Kintsugi

di WYWH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Risvegliandosi ... Lei ***
Capitolo 2: *** 1: In Ospedale ... Lui ***
Capitolo 3: *** 2: Al Ryokan ... la madre di Lei ***
Capitolo 4: *** 3: A casa ... la madre di Lui ***
Capitolo 5: *** 4: Nel giorno di Mukaebi ... la cugina di Lei ***
Capitolo 6: *** 5:Al cimitero ... il fratello di Lui ***
Capitolo 7: *** 6: Di notte ... l'amica di Lei. ***
Capitolo 8: *** 7: Al tramonto ... gli amici di Lui ***
Capitolo 9: *** 8:Endometriosi ... la zia di Lei ***
Capitolo 10: *** 9: Ritorno...il physical coach di Lui ***
Capitolo 11: *** 10: Con dei mochi...la nonna di Lei ***
Capitolo 12: *** 11: Con del saké...l'allenatore di Lui ***
Capitolo 13: *** 12: In Italia...Lei ***
Capitolo 14: *** EPILOGO: In sogno...il padre di Lui ***



Capitolo 1
*** Prologo: Risvegliandosi ... Lei ***


Prologo: Risvegliandosi … Lei

 

Fin da piccola ho sempre sognato e ricordato cosa sognavo. Ogni volta mi svegliavo entusiasta e correvo da mia nonna, raccontandole per filo e per segno quello che avevo sognato. Lei mi sorrideva contenta, seduta sul suo futon, e quando finivo mi accarezzava la testa e mi diceva che ero fortunata, dato che la dea Amaterasu comunicava spesso con me.

Anche quando crebbi continuai a sognare, e il più delle volte continuavo a raccontare i miei sogni alla nonna, la quale ascoltava sempre con aria attenta, annuendo ed interpretandoli assieme a me, per gioco.

Quando conobbi mio marito i miei sogni divennero ancora più luminosi, colorati, e all’inizio non glieli rivelavo, troppo imbarazzata, per poi pian piano raccontare i più divertenti o strani; all’inizio scuoteva la testa, abbastanza perplesso, per poi iniziare a divertirsi, fino a quando non mi chiese di “prestargliene” qualcuno, dato che lui non sognava così tanto.

Ricordo … che la notte prima dell’incidente non avevo sognato. Era la prima volta, e la cosa mi turbò parecchio.

C’era stato soltanto il buio della mia mente, nessun suono e nessuna sensazione addosso, il nulla; mi svegliai con i brividi, e mi misi seduta sul letto, stringendo a me le gambe. Sentii immediatamente Kojiro scivolare verso di me, chiedendomi cos’era successo. Glielo dissi, e lui mi strinse a sé, ed entrambi restammo svegli per il resto della notte.

La giornata, tuttavia, trascorse così piacevole che dimenticai il mio sogno, fino ad arrivare a pensare che era stato solo un caso.

Poi accadde tutto.

Ricordo chiaramente che mio marito mi schermò con il corpo, ricevendo l’aggressore, per poi piegarsi in avanti con un verso strozzato, che mi bloccò il respiro; quando lo sconosciuto lo lasciò andare, lo vidi cadere pesantemente sulla strada, privo di forze. Quando riconobbi il sangue sulla strada urlai e cercai di raggiungerlo.

Mi afferrarono e trattennero per i capelli, sbattendomi prima sulla rete a fianco della strada, poi a terra; mi strapparono i pantaloni, con una tale forza da graffiarmi le gambe. Mai, come in quel momento, sentii il centro del mio corpo andare a fuoco ed esplodere come una bomba dal male; un dolore di quel genere non l’avevo mai provato, Kojiro non mi faceva mai sentire dolore.

Mi voltai, per guardarlo, e vidi negl’occhi la sofferenza di chi mi stava per lasciare senza poter fare nulla, tentando perfino di allungare una mano per toccarmi.

Avrei voluto fare lo stesso, per afferrarlo e “impedirgli” di andarsene, ma oramai il mio corpo era in balia di quell’orrore, perciò lo guardai dritto negl’occhi, cercando di metterlo a fuoco fra le lacrime, e pregai con tutte le mie forze.

“Amaterasu, ti prego, non separarci, non portarmi via Kojiro.

Se lui deve morire, allora voglio morire assieme a lui. E se io devo vivere, allora fa che lui viva.

Ti prego, ti prego dea del sole, ti prego …”

Continuai con quella preghiera anche dopo l’aggressione, quando rimanemmo soli, per un tempo che mi sembrò infinito; con il corpo che faticava a rispondermi, lentamente, allungai una mano verso di lui, arrivando a sfiorarlo, afferrandogli le dita. Erano così fredde.

Credo che, a quel punto, udii delle urla in lontananza, qualcuno che si avvicinava, che parlava, che ci chiedeva se stavamo bene; ma a quel punto ero svenuta, non riuscendo più a sopportare tutto quel dolore.

E sognai di nuovo. O meglio, sembrava un sogno, ma in realtà riconobbi anche un mio ricordo.

Vidi me, bambina, che piangevo, una delle rare volte in cui piangevo a dirotto. Davanti a me il tavolo basso del salotto; quando ero al ryokan mangiavo sempre in quella stanza, il più delle volte in compagnia. Questa volta ero sola.

Ero dall’altro lato del tavolo che mi guardavo, ed era strano vedermi così piccola, le mie manine sugl’occhi, la mia voce, i piccoli singhiozzi che muovevano il mio corpo.

Perché piangevo così?

-Raggio di sole, che succede?-

Alzai lo sguardo, e vidi mia nonna entrare nella stanza; era decisamente più giovane e in forze, anche più dritta con la schiena mentre si sedeva accanto a me, e mi accarezzava con la sua immancabile tenerezza.

-Su su, non fare così, dimmi che ti è successo.-

-La … la ciotola …-

A quel punto mia nonna guardò sul tavolo, e io feci lo stesso.

Riconobbi i pezzi di ceramica rossa, con i disegni di fiori bianchi: era la ciotola che da bambina usavo sempre per il riso. Era la mia preferita, mi era stata regalata alla festa delle bambine, e mia madre era solita riporla in alto, perché voleva che la usassi solo nelle occasioni speciali visto la sua bellezza. Io, però, riuscivo sempre a scalare i ripiani della credenza fino a raggiungerla.

Chissà come l’avevo rotta, non ricordo proprio, forse mi era scivolata dalle mani; ma vedere i suoi cocci sul tavolo m’intristì tanto quanto era triste la bambina, che adesso cercava di calmarsi, tirando su con il naso mentre la nonna le porgeva un fazzoletto.

-Io, io non volevo nonna, davvero.-

-Lo so raggio di sole, lo so. Dai, soffiati il naso.-

-La mamma mi sgriderà.-

-Eh si, hai rotto una cosa molto bella.-

-Non potrò più mangiare il riso con la mia ciotola.-

E la bimba abbassò il capo e strinse i pugni, ero davvero mortificata per quello che avevo fatto; ma mia nonna gli accarezzò i capelli, allora li portavo ancora lunghi. Poi la vidi alzarsi e raccogliere, uno ad uno, i pezzi della ciotola, con un sorriso tranquillo.

-Non preoccuparti, potrai di nuovo mangiare il tuo riso con questa ciotola. Ma mi devi promettere che ne avrai cura, tanta cura. Posso fidarmi di te?-

Vidi la bambina guardare perplessa tanto quanto me quella figura, ma quel visino rotondo annuì lento, e la figura di mia nonna scomparve in una luce bianca che non avevo notato prima.

Tutto attorno a me si fece luminoso, e per un istante credevo che mi sarei svegliata. Ma sognavo davvero? Stavo dormendo? Non ricordavo di essermi addormentata.

-Oh nonna, è bellissima!!-

Mi voltai, sorpresa da quella voce squillante, non ricordavo di avere avuto un tono così alto; dietro alle mie spalle vedevo me, bimba, con un kimono pieno di nuvole e fiori su uno sfondo arancio, le mie manine che tenevano in mano una ciotola rossa … con i fiori bianchi, la mia ciotola certamente … ma sembrava diversa.

Mi avvicinai, cercando di capire cosa ci fosse di diverso, e m’inginocchiai per vederla meglio: era riparata, si vedevano chiaramente i pezzi uniti fra loro, ma non era stata usata della colla … sembrava … oro.

-Mi raccomando ora, Maki, ricordati la tua promessa: questa ciotola ora è molto preziosa, e non perché è stata riparata usando un materiale prezioso, ma perché è di nuovo tutta intera, ed è diventata diversa.-

Entrambe alzammo lo sguardo verso mia nonna, in piedi lì accanto.

-Non capisco nonna.-

-Lo so, è un discorso un po’ difficile per te, raggio di sole.-

S’inginocchiò per potermi guardare negl’occhi.

-Guarda bene questa ciotola: è tua, ma è diversa, giusto? Questo significa che la devi trattare in modo diverso, se non vuoi che si rompa di nuovo. Perché se la rompi di nuovo, questa volta non si potrà più aggiustare, o sarà molto difficile. Hai capito?-

Vidi la bimba annuire lentamente come prima, e mia nonna sorrise.

Poi si voltò verso di me, e mi guardò negl’occhi, sorprendendomi.

-Hai capito, raggio di sole? Dovrai stare attenta, o sarà molto difficile. Ma non preoccuparti, andrà tutto bene.

E adesso svegliati, che ti aspettiamo.-

-Ah, si nonna.-

E feci un cenno del capo, per ringraziarla e salutarla. E mi svegliai.

Il primo volto che vidi, nemmeno a farlo apposta, fu proprio quello della nonna; mi sorrise, accarezzandomi la guancia.

-Ben svegliata, raggio di sole.-

La sua mano era un po’ callosa, il volto era pieno di rughe, più vecchio rispetto a quello del mio sogno, ma il sorriso, per fortuna, era sempre lo stesso, e lo ricambiai, ancora intontita.

-Nonna …-

-Come ti senti?-

-… ho sognato. Ti ho sognato.-

-Bene, allora mi racconterai tutto a tempo debito. Satoru, Natsuko.-

Scostai lo sguardo, e subito mi accorsi che non ero in camera mia, ma in una camera d’ospedale, e la cosa mi confuse, perché ero lì?

Quando mia madre si precipitò su di me, con l’aria di chi aveva pianto a lungo, mi resi conto che era strano che fosse lì: io non ero al ryokan in quei giorni, non ero nemmeno a Naha. Che succedeva?

-Maki! Tesoro.-

-Mamma, papà …-

-Meno male, meno male, sia benedetta Amaterasu.-

-Che succede? Perché sono qui?-

-Hai subito un aggressione, non ricordi? Vi hanno trovato dei passanti. Appena in tempo …-

Ci hanno trovati? Non ero sola? … l’aggressione … Kojiro!

La mia testa cominciò ad urlare quel nome, almeno con la stessa forza con cui lo avevo urlato nel tentativo di difendermi dagl’assalitori e raggiungerlo; di colpo le immagini di quanto era accaduto mi arrivarono come una valanga, e il tutto era su un fondale rosso sangue. Il sangue di mio marito, accasciato a terra, freddo, gelido.

Mi sentii assallire dalla paura e dalla nausea: era vivo? Era vivo?! O era … no, no!

Cominciai ad agitarmi, volevo scendere dal letto ma il mio corpo mi fece subito capire che sarebbe stato difficile, avevo delle orribili fitte nella pancia e nel bacino, le gambe praticamente non si muovevano.

Mia madre s’inquietò.

-Maki, Maki che succede?! Che hai?-

-Kojiro, dov’è Kojiro?!-

-Tesoro calmati.-

-Kojiro dov’è?!-

-È al reparto di terapia intensiva, al piano di sotto.-

-Sta bene, sta bene?!-

-Si, si sta bene, Maki. Sta bene, è vivo.-

Era vivo … era vivo, la dea aveva ascoltato le mie parole, mi veniva da piangere. Ma sentivo che non mi bastava sapere che era vivo, volevo scendere a tutti costi da quel letto e vederlo!

-Voglio vederlo.-

-Adesso ragiona Maki, non sei nella condizione di …-

-Mamma voglio vedere Kojiro, voglio vedere mio marito.-

-No, è fuori discussione! Ti sei appena svegliata e devi stare in riposo assoluto.-

-Nonna, ti prego, devo vederlo.-

-Lo potrai vedere tra qualche giorno Maki, ora calmati-

-Voglio vederlo ora!-

-Maki!-

Mia nonna rimase in silenzio per tutto il tempo mentre mia madre sembrava avere la meglio su di me, afferrandomi per le spalle e spingendomi con tutta la sua forza sul cuscino.

Eppure non sarebbe riuscita a trattenermi, e in un modo o nell’altro sarei andata a vedere Kojiro: dovevo assicurarmi con i miei stessi occhi che stava bene, o non sarei più riuscita a stare in quel letto.

Supplicai con lo sguardo mia nonna, mio padre e anche mia madre, la quale però rimaneva stoica.

-No, è fuori discussione. Non stai bene Maki, hai subito lacerazioni, hai capito bene?! Il dottore dice che l’Endometriosi è peggiorata. Se stata sul punto di morire!-

-Ma anche Kojiro, anche Kojiro è quasi morto! Io l’ho quasi visto morto! L’ho sentito morto! Ti prego mamma, devo vederlo!-

-Kojiro sta bene, te l’assicuro io, l’ho visto tesoro.-

-No papà. Scusatemi, ma io devo vederlo.-

-E dopo prometti di tornare a letto?-

A voce di mia nonna, nel vociare ansioso di me e mia madre, fu pacato, ma entrambi la sentimmo perfettamente, e speranzosa annuì, sporgendomi verso di lei, quasi con le lacrime agl’occhi.

-… va bene. Satoru, prendi una sedia a rotelle.-

-Nonna!-

-Capisco che sei preoccupata Natsuko, ma lo sai anche tu che appena ci allontaneremo Maki tenterà di andare da sola, e io non voglio che mia nipote si faccia ulteriormente male.-

Mia madre all’iniziò s’irrigidì, chiaramente contraria, e lanciò un’occhiataccia a mio padre, che però uscì comunque dalla stanza. Poi prese un profondo respiro, e mi guardò severamente.

-Non fare nulla di stupido, chiaro? Appena lo hai visto torni qui.-

Annuii con tutte le mie forze, e forse riuscii a sorridere a Satoru quando lo vidi tornare con la sedia a rotelle e un’infermiera. Anche questa, sulle prime, era molto contrariata, ma non appena mio padre e mia nonna le spiegarono il mio desiderio si lasciò sciogliere, e divenne nostra complice.

-Se vi vede il dottore ditegli che vi ho dato io il permesso. Tanto a me mi sgridano sempre e comunque!-

Le braccia di mio padre riuscirono a sollevarmi senza troppo sforzo, e mi sentii molto leggera e debole, già solo quel movimento mi provocò un leggero dolore, ma feci finta di non sentire niente, non sarei tornata sotto quelle lenzuola senza aver sentito la pelle calda di Kojiro.

L’infermiera, stando attenta che non ci fossero dottori nelle vicinanze, ci guidò verso la parte meno trafficata del corridoio, lì dove v’era l’ascensore di servizio, e mentre mio padre guidava la sedia a rotelle mi sentivo prendere da un’ansia febbrile, il desiderio di rivedere Kojiro diventava smodato: volevo vederlo come me lo ricordavo, volevo cancellarmi dalla mente l’orribile immagine dei suoi occhi che si spegnevano, coperti di lacrime.

L’ascensore mi sembrò che andasse ad una lentezza incredibile, stringevo le mani e i denti per trattenermi dall’alzarmi in piedi, ad ogni minimo movimento con le gambe o il torso mi sembrava che il centro del mio corpo si strappasse, come un pezzo di stoffa.

Quando si aprirono le porte, un altro piano sconosciuto si aprì ai miei occhi: guardai la gente che passava per i corridoi, ma non riconoscevo nessun viso, così mi fissai sul numero delle camere, sporgendomi ogni volta che c’era un uscio aperto, per studiarne l’interno. Ma andavamo svelti, e non c’era abbastanza tempo per soffermarsi su qualche volto in particolare.

-Sapete che numero è la stanza del signor Hyuga?-

-La 515.-

-Di qua allora.-

La sedia a rotelle fece una curva, e la gente cominciò a ridursi, ma adesso che sapevo il numero di stanza i miei occhi si fissarono sui cartellini, guardandoli scorrere troppo lentamente, avrei voluto dare io una spinta alla sedia, ma mio padre o mi avrebbe trattenuto, facendomi slittare e cadere in avanti, o lui stesso sarebbe inciampato e rovinato a terra.

Vidi il numero 515 in grande, gigantesco, e la porta che mi sembrava più alta e chiara delle altre.

Oltre di essa c’era mio marito, come l’avrei trovato? Sperai, sperai con tutte le mie forze che non mi avessero mentito, e che davvero stava bene, nella mia testa c’era l’immagine di lui con il volto completamente irriconoscibile, o con il corpo ricoperto di bende e macchinari.

Mia madre bussò alla porta.

-Hyuga-san, sono Natsuko.-

Mia madre non aprì lei la porta, e la cosa mi fece leggermente morire dentro, oramai impazzivo per tutta quella attesa. Sull’uscio aperto, riconobbi subito il volto della signora Hyuga, sembrava impallidita e questo m’innervosì, facendomi rizzare la schiena sulla sedia, provocandomi una fitta.

-Natsuko … Maki!!-

-Non siamo riusciti a farla stare ferma.-

-Hyuga-san, la prego! Devo vedere Kojiro!-

Mi guardò sbalordita, poi un sorriso sollevato si aprì sul suo volto; forse desiderava abbracciarmi, ma s’intuiva troppo chiaramente che non le avrei dato la giusta importanza, e si fece subito da parte.

A quel punto, non riuscendo più a trattenermi, mossi la sedia da sola, facendola sfuggire dalle mani di mio padre, ma sbattei contro uno dei due lati con la ruota e m’incastrai. Ringhiai contro il mio mezzo di trasporto; ignorando i richiami dei presenti e i tentativi di aiutarmi ad entrare, afferrai i lati dell’uscio per poter entrare dentro.

Allungai il collo, mi guardai intorno, la stanza era così bianca. Poi vidi il letto, i fratelli seduti lì accanto … e Kojiro.

Allora era vero, era davvero vivo. Mi stava guardando dal suo giaciglio, sbatteva gli occhi; provò ad alzare il busto, ma era evidente che, come me, aveva male. Ma era il dolore di un fisico di una persona viva. Era vivo!

Sentii il sollievo afferrare l’angoscioso peso nel mio cuore e portarselo via, permettendo alle lacrime di uscire come un geyser dal petto e farsi strada sul mio viso, il viso di mio marito mi sembrava ancora più bello del solito, quasi mi faceva male guardarlo e mi coprii il volto con le mani, anche per frenare i singhiozzi che non mi facevano respirare.

Era vivo, vivo! Non riuscivo a pensare altro nella mia testa.

Lasciai che mio padre, con calma, liberasse la mia sedia dall’ingresso e la spingesse gentilmente verso il letto, anche perché io ero troppo presa dell’emozione: sentivo il mio corpo vibrare, contorcersi, farmi male per i singhiozzi ma esplodere anche di gioia mentre mi nascondevo il volto tra le mani.

-Maki … Maki …-

La sua voce mi fece tremare d’emozione, nemmeno la prima volta che mi disse “ti amo” mi sentivo così, il mio corpo tremava vistosamente, non riuscivo a frenarlo.

Sentii una sua mano toccarmi il polso, prendendolo e scostando così la mano dalla guancia destra; alzai lo sguardo, cercando di sorridere, il fiato mozzato per le troppe lacrime. Vidi i suoi neri occhi, in lacrime come i miei, e a quel punto non ero certa se fossi davvero sveglia o se stessi ancora sognando.

-Credevo … pensavo di averti perso … Maki …-

-Anch’io credevo di aver perso te. Sei vivo, sei vivo!-

Mi allungai verso di lui, cercando di abbracciarlo, ma a malapena riuscii ad appoggiare la testa sul suo fianco destro, e il dolore del mio corpo paralizzò ancora una volta le mie gambe; lui, a sua volta, cercò di tirarmi verso di sé, ma al primo tentativo fallì dato che, come me, non aveva forza nel corpo. Mi strinse con tutta la forza che aveva nelle mani, e io feci altrettanto, inspirando l’odore del suo corpo, riuscendo a riconoscerlo oltre la puzza dei macchinari e della stanza.

Qualcuno ci venne in soccorso, probabilmente mio padre, e fui sollevata verso mio marito, facendomi appoggiare sul bordo del letto; immediatamente affondai la testa sul petto e la sua spalla, così come il suo capo si appoggiò sulla mia, percepii chiaramente le sue lacrime sulla mia pelle. Aveva la voce spezzata, e la cosa mi addolorò

-Mi dispiace, mi dispiace da morire amore. Perdonami, perdonami.-

-Kojiro, Kojiro tu sei qui, sei qui. Sei con me, sei vivo. Guardami, guardami amore.-

Gli feci alzare la testa, per guadarlo di nuovo negl’occhi, e gli vidi le guance bagnate; gli sorrisi, ne accarezzai il volto, gli asciugai gli occhi con i pollici, poggiai la mia fronte sulla sua e gli parlai a bassa voce, la più bassa che potevo fare e che lui potesse udire.

-Siamo ancora qui, siamo vivi. Ce la faremo, ne sono sicura. Un passo alla volta ce la faremo, giusto?-

Era una frase che eravamo soliti dirci per farci forza, quando le cose non andavano: “un passo alla volta”, com’era sempre stato nella nostra relazione.

-Io starò accanto a te. Ti prego, resta con me. Resta con me.-

Lo sentii stringermi di nuovo, e mi accoccolai a lui il più possibile, sapendo che rpima o poi sarei dovuta tornare in camera. Mi godetti come mai prima il vibrare della sua pelle mentre parlava, il calore e tono basso della sua voce.

-Ma certo, certo che lo farò. Non ho nessuna intenzione di lasciarti. Sarò sempre con te.-

Kojiro non era mai stato capace di mentirmi, le sue bugie le scoprivo subito. E per questo ero sempre sicura che quello che diceva corrispondeva alla verità, nel bene e nel male. Lo baciai piano, poi lui richiese un secondo e terzo bacio, e infine mi strinse di nuovo.

Restammo abbracciati ancora a lungo, godendoci quel pochissimo tempo, prima che l’infermiera mi obbligasse a tornare in camera per riposarmi.

 

**

 

Signore e signori, eccoci qui! Dopo tanto tempo ritorno su questa serie, dato che avevo rotto un po’ di cuoricini per “il gesto estremo” che avevo compiuto per creare la mia coppia non-canon. Ammetto che non è stato facile trovare un modo per proseguire questo racconto: l’inizio, infatti, è stato molto facile, ma pian piano la trama, per quanto lineare, ha rivelato ombre e luci molto intensi, in cui mi sono dovuta fermare dallo scrivere.

Il racconto non sarà dal punto di vista dei due protagonisti: solo i primi due capitoli, infatti, avranno i loro pensieri a farci compagnia. I successivi … beh, lo scoprirete voi leggendo! ;)

Ci tengo a ringraziare delle persone in particolare: Berlinene e Melanto, che mi hanno ispirato per la serie di “Furisode”; Ai_1978, che mi ha dato l’ispirazione per scrivere questa storia, e Sakura Ozora, perché mi ha dato ulteriore entusiasmo per scriverla.

Grazie mille!

Ci vediamo al prossimo aggiornamento!

 

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Capitolo 2
*** 1: In Ospedale ... Lui ***


1: In Ospedale … Lui

 

Sentii bussare alla porta, ma non avevo bisogno di rispondere, perché sapevo chiaramente chi era; e sebbene fossi contento della sua visita, dall’altra mi apprestavo a lanciarle un’occhiataccia non appena fosse stata nel mio raggio visivo: visto le sue condizioni, lei più di me doveva stare tranquilla a letto.

Oramai riusciva a stare in piedi, ma camminava lenta ed era ancora un po’ pallida. Vederla così m’inquietava da morire, avessi potuto sarei sceso dal letto e le sarei andato incontro, rispedendola in camera sua a spintoni come avevo già fatto diverse volte, anche litigando ad alta voce con lei; ma il dottore ci aveva già beccato due volte, e aveva fatto una paternale enorme sul fatto che eravamo “convalescenti, e il movimento non avrebbe accelerato la guarigione, anzi!”.

Perciò feci appello al mio sguardo più cattivo, quello che di solito avrebbe freddato anche il più stoico dei miei avversari in una partita.

-Non dovresti essere qui, ma nella tua stanza nel tuo letto.-

Come al solito non fece caso al mio sguardo “da tigre”, o da “gatto scazzato” quando vuole prendermi in giro, limitandosi a farmi la linguaccia e portandosi vicino al letto la sedia più trasportabile, sedendosi molto lentamente mentre mi rispondeva.

-Mi annoio a morte al piano di sopra, e la nonna non verrà prima delle cinque.-

-Piano, fai piano. Perché non ti sei presa la poltrona accidenti?! Questa sedia è troppo scomoda per il tuo stato!-

-La poltrona è troppo pesante, non riesco a spostarla. Ed è lontana da te.-

E mi guardò dritto negl’occhi, con fare sicuro e addolcito.

Argh, colpito e affondato, la odio quando mi tira fuori queste frasi affettuose. E mi sorrideva pure, maledetta! Sapeva bene che non potevo resisterle e che potevo solo sbuffare contrariato.

Guardandola così sorridente non riuscivo a smettere di pensare al dolore che le è stato inferto; ed io non ero stato capace di proteggerla. A volte penso che Maki sia davvero una discendente della dea del sole, se è ancora qui con me: solo il benvolere della divinità, infatti, l’ha salvata da tutto quell’orrore.

Prese la mia mano e mi accarezzò le dita in silenzio. Non sentivamo il bisogno di parlarci, e io non sapevo proprio cosa dirle in quei momenti.

Cosa posso fare, pensavo, che posso fare adesso per lei? Come può toccarmi ancora, dopo che io l’ho lasciata in mano a quei bastardi?

-A che pensi?-

Non avevo voglia di dirle la verità, pertanto scossi la testa, appoggiandola tra i cuscini; la sentii strizzarmi le dita, e il suo sguardo si accigliò immediatamente. Alle sue sottili sopracciglia bastò un movimento per scatenare un immediato cambio di espressione su tutta la faccia.

-Hyuga, a che pensi?-

Usò il mio cognome perché voleva una risposta, la più sincera. Lo fa sempre quando vuole che le risponda o le dia attenzione; anch’io faccio la stessa cosa ma la chiamo Akamine, per rispetto nei suoi confronti e della sua famiglia: fu una sua scelta cambiare il cognome in Hyuga, ma alla sua famiglia non andò molto a genio.

Io non sono mai andato a genio alla sua famiglia, in generale.

Presi un respiro profondo, chiudendo le palpebre: non riuscivo nemmeno a guardarla in quei momenti, la vedevo pallida e fragile, per me era un miracolo che non si fosse spezzata. Avevo pregato con tutte le mie poche forze mentre mi sentivo di morire che lei ce la facesse.

-Non … non avrei mai voluto … questo, per te.-

Mi sentivo così spaventosamente debole, costretto in un letto di ospedale mentre mia moglie, colei che io avrei dovuto proteggere, si alzava tutti i giorni per venirmi a trovare quando aveva subito ferite più grandi di me, e non parlo di qualcosa di fisico.

Sentii una lacrima scivolarmi dalla guancia e scostai il volto, non volevo certo che mi vedesse piangere.

La sua mano raggiunse la mia guancia, ma con irruenza mi spostò la testa, facendomi anche male mentre aprivo le palpebre e vedevo i suoi occhi a pochi centimetri di distanza dai miei, che mi fissavano, mi scrutavano fino in fondo all’anima.

Ah, il suo sguardo. Ho sempre pensato che dentro il suo sguardo ci fosse il mare: non per il colore delle iridi, per carità trovo così freddi e vitrei gli occhi azzurri.

Io parlo … di qualcosa talmente tanto profondo e romantico che mi rifiuto di dirlo, troppo imbarazzate.

-Nemmeno io lo avrei voluto, ma sono qui e sono viva. Così come lo sei tu. Se ti sento incolparti ancora una volta ti prendo a pugni, e lo posso fare. Tanto non sei ferito in faccia.-

Oh lo so che lo poteva fare: non c’è mai stato giorno, nella nostra vita comune, in cui non volavano pugni e schiaffetti tra di noi, che fossero stati per gioco o per imbarazzo; a volte giocavamo alla lotta proprio come ragazzini, altre volte lo facevo per stuzzicarla e farla arrabbiare, trovandola adorabile. In alcuni casi mi sgridava e mi picchiava con forza, ben sapendo che non poteva farmi niente.

La guardai per qualche momento.

-… avresti il coraggio di picchiare un malato?-

-Se il malato si comporta da stupido si.-

-Allora mi toccherà chiamare il dottore.-

-Così non potrei più stare qui con te.-

-Ah, pace finalmente!-

-Ma come!-

Ridacchiammo entrambi, e a quel punto le accarezzai il volto e i capelli, in quei mesi le erano cresciuti e arrivavano alle sue spalle. Le stavamo male, non mi piacevano, le davano un’aria seria, che non stava bene sul suo viso rotondo.

-Quando ti decidi a tagliarli?-

-Guarda che non ci sono parrucchieri qui in ospedale, e non ti azzardare a dire “faccio io”! L’ultima volta mi hai obbligata quasi a rasarmi!-

-Però non stavi male, ti lasciava libera la faccia.-

-Guarda che se è per questo posso legarmeli.-

-Le code non ti stanno bene, sembri una ragazzina.-

-Meglio allora, sembro più giovane!-

Prese l’elastico che teneva al polso, ma io la bloccai con la mano libera mentre l’altra le afferrava prepotentemente il mento.

-Naah.-

-Ahi! Dai!-

Provò a resistermi, portando il polso bloccato verso di sé e cercando di allontanare la mia mano sul suo volto con l’altra, ma anche se ero in una posizione scomoda non cedetti; il gioco non durò più di un minuto, in quanto lei sbuffò e alzò la mano libera verso l’alto, aprendo anche l’altra.

-Va bene, va bene, hai vinto tu.-

-Hm, bene.-

-Sei un prepotente.-

Non lo negai, era vero. Ma era compreso nel pacchetto “Kojiro”, e lei lo sapeva bene quando accettò di sposarmi.

Sospirò ancora, rimettendosi l’elastico al polso e nascondendolo dentro la manica lunga del pigiama, addosso portava lo scialle che le aveva dato la madre.

In quel momento notai che il suo polso era più magro del solito, e d’istinto la bloccai ancora con le mani, scoprendo però lentamente il braccio dalla manica: era dimagrita, lo potevo percepire. Forse lei intuì il mio pensiero, perché dopo il primo momento non fece più resistenza, lasciando che scrutassi la sua pelle fino al gomito, passandoci anche le dita.

-Hai preso peso?-

-Un pochino.-

-Ma stai mangiando?-

-Il cibo qui non è granché, ma è solo quello.-

-Davvero? Hai avuto i risultati dal dottore?-

M’innervosiva vederla dimagrire in quel modo, dopo quello che ci era successo, conoscendo anche il suo stato di salute.

A dire la verità tutto mi stava innervosendo: la convalescenza in ospedale, il non essere in un ambiente familiare, la lenta guarigione della mia ferita, il possibile stato d’animo di mia moglie, le sue condizioni fisiche, il non saper cosa fare a fronte di quanto successo, e ora anche questo.

Ero … impotente, una sensazione odiosa per me, che non mi ero mai fermato nella mia vita.

-Kojiro non stringere.-

-Hai avuto i risultati?-

-Dovrebbero arrivarmi oggi, non preoccuparti.-

-Come faccio a non preoccuparmi del fatto che non mangi?!-

-Non è niente, sono solo schizzinosa. Kojiro calmati!-

Mi mise una sua mano sul volto, e piantò di nuovo i suoi occhi dentro ai miei, stavolta con uno sguardo più tranquillo; il mare nei suoi occhi era placido, con piccole increspature solo sul bagno asciuga.

E sentii la mia anima bagnarsi in quel tepore, calmarsi, le voci forsennate della mia testa si spensero lentamente mentre respiravo a fondo, stupendomi del mio comportamento ... isterico.

Lei aspettò ancora prima di parlare, e usò una voce bassa, allungandosi verso di me per abbracciarmi, la mia testa sul suo petto, dove potevo sentire il battito del suo cuore.

-Va tutto bene, Ko. Io sono qui, con te, e tu sei qui con me. Un passo alla volta Ko, uno alla volta.-

Non amavo aspettare, non sono una persona paziente. Ma stranamente Maki si, e dico stranamente perché da quella ragazzina così energica, che riusciva sempre a tenermi testa, non mi aspettavo una simile forza; ma forse era anche per la sua condizione fisica, per i sacrifici che aveva affrontato, e anche per questo nostro rapporto così … beh, così nostro.

Mi tenne ancora abbracciato a sé.

-Maki, puoi lasciarmi ora.-

Lei scosse la testa, ed avvertii il movimento sopra i miei capelli, la sentii stringere un po’ più forte, e il suo cuore battere un po’ più forte.

Presi un profondo respiro, e in silenzio la presi e la guidai lentamente verso di me mentre mi misi dritto con la schiena, lei si sedette sul bordo del letto per farsi abbracciare più comodamente.

In un attimo lei mi aveva calmato, e in un attimo adesso ero io che consolavo lei.

È sempre stato così fra di noi: nessuno dei due ha sempre il sopravvento sull’altra, ognuno ha le sue attività, anche se la cosa ci ha tenuto lontani a lungo. Entrambi sappiamo i difetti dell’altro, e abbiamo imparato a conoscerli e sopportarli il più possibile, anche se è inevitabile litigare. Ma, per tutto questo, ci siamo sempre amati e rispettati.

Accarezzai i capelli di mia moglie e la sua schiena, la sentii calda come la prima volta che l’abbracciai, felice e innamorato, e le baciai la testa una, due, più volte, prendendo profondi respiri per sentire il suo profumo, facendolo entrare dentro di me.

La mia amata Maki, viva e calda tra le mie braccia. Nemmeno quando le chiesi di sposarmi e accettò mi sentii così felice e sollevato.

Il bussare della porta fu un rumore così spiacevole che volevo gridare “non voglio nessuno fra i piedi!”, ma sfortunatamente mia moglie lasciò la presa, rimettendosi seduta sulla sedia e cercando di pettinarsi i capelli con le dita, passandosi il dorso delle mani sulle guance per cancellare qualsiasi traccia di lacrime.

Le diedi una mano con i miei pollici, sfregando e facendola imbronciare per toglierle via ogni tristezza dagl’occhi.

Ci sorridemmo a vicenda, adesso dovevamo farci forza per affrontare le visite: nessuno di noi aveva voglia di vedere qualcuno, ma sapevamo quanto le nostre famiglie erano preoccupate.

-Avanti.-

Per prima ci fu Naoko, la cui testa sbucò fuori timidamente dall’uscio, facendomi sorridere, il resto del corpo era in uniforme scolastica.

Dietro di lei tutti coloro che erano riusciti a raggiungerci: mia madre, la madre e il padre di Maki e Akamine-sama.

-Maki! Ci è venuto un colpo quando non ti abbiamo trovato in camera!-

-Scusami mamma.-

-Satoru, prendi la poltrona per Maki per favore.-

-Ah no nonna, è meglio che ci stai tu.-

-Che sciocchezza, non sono certo io quella in pigiama.-

-Copriti meglio Maki.-

-Si mamma.-

-Buongiorno fratellone.-

-Ciao Naoko, ciao mamma.-

-Come ti senti oggi caro?-

-Stufo di stare a letto, ma anche meglio. Voi come state?-

-Tutto tranquillo.-

Fummo divisi in due parti dalle chiacchiere e dal letto, ma ci tenevamo saldamente per mano, e niente e nessuno poteva separarci.

-Per caso ci sono state telefonate per me?-

-Si, ha chiamato la tua società, desiderano parlarti al più presto. Ti ho portato il tuo cellulare.-

Mia madre frugò nella sua borsetta e mi restituì l’apparecchio; la prima cosa che notai fu il dorso graffiato, durante l’incidente mi era caduto a terra.

Avevamo preso quel vicolo perché tagliava un po’ strada, saremo arrivati prima a casa da mia madre; era un po’ buio, uno dei lampioni si era rotto.

Quei tre tizi, appoggiati alla rete, fin da subito sapevamo che c’era qualcosa che non andava in loro, ma non volevamo tornare indietro perché ci avrebbero seguito; perciò avevo preso la mano di mia moglie, e stavamo tirando dritti. Nessun contatto visivo, nessuno scambio di parole anche se provocavano.

Per prima tentarono di afferrare Maki, ma lei si scansò mentre la portavo dietro di me.

Quando mi venne addosso, colpendomi, dev’essermi caduto allora il cellulare. Non avevamo mai avuto intenzione di rapinarci, solo di farci del male … a me … e soprattutto a lei …

-Ko.-

Sbattei gli occhi, sorpreso, e mi voltai verso Maki.

-Tutto bene?-

Le strinsi le dita, e presi un profondo respiro: mia madre era lì, mia sorella era lì, non potevo dirgli quello che avevo appena pensato, le avrei turbate, e si erano già spaventate abbastanza, ricordo ancora che quando mi svegliai, mia madre si lasciò andare al pianto, ed era così raro vedere le lacrime segnarle il volto, che mi sentii molto più male per lei che per la ferita.

Le annuii in silenzio, poi mi rivolsi di nuovo a mia madre, che mi guardava con aria ansiosa, mia sorella era più che altro confusa.

-Scusa, è che sono preoccupato per il rinnovo del contratto, nelle mie condizioni non mi sarà possibile giocare per un po’, non credo vogliano un infortunato in squadra.-

-Non puoi chiedere un posticipo?-

-No, il campionato è quasi alle porte, adesso ci sono gli ultimi movimenti di mercato.-

Vidi mia madre annuire, e capii che anche lei, come me, stava nascondendo l’ansia per non turbare Naoko.

-Per ora devi pensare al riposo, Kojiro. Intanto chiamali e fatti dare notizie, forse possiamo trovare una soluzione.-

Annuii, e mi rivolsi a mia sorella, portando la conversazione altrove mentre abbandonavo il cellulare sul letto.

-E tu signorina? Come sta andando a scuola?-

Ancora una volta bussarono alla porta, ma stavolta riuscii a rispondere “avanti” prontamente.

Era il dottore, che subito rivolse un’occhiata poco contenta a mia moglie, alla mia destra.

-Eccola signora Hyuga, come al solito fuori dalla sua stanza.-

-Le chiedo scusa dottore. Mi dica.-

-Ho qui i risultati delle analisi, vuole che ne parliamo in privato?-

Aveva l’aria di chi non portava buone notizie.

-No, non si preoccupi. Prego mi dica pure.-

Adesso era lei a stringere le mie dita, e ricambiai deciso la presa; intanto il parentado fece un religioso silenzio.

Il dottore aprì la cartella e iniziò a sfogliare i vari fogli.

-Allora … lei ha subito una lacerazione interna, e a causa di questo la sua Endometriosi ha causato un’infiammazione estesa che stiamo però curando con farmaci.-

-Possono essere questi che mi provocano una carenza nell’appetito?-

-Si, è molto probabile. Comunque la cura dovrà andare avanti per almeno due – tre mesi.-

-Mi dica dottore … la … la violenza …-

Mi strinse la mano fino a farmi male, sentii la sua voce farsi debole, e mi avvicinai a lei, spingendola delicatamente ad appoggiarsi a me mentre prendeva fiato e riformulava la domanda.

-Dottore … per caso sono diventata sterile?-

Strinsi i denti, sentii la schiena di mia moglie rigida sulla mia spalla.

-Ancora non siamo certi, ma è una possibilità che non possiamo escludere. Vediamo intanto come va la cura, e poi faremo altre analisi per verificare il suo stato di fertilità.-

-Capisco. La ringrazio.-

-Cerchi di tornare in camera sua, ha bisogno di riposo.-

-Si, va bene.-

Maki rispondeva in maniera atona, e lanciai un’occhiata chiara a mia madre, la quale prese Naoko con sé mentre la famiglia di mia moglie capiva di doversi allontanare, chiudendo la porta e lasciandoci soli.

Mi stava dando ancora le spalle, non si muoveva, il capo leggermente chino, i capelli che le coprivano il volto. Anche per questo non mi piacevano così lunghi, m’impedivano di leggere quello che le stava passando per la testa.

-Maki, guardami.-

La vidi muovere lentamente il capo in un gesto di diniego, e le strinsi la mano, portandola verso di me.

-Ti prego guardami.-

-Non ci riesco.-

-Si che ci riesci, avanti Maki.-

-No, no.-

-Maki!-

Tentai di afferrarle la spalla, e la sua reazione fu esplosiva.

-LASCIAMI!-

Rischiò di farsi male quando strattonò per liberarsi dalla mia presa, la schiena si piegò in avanti e vidi quelle mani, libere, portarsi al volto, il corpo che cominciava a scuotersi.

Maki?! Oh no …

Ora avevo paura di toccarla, sentivo che se lo facevo mi avrebbe scacciato come prima; eppure volevo abbracciarla così disperatamente, portarla a me.

Dovevo fare qualcosa, dovevo.

Scostai le lenzuola, e lentamente scesi dal letto. Il movimento la colpì subito, perché la vidi voltarsi verso di me; aveva gli occhi completamente ricoperti dalle lacrime, avevano già cominciato ad arrossarsi mentre le guance erano bagnate.

-Kojiro, che fai?!-

Mi portai davanti a lei, e lentamente provai ad inginocchiarmi. Al primo piegarmi in avanti sentii come se il mio ventre si stesse aprendo in due e i punti si stessero aggrappando ferocemente alla mia pelle.

Lei si allarmò ulteriormente.

-No, Ko! Torna subito a letto.-

-Maki, guardami.-

Riuscii non so come a mettermi in ginocchio davanti a lei, e quando provò a farmi rialzare le catturai le mani, portandole a me.

Era così bella mia moglie, anche se stava piangendo, anche se era disperata. E quel suo dolore avrei tanto voluto farlo mio, prenderne una parte per alleggerire il suo peso.

Ma io ero e sono un uomo. Non potrò mai capire il profondo dolore che può provare una donna in una situazione del genere; tuttavia volevo mostrarle che, sopra quel tremendo burrone oscuro, poteva trovare me a tenderle la mano, per aiutarla a risalire.

-Ce la faremo. Ce la farai Maki. Un passo alla volta, come hai detto tu. Uno alla volta.

Io non lo so quanto dolore provi, ma lo posso sentire, e … e vorrei fare qualcosa.

Dimmi cosa posso fare Maki, dimmi come posso aiutarti a farti stare meglio. Dimmelo.-

Appoggiai la mia fronte alle sue mani, e pregai Amaterasu: le chiesi di far guarire mia moglie dal suo dolore, di darle forza e fiducia in se stessa. Di illuminarla con la sua luce. Di aiutarmi ad aiutarla.

Sentii la testa di Maki appoggiarsi alla mia spalla, e mi sussurrò all’orecchio, come se non volesse farsi sentire da nessuno.

-Hasshou nanahai isshoukenmei.- (otto vittorie, sette sconfitte; è un proverbio che vuol dire “fai sempre del tuo meglio”)

Annuii lentamente, comprendendo le sue parole, e lentamente le lasciai andare le mani, permettendole di abbracciarmi mentre io abbracciavo lei, facendola scendere dalla poltrona.

Ci abbracciammo in ginocchio, sul pavimento. Forse scomodi e doloranti, ma stretti più che potemmo.

 

**

Questo è l’ultimo capitolo dove “sentiremo” i pensieri dei nostri due protagonisti. Da qui in avanti … chissà chi ci racconterà la loro storia? Provate ad indovinarlo con questa frase!

 

“…era bello sentirle dire quelle due parole, mi tranquillizzavano fin dentro l’anima, e mi permisi di darle un bacio sulla guancia, accarezzandogliela poi con le dita e guardandola per bene, fin dentro le pupille.”

Ci vediamo al prossimo aggiornamento!

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Capitolo 3
*** 2: Al Ryokan ... la madre di Lei ***


2: Al Ryokan … la madre di Lei.

 

Il mio corpo, quel giorno, si muoveva da solo: da solo si era alzato dal futon, si era lavato e preparato, da solo aveva preparato la colazione ai clienti, da solo andava a avanti e indietro per il ryokan, svolgendo tutte le faccende con anche una certa bravura; se lo dovevo criticare per qualcosa, ammetto che poteva essere un pochino più veloce in certe mansioni. Ma, ahimè, oramai non sono più tanto giovane, come quando ho iniziato a lavorare per la famiglia di mio marito.

E la mia testa, in tutto questo? … beh, la mia testa era completamente persa altrove: quel giorno mia figlia sarebbe tornata al ryokan con suo marito, per proseguire la convalescenza in famiglia. Ero sollevata, soprattutto per l’orribile incidente che gli era capitato; ma dopo quanto il medico ci aveva detto sulle sue condizioni fisiche, beh, ero decisamente preoccupata.

Vedete, mia figlia … anzi, meglio dire che la famiglia di mio marito in generale ha una malattia genetica ereditaria; loro la chiamavano “la maledizione di Amaterasu”, perché colpiva solo le donne della famiglia Akamine, e perché questa famiglia era profondamente legata alla dea del sole.

La storia della “maledizione” la conosco perché era una delle storie di paura che mia suocera, la capofamiglia, era solita raccontare ai nipoti per spaventarli; ma come tutti i racconti aveva il suo fondo di verità, e me ne resi conto nella maniera più dura per una madre: scoprire che la propria figlia era vittima di quel “maleficio”.

-Zia, va tutto bene?-

Mi voltai, e gli occhi di Tomoko mi guardarono, curiosi come lo sono stati fin dalla sua infanzia.

Sorrisi, o meglio mi sforzai di sorriderle, non volevo che lei si preoccupasse: lei a Jin, difatti, non sapevano della violenza che aveva subito a mia figlia, per non spaventarli.

-Certo, certo Tomoko-chan. Scusami, è che non vedo l’ora di vedere Maki.-

Mi sorrise contenta e strinse a sé il materasso, si vedeva che anche lei fremeva d’impazienza; in quel momento mi stava aiutando a portare all’aperto i futon, per far prendere loro aria.

In quel periodo dell’anno c’erano tanti clienti al ryokan, che combattevano il caldo afoso di Naha andando nella spiaggia proprio sotto la locanda, e noi approfittavano di quelle ore per rassettare al meglio le loro camere. Quella era una delle faccende che compivamo ogni giorno, anche durante le festività.

-Hai idea di quanto staranno Maki-chan e Hyuga-san al ryokan, zia?-

-Per il momento resteranno un mese, fino al prossimo controllo medico di Maki. Dopodiché potrebbe tornare dalla madre di Kojiro.-

-E se andassero in Italia?-

-Se questo renderà Maki felice, allora sarò felice anch’io per loro.-

Tomoko sbuffò contrariata: lei aveva sempre adorato Maki, saperla lontana non le piaceva affatto.

Io mi limitai a respirare profondamente, e non solo per la fatica di trasportare i futon: quel pensiero era una possibilità che né io né Satoru avevamo escluso, ma io stessa non ne ero molto entusiasta, meno che mai in quella situazione.

Quando venimmo a sapere cos’era accaduto, tramite un’angosciata telefonata della signora Hyuga, pensai di morire all’istante dallo spavento, e il mio corpo si stesse mosse da solo: preparai lo stretto necessario per la valigia, salii in macchina e presi il primo aereo mentre la mia mente era completamente ottenebrata dall’idea che mia figlia non sarebbe riuscita a sopravvivere. Mio marito, per tutto il tempo, mi tenne strettamente per il polso, assicurandosi semplicemente che io non andassi a sbattere da qualche parte.

In ospedale ci fu detto, per filo e per segno, cos’era accaduto; pensavo che avrei pianto dall’orrore, ma ero talmente sconvolta che le lacrime non scesero. Il mio stesso cervello, oramai abituato alla mia vita negli Akamine, aveva creato una specie di meccanismo che, anche nelle situazioni più orribili, in pubblico non cedessi mai troppo alle emozioni.

Questo funzionò fino a quando non mi dissero che mia figlia era fuori pericolo; lì ricordo chiaramente di essermi svegliata dal “sonno”, e completamente esausta di essermi accasciata a terra, le mie gambe mi avevano abbandonato. Scoppiai a piangere, tappandomi la bocca con le mani per non urlare troppo forte, mentre mio marito s’inginocchiava di fronte a me e mi abbracciava con tutte le sue forze residue, piangendo a sua volta.

Mia figlia, la mia povera Maki … poi mi fermai dal formulare questo pensiero, e pian piano calmai il pianto: no, lei non mi avrebbe mai perdonato se avessi cominciato a pensare in quel modo. Se c’era una cosa che mi aveva sempre chiesto di non fare, era di provare compassione per lei.

“Sei mia madre” mi disse quella volta, quando affrontò il problema con me. “Ti prego di aiutarmi e di sostenermi, e anche di sgridarmi se sarà necessario. Ma non trattarmi come un’inferma. Non tu.”

Sentirsi dire una cosa del genere, da una quindicenne, fu stato molto duro, tanto che le tirai uno schiaffo, e la sgridai per questo; tuttavia, in seguito, mi resi conto che le sue parole avevano un fondo di verità, e pertanto ho sempre rispettato le sue volontà, come fare sport, uscire con gli amici, sposarsi con Hyuga.

E l’ho sempre vista felice.

Uscimmo fuori in cortile, e cominciammo a stendere i futon sul filo, sbattendoli con un batti panni, e di nuovo la mia mente ricominciò a perdersi nei pensieri: staranno comodi nella loro stanza? Il futon non sarebbe stato troppo sottile? Maki avrebbe dormito comoda, nonostante la sua “maledizione”?

La maledizione di Amaterasu, la Endometriosi. Le donne colpite da quel male nella famiglia Akamine, tempo fa, avevano solo tre possibilità: mentire e nascondere il loro male, venire allontanate dalla famiglia fino ad arrivare ad essere ripudiate, oppure rinchiudersi in un santuario e diventare sacerdotesse, “espiando” il loro peccato tramite la via religiosa.

La prima a scoprire cos’era effettivamente la “maledizione” fu la nonna di mio marito Satoru, aiutata dal marito che era il capo famiglia, che era un medico, dopo che la loro figlia, Moe, aveva rischiato il ripudio e tentato di farsi del male. Da quel momento fu abbandonato il nome convenzionale, ma ancora adesso non lo si nomina ad alta voce, considerato una grave onta dentro la famiglia che “discende da Amaterasu”.

Oba-sama soffre ancora per questa sua condizione.

-Zia, basta battere questo futon! Così lo rovini!-

La voce di Tomoko fermò i miei pensieri e la mia mani, e mi affacciai verso di lei, guardandola sorridere con aria divertita.

-Oggi sei proprio sulle nuvole.-

Mi sforzai di ricambiare la sua allegria.

-Hai proprio ragione, Tomoko-chan.-

-Vado a vedere se nei bagni sono stati usati gli asciugamani?-

-Certo, fa pure. Io torno in cucina a finire di pulire i piatti.-

Quella parte di cortile faceva parte del lato addetto ai nostri appartamenti, ma tutto il giardino era aperto; pertanto gli ospiti, se volevano, potevano arrivare fino a lì, da noi, anche se non avevano il permesso di entrare dentro quel lato dell’edificio.

Vidi mia nipote togliersi i geta e salire sul porticato, allontanandosi verso i bagni.

Stavo per riprendere a battere sui futon, ma mi resi conto che rischiavo di nuovo di colpire sempre lo stesso materasso, e respirando a fondo mi fermai a guardare il mare, per cercare di frenare la mia mente; da quel punto non c’erano gli alberi a coprire il paesaggio, solo una siepe bassa, pertanto potevo chiaramente vedere l’acqua salata, quel giorno più grigia del solito. O forse erano i miei occhi che la vedevano di quel colore, in effetti tutto mi sembrava più spento, nonostante fossi sinceramente felice dell’arrivo di Maki.

Alla fine, quando lei e suo marito furono dimessi dall’ospedale, si era deciso che sarebbero venuti a stare nel ryokan per recuperare, che il viaggio potevano sopportarlo; dopotutto, la nonna aveva così tanto insistito che i due non avevano avuto modo di rifiutare.

In quei momenti facevo fatica a riconoscere la capo famiglia forte e sicura, che conobbi la prima volta che Satoru mi presentò ufficialmente; ma riconoscevo quel senso di agitazione, perché era lo stesso che avevo io, e che continuavo a provare dentro il mio corpo.

Non riuscendo a rinfrancarmi lo spirito con la veduta, mi diressi in cucina; davanti al lavabo sollevai le maniche, legandole dietro la schiena con un nastro, e iniziai a lavare piatti e vassoi. Ancora una volta era il mio corpo che si muoveva meccanico mentre io, con i miei pensieri, pensavo che Satoru e Jin erano andati a prenderli all’aeroporto quasi un’ora fa, perché ci mettevano tanto? E com’era andato il viaggio? Maki e Kojiro stavamo bene? La camera per loro non era troppo lontana dai bagni, o dalla cucina? Forse era il caso di mettergli un’altra coperta per sicurezza?

-Natsuko, non hai finito?-

Mi voltai, sorpresa di non aver sentito mia cognata Moe entrare in cucina, e le gocce d’acqua scivolarono lungo il mio braccio fino ai gomiti, arrivando a bagnare leggermente le maniche tirate del mio kimono.

-Ah, scusa Oba-san, oggi non ci sono proprio con la testa.-

-Maki è in ritardo, probabilmente per causa di suo marito.-

Guardai quella donna in silenzio, avvertendo chiaramente in lei il disprezzo che provava nei confronti di Kojiro; tornai a lavare le ultime ciotole senza rispondere a quella “provocazione”: sapevo perfettamente che era sempre stata contraria al fidanzamento, al matrimonio, a tutto.

-Era meglio se restavano nel Meiwa.-

-La casa di Hyuga-san è piccola, Oba-san. Qui invece hanno tutto lo spazio e la tranquillità necessari per recuperare le forze.-

Non sentii alcuna risposta da lei, ma mi bastò lanciare uno sguardo per notare la sua aria infastidita; mi limitai a riporre l’ultima ciotola al suo posto, asciugandomi le mani, slacciando il nastro e lasciando andare le maniche del kimono, decisa a continuare tutte le faccende, volevo essere libera quando mia figlia sarebbe arrivata, così da non lasciarla subito da sola.

-Moe-san, vado a mettere un’altra coperta nella loro stanza, non voglio che prendano freddo durante la notte.-

-Hanno coperte a sufficienza, devi pensare alle camere dei clienti.-

Era la mia superiore nella gestione del ryokan, pertanto non me la sentii di contraddirla; tanto, in un modo o nell’altro sarei riuscita nel mio intento. Chinai la testa in segno di obbedienza, e veloce mi allontanai dalla cucina, dirigendomi verso le camere dei clienti.

C’erano giorni in cui non sopportavo mia cognata e il suo comportamento, e questo era uno di quelli. Ma avevo imparato, anche grazie a mio marito, ad ignorare il suo modo di fare, in quanto lei era l’unica che ci perdeva con quel modo di fare, specie per quanto riguardava con Maki.

Anche perché, una volta, Moe aveva adorato mia figlia.

Quando fu piccola, la bambina era sempre stata con sua zia, e lei la trattava si severamente, ma anche con tanta attenzione: i suoi occhi la seguivano sempre, delle volte anche più di me, assicurandosi che non le capitasse mai niente di spiacevole.

I problemi arrivarono quando Maki cominciò ad avere il suo carattere “mascolino”, andando in collisione con Moe-san; ho tentato, più volte e più volte, di appianare lo cose fra di loro, ma poi capii che i loro caratteri erano molto simili in certi aspetti, e pertanto era facile per loro ritrovarsi a discutere o litigare. E se non riuscivo a farcela con una, non sarei certo riuscita con l’altra.

Forse se loro … no, con i “forse” e i “se” non ci ha mai mangiato nessuno.

Cominciai ad occuparmi della camera più in fondo al corridoio mentre Moe si occupava di quella successiva; sistemavamo i futon, raccoglievamo e mettevamo in ordine, in caso, eventuali yukata o abiti dei clienti, sostituivamo i vasi di fiori nei Tokonoma. Lavoravamo in silenzio, nella quiete delle stanze vuote, e il tempo sembrava non passare mai.

Ad un tratto sentii dei passi molto veloci venire verso di me, e Tomoko aprì lo Shoji così improvvisamente che, a momenti, facevo scivolare a terra il vaso di fiori che avevo preparato. Ovviamente, quell’atteggiamento non piace per niente a mia cognata.

-Zia! Zia!-

-Tomoko sei impazzita? Ti sembra il modo di comportarti?-

-Scusami Oba-sama.-

Sorrisi, sia per il continuo essere distratta, sia immaginandomi mia nipote chinare la testa imbarazzata nei confronti della zia. Mi voltai verso la porta, e la vidi affacciarsi alla mia camera con aria entusiasta.

-Sono arrivati!-

Rimasi bloccata. Per un attimo ebbi paura ad alzarmi: non sapevo cosa aspettarmi, avevo chiara l’immagine di mia figlia sdraiata sul letto, in coma farmacologico, con l’aria spaventosamente pallida, e adesso non sapevo proprio se mi sarei ritrovata la stessa immagine davanti o qualcosa di meglio … o addirittura di peggio; purtroppo, nella mia vita, sono sempre stata una persona poco capace di pensare in maniera positiva.

Lentamente, e anche con una certa fatica, mi alzai in piedi mentre Tomoko scalpitava di fronte a me, correndo via e facendosi riprendere ancora una volta da mia cognata.

-Insomma Tomoko, non correre! Ah, quella ragazza delle volte si comporta come una selvaggia. Maki l’ha male influenzata.-

Mia cognata s’incamminò con passo più tranquillo, io dietro di lei avevo le gambe di pietra, così come la lingua, dato che non ebbi la voce di rimproverarla, o di ribattere al suo commento. Stavo pensando solo a Maki.

Stava bene mia figlia? Oppure … me la sarei ritrovata su una carrozzina? L’unica volta che l’avevo vista su una sedia rotelle fu quando era più piccola, quando facemmo i primi esami riguardanti la sua Endometriosi, perché il giorno prima gli era venuto il menarca e aveva praticamente urlato dal dolore, spaventandomi a morte.

Non volevo, non volevo assolutamente riavere quell’immagine davanti ai miei occhi.

Arrivammo all’ingresso, e io stavo per mettermi i sandali quando mia cognata mi fermò, con un tono duro e anche distintamente seccato.

-Ci sono Satoru, Jin e Tomoko con loro, rimani qui.-

-… con tutto rispetto, Oba-san, si tratta di mia figlia, sopravissuta all’incidente e uscita dall’ospedale. Vado a raggiungerla.-

Le scoccai un’occhiata decisa e arrabbiata, scioccata per quella mancanza di rispetto da parte di mia cognata; lei, forse capendo il suo errore, distolse lo sguardo infastidita. Io ne approfittai per aprire la porta ed uscire verso il sentiero lastricato, riconoscendo poco distante il kimono verde e azzurro di mia nipote. In quel momento Tomoko stava letteralmente saltellando dalla gioia, afferrando poi una delle due valigie più piccole, incamminandosi senza sforzo dentro la locanda, sorridendo mentre Jin la seguiva, in mano teneva la seconda piccola ed una grande.

Loro, più di tutti, erano felici di vederli, non avevano idea dei diversi problemi che avevano affrontato e che dovevano affrontare quei due.

Avanzai di un altro passo, ancora impietrita, e improvvisamente la vidi mentre affiancava il marito Kojiro, prendendolo sottobraccio e stringendogli la mano; lui camminava lentamente, con sguardo basso e aria contrita.

Avevo imparato a conoscerlo, e sapevo che, come tutti gli uomini, odiava quel genere di situazione dove si doveva far aiutare, sebbene il suo stato fisico lo obbligasse.

Guardai ancora una volta mia figlia, e sospirai sollevata: camminava tranquilla, senza troppi problemi, e questo per me valeva già come uno stato di perfetta salute. Aveva perfino il kimono, uno dei suoi due Irotomesode rossi, e i capelli sistemati dietro la nuca, l’erano cresciuti tanto in quel periodo, e li teneva fermi con un fermaglio.

La raggiunsi, decisa a darle una mano.

-Non c’era bisogno che ti mettessi il kimono.-

-Preferisco che Oba-sama non mi critichi fin da subito. Ciao mamma.-

“Ciao mamma”

Mi venne quasi da commuovermi: era bello sentirle dire quelle due parole, mi tranquillizzavano fin dentro l’anima, e mi permisi di darle un bacio sulla guancia, accarezzandogliela poi con le dita e guardandola per bene, fin dentro le pupille. Avrei voluto interrogarla con quello sguardo, sapere tutto subito, ma constatai solo che era debole come mi aspettavo, ma sembrava stare bene.

-Ti trovo meglio.-

-La signora Hyuga si è preoccupata di farmi riprendere tutto il peso che avevo perso in ospedale.-

-Ha fatto bene.-

Mi voltai verso il mio genero, e anche lui lo vidi più sano rispetto l’ultima volta. E anche più cupo.

Non mi guardava ben dritto negl’occhi, ma non lo faceva mai perché era un ragazzo molto rispettoso; in quel caso, però, immaginavo si sentisse in colpa per quanto era accaduto. Ammetto che, quando si risvegliò, sulle prime, lo avevo aspramente accusato di non essere stato in grado di proteggerla, di averla lasciata a subire quell’orrore, ma poi mi ero resa conto che era stato vittima tanto quando Maki.

In fondo al cuore non posso perdonarlo del tutto, ma non posso certo incolparlo del tutto. In fondo, aveva rischiato di morire dissanguato.

-Ti trovo bene, Kojiro-kun.-

-Buongiorno, Akamine-san.-

Ci chiamava tutte così; solo con Satoru, Jin e Tomoko si permetteva più confidenza.

-Entriamo, non restate in piedi.-

Aprii loro la strada, e quando giungemmo all’ingresso fui la prima a vedere il volto di pietra di Moe-san; questa mi lanciò solo uno sguardo, deciso, rivolgendo subito dopo gli occhi alla coppia alle mie spalle. Mi resi conto che potevo difenderli ben poco dalla sua presenza, dato che comunque era la direttrice della locanda; ero pertanto costretta a mettermi da parte, ma restai accanto a mia figlia, decisa comunque a darle il mio appoggio.

Questa e suo marito s’inchinarono, rispettosi, ma subito notai che Kojiro soffriva in quella posizione, aveva corrucciato lo sguardo e stretto i denti; Maki, accanto a lui, sembrò sostenerlo ulteriormente mentre mia cognata parlava.

-Spero sia chiaro, Hyuga, che questo è un gesto molto generoso da parte della famiglia Akamine: il ryokan è fatto per ospitare clienti, non è una clinica dove far stare i malati.-

Mia figlia si fece subito avanti a testa alta, alzando suo marito dall’inchino senza ricevere nessun permesso dalla zia.

-Con il dovuto rispetto, Oba-sama, mio marito fa fatica a stare inchinato a lungo. Inoltre questo “gesto generoso” ci è stato offerto da mia nonna, non da voi.-

-Come sempre sei molto impertinente, Maki. Mi aspetto per lo meno che tu riprenda le tue mansioni qui al ryokan.-

Questa volta fu mio genero a prendere la parola.

-Oba-sama, mia moglie in questo periodo deve stare in assoluto risposo secondo i medici, ed è quello che ho intenzione di farle fare.-

-Tu non sei stato interpellato.-

Purtroppo, la gerarchia nella nostra famiglia, è molto stretta, e il genero può parlare alla parente più anziana solo se fosse stato interpellato, specie se si tratta di una parente stretta della capo famiglia. Tuttavia, io avevo più o meno la stessa età di Moe, pertanto non esitai a prendere la parola a mia volta.

-Moe-san, stai esagerando: non sono degli estranei, sono tua nipote e suo marito.-

-Natsuko, mi rendo conto che sei preoccupata per tua figlia, ma devi capire che questo non è un ospedale, ma una locanda, e noi abbiamo del lavoro da fare, non possiamo prestargli la nostra attenzione.-

Maki rispose spazientita e un po’ nervosa, potevo percepire la sua rabbia che cresceva.

-Ce la caveremo da soli.-

-Ah si? E allora perché non vuoi lavorare?-

Rimasi scioccata dalla frecciatina di mia cognata; voleva farla arrabbiare, per poterla poi sgridare e farla tacere. Presi velocemente la mano di mia figlia, stringendogliela per farle capire di non rispondere, di aspettare; invece, fu il marito a farsi avanti, anch’esso con aria rabbiosa.

-Perché sono io ad impedirglielo.-

-Ma certo. Sei tu.-

Disse quella frase con talmente tanto disprezzo che vidi chiaramente gli occhi di mia figlia infiammarsi e bruciare di rabbia, tanto che la mia presa sulla sua mano fu molto più debole di quella con cui afferrò il marito, ricambiata da questo.

-Se questo è il trattamento che ci spetta, allora ce ne andiamo più che volentieri. Non vogliamo certo disturbare il vostro lavoro.-

-Maki!-

-Come ti permetti?!-

-Basta così!-

Ci voltammo tutti, e vidi Tomoko, Satoru, Jin e la nonna in piedi sul corridoio; quest’ultima rivolse uno sguardo molto duro alla figlia, ancora in posizione seiza.

-Moe, capisco che sei preoccupata per la gestione della locanda, ma se provi a prendertela di nuovo con i miei nipoti dovrò prendere provvedimenti, sia chiaro.-

Le sue parole bastarono a calmare gli animi di tutti i presenti, io ero particolarmente sorpresa da quelle dure parole: era raro sentire Akamine-san così, specie nei confronti della figlia, che amava profondamente.

Vidi mia cognata sorpresa, per poi chinare la testa obbediente, alzandosi con la scusa del lavoro ed allontanandosi mentre la nonna spalancava le braccia per abbracciare Maki e Kojiro.

-Benvenuti, benvenuti miei cari.-

Mia figlia ricambiò con grande affetto, e persino sul volto del mio genero apparve un sorriso grato.

-Che bello vederti nonna.-

-È bello vedere voi, cara. E tu, Kojiro? Come stai?-

-Grazie dell’ospitalità, Akamine-san.-

-Kyoko, per te sono Kyoko, chiaro?-

Lui annuì, anche se sapevamo tutto quanti che ci sarebbe voluto tanto tempo prima che mio genero si permettesse di chiamare per nome mia suocera. Questa scosse il capo, rivolgendosi poi ai due nipoti accanto a mio marito.

-Forza Tomoko, Jin, accompagnateli nella loro camera.-

-Subito nonna!-

-Certo.-

Kojiro volle l’aiuto solo di sua moglie per salire il gradino, e poi poté procedere da solo, continuando a restarle vicino, silenzioso ma con la mano che teneva saldamente quella di Maki.

Li guardai attenta, tornando verso gli appartamenti privati assieme a mia suocera, questa volle la mia compagnia dentro il piccolo salottino mentre mio marito su allontanava, molto probabilmente a parlare con sua sorella: lui cercava sempre di parlarle, di calmarla, di raggiungere una pace comune dopo ogni litigio. Era sempre stato un “portatore sano di serenità”, come qualche nostro amico lo giudicava.

Portai ad Akamine-san il tè e qualche biscotto secco, accomodandomi al suo fianco; qualche momento dopo ci raggiunse Satoru.

-Ho parlato con Moe. Beh, ci ho provato.-

La nonna si limitò a scuotere il capo mentre lui si accomodava accanto a me. Gli preparai subito una tazza di té, lasciando parlare con la madre.

-Mamma, so che ti è difficile, ma devi cominciare a considerare che questo suo comportamento non è più accettabile: Maki non è più una bambina, è sposata. Senza contare il suo attuale stato di salute.-

-Fin quando io sarò qui, Moe non potrà prendersela con loro.-

Non potevo biasimarla per quel suo atteggiamento: nei suoi panni, con quello che aveva vissuto Moe, forse mi sarei comportata allo stesso modo. Ma si trattava della serenità di mia figlia, e soprattutto del suo recupero fisico e mentale, pertanto mi feci avanti a mia volta.

-Non puoi proteggerle per sempre, nonna, e loro non vogliono essere protette. Soprattutto Maki.-

-Lo so, mia cara, ma adesso siamo noi i loro protettori, almeno fino a quando non si riprenderanno. E non mi riferisco solo alle ferite fisiche.-

Annuii, non avendo argomenti con cui ribattere.

Personalmente ringrazio i kami dell’avere ancora una figlia, ma mi era capitato, in quei giorni, di sentire alla televisione di vittime di violenze sessuali, e uno dei loro problemi più grandi era l’incapacità di riuscire ad avere contatti fisici con le altre persone, specie i maschi. Certo, non era l’unica conseguenza, ma di certo era la più evidente.

Mi chiesi se tra loro, stava andando tutto bene, se quel contatto fisico era dovuto solo alle loro difficoltà fisiche. Non potei pensare altro che sentii bussare alla porta, e vidi mia figlia entrare e chiudere lo Shoji alle sue spalle, sedendosi con noi al tavolino.

-Posso?-

-E devi chiederlo? Vieni pure, raggio di sole.-

Mia suocera l’aveva sempre chiamata a quel modo, fin dal primo giorno che era venuta al mondo, ed era il suo nomignolo nei confronti di mia figlia. Fece gli onori di casa mentre io preparavo un’altra tazza di té, e fu sempre lei a parlare a Maki.

-Kojiro?-

-Si è sdraiato, la ferita gli fa leggermente male per via dell’inchino, ci raggiunge fra poco.-

-Mi spiace molto. Dimmi, come state?-

-Non bene, ma ce la caveremo.-

Dopo aver posato la tazza sul tavolo cercai la mano di mia figlia, stringendogliela e parlandole con calma, nonostante fossi impaziente di parlarle io. In verità avevo uno gran voglia di abbracciarla, di stringerla a me, ma non sono mai stata troppo capace nei gesti affettuosi, perciò mi feci bastare la sua mano.

-Il medico ti ha detto qualche novità?-

Lei scosse il capo, cercando di sorridermi, stringendo le sue dita sulle mie, sforzandosi persino di sorridere.

-Ancora niente. Credo che dovrò accettare la possibilità di essere diventata sterile.-

Mi sentii male, e istintivamente la invitai, con la mano libera, a posare il suo capo sulla mia spalla, posando la mia guancia fra i suoi capelli: aveva sempre desiderato avere una famiglia, soprattutto avere dei figli; avevo riconosciuto quel desiderio in fondo agl’occhi, e glielo avevo sempre visto brillare assieme alla passione per lo sport e l’amore per Kojiro.

Ma ora quella stella si stava spegnendo nel mare nero dei suoi occhi. Maki mi aveva sempre ricordato il mare che si affacciava sulla locanda.

Come madre, di fronte a quella rassegnazione, cercai di ribellarmi, non potevo permettere a mia figlia di perdere la fiducia nei suoi sogni, non dopo tutti gli sforzi che aveva sempre fatto per essere positiva. Le parlai a bassa voce, ma mettendo tutta la convinzione che possedeva in ogni mia singola parola.

-Sono sicura che le cose andranno per il meglio, non è ancora detta l’ultima parola. Intanto facciamo passare questo mese, e poi vediamo le analisi cosa ci diranno, va bene?-

Lei annuii, ma percepivo chiaramente che le mie parole non la stavano convincendo. Mi sentivo abbattuta, perché come madre non stavo riuscendo a dare speranza alla mia unica figlia.

Mia suocera, a quel punto, venne in mio soccorso.

-Andrà tutto per il meglio, raggio di sole. Io lo so, me lo ha detto Amaterasu.-

Una volta si pensava che la moglie del capo-famiglia potesse avere, delle volte, dei messaggi da parte della dea del sole in sogno; addirittura, Akamine-san era solita raccontare di quando, da giovane, aveva perfino incontrato Amaterasu, ancora prima di diventare parte della famiglia. E anche se, con il tempo, quella era diventata una leggenda, delle volte le sue “predizioni” si avveravano.

Pertanto quelle parole mi spinsero a stringere maggiormente le dita di mia figlia; la vidi annuire, questa volta la tristezza le si stava posando sugl’occhi, e d’istinto le accarezzai i capelli, guardandola passarsi subito una mano sul volto, per cercare di togliersi le lacrime.

Il braccio con cui le accarezzavo i capelli si strinse attorno alla sua spalla.

-Guarda che puoi piangere, tesoro. Ci siamo noi con te.-

-Lo so mamma, ma voglio … non voglio piangere. Voglio essere forte, anche per Ko.

Lui … lui si sente così in colpa, non so che fare per aiutarlo.-

Anche in quel momento, la mia bambina pensava all’uomo che amava; lo ammetto, un po’ invidiai Kojiro, ma al tempo stesso mi fece una grande tenerezza, e le sussurrai all’orecchio, facendomi il più vicino possibile a lei.

-Vedrai che con il tempo le cose si aggiusteranno, dovete solo darvi tempo.-

Le accarezzai la schiena, sentendola annuire sulla mia spalla, e chiusi gli occhi, godendomi quel momento: quando era piccola, consolavo Maki tenendola stretta tra le mie braccia. Quando fu più grande, la lasciavo appoggiarsi sulle mie gambe, e io le accarezzavo la schiena e i capelli, lasciandola sfogare; adesso era una donna, e quei momento in cui potevo coccolarla erano diventati così rari che, anche se era un momento triste, volevo godermelo più che potevo.

Era calda, tra le mie braccia, e sentii il suo respiro farsi traballante, e il pianto iniziare a crescere; le sussurravo all’orecchio, le accarezzavo i capelli, le guance e la schiena, e pian piano la sentii stringersi sempre più forte a me, commuovendomi.

La mia piccola guerriera, la mia amatissima bambina.

 

**

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Capitolo 4
*** 3: A casa ... la madre di Lui ***


3. A casa … la madre di Lui

 

Il telefono squillò mentre stavo lavando le stoviglie, io e i miei figli avevamo appena finito di cenare; sapevo perfettamente chi era, quello era il solito orario in cui Kojiro mi contattava. Che fosse all’estero o in Giappone chiamava sempre per l’ora di cena, quando tutti noi eravamo in casa.

E sapere che, ancora una volta, ci stava chiamando, mi rese ancora più felice, anche se non potevo rispondergli perché avevo le mani bagnate.

-Naoko, per favore rispondi tu, è Kojiro.-

-Si!-

Inoltre lasciavo sempre che parlasse prima con i suoi fratelli, anzi delle volte lo sgridavo se ci parlava troppo poco: ero e sono sempre stata convinta che il loro legame affettivo li avesse sempre aiutati ad andare avanti, nella loro vita e nei loro sogni. La distanza fisica poteva essere colmata dall’affetto, elemento che fortunatamente non è mai mancato nella nostra piccola famiglia.

Per questo, anche quando erano lontani fra di loro, ho sempre fatto in modo che si parlassero e si vedessero. Credo sia uno dei compiti di una madre con molti figli.

Ascoltai quindi con piacere Naoko che bisticciava con gli altri fratelli per poter avere la cornetta, e alla fine usarono il vivavoce, il tono di mio figlio si propagò per tutta la stanza fino alla cucina.

>Ciao ragazzi!

-Non esagerate con il volume bambini.-

-Si mamma!-

Li chiamavo ancora “bambini”, nonostante fossero tutti e tre adolescenti, perché sapevo che così mi avrebbero obbedito; difatti, la voce di mio figlio risuonò molto meno, ma già ascoltando le sue prime parole in lontananza, avvertii che ancora non stava bene, e che tanto doveva essere ancora fatto.

Pertanto calmai la mia impazienza nel parlargli con un profondo respiro, terminando di lavare le poche stoviglie rimaste nel lavabo.

Fui la prima ad essere contattata, quella sera. Quando venni a sapere di quanto era successo, mi precipitai in ospedale, raccomandando Masaru di restare a casa con Naoko invece di uscire con i suoi amici; una volta giunta mi informarono che entrambi erano in sala operatoria, e che l’unica cosa che mi toccava fare era aspettare. La prima cosa che feci fu pregare mio marito e i nostri defunti parenti; li pregai tutti quanti, chiedendo loro di proteggere Kojiro e sua moglie, di fare in modo che superassero entrambi l’operazione.

Poi dovetti telefonare agli Akamine. Era una cosa per me molto rara: solitamente erano loro a chiamare, per fare gli auguri a capodanno o in altre festività, e solitamente ascoltavo e ringraziavo la capo famiglia e la madre di mia nuora con piacere.

Stavolta, invece, ero io a dover comporre il numero, davanti a me un’infermiera che assisteva alla scena, pronta in caso a prendere il mio posto se non me la fossi sentita. Ma, nonostante mi tremassero visibilmente le dita, riuscii a comporre il numero, e a chiedere di parlare direttamente con la signora Akamine.

Ricordo la sua voce sorpresa che, per un attimo, mi spinse a chiudere la conversazione: mi ricordava me quando persi mio marito, lo stesso ingenuo stupore, e pensai che le avrei procurato uno spavento molto simile, se non pari. Le parlai cercando, inutilmente, di non far tremare la mia voce, e lei reagì allo stesso modo, prendendosi tempo prima di rispondermi, informandomi che lei e i genitori di Maki sarebbero arrivati il prima possibile.

Dopodiché rimasi in attesa della fine dell’intervento, con il tempo che mi scorreva addosso, ed io che mi tramutavo in una statua, anche il mio respiro si faceva sempre più basso, quasi a spegnersi. In quegl’istanti, pensai seriamente che non ce l’avrei fatta ad andare avanti nella vita, se mi fosse stato portato via anche Kojiro.

Le voci dei miei figli che ridevano mi destarono da quel cupo ricordo, e mi resi conto di aver lasciato scorrere a lungo l’acqua del rubinetto; finii velocemente di lavare l’ultima ciotola, poggiandola sullo scolapiatti, guardando le varie stoviglie, con le bacchette da un lato, assicurandomi che tutte fossero state pulite bene. Cominciai a togliere il sapone dal lavandino, asciugando il lavello con una spugnetta.

Solitamente i miei figli facevano a turno per lavare i piatti, ma quella sera erano tutti tornati tardi dalle loro attività, così li avevo lasciati “a riposo”. Accanto al lavandino c’erano i loro bento puliti e asciutti, pronti per essere usati il giorno dopo; erano solo tre, ovviamente, ma il quarto non l’ho mai buttato: è nascosto in una delle credenze della cucina, lontano da sguardi indiscreti. Delle volte, lo ammetto, mi piace tirarlo fuori, aspettando il giorno per poterlo riusare.

La sua stanza era ed è ancora in ordine, come l’ultima volta che ci era venuto, e l’unica cosa che è cambiata è l’aggiunta di un secondo futon, nel caso venga accompagnato da Maki; ovviamente, questo l’ha resa ancora più piccola.

-Mamma!! Kojiro vuole parlarti.-

Naoko interruppe il flusso dei miei pensieri, apparendo dalla porta senza bussare, com’era solita fare ultimamente; mi asciugai le mani con il grembiule, dirigendomi verso il telefono, afferrando il cordless e annullando il vivavoce. Quello era uno dei regali che mio figlio ci aveva fatto un Natale, quando era dovuto rimanere in Italia; la prima volta che lo usammo, i “bambini” furono così emozionati da parlarsi uno sopra l’altro diverse volte, tanto che la telefonata fu caotica, ma molto divertente.

-Naoko, la prossima volta devi bussare, chiaro?-

-Ops, scusa mamma.-

-Vai a farti il bagno.-

Obbedì con un sorriso, scomparendo dietro la porta, dov’erano già andati i suoi fratelli, li sentii discutere fra loro, il che mi spinse a sporgermi fuori dall’uscio, per richiamarli.

-Ragazzi, che succede?-

Vidi la testa di Takeru uscire fuori dalla sua stanza, seguita subito dopo dall’aria imbronciata del maggiore.

-È Masaru!-

-Cosa?! Adesso io …-

-Basta. Masaru, lascia stare tuo fratello. E lo stesso vale per te Takeru.-

Non replicarono, scomparendo dietro la porta. A quel punto presi fiato e posai l’orecchio alla cornetta.

-Kojiro?-

>Ciao mamma.

-Scusami, dovevo calmare i tuoi fratello.-

>Non preoccuparti.

La sua voce era bassa, non sembrava voler farsi sentire. Il suo tono era cupo, immerso nei pensieri.

-Come stai tesoro?-

>Meglio, grazie.

Era sempre stato di poche parole quando si trattava delle sue condizioni fisiche. Ma, anche con quelle poche parole, capii che i problemi non riguardavano la sua ferita o il suo corpo.

-La ferita ti fa ancora male? Riesci a piegarti?-

>… la mattina fa un po’ male, ma prendo gli anti-dolorifici.

-Li prendi? Senza fare storie?-

Giocai, sperando di fargli uscire un sorriso. Sapevo di chi era il merito, e sorrisi nel sentire mio figlio sbuffare “apparentemente” infastidito: odiava prendere medicine, anche quando si trattava di un febbrone da cavallo. E soprattutto odiava che gli altri l’obbligassero a prenderle, anche con me faceva le storie.

>… Maki mi aiuta a ricordarmi di prenderle.

-Bene.-

Lo sentii sbuffare di nuovo, e ridacchiai, ero così sollevata di poter prendere in giro mio figlio, invece di piangerne la morte. Ed ero così sollevata che accanto a lui, in nostra assenza, ci fosse una persona come sua moglie.

-Maki come sta?-

E lì lo sentii incerto; la mia serenità si affievolì, ricordando come avevamo iniziato la nostra conversazione, e trovando in quella pausa la fonte dei suoi pensieri.

Sentii i miei altri figli vociare ancora una volta, e cauta andai a chiudere la porta sempre aperta, limitandomi ad ammonirli ancora una volta.

-Non alzate la voce ragazzi, sono ancora al telefono.-

-Scusaci mamma!-

-È colpa di Masaru!-

-La vuoi smettere?!-

-Basta!-

Li sentii ammutolirsi, e ne approfittai per chiudere del tutto la porta e tornare in cucina, avvicinandomi alla finestra sopra il lavabo, in quel momento era aperta a far cambiare aria.

Mi accomodai su una sedia lì vicino, slacciandomi il grembiule e tenendolo sulle gambe.

-Scusami, i tuoi fratelli bisticciano ancora come bimbi.-

>Come se la cavano? Ho sentito Masaru un po’ nervoso…

-Il fatto è che sta pensando di cercarsi subito un lavoro dopo la scuola, e per il momento la ricerca non lo sta soddisfando.-

>Non credi che sia un po’ presto per lui trovarsi un lavoro?

-Ti ricordo che tu ne facevi almeno due quando eri solo alle medie.-

>Era una situazione diversa …

-Non importa: fu una tua scelta, che io non riuscii a farti cambiare nonostante fossi tua madre. Credi che ci riuscirei con un ragazzo più testardo di te?-

Masaru, dei tre maschi, ultimamente era diventato quello più “ribelle”: non era cattivo, ma era molto brusco, nei modi di fare e di parlare, e ancora adesso quando ha in testa una cosa difficilmente cambia strada, anche se può essere completamente sbagliata.

-Comunque, come sta Maki? Non mi hai risposto …-

Fin da subito io e mia nuora entrammo in sintonia, tanto che al suo matrimonio le regalai il mio shiro-muku, il tradizionale capo da mettere sotto al kimono da sposa, unica cosa che mi era rimasta del mio completo, dato che lo avevo dovuto prendere a noleggio e quello era stato un regalo dei miei nonni. Lei mi promise che lo avrebbe dato a Naoko il giorno che si sarebbe sposata, conservandolo con cura nel frattempo.

>… sta bene, ma dovrebbe riposarsi di più; sua zia, la sta facendo fare lavorare, e io sono molto contrario al riguardo. Tuttavia Maki si ostina a farli, per non creare litigi, ed oggi si è sentita male. L’ho dovuto portare in camera tenendola in braccio, anche se … non è stato facile convincerla a farsi trasportare …

Provai ad immaginarmi la scena, ma conoscendo il carattere di Maki mi rendevo conto che non era normale quel suo atteggiamento: sapevo del suo stato fisico, e l’avevo sempre trovata giudiziosa su quanto e cosa era in grado di fare.

-Capisco. Tu ti sei fatto male?-

>No no, non preoccuparti. Non so che le prende mamma: mi parla a fatica, e spesso non mi ascolta. Ho la sensazione che mi stia evitando, e oggi quando l’ho portata sul futon per farla riposare mi è sembrato che avesse paura di essere toccata da me. Io stesso, prima di prenderla, temevo che le avrei fatto male in qualche modo.

Io e Natsuko ne avevamo discusso durante il periodo ospedaliero, quando andavamo a trovare i nostri figli: la violenza subita da Maki, assieme alle sue particolari condizioni fisiche, di sicuro l’avrebbe portata ad un rifiuto della sua stessa situazione, o a fare finta che niente fosse accaduto.

Eravamo entrambe preoccupate che mi a nuora si sarebbe chiusa a riccio, negando tutto e rifiutandosi di farsi aiutare dalla sua famiglia, o peggio da Kojiro. E conoscendo mio figlio, l’idea che non potesse aiutare una persona a lui cara lo stava rendendo frustrato ed insicuro di sé.

Kojiro, per quanto il suo spirito fosse diventato forte negl’anni, è sempre stato profondamente legato alla sua famiglia, e con Maki si era acuito il suo bisogno di aiutarla e di stargli vicino; diventare … un problema per sua moglie, lo stava agitando, e si sentiva.

>Io … io non so che fare mamma!

-Lo so tesoro.-

>Io non voglio farle del male, davvero! Maki … Maki è tutto per me.

Mi faceva tenerezza sentirlo così sconsolato, mi riportava alla mente quei rari momenti in cui si sentiva prendere dalla tristezza, e io lo abbracciavo più che potevo.

-So anche questo.-

>Non vorrei chiederti consiglio, ma davvero non so a chi rivolgermi!

-Hai fatto bene tesoro. Inoltre potresti chiedere consiglio a Natsuko.-

>L’ho fatto.

-E cosa ti ha detto?-

>… di avere pazienza, di aspettare.

Una cosa in cui mio figlio non era molto bravo. Mi presi un momento per lasciarlo calmarsi, lo sentivo muoversi dentro la sua stanza come un animale in gabbia, sbuffare e borbottare; ascoltai quel suono con gli occhi chiusi, immaginandolo davanti a me mentre, lentamente, rallentava il respiro e il passo, fino a parlarmi di nuovo.

>… sei ancora in linea?

-Certo tesoro, ma purtroppo non posso dirti niente di più di quanto ti abbia detto Natsuko, a parte lasciarla fare.

Sai più di me quanto il momento sia difficile per Maki, quanto stia lottando; ne abbiamo parlato, io e sua madre, e avevamo previsto una reazione del genere. E anche tu te l’aspettavi, vero?-

Lo sentii sospirare e muoversi ancora, probabilmente si stava andando a sedere, mentre borbottava una risposta affermativa alla mia domanda. Mio figlio non era ignaro di quanto stava vivendo sua moglie, è solo che voleva risolvere con lei il problema, cosa che al momento non gli era permesso fare: quello di Maki era un problema … che coinvolgeva il suo lato più oscuro, e al momento solo lei poteva averne accesso.

Lanciai un’occhiata al cielo fuori dalla finestra, non c’erano state nuvole quel giorno ed era ancora sereno, potevo persino vedere una stella nonostante l’illuminazione della strada. Presi un profondo respiro, e parlai per prima.

-Kojiro, io lo so che vuoi fare qualcosa per lei, lo sento. Ma se davvero vuoi fare qualcosa, pensa prima a te stesso: prima starai meglio, prima potrai aiutarla.

In ogni caso, adesso non puoi proprio fare niente, perché è tutto nella sua testa. E tu non sei là dentro, non al momento.-

A volte essere una madre comporta anche dire cose spiacevoli ai propri figli, per aiutarli a capire qual è la strada migliore da prendere. E in quel momento, mio figlio era di fronte ad un vicolo cieco, e doveva tornare indietro. Pertanto gli dissi quelle dure parole, stringendo il grembiule nel pugno libero, non sentendolo rispondere e proseguendo.

-… credo sia il caso che tu e Maki vi allontaniate per qualche tempo: avete bisogno dei vostri spazi, per capire cosa fare adesso..-

Lo avevo lasciato basito con le mie parole, potevo percepirlo chiaramente: io, infatti, sono sempre stata quella che li ha sempre sostenuti nel loro fidanzamento, tanto da ospitarli quando Maki aveva deciso di tagliare i ponti con la famiglia. E sono sempre stata convinta che, anche dopo l’aborto, loro potessero crearsi una famiglia con le loro forze.

Ed ero convinta che potevano farcela anche in quel caso. Ma dovevano prendere la decisione più difficile, per quanto fosse la più “sana”.

>Ah … mamma …

-Attento, non sto parlando di separarvi: semplicemente, adesso, dovete curare le vostre ferite, sia fisiche  che dell’anima. Più di ogni altra cosa al mondo, voglio vedervi felici insieme, ma ora non potete esserlo. Lo capisci, vero?-

Lo sentii restare in silenzio, respirando a fondo. Rimasi muta come lui, aspettando che prendesse la parola.

>… in caso potrei venire a stare da voi?

Sorrisi intenerita, ma anche segretamente felice: speravo che mi dicesse una cosa del genere. Dopotutto, è mio figlio.

-Tu puoi venire tutte le volte che vuoi, tesoro.-

E si ammutolì di nuovo, per pensare. Era una telefonata piena di silenzi, ma ognuno di loro sentivo che conteneva un messaggio, una richiesta, una domanda.

In tutta la sua, vita mio figlio aveva sempre fatto da solo: da solo aveva cercato di aiutarmi, con i soldi e i suoi fratelli, da solo aveva inseguito e realizzato il suo sogno. Ma adesso sapevo che aveva bisogno di aiuto, e che stava imparando a chiedere aiuto.

E per una madre non c’è niente di più bello che aiutare il proprio figlio a crescere.

-Hai poi telefonato al tuo allenatore?-

>Si, ho parlato con lui e il presidente.

-Che ti hanno detto?-

>… per il momento ritengono che la cosa più importante sia il mio recupero. Quando sarò in grado di riprendere gli allenamenti discuteremo del mio ingaggio.

-Quindi … sei ancora nella società?-

Sbuffò.

>Si, ma con un tempo limite: all’inizio della prossima stagione, se non ho recuperato la forma fisica, sarò licenziato e ingaggeranno qualcun altro.

-Si, capisco.-

>Non preoccuparti mamma: me la posso cavare, non è la fine del mondo.

-Lo so, lo so tesoro. Non sono preoccupata per la tua situazione economica.-

Quando il medico venne a dirmi che mio figlio sarebbe sopravvissuto ho chinato la testa, per ringraziare lui, mio marito e tutti gli dei che avevano ascoltato le mie preghiere; quando mio figlio aprì gli occhi per guardarmi, sdraiato su quel letto d’ospedale, sapevo fin da quel momento che avrebbe avuto bisogno di tutto il mio sostegno per superare il momento.

Quando, aprendo la porta della camera, vidi Maki, con negl’occhi il vivo desiderio di vedere mio figlio, sapevo esattamente cose dovevo fare per aiutarli.

-Vieni a casa Kojiro, resta qui qualche tempo.-

Aspettai paziente la sua risposta, restando seduta sulla sedia, vicino alla finestra aperta, con la luce del salotto ad illuminarmi, la lampada della cucina era spenta.

>Va bene mamma. Arriverò la prossima settimana.

-Perfetto, ti verremo a prendere all’aeroporto.-

>Allora … ah, Maki.

La porta si aprì di scatto, e la figura di Naoko, in salotto mi fece sobbalzare per un momento. Per un attimo, credevo fosse mia nuora che entrava in casa mia!

-Mamma, il bagno.-

Presi un respiro, restando seduta sulla sedia.

-Adesso arrivo. Ma devi bussare, hai capito? Mi hai spaventato.-

-Scusami mamma.-

Mia figlia chinò la testa imbarazzata, chiudendo nuovamente la porta alle sue spalle, e io mi rimisi ad ascoltare, sentendo i due parlarsi a bassa voce.

>Il bagno è pronto.

>Tu lo hai fatto?

>Si si. Stai parlando con tua madre?

>Si, vuoi salutarla?

>Ah no, ti lascio finire la conversazione. Io vado a fare compagnia alla nonna.

>Ti raggiungo appena ho fatto tutto.

>Va bene.

>… Maki aspetta! Mamma, resta in linea per favore.

-Certo tesoro.-

La voce di mio figlio si era allontana, probabilmente aveva il cellulare poggiato sul fianco. Lo sentii muoversi e rivolgersi a sua moglie, e chiusi gli occhi, allontanando la cornetta dal mio orecchio: era una loro conversazione privata, non volevo intromettermi. Però, dentro di me, m’immaginai i contorni di quella scena, e le emozioni che potevano trapelare da essa.

Alzai ancora una volta lo sguardo verso la finestra, e pensai a mio marito, a come la sua presenza fisica mi sarebbe stata di conforto in quei momenti, e di come, nonostante fossero passati gli anni, delle volte mi mancasse. Mi mancava soprattutto la sua voce: era roca, dal timbro basso, e quando parlava mi dava sicurezza.

Forse, in questi momenti, sarebbe stato un grande conforto per Kojiro.

>Mamma? Sei ancora in linea?

… La voce di mio figlio assomiglia molto a quella di suo padre.

-Si, eccomi.-

>Scusami, stavo parlando con Maki. Ti saluta.

-La ringrazio, tu porta i miei saluti alla signora Akamine.-

>Lo farò. Allora vengo il prossimo fine settimana, ti farò sapere il giorno specifico.

-Va bene.-

>… grazie mamma.

Sorrisi.

-Buonanotte tesoro.-

Chiusi la telefonata, e rimasi seduta sulla sedia, guardando la cucina, illuminata dalla lampada del salotto: era piccola, come la stanza accanto, ma mi sembrava immensa e vuota in quei momenti di silenzio.

Mi alzai lenta, riposi il grembiule, e mi diressi verso il bagno; dalle camere dei miei figli sentii voci e risate, e mi avvicinai alla porta socchiusa, per sbirciare Takeru e Masaru. Come al solito bisticciavano, ma per il momento non mi sembrava di dover intervenire.

Andai alla porta di mia figlia, anche questa socchiusa, e la vidi sfogliare una rivista, l’asciugamano sulle spalle. Bussai leggermente prima di entrare.

-Naoko, togliti l’asciugamano che bagni il pigiama.-

-Si mamma.-

Mi rispose con tono annoiato, ma sorrisi divertita, approfittando della novità per cambiarle l’umore.

-Ah, lo sai che prossima settimana arriva Kojiro?-

-Eh?! Davvero?!-

La vidi animarsi all’istante, gli occhi le brillarono, e si alzò con le braccia dal letto per guardarmi meglio.

-Ancora non mi ha detto l’orario preciso. In caso andiamo a prenderlo insieme, ti va?-

-Si!! Vado a dirlo agl’altri!-

Si fiondò fuori dalla stanza, correndo nella stanza dei fratelli. Anche loro si animarono, forse Takeru più di Masaru, il piccolino aveva sempre avuto una forte ammirazione il fratello maggiore; mia figlia, poi, schizzò di nuovo fuori dalla stanza, ancora animata.

-Maki-chan viene con lui?!-

-No, per questa volta ci sarà solo Kojiro. Ha bisogno di riposare.-

La vidi stupirsi di quell’informazione, e subito lo sguardo di spense. Anzi, si fece turbato.

-Va tutto bene mamma?-

Era diventata sensibile crescendo, aveva imparato a percepire quando le cose avevano una “strana piega”, come diceva lei; le accarezzai il viso, sorridendole.

-Credo di no, tesoro. È per questo che tuo fratello viene a stare qui senza Maki. Vedi di lasciarlo riposare, va bene?-

Annuii, un po’ preoccupata, e la lasciai andare in camera sua, dirigendomi in bagno. Qualche minuto dopo ero immersa fino al collo nell’acqua bollente, respirando a fondo e rimuginando su quanto era accaduto.

Il vapore che saliva sul soffitto, le mattonelle chiare, la stanza piccola, la finestra aperta con la zanzariera montata. Il silenzio di quella stanza, l’assenza di rumori dall’esterno; l’odore del sapone alla pesca che piaceva tanto a mia figlia.

Appoggiai la testa al bordo della vasca, sentendo la stanchezza ammorbidire le mie membra, tenevo gli occhi aperti per non rischiare di addormentarmi.

Riuscii a vedere nuovamente una stella oltre la zanzariera nera. Gli diedi una preghiera, immaginando che fosse mio marito.

“Aiutiamo nostro figlio possa ritrovare la serenità, va bene?”

 

Il capitolo non è dei più felici, ma come vi ho già, detto, questa storia avrà diversi momenti “difficili”: i temi che tratto, questa volta, sono molto delicati, e li sto cercando di prendere con il massimo rispetto. Il prossimo vi prometto che sarà un po’ più leggero, anche perché cambiamo nuovamente il punto di vista; a tale proposito, cosa ne pensate di questa particolarità dei capitoli? Vi piace o vi confonde? Ci tengo molto al vostro parere.

Al prossimo aggiornamento!

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Capitolo 5
*** 4: Nel giorno di Mukaebi ... la cugina di Lei ***


4. Nel giorno di Mukaebi … la cugina di Lei

 

-Maki! Andiamo a vedere le lanterne stasera?!-

Glielo gridai sporgendomi dal pavimento esterno del ryokan, senza scendere perché non mi ero portata dietro i miei sandali; la vidi girarsi sorpresa verso di me mentre stendeva i panni, riconobbi sul filo il mio kimono viola con il suo obi accanto.

Aveva addosso un Irotomesode verde, uno dei miei preferiti perché quel colore le stava davvero bene, e per di più il suo obi aveva dei bellissimi decori floreali; da quando era tornata alla locanda, ogni giorno, usava un kimono diverso, ma quello era il più bello. Mi aveva promesso che, quando non lo avrebbe più dovuto usare, me lo avrebbe passato.

Si avvicinò verso di me con il lenzuolo da stendere tra le mani, con l’aria confusa.

-Le lanterne?-

-Si, per il Mukaebi!-

Vidi suoi occhi aprirsi leggermente, sembrava essersi finalmente ricordata di uno dei festeggiamenti più importanti per la nostra famiglia. Ultimamente aveva l’aria sempre persa, anche se non mancava mai i suoi doveri per quanto la zia fosse contraria.

-… ah giusto, siamo in periodo Bon.-

-Allora, ci andiamo? Ci andiamo?-

Era da tanto che non andavo ad un festival con mia cugina, morivo dalla voglia di andarci!

Da quando si era sposata, ovviamente, le nostre uscite si erano drasticamente ridotte, pertanto volevo sfruttare ogni occasione possibile quando veniva a trovarci. Quando venni a sapere che si sarebbe fermata più della solita settimana, quasi ero saltata dalla gioia, tanto che Oba-sama mi sgridò immediatamente.

Lei sorrise divertita.

-Va bene, va bene.-

-Evvai!-

-Tomoko, abbassa la voce! Non siamo in piazza.-

Mi voltai spaventata, temendo che fosse Oba-sama, di sicuro mi avrebbe messa in punizione; con sollievo, invece, riconobbi la zia Natsuko. Aveva in mano il cestone con altra roba da stendere, e mi stava lanciando una chiara occhiataccia mentre si avvicinava agli scalini, spingendomi ad allontanarmi perché ero in mezzo al percorso.

-Scusami zia.-

Questa annuì, scendendo gli scalini e avvicinandosi a Maki, la quale sorrideva con aria divertita. Nel vedere la figlia, le vidi sciogliere l’espressione, e mi tranquillizzai: quando ero assieme a Maki, anche se venivo sgridata poi nessuno restava a lungo arrabbiato con me.

-In ogni caso se volete andare al Mukaebi dovete tornare prima delle undici.-

-Cosa?! Ma ci sono i fuochi a quell’ora!-

-E dovete andarci accompagnate, dallo zio o da Jin, chiaro?-

-Ma zia!-

-Niente discussioni. Ecco l’ultimo bucato.-

-Faccio io mamma.-

-Piano, piano.-

La zia stava attenta a non far prendere a Maki grandi pesi, l’aiutava ad appoggiare o spostare il cesto del bucato, non le faceva prendere più di due vassoi alla volta, così come i futon. E ogni volta mia cugina non era contenta di quell’atteggiamento.

-Mamma ce la faccio, non mi sono fatta male alle braccia.-

-Meglio essere prudenti. Dai ti do una mano a stendere.-

-Non dovresti cominciare a preparare i dolci per domani? Non andiamo al cimitero?-

-Si, ma per quelli c’è tempo.-

Mi misi seduta sul camminamento esterno del ryokan, facendo ondeggiare i piedi, ed osservai le due figure davanti a me: parlavano fra di loro con voce decisamente più composta della mia, e i loro movimenti sembravano fatti apposta per disegnare disegni e figure nell’aria, come se stessero raccontando una storia con le mani e le braccia.

Il verde del kimono di Maki era come una montagna, con i fiori dell’obi che la ricoprivano; il viola scuro del kimono della zia era un cielo sulla via del tramonto, il suo obi blu sembrava essere la superficie di un mare cupo e misterioso.

Fin da piccola, adoravo stare al ryokan: non era quasi mai a casa, così come mio padre, e da piccola mi lasciavano sempre da Oba-sama e la nonna alla locanda. Lì imparai ad amare i kimono, anche se non ero mai stata brava a metterli o legarli, e anche quando davo una mano ero molto maldestra e goffa; invece ammiravo tanto Maki, quel mondo era parte di lei, tanto che quando la vidi giocare a softball la prima volta, rimasi davvero spiazzata.

-Forse è meglio che andiate con Satoru e Jin assieme.-

-Possiamo anche andare da sole.-

-No, assolutamente no.-

Vivi la zia irrigidirsi immediatamente, e lo sguardo di Maki farsi più cupo. Abbassarono le voci, ma io potei sentirle comunque, dato che in quel luogo ti abituavi facilmente al silenzio e ai rumori bassi.

-Mamma sarà pieno di gente, non ci accadrà niente.-

-Non lo puoi sapere!-

Zia Natsuko si voltò verso la locanda. Aveva alzato la voce, ma era impossibile che qualcuno l’avesse sentita. Si rivolse di nuovo a Maki con voce più bassa.

-Ti prego, vai almeno con Jin.-

Da quando mia cugina era tornata dall’ospedale la zia le stava molto addosso, almeno così mi sembrava: allora non mi dissero subito quello che mi accade, mi dissero solo che aveva avuto un brutto incidente con suo marito, e che doveva assolutamente stare al ryokan per riposarsi; eppure, pochi giorni dopo il suo arrivo, Oba-sama l’aveva rimessa subito al lavoro.

E poi, una settimana dopo il suo arrivo, Kojiro-san era tornato dalla sua famiglia. Il motivo io non lo sapevo, ma mi sembrava una cosa davvero strana, non era il caso che stesse con sua moglie?

-Appena hai finito di stendere voglio che tu vada a riposare, chiaro?-

-Non posso: Oba-sama mi ha ordinato di andare a fare la spesa.-

-Ah, questo è troppo! Adesso le vado a parlarle!-

-Mamma ti prego, non ricominciare.-

-Tu sei mia figlia e al momento non stai bene.-

Vidi la zia Natsuko togliersi furiosa i suoi sandali, e io mi scansai rapidamente, temendo stavolta di finire davvero schiacciata dal suo passare; neanche mi rivolse lo sguardo, e si allontanò lungo il corridoio, entrando dentro la locanda. Mi voltai verso Maki, e la vidi sospirare con aria abbattuta, rivolgendomi poi lo sguardo ed un sorriso.

-A quanto pare non riesco a farmi ascoltare.-

-La zia è preoccupata per te.-

-Già. A proposito, domani vedrai tua madre, no?-

Mia madre lavorava all’interno di un’azienda, era in un posto alto della gerarchia ma ancora adesso non mi ricordo bene cosa facesse. Io annuii, non mi ricordavo che il giorno dopo, come tutti i Bon, c’era la visita alla casa patronale: a me interessava la festa, le lanterne, il cibo, la gente. E soprattutto passare del tempo assieme a mia cugina.

Lei mi lesse nel pensiero, com’era sempre stata capace di fare.

-Non mi sembri entusiasta di vederla, qualche problema?-

-Ah no, no. È solo che … se ti crea troppo disturbo possiamo non andare stasera.-

In quel periodo venivo spesso rimproverata di stancare troppo Maki, o di darle troppo disturbo, e i momenti in cui potevamo stare solo io e lei si erano ridotti.

E dire che, nella famiglia, era la mia unica amica: la famiglia Akamine tendeva ad essere isolata dal resto del mondo, e a parte la scuola avevo pochi momento con cui stare con le mie  amiche.

Vidi Maki sorridermi.

-Non preoccuparti: ho voglia di uscire da qui. Vorrà dire che andremo assieme a Jin.-

-Assieme a Jin?!-

-Non ti piace Jin?-

Al contrario: mi piaceva eccome, tantissimo. Ma era più piccolo di me di almeno due anni, e oltretutto lui stravedeva per Maki, lo vedevo chiaramente; probabilmente anche per quel motivo volevo passare più tempo con mia cugina che con lui. Pensavo che, in quel modo, avrei imparato ad essere aggraziata come lei.

-Jin è infantile, di sicuro farà storie per accompagnarci.-

-Tranquilla, se glielo chiederò io non potrà dire nulla.-

Già, era quello che non mi piaceva molto.

-Ma se preferisci, possiamo chiedere a mio padre.-

-No no!-

Lei sorrise divertita, e io arrossii, avevo fatto proprio una bella figura, ero sicura che lei sospettasse qualcosa. Ed io che cercavo sempre di non darlo a vedere! Non ero proprio capace a dire le bugie.

-Bah, non importa; che sia Jin o lo zio, tanto io mi godrò le lanterne.-

-Forse è il caso di prepararne una assieme.-

L’ultima volta che avevamo fatto le lanterne insieme era stato due anni prima, pertanto la guardai speranzosa: mi era sempre piaciuto fare le lanterne dell’Obon, e farle con Maki addirittura!

-Davvero?! Ti andrebbe?!-

-Ma certo!-

Quasi ricominciavo a saltellare di gioia, e mi alzai in piedi, trattenendo l’entusiasmo per cercare di organizzare il tutto.

-Grande, allora io …-

-Come ti permetti?!-

-Mi permetto eccome!!-

Mi voltai a guardare la locanda sorpresa: sentii chiaramente le urla delle mie due zie, e mi ricordai che zia Natsuko era andata a litigare, ancora una volta, con zia Moe; ultimamente accadeva una volta a settimana, circa da quando Kojiro se n’era andato da quella casa. Credo fossero le prime, vere urla che avessi mai sentito nella locanda dalla prima volta che ci andai da bambina.

-Questa è una locanda!-

-Ma lei è mia figlia! Non ti permetto di trattarla come una serva!-

Le loro urla si sovrapposero, ognuna tentava di prevalere sull’altra, e si stavano spostando verso la parte privata, e anche se erano vicine le mura soffocavano il baccano; sospirai, percependo le note alte di Oba-sama oltre gli Shoji dietro di me.

-Lei è un’Akamine, e come tale deve compiere i suoi doveri qui alla locanda!-

Sospirai, parlando a voce alta a mia cugina.

-Di sicuro andranno dalla nonna a discutere della faccenda.-

Non sentendo alcuna risposta mi voltai verso Maki, e ancora una volta vidi il suo volto profondamente preoccupato, un’espressione così rara sul suo volto, tanto da turbare anche me.

Da quando era tornata, quello era lo stato d’animo che percepivo sempre nel guardarla, una cosa anomala, poiché io me la ricordavo sempre sicura, spesso sorridente, come se le brutte cose del mondo non fossero mai state in grado d’intaccarla.

Dovevo fare qualcosa, sentivo il bisogno di fare qualcosa per aiutarla.

-Maki!-

La chiami con forza, e lei si voltò sorpresa.

-Vedrai, andrà tutto bene! Ne sono sicura!-

Mi guardò per qualche istante, con una faccia perplessa; poi annuì, senza sorridere, rivolgendo poi lo sguardo verso il mare. Un po’ di vento iniziò a soffiare, e lei si sistemò i capelli che le andavano davanti agl’occhi, li stava facendo crescere, adesso riusciva ad adornarli con pettini e fermagli.

D’improvviso, davanti a me vedevo una persona molto diversa: per quanto fosse disponibile e allegra con tutti noi, sentivo chiaramente che c’era qualcosa che le pesava.

-Sorella.-

Si voltò di nuovo verso di me. Quando volevo rivelarle un segreto, o parlarle di cose importanti, la chiamavo sempre in quel modo.

-Stai bene? Io non so cosa ti è successo, ma sei cambiata.-

Rimase in silenzio a fissarmi, e vidi i suoi occhi, all’inizio, guardarmi stupiti, per poi lasciare andare la sorpresa, diventando tristi, bui.

-Lo so.-

La sua figura, improvvisamente, mi sembrò diventare scura come un albero in inverno, e mi spaventai, tanto da scendere nel giardino scalza, afferrandole una delle maniche del kimono: avevo detto qualcosa di sbagliato? Non volevo. Non m’importava se gli adulti si arrabbiavano con me, ma non volevo certo che mia cugina s’intristisse o arrabbiasse per causa mia!

-Posso fare qualcosa per te?-

-No, non preoccuparti.-

-Non dirmi anche tu di non preoccuparmi: tutti mi dicono di non preoccuparmi, ma tu non sei felice e questo non mi sta bene!-

La sorpresa, ancora una volta, illuminò il suo sguardo, ed io insistetti.

-Voglio andare stasera così che possiamo divertirci. Voglio andare a vedere le lanterne con te. Anzi, facciamone una insieme!-

Le strinsi la manica del kimono con tutte le mie forze, quasi strattonandola verso di me; lei, di reazione, posò una sua mano sui miei capelli.

-Va bene, va bene Tomoko. Calma.-

Mi resi conto di quello che stavo facendo, e mollai subito la stoffa. Mi strinsi le mani, sgridandomi mentalmente.

-Scusa, è che prima …  mi dispiace, non dovevo dirti che sei cambiata.-

-Ma no, no hai fatto bene.-

Accarezzò i miei capelli, e poi mi abbracciò, stringendomi a sé.

-Hai fatto bene Tomoko. grazie di preoccuparti per me.-

Respirai profondamente, e sentii che dal suo petto veniva l’odore del mare.

-Sorella, sei andata in spiaggia?-

-… si, ci sono andata stamattina.-

-… la prossima volta voglio venire anch’io.-

Avvertii il suo corpo vibrare, il rumore di una risata si propagò sul mio orecchio e sulla mia faccia per il resto del corpo. Era un rumore bellissimo.

-Hai deciso di essere la mia ombra anche tu, come zia?-

Annuii, alzando ed abbassando il capo sul suo kimono, e la sentii di nuovo ridere, divertita.

-Va bene. Sai, preferisco te alla zia Natsuko.-

-Ehi, che succede?-

Mi voltai, e vidi zio Satoru; stavo per staccarmi, ma le braccia di Maki mi tennero ancora stretta a sé, in un abbraccio.

-Avevamo voglia di abbracciarci. Ti vuoi unire?-

-Perbacco, volentieri!-

-Cosa?!-

Mio zio scese i scalini, senza però raggiungere l’erba mentre Maki mi spingeva, pian piano, contro di lui, il petto dell’uomo premette contro la mia schiena, e di colpo mi sentii soffocare.

-Aaah, le mie due ragazze!-

-Ehi, piano! Soffoco!!-

Eppure ci veniva da ridacchiare a tutti e tre, e non volli per prima sciogliere l’abbraccio, erano così rari quei momenti nella locanda.

Alla fine fu lo zio a staccarsi per primo, seguito da Maki, la quale sorrise divertita guardandomi, evidentemente mi ero spettinata tutti i capelli. Provai a sistemarla da sola, togliendomi i miei fermagli, quando lei intervenne, spingendomi a sedere.

-Aspetta, te la sistemo io.-

E le sue dita, veloci, sentii che iniziavano a fare qualcosa di diverso e più complicato da quello che avevo addosso io cinque minuti prima.

-Ah, zio!-

Approfittai della proposta per girarmi verso Satoru, il quale era già risalito. Il movimento non disturbò Maki, che continuò ad armeggiare, inserendo già il primo fermaglio.

-Stasera io e Maki andiamo al Mukaebi, ci puoi accompagnare con la macchina?-

-Va bene. Ma andate da sole?-

Maki rispose più velocemente di me.

-No, verrà anche Jin con noi.-

-Ah, va bene. Quando volete tornare a casa mi chiamate, va bene?-

-Si!! Maki, ci mettiamo lo yukata?-

-Se vuoi ti aiuto a mettertelo. Io voglio assolutamente mettermi un paio di pantaloni.-

Un po’ mi dispiaceva, però sapevo che, per quanto fosse bella con gli abiti tradizionali, a mia cugina piaceva tantissimo andare in giro con i jeans, o comunque i pantaloni in generale. Pertanto annuii, restando poi ferma, gustandomi le dita di mia sorella che mi sistemavano l’acconciatura.

-Ah, papà!-

Lo chiamò alzando la voce, e lo zio si sporse dalla porta scorrevole.

-Si?-

-Per favore, puoi portarmi in camera il materiale per fare delle lanterne con le barchette? Così le mettiamo in mare.-

Zio Satoru sembrò sorpreso dalla richiesta, ma poi parve entusiasta quanto me quando Maki me l’aveva proposta precedentemente.

-Va bene!-

Ero così contenta! Fremevo dall’impazienza di fare quel lavoretto con mia sorella, tanto che le resi più complicato terminare di acconciarmi i capelli; alla fine mi lasciò andare, e io tornai velocemente sulle scale, voltandomi un’ultima volta a guardarla.

Poi mi allontanai, avevo ancora delle faccende da sbrigare, e a breve avrei dovuto ritirare i vassoi della colazione dalle stanze occupate.

Vidi di sfuggita la figura di Oba-sama camminare nel corridoio dov’ero appena passata, e un brivido mi scese lungo il corpo, tanto che tornai indietro di qualche passo, sporgendomi a guardare la scena.

Maki era in piedi con il bucato, ancora una volta, che stava terminando mentre la zia era sul corridoio, la sovrastava con quel kimono scuro, era raro vedere Oba-sama indossare Irotomesode colorati; mi sembrava di vedere la scena di una fiaba, la maga potente che sovrastava la giovane eroina.

-Sei lenta. Devi essere più veloce, non hai tempo da perdere, no?-

Quel tono così ironico mi preoccupò non poco, era raro che la zia usasse un tono del genere, e di solito indicava che il suo umore era scuro; la vidi scendere le scale, e d’istinto volevo fermarla, ma rimasi nascosta, temendo di essere allontanata o di mettere ulteriormente nei guai Maki con la mia presenza.

Non riuscivo a sentirle parlare, il tono di voce si era abbassato, ma vedevo chiaramente il volto di mia cugina e della zia: la prima aveva un’aria tranquilla ma sofferente, la gioia e serenità di prima sembravano non essere mai esistiti. La seconda, invece, pareva fatta di gesso, impassibile mentre muoveva soltanto la bocca, il resto del corpo immobile, perfino gli occhi.

Ad un tratto qualcosa, probabilmente una frase o una parola dette, non lo so; fatto sta che vidi Maki alzare di colpo il volto, una luce negl’occhi li faceva brillare di rabbia, e la sua voce arrivò fino a me.

-Oba-sama, se direte ancora una volta una cosa del genere non esiterò ad agire di conseguenza.

Potete offendere me e le mie decisioni, ma non vi permetterò mai di parlare male dell’uomo che amo. Vi ho avvertito.-

La zia parve chiederle qualcosa, e Maki rispose immediatamente.

-Se sarà necessario, abbandonerò la famiglia. L’ho già fatto, e posso rifarlo; poi sarete voi a pagarne gli esiti.-

Spostai lo sguardo verso la zia Moe, e la vidi sempre rigida, ma questa volta mi parve simile più alla pietra, dato che non rispose subito, e Maki si sistemò meglio il cesto della biancheria fra le braccia, sfilandosi i sandali per salire le scale.

I suoi occhi ignorarono la presenza della zia, in cima alle scale, e quando la vidi dirigersi nella mia direzione mi allontanai velocemente, approfittando dei miei doveri di cameriera per non farmi scoprire; raccolsi i vassoi delle colazioni con la fretta addosso, a malapena mi ricordavo di sorridere e salutare. Avevo la sensazione che, se non fossi stata abbastanza veloce, la zia mi avrebbe scoperta in qualche modo!

Non mi resi conto di dove stavo andando con i vassoi, e di colpo finii a sbattere contro una schiena, finendo culo a terra nel corridoio che divideva il ryokan con la nostra casa, e quindi la cucina.

-Ahia!-

-Ehi, ma che … Tomoko!-

Alzai lo sguardo, per un attimo temetti fosse la zia; invece si trattava di Jin, il quale mi offrì una mano per alzarmi.

-Che combini?-

-Ah scusami, non ho guardato dove andavo. Come mai sei qui?-

-Vengo a trovare la nonna. Aspetta, ti do una mano.-

Mi rialzò come se fossi stata un peso piuma, ultimamente era diventato più alto e forte, si notava; non credetti minimamente alla sua scusa, e quando raccolse i vassoi li ripresi velocemente, senza neanche guardarlo.

-La nonna? Beh la “nonna” Maki è impegnata con me oggi.-

-Davvero? E che fate?-

Non cercò altre scuse.

-Prepariamo le lanterne con le barchette per l’Obon.-

-Posso unirmi a voi?-

-Tu dovevi andare a trovare la NONNA, no?-

Lo vidi accigliarsi, e io mi avviai sul corridoio, preparandomi a litigare con lui, com’eravamo soliti fare assieme, nel ryokan.

 

**

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Capitolo 6
*** 5:Al cimitero ... il fratello di Lui ***


5. Al cimitero … il fratello di Lui

 

Mi sistemai al meglio delle mie capacità la camicia dentro i pantaloni dell’uniforme, e indossai la cintura per tenerli su: avevo addosso i pantaloni di mio fratello maggiore, e fisicamente io ero più magro di lui. Quando entrai al liceo, per far risparmiare nostra madre, le dissi che bastava che mi facesse l’orlo, e avrei usato i pantaloni di Kojiro per andare a scuola, così dovemmo prendere soltanto la giacca.

Allora mio fratello già non c’era, era compito mio aiutare nostra madre nell’economia della casa, per quanto lei insistesse di non preoccuparmi. Odiavo quando mi dicevano non preoccuparmi di questo tipo d’impegni, mi ritenevo abbastanza grande da poterli gestire.

-Ehi, ci sei?-

Alzai lo sguardo, notando che Takeru era già pronto e mi guardava spazientito; lo guardai subito male, non mi piaceva affatto il tono saccente che aveva nei miei confronti.

-Oh chiedo scusa padroncino, ma io ci tengo a vestirmi bene per andare a vedere nostro padre.-

-Io sono vestito bene!-

-Ceeerto, quei jeans vanno proprio benissimo, con quegli strappi sembri un barbone.-

-Sempre meglio che sembrare un vecchio impiegato.-

-Te lo faccio vedere io il vecchio!-

-Cos’è, vuoi  un altro livido in faccia?!-

Takeru aveva sempre avuto la lingua lunga, e quando nominò il segno che avevo sulla guancia destra ero pronto a dargliene: me lo ero fatto a causa di un mio compagno di scuola, che si era permesso di dare giudizi nei confronti di mia madre e mia sorella. Gli spaccai il labbro e gli ruppi un dente.

-Voi due!-

Avevo afferrato il colletto della maglietta quando Kojiro si fece avanti, sull’uscio della stanza, e subito mi lanciò un’occhiataccia.

-Lascia subito tuo fratello.-

Obbedii seccato, e velocemente uscii dalla stanza, ignorando la voce di mio fratello che mi richiamava: non volevo essere sgridato da lui, tanto sapevo di aver sbagliato, che bisogno c’era di ribadirlo?

Da quando Kojiro era tornato a casa tutti erano su di giri, persino Takeru era meno rompiscatole del solito, obbedendo come un “bravo fratellino”. E la cosa, lo ammetto, mi dava sui nervi, perché a me Takeru non mi ascoltava mai. Inoltre, avevo iniziato a fare un po’ la vittima, come tutti gli adolescenti: sentivo che venivo sgridato sempre e solo io, e la cosa m’irritava ulteriormente.

-Masaru, tutto bene?-

Diedi solo una veloce occhiata a mia madre, tanto Kojiro avrebbe detto quello che era accaduto, perciò feci un cenno secco della testa, uscendo per primo di casa. In verità avrei voluto spiegarle come stavano le cose, come Takeru mi avesse provocato, ma temevo che lei avrebbe ascoltato solo la voce dei miei fratelli e non la mia, perciò battei in ritirata.

La prima cosa che vidi fu il muretto grigio che delimitava la stradina davanti a casa nostra, oltre questo c’era una casa più grande, e apparentemente anche più bella. La guardai con fastidio, aspettando impaziente l’uscita degl’altri membri della famiglia.

Quando li vidi, mi parvero una di quelle allegre famigliole che si vedevano nelle pubblicità su il cibo.

Vidi Kojiro avvicinarsi a me, porgendomi un sacchetto di plastica; lo afferrai e lui mi diede un leggero pugno sulla testa, come punizione. Sospirai cupo, ma poi lo seguii in silenzio, senza rivolgergli lo sguardo. A ripensarci ora, mi ero comportato davvero come un moccioso permaloso, che ridere.

Dovevamo arrivare a piedi fino alla fermata, poi da lì prendere una corriera, e ad un’altra fermata prenderne una seconda, che si fermava proprio davanti al cimitero; per tutto il tempo, Takeru e Naoko chiacchieravano con Kojiro e nostra madre, mentre io guardavo il paesaggio cambiare dietro il finestrino.

-Tutto bene, tesoro?-

Mi voltai, mia madre aveva posato una mano sulla mia gamba, attirando la mia attenzione; annuii, un po’ sorpreso, e lei mi rivolse un sorriso.

-Sai che a papà non piacerebbe quel muso lungo. Forza.-

Annuii nuovamente e sospirai, sentendo la responsabilità di non deludere l’aspettativa di mia madre.

Quando arrivammo al cimitero, e salimmo la scalinata, Naoko accelerò il passo, avviandosi verso la tomba di nostro padre, seguita da Takeru.

Stavo per dire alla mamma che andavo a prendere l’acqua per la tomba, quando Kojiro mi precedette.

-Mamma, prendo l’acqua per pulire la tomba.-

-NO, la prendo io!-

Ero sempre stato io, da quando mio fratello se n’era andato, che mi occupavo di queste cose. Ero io il figlio grande, sentivo che quello era un privilegio che mi spettava.

-Masaru, falla prendere a Kojiro. Noi intanto andiamo da tuo padre.-

Ma da quando era a casa con noi, tutto era cambiato: la mamma e Naoko davano tutte le loro attenzioni a Kojiro, Takeru ascoltava solo lui e obbediva solo a lui. E io?

Beh, le prime cose che mi disse mio fratello furono di studiare, che era presto per lavorare, che dovevo smetterla di fare il teppista. Ma chi si credeva di essere?! Piombava a casa improvvisamente, dopo mesi di assenza, e si permetteva di cambiare e stabilire nuove leggi?!

Pulii la tomba di mio padre con il fastidio di quei pensieri addosso, e non riuscivo a godermi la serenità che aleggiava nelle quattro persone accanto a me.

L’odore dell’incenso non distese il mio umore, e pregai a mio padre quasi con rabbia, al contrario degl’altri presenti.

“Padre, perché nessuno capisce? Io non voglio essere trattato da bambino, ora sono io il responsabile della mia famiglia, io me ne devo occupare! Perché non vengo rispettato?!”

Volevo trovare un lavoro dopo il diploma perché tanto non ero capace di studiare: non ero intelligente come Naoko, che ogni volta prendeva sempre voti alti, o impegnato e bravo nello sport come Takeru, tanto che puntava alla borsa di studio; io ero più adatto a usare le mani, a fare lavori di fatica, e mi ero già messo d’accordo con un mio compagno di classe, il cui padre gestiva una ditta di traslochi.

Quando glielo dissi, mio fratello fu subito contrario, affermando che un lavoro del genere “non portava da nessuna parte”; quello per me fu l’affronto più grande, ed iniziammo a litigare furiosamente, ero deciso a non lasciargli prendere altri centimetri della mia vita, della mia indipendenza.

Io non avevo mai litigato con mio fratello prima. Ma ora lo vedevo come un estraneo, che telefonava molto spesso ma che non sapeva nulla di noi.

Non era cattiveria, sia chiaro che comunque amavo mio fratello, ma non accettavo il fatto che mi desse ordini come poteva darmeli mia madre. O un padre.

-Sei molto silenzioso Masaru.-

Mi voltai verso la mamma, la quale mi diede un onigiri; lo accettai ringraziando con un cenno della testa, mangiandolo con gusto, le polpette di riso di mamma erano le migliori al mondo.

-Le tue polpette sono le migliori al mondo, mamma.-

Mi voltai, stupito che Kojiro avesse dato corpo ai miei pensieri; poi lo guardai infastidito, perché ovviamente mamma era tutta contenta di quel complimento. E Takeru non fece altro che aggiungere il carico.

-Do ragione a Kojiro!-

Il bravo fratellino che esaltava il fratellone, eroe della famiglia. Basta, non la sopportavo quella situazione!

-Scusate, vado a fare quattro passi.-

-Masaru non abbiamo ancora finito di mangiare.-

-E allora finite, io vado a camminare, non torno a casa.-

Kojiro si alzò in piedi, pronto ad affrontarmi.

-Senti, non mi piace questo tuo atteggiamento.-

-Guarda, mi hai proprio tolto le parole di bocca.-

E lo guardai male, ma con tutto il male che avevo dentro.

Perché sei qui? Cosa vuoi da noi? Non dovresti stare con la tua mogliettina? Per caso ti sei ricordato che avevi questa famiglia?

Gli dissi tutte queste cose con gli occhi, poi girai la schiena e me ne andai.

Si, quand’ero giovane ero facile alla collera: per questo mi era facile litigare con i compagni di scuola così come con i miei fratelli.

Ero frustrato: volevo e potevo finalmente fare qualcosa per la mia famiglia, che aveva sempre faticato per stare bene e dare una vita discreta a me ed a Naoko e Takeru, e ora mi veniva detto che era ancora presto. Ancora presto!

E a dirmi queste cose il fratello “perfetto”, quello che tutti stimavano e di cui bisognava essere orgogliosi e prenderne esempio; ma io non ero e non sono mai stato mio fratello, e seguirne l’esempio per me era praticamente impossibile.

Eravamo diversi. O almeno così credevo.

Quando, dopo circa un’ora, tornai alla tomba di nostro padre, trovai solo Kojiro ad aspettarmi, in mano aveva la busta bianca con dentro la spazzatura del pranzo; con le braccia incrociate sul petto assomigliava molto a nostro padre, o almeno a quello che io vedevo nelle foto. E aveva l’aria di chi era pronto a fare guerra, il che mi spinse ad accigliare nuovamente lo sguardo e a fargli muro.

-Allora? Si può sapere che ti prende?-

-Non so a cosa ti riferisci. Dov’è la mamma?-

-È andata avanti con Takeru e Naoko.-

-E l’hai lasciata andare da sola?!-

Poteva succederle qualsiasi cosa nella mia testa alla mamma, una signora dal fisico magro e con poca forza fisica, seguita praticamente da due bambini.

Partii per raggiungerla, ma la mano di mio fratello mi afferrò per il braccio.

-Dove credi di andare?-

-Da lei, mi pare ovvio, non posso credere che l’hai lasciata andare da sola!-

-È stata lei che me l’ha chiesto.-

-Quindi se lei ti chiede se può buttarsi da un ponte, tu le dai il permesso?!-

-Ma che cazzo dici!?-

-E lasciami!-

Scrollai con forza il braccio, per staccarmi da quella mano, Kojiro aveva sempre avuto una presa d’acciaio; quando riuscii nell’intento mi girai verso di lui, prendendo fiato. Mio fratello mi guardava con aria stupita, parlandomi.

-Ma si può sapere che ti prende? Litighi a scuola, fai a botte con tuo fratello, non ascolti la mamma …-

-Questo non è vero!-

-E quello che hai fatto prima?-

-Io non stavo obbedendo a te!-

-A … me?-

Mi guardò sorpreso, e io ne approfittai per dargli addosso.

-Anch’io sono il fratello maggiore, anch’io voglio occuparmi della mia famiglia. Ma dal nulla arrivi tu e bum! Di colpo sono di nuovo uno dei piccoli, che deve solo ascoltare e ubbidire! Ma chi ti credi di essere?! Con chi credi di parlare?!-

Alzai le braccia al cielo, e poi le battei sui fianchi, prendendo fiato per riordinare i successivi pensieri.

-Io so che sei stato male, ok? Lo so, ti ho visto. E so che stai attraversando un momento difficile, me lo ha detto la mamma, ma non ti permetto di decidere tu della mia vita. Io voglio essere utile, lo capisci? Io voglio essere utile alla mia famiglia! Sono grande, ho quasi diciotto anni!

Ma purtroppo sono uno stupido, e non sono bravo a studiare, e sfortunatamente non ho talento o passione sportiva, non li ho! Io so solo che sono forte fisicamente, e che questo mi può aiutare.-

E mi fermai, guardandolo con aria supplichevole.

No, non mi piacevo così burrascoso, ma non sapevo come altro comportarmi in quella situazione: stavo diventando adulto, e volevo arrivarci il più velocemente possibile per la mia famiglia, ma tutto sembrava volermi rallentare per forza. Poi mio fratello aveva avuto un incidente, mia madre che continuava a dirmi che non stava bene, ma vivendoci per quel poco tempo mi sembrava stare benissimo, visto che faceva il capo famiglia. Lo so, il mio punto di vista era egoista, ma non potevo fare altro che essere me stesso.

Mi sentivo esasperato, e mi accasciai accanto alla tomba di mio padre, cercando ancora una volta di radunare i pensieri che mi ballavano in testa.

-Io … io voglio essere utile alla mia famiglia.-

Lo ripetei ancora, cercando di farmi forza con quella frase, ma al contrario continuavo a sentirmi stanco, a non riuscire ad alzarmi da quel punto, e sospirai.

Sentii Kojiro muoversi, e lentamente mi si fece accanto, sedendosi a sua volta; io lo guardai di sottecchi, aveva pantaloni e camicia proprio come me, ma come al solito aveva arrotolato le maniche, mostrando le braccia.

-Sai … ho avuto gli stessi pensieri quando è morto nostro padre.-

Alzai lo sguardo, e vidi che gli occhi guardavano verso l’alto mentre mi parlava.

-Volevo essere utile, volevo aiutare nostra madre e volevo occuparmi di voi. E fortunatamente, grazie al calcio ci sono riuscito. Ciò che amavo … mi ha permesso di aiutare chi amavo.

Ma adesso … adesso non ci sto riuscendo.-

Lo guardai stupito, e lo sguardo si abbassò, e dal cielo scese sull’orizzonte, poi sulle case, sulla strada, sulle mura del cimitero, fino ad arrivare al terreno dov’eravamo seduti.

-La donna che amo sta male … e non so proprio come aiutarla. Ho provato ad abbracciarla un paio di volte, ma mi ha scacciato, spaventata. Aveva paura di me, di suo marito. Temeva che suo marito … potesse farle del male.-

Lo vidi stringere i pugni per frenare la collera, e stringere gli occhi per trattenere il dolore.

Quella fu la prima volta, da quando era tornato a casa, che vidi mio fratello soffrire; forse quella fu la prima volta, in vita mia, che vidi mio fratello soffrire. Lo conoscevo arrabbiato, allegro, ironico, serio, felice … ma addolorato no, mai. E quella vista … mi turbò, e mi lasciò confuso.

Nostra madre non ci aveva detto nulla al di fuori del fatto che Kojiro aveva avuto un incidente; non sapevamo niente di come si era svolto, di cosa effettivamente era successo, o di quanto male stava. Ci aveva lasciato nell’ignoranza … forse per salvaguardarci.

Vidi i suoi pugni sciogliersi, e si voltò a guardarmi, studiandomi il volto mentre continuava a parlarmi.

-Anch’io voglio essere utile per la mia piccola famiglia, proprio come te Masaru. E anch’io, come te, mi sono sentito e mi sento frustrato, perché non sono in grado di aiutare.-

L’uomo accanto a me … che si sentiva come me?

Allungò una mano sulla mia testa, accarezzandomi i capelli, e mi sorrise con aria complice, ma non felice; io accettai quella carezza in silenzio, e ripensai alle sue parole, e a dove me le stava dicendo. Parlai a voce bassa.

-… vorrei che ci fosse papà.-

A casa non ne parlavamo mai, perché oramai eravamo abituati all’assenza di quella figura, e anche perché Kojiro, più o meno, lo aveva sostituito negl’anni, per cui se c’era qualche difficoltà si chiamava lui. Pian piano, anch’io mi stavo assumendo il peso di quella figura, e lo volevo diventare anche per la paura di scoprire che non ne ero capace.

-Già, lo vorrei anch’io.-

La sua mano, lentamente, si levò dalla mia testa.

-Però sono convinto che, comunque, lui continua ad assisterci.-

Mi voltai verso di lui, e gli guardai il volto. Era ancora cupo, ma il sorriso aveva perso un po’ di tristezza, diventando più affettuoso. Anche il suo capo, dal terreno, tornò di nuovo in alto, verso il cielo; lo copiai, e mi resi conto che il sole stava cominciando a scendere.

Nella rabbia, avevo lasciato correre via il tempo, e mi ero perso quella giornata con la mia famiglia.

… che stupido.

-Mi dispiace. Sono stato proprio stupido oggi.-

Sentii di nuovo quella mano affettuosa sulla testa, e mi voltai a guardare mio fratello, adesso l’ombra sul suo volto era meno soffocante, e anche il suo sorriso era più amichevole, facendo poi un cenno verso la tomba alla nostra sinistra.

-Che ne dici di accendere un altro incenso a nostro padre?-

Annuii, e Kojiro frugò nella busta, passandomi poi un bastoncino, cercando per l’accendino.

La seconda preghiera fu decisamente più tranquilla della prima.

“Padre, per favore, dai a me e a mio fratello Kojiro la forza per aiutare le nostra famiglie; dammi la sicurezza nel continuare la strada che ho scelto, e … e aiuta Kojiro e Maki. Loro … loro meritano di essere felici.”

Respirai profondamente, e sentii le ultime briciole di nervoso scivolare via con il respiro. Mi voltai verso mio fratello, e lo vidi di nuovo armeggiare con la busta di plastica, guardandomi con fare serioso.

-La mamma ce lo ha lasciato, però tu ne bevi solo un goccio, chiaro? Sei ancora minorenne per queste cose …-

E tirò su una bottiglia di saké con tre bicchieri. Lì per lì mi sorpresi non poco, per poi emozionarmi, e di nuovo sentirmi davvero uno stupido: proprio la mamma, colei che sembrava sempre non accorgersi dei miei stati d’animo, aveva intuito il mio desiderio, ed aveva agito come solo lei poteva fare.

Kojiro porse prima quello per nostro padre, poi fece particolare attenzione a non esagerare la dose del mio, tanto che gli lanciai un’occhiata storia; ma alla fine, tutte e tre avevamo il nostro bicchiere, e io lo bevvi per la prima volta … e tossii, sentendo il sapore forte stringermi la gola. Kojiro ridacchiò alla scena, rivolgendomi la parola.

-Di un po’, ma davvero sei forte come dici?-

-Beh, a braccio di ferro non mi batte nessuno, nemmeno il capitano della squadra di atletica.-

-Ma dai?! Allora fammi vedere!-

-Eh? Qui?!-

-Ma si dai. Mettiamoci sopra la pietra.-

-Ma è la tomba di papà!-

-Ah, vedrai che non si offende. E poi ho interrotto a metà il mio matrimonio, vuoi che non faccia a braccio di ferro in un cimitero davanti a papà?-

Lo guardai perplesso, ma alla fine mi alzai in piedi, convinto, arrotolandomi le maniche della camicia sulle braccia mentre Kojiro si metteva in posizione, mettendo il gomito destro sulla pietra e aggrappandosi con la mano mancina sulla tomba. Io lo copiai, anche se ero incerto.

-I Kami s’infurieranno.-

-Secondo me stanno già tutti scommettendo sulla mia vittoria assicurata.-

-Ah si? Ti faccio vedere io.-

-Fatti sotto.-

Mio fratello era forte. Lo sapevo, me lo ricordavo, e anche in quel momento dimostrò di essere più forte di me.

Ma la mia soddisfazione fu di riuscire a tenergli testa per almeno cinque minuti buoni; e lo vedevo sforzarsi, guardarmi sorpreso, assaporare la sfida tanto quanto me, e impegnandosi riuscì a buttare giù la mia mano.

-Accidenti, sei davvero forte!-

-Te l’avevo detto.-

-E riguardo a quel lavoro? Ti puoi fidare del tuo compagno di classe?-

Pensai a Takano e a suo padre, al piccolo colloquio che mi aveva fatto fare, ed annuii.

-È a gestione famigliare, e il cugino che aiutava il padre si è dovuto trasferire dopo il matrimonio. Ho fatto un piccolo colloquio, e sono ben disposti a prendermi con loro. Ovviamente non mi daranno una grande cifra, si tratta per il momento di piccoli compiti; ma se lavoro e mi comporto bene, posso aspirare a qualcosa di più.-

-Capito …-

Lo vidi raccogliere i tre bicchierini, versando il sakè lì dove avevamo fatto braccio di ferro, bagnando la pietra tombale come si faceva di solito; aspettai paziente, sperando ardentemente nella sua approvazione.

Alla fine lo sentii sospirare, e mi puntò gli occhi e un dito contro.

-Però sia chiaro:  prima prendi il diploma, e dopo ti metti a lavorare. Quel pezzo di carta è importante, credimi.-

Non potei trattenere un sorriso contento, ed annuii.

Vidi mio fratello, ancora un volta, ingentilire per un attimo il volto, per poi farmi un cenno del capo, iniziando a camminare.

-Avanti, ora torniamo a casa.-

Io non mi dimenticai mai quella giornata, e il volto di mio fratello; era come se, entrambi, avessimo fatto un passo avanti verso un nuovo inizio, ed entrambi eravamo spaventati, anche se lui era uomo, e io solo un ragazzo.

 

**

 

Chiedo scusa per l’enorme ritardo dell’aggiornamento, sono stata davvero molto impegnata a far partire il mio “nuovo inizio” e proprio come questi due ero molto spaventata. Adesso, invece, sto prendendo sempre più confidenza. Ce la faranno anche Kojiro e Maki? Stay Tuned!

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Capitolo 7
*** 6: Di notte ... l'amica di Lei. ***


6. Di notte … l’amica di Lei.

 

WARNING! In questo capitolo saranno descritti atti violenti, consiglio a chi è sensibile agl’argomenti di non leggerlo.

 

Si, erano gli ultimi giorni di Agosto.

Approfittando di alcune ferie arretrate, avevo deciso di andare a trovare Maki al ryokan, e trascorrere qualche giornata sotto il sole, al mare. Sfortunatamente, il clima non mi fu amico, e un rombo di tuono interruppe il mio sonno quella notte, facendomi scattare seduta sul futon.

Percepii chiaramente la pioggia che batteva sul camminamento fuori dalla camera, e nel buio gattonai verso lo Shoji, socchiudendolo; immediatamente dell’acqua mi arrivò sulla mano, e a malapena riuscii a intravedere gli alberi del giardino che ondeggiavano lugubri al forte vento.

Chiusi lo spiraglio e sospirai, ci mancava solo il temporale!

Quando venni a sapere dell’incidente di Maki e Kojiro dal mio compagno quasi non ci credevo, e c’impiegai diversi minuti a realizzare che si, era davvero accaduto. A quel punto mi misi subito in azione, e in meno di dieci giorni andai a trovare la mia amica in ospedale a Naha, facendomi ospitare da uno dei ryokan della sua famiglia.

Come infermiera rimasi felicemente colpita nel vedere come entrambi avessero recuperato in fretta dall’incidente; come amica, invece, percepivo chiaramente che qualcosa, in Maki, era spezzato: ogni volta che si fermava dal parlare diventava pensierosa, la sua mente non riusciva a restare nell’ambiente attorno a lei, ma vagava da qualche parte. La sua energia e il suo sorriso erano fiacchi, privi di quell’allegria e forza con cui l’avevo conosciuta.

Era spenta, e questo mi preoccupò non poco; parlai con lo psicologo dell’ospedale, ma questo m’informò che Maki non era più tornata a fargli visita dopo essere uscita dall’ospedale. Anche dopo, quando le telefonavo, era restia a parlarmi dell’incidente, tanto che un giorno, quando gli chiesi per l’ennesima volta di aprirsi, con rabbia mi disse di smetterla di chiamarla se facevo ancora quelle domande, sbattendo la cornetta sul telefono; mi telefonò qualche ora dopo, scusandosi con dolore.

Si, dolore. Stava piangendo, ma tratteneva duramente i singhiozzi nella gola, e probabilmente la mano libera frenava le lacrime degl’occhi.

Mi resi conto che le stavo facendo la stessa violenza che aveva subito da quegl’uomini, e pentita smisi di farle domande, sperando che le cose andassero meglio.

Invece, ad ogni telefonata, avevo la chiara sensazione che Maki stesse diventando sempre più fredda e chiusa, come una stella che si spegne.

Io ricordo la prima volta che conobbi Maki, al matrimonio di Tsubasa e Sanae, e ho ancora chiara l’immagina di questa ragazza che, presentandosi, era solare, calda, che sapeva tenere testa a chiunque, anche a Kojiro. La giovane donna che mi parlava al telefono, invece, pareva perdere ogni giorno un po’ della sua luce, e questo mi spinse ad andarla a trovare quegl’ultimi giorni di Agosto.

Jun, il mio compagno, mi ha sempre detto che, secondo lui, ho il dono di “percepire il dolore dell’altro e di curarlo”. Forse è vero, fatto sta che quando dissi a Maki le mie intenzioni, sentii chiaramente la sua gratitudine e il suo bisogno di amici.

E ora, a due notti dal mio arrivo, quel tifone mi stava infreddolendo e portando via il sonno, tanto che accesi la lampada della stanza per cercare, nel mio bagaglio, una maglia per coprirmi.

Due colpi leggeri alla porta scorrevole interruppero la mia ricerca, incuriosendomi; controllai il display del cellulare, e mi resi conto che erano le quattro del mattino. Che fosse Maki?

-Avanti.-

Lo dissi con un filo di voce, ma la porta scivolò nel legno comunque, e vidi il volto della mia amica, inginocchiata accanto all’uscio, anche lei aveva una lampada con sé, appoggiata a terra ad illuminarle il volto.

-Posso?-

-Maki, vieni pure.-

-Ho visto una luce, e mi sono permessa di portarti questo.-

Si voltò verso la sua destra, e mi porse un grosso scialle color crema.

-Ah, meno male, stavo cercando qualcosa per il freddo.-

La feci accomodare, e con sorpresa notai che aveva addosso ancora il kimono.

-Non sei andata a dormire?-

Scosse la testa, sorridendo con aria amara.

-… sono giorni che non dormo.-

Me n’ero accorta: fin da quando era venuta a salutarmi all’ingresso del ryokan, avevo subito notato le sue occhiaie e l’aria stanca, e nonostante i giorni di sole la sua pelle era impallidita.

Mi misi lo scialle sulle spalle, decisa a non farla uscire da quella stanza. Come amica, adesso dovevo fare qualcosa.

-Perché non resti qui con me? Tanto anch’io non dormo più.-

-Mi dispiace che il temporale ti abbia svegliata. Comunque, secondo il meteo, domani sarà una bella giornata, così puoi andare al mare qui sotto il ryokan.-

-Magari! Vieni con me?-

Mi misi seduta con la schiena appoggiata allo Shoji, e Maki si mise a riassettare il letto, parlando con aria imbarazzata.

-Ah, scusami, ma non mi è possibile: domani Oba-sama mi ha chiesto di pulire le camere.-

-Beh, ma potrai fare un’eccezione per un’amica, no?-

Le sorrisi, facendole addirittura l’occhiolino, per convincerla, e la vidi pensarci davvero.

-Io …-

-Dai Maki, tu adori il mare, un po’ d’acqua e spiaggia ti farà bene.-

Uscire da lì le avrebbe fatto bene. Camminare fuori da quelle stanze le avrebbe fatto bene. Nuotare, stare sotto il sole, svagarsi. Questo le avrebbe fatto bene.

Ancora una volta la vidi incerta, probabilmente la sua testa cercava una scusa per farla restare lì, intrappolata nella locanda, ma non ne trovava alcuna. Notai, con la coda dell’occhio, che le mani erano ferme sopra la coperta del futon, e si stavano chiudendo a pugno.

Le guardai di nuovo gli occhi, e dietro quell’espressione vitrea ci vidi esasperazione: a furia di tenersi tutto dentro stava andando in esaurimento. Eppure non sembrava in grado di aprirsi con nessuno.

Dovevo trovare un modo per calmarla, mi sembrava di aver di fronte un animale stressato, indeciso se alla fuga o alla reazione aggressiva. E in entrambi i casi, avrebbe rischiato solo di fare del male a se stessa.

A quel pensiero, mi tornò in mente mio padre quando ero bambina, e a quella volta che gli capitò una situazione del genere con un animale, credo fosse una volpe: mi trovavo ancora a casa della mia famiglia, e quell’animale era arrivata dal nulla dentro la mia camera da letto, ancora adesso non sappiamo cosa l’avesse spinto, se l’odore del cibo o la curiosità, anche perché si vedeva che era giovane; fatto sta  che ricordo chiaramente il suo sguardo terrorizzato, attento ad osservare ogni movimento e a ringhiare ad ogni minimo suono.

Mio padre allora, con molta calma, lasciò la porta della stanza aperta, e mi disse di lasciarla in pace, che a tempo debito se ne sarebbe andata di sua volontà; di fatto, quando questo fu pronto, uscì fuori dalla stanza, sospettosa, e mio padre la guidò in silenzio verso l’uscita. Ricordo che poi, da quel momento, la volpe ritornò altre volte, e la mia famiglia lo prese come un segno fortunato.

Fu la tranquillità di mio padre, la volpe dal manto arruffato, le sue orecchie tese in mezzo all’erba ad ascoltare i rumori della nostra casa una volta fuori, tutto questo mi diede l’ispirazione.

Presi la mia lampada, e la spensi, appoggiandola poi alla mia destra; sorridendo, invitai Maki ad accomodarsi alla mia sinistra in silenzio, senza parlare. La vidi incuriosita e ancora una volta incerta, ma lentamente accettò l’invito e si sedette accanto a me, con la schiena appoggiata allo Shoji, la sua lampada l’aveva messa davanti a noi, per farci luce.

La mia camera, in quell’atmosfera, sembrava diventare altissima, mentre noi due eravamo piccole piccole, come delle bambine.

Ascoltammo la pioggia che batteva sul legno, e non parlammo per diversi minuti; pian piano il silenzio mi permise di ascoltare il respiro di Maki, e lo percepii breve ed irregolare, tanto che lei si lasciò andare ad un profondo respiro, con la coda dell’occhio la vidi quasi cercare l’aria, gli occhi spalancati verso l’alto, a guardare qualcosa per me invisibile.

In silenzio, posai la mia mano sinistra sulla sua destra; lei, senza neanche guardarmi, intrecciò le dita della sua mano con le mie, e strinse, strinse così tanto che mi faceva male, ma io rispondevo con la stessa forza, guardandola.

Le sopracciglia si corrucciarono, e pensai che avrebbe pianto, ed io ero pronta ad abbracciarla, a farle sentire la mia presenza; invece prese un altro respiro, strinse gli occhi, corrucciò lo sguardo, le labbra si tirarono fino a diventare bianche e il corpo si piegò in avanti.

Ancora una volta, stava cercando di tenere tutto il suo male dentro il corpo, sia la rabbia che il dolore.

Aprii la bocca, per chiederle perché si facesse questo, ma di nuovo mi tornarono in mente mio padre e la volpe, così tacqui, limitandomi a stringerle la mano con più forza; si voltò verso di me, e lentamente scossi la testa.

No Maki, pensai, non farti questo.

Vidi le sue palpebre aggrottarsi leggermente, e la sua bocca si schiuse, mostrando parte di quello che aveva dentro: angoscia, dolore, ma anche vergogna. Una profonda vergogna.

Mi girai verso di lei, e la sua testa si chinò, la schiena si piegò su se stessa, e accucciata in quel modo si appoggiò sulle mie gambe, continuando a tenermi la mano; con quella libera, iniziai ad accarezzarle la schiena, il kimono che indossava era verde, uno yukata con sopra disegnate delle ninfee. Le stava davvero bene.

Le toccai anche i capelli, oramai erano lunghi fin sotto le spalle, ed erano spettinati, quando provai a pettinarli con le dita sentii dei piccoli nodi, e decisi di non insistere, per non farle male.

Pian piano la percepii appoggiarsi con il peso a me, e a quel punto mi sporsi verso la lanterna rimasta accesa, spegnendola. Cadde il buio, e a causa del temporale i miei occhi non riuscirono a vedere niente, come se all’improvviso fossi stata trasportata nel nulla.

Il ticchettio della pioggia, ogni tanto un rombo di tuono in lontananza, credo di essere riuscita perfino a sentire le onde che s’infrangevano sulla sabbia, sotto il ryokan. La mia mano libera che continuava ad accarezzare la schiena di Maki, l’altra che si lasciava stringere.

Aspettai. E non saprei dire quanto tempo ho aspettato, se minuti o addirittura giorni.

So solo che, ad un certo punto, sentii la testa di Maki muoversi, e la sua voce ruppe il silenzio.

-Eravamo usciti dal cinema. Volevamo passeggiare sul fiume, così Kojiro prese una scorciatoia.

Non era buio, c’erano i lampioni. Noi parlavamo del film. Siamo arrivati verso un cantiere, c’era la rete a delimitare la zona.-

La sentii fermarsi, ingollare, prendere tempo.

Io non smettevo di accarezzarle la schiena, ma ora nell’oscurità vedevo, un po’ sfuocata, quello che mi stava raccontando; nella mia visione, i lampioni erano illuminati, ma la luce era fioca. Nelle tante ombre del cantiere, mi sembrò di vedere strane figure che si sporgevano a guardare, con aria divertita.

-Erano in tre.-

La sua voce era spezzata, e io presi un respiro, stringendole saldamente la mano, probabilmente le nostre nocche erano bianche, sentivo la pelle formicolare leggermente, ma non avrei mai lasciato la presa.

-Uno aveva … una giacca di pelle. Un altro aveva la cresta di capelli. Il terzo aveva una bottiglia ... prima.-

E ora ci stavano guardando nell’oscurità della stanza, la mia mente li vedeva chiaramente di fronte a noi, con i volti deformi.

-Kojiro si è messo avanti a me, chiedendo loro di lasciarci stare. Loro dissero … dissero …

“È tardi ormai. Siete nel nostro territorio. Ora pagate pedaggio.”-

Ripeté quelle parole con voce cupa, e mi scese un brivido dietro la schiena: era avvenuto cinque mesi prima, e ancora adesso ricordava le parole di quell’aggressore.

-Andò addosso a Kojiro, che si difese. Poi la bottiglia cadde a terra, e al suo posto c’era il coltello.

Kojiro non … non ha gridato, non lo sentii gridare. Non l’ho sentito.-

La sentii rannicchiarsi su se stessa, portare anche la mano che stringeva la mia sopra il suo orecchio, a non voler sentire, mormorando quelle parole, ripetendole con voce sempre più bassa, fino a che ci fu di nuovo silenzio.

Volevo supplicarla di andare avanti, di non fermarsi a quello, ma mi morsi le labbra, aspettando. Questa volta provai una tremenda ansia nell’aspettare, temevo si fosse addormentata con quell’ultimo ricordo, anche la presa sulla mia mano si era allentata, con il rischio di avere un incubo troppo forte per la sua debolezza.

-Quando lo vidi cadere in ginocchio, io ho provato a raggiungerlo, volevo raggiungerlo. Ma una mano mi prese per i capelli, tirandoli con forza. Credevo mi avrebbe strappato via anche la nuca.

Mi spinse con forza contro la rete; non avevo forza nelle gambe, le sentivo tremare, stavo in piedi a fatica.

Provai di nuovo a voltarmi verso Kojiro, ma di nuovo mi presero i capelli.-

La sua mano sciolse la presa sulle mie dita, tenendomi però il dito indice, guidandolo sulla sua nuca; tra i suoi lunghi capelli, mi fece fermare in un punto.

-Qui me li hanno strappati.-

Provai a tastare, con dolcezza per non farle male, ma fortunatamente non sentii la cute, solo la ciocca più corta rispetto alle altre. Approfittai della mia mano sulla sua testa per massaggiarle il capo, fermandomi quando riprese a raccontare.

-Sono caduta a terra, e … e …-

Cominciava a faticare con il respiro, e ancora una volta m’imposi il silenzio, aspettando. Non riuscivo a quantificare cosa mi facesse più stare male o in ansia, se l’attesa o il racconto in sé. Strinsi pian piano le gambe tra loro, mentre andava avanti.

-L’uomo con la cresta si mise sopra di me.-

Un singhiozzo, e sentii che cercava di coprire la bocca con le mani; decisa, ma senza farle male, la obbligai a togliere la mano dalla bocca, per lasciarla piangere.

All’inizio era sommesso, soffocato; poi, come un’onda, i singhiozzi si fecero sempre più forti mentre cercava di parlare ancora.

-Ho combattuto … l’ho morso … gli ho dato un pugno … ma poi mi hanno bloccata, il ragazzo con il chiodo mi ha bloccato le braccia.

Quello … quello con il coltello … ha dato un calcio … un calcio a Kojiro a terra … era immobile … immobile …

I pantaloni … mi … mi ha strappato i pantaloncini … ha tirato, mi ha graffiato … ha preso anche le mutande, le ha buttate via.

Le gambe … ho stretto le gambe … le ho strette … ho urlato, chiesto aiuto … il coltello si è appoggiato sulla mia guancia … ha detto che mi tagliava il collo se non stavo ferma …

Hanno aperto le gambe … le hanno aperte …-

A quel punto mi accucciai su di lei, stringendola, non avevo più fiato e forza per continuare ad ascoltare, io stessa sentii d’iniziare a piangere dall’orrore; soffocai con il mio corpo le sue urla, il dolore che usciva dal suo corpo era tremendo, sentivo la mia stessa pelle incapace di sopportare quel male addosso, e strinsi i denti, facendomi forza.

Il rombo dei tuoni si avvicinarono, segno che il temporale non accennava a passare ma anzi, ci stava venendo contro, e quel rumore ci aiutò: soffocò i lamenti di Maki, e mi aiutò a tornare nel mondo reale, ad uscire da quello spaventoso incubo vivente. Ripresi fiato, ripresi forza, e cercai di nuovo le mani di Maki, stringendole il più possibile.

Di nuovo, non so quanto tempo durò quel pianto, ma per primi si calmarono i lamenti, la sua voce si fece sempre più bassa, fino ad ammutolirsi; poi i tremori del corpo, pian piano, passarono a loro volta, e il respiro si fece più lento, fino a calmarsi del tutto.

E così, tra le mie braccia, Maki si addormentò. Mi sciolsi da lei solo quando fui certa che il suo sonno era ristoratore, e non inquieto.

Alzai lo sguardo verso l’alto, prendendo un profondo respiro di sollievo, tirando su con il naso mentre le mie ultime lacrime si fermavano, accorgendomi che anche il temporale era passato. Mossi le spalle, sentendole doloranti, ma continuai a tenere una mano sul capo di Maki, accarezzandogli i capelli. Mi guardai intorno e mi resi conto che riuscivo a intravedere il profilo della lanterna davanti a me, e che addirittura riuscivo a intuire il tatami sotto di essa.

Mi voltai verso lo Shoji, e con la mano sinistra ne aprii uno spiraglio. Della luce soffusa, pian piano, illuminava il cielo, c’era ancora qualche nuvola, ma si poteva vedere il color rosa pastello del cielo. Anche il vento si era calmato, e portava con sé l’odore salmastro del mare.

Inspirai a fondo quel profumo, e poi voltai lo sguardo verso la mia amica.

Era accucciata sulle mie gambe, l’obi dello yukata si era leggermente allentato, facendo così sformare il tessuto verde del kimono.

Con dolcezza, accarezzai la sua guancia sinistra, togliendole i capelli, per poter vedere il suo volto, e con mio sollievo vidi gli occhi e la bocca rilassata, le labbra schiuse in un’espressione di riposo, anche le mani al petto avevano i pugni schiusi, le dita sciolte da qualsiasi tensione.

Purtroppo, quello era solo un passo. Sarebbe servito molto più tempo, per Maki, per riuscire ad uscire da quel tunnel.

“È un piccolo passo, ma è un passo in avanti.”

Già, papà aveva avuto ragione quella volta: la volpe tornò ancora alla nostra casa, a spiarci da dietro l’erba alta oltre il cortile, osservando i nostri movimenti, avvicinandosi pian piano fino a mangiare il cibo che le offrivamo; e credo che, ancora adesso, quella volpe vada ancora a trovare mio padre, in estate.

Accarezzai la testa di Maki, e sorrisi contenta, decisa a convincerla, una volta sveglia, di accompagnarmi al mare per una mezza giornata di riposo.

Con quell’intenzione mi appoggiai con la schiena sullo shoji e chiusi gli occhi, e mi addormentai.

 

**

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Capitolo 8
*** 7: Al tramonto ... gli amici di Lui ***


7: Al tramonto … gli amici di Lui

 

Sia io che Takeru vedemmo chiaramente la frustrazione di Kojiro mentre tirava il pallone a scacchi.

Tutto era iniziato come un gioco: gli avevamo fatto visita, e dopo aver chiacchierato a lungo in casa avevamo deciso di fare qualche “scambio” e tiro in porta, e inizialmente era divertito all’idea, recuperando un vecchio pallone, assicurandosi che non fosse uno di quelli di “allenamento”.

Vederlo con un vecchio pallone sgangherato, la maglietta con le maniche tirate, il cappello sulla testa e un sorriso divertito sulla faccia fu davvero un tuffo indietro nel tempo.

Prendemmo l’autobus come da ragazzini, correndo perché stavamo rischiando di perderlo, come al solito; ci prendevamo in giro, ricordavamo gli allenamenti del coach Kira, le partite, la nostra rabbia e la nostra gioia ogni volta che eravamo su quel campo. Ogni volta, per noi, era una battaglia da vincere, ad ogni costo.

Arrivati al campetto, ad un tratto, Kojiro si bloccò, la sua stessa risatina scemò velocemente, tanto da portarmi a guardarlo, stupito.

E vidi, nel suo sguardo, un’ansia cupa e silenziosa. Ci aveva parlato dell’incidente, ma ci aveva assicurato che non sentiva quasi più dolore, che l’attività fisica non era un problema, e che avrebbe giocato più che volentieri; ora, di fronte a quello sguardo, forse aveva compreso che neanche lui era certo se aveva detto o meno una bugia.

Dopo qualche secondo lasciò cadere il pallone a terra, muovendolo con i piedi, e io e Takeru ci limitammo a seguirlo, ad accompagnarlo silenziosamente dentro il campetto deserto. Gli scambi con cui scaldammo le gambe erano fatti in silenzio, erano i nostri piedi a parlarsi.

Quelli di Hyuga, come al solito, erano forti, nervosi, e sembrava che si stessero risvegliando dal letargo, compiendo quei movimenti, apparentemente semplici, con entusiasmo, anche impazienza; Sawada, dei tre, era il più preciso, era in grado di passarla in modo perfetto, con la giusta forza, in modo che la palla arrivasse docilmente ai nostri piedi. Io, dei tre, mi ritenevo il meno abile, anche perché io utilizzavo molto le mani, e anche se avevo giocato in un altro ruolo per un certo periodo, non mi permettevo mai di fare chissà quali acrobazie.

Il sole, alle spalle di Kojiro, andava verso un tramonto splendido, tanto che mi distrasse, facendomi alzare la testa e perdere la palla, recuperata velocemente da un attento Takeru mentre venivo ripreso dal “capitano”.

-Beh, ti distrai?-

-Se lo spettacolo vale la pena, si.-

Si girò a guardare il tramonto, e guardai la sua schiena farsi scura.

La schiena del mio migliore amico. Vivo.

Quando seppi dell’incidente, ero così sconvolto che volevo soltanto raggiungere l’ospedale dov’era stato ricoverato; fortunatamente, la mia compagna Yasu era rimasta salda per entrambi, e mi fece calmare, aspettando il mattino dopo per avere notizie. La sua famiglia ci accolse sollevata, e ci portò a vederlo, era ancora in coma farmacologico dopo l’operazione di emergenza.

Ora era in piedi, davanti a me. Vivo.

-È bello averti ancora con noi.-

Kojiro si voltò a guardarmi, sorpreso della mia confessione; percepii Takeru affiancarmi, con un colpo di punta spinse il pallone in mano, tenendolo tra le mani, e anche lui si unì a quella dichiarazione.

-Non sarebbe mai stato lo stesso senza di te.-

Ci sorrise con gratitudine, adesso aveva il sole alle sue spalle.

I suoi occhi, anche controluce, rivelarono tristezza, la punta di un iceberg che l’uomo era bravo a nascondere.

-… dai, riprendiamo a giocare, prima che diventiate troppo melensi.-

Ridacchiammo, e Takeru riportò la palla ai piedi.

-Giusto, devi tornare in forma prima di tornare in Italia.-

Quell’affermazione incupì immediatamente il suo sguardo. Lo notai immediatamente.

-Ti hanno richiamato?-

Scosse leggermente il capo, stringendo il pugno.

-Li ho chiamati io, dicendo che ero pronto a tornare. Pare che ancora non sono sicuri di rinnovarmi il contratto …-

-Che?!-

-Non li biasimo: io stesso non sono sicuro di quanto si sia ripreso il mio corpo dall’incidente.-

-Senti dolori? Continui a prendere i farmaci?-

Scosse il capo, ma mi rivolse lo stesso sguardo che aveva da ragazzo: furioso e ansioso. Non avrebbe mai lasciato che il dolore fisico gl’impedisse di proseguire il suo sogno, era fatto così.

Gli presi una spalla con la mano, stringendola con forza.

-Andrà tutto bene: sono convinto che, anche se non torni alla Reggiana, avrai altre offerte. Sei un grande attaccante, qui lo sanno tutti. E lo sanno anche in Italia.-

Il calcio europeo, nei confronti di noi asiatici, aveva sempre avuto un atteggiamento snob, trovandoci ancora “immaturi” rispetto al loro modo di giocare. Ma con Wakabayashi ad aprirci la strada, seguito da Ozoora, pian piano i musi bianchi si sono resi conto delle capacità di noi giapponesi; Shingo, Kojiro e Tomeya erano gli esempi di come l’Italia non ci prendesse più sottogamba.

Spostai la mia mano dalla spalla al berretto di Kojiro, prendendoglielo e calcandomelo in testa, avvicinandomi alla porta sgangherata del campetto.

-Ehi, quello è mio.-

-Dai prestamelo, che sono faccia al sole.-

Il primo a farsi sotto fu Sawada, che parai tranquillamente, mandando invece il pallone a Kojiro, che lo bloccò saldamente con il piede destro.

Mi guardò, o meglio mi squadrò, con quell’aria di sfida con cui aveva sempre cercato d’intimidire il portiere avversario, e poi caricò il tiro. Non impiegò molta forza, e io lo parai senza problemi, permettendomi di sfotterlo un po’.

-Oh-ho! Sono riuscito a parare un tiro del fortissimo Hyuga! Dai che sai fare di meglio.-

Gliela rimandai senza problemi, e lui sorrise divertito, passando però la palla a Sawada, il quale iniziò una serie di scambi.

Alla fine, Kojiro caricò di nuovo il tiro, e stavolta vidi chiaramente che ci stava mettendo forza, e mi preparai a parlarlo, ginocchia piegate e mani avanti.

Il pallone fece una leggera curva, e io lo acchiappai al volo, sentendolo tentare di sgusciarmi via dalle braccia, la forza nervosa del mio capitano infusa dentro quel cuoio. Mi permisi di parlare solo quando ebbi la certezza che l’oggetto era fermo tra le mie braccia.

-Tiri come una donnetta!-

-Non puoi permetterti di dire queste cose: Yasu ha un tiro potente.-

Takeru mi ricordò la mia compagna, ed io sorrisi divertito, passandogli la palla.

-Ma a lei non puoi certo dargli della donnetta, con il carattere che ha!-

-Vedrò di dirglielo la prossima volta che la incontro.-

-Ah no, pietà!-

Ridevamo, divertiti all’idea di una delle sfuriate di quel terremoto, quando mi resi conto che eravamo solo in due a divertirci davvero; per quanto stesse sorridendo, infatti, Hyuga non era affatto dello stesso umore.

Spalle al sole, in controluce, la sua figura solitaria parve più scura dell’ombra ai suoi piedi.

Le risate calarono quasi bruscamente, era come se il tempo si fosse fermato in quei momento.

-Come sta Maki?-

Takeru ebbe più coraggio di me nel chiederglielo, con un leggero colpo passò il pallone ai piedi del nostro ex capitano, il quale la fermò semplicemente bloccandole la strada.

-Vorrei saperlo.-

Aveva un tono cupo, ma non proseguì oltre, perché caricò il piede, e stavolta lanciò una cannonata contro la porta; reagì d’istinto, e tentai di bloccarla, ma quella forza mi spinse indietro le mani, e il cuoio s’insaccò dentro la rete sgangherata dietro di me.

Recuperai, diedi la palla a Kojiro, e senza neanche passarla a Takeru, caricò nuovamente il destro.

Tiro della Tigre. Oramai mi bastava un colpo d’occhio per capire che tipo di tiro mi avrebbe fatto Hyuga.

In quel caso ero quasi sicuro che avrei fatto fatica, e probabilmente non sarei riuscito a pararla.

La bomba mi arrivò dritta in petto, e d’istinto le diedi una manata, per farla cambiare direzione, ma accidentalmente le feci colpire il palo; la palla schizzò così all’indietro, e Sawada fu costretto ad andarla a riprendere, correndo.

Mi voltai verso Kojiro, e ancora una volta ritrovai la sua rabbiosa ansia, era uno sguardo che lo aveva sempre accompagnato. Ma ora, in quel momento, era molto cupo, e non presagiva nulla di buono.

Takeru, nel frattempo, tornò con la palla tra i piedi, ma invece di farsela passare per tirare, Hyuga decise di andarsela a prendere, e tra i due iniziò una sfida di piedi; quelli di Sawada erano precisi, faceva sempre in modo di avere la palla sotto il controllo di una delle due estremità, e non aveva sempre bisogno di guardare il gioco di gambe, tenendo d’occhio il suo avversario.

I piedi di Kojiro, come all’inizio, erano impazienti, rabbiosi, e soprattutto tenaci: non avrebbero mai mollato, sarebbero riusciti a prendersi la palla ad ogni costo. Difatti, alla fine, con un colpo di punta riuscì a penetrare il “balletto” di Sawada, e si voltò verso di me, iniziando a correre, per darsi maggiore spinta.

Io tremai leggermente, come mi capitava ogni volta che doveva affrontare un suo tiro: l’emozione, dentro il mio corpo, scatenava un brivido.

Ma non era mai paura.

Era aspettativa. Il desiderio di riuscire, questa volta, a parargli una sua cannonata.

Lo vidi caricare il tiro. Raiju Shot.

Piegai le gambe il più possibile, aspettandomi il colpo, e all’impatto sentii qualcosa di simile ad uno schiocco; il bolide arrivò rasoterra, ma non mi buttai in avanti, aspettando che compisse la curva che lo faceva alzare. A quel punto, provai a gettarmi addosso, afferrandolo con le braccia, ma non mi aspettavo una curva così stretta, e il cuoio mi colpì il mento, la mia testa andò all’indietro, e il pallone fu libero d’infilarsi in rete.

Guardai la palla agitarsi ancora dentro la vecchia porta, questa addirittura slittò leggermente indietro, facendo una gran fatica a contenere quella forza. Quando alla fine, con un ultimo guizzo di vita, la palla decise di arrestarsi, mi voltai a guardare Kojiro assieme a Sawada.

 

Io e Ken, da bambini, ci eravamo giurati che saremo sempre rimasti fedeli al nostro capitano; eravamo compagni di squadra, e lo saremo continuati ad essere anche nella vita.

Lo so, suona molto come “promessa infantile”, di quelle fatte in un tramonto con Mr.Fuji come sfondo e una musica ad accompagnarci, per poi scoprire nella vita adulta che non puoi mantenere una simile promessa, perché la vita avrebbe diviso le nostre strade; ma nonostante la realtà ci abbia separato, io sono sempre stato convinto di quelle parole, e ora più che mai risuonavano dentro il mio corpo mentre vedevo il mio capitano stringere i denti e i pugni, a frenare una rabbia crescente.

Io mi limitai a fare cenno a Wakashimazu, facendomi ripassare la palla, e con altrettanta calma a la ripassai a Kojiro; la fermò con il blocco, e si voltò a guardarmi. Inizialmente sembrava che volesse uccidermi con lo sguardo, ma lentamente quella rabbia si sciolse, diventando una grande sofferenza, un dolore di cui non riusciva a liberarsi

Non avevo bisogno di fargli alcuna domanda: se voleva parlare, lo avrebbe fatto. Non sentivo neanche il bisogno di dirgli frasi tipo “andrà tutto bene”, “passerà” o “se hai bisogno, noi ci siamo”: lui sapeva che poteva contare su di me e Ken, così come noi avevamo sempre contato su di lui. La nostra amicizia era oltre un pallone a scacchi, le battaglie perse e vinte, i nostri sogni. Era diventato un legame soldi e imprescindibile.

Così Hyuga caricò di nuovo la gamba, e di nuovo tirò; Wakashimazu provò a parlarla, e fallì, trattenendola a stento tra le mani. Io me la feci rimandare, e la passai nuovamente al mio capitano. Questo tirava, il portiere provava a fermare la palla, io la riprendevo, e di nuovo la passavo.

Mentre cominciava a fare buio, quel meccanismo diventava sempre più perfetto, i gesti erano sempre più veloci, gli sguardi sempre più concentrati, i piedi più calibrati, i tiri sempre più potenti, e le mani iniziavano a capire come respingere, far cambiare traiettoria alla palla, tanto che io e Kojiro cominciammo ad inseguire la palla: Ken la respingeva contro di noi, e la stoppavamo con piedi o petto, oppure le faceva cambiare traiettoria e farle colpire palo o traversa, e noi inseguivamo la sua parabola, riportandola indietro.

Non saprei dire, però, chi di noi si stesse effettivamente divertendo. Forse la palla stessa.

Hyuga, ad un tratto, la bloccò con il piede, ed io mi permisi di osservarlo: pian piano, avevamo iniziato ad intensificare, ed ora eravamo sudati e con il respiro un po’ affannato. Vedevo le sue spalle andare su e giù, i suoi occhi fissi sulla porta, come se vedesse qualcosa in essa; qualunque cosa fosse, era ciò che lui odiava di più al mondo.

Probabilmente erano gli uomini che avevano aggredito lui e Maki.

Sapevo della violenza fatta a lei tramite Yasu, quando ci eravamo visti per andare a trovarli all’ospedale, e lei lo aveva saputo dalla signora Hyuga. Allora, come in quel momento, ero sicuro che se Kojiro li avesse ritrovati da qualche parte, li avrebbe uccisi a calci. Si, con la sola forza delle sue gambe.

Caricò il tiro, e ancora una volta fu un Raiju, ma questa volta era diverso dai precedenti: l’odio e la rabbia, pian piano, avevano dato maggiore forza ad ogni colpo, fino ad arrivare a quell’ultimo, una cannonata verso la quale Ken neanche provò a parlarla, limitandosi a scansarsi. La palla colpì la traversa, e come una cometa schizzò all’indietro, superando la metà campo, continuando a rotolare fino a quando perse tutta la sua forza, superando la rete e finendo in mezzo all’erba alta.

Restammo in silenzio a guardarla, prima che l’urlo squarciasse il cielo viola.

-…VAFFANCULO!-

Mi voltai di scatto, e vidi Hyuga curvare la schiena in avanti, i pugni nuovamente stretti, le braccia tremavano nervose, e se lo portò verso la testa, respirando, prendendo fiato mentre io e Wakashimazu, lentamente, ci avvicinavamo.

Aspettammo, come sempre, che fosse lui a prendere la parola, pazienti e al tempo stesso ansiosi. Dentro di me, infatti, avevo avvertito la paura di perdere il mio capitano.

-… non la sento da due settimane. Non so cosa fare.-

Conoscendolo, aveva chiamato più volte il ryokan.

Si ammutolì, e noi non avevamo bisogno di altre informazioni: dalla spiacevole battuta che aveva fatto a proposito della compagna di Ken, avevo percepito il cambio di umore dell’uomo, molto più intenso di quello riferito al lavoro.

V’era molta più angoscia.

-Non si fida più di me.-

-Questo sai che non è vero.-

Conoscevo Maki, ero stato presente ai loro primi incontri, e lei si era spesso rivolta a me per chiedermi consiglio. Pertanto ero sicuro che la donna non avrebbe mai perso fiducia in Kojiro, ci mettevo la mano sul fuoco.

Lui si voltò a guardarmi, rabbioso. Io rimasi calmo, avevo imparato a non temere quello sguardo di fuoco, a non temere quell’uomo.

-Allora dimmi cosa devo fare.-

-Vai da lei.-

Ricordo perfettamente quella partita, quando si conobbero: la squadra femminile di baseball contro quella di softball. Ricordo che lei mi aveva chiesto di dire a Kojiro che avrebbe giocato, con un’aria così emozionata e contenta … che fin da subito pensai “sarebbe bello se il capitano potesse fidarsi di lei”.

Maki è sempre stata impavida.

Ma ora aveva bisogno di aiuto per riuscire a superare tutto questo.

-Sai perfettamente che non dovresti essere qui, ma lì con lei.-

Lo ammetto: inizialmente, avevo avuto anch’io un debole per quella ragazza. Era bella e solare, il tipo di persona con cui poter condividere anche i dolori della vita senza che questa perdesse la voglia di andare avanti.

Ma ovviamente, un tipo come me non è proprio il massimo per una persona del genere.

Hyuga mi guardò con aria infastidita.

-Credi che non lo sappia?! Credi che mi faccia piacere stare lontano da lei in questa situazione?-

-E allora perché sei ancora qui, eh? Spiegamelo un po’.-

Quando, quel giorno che dovevamo tornare dalla nostra squadra, Kojiro scese dall’autobus, io mi sporsi a vedere, e vidi Maki arrivare di corsa, inseguendo l’autobus. Inseguito, vi rendete conto? Si è messa a correre dietro un autobus, per riuscire a salutarlo. Ve l’ho detto: era impavida.

E lo ammetto, invidiai il mio capitano.

-Spiegami perché non sei con lei a tirarla fuori dalla sua sofferenza.-

-Ci ho provato quando ero con lei, ma non riuscivo nemmeno a toccarla. L’ultima volta che l’ho abbracciata mi ha respinto, si è spaventata. Aveva paura di me, capisci?-

Mi fece quasi sorridere questa frase: da piccoli, Kojiro aveva sempre fatto paura a chiunque, ma questo lo usava come punto di forza per la nostra squadra, e anche successivamente cercava sempre d’incutere timore nei confronti di lui e delle sue capacità. Ora ne vedeva l’aspetto negativo.

-E io … io non so come comportarmi! Non sono in grado di usare le parole, come te.-

Come me?

-Io … sono un tipo pratico, devo mettere mano alle cose per farle funzionare. Ma questo … questo va oltre le mie capacità. Io … io non so come aiutare mia moglie.-

Il giorno in cui Kojiro mi annunciò che si stava per sposare, non ne rimasi affatto sorpreso: era solo una questione di tempo prima che i due compissero questo passo. Si trattava di aspettare più che altro che lui si decidesse; e tuttavia, il giorno prima delle nozze, Maki si rivolse a me, rivelandomi il suo più grande segreto.

“-Ho paura, Takeshi. E se … se non riuscissimo ad essere felici?-”

Avrei potuto farle cambiare idea, approfittarne, dirle dei miei sentimenti, ma non l’ho feci.

“-Maki, tu hai l’amore e il coraggio di arrabbiarti e litigare con Kojiro. Pertanto, qualunque cosa accada, sono sicuro che sarete in grado di andare avanti insieme.-”

Adesso avevo quella stessa occasione fra le mie mani: potevo suggerire a Kojiro di divorziare, di lasciarla perdere, potevo dirgli che era un’incapace, che non era tutto questo “grande uomo”. E avrei potuto sfruttare questa occasione per avvicinarmi a lei.

Se fossi stato quel tipo di uomo. Ma avevo fatto la promessa di restare fedele al mio capitano, e per quanto avessi amato Maki, vedevo e sapevo chiaramente che erano fatti per stare insieme.

Pertanto presi un profondo respiro prima di riprendere la parola.

-In questi casi non c’è bisogno di gesti fisici, o grande parole.

Kojiro, Maki ha bisogno della tua presenza, del sapere che ci sei lì, in quel momento, assieme a lei.

Non vuole telefonate; vuole te.-

Guardai l’uomo, e non lo vidi ancora convinto, e la cosa m’innervosii non poco, tanto che alzai la voce.

Lo ammetto, quando dissi quella frase, ebbi paura della sua possibile reazione: dopotutto, lo stavo provocando.

-Se non alzi quel grosso culo che ti ritrovi, vado io da tua moglie.

Io, non tu.-

Incrociai le braccia sul petto, e gli feci capire con lo sguardo che quelle parole non erano solo una minaccia campata per aria: sarebbero state una promessa. Dopotutto, quando dico una cosa, io la faccio.

Non saprei dirvi chi ebbe lo sguardo più sorpreso, se Kojiro o Ken, accanto a lui, ma quell’ultima frase sembrò iniziare a smuovere qualcosa dentro il mio ex capitano, e sorrisi divertito.

-Non te l’aspettavi, vero?-

Andai a riprendere la palla, lasciando che le mie parole facessero il loro lento, ma efficace effetto; il lampione poco distante mi aiutò ad individuare il cuoio a scacchi, e con i piedi lo riportai sulla terra battuta mentre sentivo i miei amici scoppiare a ridere.

Sorrisi a mia volta, camminando senza fretta, parlando ancora una volta.

-Allora, torniamo a casa? So che tua madre preparerà qualcosa di speciale per stasera.-

 

**

Una menzione speciale al personaggio Originale di Berlinene, Yasu. ^_^

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Capitolo 9
*** 8:Endometriosi ... la zia di Lei ***


8: Endometriosi … la zia di lei

 

So perfettamente che io e mia nipote abbiamo un rapporto difficile.

Negl’ultimi anni, le sue scelte di vita hanno sempre incontrato il mio disappunto: la sua carriera sportiva, il suo comportamento per quanto riguardava la questione di Hamukai Jin, il suo fidanzamento e matrimonio con Hyuga Kojiro. A tutto questo sono sempre stata contraria, o quanto meno poco propensa ad accettarlo.

Personalmente, infatti, ho sempre considerato Maki come l’erede naturale di mia madre per guidare la futura famiglia Akamine, e ho sempre cercato di educarla secondo l’idea che, il giorno in cui Akamine-sama non sarà più a questo modo, Maki dovrà essere pronta a prenderne il posto.

Perché lei è l’unica, in tutta la nostra famiglia, che ritengo degna di questo ruolo.

Essendo la seconda figlia della capofamiglia, il mio ruolo mi ha permesso di “guardare” alla mia famiglia in tutta la sua composizione, dai parenti più vicini fino a quelli di secondo grado, che possono avere parola sulla questione ereditaria; per molto tempo, fra queste persone, non ne ho trovata alcuna che potesse essere una vera guida per la famiglia.

Non si tratta solo di guidare un’importante catena di ryokan, o di fare in modo che la situazione economica della famiglia sia sempre agiata, questi pensieri li hanno avuti mio nonno e successivamente mio padre, dove sono stata io stessa vittima e pedina dei loro piani. Mi hanno spinta ad un matrimonio combinato per arricchire ulteriormente la famiglia, per non interessarsi successivamente del mio stato d’animo e fisico a proposito della mia Endometriosi.

Si, ne ho sofferto anch’io, e per anni me lo sono portata dentro in silenzio, soffrendo e patendo con l’unica consolazione dello sguardo amorevole di mia madre. Ora lei è la capofamiglia, e fortunatamente, con la menopausa, anche il dolore è diminuito. Sotto la sua guida, anche senza schemi o piani d’arricchimento, la famiglia ha prosperato.

E Maki sarebbe in grado di farlo prosperare ancora di più.

-Buongiorno zia.-

Quella mattina mia nipote Tomoko mi portò la colazione, e già questo mi lasciò perplessa: solitamente, il Giovedì, era Maki che si occupava della colazione, soprattutto per i clienti, mentre Tomoko era impegnata con la spesa.

-Come mai sei qui, Tomo-chan? non dovresti essere a fare la spesa?-

-Se ne sta occupando Satoru-san, Oba-sama. Maki sta male.-

-Cosa succede?-

È vero: sono una persona dall’atteggiamento freddo e composto. Mi è stato imposto dai miei anni come Maiko e poi come moglie, oltre che come figlia e nipote del capofamiglia Akamine. Educazione.

-Ah … sembra che le sia iniziato il ciclo, e non riesce pertanto ad alzarsi.-

Mi sembra di sentire la voce della mia domestica il giorno che non riuscii ad alzarmi dal futon, e lo macchiai di sangue; la giovane ne fu molto allarmata, tanto da andare a cercare immediatamente un medico.

Mi alzai in piedi, facendo un cenno della mano a mia nipote per farla stare in ginocchio.

-Natsuko-san è con lei?-

-Ah si, la zia è con lei …-

-La nonna?-

-Ah, anche lei è con Maki-chan … dove andate, Oba-sama?-

-Fai il giro delle colazioni.-

-Non mangiate!?-

-Va, Tomoko.-

Non mi voltai a guardare mia nipote, ma mi diressi in silenzio verso gli appartamenti privati della famiglia; lungo il corridoio, incrociai mia cognata, il volto impallidito e segnato da una sincera e profonda preoccupazione. Appena incrociò il mio sguardo, si fermò e indurì gli occhi.

-Dove state andando, Oba-sama?-

-Da mia nipote.-

-Vi prego di lasciare in pace Maki.-

Si, è vero: io ho obbligato mia nipote, uscita dall’ospedale dopo il suo terribile incidente, a riprendere a lavorare. È vero anche che ho fatto in modo che rispettasse i suoi turni di lavoro e non “oziasse” nel ryokan; ed è sempre vero che ho cercato di non farla allontanare dalla locanda neanche durante le festività Obon.

L’ho fatto perché credevo di proteggerla.

Mia nipote è stata violentata da tre uomini.

-Natsuko-san, ho solo desiderio di aiutare mia nipote.-

-Obbligandola ad alzarsi dal letto nel suo stato? No, Oba-sama. Vi prego di non avvicinarvi a lei.-

Ho sempre provato una profonda invidia verso mia cognata: conosco la bontà di mio fratello, e so che è un ottimo marito nei suoi confronti. In più ha avuto come figlia Maki, che io ho visto crescere fin da quando era una bambina.

Avrei voluto avere io una figlia così. Ma non mi è stato concesso.

Chinai il capo in segno di resa, e ritornai ai miei compiti nella locanda: aiutare a riassettare le camere, servire gli ospiti presenti, occuparmi della contabilità e della gestione delle prenotazioni.

Il tempo, per me, è variabile: può essere molto lento, quando mi trovo a guardare il mare oltre gli alberi del giardino, come può diventare estremamente veloce nel momento in cui sono immersa nel lavoro.

Colori? Si … il mondo per me è pieno di colori.

Ma io vivo in un giardino di gesso, costruito con le mie convinzioni, le mie paure e i miei desideri.

E nel mio giardino, i colori si stanno spegnendo sempre di più.

A pranzo, quando Natsuko-san era impegnata in cucina, provai ancora una volta ad andare da mia nipote Maki; riuscii a superare il corridoio questa volta e ad arrivare davanti alla stanza di mia nipote, quando incontrai mio fratello uscirne, con aria inquieta e sguardo basso.

Quando incrociò i miei occhi, lo vidi subito intristirsi.

-Scusa Moe, ma non puoi entrare.-

Non mi sorpresi nemmeno questa volta di quella richiesta.

Io non sono una buona zia da diverso tempo; probabilmente da quando Maki entrò al liceo, e decise d’iscriversi a softball, e d’inseguire il suo sogno. Se non mi sbaglio, era riuscita ad arrivare fino alla squadra olimpionica.

Ero orgogliosa di lei? Probabilmente, se non fossi stata così arrabbiata ed invidiosa di lei, lo sarei stata molto.

Ora mia nipote aveva rischiato di morire per i suoi sogni.

-Desidero solo vedere come sta.-

-Sta meglio, ma ha bisogno di riposo.-

-Pensi che io non possa darle riposo?-

-Vuoi davvero che ti risponda, Moe?-

Rimasi leggermente ferita da quelle parole, e Satoru credo lo percepì, perché prese un profondo respiro e cercò di usare un tono affabile.

-Ascolta, ti chiedo di lasciarla in pace solo per oggi. Per favore, imoto-chan.-

Sorellina.

Non ci chiamavamo più “fratellone” e “sorellina” da molti anni.

Sentirgli usare quell’appellativo mi fece stringere il cuore: cercava di essere affettuoso, ma oramai quel sentimento lo aveva giustamente dato tutto alla sua unica figlia.

Ancora una volta, chinai il capo come resa, e mi allontanai; nel corridoio, incrociai Jin Hamukai, il figlio adottivo di mia madre. Immediatamente fece un rispettoso inchino, riallacciandosi i bottoni della camicia sul colletto.

No, non corre buon sangue tra me e lui: lo considero un elemento esterno alla famiglia, ma Maki aveva convinto la capofamiglia ad adottarlo e farlo entrare nel nostro nucleo familiare. Lei aveva avuto la testardaggine e la forza di superare l’ostacolo ed ottenere questo.

-Perché sei qui?-

No, non riuscivo ad avere un tono gentile nei suoi confronti.

-Sono venuto a trovare mia zia Maki, Oba-sama.-

-In questo momento Maki ha bisogno di riposo. Ti chiedo di andartene.-

-Jin!-

Ci voltammo entrambi, alle mie spalle Satoru stava arrivando.

-Ben arrivato Jin. Vieni pure, Maki sarà contenta di vederti.-

Guardai mio fratello accogliere quel ragazzo con un sorriso e una mano sulla spalla, accompagnandolo lungo il corridoio e scomparendo dalla mia vista mentre raggiungevano la stanza di mia nipote. Quella stessa stanza che io non potevo raggiungere.

Lentamente, mi diressi verso il giardino, dove mi sedetti a guardare il mare.

Quando ero giovane, per sfuggire da tutti, andavo a passeggiare sul bagno asciuga, lasciando che il suono del mare diventasse parte di me; adesso il mio corpo mi rende difficile scendere quelle stesse scale di pietra, che una volta percorrevo senza timore.

Una volta pensai anche di morire affogando nel mare, dato che non so nuotare. Non ho mai avuto paura della morte.

Invece ero lì, seduta, a guardare il mare, pensando al mio giardino di gesso.

E pensai a Maki.

La prima volta che la conobbi aveva cinque anni; le avevano messo il kimono, e me l’avevano presentata il giorno della festa delle bambine. Aveva occhi scuri e grandi, pieni di energia e meraviglia; mi rivolse un inchino, e mi sorrise mentre mi salutava. Passai l’intero pomeriggio a guardarla, a guardare la sua famiglia, e a ripensare al mio giardino di gesso.

Tra le statue al suo interno, ho sempre conservato quella della figlia che avrei voluto avere, se il mio corpo me l’avesse permesso: sarebbe stata una bambina dal viso rotondo, con occhi grandi e un sorriso dolce, un kimono a fiori per la sua festa delle bambine, e un profondo amore per il mare.

-Moe …-

Mi voltai, uscendo dai miei pensieri, e incontrai lo sguardo affettuoso di mia madre; sbattei gli occhi, e mi resi conto che delle lacrime stavano scendendo dalle mie guance.

-Ah, madre, vi chiedo scusa.-

-Sei triste, Moe?-

Mia madre Kyoko si accomodò accanto a me, mentre scuotevo il capo: no, non ero triste. O forse lo sono sempre stata, e non sono mai riuscita a liberarmi di quella sensazione.

-Come sta Maki, madre?-

Vidi il suo volto incupirsi, le sue mani si unirono sopra le ginocchia piegate nella posizione seiza.

-Non bene. Ma combatte.-

Mia nipote ha subito violenza da tre sconosciuti, che le hanno fatto de male ed hanno ferito gravemente il suo sposo; l’hanno presa e poi buttata, lasciandola soffrire su una strada malsana di un vicolo, incuranti. Per almeno tre giorni è stata in coma farmacologico, incerta se vivere o lasciarsi andare, per poi tornare con addosso l’angoscia di quello che aveva passato.

Annuii, tornando a guardare il giardino davanti a noi.

-So che hai cercato di farle visita due volte.-

-Si, ma a quanto pare la mia presenza non le giova.-

Mia madre non mi rispose, e non sentire qualcosa come “non è vero” oppure “ti stai sbagliando”, forse mi fece soffrire molto di più dell’atteggiamento di Natsuko o Satoru.

-Anche voi lo pensate, vero madre?-

Mi voltai a guardarla, a guardare quel volto segnato dalla vecchiaia e dalla fatica, oltre che dall’ansia, in quel momento, per la sua unica nipote femmina.

-Voi pensate … che io sia ingiusta verso Maki, no? Che io mi comporti male nei suoi confronti. Tutti lo pensano, anche Tomoko, ne sono certa.-

Ho superato i cinquant’anni, non mi è più possibile tornare indietro: il mio tempo è finito molto tempo fa in maniera brusca, quando avevo poco più di vent’anni e non sarei mai in grado di cambiare il mio giardino di gesso. Le statue pesano troppo per il mio stanco corpo.

-Credete che io … debba cambiare atteggiamento? Essere più gentile con lei?-

-Dimmi una cosa, Moe: tu vuoi bene a Maki?-

Ripensai a quella bambina con il kimono azzurro coperto di fiori di ciliegio, che mi era stata presentata alla festa delle bambine. Ripensai alla ragazzina che tornava sudata dagl’allenamenti, e alla donna che si preparava per il suo matrimonio.

Maki è testarda, in certi casi rozza, facile all’istinto, veloce ad arrabbiarsi e manesca.

L’ho invidiata, delle volte mi ha delusa, ha suscitato in me rabbia, e spesso non l’ho compresa nelle sue scelte.

-… si, madre. Le voglio bene.-

-Allora non cambiare. Non saresti tu.-

Mia madre è una delle poche persone che accetta il mio modo di comportarmi; mi ha viziato, accettando il mio cieco dolore e lasciandomi trasformarlo in freddezza e distacco, permettendomi di attaccarmi in maniera ossessiva alla famiglia, al suo onore e al suo bene. E in questo modo sono diventata ciò che sono.

Restammo in giardino il resto del pomeriggio, raggiunte prima da Natsuko e poi da Tomoko; alla sera, tutti noi ci radunammo per cenare assieme, anche Hamukai era presente, ma decisi di non lamentarmene.

Quando ci ritirammo tutti a dormire, sulle prime Natsuko si era offerta di andare a controllare Maki, ma mia madre le impose di andare a riposare, che aveva avuto una “dura giornata”. Prima di andare a dormire, però, mi rivolse un’occhiata complice, che mi lasciò sorpresa.

Quando sentii che tutto era tranquillo, sgusciai via dal nostro piccolo salottino, e mi diressi per la terza volta verso la camera di Maki.

Mi sentivo nervosa, e controllai che non ci fosse nessuno né nel corridoio, né oltre l’uscio della stanza.

Aprii lentamente la porta, e mi resi conto che c’era una luce accesa, una piccola lampada lasciata accanto al futon; su questo, mia nipote aveva un’aria profondamente sofferente, il volto era sudato e i capelli scompigliati. Accanto a lei le medicine, un bicchiere e una bottiglia d’acqua.

M’inginocchiai accanto a lei, e le toccai la fronte con il dorso delle dita; era ancora calda, e mi guardai intorno, certa che ci fosse una bacinella con acqua fredda e una pezzuola. Mi allungai per prenderla, e in silenzio immersi la pezzuola, la strizzai e asciugai il volto di mia nipote.

La vidi socchiudere gli occhi, guardarmi e poi spalancare gli occhi, stupita.

-Ah … O … Oba-sama.-

-Hai preso le tue medicine?-

Negò con un lento movimento della testa, e presi le sue pastiglie: integratore di vitamina C e anti dolorifico. L’aiutai a sollevarsi quel tanto che le bastava per prendere le pastiglie e bere, rimettendola di nuovo giù, passando nuovamente la pezza sul volto.

Mi guardo con aria stupita, e ricambiai lo sguardo con altrettanto stupore.

Una scena del genere, tra noi due, non succedeva da un periodo così lungo che non ricordavamo.

Lentamente, con timidezza, una sua mano uscì fuori dal futon, e si sporse verso di me; la guardai con ansia, per un attimo pensai che se l’avessi presa, tutto il duro lavoro e i continui scontri tra me e lei non sarebbero serviti a niente, e mi sarei arresa di fronte al suo modo di fare. Poi ripensai alla bambina, al suo sorriso, alla sua fiducia in me, anche se ero un’estranea.

Presi quella mano molto delicatamente, all’inizio con solo due dita, poi con tutto il resto, e pian piano la strinsi, nonostante la mia pelle fosse fredda rispetto a quella bollente di Maki.

Mia nipote era stata violentata da tre uomini. Ora soffriva per l’Endometriosi. E mi stava soltanto chiedendo di tenerle la mano; potevo fare una cosa del genere, per una volta, no?

-Maki …-

Parlai così, senza pensarci. Le vidi gli occhi alla luce della lampada, e aumentai leggermente la presa, temendo che potesse allontanarsi.

-Se vuoi puoi arrenderti. È un tuo diritto.-

Aveva combattuto come sportiva, come ragazza e come moglie.

Ma ora era avvenuto qualcosa di davvero terribile, che l’aveva ferita come donna.

Se per una volta si fosse arresa, da parte mia non avrebbe ricevuto nessuna critica, nessun disprezzo anzi: le sarei rimasta accanto.

Mi guardò con molta sorpresa, e sembrò pensarci seriamente, tanto che le vidi gli occhi diventare lucidi.

Poi, com’era solita fare, strinse i denti e scosse la testa, anche se con molta lentezza.

-… non posso, Oba-sama. Non posso farlo.-

Annuii, continuando a tenerle la mano.

Al contrario di me, di ciò che ero stata alla sua età, Maki si amava e si rispettava profondamente: io mi ero arresa di fronte al mio capo famiglia e alla società che avevo intorno. Lei non si sarebbe arresa mai per nessuno.

Era il motivo per cui la odiavo … e le volevo così bene.

Era questo che la rendeva, a mio parere, la perfetta erede di mia madre Kyoko, come capofamiglia Akamine.

-Capisco. Allora stringi i denti, Maki. Tieni duro.-

Mi guardò con le lacrime agl’occhi, e annuì, stringendo la presa sulla mia mano.

Gliel’avrei lasciata andare, per andarmene, ma mi trattenne, guardandomi con aria supplichevole.

-Per favore … Oba-sama: fa venire Kojiro.-

Era la prima volta che mi chiedeva una cosa del genere; di solito, certa della mia risposta, faceva sempre di testa sua.

-Io … voglio mio marito … qui con me. Per favore.-

Chiuse gli occhi, ma continuò a tenermi la mano. Quando li riaprì, aveva il suo solito sguardo deciso, di chi lo avrebbe chiesto ancora e ancora, fino ad ottenere un “si” come risposta.

Presi un profondo respiro, prima di risponderle.

-Va bene Maki. Ora lo chiamo.-

Solo allora mi lasciò la mano.

Mi alzai in silenzio, e uscii dalla sua stanza senza voltarmi indietro.

Sapevo perfettamente che non avrebbe detto a nessuno della mia visita, e io non avrei rivelato a nessuno di quello che avevo fatto; invece, con calma, mi diressi verso il telefono sull’entrata del Ryokan, prendendo l’agenda sotto di esso, e componendo il numero telefonico della casa della famiglia Hyuga.

Ci misero tre squilli prima di rispondermi.

>Pronto, casa Hyuga.

-Buonasera. Sono Moe Akamine, la zia di Maki. Perdoni l’orario in cui sto chiamando, ma desidero parlare con Hyuga Kojiro.-

>Ah, buonasera, Akamine-san. Ora glielo chiamo.

-La ringrazio, Hyuga-san.-

>Pronto? Akamine-san?

-Buonasera, Hyuga-kun. Sono Oba-sama.-

>O-Oba-sama?!

-Mi scuso per l’ora tarda, ma le ho telefonato per informarla che Maki desidera che la raggiunga qui al ryokan al più presto.-

>Ah … davvero?

-Si, davvero. Se per favore può fare entro domani.-

>Ma certo, si. Parto con il primo volo.

-Molto bene. La manderò a prendere. Buona sera, Hyuga-kun.-

Chiusi la conversazione senza attendere la sua risposta, e mi accinsi a chiamare il servizio taxi, dato che Satoru meritava di riposare, dopo aver vegliato su sua figlia.

No, non sono una buona zia. Vivo in un giardino di gesso, e non uscirò da esso.

Ma per una volta, per la mia amata nipote, potevo fare un’eccezione.

 

**

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Capitolo 10
*** 9: Ritorno...il physical coach di Lui ***


9: Ritorno … il physical coach di Lui

 

-Si pronto?-

>Mazzantini-san? Sono Hyuga.

La sua telefonata arrivò allo stesso modo in cui lui era piombato nella squadra anni prima: inaspettata e irruenta, anche considerando l’ora, le sei del mattino.

Torino era grigia, ma inaspettatamente non c’erano nuvole, segno che sarebbe stata una bella giornata; probabilmente era un messaggio per avvertirmi di quello che sarebbe successo, ma le cispe negli occhi non me lo facevano vedere chiaramente.

-Oh, Hyuga, che piacere sentirti. Come stai?-

Avevo letto del suo incidente sui giornale e l'avevo sentito nelle chiacchiere all’interno dell’ambiente calcistico, dove però nessuno sapeva niente di certo, considerando anche che quel giovane uomo aveva la straordinaria capacità di mantenere una profonda riservatezza, sia su di lui che sulla sua famiglia.

La gravità della sua condizione fisica era venuta a galla solo nella riunione con gli altri membri dello staff, dove uno dei miei colleghi conosceva l'allenatore della Reggiana e gli aveva raccontato che era stata messa in discussione la sua carriera sportiva, in particolare il rinnovo del contratto con la squadra.

>Le chiedo scusa per l’orario, spero di non averla svegliata.

Effettivamente si, ma sentire la sua voce provenire dalla cornetta mi aveva creato un tale stupore che il fastidio di essere stato svegliato prima della mia sveglia era passato in un istante.

-Ma no, non preoccuparti.

Dimmi pure, di cosa hai bisogno?-

>Mi hanno telefonato dalla Reggiana: hanno confermato il mio contratto anche per il prossimo campionato.

-Oh, è splendido! Congratulazioni!-

Fu un vero sollievo ricevere quella notizia da lui stesso, avevo saputo addirittura che la sua carriera sportiva era stata compromessa con l'incidente. Ma, come sempre, quel ragazzo era riuscito a superare anche questo ostacolo e a sorprendere tutti.

>La ringrazio.

-Te lo meriti, sei un ottimo giocatore. Sono sicuro che adesso la Juve ti terrà ancora più d’occhio.-

E io potevo dirglielo con una certa sicurezza: mi era stato chiesto, prima dell’incidente, anche osservando le partite della serie C1, cosa ne pensassi di Hyuga.

La mia risposta fu che era un ottimo attaccante, e stava diventando un atleta fisicamente equilibrato, e che sarebbe stata una grave perdita se qualche altra società fosse stata più veloce di noi nell'ingaggiarlo. Tutto questo mentre mi toccavo lo stomaco e ricordavo tutte le pizze che mi aveva mandato ogni volta che faceva goal.

>Tuttavia sento di aver bisogno di un allenamento più intenso prima di tornare in campo. Lei saprebbe indicarmi un altro coach a cui rivolgermi a Reggio Emilia?

Lo ammetto: un po’ mi diede fastidio quella richiesta, ma semplicemente perché avrei tanto voluto seguirlo io, come avevo fatto inizialmente.

Hyuga, quando si allenava o giocava, era capace di passare la sua energia a chiunque, ed io stesso mi ritrovavo a sfidarlo, a metterlo costantemente alla prova, quasi incredulo di fronte alla sua intensità.

Chiunque avrebbe preso il mio posto, in quel momento, si sarebbe trovato davanti un animale, anzi una forza della natura, che si controllava a fatica.

Mi spostai dalla cucina dopo aver versato il caffè nella tazzina, dirigendomi nello studio dove avevo la mia rubrica di contatti, iniziando a sfogliarla.

-Certo, ti posso passare due-tre contatti che sono sicuro saranno entusiasti di seguirti. Te li manderò via mail, va bene?-

>La ringrazio coach.

-Figurati.-

Non sono mai riuscito a farmi dare del tu da lui; ancora adesso mi chiama sempre “coach”, e non sono sicura se lo fa per troppo rispetto o perché effettivamente si ricorda solo il mio cognome. Non mi stupirei.

Percepii una voce vicino a lui, di donna.

>Si, lo sto chiamando ora … certo, va pure. A dopo.

Sono sicuro che fosse sua moglie. Ricordo di averla vista un paio di volte assieme a lui, una donna dall’aria giovanile e atletica.

Proprio in quel momento, vidi mia moglie affacciarsi sullo studio, con aria stupita e la vestaglia addosso; la salutai con un cenno della mano, per poi sussurrarle a bassa voce la persona con cui parlavo. Sorrise, sorpresa quanto me di quella telefonata, e mi fece cenno di salutarlo per lei, dirigendosi poi verso la moka per versarsi anche lei del caffé.

>Coach, è ancora in linea?

-Certo Hyuga. C’è altro, ragazzo?-

>Ecco … avrei bisogno di un altro favore.

-Se posso aiutarti chiedi pure.-

Il tono cambiò molto, forse anche complice il piccolo scambio di battute con la compagna: anzitutto abbassò il volume, come per non farsi sentire, cosa insolita per lui. E poi non sembrava capace di formulare correttamente la frase.

>Vede … si tratta di mia moglie. Io … io voglio … no, desidero portarla in Italia con me.

-Mi sembra una cosa splendida.-

>Si, infatti. Tuttavia … ecco, vede coach …

Si sentiva che era a disagio con quello che voleva chiedermi.

>...mia moglie soffre di Endometriosi.

… ho già detto che quest’uomo è la persona più riservata che conosca, no?

Ebbene, quando mi rivelò quest’informazione, anzitutto mi venne da ribaltarmi dalla sedia, perché non me l'aspettavo proprio per niente; successivamente mi sentii in dovere di proteggerla come il più grande segreto del mondo.

Mi appoggiai molto lentamente con un braccio sul tavolo nello studio, mentre mia moglie mi portava la tazzina con il caffè che avevo momentaneamente abbandonato in cucina, evidentemente stava diventando freddo.

>So che lei … o meglio so che sua moglie è in quel campo medico… sa qui in Giappone … abbiamo difficoltà a trovare specialisti e cure valide. So però … che in Italia ci sono ricerche più approfondite … e maggiori possibilità di cura ...

Mia moglie stava per allontanarsi dopo avermi poggiato una mano sulla spalla, quando le presi velocemente il polso, guardandola dritta negli occhi. Rimase colpita, chiedendo con un cenno della testa che succedeva, e io semplicemente allentai la presa, tenendola però lì vicino a me.

>Vede, coach … io e mia moglie … abbiamo subito un grave incidente.

-Si, ne sono stato informato.-

>Immaginavo. Vede … mia moglie, dei due, è quella che ha subito i danni più gravi.

Endometriosi, incidente. Era facile intuire a cosa si riferisse, e guardai nuovamente gli occhi scuri di mia moglie, la quale la vidi preoccuparsi.

-Cosa c’è, caro?-

-… Hyuga aspetta, mia moglie è qui con me. Aspetta che te la passo.-

>Ah, va bene, grazie coach.

-È molto importante cara.-

-Va bene.

Pronto, Hyuga? Sono Anna Mazzantini. Dimmi pure.-

Presi il mio caffè e mi allontanai, leggermente scosso, guardando il paesaggio fuori dal balcone della cucina.

Ho sempre provato ammirazione nei confronti di quello sportivo, di quell’uomo; e in quel momento, sentii che quella stima cresceva.

Bevvi il mio caffè, cercando di calmare lo stato di leggera ansia che mi aveva preso nei confronti di quella scoperta; poi, dopo aver posato la tazzina nel lavandino, raggiunsi nuovamente mia moglie Anna, il cui sguardo era rimasto calmo.

-Il Centro che ti ho suggerito si trova a Roma o a Milano. Io personalmente conosco due ricercatrici che operano a Milano, e con cui posso metterti in diretto contatto.

Il direttore è una persona in gamba, ancora adesso sta proseguendo studi per nuovi test di diagnosi e nuove cure, ti puoi fidare.

Allora ti passo tutto nella mail di mio marito, va bene?

Si, è qui con me, vuoi parlarci? Certo.

Ma figurati Hyuga. Tienimi aggiornata, va bene? Per qualsiasi cosa possa servire non esitate a chiamarmi.

A presto.

Caro.-

Ripresi la cornetta prendendo un respiro profondo, e lei sorridendomi mi prese una mano, e stringemmo le nostre dita con energia.

-Hyuga?-

>Coach … io le sono molto grato. Davvero.

-Non devi ringraziarmi, ragazzo. Questa volta il merito è di Anna.-

>Non sapevo proprio a chi rivolgermi, mi scuso per il disturbo.

-Hyuga, ragazzo, tu non mi disturbi. A me fa solo piacere poterti dare una mano.

Dev’essere stato duro questo periodo, vero?-

>Si …

Da quando lo conobbi fui un testimone dei suoi progressi e delle sue battaglie. Mi sentii, pian piano, entrare dentro la sua vita sportiva; e in quel momento stavo entrando anche nella sua vita personale.

-Vuoi parlarne?-

> … ho rischiato di morire, coach.

E mi raccontò l’incidente.

Rimasi profondamente colpito non solo dall’accaduto, ma anche dal suo modo di raccontarlo: secco, onesto e ancora rabbioso, specie per quanto accadde alla moglie, di cui però mi disse solo lo stretto necessario, dimostrando come sempre la sua grande discrezione e il suo rispetto.

>Quando mi sono risvegliato, in ospedale … ne sono rimasto molto sorpreso. Ero sicuro che sarei morto, coach, lo sentivo chiaramente. Invece sono vivo.

-Sei stato molto fortunato, Hyuga.-

>Lo penso anch’io.

Ma non ne era completamente convinto, potevo percepirlo nella sua voce.

-Che succede, ragazzo?-

>… coach, nella mia vita sono sempre riuscito a sostenere la mia famiglia. Ma … ammetto di non essermi mai sentito una presenza fisica forte e sicura, come poteva essere mio padre; in quei casi c’era mia madre, ma quando ebbe un collasso per la fatica ho sentito crollarmi il mondo addosso.

-E pensi che adesso sia lo stesso?-

>No. Ma penso che, se fosse morta Maki, non avrei saputo cosa fare; ed ora che lei ha bisogno di me, a volte mi chiedo se sono davvero in grado di aiutarla, di sostenerla, quando fino a poco tempo fa l’avevo lasciata sola. Negli ultimi giorni sento che, se facessi un passo falso, potrei distruggere tutto quello che abbiamo costruito. Io … credo di essere un pessimo marito, coach.

Ah, come suonava familiare quella frase; sorrisi, appoggiando tutta la schiena sulla sedia.

-Sai, Hyuga, questo è stato il mio stesso pensiero, e delle volte lo è ancora.

Niente è più difficile e più appagante del costruire la tua vita assieme alla persona che si è scelto, poiché ti confronti nella vita di tutti i giorni.

Ci sono momenti molto difficili, specie nel tuo caso in particolare, e sono sicuro che, al posto tuo, avrei i tuoi stessi dubbi e la tua stessa angoscia. Quello che posso dirti, ragazzo, è che non sei da solo ad affrontare questo momento: tua moglie è lì, probabilmente con i tuoi stessi pensieri.-

Non lo sentii rispondere subito, ma era chiaro che ci stava pensando, e questo bastava: per uno come Hyuga, se una cosa gli entrava in testa, ci sarebbe rimasta fino a quando non l’avrebbe risolta o vissuta a pieno. E per una cosa del genere, aveva tutta la vita davanti.

Quando la Juve non gli permise di giocare, per via dei suoi “problemi” fisici, lui ci mise tutto se stesso per riuscire a superare quell’ostacolo, rivelando una tempra d’acciaio; io stesso pagai l’affitto e il trasporto della macchina per il controllo fisico e andai da lui, a Reggio Emilia, per controllare. E ce l’aveva fatta.

Come? Nella maniera più artigianale e barbara possibile: si era legato una catena nella parte del corpo da rinforzare e ci si allenava. Roba da pazzi. Ma ce l’aveva fatta.

Ed ero convinto che anche in quel caso, per quanto fosse diverso, avrebbe trovato il modo migliore per lui per riuscirci. E probabilmente sua moglie era come lui.

-Dimmi Hyuga, com’è tua moglie?-

>Hm? Maki?

-Si, che tipo di persona è? Sai, non ho avuto mai il piacere di conoscerla.-

>Lei … è molto forte, decisa: quando vuole una cosa, s’impegnerà al massimo per ottenerla.

Proprio come lui.

>Ha una grande energia, non riesce a stare ferma.

Proprio come lui.

>Delle volte è testarda, aggressiva, ma non è una persona cattiva, anzi: non conosco nessuno così onesto e fedele nei confronti degli amici e della famiglia.

Forse solo Hyuga.

-E dimmi: litigate molto?-

>Altroché! Abbiamo litigato proprio stamattina.

-Ah, e com’è andata?-

>Ah, abbiamo urlato, anche parecchio, tanto che sua zia è venuta a sgridarci, lei è una persona molto severa, ed eravamo nella locanda, disturbavamo i clienti.

Ci siamo detti di tutto, anche cose pesanti. Però alla fine ci siamo calmati.

-E dopo, com’è stato?-

>Dopo …

Lo sentii interrompersi, e presi subito la parola.

-Fidati Hyuga: se ho capito com’è fatta tua moglie, e se ti conosco abbastanza bene, sono sicuro che le cose andranno per il meglio. Abbi fiducia.-

Un raggio di sole entrò nello studio dalla finestra, e mi voltai a guardarlo, stupito, era così raro vedere una tale luce a Torino; il cielo, sopra i tetti, era azzurro terso. La giornata ideale per andare fuori e farsi quattro passi.

-Dimmi, com’è il tempo lì?-

>Ah, è sereno. Una bella giornata.

-Già, anche qui. Quasi quasi vado a fare quattro passi fuori con mia moglie.-

>… credo che seguirò il suo esempio, coach.

-Ottimo! Allora buona passeggiata, Hyuga. Ci sentiamo presto.-

>… Grazie di tutto, Alfredo.

Rimasi stupito nel sentire, per la prima volta, il mio nome pronunciato proprio da lui. Faceva … davvero uno strano effetto. Sorrisi.

-Buona giornata e buona fortuna.-

Chiusi la telefonata, fissai qualche secondo la cornetta. Poi mi alzai e diressi verso la cucina.

-Tesoro!-

-Si?-

 

**

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Capitolo 11
*** 10: Con dei mochi...la nonna di Lei ***


10: Con dei mochi … la nonna di lei.

 

Il ryokan Akamine è uno dei più antichi e appartiene a questa famiglia da diverse generazioni, ancora prima delle due guerre mondiali.

Quando entrai a lavorarvi, come cameriera, ricordo perfettamente che la prima volta che conobbi il mio futuro marito aveva addosso l’uniforme militare; quando prese in mano l’attività di famiglia quegli abiti rimasero appesi ad una delle pareti di casa, a ricordare “l’onore che aveva portato”, anche se combatté solo per l’ultimo anno.

Per me questa locanda affacciata sul mare, più di ogni altro luogo, è casa: qui vi ho lavorato, anche dopo essermi sposata, qui sono tornata a vivere dopo che mio suocero morì, allontanandomi dalla casa patronale, qui ho protetto Moe dopo che suo marito l’aveva ripudiata, qui ho visto crescere il mio raggio di sole Maki.

Lo considero un luogo sacro, e sono convinta che la dea Amaterasu, ogni tanto, venga a farci visita; una volta la vidi, quando ancora ero una giovane cameriera, pertanto credo che questo posto riesca a dare sollievo alle persone, che le conforti e dia loro fortuna.

E poi lo amo perché è vicino al mare, e dunque anche il fratello di Amaterasu, Susanoo, veglia su questo luogo, sebbene il dio non sia stato sempre gentile o misericordioso con me: mio marito è morto in mare a causa di una burrasca e mia figlia Moe ha tentato di suicidarsi buttandosi in acqua, così com’è successo qualcosa di simile a mio nipote Jin.

Il mare è sempre stato severo con la nostra famiglia.

Forse per via del nostro legame con la dea del sole, i due fratelli non vanno d’accordo tanto facilmente.

-Nonna.-

Mi voltai, mia nipote Maki mi stava raggiungendo sul portico che dava sul giardino, in mano aveva un vassoio con tè e mochi, i miei dolci preferiti.

-Ecco qua nonna.-

-Grazie raggio di sole. Kojiro?-

-Ci raggiunge fra poco, in questo momento sta telefonando in Italia.-

-Ah, ci sono buone notizie?-

-Quelli della Reggiana lo hanno contattato per confermare la data per il rinnovo del contratto.-

-Bene, bene, mi fa davvero piacere.-

Sorseggiammo il tè e guardammo il paesaggio, era davvero una bella giornata: il sole era caldo sulla faccia e il mare era pacifico, mi faceva ricordare il giorno in cui Amaterasu si presentò nella locanda.

-Che bella giornata, vero nonna?-

-Già. Mi ricorda il giorno in cui vidi Amaterasu.-

È una storia che racconto sempre ai miei nipoti, perché piace molto.

Ho insegnato a raccontare storie ai miei figli, e ancora adesso mi piace radunare la mia famiglia per delle serate attorno al tavolo a raccontare e chiacchierare, magari nelle fredde sere d’inverno.

-Ma davvero l’hai vista, nonna?-

Purtroppo nessuno mi ha mai creduto, nemmeno la mia stessa nipote. Eppure fu proprio la dea del sole ad avvertirmi del suo arrivo; io però sorrisi, facendo spallucce, oramai erano tanti i dubbi attorno al mio racconto che quasi mi divertivo nel farli crescere o smorzare.

-E chi lo sa? Sono passati tanti anni. Allora ero piccola, e magari la mia memoria mi prende in giro.-

-Però sei ancora così brava a raccontarla.-

-Perché ti piace sentirla.-

-Allora raccontamela.-

-Ancora?! La sai a memoria!-

-Che cosa?-

Mi voltai alla mia destra, mia nipote Tomoko apparve con aria curiosa, il suo kimono era più lento del solito, segno che doveva aver finito di lavare le vasche del bagno.

-Tomoko, hai il kimono lento.-

-Ah cavolo, chiedo scusa nonna.-

-Aspetta, Tomo-chan, ti aiuto io.-

Guardai Maki alzarsi e aiutare Tomoko a sistemarsi, e mi venne in mente la famiglia Akamine: ultimamente mi facevano continue pressioni sul nominare l’erede che avrebbe preso il mio posto alla mia dipartita.

Ovviamente io facevo presente che ero in perfetta salute, e che non avevo nessuna intenzione di chiamarmi la morte in anticipo con una cosa del genere. Tuttavia sapevo che, prima o poi, avrei dovuto compiere una scelta del genere, e in caso avrei dovuto scegliere fra i miei nipoti: Satoru e Moe, infatti, avevano immediatamente rifiutato di diventare capofamiglia. Il primo perché non si riteneva adatto ad un simile ruolo, e la seconda per i suoi problemi di salute.

A tal proposito …

-Maki, sei andata a fare la visita medica?-

-Certo nonna, domani arriveranno i risultati delle mie analisi.-

Io ero l’unica, tra di loro, ancora convinta che Maki non sarebbe diventata sterile.

È ovvio che venivo presa per una sognatrice, da sempre la mia famiglia mi ha sempre considerato un po’ l’elemento “strano”; ma io sapevo di non sbagliarmi, e che tutto sarebbe andato per il meglio.

-Comunque, di cosa parlavate prima? Cosa sai a memoria, Maki?-

-La storia di come nonna incontrò Amaterasu.-

-Ah, l’adoro! Ti prego, raccontacela nonna!-

-Anche tu, Tomoko?-

-Per favore!-

-Dai nonna, ti prego.-

Guardai le mie due nipoti, unite per convincermi con grandi sorrisi e occhi preganti.

In particolare guardai Maki e pensai come, nell’ultima settimana, fosse cambiata così tanto: quando era rimasta sola e suo marito era tornato dalla sua famiglia vidi mia nipote sfiorire, diventare sempre più pallida e fredda.

Temevo che sarebbe diventata come Moe, e anche lei avrebbe tentato di fare qualche sciocchezza.

Invece, quando le rimasi accanto durante il dolore del ciclo, mi prese per mano e mi guardò dritta negli occhi, dicendomi: “Ti prometto che non mi arrenderò, nonna. Io non mi arrenderò.”

Quando arrivò suo marito fu un sollievo per tutti, anche se il primo giorno i due litigarono.

Sembrò che si stessero per mettere le mani addosso mentre li ascoltavo, in silenzio, dal piccolo salottino non troppo distante dalla camera di Maki, bevendo il mio tè e mangiando i miei mochi.

-Te ne sei andato! Mi hai lasciata qui da sola!!-

-Tu non mi volevi quando io ho cercato di aiutarti! Mi hai spinto, mi hai allontanato, quasi fossi stato io a violentarti!-

-Non permetterti, non permetterti di dirmi queste cose! Ti non sai quello che ho passato!-

-E tu non sai quello che ho passato io! Io stavo morendo mentre la donna che amavo veniva violentata sotto i miei occhi! Penso che questo sia meglio?!-

-Almeno tu non rischi di rimanere sterile a vita!-

-Tu non diventerai sterile, mi hai capito?!-

-Si che lo diventerò, e poi tu mi lascerai!-

-Io non ti lascerò mai, MAI! Vuoi capirlo che ti amo, si o no? Che aspettavo da giorni quella telefonata che poi è stata tua zia a fare. TUA ZIA!-

-Non ti ho chiamato perché stavo male, e sto tutt’ora male! Lo vedi si o no?!-

-Allora lascia che io ti aiuti, maledizione! Sono tornato apposta per questo!-

-E poi scapperai alla prima occasione?-

-No, no! Io non scappo, non scappo più!-

-Allora abbracciami e dimmi che andrà tutto bene! Maledizione, non hai idea di quanto mi sei mancato!-

-Anche tu mi sei mancata, mi sei mancata da morire!!-”

Fortunatamente era stata chiusa per bene la porta che collegava alle stanze del ryokan, altrimenti sarebbe stato imbarazzante spiegare agli ospiti tutto quel rumore, le voci di Maki e suo marito erano arrivate fino in cucina, tanto che Natsuko si era preoccupata molto, ho dovuto rassicurarla e invitarla a tornare a lavorare.

Più alzavano la voce, più si toglievano di dosso la loro rabbia e il loro dolore. Più gridavano, più si davano forza a vicenda; e quando tutto fu più calmo, io ero certa che si stessero abbracciando, com’era giusto che fosse.

-Va bene, va bene, ve la racconterò.-

-Maki! Eccoti finalmente!-

Mia nuora Natsuko si presentò sul porticato con bacinella, asciugamano e forbici, guardando Maki con aria severa, quell’espressione faceva parte del suo volto fin dalla prima volta che la conobbi, e oramai non mi preoccupavo più se le sopracciglia assumevano quella piega verso il naso.

-Ti ho cercata ovunque! Non ti ricordi che dovevi tagliarti i capelli?-

-Scusami mamma, sono rimasta con la nonna, stava per raccontare la sua storia.-

-E i capelli?!-

-Tagliaglieli qui, Natsuko: sai che mi piace avere compagnia mentre bevo il tè.-

-E poi possiamo spazzare più facilmente i capelli.-

-Va bene, va bene, ma ferma con la testa.-

Mia nuora si era già inginocchiata e aveva aperto l’asciugamano, parlando con apparente fastidio; sapevo bene che anche a lei faceva piacere stare fuori dalla locanda, soprattutto in una giornata così serena.

Posò l’asciugamano sulle spalle di Maki e questa poi mostrò i capelli, oramai cominciavano ad allungarsi verso la schiena e Tomoko fece una faccia dispiaciuta, prendendone una ciocca.

-Che peccato però, stai così bene con i capelli acconciati.-

-Si, ma sai com’è scomodo occuparsene ogni giorno?-

-Solo perché sei una figlia selvaggia. Ora ferma.-

-Ahi, piano con la spazzola, mamma!-

-Sei tu che non li pettini, guarda qua che nodi! Proprio una selvaggia.-

Sorrisi divertita mentre Tomoko mi versava del tè per poi mettersi comoda accanto alla cugina, impaziente.

Io mi presi il mio tempo per bere, non bisogna mai mettere fretta ad un cantastorie, altrimenti non racconta bene, sapete?

-… dunque, avevo circa dodici anni quando entrai a lavorare a questo ryokan.

Era il 1945, la guerra sembrava non avere fine.

In quel periodo il capofamiglia Akamine, il padre di mio suocero, aveva deciso di trasformare le sue locande in rifugi per gli sfollati, anche sotto consiglio di sua moglie, una donna severa ma dal grande cuore.

Eravamo a Luglio, ancora non eravamo stati testimoni … di quella.-

...Domando scusa, ma mi è impossibile parlare di quello che accadde il 6 e 9 Agosto: il ricordo, ancora adesso, mi turba profondamente.

Presi un respiro, ascoltando il rumore delle forbici che tagliavano i capelli di Maki, e osservai Natsuko; aveva lo sguardo concentrato, attenta nel tagliare ciocca per ciocca mentre sua figlia resta in silenzio, ad ascoltare la mia lunga pausa.

-Quel giorno mi stavo occupando di lavare proprio questo porticato mentre la signora e le altre cameriere aiutavano gli sfollati, pertanto ero sola.

D’un tratto, mentre passavano la spazzola, notai una figura seduta poco distante da me, e la guardai.

Era una donna dai lunghi capelli neri e un kimono rosso fuoco. Me lo ricordo ancora, non avevo mai visto un rosso così intenso in un furisode, specie tra gli sfollati presenti nella locanda, gente povera a cui era stato tolto tutto.

Guardava verso il mare con aria preoccupata, e io gli chiesi se stesse bene, se aveva bisogno di qualcosa.

Lei si voltò a guardarmi e io rimasi abbagliata dai suoi occhi: erano brillanti, lucenti come due monete. Scosse la testa, mi disse di non preoccuparmi, e io stavo per tornare a lavoro quando mi fermò.

“Kyoko” mi disse “tu sei speciale: come questo posto, tu dai protezione e conforto.

Ricorda, un giorno sarai padrona di questi luoghi; avrai un buon marito, avrai dei figli, e tutti ti rispetteranno. Ma tu non dimenticare di onorare mio fratello, o egli ti punirà perché è molto severo, e così come può dare, così può togliere.”

Credevo che stesse parlando del capo famiglia Akamine, ma non ricordavo che lui avesse sorelle che vivessero nei paraggi; avrei voluto chiederle il nome, ma la donna si alzò in piedi, camminando scalza nel giardino.

“Ora devo andare” disse, “tra un mese due stelle scenderanno dal cielo, ma saranno fatte dagli uomini e non porteranno alcuna benedizione. Devo andare. Tu non dimenticare ciò che ho detto, Kyoko.”

Detto ciò, la donna camminò fino agli alberi e poi scomparve in una grande luce; credendo che fosse caduta corsi a vedere, a sporgermi oltre gli alberi, ma sotto di me non c’era nessuno. Solo il mare.-

Maki era, ancora una volta, colpita dal mio racconto, ma il suo sguardo era tranquillo, come se ponderasse le mie parole.

La reazione di Tomoko, invece, fu più evidente: era irrigidita, come se avesse avuto i brividi, e gli occhi erano spalancati e pieni di stupore e timore. Mi rivolse la parola emozionata.

-E poi, e poi?-

-Non sapendo che fare ripresi il mio lavoro e non dissi a nessuno del mio incontro.

Dopo la guerra incontrai tuo nonno, mio marito, e al mio matrimonio ricordai le parole della donna, quando ricevetti in dono un’immagine di Amaterasu. Aveva addosso lo stesso kimono della donna che aveva incontrato alla locanda.-

-E furono vere le sue parole?-

-Beh, tu sei qui, no?-

-Anche per quanto riguarda suo fratello, nonna?-

Alzai lo sguardo verso Maki, aveva ancora quello sguardo pensieroso mentre sua madre continuava a tagliarle i capelli, chiedendole a bassa voce di non muoversi.

Ripensai a Moe, a mio marito, a Jin, e annuii lentamente con la testa.

Come a voler riempire quel silenzio, il vento portò il rumore delle onde che s'infrangevano sulla baia sotto la locanda.

Natsuko terminò abbastanza velocemente il suo lavoro, guardando la testa di mia nipote con aria soddisfatta, togliendole le piccole ciocche di capelli rimaste dopo aver rimosso l’asciugamano dalle spalle.

-Per un po’ sei a posto. Ti piaci?-

Maki si guardò nello specchietto, e annuì con aria soddisfatta.

Io la guardai.

-Si, sei tornata ad essere il mio raggio di sole.-

Il suo corpo era magro e debole ma il suo spirito aveva deciso di non arrendersi, e stava tornando forte come prima, forse anche di più.

Pian piano, stava superando la prova di Amaterasu.

-Allora io torno al lavoro.-

-Grazie mamma.-

-Tomoko, devi andare anche tu.-

-Ah, mi sono scordata di finire di pulire! Con permesso nonna!-

-Allora vado anch’io.-

-Tu no, Maki. Aspetta.-

Mia nipote, senza obbiettare, obbedì mettendosi seduta più vicina a me. Per diverso tempo, restammo in silenzio, bevendo tè e mangiando i mochi.

Guardai il mare, ed ebbi la sensazione che Susanoo mi stesse mandando un messaggio mentre una brezza ci raggiungeva, portando quell’odore salato alle nostre narici. Oramai ero diventata brava ad ascoltare i silenziosi messaggi degli dei, e mi voltai verso mia nipote.

-Dimmi: pensi di andare in Italia con Kojiro?-

Abbassò leggermente il capo e annuì lentamente.

-Ne abbiamo parlato a lungo ieri notte, e ci è sembrata la cosa migliore: pare che ci sia un centro specializzato per la cura dell’Endometriosi in Italia, e forse, con un po’ di fortuna, riusciremo a costruirci una nuova vita insieme.-

-La fortuna è già dalla vostra parte. Quello di cui avete bisogno è di allontanarvi dal vostro passato, per cercare di creare un nuovo presente.-

E questo significava anche allontanarsi da noi, dalle loro famiglie, da tutto quello che avrebbe potuto ricordare loro i dolorosi momenti che avevano trascorso nell’ultimo mese. Non erano guariti, e restare qui avrebbe reso più difficile curarsi: avevano bisogno di parlarsi, di litigare, di abbracciarsi, di sentirsi di nuovo vicini.

-Ma torneremo a trovarvi nonna.-

-Ci mancherebbe altro! Guarda che voglio vedere il volto del mio nipotino quando arriverà...-

-Ah, nonna … io non credo che sarò in grado di rimanere incinta, dopo quanto è successo …-

Le possibilità erano praticamente zero, lo sapevo bene.

Ma Amaterasu mi aveva parlato, e io non ho mai raccontato tutta la storia al completo: stavo aspettando il giorno giusto.

-Sai, raggio di sole… quando Amaterasu mi parlò, mi disse un’altra cosa.-

-Cosa, nonna?-

Ti darò un raggio di sole, Kyoko. Dovrai insegnarle il Kintsugi; purtroppo lo imparerà con dolore, ma se riuscirà ad andare oltre il male ed a ritrovare la luce io donerò a lei un altro raggio di sole a cui insegnarlo. Così che la tua famiglia sarà sempre benedetta.”

Guardai Maki spalancare gli occhi, questa volta la sorpresa era evidente in lei; io sorrisi contenta, stavolta sicura che mia nipote mi credesse.

-Io l’ho fatto, pertanto sono sicura che la dea manterrà la sua parola.-

Le accarezzai il capo, avvertendo i corti capelli sotto le mie dita.

Lentamente vidi i suoi occhi brillare di lacrime, e questo mi stupì non poco, che avessi esagerato questa volta? Che avessi detto qualcosa di troppo?

-Nonna … ricordi in ospedale? Ricordi che ti avevo detto di averti sognato?-

-Certo tesoro.-

-Io … io ho sognato quella volta in cui tu riparasti la mia ciotola rossa. E l’avevi riparata … con il Kintsugi.-

La dea sole e il dio mare hanno sempre comunicato alla nostra famiglia in mille modi, più evidenti e più misteriosi.

Credevo di essere l’unica a percepire quei messaggi. Mi sbagliavo.

Sorrisi.

-Te l’ho detto, no? Tu sei il mio raggio di sole, Maki. Andrà tutto bene.-

Lei annuì, e io asciugai le piccole lacrime che avevano iniziate a scenderle dal volto.

-Si, nonna. Ora lo so.-

 

**

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Capitolo 12
*** 11: Con del saké...l'allenatore di Lui ***


11: Con del saké … l’allenatore di lui.

 

Invece di farmi venire a trovare da Kojiro, com'era consuetudine, quel giorno decisi di andare io a visitarlo; una cosa molto rara che fu benedetta da una forte pioggia la mattina, tanto che credevo che qualche kami dispettoso non volesse lasciarmi andare.

Ma io non mi sarei fatto fermare da quel tempo: oramai era una questione di giorni prima che il ragazzo partisse nuovamente per l’Italia, di sicuro non sarebbe tornato molto presto e dunque sarei andato a trovarlo e a vedere come stava.

Perché qui lo ammetto.

Quando venni a sapere del suo incidente sentii il gelo entrare nelle mie ossa e corsi in ospedale e quando lo vidi sdraiato su quel letto, la pelle impallidita dalla carenza di sangue, la paura di perderlo ebbe il sopravvento, e non ebbi più il coraggio di andarlo a trovare fino a quando non ebbi la certezza che sarebbe uscito dall'ospedale sulle sue gambe.

No, non è un comportamento onorevole da parte di un amico, sopratutto da colui che lo ha allenato e visto crescere. Ancora adesso me ne vergogno profondamente, ed è per questo motivo che dovevo andare io da lui, inchinarmi e scusarmi per essere stato un tale codardo.

Il pomeriggio fu più gentile, la pioggia divenne leggera e quasi sparì, pertanto raggiunsi il ryokan senza problemi; sapevo bene dove si trovava, anche perché era uno dei luoghi più rinomati di tutta Okinawa.

Ricordo che quando venni a sapere che Kojiro si era ufficialmente fidanzato con Maki Akamine pensai che avesse fatto davvero un bel colpaccio. Un sakè buono come quello del matrimonio del ragazzo penso di averlo bevuto molto raramente, così come una cerimonia del genere non capita di vederla molto spesso.

All'improvviso, mentre il corteo si stava avviando verso il tempio, un bimbo della famiglia Akamine si piazzò davanti a Kojiro e lo sfidò apertamente, affermando che se non l’avesse sconfitto lui non lo avrebbe lasciato sposare sua “sorella” Maki.

Per un attimo ho temuto che la zia della sposa morisse di colpo apoplettico mentre lo sposo si girava verso la sua sposa, e la guardai da sotto la stoffa che copriva il suo capo; alzò il volto, e gli sorrise divertita.

Mi avvicinai nervosamente all’ingresso del ryokan, mi ero messo il mio “abito migliore” sebbene non ne abbia tantissimi, eppure vedermi l’elegante giardino dell’ingresso mi fece sentire a disagio.

Mi sentivo come un uomo della plebe che andava a fare visita al Damyou.

Ad aprirmi la porta fu proprio la moglie di Kojiro.

-Ah, Kira-san! Ben arrivato!-

-La ringrazio.-

-Prego, le sue pantofole.-

La sua pelle era pallida, segno che il suo corpo stava ancora male, ma aveva un sorriso sereno, segno che il suo spirito stava bene; mi fece onestamente piacere e mi permisi di rivolgerle ulteriormente la parola.

-Allora, tutto bene? Come sta?-

-Ah, per favore, mi dia del tu. Sto bene, la ringrazio.-

-Allora tu fa altrettanto, che se no mi fai sentire ulteriormente vecchio, e io di anni ne ho anche troppi.-

Lei sorrise divertita, accompagnandomi verso una sala che dava sul giardino, e m’invitò ad accomodarmi.

Quel luogo … era davvero piacevole: l’atmosfera che si respirava era di assoluta pace, e facevo un po’ fatica ad immaginarmi Kojiro in un simile posto, conoscendo anche il suo carattere e la sua grinta; al tempo stesso pensai che un luogo del genere aveva la capacità di calmare gli animi più feroci, cosa che ora serviva a quel ragazzo.

Lo so che sono sempre stato io quello a stuzzicarlo e provocarlo per tenere accesa la sua fiamma.

So che sono stato io a ricordargli sempre che lui era una tigre, e che doveva essere feroce e sprezzante.

Lo so, sento la responsabilità di ogni mia azione sulle spalle ogni giorno, e quando avvenne l'incidente mi sentii ancora più responsabile. No, non responsabile: mi sentii in colpa.

Forse...se fosse stato un codardo come il sottoscritto...forse sarebbe sopravvissuto.

Si, ho pensato anche questo, non ne vado fiero, non c'è niente di onorevole nelle mie scelte di fronte a questa situazione.

-Eccomi, scusa l’attesa.-

-Ah, figurati.-

Non mi ero accorto che Maki si era allontanata, e quando si ripresentò mi colse impreparato.

Mi porse il vassoio, c’era una bottiglia lucida di sakè e un bicchiere pulito che la donna si apprestò a riempire.

-Kojiro mi ha consigliato di non portarti tè.-

-Beh, i miei gusti sono facili da intuire. Ti ringrazio.-

Sorseggiai il liquore. Era davvero ottimo.

Dei passi ci raggiunsero molto velocemente, e Kojiro si rivelò dietro allo Shoji.

Il mio ragazzo, in piedi, vivo, che mi guardava.

Non mi accorsi che dietro di lui una figura restava in silenzio.

-Mister Kira, ben arrivato!-

Lui come sempre prima mi salutò con un inchino e poi porse la mano, ma il mio istinto fu quello di abbracciarlo, una cosa che chiaramente lo lasciò spiazzato.

Io non me ne curai, abbracciandolo con forza e senso di colpa.

-È un piacere rivederti, ragazzo.-

Lo sentii ricambiare, e quasi mi commossi, obbligandomi a sciogliere la presa e a fare qualche passo indietro.

In quel momento notai la figura alle sue spalle, e per un attimo mi sembrò di avere un’allucinazione: era Kojiro da ragazzino, solo più chiaro di volto. Credetti che fosse un parto della mia paura, un fantasma creato per ricordarmi della mia codardia.

Tuttavia Maki fece le presentazioni, liberandomi dall'allucinazione.

-Kira-san, questo è Jin Hamukai, mio cugino.-

-Piacere, mister.-

Mi salutò molto rispettosamente, e Maki lo invitò con un cenno ad entrare, facendolo sedere accanto a lei mentre Kojiro mi spiegava il perché di quella presenza.

Io non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel volto.

-Volevo approfittare della tua presenza per presentartelo: Jin è un ottimo giocatore, bravissimo soprattutto nell’attacco. L’hai anche visto all’azione, una volta.-

Lo avevo visto? Quel giovanotto sembrava essere imbarazzato, affianco alla sposa di Kojiro che sorrideva con aria divertita, mi ricordava l'espressione che aveva scambiato con il mio ragazzo durante il loro matrimonio.

Un lampo m’illuminò il cervello, tanto che battei la mano sulla gamba dalla sorpresa.

-Per i kami! Sei il piccoletto che ha sfidato Kojiro al matrimonio!-

Lui sembrò voler sprofondare nel legno della stanza mentre gli altri due ridacchiavano.

Io non sapevo bene cosa pensare: da una parte quell' “incidente” mi faceva sorridere, ma quel volto mi faceva ricordare troppo Kojiro da ragazzo, quando era ancora il mio ragazzo e mi chiedeva aiuto per migliorarsi come calciatore.

Ma il mio corpo era invecchiato da allora, la mia pessima abitudine di bere non era mai passata, e quando il mio ragazzo venne ferito a morte mi sono rintanato nella mia casa come un codardo, non potendo accettare la possibilità che colui che per me era diventato un simbolo di forza e successo potesse...

-...Quanti anni hai, ragazzo?-

-Quattordici, mister.-

-E hai ancora quel bolide di tiro che ti ho visto fare al matrimonio?-

Alzò la testa con aria fiera, e annuì deciso.

-L’ho anche rafforzato, adesso è ancora più forte!-

-Beh, complimenti.-

Maki intervenì a sedare quel suo fiero cipiglio.

-Si, ma Jin ha il piccolo difetto di essere un po’ troppo capo branco, e di fare tutto lui.-

-Ehi, io cerco di far vincere la squadra!-

-Si, ma il gioco di squadra?-

Lui sembrò incapace di ribattere e intuii cosa stava succedendo in quel momento.

E come sempre, il mio primo istinto fu quello di scappare.

-Io sono in pensione, Kojiro.-

Non potevo. Nella mia testa rimbombava quel pensiero. Non potevo.

-Lo so mister, ma le scuole nei dintorni ti chiedono ancora consulenza, no? Sono convinto che, se lo vedessi giocare, ti verrebbe voglia di dargli una mano.-

Probabilmente era vero, ma sentivo ancora la paura sussurrarmi che non potevo.

Come potevo anche solo pensare di dire di si, dopo che ero scappato a quello che era successo a Kojiro?

Anni di insegnamenti da parte di un codardo che non aveva mai imparato a stare al mondo e alla dine si era ritrovato in un piccolo appartamento attaccato ad una bottiglia di saké.

Mi voltai di nuovo verso quel ragazzo e mi sembrò di fare un salto temporale di anni: aveva gli stessi occhi dell’uomo alla mia destra, non erano felini come quelli di Kojiro ma affamati, vogliosi di andare oltre, di superare ogni barriera che potesse impedirgli il cammino. Gli occhi di un altro pazzo impavido.

-Ti terrò d’occhio ragazzo. Vediamo se ti colgo impreparato.-

A lui parve bastare e fece un inchino di ringraziamento, accompagnando poi Maki fuori dalla stanza.

-Vi lascio soli a parlare. A dopo, Kira-san.-

La salutai con un cenno del capo. Quando chiuse la porta alle sue spalle sentii che l’atmosfera nella stanza era cambiata.

-È in gamba tua moglie.-

-Si, lo è.-

Mi voltai a guardare il mio ragazzo. Era cambiato, lo potevo vedere perfettamente: c’era un’ombra che oscurava la luce dei suoi occhi, e anche l’espressione del suo volto era più pensierosa. Anche se sembrava contento di vedermi, questo non aveva la forza di aprire il pugno che teneva appoggiato sulla gamba.

Questo mi fece sentire ancora più miserabile.

A quel punto mi girai verso di lui, e umilmente chinai la testa fino a che la fronte non toccò il pavimento.

-Kojiro, perdonami.

Io … quando ho saputo del tuo incidente sono corso a vedere come stavi, ma vederti lì … è stato insopportabile. Sono scappato, come un codardo.-

-Mister...-

-Non mi sono mai perdonato di questa mancanza, come tuo allenatore ma sopratutto come amico e come uomo. Io non posso prometterti che cambierò, oramai è tardi per me, ma prima che tu parta per l'Italia vorrei … vorrei …-

Nessuna giustificazione avrebbe potuto spiegare la mia assenza. Semplicemente, non c’ero stato.

Eppure non era la cosa che effettivamente mi feriva di più: la cosa che davvero non sarei mai riuscito a dirgli era che gli volevo bene come un figlio. Ma non avrei potuto dirgli qualcosa di così egoista, non meritava un padre come me.

Sentii il mio corpo tremare per la tensione e per il dolore, non riuscivo a tirare su la testa.

-Mister, neanche per un momento ho pensato che lei mi avesse fatto un torto. E il fatto che lei sia venuto qui al ryokan e mi stia chiedendo scusa mi fa capire, ancora una volta, che la mia fiducia è stata ben riposta.

La perdono, Mister. E la ringrazio.-

A quel punto non potei evitare di piangere. Guardai solo per un istante l'uomo davanti a me, aveva un'aria imbarazzata ma serena, e io chinai nuovamente il capo.

-Grazie, ragazzo.-

Mi ci volle qualche minuto per calmarmi, poi lentamente mi rialzai e continuai a guardare Kojiro negli occhi, sebbene il mio animo non fosse completamente rasserenato: l’uomo che avevo davanti era molto diverso da quello che era venuto a trovarmi l’ultima volta, prima dell’incidente.

Allora aveva ancora l’aria di chi stava inseguendo un sogno ad occhi aperti; adesso un peso si era posato sulle sue spalle e non riusciva a liberarsene.

-Dev’essere stato durissimo quest’ultimo periodo.-

-… sa mister, tutti me lo stanno chiedendo. E a tutti rispondo che si, è stata dura; ma ho la sensazione che sarà niente, in confronto a quello che vivrò tra poco.

Io e Maki andremo assieme in Italia.

Dovrò allenarmi al massimo per riuscire a recuperare il tempo perso, e nel frattempo Maki affronterà i suoi problemi fisici; saremo entrambi impegnati sia su noi stessi che sul nostro rapporto.

Credo … che sarà davvero tosta.-

La prima volta che Kojiro mi presentò Maki, poco prima del matrimonio, avevano sul volto la leggerezza degl’innamorati e quasi provai invidia nei suoi confronti. Sembravano davvero felici.

Durante le loro nozze li vedevo trattenere continui sorrisi, e quando Hamukai-kun l’interruppe nessun pensiero o preoccupazione era sui loro volti. Solo la voglia di divertirsi e godersi il momento.

Ora, invece, l’uomo davanti a me non aveva più quella tranquillità.

-Hai paura, Tigre?-

Mi morsi immediatamente la lingua: dopo quello che era successo avevo ancora il fegato di chiamarlo in quel modo?! Ipocrita!

Tuttavia provai piacere nel poterlo chiamare di nuovo con quel nomignolo mentre lui mi guardava stupito.

Alla fine annuì, stringendo quel pugno sopra la gamba.

-Sa, mister … ultimamente ho pensato molto a mio padre. A volte … vorrei che lui fosse qui, a darmi una mano o quanto meno un consiglio.

Mia madre dice che il suo spirito mi protegge e che è anche grazie a lui che sono sopravvissuto; ma io … io egoisticamente vorrei che fosse con me da vivo più che da morto.-

Scosse il capo e sorrise amaro.

Io mi presi un altro bicchiere di sakè, e mi resi conto che i bicchieri in ceramica erano due.

Senza starci a pensare ne versai un po’ e lo offrii a Kojiro, il quale accettò un po’ restio, non era tipo da bere liquori, e lo sorseggiò pian piano, cercando di apprezzarlo.

Io intanto cercai le parole giuste, i kami in qualche modo stavano cercando di aiutarmi di fare ammenda dei miei errori.

-Ragazzo mio ... io non sono tuo padre, ma se posso fare qualcosa per te devi solo chiedere.-

-La ringrazio mister.-

-E' giusto che tu senta il bisogno di confrontarti con tuo padre: lui, come te, si occupava della famiglia.

Delle volte rimango molto sorpreso da come tu sia riuscito a crescere in questo modo.-

-… il merito è anche suo, mister: lei mi ha sempre spronato a dare il massimo, e questo mi ha sempre aiutato.-

Questo mi lasciò senza parole, e mi voltai guardarlo sbalordito.

Lui, di rimando, mi fece un sorriso che non mi sarei mai aspettato: era...grato.

Ripensai alle scuse che gli avevo fatto prima...e mi sentii in profondo imbarazzo.

Io non sono tipo da discorsi melensi, ma in una situazione del genere, con quell’uomo che avevo visto crescere, accidenti, sentii qualcosa smuoversi nelle mie vecchie viscere, e il mio cuore batté più forte.

Quel ragazzo era stato sempre il mio orgoglio nel calcio: lo aveva cresciuto insegnandogli a non mollare, a cercare sempre di volere il massimo da se stesso, e di andare oltre i suoi limiti.

Sentire adesso quelle parole ...

-Forse, se sono vivo, è anche grazie a lei, all’avermi insegnato a non mollare. E quando lo stavo facendo, nei confronti di Maki, tutto e tutti mi hanno fatto ricordare le sue lezioni.

È vero, fisicamente non c’era. Ma questo non significa che non mi abbia aiutato.-

Sentii che mi sarei messo di nuovo a piangere, pertanto bevvi il mio saké e poi gli parlai senza riuscire a guardarlo in faccia per la commozione.

-Allora, ragazzo mio, se davvero senti che queste lezioni ti hanno aiutato, lascia che te ne dica un’altra, forse la più importante.

Sii felice.-

Il suo totale stupore mi provocò una leggera risata, e mi versai dell'altro saké per cercare di calmarla mentre lui recuperava un po’ di serietà, anche se era visibilmente imbarazzato.

-Sei vivo. Hai tua moglie accanto a te. Andrete insieme in Italia. Accidenti Kojiro io starei ballando dalla gioia al posto tuo.-

Non è un’immagine edificante di me, però era la migliore che mi veniva in mente. E, cosa più importante, stava sortendo il giusto effetto.

Lo lasciai ai suoi pensieri, dirigendomi verso il porticato fuori dalla stanza, in una mano il bicchiere e nell’altra la bottiglia di sake; mi accomodai e guardai il giardino, constatando ancora una volta che, da qualsiasi angolo si guardasse quel luogo, la sua bellezza era costante.

Costante … e immobile.

-Kira-san!-

Mi voltai, Maki stava portando fuori dei Futon, probabilmente per stenderli al sole, e ne approfittò per salutarmi. Io con nessuna agilità scesi dal porticato, abbandonando bottiglietta e bicchiere per darle una mano.

-Lascia che ti aiuti.-

-Ma no lasci, è un ospite!-

-E tu non sei ancora del tutto ristabilita. Sono vecchio, ma qualcosa ancora riesco a farla.-

Le feci l'occhiolino e lei sorrise divertita, accettando in silenzio il mio aiuto.

-Com'è andata la conversazione con Kojiro? Tutto bene?-

-Si si, ho solo pensato che il ragazzo avesse bisogno di un momento per riflettere.-

Lei non fece altre domande, limitandosi ad annuire con il capo.

Insieme stendemmo i futon sui fili, impegnandoci al massimo: lei era debole, io ero vecchio, una coppia vincente contro i terribili e morbidi materassi, che combatterono con il loro molle peso fino all'ultimo secondo, per poi abbandonarsi all'aria fresca che accarezzava il giardino.

Alla fine ci accasciammo sul porticato, sudati, sbuffando mentre vedevamo con aria soddisfatta il lavoro fatto.

-Grazie, Kira-san. Mi spiace averla fatta faticare.-

-Figurati. Tu stai bene?-

-Si grazie.-

Restammo in silenzio a prendere fiato fino a quando i nostri respiri non divennero silenziosi come l'atmosfera attorno a noi.

-...Kira-san.-

-Hm?-

Sentii Maki muoversi e mi girai, incuriosito: la vidi in posizione seiza accanto a me che mi guardava con aria decisa.

-Non ho mai avuto occasione di farlo, ma volevo ringraziarla.-

-Eh?-

Chinò il capo con un gesto antico ed elegante, e rimasi meravigliato dalla leggiadra bellezza che la donna creò con quel movimento.

-Kozo Kira-san, la ringrazio profondamente per aver cresciuto ed educato Kojiro. Se ho l'onore di essere sposata con lui è anche merito suo; avrei voluto ringraziarla al mio matrimonio, ma non abbiamo mai avuto occasione di avere un momento privato.

Inoltre...le chiedo scusa...per aver messo Kojiro in pericolo...prometto d'ora in avanti di proteggerlo con tutta me stessa.-

Sentii il suo tono mutare e farsi sofferente, vergognoso probabilmente, ma io ero di nuovo sopraffatto: mai, nella mia vita, mi ero sentito travolgere da un tale affetto nei confronti di quel ragazzo.

Scossi la testa, e lentamente mi misi anch'io in posizione seiza, e quando Maki rialzò il capo fui io a chinarmi versi di lei, con rispetto. Erano anni che non mi sentivo così.

-Maki, sono io che devo ringraziare te: il tuo incontro ha dato luce alla vita di Kojiro, la tua presenza lo rasserena. E credimi, figliola: sei stata tu a riportarlo dal mondo dei morti.

Io...sono solo un codardo…-

Strinsi i pugni e presi un profondo respiro.

-Non sono stato in grado di stargli vicino nei momenti più difficili. Come un vigliacco sono rimasto chiuso nella mia casa aspettandomi sempre cattive notizie. Ma è sopravvissuto.

Ed è sopravvissuto perché tu eri con lui.

Credimi, mia cara: voi due non vi siete mai persi.-

Rialzai il suo capo e la vidi con gli occhi pieni di commozione.

Sentimmo un rumore alle mie spalle e mi voltai con lei: Kojiro aveva recuperato bottiglietta e bicchiere e ci sta raggiungendo.

Con un cenno della mano lo invitai a sedersi accanto a sua moglie, e appena lo fece gli presi la mano e la unii a quella di lei.

-Figlioli, questo vecchio può solo dirvi che sarete felici. Ne sono più che sicuro.-

-...grazie mister.-

-Grazie, Kira-san.-

Rimanemmo in silenzio, coccolati da quell'atmosfera di pace. Poi decisi di rompere il silenzio, per la miseria non voglio essere un piagnucolone.

-Forza ora, brindiamo al vostro futuro!-

 

**

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Capitolo 13
*** 12: In Italia...Lei ***


12: In Italia...Lei

 

-Ecco qua l'ultimo scatolone.-

-Aaah, avevo detto alla nonna di non spedirmi tutto!-

La casa era praticamente immersa negli scatoloni completamente avvolti dalla plastica sigillante, il camion fuori casa stava ripartendo con un rombo che saliva dal balcone mentre Kojiro chiudeva la porta di casa.

Avevamo optato per un appartamento vicino al centro e, per il momento, preferivamo stare in affitto, in attesa che io mi stabilissi con le cure e, sopratutto, riuscissi a confermare il mio contratto con la squadra professionistica di softball di Bologna.

Al momento ero tenuta in osservazione, e di sicuro mi sarei fatta una marea di ore in panchina, ma non appena mi ero presentata alla società subito mi avevano chiesto un colloquio, sorpresi che “una giocatrice così forte” fosse tornata a giocare e, sopratutto, fosse interessata al softball oltremare.

Ammetto che mi sono imbarazzata, ma al tempo stesso ero elettrizzata di poter riprendere a giocare in ambito professionistico: dal mio incidente ero rimasta ferma quasi un anno, ma il mio corpo ancora ricordava tutto.

Il centro a Milano consigliatoci dalla signora Mazzantini si era rivelato una fonte di informazioni e speranza: le mie vecchie analisi erano state rifatte con una conoscenza maggiore del problema, e immediatamente il mio nuovo medico mi aveva fatto smettere la cura farmacologica optando invece per l'operazione chirurgica.

Non gli eravamo saltati addosso per la gioia, ma lui aveva sorriso divertito di fronte al nostro sconcerto e al successivo entusiasmo quando ci disse “sarà lunga, ma ci sono buone probabilità che lei possa guarire completamente”.

-Almeno così sei sicura che non devi più chiedere di farti mandare roba.-

Ci guardammo divertiti mentre io armeggiavo con un taglierino e la plastica, liberando l'ennesimo scatolone per valutarne il contenuto.

-Sarà infernale quando ci dovremo spostare nella nostra casa.-

-Intanto questa è la nostra casa. Un passo per volta, ok?-

Mi accarezzò la testa e sorrisi imbarazzata, annuendo mentre lui cambiava discorso, aiutandomi ad aprire lo scatolone e ad aprirlo.

-Invece, direi che è il caso di fare un po' di ripasso, che ne dici?-

-V-va bene.-

La lingua italiana si era rivelata subito ostica, e avevamo deciso che, dal momento in cui avevo messo piede sul suolo tricolore, che mio marito avrebbe cercato di parlarmi in italiano quanto più possibile per aiutarmi ad esercitarmi; la cosa si era rivelata una lama a doppio taglio, in quanto nei momenti di discussione lui passava all'italiano per impedirmi di rimbeccarlo.

Ma era solo questione di tempo e poi gliel'avrei fatta vedere!

-Allora. Cos'è questo?-

Tirò fuori una serie di tazze da una piccola scatola imbottita con stracci.

-Que...quele…-

-Quelle.-

-Quelle...sono...taza?-

-Tazze.-

-Tazze. Quelle sono tazze.-

-Brava. Fai ancora fatica con i plurali ma la frase c'era.-

-Non capisco quando vanno messe o meno le doppie.-

-Purtroppo per quello devi fare pratica. Dai, andiamo avanti.-

Man mano che svuotavamo gli scatoloni continuava a chiedermi che oggetti erano, la forma, il colore, il numero (in cui andavo fortissima) e dove andavano sistemati. Nel frattempo la credenza si era riempita di un set di tazze da the con teiera, ed ora stavamo decidendo dove sistemare le ciotole per il riso e quelle del miso.

-Che poi dove lo trovo il miso qui?!-

-C'è un centro commerciale con un supermercato che ha una sezione dedicata all'etnico, magari possiamo provare a cercare lì.-

-Ma tu vuoi ancora mangiare giapponese?-

-Se posso volentieri, anche se tu sei innamorata della pizza.-

Mi diede un pizzicotto sulla pancia e io, per rimando, gli feci il solletico.

Ridemmo come pazzi, finendo a terra con il fiato corto.

Ci guardammo negli occhi, e io mi sentii così felice.

-Ti amo. Grazie.-

-Grazie a te, Maki. Ti amo.-

Ci eravamo quasi persi, sembrava che tutto quello che c'era stato fosse andato distrutto; invece ora ci stavamo stringendo felici sul pavimento della nostra nuova casa, vivi e di nuovo insieme.

Avevamo litigato, ci eravamo urlati di tutto, ci siamo puntati il dito contro più volte, siamo finiti a piangere ma alla fine avevamo sempre bisogno di ritrovarci e abbracciarci. E sopratutto io avevo bisogno dei suoi baci e di fare l'amore con lui.

La prima volta dopo tanto tempo fu nel ryokan, dopo una sfuriata incredibile in cui ci eravamo supplicati a vicenda di non lasciarci, di non mollare, di stringere i denti e andare avanti.

Lì gliel'ho chiesto.

“Kojiro, fai l'amore con me. Ti prego.”

“...non desidero altro che te Maki.”

Mi sembrò come se stessimo facendo l'amore la prima volta, anche allora eravamo al ryokan, ed eravamo assolutamente inesperti. Non so chi rimase più sorpreso dei due nello scoprire che l'altro era vergine, ma ci guardammo negli occhi meravigliati, imbarazzati, forse anche commossi, e pian piano avevamo imparato ad esplorarci e a conoscerci.

Anni dopo, di nuovo in quella camera, fu la stessa sensazione di meraviglia nello scoprire che i nostri corpi, nonostante le ferite, non avevano perso la voglia di sentirsi, anzi; le mie mani, ogni volta che accarezzavano l'addome di mio marito come i miei baci, non sentivano schifo o disagio nel toccare la cicatrice che segnava i suoi muscoli.

Le dita del mio uomo avevano cancellato via l'orrore residuo sul mio corpo, e i suoi occhi avevano osservato ogni mio lembo di pelle con immenso sollievo.

“Maki, Maki. Sei bellissima, come sempre.”

“Kojiro, sei vivo. Sei vivo!”

Perdemmo il senso del tempo, non ci eravamo resi conto che il giorno era passato fino a quando non mi accorsi che la pelle di Kojiro era aranciata alla luce del sole, e notammo il tramonto che ci guardava; restammo sdraiati a guardare quella luce che ci abbracciava, stesi sul futon, i vestiti sparsi e la coperta a nasconderci da sguardi indiscreti.

-A che pensi?-

Sbattei gli occhi, rendendomi conto che mi ero persa fra i pensieri, Kojiro mi guardava con aria intensa.

Scossi la testa, sorridendogli.

-Mi sono ricordata della prima volta che abbiamo fatto l'amore.-

Lo vidi imbarazzarsi e si staccò all'istante, allontanandosi.

-E come mai ti è tornato in mente?!-

-Perché sono felice. Come allora.-

Lo guardai meravigliarsi e poi distogliere lo sguardo con aria apparentemente infastidita.

-Dici sempre un sacco di cose imbarazzanti.-

-Ma è la verità!-

-Si si, dai finiamo di svuotare almeno questo scatolone!-

Sorrisi divertita, e ci immergemmo di nuovo nello sistemare gli scatoloni.

Kimono, lenzuola, persino un futon matrimoniale nonostante avessimo specificato che avremmo usato un letto occidentale; posateria, vestiti e poi una scatola scura con il simbolo della famiglia inciso sopra.

-E questo?-

Lo guardai tra le mani di mio marito, sorpresa quanto lui.

-Non lo so, è la prima volta che lo vedo.-

Quando aprimmo, per prima cosa, trovammo una sacchetta di seta assieme ad una grossa busta e al pupazzetto di Kojiro con la maglia della Juventus, pulito di lavatrice e ricucito in alcuni punti, ma con la divisa e la faccia chiaramente scoloriti dall'usura.

-Guarda te, e dire che li avevo cercati come una pazza! Dev'essere stata nonna.-

-Maki…-

Alzai lo sguardo, Kojiro aveva aperto il sacchetto di stoffa; dentro, oltre a batuffoli di cotone, una piccola ciotola di riso da bambino, rosa con i fiori bianchi e venature gialle. Oro.

Spalancai gli occhi sbalordita, prendendo quella ciotola tra le mie mani, era così piccola guardandola dal vivo.

-La mia ciotola...con il Kintsugi…-

Mio marito, intanto, armeggiò con la busta grande e ne estrasse una foto, sorridendo intenerito: era la nostra foto del matrimonio dopo che Kojiro aveva accettato la sfida di Jin. Si vedeva perché il suo vestito cerimoniale era sgualcito, ma sorridevamo felici. Attorno a noi le nostre famiglie, Jin in primo piano seduto a terra con il pallone in mano e l'aria di chi era riuscito a fare una bella marachella; mia nonna, accanto, che sorrideva divertita come me mentre zia Moe sembrava, come sempre, imperturbabile...ma giurerei che, guardando la foto, si poteva notare meno severità negli occhi.

La madre e i fratelli di Kojiro accanto a lui e, lì vicino, Kozo Kira con la camicia leggermente aperta e la cravatta allentata.

-Kira-san non è proprio tipo da mettersi elegante.-

-Già, faccio fatica a riconoscerlo.-

-Dobbiamo prenderci una cornice per questa foto. Magari possiamo appenderla in salotto!-

-Certo!-

-Che altro c'è nella busta?-

Guardai mio marito sfilare delicatamente una busta piccola da quella grande, guardarla e poi passarmela.

-E' per te.-

La presi passandogli la foto del matrimonio, sulla busta bianca c'era scritto il mio nome in kanji, la calligrafia era quella di mia nonna; dentro c'erano dei fogli ripiegati ed un biglietto ocra chiaro, con poche parole sopra.

“Raggio di sole, pensa sempre alla tua felicità. Ti voglio bene. E tranquilla, sono ancora bella arzilla!”

Rimasi perplessa da quelle parole, pertanto controllai i fogli piegati.

Erano un testamento.

La sottoscritta Kyoko Akamine, matriarca della famiglia Akamine, alla luce di quanto avvenuto dell'ultima riunione di famiglia e aver a lungo ragionato sul futuro della famiglia, con questa lettera eleggo come mia erede universale Maki Akamine Hyuga.

I miei diretti discendenti, Satoru e Moe Akamine hanno volontariamente rifiutato il titolo di capofamiglia, affidando tali compito alle future generazioni.

Per ragioni totalmente personali questa mia decisione rimarrà riservata al resto della famiglia e sarà effettuata solo nel momento in cui verrà mostrata questa lettera, con la mia firma e il sigillo di famiglia, al momento della mia dipartita.

Una copia è in possesso del nostro attuale avvocato, il quale ha l'ordine specifico di non presentare tale lettera in mancanza della sua gemella, per evitare che vengano fatti falsi o copie non ufficiali.

Inoltre qui di seguito vi sono le mie ulteriori volontà...”

Mi fermai dal leggere, scossa: fino a quel momento non mi era mai passato per la testa che, effettivamente, un giorno mia nonna potesse venire a mancare.

Ma come amaramente si dice, la morte è una delle poche certezze della vita.

-Maki? Che succede?-

Alzai lo sguardo verso Kojiro e lentamente gli porsi biglietto e lettera; anche lui si fermò dal leggere dopo qualche riga, sedendosi accanto a me, ma continuò a scorrerla con gli occhi.

-Beh, c'era da aspettarselo che tua nonna stesse pensando al futuro; secondo questa lettera tuo padre e tua zia hanno già rifiutato di ereditare il posto di capofamiglia.-

-...quindi la scelta è tra me e Tomoko, le due uniche eredi femmine del ramo principale.-

-Tuttavia, tesoro, nel biglietto tua nonna ti ha detto che sta bene e che devi scegliere tu cosa fare; suppongo che questa lettera sia stata una precauzione nei confronti di chi potrebbe alzare una protesta nella famiglia.-

Diventare capofamiglia.

Fin da piccola mi era stato fatto presente di questa possibilità, ma avevo cercato nello sport il mio vero futuro, distaccandomi da cose che non sentivo mie.

Ma adesso la situazione era differente: sebbene ci fosse il contratto con la squadra non potevo più lasciare indietro le mie radici, la mia famiglia che in tutti questi mesi mi era rimasta accanto. Glielo dovevo.

-Penso...che quando sarà il momento, mi assumerò le mie responsabilità.-

Mi girai verso Kojiro, pensavo che di sicuro la cosa non gli sarebbe piaciuta; invece, con mia grande sorpresa, mi sorrise, annuendo.

-Va bene tesoro.-

-Non sei arrabbiato?-

-Perché? Dovrei?-

-Beh...significherebbe tornare in Giappone, lasciare l'Italia e…-

-Ehi, Maki.-

Mi prese il volto tra le sue grandi mani.

-Un passo per volta. Pensa alla tua felicità, come ti ha detto Akamine-san, va bene? Verrà il momento poi per pensare a quello…-

Le mani di mio marito mi tappavano in parte un orecchio, e potevo sentire il rumore del uso sangue che scorreva nelle palme. Il rumore della vita in mio marito.

Presi un respiro profondo, sollevata, e annuii lentamente mentre ricambiavo il suo sorriso.

-Bene. Ora riprendiamo la lezione.-

-Stasera mangiamo piza?-

-Pizza?...va bene.-

 

**

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Capitolo 14
*** EPILOGO: In sogno...il padre di Lui ***


EPILOGO: In sogno...il padre di Lui

 

Non sono mai stato un credente.

Il matrimonio tradizionale lo avevamo fatto sopratutto per una richiesta di Akamine-san, e personalmente non era stato un problema, anche perché io e Maki ci eravamo già sposati in comune senza grandi cerimonie; mia madre fu entusiasta quando glielo dissi e mi fece una marea di foto quando indossai il mio kimono.

Ma ammetto che quando vidi Maki con il vestito tradizionale...fui felice di quella scelta: lei era sempre stata bella, ma in quel momento mi sentii l'uomo più fortunato sulla Terra a poterla avere al mio fianco. Credo che ogni uomo debba sentirsi così quando sposa la donna che ama.

Poi la sfida di Jin fu quello che rese quel momento ancora più indimenticabile, ma riguardando ora la foto di quel giorno mi rendo conto che quello non fu davvero, per me, il momento più memorabile, bensì il San-san-kudo, lo scambio della tazza di saké.

Lì, per la prima volta, mi resi conto che stavo per condividere la mia vita con la donna al mio fianco.

Per la prima volta nella mia vita...ebbi paura di non farcela, e la guardai negli occhi, cercando in lei il coraggio di andare avanti.

Ebbi paura come poche volte nella mia vita e ripensai a mio padre, alla sua forza e la sua presenza; provai a ricordarmi come si comportava lui con mia madre, con noi, la vita di tutti i giorni quando era presente.

Quando fummo aggrediti pensai che, forse, avrei potuto rivederlo, ma che Maki avrebbe sofferto senza di me, e la cosa mi distruggeva.

Durante i mesi in cui io e mia moglie eravamo lontani andai a trovare spesso la tomba di mio padre, cercando in quel luogo risposte alle mie domande e conforto nella mia frustrazione.

E sebbene gli insegnamenti di Kozo mi avevano aiutato a non mollare, dentro di me sentivo che mi mancava il confronto che, probabilmente, avrei potuto ricevere parlando con mio padre.

Mi era mancato molto.

Tuttavia quel pensiero divenne un ricordo man mano che la vita ricominciava, per me e mia moglie: ripresi gli allenamenti, le partite, ritrovai i compagni di squadra e scoprii il piacere di condividere la casa e i momenti più intimi con lei.

Maki ricominciò ad allenarsi, e ben presto dalla panchina tornò in campo. Ero e sono fiero di lei, di come era riuscita a superare anche questo.

Quando avvenne l'operazione le tenni la mano fino a quando non entrò in sala operatoria; presenti c'erano i suoi genitori e anche Akamine-san, venuta dal Giappone per restare accanto alla nipote. In quelle ore di attesa mi capitò di parlarle del testamento e della decisione di Maki.

“Devo essere sembrata molto egoista in quello che ho fatto, Kojiro-kun.”

“No, affatto Akamine-san: si è preoccupata per la sua famiglia e per sua nipote, e giustamente ha pensato al suo futuro.

Maki ama la sua famiglia, e io la sosterrò nelle sue scelte.”

“Grazie, Kojiro. Ho sempre saputo che tu eri l'uomo giusto per il mio raggio di sole.”

“La ringrazio.

...sa, Akamine-san...a volte mi piacerebbe poter chiedere consiglio a mio padre per alcune situazioni...”

La signora mi aveva gentilmente posato una mano sulle mie, e mi aveva sorriso con la sua solita aria tranquilla e misteriosa.

“Sono convinta che tuo padre ti ascolta sempre, Kojiro-kun.”

Io annuii in silenzio, sebbene ci credessi poco alle sue parole.

Ribadisco, non credo molto a spiriti e cose del genere.
 

Maki uscì qualche ora dopo. Il dottore aveva l'aria soddisfatta, affermando che l'operazione era stato un completo successo e che, adesso, bisognava solo lasciare che il corpo e lo spirito facessero il suo dovere.

Lo spirito…

Nonostante il lavoro continuai a stare accanto a mia moglie durante il ricovero e anche dopo, al punto che, alcune volte mi allontanava esasperata affermando che ora “era guarita, e non ho bisogno dell'infermiere!”.

Ma ogni volta che lo diceva ci guardavamo sbalorditi, e ci abbracciavamo sorridendo e ridendo come degli scemi.

Finalmente era guarita, guarita da quel male che le aveva rovinato così tanti momenti felici.

Ricordo quando rimase incinta la prima volta e il dolore nei suoi occhi quando perse il bambino.

Anche quella volta ripensai a mio padre, gli chiesi mentalmente consiglio e feci di tutto per aiutare mia moglie a ritrovare la pace.

Adesso, sebbene Maki fosse guarita, nessuno dei due pensava effettivamente all'avere di nuovo un figlio, o meglio: ci pensavamo entrambi, ma avevamo paura a dirlo ad alta voce, temendo che potesse accadere di nuovo come la prima volta.

Ancora una volta, mentalmente, chiesi a mio padre cosa fare.

E una notte, mio padre mi rispose.

Parto con il dire che no, non credo ancora di poter credere a quello che mi è successo, ma il ricordo è ancora molto vivo e credo che lo rimarrà ancora per molto tempo. Poi c'è da dire che io sogno molto poco e spesso non ricordo quello che sogno, pertanto questo ha favorito il ricordare ancora cos'è successo.

Quella notte...complice il buio...Maki mi parlò.

-Kojiro, dormi?-

-No, che succede?-

La sentii muoversi e avvicinarsi a me, stringendomi.

-Oggi sono stata dal medico.-

-Si, lo so. Era per quelle ultime analisi, giusto? Che ha detto?-

-...che i focolai sono quasi tutti scomparsi, e che addirittura c'è...la possibilità per me di avere una gravidanza senza complicazioni…-

La cosa mi spiazzò completamente.

-Oh...wow...è...è fantastico amore…-

-Già…-

Eravamo profondamente in imbarazzo, e d'istinto l'abbracciai, sentendo i suoi capelli su una guancia.

-Come ti senti? Che ne pensi?-

-...non lo so...cioè, mi fa piacere...però…-

-Hai paura?-

La sua testa si mosse affermativamente, e sbuffai.

-Anch'io. Voglio dire, un figlio...con tutto quello che ci è capitato…-

-...tu lo vorresti?-

Non riuscii a immaginarmi mio figlio. Provai a pensarmi con una carrozzina, con un neonato in braccio, con quel piccolo fagotto nel seggiolone mentre gli davo da mangiare e...no, non mi ci vedevo per niente.

Però...dentro di me sentivo che l'idea mi scaldava.

-Non lo so. Credo sia una di quelle cose che non sai davvero se lo vuoi o meno.

Tu desideri un figlio, tesoro?-

-...non lo so. Però...sarei felice di averlo con te.-

Sorrisi intenerito, e la baciai. E facemmo l'amore.

La sentii addormentarsi per prima, ma io nell'oscurità continuai a pensare, a cercare di immaginare la vita in tre, e in quel buio non riuscii a vedere niente, solo tanta confusione e preoccupazione: le spese per il neonato, il tempo da dedicargli, poi cresce, la scuola, la sua vita. Sarei mai stato capace di insegnargli a vivere? Sarei mai stato capace...di essere un padre?

-Fa paura, vero?-

Sentii questa voce e mi guardai attorno, ma era ancora tutto maledettamente buio.

Maki dormiva al mio fianco e oltretutto quella era una voce maschile, pertanto fui certo che non provenisse da lei, ma nemmeno per un istante pensai che fosse strano sentire una voce maschile in casa mia.

Invece gli risposi.

-Molto. E' un enorme responsabilità.-

-Già: insegnargli a comportarsi bene, a fargli capire cos'è giusto o no, ma lasciarlo anche libero di esprimersi, di essere se stesso. E poi vederlo un giorno andare via e proseguire da solo.-

-E poi Maki è appena guarita, non me la sento di chiederle una cosa così pericolosa per la sua salute.-

-Ma è guarita, no? Il dottore ha detto che non c'è più pericolo.-

-Si, è vero. Però…-

-Ti blocca il ricordo dell'incidente?-

Nella semi-coscienza avevo “assistito” a quello che era successo e, ogni tanto, il ricordo di quel momento tornava ancora e mi paralizzava. Sebbene Maki continui, ancora adesso, a dirmi che oramai era nel passato, e che adesso il nostro futuro era assieme, non potevo non essere in pensiero per quello che poteva provare o soffrire il suo corpo.

-Per primo sarà proprio il suo corpo ad occuparsi del bambino, e con tutto quello che è successo…-

-Devi fidarti di lei, Kojiro.-

Sentir chiamare il mio nome da quella voce mi fece uno strano effetto, tanto che mi misi seduto in quell'oscurità, a cercare il volto a cui apparteneva quella voce, ma ovviamente non vidi niente.

-Devi fidarti come hai sempre fatto. Dopotutto è proprio perché ti sei fidato che l'hai lasciata andare, per poi tornare da lei, no? Fidandoti di lei avete discusso, litigato, direi praticamente urlato di tutto, per poi ritrovarvi, giusto?

Adesso, più che mai, devi fidarti di lei.-

Mentre parlava ripensavo a tutto quello che era successo, e ad ogni ricordo vedevo il viso di mia moglie in ogni suo carattere, dal sofferente al triste, all'arrabbiato al deluso, al depresso al deciso, allo speranzoso al timido, imbarazzato, felice. Felice.

Quando vidi il suo sorriso, un sottile raggio di luce iniziò ad illuminare quel buio, ma io non ero ancora sicuro.

-Non so come si fa il padre.-

-Nessuno lo sa all'inizio. Potranno darti tutti i consigli del mondo, ma solo lui sarà in grado di insegnarti cosa fare. E poi sei tu a decidere cosa è davvero importante da insegnare a tuo figlio.-

La luce si fece un po' più forte, era proprio come se, in quella stanza, stesse sorgendo l'alba.

-Come fai ad essere sicuro che sarà un bambino?-

-Se Maki è per te è luminosa come il sole, da quel che vedo, tuo figlio può essere solo Haru. (n.d.a. oltre a “primavera”, significa “luce del sole”)

Dopotutto ho avuto la fortuna di avere quattro figli, sarò diventato bravo in questo, no?-

A quel punto mi girai a guardare alla mia sinistra, e vidi un uomo di mezza età che mi sorrideva; lo stesso sorriso che avevo visto in foto e che avevo conservato a stento nei miei ricordi.

Quel sorriso si spense mentre continuava a parlarmi.

-Mi dispiace non esserti stato vicino fisicamente quando avevi bisogno, ma voglio che tu sappia che non ti ho mai lasciato solo.-

La sua mano si posò sui miei capelli, e a quel punto non potei trattenere delle lacrime di commozione.

-Che fai, piangi?-

-...è questa luce...è molto forte.-

-Già. Beh, dopotutto è tuo figlio, di sicuro sarà un bambino forte.-

-...papà..-

L'uomo si voltò a guardarmi.

Sai come succede in questi casi, no? Si hanno tante cose da dire nella testa, ma nessuna sembra avere senso quando sei lì, nel momento.

Pertanto strinsi i denti.

-Grazie.-

Lui mi sorrise, e la sua mano pian piano lasciò andare i miei capelli mentre mi parlava un'ultima volta.

-Sarai un ottimo padre, ne sono sicuro.

Dai, su. Va a prendere tuo figlio.-

Io annuii, alzandomi in piedi e andando verso la luce, dove vidi chiaramente la sagoma di un bambino che iniziò a corrermi incontro.

-Kojiro?-

Aprii gli occhi, lentamente, sopra di me Maki mi guardava con aria turbata.

-Kojiro, che succede? Hai avuto un incubo?-

Sentii qualcosa sugli occhi e mi passai una mano. Avevo ancora le lacrime.

Guardai di nuovo mia moglie e scossi la testa, sorridendole.

-No, è stato un bel sogno.

Sai una cosa, Maki?-

-Cosa?-

-...mi piacerebbe avere un figlio con te. Potremmo chiamarlo Haru, che ne dici?-

Spalancò gli occhi sbalordita, e poi delle piccole lacrime spuntarono assieme ad un sorriso felice.

-Haru...è un nome bellissimo.-

 

 

(Finalmenteee, dopo un tempo imbarazzante di pausa finalmente finisco anche questo lavoro.

Ringrazio tutte coloro che non hanno perso la speranza o che si sono unite alla fine alla lettura.

Un ringraziamento particolare a Melanto che mi ha sgridato per bene, spingendomi a finir di scrivere questa storia.

Questa “What if?” avrà poi altri sviluppi per quanto riguarda gli altri personaggi coinvolti (per esempio che fine fa Genzo), ma ci sarà ancora un po' da aspettare.

Grazie ancora a tutti quanti, ALLA PROSSIMA!)

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