Going Under

di Aries K
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo Capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo Capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto capitolo ***
Capitolo 5: *** Quinto capitolo ***
Capitolo 6: *** Sesto Capitolo ***
Capitolo 7: *** Settimo Capitolo ***
Capitolo 8: *** Ottavo Capitolo ***
Capitolo 9: *** Nono capitolo ***
Capitolo 10: *** Decimo Capitolo ***
Capitolo 11: *** Dodicesimo Capitolo ***
Capitolo 12: *** Undicesimo Capitolo ***
Capitolo 13: *** Tredicesimo Capitolo ***
Capitolo 14: *** Quattordicesimo Capitolo ***
Capitolo 15: *** Quindicesimo Capitolo ***
Capitolo 16: *** Sedicesimo Capitolo ***
Capitolo 17: *** Diciassettesimo Capitolo ***
Capitolo 18: *** Diciottesimo Capitolo ***
Capitolo 19: *** Diciannovesimo Capitolo ***
Capitolo 20: *** Ventesimo Capitolo ***
Capitolo 21: *** Ventunesimo Capitolo ***
Capitolo 22: *** Ventiduesimo Capitolo ***
Capitolo 23: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Primo Capitolo ***


Salve a tutti! Prima di lasciarvi al primo capitolo della mia originale, mi sento in dovere di dirvi due cosucce importanti e poi lasciarvi in pace. Dunque, questa storia nacque nella mia mente più o meno sette anni fa, quando avevo quindici/sedici anni. Erano i primi tempi che mi avvicinavo al genere urban fantasy, e questo è la prima storia lunga che ho portato al termine (senza contare una che scrissi da piccolissima, ecco) ed è inutile dirvi quanto io ci tenga e quanto io ci sia affezionata. Rileggedo i primi capitoli e confrontandoli con gli ultimi devo ammettere di aver subìto un evidente cambiamento nello stile -sempre riconoscibile, ma decisamente più maturo- nonostante questo spero che la storia possa piacervi e tenervi compagnia. Proprio come questa ha fatto con me lungo tutti questi anni prima della scritta "fine". Aggiornerò una volta a settimana, salvo imprevisi, impegni e così via.
Grazie per l'attenzione e...buona lettura.






Primo Capitolo



“Sto cadendo per sempre ho bisogno di fermare tutto sto andando giù
oscurando e mescolando la verità e le bugie
così non so cosa è vero e cosa no confondendo sempre i miei pensieri
così non posso avere fiducia ancora in me stessa.”


Going Under- Evanescence







Nella penisola della Gran Bretagna, oltre a delle perpetue nubi ed oltre a delle scroscianti ondate di pioggia, c’era la città di Londra. La popolare Londra, rifugio di mille persone era per me la città di nascita. Fu da quella città priva di significato e perennemente ombrosa che i miei morirono lasciandomi allo sbando in casa di mia nonna, ormai ultrasessantenne, e unica parente che avevo. Questo insignificante dettaglio non sfuggì alla legge, essendo minorenne, dovevo per forza alloggiare in qualche posto pronta ad essere tutelata da qualcuno. Per questo il martedì dell’anno del mio sedicesimo compleanno dovetti abbandonare tutto ciò che avevo e recarmi nel prestigioso, e alquanto terrificante, collegio del nord di Londra. Avevo indossato un maglione a collo alto bianco abbinato a dei jeans sbiaditi, e viaggiavo nell’auto della signorina Williams, una donna piuttosto spigliata e professionale. Sembrava veramente aver preso a cuore la mia situazione; in fondo, sfido chiunque abbia un briciolo di sensibilità ad essere indifferente alla mia struggente storia. Mentre viaggiavamo fissavo il mio bagagliaio ripensando all’ultima volta che ero stata davvero con i miei. Fu come gettare uno sguardo sulla vita di una sconosciuta, non riuscendo ad afferrare frammenti di felicità e condivisione tipici di una famiglia serena. Non che la mia non lo fosse, ma, i miei genitori erano persone alquanto distratte, alquanto…assenti. Spesso si allontanavano per giorni incalcolabili per poi tornare come se nulla fosse, schivi e con i volti tirati. Impiegavano tanto tempo, poi, per ristabilire un atteggiamento normale, rilassato. Credo che nella nostra famiglia ci fosse un tacito accordo, una regola sociale non scritta che vigeva di non accennar a quelle assenze a dir poco incomprensibili. Non mi stava bene, affatto, ma era anche vero che il mio atteggiamento si modellava a quello di mia nonna, così imitavo il suo placido e apparente stato di accettazione.
Dei miei, a parte quei spaccati di vita non pienamente vissuti assieme, custodivo una foto di mia madre.
Mi somigliava molto, tant’è che le persone non mancavano mai di farmelo notare. Gli stessi occhi verdi con qualche chiazza di giallo, lo stesso colorito pallido, le stesse labbra rosee. Le mie però erano più grandi. L’immagine di mio padre che conservavo dentro di me cominciava a sbiadirsi poco a poco. Era un uomo distinto e ricordo con amarezza quanto fosse raro vederlo con il sorriso stampato sul volto. Lui mi concedeva ben poche carezze, ma tante raccomandazioni per il mio futuro.
I miei pensieri cessarono di colpo quando vidi la signorina Williams fissarmi dallo specchietto retrovisore.
-“Non avere quello sguardo triste, Emily. Comprendo che non dev’essere facile per te, né il massimo della gioia per una ragazza della tua età entrare in un collegio, ma è così che deve andare”, mi disse, con uno strano tremore nella voce. Guardai i suoi occhi color ghiaccio lucidarsi. Scossi la testa, piano.
-“Lo so, è quello che avrebbero voluto i miei genitori. Questa scelta sarebbe stata condivisa anche da loro”, risposi stringendomi nelle spalle, cercando di immaginare i loro volti.
La Williams sorrise ed entrò in un enorme cancello arrugginito, addentrandoci in un vialetto circondato dal verde. Il giardino che costeggiava il cortile su cui stavamo viaggiando era chiaramente curato, lo si poteva notare dalla tosatura al limite del maniacale dei cespugli e dall’assenza di foglie cadute. Anche i numerosi alberi che sfilavano rapidamente oltre i finestrini sembravano voler imitare quella perfezione tanto ricercata. Quando mi voltai in avanti vidi la struttura del collegio più reclamato da quel groviglio urbano chiamato Londra. Era gigantesco, scuro, cupo, terrorizzante ed estremamente riluttante. La sola idea di dover mettere piede lì dentro e di rimanerci per molto, molto tempo mi stava facendo rabbrividire. Le finestre erano grandi ma non mi sarei sorpresa di vederci qualche sbarra in stile carcere. L’enorme palazzo aveva di positivo che si affacciava sul bel giardino; in fondo non bisogna giudicare qualcosa solo dall’esterno, no?
La signorina Williams scese dalla macchina e mi invitò a seguirla. Con un groppone in gola che proprio non voleva saperne di sciogliersi, afferrai la mia valigia con un gesto incerto, sforzandomi di dire addio alla mia vita passata.
Girai intorno all’auto e finii di fianco alla Williams che era molto più alta di me e per qualche secondo mi sentii protetta avvolta dal suo chilometrico braccio. -“Ed ecco che siamo arrivate”, annunciò. Sembrava più agitata di me. Ci trascinammo verso il grande portone mentre i nostri passi facevano da marcia. Questo posto è davvero troppo silenzioso, pensai crollando nello sconforto.
Non dovemmo attendere molto dopo che la Williams bussò, perché la porta si aprì quasi immediatamente e davanti a noi comparve una donna possente, alta e dallo sguardo così glaciale che ebbi l’impressione di essere appena stata attraversata da una cortina di brina.
Indossava un lungo e ampio abito celeste, con le maniche a sbuffo che le donavano un’aria tragicamente teatrale, oltre che camuffare qualsiasi indizio potesse rilevare la sua età.
I lucidi capelli neri erano acconciati in uno chignon impeccabile; non appena vide la donna accanto a me il suo volto si squarciò in un sorriso.
-”Oh, Rebecca Williams. Quale onore?”, disse, e i suoi lineamenti delicati sembrarono improvvisamente tesi nel parlare, come se fosse controllata. Ergo, come se fosse progettata per la perfezione. Ed era proprio ciò che detestavo dei collegi. Questa ossessione di essere perfetti, impeccabili. Poi, come se si fosse ricordata in quel momento del perché della visita mi guardò, anzi, mi squadrò da capo a piedi. Mi sentii fortemente a disagio.
-”Emily Collins.”
Non seppi di preciso se fosse una domanda o una affermazione, nel dubbio annuii deglutendo. La Williams mi diede una leggera pacca di incoraggiamento sulla spalla.
-”Io sono Miss Delacour, e sono la preside di questo istituto. Sei la benvenuta e spero ti troverai bene qui durante la tua permanenza”, mi disse tendendo la mano e, non appena gliela strinsi, mi passò un brivido lungo la schiena. La sua stretta era di un freddo inspiegabile e per quanto fosse cupa Londra quel giorno c’era addirittura uno spiraglio di sole. Sembrava come afferrare del marmo o del ghiaccio.
Non appena lasciai cadere la mia mano dalla sua, questa ci fece un garbato cenno per invitarci ad entrare e -per fortuna, constatai- l’interno era più presentabile dell‘esterno: il primo dettaglio che mi saltò agli occhi fu la lunga scalinata che si estendeva per bene quattro piano, in un secondo momento delle grandi porte chiuse, il tutto, confinato in un enorme atrio con un tappeto rosso fuoco ad abbellire il tutto. O perlomeno ad alleggerire il clima lugubre.
Sulle pareti grigie c’erano pochi quadri, tutti raffiguravano qualche avvenimento storico di cui non riuscivo ad affiancare delle date. Mentre la preside e la Williams parlavano della mia permanenza nel collegio, decisi di farmi un breve giretto là attorno tanto per cominciare a farmi un’idea su quella che sarebbe stata la mia casa. Quando mi affiancai alla lunga scalinata, udii dei scricchiolii provenire dal piano superiore accompagnati da alcuni insoliti risolini. Mi affacciai allungando il collo verso l’alto e nello stesso momento fecero capolino tre ragazze.
-“Tu devi essere la ragazza nuova. Giusto?”, squittì una biondina sporgendosi.
-“Si. Sono io, Emily Collins”, risposi senza troppa enfasi.
-“Ma che bel maglione”, aggiunse poi, ridacchiando. Le altre due ragazze si unirono a lei.
-“Cosa ha che non va il mio maglione?”, sbottai innervosita tirandomi un lembo, -“ e tu? Pensi di essere vestita meglio?”, la incalzai con un tono ancora irritato. Stavolta rise di gola e poi, alzandosi dallo scalino, fece un giro su se stessa.
-“Questa, cara Emily, è la divisa del collegio. Per tua informazione la dovrai indossare anche tu”, mi informò. E ad un tratto impallidii. La divisa era lunga fino alle ginocchia, rigida, grigia, senza ombra di colore, fatta eccezione per la camicetta bianca che fuoriusciva dal pullover.
-“Non cominciare a spaventarla Camille”, s’intromise una voce con un pizzico di sarcasmo alle mie spalle. Mi voltai: era una ragazza dai capelli color caramello, legati in una coda alta, alcuni ciuffi ribelli le cadevano sulle guance rosee e i suoi occhi,-quasi dello stesso colore dei capelli-, sembravano... tristi.
-“Tu devi essere la nuova arrivata. Piacere io sono Jamie”, mi strinse la mano con forza e me la lasciò subito per reggere i libri che aveva schiacciati al petto. Tra le quattro ragazze che erano nel mio campo visivo lei, Jamie, era l’unica che aveva un certo portamento.
-“Voi! Cos’è tutta questa confusione? Tornate nelle vostre stanze, subito!”, urlò la Delacour facendo sobbalzare le ragazze sulla scalinata, che non se lo fecero ripetere due volte.
-“Ad ogni modo, è stato aggiunto un letto proprio accanto al mio, e dev’essere senza ombra di dubbio il tuo. Ci vediamo al secondo piano, Emily”, mi sussurrò Jamie come per rassicurarmi e subito seguì le altre che erano si erano già materializzate al primo piano. Notai che la Delacour prediligeva un certo clima di terrore. Come pecore, infatti, al richiamo del pastore, le ragazze si erano eclissate.
I tacchi appuntiti della Williams che si avvicinavano mi costrinsero a voltarmi; senza aver avuto il tempo di vedere le sue braccia viaggiare verso di me, mi ritrovai stretta in un abbraccio.
-“Stammi bene, Emily.” Nella sua voce c’era una strana sfumatura che non riuscii a decifrare ed ebbi come l’impressione che i suoi occhi volessero dirmi qualcosa.
-“Non si preoccupi. Me la caverò”, contraccambiai abbozzando un sorriso.
Lei annuì per poi darmi le spalle di colpo; attraversò la distanza che la separava dall’uscita e sparì, senza nemmeno degnare di uno sguardo la preside.
Non appena la grande porta si richiuse, avvertii abbattersi un senso di solitudine: sapevo che chiudendo quella porta si sarebbe chiuso anche il mio passato, e sospirando dovetti ammettere a me stessa che in un certo senso la mia vita era giunta davvero in basso. Mi guardai di nuovo intorno chiedendomi se mai mi sarei abituata a tutto questo. Troppo grigio e nero, troppo silenzio, troppa autorità. Istintivamente mi venne da guardare la Delacour che pareva mi stesse studiando come per fare delle valutazioni.
-“Signorina Collins”, ruppe il silenzio avvicinandosi con calcolata lentezza,-“Vado a prendere la divisa che dovrai indossare, una volta presa potrai andarti a cambiare e a disfare le tue valigie nel dormitorio.”
Quelle parole mi fecero stringere il cuore. La divisa. Oddio. Annuii e mi trascinai sul divano color prugna. Mi accomodai appoggiando la testa sullo schienale seguendo con gli occhi l’intreccio delle scale.
Cercai di reprimere una parte di me che, furibonda, non aveva intenzione di affiancare la parola “casa” a quel collegio sinistro.
Dopo nemmeno un minuto la Delacour a passi felpati si diresse verso di me con ciò che doveva consegnarmi. Scattai sull’attenti e porsi le mani in avanti, lei fece lo stesso e mi fissò. Anche io la guardai cercando di decifrare il suo sguardo enigmatico. Con tutta la buona volontà io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
-“Tutto bene, signorina Collins?”, mi chiese, infine. Ma più che una domanda mi sembrava un ordine. Annuii e distolsi gli occhi dai suoi cercando di formulare qualcosa di sensato.
-“Benissimo, sono solo molto stanca”, mentii per metà. In realtà ero stanca ma non così tanto da poter giustificare lo stato di ipnosi in sembravo caduta. Forse perché era incredibilmente e disumanamente bella, a guardarla bene. La preside sorrise e, incredula dal fatto che lo sapesse fare, sentii i miei nervi leggermente più rilassati. Una volta per tutte afferrai la divisa, scrutandola nei suoi ricami invisibili.
-“Se solo ci fosse qualcosa di colorato...”, bofonchiai tra me.
-“E’ severamente vietato ornarla o modificarla signorina Collins”, mi puntualizzò la preside, che mi aveva ascoltata. Se non fosse stato per la sua voce naturalmente greve direi che avesse pronunciato il mio cognome con disprezzo.
-“Non ne avevo intenzione”, risposi sorridendo. Oh, si che ne avevo intenzione. Lei sospirò.
-“Certo. Ora raggiungi le altre in camera, al secondo piano dove ti abbiamo aggiunto un letto, e preparati in fretta: tra poco sarà pronta la cena e non si accettano ritardi o scuse dell’ultimo momento. Comincerai a capire pian piano che in questo collegio ci sono delle regole e degli orari da seguire e rispettare quotidianamente.”
-“D’accordo”, assentii cercando di mostrarmi il più predisposta possibile.
Mentre con una mano tenevo l’indumento con l’altra caricai la valigia e mi diressi verso le scale. Non appena ne salii due provocai degli scricchiolii degni di un film horror.
-”Mamma mia...”, mormorai arrivata al primo piano.
Un panorama di porte chiuse si presentò dinanzi i miei occhi sempre più delusi, con le maniglie arrugginite che sfilavano fino a sparire dalla mia vista verso un corridoio buio e apparentemente molto lungo. Con buone probabilità seguire quel sentiero tenebroso e silenzioso mi avrebbe condotta dall’altro lato del convitto ma –sapete una cosa?- non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello ispezionarlo. Così continuai la mia scalata verso il secondo piano. Una volta arrivata, ad attendermi, non trovai uno scenario differente da quello che mi ero appena lasciata alle spalle; tutt’altro: lunghe porte chiuse si diradavano in due file opposte e, proprio un attimo prima di cadere vittima di un attacco di panico nel vedere tutto rigorosamente uguale, una porta sulla destra si dischiuse e fece capolino Jamie.
Lasciai andare un sospiro di gratitudine nell’istante in cui la ragazza, raggiante, spalancò la porta.
-“Eccoti finalmente, Miss Delacour ti aveva presa in ostaggio? Entra.”
Già adoravo quella ragazza.
-“Non sarà il massimo ma ti ci abituerai”, premise e mi sembrò di sprofondare in un incubo ancora peggiore. Nella stanza c’erano nove letti tra cui la biondina presuntuosa di prima, le sue accompagnatrici di presunzione, e altre ragazze che sembravano, di primo impatto, piuttosto amichevoli.
Jamie rimaneva comunque la mia preferita.
-“Oh, ecco la novellina. Vedo che anche tu hai una divisa.” Camille, la bionda, stava per procurarsi un posto d’onore nella mia lista nera. Lanciai un’occhiata di esasperazione a Jamie, che a sua volta alzò gli occhi al cielo e la ignorò. Feci lo stesso. Credevo di aver già capito il soggetto. In brevissimo tempo la mia “guida” mi fece fare il giro della stanza presentandomi a tutte, e ognuna di loro sembrava non vedesse un viso nuovo da tanto tempo. E forse avevo ragione nel pensarlo. Naturalmente, essendomi presentata a tutte, per educazione dovevo riservare qualche dose di energia e pazienza anche a Camille.
-”Emily Collins, anche se lo sai. Piacere di conoscerti”, farfugliai offrendole la mano.
-“Camille Leeighton.”, rispose svogliatamente e anziché stringermi la mano si limitò a guardarla. La ritrassi all’istante.
Jamie schioccò la lingua e afferrandomi per un braccio mi fece voltare.
-“Bene, finite le presentazioni ti faccio vedere il tuo letto: è proprio accanto al mio”, mi informò e per mia fortuna era anche lontano da quello della biondina, il quale era stato posizionato vicino alla porta. Posai la valigia sul materasso e prima di cominciare a sistemarla mi sedetti contemplando la stanza. Non era poi così malaccio. Era la classica camera da letto dei collegi che si vede anche nei film. Il letto per fortuna sembrava confortevole. E piazzato di fronte alla finestra verdastra dove si poteva scorgere tutta quella distesa di verde, beh, sembrava il massimo.
Le altre ragazze continuarono ad osservarmi curiose, come se fossi un fenomeno da baraccone, ma comunque lasciarono che disfacessi la mia valigia da sola. Chissà per quanto tempo ancora sarebbe durato tutto questo, questi sguardi. Lanciai un ennesimo sospiro. In realtà avevo sperato che le stanze fossero state singole, così avrei potuto avere il tempo e la privacy per avvilirmi e lasciarmi andare ad un pianto liberatorio, se mai ne avessi avuto bisogno. Ma con tutto quel gran numero di alunne sarebbe stato impossibile da organizzare. Di sicuro avrei ricavato qualche momento per me, come facevo quando ero a casa di mia nonna. Lei non mi aveva mai fatto mancare niente e così, dopo un anno e mezzo, decisi di rimboccarmi le maniche: lavavo, pulivo e cucinavo in modo di ricompensarla per essersi presa cura di me dopo che tutto e tutti mi avevano abbandonata. La mia vita familiare era una disgrazia continua: avevo pochi parenti e tutti se ne erano andati. Sembra quasi impossibile da credere ma è così. Di amici neanche a parlarne, ne avevo due di cui persi le tracce da tempo: Eric, il biondissimo Eric, era il mio migliore amico; con lui avevo un bel rapporto e aveva preso, per un periodo, una cotta per me. Carino e gentile com’era fu davvero difficile rifiutare la sua corte spudorata, ma non ero proprio nell’ottica di rovinare un’amicizia così profonda. E per un certo senso feci la cosa giusta. Se mi fossi innamorata seriamente di lui (cosa che non mi è mai successa), avrei sofferto come una pazza nel vederlo partire per la Svizzera con la sua numerosa famiglia. Poi c’era Marissa che abitava a due isolati da casa mia. Una vera comodità visto che con lei andavo molto d’accordo, specialmente per due motivi principali: il primo, sapeva rimanere in silenzio quando era il caso, e sapeva confortarmi con le sue strampalate idee nei momenti di massima afflizione. Secondo, aveva una vita simile alla mia. Anche lei soffriva per l’assenza sormontale dei suoi genitori che per un motivo o l’altro non c’erano mai. Andammo d’amore e d’accordo quando, dopo un mese dal trasferimento di Eric (una disgrazia per entrambe), anche lei se ne andò da Londra. Motivo? I suoi restarono due settimane insieme e finirono con il tirarsi i piatti addosso, così la madre chiese la separazione portandosi con sé Marissa in una destinazione a me ignota. E anche di lei nessuna traccia da più di un anno. Quei pensieri mi incupirono facendomi sprofondare nel letto. La stanchezza del viaggio cominciava a farsi sentire e notai quanto fossero annodati i miei capelli. Erano lunghissimi. Con il sottofondo dei dialoghi delle mie nuove compagne rovistai nella valigia per cercare la mia spazzola rosa. Trovandola mi adoperai per sciogliere i nodi.
-“I tuoi capelli sono bellissimi”, commentò Jamie in tono di adorazione. Si sedette accanto a me osservandomi mentre mi pettinavo.
-“Grazie”, risposi timida, distraendomi dai miei pensieri.
Percepii qualcuna farle il verso, naturalmente anche senza girare il capo sapevo che si trattava di Camille.
-“Ehi cos’è quella porta là in fondo?”, chiesi non appena me ne accorsi. Jamie fece un ghigno.
-“E’ il nostro bagno. La mattina ci alziamo e ci andiamo a lavare lì dentro. È abbastanza grande, ci sono tre docce, vari lavandini e una lavatrice. A turno ci occupiamo di fare il bucato per tutte. Poi scendiamo a fare colazione e infine ci rechiamo a lezione. A proposito dopo devo darti il foglietto delle varie materie giornaliere ed extra. Li ho preparati non appena ci hanno informato di un nuovo arrivo.”, mi spiegò andando a scompigliare un po’ di fogli nel suo baule disordinato. Ognuna di noi ne aveva uno di fronte al letto. Ripresi a passarmi la spazzola, svogliatamente. Una ragazza dai capelli corvini si sedette accanto a me, con un guizzò curioso nei grandi occhi nocciola. Non mi ricordavo il nome, nonostante me l’avesse detto un istante prima.
-“Ciao”, disse.
-“Scusa potresti rammentarmi il tuo nome?”, chiesi goffamente. La ragazza rise scuotendo la testa, poi si ricompose.
-“Non preoccuparti imparerai prima o poi. Anche io sono nuova, sono arrivata a Settembre, tre mesi prima di te.” Forse era il mio orecchio critico o forse non mi sbagliavo, ma, nella sua voce c’era un filo di amarezza. Inspirò lanciando un’occhiata fuori alla finestra.
-“Comunque sono Nicole, ma puoi chiamarmi Nic.”, precisò con un sorriso.
-“E tu puoi chiamarmi Em”, ricambiai. Alle nostre spalle spuntò Jamie con la lista delle lezioni per me che dovevo seguire obbligatoriamente, l’afferrai ma neanche la guardai. Se proprio dovevo rovinarmi la serata avrei aspettato il momento di andare a letto.
-“Ahi, Jamie ma sei impazzita? Sei piccoletta ma pesi come un bisonte!”, sbottò Nic sobbalzando giù dal letto. Il suo corpo esile e slanciato sembrava dover cadere a pezzi da un momento all’altro. Le due cominciarono a tirarsi cuscini e scherzare su qualche fatto accaduto il giorno prima. Io ne approfittai per infilarmi la divisa e tutto d’un tratto il mio umore calò a picco. Ma lo sbalzo non era solo dipeso dall’uniforme. Infatti sono sempre stata soggetta a questi bruschi cambiamenti; una volta mia nonna mi aveva persino minacciata di spedirmi da uno psicologo. Io per giustificarmi le rispondevo che era tipico della mia età. Ma non riuscivo mai a trovare qualche buona scusa per mentire a me stessa. Il fatto era che non entravo in sintonia con nessuno da tanto tempo e non perché non ci riuscivo, ma perché non ne avevo voglia. Ogni volta che mi affezionavo a una persona alla fine se ne andava e io rimanevo ancora una volta nel buio, a piangermi addosso con le mie paure. Basta! Sgomberai i pensieri cercando di lasciarmi qualche brandello di tranquillità interiore.
Pochi istanti dopo un tintinnio assordante, che invase la stanza intera, mi fece allarme inutilmente. Come tutte sapevano era la campana che annunciava la cena, mi sentii un’emerita idiota dopo aver gridato. -“Ops non ti avevo avvisato del suono assordante della campanella”, ridacchiò Jamie mordendosi il labbro divertita. Alzai un sopracciglio.
-“”Tu dici?”
Quando aprimmo la porta fui travolta da una folla di alunne, apparentemente tutte uguali, che scendevano le scale rumorosamente. Alcune mi lanciavano delle occhiate furtive, di sicuro si stavano chiedendo chi fosse questa nuova faccia. Non ci diedi troppo peso e mi attaccai al braccio di Jamie per non finire dall’altra parte del collegio come una ritardata. Arrivate in sala ognuna si sedette nei rispettivi tavoli. La stanza era enorme, una semplice mensa scolastica moltiplicata per cento. Alla sinistra dei tavoli di quercia c’era un lungo banchetto occupato dai professori e la preside. La Delacour mi lanciò inconfondibilmente un’occhiataccia. Aggrottai le sopracciglia. Seguii i passi delle mie compagne di stanza e la preside non mi staccò gli occhi di dosso, fin quando una professoressa riccioluta non le rivolse la parola. Forse era una mia impressione ma quella donna aveva delle crisi di personalità: un attimo prima sembrava cordiale e gentile (senza esagerare), un attimo dopo, invece, sembrava di aver a che fare con una persona minacciosa e inquietante. Quegli sbalzi si manifestavano sul suo viso in una maniera incredibile.
Rabbrividii mettendomi a sedere tra Nic e Jamie, decidendo che quella donna e il suo sguardo dovevano essere gli ultimi dei miei pensieri, altrimenti sarei impazzita. Ahimé, proprio davanti al mio posto era seduta Camille. I suoi occhi celesti erano sempre occupati a scrutarmi. Ciò mi irritava ma facevo di tutto per ignorarla.
-“Forse non sei venuta nel giorno migliore per quanto riguarda il cibo. Sempre che ci sia un giorno migliore che riguardi il cibo”, mormorò Nicole otturandosi il naso. Tanto ero stanca che non sentii il benché minimo odore ma la poltiglia marrone nel piatto mi fece chiudere lo stomaco. Si, era marrone... azzarderei.
-“Se stai pensando a cosa sia, beh, oggi è martedì quindi dovrebbero essere polpette”, commentò Jamie vedendo il mio viso perplesso.
-“O qualcosa di molto somigliante”, aggiunse Nic sollevandone una. I loro stomaci dovevano essere più che abituati al cibo del collegio. Conoscendo il mio sapevo che non sarebbe stata un’impresa facile. Armandomi di una buona dose di coraggio cominciai a mangiare. Tra voci sommesse e silenzi fatti di versi di disgusto, mi ritrovai con il piatto semi pulito, con lo stomaco giunto al limite del consentito. -“Che fai non finisci?”, mi domandò Jamie come se avessi commesso chissà quale reato. Lei aveva consumato il suo pasto da un pezzo, sicura che la velocità adottata dipendeva dal fatto che le permetteva di non avvertire il saporaccio delle polpette.
-“Non ne posso più”, mi lamentai rimescolando la forchetta meditabonda nel sugo.
-“Potrei rigettare da un momento all’altro”, confessai sincera, tanto per far rendere il concetto al meglio.
-“Disgustoso”, commentò Camille osservando il mio piatto. Sbuffai.
Nicole si scambiò con Jamie un’occhiata di sincera apprensione.
-“Non hai mai sentito parlare delle regole ferree e delle abitudini di questo collegio vero?”
-“No”, balbettai. Avrei dovuto? Chiesi a me stessa.
-“Il piatto deve essere pulito. È una delle regole principali. La Delacour è un tipo di altri tempi nel vero senso della parola”, continuò Jamie facendomi pressione con i suoi occhi caramello spalancati. Mi voltai confusa verso Nicole, che non era da meno.
-“I metodi degli altri collegi possono essere moderni e considerati adeguati ma... qui è tutta un’altra storia.”
-“Ovvero?”
-“La traduzione di tutto questo è che devi finire le polpette se non vuoi cacciarti nei guai, Collins. Non ci vuole un genio per capirlo”, si intromise Camille tagliando corto.
Ancora non riuscivo ad afferrare i loro messaggi nascosti. Di che razza di metodi parlavano? Con una mano scansai il piatto.
-“Non ce la faccio, ragazze.”
-”Tanto non c’è più tempo! La Delacour sta facendo il giro dei tavoli. Tieni, nascondi le polpette”, mi consigliò frettolosamente Jamie.
Mi passò un fazzoletto con delle fantasie delicate ai bordi, lo afferrai e ci infilai il cibo. Premetti la prima polpetta in modo di ficcare dentro anche le altre. La Delacour era solamente ad un tavolo dal nostro.
-“Stoppati, stoppati”, esclamò Nic dandomi una gomitata per avvisarmi. Il fazzolettino ormai inzuppato mi scivolò dalle mani e rotolò a terra attirando dannatamente l’attenzione della preside. Feci per recuperarlo ma me ne pentii all’istante.
La preside con uno scatto felino si posizionò di fronte a me, schiacciando con un piede la poltiglia avvolta. Qualcuno alle mie spalle deglutì.
-“E’ andata bene la cena, signorina Collins?” E di nuovo mi sembrò di sentire disprezzo nel pronunciare il mio cognome. Mi morsi istintivamente il labbro, altro gesto di cui mi pentii.
-“Dall’espressione dire proprio di no”, concluse con tono circospetto. Scossi la testa come per cancellare il mio ultimo gesto. Camille tossì fastidiosamente facendo voltare sia me che la preside. Qualcosa nel suo sguardo mi fece intuire che era proprio il suo intento.
-”Miss Delacour, ma... lì per terra, sotto i suoi piedi c’è... Umm... ma che cosa è?”, chiese in modo tanto teatrale che riuscii a sentirmi in imbarazzo per lei.
Nel giro di due secondi tutte le presenti in stanza si voltarono.
La Delacour si chinò e si affrettò a raccogliere il fazzolettino con le punte delle dita pallide e lunghe.
-”Ma che cosa è questo schifo?”, disse arricciando la bocca. In quel momento desiderai che il pavimento si aprisse per farmi sprofondare sottoterra. Camille parve perfidamente divertita, e non so cosa mi trattenne nel non prenderla a schiaffi.
Era ora di concludere quel teatrino; dissi:
-“E’...”
-“Mio.”
Mi voltai di scatto. La voce tremante di Jamie sopraggiunse la mia. La guardai sgranando la bocca. Non so cosa avesse intenzione di fare ma dovevo fermarla. Perché prendersi la colpa al posto mio? Azzardai un passo in avanti ma Nicole mi strattonò per il lembo della divisa facendomi atterrare bruscamente sulla sedia. Mi azzittii.
-“Ah... Jamie Sandford”, sbiascicò la Delacour come se fosse stata presa in contropiede.
-“Veramente...”
-”Camille, stanne fuori! Mi dispiace Miss Delacour ma non sto molto bene e non volevo farle vedere che avevo lasciato del cibo nel piatto. Me ne assumo tutte le responsabilità”, disse solenne e talmente convincente che quasi convinse anche me. La preside scosse la testa in avanti e indietro pietrificandola con lo sguardo, i suoi occhi erano diventati quasi bianchi. Mi scappò un gemito.
-”Detto ciò, a dopo nel mio ufficio Jamie Sandford. Da te non mi sarei mai aspettata una tale mancanza di rispetto.”
Mi concesse un’ultima occhiata e poi, con ritrovando un contegno, passò all’ispezione degli altri tavoli.
Guardai Jamie, confusa, intontita e anche un po’ arrabbiata.
-“Sei impazzita, vero?”, domandò Camille con aria strafottente. Jamie la trafisse con lo sguardo.
-“E’ nuova. È arrivata oggi. So cosa si prova, tu no, vero?”, scandì tra i denti.
Le due si scambiarono una lunga e indecifrabile occhiata, alla fine Camille cedette e spostò il suo sguardo altrove. Ritornai con l’attenzione verso la mia eroina.
-“Jamie”, mormorai rammaricata, -“Non dovevi. Ci vado io in ufficio dalla Delacour”, mi imposi con un buco allo stomaco. Ma Jamie non era affatto decisa ad arrendersi e mi inchiodò con una occhiata; quando parlò fu molto eloquente:
-“Emily dopo cena fila subito in camera, senza storie e poi ti spiego. Ora non puoi capire e presentarti nel suo studio peggiorerebbe solo la situazione ormai”, scandì parola per parola perforandomi le orecchie con il suo tono basso. Deglutii rumorosamente.
-“Va... Va bene.” Non obiettai e stetti in silenzio. La tensione che c’era su quel tavolo era palpabile, eppure non riuscivo a capire il motivo reale.
Il problema era insito nel collegio stesso, avvolto nel mistero in tutto. I miei pensieri vennero bruscamente interrotti dal suono nasale della campanella; come felini le ragazze balzarono giù dalla sedia e in ordine sparso si affrettarono a raggiungere i dormitori. Nicole mi prese per il braccio e non mi permise di rimanere con Jamie, che era rimasta seduta immobile.
-“Si può sapere che succede? Il vostro comportamento è anormale!”, borbottai una volta entrata in camera.
-“Te lo spiego io Collins. Ma tanto tra poco lo vedrai”, sghignazzò Camille scuotendo la folta chioma dorata. E le sue parole non fecero che insospettirmi e rabbrividire. Il comportamento delle presenti in stanza non era naturale, non parlavano, si limitavano a sussurrare e mi guardavano quasi con odio.
-“Camille se non chiudi quel becco questa volta non te la faccio passare liscia!” Nic si avventò contro la biondina che anziché essere spaventata dal tono furioso, rise. Che spavalda.
-“Ma che paura che ho. Collins dovrà venerare Jamie da oggi visto che rientrerà sanguinante.”
-“Sta’ zitta!”, urlò Nicole e a quel punto balzò addosso a Camille. Le altre si allarmarono e corsero verso loro due per dividerle. Io rimasi immobile con il cuore in gola. Le grida e le botte non andavano d’accordo nel mio piccolo mondo. Mi lasciai cadere su un letto alle mie spalle sperando che qualcuna di sangue freddo fermasse almeno una delle due.
-“Questa me la paghi, razza di idiota!”, ringhiò Camille che fu scaraventata dall’altra parte della stanza dal suo gruppetto di amiche. La diretta interessata alla minaccia si voltò dandole letteralmente le spalle. Subito fu circondata dalla maggior parte delle ragazze, me compresa.
-“Ma cosa voleva dire prima Camille?”, chiesi non badando alle imprecazioni che arrivavano alle mie spalle.
-“Emily puoi tacere un attimo? Tanto tutte sappiamo che è stata colpa tua, ho visto che lanciavi il fazzoletto con il cibo a terra”, mi accusò una riccia.
Nicole sbuffò e rispose strizzando gli occhi.
-“Cinthia per favore. Lei è arrivata solamente da poche ore, potevamo mandarla in castigo dalla Delacour? Il primo giorno? Non sa come è fatta e non sa i metodi e i meccanismi di questo collegio.”
-“L’avrebbe risparmiata.”
-“Non l’avrebbe fatto, invece. Proprio perché è nuova.” Una voce, che sembrò un dolce richiamo di qualche fata, interruppe la discussione tra le due ragazze, facendoci voltare in sincrono.
-”Jamie!”, dissero ad unisono. Vidi Camille sollevare le sopracciglia indifferenti, e le sue fedeli compagne,-di cui improvvisamente ricordavo i nomi, la moretta bassa e magrolina era Alice, la seconda dai tratti orientali si chiamava Mischa,- la guardavano con interesse moderato ma evidente.
-“Che ti ha detto?”, domandai con un filo di voce. Jamie aveva gli occhi lucidi come se avesse appena pianto, camminava curva e storceva la bocca ad ogni passo. Una reazione piuttosto esagerata per una lavata di capo, no? Che poi non era nemmeno rivolta a lei...
Ma i volti delle presenti e soprattutto di Jamie mi fecero intuire che c’era qualcosa che andava oltre ad una semplice ramanzina. A spezzare il silenzio pesante fu proprio la stessa Jamie.
-“Dai ragazze non mi guardate così. Non sono né la prima e nemmeno l’ultima... purtroppo.” Abbozzò un sorriso debole. Nicole schizzò dietro di lei scoprendole le spalle con un gesto quasi impercettibile. Impallidì visibilmente.
-“Ti ha fatto molto male?”, domandò arretrando. Le altre si spostarono intorno a lei e si concentrarono sulle sue spalle scoperte. A quel punto era il momento della verità, di capire, e ciondolai fino al fianco di Nicole.
E quasi non svenni.
Le spalle di Jamie, così piccole e fragili, avevano delle strisce tridimensionalmente rosse e intrecciate. Una goccia di sangue, addirittura, scendeva lungo la riga provocata dall’incurvatura della sua colonna. Strozzai un lamento agonizzante e sentii delle goccioline di sudore nascere sulla mia fronte. Non potevo crederci, non avrei mai pensato di dover assistere ad una scena così raccapricciante. Temevo di aver intuito cosa avesse provocato quei... quelle lacerazioni.
-“La Delacour è così. Lo sapete, ragazze. Emily”, si rivolse a me coprendosi le spalle offese. Non mi stupii di sentire la mia pelle accapponarsi.
-“Lei punisce frustando. Sono questi i suoi metodi e non possiamo farci nulla.”
Ahimè, avevo capito benissimo.
-“E’ terribile... non ho veramente parole”, sibilai. Jamie alzò le spalle facendo una smorfia di dolore. Cielo, nessuno può arrivare a questo punto, pensai nel terrore. Ma in che razza di posto mi avevano spedito? Fu il mio secondo pensiero. La Williams forse doveva informarsi meglio riguardo ai collegi di Londra. Scossi la testa e strizzai gli occhi come per cancellare l’immagine delle ferite di Jamie. Ma naturalmente non ci riuscii per colpa della testa che iniziò puntualmente a girare. Fin da piccola sono stata sensibile ad ogni tipo di ferita: cicatrici, croste, sangue. Specialmente quest’ultimo che nelle mie tempie pulsava più del normale.
-“Cosa hai Emily? Diamine se sei sbiancata”, udii a malapena una voce che non riconobbi.
-“Com’è melodrammatica, mica ci è andata lei a prendere la punizione”, seguì una voce che associai al volto perfido di Camille. Non volevo sprecare le mie ultime energie pensando a quanto fosse irritante.
-“Perché non ci risponde?”, balbettò qualcun’altra.
-“Sto bene”, sussurrai riaprendo gli occhi. Ricominciai ad avere una visone più nitida e lasciai andare un sospiro.
-“Ho avuto solo un mancamento”, le rassicuri, trascinandomi fino al letto buttandomici sopra, cercando di centrarlo. Non sembrava più nemmeno tanto comodo.
-“Un momento, ascoltatemi tutte.”
Che altro c’è?
Una ragazza alta, scura di carnagione e dai capelli corti, richiamò l’attenzione delle presenti.
-“Credo sia ora di passare oltre. E ragazze, sono le dieci non vorrei fare la pignola ma domani mattina dovremo recarci alla chiesa in centro. Che ne dite di spegnere le luci e dormire?”, suggerì con molta convinzione. Tutte con un cenno del capo annuirono in silenzio, pronte a riposare. Riprendendomi totalmente (almeno credevo) mi andai sciacquare il viso e mi spazzolai per bene i capelli. Fui contenta di infilarmi il mio vecchio e comodo pigiama, l’unica cosa che ricordava casa mia; prima che mi venisse consegnata la veste come le altre. Spensi la lampada del mio comodino e mi infilai sotto le coperte portandomele fino alle tempie. Cercai veramente di dormire e di non pensare a nient’altro ma la cosa sembrava inevitabile. A caricare il mio umore nero fu lo sbuffo del vento continuo sulla finestra. Mentre le altre ronfavano tranquillamente, io aggiunsi il cuscino sulla mia testa. Tecnica che a casa di mia nonna funzionava.
-“Non riesci a dormire”, affermò una voce dal letto vicino. Jamie.
-“Neanche tu”, risposi con un soffio, senza voltarmi.
-“Mi fa male la schiena”, ridacchiò. Al suono della sua risatina mi sedetti sul letto e mi passai una mano tra i capelli.
-“Che coraggio. È solo colpa mia. Non so cosa dire in questa circostanza”, cincischiai cercando di trovare le parole adatte alla situazione. Ma forse, pensandoci bene, non ce ne erano. Jamie scosse la testa e, molto lentamente, in modo da non svegliare le altre, si sedette accanto a me.
-“Non doveva andare così. Sai, mi sono rispecchiata in te”, confessò socchiudendo gli occhi,-“una ragazza durante il mio primo anno ha fatto lo stesso per me, sai? La Delacour non l’ha punita con delle frustate ma togliendole i pasti per due giorni. A te avrebbe fatto conoscere subito le regole, conoscendola, e ti avrebbe punita più duramente; come però è accaduto a me. Però ormai è andata, okay? Non parliamone più”, disse tutto d’un fiato.
Non seppi decidere se il suo altruismo fosse lodevole o esagerato.
Cominciai a attorcigliarmi un dito in una ciocca di capelli, quando poi Jamie mi prese la mano.
-“Vorresti scappare da qui, eh?” La sua domanda poteva benissimo essere un’affermazione per me.
-“Non mi aspettavo questi trattamenti. Sono atroci”, sussurrai e forse avevo trovato il termine giusto. Jamie stava per darmi ragione quando sentimmo Nicole mugugnare nel sonno. Le sue lenzuola erano tutte sparse, sia sul letto che per terra; accorgendosene si svegliò.
-“Mmm... Se è già mattina mi butto di sotto”, miagolò con la voce impastata di sonno. Vedendoci sveglie ci raggiunse, imponendosi nel mezzo.
-“Di che parlate a quest’ora della notte?”, sussurrò accompagnando quelle parole con uno sbadiglio.
-“Indovina” Jamie la lasciò immaginare.
-“Ah”, fece, -“sei scioccata Em?”
Peggio.
-“Direi di sì”, risposi.
-“E ancora non hai sentito le strane leggende che si narrano qui”, disse fingendo di rabbrividire. Così facendo non fece che alimentare la mia voglia di evadere. Ci mancavano pure le leggende, adesso. -“Spiegati”, l’incoraggiai, credendo che nient’altro potesse sbigottirmi.
-“Perché non torni a dormire?”, bofonchiò Jamie alzando gli occhi al cielo. Nic sorrise divertita facendo cenno di no con la testa.
-“Vedi, è strano come le persone possano credere a certe cose. Leggende, appunto. Se così possono essere chiamate. Si, insomma si vocifera...”, si fermò, pensante. La sua pausa fu enfatizzata anche dal suo viso immerso nel racconto che stava per iniziare. Mi preparai a sentire il peggio.
Finalmente dopo poco parlò:
-“Il collegio è molto vecchio, ora non so dirti di preciso quanti anni abbia, ma la gente crede che sia appartenuto ad una stirpe di vampiri. Di conseguenza la Delacour è a stretto contatto con loro, essendo anche lei componente della stirpe” Lanciai un’occhiata a Jamie, che mi sorrise come per dimostrarmi la sua scarsa fiducia nelle parole di Nicole. Ritornai con lo sguardo su quest’ultima.
-“Ci sono alcune persone a differenza di altre”, e lanciò un’occhiata all’amica,-”che ci credono fermamente tanto di rinunciare ad iscrivere le proprie figlie qui. È una delle leggende popolari –dimenticate- di Londra. Ma alcuni abitanti se ne ricordano eccome.”
-“Sono solo stupidaggini”, sussurrò poi, Jamie. Non commentai.
-“Per quanto Jennifer Delacour sia spaventosa non è una giustificazione darle della vampira. Forse a volte può apparire come una donna di un’altra epoca, severa all’eccesso, ma... dai, vampiri!” All’ultima parola trattenne una risata. Nicole scosse la testa e si andò a sistemare nel suo letto, insonnolita.
-“Dì a Emily cosa disse la signora Boland e magari ne riparliamo domani.”
Jamie sbuffò adagiandosi anche lei sul suo letto e poi si rivolse a me, svogliatamente.
-“La signora Boland, -la donna che mi ha accolto in casa sua quando ero ancora in fasce-, prima di morire ha rivisto per caso la Delacour dopo averla persa di vista da non so quanto tempo. La conosceva e ogni tanto ci scambiava due chiacchiere in paese. Non che la preside frequentasse molto la vita giù in città. Comunque sia, giurò di averla trovata sempre uguale. Senza un’ombra di vecchiaia, né di stanchezza, nessuna ruga. Sempre uguale, insomma. Personalmente ho sempre creduto che mia madre fosse vittima della suggestione in cui è immerso il luogo”, disse con voce che metteva i brividi.
-“Perché i vampiri sono immortali, giusto?”, balbettai scettica delle mie parole. L’argomento mi stava interessando più del dovuto.
-“Esatto! Sono creature immortali!”, confermò l’altra. L’entusiasmo di Nicole era quasi infantile.
-“C’è anche un’altra cosa che non abbiamo detto”, puntualizzò Jamie, quasi sorpresa che l’amica si fosse dimenticata di un dettaglio fondamentale.
-“La leggenda inoltre narra che la famiglia della Delacour sia stata perseguitata da alcuni cacciatori molti secoli fa. E su un libro ormai andato perduto c’era una donna che le somigliava in una maniera impressionante. Da quando hanno incominciato a circolare queste voci il libro e le persone coinvolte sono scomparse. Molti sostengono che questo accadde in Inghilterra altri in Francia, il luogo di provenienza della nostra preside, e le voci si sono sperperate per tutta Londra al suo arrivo. Gli abitanti di questo piccolo paese sono parecchio influenzabili, come puoi vedere.”
E dopo quelle ultime parole lanciai un’occhiata di panico fuori alla finestra, constatando che aveva appena iniziato a piovere pesantemente. Quello scenario non fece altro che amplificare il racconto delle due, per questo mi scappò un brivido che alle mie nuove amiche non sfuggì.
-“Stai tremando. Hai paura, Emily?” La voce intrisa di divertimento e sbalordimento di Jamie mi fece voltare. Come potevo spiegarle che il mio brivido non era dipeso solo dalla storia? Cercai di essere il più convincente possibile.
-“No, tanto sono solo stupidaggini, giusto?”, risposi, ma la mia voce mi tradì. Jamie e Nicole risero beffarde.
-“Hai ragione. Comunque non ne parlare con nessuno. Non penso che siano ben accette queste chiacchiere, qui.” La guardai negli occhi non ancora padrona della mia espressione.
-“D’accordo”, sussurrai e mi lasciai scivolare giù nel letto.
-“Forse è meglio che dormiamo. Domani mattina ci dobbiamo svegliare prima del solito.”
-“Ma perché dobbiamo visitare una chiesa?”
-“In questo modo la Delacour e le altre professoresse decideranno dove stabilirci per cantare il giorno della vigilia di Natale”, mi spiegò Jamie accompagnando quelle parole con uno sbadiglio. Mi diedi una manata sulla fronte. Se c’era una cosa che odiavo era proprio cantare. Figuriamoci il giorno precedente al mio compleanno.
Mi coprii fino alle tempie e diedi la buonanotte alle mie due nuove amiche, che mi parve di sentirle già ronfare. Se mi sarei trovata in una situazione normale, di vita quotidiana, avrai già iniziato a sbraitare da tutte le parti. Ma dovevo controllare le mie emozioni se volevo sopravvivere. Un lato della mia mente credeva alle parole di Nicole, forse per via di ciò che era successo. Frustate. Davvero, davvero inquietante. Parliamoci chiaro, di vampiri non ne avevo mai saputo niente ma conoscevo una cosa che era saputa anche dai sassi: loro si cibavano di sangue umano, e come faceva la Delacour (se per ipotesi fosse realmente una creatura della notte), a stare in mezzo a così tante persone? Senza morderle? Eppure a cena mangiava cibo umano. Non che l’abbia vista masticare ed ingurgitare ma il suo piatto mi sembrava pieno. E se fosse stata una copertura?
Mi rigirai tra le coperte. Dovevo smetterla di fantasticare e crearmi delle paranoie infondate. Mi sentivo quasi ridicola a pensare all’esistenza dei vampiri nel ventunesimo secolo. Dovevo anche ammettere, però, che quel collegio era come se fosse una fetta del mondo abbandonata dal tempo. Mi ricacciai il cuscino sul viso e cercai di impedire al mio subconscio di far riaffiorare le parole di Nicole e Jamie nella mente. Quella notte, alla fine, riuscii ad addormentarmi solo dopo aver assistito alle ire implacabili della natura; quello che non sapevo era che il mattino successivo sarebbe stato solo l’inizio della mia odissea all’interno di quel collegio fuori dal mondo



*





La notte sembrava essere trascorsa velocemente. Fin troppo, per i miei gusti. Non appena misi piede sul pavimento mi stazionai di fronte alla finestra per controllare che tempo facesse fuori. Oltre il manto verde della vegetazione che contornava il collegio il sole era timidamente sepolto dietro una coltre di nuvole dense e scure. Sbuffai per poi sbadigliare in silenzio; nemmeno il cielo mi era complice per indirizzarmi una buona dose di buonumore, quella mattina.
A turno composto di quattro persone per volta andammo nel bagno a custodirci. La divisa sembrava più stretta e ancora più monotona del giorno precedente. Cercai di allargarla con tutta la forza che avevo ma l’urlo disumano di Camille, che mi ordinava di sbrigarmi, mi fece cessare ogni tentativo. Strofinandomi accuratamente i denti e pettinandomi i capelli, uscii dal bagno con qualche secondo di ritardo. Sicché fui fulminata dagli occhi di quest’ultima. Lottai contro me stessa per non farle una linguaccia e raggiunsi Nicole e Jamie. Perfettamente pronte e sveglie, mi attendevano sull’uscio della porta per rivestire il ruolo da Cicerone che si erano affibbiate tacitamente il giorno prima.
Volete sapere come andò la colazione? Né bene, né male: fu consumata nella massima tranquillità –forse perché mancava la rigida Delacour all’appello, o forse perché Camille era ancora abbastanza rintronata dal sonno da non trovare la forza per pungolarmi-; ad ogni modo, finito di mangiare, ci affrettammo ad infilarci i cappotti per uscire (il mio era bianco con un cappuccio eschimese, uguale al modello che sicuramente Melissa stava indossando dall’altro capo del mondo), dunque ci avviammo nel viale per raggiungere il centro, dove un paio di goccioline si abbatterono sul mio viso. Alcune ragazze, adoperate di buon senso, aprirono i loro ombrelli, altre come me si accontentarono del cappuccio. Jamie e Nicole mi spalleggiavano, una a destra e una sinistra. Colta da un improvviso momento di lucidità, intuii che quelle due ragazze sarebbero state le mie nuove migliore amiche.
Davanti a noi c’era una fila di collegiali che seguivano tutte la Delacour –la quale fece un’entrata in scena improvvisa- e un’altra professoressa bassa e riccioluta. Naturalmente mi sfuggiva il nome ma d’altro canto ricordai la materia che insegnava: storia. Come materia non mi dispiaceva, la mia preoccupazione più grande era la matematica. Logicamente non ci capivo niente, praticamente ero un fiasco. Sospirai, rassegnata.
Camminavo a testa bassa in modo che le gocce di pioggia -che cominciarono a scendere giù più velocemente e violentemente- non mi coprissero la visuale.
La strada si rivelò essere infinita e faticosa, tanto da sembrare di essere lì a pedalare da ore; tutta colpa del collegio che si trovava al limitare di Londra!
Raggiungere la chiesa senza buscarsi un raffreddore sarebbe stato un miracolo.
Tuttavia arrivammo sane, salve e abbastanza zuppe per una broncopolmonite, ma con un simpatico prete dall’aria benevola ad accoglierci. Questo strinse la mano alla Delacour in una sorta di riverenza, e poi ci fece entrare all’interno del sacro luogo intimandoci silenzio e rispetto.
La chiesa richiamava alla mia mente il gotico, aveva una struttura capace di incantarmi ma, al tempo stesso di inquietarmi. Quando entrammo lo sbalzo di temperatura fu notevole: da un freddo-umido sentito fin nelle ossa, ad un caldo sorprendentemente accogliente.
La professoressa e la preside fecero un breve appello per verificare se fossimo tutte e, quando la Delacour mi passò accanto, quasi non mi prese un colpo: i suoi occhi celesti erano iniettati di rosso, come sferzi d’acquerello. Prima che passasse oltre con lo sguardo sembrò trascorrere un’eternità; forse era una mia impressione ma su di me si era soffermata più del dovuto, procurandomi una serie di brividi che con il freddo non c’entravano proprio niente.
-“Ragazze, vi prego di prestare attenzione alla statuetta di cristallo dal valore inestimabile che il nostro istituto ha donato alla chiesa. Ammiratene la bellezza”, c’invitò la professoressa guidandoci verso un piccolo monumento a forma di angelo, con le braccine rivolte verso l’altro.
Tentai di creare una breccia in quel muro di persone e cappotti per permettere a me –con il mio metro e sessantasette di altezza- una visuale degna di chiamarsi visuale.
-“Aspettiamo che quelle davanti finiscano di fare le lecchine con la prof e poi andiamo a guardare noi”, suggerì Nicole continuando a borbottare a sfregarsi le mani per riscaldarsi.
-“Certe che si gela, eh?”, le domandai tanto per fare conversazione, voltandomi verso di lei.
Ma quando mi rispose le sue parole si persero nel vuoto, la mia attenzione si era già dirottata altrove.
Fu allora che mi accorsi della sua presenza, troppo appariscente per non farci caso. Un ragazzo era appoggiato con un fianco all’altare, come se fosse un pezzo immobiliare qualsiasi. Teneva lo sguardo basso, le braccia conserte e la gamba destra accavallata a quella sinistra.
I capelli erano di un delicato biondo cenere, spettinati e non del tutto asciutti; più che altro sembravano reduci da una corsa forsennata. Il dettaglio che più m’impressionò di quella bizzarra presenza era che, immobile e bianco com’era, poteva benissimo passare per una statua parcheggiata lì, in attesa di un posto più consono. Lasciai cadere lo sguardo oltre il giubbino aperto, il quale mostrava un maglietta e un corpo slanciato.
Dopo pochi istanti fui sicura che fosse vivo: tirò un sospiro. Il suo sguardo percorreva chissà quali ghirigori immaginari sul pavimento trasparente. Non potetti non domandarmi cosa ci facesse un ragazzo tutto solo in quel punto e con quello sguardo oltremodo sconsolato.
-“Emily, vieni a vedere la statuetta di cristallo prima che la spacco in testa a qualcuna”, m’invitò Nicole, che era riuscita ad aprire un varco per imbucarsi nella prima fila.
-“A-arrivo.”
Ancora incappucciata e imbambolata ritornai a fissare per un’ultima volta il ragazzo misterioso. Il suo sguardo, stavolta, guizzò fino a me e quasi non mi girò la testa. I suoi occhi erano bicolore, uno celeste e l’altro color rame. La sua bellezza era disumana quasi irreale. Sotto gli occhi aveva una sottile linea violacea molto intensa; le sue labbra appena socchiuse erano carnose da star male. Sul suo volto, d’improvviso, un tumulto di emozioni: sorpresa, angoscia, terrore, sbalordimento. Distolsi immediatamente lo sguardo, voltandomi fin troppo di scatto e-avvampando- abbassai la testa. Quasi correndo raggiunsi Jamie e il resto delle mie compagne. Rimasta attonita dalla sua avvenenza nemmeno feci caso alla statuetta di cristallo che tutte elogiavano.
-“Emily stai bene? Sei diventata incandescente; soffri così tanto i sbalzi di temperatura?”, mormorò Nic ole passandomi una mano sulla fronte. Scossi la testa scostandola.
-“Sto... bene. Ma chi è quello?”, domandai senza voltarmi, né indicare. Speravo che le due lo avessero già notato da sole, e invece sia Jamie che Nicole si guardarono intorno, curiose e spaesate.
-“Quello chi?”
-“Quel ragazzo sull’altare”, dissi e mi concessi un’altra occhiata, non trovandolo. Jamie aggrottò le sopracciglia.
Lo cercai con gli occhi, a destra e a sinistra, poi il tonfo della grande porta che si chiudeva mi fece intuire che se ne fosse appena andato.
-“Non c’è nessuno sull’altare, Emily. Sei sicura che…?”
-“Si, Jamie.” Non la lasciai terminare. Non potevo essermi immaginata una persona in modo così nitido e perfetto. Non poteva essere un’allucinazione anche se, come essa, era svanito.
-“Signorine per favore fate silenzio!”, ordinò la professoressa che con i suoi occhi scuri sporgenti sempre in agguato mi trasmetteva non poca ansia. Sapevo già che non saremo andate d’accordo.
Impalata con lo spartito delle canzoni in mano, cercai di cantare a voce bassa. Più che altro mimavo dei suoni con la bocca, visto che la professoressa aveva avuto l’accortezza di posizionarmi in prima fila. Questo fu dipeso dalla mia bassa statura; se fossi stata spedita nelle file anteriori sarebbe stato come cancellarmi dai canti, nessuno mi avrebbe vista. Ma per quello che me ne importava potevo benissimo rimanere chiusa in collegio. Sospirai e ripresi il ritornello. Continuammo così per non so quanto tempo, quando poi il prete ci invitò a seguire la messa e fummo divise in gruppetti tanto eravamo numerose. Alcune andarono dietro i banchi di legno, altre come me, sedute accanto all’altare. Alla mia sinistra trovai Alice, due teste più in là c’era Jamie. Era un posto abbastanza scomodo dove dovemmo stare: il marmo bianco era ghiacciato, talmente duro che la mia schiena gridò pietà, e non c’erano dei cuscinetti come ricordavo di trovare nella mia vecchia chiesa. D’un tratto mi rivenne in mente il giorno della mia prima comunione: ero impacciata nel mio vestitino bianco, e sui miei capelli lunghi c’era una vasta retina di rose bianche, sembravo uscita da un uovo di pasqua a farla breve. Per non parlare della lunghezza del vestito! Tre piedi più lungo di me. Infatti nel momento più importante della cerimonia, durante la comunione, inciampai e rotolai fino ai piedi del prete, ripresa da tutte le telecamere presenti dei genitori in chiesa. Ricordo il riso divertito e spensierato di mia madre che non mi risparmiò: passò il filmino in un cd e tutte le volte che poteva lo faceva vedere a qualche parente o amico. Credeva fosse una cosa bella, una cosa simpatica anche, ma invece era imbarazzante al punto giusto. Oh, mia madre. Dopo quell’avvenimento non ricordo nient’altro di rilevante che la sua morte improvvisa. Tutte le volte che concedevo alla mia coscienza questi ricordi mi veniva in mente sempre una domanda. Mi chiedevo se la mia vita fosse stata in qualche modo maledetta o cose simili... era davvero incredibile che tutti mi avessero lasciata sola al mondo. Tirai su col naso e chinai la testa fissando le punte delle mie ballerine. L’unica cosa di colorato che avevo a dispetto della divisa nera e rigida.
Verso l’ora di pranzo ritornammo al collegio. Ancora zuppe e fradice ci andammo a cambiare nelle rispettive stanze; nel corridoio si udivano commenti sulla mattinata, non tutti erano positivi. Non sapevo come biasimarle e mi diressi verso il mio baule di fronte al quale c’era il mio letto. Cercavo un asciugamano, ma quando l’aprii trovai dell’altro: il profumo dei miei vestiti puliti e destinati per sempre a rimanere chiusi mi inondò i polmoni. Era un aroma così familiare e buono che chiudere il baule fu quasi impossibile. Decisi però di non perdere tempo e di asciugarmi, altrimenti sarei arrivata tardi in sala pranzo dove la Delacour ci aspettava all’una. Scendendo le scale Camille mi urtò con una grazia degna di un elefante mandandomi a sbattere contro altre cinque ragazze, e non ebbe nemmeno il buonsenso di chiedermi scusa. Jamie mi sorrise rassegnata, Nic fece spallucce. Io scossi il capo. Prendendo posto non potei non accorgermi di alcuni volti che cominciavano ad incidersi nella mia testa. Ad esempio la ragazza dai capelli biondi legati, a due posti da me, si chiamava Lillian e veniva dalla Svizzera. Rideva sempre, aveva un gran senso dell’umorismo, e a quanto pare era lei il leader del suo gruppetto di amiche. Anna, la ragazza di fianco, era invece sua cugina da quello che avevo capito. Poi c’erano Susanne, Christine e molte altre. Naturalmente avevo sentito i loro nomi per caso e li avevo memorizzati, visto che a pranzo non c’era concesso di parlare, se non bisbigliare di nascosto. A riportarmi alla realtà fu il peso improvviso che ritrovai nel mio vassoio. La cuoca aveva riempito il mio piatto con una specie di minestra verde. Okay, era ufficiale. Il cibo non era il punto forte dell’istituto. Sorseggiai del succo dal cucchiaio non badando al sapore. Nel giro di tre sedie si voltarono tutte.
-“Fai un rumore fastidioso”, bisbigliò Nicole.
-“Oh.”
Avvampando di imbarazzo decisi di cambiare e metodo e bevvi direttamente dal piatto.
-“Signorina Collins, un po’ di contegno!”, mi rimproverò una voce disgustata. Quasi non mi strozzai e allontanai di fretta e furia il piatto dalla mia bocca. Lo posai sul tavolo, subito dopo aver visto con la coda dell’occhio la sagoma inconfondibile della Delacour. Mi voltai paonazza di vergogna e mugugnai qualcosa di incomprensibile anche a me stessa.
-“Scusi”, dissi poi, simulando quanto più rammarico possibile. La Delacour scosse la testa senza staccare i suoi occhi -ritornati di ghiaccio- dai miei, allarmati.
-“Contegno”, mi redarguì passando al tavolo accanto. Il mio cuore galoppava veloce mentre cercavo di ripetermi che non era successo niente. Assolutamente niente. Gli occhi perfidi di Camille mi guardavano divertiti, la fulminai all’istante e lei ritrasse lo sguardo, cominciando a sussurrare con la sua vicina.
-“Te la sei fatta sotto. Ce l’hai scritto in fronte”, scherzò Nicole precedendo la voce bassa di Jamie, che più o meno voleva fare la stessa battuta.
-“Oh, puoi dirlo forte”, risposi nascondendo l’agitazione.
-“Devi regolarti.” E più che un consiglio mi sembrò un rimprovero. Beh, avrei sicuramente seguito quella specie di consiglio, visto il mancato attacco cardiaco che per poco non mi prese.
Il resto della giornata non fu niente di eclatante ma nemmeno terribile come una parte di me temeva e aspettava. Trascorsi il tempo divisa tra un’aula a l’altra. Iniziai con l’inglese di cui l’insegnate era niente di meno che la Galdys, la riccia che ci aveva accompagnato in chiesa. Per come si era presentata quasi pareva minacciosa.
-“Sono la professoressa Galdys docente di storia, geografia e inglese. Passeremo molte ore insieme signorina Collins.” Si, questa era decisamente una minaccia.
Schierai un sorriso forzato, pur non nascondendo sul volto il rifiuto per le sue materie... o forse per lei?
-“Sto cercando il programma da darti. Tu nel frattempo puoi presentarti alla classe”, mi invitò mentre frugava in un cassetto scassato.
La maledetti interiormente per ciò che aveva appena pronunciato. Ora la colpa diventava sua e non delle materie. Non sapevo proprio cosa dire, non mi ero mai trovata ad esporre a qualcuno la mia noiosa vita. Era una di quelle situazioni in cui non vorresti mai capitare e quando ti accorgi di esserci dentro non puoi più scappare.
-“Ehm, allora... mi chiamo Emily Collins”, iniziai guardandomi intorno. Sentii dei mormorii e poi una voce più alta e acuta.
-“Si, fino a qui c’eravamo arrivate tutte.” Inutile dire a chi apparteneva. Strinsi i pugni e cercai di controllarmi.
-“Sono nata qui a Londra, in periferia e...” E non sapevo come appigliarmi alle parole. La professoressa sopraffatta dal mio silenzio mi lanciò un’occhiata riprendendo a parlare.
-“Bene. Ho trovato i moduli. Devi firmare gentilmente il programma così posso consegnarti i libri di testo”, mi disse porgendomi una biro nera. Annuii e firmai con estrema cura. La mia calligrafia è sempre stata disordinata o come diceva mia nonna a “ zampe di gallina”.
La mia dolce e innocua nonna. Chissà cosa stava facendo in quel momento, mentre sua nipote era intenta a rovinarsi la vita per bene.
-“Grazie. Puoi andare a sederti.”
Quelle parole furono il salvagente del momento. Mi accoccolai sulla sedia con i gomiti sul banco e le mani che sostenevano il mento. Quando la lezione iniziò sembrò che il tempo si fosse bloccato. Parole a mio rammarico percettibili entravano nella mia testa torturandomi come non mai. Era da tanto che non imparavo qualche nozione, dalla morte dei miei la scuola mi durò poco più che qualche mese, intenta di ricominciare l’anno seguente magari supportandomi con l’aiuto di un lavoretto part-time. Ma i miei piani fallirono e infatti eccomi qua.. con una professoressa alta quanto la cattedra, odiosa, che cercava di incoccarci la storia di Antonio Pio, come se non potevamo farne a meno. Lanciai un’occhiata disperata fuori dalla finestra e fui accecata da un riflesso argenteo. Strizzai gli occhi e li riaprii a fessura per focalizzare che cosa emanasse quel riflesso. Proprio di fronte al portico del collegio c’era una BMW Z4 Roadster. Una di quelle macchine che si vedono sulle copertine di motori. Una di quelle che puoi solo sognare. E non potei non chiedermi a chi potesse appartenere e cosa ci facesse qui un gioiello del genere. Questo collegio era così tetro... per non parlare delle crepe sul soffitto: prima o poi ci sarebbe crollato in testa, pensai per niente ottimista.
-“Signorina Collins!”, esordì all’improvviso la voce della professoressa. Quasi non sganciai un urlo. Ero veramente soprappensiero.
-“S- si?”, balbettai colta di sorpresa.
-“”Mi può rispondere alla domanda, anziché contemplare il soffitto?”, disse con un sorriso ingannevole. Averla sentita la domanda! Vidi la chioma caramello di Jamie voltarsi lentamente. Con una mano mi suggeriva qualcosa di incomprensibile. Aggrottai le sopracciglia e sparai il primo nome che aveva sentito durante tutta la lezione.
-“Antonino Pio”, sbiascicai, simulando convinzione.
Brutto tentativo. Le ragazze cominciarono a sghignazzare e la professoressa sbatté il registro sulla cattedra facendoci sobbalzare tutte, in sincrono.
-“Silenzio ragazze”, tuonò,-“dunque mi stai dicendo che il successore di Antonino Pio è... se stesso?”, continuò tanto per farmi imbarazzare. Abbassai lo sguardo ma riuscii con la coda dell’occhio a vedere un braccio sventolare in aria.
-“Il successore è Marco Aurelio”, precisò Camille, assumendo un’espressione saccente e lanciandomi un’occhiata di commiserazione.
-“Molte bene”, andò a confermare la Galdys voltandosi verso la lavagna per segnare i compiti.
Mi concessi di indirizzarle un versaccio che tanto non poteva cogliere, per poi scivolare lungo la sedia.
Quando la campanella suonò il termine di quella snervante lezione, fui la prima –seguita fedelmente da Jamie e Nicole- ad abbandonare l’aula.
Nicole borbottava qualcosa.
-“Quella Camille! Vuole sempre e dico sempre fare la figura della perfettina.”
Jamie che camminava mentre leggeva un libro tirò un sospiro come per dare ragione all’amica. Ed era esattamente così ma non volevo irritarmi troppo per colpa di quella biondina.
Mentre mentalmente elencavo ogni singola lezione che mi attendeva, qualcosa o meglio qualcuno, attirò la mia attenzione. Mi si bloccò il respiro e mi arrestai impalata al centro della sala principale. Nicole e Jamie non si accorsero che non stavo più al loro fianco, ma in quel momento poco mi importava. Incredibilmente pallido e disumanamente bello, il ragazzo che avevo visto durante la mattina in chiesa, era rivolto verso le scale impegnato, con mia grande sorpresa e sgomento, con la Delacour. Stavano discutendo ma non recepii le parole esatte, erano troppo distanti da dove mi trovavo. Improvvisamente mi ricordai che per raggiungere la prossima aula dovevo salire le scale, il che implicava passare dove c’erano loro.
-“Ti stai chiedendo chi è quel ragazzo vero?” La voce di Jamie mi giunse maliziosa e divertita. Anche Nicole si era avvicinata a me.
-“E’ lui il ragazzo che ho visto in chiesa oggi. Non avrei mai pensato di poterlo rivedere”, confessai. Sapevo benissimo che la mia espressione era incredula, tanto quanto immaginavo che un evento simile non poteva essere catalogato come una semplice e sorprendente coincidenza.
-“Non l’ho notato in chiesa. Comunque sia, lui è il figlio della Delacour, William. Da circa un mesetto vieni qui a giorni alterni per occuparsi del giardino insieme al signor Simus. Sai il giardino è immenso. Si estende per ettari fino a sconfinare con… okay, non t’interessa la flora del collegio”, dedusse Jamie, studiando la mia reazione.
Mi ci volle un minuto buono per digerire quelle parole.
-“Figlio della De- Delacour?”, sbottai, poi, a scoppio ritardato.
-“Esatto. È incredibile non è vero?”
-“Già.”
-“Abbiamo avuto anche noi la stessa reazione. Insomma, lui sembra un tipo così cordiale e gentile mentre la madre... beh, lei è la Delacour.”, mormorò Nicole. Non feci in tempo a commentare che sulla mia spalla sentii un dito picchiettare. Meccanicamente, mi voltai.
-“Collins.” Era Camille ed era piuttosto seccata, a giudicare da come storceva la bocca.
-“Che vuoi?”
-“Non so perché tu stia fissando William, e forse è meglio che non lo sappia. Ma voglio solo avvisarti di una piccola cosa.” Si zittì in modo studiato, teatrale. Ammetto che quell’aria ostile un po’ m’intimoriva, più che altro perché la sua espressione sembrava promettere che qualsiasi minaccia avesse in mente non avrebbe esitato a metterla in atto.
-“Quale cosa? Su che devi avvisarmi, sentiamo.”
-“Non guardarlo, non parlargli e non pensarlo. Lui è mio, novellina, e se ci provi te ne pentirai amaramente. E non è un modo di dire, sappilo”
Si, questa era decisamente la seconda minaccia della giornata.
-“Tu”, e sottolineai il tu, cercando malamente di imitare la sua spavalderia –“Non mi fai affatto paura con le tue minacce. Io non ho intenzione di fare proprio niente quindi, per piacere, ignorami. E non chiamarmi più novellina va bene?”, conclusi dandole le spalle. Non volevo nemmeno più sentire la sua voce petulante, non era nemmeno mia intenzione stare a discutere per queste banalità. Sentii il suo schiocco di dita che ordinava alle sue scagnozze di seguirla lungo le scale. Si fece largo tra me e Jamie, si spostò una ciocca dietro le spalle e sfoderò un sorriso a quel ragazzo.
-“Buongiorno William”, cantilenò, svenevole.
-“Salve Camille”, rispose lui, cordialmente. La sua voce era un sussurro suadente. Incredibile. Anche la sua voce era magnifica.
La Delacour con gli occhi seguì Camille fin quando non voltò l’angolo e come se avesse ascoltato i miei pensieri mi fulminò con lo sguardo. Non fu un occhiata lunga ma bastò per farmi inchiodare i piedi al pavimento. Disse qualcosa al figlio- le sue labbra si muovevano troppo veloci per capire cosa stesse dicendo-, e con uno scatto si dileguò al piano successivo.
-“I due da un po’ sembrano molto tesi”, commentò Nicole. Jamie si strinse nelle spalle.
-“Avranno problemi in famiglia”, ipotizzò. E come biasimarlo. Vivere con quella donna così fuori dalle righe non doveva essere semplice.
Mentre procedevamo per raggiungere l’aula, la portafinestra si aprì ed entrò un signore di mezza età.
-“Ehi, William! Pronto per potare quelle siepi?”, domandò sarcasticamente l’anziano e lo invitò a farsi seguire. William scese uno scalino, mi passò di fronte e non potei non fare a meno di guardarlo. La sua espressione era tesa ma la sua bellezza devastante, pensai di poterlo ripeterlo all’infinito. Distolsi immediatamente lo sguardo, leggermente scossa dai suoi occhi penetranti. Anche lui fece lo stesso con uno scatto quasi felino. Quando la porta si richiuse le due mi guardarono.
-“Non lo so”, precedetti la loro domanda. Non sapevo perché mi stava fissando così... e in quel modo.
-“Forse ti ha riconosciuta.”
-“Possibile... Quanti anni ha?”, chiesi mentre salivamo le scale.
-“Diciassette.”
-“No. Diciotto, ne sono sicura”, obiettò Nicole.
Jamie scosse il capo.
-“Diciassette”, puntualizzò.
La loro piccola “discussione” non mi fece accorgere di essere arrivata al pianerottolo del primo piano; entrai in aula trascinandomi controvoglia.
-“Buongiorno”, mugugnai alla giovane professoressa che ci accolse. Per lo meno lei, a differenza della Galdys, sorrideva. I suoi occhi marroni erano un mare di dolcezza, i suoi capelli lunghi erano invidiabili. Oltretutto pareva giovanissima. C’era un unico difetto, se così si può chiamare: la sua voce era talmente sottile e debole che non potetti non distrarmi durante la sua lezione. Il cielo si stava annuvolando più che mai, il vento non era suo complice tant’è che per farsi ascoltare quasi gridava.
-“Collins”, mi richiamò improvvisamente.
Oh no, pensai.
-“Puoi venire un attimo a firmare dei moduli?”
Feci un sospiro di sollievo afferrando la penna che era sul mio banco. Mentre mettevo la firma la prof. mi sommerse di domande, il suo modo garbato non mi infastidì e mi ritrovai ad esporre la verità della mia storia.
-“Oh cara, quanto mi dispiace. Comunque sono la signorina Belfiore e se hai bisogno di un aiuto non esitare a rivolgerti a me.”, mi disse con voce emozionata.
-“Lo farò”, promisi sorridendole timidamente.
Mentre ritornavo al mio posto vicino alla finestra mi accorsi, con angoscia, che William stava guardando verso le finestre della mia aula. Prima di sedermi mi soffermai ad osservarlo e rimasi sorpresa quando il suo sguardo indagatore si posizionò su di me. Possibile che mi aveva riconosciuta anche a tanta distanza? Arrossii, sudai e inciampai nel mio zaino per assettarmi sulla sedia. Nicole dietro di me soffocò una risata e mi invitò a voltarmi.
-“Ti senti bene?”, mi chiese.
Mugugnai qualcosa in risposta e cercai, per quanto possibile, di concentrarmi sugli ultimi minuti di lezione.

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Capitolo 2
*** Secondo Capitolo ***


Secondo Capitolo




La lezione non durò molto. Il cielo era pressantemente ricoperto da nuvole grigie pronte a scaricare un sacco di pioggia. Quando il suono nasale della campanella risuonò per l’intero collegio mi alzai riponendo i libri in pila in modo da poterli prendere per bene, e mi permisi di sbirciare di nuovo fuori alla finestra. Credevo che William se ne fosse andato, a meno che non gli piacesse rimanere zuppo di pioggia ma, con mio stupore lo trovai ancora lì. Era inginocchiato sul verde tagliuzzando una siepe, eliminando le erbacce secche con una velocità da vero esperto; siccome non mi stava osservando decisi di avanzare di più verso la finestra. Ma nemmeno un secondo dopo, proprio in quel momento, alzò gli occhi verso la mia direzione. Colta di sorpresa indietreggiai incespicando nelle gambe della sedia e caddi all’indietro. Chiusi gli occhi e arricciai la bocca come se ciò mi evitasse di provare dolore alla base della nuca, dolore che arrivò un istante dopo.
-“Oddio, Emily! Ti sei fatta male?”, si agitò improvvisamente una voce stridula. Mugolai qualcosa senza riaprire gli occhi.
-“Credo sia svenuta!”, urlò la stessa voce. Mentre cercavo di sbiascicare qualcosa per dire che stavo bene sentii dei passi riecheggiare nel mio orecchio.
-“Emily Collins, alzati immediatamente!”, mi ordinarono. Quando la mia mente diede un volto e un nome a quella voce prepotente scattai in piedi non curante del giramento di testa. La preside teneva le braccia conserte e il suo volto severo esigeva una spiegazione.
-“Sono... inciampata e ho sbattuto la testa”, confessai,-“ma sto bene”, aggiunsi come se poteva importarle qualcosa.
-“Ci sono altre ragazze che devono frequentare lezioni in questa classe. Quando suona la campanella bisogna sgomberare. Ora raggiunti la tua prossima aula, muoviti.”
Assentii senza fiatare e un braccio scheletrico mi cinse le spalle sussurrandomi qualcosa nell’orecchio.
-“Andiamo, forza.” Era Nic. -”Prima o poi ti metterai nei guai”, disse come per rimproverarmi. Non c’era presagio più vero. La Delacour prima o poi mi avrebbe sicuramente spedita nel suo ufficio, era matematico: i guai in genere mi trovavano sempre. Rabbrividii al solo pensiero.
Quando io e Nicole entrammo nella nuova classe la lezione era iniziata da ben cinque minuti; fortunatamente il professore di biologia non c rimproverò, sicché mi trattenne alla cattedra per consegnarmi un libro antico quanto l’istituto che ci ospitava. Non feci in tempo a mettermi seduta che subito dovetti rialzarmi: il prof Bennet ebbe la meravigliosa idea di trasportarci in biblioteca per avvantaggiarsi riguardo una ricerca sugli atomi che le mie compagne avevano iniziato una settimana prima del mio arrivo.
Mi unii a Nicole per ricreare una mappa concettuale da consegnare al nostro docente e, tra una chiacchiera sussurrata e l’altra, l’intera classe consegnò i propri lavori un quarto d’ora prima. E con cosa venimmo ricompensate? Con la lettura libera. A casa di mia nonna mi piaceva rifugiarmi nei libri, cullarmi nelle storie che contenevano l’imprevisto di una lacrima o la gradita sensazione di leggere i propri sentimenti dalla penna di un altro essere umano; ad ogni modo m’inoltrai nella vasta biblioteca osservando con divertimento i riccioli castani de professore muoversi di scaffale in scaffale, dalla sezione scolastica a quella dei romanzi. Jamie afferrò due romanzi e schizzò via dal mio campo visivo in modo tanto celere che non riuscii ad individuare i titoli. In compenso lessi quello della compagna che mi sedeva affianco. Guarda caso, un libro sui vampiri. Con la pelle d’oca pensai a quel vociferare sul fatto che la famiglia Delacour fosse stata perseguitata da alcuni cacciatori secoli fa, in quanto affetta da vampirismo. E sul presunto libro oramai andato perduto che ritraeva una donna incredibilmente somigliante alla preside, libro scomparso dal giorno in cui iniziarono a circolar quelle voci.
Prima ancora che quelle parole potessero farmi ronzare nella testa dei veri e propri pensieri incoerenti e deliranti, le ricacciai indietro, alzandomi per tornare al mio giro di perlustrazione tra gli altri scaffali.
Dacché il tempo trascorreva senza che io trovassi niente di particolarmente interessante stavo giusto per allungare una mano e prendere un libro a caso, quando un tonfo inaspettato alle mie spalle fece sobbalzare ogni cellula del mio corpo. Mi voltai di riflesso accorgendomi di un libro a terra, aperto a metà con le pagine spiegazzate sotto la copertina per via della caduta. Fu allora che, chinandomi per raccoglierlo, intravidi tra la fessura da dove era volato giù, un paio di occhi che mi stavano osservano. Strozza un grido a stento. -“Scusami, se ti ho spaventata”, si affrettò a dire il visitatore distratto, nonché il figlio della Delacour,-“mi è caduto. Potresti raccogliermelo?”
Tanto lo spavento che feci come mi aveva chiesto senza rispondergli.
-“Ti ringrazio”, mi disse cordiale, mostrandomi un sorriso titubante. Rimanemmo ad osservarci come due perfetti imbranati.
-“Stai cercando un libro in particolare?”, mi domandò di punto e in bianco. E adesso il suo sorriso incerto era divenuto in qualche modo divertito. Avvampai, perché con qualche buona probabilità si stava domandando se soffrissi di qualche disturbo comunicativo. Raccattando tutta la mia sanità mentale ricambiai il sorriso e risposi:
-“Sì, l’ho appena trovato.” Detto questo mi voltai, allungai una mano prendendone uno a caso come mi ero prefissata e mi rigirai, simulandomi soddisfatta in modo da tagliare lì la conversazione.
-“Devo proprio andare, tra poco mi tocca ritornare in classe.” Strinsi il libro al petto e trotterellai verso il mio tavolo non concedendo a William nemmeno il tempo di salutarmi.
Ma dopo un paio di minuti mi accorsi di un certo movimento di fronte al mio tavolo e, non resistendo a non alzare lo sguardo, incontrai nuovamente quello di William che, fattosi serio, mi augurò un buon proseguimento di giornata. Gran parte delle teste si voltarono verso di me.
Jamie, dall’altra parte del tavolo, mi strizzò un occhiolino. Mi ritrovai a balbettare qualcosa di incomprensibile persino per me stessa. Il suono della campanella mi permise di recuperare un certo contegno e, senza sapere perché, provai l’impulso urgente di uscire da quella biblioteca. Questo fin quando una mano non strinse un lembo della mia divisa facendomi indietreggiare.
-“Collins, dove pensi di andare?”, mi chiese un’indignata Camille.
-“Sto uscendo dalla stanza come stanno facendo tutte. Sai com’è, è suonata la campanella.”
-“Forse con te non sono stata abbastanza chiara.” Ed ecco tornare il tono minaccioso e velenoso di due orette fa. Sapevo dove sarebbe andata a parare.
-“Quale parte del ‘devi stare lontano da William’ non ti è chiara? Se vuoi te la rispiego.”
Alzai gli occhi al cielo, con voglia zero di controbattere.
-“Scusa Camille, ma ho cose più importanti a cui pensare.”
-“Collins, io ti ho avvertita. Saprei come rendere la tua permanenza un vero inferno.”
-“Oh”, feci allontanandomi,-“sto tremando dalla paura”, bisbigliai poi, uscendo dalla biblioteca dove Jamie sembrava attendermi con un stano luccichio infondo agli occhi.
-“Ti stavo giusto cercando.”
-“Sai, Camille mi ha…”
-“Okay, non m’importa di Camille”, tagliò corto agitandomi un dito davanti alla bocca. I lati delle sue labbra si sollevarono in un inequivocabile sorrisino cameratesco.
-“Allora?”, domando, in attesa.
-“Allora, cosa?”, ribattei confusa.
-“Ti ho vista parlare con William. Cioè, tutte ti hanno vista parlare con William. Che, per inciso, non ha fatto altro che osservarti per tutto il tempo e tu nemmeno te ne sei accorta. Certo che se fossi in te mi sentirei lusingata.”
-“Non si può proprio dire che stavamo sostenendo una conversazione… so solo che è un tipo davvero, davvero bizzarro.”
Mi scrutò per qualche secondo di troppo in silenzio, come se stesse cercando sul mio viso un qualcosa capace di tradirmi…e poi azzardò un qualcosa che mi fece rimpicciolire dall’imbarazzo.
-“Secondo me tu gli piaci!”
-“Stai delirando, amica”, obiettai, guardandomi intorno con la vaga impressione che Jamie avesse urlato più del dovuto.
-“Perché Jamie sta delirando? Non che sia stata normale nei giorni addietro.” La voce di Nicole provenne dalle mie spalle, quando entrò nel nostro campo visivo mi parve più reduce da un lungo sonno che da una lettura profittevole. Jamie sbuffò, borbottando.
-“Non sto impazzendo, sto solo sostenendo che, per me, William mostra un interesse particolare per la nostra cara amica Emily.”
Spostai lo sguardo su Nicole che rimase con le sopracciglia aggrottate, senza commentare, anche nei suoi occhi balenò una luce.
-“Oh, beh, dovresti essere al settimo cielo per attirare l’attenzione di un tipetto così.”
-“Vedi?”, m’incalzò Jamie, forse non captando il tono sarcastico di Nicole.
Alzai le mani in segno di resa, cercando di non cedere ad altre provocazioni e insinuazioni che altrimenti mi avrebbero fatta imbarazzare sino al balbettio; dunque passammo ad altri argomenti, ad altre faccende. Il resto della giornata non fu totalmente monotono: concluse le ore obbligatorie di lezione, ci dividemmo per frequentare dei corsi extra che ci permettevano di far allenare il nostro cervello (vedi corso di scacchi o il corso accelerato di matematica), la nostra creatività (vedi corso di pittura, scrittura e musica) oppure che miravano a sviluppare una brava e buona signorina a modo (vedi corso di cucito e cucina). Proprio in quest’ultimo –dopo aver eccelso in quello di pittura- avevo ritrovato Jamie che desiderava con tutte le sue forze coinvolgermi nel boicottare il preparato per dolci di Camille; ma io, terrorizzata dalle inevitabili conseguenze che avrebbero seguito quell’atto, riuscii miracolosamente a frenarla.
Infine, scoccate le sette di sera, fui lieta di gettarmi gloriosamente sul letto per godermi un istante di meritata pace.
-“Non so se riuscirò a resistere a stare qui dentro”, borbottai rimanendo a pancia in giù sul letto. -“Sembravi entusiasta, prima, delle ore libere.”
-“E’ stata l’euforia del momento. Cosa vuoi che sia un momento comparato all’infinito di questa catastrofica prigionia?”
-“Wow-ooh, Jamie, hai sentito? C’è un poeta dentro Emily”, scherzò Nicole, sedendosi sul letto. Osservai entrambe, avvertendo una sensazione di gelosia nel vederle in possesso di tanto autocontrollo e apparente buonumore; io chiusa in quelle quattro mura minacciavo di esplodere da un momento o l’altro.
-“Chiunque è qui dentro perché non ha altra scelta,” asserì Jamie, sospirando,-“beh, chi più chi meno.” Mi tirai a sedermi, distendendo le gambe.
-“Qual è la tua storia, Jamie?”
Prima di rispondere mi sorrise, non mostrando disagio.
-“Hai presente quelle scene che si vedono nei film, quelle in cui i bambini vengono abbandonati di fronte ad una porta di una casa qualunque? Ecco, la mia storia è semplicemente e tristemente questa.”
Non cercai nemmeno di nascondere tutto il mio sgomento.
-“E non sai niente dei tuoi genitori biologici?”
-“Niente di niente. Non ho avuto mezzi per cercare di rintracciarli. E da quando mia ‘madre’ è morta dopo una lunga malattia, io sono finita in questo collegio. Forse, fuori di qui…magari li cercherò in qualche modo.”
-“Il modo in cui lo racconti, sembri così…solida.”
Col senno del poi compresi che forse avrei potuto dire un qualcosa di più adeguato o intelligente ma, ragazzi, era l’unico commento che riuscii ad articolare. Perlomeno riuscii a farla ridacchiare.
-“Non che sono –come hai detto?- solida, ma è che dopo un po’ riesci a conviverci con il tuo passato, per quanto brutto o triste sia stato.”
-“Come darti torto. E tu, Nicole?”
Guardai Nicole e sembrò essere stata colta di sorpresa dalla mia attenzione, mi parve di leggere nei suoi occhi dell’incertezza o disagio ma, prima che potessi esserne certa, lei sbatté le palpebre rispondendo: -“Io non ho niente di paragonabile alle vostre storie…voglio dire…”
Lei scosse il capo per farmi intendere che non c’era nessun problema.
-“I miei genitori sono vivissimi”, premise,-“io sono qui per…”
-“Ribellione”, suggerì Jamie, come se avesse discusso di quell’altro altre volte e avesse dedotto che Nicole era confinata nella parte del torto. M’incuriosii.
-“Ma quale ribellione! Non darle retta. Comunque, Emily, mia madre e mio padre si sono separati parecchio tempo fa e, sempre tempo fa, mia madre ebbe un colpo di fulmine da adolescente in preda a tempeste ormonali con uno zotic…”
-“George”, puntualizzò, ancora, Jamie.
Nicole fece un gran sospiro, poggiando i gomito sulle ginocchia piegate.
-“Jamie è la mia life coach, fa in modo che io non mi…mmm, agiti più del dovuto. Comunque. Io e George non andiamo propriamente d’accordo, tra l’altro conduce un’attività che lo vede spesso soggiornare per un periodo di tempo prolungato in varie città sparse per il mondo e mia madre, pur di non lasciarlo andare da solo –in pena per vedere andare in fumo anche questa relazione,- ha deciso di seguirlo ovunque andasse, ed io con loro. Sono stata a Parigi, Mosca, Berlino e poi di nuovo Londra fin quando un bel giorno ho deciso che avrei preferito rinchiudermi in collegio piuttosto che vivere con loro e come loro. George mi prese alla lettera, ed eccomi qui. Sperando che a loro arrivi un messaggio chiaro e tondo, s’intende.”
-“Oh”, commentai con autentico stupore,-“accidenti. Non avevo mai sentito niente del genere.”
Che altro potevo dire? Di sicuro non potevo giudicare quel suo gesto disperato, così optai per un breve silenzio di riflessione.
-“Pensi che in questo modo tua madre e George possano trovare una stabilità, tipo mettere la testa apposto, sistemarsi ed essere una famiglia normale come tu vorresti?”
-“Più che altro”, rispose abbassando gli occhi ed incupendosi di colpo,-“vorrei George fuori dalla nostra vita.”
Non saprei dirne il motivo, ma ebbi l’impressione che indagare sul perché e su altre motivazioni non mi avrebbe portato a niente di buono, così lasciai declinare la conversazione con un commento di circostanza, riuscendo ancora una volta a strappare un sorriso ad entrambe.
Sorriso che si sgretolò non appena nella stanza si udì una voce piena di scherno e derisione dire:
-“Il circolo delle sfigate che s’improvvisano uno sleepover club. Siete proprio tristi.”
Camille era comodamente adagiata sul suo letto, con le gambe che ciondolavano oltre il bordo del materasso, e così mi fu chiaro che aveva ascoltato più di quanto le sarebbe stato concesso. Non solo era velenosa come una vipera, ma a quanto pare si muoveva anche come tale: non l’avevo né vista né sentita arrivare.
-“Stavamo parlando di cose serie.”
-“Non devi giustificarti con lei, Jamie. Non è proprio nessuno.” Alzai volutamente la voce per far giungere alle orecchie di quella serpe tutto l’astio con cui avevo condito quelle parole.
Grugnì qualche imprecazione e poi si rivolse direttamente a me.
-“Collins, ma lo sai che mi dai proprio sui nervi? Tu e la tua aria da superiore?”
-“Perché ce l’hai con me, Camille?”, le domandai esasperata. Quel giorno mi aveva marcata stretta.
-“Lasciala stare, Emily”, s’intromise Jamie,-“forse ha finalmente capito che con William non ha nessuna possibilità, indipendentemente da te, ma comunque deve sfogarsi sull’oggetto delle attenzioni di colui che non sarà mai suoi.”
Cielo, se Jamie aveva assunto un’aria e un tono di voce da prenderla a schiaffi. Aveva innescato una bomba, capii nel vederle gli occhi di Camille, la quale aveva perduto tutto il colorito.
-“Ripeti?”, sputò, balzando in piedi. A quel punto la sua rabbia si era definitivamente spostata da me. -“Ho solo detta la pura e semplice verità. O sei anche sorda oltre cattiva?”, rispose l’altra, ancora più impertinente di qualche secondo prima, alzandosi per fronteggiarla.
E poi, in un battito di ciglia, successe l’inevitabile. Non feci in tempo a poter evitare la magagna, ahimé, che Camille si era già avventata contro Jamie. Le due capitolarono sopra il letto su cui era rimasta Nicole che, impietrita, si portò le mani sulla bocca osservando le due con gli occhi sgranati.
Le mani della bionda erano morse pericolose, quelle di Jamie fendevano troppe volte il vuoto; le due si presero a pugni come due uomini fuori di senno. Fu quando vidi sanguinare il naso di Jamie che riuscii a scrollarmi di dosso lo stato di catalessi in cui ero caduta e mi fiondai sulle spalle di Camille per tirarla via dalla mia amica.
-“Lasciala stara, adesso, Camille! Smettetela!”, strillai, digrignando i denti per lo sforzo.
In risposta mi arrivò una gomitata dritta in bocca, impatto che mi fece rovesciare a terra come una bambola di pezza.
Le mani di Nicole vennero in mio soccorso tirandomi in piedi.
-“Ti prego, Emily, per l’amor del cielo, fermale!”
Con un dolore allucinante che partiva dalla bocca fino al mento, tornai alla carica e bloccai le braccia di Camille, riuscendo finalmente a staccarla da Jamie, per poi scaraventarla furiosamente contro il muro.
-“Ma si può sapere cosa vi è preso? E tu, Jamie!” Mi volta, sgolata verso la mia amica pesta. Solo in quel momento, mentre stavo zitta, mi resi conto di quanto irregolare battesse il mio cuore.
-“Collins”, era Camille, affannata,-“non ti intromettere mai più.”
-“Non essere ridicola”, masticò Nicole, raggiungendo Jamie,-“stai sanguinando dal labbro, Emily.”
-“Accidenti.”
Istintivamente mi pulii il labbro inferiore con la lingua, invadendo il mio palato col sapore metallico del sangue; dunque sfiorai la ferita con un dito per esaminare il taglio.
-“Esce ancora. Vai in bagno, è meglio.”
Seguii il consiglio di Nic, ma prima ancora che potessi arrivare davanti allo specchio, un botto sordo mi bloccò e mi fiondai nuovamente in stanza temendo di poter trovare ancora quelle due azzuffarsi… quando invece mi trovai davanti l’ultima persona che mi aspettavo di vedere.
La Delacour.
Accanto a lei vi era una ragazza minuta, probabilmente più piccola, appartenente ad una delle stanze affianco. -“E’ successo qui. Si stavano picchiando e gridando”, disse la ragazzina indicandoci una per una.
Impallidii, sconvolta.
La preside dondolò il capo entrando completamente nella stanza, dove i suoi occhi si perlustrarono l’ambiente con occhi colmi di disappunto: i cuscini erano sparpagliati a terra, i letti su cui quelle due se l’erano date erano sfatti, le coperte che fuoriuscivano dall’incastro col materasso…e poi i suoi occhi finirono ad osservare il mio labbro spaccato. Senza pensarci mi portai una mano a nascondere l’accaduto. Capii al volo di essermi tradita da sola.
-“Collins.” Il suo tono sembrava la conclusione di una lunga riflessione.
Quella maledetta spiona al suo fianco!
-“S-sì?”
-“Ebbene Miss Delacour ho cercato in tutti i modi di fermarle”, proruppe Camille andando incontro alla preside,-“ma Jamie ed Emily erano troppo… indomabili per poterle contenere. Quando sono entrata in stanza le ho già trovate che si stavano prendendo per i capelli.”
Non potendo credere sul serio alle mie orecchie incrociai l sguardo di quell’attrice da due soldi di Camille, che indovinate un po’, era riuscita a darla a bere alla preside. Gli occhi di ghiaccio di quest’ultima parvero assumere una sorta di eccitazione nell’udire quel resoconto; probabilmente erano la conferma cui anelava. Io m ritrovai a domandarmi dove fosse andato a finire il calore del mio corpo.
La Delacour schioccò le labbra e non ci sarebbe nemmeno stato il bisogno di parlare che sapevo già cosa stesse per dire.
-“Nel mio ufficio. Domani mattina presto, prima dell’inizio delle lezioni”, scandì parola per parola, -“sono veramente delusa dal vostro comportamento. Questa sera abbiate la decenza di non presentarvi a cena, impiegate il tempo a riflettere sui vostri errori. Incoscienti”, concluse.
I suoi occhi guizzarono di nuovo sulla mia ferita ancora pesta di sangue; sembrò esaminarla e poi se ne andò emettendo una specie di lamento. Aggrottai le sopracciglia e la porta si richiuse con un cigolio e un rumore a dir poco sinistro.
-“Ottima performance, davvero!”, sbottai allontanandomi da lei.
Mi pentii amaramente di non aver replicato. Cielo, se me ne pentii! Non potevo minimamente concepire la sua malignità nei miei confronti, forse potevo comprenderla nei confronti di Jamie, ma non verso di me. Io, la nuova arrivata, ero lì da appena tre giorni.
-“Così imparerai che vuol dire pestare nel mio territorio, Collins.”
Non risposi, mi limitai ad osservarla mentre usciva dalla stanza. Pienamente soddisfatta di se stessa. Quella sera io e Jamie rimanemmo in camera. A giudicare dalle occhiatine di sottecchi che ci scambiarono le altre dovevano già esser state informate riguardo l’accaduto.
Rimasi seduta sul letto portando le ginocchia al petto e poggiai il mento su esse, cercando di far sbollire il nervosismo. Difficile, con il mio cervello che fantasticava su cosa la Delacour avesse in mente per me e Jamie: quale tortura? Quale castigo? E soprattutto: perché? Perché far subire tutto questo? Mi era stato riferito che questo era un luogo piuttosto singolare ma non avevo creduto fino a questo punto. Affondai ancora di più la testa tra le ginocchia e strinsi con forza le gambe al petto, come se mi stessi facendo scudo dai miei stessi pensieri.
E all’improvviso un tuono rimbombò facendo tremare le pareti e sobbalzare la sottoscritta.
-“Accidenti”, mugugnai nervosa, gettando un’occhiata alla finestra. Il tempo andava via via a peggiorare, e il primo carico di pioggia iniziava a venire giù.
-“Sei agitata?” Jamie aveva rotto il silenzio riuscendo dal bagno. Prima non avevamo fiatato, chiuse in un silenzio di rimprovero contro noi stesse: dovevamo difenderci. Tutto qui.
-“No”, mentii,-“e tu?”
-“Come te.”
Sorrisi debolmente.
-“Arrabbiata?”
-“Ovvio!”, esclamò poggiandosi contro il muro accanto alla cornice della finestra,-“la preside non conosce mezze misure e tende sempre a credere a quella leccapiedi di Camille. Forse perché sono fatte della stessa pasta, chissà.”
-“E’ veramente frustrata quella ragazza. E cattiva.”
-“Eh?”
-“Dico, Camille. E’ cattiva.”
-“No, non ce l’avevo con te. Vieni un po’ a vedere”, farfugliò, schiacciando il naso sul vetro. Scesi giù dal letto e raggiunsi Jamie. Ridussi gli occhi a fessura per focalizzare cosa stesse osservando con tanta curiosità. -“Io non vedo niente. Cosa hai visto?”
-“William.”
Al suono di quel nome fui percorsa da un lungo e lento brivido. Scossi il capo per darmi un contegno. -“E cosa ci fa ancora nel giardino con questo tempo?”
-“Se ne fossi sicura giurerei di averlo visto scendere da quest’albero”, mi rispose Jamie, mostrandomi un’aria perplessa, come se lei per prima non credesse a quello che stava dicendo. E come darle torto? L’albero vicino alla finestra era fin troppo alto, per non parlare dell’assurdità dell’arrampicarvi.
Provai ad aguzzare la vista pulendo il vetro con un lembo della manica, ora appannato dal nostro respiro e…eccolo! Accanto ad altri due alberi, sembrava stesse ricercando un modo per nascondersi, come se avesse intercettato i nostri sguardi curiosi.
-“Quando intendevo che lo trovavo bizzarro, dicevo per questo”, mormorai alludendo al fatto che adesso, William, si era spostato dal suo nascondiglio, mirando un punto che noi non potevamo seguire.
Aveva i capelli talmente fradici che sembravano neri e l’acqua scorreva sul suo giubbotto, i pantaloni che aderivano come panneggi alle sue gambe toniche, affusolate.
-“E’ la prima volta che lo vedo gironzolare qui sotto di sera”, rifletté Jamie, -“Strano. La Delacour non vuole che suo figlio stia troppo tempo nel collegio, salvo le ore di lavoro, s’intende.”
Nella sua voce potevo sentire tutta la condanna del frequentare un collegio esclusivamente femminile.
-“E come mai?”
-“Dice che la sua presenza potrebbe distrarci dai nostri compiti e dalla nostra educazione”, mi rispose imitando la voce oscura della preside. Risi scuotendo la testa.
-“Eppure non ha tutti i torti, no?”, aggiunse facendomi smorzare il riso, indirizzandomi un’occhiata pregna di significato. Io non mi sbilanciai e mi limitai ad annuire.
Quando entrambe tornammo a guardarlo, rimanemmo poco sorprese dal fatto che si fosse spostato. Le sue spalle erano curve, sembrava avesse puntato qualcosa in lontananza; ero davvero impaziente di vedere –e soprattutto capire- cosa stesse facendo o cosa stesse per fare, ma al borbottare grave di un tuono io e Jamie saltammo dalla paura. Ci scontrammo e come due perfette idiote sbandammo fino quasi a cadere.
-“Santo cielo!”, disse, ridacchiando, con le orecchie che le erano diventate rosse.
Tornai subito ad osservare William ma di lui non vi era più traccia.
Un’inspiegabile sconforto si abbatté su di me.
-“E’ andato. Magari stava dando la caccia a qualche animale. Una volta sono entrati due tassi, la Delacour li ha fatti sparire in tempi record.”
Tornammo nei nostri rispettivi letti, senza più nessuna distrazione.
-“Prima che rientrino le altre preferirei addormentarmi”, mi confessò la mia amica spegnendo l’abat jour sul comodino.
-“Sì, in effetti credo sia meglio. Buonanotte Jamie”, dissi, imitando i suoi gesti.
-“Buonanotte a te, Em. E stai tranquilla: andrà tutto bene.”
Furono quelle le ultime parole che sentii quella sera; talmente stanca da sprofondare immediatamente in un sonno profondo. Ricordo che durante quella notte sognai qualcosa che, però, non riuscii a ricordare una volta sveglia, nonostante avessi cercato di recuperare qualche immagine che mi stuzzicava ancora la mente, nel dormiveglia.
Mi stropicciai gli occhi osservando la stanza colorirsi al passaggio dei primi freddi raggi solari… dunque capii che erano le primissime luci del giorno, quelle.
-“Oh, no”, borbottai, -“è ancora troppo presto.”
Fuori si prosperava bel tempo, proprio quel giorno che tutto poteva essere fuorché bello. Cercai di scendere giù dal letto senza farlo troppo scricchiolare, in modo da non disturbare il sonno beato delle altre. Entrando in bagno, cercai a tastoni l’interruttore per accendere la luce, il quale riuscii a trovarlo solo dopo aver fatto fuori alcune sedie lì vicino. Dovevo ancora imparare ad orientarmi. Accesa la luce ciondolai fino al lavandino.
Mi spruzzai sulle mani un po’ di sapone liquido al cocco e mi sciacquai lentamente. Tanto non mi correva dietro nessuno, per una buona volta. Fatto ciò mi strofinai i denti con scrupolo e infine indossai, controvoglia, la divisa. Più passava il tempo e più mi sembrava impossibile abituarmi a quella rigidità.
Quando mi guardai allo specchio per esaminare in che stato fossi fui piacevolmente sorpresa: avevo il viso rilassato nonostante l’angoscia e il rifiuto per tutto ciò che mi circondava mi logorasse, e miei capelli si erano mantenuti morbidi e lucenti nonostante l’umidità. Poi il mio sguardo cadde sul labbro semi distrutto, la mia mente rievocò le immagini spiacevoli dell’episodio del pomeriggio precedente. Quella piccola grande vipera, pensai immaginando di prenderla a pugni. Ma le fantasie della mia mente si bloccarono perché in me risuonò una frase che mai avrei voluto sentirmi dire: “nel mio ufficio. Prima delle lezioni.”
Rabbrividii. Ecco il motivo inconscio per cui mi ero svegliata così presto, solo in quel momento me ne resi conto. E quando tutto sembrò essermi più chiaro un’ombra riflessa in modo improvviso nello specchio mi fece sobbalzare. Mi voltai di scatto strozzando un grido.
-“Santo cielo!”, esclamai con il cuore a tremila.
-“Scusa, non volevo spaventarti.” Jamie aveva la voce e le sembianze di uno zombie. Gli occhi erano gonfi e i capelli erano conciati in uno stato terribile, alcune ciocche parevano bagnate. Quei piccoli dettagli mi fecero insospettire pensando che avesse pianto per tutta la notte. Si trascinò fino al lavandino, posando la divisa sulla sedia accanto dove io mi appallottolai. Aspettai che lei si preparasse a dovere, in silenzio assoluto. L’unico rumore che regnava nel bagno era lo scrosciare timido dell’acqua. Molto probabilmente anche lei non desiderava svegliare le altre.
-“Sai che ore sono?”, le domandai, dopo.
Jamie ancora con lo spazzolino in bocca scosse la testa. Poi sputò e si pulì.
-“Credo molto presto. Più di quanto possiamo immaginare”, disse con uno strano tono. Le risposi con un verso inudibile e ritornai nel mio silenzio.
Per tutto il tempo, almeno fino al risveglio delle altre, gironzolammo per i corridoi senza farci sentire. Se poco prima credevo che il collegio sembrasse spettrale, dovetti ricredermi: di prima mattina, con i primi strascichi di luce, anche quel posto pareva assumere un’aria accogliente e calda. Persino le pareti grigiastre sembravano aver acquistato più colore; le scale non erano nemmeno tanto minacciose come quando ci vidi la Delacour o Camille salirci. Sorrisi del mio pensiero: di sicuro Camille era il male minore in confronto con la preside, ma anche lei aveva la sua buona dose di cattiveria. Basti vedere il viso preoccupato di Jamie, e il terrore che avvertivo io. In fondo era colpa sua se entrambe rischiavamo l’espulsione. Beh, forse per la Delacour sarebbe stato un premio sbatterci fuori dal suo istituto.
Mentre camminavamo per l’atrio, osservando gli svariati quadri, colsi i miei stessi pensieri sul volto assente di Jamie. Molto probabilmente lei avrebbe preferito essere espulsa.
Stavo giusto per aprire bocca, tanto per sillabare qualcosa di irrilevante per alleggerire l’atmosfera, qualcosa o meglio qualcuno fece sbattere troppo rumorosamente la portafinestra dietro di noi. A quel punto ci voltammo entrambe –nella mia mente si erano già designati i lineamenti di William- ma la persona che ci venne incontro era la Belfiore.
-“Ragazze cosa ci fate già in piedi?”, ci domandò perplessa. Allora nel collegio le notizie non viaggiano così in fretta come pensavo. Lasciai rispondere Jamie, io ne avrei fatto a meno di sentire lo sconforto nella mia voce.
-“Ci siamo svegliate prima del previsto. Tanto tra poco è ora di colazione, quindi…”, mugugnò torturandosi le dita. Ancora scettica la Belfiore si tirò su la manica scrutando il suo orologio da polso, vecchio quanto mia nonna. La mia povera nonna.
Poi sembrò cadere dalle nuvole.
-“Accidenti. Non credevo fosse così tardi per me. Devo assolutamente correggere alcuni compiti entro stamattina. Beh, ragazze è arrivato il momento dei saluti: ci vediamo a lezione.” E detto ciò si congedò attraversando l’aula degli insegnanti. Solo in quel momento mi accorsi dell’esistenza di quella stanza accanto alle scale.
Io e Jamie rimanemmo inermi al centro dell’atrio, aspettando che la campanella suonasse per annunciare l’inizio di un nuovo giorno, che per noi due era amaramente iniziato da un po’.
-“Io propongo di dirigerci verso l’ufficio della Delacour”, disse, anticipando il suono ronzante che stava attendendo, il quale riscosse l’intero collegio.
Mentre ci trascinavamo con passo di due condannate al quarto piano, nel passare nei piani dei dormitori sentimmo le voci assonnate delle altre e la vita ce si risvegliava.
Una volta arrivate di fronte alla porta dello studio della Delacour entrambe ci sentivamo in dovere di scambiarci una qualche parola di conforto; parola che, per quanto ci sforzassimo, rimaneva impigliata sulle nostre lingue.
-“Bussa. Siamo in due, andrà tutto bene”, riuscì a dire Jamie con la voce che le si spezzò sull’ultima parola. Tentò anche di simulare un sorriso ma questo le morì prima ancora di raggiungere gli occhi. Dunque annuii, presi una bella manciata di ossigeno e, cercando di ignorare il tremore che si era impadronito dei miei arti che sembrava non volermi concedere tregua, bussai. Non appena le mie nocche si abbatterono sulla superfice della porta, la voce saettante della preside ci concesse di entrare.
Obbedii spalancando la porta, la quale si fece aprire con un cigolio straziante.
L’ufficio non era particolarmente grande, e quella poca profondità che offriva era occupata da una lunga libreria che si ergeva piena zeppa di libri rilegati in pelle. Chissà perché non mi sorpresi della lugubre carta da parati che la preside aveva scelto per il suo posticino; un blu violaceo smorto, buio, che conferiva severità a tutto l’ambiente già poco illuminato dall’unico finestra che si affacciava sul cortile principale. Nonostante ciò la mia attenzione fu catturata dall’unico tocco di colore presente nella stanza: una cornice dorata incorniciava un dipinto ritraente un giovane uomo distinto che cingeva i fianchi di una donna dal volto famigliare.
L’espressione di lui era fiera e disarmante, quasi stesse fissando colui che osservava l’opera, quella di lei era l’espressione di una donna appagata, dolce. Solo dopo una brevissima e accurata occhiata capii che quei tratti, quegli occhi, appartenevano a Jennifer Delacour.
Lottai con tutte le mie forze per non esibirmi in mugolii di sorpresa perché, credetemi, era a dir poco spiazzante vederla in un contesto così romantico, seppur si trattava di osservare un disegno. Come se questa avesse letto i miei pensieri, si lasciò andare ad un colpo di tosse piuttosto spazientito ed eloquente.
-“Buongiorno signorina Collins e signorina Sandford”, esordì e il modo con cui pronunciò i nostri cognomi mi fece rizzare i peli fin sopra la radice. La Delacour sedeva sulla poltrona girevole oltre la scrivania, sui cui aveva puntato i gomiti. Ebbi come l’impressione che stesse per decidere la nostra sorte proprio in quel momento. E così mi preparai al peggio, inutile trovare appigli, inutile ipotizzare in un escamotage capace di trarci d’impiccio.
-“Buongiorno”, rispondemmo ad unisono, educate.
La Delacour fece un ghigno, richiudendo il libro che stava leggendo e depositandolo nel primo cassetto. -“Che dire. Sono veramente rammaricata per il vostro comportamento”, scosse il capo, alzandosi,-“Il nostro convitto vanta alle sue spalle anni ed anni di insegnamento, rispetto ed educazione, da prima ancora che arrivassi io. Azzuffarsi e gridarsi in faccia non è un comportamento degno né ammissibile.” I suoi occhi trafissero entrambe. Sentii lo stomaco svuotarsi di colpo.
-“Signorina Sandford, sei sempre stata una ragazza rispettosa e diligente. Eppure, questa è la seconda volta che la vedo convocata nel mio ufficio. Incredibile l’ascendente che la signorina Collins ha sul suo comportamento.”
Con la coda dell’occhio vidi Jamie fare un passo in avanti ma, prima che potesse aprire bocca per replicare, la Delacour posò il suo sguardo su di me. Decisi che avrei provato a ribattere, non avevo niente da perdere e non era colpa nostra.
-“Emily Collins”, sputò il mio nome, alzando il mento,-“non desidero avere elementi negativi nel mio istituto. Né elementi che le altre mie ragazze possano prendere a modello. Purtroppo, non mi lasciate scelta di punirmi severamente”, decretò e mi mancò letteralmente la terra sotto i piedi. Le parole che tanto desideravo pronunciare mi si ingarbugliarono in gola senza possibilità di uscire dalla mia bocca. Nonostante il suo viso non preannunciasse nulla di così terribile, nelle sue parole scorsi tutto l’orrore di ciò che non potevamo evitare. Cercai di trovare un contegno, in fondo avrei potuto ancora cambiare la situazione perché no, no, non poteva finire così.
Feci un passo avanti aprendo la bocca per dire chissà cosa quando, in modo del tutto inaspettato la porta dell’ufficio si aprì sbattendo contro il muro, ed io sentii un brandello di speranza in più farsi largo nel mio cuore. Mi voltai per vedere quale miracolo mi stava concedendo i secondi o i minuti per riprendere il controllo di me stessa e fui oltremodo stupita nell’incrociare gli occhi di William. i suoi esibirono tutta la sorpresa del trovarci lì, tant’è che fece guizzare il suo sguardo da Jamie e me. Me e Jamie. Per poi assestarlo sulla madre.
-“Buongiorno. Scusate l’interruzione, non credevo di trovarci delle visite.”
-“Buongiorno, figliolo.”
-“B-b-buongiorno”, balbettammo in coro io e la mia amica.
-“Intuisco che c’è qualcosa che non va. Puoi informarmi brevemente?”
Sembrava spazientita.
Lui ci dedicò un’altra occhiata.
-“Volevo solo informarti che oggi sono arrivato prima de previsto.”
-“Magnifico. Allora raggiungi Simus nel capanno. Sarà sicuramente lieto di vederti così presto oggi. Come vedi tu hai il tuo lavoro, ed io il mio.”
L’ultima frase sembrava impregnata di strani e terrorizzanti sotto intendimenti che solo la mia mente impappinata di paura poteva cogliere. I due rimasero in silenzio, l’uno di fronte all’altro, come impegnati in una muta conversazione.
Io e Jamie ci scambiammo un’occhiata confusa, in attesa della fine del conflitto madre-figlio.
-“Ti vedo più pallido del solito. Stai mangiando? Hai fatto colazione?”
-“Oh, sì, madre. La mia solita colazione, la stessa che dovresti fare tu”, la voce di lui si fece sottile, graffiante e, ancora una volta, ebbi l’impressione che dietro quello strano scambio di battute ci fosse un altro discorso trincerato.
-“Dobbiamo parlare, adesso”, ordinò, poi, William, appoggiando i pugni contro la scrivania.
-“In questo momento sto cercando di salvaguardare il nome di questo istituto. E non ho voglia di sentire i tuoi tormenti interiori”, sussurrò la Delacour in risposta, aggiungendo dell’altro che però non captai.
Si scrutarono per un po’, fin quando William non cedette.
-“Forse è meglio che vada. Per adesso.”
Girò i tacchi e diede un’occhiatina a Jamie, dunque si soffermò a guardare me più a lungo. Adesso che potevo vederlo in viso mi resi conto di quanto fosse alterato: la mascella era contratto, le narici dilatate e uno sguardo cupo gli stravolgeva i bei tratti.
Aprì la porta con un gesto nervoso, indugiando sulla soglia, magari sperando che sua madre gli concedesse il tempo a cui anelava. Invece non arrivò un bel niente.
-“Buona giornata.” Furono le sue ultime parole prima di richiudersi la porta alle spalle.
Confusa da tutto ciò che era successo e stremata per l’attesa del castigo, non sentii la Delcour rivolgersi a me.
-“Collins, hai intenzione di ignorarmi ancora per molto?”, quasi gridò, infastidita di non essere presa in considerazione.
Anziché arrossire, impallidii.
-“Sì, chiedo scusa.”
-“Dove eravamo rimaste? Ah, dunque: la vostra disciplina.”
Aprì un cassetto alla sua destra ed estrasse una frusta; improvvisamente sembrava volerla farla finita in fretta. Mi si mozzò il respiro e già potevo sentire il dolore invadere le mie spalle innocenti.
-“Jamie…”, iniziò la Delacour ma, prima che potesse proseguire, Jamie ebbe una crisi di pianto. Quando la guardai la vidi paonazza, con le mani cercava di trattenere i singhiozzi. L’ingiustizia e la paura mi fecero finalmente aprire la bocca:
-“Un momento!”, implorai, non senza tremare,-“Miss Delacour! La verità è che non è colpa nostra, se solo mi concedesse un minuto per spiegare, racconterei il fatto come è accaduto realmente.”
Questa mi guardò alzando un sopracciglio; ma io ero lontana dall’arrendermi ora che avevo ritrovato la voce. -“Camille ci ha indicato colpevoli ma è stata lei la prima ad aggredire Jamie. E’ una vipera, e questo sono pronta a sottoscriverlo. Mi deve credere Miss, noi non abbiamo fomentato nessuna lite. Questa è la verità. Nient’altro che la verità.”
-“Santo cielo, Emily”, sibilò Jamie, possibilmente ancora più nel panico.
Io guardavo la Delacour che sembrava riflettere sulle mie parole. Cercai di capire cosa le passasse per la testa. Doveva credermi, la mia voce era veramente al limite della disperazione. Eppure la preside scosse il capo, sostenendo:
-“Prendersi le proprie colpe è sinonimo di responsabilità, signorina Collins. Accusare qualcun altro…”
-“Ma sto dicendo la verità!”, la interruppi, fuori controllo, la voce schizzata di qualche ottava.
-“Non voglio sentire altro!”, gridò di rimando lei,-“Non metterti in una situazione ancora più spiacevole di questa”, finì di rimproverarmi, con una cattiveria immane. Quindi spostò lo sguardo su Jamie e la invitò a scoprirsi le spalle.
-“No, Jamie”, mimai con la bocca quando, voltandosi, si girò per alzarsi il pullover e la camicetta. Tentò di farmi tacere con la forza dello sguardo, ma…
-“No!”, strillai,-“Jamie non c’entra, non c’entra niente è solo colpa mia”, dissi tutto d’un fiato, creando un alibi improvviso nella mia testa. Jamie lasciò cadere le braccia guardandomi come se stesse osservando una persona fuori di senno; scosse piano la testa.
Sì, Jamie. Ora tocca a me ricambiare il favore, pensai cercando di farle arrivare il messaggio attraverso i miei occhi, più che determinati.
-“Ha ragione. Forse sono un elemento negativo, forse mi servirà da lezione. Mi spiace, e sono pronta a prendere le mie responsabilità. Lasciando fuori la mia compagna.”
-“Oh no, questo no”, esclamò quella, furiosa. L’azzittii e quando vidi Jennifer riflettere per l’ennesima volta, pensai di aver fatto la cosa migliore. E se mai avessi fallito nel mio intento, beh, ci avevo almeno provato. -“Signorina Sandford, puoi andare.”
La voce della Delacour parve quella di un’assassina, ma ciò che volevo sentir pronunciare uscì dalle sue labbra marmoree.
-“Così siamo pari”, le sussurrai all’orecchio, stimolandola ad un’altra crisi di pianto. Guardò la Delacour con sguardo privo di espressione, prosciugata di tutto, mi sfiorò la spalla con le sue dita fredde.
Quando la porta si chiuse definitivamente, rimanemmo io e la Delacour e capii di non avere più scampo:
nessuna verità avrebbe potuto coprire la mia bugia.
Tornai ad osservare la lunga frusta nera e spessa che teneva fra le mani, stabilendo che non avevo mai visto un oggetto tanto minaccioso come quello. Mi scoprii lentamente le spalle, pronta ad accogliere quella sorte che parve non arrivare mai.
-“Avanti, colpisci”, dissi sottovoce, non rivolgendomi propriamente a lei. Tuttavia la udii mormorare un qualcosa in risposta, ma la ignorai. Ero tramortita, prima ancora di esserlo davvero.
Non appena chiusi gli occhi le mie orecchie registrarono uno schiocco assordante, prima ancora del dolore che arrivò propri al centro della schiena. E quando questo arrivò portò con se un’altra raffica di frustate. Ancora e ancora e…fine. Nessun altro rumore, solo dolore, bruciore. Nessun lamento, solo denti conficcati nel labbro inferiore e il principio di un giramento di testa.
-“Che questo sia un monito per le tue azioni future”, aggiunse come se non bastasse. Tirai subito giù i miei strati di vestiti, attenta a non strusciarvi sulle ferite fresche, e fu allora che vidi il pavimento ricoperto di microscopici schizzi di sangue. Del mio sangue.
Non guardarlo, per favore.
Mi scontrai contro la parete del corridoio una volta uscita nel corridoio semi affollato; sembrava un’impresa poter giungere alle scale. Tutto e tutti divennero immagini fluttuanti di fronte ai miei occhi, per niente definite. Ne riconobbi giusto una che si agitava sbraitando contro di me.
-“Sei una vera incosciente, Emily Collins!” Jamie. Stavo per svenire, sarebbe successo da lì a poco, era a dir poco scontato. Mugugnai qualcosa circa il bruciore che saliva e, tra lo stordimento e l’acuto strazio, riaffiorai appoggiandomi alla figura urlante della mia compagna.
-“E’ finito.”
-“Sì, è tutto finito”, confermò, carezzandomi il volto.
Ci trascinammo fino a scendere i primi gradini. Al costo di raggiungere la mia stanza avrei anche strisciato; giunta al terzo piano sibilai di nuovo qualcosa e mi accorsi di un’altra persona appena arrivata al mio fianco: Nicole.
-“Porca la miseria. Come temevo”, esclamò carica di indignazione.
-“Mi sto riprendendo, dai”, dissi ma ad ogni parola la mia voce si faceva sempre più foca, come se stessi entrando in un tunnel. Volevo solo andare in stanza. O risvegliarmi da quest’incubo in casa con nonna.
-“Riesci a camminare da sola?”, mi domandarono quasi in contemporanea, forse rendendosi conto dell’instabilità del mio movimento.
Annuii distrattamente, scendendo il secondo scalino, traballando sul terzo, scivolando sul quarto…poi questi si moltiplicarono! E cominciarono a muoversi: era tornato l’offuscamento. La mia coscienza stava tentennando di nuovo. A quel punto sentii delle goccioline fredde scendere lungo la mia fronte, le orecchie presero a fischiare…avevo resistito fino allo strenue delle forze; senza poter combattere fui costretta a lasciarmi andare.
-“No, Emily! ATTENTA!”, strillò Nicole, allungando la mano per acciuffarmi da qualche parte. Non mi recuperò, ed io, in un ultimo barlume di lucidità, mi ritrovai a pregare per non rompermi l’osso del collo e magari slittare direttamente dinanzi la porta del mio dormitorio.
Ed ecco il vuoto…stavo cadendo… fin quando senza sapere cosa di preciso fosse accaduto, la mia rovina fu bloccata. Come sospesa a mezz’aria.
Qualcosa –una mano, dedussi- premeva con forza sul mio fianco, poi vidi un braccio avvolgermi. Sbattei le palpebre guardando in su e il volto che vidi fu il più bello che potessi vedere in quel momento. William boccheggiava, il fiato corto e il naso all’insù che sfiorava il mio. I suoi occhi erano così sgranati e meravigliosi che quasi svenni per lui anziché per ciò che mi era accaduto.
Vidi le sue labbra muoversi.
-“Stai bene?”
-“No”, bofonchiai.
-“Cerca di appoggiarti a me”, mi consigliò attirandomi a sé.
-“No, no”, ribadii, -“ti prego lasciami star…”, ma non conclusi mai la mia protesta.
Andai completamente alla deriva.

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Capitolo 3
*** Terzo Capitolo ***


Terzo Capitolo









Mi risvegliai confusa e stanca. Avevo accumulato talmente tanto stress e dolore da essere stremata, distrutta. Ci misi un po’ più del dovuto a capire dove fossi, ma le pareti scolorite e le crepe nel soffitto potevano appartenere solo al collegio. Non riuscivo a muovermi, non perché provassi dolore, ma per il semplice fatto che avevo paura di affrontare di nuovo il bruciore violento delle mie ferite fresche. Fissavo un punto impreciso di fronte a me, poi sentii delle voci e con gli occhi cercai a chi potessero appartenere. Erano voci fioche che pian piano si facevano sempre più forti. Le mie orecchie erano ancora stordite.
-“Si è svegliata!”, urlò improvvisamente la più acuta. Era Nicole che in un batter ciglio si materializzò accanto al mio letto. Non osava toccarmi e in cuor mio la ringraziai per questo.
-“Come ti senti? Ti avevamo messa a pancia in giù ma ti sei girata nel sonno.” Questa invece era Jamie.
Forse erano ancora le mie orecchie semi otturate ma nella sua voce mi parve di cogliere una piccola vena arrabbiata. Ma non avevo la forza di rimanerci a riflettere.
-“Ho spiegato tutto alla Belfiore e alla Galdys, hanno detto che puoi rimanere a letto e ti augurano di riprenderti”, mi spiegò poi, e la sua voce si addolcì. Le sorrisi debolmente.
-“Però noi dovremmo andare. Ci piacerebbe davvero rimanere a farti compagnia.”, si lamentò Nic sbuffando e osservando il suo orologio.
-“Non preoccupatevi ci sono io con lei.”, si intromise una voce maschile che mi fece trasalire. Istintivamente voltai la testa dove avevo sentito provenire la voce e poi sgranai la bocca. Di nuovo lui, appoggiato al muro, sorrideva ammaliante. Fece qualche piccolo passo vicino a me. Forse aspettava che dicessi qualcosa, forse dovevo sbiascicare qualcosa, eppure le parole si ingorgarono e impicciarono sulla lingua. Infatti non so cosa balbettai.
-“Grazie William, non sai che favore ci fai. Infatti non ci sentiamo sicure a lasciare la nostra amica da sola.”, rispose Jamie afferrando il lembo della manica di Nicole, che era impalata a fissarlo.
-“Figuratevi. Nessun disturbo”, rispose lui cordiale.
Nonostante fossi lusingata di rimanere con il mio salvatore che tanto si premeva per me, non volevo che le mie amiche se ne andassero. Di cosa avrei parlato con lui? Mi sarei sicuramente sentita in imbarazzato, e non poco. Cercai di far capire il mio stato di agitazione e disagio a Jamie attraverso gli occhi ma come non avevo previsto fraintese.
Alzò gli occhi al cielo sghignazzando.
-“Okay, okay ora andiamo.”, ridacchiò e lanciò un’occhiatina a William che senza che me ne accorsi si era seduto al bordo del mio letto.
-“A dopo, Emily”, mi dissero ad unisono fino a sparire dalla stanza. Anche quando sbatterono la porta captai le loro risatine. E a quel punto avvampai.
-“Stai riprendendo colorito. Poco a poco ma lo stai riprendendo”, constatò William voltandosi verso di me. Sembrava divertito.
-“Sì”, fu ciò che riuscii a partorire dalla mia bocca. I miei neuroni erano in conflitto tra loro nel cercare qualcosa di sensato da dire, ma niente.
William fece schioccare la lingua e si alzò delicatamente dal letto raggiungendo il comodino accanto a me, prendendo qualcosa. Non vidi esattamente cosa, per evitare di fare attrito col materasso.
-“Tieni.”
Mi porse, un secondo dopo, una bottiglietta di acqua naturale. Cercai inutilmente di alzarmi, appoggiandomi sui gomiti, ma dopo tre tentativi ci rinunciai.
-“Non ci riesco. Avverto del dolore alla schiena”, mi lamentai affondando sotto le coperte.
-“Mmm”, mormorò pensieroso. Fece una riflessione che durò meno di due secondi e posando la bottiglietta sul comodino mi afferrò delicatamente sotto le ascelle. Sentii esplodere un calore improvviso sul mio viso e sperai che lui non notasse le chiazze rosse che da li a poco mi si sarebbero formate sulle guance.
-“Ci provo io, okay?”
-“O-okay.”
Mi tirò su di slancio come se fossi una bambolina di porcellana. Mi sedetti e non provai il benché minimo dolore.
-“Grazie”, dissi, stupita dalla sua eleganza e posatezza. Mi sorrise spostandosi una ciocca di capelli davanti all’occhio color rame e poi mi porse l’acqua. Lo ringraziai nuovamente bevendone un bel sorso tutto d’un fiato e con essa mi coprii il viso: mi stava osservando.
Mi staccai dalla bevanda fresca con riluttanza.
-“Ora come ti senti?”, mi chiese.
-“Adesso molto meglio”, risposi lasciando andare un sospiro.
E poi piombò il silenzio. Lo sapevo, dannazione! Non sapevo di cosa parlare, non facevo altro che guardarmi intorno alla ricerca di qualcosa di sensato da dire, non preoccupandomi che forse mi stava scambiando per una ritardata. Infondo non lo conoscevo e oltretutto avevo il presentimento di non essergli simpatica. Insomma... i suoi sguardi insistenti, a volti buoni e a volte cattivi. Il suo strano comportamento... Il mio sguardo si posò di nuovo su di lui che guardava le mattonelle del pavimento. Forse, come me, cercava qualche idea per aprire un argomento. Quando passarono una manciata di minuti non riuscii più a sostenere quel silenzio e decisi di parlare. Ma proprio in quel preciso istante anche lui cercò di abbozzare un principio di discorso.
-“Mi dispiace”, dicemmo entrambi. Sentii le guance mordicchiarmi e lui sorridendo mi invitò a proseguire.
-“No, prima tu”, insistetti, sorpresa dal fatto di aver pronunciato la stessa parola.
-“Beh, mi dispiace del fatto che tu sia stata punita ingiustamente. Le tue amiche me lo hanno raccontato, erano furiose. Mah, forse erano più che furiose.”, stirò un sorriso,-”a quanto pare sembra che tengano a te, anche se ti conoscono da poco tempo. E poi mi dispiace di come sei stata punita. Sai, a volte mia madre è...”
-“Lascia stare.”, lo interruppi cercando di non rievocare la scena. Non ora che mi ero decisamente calmata.
Sembrava aver perso il buonumore.
-“Collegio che vai usanza che trovi”, cercai di sdrammatizzare per rivederlo di nuovo sorridere. Che altro potevo fare?
William si abbandonò ad una risata, poi, però, tornò subito serio.
-“Tu che stavi dicendo?”, mi invitò a proseguire.
Cercai di riordinare le idee.
-“Stavo dicendo che mi dispiace che le mie amiche ti hanno costretto a stare con me. Voglio dire, io ora sto bene e tu avrai tanto da fare che potresti andartene.”, blaterai gesticolando in preda alla vergogna. Non avevo mai provato la sensazione di sentirmi così tanto in imbarazzo con una persona. Forse perché non avevo mai parlato ad un figlio che aveva una madre sadica e violenta.
Lo vidi scuotere la folta chioma dorata e sorrise nuovamente.
-“Non mi hanno assolutamente obbligato. Anzi mi sono offerto io per farti compagnia. Naturalmente se non ti dispiace”, ed ammiccò un altro sorriso. Ricambiai e cercai di respirare regolarmente.
-“Certo che non mi dispiace. E comunque grazie di avermi afferrata appena in tempo.”
-“Già, è stata proprio una bella fortuna che sono passato lì in quel preciso istante”, disse svelto e poi sembrò che si fosse fatto scappare qualcosa di troppo. Ma rintronata com’ero nemmeno ci avrei fatto caso.
-“Se fossi caduta mi sarei spezzata l’osso del collo e sarebbe stata la ciliegina sulla torta. Ogni tanto mi domando se nella mia vita, anche solo una piccola cosa, fosse andata bene.”, cominciai a lamentarmi senza pensare né cosa stessi dicendo né tanto meno a chi. Non ero abituata a lasciarmi sfogare in questa maniera ma, forse, lo sguardo magnetico di William mi aveva ipnotizzata. Lui si accigliò ma nei suoi occhi c’era un guizzo curioso che mi fece intuire che avrebbe voluto approfondire l’argomento.
-“Sono parole forti per una ragazza così giovane”, commentò scrutandomi senza nemmeno batter ciglio, di certo stava facendo le sue valutazioni... O più semplicemente si stava avvilendo nel sentirmi borbottare. Mi strinsi nelle spalle abbozzando un sorriso, però... sembrava veramente interessato.
-“Perché ti trovi qui?”, mi domandò, poi.
Fui sorpresa da quella domanda, così diretta.
-“Se te lo dico non ci crederesti”, tagliai corto.
-“Prova, magari ci credo”, insistette sporgendosi verso di me.
Prima di iniziare a riprendere parola lanciai un sospiro.
-“I miei sono morti durante un incidente in uno dei loro tanti viaggi. La cosa che mi rattrista molto è che un ora prima erano al telefono con me e non avrei mai pensato che potesse essere l’ultima volta che li avrei sentiti. Quando ho saputo la notizia... Io… non so nemmeno come mi sentii. È come se ti cadesse tutto il mondo addosso improvvisamente, e comprendi di aver perso tutto troppo in fretta. Pensi a tutto ciò che non gli hai detto, che non gli hai dimostrato e alle cose che avresti potuti dirgli, alle cose che avresti potuto fargli vedere. Perduto. Per sempre. Capisci?”
-“Capisco benissimo”, mi rispose prontamente -”Mi dispiace, Emily. Non è difficile da credere è solo doloroso”, fece una breve pausa come se volesse calibrare bene le parole.
-“Non potevi alloggiare da qualche parente, invece di rinchiuderti in queste due mura?”, domandò dopo un breve silenzio.
Puah! -“E’ proprio questo l’incredibile!”, sbottai cercando di non incrociare i suoi fantastici occhi che mi confondevano, mentre i miei tornavano lucidi.
-“Non ho parenti. Nada.”
Alzò entrambe le sopracciglia visibilmente sorpreso e si mostrò comprensivo dondolando la folta chioma bionda.
-“Capisco, mi dispiace. E tu ne soffri davvero molto”, concluse tirando le somme.
Certo che sì, il tempo allenisce il dolore ma di sicuro non lo fa sparire, avrei voluto rispondergli ma non volevo sbilanciarmi troppo, soprattutto se questo significava ottenere la sua pietà.
-“ Me ne sono fatta una ragione.”
-“Però a me sembra il contrario”, rispose subito, laconico.
Lo guardai sbigottita dalla sua risposta quasi volesse incalzarmi, poi abbassai la testa fissando la sagoma delle mie gambe sotto le coperte blu.
-“Scusami. Sono stato inadeguato”, mormorò, tormentato.
Fui costretta ad alzare il volto e ci guardammo. Distolsi immediatamente lo sguardo prima ancora di rispondergli.
-“Figurati. Più che altro perché non mi dici qualcosa di te?”. Un lampo di genio mi fece spostare l’argomento della mia insoddisfacente vita sulla sua. William schierò una serie di bellissimi e lucenti denti e poi si alzò sgranchendosi le braccia.
-“Non penso che tu la voglia sentire sul serio.”, disse e sembrava stranamente divertito dalle sue parole. A passi quasi di danza si recò fino alla finestra verdastra e si affacciò fuori come per verificare qualcosa. Lo osservai per una manciata di secondi, poi, finalmente ribattei.
-“Si. Sicuramente sarà più interessante della mia.”
A quel punto, come se lo avessi insultato di brutto, William si girò di colpo cambiando espressione: dal divertito di pochi secondi fa a tormentato e crucciato.
-“E’ meglio di no”, era serio, -”Fidati”, chiarì.
Poi con la stessa lentezza e movenza di come si era avvicinato alla finestra, venne accanto a me. Mi spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio; fui piacevolmente sorpresa di quel gesto così confidenziale. Infine mi mozzò il fiato con un sorriso splendente e disse:
-“Se te la raccontassi... non ci crederesti.”
Serrai i denti. Questa l’avevo già sentita.
-“Ora devo proprio andare. Magari dopo vengo a farti visita se gradisci”, aggiunse arrivato alla porta. Io non ero in grado di rispondere così, con un cenno del capo, uscì dalla stanza lasciandomi immobile sul letto.
Che tipo, pensai. Molto misterioso. Avevo raccontato la mia vita ad una persona che forse, come la madre, avrebbe voluto incenerirmi. Eppure non quel giorno. Non sembrava fissarmi in malo modo o troppo insistentemente... anzi.
Lasciando i miei pensieri alla sbaraglio scesi lentamente giù dal letto. A mia sorpresa ero ritornata in forze, il dolore era quasi scomparso. Lanciai un’occhiata fuori alla finestra: il tempo era il solito. Non mi aspettavo altro, infatti. Uscii fuori dalla stanza e mi ritrovai nella desolazione più totale dei corridoi. Forse era meglio così. Sperai con tutta me stessa di non incrociare la Delacour. Barcollai fino ad aggrapparmi al corrimano delle scale e scesi giù nell’atrio. Mi appostai vicino alla grande portafinestra e vidi il solito uomo sulla mezza età del giorno prima. Stava annaffiando il grande giardino. Da come era vestito poteva benissimo essere scambiato per un contadino: cappello di paglia, una semplice camicetta bianca con una salopèt. Come se si fosse accorto della mia presenza si voltò, mi sorrise gentilmente e si adoperò per arrotolare il tubo verde con cui stava annaffiando. Mi fece cenno di aprirgli la porta. Eseguii all’istante.
-“Salve signorina”, mi salutò affaticato e sudato.
-“Salve.”
-“Io sono Simus Murfy, il giardiniere del posto. E volevo chiederti”, tossì,-”per caso hai visto o conosci il mio aiutante? Sai non è un tipo che passa inosservato”, disse sghignazzando. E aveva tutta la mia approvazione.
Stavo per rispondere ma poi qualcosa di molto delicato e gelido ticchettò sulla mia spalla costringendomi a voltare.
Mi ritrovai a faccia a faccia con William. Il suo viso d’angelo era severo.
-“Perché non sei a letto? Mi sembra di averti lasciati li. Dove dovresti essere.” Infatti la sua voce risuonò benissimo come un rimprovero. Guardai il signor Murfy che rideva sotto i baffi.
-“Sto bene adesso”, mi giustificai, ed era la verità. Lui mi pressò con lo sguardo come per decidere se stessi mentendo o meno ma nei miei occhi non avrebbe visto nemmeno l’ombra di una bugia. Il peggio era passato, insomma.
-“Sei bianca cadaverica”, mi accusò, poi.
Come se questo poteva incastrarmi. Stavo bene!
-“E’ la mia carnagione e ti prego di non farmelo notare”, borbottai io, al ragazzo creato col gesso. William e il signor Murfy risero divertiti della mia risposta, e quest’ultimo, incosciente, mi diede una pacca sulla schiena facendomi strillare dal dolore.
-“Mi piaci ragazza!”, disse non badando al mio urlo. Sorrisi a malapena e poi la voce di William risuonò nella mia testa.
-“Forse avrei dovuto farti portare in infermeria per disinfettarti”, sussurrò a bassissima voce, e forse stava parlando da solo. Il signor Murfy mormorò qualcosa a denti stretti.
-“Ti sei cacciata nei guai, ragazza?”, mi domandò guardingo. Vecchia volpe, pensai annuendo. Non mi andava di spiegarli tutta la storiella, che non avrebbe fatto altro che innervosirmi.
-“In realtà è stata messa nei guai, Simus. Ma è una storia complicata.”, confessò William con voce rassicurante. Simus fece cenno con il capo che aveva capito e, strofinandosi la folta barba con le dita lanciò un’occhiata al cielo, poi si rivolse a William.
-“Ragazzo, oggi dobbiamo occuparci del lato ovest.”
La figura angelica accanto a me si schiacciò una mano sulla fronte.
-“Me ne ero completamente dimenticato!”, esclamò mordendosi il labbro. Simus bofonchiò qualcosa di incomprensibile e si concesse un ultimo sguardo al cielo.
-“Sta per piovere, ragazzo. Non ce la faremo a potare tutto e a togliere le foglie secche.”, dedusse dopo un ragionamento accurato e lungo. Ad interrompere le chiacchiere dei due fu un rumorino alquanto imbarazzante provenire dal mio stomaco vuoto. Rantolò talmente tanto da farmi arrossire fino alla punta dei capelli. I due si voltarono a guardarmi, divertiti.
-“Non hai mangiato niente questa mattina, Emily?”, mi chiese William ma naturalmente conosceva già la risposta.
-“No”, dissi sincera.
-“Sbagliato!”, ruggì Simus puntando il dito indice al cielo e lo agitò mentre mi rimproverava.
-”Assolutamente errato! La colazione, cara ragazza, è il pasto più importante dell’intera giornata. Senza esso il cervello non carbura!”, continuò soddisfatto della sua filippica. Guardai William.
-“E’ vero, ha ragione lui”, aggiunse, lanciando un’occhiata complice al signor Murfy.
-“Certo che ho ragione. Sono tre anni che lavoro qui, e non potete immaginare quante ragazze ho visto cadere a terra prive di forze durante la mattinata.”, disse, e riuscì a farmi sentire in colpa per non essere svenuta prima. Ma ormai era troppo tardi per mettere qualcosa sotto i denti, avrei dovuto (secondo il regolamento), aspettare l’ora di pranzo. Polpette inzuppate dal colorito anomalo, carne essiccata o meno, avrei finito tutto. Avrei mangiato anche il piatto se necessario a placare quel buco che avevo allo stomaco. In quel momento mi immaginai un bel hamburger del McDonald’s ma il mio povero stomaco non mi permise di continuare a fantasticare che rantolo più che mai.
-“Ho un idea”, esordì William illuminandosi, come se il brontolio del mio stomaco fosse stata una sorta di ispirazione.
Lo guardai interdetta.
-“Ti porto a mangiare qualcosa in cucina.”
-“Ottima idea, Will!”, si congratulò subito, Simus.
-”No, No. Guarda che io non posso entrare in cucina. Non ho il permesso”, lo avvertii. Ricacciarmi nei guai era l’ultima cosa che volevo fare.
-“Molto ragionevole”, disse con approvazione,-"ma ci sono io con te.”
Il suo volto si fece caldo, i suoi lineamenti dolci mi sorrisero. Non ero del tutto convinta ma non riuscii a rifiutarmi e risposi con una specie di miagolio. Simus alzò il cappello di paglia che indossava in segno di saluto e ordinò a William di farmi mangiare tanto, e che il giardino poteva aspettare per essere potato. Pioggia o sole che sia. Quindi non avevo scelta e fui trascinata da William in cucina. Seguii i suoi passi misurando i miei, non riuscivo a non lanciare occhiate furtive a destra e a sinistra.
-“Dobbiamo passare per la mensa per arrivare in cucina”, mi informò entrando nella grande sala. Solo nel vederla vuota senza le altre mi accorsi di quanto fosse grande. I tavoli erano già apparecchiati per il pranzo e dalla cucina proveniva il borbottio di qualche pentola, e un odore pungente ed acre.
La cucina era abbastanza abitabile, c’erano numerosi fornelli, pentole che bollivano e mensole appese in aria. I coltelli vicino al lavandino era talmente affilati e lucenti da risultare minacciosi.
-“Bene siediti al tavolo, io intanto guardo cosa c’è da mangiare.”
Obbedii e mi sedetti sulla sedia che era di fronte al piccolo e tondo tavolo di quercia. Mi permisi di osservarlo mentre scrutava l’interno del frigo, frugando in tutte le sezioni. Spostò un barattolo di maionese e afferrò lo scatolone del latte. Soddisfatto lo mise sul ripiano di marmo vicino al frigorifero e infine lo richiuse. Il mio stomaco protestò.
-“Digli di aspettare.” Rise.
Mi unii alla sua risata che si trasformò in un sospiro. Aprì con un colpo secco una credenza e con le dita ticchettò sulla maniglia di legno.
-“Trovati!”, esultò, poi, estraendo soddisfatto una scatola di biscotti al cioccolato. Socchiusi gli occhi per cercare di leggere la marca e notai che non mi erano nuovi.
Mi porse un bicchiere di vetro nel quale ci versò il latte e sedendosi mi allungò il bicchiere con i biscotti.
-“Grazie””, mormorai, controllando la mia voglia di assalire l’intero frigo.
-“Se vuoi altro non fare complimenti. Basta chiedere che io lo prendo.”, si offrì gentile. La sua voce mi fece stranamente e irrazionalmente galoppare veloce il cuore. Mi sorse spontaneo di domandarmi se mai sarei arrivata a fine giornata viva.
-“Grazie ma penso che possa bastare così. Non vorrei rovinarmi il pranzo.”, risposi dopo un po’. Aprii la scatola di biscotti e ne estrassi due. Erano grandi, tondi e molto friabili. Talmente tanto che mi si sbriciolarono in mano.
-“Aspetta ti prendo un tovagliolo.”
Quando lui si voltò ne inzuppai uno quasi selvaggiamente e lo mordicchiai più veloce che potevo. Mi mancava concedermi queste piccole bontà.
-“Tieni.” Mi porse un pezzo di scottex. Mi pulii la bocca accuratamente e ritornai a ingurgitare la mia tarda colazione. Ma ad un tratto sentii uno strano formicolio lungo il collo: William mi stava fissando. Teneva il viso poggiato sul palmo di entrambe le mani e aveva un sorriso rilassato sul volto.
-“William.”, dissi dopo poco, e feci una breve pausa sorseggiando il latte.
-“Posso farti una domanda?”
Visibilmente sorpreso e irrigidito mi fece cenno di sì con il capo.
-“Bene. Potrà sembrarti una domanda priva di senso o… insomma, mi chiedevo se volessi dirmi qualcosa…in particolare. Voglio dire, ho sempre avuto questa sensazione da quando ti ho conosciuto”, farfugliai, non riuscendo comunque ad esprimere la sensazione che i suoi sguardi mi suscitavano, né ad evitare nelle mie parole un doppio fine che mi fece accelerare il battito del cuore.
-“Certo che no, Emily”, mi rispose, serafico.
-“E perché mai hai pensato tale assurdità?”
Sorseggiai un po’ di latte per riordinare le idee.
-“Alcune volte, mentre i nostri sguardi si incrociavano, ho avuto come l’impressione che i tuoi occhi fossero un po’ insistenti. Non so come spiegartelo... evidentemente è stata solo una mia stupida impressione”, confessai con un pizzico di petulanza nella voce.
Dovevo proprio aprire la mia boccaccia? -”Ti sbagli”, si limitò a dire. Ora però l’aria irritata cancellò quella apparentemente divertita. -“Però c’è un motivo”, aggiunse svelto, per poi abbassare lo sguardo sulle sue mani intrecciate,-“dalla prima volta che ti vidi in chiesa ho avvertito una sorta di connessione con te. Continuare a parlarti non fa che amplificare la sensazione di conoscerti da così tanto tempo… cercavo il tuo sguardo per capire chi fossi, per capire la mia, di sensazione. Riconosco, però, di esser stato invadente con i miei occhi. E me ne scuso.”
Rimasi immobile, con il bicchiere sospeso tra la bocca e l’aria.
-“Magari ci siamo davvero già visti da qualche parte. O forse sono semplicemente attratto dalle persone dallo sguardo malinconico”, riprese a parlare, senza darmi tempo per ribattere.
Aveva un sorriso malizioso e una sfumatura malinconica negli occhi.
Oh. Non sapevo cosa dire, onestamente.
-“Impossibile, prima non uscivo molto di casa se non per comprare qualcosa da mangiare”, dissi la prima cosa che mi passò per la mente, sebbene riconoscessi il fatto che avrei potuto uscirne con un qualcosa di più… intelligente.
-“Allora è la seconda opzione”, stabilì lui, senza scomporsi più di tanto. Posai il bicchiere sul tavolo, sputando un “ovvero sia?”
-“Sono attratto dalle persone dallo sguardo malinconico”, confermò facendo un gran sospiro.
Suonò la campanella.
Automaticamente scattai in piedi e provocai una serie di briciole sul tavolo e per poco non si rovesciò l’ultimo sorso di latte.
-“Hai finito?”, mi chiese, scattando in piedi anche lui.
-“Si.”
William ripulì il tavolo con una velocità incredibile, ripose tutto nel lavandino senza fiatare e buttò il cartone dei biscotti nel cestino. Io tremavo all’idea che qualcuno venisse e ci trovasse in cucina.
-“Credo sia meglio andare”, dissi, sporgendomi dalla porta per perlustrare la sala mensa. Ancora vuota, fortunatamente.
Lasciai la porta aperta mentre incominciai ad avviarmi verso l’uscita- convinta che lui stesse seguendo i miei passi- ma, un rumore simile all’impatto di un pugno su una superficie, mi fece sobbalzare. Subito tornai nella piccola cucina.
-“T-tutto bene, William?”, dissi, pur non trovando rassicurante la sua postura gobba, con i pugni stretti e appoggiati sul tavolo. Scosse lentamente la testa e si voltò tenendo il capo chino. -“Sto benissimo”, mormorò, poco convincente.
Aggrottai le sopracciglia.
-“E’ meglio che ti riporti in stanza.”, mi suggerì, ed entrambi uscimmo dalla stanza. Ci allontanammo in perfetto silenzio, quando, una voce, ci fece trasalire entrambi.
In quell’istante si voltò verso di me e vidi i nei suoi occhi una leggera patina rossastra, velata, sì, ma capace di farmi impressione.
-“Emily!”, gridò nuovamente una voce, intrisa di sorpresa.
In contemporanea io e William ci voltammo verso Nicole e Jamie che avanzavano verso di noi. Come d’incanto l’intero atrio si popolò di alunne da tutti i punti. Dalla lunga scalinata vidi Camille spiarmi: il suo colorito era tra il verde e il blu. O stava per vomitare o stava morendo di invidia. Anche lei si mosse per venire verso di noi e non nascosi una divertita curiosità nascere dentro di me. Cosa avrebbe fatto?
-“Buongiorno William”, squittì, passandoci in mezzo come per dividerci. Naturalmente non mi risparmiò un’occhiataccia.
-“Salve”, rispose lui, sottotono.
-“E così conosci Camille”, lo incalzai, con la speranza che di far ritornare il suo umore alle stelle. Alzò le spalle, indifferente, segno indiscutibile che l’amore di Camille era a senso unico.
-“Conosco tutte qui dentro. Chi più, chi meno.”
-“Mi sembra logico. Mmm, è carina. Camille, intendo”, farfugliai, sperando in una sua reazione. Anche se allora non capivo cosa andavo a cercare.
-“Non ci ho fatto caso. E poi, da quello che ho capito, non è la persona più simpatica del mondo.”
-“Eh, si. Hai ragione”, e quanta ne aveva, -“povera.”, mi concessi di essere magnanima ma comunque bloccai il discorso lì. Non volevo innervosirlo ulteriormente.
-“Dannazione, è colpa sua se sei stata punita!”, sbottò, dopo esser arrivato alla porta della mia stanza.
-“Per quale ragione non hai provato a difenderti? Mia madre non ti avrebbe punita ingiustamente.” Con mio sommo stupore, William aveva alzato la voce di qualche tono. Tant’è che una ragazza che passò di lì increspò le sopracciglia un po’ in soggezione, come se si fosse ritrovata ad assistere ad una lite.
-“E secondo te non l’ho fatto? Tua madre non mi ha creduta”, risposi con lo stesso tono. Rimase interdetto per qualche secondo.
-“Questo cambia tutto”, commentò, sgonfiandosi come un palloncino... e, sì, recuperando un po’ della dolcezza perduta. Poi lanciò una breve occhiata alla porta.
-“Bene. Sei arrivata sana e salva. Mi dispiace, vorrei tanto restare ma devo andare”, sussurrò e avvicinò il palmo della mano al mio viso quasi volesse toccarmi. Rimasi in attesa di un contatto, ma fu inutile. Ritrasse svelto la mano e abbassando la testa si materializzò via.
E rimasi sola.
Sola e scombussolata per via della sua improvvisa fretta, e dello strano mutamento di quegli occhi fin troppo imperscrutabili.
Mi scostai da quei pensieri quando Nicole apparve tutta affannata dopo aver corso per tutta la rampa delle scale.
-“Che hai fatto?”, le domandai preoccupata. Potevo avere un attimo di pace? O semplicemente un minuto per riflettere?
-“Niente. Mi preparavo per la prossima maratona di New-York.”
La lasciai riprendere fiato.
-“Volevo solo sapere come stavi. Sembravi tesa poco prima. E poi sei venuta qui.”
-“Tu vuoi sapere di William”, la corressi, alzando un sopracciglio.
Rovesciò gli occhi al cielo mordendosi il labbro. Risi.
-“E va bene, niente maratona: volevo sapere come stavi e, beh, dai, anche di William. Ma solo perché poi devo spettegolare su te e lui con Jamie”, ammise, portando le mani in aria in segno di resa.
-“Vi deluderà sapere che non c’è proprio niente da dire. E’ un tipo strano forte.”
-“Non l’ho mai visto in compagnia di qualcuna prima d’ora. Cioè a parte quando Camille gli ronzava intorno per qualche minuto ma, sai, sua madre non gli permette di fermarsi a parlare con qualcuna di noi. A quanto pare c’è un’eccezione.” Ammiccò me con un cenno del mento.
Mi sentii pizzicare lungo la schiena, tuttavia era una sensazione che non aveva niente a che fare con il dolore. Quando Jamie ci raggiunse le accompagnai a posare i loro libri nella stanza, dunque andammo a pranzo. Sistemate nei soliti posti non poté non saltarmi all’occhio un notevole cambiamento.
A qualche metro di distanza, oltre una serie di teste, il lungo tavolo dei professori ospitava una persona in più: William.
Distolsi immediatamente lo sguardo quando sentii un calore appiccicaticcio inumidirmi il mento. Era un piatto fumante di brodo.
Storsi la bocca, per niente incoraggiata dal color giallino e dai pezzetti di pollo che galleggiavano arenati.
-“Amica, non pensare di vomitare sulle mie scarpe.”
-“Eddai, Nicole!”, bisbigliò Jamie, fulminandola con lo sguardo, -“evita certe parole durante i pasti, per cortesia.”
Di certo non potevo rifiutarmi di mangiare e di certo non volevo ricevere un’altra pena corporale, per cui, con molta forza interiore (nel vero senso della parola) ripulii il piatto più in fretta che potevo.
Tuttavia tornai ben presto ad osservare William. Chissà perché, ebbi la sensazione che stesse evitando di guardare verso il mio tavolo con tutte le sue forze. Sensazione che scoppiò non appena trasalii perché lui, proprio al termine del mio pensiero, aveva deciso di guardarmi dritta negli occhi.
Non riuscivo a sottrarmi dal suo sguardo e pian piano arrossii, pregando che fosse lui a distogliere lo sguardo per primo. Ed ero anche sicura che sarebbe successo. Ma non fu così per una bella manciata di secondi che parvero anni interi, per la miseria.
Ad un certo punto la donna della mensa era apparsa come per magia al suo fianco, rivolgendosi a William che fu costretto a ricambiare l’attenzione.
Scagionata dal potere dei suoi occhi il mio corpo tornò a rilassarsi.
-“Questa sera Miss Delacour è tesa”, mi fece osservare Jamie, ingoiando gli ultimi rimasugli di brodo.
Mi strinsi nelle spalle.
-“Da cosa lo hai dedotto? Lei è sempre così rigida.”
-“Sembra che debba per uccidere qualcuno. Ma si rilassa mai quella donna?”, ridacchiò Nicole.
-“Stasera c’è anche William!” Jamie rimase sorpresa. Se ne era accorta solo ora. E in quel momento ritornai a scrutarlo. Ma non mi guardava. Abbassai il capo con una strana ondata di insoddisfazione. Scossi la testa, cercando di ignorare quel nuovo fastidio.
-“Perdonatemi se interrompo il vostro pasto ma ho una comunicazione importante”, tuonò all’improvviso la voce armonica della preside. Nello stesso istante un’atmosfera innaturale e di attesa avvolse l’intera sala. Jennifer Delacour era in piedi, mani intrecciate in basso.
-“Dopo domani ci recheremo di nuovo in chiesa; il parroco ci accoglierà per le prove generali in vista del Natale. Per tanto vi raccomando di farvi trovare al solito orario già pronte per uscire dall’istituto. I ritardi non saranno tollerati, pena rimanere in collegio a sbrigare le faccende. Se non ci sono domande, io ho detto tutto.”
Ascoltò per un breve momento il silenzio che nessuna di noi si azzardava ad infrangere.
-“Tornate al vostro pranzo.”
Al suono della campanella, come di norma, ritornammo ad affrontare le lezioni obbligatorie e quelle extra. Per tutto il pomeriggio non incontrai la temibile Delacour, non mi scontrai con Camille e, sorprendentemente, non provai né dolore né fastidiose pulsazioni alle ferite.
Tutto sommato stavo conducendo la giornata nel modo più tranquillo possibile, ma non ero del tutto serena.
Non avevo più rivisto William.
Mi stupii nel cercarlo con gli occhi dalla finestra in cui avevo lezione, certa di trovarlo impegnato in una delle sue mansioni. Oppure cercavo di capire con chi parlava Simus nel suo garage disastrato; lo cercavo nei corridoi e nelle aule vuote. Ma di lui nemmeno l’ombra.
Così a fine a giornata finii nel letto come imbambolata, lieta e al tempo stesso insoddisfatta della giornata conclusa.
Mi ci volle più tempo per addormentarmi. La mia mente, che non era occupata, riviveva per puro masochismo le scene della mattina stessa. Strinsi con le dita il lembo delle lenzuola e chiusi gli occhi cercando di scansare quelle scene.
Non volevo pensarci.
Mi distrai girandomi nel letto verso la finestra, e scrutai la luna piena che irradiava sul mio viso. Quella luce tanto fioca quanto piacevole mi fece socchiudere gli occhi per poi cadere in un sonno profondo. Talmente profondo che mi parve di essere stata risucchiata in un incubo.
Non capii dove mi trovavo di preciso se non fosse stato qualche dettaglio a farmelo capire. Mi vidi al centro di una stanza piccolissima con una scrivania illuminata da piccoli strascichi di sole mozzato. Man mano che camminavo più la visuale si allargava. Potei confermare, grazie alla mia scatola dei ricordi, che quella stanza era niente di meno che l’ufficio della Delacour. Non so perché e non so come, mi ritrovai chinata verso un cassetto e aprendolo estrassi un libro. Cominciai a sfogliarlo ma ricordo solo il mio viso incredulo e qualche lacrima inspiegabile. Poi, all’improvviso, una mano bianca si posò delicatamente sulla mia spalla, e una voce cristallina mi sussurrò all’orecchio:
-“Cerchi qualcosa?”


Cerchi qualcosa?


Cerchi qualcosa?





Aprii gli occhi di colpo. Agitata, sudata, e con il cuore a mille. Ero attorcigliata nelle coperte, il piumone blu scuro che tanto amavo era a terra. Captai alcuni dettagli velocemente e tutti assieme: le altre dormivano beate,- Nicole russava allegramente e Camille imprecava contro qualcuno-, il sole era sepolto dietro una coltre di nuvole nere pronte a scaricare un bel po’ di pioggia. Vidi il vetro della finestra verdastra segnato da righe invisibili e gocce piccolissime tutte allineate tra loro. Aveva piovuto, constatai mentalmente. Fui sollevata di essermi svegliata durante il sorgere del sole. Scesi giù dal letto e mi diressi verso il bagno per cambiarmi e sistemarmi. Erano due mattine consecutive che mi ritrovavo ad essere la prima di tutte ad essere pronta.
L’acqua fredda mi fece trasalire e mi svegliai completamente, le mie guance si macchiarono di piccole macchioline rosee e dopo una serie di colpi di spazzola fui pronta. Non mi andava di aspettare il risveglio delle mie due amiche per cui ne approfittai per godermi il collegio silenzioso di prima mattina, l’unico momento della giornata in cui riuscivo ad apprezzarlo Scendendo le scale m’imbattei nell’arrivo di alcuni insegnanti e capii che, da lì a poco, sarebbe suonata la sveglia per il resto delle collegiali.
Ma prima di questo mi avvicinai alla porta finestra con l’intenzione di godermi di una bella ventata d’aria fresca; il giardino era attraversato dalla carezza del vento e seppellito da una nebbiolina densa e grigia, arrischiando la vista scorsi il dondolare lento delle foglie degli alberi.
Nonostante ciò, schiaffeggiata dalla mano invisibile e inconsistente dell’aria, feci un breve giro intorno alla struttura. Ripresi a riflettere sul mio strano sogno senza venirne davvero a capo.
Sospirai appoggiando appena la schiena al tronco di un albero e mi lasciai scivolare a terra fino a sedermi. C’era calma, c’era quiete e c’era il silenzio di cui avevo bisogno; niente poteva disturbarmi eppure la situazione paradisiaca non durò molto. Anzi, non appena abbassai le palpebre un insolito rumore sopra il mio capo mi fece aprire gli occhi di colpo.
Dunque reclinai il capo all’indietro e per poco non ci rimasi secca.
-“Ah!”, esclamai porgendomi una mano sul cuore, “che cosa ci fai lassù?”
Willaim era appollaiato su un ramo massiccio e aveva la testa reclinata di lato, mi sorrideva dall’alto, evasivo.
-“E tu invece? Dovresti dormire a quest’ora. Mancano solo cinque minuti al risveglio ufficiale.”, cercò di sviare la domanda.
-“Sì, e allora?”
-“Oh, niente: domandavo. Non c’è bisogno di essere così ostili di primo mattino.”
Aggrottai le sopracciglia domandandomi come mai tutta quella confidenza.
-“Veramente, potresti farti male”, continuai, con sincera apprensione.
Lui si concesse una risata, ma sul suo viso si dipinse l’accenno di una smorfia.
-“Allora me lo dici almeno che cosa ci fai lassù? Aspetti il signor Simus?”
Annuì.
- “Capisco. Hai tanto da fare oggi? Intendo con il giardino da potare e quant’altro.” Avevo preso a parlare di slancio. Mi succedeva solo quando mi sentivo a disagio o quando non volevo che il silenzio si soprapponesse su di me e un altro interlocutore. Peccato che sparassi solo domande inutili e di cui non mi importava nulla.
-“Beh, si. Ho un po’ da fare”, si limitò a rispondere.
In quella breve battuta mi accorsi del mutamento del suo timbro, tanto che fui costretta a rialzare lo sguardo e a cogliere una nuova espressione occupargli il viso; sembrava essersi fatto cupo, gli angoli della bocca piegati all’ingiù.
Prima che potessi reagire per quell’improvviso cambio di umore, il ragazzo, con un balzo felino, scese dal ramo e mi s’inginocchiò di fronte.
Boccheggiai sopraffatta da quell’azione. Voglio dire, chiunque avrebbe potuto rompersi l’osso del collo con quel salto, eppure lui si lanciò con una tale naturalezza da farmi pensare se non fosse solito visitare i rami degli alberi per poi tuffarsi in quel modo tanto spropositato.
Ora mi guardava, William, e compresi stesse per dirmi qualcosa per via del leggero tremolio che aveva sulle labbra, come se non sapesse in che modo formulare il pensiero.
Infine, quando si decise a parlare, mi fece cadere le braccia.
-“Hai gli occhi lucidi. Forse ti sta per venire un malanno.”
-“Tante grazie per preoccuparti della mia salute ma il bollettino medico dice che sto bene. Anzi, benissimo.”
Si sedette e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, portando le bianche e lunghe mani nel capo. Studiai la sua espressione per un istante interminabile.
-“Forse sei tu che non stai tanto bene.”, azzardai, pregando di non far peggiorare il suo umore, improvvisamente tetro.
Alzò il capo facendo comparire un ghigno.
-“Ti sbagli. Perché sei venuta qui?”
Mi strinsi nelle spalle.
-“Non mi andava di rimanere chiusa dentro a gironzolare per l’atrio. Una boccata di aria fresca non fa male a nessuno, e credo che tu la pensi come me”, risposi.
Involontariamente feci comparire un sorriso sul suo viso. Che poco a poco divenne glorioso e sprizzante.
-”Incredibile”, mormorai, prendendo consapevolezza di non essere l’unica persona al mondo ad avere sbalzi di umore notevoli.
-“Cosa?” Aggrottò le sopracciglia.
Volevo -dovevo- rispondere sul serio?
-“Comunque sia”, riprese a parlare,-”domani mattina ti porto a far colazione fuori. E non si accettano rispose negative.”, concluse, e sembrò improvvisamente libero da chissà quale riflessione.
Io strabuzzai gli occhi e per poco non mi cadde la mascella. Cercai di ricompormi da quel piccolo shock, ignorando il caos che si era appena scatenato dentro di me.
-“D-d-domani?”, gli feci eco, presa in contropiede.
Lui dondolò la testa molto lentamente come se parlasse ad una ritardata. Seguii il movimento della sua testa: era un sì.
-“Ma... ma domani... sì, insomma…”
Mentre cercavo di spiegarmi,-e recuperare le mie facoltà mentali-, giunse fino a noi il suono acuto della campanella che annunciava l’inizio di una nuova giornata. Una giornata che per me era già iniziata e che già volevo si concludesse.
-“E’ suonata”, confermò, alzandosi. Lo imitai e mi girò la testa.
-“Non importa ne riparliamo dopo”, promise e mi sfiorò il braccio con la punta fredda delle sue dita.
A quel punto si dileguò come un fantasma tra i cespugli alti del giardino, verso il garage di Simus.
-“Okay, va tutto bene”, mi dissi in un sussurro, quando lui sparì definitamente dalla mia visuale.
Fui la prima a sedermi a tavola. Le altre arrivarono dopo venti minuti, il tempo di custodirsi e scendere. Jamie fu sorpresa di vedermi già alzata di primo mattino mentre Nicole quasi non si accorse della mia presenza accanto a lei, tanto era addormentata. Come al mio solito ispezionai la grande sala della mensa con aria circospetta. La Delacour non era presente ma in compenso c’erano gli altri insegnati. Infine osservai l’ultimo posto del lungo tavolo al centro, dove era solito trovarci William, ma nemmeno lui si presentò quella mattina. Forse era ancora in giardino, pensai mordicchiando un pezzo di pane commestibile.
-“Ti fanno male le spalle, Emily?”, mi chiese improvvisamente Jamie. Rimasi un attimo incredula: se non fosse per la sua domanda mi sarei dimenticata di avere delle ferite lungo la mia fragile schiena.
-“No, stranamente ho solo un fastidio sopportabile.”
-“A me il secondo giorno facevano ancora male”, mugugnò Jamie stringendo un fazzoletto tra le dita. Stava rievocando quel giorno. Quel giorno in cui sperai di essere stata risucchiata in un incubo.
Quando finalmente Nicole si svegliò ci informò di cosa ci avrebbe aspettato in giornata.
-“Oggi la giornata è dedicata specialmente a discipline come la cucina, la musica, l’arte del cucito...”, e proseguì senza sosta tutto il programma. Infine riprese fiato e sospirò.
-“Tutte discipline, a mio parere, inutili. Credo sia meglio studiare la geografia, la storia, la matematica”
-“Ma per favore Nicole. Quanto sei noiosa.”, borbottò Camille sgomitando per raggiungere l’aula di cucina. Nic arricciò il naso e temei che le avrebbe risposto. Ma per la gioia della mia pazienza stette in silenzio. -“Brava l’arma migliore per quelle come Camille è l’indifferenza”, dissi dandole una pacca sulla spalla.
-“L’indifferenza più totale”, aggiunse Jamie, tanto per caricare l’idea.
-“Per tutte queste ragioni preferisco iniziare dal corso di musica se non vi dispiace. Voi andate a cucina?”
-“Assolutamente no, noi iniziamo da educazione fisica oggi. Dobbiamo muovere queste ossa. Magari ci vediamo in seconda ora nel corso di cucina, che ne dici?”, mi propose Jamie. Annuii.
-“Okay, allora. A dopo.”
Proseguii verso le insidie del corridoio scuro del secondo piano dove trovai un’aula vuota piena zeppa di strumenti musicali. Non potei non fare a meno che concentrarmi sul pianoforte che era posto al centro della stanza. Esso veniva illuminato dall’unico barlume di luce presente nella piccola stanza. Intorno al pianoforte svolazzavano degli invisibili granelli di polvere e sentivo il magnetismo dello strumento attirarmi. Non aprii la finestra, mi sedetti subito sullo sgabello e le mie dita cominciarono a toccare i tasti in modo timido. Mia madre suonava. Era bravissima. Quando ero più piccola la sentivo dalla mia cameretta, e mi accoccolavo sulle scale per ascoltarla. Non le piaceva essere osservata e forse questa ennesima particolarità l’avevo ripresa da lei. Non ricordavo la melodia giusta ma pian piano le mie dita riprodussero dei suoni familiari e piacevoli. Sorrisi, incredula e sorpresa dal fatto di saper suonare. Il buio, il silenzio e la quiete che mi avvolgevano rendevano tutto così perfetto e magico che per nulla al mondo mi sarei fermata. Chiusi gli occhi lasciandomi completamente trasportare nel passato, nei giorni in cui mi sentivo protetta e non sola come ora. Riviverlo era sempre un piacere ma al tempo stesso un dolore irreversibile pronto a tagliare a metà il mio cuore. Non cercavo mai di abbandonarmi con tutta me stessa ai ricordi ma in quel momento ne sentivo il bisogno. Le note crescevano di intensità, sempre più forti, sempre più familiari e veloci. Ormai le mie dita scorrevano da sole senza nessun tipo di controllo, quando ad un tratto due braccia mi intrappolarono da dietro, e delle lunghe dita premettero sui tasti del pianoforte creando un suono grave. Aprii gli occhi di scatto e strozzai un grido di paura. Riuscii a voltarmi per metà, quel poco che bastava per incontrare il viso di William. I suoi occhi mi scrutavano dietro quelle ciglia incredibilmente lunghe e curve. Non riuscivo a parlare, le mie mani tremavano e le mie dita erano schiacciate sotto quelle fredde di lui.
Mi guardò meravigliato, accennando un sorriso.
-“Non sapevo fossi così brava al piano.”
-“Nemmeno io a dirla tutta”, dichiarai, sorprendendomi orgogliosa.
-“Era bella. L’hai scritta tu?”
Scossi la testa ancora intrappolata nelle sue braccia che si poggiavano sul pianoforte.
Emise un suono dal petto e crucciò le labbra.
-“Allora cosa hai deciso?”, mi chiese con un tono isterico e impaziente nella voce che non mi sfuggì.
-“Deciso? A cosa ti stai riferendo?”
-“A domani mattina. La nostra colazione fuori dal collegio.”
Un guizzò nella mia testa me lo fece improvvisamente ricordare. Sobbalzai lievemente sullo sgabello, presa in contropiede una seconda volta. Come facevo- come potevo- rifiutarmi senza offenderlo?
-“Non posso. Te l’avevo detto, no? Domani dobbiamo andare a provare dei canti in chiesa. L’hai sentita anche tu tua madre ieri a pranzo.”, bofonchiai incrociando le braccia. In un secondo il sorriso che aveva sul volto si distrusse e quando mi rispose avvertii una mutazione anche nell’atteggiamento.
-“Te lo chiedo per favore, Emily.”
Il suo sguardo pressante ed insistente mi fece arretrare e boccheggiai qualcosa di incomprensibile. Fu allora che si tolse e mi diede le spalle. Confusa e intimorita mi alzai, sperando che le gambe tremanti mi avrebbero sostenuta. Per lo meno finché uno dei due non sarebbe uscito dalla stanza.
-“William, devi scusarmi ma non posso assentarmi da un evento come questo. Non posso fingere una malattia per seguirti fuori dal collegio”, cercai di farglielo capire in modo gentile e cauto ma stavo per esplodere.
Alzò la testa al cielo e cominciò a ticchettare nervosamente il piede sul pavimento. Visto così, nell’oscurità e terribilmente teso, quasi incuteva terrore. Prima che riprese a parlare passò qualche minuto buono.
-“Come vuoi”, sputò un poco più gentile. Si voltò lentamente con la mascella serrata, guardandomi come se volesse aggiungere dell’altro ma non appena dischiuse le labbra un’altra voce giunse fino a noi.
Mi girai di scatto, per poi incontrare l’esile figura della Belfiore.
-“Oh, salve ragazzi”, balbettò sorpresa, forse, di vedere William con me.
-“Buongiorno professoressa”, risposi senza togliere gli occhi da lui.
-“Emily, oggi la professoressa del corso di musica non verrà. Vuoi venire al mio corso di cucina?”
Accettai subito senza pensarci due volte. Non volevo rimanere in quella stanza due secondi di più e a giudicare dall’espressione della Belfiore non avevo nemmeno scelta. Sospirai gracchiando un “sì”.
-“Allora io è meglio che vada. A dopo Emily. Arrivederci professoressa” E lui uscì di corsa dalla stanza senza nemmeno guardarmi per salutarmi. Rimasi impalata vicino al pianoforte con le gambe molli e la gola secca nemmeno avessi parlato senza sosta per due ore.
Seguii la professoressa verso il corso di cucina pensando: da dove veniva tutta quella disperazione da parte di William; quasi sarebbe stata una questione di importanza capitale accettare quel dannato invito?
Quella domanda probabilmente sarebbe stata destinata a ronzarmi in testa per tutta la durata della lezione, dove, non feci che sfornare biscotti, ipnotizzava dalle istruzioni che mi venivano impartite e che eseguivo meccanicamente. Tant’è che mi accorsi della presenza di quella serpe di Camille solo quando, l’aula, si popolò di nuovi volti, tra cui anche quelli sudati di Nicole e Jamie, reduci da educazione fisica.
Sorrisi ad entrambe che erano ad un tavolo di distanza da me, cercando di mascherare il disagio, pregando di dargliela a bere.
-“Ragazze”, esordì quasi improvvisamente la Belfiore, –“incredibile come questo corso oggi abbia tanto successo.”, ridacchiò tutta compiaciuta. Estrasse dal grande forno spento un recipiente circolare e cominciò a dettare le sue istruzioni per preparare un ciambellone perfetto. Con il volto di William impresso nella testa fu davvero difficile memorizzare i vari passaggi; in compenso sarebbe stato un ottimo diversivo per tenermi occupata.
Il mio impasto fu pronto prima di quello delle altre; Jamie era in un fascio di nervi – sembrava non saper dove mettere le mani-, per questo mi implorò di aiutarla.
-“In realtà so farlo. Volevo avvicinarti con una scusa senza che la Belfiore ci dividesse”, confessò strofinando del burro lungo la formina, non appena ricevuto il permesso per affiancarla.
Mi strinsi nelle spalle. -“Deduco che vuoi dirmi qualcosa, allora.”
-“No, tu devi dirla a me, cara. Perché sei agitata?”, mi domandò e scrutò con la coda dell’occhio la mia reazione.
-“Dai Emily, ancora non ti conosco bene, è vero, ma i tuoi occhi parlano per te! Sei sulle nuvole. Ci hai impiegato trenta minuti per preparare un ciambellone mentre io ce ne metterei appena dieci. E non significa niente che hai finito prima di tutte perché le altre sono incapaci! Non me la dai a bere.”
Sospirai, ero proprio un libro aperto non è vero?
-“E va bene. Mi turba il comportamento di William, non sai cosa è successo”, mi arresi chinando il capo.
Jamie invece alzò il suo facendo ondulare i suoi capelli ricci color caramello. I suoi occhi sprizzavano curiosità, così come il suo sguardo improvvisamente allegro. Cominciavo seriamente ad odiarlo.
-“Beh, dai, racconta!”, mi sollecitò riprendendo a cucinare. La imitai scaricando il nervoso su una bustina di zucchero a velo.
-“Mi ha chiesto se domani andavo con lui a fare colazione. Fuori dal collegio” E alle mie due ultime parole rabbrividii immaginando le conseguenze. Jamie si limitò a guardarmi con gli occhi fuori dalle orbite, cessando ogni tipo di azione, se non quella di contorcersi le dita.
-“E tu cosa gli hai risposto?”
-“Di no ovviamente!”, sbottai, ed ero convinta che fosse la risposta esatta ma a giudicare dall’espressione della mia amica avevo fatto un buco nell’acqua. Infatti storse la bocca.
-“L’avevo detto che tu gli piaci.”
-“Non dire sciocchezze”, l’ammonii fulminandola. Cominciò a darmi delle gomitate.
-“E dai Emily, ci sono tutti i segnali.”, continuò. Alzai gli occhi al cielo mordendomi le labbra. Stavo diventando ossessionata, e il parlare di lui non mi aiutava di certo.
-“Okay, okay, stop!”, esclamai sottovoce. –“Cambiamo argomento te ne prego”, la implorai facendo gli occhi dolci. Di solito funzionavano.
-“E va bene. Ma aspetta di riprendere il discorso con Nicole”, rise. Promisi di riprendere il discorso con le dita incrociate dietro le spalle e fui lieta che la tecnica degli occhi dolci funzionasse anche con quell’osso duro di Jamie.
-“Emily potresti prendermi una bustina di lievito?”
Passai in perlustrazione dei tavoli quando poi vidi ciò che cercavo e l’afferrai, ma urtai qualcuno e la bustina mi cadde a terra. Mi chinai per raccoglierla sentendo dietro le mie povere spalle un senso di bruciore; ad un palmo dal mio naso trovai due scarpe sportive tirate a lucido. Credevo di sapere a chi potessero appartenere, poi apparve una mano bianca che recuperò la bustina caduta a terra e una voce melodica mi costrinse a rialzarmi. Le mie ipotesi divennero affermazioni.
-“Cerchi questa?”, mi chiese come se non fosse ovvio, aprendo la sua mano.
-“William”, mugugnai riprendendo il lievito.
-“Che cosa ci fai qui?”, gli domandai e nel giro di due secondi mi sentii tutti gli occhi puntati addosso. Cercai di evitare quelli furibondi di Camille.
-“Ho approfittato della temporanea assenza della professoressa Belfiore per portarti le mie scuse, Emily.”
-“Ah, okay”, balbettai, colta di sorpresa.
-“Certe volte mi confondi”, lo accusai tornando a fissare il pavimento mentre arrossivo.
-“Confusione. Non è un bel sentimento” Sembrava divertito. Rettifico: perfidamente divertito.
-“Va bene, cosa c’è?”
-“Volevo scusarmi di nuovo.”
Sbuffai. –“Sei venuto fin qui solo per questo?”, domandai guardandolo negli occhi.
Inclinò leggermente il capo sorridendomi dolcemente.
-“Volevo riproporti l’invito in toni più pacati.”
Oh, no! Di nuovo, sbottai dentro di me. Probabilmente il panico che percepivo si manifestò sul mio volto perché anche la sua espressione cambiò di colpo.
-“Lo so, lo so. Mia madre è il problema, ma se facciamo attenzione lei non se ne accorgerà. Ti prego, accetta la mia proposta...”
Feci per rispondere ma Jamie emanò un colpo di tosse come per avvisarmi di qualcosa. Mi guardai velocemente intorno circospetta e poi vidi la preside di spalle alla porta che parlava con la professoressa.
-“Ecco appunto proprio tua madre! E’ dietro di te.”, sillabai con una voce improvvisamente strozzata e allarmata. William si girò lentamente, come se niente fosse, e poi si andò ad infilare nel ripostiglio della stanza. La sua disinvoltura e la sua mancanza di senso di sopravvivenza mi lasciavano interdetta. Poi però ricordai, a mio rammarico, che la temibile Delacour poteva essere una minaccia solo per noi povere collegiali. Con tre falcate raggiunsi Jamie, dove trovai un’indaffarata Nicole al suo fianco, la quale non si risparmiò un commento.
-“Quel William non potrebbe stare nelle aule durante le ore di lezione. Anche se stiamo cucinando. Molto probabilmente sua madre lo starà cercando. Tanto poi nei guai ci andiamo noi.”
Feci spallucce ignorando la presenza della Delacour sulla porta e quella di suo figlio nascosto nello sgabuzzino buio. Stavo cominciando a sudare freddo: tra i due non sapevo quale temere. Non sapevo con chi dovevo controllarmi le spalle. Cosa ne sapevo io, infondo, di William? Se era come la madre poi...
-“Ragazze, scusatemi dovrò assentarmi per qualche istante. Fate le brave mi raccomando”, farfugliò la Belfiore recuperando il registro di classe sul forno. Mi concessi un’occhiatina fugace alla porta e incontrai gli occhi della Delacour, fissi e indagatori su di me. Mi passò un interminabile brivido lungo la schiena e ricacciai un lamento indietro. Non appena le due si allontanarono dalla cucina recuperai William, spalancando la porta del suo nascondiglio improvvisato. Nonostante fosse al buio, in mezzo tra una scopa e uno scaffale di non so cosa, lui emergeva sempre e comunque. Non mi feci abbindolare dalla sua avvenenza per più di un secondo e lo invitai fuori, annunciandogli via libera. Mi sorrise e mi cinse le spalle, senza toccarmi veramente.
-“Pericolo scampato”, commentò una volta uscito.
-“Già.”
-“Allora dicevamo? Ah, certo. La nostra uscita.”. E nel modo in cui aveva sottolineato la parola “nostra” mi fece sobbalzare il cuore. Deglutii per riprendere una salivazione normale e assunsi un tono determinato nella voce.
-“William, ascoltami ti prego. Non posso. Mi piacerebbe ma sto cercando di rispettare le regole del collegio. Odio mettermi nei guai, odio farmi rimproverare non sono una bambina. Tua madre sembra avercela, per non so quale motivo, con me, e ti prego... ti prego smettila di chiedermelo.” Fu il discorso più lungo che uscì dalla mia bocca da quando avevo messo piede li dentro. William mi guardò inespressivo, sembrava non aver capito. E mi sentii inquieta.
-“Andiamocene di nascosto”, azzardò, e la sua voce si fece persuasiva, dolce e pericolosamente sensuale.
Strabuzzai gli occhi, incredula.
-“Ma se ti sto dicendo che non posso per nessuna ragione al mondo”, sbiascicai con un tono quasi esausto.
Poi un lampo di genio, o almeno credevo.
-“Sai una cosa arrivati a questo punto? Forse ho capito cosa vuoi fare: tu vuoi mettermi nei guai con tua madre cos’è, una prova perversa per stabilire se sono un elemento negativo per questo rispettabile istituto? Un modo per cogliermi in fragrante e farmi spedire in un altro collegio sperduto? Magari meno degno di questo, mh?” Involontariamente mentre lo accusavo gli puntai il dito contro. Lui voleva mettermi nei guai, era così palese! Stupida, stupida!
-“Ma....tu stai veramente... Emily quale giro ha fatto la tua mente per arrivare ad una soluzione così ridicola?” Cominciò ad agitarsi, si guardava intorno nervosamente, cercando le parole giuste. Lo vidi stringere i pugni e digrignare i denti. Il suo viso un tumulto di rabbia e offesa.
-“Sai cosa ti dico, Emily”, ruggì, dominando di nuovo la sua voce, avvicinandosi al mio viso. E fu a quel punto che mi resi conto di aver esagerato.
-“Scusami, hai ragione è stata la situa...”.
-“No! Se tu vuoi pensare questo fai pure anche se non oso immaginare come tu possa credere questo. Ma ora sappila tu una cosa: non devi più rivolgermi il saluto.”
Indietreggiai spalancando la bocca per la sorpresa delle sue dure parole e per il suo volto livido. La richiusi all’istante quando mi diede le spalle. Raggiunse la porta a passi pesanti e nella sala regnò il silenzio:
emanava talmente tanta rabbia che era impossibile non notarlo. Non si voltò per darmi un ultimo sguardo ma stette fermo sulla soglia per poi schizzare via dopo qualche secondo. Ero lacerata, scombussolata, confusa e sorpresa della mia immensa stupidità. Ma cosa andavo a pensare? E perché l’avevo detto? Scossi la testa cercando di riprendermi mentre le altre facevano finta di niente. Mi accoccolai sulla sedia dove ero prima all’inizio della lezione. Appoggiai la testa sul palmo freddo delle mie mani, consapevole che Jamie e Nicole mi stavano guardando come se stessero in soggezione.
Poi rientrò la professoressa e ci richiamò all’ordine.
Proseguii il mio preparato come se non fosse accaduto nulla, non mi lasciai condizionare, non me ne poteva importare. Giusto? Jamie mi passava i mestoli quando glieli chiedevo senza fiatare. Non sapevo che espressione avessi stampata sul volto ma a giudicare dal suo silenzio non dovevo aspettarmene una rilassata e sorridente. Mi faceva anche male la testa. Presi il mio dolce e lo misi nel forno regolando per bene la temperatura. Rimasi poggiata sul tavolo a braccia conserte in attesa. Dopo circa quindici minuti la professoressa passò di lì e tirò su col naso.
-“Ma che buon odore. Sareste tutte delle cuoche eccellenti”, si complimentò curiosando tra gli ingredienti del tavolo dove lavorava Camille e le sue scagnozze. Lei non faceva altro che incenerirmi, ma non le badavo. Naturalmente ero consapevole che alla fine della lezione mi avrebbe bloccata per avere spiegazione riguardo il suo dannato amato. Sbuffai al solo pensiero e borbottai qualcosa a bassa voce. Passarono altri due minuti contati e mi giunse l’odore inconfondibile di qualcosa che bruciava.
-“La mia ciambella al cioccolato!”, gridai, afferrando un guanto di protezione per evitare di ustionarmi. Abbassai lo sportello e ritirai il mio dolce... o quello che ne era rimasto. Fortunatamente per “recuperarlo” dovetti solo grattare la parte bruciata in superficie, per il resto sembrava commestibile.
-“Ottimo Collins”, cinguettò la Belfiore tagliandone una fetta. L’assaggiò lentamente e fece un’espressione di gusto.
-“Una cuoca eccellente. Molto buono, davvero.”
Mi strinsi nelle spalle. –“La ringrazio. Ho fatto alcuni esperimenti a casa di mia nonna durante la mia permanenza lì e dopo vari tentativi ho imparato a cucinare. C’è voluta tanta pazienza”, dissi sospirando.
-“Beh, i risultati sono più che sufficienti.”
-“A quanto pare”, risposi, alludendo alla sua mano che svelta ne tagliava un’altra fetta. Sorrise e finalmente suonò la campanella.
Quasi istintivamente posai lo sguardo su quello di Camille, il suo preannunciava un incontro tra noi. Calcolai le possibilità di poter sgattaiolare via senza che lei mi bloccasse ma le probabilità di riuscita erano davvero...
-“Collins.” Basse.
-“Camille.”, sospirai rassegnata.
Prima di parlarmi mi inchiodò con gli occhi, fatti a fessura, e si torturò per bene le labbra sottili.
-“Cosa voleva...”
-“Ecco già ti fermo”, la stoppai. Non volevo sentire pronunciare quel nome per tutta la giornata nemmeno se fosse stato di vitale importanza.
-“Se parlo con qualcuno non devo rendere conto a nessuno, tanto meno a te. Non sei mia amica e non sei nessuno, perciò scusa ma ora devo proprio andare”, dissi tutto d’un fiato sperando di scrollarmela di dosso il prima possibile. Odiavo i discorsi infantili e senza fondamenta come quelli che iniziava lei.
-“Oh- oh, Collins calmati. Se tu parli con quel qualcuno dopo tutti i miei avvertimenti devo cominciare a pensare che non sei una persona molto furba. Perché se lo fossi non lo faresti”. Il suo tono di voce all’ultima frase si fece più basso e minaccioso. Alzai gli occhi al cielo.
-“Non ho tempo per queste cose, Leeighton.”
Grugnì e scosse la testa.
-“Tu non hai mai tempo per niente, non è vero? Sei così... apatica; ma se cerchi di trovare qualche appiglio di divertimento con William”, e sentire quel nome mi fece di nuovo irritare,-“te la farò pagare”, concluse con un sorriso finto sulle labbra. Mi sentii invadere dalla rabbia, reazione puramente istintiva in risposta alla sua espressione facciale. Chiusi i pugni regolando il tono di voce.
-“Posso andare ora?”, chiesi ironicamente tra i denti. Fece un passo indietro e allungò il braccio verso l’uscita.
-“Vai pure, ti ho detto tutto.”
Scattai via come un fulmine senza nemmeno badare alla presenza delle mie amiche dietro la porta. Intuii che stessero origliando, ma non glielo chiesi e proseguii a grandi passi verso l’atrio.
-“Cosa abbiamo ora?”, domandai alle due che erano alle mie spalle. Mi risposero con l’affanno tanto faticarono per tenere il mio passo.
-“Matematica.”
E mi crollò nuovamente il mondo addosso. Perfetto, proprio quello che ci voleva per proseguire questa “fantastica” giornata.
-“Magnifico”, commentai anche ad alta voce.
-“Eufemismo?”, ridacchiò Jamie cercando di alleggerire il mio umore nero.
Annuii ciondolando il capo e salii le scale come un felino. Non vedevo nemmeno la gente che mi passava davanti. Giunta in classe andai a sedermi all’ultimo posto, quello infondo accanto alla finestra, nascosto da altri ventidue banchi e teste. Una vecchia e adorata abitudine per non accollarsi equazioni inutili per la vita dell’essere umano. Vicino a me si sedette una ragazza dai capelli lunghi e rossi con delle lentiggini sparse lungo il naso. Carina. Avevo trovato qualcun’altra che condivideva la mia filosofia di vita riguardo la matematica. Sorrisi e guardai fuori la finestra per quasi tutta l’ora. Quel giorno il tempo andava di pari passo con il mio umore: era nero. Un carico di nuvole grigie si avvicinava lentamente al collegio preannunciando un bel po’ di pioggia. Ritornai con l’attenzione in classe. Fissare il cielo che si oscurava di sicuro non mi aiutava a rilassarmi, d’altra parte nemmeno seguire un complicatissimo calcolo alla lavagna mi giovava.
Il professore era schizzato: tutto frenetico segnava numeri e x da una parte all’altra, parlava agitato e ogni tanto sfogliava il suo libro quasi staccandone le pagine. Sbattei le palpebre per verificare se non fosse davvero uscito da un manga. Era il classico scienziato pazzo con i capelli ricci e brizzolati e un lungo naso aquilino che ospitava un paio di occhiali dell’età della pietra. Anche seguire lui, in realtà, non mi aiutava. Scesi giù lungo lo schienale della sedia facendo finta di prendere appunti. Ogni tanto la mia vicina di banco mi lanciava occhiate per verificare se stessi bene. Io mi sforzavo di sorriderle. Quando la campanella suonò fu come se il mio cuore riprendesse a pompare. Balzai giù dalla sedia recuperando i miei libri immacolati e uscii fuori dall’aula aspettando Jamie e Nicole. Anche loro erano nel corso, ovvio, ma erano nelle prime file di banchi.
-“Abbiamo ancora un’ora e poi si mangia. Ho una fame da lupi”, mormorò Nicole toccandosi la pancia che non aveva.
Commentai con un verso inudibile e mi preparai psicologicamente alla mia ora di educazione fisica. Amavo muovermi, giocare a pallavolo e cooperare con altre ragazze seppur preferissi giochi solitari, ma quel giorno non accettavo nemmeno di mettermi in tuta. Poi, un barlume mi fece velocemente riflettere che, se mi fossi cambiata mi sarei liberata anche solo per un ora della lunga e rigida divisa che scendeva lungo le mie ginocchia. E fu la nota positiva. Quella negativa, invece, era che avevo il novantanove per cento delle probabilità di scorgere William per il giardino durante la lezione. Il che implicava un altro calo a picco del mio umore. Non volevo vederlo e nemmeno pensarlo così mi congedai subito dalle mie amiche, (che avendo già fatto educazione fisica ora erano pronte ad affrontare l’ora di inglese), e mi andai a cambiare in stanza. Rovistando nel mio baule pescai la vecchia tuta rosa che non mettevo da secoli. Mi cambiai svelta, -in tempo record-, e incontrai lungo le scale altre ragazze che avrebbero assistito la lezione con me. Uscimmo fuori tutte insieme dove ci aspettava una donna minuta, ovviamente vestita da una tutina blu, mentre sul suo capo giaceva un cappello della stessa tonalità. Al collo aveva un fischietto e non appena ci vide si alzò dalla panchina.
-“Bene arrivate”, ci accolse con un sorriso che scomparve non appena mi vide. –“Un momento...”, mugugnò grattandosi il capo, -“Tu devi essere la nuova studentessa, giusto? Com’è il tuo nome?”
-“Mi chiamo Emily. Emily Collins.”. E per un attimo sembrò di precipitare di nuovo al primo giorno. Schioccò le dita esclamando:
-“Giusto. Io sono la signorina Melanie Jim. Bene, Emily è meglio che ti leghi quei lunghi capelli per quest’ora”, mi consigliò mantenendo sempre il sorriso. –“Tieni questo elastico.”
Lo afferrai e raccolsi i miei capelli in una coda alta, ordinata. Fatto ciò ci fece correre per cinque interminabili e sudati minuti; poi fui coinvolta in un susseguirsi di esercizi sul posto e per concludere l’ora ci cronometrò una per una. Il suo intento era quello di scovare un fenomeno tra noi da portare a gareggiare per qualche maratona in città. Io sapevo correre molto veloce ma volutamente ci impiegai più del mio tempo per fare un giro completo lungo tutto il collegio.
Intorno all’una la Jim, quando ci mancava poco che alcune di noi stramazzassero al suolo, decretò la fine della lezione con il suo squillante fischietto. Stremata, recuperai la mia casacca da terra e con un gesto secco me la infilai. Avevo una gran fretta di risalire in camera per infilarmi la divisa in modo da materializzarmi prontamente a pranzo. Ma il motivo per cui avevo tutta questa fretta si presentò ancor prima di rientrare nelle mura del collegio. Accanto ad una BMW metallizzata – che avevo visto il primo giorno- c’era William. Da una delle tasche dei suoi jeans impeccabili estrasse un mazzo di chiavi. Quel piccolo dettaglio mi fece capire che la macchina appartenesse a lui. Rallentai il passo, confortata dal fatto che alcune ragazze erano ancora dietro di me. Cercavo di non fare troppo rumore mentre camminavo per il sentiero pieno di sassi che conduceva alla porta d’ingresso, non volevo che lui si girasse per fulminarmi con lo sguardo. Ma terminato il pensiero, come se mi avesse sentita, si voltò nello stesso momento in cui aprì la portiera dell’auto. Drizzai le spalle e cercai di assumere un’aria impassibile, mentre per la prima volta riuscivo a guardarlo negli occhi per più di un minuto. Il suo viso era duro, livido, quasi pareva che ringhiava per come teneva la mascella. E quasi mi parve di vivere una scena a rallentatore.
Continuavo a camminare sentendo il mio sguardo incatenato al suo, che era immobile come una statua.
Poi, mentre stavo per superarlo, e quindi dargli le spalle, si mosse salendo in macchina. Ma non mi tolse gli occhi di dosso, non prima di avermi incenerita per bene e scuotendo la folta chioma dorata. Imbronciata girai la testa in avanti e diede gas. Fece una retromarcia talmente furiosa che l’attrito delle sue ruote con il terreno rimbombò per l’intero cortile. Mi concessi di lanciargli un’ultima occhiata, cercando anche di imitare la sua ma... si era già inoltrato verso l’uscita. Ha concluso prima la giornata oggi, pensai tra me.
Arrabbiata e confusa dal suo comportamento diedi un calcio allo scalino senza pensare alle conseguenze. Subito dopo sentii un dolore allucinate estendersi per tutta la pianta del piede.
-“Ahi, dannazione!”, gridai, sedendomi di botto.
Due ragazze mi fissarono interdette. –“Ehi, tutto okay?”
-“Mi sono solo fatta male al piede.”, risposi, stendendolo.
Le ragazze si chinarono di fronte a me.
-“Ce la fai a camminare?”
-“Non lo so, ora ci provo.”
Mi alzai sostenendo il peso del mio corpo su un’unica gamba, lasciando l’altra a mezz’aria. Poi con una buona dose di coraggio premetti a terra il piede e per poco non caddi.
-“Accidenti, non ci riesco”, mi lamentai risedendomi.
-“Emily Collins sei veramente un’incosciente!”, mi accusò improvvisamente una voce provenire dalla grande porta aperta. Mi voltai e vidi Jamie e Nicole pronte per recuperarmi da terra. -“Grazie ragazze, ci pensiamo noi a lei”, dissero alle altre due che si allontanarono da me. Guardai Jamie mentre mi rimproverava accusandomi di essere impulsiva, incosciente, pazza e chi più ne ha più ne metta. Cinsi la sua spalla e quella di Nicole e zoppicando mi aiutarono a salire le scale. Fu un’impresa ardua e faticosa.
-“Non so veramente cosa ti passa per la testa in certe situazioni”, continuò imperterrita.
-“Grazie ce la faccio anche da sola”, brontolai scrollandomi le due di dosso. L’ultima cosa che desideravo era farmi rimproverare da Jamie. Zoppicai e mi chinai sul letto per prendere la mia divisa e mi cambiai in un batter baleno. Nonostante il piede intorpidito e dolente riuscii a raggiungere la sala mensa prima dell’arrivo della Delacour. E non potete immaginare che sollievo mettermi seduta al mio solito tavolo senza avere quegli occhi glaciali a scrutarmi.
Ma il sollievo non durò più di due minuti. Mentre ci porgevano il cibo nel piatto la porta della mensa fu attraversata dalla sua figura possente. Con tre falcate passò lungo il corridoio che l’avrebbe portata al suo tavolo. Teneva gli occhi fissi su esso, i suoi capelli erano impeccabilmente raccolti in uno chignon, la sua postura, invece, era rigida e impostata. Tutti quei piccolissimi dettagli mi trasmettevano una schiacciante soggezione. Distolsi gli occhi da lei e cominciai a mangiare qualsiasi cosa avessi nel piatto. In quel momento ero talmente attraversata da pensieri e occupata a piangermi addosso che non riuscivo nemmeno ad inserirmi in una conversazione senza chiedere alle altre di ripetermi la domanda. Fui l’ultima persona a finire di mangiare. Nicole e Jamie mi avevano superata da un bel pezzo, poi mi condussero a studiare in biblioteca. In effetti dovevamo anticiparci qualche compito, credendo che fosse la cosa più sensata da fare per occupare la giornata. Mentre mi allungavo per prendere un libro di storia da uno scaffale qualcuno mi posò una mano sulla spalla. Scacciai un grido e istintivamente lanciai il libro che avevo appena preso a terra.; subito mi voltai con il cuore in gola e quando vidi chi fosse il pazzo- o la pazza- mi calmai all’istante. -“Signor Murfy” Il mio tono era un’accusa.
Lui sogghignò perfidamente divertito. –“Ti ho spaventata, ragazza?”
No, ho gridato perché dovevo liberarmi da un male interiore.
-“Direi proprio di si!”, esclamai portando una mano sul cuore, -“Questa biblioteca è sempre così silenziosa e vuota... e scura.” Mi bloccai lì, ci sarebbero stati troppi difetti da elencare.
-“In effetti si. Volevo chiederti una cosa”, disse passandosi una mano sul mento. Pareva se la fosse dimenticata. Ma sapevo cosa mi avrebbe chiesto ancora prima di aprire bocca. Feci un gran sospiro in attesa.
-“Oh, ma certo!”, poi sbottò, ricordandosene.
-“Il mio assistente William! L’hai visto? Io non lo trovo da nessuna parte.”
Sentii l’istinto di voler cacciare un altro urlo e sbraitare per tutta la stanza, ma mi limitai a riempirmi i polmoni d’aria, di nuovo.
-“E perché lo chiede a me?”, mugugnai, e, prima ancora che Simus potesse scorgere l’irritazione sul mio viso mi chinai per raccogliere il libro.
-“Perché so che siete amici, ragazza. Sai, è un tipo particolare quel William. Ma un gran bravo ragazzo, non penso meriti gli sguardi degli stolti per quanto riguarda la stupida leggenda…”, si soffermò, sarcastico, -“e poi tu sei l’unica persona con cui ha tenuto una conversazione per più di due minuti qui dentro. E ha anche sorriso!”
Le parole del signor Murfy mi ubriacarono dalla prima all’ultima.
Leggende? Che leggende? Oh, ma certo! Esclamò una voce dentro di me; la leggenda che mi avevano raccontato Jamie e Nicole la sera del mio arrivo nel collegio, complice un clima burrascoso. Quindi ne era a conoscenza anche il signor Simus, io che pensavo potesse essere solo un pettegolezzo dark, confinato nelle camerate delle studentesse.
-“Anche lei sa della leggenda che avvolge il collegio?”, domandai torturando la copertina del libro che tenevo in grembo. Il signor Simus si morse il labbro secco, incerto se parlarne o meno.
-“Andiamo, sono solo storielle che hanno messo in giro persone annoiate del paese”, mi ammonì. Sbuffai dal naso.
Ma allora se erano solo storielle perché sia lui che Jamie mi ammutolivano in seduta stante? Magari anche loro, nel più profondo della propria coscienza, ne erano influenzati senza volerlo ammettere. -“Me ne hanno già parlato Jamie e Nicole”, confessai, cercando di persuaderlo e quindi di lasciarsi scappare qualche informazione in più.
-“Beh, non parlarne mai in presenza della Delacour, altrimenti...” Rabbrividì.
-“Altrimenti cosa? Si infuria? Come se ci volesse così poco a farle perdere i numeri”, commentai spavalda e forse con un tono di voce troppo alto. Infatti l’unica forma di vita che ci passò accanto, -una ragazza dai grandi occhiali tipici dei secchioni,- mi fece cenno di abbassare il volume.
-“La Delacour essendo soggetta a questi tipi di racconti è un tantino irascibile. Insomma non fanno molto piacere”, continuò Simus.
Non mi sta dicendo niente di nuovo, pensai.
-“Ora devo proprio andare. Ho molto da fare. Magari se proprio ti interessa questa storia cerca qualche documento tra gli scaffali di questa vecchia biblioteca. Ciao Emily.” Simus mi diede un buffetto sulla guancia, senza sapere che mi aveva suggerito un’idea brillante.
Riposi il libro di storia – i compiti potevano aspettare- e iniziai a girovagare per le varie sezioni. Qualche documento, aveva ragione, era ciò di cui avevo bisogno. Magari avrei trovato scritto qualcosa che mi poteva aiutare a risalire alla famosa leggenda del collegio di Londra.
Questa storia mi stava prendendo più del lecito. Ero come ossessionata dal trovare qualche giustificazione al comportamento di William che non mi importava quale strada dovevo percorrere. Forse si sentiva in soggezione nei miei confronti per questa storia, cercavo di convincermi inutilmente. Ma era ridicolo. Arrivai ad una sezione interamente dedicata al fantasy e dintorni: se mai si fosse nascosto un libro di leggende quella era la sezione giusta. Proprio di fronte a me c’era un titolo che mi incuriosì particolarmente ma nel momento in cui stetti per allungare la mano, una voce squillante mi fece sobbalzare e allarmare.
-“Ma dove ti sei cacciata?”, disse la voce.
Mi voltai serrando i denti.
-“Ma vi state divertendo a spaventarmi, oggi?”, borbottai con un filo di voce a Jamie con un chiaro riferimento al signor Murfy, che lei non poteva capire. Infatti aggrottò le sopracciglia.
-“Nervosetta, Emily?”, domandò sorridendomi.
-“No, scusami. Sono solo stanca.”
-“Stai cercando qualcosa in particolare?” Inclinò la testa per vedere cosa stessi per afferrare ma il suo sguardo, non focalizzando niente, tornò su di me.
-“Ma no, niente. Ero alla ricerca di qualche lettura leggera”, risposi, indifferente. –“Andiamo a raggiungere Nicole”, presi l’iniziativa per mascherare il mio intento disperato alla ricerca di un libro di leggende. Al solo pensiero mi considerai stupida, ebbene sì. Mi voltai per dare un’ultima occhiata allo scaffale e poi, per il resto della giornata, gettai le mie improbabili considerazioni nel dimenticatoio della mia mente.





Il giorno dopo a svegliarmi non fu la campanella né la mia volontà, come accadeva da ormai quattro giorni. Ad interrompere il mio sonno senza sogni fu un tuono terribile, uno di quelli che ti fa tremare il cuore per quanto è potente. Mi rigirai come una trottola impazzita nel letto, mezza imbambolata, prima di rischiare di franare a terra.
-“Tuono del cavolo”, borbottai, piegata in due con le gambe ancora sul materasso e la testa sbattuta sulla parete.
-“Buongiorno Emily” Jamie si tuffò sul mio letto sfatto, ancora in vestaglia e con la divisa in mano. Risposi accompagnando una serie di sbadigli e borbottii. Mi aiutò a rialzarmi e mi girò la testa. Un altro tuono decretò l’inizio del diluvio.
-“Guardate cosa sta venendo giù”, disse una ragazza di cui mi sfuggiva il nome accanto alla finestra.
L’acqua che scendeva era talmente fitta che non riuscivo a vedere i contorni dell’istituto né il giardino, per non parlare del cielo. Dove era finito? Tutto era un’enorme scatola bianca che avvolgeva stretto il collegio, escludendolo dal mondo. Era come essere prigioniere, un senso di claustrofobia infinito. Solo dopo aver disincantato il mio sguardo dalla finestra mi ricordai che quel giorno ci aspettava una mattinata in chiesa a provare i canti. Mi si gelò il sangue nelle vene. Scacciando quel pensiero –che però fu destinato a rimanere attaccato alla mia coscienza- mi andai a lavare. Vicino al mio lavandino c’era Nicole che si strofinava i denti; mi salutò con la mano.
-“Ciao Nic. Per caso è già suonata la sveglia?”
Mi fece cenno di aspettare, posò lo spazzolino nel suo astuccio personale e sputò nel lavandino. Poi mi sorrise rispondendo:
-“Sì, è suonata poco fa.”
-“Nemmeno l’ho sentita”, mormorai strofinandomi del sapone sul viso. L’acqua calda proprio non voleva farsi viva e fui costretta a lavarmi con quella gelida. Tutte fummo costrette a quella tortura mattiniera. Poi mi infilai la divisa e con un colpo di spazzola fui pronta. Riposi il mio pigiama, il pettine e il mio spazzolino nel baule in una lentezza immane. Stavo prendendo tempo. Non riuscii a capire il motivo reale ma qualcosa dentro di me non sapeva cosa aspettarsi dalla giornata.
Come se avessero sentito il mio pensiero Jamie e Nicole mi afferrarono per le braccia, così dovetti per forza seguirle giù lungo le scale interrompendo i miei pensieri. L’atrio mi parve più affollato degli altri giorni e udii talmente tante chiacchiere che mi fecero pulsare le tempie: non c’erano state occasioni, fino ad oggi, di sentire tante voci distruggere il silenzio sovrano che governava il collegio. Accomodate ai nostri rispettivi posti trovammo già pronta la colazione che non variava mai. Storsi la bocca, stanca di ingurgitare schifezze come il pane e latte che avevo di fronte al naso. Se mai avessi sentito qualcuno dire che le patatine fritte, i panini del Mc, o cose simili fossero schifezze da tenere lontano dai nostri pasti, beh, lo avrei aggredito senza pensarci due volte. Afferrai la mia fetta e per distrarmi girovagai con lo sguardo. Il tavolo degli insegnanti era pieno, anche la Delacour ci onorava della sua presenza. Però non la trovai rigida, con lo sguardo che vagava nell’aria, ma scambiava qualche parola con le professoressa Galdys e Belfiore. Una alla sua destra e una alla sua sinistra, come due ancelle. Entrambe mangiavano “prelibatezze” da quello che potevo cogliere da dove mi trovavo, ma il piatto della Delacour era vuoto e immacolato. Non rimasi a pensare al motivo. Non avrei nemmeno avuto il tempo di ragionarci perché proprio mentre la guardavo la Delacour si alzò. La sua voce possente tuonò nel silenzio e rimbombò nella sala ovattata. Cosa voleva dirci?
Tutte in sincrono smisero di mangiare.
-“Buongiorno ragazze”, iniziò ma dalla sua voce non sembrava proprio un “buongiorno” –“Volevo avvisarvi che la nostra visita alla santa parrocchia per provare i canti natalizi è saltata”, dichiarò e iniziarono una serie di mormorii frenetici. Io, forse l’unica in tutto il collegio, gioivo dentro.
-“Per via del tempo come avete potuto constatare voi stesse appena sveglie. Sta venendo giù un vero e proprio diluvio, per questa ragione il nostro cammino è impraticabile. Ma le prove sono rimandate a Lunedì mattina, auspicandoci un vero buon giorno. Detto questo dovrò assentarmi per un palio di ore dal collegio, esigo massimo rendimento e decoro durante l’arco della mia breve assenza. Ora potete ritornare a finire il pasto”, e concluso il suo discorso si rimise seduta.
-“Accidenti...”, si lagnò Nicole alla mia sinistra. Aveva messo il broncio e masticava lentamente l’ultimo pezzo di pane.
-“Dai Nic. So che ti piace cantare ma guarda che tempo pazzesco”, l’incoraggiai e le indicai l’enorme finestra infondo alla sala. Che panorama catastrofico che si scorgeva, pensai.
-“Tanto ci andiamo Lunedì mattina. Nessuno ci salverà da questo supplizio”, mormorai, poi.
-“Ma non è questo il punto”, mi rispose. –“il fatto è che oggi, sabato, alcune di noi hanno la possibilità di passare il week-end con i propri genitori; ed io avevo informato mia madre che oggi la Delacour ci aveva incastrato con le prove in chiesa e le ho detto di non venire.”, mi spiegò stringendosi nelle spalle, e mi parve di vedere i suoi occhi lucidarsi. Mi dispiaceva vederla così triste: nonostante la sua scelta di evadere dalla sua vita composta da problemi vari si vedeva che teneva e voleva stare con sua madre. Jamie dietro le mie spalle emise un gemito di compassione.
-“Ora sono costretta a rimanere qui sia oggi che domani! A fare cosa? Le pulizie ovviamente!”, sbottò incrociando le braccia, arrabbiata. In risposta mi voltai verso Jamie alla ricerca di una spiegazione.
-“Che intende Nicole?”
-“Quello che hai sentito cara. Le prime ore del sabato dobbiamo occuparci delle pulizie. Naturalmente le più fortunate passano il week-end con i genitori. Ad eccezione di oggi, ovvio.”
Rimasi di sasso.
-“Il collegio sarà pure grande ma noi siamo in tante”, aggiunse con un sorriso di incoraggiamento, vedendo, molto probabilmente, il mio viso sconvolto. In effetti volevo proprio vedere la mia espressione in quel momento.
Subito dopo la colazione ognuna di noi si rimboccò le maniche occupandosi di un lato del collegio. La Galdys e la Belfiore ci indirizzarono i nostri incarichi e ci augurarono un buon proseguimento di giornata, mentre loro andavano chissà dove. Mi ritrovai a gironzolare con un secchio e un panno bucherellato per l’atrio, zona che mi era stata assegnata oltre il dormitorio. Prima di iniziare a spaccarmi la schiena per bene mi guardai intorno: Jamie si trovava sulle scale con una pezza e uno spruzzino, e si adoperava a far brillare il corrimano. Helena, una ragazza che vedevo spesso, si occupava di spazzare per terra; Nicole, invece, era piegata in due per lucidare il pavimento del primo piano. Da dove mi trovavo io ogni tanto scorgevo il suo didietro fare su e giù.
-“Prima inizio e prima finisco”, mi dissi, cercando di motivarmi.
Inzuppai il panno bianco e bucherellato nell’acqua insaponata e fui pronta ad imitare Nicole, ma qualcuno attirò inconsapevolmente la mia attenzione. Rimasi impalata a fissare William che armeggiava la maniglia della porta finestra. Era inzuppato fradicio, i suoi capelli aderivano sulla sua nuca gocciolando sugli occhi coperti da ciuffi più lunghi. Aveva un giubbotto imbottito rosso e, siccome era aperto notai il maglione nero che indossava, anch’esso bagnato. Decisi che le pulizie potevano benissimo aspettare e corsi in suo soccorso. Non so cosa mi passò per la testa ma in quel momento lo volevo avvicinare. E non appena lo feci scattò in me un piano improvviso che forse mi avrebbe fatta perdonare da lui. Mi permisi di girare la chiave che era incastonata nella serratura e gli aprii. Non entrò subito, prima rimase impalato e sorpreso di fronte a me. Impassibile come una statua mi oltrepassò senza degnarmi né di uno sguardo né di una parola. Siccome era una creatura gentile, (e su questo avevo dei vaghi dubbi), mi aspettavo almeno un “grazie”. Ma arrivò solo del gelo immane. Prima che potesse scomparire di nuovo, decisi di afferrare il toro per le corna e parlai. Senza voltarmi verso di lui, però.
-“Ciao William.” La mia voce risuonò troppo impostata, dannazione! Sentii i suoi passi bagnati e appiccicaticci arrestarsi di colpo. Vuoi vedere che si sarebbe degnato di rispondermi?
Ma non sentii nemmeno un sibilo, così, intimorita, mi girai lentamente e lo vidi fermo ad osservarmi. Visto in quel modo sembrava indifeso; tutto bagnato e con quello sguardo perennemente sofferente.
Ci riprovai.
-“Ehi, ciao.”
Stirò un mezzo sorriso. A meno che l’inclinazione sbilenca delle labbra potesse chiamarsi così.
-“Credevo mi fossi immaginato la tua voce. Sai, ultimamente mi capita spesso”, disse con un tono indecifrabile. Rimasi due secondi contati a capire il senso delle sue parole che mi parvero una sorta di complimento oscuro... ma allora perché il suo tono mi faceva credere il contrario?
Deglutii.
-“Senti, ho una cosa da dirti”, tagliai corto.
-“Oh”, mi interruppe facendo il finto sorpreso, -“non credevo che tu parlassi agli sconosciuti di cui non ti fidi. Credevo volessi evitarmi per sempre.”
-“William non ho mai detto questo... io mi fido di te ma sai perfettamente quali sono le regole del collegio. Questa mattina non sarei potuta venire nemmeno se lo avessi voluto con tutto il cuore.” Pronunciai quelle parole con tutta la buona volontà di farlo ragionare. Mi dispiaceva che lui, dopo esser stato carino e gentile nei miei confronti, pensasse che io dubitassi della sua persona.
Il suo sguardo parve ammorbidirsi e si avvicinò a me.
-“Voglio che tu ti fidi di me.”
-“E lo faccio”, risposi prontamente, avanzando sotto di lui. Era più alto di me di dieci centimetri o poco più. –“Ma ho trovato strana la tua insistenza. In fondo non ci conosciamo da molto.”
Lui annuì facendomi intendere di condividere il mio pensiero, ma che comunque non lo trovava un impedimento come invece facevo io.
-“Hai perfettamente ragione. Ma ci sono cose che non possono essere spiegate su due piedi, perché la mia insistenza per quanto irritante ha le sue fondamenta.”
Mi ritrovai a sbattere le palpebre, sempre più confusa.
-“Mmm, okay. Potresti spiegarmi tutto questa mattina. Dove dovevi portarmi?”, chiesi, simulando disinvoltura.
Lui drizzò le spalle, segno che le mie parole erano per lui inaspettate. Deglutì facendo muovere lentamente il suo adorabile pomo d’Adamo e guardandomi torvo, disse:
-“Stai bluffando.”
Sorrisi.
-“No. C’è stato un’imprevedibile cambio di programma: la preside, cioè…tua madre, ha annullato l’uscito per via del brutto tempo e perché, a quanto pare, le è sorto un altro impegno per cui si sarebbe dovuta allontanare dal collegio. Per cui ho pensato, anziché rimanere qui a tirare a lucido questo posto –senza nessuno che ci controlli, tra l’altro- di accettare il tuo invito. Della mia assenza non se ne accorgerebbe nessuno in tutto questo trambusto.” Esposi il mio piano geniale tutto d’un fiato, senza togliere o smorzare il sorriso di soddisfazione che sentivo sulle labbra. William sembrò ragionarci su e, dopo essersi guardato intorno, annuì.
-“D’accordo, è giusto”, accettò, ancora pensante,-“vado a mettermi qualcosa di pulito e a prendere a te il giaccone. Ora, vieni qui.” Mi agguanto per il braccio trasportandomi verso la portafinestra, con un dito m’indicò la sua auto parcheggiata.
-“Quella è la mia auto. Io vado a cambiare nella stanza di mia madre che si trova dall’altra ala dell’istituto, tempo dieci minuti e mi farò trovare lì.”
-“Ottimo.”
William corse a cambiarsi ed io corsi da Jamie, che mi accorse con un’aria circospetta le braccia incrociate con la tipica espressione di chi la sa lunga. Non appena incrociò i miei occhi mi fece cenno di parlare.
-“Non ti sfugge niente, eh?”, l’accusai divertita.
-“Impossibile non notarvi. Avete fatto spettegolare un gruppetto di ragazze che ho sapientemente fatto circolare via. Erano lì, quelle pettegole, ad ammirarvi e, certo, anche invidiarvi…”
-“Ammirarlo”, la corressi con un sospiro.
Lei scrollò le spalle. –“Non solo. Eravate così vicini che pareva emanaste energia. Non sai quanto sei stata invidiata da quel gruppetto laggiù”, blaterò e con il pollice mi fece osservare delle ragazze che parlavano a bassa voce mentre spolveravano i quadri antichi. Per un attimo mi sentii lusingata di essere al centro dell’attenzione, non ne ero abituata.
-“Comunque sia... Jamie... devi aiutarmi”, dissi con un tono di voce eccessivamente melodrammatico.
-“Parla”, rispose lei mutando espressione di colpo. Era seria e agitata.
-“Io e William stiamo per uscire dal collegio. So che in questo via vai di persone nessuno noterà la mia assenza ma devi promettermi che, se qualcuno o qualche insegnante ti chiede dove io sia finita, per favore rispondigli che sono a cambiare l’acqua del secchio”, sussurrai al suo orecchio.
-“Wow”, disse meravigliata, scostandosi per guardarmi negli occhi. I suoi erano increduli e lampeggianti.
-“Certo. Certo, ma è ovvio.” Non la smetteva di annuire con la testa, facendo ricadere sul suo volto dolce una serie di ciocche ribelli.
-“Non avrei mai il coraggio di fare una cosa del genere. Sei veramente una forza.”, si complimentò come se fossi wonder woman in persona. Risi compiaciuta.
-“Ho affrontato di peggio.”
Lei mi abbracciò e io ricambiai; quando si staccò mi fece cenno con la testa di guardare oltre la porta finestra: William era già arrivato, mi aspettava con un ombrello nero aperto. Feci per andarmene ma ad un tratto mi si bloccò il cuore e mi si mozzò il fiato. Dalla lunga scalinata stava scendendo, a passi felpati, la Delacour . Rimasi impietrita e in fretta e furia cercai vertiginosamente con gli occhi dove avevo lasciato i miei oggetti da lavoro. Non appena trovati mi gettai a terra per recuperare il panno e rimasi seduta. Facevo finta di lottare contro una macchia aspettando che la preside mi passasse oltre. Con i capelli che mi erano caduti in avanti a mo di scudo, sbirciai tra una ciocca e l’altra William, ma si era nascosto. La madre, avvolta in un mantello celeste intonato alla sua divisa, puntava dritta verso la porta e fortunatamente parve non notarmi in mezzo alle altre. Inclinò la maniglia, si guardò alle spalle con fare indignato e frettoloso, per poi uscire nella bufera.
-“Oddio che paura”, dissi lanciando un sospiro di sollievo. Ricacciai via il panno e corsi verso la porta finestra, alla ricerca di William. Non lo vedevo, -o forse si era mimetizzato sotto la pioggia-, ma sarei riuscita a scorgere il suo lugubre ombrello nero anche da chilometri di distanza. Con un tuono improvviso lui ricomparve di fronte a me facendomi balzare. Aprì la porta.
-“Scusa”, farfugliò e con un gesto secco mi trasportò verso di lui. Mi avvolse nel suo giubbotto come se fossi un uccellino bagnato e mi guidò dinanzi la sua auto.
-“Emily...”, disse in tono di invito, aprendomi la portiera.
Mi lasciai scivolare velocemente sul sedile e mi gustai il buon profumo di fresco che trovai nell’abitacolo. Tirai su col naso fin quando anche lui non entrò. Ci allacciammo contemporaneamente la cintura di sicurezza e poi mise in moto; il rombo solido del motore che tornava in vita si confuse con il rumore della pioggia insistente.
William mi fece accucciare per bene lungo il sedile, -sembravo un riccio di mare-, per evitare di essere vista da qualcuno che passava di lì. Ma non scorgemmo nessuno e fui felice di riacquistare una posa umana. La pioggia batteva violenta sul parabrezza e mi chiesi più volte, durante il nostro tragitto, come facesse a vedere oltre il vetro. Tutto era in simbiosi: cielo, terra, acqua, individui che passeggiavano indisturbati. Giunti su una via piuttosto trafficata –che non avevo avuto mai il modo di visitare- ebbi la possibilità di notare i primi addobbi natalizi spuntare tra un negozietto a l’altro. Mi si accapponò la pelle presagendo quanto triste sarebbe stato il mio compleanno imminente. Ero riuscita a detestare quel giorno più di qualsiasi altra cosa al mondo. Una volta avrei voluto che tutti i giorni fossero come il venticinque di Dicembre, quando nell’aria si respirava quell’atmosfera di attesa e di una pacata e sana malinconia; quando la mia gioia poteva essere condivisa con chi amavo, scartando un regalo e accettando baci d’augurio. Sospirai silenziosamente, creando una nuvoletta di fiato che sfilò nell’abitacolo. Solo allora mi resi conto del silenzio che avvolgeva me e William. L’osservai di sottecchi: aveva un’espressione tendenzialmente e apparentemente quieta, una mano che stringeva il volante e un’altra e un braccio poggiato alla porteria. Vidi nascere sulle sue labbra un sorriso, nel momento in cui, nemmeno a farlo apposta, iniziavo a pensare che forse avrei dovuto distogliere lo sguardo per non attirare la sua attenzione. Mi chiese:
-“Che c’è?”
Sbattei le palpebre voltandomi ad osservare la città oltre il mio vetro semi appannato.
-“Niente. E’ tutto okay.”
-“Non sei curiosa di sapere dove ti sto portando?”, domandò ancora, svoltando a sinistra ed incuneandosi in una stradina stretta e breve. In un certo senso lo ero ma…
-“Qualsiasi posto è meglio del collegio. E poi hai insistito così tanto che dovrà essere un gran bel posto”, dichiarai, con un pizzico di polemico nella voce.
-“Immagino che il tempo non ti passi mai, nel convitto.”
-“Un giorno ne equivale tre. Mi sembra di esserci tra una vita e ho paura di esplodere, prima o poi.” Era la verità, anche se ci sarei andata giù molto più pesantemente se non fosse che, il guidatore che mi stava portando in un posto a me ignoto, era nientepopodimeno che il figlio della preside psicopatica. A proposito di quest’ultima, stavo vivendo quei minuti con un’estrema angoscia ancora attorno al mio cuore: avevo paura che avesse già notato la mia assenza.
Una volta arrivati a destinazione, William parcheggiò in una piccola piazza a venti minuti dal collegio. Mi aprì la portiera accogliendomi con il suo (inquietante) ombrello nero, per poi improvvisare una serie di slalom che ci permisero di non finire dritti in pozzanghere che, di primo acchito sembravano piuttosto profonde.
Il bar che aveva scelto aveva un’insegna lampeggiate che emetteva un suono simile a quello di uomo sciame di vespe; il che non era molto incoraggiante ma non dissi niente per non sembrava un’ingrata o, peggio, perdere il William sorridente e tranquillo che ora mi stava aprendo la porta del locale. Non appena dentro un profumo di cappuccino e una folata di calore caldo ci colpì in pieno, risvegliando tutti i miei sensi intorpiditi dalla pioggia.
-“Okay, questo promette decisamente bene. Senti che buon odore!”, quasi ansimai, nel gustarmi quella delizia che aleggiava nell’aria.
-“Alla faccia del collegio”, ridacchiò William passandosi una mano tra i capelli umidi, e depositando l’ombrello nel cestino apposito. Mentre cercavamo un posto libero mi guardai intorno: l’interno era luminoso con pareti di un bianco panna ornato da rilievi violacei con contorni in oro, il bancone a forma d’arco riprendeva gli stessi colori offrendo in esposizione una miriade di dolci che chiedevano solo di essere assaggiati; sulle mensole dietro questo vi erano una serie di bottiglie di liquori che pian piano lasciavano il posto a bottiglie più piccole di non so cosa. I tavolini –in perfetto stile art déco- erano quasi tutti occupati da persone di un certo tipo. Donne con grandi cappelli sorseggiavano il loro thè in una posa rigida ma, al tempo stesso, naturale; uomini in giacca e cravatta che non staccavano gli occhi dai loro cellulari e sembravano dove balzare dalla sedia da un momento o l’altro. Alcuni mi lanciarono un’occhiatina a dir poco stralunata, facendomi sentire a disagio nella mia squallida uniforme.
Trovammo posto proprio in fondo al locale, accanto ai bagni. E nemmeno da seduta non la smettevo di guardarmi intorno: tutto mi sembrava tragicamente nuovo, il mondo esterno mi stava mancando più di quanto potessi immaginare. Non sapevo se questo dipendeva dalla condizione momentanea di non potermi più muovere per Londra liberamente, ma, cielo, se stavo lottando contro una morsa di profonda irrequietudine per quell’abitudine messa in stand-by. Tre anni e avrei ricominciato di nuovo un’altra vita. Avrei dovuto resistere solo per altri tre anni. Quella consapevolezza mi strappò un lamento a malapena udibile. -“Ti fanno male le spalle?”, si affrettò a chiedermi William che era rimasta a scrutarmi nel mio momento di cupa riflessione.
-“Poco, rispetto all’inizio. Cerco di non concentrarmi sul dolore”, risposi, schiarendomi la voce che, improvvisamente, suonava abbattuta e rauca.
-“Devo proprio ringraziarti, Will”, dissi poi, senza nemmeno pensarci,-“grazie a te sto…beh, sto respirando di nuovo.” Mi morsi le labbra, ora.
Lui sorrise inclinando il capo, ma le sue sopracciglia erano increspate, segno che non aveva capito il senso della mia frase.
-“In che senso?”
-“Tutto questo per me” e feci un ampio gesto con le mani affinché abbracciassi tutta la realtà che ci circondava,-“adesso è diventato un qualcosa di esclusivo. E distante, sospeso. Per un bel po’ di tempo – e, sì, sto usando un eufemismo- per me sarà impensabile ancora solo poter fare una passeggiata e tu questa mattina mi stai offrendo una boccata d’aria che, inconsciamente, mi serviva.”
William aveva intrecciato le mani sul tavolo e si era fatto serio, assorto. Dondolò il capo una volta assimilato il concetto che volevo esprimere.
-“Forse ho capito cosa intendi dire: ti senti come se ti avessero tappato le ali, rinchiudendoti in collegio. Soffri perché ti mancano i tuoi genitori, soffri per la mancanza di una vita –definiamola- normale. Ti senti come se vivessi in una sorta di sospensione della realtà. Della tua realtà. Hai usato anche tu questo termine, perché in cuor tuo sai che un giorno le tue ali saranno di nuovo spiegate, terminati gli studi nell’istituto, e tornerai a volare. E ti auguro di arrivare ovunque tu voglia andare, un giorno. Emily.”
Per poco non mi commossi. Le sue parole, lo straordinario modo in cui aveva perfettamente capito il mio stato d’animo, mi lasciarono scossa. Piacevolmente scossa.
Prima ancora che potessi confermare le sue supposizioni o ringraziarlo per il bel augurio, un cameriere dal viso fresco e sveglio, si materializzò al nostro tavolo facendoci sobbalzare. A meno che il bar non possedesse una botola segreta per ogni tavolino, io proprio non l’avevo visto arrivare.
-“Buongiorno, io sono Greg. Posso servirvi in qualche modo?”, recitò, schierando una sorriso a trentadue denti.
-“Allora Emily, cosa desideri? Oggi è la tua giornata.” William si sporse sul piano appoggiandosi sui gomiti, indirizzandomi un occhiolino. Cosa che fece anche il cameriere. Imbarazzata diedi voce alla prima immagine che apparve nella mia testa:
-“…U-un cornetto al cioccolato.”
-“Posso portarvi dell’altro?”
-“Un bel cappuccino caldo per accompagnare il cornetto. Grazie”, aggiunse William. Il cameriere finì di appuntare l’ordine sul suo taccuino e poi, promettendoci che la colazione sarebbe arrivata subito, girò i tacchi. -“Io davvero non so come ringraziarti”, mormorai, lasciandogli intendere che ero sprovvista di soldi.
-“Non devi, visto che sei mia ospite e che offro io.”
Odiavo la cavalleria, e di questa William ne era provvisto fino all’esasperazione. Se qualcuno mi dava qualcosa mi sentivo in dovere di ricambiare.
-“Se per te va bene, tra tre anni posso offrirti qualcosa io. Il tempo di farmi trovare un lavoretto e tutto il resto”, ridacchiai, tamburellando le dita sul bordo del tavolo.
-“Affare fatto, allora.”
Come di parola Greg tornò con in bilico un tondo vassoio che depositò assieme ad un contenitore di tovaglioli.
-“A voi”, disse con tono accondiscendente, per poi raggiungere i nuovi clienti alle nostre spalle.
L’ingordigia mi fece agguantare la tazza di cappuccino e di conseguenza mi ustionai le dita, riponendolo al suo posto. In mezzo alla schiuma un cuoricino creato con glassa al cioccolato dondolava dolcemente fino a sfumare nel latte.
-“Oh, ma che gentile accortezza”, mi punzecchiò William,-“e che mattinata particolarmente proficua. Hai fatto colpo.”
Stavo giusto per ribattere ma il destino volle che Greg ripassasse intorno al nostro tavolo e, come per dare manforte a William, questo mi scoccò un’inconfondibile occhiatina maliziosa.
-“Sì, hai fatto colpo. Decisamente”, confermò William, ridendo sommessamente. Bofonchiai qualcosa addentando un cornetto… e fu allora che mi accorsi che Greg ne aveva adagiati due, sul piattino, anziché uno come ordinato.
-“Credo proprio di averlo mandato in confusione: guarda ci sono due cornetti. Assaggialo, ti prego, è delizioso.”
William parve irrigidirsi di colpo, il sorriso divertito tentennante.
-“No no, è tuo, figurati.”
-“Scherzi? Non mi alzo da questa sedia fin quando non lo mangi tu. Non posso permettermi di ingrassare, sai, ho solo questa uniforme”, scherzai, inzuppando con fin troppa foga il croissant nel cappuccino.
-“Non…”, iniziò William, poi però si ammutolì fissando il cornetto come se ne fosse disgustato. Rimasi ad osservarlo nella sua drammatica indecisione, confusa.
-“Non è che sei costretto. Stavo scherzando.”
E me ne ricordai solo in quel frangente: la leggenda.
Vampiro.
I vampiri non mangiano, si nutrono solo di sangue.
Le mie spalle si scontrarono bruscamente contro la spalliera rigida della sedia, come se due mani mi ci avessero spinto con forza, invece che i miei stupidi pensieri.
Scossi il capo, la fame di colpo scomparsa… e vidi William addentare la punta del croissant. Masticava veloce sbattendo le palpebre quasi come se dentro di lui stesse analizzando il sapore caldo e denso del cioccolato; poi inghiottì, crucciandosi. Ed io con lui.
-“Non t-ti piace o…?”
-“No, al contrario”, mi rispose con uno strano squittio nella voce a cui non volli dare troppa importanza, -“però, sai, è troppo bollente. La glassa, intendo.”
-“Allora. Oggi che giornata ti aspetta?”, domandò, cambiando decisamente argomento. Feci spallucce e iniziammo a discutere di argomenti neutri, non particolarmente interessanti ma adatti per una tranquilla colazione, con il tempo che si dimezzava sempre di più.
Uscimmo dal bar sentendomi lo sguardo di Greg corrermi lungo la schiena –il gentile cameriere mi aveva invitata a tornare presto- fin quando non montammo nuovamente in auto.
William andò ad incuneandosi in una stradina in salita che, dacché ne avevo capito, ci avrebbe permesso di raggiungere il collegio prima del previsto.
-“Ah, per poco non mi dimenticavo”, esordì tutto d’un tratto, mentre io cercavo qualcosa di interessante da dire. Mi voltai verso di lui, in attesa. Un vago senso di allarme mi sconquassò facendomi rabbrividire. Cosa mi fece insospettire? Forse la sua voce contrariata, o forse il modo piuttosto nervoso con cui stava guidando.
-“Oggi è il mio ultimo giorno di lavoro”, annunciò svelto, come se non volesse davvero pronunciare quelle parole. Non risposi subito. Lui mi diede un’occhiata e accelerò. La gravità mi fece premere la schiena al sedile, tanto andava veloce.
-“Questa sera il signor Simus mi consegnerà la paga del mese; gli avevo detto che non ce ne sarebbe stato bisogno, non era per i soldi che son venuto all’istituto ma lui è un vecchio pignolo.” Mi fu chiaro che il suo era un autentico tentativo di alleggerire quell’atmosfera improvvisamente gelida. E non solo nel senso fisico dell’espressione.
-“Quindi, non trascorrerai il resto dell’anno lì… te ne vai”, dissi, con un groppo in gola. Frenò alla vista di un semaforo rosso e quella fu l’occasione buona per guardarmi negli occhi.
-“T’interessa?” Sentii le guance colorarsi per l’imbarazzo di quella domanda del tutto inaspettata e il mio battito aumento sensibilmente; nel frattempo la mia mente cercava una vana illusione di appiglio cercando di contorcere la realtà che mi stava scombussolando: proprio ora doveva andarsene?
-“M’interessa”, risposi,-“ora che cominciavamo a conoscerci davvero. Stavamo diventando amici. Io avrei potuto avere qualcuno in grado di capirmi come hai fatto prima. Un alleato, un amico.”
Non so se quello che dissi riuscì a scuoterlo ma interruppe il contatto visivo, facendomi pensare che si stesse sentendo in colpa. Non mi doveva niente, in realtà, ma io, egoisticamente, volevo fargliela pesare. Gli addii non mi erano mai piaciuti. Con ciò non voglio dire che mi stesse crollando il mondo addosso, ma provai un vero dispiacere.
La sua mano toccò la mia spalla ed io sussultai, tornando a fissare i suoi occhi bicolore.
-“Vedi, ero venuto al collegio con uno scopo ben preciso –una missione, per così dire- ora che tutto sembra tranquillo senza il mio intervento è bene che io me ne torni in Francia. Non guardarmi così, Emily, è una faccenda che non posso spiegarti nei particolari.”
A quel punto il semaforo scattò e lui ripresa la guida, rompendo il contatto tra noi.
-“La missione era di aiutare il signor Murfy a potare le siepi in modo rettangolare anziché, non so, lasciarle selvagge?”, sputai con un tono, a mia sorpresa, irritato. Lui non si spiegava mai, ogni sua frase era sempre avvolta in una cortina di mistero ed io, anziché sentirmi come una persona degna di fiducia, mi percepivo come una Sherlock Holmes in erba che non aveva nessuna possibilità di farsi strada in tutta quella foschia.
-“Non posso proprio parlarne.”
Eravamo giunti a destinazione. Mi cacciai giù lungo il sedile come avevo fatto prima, anche se non mi sembrava più tanto utile. Il cessare dello sgranocchiare delle ruote della BMW nel cortile mi diedero il permesso che cercavo per sgattaiolare fuori dall’auto; subito l’odore di verde e di grasso mi diede il bentornato infilandosi dritto nelle mie narici.
Mi diressi a passi ben distesi verso il portone principale.
-“Emily, ti conviene correre verso la portafinestra”, mi consigliò lui cercando di parlare a bassa voce. Cambiai meta, con passi sempre più furiosi.
-“Potresti camminare piano, o vuoi farti scoprire proprio adesso?”
Gli feci il verso senza che potesse né vedermi e né sentirmi e mi accanii contro la maniglia.
Chiusa.
William mi fece scostare per armeggiare con il manico.
-“E’ chiusa”, ripeté ed io alzai gli occhi al cielo. Non si fidava nemmeno nelle piccole cose, eh?
Non scorgendo nessun movimento all’interno, nell’atrio, in me iniziò a serpeggiare il panico.
-“Tranquilla, troveremo un modo per farti entrare.”
Mi fece cenno di seguirlo e aggirando un angolo, mi portò nel capannone-garage del vecchio Simus. Esso era piccolo, ma grande abbastanza per contenere tutte le cianfrusaglie che erano sparpagliate sui tavoli, sui depositi e un po’ anche a terra.
Trovammo Simus armato di cacciavite, chino su n tosaerba. William fece un colpo di tosse e l’uomo si voltò di scatto.
-“Oh, ragazzi”, sputò affaticato,-“sono due ore che questo arnese non ne vuole sapere e ho la mano che mi sta per cadere. Qual buon vento vi porta qui?”
Nessuno, pensai con un cinismo che non mi apparteneva.
-“Emily è rimasta chiusa fuori. Hai per caso le chiavi della porta principale o della portafinestra?”, domandò e nella sua descrizione mi percepii come una ritardata.
Simus assunse un’aria pensierosa e cominciò a rovistare in un cassetto pieno di chiavi inglesi, martelli, cacciaviti… poi tirò fuori un mazzo di chiavi. Ne prese due e le lanciò al suo assistente, il quale l’afferrò senza scomporsi.
Sapevo che uscire dal garage equivaleva a raggiungere l’entrata e salutare per sempre William. girò la chiave e mi fece entrare nell’entrata principale, rimanendo fermo sul vano della porta.
-“Non entri nemmeno?” La mia voce risuonò afona, piatta, triste. Non m’importò.
-“Ti dispiace così tanto che io me ne vada via?” Quasi sembrava non credere alle sue stesse parole, dal modo in cui i suoi occhi parevano comunicare.
-“Io… è difficile da spiegare d’accordo? Il non vederti più da queste parti, sì, sì mi renderà triste. Ti consideravo un amico, te l’ho detto.” Non sapevo proprio che altro dire. A farla breve, non sapevo nemmeno cosa volessi dire. Ci sono cose che non hanno bisogno di un perché o di qualsiasi altra spiegazione. Io, Emily Collins, non andavo d’accordo con gli addii.
-“Sono ancora tuo amico”, mi corresse lui, ingenuamente. Strinsi i pugni.
-“Come posso essere amica di una persona che non sentirò e non vedrò mai più?”
Non mi aspettavo davvero una risposta, cosa che lui mi diede:
-“Sono davvero desolato, Emily. Non ho scelta, io non posso rimanere. Se desideri ancora vedermi oggi, potrai trovarmi da queste parti. Ho le ultime faccende da sbrigare per il signor Simus”, fece una breve pausa ed io compresi che eravamo giunti alla fine,-“è stato un piacere conoscerti.”
Avrei dovuto rispondere allo stesso modo, sforzando un sorriso e ringraziarlo ancora per la colazione offertami. Avrei dovuto. Eppure tutto ciò che feci fu indietreggiare, voltargli le spalle e correre via, lontana da quell’addio.



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Capitolo 4
*** Quarto capitolo ***


Quarto Capitolo







Salii le scale deserte tirate a lucido più veloce della luce, con ancora il suo sguardo che m’inseguiva. Solo quando fui di fronte alla porta della mia stanza mi chinai per riprendere fiato, sostenendomi contro la parete.
Un’ombra si mosse dietro di me, facendomi trasalire. Mi voltai e vidi Nicole.
-“Sei qui!”, esultò, allargando le braccia al cielo, per poi farle ricadere sui fianchi.
-“Jamie non ti ha detto dove ero andata?”
La sua espressione precedette qualsiasi tipo di risposta.
-“Sicuro! Ma la campanella è suonata da un bel po’ e tu ancora non ti eri fatta vedere in giro, quindi ho ritenuto opportuno venirti a cercare. Per tua fortuna, la preside è ancora fuori.”
-“Oh. Bene, allora. Qualcuno si è accorto della mia assenza?”, le domandai aprendo lentamente la porta. Lei scosse la folta chioma tirando in su il pollice, segno che l’avevo fatta franca.
Mi lasciai andare ad un sospiro di sollievo.
E poi la giornata fu un susseguirsi di studio, ripassi e pettegolezzi. Non raccontai molto a Jamie e Nicole, a parte che William se ne sarebbe andato e che quindi, qualsiasi supposizione circa il suo interessamento per me era vana poiché lui non mi lasciò ad intendere un bel niente. Non che me l’aspettassi. Probabilmente, il dover portare una ragazza a colazione fuori faceva parte di una scommessa sancita con il suo gruppo di amici in Francia. La missione.
Scossi il capo decisa a non pensare più a quanto bene mi fossi sentita, alle sensazioni che mio malgrado avevo provato e che non si sarebbero potute più ripetere.
Al termine di quella Domenica che si rivelò più apatica di un giorno infrasettimanale mi accomodai meccanicamente sulla sedia del mio tavolo. Non so perché ma quella sera i miei mesti pensieri s’indirizzarono anche al tavolo delle ragazze dell’ultimo anno. C’erano una netta differenza tra quelle del primo –ancora spontanee, azzarderei dire sorridenti- e quelle dell’ultimo anno –impostante, più bianche del normale e maledettamente serie. Mi ricordarono un ammucchiamento di bamboline da cariòn, private di qualsiasi forma di emozione, solo se azionate avrebbero potuto trasmettere qualcosa. E nel collegio, a lungo andare, si poteva solo trasmettere la sottomissione. Mi domandai con un pizzico d’angoscia se col passare degli anni avrei perso le mie buone speranze diventando così triste e impostata, come se qualcuno mi avesse strappato dalla pelle l’adolescenza e le belle cose che continuavano ad esistere fuori di qui.
A differenza dei nostri miseri pasti, il lungo tavolo degli insegnanti era imbandito di vere leccornie, le quali non potrei elencarvi senza svenire nel ricordare quanto il mio stomaco patisse in quei momenti. La sua concezione del distaccarsi dal piacere effimero del cibo, in modo da poter controllare la nostra volontà senza divenire schiave era un concetto che non riuscivo per niente a far mio.
Tutta quell’accozzaglia non facevano che rallentare i miei pensieri; il lato positivo di questo era che ero giunta all’ultima sofferta polpetta e non essermene accorta.
Così come non mi ero resa conto che Nicole stava imprecando velocemente e sottovoce.
-“Non posso crederci”, disse poi, sporgendosi oltre me per rivolgersi a Jamie. Mi voltai verso quest’ultima che mirava un tavolino distante dal nostro, verso quello dei professori. Seguii il suo sguardo ma tutto ciò che vidi furono altre teste girate verso quel punto.
-“Che sta succedendo?”, chiesi, nel momento in cui scorsi la testa riccia della Galdys attraversare la stanza.
-“Agnese Ginobili è nei guai”, mi spiegò Jamie.
-“E perché?”
Agnese era più piccola di me di un anno, frequentavamo le lezioni di musica e mentre io mi limitavo a nascondere il mio talento per il pianoforte (nessuno ad eccezione di William sapeva questo) lei ci deliziava alla chitarra, la sua più grande passione. Ed era davvero brava.
-“L’hanno beccata mentre passava di nascosto parte del suo piatto.”
Riuscii ad indietreggiare con la sedia fino a vedere la scena immonda che stava per verificarsi.
La Galdys aveva raggiunto il tavolo, bellicosa, e stava chiedendo spiegazioni sia ad Agnese che alla vicina, la quale, impietrita, boccheggiava anziché rispondere. Come se non bastasse, con la coda dell’occhio vidi la Delacour alzarsi e raggiungere le due, affiancandosi alla Galdys. La loro differenza di statura mi fece abbozzare un sorriso… sorriso che morì subito.
Perché successe l’inverosimile.
Solo alla vista di ciò a cui stavo assistendo mi venne un conato di vomito. Alcune teste si voltarono, tornando a trincerarsi dietro l’indifferenza, altre erano bloccate a guardare con una maschera di rifiuto sul volto. La preside infilzò una delle polpette che Agnese aveva passato sottobanco alla compagna e gliela avvicinò senza scrupolo alla bocca, ordinando di mangiarla. Per rincarare la dose, la Galdys non stette con le mani in mano e andò a reggere la testa della ragazza.
-“E che diamine! Non posso guardare”, esclamò Jamie voltandosi, le orecchie rosse di collera e gli occhi lucidi.
-“Mangia! Signorina Ginobili non è forse vero che rifiutare il cibo è peccato?”
-“La prego”, singhiozzò Agnese,-“ho mal di pancia. Non ci riesco, per favore. Mi dispiace tanto…” Non fece nemmeno in tempo a terminare la sua supplica che la Delacour le aveva avanzato, ancora, la forchetta contro le labbra. Quando Agnese fu vittima di un conato di vomito, reggendosi ai bordi del tavolo facendosi venire le nocche delle mani bianche, io non stetti più ferma e mi alzai. Nella sala si sentì il fiato di alcune ragazze mozzarsi.
-“Emily, dove pensi di andare?”, domandò Nicole guardandosi intorno con occhi sgranati. Jamie alzò lo sguardo verso di me, e persino Camille parve volermi dire di mettermi seduta e non fare la sciocca. -“Non si può far subire tutto questo. Non lo vedete che è inumano?”, dissi a voce fin troppo alta, ma la Delacour e la Galdys –sostenute dal silenzio degli altri insegnanti al tavolo, che preferivano osservarsi le mani intrecciate sul tavolo anziché porre fine a quella scena- erano troppo occupate per accorgersi della mia voce fuori dal coro.
-“Non puoi fare nulla, Superman! Siediti!”, continuò Nicole. Scossi la testa e feci per avanzare verso le due, ma una mano mi afferrò per il lembo della divisa.
-“Per l’amor del cielo e di cosa mi è più caro al mondo, Emily, siediti immediatamente!” Gli occhi di Jamie lampeggiavano di paura e pietà, e mi strattonò per riportarmi seduta fino a farmi picchiare sulla sua mano e quindi liberare dalla presa ferrea che stava esercitando sulla mia gonna.
Non avevo niente da perdere. Se non altro, forse, sarei riuscita a far smettere il supplizio di Agnese spostando l’ira della preside su di me.
-“Lasciatela stare”, esordii alle loro spalle.
La Galdys sobbalzò si voltò subito guardandomi meravigliata con quegli occhi sporgenti e scuri. La Delacour, probabilmente riconoscendo la mia voce, si girò molto lentamente. Nel momento in cui i nostri occhi s’incrociarono non si scompose di pezzo; tutt’altro, sembrava perversamente compiaciuta di trovarmi lì. Deglutii, constatando la perdita di salivazione. In quel frangente udii parecchi commenti sussurrati: tutte mi davano della pazza.
-“E tu, signorina Collins, cosa vuoi? Fila al tuo posto prima che…”
La Delacour fece scattare in alto un mano per zittire la collega. Quella, dal canto suo, strinse le labbra fino a farle quasi scomparire dalla faccia.
-“C’è qualcosa che vorresti dire in merito a questo atto di irriconoscenza e peccato?”
-“Vorrei che lasciaste stare perché Agnese sta visibilmente male e non penso che la sua psiche –come quella di tutte noi- possa essere giovata di fronte ad un simile…siamo qui perché la vita ci ha scioccate abbastanza, questo non è il trattamento giusto per farci disciplinare. Vi prego, vi sta implorando: lasciatela stare”, dissi tutto d’un fiato, e man mano che il discorso terminava la mia voce si affievoliva come gli ultimi istanti della fiamma d’una candela.
La preside e la professoressa si scambiarono uno sguardo indecifrabile, mentre io mi permisi di guardarmi intorno: tutte, e dico tutte, erano a bocca aperta. Miss Delacour fece un passo in avanti e solo dopo aver fissato a lungo i suoi occhi di ghiaccio capii che, molto probabilmente, avevo appena commesso una follia. Vi erano volte in cui faticavo a comprendere cosa mi passasse per la testa, ma quando mi ci soffermare a riflettere era sempre troppo tardi. Come adesso, in cui non desideravo altro che cucirmi la bocca e scappare va.
-“Collins, Collins, Collins.” Ripeté il mio cognome per ben tre volte, girandomi in tondo. Io ero ferma, senza muovermi e ansimavo nel seguirla con gli occhi. La mia sfacciataggine svanì di punto in bianco, giusto il tempo per farmi pentire per aver anche solo pensato di poter fare la differenza.
-“Il mio istinto mi aveva avvertivo facendomi sospettare che saresti stata un problema. Una, come dire, ribelle.” E all’ultima parola alzò impercettibilmente le nerissime sopracciglia. Non commentai, mi limitai ad attendere il resto della sua filippica, senza guardarla veramente. Cosa che non potetti continuare a fare, una volta posizionatasi di fronte a me.
Ci guardammo.
-“Devo ammettere che la tua determinazione e testardaggine mi affascinano, in un certo senso. Specialmente se queste due caratteristiche possano portare l’individuo a un fine positivo e giusto. Ma si dia il caso che tu –le tue amiche, le tue compagne- non sappiate cosa sia giusto e cosa no, quale sia il giusto comportamento e quale no. Ed è per questo che ci sono io a capo di questo rispettabile istituto. Mi rincuora, lo ammetto, ma fin quando il tuo comportamento non sarà incline alla mia linea di insegnamento, per me sarà sempre indigesto. E per tanto sarà mio compito intervenire su questo per modellarlo.”
Restai in silenzio, le mani strette a pugno. La pressione degli sguardi che mi circondavano mi facevano mancare l’aria, tutte in attesa di una mia reazione. Studiai il viso della Delacour che, non ci crederete, sembrava ospitare un viso bonario. Ma sapevo -quanto ero sicura di chiamarmi Emily- che quello era uno sguardo ingannevolmente gentile. I suoi occhi, invece, sembravano avere delle chiazze rosse. Strinsi le palpebre scuotendo il capo per non farmi soggiogare definitivamente dal panico.
-“Ho un’idea per la nostra eroina”, spezzò il silenzio dopo un po’, rivolgendosi alla Galdys. Notai che quest’ultima, prima di farsi rivedere risoluta dalla sua superiora, mi stava guardando con rimprovero e dispiacere.
Jennifer Delacour prese in mano il piatto della vicina di Agnese e nell’altra recuperò la forchetta. Nonostante la mia testa impappinata dal terrore capii al volo cosa stesse per fare. Cosa stesse per propormi. -“Perché non lavi via l’affronto mangiando tu? Il coraggio deve venir comunque premiato, visto che tieni tanto alla nostra piccola e disobbediente Agnese.”
Lasciai cadere lo sguardo sulla ragazzina, riconoscendomi, nei suoi occhi, come la sua unica speranza. E quel viso così gonfio di pianto non mi fece pensare nemmeno per un secondo di tornare sui miei passi. Ero in ballo ed era ovvio, tanto valeva cercare di oppormi.
-“No. No, non lo mangio.”
-“COSA?!”, gridò la Delacour, facendomi sobbalzare sul posto.
-“TE LO STO ORDINANDO, COLLINS!” Avanzò verso di me con passo improvvisamente furioso, segno che l’offesa per il mio affronto era solo latente e ben calibrata. Ora, esplosa.
Indietreggiai istintivamente, fin quando la sua mano non andò ad afferrarmi per la nuca.
-“Perché fare subire tutto questo?”, sibilai, con la minaccia di piangere nella voce. Caccia indietro le lacrime, con tutte le forze che avevo. Io non piangevo mai. O meglio, dalla morte dei miei genitori avevo sigillato con me stessa la promessa di non piangere, di non crollare dinanzi alle avversità che la vita mi avrebbe inevitabilmente proposto.
-“Mangia”, ripeté, senza staccarmi gli occhi di dosso e guidando forzatamente la mia nuca. Strinsi le labbra quando queste sfiorarono la carne oramai gelida.
-“Santo cielo, Emily, fallo!”, urlò una voce alle mie spalle. Era Jamie.
-“E va bene. Va bene”, mi arresi,-“ma faccio da sola.”
La Delacour liberò riluttante la mia testa e mi passò il piatto.
Ma cosa mi è saltato in testa?, mi chiesi, ancora un volta. Chi ero io per poter cambiare regole istituite ancor prima della mia nascita? Idiota. Ero un’emerita idiota. Perlomeno William non era in quella sala ad assistere alla mia pubblica umiliazione; un brandello di dignità l’avrei conservato con l’unica persona che non avrei più rivisto in quel posto. Per poco non mi sbrodolai per ridere dinanzi quello sciocco pensiero.
Masticai con calma la prima fetta di polpetta rimanendo con gli occhi abbassati. Prima di infilzarne la metà sembrò trascorrere un’ora buona; le mie mani tremanti sudavano freddo e per questo mi cadde la forchetta a terra per ben due volte, senza avere nemmeno la possibilità di pulirla con un tovagliolo.
Senza ulteriori indugi masticai l’ultimo boccone, freddo e polposo. Deglutii. Avevo terminato. La Delacour mi tolse il piatto dalle mani e ricominciò ad urlarmi contro, parole che mi rifiutai categoricamente di ascoltare, tanto ero intontita. Un conato si fece largo nel mio stomaco e mi ritrovai piegata su me stessa.
-“Fila immediatamente in camera tua e non azzardarti mai più a mettere in discussione il mio insegnamento!”, fu il suo ultimo ordine.
Uscii di fretta e furia dalla sala con la mano a coprirmi la bocca, ancora piegata in una smorfia di disgusto, sentendo ai fianchi strusciare le mani di Jamie che volevano confortarmi.
Non so cos’altro mi passò per l’anticamera del cervello ma non andai in camera come mi era stato ordinato. Il mio corpo reclamava aria, se fredda, meglio. Fu come tornare a respirare dopo una lunga apnea, quando uscii dalla portafinestra, ciondolando fino a raggiungere il muro per sostenere il mio cammino, al fine di trovare un posticino nascosto, giusto per acquietarmi.
Superai un intricato intreccio di alberi ricoperti di muschio raggiungendo una parte del collegio in cui non mi ero mai inoltrata, e che era avvolto in un silenzio assordante. Lanciando una fugace occhiata alla vegetazione che si estendeva al mio fianco, che sembrava dovesse arrivare a coprire ettari e ettari di terra fino alla fine del mondo, sentii un moto di adrenalina scorrermi nelle vene. Era strano quell’effetto, ma non mi ci volle molto ad immaginare che, oltre quei cespugli, nascosti tra le ombre del fitto bosco, ci fossero migliaia di occhi intenti a seguire i miei passi scoordinati. Un mondo a parte, indipendente dal collegio e da Londra stessa. Rabbrividii ancora, voltando l’angolo per poi ritrovarmi sotto le finestre dell’alloggio di quelle dell’ultimo anno. Mi accasciai sull’erba reclinando il capo verso l’alto, perdendo lo sguardo nella vastità del cielo puntellato di tante piccole e luminose stelle. Rimasi a contemplare quel manto scuro fin quando non mi accorsi di una luce proiettata poco più in là, dietro un altro svincolo.
Mi alzai di scatto. Schiacciata contro il muro aggirai l’angolo che mi divideva dalla fonte di luce… che si rivelò essere una sorta di piccola cappella. Arbusti verdi e scintillanti grazie al riflesso della luna coprivano la cappella in una sorta di abbraccio, come a proteggerla dagli agenti esterni. Un cancello con sbarre arrugginito che, ad occhio e croce, doveva arrivarmi più o meno all’altezza dei fianchi, era socchiuso. All’interno, si percepiva chiaramente la presenza di qualcuno. In punta di piedi mi avvicinai all’entrata e, prendendo fiato, mi sporsi per sbirciare: la prima cosa che vidi fu il bianco accecante delle pareti, il quale mi fece strizzare gli occhi prima di continuare la mia immobile perlustrazione; un altare con sopra un centrino giallastro che un tempo doveva essere stato del medesimo colore del muro e poi, solo in un secondo tempo mi accorsi di una persona china su uno dei tre banchi di legno.
William.
E si stava alzando.
Colta da un’ondata di agitazione mi tirai indietro trattenendo il fiato, ma quando mi predisposti alla corsa, un ramoscello robusto e appuntito fuoriuscente dal cespuglietto che contornava la cappella, m’impedì il movimento impigliandosi alla gonna. Come accidenti era successo? Afferrai il lembo della divisa cercando di sprigionarla, non facendo altro che ingarbugliarmi di più e insospettire William, dal momento che creai una serie di rumori e calpestii.
-“Ehy!”, chiamò William dall’interno, proprio nell’istante in cui strappai parte della gonna, rovinando, poi, a terra.
Il cancelletto si aprì e lui comparve lì, rischiarato da quella luce artificiale come se fosse una figura mistica. Si guardò intorno e poi, girandosi, incontrò il mio sguardo.
Sapete?, non sembrava poi tanto sorpreso di vedermi.
-“Che ci fai tu qui?”
Alzai gli occhi al cielo. Cosa sembrava che facessi?
-“Sto prendendo il sole”, borbottai con i gomiti sprofondati nel terreno melmoso,-“sono inciampata.”
William tossì portandosi un pugno alla bocca per soffocare una risata.
-“Questo lo avevo dedotto. Nel senso, cosa ci fai qui. Fuori. Nel giardino. Del collegio…”
-“Okay, okay ho afferrato il concetto!”, lo interruppi,-“mi sono cacciata nei guai e sono uscita a prendere una boccata d’aria.”
Si lasciò andare ad un sospiro, come se gli avessi appena detto una cosa ovvia. Beh, d’altra parte era abituato ad assistermi in situazioni al limite.
Mi allungò la sua mano e io l’accettai, tirandomi su di slancio.
-“Vuoi conoscere un segreto, Emily? Se ti comporti in modo in cui ci si aspetta da un’alunna e quindi rispettando le regole, potresti continuare la tua permanenza senza cacciarti ogni secondo nei guai.”
-“Ho già ricevuto una filippica, grazie tante.”
Andai a posare lo sguardo sulla cappella, dunque cambiai argomento.
-“Che cosa stavi facendo lì dentro?”
Sorrise, avvicinandomisi come se dovesse confessarmi un segreto.
-“Mi rilassa venire qui e spogliare me stesso da tutti i dubbi e i pensieri che mi rivestono. C’è silenzio, c’è quiete e non ti nascondo che ultimamente ho molto su cui riflettere.” La sua voce divenne un sussurro dolce e pacato, eppure le sue parole –così enfatizzate- sembravano voler essere connesse con me. Non la smetteva di guardarmi negli occhi, e, al momento, non ricordavo di aver tenuto un contatto visivo tanto lungo con lui. -“Sei un tipo religioso”, commentai, poco originale.
Lui si strinse nelle spalle indirizzando l’attenzione alla piccola croce dorata posta sulla punta della capella.
-“E cosa c’è dentro quello scatolone lì dentro?”, domandai ancora, vedendo da dove mi trovavo adesso, un cartone con dentro qualcosa che non riuscivo a comprendere. Solo quando William ridacchiò mi resi conto del tono petulante e logorroico che avevo assunto.
-“Cose di Simus”, spiegò andando ad afferrare la scatola,-“ecco. Sono delle cianfrusaglie che devo gettare per lui fuori da qui. Perché come sai, ho finito il mio lavoro. Diciamo, è il mio ultimo incarico”, concluse, scrutando i vecchi oggetti di Simus; arricciando il naso tornò ad osservarmi. Avevo l’impressione che toccava a me ribattere riguardo il suo imminente abbandono.
Di nuovo la strana e irritante sensazione di malessere nel solo pensarci.
Come ero arrivata a dovergli dire di nuovo addio? Non che l’avevo fatto nei migliori dei modi durante la mattinata.
Col morale a terra, risposi:
-“Me lo ricordo.”
-“Forse è ora che io vada”, bisbigliò, probabilmente più a se stesso che a me. Lasciai il mio sguardo vagare sul terreno, dove i nostri piedi erano lontani ma parelleli.
-“Allora, ci salutiamo di nuovo e per l’ultima volta. Mmm, più o meno… prima mi hai lasciato sulla soglia della porta”, ricordò. Gli sorrisi timidamente, guardando le sue scarpe calpestare al breve distanza tra noi. Alzando lo sguardo, lo trovai vicinissimo. Intanto, la sua mano aveva preso la mia. Ebbi un fremito per il suo tocco freddo.
-“Stammi bene, Emily. Ti prego di non metterti in altri guai e di rispettare le regole. E’ la cosa migliore”, si raccomandò. Feci una smorfia.
-“Questo… questo non posso promettertelo. Devo trovare un hobby, e infrangere le regole sembra sia diventato il mio passatempo preferito”, risi con amarezza.
William s’incupì, socchiudendo gli occhi.
-“Emily”, scandì, infatti, il mio nome.
-“Va bene. D’accordo. Cercherò di rispettare le regole e di fare la buona durante le prove per i canti, Lunedì, giusto per iniziare.”
-“In chiesa? Ma non era stato…”
-“Cancellato? No. Spostato, sì.”
A quel punto lasciò di colpo la mia mano, la quale si era addormentata nella sua. Me la massaggiai.
-“Dopo domani”, sbiascicò indietreggiando. Adesso aveva un’aria che, sinceramente, mi spaventò. Lo sguardo perso nel vuoto, come se dentro di lui si stesse tenendo una conversazione tanto importante da farlo estraniare. Gli cadde lo scatolone dalle mani, ma non parve accorgersene. Mi feci avanti, sollevando la mano per posarla sulla sua spalla ma lui si scansò prima di un possibile contatto.
-“Che hai, William?”, gli domandai, preoccupata.

-“Niente”, balbettò rauco, in preda ad un improvviso abbassamento di voce. Lo guardai interdetta: per quella sera ne avevo abbastanza, eppure lui sembrava messo peggio di me.
-“Devo andare”, stabilì,-“devo proprio andare.”
Si avvicinò di nuovo e senza preavviso la punta delle sue dita sfiorò la mia guancia, i suoi occhi che ardevano, troppo lontani per afferrare per quale emozione si ravvivassero in quel modo.
Infine mi diede le spalle ed un vento innaturale si librò nell’aria, scompigliandomi i capelli e costringendomi a ripararmi da quella folata furiosa. Quando li riaprii, qualche secondo dopo, al termine della corrente, ogni traccia di William era scomparsa.
Nell’aria, ad eccezione del suo delizioso profumo, c’era il lieve svolazzare di alcune foglie, quasi pareva che danzassero intorno a me. Le cianfrusaglie di Simus giacevano a terra, dimenticate. Girai intorno all’istituto chiamando a gran voce il suo nome, fin quando arrivai al centro esatto del cortile –dove la luna irradiava una debole luce- ma non trovai nessuno ad eccezione della mia ombra.
A quanto pareva era riuscito ad eclissarsi, e forse avrei dovuto fare lo stesso: quanto tempo ancora avrei potuto vagare inosservata al di fuori dell’istituto senza essere scoperta?
Non appena entrai in camera Jamie mi raggiunse a passi pesanti, mentre le altre si svestivano lente.
-“Ma dove ti eri cacciata?”, mi domandò, ma il suo tono non era né preoccupato né disperato: era furioso. Balbettai qualcosa in risposta incapace di formulare una frase sensata per il semplice fatto che tornò ad inveire su di me.
-“Ti era stato ordinato di ritornare subito in camera! E quando noi siamo entrate tu non c’eri!”
Nei suoi occhi vi lessi un’autentica preoccupazione che mi fece stringere il cuore: lei era in pensiero per me.
-“Jamie...”, mormorai non sapendole cosa dire. Se le avessi raccontato la verità- cioè che ero uscita all’aria per riprendermi dallo spavento e dalla vergogna-, non avrei fatto altro che alimentare la sua furia. Optai per starmene in silenzio.
-“Sei proprio un’incosciente... non so quante volte ancora dovrò ripetertelo”, concluse trascinandosi sul suo letto già pronto.
-“Devi capirla, Emily. Era preoccupata per te, quando siamo entrate e non ti abbiamo trovato è stato impossibile non pensare che, se la Delacour fosse venuta a controllare, a quest’ora… non voglio nemmeno pensare a quale modo creativo e fantasioso si sarebbe aggrappata per punire la tua disubbidienza”, commentò Nicole, dopo che mi ero seduta sul mio letto. Cercai di ignorare le sue parole e il senso di colpa che d’un tratto mi avvolse.
-“Mi dispiace, non credevo di crearvi tutto questo pensiero. Sono mortificata. Starò più attenta, in futuro.”
Quella mia flebile promessa sigillò la fine di quella conversazione e mi ritirai in bagno per cambiarmi per la notte.
Nonostante odorassi di foglie bagnate e di terriccio non ero proprio nell’ottica di farmi una doccia. Mi limitai a sciacquarmi il viso acqua fredda, mi strofinai i denti e mi adoperai per sciogliere i nodi che si erano creati sui miei capelli umidicci. Mi tolsi la divisa e indossai la vestaglia; quando uscii dal bagno pareva fosse trascorsa un’eternità. Tutte le lampade dei comodini erano spente e c’era chi già russava. In punta di piedi raggiunsi il mio letto e mi raggomitolai su esso, come se fossi un gatto.
Era ora di buttarmi la giornata alle spalle, di sgomberare i pensieri e lasciare all’incoscienza la meglio sulla mia veglia. Così chiusi gli occhi e mi voltai verso la finestra aspettando di cadere tra le braccia di Morfeo. E almeno per una notte riuscii ad addormentarmi subito.





Il suono nasale della campanella che annunciava un nuovo giorno si sperperò nelle mura dell'istituto, raggiungendo le mie povere orecchie. Mi svegliai lentamente e controvoglia. Stavo dormendo veramente bene; forse per la prima volta in assoluto durante la mia permanenza. Gettai le coperte in avanti, rimanendo ancora sdraiata, aspettando che qualcuna mi augurasse il buongiorno. In un primo momento non lo notai, -tanto ero rintronata dal sonno-, ma la stanza era completamente deserta.
Mi tirai su di scatto.
I letti rigovernati e la porta del bagno aperta mi fecero capire che le altre erano già pronte per qualche strano motivo di cui non ero accorrente. Non era Lunedì, giusto? No. Era Domenica, feci mente locale.
A quel punto sentii un vago senso di allarme inchiodarmi al letto, ma non permettendo all'agitazione di prendere il sopravvento decisi che la cosa migliore era custodirsi e verificare cosa stesse accadendo.
Presi la divisa e di corsa mi andai a rinchiudere in bagno; nonostante avessi più che constatato di essere sola in stanza chiusi la porta per sicurezza. Ogni tanto spuntava qualcuno da qualche parte e il mio cuore non poteva reggere tali spaventi, ogni giorno. Ci misi almeno quindici secondi per lavarmi. Non mi curai nemmeno in che stato fossero i miei capelli tanto andavo veloce. Uscii con la medesima foga con cui ero precipitata in bagno e trovai un inaspettato via vai lungo il corridoio.
Ma il dettaglio che fece saltare i miei neuroni uno ad uno era più che insolito: le collegiali, eccetto me, indossavano abiti di vita quotidiana. Jeans, felpe, camicie... mi girò la testa. Mi guardavo intorno freneticamente sentendo i miei occhi sbarrati per la sorpresa, e non riuscivo a chiudere la bocca anch'essa aperta per la novità. Appoggiai la mano sulla porta della sala mensa quando ci arrivai, e per un attimo ebbi la sensazione di essermi svegliata in un'altra dimensione. Avevo quasi timore di entrare nella sala; rimasi impalata di fronte alla grande porta e non l'aprii finché non lo fece qualcun'altra. La ragazza che la spalancò era firmata dalla testa ai piedi. Aggrottando le sopracciglia seguii i suoi passi fino a quando, con un ennesimo sbalordimento, non vidi il braccio di Nicole che sventolava verso di me. Accelerai il passo avida di spiegazioni, nemmeno badai al modo in cui sollevai la sedia per sedermi. Sembravo impazzita.
-"Ciao", sbiascicai, fissando i suoi bellissimi abiti. Oddio, in realtà Nic indossava solo una maglietta rossa e dei jeans a zampa di elefante anonimi, ma non potei non confrontarli con la divisa e perciò risultarono stupendi ai miei occhi.
-"Ben svegliata. Scusa se né io né Jamie ti abbiamo chiamata prima, ma dormivi così beatamente che..."
-"Okay, okay. Perdonate. Cosa è questa storia?", la interruppi indicando l'intera sala, senza però staccare gli occhi da lei. Nicole ridacchiò.
-"La Delacour ha attaccato nella bacheca che si trova nell’atrio un annuncio che ci avvisava di poter utilizzare questa domenica per trascorrere una giornata con i propri genitori. Una ragazza che si è svegliata prima di tutte, tra l'altro della nostra camerata, ha avvisato le altre. Tu non hai sentito niente e quindi ho ritenuto opportuno lasciarti dormire...", mi spiegò ma sembrava che la frase dovesse continuare, per non parlare della tonalità in cui accompagnava quelle ultime parole. Sospirai. Conoscevo bene quel tono e specialmente conoscevo quell'espressione: lei provava pena per me, l'orfana. Certo, non poteva mica dirmi "ehi, Emily, non ti abbiamo svegliata perché tanto non hai nessuno con cui passare la Domenica". Non sarebbe stato tipico di lei, ma forse di qualcun'altra si. Istintivamente spostai lo sguardo su Camille che ricambiò l'occhiatina. Mi preparai a sentire il peggio.
-"Collins", sputò, come al solito.
Alzai gli occhi al cielo e mi misi a braccia conserte.
-"A quanto pare sei costretta a rimanere qui tutto il giorno. Non sai quanto mi dispiace per te.". Il suo tono rassettava il sadico. Avrei voluto alzarmi e colpirla con un sonoro schiaffo che si sarebbe ricordata per tutta la vita. Non accettavo che si toccasse quel tasto per farmi stare male. A quel punto sarei diventata una bestia con chiunque. Ma decisi di respirare a fondo e di contare fino a... quando qualcuno mi interruppe.
-"Buongiorno!", cinguettò una voce allegra e fin troppo acuta. Quando riaprii gli occhi mi accorsi di Jamie seduta al mio fianco, anche lei vestita con degli abiti differenti dall’uniforme.
-"Anche tu vestita?", le chiesi, tralasciando i saluti e calibrando bene il tono di voce. Ma lei non era nella mia stessa situazione? Si morse il labbro incrociando gli occhi di Nicole, fattesi a fessura. Guardai prima una e poi l'altra non riuscendo ad immaginare cosa stessero confabulando. Non ci badai molto e cercai di cambiare discorso.
Quella mattina a colazione mangiai pane e sofferenza, sotto gli sguardi di tutte. Era inevitabile che guardando me non rievocassero la scena della sera precedente. I loro giudizi si spaccavano in due categorie ben distinte di pensieri: un gruppo mi ammirava con occhi pieni di stima per aver dato voce ad un pensiero comune; un altro gruppo, di contrario, riteneva il mio gesto infinitamente stupido. Le mie stesse amiche credevano questo. Finito di mangiare ci alzammo e mascherai la mia tristezza con un sorriso disinvolto. Nemmeno se ne erano andate e già sentivo la solitudine incombere minacciosa. Naturalmente non volevo farle sentire in colpa o in pena per me, così optai quel sorriso, che però si sbriciolò non appena dalle scale spuntò il male in persona.
Ci fermammo sul quarto gradino per farla passare, ma a nostra sorpresa ci rivolse la parola arrestando i suoi passi.
Congelai.
-"Buongiorno, signorine."
-"Buongiorno Miss Delacour", rispondemmo ad unisono, ma la mia voce rauca stonava con quelle squillanti delle due.
-“Oh, Collins. Come andiamo questa mattina?”, si rivolse a me con un sorriso ingannevole perché maligno.
-“Bene”, sputai semplicemente. La Delacour mi guardò come se le avessi appena rivolto una parolaccia, forse il mio tono non era dei migliori.
-“Mmm... oggi rimarrai in collegio.”, constatò vedendo Nicole e Jamie vestite diversamente da me. Sbuffai dal naso prima di rispondere, visto che lei –naturalmente- era a conoscenza della mia situazione.
-“Come se lei non lo sappia”, sussurrai, atona.
Nicole fece un colpo di tosse, attirando la nostra attenzione. E probabilmente per salvarmi dalle frecciate cattive della preside.
-“Veramente Miss, Emily oggi sarebbe venuta con me Jamie e mia madre. Volevo farle una sorpresa ma ora sono costretta a rivelarlo. Mamma, poi, sarebbe venuta a firmare l’autorizzazione nel suo ufficio per lasciarla uscire con noi”, rivelò tutto d’un fiato. La fissai spiazzata.
-“Oh, capisco”. Miss Delacour sembrava fosse stata presa in contropiede, tant’è che la sua espressione si irrigidì più del solito. Ci fu un breve momento di silenzio che fu rotto proprio da lei qualche secondo dopo:
-“Allora, cercate di non violare il coprifuoco delle nove, intesi?”, balbettò con un tono imperturbabile. A quanto pareva era più sorpresa di me.
Nemmeno ci diede l’opportunità di annuire che subito andò via.
-“Nicole...”, sbiascicai poi. Lei mi guardò mordendosi le labbra, pensando che forse l’avrei rimproverata, invece...
-“Grazie! Grazie! Grazie! Sei un angelo!”, esclamai euforica, abbracciandola.
-“Oh, figurati cara. Ecco perché ho lanciato quell’occhiatina a Jamie, prima.”, rivelò guardando l’amica mentre era ancora stretta tra le mie braccia.
-“Ora devo andare a cambiarmi”, constatai sciogliendo l’abbraccio, euforica.
Corsi in camera e atterrai in ginocchio di fronte al mio baule cercando qualcosa di decente da indossare. Tirai fuori una camicetta rosa e l’unico palio di jeans che avevo; andai di corsa a cambiarmi. Era così bello poter indossare di nuovo i miei vecchi vestiti, poterne suggerne l’odore di pulito e sentirli aderire sulla pelle come nuovi. Raggomitolai la divisa e la lanciai sul letto con fare trionfante, tant’è che le mie amiche risero.
-“Stai davvero bene, Emily”, mi disse Jamie prendendomi sotto un braccio.
-“Oggi dobbiamo trascorrere la giornata senza pensieri. Relax, ragazze”, decretò Nicole afferrando l’altro braccio libero.



Aspettammo la madre di Nicole fuori in cortile e intanto, sedute sugli scalini, imbrogliavamo il tempo osservando il ricongiungimento familiare delle altre. Non avevo mai visto tante macchine e persone in vita mia. Mi sorprese il fatto che alcuni genitori non mostrassero il benché minimo interessamento verso i figli, quasi fosse un peso prenderli e trascorrere del tempo insieme. Scossi la testa, disgustata.
Ero veramente grata a Nicole per aver segretamente programmato la mia giornata. Se non fosse stato per la sua iniziativa sarei dovuta rimanere in collegio con le altre meno fortunate. E il solo pensiero mi faceva rabbrividire fino alla radice dei capelli, anche perché l’istituto sarebbe stato infestato dalla Delacour per l’intero giorno. Era ufficiale: quella donna era una minaccia per la psiche di ognuna di noi.
-“Permesso.” Una voce, forse troppo alta e familiare, fece sciogliere i nodi dei miei pensieri. Tutte e tre alzammo lo sguardo verso Camille.
-“Mi fate passare? Non ho tutto il giorno a mia disposizione, care”, brontolò con fare scocciato, sventolando una borsa più grossa di lei. Pareva ce lo facesse apposta per far vedere che era firmata. Arricciai il naso e guardai altrove. Naturalmente non mi spostai di pezzo per principio, ma Nicole si dovette alzare.
-“Ce l’hai fatta”, sbottò. Era il suo modo burbero per dire grazie. Nic le diede le spalle facendole il verso e, sia io che Jamie, scoppiammo a ridere. Mi soffermai a guardare Camille salutare sua madre. La donna che l’accolse – per modo di dire, visto che nemmeno la sfiorò per salutarla- era alta e bionda come lei. Da quel poco che potevo cogliere mi sembrava una donna piuttosto rigida e distaccata. Fece salire sua figlia in un’enorme jeep, e dando gas si avviò verso l’uscita dell’istituto.
-“La signora Milena Leeighton”, affermò Nicole senza che le chiedessi qualcosa. Fece una breve pausa prima di raccontarmi la storia di quella serpe di Camille.
-“Con ciò che sto per dirti, cara Emily, non cerco di giustificarla ma Camille, se è così aggressiva e meschina, è perché vi è un motivo più che valido: la sua disastrata famiglia”, proseguì, e si voltò a guardarmi per accettarsi che la stessi ascoltando.
-“Durante la sua infanzia è stata la classica bambina viziata che viveva nello sfarzo più totale: vestitini, bambole, piccoli gioielli. Eppure in quella famiglia è sempre mancato qualcosa di fondamentale, cioè l’affetto. E con questo intendo dire un abbraccio da parte della propria madre e un bacio da un padre e non una costosissima barbie da collezione.”
-“Mi stai dicendo che l’affetto materiale soprastava quello affettivo?”, le domandai. Lei annuì, amara.
-“Esatto. Ma Camille, cresciuta superficialmente fin dalla culla, non le è mai importato. O meglio, le è incominciato ad importare quando si è resa conto che un bracciale non poteva trasmetterle calore come un abbraccio e quindi nel periodo in cui suo padre è stato arrestato.”
-“Arrestato?”, ripetei, sconcertata.
-“Per truffa. Da allora la sua vita è cambiata in modo radicale. Per lei fu dura incassare il colpo, per non parlare di sua madre che scaricava il proprio disagio su di lei dando di matto. La picchiava e non si curava più della figlia; e i soldi cominciavano a scarseggiare ogni giorno di più. Usando Cam come carpio espiatorio non è che potuta diventare quello che è oggi. In fondo è cresciuta in cattività.”
-“Ma è terribile”, mormorai, non sapendo cos’altro aggiungere. Nicole si strinse nelle spalle, mentre Jamie sembrava avesse ascoltato questa storia per più di una volta. E forse avevo ragione.
-“Un giorno la madre, rinsavita, capì che doveva rimboccarsi le maniche e andare avanti riprendendo il controllo della propria vita. Considerando Camille un ulteriore peso la spedì, da quando aveva dieci anni, in ogni singolo istituto d’Inghilterra. Questo fino a due anni fa quando entrò qui e qui rimase. Ma prima che si integrasse ne passò di tempo.” All’ultima frase fece un sospiro, pensante.
-“Tutte sapevamo della sua storia”, intervenne Jamie sporgendosi oltre Nic per guardarmi.
-“E come?”
-“Le notizie viaggiano, considerando che questo posto è come un piccolo villaggio. Inoltre suo padre, Ector Leeighton, ha truffato un pezzo grosso di Londra. Se ne è parlato a lungo ed è stato su tutti i giornali. Le ragazze la prendevano in giro chiamandola “figlia del truffatore” e facevano qualsiasi cosa per metterla a disagio. Camille incassava colpi su colpi, ogni singolo giorno, fino a quando non strinse amicizia con quelle che oggi sono le sue scagnozze.”
-“Praticamente le uniche che non avevano pregiudizi”, aggiunse svelta Nicole. Ritornai a guardare Jamie. La storia mi stava incuriosendo, e non potevo nascondere una certa pena nei confronti di Camille.
-“Supportata dalle sue uniche amiche cominciò ad avere più autostima fino a diventare aggressiva. Se la prendeva con tutte, rispondeva male e tutt’ora si vanta di una ricchezza che in realtà non possiede. Tutto questo per me ha un’unica soluzione: è una maschera.”
-“Qualche volta, però, potrebbe anche staccarsela”, borbottò Nicole, stirandosi le gambe. Jamie scosse la testa non apprezzando la battuta dell’amica.
-“Non è mica facile. La sua vita non è stata facile. Cosa volevi diventasse dopo esser stata maltrattata e spostata da un collegio all’altro manco fosse un pacco postale? Il suo comportamento, involontario o meno, è una risposta al dolore che ha subito. E che subisce ancora, considerando che la madre viene a trovarla una volta al mese.”
-“Credo che, nonostante tutto, l’abbia perdonata.”
-“Lo penso anche io. In fondo è l’unica persona che le rimane al mondo… anche se, chiariamoci, tutto questo non può fungere da giustificazione per le cose che fa”, ribatté Jamie.
Povera Camille, pensai guardando il cortile popolato. Non avrei mai pensato che avesse un passato così difficile alle spalle.
-“Mamma! Finalmente è arrivata, ragazze!”, esclamò - euforica- Nicole alzandosi di scatto. Io e Jamie la imitammo e andammo incontro ad una donna posata e apparentemente solare.
Nic si buttò tra le sue braccia come se non la vedesse da secoli, e la donna le baciò la testa affettuosamente. Da come guardava sua madre, Nic, doveva volerle veramente molto bene anche se non accettava il suo compagno che, a giudicare dal suo racconto, le stava stravolgendo la vita.
-“Ciao Jamie e... tu devi essere Emily, la new entry?”, si rivolse a me con un sorriso amichevole.
-“Si, sono io. Piacere di conoscerla”, risposi offrendole la mano. Lei me la strinse e si presentò.
-“Piacere mio, cara. Sono Danielle e sono la mamma super figa della tua amica”, rise.
E come non crederle: erano praticamente l’una la copia sputata dell’altra. Anche se non avessi saputo del loro grado di parentela ci sarei sicuramente arrivata da sola.
-“Bene, bando alla ciance, vado a firmare l’autorizzazione per Emily nell’ufficio della vostra adorabile preside. Voi intanto accomodatevi in macchina”, farfugliò indicandoci una fiat punto nera.
-“Tua madre stava scherzando con quell’aggettivo, vero?”, chiesi scherzosamente.
Nicole e Jamie risero di cuore.
Per arrivare alla casa londinese di Danielle ci impiegammo massimo mezz’ora. Il che sarebbe stato normale se fossimo risiedenti in città, ma noi non lo eravamo. Il fatto era che quella donna guidava come una pazza. Forse sua figlia era abituata alla guida spericolata della madre, dato che non fece una piega, ma sia io che Jamie rimanemmo per tutto il tragitto schiacciate sui sedili posteriori, terrorizzate. E parlava. Incessantemente. L'unico argomento che aveva intavolato riguardava il suo amato (nuovo) marito. Blaterava a proposito di tutti i viaggi fatti per via dei suoi continui impegni lavorativi. Non ne potevo più. Mi correggo: non ne potevamo più. Ora capivo perché Nicole detestasse tanto il suo laborioso (nuovo) padre, visto che aveva risucchiato il cervello della madre. Prima non avevo colto il senso della frase “me la sta portando via”.
Danielle aprì un piccolo cancello ricoperto di muschio cigolante, e ci invitò a seguirla nel breve tratto di sentiero che ci avrebbe condotte alla porta d’ingresso.
Oh, la sua casa.
Era così graziosa che morivo dalla curiosità di entrarci. L’interno si presentava ancora meglio, proprio come avevo previsto: le pareti, i tappeti e persino gli infissi delle porte erano stati dipinti con diverse tonalità di bianco. L’ingresso, un lungo corridoio arredato da antichi mobili, permetteva di scorgere un grande tavolo di vetro, già apparecchiato per il pranzo. Alla mia destra, invece, trovai una lunga scalinata che portava al piano superiore. Era tutto così arioso ed accogliente, per non parlare del buon profumo di lavanda che si sperperava nell’aria.
Ma non fu nessuno di questi dettagli a colpirmi davvero. L’intera abitazione era totalmente immacolata, come se nessuno prima di noi ci fosse entrato. Poi, quasi subito, arrivai al perché: Danielle si recava qui a Londra solo nei week-end, in occasione di trascorrere del tempo con sua figlia.
-“Bene ragazze, fate come se fosse a casa vostra. Io vado a preparare il pranzo”, ci disse, posando il suo giaccone sull’appendiabiti.
Dunque io Nicole e Jamie andammo a rilassarci in salotto dove prendemmo in considerazione l’idea di visionare qualche suo vecchio film. Danielle fece capolino dalla cucina, -ora indossava un grembiule rosa pasticciato da strani colori di cibo-, suggerendoci di aspettare visto che da li a poco avrebbe servito il pranzo in tavola. Infatti non passarono nemmeno cinque minuti che ci ritrovammo sul tavolino di vetro a inforcare rigatoni al sugo e verdure miste. Il profumo era lontanamente familiare – basilico e sugo, che coppia!- e il calore che emanava la pasta mi fece quasi sudare il volto. D’un tratto, cosa che non accadeva da tempo immemore, mi si aprì la bocca dello stomaco. A giudicare da come divorarono la loro porzione anche per le mie amiche era lo stesso. Vidi negli occhi di Danielle una gran soddisfazione da cuoca; chissà se provava la stessa sensazione se si pensava dal punto di vista di madre. Nicole era una pazza se rinunciava ad avere una famiglia solo per qualche piccolo spostamento, per la sindrome di Peter Pan della mamma e per la petulanza di George. Forse io, al posto suo, avrei sopportato.
-“Allora...”, si schiarì la voce la signora Danielle,-“ti è piaciuta la pasta? Mi sono ispirata alla cucina italiana, oggi.”, mi domandò mentre mi porgeva un piatto di cuoio con dei fiorellini verdi lavorati ai bordi.
-“Si. Buonissima”, risposi sincera e nel frattempo mi chiedevo cos’altro avesse preparato. La risposta arrivò poco dopo.
-“Perfetto, mi fa così piacere. Spero ti piaccia anche il polpettone di manzo con patate al forno.”
M’illuminai d’immenso.
-“E’ la specialità di mia madre”, si vantò Nic con l’acquolina in bocca.
Danielle scomparì e riapparve con una teglia lunga e stretta che ospitava quel ben di Dio. Tagliò le fette in modo regolare e ci affiancò un bel mucchietto di patate nei piatti.
-“Non faccio fatica a crederlo, ha un odore così invitante...”, disse Jamie sorridendo.
-“Sono contenta che apprezziate. Sapete, essendo una cuoca fantasiosa non tutti i miei esperimenti riescono al meglio”, ridacchiò velandosi di un leggero imbarazzo. Sorrisi.
-“E’ la prima volta che mangio un polpettone così buono. Ad essere sincera è la prima volta che assaggio un polpettone”, mugugnai masticando lentamente per assaporarmi quel gusto nuovo e invitante. Danielle mi guardò leggermente accigliata.
-“Tua madre non te lo prepara mai?”
Silenzio.
Buffo il modo in cui Nicole si destò sulla sedia, quasi si fosse risvegliata bruscamente da un sogno ad occhi aperti, anche Jamie cambiò espressione mordendosi il labbro senza incrociare i miei occhi. Danielle, ingenua, attendeva una mia risposta.
-“Io non ho... i miei genitori sono morti in un incidente stradale.” La mia voce in quel silenzio pareva risuonasse come tanti campanellini agitati. Danielle si trattenne dall’espirare; mortificata farfugliò qualche scusa. -“Cielo. Perdonami sono proprio una sbadata, Nicole mi aveva accennato la situazione”, riuscì a dire. Il suo umore sembrava essere sceso a picco.
Ma ci ero abituata. Infondo quante volte ho dovuto ripetere quelle parole senza che nessuno provasse compassione per me? Tante. Tante volte.
-“Non c’è problema.”, la tranquillizzai. Nicole fece un colpo di tosse cercando di cambiare argomento.
-“Emily, che tipo di film ti piacciono? Sai ho talmente tanti dvd che ce ne è per tutti i gusti.”.
-“Qualsiasi genere mi va bene”, risposi senza esitazione.
-“Scusate se vi interrompo.”, si intromise improvvisamente Danielle, con aria pensante. Poi si rivolse alla figlia.
-“Quando avete finito il film voglio che tu chiami George e tua nonna. Volevano sentirti.”
Nicole roteò gli occhi al cielo mentre io... gridai.
-“NONNA!”
Tutte e tre si voltarono a guardarmi.
Oh, santo cielo! Che stupida, stupida! Mi ero completamente dimenticata dell’esistenza di mia nonna. Non la sentivo da una settimana e si era raccomandata di farmi viva non appena potevo, ed io, da stupida nipote ingrata, avevo rimosso la raccomandazione.
-“Dovrei chiamarla per dirle che sto bene, e per sentire se lei sta bene.”, mormorai più a me che a loro.
-“E dov’è il problema? Sopra c’è il telefono, vai a chiamarla.”, mi concesse gentilmente Danielle. Subito mi alzai da tavola e la ringraziai.
Corsi lungo le scale e mi ritrovai in un piccolo salotto. Le alte vetrate poco distanti dal divano di pelle bianco, illuminavano radiosamente il telefono. Era antico, con un tondino nel centro che riproduceva i numeri in altrettanti piccoli cerchietti. In quel preciso istante il problema non fu ricordarmi il numero di casa, bensì adoperare quel dannato oggetto. Ci impiegai un minuto buono prima di formulare il numero correttamente.
Attesi inutilmente che mia nonna rispondesse perché partì la segreteria con la sua voce memorizzata e metallica che mi comunicò dove si trovava attualmente: in un ospizio; e dettò lentamente il recapito su cui potevo contattarla. Cercai di adoperare la mia memoria a breve termine e cominciai a ripetere il numero senza sosta, almeno finché non recupererai la sensibilità al dito indice. Quando riprovai a chiamare mi rispose una donna ed io le domandai se poteva passarmi la signora Caroline Collins, e scoprii che era impegnata in un torneo di scacchi. Trattenei una risata e quando prese la cornetta la sua voce non mi risuonò proprio sprizzante come mi aspettavo.
-“Dolcezza mia”, tossì.
-“Nonna, come stai?”
Anziché rispondermi si abbandonò ad un’altra serie di colpi di tosse, carichi di catarro.
-“A quanto pare non molto bene”, bofonchiai. A quel punto la bufera passò.
-“Non devi preoccuparti, tesoro. Un po’ di tosse, tutto qui. Ma dimmi tu, piuttosto, come stai?”
Feci per rispondere ma subito capovolse la domanda, il che fece capovolgere la mia risposta.
-“Ti trovi bene al collegio?”
Cosa potevo dirle? Di certo non le avrei mai detto che mi trovavo male, che il cibo era una schifezza, che la struttura che ci ospitava cadeva a pezzi. E soprattutto che la preside era patologicamente disturbata. Al solo pensiero di quella figura possente di donna rabbrividii.
-“T-tutto bene. Anche se non è il massimo.” Proprio non ce la facevo a mentire alla seconda donna che amavo di più al mondo, ed anche se lo avessi fatto non le sarebbe sfuggito. Mugugnò qualcosa e tossì di nuovo.
-“Nonna?”, la chiamai.
-“Si, si ci sono. Perché mai, cara, non è il massimo? Il S. Hellens è molto ospitale da quello che ho sentito dire. Sai qui ho conosciuto una signora che mi ha detto di avere una nipotina nel tuo stesso collegio.”
-“Ah, ehm...un momento nonna...”, mormorai in preda ad un dubbio, -“hai detto S. Hellens?”
-“Si, perché?” Ora il suo tono era sospettoso.
-“Ma non è quell’istituto che si trova al centro di Londra? Perché io sono appena un po’ più a nord, quasi fuori città oserei dire ma non al S. Hellens”, la informai.
Per un attimo sembrò non capire.
-“Quindi mi stai dicendo che la signorina Williams mi ha... mentito?”, quasi gridò. Il suo tono accusatorio e sbalordito mi fece pensare per un attimo se non fosse al confine sottile tra la pazzia e l’intontimento.
-“Nonna, per favore! Si sarà sbagliata, ti pare che ti viene a mentire su una cosa del genere?”, la rimproverai. Perché quella donna doveva sempre vedere il marcio in tutte le persone? La signorina Williams era un tipo veramente affidabile e comprensiva. Ancora ricordavo i suoi occhi tristi quando mi guardava, doveva proprio aver preso a cuore la mia situazione.
-“Mi ha detto che ti avevano accettata al S. Hellens! E che ti ci avrebbe portato lei!”
-“E così è stato, nonna. Ma non al S. Hellens”, ripetei, per la ventisettesima volta.
-“Ho capito”, fece una breve pausa per tossire.
–“Allora dove ti ha portata?”, mi chiese, poco dopo aver ripreso fiato.
-“Guarda, il nome non te lo so dire ma è un collegio abbastanza conosciuto e rinomato. La preside è Jennifer Delacour, dovresti conoscerla visto che in paese sanno tutti chi è.”
-“Chi?”, sbottò, e quasi parve di nuovo allarmarsi. Sbuffai dondolandomi sul posto. Non è che mi divertissi a ripetere il nome di quella donna.
-“Jennifer Delacour.”
Mia nonna non commentò. Non disse niente.
Tu tu tu tu...
-“Nonna?”, chiamai, ma dall’altra parte nessuna risposta.
Era caduta la linea.


Tentai più volte di rimettermi in contatto con lei; le dita avevano persino incominciato a farmi male a forza di girare e girare quei tondini maledetti. Evidentemente ad interrompere la nostra chiamata fu qualche guasto alla linea telefonica della casa di riposo. Cielo, proprio non riuscivo a vedere mia nonna, -la mia povera nonna-, rinchiusa in un luogo simile. Nonostante gli acciacchi della sua età -attacchi cardiaci, debolezze varie- era sempre stata una donna piuttosto solitaria che non amava starsene in mezzo alla gente. Ad eccezione della sua piccola dolcezza: io. Era sempre impegnata a starsene buona nel suo letto aspettando (come diceva lei) che la morte la venisse a prendere. Non vi dico le scenate che scatenavo quando la sentivo pronunciare quelle parole.
Sorridendo a quei piccoli ricordi, - e soprattutto contenta per aver sentito almeno la sua voce-, scesi le scale e ritornai in sala pranzo dove qualcosa era cambiato. La tavola era sparecchiata, Danielle faceva su e giù per trasferire i piatti sporchi sul tavolo nel lavandino, e Jamie e Nicole erano a terra sul pavimento valutando ogni dvd riposto nella mensola sotto la tv.
Affondata nel divano, dopo pochi istanti dall'inizio del film, cominciai ad avvertire una certa sonnolenza appesantirmi le palpebre. Soffocai uno sbadiglio e con un gesto secco, ma al limite della percezione, scivolai un po’ più giù in modo da poter tenere la testa poggiata sul divano.
Subito dopo l’inizio del film, -esattamente dal rapimento della giovane donzella e dall’improvvisa apparizione di un drago acquatico-, Morfeo mi stava caldamente provocando, stuzzicando la mia coscienza tentennante. Non lottai più di tanto nel cedervi alle sue lusinghe ma, ad interrompere il mio quasi piacere, fu il volto di un ragazzo che comparve sullo schermo. Non mi sarei mai soffermata ad ammirare quei tratti eleganti e curati se non fossero stati così terribilmente familiari. Quei capelli color del grano, scompigliati per via della tormenta che stava attraversando, e specialmente quell’avvenenza e atteggiamento da vero cavaliere non potevano non farmi tornare in mente William.
Come mi capitava già da un po’ (ebbene ne ero consapevolissima) mi ritrovai a pensarlo, a rimembrare alcuni ricordi legati ai nostri strani (e talvolta anche inquietanti) incontri. Mi ero ritrovata a tirare le somme più di una volta cercando di interpretare le sue intenzioni nei miei confronti, ma non venivo mai a capo di una risposta che fosse normale.
William Delacour mi seguiva sfacciatamente e non gli importava che io me ne fossi resa conto, questa considerazione era l’ultimo dado che riuscivo a trarre. L’unica soluzione plausibile da pensare. L’unica e indiscussa perché, fin quando si trattava di ritrovarmelo tra i piedi nei corridoi dell’istituto andava bene, non c’era niente su cui rimuginare perché, ovviamente, ciò che faceva non riguardava la sottoscritta. Ma i miei sospetti cominciavano ad assumere un loro perché nei momenti in cui il fato non c’entrava proprio un bel niente, quando incontrarlo equivaleva a essere seguita da lui, in un certo senso. Infatti, dopo il nostro primissimo incontro nella chiesa se ne sono susseguiti altri: nella biblioteca dove era alle mie spalle chino in un angolo nascosto, intento ad osservarmi (cosa che ha fatto sovente per l’ora intera); sulle scale quando sbucò improvvisamente per poi afferrarmi nel momento in cui stavo per perdere i sensi; e altre volte ancora. Ma ciò che doveva davvero farmi capire che qualcosa non andava iniziò con il suo insistette – e quasi disperato, aggiungerei- tentativo di portarmi fuori dal collegio. A colazione, per essere più precise. Cercavo con tutta la buona volontà di rifiutare il suo invito in modo garbato e gentile perché la sua proposta sfiorava il ridicolo, e lui, naturalmente, ne era consapevole più di me. Eppure insisteva. Ed insisteva. E quando, poi, assumevo atteggiamenti più bruschi per declinare in modo decisivo quel folle invito, era lui che si infuriava con me. Come se fosse stato necessario che io accettassi per questioni di vita o di morte.
Sbuffai e feci voltare sia Jamie che Nicole.
-“Tutto apposto, Emily? Ti annoia il film per caso?”, mi chiese l’ultima, prontamente. Scossi il capo e simulai uno sbadiglio.
-“No, è che ho molto sonno. Non so se resisterò fino alla fine”, mugugnai.
E ritornai a fissare lo schermo. Il principe biondo non c’era più, ma l’altro biondo occupava ogni mio singolo pensiero. C’era qualcosa in lui che non andava, ancor più in me se continuavo a cercare una risposta che nessuno avrebbe mai saputo confermarmi. Quindi mi strofinai il capo arrivando ad un’unica conclusione: non l’avrei rivisto mai più ed era inutile ogni mio ragionamento. Nonostante ne ero conscia al cento per cento sentivo qualcosa smuoversi nel profondo dello stomaco; non azzardai, però, a dare la colpa al polpettone di Danielle. Non riuscivo ad affiancare un nome alla sensazione che mi legava alla sua immagine impressa nella mente, e ciò mi crucciava. Ma dopodiché mi imposi di non rimanerci troppo a riflettere; era una perdita di tempo, e mi concessi di seguire il film qualche minuto... fin quando Morfeo non mi inghiottì in un incubo.


Quando mi risvegliai trovai il mio volto affondato nell’ascella di Nicole, e il corpo di Jamie spaparanzato sul mio. A quanto pareva ci eravamo addormentate tutte e tre. Sentivo scendere delle strisce d’acqua sulla mia fronte umidiccia, il freddo che si insidiava sotto la mia pelle raggiungendo le ossa mi faceva rabbrividire per via di quel contrasto di temperatura che avvertivo nel corpo. Quei dettagli mi fecero riportare a galla il sogno – o meglio incubo- di cui ero protagonista durante l’incoscienza. Ricordavo a tratti ciò che era accaduto: mi ritrovavo in un bosco luminoso, arioso e verdeggiante che ospitava uno degli affluenti del Tamigi, ma non sapevo di preciso dove si trovasse, tanto meno se esistesse realmente. Ero intenta a camminare a piedi nudi sull’erba, trascinandomi verso quella grande pozza d’acqua che rifletteva tutto il verde che circondava il mio campo visivo. Man mano che rompevo le distanze, essa si dipingeva di un colore che provocò in me un senso di nausea solo al pensiero: era il color acceso e pungente del sangue. L’intera atmosfera si capovolse e il luogo paradisiaco divenne a dir poco infernale. Dall’acqua, poi, emerse una donna dai lunghi capelli che allungando le braccia mi bloccò per la vita. Non ero stata abbastanza veloce per sfuggirle e così mi trascinò via.
Solo in un secondo momento riconobbi di chi si trattava, e fu proprio allora che mi svegliai di scatto e con il cuore a mille: la Delacour.
Mi strofinai le palpebre cercando di capire perché quella donna mi perseguitasse anche sotto forma di immagine onirica. Ero talmente terrorizzata di ritrovarmi di nuovo tra le sue grinfie che il mio inconscio lavora e lavorava. Forse per mettermi sull’attenti o più semplicemente per puro masochismo.
Borbottai a tutto spiano fino a destare Nicole.
-“Mmm...”
-“Sono incastrata sotto il tuo braccio”, fiatai con voce di chi si è appena svegliata,-“ e Jamie è a peso morto su di me.”
Nic mi permise di liberarmi da quella posizione scomoda e con delicatezza scossi Jamie.
-“Ehi, sveglia”, le sussurrai.
-“MAMMA!?”, urlò Nicole a pieni polmoni, inclinando il capo verso le scale per cercarla. A quel punto Jamie sobbalzò e si guardò intorno con occhi appiccicosi.
-“Oddio, ci siamo addormentate. Oh no, il film”, si lagnò dopo un lungo stiracchiamento. Nel frattempo notai alcuni particolari che prima mi erano sfuggiti: dalla finestra non si intravedeva più il sole ma c’era il crepuscolo. Lo schermo irradiava il menù del dvd, segno che avevamo dormito per più di un’ora, e la signora Danielle era scomparsa nel nulla.
-“Chissà dove si sarà cacciata quella donna”, mugugnò Nicole, nel momento in cui la porta d’ingresso s’aprì: era proprio sua madre.
-“Oh”, sembrava sorpresa di vederci in piedi, -“vi siete svegliate! Dormivate così bene che non ho potuto svegliarvi. Meglio così, fuori si ghiaccia.”
Teneva due buste belle cariche nella mano destra e nell’avambraccio sinistro ci fece scivolare tre bustine più piccole ben confezionate. Io e Jamie l’aiutammo a posare le buste in cucina mentre Nicole le ronzava intorno, intuendo che le confezioni più piccole riguardassero noi.
-“Cosa c’è lì dentro?”, infatti le chiese indicandole con la punta del naso. La madre roteò gli occhi al cielo e si spogliò dal suo enorme cappotto.
-“Non ti sfugge mai niente, non è vero?”
-“A me? Mai”, rispose prontamente Nic con fare orgoglioso. Danielle sospirò e ci consegnò le tre bustine. Tutte ci scambiammo un’occhiata.
-“E’ un regalo per voi in vista dell’uscita mattutina di domani. E’ una sciocchezza davvero, ma spero possano esservi utili.” La madre di Nicole sorrise di fronte all’avida curiosità con cui stavamo scartando le buste. Posai la mia sul tavolo di legno della cucina e con molta cura aprii la scatolina blu che mi ritrovai tra le mani.
Erano un paio di guanti, color azzurro smorzato con un cuoricino d’argento al centro. Ne rimasi sinceramente colpita, sia per l’eleganza di questi che per il gesto che mi riscaldò il cuore.
-“Sono bellissimi!”, commentò Jamie che non aveva perso tempo e li aveva subito indossati.
-“Grazie Danielle. E’ proprio ciò che ci serviva”, dissi, e lei mi posò una mano sulla spalla sorridendomi calorosamente.
-“Figuratevi. A te, Nic, piacciono?”
Nicole aveva un sorrisone stampato sul volto, quasi pareva una paralisi.
-“Certamente! Al collegio ci invidieranno tutte domani mattina”, sghignazzò e io e Jamie non potemmo che ridere della sua “pestifera” battuta.
Mentre Danielle parlava e sistemava la spesa nelle dispense io, Nicole e Jamie ci preparammo e gustammo una cioccolata calda; per quanto scottava non riuscimmo nemmeno ad assaporare il gusto denso e buono. Persino la panna che avevamo aggiunto non riuscì a rimanere a galla. Verso le otto, poi, cenammo tutte assieme. L’ultima cena prima del ritorno pensai un po’ sconsolata. Dopo saremmo dovute tornare in collegio e riprendere la routine che mi aveva vista coinvolta la settimana scorsa. Sospirai ingurgitando un bel pezzo di bistecca al latte, contornata da insalata e patate fritte. Finita la cena non ci restò che prepararci per andare. Lanciai un ultima occhiata alla casa, alle sue mura chiare, al pavimento immacolato e al comodo divano prima di uscire. Mi dispiaceva andare via, manco fosse stata la mia casa. Il pomeriggio trascorso non ci fece svagare come avevo pensato ma perlomeno era stato tranquillo e rilassante. Infatti recuperai ore e ore di sonno perse.
Forse era per il freddo invernale, forse per il buio pesto o molto probabilmente per la guida più cauta di Danielle ma, la strada per il ritorno, sembrava più lunga di quanto ricordassi. Passammo nel centro della città dove tutto era in festa: negozi, alberi decorati di rosso, babbi natali sparsi per i marciapiedi trafficati; piccoli dettagli che ancora una volta annunciavano il mio futile compleanno. Cercai di non pensarci quella volta e di godermi gli ultimi minuti di libertà. Dunque io, Jamie, Nic e sua madre conversammo del più e del meno senza mai smettere. Fu come se ad un tratto avessimo un sacco di cose da dirci. Quando poi attraversammo il cancello arrugginito – e fin troppo familiare, ahimé – del collegio avvertii una fitta al cuore. Come se qualcuno me lo stesse avvolgendo con del filo spinato. La Punto di Danielle non era l’unica macchina presente nel cortile, anche altre ragazze erano arrivate nel nostro stesso instante e si stavano salutando con i propri familiari.
-“Bene care, siete arrivate a destinazione. Spero che oggi vi siate divertite.”
-“Si mamma. Grazie di tutto e salutami tutti.”, rispose la figlia baciandole la guancia. Fu la prima a scendere dalla macchina, seguita da Jamie.
-“Ah, Emily”, mi fermò Danielle nel momento in cui stavo per raggiungere le due che, per il freddo, erano corse già al riparo senza aspettarmi.
-“Si?”
-“Quando vuoi tornare con mia figlia e la sua amica non esitare a chiederlo. Sarai sempre la benvenuta in casa nostra. D’accordo?”, si raccomandò mostrandomi un sorriso da... mamma. Annuì energicamente, sentendomi per un attimo bambina. Non me lo sarei fatto ripetere due volte.
-“Grazie mille. Sarà un piacere per me passare del tempo con Jamie e Nicole fuori dall’istituto”, risposi e a quel punto la salutai.
Sembrò si fosse alzata una bufera e il vento mi colpì in volto come tanti schiaffi repentini. Quando entrai i miei capelli erano tutti scompigliati e, perdendo tempo per sistemarmi, captai la figura della Delacour.
Ciondolai fino alla rampa di scale cercando di accelerare il passo per non scontrarmi corpo a corpo con lei, ma la mia presenza non sfuggì ai suoi occhi attenti. Mi chiamò e mi raggiunse con cinque falcate contante.
Stetti sull’attenti e cercai di sfoggiare il mio sorriso migliore. Finto ma il migliore.
-“Denoto una certa puntualità, signorina Collins. Un passo avanti per quanto riguarda il suo rendimento”, disse in tono elogiativo. La guardai. C’era qualcosa nel suo volto, nel guizzo dei suoi occhi e nella sua postura che mi parve sconosciuto. C’era qualcosa di diverso che, seppur lo rilevavo, non riuscivo a capire. Solo in un secondo momento compresi cos’era che mi disorientava in quel modo: lei sorrideva. Ma non era semplicemente un sorriso qualunque (tipo quello che mostravo io), era visibile serenità. E la cosa era destabilizzante non poco.
-“C’è qualche problema?”, interruppe i miei pensieri, senza perdere il buonumore. Sbattei le palpebre per riprendermi, -come per accettarmi se tutto fosse vero-, e risposi.
-“Sto bene. Sono solo infreddolita. Credo di dover andare subito in camera.”
Lei annuì ciondolando la testa, ispezionando l’atrio ormai semi vuoto.
-“Ti auguro una buonanotte nonostante la bufera. Domani sarà un lieto giorno, Collins”, mi disse espirando e stringendo ancora di più il libro al suo petto. Non comprendevo le sue parole, il suo atteggiamento che mi lasciava spiazzata e il modo umano in cui mi fissava in attesa di una risposta.
-“Oh. Beh. Se lo dice lei. B-b- buonanotte”, mormorai incespicando sull’ultima parola. La preside mi rivolse il suo ultimo sorriso e poi scomparì nella sala dei professori. Frastornata schizzai sulle scale per raggiungere il dormitorio e con la mia bustina di plastica intruppai tutte le ragazze che trovai nella mia corsa disperata.



***




La mattina seguente non iniziò affatto bene. Quando la nostra sveglia personale iniziò a trillare con il suo suono melodioso tutte eravamo già pronte. Il fatto che il mio stomaco non accettasse più pane bagnato accompagnato con il latte e che, in Dicembre, nel nord di Londra, ci fosse un sole accecante era niente in confronto allo strano presagio che avvertivo. Non saprei descrivere con termini esatti lo stato di tensione che mi attanagliava la mente e il corpo; diedi la colpa di ciò a quella palla infuocata e birichina che era in alto nel cielo. Insomma, il sole sconvolgeva la solita routine quotidiana di chiunque abitante britannico e non potetti non prendere in considerazione che questo fosse un segno, un qualcosa di strettamente collegato alla strana sensazione con cui mi ero svegliata.
La Galdys e la Belfiore ci fecero marciare verso la chiesa in fila indiana; io, Nicole e Jamie chiudevamo la schiera delle collegiali. Avevamo deciso di indossare tutte e tre i guanti regalati da Danielle, un modo per consacrare la nostra amicizia, e alcune ragazze si erano avvicinate a noi per domandare in quale negozio li avessimo acquistati. Solo Camille storse il naso sventolando e attorcigliando al collo una sciarpa color pesca che non le avevo mai visto indossare: molto probabilmente se l’era comperata il giorno prima. Il fatto che nessuna avesse notato il suo nuovo vezzo la stava facendo diventare verde di rabbia e di invidia, tant’è che mi guardava come per mandarmi a quel paese.
Camminava proprio di fronte a noi, con le sue fedeli scagnozze, e ciarlavano di cose insignificanti destinate ad essere ricamate per tutto il tragitto. Quando quasi giungemmo alla chiesa attraversammo un ponte che si affacciava sul Tamigi; un vecchio pittore armato di cavalletto e sgabello cercava di catturare ogni singola sfumatura del bel paesaggio. Affascinata lo guardavo mentre giocava a far contrastare due diverse tonalità di azzurro in base a come la luce colpiva il fiume.
-“Emily! Muoviti dai”, brontolò Jamie che era rimasta sul marciapiede; nel frattempo le altre avevano guadagnato passi e si erano distaccate da noi.
-“Un secondo”, mormorò Nicole che era alle mie spalle, incuriosita quanto me. Il vecchio pittore ci rivolse uno sguardo lusingato e ci consigliò, seppur con dispiacere, di seguire gli ordini della nostra amica.
-“Oh, era ora. Avanti, raggiungiamo le altre se non vogliamo perderci.”, continuò a bofonchiare Jamie che afferrò le braccia di entrambe. Dopo trenta minuti di camminata era sfiancante seguire il suo passo svelto. -“Se mai ci perdessimo conosco io Londra. Tempo fa circolavo in paese come una libera cittadina prima di rinchiudermi in un istituto.”, risposi lanciando un’ultima occhiata al Tamigi. Sembrava quasi il lago in cui era spuntato il dragone del film del pomeriggio precedente; magari ne spuntasse uno e mi portasse via da questo supplizio, pensai. E con un altro pizzico di fortuna avrei potuto essere salvata da un valente principe azzurro. E biondo.
Sbattei un piede a terra facendo sobbalzare le due che mi guardavano come se fossi impazzita. Il fatto era che stavo tornando a pensare a William. Il che era inconcepibile da parte mia. Forse ero davvero straordinariamente masochista, non c’era soluzione. Oppure quel piccolo spiraglio di sole era tanto potente da avermi fatto subire un’insolazione.
-“Tutto bene?”, mi domandò Nic, perplessa.
-“Si, stavo... stavo pensando ad una cosa”, mugugnai riprendendo a camminare. Senza nemmeno rendermi conto avevamo raggiunto le altre, ritornando ad essere le chiudi fila.
-“E a cosa?”, s’impicciò Jamie.
Io scrollai le spalle, mostrando scarsa importanza ai miei pensieri. Eravamo tutte accalcate di fronte all’entrata della chiesa; il bagnato che era rimasto sugli scalini rallentava i nostri passi per paura di rovinare a terra. Le prime ad entrare furono quelle del primo anno e, alzandomi sulle punte –sorreggendomi con buonsenso sulle spalle di Jamie,- vidi che occuparono gli ultimi posti a sedere. Furbe.
-“Fai questo piccolo sforzo, Emily”, sospirò Jamie. –“Tanto è solo per questa mattina.”
La guardai con gli occhi a fessura.
-“Sai meglio di me che si susseguiranno altre volte prima della vigilia di natale. E poi quelle si sono messe agli ultimi posti per farsi i fatti loro e non seguire la messa. Mi hanno rubato l’idea”, mormorai. Nicole ridacchiò.
-“Sei estenuante”, si lasciò andare ad un ultimo commentò Jamie, prima di colpirmi con il gomito e unirsi alla risata silenziosa di Nic.
Avanzammo di due scalini quando mi accorsi di essere osservata. Alla mia sinistra, di fronte ad una colonna, una vecchia signora fece capolino con un’espressione che oscillava tra l’allarmato e il curioso. I suoi vestiti erano sporchi e sciatti, intorno alla sua nuca vi era una bandana color fucsia fissata in un fiocco dai lunghi lacci che si univano agli altrettanto lunghi capelli bianchi. La sua pelle era raggrinzita e ciò mi fece pensare che fosse più grande di mia nonna; mentre i suoi occhi erano neri e inespressivi. Vedevo chiaramente che era me che fissava, come se volesse trasmettermi la sua preoccupazione. Mi accigliai e girai il capo proprio mentre Jamie e Nicole imitarono il mio gesto. Probabilmente se ne erano accorte anche loro.
-“Tu”, sentii ad un tratto. Era la vecchia signora che si rivolgeva a me.
-“Non voltarti. E’ una zingara, vorrà dei soldi”, mi suggerì frettolosamente Nicole, continuando a guardare avanti verso la massa che man mano avanzava.
-“Nic!”, proruppe Jamie come per rimproverarla. A quel punto si voltò e borbottò a Jamie qualcosa del tipo non abbiamo soldi o che cosa ho detto di male?
-“Smettetela di bisticciare. Tanto ce l’ha con me”, le ammonii voltandomi verso la zingara che ormai era a un passo da me.
-“Come ti chiami, piccola?”, mi domandò bonariamente con voce debole e sfiatata. Nicole fece un colpo di tosse.
-“Perché lo vuole sapere?”, scattai sulla difensiva. Quella donna m’incuteva... qualcosa. E non era per niente una sensazione piacevole.
Anziché rispondermi sollevò la mano destra e fece per toccarmi la spalla ma poi si bloccò e salì sulla mia nuca. Prima di un contatto mi spostai, confusa e a disagio.
-“Oh”, sussurrò, congiungendo entrambe le mani sul petto.
-“Mi scusi che cosa vuole?”, chiesi senza troppi preamboli cercando di liquidarla prima che mi prendesse un attacco d’ansia.
-“Non abbiamo soldi. Siamo un gruppo di scolare in visita alla chiesa”, s’affrettò a chiarire Nicole.
Ma la donna l’ignorò e riprese a parlare con me.
-“Tu, giovane fanciulla sei avvolta in un alone nero. Misericordia, buona ragazza, qual’è il tuo nome?”, insistette e mi afferrò un polso. Al ché cercai di divincolarmi ma poi mi sfilò il guanto e rimasi a fissarla sbalordita per il gesto.
-“Mi lasci!”, protestai.
-“La lasci!”, intervennero le mie due amiche.
La vecchia signora distese la mia mano destra sulla sua, rugosa e macchiata. Si avvicinò e con l’unghia seguì le linee del palmo rivolto verso l’altro; un brivido mi percosse la schiena.
-“Oh”, commentò con un tono per nulla gradevole.
Irritata mi liberai dalla sua presa e recuperai il guanto.
-“Mi lasci stare!”, ripetei guardandola con determinazione, nonostante sentissi le labbra tremare.
-“La tua linea della vita è corta. Ti sta per succedere qualcosa, piccola fanciulla, devi stare molto attenta”, bisbigliò come se fosse allo strenuo delle forze. Poi avvicinò la sua mano al mio viso con l’intenzione di accarezzarmi una guancia, ma una voce la fece rannicchiare su se stessa, in sottomissione.
-“Se ne vada!”, gridò prepotente la Delacour dall’alto della scalinata.
E ora da dove era saltata fuori? Per caso ci aspettava qui?
La vidi scendere con ira le scalinate e, nonostante fossero scivolose, non barcollò nemmeno per un attimo. Mi si parò di fronte lanciando uno sguardo truce alla zingara, benché fosse rivolto a lei sentii qualcosa spezzarsi dentro di me. La zingara s’ingobbì ancor di più e alzò le mani sul capo come per farsi scudo dalla potenza degli occhi glaciali che la stavano trafiggendo; girò i tacchi ma non prima di avermi lanciato un’ultima, inquieta, occhiata. Quando sparì dalla nostra visuale la Delacour pareva visibilmente sollevata.
-“Non si deve ripetere mai più un episodio simile”, mi avvertì, guardandomi con cipiglio. Come se la colpa fosse stata mia, ovvio!
-“Non l’ho di certo avvicinata io”, cercai di giustificarmi, per quanto inutile potesse essere con lei.
-“Ma non hai nemmeno avuto il buonsenso di mostrarti indifferente o spostarti per evitare che ti importunasse. Oggi è stata una zingara, domani potrebbe essere un malvivente”, ribatté subito.
-“Certo ma...”
-“Io sono responsabile di ciò che ti accade, Collins”, aggiunse come se non fosse ovvio. E come se le importasse veramente la mia incolumità. Abbassai il capo, livida di rabbia, prendendo in considerazione il fatto di controbattere o farla finita lì. Nella mia testa cominciarono a volteggiare mille impossibili soluzioni per trarmi d’impaccio ma, essendo –appunto- improbabili, desistetti e optai per rimanere in silenzio. Volevo scappare, ecco cosa volevo fare. Volevo andarmene da lì, e con chiaro spavento per le parole della zingara mi era passata anche quella poca voglia di cantare. Ma entrai, ovviamente.
La Delacour ci spedì ai primi banchi, di fronte all’altare, al leggio e alla vetrata che lasciava filtrare alcuni raggi di luce; quella dannata luce che incombeva sulle nostre teste quasi accecandoci. Tremavo nel mio cappotto nero e non potevo non fissare la mia mano: le sue linee, le sue devianze, spezzature e... la chiusi a pugno, scuotendo la testa come per liberarmi da quelle assurde paranoie. Ci mancava solo la zingara, ora ,brontolai interiormente. Poi, come se Jamie mi avesse letto nella mente si voltò a guardarmi dal banco di fronte.
-“Emily, non pensare alle parole di quella zingara. Molto probabilmente non sa cosa dice.”
-“Però è vero, guarda!”, risposi mettendole la mia mano aperta sotto il naso in modo che vedesse quelle linee corte e spezzettate. Lei sbuffò abbassandomela per poi imprigionarla nella sua, calda e accogliente.
-“Da quando sei così...”
-“Superstiziosa? Forse da quando mi sono svegliata questa mattina”, bofonchiai,- “mi sono svegliata male.”
-“Sarà sicuramente una giornata no”, provò a tranquillizzarmi e finalmente mi liberò la mano.
-“Già, una delle tante”, borbottai al vuoto.
Mi lasciai accasciare sullo schienale cercando di svuotare la mia mente quando, qualcuno – e molto probabilmente sapevo chi- cominciò a pizzicarmi sul braccio. Lo scossi, indispettita.
-“Camille lasciami stare”, l’ammonii. Ma continuò a perseverare pizzicandomi con il dito indice e il pollice; al ché mi voltai esasperata.
-“Ti ho detto di...”, e mi mancarono le parole.
William era a pochi centimetri da me, sporgendosi oltre i banchi per attirare la mia attenzione. Ma non poteva essere lui; allora sbattei le palpebre e quando riaprii gli occhi ebbi la prova della sua reale presenza.
-“Che cosa ci fai...”
-“Devo parlati”, m’interruppe con una certa urgenza nella voce. Il suo tono non ammetteva repliche, ma, come suo solito, era una richiesta fuori luogo.
-“William non...”
-“Adesso!” Mi prese per un braccio e mi trascinò sul banco di legno, fino a farmi alzare.
-“Potresti farmi finire di parlare quando comincio?”, brontolai sentendo il cuore che pian piano accelerava i suoi battiti così come i miei passi.
-“Non adesso. Non oggi.”, lo sentii mormorare mentre, senza un minimo di grazia, mi fece entrare nel confessionale. Subito dopo mi fu accanto.
Lo spazio all’interno di quella cabina era minimo, ed eravamo così vicini da confonderci i respiri. Lo guardavo con le spalle contro il legno, non riuscendo a comprendere cosa volesse da me. Avvolto nel buio con quello sguardo allarmato e con la sua presa ferrea sul mio polso cominciava seriamente a spaventarmi. Quel giorno sarei impazzita, era poco ma sicuro.
-“Che cosa vuoi? Posso saperlo?”, bisbigliai rompendo il silenzio.
-“Devi immediatamente uscire da questa chiesa”, scandì parola per parola. Spalancai la bocca, incapace di digerire quella proposta... assurda. Lui notò la mia espressione e distolse lo sguardo, come se in realtà quella conversazione lo infastidisse.
-“Questa volta devi ascoltarmi, Emily”, obiettò secco, ritornando a guardarmi.
-“Certo come no!”, sbottai animandomi, -“quindi, secondo te, io dovrei uscire da qui perché tu me lo stai ordinando senza nessun motivo, senza nessuna spiegazione logica che mi possa togliermi il dubbio di non aver a che fare con un pazzo?”.
-“Effettivamente hai ragione. Non metto in dubbio la tua perplessità, però devi darmi retta e uscire”, insistette mettendomi una mano sulla spalla. Diedi un’occhiatina a quella mano tremante e poi, guardinga, ne lanciai una eloquente a lui.
-“Lasciami andare”, sospirai con un filo di voce. Lui scosse la testa, deciso.
Irremovibile quanto me.
-“Lasciami andare, ho detto.”, ringhiai cercando di divincolarmi dalla sua presa. Dannazione! Perché era più forte di me?
-“Ho fatto tutta questa strada e non ti lascerò rimanere qui dentro!”
-“Ho. Detto. Lasciami andare!”. Lo strattonai e feci per uscire dal confessionale ma la sua mano, - più veloce della luce-, afferrò il mio braccio e mi ritirò indietro.
Mi misi le mani tra i capelli: quella mattinata si stava rivelando infernale; ero già stanca, sfinita, per non parlare del magone che mi si era appena formato.
-“Inventati qualcosa ed esci da qui. Se tu rimarrai nella chiesa ti succederà qualcosa di brutto, e non voglio che questo accada!”, mi consigliò, con un tono serio che non mi piacque affatto.
-“Hai origliato ciò che mi ha detto la zingara, non è così? Sei venuto qui per finire di terrorizzarmi? Beh, la sai una cosa? Ci sei riuscito! Bravo, complimenti. Ora per favore fammi uscire”, risposi, impuntandomi. Lui scosse la testa e cominciò a snocciolarmi qualcosa che mi rifiutai di ascoltare. Annuivo, arrabbiata ed esasperata, cercando di fargli finire la predica il prima possibile e lasciarmi andare. Poi, come se non bastasse, iniziò a dispensarmi consigli su come darmela a gambe. Fui costretta a ringraziarlo per qualcosa di stupido, insensato.
La testa cominciò a volteggiarmi e il suo viso, divenuto più magro dall’ultima volta che l’ho visto, era angosciato con una smorfia di convinzione che accompagnava le sue parole a dir poco incomprensibili.
Quando è troppo è troppo.
-“Va bene, ho capito”, tagliai corto dopo un paio di secondi. Lui s’azzittì, meravigliato di avermi convinta.
-“Ora posso uscire?”, domandai con fare innocente, dopo averlo assecondato a sufficienza. William annuì, seppur non dimostrava la convinzione che mi aspettavo di ricevere. Sospirai senza staccargli gli occhi di dosso, e aprii la porticina uscendo alla svelta. Fuggii, in un certo senso, dalle sue stramberie e mentre procedevo per ritornare al mio posto mi scontrai con la Delacour. Indietreggiai agghiacciata per aver urtato la sua maestosa persona.
-“Dove ti eri cacciata tu?”, mi domandò con sconcertata severità.
-“Oh, beh... io, ecco...”, cincischiai, cercando in qualche modo di far riattivare il cervello. Lei fece svolazzare una mano di fronte al mio naso come per azzittirmi e disse:
-“Collins, taci. Non sprecare fiato, contienilo per la lettura di un passo del vangelo che leggerai durante la messa.”
-“Io?”
-“Si”, confermò quasi sgranando gli occhi, che poi, prima di riprendere a parlare, roteò.
-“Possibile che tu sia così svogliata? Dunque ora, essendo arrivate in ritardo, assisteremo alla santa messa e alcune di voi ai primi banchi vi parteciperanno leggendo alcuni passi. Siediti accanto a Jamie e dopo di lei posizionati dietro al leggio. Solo al termine della celebrazione inizieremo le prove.” Mentre parlava mirava il punto in cui dovevo mettermi; mi voltai seguendo la traiettoria del suo sguardo e solo in quel momento mi accorsi di un dettaglio assai vistoso. Okay, forse la parola vistoso non azzeccava in pieno l’essenza di quella gigantesca croce di legno che penzolava sull’altare. Prima ancora che potessi commentare la preside proseguì con le sue –indesiderate- spiegazioni.
-“E’ stata costruita e rifinita in legno massiccio. Quella croce è un regalo donato dal nostro istituto, in vista del Natale.”
Mi voltai per guardarla, aggrottando le sopracciglia.
-“Non sarà pericolosa lì sopra? Se mai cadesse...”, azzardai.
-“Misericordia, Collins”, mi zittì e, con una leggera spinta mi condusse vicino alla mia amica. Prima di girare i tacchi mi fissò a lungo e stirò un sorriso sbilenco.
-“Dove eri finita? Mi ero voltata per parlarti e non c’eri più.”, mi chiese Jamie, mentre sfogliava un libricino preso chissà dove. Mi strinsi nelle spalle e mi voltai quel poco che bastava per trovare William. Vedevo la sua sagoma che si agitava tra la folla di gente che entrava, -i più erano anziani con bambini- e indubbiamente mi cercava perché, per quanto gli avevo assicurato, io sarei dovuta uscire.
Tsé.
-“Non crederai mai con chi sono rimasta a parlare fin ora.”, mugugnai in risposta, fissando ostinatamente in avanti.
-“Con la Delacour..”
-“No”, mi voltai a guardarla e, prima ancora che potessi informarla, chiuse il libricino che teneva tra le mani e mi scagliò un’occhiatina allusiva.
-“Non dirmi che c’è William qui?” Il suo tono rispecchiava esattamente l’espressione del suo viso. E a dirla tutta, non feci fatica a capire come fosse arrivata alla giusta conclusione, nel vedere il mio riflesso sbigottito nei suoi occhi nocciola. Ma ero molto di più che sbigottita, sia chiaro, ero arrabbiata, confusa... delusa. Delusa per motivi irrazionali che la mia mente non comprendeva.
-“E’ così romantico, Emily.”, mi destò dai miei pensieri Jamie che, ora, aveva il volto da classica sognatrice incallita. L’incenerii con uno sguardo truce ma, anziché zittirsi, perseverò.
-“Ha dovuto abbandonare il lavoro per chissà quali motivi, costretto a lasciare la sua dolce e indifesa donzella nelle grinfie...”, si guardò intorno circospetta e, abbassando il tono della voce, continuò, -“... nelle grinfie della madre. Ed ora, eccolo! Che compare per ricongiungersi alla sua amata”, concluse, -convinta-, con fare teatrale.
La guardai, sinceramente allarmata.
-“Tu, Jamie Sandford, hai dei seri problemi”, commentai, voltandomi e incrociando le braccia. Lei mi indirizzò una gomitata e cercò di mantenersi seria.
-“Sul serio, amica mia, cosa voleva? Perché è venuto fin qui?”
Sospirai. Non sapevo cosa rispondere. Potevo dirle la verità, cioè che lui aveva fatto tutta quella strada per mettermi sull’attenti su qualcosa di... di astratto, di assurdo? Socchiusi appena le labbra per sussurrarle che avremmo ripreso l’argomento dopo, in collegio, quando il vociferare intorno a noi smise. Il prete aveva iniziato la messa. E nella mia testa presero vita pensieri che dovevano rimanere lontani: lo strano presentimento con cui mi ero svegliata, la zingara e la sua premonizione oscura e, non da meno, William. Scossi la testa, con un grande, immenso, punto interrogativo sulla fronte. Perché tutto mi appariva così tremendamente e strettamente collegato? Perché, quel giorno, qualche forza divina o chicchessia, aveva deciso che io, Emily Collins, dovevo perdere la mia sanità mentale? Buttai fuori una manciata d’aria e mi concentrai nel seguire la celebrazione.
Quando toccò a me recarmi vicino all’altare per svolgere l’incarico che mi era stato assegnato, pareva che il tempo si fosse fermato e che stessimo lì dentro da ore. Ore inesorabilmente lunghe. Con lo stesso passo di una condannata al patibolo, mi trascinai di fronte al leggio, imprecando interiormente. Cercai di mantenere la calma. Presi a leggere, non curante del tono atono che aveva assunto la mia voce quando, d’improvviso, fui colpita da un violento giramento di testa. Dovetti aggrapparmi al leggio di ebano per sostenermi in piedi, ma per poco non lo trascinavo a terra con me. Vedevo gli sguardi dei presenti straniti, confusi, così mi scusai per l’interruzione e...
D’improvviso!
Vidi la Delacour emergere dalla quarta fila, gli occhi sbarrati e le labbra che si muovevano liberando parole che naturalmente non udivo, e non comprendevo nemmeno concentrandomi sul suo labiale.
Vidi tutta la massa di persone presenti alzarsi e agitarsi, gridando e strillando ai propri bambini di far silenzio dopo che avevano iniziato a piangere.
Sentii il pavimento tremare, rumori di oggetti che si infrangevano al suolo rompendosi.
Non sentii più le gambe. Volevo mettermi al riparo ma, come se fossero estranee al mio corpo, non reagivano ai comandi.
Ero inspiegabilmente paralizzata.
Urlai a perdifiato in quel clangore ma nessuno badava a me: tutti erano troppo occupati a correre al riparo; così provai a muovermi, ottenendo il disastroso risultato di accasciarmi sul leggio, non avvertendo nemmeno una minima resistenza nelle braccia. Le mie ultime possibilità di uscire fuori da quel trambusto infernale si chiamavano Jamie e Nicole. E loro non c’erano. Non le vedevo. Non le sentivo. In compenso mi accorsi di un’altra persona, l’unica che era rimasta immobile e che, miracolosamente, fissava me.
-“Miss Delacour!”, gridai a pieni polmoni, così tanto da esser sicura di aver superato le urla di tutti, anche perché percepii il tremore delle mie corde vocali. Lei, però, non si mosse di pezzo e sentivo la forza dei suoi occhi indifferenti farmi cedere sempre di più. Ancora di più.
Le dita che si aggrappavano al mio unico e traballante sostegno cominciarono a scottare, fremere ed informicolirsi. E caddi annientata da una forza invisibile, da un macigno immaginario che si era schiantato sul mio piccolo corpo. Ma ben presto si sarebbe schiantato anche quel macigno di legno, quello reale sopra la mia testa, il quale dondolava similmente ad un orologio a pendolo. Come se volesse lasciarmi il tempo di sfuggire dalla mia fine annunciata.
Ma non c’era scampo, perché ero paralizzata! Forse era la paura, il presentimento che si concretizzava, quelle fandonie che poi, sorrisi amara, non erano.
Fu la prima volta dalla morte dei miei genitori che quasi scoppiai in lacrime ma, come se li avessi richiamati dall’aldilà, nel buio dei miei occhi chiusi presero forma. Li vedevo, i miei genitori.

Mia madre, il suo solito viso in tensione ma bella. Bella come una dea. I suoi grandi occhi verdi, le sue candide mani di neve imprigionate in quelle di mio padre.
Mio padre, imperatore dallo sguardo dolce, che fissava mia madre come se si stesse innamorando di lei in quel momento.
Caroline.
Marissa.
Erik.
Jamie.
Nicole.

William.

Riaprii gli occhi di colpo, esalando un respiro agonizzante come se riprendessi a vivere in quell’istante. Trasalii, urlando, quando vidi gli ultimi due fili spezzarsi e la croce precipitare. Volsi lo sguardo strizzando gli occhi e portandomi istintivamente le braccia intorno al capo come se fossero un misero scudo improvvisato.
-“EMILY!” Non era stata una voce, ma un grido sovraumano.
Poi uno spostamento inatteso, il rumore dell’ammasso che si era scontrato col suolo dove nel mezzo non c’ero più io. Rapidamente individuai la causa, il miracolo, e constatai di essere avviluppata contro un corpo, quello di William. Mi aveva abbracciata e con una spinta mi aveva salvata; sorvolammo il pavimento e strusciammo contro una porticina di vetro che conduceva ad un lungo corridoio scuro. Il vetro si infranse sui nostri corpi stretti e tutto il frastuono si spense, così come si era creato. Improvvisamente.
Ci ritrovammo in un mare di schegge e percepivo il battito del cuore nella mia gola; poi William mi scostò un poco, quel tanto che bastava per farmi premere le spalle al pavimento. La testa che mi girava, l’adrenalina, la paura che sapeva di morte, non mi permettevano di avere una visione nitida e perfetta, così come non mi concedevano una sufficiente lucidità.
-“Non ti muovere”, mi ordinò scandendo bene le parole e la sua mano saettò sul mio collo da dove estrasse una lunga scheggia. Fu proprio l’attimo dopo che i miei nervi si rilassarono fino a farmi perdere il contatto con la coscienza.




Ero sveglia già da un po’. Non saprei dire con esattezza quanto io sia rimasta priva di sensi; infondo non me ne importava poi granché vista la causa per la quale mi ritrovavo sdraiata lungo una panca di legno. Qualcuno, con molta amorevolezza, aveva depositato sopra il mio corpo una copertina sfilacciata di lana color del pesco. Ancor prima di fare mente locale, giunsero alle mie orecchie voci e melodie ovattate, conosciute. E fu in quel momento che capii di ritrovarmi ancora in chiesa ma in un corridoio lontano dalla sala della celebrazione. Credevo che mi avessero lasciata sola lì, aspettando che ritornassi in me, però poi, un sospiro, o forse uno sbuffo, mi fece ricredere. William era in controluce e fissava la vetrata ricoperta di pioggia, in un’immobilità rigida. La sua figura sembrava addirittura più magra di quanto lo fosse realmente. Intorno a noi la stanza era in penombra, un’oscurità che quasi ti schiacciava. Sentivo il mio corpo indolenzito, specialmente lungo i fianchi dove William aveva affondato le mani per allontanarmi dalla tragedia. Mi tirai su lentamente, mordendomi la guancia dall’interno per evitare di gemere. Mi misi seduta, - ancora accoccolata nella coperta-, e mi concentrai sulla schiena di William. Non si era accorto che mi fossi alzata, ed io non potevo credere che fosse rimasto di nuovo a vegliare su di me. E, soprattutto, non potevo credere che avesse ragione... riguardo la croce. Era tutto così inspiegabile che la mia testa vorticò per un secondo.
Mi passai una mano tra i capelli e feci per parlare, ma subito desistetti: in quel silenzio quasi incantato la mia voce sarebbe stata solo un sussurro snervate; avrei, inoltre, privato a William quel momento per riflettere. Lo vedevo, davvero. Il suo profilo lievemente illuminato mi poteva solo far intuire che stesse impegnato in un monologo interiore, intimo. Ed io non volevo violarlo. Strinsi la copertina di lana intorno alle mie spalle cercando di non pensare a quanto timore mi stesse trasmettendo. Ogni tanto mi domandavo se lui fosse consapevole di questo. Se il pensiero di incutere timore agli altri, attraverso quegli occhi così enigmatici, lo percuotesse ogni tanto. Per me, lui, rimaneva comunque un enigma assai raffinato. E mentre pensavo tutto questo sentii dentro di me qualcosa sciogliersi. O meglio, distruggersi. Sbriciolarsi e disintegrarsi in tanti piccoli frammenti, come in quelli in cui c’eravamo trovati dopo lo schianto. Ma questi erano più affilati e provocavano più dolore, se possibile. E si concluse la mia sceneggiata. La mia ostinata resistenza a qualcosa che, lo sapevo, non avrei più potuto nascondere.
Troppo orgogliosa per ammetterlo, forse.
Conoscevo William da quanto? Cinque giorni? Una settimana?
Poco m’importava, sinceramente. Magari sapevo troppo poco di lui o, al contrario, il giusto. Abbandonando il collegio aveva portato con sé una parte di me, -quella speranzosa di attenzioni, quella infantile, quella che temevo-, e adesso me l’aveva riportata, senza preavviso. Premetti la schiena contro la parete ruvida e inclinai il capo verso l’alto e raccolsi il coraggio per ammettere –finalmente- l’esistenza di emozioni nuove e dai sapori contraddittori: ero ossessionata da lui. Malata per colpa della sua misteriosa persona. Intossicata dalla sua presenza; a tratti asettica o calda. Però, paradossalmente, mi ritrovavo in circostanze (come questa) che non sapevo chi avevo di fronte. Se il premuroso ragazzo gentile dallo sguardo cristallino oppure il ragazzo improvvisamente freddo e petulante. Sospirai lievemente, e con il gomito feci scivolare la copertina che mi teneva al caldo sul pavimento. Quell’impercettibile fruscio fece voltare William verso di me, lentamente. Metà del suo volto fu illuminato da un lampo saettante e intravidi qualcosa di diverso in lui. Qualcosa che non faceva parte del suo volto duro, della sua postura lontana quasi pietrificata; bensì, nei suoi occhi. Una luce estranea, più indecifrabile del solito ma che pareva spogliarti persino della tua pelle. Allora mi portai le ginocchia al petto, avvolgendole con le mie braccia dalla pelle d’oca senza smettere di fissarlo. L’oscurità velava metà del suo viso, i contorni del suo corpo apparivano confusi. O forse dovevo ancora riprendermi del tutto...
Ma bastò un attimo, - un battito di ciglia-, a farmelo ritrovare davanti senza nemmeno che me ne accorgersi. Avrei voluto parlare; chiedergli che cos’era che non andava, e, soprattutto, domandargli come faceva a sapere che tutto ciò sarebbe accaduto. Ma le parole rimasero incastrate nella mia gola e le mie labbra serrate. Poi un sibilo, un lamento e lui parlò.
-“Te lo avevo detto di uscire. Te lo avevo detto. Te lo avevo detto!”, ripeté a denti stretti e guardandomi con spaventosa sofferenza.
-“Will...”
-“No!”, m’interruppe inginocchiandosi di fronte a me, -“ora è tutto più difficile!”, sbottò mettendosi le mani nei capelli, senza smettere di guardarmi con gli occhi colmi di lacrime. Quell’immagine mi stava scuotendo, fuori e dentro. Il mio cuore batteva a ritmi veloci e intensi, e la mia mente pareva scollegata. Improvvisamente mi sentii avvolta dal gelo e mi venne l’impulso di alzarmi, spingerlo via e scappare. Anche se, una piccola ma potente parte di me avrebbe voluto sporgersi per abbracciarlo e tranquillizzarlo.
-“Tu... tu lo sapevi”, balbettai, poi, con una voce che faticai a riconoscere. Non pareva la mia. Lui alzò il capo di scatto, rimanendo a guardarmi in silenzio e in perfetta immobilità. Rimase così per una gran manciata di secondi, -o forse minuti interi-, che mi permisero di studiare il suo volto impenetrabile illuminato solo dalla penombra.
-“Tu lo sapevi”, ripetei con maggiore fermezza. Ostentando una sicurezza che in realtà non possedevo. Lui ritornò in piedi e mi diede le spalle per recarsi accanto alla finestra. Lo vidi stringere i pugni e appoggiarsi al muro della cripta.
-“Non è facile da spiegare, Emily”, mi rispose con lo stesso tono di poco prima.
-“Posso immaginarlo, ma credo di dover sapere arrivati a questo punto. Non credi?”, insistetti, consapevole di addentrarmi in qualcosa che forse avrei faticato a comprendere. O forse no.
Prima di voltarsi scagliò un colpo contro il vetro e, se non fosse stato per quel buio pesto e pressante, avrei giurato di veder intorno al suo pugno una crepa.
-“Se solo mi avessi dato retta non ci saremmo ritrovati in questa situazione! Se solo fossi uscita come mi avevi promesso di fare; Dio, Emily, cosa ti ha fatto cambiare idea?” Ora era infuriato, e mi scagliò un’occhiata che mi trafisse. Mi sentii attraversata dal suo dolore, dal suo tormento, dalla sua collera nei miei confronti.
Deglutendo risposi.
-“Ti avevo mentito: non sarei uscita da questa chiesa dopo le tue parole. Perché non ci credevo, perché non aveva senso farlo... ecco, il motivo.”
-“Non aveva senso, dici?”, quasi gridò, avvicinandosi con tre pesanti falcate. Annuii con vigore.
-“Cosa avresti fatto se al posto mio ci fossi stato tu?”, lo interrogai, con ansia malcelata.
William grugnì qualcosa di incomprensibile e ogni tanto apriva la bocca come se fosse in procinto di esternare una frase di senso compiuto. Ma desistette sempre.
-“Hai ragione tu.”, soffiò, poi, dopo una breve esitazione -“io sapevo che quella croce sarebbe crollata su di te”, ammise, con voce arrendevole e il suo capo si poggiò sul palmo teso.
Era decisamente crollato.
-“Ma in che modo sei stato a conoscenza di tutto questo?”, lo interrogai, preparando ad accogliere ogni sua singola e imminente parola.
-“Quasi due mesi fa, quando ancora mi trovavo in Francia, feci un sogno: c’era una ragazza di fronte al leggio di una chiesa e, sopra la sua testa si ergeva una grande croce di legno.”, iniziò senza cessare di immergersi nel mio viso,-“improvvisamente vi fu una scossa e la croce che prima era immobile prese a muoversi fino a precipitare sulla ragazza. E a quel punto mi svegliai, sudato e con il cuore che impazzava nel mio petto. Dopo quella notte trascorsi il giorno completamente intontito, -se non sgomentato-, per quanto tutto mi parve reale. La sera mi si riproposero quelle stesse immagini. E anche la sera dopo. E la sera dopo ancora. Quella ragazza eri tu, Emily.”
-“Io?”
-“Si. Puntualmente, ogni notte, i sogni ricominciavano e il tuo volto tornava a confidarmi la tua paura. Quando poi la visuale si allargava era quasi sempre troppo tardi, e tu finivi vittima di quella croce. Ho cercato in tutti i modi di farti evitare di metter piede qui dentro, con la consapevolezza di addentrarmi in un’impresa ardua.”, spiegò, mentre il suo tono tornava più cauto e le lacrime scomparivano dal suo volto.
-“E così si è rivelata.”, commentai, forse più a me ricordando i suoi metodi, che a lui,-“ma prima di quella volta in chiesa, quando eri da solo sull’altare, noi non ci eravamo mai visti.”, gli feci notare, avida di spiegazioni.
-“Fin dapprincipio ho sempre sostenuto a me stesso che non mi trovavo di fronte a un semplice incubo. Era qualcosa di più potente perché repentino e ossessionante, a tal punto di avere timore di addormentarmi la notte. Assorta questa consapevolezza mi sono allontanato dalla Francia per giungere qui, a cercare quella ragazza che, guarda caso, indossava la divisa del collegio di mia madre.”, rispose, con un mezzo sorriso soddisfatto e compiaciuto.
-“Quando poi ti vidi quel giorno in chiesa ho provato... non lo so... una serie di emozioni. Eri lì, a pochi passi da me, che mi guardavi con quegli occhi tremendamente portatori di malinconia... e ti riconobbi immediatamente.”, mormorò, socchiudendo i suoi come per scavare dentro i miei. Abbassai lo sguardo, trovando la posizione in cui ero seduta improvvisamente scomoda. -“Emily come posso farti comprendere quanto io sia stato male per tutto questo? Credevo di impazzire, che la mia stabilità mentale stesse per annullarsi di fronte ai miei occhi.”. -“Figurati la mia”, soffiai.
A quella risposta udii un verso, e poi William ferì il buio posando la sua mano sulla mia spalla. Dunque ritornai con il capo alzato e riprese a parlare. In un certo senso fui lieta che gli si fosse sciolta quella parlantina confidenziale; non riuscivo ancora a comprendere cosa stessi provando in quel momento.
-“Ti ricordi quando, parlando, ti accennavo a una mia missione?”
Annuii.
-“Era questa? Salvarmi?”
-“Esattamente”, rispose cauto. –“Ti ricordi, anche, quando mi dissi che quel giorno i canti erano stati annullati? Ho creduto che forse il pericolo era scampato una volta per tutte e venni qui, in chiesa, per vedere se la croce fosse stata issata. Ma non c’era, e credei che il mio incubo fosse giunto al termine, che tutto ciò era solo uno scherzo del destino.”, ridacchiò nervosamente,-“mai stato più meschino, il destino. Perché poi mi comunicasti che, sì, sareste tornate a provare i canti in questa chiesa.”
-“Quella sera in giardino? Dove poi sei fuggito via con quella strana espressione nel volto?”, domandai, seguendo passo passo i suoi ragionamenti; rivivendo ogni sequenza come una pellicola di un film.
-“Si. Mi sono precipitato qui e appena sono entrato...”, s’ammutolì, sedendosi accanto a me. Ripercorsi la mia paura nei suoi occhi bicolore, la stessa che provava lui nel rivivere il giorno precedente. -“... appena sei entrato hai visto quella dannata croce di legno.”, completai la frase.
-“Che aspettava te. Solo te. Ed io ero l’unico che fosse a conoscenza che tutto ciò che mi stava circondando non era solo frutto della casualità o della mia mente contorta.”, stirò un mezzo sorriso, poggiando i gomiti sulle ginocchia, fissando la finestra che veniva pungolata dalla pioggia. Già, il clima ideale per venire a conoscenza di realtà che credevo appartenenti solo alle favole. A favole dai richiami e risvolti dark, perlomeno.
-“Ero disperato.”, proseguì,-“non sapevo più come fare per farti allontanare da qui. Ti ho cercata, ti ho seguita, ti ho chiesto se volevi venire a colazione con me il giorno in cui credevo succedesse la tragedia, ti ho rinchiusa nel confessionale... per fortuna ho avuto quei riflessi pronti. Quella potenza di cui non ero lontanamente consapevole.”, commentò, volgendo lo sguardo sul mio. -“Quasi mi sento in colpa per tutto questo.”, sbiascicai,-“ma so anche che, se mi avessi detto la verità non ti avrei mai creduto e forse sarebbe stato davvero troppo tardi.”, valutai, conoscendo il mio –ex- lato scettico di guardare qualcosa che fosse lontana dalla realtà. Mi sporsi verso William e gli afferrai una mano, quasi senza pensarci. Lui parve sorpreso del mio gesto e mi guardò dolcemente, quasi imbarazzato dalla mia espressione di gratitudine.
“Devo ringraziarti, Will. Il tuo dono mi ha salvato la vita, e nemmeno mi conoscevi. Davvero, grazie. Non so che altro aggiungere, probabilmente realizzerò domani.”
Sorrise, e i suoi occhi liquidi divennero come cristallo, un frangente di mare cristallizzato.
-“Come avrei potuto vivere ignorando la tua sorte? Se così avessi fatto, oggi sarei in Francia a snocciolarmi nel dolore e nel senso di colpa che mi avrebbe accompagnato per l’intera mia esistenza, Emily”, rispose prontamente.
-“E’ la prima volta che ti capita di sognare cose che poi accadono sul serio?”, chiesi, mentre un potente tuono ci saturò le orecchie. Lui corrugò la fronte e annuì titubante.
-“O almeno da ciò che ricordo sì, è la prima volta. Mia madre, poi – come se non fossi abbastanza angosciato dalla situazione-, non mi ha dato molto credito.”
Sobbalzai sulla panca di legno, come se qualcuno mi avesse lanciato un pungo nel centro dello stomaco. Oddio, pensai sorpresa: sua madre era a conoscenza di tutto questo.
-“Più gli parlavo di questa storia e meno mi ascoltava. Infatti, ultimamente litigavamo solo, e mi ha intimato che, -se mai mi fossi intromesso in questa situazione immaginaria-, mi avrebbe cacciato dal collegio. Ho dovuto fare tutto da solo”, mi spiegò, lisciando la mia mano improvvisamente congelata.
Stavolta fui io a confondere i miei pensieri e i miei occhi nella pioggia al di fuori della finestra, tornandomi in mente la sua reazione a dir poco incredibile in tutto quel caos. I suoi occhi indifferenti, la sua mancanza di paura... il fatto che era emersa dalla quarta fila un istante prima del terremoto. Trasalii e William mi fece voltare verso di sé, domandandomi.
-“Va tutto bene?”
-“S-s-si. Mi gira solamente la testa”, sussurrai, ancora con il viso di lei impresso nella mente.
-“Sono tutti di là”, mi informò improvvisamente, volendo intuire i miei mormorii interiori.
-“Non voglio rimanere a cantare, William.”
-“Ti porterò via, al collegio. Ci inventeremo che non ti senti molto bene, che sei spossata.”, mi suggerì, con una luce nuova sul volto finalmente tranquillo. Non era più remoto, lontano, ostile; e la paura che avvertivo riguardo la sua persona era svanita non appena mi rivolse quel benedetto sorriso e quella maledetta spiegazione. Io annuii con la testa che poi, dovevo ammetterlo, ero assai scossa e infiacchita.
Ma ora c’era dell’altro che in realtà mi premeva: alla luce di questi chiarimenti, di queste rivelazioni incredibili... lui cosa avrebbe fatto? Il nostro rapporto sarebbe evoluto, ora? Sì, adesso che sapevo di provare un’attrazione per lui? Sarebbe tornato ad aiutare il signor Murfy con le manutenzioni, il giardino e tutto il resto?
Lo speravo con tutto il cuore e, mentre esaudivo la mia preghiera silenziosa, mi sorpresi ad accarezzargli la mano. Lui mi guardava stupito, con un velo malizioso sul bel volto, inclinando leggermente il capo mi invitò a parlare.
-“Stai per dire qualcosa.” La sua voce era un sussurro cauto, talmente debole che si mischiò con le voci lontane del coro. Quelle che avevo dimenticato ma che erano rimaste come sottofondo fin dal mio risveglio.
-“Volevo chiederti se tornerai a lavorare per Simus”, soffiai, diretta e speranzosa. Oltre i chiari e scomposti capelli che gli coprivano la fronte notai le sue sopracciglia arcuarsi, meravigliato.
-“E’ una cosa a cui non avevo pensato, adesso.”
-“Torna”, lo incoraggiai tentando di persuaderlo,-“non c’è più nulla da temere. Il tuo dono è al sicuro con me.”
Si morse per un breve istante il labbro inferiore, poi guardò le nostre mani intrecciate e, evidentemente, fu attraversato da qualche pensiero che lo turbò perché, quando ritornò con lo sguardo su di me, i suoi occhi erano in tempesta.
-“Tu lo vorresti?” Ora la sua voce pareva assumere una nuova sfumatura che mi informicolì la pelle.
-“Mi farebbe molto piacere. Sì, lo vorrei.”
A quel punto si alzò, abbandonando dolcemente la mia mano. Dunque lo imitai e mi parai di fronte a lui, proprio nel momento in cui cessarono le voci e le lontane melodie. Leggevo nella sua espressione che stesse valutando la mia proposta ma, quando si decise ad aprir bocca le sue parole mi spiazzarono:
“Tornerò, a meno che tu non stringa un patto con me.”
Confusa e con la fronte corrugata all’inverosimile balbettai qualcosa prima di rispondere sul serio. Il corridoio pareva stringersi intorno a noi, tutto, sembrava così improvvisamente ingombrante. -“In che senso? Non capisco.”
Lui sospirò, un po’ meno quieto di prima.
-“Un patto. Una promessa. Io tornerò in collegio ma ti chiedo, ti supplico, di non farmi più domande.”
Rimasi fissa nei suoi occhi, perdendomi in quel blu e in quel castano infuocato. Non avevo ancora capito, non riuscivo a comprendere a cosa si riferisse; forse a ciò che mi ha detto fin ora. Non voleva pressioni da parte mia sull’accaduto perché già era difficile per lui conviverci. Già, doveva essere così.
-“Va bene. Te lo prometto”, acconsentii senza rimuginarci ulteriormente. Lui fece cenno che aveva capito con la testa e un nuovo lampo illuminò l’intera stanza. Cielo, se era più magro dall’ultima volta: le sue guance erano leggermente scavate, i suoi zigomi tondi ancor più sporgenti e, il dettaglio che lo rendeva ultraterreno, erano quelle marcate linee violacee sotto i suoi occhi. C’era di positivo che, nonostante lo vedessi più gracile, il suo corpo era sempre impeccabilmente perfetto oltre quei vestiti scuri.
-“Forse è meglio avvisare che ti sei ripresa. La professoressa Belfiore e le tue amiche (in particolar modo) sembravano dovessero stramazzare al suolo dalla paura.”
-“Oh cielo! Devo and...”, esclamai e fu proprio in quel mentre che le labbra di William toccarono per la prima volta la mia fronte. Ci rimasero teneramente per una bella manciata di secondi, scanditi intensamente dal battito impazzito del mio cuore che, nella mia cassa toracica, pompava come un ossesso. Un leggero schiocco mi avvisò che si fossero staccate, e fui investita dall’odore fresco del suo respiro e dalla sua risatina. Lo guardai, non sapendo con quale sguardo lo stessi facendo.
Era la prima volta che si concedeva un contatto del genere con me. Era la prima volta, davvero, che desideravo non doverlo lasciare. Sorrisi imbarazzata di fronte alla sua schiera di denti.
-“Andiamo, ti faccio strada.”, si offrì, conducendomi sottobraccio nella realtà che aspettava solamente il mio ritorno.


Arrancai controvoglia in mezzo a quel muro di folla che si era andato a formare non appena dalle labbra di Will uscì un flebile e roco “Ehi, siamo qui.” Controvoglia perché mi ero talmente abituata a quella strana intimità che ci aveva avvolto, - così strana che attutì l’impatto delle sue parole sulla mia mente razionale all’erta-, che staccarmene mi recava quasi un fastidio fisico. Intorno a noi si era creato un cerchio di bocche petulanti e squittenti che non ci permettevano nemmeno di controbattere o rispondere alle loro domande. Sentivo le mani di Jamie intorno alla nuca e le braccia di Nicole che avvolgevano saldamente i miei fianchi; nel frattempo in cui cercavo di liberarmi dalle due, i miei occhi ne incontrarono un altro paio. Avrei sfidato chiunque a dirmi di non ritrovarsi agghiacciato e impaurito di fronte a quello sguardo ostile. Oh, molto più che ostile... ma non possedevo la capacità necessaria per trovare un aggettivo adeguato a descrivere lo sguardo iracondo della preside Jennifer Delacour. Smisi addirittura di divincolarmi perché, proprio come era successo un istante prima, nel guardarla, sentivo cedermi le forze. E questa cosa non mi piaceva per niente. -“Ragazze, per favore lasciate respirare la vostra amica”, le pregò dolcemente la professoressa Belfiore che, senza rendermene conto, mi era piombata di fronte, e ora cercava di tirarmele via -“o non vorrete che si senta male come le altre vostre compagne che sono andate all’ospedale. Cielo, gioia, come ti senti?”, mi domandò accarezzandomi il mento.
-“Non molto bene.” Non sapevo nemmeno più se fosse una bugia o meno, la mia risposta.
-“Naturalmente Emily si sente spossata, prima le girava la testa e sembrava dovesse rimettere da un momento o l’altro. Si è appena ripresa, io la porterei al collegio in fretta. Lo shock è stato molto più forte per lei che per le altre”, si intromise William e il suo tono di voce era come il suo sguardo: persuasivo. Tant’è che mentre parlava la Belfiore non faceva altro che annuire. Peccato solo che William non si stesse riferendo a lei ma a sua madre. Lei si avvicinò a noi, con calcolata lentezza, e dall’alto ci scrutò con la sua solita espressione immutabile.
-“Portala via.”, dichiarò lapidaria, e strabuzzai gli occhi nel sentire il suo tono leggermente arrendevole. Un tono che contrastava fortemente con la volontà che le si leggeva negli occhi. Tornò a fissarmi, a tuffarsi nella mia anima con le iridi quasi bianche per quanto azzurre. Come se avesse risucchiato il bel tempo che c'era e lo avesse catturato negli occhi.
-“Sei stata fortunata.”, mi disse tra i denti, accennando un fugace sorrisino, ma non sembrava particolarmente contenta di questa constatazione. Preferiva forse che quella croce mi schiacciasse?
Io, in risposta, annuii con la testa e mi sforzai di ricambiare quel sorriso, seppur appena accennato. In quell’attimo mi chiesi dove fosse finita la donna stranamente serena con cui avevo scambiato due battute contate la sera prima; quale creatura alberga, di nuovo, nel suo corpo? O forse erano solo mie paranoie? La mano di William che si appoggiò sulla schiena mi fece distrarre e persi quei pensieri, lasciandoli correre via. Magari la Delacour era solamente spaventata; infondo era consapevole quanto me del dono del figlio, e ciò che aveva in qualche modo predetto era accaduto lasciandola di sasso. Letteralmente di sasso. E, sì, doveva essere così, è un dato di fatto più che comprensibile.
-“Andiamo?”, chiesi d’un tratto, con una punta di impazienza nella voce.
-“Sì, ti riporto al collegio così potrai tranquillizzarti.” William strizzò l’occhio destro e mi condusse fuori dalla chiesa, sotto gli occhi e i mormorii di tutti. Fui così lieta di poter rimettere il naso fuori da quel piccolo inferno che, quando sentii l’aria fresca di pioggia, mi passarono lunghi brividi sul collo e sulla schiena. Fortunatamente aveva smesso di piovere e raggiungere l’auto di William risultò facile. Era parcheggiata molto più in là di dove ci trovavamo; aprì la portiera e si precipitò nella sua postazione, io mi accoccolai sul sedile e constatai che lì dentro faceva freddo quanto fuori. Così mi sfregai le braccia per riscaldarmi.
-“Hai freddo?”, mi chiese, mettendo in moto.
Mi strinsi nelle spalle.
-“Perché tu non senti che qui dentro si gela?”
Non mi rispose ma accese il riscaldamento che in quel momento mi parve l’invenzione più utile e bella del mondo.
Passammo nelle vie centrali dove negozi, lampioni e passanti sfrecciavano veloci sotto i miei occhi. C’erano miriadi di persone ignare di tutto ciò a cui avevo assistito e di cui ero a conoscenza. Mi soffermai in particolare su una donna e suo figlio che attendevano lo scoccare del semaforo e mi chiesi quale sarebbe stata la loro reazione se fossero stati al mio posto. Se avessero, come me, assorbito la questione. Erano a pochi metri da noi e non potevamo immaginare che, vicino al mio fianco, c’era una persona con un dono incredibile. Forse il bambino lo avrebbe indicato con il ditino e avrebbe esclamato “ma allora sei un eroe!”; forse la madre avrebbe afferrato il suo piccolo e, lanciandogli un’occhiata stralunata sarebbe fuggita via, pensando a quanti pazzi possano esistere nel mondo. Chi può saperlo...
Mi voltai verso William e sussultai leggermente nel vederlo che mi scrutava divertito.
-“A che pensavi?”, mi domandò sorridendomi. Forse se lo immaginava senza che gli rispondessi.
-“Mi stavo figurando il modo in cui avrebbero reagito tutte le altre persone al mio posto.” William crucciò il labbro, come se stesse condividendo i miei stessi interrogativi in quell'istante.
-“Mmm. E come pensi avrebbero reagito?”, chiese dopo qualche secondo di apparente riflessione.
-“Beh”, mormorai aggiustandomi una ciocca di capelli umida dietro l’orecchio, -“qualcuno sano di mente sarebbe scappato urlando, terrorizzato dall’intera situazione. Ma si dia il caso che io non sia molto sana di mente perché altrimenti l’avrei fatto.”, proseguii cercando di trattenermi dal ridere, cosa che William non fece.
La sua risata era cristallina, divertita, pareva stesse sottovalutando la mia risposta e l’intera questione. O dissimulando.
-“Allora Emily”, disse smettendo poco a poco di ridere, -“potresti farlo ora che stiamo fermi. Esci dalla macchina e scappa urlando.”, sghignazzò, facendosi beffa del mio fare indifeso e ingenuo. Ora, invece, fui io a ridere scuotendo il capo.
-“No, grazie. Tutto ciò che voglio è tornare nella mia stanza.”
E che tu rimanga una volta per tutte. Ma quest’ultimo pensiero lo tenni per me.
Stavo per aggiungere dell'altro, una battuta, tanto per non fargli intendere il mio pensiero che, lo sentivo, si era manifestato sul mio volto; quando dietro di me - ero rivolta con le spalle al finestrino tirato su- sentii dei forti colpetti che mi fecero voltare di scatto. Ora non so bene che giro abbia fatto per trovarsi di nuovo a faccia a faccia con me, ma c'era solamente uno strato di vetro a dividermi dalla zingara. Prima che William potesse abbassare il finestrino afferrai prontamente il suo braccio sussurrando un "no"; benché fosse di cattiva educazione non avrei permesso ancora a quella donna di terrorizzarmi.
-"Non voglio ascoltare nient'altro", obiettai dandole deliberatamente le spalle,-"non permetterò ancora che le sue parole divengano profezia!"
William mi guardò con l'espressione di chi non ha capito il senso delle parole della persona con cui sta comunicando, ma nonostante quella leggera titubanza accontentò la mia supplica. Percepii chiaramente parole gracchiate e le preghiere che recitava fuori dal finestrino ma mi intimai interiormente di far finta di nulla, di cantare -addirittura- mentalmente qualche motivetto nascosto nei meandri della mia memoria. L'unica melodia era quella di "Last Christmas" di George Michael. Proprio in tema con il periodo.
-"Cosa vuole da te? Sembra smaniosa di parlarti. Ma la conosci questa donna?", mi domandò dopo un breve istante. Scossi piano la testa spiandola con la coda dell'occhio, poi ritornai con l'attenzione verso il mio interlocutore.
-"No, che non la conosco. Ma questa mattina mi ha fermata all'entrata della chiesa e mi ha...", deglutii, -"mi ha avvisata su ciò a cui andavo incontro."
-"Della croce?" Sembrava incredulo, per non dire scosso che qualcuno oltre a lui sapesse.
Io alzai le spalle e proseguii.
-"Veramente no, cioè mi ha riferito che la mia linea della vita è corta. E che mi stava per succedere qualcosa di brutto. Poi sono entrata in chiesa."
Il semaforo scattò.
Partimmo e lasciammo la pover donna indietro, in mezzo alla strada ancora intenta a fissare noi che ci allontanavamo dalla città. Sentimmo lo schiamazzare dei clacson che le ordinavano di togliersi d'impaccio. William tirò un lungo sospiro.
-"Su questo non so cosa dirti."
-"Riguardo a cosa?", domandai, riprendendo una posa più aggraziata.
-"Alla tua linea della vita", replicò, scoccando un'occhiata fin troppo seria alle mie mani intrecciate. Stiracchiai un risolino insolito, lo ammetto, ma William non poteva prender in considerazione quell'assurdità. Seppur mi provocasse terrore pensarci.
-"Non devi dirmi niente, riguardo questo. E' una sciocchezza..."
-"Però ti ha avvertito che ti stava per accadere qualcosa di brutto, e si è avverato o no?" Si voltò per poco verso di me, penetrandomi con lo sguardo. Borbottai guardandolo di sbieco. -"Coincidenze. Mi ha detto così per via della mia linea troppo corta, doveva per forza dire che mi stava per accadere qualcosa di tragico. Mi segui?"
Lui annuì.
-"Per cui possiamo anche non parlarne", chiarii, smaniosa di gettarmi quella storiella alle spalle. Fandonie!
-"Però ne sei terrorizzata", rise.
Pochi minuti dopo eravamo già all'entrata del collegio. Il silenzio che regnava era ancora più innaturale e spettrale di quanto non lo fosse di consuetudine; ma l'unica cosa che mi premeva era essere giunta a destinazione e William. Forse lui più di tutto. Scendemmo dalla macchina contemporaneamente e lo affiancai, quasi, come se inconsciamente fossi impaurita dal fatto che potesse scomparire sotto i miei stessi occhi. Mi accennò un sorriso e mi invitò a proseguire verso l'entrata quando, in lontananza, scorgemmo una figura tarchiata agitare un braccio verso di noi. -"E' Simus", mi informò William, scrutandolo per meno di un secondo. Arrischiai la vista e potei confermare che era proprio lui, il signor Murfy, armato di tubo verde in spalla e una cassetta rossa degli gli attrezzi in mano. Ci raggiunse ansimando, offrendoci un'occhiata assai stralunata.
-"E voi? Che ci fate qui? Soprattutto tu", mi puntò il dito contro, ma il suo tono di voce non era affatto intimidatorio come potevano sembrare le sue parole.
-"Ho dovuto riportare Emily in collegio, Simus, perché dopo la forte scossa si è sentita poco bene. Credo che per oggi abbia rischiato molto e mi sembrava opportuno accompagnarla nell'istituto prima del rientro ufficiale.", proferì William, anticipando, come al solito, il mio intervento. Io confermai il tutto annuendo con veemenza.
-"Scossa? Di quale scossa parlate?", sputò Simus, guardandoci con occhi smarriti. Ci scambiammo la medesima occhiata io e William: era del tutto impossibile che il terremoto non si fosse sentito anche al collegio. Lui doveva per forza aver percepito almeno l'eco di quell'inferno che si era sprigionato in pochi secondi. O forse, per assurdo, quell'istituto spettrale era immune a catastrofi, agenti atmosferici o quant'altro? Se qualcuno fosse venuto in quell'istante a confermarmelo non gli avrei riso in faccia, tutt'altro, avrei incassato e portato a casa. Quel giorno avrei creduto anche agli asini volanti.
-"Il terremoto. E' durato pochi secondi ma è stato piuttosto forte."
-"Ma di cosa state parlando?", continuò l'altro, incredulo, e prese ad animarsi, -"qui non si è sentito proprio un bel niente. Sono stato a tagliare l'erba per tutto il tempo e ho parlato con la signora addetta alla cucina per mezz'ora, ma vi dico, e vi assicuro, che di scosse non se ne è parlato."
-"E' quasi impossibile", obiettai, mettendomi a braccia conserte per via del freddo. L'aria era tagliente nel vero senso della parola; sentivo come se qualcuno mi stesse affondando mille artigli nelle parti nude del corpo.
-"Direi impossibile sotto ogni punto di vista", caricò William, contrito.
Simus srotolò il tubo che aveva saldo in spalla e cominciò a bofonchiare qualcosa di incomprensibile anche a noi che eravamo a pochi centimetri da lui; scuotendo la testa si congedò:
-"Meglio che continui a lavorare, o rimarrei a pensare a quanto la vecchiaia incomba sulla mia povera schiena. Ragazzi."
Sorridemmo.
-"A presto."
Fece per voltarsi ma poi, fulmineo, ci impedì di incamminarci puntando nuovamente il dito verso nella nostra direzione.
-"Un momento...", mugugnò, e i suoi occhi danzarono su noi due.
-"Tu, William, non dovresti essere sull'aereo per la Francia?", chiese.
-"Oh, Simus. La mia presenza è per caso sgradita? Ho cambiato idea e ho deciso di rimanere ad aiutarla e a stare in compagnia di mia madre ancora per un altro po' di tempo", si sbrigò subito a rispondere l'altro che mi lanciò la stessa occhiatina complice di poco prima. Io, lieta di aver sentito quella risposta e, in un certo qual senso sollevata per la conferma della sua parola, ricambiai l'occhiata e sfoggiai un sorriso sornione.
Simus volse le mani in cielo.
-"Presenza sgradita? Altre due braccia belle forte ad aiutarmi, beh, non sono affatto sgradite, ragazzo!" Felici di aver rallegrato la giornata del signor Murfy, entrammo subito nel collegio. Era a dir poco spettrale, nonostante la luce riuscisse a filtrare dalle finestre; il silenzio provocato dall'assenza della vita riusciva a far echeggiare l'eco dei nostri respiri. Senza troppi indugi e senza che William mi lasciasse protestare mi fece nuovamente infrangere la regola che nessuna persona -eccetto i qualificati a farlo- entrasse in cucina.
"E' un caso particolare, rispetto al primo. E poi non c'è nessuno e non penso che tu sia così importante da far spifferare dalle cuoche questa piccola infrazione", aveva detto stringendomi amichevolmente la spalla. Aveva ragione, anche stavolta. Così non mi restava altro che seguirlo e, proprio come pensavo, non trovammo la cucina deserta come la prima volta. C'erano le cuoche (facce mai viste prima d'ora) impegnate in impasti, miscele e pentole, quasi non si accorsero della nostra presenza se non fosse stato per l'urto che provocai con un servizio di pentole appigliate alla credenza. Le tre cuoche si voltarono di scatto e una, paonazza in volto per via del vapore in cui era immersa, sgranò gli occhi nel vederci.
-"E voi? che cosa state facendo qui? Non sapete che è severamente vietato metter piede in cucina? Stiamo lavorando, non ci stiamo divertendo", ci sgridò venendoci incontro.
-"Sono William Delacour, figlio di Jennifer Delacour", spiegò William, con una calma invidiabile. Le due cuoche rimaste ai fornelli accennarono un sorriso beffardo sotto i baffi, quasi fossero contente che la loro collega si sia "avventata" contro il figlio della preside.
-"Oh", fece questa, improvvisamente senza favella. Per camuffare un sorriso mi grattai il labbro.
-"Spiacente. Deduco sia successo qualcosa?", riprese a farfugliare pulendosi frettolosamente le mani sul grembiule immacolato. Così ci ritrovammo a dover spiegare l'accaduto e, al suono della parola "terremoto" ci fu uno sbalordimento collettivo.
-"Ma quale terremoto?", sbottò un'altra cuoca, la più anziana, -"non si è avvertito qui. Non riesco a capacitarmi di come sia possibile!"
-"Infatti. Eppure non è stata una scossa leggera", ricordai, stringendomi nelle spalle. Le cuoche mi guardarono con occhi colmi di affetto e mi diedero subito un bicchiere d'acqua.
-"Intanto bevi. Possiamo passarti un pezzo di pane con olio e sale, così ti riprendi... povera piccola."
-"Grazie, siete molto gentili", sospirai con lo stomaco in festa, pronto per digerire qualcosa di commestibile.
Tutto ciò che è accaduto dopo, nel mio racconto, è di poca rilevanza: mangiai, mi ripresi, sorrisi e stetti costantemente al fianco di William. Stando in sua compagnia era come se lo spavento - ed è un eufemismo- fosse solo un lontano e remoto cruccio. Nonostante questo, la quiete fu destinata a infrangersi con l'arrivo improvviso di sua madre. Anche a debita distanza mi accorsi perfettamente dei solchi sul terriccio che provocò il suo passaggio svelto e, a suo modo, agitato. Ci venne incontro senza affanno, senza sudore e si rivolse immediatamente a suo figlio che, tra l'altro, era sorpreso quanto me di quel ritorno a sorpresa. Prima che parlasse udii il brusio delle altre marciare sui passi della preside.
-"William devo parlarti. Potresti seguirmi nel mio ufficio, per favore?", esordì con voce di chi non concederebbe una risposta diversa da quella sottointesa dal suo sguardo. Lui non rispose, non fece nessun cenno; si limitò a staccare le spalle dal muro, lanciarmi un occhiata d'intendimento e scomparire all'interno. Lo seguii con lo sguardo avvertendo una strana sensazione crescere e avvolgersi intorno al mio cuore: avevo paura. Avevo una terribile paura di non vederlo più uscire da quella porta; che sua madre lo avrebbe immediatamente spedito via, in Francia. Deglutii rumorosamente ma Jennifer Delacour non mi concesse ancora nessuno sguardo quando, anche lei, scomparve in quelle mura.
-"Oh, Emily!" Il grido liberatorio di Jamie mi fece distogliere da quei pensieri e, con un battito di ciglia, mi ritrovai nuovamente al collo le sue braccia.
-"Sono stata in pensiero per te, fino adesso!", continuò a gridare anche se mi aveva stretta a sé, -"ho avuto tanta paura. Non ho mai provato una cosa del genere in vita mia!", proseguì stringendomi con più forza.
-"Jamie, anch'io. Ma ti prego non respiro", gracchiai con la gola, credendo che quella potesse essere la mia fine. Lei si staccò immediatamente e tirò sul col naso, sfoderandomi un sorriso tranquillo. -"E' stata così per tutto questo tempo, anche noi eravamo agitate", aggiunse Nicole; in un attimo fui nuovamente circondata da mezzo collegio. Continuavo a rispondere meccanicamente alle loro domande, che stavo bene, che non so per quale motivo non riuscivo a muovermi, a scappare, e che avevo urlato con tutto il fiato che possedevo nei polmoni. Mi parlavano, toccavano, abbracciavano. Anche ragazze che non avevo mai visto prima d'allora eppure, convinte di avermi lì di fronte, in realtà non era così: la mia testa era altrove, non con loro. Alzai il capo verso il quarto piano, indirizzando l'attenzione alle ombre che potevo scorgere dalla finestra a quella distanza, ma tutto ciò che vidi era il sole che stava scomparendo.






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Ciao a tutti! Per prima cosa volevo ringraziare le persone che hanno messo la mia storia tra le preferite e le seguite, a chi ha commentato e chi continua a seguirla.
Questo capitolo è lunghissimo, lo so, infatti è l'unione di ben due capitoli e ho deciso di fonderli per entrare nel vivo della storia senza aspettare troppo. Che altro dire? Mi piacerebbe ricevere un vostro commento, uno scambio di giudizi, per me è molto importante! Un bacione! <3

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Capitolo 5
*** Quinto capitolo ***


Quinto Capitolo









Non penso avrei dovuto farlo. Ma i miei passi avevano premeditato e annientato ogni mia singola volontà di protestare all'azione che compii: con il cuore a mille appoggiai l'orecchio sul duro del legno dello studio Delacour. Sentivo le voci attutite dei due parlare e, talvolta, sussurrare tra i denti. Specialmente lei. La sua voce era in tempesta, stridula e prepotente. Il silenzio di William, invece, mi contorceva lo stomaco. Poi, in un attimo, lo sentii mormorare qualcosa che non udii ma che rimbeccò un secondo dopo con maggior enfasi.
-"COSA AVREI DOVUTO FARE?!" Gridava come un ossesso, adesso. Rabbrividii e per un attimo mi ritornò in mente il suo viso d'ombra nella cripta.
Fulmineo. Disarmante. Pericoloso.
Bellissimo.
-"NON SARESTI DOVUTO VENIRE! NON DOVRESTI ESPORTI IN QUESTA MANIERA!"
E poi il nulla se non un mio dannatissimo -maledettissimo- movimento che fece schiudere la porta cigolante. Mi ritrassi più in là, accucciandomi e coprendomi il volto con i capelli come se ciò bastasse a farmi scomparire. Oh, lo desideravo da morire in quel momento ma, comunque sia, non sarebbe stato necessario perché i due erano troppo offuscati dalla collera per badare alla mia stupidità. Mi ravvicinai con altrettanta stupidità e intravidi le spalle di lui.
-"Mi stai creando dei problemi. Tu, la tua presenza siete un enorme peso per me! William, desidero che tu torni Francia: non puoi rimanere qui! Non concepisci nemmeno lontanamente quanto la tua presenza possa condurre qualcuno dove non deve arrivare? Dopo oggi… non posso badare a te, in questo momento della mia vita. Vattene in Francia!"
Mi raggelai e soffocai un sibilo di contestazione al suono di quella minaccia indiretta a me. Ma non affiancai un significato a tutte le parole ascoltate, poiché in un primo momento non ci diedi il peso necessario. -"Non posso", si ritrovò a controbattere Will, duro. Qualcosa di pesante colpì la scrivania e il mio cuore.
-"Nemmeno se ti dicessi che il tuo volto mi provoca dolore, che la tua somiglianza con tuo… no, non voglio nemmeno che tu intrattenga altre conversazioni con quella ragazza. Soprattutto dopo l’accaduto. Devi starle lontano!”
-"Quella ragazza ha un nome: Emily. E mio padre è diventato un lontano ricordo; quello che dovrebbe essere per te, madre. Lui non tornerà mai! Ma perché ti ostini a parlare di papà come se un giorno potesse rispuntar fuori da chissà dove!?", disse, con una voce nuova e agitata sull'ultima parte della frase. A quel punto il mio coraggio si spinse all'apice e mi ritrovai maggiormente accucciata, cercando di osservare l'espressione di sua madre a quelle parole.
E la vidi.
In un primo momento mi rifiutai di credere che quella fosse proprio Jennifer Delacour. Facendo capolino non trovai quei tratti eleganti, apparentemente estraniati da ogni qualsivoglia forma di emozione ma, -davvero-, mi parve d'aver dinanzi una fiera imbestialita: gli occhi chiusi in due fessure di rabbia; le labbra arricciate in modo innaturale e due canini lunghi e terribilmente affilati per qualsiasi essere vivente. Non mi sorpresi di sentir i miei muscoli facciali paralizzati dalla paura che mi provocò quell'immagine insolita e inaspettata; ancor di più il gorgogliante suono che stava crescendo nella sua gola facendole vibrare le corde vocali come si fa con i fili d'un violino.
-"Devi stare lontano da lei", disse a parole soffocate e gravi, -"devi andartene immediatamente."
-"Quello che voglio è vivere al tuo fianco. Io resto qui."
La madre, di fronte alla calma spaventosa di suo figlio sgranò gli occhi e fu allora che scappai via non volendo approfondire quei discorsi. I suoi occhi ero iniettati di un rosso vivo e fiammeggiante che non mi fecero rimaner a riflettere se rimanere in ascolto o meno.
Muovendomi di scatto, con il cuore in gola, mi scontrai con qualcuno che non vidi arrivare. Rovinai a terra strillando, abbastanza da catturare l’attenzione di William che, con la coda dell’occhio, vidi la sua testa girarsi nella mia direzione; mentre vicino ai miei piedi ne comparvero altri due: quelli di Nicole.
Troneggiava su di me e mi scrutava con un’espressione che oscillava tra il divertito e l’allarmato, a differenza mia che sentivo gli occhi lucidarsi dallo spavento.
-"Ti stavo cercando", disse, corrugando la fronte e offrendomi la mano per issarmi.
-"Cosa sta succedendo qui?" La Delacour venne fuori come una furia (quale era, in effetti) spalancando completamente la porta. I miei occhi oltrepassarono le sue larghe spalle e si persero in quelli tristi e altrettanto rossi di William. Era un volto meravigliosamente struggente, il suo.
-"Allora? Sto aspettando una spiegazione!", grugnì ancora.
-"Stavamo andando in camera ma ci siamo scontrate per il corridoio. Ci scusi", farfugliò Nicole, senza fissarla realmente negli occhi.
Prima ancora che ci rimproverasse - o sbranasse- William le posò una mano sulla spalla, facendola voltare di colpo.
-"Calmati, adesso. Loro non centrano nulla. Basta così, mamma."
Jennifer fece scivolare il suo sguardo offuscato di sentimenti verso di me e mi rispecchiai nei suoi occhi carichi di odio ed insani. Un brivido mi percorse e cercai di scacciare l’immagine di me, pallida e impaurita, che vi trovai.
Con un gesto rapido ci diede le spalle e, senza proferire parola, tornò nel suo ufficio chiudendo la porta; sentimmo la chiave girare diverse volte nella serratura. Si era rifugiata nelle mura del suo ufficio, estraniandosi da tutto il resto, lasciando William escluso.
-"Andate in camera", ci consigliò lui con un filo di voce, probabilmente era esasperato.
-"Okay, andiamo Emily." Nicole raccolse la palla al balzo e mi fece cenno di seguirla; già aveva svoltato l'angolo. Dunque mi girai in direzione di William.
Come mi aspettavo, aveva un volto stanco, gli angoli della bocca all’ingiù che gli conferivano un’aria tormentata e le sue spalle, di solito dritte e rigide erano crollate, mogie, come se stessero sopportando una grossa pressione.
-"Hai origliato?", mi domandò inaspettatamente; cercai di non fargli intendere il mio sgomento per quella domanda.
-"E' stato un caso, ma sì."
Rise e parve uno sbuffo trattenuto, nervoso.
-"Non volevo, davvero. Io…"
-"Non fa niente. Ma la prossima volta non farlo. Non mi piace che qualcuno senta i discorsi miei e di mia madre.", m’interruppe, categorico.
-"Ti chiedo scusa. Non accadrà più.". Ero così mortificata che mi sentii piccola piccola. Un imbarazzo mai sperimentato in vita mia.
-"Cosa hai sentito?"
-"Non vuole che tu rimanga qui. E non voglio che tu te ne vada via!"
E tanti saluti alla vergogna, a questo punto! Doveva rimanere; non volevo rinunciare alla sensazione di vita che mi trasmetteva e che solo ora riconoscevo ed ammettevo.
-"Non me ne andrò, anche a costo di fronteggiarla ogni giorno. Emily, se la mia intenzione era andarmene via lo avrei fatto senza troppe spiegazioni... ma ho aspettato che ti risvegliassi", fece una breve pausa per inumidirsi le labbra, gesto che mi fece arrossire e chinare il capo,-"il fatto è che io voglio stare assieme a te con la stessa intensità con cui mia madre mi ha intimato il contrario." Tirai su la testa di scatto, sentendo gli occhi spalancarsi dalla franchezza di quelle parole. Mi prese la mano e mi baciò il palmo.
Mi si smorzò il fiato per un secondo.
-"Lei mi odia. L'ho visto nel suo sguardo e l'ho sempre pensato. Non è normale il modo in cui mi guarda."
-"Non vuole che io stringa un'amicizia con nessuna di voi, nel collegio. A prescindere da te", cercò di tranquillizzarmi ma un acuto pensiero doveva aver fronteggiato quelle sue parole perché dopo aggiunse:
-"C'è qualcosa che io non so? Ti ha fatto del male? Certe volte mia madre è come vittima della sua stessa severità, ma non devi temerla. E se lei ti turberà in qualche modo sai dove trovarmi. Io d'ora in poi ci sarò sempre per te. Ho creduto di perderti una volta per tutte in quella stanza più che in chiesa ed è stata una sensazione che non desidero ripetere. Emily mi sento legato a te."
Feci per rispondere, quando vidi il suo viso avvicinarsi pericolosamente al mio. Ogni mia cellula scattò sull'attenti e sentii mille spilli inferociti e in festa nel cuore ma... tornò Nicole.
-"Emily, cosa stai facendo? Vuoi farti esp... oh."
William lasciò la presa e tirò un lungo sospiro, adombrandosi. Io cercai di ritrovare la salivazione.
-"Se vuoi ti aspetto in camera, oppure, non so... posso... ecco... io." Nicole era in preda al panico, paonazza quanto me.
-"Stavo per andarmene, Nicole, tranquilla. Ti lascio Emily: assicurati che a pranzo mangi tutto e che si faccia una doccia. Una giornata come questa non si dimentica con uno schiocco di dita e deve iniziare a scrollarsela di dosso." Sorrise nel pronunciare quelle parole, poi mi oltrepassò e sentii la sua mano sfiorare furtivamente la mia.
-"Scusa." Nicole si volse a guardarlo, proprio mentre lui l'aveva superata arrivando a scendere il primo scalino. Aggrottò le sopracciglia e poi le offrì un ampio sorriso, che però morì prima di raggiungere gli occhi. E scomparve dal nostro campo visivo.
-"Nic", mi condussi accanto a lei, -"perché gli hai chiesto scusa?", domandai credendo di essermi persa un passaggio. Lei si cinse nelle spalle, dicendomi:
-"Non so... mi ha guardato con una tale espressione che scusarsi mi sembrava d'obbligo."
Il resto della giornata trascorse nel modo più normale e scombussolato possibile. Subito dopo pranzo fui vittima dei richiami del mio fedele amico Morfeo, ai quali potevo resistere per poco. Nel tempo libero cercai William ma non lo trovai né all'interno del collegio né in giardino; Simus, poi, mi informò che lui gli aveva riferito che sarebbe tornato l'indomani. Da un certo punto di vista fui felice, visto che in sua presenza volevo apparire al meglio e non rintronata dalla stanchezza come lo ero in quel momento. Così ne approfittai per sdraiarmi sul letto e, senza rimuginare come mio solito prima di addormentarmi, caddi in un sonno senza sogni.
Riaprii gli occhi giusto in tempo per la cena e una doccia . La giornata doveva esser stata dura per la maggior parte delle collegiali perché verso le nove e mezzo di sera solo io ero ancora in piedi. C'era talmente tanto vento, quella sera, che i vetri delle finestre del bagno tremavano come se fuori ci fosse qualcuno intento a bussare. Aprii il vetro della doccia e con un gesto secco cominciai a far scorrere l'acqua calda; mi tolsi la divisa poggiandola su una sedia lì vicino e, con mani tremanti per via dell’aria gelida, sbottonai la camicetta bianca. Fu proprio in quel momento che con la coda dell'occhio vidi un'ombra dietro le mie spalle, voltandomi di scatto soffocai un gemito di paura e sorpresa.
-"Non riesco a dormire", mormorò Nicole avvolta in una coperta di lana blu, tutta sfilacciata. Annuii.
-"Così hai deciso di farmi prendere un infarto, come se la giornata trascorsa fosse stata normale. Assolutamente normale", borbottai con un sorriso ironico. Molto ironico.
Nicole non rise, - ma dal suo sguardo intuii che aveva compreso le mie parole-, e abbassò lo sguardo crucciandosi.
-"Che hai?", le domandai mettendole una mano sulla spalla; mi guardò negli occhi.
-"E' tutto il giorno che penso ad una cosa ma, in tutta onestà Emily, non so se parlartene..."
-"Beh..", risposi,-"ora hai lanciato il sasso e non puoi nascondere la mano. Dimmi", insistetti seppur stessi congelando poco a poco.
Nicole si morse il labbro in una maniera tale che quando prese a parlare vidi i segni dei denti su quello inferiore.
-"Si tratta di ciò che è accaduto oggi in chiesa", confessò, avvolgendosi ancor di più nella lunga coperta. Io sospirai, amareggiata che si trattasse di quell'argomento: volevo rimuovere quel ricordo il prima possibile, seppur l'eco dell'adrenalina provata fosse ancora in circolo in me.
-"Lo so, Nic. Abbiamo tutti avuto paura ma è passato. Non pensarci."
-"Non è questo il punto!", esclamò, caricandosi un po',-"non hai notato nulla di strano in quel posto?", mi incalzò avvicinandosi con occhi spalancati. Io rievocai mentalmente il dialogo tenuto da me e William nella cripta ma sapevo con assoluta certezza che Nicole ne fosse all'oscuro.
-"N-no cosa avrei dovuto notare?", balbettai ritraendomi.
Prese aria ai polmoni studiando il mio sguardo smarrito.
-"La presenza di William. Non ti è sembrata strana in questa circostanza? In fondo doveva esser in viaggio per la Francia o sbaglio? Non ti sembra strano che lui, in quel preciso istante, fosse proprio lì? E che sia rimasto a vegliare su di te?"
-"Nicole, credo che tu sia stanca..."
-"Emily!", mi rimbeccò, protestando,-"lui è sempre dietro di te! E' come se seguisse ogni tuo minimo spostamento e, se proprio devo essere sincera fino in fondo, a me non piace", sputò. Ci fu un attimo di silenzio, poi mi accorsi di aver stritolato abbastanza i lembi della mia camicetta e risposi con una domanda:
-"Per quale motivo?"
-"Non saprei spiegartelo: è più una sensazione. Sensazione dovuta al fatto che lui oggi, casualmente, si trovasse lì, come quando ti ha evitato di romperti l'osso del collo dalle scale. Quando eri sdraiata nel letto avevi un'espressione dolorante e io ho notato come lui fissava ogni tua smorfia e di come queste si riflettessero sul suo viso. Sono solo coincidenze? Non ne ho idea, ma voglio dirti di tenere gli occhi aperti." Non risposi. Il rumore del temporale era da cornice al nostro gioco di sguardi i quali sembravano voler aggiungere dell’altro; nel suo si rispecchiava chiaramente l’agitarsi del vento. Sospirai dandole le spalle, cercando di ignorare quel nodo nel petto appena formato.
-“Buonanotte.” Mi giunse la sua voce, smorzata dal vetro della doccia.
Anche in quel caso non risposi.



Avevo perso le speranze di dormire in modo sereno e tranquillo non appena apparve Nicole in bagno, avvolta in un alone cupo e paranoico color blu. Dopo tutto il giorno prima avevo sfiorato la morte in una maniera davvero incredibile; essa mi aveva inchiodata a terra e stava per schiacciarmi e risucchiare nell’altro mondo. Come potevo anche solo pensare di poter riposare?
Il sonno d’altronde non è che un regolare monito del riposo eterno e l’adrenalina di quel pensiero mi fece decidere di balzare giù dal letto.
Raggiunsi il bagno dove mi cambiai non riuscendo a capire se fossi riposata o meno. Oramai avevo confuso anche le due sensazioni. Scendendo le scale mi resi conto di quanto fosse dura ignorare le immagini e le parole del giorno prima ma, con una buona dose di diplomazia, riuscii ad offuscare almeno una parte di queste. L’unica immagine che non cercai minimamente di scostare dai miei occhi era quella di William. Il solo pensiero che se ne fosse andato infrangendo la nostra piccola promessa mi faceva avvertire un senso di vuoto indescrivibile. Perché mi sentivo così legata a lui? Proprio come se un sottilissimo filo invisibile ci tenesse in qualche modo uniti in questa pazza, pazza situazione. Proprio nel momento in cui feci per sedermi sul divano nel grande atrio percepii un odore inconfondibile. Il suo odore che, prontamente, anticipò il suo arrivo: mi bastò voltarmi per incontrare i suoi occhi.
-“Emily”, disse a mo’ di saluto, lo sguardo vagamente stranito. Molto probabilmente si chiedeva cosa facessi lì da sola.
-“William”, ricambiai,-“è mia abitudine svegliarmi presto da quando sono qui.”, mi giustificai facendo spallucce.
Lui annuì comprensivo.
-“E come ti senti?”
-“Direi bene dal momento che ho ancora una testa, due braccia, due gambe…”
L’atrio si riempì della sua risata cristallina.
-“Perché ieri non te ne eri accorta?”, chiese scherzoso, sfregandomi una mano sui capelli. Quel gesto così confidenziale mi mandò in pappa il cervello, ancor di più del quasi bacio del giorno precedente.
Quel involontario promemoria mi fece mozzare il fiato, anche se lui non parve accorgersi dello stato d’imbarazzo in cui ero appena caduta.
-“Oggi Simus mi ha caricato di faccende! Credo che io debba farmi perdonare dal momento che me ne sono andato via così, puff.”, mimò con le mani un qualcosa che esplode. Io compresi perfettamente. -“Siccome credo che debba farmi perdonare anche da te...”, e mi lanciò un’occhiatina carica di significato,-“sappi che puoi venirmi a trovare in qualsiasi momento della giornata. Non mi disturbi mai. Chiaro?” -“Chiarissimo. Ma come facciamo con tua madre sempre nei paraggi?” Quando pronunciai quelle parole mi venne come l’impressione di aver usato un tono troppo scortese o troppo alto. William scrollò le spalle come se la questione fosse solo un mio problema, e mi rispose sicuro:
-“Faremo particolarmente attenzione. E nel capannone di Simus è improbabile trovare mia madre quindi…”
Mi aveva convinta.
Per questo non faticai a rendermi conto di essere seduta sul trattore quasi rotto del signor Simus, nel bel mezzo dell’intervallo. Ero ben nascosta nel capanno degli attrezzi, girovagando tra tutti quegli oggetti che, ai miei occhi, apparivano assai complicati e indifferenti. William non c’era e non sapevo dove si trovasse; Simus era a potare le siepi a qualche passo da me ma non volevo uscire fuori per chiedergli dove si trovasse il suo assistente biondo per poi rischiare di essere vista da occhi impertinenti. Così mi misi a braccia conserte contro un mobiletto di legno impolverato, a ragionare per l’ennesima volta riguardo cosa mi stesse accadendo. C’era poco da ragionare, in verità. Ero vittima di uno sconvolgimento interiore: il mio cuore era sintonizzato su una frequenza che mi stordiva davvero e ciò mi spaventava e mi felicitava al tempo stesso, e con uguale intensità.
Mentre ancora riflettevo riguardo l’invasione di tutti quei sentimenti che William mi faceva provare, sentii dei passi arrestarsi al di fuori del capanno.
Mi drizzai, aggrappandomi in punta di piedi alla piccola finestrella.
William si stava togliendo un paio di guanti neri sporchi di erba, il viso infallibile rivolto verso il sole che lo illuminava. I capelli erano leggermente tirati indietro e scompigliati per via di quella maledetta umidità e del vento; le sopracciglia scure che si contraevano verso il centro della fronte proprio dove gli era spuntata una piccola ruchetta. E le sue labbra. Dio mio, le sue labbra… io mi morsi le mie e per poco non persi l’equilibrio perché, sì, quell’uomo, mi faceva impazzire. Era ufficiale e solo io potevo sapere come mi sentissi leggera nel poterlo ammettere, ora che lui era rimasto nella mia piccola ed infernale prigionia collegiale. Venne dentro e si tolse il giaccone; quando mi vide sobbalzò colto dalla sorpresa, e mi donò un sorriso di contentezza.
-“Emily! Da quanto sei qui?”
-“Abbastanza per capire che non sai mantenere le promesse. Io vengo a trovarti e tu non ci sei.” Feci il broncio, per gioco, per essere un po’ bambina, per stuzzicarlo a rispondere. Lui gettò la testa indietro e si passò entrambe le mani tra i capelli; il suo volto che non era più velato da ciuffi biondi ribelli, ma ben visibile, mi stordì.
-“Cara Emily ti ho detto che devo farmi perdonare da Simus, ho del lavoro da fare, sai?”, ridacchiò.
-“Se è per questo avevi promesso di farti perdonare anche da me…”. Il mio tono allusivo non fece mutare la sua espressione furbesca e divertita, anzi. Io presi a giocare con una rotella di non so cosa, faticando di guardarlo negli occhi per via della mia improvvisa iniziativa.
-“Giusto”, intese,-“anche tu hai le tue ragioni. Per questo ho da proporti un’uscita.”
La rotella volò letteralmente dalle mie mani e finì ai suoi piedi; la raccolse e prese a giocherellarci lui. Deglutii con una sensazione insolita al centro dello stomaco.
-“Per caso... sì, ecco, per caso sta per cadermi un vaso in testa?”
William stavolta rise anche se mi parve di vedere nel suo volto un ombra scura di disagio.
-“Ci siamo anche promessi di non parlare più di questa cosa.”, mi ricordò, un po’ più serio, un po’ più vicino. Sbuffai facendo spallucce.
-“Non è una cosa brutta salvare la vita di una persona. Secondo me dovresti parlare del tuo… chiamiamolo dono. E’ affascinante.”
-“Voglio portarti via, sabato.” Cambiò, senza troppi convenevoli, discorso, lasciandomi ammutolita ed interdetta.
-“Sabato pomeriggio. Io. Te. Londra.”
Avanzò ancora fino a toccare le punte delle mie scarpe con le sue; mi guardava di sottecchi con quel nuovo sorriso malizioso dipinto sul volto, come se sapesse di esercitare su di me una terribile attrazione. Tsè, era così tangibile.
-“Mia madre mi ha detto che partirà questo week-end. Forse torna in Francia –magari si deciderà una volta per tutte di riallacciare i contatti con Genevieve-, forse vuole semplicemente stare sola dopo quello che è successo. Non è affare mio. Tu sei affare mio, d’ora in poi.”
-“Chi è Genevieve?”, domandai.
-“E’ mia sorella. La mia lontana sorella che si trova a Parigi.”, mi spiegò e nella nota malinconica della sua voce capii quanto le mancasse; mentre in me era nato il desiderio di vederla. Curiosa di scoprire se fosse bella come o più di lui, se si somigliassero. Oppure se somigliasse a sua madre che, malgrado quell’alone di terrore e mistero, era una bella donna. William mi sottrasse dai miei pensieri prendendo tra le mani una ciocca dei miei capelli. Li accarezzò e li esaminò con uno sguardo dolce, dolcissimo.
-“Allora ci stai? Riguardo l’appuntamento intendo.”. Ed ecco spuntare una fossetta vicino alle sue labbra, prima di allora non l’avevo mai notato.
-“Sì, ci sto”, confermai e non fui mai tanto convinta nel dare una risposta in vita mia.
-“E’ perfetto, allora”, commentò e non penso che dubitasse di una mia risposta positiva, -“non dovresti essere a lezione tra circa, mmm, fammi vedere…”
Si raggomitolò la manica della camicia e scrutò il suo orologio, per poi alzare entrambe le sopracciglia e avvisarmi:
-“Hai esattamente tre minuti di tempo prima che inizi la quarta ora di lezione. Tre minuti di tempo per materializzarti in classe ed evitare che ti puniscano”, ridacchiò, stringendo la lingua tra i denti.
-“Oh no!”, esclamai già fuori dal capanno, non condividendo il divertimento di Will,-“ci vediamo presto. Ammesso e concesso che io arrivi in classe dalla Galdys. Quella strega!”, borbottai cominciando a correre, senza lasciargli il tempo di salutarmi. Però mi parve di sentire un suo grido che diceva “Non posso darti torto! Buon proseguimento di giornata mia cacciatrice di guai.”




Io ce l’avevo messa tutta, davvero, ma seguire le lezioni della Galdys era un impegno pressoché improbabile se non impossibile. Soprattutto se nel cielo si era aperto uno spiraglio di sereno, di azzurro; specialmente se in quell’azzurro ritrovavo gli occhi di William. E mi cadeva dentro le viscere quel colore intramontabile. Una nuvola biancastra tracciava delle linee distratte, come un liquido caduto a terra e sparpagliato proprio come i suoi capelli indomabili nell’ira del vento di Dicembre. Un mese che poi, tutto sommato, cominciavo ad apprezzare di nuovo. Avevo paura di questa sana botta di felicità ma era così evidente da non poterla evitare, causata da qualcuno che ormai non potevo ignorare. Qualcosa di William si era insidiato sotto la mia pelle, e non stavo esagerando.
-“Psss!”, udii ad un tratto. Quel suono, che snodò il groviglio di pensieri fuggiti oltre la finestra e che magari si stavano incatenando con quelli di William, mi fece trasalire. Mi guardai intorno e nel quarto banco laterale alla mia destra incrociai un paio di occhi caramello che conoscevo bene.
-“Studi con me oggi?”, mi sussurrò, cercando di coprirsi dietro Ginevra.
-“Non lo so”, sibilai, facendo spallucce.
Jamie alzò un sopracciglio e arricciò le labbra; strisciò con la sedia più in là in modo da coprirsi meglio grazie alle spalle della compagna, e mi domandò:
-“Che devi fare?” La solita curiosa.
Con la mano cercai di farle intendere che dopo le avrei spiegato tutto ma, caparbia come non mai, protestò.
-“No!”, lanciò un’occhiata alla professoressa che stava dettando i compiti, ignara che gran parte della classe non la stava seguendo,-“dimmelo adesso! Scrivimelo.”
-“William”, udii pronunciare da una voce annoiata proveniente dal lato opposto. Una voce che non si era preoccupata di far voltare almeno cinque teste tra cui quella biondina di Camille.
-“Nicole!”, la rimproverai e nemmeno io curai il mio tono. Camille mi squadrò come non aveva mai fatto, facendo trasparire dagli occhi un non so che di risentimento. Poi si voltò senza troppe storie, scribacchiando su un foglio.
-“Abbassa la voce”, le ordinai un po’ irritata della sua intromissione.
-“Ehi voi due: Emily Collins e Nicole Lamberg. Fate silenzio!”, ci sgridò la Galdys con i suoi soliti occhi sporgenti e ansiosi. Dio mio, volevo gettarmi fuori da quell’aula, magari anche al costo di rotolare, ma volevo collassare nel prato del collegio e ritrovare la mia ancora di salvezza in quelle fiamme infernali.
-“Scusa volevo facilitarti il dovere di spiegare a Jamie ogni tuo spostamento”, sorrise e sbatté ripetutamente le palpebre.
-“Non mi incanti, Nicole Lamberg. Shhh!”.Ma avevo già perdonato la sua piccola invadenza.
Quando ci spostammo nell’aula dove venivano conservati i nostri schizzi d’arte come li chiamava la professoressa, non potetti subirmi l’interrogatorio di Jamie e i commenti di Nicole per via delle due scagnozze di Camille, le quali mi spalleggiarono per tutta l’ora. Quest’ultima era impegnata nell’ora di educazione fisica; ogni tanto passava di corsa davanti alla finestra che si affacciava sul cortile.
Dunque non è molto importante che io trascriva il dialogo avvenuto con le scagnozze ma, a mio avviso, ci avevano visto lungo con tutti quegli avvertimenti perché, nel corso della mia avventura, mi resi conto di quanto Camille fosse priva di coscienza morale.
Ero intenta a imbevere il mio pennello nell’acqua quando Mischa mi si avvicinò. Con una certa discrezione i suoi occhi erano alla continua ricerca dei miei, puntati in basso verso una tela bianca. Mi voltai con nonchalance, pregando che qualsiasi cosa avesse in mente di dirmi o di farmi scomparisse dall’anticamera del suo cervello. Perché nella mia, parlare con loro, era l’ultimo dei desideri. Ma la speranza che tutto fosse frutto della mia immaginazione durò meno di un secondo perché, proprio alla mia sinistra, si materializzò l’altra scagnozza di cui mi sfuggiva sempre il nome. Mi sorrise debolmente e poi i suoi occhi lanciarono un messaggio che non potevo comprendere a Mischa, la quale cominciò a tossicchiare.
Fu in quel mentre che decisi di afferrare il toro per le corna, ed esordii:
-“Allora? Che volete da me?”
-“Non sei gentile, Emily Collins.” In effetti il mio tono non era dei più garbati ma…
-“So come mi chiamo e comunque non mi sembra che voi frequentiate persone più gentili di me.”
Mischa e l’altra trasalirono all’istante.
-“E’ proprio di questo che dobbiamo parlarti. E dovresti ringraziarci perché ti stiamo evitando una marea di guai.”, disse Mischa mentre l’altra annuiva.
-“Cioè?”
-“Ti stiamo mettendo in guardia su Camille. Ieri è quasi impazzita quando sei andata via in macchina con William.”
-“Credevamo le uscissero gli occhi fuori dalle orbite per come vi guardava abbandonare la chiesa. Era fuori di sé e lo è tutt’ora”, proseguì l’altra che con un (mio) pizzico di divertimento parve impaurita.
-“E allora?”
-“E allora? Non ti sei accorta di com’è meschina? Lei non sopporta il fatto che tu stia con William.”
-“Non stiamo insieme!”, chiarii, arrossendo di colpo.
Mischa roteò gli occhi al cielo e si sedette sulla sedia dietro di noi, pareva esausta come se quella conversazione le causasse uno sforzo.
-“Non nel senso di fidanzati, nel senso che vi vede spesso parlare e crede che tra voi ci sia o possa nascere qualcosa. Sostiene che tu ti sia invaghita di lui e lei non potrebbe sopportare di perdere la partita con te.”
-“La partita se la gioca da sola”, borbottai e per un attimo pensai a loro due insieme, a come il suo viso malvagio potesse godere nella gioia di essere tra le braccia di lui. E mi venne un conato.
-“Arrivate al dunque, per favore.”
-“Ha detto testuali parole: ho intenzione di dare alla cara Collins una lezione che non si dimenticherà facilmente. La metterò nei guai e sarà un monito per il futuro. Non so quando ma lo farò e pregherà il Signore di cambiare collegio. Non una parola in meno, non una parola in più. Emily te lo stiamo dicendo perché non l’abbiamo mai vista così…”
-“Fuori di sé”, ribadì il concetto l’altra interrompendo l’amica.
-“E per concludere questa spiacevole conversazione vorrei informarti che noi abbiamo paura che Camille ci possa coinvolgere in qualche piano strampalato per causare danno a te, per cui ti diciamo di evitare di farti vedere con William alla luce del sole. Sempre se ti piace, voglio dire, sono affari tuoi. Ma noi non vogliamo guai, intesi?”, mi puntò l’indice contro, alzandosi e guardandomi per ricevere la conferma di aver afferrato il messaggio.
-“Ho capito. Ma Camille non mi fa paura, non cadrò di nuovo nella sua trappola”, e poi aggiunsi (e non potetti credere di averlo pronunciato),-“grazie.”
-“E’ un favore a tutte noi. Non vogliamo essere di nuovo coinvolte nelle sue pazzie, nei suoi capricci.”, chiarì e con la sua amica fece per andarsene quando poi, presa da un impeto di curiosità, chiesi:
-“Ma se voi dovete penare tutto questo per essere al suo fianco, perché allora, le siete amiche?”
Mischa arrestò i suoi passi e mi rispose sorridendo tristemente.
-“Se avessi conosciuto Camille soffrire –ma soffrire da cani- come l’abbiamo vista noi avresti anche tu provato pena per lei.”
Da quel giorno non ci parlammo più.





Dopo la piccola avvertenza di Mischa e l’amica, durante l’ora di pranzo, notai un cambiamento: Camille evitava il mio sguardo. Ebbene sì. Fissava costantemente il suo piatto di purè, sparpagliato in una maniera stomachevole, e non mi degnava nemmeno per fulminarmi. Il suo viso era più arcigno che mai quindi, tra una forchettata e l’altra, giunsi alla conclusione che, sì, stava tramando qualcosa contro di me. Ogni cellula del suo corpo lo gridava. Ma il mio problema principale, però, era svignarmela durante le ore extra e vedermi con William. Sua madre, Jennifer La Terribile, non si era presentata a pranzo. La Galdys aveva preso le sue veci e a giudicare dalla sua aria compiaciuta, non ne vedeva l’ora. Era davvero eccitante essere il braccio destro della Delacour?
Mentre riponevo i libri in una pila ordinata, in biblioteca, scorsi William sulla porta. Gli sorrisi ma si voltò di spalle, ignorandomi.
-“Emily”, sentii poi, dietro la mia nuca. Mi girai togliendo lentamente gli occhi dalle spalle di William, che gettava strane occhiate al corridoio.
-“Emily? Sei con noi sul pianeta Terra?”, cinguettò Nicole facendomi accomodare con un gesto della mano. Eravamo una di fronte l’altra, non mi ero nemmeno accorta che fosse giunta didietro e si fosse seduta.
-“Si, che c’è?”
-“Volevo scusarmi per il comportamento di ieri sera”, cincischiò, torturandosi le dita. Io scossi il capo, seriamente intenzionata a non riaprire l’argomento.
-“Mi sono mostrata infantile e profondamente stupida, non è così?”, non mi lasciò il tempo di fiatare che proseguì, gesticolando un po’ imbarazzata,-“però quello che ti ho detto ha origine ben più lontana di ciò che è accaduto in quella chiesa, Emily.”
-“Che cosa vuoi dire? Però, un momento, aspetta lasciami parlare!”, la fermai con la mano,-“è molto carino che tu sia preoccupata per me, l’ennesima dimostrazione che io abbia fatto bene ad affiancarmi a te –e anche a Jamie- in questo piccolo inferno”-, premisi e mi sorpresi di quanto risultasse stridente la risata che ne susseguì.
-“Ma voglio dirti che non voglio più sentir parlare della giornata di ieri, Nic. Va bene così.”
-“Perché?”, m’interrogò, intrecciando le braccia al petto.
Perché ho paura di farmi sfuggire qualcosa che non dovrebbe sfuggirmi.
-“Il motivo è ovvio”, mormorai, imitando la sua postura.
-“Giusto, hai rischiato molto. Però, se mi permetti, voglio parlarti del motivo che mi ha spinto a venirti a fare quel terzo grado ieri sera.” Mi guardava speranzosa, quasi a mani giunte e le feci cenno di “sì” con la testa perché, tanto, sapevo che non me ne sarei liberata. Prima che iniziasse a straparlare mi voltai verso la porta della biblioteca e verificai l’assenza di William.
-“E’ da un mese che sto studiando William.”
Girai di scatto la testa verso di lei, sollevando le sopracciglia e facendo caso al suo tono di voce degno di una confessione… inconfessabile.
-“Per quale motivo al mondo?” Sentii un moto di gelosia davvero strano insinuarsi in me, ma scomparì non appena riaprì bocca.
-“Quando sono entrata nel collegio sapevo delle strane dicerie –se così possiamo chiamarle- infestare queste mura e mi sto riferendo ai vampiri. La Delacour è arrivata in città non molto tempo fa’, ma la sua fama aveva già oltrepassato l’oceano prima che il suo piede toccasse la terra della Gran Bretagna. Voglio dire…”, fece una breve pausa, prendendo aria.
La stavo davvero ascoltando? Aveva davvero ripreso quella storia? E, domanda delle domande, perché ne parlava come se fosse una cosa seria?
-“Una piccola frazione di Londra è ancora a conoscenza delle leggende che accompagnano l’esistenza della famiglia Delaocur, dicono che lei sia già venuta qui, ma secoli fa. Ti ho parlato di un libro, ricordi?”
-“Mmm. Vagamente” In realtà avevo ben compreso a cosa si riferisse, alla strana storia che mi avevano accennato durante la mia prima sera. E, quasi come un flash, mi tornò a memoria un sogno che feci… del libro... di Jennifer… decisi rapidamente di non mostrare troppa importanza alla questione.
-“Quel libro in realtà è un diario. Un diario personalissimo della vita della nostra cara e misteriosa preside. Si mormora che lì dentro ci siano i peggiori segreti legati alla sua famiglia. In molti hanno provato a rubarglielo e c’era riuscito un giovane furfante che fu trovato morto pochi giorni dopo il furto. Ebbene il diario scomparve ma la Delacour continuò ad aggirarsi nei vicoli di Londra. Pochi anni dopo il vociferare crebbe e il fatto che lei conducesse una vita parallela a quella di Londra non fece che incrementare le già storie che aleggiavano intorno alla sua persona.”
-“Vita parallela?”, domandai spontaneamente.
Pessimo segno: l’argomento mi stava interessando.
Altro pessimo segno: mi tornarono in mente alcune parole uscite dalla bocca di William, altre dalla bocca di Jennifer. “Non saresti dovuto venire! Non dovresti esporti in questa maniera!” quella voce si infranse nelle barriere della mia mente e ne seguì l’immagine nitida della sua espressione feroce, piena di collera e dei suoi canini… che il dono di William fosse collegato al suo essere vampiro? Santo cielo, mi scoppiò un gran mal di testa nel porgermi quelle domande a tratti illogiche a tratti incredibilmente combacianti con la strana storia che stavo ascoltando.
Mi massaggiai le tempie mentre Nicole riprese a raccontare.
-“Sì, la Delacour non frequentava molto la vita cittadina, nemmeno adesso a dirla tutta. Lei ha una villa poco distante dal collegio, sperduta nel verde e nei boschi. Ora dorme qui in collegio, ma William vi si reca ogni sera.”
Sgranai per un attimo gli occhi, sorpresa per un secondo.
Avrei dovuto pormi spontaneamente la domanda su dove alloggiasse William, per questo trasalii nell’incassare quelle parole.
-“Tu come fai a saperlo?”
-“L’ho sentito dire da quella serpe di Camille.”
-“E lei come lo sa?”, ribattei, sbattendo il ginocchio al tavolo per quanto avevo sobbalzato per via della notizia.
-“Prima che arrivassi tu Camille ronzava perennemente intorno a William. Insomma non appena lui ha messo piede qui dentro lei si è innamorata. Ogni volta che lo avvicinava lo interrogava”, si fermò a pensare,-“dev’essere stato straziante per lui averla intorno. Mentre con te mi sembra molto ben predisposto. Santo cielo, quando sei svenuta è rimasto ad aspettare che ti svegliassi!” ricordò ancora una volta e i suoi occhi ispezionarono i miei, sicura che le sue parole avessero provocato in me una reazione. Ma rimasi pressoché impassibile perché, a dirla tutta, ero ancora a rimuginare sulla valanga di parole uscite dalla sua bocca troppo impudente.
-“Hai notato comportamenti strani in lui?” Ritornai con l’attenzione su di lei e mi accorsi che aveva cambiato postura: si era avvicinata con la sedia e si sporgeva verso di me. Io mi strinsi nelle spalle. Di comportamenti strani potevo stipulare un elenco da far impallidire le vecchie liste della spesa di mia nonna.
-“Mmm”, mugugnai, evasiva. Potevo confidarmi con Nicole o avrebbe dato di matto se solo fosse venuta a conoscenza della storia del giorno prima? Infondo già aveva notato la presenza di Will durante i momenti di massimo pericolo; non avrei fatto altre che alimentare le sue tesi. La studiai e dopo una breve e accurata analisi mi resi conto che con molta probabilità avrebbe dato di matto e si sarebbe lanciata a pieno nella storia.
Okay, non sapevo a che grado di coinvolgimento fosse in tutto ciò ma se mi ci mettevo anche io c’erano molte probabilità che i suoi neuroni scoppiassero. Dal collegio al manicomio il passo sembrava pericolosamente breve.
-“Cosa intendi per comportamenti strani? Se mi stai per chiedere se ha tentato di mordermi la risposta è no.”
-“No, dai Emily! Sto parlando seriamente!”
Me ne ero resa conto, eccome! -“Come ti è nata questa ossessione per i vampiri?”
-“Quando ho deciso di non partire con mia madre e George e di non andare a casa di nessun altro parente e, quindi, di mandarmi in esilio in qualche collegio, ho scelto quello che ritenevo più interessante. In conclusione mi sono trovata un passatempo. Lo trovi strano?” Il suo sorrisone mi impediva di risponderle onestamente ma il mio istinto precedette qualunque buona volontà.
-“Giusto un poco inquietante, Nicole.”
Lei sbuffò vigorosamente e subito qualche saputella dall’occhiale troppo sporco del tavolo affianco ci ammutolì con un sonoro shhh!
-“I suoi sputi sono arrivati fin qui”, brontolò Nicole, alzandosi. La imitai di scatto.
-“Comunque le leggende sono esistete, la Delacour esiste, William esiste. Sono apparentemente sfuggenti, strani, si aggirano nel collegio come fantasmi, e sono incredibilmente pallidi. Io continuo nel sostenere che nascondono qualcosa. Sono pazza? Forse sì forse no, ma rischierei di impazzire senza un passatempo e credo di averlo trovato”, terminato il monologo finale afferrò due libri (uno visibilmente vecchio e malridotto e un altro nuovo di zecca, quasi come se il sapere imprigionato in quelle pagine si intrecciasse nella stretta di Nicole) e il suo zainetto nero.
-“Io ho finito qui. Ci vediamo in giro e mi raccomando: acqua in bocca.”
-“Oh, non ci sono dubbi”, soffiai in un sibilo canzonatorio non appena sparì dall’ariosa biblioteca. Subito dopo seguii le sue orme e mi trovai nell’atrio affollato. Mi ci vollero pochi istanti per individuare chi cercavo; tirai un sospiro di sollievo –finalmente sarei rimasta da sola con lui- e mentre le mie gambe procedevano verso la meta mi si parò di fronte la Belfiore, inaspettatamente, con un’aria di commiserazione. Mi bloccai senza tentare di nascondere il mio stato di avvilimento.
-“Emily”, esordì in tono dolce, piegando la testa di lato, facendo scivolare dei riccioli castani sulla guancia rossa di phard.
-“Come stai tesoro? Ti sei ripresa dallo shock? Ti vedo pallida.”
-“Sì, signorina Belfiore mi sono ben ripresa. Eh, beh, questa è la mia carnagione”, risposi tutto d’un fiato indicando la mia epidermide con goffaggine. Lei mi sorrise raddrizzando il capo e provocando una pioggia di riccioli che si raccolse prontamente dietro le orecchia. Oltre le sue spalle William si era poggiato con la schiena contro il muro, guardando verso la mia direzione. Aveva lo sguardo divertito.
-“E ascoltami, ti trovi bene qui in collegio? Senti la mancanza dei tuoi genitori?”
Ritornai a focalizzarla, sbattendo le palpebre, sorpresa che affrontasse quell’argomento che temevo di aprire in qualsiasi conversazione con qualsiasi persona. Dunque deglutii cercando di non farmi coinvolgere dal senso di perdita, di vuoto e di dolore che avvertivo riemergere.
-“In collegio sto bene, non posso lamentarmi”, cincischiai non capendo nemmeno se avessi detto una menzogna,-“e sì. Mi mancano.” Mi si spezzò la voce e i miei occhi incontrarono il pavimento.
-“Piccola Emily.” La mano della Belfiore si posò sulla mia spalla destra e la sentii avvicinarsi.
-“Mi scusi ma ora devo proprio andare ad avvantaggiarmi con i compiti”, cercai di congedarmi frettolosamente.
-“Sì, è proprio di questo che volevo parlarti, cara. Mi sono confrontata con gli altri insegnanti e mi hanno riferito che hai più di un talento! Ho notato come dipingi sai?” Per fortuna il tono di compassione che aveva adottato all’inizio era scomparso e ora ce ne era uno tutto entusiasta che riuscì a martellarmi la testa. Annuii, sorridendo.
-“Però ho saputo che hai dei pessimi voti in matematica e in storia.”
-“Sì, è vero. Infatti adesso stavo proprio andand…”
-“Emily tesoro!”, mi rimbeccò senza lasciarmi il tempo di ribattere,-“posso capire la matematica. Sai, nemmeno io ho una mente incline a quella materia… diciamo che non sono mai stata una cima in fatto di numeri e frazioni, ma la storia! Storia, tesoro! Si tratta solo di aprire il libro e passarci un pomeriggio a studiarla. La Galdys è un ottima insegnante.”
Continuai ad annuire ma proprio sulla sua ultima affermazione sentii le mie labbra incrinarsi. Il nome Galdys e l’aggettivo “ottima” risuonava nella mia mente come un ossimoro stridente.
-“Infatti, professoressa Belfiore, stavo proprio andando a ripassare in camera qualche capitolo di storia. Se non le dispiace…”, e la superai rigirandomi, però, per un ultimo saluto. Lei ciondolò la testa come se avesse intuito che avessi fretta nell’andarmene, magari per fare altro e non studiare.
-“Va bene. Qualsiasi cosa ti passa per la testa, tesoro caro, puoi rivolgerti a me. Buon proseguimento di giornata.”
-“Grazie anche a lei.” E girai i tacchi.
William si staccò dal muro e si avvicinò a me quasi a passo di danza allungandomi la mano nel mezzo dell’atrio pieno zeppo di persone, ma nel momento in cui gliela strinsi con la mia, tutte queste sparirono. -“Ho un po’ di tempo per noi.” Mi aveva detto donandomi un sorriso ampio e tranquillo. In quel momento come non mai mi accorsi di quanto sembrasse affidabile, pacato, come se avesse tutto sotto controllo. Come se non avesse timore che uno sguardo troppo invadente tra noi avrebbe potuto scatenare l’inferno e l’ira di sua madre.
-“E’ tornata?”, gli sussurrai meccanicamente, scontrando il mio gomito con il suo.
Mi scagliò un’occhiata intensa ed ebbi paura.
-“Non lo so”, mi rispose con gli occhi assolati, spazzando via la tranquillità che scorsi nel suo volto poco prima. Stavamo salendo le scale adiacenti a quelle che portavano al dormitorio ma di queste non ricordavo dove conducessero.
-“Emily fidati di me, per favore.”
E mi parve un’implorazione impossibile da eseguire a giudicare dalle immagini che presero a popolare la mia ormai mente torturata dalle stranezze dei racconti di Nicole. Quelle parole si tramontarono in strane e agghiaccianti immagini: vidi William afferrarmi per la vita e condurmi nel buio di una stanza mentre con sguardo perso e fuori di sé si accingeva ad affondare un paio di lunghi canini nel mio collo reclinato all’indietro. Un brivido di disgusto mi percosse tutto il corpo facendomi scuotere violentemente e, cacciate via quelle immagini, trovai gli occhi di William indagare curiosi nei miei.
-“Che cosa hai?”
-“N-niente. Mi è passato un brivido di freddo”, mentii e quasi provai un senso di vergogna nell’aver ancor solo immaginato quello che mi passò per la testa. Santo cielo Emily! Non essere vittima della noia come Nicole! Non credere a queste sciocchezze anche se hai la sensazione di tenere la mano di una creatura ultraterrena! Quelle erano le grida della mia coscienza, l’unica cosa sana che mi era rimasta in due settimane.
Decisi fermamente di chiudere ogni riflessione riguardante vampiri e leggende e godermi quella boccata d’aria fresca che mi stava offrendo William. Il mio dolce salvatore, la mia ancora.
-“Arrivati”, annunciò e trasognata com’ero non mi accorsi di dove mi aveva portata fin quando non udii più il chiacchiericcio provenire dall’atrio, fin quando non aprì del tutto la porta che avevamo di fronte. Ci entrammo frettolosamente e i miei occhi si abituarono immediatamente al buio di quella stanza che puzzava di umido e di chiuso. Le persiane della finestra lasciavano imbucare alcuni strascichi di luce della bella Londra di quel giorno. Non dovetti sforzarmi troppo per riconoscere il luogo in cui mi aveva condotto.
-“La sala di musica. Abbandonata, oserei dire”, puntualizzai inutilmente. William aveva lasciato la mia mano per sistemare dove avremmo dovuto sederci, di fronte allo Stainway che pareva mi aspettasse dall’ultima volta. Lo Stainway così sofisticato come la persona che lo stava accarezzando, così familiare come quello che troneggiava nel salone della mia vecchia casa. Suonato da mia madre nei rari momenti in cui era sola con se stessa, lontana da mio padre, da me, lontana da quella vita che forse la costringeva a recarsi lì, nella musica, per evadere da chissà quali problemi. Sospirai e lo raggiunsi.
-“Qui è dove ti ho sentita suonare.” Le sue parole ferirono il silenzio. Ripensai a quel giorno in cui la sua insistenza rischiava di farmi finire ai matti.
-“Era la melodia suonata da mia madre. L’ascoltavo dall’alto della rampa mentre lei non si accorgeva che ero in ascolto. Non mi sono mai fatta vedere da lei perché… non saprei spiegartelo, era il suo momento di fine giornata.”
-“Puoi risuonarla per me?”, domandò dolcemente e nel buio della stanza era qualcosa di impossibile da descrivere.
-“Mmm.”
-“Ti ho sentita e sei bravissima. Quassù non ci scoprirà nessuno. Possiamo stare fino all’ora di cena, sai?”
Nel solo osare pensare alla concretizzazione di quelle parole il mio cuore perse un colpo.
-“Vieni qui”, m’invitò caparbio e persuasivo con il suo solito sorriso ammaliante-“siediti accanto a me.”
Facciamo che il mio cuore perse due colpi. E obbedii.
-“Non so se riuscirò di nuov…”
-“Shhh.”, mi zittì, soffiandomi a pochi centimetri dal collo. Mi raddrizzai e cominciai timidamente ad abbozzare i primi suoni di quella melodia che, lo sapevo, non avrei mai dimenticato. Trasferii la musica dal mio cuore alle mie dita e sentii emettere un suono di beatitudine dalle labbra socchiuse di William. Quando la melodia crebbe, un minuto dopo, mi fermai di scatto perché sentivo i ricordi allargarsi da dove li avevo confinati e non mi sarei permessa di cedere in quel momento. No.
Staccai le dita dai tasti come fossero pietruzze roventi e mi voltai a cercare un briciolo di comprensione nel volto di William, che mi guardava come se avessimo tutto il tempo del mondo.
-“Sei bravissima, non c’è che dire.” Le sue parole mi accarezzarono ed eravamo così vicini che mi girò la testa. Quella nostra vicinanza, spesso avvenuta casualmente, stava diventando qualcosa da ricercare per necessità. Mi abbracciai e sorrisi compiaciuta.
-“Grazie. Avresti dovuto sentire lei.”
-“Perché non mi parli dei tuoi genitori?”
-“Dei miei genitori?”, ripetei come inebetita.
-“Dobbiamo conoscerci, no? E io voglio sapere tutto di te. Le origini, i tuoi pensieri, i tuoi sogni, come sei. Ed io cercherò di aprirmi con te. Per me non è facile”, si morse il labbro, ma sorridendo.
-“Perché non ti è facile aprirti?”
-“Ehi, adesso stiamo parlando di te”, mi ammonì scherzoso ma serio a modo suo. Io alzai le sopracciglia e scossi il capo come a dargliene atto.
“Giusto. Questo, tanto per la cronaca, è una cosa che abbiamo in comune. Sono piuttosto riservata. E parlare dei miei genitori è un’idea pressoché irriproducibile.”, deglutii. Lui cominciava a farsi ancora più vicino –come se non lo fossimo già abbastanza- e i nostri nasi erano quasi in contatto tra loro. Non avevo mai notato la particolarità della sua pelle candida e del profumo che emanava. Il suo occhio destro –quello scuro- era rame bruciato mentre quello sinistro era il ghiaccio dell’inverno che ci avvolgeva. Nei suoi occhi mi scorsi e mi sentii nuda. Perché stava scavando nelle mie emozioni più profonde, scavando in un passato non poi così remoto.
-“Parlami. Ti sentirai meglio. Anche io avrei voluto qualcuno che mi ascoltasse quando è morto mio padre.”, mi confessò prendendomi le mani. Sgranai visibilmente gli occhi per lo stupore.
-“Anche tu…?”, non riuscivo a formulare di più.
Lui annuì tristemente ma poi mi sorrise come prima, e mi accarezzò la guancia infuocata.
-“Quando è successo?”. Riportò l’attenzione su di me. Mi sistemai una ciocca di capelli che si appiccicava al mento, inspirando profondamente.
-“Un anno e mezzo fa, più o meno. Sono stati vittime di un incidente stradale, ed erano appena tornati da un viaggio in Francia. Ho parlato con loro poco prima che accadesse…quello che è accaduto.”
-“Capisco.”, sussurrò e appoggiò la sua testa contro la mia; mi parve di impazzire. Parlare di loro, essere in contatto con lui, le sue braccia che mi avvolgevano e le sue mani che sfregavano per darmi forza.
-“William io ci ho parlato un istante prima. E poi è successo. Mi avevano detto che stavano sbrigando una faccenda e sarebbero rincasati subito. Mi avevano promesso che quello sarebbe stato il loro ultimo viaggio”, proseguii con un tono di voce sorprendentemente rotto e rabbioso.
-“Calmati, Emily. Altrimenti rischi di farmi sentire in colpa per avertelo chiesto.”
-“No, William. Non è colpa tua, figurati. Ci vivo continuamente con questo dolore”, mi staccai dal suo capo per guardarlo meglio in viso. Mi sembrava avesse gli occhi lucidi, trasmettevano così tanta tristezza che parve spezzarsi il mio cuore.
-“Per tutto questo tempo è come se avessi offuscato il dolore. Ovattandolo per non farlo agire da tarlo e quindi farmi consumare. Lo sto ignorando ma è difficile non chiedersi perché questo? Perché?”
-“Emily…” Mi accarezzò entrambe le guance e strizzai gli occhi per non rischiare di piangere. Poi prese a parlare e li riaprii, lucidi, pronti a far sgorgare tutte le lacrime represse. Ma cercai di ignorare quel fastidio che si stava estendendo all’altezza della fronte.
-“Ho perso mio padre. Molto tempo fa. E’ stato un dolore che ha distrutto la mia famiglia, che ha straziato mia madre fino a condurla in un punto di non ritorno”, fece una breve pausa, scostando le sue mani. Mentre le sue parole si libravano nell’aria anche il suo sguardo pareva seguirle in una scia invisibile.
-“Da quel giorno lei è molto cambiata. Una metamorfosi terribile, Emily. Emily non ti augurerei mai di assistere alla distruzione di qualcuno che ami. Tuttora scorgo qualcosa di insolitamente insano nei suoi occhi, non la riconosco.”
Si portò il pugno alla bocca per trattenersi, come me, per non cedere alla morsa di dolore che probabilmente cercava di domare anche lui. Questa volta fui io ad accostarmi e lo accolsi tra le mie braccia, sinceramente addolorata di vederlo in quello stato che conoscevo fin troppo bene.
-“Perdonami.” Le sue parole furono un soffio straziato. Si strofinò il naso con il dorso della manica e si ricompose, con molta naturalezza.
Improvvisamente mi ricordai delle parole che aveva urlato a sua madre nella stanza, quando stavo origliando:
“E mio padre è diventato un lontano ricordo; quello che dovrebbe essere per te. Madre. Lui non tornerà mai, è morto! Ma perché ti ostini a parlare di lui come se un giorno potesse rispuntar fuori da chissà dove!?” Ebbi un fremito e lo camuffai per un brivido.
“Brrr.” Enfatizzai, con il tentativo disperato di passare ad un altro argomento.
-“Hai freddo?”
-“Abbastanza.”
Silenzio.
-“Sai qual è la mia paura più grande?”
-“Non ne ho idea. Una ragazza che ha affrontato questo cosa può temere ancora?” Sorrise con titubanza.
-“L’abbandono”, confessai fissandolo intensamente. Senza nemmeno rendermene conto mi girai con tutto il corpo verso di lui, la gamba sinistra piegata sotto quella destra. Lui ricambiò il mio sguardo con altrettanta potenza, e mi resi conto di come un paio di occhi potessero causare una tempesta di sensazioni.
-“E’ una paura più che comprensibile”, commentò,-“la mia è quella di poter perdere il senno. Ho paura che mi possa accadere qualcosa che potrebbe condurmi in pazzia. Che potrebbe farmi perdere il senso della realtà poco a poco.” Anche se non fece nessun riferimento a sua madre, intuii che ce l’avesse in qualche modo con lei. Guardando gli occhi di William e sentendo il tono della sua voce quasi provai compassione per quella donna logorata dalla sensazione più atroce che un uomo possa provare. Non sapevo quando fosse morto suo padre, -e non avevo intenzione di chiederlo per non gettare altro sale sulla ferita-, ma il suo dolore e il suo ricordo dovevano essere ancora molto vivi.
-“E Genevieve?”
Emise uno strano suono dalla bocca, un misto tra una pernacchia e uno sbuffo. Rivolse il viso verso la finestra e mi rispose in tono apparentemente spento.
-“Lei ha rotto i contatti con nostra madre da un sacco di tempo. Un tempo talmente andato da essere indefinito, non saprei dirti il periodo preciso. Vive in Francia, la mia cara sorella e ogni tanto si degna di chiamarmi quando volutamente non mi faccio sentire per farle alzare la cornetta telefonica.”
-“Me lo avevi detto che vive in Francia. Ma è sola?”
Scosse il capo, tornando in contatto con i miei occhi curiosi.
-“No, lei è in compagnia del suo ragazzo. Un tale spregevole”. Il suo commento risuonò disgustato, per non parlare della smorfia delle sue labbra carnose che mi fece ridere senza controllo.
-“Oddio, scusami”, mi affrettai senza smettere realmente di smorzare le risa. Alzò le spalle e ridacchiò con me; tamburellando le dita agli angoli del pianoforte, iniziò a parlar male del ragazzo di sua sorella.
-“E’ veramente antipatico, dovresti conoscerlo solo per scoprire la sensazione di desiderio nel far cadere qualcuno con le mani in tasca! Sì, perché conoscendolo desidereresti questo!”. E a quel punto scoppiai a ridere proprio di gusto, William perseverò divertito anche lui. Ero sorpresa di come l’atmosfera fosse cambiata nel giro di una domanda.
-“E’ spocchioso, altezzoso, si crede chissà chi. E’ viziato e chi più ne ha più ne metta.”, smise di ridere, scuotendo il capo. Di colpo gli occhi a fessura, pensieroso.
-“Mi son chiesto più volte cosa ci vedesse in lui Genevieve. E’ innegabilmente un bel ragazzo.”
-“Ah si? E’ per questo che sei geloso?”, lo stuzzicai lanciandogli una leggera gomitata sul petto. William spalancò la bocca, incredulo della mia considerazione.
-“Ti prego, Emily! Ho ammesso che è un bel ragazzo proprio perché non sono geloso, ma oggettivo. E riconosco che è rude, antipatico, spocc…”
-“Si lo so, okay ho afferrato di com’è questo… ehm, come si chiama?”
-“Henry Devonne.”, dichiarò con un’altra smorfia.
-“Ecco, Henry.”
Lui prese una bella manciata d’aria e fissò i tasti del pianoforte. Mi schiarii la voce e continuai a domandare.
-“Lei sa il motivo che ti ha spinto a venire qui?” La mia voce risuonò stranamente squillante.
-“Sa il motivo per cui sono rimasto”, ribatté senza nemmeno rimuginarci troppo.
-“Emily”, mi chiamò mentre io mi sentivo arrossire fino all’inverosimile. Mi ritrovai nuovamente il suo viso a pochi centimetri, il suo respiro si intrufolava nel mio collo, provocandomi un brivido, due brividi, mille brividi intensi.
-“Provo un forte sentimento verso di te. Non posso più nasconderlo né mimetizzarlo. Sono innamorato di te, Emily.”
Rimasi senza parole. E giuro che, ancora oggi, provo uno stato di avvilimento nel sapere che non esistono parole al mondo per descrivere quel momento. Per descrivere il mio stato d’animo, un misto di sensazioni che si dimenavano nel mio essere, scuotendomi. Non feci in tempo a sbattere le palpebre che mi ritrovai schiacciata contro il suo petto. Dunque lo abbracciai, affondando le mie mani nei suoi capelli senza ancora proferire parola.
-“Di cosa è fatto questo sentimento, Emily? E’ come se si fosse alimentato da solo per tutto questo tempo ma ora, ora, eccoti tra le mie braccia. Ti stringo e non ci credo. Ti stringo e penso che potrei morir felice, adesso. Io non ti lascerò.”
-“ Anche io voglio stare con te. Non sono mai stata così convinta di una cosa in vita mia. Mi sento viva. Mi fai sentire viva”, dissi tutto d’un fiato con il cuore in gola, lo stomaco svuotato e le mani sudaticce. Avevo realmente pronunciato quelle parole? William mi stava davvero guardando con quegli occhi eccessivamente sinceri? Sì.
-“Ti chiedo solo una cosa”, mormorai deglutendo,-“non mi lasciare. Non sparire. Non sparire dalla mia vita. Non tornare in Francia, e se ci dovessi tornare ti prego portami con te.” Lui annuì freneticamente, le sue mani, nel frattempo, mi lambivano le spalle, la schiena, la nuca. Quando le sue dita toccarono il mio volto sembrava come se lui stesse seminando dei lividi; vedevo i suoi occhi seguire i polpastrelli che disegnavano la pienezza delle mie guance infuocate di imbarazzo e desiderio, mentre i miei occhi cercavano di interpretare il suo prossimo gesto. E fui lenta ad anticipare quel bacio estasiante che arrivò poco dopo. Il tocco delle sue labbra ebbe lo straordinario potere di risvegliare il mio cuore assopito e lo sentii esplodere. Esplodere in tutti i sensi. Quando entrai in contatto con quella morbidezza tenevo ancora gli occhi spalancati, quando il casto bacio si approfondì allora li chiusi imitando la sua sicurezza. Si staccò da me ansimante, le labbra piene e rosse. Nei suoi occhi vedevo la violenza e la fragilità di quell’amore che ci stava coinvolgendo, e per l’emozione quasi non piansi davvero.
-“Dal primo istante in cui ti vidi nei miei sogni l’ho capito”, sussurrò poggiando la fronte sulla mia, ancora una volta respiravo nel suo respiro,-“è bastato un istante per comprendere che se non ti avessi salvata da quella croce sarei morto anche io. Sarei morto ora dopo ora, giorno dopo giorno e chi si sarebbe vestito a lutto anche per me? Anche per me che avrei continuato a vivere con la morte dentro.” Si morse le labbra e mi prese le mani, baciandole e portandole sul suo collo.
-“Emily, io non ti abbandonerò mai.”
Quelle parole, rimbeccate come una solenne promessa, scatenarono in me un ricordo lontano creduto sepolto nell’anfratti della mia memoria.


Ho sei anni o giù di lì, mi trovo nella casa dei miei genitori sul divano, con mia nonna. Giochiamo ad un gioco senza nome quando mia madre si materializza nella stanza e a passi ben distesi ci raggiunge e ci annuncia che è proprio ora che deve partire. I miei occhi si posano sul viso di nonna che sorride a labbra strette – forse anche troppo per sembrare un sorriso spontaneo-, poi su quello di mia mamma e infine si perde oltre le sue spalle, oltre l’arcata che divide il soggiorno dal corridoio principale. E odo il rumore delle valigie trascinate da mio padre per le scale.
“Piccola mia.”, mi sento chiamare, mentre penso che questa volta se ne vadano davvero una volta per tutte. Sento delle lacrime fredde bagnarmi le guance paffute, quando mamma cerca nuovamente la mia attenzione, gentilmente.
-“Piccola.”, reitera scuotendomi le fragili spalle, -“ora mamma e papà devono andare. Sarà il solito viaggio di lavoro di pochi giorni e torneremo.”
-“Andrete molto lontano da qui?”, comincio a lamentarmi. Le mie parole intralciate da singhiozzi ripetuti. Vedo le labbra di mia mamma aprirsi ma la voce che sento non è la sua, bensì quella autoritaria di mio padre. -“Cara, dobbiamo andare o perdiamo l’aereo.”
-“L’aereo?”, ribadisco, intuendo che qualsiasi progetto avessero in mente me li avrebbe portati fuori da Londra. Sento le mani ingioiellate di mia nonna accarezzarmi la nuca e la schiena, ma continuo a frignare per la loro imminente partenza.
-“Emily, senti una cosa. No, no aspetta non piangere io e papà torneremo presto, prima delle altre volte. Ti voglio bene, tesoro mio. Te ne voglio tantissimo e imprimiti questo nella testa: io non ti abbandonerò mai.”




Il vento scuoteva le pagine del libro di storia che stavo cercando di memorizzare, io accoccolata sul tavolo con l’aria che mi sfregava la guancia. Non mi ero mai sentita così rilassata da quando avevo messo piede lì dentro; il silenzio della biblioteca mi cullava dolcemente nei miei pensieri che avevano un unico protagonista. Ripensavo incessantemente al nostro bacio, ricreandolo da qualsiasi angolazione possibile ed immaginabile, cercavo di riprovare il tocco morbido e urgente delle sue labbra, ma non ci riuscivo nemmeno con tutta la concentrazione di questo mondo. Sulle mie vi era un arido deserto da quando si era staccato per riprendere fiato. Non potrei nemmeno se volessi cancellare il suo volto dopo il nostro primo contatto; quanto vorrei spiegargli l’estasi che ho provato nello sperimentare quel che è stato, del suo sapore nella mia bocca, giù per la gola e dissolto nei miei polmoni. Della strana angolazione che aveva assunto il mondo e di quanto lui fosse bello con quell’aria spaesata e anche un po’ intimorita. Avrei voluto rivivere quei momenti in ogni istante. Mi stiracchiai lungo il tavolo, schiacciando il naso contro il legno quando qualcuno mi afferrò per i polsi.
-“Ehilà!”
-“Jamie!”, dissi smorzando lo sbadiglio. Lasciò la presa appoggiando la testa nella mano, un sorriso sornione che anticipava le sue intenzioni. Prima che potesse fiatare Nicole si avvicinò con una sedia tra le mani e si accostò accanto all’amica.
-“E’ assurdo che la biblioteca non disponga del giusto numero di sedie”, brontolò tanto per rompere il ghiaccio. Io sorrisi, perché, infondo, non potevo far altro.
-“Dove volete andare a parare, ragazze?”, chiesi mordendomi le labbra. Jamie si riempì i polmoni d’aria ridacchiando sommessamente per non disturbare la quiete delle altre studentesse.
-“Dove sei stata ieri pomeriggio? Ieri sera ti sei subito coricata a letto e hai persino dato la buonanotte a Camille quando l’hai incontrata sulla porta del bagno.”
-“Ci mancava solo che la baciassi!”, s’intromise Nicole sporgendosi. Io svolazzai una mano di fronte al suo viso come per dire che l’ultima cosa che volessi al mondo era sbaciucchiarmi con Camille, e poi risposi senza problemi:
-“Sono stata con William, in sala musica.”
Le due non parvero sorprese più di tanto, anzi, i loro volti mi fecero intuire di aver dato una risposta scontata.
-“E…”, m’invitò a proseguire Jamie, roteando la mano.
-“Abbiamo parlato... abbiamo suonato al pianoforte e… sì, ecco, noi… noi ci siamo baciati”. Mi morsi le labbra sentendomi avvampare le guance, nemmeno stessi rivivendo la scena. Jamie si portò automaticamente la mano sulla bocca –spalancata dalla meraviglia- e Nicole pareva dovesse svenire da un momento o l’altro.
-“Santo cielo, Emily! Ma allora state insieme?”, cinguettò Jamie con gli occhi che le brillavano dalla curiosità.
-“Beh, credo proprio di sì.”
-“Dio mio, questa sì che è una notizia.”, commentò Nicole dopo aver digerito l’informazione. O almeno così mi parve.
-“Ecco, infatti dovete scusarmi. Adesso ho un appuntamento con William nel capannone di Simus.”
-“Simus è vostro complice?”
-“Simus non lo sa.”
-“Simus è una vecchia volpe, molto ma molto scaltra. A forza di vedervi insieme non ci vorrà tanto a fare due più due”, mi fece notare Jamie. Sospirai annuendo. Il signor Murfy era innocuo e sicuramente ci avrebbe coperto se mai si fosse accorto della nostra relazione, per cui non lo considerai un problema. Quindi salutai le mie due amiche promettendo che durante la notte avrei spifferato tutti i particolare che desideravano sentire e mi materializzai accanto alla porta finestra dove, per poco, non mi prese un infarto. Riflessa al vetro riconobbi l’inconfondibile camminata della Delacour; mi voltai di scatto e provai un’inspiegabile fitta di dolore al centro del petto. Era vestita di nero, avvolta in un cappotto dello stesso colore, i capelli tirati e acconciati a chignon e la sua pelle pallida che contrastava fastidiosamente con il suo abbigliamento. Era tornata. Dove era stata per tutto questo tempo? L’espressione del volto sembrava mutare a ogni passo a seconda della direzione dei suoi pensieri; quali ossessioni la fronteggiavano? Ricordavo ancora quando la vidi sorridere per la prima volta, quando sorrise a me la sera prima della visita in chiesa. Misi una mano sulla porta finestra quando, però, i suoi occhi saettarono dove mi trovavo, arrestando la mia azione. Tra tutte le alunne lì presenti, lei soffermò la sua attenzione su di me. Scese dal primo scalino su cui stava salendo e con un movimento celere smorzò la distanza tra noi.
-“Collins.”, pronunciò con scherno. E alzando le sopracciglia mi spinse via dalla porta finestra e vi uscì lei, chiamando il nome di suo figlio. Mi appiattii sul vetro e vidi chiaramente lo stupore di William manifestarsi sul volto, poi fece un ampio sorriso che morì non appena guardò in viso sua madre. Gli domandò qualcosa – molto probabilmente cosa avesse- e lei scrollò le spalle e si toccò la testa, distrattamente; poi comunicò qualcosa gesticolando e salutò il Signor Murfy che educatamente alzò il suo inseparabile cappello di paglia. Finiti gli accomiati Jennifer fece dietrofront ed io scappai su per le scale, stupendomi della mia stessa rapidità.
Mi intrufolai nel corridoio deserto del primo piano per aspettare che passasse in modo che poi io avrei avuto tempo per fare una capatina da William. Trascorsero abbondanti minuti ma lei non era ancora passata, così scesi di corsa le scale e riconobbi la sua schiena nell’aula dei professori. Tirai un lungo sospiro quando mi si parò di fronte una mia compagna di stanza, con la quale avevo scambiato si e no cinque battute da quando ero arrivata.
-“Oh Emily, puoi farmi un favore?” Daisy aveva le mani giunte, un libro sotto l’avambraccio destro e due occhi cerulei da far invidia al cielo. Ed erano troppo teneri per cercare di rifilarle una risposta negativa. Per cui, tra l’afflizione e il rifiuto, mi trovai a risponderle:
-“Che tipo di favore?”
-“Devo portare questo libro a una ragazza che ha la camerata al quarto piano ma io ora ho la prima lezione di cucina e se arrivo in ritardo qualcuno potrebbe soffiarmi il posto perché è a numero chiuso. Sai, per motivi di sicurezza”, farfugliò sventolandomi il libro davanti e i suoi occhi si fecero straordinariamente più grandi e dolci.
-“Ma non puoi portarglielo dopo?”
-“Se così fosse non sarei qui a supplicarti”, ribatté portando un boccolo biondo dietro l’orecchio, -“a questa ragazza serve adesso. Ti prego Emily, prometto che poi ti farò un favore io.”
-“Va bene, va bene!”, risposi con tono esasperato, per quanto dolce potesse apparire, la sua voce era fin troppo squillante e comunque non avevo più tempo per andare da William.
-“Grazie mille! Sei fantastica, tieni!” Mi allungò il libro e m’informò che la ragazza a cui dovevo consegnarlo rispondeva al nome di Clarke Bennet.
Salii gli scalini a due a due e quasi non mi ricordavo di quanto fosse spettrale il quarto piano, di come i rumori e le voci delle collegiali risuonassero fievoli. Un gruppetto di ragazze era di fronte all’unica finestra del corridoio e una tra loro si alzò nel vedermi.
-“Ti manda Daisy?”, m’interrogò scrutandomi.
-“Sì, sono una sua compagna di stanza. Mi ha chiesto di dare questo a una certa Clarke Bennet.”
La ragazza bruna che avevo di fronte alzò le mani al cielo e prese il libro che avevo tra le mani, in modo frettoloso.
-“Mi hai trovata. Dì alla tua amica che la prossima volta deve essere più responsabile nel restituire in tempo gli oggetti altrui. Ora ti saluto e ti ringrazio o farò tardi”. Nel giro di tre secondi le ragazze s’incamminarono nel corridoio che portava alla parte opposta del collegio. Io, invece, ritornai indietro. Non avevo ancora incontrato William quel giorno e un senso di sconforto si abbatté sulle mie spalle, facendomi procedere a passi mogi. Ora che la Delacour era tornata dovevo prestare maggiore attenzione, solo il pensiero mi provocò un pizzico d’ansia. Non potevo permettermi un passo falso o altrimenti avrei dovuto dire addio all’unica ragione che rendeva quel posto tollerabile.
D’un tratto, prima di raggiungere le scale, un dettaglio curioso mi distrasse: la porta dell’ufficio della preside era socchiusa. Era sempre stata così durante la sua assenza, oppure era riuscita ad entrarci? Un pensiero fulmineo attraversò la mia mente e il ricordo del sogno e delle parole di Nicole riguardo un suo presunto diario mi spinsero ad entrare.

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Capitolo 6
*** Sesto Capitolo ***


Sesto Capitolo









Accostai la porta alle mie spalle e il primo dettaglio che mi colpì fu l’odore di chiuso. Le tapparelle abbassate, la scrivania stranamente disordinata e un piccolo strato di polvere che si alzò non appena poggiai la mano sulla superficie, mi fecero intendere che qualcuno non entrava lì dentro da un po’ di tempo.
Non avevo idea con quale coraggio fossi entrata, come se fosse la cosa più normale del mondo, rischiando di poter essere scoperta dal fulcro di tutte le mie angosce ritrovandomela faccia a faccia.
Ispezionai la scrivania con un rapido sguardo, la mia vista alterata dall’adrenalina, e non notai niente di interessante. Protendendo la testa in avanti, però, m’imbattei in un palio di occhi di un giovane uomo, quello che cingeva la vita di una sorridente preside incorniciato da un riquadro di ruggine. Mi avvicinai socchiudendo gli occhi combattendo contro il buio della stanza e mi concentrai sull’uomo del dipinto. Sicuramente era il padre di William, l’ossessione di Jennifer. Quando entrai per la prima volta in quell’ufficio non avevo notato che i suoi occhi erano bicolore, proprio come quelli del figlio. L’uomo era sorprendentemente bello, di una bellezza da lasciare esterrefatti anche se il suo sguardo sembrava malvagio. Non riuscivo a staccare gli occhi dal suo volto studiandone i particolari e cercando di scovare qualche altra rassomiglianza con Will; i capelli erano neri come la pece, le sue labbra si tendevano in un sorriso appena accennato, la forma del viso squadrata, la postura rivolta verso la donna, cingendole i fianchi. Jennifer mostrava una dolcezza evidentemente persa con gli anni, i capelli lunghi appoggiati sulla spalla sinistra. I suoi occhi, però, sembravano esser stati dipinti con un colore più scuro rispetto al suo naturale. I vestiti dei due erano di un’epoca indecifrabile. Non so quanto rimasi a scrutare il quadro in tutte le sue sfaccettature ma sobbalzai non appena un forte sbuffo di vento fece tremare le tapparelle. Quindi pensai fosse un segnale e decisi di uscire dalla stanza prima che la situazione potesse peggiorare; indietreggiai offrendomi un’ultimissima occhiata ai due poi con il fianco urtai un cassetto aperto della scrivania.
-“Ahi!”, squittii istintivamente, come istintivamente mi morsi la lingua. Mi voltai e quasi non potei crederci. In quel cassetto spalancato c’era un vecchio libro blu. Era gonfio, dai lati uscivano i contorni di alcune fotografie, cartoline forse, e fogli. Lo presi in mano e lo riconobbi immediatamente: era proprio questo il libro che avevo sognato. Era proprio questo il libro che custodiva i segreti della Delacour secondo la narrazione della mia amica. Vissi un attimo di esitazione nel decidere se riporlo o sfogliarlo velocemente. Ma ancor prima di rendermene conto le mie mani ghiacciate dal timore di essere scoperta e mosse dalla curiosità morbosa slacciarono lo spago che lo teneva chiuso. Il diario – così mi veniva da chiamarlo- si spalancò mostrandomi delle pagine fitte di parole con inchiostro nero. Mi caddero dei fogli sui piedi ma me ne sarei occupata successivamente.
Presi a sfogliarlo come se quel gesto invadente non appartenesse a me, e a bocca aperta decisi di leggere una pagina a caso, ma fui investita dalla delusione: ogni foglio era scritto in francese. Sbuffai capendo solo le ultime parole alla fine della pagina Demetrio Je t’aime. Mi chinai a raccogliere i fogli che erano caduti e mentre stavo per drizzarmi urtai il cassetto aperto con la nuca -proprio come un ebete- perché ero palesemente in agitazione e le mie gambe cominciavano a tremare. Il diario mi sfuggì dalla presa e si aprì sulle ultime pagine dove riconobbi la lingua inglese. Mi precipitai in ginocchio per leggere, troppo ansiosa di andarmene per recepire ogni singola parola. Così lo chiusi di colpo cercando di sistemarlo il meglio possibile; lo riposi nel cassetto con accuratezza e corsi via. Okay, è stato un gesto stupido riporre il diario proprio nel momento in cui avevo trovato la parte scritta in lingua ma feci bene a lasciar stare perché, proprio mentre scendevo le scale con aria neutra, la incontrai. Mi rivolse un piccolo cenno di saluto e nient’altro, mi oltrepassò a passi strascicati e pregai con tutta me stessa di non aver tralasciato nessun dettaglio che le facesse scoprire di essermi introdotta furtivamente nel suo ufficio. Quando entrai nella stanza ero così sollevata che avrei anche potuto piangere, incredula di essermela cavata. Il tempo di riprendermi che scorsi di fronte al mio letto Jamie e Nicole a braccia conserte, sembravano attendermi da un po’ e la loro espressione tradiva un ché di occulto.
-“Che fate qui in piedi?”, domandai perché loro avevano le labbra sigillate.
-“Quando noi ci sposteremo prometti che non ti arrabbierai? Che manterrai la calma?”, sussurrò Jamie con aria speranzosa. Roteai gli occhi al cielo fiutando aria di tempesta.
-“Scansatevi”, ordinai, riluttante.
Le due si lanciarono un’occhiata complice e poi si aprirono a mo’ di sipario lasciandomi intravedere quello che c’era sul mio letto.
-“Non ci posso credere!”, strillai gettandomi sul materasso e prendendo in mano quello che era il mio capolavoro.
-“Il lavoro di una giornata! Distrutto!”, continuai scandalizzata, cercando di spianarlo, di dargli una forma accettabile ma, il dipinto che avevo creato durante l’ora extra, oltre che accartocciato, era anche stato imbrattato da una mano non mia. Sentii punzecchiarmi gli occhi da lacrime di rabbia che ricacciai indietro, così mi morsi il labbro e in sussurro gutturale domandai:
-“Dov’è Camille?”
Jamie risucchiò l’aria prima di darmi una risposta.
-“Em, lascia stare per favore! Non ne vale la pena...”
-“Jamie, cara, dimmi dov’è quella serpe!”, ribattei voltandomi di scatto verso di lei.
-“Sei fuori di te dalla rabbia, cerca di calmarti o farai il suo gioco.”, intese facendomi sedere sul letto.
-“E’ vero. Jamie ha perfettamente ragione. Cerca di calmarti e non cedere alle sue provocazioni.”, rimbeccò Nicole posandosi accanto a me.
-“Ragazze, vuole farmi perdere la pazienza”, dissi con una voce talmente adirata e tremante che stentai a riconoscerla, -“e vi assicuro che ci sta riuscendo. Cos’altro devo sopportare?”
-“Oh Emily, vedrai che se tu non le dai spago lei poi desisterà.” Le mani di Jamie cercarono il mio viso contrito ma mi scansai dal suo tocco perché nella stanza entrò Camille. Mi alzai e le andai incontro, lei se ne accorse e assunse un’aria provocatoria come se non aspettasse altro.
-“Allora?”, sputai, avvampando.
Lei inclinò il capo giocherellando con una ciocca di capelli. Si inumidì le labbra sottili prima di aver il coraggio di rispondermi:
-“Allora… che cosa? Che vuoi?”
-“Camille non fare la finta tonta che tanto non ti riesce!”, inveii puntandole il dito contro. Lei scrollò la folta chioma bionda.
-“E’ quello che stai facendo anche tu. Fingi di ignorare il perché del mio comportamento, Collins.”, mi accusò, poi, con tono tracotante.
Mi schiacciai una manata sulla fronte, nemmeno troppo piano.
-“Ti prego, ti prego, ti prego Camille! Non fare la bambina, smettila! Tra me e William non c’è niente. Basta con questa storia, sei ridicola.”
Mi guardò alzando un sopracciglio, smettendo di torturare la sua ciocca di capelli. Lanciò una breve occhiata alle mie spalle e poi mi agguantò per il colletto della camicia trasportandomi fuori dalla stanza. Mi sottrassi bruscamente dalla sua presa, picchiandole contro il braccio.
-“Sei impazzita adesso?” La mia voce era isterica, -“perché devo giustificarmi con te se lui è gentile con me? Quale soddisfazione perversa trovi nel farmi del male?”
Non mi rispose, ma il suo viso si era indurito.
-“Smettila”, chiarii, cercando di farle intendere che la mia pazienza era giunta all’apice della sopportazione. Ma forse era proprio il punto dove desiderava condurmi.
-“La smetterò quando ne avrò voglia, Collins”, stabilì con un sorriso finto. Ero lì per lì per tirarle i capelli.
-“Stammi lontana”, dissi poi con tono fermo e prima di aggiungere dell’altro o prima che potesse insultarmi, la campanella suonò ricordandoci che era ora di cenare. Mi squadrò dall’alto in basso e con una smorfia mi salutò, unendosi alle due amiche. Jamie e Nicole mi furono al fianco nel scendere le scale.
-“Brava ti sei saputa controllare”, commentò Jamie, torturandosi le mani.
-“Qualche volta Camille porta all’esasperazione, ne siamo più che coscienti visto che spesso ci siamo ritrovate a metterle le mani addosso”, raccontò Nicole scuotendo il capo, -“persino Jamie le ha dato uno schiaffo.
Capisci? Jamie! Che ha un temperamento tranquillo e non farebbe del male ad una mosca.”
-“In genere”, aggiunse l’altra sospirando.
Mentre stavamo per raggiungere la sala, dalla porta finestra entrarono Simus e William. Quest’ultimo s’accese non appena incontrò il mio sguardo. Ebbi paura che qualcuno vedesse quell’intesa tra noi così, con rammarico, fui costretta ad abbassare il capo.
Ci accomodammo come di consuetudine e mangiammo nel solito religioso silenzio. Avrei voluto squarcialo quel silenzio, per dire quanto sentissi la sua mancanza. Gli lanciai una fugace occhiata e come mi aspettavo incontrai i suoi occhi trepidanti. Mi scappò un sorriso, provando tenerezza nell’immaginare cosa potesse passargli per la testa. Infondo non mi ero mai avvicinata a lui quel giorno, il che –dopo il giorno precedente- era piuttosto strano. E non poteva sapere delle traversie che avevo affrontato e che mi avevano impedito di varcare quel maledetto confine che ci divideva. Ingoiando l’ultimo boccone di puré mi imposi che prima di andare a dormire lo avrei salutato anche solo per un secondo. Le mie mani bruciavano dal desiderio che avevano di incontrare nuovamente la sua candida pelle. Passando distrattamente la lingua sulle mie labbra sentii il sapore delle patate e del vuoto, della sua lontananza. Era consentito ardere in modo così violento per qualcuno?
Con la coda dell’occhio lo vidi muoversi sulla sedia per attirare la mia attenzione, fece risuonare per tutta la sala un colpo di tosse, e in quel momento compresi che non potevo continuare ad ignorarlo. Simulò uno strano gesto con le dita che solo dopo averci rimuginato capii che voleva dire di aspettarlo fuori al suono della campanella. Aggrottai la fronte come per esprimere la mia perplessità; insomma era un passo avventato chiacchierare allegramente nel mezzo del corridoio con sua madre che gli aveva ordinato di non parlare con nessuna (specialmente con me), e con quell’insolente di Camille. Ma William scrollò le spalle facendomi un rassicurante occhialino. Se dovevo essere tranquilla perché sobbalzai al suono improvviso della campanella? Poi dovetti ricredermi: non avevo a che fare con uno sprovveduto; infatti, nel caos per risalire nelle stanze lui mi condusse in uno sgabuzzino pieno zeppo di scope, scatoloni e secchi. Le sue mani furono subito su di me e i suoi baci annientarono la mia lucidità. Staccandosi mi fissò con rimprovero.
-“Si può sapere dove sei stata oggi?”
-“Ero venuta a cercarti ma poi ho visto tua madre. Non sarebbe stato molto furbo intromettermi tra le tue faccende”, ridacchiai passandogli una mano tra i capelli già scompigliati. Guardandolo negli occhi mi resi conto di quando fosse piacevole provare freddo e caldo nello stesso momento.
-“Non si fa così.”
-“Cercherò di farmi perdonare.” Gli stampai un bacio. Lui si morse le labbra e sorrise.
-“Lo farai certamente sabato.”
-“Ed io non vedo l’ora… come facciamo ad uscire insieme dal collegio?”
William roteò gli occhi al cielo e si distaccò da me, adagiandosi alla parete.
-“Emily, Emily, Emily. Quand’è che ti rilasserai?”
-“William, William, William”, ripetei,-“mi rilasserò quando uscirò da questo posto.”
-“Intendi questo sabato?”
Scossi la testa, la mia mente già proiettata ad un futuro lontano. -“Intendo quando avrò raggiunto la maggiore età”, soffiai con amarezza.
-“Nel frattempo godiamoci i nostri momenti”, suggerì ammiccante e tornò ad abbracciarmi.
-“Questo sta per finire”, mugugnai contro il suo petto. Il suo mento sulla mia nuca, il paradiso tra le mie braccia.
-“Ancora un minuto. Cerca di rilassarti, sei sempre così tesa. Quando usciremo andremo lontano da qui, a Cadmen Town. Va bene?”
-“Va benissimo. Ora è meglio che ci separiamo perché ho le gambe che iniziano a tremare dall’agitazione”, dichiarai una volta slacciatami da lui, la paura che sovrastava il desiderio di metter radici in quell’angolo di pace.
Raggiunsi la porta e la mia mano si ritrovò a stringere la maniglia gelida, la inclinai e socchiusi la porta quando ancora le sue mani mi afferrarono.
-“Solo un secondo. Che poi non possiamo concederceli altri fino a domani”, sussurrò un attimo prima di sigillarmi le labbra contro le sue. Mentre la mia mano sinistra era occupata ad accarezzagli il viso l’altra, quella isterica, si muoveva nella sua massa di capelli oro. Lui mi stringeva e quasi mi spezzava.
-“William”, ansimai poco dopo, perché iniziavo a sentire dolore, -“William.”
Lui credendo che quelle fossero suppliche riprese a baciarmi e ben presto il dolore si trasformò in qualcos’altro, e fu proprio allora che decise di staccarsi una volta per tutte.
-“Mi... mi hai fatto male. Stringi troppo”, ridacchiai timidamente. Lui scosse la testa, sorridendomi irriverente.
-“Sei tu che sei straordinariamente fragile.”
Sospirai.
-“Buonanotte William.” -“Buonanotte Emily. Ci vediamo domani.”
Aprii con estrema lentezza la porta e calcolai quante possibilità avessi di imbucarmi nella coda delle collegiali senza che notassero la mia presenza. Erano alte, le possibilità, perché tutte mi davano le spalle; dunque mi voltai verso William per fargli intendere che me ne stavo andando ma era riuscito ad evadere dalla finestra senza che me ne accorgersi. Chiusi la porta e in un batter baleno, grazie alla mia corsa forsennata, riuscii ad invischiarmi nella mandria. Arrivai nella stanza col fiatone, mi adagiai sul letto e in un attimo le luci si spensero. Era calata la notte e l’adrenalina generata da quell’attimo fuggente mi faceva ancora tremare le gambe; mi girai sul fianco a fissare la luna che, quella sera, era più grande che mai. Era piena e fiera nel cielo stellato quasi a celebrare il mio periodo di gloria. Strinsi il cuscino con vigore, sentendomi leggera come la stessa sostanza gassosa che avvolgeva la luna; era un po’ l’effetto che si veniva a creare nel mio stomaco da quando il mio cuore si era risvegliato dal suo letargo, oltraggiato da remore e dolori. Non avrei permesso a nessuno di intaccare la mia felicità: né all’arroganza di Camille, né alle ossessioni della Delacour, né, tanto meno, alle mie stesse paure. Ma le cose a cambiare, si sa, ci mettono poco.
E incurante di quello che mi aspettava il giorno dopo, mi alzai dal letto.


Ad inizio mattinata non potetti lamentarmi: la Belfiore aveva avuto un piccolo tamponamento con la macchina in centro –niente di grave per fortuna- e noi avevamo, di conseguenza, la prima ora di lezione scoperta. Per questo ci venne concesso di trasferirci in biblioteca o a fare due passi nel portico a patto di rimanere in religioso silenzio. Per un breve tempo seguii Nicole e Jamie in giardino, abbracciate, affiatate, camminavamo incuranti del freddo che ci inseguiva. Discutevano su un fatto che ignoravo ma che confermavo non appena mi interrogavano; ero distratta nel cercare William. Quella mattina non si era presentato a colazione né l’avevo visto lavorare come suo solito. Voglio dire, non ero preoccupata della sua assenza ma più che altro avvertivo il bisogno di entrare in contatto con lui, parlargli, sfiorarlo e baciarlo. Quando di ritorno dal nostro decimo giro intorno all’enorme edificio vidi Simus al centro esatto del cortile, mi illuminai staccandomi dalle mie amiche.
-“Ci vediamo tra poco, scusatemi!”
-“Vai Cenerentola, vai!”, urlò Jamie, di rimando.
Corsi dal signor Simus intento a trasportare un sacco nero e apparentemente pesante.
-“Buongiorno ragazza”, mi salutò arrestandosi per riprendere aria ai polmoni, -“cosa fai qui fuori?”
-“Abbiamo un ora libera. La Belfiore ha fatto un incidente ma niente di grave”, mi affrettai a chiarire per arrivare a chiedergli dove fosse il suo fedele aiutante.
-“Oh, dev’essere giornata”, commentò sfregandosi il mento e lanciando una fugace occhiata al sacco.
-“Per caso ha visto William?”
-“No. Io sono appena arrivato, credevo di trovarlo qui... arriverà”, mormorò un po’ assente, preso a fissare il sacco nero che ben presto stuzzicò la mia insaziabile curiosità.
-“Cosa c’è lì dentro?”, domandai ma quando vidi il suo viso soffermarsi sul mio, quell’espressione così tremendamente sofferente, non tipica, quasi me ne pentii. Poi rispose, restio:
-“Succedono molte cose brutte ragazza, alla guida di un’automobile. E quando la vecchiaia incombe e il sonno ha la meglio sulle mie vecchie palpebre abbassate già di loro natura è quasi impossibile evitare che succedano certe…”
-“Per carità, signor Murfy, vada al dunque o inizio a preoccuparmi”, sillabai sgranando gli occhi. Lui sospirò abbassando le spalle ingobbite. Mi si avvicinò come se dovesse confessarmi un antico segreto.
-“Ragazza, questa mattina ho ucciso una volpe selvatica”, rivelò e sgranò gli occhi come a testimoniare il suo sgomento e, per rendermi maggiormente partecipe al dramma, mi scosse per il braccio.
-“Perché mai?”
-“Non l’ho mica fatto apposta! Diamine non sono un assassino! Io guidavo tranquillo verso il Richmond Upon Thames, dove c’è la casa del mio amico Thomas quando, all’improvviso è venuta fuori questa bestiola e… chi l’ha vista? Io no di certo.”
-“Oh, signor Simus.”
Di nuovo si lasciò andare ad un sospiro e raccattò il sacco contenente lo sfortunato animale.
-“Non sembra”, disse, -“ma è grande e abbastanza pesante. La metterò accanto al ripostiglio e dopo chiederò a William di seppellirla o... non ne ho idea. Ma non potevo di certo lasciarla in mezzo alla strada. Cosa ho fatto…”
-“Non se ne faccia una colpa. Purtroppo accade. Comunque sia quando arriverà William potrà comunicargli che l’ho cercato?” Lui annuì.
-“Eh, è sempre così bello assistere a questi momenti.” Gli occhi di Simus divennero più dolci e meno sgranati, si socchiusero e nel mezzo della fronte spuntò un piglio di anni e anni di esperienza.
-“Questi giochi d’amore, tu che attendi lui e lui che cerca incessantemente te. E’ distratto il ragazzo, un momento è imbronciato e l’altro è euforico e tutto fare. Come se io non mi sia accorto di nulla. E vabbé son gli effetti dell’innamoramento.”
Avvampai.
-“Ma s-s-signor…”, feci un colpo di tosse per schiarirmi la gola, -“Murfy!”
Alzò il braccio libero per aria per poi esclamare:
-“Che vuoi che ti dica se avete due occhi che parlano? L’amore li trasforma li rende lucenti come diamanti, e si riconoscono gli occhi di due che si amano. Ricordalo Emily, ricordalo sempre.” Era la prima volta che mi chiamava per nome, la fermezza delle sue parole mi lasciò esterrefatta. Ancora incapace di credere che tanta fortuna fosse capitata a me. Il riscatto di una vita.
-“Attenta solo ad una cosa…”, seguitò una volta ripreso a camminare, dandomi le spalle, -“che la vostra luce non investì anche qualcun altro.” Senza nemmeno pensarci o controllarlo, il mio sguardo mirò la finestra centrale del quarto piano.
Anch’io ritornai sui miei passi abbracciandomi per via dell’aria gelida che era solita di primo mattino; poco prima di attraversare il portico e salire le scale sentii il rombo di una macchina in lontananza, così, col cuore che sfrecciò in gola, mi voltai e attesi di scorgere il BMW. Mentre William imboccava il sentiero io mi nascosi dietro una colonna, in trepidante attesa. Scese dalla macchina con fretta, si tirò su la lampo del giaccone e si diresse nella mia direzione dove, prontamente, uscii dal mio nascondiglio con un balzo, cinguettando:
-“Buongiorno! E’ te che cerco da questa mattina!”
Sobbalzò aprendosi in un bel sorriso felice.
-“E’ te che cerco da… beh, da un po’.”
Ci stringemmo in un abbraccio e restai con la guancia appoggiata al suo petto per una bella manciata di minuti.
-“Come stai?”, soffiò sopra la sua testa.
-“Io bene”, e chi poteva biasimarmi,-“ e tu? Come mai ci hai messo così tanto ad arrivare?”
-“Ho perso tempo a fare colazione, niente di ché”, mi stampò un bacio sulla fronte per poi appoggiare nuovamente il suo mento sulla mia nuca.
-“Simus ti cercava. Ha ucciso una volpe sta mattina ed era abbastanza scosso.”
-“Ha ucciso una volpe?”, mi fece eco, interdetto.
-“L’ha investita involontariamente. E’ dentro ad un sacco nero e ha detto che devi occupartene tu. Poi mi ha detto dell’altro.”. Mi staccai cercando di apparire misteriosa: mi divertiva vederlo con quell’aria che tradiva preoccupazione e curiosità.
-“Ovvero sia?”
-“Dice che abbiamo due occhi che parlano.”
William fece un ghigno.
-“Vecchia volpe”, commentò, tranquillizzandosi, -“ speriamo non si faccia sfuggire niente. Qui le notizie viaggiano veloci.”
Annuii e ritornai tra le sue braccia.
-“Lui mi ha detto che dobbiamo stare attenti. Di Simus possiamo fidarci perché non parlerà mai”, lo rassicurai, poi sprofondai nel suo collo per catturare il suo inebriate profumo.
-“Speriamo che non lo faccia involontariamente come è successo per la povera bestia. Non voleva mica investirla, no?”
Prima che potesse giungere la mia risposta la campanella che decretava la fine della prima ora e l’inizio della seconda rimbombò sin al portone, facendoci trasalire all’istante.
-“Ora che ci faccio caso, tu, che ci fai qui fuori?”
-“La Belfiore ha avuto un problema. Ora è meglio che io scappi.”
Feci per stampargli un bacio e fuggire in aula quando mi intrappolò trasportandomi all’interno del collegio, incurante del pericolo.
-“Ci vediamo alla pausa pranzo”, mi sorrise, abbassandosi per baciarmi più a lungo. Proprio nel momento in cui non avevamo tempo. Con le mani feci pressione sul suo petto, in modo da scansarlo perché, davvero, le mie gambe cominciavano ad avvertire la fifa che mi contraddistingueva, ma era troppo saldo. Dopo di che un mugolio di piacere gli morì in gola e anticipai il distacco delle nostre labbra. -“Mi farai morire”, affermai sicura che sarebbe successo, allontanandomi da lui.
Non lo sentii rispondere alla battuta, forse per l’improvviso via vai che si venne a formare, né mi parve di udire la sua risata, così, appena giunta alle scale, salii un gradino e mi voltai per regalarmi un’ultimissima occhiata. Ma lui era già scomparso.
Mi diressi al secondo piano dal lato opposto in cui mi trovavo per assistere alla prossima ora di lezione, strada facendo incontrai la Galdys che non perse occasione per fermarmi; ma stavolta voleva un favore e non un farmi un rimprovero.
-“Collins, vieni un attimo qui”, debuttò con quell’aria acida che non sembrava mutare mai, -“ho un piccolo incarico da darti: dovresti farmi le fotocopie di queste pagine. La ventitré, la ventiquattro, la venticinque, una parte della ventisei e la ventisette.”
Mi spiaccicò il libro di storia sulle mani e ispezionò il suo orologio. Poi increspò la fronte scuotendo la testa.
-“Devo andare a prendere la professoressa Belfiore, tu fai le fotocopie e poi vai in classe e dì a tutti di iniziare a leggere che quando torno vi interrogo. Su forza, ancora qui?”
Sfrecciai via. Il problema era che io non sapevo minimamente dove si trovasse la fotocopiatrice (ero all’oscuro anche dell’esistenza di questa nel collegio) e per ciò finii a girovagare nell’aula dei professori senza risultati. Dunque accelerai il passo e finii all’estremità dell’istituto quello dove, in genere, si tenevano le lezioni delle ragazze più grandi. Ero un po’ disorientata, lì, tutta sola intenta ad adoperare quella cosa per la prima volta in vita mia. Io e la tecnologia eravamo gli opposti, se non si è capito. Non a caso impiegai cinque minuti solo per la prima fotocopia e altri venti per le altre; anche la stampante, però, aveva le sue colpe: era dannatamente lenta. Aspettai l’ultimo foglio poggiandomi alla vetrata e fui colpita dal bianco che dominava il cielo.
-“Magari nevicasse”, desiderai in tono un po’ infantile, senza far mancare un sospiro speranzoso. Diedi le spalle al vetro nel momento in cui un click mi avvertì dell’arrivo dell’ultima copia quando, anche da fuori, udii un rumore curioso. Attizzai le orecchie tornando alla vetrata e il rumore mi parve chiaro: qualcuno stava frugando in un sacco di plastica. Immediatamente pensai al povero cucciolo di volpe che doveva seppellire William e uscii di scatto; non potetti fare gesto più avventato: m’imbattei nella schiena della Delacour che fortunatamente mi era a debita distanza. Rientrai in un lampo senza chiudere l’anta, con il cuore schizzato in gola per lo spavento. Infondo mi aspettavo di vedere suo figlio. Per un attimo mi passò per la testa di dirle che in quel sacco di plastica non avrebbe trovato niente di buono ma poi compresi che non potevo non farlo senza evitarmi il terzo grado e una probabile lavata di capo per essere in corridoio nell’orario di lezione, sebbene me lo avesse ordinato la Galdys. Sentendo il rumore persistere feci capolino, anche solo per godermi la sua reazione schifata nello scoprire il contenuto; ma quello che scorsi superò qualsiasi mia immaginazione. La preside estrasse le mani dalla plastica, erano completamente sporche di sangue ed è inutile dire di come il mio stomaco rispose a quell’immagine. Mi porsi istintivamente una mano sulla bocca ricacciando indietro un conato di vomito senza staccare gli occhi dalla Delacour che, inspiegabilmente, si portò le mani all’altezza del naso. La vidi chiudere gli occhi e ispirare l’odore del sangue, poi, senza preavviso, cominciò a leccarsi avidamente le dita, i palmi, fin dove colava il nettare di quella bestia. Strozzai un grido e mi inginocchiai per via di un giramento violento che mi colpì la testa, mi scostai di lato e con una mano cercai di darmi una spinta per tirarmi su ma mi accasciai sul pavimento in preda agli spasmi.
Non posso crederci, gridai in me. Non appena riuscii a mettermi in piedi vomitai anche l’anima. Scappai scivolando, mi rialzai, rigettai nuovamente. Di colpo non sapevo più in quale parte dell’edificio mi trovassi, tutto ciò che mi circondava prese pian piano a sfuocarsi sotto i miei occhi che, sgranati, riproducevano senza sosta l’immagine di Jennifer che si mordeva anche la pelle pur di ripulirsi il sangue con cupidigia. Mi sostenni al muro percorrendo un breve tratto di corridoio, in iperventilazione, diedi ancora di stomaco. Dopodiché persi completamente i sensi.



I miei occhi s’imbatterono nella durezza del bianco di un soffitto che non conoscevo. Per prima cosa capii di essere svenuta; il secondo pensiero, invece, mi rese consapevole di non ricordare il motivo scatenante. Con le mani percossi ogni centimetro del mio viso sudaticcio e mi diedi una vivace strofinata per riprendermi ma, dentro di me, vi era una sensazione orribile: sentivo lo stomaco svuotato, sottosopra, paradossalmente pesante nel mio corpo piccolo. Nella gola un vago sapore metallico che mi costringeva a non ingoiare. Ero adagiata in un letto accanto ad una finestra in una piccolissima stanza bianca, come il soffitto stranamente non sgretolato. Ai miei piedi vidi una scrivania e un lungo armadietto verde che si estendeva per quasi tutta la parete. Il dettaglio più evidente, però, lo constatai nel girare la testa di lato quando mi accorsi di non essere sola. Una ragazza dai lunghi e ondulati capelli color biondo cenere era in una posizione moribonda su una sedia poco distante da me. Volgeva il viso verso la porta , la testa appoggiata al muro, e il braccio sinistro era piegato come se fosse rotto. Solo quando si sistemò indovinai tra la sua ascella un termometro.
-“Scusa”, mormorai con la voce impastata. Lei si voltò molto lentamente verso di me, il suo viso malato e giallastro.
-“Siamo nell’infermeria del collegio, vero?”, volli assicurarmi. Lei annuì e chiuse gli occhi.
-“L’infermiera si è un attimo assentata.”
-“Sai perché mi trovo qui?”
La ragazza riaprì di scatto gli occhi, accennando un debole sorriso.
-“Perché? Non sai cosa ti è successo?”
-“Cosa mi è successo?”, le feci eco.
-“Ti hanno trovata svenuta per terra accanto alle scale che portano ai piani del mio dormitorio. Sei svenuta nel tuo stesso vomito. Hanno dovuto ripulirti.” Con una smorfia per via di quell’immagine reclinò la testa all’indietro, sbracandosi ancor di più sulla sedia.
-“Voglio andare nella mia stanza. Avrò quaranta di febbre come minimo”, si lamentò mentre io, nel letto, non riuscivo a ricordare niente.
-“Forse hai la febbre anche tu.”
-“No, non ho la febbre”, risposi lapidaria e imbambolata.
-“E allora perché sei svenuta?”, mi domandò ma non ero munita di risposta.
Scossi lentamente la testa sebbene lei non potette vedermi e feci per alzarmi ma, d’un tratto, la porta si scontrò bruscamente col la parete ed entrò un’affaccendata infermiera.
-“Oh”, esclamò non appena mi vide, -“rimani nel letto, tu”, ordinò bonariamente. Poi si rivolse alla ragazza che si scoprì avesse trentotto di temperatura; lei era molto contenta perché almeno potette saltare l’ora di matematica. Quando uscì dalla stanza, l’infermiera mi si sedette vicino con fare materno.
-“Emily Collins, giusto?”
Del mio nome ero certa, almeno. Annuii.
-“Allora piccola, che è successo?”
Al suono di quella domanda ebbi la conferma che nella mia testa fosse avvenuto un terribile blackout, più mi sforzavo di ricordare più vedevo nero. Così risposi disorientata un titubante:
-“Non lo so.”
-“Come non lo sai?”, fece l’infermiera con un cipiglio ricco di esperienza.
-“Io non riesco a ricordare. E mi sento lo stomaco sottosopra, ma non ho la febbre ne sono sicura”, dissi tutto d’un fiato, con l’intento di farmi dimettere il prima possibile.
-“Va bene”, mormorò alzandosi per dirigersi alla scrivania dove estrasse un blocco di fogli bianchi.
-“Ti faccio un permesso anche a te per rimanere a letto nelle ore di lezione”, m’informò mentre scriveva veloce.
La ringraziai e scesi dal letto; colpita da un giramento di testa, mi appoggiai all’infermiera che mi guardava con sincera apprensione.
-“Sicura che preferisci andare nel tuo letto che rimanere qui?”
-“Sicurissima. Grazie.”
Afferrai il foglietto, mi congedai e cinque minuti dopo ero già sotto le coperte. Dormii fino all’ora di pranzo, fin quando una dolce carezza non mi destò dal mio sonno profondo e senza sogni. O incubi.
-“Ehi. Come ti senti?”
-“Ciao Jamie”, sbadigliai rimanendo raggomitolata, -“ho una strana sensazione addosso.”
-“D’accordo. Ma ora devi alzarti per pranzare, poi ti lasceremo dormire tutto il giorno.”
Indisposta per quell’obbligo scesi in sala a mangiare veloce come un leopardo, benché non servisse nulla finire il pasto per prima. Con i miei occhi stanchi accarezzai il viso di William che mi scrutava fugacemente e, probabilmente, senza riuscire ad intendere il mio stato d’animo scombussolato. Mi rimisi subito a dormire stringendo il cuscino sulla testa in modo che il sole appena sorto non infastidisse il mio sonno; dormii come un ghiro e quando mi risvegliai era sabato.
Inaspettatamente sabato.




Ancora una volta era stata una mano a svegliarmi, non parlo di quella minuta di Jamie.
-“Emily”, udii rimanendo ad occhi chiusi perché se li avessi aperti forse sarei collassata di nuovo.
-“So che non stai dormendo e che mi senti. Le tue palpebre si sono mosse”, puntualizzò con un lieve sussurro, percependo il suo respiro più vicino. Lo immaginai sorridere e le mie labbra ne imitarono il gesto.
-“William?”
-“Chi altro volessi che fosse?” Stavolta rise e quella risata mi fece capovolgere il cervello, annientando la mia ragione e mi domandai se quell’effetto era lo stesso provocato dagli alcolici, che non avevo mai provato, tra l’altro.
-“Assolutamente nessun altro”, risposi cercando il suo viso nel momento in cui le sue dita tracciavano il mio ovale accaldato. Fu in quel momento che aprii gli occhi e mi accorsi della poca distanza che divideva i nostri visi; il suo, bellissimo, irradiato dai raggi del sole, sembrava non dover mutare mai in quella perfezione tanto sfacciata.
-“Ben svegliata. Si può sapere che hai combinato ieri? Jamie mi ha raccontato che sei svenuta. Non posso mai stare tranquillo con te.”
Girai la testa di lato, sospirando. Poi lui intrappolò tra le sue dita il mio mento e mi costrinse a guardarlo, dolcemente.
-“Non ti sto rimproverando.”
Gli regalai un sorriso fugace, per poi far scordare la distanza tra noi, baciandolo come non avevo mai osato prima. Sentivo che avevamo tempo, paradossalmente, sentivo che non era abbastanza. In quel bacio concentrai tutte le mie energie, staccando la schiena dal materasso per cingermi di più al suo collo. Lui mi trattenne, gemendo per quella mia violenza insolita. Dunque mi rimise sdraiata e si accompagnò su di me senza mai staccarsi, nemmeno per un attimo. Per quanto mi riguardava potevamo continuare così fino alla fine dell’ossigeno, ma, ahimè era un tempo troppo lungo anche per tutta quella passione.
-“Sai una cosa?”, disse appoggiando la fronte sulla mia, affannato come se avesse appena finito di correre. -“Cosa?”, ridacchiai fissando le sue labbra rosse e piene.
-“Dovresti... sì, ecco, dovresti svenire più frequentemente se significa questo.”
-“Oh, William!”, risi, spostandolo e cacciandogli un cuscino sul petto; si alzò e si passò distrattamente una mano tra i capelli indicando con un cenno del capo il cielo.
-“Vedi che bella giornata oggi? Anche Londra celebra la nostra prima uscita ufficiale.”
E persi il conto di quante volte disse quella frase. Mentre mi vestivo di tutta fretta, lo sentii mormorare di quanto Londra fosse stata clemente con noi, che era un segno divino che quel giorno non piovesse. Che Dicembre non era mai stato simile alla primavera come allora. Io confermavo mentre nel bagno, lontano dai suoi occhi, impazzivo nel mettermi le calze e gli stivali. Passai più tempo a sistemarmi davanti allo specchio che nell’agghindarmi. Vestitino pesante bianco e calze color carne erano l’accoppiata vincente per il nostro appuntamento. Uscii dal bagno e s’illuminò.
-“Sei meravigliosa, Emily.”
Non andammo insieme all’uscita del collegio -come previsto per evitare che qualcuno ci scoprisse-; montai nella sua auto fuori dalle mura, proprio come una fuggitiva e il mio sorriso si allargò da un orecchio all’altro. -“Ce l’abbiamo fatta!”, esultai congiungendo le mani dalla gioia. William annuì accarezzandomi una guancia. -“Fortunatamente mia madre è partita prima questa mattina.”
-“Allora è andata a Parigi a trovare Genevieve?”, domandai, rilassandomi sul sedile. Lui scosse la testa, contrito.
-“Sarebbe più facile vedere Simus arrampicarsi per l’edificio del collegio a togliere le erbacce e il muschio lungo le finestre. Tsè, credo che lei si sia dimenticata di avere anche una figlia”, sentenziò voltando un angolo e digrignando i denti. Io e la mia linguaccia!
-“Sono sempre la solita, scusami per questa domanda”, sussurrai abbassando la testa, mortificata.
-“Non puoi sapere del legame d’odio che le lega, Emily”, disse con amarezza, come se stesse pronunciando una terribile condanna. Tacqui raggelata, valutando se fosse stato il caso di approfondire l’argomento.
-“Io credo che...”, non ero per niente convinta delle parole che da lì a poco sarebbero uscite dalla mia bocca, -“qualsiasi sia il motivo che le tiene divise, beh, si possa risolvere in qualch…”
-“Oh no, no Emily. No. Proprio… davvero è una questione irrisolvibile. Meglio cambiare argomento.” Non ebbi nemmeno tempo di completare la mia frase che lui s’accaldò a rispondere, crucciandosi in un’espressione che oscillava tra il fastidio e lo sconforto. Rimasi per un po’ a fissarlo, provando un’estrema irritazione per il suo ermetismo. Quel suo lato enigmatico che cominciava a starmi stretto. Inspirai delicatamente per non fargli intendere che in realtà sbuffavo per il suo fantastico modo di troncare ogni argomento riguardasse lui, la sua famiglia, il suo privato.
-“Ti ho offeso”, proclamò, un istante dopo, fermandosi ad un semaforo rosso. Mi schermii dal riflesso del sole che colpiva l’auto di fronte e cercai di rimanere calma.
-“Non è che mi hai offeso”, borbottai in tutta risposta, -“però… io.. non lo so, William.”
Sapevo benissimo che avrei potuto ribattere con qualcosa di più intelligente, un qualcosa di sensato almeno, senza esagerare, ma nel tuffarmi nei suoi occhi tristi non capii nemmeno dove mi trovavo. Tuttavia ritentai. -“Tu non mi hai offeso. Affatto”, lo tranquillizzai posandogli una mano su una guancia, lui trasalì al mio tocco molto più caldo della sua pelle, -“però ho l’impressione che tu non ti fidi di me. Ma forse non è nemmeno così che va spiegata questa sensazione; tu ti senti libero di parlare con me vero?”. William si liberò della mia mano per riprendere a guidare, rompendo anche il contatto visivo tra noi. Tossì prima di rispondere.
-“Perché la conversazione sta prendendo questa piega? Non possiamo solo goderci la giornata, così, normalmente?”.
-“Perché stai schivando la mia domanda?”, ribattei, stavolta senza tentare di dissimulare il mio fervore. Gli occhi di William si ingrandirono per la sorpresa della durezza del mio tono che, sinceramente, scosse anche me.
-“Scusa”, soffiai immediatamente, con un filo di voce, -“scusa.”
-“Se io non mi fidassi di te, Emily”, mi lanciò un breve sguardo per assicurarsi che lo stessi seguendo e che quindi non stessi rifugiata tra i miei pensieri,-“a quest’ora tu non saresti nella mia macchina. Se sei al mio fianco è perché voglio che tu faccia parte della mia vita. E mi fido, mi fido immensamente di te. Ma è di quello che potrei raccontarti che non mi fido. Non puoi capire le mie parole, ovviamente”, sorrise ma parve una smorfia, -“non ti chiedo nemmeno di comprenderle, le mie parole. Ma ogni cosa ha il suo tempo. O almeno vorrei che ci fosse un tempo, per parlare davvero. Per questo sono io che ti chiedo, -ti prego-, di fidarti di me.”
Rimasi per un po’ a soppesare le sue parole, a scandirle intensamente nella mia mente così come erano state pronunciate. William si girò per guardarmi negli occhi, e non fui in grado di rispondergli. Mi limitai ad annuire lentamente col capo e poi ci baciammo fugacemente, giusto per sigillare la pace, la tregua. Un suo ultimo sguardo pose fine alla conversazione, quindi per metà del tragitto rimanemmo in perfetto silenzio. Ogni tanto mi concedevo un’occhiata di sbieco e fui serena di vederlo di nuovo di buonumore come se il piccolissimo diverbio di qualche minuto prima fosse ormai lontano. Rilassatami anche io sprofondai nel sedile lasciando che il sole solleticasse le mie guance, cercando di ricordare la strada che stavamo percorrendo. -“Mmm”, mugugnai.
-“Che hai?” Buffo come il tono della sua voce risuonasse leggermente intimorito alle mie orecchie.
-“Questa non è la strada per Cadmen Town!”, mi accorsi disorientata. William annuì con convinzione, segno che aveva tutto sotto controllo. Come sempre del resto.
-“Infatti”, mi spiegò, -“c’è stato un piccolo cambio di programma. La nostra nuova meta è un segreto. Quindi ti chiedo di pazientare, Emily.”
-“Oh”, esclamai, “splendido.”
Lui e il suo inarrestabile ermetismo.


Vicino all’Hyde Park, ogni anno, nel periodo che anticipava il Natale, vi era allestito un grande spazio dedicato alle famiglie di Londra. Esso era popolato da bancarelle di cibi, souvenir, giostre e intrattenimenti vari. Senza dimenticare gli addobbi colorati e gli alberi di natale più alti di me situati nei vari punti strategici del posto. Ed infine la ruota panoramica che William mi aveva sapientemente indicato non appena giunti a destinazione, come se quella cosa gigantesca non fosse evidente. Così agli inizi di Dicembre, -mentre il countdown per il mio sedicesimo compleanno era appena scoccato-, io e William ci trovavamo a perderci tra la folla in un bellissimo luogo incantato chiamato Winter Wonderland.
-“Non ci sei mai stata?”, mi chiese alzando il tono della voce per via di tutta quella colorata frenesia.
-“No, mai!”, risposi di rimando, non capendo come abbia fatto a non capirlo senza chiedermelo dal momento che, lo sapevo, sul mio volto si stavano manifestando tutte le mie emozioni. Ero felice, finalmente.
-“Bene, adesso ti faccio vedere un’altra cosa”, sghignazzò cingendomi al suo petto. In preda all’euforia immaginai i miei occhi brillare proprio come quelli di tutti i bambini lì presenti con i loro genitori. William arrestò il passo di fronte ad una vasta pista di pattinaggio e il mio sangue gelò alla vista e al pensiero di metter piede su quella lastra mortale. Non mi ero mai cimentata in tale impresa, prima d’ora. Mi girai e trovai William che già negoziava per farsi dare due paia di pattini. Deglutii nervosamente.
-“Io... Io non sono capace.”
-“Hai mai provato?”, s’avvicinò sorridendo, inclinando il viso verso il mio. Intuiva la risposta, così sospirai senza dichiarare l’ovvio. Allungai controvoglia una mano verso i pattini, ero così nervosa che quasi mi caddero dalle mani, ma ero altrettanto emozionata di stare accanto a lui per tutto il resto della giornata, -era innegabile-, che quel pensiero fece scomparire ogni forma di nervosismo e con cautela mi aggrappai al suo maglione.
-“Cosa devo sopportare”, mormorai contro la sua schiena, non appena messo piede sul ghiaccio. Lui sbuffò scherzosamente e si voltò (anche troppo velocemente) per tenermi le mani.
-“Ci divertiremo. E’ una promessa.”
Stritolai le sue dita per quanta forza sprigionai nell’attaccarvi e non ebbi nemmeno la decenza di scusarmi, ma la mia voglia di rimanere in bilico era proporzionale all’eccitazione di rimanergli accanto.
-“Andiamo verso il centro, con molta molta calma, Emily. Poi ti lascerò andare da sola.”
-“Oh, tu non lo farai!”, esclamai quasi strillando.
-“Devi superare le tue paure”, chiarì con aria saggia per nulla credibile.
-“E se io non le volessi superare?”, la buttai lì cercando di saldare la presa. Lui scrollò le spalle facendomi dondolare, poi rispose in modo fin troppo lapidario:
-“A volte non si hanno scelte.”
E mi lasciò andare.
La sua figura si allontanò con estrema grazia, ondeggiando persino, e piroettando senza staccare gli occhi dai miei. William mi guardava come un genitore guarderebbe un figlio in difficoltà in una situazione simile: divertito e ambiziosamente speranzoso.
-“Muoviti, ce la puoi fare!”
Mi sorreggo per miracolo formulò il mio cervello, ghiacciato come il palco su cui stavo per rovinare.
-“Tra due secondi ci proverò!”, gli gridai ostentando convinzione. Alcune persone si muovevano con una certa disinvoltura sulla pista altre, invece, arrancavano piccoli passi guidati dai più sapienti. Un gruppo di bambini decise di sfrecciarmi accanto proprio nell’esatto istante in cui trovai il coraggio di muovermi. E l’impatto fu devastante, oltre che talmente veloce da non sentirlo nemmeno.
Mi ritrovai per terra con altri due ragazzini, circondata dal resto del gruppo che faceva improvvisava vere e proprie acrobazie per mantenere una posizione stabile.
-“Ahi!”, gridò il bambino toccandosi la tempia sinistra.
-“Ti ho fatto male piccolo?” Cercai di tirarmi su mantenendo una certa dignità seppur sembrava un’impresa poter riuscire in entrambi gli intenti.
-“Che dici?”, squittì scattando in piedi con l’altro amichetto, talmente coperto dalla sciarpa che il suo viso mi era quasi celato. Comunque mi parve stesse ridendo.
-“Mi hai fatto male col tuo ginocchio!”, si lagnò rabbioso, poi scosse la testa e si allontanò con gli altri e l’altro che, sì, ne ero certa, rideva. Poi tornò William che mi aiutò a riacquistare una posizione eretta.
-“Stai bene?”, tossicchiò e capii: anche lui si stava divertendo alle mie spalle.
-“Tu stai ridendo, Will?”
Sospirò, alzando bandiera bianca.
-“E’ stata una scena bellissima, davvero”, ammise dunque.
-“Ti prego andiamocene da questa pista maledetta. O vuoi che uccida qualcun altro?”
-“L’idea mi alletta ma vedo la disperazione nel tuo sguardo per cui…”
Fortunatamente avevo a che fare con una persona abbastanza compassionevole perché William capì al volo che non era il caso di continuare a stare lì, per questo tornammo sul terriccio e l’asfalto a goderci quell’atmosfera rilassante nella sua rigidità invernale.
-“Sai una cosa?”, disse di fronte ad una bancarella di dolciumi, -“Dicembre è il mese che preferisco fra tutti” Lo guardai sorridendo per l’ironia di quella frase.
-“Lo era anche per me un tempo. E a Natale compirò sedici anni.”
-“Oh”, esclamò, -“non lo sapevo. Non avevi intenzione di dirmelo?”
Scrollai le spalle.
-“Beh, dovresti dirmi cosa desideri per il tuo sedicesimo compleanno.”
Riprendendo a camminare in quella calca di gente, io gli lanciai un’occhiata truce.
-“Non si chiede al festeggiato”, lo ammonii. Lo vidi increspare le sopracciglia.
-“Sì invece.”
-“Sì okay, ma a me non piace. E l’unico regalo che tu possa farmi è stare con me in quel postaccio, d’accordo?”
-“Mmm”, dondolò la testa con aria pensierosa, ma cercai di non indagare nei suoi pensieri, -“sai che tutti gli anni, nei giorni festivi, le collegiali che non hanno una famiglia con cui festeggiare vengono accolte nell’oratorio parrocchiale? E’ una bella iniziativa, così mi ha riferito Simus, di recente.”
-“Avrò un posto per festeggiare allora”, finsi entusiasmo.
-“Ci sarò anche io con te, ovviamente.” William mi fece un occhiolino e arrestammo i nostri passi di fronte a dei canestri. Quelli che se si fa un tot. di punti si vince…
-“Un orso rosa gigantesco! William, devi assolutamente prendermelo”, gli ordinai solennemente. Lui saggiò a lungo il peluche e i canestri, poi acconsentì ordinando una partita.
-“Come vuole, signorina.”
Mentre io ero poggiata in un angolino, dopo circa cinque canestri di fila, vidi un piccolo gruppo di persone guardare William con ammirazione. Un bambino aveva completamente spalancato la bocca, tirando il lembo del cappotto della madre per indicarle quel fenomeno incredibile. Mancavano solo altri cinque canestri per ritirare il premio e mi arrivò la sua occhiata come per dire “tranquilla, è tuo”; gli regalai un applauso e una signora anziana mi chiese:
-“E’ il tuo ragazzo, signorina?”
-“Sì, è il mio ragazzo.”
La donna mi diede una leggera pacca sul braccio.
-“Complimenti. Anche mio marito era un uomo avvenente e di talento.”
Dunque io avrei voluto –davvero- continuare a dialogare con la signora su quanto fosse fantastico il mio ragazzo ma, alla distanza di dieci teste, ne vidi una che mi fece capovolgere il cuore. E non in senso positivo. -“William!”, dissi, avvertendo che a passi distratti ma pur sempre veloci, Camille si stava avvicinando pericolosamente con uno zucchero filato in mano.
-“William”, lo afferrai per il braccio facendogli mancare un canestro –e credei che le persone lì intorno volessero sbattermi fuori dal posto- lui si voltò sgomento.
-“Devo nascondermi. Sta arrivando Camille, non può e non deve vederci insieme o ci renderà la vita impossibile.”
Con l’espressione di chi non ha capito niente William mi sussurrò qualcosa che mi rifiutai di ascoltare, in quanto in preda all’ansia schizzai via. Mi nascosi appena dietro ad un venditore di hot dog, William nella mia visuale aveva assunto un’aria confusa e mi cercava con lo sguardo. Poi lo vidi trasalire e si voltò come se fosse stato chiamato da qualcuno, un secondo dopo Camille gli saltellava intorno, emozionata per la coincidenza. William si grattò il capo, chiaramente in disagio. Sempre china mi avvicinai al retro dei canestri, non potevo più vederli bene ma perlomeno potevo udire le sciocchezze e le frivolezze che da lì a poco avrebbero travolto il mio povero Will.
-“Ehi!”, squittì lei con una malriuscita cadenza sensuale nella voce, -“e tu che ci fai qui?”
Udii William schiarirsi la voce prima di parlare.
-“Sto facendo due tiri ai canestri.”
-“Lo vedo. E sei da solo?” Vecchia serpe.
-“Sì, io sono da solo. Tu invece?”
Mi alzai sulle punte quel poco che bastava per farmi vedere una vicinanza non propriamente gradita tra i due. Camille mordicchiava lo zucchero filato e aveva uno sguardo che non le avevo mai visto, forse perché io non ero lui.
-“Ero con mamma. Possiamo rimanere un po’ insieme, non ti sembra una bellissima idea? Non abbiamo mai occasione per parlare lì al collegio, sembra che tu voglia dare solo chiacchiera a quella… Emily.” E gli lanciò un’occhiata da sopra quelle ciglia curve che mi fece ribollire il sangue nelle vene. Strinsi la mia borsetta.
-“Non è che io parli con Emily, è solo che mi piace aiutare gli altri e lei aveva bisogno di aiuto”, improvvisò distaccando lo sguardo dal suo e facendo un ennesimo canestro.
-“Anche io ho bisogno di aiuto”, azzardò lei, avvicinandosi ancor di più lui. La sua gamba premeva su quella di William, quella visione fece premere la vena della mia tempia. Avrei voluto saltare fuori da quel nascondiglio e tirarle la mia borsetta fino a farla scappare via, quella serpe, tuttavia rimasi a logorarmi in quell’angolo. Avevo tanto stress e stanchezza repressa che avrei potuto farlo davvero. William scrollò le spalle e simulò un sorriso finto perché non vidi apparire la sua fossetta ai lati della bocca.
-“Non mi sembra che tu abbia bisogno di aiuto. Tanto meno del mio.” Altro canestro.
-“Questo lo dici tu”, borbottò lei gettando distrattamente lo stecco dello zucchero filato nel cestino lì vicino, a grandi passi tornò accanto a lui.
-“Carino quell’orsacchiotto rosa.”
-“Già. Sto cercando di prenderlo.”
Camille si voltò si scatto, apparentemente spaesata.
-“Che devi farci tu con un pupazzo rosa?”
William adagiò le mani sulla penultima palla e si mordicchiò il labbro, segno che Camille stava infastidendo anche lui.
-“E’ il primo premio no? Il massimo dei punti.”
-“Già, è molto carino. Davvero tant...”
-“Se lo prendo è tuo”, la interruppe con una leggero tono di irritazione che lei, presa dalla sua invadenza e sfacciataggine, non colse. Mi accasciai sulle ginocchia, stanca. Non furiosa come avrei dovuto essere.
Sentii l’ultimo canestro andare a vuoto e la disapprovazione di Camille. Rifeci capolino vedendo il giostraio consegnare un premio di consolazione, un peluche tenerissimo che da quella distanza mi sembrava una piccola tigre o un gatto. William lo prese e vidi il suo sorriso spegnersi, dunque si voltò verso Camille e le disse:
-“E’ tuo.”
-“Oh, ma è bellissimo! Grazie mille!” Camille abbracciò il peluche con un sorriso a trentadue denti, mi domandai cosa la trattenesse nel saltellare dalla gioia. Io mi alzai confondendomi tra la gente, trascinandomi fino ad arrivare ad una bancarella di dolciumi. Comprai un sacchetto di cioccolatini al latte e poi fui costretta a spostarmi per la troppa calca. Finii contro una cabina telefonica e mi tornarono in mente le parole di mia nonna “chiamami appena ne hai la possibilità, tesoro”, e ne avevo di cose da raccontarle considerando la nostra ultima conversazione interrotta dalla linea telefonica. Entrai nella cabina e provai a chiamare. La linea risultava staccata, ancora.
Se solo sapessi la via di quel dannato centro l’andrei a trovare! Pensai, appoggiando le spalle al vetro. Poi qualcuno privo di grazia bussò per dirmi di sbrigarmi; uscii e mi scusai riluttante con un anziano signore. Ero intenzionata a tornare ai canestri ma avevo timore di poter esser scoperta, così mi abbandonai su una panchina solitaria al centro del caos a mangiare i miei cioccolatini consolatori. Un’immagine triste, e per fortuna che Londra stava celebrando il nostro primissimo appuntamento. Se fosse stato davvero così Camille non avrebbe trovato la nostra strada, interrompendo tutto. Masticai sconsolata e in trepidazione che lui si liberasse dalla morsa di cui era prigioniero. Senza nemmeno pensarci calciai un sasso poco più grande del cioccolatino che avevo appena mangiato e presi qualcuno, forse un bambino, perché dopo il gesto sentii uno squillante “ahi!”. Ma quando alzai la testa vidi un ragazzo altissimo, avvolto in un cappotto nero, con i capelli lunghi e raccolti in un perfetto codino basso. Oltre i suoi occhiali da sole mi sorrise per la circostanza.
-“Scusami se ti ho preso, non ti avevo visto”, mormorai. Il ragazzo scosse il capo e indicò lo spazio vuoto della panchina, chiedendomi con voce soave:
-“E’ occupato?”
-“No. E’ libero”, risposi seguendo la sua camminata fluida arrestarsi al mio fianco. Io scivolai un po’ più in là, quel tipo sembrava esser in vena di chiacchiere.
-“Ora che il cielo si sta offuscando riconosco la mia Londra.”
-“Mmm”, commentai concedendomi di guardarlo di sbieco.
-“Spero che i miei amici si sbrighino prima che venga giù un temporale.” Il modo in cui parlò mi fece voltare di scatto verso di lui, e lo scoprii impegnato a guardarmi da capo a piedi con insistenza. Si era tolto gli occhiali e i suoi occhi sembravano aver rubato l’azzurro del cielo. In tempesta fissarono i miei.
-“Io ti conosco. O almeno è così che mi sembra. Posso sapere il tuo nome?” Strinsi la mia borsetta, indecisa se darmela a gambe o restare lì; avevo l’impressione fosse un tipo pericoloso. Ma ero come incollata alla panchina e, per di più, non riuscivo a distaccare il mio sguardo dal suo perché familiare. Tuttavia ero certa di non averlo mai incontrato prima, così risposi seccamente:
-“No, credo che tu mi stia confondendo con qualcun'altra.”
-“No, invece”, rimbeccò piegando gli angoli della bocca all’insù, -“sono sicuro di quello che ho davanti.”. Stavo per ribattere ma decisi una volta per tutte di cambiare aria; non appena un passo che tornai indietro: erano arrivati i suoi amici. Quelli che stavano ritardando.
-“Oh, alla buon ora”, brontolò alzandosi dalla panchina il ragazzo dietro di me. Mi scansai senza nemmeno guardare in faccia i nuovi arrivati, quando uno di loro, un moro mastodontico, mi paralizzò il passo.
-“Ma tu sei...”
-“Sì, ve l’avevo detto che l’avevo vista entrare qui dentro. Ci avete messo un po’ ad arrivare”, esclamò l’altro, pavoneggiandosi e cingendomi le spalle. Scrollai il suo braccio pesante dal mio corpo e presi a correre. Spiegazioni del loro comportamento non ne volevo.
-“Un momento aspetta!”, gridava la voce del terzo amico, a cui non sapevo affiancare un volto. Io intanto correvo impaurita in mezzo alla folla di cappotti che si aprivano al mio passaggio, poi, infine, un grido che spezzò il mio respiro per un secondo.
-“EMILY!”

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Capitolo 7
*** Settimo Capitolo ***


Settimo Capitolo









Avevo lo sguardo allucinato e i polmoni di chi corre da tutta una vita quando mi ricongiunsi con William, lontano dai miei inseguitori, lontano dalla serpe bionda che, inconsapevolmente, stava per mandare all’aria il mio pomeriggio di gloria. William era riuscito a congedarsi e mi raccontò senza troppo entusiasmo di come lei gli ha accarezzato il volto in segno di saluto. Mi ha detto, poi, di aver volutamente mancato l’ultimo canestro per il primo premio in modo da non donare a lei l’orso rosa che mi spettava. Mentre continuava a parlarmi, -seduti come due bambini su un cornicione di marmo accanto alla ruota panoramica-, io avevo ancora il cuore che batteva come un ossesso. Indovinando il mio stato d’animo William mi regalò un bacio sulla fronte.
-“E’ passato. Loro non ci sono più”, sussurrò per calmarmi. Io scossi la testa come una pazza fuori di sé.
-“Sei sicura di non conoscerli?”
-“Sì, ne sono assolutamente convinta!”, ribattei per la centesima volta. Voglio dire, un ragazzo del genere – alto, affascinante, tutto nero da capo a piedi ad eccezione del suo colorito- non era facile rimuovere dalla memoria.
-“Forse frequentava la tua stessa scuola e ti ha riconosciuta. Non significa per forza che vi siate dovuti presentare… ti avrà vista nei corridoi o da qualche parte.”
Annuii con precaria convinzione.
-“E’ possibile. O forse la ragazza che cercavano si chiama Emily e per uno scherzo del destino –ma poi quanto gli piace scherzare a questo destino, eh William?- mi somigliava”, mormorai torturandomi le dita. L’aria si arricchì della sua risata e balzò dal muretto, mettendosi di fronte a me.
-“Comunque sia ora ci sono io con te. Non ti accadrà niente di brutto.”
Sorrisi passando timidamente le mie mani sul suo viso, sui suoi tratti che mai avrei imparato perché troppo sublimi anche per la mia immaginazione.
-“Lo so.” Accostai la mia fronte alla sua e i nostri nasi si strofinarono diverse volte, ridemmo divertiti. Era così bello stare con lui, vederlo, odorarlo, viverlo e non farmi mai bastare i nostri urgenti contatti. Le sue labbra premerono sulle mie con delicatezza e tutte le volte che ciò accadeva era come subire uno shock. Sentii dei versi morire nella sua gola e poi le nostre labbra si schiusero per approfondire quel bacio. Le nostre lingue si intrecciarono e scoccarono tristemente al nostro distacco.
-“So dove portarti per farti tranquillizzare completamente. Un piccolo posticino dove saremo solo io, te e il cielo.”
Aggrottai le sopracciglia non capendo, al che seguii il suo sguardo che mirava in alto dietro le mie spalle e, senza nemmeno aver bisogno di voltarmi, capii.
-“Vuoi portarmi fin lassù?”, squittii balzando giù dal cornicione, con un sorriso alquanto tremante.
Lui allargò le braccia.
-“Non puoi dirmi di non essere mai salita su una ruota panoramica, Em.”
Mi misi a braccia conserte e risposi prontamente:
-“Non è mica un disonore non essere mai saliti su quella cosa tonda e pericolosa. E io non ci salirò mai.”
Non credevo davvero alla mia ultima frase ma, sia mai ci avesse creduto lui, mi sarei risparmiata di avere per la seconda volta nell’arco del pomeriggio il cuore in gola.
-“Non tutto ciò che ti circonda è una minaccia, un pericolo. Quindi prendimi la mano e andiamo.”
Sospirai. Non avrei mai vinto contro di lui per questo non insistetti nell’essere irremovibile, nemmeno alla pista di pattinaggio ero riuscita ad impietosirlo. Così gli presi la mano e dopo cinque minuti eravamo con i piedi lontani dal cemento.
Non era poi una sensazione così orribile avere il vento dicembrino mischiato all’odore della pelle di William costantemente sul viso, lì, ad un passo dal cielo. Proprio come aveva detto.
Ero rannicchiata a lui stringendo il suo braccio sinistro mentre il mio capo era poggiato sulla sua spalla che si muoveva: stava ridacchiando. Forse rideva per gli strani versi che uscivano dalla mia bocca ogni volta che, per puro masochismo e niente più, mi costringevo a sbirciare di sotto.
-“Non è che è scritto da qualche parte e allora tu devi per forza guardare giù”, mi diceva senza smettere di ridere, sfregando la mano sul mio braccio piegato in grembo. Io risi e mi sentii infinitamente piccola comparata al panorama che mi si parò davanti. Non avevo mai fatto caso a quanto fosse piena di luci questa città, vista dall’alto era qualcosa di magico.
Il cielo sì era macchiato di rosso quando mi accorsi di quanto veloce fosse trascorso il tempo.
Poi William parlò di nuovo e, beh, oramai avevo capito come faceva lui: buttava una frase lì, criptica, e poi non diceva più niente fin quando io non gli facevo pressione.
-“Come posso riconoscere il momento, Emily?”
Nel suo sguardo lessi la trepidazione di un’attesa che solo lui poteva conoscere.
-“Che momento? Quale?”, allora gli domandai ma senza tornare a guardarlo.
-“Ti ho pregato di fidarti di me, prima, in macchina. Di fidarti anche se alcune cose della mia vita ti sono celate. Vedi io devo raccontarti una storia, una storia fin troppo grande per le mie labbra ma che comunque devo riportare alla memoria. Non è facile poiché nel raccontartela…” Fece una breve pausa saggiando a lungo il cielo, poi lo sentii muoversi e inclinai la testa verso la sua e ci guardammo.
-“… potrei perdermi.”
Fu allora che scorsi timore nei suoi grandi occhi e angoscia. A me tremavano le labbra pur non sapendone il motivo.
-“Fallo”, sussurrai e la mia voce parve un impiccio. Mi strinsi ancora di più a lui, divincolandomi dai suoi occhi. Ma si limitò a fissarmi privo di espressione nonostante potessi avvertire sul mio corpo le sue emozioni; del resto eravamo così vicini.
-“William. Raccontami questa storia.”
-“Domani”, rimandò in tono fermo e autoritario, un tono che non aveva mai sfiorato le sue labbra rosse se non quelle della madre. Sbattei più volte le palpebre e poi sospirai, digerendo il tutto. Annuii convinta e scivolai dalla sua spalla al suo cuore. William mi prese il mento tra le dita e sollevò la mia testa da quella posizione, un sorriso si manifestò sul suo volto e, mentre io guardavo l’infinito del suo sguardo lui si perdeva nell’infinito del cielo.
-“Domani”, ripeté con più convinzione nella voce, -“c’è un posto che voglio mostrarti, lì al collegio. Non ti sembrerà nemmeno di essere a Londra. E allora io ti racconterò tutto, Emily. Te lo prometto.”
-“Okay ma devo preoccuparmi?”, ridacchiai pur essendo nel mio intimo assolutamente intimorita. Insomma, tutto questo mistero. L’ultima volta che William aveva deciso di rivelarmi qualcosa era per dirmi che aveva visto un fatto accadere ancor prima di compiersi. Lui rimase serio senza unirsi alla mia risata ma nonostante questo dettaglio io non pensai nulla poiché pareva non avermi udito. Sospirai e mi abbandonai tra le sue braccia e alla sera che stava incombendo.
In macchina mi sentii strana, verso la strada per il ritorno. Cercai di comprendere se la sensazione fosse legata alla melodrammaticità di William nel dire le cose, o se fosse legata a qualcos’altro. Tamburellavo le nocche delle dita sul finestrino mentre l’abitacolo si riempiva di musica commerciale, William chiacchierava nel frattempo e la rigidità che lo aveva colto sulla ruota panoramica sembrava scordata. Ma io mi arrovellai il cervello per tutto il tragitto cercando di capire cosa avesse in mente di dirmi. Non mi accorsi nemmeno di essere arrivata al collegio, ad un certo punto. William aveva parcheggiato fuori dalle mura e mi aveva pregata di uscire di fretta per evitare di essere visti; sul viale, poi, scorsi le macchine dei genitori tutte incastrate nel cortile con l’attenzione rivolta altrove. Meglio così, pensai, ora mi tocca solo raggiungere Jamie e Nicole – magari anche ringraziare la signora Danielle per avermi firmato il permesso d’uscita e fingere che sarei andata con loro- e il gioco è fatto.
Ma le cose, si sa, per la sottoscritta non sono mai così semplici. Fu quando l’auto del signor Simus sfrecciò a tre centimetri dal mio fianco che girandomi raggelata vidi sul sedile del passeggero un enorme sacco nero; un immagine apparentemente normale che nella mia mente fece scoppiare un ricordo. Nella sua totale inclemenza.
Le mani della Delacour nel sacco dove giaceva il corpo della volpe. Il sangue dell’animale sulle sue mani pallide e affusolate. La sua lingua avida che asciugava il rosso sulle sue dita. Il mio rifiuto, il mio shock. Rimasi col fiato mozzato e sentii le gambe tremare come foglie, il mio cuore faceva altrettanto ma non permisi al panico di prendere il sopravvento e quindi mi ressi con straordinaria determinazione. Presi una manciata d’aria che mi fece girar la testa e proseguii il mio cammino, frantumando i miei buoni propositi di rimaner a parlare con Danielle e compagnia. Una volta dentro salii le scale due a due, la mia mente talmente impappinata m’ingannò e salii un piano in più. Riscendendo salutai Jamie e Nicole che mi ponevano domande, mi dicevano che la madre di Nic era un po’ in pensiero per aver firmato il permesso e fatta uscire con William, che ha chiesto il mio numero in caso di necessità ma io non ricordavo nemmeno di possedere un cellulare, ormai defunto nel baule. Annuivo pur avendo di fronte agli occhi quella scena, ripetuta all’infinito. Allora, accucciata nel bagno accanto alla lavatrice che rumoreggiava nel pieno della sua attività, mi chiesi se mai, per caso, avessi riprodotto nella mia testa l’immagine di un film già visto. Ma no rispondeva una voce, l’eco del mio buonsenso, lo sai, l’hai visto. E’ successo davvero.
Poi entrarono nel bagno alcune mie compagne che si precipitarono su di me aiutandomi ad issarmi ma io non avevo chiesto il loro aiuto; venne Jamie che mi prese il viso tra le mani e sentii scottare le sue dita. No, erano le mie guance ad ardere. Ero sudata, tremante e balbettavo.
-“Ho un calo di zuccheri, credo. Sono molto stanca”, mi son giustificata e le altre parvero crederci.
-“Ora andiamo a cenare e ti sentirai meglio, Emily.”
A cena mangiai a fatica, ogni boccone era una sofferenza fisica che andava contro ogni limite umano, il cuore era ancora tremolante e non ne voleva sapere di calmarsi. Tanta l’agitazione che i miei sensi erano amplificati, così quando vidi la Delacour per poco non rischiai di arrestare una volta per tutte il mio battito cardiaco.
Secondo la mia memoria lei non doveva essere qui, sarebbe dovuta partire. Cosa la teneva lontano dai suoi impegni? Dietro di lei c’era William a spalle chine. I due si avvicinarono al tavolo degli insegnanti, poi girarono i tacchi contemporaneamente e, mentre ripassavano davanti ai miei occhi stupiti, la mano di William passò le chiavi della sua auto alla madre. Infine uscirono senza guardarmi. Come in una sorta di salto temporale mi ritrovai sotto le coperte, senza nemmeno che me ne accorgessi. I miei occhi saettavano nel buio da una sagoma all’altra, - vidi Camille dormire stretta al peluche che William è stato costretto a regalarle; lei si era vantata di aver passato una giornata intera con lui -, poi mi soffermai su Nicole. E non potetti non pensare alle sue ricorrenti parole: leggenda, vampiri, leggenda, Gran Bretagna, leggenda, Delacour, diario disperso, vampira... e ancora e ancora queste parole si intonavano dentro di me in un triste e ossessivo ritornello. Sentivo il mio saldo autocontrollo sgretolarsi ad ogni pensiero, ad ogni mio affannato respiro. Sembrava che il mondo circostante si stesse restringendo per soffocarmi in una sorta di incubo perché no, no, non potevo aver visto davvero quella scena.
Ma invece era così!
Mi alzai di scatto mandando all’aria le lenzuola e mi diressi in bagno con l’intento di sciacquarmi il viso imperlato di sudore, sperando che l’acqua potesse lavare via il mio stato d’animo. E se solo avessi saputo che quel secondo, quel maledetto secondo in cui stavo per ripassare di fronte alla finestra verdastra mi sarebbe stato fatale come vedrete tra poco, beh, io, sicuramente non mi sarei mai alzata. Come di norma avrei aggiunto un cuscino sulla mia testa per impedire ai pensieri di entrare. Nel silenzio della notte udii con estrema chiarezza dei passi calpestare frettolosamente l’erba del giardino. Poi con la coda dell’occhio vidi qualcosa muoversi e mi avvicinai al vetro intravedendo, tra un albero e qualche foglia, una sagoma accovacciata che si agitava. Non ci volle molto per il mio cervello affiancare quella sagoma a lui. Con estrema sicurezza e spavalderia decisi che dovevo scendere e venire a capo di quella situazione che mi avrebbe, altrimenti, dilaniata in tutta la sua folle insensatezza. Ma un passo mi fu falso e Jamie si destò dal suo sonno per incontrare nelle tenebre i miei occhi spalancati.
-“E… tu?”, mi domandò scrutandomi come per assicurarsi che fossi proprio io. Ridusse gli occhi a due fessure e, gattonando sul materasso verso di me, li aprì sorpresa.
-“Perché non stai dormendo? Non ti senti ancora bene?”
-“Sì. Sto benissimo. Torna a dormire”, sussurrai quasi arrogantemente stringendomi nella mia vestaglia bianca. Jamie mi fissò senza batter ciglio come se l’avessi appena schiaffeggiata. Scese dal letto cigolante e mi si parò di fianco, muta.
-“Beh?”, sbottai dopo un breve gioco di sguardi.
-“Sento che ti stai per cacciare in un grosso guaio. Quindi ovunque stai per andare credo sia opportuna la mia presenza.”, sentenziò mostrandosi irremovibile.
Stavo per ribattere quando mi si ghiacciò il sangue nelle vene: anche Nicole si stava alzando. Girai la testa e la vidi infilarsi le ciabatte mentre con le nocche si strizzava gli occhi.
-“Tu”, le fui accanto in due secondi, -“tu dove stai andando?”
-“Voi piuttosto dove state…”, sbadigliò vigorosamente, -“…andando.”
-“Torna a letto.” E la mia richiesta parve una supplica disperata.
Il panico cominciò a tornare lentamente, il desiderio di raggiungere William e cercare di capire qualcosa mi stava divorando. Così uscii di fretta e furia dalla stanza, correndo in punta di piedi per evitare di svegliare anche le altre; nel bel mezzo delle scale una luce accecante mi costrinse ad arrestare il passo e farmi voltare lentamente. Una torcia dalla luminosità decisamente troppo alta puntava dritto nei miei occhi, mi schernii con le braccia fin quando non si abbassò ai miei piedi.
-“Emily!”, sibilò –nuovamente- Jamie, -“si può sapere dove stai andando?”
-“Oggi sei parecchio strana.” Questa, invece, era la voce di Nicole che celata nell’oscurità teneva la torcia.
Per ovvi motivi non potetti rispondere con la verità e m’inventai di aver visto aggirarsi nel giardino un uomo. Il che sarebbe potuto essere vero, ma il mio cuore –più che la mia mente- era sicuro che quella sagoma incredibilmente longilinea appartenesse a William.
-“Un maniaco?!”, s’agitò Jamie e le due scesero gli scalini per avvicinarsi a me.
-“Dobbiamo avvisare la Delacour!”
-“Sei impazzita, Jamie?”
-“Lei se ne è andata con la macchina di William, non è qui”, mormorò Nicole con una voce tremolante. Io provai a cercare i suoi occhi nel buio: davvero se ne era andata? E perché?
-“L’hai visto Nicole? Hai visto la preside uscire dall’istituto?”
-“Sì, quando stavo salendo le scale ho sentito la macchina di Will e mi sono affacciata, così, e alla guida ho visto la madre. Non saprei dirti se nell’auto c’era anche lui”, confessò e puntò la torcia verso le scale.
-“Allora… se non è la Delacour e nemmeno William... è un maniaco! E’ risaputo che questo istituto è solamente femminile!”, perseverò Jamie afferrando il lembo della mia vestaglia. Io sentivo il bisogno di uscire fuori sempre più urgente e necessario, così dissi alle due che ci avrei pensato io. Sarei andata a vedere e sarei rientrata subito. Loro declinarono le mie intenzioni e con passi felpati e alquanto impauriti decisero di spalleggiarmi. Erano irremovibili, quelle due! Ma non potevo più sottrarre i secondi, i minuti al mio segreto intento.
Arrivammo alla porta finestra e mi accorsi che era socchiusa; Jamie e Nicole non ci fecero caso perché erano troppo occupate a guardarsi le spalle ed illuminare ogni spazio buio. Uscimmo quatte quatte cercando il meno possibile di far rumore nel prato con i nostri piedi nudi; l’aria era tagliente e l’umidità si mescolò in fretta al mio sudore pregno di una spavalderia che non mi apparteneva. O almeno non fino a quella notte. La presa ferrea di Jamie sul braccio mi bucò la pelle, mentre Nicole intuì che era meglio spegnere la torcia. Arrivammo esattamente nel punto in cui vidi la sagoma, mi bastò inclinare la testa all’indietro per trovare la finestra della nostra stanza. Guidata da non so quale intuizione mi avvicinai ad un cespuglio e incredibilmente cominciò a movimentarsi come se si fosse alzata una terribile tormenta. Balzai all’indietro risucchiando l’aria nei polmoni per via dello spavento, poi Nicole urlò e si piegò portandosi la mano sulla bocca.
-“Che c’è?!”, strillò di rimando Jamie che era bianca come la sua vestaglia. Nic indicò un punto accanto al cespuglio –ora mosso solo dal lieve soffiar del vento- e vedemmo una grande chiazza di sangue. Un conato si fece largo nel mio stomaco e sentii come se la mia coscienza mi stesse, dall’interno, inviando colpi su colpi al cuore; come a dire e allora? Quale scuse userai, Emily? Lui è un…
Jamie si avvicinò all’erba sporca di rosso e poi sussurrò singhiozzando:
-“Ragazze, questo è…”, deglutì, -“sangue.”
-“Non è possibile.”, sussurrai, quasi arresa all’evidenza.
-“Si, lo è! Te lo assicuro Emily vieni a vedere.”
Lo so che è sangue, si vede chiaramente, Jamie. Mi riferivo ad un’altra cosa.
-“Ehi”, ci richiamo Nicole paonazza, -“che significa tutto questo? C’è veramente un maniaco? Magari quel coso appartiene ad un animale ferito.”
-“Ma Emily ha visto una persona! Nicole, è entrato un estraneo nell’istituto! Forse dovremmo…”
Jamie non fece in tempo a completare la sua delirante frase che il cespuglio riprese ad agitarsi in una maniera ancora più evidente. E, ci tengo a precisare, non per cause naturali.
-“Oddio!”, strillarono ad unisono le due, coprendosi dietro le mie spalle rigide.
-“Ho paura! Ho paura!”, continuò a gridare Nicole nascondendo il viso dietro il mio collo. Un ramo piuttosto grosso ci colpì in pieno, arrivando a tradimento dalla vegetazione di fronte a noi. Anche un sordo avrebbe potuto sentire le nostra urla. Jamie cercò disperatamente di trascinarmi via dal momento che ero rimasta immobile aspettando che lui uscisse da dietro il cespuglio e così, una volta per tutte, il mio mondo sarebbe stato definitivamente frantumato. Avrebbe cessato di esistere, io non mi sarei ripresa mai più.
-“Emily, Emily! Andiamocene, Emily! Dobbiamo… andiamocene, muoviti!”
-“Andate voi!”, esclamai rauca una volta ripresa dalla mia improvvisa paralisi.
-“Forza, scappate!”. Nicole era già a buon punto e senza preavviso lanciò la torcia verso la direzione in cui avevamo ricevuto il ramo. L’oggetto colpì chiaramente qualcuno e una sagoma – una sagoma!- schizzò via verso la sfilata di alberi. La velocità con cui si mosse ci spiazzò e, Nicole, ormai all’apice del terrore, riprese a gridare pazzamente:
-“ Questa storia comincia a non piacermi per niente, mi fate il favore di scappare? Io me ne vado!” E se la diede a gambe levate.
-“Emily, ti supplico! Andiamocene anche noi!”
Jamie ormai mi teneva per un lembo della camicia, mi strattonava e mi riempiva di parole deliranti; non mi curavo di lei, della sua angoscia, ma solo delle mie sensazioni. Ed avevo la terribile sensazione – convinzione- che per tutto quel tempo io avessi retto il gioco di William, così, inconsapevolmente. Che avessi sempre saputo, in fondo, che lui apparteneva ad un mondo lontano dal mio. Talmente lontano da sconfinare dalla realtà. Mi stavo per domandare per l’ennesima volta se le leggende raccontate da Nicole rivelassero il vero… ma le unghie lunghe di Jamie mi trafissero la carne dell’avambraccio facendomi perdere il filo dei pensieri.
Senza rendermene conto mi ritrovai a seguire il passo della mia amica, quindi a correre, ma non appena lasciò la mia mano io l’abbandonai per dedicarmi ad una corsa forsennata verso la strada, attraversando il cortile rigato di rosso: sapevo dove andare.
I miei piedi nudi varcarono il cancello aperto, mi persi tra gli incroci e, i vicoli di una strada che non conoscevo, mi indicarono che non ero poi così lontana dalla mia preda. Non persi tempo. Oltrepassai un giovane ubriaco accasciato sotto il sentore malato di un lampione intermittente. I suoi occhi lascivi e offuscati mi seguirono fin quando non cambiai direzione, per poi imbattermi in una schiera di case spente. Fu come se quella stradina mi lanciasse un avvertimento: scappa finché sei in tempo. E devo ammettere che fui tentata di seguire quel muto consiglio quando, proprio infondo all’ultimo svincolo, un grido smorzato m’immobilizzò il respiro. Capii all’istante di essere arrivata alla fine della mia corsa. Dapprincipio proseguii con passi lenti poi una scarica di adrenalina mi fece stringere i pugni e accelerare il passo. Salii sul marciapiede, svoltai l’angolo e per quanto potessi immaginare mai avrei creduto di assistere a ciò che mi si parò di fronte. La mia attenzione fu immediatamente attirata dal liquido rosso vivo che sgorgava dal collo di una ragazza esangue col capo reclinato verso il cielo rivestito di stelle testimoni. D’istinto mi portai una mano alla bocca per impedire al terrore di manifestarsi in un grido disumano. Ancora oggi ricordo il brivido freddo che mi percosse la schiena, la fuga del mio cuore dalla cassa toracica che mi fece pensare al suo arresto immediato. Cercai di delimitare quell’immagine, trovare una spiegazione a quella realtà impossibile da accettare. E poi lo vidi.
Nascosto nell’ombra, tremante e gorgogliante. Gli occhi spalancati e la mano sulla propria gola.
Senza troppa fretta si manifestò sotto la luce fiacca della luna, uscendo dal suo nascondiglio di tenebre. Desideravo piangere perché quando incontrai i suoi occhi rossi e i suoi canini del medesimo colore io non lo riconobbi. Non poteva essere William quella creatura che probabilmente mi avrebbe ucciso, o almeno dalla sua espressione questo era l’intento che traspariva.
-“Tu mi hai seguito.” Persino la sua voce era diversa, cattiva. E quella era una frase che non consentiva risposta.
-“Ti avevo implorato di aspettare domani. Che domani io ti avrei raccontato una storia ma invece… tu mi hai seguito, stanotte.”
Ci fu una lunga pausa ed io rimasi bloccata nella mia rigida incredulità. Poi si avvicinò a me con estrema velocità e la sua mano mi afferrò con violenza l’avambraccio destro, mi urlò a due centimetri dalla faccia:
-“Allora? Ora hai paura? Ora che sai cosa sono! Solo che lo sei venuta a sapere nel modo peggiore, perché ti piace infrangere le regole e gli ordini e le promesse. Non è forse così, Emily? Sta notte ho perso il controllo della situazione, sta notte ho ucciso anche un essere umano perché non mi hai lasciato nel mio segreto.”
-“Smettila!”, gli gridai di rimando, sorretta dalla sua presa e da una forza, probabilmente, divina.
Nella mia mente ogni pensiero era incoerente e ciò non mi permise di porre domande o gridare altre cose.
-“Lasciami andare! Lasciami andare via!”, dunque mi uscì dalla bocca. Un’implorazione disperata e rauca.
-“Hai capito cosa sono? Ora che lo hai capito giurami che sarà tutto come prima. Giurami che sarai ancora la mia compagna, giurami che sai che io non ti farei mai del male. Io sono un...”
-“Lasciami, non dire più niente!", lo zittii prima che potesse pronunciare quella parola. I suoi occhi si allargarono, il suo viso duro e remoto divenne come quello di un animale ferito. Quegli occhi un tempo azzurri sferzati di rosso… non li avrei mai dimenticati.
-“Emily.”
Lo strattonai approfittando della sua debolezza improvvisa ma dopo qualche passo mi riprese per i fianchi e mi scaraventò a terra per non farmi fuggire.
-“Devi ascoltarmi! Io ti voglio bene, ma sono questo!”, urlò nelle mie orecchie proprio sopra di me. Il suo corpo mi schiacciava e la paura mi fece roteare la testa per non incontrare il suo volto trasfigurato dalla violenza di quel sentimento che provava. Ogni tentativo di scacciarlo da me era inutile, la sua forza apparteneva ad una creatura ultraterrena, infondo. Mentre mi sussurrava qualcosa nelle orecchie la direzione dei miei occhi si riposò sulla figura senza vita della ragazza, nascosta da pattumiere e sacchi d’immondizia. Chiusi immediatamente le palpebre e una volta per tutte lo spinsi via. Mi preparai per affrontare la mia ultima corsa senza fine e anche senza fiato, dopo di che l’unico mio pensiero coerente era abbandonare quel posto infernale. Come se fossi stata aiutata da qualche forza sovraumana, nel giro di poco, avevo le dita intrecciate alle sbarre del cancello dell’istituto. Mi ero guardata più volte alle spalle ed ero sicura di non esser stata seguita, per questo mi abbandonai completamente per riprendere ossigeno. Ma la tregua durò davvero troppo poco, il mio cuore non ebbe nemmeno il tempo necessario per riacquistare un battito regolare. Ero arrancata vicino alla portafinestra quando fui investita dalla luce accecante di due fari che, tra l’altro, si arrestarono a pochi passi dal mio corpo. Finii dritta in una pozzanghera di fango e un attimo dopo ecco che i miei occhi erano incollati a quelli della Delacour. Una volta riconosciuta mi afferrò per il colletto della vestaglia e mi chiesi se, forse, era meglio che io restassi in quel vicolo con William. Mi guardò come se non seppe cosa fare e probabilmente la sua espressione era un vago riflesso della mia, ma quando pronunciò il mio nome lo capii: non l’avrei passata liscia.
-“Si può sapere cosa ci fai qui fuori? Dove stai cercando di andare?”
-“Io non… non...”
Mi strattonò fino a farmi venir la nausea.
-“Collins, stavi cercando di abbandonare il collegio? Oppure ti piace farmi impazzire?”, tuonò.
-“Io?”, sputai con un filo di voce, -“io non cerco di far impazzire nessuno!”
-“Allora ce l’hai la voce per parlare! Dimmi cosa hai intenzione di fare qua fuori nel cuore della notte!”
Ero a bocca aperta. Non sapevo cosa fare se non fissarla ad occhi sgranati. Che storia potevo raccontarle?
Di fronte al mio silenzio lei perse le staffe e mi diede uno schiaffo così potente che mi strappò dalle sue grinfie, rifinendo nella pozzanghera.
-“Ora vieni con me, e vediamo se ti viene voglia di parlare piccola maledetta.”
Le sue dita s’incollarono al mio orecchio fino ad arrivare nel suo ufficio, dove lasciò la presa per aprire un cassetto. Vidi il diario blu e mi si serrò la gola, tremai come una foglia prima dello schianto sul terreno quando la vidi toccare la sua amata frusta che, però, spostò per prendere una lunga chiave arrugginita. Allora mi diede uno strattone e mi condusse di fronte ad una porta nascosta, al termine del corridoio.
Non sapevo cosa ci fosse lì dentro e non feci nemmeno in tempo a partorire qualche idea che la soglia si spalancò offrendomi una misera visione: un letto sfatto e una finestra chiusa. Niente di più.
La Delacour inveì contro di me e mi spinse all’interno facendomi sbattere contro il materasso.
-“Rimarrai qui fin quando non ti darai una regolata.” Era a tre centimetri dal mio viso, potevo respirare nel suo respiro e morire nella profondità disarmante dei suoi occhi furiosi.
-“Probabilmente ci rimarrò per sempre”, balbettai senza nessuna traccia di provocazione nella voce. Lei non rispose nulla, se ne andò chiudendo la porta a chiave. Una sottile sensazione di sollievo si mescolò presto alla forte sensazione di claustrofobia che derivava da quell’ambiente così angusto e stretto. Infreddolita mi ritirai sotto le coperte altrettanto ghiacciate; i miei occhi si guardavano rumorosamente intorno fin quando le lacrime represse non mi fecero perdere la percezione e offuscare la vista.
Il mio mondo si stava sgretolando e mai come allora desiderai la mia vita diversa. Chiusi gli occhi pur sapendo che non sarei mai riuscita a prender sonno, poi li riaprii di scatto e mi tirai su nella medesima maniera quando la finestra si aprì facendo sbattere le vecchie ante al muro. L’aria che entrò era affilata e tagliente come la lama di un coltello, mi precipitai a chiuderla con tutta la forza che mi era rimasta in corpo. Non potetti tranquillizzarmi nemmeno per un istante che fui colta dal rumore di alcuni passi non troppo distanti dalla camerata; non so per quanto trattenei il fiato in attesa di sentire quella voce dire “cos’era quel rumore, piccola maledetta? Stai cercando di ucciderti, adesso?”
Ma non furono quelle le parole che arrivarono poco dopo, né tanto meno quella voce. Mi precipitai alla porta, quasi a spalmarmi sopra.
-“Jamie, Jamie! Sei tu?”, sibilai acutamente.
-“Sì, Em! Siamo io e Nicole!” Sentii rispondere.
-“Oddio.” Mi portai la mano sulla bocca, scivolando in ginocchio e cercando di riprendere fiato per parlare. La stanchezza stava per prendere il sopravvento, me ne accorsi dal tono strascicato della mia voce anche se l’adrenalina ancora circolava affamata nelle mie vene consentendomi di rimanere ad occhi spalancati.
-“Si può sapere dove sei andata? Non sapevo cos… Dio, Emily, dì qualcosa.”
-“Ti prego, almeno dicci se stai bene.”, intervenne Nicole, battendo un piccolo colpo sulla maniglia.
-“Sì”, sussurrai, “sì, sto b-bene. Non stavo cercando di scappare, stavo inseguendo quell’uomo ma poi tornando indietro ho avuto la sfortuna di incontrare la Delacour. Era appena arrivata.”
-“Sei un’incosciente”, mi rimproverò Jamie e indovinai stesse piangendo. Nicole sbuffò e poi le disse:
-“Adesso non sei di aiuto, tesoro, sai? Emily ascoltami...”, si schiarì la voce, -“noi ci vediamo domani ma tu stai calma. Mantieni la calma e cerca di riposare, okay?”
Feci una smorfia e scossi la testa, ma le tranquillizzai rispondendo che, sì, già ero più calma grazie alle loro voci. Prima che potessero intuire altro o, prima che io potessi rivelargli qualcosa in preda alla disperazione, le pregai di andare via per evitare loro la mia sorte. Scivolai di nuovo nelle coperte e con mia grande sorpresa fui colta dal sonno verso le prime luci del mattino, concedendomi una tregua da tutto ciò che mi era capitato.
Peccato che non appena aprii gli occhi al nuovo giorno tutto tornò come prima.
Scesi dal letto lentamente e aprii con estrema urgenza la finestra, quando fui investita dall’aria fresca di primo mattino ricominciai a respirare. Mi affacciai guardando in alto facendo piccoli respiri regolari e, magari, sperando di trovare qualche cenno divino che mi facesse riaccendere la speranza di sopravvivere almeno in quelle ventiquattro ore. Ma tutto ciò che vidi era l’ultimo spicchio di luna che si lasciava mangiare dal cielo, ed io mi sentii esattamente così. Infondo non mi aspettavo di percepirmi diversamente, forse, mi sarei sentita così per tutta la vita. Perché niente è stato più lo stesso dopo quella notte. Nemmeno l’aria che mi circondava, nemmeno il verde della vegetazione, nemmeno il mio riflesso sfocato in una piccola scheggia di vetro che trovai a terra. Niente.
Poco dopo aver richiuso le ante udii dei passi arrestarsi e una chiave rumoreggiare nella serratura, mi preparai ad iniziare una volta per tutte quella che sarebbe stata la giornata più lunga della mia esistenza.
Quando la vidi entrare rimasi immobile ancora con il ronzio delle sue grida nelle orecchie; lei non mi guardò veramente negli occhi, si limitò ad ordinarmi di uscire dalla stanza per la colazione e per assistere alle lezioni; successivamente, sarei dovuta ritornare in quella stanza. Mi fece camminare avanti e mi parve che i suoi occhi mi stessero perforando le spalle, per questo respirai a grandi boccate passo dopo passo. Arrivata al secondo piano stetti per virare nella mia camera, quando, la sua voce saettante, mi fece trasalire.
-“Che cosa stai facendo?”
-“Sto andando a vestirmi.”
Lei alzò un sopracciglio come se avessi detto un’eresia o mi fossi concessa un lusso nel solo pensare a ciò che dissi.
-“A vestirti? Non mi sembra di averti dato il permesso. Devi andare immediatamente a colazione poi andrai a vestirti. Il pasto è servito e non si accettano ritardi.” Mi afferrò per il braccio e solo dopo avermelo lasciato davanti alla sala mensa mi accorsi di un livido che avevo. Un livido segnato da cinque dita lunghe.
William, la notte scorsa.
Scossi il capo e pregai con tutto il cuore che non fosse lì dentro. Fortunatamente la mia preghiera fu esaudita, ma ad aspettarmi c’erano le trecento ragazze che al mio passaggio sgranarono gli occhi. Con molte probabilità non avevano mai assistito all’entrata di una loro compagna in camicia da notte, sporca di fango, con un livido nero e viola e con i capelli arruffati sporchi d’umidità. Mi sedetti senza far troppo rumore, a testa bassa e spalle chine, senza cercare lo sguardo di nessuno. Sentii il ginocchio di Nicole premere sul mio e la mano di Jamie stringere la mia, sotto il tavolo. Quando tutto terminò schizzai nella mia camera (ammesso e concesso che ancora potevo definirla mia) e mi precipitai sotto la doccia. Un getto d’acqua calda mi sciolse un nodo invisibile che legava tutto il mio corpo, scivolarono i pensieri s’insidiarono nel vapore e fecero il giro del mondo, il giro dell’irrazionalità, il giro di tutta la mia vita. Una volta vestita mi specchiai e cercai di farmi forza assicurando all’immagine riflessa che prima o poi avrei trovato la soluzione per tutto, che, costi quel che costi sarei uscita da lì. Una volta fuori dal bagno mi imbattei in William. Era adagiato sul mio letto. Maglietta nera, jeans e scarpe da ginnastica, sembrava così umano. Persino il suo viso pareva aver perso l’impronta animalesca di ieri. Quando incrociò il mio sguardo si rizzò in piedi, tuttavia, prima che potesse solcare la distanza tra noi, lo fermai. Rimase pietrificato, muto, di fronte alla mia reazione. A passi lenti e senza staccargli gli occhi di dosso mi allontani ancor di più avvicinandomi alla porta. Mi lasciò fare fin quando non posai la mano sulla maniglia e in un secondo mi fu vicino. Gridai.
-“Non aver paura di me”, mi disse prendendomi per le spalle. Ero intenzionata a spingerlo via, peccato che il panico mi fece esaurire la forza in seduta stante.
-“Come puoi dirmi di non aver paura di te? Lasciami o mi metto a urlare con tutto il fiato che mi rimane!”
-“No! Dammi l’opportunità di spiegarti, non posso perderti, lo capisci? Emily... Emily non posso.”
-“Tu mi hai già perso”, replicai strattonandomi da lui che, sapientemente, mi si parò di fronte alla porta.
-“Sei solo terrorizzata dal pensiero che io possa farti del male. Io non ti sfiorerei con un dito perché…”
-“Perché? Eh? Pensi di non averlo fatto? Guarda questo!”, urlai arrotolando con veemenza la manica della camicia per mostrargli il livido che occupava tutto il mio avambraccio.
-“Che cos’è questo, William?”, inveii, -“Dimmelo! Che cos’è?”
Fece un passo indietro scontrandosi con il legno quasi fosse stato appena schiaffeggiato. I suoi occhi liquidi fissavano inespressivi il prodotto della sua natura. Cercò più volte di aprire bocca per dire qualcosa ma desistette sempre. Mentre il silenzio si faceva pressante io mi sforzai di cercare qualche parola che lo ferisse nel profondo e che lo facesse allontanare definitivamente da me; ben presto, però, riscoprii quell’attrazione, quell’amore che mi aveva portato a lui. Il mio porto sicuro. E mi pentii all’istante di aver guardato troppo a lungo quel viso, quel maledetto e benedetto viso; allora strinsi le labbra e non proferii parola perché sì, lo temevo, ma lo amavo nella medesima misura.
-“Sono un vampiro. La mia forza è maggiore a quella di qualsiasi essere umano, i miei sensi, la mia capacità di percepire il mondo e i sentimenti… tu non puoi capire”, iniziò a parlare ed io mi congelai.
-“Ti prego stai zitto…stai zitto ti preg...”
-“Quello non te l’ho fatto apposta: cercavo di trattenerti. Se solo mi concedessi la possibilità di spiegarti capiresti che non ho perso del tutto il mio essere umano. Conosceresti il motivo per cui non l’ho perso, conosceresti ogni aspetto della mia lunga, infinita esistenza.”
-“Non dire altro. Io non posso… stai zitt...”
Mi abbracciò senza preavviso soffocando le mie parole, stizzita mi divincolai fino a fuggire via dalla stanza. Corsi verso l’aula in cui avevo lezione e ci entrai di soppianto, senza sapere neanche se fosse quella giusta, e vidi tutte le presenti sobbalzare. Quando Jamie e Nicole corsero ad abbracciarmi io trovai respiro, tuttavia non era un abbraccio – nemmeno il più sentito- che mi avrebbe concesso di salvarmi.
-“Ragazze”, intervenne la Belfiore alzandosi tranquillamente dalla sedia, -“fatemi parlare con Emily.”, sussurrò staccando le due con la stessa tenerezza con cui si prenderebbe in mano un pulcino. Aveva gli occhi lucidi e una ruchetta si era formata tra le sopracciglia, il suo viso, infatti, tradiva preoccupazione e indignazione.
-“Ho saputo che la Delacour ti ha isolata. Ci ha detto che questa notte ti ha trovato nel giardino.” Il suo garbo non gli permise di porre domande sul perché mi trovassi lì, anche se il suo sguardo era eloquente. -“Sì, ed ho sbagliato. Vorrei andarmene.”, confessai chiudendo gli occhi. Li riaprii all’istante: con gli occhi chiusi mi tornava in mente lei.
-“Cara, vedi, le mie parole non saranno sufficienti per farti calmare ma, se puoi trovare un minimo conforto in queste… e ragazze”, si rivolse anche alle altre che mi guardavano fisse, -“ho intenzione di parlare con la preside. Sì, io penso che il suo metodo pedagogico vada modificato. Qui si vive un regime di terrore. Voi siete tutte terrorizzate e questa violenza deve essere contrastata. Ve lo prometto farò tutto il possibile per evitarvi altre punizioni.”, disse tornando ad appoggiarsi alla cattedra. Giunse le mani sul petto e ci guardò una per una; tornò a rivolgersi a me.
-“E’ anche vero che da sola non posso farcela. Dovete collaborare a non cacciarvi nei guai a non ribellarvi…”
-“Lei pensa davvero che la Delacour possa cambiare?”, esordì una ragazza infondo all’aula. La Belfiore rispose prontamente:
-“Non lo so se ci credo, ma ci spero. Se non avessi una vana speranza nemmeno starei qui a parlarvene.”
-“Lei non cambierà mai”, sussurrò Jamie con stupore, come se si meravigliasse di quelle buone intenzioni, -“professoressa, se lei cercasse di dirle quello che sta dicendo a noi la licenzierebbe.” Nella classe scoppiò un brusio pregno d’angoscia. La Belfiore era l’unica cosa buona di quell’istituto. L’unica che prendesse sul serio le proprie alunne, interessandosi e offrendo affetto. Non potevamo permetterci di perderla.
-“Ragazze, okay. Non vi agitate. Lei non mi manderà via se io mi pongo con educazione. Però vi chiedo di non farvi illusioni, potrei non ottenere nessun cambiamento.”
Nessuna in quella stanza contemplava la gloria del cambiamento, la Belfiore non correva nessun rischio riguardo le nostre illusioni. E come una specie di illuminazione fulminante compresi che anche le mie congetture su come, quando e dove scappare erano soltanto illusioni. Vane speranze scoppiate nel giro di un’ora.
Vidi i miei desideri vorticare nel turbine dell’utopia e vidi William venirmi incontro per le scale, dopo il termine di tutte le lezioni del giorno. Io rimasi aggrappata al corrimano aspettando che passasse ma quando decise di scendere lentamente senza staccare i suoi occhi dai miei, ebbi il timore che si fermasse per parlarmi. Ed infatti mi disse qualcosa con un tono di voce eccessivamente basso, una volta giunto al mio fianco, ma io mi dileguai prima che potessi comprendere le sue parole. Questo durò per una settimana e, solo al termine di essa, lui riuscì ad afferrarmi per un lembo della divisa e a dirmi:
-“Per tutto questo tempo mi sono avvicinato a te con le buone, Emily. Non che adesso ti farei del male perché, - e sia chiaro una volta per tutte -, non te ne farei mai, ma d’ora in avanti sarò il tuo tormento. E allora tu cederai e mi ascolterai, e accettando la mia storia torneremo ad amarci. Perché percepisco che la tua attrazione per me non è ancora svanita nonostante l’orrore. Devi solo trovare il coraggio di capire e accettare una realtà diversa dalla tua.”
Come poteva avere torto un vampiro riguardo il suo percepire i sentimenti? Erano così vere le sue parole. E il mio fuggire, il suo inseguirmi, era tutto un triste ciclo che si sarebbe ripetuto finché entrambi saremo rimasti lì dentro. Certi nel cedimento di uno dei due e, sicuramente, entrambi sapevamo che sarei stata io la prima a desistere. Dopo avermi rivelato le sue intenzioni William non mi diede tregua. Appariva in ogni punto dell’istituto, anche il più impensabile: nel rigovernare la mia vecchia stanza, improvvisamente di fronte alla finestra, il tempo di sussultare che era già svanito. Nel pulire i bordi dei quadri nell’atrio ecco il suo riflesso fulmineo. Una volta mi parve di vederlo nel buio che mi sorrideva con aria diabolica – i canini lunghi e bianchi in bella vista- ma sospirai di sollievo nel comprendere che era solo un sogno. Quella notte capii anche che non potevo più continuare ad ignorarlo, ergo avevo raggiunto un limite di sopportazione che non potevo permettermi di oltrepassare, pena la perdita della mia ragione.
William aveva conseguito il suo obiettivo con esemplare maestria: Emily Collins dichiarava bandiera bianca.

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Capitolo 8
*** Ottavo Capitolo ***


Grazie alle persone che hanno inserito la mia storia tra le seguite/preferite/ricordate, e un grazie anche a chi continua a seguire in silenzio le avventure della mia amata Emily.
Buona lettura e... Buon Halloween!





Ottavo Capitolo










“Sto andando giù
annegando in te
sto cadendo per sempre
ho bisogno di fermare tutto
allora vai avanti e urla
urlami sono tanto distante
non sarò distrutta un'altra volta
ho bisogno di respirare, non posso andare giù.”
Going Under -Evanescence















Ancora oggi, nel ripensarci, non saprei definire con precisione i minuti o le ore che mi hanno vista seduta sul bordo del letto a mirare lo spicchio perfetto e iridescente della luna, mentre nella mia testa cercavo di prepararmi nell’ascoltare il racconto di un’esistenza che avrei faticato a comprendere, ad accettare e che temevo con tutta me stessa. Ogni tanto abbozzavo un sorriso nell’indovinare lo sgomento di William, intento a perseguitarmi, nel sentirmi dire “va bene, ho deciso di ascoltare ogni tua parola”. Cosa avrei ascoltato, ancora non volevo immaginarlo. I miei occhi stanchi non mi permettevano di pormi altre domande; mi misi sotto le coperte, predisponendomi al sonno.
Prima di cadere totalmente nell’incoscienza mi accorsi di alcuni passi che risuonavano in lontananza, complice il silenzio della notte. Mi sollevai sostenendomi col gomito anche se sapevo perfettamente chi si stesse avvicinando: erano ormai innumerevoli sere che la Delacour soleva aggirarsi nel corridoio per poi fermarsi di fronte alla porta della mia stanza. Vedevo la sua ombra indugiare e poi, di scatto, ritornare sulle proprie orme. Io rimanevo lì distesa con il cuore in preda alle palpitazioni non riuscendo a comprendere il senso delle sue azioni. Cosa voleva? E cosa le impediva di entrare una volta arrivata alla soglia?
Anche quella notte rimase per una manciata di secondi lì impalata, poi si dileguò come era venuta. Mi lasciai cadere sul materasso con un groppo in gola, tuttavia, nonostante la paura, dovevo ammettere che non avevo perduto il sonno. Dormii profondamente dopo aver continuato a fissare la luna, dormii profondamente fin quando non avvertii le lenzuola scivolarmi lungo il corpo, come una carezza indesiderata. Ancora in dormiveglia cercai di trattenerle ma la mia mano ne incontrò inaspettatamente un’altra ed aprii di scatto gli occhi, balzando giù dal letto. Una figura nera si stagliava di fronte al mio letto e con velocità inaudita si posizionò dietro di me coprendomi la bocca con la mano; poi udii una voce soffiare come un lamento nel mio orecchio.
-“Ti prego non gridare, shhh. Sono io.”
-“Mmm!” Cercai di divincolarmi da quella presa maledettamente ferrea ma ogni tentativo sembrava inutile. Una gomitata mi fece liberare e caracollai dalla parte opposta del letto. William era rimasto immobile e la sua immagine mi spaventò: era mortalmente pallido (più del solito intendo), i suoi occhi erano contornati da profonde occhiaie e aveva un’espressione cupa che non mi piacque affatto.
-“Che ci fai tu qui?”, il mio tono risultò sprezzante come al solito, nonostante qualche ora fa avessi deciso di predispormi al meglio nei suoi confronti, -“perché sarebbe stupido domandarti come sei entrato nella mia stanza”, continuai e un ghigno si presentò spontaneamente sulle mie labbra. Diedi una rapida occhiata alla finestra spalancata e, ignorando l’aria gelida che mi trafiggeva la schiena, tornai a guardarlo.
-“Sono venuto a dirti che non ce la faccio più. Non ce la faccio più a doverti opprimere per far sì che tu mi stia a sentire, a dover camminare nelle tue orme per paura di un tuo gesto folle o che tu te ne vada da qui.
Ho così tanto da dirti e ho troppo da perdere se non lo facessi. Questa notte sarà nostra, se tu me lo permetterai.”
Rimasi a guardarlo e non seppi nemmeno il perché ma sentii montare una rabbia indescrivibile.
-“Quanto sarebbe durata questa storia se io non mi fossi insospettita? Quanto si sarebbe protratto il tuo silenzio?”, chiesi quasi ironicamente a giudicare dal tono, comunque una risposta sarebbe stata gradita. Ma abbassò lo sguardo e serrò la mascella.
-“Fin quando ti avrei ritenuta pronta per affrontare una cosa simile. Ho già perso una persona che ho amato con tutto me stesso a causa di questa storia. Dover perdere anche te significherebbe la fine di tutto. Di tutto.”
Rimasi senza una chiara emozione in corpo, in me c’era un turbinio di sensazioni: rabbia, angoscia, gelosia.
Lui aveva già amato prima di me.
-“Emily, prendimi la mano”, mi disse e la sua voce fu un richiamo da quel pensiero. Guardai il suo braccio allungarsi ma prima di un contatto io mi gettai furiosamente su di lui, scontrandoci contro il muro. Soffocavo strilli nel suo petto immobile e strinsi il suo maglione con una forza che non credevo di possedere. Lui mi lasciò fare fin quando mi accarezzò i capelli e mi baciò dolcemente il capo.
Quando finalmente mi calmai mi prese in braccio e a piccoli passi si diresse di fronte alla finestra; non avevo la minima idea di cosa avesse intenzione di fare, lo guardai in modo stralunato. Ad ogni modo non feci in tempo a domandare che ci ritrovammo nel giardino, proprio sotto la mia stanza. Mi guardò complice e mi depositò a terra.
-“Sono veloce, più veloce di qualsiasi creatura al mondo”, spiegò.
-“Tanto per cominciare…”, mormorai sottovoce, ma credo che mi sentì.
Impiegammo qualche minuto prima di metterci seduti a parlare. Il luogo scelto da William si trovava nel mezzo della vegetazione, lontanissimo dal collegio. Le rocce fredde su cui ci adagiammo circondavano un laghetto limpido che rifletteva la luna e i nostri corpi vicini. Parlava nel frattempo e le sue parole si levavano nell’aria immobile della notte. Le sue mani toccavano con distrazione i punti più sensibili del mio corpo, e io lo ascoltavo nascondendo il mio terrore, rispettando ogni suo silenzio. Feci la brava senza mai interromperlo, senza porre domande e inghiottii ogni dubbio nascente; il suo racconto mi portò in un villaggio vicino Parigi in un anno indefinito e arcano.
Le creature della notte sono condannate alle tenebre per l’eternità e Demetrio Delacour era attratto dalle luci. Aveva coltivato una vera e propria ossessione per quell’abitudine persa, per la cessazione della vista del sole. I suoi occhi non riuscivano ad abituarsi al buio, anzi, bramavano di esser accecati ancora da quella luce; per secoli è sempre stato così. E William confessò quelle parole come se anche lui, nel profondo, soffrisse per lo stesso male del padre. Ma no, chiarì; lui poteva nutrirsi del calore del sole tuttavia non doveva perseverare. Alla vista del mio volto perplesso mi rassicurò dicendomi che me lo avrebbe spiegato meglio nel corso del racconto, in fondo la notte era nostra.
-“Mio padre”, riprese dopo una breve pausa, -“era un raffinato predatore. Si nutriva nel silenzio, visitando le case delle sue vittime oppure trovando moribondi sul ciglio della strada. La regola principale del suo clan era quella di non farsi scoprire e… di non ribellarsi.”
-“Addirittura un clan?”, esordii stringendomi nel giubbotto che William mi aveva ceduto.
-“Un clan. Una fratellanza”, confermò, per poi proseguire senza esitazioni.
Demetrio faceva parte di uno dei clan più potenti e temuti, lui era il cacciatore per eccellenza:
letale, bellissimo, inafferrabile. La sua velocità e la sua astuzia gli hanno sempre permesso di cibarsi nella massima tranquillità, per le vie di quel villaggio dimenticato da Dio. Essendo amante della bellezza non riuscì a resistere a quella di una giovane donna piangente sul ciglio di una strada.
-“Era mia madre, quella ragazzina che cantava la sua paura alla notte; mio padre fu come richiamato da quei singhiozzi convulsi e in qualche modo dolci. O almeno è così che mi sono venuti descritti.” -“Perché piangeva?”
-“Era tardi, Emily, e mia madre – poco più che dodicenne- si era smarrita e non riusciva a trovare la strada di casa. Mio padre, affamato, assetato, sull’orlo di ucciderla, incontrò i suoi occhi colmi di lacrime e fu investito da una potenza che non aveva mai sperimentato prima, una forza che gli crebbe da dentro e che gli fece scordare la fame. Guardò dritto nei suoi occhi e ne rimase profondamente incantato. Erano luce, mi raccontò una volta. E gli ricordavano la luce del giorno che aveva perduto per sempre. Allora si avvicinò e s’inchinò di fronte a lei, indovinando nel suo sguardo il terrore.” Fece una breve pausa che però fu interrotta da una mia impellente domanda.
-“Jennifer Delacour aveva dodici anni quando conobbe tuo padre? Com’è possibile…”
William sorrise di fronte al mio dubbio che doveva essere elementare, a giudicare dal suo sguardo.
-“Da quel giorno, dopo averla aiutata durante tutta la notte, l’aspettò per sette anni prima di trascinarla nel suo mondo. Vedi, era una scelta necessaria, Emily: chi vive l’eternità è portato a scegliere una compagna che lo affianchi nell’esistenza, che porti luce in quel mondo fatto di tenebre. E’ una scelta egoistica ma, tu, Emily, convieni con me se ti dico che è del tutto comprensibile? Se tu avessi la possibilità di vivere per sempre, fino alla fine dei tempi, non vorresti qualcuno al tuo fianco per alleviare la sofferenza che genera l’infinito?”
-“Probabilmente”, risposi pur non essendo pienamente convinta della mia risposta. Lui annuì e poi le sue parole rapirono nuovamente la mia attenzione, prima che potessi ragionare su ciò che avevo appena pronunciato.
-“Aveva diciannove anni mia madre quando scoprì che Demetrio, l’uomo che la seguiva come la sua stessa ombra, l’uomo che la proteggeva e che le teneva compagnia fino all’alba, era in realtà una creatura della notte. Tutte le volte che mamma vedeva mio padre abbandonarla sull’orlo di un nuovo giorno non faceva mai domande su dove andasse. Lo lasciava andar via con la sua fretta abbozzata in un sorriso cameratesco. Non seppi mai quale fu la reazione di mia madre nello scoprire”, fece una lunga pausa chiudendo gli occhi e massaggiandosi le tempie, poi li riaprì e sembravano spalancati dinanzi quei ricordi, allora proseguì: -“Ma lei restò al suo fianco. Fedelmente. Per un sacco di anni che per mio padre parvero miseri giorni. Sai, il tempo è un fattore personale in un vampiro. Per questo mio padre un giorno, senza che se ne accorgesse, vide Jennifer fiorire in una donna, abbandonando per sempre le fattezze da ragazza. Così, fisicamente, avevano la stessa età ma nella realtà c’erano secoli di differenza.”
-“Chissà quanta differenza c’è tra noi.”
William sorrise guardandomi negli occhi.
-“La tua anima è estremamente giovane, la tua essenza pura e non è corrotta dal dolore. Io un’anima non ce l’ho nemmeno, forse.”
Rimasi un attimo a bilanciare le sue parole. Qualsiasi cosa dicesse entrava nella mia testa e s’imprimeva lentamente, in modo che io capissi e seguissi perfettamente il suo racconto.
-“Beh, credo di esser stata corrotta dal dolore”, intervenni mentre lo vedevo riaprire la bocca per parlare. Lui scosse dolcemente il capo accarezzandomi una guancia.
-“Tu hai provato dolore, lo so. Ma non sei stata corrotta. Mia madre lo è stata perché non lo ha sopportato. E’ diventata famelica di distruzione, insana e vive grazie alle sue ossessioni.”
Lasciò che quelle rivelazioni cadessero nel silenzio mentre studiava la mia reazione perplessa e disorientata. Allora mi si avvicinò e il suo tono di voce si fece meno cauto, molto più rotto e flebile.
-“La loro relazione non era ben vista dal clan di mio padre. Un vampiro ed un’umana. Non era mai successo nella storia, prima di allora. I compagni di mio padre lo videro come un atto di ribellione e di altro tradimento e sai cosa fecero? Lo posero dinanzi ad una scelta.”
-“O loro o Jennifer.”, mormorai.
-“Mio padre scelse la seconda opzione.”
Logicamente.
-“E poi cosa è successo?”
L’ultima volta che avevo provato un simile interesse per un racconto avevo sei o sette anni e mamma mi leggeva la favola di Cappuccetto Rosso. Avevo provato così tanta paura per il triste destino di quella bambina sola nel bosco, nel cuore della notte, in balia di una creatura affamata che adesso mi sembrava un’assurdità ritrovarmi in una situazione parallela. Mi strofinai il viso un po’ per scacciare quel dannatissimo pensiero, un po’ per non farmi cedere al sonno. Era impossibile provare sonnolenza in una circostanza simile, sì, è vero, ma sperimentare tutto ciò che ho sperimentato nei giorni seguenti ha contribuito al mio calo di energie. William tracciò un cerchio con le dita nel laghetto e il riflesso della luna si scompose sotto il suo passaggio.
-“Da lì cominciarono i guai per i miei genitori. Si rifugiarono altrove, ma non così lontano da potersi ritenere salvi dal clan di papà. Oh, se erano accecati dalla rabbia! Dal risentimento… Comunque sia, Emily, mia madre abbandonò la sua povera famiglia e penso che non ci furono più occasioni per rincontrarsi. Trovarono ristoro presso un’indovina, anch’essa una centenaria creatura della notte.”
-“Non dev’esser stato semplice per tua madre convivere con due vampiri, specialmente vista l’occasione per cui si trovava lì”, dopo quelle parole mi uscì una risata che risuonò a dir poco isterica alle mie orecchie. William confermò il mio pensiero dicendomi che Jennifer provò più e più volte a persuadere Demetrio affinché la trasformasse in una vampira. Ma lui niente, era caparbio nel farla rimanere una mortale.
-“Vedi, legarsi ad un vampiro significa sofferenza poiché il dolore, come la gioia, è un sentimento amplificato. E sì sa che quando il dolore è immenso anche la gioia più violenta è mera ed effimera. Comunque, mio padre non voleva compromettere ulteriormente la loro condizione, e trasformare mia madre in quel momento sarebbe stato come porgere un guanto di sfida alla vecchia fratellanza. Un’azione che avrebbe avuto ripercussioni tragiche, ma non più tragiche di quello che poi è avvenuto.” Sulla bocca di William si dipinse un sorriso amaro; si passò la lingua tra le labbra sostituendo il sorriso con un’espressione tirata, addolorata. -“Un giorno, mentre mio padre era via per cibarsi, mia madre rimase sola con quella indovina. Accarezzandole i capelli le predisse il futuro; una terribile incombenza premeva sulle loro spalle, aveva detto, per poi ritirarsi in un religioso silenzio. Mia madre non capì e non aveva nemmeno intenzione di farlo, era così giovane. Strappata dalla sua famiglia, inseguita da un gruppo assetato di assassini. Tutto ciò che faceva – mi raccontò- era rimanere immobile in un angolo della casa.”
In quel momento mi risultò difficile immaginarmi Jennifer Delacour rannicchiata in un angolo, completamente in preda alla paura. Eppure, quella donna che tanto mi faceva battere il cuore dal terrore, aveva anche lei conosciuto sentimenti come l’amore, la paura e la diffidenza.
-“Ma un giorno -in un momento - tutto cambiò: l’indovina morse mia madre; aveva intenzione di ucciderla per via delle terribili visioni che aveva avuto. Ma fu fortunata. Mio padre rientrò dalla caccia in quell’esatto istante. Non perse tempo e prima di indagare cosa fosse successo le fece bere il suo sangue.”
Soffocai un lamento di disgusto e finsi di non essere inorridita da come il racconto si stava evolvendo. William pensò a qualcosa di divertente, a giudicare da come ridacchiava sotto i baffi.
-“Sai perché sto ridendo?”, mi chiese, infatti
Scossi il capo, incerta se volevo saperlo veramente.
-“Perché non esistono vocaboli al mondo, né un romanzo o una pellicola scadente a farti comprendere l’euforia e l’eccitazione del bere del sangue. Vedi, non è niente di ripugnante; anzi, è una sensazione calda e dolce. Berlo per la prima volta non è poi così diverso dal succhiare del latte dal seno della propria madre. Ne percepisci l’esigenza e dal momento che la prima goccia di bagna le labbra capisci che non ne potrai fare a meno. Che uccideresti, pur di riprovare quelle sensazioni.”
Mi sorrise un po’ nostalgico e mi fece alzare. Mi tremavano incredibilmente le gambe e non seppi decifrare se era per via del racconto di William o per via dell’intorpidimento nel stare seduta su una roccia.
Camminammo intorno al laghetto e chiesi:
-“Era questo il posto che mi accennavi sulla ruota panoramica?”
-“Esatto. Ogni tanto vengo qui. Oltre alla piccola cappella fuori dal collegio questo è il luogo che preferisco. Trovo sia distaccato dal resto del mondo, non trovi?”
Confermai le sue parole con un sorriso. In effetti il laghetto era molto suggestivo. Le rocce che lo contornavano, lo scrosciare delicato dell’acqua, gli alberi che pendevano verso di questo come a proteggerlo e l’erba alta che profumava di natura.
Ora ci trovavamo a girarci intorno, a sgranchirci le gambe.
-“Allora… mi hai detto che l’indovina ha tentato di uccidere Jennifer Delacour per via di alcune visioni, ma tuo padre l’ha soccorsa facendogli bere del sangue. Giusto?”
William corrucciò le labbra e socchiuse gli occhi.
-“Mmm, dunque. Quello che hai detto è esatto ma, papà, le fece bere il suo sangue. Questo gesto ha permesso a mia madre di tramutarsi in un vampiro.”
-“Okay, mi è chiaro. E poi?”
-“E poi mamma, come dire, venne alla luce. Di nuovo. Fu stordita da quella sensazione nuova e strabiliante e la prima cosa che vide con i suoi occhi da vampira era mio padre avventarsi sull’indovina. Ma quest’ultima era più forte di quanto si potesse pensare e schivò ogni suo attacco, urlando le sue visioni con tutta la disperazione che l’ha condotta a quel gesto di follia”, fece una breve pausa per riprendere fiato, -“le visioni riguardavano l’estinzione di noi creature della notte. Per colpa di lei, di mia madre. L’indovina voleva eliminarla per paura ma, come già ti ho detto, mio padre la trasformò senza pensarci due volte, pur non avendo mai contemplato l’idea. Ci sarebbero state due Cacce, due battaglie che ci avrebbero distrutto. Ma prima di proseguire nel racconto, devi sapere in che modo io e mia sorella gemella Genevieve siamo venuti al mondo.”
Quella piccola notizia mi fece trasalire all’istante: Genevieve e William gemelli. Nella mia mente iniziavo ad immaginarmi la bellezza di quella ragazza che non conoscevo.
-“Io e mia sorella eravamo già stati concepiti ma, mia madre, non era a conoscenza di noi. L’indovina lo vide prima di chiunque altro e scese a patti con mio padre: se le avesse risparmiato la vita lei ci avrebbe salvato per mezzo della magia. E fu così. Dopo un paio di mesi ecco alla luce due pargoli, gemelli, per metà umani e per metà vampiri. Se il clan di mio padre avesse saputo della nostra nascita sarebbero inorriditi e impazziti una volta per tutte. Ma eravamo al sicuro, lì. Nonostante le remore dell’indovina che, dopo la nostra nascita, si chiuse in un silenzio pregno di terrore.”
Mi strinsi nel giaccone cercando di tenere gli occhi ben aperti. Lui mi avvolse a sé, improvvisamente, e smorzai sul nascere un gemito.
-“Emily, vuoi che proseguo o preferisci riposarti? Credo che per stasera possa bastare, no?”, mi sorrise, accarezzandomi i capelli. Ero satura di quel racconto ma non glielo lasciai intendere.
-“No, ti prego continua. Abbiamo tutta la notte”, risposi ripetendo ciò che aveva pronunciato un istante prima di iniziare a revocare quei ricordi, e poggiai una spalla ad un albero. Tanto valeva giungere fino alla fine, e lasciarmi completamente annientare da quella storia.
-“Come è iniziata la prima Caccia?”, domandai di getto, senza nemmeno pensarci.
-“La ricordo con assoluta precisione. Io e Genevieve eravamo giunti al termine del nostro sviluppo: il nostro corpo ha cessato di mutare al compimento del nostro ventesimo compleanno. Avevamo straordinaria potenza, eravamo insaziabilmente curiosi e, soprattutto, ribelli nei confronti del regime che aveva adottato mio padre. Vedi, Emily, noi non potevamo cacciare se non all’interno del bosco in cui eravamo confinati per paura che qualcuno si accorgesse della nostra presenza. Lontani dal villaggio di appartenenza, una notte, io e Genevieve arrivammo ad una conclusione: il sangue animale non ci saziava più.” William arrestò il suo racconto e dal modo in cui pronunciò quell’ultima frase intuii che adesso stesse verificando la mia reazione. Ma non trovò niente – se non un piccolo strato di sudore imperlarmi la fronte- perché m’impegnavo a rimanere impassibile.
-“Essendo per metà umani – come già ti accennavo al principio del mio racconto- io e mia sorella potevamo godere della luce del sole, a condizione di farne un uso moderato, altrimenti ci saremo indeboliti fino alla paralisi come qualsiasi altro vampiro. Un giorno i nostri passi guidati da un eccezionale orientamento ci portarono al famoso villaggio. Era la prima volta che ne vedevamo uno da così vicino, quasi fummo vittime di quell’emozione tanto violenta che provammo. Gli uomini ci passavano accanto senza degnarci di uno sguardo, ci sfioravano al passaggio ma nessuno si accorse che non appartenevamo alla loro razza. Tutti quei corpi palpitanti di vita ci ingolosivano, lo ammetto. Io ero incerto, addirittura, se continuare o meno la nostra gita turistica ( se così vogliamo chiamarla), ma Genevieve è sempre stata più testarda di me e non prese minimamente in considerazione l’idea di tornare indietro. Fu un errore. Un vero ed eclatante errore. Giunta la notte il villaggio s’immobilizzò in un rigido silenzio. Tutto taceva e per le strade non vi era anima viva, ad eccezione di me e lei. Decidemmo di tornare indietro nel momento in cui il cielo si rivestì di stelle ma, nel nostro sentiero verso il ritorno, scorgemmo una coppia di amanti.”
Un mio mugolio interruppe il racconto di William. Mi guardò interrogativo e strisciai giù lungo il tronco per mettermi seduta. Sapevo cosa da lì a poco avrebbe raccontato:
-“Ebbene, non scenderò nei particolari ma non posso omettere che quella fu la prima volta che assaggiammo del sangue umano. Genevieve ululava di gioia ed io ero tormentato: dove avremmo nascosto i corpi? Eravamo troppo inesperti e troppo coinvolti per accorgerci che avevamo varcato il confine e che li avevamo uccisi. Ad ogni modo, ci pensò mia sorella che li depositò all’interno di un vecchio e decadente pozzo. Nessuno li avrebbe trovati e noi potevamo star tranquilli. Nessun pensiero fu più ingenuo: una settimana dopo si scatenò l’inferno. A quanto pare il villaggio risentiva da tempo di quelle strane e sospette apparizioni di cadaveri abbandonati così, sull’uscio della notte, e qualcuno era giunto a noi. Quella notte udimmo qualcosa avanzare nella vegetazione con estrema urgenza, poco dopo fummo accerchiati da delle fiammelle che ci ristringevano il campo sempre di più. Era un’orda di gente ricoperta fino ai denti di armi di ogni tipo, suggerite dai racconti e leggende di vampiri che fino a quel momento aleggiavano nel villaggio. Sono reali! Sono reali! Gridava qualcuno. Assassini! Demoni! Li uccideremo tutti! Gridava qualcun altro a gran voce. Io e la mia famiglia ci davamo le spalle a formare un quadrato e tutto ciò che potevamo fare era guardarci intorno. Ad un certo punto si udì con chiarezza lo scalpitare di un cavallo, ed ecco che apparve un carro di prigionieri. Vuoi dirmi chi erano, Emily?”
-“Deduco fossero i membri del vecchio clan a cui apparteneva Demetrio.”
-“La tua osservazione è giusta.”
-“Quelle persone…”
-“I cacciatori”, chiarì William invitandomi a proseguire.
-“Sì, i cacciatori erano arrivati addirittura a loro?”
-“A quanto pare. Poi tutto successe molto velocemente: mio padre ordinò a me e Genevieve di abbandonare il campo, intanto lui e mia madre avrebbero trovato un modo per rallentarli e magari dimezzarli pur calcolando un elevato pericolo. Nel tempo che impiegai a voltarmi e fuggire riconobbi l’indovina tra i vampiri prigionieri; le sue urla riguardo la profezia – e che quello era solo l’inizio- mi accompagnarono durante la corsa. Genevieve imboccò un sentiero differente dal mio e quando i miei occhi non la videro più sfrecciare tra gli alberi, e quando il mio udito non intercettò più il suo fiato corto – sempre più corto e convulso- insieme ai suoi passi, sì, io andai nel panico e tornai indietro per ripercorrere il suo sentiero. Ma trovai qualcun altro ad attendermi.”
Ebbi una forte stretta al cuore e, nonostante lo avessi di fronte, temevo per quello che William aveva incontrato.
-"Era uno dei cacciatori. Mi puntava dritto al petto un pugnale, anche se nel suo volto riconobbi l'antico sentimento della paura. Mi temeva, forse, quanto io temevo lui. Ma cercai con tutto il sangue freddo che avevo di non lasciarglielo intuire. Non ero mai stato a contatto con tanti esseri umani come in quel periodo. E vedere quel lurido puntarmi quell'arma, mi domandai, cosa ci fosse di sbagliato nell'affondare i denti nel collo di uno di loro. In fondo stavano per ucciderci tutti", all'ultima frase le sue labbra si unirono a formare una linea tesa come la corda di un arco, -"così mi ci avventai contro, imprigionandolo al suolo, tenendo i palmi delle mani spalmati sul suo petto. Sai, grazie a quella posizione potetti ascoltare le accelerazioni del suo cuore. E mi sentii potente, capace, invincibile ma quella sensazione piacevole durò veramente poco: alle mie spalle venne un uomo, tra le mani una torcia infuocata, che esclamò all'amico sotto di me Stryder! Dov'è? Dov'è il tuo pugnale? L'arma era volata via dalla sua presa ed era nel mio campo visivo; non feci in tempo a formulare quel pensiero che l'altro cacciatore venuto in suo soccorso mi si parò di fronte sferrandomi colpi all'altezza del collo che, però, schivai prontamente. Anche se questo significò liberare la mia preda."
Da quando aveva iniziato a raccontare questa storia non lo avevo mai visto provato come adesso. Dal momento che si era anche lui adagiato a terra, mi ci avvicinai aiutandomi con le ginocchia e gli presi entrambe le mani. Non ne conosco il motivo ma, durante quel gesto, non fui capace di sorreggere il suo sguardo, così mi concentrai sulla sua pelle liscia, diafana, che mi permetteva di scorgere le vene anche con tutta quell'oscurità. William ricambiò la stretta e per un attimo credetti mi stesse per baciare - tant'è che mi irrigidii immediatamente- invece si sistemò al mio fianco, proseguendo verso il termine del suo antico discorso. -"Riuscii a scappare perché fu l'unica cosa che potessi fare. Tentare di ucciderli sarebbe stato un gesto sciocco, un suicidio, per intenderci. Durante la mia disperata fuga fui persino aggredito da quella furia di mia sorella che, credendomi uno di loro, balzò giù dal ramo su cui era accucciata e rotolammo presso una vallata. Ci guardammo e per un momento l'uno vide negli occhi dell'altro la fine. Noi -proprio noi- che eravamo cresciuti con l'idea dell'eternità."
William si alzò di scatto liberando le sue mani dalle mie, imitai il suo gesto e, per quanto ero stanca, mi girò violentemente la testa.
-"Poco dopo trovammo nostra madre in uno stato pietoso: era ricoperta dalla testa ai piedi di sangue, i suoi vestiti erano a brandelli e i suoi occhi spiritati. Devi sapere, Emily, che Genevieve era nata con un odio irrazionale nei suoi confronti e, quando noi ci fiondammo da lei - disperati, impauriti, creduti finiti - e prese a maledire il giorno della nostra nascita e che tutto quell'inferno era colpa nostra, credo che fu il punto di rottura tra le due. Seguito dall'abbandono di nostra madre che cercò disperatamente di trarre in salvo Demetrio, imprigionato dai cacciatori durante quella notte. Quella notte in cui riuscimmo a salvarci." -"Ma ora tu sei con lei", precisai inutilmente, ma stavo poco a poco perdendo percezione della realtà per via di tutto quel fiume di parole. Ero alla deriva. Letteralmente.
-"Pochi mesi dopo tornò. Lo vidi. Lo vidi che non era più la stessa persona che era. Ha detto che aveva visto delle cose, udito delle cose e che dovevamo fidarci di lei. Che l'eternità era ancora nostra ma che doveva concludere ciò che era iniziato. Che doveva riportare indietro nostro padre, ma non ho mai saputo interpretare queste sue parole. Credevo e, lo credo tutt'ora, che quelle frasi fossero il frutto del delirio. Quante volte ti ho ripetuto che c'è qualcosa di assolutamente insano in lei? Non smetterò mai di dirlo. Mai."
Mi venne vicino, provato, lentamente.
-"Tuttavia voglio starle vicino. E' mia madre", mi confessò in un sussurro che mi fece rabbrividire.
Io mi limitai ad annuire, con la gola prosciugata.
-"Adesso credo che tu possa definirti soddisfatta. Ed è davvero tardi, domani avrai un'altra lunga giornata e penso anche tu debba ragionare su tutto questo, ho ragione?"
-"Sì, come potresti avere torto", sussurrai cercando, per quanto difficile, di abbozzare un sorriso.
-"Ti riporto in stanza.", proclamò ed iniziai a seguirlo mentre mi conduceva nel dormitorio. Incespicavo dietro di lui per colpa della mia distrazione e per via dell'oscurità che non mi concedeva di vedere dove mettevo i piedi. Entrammo dalla portafinestra e mi venne in mente la notte in cui io, Jamie e Nicole scendemmo in giardino. Allora domandai, con una voce lontana e strascicata:
-"Quella notte cosa ci facevi qui fuori?".
Ci aggrappammo al corrimano, preparandoci a salir piano le scale.
-"Nel giardino del collegio si addentrano molti animali. Per non parlare di quanti ce ne sono in fondo alla vegetazione.", bisbigliò e mi lanciò una breve occhiata da oltre la spalla, -"quella sera avevo prestato la macchina a mia madre - aveva da fare chissà cosa- ed io ero tremendamente affamato."
Serrai i denti. Eravamo appena arrivati di fronte all'ufficio della Delacour; William doveva recuperare le chiavi della mia camera per farmi entrare. Mi fece cenno di far silenzio e con un dito socchiuse la porta. Poi con una rapida occhiata ispezionò la stanza e fui lieta di veder mimare sulla sua bocca la frase via libera. Quando entrò lo seguii fedelmente e ogni tanto sobbalzavo per via dello scricchiolio di qualche mobile o per qualche altro rumore. Mentre William rovistava in un cassetto mi ordinai di non guardare il ritratto di Jennifer e Demetrio, il mio cuore martellava in modo fin troppo forte per concedermi di osservare altri due vampiri.
In compenso la direzione del mio sguardo basso si andò a posare sul diario aperto della Delacour. Senza poter rendermene conto mi ci avvicinai, inchinando il capo sulle pagine aperte e rischiarate dalla luce tenue della luna.
La data che lessi in cima alla pagina non mi diceva niente, era Novembre.
-"Mmm?", mugugnò William che era nella mia stessa posizione con le chiavi in mano, e mi ritrassi all'istante. Anche lui imitò il movimento corrugando la fronte.
-"Cos'è?", domandò al vento, ancora fissando il diario della madre.
Decisi di farmi i fatti miei, rispondendo solamente:
-"A me sembra un diario o un'agenda."
Inarcò le sopracciglia, visibilmente sorpreso. Aprì la bocca per parlare ma un rumore proveniente dal pianoterra gliela fece richiudere all'istante.
-"Usciamo!", ordinò richiudendo il cassetto, lanciando un ultima occhiata alle pagine. Io - da brava fifona quale ero- caracollai in punta di piedi accanto alla porta; prima di uscire mi accorsi che William era rimasto a pochi centimetri dalla scrivania, grattandosi il mento come se fosse sovrappensiero. Lo richiamai dalla sua trance e trasalendo mi raggiunse, spintonandomi fino alla mia camera di isolamento.
Quando mi adagiai sul letto parlò e per poco non ci rimasi secca.
-"Quella data l'ho riconosciuta. La riconoscerei anche tra mille anni. Il giorno in cui ti ho salvato dalla croce, in chiesa."
-"C-cosa?", balbettai.
Quella notte il mio disorientamento era un continuo crescendo. L'espressione di William non aiutava ad orientarmi verso qualcosa di sensato. Perché la Delacour aveva appuntato quella data? Quale avvenimento importante l'ha vista coinvolta quel giorno? Era stata in chiesa con noi, poi era tornata in collegio e poi... non ricordavo. Magari si era assentata come suo solito. Cosa potevo saperne, infondo, della sua vita?
-"Che coincidenza", commentai, decidendo di archiviare in seduta stante l'argomento. Non avevo le energie né la voglia di rivivere quel giorno.
-"Non sapevo che mia madre tenesse un diario”, soffiò e parve un rimprovero a se stesso. Io mi lasciai scivolare nel letto.
-"Chi vive per sempre ne avrà di cose da ricordare."
-"A me basterebbe ricordare che mi vuoi."
I miei occhi si spalancarono di colpo, lottando contro la pesantezza delle palpebre. Non riuscii a ribattere e l'unica cosa che feci fu percorrere la sua immagine con gli occhi. I capelli pregni d'umidità, la fronte e le sopracciglia rilassate, gli occhi fissi su di me, la postura abbandonata contro il muro. Il mio porto sicuro era in realtà un luogo di segreti e sangue. Deglutii cercando di reggermi col gomito, ma lui si avvicinò sedendosi accanto a me.
-"Stai giù. Riposati, adesso. Non devi per forza rispondere a quello che ho detto."
-"Non so cosa rispondere. Sono così confusa. Io... non riesco nemmeno a capire se questo sia un incubo o se sia la realtà."
William si morse le labbra e giurerei si stesse trattenendo dal piangere.
-"E' la realtà. La mia. Sono così sciocco", mormorò alzandosi di scatto, gesto che mi fece capovolgere il cuore.
-"Perché dici questo?"
Lui allargò le braccia al cielo, esasperato, e poi le lasciò cadere sui fianchi.
-"Ti sto dicendo di dormire dopo tutto quello che ti ho fatto passare nelle ultime settimane e, soprattutto, dopo questa notte. Solo uno sciocco può credere che io non ti faccia schifo, che io non ti provochi ribrezzo e riluttanza. Come puoi dormire con me? Con un mostro, con una creatura che pensi possa ucciderti."
Se c’era una persona che in quel momento lottava con tutte le sue forze contro l’impulso di piangere, ero proprio io. Ero io perché aveva ragione: provavo così tanta paura che avrei potuto piangere sino a sciogliermi tutta; e vergogna, perché lui era il mio William.
-"Vorrei che tu stessi al mio fianco perché l'ultima cosa che voglio è perderti per colpa della mia natura. Vorrei farti capire che non ti farei mai - mai, mai, mai!- del male, Emily."
Mi chiedeva di rimanere al suo fianco, che la scelta era mia, e poi mi costringeva a stare a sentire la sua storia, a subire la sua presenza. Anche per questo avevo paura, perché in realtà non avevo nessuna scelta. Non mi avrebbe lasciata andare con tanta facilità. E io cosa volevo fare?
Mi liberai dalle coperte senza premeditare il gesto, mi gettai su di lui come avevo fatto non appena lo avevo individuato nell'oscurità della camera, prima. Intrecciai le braccia al suo collo e premetti le labbra sulle sue.
Rimanemmo in quella posizione per un tempo che mi parve infinito e quando le nostre fronti si toccarono - entrambi in cerca di ossigeno- lo vidi piangere.
-"Rimango", sussurrai, mostrandomi forte e impavida. La persona che non ero.
-"Rimango."
-"Io sono un vampiro. Io..."
-"Rimango, William, rimango", rimbeccai interrompendolo. Lo baciai nuovamente e, con mio grande stupore, sembrava che ad ogni contatto la mia paura scemasse. Mi portò nuovamente accanto al letto, mi coprì con le lenzuola e s'inchinò all'altezza del mio viso.
-"Da quando ci conosciamo abbiamo sempre messo in discussione la fiducia che prova l'uno nei confronti dell'altro", sibilai con voce roca e bassa, -"ma adesso devi credermi. Io rimango, e sto per addormentarmi.
Significa che sarò assente fino all'alba. Rimani mentre non ci sono, così tu finalmente capirai che mi fido di te, William." Lui annuì e io gli feci posto nel piccolo letto. Mi osservava dall'alto come se fosse lui ad essere terrorizzato da me. Gli sorrisi per incoraggiarlo e sentii la lucidità abbandonarmi poco a poco. Morfeo mi stava trascinando via e, l'ultima immagine che vidi prima di sprofondare nell'incoscienza, fu il volto di William ricoperto di lacrime.

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Capitolo 9
*** Nono capitolo ***


Nono Capitolo







La chiave nella serratura compì tre giri, prima di concedere alla porta di spalancarsi. Quella mattina la Delacour mi trovò seduta a gambe incrociate nel letto; io avevo visto la notte dissolversi lentamente come se fossi spettatrice di un sogno – come se mi fosse stato regalato più tempo per riflettere- e l’alba di un nuovo giorno nascere. Non proferì nessuna parola, nessun cenno di saluto. Io avrei voluto issarmi sul materasso e spalancare la bocca a mo’ di sbadiglio e gridare, gridare pazzamente davanti a lei che io, - proprio io-, conoscevo tutti i suoi segreti.
E lo feci. Nella mia mente, però.
Il luogo in cui potevo sconfiggere l’ansia provocata dalla sua presenza, dove potevo annullare il presentimento che da lì a poco mi avrebbe presa e frustata. Così, per il gusto di farlo.
La seguii fino alla mensa, dove poi i nostri percorsi si divisero: lei al suo posto, io al mio. William non c’era e il crollo emotivo che ebbe la sera scorsa mi tornò in mente come un flashback.
Durante la notte mi parve di percepire la sua mano salire e scendere sulla schiena, e ogni tanto captavo delle parole sussurrate, poi, però, ricordo solo il buio del baratro in cui sprofondai.
-“Emily.” Un bisbiglio proveniente dalla mia sinistra mi fece sussultare.
-“Domani. Che fai?”, mi domandò Nicole lanciando occhiate furtive al tavolo degli insegnanti.
-“Domani?”
-“Sei rimbambita? E’ sabato!”
Oh, ma certo. Da quando ero stata isolata uscii di sabato solo una volta per visitare qualche ospizio alla ricerca di mia nonna. Mentre il telefono risultava ancora guasto. Ero disperatamente in pena e il non riuscire a mettermi in contatto con lei in nessuna maniera mi stava facendo uscire fuori di testa, così m’imposi che quel giorno sarei andata a chiedere aiuto a qualche professore. Magari dettandomi l’indirizzo esatto del suo alloggio. Dovevano pur saperlo.
-“Vengo con voi”, sussurrai in risposta, coprendomi la bocca con il pane. Camille mi guardò sogghignante. Cosa diamine voleva?
-“Okay, dopo ne parliamo”, mormorò e scolò il suo ultimo goccio di latte.
Dieci minuti dopo eccoci scendere le scale in tuta, per prepararci ad una lezione che, con buone probabilità, si sarebbe rivelata estenuante e faticosa. Jamie e Nicole mi affiancarono e ogni tanto riprendevano l’argomento maniaco nel collegio ma io non mi azzardavo ad alimentare le loro chiacchiere e declinavo ogni possibile argomentazione alle loro tesi. Comunque sia, Nicole cambiò rapidamente l’oggetto della conversazione.
-“Allora, Em, volevo chiederti: domani vieni con noi nel senso che poi starai con noi oppure devi vederti col biondo per chiarirvi?” Il tono con cui pronunciò quelle parole mi ferì: sembrava offesa. Forse pensava che mi univo a lei solo per farmi firmare l’uscita dalla madre.
-“Nicole, io voglio passare del tempo anche con voi. E con William ho chiarito le incomprensione che avevamo”, mugugnai aprendo la portafinestra. Jamie si lasciò andare ad un esclamazione e mi prese sottobraccio.
-“Questa sì che è una bella notizia, sai? Quando aspettavi a darcela?”
-“Oggi”, le sorrisi, -“ci siamo riappacificati ieri.”
Tempo addietro mi ero inventata una strana storia su me e William per giustificare il mio improvviso distacco da lui e, per fortuna, le due ci credettero. E, per mia fortuna, preferirono non indagare oltre. Non avrei saputo cos’altro inventarmi.
La Jim ci aspettava e ai suoi piedi si estendevano cinque file di tappetini di gomma, mentre poco più in là mi sembrava di scorgere due palloni e una serie di pesi. Al nostro arrivo diede aria al suo inseparabile fischietto – non volevo sbagliarmi ma, ogni settimana, ne sostituiva uno con un colore diverso-, era il suo modo per darci il buongiorno.
-“Signorine”, debuttò più scattante che mai a differenze di me e delle mie compagne, -“ un gruppo farà gli esercizi a terra con i tappeti, qualcun altro potrà dedicarsi alla corsa e se volete ci sono dei manubri da un kg che vi aspettano. Tra mezz’ora cambio.”
La maggior parte delle ragazze si posizionò a terra, Jamie preferì dedicarsi ai pesi – perché voleva incrementare massa sulle braccia, o almeno è così che diceva-, mentre io e Nicole e altre quattro ragazze optammo per correre intorno al collegio. Ci stavano dirigendo verso il portico quando la mia amica cominciò a diventar strana. La vedevo mentre mi scrutava da capo a piedi con la scusa di imprigionare una sottile ciocca di capelli nella forcina. Sembrava volesse dirmi qualcosa e non trovare il coraggio o le parole giuste per farlo. Così iniziava delle frasi e le lasciava morire di botto. Insomma, non era la solita Nicole.
-“Sei strana oggi”, commentai appena dopo aver superato il portico.
-“Ah si?”, mi rispose affannata e senza voltarsi. Forse c’era davvero qualcosa che non andava.
-“In effetti c’è una cosa che dovrei dirti.”
-“Dimmela adesso, le altre sono rimaste indietro.”
-“E’ un segreto. E ho paura che…”
La voce di Nicole si smorzò di colpo mentre, girando l’angolo, qualcosa di duro e graffiante mi colpì in pieno nel centro della fronte, facendomi volare a terra. Nel buio delle mie palpebre chiuse sfilarono una serie di stelle gialle, rosse e blu, la via lattea come non l’avevo mai immaginata.
Vissi un momento di confusione – talmente potente lo schianto subìto- che credetti di poter vedere Marissa ed Eric se solo avessi riaperto gli occhi perché, una volta, mentre giocavamo a palla da piccoli, Marissa si sbilanciò troppo per afferrarla e il suo pugno sbatté violentemente sulla mia testa provocandomi infiniti capogiri e un gran bernoccolo. Tuttavia quando mi ripresi vidi Nicole china su di me, puntare il dito e lo sguardo su qualcuno che non vedevo, dire:
-“Cosa volevi fare? Cosa ti salta in mente, pazza! Sei pazza!” Mi sedetti a terra massaggiandomi la fronte e vidi Camille con un massiccio ramo in mano. Esattamente lo stesso che lanciò William la sera in cui lo scoprii oltre la vegetazione dell’istituto. Non appena incontrò i miei occhi lo lanciò alle sue spalle e tirò verso di me un foglio stropicciato.
-“C’era questo sul letto della tua vecchia stanzetta!”, disse tra i denti e pensai stesse per sbranarmi. Presi il foglio, lo stirai con le mani che mi tremavano e lessi:


“ Fino alla fine del tempo,
tuo William.”



Mi tirai su di slancio riponendo il bigliettino nella tasca della mia tuta rosa. Un moto di rabbia e vergogna si fece largo al mio interno.
-“Vorresti ancora continuare a prendermi in giro?”, continuò ad inveire Camille avvicinandosi pericolosamente. Nicole scattò in avanti, pronta a dividerla da me in caso di attacco.
-“Lasciami stare”, fu tutto ciò che dissi, prima che la serpe afferrasse la mia coda di cavallo costringendomi a gemere e inclinare verso sinistra. Nicole cominciò a gridare mentre picchiava la mano che mi tirava i capelli; ma con quella libera Camille le diede una spinta, e la mia amica cadde all’indietro.
-“Vorrei tanto sapere cosa ci trova William in una come te.”
-“Tu sei pazza!”, urlai dandole una strattonata che mi concesse di liberarmi. Dunque raggiunsi Nicole allontanandoci dalla furia bionda.
-“Ce lo avevo in pugno! Ce lo avevo in pugno prima che arrivassi! Sei solo una poverella! Un’orfana insignificante!”
A quelle parole m’irrigidii. Fu come riceve un’ondata di acqua gelida dietro la schiena. Un’orfana poverella. Le mie labbra presero a tremare e temetti di poter scoppiare in lacrime come una bambina.
-“Tu sei una persona spregevole. Che schifo!”, urlò di rimando Nicole, che non la smetteva di puntarle il dito contro.
-“E tu sei amica di quella poveraccia!”
A quel punto scollegai il cervello dal corpo. Non ero più padrona delle mie azione, né dei miei pensieri. Camille aveva oltrepassato il limite assoluto, per questo non mi sorpresi, nel ripensarci, a vedere la mia mano schiantarsi pesantemente e sonoramente sulla sua faccia tonda. Lei indietreggio barcollando e livida si scagliò contro di me, ritrovandoci a terra, corpo contro corpo. Nicole fece quello che le veniva meglio: urlare aiuto al vuoto.
Camille mi sciolse i capelli e li tirava con l’intenzione di strapparmeli, mentre io mi dimenavo sotto di lei. Poi l’afferrai per il giacchetto della tuta e la rovesciai sotto di me, realizzando solo in quell’istante in cui ci invertimmo le parti che io, Emily, stavo facendo a botte. Feci in tempo a rifilarle un altro schiaffo prima di esser stesa da una sua ginocchiata. Rotolai sull’erba umidiccia cercando di ignorare il dolore infuocato vicino all’inguine, appena ne fui in grado mi alzai con la velocità di un leopardo. Stavo giusto per imbattermi nuovamente contro di lei quando nel mio campo visivo fecero ingresso due persone.
Una bassa e una alta.
La professoressa Galdys e la Delacour.
Quest’ultima sgranò impercettibilmente gli occhi e il tempo – così come il fluire del sangue nelle mie vene- parve arrestarsi. Nessuna delle tre azzardava muovere un muscolo, a sbattere le palpebre, a chiudere la bocca. Eravamo paralizzate e sapevo quali pensieri si stessero animando nelle loro teste: siamo nei guai.
-"Posso sapere che cosa state facendo, signorine?" Il suo tono. Oh, avreste dovuto ascoltarlo anche voi. Perché erano parole, quelle, accompagnate con una musicalità tale da farci rabbrividire e congelare nel medesimo momento. Nella mia rigida immobilità mi accorsi, con la coda dell’occhio, di Nicole voltarsi due volte verso di me.
-“Avete sentito la domanda oppure vi è caduta la lingua?”, caricò la Galdys cercando malamente di modulare la voce come quella del suo idolo.
-“Signorina Lamberg, le sue compagne si stavano picchiando o sbaglio? A meno che io non abbia visto male.” Di nuovo quel tono ingannevolmente gentile.
-“Camille ha colpito Emily con quel ramo. E’ tutta colpa sua”, confessò la mia amica appiccicando parola per parola, mangiandosi l’aria. La preside chiuse gli occhi per un secondo e poi li riaprì dondolando la testa. -“Ancora una volta, signorina Collins, ti colgo nel pieno di una zuffa. Di nuovo, a distanza di un mese esatto. A quanto pare ancora non hai inteso in che luogo di prestigio vivi, a quale punizioni puoi andare incontro infrangendo le basi del vivere civile di queste mura.”
-“Sono stata picchiata per prima. Ho ricevuto un ramo in fronte mentre voltavo l’angolo per portare a termine l’esercizio assegnato dalla professoressa Jim. Mi ha strappato i capelli e ha tentato di colpirmi anche in faccia ma con le mani ho bloccato i suoi colpi e poi mi ha…”
La Delacour batté le mani per farmi stare zitta, arrestare quella valanga di parole che, a buon grado, la innervosivano anche.
-“E quindi hai pensato bene di contraccambiare il colpo? Che terribile piega stanno prendendo le mie studentesse migliori da quando tu ha messo piede qui dentro. Un terribile esempio che sta prendendo campo, a quanto pare.”
Mi morsi l’interno guancia per tacere e per non lasciarmi andare a frasi di cui mi sarei pentita amaramente. Lanciai un’occhiata truce a Camille, trovandola occupata nel mio stesso intento.
-“Credo si chiami legittima difesa”, s’intromise Nicole, visibilmente sopraffatta dalla paura. La Galdys e la preside si voltarono verso di lei con un non so cosa di divertito nello sguardo e, poi, la Delacour le si avvicinò proprio accanto all’orecchio, sussurrandole:
-“Non. Nel. Mio. Istituto, signorina Lamberg.”
Nicole trattenne il respiro e i suoi occhi –lucidi, sull’orlo di sgorgare tante lacrime salate- si ingrandirono all’apice del terrore. M’indirizzò un’ultimissima occhiata per farmi intendere che ci aveva provato a salvarmi la pelle ma la preside ci ordinò perentoriamente di tornare dalla professoressa Jim. Questa per poco non ebbe un infarto nel vederci pedalare verso di lei accompagnate dalla colossale capo istituto, scura in volto e visibilmente alterata. Le altre compagne arrestarono le loro attività e si tramutarono in statue di cera. Persino i loro coloriti rosei sembravano sbiaditi dinanzi quell’immagine.
-“Miss Delacour, Miss Galdys”, la Jim si riprese dalla sua improvvisa paralisi.
-“Ho trovato due sue alunne azzuffarsi e gridare dietro l’angolo. Non se ne era accorta?”
-“No, io ero qui con le altre ragazze e non ho sentito niente…”
La professoressa, presa in contropiede, pronunciò una serie di scuse con tanto di occhiatacce verso me e Camille che, afferrate per le braccia dalla Galdys, fummo posizionate di fronte alla fila orizzontale che le nostre compagne avevano appena formato. Ci guardavano, mosse dalla compassione e nessuna – compresa me- sapeva a quale pena la Delacour avesse alluso nel rigirare i tacchi e nel dirci di aspettarla immobile, che sarebbe tornata subito e che ci avrebbe fatto passare il prurito alle mani.
Vicino a me Camille respirava rumorosamente e balbettava offese riguardo la sottoscritta ma, grazie al cielo, non ne compresi una.
-“Per una volta volevo essere io.” La sentii parlare chiaramente, stavolta, e dunque sbirciai nella sua direzione ascoltando ciò che aveva da dirmi.
-“Volevo che qualcuno si accorgesse di me. Volevo essere io quella scelta. Ma poi sei arrivata tu, con il tuo fare svenevole e vittimistico, e l’hai allontanato da me. Emily Collins, ti giuro che troverò il modo per fartela pagare. Pagare sul serio e non m’importa quanto mi ci vorrà.”
Voi penserete che io fossi abituata alle minacce –talvolta cinematografiche, talvolta infantili- di Camille ma dovete credermi se vi dico che quella volta mi fece venir la pelle d’oca. Mille brividi si rincorsero lungo la mia colonna vertebrale, per colpa del suo sguardo efferato e completamente in fiamme.
-“Smettila”, le dissi cercando di non balbettare, -“non è colpa mia lo scorrere delle cose.”
-“Ora ti improvvisi addirittura filosofa, Collins? Oh, tu sì che sei piena di sorprese!”, ringhiò tornando a guardare in avanti. Imitai il suo gesto ingoiando una serie di insulti, mi concentrai su Jamie che cercava di mimare con la bocca incoraggiamenti. La Jim torturava il suo fischietto e continuava a scuotere la testa a seconda di come e dove s’indirizzavano i suoi pensieri.
In lontananza vidi Jennifer Delacour tornare.
Arrischiai la vista per identificare l’oggetto di tortura che aveva tra le mani, quando gli diedi un nome già potevo sentire il dolore e le pulsazioni provocate da quella lunga e spessa bacchetta che, proprio come ci aveva anticipato, avrebbe fatto cessare il nostro prurito. Gettai un’ultimissima occhiata a Camille e la vidi mordersi le labbra – quello inferiore completamente risucchiato in quello superiore, imprigionato tra i denti- e tremava come scossa da tante piccole scariche elettriche. Io? Io ero insensibile: non percepivo nemmeno in lontananza il senso di sopravvivenza che mi contraddistingueva.
La preside iniziò da Camille ordinandole di allungare le mani e di rivolgere i palmi verso il cielo, cupo. Cessarono i brusii delle mie compagne, i mugolii di dispiacere della Jim (la Galdys sembrava rimasta impassibile anche se non saprei dirvelo con certezza dal momento che non mi curavo di verificare le sue reazioni), tuttavia, prima di quel silenzio, udii la minaccia conclusiva della serpe bionda:
-“Te la farò pagare, promesso.”
La bacchetta colpì repentinamente le sue mani, le fitte la costrinsero a strizzare gli occhi mentre, i miei, vennero come richiamati da quelli della Delacour che, sorprendentemente, mi fissavano. E in quel momento mi fu chiaro: non vedeva l’ora di punirmi. Di umiliarmi davanti a tutte. Ero io la sua vera preda. La immaginai benedire il destino per aver svoltato l’angolo in quel momento cogliendomi nell’infrangere una delle sue care regole. Mi aveva etichettata come un soggetto difficile, a quanto pare; una ribelle. E, come se ciò non fosse sufficiente, mi aveva sorpresa più volte con William, catalogandomi quindi come minaccia al loro segreto. Ricambiai il suo sguardo addentrandomi in quelle sfere azzurre, con l’ambizione di scorgervi la fanciulla che era stata, la fanciulla persa piangente. Quella parte della sua vita umana che l’ha vista vulnerabile, impaurita, sola. Ma non trovai nulla di tutto questo, fu come scontrarsi contro un muro bianco e inaccessibile. Scostai l’attenzione dai suoi occhi sussultando e, rossa in volto, mi preparai ad accogliere la mia imminente mortificazione.
Si posizionò di fronte a me -oscurando gran parte dei visi delle mie compagne che, scosse, assistevano alla scena- lasciando una tremante e miagolante Camille.
-“Magari questa è l’ultima volta”, mi disse alzando in aria la bacchetta. Dalla sua espressione sadica intuii che non era ciò che pensava veramente. Non chiusi gli occhi, non serrai la mascella, ma continuai a scrutare il suo viso con straordinaria neutralità e distacco, mentre lei m’infliggeva il primo colpo. M’imposi di non lasciarmi andare e il mio autocontrollo si rivelò più resistente di quanto pensassi. Due colpi e poi tre. Ne seguì un quarto e poi venne l’ultimo, il quinto, quello che provocò la fitta di dolore più acuta.
-“O magari no”, sussurrò alla fine, dandomi le spalle per rivolgersi al resto della classe. Solo allora mi concessi di boccheggiare, di gettarmi per un secondo nella disperazione. Poi vidi fin troppi occhi posizionarsi su di me, costringendomi a riacquistare una calma che sentivo abbandonarmi. Non ascoltai ciò che disse ma potevo benissimo immaginarlo quindi, quando mi domandò se anche io avevo capito, annuii con convinzione. L’ultima mezz’ora che rimaneva della lezione la Jim mi concesse di allontanarmi e ne approfittai per rifugiarmi nella mia vecchia stanza. Passai accanto al capannone di Simus e sbirciando fugacemente constatai che fosse solo, intento a sfogliare una rivista.
William ma dove sei?
Aprii la porta della camera – sconsolata, umiliata, arrabbiata- e mi gettai sul mio vecchio letto soffocando grida sul cuscino, che ancora conservava il mio odore. Quando mi voltai a pancia in su per poco non morii di paura.
William era pochi centimetri da me, mi guardava dall’alto con aria perplessa e preoccupata. Rimasi a ricambiare il suo sguardo mordendomi la guancia dall’interno. Poi, finalmente, ruppe il silenzio.
-“Perché stai gridando?”
-“Tu non sai che mattinata ho appena passato. Dove sei stato?”
-“Ho chiesto a Simus se potevo raggiungerlo in seconda ora. Ero molto provato per via di tutto ciò che è successo tra noi.”
-“Eri molto provato.”, ripetei con un ghigno. Lui abbassò lo sguardo, ma fu solo per un attimo.
-“Questa mattina hai trovato il mio biglietto qui, sul tuo letto?”
-“No”, mi tirai su avvicinandomi a lui, -“non ci ho fatto caso. Ma l’ha trovato qualcun altro.”
-“Chi?” A giudicare dalla sua espressione doveva aver sentito risuonare un campanello d’allarme nelle mie parole perché i suoi occhi non potevano allargarsi più di quanto non stessero già facendo.
-“Camille”, mormorai, tetra.
William si rilassò visibilmente e questa sua reazione mi irritò non poco.
-“Pensi che lei sia il male minore? Mi ha picchiata e tua madre ha assistito a quella scena patetica e sai una cosa? Guarda qui!” Alzai le mani per fargli vedere la striscia rossa al centro dei miei palmi offesi. Lui chiuse gli occhi stringendo la bocca, provato e addolorato, quando li riaprì accolse le mie mani nelle sue. Se le portò accanto alle labbra e me le baciò con dolcezza ed estrema lentezza.
-“Quanto mi dispiace”, sussurrò tra le mie dita.
-“Anche a me, William, anche a me.”
Mi rifugiai tra le sue braccia e mi sorpresi tremante e agitata. Il suo mento si appoggiò sulla mia nuca, tirandomi con delicatezza i capelli in modo da farmi scostare il viso dalla sua spalla e baciarmi. Dapprima fu un bacio appena accennato, quasi timido, come se non ci fossimo mai concessi quel gesto in precedenza.
In fondo quello è stato il nostro primo bacio dopo esser venuta a conoscenza della verità.
Subito dopo si trasformò nel contatto più travolgente e passionale che avessimo mai avuto. Mi lasciai completamente nelle sue mani, ma tutto ciò che riuscivo a pensare era "lui è un vampiro".
Vampiro.

Vampiro.
E di colpo ripercorsi –senza volerlo realmente- le immagini della sera in cui lo incontrai in quel vicolo maledetto; la ragazza riversa a terra, privata della sua vita dall’uomo che stavo baciando. Poi eccolo uscire dall’ombra con quello sguardo maligno e perso e poi… poi sua madre. Sua madre che prosciugava il corpo di quella piccola bestiolina uccisa da Simus, ripulendo anche la più piccola macchia di sangue delle sue vene.
Un conato mi spinse via dalle labbra di William, che scambiò quel brusco distacco per fretta.
-“Meglio io che io vada, eh? Tra tre minuti suona la campanella”, mi comunicò mentre, raggiante, raggiungeva la porta.
-“Sì”, mi schiarii la gola, -“avremo altri momenti.”
Appoggiò la mano sulla maniglia poi, prima di uscire di scena, mi rivolse l’ultima battuta.
-“Fino alla fine del tempo, Emily.”







Angolino autrice: Ciao a tutti, ragazzi. Per prima cosa grazie per dedicare il vostro tempo alla lettura della mia storia.
Questo è stato una sorta di capitolo di passaggio, che getta le basi per il prossimo e per il proseguimento della storia.
Infatti, nel prossimo capitolo vedremo Emily uscire dal convitto per la prima -vera- volta dopo il suo isolamento. E secondo voi sarà un'uscita tranquilla? :P :P
Alla prossima!

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Capitolo 10
*** Decimo Capitolo ***


Decimo Capitolo








Mi sciacquai le mani con vigore, verso la fine della giornata. Ad ogni cambio d’ora mi rifugiavo nel bagno della camera per espellere la pena ricevuta. Proprio al termine di tutte le lezioni, impegnata in questo intento e china sul lavandino, delle braccia lunghe mi avvolsero per la vita. Dietro alla mia immagine riflessa scorsi Jamie, avvinghiata alla mia schiena come un koala.
-“Smettila di lavarti. E’ tutto passato”, mi bisbigliò vicino all’orecchio. Lanciai un’occhiata al sapone che veniva risucchiato via e al getto d’acqua freddo, destinato alla stessa sorte.
-“Hai ragione. Non so cosa mia sia preso”, cercai di ridacchiare ma parve il gracchiare di una cornacchia. Jamie si sollevò da me e mi fece segno di seguirla in camera; dunque mi asciugai velocemente le mani e la raggiunsi accanto al mio baule, dove c’era anche Nicole.
-“Allora, Emily, credo che sia giunto il momento di riesumare dal baule il tuo cellulare.”
Mi schiacciai una manata sulla fronte, gesto istintivo che le fece ridere e scuotere la testa.
-“Perché l’altra volta mia madre – quella rompiscatole di prima categoria- ci ha bombardato per tutto il giorno su dove fossi, se stessi bene, se William fosse un tipo raccomandabile.”, fece una breve pausa lanciandomi un’occhiata che non riuscii a decifrare, poi mi diede le spalle sedendosi sul letto di Jamie, -“allora, per favore, cerca di farlo ritornare nel mondo dei vivi. Così possiamo scambiarci anche i numeri di telefono.”
-“Va bene, è giusto”, dissi frugando tra una delle bustine di plastica in cui ricordavo di averlo messo, -“ma credo sia scarico e qui non vedo una presa.”
Jamie scrollò le spalle afferrando il cellulare e il carica batterie che avevo appena recuperato e si indirizzò verso il bagno.
-“Proprio dietro alla lavatrice c’è una presa. E’ lì che carichiamo di nascosto i nostri cellulari”, mi spiegò con fare saputello.
-“Vi ringrazio. Ora, però, devo andare a chiedere un informazione ai professori. Nicole”, mi rivolsi a lei, -“questa mattina siamo state interrotte e mi pare volessi dirmi qualcosa.”
La mia amica trasalì e scosse la testa, sorridendomi.
-“Ehi, voi due! Avete dei segreti che non mi coinvolgono?”, scherzò Jamie, di ritorno, incrociando le braccia al petto.
-“No, figurati”, mugugnò Nic, lisciandosi delle pieghe immaginarie sulla gonna. Aggrottai le sopracciglia.
-“Sei sicura? Mi sembrav…”
-“Davvero, Emily! Volevo solo dirti che domani ci divertiremo. Tranquilla, non dovevo dirti qualcosa di importante.”, chiarì con uno sguardo particolarmente insistente e, non appena Jamie si voltò per raggiungere la finestra, indicò con la testa le sue spalle, mimando con la bocca “non adesso.” Recepii il messaggio e le salutai, scendendo le scale per dirigermi nella sala dei professori.
L’obiettivo della mia giornata era quello di scoprire la via dell’alloggio di mia nonna: qualcuno doveva pur esserne a conoscenza.
Nonostante la porta fosse aperta e vedessi i pochi presenti, bussai per ricevere il permesso d’entrata.
-“Signorina Collins, cosa le serve?” Il professor Bennet mi raggiunse sulla soglia mentre gli altri tornarono a chiacchierare e a sistemare un tavolo pieno di fogli, libri e documenti.
-“Sì, vorrei sapere se lei può, o un altro professore, riuscire a mettermi in contatto con mia nonna. E’ da molto tempo che non la sento e che non la vedo.”
-“Oh”, farneticò sovrappensiero, -“no, mi dispiace, Collins. L’unica persona che può aiutarla, in questo caso, è Miss Delacour. Vada da lei, così va’ sul sicuro, no?”
No?
Se c’era una situazione che volevo evitare come la peste era quella di andar a elemosinare informazioni riguardo la mia unica e sperduta parente dal Male per eccellenza.
Davvero molto utile, signor Bennet, non c’è che dire.
-“Grazie.” Finsi un sorriso piuttosto tirato e girai i tacchi. Se non fossi stata disperata mi sarei arrangiata per conto mio ma, sia dia il caso, che io fossi più che disperata. Così, cinque minuti dopo essere rimasta a fissare la porta dell’ufficio della preside, bussai con infinita leggerezza.
-“Avanti!”, proruppe la sua voce, che sembrava giungermi dall’oltretomba. Rabbrividii e feci l’ingresso più disinvolto che riuscissi a simulare: spalle dritte, braccia intrecciate dietro la schiena, andatura sciolta e testa alta.
Miss Delacour si mostrò sorpresa e spiazzata; non saprei decidere se per la mia presenza o per la mia spavalderia di cartapesta.
-“Cosa volevi fare, signorina? Buttare giù la porta?”
Ignorai la sua provocazione e puntai al dunque:
-“Sono venuta qui per chiederle se può, gentilmente, concedermi l’indirizzo dell’ alloggio di mia nonna.”
Lei dondolò il capo abbandonando la sedia girevole; con un verso, poi, ruppe il nostro contatto visivo per posizionarsi di fronte al ritratto. Evitai di soffermarmi su quell’immagine, aspettai una risposta vagando con gli occhi in quell’ufficio divenuto fin troppo familiare.
-“Ho saputo che c’è stato un guasto piuttosto importante. Sono settimane che tentano di ripristinare la linea telefonica e risolvere i vari problemi di quell’istituto”, mi informò con un tono talmente basso da farmi credere che fosse sovrappensiero, così m’incamminai per andarle vicino nel momento in cui si voltò per guardarmi; sobbalzò allarmata. La reazione che ne conseguì mi spiazzò non poco:
-“Cos’hai dietro la schiena?”, urlò questa.
-“Cosa?”
-“Collins, che cosa stai nascondendo dietro la schiena?!”
-“Io non ho niente dietro la…”
Miss Delacour mi piombò addosso come una furia, afferrandomi le braccia per verificare se davvero nascondessi qualcosa. Io ero senza parole: come poteva pensare che fossi entrata in quella stanza con l’intento di farle del male?
Ancora con le braccia imprigionate nelle sue mani, ci guardammo. Aveva il respiro affannato, gli occhi spalancati e la bocca tesa e sigillata.
-“Mi lasci”, sussurrai con debolezza, -“ha visto? Non ho niente dietro la schiena. Come può pensare una cosa del genere?”
Mi lasciò andare di colpo e raggiunse la scrivania posizionandosi di fronte alla finestra.
-“Fuori dal mio ufficio.”
-“Ma lei non ha risposto alla mia domanda. Per cortesia, Miss”, insistetti anche se avevo la consapevolezza di aver appena assistito ad una delle sue crisi, ad uno dei suoi cedimenti emotivi. E questo mi spaventava più di una frustata.
Infatti tornò ad osservarmi stizzita per la mia irruenza.
-“Se riuscirò a metterti in contatto con la signorina Williams”, mormorò cercando di ricomporsi, anche se nel suo volto leggevo una tensione che poteva comprendere solo lei, -“domani ti organizzerò un incontro con tua nonna. Tieni il cellulare accesso. Ho tuo il numero, come quello di ogni altra alunna, e adesso esci. Immediatamente.”
Non potendo credere sul serio a quelle parole mi ritrovai ad annuire, a ringraziarla a mezza bocca e ad uscire con foga come se ne valesse della mia vita togliermi d’impaccio. Trionfante come mi sentivo fu veramente un compito arduo contenere l’emozione, quasi raggiunsi la mia camera isolata saltellando. Chiusi la porta alle mie spalle e mi gettai sul letto, cercando, per quanto fattibile, di cancellare l’episodio dell’ora della Jim e di proiettare i miei pensieri all’imminente incontro con Caroline Collins.




Se c’era una cosa che non avrei dovuto dimenticare era la guida imprudente della signora Danielle. Rischiammo due volte di finire contro l’auto di fronte o farci tamponare da quella dietro. Da come avevo iniziato il pomeriggio avrei dovuto farmi un’idea ben precisa di quello che mi sarebbe aspettato, e invece mi ero limitata a coltivare la speranza che quella sarebbe stata una normale bella giornata. Dicembre ci donò un cielo buio e un gelo da far ghiacciare le articolazioni così, come prima tappa, ci rifugiammo in un negozietto che vendeva vestitini eleganti e accessori per ragazze. Il punto era che Nicole voleva scovare –in quel turbinio di stoffe colorate e brillanti- l’abito perfetto per la cena di Natale.
-“Questo è bellissimo, non trovate?”, chiese il nostro parere accarezzando un semplice tubino rosato.
-“Già”, convenne Jamie avvicinandosi all’amica, -“e ti starebbe davvero bene perché sei così magra, Nic.”
-“Voi ragazze cosa indosserete?”, cinguettò la signora Danielle mentre trafficava con il suo cellulare accanto ai camerini. Io e Jamie ci guardammo senza saper cosa rispondere: non avevamo niente da mettere.
-“Penso che noi ci accontenteremo di far diventare elegante, o almeno passabile, uno dei nostri vestitini lunghi. Giusto, Emily?”
Annuii, cercando di nascondere l’amarezza provocata da quelle parole.
-“Magari ci compreremo uno di quegli accessori. Sembrano carini.”
-“Sì, ottimo.”
Danielle ci stava guardando inespressiva, si ritrovò a scuotere la testa e poi, riponendo con un colpo secco il telefono nella borsa, allargo le braccia al cielo e disse:
-“Prendete quello che volete ragazze. Consideratelo un mio regalo natalizio.”
Improvvisamente fu come se la mamma di Nicole fosse stata avvolta da una luce dorata, e fosse stata munita di ali angeliche, mentre nella mia testa s’intonava il coro dell’alleluia. Uno dei canti in cui ci saremmo dovute esibire in chiesa, tra l’altro.
-“Oh no, questo no”, mormorò Jamie diventando rossa.
Nonostante avrei voluto davvero tanto accettare la proposta della signora Danielle mi ritrovai, per mia natura, a condividere il disagio di Jamie.
-“Non possiamo accettare un regalo così costoso. Ma grazie mille”, dissi sorridendole calorosamente. Danielle sbuffò e Nicole ci avvolse in un abbraccio.
-“Le mie amiche sono anche le amiche di mia madre”, ridacchiò quest’ultima.
-“Ragazze, seriamente, non fate complimenti. Non è per vantarmi, assolutamente, ma se vi propongo questo è perché posso permettermelo. Forza! Guardatevi intorno, mica possiamo rimanere qui tutto il giorno!”, perseverò allontanandosi verso il reparto di scarpe per non lasciarci replicare.
-“Tanto i soldi sono di George. Quindi, esagerate”, rise la figlia, tornando ad osservare il tubino che aveva adocchiato.
Dunque non vi era possibilità di toglierci da quella situazione così, io e Jamie, afferrammo tutto quello che attirava la nostra attenzione e a turno andammo ad occupare l’unico camerino disponibile. Dopo circa mezz’ora uscimmo dal negozio con una grande busta di plastica che ospitava i nostri bellissimi abiti: quello di Jamie era lungo e aveva una gonna ampia adornata con della stoffa leggera e argentata come il resto dell’abito. Il mio, invece, era azzurro. Un modello decisamente più sobrio di quello della mia amica, anche se era ugualmente lungo e con una bella scollatura a V, non troppo profonda. Nicole, alla fine, optò per il tubino rosa che le avrebbe lasciato le gambe scoperte.
Non ringraziammo mai abbastanza sua madre per tutto questo.
Mentre attraversavamo la strada per riporre i nostri acquisti nel bagagliaio mi sembrò di sentir vibrare il telefonino nella borsa; quando andai a controllare lo schermo riportava un numero che non conoscevo e che aveva smesso di chiamarmi. Subito pensai che la Delacour ce l’avesse fatta ad organizzare l’incontro con nonna. In trepidazione richiamai.
-“Pronto?” Mi rispose una voce femminile, vellutata e bassa.
-“Salve, ho trovato questo numero sul mio cellulare e non ho fatto in tempo a rispondere.” Danielle mi sorrise prendendo la busta dalla mia mano per depositarla in macchina, poi richiuse il bagagliaio e ci fece cenno di stare affianco a lei, ora che stavamo per attraversare la strada.
-“Emily, ciao. Sono Rebecca Williams. Miss Delacour mi ha raccontato tutto. Ho tua nonna in macchina.”
M’illuminai istantaneamente in un sorriso a trentadue denti.
-“Signorina Williams, che bello risentirla. Questo significa che potrò incontrarla?”
-“Sì, raggiungici al Cafè Timothy. Sai dov’è?”
-“Certamente. A che ora dovrò essere lì?”, domandai lanciando un’occhiata alle mie amiche che erano in ascolto, curiose.
-“Incomincia ad incamminarti perché manca solo una traversa e siamo lì. A tra poco, Emily.”
Riagganciai mentre salivamo in sincrono sul marciapiede.
-“Allora? Vedrai finalmente tua nonna?”
-“Sì, Jamie. La Williams si è incaricata di organizzare questo incontro in un bar qui vicino”, spiegai, contenta, e loro mi lasciarono andare dicendomi che, non appena avevo terminato l’appuntamento, avrei dovuto chiamarle per farmi venire a prendere.
Il freddo e la fretta mi permisero di non impiegare molto tempo per raggiungere il bar. Prima di entrare, però, m’impalai di fronte alla vetrata cercando di scorgere i visi conosciuti che attendevo. E le vidi. La signorina Williams attraversava –con una tazza fumante in mano- il breve spazio tra il bancone e il tavolino su cui era poggiata mia nonna. Si stava sfregando il volto con le mani e sentii il mio sorriso vacillare dinanzi quel gesto perché, anche se non potevo esserne certa, sembrava abbattuta e irrequieta. Entrai di tutta fretta, sentendo sopra alla mia testa un tintinnio che annunciava il mio arrivo. Le due donne si voltarono e nonna si alzò non appena mi riconobbe. Mi gettai tra le sue braccia e l’odore del profumo che aveva mi ricordò casa, inondandomi i polmoni e regalandomi un’istantanea del periodo in cui vivevamo insieme.
-“Ciao nonna. Mi sei tanto mancata”, sussurrai vicino al suo orecchio. Grugnì e qualcosa di freddo iniziò a scorrere sul mio collo, mi staccai e vidi i suoi occhi verdigni offuscati dalle lacrime. Poi mi sorrise, asciugandosele col dorso della mano… fasciato.
-“Va tutto bene, dolcezza. Andiamo a sederci e non fare caso alle mie ferite. Sono caduta per le scale dell’ospizio.”
Scossi il capo mentre mi avvicinavo alla signorina Williams che mi accolse con un fugace abbraccio.
-“Allora Emily, come stai?”, mi chiese quest’ultima, seduta accanto a mia nonna. Sospirai.
-“E’ dura essere lì dentro.”
-“Che cosa vuoi dire?”, si affrettò ad interrompermi nonna, sporgendosi oltre il tavolo. La Williams le strinse una mano e lei si tirò indietro, fissandomi.
-“Voglio dire, c’è molto rigore ed io mi sto continuamente cacciando nei guai”, gettai un’occhiata alle mie mani intrecciate sulle ginocchia e scossi la testa pensando che, forse, era meglio non accennare ai metodi di educazione della preside.
-“Tu piuttosto”, dissi cercando di spostare l’argomento,-“sapresti dirmi che succede nel tuo ospizio?” Nonna fece per parlare ma la Williams la precedette.
-“Quella struttura è vecchia quanto il mondo. Ci sono stati dei crolli e la linea telefonica è andata. Mancano i fondi e i lavori di ristrutturazione sono arretrati”, mi spiegò velocemente, ed ebbi la sensazione che si fosse preparata questa risposta a memoria. Comunque sorrisi e allungai le mani verso quelle di Caroline. Non era cambiata poi molto: i soliti ricci biondi, quasi bianchi, gli occhi verdi dal taglio allungato, le labbra a cuore con gli angoli insolitamente all’ingiù. Probabilmente doveva odiare quel posto quanto io odiavo stare in collegio. Le accarezzai la fasciatura e intravidi, in questa, una macchia di sangue. Alzai gli occhi per guardarla e la sorpresi che mi fissava intensamente, come se volesse comunicarmi qualcosa. Infatti, senza nemmeno essere troppo discreta, m’indicò con gli occhi la Williams, attaccata alla sua sedia.
-“Signorina Williams, potrebbe farmi un favore?”, recitai, avendo inteso che, qualsiasi cosa nonna desiderasse dirmi, era bloccata dalla presenza dell’assistente.
-“Sì”, farfugliò sorpresa, -“dimmi.”
-“Potrebbe ordinarmi un succo di frutta, magari a temperatura ambiente, alla pesca? Tenga le do i soldi.” Rovistai in fretta nella borsetta per recuperare il portafogli e tirai fuori un paio di monete ad una velocità tale che ella non potette ribattere. Glieli lasciai cadere sul palmo aperto e, alzandosi, toccò con la mano la spalla di Caroline. Quest’ultima, libera dalla presenza di Rebecca, si allungò prendendomi per un braccio.
-“Nonna!”, mormorai a bassa voce.
-“Stammi a sentire, Emily. Tu sei in…”
Un colpo di tosse così potente ci fece voltare, insieme agli altri clienti, verso un tavolo poco distante da noi. Due ragazzi –un moro possente e un biondino più o meno della stessa stazza- ci guardavano tra il divertito e il minaccioso. Le altre persone tornarono a consumare le proprie bibite mentre quei due ragazzi non erano intenzionati a lasciar la presa dal mio sguardo. Bastò incontrare quei quattro occhi per farmi sentire irrequieta, farmi assalire da un’ondata di panico irrazionale.
Tuttavia tornai a guardare mia nonna, che era ammutolita e a testa basta.
-“Cosa mi stavi dicendo?”, la incitai a proseguire senza, però, non controllare di sottecchi quei due.
-“Niente, tesoro mio.”
Aggrottai le sopracciglia perché, davvero, non me la raccontava giusta.
-“Non puoi mentirmi e lo sai. Lo vedo che c’è qualcosa che ti preoccupata. Ti prego, nonna.”, cercai di persuaderla ma in men che non si dica la Williams si materializzò al lato della mia sedia per depositare sul tavolo un bicchiere colmo di succo di frutta. La ringraziai senza sorridere.
Dovete sapere che, per la restante mezz’ora che ci rimaneva, parlammo del più e del meno senza trascinarci veramente in un argomento interessante o specifico. Nonna era strana, la Williams insolitamente petulante e, come se ciò non fosse sufficiente a stranirmi, nel momento dei saluti, i miei occhi s’indirizzarono nuovamente verso il tavolo occupato da quei due ragazzi, che erano divenuti tre. Mentre i due di prima mi davano le spalle, il nuovo arrivato si tolse gli occhiali da sole guardandomi con un guizzo ardente negli occhi. E lo riconobbi. Subito. Immediatamente.
Il ragazzo incontrato al Winter Wonderland.
Il tempo di realizzare quel pensiero che anche i suoi amici –quelli che l’altra volta stavano ritardando e che hanno gridato il mio nome- si voltarono, sorridendomi per nulla amichevoli. Rimasi per pochi secondi a mirarli con la bocca aperta, avvertendo un calore allarmante localizzarsi all’altezza del petto. La Williams mi passò davanti facendo distogliere lo sguardo da loro. Uscimmo dal bar ma non per questo mi sentii sollevata. Salutai distrattamente le due donne per via di quell’incontro improvviso; poi, mentre Rebecca teneva aperta la portiera della macchina per concedere a nonna di salire a bordo, mi resi conto di ciò che stavo lasciando andare, la mia unica parente che chissà quando avrei riabbracciato. Allora corsi da lei, stringendola forte forte.
-“Ti voglio bene, nonna. Ci vedremo presto, non è vero?”
-“La vedrai molto presto, Emily.” Fu nuovamente –ed irritatamente- la Williams a rispondere.
Perché Caroline Collins sembrava subire la sua presenza?
Stirai un sorriso e girai i tacchi; ero arrivata a buon punto quando una mano piuttosto fredda mi afferrò il braccio, facendomi gridare e voltare nel medesimo istante.
-“Stammi a sentire”, s’affanno a parlare mia nonna, mentre in lontananza Rebecca Williams correva sulle punte dei tacchi per recuperarla, -“se pensi che un luogo non faccia per te, talvolta uscire di scena non è sinonimo di codardia.”
Mi accigliai mentre sillabavo ciò che mi aveva appena detto, per poi vedere le due allontanarsi nuovamente. Sembrava che la Williams stesse rimproverando mia nonna.
-“Ma che significa?”, domandai al vuoto, seguendo con gli occhi la macchina che le stava conducendo lontano da me.
M’incamminai nuovamente con una strana sensazione di confusione gravarmi sulle spalle, con la mano che cercava con distrazione il cellulare nella borsa per avvertire Danielle.
All’improvviso uno spostamento d’aria alle mie spalle mi fece voltare strappandomi dalla ricerca.
I tre ragazzi di prima erano schierati in un muro compatto e mi fissavano come una tigre, intenta a sferzare l’aria con la coda, fissa la sua preda prima di ucciderla. Il mio braccio rimase sospeso ed immobile nella borsa, la mia bocca si modulò in una O che rappresentava il mio sgomento. Anche se, nel ripensarci, non penso che la parola sgomento possa render giustizia al senso di panico e paura che m’invase.
-“Che volete?”, ruppi il silenzio e, in un certo senso, credevo non aspettassero altro per cominciare qualsiasi cosa avessero premeditato.
-“Tu hai una cosa che appartiene ad una persona che conosciamo e, sai com’è, sono anni che non desidera altro che averla tra le mani”, mi spiegò il ragazzo con il codino, accompagnando quelle parole con un tono di voce paziente, lento, che quasi mi fece dispiacere dovergli rispondere:
-“Io non so di cosa tu stia parlando, in tutta onestà. Ma credo che voi stiate continuando a scambiarmi per un'altra persona.”
Il biondo aprì la bocca ma il ragazzo di prima lo bloccò con un cenno della mano.
-“Quindi ti ricordi del nostro primo incontro su quella panchina”, affermò aspettando che annuissi, -“e quindi tu pensi che io stia seguendo, per tutto questo tempo, la persona sbagliata? No, Emily, sei tu quella che stiamo cercando.”
Cominciai a sudare freddo perché iniziavo a capacitarmi del fatto che non se ne sarebbero andati senza prima avermi fatto del male, nonostante le persone passassero accanto a noi, non accorgendosi della tensione di quel quartetto che sfioravano al passaggio.
-“Sentite non vi conosco, non ho niente da dover spartire con voi e quindi vi saluto”, farfugliai tutto d’un fiato e gli diedi le spalle, ambendo a raggiungere un negozio affollato o, almeno, un gruppo numeroso di persone con cui aggregarmi. Iniziava a far buio, però, e di conseguenza non c’era molta mole ad incoraggiarmi.
Dopo qualche passo controllai oltre la spalla quanta distanza avessi posto tra me e i miei inseguitori, non scorgendoli più, mi tranquillizzai pur non rallentando il passo.
Il tempo di svoltare l’angolo, abbassare la guardia per ripescare quel maledetto aggeggio nella borsetta che, la mano di uno dei tre, mi afferrò per la gola. Venni trascinata in un vicolo diroccato, stretto e sudicio; la velocità e la forza con cui venne trasportato il mio corpo mi lasciò interdetta per qualche istante poi, con tutto il fiato che avevo iniziai a gridare e dimenarmi. Più mi ribellavo e più la sua stretta si rafforzava intorno al collo, piegato dal dolore verso il basso dove potetti vedere la macabra danza dei miei piedi che non riuscivano a frenare e che venivano pietosamente raschiati al suolo. Lui gridò un’ammonizione ma non lo feci terminare perché con una spinta sbilanciai entrambi aggrappandomi con le gambe ad un cassonetto. Caddi a terra a pochi centimetri da lui, il biondo.
-“La tua resistenza è tanto ammirevole quanto ridicola”, commentò alzandosi. Strisciai all’indietro poiché la caviglia sinistra non mi permetteva di alzarmi e quasi non vidi nero dal dolore.
-“Avanti, finiamo questa cosa”, suggerì una voce alle mie spalle prima ancora dell’ingresso in scena degli altri due.
Il ragazzo dai ricci castani, austero e imponente, si chinò al mio fianco per sfilarmi la borsa dalla spalla. Tutti e tre si radunarono intorno a lui mentre rovistava al suo interno.
-“Qui non c’è!”, urlò, scagliando la borsa a terra, -“nel cappotto”, mormorò proseguendo verso di me.
-“Non azzardare a mettermi le mani addosso.” Mi ero ripromessa di ringhiare ma la voce che uscì dalla mia bocca fu così pietosa che mi vergognai.
Ma anche se fossi riuscita a ringhiare avrei potuto fermare quei tre colossi? Certo che no, stupida Emily.
Mi chiusi a riccio non appena le mani del ragazzo mi afferrarono per i fianchi al fine di issarmi in piedi. Mi divincolai, scalciai e battei pugni alla cieca rimanendo col volto affondato tra le ginocchia, tuttavia, nel giro di un minuto mi ritrovai in piedi. Contro il muro.
-“Lasciatemi in pace”, dissi, stavolta con più fermezza, le braccia alzate e imprigionate nelle fredde mani del ragazzo col codino nel frattempo che l’amico perquisiva le tasche del mio cappotto bianco. -“Non possiamo, te lo ripeterei all’infinito, piccola e dolce Emily Collins.”
Sgranai gli occhi al suono del mio nome completo.
-“La padrona ci ha ordinato di trovare quell’oggetto che tanto brama e che tu tanto nascondi. Non possiamo fallire, capisci? O tutto ciò che ci ha promesso non potrà esaudirsi”, sospirò simulando una certa drammaticità.
-“Ben, abbiamo un problema a quanto pare”, mormorò il moro strattonandomi nel cappotto e voltando le spalle. Ben mi lasciò libera e le mie braccia caddero formicolanti lungo i fianchi. Il ragazzo biondo mi scrutava in cagnesco facendo attenzione che non scappassi.
-“Non c’è. Non l’ha portato con sé.”
-“E allora facciamola parlare con le cattive!”, convenne il biondo schiacciandomi la gola con l’avambraccio, il mio cranio che quasi perforava il muro pregno d’umidità di quel vicolo cieco.
-“Bast…non...” Non riuscivo a respirare figuriamoci parlare, ma lui non lo capiva e aumentava la pressione.
-“Kendrick, la stai uccidendo e sai perfettamente che ci è stato vietato.”
Boccheggiavo convulsamente mentre, con gli occhi fuori dalle orbite, fissavo il suo viso livido. Ad un tratto abbassò il capo come richiamato o infastidito da qualcosa. Quando tornò con lo sguardo nel mio i suoi occhi non erano più azzurri – di un colore limpido, fin troppo puro per lui- ma rossi. Schiacciò la fronte sulla mia e il suo viso si stravolse trasformandosi in un essere famelico, la bocca spalancata a mostrarmi due lunghi canini. Uno dei suoi lo strappò via da me e scivolai a terra, respirando a gran boccate e in preda ad uno shock fin troppo conosciuto.
Vampiri.
Ero stata seguita, aggredita e quasi uccisa dalle stesse creature che stavo iniziando a conoscere e, lo ammetto, a giustificarne l’esistenza. Ero impietrita mentre Ben e l’altro tenevano per le braccia l’amico, in preda a degli spasmi terrificanti, con gli occhi incollati sulle mie gambe: intorno al ginocchio i jeans erano stati logorati e s’intravedeva con chiarezza la mia carne sgorgare sangue.
-“Vattene, Emily Collins, vattene!”, gridò Ben affannato per tener saldo Kendrick, -“vattene e ringrazia questo tuo giorno fortunato perché, la prossima volta, non lo sarà altrettanto.”
Strisciai a terra recuperando la borsetta e, ignorando il ginocchio pulsante, la caviglia dolorante che piegava ad ogni due passi i miei movimenti, corsi via riversandomi in strada.

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Capitolo 11
*** Dodicesimo Capitolo ***


Dodicesimo Capitolo








Doveva innescarsi uno strano meccanismo, nella mia mente, in cui il tempo perdeva di consistenza e tornava indietro come la notte in cui sognai i miei genitori nel nostro ultimo Natale insieme. Rivivendo con straordinaria nitidezza lo scambio dei doni, di baci e il sapore del pandoro innevato di zucchero a velo di nonna. Di ridere ancora per la pericolosa pendenza dell’albero allestito da mio padre, che sembrava dover rovinare da un momento all’altro nel camino acceso.
Oppure il tempo scattava bruscamente in avanti, facendomi svegliare nel giorno della vigilia di Natale, offuscando i giorni passati come se non avessero avuto importanza nella mia vita. Come se la confessione di Wiliam di aver amato un’altra ragazza, Adelaide, non fosse mai avvenuta. Come se tutte le notti non avessi ripetuto, ad alta voce, le motivazioni per il quale rimanevo al suo fianco. Di come lui era diventato straordinariamente protettivo e guardingo dal giorno in cui gli confessai che qualcuno mi stava seguendo. E di ignorare il motivo.
Il passato e il presente si esibivano in uno strano girotondo, lasciandomi annichilita dinanzi alla consapevolezza di essere arrivata alla vigilia di Natale e non essermene accorta.
La sera del ventiquattro Dicembre il collegio era vivo come non mai. Le ragazze che mi circondavano sembravano essersi svegliate dopo un interminabile letargo e cinguettavano lungo le scale, nell’atrio, guardando fuori dalla finestra esercitandosi per l’imminente esibizione in chiesa. Io ero impalata nel portico a guardare la neve che scendeva così lentamente da sembrare un’illusione, impaurita e infreddolita. Dal giorno dell’aggressione non avevo più messo piede fuori dal collegio. Mi viene da sorridere nel capacitarmi che mi sentivo protetta nel luogo che consideravo l’inferno. Eppure peccavo d’ingenuità, perché il pericolo mi era alle spalle – sempre – ma ancora non potevo saperlo.
William mi affiancò all’improvviso e ruppe la bolla dei miei pensieri. Mi voltai verso di lui, che aveva il volto nascosto in una sciarpa blu.
"Pronta?", mi domandò, la voce camuffata dal tessuto.
Sorrisi.
“Per cosa? Per il concerto di Natale o per mettere piede fuori dall’istituto?”
“Lo sai benissimo che ci sarò io dietro di te. E questo significa che ti proteggerò, come ho sempre fatto.”
Mi strinsi nel cappotto bianco, non avvertendo poi tanto freddo.
“E ti ringrazio”, sussurrai, grata per la sua accortezza ma anche demoralizzata per aver bisogno di qualcuno capace di guardarmi le spalle.
William mi venne vicino e, quando istintivamente voltai il capo verso il portone per assicurarmi che nessuno venisse e ci scoprisse, le sue dita mi afferrarono per il mento costringendomi a guardarlo negli occhi.
“Non devi ringraziarmi per questo. E’ come se mi ringraziassi per il fatto che sono innamorato di te. E’ stupido.”
“Mmm…”, feci arretrando per liberarmi dalla sua presa, -“dunque, caro il mio innamorato, mi stai dando della stupida?”
La fronte di William si aggrottò e i suoi occhi non fecero in tempo a vedere le mie mani appallottolare un grumolo di neve che già l’avevo centrato.
“Oh, questa poi!”, esclamò, sorpreso e imitò il mio gesto andando a raccattare della neve fuori nel giardino. Mi tirò una palla che schivai. Dunque mi chinai sul muretto per raschiare quel poco di neve accumulata ma, senza averlo messo in conto, la velocità soprannaturale di William mi fece perdere l’equilibrio, e lui mi afferrò per i fianchi allontanandomi dalle mie armi.
“Lasciami! Mettimi giù!”, gli ordinai, a bassa voce, dimenandomi.
“Ogni tuo desiderio è un ordine.”
Mi depositò un bacio tra i capelli e mi lasciò andare, mentre il suo viso s’imbronciava ricordandomi quello d’un bambino. Guardava all’interno della lunga finestra, William, e mai come allora l’osservavo senza provare timore. La bestia giaceva in lui, e mi proteggeva dai suoi simili. Lo accettavo e non avevo paura. D’altronde era passato abbastanza tempo da averci fatto il callo, con questa storia.
La porta principale si aprì, la Delacour e gli altri professori ci ordinarono di disporci in una fila ordinata e di procedere a passo svelto.
Le luci dei negozi che sfioravamo erano colorati promemoria a quella che sarebbe stata la grande festa organizzata dall’oratorio per noi collegiali. Mi strinsi nel cappotto non sapendo cosa aspettarmi, sentendomi miseramente esposta, vulnerabile, in quelle strade londinesi che non mi vedevano da un po’. Sapevo di essere paranoica nel guardarmi vertiginosamente intorno, ignorando non volutamente le chiacchiere che mi volevano coinvolta delle mie amiche, ma, in quel traffico di persone, potevano nascondersi loro.
Istintivamente lanciai un’occhiata oltre le mie spalle per verificare la presenza di William che non appena intercettò i miei occhi ingigantiti per la paura, scosse il capo con rimprovero. Tornai a guardare in avanti, non potendo calmarmi nemmeno se avessi voluto.
“… e questo è quanto. Tu cosa ne pensi, Em?”, m’interrogò Nicole che iniziò a sbuffare calore sulle sue mani unite vicino al viso.
“Oh…”, blaterai presa alla sprovvista, -“io non stavo ascoltando, scusami.”
“Domani andrà a casa a festeggiare il Natale con sua madre, i suoi nonni e George. Questo la disturba parecchio”, mi spiegò velocemente Jamie, alzando gli occhi al cielo.
“Mi dispiace”, fu tutto ciò che dissi poiché c’era qualcun altro che doveva affrontare situazioni ben peggiori di una innocua rimpatriata famigliare.
“Perderò il tuo compleanno, e la festa all’oratorio”, m’informò Nic, facendo vagare lo sguardo verso il marciapiede pasticciato di neve ed impronte.
“E in più mamma mi ha detto che dovranno comunicarmi una splendida notizia”, continuò, calciando un sassolino.
“E non sei impaziente di sentire questa notizia? Magari sarà davvero una bella notizia”, le domandò Jamie, sotto i migliori auspici.
Nicole la guardò per un breve istante in tralice ma l’altra era talmente presa ad osservare la neve sciogliersi sul suo palmo guantato che non ci fece caso. Come io non feci caso al fatto che avevamo appena arrestato il passo di quella marcia meccanica, e di essere giunte a destinazione. Mi bastò percorrere con gli occhi quella facciata al limite del gotico, arrampicarmi lungo i pennacchi e ricadere con lo sguardo sul portone aperto che ci invitava ad entrare. Le mie gambe erano così immobili e la mia salivazione così azzerata che dovetti ripetermi che quella non era l’entrata diretta degli inferi, ma l’entrata della casa del Signore dove, tra non meno di qualche minuto, sarebbe stata invasa dalle nostri voci angeliche. E, primo fra tutti i pensieri, non c’era nessuna croce di legno o di chissà quale altro materiale a penzolare in aria con maestosa minacciosità. Quindi, l’episodio della volta scorsa non avrebbe avuto modo di ripetersi ed io non dovevo far altro che cacciare indietro le immagini che mi ricordavano l’accaduto.
Un gruppo di noi strisciò lungo le pareti per via della calca che vi era oltre i banchi, una volta raggiunto l’altare ci posizionammo secondo l’ordine dei professori. Fui piantata in prima fila assieme a Jamie, Camille e le sue scagnozze. Dietro vi erano le altre della nostra classe e parte di quelle del primo anno mentre, il resto, si stagliava nelle prime file e ai lati della chiesa. La Delacour, suo figlio e – ospite d’onore a sorpresa- il signor Simus Murfy in tutta la sua eleganza, accompagnato da una donna dal volto paffuto e simpatico, invece, occupavano i posti laterali accanto al leggio.
Guardai William che aveva l’attenzione rivolta nel punto in cui ero stata inchiodata a terra; nei suoi occhi doveva ripetersi l’istantanea del momento in cui era riuscito a trarmi in salvo. Proprio come se si fosse accorto che lo stavo osservando, lui alzò il capo e i nostri sguardi s’incrociarono, complici e discreti. Rimanemmo ad osservarci in quella bizzarra immobilità fin quando non toccò sfoderare le nostre voci in festa.
Al termine di uno dei canti il prete fece un gesto d’invito con la mano a qualcuno che non riuscivo a vedere. In un primo momento credetti che si stesse riferendo alla Delacour perché si spostò di lato, in realtà il movimento permise a suo figlio di passarle avanti per raggiungerci sull’altare. Salì i gradini di marmo e il signore che accompagnava i canti con il pianoforte gli lasciò lo sgabello. William tossì prima di enunciare le sue intenzioni.
-“Vorrei cogliere l’occasione di questa stretta collaborazione tra mia madre e il parroco Patrick per augurare, a tutti voi, un felice Natale. Che possiate vivere d’amore e far sì che tutti i giorni –anche i più bui- siano illuminati dalla stessa luce che vedo stasera nei vostri occhi. E…”, prese respiro, sfiorando i tasti con le dita come se li volesse accarezzare,-“questo è per te.”, concluse, a testa bassa, ed iniziò la melodia. I sussurri delle mie compagne alle mie spalle scommettevano che ciò che stava facendo fosse un omaggio al ritrovato rapporto con sua madre, ma solo io capii immediatamente –dal primo accenno, dalla prima nota- che quella canzone non era rivolta a Jennifer.
Era rivolta a me.
Era la canzone di mia madre.
Mi mancò il respiro per qualche secondo e fin quando la musica non crebbe d’intensità mi resi conto che lo stavo trattenendo, così come le lacrime. Tuttavia, sebbene la commozione, dovetti aggrapparmi con le mani alle ginocchia per evitare di singhiozzare. Vidi la Delacour fissare suo figlio con la bocca dischiusa e le mani intrecciate in grembo, convinta di star ascoltando una sua dedica. Ricordo di aver provato una piccolissima fitta di gelosia perché lei mi appariva beata nell’ascoltare qualcosa di così profondamente mio. E della mia famiglia.
Quando terminò l’esibizione e ci alzammo tutti in piedi per applaudire; solo una persona, Jamie, fu capace di bisbigliarmi nell’orecchio:
-“Secondo me, questa era per te, amica mia.”



Di ritorno al collegio ecco scatenarsi il motivo di tanta euforia e agitazione: la festa allestita da alcuni rappresentanti dell’oratorio della chiesa. Se prima della celebrazione si avvertiva un clima elettrico di gioia adesso, credetemi, era tutto un altro paio di maniche. I dormitori si erano trasformati in camerini e, in una stanza del primo piano con la porta completamente spalancata, le ragazze si erano radunate in biancheria intima di fronte all’entrata del bagno intimando ad una certa Sefa di muoversi o avrebbe visto il contenuto del suo baule venir mangiato dal fuoco del camino di non so quale posto.
Io e Nicole -che a differenza di Jamie non eravamo abituate ad assistere a un clima così esplosivo e repentino- ci guardavamo intorno senza nascondere il nostro disorientamento.
“E’ il collegio del nord di Londra con preside l’egregia Jennifer La Terribile Delacour, oppure siamo state trapiantate in un altro istituto incredibilmente simile di un altro universo?”, scherzò Nicole che con un balzò alla mia sinistra permise di far passare una mandria di ragazze tutte in ghingheri. Jamie sghignazzò.
“Anche l’anno scorso è stato così, più o meno. Quest’anno c’è molta più felicità perché, sapete, la festa è motivo di nuovi incontri, di svago. E le persone come me hanno qualcuno con cui condividere non solo la sorte ma anche il Natale.”
Anche nella nostra camerata si respirava lo stesso clima che pervadeva l’intera struttura; Jamie si offrì di pettinarci i capelli mentre Nicole tirò fuori da una bustina di plastica una tavolozza di ombretti dalle diverse tonalità. Riuscimmo ad occupare un lavandino e io fui la prima ad essere preparata. Le mie amiche mi avevano fatto rivoltare la sedia contro lo specchio perché volevano che mi mirassi in tutto il mio splendore ad opera conclusa.
“Sii paziente”, mi avevano ammonito mentre il mio viso veniva spennellato e i miei capelli acconciati.
“Sono così lunghi i tuoi capelli, Emily. Ancor di più di quando sei arrivata qui. Li adoro”, commentò Jamie, appuntandomi l’ultima mollettina ai lati della nuca. Non potevo vedere ma ero sicura al cento per cento che me li avesse raccolti in una mezza coda elaborata.
“Io ho finito”, sentenziò Nicole, che fu immediatamente affiancata da Jamie. Quest’ultima si aprì in un sorriso meravigliato, di sincero stupore.
“Sei splendida. Sei…insomma, wow! Vado a prenderti il vestito. Nicole, non farla specchiare.”
“Fosse l’ultima cosa che faccio”, la rassicurò l’altra, portandosi il pennello sporco di viola all’altezza del cuore in un gesto solenne. Voltai la testa di lato e incontrai lo sguardo di Daisy che era circondata dalle sue amiche.
-“Sei veramente bella, sai?” Mi sorrise e poi, senza lasciarmi il tempo per ringraziarla del complimento, si esibì in una piccola giravolta su se stessa. Il suo lungo e pomposo vestito lillà si aprì, avvolgendola, per poi ricomporsi al suo arresto.
“Ti piace?”
“E’ meraviglioso, Daisy. Dico davvero.” Mi donò un altro sorriso e poi le sue amiche la tirarono via per raggiungere i pullman che ci avrebbero scortato al ricevimento, benché non sarebbe partito se non tra qualche minuto.
Dopo che quel gruppetto passò per la porta, ecco che tornò Jamie con il mio vestito piegato sulle braccia.
“Alzati, e per l’amor del cielo stai attenta alla capigliatura!”, si raccomandò tutto d’un fiato, e obbedii. Le due mi aiutarono a far passare il vestito da sopra la testa; questo scivolò velocemente sul mio corpo, modellandosi, come se fosse stato creato apposta per me.
“E ora girati!”
Jamie mi prese per le spalle senza preavviso e in un attimo ecco che miravo allo specchio una perfetta sconosciuta.
Non potevo essere io, quella ragazza così elegante, così adulta e splendente. Non avevo mai visto i miei occhi rischiarare quella luce come non li avevo mai ricordati così chiari da sembrare azzurri. Forse era l’illusione provocata da quella polverina stesa sulle mie palpebre. E le mie labbra! Così lucenti e ben definite. Persino il colorito del mio viso era alterato, regalandomi una nuova luce. Con una mano tremante per l’emozione mi toccai i capelli voluminosi che mi ricadevano dolcemente sui seni. Proprio come avevo intuito Jamie me li aveva raccolti in una semplice ma ben riuscita mezza coda.
“Allora? Non ci dici niente?”, ridacchiò Nicole, la quale aveva ben inteso il mio stato d’animo. Lo vedevo dall’espressione compiaciuta che si era manifestata sul suo viso.
“Cosa dovrei dire? Mi avete trasformata.”
“Cenerentola, adesso vai ad un altro specchio libero a mirarti, perché anche noi dobbiamo vestirci, adesso”, ridacchiò Jamie e mi feci da parte, senza togliermi dalla testa il mio inaspettato riflesso.
Dopo aver trascorso del tempo incalcolabile seduta sul vecchio letto ad attendere, eccole uscire dal bagno insieme ad altre ragazze. Sbattei gli occhi, meravigliata da come anche loro sembrassero più mature, più raggianti. Ci misi un po’ ad abituarmi a tutta quella luce che emanavamo, come se i miei occhi fossero rimasti al buio fino a quel momento.
Il cortile era occupato da quattro enormi pullman e una serie di macchine in attesa di trasportare le ragazze più fortunate dalle proprio famiglie. Una tra queste era Camille che incontrammo scendendo le scale all’esterno del collegio.
“L’orfanella che va all’oratorio. Quasi mi commuovo”, sogghignò parandosi davanti a me, proprio sull’ultimo scalino. Le mie mani strinsero con estrema violenza i lati del vestito che straripavano da sotto il cappotto. Avvertii dei mugolii di insofferenza nascere e gorgogliare nelle gole delle mie due amiche, ma fui io a rispondere:
“Per te non vale il detto a Natale si è tutti più buoni, vero? Sarebbe chiedere troppo?”
“Oh, anima pia!”, esclamò portandosi le mani sul copricapo di lana, per poi farle afflosciare lungo i fianchi, -“nessuno ti ha mai risposto che si deve essere buoni tutto l’anno e non solo a Natale”, cercò chiaramente di imitare la mia voce, -“mi dispiace, Collins. Io sono così tutto l’anno e non sarà un po’ di neve o qualche lucina artificiale a farmi cambiare per un po’.”
“Interessante. Sappiamo chi riceverà tutto il carbone, quest’anno, amiche. Ora, spostati”, blaterò Nicole, scendendo uno scalino per spalleggiarmi. Io mi ritrovai con lo sguardo incollato a quello di Camille, chiedendomi come fosse possibile nutrire tanta cattiveria e non provare compassione o qualche altro sentimento benevolo. Feci per sorpassarla ma, inaspettatamente, si alzò sulle punte arrivando con il suo naso quasi a sfiorare il mio.
“Il regalo più bello lo riceverò tra qualche giorno, quando tornerò qui ad umiliarti, Collins.” Il suo fiato mi gelò la punta del naso, mentre rovesciavo gli occhi al cielo, fremente di andar via. Camille mi afferrò il viso con un movimento fulmineo e delicato, poi poggiò le sue labbra sulle mie guance.
“Buon Natale.”
Rimasi impietrita da quel gesto e mentre lei veniva portata via dalla macchina di sua madre, Nicole e Jamie trascinarono via me, scherzando ed esibendosi in versi schifati e osceni.
Mi accomodai in uno dei primi posti e mi sedetti al fianco di Nicole – per un attimo mi domandai come facesse a non sentire freddo con le gambe coperte solo dallo strato sottile delle calze- seguita da Jamie che prese il posto dietro con Victoria, una ragazza della camera affianco.
E qui, proprio durante il tragitto collegio-oratorio, la mia memoria comincia a vacillare, facendomi perdere frammenti di quell’andata spensierata, in cui tutte intonavamo canti natalizi e canzoni ascoltate alla radio.
Ma c’è stato un piccolo discorso tra me e Nicole che voglio –con tutte le forze- riportare a galla affinché voi possiate capire di come il destino di chi ci è accanto possa essere inesorabilmente legato al nostro, senza nemmeno esserne consapevoli.
Ero stufa di cantare e il dito lungo e sottile della mia amica che creava ghirigori sul vetro appannato attirò la mia attenzione. I suoi occhi miravano la vegetazione priva di colore che ci scorreva sotto il naso, anche se il suo sguardo sembrava perdersi in un posto figurato solo dalla sua mente. Non le dissi niente, continuando a studiare le sue espressioni, quando con stupore mi colse nell’atto.
“Mi capita spesso di pensare a dove mi porterà il nuovo anno, ogni volta in questo preciso periodo.”
“Beh”, feci io, -“è normale. Tutti se lo chiedono anche se poi, alla fine, non cambia granché rispetto all’anno prima.”
“La verità è che ho una terribile paura di quello che domani dovrò sentirmi dire, Emily.” Si voltò quasi di scatto, come se avesse fretta di cogliere la mia reazione o una mia buona parola.
“Ti riferisci alla famosa notizia che dovranno comunicarti tua madre e George”, affermai, sfoderando un sorriso rassicurante.
“Sì, questa volta temo che mi porteranno via da Londra. Io amo questa città, le persone che ci vivono, l’aria che si respira, passeggiare per il Camden Town e comprare anche le cose più inutili di questo mondo. E amo poter rimanere ad osservare il Tamigi, come facevo quando ero più piccola con mio papà. Voglio conoscere i misteri che popolano questo posto. E poter mantenere le uniche amicizie sincere che mi sono costruita fino adesso.”
Il mio sorriso vacillò per qualche istante perché, le parole della mia amica, smossero qualcosa di indefinito nel mio essere. Qualcosa di simile alla nostalgia, alla malinconia.
Allungai una mano sulla sua, fredda e ossuta, provando a trasmetterle quella solidarietà che cercava.
“Ovunque ti condurrà questo nuovo anno puoi sempre contare su di me. Non saremo mai lontane, nemmeno se andassi…”, bloccai la frase per pensare ad una meta.
“Francoforte?”, suggerì, sgranando gli occhi.
“Sarebbe sempre troppo poco. La mia amicizia, te lo assicuro, ti raggiungerà anche lì”, ridacchiai battendole dei piccoli colpetti sulla mano. Anche lei sembrò rincuorata.
“E a te, invece, cosa pensi ti porterà quest’anno?”
“Non ne ho la più pallida idea”, dissi sinceramente, -“cos’altro potrebbe succedere?”
La piccola allusione che trapelò dalla mia voce fu colta immediatamente da Nicole, la quale mi lanciò un’occhiatina d’intendimento.
“Niente potrebbe stupirti, disorientarti, più di quanto non abbia fatto la famiglia Delacour.”
Trattenni il fiato per un secondo e le feci cenno di abbassare il tono anche se tutte erano occupate tra loro.
“Certamente, certamente. Non penso che il mondo possa nascondere qualcos’altro capace di turbarmi come questa storia. Insomma, per quanto io possa averla fatta mia non smetterò mai di realizzare.”
Nicole si lasciò andare ad un lungo sospiro.
“Ed io non dimenticherò mai tutto questo.”
“Anche se lo volessi, non potresti”, risposi, incapace di poter controllare il piccolo tremolio che avvertii lungo le corde vocali.
Eppure entrambe ci sbagliavamo.
Non potevamo di certo sapere che il destino avrebbe condotto Nicole lontano da me, nel luogo più lontano possibile. Che il peggio doveva ancora arrivare, che i vampiri non avrebbero smesso di stupirci, meravigliarci, terrorizzarci.



Diroccata all’esterno ma bellissima all’interno, fu il mio primo pensiero quando entrai nella sala, dopo aver corso contro un vento pazzesco che a momenti balzava tutte all’indietro. La grandezza della sala poteva benissimo competere con quella della mensa del collegio; lungo le pareti serpeggiavano le tipiche decorazioni natalizie che catturavano le luci colorate appese sopra le nostre teste. I vari tavolini tondi che occupavano gran parte dello spazio erano rivestiti da lunghe tovaglie bianche con ai bordi del muschio finto, mentre, molto più sobria era la tavola delle leccornie, quella che girava intorno ai tavolini.
“Oh, mio Dio.” Questa è stata l’esclamazione di qualche mia compagna nel vedere tutta quella moltitudine di colori fatta di antipasti, primi, secondi e dolci. Tanti dolci.
Non di mena importanza, però, era la postazione del Dj infondo alla sala, accanto alla vetrata che dava sul giardino. Parecchi ragazzi erano radunati lì intorno, a parlottare, godendosi il nostro arrivo con vistosa curiosità nello sguardo.
Sulle note di una musica piuttosto soft cominciammo a dividerci e quindi ad entrare in sintonia con il clima dell’ambiente, che avevo l’impressione dovesse esplodere in una musica più movimentata da un momento o l’altro.
Avevo appena terminato il mio antipasto quando l’assenza di William cominciava a farsi sentire. Perché, vedete, nonostante tutto lui rimaneva il motivo per il quale mi alzavo dal letto al mattino. E volgere lo sguardo negli spazi in cui mancava mi faceva sentir sola.
“Scusatemi, devo andare a prendere una boccata d’aria”, mi congedai dalle chiacchiere e, afferrando il soprabito dalla spalliera della sedia, mi avviai verso la vetrata.
Non appenai uscii mi scontrai con un gelo irreale, capace di farmi lacrimare gli occhi. C’erano solo due ragazzi appoggiati alla ringhiera di legno che divideva il prato dal palco, fumavano e chiacchieravano incuranti del freddo.
Stavo quasi cedendo al desiderio di tornare dentro al caldo quando mi resi conto che non avrei potuto farlo senza prima capire il perché rimanessi incantata a mirare la vegetazione lontana. E non era perché mi ricordava il verde che circondava il collegio; ma perché in mezzo a quella foschia, a quelle foglie, avvertivo qualcosa di sbagliato. Era una strana sensazione, dovervela trasmettere sarebbe un’impresa pindarica, per questo mi limito a raccontarvi cosa successe immediatamente dopo essere rimasta lì ad osservare.
M’incamminai, scendendo i tre gradini di legno, affondando i piedi nella neve attecchita. Sentii gli sguardi di quei ragazzi sulla schiena ma, quando mi voltai, avevano terminato le sigarette e stavano rientrando nella sala.
Bene, pensai, senza ironia.
Toccai un albero pregno di umidità e cercai di definire quella sensazione, cercando una spiegazione concreta e per un attimo, il pensiero fulmineo che potessero essere quei tre vampiri, mi paralizzò le articolazioni.
“No. Non oserebbero esporsi in questa maniera”, cercai di convincermi, ad alta voce.
Il vento che andava a disperdersi nella profondità della foresta me la restituì in una eco lamentosa, e quindi decisi di fare dietrofront per evitare di impazzire –o peggio- sfidare la buona sorte.
Ma, non appena diedi le spalle a quel suggestivo scenario, un’ombra si proiettò e allungò accanto alla mia.

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Capitolo 12
*** Undicesimo Capitolo ***


Undicesimo Capitolo








Trentasette minuti. Era quello il tempo impiegato per ricordare e intraprendere la strada che mi aveva portato, ansimante, davanti al cancello della casa di Danielle Lamberg. Mentre allungavo la mano per sostenermi alle sbarre un paio di goccioline s’imbatterono sulle mie nocche: stava per piovere e fortunatamente ero riuscita a giungere alla meta prima del diluvio. Come avrei potuto continuare a vagare per la città in quello stato? Capelli scompigliati e pregni d’umidità, sporca, mal odorante dalla testa ai piedi per essere stata sequestrata in un vicolo cieco pieno d’immondizia e, soprattutto, sanguinante e zoppa. Salii i due scalini del giardino digrignando i denti, una volta raggiunta la porta bussai assalendola. Se fosse passato qualcuno avrebbe pensato che la stessi prendendo a pugni. Mi appoggiai -allo stremo delle forze- sul muretto al mio fianco, cercando di non far cadere i vasi a terra. Con la coda dell’occhio vidi sfrecciare una macchia nera oltre la finestra e, nel momento in cui comparve Jamie, la porta d’ingresso si spalancò.
“Ma cosa…dove…Emily!” Questa è stata l’accoglienza piuttosto sconcertata di Nicole. Avrei voluto accasciarmi a terra, piangere e rompere qualcosa. Magari uno di quei vasi colorati.
“Aiutami”, le dissi anche se le sue braccia mi avevano già avvolto per trascinarmi all’interno della casa.
“Tu sanguini”, sibilò Jamie sostenendosi contro il muro.
“Tesoro, alcune volte constati l’ovvio in una maniera tale che mi fai quasi cadere le braccia”, brontolò Nic fulminandola con lo sguardo, poi mi fece adagiare sul divano e, inchinandosi alla mia altezza, continuò: “Sono quasi due ore che aspettiamo una tua chiamata, qualche minuto fa mamma è uscita per raggiungerti al Timothy. Ma cosa ti è successo?”
Aprii la bocca per raccontare, loro due in attesa, ma tutto ciò che esalai fu un verso indescrivibile che le fece trasalire. Affondai il viso tra le mani, cercando di trovare le parole adatte e di calmare il mio animo inquieto affinché non mi costringesse a svelare la verità.
“Ho capito, vado a preparare una camomilla”, convenne Jamie mentre mi accarezzava la testa.
“Facciamo due”, s’intromise la voce della madre di Nicole alle nostre spalle, spalancando la porta socchiusa.
La guardai stravolta e proprio perché ero al limite, quando mi venne accanto, io mi alzai e mi tuffai tra le sue braccia.
“Piccola”, mormorò, -“cosa è successo?” Si stava rivolgendo alla figlia che probabilmente rispose con un’alzata di spalle o un altro gesto perché non udii risposta.
“Mi hanno aggredita e questo”, articolai rauca, indicando il mio malandato aspetto, -“è il risultato della mia opposizione e fuga.” Danielle si toccò la fronte istantaneamente imperlata di quel sudore freddo e inquietante che di solito anticipa un attacco di crepacuore, e si sedette accanto a Nic che era vittima dello stesso sconcerto.
“Vado a…sì, a preparare tre camomille”, sussurrò Jamie, avviandosi a passo svelto verso la cucina. In un attimo raccontai tutto ciò che era raccontabile, tutto ciò che poteva collocarsi nel limite della realtà anche se, nel mio intimo, iniziavo ad avvertire il desiderio di condividere con qualcuno il fatto che io abbia valicato –senza volerlo- quel confine. Mentre la signora Danielle metabolizzava le mie parole, Nicole mi accompagnò nel bagno del secondo piano per disinfettarmi la ferita pulsante del ginocchio.
Mi sedetti sul bordo della vasca mentre lei apriva un mobiletto collocato sotto al lavandino per prendere il disinfettante e un po’ di ovatta. Nel frattempo azzardai a darmi un’occhiata allo specchio e riabbassai subito gli occhi per evitare di contemplare lo stato penoso in cui ero caduta.
Mi pulii il sangue con la carta igienica mentre Nicole versava silenziosamente il liquido nella palla di cotone che teneva nella mano.
“Grazie”, dissi per rompere quella cortina di silenzio in cui eravamo sprofondate. La mia amica sorrise accucciandosi di fronte alle mie gambe e premette l’impacco sulla zona interessata.
“E di cosa. Non penso di aver mai conosciuto una persona in grado di cacciarsi ogni due secondi nei peggiori guai come te.” Sorrise di nuovo scuotendo la chioma corvina, cercando di alleggerire l’accaduto.
“Secondo me dovresti rivolgerti alla polizia e denunciarli”, mi consigliò dopo essersi alzata, recuperando un pezzo di garza per proteggere la ferita pulita.
La guardai mentre procedeva con concentrazione e, se non fossi stata sicura di chi avevo avuto di fronte, probabilmente avrei seguito le sue parole.
“Io penso di no”, risposi con un debole tremito a tradirmi. Gli occhi confusi della mia amica si piantarono nei miei e, un espressione di rimprovero e disapprovazione colorò il suo viso.
“Ma certo che devi! Non puoi sapere se la polizia li stia già cercando. Voglio dire, potrebbero essere soliti ad episodi come questi e potrebbero prenderli grazie alla tua denuncia.”
“Non è stata la prima volta che mi capita di incontrarli”, dichiarai trattenendo il respiro, per poi espirare con un singulto, -“Nicole, vogliono qualcosa da me, ma non saprei dirti cosa. Mi hanno seguito, sanno i miei spostamenti e non riesco a capire come abbiano fatto a trovarmi.”
Lei spalancò la bocca, alzandosi di scatto.
“E allora perché non vuoi andare dalla polizia? Santo cielo, Emily, non è un gioco!”
“Fidati se ti dic..”
“Ci vado io per te, te lo posso assicurare.”
“Nicole, tu non puoi andarci al posto mio!” Mi agitai affrontandola a due centimetri dal viso. Il desiderio di rivelare l’esistenza di quelle creature su cui fantasticava oziosamente mi frustava nelle viscere, ribolliva nelle vene, infiammandomi fino a provar dolore.
Diglielo, Emily. C’era questa voce implorante e persuadente a incantarmi, proveniente dagli angoli assopiti della mia coscienza. Nicole stava inveendo su di me, mi puntava il dito contro e gesticolava come solo lei poteva fare. Non udivo ciò che mi diceva perché la sua voce appariva distante anni luce e il desiderio di poter condividere il mio fardello con un altro essere umano mi sovrastò.
Così, ad occhi chiusi e a pugni stretti, io lo dissi:
“Nicole, loro non sono umani.”
La sua voce si smorzò di colpo e quando riaprii gli occhi la vidi con la bocca socchiusa –con ancora i suoi ultimi insulti pendenti sulla lingua-, lo sguardo che, investito dalla mia rivelazione, quasi sembrava assente.
“Ma che cosa stai dicendo…”, parlò, non muovendo un muscolo.
“Sto dicendo che sembra un’assurdità, una completa pazzia, ma i vampiri esistono. Le tue fantasie sono reali, sono divenute i miei incubi.”
Nicole alzò un sopracciglio con aria provocatoria: o mi aveva creduta o stava pensando che la stavo prendendo in giro.
Eppure tempo addietro avrei scommesso sul fatto che avrebbe reagito in modo spropositato. La mia epifania doveva entusiasmarla e al tempo stesso terrorizzarla. E allora perché prese a camminare avanti e indietro in quel piccolo bagno dalle piastrelle avorio, senza nemmeno sbiascicare una parola?
La risposta alle mie domande silenziose arrivò nel momento in cui si voltò, sfoderando un nuovo sguardo, lo stesso con il quale si era preoccupata di iniziarmi alle leggende del collegio, la sera del mio arrivo.
Ora era vulnerabile, Nicole Lamberg, e ci mancò poco che la sua mimica facciale mi facesse cadere nel senso di colpa per aver parlato.
“Uno di loro mi stava facendo del male e sarebbe stata la fine se non fosse stato per il sangue della ferita che lo ha distratto fino a fargli perdere la testa. Hanno dovuto letteralmente strapparlo da me, e sono scappata”, presi fiato, -“altrimenti non so cos’altro sarebbe successo.”
“Anche William e sua madre sono vampiri.”
“Sì”, ammisi, nello stesso momento in cui sentii il cuore capovolgersi o, peggio, perdere alcuni battiti. Non mi ero resa minimamente conto che, in quel frangente, con una misera sillaba, avevo appena tradito William, la sua essenza e la fiducia che aveva riposto in me.
Quella consapevolezza cominciò a strisciare come una serpe dentro il mio stomaco, facendo offuscare le pareti circostanti. In mezzo alla fronte della mia amica si formò una ruga e, prima che abbassasse lo sguardo, fui certa di aver visto i suoi occhi colmi di lacrime e un viso pieno di un sentimento che non riconobbi.
“Non te lo stavo domandando”, sussurrò fissando il pavimento, -“aspettavo solo che te ne accorgersi, sai? Anche se durante l’ora della Jym c’ero andata vicino tanto così nel confessartelo.”
Ora era lei che spiazzava me. I suoi occhi appannati, il rossore del viso, il suo labbro inferiore martoriato dai denti. Quei dettagli mi fecero intuire che non si stava riferendo alla solita leggenda che aleggiava nei vicoli di Londra, né a tutte le storielle che mi propinava in bagno e in biblioteca, esasperandomi.
“Io l’ho vista con i miei occhi!”, parlò stringendo i denti per evitare di strillare, tant’è che il suono che uscì dalla sua bocca fu simile allo stridio delle unghie su una lavagna,-“la Delacour in collegio ha… ha…lei ha aggredito una ragazza.”
Trasalii per quelle parole e mi si mozzò per un istante il respiro.
“Cerca di calmarti e prova a raccontarmi quello che hai visto”, le suggerii, cercando di non farle vedere che mi stavo sorreggendo alla maniglia della porta. Lei si sedette sul bordo della vasca dove prima c’ero io. Mi domandai se avessi il suo stesso pallore allarmante.
-“Ero appena arrivata in collegio, da una settimana credo. Ero in cortile con alcune ragazze, passeggiavamo, parlavamo tranquillamente e poi ci siamo sedute su una panchina. Dopo poco avvertii il bisogno di andare in bagno così, scusandomi, sono salita in camera”, fece una breve pausa e vidi il suo sguardo soffermarsi sulla mia mano che stritolava la maniglia. La ritrassi all’istante, lasciando cadere il braccio inerme sul fianco.
“Stavo per tornare in cortile quando sentii delle urla furiose provenire dai piani alti. Stupidamente ho salito le scale fino al quarto piano dove riconobbi la voce della preside gridare contro qualcuno, nel suo ufficio. La porta era socchiusa e mi ci avvicinai per origliare.”
“Scusa se ti interrompo, ma in corridoio non c’era nessuno?”
Lei annuì con una smorfia.
“Esattamente. Le lezioni della giornata erano terminate e la maggior parte delle ragazze se ne stavano in cortile per approfittarsi della bella giornata, oppure si trovavano nell’altro lato del collegio. La sfigata sono stata io. Chi vuoi che vada a girovagare nel quarto piano?”, borbottò alla fine, catturando col dorso della mano l’ultima lacrima che era andata a rigarle il volto.
-“Sbirciai un secondo, quel tanto che bastava per scorgere una figura femminile nello studio. La ragazza non era una nostra coetanea, Emily, era davvero alta e aveva una coda di cavallo disordinata. Se non ricordo male aveva una tuta nera e stava dando del filo da torcere alla Delacour perché quell’espressione infuriata non gliel’ho più vista.”
Alzai un sopracciglio, scettica di quell’ultima supposizione, tuttavia non osai arrestare la sua confessione per quella sciocchezza.
“Mi ricordo che la ragazza ha detto rivoglio la mia vita perché questa non è stata una mia scelta e non posso farlo. E non so a cosa si stesse riferendo. Comunque sia la Delacour le rispose che doveva obbedirle e in un attimo aveva assalito il suo collo. Ti prego, non farmi continuare perché non penso di poterci riuscire.”
Chiusi gli occhi. Non c’era bisogno che continuasse per immaginare il seguito. Quando li riaprii, Nicole stava aprendo il rubinetto dell’acqua.
“Non l’hai detto nemmeno a Jamie?”
Si sciacquò ma, prima che l’acqua s’infranse sul suo pallido viso, mi rivolse un sorriso ironico attraverso lo specchio.
“No, certo che no! Le ho accennato della leggenda e mi sono resa subito conto che avrei dovuto caricarmi quel peso da sola. Per tutto questo tempo… non ho mai saputo cosa fare. Ero terrorizzata. E prigioniera di quello che avevo visto. Ho studiato molto riguardo la loro vita – se può essere chiamata vita!- e… volevo tornare a casa ma…oddio.”
Sembrava dovesse riprende a piangere e tremare –con l’espressione ancora stupita per essere riuscita a sostenere la conversazione- le andai accanto e la cinsi a me. “Adesso ci sono anche io.”
“Stavo per morire di paura quando ho iniziato a vedere William starti accanto. Non era normale, ai miei occhi, il suo attaccamento nei tuoi confronti. Avrei dovuto parlarti di questa storia prima, quando ne avevo avuto la possibilità anziché cercare di farti provare paura nei suoi riguardi.”
“No”, ribattei stancamente, -“lui mi ha salvato la vita.”
La nostra conversazione venne bruscamente interrotta dalla voce di Jamie che ci invitava in cucina, poiché la camomilla si stava raffreddando. Lasciai che Nicole finisse di lavarsi il volto pensando a quali forze abbia fatto appello per formulare il suo racconto, e a quali forze avrei dovuto fare appello io per continuare a camminare sulla strada che avevo intrapreso.

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Capitolo 13
*** Tredicesimo Capitolo ***


Tredicesimo Capitolo








Allungai una mano appena in tempo per soffocare un grido, voltandomi con il cuore precipitato nello stomaco, tanta la paura.
Mi ritrovai a fissare con occhi sgranati quelli limpidi di Rebecca Williams.
“Signorina Williams!”, strillai, vicina ad una crisi. Ma che cosa diavolo ci faceva lì?
Lei mi sorrise stringendo le labbra e mi si avvicinò con la naturalezza con cui s’incontra un amica in centro, in un giorno qualunque.
“Ero venuta a cercarti, Emily”, mi rispose, semplicemente.
“A cercare me? Oh, oh no… mia nonna! E’ successo qualcos…”
“No, Emily. Calmati e vieni qui”, mi ordinò buttando un’occhiatina alle mie spalle, per poi afferrarmele e condurmi più in profondità.
“Mi vuole dire cosa succede? E perché si è nascosta qui?”
“Nessuno deve vedermi e tu, naturalmente, non dovrai dire nulla riguardo questo incontro”, disse lentamente, scandendo bene le parole.
Una. Per. Una.
“Mi sta spaventando.”
La stretta delle sue mani sulle mie spalle si fece più ferrea e il suo sguardo, carico di apprensione, cercava in me una conferma riguardo la sua richiesta.
“Sì, io non dirò a nessuno che l’ho incontrata qui. Ma non mi faccia aspettare un secondo di più”, quasi ringhiai per il dolore provocato alle mie ossa, -“la prego.”
Lei annuì freneticamente, alcuni ciuffi si ribellarono all’elastico della coda e le ricaddero ad incorniciagli il viso pallido.
“Domani mattina. Metropolitana centrale. Alle nove in punto, voglio trovarti lì.”
“E perché?”, domandai, dominando una vertigine di paura e incomprensione.
“Ci sono cose che devi sapere e perché è così che deve andare. Domani mattina la Delacour non ci sarà, non rientrerà prima di mezzogiorno. No, non chiedermi come io faccia a sapere queste cose: l’importante è che io le sappia. Ora entra dentro dalle tue amiche. Vai!”, mi girò con un gesto repentino e mi spinse fuori dal limitare del bosco. Non mi voltai indietro per concedermi un ultimo sguardo, barcollai con le gambi molli fino a rientrare nel clima della festa.
Proprio come avevo previsto il dj aveva deciso di movimentare la serata con qualche brano natalizio remixato; in quella massa di corpi danzanti dovetti alzarmi sulle punte per guardarmi intorno alla ricerca di Jamie, Nicole e le altre. Un ragazzo mi rifilò una gomitata al centro dello stomaco e, se non avessi intercettato il suo viso mortificato e rosso per l’imbarazzo, avrei creduto l’avesse fatto di proposito. Cambiai area, senza smettere di cercarle.
Pochi istanti dopo, però, fu qualcun altro a trovare me; il mio sguardo ne intercettò un altro che chissà per quanto tempo era rimasto lì, immobile, a richiamare il mio.
William s’incamminò verso di me e sul mio viso si dipinse un sorriso di pura euforia. Era elegantissimo, sapete? I suoi capelli sembravano più scuri rispetto al loro colore naturale poiché li aveva fissati all’indietro con del gel, alcuni ciuffi gli si arricciavano presso i lobi e lungo il collo. Giacca e cravatta gli donavano un’aria retrò, come se fosse uscito da una di quelle vecchie fotografie color seppia. Allargò le braccia per avvolgermi contro il suo corpo ed inspirai il profumo della sua pelle, rendendomi conto solo allora dell’astinenza che avevo in circolo.
“Ho dovuto fissarti per un paio di minuti prima di rendermi conto che eri tu”, mi disse all’orecchio, e non sentii nient’altro che la sua voce, isolando la musica e le chiacchiere.
“E questo sarebbe un complimento o…?”
“O assolutamente un complimento, Emily.”
Fece scivolare una mano all’incavo della mia schiena e mi baciò quasi con prepotenza, facendomi chiaramente comprendere che le chiacchiere potevano essere rimandate ad un altro momento. Fu una vera e proprio lotta contro me stessa rimanere ad occhi chiusi, perché avevo la terribile sensazione che tutte le persone presenti avessero smesso ogni loro azione per fermarsi e guardarci. Un pensiero piuttosto egocentrico da parte mia, lo ammetto, ma proprio non riuscivo a farne a meno di essere così guardinga, sospettosa fino all’esasperazione.
“Sei bellissimo”, mormorai sulle sue labbra, per poi mordicchiargli il labbro superiore. Lui sorrise e affondò il viso nel mio collo, agganciando le braccia dietro il mio corpo affinché continuassimo quella lenta danza che avevamo inconsapevolmente iniziato, sulle note di una canzone romantica.
“Come mai ci hai messo un po’ ad arrivare?”, gli domandai, posando la guancia sulla sua spalla. La sua replica fu irrilevante perché, non appena posi l’interrogativo trovai anche la risposta. I miei occhi intercettarono una serie di microscopiche macchioline di sangue all’altezza del primo bottone della camicetta bianca. Sollevai il capo da quella comoda posizione – quasi scontrandomi con il suo mento- in modo da guardarlo negli occhi.
“Sono stato a caccia.”
“Lo vedo”, mormorai, cercando di non far ricadere l’attenzione sulle macchie vermiglio.
“Che c’è? Perché hai quell’espressione contrita?”, mi domandò, ma dal tono di voce intuii conoscesse la risposta, eppure, il suo era un intento a far scatenare una reazione in me. Voleva vedere –ancora una volta- fin dove fossi disposta a spingermi pur di vivere affianco a lui. Io deglutii, annuendo.
-“Mi sembra che ci fossimo già chiariti su questo punto, no? Devo nutrirmi perché altrimenti non potrei essere a contatto con tutti questi umani senza desiderare di attaccarmi al loro collo. Tu non sai che significa sentirsi la gola bruciare, il palato prosciugarsi e ardere di sete.”
“Certo, come potrei saperlo”, mi affrettai a rispondere, accavallandomi quasi alle sue parole.
“Era un uomo”, mi spiegò dopo qualche secondo di silenzio e qualche giravolta intorno alle altre coppie, -“ma non aveva speranza. Un barbone, Emily. Non avrebbe resistito altre due notti, nelle sue condizioni. Il mio intento non era uccidere nessuno, solo bere un po’ del suo sangue – quel tanto che bastava per considerarmi appagato- ma se non l’avessi ucciso sarebbe andato in contro a qualcosa di più atroce.”
Strinsi le dita intorno alla sua giaccia e capii il suo discorso, tanto che non mi risultò difficile sorridergli e annuire.
“Non devi giustificarti, lo sai.”
“E’ quello che mi dici sempre, ma poi la tua espressione è così eloquente che non posso ignorarla.”
“E allora perdonami. Però, ti prego, non roviniamoci la vigilia. Baciami.”
L’ultima parola uscì dalla mia bocca in un suono duro, che sapeva di ordine. Lui sorrise mostrandomi i denti e ci fermammo nella frenesia per un lungo, sentito, bacio. Solo dopo esserci distaccati si sciolse da me, afferrandomi un polso.
“Visto che hai già il giaccone, tanto vale approfittare”, mi parve che disse a bassa a voce, mentre la musica superava le sue parole. Mi lasciai condurre fuori dalla sala, proprio sul palco di legno, davanti alla schiera di alberi in cui si era nascosta la Williams. Rabbrividii per un istante e poi William mi fece sedere accanto a lui, sulle scalinate.
“Si può sapere che hai in mente?”, chiesi, non sapendo se ridere o tremare. Lui annuì rovistando con una mano all’interno della sua giacca.
In un attimo ecco che mi porse una scatolina rettangolare di velluto, ampia e poco spessa. Sentii il freddo dell’aria addentrarsi nella mia bocca spalancata.
“E’ la vigilia e domani è il tuo compleanno. Questo è per te”, puntualizzò, poggiandomi il dono sul palmo.
“Io non ho potuto comprarti nulla”, sussurrai, cercando di mimetizzare con un sorriso l’enorme disagio che avvertivo. William scrollò le spalle e m’incitò ad aprire il regalo. Sospirai e sollevai il coperchietto blu.
Incastonato in un sacchetto del medesimo colore dell’involucro, c’era un delizioso bracciale di caucciù con una lastra argentata su cui risplendeva una scritta, al centro. Dovetti piegarmi verso il riflesso della luce per far rischiarare la dedica incisa con un carattere complesso ed elegante.
“Fin…fino”, lessi concentrandomi, -“fino alla fine…”
“Del tempo”, completammo io e William, all’unisono. Mi voltai a guardarlo, sinceramente commossa. Lui aveva poggiando il volto sulle mani, le braccia sostenute dalle ginocchia piegate e mi sorrideva sornione, consapevole di avermi spiazzata.
“Ti piace?”
“Io lo adoro, William Delacour”, risposi, guardandolo dritto negli occhi.
Rise sommessamente, avvicinandosi.
“Lascia che te lo metta.”
Prese il mio polso scostando la manica del giaccone e con un gesto secco e delicato riuscì ad allacciarmi il bracciale.
“Speravo ti sarebbe piaciuto. E’ stata un cosa ricercata”, mormorò tutto compiaciuto. Accarezzai il regalo, senza nemmeno smettere di mirarlo.
“Questa frase”, dissi, -“me la ripeti molto spesso, Will.”
Volsi la mia attenzione sul suo viso e notai immediatamente l’intensità che si era appena impadronita dei suoi occhi.
“Non è solo una frase. E’ molto di più”, rispose, abbassando il tono di voce.
“E’ molto di più…”, ripetei, corrugando la fronte.
“E’ una promessa. Perché io ti starò accanto fino alla fine, Emily”, mi spiegò solenne, prendendomi le mani. Non l’avevo mai visto con un’espressione tanto intensa e tanto appassionata.
“Anche io.”
“Ma io intendo qualunque sia la fine”, sembrò redarguirmi, -“sia che tu, un giorno, sceglierai di trasformarti e allora sarà solo la fine del mondo a dividerci, sia che tu decida di non mutare la tua condizione e allora…”
“E allora sarà solo la mia –di fine- a separarci.”
“Le promesse di un vampiro non sono come quelle di voi umani”, sghignazzò alzando un sopracciglio, -“una promessa viene presa molto seriamente per questioni di rispetto, di parola ed onore. Soprattutto una promessa come questa che ti sto facendo io.”
-“Vorrei ricordarti che per metà sei umano”, lo canzonai, liberando le mie mani dalle sue per punzecchiarlo. Lui rise, ricambiando le spinte.
“Touché! Ma per le cose che mi fanno comodo preferisco pensarla da vampiro, d’accordo?”
“D’accordo. E, quindi, per quanto possa valere io ti starò sempre vicina, William. Te lo prometto.”
Lui tornò nuovamente serio – una serietà placida, appagata – e mi baciò in una maniera tanto dolce quanto urgente.
“Emily”, pronunciò il mio nome sfiorando le mie labbra con le sue.
“Emily…oddio!”
Non era stata la voce di William, questa volta. Io e lui sobbalzammo distaccandoci di scatto e, quando ci voltammo, ecco che vedemmo Nicole sulla soglia della vetrata. Aveva una mano sulla bocca e il volto in una maschera di mortificazione, segno che non si era resa conto che ero in compagnia di William. Infatti balbettò:
“Scusate, okay? Non sapev…cioè, non mi sembrava che tu, che voi fosse qui. Dovrei mettermi gli occhiali, a quanto pare”, sforzò una risata nel dire l’ultima frase. Fece per andarsene ma William le fece cenno di attendere e, issandosi in piedi, annunciò:
“Stavamo giusto pensando di rientrare. Non vogliamo mica fare i solitari con un clima di festa così piacevole alle spalle.”
Guardai Nicole.
“Ah, certamente. Allora vi consiglio di entrare perché stanno per terminare i dolci e sono buonissimi. E c’è uno che sta facendo il, mh, giocoliere con le bocce della coca-cola”, cinguettò apparendo già più rilassata ai miei occhi anche se, non appena ci sfoderò un gran sorriso, tornò dentro con fin troppa foga.
William aiutò ad alzarmi.
“Perché dobbiamo entrare? Non ti andava più di fare i solitari?”, mi lagnai, simulando uno sbuffo infastidito.
William mi diede una pacca sulla spalla prima di rispondere e raggiungere la vetrata.
“Quando Nicole è nei paraggi avverto il suo terrore nei miei confronti in una maniera che mi diverte e insospettisce al tempo stesso”, mi confessò pensante, -“è amica tua ed è per questo che voglio far placare il suo disagio mostrandomi più umano possibile. Andiamo? Ci sono dei dolci che ci attendono, come hai sentito.”
Non mi ero resa conto di esser rimasta a bocca aperta fin quando non deglutii rumorosamente e con fatica. William ignorava il fatto che Nicole avesse scoperto tutto da sola, per sbaglio, spiando sua madre e che io avevo aggiunto la mia testimonianza, confermando ciò che aveva visto.
Avvertii un’ondata di vergogna così palpabile in tutto il mio essere che barcollai, davvero mortificata. Tuttavia la mia mano sì unì alla sua e, lanciando una breve occhiata alle mie spalle, mi allontanai dal nostro mondo per riunirmi a quello degli altri.





La mattina successiva procedevo a passo svelto sui marciapiedi scivolosi di Londra, sfregando una mano sul naso arrossato dal freddo, ignorando con tutta me stessa la paura di poter essere braccata da quei tre. Il sole era sepolto e un manto grigio di nuvole si estendeva su tutto il cielo, rapendo i colori della città offuscandone persino i ricordi. Arrivai alla stazione in netto anticipo; comunque sia decisi di attraversare il tunnel al neon e aspettare Rebecca Williams seduta su una delle panchine di ferro. Mi misi seduta osservando le poche persone presenti che si guardavano intorno con aria assonnata. Una bambina si sedette accanto a me, mentre sua madre le diceva di andarci piano con il nuovo giocattolo che teneva –e sbatteva- sulle mani. Solo in quell’istante mi resi conto che era il giorno del mio compleanno. Reclinai il capo all’indietro appoggiando la testa contro il muro per lasciarmi cullare dai ricordi dei miei compleanni passati…. Fin quando non avvertii una presenza di fronte a me. Staccai il capo con talmente tanto impeto che pensai di essermi graffiata la nuca e, se prima avevo ancora gli occhi appiccicaticci per via del sonno, ora non c’erano dubbi che mi ero data una bella svegliata. La Williams trasalì come se fossi stata io a spaventarla.
-“Non l’avevo sentita arrivare, che spavento”, esordii con un sorriso, alzandomi per salutarla. Lei mi strinse in un fugace abbraccio. Era avvolta in un cappotto verde acqua e sotto di quello doveva indossare una gonna, anche piuttosto corta, perché le sue lunghe gambe erano scoperte al dispetto del gelo.
“Per un attimo ho pensato stessi dormendo. E’ molto presto rispetto all’orario concordato: da quanto mi aspetti?”
“In realtà non da molto.”
Rebecca annuì e si sedette accanto a me.
-“Ora potrebbe dirmi che cosa ci facciamo qui? Sembra un incontro segreto”, mormorai, presa ad osservare il suo volto. Sì, perché c’era qualcosa, nella sua espressione, di insolitamente drammatico. Non riuscii a capire se quella sensazione era dovuta dal mio stato d’animo in tensione o se fosse il vero o, ancora, se fosse colpa di quelle maledette luci al neon sopra le nostre teste.
-“Perché questo è un incontro segreto. Se non fossi stata certa dell’assenza di Jennifer Delacour non ti avrei mai esposto a questo pericolo. Sono a conoscenza delle regole dell’istituto. Nessuno ti ha visto vero?” Ripensai a quanto ronfavano le mie vecchie compagne di stanza quando ero in bagno a prepararmi e, a parte Jamie che era incollata al lavandino del bagno (a lamentarsi della notte trascorsa a tossire e vomitare) ero certa che nessuno avesse fatto caso al mio andirivieni.
“No. Nessuno”, quindi risposi con un sospiro.
“Ne sei sicura?”, rimbeccò la Williams avvicinandosi al mio viso per fare in modo che la guardassi dritta negli occhi. Quel contatto inaspettato fece nascere in me un brivido irrazionale; fu solo allora che iniziai ad agitarmi davvero perché, qualsiasi cosa stesse per accadere, sapevo che valeva tutta la mia angoscia.
“Signorina Williams, la prego, non prolunghi questa conversazione: mi dica che cosa ci facciamo in una stazione, mi dica che mia nonna non c’entra niente in tutto questo.”
Rebecca si voltò, non capii cosa stesse facendo fin quando dalla sua borsa tirò fuori un… pacco?
“Questo te lo manda tua nonna”, spiegò rigirandoselo tra le mani, -“mi ha detto di dirti che devi assolutamente aprirlo –il prima possibile- ma solo dopo esserti assicurata di essere sola. Nessuno, a parte te, dovrà essere a conoscenza del suo contenuto.”
Sbattei ripetutamente le palpebre, come se mi fossi appena ripresa da una sorta di trance, perplessa: che cosa stava accadendo?
“M-mi scusi, non potrebbe spiegarsi meglio? Credo di non aver capito la situazione.”
“Emily, capirai tutto una volta aperto questo. Ora, ti prego, prendilo.”
La Williams mi consegnò il pacco che quasi mi cadde dalle mani perché credevo fosse più pesante di quanto in realtà non lo era. Lo portai vicino all’orecchio e lo scossi; tutto ciò che udii fu il leggero raschiare di un oggetto al suo interno.
-“Ora lascia che io ti dica un mio personale consiglio”, mormorò avvicinandosi ancora di più a me. Le nostra ginocchia si toccarono. Guardandola non mi sembrava di avere davanti la stessa donna che si era occupata di me e che mi aveva condotta al collegio.
-“Ieri sera sono rimasta nell’ombra e non ho potuto fare a meno di vederti in compagnia di William Delacour”, fece una breve pausa senza distaccare gli occhi dai miei, se non fosse stato ridicolo pensai che mi stesse rimproverando con lo sguardo, poi parlò di nuovo,-“e se c’è una cosa che vorrei dirti è quella di allontanarti da lui. Se sei ancora in tempo, con i tuoi sentimenti, allora cerca di tagliarlo fuori dalla tua vita.”
Non riuscii a ribattere, non le trovavo nemmeno sforzandomi, le parole. Rimasi a fissarla con sguardo accigliato, non potendo prendere in considerazione nemmeno lontanamente l’idea di distaccarmi da lui.
“Anzi”, fece ancora, proprio mentre stavo per pensare che forse lei sapeva della natura dei Delacour,-“anche se non sei in tempo, allontanati da William Delacour.”
A quel punto successe una cosa davvero, davvero curiosa.
Il tempo subì un rallentamento, una mutazione nel suo naturale scorrere. Tutto mi parve amplificato e lontano, tanto da sembrare che stessi osservando la scena attraverso un binocolo.
Il fischio del treno annunciò in lontananza il suo imminente arrivo, Rebecca Williams si alzò dicendomi che non poteva perdere questa fermata, accarezzandomi le guance con le sue mani gelide. Poi corse verso i binari e, quando il treno fece il suo ingresso nella galleria, Rebecca Williams si lanciò lasciandosi travolgere.
Le grida dei presenti scandirono di nuovo il tempo, che tornò al suo naturale andamento.







Angolino autrice: Buonasera a tutti! Colgo l'occasione per dirvi che questo sarà l'ultimo capitolo del 2014, per poi tornare nel 2015 con un sacco di rivelazioni. Per cui, vi ringrazio per dedicare del tempo alla mia storia, ringrazio chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e chi ha commentato con preziosi consigli e belle parole.
Vi auguro di passare delle buone feste e... ci si risente a Gennaio! Un bacione!

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Capitolo 14
*** Quattordicesimo Capitolo ***


Quattordicesimo Capitolo








Ho l’impressione che quando il tempo decide di rallentare è perché, in qualche modo, qualcuno ti stia dicendo di agire. Di calcolare la tua prossima mossa, di evitare un pericolo, una conseguenza.
Di correre dietro alla signorina Williams e afferrarla per il lembo del cappotto e tirarla indietro, urlarle, a tre centimetri dalla faccia, che cosa aveva intenzione di fare pur avendolo compreso.
E bisogna essere bravi a capire quando è giusto agire, a captare quel rallentamento che potrebbe rivelarsi fondamentale.
Ma quella volta non feci in tempo nonostante il campanello d’allarme che era risuonato nell’aria.
Nessuno ha potuto fare in tempo.
Lasciai che le grida mi saturassero le orecchie, poi, stringendo il pacco contro il petto indietreggiai di qualche passo – giusto per assicurarmi di aver equilibrio- ed infine corsi via da quella tragedia. Mi riversai in strada, nel panico, non sapendo in che luogo sarei capitata perché i miei piedi seguivano una bussola che non avevo deciso, che ignoravo.
Mi ritrovai ad aprire una porta dai bordi rossi di un bar in centro. C’erano poche persone all’interno e nessuna pareva aver fatto caso al mio trafelato ingresso.
Ero davvero spaventata. Non mi era mai capitato di respirare così pesantemente, di avere la vista a chiazze… o, almeno, non prima di uno svenimento. Questa volta, però, avevo la consapevolezza di non essere prossima a perdere i sensi; una cameriera mi si avvicinò di colpo mostrandomi sotto il naso un sacchetto di plastica che conteneva una serie di cioccolatini a forma di babbo natale.
-“Un presente per i nostri affezionati clienti!”, le sentii dire con una voce fin troppo trillante.
Non so per quanto rimasi a fissare quel sacchetto che ciondolava dalle sue mani, avrei voluto parlare eppure, tutto ciò che uscì dalla mia bocca, era lo sbattere dei denti.
La cameriera poggiò i dolci sul tavolo, proprio accanto al pacco e quando si allontanò mi parve di averla vista rigirarsi due, tre, forse quattro volte. Non ricordo.
Un istante dopo mi ritrovai a correre lungo le scalinate che portavano al mio dormitorio. Aprii la stanza, appoggiai il pacco sul letto, mi tolsi il cappotto, ripresi il pacco e, una voce che non riconobbi, mi fece sobbalzare costringendomi a mollare la presa da esso.
-“Emily!”
-“William!”, balbettai presa alla sprovvista. Calciai la scatola sotto il letto e pregai che Will non avesse sentito il rumore sospetto di quel movimento.
-“Sei appena rientrata. Ma dove sei stata?”
-“Volevo andare a fare un giro e lo so che non ho il permesso perché sono minorenne. Non c’è bisogno che me lo ricordi.” Mi sorpresi del mio tono calmo e deciso.
Quando lui mi venne accanto notai di quando spaventose fossero le sue occhiaie. Prima di reagire a quella visione, William mi abbracciò.
-“Buon compleanno.”
-“Grazie”, mormorai contro il suo caldo maglione azzurro.
Davvero una bella giornata, viste le premesse, non potetti non pensare quelle parole senza avvertire una morsa allo stomaco e un magone di pianto represso pulsarmi nella gola.
-“Vorrei poterti dire che va tutto bene”, bisbigliò come se stesse parlando contro la sua volontà, -“ma ho delle cose da dirti. E non sono piacevoli.”
Mi scostai, sorpresa e in apprensione, stavolta credendo sul serio di non potercela fare.
-“Lo avevo capito dalla tua brutta cera, Will…”, mi ritrovai a dire appoggiandomi al muro accanto alla finestra. Lui si sedette sul letto e si passò una mano tra i capelli ancora impregnati dal gel della sera precedente.
-“Jamie sta male. L’hanno portata in infermeria.”
-“Cosa?”, strillai, staccandomi di scatto dalla parete. Ora il magone divenne insopportabile, come se una mano mi stesse afferrando per la gola con l’intenzione di trascinarmi a terra e annientarmi.
M’inginocchiai di fronte a William, quasi supplicandolo di potermi dire che tutto ciò che era stata quella giornata fino adesso fosse un incubo da cui dovevo solo svegliarmi.
Magari dicendomi che tutta la mia vita fosse stata un lungo incubo.
-“Ma stai tranquilla: ho chiamato mia madre che sta tornando in collegio, ho sentito dire che è svenuta.”
-“Oh no. Ieri sera le doleva lo stomaco, questa mattina era letteralmente sostenuta al lavandino, non si reggeva in piedi ed io…” Ed io ero troppo presa da quello che stava per succedere per prestare attenzione a quella che mi pareva solo il frutto di una notte insonne.
-“Emily, non devi agitarti prima del previsto. Anche perché non hai ancora sentito cos’altro ho da dirti. E ti riguarda, in prima persona.”
Il viso di William parve stravolgersi: i suoi occhi si rabbuiarono conferendogli un aspetto cupo che non poteva non preannunciare un’altra disgrazia.
Mi sfregai il volto e poi tornai a guardare il suo, ora divenuto stremato.
-“Era da prima che ci conoscessimo che non accadeva...”, la sua voce tradì un fremito e, per quanto mi riguardava, avrebbe anche potuto non continuare a parlare perché il mio cervello era già arrivato alla conclusione di quel discorso,-“ questa notte io ti ho sognata ancora e mi sto chiedendo come questo possa essere possibile.”
-“Che sta per succedermi, William?”, domandai senza troppi giri di parole.
Lui mi fissò in silenzio per qualche istante, sembrava stesse imprimendo nella sua mente ogni singola caratteristica del mio viso, come se quella fosse l’ultima occasione in cui poteva farlo.
-“Non lo so, Em. Ma sei in pericolo.”




La pioggia batteva forte sul vetro della finestra dell’infermeria, sembrava che le goccioline sparpagliate sul vetro fossero il mondo che si stava sgretolando sotto i miei occhi impassibili. Ero attonita e Jamie era alle mie spalle che dormiva, febbricitante.
L’infermiera, che era giunta in collegio da poco, aveva dato a me e a William il permesso di rimanere in stanza. Ma solo perché la preside non era ancora arrivata.
Dal riflesso della superficie vidi la sagoma di Will avvicinarsi senza far rumore; quando mi venne accanto appoggiò una mano sulla mia spalla.
-“Perché non si sveglia?”, mormorai senza sapere da dove veniva quella domanda assurda.
-“Sento il suo battito e il suo sangue che scorre con regolarità. E’ viva, se lo vuoi sapere”, mi rispose con dolcezza e, per un breve istante, vidi spuntargli sulla bocca un sorriso divertito che, però, scomparve immediatamente.
Di certo si stava sforzando con tutte le sue energie di apparire tranquillo per me, visto che quando eravamo in stanza poco prima ci mancava che entrasse nel panico trascinandomi con sé. Lui non mi aveva voluto raccontare cosa aveva sognato – cosa il futuro, a quanto pare, aveva deciso di rivelargli su di me, ancora una volta- e ricordo con confusione di averlo persuaso per interi minuti. Sono persino arrivata al punto di aggredirlo, mi ricordo, mentre lo scuotevo per le braccia e lo colpivo al petto per farlo parlare mentre il mio respiro si faceva sempre più corto la vista sempre più appannata; William aveva saputo calmarmi stringendomi forte forte tra le braccia, ma rimanendo comunque con la bocca cucita. Avevo capito che quando ero io, quella in agitazione, allora lui trovava la forza per donarla a me. Proprio come stava facendo adesso, lì, di fronte alla finestra.
-“Non è il compleanno che ti avrei fatto vivere”, disse serio, avvicinando il suo viso al mio. Le nostre guance si toccarono, una contrapposizione di caldo e freddo.
-“Figurati”, soffiai, -“non m’importa festeggiare da un po’.”
-“Avrei voluto portarti dai tuoi genitori. Ci tenevo a dirtelo.”
Mi baciò la guancia rimanendo per un po’ con le labbra incollate sulla mia pelle mentre il mio cuore si gonfiava di tenerezza, di amore, di commozione.
-“Ti voglio bene, Will”, fu tutto ciò che dissi.
-“Sapessi io…”, quasi non lo sentii e le sue labbra scesero piano piano, senza mai staccarsi, lungo il mio collo.
Fu un colpo di tosse repentino che ci fece staccare di colpo e voltare verso Jamie.
-“Jamie!”
Mi precipitai accanto a lei che aveva gli occhi gonfi e un colorito verdastro.
-“Mi viene da vomitare”, mugugnò stropicciandosi gli occhi come una bambina al primo risveglio.
Le passai una mano sulla testa, spostandole i capelli ribelli dalla fronte che scottava tanto da far paura.
-“Insomma, ma come stai?”
-“Ho visto giorni migliori, amica mia”, ribatté per poi lasciarsi andare ad un lungo lamento.
-“Mi fanno male i polmoni per quanto ho tossito.”
-“Allora non sforzarti, rimani in silenzio.”
-“La tua amica ha ragione.”
La voce della Delacour saettò nelle mie orecchie come corrente e per questo mi si rizzarono istantaneamente tutti i peli del corpo. Voltai il capo nella sua direzione e la trovai a braccia incrociate accanto al piccolo tavolino dell’infermiera, nella stessa posizione di William. Indossava un lungo cardigan nero, pantaloni del medesimo colore, con i capelli leggermente fuori posto nel loro solito chignon. Quel piccolo dettaglio la faceva apparire ancora più giovane di quanto non lo era.
-“Miss Delacour”, sussurrai a mo’ di saluto, notando che suo figlio aveva gli occhi fissi a terra. Dunque compresi che avrei dovuto fare la stessa cosa: sforzarmi di non guardarlo per non far trasparire il sentimento che ci legava.
-“Ora puoi uscire. Sta per arrivare un medico, visiterà la signorina Sandford e prenderemo tutte le precauzioni possibili per salvaguardare la sua salute. Ora esci.”
Dalla bocca di Jamie morì un singulto di protesta ed io –come oramai potete immaginare- puntai i piedi.
-“Non posso rimanere? Mi metto qui, in questo punto”, parlottai accostandomi ad un angolo della stanza, -“e non proferirò parola, lo prometto.”
Jennifer Delacour sciolse le braccia e le lasciò cadere sui fianchi.
-“Tu non sai quando saper stare zitta.”, era un’affermazione, -“ti ho detto che non è possibile. Ed ora esci, non è di certo un ricevimento e la signorina Sandford non è di certo in fin di vita.”
Cercai un sostegno o una sorta di complicità in William, un gesto del tutto istintivo che, a quanto pareva, irritò sua madre.
-“Avanti!”, ringhiò, prendendomi per le spalle. Prima di venir rigirata colsi William trasalire, puntando lo sguardo verso di noi, sconcertato.
-“Esci di qui, fai come ti si dice per una buona volta. Faresti perdere la pazienza anche ai santi!”, continuò con la sua voce da iena spintonandomi fino a farmi attraversare la soglia. Ogni parte della schiena dove aveva messo le mani mi pulsava, mi domandai se avesse risvegliato in qualche modo il dolore della ferita delle frustate ricevute.
-“Ma non mi sembra che lei lo sia”, mormorai mentre stava chiudendo la porta, senza voler farmi sentire sul serio. Eppure, la Delacour mi sentì e bloccò quell’azione per trafiggermi con i suoi terribili occhi di ghiaccio.
-“Non mi sembra che neanche tu lo sia.”
E chiuse la porta.


Con le spalle mogie e il passo strascicato tornai al mio dormitorio, trovando una pessima sorpresa all’interno.
Seduta a gambe incrociate nel letto, Camille blaterava con le sue scagnozze, e mostrava quelli che a primo sguardo mi parvero dei regali. Alzai gli occhi al cielo.
-“Oh, Collins!”, disse non appena mi chiusi la porta alle spalle, appoggiandomici contro, psicologicamente esausta.
-“Ciao. Bentornata. Come mi sei mancata”, le risposi atona, lasciandole intendere che non avevo voglia di altre grane.
-“Anche tu!”
-“Potresti smetterla di parlare così? La tua voce è già di natura squillante ed irritante, senza che tu lo faccia apposta.”
Non ricevetti risposta –avevo appena chiuso gli occhi, giusto per rendere la mia richiesta supplichevole e farle intendere il mio stato d’animo- così li riaprii sorprendendola come se avesse ricevuto uno schiaffo. Si alzò lentamente dal letto - poggiando con cura i regali che aveva tra le gambe sul materasso- e mi venne di fronte.
Non c’è bisogno anche di te per farmi passare il peggior compleanno della mia vita. Sono già al completo.
-“Cosa succede? Ti si è sciolta la lingua?”, sputò alzando le chiare sopracciglia, in un’espressione di sorpresa e spavalderia.
-“Può darsi.”
-“Può darsi? Oh, deve essere l’adrenalina generata dalla paura per la tua amichetta Jamie. Alice mi ha detto che sta poco bene. Sai, sono appena arrivata e non sapevo nulla; ero con la mia famiglia a festeggiare.”
Il mio sguardo si affilò non appena dalla sua bocca uscì la parola famiglia. Non ero stupida e conoscevo Camille abbastanza da capire che quel rimarcare la parola era un atto fortemente voluto per ferirmi. Ancora.
-“Con la tua famiglia, eh?”, allora risposi staccandomi dalla porta per fronteggiarla più da vicino, -“ma come? Tuo padre non era a marcire in galera?”
Nella stanza si sentì un “oh!” di puro sgomento risuonare in ogni angolo. Non solo Alice e Misha sobbalzarono dinanzi il mio affronto ma anche le ragazze che avevano appena fatto capolino dal bagno per assistere alla disputa.
Le sopracciglia di Camille si abbassarono di colpo, l’angolo destro del suo labbro roseo scattava verso destra conferendo alla sua faccia un che di macabro, come un sorriso che non riusciva a nascere e che non aveva intenzione di nascere eppure si palesava in un’espressione difforme.
La bionda fece un passo indietro senza smettere di fissarmi, forse si stava chiedendo chi aveva davanti e che fine avesse fatto la vera Emily Collins, quella che reagiva ma che non osava oltrepassare il limite.
Mi diede le spalle e poi, ad un velocità inaudita, si rigirò per sferrarmi un destro. Quindi mi abbassai appena in tempo per schivarlo e il rumore che si sentì fu un sonoro crack.
Non seppi dire se quel rumore provenisse dalle sue nocche o dal legno della porta che si era incrinato e spezzato.
-“Emily, esci di qui.”, mi disse Kate (la vicina di letto di Nicole) e mi raggiunse per aprimi la porta. Oh, certo che sarei uscita!
Si era creato quel clima insostenibile che non avrei potuto sorreggere e, seguendo il saggio consiglio di Kate, me ne andai lasciando una muta Camille al centro della stanza.
L’unico spazio dell’istituto in cui la mia presenza sembrava non dar fastidio a nessuno era la mensa. Vuota.
Non sapevo se per regolamento ci era vietato entrarci fuori dall’orario dei pasti ma, davvero, non sapevo dove andare. All’esterno era scoppiato un vero e proprio diluvio, persino dall’enorme finestra della sala si intravedeva l’inclinarsi degli alberi. Mi rigiravo i pollici tra le mani lasciandomi ipnotizzare da quel movimento prima lento poi veloce, per non lasciar la mia mente vuota. Perché proprio quando è vuota il cervello un motivo per agitarsi lo trova. Succedeva sempre così quando vivevo con mia nonna. Se un giorno mi alzavo con il piede giusto dal letto e magari avevo un momento di relax ecco che il mio cervello mi palesa davanti agli occhi un motivo per inquietarmi, per terrorizzarmi. E molto spesso il motivo era generato dal panico della fine. E allora il mio umore calava giù a picco e mi rinchiudevo in camera a piangere perché volevo vivere, perché pensavo di meritare di essere felice e perché mia nonna non poteva vedermi in quello stato. Sì, anche lei non se la passava bene. Trascorreva giorni interi nel vecchio studio di papà, non sapevo a fare cosa, ma io non ci entravo mai.
E’ una cosa intima, io devo rimanere al mio posto, mi dicevo un po’ amareggiata.
In quel momento, seduta composta in quella sala che amplificava addirittura il mio respiro, non potette non tornarmi in mente il suicidio di Rebecca Williams. Mi domandai con estrema angoscia quanto ancora avrei rivisto quella scena, se la notte avrei potuto addormentarmi auspicando ad una tregua. Spianando le mani sul freddo del tavolo mi tornarono in mente Ben, Kendrick e l’altro vampiro di cui non sapevo il nome. I miei inseguitori. No, decisamente non potevo ambire a nessun momento di pace. William sapeva che la mattina ero uscita ma, talmente preso dagli aggiornamenti che doveva riferirmi, che nemmeno ebbe la forza di rimproverarmi per essermene andata senza di lui, completamente esposta al pericolo. Come una perfetta stupida.
Feci per alzarmi, intuendo che non era una buona idea rimaner ad indugiare riguardo a quel caos che era diventata la mia vita, quando un gridolino mi spaventò cogliendomi di sorpresa.
Lontano da me, accanto all’entrata della cucina che si stava chiudendo lentamente alle sue spalle, c’era Daisy.
-“Che ci fai qui, Emily Collins?”
-“Potrei farti la stessa domanda, no?”, le dissi senza cattiveria nella voce. Sarebbe stato come inveire contro Bambi.
Mi avvicinai a lei che mi guardava con due occhioni dolci e terrorizzati al tempo stesso; aveva le braccia dietro la schiena e, quando si mosse per sorpassarmi, un fazzolettino le cadde a terra riversando il suo contenuto sul pavimento immacolato. Accanto ai miei piedi rotolò un pezzo di pane.
-“Daisy, ma che cos…”
-“Non dire niente!”, strillò accasciandosi a terra per sistemare il danno. Notai che nell’altra mano stringeva un altro sacchetto ancora più tornito di quello sfatto sul pavimento.
-“Rubi il cibo di nascosto?”
Alzò di scatto la testa verso di me con la bocca spalancata e tremante.
-“Non devi avere paura di me, Daisy. Sono solo io.”
-“N-n-non farai la spia?”
-“No! Certo che no… ma perc…”
Lei scosse il capo azzittendomi mentre le sue dita sottili si muovevano veloci per formare un nodo bello saldo. Poi si rimise in piedi a capo chino, come se stesse aspettando il mio permesso per andarsene.
-“Ehi”, la richiamai dolcemente, mettendole una mano sulla spalla. Quando tornò a guardarmi il suo sguardo era liquido, le sue guance bruciavano di vergogna.
-“Sono quelle dell’ultimo anno, Emily”, singhiozzò stringendo gli occhi, la sua voce limpida era divenuta una cantilena straziante, -“mi minacciano. Mi hanno sempre minacciata e in cambio….in cambio… in modo che io gli faccia dei favori.” E lasciò che la diga che aveva costruito si rompesse dando il via ad un pianto sommesso ma significativo. Questa ragazza era arrivata al limite.
-“Daisy, non fare così ti prego”, l’abbracciai con il cuore straziato.
-“Devi consegnare loro questo cibo? Ci vado io.”
-“No! No! Ti ricordi l’altra volta quando sei stata tu a riconsegnarle il libro da parte mia? In quel libro c’erano tutti i favori che avrei dovuto fare e io avevo scritto una serie di cose orrende su di loro per dirle di falla finita, che non ero la loro schiava, ma tutto mi si ritorse contro. Emily, non fare niente. Fallo per me.”
Alzai le braccia all’aria facendole ricadere con un tonfo lungo i fianchi.
-“E allora questa storia continuerà fino all’infinito!”
-“No”, tirò su col naso, -“solo per altri sei mesi e poi loro dovranno abbandonare l’istituto.” Credevo fosse una battuta e invece nel volto e nella voce di Daisy non c’era traccia di ironia. Nel constatare che la stavo guardando perplessa e contrariata, la piccola collegiale, prima di congedarsi mi depositò sulle mani uno dei due fazzolettini color avorio.
-“Uno era per me”, mi disse.
-“Stai scherzando?”
-“Per il tuo silenzio”, precisò lanciandosi, poi, in una corsa forsennata verso l’uscita.
-“Quando le lezioni ricominceranno e la Belfiore tornerà al collegio glielo dirò Daisy!”, le urlai contro.
Ma la porta si era già richiusa.





***


-“Parlami William”, lo imploravo in una parte sconosciuta del collegio, dove non ero solita frequentare, -“ti prego, devi dirmi cosa sta per accadere. Magari troveremo un senso ai tuoi sogni e del perché siano legati a me.”
I suoi capelli biondi davano l’idea di essere stati aggrovigliati e strappati dalle proprie mani, mosse dall’urgenza della disperazione. Il medesimo sentimento che scorsi sul suo volto quando il suo sguardo s’incateno al mio.
-“Te lo confesserò”, mormorò, ma quella non era la sua voce. Era…un ringhio, basso, raschiante. Tuttavia non mi mossi di pezzo quando, quasi a rallentatore, si mosse per venirmi incontro; di colpo, i passi divennero veloci, pesanti, urgenti e, quando finalmente ci trovammo faccia a faccia fece un gesto che non mi aspettai. Mi diede una spinta gridando qualcosa che però non capii e atterrai nelle braccia di qualcuno di talmente forte capace di sorreggermi solo incatenando un braccio nel mio, mentre con l’altro toccavo il pavimento. Le mie dita s’inzupparono in un liquido denso, abbassando lo sguardo mi accorsi che il pavimento era pieno di pozze di sangue; lo stesso le pareti, i quadri, il soffitto… con uno scatto reclinai il capo e vidi il volto della persona che mi aveva sorretta: la Delacour. Nei suoi occhi scorsi uno scintillio pazzo e malato, oltre che la pericolosità dei suoi lunghi canini che scintillavano nel buio.
Gridai e… mi risvegliai nella mia cella d’isolamento, con le urla inaspettate di qualcun altro.
-“Emily, ma sei impazzita?”, gridò, ancora, Nicole, che era a terra in un angolo. Ora si stava alzando, sorreggendosi alla parete. Mi poggiai una mano sul petto ascoltando i miei battiti impazziti e mi lasciai andare ad un lungo sospiro di sollievo. Era solo un incubo.
Che ironia.
Dopo aver cenato e dopo essermi rassicurata sulle condizioni di Jamie (aveva una banale influenza, per fortuna, aggravata solo dalla mancanza di energie) mi ero trascinata a letto con l’urgente e disperato bisogno di staccare la spina.
-“Da quanto sei qui?”, domandai alla mia amica, che si era appena seduta sul mio letto. Indossava un maglione nero, dei jeans e un paio di stivali lucidi quanto i suoi capelli corvini.
-“Da circa due minuti. Mi ero seduta in quell’angolo a decidere se svegliarti o meno, quando hai iniziato a parlare.”
-“Ho avuto un incubo”, ammisi, provando un lancinante dolore alla base del capo che mi fece rimpiangere di essermi svegliata e non aver continuato a dormire, nonostante tutto.
-“Lo avevo capito da quando il mio orecchio destro ha iniziato a fischiare per colpa della tua urla. Credi che mi sia partito il timpano?”
-“Nicole”, la interruppi e lei tornò a guardarmi, -“devo raccontarti delle cose.”
Non appena finii di pronunciare quelle parole fui investita da un’ondata di sollievo.
Tutto quello che dicono riguardo al sentirsi leggeri nel parlare dei propri problemi con qualcuno è vero; se io non avessi avuto Nicole Lamberg, mi dite voi, come avrei potuto sopravvivere a tutto questo?
Mi alzai a sedere e lei si fece più vicina. Ora potevo guardarla bene in viso e… mi parve distrutta.
-“Che hai, Nic?”, allora le domandai, accantonando i miei guai.
Lei scrollò le spalle, abbassando la testa per guardarsi le mani intrecciate sulle gambe.
-“Indovina? La cena con la mia famiglia è andata proprio come avevo previsto: ci trasferiamo, tra due mesi, ci trasferiamo.”
Un silenzio di stupore si contrappose tra noi ed io non sapevo proprio come romperlo. Nic si stava mordendo le labbra quando tentò di cercare i miei occhi, che miravano oltre la finestra, mentre s’immaginavano già il vuoto degli spazi del collegio in cui sarebbe mancata.
-“Dove? Dove andrai ad abitare?”
-“Italia.”
-“Non è lontana.” Non finii nemmeno di completare quella stupida frase di circostanza che le lacrime cominciarono ad affacciarsi dai suoi occhi.
Si sfregò il naso con la manica e represse un singhiozzo con un colpetto di tosse.
-“Ma nemmeno vicina.”
-“Meglio di Francoforte.”
Mi sorrise e venne silenziosamente ad abbracciarmi. Ricambiai il gesto affondando il viso nei suoi capelli che sapevano di shampoo e umidità.
-“Ricordi? Ovunque andrai la mia amicizia ti raggiungerà”, sussurrai. Lei annuì col capo e sembrava che la sua guancia sfregasse sulla mia per darmi un carezza.
-“Tu e Jamie siete le uniche amiche della mia vita. Non mi ero mai e dico mai avvicinata tanto a delle persone come a voi due. Se voi non siete l’amicizia e se quello che provo io non è amore, allora non so cosa pensare.”
Sì staccò da me, ritrovando un contegno. Era la prima volta che si lasciava andare ad un pianto simile e non vi nascondo che le sue parole mi destabilizzarono un po’. Insomma, mi sarei aspettata quella commozione da una Jamie, ed invece davanti avevo Nicole, straziata e scombussolata dalla piega che stava avendo la sua vita.
-“Ti voglio bene”, furono le uniche parole che seppi articolare.
-“Ed io ti lascerò insieme ai vampiri!”, esclamò, ridacchiando sommessamente. Mi strinsi nelle spalle, inclinando il capo.
-“Questa mattina sono uscita di nascosto dal collegio”, confessai senza smettere di fissarla. Nicole fece scattare in alto le sopracciglia, senza una chiara espressione che potesse farmi intuire i suoi pensieri. Poi, inaspettatamente, sorrise.
-“Immagino. Dove ti ha portata William, per il tuo compleanno? Oh, a proposito auguri.”
Scossi la testa.
-“Sono uscita da sola. William non c’entra niente in quello che sto per raccontarti.” La mia voce doveva averla messa in allarme perché alla mia amica sbiancarono le labbra, potevo vedere il colore defluire da lei in tutta quella oscurità. Improvvisamente mi sentii irrequieta, tant’è che nel corso del racconto dovetti aggrapparmi alle lenzuola come fossero spaghi essenziali per tenermi integra, per non farmi avvertire, del tutto, il peso dei miei segreti. Nicole sobbalzò in piedi quando le raccontai il momento in cui Rebecca Williams aveva scavalcato le persone per lanciarsi al passaggio del treno.
-“Non ci posso credere! Oh, ma perché l’ha fatto?” Aveva le mani tra i capelli e il viso spiritato. Mi alzai anche io e diedi il bentornato al panico.
-“Cosa ne so del perché ha fatto questo.”
-“Magari troverai le risposte nel pacco che ti ha dato.”, ipotizzò, aprendo la finestra. L’aria s’intromise tra noi, facendoci rabbrividire nello stesso istante.
-“Sì congela, per la miseria…”
-“Quel pacco viene da mia nonna. Che cosa c’entra la Williams con me e mia nonna?”
-“E allora perché si è uccisa dopo avertelo consegnato?”
Per poco non mi uscirono gli occhi fuori dalle orbite.
-“Stai dicendo che la morte della signorina è collegata con noi?”
Nicole allargò le braccia.
-“E allora perché disturbarsi tanto? Voglio dire, se io volessi togliermi la vita di certo non vado a consegnare pacchi di cartone dal contenuto anomalo a chiunque! Avrei altri pensieri per la testa. Mi segui?”
-“Ti seguo ma non capisco, Nicole. Forse ha voluto fare questa commissione prima di togliersi la vita per…”
-“Per cosa? Per avere un accesso diretto al paradiso? Sveglia, amica mia”, m’interruppe Nicole venendomi vicino, -“qui c’è qualcosa che non quadra.”
Se c’era una cosa che avevo imparato in quel breve scambio di battute era che, sì, parlare dei tuoi problemi con qualcuno era salutare ma anche tremendamente pericoloso: la mia amica aveva appena inseminato nuovi dubbi nella mia testa, come se già non avessi la mente perennemente occupata da tutto ciò che mi circondava, da tutto ciò da cui dovevo guardarmi le spalle. Arrivai alla porta, di corsa, facendo segno a Nicole di seguirmi.
-“Di grazia –come direbbe quel cerotto umano di Jamie- dove stiamo andando? A cacciarci in qualche madornale casino?”
Aprii la porta e mi voltai a guardarla, sorridendole complice.
-“Andiamo a recuperare il pacco. Vuoi o non vuoi ricordare gli ultimi giorni di permanenza al collegio?”
Alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa; chiaramente si sforzava di reprimere un sorriso.
-“Parto tra due mesi non tra due settimane.”
Feci per ribattere quando un rumore simile ad una porta che sbatteva e a dei passi mi sostituì. Subito raddrizzammo le spalle, attizzando le orecchie. Socchiusi la porta, in ascolto.
-“Sta venendo la Delacour? Santo cielo, era nella sala degli insegnati quando sono venuta. Sarei dovuta andare via prima”, cominciò a piagnucolare Nicole, maledicendosi.
-“Shh!”, le intimai io, accucciandomi per sporgermi oltre la soglia della porta. Il corridoio era vuoto, privo di suoni e privo di ombre. Confortante direte voi, terrificante, pensai io. Nicole si appoggiò sulla mia schiena, imitando la mia postura per verificare se tutto fosse tranquillo, in modo da sgattaiolare via. In un attimo una voce colpì le nostre orecchie e, prima ancora di sentire mormorare “è la preside” da Nicole, avevo capito a chi apparteneva.
Uscimmo in punta di piedi camminando con le spalle contro il muro per evitare di gettare ombre e di svelare la nostra presenza. Mancavano solo altri due passi prima di giungere alla fine del corridoio che ci avrebbe permesso di affacciarsi nei pressi dello studio Delacour quando riconobbi anche la voce di William.
Io e Nicole ci guardammo e tacitamente decidemmo di fare capolino.
-“Mamma!”, fece lui, allarmato, protendendo le braccia in avanti come per farsi scudo mentre le sue gambe procedevano all’indietro. Jennifer –che ci dava le spalle- avanzava verso suo figlio, lentamente, mentre borbottava qualcosa che udivo appena. Mi concentrai chiudendo gli occhi e captai, con stupore e orrore, parole di una lingua che non seppi classificare; la voce della Delacour aveva un ché di ipnotico e melodico. Fu Nicole a farmi riaprire di scatto gli occhi, dandomi un colpetto sul braccio sussurrandomi “guarda”.
Prima ancora di focalizzare il punto in cui Nicole mi aveva invitato ad osservare, sentii le sue unghie conficcarsi nella carne e dei risucchi colmi di angoscia. Solo in un secondo momento mi accorsi che il braccio che stava stendendo la preside era pregno di sangue e che due delle dita erano allungate verso la fronte del figlio, anch’esse insanguinate, intente a tracciare quello che mi parve un cerchio.
-“Co-cosa gli sta facendo?”, sussurrò Nicole ma subito si coprì la bocca con le mani.
Le parole sconosciute di Jennifer salirono d’intensità nello stesso istante in cui un altro segno veniva tracciato sulla fronte di un insolito e immobile William; un secondo più tardi egli ondeggiò fino a cadere tra le braccia della madre, un macabro casquet cui avrei preferito non assistere, anche perché gli occhi di William si fissarono su me e Nicole, senza vederci davvero.
Ci ritraemmo nel medesimo istante, agghiacciate.
-“Ha ucciso suo figlio”, affermò Nicole scivolando a sedere a terra. Io scossi il capo, più per tranquillizzare me stessa che per contraddirla. Lei non mi stava nemmeno guardando, aveva le mani sulla faccia.
-“Alzati”, le ordinai pregando che non mi facesse ripetere la parola perché cominciavo a sentire la bile serpeggiarmi nella gola. Nicole si issò aiutandosi con la parete e con la mia mano.
-“Vattene di qui.”
Lei sbuffò sull’orlo di piangere, di nuovo.
-“E ti lascio sola?”
-“Cosa pensi che ci farà la Delacour se ci trovasse insieme nella mia stanza d’isolamento? –oddio, come mi viene da vomitare- non voglio scoprirlo. Nasconditi perché è l’ora del coprifuoco.”
Nicole imprecò battendosi dei pugni sulla testa, dovetti afferrarle le braccia e mordermi il labbro inferiore per impedirmi di gridare o rompere il patto con me stessa e quindi piangere.
-“Non puoi perdere la testa adesso!”, le ringhiai nell’orecchio. Mi sentivo cadere eppure c’era una primordiale forza dentro di me –tanto potente quanto inaspettata- che mi concedeva di rimanere lucida e forte.
-“Ho paura! Dannazione, ha ucciso William! Suo figlio! E’ una strega oltre che una vampira ma hai visto?”
-“Non è morto! E’ solo svenuto, se fosse morto…l’avrei capito, l’avrei sentito”, farfugliai con un filo di voce verso le ultime parole.
-“Non mi piace questa situazione, non mi…”
A quel punto l’afferrai per le braccia e la inchiodai al muro, fissandola con gli occhi sgranati.
-“Pensi che a me piaccia? Non fai che ripetere questo! Ho visto quello che hai visto tu, non ho una spiegazione per questo, okay? Vattene in camera prima che sia troppo tardi. Domani, domani mattina non cercarmi: recati in biblioteca. E’ lì che cercheremo di ragionare e di… di salvare William. O qualsiasi altra cosa”, presi respiro, -“corri!”
Nicole annuì freneticamente e schizzò via dalla mia presa, non tornai nella mia stanza fin quando non la vidi sparire oltre le scale. Dunque imitai Nicole proprio nell’istante in cui avvertii la porta dell’ufficio Delacour riaprirsi.

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Capitolo 15
*** Quindicesimo Capitolo ***


Quindicesimo Capitolo








Da piccola avevo paura dei mostri. Già, come tutti i bambini d’altronde. Ed io, a cinque anni o poco più, ero convinta di averne uno nell’armadio di fronte al letto. Mi vergognavo di confessare quella mia paura a mamma e papà così, una sera, decisi che se mi fossi portata le coperte fino alle tempie, allora sarei stata salva da qualsiasi creatura delle tenebre. Illogico e buffo, non è così? Eppure la notte riuscivo a dormire e man mano che crescevo mi dimenticai del mostro, dei possibili pericoli che poteva celare la notte.
E’ in quella posizione –appallottolata e aggrovigliata nelle coperte- che Jennifer Delacour mi trovò.
Avevo percepito le lenzuola scivolarmi via dal corpo e quando riaprii gli occhi la vidi; il mostro mi aveva trovata. Nell’ultima ora del giorno del mio sedicesimo compleanno.
“Collins”, aveva detto senza troppi complimenti, con il suo solito tono sprezzante. Lasciai vagare lo sguardo sul suo braccio destro ma indossava una maglietta diversa. E questo mi diede conferma del fatto che avevo davvero visto del sangue scorrerle lungo l’avambraccio. Deglutii.
“Miss Delacour.”
“Sarai lieta di sentirti dire che questa notte potrai tornare nella tua camerata. Il tuo isolamento è terminato. E’ stato…”, distolse l’attenzione vagando con gli occhi azzurri nella stanza, cercando le giuste parole, -“come dire, questo lungo periodo di solitudine ti ha dato modo di pensare ai tuoi errori, al tuo comportamento indisciplinato?”
Stavo giusto per tirarmi su a sedere e parlare; dirle che sì avevo imparato la lezione, avevo capito tutto, i misteri dell’universo mi erano stati svelati, quando riprese a parlare:
La solitudine è per lo spirito, ciò che il cibo è per il corpo. Diceva un filosofo. Hai tratto nutrimento per la tua anima, lungo queste notte solitarie?”
Annuii.
Jennifer Delacour strinse le labbra, senza sorridere, inclinando leggermente il capo.
“Voglio sentirlo dalla tua bocca. Le cose dette ad alta voce hanno tutto un altro significato di quelle sussurrate nella propria mente. Sono più convincenti. E convincimi, Collins.”
Scombussolata, terrorizzata, con la gola secca mi ritrovai ad affrontare uno dei discorsi più lunghi mai avuti con lei.
“Sì. Sì, ho riflettuto e mi dispiace aver agito così impulsivamente alle…”, m’ingarbugliai e in quel momento non riusciva a venirmi in mente nemmeno il motivo per cui ero stata esiliata, -“sì. Io ho davvero imparato molto da questa esperienza. La notte porta consiglio, no? E’ così che dicono e penso che a me la solitudine e la notte abbiano agevolato le mie riflessioni. Davvero”, conclusi, sperando bastasse per convincerla. Il vento, nel frattempo, ululava contro il vetro della finestra. Questo dettaglio rendeva tutto ancora più solenne e terrificante.
“Lo spero per te”, disse e immaginai fosse soprappensiero.
“La solitudine è un’arma a doppio taglio: abbastanza ti giova, troppa sembra morte”, mormorai, rievocando le parole che mia nonna era solita dirmi da bambina. La Delacour trasalì, però non rispose. Mi fece scendere dal letto e mi condusse di fronte alla mia camerata, in perfetto silenzio.
"La verità”, mormorò prima che potessi congedarmi, -“è che quella stanza mi serve per ospitare mio figlio. Hai avuto delle belle parole che, ahimè, mancavano di verve e fermezza e questo non può che farmi pensare a quanto tu non sia pentita; ma forse la vera lezione la imparerai quando meno te lo aspetti.”
Come sempre, ogni volta che mi parlava, avevo la sensazione che nelle sue parole ci fosse un messaggio da decifrare, da cogliere, eppure non lo trovavo mai e quasi sempre mi costringevo ad annuire, celando preoccupazione e repulsione. La preside fece nascere un fugace sorriso sul volto, mi diede le spalle ed io mi chiusi nella mia ritrovata stanza ancor prima di sentire il suo ultimo passo dissolversi nel silenzio.
Le luci erano spente ma quella al neon del bagno era accesa, alcuni strascichi di luce illuminavano il pavimento oltre la porta chiusa. Erano quattro i letti vuoti: il mio, quello di Jamie, quello di una ma compagna che era a trascorrere le vacanze dai suoi ed, infine, quello di Nicole. Decisi di attenderla nel letto di Jamie, che si trovava accanto al suo, accendendo la fioca luce dell’abat-jour. Quando la porta del bagno si aprì Nicole teneva gli occhi abbassati, ingobbita nella sua copertina blu. Si accorse della mia presenza solo quando oltrepassò il letto di Jamie per stendersi sul suo.
“Mi ha mandato qui”, fu tutto ciò che dissi.
Lei sbatté le palpebre – non seppi se per un reale fastidio o per assicurarsi che ci fossi davvero, in quel letto- e si stese nel suo, appoggiando la testa sul braccio piegato. Sembrava si fosse calmata o, almeno, stava nascondendo bene il panico.
Poco dopo – quando tutte le luci si spensero, quando il silenzio e la luna alta divennero le vere ed uniche compagnie- mi domandai come mai fossi così… anestetizzata. Forse era quello, il segreto:
accumulare dolore, ansie, paure equivaleva dare origine al niente. Perché, nonostante tutto, avevo addosso un’inquietante forma di tranquillità, estraniata da qualsiasi emozione.
Eppure quella calma sarebbe comunque durata troppo poco perché, quello che ancora non sapevo era che, alla resa dei conti, mancava davvero poco.



La mattina successiva, a svegliarmi, fu il bussare del ricordo degli occhi vitrei di William. Balzai subito a sedere trovando gran parte delle mie compagne sveglie, attive. Nicole mi aveva depositato sul mobiletto un foglio in cui c’era scritto che potevo trovarla (come avevamo deciso) in biblioteca. Mi tolsi dalle coperte con un gesto brusco e mi vestii ad una velocità tale da esser sicura di aver battuto tutti i miei precedenti record.
Prima di uscire dalla stanza mi abbassai per controllare se il pacco fosse ancora nel punto in cui l’avevo lasciato; accertato questo, un attimo dopo avevo fatto il mio ingresso in biblioteca da Nicole.
Ci eravamo appartate in un angolino piuttosto solitario in cui un’enorme e lunga vetrata lasciava filtrare quella poca luce del giorno, illuminando la pila di libri che aveva trovato.
“Questi libri non parlano solo di vampiri, nello specifico, ma di un sacco di altre creature leggendarie”, brontolò Nicole chiudendo con impazienza un tomo polveroso.
“Forse sono stati banditi…”, mugugnai in risposta, mentre leggevo cose che già sapevo sui vampiri, cose che William mi aveva già raccontato o contradetto. Chiusi anche il mio libro.
“Tu ci scherzi.”, fece lei un po’ sconsolata, poggiando la fronte sul palmo delle mani.
“Dimmi tutto quello che sai sui vampiri”, sbottò dopo un breve silenzio, -“tutto ciò che William ti ha raccontato.”
“Nic, ti ho già detto che lui in parte è umano. Io di quelli della sua specie non so molto altro.”
Proprio allora Nicole s’illuminò tirandosi su di slancio, una rivelazione che si affacciava nei suoi occhi scuri.
-“William può resistere alla luce del sole perché è per metà umano. Quei vampiri che ti hanno aggredito… sì, insomma, ti hanno aggredita di giorno! Che siano anche loro per metà umani?”
Spalancai la bocca e credo che mai, prima di allora, mi fossi sentita tanto stupida: come avevo potuto non averci mai pensato?
E allora…
“Anche la Delacour”, sussurrai, una scarica di adrenalina mi fece tremare la voce.
“Anche lei si aggira di giorno, col sole. Eppure ha subìto la trasformazione, no?”
“Sì”, ero di nuovo sovrappensiero, -“non può essere un caso, questo.”
Nicole sbatté una mano sul tavolo, il volto di chi aveva appena ricevuto tutte le risposte sull’origine del mondo.
“Non ti sembra una terribile coincidenza?”
“E’ da ieri che stai seminando questi dubbi, Nic. Ad ogni modo, non mi è stato detto che uno dei suoi genitori fosse un vampiro. E non abbiamo ancora capito cosa ha fatto ieri sera a suo figlio”, farfugliai, tamburellando le dita sul tavolo di mogano.
“Dev’essere qualcosa che va oltre la sua essenza. Voglio dire, hai sentito che parole strane uscivano dalla sua bocca? E’ stata una sorta di…”
“Magia”, dicemmo ad unisono, guardandoci negli occhi. Sembravamo folli, disperate – e forse lo eravamo davvero- ma la sensazione era quella di essere al termine di un puzzle e accorgersi, proprio all’ultimo, della mancanza dei tasselli fondamentali.
“Dev’essere stregoneria”, s’atteggiò, sapiente, alzandosi per riporre i libri. Mi voltai col busto sulla sedia, accigliata.
“Non siamo arrivate ad una conclusione, dove stai andando?”
Lei arrestò i suoi passi e mi lanciò una specie di occhiata di rimprovero facendomi pensare che forse mi stava sfuggendo un passaggio fondamentale.
“La chiave per tutto questo è William, tesoro. Dobbiamo… ergo, dovrai trovarlo e parlargli di tutto quello che abbiamo scoperto. In questo momento solo lui può darti delle risposte.”
La raggiunsi, mostrandole la mia perplessità.
“E’ una buona idea?” La mia domanda era rivolta tanto a lei quanto a me stessa, eppure Nicole mi rispose:
“Non lo so. Ma è l’unica che abbiamo.”
Dopo aver ordinato tutti quei libri inutili giunse la prima campanella della giornata che ci annunciava la colazione. Io avevo il presentimento che mi stesse per arrivare uno di quei mal di testa martellanti, la ciliegina sulla torta, ma sapevo che non mi sarei dovuta permettere nemmeno una pausa. Non prima di aver incontrato William.
“Aspetta!”
Nell’istante in cui stavo varcando la soglia della porta della biblioteca la voce di Nicole mi giunse alle orecchie, inchiodandomi per quanto il suo tono era divenuto urgente. Mi voltai ed era con le mani poggiate su un tavolo, leggeva qualcosa ma non capii cosa fin quando non prese un giornale tra le mani. Mi fece cenno di avvicinarmi e mi parò di fronte agli occhi la prima pagina.
In un primo momento non la riconobbi. Nella foto che avevano utilizzato i suoi capelli erano raccolti in una coda ordinata, perfetta e, particolare non da poco conto, erano neri come la pece. Gli occhi… persino gli occhi erano diversi, non sapevo se quell’effetto era dipeso dalla stampa ma di sicuro non erano azzurri come il cielo. Eppure il taglio allungato e particolare non mi fece titubare nemmeno per un istante: era lei.
Solo in un secondo momento, però, i miei occhi s’indirizzarono sul titolo dell’articolo, facendomi volteggiare la testa in una maniera tanto repentina quanto violenta.

RITROVATA MICHELLE MORGAN L’ASSISTENTE SOCIALE SCOMPARSA

-“No…”, dissi col fiato corto, potevano dire che avessi corso per chilometri senza sosta , -“il nome è sbagliato. Lei è la signorina Willams.”
Nicole ripiegò il giornale e lo depositò sul tavolo.
-“No”, disse, -“lei è la ragazza che ho visto, quella che la Delacour ha aggredito.”



***



“Aveva dei segni sulle braccia che lasciano presagire sia stata vittima di una setta”, recitò, ancora, Nicole. Eravamo sedute sulle scale del dormitorio ed avevamo appena fatto colazione. Di William e sua madre nemmeno l’ombra.
“Segni fatti col sangue”, rabbrividì.
Io ero rimasta sulle scalinate del nostro piano rannicchiata contro le sbarre, a ripetermi le parole di Nicole -che aveva letto tutto l’articolo- come se stessi fomentando un’ossessione. Fuori era apparso il sole ma ero sicura che nemmeno tutto il calore del mondo sarebbe riuscito a scaldarmi. Ora iniziavo davvero a spaventarmi, iniziavo ad abbracciare l’idea che alle mie spalle c’era qualcosa che si muoveva, che mi riguardava più di quanto potessi mai immaginare.
Oh, se avevo ragione. Se solo l’avessi saputo… se fossi stata più sveglia, se avessi indovinato il mondo in cui ero capitata.
Ma io ero lì con Nicole, e non potevo sospettare minimamente cosa da lì a poco sarebbe accaduto a cambiar in tavola tutte le carte.
“Io me la ricordo, ne sono sicura. Anche se era di spalle. Quando la Delacour l’agguantò per morderla io vidi il suo profilo. Rebecca o Michelle o come si chiama… era in quello studio. Mi stai ascoltando?”
Feci sfarfallare le palpebre, voltandomi verso la mia amica che era a gambe incrociate sullo scalino più basso.
“Scusami ero soprappensiero”, mugugnai sfregandomi la fronte, -“perché c’era scritto che era scomparsa?”
“Da quel giorno di Settembre. Emily, pensi ancora che sia una coincidenza?”, mi suggerì, facendosi scura in volto. Nei suoi occhi mi sembrava di leggere anche della pietà; pietà per la propria amica che non voleva arrendersi di fronte all’evidenza.
“E va bene hai ragione”, mi arresi, -“è tutto collegato. In qualche strano modo, è tutto collegato.”
Lei annuii e poi reclinò indietro la testa, stirandosi, come se fosse esausta. D’altra parte si era ritrovata in questa storia insieme a me e tanto valeva affrontare insieme gli ultimi inquietanti sviluppi.
“Devi aprire il pacco e trovare William. O trovare prima William e in un secondo tempo aprire il pacco. Fai tu ma fallo. Adesso.”
Mi ero appena alzata in piedi di slancio, oramai più che convinta riguardo le mie prossime mosse, quando davanti a noi apparve William, proveniente dal piano di sotto, intento a correre verso la porta del nostro dormitorio. Nicole squittì per la sorpresa e s’issò in piedi accanto a me, io scesi tutti i gradini e lo chiamai, sentendomi attraversare da un lungo brivido.
Lui si voltò di scatto, vestito come il giorno precedente ed il volto di chi si è appena svegliato. Anche se, quando mi si avvicinò sembrava più il viso di uno sopravvissuto a qualcosa di terribile. Mi si strinse la gola e il cuore.
“Questa mattina mi sono svegliato nella tua stanza. Tu non c’eri. Come è possibile?”, m’interrogò con gli occhi sbarrati, smaniosi di risposte che non potevo conoscere. Almeno, non del tutto.
“La Delacour mi ha concesso di rientrare nella mia camerata, non perché la mia pena per essere la studentessa peggiore dell’istituto sia scontata ma perché, più che altro, serviva a te.”, mormorai cercando di individuare il marchio di sangue oltre la sua frangetta. Dunque allungai una mano verso la sua fronte – mentre lui sembrava riflettere sulla mia risposta- quando mi prese la mano, scacciandola bonariamente.
“E’ stata mia madre a portarmi lì? Non… io non ricordo cosa è successo ieri sera. So di aver parlato con lei, le stavo confidando qualcosa, credo”, parlò guardando con aria contrita il pavimento, come se lì potesse trovare i ricordi, -“ma poi ho un vuoto. E questa mattina mi sono svegliato dove dovevi esserci tu.” Tornò a fissarmi, spaesato. A questo punto toccai il ciuffo biondo e riccio di capelli che gli copriva la fronte e glielo sollevai; gesto che mi fece trasalire mozzandomi il respiro perché il marchio era scomparso. Istintivamente mi voltai verso Nicole, che era rimasta incollata al corrimano. Lei ricambiò l’occhiata sollevando le sopracciglia.
Fu in quell’istante che Will si accorse della presenza della mia amica, tanto scombussolato era.
“Buongiorno, Nicole.”
“C-ciao”, rispose lei, avanzando verso di noi.
“Che fate in mezzo al corridoio?” Non sembrava particolarmente interessato alla risposta, le sue dita affusolate e pallide andarono a massaggiare le tempie. Ero così preoccupata che, se Nicole non avesse risposto con prontezza alla sua domanda, l’avrei, probabilmente, afferrato per le spalle e vomitato tutto quello che sapevo. Anche se una parte di me sapeva di doverci andare con cautela, nonostante il tempo sembrava stringerci in una morsa fatale.
“Stiamo andando a trovare Jamie, volevamo portarle una cosa per farla riprendere.”
“Anche io vorrei andare su, magari mia madre è nel suo ufficio, adesso. Voi non l’avete incontrata a colazione?”
“No”, rispondemmo ad unisono. Will sussultò appena, poi sospirò.
“Andate a prendere quello che dovete portare a Jamie e andiamo insieme.”
“D’accordo”, farfugliai afferrando Nicole per un braccio, -“torniamo subito.”
Quando richiusi la porta del dormitorio m’avventai sulla mia amica.
“Non potevi inventarti una scusa migliore? Che cosa potremmo mai portare a Jamie?”
Lei sbuffò incrociando le braccia al petto.
“Prova ad inventarti una balla tu, con un vampiro davanti, così, su due piedi.”
“Dai, troviamo qualche stupidaggine o William capirà che c’è qualcosa sotto”, suggerii andando a rovistare nel mio baule. Nic s’inginocchiò accanto a me; quando sfiorò le mie mani con le sue, percepii il freddo del suo corpo.
“Non ricorda niente. Nemmeno il motivo per cui si trovava con sua madre. Gli ha cancellato la memoria.”
Sentii un lento e lungo brivido percorrermi la schiena, come se qualcuno mi avesse fatto scivolare un cubetto di ghiaccio sulla colonna vertebrale.
“E il segno sulla sua fronte è scomparso”, rimuginai afferrando il fazzolettino di cibo che mi aveva lasciato Daisy, -“ecco cosa porteremo a Jamie.”
Sciolsi il nodo e poggiai sul letto il piccolo bottino: pane, vari pezzettini di formaggio, due fettine di salame e tre spicchi di mela. Nicole strozzò un grido di sorpresa; quelle poche ragazze presenti nella stanza parvero non averci fatto caso.
“Tu sei chiaramente impazzita!”, decretò a bassa voce. Mi guardava con gli occhi sgranati.
“Me l’ha dato Daisy, ieri. L’ho sorpresa mentre rubava nella cucina.”
“Ah!”, grugnì, -“non importa se è stata lei –quella piccoletta ha del fegato, bisogna ammetterlo-ma se qualcuno dovesse scoprirti con tutte queste cose sarai tu quella nei guai.”
Lasciai la mia mano sventolare davanti al naso di Nic, giusto per farle intendere di lasciar perdere. Infondo avevamo altro a cui pensare, ma, a complicarci le cose, venne una voce alle nostre spalle.
“Cos’è quella roba?”
Nicole balzò istintivamente in piedi ed io, nella medesima velocità e momento, scattai in avanti per riavvolgere il fazzoletto.
“Camille, lo sai che non si arriva alle spalle della gente?”, improvvisò Nicole, poco convinta delle sue stesse parole.
La serpe le diede una spallata e, senza preavviso, vidi le sue mani sfrecciare sulle mie, afferrandomi il sacchetto che avevo appena annodato.
“Che diamine è?”
Lo ripresi prima che potesse rispondersi da sola.
“Fatti gli affari tuoi, per una buona volta.”
Nicole assunse un’aria altezzosa, allacciò il braccio intorno al mio e spostammo Camille per passare.
“Credo che tu mi abbia appena aiutato nella mia vendetta, cara Collins.”
Mi voltai a guardarla, mentre Nicole apriva la porta.
Quando essa si richiuse percepii una risata gioviale, una risata che non dimenticherò mai.

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Capitolo 16
*** Sedicesimo Capitolo ***


Sedicesimo Capitolo








La stanza dell’infermeria aveva la tapparella abbassata, l’unica luce presente era quella che proveniva dall’esterno quando io, Nicole e William (che aveva bussato senza ricever risposta all’ufficio Delacour) emanammo non appena spalancato la porta. Come se avesse percepito la nostra presenza, Jamie mugugnò volgendo la testa prima a sinistra e poi a destra; dunque si svegliò accorgendosi di noi.
“Dillo che ti sei buscata il raffreddore solo per poter dormire oltre l’orario de risveglio.” Questo è stato il buongiorno da parte di Nicole. Jamie fece una smorfia, issando sul materasso.
“Buongiorno anche a te, Nic. Emily, William.”
“Come va?”, le domandai sedendomi sulla sedia accanto al letto.
“Credo che la febbre mi sia scesa, l’infermiera ripasserà tra poco”, sbadigliò.
William fece alzare la tapparella e la luce del sole colpì Jamie al volto; un pulviscolo di polvere, invece, sembrava danzare davanti agli occhi assenti di Will. Mi costrinsi a non rimanere ad osservare i suoi tratti tesi e disorientati e porsi il sacchetto a Jamie. Lei lo accettò senza sapere cosa fosse, così, quando sciolse il nodo, per poco non sbiancò più di quanto non lo era per via della malattia.
“Questo devi proprio spiegarmelo!”
“E’ solo un po’ di cibo”, mormorai scrollando le spalle. William si voltò di scatto, sembrava tornato sul pianeta terra.
“Dai, Jey-Jey, non fare troppo la difficile. Non mi sembra che ti abbiano portato la colazione a letto”, mi difese Nicole.
-“E certo!”, sbottò, allora, l’altra, -“perché io conosco le regole di questo istituto cosa che, a quanto pare, voi ignorate. Non possono mica portarmi la colazione a letto, non è un albergo. E cito parole della Galdys.”
“Eppure anche questo è sbagliato”, s’intromise William che, senza essermene accorta, si era messo di fronte al letto di Jamie con le mani intrecciate alle sbarre di acciaio della spalliera.
“Non mi sembra corretto lasciare senza colazione una ragazza malata solo perché non può presentarsi nella mensa o solo perché può ignorare la sveglia ufficiale. Insomma, mi sento in dovere di scusarmi per la severità di mia madre.”
Naturalmente, come spesso accadeva, la gentilezza e il modo con cui si caricava sulle spalle l’eccessivo rigore della Delacour, lasciò tutte interdette.
“Oh, ma è giusto così”, farfugliò Jamie, sforzandosi di sorridere, -“davvero.”
“No, non è giusto così”, sospirò lui, tornando dinanzi la finestra. Di nuovo, perso nella sua mente.
Poi doveva aver visto qualcosa o qualcuno attirare la sua attenzione perché rizzò le spalle, sconvolgendo i lineamenti in un’espressione di sollievo ed impazienza.
“Ora perdonatemi, ci vediamo all’ora del pranzo”, si congedò sbrigativo. Prima di oltrepassarmi con la sua falcata si chinò all’altezza del mio orecchio e mi sussurro che era arrivata sua madre e che sarebbe andato a chiedere spiegazioni, in caso lei sapesse qualcosa.
Lo seguii con lo sguardo colmo d’angoscia fin quando non scomparve oltre la porta. La mano di Nicole venne immediatamente a stringermi il ginocchio, quanto incontrai i suoi occhi mi fece ben intendere che non era quello il momento di pensare a quella faccenda.
Parlammo con Jamie per un tempo che ci parve infinito, ci azzittimmo solo quando entrò l’infermiera per misurarle la febbre e portarle una zuppa calda. Nemmeno a farlo apposta – due minuti dopo- trillò la campanella dell’ora di pranzo. Baciammo Jamie sulla fronte accaldata mentre faceva smorfie rivolte alla minestra che aveva un insolito colore giallo su cui galleggiava una pastina fina e apparentemente cruda.
Non che sul nostro tavolo ci attendeva qualcosa di diverso, s’intende.
L’atmosfera nella sala era ancora più smorta e triste di quando era piena di tutte le alunne. Pensai a quelle a casa con i propri genitori, poi pensai a Nic che aveva dovuto insistere per rimanere con me e Jamie, dunque pensai a noi, e a quelle sedute con noi.
Lungo il tavolo degli insegnati c’era la Galdys ,il solito professore di cui ignoravo il nome dal momento che non insegnava in nessuno dei miei corsi e, poco più in là, ritto e con gli occhi bassi, c’era William.
“Sarà un pranzo che ricorderai.”
La voce di Camille mi fece sussultare; ero talmente presa a guardare dalla parte opposta che avevo persino dimenticato la sua fissa presenza al tavolo, proprio davanti a me.
Aggrottando la fronte stavo giusto per chiederle che cosa intendesse dire –non che me ne potesse importare- quando la porta si spalancò; la Delacour che trascinava una ragazza. E quella ragazza era…
“Jamie?”, strillò Nicole, facendo scivolare il cucchiaio nel piatto che, incontrandosi con il brodo, provocò una serie di schizzi lungo tutta la tavola.
La preside trascinava la mia amica che sembrava si stesse sorreggendo in piedi solo per miracolo, ma questo non sembrava un dettaglio rilevante per lei. Jamie aveva lo sguardo allarmato, la bocca socchiusa e gli occhi rossi. Quando la Delacour arrestò il proprio cammino l’afferrò per le spalle e la fece girare verso di noi.
Dopo, Jennifer Delacour sollevò un braccio in modo che tutti potessero vedere cosa teneva nel pugno chiuso.
“Sei una lurida p…”
“No, non voglio crederci”, sussurrai interrompendo le parole che Nicole stava rivolgendo ad una trionfante Camille. Perché quello che la preside stava sollevando con sdegno ed esasperazione era il fazzolettino pieno di cibo.
-“Bisogna rispettare le regole. Se tutte facessero come le pare, che rispettabile istituto sarebbe?”, sogghignò Camille, poggiando il mento sulle dita delle mani intrecciate, i gomiti piegati sul tavolo.
“Questo che ho in mano si chiama furto”, esordì Jennifer guardandoci una per una, lasciando per ultimo il mio viso. Non sapevo quale emozione si potesse cogliere dalla mia espressione ma io mi percepivo prossima ad un vero e proprio pianto. Non potevo chiudere la bocca perché, altrimenti, avrei fatto rimbombare lo sbattere dei miei denti per tutta la sala e, come se non bastasse, stavo iniziando a sudare freddo.
“Custodire del cibo è proibito. Una delle regole dell’istituto è quella di cibarsi per sopravvivere e non per provare un effimero piacere”, tuonò, riponendo in basso la mano.
“La signorina Sandford aveva questo sotto il cuscino. Ciò significa che non solo qualcuno si è introdotto nelle cucine rubando, ma ha anche avuto la briga di fare questo atto di carità totalmente irrispettoso verso qualcuno che…”, lanciò un’occhiata velenosa a Jamie, “non ha nemmeno avuto la coscienza di rifiutare.”
Jamie allargò gli occhi senza smettere di tremare.
“Signorina Collins.”
Nell’esatto istante in cui mi fece cenno di raggiungerla al centro della stanza sentii la terra mancarmi sotto i piedi. Attraversai il lungo tavolo e mi parai di fronte alla preside che strizzò il contenuto del cibo sotto i miei occhi. Attraverso la stoffa del fazzoletto si vide una poltiglia multicolore fatta di mele, salame e pane. Poi la gettò a terra.
“Non posso permettere un incoraggiamento simile, da quando lei ha messo piede in questo collegio sembra che anche le altre si siano prese la libertà di agire secondo i propri impulsi, non curanti del rigore che hanno sempre dimostrato di possedere. Anche le ragazze più rispettabili.” I suoi occhi andarono a piantarsi su alcune compagne di un tavolo lontano da noi, queste –peccatrici di chissà quali crimini- abbassarono lo sguardo. Oltre il colletto di una ragazza intravidi il chiaro segno di una frustata.
“Miss Delacour”, tossicchiò la Galdys alle nostre spalle. Ora si era alzata e con tre falcate ci raggiunse, gli occhi sporgenti che rischiaravano una luce strana e malsana. Queste situazioni , pensai disgustata, dovevano divertirla.
“Accennerei anche l’episodio avvenuto poco prima delle vacanze natalizie con la signorina Belfiore.”
Miss Delacour fu quasi compiaciuta di quel promemoria, tant’è che carezzò la spalla della collega.
“La professoressa Galdys mi ha riportato alla memoria un episodio triste dovuto alla vostra spietata elemosina vittimistica. La professoressa Belfiore venne nel mio studio a criticare il mio metodo educativo”, fece una smorfia contrariata che le deformò per un attimo i tratti severi e perfetti, -“ha messo bocca nel mio ruolo di educatrice, sconfinando dal suo rispettabile incarico. Sosteneva che voi ragazze potevate imparare dai vostri errori senza essere punite; potevate crescere e maturare anche senza nessuna guida da parte mia. Le ho detto che se tutto questo le provocava un disagio poteva anche trovare un altro istituto in cui insegnare.
Probabilmente non la rivedrete mai più, in queste mura.”
Afferrò nuovamente Jamie, conducendola davanti a me. Fu quello il momento in cui ci guardammo per la prima volta negli occhi.
“Per fortuna ci sono ancora persone non compromesse da chissà quali idee rivoluzionare, come la signorina Leeigthon. Quindi lei mi conferma di aver visto la signorina Collins nascondere il cibo nel proprio baule per poi portarlo alla signorina Sandford durante la visita?”
“E’ così, Miss Delacour.” La sua voce suonava meccanica alle mie orecchie, seppure, nel profondo, scorsi una nota di realizzazione.
La guardai cercando di riprodurre sul mio viso tutto l’odio, tutta la rabbia che provavo verso di lei in quel momento. Tuttavia dovetti ritornare a guardare Jamie perché il viso di impertinente di Camille mi avrebbe fatto perdere definitivamente le staffe.
“Jamie Sandford lei ha, dunque, ricevuto il cibo da Emily Collins?”
Chiusi gli occhi e strinsi le labbra perché sapevo che ciò che stava per avvenire avrebbe torturato Jamie per tutta la vita.
“No”, sibilò ed io riaprii di colpo gli occhi.
La Delacour alzò un sopracciglio e fece schioccare la lingua tre volte.
“No, no , no. Allora non ci siamo capite. Signorina Sandford, smettiamola con questa imbarazzante sceneggiata e confessi da chi ha ricevuto il cibo.”
“Sì, sono stata io!”, sbottai, senza premeditarlo, guardando Jamie con aria esasperata. Era così palese il fatto di esser finite in un vicolo cieco che sarebbe stato stupido e inutile opporsi all’evidenza.
In quel frangente vidi William coprirsi il volto con le mani.
“Ma io…”
Jamie dondolò sul posto, il colorito da bianco a giallastro, e, puntando mollemente la mano verso di me, cadde, svenuta a terra.
Nella sala ci fu un sussulto generale, eppure nessuno si azzardò a muovere un passo verso la mia amica.
Solo dopo aver metabolizzato lo shock, giusto un paio di secondi di sgomento dopo, il professore che era seduto alla tavolata venne in suo soccorso.
-“Chiamate il medico dell’istituto. Subito!” Sollevò Jamie come se fosse una bambola di pezza, le braccia che le penzolavano oltre il corpo. Il professore fece cenno alla Galdys di seguirlo – probabilmente per chiamare il dottore e l’infermiera- e uscirono dalla sala facendo sbattere bruscamente la porta. Il rimbombo si sostituì presto ad un silenzio angosciante; la Delacour non era nemmeno più accanto a me.
Il mio sguardo si perse fino a trovare gli occhi di William che sembravano richiamare la mia attenzione. Non sapevo cosa dirgli. Lui non sapeva cosa dirmi. Infatti rimanemmo a guardarci infiniti minuti, come due sconosciuti in imbarazzo per essersi scontrati. Allora distolsi l’attenzione da Will e guardai Nicole, che litigava con Camille. Tutte le teste della sala erano voltate verso quel teatrino… fin quando dalla cucina non uscì Jennifer Delacour. Percorse la distanza che la separava da me con una postura dritta, le braccia nascoste dietro la schiena, un sorriso da Gioconda.
Si sistemò dietro di me, un istante dopo aver individuato qualcosa di argentato nelle sue mani. Mi diede una spinta in avanti e il suo tocco mi sfiorò il collo, raggruppando i miei capelli in una coda bassa.
"Le cose storte possono sempre raddrizzarsi, basta prevenirne lo spezzamento.”
E poi, nel silenzio fatto di respiri trattenuti, risuonò nella mia testa un suono secco e metallico, avvertendo, all’altezza della nuca, una strana sensazione di freschezza… dovuta alla caduta dei miei capelli.
Gridai.
Piroettai su me stessa sfiorando con la punta del naso la forbice che saldamente teneva nella mano destra; lasciai che i miei occhi scendessero sul pavimento in cui giacevano, sparpagliati, i miei lunghi capelli castani. Istintivamente mi toccai la testa e constatai, con orrore, che la punizione che mi era stata inflitta mi aveva lasciato un taglio dove la chioma non arrivava a toccarmi le spalle.
Le braccia mi ricaddero mollemente lungo i fianchi mentre una sensazione di malessere mi fece accaldare il volto, abbassato per l’ennesima umiliazione pubblica, per l’ennesimo shock. Ero così sconvolta che corsi via, d’improvviso, attraversando la lunghezza della sala ad una velocità tale di cui, ancora oggi, non ne conosco la provenienza. Mi sentii così atterrita che credetti di poter collassare ancor prima di raggiungere e aprire la porta; cosa che feci con il corpo dal momento che le mie mani erano occupate a soffocare le grida che stavano risalendo lungo la gola pulsante.
Fu giunta nel bagno davanti allo specchio che, fissando una sconosciuta, mi resi conto di piangere e di aver mandato in frantumi l’unica promessa che avevo stretto con me stessa dalla morte dei miei genitori.




Passarono pochi minuti prima di sentire dei passi dissolvere il silenzio della camerata, occupato solo dal vago eco dei miei singhiozzi. Ero ancora in bagno, chiusa nella doccia e con le spalle contro il vetro opaco a lasciare che le ultime lacrime scorressero via dal mio viso.
Avevo l’infantile timore che, abbassando lo sguardo, potessi cogliere nelle macchioline di acqua sui palmi della mano i motivi per cui, adesso, non avevo ancora smesso di disperarmi. Perché hanno ragione tutti, tutti coloro che sostengono che nel momento in cui s’inizia a piangere per un motivo, poi, si continua per tutti gli altri. Ed io pensai a tutto ciò che mi era accaduto dal primo giorno cui avevo messo piede all’interno dell’istituto, dal distacco con la mia unica parente, al mondo sovrannaturale che avevo scoperto coesistere con il mio.
Furono dei colpetti al vetro a farmi cessare quei pensieri. Mi voltai lentamente vedendo una sagoma nera e frammentaria per colpa della trama del vetro, accucciata sui talloni. Capii subito fosse William, dunque mi morsi le labbra in preda ad un doloroso batticuore.
“Vai via, ti prego”, articolai con voce talmente roca da sembrare camuffata.
“Pensi davvero che io possa andarmene? Dopo quello a cui ho dovuto assistere? Come posso farmi perdonare, Emily?” Percepii la sua mano cercare di tirare via il sipario di vetro ma io, con le mie, lo tenevo chiuso, serrato.
“Di cosa dovresti farti perdonare? E’ stata tua madre a…”, lacerare la mia anima, il mio cuore, a farmi infrangere la promessa, a rendermi la vita un inferno più di quanto non lo sia, a punirmi tagliando l’unico stupido pregio che credevo di possedere e che avevo ereditato da mia mamma, -“lasciami sola.”
Avevo talmente tanto bene imparato a ricacciare le lacrime indietro –ad evitare di crollare davanti agli altri e non solo davanti a me stessa- che mi ero appena accorta di aver smesso di piangere. Eppure ne avevo una voglia tremenda, come un primordiale bisogno ed è per questo che iniziai a tirare pugni a destra e a manca, cercando di spezzarmi le nocche.
“Emily!”, lo sentii gridare mentre, cogliendo la mia momentanea follia, era riuscito ad intrufolarsi nella doccia.
“Fermati! Emily, fermati!”
Le mani di Will raggiunsero i miei pugni doloranti modellandoglisi intorno e, la pressione del suo corpo, mi costrinse a piegarmi ancora di più.
Una volta calmata allentò pian piano la presa, ma io avevo la testa volutamente in basso, girata in maniera innaturale verso le mattonelle avorio.
“Non vuoi guardarmi”, affermò, col fiatone.
“Non voglio che tu mi veda così”, sibilai, le corde vocali che tiravano, tiravano, quasi volessero spezzarsi per evitarmi la fatica di parlare. “Così, come? Distrutta? Sotto shock? Sei la persona più forte che io conosca.”
Mi conficcai le unghie nella carne delle braccia.
“Io? William, non prendermi in giro, non adesso…”
“Farei mai una cosa del genere?”, il suo alito caldo mi solleticò all’altezza della tempia sinistra, significava che anche lui si era chinato più del dovuto per essermi così vicino, -“hai dovuto affrontare così tante cose in così poco tempo. Come se non bastasse sono arrivato io a stravolgerti la vita, a trascinarti quasi con forza nel mio mondo…”
“E’ vero tu hai insistito ma io l’ho voluto”, lo interruppi, -“e avevo tanta paura, Will. Così tanta che ogni sera dovevo ripetere ad alta voce i perché continuavo ad esserti al fianco. E tutti i miei perché erano abbastanza forti da farmi rimanere nel tuo mondo. Non si può tornare indietro da una cosa simile.” E, quando richiusi bocca, mi vennero in mente le parole di Nicole scambiate sul pullman nel giorno della vigilia di Natale: “ed io non dimenticherò mai tutto questo” ,“anche se lo volessi, non potresti”, le avevo risposto.
“Appunto. Come fai a non capire che grande atto di coraggio e di amore tu abbia fatto? Qualcun altro avrebbe addirittura preferito la morte, che stare accanto ad una creatura come me”, lo disse e, per quanto quelle parole risuonarono come una certezza, mi fecero un male cane. Come se si stesse riferendo a qualcosa o qualcuno… sì, il suo tono di voce era così remoto che per poco non mi voltai a guardarlo.
“Perdonami”, ripeté, con un moto di compassione che mi fece stringere il cuore, abbastanza da farmi pizzicare gli occhi da nuove lacrime.
“Non puoi incolparti per i peccati di tua madre, smettila, ti prego, Will.”
“E allora guardami, usciamo di qui.”
Le sue braccia, che mi avvolgevano leggere, si scostarono; dunque mi ritrovai le sue dita all’altezza del mento, pronte a farmi voltare il capo. Con una dolce pressione del pollice mi obbligò a seguire il suo movimento, mentre, con il dito indice, mi carezzava la linea della mandibola.
E ci ritrovammo occhi negli occhi.
Le punte bionde dei suoi capelli erano schiacciate sulla fronte e distrattamente piegate verso sinistra; quell’involontaria acconciatura gli donava un aspetto da gentiluomo di altre epoche. Gli occhi – quegli occhi di colore diverso che mai avrei potuto imparare a resistere per più di qualche minuto- mi osservavano come se stessero fissando la stella più luminosa del firmamento.
“W-Will…”
“Shhh.”, mi azzittì, delicato,-“sei sempre tu, la mia Emily.”
“Sembro un maschio”, riuscii ad articolare sfiorandomi i capelli spezzati.
“Non essere sciocca. Sei sempre tu e sei bellissima”, ripeté, e approfittò del mio stato di torpore per sollevarmi senza preavviso.
Barcollai un istante prima di scendere il gradino della doccia, le gambe doloranti e formicolanti.
Mi lasciai cadere nelle sue braccia tirando su col naso, e non mi sentii tanto piccola come in quel momento.
“La permanenza è ancora lunga qui dentro”, mormorai contro la sua spalla, la voce ridotta ad un tremito per via di quell’improvvisa consapevolezza, -“ed io non penso di essere in grado di sopportare altro.”
William tacque poiché nemmeno la sua bontà poteva permettersi di dire che non mi sarebbe accaduto più niente, né una menzogna risollevarmi il morale.
Tutto ciò che fece fu abbassarsi per baciarmi sulle labbra.
Mi depositò piccoli baci sul labbro superiore per una, due, forse cinque volte prima di approfondire quei contatti in uno più appassionato. Viaggiai con le mani sulle sue braccia tese verso il mio corpo, accarezzai le sue spalle per poi risalire lentamente sul collo e disperdere le dita tra i capelli fini.
Era una strana sensazione quella che mi pervase, come uscire fuori e rientrare nel proprio corpo; forse, dopotutto, è un po’ così per chi cerca di sollevarsi nel pianto, e per chi ha un’anima che non riconosce più.





Con le ginocchia tremanti, la salivazione azzerata e le mani sudice di sudore iniziai un nuovo giorno, sorretta dal mio orgoglio feroce, salvatore della poca dignità che mi era rimasta.
Sfilare nei corridoi sotto gli occhi di persone che avevano il mio nome sussurrato con sdegno, ancora una volta, sulle labbra, si rivelò essere un’impresa più ardua del previsto.
“Che avete da guardare?”, ringhiava Nicole ogni qualvolta che un paio di occhi giudiziosi indugiavano più del dovuto su di me.
“Lasciale stare”, gli rispondevo, arresa.
“Neanche per sogno. Sono così piena di rabbia che con qualcuno devo pur sfogarmi.”
E allora, stringendomi nelle spalle, la lasciavo fare.
Di fronte all’entrata dell’infermeria Nic tentennò, tamburellando con le dita sulla maniglia della porta su cui aveva poggiato la mano.
“Solo una cosa, Emily”, disse guardandomi con rammarico, -“non farti vedere in questo stato da Jamie. Di solito per sollevare chi sta male bisogna anche fingere di stare bene, per favore.”
“Ma certo”, masticai, stirando un sorriso sulle labbra e aggiustandomi istintivamente i capelli…benché ci fosse davvero poco da sistemare.
“Non sono così terribili”, commentò la mia amica intuendo i miei pensieri.
Annuii.
“Un ultima cosa”, fece, prendendo respiro,-“hai intenzione di parlare con William, oggi? Credo che lui debba sapere. Subito.
“Sì, certo che gli parlerò. Ieri mi è stato impossibile.”
“Okay.”
Prima che Nic potesse abbassare la maniglia, la porta si spalancò di scatto, facendoci sobbalzare sul posto.
L’infermiera arretrò di un passo, dopo averci travolto con la sua prorompente stazza.
“Ah, siete voi”, fece, superandoci,-“la vostra amica si è appena svegliata. Non strapazzatela”, si raccomandò, e poi arrancò fino alle scale senza nemmeno lasciarci rispondere.
Quando entrammo c’era un lieve pulviscolo che ancora aleggiava nei pressi della tenda tirata, la scarsa illuminazione barbagliava sull’acciaio del letto, sulla lunga credenza e sulla pelle sempre più pallida di Jamie.
Questa mi vide e si tirò su di slancio.
“Non ci posso credere”, commentò, portandosi una mano a coprirsi la bocca, gli occhi che non riuscivano a staccarsi da quella massa informe dei miei capelli.
Tentai di fare dell’ironia ma la mia voce venne tradita da dei tremiti; così desistetti e mi lasciai cadere su una delle due sedie accanto al letto di Jamie.
“L’anno scorso è successo ad un’altra ragazza”, mormorò quest’ultima,-“mi dispiace così tanto.”
“Parliamo di altro, per l’amor del cielo!”, sbottò Nicole in un eccesso di nervoso; poi però si riprese con un colpetto di tosse e si sforzò di sorridere,-“voglio dire, su con la vita! I capelli ricrescono e tu tra un po’ di tempo ti alzerai da questo letto dei miei stivali e tornerai con il naso tra le pagine di un libro. Tranquille, no?”
Ci ritrovammo ad annuire.
Mentre i miei pensieri correvano da tutt’altra direzione, trascorsero una bella manciata di minuti, tanto che non mi accorsi di Nicole che stava aiutando Jamie ad alzarsi.
“Non riesco nemmeno a sorreggermi da sola per andare in bagno”, si lagnò Jamie, col viso sofferente.
Nicole le allacciò un braccio intorno alla schiena e ridacchiò.
“Quando me ne andrò voi due cadrete a pezzi, senza di me siete perse, amiche mie.”
M’irrigidii. Jamie ancora non sapeva che Nicole si sarebbe trasferita a breve; infatti, questa voltò di scatto la testa arruffata verso l’amica, guardandola stralunata.
“Che cosa vuoi dire? Oh, credo di aver capito”, sussurrò Jamie, realizzando poco a poco,-“era questa la notizia che dovevano darti i tuoi genitori? Che ve ne dovete andare?”
Nicole mi dava le spalle per questo non potetti vedere l’espressione del suo volto nell’accompagnare un desolato “sì, è così.”
Prima ancora che Jamie potesse ribattere o manifestare tutto il suo dispiacere, la porta dell’infermeria si aprì di colpo, strappando ad ognuna un grido.
William entrò di soppianto, gli occhi impazziti che scandagliarono tutta la stanza alla ricerca di…me.
“Emily, devi seguirmi!”
La sua mano mi afferrò il braccio –solo adesso rammento di come quest’episodio sia analogo a quello avvenuto mesi fa nella chiesa, ironia della sorte- e mi ritrovai ad incespicare dietro i suoi passi.
Puntai i piedi.
“Vuoi dirmi che succede? Perché sei così sconvolto?”
“Ho scoperto cosa è successo. Cosa sta per accadere.”
William aveva accostato il viso al mio, lo sguardo che m’implorava di non fare più domande e di seguirlo. Ma io, testarda e caparbia nel non voler più ricevere messaggi criptici, protestai:
“Beh, allora possiamo parlarne dopo. Perché anche io ho da dirti una certa cosa.”
“Emily…”
“Will, dav…”
“Mia madre vuole ucciderti!”, gridò scuotendomi per le spalle,-“mi hai sentito? Vuole ucciderti.”
Non so cosa mi passò per la testa in quel frangente –con quella rivelazione ancora in fase di metabolizzazione nella testa- ma mi voltai verso le mie due amiche che, come spettatrici indesiderate, erano rimaste pietrificate quanto me.
Le labbra di Jamie che mimavano un’esclamazione di terrore furono l’ultima cosa che vidi prima di venir trascinata via.

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Capitolo 17
*** Diciassettesimo Capitolo ***


Angolino Autrice: Devo chiedervi umilmente scusa per la mia prolungata assenza, ma il motivo è che ho avuto un danno piuttosto importante alla linea telefonica (quindi niente wi-fi) e, nemmeno a farlo apposta, contemporaneamente, mi si è rotto il cellulare e per tanto non accedo a internet o a qualche social network da un mese. Per cui mi scuso, e spero che siate ancora a bordo con me per questa avventura. Buona lettura!






Diciasettesimo Capitolo








Lo stato d’impasse in cui ero caduta si sbloccò solo quando mi resi conto di essere arrivata nell’atrio, e che le cinque ragazze presenti –intente ad allungare il passo verso la biblioteca- avevano rigirato la testa per guardarci con tanto d’occhi.
Il figlio della Delacour con la Collins. Tra tutte, proprio lei, potevo quasi sentire i pensieri delle loro teste vuote.
Feci scivolare la mia mano da quella di William.
“Mi spieghi cos’è questa storia? E hai detto quello che hai detto davanti a Nicole…e Jamie. Davanti alle mie due migliori amiche!”
“Non sono padrone delle emozioni che mi stanno attraversando, d’accordo?”, il respiro era affannato,-“non ho mai sperimentato una paura simile, capace di farmi sentire così vivo e spacciato al tempo stesso. Sono entrato nell’ufficio di mia madre per parlare, ma lei non era presente; c’era il diario che abbiamo trovato quella sera nel cassetto, ricordi?”
Annuii, stringendo le labbra.
“Ho letto delle pagine…e… c’erano scritte delle cose che io non avrei mai pensato di poter leggere, segreti di cui…io…”
“William sta’ calmo”, gli intimai, toccandogli il volto stravolto e accaldato.
“Sfogliando le ultime pagine ho trovato dei paragrafi che ti riguardavano: tu sei il mezzo, c’era scritto, e che per accedere e completare il suo obiettivo c’è bisogno di ucciderti. Non so che cosa significa tutto questo ma devo salvarti da lei.”
Presa da un’ondata di gelo abbassai le braccia lungo i fianchi, cercando di non farmi assalire dall’irrazionalità del panico. Dovevo rimanere lucida. Tra i due, almeno io.
“E come pensi di proteggermi? Facendomi esiliare dal collegio?”
“Qualsiasi luogo che non sia l’istituto, solo in questa maniera mi è possibile esserti vicino. Non ha senso rimanere qui.”
William recuperò la mia mano, ma io arrestai il movimento.
“Emily?”
“Devo prendere una cosa! Lasciami.”
Questo alzò il volto al cielo, dalle labbra digrignate uscì implorazione disperata, benché io avessi già superato la prima rampa di scale per dirigermi nel dormitorio e prelevare il pacco. Quel dono che mia nonna si era tanto premuta di farmi ricevere e che, oramai era impossibile negarlo, pareva essere il filo conduttore di tutto ciò che mi stava accadendo.
Aprii il baule e riempii la borsa con le prime magliette che mi capitarono sotto mano –il cellulare, della biancheria intima- e poi c’infilai la scatola che, dall’ultima volta, quasi era diventata ancora più pesante.
“Ehy, lo sai che non si può uscire dal collegio?”
Sussultai nel sentirmi dire quelle parole; era una ragazza che non avevo mai visto prima d’ora: aveva dei lunghi e riccioluti capelli rossi, una spruzzata di lentiggini ad impreziosirle il volto grazioso ed era appoggiata allo stipite della porta con aria annoiata.
Feci una smorfia mettendomi a tracolla la borsa e, passandole accanto le sussurrai un “ma per favore”.
Un verso di sorpresa gorgogliò nella sua gola, prima che potesse ribattere scesi di volata i primi scalini, udendo oltre il rumore dei miei pensieri una voce che mi chiamava:
“Emily! Emily!”
Mi voltai stringendo la borsa contro il petto, quasi avessi timori che arrivasse qualcuno per strapparmela di dosso; Nicole mi guardava con una tale ansietà che non potetti non provare collera nei confronti di Will per aver fatto esplodere quella bomba, in infermeria, in modo tanto plateale e violento. Benché avessi accettato con strizza e rassegnazione il coinvolgimento di Nicole nella vicenda non sopportavo di vederla addolorata in quel modo.
“C’è una spiegazione alle parole che ho sentito, non è così?”, domandò raggiungendomi.
“C’è, di sicuro. Ma io non ne sono a conoscenza”, le risposi con la voce che andava e veniva. Avvicinai le mie mani alle sue e poi le accolsi in una flebile stretta; sembrava mi rendessi conto dei miei gesti solo a metà.
“Dove ti sta portando?”
“Non lo so ma lontano da qui.”
Rafforzai la presa e lei allargò leggermente gli occhi, mentre mi guardavano nascondendo in quel color nocciola una serie di domande e parole che non riuscivano a prendere voce.
“Ti chiamerò, Emily. Hai preso il tuo cellulare?”
“Sì, ma…”
“Non ti abbandonerò adesso che inizia la partita. Non sarà un problema solo tuo e di qualsiasi cosa si tratti io…”
“Non puoi fare niente”, la interruppi, lasciandole le mani di colpo,-“è ora che tu ti ritiri da tutto questo. La piega che sta prendendo è ingestibile e non voglio scappare sapendo che tu possa cacciarti nei guai da un momento o l’altro!”
“La spierò. E ti dirò quando uscirà, se verrà a cercarti o se capterò qualcosa di strano. Non potrebbe mai sospettare del mio coinvolgimento.”
Ora fu lei a recuperare le mie mani, afflosciate e poggiate sulle cosce.
In quel momento pensai che non avevo mai visto un volto come quello della mia amica: ogni sua espressione era come se fosse incisa su un viso di pietra, anziché di carne, perché trasmetteva talmente tanta carica da farti provare sulla pelle le sue emozioni. Ed ora nelle mie vene scorreva la sua determinazione, la speranza, l’appoggio.
“Ti voglio bene Nic”, dissi,-“dillo anche a Jamie. Spiegale tutto, fallo per me.”
“Lo farò e te ne voglio anche io.”
Abbandonammo una volta per tutte la salda stretta delle nostre mani; mani destinate a riunirsi ancora… a cercarsi ancora… solo, non potevamo sapere che tra non molto si sarebbero strette per l’ultima volta.



Mezz’ora dopo mi ritrovai ad arrancare dietro il passo svelto di William in un sentiero di ghiaia, residui di neve e foglie morte che scricchiolavano sotto il nostro passaggio.
Quello era il sentiero che ci avrebbe condotto verso il luogo in cui si rifugiava quando terminava il servizio al collegio: casa sua.
Avevamo lasciato la macchina nella stradina solitaria ad inizio della vegetazione in cui eravamo immersi, e le nubi facevano capolino dai rami deformi come se ci stessero osservando, spiando.
“Ce la fai a camminare, Emily?”
Sorpresa per averlo finalmente sentito parlare –si era rifugiato nel suo ermetismo non appena mi ero lasciata scivolare sul sedile dell’auto- e presa in contropiede dall’innaturalità della sua voce in quel silenzio, mi ritrovai a sussultare e a portarmi una mano al petto.
“Certo che ce la faccio, non sono così debole.”
“Perché mia madre vuole ucciderti?”
“Mi stai davvero facendo questa domanda? Cosa vuoi che ne sappia io?”
“Quel che c’era scritto. Tu dovresti essere il mezzo per qualcosa ma…”, arrestò il cammino e si voltò a guardarmi,-“perché proprio te?”
“Will…”, sussurrai per colpa di un calo improvviso della voce,-“non lo so, te lo assicuro non capisco niente di quello che sta accadendo. Ho visto tua madre tracciarti uno strano simbolo sulla fronte e ti ho visto cadere nelle sue braccia. Quando ti sei svegliato sei venuto a cercarmi perché ti eri risvegliato nella mia camera, rammenti? Ma di quello che è successo prima tu non ricordi niente, perché la tua memoria è stata cancellata.”
Lui aveva ascoltato ogni mia parola corrugando la fronte, i margini delle sopracciglia che quasi si toccavano mi fecero intuire che il suo stato di smarrimento era tanto destabilizzante quanto il mio. Con la mano mi traccio dei rassicuranti cerchi sulla pelle tesa e arrosata del viso.
“Ti prometto che scopriremo presto cosa significano tutte quelle parole che ho letto su quel maledetto diario e ti assicuro che non ti accadrà niente.”
Gli sorrisi aggiungendo la mia mano sulla sua.
“E qualsiasi cosa scopriremmo, io farò in modo che nemmeno a te accada qualcosa.”
Tornammo a camminare per un’altra manciata di minuti. Ben presto, ai nostri piedi, apparve un sentiero ben delineato che appariva e scompariva a seconda degli innalzamenti e sprofondamenti del terreno; poi, come un miraggio in quel deserto di mobile gelo, scorsi la dimora. Per alcuni versi, a pensarci a mente fredda, c’è da dire che sembrava surreale – con tutto quel rigore geometrico, le vetrate ampie che lasciavano indovinare l’interno e il modo in cui la poca luce che riusciva a svignare dai rami colpiva determinati punti strategici- come se fosse stata progettata nel luogo sbagliato.
Un po’ come a soddisfare i miei dubbi, William disse:
“Ci è voluto del tempo per renderla così accogliente. Prima cadeva a pezzi, era inabitabile.”
Salimmo gli scalini resi scivolosi dalla neve sciolta e poi entrammo nell’abitazione. Dopo aver attraversato il corridoio William mi fece accomodare sul divano bianco di velluto e lasciò che mi ambientassi in quell’immobile posizione. Si era catapultato all’interno di una stanza che –quando spalancò la porta- mi parve intuire fosse la cucina; davanti ai miei piedi vi era un mobiletto di cristallo sgombro di gingilli o merletti ricamati all’uncinetto, alzando lo sguardo potevo ritrovarmi di fronte ad una lunga ed estesa vetrata che mi permetteva di scorgere il cammino appena compiuto e una parte di cielo che prometteva tempesta. Alle mie spalle, invece, vi indovinai quattro scalini di legno che conducevano al secondo piano.
Strinsi la borsa contro il corpo, in un certo senso sembrava che quel gesto mi facesse trarre una sorta di rassicurazione. Il che era davvero strano.
Non riuscendo a trattenere l’insofferenza che mi faceva sbattere le ginocchia mi alzai in piedi, sfiorando con le dita il davanzale di marmo del camino, ignorando un corridoio scuro e dirigendomi verso le scale. Queste si curvavano nascondendo alla vista il piano, accompagnate dalla luce della vetrata su cui una pianta rampicante sembrava volersi insidiare all’interno; fu proprio mentre mi ero soffermata ad ammirare tutto quel verde selvaggio che con la coda dell’occhio vidi materializzarsi una sagoma alla mia destra, proveniente dal piano che stavo per andare a visitare.
Istintivamente mi voltai indietreggiando, riuscendo solo per prontezza di spirito a non rovinare per tutta la rampa che avevo appena superato; di fronte a me vi trovai un ragazzo.
Forse non avrei dovuto pensarlo –vista la situazione e lo shock di quell’inaspettata presenza- ma il primo pensiero che mi attraversò la mente era che, davanti ai miei occhi, avevo la creatura più bella che avessi mai visto.
Il ragazzo era perfettamente immobile, in contro luce, e se non fosse per la concentrazione e lo sforzo con cui lo stavo osservando avrei potuto pensare che quella apparizione fosse solo uno scherzo dei miei sensi o, ancora, dello stress.
Il primo vero dettaglio che passò in rassegna della mia osservazione furono i suoi fulvi capelli rossi; rossi come il sangue più prelibato che un vampiro potrebbe agognare, le sopracciglia arcuate e nere che conferivano al suo viso –il quale sembrava plasmato dalle mani sapienti degli scultori- un accenno arcigno a quell’espressione enigmatica. I miei occhi scivolarono sul suo collo lungo tempestato di piccoli e deliziosi nei, attraversarono il suo addome coperto da una camicia bianca come la pelle avorio; i pantaloni neri che fasciavano le lunghe e magre gambe, tendendosi ai lati delle cosce.
Non ebbi modo di esibirmi in nessuna reazione che vicino ai suoi piedi si avvicinarono altre scarpe.
Feci risalire di botto la visuale verso l’alto e questa volta, nel mio campo visivo, fece il suo ingresso una ragazza.
Aveva dei lunghi capelli neri e lisci, le arrivavano a sfiorarle i fianchi stretti, le sopracciglia sollevate verso l’alto nel mirarmi con una curiosità tale che mi recò non poco disagio; aveva le gote rosate e gli occhi di un azzurro tenue e freddo, un lungo vestito bianco che cozzava terribilmente con l’epoca in cui si muoveva.
Quei dettagli: la pelle candida, gli occhi ghiacciati, l’abito di lei, le movenze talmente eleganti e fine da non essere intercettate, avvalorarono la mia istantanea tesi che, davanti al mio sbalordimento, vi erano una coppia di vampiri.
“Tu saresti Emily?”
La voce della ragazza era delicata, il suo sguardo impenetrabile e acceso da una viva curiosità.
Feci un passo indietro, irrimediabilmente intontita…quando sbattei contro il petto di William, che non avevo sentito arrivare.
-“Genevieve?”, esclamò quest’ultimo, porgendo le sue mani sulle mie spalle rigide.
Non potrei descrivervi l’emozione che provai in quel momento nell’udire il nome della sorella cara, che viveva a Parigi con il suo amante Henry Devonne –fu allora che presi coscienza dell’identità della creatura al suo fianco- nemmeno con l’ausilio del miglior dizionario potrei descrivervela.
“Fratello”, fece lei avvicinandosi e baciandolo, -“dalle tue ultime telefonate ho pensato fondamentale la mia presenza qui. Sentirti così turbato ed essere a leghe di distanza mi provocava un dolore troppo grande.”
Rimasi a bocca aperta per via del suo linguaggio e per via della teatralità delle sue movenze.
-“E’ così, vecchio amico”, parlò Henry mettendosi le mani in tasca, un sorriso sardonico a piegargli le labbra,-“Genevieve soleva raccontarmi di come ti trovasse abbattuto e di altre faccende che non mi riguardano ma che hanno provato tua sorella. Ma è lei, l’umana per la quale hai perso il senno, amico mio?”
“Amico mio”, sputò William con un ghigno,-“da quando siamo amici, noi due?”
Henry alzò le spalle, schernendosi dal tono sarcastico usato da William.
“Non stai rispondendo alla domanda.”
“Sì, è lei. Si chiama Emily. Emily, questi sono Henry Devonne e mia sorella Genevieve.”
Dovrei esser sembrata una maleducata perché annuii senza porgere la mano e senza fiatare una sola parola. I due mi sorrisero, ma non appena tornarono a mirare Will, i loro visi tornarono seri.
“Che cosa ci fa lei qui?”
William sospirò.
“E’ complicato”, masticò, serrando la presa sulle mie spalle,-“venite in soggiorno, non rimaniamo immobili sulle scale. Andiamo.”
Prima che William potesse scendere le scale lo presi per un lembo della manica e gli bisbigliai che io avrei preferito andare a farmi una doccia, lui annuì, a quel punto mi scusai con i due e scomparii dalla loro vista. Al piano superiore vi erano alcune stanze aperte, azzardai ad entrare in quella chiusa.
Il bagno era piccolino, tra il lavandino e la vasca non c’era poi così spazio; poco m’importava dal momento che mi fu sufficiente per accasciarmi a terra e rovesciare il contenuto dalla mia borsa. Il pacco atterrò sulla montagna di indumenti, potevo sentire il richiamo di ciò che vi era al suo interno anche da oltre quello strato di cartone.
“Coraggio Emily, fatti coraggio”, mi sussurrai appuntando i capelli dietro le orecchie.
Le mie mani si mossero a scatti prendendo con una certa incertezza l’involucro di cartone; affondai le dita e lo scoperchiai poi, riempiendomi di aria i polmoni, rovesciai il contenuto sul pavimento.
La prima cosa che cadde fu una lettera ripiegata e sporca che a contatto con il suolo si disfò aprendosi. Come se non aspettasse altro di esser letta. L’urgenza di quella coincidenza non mi permise di vedere nell’immediato il secondo oggetto che seguì la caduta: un pugnale.
Indietreggiai spaventata, nemmeno ci fosse, davanti a me, un leone feroce.
“Ma che cosa…”
Gattonai nel punto in cui ero, esaminandolo: questo aveva la lama coperta da un fodero di cuoio, l’elsa rovinata, oro e rame, con una goccia di cristallo incastonata nel centro dove, al suo interno, conteneva la lacrima di un liquido che non identificai. L’afferrai per esaminarla meglio. C’era davvero del liquido all’interno del cristallo; cristallo che, a seconda di come la luce artificiale del bagno lo colpiva, mutava. Lo soppesai con una mano, meravigliata di quanto pesasse nonostante fosse piccolo e suggerisse il peso d’una piuma.
Lo depositai a terra, certa che se non avessi ricevuto una spiegazione nell’immediato, sarei sicuramente impazzita.
Piegai il foglio e una calligrafia familiare mi mostrò una fitta rete di parole che aspettavano solo di essere lette; il desiderio inespresso di quelle parole fu esaudito perché i miei occhi incontrarono la prima riga e subito la mia attenzione venne catturata:



Emily cara,
se hai tra le mani questo pezzo di carta è perché il momento che io e tuoi genitori abbiamo cercato di allontanare con tutte le nostre forze da te è arrivato. Non ho molto tempo per scriverti tutto quello che vorrei per questo cercherò di essere il più concisa possibile.
Tutto ciò che conosci non avrà più senso dopo le mie parole, ma sappi che non hai libertà di scelta: devi prenderle come oro colato. Devi crederci. Fermamente.
Sei in pericolo, bambina mia. Lo sei sempre stata ma ora più che mai sei sola e questo mi addolora più di tutto ciò che ho dovuto affrontare nella mia vita e in questi giorni che mi hanno vista prigioniera.
Prigioniera di Jennifer Delacour.
D’altro canto non sei stata anche tu, per tutto questo tempo, sua prigioniera nelle mura di quel collegio immondo?
So riconoscere un muro quando lo vedo e so che noi due siamo con le spalle contro questo muro. Poco dopo che ci separarono mi rinchiusero in una casa di riposo per mantenere le apparenze, infatti poco dopo la nostra prima telefonata la signorina Williams sotto ordine di Delacour mi trasportò in un capannone invivibile appena fuori città. So riconoscere un vampiro quando lo vedo, tuttavia la compassione che Rebecca Williams mi aveva mostrato durante il sequestro mi ingannò poiché anche lei, come avrai già certamente capito, è un vampiro.
Esiste un mondo di tenebre e sangue, bambina mia, un mondo oscuro, senza scrupoli dove un tempo sembrava poter arrivare in ogni angolo del pianeta, espandendo la propria oscurità su chiunque avesse l’avverso destino di capitarvi. Eppure un tempo queste tenebre sono state fronteggiate da due famiglie, i Collins e gli Stryder, conosciuti altrimenti come Cacciatori di vampiri.
Tu discendi direttamente dalla famiglia fondatrice, nel tuo sangue scorre quello dei rivendicatori del giusto, della luce. Con il passare del tempo ogni continente, ogni nazione e ogni territorio è stato reso sotto l’ala protettrice di migliaia di Cacciatori. Tranne Londra, perché Jennifer Delacour la governa grazie al suo essere diversa da qualsiasi vampiro io abbia avuto modo di affrontare. E i tuoi genitori hanno imparato a loro spese cosa vuol dire arrestare il potere di quel mostro. Bambina mia, non c’è stato nessun incidente; è stata Jennifer Delacour ad ucciderli. Ma vorrei parlarti di questo non appena arriverai in Francia, nella casa degli Stryder. La Williams (puoi fidarti di lei) ti scorterà fin qui e tu sarai veramente al sicuro. Ma salvo complicazioni nel pacco che ti ho fatto consegnare vi è il tuo pugnale. Esso ti proteggerà da qualsiasi vampiro, basterà che lama affondi nel suo corpo ed egli diverrà cenere. D’altro canto anche tu dovrai proteggere questo oggetto prezioso dalle capacità incredibili poiché Jennifer Delacour lo cerca e, una volta che l’avrà tra le sue mani, diventerà un’arma di distruzione.
Non voglio dirti altro, non voglio nemmeno invocare il tuo perdono su questa carta straccia e lurida; tutto ciò che ho capito –e che probabilmente ho sempre saputo- è che non è con una bugia che si protegge chi si ama.

A presto, Emily.

Nonna Caroline



Il foglio mi cadde dalle mani, strusciando le mie dita rigide come per correre in conforto al mio stato d’animo indecifrabile.
Era stata tutta una trappola: il mio ingresso al collegio era un modo per dividermi dall’unica persona in grado di introdurmi nel ruolo che i miei genitori avevano deciso di strapparmi dalla pelle per proteggermi, un espediente per arrivare ad avere per sé il pugnale capace –dacché ne avevo capito- di cose straordinarie. E poi la signorina Williams.
Nicole aveva ragione, quel giorno nell’ufficio della Delacour c’era lei.
Lei, serva di una vampira che era stata capace di reclamare il sangue della mia famiglia da intere generazioni.
Mi alzai e scoprii un terrore autentico per ciò in cui ero capitata perché…perché ora Rebecca Williams doveva concedermi la fuga ma invece si era suicidata senza adempire completamente all’incarico che mia nonna le aveva richiesto. Perché prendersi la briga di farmi ricevere il pacco, senza poi concludere la questione? Perché si era gettata sotto quel maledetto treno? Erano domande, quelle, che non avrebbero ricevuto risposta. Almeno, non nell’immediato.
Girai in tondo passandomi le mani tra i capelli, solo dopo aver scorto la mia immagine riflessa decisi di appiattirmi contro la vasca, immobile. A ragionare.
Ero una cacciatrice di vampiri, ma non una qualsiasi: la leggendaria. Quella che doveva arrivare, secondo il fato, per dare il via alla seconda Caccia che, stando al racconto di William, sarebbe stata quella che avrebbe portato la sua famiglia alla distruzione.
Proprio come lei aveva messo fine alla mia.
Fu proprio la voce di William –ovattata e lontana- che mi riscosse da quei pensieri.
“Emily?”, chiamò.
Mi schiarii gola per evitare che il panico si manifestasse in tutta la sua devastante potenza.
“Will?” La mia voce era pressappoco un soffio di alito.
“Emily posso entrare? Sei già nella vasca?”
“Sì”, mentii, -“ho quasi fatto.”
“Non avere fretta. Volevo solo farti sapere che sto uscendo per andare a comprare qualcosa da mangiare per te. Genevieve e Henry sono di sotto.”
Rabbrividii al solo pensiero di rimanere sola con quei due…il mio sguardo cadde sul pugnale.
“V-va bene.”
Lo sfoderai con un colpo secco.
“Sai, prima mentre parlavo con Genevieve mi è tornato in mente quel momento in cui eravamo nella tua stanza, il giorno del tuo compleanno, e io ti dicevo che avevo previsto qualcosa di terribile. Non ho voluto dirtelo, ricordi? Credo sia stato un errore perché forse se ti avessi reso partecipe a quest’ora non staremo in questa situazione. Deve esserci stato il motivo per cui mia madre vuole…”, lasciò per un attimo cadere la frase,-“ecco perché ha voluto cancellarmi la memoria. Genevieve dice che lei vuole tagliarmi fuori da questa storia e, siccome ti ho salvata una volta, teme che posso farlo per una seconda volta. Perché, così facendo, crede che io stia cercando di assolvere lei e non salvare te perché… per me sei importante.”
“Sono d’accordo.”
No, non lo ero affatto per il semplice motivo che non avevo ascoltato del tutto le sue parole. I miei occhi erano rapiti dalla lama scintillante e affilata del pugnale; roteando il polso per maneggiarlo mi domandai di quanto sangue si fosse macchiato. La luce lo colpì e lungo la lunghezza dell’acciaio rilevai una parola incisa in modo obliquo ed elegante: Collins.
Lo rifoderai alla svelta e lo gettai nella borsa, poi, mi avvicinai alla porta porgendo le mani sul legno.
“…tornerò subito”, stava ancora parlando.
Avevo come l’impressione che tra noi ci fosse molto più di una semplice porta a dividerci, adesso. Una sorta di faglia incolmabile e ineluttabile che aveva deciso di spaccarsi una volta arrivata al culmine.
Il terrore –per un istante- cedette il posto alla disperazione.
-“William…”, uggiolai, -“mi dispiace così tanto.”
Strinsi i pugni e serrai la mascella: non era quello che volevo dire.
Quando lui mi rispose percepii il sorriso nelle sue parole.
“Non sei tu che devi dispiacerti. Farò di tutto per proteggerti, per cambiare la situazione. Tornerò subito.”
Detto questo si allontanò, lasciando me dinanzi il piccolo specchio che mi mostrava l’immagine di una ragazza che stava piangendo, e che non si era accorta di farlo.

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Capitolo 18
*** Diciottesimo Capitolo ***


Diciottesimo Capitolo








Cercai di riprendermi nel minor tempo possibile e, una volta affondata nelle acque calde della vasca, sentii i miei nervi sciogliersi e lasciare posto ad uno stato d’intorpidimento dei sensi.
Ancora stordita e confusa mi cambiai indossando un maglione a collo alto azzurro e un paio di jeans neri; fatto ciò nascosi lo zaino nel cestino dei panni sporchi accanto al lavandino e uscii per dirigermi in soggiorno, pregando silenziosamente che William fosse rientrato.
Non appena feci capolino dalla rampa delle scale, però, constatai che le uniche persone nel soggiorno erano ancora Herny e Genevieve.
Il primo era comodamente affondato nella poltrona accanto al divano e al tavolino di cristallo, appoggiato con il gomito sul bracciolo, nella mano un bicchiere a coppa su cui del sangue roteava fino a fermarsi ai bordi. Mi portai istantaneamente una mano a coprirmi la bocca e sentii nella mia gola gorgogliare un moto di protesta. Dunque mi concentrai su Genevieve di cui, da quella distanza, potevo vederne solo la schiena e i lunghi capelli neri.
“Vorrei capire qual è il problema di tuo fratello nei miei confronti.” La voce di lui tradì un sorriso.
La spalla di lei abbozzò un movimento, come per respingere tale affermazione.
“Non ha nessun problema è solo geloso, come qualsiasi altro fratello sulla faccia della terra.”
“Gelosia. Che sentimento stupido.”
Henry saggiò il liquido portandosi lentamente la coppa alle labbra, socchiuse gli occhi –chiaramente estasiato- tirando indietro il capo.
“Stupido, tu dici?”
“Stupido, mia Genevieve”, schioccò la lingua lui,-“nessuna persona ci appartiene veramente –che sia una sorella come un’amante- perché si dovrebbe essere corrosi da un tale sentimento maligno se quella persona, alla fine dei conti, non è nemmeno veramente nostra? Pensaci, mon petit.”
Di contro, Genevieve gli scoccò una risposta evasiva.
“Probabilmente hai ragione.”
Io, china su uno degli scalini, ero divisa in due: una parte di me voleva scendere in soggiorno e affrontare la loro compagnia, l’altra voleva ritirarsi in una camera e distruggerla.
Man mano che i minuti scorrevano il senso che mi era sfuggito nei mesi precedenti prendeva forma nella mia coscienza come la chiara avversione –se non addirittura odio- che la Delacour mostrava di avere nei miei confronti, quell’astio che le si leggeva nel fondo degli occhi; sentimento che mutava nell’infliggermi una pena, allora lì i suoi occhi quasi brillavano di gloria. E poi quel giorno al bar con mia nonna e la Williams.
Entrambe erano così strane…mia nonna stava cercando di mettermi in guardia, la Williams glielo impediva, ed erano apparsi quei tre…
Ma certo!, pensai sgomenta.
Quei tre vampiri che mi davano la caccia erano mandati per conto della Delacour. Volevano il pugnale, ecco cosa. E Jennifer non essendo riuscita a far parlare mia nonna, non trovandolo nei miei affetti personali (doveva aver per forza frugato nelle mie cose) aveva incaricato quei tre, magari convinta del fatto che lo costudissi come una seconda pelle. Io e mia nonna eravamo troppo preziose, ecco perché ci aveva torturato e non ucciso. Eppure c’erano ancora tante domande a cui non riuscivo a trovare una risposta…
“Emily?”
La voce di Genevieve mi costrinse a ricadere nella realtà. I volti dei protagonisti delle mie angosce sfumarono e, davanti ai miei occhi, riapparve la ringhiera di legno, gli scalini, la parete spoglia che scendeva ed infine lei, ai piedi della rampa.
Mi guardava con la testa inclinata e un’espressione vagamente divertita, ma non sfuggì alla mia osservazione quella lieve rughetta al centro della fronte, segno che si stava domandando se avessi tutte le rotelle apposto.
No, probabilmente non le avevo più.
“Sì, Genevieve”, mi alzai di scatto,-“William non è tornato?”
“No, non ancora”, sorrise ora rilassando la fronte,-“ma ti prego, unisciti a noi. William mi ha parlato così tanto di te. Oh, è una frase che si dice spesso ma, fidati, mio fratello non è tipo da sbilanciarsi e se lo ha fatto è perché”, lasciò cadere di colpo la frase, assorta nello studiarmi mentre mi ero avvicinata a lei,-“…perché deve amarti davvero tanto. Gli stai donando una seconda vita.”
Non ebbi nemmeno modo di ribattere che mi aveva portato una mano sulla spalla e condotto al centro della sala, dove il suo rosso ragazzo aveva appena finito di cibarsi. Un residuo di sangue gli colorava l’angolo della bocca. Indirizzai lo sguardo alla vetrata e, quindi, alla vegetazione.
Per una manciata di minuti rimanemmo in perfetto silenzio, poi Henry prese in mano la situazione spazzando via la cortina d’imbarazzo con un racconto piuttosto dettagliato della loro vita a Parigi. Scoprii, dunque, che conducevano una vita assai diversa da quella di William: prima di tutto Henry non poteva uscire alla luce del sole; sostare per un tempo prolungato sotto al più timido raggio solare avrebbe potuto procurargli una paralisi e in seguito la morte. Genevieve, che poteva goderne, aveva deciso di rinunciarvi per affiancarsi all’esistenza di Henry, condividendo con lui abitudini e routine. Forse era una mia impressione ma nel dirmi questo Genevieve pareva rabbuiarsi, facendo trapelare una sorta di rimpianto.
Così chiesi:
“E se un giorno volessi uscire con la luce del sole?”
“Mi ci vorrebbe un lungo ed estenuate allenamento per riprendere quella capacità”, sospirò sorridendomi.
“Qui a Londra sarebbe l’ideale per riadattarsi”, partecipò Henry,-“il sole è sempre nascosto dalle nuvole, anche di giorno vi è buio e sarebbe più facile e meno nocivo, per te, provarci.”
“Ma le giornate non sono sempre così”, ribattei, piccata.
Henry si volse a guardarmi, assottigliando lo sguardo, intelligente e acuto.
Prima che lui potesse rispondermi o farmi notare che avevo usato un tono di voce sgarbato, lo anticipai con una domanda:
“Esistono vampiri della tua specie, Henry, che possono uscire anche di giorno?”
“Oh, è pressoché impossibile.”
Mi voltai a guardare Genevieve che sembrava stesse riflettendo sulla mia domanda. Quando alzò gli occhi dal tavolo ed incontrò i miei, nei suoi vidi il riflesso dei miei stessi dubbi.
“E se te lo stai domandato, noi siamo arrivati questa notte, qui.”
-“Ma poniamo se…se per assurdo mi è sembrato di incontrarli. Come ve lo spieghereste?” La sorella di William scosse impercettibilmente il capo, poi si alzò e tornò di fronte alla vetrata. Henry cambiò posizione sulla poltrona e, grattandosi un sopracciglio con l’indice, mi rispose:
“Non me lo spiegherei. E’ impossibile. Non ragionarci troppo.”
Eppure quel suo sorrisino non mi convinse.
Ammesso e concesso che quei tre vampiri facessero parte della stessa razza di William –da quello che ne sapevo poteva essere plausibile- ma Rebecca Williams? Era umana, prima di incontrare la Delacour. E, soprattutto, quest’ultima.
Mi alzai in piedi facendo strusciare rumorosamente la sedia indietro.
“Tu madre, Genevieve!”, esclamai, costringendola a voltarsi,-“lei era umana. Non è nata come te e William, giusto? Come è possibile che possa uscire anche di giorno?”
Con la coda dell’occhio vidi Henry alzarsi lentamente dalla poltrona, mi diede l’idea di esser riuscita a formulare la domanda corretta.
“Preferirei non parlare di lei.”
Genevieve unì le mani in grembo, lo sguardo ostinato e remoto non ammetteva repliche. E in quell’istante mi parve di vederla, sua madre, algida e rigida contro la luce filtrata del sole; i capelli neri come il carbone, la pelle liscia, le labbra strette e la postura aggraziata. Chissà se ogni tanto anche a lei capitava di rivederla in sé.
“Per me è importante saperlo.”
“Perché lo è?”, domandò Henry e per poco non sobbalzai nel vederlo a tre centimetri dalla mia spalla.
“Perché lei vuole...”
E qualcuno citofonò alla porta.
I due vampiri si scambiarono uno sguardo, poi Genevieve percorse la lunghezza del corridoio andando ad aprire.
“Forse è meglio non parlarne, non so quanto ti conviene.”
Alzai lo sguardo verso Henry, ora fattosi serio e pericoloso come lo avevo visto una mezz’ora fa. Nella sua voce non vi era cattiveria ma sarcasmo.
Stupidamente ebbi l’impulso di toccargli il volto per cancellargli quell’aria ostile, pregarlo, addirittura, di darmi la risposta che Genevieve mi aveva negato.
“Ma io devo sapere. Io e William dobbiamo…”
“Appunto, cher. William. Perché non lo hai domandato a lui prima?”
Perché prima non era un mio problema, non ci avevo pensato e vorrei averlo fatto.
Fu proprio William ad entrare nella stanza, carico di buste per la spesa, seguito da Genevieve.
Mi sottrassi da Henry e lo seguii attraverso una porta a vento poco distante dal camino; così entrammo in una cucina minimalista, dai colori freddi –bianco e grigio- con un’isola al suo centro dove Will depositò il tutto.
“Hai preso tanta roba. Forse troppa”, mormorai per rompere il silenzio, -“non potrò nascondermi per sempre, no?”
Non appena William si voltò a guardarmi sentii le ginocchia cedere, il peso di tutto ciò che stavo vivendo aveva deciso di schiacciarmi proprio in quell’istante perché… perché stavo guardando negli occhi il figlio della donna che aveva assassinato i miei genitori, quella donna di cui avrei desiderato versare il sangue poiché io ero destinata a farlo. Quei pensieri mi fecero affannare il respiro.
Io ero una Cacciatrice.
Lui un vampiro.
Non potevano essere più opposti di così.
Quell’amore che ci legava – quel bellissimo sentimento che ci faceva sentire al sicuro l’uno delle braccia dell’altro- sarebbe bastato per salvarci da chi eravamo veramente?
Non feci nemmeno in tempo a regalarmi una risposta o un briciolo d’illusione che, indietreggiando lontana da lui, persi i sensi.






Molti sostengono che il destino venga plasmato dalle nostre mani, dalle nostre scelte, rinunce, mosse. Altri che esso sia una forza imprescindibile da noi, che non può essere governata da nessun’altro se non da se stessa. Mi ero soffermata poche volte a ragionare su quanto fosse meschino, crudele e avverso il mio, non capacitandomi della tanta amarezza che aveva insinuato nella mia vita –come se dovessi scontare una terribile condanna di qualche mia esistenza precedente-; invece, il mio fato non era niente di meno che un burattino nelle mani di Jennifer Delacour.
Ero stata distrutta prima e umiliata poi, caduta ed impigliata negli stessi fili che stava orchestrando. E, quando verso le prime luci dell’alba ripresi finalmente conoscenza –proprio come se, durante il sonno, il mio cervello avesse comunque lavorato a dispetto del blackout- ebbi la straordinaria consapevolezza che era giunto il momento di tagliare i fili che mi tenevano legata a lei.
Scostai le coperte dal mio corpo e adagiai lentamente le gambe al di fuori del letto per evitare capogiri post-svenimento; la stanza era piccola, con un armadio di legno a governare gran parte dello spazio e una scrivania spoglia, ad eccezione di una piccola lampada da studio.
Mi alzai in punta di piedi e nella stessa modalità raggiunsi il bagno dove il giorno prima avevo nascosto lo zaino nel cestino dei panni sporchi. Mi accorsi di aver trattenuto il fiato solo dopo averlo recuperato ed abbracciato, con le spalle contro la porta della mia stanza, già pensando al prossimo nascondiglio. Che fu sotto il letto. Dunque uscii definitivamente dalla camera ed iniziai a scendere le scale, attizzando le orecchie per scorgere un rumore, uno scricchiolio, un qualcosa che mi facesse dissolvere la convinzione di essere sola in quella casa sperduta. Poggiato piede sull’ultimo pianerottolo faticai ad intravedere il resto delle scale, le quali sembrava conducessero nel nulla per quanto buio vi era. Aggrappata con entrambe le mani al corrimano proseguii, chiamando William a gran voce. La vetrata che avevo tanto osservato poche ore prima era sigillata dall’esterno da quella che mi sembrò, a prima vista, una serranda elettrica. Il piccolo oblò della cucina non rischiarava nessuna luce, il camino era spento e il corridoio che chissà dove conduceva era, anch’esso, avvolto nelle tenebre. Solo grazie al leggero chiarore proveniente dal pianerottolo alle mie spalle mi accorsi di un movimento alla mia destra.
“Will!”, sussultai, i nervi tesi,-“che sta succedendo? Perché è tutto così buio?”
La risatina che mi rispose –benché simile alla sua- non apparteneva a William; tanto meno la chioma rossa fuoco che intravidi nell’ombra.
“Bentornata tra noi”, disse Henry,-“spero non ti dispiaccia tutta questa oscurità, perché io e Genevieve non siamo abituati nemmeno ad un barlume. C’infastidisce.”
“Oh, non c’è problema”, balbettai,-“credo. Mmmh, dov’è William?”
Henry uscì dall’ombra, il passo strascicato e due occhi di un colore talmente scarlatto che, non solo spiccarono nonostante l’impaccio della poca illuminazione ma potevano concorrere con il colore dei suoi capelli.
Era assetato.
“Emily?”
Piroettai su me stessa nello stesso istante in cui sentii il rumore secco della porta di casa chiudersi. Ed ecco William, infagottato nel giubbotto e con un paio di pantaloni neri.
“Ti sei già svegliata. E tu.” Puntò uno sguardo velenoso verso Henry, il quale aveva un sorriso sardonico ad increspargli i lati delle labbra.
“Ed io? Ed io, cosa?”
William mi scostò delicatamente e si ritrovò a due centimetri dal viso del rosso.
“Ti ho detto che fino a questa sera non devi avvicinarti a lei. Mi hai dato la tua parola che non ti saresti avvicinato ad Emily se non dopo aver appagato il tuo bisogno.”
“Lei è entrata in soggiorno, stava gridando il tuo nome –probabilmente allarmata da questo scenario funereo- e io mi son trovato nei pressi di questo lato della casa e ho ritenuto opportuno informarla. Non le ho torto un capello, non è così Emily?”
“Sì, non è successo niente”, chiarii e presi la mano di William.
Lui rimase in silenzio per qualche istante e poi mi lasciai condurre in cucina, abbandonando un sogghignante Henry. Qualcosa mi suggeriva che indispettire il fratello della propria fidanzata doveva divertirlo molto.
In cucina mi accoccolai su uno sgabello accanto all’isola mentre William poggiava il giubbotto su una sedia e metteva a scaldare del latte per me.
“Come ti senti? Meglio?”, mi domandò, dandomi le spalle, e gli fui segretamente grata poiché, grazie a quel gesto, egli non potette scorgere la mia espressione che –lo immaginavo- avrebbe svelato il mio tormento. Cosa avrei dovuto fare? Rivelare chi ero, così, su due piedi? Fargli conoscere una parte di me che dovevo io stessa conoscere prima? La mia spiegazione sarebbe stata la chiave di tutto, ma lui mi avrebbe odiata. O stavo sottovalutando il suo sentimento per me?
“Meglio, sì”, uggiolai, stringendo i pugni.
Scolò il latte dalla piccola brocca e me lo porse in un bicchiere di vetro con i Puffi disegnati sopra. Talmente stremata che risi come una bambina, alla vista di ciò.
“Non prendermi in giro, d’accordo?”, rise anche lui, poggiandosi contro il davanzale accanto al forno.
“Vorrei poterti chiedere cosa ci fa un bicchiere dei Puffi in casa di un semi-vampiro ma non sono sicura di voler conoscere la risposta.”
“Ecco”, me ne diede atto, scuotendo la testa,-“non vuoi conoscere davvero questa storia.”
“Quale storia?”
La voce di Genevieve che trillò alle mie spalle mi fece sussultare e, se solo avesse urlato un po’ di più, il latte mi sarebbe scivolato a terra dallo spavento. Henry era dietro di lei, ancora sorridente.
“Niente che ti riguarda, sorellina.”
“Forse è la storia di come tuo fratello, cara Genevieve, si sia ridotto ad accontentarsi di un po’ di cibo umano anziché del sangue.”
Ed ecco il buonumore di William infrangersi al suolo.
“So dominare la mia sete. Il sangue animale mi basta e mi avanza.”
Questo non era del tutto vero ma non mi azzardai a riportare alla luce la notte in cui l’avevo seguito al di fuori del collegio. Non davanti a loro due.
“Credo che sia il tuo orgoglio a parlare, William, perché dopo che assaggi del sangue umano è difficile bramare quello animale”, fece una breve pausa che non fu interrotta nemmeno da un lamento,-“se qui ci fossero stati i cacciatori a procurarvi del sangue, beh, non penso proprio che l’avresti rifiutato.”
Trattenni il fiato e la tazza a mezz’aria.
Immediatamente gli occhi di William trovarono i miei; i suoi sembravano colpevoli, i miei… non volevo saperlo. Forse lui vi lesse confusione, smarrimento o addirittura vi trovò un pizzo di paura perché disse ad Henry di smetterla, di non parlare di certi argomenti davanti a me. Qualsiasi cosa scorse nei miei occhi, non aveva niente a che fare con il lieve senso di colpa e tradimento che provavo. Mai nella mia vita mi ero sentita tirata tanto in causa.
Io sono una cacciatrice, dissi a me stessa, fissando uno a uno i loro visi, le gambe perse in un tic nervoso.
“Perché Emily non sa che per tenerci buoni, come cani rabbiosi, ci donano del misero sangue in misere bustine di plastica? Come se questo possa davvero accontentar…”
“Fai silenzio!”, tuonò William,-“qui a Londra non funziona così.”
“Oh, sono a conoscenza delle condizioni di questa cittadina. Sai, che qui non ci sono cacciatori? Sembrano… scomparsi nel nulla.”
Ci misi qualche secondo di troppo a capire che Henry si stava rivolgendo a me. Il suo sguardo attento e acuto sembrava stesse attendendo una mia reazione, ma fu Genevieve ad anticiparmi.
“Basta così, d’accordo? Non sono di certo venuta a trovare mio fratello per vedervi litigare o parlare di Jennifer!”
“Infatti”, convenne William, livido, -“e se ora potete lasciare me ed Emily da soli, ve ne sarei grato.”
“Non dimenticarti che verso l’imbrunire andremo a caccia, fratello.”
Genevieve gli diede una carezza e poi seguì il fidanzato fuori dalla cucina.
William imprecò traendo, tra un borbottio e l’altro, profondi respiri.
“E’ veramente irritante.”
“Perché non mi hai mai parlato di tutto questo?”
“Non volevo ti spaventassi più di quanto non lo fossi quella famosa notte.”
“Non sono spaventata.”
Il mento di William indicò la mia mano stretta intorno al bicchiere.
“Allora perché le tue nocche sono così bianche, e il latte sta per eruttare fuori dalla circonferenza?”
Se solo sapessi…
Adagiai il bicchiere sulla superficie simulando una noncuranza in cui non mi vedevo.
“Quella notte, quando mi hai raccontato la storia della tua famiglia, non mi hai parlato molto dei cacciatori e, sapere ora queste cose da Henry...”
“Emily”, sospirò parlando con tono conciliante,-“non credi che abbiamo già i nostri bei grattacapi a cui pensare? Sei una specie di fuggitiva per colpa di chissà quale fantasia malata di mia madre e riflettere su cose che non ti riguardano –e non fraintendere le mie parole- non mi sembra un beneficio alla nostra situazione, no? Pensiamo ad un problema per volta.”
Mi limitai a guardarlo poi, non riuscendo a sostenere oltre il suo sguardo e le sue parole rimaste nell’aria, scesi dalla postazione e mi congedai nella stanza in cui mi ero risvegliata.
Lessi ancora una volta la lettera di mia nonna, carezzando i bordi mangiucchiati e sporchi; il pugnale sembrava diventare sempre più pesante e letale ad ogni sguardo.
Stavo giusto per rifoderarlo quando nei meandri della borsa percepii l’inequivocabile vibrare del cellulare.
Il nome Nicole lampeggiò sul display e, una volta premuto il tasto, fu la sua voce a farmi sentire meno sola.
Anche se per i primi cinque secondi mi ricoprì di imprecazioni e insulti per non aver risposto alle chiamate precedenti.
“Non potevo risponderti, Nic. Altrimenti l’avrei fatto.”
“Va bene, va bene. Qui è un casino, Em”, fece una breve pausa,-“la Delacour ci sta organizzando in gruppi e mandando in case famiglie. Mia madre è impazzita, letteralmente, e mi sta venendo a prendere.
Trascorrerò qualche giorno qui a Londra prima di tornare nella città di George… quello che voglio dirti è che il collegio sta per essere sgomberato e che mi sono appostata nel corridoio del quarto piano per tutta la sera, ieri.”
Sentii una scossa percorrermi il collo.
“E…”, la invitai a continuare, fremente.
“Due figure incappucciate sono entrate nell’ufficio della preside. Sono stati dentro poco –ma a me sembrava un’eternità, che te lo dico a fare- quando sono uscite ho visto che erano due ragazzi, senza più mantello e cappuccio. Uno di loro, un moro con il codino, si stava tirando giù le maniche della camicia e indovina che cosa aveva sulle braccia? Un simbolo. Fatto con il sangue. Capito? Emily dì qualcosa!”
“Sì, sì ci sono!”, risposi dopo un po’, immaginando chi poteva essere quel tizio: Ben, uno dei tre –ora due?- inseguitori.
“Quelli che hai visto sono i vampiri che mi hanno aggredito, Nic. Sicura non fossero tre?”
“Assolutamente. Erano solo in due. Avevano un’espressione tirata, gli occhi bassi.”
“Sapresti descrivermi l’altro?”
“Grosso. Solo questo. Sembrava un gorilla, Emily. Ricordo di aver pensato che con le manone che si ritrova potrebbe stendere cinque cavalli di fila”, fece un verso angosciato, -“e un elefante.”
Le mie labbra non potettero non distendersi in un sorriso.
“Quanto vorrei fossi qui.”
“Oh, io non ti vorrei qui!”, sbottò Nicole, ridendo sommessamente,-“non sarebbe sicuro. Come se non bastasse mi tocca fare i conti con Jamie. Le ho raccontato tutto, come mi hai detto di fare.”
“Non voglio nemmeno sapere che reazione ha avuto.”
Mi alzai da terra trascinandomi di fronte alla finestra; appoggiando la fronte contro il vetro non potetti non sentirmi in colpa anche per Jamie, nuova recluta in questa pazza storia.
Dall’altro capo della cornetta sentii il fruscio dell’acqua.
-“Dove sei?”
“In bagno, sto cercando di far scorrere l’acqua calda”, sospirò, -“la Delacour per giustificare la tua assenza ha detto che sei in ospedale. Giusto per informarti.”
Grugnii un qualcosa di incomprensibile.
“Le piacerebbe”, bofonchiai, poi, nervosa.
“Ascoltami, Emily…”
Ma non seppi mai cosa avrebbe voluto dirmi Nicole perché udii lo schiocco secco della porta e il telefono mi sfuggì di mano, rovinando a terra e slittando sotto il letto.
William mi trovò innaturalmente appoggiata al davanzale della finestra; nonostante la posa poco probabile non mi domandò cosa stessi facendo.
Teneva poggiata la mano sulla maniglia e con buone probabilità la lingua lunga di Henry doveva averlo innervosito più di quanto non abbia lasciato intendere, perché un nervo delle sua mandibola scattava avanti e indietro. Mi chiese cosa desiderassi per pranzo e gli risposi che ci avrei pensato io a me; un panino andava più che bene per il mio stomaco in subbuglio. Poi rimase titubante sulla soglia, incerto se entrare o meno.
Sperai non lo facesse. Ed infatti se ne andò senza raggiungermi, informandomi solo che verso l’imbrunire avrebbe portato Henry e Genevieve a caccia, nel limitare del bosco.
Mi chinai per recuperare la conversazione con Nicole, ma la linea era caduta.



Quando William, Genevieve ed Henry uscirono per dedicarsi alla caccia mi ritrovai a vagare come un’anima in pena in quella casa esageratamente silenziosa, incredibilmente inquietante nel crepuscolo. Prima di uscire William mi aveva preso il volto tra le mani promettendomi che sarebbero rincasati presto, poi stava per aggiungere dell’altro –probabilmente una frase di conforto- quando Henry fece un colpo di tosse nemmeno troppo discreto, facendoci intendere, da come le sue dita allentavano il colletto della camicia, che il suo livello di sopportazione andava ad esaurirsi.
William sospirò e mi depositò un piccolo bacio sulle labbra, un bacio che non sentivo di meritare.
Mi sedetti a gambe incrociate sul divano, osservando la mia unica compagnia: il fuoco crepitante nel camino.
Ovunque posassi gli occhi vedevo la sorte che mi sarebbe toccata molto presto, una solitudine immensa e triste, con oggetti che non riuscivo a mettere a fuoco completamente per via della forza dei miei pensieri tormentati. William non avrebbe mai fatto più parte del mio futuro; sempre che, nel migliore dei casi, io ne avessi ancora uno.
Indugiai con lo sguardo sulla mia ombra e fu a quel punto che la vidi.
Ora, non so da quanto fosse rimasta lì –come una macchia sgradita- ma un’altra ombra si era materializzata non troppo lontano dalla mia e, subito, presi coscienza della presenza gravosa di qualcuno alle mie spalle. Mi alzai voltandomi di scatto.
E incontrai un volto furente.
“Ci rivediamo, Emily Collins. Per l’ultima volta.”

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Capitolo 19
*** Diciannovesimo Capitolo ***


Diciannovesimo Capitolo








La prossimità del vampiro che mi stava osservando bastò a farmi capire che ero spacciata. Questa volta, lo sentivo, non me la sarei cavata tanto facilmente.
“Ben”, sputai velocemente con il terrore nella voce.
Aggirò il divano con estrema lentezza ed io non mi mossi di pezzo, se non per indietreggiare impercettibilmente quando vidi che mi aveva raggiunta ma che non aveva accennato ad arrestare il passo. Anzi, Ben mi afferrò per un braccio, non tanto per farmi intenzionalmente male quanto per avvertirmi che la presa che stava esercitando sarebbe potuta diventare un qualcosa di cui mi sarei pentita se non lo avessi ascoltato.
“Te lo chiederò una volta sola, Emily. Solo una volta e se non mi risponderai io ti ucciderò. Dov’è il pugnale che la mia Padrona cerca? DIMMELO!”
Il suo ordine fece tremare ogni cellula che mi costituiva e sobbalzai sul posto; dunque una risata di puro nervoso mi fece sconquassare.
“Lurida…”
Senza nemmeno vederlo arrivare, un pugno mi colpì all’occhio sinistro, rovesciandomi come una bambola di pezza sul divano. Poi la mano del mio inseguitore mi afferrò per la maglietta ed ogni traccia di triste ironia si cancellò dal mio volto. Il suo – rabbioso e raccapricciante- era così vicino al mio che le nostri fronti si toccarono in una contrapposizione di caldo e freddo. Di vita e di morte.
“Non avrò pietà di te, lo sai? La Padrona ti desidera viva ma siamo arrivati ad un punto tale che anche da morta andresti bene. Lo sai, vero?”
“Perché non la chiami con il suo nome? Jennifer. Delacour.” Scandii parola per parola, benché faticassi a fiatare.
“Risparmiami la fatica e dimmi dove lo stai nascondendo.”
“Dove sono gli altri schiavi della tua Padrona?
E il secondo pugnò arrivò, assestato al centro dello stomaco.
Tossii attorcigliandomi sul divano, iniziando ad avere una visuale sfocata di ciò che mi circondava.
“Sto per perdere la pazienza, Emily Collins”, cantilenò girando in tondo al divano, dove ancora mi dondolavo rannicchiata dal dolore, -“per colpa di quel pugnale è stato versato il sangue dei miei compagni.
Kendrick, te lo ricordi?”
Come avrei potuto dimenticarlo? Il vampiro biondo che, in quel vicolo sudicio, mi aveva inchiodata al muro.
“Sì.” Mi misi seduta, stringendomi ancora.
“Quel giorno stesso è stato ucciso dalla Padrona per farci intendere che non si scherza e che la nostra immortalità ha un prezzo da saldare.”
Riuscii a mettermi in piedi.
“Quindi lei vi ricatta.”
“Lei ci ha SALVATI!”, gridò, tornando a puntare gli occhi sverzati di rosso nei miei.
“Per darvi questa esistenza fatta di sangue? Quanto era miserabile la vostra vita mortale per pagare un prezzo così alto? Essere schiavi di una Padrona che non esiterebbe ad uccidervi, privarvi della libertà per uccidere a vostra volta.”
“Tu”, mi puntò un dito contro, -“tu non sai niente di come era la mia vita prima che Jennifer Delacour mi trovasse. Era, sì, una vita miserabile. Non avevo dignità, famiglia, un senso che mi facesse svegliare al mattino. Vagabondavo tra le vie di Londra e la mia unica occupazione era qualche furto a Camden Town o, se mi andava di lusso, in qualche quartiere più agiato. Lei mi ha reso immortale, mi ha donato il privilegio di affiancarla nella sua esistenza; insieme, potremmo avere tutto. Siamo esseri superiori… Dove stai correndo, Emily Collins, pensi davvero di poter sfuggire da questa situazione?”
Non lo sapevo come mi sarei liberata da quella situazione ma, sì, dovevo almeno tentare di raggiungere quel dannato pugnale e affrontarlo. Non ero stata allenata, non sapevo nemmeno come avrei potuto impugnarlo senza slogarmi un polso nella disputa che, inevitabilmente, avrei dovuto affrontare tra non molto, ma, nonostante tutto, dovevo provarci.
Nonostante tutto, ero la ragazza leggendaria.
Salii rapidamente le scale, ovviamente perché Ben me lo permise: rimase impalato ad osservarmi, le braccia incrociate al petto e un’espressione di pietoso divertimento.
“Non puoi scappare, c’è solo un’uscita in questa casa.” Fu l’ultima cosa che gli sentii dire, poi, un silenzio fin troppo irreale si abbatté in ogni spazio della casa. Tenni stretto al petto il pugnale e mi schiacciai contro il muro accanto alla porta, attendendolo.
Passò un minuto buono prima che sentissi nuovamente la sua voce. Dal fondo del corridoio.
“Te la ricordi l’assistente sociale? Michelle Morgan o…oh!, forse dovrei chiamarla Rebecca Williams quella lurida puttana traditrice.”
Silenzio. Passi. Sempre più vicini.
“Il tuo arrivo al collegio era programmato, dopo aver ammazzato i tuoi genitori era il passo successivo per prenderti. Così preziosa, così piccola ed ingenua…loro ti hanno tenuta nascosta dalla loro stessa razza- i cacciatori- perché ti proteggessero. L’amore fa fare cose così ingenue e stupide, non ti pare? Credevano davvero, quegli stolti dei tuoi genitori, che Jennifer Delacour non ti avrebbe mai trovata? Dopo aver passato la sua intera esistenza a pianificare tutto questo?”
Iniziavo a sudare freddo e la presa dal pugnale andava via via allentandosi; i passi sempre più vicini mangiavano la distanza dal mio nascondiglio.
Strozzai un grido a stento, quando lo sbattere improvviso di una porta arrivò alle mie orecchie. Se solo avessi saputo quale porta forse avrei potuto capire in che punto del corridoio si trovasse. L’unico indizio che avevo mi suggeriva che Ben era sempre più vicino alla sua preda terrorizzata.
“Emily Collins”, cantilenò di nuovo, -“esci fuori, così ti racconto di Michelle Morgan.”
Silenziosamente aprii la porta e per poco non ci rimasi secca: lo spiraglio che avevo schiuso con estrema cautela mi rivelò che Ben era di spalle con lo sguardo nella direzione opposta, perso nella lunghezza del corridoio.
Pregai che proseguisse, in modo da poterlo pugnalare a tradimento.
Ma si voltò.
Ed io tornai al punto di prima, ansimante.
“Michelle Morgan ricordava tutto della sua vita mortale. Al contrario di me, Kendrick e Tom, i quali avevamo pochi e sfocati ricordi per la testa. Ma erano abbastanza per spingerci tra le braccia della nostra salvatrice. Ad ogni modo, Michelle Morgan aveva una bella vita e non smetteva di frignare riguardo quanto le mancasse. Quella lurida puttanella. La Padrona l’aveva trovata a Cardiff, se non vado errato, e a forza di minacce l’aveva convinta a seguirla a Londra; doveva solo fingersi assistente sociale per poi occuparsi di te e in seguito della prigionia di tua nonna. Ma un giorno fece perdere la pazienza alla Padrona con il suo atteggiamento ritroso e la trasformò. La trasformazione avrebbe dovuto farle dimenticare la sua vecchia esistenza o, quanto meno, avrebbe dovuto offuscarle determinati ricordi ma Michelle Morgan ricordava. A quanto pare finse di collaborare, la furba, e mossa dalla pietà ha pianificato la fuga di tua nonna e chissà cos’altro…ho saputo che si è gettata sotto un treno; probabilmente perché sapeva che i vampiri possono definitivamente morire se smembrati e bruciati. Mi chiedevo se prima di morire ti avesse raggiunta in qualche modo.”
“Oh sì”, dissi a voce alta, con le lacrime agli occhi.
Spalancai del tutto la porta e lo trovai pronto all’impatto ma, anziché gettarmi su di lui per trafiggerlo, aspettai un suo primo passo.
E così fu.
Si sollevò da terra per lanciarsi su di me –pazzo, pazzo il suo sguardo non appena si ritrovò davanti agli occhi il pugnale- e con estrema velocità lo tramortii con il gomito. Cadde a terra e, afferrando la maniglia della porta, schiacciai la sua testa tra essa e lo stipite. Ripetutamente. Violentemente.
Quando lo vidi immobile rafforzai la presa scivolosa sul manico del pugnale, dunque lo sollevai sopra la mia testa senza smettere di fissare la schiena del vampiro.
Non avrebbe dovuto essere difficile e dovetti ricordarmi ancora una volta che ero nata per farlo.
Passai in rassegna i visi delle persone che amavo – i miei genitori-, quello di chi aveva patito per me resistendo stoicamente –mia nonna- il volto della persona a cui dovevo qualcosa –Michelle Morgan- e quello che avrei perduto anche se non avessi trovato il coraggio e la motivazione sufficiente per abbassare il pugnale –William.
L’ultimo pensiero mi rese rabbiosa e feci per affondare nella carne di Ben quando inaspettatamente mi afferrò per i polsi e mi fece roteare in aria con un solo braccio, schiantandomi sul pavimento del corridoio. Il pugnale volò lontano, rimbalzò sulla parete e cadde nella tromba delle scale. Un dolore accecante m’invase le spalle e recuperai fiato a fatica; alzandomi constatai che anche Ben aveva risentito dei colpi che gli avevo inferto: il lato destro della sua testa era ricoperto di sangue, l’occhio chiuso e impiastricciato.
Schizzai verso il punto in cui avevo visto cadere l’arma ma, poco prima di scendere il primo gradino, Ben mi acciuffò per i capelli.
“Servirà una goccia del tuo sangue. L’ultima goccia dell’ultima della dinastia dei Collins.”
Mi tirai in avanti, digrignando i denti dal dolore infuocato che si andava ad espandere lungo il mio cuoio capelluto.
“P-p-er cosa?”, strillai e, come in risposta, le parole di William riguardo al fatto che io fossi un mezzo mi risuonarono nella testa.
Ben urlò qualcosa che non ascoltai ed io trovai la forza di assestargli un calcio; fu allora che mi liberai dalla sua presa strillando a pieni polmoni, pienamente consapevole di alcuni resti dei miei capelli nella sua mano ancora chiusa a pugno. Scivolai e rotolai fino a sbattere contro la vetrata del pianerottolo. Lì, da dove ero precipitata, potevo vedere il pugnale giacere sull’ultimo gradino quasi fosse la linea agognata di un traguardo, ed io un semplice corridore che, forse, avrebbe dovuto passare la sua vita ad allenarsi.
Con uno slancio mi alzai da terra ignorando tutte le proteste del mio corpo livido, dunque, stringendo i denti, mi fiondai di sotto, seguita a ruota da Ben e dalle sue imprecazioni oscene.
Presi il pugnale e roteai su me stessa fino a cercare di colpirlo ma questo si era gettato nella parte opposta del salotto, come una iena.
Adesso che eravamo l’uno di fronte l’altra mi accorsi con una certa punta di compiacimento di come l’avevo ridotto. I capelli che aveva impeccabilmente raccolto in un codino era sciolti e scompigliati, una ciocca era colorata di rosso, come tutta la parte destra della faccia ricoperta di sangue. Gli occhi sbarrati e la bocca aperta in una smorfia che interpretai come rabbia omicida e disprezzo.
“Non puoi avvicinarti a me”, dissi, dominando l’affanno,-“perché se anche solo questa lama ti sfiora tu diventi cenere. Dimmi cosa vuole da me –dal mio sangue- la Delacour e perché le serve questo pugnale.”
“Chiedilo a lei. Quando ti verrà a prendere e prosciugherà anche l’ultima goccia del tuo schifosissimo sangue da cacciatrice.”
Si avventò su di me. Stupidamente, coraggiosamente. Riuscì a prendermi di sorpresa perché con un colpo secco del braccio mi disarmò e il pugnale roteò in aria fino a cadere in mezzo a noi, tagliando la nostra pericolosa vicinanza. Lui si allontanò come se dal cielo fosse colata della lava, io mi mossi solo per riflesso e pensai che non mi sarei mai perdonata per averlo fatto. Il pugnale era troppo vicino a lui, non potevo avvicinarmi senza rischiare di rimanere uccisa dalla stessa lama che mi avrebbe concesso la vittoria; dunque mi accontentai di recuperare l’attizzatoio per camino.
-“Fermati, fermati!”, gridai, cercando di prendere tempo mentre porgevo la punta nelle fiamme; poi glielo puntai contro.
“Non riusciresti mai a colpirmi. Sono più veloce di te, Emily Collins.”
“Ma io ho un motivazione più grande della tua per ucciderti, Ben.”
Questa volta fui io ad attaccare per prima; il vampiro si difese con il pugnale e girammo in tondo nella stesso punto, complici nel disegnare il nostro destino. Sapevo, ed era chiaro, che eravamo appena arrivati al round finale. Perlomeno io, nonostante l’adrenalina e la buona dose di vendetta, ero pur sempre un’umana che simulava di essere una guerriera contro una creatura sensibilmente più sviluppata.
Mi difesi da alcuni suoi fendenti che mi suggerirono di essere spacciata, dal momento che sentivo via via le forze abbandonarmi. Mi rimaneva solo una cosa da fare: giocare d’astuzia.
Dopo aver parato altri due colpi che altrimenti mi sarebbero stati fatali, mi accasciai a terra pregando di riuscire convincente nella performance più importante della mia vita.
Lasciai scivolare via a malincuore la mia arma d’ottone; i piani improvvisi sono i più pericolosi, ma possono rivelarsi i più riusciti se ben congeniati.
Il freddo del pavimento mi s’insediò sotto pelle unendosi al sudore della lotta e della paura. Il cuore batteva a mille, il cervello che invocava un unico finale.
“Oh bene”, disse Ben con la voce impastata benché potessi udire una gloria non troppo lontana nascondersi nel suo tono basso,-“ammetto che sei stata un osso duro, non me lo sarei aspettato.”
Ora, dovevo essere veloce.
“Addio, Emily Collins.” Aprii gli occhi di scatto, trovando il pugnale scendere verso il mio petto e così –più veloce della luce- colpii la sua mano con la gamba facendogli perdere la presa.
Infine, tutto accadde molto velocemente: il secondo d’impasse di Ben mi concesse di recuperare l’attizzatoio che, gridando per la frustrazione, gli affondai nel petto.
Vidi la sua bocca spalancarsi muta, gli occhi fuori dalla orbite piantati nei miei. Mi abbandonai di peso su di lui rafforzando la presa sul manico e lo inchiodai a terra, completamente paralizzato.
Quello che accadde una volta che mi fui rialzata lo ricordo con estrema difficoltà: fu come se, trapassando il petto di quel vampiro, una lama invisibile mi avesse giocato la stessa sorte. Un qualcosa dentro di me, capii senza nascondere l’angoscia, si era definitivamente rotto, spezzato.
Mi mossi come in un sogno, dapprima lentamente poi guadagnando sempre più velocità, indirizzandomi verso la porta d’ingresso come se ne valesse della mia vita, nonostante mi fossi guadagnata una grande possibilità di salvezza.
Non appena messo piede fuori la mia fuga venne immediatamente arrestata da un ostacolo: andai a sbattere contro il petto di qualcuno.
-“No! LASCIAMI!”, gridai con quanto più fiato mi fosse rimasto in corpo. Tentai di dimenarmi ma due braccia mi imprigionarono costringendomi ad aderire ancora di più contro quel corpo estraneo.
-“LASCIAMI! LASCIAMI ANDARE!”
-“EMILY!”
Bastò la sua voce per far crollare ogni mia difesa. Mi lasciai abbandonare tra le sue braccia, stringendo la sua camicia tra i pugni chiusi, e frugai dentro di me trovando l’ultimo briciolo di energia capace di farmi alzare la testa per incontrare lo sguardo preoccupato di William. E anche quello interdetto di Genevieve ed Henry alle sue spalle.
“Cosa è successo? Il tuo occhio…sei sconvolta.”
“C’è qualcuno dentro”, asserì Henry oltrepassandoci per entrare.
William sciolse l’abbraccio con delicatezza, non senza prima registrare il suo corpo irrigidirsi sotto le mie mani. Non appena vide un suo simile inchiodato a terra nel proprio soggiorno, uggiolante di dolore, il poco colore del suo volto venne lavato via da autentico e puro sgomento.
“Emily…”, scandì il mio nome lentamente,-“che cosa sta succedendo?”
“Mi sembra talmente chiaro, vecchio mio.” Henry gli mise una mano sulla spalla, ma Will si scostò. Genevieve nel frattempo si era inginocchiata accanto alla testa di Ben, studiandone il volto deformato dalla smorfia dello strazio.
“Guarda cosa abbiamo qui.”
Henry fece due passi in avanti e poi si chinò per raccogliere il pugnale.
Mi portai una mano ad accarezzarmi il collo sentendo il cuore fin troppo vicino alla gola. Era arrivato. Il momento che avrebbe scalfitto tutto quello che avevamo costruito da mesi, era arrivato. Strinsi le palpebre perché i contorni di tutto ciò che mi circondava erano diventati fin troppo vividi, come se presto sarebbero scoppiati.
“Credo che la tua amata non sia una donzella in pericolo come ci hai lasciato intendere. Anzi… guarda tu stesso.”
Henry parlava a William –che gli aveva strappato il pugnale di mano senza pensarci due volte- ma guardava me, con una tale intensità da farmi sentire spoglia dei miei stessi indumenti.
“Collins”, mormorò William,-“i Collins e…gli Stryder. I Cacciatori che hanno imprigionato mio padre, quelli a cui mia madre ha sempre dato... ma certo.”
E mentre ancora ricambiavo lo sguardo ostile di Henry, vidi con la coda dell’occhio Will voltarsi verso di me. Il suo sguardo bruciava sulla mia pelle, e avrei giocato carte false pur di rimandare il momento in cui avrei incrociato i suoi occhi. Perché, lo sapevo, sarebbe stato proprio quello sguardo a spezzarmi. Il leggervi anche il più piccolo cambiamento mi avrebbe distrutta definitivamente.
“Tu sei… mi hai tradito.”
In un attimo ci guardammo, e tutto mi parve così sbagliato.
Sbagliato il modo in cui sembrava non riconoscermi, ripugnarmi addirittura.
“William, lascia che io ti spieghi tutto quanto.”
“Il classico monito di chi non ha niente da esplicare, certo”, s’intromise Henry, che non perse occasione per mostrarmi la ritrosia che ha sempre provato nei miei confronti.
“Henry tu non devi intrometterti”, lo ammonì Genevieve ora abbandonando Ben alla sua sorte,-“non sono affari nostri. Ma William… devi guardare oltre ciò che vedi sulla superficie.”
“Vedo questo”, ruggì tra i denti, sollevando ciò che teneva in mano quasi fosse un qualcosa di putrido, -“e vedo lei, lei la ragazza che credo di amare che ha inchiodato a terra un mio stesso simile.”
“Ma non ho avuto scelta! Io non sapevo niente di tutto questo, devi credermi! William lasciami spieg…”
Feci per toccargli un braccio ma lui mi precluse il contatto scostandosi, ed io mi sentii già sconfitta in una guerra che era appena incominciata.
“Non fare così…”
“Ti sei avvicinata a me solo per arrivare a questo”, confermò unendo erroneamente i puntini di quello scenario,-“avrei dovuto capirlo. Eppure sembravi così sinceramente scossa quando hai scoperto chi ero davvero.”
“Non posso credere che tu stia dubitando di tutto quello che c’è stato tra di noi.”
“Non posso credere che tu mi abbia nascosto una parte fondamentale di te, dopo tutto quello che c’è stato tra di noi.”
Cercai di ignorare il profondo distacco misto a delusione nella sua voce e tentai nuovamente di riavvicinarmi benché fossi consapevole che se si fosse discostato ancora, allora non avrei più trovato il coraggio per farlo.
Ma proprio mentre la mia mano stava viaggiando verso la sua, un grido squarciò quella cortina di disagio, facendoci sobbalzare uno per uno.
Straordinariamente Ben si era seduto a terra con ancora l’attizzatoio che gli trapassava lo stomaco. Boccheggiò un qualcosa di incomprensibile e poi, come se lottasse contro delle mani invisibili che gli bloccavano il capo, ruotò la testa quel tanto che bastava per stabilire un contatto visivo con Henry Devonne.
Di nuovo, boccheggiò qualcosa al limite delle forze.
“Sta cercando di dirti qualcosa, Henry”, intuì Genevieve, ora chinandosi di fronte a Ben, che strabuzzò ancora di più gli occhi nel vederla. Mi domandai se non gli ricordasse spaventosamente la sua adorata Padrona.
-“He…n”, esalò inaspettatamente quest’ultimo. E nell’istante successivo il vampiro dalla chioma di fuoco si avventò su di lui, abbracciando la sua testa nella morsa fatale delle sue braccia; due movimenti e gliela staccò, sotto le mie urla incredule.
Diedi immediatamente le spalle a quella scena ripugnante e tra le imprecazioni di Genevieve e William riuscii comunque a cogliere altri strappi innaturali e il fuoco che si ravvivava accogliendo gli arti del vampiro. “Perché lo hai fatto?”
“Stava delirando”, spiegò Henry con la voce affannata,-“ho messo fine alle sue pene. O forse qualcuno in questa stanza avrebbe preferito vederlo agognare come una bestia?”
Non ci volle chissà quale sforzo per capire che si stava riferendo a me, ancora voltata di spalle e con le mani intorno alla bocca. Con un altro sforzo mi girai verso di lui, non riuscendo a non gettare un’occhiata alla pozza di sangue ai suoi piedi, alle sue mani e alla massa già annerita dal fuoco nel camino. Il mio stomaco protestò e mi sentii sbiancare.
Una cacciatrice di vampiri che non riesce a sopportare la vista di un vampiro squartato e messo al rogo, ci credete?
“Ho già detto che non è come può sembrare. Non sapevo di essere chi sono davvero prima di poche ore fa. Mia nonna mi ha informato tramite una lettera data dalla mia assistente sociale. Quel pugnale mi è stato recapitato sempre da mia nonna dopo averlo nascosto chissà dove per evitare che tua madre lo trovasse. L’ha torturata. Tua madre ha torturato mia nonna per arrivare a prendere quello che tu tieni nelle mani, William. E per averlo lei ha messo sulle mie tracce quei vampiri che mi hanno braccata per Londra, convinta che il pugnale fosse con me. E sai un’altra cosa?”
“Basta così”, m’interruppe lapidario, gettando il pugnale ai miei piedi,-“non voglio ascoltare oltre.”
No, non proprio ora che gli stavo per rivelare che era stata proprio sua madre a privarmi della mia e di mio padre, che gli aveva teso un’imboscata e che mi aveva rovinato la vita.
“E invece penso che dovresti ascoltare.” Non ero stata io a rivolgermi a lui con quel tono duro e anche un po’ arrogante, bensì Genevieve.
“Sorella…”
“Tu hai questa idea perfetta di mamma scolpita nella mente”, lo accusò lei, accalorandosi,-“eppure ora che ci vivi al fianco avresti dovuto accorgerti di chi è veramente. Pensi davvero, alla luce di tutti questi fatti, che l’arrivo di Emily al collegio sia stato casuale? O che forse l’ha orchestrato a dovere per evitare che le luci dei riflettori degli altri cacciatori non la raggiungessero nel suo regno?”
“Lei mi disse che aveva lasciato stare questa storia.”
Genevieve grugnì qualcosa portandosi il dito indice e il pollice a strizzarsi il dorso del naso, combattuta, evidentemente, se scuotere il fratello per farlo ragionare o recuperare un po’ di lucidità per rispondergli in modo civile.
Scelte la seconda opzione, per fortuna.
“Tu non puoi credere ad ogni cosa che dice! Lei mente, lei ha un piano ben disegnato in testa e non si fermerà fin quando non diventerà realtà. Se davvero ami Emily, devi fare una scelta.”
Dopo le parole di Genevieve sembrò che la temperatura nella stanza avesse subito un drastico calo.
Io, lei e suo fratello eravamo immobili, quasi avessimo paura ad emettere un solo suono. Le parole, imparai quella sera, possono essere armi.
“William, sono preoccupata. Nostra madre va fermata, e arrivati a questo punto non puoi più far finta che non sia vero.” La sua voce si addolcì percettibilmente, così come il suo sguardo quasi implorante.
“Adesso è diventata nostra madre? Ti sei preoccupata di rinnegarla per tutto questo tempo e adesso ti permetti…”
Bastarono quelle poche parole per riaccendere la fiamma che aveva avvolto Genevieve pochi istanti prima, così come bastarono due passi per fronteggiare William. Per la prima volta mi resi conto che esisteva un loro inferno personale, e che da quel giorno sarebbe diventato anche il mio.
“Nostra madre è solo un mio problema, tu stanne fuori, sorella.”
Poi si voltò a guardarmi e il suo sguardo mi fece serrare la mascella, zittendo persino le mie voci interiori.
Uscì dalla stanza seguito dai nostri sguardi smarriti; allora raccattai il pugnale da terra e mi ritirai nella stanza che mi era stata concessa.

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Capitolo 20
*** Ventesimo Capitolo ***


Ventesimo Capitolo








Una volta che cadi risalire diventa difficile, a meno che non ci sia una mano pronta a sostenerti…e a meno che, una volta afferrata quella mano, non diventi proprio questa la mossa capace di farti ricadere sempre più a fondo.
William mi aveva privato del suo appoggio, mandandomi a tappeto per l’ennesima volta, eppure, adesso, sentivo dentro di me un fuoco accendersi, pronto a divampare.
Avevo raccattato tutte le mie cose e messe nella borsa, quando due colpi alla porta mi fecero stringere lo stomaco.
“Avanti.” Incredibile come quell’unica parola raccogliesse una grande speranza, tanto da farmi vergognare per l’immensa delusione che provai non appena Genevieve entrò, socchiudendo la porta alle proprie spalle.
Il suo sguardo cadde immediatamente sulle mie mani impegnate a congiungere i ganci del borsa, e non ci mise tanto a capire che stavo per andarmene. Dove, ci avrei pensato dopo.
“Tu non hai mai mentito a mio fratello”, esordì, rimanendo ad una distanza di cortesia.
“Già”, mormorai,-“non avrei mai potuto farlo. Non sapevo di essere una sua nemica giurata, come avrei potuto fingere così bene? Lui ci era riuscito con me, prima di rivelarmi che fosse un vampiro…”
“Vedi, Emily, non sono venuta qui per difendere mio fratello. Mi dispiace per lo scontro che avete avuto prima, ma William è un individuo estremamente fragile.”
“Fragile”, le feci eco, lasciandomi cadere sul letto che scricchiolò sotto il mio peso.
“Perché fragile è colui che non conosce la verità”, appuntò con impeto, azzerando la poca distanza che vi era tra noi.
“Posso sedermi, Emily? Non penso che ti ruberò molto tempo.”
Assentii con un gesto del capo, scostando il borsone per farle posto.
Non mi ero nemmeno accorta che si era cambiata: adesso indossava una tuta blu, e aveva i capelli umidi che le ricadevano in tante piccole onde fino a metà busto; anche così la sorella di William suggeriva di provenire da un’epoca lontana.
“Mio fratello non conosce del tutto nostra madre, non l’ha mai conosciuta e di questo posso esserne certa. Lui è stato solo vagamente cosciente di ciò che è accaduto prima e dopo la prigionia di mio padre. Io e lui abbiamo scontato il prezzo dell’amore dei nostri genitori.”
“William mi ha raccontato di come Jennifer e Demetrio si siano conosciuti, mi detto della Prima Caccia e…”
“William conosce solo la versione censurata e infiocchettata di quella storia, Emily.” La voce di Genevieve si sovrappose alla mia. La fastidiosissima sensazione di confusione –di non aver il controllo della situazione- tornò ad intensificarsi, ed io mi sentii irrigidire come se il mio corpo si preparasse a sortire un nuovo colpo duro.
“Ti ascolto”, incitai Genevieve a continuare.
“E’ una storia così lunga che non saprei nemmeno dove iniziare, ma cercherò di fartela breve. Mio padre, Demetrio, faceva parte di uno dei clan più potenti della Francia. Ma non possedeva l’inclinazione di chi si fa trascinare, bensì mio padre era nato per capeggiare. Unire questo, al rigido regime del clan non fecero che renderlo insofferente e ribelle. Demetrio si giustificava dietro al suo carisma, al suo essere un abile predatore per trasgredire le regole e andare contro alla sua fratellanza. Questi, un giorno, si accorsero che le sue gesta stavano per portarli ad essere scoperti. Dei cacciatori di vampiri erano da poco giunti nel villaggio, e ogni minimo sospetto sarebbe bastato per stanarli; quello che i componenti della fratellanza non sapevano era che proprio colui che avevano accolto tra di loro, mostrando indulgenza verso i suoi comportamenti, stava cercando di tradirli in ogni modo possibile e inimmaginabile.”
Aggrottai le sopracciglia e prima che potessi fiatare Genevieve alzò la mano per suggerirmi di aspettare. Dunque proseguì:
“Nella mente di mio padre nacque un piano che solo un fanatico potrebbe pianificare in modo tanto minuzioso: sterminare il suo clan e qualsiasi altro vampiro che lo avrebbe ostacolato nella sua personale missione di creare una razza superiore. Ancora superiore alla nostra. Nuovi vampiri dotati di grandi capacità, e per ciò intendo creature soprannaturali capaci di piegare la natura, gli elementi…in poche parole, possessori di inaudibile potenza.”
Tremai. Alla sola concretizzazione di quel disegno, io tremai. Le intuizioni mie e di Nicole non erano poi così lontane dalla realtà, in qualche modo Demetrio era riuscito nel suo intento proprio con Jennifer. D’un tratto mi venne in mente la sera in cui assistetti alla magia che aveva esercitato su suo figlio, marchiandogli la fronte con il suo sangue mentre la sua bocca enunciava quello che era, a tutti gli effetti, un incantesimo.
“Voi siete già dotati di grandi capacità”, mormorai fissando Genevieve, la voce un tremito debolissimo,-“grazie alla magia diverreste…”
“Inarrestabili”, suggerì lei.
“I padroni del mondo”, conclusi io, come se guardandola nei suoi occhi di ghiaccio fossi caduta in trance.
“Demetrio per conseguire il suo obiettivo doveva incontrare uno stregone e così, cercando tra le ombre di quel villaggio e scavando tra i segreti che riusciva a cogliere negli occhi delle persone, i suoi passi lo guidarono da mia madre. Mia madre era praticante di magia, ereditata direttamente da mia nonna. Bastarono pochi anni e lei fu posta di fronte ad una scelta: o Demetrio e quindi il mondo delle tenebre, o continuare a vivere nella paura che un cacciatore potesse arrivare anche alla sua famiglia. Praticamente Jennifer non ebbe scelta poiché mio nonno, l’unico genitore che le era rimasto, la cacciò di casa come se, così facendo, si fosse liberato di un terribile fardello che si trascinava da anni.
Si rifugiarono presso la casa di un’indovina, un rifugio lontano dalla vita del villaggio, nascosto tra le rovine e i boschi quasi come se quella casa, assieme a loro, avesse avuto la necessità di isolarsi dal resto del mondo.”
-“L’indovina predisse due Caccie, l’ultima vede lo sterminio della tua famiglia”, dissi, assicurandomi che, almeno quella parte della storia, coincidesse con quello che avevo ascoltato in quella notte lontana.
-“E’ così”, confermò Genevieve,-“l’indovina non cercò mai di uccidere mia madre come immagino William ti abbia raccontato. Tutt’altro, fu una fidata sostenitrice del piano di mio padre. L’unica cosa vera è che lei ha aiutato me e mio fratello a venire al mondo, ma non per mezzo della magia. Lei era solo una veggente. Come già ti ho detto, prima della nostra nascita e della conseguente trasformazione di Jennifer, gli unici vampiri dotati di poteri eravamo io e Will.”
“Però la prima Caccia è come mi è stata descritta, vero? Tu e William siete stati costretti a fuggire, l’indovina e tuo padre, invece, sono stati catturati…”
“E mia madre ha cercato in tutti i modi di riuscire a liberarli. Seguì i cacciatori fino alle cripte in cui vennero imprigionati; mi raccontò che il verde della pianura in cui erano stati trasportati i prigionieri era scomparso poiché ogni centimetro di terra era occupato da questi enormi carri che trasportavano gabbie. Jennifer venne toccata e strattonata da braccia che reclamavano la sua attenzione, come se fosse l’ultima speranza di ognuno di loro. Riuscì a raggiungere papà. E in quel poco scambio di battute che gli fu concesso, lui riuscì a strappare a lei la promessa di conseguire da sola l’obiettivo che si erano prefissati, e di tornare da lui, un giorno, per salvarlo.”
“Poi vostra madre tornò da voi in pessime condizioni, dando la colpa di tutto a te e William per via della vostra scappatella in quel villaggio. Avevate lasciato delle tracce che hanno condotto i cacciatori anche nel vostro rifugio.”
-“Ricordo l’asprezza delle sue parole come se me le avesse vomitate addosso un giorno fa”, le tremò la voce, alzandosi,-“tutta quella storia di creare una razza superiore le stava facendo offuscare la ragione, ma quando quella volta tornò da noi ebbi la conferma che l’avevamo persa per sempre. Come se fosse stata catturata anche lei, se non peggio. Oh, ora ti dirò delle cose, Emily, che William nemmeno immagina.”
Tirai le ginocchia verso il petto e Genevieve dovette leggere la gratitudine nei miei occhi per avermi concesso almeno la verità.
“Sparì per un anno, ci lasciò al nostro destino. Quando un giorno tornò da me, solo da me. I miei poteri sono maggiori rispetto a quelli di mio fratello, si manifestano per mezzo del mio corpo; a differenza di William che è più predisposto per i poteri mentali. Ad ogni modo, mia madre mi raggiunse e mi portò di fronte alle cripte. C’era un ammasso di roccia che ostruiva l’entrata e mia madre aveva ben pensato di spostarla con la mia e la sua magia. Io in un primo momento mi rifiutai per il gusto di farla soffrire, impazzire, proprio come lei aveva fatto con me abbandonandomi. Volevo farle provare sulla pelle lo stesso dolore che aveva impartito con la sua assenza, ma in men che non si dica tirò fuori una frusta e cominciò a colpirmi, ordinandomi di riportare indietro mio padre. Ogni frustata era un pezzo di me che se ne andava, ma era anche vero che più ricevevo quelle sferzate e più i miei poteri sembravano aumentare. Ci provammo per un mese, tra colpi, schiaffi, calci e frustate e la roccia come a prendermi in giro si crepò soltanto senza muoversi di un solo inutilissimo millimetro.”
Se Genevieve non si fosse fermata non mi sarei mai accorta di star piangendo, tutto in lei gridava dolore.
“Non dissi niente a William per non turbarlo e per non rovinare la gioia che provò nel rivederla. William è sempre stato più sensibile e comprensivo di me, il fatto di esser stati abbandonati lo fece soffrire, sì, ma pensò che se ciò era sufficiente a far riprendere nostra madre, allora andava bene. Naturalmente fu peggio. Però, come ti ho detto, Emily, non potevo rompere l’incanto del loro ritrovarsi e mio fratello aveva bisogno di lei, in quel momento della sua vita. Ti ha mai parlato di Adelaide?”
Nel solo udire quel nome ebbi un fremito, un piccolissimo e stupido spasmo di gelosia.
“Mi ha accennato qualcosa”, mugugnai facendo cadere le gambe oltre il materasso, incapace di sostenere le parole che seguirono,-“mi ha solo detto di averla amata in modo disperato e totale, proprio come si amano le cose andate perdute.”
La vampira abbozzò un triste sorriso, poi si guardò intorno come per cercare le giuste parole per rispondermi. Poteva anche rimanere zitta, io aveva appena capito quello che non avevo voluto ammettere tempo fa ma che, comunque, Genevieve mi confermò:
“La uccise per sbaglio, una notte. Si era innamorato di questa umana così innocente e pura, talmente accecante l’ascendente che aveva su di lui da avergli fatto dimenticare chi era davvero. Quello che William non sapeva era che, per quanto possiamo essere divisi in due –con una metà umana e una soprannaturale- non possiamo esistere senza una o senza l’altra. Noi siamo questo, divisi in due, e non possediamo il lusso di poter schierarci da una parte sola. Così, una notte, dopo essersi cibato per tanto tempo solo di sangue animale…perse il controllo e arrivò ad uccidere Adelaide. Lei morì tra le sue braccia, e nonostante il delirio e lo shock mio fratello non dimenticò mai lo sguardo terrorizzato di lei. Non so nemmeno cosa significa poter essere guardati in quel modo, né se riuscissi a vivere sapendo che l’ultimo sguardo a me rivolto dalla persona che amavo significasse terrore e rinnego.”
Annegai nel mio sconforto. Non me l’aveva detto. Mi aveva taciuto questo perché non solo era il suo doloroso passato ma anche il suo incubo più grande: quello di poter perdere me nello stesso modo. A causa della sua natura, proprio come stava accadendo.
“Sei la sua seconda possibilità di fare meglio.” Genevieve si accucciò di fronte a me, indagando tra le mie lacrime, -“dopo quel giorno giurò a se stesso che non avrebbe mai più ceduto al suo desiderio di nutrirsi di sangue umano. Questo fin quando non incontrò te. Mi ha raccontato di quella notte, quella in cui lo hai seguito e lo hai trovato con le mani sporche di sangue di una giovane donna.”
“E’ stata colpa mia…”
“No. Non è colpa di nessuno. Amandolo, dopo quello che hai visto, hai accettato la parte mostruosa di lui. Amandolo, lui si è amato. Grazie a te William ha imparato ad accettare di nuovo il suo essere vampiro. Vedi, per nutrirsi non bisogna necessariamente uccidere. Mio fratello non voleva nemmeno accettare questa alternativa, e a lungo andare sarebbe morto. Abbiamo bisogno di sangue, sangue nutriente per vivere.”
“Siete immortali.” Dissi stupidamente, intontita.
“Esiste anche il concetto di immortalità a tempo indeterminato. Non perdere mai di vista il fatto che siamo per metà umani.”
“William non mi ha mai parlato di questo!”, avevo alzato la voce, scattando in piedi,-“né della fine di Adelaide, che a quanto pare il suo fantasma è sempre stato in mezzo a noi.”
“Non puoi incolparlo di questo, Emily, non è corretto. Lui non è in grado di parlare ad alta voce dei suoi demoni, soprattutto a te, che avresti potuto benissimo diventare uno di loro.”
“Lo sono diventata comunque, un suo demone”, asserii spostandomi senza un chiaro motivo verso un angolo della stanza, accanto all’armadio. Genevieve mi seguì con gli occhi, con lo sguardo di chi guarda la disfatta di un caso umano.
“Mi dispiace”, disse, facendo per dirigersi verso la porta.
“Genevieve? William mi perdonerà? Io l’ho già fatto per quello che è successo prima.”
Indugiò per un attimo con la mano sopra il pomello, per poi voltarsi nella mia direzione e rispondermi:
“Sai, esistono due tipi di persone: chi sottovaluta l’amore e chi lo sopravvaluta. Dal canto mio, ho visto uomini e donne compiere grandi gesta in nome di questo sentimento. Te lo dico per esperienza, però, Emily…”, abbassò lo sguardo come se non volesse farmi cogliere l’emozione che la stava visibilmente attraversando,-“a volte l’amore non basta. Per certi versi, non basta mai.”
E uscì dalla stanza, lasciandomi in quell’angolo con domande e risposte che cozzavano e rimbombavano nella mia testa sopraffatta.
Nel silenzio che ne seguì solo una certezza si dissipò in quella cortina confusa: il fatto che il dolore più grande non l’avrei provato nell’ammettere che eravamo giunti ad una fine, ma dopo, quando le nostre strade avrebbero intrapreso percorsi speculari destinate ad incrociarsi solo per distruggersi. Il dimenticarlo non poteva essere contemplato perché in un modo o nell’altro William mi avrebbe raggiunto.
Afferrai la borsa e nascosi il pugnale sotto la maglietta, incastrandolo nella cintura dei jeans.
Sapevo dove andare.



Ero sgattaiolata via dalla casa senza farmi vedere da nessuno, o almeno così speravo che fosse andata. Ritrovare il giusto sentiero per allontanarmi da quella foresta tenebrosa si rivelò molto più complicato di quanto auspicassi ma, non appena il terreno fangoso e sporco lasciò il passo al cemento della città, tirai un piccolo sospiro di sollievo. Londra era avvolta da una nebbiolina grigia e siccome riprese a piovere trovai un riparo presso un fast food piuttosto affollato. Lungo la strada avevo frugato in me alla ricerca di un po’ di stoicismo per affrontare quella che sarebbe stata, in un modo o nell’altro, l’ultima telefonata con Nicole. Ultima perché avevo deciso di affrontare Jennifer Delacour, quella notte. In un primo momento avevo pensato di seguire le direttive che mia nonna voleva seguissi –e quindi raggiungerla in Francia, cercando la dimora degli Stryder nell’indirizzo che mi aveva appuntato nelle note finali- invece, struggendomi nella consapevolezza che avevo perso il mio porto sicuro, cambiai idea alimentando il rancore e la vendetta che provavo nei confronti di Jennifer. Aveva ucciso i miei genitori e ora voleva anche me. Mi aveva dato la caccia per così a lungo e aveva organizzato tutto con talmente tanta precisione e pazienza che, era inutile negarlo, non mi avrebbe mai lasciata stare. Quindi, non mi restava altro che abbracciare il mio nuovo destino e affrontare lei una volta per tutte. William non mi avrebbe mai perdonata… ma l’avevo già perso, dovetti ricordarmi. Quindi, tanto valeva recidere il filo dell’indulgenza e della pietà che m’illudevo ci tenesse ancora legati, l’ultimo.
“Buonasera, cosa desidera?” La voce della signorina alla cassa mi fece trasalire, strappandomi dalle scuse che stavo propinando a me stessa per giustificare quella voglia di vendetta che mai avevo sperimentato.
Ordinai un hamburger, una vaschetta di patatine e della coca-cola, poi presi posto al tavolo più isolato del locale.
Voci e risate di bambini mi raggiunsero, contenti delle sorprese scovate nel raccoglitore del cibo, i genitori che gli intimavano di abbassare il tono nonostante in quel locale ci fosse un trambusto tale che le loro vocine erano solo un rumore appena distinto. Quell’immagine mi fece tornare in mente uno dei primi discorsi che avevo avuto con William, ossia quello della mia realtà sospesa. Gli avevo confessato che il pensiero di poter un giorno abbandonare il collegio e dedicarmi in tutto e per tutto alla realizzazione della mia vita era la forza che mi sosteneva nell’affrontare la reclusione del collegio stesso. Ora mi sembrava una totale presa in giro, quel maledetto istituto poteva trasformarsi nella mia tomba se non fossi riuscita a trafiggere la Delacour per prima.
Di colpo mi passò la fame e incartai la metà di hamburger che avevo addentato, scostandolo con le ultime tre patatine rimaste… poi, il cellulare squillò.
“Senti, il discorso di prima non sta né in cielo e né in terra.” Non avevo nemmeno fatto in tempo a rispondere che la voce di Nicole m’invase l’orecchio, con lo stesso tono disperato con cui l’avevo lasciata poco prima.
“Nic…”
Nic un corno! Capisco che tu possa essere assolutamente sconvolta per via di tutto quello che mi hai confessato ma ti prego, scappa in Francia da quella famiglia di cacciatori come ti ha suggerito tua nonna. Sì, perché qui, adesso, si tratta di scappare.”
“Scappare per cosa? Lei mi troverà. Anzi, probabilmente mi acciufferebbe prima ancora che io possa imbarcarmi.”
“Oh, certo che ti troverà”, mi rispose tutta trafelata, talmente tante le cose che aveva da dirmi,-“ma quando lo farà ci sarà tua nonna e quella famiglia a proteggerti! Andare incontro alla Delacour è come continuare a guidare in una strada che ha come termine un burrone ed esserne consapevoli. Tu stai per cadere per sempre, e lo sai.”
“Sottovaluti la mia arma. Se solo la vedessi capiresti che cosa è in grado di fare.”
“Ma se non lo sai nemmeno tu.” Il tono della mia amica divenne improvvisamente fiacco, me la immaginai sprofondare nel divano di casa sua con la testa reclinata all’indietro e gli occhi chiusi, strizzati per l’esasperazione. Dal canto mio, anche io ero piuttosto scocciata e, appoggiando le spalle contro le grate di legno della parete, sfiorai con le dita la sagoma del pugnale sotto la maglietta. E subito m’invase una sensazione di potere.
“Devi avere fiducia in me”, la implorai dopo due secondi contati di silenzio. Le persone intorno a me cominciavano a raccattare i loro cappotti e ad andarsene.
“William non permetterà che avvenga lo scontro. Non vorrebbe mai che la ragazza che ama e sua madre si ammazzassero tra di loro.”
“Non mi ha ancora trattenuta.” Sapevo di non essere del tutto limpida per il semplice fatto che, con buone probabilità, William non sapeva che ero andata via. Forse nemmeno Genevieve immaginava che me ne fossi già andata benché avesse colto la celerità con cui stavo preparando la borsa.
“Ma lo farà. E se non lo farà lui…”
“Non ti azzardare!”
Non le lasciai il tempo necessario per completare quella stupida frase.
-“Non ti azzardare a venire, Nicole! Stanne fuori.” Non dissi quelle parole con la stessa determinazione con cui l’avevo pronunciate nella mia mente quasi in simultanea, e per un attimo non potetti non pensare che, forse, una parte di me che non l’avrebbe mai ammesso voleva che qualcuno mi fermasse. Che mi prendesse e scuotesse via tutti quei sentimenti deleteri da cui mi ero lasciata ricoprire affinché agissero da spinta per fare quel che avevo in mente. Magari mi ero davvero illusa che fronteggiare la Delacour fosse l’unica soluzione per districarmi da quella rete di menzogne e sangue, illusa che forse l’amore che William provava per me era niente in confronto a quella situazione, e per tanto qualsiasi scelta mi avrebbe comunque divisa da lui.
“Emily, ascoltami.”
Per poco non ci rimasi secca. La voce di Nicole era stata sostituita da quella di…
“Jamie?”, alzai la voce e scattai sul posto, tanto che alcune teste si voltarono verso di me,-“si può sapere cosa…dove…?”
“Nicole è qui in ospedale da me. Naturalmente di nascosto, e la mia vicina di letto è stata tanto gentile e tanto buona da non chiamare gli infermieri.”
“Già, anche io dopo quaranta sterline me ne starei zitta e muta”, percepii Nicole borbottare in lontananza.
“Come stai, Jamie?”
Sospirò.
“Non cercare di cambiare argomento. Io sto bene, in questi giorni mi hanno fatto le flebo di vitamine, la febbre è scesa e la tosse c’è ma è meno cattiva di prima. Ora, voglio che tu stia al sicuro. E non lo sarai qui a Londra dominata da chissà quali pensieri negativi. Non si dovrebbe mai ragionare con certi sentimenti in corpo. Mi dispiace così tanto, Emily.”
Non riuscii a ribattere. Ero appena uscita fuori dal locale e mi sostenevo con la spalla contro un palo della luce. Anche se le mie labbra tremavano anticipando un’ennesima crisi di pianto, trovai la forza di dire:
“Dispiace anche a me.”
E gettai il cellulare in strada.

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Capitolo 21
*** Ventunesimo Capitolo ***


Angolino Autrice: Buonasera ragazzi! Indovinate un po', tra una cosa e l'altra siam arrivati al PENULTIMO capitolo di questa avventura.
Già. La prossima settimana posterò l'ultimo capitolo e, la settimana dopo ancora, vi sarà L'EPILOGO. Detto ciò, per quanto riguarda il capitolo che leggerete oggi, posso solo dirvi una cosa: preparate i fazzoletti.
Un abbraccio!






Ventesimo Capitolo







Non so quanto tempo impiegai per arrivare nei pressi del collegio, ma so che sarebbe stato almeno il doppio se non avessi rubato la bicicletta gialla canarino che mi era saltata alla vista; questo, naturalmente, dopo essermi accertata che il suo sfortunato possessore stesse impegnato a sbraitare in una cabina telefonica lì vicino.
Così lasciai cadere il mezzo proprio davanti all’enorme portale arrugginito, spalancato come se fosse stato lasciato apposta così per accogliermi.
M’incamminai nel viale di sassi mirando l’imponente istituto che si stagliava nella notte e nel suo irreale silenzio. Un silenzio tale che mi rese più irrequieta di quanto non fossi già; più volte dovetti asciugarmi i palmi delle mani sudati contro i jeans e studiare una presa efficace e sicura attorno al pugnale. Più mi avvinavo e più avevo la netta sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato nel panorama che stavo osservando crescere.
Infatti, due dettagli mi furono improvvisamente chiari: il primo era che ogni singola finestra della facciata era debolmente illuminata, mi diede l’impressione di una luce che faceva fatica a nascere. Il secondo dettaglio era l’enorme sagoma al centro esatto del cortile.
E fu allora che l’irrequietezza cedette il posto al sentimento della paura che era latente in me oramai da giorni. Però scoprii, proprio quella sera, che la paura possedeva infinite sfumature. E che quella che mi stava attanagliando in quel momento non era nemmeno lontanamente paragonabile a quella che provai di fronte a mia nonna, quando mi comunicò della morte dei miei genitori, alla paura di un futuro senza di loro, o alla paura sperimentata all’interno del collegio. No, questa era la paura primordiale della sopravvivenza. Quella che ti spinge a nuotare verso l’altro quando affondi, la stessa tragica paura di cui avevo avuto l’assaggio in chiesa durante quel terremoto improvviso, capace di farti riflettere su tutta la tua vita nell’arco di due secondi e pensare che non sarà tanto la croce ad ucciderti quanto il pensiero della vita che ti attendeva, la stessa che ti stava per lasciare.
Ero arrivata nel cerchio del cortile e ora la sagoma aveva assunto le sembianze di una persona che avevo già disgraziatamente incontrato.
L’impressione che provai fu che quello –l’ultimo vampiro della piccola cricca della Delacour, Tom- fosse l’ultimo ostacolo prima dello scontro finale.
“Ti stavamo aspettando.” Il tono di voce di Tom non poteva essere più gioviale di così. Allargò le braccia e inspirò forte l’aria chiudendo gli occhi. Quando li riaprì, erano rossi e, quando parlò, i suoi canini divennero zanne lunghe e affilate
“Quello è il famoso pugnale”, commentò, non ricercando una vera e propria conferma da me. Cominciò a girarmi in tondo mantenendo una curiosa distanza. Poi, pensai, che anche se si fosse allontanato e io avrei provato a fuggire mi avrebbe comunque recuperata.
“Eravate così sicuri che sarei venuta? Quasi mi compiaccio nel sapere che l’idea che io avessi abbandonato Londra non vi abbia sfiorato.”
Tom sogghignò scuotendo il capo, una pioggerella di ricci selvaggi gli velarono per un attimo gli occhi infuocati che fissavano me. Il suo sguardo bruciava.
“Non è proprio così, giovane cacciatrice. Tutt’altro. Abbiamo il nostro informatore, sapevamo saresti giunta qui oggi.”
“Informatore?”, domandai, sentendomi attraversare da un lungo brivido.
“Ora non conta”, tagliò corto Tom. Poi lanciò un’occhiata alle sue spalle, verso le finestre del quarto piano. Seguii il suo sguardo per un istante e subito tornai a mirare lui e dunque a puntargli l’arma contro. Si voltò, fissò il pugnale e scosse di nuovo il capo.
“La Padrona ti sta aspettando. Sarà davvero sorpresa quando io ti porterò a lei, sanguinante, pesta. Cacciatrice sottomessa al nostro potere, noi, una razza che sterminate ma che vi è superiore.”
“Vuoi ridurmi così perché cerchi il suo consenso, vero?”, parlai per prendere tempo.
“E’ così.”
“Ti ucciderà, comunque. Come ha fatto con Kendrick.”
“E tu cosa ne vuoi sapere?”
Fece uno scatto verso di me.
Ne azzardai uno indietro.
Non potetti nemmeno tentare di abbozzare una risposta che Tom mi si avventò contro. Fu talmente rapido che non capii subito di avere il braccio bloccato dalla sua possente mano e, quando lo capii, fu troppo tardi.
Tom mi mollò un manrovescio tale da farmi franare al suolo a diversi metri lontana da lui. Ostinatamente, il mio pugno stringeva ancora il pugnale.
“Ben non è stato abbastanza bravo. Conficcargli un attizzatoio nel torace per paralizzarlo. Astuta.”
“Ma come fai a saperlo? Chi è l’informatore?”
In risposta arrivò un calcio che mi fece nuovamente atterrare, risvegliando il dolore impartito dal suo precessore. Poi, le sue mani mi agguantarono e come fossi un burattino malandato cercò di mettermi in piedi davanti a lui, ma anziché focalizzare il suo volto io vedevo una foschia nera.
“Dammi soddisfazione. Combatti, non rendermi le cose troppo facili.”
Trovai appena la forza per sputargli in faccia e poi crollai in ginocchio, reggendomi la testa con la mano libera.
Una valanga di imprecazioni irripetibili mi ricoprirono e, afferrata per i capelli, ebbi il tempo di vedere i canini estrusi e affilati come lame balenare nel buio. Dopodiché, questi affondarono spietatamente nel mio collo.
Urlai sgranando gli occhi e dimenandomi come in preda ad una terribile convulsione. Ciò che provai –il dolore che mi attraversò- non era paragonabile a nessuna altra sofferenza fisica da me provata. Quando Tom si staccò bruscamente dal mio collo temetti di poter trovare i resti della mia pelle sulla sua bocca; invece le sue labbra erano tinte del rosso scuro del mio sangue.
Tentò di azzannarmi il braccio in modo da strapparmi di mano il pugnale ma io, accanita, gli colpii l’occhio con il manico. Tom arretrò, ma come una persona può arretrare per una folata di vento più fastidiosa del normale. Allora rigirai l’arma tra la mano, sforzando di mettere a fuoco il nemico; stavo combattendo due battaglie: la prima contro me stessa affinché non svenissi, la seconda contro quel dannato vampiro.
Feci per conficcargli il pugnale nel petto ma, prima che la punta della lama entrasse in contatto con lui, dei marchi sul corpo di Tom – che non avevo colto fino ad allora- s’illuminarono sprigionando una forza invisibile che mi fece balzare, lontana da lui.
I miei piedi abbandonarono violentemente il terreno sassoso e volai in aria lasciando andare il pugnale, tanto fu sconcertante ciò che mi stava accadendo. Sbattei contro il tronco di un albero, dunque atterrai ai piedi di questo, in un groviglio di foglie e cespugli.
Ma cosa è stato?
Fitte di dolore s’irradiarono per tutto il corpo; specialmente lungo il braccio su cui ero precipitata, la mia testa, invece, mi offriva immagini confuse della realtà che mi circondava. Mordendomi le labbra quasi fino a farle sanguinare trovai la forza per rotolare su me stessa e quindi tentai stoicamente di tirarmi su, senza distogliere gli occhi dal vampiro.
Se vi dicessi quanta distanza vi era stata creata tra noi dopo quell’impatto, non mi credereste mai: da dove mi trovavo Tom era di nuovo una sagoma. Una sagoma incandescente, però.
Ogni parte visibile della sua epidermide era marchiata da disparati simboli che la Delacour doveva avergli concesso. Era chiaro che i poteri che Jennifer possedeva potevano essere trasmessi sugli altri attraverso quei marchi tracciati con il proprio sangue, accompagnati da chissà quale incredibile incantesimo. E ora, pensai amaramente, a quanto pareva esisteva un marchio capace di rendere invulnerabili i vampiri dall’unica arma capace di incenerirli all’istante.
“Dovresti vedere cosa sta creando tua madre, William…”, sussurrai al vento, mentre, ancora avvolta su me stessa, tentavo di procedere in avanti. Tom era rimasto dov’era; aveva solo allargato di nuovo le braccia, come a suggerirmi che nient’altro potevo fare se non accettare il suo invito a farmi pestare per poi lasciarmi trascinare fino a lei… o, almeno, questo fin quando non vidi, oltre le sue spalle, materializzarsi un’ombra indefinita correre rapidamente verso di lui.
Un’ennesima scarica di adrenalina m’invase facendomi piegare le ginocchia, offuscando, però, i dolori che m’invadevano. L’ombra agguantò Tom per il collo brandendo in aria un oggetto a tre punte che non identificai ma che vidi sbattere ripetutamente addosso alla gola del vampiro. Quest’ultimo piroettò su stesso con l’individuo ancora ben saldo sulle spalle; gridò, Tom –non seppi se per la sofferenza impartita da quei colpi o per l’insofferenza di quel colpo di scena- ed io pensai che l’essere che lo stava sfidando era riuscito a colpirlo giusto perché, dalla sua parte, aveva avuto il vantaggio della sorpresa. Infatti, il vampiro riuscì a scagliarlo a terra proprio come aveva fatto con me… fu a quel punto che gridai con quanto più fiato possedessi in corpo. Quell’urlo mi prosciugò coraggio e mi ficcò una disperazione nera che improvvisamente mi fece vedere tutto più nitido, questo perché l’ombra non era nient’altri che Nicole Lamberg.
“Nicole! Nicole!”
Lottando contro i miei arti tremanti e indolenziti partii di corsa per raggiungere la mia amica accasciata a terra.
Prima ancora di affiancarla, Nic si era rialzata ripescando da terra una specie di paletto a forma di croce, le tre punte sapientemente limate per essere conficcate nella carne del vampiro. Con quell’arma improvvisata puntata contro, Tom scoppiò in una risata gutturale e profonda.
Afferrai Nicole per la vita trascinandola indietro.
“Cosa hai intenzione di fare? Vattene, scappa!”, le strillai, ora mettendomi tra lei e Tom.
Dove era finito il mio pugnale? Dove?!
Con gli occhi lo cercai vertiginosamente ma sembrava scomparso nel nulla.
Nic non mi rispose, continuava a fissare con occhi sgranati il nemico dietro di me, puntandogli con ridicola esagerazione la croce davanti agli occhi.
“Non sono i vampiri dei romanzi che legge Jamie, Nicole! Quella croce non gli fa’ niente!”
“Tutto questo inizia a seccarmi, ragazzine.”
Mi voltai verso Tom cogliendolo nel fissarmi intensamente, mentre, dalla sua bocca quasi immobile, delle parole arcaiche e sconosciute prendevano forma.
“Non guardarlo!”, tuonò Nicole, prendendomi per le braccia. Ma le mie braccia erano diventate improvvisamente insensibili e caddi a terra, paralizzata, scivolando dalla sua presa.
Non riuscivo più a muovermi. Ogni comando inviato dal mio cervello andava a vuoto, solo calde lacrime mi solcarono il viso, perdendosi, poi, nel terreno sul quale ero schiacciata. Qualsiasi incantesimo Tom stava esercitando su di me era molto più che efficace. Quell’impotenza io l’avevo già sperimentata, solo, non ricordavo quando. Ebbi la straordinaria sensazione di avere lungo il corpo un reticolo invisibile che azzerava ogni mia capacità motoria.
Tom finì di sussurrare l’incantesimo e poi mi guardò come se stesse mirando l’unica cosa buona che avesse mai fatto in vita sua. Probabilmente, era così.
“Saremmo inarrestabili e tutta la tua razza di cacciatori sarà eliminata. Gli umani, miseri schiavi.”
Come in risposta Nicole si mise a gridare imprecazioni della quale non la ritenevo capace, e si avventò nuovamente contro il vampiro, scavalcandomi con le lunghe gambe proprio come fossi un ostacolo.
Con una serie di gesti impossibili da percepire ad occhio nudo, Tom riuscì senza il benché minimo sforzo a disarmare Nicole e a farla rigirare di schiena contro il suo ampio torace, bloccata in un abbraccio fatale.
LASCIALA MALEDETTO LASCIALA!
Cercai di dimenarmi ma non c’era niente da fare; vidi Nicole digrignare i denti e tentare di calciare le gambe contro quel lurido maledetto sicché questo, facendomi mozzare il respiro, estrasse da dietro la cinta dei pantaloni il mio pugnale.
L’aveva recuperato da terra ed io non l’avevo nemmeno visto.
Tutto, infine, accadde in una manciata di secondi.
Fece piroettare la mia amica come se la stesse accompagnando in una danza, e, quando lei fu barcollante di fronte a lui allungò il braccio per trafiggerla. Eppure, Nicole, con estrema solerzia scansò il colpo e riprese il paletto che si era trafitto a terra, nello stesso momento i due si scambiarono un fendente impacciato, ma dalle conseguenze imprevedibili.
Una delle tre punte dell’arma amatoriale di Nic raschiò un marchio sul collo di Tom, questo colpo fortunato permise alle mie membra di riacquistare la loro sensibilità, ai miei arti i movimenti.
Facendo leva sul terreno mi rimisi in piedi e corsi da Nicole… che crollò tra le mie braccia.
Fui costretta a piegarmi sotto il suo peso, afferrandola per riflesso sotto le ascelle.
“Nicole? Nic?”
“Emily”, mi rispose con tono stranamente neutro, rannicchiandosi ancora di più su se stessa.
DANNAZIONE!” L’ululato di Tom mi strappò una serie di brividi, non meno di quelli che provai nel vedere che i marchi che aveva segnati sul corpo tornarono alla loro naturale consistenza. Sangue scarlatto colava via disfacendo così i simboli e il loro potere. Il vampiro abbassò lo sguardo agitato sul proprio pugno stretto intorno all’arma, la sua bocca si deformò in una O oblunga da cui uscì un sibilare di pura sofferenza. Un istante dopo la sua stretta venne meno e il pugnale si liberò dalla presa; nell’intervallo tra l’essere sospeso e il posarsi a terra, questo venne avvolto da un lampo lucente e dorato “NO, MALEDETTI CACCIATORI! NO!”
Capii cosa stesse accadendo solo quando mi resi conto che il palmo di Tom era bruciato, nello stesso modo in cui avrebbe potuto fare se avesse tenuto nella mano un tizzone incandescente.
Ma a giudicare dal modo in cui si era avvolto su se stesso, gravando a terra, doveva trattarsi di un dolore più prolungato e insopportabile di quello di una fugace bruciatura. Ad ogni modo, non persi tempo: mi gettai in avanti, tornai nuovamente in possesso dell’arma che mi spettava di diritto e senza indugio allungai il braccio per far sì che la lama affondasse nel collo di Tom, il quale con un ultimo grido, iniziò istantaneamente ad incenerirsi.
Feci un balzo all’indietro non riuscendo a distaccare gli occhi da quell’inverosimile spettacolo che mi si stava parando di fronte. In una sorta di autocombustione, il vampiro esplose in un turbine di cenere nera che m’investì costringendomi a pararmi il volto con gli avambracci. La folata si disperse nell’aria tornata improvvisamente immobile, con una strana carica di elettricità aleggiare tutt’attorno, come fosse la testimonianza invisibile di ciò che era appena accaduto. Mi pervase una tale sensazione di potere, di eccitazione e di non so cos’altro che quasi non feci caso ai flebili colpi di tosse alle mie spalle.
Nicole!
“Emily, aiutami”, mormorò contraendo il volto in una smorfia, semi sdraiata e rannicchiata a terra. Nell’avvicinarmi registrai due piccole pozze di sangue dilatarsi tra i sassolini e il terriccio che, a giudicare dagli angoli rossastri della sua bocca, dovevano essere fiottati proprio da lì. Presi la sua testa tra le mani e fu in quel momento che lei ruotò con il corpo per posizionarsi meglio tra le mie braccia, dunque quel movimento appena abbozzato mi permise di vedere cosa Tom gli aveva lasciato prima di andarsene.
Un profondo, lungo e raccapricciante squarcio. Si estendeva dal seno destro fino al fianco sinistro, intravedendosi tra gli indumenti ridotti a brandelli; un’immagine di cui non mi sarebbero bastate mille vite per cancellarla.
“Ho paura... Emily perché mi guardi così?”
Furono quelle parole a strapparmi dalla mia catalessi.
Tentai di rincuorarla per dirle che tutto sarebbe andato bene, di tenere duro, stringere i denti seppure ero consapevole di mentire ad entrambe. Non sarebbe andato tutto bene, per niente. Le falsità mi si impigliarono in gola, e un magone rafforzò il dolore sordo che improvvisamente mi aveva irrigidito il collo.
Nicole cercò di abbassare la testa per constatare il danno, però un eccesso di tosse e sangue mandò in fumo le sue intenzioni. La sostenni per la schiena con mani tremanti e il respiro corto, al che si riabbandonò tra le mie braccia.
“Emily, che succede? Non voglio morire.”
Iniziò a piangere, disperatamente. Le sue mani insanguinate pregarono il mio viso rivolto in alto di abbassarsi per stabilire un contatto visivo, ma non ci riuscivo, era finita: lei avrebbe visto le mie lacrime e capito che...
“EMILY!”, urlò e un altro fiotto di sangue la sconquassò,-“aiutami, ti prego Emily ti prego non voglio morire Emily aiutami che cosa mi sta succedendo Emily per favore!”
-“Amica mia”, articolai a fatica, chinandomi verso di lei dominando il tremito,-“non devi… non devi avere paura.”
Una lacrima lasciò il mio viso per unirsi alle sue, di lacrime, che scorrevano leggere dai suoi occhi a mezz’asta, attraversando quel viso così innaturalmente pallido. Con la coda dell’occhio percepii la sua mano cercare nell’aria la mia e così le nostre mani si schiaffeggiarono, scansarono e rincorsero prima di trovare l’unione stabile che cercavano, tanto eravamo sconvolte.
“Non…io non vogli…”
“Shhh, shhh.”
La cullai tra le mie braccia baciandole la nuca, mentre la sua stretta si faceva sempre più debole e il suo respiro affaticato cedeva il posto ad un rantolo terrificante.
Strizzai gli occhi ingoiando non solo saliva e grida ma anche il cocente senso di colpa che non arrivò a tardare, e che io combattei quasi come se stessi rifiutando un conato di vomito.
“Mi dispiace, Nicole. Non doveva andare così, perdonam…”
Improvvisamente lei mi strinse la mano con foga, poi risucchiò aria come se si fosse trovata di fronte ad un qualcosa di inspiegabile e oscuro ed infine, dopo un brevissimo e forse immaginario ultimo sguardo, chiuse gli occhi.
Rimasi per una manciata di secondi a fissare il suo volto, profondamente incapace di riscuotermi.
Il mondo mi precipitò con tutta la sua crudeltà sulle spalle, lasciandomi cadere sul suo corpo inerme, annientata da un’emozione di doloroso smarrimento che avevo già sperimentato.

Vieni da me.

Alzai il capo di colpo, mozzando il respiro. Mi guardai turbinosamente intorno senza lasciare andare il corpo esamine della mia amica; tutto ciò che mi circondava erano le ombre del collegio che la luna allungava verso il centro pallido del cortile.
E poi, eccola di nuovo, un’invasione quasi elettrica nel cranio.

Da me. Vieni. Da me.

Questa volta seppi dove guardare: le ante dell’ufficio della Delacour erano spalancate, il quadrato della finestra occupato in pieno dalla sua imponente stazza. Mi fu impossibile incatenare il mio sguardo al suo perché, da quello che potevo constatare, la sua stanza era l’unica ad non essere stata invasa da una flebile luce che ancora mi domandavo da dove proveniva; e quella della luna non era abbastanza forte per rischiarare fin lassù.
La Delacour sparì lentamente nell’ombra, attendendomi. Proprio come aveva fatto da tutta una vita.
Accompagnai la nuca di Nicole a terra senza riuscire a trovare il coraggio per baciarla un’ultima volta in fronte, mi limitai a recitare una preghiera silenziosa, alzandomi in piedi e asciugandomi il volto impiastricciato di lacrime e sangue… fin quando avvertii l’indiscutibile rumore dello spezzarsi di un ramo sotto il peso di qualcuno.
Brandii immediatamente il pugnale –ora sporco del sangue d’innocente e di un mostro- gridando:
“CHI ALTRO C’E’? AFFRONTAMI!”
Chiunque fosse, mi avrebbe trovata pronta. Non c’era solo il dolore a bruciare dentro di me, bensì una rabbia cieca, una sete di vendetta sfibrante e un senso di responsabilità verso quel fato che mi aveva condotta lì. Non potevo credere che il mio cognome potesse costarmi così caro, tanto da essere bandiera di una guerra che ha visto luce prima di quanto abbia fatto io. Per un attimo immaginai il corpo senza vita dei miei genitori, non troppo differenti da quello che giaceva a pochi metri da me, e provai quasi terrore per l’emozione violenta che m’invase nell’immaginare di vendicarli. Vendicarli tutti.
“HO DETTO: AFFRONTAMI!”, continuai a gridare, satura di un potere che sapevo di poter esercitare. Aumentai, quindi, la presa sul pugnale dove, nemmeno farlo apposta, il nome della mia famiglia sembrava spiccare con maggior enfasi su tutto quel rosso.
“E-E-Emily.”
Ci misi un po’ a capire che quello non era un miagolio ma una voce umana ed estremamente debole, animata da un soffio d’alito.
Mi fiondai dove iniziava la vegetazione aggirando un enorme albero trovando, accucciata tra rovi e cespugli imbiancati, Jamie.
“Jamie…”, sussurrai, toccando terra con le ginocchia, ora alla sua altezza.
Aveva la bocca aperta in un’espressione grottesca, gli occhi appiccicaticci e le guance scavate sporche di terriccio e lacrime. I suoi capelli, stretti in una coda alta, erano sul capo tutti scomposti e, dedussi, doveva averci passato le mani più e più volte. Forse per la disperazione di quello cui aveva assistito.
“Non è successo, non è vero”, continuò a singhiozzare convulsamente,-“perché?”
Strinsi i denti per evitare di gridare, un rivolo di sudore freddo mi scivolò tra le scapole.
“Devi andartene di qui”, le ordinai perentoriamente, afferrandola per le spalle,-“in questo posto dovevo tornarci solo io, non voi.”
Ricominciai a piangere per poi premermi le nocche sugli occhi; dunque tornai a focalizzare Jamie, che adesso si era alzata, mostrandomi di essere incredibilmente instabile.
La seguii e si lasciò andare tra le mie braccia.
“No, Jamie. Devi starmi a sentire: vattene di qui.”
“Vieni con me.”

Vieni da me.

Strizzai gli occhi cercando di placare l’ennesima e potente invasione nella mia testa. Come un riflesso incondizionato mi concentrai sul niente, isolandomi dal dolore e dalle altre miriadi di emozioni che invadevano il mio corpo; quella tattica improvvisata, verificai, equivaleva ad erigere una barriera contro il sopravvento dei poteri mentali che la Delacour stava esercitando su di me.
“Scappa lontano da qui.” Tornai a ripetere con maggior enfasi aprendo gradualmente gli occhi, trovando, sull’espressione di Jamie, una sottile incertezza. Era chiaro che fosse terrorizzata a tal punto da scappare, ma che il sentimento che la legava a me le faceva sorgere qualche scrupolo. Per non parlare del fatto che entrambe avremmo dovuto lasciare il corpo straziato di Nicole…
Non avevo comunque tempo per assistere ad una sua scelta, così le diedi le spalle e, senza rimanere troppo a scrutare quel viso che mi era stato subito amico, corsi verso l’entrata principale del collegio.

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Capitolo 22
*** Ventiduesimo Capitolo ***


Ventesimo Capitolo







Proprio come avevo dedotto trovai il portone aperto, sicché vi entrai e lo richiusi alle mie spalle con la massima celerità, per evitare a Jamie la tentazione di seguirmi al suo interno. Ero intenta a non rallentare l’andatura urgente e celere che avevo adottato se non fosse stato per il turbamento che m’immobilizzò nel vedere l’inusuale fonte di illuminazione che, già da prima, aveva catturato la mia attenzione: un manto di fuoco era sospeso sopra la mia testa, schiacciato al soffitto, con le fiamme che si agitavano avvolgendosi tra loro. Ma non solo, serpenti di fuoco si s’intrecciavano lungo il corrimano delle scale, proseguendo quindi anche ai piani superiori.
La magia con cui questo si trovava ad aleggiare nell’aria –senza né bruciare, né privare la struttura del suo gelo immane- doveva essere terribilmente forte.
Digerita quella visione, mi fiondai sulle scale attraversando senza ulteriori indugi i tre piani che mi ero ritrovata a percorrere ogni mattina. Infine, arrivai al quarto piano.
La porta dell’ufficio della Delacour era aperta; qui dove il soffitto era più basso, le fiamme parevano braccia incandescenti pronte ad acciuffarmi.
Il breve tratto di corridoio che mi separava dall’entrata diventava sempre più lungo ad ogni mio passo, così, quando mi posizionai sul vano della porta il pensiero di non avere più spazio per i ripensamenti quasi fu inebriante.
Dovevo affrontarla, come non avevo mai fatto prima.


Trovai la Delacour impegnata a carezzare il volto di suo marito impresso nel dipinto.
“E’ venuta da me, proprio come avevo pensato.”
Mi fece impressione vederla parlare al ritratto; la manifestazione del suo lucido delirio in tutta la sua essenza.
“Finalmente io potrò raggiungerti, Demetrio, e insieme ci riprenderemo la vita che ci spetta.”
“Tu non la meriti quella vita. Quell’eternità”, esordii, con quanto più disprezzo possibile. La vampira si girò con calcolata lentezza.
Aveva gli occhi sferzati di rosso, il volto tirato, forse stanco, e i capelli raccolti nella sua solita acconciatura. Mi venne da ridere nel vedere che indossava quel vestito lungo e azzurro con cui l’avevo vista per la prima volta, anche perché io –da sotto il cappotto di cui mi ero privata strada facendo- avevo casualmente scelto di indossare lo stesso maglione bianco e gli stessi jeans con cui mi ero presentata in quell’inferno. Che ironia.
“Ho aspettato questo momento da tutta una vita, Emily Collins, tanto che ora sento che il senso della mia esistenza si possa completamente condensare in questo attimo.” “Hai ucciso i miei genitori”, ringhiai, entrando nella stanza.
Il suo sguardo scivolò dai miei occhi, indugiò sul morso inferto da Tom al lato del collo e poi percorse la lunghezza del mio braccio per verificare con i suoi occhi che, sì, la daga che stringevo nel pugno era proprio quel pugnale.
“L’ho cercato da tutta una vita”, disse eludendo la mia accusa,-“alla fine è riuscito ad arrivare a te, che non hai mai fatto niente per cercarlo. Io che ho votato la mia vita per averlo sono costretta a mirarlo nella tua mano.”
“Perché è in questa mano che deve stare!”
“Ma i tuoi genitori non hanno fatto in tempo a spiegartelo.”
“Perché tu li hai uccisi”, ripetei.
La Delacour camminò fino alla finestra ancora spalancata, senza smettere di osservarmi. Se fossi stata più consapevole del peso del mio nome da Cacciatrice, avrei sicuramente pensato che l’emozione che attraversava i suoi occhi fosse paura. Invece, quella che io avevo scambiato per paura doveva essere fretta, bramosia, eccitazione per il termine della ciaccia in cui io ero stata una preda miserabile.
-“Loro, la mia migliore amica, la signorina Williams… hai torturato mia nonna, me.” Tremavo visibilmente. Avevo sempre sospettato che il mio corpo fosse troppo piccolo per conservare tutte quelle emozioni. La mia rabbia minacciava di spezzare me, anziché tramutare in una potenza tale da distruggere lei.
Sollevai il pugnale all’altezza del suo petto, benché ci fosse la scrivania a dividerci.
Fece un ghigno.
“Spesso chi cade trascina con sé quelli che accorrono ad aiutarlo. La responsabile di tutto il male che ti circonda è la tua natura. E’ forse il destino dell’eroe quello di mettere a repentaglio la vita di chi gli vuole bene; comico, senz’altro, ma questo è quanto.”
“O il delirio di potere di Demetrio Delacour? Cosa ne sarebbe stato del mondo se solo avesse raggiunto il suo scopo? Creare una razza immortale dotata di poteri straordinari…”
“..rendervi tutti schiavi sotto il nostro infinito potere”, continuò ravvivandosi,-“estirpare la parte umana dai miei figli per rendervi l’immortalità che gli spetta. Riprendermi. La. Mia. Famiglia.”
“William…”
“Non osare pronunciare il suo nome, Collins.”
E invece lo ripetei, il suo nome. Con il cuore che mi sanguinava ad ogni sillaba.
“William. Amo tuo figlio.” Più che una confessione, era il ringhio di un’ennesima condanna. Avevo amato William con la stessa inclemenza con cui avevo amato l’idea di una vita migliore che mi attendeva a braccia aperte fuori dall’istituto: in una maniera calma, silenziosamente feroce; proprio come chi sa di avere tempo.
-“E temo che anche lui ami te”, masticò muovendo dei lenti passi verso di me,-“mi raggiunse a Londra poco prima della tua venuta al convitto. Mi disse con non poca agitazione di sognare una ragazza in uniforme prossima ad una tragica fine. Intuii subito si trattasse di te. Quell’anima buona di mio figlio ti cercò come un pazzo in ogni angolo, in ogni stanza; pretendeva di trovare i tuoi occhi nei visi di quelle ragazze che già si trovavano nell’istituto. Eri diventata un’ossessione per lui, allora non capivo quanto. Ma adesso cosa importa? Se non ci sono riuscita io, a dividervi, sarà il destino a farlo. Questa sera.”
Adesso eravamo così vicine che potevo specchiarmi nei suoi occhi. Quest’ultimi mi scivolavano in ogni dove, come se mi stessero vedendo per la prima volta.
“Ho cercato di fermarlo, di convincerlo che i suoi erano semplici sogni, gridando a me stessa di non poter credere che il suo dono si fosse manifestato proprio adesso per metterlo in guardia sulla morte della sua nemica. Ad ogni modo, ero stata io ad inscenare il terremoto. Dovevi morire in quel terremoto, poiché ero convinta che i miei servizievoli vampiri avessero estorto informazioni riguardo a dove si trovasse il pugnale a tua nonna, a suon di torture. Ma quella vecchia era stata una grande cacciatrice, dunque si è dimostrata essere più resistente oltre ogni mia previsione.”
“Maledetta!”, le urlai in faccia, di nuovo in lacrime, cercando di pugnalarla.
La Delacour sollevò repentinamente una mano sussurrando un sortilegio in una lingua arcaica, incomprensibile a primo orecchio. Così, prima ancora che la lama potesse arrivare a colpirla, fui scaraventata a sinistra, infranta contro la libreria. Capitolai a terra assieme ad una pioggia di tomi dalla mole considerevole che mi diedero il ben servito in testa, sulle spalle, acciaccandomi le mani. Avevo fitte preoccupanti all’altezza delle costole, proprio dove avevo urtato le mensole. Abbracciai la daga come fosse un bambino, terrorizzata di vedermela strappare via.
“La fretta”, tornò a spiegarmi,-“mi aveva costretto a fare un passo falso. Vedi, se tu fossi rimasta vittima di quella croce in chiesa io, probabilmente, non avrei mai trovato il pugnale perché tua nonna sarebbe morta prima ancora di balbettare il tuo nome. Ma scommetto che da quel giorno William ti abbia rivelato le sue vere origini. Non è così?”
“No, non è così. Mi aveva solo parlato del suo dono, non mi aveva confessato di essere un vampiro per non spaventarmi più di quanto non lo fossi per ciò che era accaduto.”
Vidi Jennifer scomporsi in una breve corsa agitata per raggiungermi, quindi s’inchinò all’altezza del mio viso ignorando il fatto di aver puntato il pugnale alla gola. Mi fissava con occhi pieni di un furore malato, i canini ben in vista e le mani protese verso il mio capo.
-“No, no, non per non spaventarti. Conoscendo mio figlio, è stato per non perdere la sua nuova Adelaide. L’ha persa tra le sue braccia, uccidendola per aver fatto prevalere la sua parte umana per amore; bambino mio, che destino avverso innamorarsi, ora, di un’altra umana… di una ragazzina destinata a rovinare la sua famiglia.”
“La profezia riguardo questo è una sciocchezza. Quanto è vero che le persone a me care sono morte per colpa mia, è altrettanto vero che la tua famiglia si è disfatta per mano tua.”
Se non fossi stata rintronata da tutti quei sentimenti che mi vorticavano nel corpo con buone probabilità avrei visto arrivare lo schiaffo che mi si piantò sulla guancia facendomi girare il capo.
“Mio figlio è smarrito, mia figlia Genevieve mi odia e mio marito è in attesa della mia venuta da un tempo troppo lungo, prosciugato fino alle ossa in una cripta buia in Francia. Io ho sacrificato tutto ciò che mi è più caro per salvarlo, sì, è vero, l’ho distrutto senza rendermene conto perché quando nella mente c’è un unico pressante desiderio è facile rovinare le cose che si ha intorno, ma, vedi, Emily Collins, c’è una differenza tra me e te.”
“E quale sarebbe”, dissi, guardandola da sotto ciocche di capelli, immobile nella posizione dopo lo schiaffo per non essere costretta a guardarla negli occhi.
“La differenza è che io posso riunire la mia famiglia, chiedere perdono a Genevieve, alleviare i sensi di colpa e i demoni di William, cancellarti dalla sua memoria; tornare ad amare Demetrio, in un mondo ai nostri piedi. Tu, di contrario, non ce l’hai più una famiglia da cui tornare. Li ho ammazzati io i tuoi piccoli, fragili ed insignificanti genitori, dopo aver giocato a nascondino per anni.”
Non le avevo nemmeno risposto, dirottando tutte le innumerevoli domande che avevo e di cui esigevo conoscere le risposte verso la mia forza crescente, tale da farmi sferrare un fendente che si sarebbe rivelato mortale se non fosse stato che, la Delacour, bloccò a metà il mio gesto con la forza del pensiero. Quella telecinesi mi fece sollevare in piedi, inchiodandomi poi, contro il muro accanto alla porta.
Jennifer afferrò il mio braccio destro strappandomi il pugnale di mano. Passò la lingua sul sangue che imbrattava la lama.
“Povera signorina Lamberg, povero Thomas Jenkis.”
“Perché lo vuoi così tanto?”
“Perché i cacciatori della Prima Caccia erano persone straordinariamente creative e per sigillare la chiusura delle cripte hanno scavato nella roccia due piccole incastonature in modo da incastrare perfettamente i due pugnali delle famiglie fondatrici che, ancora oggi, fungono da chiave. Ma non è tutto: vedi questo liquido che galleggia in questo cristallo a forma di goccia? E’ l’unico siero al mondo capace di donare l’immortalità.
Quella che trasformerà la metà imperfetta dei miei figli in quella perfetta, eterna.”
Con una mossa del capo mi scaraventò sulla scrivania; rotolai sulla superfice e caddi trasportando con me tutti gli oggetti che vi giacevano sopra. Ero tramortita dalle sue parole tanto quanto dal dolore fisico che mi stava impartendo.
“Basta mischiare il siero con il sangue dell’ultima della dinastia dei Collins e il gioco è fatto. Sai un’ultima cosa? Questo collegio è stato il mio alibi per non attirare l’attenzione della gente e dei cacciatori dei paesi vicini e…ora sarà la tua tomba. Raggiungerai papino e mammina, non sei contenta, piccola maledetta?”
Come potevo anche solo tentare di rimettermi in piedi? Era stata una missione suicida fin dal principio; la rabbia, la sete di vendetta e di giustizia non mi avrebbero permesso la vittoria, ahimè; ero fin troppo debole anche solo per impartirle un graffio.
Su una cosa aveva ragione: avrei raggiunto mio padre, mia madre e Nicole. Forse, sarebbe stato veloce, come quando si crolla dalla stanchezza toccando istantaneamente il cuscino.

Perdonami William.

Ancora una volta era stato lui il mio ultimo pensiero, mi aveva tenuto per mano ma, evidentemente, la stretta non era stata altrettanto forte come il nostro fato contrario, eppure potevo giurare di amarlo ancora.
Lo amavo, follemente. Anche ad un passo dalla fine.
Chiusi gli occhi dopo aver visto il pugnale sollevarsi sopra la testa della vampira, dopo aver goduto di un’ultima volta della vista del mio cognome scintillare glorioso nella sua incisione.
“Raggiungi i tuoi all’inferno.”
Feci in tempo a prendere un grosso respiro, raggomitolandomi su me stessa… prima di sentire un cambiamento di gravità sopra di me, e l’accenno di un grido smorzato.
Lì per lì ancora non avevo capito che qualcosa aveva trattenuto Jennifer dall’assegnarmi il colpo di grazia, poi il pugnale cadere a terra, proprio accanto alla mia nuca e dunque riaprii gli occhi, guardando verso il mio boia.
Il suo volto aveva perso tutta la sua invulnerabilità ed ora era stravolto in un’espressione di sofferenza mista a quella che mi parve sorpresa. Gli occhi rossi ridotti a due fessure strette e la bocca spalancata in una smorfia deforme e a dir poco grottesca, con i canini in bella vista e le braccia sollevate in alto.
Fu dopo aver distolto gli occhi da suo viso che me ne accorsi.
Un lungo stiletto d’argento aveva penetrato il suo addome, incuneandoglisi nella carne e traballando come una freccia che si conficca nel bersaglio.
“C’è chi torna dall’inferno, Jennifer.”
Una voce maschile, profonda e solenne fece il suo ingresso nella stanza.
Lo stupore mi regalò una nuova immobilità che non aveva niente a che fare con la paura; tutt’altro. Era una sensazione diversa… una di…di riconoscimento.
Infatti, dopo qualche secondo mi fu ridicolamente semplice attribuire un volto a quella voce.
Non è possibile.
Sto impazzendo. Sono impazzita, il mio cervello mi ha abbandonata per primo…
Ma quando, quasi a rallentatore mi alzai per vedere chi mi avesse salvata, capii che il destino non avrebbe mai smesso di sorprendermi. La Delacour lottò contro la paralisi provocata dallo stiletto e riuscì a ruotare mezzo busto, proprio nell’esatto istante in cui io guardai negli occhi mio padre.
“Papà”, soffiai, in quella che sembrava una flebile preghiera.
“Emily.”
In piedi sull’uscio della porta, mio padre ne riempiva il varco con la sua imponente stazza. Era una figura avvolta di nero: indossava un lungo cappotto in cui –da quello che mi capitò di vedere- si nascondeva una vera e propria armeria. Una tuta di pelle intera con cinghie di cuoio a fasciargli le cosce e la vita gli facevano risaltare una massa muscolare di cui non avevo mai fatto caso.
Ma quello che più mi destabilizzò non era tanto mirarlo nella sua naturale tenuta da cacciatore, quanto il suo volto così incondizionatamente familiare. Niente in lui era estraneo, nessuno dei suoi tratti mi parve dimenticato o mutato; era tutto come doveva essere, era papà ed era vivo.
La violenza di quell’incredibile rivelazione mi fece molleggiare fino a lui, il quale aveva azzerato l’esigua e ultima distanza che ci divideva per accogliermi tra le sue braccia.
-“Dio, Emily. Mi dispiace così tanto.”
Non riuscivo a smettere di tremare, né parlare.
Ma non c’era tempo per calmarsi, né per ricevere spiegazioni.
La Delacour rovinò a terra, aprendo e chiudendo la bocca a scatti. Stava pronunciando un qualcosa che sembrava voler esprimere tutto il suo dolore, tutto il suo rifiuto nel vedere ciò che aveva tanto programmato venir fatto saltare in aria da un contrattempo che non aveva azzardo a mettere in conto. Però, subito dopo aver pensato quelle cose, mio padre mi smentì, chinandosi rapidamente a terra per recuperare il pugnale:
“Dobbiamo uscire di qui! Sta invocando un incantesimo, tra poco questo posto brucerà!”
Non feci in tempi a metabolizzare le sue parole che papà mi aveva già presa per la mano e condotto fuori dallo studio, di corsa.
Attraversammo l’andito correndo a più non posso, entrambi col fiatone. Scendemmo le scale di volata con la voce incolore della Delacour che c’inseguiva, quasi volesse acciuffarci come se fosse un qualcosa di palpabile, materiale. Con tutte le mie forze cercai di schivare le lingue di fuoco che iniziavano a contorcersi sul corrimano, soprattutto, di ignorare il manto sopra le nostre teste che iniziava a prendere le caratteristiche di un vero e proprio incendio, appestando l’ambiente di fumo elevando la temperatura ad una insopportabile.
“Emily, attenta!”
L’avvertimento di mio padre fu vano dal momento che, troppo presa a controllare la situazione sopra le nostre teste, non avevo visto l’ostacolo che mi fece rovinare a terra.
Gettai uno sguardo da sopra la spalla mentre mi rialzavo rapidamente, e quando lo feci ebbi la sensazione che il mio cuore avesse mancato un battito.
A pochi centimetri da me, raggomitolato a terra e con due paletti conficcati uno nel petto e uno sul collo –pesto di sangue in ogni dove- trovai Henry.
In un istante i nostri occhi si incrociarono e nei suoi vi lessi un odio gelido; un sentimento che era riuscito a stento a nascondere ma che comunque non mi diede eccessive preoccupazioni. Sul fondo, di quella collera, io vi lessi una promessa crudele che avrebbe altrimenti pronunciato a voce alta, se solo ne avesse avuto la possibilità.
“Henry Devonne”, attestò mio padre, strattonandomi per farmi ripartire, -“braccio destro e primo sostenitore della Delacour. Il Circolo era sulle sue tracce da anni, quel sadico figlio di…”
Un grido inumano squarciò l’aria sferzando fino alle nostre orecchie; lingue di fuoco si abbatterono a diversi metri da noi, incendiando qualsiasi cosa incontrassero.
L’incantesimo stava per compiersi.
“Non fermarti per niente al mondo!”, continuava a gridare mio padre, anche se stavamo attraversando a perdifiato l’atrio.
Una volta chiusoci il portone alle spalle sentimmo un’esplosione percuotere la terra, dunque capii che proveniva dalle cucine e che l’incendio aveva iniziato ad avvolgere l’intero istituto.
Mi accasciai al centro del cortile, stremata e con un vuoto nello stomaco, ad osservare quella che –mio malgrado- era stata una casa per me. Come la pellicola di un film, la mia mente ripercorse brevi diapositive che mi vedevano indugiare su quella porta d’ingresso assieme alla signorina Williams; vidi perfettamente un’Emily Collins stordita a distanza di poco tempo dalla scomparsa dei suoi genitori, guardare per la prima volta Jennifer Delacour. Come un flash, l’immagine scomparve e quasi giurerei di aver potuto risentire la risata gioviale di Nicole, o i rimproveri giornalieri di Jamie circa la mia impulsività.
O di vedere William apparire dove ora s’intravedeva solo fumo e fuoco.
La mano di mio padre mi riscosse.
-“Dobbiamo occuparci di lei”, sussurrò, come se cercasse di entrare in punta di piedi nei miei ricordi.
L’osservai dal basso, non capendo a chi si riferisse; poi, alzandomi e voltandomi vidi Jamie. Tremante, piangente e sporca di sangue non suo –segno che aveva cullato Nicole per tutto quel tempo- mi fissava con mille e più domande turbinargli negli occhi spalancati.
La raggiunsi avvertendo fitte dolorose alle costole, gambe, ma che parvero sparire non appena le sue braccia mi avvolsero nell’abbraccio più disperato e sentito che avessi mai ricevuto in tutta la mia vita. “Ma che cosa è successo, Emily?!” La sua voce era oltremodo convulsa, singhiozzante.
Serrai gli occhi stringendola ancora più forte tra le mie braccia, cercando di non guardare in basso a destra dove Nicole sembrava dormire, con l’ultima supplica ancora impressa sulle labbra dischiuse.
Un’altra esplosione fece seguito ad un ennesimo grido della vampira, nonostante la sua stanza fosse l’unica a non essere ancora stata raggiunta dalle fiamme.
Sciolta dall’abbraccio con Jamie stavo giusto per metterla al corrente dell’identità di quell’uomo quando, papà, sollevò repentinamente il pugnale guardando oltre noi, per poi riabbassarlo con aria distaccata, quasi arrendevole.
Io e Jamie seguimmo il suo sguardo fino a vedere due figure correre proprio verso il cortile.
Un uomo e una donna.
William e Genevieve.
Smorzai sul nascere un grido e feci per corrergli incontro, sentendo dentro di me fiorire un insolito e commovente sollievo, quando sia la mano di mio padre che di Jamie mi tennero ferma.
“Lasciatemi andare da lui! Cosa state facendo?”
“Devi dimenticare quel viso e quello che hai vissuto con lui”, disse mio padre, severo, proprio con lo stesso tono con cui era solito parlarmi.
Lo guardai in viso, trattenendo il respiro e avvertendo il passaggio di una lacrima.
“Tu non puoi chiedermi questo...”
“Non te lo sto chiedendo, Emily: te lo sto ordinando da cacciatore a cacciatrice.”
Fu come ricevere un pugno sulla bocca dello stomaco, tutto ciò che riuscii a fare, forse, fu un’espressione sconvolta, indignata.
William ci sfrecciò accanto, superandoci, quasi come se non ci avesse visto. Poi, osservando l’istituto morire su se stesso, s’immobilizzò ad assistere alla rovina.
Genevieve rallentò l’andatura, soppesando il suo sguardo sulle nostre tre facce stravolte che la ricambiavano.
Aveva il volto sporco di terra, una sfumatura di sangue a colorarle i lati della bocca e la sua tuta era stata strappata e imbrattata di fango. Dunque tornai ad osservare William che era nelle stesse condizioni della sorella: il bel maglione era coperto di sangue, come il suo collo graffiato e, il colore dei polsi –dacché le maniche erano state strappate a quel punto- viravano da un nero carbone a una tinta violacea.
Ma contro chi hanno dovuto combattere?, mi domandai stupidamente, per poi rispondermi un secondo dopo: Henry. Il traditore.
“William!”, strillai e a quel punto dovette esserci stato qualcosa nella mia voce a far leva sulla coscienza di Jamie e papà, perché allentarono la presa fino a concedermi il movimento che anelavo.
Raggiunsi William e il mio fu un vero e proprio assalto che lui –grazie al cielo- ricambiò con la medesima intensità.
“Amore mio”, fu la prima cosa che mi disse e ricordo che il modo con cui pronunciò quelle parole bastò a farmi intendere quanto in colpa si fosse sentito nei miei confronti, -“come posso chiederti perdono?”
“Non devi… non devi farlo, William. Non potevi saperlo.”
“Ho dubitato di te.”
“Non ho forse fatto lo stesso?”
Non gli diedi né modo né maniera per rispondermi che l’avevo condotto verso di me e baciato con estrema urgenza. Sentii le sue mani toccarmi in un punti in cui il dolore ero vivo e pungente ma in quell’istante perfetto, credetemi, anche il dolore era bello.
Di certo non potevo sapere cosa di lì a poco sarebbe successo.
Forse lo intuii quando, pian piano, avevo avvertito le sue labbra divenire sempre più ritrose e ferme.
Eppure non avevo voluto impartirmi l’ennesima sconfitta; perché in quella notte, sì, avevamo perso tutti.
“Emily”, disse distaccandosi, cercando di pronunciare dell’altro ma, delle urla strazianti provenienti dal quarto piano, lo interruppero facendolo impallidire più di quanto non fosse già.
“Devo…devo lasciarti.”
Ed ecco arrivare il colpo di grazia.
“No, tu non puoi farlo”, risposi con un groppo in gola che non m’impedì d’infarcire quella supplica con una ferocia inconsolabile.
Lui chiuse gli occhi per un attimo e poi riaprendoli mi prese il viso fra le mani.
Stava piangendo.
“Tornerò Emily, ma ora lasciami andare da lei. Non lo capisci? Questo è l’unico modo in cui io possa amarti.”
Lo guardai assente, doppiamente, inesorabilmente sconfitta.
“Ti amo.”
Era la prima volta che me lo diceva, ed erano state anche le ultime parole che mi rivolse prima di abbandonare la presa dal mio viso in una sorta di carezza, quasi fosse stata sufficiente per concorrere in aiuto alla profonda sofferenza che mi stava mangiando da dentro.
Fui solo vagamente cosciente della realtà che mi circondava quando lo vidi allontanarsi di corsa da me per scomparire, poi, all’interno dell’edificio morente.
Un violento capogiro mi costrinse a prendermi la testa tra le mani, e non seppi mai chi fu a gridare il mio nome: se Jamie o mio padre… o la Delacour.

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Capitolo 23
*** Epilogo ***


Epilogo







Quattro mesi dopo






L’appartamento che mio padre aveva comprato nel West End era minimalista e arioso. Il bianco dominava su ogni ambiente del piccolo alloggio, ferendoci gli occhi per i primi tre mesi. Ma dopo un po’ quelle pareti lisce e spoglie avevano smesso di abbagliarci, anche perché Jamie –tirando fuori l’artista che giaceva in lei- aveva ricoperto quei muri con quadri di ogni tipo. Nel soggiorno aveva appeso un trittico raffigurante lo sbocciare di una rosa, la quale era circondata da grandi petali che danzavano nel vento. Papà approvava lo spirito di iniziativa di Jamie anche perché, a detta di lui, quella casa era troppo fredda e asettica e c’era bisogno di un tocco di colore che ci donasse quell’atmosfera rilassante e calorosa che meritavamo. Così, pian piano che i giorni trascorrevano, sotto i nostri occhi c’era sempre qualche novità da trovare in qualche angolo: un vaso di fiori freschi dai toni vivaci, un libro in più nella modesta libreria a scala o, ancora, un cuscino colorato nelle stanze al piano superiore. Jamie era una sorella fantastica. Non smetterò mai di pensare che quelle attenzioni alla casa fossero un modo timido per essere riconoscente al suo adorato Mr Collins per averla accolta nella nostra –quasi ritrovata- famiglia.
I primi mesi dopo l’incendio che ha raso al suolo il collegio del Nord di Londra furono i più difficili. Ogni sera l’orrore di quella fatidica notte tornava ad affacciarsi nei sogni miei e di Jamie, costringendoci a svegliarci madide di sudore e con una tremarella preoccupante che ci faceva sentire precarie come l’ultima delle foglie appese ad un ramo. Allora Jamie veniva ad intrufolarsi nel mio letto, stringendomi le mani e cercando di recuperare il sonno accostando le nostri fronti, come a dire ‘io sono qui, gli incubi non torneranno più’. Il problema era che, per quanto riguarda la sottoscritta, gli incubi esistevano anche una volta riaperti gli occhi. Già. Mi capitava ancora di vederla, Jennifer Delacour. Ritta nel suo metro e ottanta, con il petto tronfio e l’espressione crudele, mi fissava nei posti più improbabili. Lei era lì, mentre accucciata a terra cambiavo i fiori della lapide di mia madre, mi osservava in lontananza, con le braccia lungo i fianchi e la gonna lunga svolazzante nel vento di Aprile. Ogni tanto parlava, come quella volta quando rimasi casa a preparare la cena mentre papà e Jamie erano andati a fare una passeggiata. Stavo tranquillamente tagliuzzando della cipolla e dei pomodori quando avvertii la sua presenza gravosa alle spalle.
Non è reale, è solo nella tua testa.
Lei non esiste.
Nonostante quel mantra non mi sorpresi quando, una volta giratomi con ancora il coltello da cucina saldo in mano, l’avevo trovata sul vano della porta a fissarmi con la solita espressione riprovevole. Mi disse:
“Lo sai che non è finita, vero?”
Mi ero voltata strizzando gli occhi, controllando il respiro, e poi –sicura che la sua immagine fosse sfumata via- mi voltai per raggiungere il bagno adiacente e sciacquarmi il viso…ma con mio sommo orrore la Delacour era tre centimetri dalla mia faccia e non potetti non gridare e recuperare il coltello dal ripiano per cercare di scacciarla via. Jamie e papà tornarono dal loro solito giretto trovandomi mentre colpivo l’aria urlando cose disperate che non vi starò nemmeno a ripetere. Quella era stata una delle mie crisi peggiori, ricordo ancora le braccia di mio padre stringermi come se fossi tornata ad essere una bambina di cinque anni, così come ricordo lo sguardo apprensivo che Jamie gli aveva lanciato sopra la mia testa.
Non avevamo trovato una spiegazione plausibile per quelle visioni: forse erano solo il frutto di quello che avevo vissuto, quindi la mia paura proiettata a grandezza naturale nel mio presente oppure –e questa ipotesi era quella che più mi spaventava- la Delacour stava cercando di torturarmi invadendo la mia mente. Mi spaventava perché, per farlo, significava che non solo era riuscita a salvarsi ma che non doveva essere nemmeno così lontana.
I telegiornali parlarono per mesi della distruzione del collegio, ancora non venendo a capo della natura dell’incendio. Nessun reportage aveva riportato il ritrovamento del corpo di Jennifer o…di William. I due erano semplicemente scomparsi, proprio come se non fossero mai esistiti.
Jamie, che si sforzava a tutti i costi di risultare ottimista, diceva che forse era impossibile ritrovare dei resti dove prima si era scatenato un vero e proprio inferno, ma, in risposta, c’era Mr Collins che c’invitava a non farci troppe illusioni poiché era molto più probabile che William fosse riuscito a trarre in salvo sia sua madre che quel lurido traditore di Henry. Per quest’ultimo non cercavo di preoccuparmi troppo perché, se mio padre aveva ragione, allora ci avrebbe pensato la Delacour a farlo fuori.
Quando si parlava dell’istituto era impossibile che i riflettori non si spostassero sul fatto di cronaca nera riguardante una giovane ragazza trovata assassinata proprio in quel luogo, proprio quella notte: Nicole Lamberg.
A Londra scoppiò una vera e propria psicosi: tutti credevano che nella City si nascondesse un pazzo maniaco. Uno nuovo squartatore, giusto per riproporre uno degli orrori della Storia.
Era difficile e oltremodo doloroso sentire quelle chiacchiere e sapere che, no, non c’era nessun maniaco dietro il corpo straziato di quella ragazza, bensì un mondo oscuro fatto di sangue e di vampiri.


Assistetti al funerale di Nicole in uno stato di torpore. Jamie tentò più volte di trasmettermi il suo sostegno stringendomi la mano, un gesto che non riuscii in nessun modo a ricambiare. Ero straziata da un unico e ridondante pensiero: cosa sarebbe accaduto alla nostra amica se la sua ossessione per i vampiri fosse rimasta confinata ad esistere solo come un mero passatempo? Sarebbe rimasta viva.
Mi sentii mancare, ad un certo punto della cerimonia ma, proprio mentre frugavo dentro di me per trovare la forza di alzarmi e uscire a prendere una boccata d’aria, Jamie toccò il mio braccio con il gomito per invitarmi a guardare tra i primi banchi: accanto ad una addolorata Danielle Lamberg –la quale aveva stretto me e Jamie in un abbraccio talmente sentito che entrambe eravamo scoppiate a piangere tra le sue braccia, dando inizio a dei versi così disperati da non riuscire a trattenerli-, vi era il famoso George. La sua grossa mano percorreva la schiena ricurva di Danielle, e ogni tanto si guardava intorno come per condividere con gli altri, attraverso uno scambio di sguardi, tutto il suo dispiacere. Sperai che incrociasse il mio, di sguardo, per fargli intendere quanto, pur non conoscendolo, mi ripugnasse. Il fatto era che Jamie mi aveva confessato che, poche ore prima della tragedia (quando Nicole l’aveva raggiunta in ospedale), le confidò con un certo imbarazzo il vero motivo per il quale si era ritrovata a decidere di rinchiudersi in un collegio. Ed era perché stava scappando. Scappando dagli sguardi viscidi di quell’uomo, dai suoi modi bruschi quando lei si ritraeva da una sua carezza, stanca per il non vedere della madre e il suo costante adorarlo e, ad un certo punto, in colpa, perché aveva paura di aver confuso gli atteggiamenti di George con la sua immaginazione. Ma ogni volta andava incontro ad un accadimento che la portava a ricredersi. E così si era ritrovata in un circolo senza fine. Quando fu il momento di trasportare la bara al cimitero le gambe di Danielle cedettero e si accosciò su di essa, spargendo i petali dei fiori a terra sotto il suo peso e facendo dondolare le corone a cui aveva cercato di aggrapparsi. Mi si strinse il cuore dinanzi quella scena, e Jamie –che aveva cercato di resistere stoicamente fino allora- ricominciò a piangere rifugiandosi contro la mia spalla.
Io non riuscivo a non ricambiare lo sguardo sorridente che Nicole sembrava donare a tutti noi all’interno della cornice che svettava sopra la sua bara. Doveva essere stata scattata un’estate prima, quando ancora la sua pelle era abbronzata e i suoi capelli più tendenti al castano che al nero corvino su cui spiccava un grosso fiore giallo; dalle sue guance s’intuiva che avesse avuto anche qualche chilo in più.
Era così che volevo ricordarla: radiosa, un’ottima amica sempre con la battuta pronta sulle labbra e attaccata incondizionatamente alla vita.


I giorni successivi al funerale di Nic tornarono a succedersi all’insegna dell’apatia, privi di senso come tutto ciò che mi circondava, e avevo preso la brutta abitudine di non fare assolutamente nulla se non rifugiarmi nel ricordo di quell’ultima notte. Anche se, in cuor mio, sapevo che avevo ben altro su cui riflettere perché, John Collins, mi aveva lanciato un vero e proprio ultimatum. Erano trascorsi quasi quattro mesi d’allora e il tempo a mia disposizione era agli sgoccioli.

Papà mi aveva raccontato tutto ciò che assieme alla mamma mi aveva taciuto. Di fronte a tre tazze di thè bollente e ad una Jamie insolitamente silenziosa sprofondata tra i cuscini del divano, ascoltammo come due spettatrici la storia che mi era stata nascosta da tutta una vita.
“Al contrario di te, Emily, sono stato consapevole delle mie origini fin dalla nascita. Sapevo quale peso dovevo trascinarmi sulle spalle e sapevo che mia figlia sarebbe stata –secondo un’antica credenza- l’ultima dei Collins. Ero giovane, disincantato sotto certi versi, e al contrario degli altri cacciatori mi facevo beffe di quelle parole. Trascorsi la mia infanzia e la mia adolescenza cacciando i vampiri più pericolosi, perdendo mio padre in uno di questi incontri.” Era raro sentir John accennare una parola sul nonno che non avevo conosciuto, per anni era sempre stato un fantasma senza troppa consistenza e in quel momento, vedere mio padre in silenzio con quell’espressione remota e imperscrutabile vidi anche il Cacciatore che era. Riscuotendosi da quel ricordo, proseguì: -“conobbi tua madre poco tempo dopo e fu la cosa più bella che mi sia mai capitata. Era una normale fioraia che mandava avanti il suo atelier in centro; riuscì a curarmi le ferite che non potevo spiegarle, riuscì a comprendere i miei silenzi senza conoscerne l’origine, riuscì persino ad ignorare le mie assenze nei giorni in cui i calendari di tutto il mondo annunciavano una qualche festività. Lei si fidava di me senza nessuna base, e ciò mi convinse ad iniziarla nel mio mondo. Egoisticamente volevo farle assaggiare quella fetta della mia vita, per poi augurarmi che non scappasse, che rimanesse avida di caccia e adrenalina come lo ero io. Avevo questa strana convinzione che potesse essere un’ottima cacciatrice. E, sorprendentemente, lo fu.”
“La signora Collins ha accettato di diventare una cacciatrice per amore?” Jamie non era riuscita a tenersi dentro lo sgomento e, voltandomi brevemente per guardarla in viso, notai che stava combattendo una silenziosa battaglia: provare deplorazione per mio padre o sospirare per un atto d’amore così grande da parte di mia madre?
“Naturalmente credeva di aver a che fare con un pazzo. Vampiri, diceva, esistono solo nelle pellicole e nei libri. Magari, gli rispondevo io. Fin quando non andammo in Francia, nel luogo di ritrovo per eccellenza di tutti i cacciatori. Il suo viso stupito, quella leggera e unica lacrima che scorse dal suo occhio… non potrei mai dimenticarmi di quel giorno. Ad ogni modo, rimanemmo nel territorio francese per un po’ e nel giro di breve tempo tua madre divenne una straordinaria cacciatrice, quasi fosse nata per questo.”
Dopodiché, mio padre si perse nell’annoverare le missioni più significative svolte assieme, per poi arrivare al punto in cui, con una sorta di turbamento, aveva appreso della gravidanza inaspettata di mia madre.
“Per regola e sincerità le era stato detto della profezia che tutti sembravano temere, così decidemmo di non avere figli. Ma lei mi aveva ingannato, perché nonostante la nuova vita che conduceva non aveva mai accantonato il desiderio di avere un bambino, di costruirsi una famiglia. Mi arrabbiai –non perché di colpo credessi alla predizione- ma perché il Circolo cominciò a fremere, a bramarti. La ragazza leggendaria stava per nascere e al compimento del suo sedicesimo compleanno sarebbe entrata a far parte ufficialmente della rosa dei cacciatori.”
Quelle parole e lo sguardo intenso che mio padre mi diede mi fecero provare un tuffo al cuore.
Fremevano, continuavo a ripetermi dentro di me, mi bramavano.
“Per questo voltammo le spalle al Circolo. Né io né tua madre avevamo preso in considerazione l’ipotesi di interrompere la gravidanza. Gli Stryder, che erano a capo del Circolo, sostennero me e tua madre in segreto, aiutandoci a progettare la fuga dalla Francia, anche se in pubblico ci condannarono come traditori. Così, tornammo a Londra. Quello che non sapevamo era che la Delacour –conosciuta solo attraverso le testimonianze dei nostri antenati- aveva appena iniziato a darci la caccia. Gli altri membri della nostra famiglia fecero di tutto per ostacolarla… io e tua madre cercammo più e più volte di supplicare il Circolo a darci una mano, ma l’aiuto non arrivò mai e la Delacour era sempre più vicina a noi. Per un po’ parve scomparire, come se avesse desistito nel cercarti; in realtà aspettava l’arrivo del tuo sedicesimo compleanno…”
“Okay, so come è andato il resto della storia. Vi ha raggiunto e ha cercato di uccidervi. Cioè, con mamma ci è riuscita.”
“Con tua madre ci è riuscita”, rimarcò mio padre e vidi guizzargli un nervo della mascella,-“stringevo ancora la sua mano quando… dunque Jennifer non si era resa conto che ero ancora vivo. Dopodiché anche nella mia testa scattò un piano: vivere nell’ombra, attendere, fino a quella fatidica notte. Era l’unico modo per cercare di fermarla e dimezzare quello che è il suo esercito. Perché temo che nel mondo ci siano altri suoi aiutanti in attesa di un suo richiamo.”
Ci un breve istante di silenzio prima che io riuscissi a riconoscere il sentimento della rabbia che ribolliva dentro di me, quasi gridai:
“Hai lasciato che torturassero nonna.”
“Non parlarmi con quel tono, Emily. Tu non sai quanto mi si costato tutto questo. Tua nonna era una cacciatrice esemplare, ero certo che il suo cuore avrebbe resistito a tutto quello che ha passato. E poi non l’avrebbero mai uccisa senza prima entrare in possesso del pugnale. Questo era nascosto in un angolo della casa, incastrato in un libro intagliato, e ti giuro che nemmeno se avessero rivoltato tutto lo stabile avrebbero potuto trovarlo.”
“Hai lasciato che io combattessi con dei vampiri…”
Avevo quasi perduto la voce, come se mi rendessi conto della sua effettiva presenza proprio in quell’istante. Mi aveva fatto credere di essere morto per arrivare all’agognato incontro con Miss Delacour, probabilmente era un incontro che entrambe le parti avevano premeditato con la medesima sete di distruzione. Era crudele, a pensarci, ma negli occhi di mio padre lessi tutta la fatica che gli era costato quel gesto. Presumevo che, portare rancore verso di lui, non avrebbe condotto nessuno dei due in nessun posto; c’erano altri sentimenti a cui dover dare la precedenza.
“Sarei corso in tuo aiuto se le cose si sarebbero messe male. Come ho fatto, proprio come avevo pianificato. L’epilogo non ci suggerisce una vittoria ed è per questo, Emily, che oggi io voglio darti la possibilità di scegliere.”
Le sue ultime parole furono talmente cariche di un qualcosa di solenne che l’atmosfera nella stanza sembrò arrestarsi, assieme a tutto il movimento della città che proveniva dalla finestra dischiusa. E così mio padre lo disse:
“Devi scegliere se fuggire o andare incontro al tuo destino. Se tu non vorrai sapere niente di tutto questo, allora troverò il modo di farmi riaccettare nel Circolo e cercare la Delacour e tutta la sua famiglia e ucciderla prima che possano riaprire le cripte. Se decidi di abbracciare il tuo destino, allora partiremo per la Francia e daremo inizio alla Seconda Caccia. Ti do quattro mesi di tempo a partire da oggi per riconciliare tutte le emozioni che senti, dopo di che non potremmo più aspettare un giorno in più. La Delacour ha pianificato tutta la sua esistenza per attirarti nella sua trappola, non ci metterà molto prima di tornare di nuovo. E dobbiamo essere pronti, qualsiasi sia la tua scelta.”
Detto ciò, papà si alzò guardandomi con l’espressione di chi già sapeva quale sarebbe stata la mia risposta. Mi voltai verso Jamie e colsi nel suo viso la medesima espressione di mio padre.


Ora, camminando a Trafalgar Square, sotto gli occhi vigili dei leoni di bronzo che sembravano controllare il traffico incessante della piazza, ero giunta all’unica soluzione possibile. Per raggiungere William, fermare la Delacour e vendicare chi amavo avevo bisogno di diventare colei che tutti sembravano attendere.
La sete di vendetta offuscante che avevo provato quella sera si era instillata dentro di me e ribolliva nei momenti più inaspettati e, per placarla, pensai, avrei dovuto agire. Stare con le mani in mano aspettando una giustizia indiretta non faceva per me. Forse per la vecchia innocente Emily, ma non per la Emily determinata e consapevole che stavo conoscendo in quei giorni. Qualcosa dentro di me si era rotto per sempre, e se avrei potuto in qualche modo ripararlo…beh, ero pronta per farlo.
Mi ero presa una giornata di solitudine non tanto per riflettere sulla mia scelta quanto per prepararmi nel dire addio all’ultimo assaggio di normalità che mi spettava.
Entrai nell’appartamento e trovai Jamie a gambe incrociate sul divano intenta a leggere un romanzo.
“Dov’è mio padre?”, le chiesi affannata per aver corso lungo le scale. Lei trasalì strappandosi dalle pagine di quel libro e m’indicò con l’indice il piano superiore.
“Nel suo studio”, precisò,-“è successo qualcosa?”
“Non ancora, sorellina.”
Mi aggrappai al corrimano e salii le scale due a due, fino ad arrivare di fronte alla stanza che mio padre aveva trasformato in uno studio tale e quale a quello che aveva nella nostra vecchia abitazione. La porta era aperta, e lo scoprii intento nel mirare lo skyline della City dalla lunga e ampia vetrata. Mi dava le spalle, sembrava assorto in un’intima conversazione con se stesso anche se non potevo vedere il suo viso, con le braccia intrecciate dietro la schiena e le dita che giocherellavano distrattamente con la fede che ancora portava al dito.
Richiamai la sua attenzione bussando con le nocche contro la superficie della porta, e lui girò il capo per guardarmi da sopra la spalla.
“Papà, non sono qui come tua figlia”, annunciai entrando nella stanza sapendo di star usando le parole che voleva sentirsi dire,-“ma ti sto parlando da cacciatrice a cacciatore: diamo inizio alla Seconda Caccia.”
Il suo viso non fu attraversato da una particolare emozione, si limitò a rimanere in silenzio ad osservarmi in controluce, tanto che mi venne da pensare se la scelta cui avevo appena dato voce fosse stata diversa da quella che si aspettava lui.
Ma poi un sorriso si fece pian piano largo sulle sue labbra, riflettendosi sul mio volto.
Ero sul sentiero giusto. Forse sarebbe stato ancora più tortuoso, difficile, sofferto, ma, nonostante tutto, giusto.
Nel frattempo, alle sue spalle, il cielo di Londra si tingeva di rosso.




Angolino autrice: E siamo arrivati alla fine di questa avventura. Io davvero non so cosa dire!
Come già vi dissi nel primo capitolo, 'Going Under' è la prima storia che ho concluso qualche annetto fa. Essa nacque nella mia testa intorno ai quindici/sedici anni e ne sono molto affezionata, sebbene il mio stile e il mio modo di raccontare storie sia ovviamente evoluto. Ma volevo lasciar camminare questa storia da sola, e ringrazio tutte le persone che l'hanno seguita, che l'hanno commentata e che l'hanno aggiunta nei loro elenchi. E' un onore e un piacere sapere di avervi tenuto compagnia. Adesso, prima che mi commuova sul serio, è bene che io vi saluti e...alla prossima avventura!

PS: Immagino che voi l'abbiate compreso, ma 'Going Under' è una storia che ha un seguito. Ancora NON scritto. Attualmente mi sto occupando di un altro progetto che mi sta togliendo davvero tanto tempo ed energie, ma un giorno credo proprio di proseguire nel raccontare l'avventura della mia Emily e del suo William.

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