Dear Serena

di dearwriter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


 
Dear Serena
 




« Non andartene docile in quella buona notte,
 
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria,
contro il morire della luce. »

 
Prologue
 
 
Dicono che quando una persona sta per morire, lo sa.
Una consapevolezza, un brivido che scorre lungo la schiena e lascia del tutto paralizzati, una luce splendente e luminosa. Una luce calda e dolce, come una carezza che cerca di rassicurare, di accogliere nelle sue ali protettrici. Una luce dolce e al tempo stesso amara, perché per quanto bella possa sembrare, irradierà tutto il resto.
Dicono che si sa, quando si sta per morire.
Probabilmente, tutto deve assumere un aspetto migliore. Il cielo non è più soltanto azzurro o velato da nubi che si dissolvono lentamente, non è più celeste o solamente e semplicemente blu. Il cielo risplende, infinito, imponente, sopra gli occhi di coloro che lo guardano con troppa poca ammirazione e, chissà come mai, non riescono a vedere quello splendore che vedo io.
Le foglie non sono più solo verdi, o non lo sarebbero se ci fossero abbastanza alberi da poter scorgere qualcosa di diverso da una strada trafficata, che costeggia un parcheggio, pieno di auto immobili. O così presumo, dato che la tenda tirata mi impedisce di guardare oltre un piccolo rettangolo dalla finestra.
In un certo senso, quella è la mia finestra sul mondo. Un misero squarcio di realtà, da dove i miei occhi che un tempo erano stati colore del cielo possono vedere una parte impercettibile di ciò che succede al di fuori della camera d’ospedale.
Sul comodino ci sono dei fiori. Dei Gigli bianchi, candidi. Dormivo, quando sono stati portati nel loro bel vaso di vetro, ma non ho bisogno di pensarci due volte per sapere che sono un regalo dei miei genitori. Sanno che sono i miei fiori preferiti, perché sono la tipica flora che si trova di fronte alle intemperie e ne esce vincente, si piega ma non si spezza, resiste alle prove più dure, alle temperature più rigide, alle tempeste più violente. Se potessero, i miei genitori mi assocerebbero ad un Giglio, anche se io non sono d’accordo.
In alcune culture, credono che la vita sia soltanto in prestito, che prima o poi, quello che ci è stato con amore donato, deve essere restituito. Altri pensano che spenta una luce, se ne accenderà un’altra, e torneremo a continuare il nostro viaggio, come anime in attesa di comprendere il vero scopo dell’universo.
Mi piace pensarla in questo modo.
E’ come se non stessi andando via davvero, non è la parola ‘ addio ‘. E’ ‘ arrivederci ‘. Naturalmente, per coloro che mi amano non è così. Ed è per questo che ho chiesto di restare sola il più possibile, in queste ultime due settimane. Perché la mia paura più grande è che quando io saprò e sentirò che sto per morire, loro resteranno soli. E non voglio che vedano. Vorrei che fossero ciechi, o che perdessero la memoria in uno strano incidente dell’altro mondo, qualunque cosa pur di non dover affrontare anche questa marea.
Dopotutto, l’ho fatto per loro. Per mia madre, mio padre, i miei nonni, gli zii, i cugini, gli amici. Ho combattuto per tutti loro, perché la verità è che io ero troppo stanca per prendere spada e scudo e lottare contro il cancro. Ma loro avevano bisogno che lo facessi, e non potevo deluderli, non potevo ferirli con quella stessa spada prima ancora che venissero feriti indelebilmente in profondità. Avevano bisogno di speranza, anche se flebile.
Speranza. E’ questo che ci tiene in vita, il più delle volte, ci fa andare avanti, è una ragione per aprire gli occhi la mattina e alzarsi in piedi. Respirare, vivere.
Serena era la mia ragione. Lo è ancora, anche se per poco… La camera mi sembra improvvisamente più luminosa, di una tonalità calda e non fredda come lo potrebbe sembrare un tipico corridoio d’ospedale.
E’ una sensazione strana, quasi di sollievo. Come se mi trovassi improvvisamente sulla cima innevata di un monte, in alto, fino a toccare il cielo con un dito, e qualcuno mi incitasse a lasciarmi andare, perché non cadrò schiantandomi sul fondo, ma spiccherò il volo, librandomi sulle nuvole più candide. Leggera come un uccello, veloce come il vento.
Voglio saltare, voglio provare a volare e sentire la brezza accarezzarmi la pelle, come una volta l’ha fatto Serena. Se chiudo gli occhi, l’aria potrebbe sembrarmi la sua mano morbida e minuta, sulla mia guancia.
Non posso buttarmi, non così, non senza di lei, non sapendo che quando mi sarò lanciata, lei resterà sola. Non voglio che succeda. Lei è piccola e fragile, si comporta da dura, come se niente potesse sfiorarla, giocando a combattere contro chiunque e persino contro se stessa, ma io la conosco. Il suo disperato bisogno d’amore la porta a gesta disperate. Ferisce, perché non può farne a meno. Non è colpa sua e non sa come si fa ad amare in modo diverso. In realtà è fragile, è piccola, vulnerabile ed è così bella quando la guardi… Pensi che non ci sia meraviglia al mondo paragonabile al suo sorriso, quando si accorge che la stai guardando e non capisce. Nessuno riesce a capire quanto sia bella, dentro, nemmeno lei. Ma io so che lo è, l’ho vista e so che la mia Serena è bellissima.
Vorrei dire molte altre cose. Troppe.
Ma non dirò niente… Me ne andrò in silenzio, com’è giusto che sia. La via è costellata di momenti come questo, in cui la consapevolezza della fine è più forte di qualsiasi altra cosa, tranne che dell’infinito amore verso la vita che si sta per lasciare. Magari mi renderò conto anch’io di non averla apprezzata abbastanza, prima, quando avevo tutto il tempo per godermela. Ma per ora questo mi basta.
Senza muovere nessun altro muscolo del mio corpo irrigidito, volto solo il viso verso il comodino. Un accenno di sorriso corre sulle mie labbra secche, mentre gli occhi velati di stanchezza cercano di immagazzinare il più possibile del vaso di Gigli, provando ad immaginare mamma e papà mentre li portavano, mentre mi accarezzavano quel paio di centimetri che è rimasto dei miei capelli biondi, mentre mi davano un bacio sulla fronte.
Con fatica e pesantezza, allungo una mano verso il quadernetto chiuso accanto ai fiori e lo trascino sul mio grembo. La penna al suo interno cade, appena lo apro, e la afferro con dita rigide e poco sensibili. Ho deciso che scriverò, ora. Ho sempre amato scrivere, è sempre stata la mia passione più grande, tra le altre cose, e mi sembra appropriato lasciare un’impronta scritta prima che sia tardi.
Strappo un paio di pagine ed inizio a scrivere…
Scrivo.
Scrivo, finché non rivedo di fronte a me quell’altura e quando la voce mi chiama, di nuovo, io salto. La penna e le pagine restano lì, accanto alle mie mani ma sembrano soltanto un lontano ricordo, perché io sto sferzando il vento caldo, cadendo a fondo con velocità.
Chiudo gli occhi, per la paura istintiva di schiantarmi. Ma non succede.
Quando li riapro, non intravedo neppure il fondo. Sto volando.
Leggera e veloce, tra le nuvole, nell’azzurro, verso la luce.

 
“ Cara Serena… “




⇒ Angolo Autrice.
Salve a tutti! Innanzitutto, se siete arrivati a leggere fino a qui, grazie. 
Pensavo di scrivere questa storia già da un pò, ma mi ci è voluto molto tempo prima di trovare il coraggio di buttarla giù e concretizzarla, ed è molto importante per me.
Non è la solita storia drammatica di una malattia. Sì, tratta questa tematica molto delicata e sì, sarà drammatica. Ma non voglio soffermarmi sulla sofferenza, la tristezza o sul dolore. Sarà più che altro un contesto, uno sfondo. Anche se in questo momento sembrerà qualcosa di duro da mandare giù, prometto che non sarà così!
Essendo solo il prologo non ho molto altro da dire, se non che - altra promessa - mi impegnerò per aggiornare ogni settimana. Posterò un capitolo nuovo ogni Mercoledì, salvo impegni o casi eccezionali. 
Spero che le avventure ( disavventure ) di Clarissa emozionino anche voi, critiche, suggerimenti e consigli sono sempre ben accetti! Per qualsiasi cosa, non esitate a contattarmi, e anzi: mi farebbe molto piacere. 
Per il resto, grazie e buona lettura!

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


Dear Serena
 




 
Capitolo Uno.

“ Cara Serena, 
ora capisco, ora mi è chiaro. Sei tu la mia ragione. ”
 
 
6 Novembre 2014
 
 
Con dita veloci ed esperte, intreccio le lunghe ciocche bionde, lasciando che ricadano unite e in ordine sulla mia spalla sinistra. Appunto l’elastico marroncino, per evitare che la treccia si sciolga, e alzo lo sguardo sullo specchio.
Cosa vedo? Una voce simile alla mia mi pone la stessa domanda, nella mia testa. Di nuovo: che cosa vedo?
Vedo un paio di occhi azzurri, intensi, scuri, impauriti. Non il genere di paura che ti paralizza e ti impedisce di respirare, aumenta il battito cardiaco e, poiché l’ossigeno non arriva in giusta quantità al cervello, non ti permette neppure di pensare lucidamente. Nemmeno il tipo di sentimento che fa sudare freddo e andare nel panico. No. E’ solo… un lieve timore. Sì.
Annuisco al riflesso di me stessa, allo specchio, mentre scorgo tutta la mia figura snella di spalle, tramite l’altro specchio che si trova dietro di me. Abbozzo un sorriso, forse per testare i muscoli facciali e assicurarmi di non avere il sintomo della paralisi. Sorrido di più. Nessuna paralisi, e fin qui posso sospirare di sollievo, perché è solo un lieve timore, nulla di più strano e arcano.
Respiro profondamente, captando i tonfi pesanti e rapidi del mio cuore. Serena è nell’altra stanza. Il muscolo cardiaco potrebbe saltarmi fuori dal petto da un momento all’altro, sento un temporale che si agita non solo nella parte sinistra, ma in tutta la gabbia toracica e probabilmente dovrò vivere il resto della mia vita senza un cuore, se adesso decidesse di esplodere e scappare per conto suo. Il che non è un’ipotesi da escludere, perché il fiato si spezza e non riesco a respirare… non riesco a pensare, né a calmarmi, né a fare qualsiasi altra cosa potrei decidere di fare. Niente.
Sono nel panico. Lei è a pochi passi da me, fuori dal bagno, altri pochi passi, oltre la porta in legno scuro, nella sua stanza, dal pavimento in legno. E’ lì, così vicina…
Prima d’ora non ero mai stata a casa sua, di Serena. Ci siamo conosciute quasi un anno fa, il 5 Dicembre 2013, per la precisione, ma questa è la prima volta che metto piede a casa sua. O meglio, nella sua reggia. Ha soltanto cinque anni più di me, abita con i genitori e ha approfittato dalla loro assenza di qualche giorno per chiedere a me di passare tre giorni con lei. Sono arrivata oggi pomeriggio e me ne andrò domattina.
Ora che ci penso, il tempo è sempre troppo poco. Prima ero troppo sorpresa e meravigliata del fatto che vivesse in un’enorme casa a tre piani, con un caminetto sempre acceso nel salotto, una lunga scala che si attorciglia su se stessa e un secondo piano con un corridoio interminabile. Ho omesso il fatto che casa mia, la casa dei miei genitori, sia grande come metà del suo pian terreno.
Anche il bagno sembra uscito da uno di quei souvenir di vetro a forma di sfera, che quando li agiti ricoprono di neve il paesino riprodotto. E’ azzurro, di piastrelle normali e di mosaico, e il soffitto è dipinto di un bianco fin troppo pulito. I mobiletti sono uguali: bianchi e celesti, alternati al mosaico. Potrei rimanere qui tutta la notte. Adagiarmi nella vasca, tirare la tendina e cadere in sonni agitati e rumorosi fino al giorno dopo. Oppure potrei girare la chiave nella serratura e non uscire mai più.
Ho paura. Non c’è spazio per il lieve timore, ora ho soltanto… paura.
La stessa voce chiara di prima mi domanda: di che cosa? Di che cosa?
Potrei rispondere che non lo so. Fisso la treccia bionda e perfetta, accarezzo le punte oltre l’elastico che la ferma. Non lo so… Ma la verità è che ho paura di tutto. Ho paura di dire o fare la cosa sbagliata, di parlare, di guardare, di muovermi, di respirare. Ho così tanta paura, da esserne paralizzata. Perché lei è lì, così vicina a me che se soltanto avvicinassi una mano, potrebbe ritrarsi e schizzare via come una margherita in mezzo ad un tornado. E io resterei immobile, ferma a guardarla andare via, per non tornare mai più.
E’ la stessa sensazione che ho provato quando mi è sfuggito quel “ Ti amo “. Non volevo dirlo, davvero, ma il momento era così perfetto e stavamo parlando così tranquillamente, come facciamo sempre, che il mio cervello ha perso completamente il controllo della parola. E le ho detto “ Ti amo “.
Questa è anche la prima volta che ci vediamo dopo questo fatto, oltre che la prima volta in cui sono nel suo territorio. Dite, come sarebbe possibile non esserne spaventati? Mi sento un uccellino smarrito e incapace di volare. E vorrei soltanto risalire il mio albero, tornare nel mio nido e coprirmi con foglie secche e rametti, finché mamma uccello non sarà tornata per rassicurarmi!
Solo che non posso. Il mio nido è a più di mezz’ora da qui. Domani sarà tutto finito e il solo pensiero mi fa stare forse anche peggio. Perché lei non verrà con me, e saremo di nuovo separate.
Con il fiatone, sfilo i jeans e il maglioncino rosso e mi infilo maglietta e pantaloni del pigiama. Prendo i vestiti con me e mi decido ad uscire, chiudendo la porta lentamente e pianissimo. Il solo più piccolo rumore potrebbe allarmarla o potrebbe pensare che io sia più disastrosa di quanto già non pensi, probabilmente…
Varco la soglia della sua camera, dopo aver brancolato per qualche passo al buio, e vado dritta sul divanetto dove ho lasciato la mia borsa e tutti i miei effetti, poggiandovi anche i vestiti.
« Ehi. » dico, voltandomi.
Serena è stesa con la schiena su più cuscini, il cellulare in mano e apre le coperte del letto a due posti per poi picchiettarci la mano. L’idea mi aveva sfiorata, per un secondo, ma la possibilità così reale e concreta mi spaventa forse anche di più.

« Stavo cominciando a pensare di chiamare i soccorsi. » dice, con un ghigno disegnato sul volto.
Io fingo di ridere, apposta, mentre mi siedo sul letto e mi nascondo subito sotto un ammasso di coperte morbide ma leggere.
« Che premurosa… »
Non ho intenzione di riemergere, da lì sotto. Se un po’ di cuore mi era rimasto prima, adesso se lo sta di sicuro mangiando tutto lo stomaco, o qualche altro organo di cui in questo momento non rammento il nome. Poco importante, comunque.
Rotolo sul fianco destro, reggendo le coperte per lasciare scoperti solo gli occhi, che punto su Serena. Lei mi sta guardando. Si volta solo un istante per appoggiare il cellulare sul comodino, dopodiché si stende del tutto, lanciando a terra un cuscino.
Il tempo si ferma. No, non è vero, ma io lo sento immobile. Restiamo a guardarci, così, l’una di fronte all’altra, in silenzio, sotto la luce un po’ soffusa della camera.
Dovevamo parlare, questo era il motivo principale per cui avevamo deciso di cancellare la distanza fisica e trovarci. Parlare del fatto che entrambe eravamo d’accordo sul fatto di essere fin troppo unite, ma che a me fosse sfuggito un “ Ti amo “ di troppo. E invece, dal momento in cui è venuta a prendermi al cancello, ci siamo abbracciate e siamo entrate, non abbiamo fatto altro che parlare e ridere di cose sciocche. Abbiamo del tutto sorvolato il punto dolente e comincio a pensare che sia perché è fuori luogo, imbarazzante e…

« Serena? » mi sento dire, senza capire come abbia fatto una parola ad uscirmi dalle labbra. Eppure, l’ho pronunciata.
I suoi occhi castani sembrano risvegliarsi.
« Mh? »
« Buonanotte. »
Mi guarda ancora. Io la guardo ancora.
« Buonanotte. », sussurra.
Sento un angolo delle mie labbra stirarsi, un sorriso così piccolo che soltanto lei può accorgersene e sono sicura che l’abbia visto, perché mi sta sorridendo. Allunga una mano fino all’interruttore della luce e lo preme, lasciandoci al buio, illuminate solo flebilmente dalla luna che penetra dalla finestra.
Avrei voluto dirle tutto quello che con tanto impegno stavo reprimendo. Ma avevo paura. Ho paura, mentre chiudo gli occhi e mi rannicchio. Ho paura che, così vicine, possa sentire il battito del mio cuore e possa chiedermi perché. Perché non riesco più a parlarle, a dirle ogni cosa, ad essere me stessa? Ho troppa paura e sono una codarda. Ecco perché.
La sento avvicinarsi, rannicchiarsi vicino a me. Non reagisco in alcun modo, perché potrebbe allontanarsi… e non voglio che lo faccia. Voglio rimanere immobile, sentendo la sua presenza sfiorare la mia. Voglio addormentarmi così.

« Buonanotte, Serena. » ripeto, in un sussurro.
 
♦♦
 
Caldo.
Mi volto sul lato sinistro. C’è qualcosa che mi infastidisce, che mi tormenta, che mi impedisce di dormire davvero. Non so cos’è, ma mi giro ancora una volta a destra.
Respiro pesantemente. Mi sento a metà tra due mondi: quello del sogno, intoccabile, leggero come polvere, e quello reale, concreto e duro. Non riesco a svegliarmi, ma non riesco neppure ad addormentarmi di nuovo. Qualcosa mi trattiene nel mezzo, finché una mano non mi trascina con sé e mi sveglio all’improvviso.
« Che ore sono? » mastico, alzando il viso sopra le coperte per poter respirare aria nuova.
La camera è buia. Se avessi una sveglia, un orologio o un telefono da guardare, probabilmente vi leggerei un’ora indecentemente notturna. O almeno penso… Socchiudo gli occhi, Serena è rivolta verso di me, ha i capelli castani sparsi sul volto e la sua mano è talmente vicina alla mia guancia, che capisco.
Sta dormendo. E mi ha accarezzato la guancia. E’ stata la sua mano, a trascinarmi e a svegliarmi. E’ stato il suo tocco, che ho sentito, e giuro è stato l’attimo più bello di tutta la mia vita.
Istintivamente, mi porto le dita nel punto esatto in cui mi ha sfiorata e sorrido. Mi avvicino un po’, stando attenta a non fare troppo movimento sul letto e sui cuscini, e tremante allungo la mano per spostarle le ciocche dagli occhi chiusi. Le sfioro la fronte coi polpastrelli, piano, perché sono terrorizzata all’idea di svegliarla e se si svegliasse, potrebbe scappare.
Scendo, piano, pianissimo, fino alla sua guancia con le nocche. Nella mia testa, io mi allungo per darle un bacio sulla fronte. Ma nella realtà mi accontento di toccarla e guardarla dormire. Ed in quel momento, io capisco. Tutto mi appare più chiaro, completo, riordino i tasselli mancanti.
Capisco che cos’è la paura, il nodo allo stomaco, il terrore vero e proprio che sento. Lo capisco… Lì, mentre la guardo ed è così bella, capisco che non potrei fermarmi a guardare in questo modo nessun altro, mai. Capisco che non potrei arrivare a vivere per guardare qualcun altro, senza di lei. Capisco che non amerò nessuno, come amo lei. Capisco che è lei…
Capisco che l’amo dal primo momento in cui l’ho vista.
Che è lei la mia ragione.
E’ sempre stata lei.


 
⇒ Angolo Autrice.
Rieccoci qui con il nostro appuntamento settimanale del Mercoledì!
Prima di tutto: grazie. Grazie a chi sta leggendo, recensendo e seguendo le avventure di Clarissa. 
Per cominciare, ho pensato di partire dal principio. Non il vero principio, ma da uno dei momenti a mio parere più importanti e cruciali nella vita e parte emotiva della protagonista: il momento in cui capisce che i suoi sentimenti sono veri. Veri e molto più profondi di quanto anch'ella pensasse. Tanto che lei, intraprendente e come si scoprirà in seguito senza paura, si ritrova paralizzata di fronte a Serena.
Cronologicamente, ci troviamo circa ad un anno prima degli eventi del Prologue. E da qui si parte.
Il resto? Lo scoprirete solo nella prossima puntata e vi prometto che sarà mooolto più fruttosa e ricca di avvenimenti!
A Mercoledì. 

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Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


Dear Serena
 




 
Capitolo Due.

“ Cara Serena, 
che fine ha fatto Clarissa Mason? Dove sono finita? ”
 
 
7 Novembre 2014
 
 
Messaggio da Little Genie* a Clarissa:
“ Tu sei appena tornata e mi manchi.
Mi stavo abituando alla tua presenza in giro per casa e tutto sembra così vuoto, ora.
Mi manchi, Clarissa. “
 
Messaggio da Clarissa a Little Genie:
“ Mi manchi anche tu, Serena…
Mi stavo abituando a casa tua e a vederti così spesso.
Vieni da me. “
 
Messaggio da Little Genie a Clarissa:
“ Cosa? Lo sai che ho poco tempo, il lavoro. “
 
Messaggio da Clarissa a Little Genie:
“ Lo so, ma vieni da me. Un giorno o due, durante il fine settimana. Per favore, vieni. “
 
Messaggio da Little Genie a Clarissa:
 “ Okay. “
 
Messaggio da Clarissa a Little Genie:
“ Okay? “
 
Messaggio da Little Genie a Clarissa:
“ Okay. Vengo da te. “
 

 
Verso la metà di Ottobre, 2014
 
 
« Penso che tu abbia un nodo alla gola e stia cercando di evitarlo andandoci continuamente contro. »
Alzo lo sguardo dalla schiuma bianca del mio cappuccino, fissandolo su quello di Peyton. Intravedo una nota di sarcasmo, nel suo sguardo solitamente dolce, e se mi sforzo di guardare più a fondo, posso notarne una variopinta di preoccupazione e soddisfazione nell’aver carpito qualcosa che, evidentemente, non volevo che carpisse.
Ma Peyton è la persona che potrei semplicemente definire come “ persona “. La mia. Ci conosciamo dal primo anno di liceo e da allora la nostra è sempre stata una strada a due corsie. L’una affianco all’altra, per mano, a sostenerci onde evitare cadute. Nascondere qualcosa a lei sarebbe come commettere una rapina in una gioielleria, e scappare passando di fronte ad una centrale di polizia cantando a squarciagola “ Catch me “.
« Non è vero. » sospiro, intingendo il cucchiaino tra la schiuma del latte. Mescolo con poca convinzione, guardando attenta le sfumature beige penetrare in mezzo al bianco immacolato. In un attimo, del bianco non è rimasto che il nulla. Il beige ha invaso tutta la superficie del cappuccino. « Ho un’amica… »
La voce sarcastica di Peyton mi interrompe. « Non l’avrei mai detto. »
Io scuoto il capo tra me, senza averla minimamente udita. So cosa voglio dire. Insomma, chi non lo sa? Sarebbe davvero preoccupante e strano non sapere cosa dire alla persona con cui si parla di tutto, sempre. Lo so, mi ripeto.
« Ho un’ amica. » ricomincio, incespicando sull’ultima sillaba. « Che ha un’amica… »
« E quest’amica ha un’altra amica, la quale ha un’altra amica… »
« Peyton. »
« Okay. Amica. Clarissa, sei molto strana. »
Quando rialzo lo sguardo, mi accorgo che mi sta osservando con un occhio socchiuso e uno che sembra sgranato. Il mio primo impulso è di ridere, perché non l’ho mai vista abbozzare un’espressione simile. Ma qualcosa mi frena. Quello a cui sto pensando, mi frena. Perché è lì, proprio vicino alla punta della mia lingua, all’interno delle labbra che si sforzano per non farlo uscire. E la mia sola domanda è: perché?
Sospiro, di nuovo. Immagino di gettare a terra un masso, un peso che mi sono trascinata per miglia e miglia. Percepisco la sensazione di sollievo, di ritrovata serenità e me ne compiaccio, sorridendo, perché dev’essere rincuorante. Rigenerante. Ossigeno puro, là dove i polmoni non potrebbero sopravvivere senza.
E io voglio sopravvivere, voglio quell’ossigeno, voglio quella boccata d’aria. La voglio. Mi vedo. Faccio forza sulle braccia e scaravento il peso più lontano possibile da me.
« Credo di provare qualcosa per Serena. » dico, infine.
Peyton non reagisce, le sue mani circondano un bicchiere mezzo pieno di un infuso di thè, ormai raffreddato. Lo prende sempre, ogni volta che veniamo in questo bar, il nostro luogo di ritrovo ufficiale. Ha una predilezione per quel tipo di bevanda, che io ho cominciato ad emarginare in favore della caffeina. Passaggio obbligato che, prima o poi, tutti compiono.
« Bè, è naturale. Siete molto amiche. »
« Sì, ma io… » mi prendo un istante di pausa, ansiosa, e guardo la mia amica portare il suo bicchiere alle labbra. Sono tentata di torturarmi le dita delle mani, tra loro, ma non lo faccio. « Non intendevo in quel modo, Peyt. Io… Tu. Tu, sei la persona che, come dice Cristina Yang, chiamerei se compissi un omicidio e dovessi occultare il cadavere. Sei la Cristina della mia Meredith. Lei… credo che lei sia il mio Dottor Stranamore. »
Il suono del bicchiere poggiato sul tavolo mi riporta alla mente quello del masso. Il masso scaraventato via, lontano da me. Ecco, l’ho fatto. L’ho lanciato. L’ho lanciato senza nemmeno pensare che proprio quel peso, quel sasso che tenevo ben stretto fra le braccia, mi proteggeva la gabbia toracica dagli urti, difendeva una parte del mio corpo, preservava me. Peso in cambio di protezione. Chi lo farà ora che me ne sono liberata?
« Oh. » sibila, impassibile.
« Oh. » le faccio eco, impedendomi di aggiungere altro impiegando le labbra in una smorfia. Forse è più sconcertata dal mio monologo, dopotutto, che dal fatto in sé. Non contenta, prendo la tazza fra le dita e la sollevo per assaggiare il tepore del mio cappuccino.
« Era questo che stavi cercando di non dire? »
Sì, rispondo mentalmente.
Nella realtà, bevo un paio di sorsi caldi e squisiti prima di rimettere la tazza al tavolo. Peyton sembra la solita Peyton. Del resto, non era questa la mia preoccupazione. Lei mi vuole bene, incondizionatamente, come io ne voglio a lei. E’ un dato di fatto che non cambia in base alle scelte che compiamo nel nostro cammino.
Quindi non lo so. Non so perché tentassi di nasconderlo così tanto, persino a lei. Non so perché ho retto quella pietra. Non so nemmeno con certezza perché l’ho raccolta da terra. Ma posso solo supporre che la paura e la preoccupazione non fossero rivolte ad altre persone e a quello che potessero pensare. Non proprio… Era di me, che avevo paura. Della confusione che quella domanda mi creava e crea, tutt’ora. Del fatto di essere colta alla sprovvista, impreparata, sopraffatta da una situazione che ha il pieno controllo su di me. Ed io non posso fare altro che soccombervi. Non avere il controllo mi spaventa, perché non avere risposte, non avere soluzioni, fa sentire completamente inutili e piccoli. Impauriti. Non voglio essere impaurita, non voglio soccombere al timore e alla paura.
Non ero pronta ad ammetterlo a me stessa. Ecco la risposta.
Il mio silenzio scatena in Peyton una naturale reazione da migliore amica. Sospira vivacemente, roteando un po’ gli occhi azzurri, ma più tendenti al grigio. « E, sentiamo, da quanto tempo ci stai pensando, esattamente? Al tuo “ Dottor Stranamore “. »
Faccio un’altra smorfia, pensierosa. Se i calcoli sono esatti, dovrebbe essere… « Un mese e ventidue giorni. »
Annuisco, convinta. Peyton si fissa su di me, me ne accorgo. Sono incantata dal suo sopracciglio destro e dalla sua capacità di schizzare verso l’alto con facilità. Da quando l’ho visto la prima volta, mi fermo invano di fronte allo specchio a provarci. E ancora non mi sono arresa.
« Clarissa, questa non è forse una risposta sufficiente? »
Il suo tono è improvvisamente dolce. Le sue parole, disarmanti. Perché ha ragione. Nel profondo, all’interno del mio corpo, dov’è sepolta la mia anima, io so che ha ragione. Lo so. E mi sento vulnerabile. Più vulnerabile di quanto sono mai stata, probabilmente. Incapace di pensare a null’altro se non a lei, a Serena. A cosa dirle, come comportarmi, come non perdere il controllo, come non rovinare tutto. Perché è questo che succede, quando tra due amici quando nasce un amore a senso unico: il filo si spezza.
Immagino il legame tra me e Serena logorarsi, danneggiarsi per sempre in modo irreparabile. La nostra complicità, il modo in cui ridiamo, parliamo, siamo l’una la metà dell’altra. Tutto distrutto e raso al suolo, a causa mia.
Come si può sopportare una colpa così grande? Come si convive con un dolore talmente lacerante e dilaniante?
Non lo si fa.
« Giusto. » sussurro, lo sguardo basso sulla mia tazza. Sento un sorriso amaro fare capolino sulle mie labbra tese, la consapevolezza di stare andando incontro ad un bivio ugualmente pericoloso. Dire la verità, od ometterla. Parlare o tacere. Aprirsi o chiudersi. Correre il rischio o fuggire. Coraggio o paura.
Rimpianto o rimorso.
 

 
 
15 Novembre 2014
 
 
Respira. Calma. Sangue freddo.
È passata praticamente una settimana esatta dalla mia gita di una notte a casa di Serena, oggi tocca a lei.
Questa notte ho dormito, a occhio e croce, non più di quattro ore e ho un paio di occhiaie spaventose di una strana sfumatura scura. Non ho fatto colazione. Ho lo stomaco talmente in subbuglio che potrei vomitare persino l’aria.
La mia mattinata è stata scandita da giri di corsa, tra il bagno e la camera. Mi sono cambiata tre volte e poi, non contenta e sudata, ho finito per vestirmi una quarta ed ultima volta. Mi sono piazzata di fronte allo specchio, con elastici e forcine, pinzette e una bellissima fascia per capelli blu con fiori rosa e rossi. Ho raccolto la mia chioma bionda in una coda e sono uscita. Raggiunto il corridoio, subito dopo la soglia, sono rientrata nel bagno e ho trasformato la coda di cavallo in una treccia. La treccia è poi divenuta uno chignon, che ho poi adornato con la fascia per capelli, elaborata con pinze e forcine.
Serena è in ritardo di qualche ora ed io sono lì, davanti allo specchio, i capelli sciolti e ondulati che ricadono ribelli sulle spalle magre. Mi sto guardando fissa, come se cercassi di chiedere aiuto al mio riflesso, e non ne ricevessi alcuno.
I miei genitori sono usciti, su mia richiesta, per lasciarci un po’ di spazio. E la cosa, sì, mi rende così felice e fuori di me che, ancora sì, ne sono più terrorizzata che mai. Ho le dita delle mani umide. Mi vergogno, quasi.
Mi sfioro la guancia sinistra, chiudendo gli occhi. Il ricordo del tocco di Serena mi quieta, il cuore sembra calmarsi, perdere qualche battito che prima era furioso. Non può esserci spazio per la paura, non di nuovo. Ho intenzione di parlare con lei, di abbattere ogni briciola rimasta in piedi di quel muro protettivo, di passare ogni secondo, ogni istante, ogni attimo… tutto, con lei. E voglio essere da sola. Non voglio farmi accompagnare dal timore, non voglio essere incapace di aprir bocca e lasciarmi scappare l’occasione che ho.
Voglio Clarissa assieme a Serena. Tutto qui.
Il campanello suona ed io sussulto. Il tempo della riflessione e dell’ansia è finito, mi dico, do un’ultima e rapida scrollata ai capelli e corro alla porta d’entrata.
La nostra è una casetta piccola, in un quartiere tranquillo di Springfield. Una volta era di proprietà dei miei nonni, i genitori di mia madre, ma l’hanno lasciata in eredità a lei quando gli anni avanzati hanno avuto il sopravvento su di loro. Alle mie due zie hanno lasciato un altro piccolo appartamentino e un terreno vuoto, da costruire. È già più di quanto qualcuno potrebbe sperare di avere, lo so, ma erano loro quelli con molta disponibilità economica. Noi siamo fortunati a non dover più pagare un affitto e cerchiamo di vivere modestamente con il solo stipendio di papà.
Apro la porta, cercando di fermare il tremore alla mano. Il fiato si spezza, quando vedo Serena di fronte a me. Indossa una giacca bianca, candida, di lana piuttosto grossa, e sotto una maglietta di un blu elettrico ipnotico. Non mi soffermo sui pantaloni bordeaux, perché sono troppo impegnata a guardare i suoi grandi occhi marroni, l’espressione tranquilla, contornata da ciocche castane spettinate.
È bellissima.
« Ciao. » dice, sorridendo.
Apro la bocca per rispondere, sono decisa a dire almeno qualcosa, una parola basterebbe. Ma qualcosa si scontra con la mia cassa toracica, mi comprime i polmoni. Rimango senza fiato e mi rendo conto che Serena mi sta abbracciando. Ci metto un po’, i pensieri sconnessi tra loro, un vortice del tempo impazzito. Se la mia mente si potesse rappresentare, sarebbe un intricato groviglio di fili senza capo ne coda.
Stringo le braccia sulle sue spalle minute, alla fine. La sto abbracciando. Sento la sensazione di compressione che riesce a trasmettermi, come se stesse tenendo uniti tutti i pezzi scomposti di me. Pezzi infranti dalla forza inaudita dell’onda della paura o, piuttosto, dell’amore
« Mi stavo preoccupando, sai. » bisbiglio, nascondendomi tra i suoi capelli. Odorano di qualcosa che non riesco a definire, un profumo potente, dolce. Buonissimo.
La sento ridere. « Non devi. C’era parecchio traffico, sono rimasta ferma quasi mezz’ora. »
« Con molta pazienza, immagino. »
« Ah sì, come no! Ad un certo punto ho cominciato a suonare il clacson senza motivo. »
Rido anch’io, piano. È il massimo che posso sperare di emettere. La mia risata potrebbe risultare strana o fuori luogo o non lo so, davvero. So solo che i buoni propositi ripetuti a mente davanti allo specchio si sono completamente perduti nella nebbia. Ed io con essi.
Lasciamo andare la presa assieme. Faccio un cenno con la mano, invitandola ad entrare. Chiudo la porta dietro di noi, con il minimo rumore possibile.
« I miei genitori sono usciti, non preoccuparti. » le faccio strada attraverso il corridoio, breve, principale. « Vieni pure, puoi appoggiare le tue cose nella mia stanza. »
La guido per un paio di metri, entrando nella mia camera. Serena si guarda attorno, come chiunque poggi piede in un posto mai visto. Solo che, sono certa, non troverà la stessa magnificenza che io ho trovato a casa sua. La conosco bene da sapere che non le importa, che non da peso a dettagli superficiali come la dimora di una persona, ma non posso comunque fare a meno di sentirmi piccola.
In una delle due sedie alla scrivania, Serena poggia la sua borsa e le sue cose, mentre io aspetto ansiosa. Comincio a torturarmi le dita delle mani, cercando di farlo sembrare normale. Di fondo non lo è, ma forse lei non se ne accorgerà.
« Ti ho portato una cosa. »
Si volta, tra le mani ha una borsetta rigida in cartone. La fisso qualche istante senza capire, a labbra socchiuse. « Non dovevi, davvero… »
« Invece sì, dovevo. Aprilo. » tende una mano, gli occhi castani insistenti non ammettono revoche.
Allungo le braccia per afferrare il suo regalo, lanciandole un’occhiata grata ma condita con una smorfia. Non avrebbe dovuto portare nulla, oltre a se stessa, non era necessario che spendesse dei soldi per me. Anche se in un certo senso, il fatto che ci abbia pensato riscalda il mio cuore.
Dalla borsa recupero due scatolette, entrambe rigide, una azzurra e una color beige con un fiocco incrociato marrone. Capisco subito che si tratta di oggetti di valore e sollevo il coperchio della prima scatola, quella celeste.
Rimango lì, immobile ad osservare il piccolo contenuto lucente, come se mi costringesse a non distogliere lo sguardo. È un braccialetto, molto sottile, d’argento, con un ciondolo a forma di lettera. Ma non una lettera qualsiasi: a forma di S. Serena.
« È bellissimo, ma non dovevi… »
« Sì, smettila. Ti piace? » dice con un sorriso abbozzato sull’angolo della bocca. È qualcosa di ipnotico, quel sorriso, come il blu elettrico della sua maglietta, ma forse anche di più. Molto di più.
Stringo le labbra e cerco di stenderle quanto riesco, disarmata dal modo in cui ora percepisco ogni suo piccolo gesto. Anche solo un semplice sorriso. Un semplice abbraccio, un semplicissimo sguardo. « Certo che mi piace, è bellissimo, davvero. »
« Apri l’altro, dai! »
Annuisco istintivamente, richiudendo la scatola azzurra e poggiandola sul letto per liberare le mani. Dopodiché, passo a quella beige, più grande e spessa. Ha un aspetto più sofisticato, con quel nastro incrociato e un piccolo fiocco al centro, il che mi fa supporre che probabilmente contiene qualcosa di più importante. Non che quell’iniziale sia da meno. Anzi… quella lettera è tutto.
« Oh. » sospiro, una volta aperta la scatoletta. Doveva assomigliare più ad un “ Wow “, ma devo aver perso qualche lettera incantata da quel che vedo all’interno.
Non è una lettera e neppure un braccialetto. Questa volta è una collana, sottilissima, fragile al solo sguardo tanto che potrebbe spezzarsi al tocco. Come il filo che tanto avevo paura io di aver rotto. Al centro, legato, vi è un simbolo intarsiato di minuscole pietrine bianche e lucenti. Un otto rovesciato, un piccolo infinito luminoso. Il nostro infinito.
Serena ha un sorriso stampato sul volto. « Voltati, te la metto. »
Io non so che cosa dire e sono sicura di non ricordarmi come si fa a parlare. Ho un nodo alla gola, le labbra socchiuse ma nulla ne esce. Guardo il gioiello, poi guardo Serena e mi sembra di vedere nei suoi occhi quell’infinito. E sono perduta.
« D’accordo. » sibilo, sforzandomi di tirare la linea della bocca.
Le mani di Serena si allungano a raccogliere la collana dalla scatola aperta, ed io mi volto. Alzo la chioma bionda, vedendo le sue braccia circondarmi e sentendo il freddo del metallo toccare la mia pelle. Respiro a fatica, un polmone solamente.
Le sue dite armeggiano con il gancetto della catenina, ed io lascio ricadere i capelli su una spalla. Poi tic. Porto una mia mano al simbolo, sentendomi felice e terrorizzata come non mai. Forse erano infondate, tutte quelle paure, forse anche lei ha paura come me o non riesce a respirare o a parlare. Forse i sentimenti che ho capito di provare per lei non sono soli e forse, soltanto forse, saranno accompagnati dai suoi. O lo sono già.
Sento i polpastrelli della sua mano accarezzarmi la pelle in quel punto, là dove ora c’è la collana. Faccio per voltarmi, colta alla sprovvista, ma qualcosa mi obbliga a non farlo e chiudo gli occhi istintivamente. Chiudo le palpebre ed è come se mi trovassi in un giardino fiorito lontano da ogni cosa, gli uccelli che cinguettano, il profumo delle rose, il colore delle Dalie in fiore che penetra attraverso l’oscurità, l’aroma leggero dei Gigli. Una brezza tiepida comincia a sfiorarmi sul viso, un tocco dolce che mi fa sprofondare nell’oceano più limpido.
Mordo appena il labbro inferiore, per capire se davvero mi trovo in mezzo alla natura più verde e prolifera o nelle profondità dell’acqua cristallina. Ma non vado oltre, perché la sensazione di sollievo è così forte, così radicata, così… bella, da non tentare neppure di perdere la concentrazione con altri pensieri. Sono in balìa di quella carezza, di Serena, della sua mano, della sua presenza. Le nuvole formate attorno al mio cuore si dissolvono con lentezza ma con un duro impatto allo stesso tempo.
« Sarà meglio andare. » dico, deglutendo, rimettendo in ordine i lunghi capelli.
La visione del giardino e la calma dell’oceano sono meravigliose, da far nascere un delicato brivido sulla prima vertebra che scende giù fino all’ultima, cauto come una foglia d’autunno. Eppure, sono più terrorizzata che mai.
Terrorizzata di tutto.
 
♦♦♦
 
Riprendo a respirare soltanto quando la luce cala e regna il buio.
Subito dopo avermi agganciato la collana che ora custodisco gelosamente, ci siamo coperte per il vento freddo e siamo uscite. Abbiamo raggiunto la sua auto, quella di Serena, e durante il tragitto per il cinema ci siamo scambiate battute improvvisate e abbiamo riso fino allo sfinimento. Il mio, probabilmente. Perché il ricordo delle sue dita, leggere, mi ha provata più di quanto non avessi mai potuto immaginare. Più di quanto avessi pensato potesse accadermi.
I biglietti li ho pagati io. Sono felice di averlo fatto, perché fin da quando le ho chiesto di venire da me non vedevo l’ora di offrirle qualcosa. Il cinema, poi la cena. Come un vero appuntamento, almeno nella mia testa…
Entrambe abbiamo già visto Dracula Untold, ma eravamo d’accordo che l’avremo guardato assieme, quando fosse uscito. Il film è piacevole e anche se non è assolutamente noioso, la mia attenzione è da tutt’altra parte. Mi volto spesso, ogni tanto, alla mia destra e guardo il profilo di Serena.
Non so esattamente cosa passa per la mia mente. Com’è possibile? Come si può provare così tante emozioni, nello stesso momento, da non saperle riconoscere? È possibile. Ne sono la prova vivente. La prova vivente che, in mezzo ad un gruppo consistente di sentimenti, ci si lascia sopraffare dalla paura più irrazionale e terribile di tutte. Ma non è sola, questa paura, no. È formata da tante altre paure, meno evidenti, che unite diventano un mostro dagli occhi blu non indifferente. Il mio mostro.
La gola si stringe, volto lo sguardo verso il grande schermo. Fisso il cambiamento di Vlad, il suo sacrificio per la salvezza della gente. Penso che sia nobile, bellissimo, un atto d’amore talmente grande che il mio mostro non può fare altro se non rabbrividire, al suo cospetto.
Io lo farei? Per salvare la vita di Serena, accetterei una tale condizione per il resto della mia vita ed anche oltre? Lo farei. Rispondo subito, in silenzio, senza neanche pensarci un millesimo di quarto di secondo. Farei qualunque cosa pur di proteggerla. Lo so.
Punto l’occhio sulla sua mano più vicina a me, immaginando come sarebbe se ci tenessimo, se intrecciassimo le dita e rimanessimo legate fino alla fine del film. Adoro l’ultima fila anche per questo motivo: si può vedere tutto quello che succede, ma nessuno può vedere te. Un piccolo squarcio sul mondo.
Sento lo sguardo di Serena su di me e alzo gli occhi, intimorita. Non riesco davvero a spiegarmi questa paura costante, non ne trovo un senso, se non mille ragioni. Le parole sono proprio al limite del confine, pronte ad uscire ma, come sempre, bloccate dal mio mostro con gli occhi blu.
Conosco Serena così bene da sapere che mi sta studiando, eppure mi stupisco della dolcezza nel suo modo di guardarmi. Una dolcezza che prima non avevo mai notato ed ora c’è, la vedo così chiaramente da farmi scoppiare il cuore e alzare un angolo della bocca.
Lei fa lo stesso. Poi si avvicina appena. « Baciami. »
Io sono ferma. Immobile. Smetto di respirare, smetto di pensare. Di udire, percepire, vedere qualsiasi altra cosa all’infuori di Serena. Siamo in un pianeta sconosciuto; c’è lei e poi ci sono, ma io non sono veramente io. E siamo lì, a guardarci, raggiungerci, toccarci, con la sola forza dei nostri occhi. Marrone su azzurro, celeste che si mescola a castano. Dove finisce lei, comincio io. Ma non sono proprio sicura che sia così… perché lei non finisce ed io non comincio. Serena è dentro Clarissa, e Clarissa… che fine ha fatto Clarissa Mason? Dove sono finita? Dove…
Socchiudo le labbra, per il puro scopo di respirare, e fisso le sue. Così vicine alle mie. Penso che non sono mai state tanto vicine, da sentirne il sapore ancor prima di sfiorarle, il suo respiro caldo sulla mia pelle. Non sono in grado di reagire a tutto questo, continuo a ripetermi di non capire, ma sono talmente disarmata e vulnerabile, da alzare le mani e arrendermi. Perché la verità è che sono perduta. Perduta in un labirinto di rose e spine, in cui continuo a correre, a destra e poi a sinistra, senza trovare mai una via d’uscita.
Serena cancella la poca distanza rimasta tra noi e mi sembra di perdere i sensi per un attimo. Un istante che poi svanisce d’un tratto, e percepisco tutto ciò che avviene all’interno del mio corpo, in un universo buio e inesplorato, meraviglioso. È un bacio dolce, leggero, come una carezza. Ma anche la delicatezza cessa in breve tempo. Apro un varco dalla prigione di quel labirinto, lotto, e riprendo impulsivamente le sue labbra tra le mie.
Serena non indietreggia, non si spaventa, non scappa.
La mano che prima avevo osservato e immaginato con la coda dell’occhio mi tocca la guancia, scivola dietro l’orecchio e si aggrappa ai miei capelli. Io, di rimando, le accarezzo il polso piano, prima di perdermi completamente in una landa desolata in cui è lei ad avventurarsi per prima, trascinandomi con sé. Il sapore è dolce, come il suo profumo, con l’aroma di sigarette che ancora non ha perso il vizio di accendere. La sua lingua, il suo tocco, il suo respiro. Il mio battito scomposto, irregolare, irrefrenabile. Una singola persona non può reggere tutto questo... 
E ancora mi chiedo: che fine ha fatto Clarissa Mason?
Dove sono finita?


*Little Genie: nomignolo che Clarissa usa per riferirsi a Serena ( anche nella rubrica del cellulare ).


 
⇒ Angolo Autrice.
Eeeed ecco il terzo Mercoledì! Un pò in ritardo - chiedo venia! - ma ancora in tempo.
Ringrazio moltissimo chi mi sta seguendo, chi sta leggendo e recensendo. Grazie col cuore, davvero. 
Dunque! Oggi la diritta via (?) è un pò particolare... si divide in due: prima, come Clarissa ammette di provare un sentimento diverso per l'amica, come tenta di nasconderlo non tanto agli altri, ma a se stessa e di quanto ci abbia pensato e ci abbia messo a capirlo. Come si è ben visto, Clarissa è molto riflessiva... tanto che i suoi pensieri la bloccano. Vive nella sua mente e si paralizza nella realtà.
La seconda cosa importante è come nasce naturale e come è " strutturato " il rapporto tra le nostre eroine. Penso sia lampante il fatto che Clarissa sia nel gradino più basso, nel senso che è completamente succube di Serena, si getterebbe nelle fiamme per lei. E come, invece, Serena la trascina. 
Il punto che più si nota, soprattutto da questo pezzo, è la differenza tra questa Clarissa innamorata e perduta, e la Clarissa che parla nel Prologue. A mano a mano che la storia procede, comincerà questo graduale cambiamento che sarà sempre più papabile. 
Il pezzo non è finito qui! Sarebbe dovuto essere più lungo, ma ho pensato di dividere gli avvenimenti e lasciare un pò di suspance - com'è giusto e crudele che sia. Spero di non aver deluso le vostre aspettative e la prossima settimana verranno alla luce molte altre cosette.
A Mercoledì! 

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre ***


Dear Serena
 




 
Capitolo Tre.

“ Cara Serena, 
l'unica cosa che voglio è proteggerti. Non dovrai avere paura mai più. ”
 

È come un déjà-vu.
Lei mi sta guardando. Entrambe siamo coperte fino al mento, stese l’una di fronte all’altra nel mio comodissimo letto a due piazze, illuminate solo dalla flebile luce della lampada da scrivania sul comodino. Restiamo così, a guardarci. Ad osservarci, a vederci… vederci molto più a fondo. Vederci l’anima.
Mi prende brutale il desiderio di baciarla, un bisogno primordiale. Il ricordo delle sue labbra e delle mie, di quel sapore dolce e amaro, forte, buonissimo, mi impedisce di restare lucida. Mi terrorizza al punto da farmi venire la pelle d’oca. Preda di brividi che neppure tutte quelle coperte riescono a cacciare.
Serena mi ha chiesto di baciarla. Mi ha guardata, mi ha fissata e mi ha sussurrato… ed io cos’altro potevo fare se non lasciarmi portare via in quel tunnel senza ritorno? È tutto così chiaro, per me, è tutto così finalmente al proprio posto. Era quello che una parte di me bramava sin dal giorno in cui i miei sentimenti sono scivolati di sfuggita, fin da quando mi ha sfiorato la guancia quella notte e probabilmente era quello che volevo dal primo momento in cui l’ho vista. La mia anima era già innamorata di lei allora, quando io ancora dovevo comprenderlo. Quell’amore c’era. C’è, adesso. E ci sarà sempre.
Al termine del film, come se nulla di diverso fosse accaduto, siamo tornate all’auto e l’ho portata nella prima pizzeria che abbiamo trovato sulla nostra strada. Abbiamo mangiato tranquillamente, ha insistito per pagare il conto e per evitare la discussione che ne sarebbe uscita, ho accettato a malincuore. Non potevo permettere che un litigio banale rovinasse questo giorno. Non me lo sarei perdonata. Avrò chissà quante possibilità di pagarle la cena o il cinema o comprarle regali costosi, ma una sola in cui io e lei ci stiamo baciando in una sala buia.
Dopo aver riso e parlato, di cose sciocche, siamo tornate sulla via del ritorno fino a casa. I miei genitori erano già a letto, la porta della loro stanza chiusa, e abbiamo fatto più piano possibile per non svegliarli. Sono rimasta chiusa in bagno a lungo… ho cercato di respirare, di concentrarmi, di riprendere possesso della calma e della tranquillità. Ma a poco è servito. Sono solo stata capace di pensare a quelle labbra, ho sfiorato le mie con le punte delle dita e ho chiuso gli occhi per riassaporare quel momento, per ripeterlo all’infinito ed impararlo a memoria. Il più bello della mia vita.
« Serena… »
Lei sposta la mano verso di me, mi accorgo che l’ha appoggiata sulla mia bocca solo quando il respiro si spezza, le parole non escono più. Le sue dita mi impediscono di dire ciò che, con forza e coraggio, stavo cercando di dire… e che ho dimenticato, la mente improvvisamente coperta da una coltre di nebbia bianca.
Noto un movimento impercettibile sul suo volto, i capelli castani che ricadono in disordine sul cuscino. Un cuscino che poi saprà di lei. « Non dire niente », dice con un filo di voce, che alle mie orecchie giunge potente come un grido nell’oscurità.
Per un attimo, rimango immobile a guardarla. Assaporo quei lenti istanti, occhi negli occhi, incapace di far scattare in me qualsiasi tipo di reazione. Perché la verità è che è così rassicurante, guardarla, così bello e così perfetto, da farmi quasi sentire al sicuro dalla mia stessa paura. Non è che un’illusione, in fin dei conti. Io so che è quel timore a impedirmi di muovermi e di parlare, anche se il mio inconscio cerca di mostrarmi una realtà in cui non soccombo a me stessa. Ma sono io a creare tutto questo, io a non uscirne, io a non essere più coraggiosa, io a non essere più… io.
Io ad essere perduta.
Da sotto le coperte, faccio risalire verso l’alto una mano, portandola sulla sua in modo da scostarla piano dalle mie labbra. Non voglio che creda sia un rifiuto, perché non lo è. Voglio solo parlare, voglio aprire il forziere chiuso con un enorme lucchetto arrugginito, voglio buttare giù il muro e farla entrare. Voglio rompere il vetro che ci divide.
« Serena, ho paura », sussurro, sforzandomi di non far tremare la voce. Le accarezzo la mano, con la mia, la stringo appena, concentrandomi più su quel contatto che sul suo sguardo su di me. « Ho paura, io… ho sempre paura, in ogni momento. E non so… non so che cosa devo fare, perché questa cosa non se ne va mai via. Non smette di tormentarmi e ho paura. »
Sento le sue dita unirsi alle mie. Come se volesse afferrarmi, prima che il vento mi faccia precipitare dal dirupo più alto. « Di che cosa? »
« Di tutto. »
Sono improvvisamente piccola, grande quanto un granello di sabbia. Potrei scivolare dalla presa di chiunque, anche dalla sua, e disperdermi nelle infinite dune di una spiaggia dorata. Assieme a miliardi  di altri minuscoli granellini, ma costantemente sola.
Dev’essere così, quando si mostra la parte più nascosta di sé. Vulnerabili, indifesi, alla disperata ricerca di qualcuno che ci protegga, perché noi siamo momentaneamente privi del nostro scudo personale. Destabilizzati. Come me. In un lampo di lucidità potrei concentrarmi e provare a pensare alla prima strategia che mi viene in mente, ma non me ne viene nessuna. Non posso pensare, non ora, non ne sono in grado. Lancio segnali di soccorso e aspetto. Aspetto, aspetto ancora.
Con un leggero tremore, trascino la sua mano piano. Sono immobile, la guardo, e intanto la conduco dritta sul mio cuore. La mia mano sopra la sua.
Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum.
Sento ogni battito attraverso lei, lo sento riecheggiare all’interno del mio corpo, colpire le costole, scuotere i polmoni, forte. Il mio cuore è più potente di me, ha lui il controllo su ogni cosa, persino sulla mia mente. Eppure anch’esso è succube della paura, è succube di un altro cuore. Quello di Serena.
“ Lo senti? E’ per te, che batte. “
Vorrei dirlo. Vorrei parlare ancora, socchiudere le labbra e lasciar uscire un pelo di voce sufficiente affinché capisca. Vorrei formulare quelle misere sette parole, vorrei tanto. Ma non lo faccio. Non faccio nulla di più.
Serena sfila la mano dalla mia. Penso che potrei attendere la salvezza in eterno, sola, chiusa in una sfera di cristallo scheggiata, che alla prima folata di vento andrà in mille pezzi. E poi, qualcosa mi riprende. Non sono più sola, non sono indifesa, non sono vulnerabile agli occhi di tutti. La sua mano mi ha presa, di nuovo, stavolta per accarezzarmi la guancia, per scivolare sulla spalla e stringermi in un abbraccio. È la sua risposta, questa.
Il suo respiro caldo si unisce al mio e chiudo gli occhi. Ora si sta rannicchiando vicino a me, fino a toccarci ancora di più. Mi sta proteggendo. Ed io, piccolo granello di sabbia, ho per un secondo la certezza che non volerò via con il vento. Non verrò calpestata, non resterò sola in mezzo a miliardi di altri minuscoli granellini. Resterò lì, stretta tra le sue mani, in balìa del suo cuore accanto al mio, e niente di male potrà succedermi.
Niente di male…
 
♦♦
 
« Buongiorno. »
Una luce tenue riflette attraverso le palpebre chiuse, penetra leggera, sfumando l’oscurità. Prendo un respiro profondo, più ossigeno di quanto ne abbia bisogno, e lo lascio andare lentamente. Un suono dolce mi attira, mi porta con sé… lo seguo come in un sogno.
Mi sono addormentata come una bambina, rannicchiata e accoccolata a Serena. Non mi sono mai mossa durante tutta la notte, sono ancora lì: appoggiata a lei, cullata dal suo profumo e dalla sua presenza.
Stendo con fatica le labbra in un sorriso, gli occhi ancora chiusi. « Buongiorno… »
« Sei riuscita a dormire? »
Io annuisco. Non ho mai dormito così bene in tutta la mia vita, probabilmente. Senza svegliarmi, senza farmi prendere da un’ansia sconosciuta, senza muovermi. La prima notte di sonno davvero perfetta. « E tu? »
Serena non risponde. Presumo che abbia annuito, ma non lo posso dire con certezza finché non mi decido ad uscire completamente da quel mondo astratto di desideri e speranze, e rientro in quello della realtà. Le palpebre si sollevano, mi ci vorrà un po’ per adattarmi alla luce che penetra dalla finestra, anche se la porta della mia stanza è ancora chiusa. Quando anch’essa sarà aperta, la camera sarà del tutto inondata dal tepore del giorno.
Il braccio che prima mi circondava, ora è appoggiato e piegato sul cuscino. Serena nasconde metà volto, quasi pensierosa, ed io sollevo lo sguardo socchiudendo nuovamente gli occhi.
La prima cosa che fa capolino sulla mia mente, è che si renda conto di aver commesso un errore. Forse non ha dormito, forse non voleva farlo, forse mi richiuderà in faccia la porta che con molta fatica io le ho aperto. Forse, forse
« Anch’io ho paura », dice, infine.
Sento il cuore diventare improvvisamente più leggero, ma di poco. Perché non voglio che lei abbia paura. Nella mia immagine idilliaca di felicità, l’unica nota stonata sarebbe la figura di Serena spaventata, triste, o sofferente. E il grande dilemma senza risposta è: posso io, paralizzata dalla mia stessa paura, impedire che anche lei ne provi? Come rassicurare una persona se io per prima non ho alcuna certezza? Come si fa a proteggerla?
Come?, mi domando. Perché se un modo esiste, io vorrei trovarlo. Anche se sono consapevole non sarebbe mai abbastanza. Non per lei. Non per Serena.
Serena ha tante domande, una più tremenda dell’altra, e tutte riguardano il suo passato. Non il suo futuro. Passato di cui io non faccio parte, ed è così egoistico da parte mia… solo che non posso farne a meno. Vorrei che creasse un muro alle sue spalle, e cominciasse a poggiare lo sguardo sulla strada davanti ai suoi occhi. Che poggiasse lo sguardo su di me. Su me e lei.
Mi volto un po’ con il corpo, allungandomi a sovrastarla. Faccio con estrema cautela, per timore. L’abbraccio, appoggiando il mento sul suo gomito, e sfiorando la sua guancia con la mia.
« Non devi averne », sussurro, girandomi per lasciarle un bacio leggero. Dolce, quasi impercettibile. Nullo, in effetti. Sentivo il bisogno impulsivo di farlo, in questo momento, non soltanto per cercare di rassicurare Serena, ma anche per rassicurare me.
Lei non reagisce. Si limita a sospirare. « Lo sai, Clarissa. »
Sì. Lo so.
Serena è una ragazza adottata, come tale si pone continuamente la fatidica domanda: “ Perché sono stata abbandonata? “. Non so rispondere a questo quesito, non posso immaginare quanto possa essere estenuante, un fardello costante, perenne. Essere lasciati dalla persona geneticamente nata per amarti. Convivere ogni giorno pensando che la vita sarebbe potuta essere diversa, se solo la propria madre non avesse deciso di cambiarla.
Una volta mi ha raccontato di non aver mai creduto nei sentimenti. Non in quelli veri, almeno. Mi ha detto di essersi esposta una volta soltanto, tempo fa, con un ragazzo, ed è stata ferita indelebilmente. Non solo emotivamente, nell’anima, ma anche nel corpo. Ricordo di esserne rimasta talmente pietrificata, triste e spaventata… da non aver proferito parola per ore.
Poi mi sono resa conto di non essere triste, mortificata, spaventata e dispiaciuta. Era un’altra, la cosa che avevo percepito nascere, crescere e divampare come una fiamma in grado di bruciare qualsiasi cosa attorno a se. Avevo sentito montare la rabbia. Una rabbia primordiale, pura e feroce come lo può essere una tigre affamata che agguanta la propria preda. Una rabbia indomabile, sì. Un flagello di cui quasi provavo vergogna, perché mi sovrastava ogni qualvolta immaginassi qualcuno toccare Serena, ferirla, abbandonarla, distruggerla. Distruggerla…
E lei aveva paura. Ha sempre paura. E so con certezza che la sua paura costante non è la stessa che provo io, adesso. Forse non lo sarà mai.
Lei ha paura delle persone. Di tutti coloro che si avvicinano e varcano la potente barricata che con dolore e fatica ha costruito. Ha paura anche di me. So che ne ha. È spaventata, perché una volta dentro, nulla mi impedirà di lacerarla come un pezzo di stoffa e, infine, andarmene via lasciandola sola.  
E poi, invece ci sono io. Che ho paura di tutto, anche della sua paura.
Mi avvicino di più, chiudendo gli occhi. La sto stringendo, sperando che non scivoli via dalle mie mani come acqua cristallina. « Non devi avere paura », ripeto, con un filo di voce.
Le dita sfiorano appena la morbidezza delle sue ciocche scompigliate, prendendo ad accarezzarle delicatamente. Quasi fossero di vetro sottile, a rischio di rottura al minimo tocco. Immagino di camminare attraverso il viale di una serra, circondata da miriadi di fiori di cristallo, in vasi altrettanto lucenti e fragili. La luce riflette i più bei colori dell’arcobaleno e sul soffitto, posso vederlo, un gioco di sfere bianche e sfocate mi toglie il fiato completamente. Una magia bellissima, da contemplare. Bellissima e allo stesso tempo breve, perché all’improvviso un vaso vacilla, e trascina a terra con se tutti gli altri, uno dopo l’altro. Il vetro s’infrange in minuscole schegge che, tutte assieme, implodono nella loro bellezza, come il lampo fugace di una stella morente. La luce si spegne e, in un istante, della magia non rimane che il buio della quiete dopo la tempesta. Non è che un ricordo lontano.
« L’unica cosa che voglio è proteggerti. Non dovrai avere paura mai più, Serena. Hai capito? Mai più… »
La voce si affievolisce, non riesco a proferire nient’altro. Il fiato si è rotto, e per quanto mi sforzo di recuperarlo, non è sufficiente a permettermi di continuare. Resto accanto a lei, che scosta piano il volto, volgendolo verso di me.
Sento il suo respiro avvicinarsi, il calore delle sue labbra sulle mie, e la delicatezza di un bacio fugace lasciato sull’angolo della bocca. « Faremo meglio ad alzarci. »
« Sì », sospiro, un mezzo sorriso improvviso che non accenna a tramontare. « Sì, forse dovremmo. »
 
♦♦
 
Serena è partita da circa dieci minuti.
È stato piuttosto faticoso, raccogliere la forza di volontà e l’energia necessaria ad alzarci dal letto. Lei ha sistemato le sue cose nella borsa, mentre io mi sono cambiata, pettinata frettolosamente, e ho preparato una colazione improvvisata per entrambe.
Ho trovato i miei genitori già a tavola: mamma beveva tranquillamente il suo cappuccino, preparato con una bustina solubile, mentre mio padre leggeva il giornale del giorno.
Una volta finito di mangiare e bere, Serena ha salutato i miei genitori, li ha ringraziati e poi è se n’è andata. Mi ha abbracciata, forte, ed ho desiderato con tutto il cuore che quel momento durasse più a lungo. Non è accaduto, ma ho ancora la speranza di vederla tra qualche giorno, abbracciarla quanto voglio, baciarla, parlare, ridere… per quanto lo stomaco in subbuglio mi permetta. Perché nell’immagine del tempo che trascorro assieme a lei, sembro ignorare il fatto di essere paralizzata il più delle volte. Il che, è normale, presumo. Nella mia testa, tutto è sempre perfetto. Ma nella realtà, entra in gioco il fattore emotivo che, a quanto pare, è in vantaggio assoluto su di me. Lui è il vincitore, ed io la vinta. È così che vanno le cose. Queste sono le regole, dopotutto.
« Allora, com’è andata? », domanda la voce squillante di mio padre, mettendo da parte il giornale appositamente per guardarmi. Deve aver notato il sorriso inebetito sulla mia faccia, non c’è alcun dubbio.
Tento di rimediare, passando una mano sul volto e simulando un sonno pesante non ancora superato. Ora, nel soggiorno, anche mia madre mi sta fissando. Entrambi sembrano aspettare risposte, ma sanno bene che non ne avranno. Ancora non capisco perché non desistano…
« Bene! È andata bene, certo. Tra mezz’ora o poco più sarà a casa e mi avviserà quando sarà arrivata. »
« Vi siete divertite? », stavolta è la mamma.
Annuisco un po’ troppo. Sono ancora leggermente imbarazzata, a parlarne con loro. Fin da bambina ho sempre pensato di potergli raccontare ogni cosa, e così è stato. Ma ad un certo punto ho cominciato a capire che ci sono cose che, semplicemente, non vanno dette. Come i dettagli, ad esempio.
Inoltre, non voglio forzare la mano. Capisco che non dev’essere stato facile, per i miei genitori, accettare il fatto che la propria figlia sia attratta da una donna di punto in bianco. Sono confusi. L’unica cosa che vogliono è la mia felicità, ma ciò non toglie che si pongano parecchie domande a riguardo. E lo comprendo. Mi sono sempre stati vicini ed è giusto, da parte mia, cercare di essere più delicata possibile. Almeno per il momento.
Cammino fino al mobile in legno che copre tutta la parete del soggiorno. Afferro il cellulare, lanciando un’occhiata sorridente ai miei genitori, che mi osservano ancora. Sblocco la tastiera del telefono, dirigendomi verso la mia camera a passi silenziosi. Dopodiché, rimasta finalmente sola, apro la conversazione con Serena e scrivo un messaggio.
Il pollice tentenna, prima di premere sulla scritta “ Invia “. Tentenna per un po’. Poi scivola, quasi da solo, senza che il mio cervello abbia il tempo di elaborare l’azione. L’ho inviato. “ Ti amo “.
Subito dopo, sento prendermi la stessa sensazione che ho provato quel giorno, quando quelle due parole mi sono uscite talmente di slancio, da non essermi neppure accorta di averle pronunciate. Sono state naturali, come un’azione spontanea, ripetuta, normale. È stato normale, per me, dirle. È stato giusto. Ma ne ho avuto comunque paura, perché nella mia mente vedevo di continuo l’immagine del filo che si spezza, il legame tra me e Serena rompersi.
Anche ora sto provando quell’oppressione. Un peso sul cuore, che a fatica manda nella giusta direzione il sangue in circolo, con difficoltà pompa l’ossigeno. E mi manca il fiato, respiro rapidamente, piccole boccate d’aria sincronizzate al battito impetuoso e veloce. Il rumore di un cavallo al galoppo, gli zoccoli che tuonano pesanti sul terreno secco e battuto.
Lo schermo s’illumina.
Che cos’ho fatto? Ho interrotto la guida di Serena, l’ho messa in pericolo sulla strada di ritorno, soltanto per leggere parole dure, di quanto sia inappropriato, di quanto non sia così grave, dopotutto, di quanto sia presto e complicato… Trascino il pollice, il messaggio si apre.
Smetto di respirare. Smetto di pensare.
Leggo il messaggio, un’unica e piccola parola in risposta. Quattro misere lettere. Quattro misere lettere che in quel momento sono tutto. Tutto.
“ Idem “.


 
⇒ Angolo Autrice.
Appuntamento del Mercoledì a rapporto!
Innanzitutto, ringrazio di cuore chi sta seguendo questa storia, recensendo e davvero... non ho parole per ringraziarvi. E spero di non avervi deluso con questo capitolo che, invece di dare spiegazioni, crea ancora più confusione.

Ho voluto terminare la serata delle nostre due eroine, soffermandomi su aspetti che sono molto importanti, anche se a prima vista può non sembrare così. Come si è ben compreso, Clarissa subirà un profondo cambiamento, che la porterà ad essere la Clarissa del Prologue. E questo " viaggio ", chiamiamolo così, inizia da qui. Il fatto che ammetta di essere terrorizzata è un piccolo passo, comincia ad aprirsi con Serena, ad elaborare molte altre cose invece che soltanto amore / paura. 
Serena. Tanti punti interrogativi. E' un personaggio molto complesso, di cui si sa poco, e qui si comincia ad intravedere uno stralcio del suo passato. Si capisce che non ha avuto vita facile ed essendo lei una ragazza molto, molto confusa, ho pensato di rispettare queste sue carattaristiche anche parlando di lei. Quindi, se avete le idee un pò confuse, non preoccupatevi: era l'effetto prestabilito. Andando avanti con la storia, tutto diventerà più chiaro e assumerà sempre più importanza. 
Fanno la loro prima comparsa i genitori di Clarissa. Anche su di loro, non c'è che un'occhiata veloce, per ora. Ma diventeranno due figure importantissime, assieme a Peyton, se non addirittura fondamentali. Non mi sbilancio -
Ultimo punto, ma non meno importante: abbiamo la prima dichiarazione ufficiale di Serena.

Come piccola anticipazione per la prossima settimana, posso dire che daremo uno sguardo più ampio al passato, per comprendere quello che succederà in futuro. Perciò, rimanete sintonizzati con le cronache di Clarissa.
Al prossimo Mercoledì! 

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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro ***


Dear Serena
 




 
Capitolo Quattro.

“ Cara Serena, 
non è okay. Nemmeno quasi... nemmeno niente. ”
 

19 Novembre 2014
 
Il telefono suona.
Sono stesa a pancia in giù sul letto, a leggere La sarta di Mary Lincoln e nemmeno il suono squillante mi distoglie dalle parole stampate sulla carta. Amo il periodo abolizionista, ho una passione smisurata per le figure di Abramo Lincoln ed Harriet Beecher – Stowe, e potrei leggere senza pause un libro dopo l’altro che riguardi quest’epoca storica. La trovo affascinante, ricca di coraggio e, purtroppo, anche di morte. Di orrori, di umanità perduta ed infine quasi ritrovata.
Il mondo è molto diverso da allora, ma probabilmente non lo è poi così tanto.
Il telefono smette di suonare, e sento la voce di mia madre attraverso il corridoio. Deve aver risposto lei, papà è al lavoro. Io sono ancora immersa nelle pagine del libro.
« Clarissa! », mi chiama, venendomi incontro veloce.
Posiziono il segnalibro all’interno, chiudendo il libro con un gesto rapido. Quando alzo lo sguardo, mamma allunga la mano e con essa il telefono. Non riesco a decifrare la sua espressione, ma sembra più che altro curiosa. « È per te. »
Di solito si sbilancia di più, mi informa su chi mi cerca, soprattutto se è quasi ora di pranzo. Di solito lo chiede, alla persona dall’altro capo. Questa volta no. Mi domando come mai, mentre afferro la cornetta del cordless e la porto all’orecchio. Il cuore inizia a martellare piano.
« Pronto? »
Una voce formale ma allo stesso tempo vivace si affretta a rispondere. Non la riconosco, il che infittisce ancor di più il mistero. La speranza che si tratti di Serena sfuma completamente. Avrei tanto voluto che fosse lei. « Parlo con Clarissa Mason? »
Forse, risponde una voce dentro di me. Probabilmente no, fa eco un’altra.
« Sì… », mi sforzo, celando il tentennamento per quanto possibile. « Sì, sono io. »
« Buongiorno, Clarissa. Sono Janet Pierce dell’Università George Washington. Chiamo per informarla della presa visione della sua particolare richiesta mandata via E-mail e per dirle che saremo lieti di averla con noi il prossimo anno. »
I polmoni cessano di fare il loro lavoro. Anche il cuore, smette di pompare il sangue all’interno del mio corpo ed, infine, il cervello segue il loro esempio. Nulla.
Sulla punta della lingua si forma la parola Cosa?, ma neppure quelle quattro lettere interrogative riescono ad oltrepassare la barriera del suono. Non sto pensando, non sto elaborando, sto solo… immobile. Lo sguardo è posato sull’armadio marrone di fronte a me e mi accorgo che mia madre è ancora lì. Mi guarda preoccupata, le sopracciglia innalzate a chiedermi in silenzio cosa stia succedendo. Ma non sono in grado di risponderle. Perché non lo so neppure io, cosa stia succedendo, e anche se lo sapessi, il mio corpo si rifiuterebbe categoricamente di tornare a riprendere le sue normali e fisiologiche funzioni che mi permetterebbero di comportarmi come un qualsiasi essere umano. Sono un involucro vuoto.
La voce prosegue imperterrita. Sembra quasi frenetica, eccitata. Probabilmente è il segreto del suo lavoro, apparire sempre entusiasta di qualsiasi cosa debba riferire. Mi domando se utilizzi questa tecnica anche per le notizie sgradevoli. « Le ricordo che i test per l’ammissione alle facoltà sono predisposti nel mese di Maggio. I calendari saranno disponibili a breve nel sito ufficiale online. Per qualsiasi informazione o dubbio può chiamarmi a questo numero o venire direttamente in sede. Speriamo di vederla presto e le auguro una buona giornata. »
Rompo la spessa lastra di vetro che mi separa dalla realtà. Infrango la barriera. Formulo una frase, seppur minima, di senso compiuto e premo perché superi le mie labbra. « Grazie – La ringrazio. Buona giornata anche a lei. »
La telefonata termina.
Reggo la cornetta per dei secondi in più, fissando ancora lo stesso punto dell’anta del mio armadio. O è diventato improvvisamente interessante, o sto ancora facendo girare le parole di Janet Pierce nella mia mente. Il che, è certamente più probabile.
« Allora? », irrompe mia madre, catturando l’attenzione del mio sguardo.
Lascio scivolare il telefono sul letto, lanciandole un’occhiata incredula. Di sicuro sembro più sconvolta, con questi grandi occhi cerulei sgranati, ma non mi importa. Non riesco a decidere che espressione dovrei stamparmi sul volto. Felicità? Stupore? Entusiasmo? Sorpresa? Tutte assieme contemporaneamente?
La verità è che sono letteralmente incredula. Presa alla sprovvista come un albero abbattuto da un fulmine nel pieno di una tempesta. Una nave assalita da un’onda anomala, nel pieno di una tempesta. Qualunque cosa io possa sembrare, quel che accumuna tutte queste figure è la presenza di un’enorme tempesta nel pieno della sua furia. Perché è questo che è successo. Si è appena abbattuto un uragano, forte abbastanza da sradicare la mia vita con un soffio. Un uragano tremendo, potente, inarrestabile, impetuoso come la rabbia divina che si getta sull’umanità. Una calamità terribile, da cui non si può scappare se non si trova una via di fuga improvvisata per sopravvivere.
Un disastro, certo… ma gli uragani, i fulmini e le tempeste sono bellissimi e irresistibili, quando li si guarda da lontano, una volta aggirati.
Un vero spettacolo della forza della natura.


 
 
16 Agosto 2014
 
Fa insolitamente caldo, per essere una cittadina dal clima mite. Springfield è conosciuta per le sue temperature mai troppo alte e mai troppo basse e, anzi, talvolta è persino tendente al fresco quando non dovrebbe.
I prati delle case sono sempre verdi, il cielo a volte non è azzurro intenso, ma ricco di una venatura grigio-argento. Quando intravedo quel lampo chiaro attraverso il celeste, so che la giornata sarà poco ventilata e la temperatura più bassa. La tipica Primavera perenne, con un pizzico di Autunno ogni tanto. L’Estate e l’Inverno si compensano, di solito. Non è mai troppo caldo e neppure troppo freddo. Springfield è la città ideale.
Oggi, però, fa insolitamente caldo.
Un caldo afoso, per di più. E il sole batte forte, come se non avesse neppure intenzione di tramontare e lasciar spazio alla luna.
Sono stesa in uno sdraio di plastica bianca, accanto a mia cugina. Entrambe stiamo cercando di prendere quanta più luce di questo sole potente possibile. Piccole goccioline di sudore calde scivolano dalla fronte, nascono sui capelli, per poi cadere giù, lente. Sospiro, gli occhi serrati.
« Non credo di resistere ancora molto. Tra un po’ rientro. »
Mia cugina, Jessica, si limita ad emettere un mugolio leggero. Ha quattro anni più di me, ma sembriamo quasi gemelle: capelli biondi, occhi grandi, naso sottile e diritto, corporatura minuta e ossuta. Ci assomigliamo in tantissime cose e, forse, la nostra più grande differenza sta solo in qualche lato del nostro carattere. Per il resto, siamo sorelle. Siamo parte di una grande ed enorme famiglia formata dai miei genitori, due zii, due zie e due cugini maschi. E al momento, sono tutti dentro in soggiorno a terminare il lungo pranzo.
Il mio cellulare vibra. Penso che si tratti di un messaggio o di una notifica, ma lo sento ripetersi, ad intervalli regolari. Passo un braccio sulla fronte, poi afferro il telefono. In alto, a sinistra dello schermo, appare un nome ben visibile: Little Genie.
Trascino il pollice, un sorriso abbozzato e quasi impercettibile. « Ehi, Piccolo Genio! »
« Ehi… », la sento rispondere, dopo un momento di silenzio.
L’angolo sollevato della bocca torna giù. Qualcosa nella voce di Serena ha fatto scattare un allarme. Ho percepito qualcosa che non avrei voluto percepire. Tristezza, forse, delusione o rammarico… non lo so. Ma qualunque cosa sia, ho la certezza lampante che questa non sia una semplice telefonata di cortesia. Senza motivo apparente. No, un motivo c’è.
« Tutto bene? », chiedo, esitante. Non voglio sembrare banale, ma neppure forzare la mano. E non posso nemmeno ignorare quello che le mie orecchie hanno udito, facendo finta di nulla e sorvolando l’argomento. Non mi piace, l’omissione. No.
« Sì. E tu? »
« Un po’ scottata come una lucertola al sole, ma sto bene. »
La sento ridere un po’, attraverso il telefono. Poi smette. Cala il silenzio, di nuovo.
Con fatica e trascinandomi su una mano soltanto, mi alzo dallo sdraio. Lancio un flebile cenno di capo a Jessica, che mi risponde annuendo, e cammino per qualche passo nel prato della casa dei miei zii.
« Serena? », dico, quando mi sento abbastanza isolata da poter parlare. Lì accanto c’è il giardino dei vicini, di un bel verde smeraldo. Un pensiero veloce come un lampo porta alla mia mente la Città di Smeraldo, del Mago di Oz. Peccato che fosse solo l’illusione provocata dalle lenti colorate.
« Sì? »
« Cos’è successo? »
Serena non risponde. Almeno, non subito. « Nulla, tranquilla. »
Storco le labbra, tra me, e trattengo la tentazione di lasciar andare un pesante sospiro. « Serena, possiamo per favore saltare la parte in cui io insisto e tu ripeti come un automa di non avere nulla? Grazie. »
Dall’altro capo, silenzio. Ancora una volta. La domanda continua su cosa sia accaduto frulla senza sosta nella mia testa. Perché io so che qualcosa è successo. L’ho capito appena ho udito la sua voce. Perché conosco benissimo quel tono, quel tono affranto che Serena non riesce a nascondere. È come una tacita richiesta d’aiuto. Ne ha bisogno, ma è talmente ostinata, testarda ed orgogliosa, da non essere capace di ammetterlo. Così, ignara, supplica in silenzio di tenderle una mano. Ed io gliela tendo.
« Niente, davvero, stavo solo parlando con un’amica… »
Non le credo. « Okay. E mi hai chiamata per questo motivo? »
Potrei rispondere tranquillamente io a questa domanda. E la risposta sarebbe: Certo che no. Ma fino a che punto devo spingermi ad insistere purché sputi il rospo che con tanto impegno sta tenendo in gola?
« No », dice. « Parlavo e mi ha fatto pensare a delle cose. »
« A cosa? », chiedo, con un filo di voce. Cerco di assecondarla, per evitare che si spaventi e chiuda la chiamata senza preavviso. Penso che potrebbe essere capace di farlo, anche se dubito lo farebbe. Ha bisogno di parlare, lo sento. Ha bisogno di me.
Tentenna, sospira. Sembra spaventata. Ma di che cosa? Non riesco a capire… non posso capire, non in questo modo. « A tutto, Clarissa! Alle persone, al fatto che quando si decide di esporsi e metterci l’anima, si viene fatti a pezzi! A tutto! Era tantissimo tempo, ormai, che non ci pensavo più. Che non mi sfiorava più il ricordo o, almeno, provavo a far finta di niente. Ma non è possibile! Perché arriva qualcosa, una parola, un frammento che riporta tutto a galla. E non si può dimenticare, non si possono dimenticare i lividi e i colpi di chi ti fidavi. Quindi, a tutto, Clarissa! »
Serena smette improvvisamente di gridare, dall’altra parte. È come un vaso colmo d’acqua fino all’orlo, in cui è caduta flebile e sottile una goccia. Tutto quello che c’era prima è straripato, con forza brutale e tremenda, e all’interno non è rimasto che il nulla. Un tornado che rade al suolo un villaggio, una raffica di vento potente da sollevare la sabbia di un deserto cocente. Un disastro di minuscole dimensioni, che non ha affatto l’aspetto di un disastro. Eppure, con tutte le più buone intenzioni e la figura innocua, spazza via ogni cosa. Anche me.
« Mi dispiace », sussurra Serena. « Non ce l’ho con te. Non volevo che lo sapessi, soprattutto non in questo modo. »
Sono le tende delle semplici case di un villaggio, portate via dall’uragano. Sono un campo di grano bruciato, il cielo limpido che piano piano svanisce nel fumo nero. Sono questa… in silenzio. Incapace di parlare, di pensare, di respirare. Ma più di tutto, sono incapace di comprendere. Perché?
« Io… », cerco di non dar a vedere il mio stato d’animo indefinito. Indefinito persino a me medesima. Le parole diventano improvvisamente invisibili, ed io resto a labbra socchiuse, il cellulare all’orecchio.
Guardo un punto sul marciapiede, ora. Lo fisso, come se non avessi mai visto l’asfalto in vita mia. È interessante, e al tempo stesso opprimente. Mi impedisce di staccare gli occhi, di alzarli al cielo, di voltarli verso la casa, ovunque. Mi tiene incatenata lì, senza reagire.
« Non capisco », dico. Passo la mano libera tra i capelli biondi, sistemandoli. In realtà però non ho alcuna cura di loro, in questo momento. Non sto pensando alle mie ciocche fluenti, umide del mio sudore a causa del caldo. No… Penso a Serena. Alla mia amica, che soffre. E cerco di convincermi di non aver per nulla capito, di aver frainteso, di essere stata sotto il sole troppo a lungo e di aver temporaneamente danneggiato la mia capacità d’intendere. Deve essere così, mi ripeto. Deve essere così. Per forza.
Serena sospira. Sospira di nuovo, a lungo. « È successo tempo fa. »
« Cosa? », la incalzo. « Cosa, è successo tempo fa? »
Silenzio.
Inizio a contare a mente i secondi. Uno, due, tre… quattro, cinque… Ogni numero rappresenta un colpo. Un battito del mio cuore agitato, tumultuoso, inarrestabile. Il respiro si fa pesante e rapido. Diventa sempre più faticoso, in mezzo al calore della giornata.
« Conobbi una persona, tempo fa », sento finalmente la voce di Serena. Ma non so se esserne felice o triste. Perché il suo tono mi penetra in profondità, supera le barriere del corpo e finisce là, al buio, nascosto nella mia anima. La colpisce, piano, facendosi beffe di qualunque altro ladro maldestro ci abbia mai provato in passato. E sono colta da un brivido, leggero. Non un brivido piacevole, ma più una goccia gelata che scivola lentamente lungo la pelle. E ghiaccia, raffredda, cristallizza. Con dolore.
« Una persona importante, per me. Solo… che io non avevo capito di non esserlo allo stesso modo, per lui. Un tempo ero cinica, a riguardo, ti ho raccontato spesso com’ero. Rimpiango di non esserlo stata anche allora. Credevo di essere felice, che le cose sarebbero finalmente andate bene, per una volta. Ma lui non era dello stesso avviso, era violento ed io non riesco a togliere dalla mia testa le sue percosse, le sue minacce, la sua voce e il modo in cui mi fissava… pensavo che sarei morta, che non me la sarei cavata un altro giorno. E invece sono qui, anni e anni dopo, l’ombra perenne del suo ricordo, come un incubo. »
Deglutisco con fatica. « Io… Mi dispiace. Io non… »
« Non dirlo, per favore. Non voglio essere compatita e non volevo che lo sapessi. Non avrei dovuto sfogarmi con te, darti questo peso. E mi dispiace, Clarissa, mi dispiace. »
« No, no. Io… »
Io… Io, cosa? Io, niente.
Nella mente si fa largo l’immagine minuta di Serena, colpita dalla mano pesante di un uomo senza volto. Presa a schiaffi, a pugni, gettata a terra. Distrutta. E poi abbandonata lì, come un rifiuto.
Qualcosa mi brucia, alla bocca dello stomaco. Sento il sapore acre e disgustoso di un conato, lo stordimento di quando la vista si annebbia, i sensi cominciano a mancare, il respiro diventa affannoso. Sto sudando, ma non per la giornata troppo calda di oggi. Sto sudando freddo, e sento freddo. Freddo ovunque, sulle punte dei capelli, sulle braccia, brividi lungo schiena. L’uomo senza volto la colpisce di nuovo, macchia la sua pelle olivastra e perfetta, le lascia una cicatrice profonda, invisibile a occhio nudo.
Non riesco a parlarle. Vorrei farlo, vorrei dire qualcosa. Ma qualsiasi cosa mi sembra inutile, banale. Una volta, qualcuno mi disse che “ Mi dispiace “ sono due parole superflue. Non servono a nulla, se non a far capire alla persona che le riceve di avere qualcuno vicino. Ma è la vera presenza, la vera vicinanza, a fare la differenza. È questo… Eppure mi sento più lontana che mai da Serena. Sento un senso opprimente di fuga, di voler scappare via e correre veloce, senza fermarmi. Voglio fuggire da questo orribile incubo, rifugiarmi nella mia bolla protettiva e non uscirne più. Vorrei… vorrei… tanto… ma non riesco. Non posso. Resto immobile, succube e consumata dalla rabbia che prende crudele il posto di quei pensieri. Un uomo che fa del male alla mia amica. Un uomo che ferisce la mia Serena. Serena con il cuore infranto e la paura che la rincorre.
Ora so. Ora capisco. Capisco, per la prima volta, cosa si prova ad odiare davvero qualcosa. Qualcuno. Odio, rabbia, frustrazione. Ma soprattutto odio.
Odio. 

 

19 Novembre 2014
 
« Quindi te ne vai a Washington con un biglietto di sola andata, eh? »
« Io non – non ho detto che me ne vado a Washington, Peyt. Ho solo detto che – »
« Aspetta un attimo. Non vuoi andarci? »
Peyton sospira, la sento attraverso il telefono. Mamma è tornata in cucina, a preparare il pranzo, appena sono riuscita a raccontarle quello che Janet Pierce mi ha detto. È rimasta ovviamente stupita, felice. Ma, come me, si è subito posta la questione della distanza… perché Washington non è esattamente dietro l’angolo. Washington è un grande teatro d’Opera, mentre Springfield un piccolo palco cittadino. È di questo che stiamo parlando: un palco di paese e un enorme teatro d’Opera.
Poi, ho subito ripreso il telefono e digitato il numero di Peyton. Dovevo parlare con lei, dovevo riferirle tutto dalla A alla Z, sia entusiasmo che paure. Tutto. Inoltre, la sua schiettezza è ad un livello talmente elevato da risolvere ogni dubbio all’istante. Efficace ed istantaneo.
« Non ho detto nemmeno questo. Solo che ci sono diversi fattori, diverse cose di cui tener conto. Non è così semplice. »
« Secondo me, è molto semplice », avverto una nota dura, nella sua voce. Esattamente quello che mi serve. « Ti chiamano dalla George Washington, okay? Una delle migliori università di tutto il paese. Ti chiamano – e non è che chiamino chiunque a casa, dicendo che hanno preso nota della tua richiesta per l’anno successivo e che ti attendono con ansia, okay? »
« Bè, non è proprio quello che ha detto al telefono… »
« Clary. Stai riflettendo su una proposta per entrare ad Hollywood, lo capisci? Ti hanno appena offerto un posto per un grandioso film, come protagonista. E tu stai esitando. Stai esitando, lo capisci? »
« Peyt… », sospiro. Mordo il labbro inferiore piuttosto forte, incrocio le gambe seduta sul letto. Comincio a sentire il profumo del pranzo: pasta sfoglia al forno, ripiena di spinaci, prosciutto e pancetta, se conosco bene i gusti della mamma.
Ma Peyton ha ragione. Abbiamo mandato insieme quella mail, un paio di mesi fa. Una richiesta insolita, di frequentare i corsi l’anno successivo e non quello presente. Non mi aspettavo una risposta e ancora meno una chiamata. Eppure, eccomi qui. Indecisa se andare o restare. Perché Washington non è esattamente dietro l’angolo, già, e cogliere quest’opportunità, significa lasciar andare qualcos’altro. Gli amici, la famiglia, la città in cui sono nata e cresciuta… Serena. Come posso scegliere tra la mia passione e la ragazza di cui sono innamorata? Come si fa? Come si decide tra un futuro di successo, ma in solitudine, e un futuro povero ma felice? Come si sceglie tra quello che si è sempre voluto e l’unica cosa che si vuole in questo momento?
« Clarissa, ascoltami bene », ricomincia Peyton. Stavolta è più ferma, più decisa. « Questa è un’opportunità che capita una volta nella vita. Una sola volta. È quello che hai sempre desiderato e, ripeto, non chiamano chiunque. Nella mail erano allegati i documenti scolastici e i risultati degli anni scorsi e devono essere rimasti colpiti, perciò mi chiedo perché mai dovresti pensarci così tanto. Ti meriti quest’occasione, quello per cui ti sei impegnata e ora non capisco. Non puoi rifiutare! »
Sto per rispondere, ma il campanello suona. Immagino che andrà mia madre, ad aprire, e così cerco di riordinare le idee. Invano, ma ci provo. Ci provo ancora.
« Non è così semplice, Peyton. Davvero, io… non è così semplice. »
« Clarissa, c’è qualcuno per te! »
Abbasso per un attimo la cornetta, scostandomi ad osservare il corridoio. Mamma sta facendo entrare qualcuno, la porta d’entrata si chiude, sento dei passi. Vedo una figura, un volto, due occhi marroni. Serena.
Peyton sta dicendo qualcosa su quanto io sia strana, come al solito. Questa volta so per certo che lei è dalla parte della ragione, io del torto. Ma la ignoro. Mi inumidisco le labbra, fisso Serena che, senza notarmi, viene accompagnata in soggiorno da mia madre. Parlano, non capisco cosa si dicono, ma stanno conversando. Non animatamente, ma come qualunque genitore accolga in casa un ospite, anche se inatteso.
Interrompo il lungo discorso della mia migliore amica. « Sì, scusami Peyt, ma devo proprio andare. Ti chiamo più tardi e finiamo, okay? Okay. Ciao. »
Chiudo la chiamata. Probabilmente Peyton stava ancora parlando, rimproverandomi o salutandomi. Ma non importa. Sa che la chiamerò e sa che al momento non sono lucida per via di Janet Pierce della George Washington.
Mi alzo dal letto. Allo specchio scompiglio i capelli, li sistemo, rimetto in ordine la maglietta viola e mi avvicino al mio riflesso per esaminarlo. Sono nervosa. Noto di non essere più terrorizzata, impaurita, ma sono agitata. Perché le ho detto di nuovo che la amo, un’altra volta, e lei ha risposto. Serena mi ha risposto. Anche lei mi ama.
Sorrido a me stessa, come una sciocca ragazzina innamorata. Chiudo gli occhi e sospiro. Quando li riapro, vedo mia madre affacciata al corridoio. Mi fa un cenno ed io mi affretto, quasi corro, fino al soggiorno.
« Ehi, ciao », saluto Serena, seduta sul divano con un bicchiere d’acqua in mano.
Lei si alza, appoggiando il bicchiere sul tavolo al centro della stanza. « Ciao, scusa il disturbo, non volevo venire qui senza avvisare, ma… »
« Figurati, non devi scusarti. Non c’è problema. Vieni. »
Serena annuisce ed io mi volto. Cammino fino alla camera, ripetendomi a mente di mantenere la calma. Di non fare mosse affrettate, di non fare nulla di stupido, di comportarmi come una persona normale, che non vuole spaventare la propria ragazza o… chiamarla in questo modo. Perché non voglio allungare veloce una mano e vedere Serena ritrarsi. Questo potrebbe crearmi ancora quella sensazione di timore, di paura, di terrore.
« Allora, stai bene? », chiedo.
Lei si siede sul mio letto. Io la seguo, dopo qualche secondo di esitazione. La guardo tranquillamente, anche se dentro sto tremando. È così vicina… potrei passarle un braccio attorno alle spalle, potrei baciarla o accarezzarla sulla guancia, come lei ha fatto con me. Potrei. Ma non faccio nulla. Rimango lì, seduta. E aspetto.
« Sì, io… », annuisce. Un istante, poi si paralizza. E scuote appena il capo. « Non proprio, no. »
Senza pensare, le appoggio una mano sulla spalla. Piano, con estrema delicatezza. Come si tocca un fiore. « Ehi, che succede? »
Sento la preoccupazione nascere rapida, annidata accanto allo stomaco. Come quando mi telefonò durante l’estate, come quando mi raccontò un pezzo del suo passato. Allora le cose erano diverse… o forse non lo erano poi così tanto. Dovevo solo capirlo, rendermene conto. Ma oggi, oggi non voglio che Serena soffra. Avevo intenzione di raccontarle della chiamata dell’università, di parlare con lei di persona dopo questi giorni in cui abbiamo comunicato via messaggio o telefono. Ne avevo davvero l’intenzione, di abbracciarla, baciarla. Ma Serena posa lo sguardo nella direzione opposta alla mia. Ed io rimando indietro ogni cosa, mando giù il boccone.
Mi sposto dal letto, inginocchiandomi di fronte a lei, la guardo dal basso. Le sue mani sono appoggiate alle gambe, tese, si torturano tra loro. Piano, le afferro tra le mie e le stringo. Le stringo come se dovessi salvarla da un burrone, tirarla su con tutta la forza delle mie braccia deboli. Più deboli del solito, a dire il vero. Un rapido filo di dolore scorre dalla spalla, giù fino al polso. Ma lo ignoro.
« Serena, parla con me », sussurro.
I suoi occhi castani sono fissi sulla finestra. Sembrano assenti, persi in un altro pianeta parecchio distante dalla Terra. Vorrei che fosse un pianeta più bello, un terreno ricco di fiori sbocciati e di natura verde, profumata, colorata. Viva. Ma c’è un velo di tristezza, in quegli occhi intensi. Una tristezza che si affaccia su un pianeta grigio, tetro, freddo. Terra arida, fili d’erba secchi, alberi spogli e uno sfondo cinereo, coperto da nuvole dense e cupe. Passo piano i pollici sulle sue mani.
« Non volevo venire qui senza preavviso », dice, con un filo di voce.
« Serena, guardami. Per favore. »
Lei si volta. I nostri occhi s’intrecciano, ma questa volta non è come le altre. Non sento Serena dentro Clarissa, non sento un nodo allo stomaco, il puro terrore di farla sfuggire come aria dalla mia presa. Lei mi sta guardando, ma non mi sta guardando davvero. Non riesce a vedermi. Ed io sono talmente egoista, da sentirmi ferita. Perché il modo in cui mi guardava, prima, era davvero bello. Questo, invece, non lo è affatto. Vorrei che la smettesse.
« Credo di aver visto mia madre, ieri. »
Increspo le labbra e aggrotto la sopracciglia. « Tua madre? »
Serena annuisce. Il suo castano meraviglioso, con una venatura dorata all’interno, è ancora immobile sul mio azzurro cristallino. Sbatte le palpebre un paio di volte. « Mia madre, sì. Non la mia mamma, mia madre. »
Sono tentata di distogliere lo sguardo, di abbassarlo al pavimento. È il bisogno di fuggire, questo, lo so. Il cervello che comunica istantaneamente ed in silenzio al corpo di correre. Ma non lo faccio. Non scappo, non mi nascondo, non mi prendo alcuna boccata d’aria. Serena ha bisogno che resti lì con lei, le iridi sulle sue. Eppure, il suo stato d’animo ferito e confuso mi istiga la pelle d’oca. E anche frustrazione. Sono consapevole di non poter fare nulla, per farla stare meglio. È venuta da me, e io non so assolutamente che cosa fare. Ho paura e sto male. Sto male perché lei sta male e sento il suo dolore come fosse mio. Non so esattamente quando è divenuto mio, ma è accaduto. È accaduto già da tempo.
« I miei genitori ne parlavano. È in città e ieri, al lavoro, credo di averla vista passare in uno dei corridoi dell’ufficio. »
« Sei… sei sicura che fosse lei? Voglio dire… »
« Sì, sono sicura. Ho visto una foto, tempo fa. Me la ricordo », annuisce, ancora. Il suo sguardo vacuo sembra improvvisamente pallido. Vorrei cancellare ogni lacrima dal suo cuore, ogni cicatrice, ogni ferita rimarginata e poi riaperta. Come il gesso bianco su una lavagna nera. Se potessi, lo farei. Solo che non posso. Mi limito ad alzare una mano, con eccessiva lentezza e delicatezza, per poi posarla sulla sua guancia.
« Serena… »
« Sto bene, non è niente. »
La accarezzo piano, con calma. « Non è vero che stai bene. »
« Sto bene, sul serio. »
Annuisce con forza, scostandosi dalla mia mano. Incasso il colpo, in silenzio, e deglutisco. L’entusiasmo per la George Washington a questo punto è già svanito, mi sembra talmente distante da non essere mai accaduto. Forse mi sono immaginata tutto, desideravo così tanto una svolta felice da aver spinto la mia mente a creare un’illusione tanto meravigliosa. Perché non è possibile che sia vero, non dopo tutto questo… Mi sento trapassata da lame gelide. Uno dei tanti soldati della Guerra Santa, a terra e trafitto da un trio di spade taglienti. Il sangue sgorga, sporca il terreno, fluisce con dolore provocandomi spasmi disumani. Ma tuttavia, non sento la vita trapassarmi e scivolare via. Sono ancora appesa a quel filo sottile, che mi separa dal regno in cui è facile entrare ma impossibile uscire. Un confine quasi impercettibile, che cambia tutto. Vita o morte.
Vita. Con sofferenza.
Riporto giù la mano, facendo forza sui muscoli delle gambe per rimettermi in piedi. Celo l’imbarazzo del momento, assieme alla delusione e all’amarezza. Strofino le dita sui jeans blu, schiarendomi la voce senza motivo.
« Puoi restare qui per un po’, se vuoi. Mamma sta preparando il pranzo », incespico le ultime, con lo sguardo basso. Temo una sua reazione. Temo qualsiasi cosa, a questo punto. Anche l’incontro coi suoi occhi. Perché non sono gli stessi occhi che mi hanno guardata la settimana scorsa, non sembra la stessa Serena ed io non ho la minima idea di come comportarmi. Sono rimasta indietro al punto della storia in cui mi ha scritto “ Idem “ e non capisco, ora, che via lastricata intraprendere. Mi confonde, mi mortifica. Mi lacera il cuore, seppur non con forza. Lascia comunque un segno, un segno che va ad aggiungersi agli altri. Vedo chiaramente il mio cuore, appeso ad una parete come un bersaglio da colpire a scocchi di frecce. Il centro vale cinquanta punti, i lati venticinque. Serena ha già incassato una trentina di punti e prego che poggi in fretta arco e frecce, ponendo fine a quest’inutile battaglia.
« No, è meglio se torno a casa. Non ho avvisato che sarei stata via. »
« D’accordo. Okay. »
Ma non è okay. Nemmeno quasi, neanche un po’… nemmeno niente.
Non è okay.
 
 
♦♦♦
 
 
Il pranzo è pronto. Serena è andata via da una quindicina di minuti ed io non ho aperto bocca da allora. Mia madre se n’è accorta, ma stranamente non pone alcuna domanda.
L’ultima volta che mi ha vista giù di morale non ha fatto che chiedermi perché. Non avevo voglia di parlare, troppo ero occupata a pensare. A decidere da quale parte far pendere la bilancia: dire la verità sui miei sentimenti a Serena o non dirla. Essere coraggiosa o essere codarda? Rimpianto o rimorso? Mi sono sfogata su mia madre, quel giorno. Perché volevo restare sola, volevo essere lasciata da sola col mio bivio, ad osservarlo dall’alto e con attenzione, valutandone ogni angolo, ogni sfaccettatura, ogni briciola di terreno. Lei non poteva capire ed io sono esplosa come una bomba artigianale: inaffidabile e letale. Mi sono subito scusata e, allora, le ho raccontato ogni cosa.
Oggi no. Mi siedo a tavola, aspettando che anche mamma si sia seduta prima di cominciare a mangiare la sfoglia.
« Tutto bene? », mi chiede, gentile.
Io annuisco, tagliando un pezzo e assaggiandolo. È buonissimo, ma sono così distratta da non sentirne neppure il sapore. L’unica cosa che mi interessa, in questo momento, è tenere la bocca occupata per non dover parlare. La voce non uscirebbe comunque. Non ho la forza di farla uscire, ne la voglia, ne il bisogno. Nulla.
Il cellulare vibra sul tavolo, accanto al mio piatto. Poggio la forchetta, con le altre posate, e sblocco lo schermo con un gesto rapido. Vedo in alto il simbolo che indica un nuovo messaggio e ipotizzo che sia di Serena: le ho chiesto di avvertirmi non appena fosse arrivata a casa, in modo da non preoccuparmi.
Ma il messaggio che i miei occhi sono costretti a leggere non è niente di tutto ciò. Neanche lontanamente. Nemmeno quasi, neanche un po’… nemmeno niente.
“ Forse dovremmo restare solo amiche. È la cosa migliore per entrambe. “
Smetto di mangiare.
Non ho più fame.

 


 
⇒ Angolo Autrice.
Chiedo umilmente perdono per questo ritardo. 
Purtroppo sono sopraggiunti problemi di saluti, e quindi ho dovuto posticipare ad oggi l'uscita del nuovo capitolo. 
Ed eccolo qui! 
Dunque, sono consapevole che sia un pò strano. Soprattutto perché il 90% si tratta di pezzi telefonici. Ma comunque, è un pezzo molto ricco e molto molto molto importante. 
Avevo anticipato che ci sarebbe stato un altro sguardo sul passato, e ho deciso di impostarlo in questo modo perché, toccando il passato di Serena, ho anche mostrato la relativa reazione di Clarissa. Il capitolo si snoda in due: passato e presente. Il passato è pur sempre poco visibile, ma già s'intravede quello che Serena ha vissuto: abbandono e violenza. Nonostante si mostri sempre sicura di sé e faccia di tutto, assumento anche atteggiamenti che non la riguarderebbero, in realtà è una persona profondamente insicura e spaventata. E questo, come alcuni di voi avevano già ipotizzato, creerà non pochi problemi al loro rapporto.
Clarissa, d'altro canto, si trova di fronte ad una scelta. Una scelta che, però, va a sfumare.
Penso che in questo pezzo si veda particolarmente il sentimento della nostra protagonista, un sentimento che sta crescendo e maturando e comincia a cambiare la sua stessa persona. Percepisce tutto in maniera di vostra, in maniera quasi esponenziale: i piccoli gesi la feriscono, iniziano a nascere delle aspettative, inizia a comportarsi come una vera " fidanzata ". E ne patisce le sofferenze, soprattutto quando dall'altra parte viene a mancare questo comportamento.
Il finale anticipa molto da sé... e, purtroppo, debbo lasciarvi in sospeso per due settimane. Problemi di salute e impegni mi impediscono di finire al meglio il prossimo capitolo, perciò lo rimando esattamente a Mercoledì 20 Maggio.
Ma, per non lasciarvi del tutto in suspance e con un finale così brutto in mano, posso dirvi che le cose subiranno cambiamenti radicali e non tutti positivi. Amara consolazione, lo so, but - ... perdonatemi.

Concludo ringraziando di cuore chi sta seguendo queste avventure / disavventure. Grazie alle bellissime parole delle recensioni e grazie anche a chi passa a leggere velocemente per poi scappare. Grazie.
Un bacio a tutti e a tra due Mercoledì. 

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Capitolo 6
*** Capitolo Cinque ***


Dear Serena
 




 
Capitolo Cinque.

“ Cara Serena, 
io sono quella con il cuore spezzato. ”
 


Una volta, qualcuno ha detto che c’è un motivo per cui il dolore esiste.
È più che altro un avvertimento, un allarme che scatta, il filo tirato che smuove la campana principale di un veliero assaltato dai pirati. È un monito, un richiamo. Una voce chiara e tagliente, portatrice di un messaggio ben preciso. Perché c’è qualcosa di terribile, dopo il dolore. Il dolore non è la fine del viaggio e neppure la conseguenza di uno sfortunato avvenimento, no. Il dolore esiste per un motivo. E se non esistesse… bè, non ci accorgeremmo di aver toccato il fondo fino a che di noi non rimanesse che il nulla.
In realtà, è una serie tv ad avermi aperto gli occhi sul dolore. Ma sicuramente qualcuno avrà dato voce a queste parole molto prima che venissero riprese e da me udite.
Quel che è certo, in fin dei conti, è che il dolore esiste. Non importa se debba esserci una ragione, una motivazione più che valida per la sopportazione delle peggiori pene sulla faccia della terra. La prima cosa che facciamo, quando nasciamo, è piangere. Sappiamo bene cosa sono le lacrime, cos’è il dolore. Lo sappiamo. Perché il dolore esiste, concreto e puntuale come il ticchettio insistente di un enorme orologio a pendolo.
Tic, tac. Tic, Tac.
Tic. Tac.
Il dolore esiste, sì… ma non è l’unica cosa a far perdere l’equilibrio alla nostra felicità. Subito dopo di esso, viene il vuoto. L’assenza. La mancanza. La sparizione. La scomparsa… e allora, una domanda viene spontanea, agli occhi di una ragazza che ancora ha vissuto troppo poco per conoscerne la risposta. Come si colma il nulla? Come si riempie un bicchiere vuoto, se non è rimasta neppure una minuscola goccia d’acqua per poterlo fare? Come si fa, quando il nulla si è impossessato… di qualsiasi cosa? Come si fa…
La verità è che non ne ho la minima idea.
È buio attorno a me. Troppo buio. Troppo vuoto. Troppo silenzioso. Troppo…
Ho altre cose, da dire. Molte altre cose…
Ma sono scomparse.
 
“ Forse dovremmo restare solo amiche. È la cosa migliore per entrambe. “
Ho letto questa frase una volta soltanto. Nel momento esatto in cui i miei occhi hanno visto quel punto, ho sentito qualcosa mettere mano al mio stomaco. Un mostro affamato ha cominciato a divorarmi le viscere, dall’interno. E mi sono sentita svenire. Sono svenuta.
Ma questo è successo circa una settimana fa, credo. Non ne sono molto sicura. Da allora non ho più aperto la conversazione con Serena, non ho riletto quella frase per accertarmi di aver capito bene e ho perso completamente la concezione del tempo. Non ho ricevuto altri messaggi. Non ho parlato con Serena. Non ho parlato di Serena con nessuno.
La verità è che non ho parlato affatto, da quando quelle parole si sono insinuate come spine nel mio cuore, nel mio addome, nello stomaco, nella testa. Ovunque. Ma soprattutto nella testa… e non c’è niente che io possa fare per farle andare via. Non vogliono sparire, loro, e restano lì, a mangiare piccoli pezzi di me in accordo con quel mostro che si occupa di tutti gli altri organi. Mangiano e mangiano, insaziabili. Mangiano me.
Com’è accaduto tutto questo?
Non lo so.
Non riesco a pensare. Al mondo ci sono persone che soffrono, che muoiono di fame, che non hanno un tetto sotto cui dormire la notte, che non hanno nessuno al mondo. Ed io sono qui, stesa di lato nella mia camera a fissare il nulla, come se il mio dolore potesse minimamente essere paragonabile alle piaghe che affliggono l’intero pianeta. Non lo è. Lo saprei, se solo qualcosa accendesse una flebile luce nel mio cervello. Se pensassi, me ne renderei conto. I miei polmoni funzionano, respiro, ho una casa, una famiglia, un posto dove stare. Sono viva. Lo ripeto di nuovo per essere sicura che l’affermazione sia effettivamente vera… sono viva.
Lo saprei, se solo uscissi dal baratro oscuro in cui mi sto crogiolando. Un baratro di dolore, in cui una voragine mostruosa continua a divorare parti di me. Un buco nero che accumula energia, assorbe, polverizza, distrugge, diventando sempre più grande, sempre più forte, sempre più inarrestabile e spaventoso. Sono nel fondo di questo buco nero, ad osservare con il capo rivolto verso l’alto il buio che mi circonda. Non c’è luce, non c’è via d’uscita. Non c’è niente. È il nulla.
Sul comodino c’è La sarta di Mary Lincoln. Vedo il dorso del libro, il titolo scritto chiaro e leggibile. Nero su bianco. Non leggo da quel messaggio. Ho smesso di leggere, di parlare, di mangiare, di uscire dalla mia stanza. Ho smesso di rispondere alle chiamate di Peyton ed ho messo silenzioso il cellulare perché ero stanca di essere disturbata. Come se fossi ad una qualche riunione importante, come se non avessi tempo da perdere e stessi risolvendo affari di estrema urgenza. Non volevo essere disturbata, nel mio nulla.
Anche i miei genitori l’hanno capito. Probabilmente sono preoccupati, ma non so neppure questo: guardo la finestra, fissa, non mi volto e non mi sposto. Mia madre non demorde, entra silenziosa nella stanza, si siede sul bordo del letto davanti a me e resta a guardarmi. Lo fa spesso. Mi accarezza il braccio, mi scosta i ciuffi biondi dal volto inespressivo, mi da un bacio sulla fronte e poi se ne va.
Sento di essere un po’ meno sola, quando la sento vicina a me. La vedo attraverso le pareti tetre del buco nero, al di là delle sbarre spesse e indistruttibili della gabbia in cui sono prigioniera. Ma poi? Sono io ad essermi rinchiusa, nessuno mi ha costretto a farlo. Poi, cosa?
Guardo la luce bianca attraversare la finestra, qualcosa di umido segue il suo esempio, attraversando la pelle pallida della mia guancia. Bagna l’attaccatura dei miei capelli, il cuscino su cui sono appoggiata. Una lacrima.
« Clarissa… »
Come se reagissi nel sentir chiamare il mio nome, alzo con fatica una mano e asciugo quell’unica goccia. Una parte di me non vuole farsi vedere così. Non voglio che altri stiano male, non voglio che si accollino il mio dolore. È mio e soltanto mio, nessun altro dovrebbe arrecarsi questo peso. Eppure, dall’altra parte, ho bisogno che qualcuno mi aiuti e mi tiri fuori. Perché io non riesco a muovermi, ogni muscolo del mio corpo è paralizzato, non riesco a fare nulla… c’è solo il nulla, tutt’intorno. E da sola non sono in grado di fuggire. Ho bisogno che qualcuno mi prenda la mano e, con tutta la forza del mondo, mi tiri su. Ho bisogno che qualcuno mi tiri su. È troppo buio qui sotto.
Mia madre si siede al bordo del letto, davanti a me, come sempre. Io sto ancora guardando la finestra. Appoggia una mano sul mio braccio e mi accarezza, con calma e amore. Lo stesso di un musicista che si prende cura del proprio violino, o così ipotizzo che possa essere. Se avessi un violino e lo suonassi fin dalla tenera età, penso che passerei anche del tempo a guardarlo, pulirlo, amarlo con devozione. Devozione e certezza che non sarebbe mai capace di spezzarmi il cuore. Sì.
« Clarissa… »
« Sto bene », la interrompo, con un filo di voce. « È tutto okay, davvero. Sto bene. »
La sento sospirare, piano. So che non demorde. Non questa volta, almeno, perché è passato un po’ di tempo ed è più preoccupata che mai. Posso capirla, suppongo. « Ha chiamato Peyton, dice che non ti fai sentire da una settimana e mezza ed è in pensiero per te. »
Mugugno. Non trovo parole con cui replicare. Se anche le trovassi non avrebbero senso, per lei. O per Peyton, per chiunque al di fuori di me. Sono in esilio, in questo momento, lontana da qualsiasi cosa fosse reale prima… e non so nemmeno per quale motivo.
« Ti va di parlarne? »
No. Non mi va di parlarne, dice la voce nella mia testa.
Parlare di che cosa, poi? Di me? Di Serena? Del fatto che non ho più fame? O magari del fatto che non voglio alzarmi dal letto, vivere come una persona normale?
No. Non mi va di parlarne.
Non mi va affatto di parlarne.
E probabilmente il vero problema è questo. È questo il macigno. E invece di abbatterlo e lottare, io mi sono rifugiata in un tunnel sotterraneo in attesa che passi. Come una tempesta estiva, la grandine, i tuoni, i fulmini. Ed io sono lì, coperta, accucciata, sola, ad attendere qualcosa che non succederà. Il sole non tornerà a splendere da solo, il macigno non cadrà in mille pezzi da solo. Dovrei essere io a smuovere la montagna, io a rialzarmi in piedi e rimettere a posto l’equilibrio cosmico del mio profondo essere.
Invece sto qui, sul letto. A smettere di pensare. Smettere di parlare. Smettere di essere una persona. Mi sono persa. Ho preso una svolta sbagliata nel labirinto, ho trovato siepi cattive e perfide e acerbe, che mi hanno attaccata e mi hanno fatto lo sgambetto, mi si sono attorcigliate alle caviglie e allo stomaco, mi hanno impedito di respirare. Mi hanno graffiata, ferita, sconvolta, quasi uccisa. Troppo da poter vivere, ma non abbastanza da poter morire. Quasi.
Forse non sono mai stata disposta ad essere un Quasi per Serena. Forse pensavo che sarei stata io la mano che l’avrebbe tirata fuori dal dirupo, forse ho pensato troppo… mentre io cercavo di essere quella mano, lei è salita e ha buttato giù me. Ero così annegata di paure e sentimenti da non rendermene conto. Chi prenderà la mia mano, adesso? La parete è fragile, non è così solida come sembra. Si sgretola, frana sotto il peso che sto reggendo sulle mie spalle. Frana. Frana tutto. Ogni cosa. E cade assieme a me.
Penso che, se precipitassi, tutti quei pensieri svanirebbero del tutto. Sono già scomparsi, in parte, come scompare ogni frase io tenti di elaborare in questo momento. Cerco di capire, di darmi una spiegazione, di trovare una ragione al dolore. Ma non ci riesco. Perché scompare. Scompare tutto. Com’è scomparsa Serena.
E allora capisco di nuovo. Capisco qualcosa, qualcosa di diverso. C’è tanto male, dappertutto. Ce n’è tanto, c’è sofferenza, dolore, di qualsiasi forma e dimensione. Non importa cosa, ma è come l’ossigeno per i nostri polmoni: non si vive, senza. È così… dall’altra parte del mondo, qualcuno in quest’istante sta morendo per chissà quale malattia grave ed incurabile. Qualcuno è già morto. Qualcuno ha appena scoperto di essere malato. Qualcuno ha perso un genitore, un figlio. Qualcuno ha il cuore spezzato. Qualcun altro ha deciso di porre fine alla propria vita e alle proprie miserie. Non sopportava di respirare, non sopportava il dolore. Qualcuno si è appena ucciso, in questo momento, dall’altra parte del mondo.
Ed in mezzo a tutto questo sistema che non ha una fine ed un inizio, ci sono anch’io. So per certo che sono entrata a far parte dell’eterna ruota dell’universo, un universo che amo immensamente studiare. Sì.
Io sono quella con il cuore spezzato. 

 


 
⇒ Angolo Autrice.
Come promesso, eccomi di ritorno! 
Perdonatemi il ritardo, davvero, ho questi problemucci che. . . andranno via, ma mi impediscono di rispettare il puntuale appuntamento del Mercoledì e sono molto dispiaciuta. Spero di riuscire a ripristinarlo dalla prossima settimana. Eventualmente, sapete che l'aggiornamento cade di Giovedì o Venerdì. Farò tutto il possibile, promesso.
Ad ogni modo. 
Penso che questo capitolo susciti parecchie domande. E' breve, non succede praticamente niente ed è strano. Nonostante tutto, tenevo in modo particolare a postarlo e a non aggiungerci quello che succederà in futuro. Volevo che fosse " da solo ", come Clarissa: questo capitolo è un punto focale della sua psicologia. Mostra come reagisce al dolore, quello che pensa e quello che fa. Quello che vorrebbe fare, ma non ci riesce. Perché si sente debole, non lo è, ma il fatto che abbia una bassa opinione di sé le impedisce qualsiasi cosa voglia fare. Inoltre si rende conto, di nuovo, quanto sia innamorata e quanto fossero alte le sue aspettative. 
Non so molto spiegare questo capitolo, ma penso sia uno dei più importanti, soprattutto in vista del prossimo futuro. . . 
Detto questo, spero di non avervi deluso e di non deludervi.

Un bacio e un grazie speciale a chi sta continuando a seguirmi. 

Alla prossima settimana!

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