Kintsugi di WYWH (/viewuser.php?uid=62850)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Risvegliandosi ... Lei ***
Capitolo 2: *** 1: In Ospedale ... Lui ***
Capitolo 3: *** 2: Al Ryokan ... la madre di Lei ***
Capitolo 4: *** 3: A casa ... la madre di Lui ***
Capitolo 5: *** 4: Nel giorno di Mukaebi ... la cugina di Lei ***
Capitolo 6: *** 5:Al cimitero ... il fratello di Lui ***
Capitolo 7: *** 6: Di notte ... l'amica di Lei. ***
Capitolo 8: *** 7: Al tramonto ... gli amici di Lui ***
Capitolo 9: *** 8:Endometriosi ... la zia di Lei ***
Capitolo 10: *** 9: Ritorno...il physical coach di Lui ***
Capitolo 11: *** 10: Con dei mochi...la nonna di Lei ***
Capitolo 12: *** 11: Con del saké...l'allenatore di Lui ***
Capitolo 13: *** 12: In Italia...Lei ***
Capitolo 14: *** EPILOGO: In sogno...il padre di Lui ***
Capitolo 1 *** Prologo: Risvegliandosi ... Lei ***
Prologo:
Risvegliandosi … Lei
Fin
da piccola ho sempre sognato
e ricordato cosa sognavo. Ogni volta mi svegliavo entusiasta e correvo
da mia
nonna, raccontandole per filo e per segno quello che avevo sognato. Lei
mi
sorrideva contenta, seduta sul suo futon, e quando finivo mi
accarezzava la
testa e mi diceva che ero fortunata, dato che la dea Amaterasu
comunicava
spesso con me.
Anche
quando crebbi continuai
a sognare, e il più delle volte continuavo a raccontare i
miei sogni alla
nonna, la quale ascoltava sempre con aria attenta, annuendo ed
interpretandoli
assieme a me, per gioco.
Quando
conobbi mio marito i
miei sogni divennero ancora più luminosi, colorati, e
all’inizio non glieli
rivelavo, troppo imbarazzata, per poi pian piano raccontare i
più divertenti o
strani; all’inizio scuoteva la testa, abbastanza perplesso,
per poi iniziare a
divertirsi, fino a quando non mi chiese di
“prestargliene” qualcuno, dato che
lui non sognava così tanto.
Ricordo
… che la notte prima
dell’incidente non avevo sognato. Era la prima volta, e la
cosa mi turbò
parecchio.
C’era
stato soltanto il buio
della mia mente, nessun suono e nessuna sensazione addosso, il nulla;
mi
svegliai con i brividi, e mi misi seduta sul letto, stringendo a me le
gambe.
Sentii immediatamente Kojiro scivolare verso di me, chiedendomi
cos’era
successo. Glielo dissi, e lui mi strinse a sé, ed entrambi
restammo svegli per
il resto della notte.
La
giornata, tuttavia,
trascorse così piacevole che dimenticai il mio sogno, fino
ad arrivare a
pensare che era stato solo un caso.
Poi
accadde tutto.
Ricordo
chiaramente che mio
marito mi schermò con il corpo, ricevendo
l’aggressore, per poi piegarsi in
avanti con un verso strozzato, che mi bloccò il respiro;
quando lo sconosciuto
lo lasciò andare, lo vidi cadere pesantemente sulla strada,
privo di forze.
Quando riconobbi il sangue sulla strada urlai e cercai di raggiungerlo.
Mi
afferrarono e trattennero
per i capelli, sbattendomi prima sulla rete a fianco della strada, poi
a terra;
mi strapparono i pantaloni, con una tale forza da graffiarmi le gambe.
Mai,
come in quel momento, sentii il centro del mio corpo andare a fuoco ed
esplodere come una bomba dal male; un dolore di quel genere non
l’avevo mai
provato, Kojiro non mi faceva mai sentire dolore.
Mi
voltai, per guardarlo, e
vidi negl’occhi la sofferenza di chi mi stava per lasciare
senza poter fare
nulla, tentando perfino di allungare una mano per toccarmi.
Avrei
voluto fare lo stesso,
per afferrarlo e “impedirgli” di andarsene, ma
oramai il mio corpo era in balia
di quell’orrore, perciò lo guardai dritto
negl’occhi, cercando di metterlo a
fuoco fra le lacrime, e pregai con tutte le mie forze.
“Amaterasu,
ti prego, non separarci, non
portarmi via Kojiro.
Se lui deve morire,
allora voglio morire
assieme a lui. E se io devo vivere, allora fa che lui viva.
Ti prego, ti prego
dea del sole, ti prego …”
Continuai
con quella preghiera
anche dopo l’aggressione, quando rimanemmo soli, per un tempo
che mi sembrò
infinito; con il corpo che faticava a rispondermi, lentamente, allungai
una
mano verso di lui, arrivando a sfiorarlo, afferrandogli le dita. Erano
così
fredde.
Credo
che, a quel punto, udii
delle urla in lontananza, qualcuno che si avvicinava, che parlava, che
ci
chiedeva se stavamo bene; ma a quel punto ero svenuta, non riuscendo
più a
sopportare tutto quel dolore.
E
sognai di nuovo. O meglio,
sembrava un sogno, ma in realtà riconobbi anche un mio
ricordo.
Vidi
me, bambina, che
piangevo, una delle rare volte in cui piangevo a dirotto. Davanti a me
il
tavolo basso del salotto; quando ero al ryokan mangiavo sempre in
quella
stanza, il più delle volte in compagnia. Questa volta ero
sola.
Ero
dall’altro lato del tavolo
che mi guardavo, ed era strano vedermi così piccola, le mie
manine sugl’occhi,
la mia voce, i piccoli singhiozzi che muovevano il mio corpo.
Perché
piangevo così?
-Raggio
di sole, che succede?-
Alzai
lo sguardo, e vidi mia
nonna entrare nella stanza; era decisamente più giovane e in
forze, anche più
dritta con la schiena mentre si sedeva accanto a me, e mi accarezzava
con la
sua immancabile tenerezza.
-Su
su, non fare così, dimmi
che ti è successo.-
-La
… la ciotola …-
A
quel punto mia nonna guardò
sul tavolo, e io feci lo stesso.
Riconobbi
i pezzi di ceramica
rossa, con i disegni di fiori bianchi: era la ciotola che da bambina
usavo
sempre per il riso. Era la mia preferita, mi era stata regalata alla
festa
delle bambine, e mia madre era solita riporla in alto,
perché voleva che la
usassi solo nelle occasioni speciali visto la sua bellezza. Io,
però, riuscivo
sempre a scalare i ripiani della credenza fino a raggiungerla.
Chissà
come l’avevo rotta, non
ricordo proprio, forse mi era scivolata dalle mani; ma vedere i suoi
cocci sul
tavolo m’intristì tanto quanto era triste la
bambina, che adesso cercava di
calmarsi, tirando su con il naso mentre la nonna le porgeva un
fazzoletto.
-Io,
io non volevo nonna,
davvero.-
-Lo
so raggio di sole, lo so.
Dai, soffiati il naso.-
-La
mamma mi sgriderà.-
-Eh
si, hai rotto una cosa
molto bella.-
-Non
potrò più mangiare il
riso con la mia ciotola.-
E
la bimba abbassò il capo e
strinse i pugni, ero davvero mortificata per quello che avevo fatto; ma
mia
nonna gli accarezzò i capelli, allora li portavo ancora
lunghi. Poi la vidi alzarsi
e raccogliere, uno ad uno, i pezzi della ciotola, con un sorriso
tranquillo.
-Non
preoccuparti, potrai di
nuovo mangiare il tuo riso con questa ciotola. Ma mi devi promettere
che ne
avrai cura, tanta cura. Posso fidarmi di te?-
Vidi
la bambina guardare
perplessa tanto quanto me quella figura, ma quel visino rotondo
annuì lento, e
la figura di mia nonna scomparve in una luce bianca che non avevo
notato prima.
Tutto
attorno a me si fece
luminoso, e per un istante credevo che mi sarei svegliata. Ma sognavo
davvero?
Stavo dormendo? Non ricordavo di essermi addormentata.
-Oh
nonna, è bellissima!!-
Mi
voltai, sorpresa da quella
voce squillante, non ricordavo di avere avuto un tono così
alto; dietro alle
mie spalle vedevo me, bimba, con un kimono pieno di nuvole e fiori su
uno
sfondo arancio, le mie manine che tenevano in mano una ciotola rossa
… con i
fiori bianchi, la mia ciotola certamente … ma sembrava
diversa.
Mi
avvicinai, cercando di
capire cosa ci fosse di diverso, e m’inginocchiai per vederla
meglio: era
riparata, si vedevano chiaramente i pezzi uniti fra loro, ma non era
stata
usata della colla … sembrava … oro.
-Mi
raccomando ora, Maki,
ricordati la tua promessa: questa ciotola ora è molto
preziosa, e non perché è
stata riparata usando un materiale prezioso, ma perché
è di nuovo tutta intera,
ed è diventata diversa.-
Entrambe
alzammo lo sguardo
verso mia nonna, in piedi lì accanto.
-Non
capisco nonna.-
-Lo
so, è un discorso un po’
difficile per te, raggio di sole.-
S’inginocchiò
per potermi
guardare negl’occhi.
-Guarda
bene questa ciotola: è
tua, ma è diversa, giusto? Questo significa che la devi
trattare in modo
diverso, se non vuoi che si rompa di nuovo. Perché se la
rompi di nuovo, questa
volta non si potrà più aggiustare, o
sarà molto difficile. Hai capito?-
Vidi
la bimba annuire
lentamente come prima, e mia nonna sorrise.
Poi
si voltò verso di me, e mi
guardò negl’occhi, sorprendendomi.
-Hai
capito, raggio di sole?
Dovrai stare attenta, o sarà molto difficile. Ma non
preoccuparti, andrà tutto
bene.
E
adesso svegliati, che ti
aspettiamo.-
-Ah,
si nonna.-
E
feci un cenno del capo, per
ringraziarla e salutarla. E mi svegliai.
Il
primo volto che vidi,
nemmeno a farlo apposta, fu proprio quello della nonna; mi sorrise,
accarezzandomi la guancia.
-Ben
svegliata, raggio di
sole.-
La
sua mano era un po’
callosa, il volto era pieno di rughe, più vecchio rispetto a
quello del mio
sogno, ma il sorriso, per fortuna, era sempre lo stesso, e lo
ricambiai, ancora
intontita.
-Nonna
…-
-Come
ti senti?-
-…
ho sognato. Ti ho sognato.-
-Bene,
allora mi racconterai
tutto a tempo debito. Satoru, Natsuko.-
Scostai
lo sguardo, e subito
mi accorsi che non ero in camera mia, ma in una camera
d’ospedale, e la cosa mi
confuse, perché ero lì?
Quando
mia madre si precipitò
su di me, con l’aria di chi aveva pianto a lungo, mi resi
conto che era strano
che fosse lì: io non ero al ryokan in quei giorni, non ero
nemmeno a Naha. Che
succedeva?
-Maki!
Tesoro.-
-Mamma,
papà …-
-Meno
male, meno male, sia
benedetta Amaterasu.-
-Che
succede? Perché sono
qui?-
-Hai
subito un aggressione,
non ricordi? Vi hanno trovato dei passanti. Appena in tempo
…-
Ci
hanno trovati? Non ero
sola? … l’aggressione … Kojiro!
La
mia testa cominciò ad
urlare quel nome, almeno con la stessa forza con cui lo avevo urlato
nel
tentativo di difendermi dagl’assalitori e raggiungerlo; di
colpo le immagini di
quanto era accaduto mi arrivarono come una valanga, e il tutto era su
un
fondale rosso sangue. Il sangue di mio marito, accasciato a terra,
freddo,
gelido.
Mi
sentii assallire dalla
paura e dalla nausea: era vivo? Era vivo?! O era … no, no!
Cominciai
ad agitarmi, volevo
scendere dal letto ma il mio corpo mi fece subito capire che sarebbe
stato
difficile, avevo delle orribili fitte nella pancia e nel bacino, le
gambe
praticamente non si muovevano.
Mia
madre s’inquietò.
-Maki,
Maki che succede?! Che
hai?-
-Kojiro,
dov’è Kojiro?!-
-Tesoro
calmati.-
-Kojiro
dov’è?!-
-È
al reparto di terapia
intensiva, al piano di sotto.-
-Sta
bene, sta bene?!-
-Si,
si sta bene, Maki. Sta
bene, è vivo.-
Era
vivo … era vivo, la dea
aveva ascoltato le mie parole, mi veniva da piangere. Ma sentivo che
non mi
bastava sapere che era vivo, volevo scendere a tutti costi da quel
letto e
vederlo!
-Voglio
vederlo.-
-Adesso
ragiona Maki, non sei
nella condizione di …-
-Mamma
voglio vedere Kojiro,
voglio vedere mio marito.-
-No,
è fuori discussione! Ti
sei appena svegliata e devi stare in riposo assoluto.-
-Nonna,
ti prego, devo
vederlo.-
-Lo
potrai vedere tra qualche
giorno Maki, ora calmati-
-Voglio
vederlo ora!-
-Maki!-
Mia
nonna rimase in silenzio
per tutto il tempo mentre mia madre sembrava avere la meglio su di me,
afferrandomi per le spalle e spingendomi con tutta la sua forza sul
cuscino.
Eppure
non sarebbe riuscita a
trattenermi, e in un modo o nell’altro sarei andata a vedere
Kojiro: dovevo
assicurarmi con i miei stessi occhi che stava bene, o non sarei
più riuscita a
stare in quel letto.
Supplicai
con lo sguardo mia
nonna, mio padre e anche mia madre, la quale però rimaneva
stoica.
-No,
è fuori discussione. Non
stai bene Maki, hai subito lacerazioni, hai capito bene?! Il dottore
dice che
l’Endometriosi è peggiorata. Se stata sul punto di
morire!-
-Ma
anche Kojiro, anche Kojiro
è quasi morto! Io l’ho quasi visto morto!
L’ho sentito morto! Ti prego mamma,
devo vederlo!-
-Kojiro
sta bene, te
l’assicuro io, l’ho visto tesoro.-
-No
papà. Scusatemi, ma io
devo vederlo.-
-E
dopo prometti di tornare a
letto?-
A
voce di mia nonna, nel
vociare ansioso di me e mia madre, fu pacato, ma entrambi la sentimmo
perfettamente, e speranzosa annuì, sporgendomi verso di lei,
quasi con le
lacrime agl’occhi.
-…
va bene. Satoru, prendi una
sedia a rotelle.-
-Nonna!-
-Capisco
che sei preoccupata
Natsuko, ma lo sai anche tu che appena ci allontaneremo Maki
tenterà di andare
da sola, e io non voglio che mia nipote si faccia ulteriormente male.-
Mia
madre all’iniziò
s’irrigidì, chiaramente contraria, e
lanciò un’occhiataccia a mio padre, che
però uscì comunque dalla stanza. Poi prese un
profondo respiro, e mi guardò severamente.
-Non
fare nulla di stupido,
chiaro? Appena lo hai visto torni qui.-
Annuii
con tutte le mie forze,
e forse riuscii a sorridere a Satoru quando lo vidi tornare con la
sedia a
rotelle e un’infermiera. Anche questa, sulle prime, era molto
contrariata, ma
non appena mio padre e mia nonna le spiegarono il mio desiderio si
lasciò
sciogliere, e divenne nostra complice.
-Se
vi vede il dottore ditegli
che vi ho dato io il permesso. Tanto a me mi sgridano sempre e
comunque!-
Le
braccia di mio padre
riuscirono a sollevarmi senza troppo sforzo, e mi sentii molto leggera
e
debole, già solo quel movimento mi provocò un
leggero dolore, ma feci finta di
non sentire niente, non sarei tornata sotto quelle lenzuola senza aver
sentito
la pelle calda di Kojiro.
L’infermiera,
stando attenta
che non ci fossero dottori nelle vicinanze, ci guidò verso
la parte meno trafficata
del corridoio, lì dove v’era l’ascensore
di servizio, e mentre mio padre
guidava la sedia a rotelle mi sentivo prendere da un’ansia
febbrile, il desiderio
di rivedere Kojiro diventava smodato: volevo vederlo come me lo
ricordavo,
volevo cancellarmi dalla mente l’orribile immagine dei suoi
occhi che si spegnevano,
coperti di lacrime.
L’ascensore
mi sembrò che
andasse ad una lentezza incredibile, stringevo le mani e i denti per
trattenermi dall’alzarmi in piedi, ad ogni minimo movimento
con le gambe o il
torso mi sembrava che il centro del mio corpo si strappasse, come un
pezzo di
stoffa.
Quando
si aprirono le porte,
un altro piano sconosciuto si aprì ai miei occhi: guardai la
gente che passava
per i corridoi, ma non riconoscevo nessun viso, così mi
fissai sul numero delle
camere, sporgendomi ogni volta che c’era un uscio aperto, per
studiarne
l’interno. Ma andavamo svelti, e non c’era
abbastanza tempo per soffermarsi su
qualche volto in particolare.
-Sapete
che numero è la stanza
del signor Hyuga?-
-La
515.-
-Di
qua allora.-
La
sedia a rotelle fece una
curva, e la gente cominciò a ridursi, ma adesso che sapevo
il numero di stanza
i miei occhi si fissarono sui cartellini, guardandoli scorrere troppo
lentamente, avrei voluto dare io una spinta alla sedia, ma mio padre o
mi
avrebbe trattenuto, facendomi slittare e cadere in avanti, o lui stesso
sarebbe
inciampato e rovinato a terra.
Vidi
il numero 515 in grande,
gigantesco, e la porta che mi sembrava più alta e chiara
delle altre.
Oltre
di essa c’era mio
marito, come l’avrei trovato? Sperai, sperai con tutte le mie
forze che non mi
avessero mentito, e che davvero stava bene, nella mia testa
c’era l’immagine di
lui con il volto completamente irriconoscibile, o con il corpo
ricoperto di
bende e macchinari.
Mia
madre bussò alla porta.
-Hyuga-san,
sono Natsuko.-
Mia
madre non aprì lei la
porta, e la cosa mi fece leggermente morire dentro, oramai impazzivo
per tutta quella
attesa. Sull’uscio aperto, riconobbi subito il volto della
signora Hyuga,
sembrava impallidita e questo m’innervosì,
facendomi rizzare la schiena sulla
sedia, provocandomi una fitta.
-Natsuko
… Maki!!-
-Non
siamo riusciti a farla
stare ferma.-
-Hyuga-san,
la prego! Devo
vedere Kojiro!-
Mi
guardò sbalordita, poi un
sorriso sollevato si aprì sul suo volto; forse desiderava
abbracciarmi, ma
s’intuiva troppo chiaramente che non le avrei dato la giusta
importanza, e si
fece subito da parte.
A
quel punto, non riuscendo
più a trattenermi, mossi la sedia da sola, facendola
sfuggire dalle mani di mio
padre, ma sbattei contro uno dei due lati con la ruota e
m’incastrai. Ringhiai
contro il mio mezzo di trasporto; ignorando i richiami dei presenti e i
tentativi
di aiutarmi ad entrare, afferrai i lati dell’uscio per poter
entrare dentro.
Allungai
il collo, mi guardai
intorno, la stanza era così bianca. Poi vidi il letto, i
fratelli seduti lì
accanto … e Kojiro.
Allora
era vero, era davvero
vivo. Mi stava guardando dal suo giaciglio, sbatteva gli occhi;
provò ad alzare
il busto, ma era evidente che, come me, aveva male. Ma era il dolore di
un
fisico di una persona viva. Era vivo!
Sentii
il sollievo afferrare
l’angoscioso peso nel mio cuore e portarselo via, permettendo
alle lacrime di
uscire come un geyser dal petto e farsi strada sul mio viso, il viso di
mio
marito mi sembrava ancora più bello del solito, quasi mi
faceva male guardarlo
e mi coprii il volto con le mani, anche per frenare i singhiozzi che
non mi
facevano respirare.
Era
vivo, vivo! Non riuscivo a
pensare altro nella mia testa.
Lasciai
che mio padre, con
calma, liberasse la mia sedia dall’ingresso e la spingesse
gentilmente verso il
letto, anche perché io ero troppo presa
dell’emozione: sentivo il mio corpo
vibrare, contorcersi, farmi male per i singhiozzi ma esplodere anche di
gioia
mentre mi nascondevo il volto tra le mani.
-Maki
… Maki …-
La
sua voce mi fece tremare
d’emozione, nemmeno la prima volta che mi disse “ti
amo” mi sentivo così, il mio
corpo tremava vistosamente, non riuscivo a frenarlo.
Sentii
una sua mano toccarmi
il polso, prendendolo e scostando così la mano dalla guancia
destra; alzai lo
sguardo, cercando di sorridere, il fiato mozzato per le troppe lacrime.
Vidi i
suoi neri occhi, in lacrime come i miei, e a quel punto non ero certa
se fossi
davvero sveglia o se stessi ancora sognando.
-Credevo
… pensavo di averti
perso … Maki …-
-Anch’io
credevo di aver perso
te. Sei vivo, sei vivo!-
Mi
allungai verso di lui,
cercando di abbracciarlo, ma a malapena riuscii ad appoggiare la testa
sul suo
fianco destro, e il dolore del mio corpo paralizzò ancora
una volta le mie
gambe; lui, a sua volta, cercò di tirarmi verso di
sé, ma al primo tentativo
fallì dato che, come me, non aveva forza nel corpo. Mi
strinse con tutta la
forza che aveva nelle mani, e io feci altrettanto, inspirando
l’odore del suo
corpo, riuscendo a riconoscerlo oltre la puzza dei macchinari e della
stanza.
Qualcuno
ci venne in soccorso,
probabilmente mio padre, e fui sollevata verso mio marito, facendomi
appoggiare
sul bordo del letto; immediatamente affondai la testa sul petto e la
sua
spalla, così come il suo capo si appoggiò sulla
mia, percepii chiaramente le
sue lacrime sulla mia pelle. Aveva la voce spezzata, e la cosa mi
addolorò
-Mi
dispiace, mi dispiace da
morire amore. Perdonami, perdonami.-
-Kojiro,
Kojiro tu sei qui,
sei qui. Sei con me, sei vivo. Guardami, guardami amore.-
Gli
feci alzare la testa, per
guadarlo di nuovo negl’occhi, e gli vidi le guance bagnate;
gli sorrisi, ne
accarezzai il volto, gli asciugai gli occhi con i pollici, poggiai la
mia
fronte sulla sua e gli parlai a bassa voce, la più bassa che
potevo fare e che
lui potesse udire.
-Siamo
ancora qui, siamo vivi.
Ce la faremo, ne sono sicura. Un passo alla volta ce la faremo, giusto?-
Era
una frase che eravamo
soliti dirci per farci forza, quando le cose non andavano:
“un passo alla
volta”, com’era sempre stato nella nostra relazione.
-Io
starò accanto a te. Ti
prego, resta con me. Resta con me.-
Lo
sentii stringermi di nuovo,
e mi accoccolai a lui il più possibile, sapendo che rpima o
poi sarei dovuta
tornare in camera. Mi godetti come mai prima il vibrare della sua pelle
mentre
parlava, il calore e tono basso della sua voce.
-Ma
certo, certo che lo farò.
Non ho nessuna intenzione di lasciarti. Sarò sempre con te.-
Kojiro
non era mai stato
capace di mentirmi, le sue bugie le scoprivo subito. E per questo ero
sempre
sicura che quello che diceva corrispondeva alla verità, nel
bene e nel male. Lo
baciai piano, poi lui richiese un secondo e terzo bacio, e infine mi
strinse di
nuovo.
Restammo
abbracciati ancora a
lungo, godendoci quel pochissimo tempo, prima che
l’infermiera mi obbligasse a
tornare in camera per riposarmi.
**
Signore
e signori, eccoci qui!
Dopo tanto tempo ritorno su questa serie, dato che avevo rotto un
po’ di
cuoricini per “il gesto estremo” che avevo compiuto
per creare la mia coppia
non-canon. Ammetto che non è stato facile trovare un modo
per proseguire questo
racconto: l’inizio, infatti, è stato molto facile,
ma pian piano la trama, per
quanto lineare, ha rivelato ombre e luci molto intensi, in cui mi sono
dovuta
fermare dallo scrivere.
Il
racconto non sarà dal punto
di vista dei due protagonisti: solo i primi due capitoli, infatti,
avranno i
loro pensieri a farci compagnia. I successivi … beh, lo
scoprirete voi
leggendo! ;)
Ci
tengo a ringraziare delle
persone in particolare: Berlinene e Melanto, che mi hanno ispirato per
la serie
di “Furisode”; Ai_1978, che mi ha dato
l’ispirazione per scrivere questa storia,
e Sakura Ozora, perché mi ha dato ulteriore entusiasmo per
scriverla.
Grazie
mille!
Ci
vediamo al prossimo
aggiornamento!
**
|
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Capitolo 2 *** 1: In Ospedale ... Lui ***
1: In Ospedale …
Lui
Sentii
bussare alla porta, ma
non avevo bisogno di rispondere, perché sapevo chiaramente
chi era; e sebbene
fossi contento della sua visita, dall’altra mi apprestavo a
lanciarle
un’occhiataccia non appena fosse stata nel mio raggio visivo:
visto le sue
condizioni, lei più di me doveva stare tranquilla a letto.
Oramai
riusciva a stare in
piedi, ma camminava lenta ed era ancora un po’ pallida.
Vederla così
m’inquietava da morire, avessi potuto sarei sceso dal letto e
le sarei andato
incontro, rispedendola in camera sua a spintoni come avevo
già fatto diverse
volte, anche litigando ad alta voce con lei; ma il dottore ci aveva
già beccato
due volte, e aveva fatto una paternale enorme sul fatto che eravamo
“convalescenti, e il movimento non avrebbe accelerato la
guarigione, anzi!”.
Perciò
feci appello al mio
sguardo più cattivo, quello che di solito avrebbe freddato
anche il più stoico
dei miei avversari in una partita.
-Non
dovresti essere qui, ma
nella tua stanza nel tuo letto.-
Come
al solito non fece caso
al mio sguardo “da tigre”, o da “gatto
scazzato” quando vuole prendermi in giro,
limitandosi a farmi la linguaccia e portandosi vicino al letto la sedia
più
trasportabile, sedendosi molto lentamente mentre mi rispondeva.
-Mi
annoio a morte al piano di
sopra, e la nonna non verrà prima delle cinque.-
-Piano,
fai piano. Perché non
ti sei presa la poltrona accidenti?! Questa sedia è troppo
scomoda per il tuo
stato!-
-La
poltrona è troppo pesante,
non riesco a spostarla. Ed è lontana da te.-
E
mi guardò dritto negl’occhi,
con fare sicuro e addolcito.
Argh,
colpito e affondato, la
odio quando mi tira fuori queste frasi affettuose. E mi sorrideva pure,
maledetta! Sapeva bene che non potevo resisterle e che potevo solo
sbuffare
contrariato.
Guardandola
così sorridente
non riuscivo a smettere di pensare al dolore che le è stato
inferto; ed io non
ero stato capace di proteggerla. A volte penso che Maki sia davvero una
discendente della dea del sole, se è ancora qui con me: solo
il benvolere della
divinità, infatti, l’ha salvata da tutto
quell’orrore.
Prese
la mia mano e mi
accarezzò le dita in silenzio. Non sentivamo il bisogno di
parlarci, e io non
sapevo proprio cosa dirle in quei momenti.
Cosa
posso fare, pensavo, che
posso fare adesso per lei? Come può toccarmi ancora, dopo
che io l’ho lasciata
in mano a quei bastardi?
-A
che pensi?-
Non
avevo voglia di dirle la
verità, pertanto scossi la testa, appoggiandola tra i
cuscini; la sentii
strizzarmi le dita, e il suo sguardo si accigliò
immediatamente. Alle sue sottili
sopracciglia bastò un movimento per scatenare un immediato
cambio di
espressione su tutta la faccia.
-Hyuga,
a che pensi?-
Usò
il mio cognome perché
voleva una risposta, la più sincera. Lo fa sempre quando
vuole che le risponda
o le dia attenzione; anch’io faccio la stessa cosa ma la
chiamo Akamine, per
rispetto nei suoi confronti e della sua famiglia: fu una sua scelta
cambiare il
cognome in Hyuga, ma alla sua famiglia non andò molto a
genio.
Io
non sono mai andato a genio
alla sua famiglia, in generale.
Presi
un respiro profondo,
chiudendo le palpebre: non riuscivo nemmeno a guardarla in quei
momenti, la
vedevo pallida e fragile, per me era un miracolo che non si fosse
spezzata. Avevo
pregato con tutte le mie poche forze mentre mi sentivo di morire che
lei ce la
facesse.
-Non
… non avrei mai voluto …
questo, per te.-
Mi
sentivo così
spaventosamente debole, costretto in un letto di ospedale mentre mia
moglie,
colei che io avrei dovuto proteggere, si alzava tutti i giorni per
venirmi a
trovare quando aveva subito ferite più grandi di me, e non
parlo di qualcosa di
fisico.
Sentii
una lacrima scivolarmi
dalla guancia e scostai il volto, non volevo certo che mi vedesse
piangere.
La
sua mano raggiunse la mia
guancia, ma con irruenza mi spostò la testa, facendomi anche
male mentre aprivo
le palpebre e vedevo i suoi occhi a pochi centimetri di distanza dai
miei, che
mi fissavano, mi scrutavano fino in fondo all’anima.
Ah,
il suo sguardo. Ho sempre
pensato che dentro il suo sguardo ci fosse il mare: non per il colore
delle iridi,
per carità trovo così freddi e vitrei gli occhi
azzurri.
Io
parlo … di qualcosa
talmente tanto profondo e romantico che mi rifiuto di dirlo, troppo
imbarazzate.
-Nemmeno
io lo avrei voluto,
ma sono qui e sono viva. Così come lo sei tu. Se ti sento
incolparti ancora una
volta ti prendo a pugni, e lo posso fare. Tanto non sei ferito in
faccia.-
Oh
lo so che lo poteva fare:
non c’è mai stato giorno, nella nostra vita
comune, in cui non volavano pugni e
schiaffetti tra di noi, che fossero stati per gioco o per imbarazzo; a
volte
giocavamo alla lotta proprio come ragazzini, altre volte lo facevo per
stuzzicarla e farla arrabbiare, trovandola adorabile. In alcuni casi mi
sgridava e mi picchiava con forza, ben sapendo che non poteva farmi
niente.
La
guardai per qualche momento.
-…
avresti il coraggio di
picchiare un malato?-
-Se
il malato si comporta da
stupido si.-
-Allora
mi toccherà chiamare
il dottore.-
-Così
non potrei più stare qui
con te.-
-Ah,
pace finalmente!-
-Ma
come!-
Ridacchiammo
entrambi, e a
quel punto le accarezzai il volto e i capelli, in quei mesi le erano
cresciuti
e arrivavano alle sue spalle. Le stavamo male, non mi piacevano, le
davano
un’aria seria, che non stava bene sul suo viso rotondo.
-Quando
ti decidi a
tagliarli?-
-Guarda
che non ci sono parrucchieri
qui in ospedale, e non ti azzardare a dire “faccio
io”! L’ultima volta mi hai
obbligata quasi a rasarmi!-
-Però
non stavi male, ti
lasciava libera la faccia.-
-Guarda
che se è per questo
posso legarmeli.-
-Le
code non ti stanno bene,
sembri una ragazzina.-
-Meglio
allora, sembro più
giovane!-
Prese
l’elastico che teneva al
polso, ma io la bloccai con la mano libera mentre l’altra le
afferrava
prepotentemente il mento.
-Naah.-
-Ahi!
Dai!-
Provò
a resistermi, portando
il polso bloccato verso di sé e cercando di allontanare la
mia mano sul suo
volto con l’altra, ma anche se ero in una posizione scomoda
non cedetti; il
gioco non durò più di un minuto, in quanto lei
sbuffò e alzò la mano libera
verso l’alto, aprendo anche l’altra.
-Va
bene, va bene, hai vinto
tu.-
-Hm,
bene.-
-Sei
un prepotente.-
Non
lo negai, era vero. Ma era
compreso nel pacchetto “Kojiro”, e lei lo sapeva
bene quando accettò di
sposarmi.
Sospirò
ancora, rimettendosi
l’elastico al polso e nascondendolo dentro la manica lunga
del pigiama, addosso
portava lo scialle che le aveva dato la madre.
In
quel momento notai che il
suo polso era più magro del solito, e d’istinto la
bloccai ancora con le mani,
scoprendo però lentamente il braccio dalla manica: era
dimagrita, lo potevo
percepire. Forse lei intuì il mio pensiero,
perché dopo il primo momento non
fece più resistenza, lasciando che scrutassi la sua pelle
fino al gomito,
passandoci anche le dita.
-Hai
preso peso?-
-Un
pochino.-
-Ma
stai mangiando?-
-Il
cibo qui non è granché, ma
è solo quello.-
-Davvero?
Hai avuto i
risultati dal dottore?-
M’innervosiva
vederla
dimagrire in quel modo, dopo quello che ci era successo, conoscendo
anche il
suo stato di salute.
A
dire la verità tutto mi
stava innervosendo: la convalescenza in ospedale, il non essere in un
ambiente
familiare, la lenta guarigione della mia ferita, il possibile stato
d’animo di
mia moglie, le sue condizioni fisiche, il non saper cosa fare a fronte
di
quanto successo, e ora anche questo.
Ero
… impotente, una
sensazione odiosa per me, che non mi ero mai fermato nella mia vita.
-Kojiro
non stringere.-
-Hai
avuto i risultati?-
-Dovrebbero
arrivarmi oggi,
non preoccuparti.-
-Come
faccio a non
preoccuparmi del fatto che non mangi?!-
-Non
è niente, sono solo
schizzinosa. Kojiro calmati!-
Mi
mise una sua mano sul
volto, e piantò di nuovo i suoi occhi dentro ai miei,
stavolta con uno sguardo più
tranquillo; il mare nei suoi occhi era placido, con piccole
increspature solo
sul bagno asciuga.
E
sentii la mia anima bagnarsi
in quel tepore, calmarsi, le voci forsennate della mia testa si
spensero
lentamente mentre respiravo a fondo, stupendomi del mio comportamento
...
isterico.
Lei
aspettò ancora prima di
parlare, e usò una voce bassa, allungandosi verso di me per
abbracciarmi, la
mia testa sul suo petto, dove potevo sentire il battito del suo cuore.
-Va
tutto bene, Ko. Io sono
qui, con te, e tu sei qui con me. Un passo alla volta Ko, uno alla
volta.-
Non
amavo aspettare, non sono
una persona paziente. Ma stranamente Maki si, e dico stranamente
perché da
quella ragazzina così energica, che riusciva sempre a
tenermi testa, non mi
aspettavo una simile forza; ma forse era anche per la sua condizione
fisica,
per i sacrifici che aveva affrontato, e anche per questo nostro
rapporto così …
beh, così nostro.
Mi
tenne ancora abbracciato a
sé.
-Maki,
puoi lasciarmi ora.-
Lei
scosse la testa, ed avvertii
il movimento sopra i miei capelli, la sentii stringere un po’
più forte, e il
suo cuore battere un po’ più forte.
Presi
un profondo respiro, e
in silenzio la presi e la guidai lentamente verso di me mentre mi misi
dritto
con la schiena, lei si sedette sul bordo del letto per farsi
abbracciare più
comodamente.
In
un attimo lei mi aveva
calmato, e in un attimo adesso ero io che consolavo lei.
È
sempre stato così fra di
noi: nessuno dei due ha sempre il sopravvento sull’altra,
ognuno ha le sue
attività, anche se la cosa ci ha tenuto lontani a lungo.
Entrambi sappiamo i
difetti dell’altro, e abbiamo imparato a conoscerli e
sopportarli il più
possibile, anche se è inevitabile litigare. Ma, per tutto
questo, ci siamo
sempre amati e rispettati.
Accarezzai
i capelli di mia
moglie e la sua schiena, la sentii calda come la prima volta che
l’abbracciai,
felice e innamorato, e le baciai la testa una, due, più
volte, prendendo
profondi respiri per sentire il suo profumo, facendolo entrare dentro
di me.
La
mia amata Maki, viva e
calda tra le mie braccia. Nemmeno quando le chiesi di sposarmi e
accettò mi
sentii così felice e sollevato.
Il
bussare della porta fu un
rumore così spiacevole che volevo gridare “non
voglio nessuno fra i piedi!”, ma
sfortunatamente mia moglie lasciò la presa, rimettendosi
seduta sulla sedia e
cercando di pettinarsi i capelli con le dita, passandosi il dorso delle
mani
sulle guance per cancellare qualsiasi traccia di lacrime.
Le
diedi una mano con i miei
pollici, sfregando e facendola imbronciare per toglierle via ogni
tristezza
dagl’occhi.
Ci
sorridemmo a vicenda,
adesso dovevamo farci forza per affrontare le visite: nessuno di noi
aveva
voglia di vedere qualcuno, ma sapevamo quanto le nostre famiglie erano
preoccupate.
-Avanti.-
Per
prima ci fu Naoko, la cui
testa sbucò fuori timidamente dall’uscio,
facendomi sorridere, il resto del
corpo era in uniforme scolastica.
Dietro
di lei tutti coloro che
erano riusciti a raggiungerci: mia madre, la madre e il padre di Maki e
Akamine-sama.
-Maki!
Ci è venuto un colpo
quando non ti abbiamo trovato in camera!-
-Scusami
mamma.-
-Satoru,
prendi la poltrona
per Maki per favore.-
-Ah
no nonna, è meglio che ci
stai tu.-
-Che
sciocchezza, non sono
certo io quella in pigiama.-
-Copriti
meglio Maki.-
-Si
mamma.-
-Buongiorno
fratellone.-
-Ciao
Naoko, ciao mamma.-
-Come
ti senti oggi caro?-
-Stufo
di stare a letto, ma
anche meglio. Voi come state?-
-Tutto
tranquillo.-
Fummo
divisi in due parti
dalle chiacchiere e dal letto, ma ci tenevamo saldamente per mano, e
niente e
nessuno poteva separarci.
-Per
caso ci sono state
telefonate per me?-
-Si,
ha chiamato la tua
società, desiderano parlarti al più presto. Ti ho
portato il tuo cellulare.-
Mia
madre frugò nella sua
borsetta e mi restituì l’apparecchio; la prima
cosa che notai fu il dorso
graffiato, durante l’incidente mi era caduto a terra.
Avevamo
preso quel vicolo
perché tagliava un po’ strada, saremo arrivati
prima a casa da mia madre; era
un po’ buio, uno dei lampioni si era rotto.
Quei
tre tizi, appoggiati alla
rete, fin da subito sapevamo che c’era qualcosa che non
andava in loro, ma non
volevamo tornare indietro perché ci avrebbero seguito;
perciò avevo preso la
mano di mia moglie, e stavamo tirando dritti. Nessun contatto visivo,
nessuno
scambio di parole anche se provocavano.
Per
prima tentarono di
afferrare Maki, ma lei si scansò mentre la portavo dietro di
me.
Quando
mi venne addosso,
colpendomi, dev’essermi caduto allora il cellulare. Non
avevamo mai avuto
intenzione di rapinarci, solo di farci del male … a me
… e soprattutto a lei …
-Ko.-
Sbattei
gli occhi, sorpreso, e
mi voltai verso Maki.
-Tutto
bene?-
Le
strinsi le dita, e presi un
profondo respiro: mia madre era lì, mia sorella era
lì, non potevo dirgli
quello che avevo appena pensato, le avrei turbate, e si erano
già spaventate
abbastanza, ricordo ancora che quando mi svegliai, mia madre si
lasciò andare
al pianto, ed era così raro vedere le lacrime segnarle il
volto, che mi sentii
molto più male per lei che per la ferita.
Le
annuii in silenzio, poi mi
rivolsi di nuovo a mia madre, che mi guardava con aria ansiosa, mia
sorella era
più che altro confusa.
-Scusa,
è che sono preoccupato
per il rinnovo del contratto, nelle mie condizioni non mi
sarà possibile
giocare per un po’, non credo vogliano un infortunato in
squadra.-
-Non
puoi chiedere un
posticipo?-
-No,
il campionato è quasi
alle porte, adesso ci sono gli ultimi movimenti di mercato.-
Vidi
mia madre annuire, e
capii che anche lei, come me, stava nascondendo l’ansia per
non turbare Naoko.
-Per
ora devi pensare al
riposo, Kojiro. Intanto chiamali e fatti dare notizie, forse possiamo
trovare
una soluzione.-
Annuii,
e mi rivolsi a mia
sorella, portando la conversazione altrove mentre abbandonavo il
cellulare sul
letto.
-E
tu signorina? Come sta
andando a scuola?-
Ancora
una volta bussarono
alla porta, ma stavolta riuscii a rispondere
“avanti” prontamente.
Era
il dottore, che subito
rivolse un’occhiata poco contenta a mia moglie, alla mia
destra.
-Eccola
signora Hyuga, come al
solito fuori dalla sua stanza.-
-Le
chiedo scusa dottore. Mi
dica.-
-Ho
qui i risultati delle
analisi, vuole che ne parliamo in privato?-
Aveva
l’aria di chi non
portava buone notizie.
-No,
non si preoccupi. Prego
mi dica pure.-
Adesso
era lei a stringere le
mie dita, e ricambiai deciso la presa; intanto il parentado fece un
religioso
silenzio.
Il
dottore aprì la cartella e
iniziò a sfogliare i vari fogli.
-Allora
… lei ha subito una
lacerazione interna, e a causa di questo la sua Endometriosi ha causato
un’infiammazione estesa che stiamo però curando
con farmaci.-
-Possono
essere questi che mi
provocano una carenza nell’appetito?-
-Si,
è molto probabile.
Comunque la cura dovrà andare avanti per almeno due
– tre mesi.-
-Mi
dica dottore … la … la
violenza …-
Mi
strinse la mano fino a
farmi male, sentii la sua voce farsi debole, e mi avvicinai a lei,
spingendola
delicatamente ad appoggiarsi a me mentre prendeva fiato e riformulava
la
domanda.
-Dottore
… per caso sono
diventata sterile?-
Strinsi
i denti, sentii la
schiena di mia moglie rigida sulla mia spalla.
-Ancora
non siamo certi, ma è
una possibilità che non possiamo escludere. Vediamo intanto
come va la cura, e
poi faremo altre analisi per verificare il suo stato di
fertilità.-
-Capisco.
La ringrazio.-
-Cerchi
di tornare in camera
sua, ha bisogno di riposo.-
-Si,
va bene.-
Maki
rispondeva in maniera
atona, e lanciai un’occhiata chiara a mia madre, la quale
prese Naoko con sé
mentre la famiglia di mia moglie capiva di doversi allontanare,
chiudendo la
porta e lasciandoci soli.
Mi
stava dando ancora le
spalle, non si muoveva, il capo leggermente chino, i capelli che le
coprivano
il volto. Anche per questo non mi piacevano così lunghi,
m’impedivano di
leggere quello che le stava passando per la testa.
-Maki,
guardami.-
La
vidi muovere lentamente il
capo in un gesto di diniego, e le strinsi la mano, portandola verso di
me.
-Ti
prego guardami.-
-Non
ci riesco.-
-Si
che ci riesci, avanti
Maki.-
-No,
no.-
-Maki!-
Tentai
di afferrarle la
spalla, e la sua reazione fu esplosiva.
-LASCIAMI!-
Rischiò
di farsi male quando
strattonò per liberarsi dalla mia presa, la schiena si
piegò in avanti e vidi
quelle mani, libere, portarsi al volto, il corpo che cominciava a
scuotersi.
Maki?!
Oh no …
Ora
avevo paura di toccarla,
sentivo che se lo facevo mi avrebbe scacciato come prima; eppure volevo
abbracciarla così disperatamente, portarla a me.
Dovevo
fare qualcosa, dovevo.
Scostai
le lenzuola, e
lentamente scesi dal letto. Il movimento la colpì subito,
perché la vidi
voltarsi verso di me; aveva gli occhi completamente ricoperti dalle
lacrime,
avevano già cominciato ad arrossarsi mentre le guance erano
bagnate.
-Kojiro,
che fai?!-
Mi
portai davanti a lei, e
lentamente provai ad inginocchiarmi. Al primo piegarmi in avanti sentii
come se
il mio ventre si stesse aprendo in due e i punti si stessero
aggrappando
ferocemente alla mia pelle.
Lei
si allarmò ulteriormente.
-No,
Ko! Torna subito a
letto.-
-Maki,
guardami.-
Riuscii
non so come a mettermi
in ginocchio davanti a lei, e quando provò a farmi rialzare
le catturai le
mani, portandole a me.
Era
così bella mia moglie,
anche se stava piangendo, anche se era disperata. E quel suo dolore
avrei tanto
voluto farlo mio, prenderne una parte per alleggerire il suo peso.
Ma
io ero e sono un uomo. Non
potrò mai capire il profondo dolore che può
provare una donna in una situazione
del genere; tuttavia volevo mostrarle che, sopra quel tremendo burrone
oscuro,
poteva trovare me a tenderle la mano, per aiutarla a risalire.
-Ce
la faremo. Ce la farai
Maki. Un passo alla volta, come hai detto tu. Uno alla volta.
Io
non lo so quanto dolore
provi, ma lo posso sentire, e … e vorrei fare qualcosa.
Dimmi
cosa posso fare Maki,
dimmi come posso aiutarti a farti stare meglio. Dimmelo.-
Appoggiai
la mia fronte alle
sue mani, e pregai Amaterasu: le chiesi di far guarire mia moglie dal
suo
dolore, di darle forza e fiducia in se stessa. Di illuminarla con la
sua luce.
Di aiutarmi ad aiutarla.
Sentii
la testa di Maki
appoggiarsi alla mia spalla, e mi sussurrò
all’orecchio, come se non volesse
farsi sentire da nessuno.
-Hasshou
nanahai isshoukenmei.-
(otto vittorie, sette sconfitte; è un proverbio che vuol
dire “fai sempre del
tuo meglio”)
Annuii
lentamente,
comprendendo le sue parole, e lentamente le lasciai andare le mani,
permettendole di abbracciarmi mentre io abbracciavo lei, facendola
scendere
dalla poltrona.
Ci
abbracciammo in ginocchio,
sul pavimento. Forse scomodi e doloranti, ma stretti più che
potemmo.
**
Questo
è l’ultimo capitolo
dove “sentiremo” i pensieri dei nostri due
protagonisti. Da qui in avanti …
chissà chi ci racconterà la loro storia? Provate
ad indovinarlo con questa
frase!
“…era
bello sentirle
dire quelle due parole, mi tranquillizzavano fin dentro
l’anima, e mi permisi
di darle un bacio sulla guancia, accarezzandogliela poi con le dita e
guardandola per bene, fin dentro le pupille.”
Ci vediamo al prossimo aggiornamento!
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Capitolo 3 *** 2: Al Ryokan ... la madre di Lei ***
2: Al Ryokan … la
madre di Lei.
Il
mio corpo, quel giorno, si
muoveva da solo: da solo si era alzato dal futon, si era lavato e
preparato, da
solo aveva preparato la colazione ai clienti, da solo andava a avanti e
indietro per il ryokan, svolgendo tutte le faccende con anche una certa
bravura; se lo dovevo criticare per qualcosa, ammetto che poteva essere
un
pochino più veloce in certe mansioni. Ma, ahimè,
oramai non sono più tanto
giovane, come quando ho iniziato a lavorare per la famiglia di mio
marito.
E
la mia testa, in tutto
questo? … beh, la mia testa era completamente persa altrove:
quel giorno mia
figlia sarebbe tornata al ryokan con suo marito, per proseguire la
convalescenza in famiglia. Ero sollevata, soprattutto per
l’orribile incidente
che gli era capitato; ma dopo quanto il medico ci aveva detto sulle sue
condizioni fisiche, beh, ero decisamente preoccupata.
Vedete,
mia figlia … anzi,
meglio dire che la famiglia di mio marito in generale ha una malattia
genetica
ereditaria; loro la chiamavano “la maledizione di
Amaterasu”, perché colpiva
solo le donne della famiglia Akamine, e perché questa
famiglia era
profondamente legata alla dea del sole.
La
storia della “maledizione”
la conosco perché era una delle storie di paura che mia
suocera, la capofamiglia,
era solita raccontare ai nipoti per spaventarli; ma come tutti i
racconti aveva
il suo fondo di verità, e me ne resi conto nella maniera
più dura per una
madre: scoprire che la propria figlia era vittima di quel
“maleficio”.
-Zia,
va tutto bene?-
Mi
voltai, e gli occhi di
Tomoko mi guardarono, curiosi come lo sono stati fin dalla sua infanzia.
Sorrisi,
o meglio mi sforzai
di sorriderle, non volevo che lei si preoccupasse: lei a Jin, difatti,
non
sapevano della violenza che aveva subito a mia figlia, per non
spaventarli.
-Certo,
certo Tomoko-chan.
Scusami, è che non vedo l’ora di vedere Maki.-
Mi
sorrise contenta e strinse
a sé il materasso, si vedeva che anche lei fremeva
d’impazienza; in quel
momento mi stava aiutando a portare all’aperto i futon, per
far prendere loro
aria.
In
quel periodo dell’anno
c’erano tanti clienti al ryokan, che combattevano il caldo
afoso di Naha
andando nella spiaggia proprio sotto la locanda, e noi approfittavano
di quelle
ore per rassettare al meglio le loro camere. Quella era una delle
faccende che
compivamo ogni giorno, anche durante le festività.
-Hai
idea di quanto staranno
Maki-chan e Hyuga-san al ryokan, zia?-
-Per
il momento resteranno un
mese, fino al prossimo controllo medico di Maki. Dopodiché
potrebbe tornare dalla
madre di Kojiro.-
-E
se andassero in Italia?-
-Se
questo renderà Maki
felice, allora sarò felice anch’io per loro.-
Tomoko
sbuffò contrariata: lei
aveva sempre adorato Maki, saperla lontana non le piaceva affatto.
Io
mi limitai a respirare
profondamente, e non solo per la fatica di trasportare i futon: quel
pensiero era
una possibilità che né io né Satoru
avevamo escluso, ma io stessa non ne ero
molto entusiasta, meno che mai in quella situazione.
Quando
venimmo a sapere
cos’era accaduto, tramite un’angosciata telefonata
della signora Hyuga, pensai
di morire all’istante dallo spavento, e il mio corpo si
stesse mosse da solo:
preparai lo stretto necessario per la valigia, salii in macchina e
presi il
primo aereo mentre la mia mente era completamente ottenebrata
dall’idea che mia
figlia non sarebbe riuscita a sopravvivere. Mio marito, per tutto il
tempo, mi
tenne strettamente per il polso, assicurandosi semplicemente che io non
andassi
a sbattere da qualche parte.
In
ospedale ci fu detto, per
filo e per segno, cos’era accaduto; pensavo che avrei pianto
dall’orrore, ma
ero talmente sconvolta che le lacrime non scesero. Il mio stesso
cervello,
oramai abituato alla mia vita negli Akamine, aveva creato una specie di
meccanismo che, anche nelle situazioni più orribili, in
pubblico non cedessi
mai troppo alle emozioni.
Questo
funzionò fino a quando
non mi dissero che mia figlia era fuori pericolo; lì ricordo
chiaramente di
essermi svegliata dal “sonno”, e completamente
esausta di essermi accasciata a
terra, le mie gambe mi avevano abbandonato. Scoppiai a piangere,
tappandomi la
bocca con le mani per non urlare troppo forte, mentre mio marito
s’inginocchiava di fronte a me e mi abbracciava con tutte le
sue forze residue,
piangendo a sua volta.
Mia
figlia, la mia povera Maki
… poi mi fermai dal formulare questo pensiero, e pian piano
calmai il pianto: no,
lei non mi avrebbe mai perdonato se avessi cominciato a pensare in quel
modo. Se
c’era una cosa che mi aveva sempre chiesto di non fare, era
di provare
compassione per lei.
“Sei
mia madre” mi disse
quella volta, quando affrontò il problema con me.
“Ti prego di aiutarmi e di
sostenermi, e anche di sgridarmi se sarà necessario. Ma non
trattarmi come
un’inferma. Non tu.”
Sentirsi
dire una cosa del
genere, da una quindicenne, fu stato molto duro, tanto che le tirai uno
schiaffo, e la sgridai per questo; tuttavia, in seguito, mi resi conto
che le
sue parole avevano un fondo di verità, e pertanto ho sempre
rispettato le sue
volontà, come fare sport, uscire con gli amici, sposarsi con
Hyuga.
E
l’ho sempre vista felice.
Uscimmo
fuori in cortile, e
cominciammo a stendere i futon sul filo, sbattendoli con un batti
panni, e di
nuovo la mia mente ricominciò a perdersi nei pensieri:
staranno comodi nella
loro stanza? Il futon non sarebbe stato troppo sottile? Maki avrebbe
dormito
comoda, nonostante la sua “maledizione”?
La
maledizione di Amaterasu,
la Endometriosi. Le donne colpite da quel male nella famiglia Akamine,
tempo
fa, avevano solo tre possibilità: mentire e nascondere il
loro male, venire
allontanate dalla famiglia fino ad arrivare ad essere ripudiate, oppure
rinchiudersi in un santuario e diventare sacerdotesse,
“espiando” il loro
peccato tramite la via religiosa.
La
prima a scoprire cos’era
effettivamente la “maledizione” fu la nonna di mio
marito Satoru, aiutata dal
marito che era il capo famiglia, che era un medico, dopo che la loro
figlia,
Moe, aveva rischiato il ripudio e tentato di farsi del male. Da quel
momento fu
abbandonato il nome convenzionale, ma ancora adesso non lo si nomina ad
alta
voce, considerato una grave onta dentro la famiglia che
“discende da
Amaterasu”.
Oba-sama
soffre ancora per
questa sua condizione.
-Zia,
basta battere questo
futon! Così lo rovini!-
La
voce di Tomoko fermò i miei
pensieri e la mia mani, e mi affacciai verso di lei, guardandola
sorridere con
aria divertita.
-Oggi
sei proprio sulle nuvole.-
Mi
sforzai di ricambiare la
sua allegria.
-Hai
proprio ragione,
Tomoko-chan.-
-Vado
a vedere se nei bagni sono
stati usati gli asciugamani?-
-Certo,
fa pure. Io torno in
cucina a finire di pulire i piatti.-
Quella
parte di cortile faceva
parte del lato addetto ai nostri appartamenti, ma tutto il giardino era
aperto;
pertanto gli ospiti, se volevano, potevano arrivare fino a
lì, da noi, anche se
non avevano il permesso di entrare dentro quel lato
dell’edificio.
Vidi
mia nipote togliersi i
geta e salire sul porticato, allontanandosi verso i bagni.
Stavo
per riprendere a battere
sui futon, ma mi resi conto che rischiavo di nuovo di colpire sempre lo
stesso
materasso, e respirando a fondo mi fermai a guardare il mare, per
cercare di
frenare la mia mente; da quel punto non c’erano gli alberi a
coprire il
paesaggio, solo una siepe bassa, pertanto potevo chiaramente vedere
l’acqua
salata, quel giorno più grigia del solito. O forse erano i
miei occhi che la
vedevano di quel colore, in effetti tutto mi sembrava più
spento, nonostante
fossi sinceramente felice dell’arrivo di Maki.
Alla
fine, quando lei e suo
marito furono dimessi dall’ospedale, si era deciso che
sarebbero venuti a stare
nel ryokan per recuperare, che il viaggio potevano sopportarlo;
dopotutto, la
nonna aveva così tanto insistito che i due non avevano avuto
modo di rifiutare.
In
quei momenti facevo fatica
a riconoscere la capo famiglia forte e sicura, che conobbi la prima
volta che
Satoru mi presentò ufficialmente; ma riconoscevo quel senso
di agitazione,
perché era lo stesso che avevo io, e che continuavo a
provare dentro il mio
corpo.
Non
riuscendo a rinfrancarmi
lo spirito con la veduta, mi diressi in cucina; davanti al lavabo
sollevai le
maniche, legandole dietro la schiena con un nastro, e iniziai a lavare
piatti e
vassoi. Ancora una volta era il mio corpo che si muoveva meccanico
mentre io,
con i miei pensieri, pensavo che Satoru e Jin erano andati a prenderli
all’aeroporto quasi un’ora fa, perché ci
mettevano tanto? E com’era andato il
viaggio? Maki e Kojiro stavamo bene? La camera per loro non era troppo
lontana
dai bagni, o dalla cucina? Forse era il caso di mettergli
un’altra coperta per
sicurezza?
-Natsuko,
non hai finito?-
Mi
voltai, sorpresa di non
aver sentito mia cognata Moe entrare in cucina, e le gocce
d’acqua scivolarono
lungo il mio braccio fino ai gomiti, arrivando a bagnare leggermente le
maniche
tirate del mio kimono.
-Ah,
scusa Oba-san, oggi non
ci sono proprio con la testa.-
-Maki
è in ritardo,
probabilmente per causa di suo marito.-
Guardai
quella donna in
silenzio, avvertendo chiaramente in lei il disprezzo che provava nei
confronti
di Kojiro; tornai a lavare le ultime ciotole senza rispondere a quella
“provocazione”: sapevo perfettamente che era sempre
stata contraria al
fidanzamento, al matrimonio, a tutto.
-Era
meglio se restavano nel
Meiwa.-
-La
casa di Hyuga-san è
piccola, Oba-san. Qui invece hanno tutto lo spazio e la
tranquillità necessari
per recuperare le forze.-
Non
sentii alcuna risposta da
lei, ma mi bastò lanciare uno sguardo per notare la sua aria
infastidita; mi
limitai a riporre l’ultima ciotola al suo posto, asciugandomi
le mani,
slacciando il nastro e lasciando andare le maniche del kimono, decisa a
continuare tutte le faccende, volevo essere libera quando mia figlia
sarebbe
arrivata, così da non lasciarla subito da sola.
-Moe-san,
vado a mettere
un’altra coperta nella loro stanza, non voglio che prendano
freddo durante la
notte.-
-Hanno
coperte a sufficienza,
devi pensare alle camere dei clienti.-
Era
la mia superiore nella
gestione del ryokan, pertanto non me la sentii di contraddirla; tanto,
in un
modo o nell’altro sarei riuscita nel mio intento. Chinai la
testa in segno di
obbedienza, e veloce mi allontanai dalla cucina, dirigendomi verso le
camere
dei clienti.
C’erano
giorni in cui non
sopportavo mia cognata e il suo comportamento, e questo era uno di
quelli. Ma
avevo imparato, anche grazie a mio marito, ad ignorare il suo modo di
fare, in
quanto lei era l’unica che ci perdeva con quel modo di fare,
specie per quanto
riguardava con Maki.
Anche
perché, una volta, Moe aveva
adorato mia figlia.
Quando
fu piccola, la bambina
era sempre stata con sua zia, e lei la trattava si severamente, ma
anche con
tanta attenzione: i suoi occhi la seguivano sempre, delle volte anche
più di
me, assicurandosi che non le capitasse mai niente di spiacevole.
I
problemi arrivarono quando Maki
cominciò ad avere il suo carattere
“mascolino”, andando in collisione con
Moe-san; ho tentato, più volte e più volte, di
appianare lo cose fra di loro,
ma poi capii che i loro caratteri erano molto simili in certi aspetti,
e
pertanto era facile per loro ritrovarsi a discutere o litigare. E se
non riuscivo
a farcela con una, non sarei certo riuscita con l’altra.
Forse
se loro … no, con i
“forse” e i “se” non ci ha mai
mangiato nessuno.
Cominciai
ad occuparmi della
camera più in fondo al corridoio mentre Moe si occupava di
quella successiva;
sistemavamo i futon, raccoglievamo e mettevamo in ordine, in caso,
eventuali
yukata o abiti dei clienti, sostituivamo i vasi di fiori nei Tokonoma.
Lavoravamo in silenzio, nella quiete delle stanze vuote, e il tempo
sembrava
non passare mai.
Ad
un tratto sentii dei passi
molto veloci venire verso di me, e Tomoko aprì lo Shoji
così improvvisamente
che, a momenti, facevo scivolare a terra il vaso di fiori che avevo
preparato.
Ovviamente, quell’atteggiamento non piace per niente a mia
cognata.
-Zia!
Zia!-
-Tomoko
sei impazzita? Ti
sembra il modo di comportarti?-
-Scusami
Oba-sama.-
Sorrisi,
sia per il continuo
essere distratta, sia immaginandomi mia nipote chinare la testa
imbarazzata nei
confronti della zia. Mi voltai verso la porta, e la vidi affacciarsi
alla mia
camera con aria entusiasta.
-Sono
arrivati!-
Rimasi
bloccata. Per un attimo
ebbi paura ad alzarmi: non sapevo cosa aspettarmi, avevo chiara
l’immagine di
mia figlia sdraiata sul letto, in coma farmacologico, con
l’aria
spaventosamente pallida, e adesso non sapevo proprio se mi sarei
ritrovata la
stessa immagine davanti o qualcosa di meglio … o addirittura
di peggio;
purtroppo, nella mia vita, sono sempre stata una persona poco capace di
pensare
in maniera positiva.
Lentamente,
e anche con una
certa fatica, mi alzai in piedi mentre Tomoko scalpitava di fronte a
me,
correndo via e facendosi riprendere ancora una volta da mia cognata.
-Insomma
Tomoko, non correre!
Ah, quella ragazza delle volte si comporta come una selvaggia. Maki
l’ha male
influenzata.-
Mia
cognata s’incamminò con
passo più tranquillo, io dietro di lei avevo le gambe di
pietra, così come la
lingua, dato che non ebbi la voce di rimproverarla, o di ribattere al
suo
commento. Stavo pensando solo a Maki.
Stava
bene mia figlia? Oppure
… me la sarei ritrovata su una carrozzina? L’unica
volta che l’avevo vista su
una sedia rotelle fu quando era più piccola, quando facemmo
i primi esami
riguardanti la sua Endometriosi, perché il giorno prima gli
era venuto il menarca
e aveva praticamente urlato dal dolore, spaventandomi a morte.
Non
volevo, non volevo
assolutamente riavere quell’immagine davanti ai miei occhi.
Arrivammo
all’ingresso, e io
stavo per mettermi i sandali quando mia cognata mi fermò,
con un tono duro e
anche distintamente seccato.
-Ci
sono Satoru, Jin e Tomoko
con loro, rimani qui.-
-…
con tutto rispetto, Oba-san,
si tratta di mia figlia, sopravissuta all’incidente e uscita
dall’ospedale.
Vado a raggiungerla.-
Le
scoccai un’occhiata decisa
e arrabbiata, scioccata per quella mancanza di rispetto da parte di mia
cognata; lei, forse capendo il suo errore, distolse lo sguardo
infastidita. Io
ne approfittai per aprire la porta ed uscire verso il sentiero
lastricato,
riconoscendo poco distante il kimono verde e azzurro di mia nipote. In
quel
momento Tomoko stava letteralmente saltellando dalla gioia, afferrando
poi una
delle due valigie più piccole, incamminandosi senza sforzo
dentro la locanda,
sorridendo mentre Jin la seguiva, in mano teneva la seconda piccola ed
una
grande.
Loro,
più di tutti, erano felici
di vederli, non avevano idea dei diversi problemi che avevano
affrontato e che dovevano
affrontare quei due.
Avanzai
di un altro passo,
ancora impietrita, e improvvisamente la vidi mentre affiancava il
marito Kojiro,
prendendolo sottobraccio e stringendogli la mano; lui camminava
lentamente, con
sguardo basso e aria contrita.
Avevo
imparato a conoscerlo, e
sapevo che, come tutti gli uomini, odiava quel genere di situazione
dove si
doveva far aiutare, sebbene il suo stato fisico lo obbligasse.
Guardai
ancora una volta mia
figlia, e sospirai sollevata: camminava tranquilla, senza troppi
problemi, e
questo per me valeva già come uno stato di perfetta salute.
Aveva perfino il
kimono, uno dei suoi due Irotomesode rossi, e i capelli sistemati
dietro la
nuca, l’erano cresciuti tanto in quel periodo, e li teneva
fermi con un
fermaglio.
La
raggiunsi, decisa a darle
una mano.
-Non
c’era bisogno che ti
mettessi il kimono.-
-Preferisco
che Oba-sama non
mi critichi fin da subito. Ciao mamma.-
“Ciao
mamma”
Mi
venne quasi da commuovermi:
era bello sentirle dire quelle due parole, mi tranquillizzavano fin
dentro
l’anima, e mi permisi di darle un bacio sulla guancia,
accarezzandogliela poi
con le dita e guardandola per bene, fin dentro le pupille. Avrei voluto
interrogarla con quello sguardo, sapere tutto subito, ma constatai solo
che era
debole come mi aspettavo, ma sembrava stare bene.
-Ti
trovo meglio.-
-La
signora Hyuga si è
preoccupata di farmi riprendere tutto il peso che avevo perso in
ospedale.-
-Ha
fatto bene.-
Mi
voltai verso il mio genero,
e anche lui lo vidi più sano rispetto l’ultima
volta. E anche più cupo.
Non
mi guardava ben dritto
negl’occhi, ma non lo faceva mai perché era un
ragazzo molto rispettoso; in
quel caso, però, immaginavo si sentisse in colpa per quanto
era accaduto. Ammetto
che, quando si risvegliò, sulle prime, lo avevo aspramente
accusato di non
essere stato in grado di proteggerla, di averla lasciata a subire
quell’orrore,
ma poi mi ero resa conto che era stato vittima tanto quando Maki.
In
fondo al cuore non posso
perdonarlo del tutto, ma non posso certo incolparlo del tutto. In
fondo, aveva
rischiato di morire dissanguato.
-Ti
trovo bene, Kojiro-kun.-
-Buongiorno,
Akamine-san.-
Ci
chiamava tutte così; solo
con Satoru, Jin e Tomoko si permetteva più confidenza.
-Entriamo,
non restate in
piedi.-
Aprii
loro la strada, e quando
giungemmo all’ingresso fui la prima a vedere il volto di
pietra di Moe-san;
questa mi lanciò solo uno sguardo, deciso, rivolgendo subito
dopo gli occhi
alla coppia alle mie spalle. Mi resi conto che potevo difenderli ben
poco dalla
sua presenza, dato che comunque era la direttrice della locanda; ero
pertanto
costretta a mettermi da parte, ma restai accanto a mia figlia, decisa
comunque
a darle il mio appoggio.
Questa
e suo marito
s’inchinarono, rispettosi, ma subito notai che Kojiro
soffriva in quella
posizione, aveva corrucciato lo sguardo e stretto i denti; Maki,
accanto a lui,
sembrò sostenerlo ulteriormente mentre mia cognata parlava.
-Spero
sia chiaro, Hyuga, che
questo è un gesto molto generoso da parte della famiglia
Akamine: il ryokan è
fatto per ospitare clienti, non è una clinica dove far stare
i malati.-
Mia
figlia si fece subito
avanti a testa alta, alzando suo marito dall’inchino senza
ricevere nessun
permesso dalla zia.
-Con
il dovuto rispetto,
Oba-sama, mio marito fa fatica a stare inchinato a lungo. Inoltre
questo “gesto
generoso” ci è stato offerto da mia nonna, non da
voi.-
-Come
sempre sei molto
impertinente, Maki. Mi aspetto per lo meno che tu riprenda le tue
mansioni qui
al ryokan.-
Questa
volta fu mio genero a
prendere la parola.
-Oba-sama,
mia moglie in
questo periodo deve stare in assoluto risposo secondo i medici, ed
è quello che
ho intenzione di farle fare.-
-Tu
non sei stato
interpellato.-
Purtroppo,
la gerarchia nella
nostra famiglia, è molto stretta, e il genero può
parlare alla parente più
anziana solo se fosse stato interpellato, specie se si tratta di una
parente
stretta della capo famiglia. Tuttavia, io avevo più o meno
la stessa età di
Moe, pertanto non esitai a prendere la parola a mia volta.
-Moe-san,
stai esagerando: non
sono degli estranei, sono tua nipote e suo marito.-
-Natsuko,
mi rendo conto che
sei preoccupata per tua figlia, ma devi capire che questo non
è un ospedale, ma
una locanda, e noi abbiamo del lavoro da fare, non possiamo prestargli
la
nostra attenzione.-
Maki
rispose spazientita e un
po’ nervosa, potevo percepire la sua rabbia che cresceva.
-Ce
la caveremo da soli.-
-Ah
si? E allora perché non
vuoi lavorare?-
Rimasi
scioccata dalla
frecciatina di mia cognata; voleva farla arrabbiare, per poterla poi
sgridare e
farla tacere. Presi velocemente la mano di mia figlia, stringendogliela
per
farle capire di non rispondere, di aspettare; invece, fu il marito a
farsi
avanti, anch’esso con aria rabbiosa.
-Perché
sono io ad
impedirglielo.-
-Ma
certo. Sei tu.-
Disse
quella frase con
talmente tanto disprezzo che vidi chiaramente gli occhi di mia figlia
infiammarsi e bruciare di rabbia, tanto che la mia presa sulla sua mano
fu
molto più debole di quella con cui afferrò il
marito, ricambiata da questo.
-Se
questo è il trattamento
che ci spetta, allora ce ne andiamo più che volentieri. Non
vogliamo certo
disturbare il vostro lavoro.-
-Maki!-
-Come
ti permetti?!-
-Basta
così!-
Ci
voltammo tutti, e vidi
Tomoko, Satoru, Jin e la nonna in piedi sul corridoio;
quest’ultima rivolse uno
sguardo molto duro alla figlia, ancora in posizione seiza.
-Moe,
capisco che sei
preoccupata per la gestione della locanda, ma se provi a prendertela di
nuovo
con i miei nipoti dovrò prendere provvedimenti, sia chiaro.-
Le
sue parole bastarono a
calmare gli animi di tutti i presenti, io ero particolarmente sorpresa
da
quelle dure parole: era raro sentire Akamine-san così,
specie nei confronti
della figlia, che amava profondamente.
Vidi
mia cognata sorpresa, per
poi chinare la testa obbediente, alzandosi con la scusa del lavoro ed
allontanandosi mentre la nonna spalancava le braccia per abbracciare
Maki e
Kojiro.
-Benvenuti,
benvenuti miei
cari.-
Mia
figlia ricambiò con grande
affetto, e persino sul volto del mio genero apparve un sorriso grato.
-Che
bello vederti nonna.-
-È
bello vedere voi, cara. E
tu, Kojiro? Come stai?-
-Grazie
dell’ospitalità,
Akamine-san.-
-Kyoko,
per te sono Kyoko,
chiaro?-
Lui
annuì, anche se sapevamo tutto
quanti che ci sarebbe voluto tanto tempo prima che mio genero si
permettesse di
chiamare per nome mia suocera. Questa scosse il capo, rivolgendosi poi
ai due
nipoti accanto a mio marito.
-Forza
Tomoko, Jin,
accompagnateli nella loro camera.-
-Subito
nonna!-
-Certo.-
Kojiro
volle l’aiuto solo di
sua moglie per salire il gradino, e poi poté procedere da
solo, continuando a
restarle vicino, silenzioso ma con la mano che teneva saldamente quella
di
Maki.
Li
guardai attenta, tornando
verso gli appartamenti privati assieme a mia suocera, questa volle la
mia
compagnia dentro il piccolo salottino mentre mio marito su allontanava,
molto
probabilmente a parlare con sua sorella: lui cercava sempre di
parlarle, di
calmarla, di raggiungere una pace comune dopo ogni litigio. Era sempre
stato un
“portatore sano di serenità”, come
qualche nostro amico lo giudicava.
Portai
ad Akamine-san il tè e
qualche biscotto secco, accomodandomi al suo fianco; qualche momento
dopo ci
raggiunse Satoru.
-Ho
parlato con Moe. Beh, ci
ho provato.-
La
nonna si limitò a scuotere
il capo mentre lui si accomodava accanto a me. Gli preparai subito una
tazza di
té, lasciando parlare con la madre.
-Mamma,
so che ti è difficile,
ma devi cominciare a considerare che questo suo comportamento non
è più
accettabile: Maki non è più una bambina,
è sposata. Senza contare il suo
attuale stato di salute.-
-Fin
quando io sarò qui, Moe
non potrà prendersela con loro.-
Non
potevo biasimarla per quel
suo atteggiamento: nei suoi panni, con quello che aveva vissuto Moe,
forse mi
sarei comportata allo stesso modo. Ma si trattava della
serenità di mia figlia,
e soprattutto del suo recupero fisico e mentale, pertanto mi feci
avanti a mia
volta.
-Non
puoi proteggerle per
sempre, nonna, e loro non vogliono essere protette. Soprattutto Maki.-
-Lo
so, mia cara, ma adesso
siamo noi i loro protettori, almeno fino a quando non si riprenderanno.
E non
mi riferisco solo alle ferite fisiche.-
Annuii,
non avendo argomenti
con cui ribattere.
Personalmente
ringrazio i kami
dell’avere ancora una figlia, ma mi era capitato, in quei
giorni, di sentire
alla televisione di vittime di violenze sessuali, e uno dei loro
problemi più
grandi era l’incapacità di riuscire ad avere
contatti fisici con le altre
persone, specie i maschi. Certo, non era l’unica conseguenza,
ma di certo era
la più evidente.
Mi
chiesi se tra loro, stava
andando tutto bene, se quel contatto fisico era dovuto solo alle loro
difficoltà fisiche. Non potei pensare altro che sentii
bussare alla porta, e
vidi mia figlia entrare e chiudere lo Shoji alle sue spalle, sedendosi
con noi
al tavolino.
-Posso?-
-E
devi chiederlo? Vieni pure,
raggio di sole.-
Mia
suocera l’aveva sempre
chiamata a quel modo, fin dal primo giorno che era venuta al mondo, ed
era il
suo nomignolo nei confronti di mia figlia. Fece gli onori di casa
mentre io
preparavo un’altra tazza di té, e fu sempre lei a
parlare a Maki.
-Kojiro?-
-Si
è sdraiato, la ferita gli
fa leggermente male per via dell’inchino, ci raggiunge fra
poco.-
-Mi
spiace molto. Dimmi, come
state?-
-Non
bene, ma ce la caveremo.-
Dopo
aver posato la tazza sul
tavolo cercai la mano di mia figlia, stringendogliela e parlandole con
calma,
nonostante fossi impaziente di parlarle io. In verità avevo
uno gran voglia di
abbracciarla, di stringerla a me, ma non sono mai stata troppo capace
nei gesti
affettuosi, perciò mi feci bastare la sua mano.
-Il
medico ti ha detto qualche
novità?-
Lei
scosse il capo, cercando di
sorridermi, stringendo le sue dita sulle mie, sforzandosi persino di
sorridere.
-Ancora
niente. Credo che
dovrò accettare la possibilità di essere
diventata sterile.-
Mi
sentii male, e istintivamente
la invitai, con la mano libera, a posare il suo capo sulla mia spalla,
posando
la mia guancia fra i suoi capelli: aveva sempre desiderato avere una
famiglia,
soprattutto avere dei figli; avevo riconosciuto quel desiderio in fondo
agl’occhi, e glielo avevo sempre visto brillare assieme alla
passione per lo
sport e l’amore per Kojiro.
Ma
ora quella stella si stava
spegnendo nel mare nero dei suoi occhi. Maki mi aveva sempre ricordato
il mare che
si affacciava sulla locanda.
Come
madre, di fronte a quella
rassegnazione, cercai di ribellarmi, non potevo permettere a mia figlia
di
perdere la fiducia nei suoi sogni, non dopo tutti gli sforzi che aveva
sempre
fatto per essere positiva. Le parlai a bassa voce, ma mettendo tutta la
convinzione che possedeva in ogni mia singola parola.
-Sono
sicura che le cose
andranno per il meglio, non è ancora detta
l’ultima parola. Intanto facciamo
passare questo mese, e poi vediamo le analisi cosa ci diranno, va bene?-
Lei
annuii, ma percepivo
chiaramente che le mie parole non la stavano convincendo. Mi sentivo
abbattuta,
perché come madre non stavo riuscendo a dare speranza alla
mia unica figlia.
Mia
suocera, a quel punto,
venne in mio soccorso.
-Andrà
tutto per il meglio,
raggio di sole. Io lo so, me lo ha detto Amaterasu.-
Una
volta si pensava che la
moglie del capo-famiglia potesse avere, delle volte, dei messaggi da
parte
della dea del sole in sogno; addirittura, Akamine-san era solita
raccontare di
quando, da giovane, aveva perfino incontrato Amaterasu, ancora prima di
diventare parte della famiglia. E anche se, con il tempo, quella era
diventata
una leggenda, delle volte le sue “predizioni” si
avveravano.
Pertanto
quelle parole mi
spinsero a stringere maggiormente le dita di mia figlia; la vidi
annuire,
questa volta la tristezza le si stava posando sugl’occhi, e
d’istinto le accarezzai
i capelli, guardandola passarsi subito una mano sul volto, per cercare
di
togliersi le lacrime.
Il
braccio con cui le
accarezzavo i capelli si strinse attorno alla sua spalla.
-Guarda
che puoi piangere,
tesoro. Ci siamo noi con te.-
-Lo
so mamma, ma voglio … non
voglio piangere. Voglio essere forte, anche per Ko.
Lui
… lui si sente così in
colpa, non so che fare per aiutarlo.-
Anche
in quel momento, la mia
bambina pensava all’uomo che amava; lo ammetto, un
po’ invidiai Kojiro, ma al
tempo stesso mi fece una grande tenerezza, e le sussurrai
all’orecchio,
facendomi il più vicino possibile a lei.
-Vedrai
che con il tempo le
cose si aggiusteranno, dovete solo darvi tempo.-
Le
accarezzai la schiena,
sentendola annuire sulla mia spalla, e chiusi gli occhi, godendomi quel
momento: quando era piccola, consolavo Maki tenendola stretta tra le
mie
braccia. Quando fu più grande, la lasciavo appoggiarsi sulle
mie gambe, e io le
accarezzavo la schiena e i capelli, lasciandola sfogare; adesso era una
donna,
e quei momento in cui potevo coccolarla erano diventati così
rari che, anche se
era un momento triste, volevo godermelo più che potevo.
Era
calda, tra le mie braccia,
e sentii il suo respiro farsi traballante, e il pianto iniziare a
crescere; le
sussurravo all’orecchio, le accarezzavo i capelli, le guance
e la schiena, e
pian piano la sentii stringersi sempre più forte a me,
commuovendomi.
La
mia piccola guerriera, la
mia amatissima bambina.
**
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Capitolo 4 *** 3: A casa ... la madre di Lui ***
3. A casa … la
madre di Lui
Il
telefono squillò mentre stavo
lavando le stoviglie, io e i miei figli avevamo appena finito di
cenare; sapevo
perfettamente chi era, quello era il solito orario in cui Kojiro mi
contattava.
Che fosse all’estero o in Giappone chiamava sempre per
l’ora di cena, quando
tutti noi eravamo in casa.
E
sapere che, ancora una
volta, ci stava chiamando, mi rese ancora più felice, anche
se non potevo
rispondergli perché avevo le mani bagnate.
-Naoko,
per favore rispondi
tu, è Kojiro.-
-Si!-
Inoltre
lasciavo sempre che
parlasse prima con i suoi fratelli, anzi delle volte lo sgridavo se ci
parlava
troppo poco: ero e sono sempre stata convinta che il loro legame
affettivo li
avesse sempre aiutati ad andare avanti, nella loro vita e nei loro
sogni. La distanza
fisica poteva essere colmata dall’affetto, elemento che
fortunatamente non è
mai mancato nella nostra piccola famiglia.
Per
questo, anche quando erano
lontani fra di loro, ho sempre fatto in modo che si parlassero e si
vedessero.
Credo sia uno dei compiti di una madre con molti figli.
Ascoltai
quindi con piacere
Naoko che bisticciava con gli altri fratelli per poter avere la
cornetta, e
alla fine usarono il vivavoce, il tono di mio figlio si
propagò per tutta la
stanza fino alla cucina.
>Ciao
ragazzi!
-Non
esagerate con il volume
bambini.-
-Si
mamma!-
Li
chiamavo ancora “bambini”,
nonostante fossero tutti e tre adolescenti, perché sapevo
che così mi avrebbero
obbedito; difatti, la voce di mio figlio risuonò molto meno,
ma già ascoltando
le sue prime parole in lontananza, avvertii che ancora non stava bene,
e che
tanto doveva essere ancora fatto.
Pertanto
calmai la mia
impazienza nel parlargli con un profondo respiro, terminando di lavare
le poche
stoviglie rimaste nel lavabo.
Fui
la prima ad essere
contattata, quella sera. Quando venni a sapere di quanto era successo,
mi
precipitai in ospedale, raccomandando Masaru di restare a casa con
Naoko invece
di uscire con i suoi amici; una volta giunta mi informarono che
entrambi erano
in sala operatoria, e che l’unica cosa che mi toccava fare
era aspettare. La prima
cosa che feci fu pregare mio marito e i nostri defunti parenti; li
pregai tutti
quanti, chiedendo loro di proteggere Kojiro e sua moglie, di fare in
modo che
superassero entrambi l’operazione.
Poi
dovetti telefonare agli
Akamine. Era una cosa per me molto rara: solitamente erano loro a
chiamare, per
fare gli auguri a capodanno o in altre festività, e
solitamente ascoltavo e
ringraziavo la capo famiglia e la madre di mia nuora con piacere.
Stavolta,
invece, ero io a
dover comporre il numero, davanti a me un’infermiera che
assisteva alla scena,
pronta in caso a prendere il mio posto se non me la fossi sentita. Ma,
nonostante mi tremassero visibilmente le dita, riuscii a comporre il
numero, e
a chiedere di parlare direttamente con la signora Akamine.
Ricordo
la sua voce sorpresa
che, per un attimo, mi spinse a chiudere la conversazione: mi ricordava
me
quando persi mio marito, lo stesso ingenuo stupore, e pensai che le
avrei
procurato uno spavento molto simile, se non pari. Le parlai cercando,
inutilmente, di non far tremare la mia voce, e lei reagì
allo stesso modo,
prendendosi tempo prima di rispondermi, informandomi che lei e i
genitori di
Maki sarebbero arrivati il prima possibile.
Dopodiché
rimasi in attesa
della fine dell’intervento, con il tempo che mi scorreva
addosso, ed io che mi
tramutavo in una statua, anche il mio respiro si faceva sempre
più basso, quasi
a spegnersi. In quegl’istanti, pensai seriamente che non ce
l’avrei fatta ad
andare avanti nella vita, se mi fosse stato portato via anche Kojiro.
Le
voci dei miei figli che
ridevano mi destarono da quel cupo ricordo, e mi resi conto di aver
lasciato
scorrere a lungo l’acqua del rubinetto; finii velocemente di
lavare l’ultima
ciotola, poggiandola sullo scolapiatti, guardando le varie stoviglie,
con le
bacchette da un lato, assicurandomi che tutte fossero state pulite
bene.
Cominciai a togliere il sapone dal lavandino, asciugando il lavello con
una
spugnetta.
Solitamente
i miei figli
facevano a turno per lavare i piatti, ma quella sera erano tutti
tornati tardi
dalle loro attività, così li avevo lasciati
“a riposo”. Accanto al lavandino
c’erano i loro bento puliti e asciutti, pronti per essere
usati il giorno dopo;
erano solo tre, ovviamente, ma il quarto non l’ho mai
buttato: è nascosto in
una delle credenze della cucina, lontano da sguardi indiscreti. Delle
volte, lo
ammetto, mi piace tirarlo fuori, aspettando il giorno per poterlo
riusare.
La
sua stanza era ed è ancora
in ordine, come l’ultima volta che ci era venuto, e
l’unica cosa che è cambiata
è l’aggiunta di un secondo futon, nel caso venga
accompagnato da Maki;
ovviamente, questo l’ha resa ancora più piccola.
-Mamma!!
Kojiro vuole
parlarti.-
Naoko
interruppe il flusso dei
miei pensieri, apparendo dalla porta senza bussare, com’era
solita fare
ultimamente; mi asciugai le mani con il grembiule, dirigendomi verso il
telefono, afferrando il cordless e annullando il vivavoce. Quello era
uno dei
regali che mio figlio ci aveva fatto un Natale, quando era dovuto
rimanere in
Italia; la prima volta che lo usammo, i “bambini”
furono così emozionati da
parlarsi uno sopra l’altro diverse volte, tanto che la
telefonata fu caotica,
ma molto divertente.
-Naoko,
la prossima volta devi
bussare, chiaro?-
-Ops,
scusa mamma.-
-Vai
a farti il bagno.-
Obbedì
con un sorriso,
scomparendo dietro la porta, dov’erano già andati
i suoi fratelli, li sentii
discutere fra loro, il che mi spinse a sporgermi fuori
dall’uscio, per
richiamarli.
-Ragazzi,
che succede?-
Vidi
la testa di Takeru uscire
fuori dalla sua stanza, seguita subito dopo dall’aria
imbronciata del maggiore.
-È
Masaru!-
-Cosa?!
Adesso io …-
-Basta.
Masaru, lascia stare
tuo fratello. E lo stesso vale per te Takeru.-
Non
replicarono, scomparendo
dietro la porta. A quel punto presi fiato e posai l’orecchio
alla cornetta.
-Kojiro?-
>Ciao
mamma.
-Scusami,
dovevo calmare i
tuoi fratello.-
>Non
preoccuparti.
La
sua voce era bassa, non
sembrava voler farsi sentire. Il suo tono era cupo, immerso nei
pensieri.
-Come
stai tesoro?-
>Meglio,
grazie.
Era
sempre stato di poche parole
quando si trattava delle sue condizioni fisiche. Ma, anche con quelle
poche
parole, capii che i problemi non riguardavano la sua ferita o il suo
corpo.
-La
ferita ti fa ancora male?
Riesci a piegarti?-
>…
la mattina fa un po’
male, ma prendo gli anti-dolorifici.
-Li
prendi? Senza fare
storie?-
Giocai,
sperando di fargli
uscire un sorriso. Sapevo di chi era il merito, e sorrisi nel sentire
mio
figlio sbuffare “apparentemente” infastidito:
odiava prendere medicine, anche
quando si trattava di un febbrone da cavallo. E soprattutto odiava che
gli
altri l’obbligassero a prenderle, anche con me faceva le
storie.
>…
Maki mi aiuta a
ricordarmi di prenderle.
-Bene.-
Lo
sentii sbuffare di nuovo, e
ridacchiai, ero così sollevata di poter prendere in giro mio
figlio, invece di
piangerne la morte. Ed ero così sollevata che accanto a lui,
in nostra assenza,
ci fosse una persona come sua moglie.
-Maki
come sta?-
E
lì lo sentii incerto; la mia
serenità si affievolì, ricordando come avevamo
iniziato la nostra conversazione,
e trovando in quella pausa la fonte dei suoi pensieri.
Sentii
i miei altri figli
vociare ancora una volta, e cauta andai a chiudere la porta sempre
aperta,
limitandomi ad ammonirli ancora una volta.
-Non
alzate la voce ragazzi, sono
ancora al telefono.-
-Scusaci
mamma!-
-È
colpa di Masaru!-
-La
vuoi smettere?!-
-Basta!-
Li
sentii ammutolirsi, e ne approfittai
per chiudere del tutto la porta e tornare in cucina, avvicinandomi alla
finestra sopra il lavabo, in quel momento era aperta a far cambiare
aria.
Mi
accomodai su una sedia lì
vicino, slacciandomi il grembiule e tenendolo sulle gambe.
-Scusami,
i tuoi fratelli
bisticciano ancora come bimbi.-
>Come
se la cavano? Ho
sentito Masaru un po’ nervoso…
-Il
fatto è che sta pensando
di cercarsi subito un lavoro dopo la scuola, e per il momento la
ricerca non lo
sta soddisfando.-
>Non
credi che sia un po’
presto per lui trovarsi un lavoro?
-Ti
ricordo che tu ne facevi
almeno due quando eri solo alle medie.-
>Era
una situazione diversa
…
-Non
importa: fu una tua
scelta, che io non riuscii a farti cambiare nonostante fossi tua madre.
Credi
che ci riuscirei con un ragazzo più testardo di te?-
Masaru,
dei tre maschi, ultimamente
era diventato quello più “ribelle”: non
era cattivo, ma era molto brusco, nei
modi di fare e di parlare, e ancora adesso quando ha in testa una cosa
difficilmente
cambia strada, anche se può essere completamente sbagliata.
-Comunque,
come sta Maki? Non
mi hai risposto …-
Fin
da subito io e mia nuora
entrammo in sintonia, tanto che al suo matrimonio le regalai il mio
shiro-muku,
il tradizionale capo da mettere sotto al kimono da sposa, unica cosa
che mi era
rimasta del mio completo, dato che lo avevo dovuto prendere a noleggio
e quello
era stato un regalo dei miei nonni. Lei mi promise che lo avrebbe dato
a Naoko
il giorno che si sarebbe sposata, conservandolo con cura nel frattempo.
>…
sta bene, ma dovrebbe
riposarsi di più; sua zia, la sta facendo fare lavorare, e
io sono molto
contrario al riguardo. Tuttavia Maki si ostina a farli, per non creare
litigi,
ed oggi si è sentita male. L’ho dovuto portare in
camera tenendola in braccio,
anche se … non è stato facile convincerla a farsi
trasportare …
Provai
ad immaginarmi la
scena, ma conoscendo il carattere di Maki mi rendevo conto che non era
normale
quel suo atteggiamento: sapevo del suo stato fisico, e
l’avevo sempre trovata
giudiziosa su quanto e cosa era in grado di fare.
-Capisco.
Tu ti sei fatto
male?-
>No
no, non preoccuparti.
Non so che le prende mamma: mi parla a fatica, e spesso non mi ascolta.
Ho la
sensazione che mi stia evitando, e oggi quando l’ho portata
sul futon per farla
riposare mi è sembrato che avesse paura di essere toccata da
me. Io stesso,
prima di prenderla, temevo che le avrei fatto male in qualche modo.
Io
e Natsuko ne avevamo
discusso durante il periodo ospedaliero, quando andavamo a trovare i
nostri
figli: la violenza subita da Maki, assieme alle sue particolari
condizioni
fisiche, di sicuro l’avrebbe portata ad un rifiuto della sua
stessa situazione,
o a fare finta che niente fosse accaduto.
Eravamo
entrambe preoccupate
che mi a nuora si sarebbe chiusa a riccio, negando tutto e rifiutandosi
di farsi
aiutare dalla sua famiglia, o peggio da Kojiro. E conoscendo mio
figlio, l’idea
che non potesse aiutare una persona a lui cara lo stava rendendo
frustrato ed
insicuro di sé.
Kojiro,
per quanto il suo
spirito fosse diventato forte negl’anni, è sempre
stato profondamente legato
alla sua famiglia, e con Maki si era acuito il suo bisogno di aiutarla
e di
stargli vicino; diventare … un problema per sua moglie, lo
stava agitando, e si
sentiva.
>Io
… io non so che fare
mamma!
-Lo
so tesoro.-
>Io
non voglio farle del
male, davvero! Maki … Maki è tutto per me.
Mi
faceva tenerezza sentirlo
così sconsolato, mi riportava alla mente quei rari momenti
in cui si sentiva
prendere dalla tristezza, e io lo abbracciavo più che potevo.
-So
anche questo.-
>Non
vorrei chiederti
consiglio, ma davvero non so a chi rivolgermi!
-Hai
fatto bene tesoro.
Inoltre potresti chiedere consiglio a Natsuko.-
>L’ho
fatto.
-E
cosa ti ha detto?-
>…
di avere pazienza, di
aspettare.
Una
cosa in cui mio figlio non
era molto bravo. Mi presi un momento per lasciarlo calmarsi, lo sentivo
muoversi dentro la sua stanza come un animale in gabbia, sbuffare e
borbottare;
ascoltai quel suono con gli occhi chiusi, immaginandolo davanti a me
mentre,
lentamente, rallentava il respiro e il passo, fino a parlarmi di nuovo.
>…
sei ancora in linea?
-Certo
tesoro, ma purtroppo
non posso dirti niente di più di quanto ti abbia detto
Natsuko, a parte
lasciarla fare.
Sai
più di me quanto il
momento sia difficile per Maki, quanto stia lottando; ne abbiamo
parlato, io e
sua madre, e avevamo previsto una reazione del genere. E anche tu te
l’aspettavi,
vero?-
Lo
sentii sospirare e muoversi
ancora, probabilmente si stava andando a sedere, mentre borbottava una
risposta
affermativa alla mia domanda. Mio figlio non era ignaro di quanto stava
vivendo
sua moglie, è solo che voleva risolvere con lei il problema,
cosa che al
momento non gli era permesso fare: quello di Maki era un problema
… che
coinvolgeva il suo lato più oscuro, e al momento solo lei
poteva averne
accesso.
Lanciai
un’occhiata al cielo
fuori dalla finestra, non c’erano state nuvole quel giorno ed
era ancora sereno,
potevo persino vedere una stella nonostante l’illuminazione
della strada. Presi
un profondo respiro, e parlai per prima.
-Kojiro,
io lo so che vuoi
fare qualcosa per lei, lo sento. Ma se davvero vuoi fare qualcosa,
pensa prima
a te stesso: prima starai meglio, prima potrai aiutarla.
In
ogni caso, adesso non puoi
proprio fare niente, perché è tutto nella sua
testa. E tu non sei là dentro,
non al momento.-
A
volte essere una madre
comporta anche dire cose spiacevoli ai propri figli, per aiutarli a
capire qual
è la strada migliore da prendere. E in quel momento, mio
figlio era di fronte
ad un vicolo cieco, e doveva tornare indietro. Pertanto gli dissi
quelle dure
parole, stringendo il grembiule nel pugno libero, non sentendolo
rispondere e
proseguendo.
-…
credo sia il caso che tu e
Maki vi allontaniate per qualche tempo: avete bisogno dei vostri spazi,
per
capire cosa fare adesso..-
Lo
avevo lasciato basito con
le mie parole, potevo percepirlo chiaramente: io, infatti, sono sempre
stata
quella che li ha sempre sostenuti nel loro fidanzamento, tanto da
ospitarli
quando Maki aveva deciso di tagliare i ponti con la famiglia. E sono
sempre
stata convinta che, anche dopo l’aborto, loro potessero
crearsi una famiglia
con le loro forze.
Ed
ero convinta che potevano
farcela anche in quel caso. Ma dovevano prendere la decisione
più difficile,
per quanto fosse la più “sana”.
>Ah
… mamma …
-Attento,
non sto parlando di
separarvi: semplicemente, adesso, dovete curare le vostre ferite, sia
fisiche che
dell’anima. Più di ogni
altra cosa al mondo, voglio vedervi felici insieme, ma ora non potete
esserlo.
Lo capisci, vero?-
Lo
sentii restare in silenzio,
respirando a fondo. Rimasi muta come lui, aspettando che prendesse la
parola.
>…
in caso potrei venire a
stare da voi?
Sorrisi
intenerita, ma anche
segretamente felice: speravo che mi dicesse una cosa del genere.
Dopotutto, è
mio figlio.
-Tu
puoi venire tutte le volte
che vuoi, tesoro.-
E
si ammutolì di nuovo, per
pensare. Era una telefonata piena di silenzi, ma ognuno di loro sentivo
che
conteneva un messaggio, una richiesta, una domanda.
In
tutta la sua, vita mio
figlio aveva sempre fatto da solo: da solo aveva cercato di aiutarmi,
con i
soldi e i suoi fratelli, da solo aveva inseguito e realizzato il suo
sogno. Ma
adesso sapevo che aveva bisogno di aiuto, e che stava imparando a
chiedere
aiuto.
E
per una madre non c’è niente
di più bello che aiutare il proprio figlio a crescere.
-Hai
poi telefonato al tuo
allenatore?-
>Si,
ho parlato con lui e
il presidente.
-Che
ti hanno detto?-
>…
per il momento ritengono
che la cosa più importante sia il mio recupero. Quando
sarò in grado di
riprendere gli allenamenti discuteremo del mio ingaggio.
-Quindi
… sei ancora nella
società?-
Sbuffò.
>Si,
ma con un tempo
limite: all’inizio della prossima stagione, se non ho
recuperato la forma
fisica, sarò licenziato e ingaggeranno qualcun altro.
-Si,
capisco.-
>Non
preoccuparti mamma: me
la posso cavare, non è la fine del mondo.
-Lo
so, lo so tesoro. Non sono
preoccupata per la tua situazione economica.-
Quando
il medico venne a dirmi
che mio figlio sarebbe sopravvissuto ho chinato la testa, per
ringraziare lui,
mio marito e tutti gli dei che avevano ascoltato le mie preghiere;
quando mio
figlio aprì gli occhi per guardarmi, sdraiato su quel letto
d’ospedale, sapevo
fin da quel momento che avrebbe avuto bisogno di tutto il mio sostegno
per
superare il momento.
Quando,
aprendo la porta della
camera, vidi Maki, con negl’occhi il vivo desiderio di vedere
mio figlio,
sapevo esattamente cose dovevo fare per aiutarli.
-Vieni
a casa Kojiro, resta
qui qualche tempo.-
Aspettai
paziente la sua
risposta, restando seduta sulla sedia, vicino alla finestra aperta, con
la luce
del salotto ad illuminarmi, la lampada della cucina era spenta.
>Va
bene mamma. Arriverò la
prossima settimana.
-Perfetto,
ti verremo a
prendere all’aeroporto.-
>Allora
… ah, Maki.
La
porta si aprì di scatto, e
la figura di Naoko, in salotto mi fece sobbalzare per un momento. Per
un
attimo, credevo fosse mia nuora che entrava in casa mia!
-Mamma,
il bagno.-
Presi
un respiro, restando
seduta sulla sedia.
-Adesso
arrivo. Ma devi
bussare, hai capito? Mi hai spaventato.-
-Scusami
mamma.-
Mia
figlia chinò la testa imbarazzata,
chiudendo nuovamente la porta alle sue spalle, e io mi rimisi ad
ascoltare,
sentendo i due parlarsi a bassa voce.
>Il
bagno è pronto.
>Tu
lo hai fatto?
>Si
si. Stai parlando con tua
madre?
>Si,
vuoi salutarla?
>Ah
no, ti lascio finire la
conversazione. Io vado a fare compagnia alla nonna.
>Ti
raggiungo appena ho
fatto tutto.
>Va
bene.
>…
Maki aspetta! Mamma,
resta in linea per favore.
-Certo
tesoro.-
La
voce di mio figlio si era allontana,
probabilmente aveva il cellulare poggiato sul fianco. Lo sentii
muoversi e
rivolgersi a sua moglie, e chiusi gli occhi, allontanando la cornetta
dal mio
orecchio: era una loro conversazione privata, non volevo intromettermi.
Però,
dentro di me, m’immaginai i contorni di quella scena, e le
emozioni che
potevano trapelare da essa.
Alzai
ancora una volta lo
sguardo verso la finestra, e pensai a mio marito, a come la sua
presenza fisica
mi sarebbe stata di conforto in quei momenti, e di come, nonostante
fossero
passati gli anni, delle volte mi mancasse. Mi mancava soprattutto la
sua voce:
era roca, dal timbro basso, e quando parlava mi dava sicurezza.
Forse,
in questi momenti,
sarebbe stato un grande conforto per Kojiro.
>Mamma?
Sei ancora in
linea?
…
La voce di mio figlio
assomiglia molto a quella di suo padre.
-Si,
eccomi.-
>Scusami,
stavo parlando
con Maki. Ti saluta.
-La
ringrazio, tu porta i miei
saluti alla signora Akamine.-
>Lo
farò. Allora vengo il
prossimo fine settimana, ti farò sapere il giorno specifico.
-Va
bene.-
>…
grazie mamma.
Sorrisi.
-Buonanotte
tesoro.-
Chiusi
la telefonata, e rimasi
seduta sulla sedia, guardando la cucina, illuminata dalla lampada del
salotto:
era piccola, come la stanza accanto, ma mi sembrava immensa e vuota in
quei
momenti di silenzio.
Mi
alzai lenta, riposi il
grembiule, e mi diressi verso il bagno; dalle camere dei miei figli
sentii voci
e risate, e mi avvicinai alla porta socchiusa, per sbirciare Takeru e
Masaru.
Come al solito bisticciavano, ma per il momento non mi sembrava di
dover
intervenire.
Andai
alla porta di mia figlia,
anche questa socchiusa, e la vidi sfogliare una rivista,
l’asciugamano sulle
spalle. Bussai leggermente prima di entrare.
-Naoko,
togliti l’asciugamano
che bagni il pigiama.-
-Si
mamma.-
Mi
rispose con tono annoiato,
ma sorrisi divertita, approfittando della novità per
cambiarle l’umore.
-Ah,
lo sai che prossima
settimana arriva Kojiro?-
-Eh?!
Davvero?!-
La
vidi animarsi all’istante,
gli occhi le brillarono, e si alzò con le braccia dal letto
per guardarmi meglio.
-Ancora
non mi ha detto
l’orario preciso. In caso andiamo a prenderlo insieme, ti va?-
-Si!!
Vado a dirlo agl’altri!-
Si
fiondò fuori dalla stanza,
correndo nella stanza dei fratelli. Anche loro si animarono, forse
Takeru più
di Masaru, il piccolino aveva sempre avuto una forte ammirazione il
fratello
maggiore; mia figlia, poi, schizzò di nuovo fuori dalla
stanza, ancora animata.
-Maki-chan
viene con lui?!-
-No,
per questa volta ci sarà
solo Kojiro. Ha bisogno di riposare.-
La
vidi stupirsi di
quell’informazione, e subito lo sguardo di spense. Anzi, si
fece turbato.
-Va
tutto bene mamma?-
Era
diventata sensibile
crescendo, aveva imparato a percepire quando le cose avevano una
“strana piega”,
come diceva lei; le accarezzai il viso, sorridendole.
-Credo
di no, tesoro. È per
questo che tuo fratello viene a stare qui senza Maki. Vedi di lasciarlo
riposare, va bene?-
Annuii,
un po’ preoccupata, e
la lasciai andare in camera sua, dirigendomi in bagno. Qualche minuto
dopo ero
immersa fino al collo nell’acqua bollente, respirando a fondo
e rimuginando su
quanto era accaduto.
Il
vapore che saliva sul
soffitto, le mattonelle chiare, la stanza piccola, la finestra aperta
con la
zanzariera montata. Il silenzio di quella stanza, l’assenza
di rumori
dall’esterno; l’odore del sapone alla pesca che
piaceva tanto a mia figlia.
Appoggiai
la testa al bordo
della vasca, sentendo la stanchezza ammorbidire le mie membra, tenevo
gli occhi
aperti per non rischiare di addormentarmi.
Riuscii
a vedere nuovamente
una stella oltre la zanzariera nera. Gli diedi una preghiera,
immaginando che
fosse mio marito.
“Aiutiamo
nostro figlio possa
ritrovare la serenità, va bene?”
Il capitolo non è dei
più felici, ma come vi ho già, detto,
questa storia avrà diversi momenti
“difficili”: i temi che tratto, questa volta,
sono molto delicati, e li sto cercando di prendere con il massimo
rispetto. Il
prossimo vi prometto che sarà un po’
più leggero, anche perché cambiamo
nuovamente il punto di vista; a tale proposito, cosa ne pensate di
questa
particolarità dei capitoli? Vi piace o vi confonde? Ci tengo
molto al vostro
parere.
Al prossimo aggiornamento!
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Capitolo 5 *** 4: Nel giorno di Mukaebi ... la cugina di Lei ***
4. Nel giorno di Mukaebi
… la cugina di Lei
-Maki!
Andiamo a vedere le
lanterne stasera?!-
Glielo
gridai sporgendomi dal
pavimento esterno del ryokan, senza scendere perché non mi
ero portata dietro i
miei sandali; la vidi girarsi sorpresa verso di me mentre stendeva i
panni,
riconobbi sul filo il mio kimono viola con il suo obi accanto.
Aveva
addosso un Irotomesode
verde, uno dei miei preferiti perché quel colore le stava
davvero bene, e per
di più il suo obi aveva dei bellissimi decori floreali; da
quando era tornata
alla locanda, ogni giorno, usava un kimono diverso, ma quello era il
più bello.
Mi aveva promesso che, quando non lo avrebbe più dovuto
usare, me lo avrebbe
passato.
Si
avvicinò verso di me con il
lenzuolo da stendere tra le mani, con l’aria confusa.
-Le
lanterne?-
-Si,
per il Mukaebi!-
Vidi
suoi occhi aprirsi
leggermente, sembrava essersi finalmente ricordata di uno dei
festeggiamenti
più importanti per la nostra famiglia. Ultimamente aveva
l’aria sempre persa,
anche se non mancava mai i suoi doveri per quanto la zia fosse
contraria.
-…
ah giusto, siamo in periodo
Bon.-
-Allora,
ci andiamo? Ci
andiamo?-
Era
da tanto che non andavo ad
un festival con mia cugina, morivo dalla voglia di andarci!
Da
quando si era sposata,
ovviamente, le nostre uscite si erano drasticamente ridotte, pertanto
volevo
sfruttare ogni occasione possibile quando veniva a trovarci. Quando
venni a
sapere che si sarebbe fermata più della solita settimana,
quasi ero saltata
dalla gioia, tanto che Oba-sama mi sgridò immediatamente.
Lei
sorrise divertita.
-Va
bene, va bene.-
-Evvai!-
-Tomoko,
abbassa la voce! Non
siamo in piazza.-
Mi
voltai spaventata, temendo
che fosse Oba-sama, di sicuro mi avrebbe messa in punizione; con
sollievo,
invece, riconobbi la zia Natsuko. Aveva in mano il cestone con altra
roba da
stendere, e mi stava lanciando una chiara occhiataccia mentre si
avvicinava
agli scalini, spingendomi ad allontanarmi perché ero in
mezzo al percorso.
-Scusami
zia.-
Questa
annuì, scendendo gli
scalini e avvicinandosi a Maki, la quale sorrideva con aria divertita.
Nel vedere
la figlia, le vidi sciogliere l’espressione, e mi
tranquillizzai: quando ero
assieme a Maki, anche se venivo sgridata poi nessuno restava a lungo
arrabbiato
con me.
-In
ogni caso se volete andare
al Mukaebi dovete tornare prima delle undici.-
-Cosa?!
Ma ci sono i fuochi a
quell’ora!-
-E
dovete andarci
accompagnate, dallo zio o da Jin, chiaro?-
-Ma
zia!-
-Niente
discussioni. Ecco
l’ultimo bucato.-
-Faccio
io mamma.-
-Piano,
piano.-
La
zia stava attenta a non far
prendere a Maki grandi pesi, l’aiutava ad appoggiare o
spostare il cesto del
bucato, non le faceva prendere più di due vassoi alla volta,
così come i futon.
E ogni volta mia cugina non era contenta di
quell’atteggiamento.
-Mamma
ce la faccio, non mi
sono fatta male alle braccia.-
-Meglio
essere prudenti. Dai
ti do una mano a stendere.-
-Non
dovresti cominciare a
preparare i dolci per domani? Non andiamo al cimitero?-
-Si,
ma per quelli c’è tempo.-
Mi
misi seduta sul
camminamento esterno del ryokan, facendo ondeggiare i piedi, ed
osservai le due
figure davanti a me: parlavano fra di loro con voce decisamente
più composta
della mia, e i loro movimenti sembravano fatti apposta per disegnare
disegni e
figure nell’aria, come se stessero raccontando una storia con
le mani e le
braccia.
Il
verde del kimono di Maki
era come una montagna, con i fiori dell’obi che la
ricoprivano; il viola scuro
del kimono della zia era un cielo sulla via del tramonto, il suo obi
blu
sembrava essere la superficie di un mare cupo e misterioso.
Fin
da piccola, adoravo stare
al ryokan: non era quasi mai a casa, così come mio padre, e
da piccola mi
lasciavano sempre da Oba-sama e la nonna alla locanda. Lì
imparai ad amare i kimono,
anche se non ero mai stata brava a metterli o legarli, e anche quando
davo una
mano ero molto maldestra e goffa; invece ammiravo tanto Maki, quel
mondo era
parte di lei, tanto che quando la vidi giocare a softball la prima
volta,
rimasi davvero spiazzata.
-Forse
è meglio che andiate
con Satoru e Jin assieme.-
-Possiamo
anche andare da
sole.-
-No,
assolutamente no.-
Vivi
la zia irrigidirsi immediatamente,
e lo sguardo di Maki farsi più cupo. Abbassarono le voci, ma
io potei sentirle
comunque, dato che in quel luogo ti abituavi facilmente al silenzio e
ai rumori
bassi.
-Mamma
sarà pieno di gente,
non ci accadrà niente.-
-Non
lo puoi sapere!-
Zia
Natsuko si voltò verso la
locanda. Aveva alzato la voce, ma era impossibile che qualcuno
l’avesse
sentita. Si rivolse di nuovo a Maki con voce più bassa.
-Ti
prego, vai almeno con
Jin.-
Da
quando mia cugina era
tornata dall’ospedale la zia le stava molto addosso, almeno
così mi sembrava:
allora non mi dissero subito quello che mi accade, mi dissero solo che
aveva
avuto un brutto incidente con suo marito, e che doveva assolutamente
stare al
ryokan per riposarsi; eppure, pochi giorni dopo il suo arrivo, Oba-sama
l’aveva
rimessa subito al lavoro.
E
poi, una settimana dopo il
suo arrivo, Kojiro-san era tornato dalla sua famiglia. Il motivo io non
lo
sapevo, ma mi sembrava una cosa davvero strana, non era il caso che
stesse con
sua moglie?
-Appena
hai finito di stendere
voglio che tu vada a riposare, chiaro?-
-Non
posso: Oba-sama mi ha
ordinato di andare a fare la spesa.-
-Ah,
questo è troppo! Adesso
le vado a parlarle!-
-Mamma
ti prego, non
ricominciare.-
-Tu
sei mia figlia e al
momento non stai bene.-
Vidi
la zia Natsuko togliersi
furiosa i suoi sandali, e io mi scansai rapidamente, temendo stavolta
di finire
davvero schiacciata dal suo passare; neanche mi rivolse lo sguardo, e
si
allontanò lungo il corridoio, entrando dentro la locanda. Mi
voltai verso Maki,
e la vidi sospirare con aria abbattuta, rivolgendomi poi lo sguardo ed
un
sorriso.
-A
quanto pare non riesco a
farmi ascoltare.-
-La
zia è preoccupata per te.-
-Già.
A proposito, domani
vedrai tua madre, no?-
Mia
madre lavorava all’interno
di un’azienda, era in un posto alto della gerarchia ma ancora
adesso non mi
ricordo bene cosa facesse. Io annuii, non mi ricordavo che il giorno
dopo, come
tutti i Bon, c’era la visita alla casa patronale: a me
interessava la festa, le
lanterne, il cibo, la gente. E soprattutto passare del tempo assieme a
mia
cugina.
Lei
mi lesse nel pensiero, com’era
sempre stata capace di fare.
-Non
mi sembri entusiasta di
vederla, qualche problema?-
-Ah
no, no. È solo che … se ti
crea troppo disturbo possiamo non andare stasera.-
In
quel periodo venivo spesso
rimproverata di stancare troppo Maki, o di darle troppo disturbo, e i
momenti
in cui potevamo stare solo io e lei si erano ridotti.
E
dire che, nella famiglia,
era la mia unica amica: la famiglia Akamine tendeva ad essere isolata
dal resto
del mondo, e a parte la scuola avevo pochi momento con cui stare con le
mie amiche.
Vidi
Maki sorridermi.
-Non
preoccuparti: ho voglia
di uscire da qui. Vorrà dire che andremo assieme a Jin.-
-Assieme
a Jin?!-
-Non
ti piace Jin?-
Al
contrario: mi piaceva
eccome, tantissimo. Ma era più piccolo di me di almeno due
anni, e oltretutto
lui stravedeva per Maki, lo vedevo chiaramente; probabilmente anche per
quel
motivo volevo passare più tempo con mia cugina che con lui.
Pensavo che, in
quel modo, avrei imparato ad essere aggraziata come lei.
-Jin
è infantile, di sicuro
farà storie per accompagnarci.-
-Tranquilla,
se glielo chiederò
io non potrà dire nulla.-
Già,
era quello che non mi
piaceva molto.
-Ma
se preferisci, possiamo
chiedere a mio padre.-
-No
no!-
Lei
sorrise divertita, e io
arrossii, avevo fatto proprio una bella figura, ero sicura che lei
sospettasse
qualcosa. Ed io che cercavo sempre di non darlo a vedere! Non ero
proprio
capace a dire le bugie.
-Bah,
non importa; che sia Jin
o lo zio, tanto io mi godrò le lanterne.-
-Forse
è il caso di prepararne
una assieme.-
L’ultima
volta che avevamo
fatto le lanterne insieme era stato due anni prima, pertanto la guardai
speranzosa:
mi era sempre piaciuto fare le lanterne dell’Obon, e farle
con Maki
addirittura!
-Davvero?!
Ti andrebbe?!-
-Ma
certo!-
Quasi
ricominciavo a
saltellare di gioia, e mi alzai in piedi, trattenendo
l’entusiasmo per cercare
di organizzare il tutto.
-Grande,
allora io …-
-Come
ti permetti?!-
-Mi
permetto eccome!!-
Mi
voltai a guardare la
locanda sorpresa: sentii chiaramente le urla delle mie due zie, e mi
ricordai che
zia Natsuko era andata a litigare, ancora una volta, con zia Moe;
ultimamente
accadeva una volta a settimana, circa da quando Kojiro se
n’era andato da
quella casa. Credo fossero le prime, vere urla che avessi mai sentito
nella
locanda dalla prima volta che ci andai da bambina.
-Questa
è una locanda!-
-Ma
lei è mia figlia! Non ti
permetto di trattarla come una serva!-
Le
loro urla si sovrapposero,
ognuna tentava di prevalere sull’altra, e si stavano
spostando verso la parte
privata, e anche se erano vicine le mura soffocavano il baccano;
sospirai,
percependo le note alte di Oba-sama oltre gli Shoji dietro di me.
-Lei
è un’Akamine, e come tale
deve compiere i suoi doveri qui alla locanda!-
Sospirai,
parlando a voce alta
a mia cugina.
-Di
sicuro andranno dalla
nonna a discutere della faccenda.-
Non
sentendo alcuna risposta
mi voltai verso Maki, e ancora una volta vidi il suo volto
profondamente
preoccupato, un’espressione così rara sul suo
volto, tanto da turbare anche me.
Da
quando era tornata, quello
era lo stato d’animo che percepivo sempre nel guardarla, una
cosa anomala, poiché
io me la ricordavo sempre sicura, spesso sorridente, come se le brutte
cose del
mondo non fossero mai state in grado d’intaccarla.
Dovevo
fare qualcosa, sentivo
il bisogno di fare qualcosa per aiutarla.
-Maki!-
La
chiami con forza, e lei si
voltò sorpresa.
-Vedrai,
andrà tutto bene! Ne sono
sicura!-
Mi
guardò per qualche istante,
con una faccia perplessa; poi annuì, senza sorridere,
rivolgendo poi lo sguardo
verso il mare. Un po’ di vento iniziò a soffiare,
e lei si sistemò i capelli
che le andavano davanti agl’occhi, li stava facendo crescere,
adesso riusciva
ad adornarli con pettini e fermagli.
D’improvviso,
davanti a me
vedevo una persona molto diversa: per quanto fosse disponibile e
allegra con
tutti noi, sentivo chiaramente che c’era qualcosa che le
pesava.
-Sorella.-
Si
voltò di nuovo verso di me.
Quando volevo rivelarle un segreto, o parlarle di cose importanti, la
chiamavo
sempre in quel modo.
-Stai
bene? Io non so cosa ti
è successo, ma sei cambiata.-
Rimase
in silenzio a fissarmi,
e vidi i suoi occhi, all’inizio, guardarmi stupiti, per poi
lasciare andare la
sorpresa, diventando tristi, bui.
-Lo
so.-
La
sua figura,
improvvisamente, mi sembrò diventare scura come un albero in
inverno, e mi
spaventai, tanto da scendere nel giardino scalza, afferrandole una
delle
maniche del kimono: avevo detto qualcosa di sbagliato? Non volevo. Non
m’importava
se gli adulti si arrabbiavano con me, ma non volevo certo che mia
cugina s’intristisse
o arrabbiasse per causa mia!
-Posso
fare qualcosa per te?-
-No,
non preoccuparti.-
-Non
dirmi anche tu di non
preoccuparmi: tutti mi dicono di non preoccuparmi, ma tu non sei felice
e
questo non mi sta bene!-
La
sorpresa, ancora una volta,
illuminò il suo sguardo, ed io insistetti.
-Voglio
andare stasera così
che possiamo divertirci. Voglio andare a vedere le lanterne con te.
Anzi,
facciamone una insieme!-
Le
strinsi la manica del
kimono con tutte le mie forze, quasi strattonandola verso di me; lei,
di
reazione, posò una sua mano sui miei capelli.
-Va
bene, va bene Tomoko.
Calma.-
Mi
resi conto di quello che
stavo facendo, e mollai subito la stoffa. Mi strinsi le mani,
sgridandomi
mentalmente.
-Scusa,
è che prima …
mi dispiace, non dovevo dirti che sei
cambiata.-
-Ma
no, no hai fatto bene.-
Accarezzò
i miei capelli, e
poi mi abbracciò, stringendomi a sé.
-Hai
fatto bene Tomoko. grazie
di preoccuparti per me.-
Respirai
profondamente, e sentii
che dal suo petto veniva l’odore del mare.
-Sorella,
sei andata in
spiaggia?-
-…
si, ci sono andata
stamattina.-
-…
la prossima volta voglio
venire anch’io.-
Avvertii
il suo corpo vibrare,
il rumore di una risata si propagò sul mio orecchio e sulla
mia faccia per il
resto del corpo. Era un rumore bellissimo.
-Hai
deciso di essere la mia
ombra anche tu, come zia?-
Annuii,
alzando ed abbassando
il capo sul suo kimono, e la sentii di nuovo ridere, divertita.
-Va
bene. Sai, preferisco te
alla zia Natsuko.-
-Ehi,
che succede?-
Mi
voltai, e vidi zio Satoru;
stavo per staccarmi, ma le braccia di Maki mi tennero ancora stretta a
sé, in
un abbraccio.
-Avevamo
voglia di
abbracciarci. Ti vuoi unire?-
-Perbacco,
volentieri!-
-Cosa?!-
Mio
zio scese i scalini, senza
però raggiungere l’erba mentre Maki mi spingeva,
pian piano, contro di lui, il
petto dell’uomo premette contro la mia schiena, e di colpo mi
sentii soffocare.
-Aaah,
le mie due ragazze!-
-Ehi,
piano! Soffoco!!-
Eppure
ci veniva da
ridacchiare a tutti e tre, e non volli per prima sciogliere
l’abbraccio, erano
così rari quei momenti nella locanda.
Alla
fine fu lo zio a
staccarsi per primo, seguito da Maki, la quale sorrise divertita
guardandomi,
evidentemente mi ero spettinata tutti i capelli. Provai a sistemarla da
sola,
togliendomi i miei fermagli, quando lei intervenne, spingendomi a
sedere.
-Aspetta,
te la sistemo io.-
E
le sue dita, veloci, sentii
che iniziavano a fare qualcosa di diverso e più complicato
da quello che avevo
addosso io cinque minuti prima.
-Ah,
zio!-
Approfittai
della proposta per
girarmi verso Satoru, il quale era già risalito. Il
movimento non disturbò
Maki, che continuò ad armeggiare, inserendo già
il primo fermaglio.
-Stasera
io e Maki andiamo al
Mukaebi, ci puoi accompagnare con la macchina?-
-Va
bene. Ma andate da sole?-
Maki
rispose più velocemente
di me.
-No,
verrà anche Jin con noi.-
-Ah,
va bene. Quando volete
tornare a casa mi chiamate, va bene?-
-Si!!
Maki, ci mettiamo lo
yukata?-
-Se
vuoi ti aiuto a
mettertelo. Io voglio assolutamente mettermi un paio di pantaloni.-
Un
po’ mi dispiaceva, però
sapevo che, per quanto fosse bella con gli abiti tradizionali, a mia
cugina
piaceva tantissimo andare in giro con i jeans, o comunque i pantaloni
in
generale. Pertanto annuii, restando poi ferma, gustandomi le dita di
mia
sorella che mi sistemavano l’acconciatura.
-Ah,
papà!-
Lo
chiamò alzando la voce, e
lo zio si sporse dalla porta scorrevole.
-Si?-
-Per
favore, puoi portarmi in
camera il materiale per fare delle lanterne con le barchette?
Così le mettiamo
in mare.-
Zio
Satoru sembrò sorpreso
dalla richiesta, ma poi parve entusiasta quanto me quando Maki me
l’aveva
proposta precedentemente.
-Va
bene!-
Ero
così contenta! Fremevo
dall’impazienza di fare quel lavoretto con mia sorella, tanto
che le resi più
complicato terminare di acconciarmi i capelli; alla fine mi
lasciò andare, e io
tornai velocemente sulle scale, voltandomi un’ultima volta a
guardarla.
Poi
mi allontanai, avevo
ancora delle faccende da sbrigare, e a breve avrei dovuto ritirare i
vassoi
della colazione dalle stanze occupate.
Vidi
di sfuggita la figura di
Oba-sama camminare nel corridoio dov’ero appena passata, e un
brivido mi scese
lungo il corpo, tanto che tornai indietro di qualche passo, sporgendomi
a
guardare la scena.
Maki
era in piedi con il
bucato, ancora una volta, che stava terminando mentre la zia era sul
corridoio,
la sovrastava con quel kimono scuro, era raro vedere Oba-sama indossare
Irotomesode colorati; mi sembrava di vedere la scena di una fiaba, la
maga
potente che sovrastava la giovane eroina.
-Sei
lenta. Devi essere più
veloce, non hai tempo da perdere, no?-
Quel
tono così ironico mi
preoccupò non poco, era raro che la zia usasse un tono del
genere, e di solito
indicava che il suo umore era scuro; la vidi scendere le scale, e
d’istinto
volevo fermarla, ma rimasi nascosta, temendo di essere allontanata o di
mettere
ulteriormente nei guai Maki con la mia presenza.
Non
riuscivo a sentirle
parlare, il tono di voce si era abbassato, ma vedevo chiaramente il
volto di
mia cugina e della zia: la prima aveva un’aria tranquilla ma
sofferente, la
gioia e serenità di prima sembravano non essere mai
esistiti. La seconda,
invece, pareva fatta di gesso, impassibile mentre muoveva soltanto la
bocca, il
resto del corpo immobile, perfino gli occhi.
Ad
un tratto qualcosa,
probabilmente una frase o una parola dette, non lo so; fatto sta che
vidi Maki
alzare di colpo il volto, una luce negl’occhi li faceva
brillare di rabbia, e
la sua voce arrivò fino a me.
-Oba-sama,
se direte ancora
una volta una cosa del genere non esiterò ad agire di
conseguenza.
Potete
offendere me e le mie
decisioni, ma non vi permetterò mai di parlare male
dell’uomo che amo. Vi ho
avvertito.-
La
zia parve chiederle
qualcosa, e Maki rispose immediatamente.
-Se
sarà necessario,
abbandonerò la famiglia. L’ho già
fatto, e posso rifarlo; poi sarete voi a
pagarne gli esiti.-
Spostai
lo sguardo verso la
zia Moe, e la vidi sempre rigida, ma questa volta mi parve simile
più alla
pietra, dato che non rispose subito, e Maki si sistemò
meglio il cesto della
biancheria fra le braccia, sfilandosi i sandali per salire le scale.
I
suoi occhi ignorarono la
presenza della zia, in cima alle scale, e quando la vidi dirigersi
nella mia
direzione mi allontanai velocemente, approfittando dei miei doveri di
cameriera
per non farmi scoprire; raccolsi i vassoi delle colazioni con la fretta
addosso, a malapena mi ricordavo di sorridere e salutare. Avevo la
sensazione
che, se non fossi stata abbastanza veloce, la zia mi avrebbe scoperta
in
qualche modo!
Non
mi resi conto di dove
stavo andando con i vassoi, e di colpo finii a sbattere contro una
schiena,
finendo culo a terra nel corridoio che divideva il ryokan con la nostra
casa, e
quindi la cucina.
-Ahia!-
-Ehi,
ma che … Tomoko!-
Alzai
lo sguardo, per un
attimo temetti fosse la zia; invece si trattava di Jin, il quale mi
offrì una
mano per alzarmi.
-Che
combini?-
-Ah
scusami, non ho guardato
dove andavo. Come mai sei qui?-
-Vengo
a trovare la nonna.
Aspetta, ti do una mano.-
Mi
rialzò come se fossi stata
un peso piuma, ultimamente era diventato più alto e forte,
si notava; non
credetti minimamente alla sua scusa, e quando raccolse i vassoi li
ripresi
velocemente, senza neanche guardarlo.
-La
nonna? Beh la “nonna” Maki
è impegnata con me oggi.-
-Davvero?
E che fate?-
Non
cercò altre scuse.
-Prepariamo
le lanterne con le
barchette per l’Obon.-
-Posso
unirmi a voi?-
-Tu
dovevi andare a trovare la
NONNA, no?-
Lo
vidi accigliarsi, e io mi
avviai sul corridoio, preparandomi a litigare con lui,
com’eravamo soliti fare
assieme, nel ryokan.
**
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Capitolo 6 *** 5:Al cimitero ... il fratello di Lui ***
5. Al cimitero …
il fratello di Lui
Mi
sistemai al meglio delle
mie capacità la camicia dentro i pantaloni
dell’uniforme, e indossai la cintura
per tenerli su: avevo addosso i pantaloni di mio fratello maggiore, e
fisicamente io ero più magro di lui. Quando entrai al liceo,
per far
risparmiare nostra madre, le dissi che bastava che mi facesse
l’orlo, e avrei
usato i pantaloni di Kojiro per andare a scuola, così
dovemmo prendere soltanto
la giacca.
Allora
mio fratello già non c’era,
era compito mio aiutare nostra madre nell’economia della
casa, per quanto lei
insistesse di non preoccuparmi. Odiavo quando mi dicevano non
preoccuparmi di
questo tipo d’impegni, mi ritenevo abbastanza grande da
poterli gestire.
-Ehi,
ci sei?-
Alzai
lo sguardo, notando che
Takeru era già pronto e mi guardava spazientito; lo guardai
subito male, non mi
piaceva affatto il tono saccente che aveva nei miei confronti.
-Oh
chiedo scusa padroncino,
ma io ci tengo a vestirmi bene per andare a vedere nostro padre.-
-Io
sono vestito bene!-
-Ceeerto,
quei jeans vanno
proprio benissimo, con quegli strappi sembri un barbone.-
-Sempre
meglio che sembrare un
vecchio impiegato.-
-Te
lo faccio vedere io il
vecchio!-
-Cos’è,
vuoi un altro
livido in faccia?!-
Takeru
aveva sempre avuto la
lingua lunga, e quando nominò il segno che avevo sulla
guancia destra ero
pronto a dargliene: me lo ero fatto a causa di un mio compagno di
scuola, che
si era permesso di dare giudizi nei confronti di mia madre e mia
sorella. Gli spaccai
il labbro e gli ruppi un dente.
-Voi
due!-
Avevo
afferrato il colletto della
maglietta quando Kojiro si fece avanti, sull’uscio della
stanza, e subito mi
lanciò un’occhiataccia.
-Lascia
subito tuo fratello.-
Obbedii
seccato, e velocemente
uscii dalla stanza, ignorando la voce di mio fratello che mi
richiamava: non
volevo essere sgridato da lui, tanto sapevo di aver sbagliato, che
bisogno
c’era di ribadirlo?
Da
quando Kojiro era tornato a
casa tutti erano su di giri, persino Takeru era meno rompiscatole del
solito,
obbedendo come un “bravo fratellino”. E la cosa, lo
ammetto, mi dava sui nervi,
perché a me Takeru non mi ascoltava mai. Inoltre, avevo
iniziato a fare un po’
la vittima, come tutti gli adolescenti: sentivo che venivo sgridato
sempre e
solo io, e la cosa m’irritava ulteriormente.
-Masaru,
tutto bene?-
Diedi
solo una veloce occhiata
a mia madre, tanto Kojiro avrebbe detto quello che era accaduto,
perciò feci un
cenno secco della testa, uscendo per primo di casa. In
verità avrei voluto
spiegarle come stavano le cose, come Takeru mi avesse provocato, ma
temevo che
lei avrebbe ascoltato solo la voce dei miei fratelli e non la mia,
perciò
battei in ritirata.
La
prima cosa che vidi fu il muretto
grigio che delimitava la stradina davanti a casa nostra, oltre questo
c’era una
casa più grande, e apparentemente anche più
bella. La guardai con fastidio,
aspettando impaziente l’uscita degl’altri membri
della famiglia.
Quando
li vidi, mi parvero una
di quelle allegre famigliole che si vedevano nelle
pubblicità su il cibo.
Vidi
Kojiro avvicinarsi a me,
porgendomi un sacchetto di plastica; lo afferrai e lui mi diede un
leggero
pugno sulla testa, come punizione. Sospirai cupo, ma poi lo seguii in
silenzio,
senza rivolgergli lo sguardo. A ripensarci ora, mi ero comportato
davvero come
un moccioso permaloso, che ridere.
Dovevamo
arrivare a piedi fino
alla fermata, poi da lì prendere una corriera, e ad
un’altra fermata prenderne
una seconda, che si fermava proprio davanti al cimitero; per tutto il
tempo,
Takeru e Naoko chiacchieravano con Kojiro e nostra madre, mentre io
guardavo il
paesaggio cambiare dietro il finestrino.
-Tutto
bene, tesoro?-
Mi
voltai, mia madre aveva
posato una mano sulla mia gamba, attirando la mia attenzione; annuii,
un po’
sorpreso, e lei mi rivolse un sorriso.
-Sai
che a papà non piacerebbe
quel muso lungo. Forza.-
Annuii
nuovamente e sospirai,
sentendo la responsabilità di non deludere
l’aspettativa di mia madre.
Quando
arrivammo al cimitero,
e salimmo la scalinata, Naoko accelerò il passo, avviandosi
verso la tomba di
nostro padre, seguita da Takeru.
Stavo
per dire alla mamma che
andavo a prendere l’acqua per la tomba, quando Kojiro mi
precedette.
-Mamma,
prendo l’acqua per
pulire la tomba.-
-NO,
la prendo io!-
Ero
sempre stato io, da quando
mio fratello se n’era andato, che mi occupavo di queste cose.
Ero io il figlio
grande, sentivo che quello era un privilegio che mi spettava.
-Masaru,
falla prendere a
Kojiro. Noi intanto andiamo da tuo padre.-
Ma
da quando era a casa con
noi, tutto era cambiato: la mamma e Naoko davano tutte le loro
attenzioni a
Kojiro, Takeru ascoltava solo lui e obbediva solo a lui. E io?
Beh,
le prime cose che mi
disse mio fratello furono di studiare, che era presto per lavorare, che
dovevo
smetterla di fare il teppista. Ma chi si credeva di essere?! Piombava a
casa
improvvisamente, dopo mesi di assenza, e si permetteva di cambiare e
stabilire
nuove leggi?!
Pulii
la tomba di mio padre
con il fastidio di quei pensieri addosso, e non riuscivo a godermi la
serenità
che aleggiava nelle quattro persone accanto a me.
L’odore
dell’incenso non
distese il mio umore, e pregai a mio padre quasi con rabbia, al
contrario
degl’altri presenti.
“Padre,
perché nessuno
capisce? Io non voglio essere trattato da bambino, ora sono io il
responsabile
della mia famiglia, io me ne devo occupare! Perché non vengo
rispettato?!”
Volevo
trovare un lavoro dopo
il diploma perché tanto non ero capace di studiare: non ero
intelligente come
Naoko, che ogni volta prendeva sempre voti alti, o impegnato e bravo
nello
sport come Takeru, tanto che puntava alla borsa di studio; io ero
più adatto a
usare le mani, a fare lavori di fatica, e mi ero già messo
d’accordo con un mio
compagno di classe, il cui padre gestiva una ditta di traslochi.
Quando
glielo dissi, mio
fratello fu subito contrario, affermando che un lavoro del genere
“non portava
da nessuna parte”; quello per me fu l’affronto
più grande, ed iniziammo a
litigare furiosamente, ero deciso a non lasciargli prendere altri
centimetri
della mia vita, della mia indipendenza.
Io
non avevo mai litigato con
mio fratello prima. Ma ora lo vedevo come un estraneo, che telefonava
molto
spesso ma che non sapeva nulla di noi.
Non
era cattiveria, sia chiaro
che comunque amavo mio fratello, ma non accettavo il fatto che mi desse
ordini
come poteva darmeli mia madre. O un padre.
-Sei
molto silenzioso Masaru.-
Mi
voltai verso la mamma, la
quale mi diede un onigiri; lo accettai ringraziando con un cenno della
testa,
mangiandolo con gusto, le polpette di riso di mamma erano le migliori
al mondo.
-Le
tue polpette sono le migliori
al mondo, mamma.-
Mi
voltai, stupito che Kojiro
avesse dato corpo ai miei pensieri; poi lo guardai infastidito,
perché
ovviamente mamma era tutta contenta di quel complimento. E Takeru non
fece
altro che aggiungere il carico.
-Do
ragione a Kojiro!-
Il
bravo fratellino che
esaltava il fratellone, eroe della famiglia. Basta, non la sopportavo
quella
situazione!
-Scusate,
vado a fare quattro
passi.-
-Masaru
non abbiamo ancora
finito di mangiare.-
-E
allora finite, io vado a
camminare, non torno a casa.-
Kojiro
si alzò in piedi,
pronto ad affrontarmi.
-Senti,
non mi piace questo tuo
atteggiamento.-
-Guarda,
mi hai proprio tolto
le parole di bocca.-
E
lo guardai male, ma con tutto
il male che avevo dentro.
Perché
sei qui? Cosa vuoi da
noi? Non dovresti stare con la tua mogliettina? Per caso ti sei
ricordato che
avevi questa famiglia?
Gli
dissi tutte queste cose
con gli occhi, poi girai la schiena e me ne andai.
Si,
quand’ero giovane ero
facile alla collera: per questo mi era facile litigare con i compagni
di scuola
così come con i miei fratelli.
Ero
frustrato: volevo e potevo
finalmente fare qualcosa per la mia famiglia, che aveva sempre faticato
per stare
bene e dare una vita discreta a me ed a Naoko e Takeru, e ora mi veniva
detto
che era ancora presto. Ancora presto!
E
a dirmi queste cose il
fratello “perfetto”, quello che tutti stimavano e
di cui bisognava essere
orgogliosi e prenderne esempio; ma io non ero e non sono mai stato mio
fratello,
e seguirne l’esempio per me era praticamente impossibile.
Eravamo
diversi. O almeno così
credevo.
Quando,
dopo circa un’ora,
tornai alla tomba di nostro padre, trovai solo Kojiro ad aspettarmi, in
mano
aveva la busta bianca con dentro la spazzatura del pranzo; con le
braccia
incrociate sul petto assomigliava molto a nostro padre, o almeno a
quello che
io vedevo nelle foto. E aveva l’aria di chi era pronto a fare
guerra, il che mi
spinse ad accigliare nuovamente lo sguardo e a fargli muro.
-Allora?
Si può sapere che ti
prende?-
-Non
so a cosa ti riferisci.
Dov’è la mamma?-
-È
andata avanti con Takeru e
Naoko.-
-E
l’hai lasciata andare da
sola?!-
Poteva
succederle qualsiasi
cosa nella mia testa alla mamma, una signora dal fisico magro e con
poca forza
fisica, seguita praticamente da due bambini.
Partii
per raggiungerla, ma la
mano di mio fratello mi afferrò per il braccio.
-Dove
credi di andare?-
-Da
lei, mi pare ovvio, non
posso credere che l’hai lasciata andare da sola!-
-È
stata lei che me l’ha
chiesto.-
-Quindi
se lei ti chiede se
può buttarsi da un ponte, tu le dai il permesso?!-
-Ma
che cazzo dici!?-
-E
lasciami!-
Scrollai
con forza il braccio,
per staccarmi da quella mano, Kojiro aveva sempre avuto una presa
d’acciaio;
quando riuscii nell’intento mi girai verso di lui, prendendo
fiato. Mio
fratello mi guardava con aria stupita, parlandomi.
-Ma
si può sapere che ti
prende? Litighi a scuola, fai a botte con tuo fratello, non ascolti la
mamma …-
-Questo
non è vero!-
-E
quello che hai fatto
prima?-
-Io
non stavo obbedendo a te!-
-A
… me?-
Mi
guardò sorpreso, e io ne
approfittai per dargli addosso.
-Anch’io
sono il fratello
maggiore, anch’io voglio occuparmi della mia famiglia. Ma dal
nulla arrivi tu e
bum! Di colpo sono di nuovo uno dei piccoli, che deve solo ascoltare e
ubbidire! Ma chi ti credi di essere?! Con chi credi di parlare?!-
Alzai
le braccia al cielo, e
poi le battei sui fianchi, prendendo fiato per riordinare i successivi
pensieri.
-Io
so che sei stato male, ok?
Lo so, ti ho visto. E so che stai attraversando un momento difficile,
me lo ha
detto la mamma, ma non ti permetto di decidere tu della mia vita. Io
voglio
essere utile, lo capisci? Io voglio essere utile alla mia famiglia!
Sono
grande, ho quasi diciotto anni!
Ma
purtroppo sono uno stupido,
e non sono bravo a studiare, e sfortunatamente non ho talento o
passione
sportiva, non li ho! Io so solo che sono forte fisicamente, e che
questo mi può
aiutare.-
E
mi fermai, guardandolo con
aria supplichevole.
No,
non mi piacevo così
burrascoso, ma non sapevo come altro comportarmi in quella situazione:
stavo
diventando adulto, e volevo arrivarci il più velocemente
possibile per la mia
famiglia, ma tutto sembrava volermi rallentare per forza. Poi mio
fratello
aveva avuto un incidente, mia madre che continuava a dirmi che non
stava bene,
ma vivendoci per quel poco tempo mi sembrava stare benissimo, visto che
faceva
il capo famiglia. Lo so, il mio punto di vista era egoista, ma non
potevo fare
altro che essere me stesso.
Mi
sentivo esasperato, e mi
accasciai accanto alla tomba di mio padre, cercando ancora una volta di
radunare i pensieri che mi ballavano in testa.
-Io
… io voglio essere utile
alla mia famiglia.-
Lo
ripetei ancora, cercando di
farmi forza con quella frase, ma al contrario continuavo a sentirmi
stanco, a
non riuscire ad alzarmi da quel punto, e sospirai.
Sentii
Kojiro muoversi, e
lentamente mi si fece accanto, sedendosi a sua volta; io lo guardai di
sottecchi, aveva pantaloni e camicia proprio come me, ma come al solito
aveva
arrotolato le maniche, mostrando le braccia.
-Sai
… ho avuto gli stessi
pensieri quando è morto nostro padre.-
Alzai
lo sguardo, e vidi che
gli occhi guardavano verso l’alto mentre mi parlava.
-Volevo
essere utile, volevo
aiutare nostra madre e volevo occuparmi di voi. E fortunatamente,
grazie al
calcio ci sono riuscito. Ciò che amavo … mi ha
permesso di aiutare chi amavo.
Ma
adesso … adesso non ci sto
riuscendo.-
Lo
guardai stupito, e lo
sguardo si abbassò, e dal cielo scese
sull’orizzonte, poi sulle case, sulla
strada, sulle mura del cimitero, fino ad arrivare al terreno
dov’eravamo
seduti.
-La
donna che amo sta male … e
non so proprio come aiutarla. Ho provato ad abbracciarla un paio di
volte, ma
mi ha scacciato, spaventata. Aveva paura di me, di suo marito. Temeva
che suo
marito … potesse farle del male.-
Lo
vidi stringere i pugni per
frenare la collera, e stringere gli occhi per trattenere il dolore.
Quella
fu la prima volta, da
quando era tornato a casa, che vidi mio fratello soffrire; forse quella
fu la
prima volta, in vita mia, che vidi mio fratello soffrire. Lo conoscevo
arrabbiato, allegro, ironico, serio, felice … ma addolorato
no, mai. E quella
vista … mi turbò, e mi lasciò confuso.
Nostra
madre non ci aveva
detto nulla al di fuori del fatto che Kojiro aveva avuto un incidente;
non
sapevamo niente di come si era svolto, di cosa effettivamente era
successo, o
di quanto male stava. Ci aveva lasciato nell’ignoranza
… forse per
salvaguardarci.
Vidi
i suoi pugni sciogliersi,
e si voltò a guardarmi, studiandomi il volto mentre
continuava a parlarmi.
-Anch’io
voglio essere utile
per la mia piccola famiglia, proprio come te Masaru. E
anch’io, come te, mi
sono sentito e mi sento frustrato, perché non sono in grado
di aiutare.-
L’uomo
accanto a me … che si
sentiva come me?
Allungò
una mano sulla mia
testa, accarezzandomi i capelli, e mi sorrise con aria complice, ma non
felice;
io accettai quella carezza in silenzio, e ripensai alle sue parole, e a
dove me
le stava dicendo. Parlai a voce bassa.
-…
vorrei che ci fosse papà.-
A
casa non ne parlavamo mai,
perché oramai eravamo abituati all’assenza di
quella figura, e anche perché
Kojiro, più o meno, lo aveva sostituito negl’anni,
per cui se c’era qualche
difficoltà si chiamava lui. Pian piano, anch’io mi
stavo assumendo il peso di
quella figura, e lo volevo diventare anche per la paura di scoprire che
non ne
ero capace.
-Già,
lo vorrei anch’io.-
La
sua mano, lentamente, si
levò dalla mia testa.
-Però
sono convinto che,
comunque, lui continua ad assisterci.-
Mi
voltai verso di lui, e gli
guardai il volto. Era ancora cupo, ma il sorriso aveva perso un
po’ di
tristezza, diventando più affettuoso. Anche il suo capo, dal
terreno, tornò di
nuovo in alto, verso il cielo; lo copiai, e mi resi conto che il sole
stava
cominciando a scendere.
Nella
rabbia, avevo lasciato
correre via il tempo, e mi ero perso quella giornata con la mia
famiglia.
…
che stupido.
-Mi
dispiace. Sono stato
proprio stupido oggi.-
Sentii
di nuovo quella mano
affettuosa sulla testa, e mi voltai a guardare mio fratello, adesso
l’ombra sul
suo volto era meno soffocante, e anche il suo sorriso era
più amichevole,
facendo poi un cenno verso la tomba alla nostra sinistra.
-Che
ne dici di accendere un
altro incenso a nostro padre?-
Annuii,
e Kojiro frugò nella
busta, passandomi poi un bastoncino, cercando per l’accendino.
La
seconda preghiera fu
decisamente più tranquilla della prima.
“Padre,
per favore, dai a me e
a mio fratello Kojiro la forza per aiutare le nostra famiglie; dammi la
sicurezza
nel continuare la strada che ho scelto, e … e aiuta Kojiro e
Maki. Loro … loro
meritano di essere felici.”
Respirai
profondamente, e
sentii le ultime briciole di nervoso scivolare via con il respiro. Mi
voltai
verso mio fratello, e lo vidi di nuovo armeggiare con la busta di
plastica,
guardandomi con fare serioso.
-La
mamma ce lo ha lasciato,
però tu ne bevi solo un goccio, chiaro? Sei ancora minorenne
per queste cose …-
E
tirò su una bottiglia di
saké con tre bicchieri. Lì per lì mi
sorpresi non poco, per poi emozionarmi, e
di nuovo sentirmi davvero uno stupido: proprio la mamma, colei che
sembrava
sempre non accorgersi dei miei stati d’animo, aveva intuito
il mio desiderio,
ed aveva agito come solo lei poteva fare.
Kojiro
porse prima quello per
nostro padre, poi fece particolare attenzione a non esagerare la dose
del mio,
tanto che gli lanciai un’occhiata storia; ma alla fine, tutte
e tre avevamo il
nostro bicchiere, e io lo bevvi per la prima volta … e
tossii, sentendo il
sapore forte stringermi la gola. Kojiro ridacchiò alla
scena, rivolgendomi la
parola.
-Di
un po’, ma davvero sei
forte come dici?-
-Beh,
a braccio di ferro non
mi batte nessuno, nemmeno il capitano della squadra di atletica.-
-Ma
dai?! Allora fammi
vedere!-
-Eh?
Qui?!-
-Ma
si dai. Mettiamoci sopra
la pietra.-
-Ma
è la tomba di papà!-
-Ah,
vedrai che non si
offende. E poi ho interrotto a metà il mio matrimonio, vuoi
che non faccia a
braccio di ferro in un cimitero davanti a papà?-
Lo
guardai perplesso, ma alla
fine mi alzai in piedi, convinto, arrotolandomi le maniche della
camicia sulle
braccia mentre Kojiro si metteva in posizione, mettendo il gomito
destro sulla
pietra e aggrappandosi con la mano mancina sulla tomba. Io lo copiai,
anche se
ero incerto.
-I
Kami s’infurieranno.-
-Secondo
me stanno già tutti
scommettendo sulla mia vittoria assicurata.-
-Ah
si? Ti faccio vedere io.-
-Fatti
sotto.-
Mio
fratello era forte. Lo
sapevo, me lo ricordavo, e anche in quel momento dimostrò di
essere più forte
di me.
Ma
la mia soddisfazione fu di
riuscire a tenergli testa per almeno cinque minuti buoni; e lo vedevo
sforzarsi, guardarmi sorpreso, assaporare la sfida tanto quanto me, e
impegnandosi riuscì a buttare giù la mia mano.
-Accidenti,
sei davvero
forte!-
-Te
l’avevo detto.-
-E
riguardo a quel lavoro? Ti
puoi fidare del tuo compagno di classe?-
Pensai
a Takano e a suo padre,
al piccolo colloquio che mi aveva fatto fare, ed annuii.
-È
a gestione famigliare, e il
cugino che aiutava il padre si è dovuto trasferire dopo il
matrimonio. Ho fatto
un piccolo colloquio, e sono ben disposti a prendermi con loro.
Ovviamente non
mi daranno una grande cifra, si tratta per il momento di piccoli
compiti; ma se
lavoro e mi comporto bene, posso aspirare a qualcosa di più.-
-Capito
…-
Lo
vidi raccogliere i tre
bicchierini, versando il sakè lì dove avevamo
fatto braccio di ferro, bagnando
la pietra tombale come si faceva di solito; aspettai paziente, sperando
ardentemente nella sua approvazione.
Alla
fine lo sentii sospirare,
e mi puntò gli occhi e un dito contro.
-Però
sia chiaro: prima
prendi il diploma, e dopo ti metti a
lavorare. Quel pezzo di carta è importante, credimi.-
Non
potei trattenere un
sorriso contento, ed annuii.
Vidi
mio fratello, ancora un
volta, ingentilire per un attimo il volto, per poi farmi un cenno del
capo,
iniziando a camminare.
-Avanti,
ora torniamo a casa.-
Io
non mi dimenticai mai
quella giornata, e il volto di mio fratello; era come se, entrambi,
avessimo
fatto un passo avanti verso un nuovo inizio, ed entrambi eravamo
spaventati,
anche se lui era uomo, e io solo un ragazzo.
**
Chiedo scusa per l’enorme
ritardo dell’aggiornamento, sono
stata davvero molto impegnata a far partire il mio “nuovo
inizio” e proprio
come questi due ero molto spaventata. Adesso, invece, sto prendendo
sempre più
confidenza. Ce la faranno anche Kojiro e Maki? Stay Tuned!
|
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Capitolo 7 *** 6: Di notte ... l'amica di Lei. ***
6. Di notte …
l’amica di Lei.
WARNING!
In questo capitolo saranno
descritti atti violenti, consiglio a chi è sensibile
agl’argomenti di non
leggerlo.
Si,
erano gli ultimi giorni di
Agosto.
Approfittando
di alcune ferie
arretrate, avevo deciso di andare a trovare Maki al ryokan, e
trascorrere
qualche giornata sotto il sole, al mare. Sfortunatamente, il clima non
mi fu
amico, e un rombo di tuono interruppe il mio sonno quella notte,
facendomi
scattare seduta sul futon.
Percepii
chiaramente la
pioggia che batteva sul camminamento fuori dalla camera, e nel buio
gattonai
verso lo Shoji, socchiudendolo; immediatamente dell’acqua mi
arrivò sulla mano,
e a malapena riuscii a intravedere gli alberi del giardino che
ondeggiavano
lugubri al forte vento.
Chiusi
lo spiraglio e
sospirai, ci mancava solo il temporale!
Quando
venni a sapere dell’incidente
di Maki e Kojiro dal mio compagno quasi non ci credevo, e
c’impiegai diversi
minuti a realizzare che si, era davvero accaduto. A quel punto mi misi
subito
in azione, e in meno di dieci giorni andai a trovare la mia amica in
ospedale a
Naha, facendomi ospitare da uno dei ryokan della sua famiglia.
Come
infermiera rimasi
felicemente colpita nel vedere come entrambi avessero recuperato in
fretta
dall’incidente; come amica, invece, percepivo chiaramente che
qualcosa, in
Maki, era spezzato: ogni volta che si fermava dal parlare diventava
pensierosa,
la sua mente non riusciva a restare nell’ambiente attorno a
lei, ma vagava da
qualche parte. La sua energia e il suo sorriso erano fiacchi, privi di
quell’allegria e forza con cui l’avevo conosciuta.
Era
spenta, e questo mi
preoccupò non poco; parlai con lo psicologo
dell’ospedale, ma questo m’informò
che Maki non era più tornata a fargli visita dopo essere
uscita dall’ospedale.
Anche dopo, quando le telefonavo, era restia a parlarmi
dell’incidente, tanto
che un giorno, quando gli chiesi per l’ennesima volta di
aprirsi, con rabbia mi
disse di smetterla di chiamarla se facevo ancora quelle domande,
sbattendo la
cornetta sul telefono; mi telefonò qualche ora dopo,
scusandosi con dolore.
Si,
dolore. Stava piangendo,
ma tratteneva duramente i singhiozzi nella gola, e probabilmente la
mano libera
frenava le lacrime degl’occhi.
Mi
resi conto che le stavo
facendo la stessa violenza che aveva subito da quegl’uomini,
e pentita smisi di
farle domande, sperando che le cose andassero meglio.
Invece,
ad ogni telefonata,
avevo la chiara sensazione che Maki stesse diventando sempre
più fredda e
chiusa, come una stella che si spegne.
Io
ricordo la prima volta che
conobbi Maki, al matrimonio di Tsubasa e Sanae, e ho ancora chiara
l’immagina
di questa ragazza che, presentandosi, era solare, calda, che sapeva
tenere
testa a chiunque, anche a Kojiro. La giovane donna che mi parlava al
telefono,
invece, pareva perdere ogni giorno un po’ della sua luce, e
questo mi spinse ad
andarla a trovare quegl’ultimi giorni di Agosto.
Jun,
il mio compagno, mi ha
sempre detto che, secondo lui, ho il dono di “percepire il
dolore dell’altro e
di curarlo”. Forse è vero, fatto sta che quando
dissi a Maki le mie intenzioni,
sentii chiaramente la sua gratitudine e il suo bisogno di amici.
E
ora, a due notti dal mio
arrivo, quel tifone mi stava infreddolendo e portando via il sonno,
tanto che
accesi la lampada della stanza per cercare, nel mio bagaglio, una
maglia per
coprirmi.
Due
colpi leggeri alla porta
scorrevole interruppero la mia ricerca, incuriosendomi; controllai il
display
del cellulare, e mi resi conto che erano le quattro del mattino. Che
fosse
Maki?
-Avanti.-
Lo
dissi con un filo di voce,
ma la porta scivolò nel legno comunque, e vidi il volto
della mia amica,
inginocchiata accanto all’uscio, anche lei aveva una lampada
con sé, appoggiata
a terra ad illuminarle il volto.
-Posso?-
-Maki,
vieni pure.-
-Ho
visto una luce, e mi sono
permessa di portarti questo.-
Si
voltò verso la sua destra,
e mi porse un grosso scialle color crema.
-Ah,
meno male, stavo cercando
qualcosa per il freddo.-
La
feci accomodare, e con
sorpresa notai che aveva addosso ancora il kimono.
-Non
sei andata a dormire?-
Scosse
la testa, sorridendo
con aria amara.
-…
sono giorni che non dormo.-
Me
n’ero accorta: fin da
quando era venuta a salutarmi all’ingresso del ryokan, avevo
subito notato le
sue occhiaie e l’aria stanca, e nonostante i giorni di sole
la sua pelle era
impallidita.
Mi
misi lo scialle sulle
spalle, decisa a non farla uscire da quella stanza. Come amica, adesso
dovevo
fare qualcosa.
-Perché
non resti qui con me?
Tanto anch’io non dormo più.-
-Mi
dispiace che il temporale
ti abbia svegliata. Comunque, secondo il meteo, domani sarà
una bella giornata,
così puoi andare al mare qui sotto il ryokan.-
-Magari!
Vieni con me?-
Mi
misi seduta con la schiena
appoggiata allo Shoji, e Maki si mise a riassettare il letto, parlando
con aria
imbarazzata.
-Ah,
scusami, ma non mi è
possibile: domani Oba-sama mi ha chiesto di pulire le camere.-
-Beh,
ma potrai fare
un’eccezione per un’amica, no?-
Le
sorrisi, facendole
addirittura l’occhiolino, per convincerla, e la vidi pensarci
davvero.
-Io
…-
-Dai
Maki, tu adori il mare,
un po’ d’acqua e spiaggia ti farà bene.-
Uscire
da lì le avrebbe fatto
bene. Camminare fuori da quelle stanze le avrebbe fatto bene. Nuotare,
stare
sotto il sole, svagarsi. Questo le avrebbe fatto bene.
Ancora
una volta la vidi
incerta, probabilmente la sua testa cercava una scusa per farla restare
lì,
intrappolata nella locanda, ma non ne trovava alcuna. Notai, con la
coda
dell’occhio, che le mani erano ferme sopra la coperta del
futon, e si stavano
chiudendo a pugno.
Le
guardai di nuovo gli occhi,
e dietro quell’espressione vitrea ci vidi esasperazione: a
furia di tenersi
tutto dentro stava andando in esaurimento. Eppure non sembrava in grado
di
aprirsi con nessuno.
Dovevo
trovare un modo per
calmarla, mi sembrava di aver di fronte un animale stressato, indeciso
se alla
fuga o alla reazione aggressiva. E in entrambi i casi, avrebbe
rischiato solo
di fare del male a se stessa.
A
quel pensiero, mi tornò in
mente mio padre quando ero bambina, e a quella volta che gli
capitò una
situazione del genere con un animale, credo fosse una volpe: mi trovavo
ancora
a casa della mia famiglia, e quell’animale era arrivata dal
nulla dentro la mia
camera da letto, ancora adesso non sappiamo cosa l’avesse
spinto, se l’odore
del cibo o la curiosità, anche perché si vedeva
che era giovane; fatto sta che
ricordo chiaramente il suo sguardo
terrorizzato, attento ad osservare ogni movimento e a ringhiare ad ogni
minimo
suono.
Mio
padre allora, con molta
calma, lasciò la porta della stanza aperta, e mi disse di
lasciarla in pace,
che a tempo debito se ne sarebbe andata di sua volontà; di
fatto, quando questo
fu pronto, uscì fuori dalla stanza, sospettosa, e mio padre
la guidò in
silenzio verso l’uscita. Ricordo che poi, da quel momento, la
volpe ritornò
altre volte, e la mia famiglia lo prese come un segno fortunato.
Fu
la tranquillità di mio
padre, la volpe dal manto arruffato, le sue orecchie tese in mezzo
all’erba ad
ascoltare i rumori della nostra casa una volta fuori, tutto questo mi
diede
l’ispirazione.
Presi
la mia lampada, e la
spensi, appoggiandola poi alla mia destra; sorridendo, invitai Maki ad
accomodarsi alla mia sinistra in silenzio, senza parlare. La vidi
incuriosita e
ancora una volta incerta, ma lentamente accettò
l’invito e si sedette accanto a
me, con la schiena appoggiata allo Shoji, la sua lampada
l’aveva messa davanti
a noi, per farci luce.
La
mia camera, in
quell’atmosfera, sembrava diventare altissima, mentre noi due
eravamo piccole
piccole, come delle bambine.
Ascoltammo
la pioggia che
batteva sul legno, e non parlammo per diversi minuti; pian piano il
silenzio mi
permise di ascoltare il respiro di Maki, e lo percepii breve ed
irregolare,
tanto che lei si lasciò andare ad un profondo respiro, con
la coda dell’occhio
la vidi quasi cercare l’aria, gli occhi spalancati verso
l’alto, a guardare
qualcosa per me invisibile.
In
silenzio, posai la mia mano
sinistra sulla sua destra; lei, senza neanche guardarmi,
intrecciò le dita
della sua mano con le mie, e strinse, strinse così tanto che
mi faceva male, ma
io rispondevo con la stessa forza, guardandola.
Le
sopracciglia si
corrucciarono, e pensai che avrebbe pianto, ed io ero pronta ad
abbracciarla, a
farle sentire la mia presenza; invece prese un altro respiro, strinse
gli
occhi, corrucciò lo sguardo, le labbra si tirarono fino a
diventare bianche e
il corpo si piegò in avanti.
Ancora
una volta, stava
cercando di tenere tutto il suo male dentro il corpo, sia la rabbia che
il
dolore.
Aprii
la bocca, per chiederle
perché si facesse questo, ma di nuovo mi tornarono in mente
mio padre e la
volpe, così tacqui, limitandomi a stringerle la mano con
più forza; si voltò
verso di me, e lentamente scossi la testa.
No
Maki, pensai, non farti
questo.
Vidi
le sue palpebre
aggrottarsi leggermente, e la sua bocca si schiuse, mostrando parte di
quello
che aveva dentro: angoscia, dolore, ma anche vergogna. Una profonda
vergogna.
Mi
girai verso di lei, e la
sua testa si chinò, la schiena si piegò su se
stessa, e accucciata in quel modo
si appoggiò sulle mie gambe, continuando a tenermi la mano;
con quella libera,
iniziai ad accarezzarle la schiena, il kimono che indossava era verde,
uno
yukata con sopra disegnate delle ninfee. Le stava davvero bene.
Le
toccai anche i capelli,
oramai erano lunghi fin sotto le spalle, ed erano spettinati, quando
provai a
pettinarli con le dita sentii dei piccoli nodi, e decisi di non
insistere, per
non farle male.
Pian
piano la percepii
appoggiarsi con il peso a me, e a quel punto mi sporsi verso la
lanterna
rimasta accesa, spegnendola. Cadde il buio, e a causa del temporale i
miei
occhi non riuscirono a vedere niente, come se all’improvviso
fossi stata
trasportata nel nulla.
Il
ticchettio della pioggia,
ogni tanto un rombo di tuono in lontananza, credo di essere riuscita
perfino a
sentire le onde che s’infrangevano sulla sabbia, sotto il
ryokan. La mia mano
libera che continuava ad accarezzare la schiena di Maki,
l’altra che si
lasciava stringere.
Aspettai.
E non saprei dire
quanto tempo ho aspettato, se minuti o addirittura giorni.
So
solo che, ad un certo
punto, sentii la testa di Maki muoversi, e la sua voce ruppe il
silenzio.
-Eravamo
usciti dal cinema.
Volevamo passeggiare sul fiume, così Kojiro prese una
scorciatoia.
Non
era buio, c’erano i
lampioni. Noi parlavamo del film. Siamo arrivati verso un cantiere,
c’era la
rete a delimitare la zona.-
La
sentii fermarsi, ingollare,
prendere tempo.
Io
non smettevo di
accarezzarle la schiena, ma ora nell’oscurità
vedevo, un po’ sfuocata, quello
che mi stava raccontando; nella mia visione, i lampioni erano
illuminati, ma la
luce era fioca. Nelle tante ombre del cantiere, mi sembrò di
vedere strane
figure che si sporgevano a guardare, con aria divertita.
-Erano
in tre.-
La
sua voce era spezzata, e io
presi un respiro, stringendole saldamente la mano, probabilmente le
nostre
nocche erano bianche, sentivo la pelle formicolare leggermente, ma non
avrei
mai lasciato la presa.
-Uno
aveva … una giacca di
pelle. Un altro aveva la cresta di capelli. Il terzo aveva una
bottiglia ...
prima.-
E
ora ci stavano guardando
nell’oscurità della stanza, la mia mente li vedeva
chiaramente di fronte a noi,
con i volti deformi.
-Kojiro
si è messo avanti a
me, chiedendo loro di lasciarci stare. Loro dissero …
dissero …
“È tardi ormai. Siete nel
nostro territorio. Ora pagate pedaggio.”-
Ripeté
quelle parole con voce
cupa, e mi scese un brivido dietro la schiena: era avvenuto cinque mesi
prima,
e ancora adesso ricordava le parole di quell’aggressore.
-Andò
addosso a Kojiro, che si
difese. Poi la bottiglia cadde a terra, e al suo posto c’era
il coltello.
Kojiro
non … non ha gridato,
non lo sentii gridare. Non l’ho sentito.-
La
sentii rannicchiarsi su se
stessa, portare anche la mano che stringeva la mia sopra il suo
orecchio, a non
voler sentire, mormorando quelle parole, ripetendole con voce sempre
più bassa,
fino a che ci fu di nuovo silenzio.
Volevo
supplicarla di andare
avanti, di non fermarsi a quello, ma mi morsi le labbra, aspettando.
Questa
volta provai una tremenda ansia nell’aspettare, temevo si
fosse addormentata
con quell’ultimo ricordo, anche la presa sulla mia mano si
era allentata, con
il rischio di avere un incubo troppo forte per la sua debolezza.
-Quando
lo vidi cadere in
ginocchio, io ho provato a raggiungerlo, volevo raggiungerlo. Ma una
mano mi
prese per i capelli, tirandoli con forza. Credevo mi avrebbe strappato
via
anche la nuca.
Mi
spinse con forza contro la
rete; non avevo forza nelle gambe, le sentivo tremare, stavo in piedi a
fatica.
Provai
di nuovo a voltarmi
verso Kojiro, ma di nuovo mi presero i capelli.-
La
sua mano sciolse la presa
sulle mie dita, tenendomi però il dito indice, guidandolo
sulla sua nuca; tra i
suoi lunghi capelli, mi fece fermare in un punto.
-Qui
me li hanno strappati.-
Provai
a tastare, con dolcezza
per non farle male, ma fortunatamente non sentii la cute, solo la
ciocca più
corta rispetto alle altre. Approfittai della mia mano sulla sua testa
per
massaggiarle il capo, fermandomi quando riprese a raccontare.
-Sono
caduta a terra, e … e …-
Cominciava
a faticare con il
respiro, e ancora una volta m’imposi il silenzio, aspettando.
Non riuscivo a
quantificare cosa mi facesse più stare male o in ansia, se
l’attesa o il
racconto in sé. Strinsi pian piano le gambe tra loro, mentre
andava avanti.
-L’uomo
con la cresta si mise
sopra di me.-
Un
singhiozzo, e sentii che
cercava di coprire la bocca con le mani; decisa, ma senza farle male,
la
obbligai a togliere la mano dalla bocca, per lasciarla piangere.
All’inizio
era sommesso,
soffocato; poi, come un’onda, i singhiozzi si fecero sempre
più forti mentre
cercava di parlare ancora.
-Ho
combattuto … l’ho morso …
gli ho dato un pugno … ma poi mi hanno bloccata, il ragazzo
con il chiodo mi ha
bloccato le braccia.
Quello
… quello con il
coltello … ha dato un calcio … un calcio a Kojiro
a terra … era immobile …
immobile …
I
pantaloni … mi … mi ha
strappato i pantaloncini … ha tirato, mi ha graffiato
… ha preso anche le
mutande, le ha buttate via.
Le
gambe … ho stretto le gambe
… le ho strette … ho urlato, chiesto aiuto
… il coltello si è appoggiato sulla
mia guancia … ha detto che mi tagliava il collo se non stavo
ferma …
Hanno
aperto le gambe … le
hanno aperte …-
A
quel punto mi accucciai su
di lei, stringendola, non avevo più fiato e forza per
continuare ad ascoltare,
io stessa sentii d’iniziare a piangere dall’orrore;
soffocai con il mio corpo
le sue urla, il dolore che usciva dal suo corpo era tremendo, sentivo
la mia
stessa pelle incapace di sopportare quel male addosso, e strinsi i
denti,
facendomi forza.
Il
rombo dei tuoni si
avvicinarono, segno che il temporale non accennava a passare ma anzi,
ci stava
venendo contro, e quel rumore ci aiutò: soffocò i
lamenti di Maki, e mi aiutò a
tornare nel mondo reale, ad uscire da quello spaventoso incubo vivente.
Ripresi
fiato, ripresi forza, e cercai di nuovo le mani di Maki, stringendole
il più
possibile.
Di
nuovo, non so quanto tempo
durò quel pianto, ma per primi si calmarono i lamenti, la
sua voce si fece
sempre più bassa, fino ad ammutolirsi; poi i tremori del
corpo, pian piano,
passarono a loro volta, e il respiro si fece più lento, fino
a calmarsi del
tutto.
E
così, tra le mie braccia, Maki
si addormentò. Mi sciolsi da lei solo quando fui certa che
il suo sonno era
ristoratore, e non inquieto.
Alzai
lo sguardo verso l’alto,
prendendo un profondo respiro di sollievo, tirando su con il naso
mentre le mie
ultime lacrime si fermavano, accorgendomi che anche il temporale era
passato. Mossi
le spalle, sentendole doloranti, ma continuai a tenere una mano sul
capo di
Maki, accarezzandogli i capelli. Mi guardai intorno e mi resi conto che
riuscivo a intravedere il profilo della lanterna davanti a me, e che
addirittura riuscivo a intuire il tatami sotto di essa.
Mi
voltai verso lo Shoji, e
con la mano sinistra ne aprii uno spiraglio. Della luce soffusa, pian
piano,
illuminava il cielo, c’era ancora qualche nuvola, ma si
poteva vedere il color
rosa pastello del cielo. Anche il vento si era calmato, e portava con
sé
l’odore salmastro del mare.
Inspirai
a fondo quel profumo,
e poi voltai lo sguardo verso la mia amica.
Era
accucciata sulle mie
gambe, l’obi dello yukata si era leggermente allentato,
facendo così sformare
il tessuto verde del kimono.
Con
dolcezza, accarezzai la
sua guancia sinistra, togliendole i capelli, per poter vedere il suo
volto, e con
mio sollievo vidi gli occhi e la bocca rilassata, le labbra schiuse in
un’espressione di riposo, anche le mani al petto avevano i
pugni schiusi, le
dita sciolte da qualsiasi tensione.
Purtroppo,
quello era solo un
passo. Sarebbe servito molto più tempo, per Maki, per
riuscire ad uscire da
quel tunnel.
“È un piccolo passo, ma
è un passo in avanti.”
Già,
papà aveva avuto ragione
quella volta: la volpe tornò ancora alla nostra casa, a
spiarci da dietro
l’erba alta oltre il cortile, osservando i nostri movimenti,
avvicinandosi pian
piano fino a mangiare il cibo che le offrivamo; e credo che, ancora
adesso,
quella volpe vada ancora a trovare mio padre, in estate.
Accarezzai
la testa di Maki, e
sorrisi contenta, decisa a convincerla, una volta sveglia, di
accompagnarmi al
mare per una mezza giornata di riposo.
Con
quell’intenzione mi
appoggiai con la schiena sullo shoji e chiusi gli occhi, e mi
addormentai.
**
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Capitolo 8 *** 7: Al tramonto ... gli amici di Lui ***
7: Al tramonto …
gli amici di Lui
Sia
io che Takeru vedemmo
chiaramente la frustrazione di Kojiro mentre tirava il pallone a
scacchi.
Tutto
era iniziato come un
gioco: gli avevamo fatto visita, e dopo aver chiacchierato a lungo in
casa
avevamo deciso di fare qualche “scambio” e tiro in
porta, e inizialmente era
divertito all’idea, recuperando un vecchio pallone,
assicurandosi che non fosse
uno di quelli di “allenamento”.
Vederlo
con un vecchio pallone
sgangherato, la maglietta con le maniche tirate, il cappello sulla
testa e un
sorriso divertito sulla faccia fu davvero un tuffo indietro nel tempo.
Prendemmo
l’autobus come da
ragazzini, correndo perché stavamo rischiando di perderlo,
come al solito; ci
prendevamo in giro, ricordavamo gli allenamenti del coach Kira, le
partite, la
nostra rabbia e la nostra gioia ogni volta che eravamo su quel campo.
Ogni
volta, per noi, era una battaglia da vincere, ad ogni costo.
Arrivati
al campetto, ad un
tratto, Kojiro si bloccò, la sua stessa risatina
scemò velocemente, tanto da
portarmi a guardarlo, stupito.
E
vidi, nel suo sguardo, un’ansia
cupa e silenziosa. Ci aveva parlato dell’incidente, ma ci
aveva assicurato che
non sentiva quasi più dolore, che
l’attività fisica non era un problema, e che
avrebbe giocato più che volentieri; ora, di fronte a quello
sguardo, forse
aveva compreso che neanche lui era certo se aveva detto o meno una
bugia.
Dopo
qualche secondo lasciò
cadere il pallone a terra, muovendolo con i piedi, e io e Takeru ci
limitammo a
seguirlo, ad accompagnarlo silenziosamente dentro il campetto deserto.
Gli
scambi con cui scaldammo le gambe erano fatti in silenzio, erano i
nostri piedi
a parlarsi.
Quelli
di Hyuga, come al
solito, erano forti, nervosi, e sembrava che si stessero risvegliando
dal
letargo, compiendo quei movimenti, apparentemente semplici, con
entusiasmo,
anche impazienza; Sawada, dei tre, era il più preciso, era
in grado di passarla
in modo perfetto, con la giusta forza, in modo che la palla arrivasse
docilmente ai nostri piedi. Io, dei tre, mi ritenevo il meno abile,
anche
perché io utilizzavo molto le mani, e anche se avevo giocato
in un altro ruolo
per un certo periodo, non mi permettevo mai di fare chissà
quali acrobazie.
Il
sole, alle spalle di
Kojiro, andava verso un tramonto splendido, tanto che mi distrasse,
facendomi
alzare la testa e perdere la palla, recuperata velocemente da un
attento Takeru
mentre venivo ripreso dal “capitano”.
-Beh,
ti distrai?-
-Se
lo spettacolo vale la
pena, si.-
Si
girò a guardare il
tramonto, e guardai la sua schiena farsi scura.
La
schiena del mio migliore
amico. Vivo.
Quando
seppi dell’incidente,
ero così sconvolto che volevo soltanto raggiungere
l’ospedale dov’era stato
ricoverato; fortunatamente, la mia compagna Yasu era rimasta salda per
entrambi, e mi fece calmare, aspettando il mattino dopo per avere
notizie. La
sua famiglia ci accolse sollevata, e ci portò a vederlo, era
ancora in coma
farmacologico dopo l’operazione di emergenza.
Ora
era in piedi, davanti a
me. Vivo.
-È
bello averti ancora con
noi.-
Kojiro
si voltò a guardarmi,
sorpreso della mia confessione; percepii Takeru affiancarmi, con un
colpo di
punta spinse il pallone in mano, tenendolo tra le mani, e anche lui si
unì a quella
dichiarazione.
-Non
sarebbe mai stato lo
stesso senza di te.-
Ci
sorrise con gratitudine,
adesso aveva il sole alle sue spalle.
I
suoi occhi, anche controluce,
rivelarono tristezza, la punta di un iceberg che l’uomo era
bravo a nascondere.
-…
dai, riprendiamo a giocare,
prima che diventiate troppo melensi.-
Ridacchiammo,
e Takeru riportò
la palla ai piedi.
-Giusto,
devi tornare in forma
prima di tornare in Italia.-
Quell’affermazione
incupì
immediatamente il suo sguardo. Lo notai immediatamente.
-Ti
hanno richiamato?-
Scosse
leggermente il capo,
stringendo il pugno.
-Li
ho chiamati io, dicendo
che ero pronto a tornare. Pare che ancora non sono sicuri di rinnovarmi
il
contratto …-
-Che?!-
-Non
li biasimo: io stesso non
sono sicuro di quanto si sia ripreso il mio corpo
dall’incidente.-
-Senti
dolori? Continui a
prendere i farmaci?-
Scosse
il capo, ma mi rivolse
lo stesso sguardo che aveva da ragazzo: furioso e ansioso. Non avrebbe
mai
lasciato che il dolore fisico gl’impedisse di proseguire il
suo sogno, era fatto
così.
Gli
presi una spalla con la
mano, stringendola con forza.
-Andrà
tutto bene: sono
convinto che, anche se non torni alla Reggiana, avrai altre offerte.
Sei un
grande attaccante, qui lo sanno tutti. E lo sanno anche in Italia.-
Il
calcio europeo, nei
confronti di noi asiatici, aveva sempre avuto un atteggiamento snob,
trovandoci
ancora “immaturi” rispetto al loro modo di giocare.
Ma con Wakabayashi ad
aprirci la strada, seguito da Ozoora, pian piano i musi bianchi si sono
resi
conto delle capacità di noi giapponesi; Shingo, Kojiro e
Tomeya erano gli
esempi di come l’Italia non ci prendesse più
sottogamba.
Spostai
la mia mano dalla
spalla al berretto di Kojiro, prendendoglielo e calcandomelo in testa,
avvicinandomi alla porta sgangherata del campetto.
-Ehi,
quello è mio.-
-Dai
prestamelo, che sono
faccia al sole.-
Il
primo a farsi sotto fu
Sawada, che parai tranquillamente, mandando invece il pallone a Kojiro,
che lo
bloccò saldamente con il piede destro.
Mi
guardò, o meglio mi
squadrò, con quell’aria di sfida con cui aveva
sempre cercato d’intimidire il
portiere avversario, e poi caricò il tiro. Non
impiegò molta forza, e io lo
parai senza problemi, permettendomi di sfotterlo un po’.
-Oh-ho!
Sono riuscito a parare
un tiro del fortissimo Hyuga! Dai che sai fare di meglio.-
Gliela
rimandai senza
problemi, e lui sorrise divertito, passando però la palla a
Sawada, il quale
iniziò una serie di scambi.
Alla
fine, Kojiro caricò di
nuovo il tiro, e stavolta vidi chiaramente che ci stava mettendo forza,
e mi
preparai a parlarlo, ginocchia piegate e mani avanti.
Il
pallone fece una leggera curva,
e io lo acchiappai al volo, sentendolo tentare di sgusciarmi via dalle
braccia,
la forza nervosa del mio capitano infusa dentro quel cuoio. Mi permisi
di
parlare solo quando ebbi la certezza che l’oggetto era fermo
tra le mie
braccia.
-Tiri
come una donnetta!-
-Non
puoi permetterti di dire
queste cose: Yasu ha un tiro potente.-
Takeru
mi ricordò la mia
compagna, ed io sorrisi divertito, passandogli la palla.
-Ma
a lei non puoi certo dargli
della donnetta, con il carattere che ha!-
-Vedrò
di dirglielo la prossima
volta che la incontro.-
-Ah
no, pietà!-
Ridevamo,
divertiti all’idea
di una delle sfuriate di quel terremoto, quando mi resi conto che
eravamo solo
in due a divertirci davvero; per quanto stesse sorridendo, infatti,
Hyuga non
era affatto dello stesso umore.
Spalle
al sole, in controluce,
la sua figura solitaria parve più scura dell’ombra
ai suoi piedi.
Le
risate calarono quasi
bruscamente, era come se il tempo si fosse fermato in quei momento.
-Come
sta Maki?-
Takeru
ebbe più coraggio di me
nel chiederglielo, con un leggero colpo passò il pallone ai
piedi del nostro ex
capitano, il quale la fermò semplicemente bloccandole la
strada.
-Vorrei
saperlo.-
Aveva
un tono cupo, ma non
proseguì oltre, perché caricò il
piede, e stavolta lanciò una cannonata contro
la porta; reagì d’istinto, e tentai di bloccarla,
ma quella forza mi spinse
indietro le mani, e il cuoio s’insaccò dentro la
rete sgangherata dietro di me.
Recuperai,
diedi la palla a
Kojiro, e senza neanche passarla a Takeru, caricò nuovamente
il destro.
Tiro
della Tigre. Oramai mi
bastava un colpo d’occhio per capire che tipo di tiro mi
avrebbe fatto Hyuga.
In
quel caso ero quasi sicuro
che avrei fatto fatica, e probabilmente non sarei riuscito a pararla.
La
bomba mi arrivò dritta in
petto, e d’istinto le diedi una manata, per farla cambiare
direzione, ma accidentalmente
le feci colpire il palo; la palla schizzò così
all’indietro, e Sawada fu
costretto ad andarla a riprendere, correndo.
Mi
voltai verso Kojiro, e
ancora una volta ritrovai la sua rabbiosa ansia, era uno sguardo che lo
aveva
sempre accompagnato. Ma ora, in quel momento, era molto cupo, e non
presagiva
nulla di buono.
Takeru,
nel frattempo, tornò
con la palla tra i piedi, ma invece di farsela passare per tirare,
Hyuga decise
di andarsela a prendere, e tra i due iniziò una sfida di
piedi; quelli di Sawada
erano precisi, faceva sempre in modo di avere la palla sotto il
controllo di
una delle due estremità, e non aveva sempre bisogno di
guardare il gioco di
gambe, tenendo d’occhio il suo avversario.
I
piedi di Kojiro, come
all’inizio, erano impazienti, rabbiosi, e soprattutto tenaci:
non avrebbero mai
mollato, sarebbero riusciti a prendersi la palla ad ogni costo.
Difatti, alla
fine, con un colpo di punta riuscì a penetrare il
“balletto” di Sawada, e si
voltò verso di me, iniziando a correre, per darsi maggiore
spinta.
Io
tremai leggermente, come mi
capitava ogni volta che doveva affrontare un suo tiro:
l’emozione, dentro il mio
corpo, scatenava un brivido.
Ma
non era mai paura.
Era
aspettativa. Il desiderio
di riuscire, questa volta, a parargli una sua cannonata.
Lo
vidi caricare il tiro.
Raiju Shot.
Piegai
le gambe il più
possibile, aspettandomi il colpo, e all’impatto sentii
qualcosa di simile ad
uno schiocco; il bolide arrivò rasoterra, ma non mi buttai
in avanti, aspettando
che compisse la curva che lo faceva alzare. A quel punto, provai a
gettarmi
addosso, afferrandolo con le braccia, ma non mi aspettavo una curva
così
stretta, e il cuoio mi colpì il mento, la mia testa
andò all’indietro, e il
pallone fu libero d’infilarsi in rete.
Guardai
la palla agitarsi
ancora dentro la vecchia porta, questa addirittura slittò
leggermente indietro,
facendo una gran fatica a contenere quella forza. Quando alla fine, con
un
ultimo guizzo di vita, la palla decise di arrestarsi, mi voltai a
guardare
Kojiro assieme a Sawada.
Io
e Ken, da bambini, ci
eravamo giurati che saremo sempre rimasti fedeli al nostro capitano;
eravamo
compagni di squadra, e lo saremo continuati ad essere anche nella vita.
Lo
so, suona molto come
“promessa infantile”, di quelle fatte in un
tramonto con Mr.Fuji come sfondo e
una musica ad accompagnarci, per poi scoprire nella vita adulta che non
puoi
mantenere una simile promessa, perché la vita avrebbe diviso
le nostre strade;
ma nonostante la realtà ci abbia separato, io sono sempre
stato convinto di
quelle parole, e ora più che mai risuonavano dentro il mio
corpo mentre vedevo
il mio capitano stringere i denti e i pugni, a frenare una rabbia
crescente.
Io
mi limitai a fare cenno a
Wakashimazu, facendomi ripassare la palla, e con altrettanta calma a la
ripassai a Kojiro; la fermò con il blocco, e si
voltò a guardarmi. Inizialmente
sembrava che volesse uccidermi con lo sguardo, ma lentamente quella
rabbia si
sciolse, diventando una grande sofferenza, un dolore di cui non
riusciva a
liberarsi
Non
avevo bisogno di fargli
alcuna domanda: se voleva parlare, lo avrebbe fatto. Non sentivo
neanche il
bisogno di dirgli frasi tipo “andrà tutto
bene”, “passerà” o
“se hai bisogno,
noi ci siamo”: lui sapeva che poteva contare su di me e Ken,
così come noi
avevamo sempre contato su di lui. La nostra amicizia era oltre un
pallone a
scacchi, le battaglie perse e vinte, i nostri sogni. Era diventato un
legame
soldi e imprescindibile.
Così
Hyuga caricò di nuovo la
gamba, e di nuovo tirò; Wakashimazu provò a
parlarla, e fallì, trattenendola a
stento tra le mani. Io me la feci rimandare, e la passai nuovamente al
mio
capitano. Questo tirava, il portiere provava a fermare la palla, io la
riprendevo, e di nuovo la passavo.
Mentre
cominciava a fare buio,
quel meccanismo diventava sempre più perfetto, i gesti erano
sempre più veloci,
gli sguardi sempre più concentrati, i piedi più
calibrati, i tiri sempre più
potenti, e le mani iniziavano a capire come respingere, far cambiare
traiettoria alla palla, tanto che io e Kojiro cominciammo ad inseguire
la
palla: Ken la respingeva contro di noi, e la stoppavamo con piedi o
petto,
oppure le faceva cambiare traiettoria e farle colpire palo o traversa,
e noi
inseguivamo la sua parabola, riportandola indietro.
Non
saprei dire, però, chi di
noi si stesse effettivamente divertendo. Forse la palla stessa.
Hyuga,
ad un tratto, la bloccò
con il piede, ed io mi permisi di osservarlo: pian piano, avevamo
iniziato ad intensificare,
ed ora eravamo sudati e con il respiro un po’ affannato.
Vedevo le sue spalle
andare su e giù, i suoi occhi fissi sulla porta, come se
vedesse qualcosa in
essa; qualunque cosa fosse, era ciò che lui odiava di
più al mondo.
Probabilmente
erano gli uomini
che avevano aggredito lui e Maki.
Sapevo
della violenza fatta a
lei tramite Yasu, quando ci eravamo visti per andare a trovarli
all’ospedale, e
lei lo aveva saputo dalla signora Hyuga. Allora, come in quel momento,
ero
sicuro che se Kojiro li avesse ritrovati da qualche parte, li avrebbe
uccisi a
calci. Si, con la sola forza delle sue gambe.
Caricò
il tiro, e ancora una
volta fu un Raiju, ma questa volta era diverso dai precedenti:
l’odio e la
rabbia, pian piano, avevano dato maggiore forza ad ogni colpo, fino ad
arrivare
a quell’ultimo, una cannonata verso la quale Ken neanche
provò a parlarla,
limitandosi a scansarsi. La palla colpì la traversa, e come
una cometa schizzò
all’indietro, superando la metà campo, continuando
a rotolare fino a quando
perse tutta la sua forza, superando la rete e finendo in mezzo
all’erba alta.
Restammo
in silenzio a
guardarla, prima che l’urlo squarciasse il cielo viola.
-…VAFFANCULO!-
Mi
voltai di scatto, e vidi
Hyuga curvare la schiena in avanti, i pugni nuovamente stretti, le
braccia
tremavano nervose, e se lo portò verso la testa, respirando,
prendendo fiato
mentre io e Wakashimazu, lentamente, ci avvicinavamo.
Aspettammo,
come sempre, che
fosse lui a prendere la parola, pazienti e al tempo stesso ansiosi.
Dentro di
me, infatti, avevo avvertito la paura di perdere il mio capitano.
-…
non la sento da due
settimane. Non so cosa fare.-
Conoscendolo,
aveva chiamato
più volte il ryokan.
Si
ammutolì, e noi non avevamo
bisogno di altre informazioni: dalla spiacevole battuta che aveva fatto
a
proposito della compagna di Ken, avevo percepito il cambio di umore
dell’uomo,
molto più intenso di quello riferito al lavoro.
V’era
molta più angoscia.
-Non
si fida più di me.-
-Questo
sai che non è vero.-
Conoscevo
Maki, ero stato
presente ai loro primi incontri, e lei si era spesso rivolta a me per
chiedermi
consiglio. Pertanto ero sicuro che la donna non avrebbe mai perso
fiducia in
Kojiro, ci mettevo la mano sul fuoco.
Lui
si voltò a guardarmi,
rabbioso. Io rimasi calmo, avevo imparato a non temere quello sguardo
di fuoco,
a non temere quell’uomo.
-Allora
dimmi cosa devo fare.-
-Vai
da lei.-
Ricordo
perfettamente quella
partita, quando si conobbero: la squadra femminile di baseball contro
quella di
softball. Ricordo che lei mi aveva chiesto di dire a Kojiro che avrebbe
giocato, con un’aria così emozionata e contenta
… che fin da subito pensai
“sarebbe bello se il capitano potesse fidarsi di
lei”.
Maki
è sempre stata impavida.
Ma
ora aveva bisogno di aiuto
per riuscire a superare tutto questo.
-Sai
perfettamente che non
dovresti essere qui, ma lì con lei.-
Lo
ammetto: inizialmente,
avevo avuto anch’io un debole per quella ragazza. Era bella e
solare, il tipo
di persona con cui poter condividere anche i dolori della vita senza
che questa
perdesse la voglia di andare avanti.
Ma
ovviamente, un tipo come me
non è proprio il massimo per una persona del genere.
Hyuga
mi guardò con aria
infastidita.
-Credi
che non lo sappia?!
Credi che mi faccia piacere stare lontano da lei in questa situazione?-
-E
allora perché sei ancora
qui, eh? Spiegamelo un po’.-
Quando,
quel giorno che
dovevamo tornare dalla nostra squadra, Kojiro scese
dall’autobus, io mi sporsi
a vedere, e vidi Maki arrivare di corsa, inseguendo
l’autobus. Inseguito, vi
rendete conto? Si è messa a correre dietro un autobus, per
riuscire a
salutarlo. Ve l’ho detto: era impavida.
E
lo ammetto, invidiai il mio
capitano.
-Spiegami
perché non sei con
lei a tirarla fuori dalla sua sofferenza.-
-Ci
ho provato quando ero con
lei, ma non riuscivo nemmeno a toccarla. L’ultima volta che
l’ho abbracciata mi
ha respinto, si è spaventata. Aveva paura di me, capisci?-
Mi
fece quasi sorridere questa
frase: da piccoli, Kojiro aveva sempre fatto paura a chiunque, ma
questo lo
usava come punto di forza per la nostra squadra, e anche
successivamente
cercava sempre d’incutere timore nei confronti di lui e delle
sue capacità. Ora
ne vedeva l’aspetto negativo.
-E
io … io non so come
comportarmi! Non sono in grado di usare le parole, come te.-
Come
me?
-Io
… sono un tipo pratico,
devo mettere mano alle cose per farle funzionare. Ma questo
… questo va oltre
le mie capacità. Io … io non so come aiutare mia
moglie.-
Il
giorno in cui Kojiro mi
annunciò che si stava per sposare, non ne rimasi affatto
sorpreso: era solo una
questione di tempo prima che i due compissero questo passo. Si trattava
di
aspettare più che altro che lui si decidesse; e tuttavia, il
giorno prima delle
nozze, Maki si rivolse a me, rivelandomi il suo più grande
segreto.
“-Ho paura,
Takeshi. E se … se non riuscissimo ad essere
felici?-”
Avrei
potuto farle cambiare
idea, approfittarne, dirle dei miei sentimenti, ma non l’ho
feci.
“-Maki, tu hai l’amore
e il coraggio di arrabbiarti e litigare con Kojiro. Pertanto, qualunque
cosa
accada, sono sicuro che sarete in grado di andare avanti
insieme.-”
Adesso
avevo quella stessa
occasione fra le mie mani: potevo suggerire a Kojiro di divorziare, di
lasciarla perdere, potevo dirgli che era un’incapace, che non
era tutto questo
“grande uomo”. E avrei potuto sfruttare questa
occasione per avvicinarmi a lei.
Se
fossi stato quel tipo di
uomo. Ma avevo fatto la promessa di restare fedele al mio capitano, e
per
quanto avessi amato Maki, vedevo e sapevo chiaramente che erano fatti
per stare
insieme.
Pertanto
presi un profondo
respiro prima di riprendere la parola.
-In
questi casi non c’è
bisogno di gesti fisici, o grande parole.
Kojiro,
Maki ha bisogno della
tua presenza, del sapere che ci sei lì, in quel momento,
assieme a lei.
Non
vuole telefonate; vuole
te.-
Guardai
l’uomo, e non lo vidi
ancora convinto, e la cosa m’innervosii non poco, tanto che
alzai la voce.
Lo
ammetto, quando dissi
quella frase, ebbi paura della sua possibile reazione: dopotutto, lo
stavo
provocando.
-Se
non alzi quel grosso culo
che ti ritrovi, vado io da tua moglie.
Io,
non tu.-
Incrociai
le braccia sul
petto, e gli feci capire con lo sguardo che quelle parole non erano
solo una
minaccia campata per aria: sarebbero state una promessa. Dopotutto,
quando dico
una cosa, io la faccio.
Non
saprei dirvi chi ebbe lo
sguardo più sorpreso, se Kojiro o Ken, accanto a lui, ma
quell’ultima frase
sembrò iniziare a smuovere qualcosa dentro il mio ex
capitano, e sorrisi
divertito.
-Non
te l’aspettavi, vero?-
Andai
a riprendere la palla, lasciando
che le mie parole facessero il loro lento, ma efficace effetto; il
lampione
poco distante mi aiutò ad individuare il cuoio a scacchi, e
con i piedi lo
riportai sulla terra battuta mentre sentivo i miei amici scoppiare a
ridere.
Sorrisi
a mia volta,
camminando senza fretta, parlando ancora una volta.
-Allora,
torniamo a casa? So
che tua madre preparerà qualcosa di speciale per stasera.-
**
Una menzione speciale al personaggio Originale di Berlinene, Yasu. ^_^
|
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Capitolo 9 *** 8:Endometriosi ... la zia di Lei ***
8: Endometriosi …
la zia di lei
So
perfettamente che io e mia
nipote abbiamo un rapporto difficile.
Negl’ultimi
anni, le sue
scelte di vita hanno sempre incontrato il mio disappunto: la sua
carriera
sportiva, il suo comportamento per quanto riguardava la questione di
Hamukai
Jin, il suo fidanzamento e matrimonio con Hyuga Kojiro. A tutto questo
sono
sempre stata contraria, o quanto meno poco propensa ad accettarlo.
Personalmente,
infatti, ho
sempre considerato Maki come l’erede naturale di mia madre
per guidare la
futura famiglia Akamine, e ho sempre cercato di educarla secondo
l’idea che, il
giorno in cui Akamine-sama non sarà più a questo
modo, Maki dovrà essere pronta
a prenderne il posto.
Perché
lei è l’unica, in tutta
la nostra famiglia, che ritengo degna di questo ruolo.
Essendo
la seconda figlia
della capofamiglia, il mio ruolo mi ha permesso di
“guardare” alla mia famiglia
in tutta la sua composizione, dai parenti più vicini fino a
quelli di secondo
grado, che possono avere parola sulla questione ereditaria; per molto
tempo,
fra queste persone, non ne ho trovata alcuna che potesse essere una
vera guida
per la famiglia.
Non
si tratta solo di guidare
un’importante catena di ryokan, o di fare in modo che la
situazione economica
della famiglia sia sempre agiata, questi pensieri li hanno avuti mio
nonno e
successivamente mio padre, dove sono stata io stessa vittima e pedina
dei loro
piani. Mi hanno spinta ad un matrimonio combinato per arricchire
ulteriormente
la famiglia, per non interessarsi successivamente del mio stato
d’animo e
fisico a proposito della mia Endometriosi.
Si,
ne ho sofferto anch’io, e
per anni me lo sono portata dentro in silenzio, soffrendo e patendo con
l’unica
consolazione dello sguardo amorevole di mia madre. Ora lei è
la capofamiglia, e
fortunatamente, con la menopausa, anche il dolore è
diminuito. Sotto la sua
guida, anche senza schemi o piani d’arricchimento, la
famiglia ha prosperato.
E
Maki sarebbe in grado di
farlo prosperare ancora di più.
-Buongiorno
zia.-
Quella
mattina mia nipote
Tomoko mi portò la colazione, e già questo mi
lasciò perplessa: solitamente, il
Giovedì, era Maki che si occupava della colazione,
soprattutto per i clienti,
mentre Tomoko era impegnata con la spesa.
-Come
mai sei qui, Tomo-chan?
non dovresti essere a fare la spesa?-
-Se
ne sta occupando
Satoru-san, Oba-sama. Maki sta male.-
-Cosa
succede?-
È
vero: sono una persona
dall’atteggiamento freddo e composto. Mi è stato
imposto dai miei anni come
Maiko e poi come moglie, oltre che come figlia e nipote del
capofamiglia
Akamine. Educazione.
-Ah
… sembra che le sia
iniziato il ciclo, e non riesce pertanto ad alzarsi.-
Mi
sembra di sentire la voce
della mia domestica il giorno che non riuscii ad alzarmi dal futon, e
lo
macchiai di sangue; la giovane ne fu molto allarmata, tanto da andare a
cercare
immediatamente un medico.
Mi
alzai in piedi, facendo un
cenno della mano a mia nipote per farla stare in ginocchio.
-Natsuko-san
è con lei?-
-Ah
si, la zia è con lei …-
-La
nonna?-
-Ah,
anche lei è con Maki-chan
… dove andate, Oba-sama?-
-Fai
il giro delle colazioni.-
-Non
mangiate!?-
-Va,
Tomoko.-
Non
mi voltai a guardare mia
nipote, ma mi diressi in silenzio verso gli appartamenti privati della
famiglia; lungo il corridoio, incrociai mia cognata, il volto
impallidito e
segnato da una sincera e profonda preoccupazione. Appena
incrociò il mio sguardo,
si fermò e indurì gli occhi.
-Dove
state andando,
Oba-sama?-
-Da
mia nipote.-
-Vi
prego di lasciare in pace
Maki.-
Si,
è vero: io ho obbligato
mia nipote, uscita dall’ospedale dopo il suo terribile
incidente, a riprendere
a lavorare. È vero anche che ho fatto in modo che
rispettasse i suoi turni di
lavoro e non “oziasse” nel ryokan; ed è
sempre vero che ho cercato di non farla
allontanare dalla locanda neanche durante le festività Obon.
L’ho
fatto perché credevo di
proteggerla.
Mia
nipote è stata violentata
da tre uomini.
-Natsuko-san,
ho solo
desiderio di aiutare mia nipote.-
-Obbligandola
ad alzarsi dal
letto nel suo stato? No, Oba-sama. Vi prego di non avvicinarvi a lei.-
Ho
sempre provato una profonda
invidia verso mia cognata: conosco la bontà di mio fratello,
e so che è un
ottimo marito nei suoi confronti. In più ha avuto come
figlia Maki, che io ho
visto crescere fin da quando era una bambina.
Avrei
voluto avere io una
figlia così. Ma non mi è stato concesso.
Chinai
il capo in segno di
resa, e ritornai ai miei compiti nella locanda: aiutare a riassettare
le
camere, servire gli ospiti presenti, occuparmi della
contabilità e della
gestione delle prenotazioni.
Il
tempo, per me, è variabile:
può essere molto lento, quando mi trovo a guardare il mare
oltre gli alberi del
giardino, come può diventare estremamente veloce nel momento
in cui sono
immersa nel lavoro.
Colori?
Si … il mondo per me è
pieno di colori.
Ma
io vivo in un giardino di
gesso, costruito con le mie convinzioni, le mie paure e i miei desideri.
E
nel mio giardino, i colori
si stanno spegnendo sempre di più.
A
pranzo, quando Natsuko-san
era impegnata in cucina, provai ancora una volta ad andare da mia
nipote Maki;
riuscii a superare il corridoio questa volta e ad arrivare davanti alla
stanza
di mia nipote, quando incontrai mio fratello uscirne, con aria inquieta
e
sguardo basso.
Quando
incrociò i miei occhi,
lo vidi subito intristirsi.
-Scusa
Moe, ma non puoi
entrare.-
Non
mi sorpresi nemmeno questa
volta di quella richiesta.
Io
non sono una buona zia da
diverso tempo; probabilmente da quando Maki entrò al liceo,
e decise
d’iscriversi a softball, e d’inseguire il suo
sogno. Se non mi sbaglio, era
riuscita ad arrivare fino alla squadra olimpionica.
Ero
orgogliosa di lei?
Probabilmente, se non fossi stata così arrabbiata ed
invidiosa di lei, lo sarei
stata molto.
Ora
mia nipote aveva rischiato
di morire per i suoi sogni.
-Desidero
solo vedere come
sta.-
-Sta
meglio, ma ha bisogno di
riposo.-
-Pensi
che io non possa darle
riposo?-
-Vuoi
davvero che ti risponda,
Moe?-
Rimasi
leggermente ferita da
quelle parole, e Satoru credo lo percepì, perché
prese un profondo respiro e
cercò di usare un tono affabile.
-Ascolta,
ti chiedo di
lasciarla in pace solo per oggi. Per favore, imoto-chan.-
Sorellina.
Non
ci chiamavamo più
“fratellone” e “sorellina” da
molti anni.
Sentirgli
usare
quell’appellativo mi fece stringere il cuore: cercava di
essere affettuoso, ma
oramai quel sentimento lo aveva giustamente dato tutto alla sua unica
figlia.
Ancora
una volta, chinai il
capo come resa, e mi allontanai; nel corridoio, incrociai Jin Hamukai,
il
figlio adottivo di mia madre. Immediatamente fece un rispettoso
inchino,
riallacciandosi i bottoni della camicia sul colletto.
No,
non corre buon sangue tra
me e lui: lo considero un elemento esterno alla famiglia, ma Maki aveva
convinto la capofamiglia ad adottarlo e farlo entrare nel nostro nucleo
familiare. Lei aveva avuto la testardaggine e la forza di superare
l’ostacolo
ed ottenere questo.
-Perché
sei qui?-
No,
non riuscivo ad avere un
tono gentile nei suoi confronti.
-Sono
venuto a trovare mia zia
Maki, Oba-sama.-
-In
questo momento Maki ha
bisogno di riposo. Ti chiedo di andartene.-
-Jin!-
Ci
voltammo entrambi, alle mie
spalle Satoru stava arrivando.
-Ben
arrivato Jin. Vieni pure,
Maki sarà contenta di vederti.-
Guardai
mio fratello
accogliere quel ragazzo con un sorriso e una mano sulla spalla,
accompagnandolo
lungo il corridoio e scomparendo dalla mia vista mentre raggiungevano
la stanza
di mia nipote. Quella stessa stanza che io non potevo raggiungere.
Lentamente,
mi diressi verso
il giardino, dove mi sedetti a guardare il mare.
Quando
ero giovane, per
sfuggire da tutti, andavo a passeggiare sul bagno asciuga, lasciando
che il
suono del mare diventasse parte di me; adesso il mio corpo mi rende
difficile
scendere quelle stesse scale di pietra, che una volta percorrevo senza
timore.
Una
volta pensai anche di
morire affogando nel mare, dato che non so nuotare. Non ho mai avuto
paura
della morte.
Invece
ero lì, seduta, a
guardare il mare, pensando al mio giardino di gesso.
E
pensai a Maki.
La
prima volta che la conobbi
aveva cinque anni; le avevano messo il kimono, e me l’avevano
presentata il
giorno della festa delle bambine. Aveva occhi scuri e grandi, pieni di
energia
e meraviglia; mi rivolse un inchino, e mi sorrise mentre mi salutava.
Passai
l’intero pomeriggio a guardarla, a guardare la sua famiglia,
e a ripensare al
mio giardino di gesso.
Tra
le statue al suo interno,
ho sempre conservato quella della figlia che avrei voluto avere, se il
mio
corpo me l’avesse permesso: sarebbe stata una bambina dal
viso rotondo, con
occhi grandi e un sorriso dolce, un kimono a fiori per la sua festa
delle
bambine, e un profondo amore per il mare.
-Moe
…-
Mi
voltai, uscendo dai miei
pensieri, e incontrai lo sguardo affettuoso di mia madre; sbattei gli
occhi, e
mi resi conto che delle lacrime stavano scendendo dalle mie guance.
-Ah,
madre, vi chiedo scusa.-
-Sei
triste, Moe?-
Mia
madre Kyoko si accomodò
accanto a me, mentre scuotevo il capo: no, non ero triste. O forse lo
sono
sempre stata, e non sono mai riuscita a liberarmi di quella sensazione.
-Come
sta Maki, madre?-
Vidi
il suo volto incupirsi,
le sue mani si unirono sopra le ginocchia piegate nella posizione seiza.
-Non
bene. Ma combatte.-
Mia
nipote ha subito violenza
da tre sconosciuti, che le hanno fatto de male ed hanno ferito
gravemente il
suo sposo; l’hanno presa e poi buttata, lasciandola soffrire
su una strada
malsana di un vicolo, incuranti. Per almeno tre giorni è
stata in coma
farmacologico, incerta se vivere o lasciarsi andare, per poi tornare
con
addosso l’angoscia di quello che aveva passato.
Annuii,
tornando a guardare il
giardino davanti a noi.
-So
che hai cercato di farle
visita due volte.-
-Si,
ma a quanto pare la mia
presenza non le giova.-
Mia
madre non mi rispose, e
non sentire qualcosa come “non è vero”
oppure “ti stai sbagliando”, forse mi
fece soffrire molto di più dell’atteggiamento di
Natsuko o Satoru.
-Anche
voi lo pensate, vero
madre?-
Mi
voltai a guardarla, a
guardare quel volto segnato dalla vecchiaia e dalla fatica, oltre che
dall’ansia, in quel momento, per la sua unica nipote femmina.
-Voi
pensate … che io sia
ingiusta verso Maki, no? Che io mi comporti male nei suoi confronti.
Tutti lo
pensano, anche Tomoko, ne sono certa.-
Ho
superato i cinquant’anni,
non mi è più possibile tornare indietro: il mio
tempo è finito molto tempo fa
in maniera brusca, quando avevo poco più di
vent’anni e non sarei mai in grado
di cambiare il mio giardino di gesso. Le statue pesano troppo per il
mio stanco
corpo.
-Credete
che io … debba
cambiare atteggiamento? Essere più gentile con lei?-
-Dimmi
una cosa, Moe: tu vuoi
bene a Maki?-
Ripensai
a quella bambina con
il kimono azzurro coperto di fiori di ciliegio, che mi era stata
presentata
alla festa delle bambine. Ripensai alla ragazzina che tornava sudata
dagl’allenamenti, e alla donna che si preparava per il suo
matrimonio.
Maki
è testarda, in certi casi
rozza, facile all’istinto, veloce ad arrabbiarsi e manesca.
L’ho
invidiata, delle volte mi
ha delusa, ha suscitato in me rabbia, e spesso non l’ho
compresa nelle sue
scelte.
-…
si, madre. Le voglio bene.-
-Allora
non cambiare. Non
saresti tu.-
Mia
madre è una delle poche
persone che accetta il mio modo di comportarmi; mi ha viziato,
accettando il
mio cieco dolore e lasciandomi trasformarlo in freddezza e distacco,
permettendomi di attaccarmi in maniera ossessiva alla famiglia, al suo
onore e
al suo bene. E in questo modo sono diventata ciò che sono.
Restammo
in giardino il resto
del pomeriggio, raggiunte prima da Natsuko e poi da Tomoko; alla sera,
tutti
noi ci radunammo per cenare assieme, anche Hamukai era presente, ma
decisi di
non lamentarmene.
Quando
ci ritirammo tutti a
dormire, sulle prime Natsuko si era offerta di andare a controllare
Maki, ma
mia madre le impose di andare a riposare, che aveva avuto una
“dura giornata”.
Prima di andare a dormire, però, mi rivolse
un’occhiata complice, che mi lasciò
sorpresa.
Quando
sentii che tutto era
tranquillo, sgusciai via dal nostro piccolo salottino, e mi diressi per
la
terza volta verso la camera di Maki.
Mi
sentivo nervosa, e
controllai che non ci fosse nessuno né nel corridoio,
né oltre l’uscio della
stanza.
Aprii
lentamente la porta, e
mi resi conto che c’era una luce accesa, una piccola lampada
lasciata accanto
al futon; su questo, mia nipote aveva un’aria profondamente
sofferente, il
volto era sudato e i capelli scompigliati. Accanto a lei le medicine,
un
bicchiere e una bottiglia d’acqua.
M’inginocchiai
accanto a lei,
e le toccai la fronte con il dorso delle dita; era ancora calda, e mi
guardai
intorno, certa che ci fosse una bacinella con acqua fredda e una
pezzuola. Mi
allungai per prenderla, e in silenzio immersi la pezzuola, la strizzai
e
asciugai il volto di mia nipote.
La
vidi socchiudere gli occhi,
guardarmi e poi spalancare gli occhi, stupita.
-Ah
… O … Oba-sama.-
-Hai
preso le tue medicine?-
Negò
con un lento movimento
della testa, e presi le sue pastiglie: integratore di vitamina C e anti
dolorifico. L’aiutai a sollevarsi quel tanto che le bastava
per prendere le
pastiglie e bere, rimettendola di nuovo giù, passando
nuovamente la pezza sul
volto.
Mi
guardo con aria stupita, e
ricambiai lo sguardo con altrettanto stupore.
Una
scena del genere, tra noi
due, non succedeva da un periodo così lungo che non
ricordavamo.
Lentamente,
con timidezza, una
sua mano uscì fuori dal futon, e si sporse verso di me; la
guardai con ansia,
per un attimo pensai che se l’avessi presa, tutto il duro
lavoro e i continui
scontri tra me e lei non sarebbero serviti a niente, e mi sarei arresa
di
fronte al suo modo di fare. Poi ripensai alla bambina, al suo sorriso,
alla sua
fiducia in me, anche se ero un’estranea.
Presi
quella mano molto delicatamente,
all’inizio con solo due dita, poi con tutto il resto, e pian
piano la strinsi,
nonostante la mia pelle fosse fredda rispetto a quella bollente di Maki.
Mia
nipote era stata
violentata da tre uomini. Ora soffriva per l’Endometriosi. E
mi stava soltanto
chiedendo di tenerle la mano; potevo fare una cosa del genere, per una
volta,
no?
-Maki
…-
Parlai
così, senza pensarci.
Le vidi gli occhi alla luce della lampada, e aumentai leggermente la
presa,
temendo che potesse allontanarsi.
-Se
vuoi puoi arrenderti. È un
tuo diritto.-
Aveva
combattuto come sportiva,
come ragazza e come moglie.
Ma
ora era avvenuto qualcosa
di davvero terribile, che l’aveva ferita come donna.
Se
per una volta si fosse
arresa, da parte mia non avrebbe ricevuto nessuna critica, nessun
disprezzo
anzi: le sarei rimasta accanto.
Mi
guardò con molta sorpresa,
e sembrò pensarci seriamente, tanto che le vidi gli occhi
diventare lucidi.
Poi,
com’era solita fare,
strinse i denti e scosse la testa, anche se con molta lentezza.
-…
non posso, Oba-sama. Non
posso farlo.-
Annuii,
continuando a tenerle
la mano.
Al
contrario di me, di ciò che
ero stata alla sua età, Maki si amava e si rispettava
profondamente: io mi ero
arresa di fronte al mio capo famiglia e alla società che
avevo intorno. Lei non
si sarebbe arresa mai per nessuno.
Era
il motivo per cui la
odiavo … e le volevo così bene.
Era
questo che la rendeva, a
mio parere, la perfetta erede di mia madre Kyoko, come capofamiglia
Akamine.
-Capisco.
Allora stringi i
denti, Maki. Tieni duro.-
Mi
guardò con le lacrime
agl’occhi, e annuì, stringendo la presa sulla mia
mano.
Gliel’avrei
lasciata andare,
per andarmene, ma mi trattenne, guardandomi con aria supplichevole.
-Per
favore … Oba-sama: fa
venire Kojiro.-
Era
la prima volta che mi
chiedeva una cosa del genere; di solito, certa della mia risposta,
faceva
sempre di testa sua.
-Io
… voglio mio marito … qui
con me. Per favore.-
Chiuse
gli occhi, ma continuò
a tenermi la mano. Quando li riaprì, aveva il suo solito
sguardo deciso, di chi
lo avrebbe chiesto ancora e ancora, fino ad ottenere un
“si” come risposta.
Presi
un profondo respiro,
prima di risponderle.
-Va
bene Maki. Ora lo chiamo.-
Solo
allora mi lasciò la mano.
Mi
alzai in silenzio, e uscii
dalla sua stanza senza voltarmi indietro.
Sapevo
perfettamente che non
avrebbe detto a nessuno della mia visita, e io non avrei rivelato a
nessuno di
quello che avevo fatto; invece, con calma, mi diressi verso il telefono
sull’entrata del Ryokan, prendendo l’agenda sotto
di esso, e componendo il
numero telefonico della casa della famiglia Hyuga.
Ci
misero tre squilli prima di
rispondermi.
>Pronto,
casa Hyuga.
-Buonasera.
Sono Moe Akamine,
la zia di Maki. Perdoni l’orario in cui sto chiamando, ma
desidero parlare con
Hyuga Kojiro.-
>Ah,
buonasera,
Akamine-san. Ora glielo chiamo.
-La
ringrazio, Hyuga-san.-
>Pronto?
Akamine-san?
-Buonasera,
Hyuga-kun. Sono
Oba-sama.-
>O-Oba-sama?!
-Mi
scuso per l’ora tarda, ma
le ho telefonato per informarla che Maki desidera che la raggiunga qui
al
ryokan al più presto.-
>Ah
… davvero?
-Si,
davvero. Se per favore
può fare entro domani.-
>Ma
certo, si. Parto con il
primo volo.
-Molto
bene. La manderò a
prendere. Buona sera, Hyuga-kun.-
Chiusi
la conversazione senza
attendere la sua risposta, e mi accinsi a chiamare il servizio taxi,
dato che
Satoru meritava di riposare, dopo aver vegliato su sua figlia.
No,
non sono una buona zia.
Vivo in un giardino di gesso, e non uscirò da esso.
Ma
per una volta, per la mia
amata nipote, potevo fare un’eccezione.
**
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Capitolo 10 *** 9: Ritorno...il physical coach di Lui ***
9: Ritorno … il physical coach di Lui
-Si pronto?-
>Mazzantini-san? Sono Hyuga.
La sua telefonata arrivò allo stesso modo in cui lui era piombato nella squadra anni prima: inaspettata e irruenta, anche considerando l’ora, le sei del mattino.
Torino era grigia, ma inaspettatamente non c’erano nuvole, segno che sarebbe stata una bella giornata; probabilmente era un messaggio per avvertirmi di quello che sarebbe successo, ma le cispe negli occhi non me lo facevano vedere chiaramente.
-Oh, Hyuga, che piacere sentirti. Come stai?-
Avevo letto del suo incidente sui giornale e l'avevo sentito nelle chiacchiere all’interno dell’ambiente calcistico, dove però nessuno sapeva niente di certo, considerando anche che quel giovane uomo aveva la straordinaria capacità di mantenere una profonda riservatezza, sia su di lui che sulla sua famiglia.
La gravità della sua condizione fisica era venuta a galla solo nella riunione con gli altri membri dello staff, dove uno dei miei colleghi conosceva l'allenatore della Reggiana e gli aveva raccontato che era stata messa in discussione la sua carriera sportiva, in particolare il rinnovo del contratto con la squadra.
>Le chiedo scusa per l’orario, spero di non averla svegliata.
Effettivamente si, ma sentire la sua voce provenire dalla cornetta mi aveva creato un tale stupore che il fastidio di essere stato svegliato prima della mia sveglia era passato in un istante.
-Ma no, non preoccuparti.
Dimmi pure, di cosa hai bisogno?-
>Mi hanno telefonato dalla Reggiana: hanno confermato il mio contratto anche per il prossimo campionato.
-Oh, è splendido! Congratulazioni!-
Fu un vero sollievo ricevere quella notizia da lui stesso, avevo saputo addirittura che la sua carriera sportiva era stata compromessa con l'incidente. Ma, come sempre, quel ragazzo era riuscito a superare anche questo ostacolo e a sorprendere tutti.
>La ringrazio.
-Te lo meriti, sei un ottimo giocatore. Sono sicuro che adesso la Juve ti terrà ancora più d’occhio.-
E io potevo dirglielo con una certa sicurezza: mi era stato chiesto, prima dell’incidente, anche osservando le partite della serie C1, cosa ne pensassi di Hyuga.
La mia risposta fu che era un ottimo attaccante, e stava diventando un atleta fisicamente equilibrato, e che sarebbe stata una grave perdita se qualche altra società fosse stata più veloce di noi nell'ingaggiarlo. Tutto questo mentre mi toccavo lo stomaco e ricordavo tutte le pizze che mi aveva mandato ogni volta che faceva goal.
>Tuttavia sento di aver bisogno di un allenamento più intenso prima di tornare in campo. Lei saprebbe indicarmi un altro coach a cui rivolgermi a Reggio Emilia?
Lo ammetto: un po’ mi diede fastidio quella richiesta, ma semplicemente perché avrei tanto voluto seguirlo io, come avevo fatto inizialmente.
Hyuga, quando si allenava o giocava, era capace di passare la sua energia a chiunque, ed io stesso mi ritrovavo a sfidarlo, a metterlo costantemente alla prova, quasi incredulo di fronte alla sua intensità.
Chiunque avrebbe preso il mio posto, in quel momento, si sarebbe trovato davanti un animale, anzi una forza della natura, che si controllava a fatica.
Mi spostai dalla cucina dopo aver versato il caffè nella tazzina, dirigendomi nello studio dove avevo la mia rubrica di contatti, iniziando a sfogliarla.
-Certo, ti posso passare due-tre contatti che sono sicuro saranno entusiasti di seguirti. Te li manderò via mail, va bene?-
>La ringrazio coach.
-Figurati.-
Non sono mai riuscito a farmi dare del tu da lui; ancora adesso mi chiama sempre “coach”, e non sono sicura se lo fa per troppo rispetto o perché effettivamente si ricorda solo il mio cognome. Non mi stupirei.
Percepii una voce vicino a lui, di donna.
>Si, lo sto chiamando ora … certo, va pure. A dopo.
Sono sicuro che fosse sua moglie. Ricordo di averla vista un paio di volte assieme a lui, una donna dall’aria giovanile e atletica.
Proprio in quel momento, vidi mia moglie affacciarsi sullo studio, con aria stupita e la vestaglia addosso; la salutai con un cenno della mano, per poi sussurrarle a bassa voce la persona con cui parlavo. Sorrise, sorpresa quanto me di quella telefonata, e mi fece cenno di salutarlo per lei, dirigendosi poi verso la moka per versarsi anche lei del caffé.
>Coach, è ancora in linea?
-Certo Hyuga. C’è altro, ragazzo?-
>Ecco … avrei bisogno di un altro favore.
-Se posso aiutarti chiedi pure.-
Il tono cambiò molto, forse anche complice il piccolo scambio di battute con la compagna: anzitutto abbassò il volume, come per non farsi sentire, cosa insolita per lui. E poi non sembrava capace di formulare correttamente la frase.
>Vede … si tratta di mia moglie. Io … io voglio … no, desidero portarla in Italia con me.
-Mi sembra una cosa splendida.-
>Si, infatti. Tuttavia … ecco, vede coach …
Si sentiva che era a disagio con quello che voleva chiedermi.
>...mia moglie soffre di Endometriosi.
… ho già detto che quest’uomo è la persona più riservata che conosca, no?
Ebbene, quando mi rivelò quest’informazione, anzitutto mi venne da ribaltarmi dalla sedia, perché non me l'aspettavo proprio per niente; successivamente mi sentii in dovere di proteggerla come il più grande segreto del mondo.
Mi appoggiai molto lentamente con un braccio sul tavolo nello studio, mentre mia moglie mi portava la tazzina con il caffè che avevo momentaneamente abbandonato in cucina, evidentemente stava diventando freddo.
>So che lei … o meglio so che sua moglie è in quel campo medico… sa qui in Giappone … abbiamo difficoltà a trovare specialisti e cure valide. So però … che in Italia ci sono ricerche più approfondite … e maggiori possibilità di cura ...
Mia moglie stava per allontanarsi dopo avermi poggiato una mano sulla spalla, quando le presi velocemente il polso, guardandola dritta negli occhi. Rimase colpita, chiedendo con un cenno della testa che succedeva, e io semplicemente allentai la presa, tenendola però lì vicino a me.
>Vede, coach … io e mia moglie … abbiamo subito un grave incidente.
-Si, ne sono stato informato.-
>Immaginavo. Vede … mia moglie, dei due, è quella che ha subito i danni più gravi.
Endometriosi, incidente. Era facile intuire a cosa si riferisse, e guardai nuovamente gli occhi scuri di mia moglie, la quale la vidi preoccuparsi.
-Cosa c’è, caro?-
-… Hyuga aspetta, mia moglie è qui con me. Aspetta che te la passo.-
>Ah, va bene, grazie coach.
-È molto importante cara.-
-Va bene.
Pronto, Hyuga? Sono Anna Mazzantini. Dimmi pure.-
Presi il mio caffè e mi allontanai, leggermente scosso, guardando il paesaggio fuori dal balcone della cucina.
Ho sempre provato ammirazione nei confronti di quello sportivo, di quell’uomo; e in quel momento, sentii che quella stima cresceva.
Bevvi il mio caffè, cercando di calmare lo stato di leggera ansia che mi aveva preso nei confronti di quella scoperta; poi, dopo aver posato la tazzina nel lavandino, raggiunsi nuovamente mia moglie Anna, il cui sguardo era rimasto calmo.
-Il Centro che ti ho suggerito si trova a Roma o a Milano. Io personalmente conosco due ricercatrici che operano a Milano, e con cui posso metterti in diretto contatto.
Il direttore è una persona in gamba, ancora adesso sta proseguendo studi per nuovi test di diagnosi e nuove cure, ti puoi fidare.
Allora ti passo tutto nella mail di mio marito, va bene?
Si, è qui con me, vuoi parlarci? Certo.
Ma figurati Hyuga. Tienimi aggiornata, va bene? Per qualsiasi cosa possa servire non esitate a chiamarmi.
A presto.
Caro.-
Ripresi la cornetta prendendo un respiro profondo, e lei sorridendomi mi prese una mano, e stringemmo le nostre dita con energia.
-Hyuga?-
>Coach … io le sono molto grato. Davvero.
-Non devi ringraziarmi, ragazzo. Questa volta il merito è di Anna.-
>Non sapevo proprio a chi rivolgermi, mi scuso per il disturbo.
-Hyuga, ragazzo, tu non mi disturbi. A me fa solo piacere poterti dare una mano.
Dev’essere stato duro questo periodo, vero?-
>Si …
Da quando lo conobbi fui un testimone dei suoi progressi e delle sue battaglie. Mi sentii, pian piano, entrare dentro la sua vita sportiva; e in quel momento stavo entrando anche nella sua vita personale.
-Vuoi parlarne?-
> … ho rischiato di morire, coach.
E mi raccontò l’incidente.
Rimasi profondamente colpito non solo dall’accaduto, ma anche dal suo modo di raccontarlo: secco, onesto e ancora rabbioso, specie per quanto accadde alla moglie, di cui però mi disse solo lo stretto necessario, dimostrando come sempre la sua grande discrezione e il suo rispetto.
>Quando mi sono risvegliato, in ospedale … ne sono rimasto molto sorpreso. Ero sicuro che sarei morto, coach, lo sentivo chiaramente. Invece sono vivo.
-Sei stato molto fortunato, Hyuga.-
>Lo penso anch’io.
Ma non ne era completamente convinto, potevo percepirlo nella sua voce.
-Che succede, ragazzo?-
>… coach, nella mia vita sono sempre riuscito a sostenere la mia famiglia. Ma … ammetto di non essermi mai sentito una presenza fisica forte e sicura, come poteva essere mio padre; in quei casi c’era mia madre, ma quando ebbe un collasso per la fatica ho sentito crollarmi il mondo addosso.
-E pensi che adesso sia lo stesso?-
>No. Ma penso che, se fosse morta Maki, non avrei saputo cosa fare; ed ora che lei ha bisogno di me, a volte mi chiedo se sono davvero in grado di aiutarla, di sostenerla, quando fino a poco tempo fa l’avevo lasciata sola. Negli ultimi giorni sento che, se facessi un passo falso, potrei distruggere tutto quello che abbiamo costruito. Io … credo di essere un pessimo marito, coach.
Ah, come suonava familiare quella frase; sorrisi, appoggiando tutta la schiena sulla sedia.
-Sai, Hyuga, questo è stato il mio stesso pensiero, e delle volte lo è ancora.
Niente è più difficile e più appagante del costruire la tua vita assieme alla persona che si è scelto, poiché ti confronti nella vita di tutti i giorni.
Ci sono momenti molto difficili, specie nel tuo caso in particolare, e sono sicuro che, al posto tuo, avrei i tuoi stessi dubbi e la tua stessa angoscia. Quello che posso dirti, ragazzo, è che non sei da solo ad affrontare questo momento: tua moglie è lì, probabilmente con i tuoi stessi pensieri.-
Non lo sentii rispondere subito, ma era chiaro che ci stava pensando, e questo bastava: per uno come Hyuga, se una cosa gli entrava in testa, ci sarebbe rimasta fino a quando non l’avrebbe risolta o vissuta a pieno. E per una cosa del genere, aveva tutta la vita davanti.
Quando la Juve non gli permise di giocare, per via dei suoi “problemi” fisici, lui ci mise tutto se stesso per riuscire a superare quell’ostacolo, rivelando una tempra d’acciaio; io stesso pagai l’affitto e il trasporto della macchina per il controllo fisico e andai da lui, a Reggio Emilia, per controllare. E ce l’aveva fatta.
Come? Nella maniera più artigianale e barbara possibile: si era legato una catena nella parte del corpo da rinforzare e ci si allenava. Roba da pazzi. Ma ce l’aveva fatta.
Ed ero convinto che anche in quel caso, per quanto fosse diverso, avrebbe trovato il modo migliore per lui per riuscirci. E probabilmente sua moglie era come lui.
-Dimmi Hyuga, com’è tua moglie?-
>Hm? Maki?
-Si, che tipo di persona è? Sai, non ho avuto mai il piacere di conoscerla.-
>Lei … è molto forte, decisa: quando vuole una cosa, s’impegnerà al massimo per ottenerla.
Proprio come lui.
>Ha una grande energia, non riesce a stare ferma.
Proprio come lui.
>Delle volte è testarda, aggressiva, ma non è una persona cattiva, anzi: non conosco nessuno così onesto e fedele nei confronti degli amici e della famiglia.
Forse solo Hyuga.
-E dimmi: litigate molto?-
>Altroché! Abbiamo litigato proprio stamattina.
-Ah, e com’è andata?-
>Ah, abbiamo urlato, anche parecchio, tanto che sua zia è venuta a sgridarci, lei è una persona molto severa, ed eravamo nella locanda, disturbavamo i clienti.
Ci siamo detti di tutto, anche cose pesanti. Però alla fine ci siamo calmati.
-E dopo, com’è stato?-
>Dopo …
Lo sentii interrompersi, e presi subito la parola.
-Fidati Hyuga: se ho capito com’è fatta tua moglie, e se ti conosco abbastanza bene, sono sicuro che le cose andranno per il meglio. Abbi fiducia.-
Un raggio di sole entrò nello studio dalla finestra, e mi voltai a guardarlo, stupito, era così raro vedere una tale luce a Torino; il cielo, sopra i tetti, era azzurro terso. La giornata ideale per andare fuori e farsi quattro passi.
-Dimmi, com’è il tempo lì?-
>Ah, è sereno. Una bella giornata.
-Già, anche qui. Quasi quasi vado a fare quattro passi fuori con mia moglie.-
>… credo che seguirò il suo esempio, coach.
-Ottimo! Allora buona passeggiata, Hyuga. Ci sentiamo presto.-
>… Grazie di tutto, Alfredo.
Rimasi stupito nel sentire, per la prima volta, il mio nome pronunciato proprio da lui. Faceva … davvero uno strano effetto. Sorrisi.
-Buona giornata e buona fortuna.-
Chiusi la telefonata, fissai qualche secondo la cornetta. Poi mi alzai e diressi verso la cucina.
-Tesoro!-
-Si?-
**
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Capitolo 11 *** 10: Con dei mochi...la nonna di Lei ***
10: Con dei mochi … la nonna di lei.
Il ryokan Akamine è uno dei più antichi e appartiene a questa famiglia da diverse generazioni, ancora prima delle due guerre mondiali.
Quando entrai a lavorarvi, come cameriera, ricordo perfettamente che la prima volta che conobbi il mio futuro marito aveva addosso l’uniforme militare; quando prese in mano l’attività di famiglia quegli abiti rimasero appesi ad una delle pareti di casa, a ricordare “l’onore che aveva portato”, anche se combatté solo per l’ultimo anno.
Per me questa locanda affacciata sul mare, più di ogni altro luogo, è casa: qui vi ho lavorato, anche dopo essermi sposata, qui sono tornata a vivere dopo che mio suocero morì, allontanandomi dalla casa patronale, qui ho protetto Moe dopo che suo marito l’aveva ripudiata, qui ho visto crescere il mio raggio di sole Maki.
Lo considero un luogo sacro, e sono convinta che la dea Amaterasu, ogni tanto, venga a farci visita; una volta la vidi, quando ancora ero una giovane cameriera, pertanto credo che questo posto riesca a dare sollievo alle persone, che le conforti e dia loro fortuna.
E poi lo amo perché è vicino al mare, e dunque anche il fratello di Amaterasu, Susanoo, veglia su questo luogo, sebbene il dio non sia stato sempre gentile o misericordioso con me: mio marito è morto in mare a causa di una burrasca e mia figlia Moe ha tentato di suicidarsi buttandosi in acqua, così com’è successo qualcosa di simile a mio nipote Jin.
Il mare è sempre stato severo con la nostra famiglia.
Forse per via del nostro legame con la dea del sole, i due fratelli non vanno d’accordo tanto facilmente.
-Nonna.-
Mi voltai, mia nipote Maki mi stava raggiungendo sul portico che dava sul giardino, in mano aveva un vassoio con tè e mochi, i miei dolci preferiti.
-Ecco qua nonna.-
-Grazie raggio di sole. Kojiro?-
-Ci raggiunge fra poco, in questo momento sta telefonando in Italia.-
-Ah, ci sono buone notizie?-
-Quelli della Reggiana lo hanno contattato per confermare la data per il rinnovo del contratto.-
-Bene, bene, mi fa davvero piacere.-
Sorseggiammo il tè e guardammo il paesaggio, era davvero una bella giornata: il sole era caldo sulla faccia e il mare era pacifico, mi faceva ricordare il giorno in cui Amaterasu si presentò nella locanda.
-Che bella giornata, vero nonna?-
-Già. Mi ricorda il giorno in cui vidi Amaterasu.-
È una storia che racconto sempre ai miei nipoti, perché piace molto.
Ho insegnato a raccontare storie ai miei figli, e ancora adesso mi piace radunare la mia famiglia per delle serate attorno al tavolo a raccontare e chiacchierare, magari nelle fredde sere d’inverno.
-Ma davvero l’hai vista, nonna?-
Purtroppo nessuno mi ha mai creduto, nemmeno la mia stessa nipote. Eppure fu proprio la dea del sole ad avvertirmi del suo arrivo; io però sorrisi, facendo spallucce, oramai erano tanti i dubbi attorno al mio racconto che quasi mi divertivo nel farli crescere o smorzare.
-E chi lo sa? Sono passati tanti anni. Allora ero piccola, e magari la mia memoria mi prende in giro.-
-Però sei ancora così brava a raccontarla.-
-Perché ti piace sentirla.-
-Allora raccontamela.-
-Ancora?! La sai a memoria!-
-Che cosa?-
Mi voltai alla mia destra, mia nipote Tomoko apparve con aria curiosa, il suo kimono era più lento del solito, segno che doveva aver finito di lavare le vasche del bagno.
-Tomoko, hai il kimono lento.-
-Ah cavolo, chiedo scusa nonna.-
-Aspetta, Tomo-chan, ti aiuto io.-
Guardai Maki alzarsi e aiutare Tomoko a sistemarsi, e mi venne in mente la famiglia Akamine: ultimamente mi facevano continue pressioni sul nominare l’erede che avrebbe preso il mio posto alla mia dipartita.
Ovviamente io facevo presente che ero in perfetta salute, e che non avevo nessuna intenzione di chiamarmi la morte in anticipo con una cosa del genere. Tuttavia sapevo che, prima o poi, avrei dovuto compiere una scelta del genere, e in caso avrei dovuto scegliere fra i miei nipoti: Satoru e Moe, infatti, avevano immediatamente rifiutato di diventare capofamiglia. Il primo perché non si riteneva adatto ad un simile ruolo, e la seconda per i suoi problemi di salute.
A tal proposito …
-Maki, sei andata a fare la visita medica?-
-Certo nonna, domani arriveranno i risultati delle mie analisi.-
Io ero l’unica, tra di loro, ancora convinta che Maki non sarebbe diventata sterile.
È ovvio che venivo presa per una sognatrice, da sempre la mia famiglia mi ha sempre considerato un po’ l’elemento “strano”; ma io sapevo di non sbagliarmi, e che tutto sarebbe andato per il meglio.
-Comunque, di cosa parlavate prima? Cosa sai a memoria, Maki?-
-La storia di come nonna incontrò Amaterasu.-
-Ah, l’adoro! Ti prego, raccontacela nonna!-
-Anche tu, Tomoko?-
-Per favore!-
-Dai nonna, ti prego.-
Guardai le mie due nipoti, unite per convincermi con grandi sorrisi e occhi preganti.
In particolare guardai Maki e pensai come, nell’ultima settimana, fosse cambiata così tanto: quando era rimasta sola e suo marito era tornato dalla sua famiglia vidi mia nipote sfiorire, diventare sempre più pallida e fredda.
Temevo che sarebbe diventata come Moe, e anche lei avrebbe tentato di fare qualche sciocchezza.
Invece, quando le rimasi accanto durante il dolore del ciclo, mi prese per mano e mi guardò dritta negli occhi, dicendomi: “Ti prometto che non mi arrenderò, nonna. Io non mi arrenderò.”
Quando arrivò suo marito fu un sollievo per tutti, anche se il primo giorno i due litigarono.
Sembrò che si stessero per mettere le mani addosso mentre li ascoltavo, in silenzio, dal piccolo salottino non troppo distante dalla camera di Maki, bevendo il mio tè e mangiando i miei mochi.
“-Te ne sei andato! Mi hai lasciata qui da sola!!-
-Tu non mi volevi quando io ho cercato di aiutarti! Mi hai spinto, mi hai allontanato, quasi fossi stato io a violentarti!-
-Non permetterti, non permetterti di dirmi queste cose! Ti non sai quello che ho passato!-
-E tu non sai quello che ho passato io! Io stavo morendo mentre la donna che amavo veniva violentata sotto i miei occhi! Penso che questo sia meglio?!-
-Almeno tu non rischi di rimanere sterile a vita!-
-Tu non diventerai sterile, mi hai capito?!-
-Si che lo diventerò, e poi tu mi lascerai!-
-Io non ti lascerò mai, MAI! Vuoi capirlo che ti amo, si o no? Che aspettavo da giorni quella telefonata che poi è stata tua zia a fare. TUA ZIA!-
-Non ti ho chiamato perché stavo male, e sto tutt’ora male! Lo vedi si o no?!-
-Allora lascia che io ti aiuti, maledizione! Sono tornato apposta per questo!-
-E poi scapperai alla prima occasione?-
-No, no! Io non scappo, non scappo più!-
-Allora abbracciami e dimmi che andrà tutto bene! Maledizione, non hai idea di quanto mi sei mancato!-
-Anche tu mi sei mancata, mi sei mancata da morire!!-”
Fortunatamente era stata chiusa per bene la porta che collegava alle stanze del ryokan, altrimenti sarebbe stato imbarazzante spiegare agli ospiti tutto quel rumore, le voci di Maki e suo marito erano arrivate fino in cucina, tanto che Natsuko si era preoccupata molto, ho dovuto rassicurarla e invitarla a tornare a lavorare.
Più alzavano la voce, più si toglievano di dosso la loro rabbia e il loro dolore. Più gridavano, più si davano forza a vicenda; e quando tutto fu più calmo, io ero certa che si stessero abbracciando, com’era giusto che fosse.
-Va bene, va bene, ve la racconterò.-
-Maki! Eccoti finalmente!-
Mia nuora Natsuko si presentò sul porticato con bacinella, asciugamano e forbici, guardando Maki con aria severa, quell’espressione faceva parte del suo volto fin dalla prima volta che la conobbi, e oramai non mi preoccupavo più se le sopracciglia assumevano quella piega verso il naso.
-Ti ho cercata ovunque! Non ti ricordi che dovevi tagliarti i capelli?-
-Scusami mamma, sono rimasta con la nonna, stava per raccontare la sua storia.-
-E i capelli?!-
-Tagliaglieli qui, Natsuko: sai che mi piace avere compagnia mentre bevo il tè.-
-E poi possiamo spazzare più facilmente i capelli.-
-Va bene, va bene, ma ferma con la testa.-
Mia nuora si era già inginocchiata e aveva aperto l’asciugamano, parlando con apparente fastidio; sapevo bene che anche a lei faceva piacere stare fuori dalla locanda, soprattutto in una giornata così serena.
Posò l’asciugamano sulle spalle di Maki e questa poi mostrò i capelli, oramai cominciavano ad allungarsi verso la schiena e Tomoko fece una faccia dispiaciuta, prendendone una ciocca.
-Che peccato però, stai così bene con i capelli acconciati.-
-Si, ma sai com’è scomodo occuparsene ogni giorno?-
-Solo perché sei una figlia selvaggia. Ora ferma.-
-Ahi, piano con la spazzola, mamma!-
-Sei tu che non li pettini, guarda qua che nodi! Proprio una selvaggia.-
Sorrisi divertita mentre Tomoko mi versava del tè per poi mettersi comoda accanto alla cugina, impaziente.
Io mi presi il mio tempo per bere, non bisogna mai mettere fretta ad un cantastorie, altrimenti non racconta bene, sapete?
-… dunque, avevo circa dodici anni quando entrai a lavorare a questo ryokan.
Era il 1945, la guerra sembrava non avere fine.
In quel periodo il capofamiglia Akamine, il padre di mio suocero, aveva deciso di trasformare le sue locande in rifugi per gli sfollati, anche sotto consiglio di sua moglie, una donna severa ma dal grande cuore.
Eravamo a Luglio, ancora non eravamo stati testimoni … di quella.-
...Domando scusa, ma mi è impossibile parlare di quello che accadde il 6 e 9 Agosto: il ricordo, ancora adesso, mi turba profondamente.
Presi un respiro, ascoltando il rumore delle forbici che tagliavano i capelli di Maki, e osservai Natsuko; aveva lo sguardo concentrato, attenta nel tagliare ciocca per ciocca mentre sua figlia resta in silenzio, ad ascoltare la mia lunga pausa.
-Quel giorno mi stavo occupando di lavare proprio questo porticato mentre la signora e le altre cameriere aiutavano gli sfollati, pertanto ero sola.
D’un tratto, mentre passavano la spazzola, notai una figura seduta poco distante da me, e la guardai.
Era una donna dai lunghi capelli neri e un kimono rosso fuoco. Me lo ricordo ancora, non avevo mai visto un rosso così intenso in un furisode, specie tra gli sfollati presenti nella locanda, gente povera a cui era stato tolto tutto.
Guardava verso il mare con aria preoccupata, e io gli chiesi se stesse bene, se aveva bisogno di qualcosa.
Lei si voltò a guardarmi e io rimasi abbagliata dai suoi occhi: erano brillanti, lucenti come due monete. Scosse la testa, mi disse di non preoccuparmi, e io stavo per tornare a lavoro quando mi fermò.
“Kyoko” mi disse “tu sei speciale: come questo posto, tu dai protezione e conforto.
Ricorda, un giorno sarai padrona di questi luoghi; avrai un buon marito, avrai dei figli, e tutti ti rispetteranno. Ma tu non dimenticare di onorare mio fratello, o egli ti punirà perché è molto severo, e così come può dare, così può togliere.”
Credevo che stesse parlando del capo famiglia Akamine, ma non ricordavo che lui avesse sorelle che vivessero nei paraggi; avrei voluto chiederle il nome, ma la donna si alzò in piedi, camminando scalza nel giardino.
“Ora devo andare” disse, “tra un mese due stelle scenderanno dal cielo, ma saranno fatte dagli uomini e non porteranno alcuna benedizione. Devo andare. Tu non dimenticare ciò che ho detto, Kyoko.”
Detto ciò, la donna camminò fino agli alberi e poi scomparve in una grande luce; credendo che fosse caduta corsi a vedere, a sporgermi oltre gli alberi, ma sotto di me non c’era nessuno. Solo il mare.-
Maki era, ancora una volta, colpita dal mio racconto, ma il suo sguardo era tranquillo, come se ponderasse le mie parole.
La reazione di Tomoko, invece, fu più evidente: era irrigidita, come se avesse avuto i brividi, e gli occhi erano spalancati e pieni di stupore e timore. Mi rivolse la parola emozionata.
-E poi, e poi?-
-Non sapendo che fare ripresi il mio lavoro e non dissi a nessuno del mio incontro.
Dopo la guerra incontrai tuo nonno, mio marito, e al mio matrimonio ricordai le parole della donna, quando ricevetti in dono un’immagine di Amaterasu. Aveva addosso lo stesso kimono della donna che aveva incontrato alla locanda.-
-E furono vere le sue parole?-
-Beh, tu sei qui, no?-
-Anche per quanto riguarda suo fratello, nonna?-
Alzai lo sguardo verso Maki, aveva ancora quello sguardo pensieroso mentre sua madre continuava a tagliarle i capelli, chiedendole a bassa voce di non muoversi.
Ripensai a Moe, a mio marito, a Jin, e annuii lentamente con la testa.
Come a voler riempire quel silenzio, il vento portò il rumore delle onde che s'infrangevano sulla baia sotto la locanda.
Natsuko terminò abbastanza velocemente il suo lavoro, guardando la testa di mia nipote con aria soddisfatta, togliendole le piccole ciocche di capelli rimaste dopo aver rimosso l’asciugamano dalle spalle.
-Per un po’ sei a posto. Ti piaci?-
Maki si guardò nello specchietto, e annuì con aria soddisfatta.
Io la guardai.
-Si, sei tornata ad essere il mio raggio di sole.-
Il suo corpo era magro e debole ma il suo spirito aveva deciso di non arrendersi, e stava tornando forte come prima, forse anche di più.
Pian piano, stava superando la prova di Amaterasu.
-Allora io torno al lavoro.-
-Grazie mamma.-
-Tomoko, devi andare anche tu.-
-Ah, mi sono scordata di finire di pulire! Con permesso nonna!-
-Allora vado anch’io.-
-Tu no, Maki. Aspetta.-
Mia nipote, senza obbiettare, obbedì mettendosi seduta più vicina a me. Per diverso tempo, restammo in silenzio, bevendo tè e mangiando i mochi.
Guardai il mare, ed ebbi la sensazione che Susanoo mi stesse mandando un messaggio mentre una brezza ci raggiungeva, portando quell’odore salato alle nostre narici. Oramai ero diventata brava ad ascoltare i silenziosi messaggi degli dei, e mi voltai verso mia nipote.
-Dimmi: pensi di andare in Italia con Kojiro?-
Abbassò leggermente il capo e annuì lentamente.
-Ne abbiamo parlato a lungo ieri notte, e ci è sembrata la cosa migliore: pare che ci sia un centro specializzato per la cura dell’Endometriosi in Italia, e forse, con un po’ di fortuna, riusciremo a costruirci una nuova vita insieme.-
-La fortuna è già dalla vostra parte. Quello di cui avete bisogno è di allontanarvi dal vostro passato, per cercare di creare un nuovo presente.-
E questo significava anche allontanarsi da noi, dalle loro famiglie, da tutto quello che avrebbe potuto ricordare loro i dolorosi momenti che avevano trascorso nell’ultimo mese. Non erano guariti, e restare qui avrebbe reso più difficile curarsi: avevano bisogno di parlarsi, di litigare, di abbracciarsi, di sentirsi di nuovo vicini.
-Ma torneremo a trovarvi nonna.-
-Ci mancherebbe altro! Guarda che voglio vedere il volto del mio nipotino quando arriverà...-
-Ah, nonna … io non credo che sarò in grado di rimanere incinta, dopo quanto è successo …-
Le possibilità erano praticamente zero, lo sapevo bene.
Ma Amaterasu mi aveva parlato, e io non ho mai raccontato tutta la storia al completo: stavo aspettando il giorno giusto.
-Sai, raggio di sole… quando Amaterasu mi parlò, mi disse un’altra cosa.-
-Cosa, nonna?-
“Ti darò un raggio di sole, Kyoko. Dovrai insegnarle il Kintsugi; purtroppo lo imparerà con dolore, ma se riuscirà ad andare oltre il male ed a ritrovare la luce io donerò a lei un altro raggio di sole a cui insegnarlo. Così che la tua famiglia sarà sempre benedetta.”
Guardai Maki spalancare gli occhi, questa volta la sorpresa era evidente in lei; io sorrisi contenta, stavolta sicura che mia nipote mi credesse.
-Io l’ho fatto, pertanto sono sicura che la dea manterrà la sua parola.-
Le accarezzai il capo, avvertendo i corti capelli sotto le mie dita.
Lentamente vidi i suoi occhi brillare di lacrime, e questo mi stupì non poco, che avessi esagerato questa volta? Che avessi detto qualcosa di troppo?
-Nonna … ricordi in ospedale? Ricordi che ti avevo detto di averti sognato?-
-Certo tesoro.-
-Io … io ho sognato quella volta in cui tu riparasti la mia ciotola rossa. E l’avevi riparata … con il Kintsugi.-
La dea sole e il dio mare hanno sempre comunicato alla nostra famiglia in mille modi, più evidenti e più misteriosi.
Credevo di essere l’unica a percepire quei messaggi. Mi sbagliavo.
Sorrisi.
-Te l’ho detto, no? Tu sei il mio raggio di sole, Maki. Andrà tutto bene.-
Lei annuì, e io asciugai le piccole lacrime che avevano iniziate a scenderle dal volto.
-Si, nonna. Ora lo so.-
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Capitolo 12 *** 11: Con del saké...l'allenatore di Lui ***
11: Con del saké … l’allenatore di lui.
Invece di farmi venire a trovare da Kojiro, com'era consuetudine, quel giorno decisi di andare io a visitarlo; una cosa molto rara che fu benedetta da una forte pioggia la mattina, tanto che credevo che qualche kami dispettoso non volesse lasciarmi andare.
Ma io non mi sarei fatto fermare da quel tempo: oramai era una questione di giorni prima che il ragazzo partisse nuovamente per l’Italia, di sicuro non sarebbe tornato molto presto e dunque sarei andato a trovarlo e a vedere come stava.
Perché qui lo ammetto.
Quando venni a sapere del suo incidente sentii il gelo entrare nelle mie ossa e corsi in ospedale e quando lo vidi sdraiato su quel letto, la pelle impallidita dalla carenza di sangue, la paura di perderlo ebbe il sopravvento, e non ebbi più il coraggio di andarlo a trovare fino a quando non ebbi la certezza che sarebbe uscito dall'ospedale sulle sue gambe.
No, non è un comportamento onorevole da parte di un amico, sopratutto da colui che lo ha allenato e visto crescere. Ancora adesso me ne vergogno profondamente, ed è per questo motivo che dovevo andare io da lui, inchinarmi e scusarmi per essere stato un tale codardo.
Il pomeriggio fu più gentile, la pioggia divenne leggera e quasi sparì, pertanto raggiunsi il ryokan senza problemi; sapevo bene dove si trovava, anche perché era uno dei luoghi più rinomati di tutta Okinawa.
Ricordo che quando venni a sapere che Kojiro si era ufficialmente fidanzato con Maki Akamine pensai che avesse fatto davvero un bel colpaccio. Un sakè buono come quello del matrimonio del ragazzo penso di averlo bevuto molto raramente, così come una cerimonia del genere non capita di vederla molto spesso.
All'improvviso, mentre il corteo si stava avviando verso il tempio, un bimbo della famiglia Akamine si piazzò davanti a Kojiro e lo sfidò apertamente, affermando che se non l’avesse sconfitto lui non lo avrebbe lasciato sposare sua “sorella” Maki.
Per un attimo ho temuto che la zia della sposa morisse di colpo apoplettico mentre lo sposo si girava verso la sua sposa, e la guardai da sotto la stoffa che copriva il suo capo; alzò il volto, e gli sorrise divertita.
Mi avvicinai nervosamente all’ingresso del ryokan, mi ero messo il mio “abito migliore” sebbene non ne abbia tantissimi, eppure vedermi l’elegante giardino dell’ingresso mi fece sentire a disagio.
Mi sentivo come un uomo della plebe che andava a fare visita al Damyou.
Ad aprirmi la porta fu proprio la moglie di Kojiro.
-Ah, Kira-san! Ben arrivato!-
-La ringrazio.-
-Prego, le sue pantofole.-
La sua pelle era pallida, segno che il suo corpo stava ancora male, ma aveva un sorriso sereno, segno che il suo spirito stava bene; mi fece onestamente piacere e mi permisi di rivolgerle ulteriormente la parola.
-Allora, tutto bene? Come sta?-
-Ah, per favore, mi dia del tu. Sto bene, la ringrazio.-
-Allora tu fa altrettanto, che se no mi fai sentire ulteriormente vecchio, e io di anni ne ho anche troppi.-
Lei sorrise divertita, accompagnandomi verso una sala che dava sul giardino, e m’invitò ad accomodarmi.
Quel luogo … era davvero piacevole: l’atmosfera che si respirava era di assoluta pace, e facevo un po’ fatica ad immaginarmi Kojiro in un simile posto, conoscendo anche il suo carattere e la sua grinta; al tempo stesso pensai che un luogo del genere aveva la capacità di calmare gli animi più feroci, cosa che ora serviva a quel ragazzo.
Lo so che sono sempre stato io quello a stuzzicarlo e provocarlo per tenere accesa la sua fiamma.
So che sono stato io a ricordargli sempre che lui era una tigre, e che doveva essere feroce e sprezzante.
Lo so, sento la responsabilità di ogni mia azione sulle spalle ogni giorno, e quando avvenne l'incidente mi sentii ancora più responsabile. No, non responsabile: mi sentii in colpa.
Forse...se fosse stato un codardo come il sottoscritto...forse sarebbe sopravvissuto.
Si, ho pensato anche questo, non ne vado fiero, non c'è niente di onorevole nelle mie scelte di fronte a questa situazione.
-Eccomi, scusa l’attesa.-
-Ah, figurati.-
Non mi ero accorto che Maki si era allontanata, e quando si ripresentò mi colse impreparato.
Mi porse il vassoio, c’era una bottiglia lucida di sakè e un bicchiere pulito che la donna si apprestò a riempire.
-Kojiro mi ha consigliato di non portarti tè.-
-Beh, i miei gusti sono facili da intuire. Ti ringrazio.-
Sorseggiai il liquore. Era davvero ottimo.
Dei passi ci raggiunsero molto velocemente, e Kojiro si rivelò dietro allo Shoji.
Il mio ragazzo, in piedi, vivo, che mi guardava.
Non mi accorsi che dietro di lui una figura restava in silenzio.
-Mister Kira, ben arrivato!-
Lui come sempre prima mi salutò con un inchino e poi porse la mano, ma il mio istinto fu quello di abbracciarlo, una cosa che chiaramente lo lasciò spiazzato.
Io non me ne curai, abbracciandolo con forza e senso di colpa.
-È un piacere rivederti, ragazzo.-
Lo sentii ricambiare, e quasi mi commossi, obbligandomi a sciogliere la presa e a fare qualche passo indietro.
In quel momento notai la figura alle sue spalle, e per un attimo mi sembrò di avere un’allucinazione: era Kojiro da ragazzino, solo più chiaro di volto. Credetti che fosse un parto della mia paura, un fantasma creato per ricordarmi della mia codardia.
Tuttavia Maki fece le presentazioni, liberandomi dall'allucinazione.
-Kira-san, questo è Jin Hamukai, mio cugino.-
-Piacere, mister.-
Mi salutò molto rispettosamente, e Maki lo invitò con un cenno ad entrare, facendolo sedere accanto a lei mentre Kojiro mi spiegava il perché di quella presenza.
Io non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel volto.
-Volevo approfittare della tua presenza per presentartelo: Jin è un ottimo giocatore, bravissimo soprattutto nell’attacco. L’hai anche visto all’azione, una volta.-
Lo avevo visto? Quel giovanotto sembrava essere imbarazzato, affianco alla sposa di Kojiro che sorrideva con aria divertita, mi ricordava l'espressione che aveva scambiato con il mio ragazzo durante il loro matrimonio.
Un lampo m’illuminò il cervello, tanto che battei la mano sulla gamba dalla sorpresa.
-Per i kami! Sei il piccoletto che ha sfidato Kojiro al matrimonio!-
Lui sembrò voler sprofondare nel legno della stanza mentre gli altri due ridacchiavano.
Io non sapevo bene cosa pensare: da una parte quell' “incidente” mi faceva sorridere, ma quel volto mi faceva ricordare troppo Kojiro da ragazzo, quando era ancora il mio ragazzo e mi chiedeva aiuto per migliorarsi come calciatore.
Ma il mio corpo era invecchiato da allora, la mia pessima abitudine di bere non era mai passata, e quando il mio ragazzo venne ferito a morte mi sono rintanato nella mia casa come un codardo, non potendo accettare la possibilità che colui che per me era diventato un simbolo di forza e successo potesse...
-...Quanti anni hai, ragazzo?-
-Quattordici, mister.-
-E hai ancora quel bolide di tiro che ti ho visto fare al matrimonio?-
Alzò la testa con aria fiera, e annuì deciso.
-L’ho anche rafforzato, adesso è ancora più forte!-
-Beh, complimenti.-
Maki intervenì a sedare quel suo fiero cipiglio.
-Si, ma Jin ha il piccolo difetto di essere un po’ troppo capo branco, e di fare tutto lui.-
-Ehi, io cerco di far vincere la squadra!-
-Si, ma il gioco di squadra?-
Lui sembrò incapace di ribattere e intuii cosa stava succedendo in quel momento.
E come sempre, il mio primo istinto fu quello di scappare.
-Io sono in pensione, Kojiro.-
Non potevo. Nella mia testa rimbombava quel pensiero. Non potevo.
-Lo so mister, ma le scuole nei dintorni ti chiedono ancora consulenza, no? Sono convinto che, se lo vedessi giocare, ti verrebbe voglia di dargli una mano.-
Probabilmente era vero, ma sentivo ancora la paura sussurrarmi che non potevo.
Come potevo anche solo pensare di dire di si, dopo che ero scappato a quello che era successo a Kojiro?
Anni di insegnamenti da parte di un codardo che non aveva mai imparato a stare al mondo e alla dine si era ritrovato in un piccolo appartamento attaccato ad una bottiglia di saké.
Mi voltai di nuovo verso quel ragazzo e mi sembrò di fare un salto temporale di anni: aveva gli stessi occhi dell’uomo alla mia destra, non erano felini come quelli di Kojiro ma affamati, vogliosi di andare oltre, di superare ogni barriera che potesse impedirgli il cammino. Gli occhi di un altro pazzo impavido.
-Ti terrò d’occhio ragazzo. Vediamo se ti colgo impreparato.-
A lui parve bastare e fece un inchino di ringraziamento, accompagnando poi Maki fuori dalla stanza.
-Vi lascio soli a parlare. A dopo, Kira-san.-
La salutai con un cenno del capo. Quando chiuse la porta alle sue spalle sentii che l’atmosfera nella stanza era cambiata.
-È in gamba tua moglie.-
-Si, lo è.-
Mi voltai a guardare il mio ragazzo. Era cambiato, lo potevo vedere perfettamente: c’era un’ombra che oscurava la luce dei suoi occhi, e anche l’espressione del suo volto era più pensierosa. Anche se sembrava contento di vedermi, questo non aveva la forza di aprire il pugno che teneva appoggiato sulla gamba.
Questo mi fece sentire ancora più miserabile.
A quel punto mi girai verso di lui, e umilmente chinai la testa fino a che la fronte non toccò il pavimento.
-Kojiro, perdonami.
Io … quando ho saputo del tuo incidente sono corso a vedere come stavi, ma vederti lì … è stato insopportabile. Sono scappato, come un codardo.-
-Mister...-
-Non mi sono mai perdonato di questa mancanza, come tuo allenatore ma sopratutto come amico e come uomo. Io non posso prometterti che cambierò, oramai è tardi per me, ma prima che tu parta per l'Italia vorrei … vorrei …-
Nessuna giustificazione avrebbe potuto spiegare la mia assenza. Semplicemente, non c’ero stato.
Eppure non era la cosa che effettivamente mi feriva di più: la cosa che davvero non sarei mai riuscito a dirgli era che gli volevo bene come un figlio. Ma non avrei potuto dirgli qualcosa di così egoista, non meritava un padre come me.
Sentii il mio corpo tremare per la tensione e per il dolore, non riuscivo a tirare su la testa.
-Mister, neanche per un momento ho pensato che lei mi avesse fatto un torto. E il fatto che lei sia venuto qui al ryokan e mi stia chiedendo scusa mi fa capire, ancora una volta, che la mia fiducia è stata ben riposta.
La perdono, Mister. E la ringrazio.-
A quel punto non potei evitare di piangere. Guardai solo per un istante l'uomo davanti a me, aveva un'aria imbarazzata ma serena, e io chinai nuovamente il capo.
-Grazie, ragazzo.-
Mi ci volle qualche minuto per calmarmi, poi lentamente mi rialzai e continuai a guardare Kojiro negli occhi, sebbene il mio animo non fosse completamente rasserenato: l’uomo che avevo davanti era molto diverso da quello che era venuto a trovarmi l’ultima volta, prima dell’incidente.
Allora aveva ancora l’aria di chi stava inseguendo un sogno ad occhi aperti; adesso un peso si era posato sulle sue spalle e non riusciva a liberarsene.
-Dev’essere stato durissimo quest’ultimo periodo.-
-… sa mister, tutti me lo stanno chiedendo. E a tutti rispondo che si, è stata dura; ma ho la sensazione che sarà niente, in confronto a quello che vivrò tra poco.
Io e Maki andremo assieme in Italia.
Dovrò allenarmi al massimo per riuscire a recuperare il tempo perso, e nel frattempo Maki affronterà i suoi problemi fisici; saremo entrambi impegnati sia su noi stessi che sul nostro rapporto.
Credo … che sarà davvero tosta.-
La prima volta che Kojiro mi presentò Maki, poco prima del matrimonio, avevano sul volto la leggerezza degl’innamorati e quasi provai invidia nei suoi confronti. Sembravano davvero felici.
Durante le loro nozze li vedevo trattenere continui sorrisi, e quando Hamukai-kun l’interruppe nessun pensiero o preoccupazione era sui loro volti. Solo la voglia di divertirsi e godersi il momento.
Ora, invece, l’uomo davanti a me non aveva più quella tranquillità.
-Hai paura, Tigre?-
Mi morsi immediatamente la lingua: dopo quello che era successo avevo ancora il fegato di chiamarlo in quel modo?! Ipocrita!
Tuttavia provai piacere nel poterlo chiamare di nuovo con quel nomignolo mentre lui mi guardava stupito.
Alla fine annuì, stringendo quel pugno sopra la gamba.
-Sa, mister … ultimamente ho pensato molto a mio padre. A volte … vorrei che lui fosse qui, a darmi una mano o quanto meno un consiglio.
Mia madre dice che il suo spirito mi protegge e che è anche grazie a lui che sono sopravvissuto; ma io … io egoisticamente vorrei che fosse con me da vivo più che da morto.-
Scosse il capo e sorrise amaro.
Io mi presi un altro bicchiere di sakè, e mi resi conto che i bicchieri in ceramica erano due.
Senza starci a pensare ne versai un po’ e lo offrii a Kojiro, il quale accettò un po’ restio, non era tipo da bere liquori, e lo sorseggiò pian piano, cercando di apprezzarlo.
Io intanto cercai le parole giuste, i kami in qualche modo stavano cercando di aiutarmi di fare ammenda dei miei errori.
-Ragazzo mio ... io non sono tuo padre, ma se posso fare qualcosa per te devi solo chiedere.-
-La ringrazio mister.-
-E' giusto che tu senta il bisogno di confrontarti con tuo padre: lui, come te, si occupava della famiglia.
Delle volte rimango molto sorpreso da come tu sia riuscito a crescere in questo modo.-
-… il merito è anche suo, mister: lei mi ha sempre spronato a dare il massimo, e questo mi ha sempre aiutato.-
Questo mi lasciò senza parole, e mi voltai guardarlo sbalordito.
Lui, di rimando, mi fece un sorriso che non mi sarei mai aspettato: era...grato.
Ripensai alle scuse che gli avevo fatto prima...e mi sentii in profondo imbarazzo.
Io non sono tipo da discorsi melensi, ma in una situazione del genere, con quell’uomo che avevo visto crescere, accidenti, sentii qualcosa smuoversi nelle mie vecchie viscere, e il mio cuore batté più forte.
Quel ragazzo era stato sempre il mio orgoglio nel calcio: lo aveva cresciuto insegnandogli a non mollare, a cercare sempre di volere il massimo da se stesso, e di andare oltre i suoi limiti.
Sentire adesso quelle parole ...
-Forse, se sono vivo, è anche grazie a lei, all’avermi insegnato a non mollare. E quando lo stavo facendo, nei confronti di Maki, tutto e tutti mi hanno fatto ricordare le sue lezioni.
È vero, fisicamente non c’era. Ma questo non significa che non mi abbia aiutato.-
Sentii che mi sarei messo di nuovo a piangere, pertanto bevvi il mio saké e poi gli parlai senza riuscire a guardarlo in faccia per la commozione.
-Allora, ragazzo mio, se davvero senti che queste lezioni ti hanno aiutato, lascia che te ne dica un’altra, forse la più importante.
Sii felice.-
Il suo totale stupore mi provocò una leggera risata, e mi versai dell'altro saké per cercare di calmarla mentre lui recuperava un po’ di serietà, anche se era visibilmente imbarazzato.
-Sei vivo. Hai tua moglie accanto a te. Andrete insieme in Italia. Accidenti Kojiro io starei ballando dalla gioia al posto tuo.-
Non è un’immagine edificante di me, però era la migliore che mi veniva in mente. E, cosa più importante, stava sortendo il giusto effetto.
Lo lasciai ai suoi pensieri, dirigendomi verso il porticato fuori dalla stanza, in una mano il bicchiere e nell’altra la bottiglia di sake; mi accomodai e guardai il giardino, constatando ancora una volta che, da qualsiasi angolo si guardasse quel luogo, la sua bellezza era costante.
Costante … e immobile.
-Kira-san!-
Mi voltai, Maki stava portando fuori dei Futon, probabilmente per stenderli al sole, e ne approfittò per salutarmi. Io con nessuna agilità scesi dal porticato, abbandonando bottiglietta e bicchiere per darle una mano.
-Lascia che ti aiuti.-
-Ma no lasci, è un ospite!-
-E tu non sei ancora del tutto ristabilita. Sono vecchio, ma qualcosa ancora riesco a farla.-
Le feci l'occhiolino e lei sorrise divertita, accettando in silenzio il mio aiuto.
-Com'è andata la conversazione con Kojiro? Tutto bene?-
-Si si, ho solo pensato che il ragazzo avesse bisogno di un momento per riflettere.-
Lei non fece altre domande, limitandosi ad annuire con il capo.
Insieme stendemmo i futon sui fili, impegnandoci al massimo: lei era debole, io ero vecchio, una coppia vincente contro i terribili e morbidi materassi, che combatterono con il loro molle peso fino all'ultimo secondo, per poi abbandonarsi all'aria fresca che accarezzava il giardino.
Alla fine ci accasciammo sul porticato, sudati, sbuffando mentre vedevamo con aria soddisfatta il lavoro fatto.
-Grazie, Kira-san. Mi spiace averla fatta faticare.-
-Figurati. Tu stai bene?-
-Si grazie.-
Restammo in silenzio a prendere fiato fino a quando i nostri respiri non divennero silenziosi come l'atmosfera attorno a noi.
-...Kira-san.-
-Hm?-
Sentii Maki muoversi e mi girai, incuriosito: la vidi in posizione seiza accanto a me che mi guardava con aria decisa.
-Non ho mai avuto occasione di farlo, ma volevo ringraziarla.-
-Eh?-
Chinò il capo con un gesto antico ed elegante, e rimasi meravigliato dalla leggiadra bellezza che la donna creò con quel movimento.
-Kozo Kira-san, la ringrazio profondamente per aver cresciuto ed educato Kojiro. Se ho l'onore di essere sposata con lui è anche merito suo; avrei voluto ringraziarla al mio matrimonio, ma non abbiamo mai avuto occasione di avere un momento privato.
Inoltre...le chiedo scusa...per aver messo Kojiro in pericolo...prometto d'ora in avanti di proteggerlo con tutta me stessa.-
Sentii il suo tono mutare e farsi sofferente, vergognoso probabilmente, ma io ero di nuovo sopraffatto: mai, nella mia vita, mi ero sentito travolgere da un tale affetto nei confronti di quel ragazzo.
Scossi la testa, e lentamente mi misi anch'io in posizione seiza, e quando Maki rialzò il capo fui io a chinarmi versi di lei, con rispetto. Erano anni che non mi sentivo così.
-Maki, sono io che devo ringraziare te: il tuo incontro ha dato luce alla vita di Kojiro, la tua presenza lo rasserena. E credimi, figliola: sei stata tu a riportarlo dal mondo dei morti.
Io...sono solo un codardo…-
Strinsi i pugni e presi un profondo respiro.
-Non sono stato in grado di stargli vicino nei momenti più difficili. Come un vigliacco sono rimasto chiuso nella mia casa aspettandomi sempre cattive notizie. Ma è sopravvissuto.
Ed è sopravvissuto perché tu eri con lui.
Credimi, mia cara: voi due non vi siete mai persi.-
Rialzai il suo capo e la vidi con gli occhi pieni di commozione.
Sentimmo un rumore alle mie spalle e mi voltai con lei: Kojiro aveva recuperato bottiglietta e bicchiere e ci sta raggiungendo.
Con un cenno della mano lo invitai a sedersi accanto a sua moglie, e appena lo fece gli presi la mano e la unii a quella di lei.
-Figlioli, questo vecchio può solo dirvi che sarete felici. Ne sono più che sicuro.-
-...grazie mister.-
-Grazie, Kira-san.-
Rimanemmo in silenzio, coccolati da quell'atmosfera di pace. Poi decisi di rompere il silenzio, per la miseria non voglio essere un piagnucolone.
-Forza ora, brindiamo al vostro futuro!-
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Capitolo 13 *** 12: In Italia...Lei ***
12: In Italia...Lei
-Ecco qua l'ultimo scatolone.-
-Aaah, avevo detto alla nonna di non spedirmi tutto!-
La casa era praticamente immersa negli scatoloni completamente avvolti dalla plastica sigillante, il camion fuori casa stava ripartendo con un rombo che saliva dal balcone mentre Kojiro chiudeva la porta di casa.
Avevamo optato per un appartamento vicino al centro e, per il momento, preferivamo stare in affitto, in attesa che io mi stabilissi con le cure e, sopratutto, riuscissi a confermare il mio contratto con la squadra professionistica di softball di Bologna.
Al momento ero tenuta in osservazione, e di sicuro mi sarei fatta una marea di ore in panchina, ma non appena mi ero presentata alla società subito mi avevano chiesto un colloquio, sorpresi che “una giocatrice così forte” fosse tornata a giocare e, sopratutto, fosse interessata al softball oltremare.
Ammetto che mi sono imbarazzata, ma al tempo stesso ero elettrizzata di poter riprendere a giocare in ambito professionistico: dal mio incidente ero rimasta ferma quasi un anno, ma il mio corpo ancora ricordava tutto.
Il centro a Milano consigliatoci dalla signora Mazzantini si era rivelato una fonte di informazioni e speranza: le mie vecchie analisi erano state rifatte con una conoscenza maggiore del problema, e immediatamente il mio nuovo medico mi aveva fatto smettere la cura farmacologica optando invece per l'operazione chirurgica.
Non gli eravamo saltati addosso per la gioia, ma lui aveva sorriso divertito di fronte al nostro sconcerto e al successivo entusiasmo quando ci disse “sarà lunga, ma ci sono buone probabilità che lei possa guarire completamente”.
-Almeno così sei sicura che non devi più chiedere di farti mandare roba.-
Ci guardammo divertiti mentre io armeggiavo con un taglierino e la plastica, liberando l'ennesimo scatolone per valutarne il contenuto.
-Sarà infernale quando ci dovremo spostare nella nostra casa.-
-Intanto questa è la nostra casa. Un passo per volta, ok?-
Mi accarezzò la testa e sorrisi imbarazzata, annuendo mentre lui cambiava discorso, aiutandomi ad aprire lo scatolone e ad aprirlo.
-Invece, direi che è il caso di fare un po' di ripasso, che ne dici?-
-V-va bene.-
La lingua italiana si era rivelata subito ostica, e avevamo deciso che, dal momento in cui avevo messo piede sul suolo tricolore, che mio marito avrebbe cercato di parlarmi in italiano quanto più possibile per aiutarmi ad esercitarmi; la cosa si era rivelata una lama a doppio taglio, in quanto nei momenti di discussione lui passava all'italiano per impedirmi di rimbeccarlo.
Ma era solo questione di tempo e poi gliel'avrei fatta vedere!
-Allora. Cos'è questo?-
Tirò fuori una serie di tazze da una piccola scatola imbottita con stracci.
-Que...quele…-
-Quelle.-
-Quelle...sono...taza?-
-Tazze.-
-Tazze. Quelle sono tazze.-
-Brava. Fai ancora fatica con i plurali ma la frase c'era.-
-Non capisco quando vanno messe o meno le doppie.-
-Purtroppo per quello devi fare pratica. Dai, andiamo avanti.-
Man mano che svuotavamo gli scatoloni continuava a chiedermi che oggetti erano, la forma, il colore, il numero (in cui andavo fortissima) e dove andavano sistemati. Nel frattempo la credenza si era riempita di un set di tazze da the con teiera, ed ora stavamo decidendo dove sistemare le ciotole per il riso e quelle del miso.
-Che poi dove lo trovo il miso qui?!-
-C'è un centro commerciale con un supermercato che ha una sezione dedicata all'etnico, magari possiamo provare a cercare lì.-
-Ma tu vuoi ancora mangiare giapponese?-
-Se posso volentieri, anche se tu sei innamorata della pizza.-
Mi diede un pizzicotto sulla pancia e io, per rimando, gli feci il solletico.
Ridemmo come pazzi, finendo a terra con il fiato corto.
Ci guardammo negli occhi, e io mi sentii così felice.
-Ti amo. Grazie.-
-Grazie a te, Maki. Ti amo.-
Ci eravamo quasi persi, sembrava che tutto quello che c'era stato fosse andato distrutto; invece ora ci stavamo stringendo felici sul pavimento della nostra nuova casa, vivi e di nuovo insieme.
Avevamo litigato, ci eravamo urlati di tutto, ci siamo puntati il dito contro più volte, siamo finiti a piangere ma alla fine avevamo sempre bisogno di ritrovarci e abbracciarci. E sopratutto io avevo bisogno dei suoi baci e di fare l'amore con lui.
La prima volta dopo tanto tempo fu nel ryokan, dopo una sfuriata incredibile in cui ci eravamo supplicati a vicenda di non lasciarci, di non mollare, di stringere i denti e andare avanti.
Lì gliel'ho chiesto.
“Kojiro, fai l'amore con me. Ti prego.”
“...non desidero altro che te Maki.”
Mi sembrò come se stessimo facendo l'amore la prima volta, anche allora eravamo al ryokan, ed eravamo assolutamente inesperti. Non so chi rimase più sorpreso dei due nello scoprire che l'altro era vergine, ma ci guardammo negli occhi meravigliati, imbarazzati, forse anche commossi, e pian piano avevamo imparato ad esplorarci e a conoscerci.
Anni dopo, di nuovo in quella camera, fu la stessa sensazione di meraviglia nello scoprire che i nostri corpi, nonostante le ferite, non avevano perso la voglia di sentirsi, anzi; le mie mani, ogni volta che accarezzavano l'addome di mio marito come i miei baci, non sentivano schifo o disagio nel toccare la cicatrice che segnava i suoi muscoli.
Le dita del mio uomo avevano cancellato via l'orrore residuo sul mio corpo, e i suoi occhi avevano osservato ogni mio lembo di pelle con immenso sollievo.
“Maki, Maki. Sei bellissima, come sempre.”
“Kojiro, sei vivo. Sei vivo!”
Perdemmo il senso del tempo, non ci eravamo resi conto che il giorno era passato fino a quando non mi accorsi che la pelle di Kojiro era aranciata alla luce del sole, e notammo il tramonto che ci guardava; restammo sdraiati a guardare quella luce che ci abbracciava, stesi sul futon, i vestiti sparsi e la coperta a nasconderci da sguardi indiscreti.
-A che pensi?-
Sbattei gli occhi, rendendomi conto che mi ero persa fra i pensieri, Kojiro mi guardava con aria intensa.
Scossi la testa, sorridendogli.
-Mi sono ricordata della prima volta che abbiamo fatto l'amore.-
Lo vidi imbarazzarsi e si staccò all'istante, allontanandosi.
-E come mai ti è tornato in mente?!-
-Perché sono felice. Come allora.-
Lo guardai meravigliarsi e poi distogliere lo sguardo con aria apparentemente infastidita.
-Dici sempre un sacco di cose imbarazzanti.-
-Ma è la verità!-
-Si si, dai finiamo di svuotare almeno questo scatolone!-
Sorrisi divertita, e ci immergemmo di nuovo nello sistemare gli scatoloni.
Kimono, lenzuola, persino un futon matrimoniale nonostante avessimo specificato che avremmo usato un letto occidentale; posateria, vestiti e poi una scatola scura con il simbolo della famiglia inciso sopra.
-E questo?-
Lo guardai tra le mani di mio marito, sorpresa quanto lui.
-Non lo so, è la prima volta che lo vedo.-
Quando aprimmo, per prima cosa, trovammo una sacchetta di seta assieme ad una grossa busta e al pupazzetto di Kojiro con la maglia della Juventus, pulito di lavatrice e ricucito in alcuni punti, ma con la divisa e la faccia chiaramente scoloriti dall'usura.
-Guarda te, e dire che li avevo cercati come una pazza! Dev'essere stata nonna.-
-Maki…-
Alzai lo sguardo, Kojiro aveva aperto il sacchetto di stoffa; dentro, oltre a batuffoli di cotone, una piccola ciotola di riso da bambino, rosa con i fiori bianchi e venature gialle. Oro.
Spalancai gli occhi sbalordita, prendendo quella ciotola tra le mie mani, era così piccola guardandola dal vivo.
-La mia ciotola...con il Kintsugi…-
Mio marito, intanto, armeggiò con la busta grande e ne estrasse una foto, sorridendo intenerito: era la nostra foto del matrimonio dopo che Kojiro aveva accettato la sfida di Jin. Si vedeva perché il suo vestito cerimoniale era sgualcito, ma sorridevamo felici. Attorno a noi le nostre famiglie, Jin in primo piano seduto a terra con il pallone in mano e l'aria di chi era riuscito a fare una bella marachella; mia nonna, accanto, che sorrideva divertita come me mentre zia Moe sembrava, come sempre, imperturbabile...ma giurerei che, guardando la foto, si poteva notare meno severità negli occhi.
La madre e i fratelli di Kojiro accanto a lui e, lì vicino, Kozo Kira con la camicia leggermente aperta e la cravatta allentata.
-Kira-san non è proprio tipo da mettersi elegante.-
-Già, faccio fatica a riconoscerlo.-
-Dobbiamo prenderci una cornice per questa foto. Magari possiamo appenderla in salotto!-
-Certo!-
-Che altro c'è nella busta?-
Guardai mio marito sfilare delicatamente una busta piccola da quella grande, guardarla e poi passarmela.
-E' per te.-
La presi passandogli la foto del matrimonio, sulla busta bianca c'era scritto il mio nome in kanji, la calligrafia era quella di mia nonna; dentro c'erano dei fogli ripiegati ed un biglietto ocra chiaro, con poche parole sopra.
“Raggio di sole, pensa sempre alla tua felicità. Ti voglio bene. E tranquilla, sono ancora bella arzilla!”
Rimasi perplessa da quelle parole, pertanto controllai i fogli piegati.
Erano un testamento.
“La sottoscritta Kyoko Akamine, matriarca della famiglia Akamine, alla luce di quanto avvenuto dell'ultima riunione di famiglia e aver a lungo ragionato sul futuro della famiglia, con questa lettera eleggo come mia erede universale Maki Akamine Hyuga.
I miei diretti discendenti, Satoru e Moe Akamine hanno volontariamente rifiutato il titolo di capofamiglia, affidando tali compito alle future generazioni.
Per ragioni totalmente personali questa mia decisione rimarrà riservata al resto della famiglia e sarà effettuata solo nel momento in cui verrà mostrata questa lettera, con la mia firma e il sigillo di famiglia, al momento della mia dipartita.
Una copia è in possesso del nostro attuale avvocato, il quale ha l'ordine specifico di non presentare tale lettera in mancanza della sua gemella, per evitare che vengano fatti falsi o copie non ufficiali.
Inoltre qui di seguito vi sono le mie ulteriori volontà...”
Mi fermai dal leggere, scossa: fino a quel momento non mi era mai passato per la testa che, effettivamente, un giorno mia nonna potesse venire a mancare.
Ma come amaramente si dice, la morte è una delle poche certezze della vita.
-Maki? Che succede?-
Alzai lo sguardo verso Kojiro e lentamente gli porsi biglietto e lettera; anche lui si fermò dal leggere dopo qualche riga, sedendosi accanto a me, ma continuò a scorrerla con gli occhi.
-Beh, c'era da aspettarselo che tua nonna stesse pensando al futuro; secondo questa lettera tuo padre e tua zia hanno già rifiutato di ereditare il posto di capofamiglia.-
-...quindi la scelta è tra me e Tomoko, le due uniche eredi femmine del ramo principale.-
-Tuttavia, tesoro, nel biglietto tua nonna ti ha detto che sta bene e che devi scegliere tu cosa fare; suppongo che questa lettera sia stata una precauzione nei confronti di chi potrebbe alzare una protesta nella famiglia.-
Diventare capofamiglia.
Fin da piccola mi era stato fatto presente di questa possibilità, ma avevo cercato nello sport il mio vero futuro, distaccandomi da cose che non sentivo mie.
Ma adesso la situazione era differente: sebbene ci fosse il contratto con la squadra non potevo più lasciare indietro le mie radici, la mia famiglia che in tutti questi mesi mi era rimasta accanto. Glielo dovevo.
-Penso...che quando sarà il momento, mi assumerò le mie responsabilità.-
Mi girai verso Kojiro, pensavo che di sicuro la cosa non gli sarebbe piaciuta; invece, con mia grande sorpresa, mi sorrise, annuendo.
-Va bene tesoro.-
-Non sei arrabbiato?-
-Perché? Dovrei?-
-Beh...significherebbe tornare in Giappone, lasciare l'Italia e…-
-Ehi, Maki.-
Mi prese il volto tra le sue grandi mani.
-Un passo per volta. Pensa alla tua felicità, come ti ha detto Akamine-san, va bene? Verrà il momento poi per pensare a quello…-
Le mani di mio marito mi tappavano in parte un orecchio, e potevo sentire il rumore del uso sangue che scorreva nelle palme. Il rumore della vita in mio marito.
Presi un respiro profondo, sollevata, e annuii lentamente mentre ricambiavo il suo sorriso.
-Bene. Ora riprendiamo la lezione.-
-Stasera mangiamo piza?-
-Pizza?...va bene.-
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Capitolo 14 *** EPILOGO: In sogno...il padre di Lui ***
EPILOGO: In sogno...il padre di Lui
Non sono mai stato un credente.
Il matrimonio tradizionale lo avevamo fatto sopratutto per una richiesta di Akamine-san, e personalmente non era stato un problema, anche perché io e Maki ci eravamo già sposati in comune senza grandi cerimonie; mia madre fu entusiasta quando glielo dissi e mi fece una marea di foto quando indossai il mio kimono.
Ma ammetto che quando vidi Maki con il vestito tradizionale...fui felice di quella scelta: lei era sempre stata bella, ma in quel momento mi sentii l'uomo più fortunato sulla Terra a poterla avere al mio fianco. Credo che ogni uomo debba sentirsi così quando sposa la donna che ama.
Poi la sfida di Jin fu quello che rese quel momento ancora più indimenticabile, ma riguardando ora la foto di quel giorno mi rendo conto che quello non fu davvero, per me, il momento più memorabile, bensì il San-san-kudo, lo scambio della tazza di saké.
Lì, per la prima volta, mi resi conto che stavo per condividere la mia vita con la donna al mio fianco.
Per la prima volta nella mia vita...ebbi paura di non farcela, e la guardai negli occhi, cercando in lei il coraggio di andare avanti.
Ebbi paura come poche volte nella mia vita e ripensai a mio padre, alla sua forza e la sua presenza; provai a ricordarmi come si comportava lui con mia madre, con noi, la vita di tutti i giorni quando era presente.
Quando fummo aggrediti pensai che, forse, avrei potuto rivederlo, ma che Maki avrebbe sofferto senza di me, e la cosa mi distruggeva.
Durante i mesi in cui io e mia moglie eravamo lontani andai a trovare spesso la tomba di mio padre, cercando in quel luogo risposte alle mie domande e conforto nella mia frustrazione.
E sebbene gli insegnamenti di Kozo mi avevano aiutato a non mollare, dentro di me sentivo che mi mancava il confronto che, probabilmente, avrei potuto ricevere parlando con mio padre.
Mi era mancato molto.
Tuttavia quel pensiero divenne un ricordo man mano che la vita ricominciava, per me e mia moglie: ripresi gli allenamenti, le partite, ritrovai i compagni di squadra e scoprii il piacere di condividere la casa e i momenti più intimi con lei.
Maki ricominciò ad allenarsi, e ben presto dalla panchina tornò in campo. Ero e sono fiero di lei, di come era riuscita a superare anche questo.
Quando avvenne l'operazione le tenni la mano fino a quando non entrò in sala operatoria; presenti c'erano i suoi genitori e anche Akamine-san, venuta dal Giappone per restare accanto alla nipote. In quelle ore di attesa mi capitò di parlarle del testamento e della decisione di Maki.
“Devo essere sembrata molto egoista in quello che ho fatto, Kojiro-kun.”
“No, affatto Akamine-san: si è preoccupata per la sua famiglia e per sua nipote, e giustamente ha pensato al suo futuro.
Maki ama la sua famiglia, e io la sosterrò nelle sue scelte.”
“Grazie, Kojiro. Ho sempre saputo che tu eri l'uomo giusto per il mio raggio di sole.”
“La ringrazio.
...sa, Akamine-san...a volte mi piacerebbe poter chiedere consiglio a mio padre per alcune situazioni...”
La signora mi aveva gentilmente posato una mano sulle mie, e mi aveva sorriso con la sua solita aria tranquilla e misteriosa.
“Sono convinta che tuo padre ti ascolta sempre, Kojiro-kun.”
Io annuii in silenzio, sebbene ci credessi poco alle sue parole.
Ribadisco, non credo molto a spiriti e cose del genere.
Maki uscì qualche ora dopo. Il dottore aveva l'aria soddisfatta, affermando che l'operazione era stato un completo successo e che, adesso, bisognava solo lasciare che il corpo e lo spirito facessero il suo dovere.
Lo spirito…
Nonostante il lavoro continuai a stare accanto a mia moglie durante il ricovero e anche dopo, al punto che, alcune volte mi allontanava esasperata affermando che ora “era guarita, e non ho bisogno dell'infermiere!”.
Ma ogni volta che lo diceva ci guardavamo sbalorditi, e ci abbracciavamo sorridendo e ridendo come degli scemi.
Finalmente era guarita, guarita da quel male che le aveva rovinato così tanti momenti felici.
Ricordo quando rimase incinta la prima volta e il dolore nei suoi occhi quando perse il bambino.
Anche quella volta ripensai a mio padre, gli chiesi mentalmente consiglio e feci di tutto per aiutare mia moglie a ritrovare la pace.
Adesso, sebbene Maki fosse guarita, nessuno dei due pensava effettivamente all'avere di nuovo un figlio, o meglio: ci pensavamo entrambi, ma avevamo paura a dirlo ad alta voce, temendo che potesse accadere di nuovo come la prima volta.
Ancora una volta, mentalmente, chiesi a mio padre cosa fare.
E una notte, mio padre mi rispose.
Parto con il dire che no, non credo ancora di poter credere a quello che mi è successo, ma il ricordo è ancora molto vivo e credo che lo rimarrà ancora per molto tempo. Poi c'è da dire che io sogno molto poco e spesso non ricordo quello che sogno, pertanto questo ha favorito il ricordare ancora cos'è successo.
Quella notte...complice il buio...Maki mi parlò.
-Kojiro, dormi?-
-No, che succede?-
La sentii muoversi e avvicinarsi a me, stringendomi.
-Oggi sono stata dal medico.-
-Si, lo so. Era per quelle ultime analisi, giusto? Che ha detto?-
-...che i focolai sono quasi tutti scomparsi, e che addirittura c'è...la possibilità per me di avere una gravidanza senza complicazioni…-
La cosa mi spiazzò completamente.
-Oh...wow...è...è fantastico amore…-
-Già…-
Eravamo profondamente in imbarazzo, e d'istinto l'abbracciai, sentendo i suoi capelli su una guancia.
-Come ti senti? Che ne pensi?-
-...non lo so...cioè, mi fa piacere...però…-
-Hai paura?-
La sua testa si mosse affermativamente, e sbuffai.
-Anch'io. Voglio dire, un figlio...con tutto quello che ci è capitato…-
-...tu lo vorresti?-
Non riuscii a immaginarmi mio figlio. Provai a pensarmi con una carrozzina, con un neonato in braccio, con quel piccolo fagotto nel seggiolone mentre gli davo da mangiare e...no, non mi ci vedevo per niente.
Però...dentro di me sentivo che l'idea mi scaldava.
-Non lo so. Credo sia una di quelle cose che non sai davvero se lo vuoi o meno.
Tu desideri un figlio, tesoro?-
-...non lo so. Però...sarei felice di averlo con te.-
Sorrisi intenerito, e la baciai. E facemmo l'amore.
La sentii addormentarsi per prima, ma io nell'oscurità continuai a pensare, a cercare di immaginare la vita in tre, e in quel buio non riuscii a vedere niente, solo tanta confusione e preoccupazione: le spese per il neonato, il tempo da dedicargli, poi cresce, la scuola, la sua vita. Sarei mai stato capace di insegnargli a vivere? Sarei mai stato capace...di essere un padre?
-Fa paura, vero?-
Sentii questa voce e mi guardai attorno, ma era ancora tutto maledettamente buio.
Maki dormiva al mio fianco e oltretutto quella era una voce maschile, pertanto fui certo che non provenisse da lei, ma nemmeno per un istante pensai che fosse strano sentire una voce maschile in casa mia.
Invece gli risposi.
-Molto. E' un enorme responsabilità.-
-Già: insegnargli a comportarsi bene, a fargli capire cos'è giusto o no, ma lasciarlo anche libero di esprimersi, di essere se stesso. E poi vederlo un giorno andare via e proseguire da solo.-
-E poi Maki è appena guarita, non me la sento di chiederle una cosa così pericolosa per la sua salute.-
-Ma è guarita, no? Il dottore ha detto che non c'è più pericolo.-
-Si, è vero. Però…-
-Ti blocca il ricordo dell'incidente?-
Nella semi-coscienza avevo “assistito” a quello che era successo e, ogni tanto, il ricordo di quel momento tornava ancora e mi paralizzava. Sebbene Maki continui, ancora adesso, a dirmi che oramai era nel passato, e che adesso il nostro futuro era assieme, non potevo non essere in pensiero per quello che poteva provare o soffrire il suo corpo.
-Per primo sarà proprio il suo corpo ad occuparsi del bambino, e con tutto quello che è successo…-
-Devi fidarti di lei, Kojiro.-
Sentir chiamare il mio nome da quella voce mi fece uno strano effetto, tanto che mi misi seduto in quell'oscurità, a cercare il volto a cui apparteneva quella voce, ma ovviamente non vidi niente.
-Devi fidarti come hai sempre fatto. Dopotutto è proprio perché ti sei fidato che l'hai lasciata andare, per poi tornare da lei, no? Fidandoti di lei avete discusso, litigato, direi praticamente urlato di tutto, per poi ritrovarvi, giusto?
Adesso, più che mai, devi fidarti di lei.-
Mentre parlava ripensavo a tutto quello che era successo, e ad ogni ricordo vedevo il viso di mia moglie in ogni suo carattere, dal sofferente al triste, all'arrabbiato al deluso, al depresso al deciso, allo speranzoso al timido, imbarazzato, felice. Felice.
Quando vidi il suo sorriso, un sottile raggio di luce iniziò ad illuminare quel buio, ma io non ero ancora sicuro.
-Non so come si fa il padre.-
-Nessuno lo sa all'inizio. Potranno darti tutti i consigli del mondo, ma solo lui sarà in grado di insegnarti cosa fare. E poi sei tu a decidere cosa è davvero importante da insegnare a tuo figlio.-
La luce si fece un po' più forte, era proprio come se, in quella stanza, stesse sorgendo l'alba.
-Come fai ad essere sicuro che sarà un bambino?-
-Se Maki è per te è luminosa come il sole, da quel che vedo, tuo figlio può essere solo Haru. (n.d.a. oltre a “primavera”, significa “luce del sole”)
Dopotutto ho avuto la fortuna di avere quattro figli, sarò diventato bravo in questo, no?-
A quel punto mi girai a guardare alla mia sinistra, e vidi un uomo di mezza età che mi sorrideva; lo stesso sorriso che avevo visto in foto e che avevo conservato a stento nei miei ricordi.
Quel sorriso si spense mentre continuava a parlarmi.
-Mi dispiace non esserti stato vicino fisicamente quando avevi bisogno, ma voglio che tu sappia che non ti ho mai lasciato solo.-
La sua mano si posò sui miei capelli, e a quel punto non potei trattenere delle lacrime di commozione.
-Che fai, piangi?-
-...è questa luce...è molto forte.-
-Già. Beh, dopotutto è tuo figlio, di sicuro sarà un bambino forte.-
-...papà..-
L'uomo si voltò a guardarmi.
Sai come succede in questi casi, no? Si hanno tante cose da dire nella testa, ma nessuna sembra avere senso quando sei lì, nel momento.
Pertanto strinsi i denti.
-Grazie.-
Lui mi sorrise, e la sua mano pian piano lasciò andare i miei capelli mentre mi parlava un'ultima volta.
-Sarai un ottimo padre, ne sono sicuro.
Dai, su. Va a prendere tuo figlio.-
Io annuii, alzandomi in piedi e andando verso la luce, dove vidi chiaramente la sagoma di un bambino che iniziò a corrermi incontro.
-Kojiro?-
Aprii gli occhi, lentamente, sopra di me Maki mi guardava con aria turbata.
-Kojiro, che succede? Hai avuto un incubo?-
Sentii qualcosa sugli occhi e mi passai una mano. Avevo ancora le lacrime.
Guardai di nuovo mia moglie e scossi la testa, sorridendole.
-No, è stato un bel sogno.
Sai una cosa, Maki?-
-Cosa?-
-...mi piacerebbe avere un figlio con te. Potremmo chiamarlo Haru, che ne dici?-
Spalancò gli occhi sbalordita, e poi delle piccole lacrime spuntarono assieme ad un sorriso felice.
-Haru...è un nome bellissimo.-
(Finalmenteee, dopo un tempo imbarazzante di pausa finalmente finisco anche questo lavoro.
Ringrazio tutte coloro che non hanno perso la speranza o che si sono unite alla fine alla lettura.
Un ringraziamento particolare a Melanto che mi ha sgridato per bene, spingendomi a finir di scrivere questa storia.
Questa “What if?” avrà poi altri sviluppi per quanto riguarda gli altri personaggi coinvolti (per esempio che fine fa Genzo), ma ci sarà ancora un po' da aspettare.
Grazie ancora a tutti quanti, ALLA PROSSIMA!)
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