividì e lasciò la frase a metà.

"Hai ragione, Sig, perdonami… Non avrei dovuto, ma non potevo nemmeno abbandonare la mia auto! Tu dovresti capirmi."

Annuì controvoglia, poi riprese:

"Edgar sta preparando la cena. Te la senti di mangiare?"

"Sì, certo… Come cena?! Non è successo subito dopo colazione, il fattaccio?"

"Sì, ma tu sei rimasta incosciente per tutto il pomeriggio! Se non avessi sentito che il tuo respiro era regolare avrei creduto che…"

Lo feci tacere appoggiandogli la mano sulla bocca:

"Non è successo niente del genere, perciò basta pensarci, ok? Ho bisogno di farmi una doccia…" e, così dicendo, mi alzai dal letto, rimanendo nuda davanti ai suoi occhi.

"Hai bisogno di una mano…?" mi chiese con voce roca.

Lo guardai maliziosa: "Potresti venire a lavarmi la schiena."

Mi sospinse verso il bagno spogliandosi strada facendo e quella fu una doccia che duro molto più a lungo del dovuto.

Una volta usciti, indossai il pigiama e Sig mi imitò. Arrivati in cambusa, anche Edgar apprezzò l’idea.

"Perché no? Facciamo un pigiama party!" disse, ridendo e, dopo molte insistenze, riuscì a convincere anche Norman a mettersi in "tenuta notturna". Così tutti e quattro ci sedemmo a tavola abbigliati a quel modo, e lascio immaginare quanto potevamo essere ridicoli.

Tra una portata e l’altra consegnai ai due fratelli i loro regali: entrambi rimasero di stucco, perché non si aspettavano certo che io regalassi loro qualcosa, e mi ringraziarono di cuore per il pensiero che avevo avuto.

Dopo cena Edgar tirò fuori un computer portatile:

"Qualche tempo fa avevo passato i cavi per collegarlo al sistema satellitare della barca, ma poi non ho mai avuto tempo di provare se funzionava…"

Miracolosamente, il collegamento ad Internet funzionava perfettamente e, dopo essere andato sulla pagina di Google Earth, Edgar mi passò il computer dicendomi:

"Ti va di farci vedere dove abiti?"

"Certo!"

Sig mi prese a sedere sulle sue gambe; Norman ed Edgar si misero al nostro fianco, ognuno per lato, per vedere meglio lo schermo.

Con movimenti rapidi digitai sulla tastiera il mio indirizzo, poi pigiai il tasto invio e la pagina di Google Earth lasciò l’America per dirigersi verso l’Italia, zoomando fino ad inquadrare la mia regione. Sul lato sinistro dello schermo, apparve l’elenco delle attività registrate nella zona, ed al quarto posto vidi il nome della ditta di mio padre e mio zio:

"Ehi, ci siamo anche noi!" esclamai sorpresa, indicando lo schermo. Zoomai al massimo, fino ad inquadrare la vallata, poi il mio paese ed infine la mia abitazione.

"Ecco, questa è casa mia. Guardate, questa è Saetta Grigia!" dissi, indicando una macchietta color topo. "Questi sono i miei alberi da frutto, e quest’altro il mio giardino…". Mentre parlavo, muovevo il mouse ad indicare ciò che stavo loro mostrando.

"E tu abiti qui? Mi sembra una casa molto grande" mi chiese Norman.

"Sì, lo è! Ho posto per ospitarvi tutti: ho quattro camere e tre bagni!"

"Tre bagni? Wow! Sig, avresti l’imbarazzo della scelta!" lo pungolò Edgar.

Mi voltai appena in tempo per vederlo arrossire, ed accostando le labbra al suo orecchio gli sussurrai:

"In uno dei bagni ho una doccia idromassaggio grande abbastanza per due… mi piacerebbe tanto poterla usare insieme a te."

 

 

* * *

 

 

Quella proposta sussurrata al suo orecchio lo fece rabbrividire di piacere: anche a lui sarebbe piaciuto un sacco, ma… Per la prima volta, gli tornarono alla mente le parole di suo fratello: "Qualsiasi decisione prenderai, noi saremo al tuo fianco". Forse, dopo tutto, avrebbe potuto veramente lasciare il suo lavoro ed andare da lei. Chissà… magari sarebbe potuto partire addirittura insieme a lei; salire su Saetta Grigia ed accompagnarla a casa, per poi rimanere con lei per sempre. L’idea gli stuzzicò il cervello, e senza pensarci le rispose:

"Magari potrebbe anche succedere prima di quello che pensi…" sfiorandole la curva della mascella con la sua guancia ispida di barba.

 

 

* * *

 

 

La risposta di Sig mi lasciò senza fiato, a guardarlo stupita. Aveva forse in mente qualcosa? Ma il suo viso non tradì alcuna emozione, perciò tornai a voltarmi verso il computer.

Trascorremmo ancora un po’ di tempo davanti allo schermo poi, dopo aver controllato la rotta per un’ultima volta, andammo tutti a dormire. Fui contenta di addormentarmi sul petto del capitano: finalmente quella giornata non proprio eccezionale era finita.

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Capitolo 12
*** L'inizio e la fine di un sogno ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.


 

L’inizio e la fine di un sogno

 

 

 

Era ormai arrivato anche l’ultimo giorno dell’anno: il ventisette di dicembre era saltato quando avevamo oltrepassato la linea del cambiamento di data. Due giorni dopo saremmo arrivati a destinazione ed io non avrei più rivisto Sig, se non forse in televisione.

Proprio per questo, non riuscivo mai a staccarmi da lui: ero diventata la sua ombra, lo seguivo ovunque andasse, persino in bagno, ed anche lui mi voleva sempre con sé. Ogni momento libero veniva riempito con baci e tenerezze. Quando lui non doveva stare per forza nella timoniera ci rinchiudevamo nella sua cabina, anche per ore, magari stando semplicemente stesi sul letto l’una tra le braccia dell’altro. Ogni minuto che passava mi avvicinava sempre più al momento della separazione, e io non riuscivo a sopportarlo. Da una parte, avrei dato tutto quello che avevo per fermare il tempo… Dall’altra, avrei fatto passare quei due giorni in un lampo per togliermi il pensiero il prima possibile.

Ma non potevo fare né l’una né l’altra cosa, perciò andavo avanti, cercando di sfruttare al meglio ogni momento con lui.

 

 

* * *

 

 

Sig sapeva benissimo che il loro tempo insieme stava per scadere: lei non lo lasciava mai, e lui non lasciava mai lei. In quegli ultimi giorni aveva pensato spesso alla possibilità di andare via con Michelle. L’unica cosa che lo tratteneva era il pensiero delle sue figlie: se fosse andato in Italia, non avrebbe potuto vederle tanto spesso, magari solo una volta al mese. Poi si ricordava che, durante la stagione invernale, stava anche tre mesi di fila senza vederle, nonostante vivesse con loro.

Quando vide la tristezza farsi sempre più pressante negli occhi della ragazza, capì che doveva fare qualcosa: non poteva vederla in quello stato. Fu così che prese la sua decisione: sarebbe andato con lei.

Era l’ultimo giorno dell’anno: quel piromane di Edgar aveva organizzato, per quella sera, uno spettacolo pirotecnico. Quello sarebbe stato il suo momento: l’avrebbe guardata negli occhi e gli avrebbe comunicato la notizia. Già si immaginava la gioia che avrebbe illuminato il suo viso; e con lei, anche il suo cuore avrebbe gioito.

 

 

* * *

 

 

Dieci minuti prima di mezzanotte, Edgar ci chiese di metterci il giubbotto e di uscire sul ponte.

"Ho preparato una sorpresa" mi disse, strizzandomi l’occhio.

Seguii Sig e Norman fuori, accostandomi alla parete della timoniera per proteggermi dal vento freddo. Mi strinsi nel giubbotto nel tentativo di fermare il tremito delle ossa. Il capitano se ne accorse e mi strinse fra le sue braccia, facendomi appoggiare con la schiena contro il suo petto.

A mezzanotte in punto, un razzo partì da sopra il tetto della timoniera, seguito da altri a ruota libera. Edgar aveva piazzato un arsenale di fuochi d’artificio sulla parte più alta della Northwestern, e ora dava fondo alla sua piromania illuminando la notte artica.

Lo spettacolo mi fece tornare un po’ di buon umore. Mi strinsi ancora di più contro Sig – che serrò la sua stretta baciandomi su una guancia – e mormorai:

"Vorrei tanto che questo momento non finisse mai!"

Le labbra di lui indugiarono per un momento ancora contro la mia gota, poi si spostarono verso l’orecchio, e quando udii le sue parole sussurrate dolcemente il mio cuore perse un colpo:

"Non finirà… Io vengo con te."

Mi voltai lentamente verso di lui, stupita. Non riuscivo a credere a quello che mi aveva appena detto.

"Io… Io… Credo di non aver capito bene…"

"Hai capito benissimo, invece. Io vengo con te. Voglio vivere con te, in Italia."

"Ma Sig, e la pesca? Come farai, che per te è tutto? E le tue figlie?" gli domandai, non appena riuscii a riprendere il controllo di me stessa.

"Tu sei più importante di tutto! Mi sto rendendo conto che, a causa della pesca, ho trascurato troppe cose, ma ora posso rimediare. Per quanto riguarda le mie figlie, troverò un accordo con mia moglie. Potrò andarle a trovare una volta al mese, e poi d’estate potranno venire anche loro in Italia, sempre se tu sei d’accordo."

"Certo che sono d’accordo! Oh, Sig, non ci posso credere!" esclamai ancora, fissandolo negli occhi, temendo di trovarmi in un sogno e di svegliarmi da un momento all’altro.

"È così invece… Ti amo, Michelle!" e sottolineò quelle parole baciandomi come mai prima di allora aveva fatto, con dolcezza ma anche con passione e desiderio.

Ci chiudemmo nella sua cabina e facemmo l’amore ogni volta come se fosse l’ultima, anche se in realtà ognuna era la prima di una nuova, lunga serie.

Mi svegliai che era ancora buio: dall’oblò proveniva una strana luce colorata. Mi affacciai e quasi gridai quando vidi di cosa si trattava: era l’aurora boreale.

Mi fiondai nel letto e svegliai Sig.

"Sig, guarda! L’aurora!"

Lui sorrise, si alzò dal letto a sua volta, prese la coperta di renna, ci avvolse stretti in quella e mi sospinse su per le scale della timoniera, da dove avremmo potuto ammirare il fenomeno dalla fila di finestre che davano all’esterno.

Si sedette sulla sua poltrona, mi prese tra le braccia e ci avviluppò ancora più strettamente nella coperta. Rimanemmo così fino a che le luci dell’alba non fecero svanire i colori iridescenti dell’aurora boreale.

 

 

* * *

 

 

Non appena Michelle tornò in cabina per lavarsi e vestirsi, Sig chiamò Edgar e Norman nella timoniera. Era ancora avvolto nella coperta di renna.

"Siamo venuti su a vedere l’aurora" disse, per rispondere agli sguardi curiosi dei suoi fratelli.

Edgar ridacchiò e Norman si strofinò il naso, ma Sig era di buon umore e lasciò perdere.

"Devo darvi una notizia" cominciò gravemente. "Ho preso una decisione: vado con lei!"

Dopo un attimo di sconcerto, Edgar fu il primo a rompere il silenzio.

"Hai preso la decisione giusta, fratello!"

"Non ce l’avete con me perché vi lascio nei guai con la pesca?"

"No, Sig" Norman scosse la testa. "Tu hai tutto il diritto di essere felice! Va con lei. Noi ce la caveremo. E poi, qualche volta tornerai, vero?"

"Ogni volta che potrò!" gli rispose il capitano, convinto.

Edgar scese in cambusa e tornò nella timoniera con una bottiglia di vino e tre bicchieri.

"Dobbiamo festeggiare" disse, stappando la bottiglia e versando il vino. "A voi e al vostro amore!"

"A voi e al vostro amore!" gli fece eco Norman.

"E a voi e alla Northwestern, che lascio in ottime mani!" concluse Sig. Fecero tintinnare i bicchieri e bevvero alla loro salute, per poi rimanere, uno accanto all’altro, tre fratelli legati più che mai, a guardare il cielo che andava schiarendosi sempre più fuori delle finestre della timoniera.

 

 

* * *

 

 

Dopo colazione, Edgar mi si avvicinò con una salopette incerata gialla, un giubbotto giallo incerato anch’esso e un paio di stivali di gomma.

"Cosa hai in mente, con quella roba in mano?" gli chiesi, sospettosa. Ormai avevo imparato a conoscerlo, e quando gli vedevo quello strano sorrisetto sul volto capivo che c’era da aspettarsi qualcosa.

"È la tuta di Jake. Dovrebbe essere della tua misura. Mettila e vieni fuori sul ponte. Voglio farti qualche fotografia in versione "pescatore di granchi". Le terremo per ricordo! Ai ragazzi farà piacere! In fondo ci hai viziato un po’ tutti, con la tua cucina!"

Non me lo feci ripetere: indossai gli abiti di Jake e uscii sul ponte, dove trovai ad attendermi, accanto a Saetta Grigia, i due fratelli minori.

Anche loro avevano indossato le loro incerate, e non potemmo fare a meno di scoppiare a ridere non appena ci vedemmo.

"Sono buffa, vero?" chiesi, senza riuscire a smettere di sghignazzare.

"Niente affatto!" mi rispose Edgar, tentando di tornare serio ma senza riuscirci. "Prendi il gancio per le nasse e lancialo in acqua, così sembrerà che tu stia lavorando veramente. Faremo impazzire Jake di invidia! Non gli ho ancora mai permesso di usarlo, nemmeno per finta!"

Obbedii, e stavo per lanciare quando il minore degli Hansen mi fermò:

"Aspetta, manca qualcosa!" e si tolse la sigaretta di bocca, mettendomela tra le labbra.

"Ma io non fumo!" tentai di protestare, la cicca che ballava all’angolo della mia bocca.

"Non è necessario che tu inspiri. Vai, lancia ora!"

Dopo il gancio fu la volta della gru, poi ne feci una con Norman e una con Edgar singolarmente, e poi tutti e due insieme, con l’autoscatto. Mi mancava solo Sig, perciò presi l’interfono e lo chiamai:

"Ehi, Sig, non vieni a farti una foto con il tuo nuovo novellino?"

Lo sentii ridere: "Due minuti e arrivo! Sta squillando il telefono, dev’essere Luise! Edgar, vieni in plancia, non vorrai fare aspettare la tua mogliettina, vero?"

Edgar scosse la testa e prese il microfono.

"Mi tolgo l’incerata e arrivo. Tienimela calda, fratello!"

E con un’altra risata reciproca fu chiusa la comunicazione.

 

 

* * *

 

 

Non appena sentì squillare il telefono, il capitano fu subito certo che fosse Luise. Da quando erano partiti per la traversata la moglie di Edgar aveva chiamato spesso, chiedendo notizie e dando novità a Sig sulle sue figlie. La voce che sentì, però, non era quella di sua cognata, anche se la conosceva altrettanto bene.

"Pronto?"

"Sig…?"

Il cuore gli perse un colpo, un groppo gli si formò in gola.

"Sig… Mi senti…?"

"Juna… Juna, sei tu?"

Dall’altro capo del filo, sua moglie scoppiò in lacrime.

"Oh, Sig… Quando non ti ho visto tornare, per Natale… ho capito lo sbaglio che avevo fatto…" riuscì a dire, tra un singulto e l’altro. "Quando Luise mi ha detto che non saresti tornato… ho capito che ti avevo perso per sempre… e il mondo mi è crollato addosso…" i singhiozzi confusero le sue ultime parole.

"Calmati, Juna, ti prego!"

Il pianto di sua moglie gli spezzava il cuore. Non riusciva a sopportarlo.

"Ti prego, Sig… Torna a casa! Torna a casa, ti prego!"

La sua testa prese a girare: sua moglie lo stava pregando, lo stava implorando di tornare a casa. Cosa doveva fare? Non ci capiva più niente… Lui amava Juna!

"Le bambine non fanno altro che chiedere di te… Non capiscono perché non sei a casa… Torna, ti prego!"

Le sue bambine! Come aveva potuto anche lontanamente pensare di poter abbandonare le sue figlie?! Che razza di padre snaturato era?! E sua moglie, che piangeva così accorata, da spezzare il cuore!

"Tornerò Juna! Tra una decina di giorni sarò a casa! In tempo per stare un po’ insieme prima della stagione invernale."

"Promettimelo, Sig!"

"Te lo prometto, Juna. Ti amo!"

"Anch’io ti amo, Sig! Torna presto!"

La comunicazione si interruppe e lui riagganciò la cornetta proprio mentre Edgar entrava nella timoniera.

"Allora, dov’è la mia mogliet…" cominciò, ma si interruppe non appena vide suo fratello appendere il telefono. "Ehi, hai riattaccato? Ti avevo chiesto di tenermela calda…" la voce gli si smorzò non appena vide la faccia del capitano. "Oh mio Dio! Sig, che cosa ti è successo? Sei stravolto! Non è mica accaduto qualcosa, vero?"

"Non era Luise. Era Juna."

"Juna?!"

"Sì. Era in lacrime. Mi ha detto che ha capito di aver sbagliato, e che le bambine non fanno che chiedere di me. Mi ha pregato di tornare a casa."

"E tu che cosa le hai risposto…?" gli chiese il fratello minore, già temendo la sua risposta.

"Che ci sarò tra una decina di giorni."

Edgar si lasciò cadere sulla poltrona del capitano in seconda.

"Oh, merda… E a Michelle cosa dirai?" esclamò, sgomento.

"Non lo so, Ed. Non lo so."

"Credo che una spiegazione dovrai dargliela, è il minimo che tu possa fare, non ti pare?" Edgar alzò la voce, pieno di furia e, come sempre quando succedeva, Sig reagì alla rabbia di suo fratello con la propria.

mia moglie! Sono le mie figlie! Mi sembra una spiegazione sufficiente!" gridò.

"Forse potrà essere sufficiente per te, ma di sicuro non lo sarà per lei! Non dopo che le hai detto che avresti abbandonato tutto per seguirla!"

"Bè, dovrà farsela bastare! E smettila di farmi la predica, tu non sei nostro padre!" gli sputò in faccia il capitano, con astio.

Suo fratello parve trattenere a stento la collera quando gli pose un’ultima domanda.

"Posso chiederti almeno una cosa? L’hai mai amata veramente?"

Sig aprì la bocca per rispondere, ma non seppe cosa dire. Dopo un istante Edgar lasciò la timoniera scendendo ai piani inferiori, sbattendosi la porta della sala macchine alle spalle.

 

 

* * *

 

 

Visto che né Sig né Edgar uscivano all’esterno, Norman decise di tornare dentro mentre io misi in moto Saetta Grigia per scaldarla un po’.

"Tra due giorni ripartiamo, eh? Oh Saetta, non mi sembra vero che Sig venga con noi!"

La lasciai in moto per un quarto d’ora e, quando la spensi, mi resi conto di essere ancora sola. "Chissà come mai?" pensai. Perciò, per scoprirlo, salii la scaletta esterna della timoniera e aprii la porta con un gran sorriso.

"Allora, capitano! Ce la facciamo, questa foto?" domandai, ma il sorriso mi morì sulle labbra non appena vidi l’espressione di Sig: aveva la bocca serrata in una smorfia, lo sguardo cupo e la fronte aggrottata. Non mi guardò, nemmeno quando gli chiesi cosa ci fosse che non andava.

"Ha telefonato mia moglie" mi rispose con voce atona. Capii subito che non avrei avuto una bella notizia, perciò mi appoggiai all’armadio che conteneva tutte le carte nautiche e le bandierine di segnalazione che si trovava alle mie spalle.

"E…" lo incalzai.

"E mi ha chiesto di tornare a casa."

Rimasi in silenzio, in attesa che continuasse, ma non lo fece. Lo incalzai ancora, cercando di ingoiare il nodo che mi si andava formando in gola.

"E tu, cosa le hai risposto…?"

"Che tra dieci giorni sarò da lei" mi disse, lo stesso tono atono di prima.

Fu come se mi avesse dato un pugno nello stomaco: chiusi gli occhi ed appoggiai la testa contro l’armadio dietro di me.

"Perché…" riuscii a mormorare, con le lacrime che già si insinuavano nella mia voce, incrinandola, mentre salivano rapide verso gli occhi. "Perché mi hai detto che saresti venuto con me… se non ne avevi veramente l’intenzione?"

"Io ne avevo l’intenzione, ma lei mi ha chiesto di tornare a casa" ripeté, ostinato, come se quella fosse la cosa più semplice di questo mondo da capire ed io fossi una bambina un po’ ritardata. "È mia moglie. E le mie bambine mi vogliono a casa" aggiunse, come per rendere la semplicità della sua frase ancora più evidente.

"E a me non pensi…?" ansimai, spalancando gli occhi e guardandolo mentre le lacrime cominciavano a sgorgare. "Anch’io ti voglio a casa!"

"Loro sono la mia famiglia" disse, sempre senza degnarmi di uno sguardo.

"E io, cosa sono? Un pezzo di merda?" chiesi, mentre cominciavo a singhiozzare senza ritegno, con gli angoli della bocca piegati all’ingiù. "Mi hai detto che mi amavi… Che avresti rinunciato alla pesca per me… Mi hai solo preso in giro!"

Finalmente si voltò verso di me, e quella fu l’ultima volta in cui lo vidi in faccia. La sua criniera di morbidi capelli biondi, appena lavati; i suoi occhi blu cupo, colore del mare in tempesta; le sue guance ispide per la barba di tre giorni; le labbra socchiuse. Nel suo sguardo, tristezza e rassegnazione. Quell’immagine durò solo un attimo, prima di sdoppiarsi a causa delle lacrime che mi inondavano il viso.

"Mi dispiace di averti ferito. Non avrei voluto. Ma… Juna è mia moglie. Non piangere, ti prego. Non sopporto di vederti piangere."

"E cosa dovrei fare, secondo te!" gridai, singhiozzando. "Mettermi a ballare dalla gioia? Abbracciarti e dirti come sono contenta per te, perché tua moglie ti ama ancora? Anch’io ti amo, ma non te ne frega niente! Tu non mi hai mai amato!"

Fece per alzarsi dalla poltrona ma io lo bloccai, gridando con voce stridula.

"Non ti avvicinare! Non mi toccare!"

Mi scostai dall’armadio e aprii la porticina che dava all’esterno, sbattendomela alle spalle e lanciandomi giù per le scale. Non riuscivo a vedere dove mettevo i piedi e fu solo per puro caso se arrivai in fondo senza cadere. Una volta sul ponte, però, le gambe mi cedettero e caddi in ginocchio, piangendo a dirotto.

Cercando di rialzarmi, ma senza riuscirci, gattonai fino alla mia automobile, le girai intorno e mi appoggiai contro la portiera dal lato del passeggero, rintanandomi nello stretto spazio tra Saetta Grigia e la murata della Northwestern. Mi abbracciai le ginocchia e piansi. Piansi fino a non avere più lacrime.

 

 

* * *

 

 

Quando la porta sbatté alle spalle della ragazza in lacrime, Sig affondò la faccia tra le mani. Rimase in quella posizione finché non sentì qualcuno salire le scale interne della timoniera: si voltò e vide Norman in piedi dietro di lui.

"Vuoi spiegarmi cosa è successo? Ho sentito gridare, Edgar è fuori di sé dalla rabbia e Michelle è sul ponte che piange come una fontana."

Sig sospirò e ripeté la storia per lui. Anche Norman si mise a sedere sulla poltrona del capitano in seconda ma non alzò la voce contro suo fratello. Rimase in silenzio per qualche minuto, prima di chiedere:

"Sei sicuro di aver fatto la scelta giusta? Hai ancora tempo per pensarci."

Il capitano fece per aprire la bocca ma suo fratello lo interruppe:

"Non devi rispondere a me. Fai un esame di coscienza, e rispondi a te stesso."

Dopo di ché si alzò e tornò in sala macchine, dove suo fratello Edgar stava sfogando la rabbia contro il banco da lavoro.

Non sentì arrivare Norman, e trasalì quando lui cominciò a parlare.

"Gli ho detto di farsi un esame di coscienza."

"È inutile! Sig non ammetterà mai di aver sbagliato! Mi dispiace per lei, povera ragazza! Se potessi, lo prenderei per il collo e lo sbatterei contro quella maledetta plancia fino a farlo implorare pietà!" esclamò, prendendosela con tutto ciò che aveva davanti.

"Ti capisco, fratello, ma non possiamo farci niente. Sono affari suoi, noi non dobbiamo intrometterci. Possiamo solo cercare di fargli capire che si è comportato male, ma non possiamo farlo tornare sui suoi passi, se non vuole."

"Come fai ad essere sempre così calmo?!" gridò Edgar, scagliando via il martello che aveva in mano. "Io proprio non ci riesco! Vado a parlare con lei!"

Passò accanto a Norman, che lo afferrò per un braccio.

"È meglio di no, per adesso. Non ti ascolterà. Lasciala sola. Sarà lei a decidere se vorrà rientrare, e quando."

Con uno strattone, Edgar si liberò dalla stretta del fratello.

"Tentar non nuoce" gli rispose e a grandi falcate uscì sul ponte.

 

 

* * *

 

 

Seduta a terra, appoggiata alla fiancata di Saetta Grigia con le ginocchia strette al petto, ancora intabarrata nella incerata da pescatore, con gli occhi gonfi come quelli di un rospo ma senza più lacrime da versare. Così mi trovò Edgar quando uscì sul ponte. Si infilò tra la mia auto e la murata e si mise a sedere accanto a me.

"Ehi…" mormorò, ma io non mi voltai a guardarlo: nel suo viso, nei suoi occhi, avrei rivisto quelli di Sig, e non volevo.

"Ehi, sorella… dimmi qualcosa…" insisté, piegandosi verso di me.

"Non sono tua sorella" risposi con la voce arrochita dal pianto. "Non lo sono mai stata e non lo sarò mai."

"Sì, che lo sei. Tu, per me, rimarrai sempre la mia sorellina dinamitarda! Senza di te non avrei mai fatto una "bomba boomerang"!"

Mi strappò una specie di sorriso, che in un attimo si trasformò in una smorfia di dolore.

"Non sono in vena di risate, Edgar… Dimmi cosa vuoi e lasciami in pace."

"Volevo solo condividere il tuo dolore. Mi vergogno di mio fratello!"

"Ti ringrazio del pensiero, ma non tocca a te vergognarti."

"Voglio che tu sappia che non lo perdonerò mai per quello che ti ha fatto."

Sospirai, senza dire niente: la sua presenza era uno strazio.

"Ti prego, Edgar… Apprezzo i tuoi sforzi, ma ora ho bisogno di stare da sola."

"Puoi stare sola anche sotto coperta. Qui fuori sta cominciando a fare freddo!"

"Ho ancora l’incerata di Jake. E un po’ di freddo non ha mai ucciso nessuno. Tornerò dentro, ma non adesso… e solo se mi garantisci che non dovrò vedere tuo fratello."

"Consideralo fatto! Se Sig mette il naso fuori della timoniera, ti giuro che glielo stacco!" esclamò, tentando di sdrammatizzare, ma riuscendo solo a strapparmi un’altra smorfia.

Finalmente Edgar si alzò e mi lasciò nuovamente sola. Sospirai ancora, con un gemito mi alzai in piedi, salii sulla mia auto e mi chiusi dentro, così nessuno mi avrebbe più disturbato.

Non avevo nessuna intenzione di rientrare: il solo pensiero di avere Sig sopra la mia testa mi avrebbe fatto impazzire. Preferivo rimanere fuori: con la tuta cerata non si stava poi tanto male, avevo una bella coperta ed ogni tanto avrei potuto mettere in moto per accendere il riscaldamento. Sarei rientrata solo il tempo necessario per recuperare le mie cose dall’armadio, ma l’avrei fatto solo il giorno dopo.

Misi in moto, accesi il riscaldamento e mi sistemai sui sedili posteriori, in mezzo a tutte le mie cianfrusaglie, avvolgendomi nella coperta di lana. Il brontolio ripetitivo del motore di Saetta Grigia, unito ai colpi sordi del motore della Northwestern, mi conciliarono il sonno e, dopo qualche minuto, volente o nolente, mi addormentai.

 

 

* * *

 

 

Era ormai buio e Michelle ancora non si era vista. Edgar si affacciò per l’ennesima volta alla porta della coperta: la vettura era ancora in moto, ma non si vedevano movimenti all’interno

"Non ce la faccio più ad aspettare. Io vado a chiamarla!" esclamò, tormentandosi le mani.

"Non farlo, fratello. Te lo ha detto chiaro e tondo. Tornerà quando vorrà." gli rispose Norman, senza nemmeno alzare gli occhi dal libro che aveva in mano.

"Ma è quasi ora di cena!"

"E tu credi che Michelle abbia voglia di mangiare?! Tu ce l’avresti?" chiese il mezzano degli Hansen, incredulo, alzando lo sguardo.

"No…"

"E allora non insistere. Farai più male che bene se torni là fuori, dammi retta."

In quel momento Sig scese le scale della timoniera. Non appena lo vide, Edgar si voltò dall’altro lato e scese le scale, diretto in sala macchine. Norman invece rimase seduto al tavolo a leggere.

Il capitano si mise seduto sullo sgabello fisso dal lato obliquo del tavolo, appoggiò le braccia sul piano di formica e la fronte sulle braccia.

"Ce l’ha con me a morte, non è vero?" chiese, la voce soffocata.

"Quale dei due intendi?"

"Entrambi, presumo…"

"Bè, lui di sicuro sì. Lei non lo so. È ancora sulla sua auto. Edgar è andato a parlarci, oggi, ma non ha avuto molto successo" Norman rimase in silenzio per un attimo prima di aggiungere: "Hai fatto quello che ti avevo chiesto?"

Sig annuì con un sospiro.

"E cosa hai deciso?"

Dovette deglutire due volte prima di riuscire a rispondere.

"Che non tornerò indietro. Ho deciso di farlo per Juna… ma non lo farò per Michelle."

Norman annuì gravemente, ma non disse altro. Il silenzio cadde pesante all’interno della barca, rotto solamente dal rombo cupo del motore e dal rumore delle onde sulla carena. Dopo parecchi minuti Sig riprese:

"Mi biasimi per questo?"

Norman chiuse il libro e guardò gravemente suo fratello.

"No, non ti biasimo. La vita è la tua, sei tu che devi decidere cosa è meglio per te. Solo, avresti dovuto riflettere di più prima di prendere decisioni affrettate. Ma è inutile parlarne, adesso. Non farà stare meglio né lei, né te."

Sig annuì, sospirò ancora e si alzò:

"Dille che, se vuole, stanotte può dormire nella mia cabina. Io rimarrò nella timoniera."

"Non credo che ce ne sarà bisogno. Secondo me non si muoverà dalla sua auto."

Sig salì nuovamente le scale, e dopo pochi secondi Edgar uscì dalla sala macchine.

"Se n’è andato?"

"Sì, è salito di nuovo in plancia. Non ti sembra di esagerare?"

"No, fratello, non mi sembra di esagerare! Si è comportato come un pezzo di merda, e proprio non mi va giù. Mi passerà forse, un giorno, ma non oggi! Vado a chiamarla per cena!" e, prima che Norman potesse fermarlo, aveva già preso la porta.

 

 

* * *

 

 

Fui svegliata da Edgar che bussava insistentemente al finestrino. Mi tirai su e vidi che era già buio. Mi meravigliai di me stessa, che ero riuscita a dormire così tanto nonostante avessi il cuore a pezzi. Edgar continuava a picchiare sul vetro, così aprii appena il finestrino.

"Cosa vuoi, Edgar?"

"È l’ora di cena. Vieni a mangiare?"

"No, grazie, non ho fame."

"Mi avevi detto che saresti tornata dentro."

"Non sono ancora pronta. Preferisco rimanere qui ancora per un po’."

"Non puoi passare la notte all’addiaccio…" continuò ad insistere il minore degli Hansen, il tono di voce che si faceva sempre più acuto.

"Non sono all’addiaccio" replicai, senza riuscire a dare un’intonazione alla mia voce.

"Michelle, ti prego, vieni dentro!"

"No, Edgar. Per favore, lasciami in pace!" e, con un colpo secco, richiusi il finestrino, spensi la macchina e mi ributtai giù sui sedili posteriori, coprendomi anche la testa.

 

 

* * *

 

 

Il secondo rifiuto gli fece perdere il lume della ragione: come una furia salì le scale esterne della timoniera, spalancò la porta e aggredì suo fratello.

"Per colpa tua vuole passare la notte in macchina!" gli gridò, senza preamboli, trattenendosi a stento dal prenderlo per il colletto della camicia.

"Io non posso farci niente, Ed."

"Avresti potuto, invece! Se tu non ti fossi comportato come uno stronzo, tutto questo non sarebbe successo! Se lei sta male è solo colpa tua! Se lei si ammalerà sarà solo colpa tua!"

"Adesso smettila Edgar! Ho sbagliato, lo so, l’ho capito già da solo, ma ho preso la mia decisione definitiva e non cambierò idea! Io amo ancora mia moglie, mia moglie ama me ed è giusto che io torni a casa mia! Mi pare di capire che tu ti sei affezionato un po’ troppo a lei, ma questi non sono affari miei, come non sono affari tuoi quello che io decido di fare della mia vita!"

Mentre parlava, accalorandosi, si era alzato in piedi e si era avvicinato a suo fratello che, in quel momento, lo colse alla sprovvista dandogli un pugno in pieno viso.

Non appena si rese conto di quello che aveva fatto, la rabbia di Edgar si sgonfiò come un palloncino bucato.

"Oh, mio Dio… Cosa ho fatto!? Sig, stai bene? Che diamine, non so cosa mi sia preso!"

Il capitano si massaggiò la mascella e mosse la bocca, per controllare che tutto fosse a posto, poi scosse la testa e scrollò le spalle.

"Me lo meritavo, Ed, me lo meritavo."

"Scusami, Sig. Mi sono lasciato trascinare dalla rabbia…"

"Anch’io Edgar. Non parliamone più."

Edgar scese di nuovo e tornò in cambusa. Norman si era messo ai fornelli, ma nessuno ebbe voglia di mangiare quella sera: Sig rimase nella timoniera a fissare il cielo stellato; Michelle rimase nella sua auto per tutta la notte; Edgar, con ancora addosso il senso di colpa per aver colpito suo fratello, sbocconcellò solo un po’ di pane e Norman rinunciò a vuotare il piatto dopo la prima salsiccia. Tutti e tre i fratelli speravano ardentemente che l’indomani arrivasse presto, così da porre fine a quella strana parentesi delle loro vite.

 

 

* * *

 

 

La mattina dopo mi svegliai, nonostante tutto, affamata. Il mio stomaco brontolava non poco perciò, dopo qualche attimo di esitazione e dopo aver lanciato un’occhiata alle finestre della timoniera per essere sicura che Sig fosse al timone, decisi di scendere da Saetta Grigia, di andare a mangiare qualcosa e di raccogliere le mie cose dalla cabina del capitano.

La cambusa era deserta: a giudicare dal rumore, Edgar e Norman erano in sala macchine. Ne approfittai per mangiare qualche biscotto e bere un bicchiere di latte; poi andai in cabina a prendere le mie cose.

Entrare nella stanza in cui avevo passato molte ore felici in compagnia di Sig mi fece venire un groppo alla gola. Cercando di fare più in fretta possibile raccolsi tutti i miei averi, li infilai nel mio borsone e uscii nuovamente, caricando tutto in macchina. Nel tardo pomeriggio saremmo arrivati a Petropavlovsk e io avrei potuto finalmente riprendere il mio viaggio. Avevo ancora addosso l’incerata di Jake, così tornai dentro, la tolsi il più velocemente possibile, mi infilai il giubbotto e tornai sul ponte. Avevo però bisogno di sgranchirmi le gambe, così arrivai fino a poppa e mi appoggiai alla murata.

Senza volere, le lacrime ripresero a scendere silenziose e copiose, mescolandosi con gli spruzzi di acqua salata che ogni tanto mi colpivano il viso.

Rimasi così a lungo, finché una mano che mi si posava sulla spalla mi fece trasalire. Mi voltai di scatto per trovarmi faccia a faccia con Edgar.

"Ehi… Buongiorno sorella. Sei uscita, finalmente! Non hai fame?"

"Te l’ho già detto ieri, Edgar, non sono tua sorella. E, no, non ho fame. Sono venuta a raccogliere le mie cose e ho mangiato qualcosa."

"Sei scesa sotto coperta? Perché non mi hai chiamato?"

"Eri in sala macchine con Norman. Non credevo di doverti disturbare" gli risposi, tornando a voltarmi verso il mare, appoggiandomi di nuovo alla murata. Lui si mise vicino a me.

"Gli ho dato un pugno" mi confidò.

"Cosa?!"

"Ieri sera, ho dato un pugno a Sig."

"Per quale motivo?" gli chiesi, incredula.

"Perché se lo meritava, lo ha ammesso anche lui."

Scossi la testa. "Non avresti dovuto. Non voglio che tu litighi con tuo fratello!"

"Ti ha fatto del male!"

"Ne ha fatto a me, non a te. Non voglio che tu comprometta il rapporto con tuo fratello per una sciocchezza!"

Mi voltai a guardarlo negli occhi, anche se il farlo mi costava una fatica immensa, visto che erano così simili a quelli di suo fratello maggiore. Lui riprese.

"Non è stata una sciocchezza!"

"No… per me non lo è stata. Ma per lui evidentemente sì, quindi ti prego di lasciarlo stare. Arrabbiarsi non serve a nulla."

"Io invece, se fossi in te, sarei furioso!"

Tornai a guardare il mare.

"E per quale motivo? Se mi infuriassi forse risolverei qualcosa? Anzi, lo renderei ancora più duro nei miei confronti. Ho riflettuto molto, stanotte. Sai, non lo biasimo… Sua moglie lo aveva appena lasciato, non stava certo passando un bel periodo. In me ha visto qualcosa che gli ha fatto credere di potermi amare, anche se, per fortuna, si è accorto in tempo che non era così. Se fosse venuto con me in Italia e si fosse ricreduto tra qualche tempo sarebbe stato peggio, non ti pare? Se doveva finire così, è stato meglio che sia successo prima, e non dopo…"

Sentii il suo sguardo intenso premermi sulla nuca.

"Come fai a essere così saggia?"

"La mia non è saggezza, è accettazione dell’evidenza" sospirai. "A che ora arriveremo?" chiesi, per cambiare argomento.

"Più o meno per le quattro, oggi pomeriggio."

Guardai l’orologio: erano le dieci del mattino, ancora sei ore prima di tornare a terra.

"Bene… Credo che metterò un po’ in ordine Saetta Grigia per far passare il tempo; almeno, se dovrò fare una frenata brusca, non finirò sepolta sotto a tutto quel ciarpame."

Tornai alla mia auto mentre Edgar rimase appoggiato alla murata ad osservarmi. A pranzo gli chiesi di portarmi qualcosa fuori e mangiai un panino mentre continuavo a rivoltare la mia auto come un calzino.

Finalmente Petropavlovsk apparve all’orizzonte, e alle quattro in punto la Northwestern entrò nel porto.

Sapevo che le autorità russe avevano concesso il permesso di approdo solo per il tempo necessario allo scarico, perciò non appena il peschereccio fu ancorato alla banchina, controllato a vista da un picchetto militare, Edgar e Norman imbracarono la mia auto e la calarono a terra.

Scesi dalla passerella e li osservai mentre scioglievano le funi che l’avevano ancorata alla gru. Non appena furono pronti li abbracciai per salutarli.

"Addio Norman, è stato un piacere. Grazie di tutto!"

"Addio Michelle, buon ritorno a casa. Abbi cura di te."

"Addio Edgar. Rimarrai sempre il mio piromane preferito!"

"Addio sorella… Mi dispiace, ma non riesco a chiamarti in un altro modo!"

Mi strinsi nelle spalle. "Fa niente…" poi esitai un attimo, prima di aggiungere: "Ringraziate vostro fratello da parte mia per avermi permesso di continuare il mio viaggio."

"Lo faremo" mi rispose Norman.

Prima di rivolgermi al tenente della polizia russa per consegnargli il mio passaporto, alzai per un attimo lo sguardo alla timoniera, che aveva le finestre in fiamme per via del riflesso del sole al tramonto.

"Addio Sig" mormorai, incapace di trattenermi; poi voltai le spalle alla Northwestern, consegnai il documento al poliziotto che, dopo averlo controllato scrupolosamente, me lo riconsegnò facendomi un saluto militare, e salii a bordo di Saetta Grigia.

L’auto partì al primo colpo. Mentre ingranavo la prima marcia, l’occhio mi cadde sullo specchietto retrovisore: i due fratelli erano risaliti sul peschereccio ed agitavano le mani in segno di saluto. Per un attimo, mi parve di vedere una sagoma scura affacciata alla porta della timoniera, ma il tutto durò solo per una frazione di secondo: segnalai un paio di volte con le quattro frecce in risposta e partii, senza mai guardarmi indietro.

 

 

* * *

 

 

Quando la Northwestern fu al sicuro, ormeggiata al porto di Petropavlovsk, Sig si ritrovò combattuto: scendere dalla timoniera e salutarla, oppure rimanere immobile dove si trovava? Norman le aveva detto che non voleva vederlo, ma lui avrebbe voluto almeno dirle addio. Per tutta la mattina non aveva fatto altro che rigirarsi tra le mani il portafogli che gli aveva regalato, seguendo con i polpastrelli le iniziali incise sul pellame. Continuò a farlo anche mentre Edgar e Norman scaricavano l’auto e mentre Michelle li abbracciava per salutarli.

Per un attimo, prima di salire in macchina, la vide alzare lo sguardo verso la timoniera. Aveva proprio il sole contro, per cui difficilmente lei sarebbe riuscita a vederlo attraverso i vetri, ma alzò comunque un braccio, in gesto di saluto.

Un attimo dopo lei aveva consegnato i documenti per il controllo ed era salita in auto. Per una frazione di secondo desiderò con tutto se stesso, senza sapere perché, che Saetta Grigia non partisse, che la loro avventura finisse così com’era cominciata. Ma la vettura andò in moto al primo colpo.

Uscì sulla porta proprio mentre Edgar e Norman si sbracciavano dal ponte per salutarla. Lei segnalò con le quattro frecce e se ne andò, sparendo in pochi attimi dietro le altre navi ancorate.

"Addio Michelle" mormorò prima di sparire di nuovo dentro la timoniera, in attesa che i marittimi disormeggiassero la Northwestern, per poter partire con rotta verso casa.

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Capitolo 13
*** Epilogo ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcun scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere dei protagonisti di Deadliest Catch, né offenderli in alcun modo.


 

Epilogo

 

 

Continuai a guidare per quasi due mesi, attraversando tutta la Russia fino a rientrare in Europa.

Pochi giorni dopo la ripresa del viaggio ebbi finalmente una buona notizia: la Sector aveva deciso di riprendere a sponsorizzarmi visto che, nonostante fossi rimasta senza il becco di un quattrino, mi ero ingegnata per continuare comunque il mio Giro del Mondo. La troupe di meccanici ricominciò a seguirmi ma, per ironia della sorte, la riparazione fatta da Sig resse per tutto il resto del viaggio, per cui non ebbi mai più bisogno del loro intervento.

Durante il tragitto conobbi tante altre persone, qualcuna simpatica e qualcuna un po’ meno; vidi posti nuovi e meravigliosi e cercai di dimenticare la parentesi "alaskiana" della mia vita. Sui primi tempi ogni tanto ricevevo un sms, da parte di Dana e da parte di Edgar poi, pian piano, anche quelli cominciarono a diradarsi lasciando il posto a una sana solitudine.

Quando finalmente rientrai in Italia, mi parve di non essermene mai andata, nonostante fosse già la fine di marzo. Percorsi gli ultimi chilometri di viaggio quasi a passo d’uomo, per riempirmi la vista dei luoghi a me così cari e familiari.

All’ingresso nel mio paese scoppiai in lacrime, nel vederlo così inondato dalla luce del sole primaverile: mancavano pochi minuti a mezzogiorno, il cielo era terso e di un azzurro sconvolgente, tanto intenso da far male agli occhi. Non avevo mai notato quanto fosse stata bella la mia vallata.

Avevo telefonato il giorno prima per avvertire del mio arrivo, e mio padre mi aveva assicurato che avrebbe girato la notizia a tutti gli amici e i conoscenti; e, infatti, quando arrivai a pochi metri vidi che fuori del cancello di casa mia, che era spalancato, c’era una massa di gente che cominciò ad esultare non appena vide spuntare Saetta Grigia da dietro l’ultima curva.

Qualcuno aveva appeso uno striscione alle finestre della cucina: "Bentornata a casa Michelle" c’era scritto a lettere cubitali. La folla gridò di giubilo e si divise in due ali per permettermi di entrare nel giardino: le facce si mescolavano una con l’altra e non riuscii a distinguere nessuno in particolare, con le lacrime che scendevano copiose dagli occhi.

Quando mi fermai, però, una faccia in particolare mi immobilizzò, lasciandomi seduta sul sedile, incapace di muovermi. Un uomo dalla criniera di capelli biondo cenere pettinati all’indietro per nascondere un’incipiente calvizie, una barba di due settimane ugualmente bionda, corporatura muscolosa, vestito con un paio di jeans attillati, stivali alla cowboy e giubbotto blu con un logo inconfondibile: "Northwestern".

Mi stropicciai gli occhi, convinta di avere un’allucinazione, ma la figura non scomparve; anzi, mi apparve ancora più nitida, dopo aver spazzato via le lacrime.

"Non ci posso credere… Oh, Saetta… Ma non mi sarò mica addormentata strada facendo, vero?!" esclamai, rivolta alla mia auto.

Ma non stavo dormendo. Qualcuno mi aprì lo sportello e qualcun altro mi prese per un braccio per farmi scendere. Come in trance, mi lasciai guidare senza mai distogliere lo sguardo da quel viso così familiare. Molte mani mi sospinsero verso di lui e in un attimo mi ritrovai tra le sue braccia, persa nei suoi occhi blu scuro come il mare in burrasca.

"Sig… Oh mio Dio, sei proprio tu?!"

"Sì, piccola mia. Sono proprio io."

"Ma… come… perché…" balbettai, incapace di continuare.

"Quando sono arrivato a casa e ho guardato Juna negli occhi, ho capito che non era lei che volevo, ma te" mi spiegò, stringendomi dolcemente. "Con Edgar, abbiamo cercato nella cronologia del suo computer, e abbiamo ritrovato il tuo indirizzo su Google Earth. Mi è bastato telefonare."

"Io… Non è possibile, non ci credo… Ora mi sveglierò e mi renderò conto che è tutto un sogno…" dissi, dandomi un grosso pizzicotto sulla guancia, trasalendo per il dolore.

"Non è un sogno, è tutto vero!"

"Ma… tu non puoi rimanere… Quando te ne andrai?"

"Non sono venuto per andarmene. Sono venuto per restare!" e, accostando le sue labbra alle mie, siglò le sue parole con un bacio. Tutto intorno a me si confuse: la gente, le voci… Tutto divenne un turbinio indistinto mentre mi scioglievo tra le sue braccia.

Siamo rimasti in Italia per un solo mese, prima di trasferirci definitivamente a Dutch Harbor, dove il nostro amore è nato e cresciuto.

Ed ora, mentre scrivo queste righe – con in sottofondo il rombo cupo del motore della Northwestern, lo sciabordio delle onde contro lo scafo e la voce di Sig che rimbomba nell’interfono – ho capito di essere finalmente a casa.

 

 

Fine

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