Destroy Me

di _unintended
(/viewuser.php?uid=780252)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** In or out ***
Capitolo 3: *** The parting glass ***
Capitolo 4: *** Give me love ***
Capitolo 5: *** The beginning of the end ***
Capitolo 6: *** Absence ***
Capitolo 7: *** Only old friends ***
Capitolo 8: *** I was dead ***
Capitolo 9: *** We only live once ***
Capitolo 10: *** Safe and sound ***
Capitolo 11: *** Special needs ***
Capitolo 12: *** Destroy me ***
Capitolo 13: *** Falling into hell ***
Capitolo 14: *** Sleepwalking ***
Capitolo 15: *** Just a coward ***
Capitolo 16: *** My dependence ***
Capitolo 17: *** Maybe I owe you ***
Capitolo 18: *** Ghosts in the snow ***
Capitolo 19: *** Crawling back to you ***
Capitolo 20: *** Little pink triangle ***
Capitolo 21: *** Falling in love will kill you ***
Capitolo 22: *** Desert song ***
Capitolo 23: *** Right where he belongs ***
Capitolo 24: *** Just the shadow of a man ***
Capitolo 25: *** Black black heart ***
Capitolo 26: *** Carry me to the end ***
Capitolo 27: *** Requiem for a dream ***
Capitolo 28: *** Ashes ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Saaaalve amikeh bll!
Questa è la prima ff che ritengo abbastanza degna di essere pubblicata, perciò siete clementi pls<3
È nata come una semplice idea mentre aspettavo nientepocodimenoche capodanno e poi si è sviluppata nella mia mente contorta, e non appena è scoccata la mezzanotte e tutti erano lì a scambiarsi auguri e convenevoli… io meditavo su come sviluppare la storia (si nota che sono una persona molto sociale sì vero sì).
Beh vi lascio al prologo, spero vi piaccia e susu commentateee
Un bacio
M.
 
 
PROLOGO- The past
 
"Nonnaaaa cosa sono queste vecchie cose in soffitta?"urlò Sarah di sopra.
Bandit sospirò e raggiunse faticosamente la nipote su per le scale fino alla piccola porticina che dava sulla soffitta. Lei era lì, inginocchiata tra vecchie scartoffie e scatoloni polverosi, e la fissava interrogativa.
"Oh santo cielo, ma perché devi proprio buttar via tutto?"domandò seccata. Odiava che si frugasse tra le sue cose, trasloco o no.
"Magari, se mi dici cosa sono, potrei decidere di lasciarli qui a prendere ulteriore polvere"replicò la nipote sarcasticamente.
Dopo che la madre di Sarah era morta, due anni prima, le cose erano davvero precipitate. Sarah doveva iniziare l’università e aveva bisogno di soldi, la scuola era in città e distava un’ora di strada da casa loro, Bandit era vedova ormai da anni e la pensione bastava a malapena per sostenere le spese principali e pagare le bollette.
Perciò avevano deciso di vendere la casa. Era un dolore, per Bandit, separarsi da quelle quattro pareti che l’avevano protetta e accolta per più di cinquant’anni, ma non poteva farci molto. Era necessario, e lei doveva farlo per sua nipote.
Del resto, si chiedeva ancora perché Sarah avesse deciso di portarla con sé. Portarsi un peso come lei, un’anziana con mille acciacchi, in un’altra casa, di nuovo. Forse…forse aveva davvero bisogno di sua nonna, forse era l’unica persona rimasta al mondo a cui fosse legata, forse le sarebbe rimasta accanto fino alle ultime ore della sua vita.
Quando ci pensava, Bandit stava un po’ meglio, e si sentiva un po’ meno sola.
Eppure, quando la vide a curiosare tra la sua roba, le salì un inevitabile moto di irritazione, un sentimento che veniva dalla vecchia sé stessa, quella che era in gioventù: la ragazza ribelle e volubile, che non si lasciava comandare da nessuno, che era autonoma e indipendente come nessun’altra sua coetanea.
Quella che aveva ereditato tutto ciò dal padre.
Ricacciò indietro l’irritazione mista a nostalgia e si accovacciò accanto alla nipote, avvicinando a sé uno scatolone.
Lo aprì e rimase senza fiato. L’ondata di ricordi la colpì in piena come un treno in corsa, travolgendola e mozzandole il respiro, facendole dimenticare il mondo circostante.
Prese tra le mani una foto rovinata e ingiallita che ritraeva la sua famiglia, tutti e tre insieme seduti al divano della loro vecchia villa, quella vicina al lago, dove aveva passato tutta l’infanzia. Vide se stessa sulle ginocchia di sua madre, che la stringeva protettivamente, e vide suo padre, in tenuta militare, con quello sguardo intenso che lo aveva sempre caratterizzato fino all’ultimo istante della sua vita. Quello sguardo intenso che soltanto un’altra persona, in tutto il mondo, aveva saputo sostenere e ricambiare altrettanto intensamente. Soltanto una.
Quella sbagliata, in tutti i sensi.
Accarezzò la foto con le dita rugose e sorrise.
"Nonna?"domandò Sarah, sporgendosi in avanti per guardare anche lei."Quella sei tu?"
Bandit annuì silenziosamente.
"E quelli sono i bisnonni? I tuoi genitori?"
Annuì di nuovo. Non riusciva a smettere di fissare il sorriso di ognuno di loro.
Posò la foto e frugò ancora nella scatola, trovandoci delle lettere che non ricordava di possedere ancora. Lettere di suo padre dal fronte.
Si portò una mano alla bocca e trattenne le lacrime."Oh…"sospirò, aprendone una.
 
“27 novembre 1942
Cara Lindsay, cara Bandit,
Finalmente sono riuscito a trovare un momento di quiete per potervi scrivere. Ci siamo accampati questa sera e ognuno di noi, chi sano e chi ferito, si è ritirato in tenda per poter scrivere ai propri familiari.
Inutile dire quanto mi manc…”
Bandit posò di scatto la lettera, deglutendo il groppo in gola.
"Se vuoi che non butti questi scatoloni non c’è problema, sai?"la rassicurò sua nipote vedendola così turbata.
Doveva farlo. Era da tanto che quel pensiero era diventato un pallino fisso per lei, e ora che, ironia della sorte, era venuti a galla tutti quei ricordi dolorosi, doveva più che mai soddisfare il suo bisogno di sfogarsi e tramandare quel segreto, quel pezzo di vita a qualcuno.
"Sarah."
"Sì?"     
"Io devo raccontarti una storia."

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** In or out ***


Rieccomi a rompervi le scatole, eh già.
Sono tipo le undici di sera e sto morendo di sonno, ma non avrei mai potuto dormire prima di pubblicare il mio primo capitolo, aw. Dal prologo non si è capito molto, ma già a partire da questo comincerete ad entrare nella storia che, spero, vi piacerà.
Mi scuso in anticipo per eventuali errori di discordanza tra l’epoca in cui è ambientata la storia (poco prima della seconda guerra mondiale) e alcuni dettagli che forse lì nemmeno esistevano ( vi giuro che ho cercato di documentarmi sulla presenza o meno degli hamburger negli anni trenta, sigh), vi prego di perdonarmi quindi se non tutto coincide e se è così magari scrivetemelo nelle rencensioni, ogni critica è bene accetta:)
 
PRIMA PARTE
 
 
CAPITOLO 1 – IN OR OUT
 
Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di strano in me. Ma non come quegli sfigati nerd che vagano per i corridoi della scuola con una pila di libri in braccio, né come i figli di papà annoiati che impazziscono e vengono ricoverati in chissà quale clinica privata.
Semplicemente sono diverso. Non è una cosa di cui mi preoccupo. È così e basta, non posso farci nulla. La gente continua a ripetere che puoi cambiare, che puoi diventare qualcun altro, che puoi ricominciare da capo o lasciare ciò che eri alle spalle, ma io non ci ho mai creduto. Ognuno di noi ha una propria pelle, che ci rende diversi gli uni dagli altri, e non ci si può semplicemente liberarsene e buttarla via come se non fosse mai esistita.
Non sono strano.
Solo preferisco starmene per conto mio. Farmi gli affari miei. E’ semplicemente la tattica di chi non ha nulla da condividere col mondo, o almeno non ha nulla da condividere con questa scuola di merda.
Qui o sei dentro o sei fuori.
Dentro significa che partecipi alle feste degli studenti ricconi, ai balli di fine anno, hai una ragazza cheerleader o sei nella squadra di football.
Fuori significa me.
“Way?”
La voce del professore di chimica mi riscuote dalle mie fantasticherie. Mi ha sorpreso mentre guardavo assorto fuori dalla finestra e nel frattempo scarabocchiavo sul mio quadernetto senza neanche accorgermene.
“Sì?” domando senza alzare la testa.
“Sa ripetermi cosa ho appena spiegato al resto della classe?”
Alzo finalmente lo sguardo e noto gli occhi di tutti puntati addosso. Non è la prima volta che succede, e non posso dare un altro dispiacere a mamma finendo dritto dal preside.
Apro la bocca per parlare, ma non ne esce alcun suono. La classe mi guarda, chi sogghignando, chi curioso, chi annoiato.
“Allora?”
Proprio in quell’istante bussano alla porta e senza aspettare un “Avanti” fa capolino sulla soglia un ragazzo.
Non so perché la mia attenzione è subito catturata da lui. In altre circostanze, mi sarei sentito sollevato di averla scampata e avrei ripreso ad annegare lentamente nei miei pensieri, senza badare più di tanto a ciò che succedeva intorno a me.
Ma non è quello che succede. Insensatamente, il mio sguardo lo percorre da capo a piedi.
È basso, probabilmente mi arriva a malapena alla spalla. Porta una camicia bianca immacolata abbottonata e stretta fino al collo e i pantaloni, troppo larghi per lui che gli si piegano sotto le scarpe, dandogli un’aria trasandata e infantile al tempo stesso. Ha infatti ancora il viso di un bambino, i lineamenti delicati, le guance piene e gli occhi di un intenso color cioccolato che – noto solo ora – mi stanno fissando di rimando.
Calamite.
È tutto ciò a cui riesco a pensare non appena incrocio il suo sguardo.
Due calamite che si attraggono inevitabilmente, una positiva e una negativa, e che difficilmente riesci a separare.
Non so come, dopo un tempo indefinito compreso tra dieci secoli e due secondi, riesco a interrompere il contatto visivo.
Riabbasso gli occhi sul mio banco e un istante dopo sento la voce del professor Killingham. “Lei deve essere il nuovo arrivato” commenta.
Il ragazzo deve aver annuito, perché non si sente un solo suono nella stanza. Io, dal canto mio, non mi azzardo nemmeno a rialzare il capo per accertarmene.
“Frank Iero” mormora infine il ragazzo.
“Bene Iero, vada a sedersi al banco in fondo all’aula. Dopo quest’ora riceverà l’orario delle lezioni. Ora torniamo a noi.”
Mentre il professore riprende a spiegare stupidaggini sulle reazioni chimiche, il ragazzo mi passa accanto dirigendosi verso il suo posto e io non posso fare a meno di alzare lo sguardo per incontrare di nuovo il suo, ma lui stavolta non mi degna di un’occhiata. È già seduto al suo banco, ha tirato fuori un quaderno e ha incassato la testa tra le spalle, isolandosi.
Forse devo rettificare ciò che ho detto prima.
Qui o sei dentro o sei fuori.
Dentro significa che partecipi alle feste degli studenti ricconi, ai balli di fine anno, hai una ragazza cheerleader o sei nella squadra di football.
Fuori significa me. E Frank Iero.
 
 
“E’ occupato o posso sedermi?”
Sì, me lo aspettavo. Guardo il ragazzo nuovo da sotto le sopracciglia e gli faccio cenno di sedersi di fronte a me a mensa. Lui si siede e poggia il suo vassoio. Noto che ha appena aperto l’hamburger e sta togliendo la fetta di carne, lasciando soltanto le sottili fette di pomodoro e l’insalata.
“Sei vegetariano?” gli chiedo prima di riuscire a trattenermi.
Lui annuisce e fa un mezzo sorriso timido. “Già, sin da piccolo. Se ti dà fastidio…”
“No no, anzi se non la mangi…” propongo, allungando una mano. Lui mi passa la fetta di carne, ben contento di liberarsene.
Mangiamo in silenzio per un paio di minuti, e riesco quasi a perdermi nei miei pensieri se non fosse per il fastidioso vizio del ragazzo di muovere nervosamente la gamba sotto il tavolo.
“Potresti…per favore, smetterla?” gli chiedo infine seccato, indicando la sua gamba. Lui si blocca con la bocca piena, intento a masticare. “Ehm…”
“Dio, lascia perdere. Piuttosto, da dove vieni? Hai un accento strano”
“I miei genitori sono italiani” mi risponde, terminando il suo pranzo “ma i miei parenti paterni vivono qui e mi ci hanno spedito per ricevere un’istruzione…completa”
“E per stare lontano dalla guerra” commento quasi tra me e me.
“Quale guerra?” chiede Frank aggrottando la fronte, e mi sorprendo a guardarlo un po’ più a lungo del necessario. Ma cosa diavolo mi prende?
“Sai che ci sarà una guerra vero? Tutti lo sanno. È vicina ormai.”
Frank mi sembra turbato, perché mi fissa deglutendo. “Ma i miei genitori…”
Mi alzo e vado a buttare le cartacce nel cestino. Proprio in quell’istante suona la campana di fine pranzo. Gli studenti ci passano accanto l’uno dopo l’altro, ma Frank ancora mi fissa come se si aspettasse una spiegazione o qualcosa del genere.
Indico la folla in movimento. “Dovresti uniformarti, sai” gli dico, e sono dannatamente serio “prima che sia troppo tardi.”
Non era mia intenzione fare un’uscita ad effetto, ma è proprio quello che faccio raccogliendo la mia cartella e sparendo nel corridoio. Mi odio per averlo fatto, ma non sono un tipo incline ai convenevoli. Se fossi rimasto ancora, se avessi provato a socializzare con lui ancora un po’, si sarebbe di certo fatto strane idee sulla nostra ipotetica amicizia appena nata o chissà cos’altro.
Io non voglio amici.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** The parting glass ***


Ebbene sì, sto approfittando degli ultimi giorni di vacanza per pubblicare più che posso, perché so già che non appena ricomincerà la scuola non avrò tempo nemmeno per accendere il pc.
Questa ff è davvero troppo importante per me. Viene fuori da un’idea mia e soltanto mia, e se la pubblico è perché ci credo davvero. Sarebbe molto più semplice pubblicizzarla su facebook o twitter o invitare tutta la gente che mi conosce a leggerla, ma in un certo senso preferisco che rimanga tutto nell’anonimato, e che la leggiate soltanto perché l’avete notata in cima alla lista delle fanfictions sui mychem, e vi abbia attirato anche solo dal titolo.
Spero che vi piaccia, e vi prego commentate, ne ho bisogno per sapere come sto procedendo e se devo correggere qualcosa.
M.
Ps. Ehi tu, sì tu, che hai aggiunto la mia storia ai preferiti… c’è un girone in paradiso(?) soltanto per te<3
 
CAPITOLO 2 – THE PARTING GLASS
 
Quando io e Mikey torniamo a casa, troviamo mamma al suo solito posto, seduta al tavolo della cucina, col suo inseparabile vestito a fiori gialli e i bigodini in testa, intenta ad ascoltare la radio. In realtà, “intenta” non è la parola giusta. Probabilmente non sta nemmeno facendo caso a ciò che stanno trasmettendo. È soltanto un suo modo per passare il tempo, per distrarsi e non pensare a nulla.
Non pensare a nostro padre.
Mikey è mio fratello. Ha quattordici anni, ma sembra molto più adulto rispetto a tutti i suoi coetanei. Forse dipende dal fatto che siamo soltanto io e lui ad occuparci di questa casa, forse dipende dal fatto che ha assistito all’abbandono di papà quando era ancora troppo piccolo per capire, o chissà forse siamo uguali e anche lui preferisce la solitudine.
So soltanto che è il mio unico migliore amico, l’unico a cui permetto di avvicinarsi e l’unico che riesce a farmi parlare senza riserve. Ed è l’unica persona per cui darei la vita, sinceramente parlando. Proprio come in quei romanzi strappalacrime, sì. Solo che al posto della donzella in pericolo c’è mio fratello, e io ho il compito di proteggerlo da tutto e tutti.
“Mamma, noi andiamo di sopra a fare i compiti” mormora Mikey avvicinandosi a nostra madre e dandole un bacio sulla fronte. Lei annuisce distrattamente e gli fa un mezzo sorriso catatonico. Io la fisso per un istante o due, e il suo sguardo si posa su di me, guardandomi come se non mi conoscesse.
“Gerard…” bisbiglia con un’aria rassegnata, continuando a fissarmi intensamente.
Dice sempre e soltanto il mio nome, ogni dannato pomeriggio che rientriamo da scuola. Non sa dire altro. È il suo modo per ricordarci che si ricorda di noi. Che si ricorda di esistere, e di avere una famiglia a carico.
Non so nemmeno come non l’abbiano ancora licenziata nella fabbrica dove lavora. E sì che il suo compito è soltanto quello di inscatolare il cibo e metterlo sui nastri trasportatori, ma di certo tutti si saranno accorti che c’è qualcosa che non va nel suo cervello, da anni a questa parte.
Non che mi lamenti. La busta paga di mamma è l’unica cosa che ci salva dal morire di fame. Almeno fino a quando non avrò terminato il liceo e non potrò portare io stesso i soldi a casa.
Al pensiero del futuro vuoto e monotono che mi aspetta, ricaccio indietro un moto di disgusto.
“Ciao mamma” dico freddamente.
E seguo Mikey di sopra.
 
 
Il giorno dopo a scuola ci sono gli allenamenti di football. Io mi siedo in un angolo sugli spalti, come sempre, e tiro fuori il mio bloc notes.
Non so perché scrivo. È qualcosa che viene dal profondo di me, un bisogno quasi fisico che non ho mai capito fino in fondo, il desiderio di posare la penna sul foglio e anche solo scarabocchiarci sopra, o scrivere frasi senza senso, o le lettere dell’alfabeto. Qualsiasi cosa io scriva, mi fa sentire bene. Ma non bene nel senso che all’improvviso ho voglia di saltellare di gioia o baciare in bocca qualcuno. Bene nel senso che le parole mi prendono per mano, e dolcemente mi accompagnano da qualche altra parte che non sia qui, in un posto dove non devo pensare a nulla, un posto senza preoccupazioni o doveri, un posto sereno.
È come se ci fosse una lastra di vetro tra me e il resto del mondo, nessuno può vedermi ma io posso vedere loro. Una lastra di separazione*.
“Ehi”
Una voce non del tutto nuova ma non ancora familiare interrompe le mie stupide fantasticherie.
Frank Iero, penso tra me, e continuo a scrivere lasciando che mi si sieda accanto.
“Nemmeno tu fai palestra?” mi chiede, con l’evidente sforzo di intavolare una conversazione.
Sospiro. “No”
Evidentemente si aspettava un “Perché tu non la fai?” che non arriva, ma lui lo prende come un incoraggiamento a parlare.
“Io sono di salute cagionevole” mi dice, come se stesse confessando il suo più grande segreto “e il dottore ha detto ai miei che non posso fare certi sport.”
Ancora silenzio, ma lui si accorge che ho posato la penna e lo sto ascoltando. Maledizione.
“Cosa scrivi?”
Alzo finalmente la testa e lo guardo dritto negli occhi. Per poco non mi prende un colpo: ha l’occhio sinistro completamente cerchiato di un viola quasi nero, e un taglio sul labbro che scorre giù fino al mento.
“Cosa ti hanno fatto?” chiedo allarmato.
Frank mi guarda sbattendo le palpebre, poi pare capire a cosa mi riferisco e abbassa gli occhi imbarazzato. “Io…”
Per un millesimo di secondo mi coglie una rabbia improvvisa, innaturale, un sentimento così intenso che mi spaventa, e vorrei soltanto spaccare la faccia a chi gli ha fatto questo.
Anche se non lo conosco affatto, anche se è sbagliato.
“Chi è stato?” continuo a chiedergli. Ho definitivamente posato il bloc notes. E complimenti Iero, ci sei riuscito. Hai tutta la mia attenzione, ora.
Lui non mi risponde, ma inevitabilmente il suo sguardo si sposta verso il campo da football, posandosi su alcuni giocatori che si stanno passando quella dannata palla.
I giocatori di football. Bene. Probabilmente lo avranno visto che non si dirigeva agli spogliatoi come tutti gli altri e avranno iniziato a prenderlo in giro.
Perché non giochi Iero? Cosa c’è, mammina non vuole?”
“Hai paura di rovinarti quel bel faccino da angioletto, o la camicetta pulita, eh?”
“Vieni qui che te lo roviniamo noi, non c’è problema”
Li conosco così bene che già immagino cosa gli avranno detto.
Lui mi sta fissando, e finalmente io lo fisso di rimando. Se solo ripenso alla sua espressione innocente e ottimista di ieri, e a come lo hanno ridotto oggi, mi viene il voltastomaco.
“Vieni con me” gli dico, alzandomi e facendogli cenno di seguirmi.
Lo porto a casa. So che sia io che lui non saremmo riusciti a resistere un altro istante all’interno di quelle quattro mura, perciò mi sembra la soluzione migliore. Frank stranamente non fa domande, non apre bocca, mi segue soltanto in silenzio sul marciapiede, mentre la gente ci fissa come se fossimo due ragazzi che hanno marinato la scuola.
Beh, lo siamo.
Alla fine, quando raggiungiamo il vialetto di casa mia e infilo le chiavi nella toppa, Frank posa una mano sul mio braccio. “Sicuro che non disturbo?” chiede preoccupato.
Guardo la sua mano pallida posata sull’incavo del mio gomito.
“Sicuro” rispondo evitando di incrociare i suoi occhi.
Non so perché non gli ho intimato di levare subito la mano, dato che non permetto mai a nessuno di toccarmi, e non so nemmeno perché sto facendo entrare un estraneo in casa mia. So soltanto quello che la mia mente mi sta spingendo istintivamente a fare, e cioè dirigermi dritto in cucina e prendere un po’ di disinfettante dalla credenza.
Frank si guarda attorno. “Carina” mormora, non sapendo cos’altro dire. Io gli faccio cenno di sedersi al tavolo e subito dopo mi siedo accanto a lui.
Deglutisco e gli passo un disco di ovatta con il disinfettante. “Premi sul labbro. Brucerà ma è necessario” dico imbarazzato, e cerco di non fissarlo mentre lo fa.
“Perché ti sei lasciato picchiare?”
Che stupida stupida domanda, Gerard. Cosa avrebbe potuto fare contro una decina di giocatori di football alti come giganti?
Ma, sorprendentemente, Frank mi risponde in modo sincero. “Io non so difendermi.” sussurra sotto il batuffolo di ovatta.
“E perché sei venuto da me?”
“Perché invece tu mi fai sentire al sicuro.”
Ed è a queste parole che il vetro che mi separava dal mondo si crepa, e crolla in un milione di pezzi ai miei piedi.
 
*”vetro di separazione” è appunto la traduzione letterale di “the parting glass”, e concorderete con me che suona dieci volte meglio in inglese, ma vbb

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Give me love ***


Buonsalve di nuovo:)
Innanzitutto vorrei ringraziare cyrusslaughter per aver aggiunto la mia storia ai preferiti e chemicalove_ per aver recensito, siete state le prime and i love u so much for this<3
Poi vbb, la mia mente continua a elaborare capitoli quindi perdonatemi ma devo devo DEVO pubblicare altrimenti non mi sento soddisfatta.
Vi lascio al capitolo, baci
M.
 
CAPITOLO 3 – GIVE ME LOVE
 
Non è che io e Frank siamo diventati amici. O almeno, non rappresentiamo proprio la definizione esatta di “amicizia”.
Semplicemente passiamo ogni istante costantemente insieme.
Ok, forse mi sbaglio. Forse ci siamo davvero legati troppo.
Ma mi piace. Dannazione se mi piace la sua compagnia.
La mattina andiamo a scuola insieme, camminando sull’orlo del marciapiede l’uno dietro l’altro e tenendo in equilibrio i libri sulla testa, proprio come dei bambini che fanno gare stupide. A scuola, quando non frequentiamo gli stessi corsi, ci incontriamo spesso nei corridoi e quando siamo d’accordo che la lezione del giorno è troppo pesante, andiamo a rifugiarci sugli spalti in palestra, lì dove non può importunarci nessuno. In effetti, da quando Frank si fa vedere con me i bulli della scuola non gli si avvicinano più. Non che io rappresenti questa grande minaccia, sia chiaro, ma come hanno imparato a ignorare me e a starmi alla larga, così si comportano con lui.
A volte, dopo la scuola, ci intratteniamo a casa mia, e spesso si unisce a noi anche Mikey.
Lui e Frank hanno stretto uno strano rapporto. Mio fratello guarda Frank come guarda me, come se fosse un modello da seguire e da imitare in tutto e per tutto, e non perde occasione per ammirarlo o decantarlo in qualsiasi situazione. Frank, dal canto suo, tratta Mikey come un cugino o un fratello minore, coprendolo di attenzioni, mettendogli da parte la merenda quando lui non ha fame e cose così.
“Non credo di avere i soldi per un gelato… e poi tu sei troppo grande per queste cose!” lo rimbrotto mentre siamo seduti sul portico di casa, in un pomeriggio soleggiato.
“Ce li ho io. Mi è avanzato qualche spicciolo” interviene prontamente Frank, frugando nella tasca dei pantaloni.
Mi passo una mano sulla faccia, esasperato.
Mikey fa un sorriso a trentadue denti e prende i soldi che gli sta porgendo Frank, dopodichè si alza e corre al carretto dei gelati, dove alcuni bambini stanno già facendo la fila.
“Lascialo divertire. Questo periodo della sua vita non tornerà più” commenta Frank.
Torno a guardarlo. “E questa grande saggezza da dove spunta fuori?” chiedo scherzando.
Lui sbuffa. “E’ sempre stata dentro di me, che tu ci creda o no”
Gli do una spallata. “Ma fammi il piacere”
E ridiamo. Ridiamo, lui ride e io rido, rido come non ho mai riso in vita mia.
Frank mi sta dando amore come nessun altro, incondizionatamente e senza pretese, solo perché gli piace la mia compagnia e perché preferisce stare con me, solo con me, piuttosto che con qualsiasi altro nostro coetaneo.
Questa cosa mi piace e mi terrorizza insieme.
Non è stata una cosa voluta. Insomma, non è che da un giorno all’altro io e Frank abbiamo deciso di diventare inseparabili.
È venuto da sé, dopo la prima volta che abbiamo parlato, dopo averlo portato a casa per medicargli la ferita, dopo che mi ha detto quella cosa che non dimenticherò mai…beh, è stato piuttosto naturale tutto quel che è venuto dopo.
Frank è … diverso da tutto ciò che ho conosciuto finora. Non riesco ancora a inquadrare bene la sua personalità, perché muta giorno dopo giorno, sempre più imprevedibile.
Come quando un bel giorno viene da me e mi invita a casa sua, dopo la scuola.
“Sul serio?” gli chiedo sorpreso.
“Sul serio” sorride lui.
Non so proprio cosa aspettarmi quando apre la porta di casa sua e se la richiude alle spalle, ma di certo rimango sbigottito da quel che vedo.
La casa è immersa nella penombra, ovunque ci sono bottiglie vuote o mezze rotte, sul divano sono gettati malamente degli abiti sporchi, e nell’aria persiste un odore di muffa e stantio difficile da respirare.
Frank non mi guarda. Fa un risolino nervoso e noto, dal tintinnio delle chiavi nella sua mano, che sta tremando lievemente. “Scusa il disordine” mugugna in un tono quasi incomprensibile, e mi conduce in cucina.
Mi guardo intorno. Nel lavandino ci sono ancora i piatti sporchi della sera prima, sulla tavola ci sono briciole sparse e c’è polvere ovunque: sui mobili, sulle sedie, dappertutto.
“Vuoi…vuoi qualcosa da mangiare?” chiede nervosamente Frank, muovendosi da un lato all’altro della stanza senza fermarsi un attimo. È evidente che non sa cosa fare, non si aspettava tutto questo disordine quando mi ha invitato.
“Ho i biscotti, un po’ di tè, oppure vuoi qualcosa di salato? Credo di avere delle patatine da qualche parte…o forse no…ehm, sì insomma perché non andiamo di sopra, magari in camera mia e…?”
“Frank.”
Lo guardo dritto negli occhi e lui sostiene il mio sguardo. È nel panico più totale. “Sì?” chiede quasi istericamente.
Mi alzo e gli vado incontro, prendendolo per le spalle. Avvicino il mio volto al suo fino a quando non siamo a pochi centimetri l’uno dall’altro.
“Frank, calmati. Ok? Non c’è bisogno di agitarti. Non voglio nulla da mangiare e possiamo andare dove vuoi tu. Voglio solo stare con te. Non mi importa dove e come.”
L’ho detto sul serio?
Oddio.
Non volevo dirlo. Io.non.volevo.dirlo. Dannazione.
Frank si accascia improvvisamente contro di me, singhiozzando. “Io…non credevo che…pensavo avessero lasciato tutto in ordine… e ti ho invitato perché loro non c’erano e credevo che…. Oh mi dispiace Gerard, mi dispiace così tanto….”
Sono paralizzato. Non so cosa fare. Frank mi sta praticamente abbracciando, ha il viso affondato tra la mia spalla e il collo e sento il suo respiro mozzato accarezzarmi i capelli e dei brividi che mi corrono lungo la schiena e….
Lo stringo anche io, cercando di tranquillizzarlo e non pensare a nulla. “Ssssh, tranquillo ora. Va tutto bene, ok?” dico, costringendolo a staccarsi da me e a guardarmi negli occhi.
Lui sbatte le palpebre, ricacciando indietro le lacrime che minacciavano di uscire. Annuisce. Si ricompone e si liscia la camicia raggrinzita. “D’accordo. Sì. Bene. Andiamo di sopra.”
“Frank…” indugio, non sapendo bene cosa chiedergli. Lui mi fissa, in attesa.
“Ti fanno del male? I tuoi zii?”
Scuote la testa. “Bevono e basta. È tutto ciò che sanno fare. È come se non ci fossi.”
Lo abbraccio di nuovo, d’impulso, e sospiro. Lui ricambia la stretta e rimaniamo così per un altro paio di secondi.
Non staccarti.
Ma sono costretto a farlo. Cerco di non pensare al motivo per cui i suoi genitori lo hanno mandato qui, in America. Forse non sapevano del terribile vizio dei loro parenti. Forse non sanno nulla e Frank non lo dice perché preferisce rimanere qui.
Con me.
“Andiamo di sopra, avanti. Voglio mostrarti la mia stanza”
Lo seguo docilmente. So soltanto che non mi importa dei suoi genitori, non mi importa dei suoi zii ubriaconi o della casa in cui vive. Non mi importa di nulla. Mi importa solo di essere qui, con lui, ora.
Ma non durerà.
Me lo sento.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** The beginning of the end ***


E rieccomi qui dopo appena un giorno.
Forse sarà perché mi sto affezionando troppo alla storia, o perché è la prima ff frerard che scrivo, o perché non ho niente di meglio da fare che passare i pomeriggi al cellulare e al pc come una disagiata asociale, ma sta diventando davvero una droga questa storia. E mi faccio paura da sola, lol
Alloooora da questo capitolo le cose iniziano a farsi un po’ più complicate e magari anche più interessanti, spero vi piaccia: )
Ps. Non smetterò mai di ringraziare BettyLily per i consigli che mi dà ad ogni capitolo, le sue recensioni sono sempre preziose e illuminanti<3
M.
 
 
CAPITOLO 4 – THE BEGINNING OF THE END
 
 
“Tanti auguri a teee, tanti auguri a teeee, tanti auguri caro Geraaard, tanti auguri a teeee”
Guardo il trio radunato proprio di fronte a me, mentre cantano in coro il buon compleanno. Mia madre, Mikey e Frank.
Le tre persone più importanti della mia vita.
Anzi, le uniche.
“E non startene lì impalato, esprimi un desiderio!” esclama Mikey ridendo, ed io abbasso lo sguardo sulla piccola torta di cioccolata posata sul tavolo. Chiudo gli occhi ed esprimo l’unica cosa che desidero davvero. Non più soldi, non tanti amici, non una futura carriera da avvocato.
“Desidero che loro rimangano con me. Per sempre.”
E soffio sulle diciotto candeline appollaiate in bilico sulla superficie di glassa al cioccolato, spegnendole a più riprese fino a quando non ce n’è nemmeno una accesa.
Mikey e Frank battono le mani, e anche mamma mi guarda sorridendo come non faceva da tempo. Viene verso di me e mi lascia un bacio leggero sulla fronte. “Sei grande ormai, piccolo mio” dice con la sua solita voce intontita, e in un certo senso la sua frase mi sembra buffa.
Sei grande. Piccolo mio.
Mikey si accorge che la mamma non è abbastanza lucida da pensare a cosa fare subito dopo, cioè tagliare le porzioni, perciò la fa sedere e comincia a farlo lui, tagliando la tortina in quattro fette perfette.
Incrocio lo sguardo di Frank da sopra al tavolo.
Lui mi sorride, quel suo sorriso così genuino e disarmante che potrei rimanere per ore a guardarlo.
E gli sorrido di rimando.
Rimaniamo lì a fissarci per secondi, forse anche minuti, fino a quando la manaccia di Mikey compare sventolando nel mio campo visivo. “Ti decidi a mangiare o no?”
Dopo aver mangiato la torta io e Frank saliamo di sopra in camera mia, mentre Mikey rimane ad aiutare mamma a sparecchiare. Mi sento un po’ in colpa a lasciargli fare tutto da solo, ma è pur sempre il mio compleanno.
E poi c’è Frank.
“Qual era il desiderio che hai espresso?” mi chiede a bruciapelo qualche minuto dopo. Siamo sdraiati a terra, sul tappeto, le mie gambe da una parte e le sue dall’altra, ma le nostre teste si toccano.
Mi sento in pace. Mi sento felice.
“Vuoi sul serio saperlo?”
“Mmh no, lascia perdere. Altrimenti rischi che non si avveri”
“Già.”
“Gerard”
“Sì?”
Non riesco a guardarlo, ma sento che prende un profondo respiro prima di parlare. “Buon compleanno.”
Aggrotto la fronte, perplesso. “Ma..”
“Ci tenevo ad augurartelo io personalmente, da solo.”
Sorrido. “Grazie, Frank.”
 
Frank va via qualche ora dopo, e ci diamo appuntamento la mattina dopo per andare a scuola come al solito.
Mentre stiamo per andare a letto però, sento dei suoni soffocati che mi fanno gelare sul posto.
 “Hai sentito?” chiedo a Mikey, e quando mi volto noto che anche lui l’ha notato e mi sta fissando preoccupato.
È nostra madre, che singhiozza.
Potrebbe essere una sua crisi passeggera, di quelle che la colgono improvvisamente, e rimane lì a piangere per ore fino a che non si addormenta, o potrebbe non esserlo.
In ogni caso, non attendo un istante di più. Esco dalla camera e io e mio fratello ci dirigiamo subito in cucina, dove la troviamo seduta al tavolo come sempre.
Ha la testa tra le mani e le spalle le tremano per i singhiozzi convulsi. Alcune ciocche di capelli biondi le ricadono scomposte sul volto arrossato dal pianto, e soprattutto… ha una lettera davanti a sé.
Mi precipito a prenderla e mia madre alza lo sguardo per fissarmi, sconvolta. “Gerard… sono venuti a prenderti, Gerard.”
Le sue parole mi fanno raggelare.
La lettera porta il marchio della marina militare. Mi affretto ad aprirla con le mani che mi tremano e ne leggo velocemente il contenuto.
“Signor Gerard Arthur Way, la informiamo che è stato ritenuto idoneo dal ministero della sanità e che perciò è tenuto a prestare la leva militare obbligatoria per un periodo di 12 mesi presso la caserma più vicina. Ha la possibilità di terminare la scuola e diplomarsi, dopodiché può presentarsi in caserma per cominciare l’addestramento.
Cordiali saluti.”
 
Alzo lo sguardo dal foglio. Non guardo né mia madre né Mikey, che subito mi strappa la lettera dalle mani per leggerla anche lui.
Guardo un punto fisso e indefinito davanti a me, e all’improvviso succede che affondo. Affondo come tutte quelle volte in cui mi perdo nei miei pensieri e perdo il controllo della realtà, di quello che mi circonda, di quello che sto facendo.
Non penso a nulla.
Sono in un mare nero, una distesa di acqua ghiacciata e scura come la pece che mi avvolge e mi fa affogare, e non respiro, non respiro, non respiro….
Non respiro.
“Gerard!”
Sento delle mani afferrarmi per le spalle e scuotermi, e la faccia di Mikey che mi fissa preoccupato mi compare davanti agli occhi.
Ritorno sulla terra.
Mamma è ancora seduta al tavolo, ma ha smesso di piangere e ora guarda incantata fuori dalla finestra, Mikey mi sta urlando qualcosa. Ricollego il mio cervello all’udito e colgo le sue ultime parole.
“…assolutamente andarci. Non puoi lasciarci, Gee”
Lo guardo. “Sono obbligato dalla legge, Mike. Devo partire per forza. La scuola è quasi finita e io…”
“Chi si prenderà cura di noi, Gerard?” mi interrompe Mikey fissandomi intensamente. “Chi si prenderà cura della mamma, della casa… di me?”. Le ultime due parole le dice in un sussurro confuso e quasi impercettibile, ma mi colpisce dritto al cuore.
Chi si prenderà cura di mio fratello?
E chi si prenderà cura di Frank?
“Frank…” bisbiglio, rendendomene conto solo ora.
Mikey sospira. “Frank non potrà sopportarlo”
Non posso lasciare Frank.
Loro… non possono separarci.
“Io devo andare.”
Mollo tutto. Mi volto e corro verso la porta.
“Gee! Dove vai?” mi urla dietro Mikey, ma io sono già uscito e sto attraversando il vialetto. Oltrepasso due o tre isolati correndo fino a quando non avvisto la casa di Frank.
Arrivo davanti alla porta, ansimando, e suono il campanello.
Viene ad aprirmi una signora che suppongo sia sua zia. È sulla cinquantina, bassa e grossa quanto un barile. Ha i bigodini in testa, una sudicia vestaglia da notte e una bottiglia di birra tra le mani.
“E tu chi diavolo sei?” sbotta, e sta già per richiudermi la porta in faccia quando io ci metto un piede in mezzo, impedendoglielo.
“Sono un amico di Frank. Devo parlargli”
“Oddio santo, quel coso ha degli amici? Fraaaank, c’è qui un tizio che chiede di te!”
Levo il piede dalla porta, sollevato che sia in casa. Del resto, dove avrebbe potuto mai essere?
Mi rimbombano in testa le parole sprezzanti di sua zia.
Quel coso ha degli amici?
Quanto vorrei tirarle un pugno in bocca.
Qualche istante dopo lo vedo scendere le scale e raggiungerci sulla soglia. Mi guarda stupito. “Gerard, come mai…?”
“Devo parlarti.”
Lui capisce al volo e lancia uno sguardo sua zia, che alza gli occhi al cielo e torna a rintanarsi in casa, o sicuramente a stravaccarsi sul divano. Frank si richiude la porta alle spalle e si appoggia allo stipite. “Dimmi tutto.”
Dio, e ora come glielo dico?
Stavolta tocca a me fare un respiro profondo prima di parlare. “Io…parto per il servizio militare.”
Lo dico tutto d’un fiato, accavallando le parole l’una sull’altra, quasi sperando inconsciamente che non capisca, ma lui capisce eccome e la sua reazione è immediata.
È come se gli avessero appena rovesciato un secchio di acqua ghiacciata sulle spalle. Spalanca gli occhi, apre la bocca come per dire qualcosa, la richiude, continua a fissarmi, stringe i pugni fino a farsi sbiancare le nocche.
Deglutisce. “C-cosa?”
“Dovevo aspettarmelo. La guerra è vicina e hanno più che mai bisogno di soldati per un eventuale attacco. Sicuramente la lettera sarà arrivata anche a tutti gli altri diciottenni sani della città. E loro… beh, sono stati puntuali. Non hanno perso tempo.”
“Ma io…”
“A te non arriverà nessuna lettera. Sei troppo debole per sostenere l’addestramento militare. Sei uno dei pochi che l’ha scampata.”
Rimaniamo in silenzio per qualche secondo. Frank continua a fissarmi come se potessi evaporare da un momento all’altro. “Gerard…”
“Sai, ora posso dirti cosa ho desiderato prima. Non ho più paura che non si avveri, perché ho desiderato di non perdervi mai. E ora succederà. Succederà perché non appena finirò l’addestramento saremo entrati in guerra, e io dovrò combattere. E molto probabilmente non mi rivedrete mai più, perché preferisco morire che vivere in quel modo.”
Non sento nulla, nessun suono. Solo dopo che alzo la testa, qualche istante più tardi, noto che Frank si è avvicinato e ora siamo a qualche centimetro l’uno dall’altro. Scruto il suo volto, alla ricerca di qualche difetto, anche minuscolo.
Non ne ha. Frank è perfetto. È perfetto in tutti i sensi, e mi sta guardando come se lo fossi anche io.
Non dice una parola. Posa la sua mano fresca e liscia sulla mia guancia, e si sporge in avanti.
So che dovrei allontanarmi. Dovrei fare un passo indietro, in preda al panico, e guardarlo sbigottito. Dovrei chiedergli cosa diavolo cerca di fare e fermarlo.
Ma l’unica cosa che riesco a pensare è: fallo.
E lo fa.
Le sue labbra si posano sulle mie, delicatamente, dolcemente, e in un istante mi ritrovo catapultato nel nulla. Esistiamo solo noi due, il suo tocco sulla mia guancia, le sue labbra che sfiorano incerte le mie, il suo respiro che mi accarezza le guance.
Quando si stacca, sono scioccato e senza fiato. È decisamente durato troppo poco.
“Beh” trova il coraggio di sorridere lui “era così che volevo augurarti buon compleanno.”

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Absence ***


Riciao a tutti :)
Ringrazio tutti quelli che hanno recensito o aggiunto la storia ai preferiti, appena sono dal pc vi rispondo e vi ringrazio ad una ad una aw <3
Allooora passiamo al capitolo. Mi scuso se vi risulterà un po’ monotono ma è necessario per lo svolgimento della trama, altrimenti non avrei proprio saputo come andare avanti. La scelta del POV di Frank l’avevo decisa sin dall’inizio, anche perché non avrebbe avuto senso scrivere questa storia, per come è strutturata la trama, soltanto dal punto di vista di Gerard.
La cosa che mi farebbe piacere sapere è se sono riuscita a rendere l’idea delle personalità dei due, e a far sembrare davvero che a parlare ci sia un’altra persona e non più Gerard. Perciò recensite e fatemi sapere
Un bacio, M.
 
CAPITOLO 5 – ABSENCE
 
FRANK
 
“Gerard afferrò la sua sacca da viaggio, portandosela in spalla. Si voltò verso il treno. Stavano già salendo tutti i passeggeri, e lui era uno degli ultimi rimasto a terra a salutare i propri familiari. Insieme a lui infatti, un’altra decina di ragazzi si separava dalle proprie famiglie per andare a stare un anno in caserma.
“Sicuro di aver preso tutto?” gli chiese Mikey, come se fosse lui il fratello maggiore, e non viceversa.
Gerard, senza voltarsi annuì.
Fissava un punto indefinito, ma Frank sapeva che stava soltanto trattenendo tutto dentro di sé. Tutto ciò che avrebbe voluto dire, o fare, o il desiderio che aveva di sfogarsi, stava digerendo tutto lentamente, e ben presto nessuno avrebbe trovato traccia di quello che provava.
Ma Frank lo sapeva. Da quanto tempo lo conosceva? Nove mesi? Beh, in quei nove mesi aveva imparato a capirlo più di quanto capisse sé stesso. E a desiderarlo più di quanto desiderasse qualsiasi altra cosa.
E ora stava partendo.
Gerard si girò un’ultima volta, e andò dritto verso sua madre. La strinse forte al petto e lei scomparve tra le sue braccia come una bambina. Era tutto il contrario, nella vita di Gerard: lui aveva sempre dovuto fare tutto, lui aveva dovuto preoccuparsi degli altri, lui sembrava essere il padre e sua madre sembrava essere la figlia.
Toccò a Mikey, che stava cercando di trattenere invano le lacrime. Dopotutto, nonostante l’aria da adulto che sembrava assumere a volte, era ancora il bambino felice che aveva accettato i soldi di Frank per comprare il gelato.
Gerard gli posò una mano sulla spalla, quasi imbarazzato. “Sta’ attento, ok? Frank si prenderà cura di te. E non lasciare che ci portino via la mamma. Proteggila sempre.”
Frank si prenderà cura di te.
E Frank lo avrebbe fatto. Si sarebbe preso cura di Mikey, perché voleva farlo davvero, e perché lo chiedeva Gerard.
Il fratello maggiore strinse il fratello minore, gli diede un bacio sulla guancia e gli asciugò le lacrime.
Poi toccò a lui.
Non appena Gerard gli si fermò davanti, Frank ripensò a una sera di tanti mesi prima. Precisamente, quella del suo compleanno. Quella in cui aveva ricevuto la lettera dalla marina.
Quella in cui si erano baciati.
Dopo di allora, erano cambiate tante cose. Lui e Gerard avevano passato pochi momenti spensierati insieme, perché dopo la scuola Gerard lavorava in un bar, dove accumulava i soldi necessari per non far morire la sua famiglia di fame mentre sarebbe stato via. E non avevano mai più parlato di quella sera, anche se Frank avrebbe voluto. Ma era come se Gee avesse buttato l’intera faccenda nel dimenticatoio, e lui non aveva insistito.
“Frank.” Disse Gerard in quel momento, e abbassò lo sguardo fino a incontrare i suoi occhi.
“Gerard” bisbigliò lui, quasi timoroso. Aveva un assurda voglia di baciarlo di nuovo, proprio lì, davanti a tutti.
Gerard si avvicinò e lo abbracciò. Fu un abbraccio freddo, di quelli che dai alla gente che non riesci proprio a sopportare, o di quelli che dai a qualcuno ringraziandolo per un regalo che a te non piace. Un abbraccio privo di qualsiasi sentimento. Vuoto.
Frank non ricambiò. Rimase lì impalato, immobile, pregando che finisse presto. Non avrebbe potuto sopportare quella situazione un momento di più.
E quando Gerard si staccò e, salutando un’ultima volta la sua famiglia, salì sul treno, Frank non ne poté più. Si voltò e scappò dalla stazione, senza guardare in faccia nessuno, urtando la gente e chi gli capitava davanti, trattenendo quasi il respiro per non sentire più nulla, niente di niente…

No.
È come quelle pellicole difettose, quelle che si bloccano e ricominciano da capo senza che tu faccia nulla, ogni volta ancora e ancora, fino a quando non sai a memoria quella scena del film.
È proprio così che mi succede con la scena di Gerard che parte. Si ripete in continuazione nella mia testa, ogni giorno, ogni ora, rendendomi quasi pazzo.
Forse sono pazzo. Forse sono ossessionato, forse mi aggrappo all’unico amico che io abbia mai avuto come se mi stessi aggrappando ad un salvagente per rimanere a galla. Ma cosa succede se quel salvagente è bucato e tu ti accorgi di stare lentamente affogando, e non puoi far nulla per salvarti?
La verità è che la mia mente non ci pensa molto. Insomma, vivo la mie giornate come sempre, e ora che è finita la scuola sono ancora più occupato a cercare un lavoro che mi mantenga per il resto della mia vita. Qualcosa di stabile, duraturo. Sicuro. Preferibilmente non a contatto con la gente.
E poi c’è anche Mikey. Non passiamo proprio tutti i giorni assieme, ma quando posso vado a casa loro, preparo qualcosa da mangiare, lo aiuto con i compiti. Sta maturando velocemente, sì, ma non abbastanza dal non desiderare più una presenza maschile in casa, qualcuno che lo faccia sentire sicuro e protetto, almeno ogni tanto.
Gerard aveva ragione. Qualche mese dopo la sua partenza, precisamente a settembre, la notizia dilaga in tutte le radio.
La Germania ha attaccato la Polonia. E ancora adesso, dopo tre mesi dallo scoppio della guerra, gli Stati Uniti sono ancora indecisi se farsi da parte o scendere in campo, e in questo caso, decidere anche con chi schierarsi.
E se davvero gli USA si uniranno agli altri paesi in guerra, Gerard non tornerà nemmeno per salutarci e partire di nuovo. Non tornerà affatto.
Preferisco morire che vivere in quel modo”
Non voglio perderlo.
Ma forse è già successo.
Due mesi fa sono andato via di casa. È stata una decisione così, presa su due piedi e neanche ponderata bene in tutte le sue sfaccettature. È successo soltanto che un giorno sono tornato a casa e zia Willow voleva che le preparassi la cena, mentre lei si metteva lo smalto alle unghie. E io le ho detto no, e lei ha continuato a insistere e io le ho sbattuto il piatto praticamente in faccia e le ho detto “Preparatele tu queste cazzo di uova”. Poi sono salito di sopra, sono entrato in bagno e ho trovato mio zio Robert che si masturbava sul gabinetto, e per poco non ho vomitato.
Così sono andato in camera e ho fatto le valigie. Fine.
Per un po’ sono stato in casa Way, con Mikey, ma era ovvio che lui si sentisse a disagio ogni volta che dovevo assistere alle crisi isteriche di Donna. Certo, gli faceva piacere la mia presenza e la mia compagnia, ma lavorando nello stesso bar in cui aveva lavorato Gerard prima di partire(dopo il suo licenziamento avevano ovviamente bisogno di un sostituto), sono riuscito ad accumulare abbastanza soldi e risparmi per affittare un appartamento in centro, il più lontano possibile dalla casa dei miei zii. E Mikey non ha protestato più di tanto quando gli ho detto che me ne andavo.
Forse non gli sono molto simpatico. O almeno non più. Gli ricordo Gerard, gli ricordo la tristezza che deve portarsi addosso per non avere più accanto suo fratello, l’unico pezzetto sano rimasto della sua famiglia.
Solo dopo parecchie settimane, o forse mesi, in cui ho badato più a me stesso che a tutto il resto, mi rendo conto di quello che gli sta succedendo.
Succede una sera, quando dopo il lavoro decido di passare da lui per vedere come sta. Quando busso alla porta però, viene ad aprirmi soltanto la signora Way.
“Oh Frankie, caro!” esclama lei, abbracciandomi di colpo. Mi lascia entrare e io mi guardo intorno. La casa cade sempre di più in rovina, e Mikey non può certo occuparsi di tutto. È ancora un ragazzino….
Per un attimo provo un odio profondo verso Donna Way, che non è riuscita a superare l’abbandono del marito e a portare avanti la casa con due figli a carico.
Ma passa subito. Non sono il tipo che porta rancore, e non potrei mai verso la madre di Gerard e Mikey.
“Mikeeeeey, c’è qui Frank che vuole vederti!” grida lei verso le scale, ma non riceve nessuna risposta. Sorride. “Sai, in questo periodo è sempre molto impegnato con la scuola. Dice che ha moooolti compiti da fare, sì sì. E io non voglio disturbarlo, eh no. Una madre non può disturbare i suoi figli mentre studiano, o non è una vera madre! Non credi anche tu?”
Il chiacchiericcio confuso di Donna non mi distoglie dal mio brutto presentimento, comparso non appena Mikey non ha risposto a sua madre. Normalmente, non avrebbe lasciato nemmeno che aprisse la porta, sarebbe sceso di corsa per venire lui personalmente.
“Io salgo di sopra, signora. Lei torni pure alle sue occupazioni, ok?” le dico dolcemente, riaccompagnandola in salotto. La donna continua a blaterare e io la lascio lì, salendo subito le scale e arrivando davanti alla porta chiusa della sua camera.
“Mikey?”
Silenzio. Forse… forse dorme. Sì, dorme sicuramente.
Allora perché il cuore continua a battermi forte come se stessi per scoprire qualcosa che non mi piacerà?
Socchiudo la porta. “Mikey….” Mormoro, ma non appena metto piede nella stanza e accendo la luce, il sangue mi si ghiaccia nelle vene.
“Mikey!” urlo, correndo verso di lui. È sdraiato scomposto sul letto, una mano penzolante verso terra e l’altra abbandonata lungo il fianco. Ha gli occhi chiusi, il viso pallido e la bocca semiaperta, e accanto a lui sulle lenzuola c’è una busta semitrasparente con qualcosa di verde al suo interno.
Non ho mai visto della marijuana in vita mia, ma la riconosco all’istante.
Oddio santissimo. “Mikey! Mikey, rispondimi” lo chiamo, scuotendolo per le spalle, tirandogli pizzicotti sul braccio, cercando di rialzarlo. Non posso… lui non può aver fatto questo, oddio e ora rischio anche a chiamare l’ambulanza perché poi vorranno parlare con la madre e lei non è nelle condizioni di rispondere e le toglieranno Mikey e lo manderanno da qualche altra parte e poi cosa dirò a Gerard oddio oddio oddio oddio….
A un certo punto, la mente mi si schiarisce. Una fredda razionalità prende il posto del panico e della paura, e subito mi passo un braccio di Mikey sulle spalle e lo trascino fino al bagno, dove inizio a buttargli acqua fredda sul viso. Gli ascolto anche il battito cardiaco, ma sembra tutto regolare.
“Avanti, svegliati, forza”
Dopo qualche attimo di terrore totale, lui reagisce. Sento che tossisce e cerca di liberarsi dalla mia presa, ed io lo mollo subito facendolo cadere a terra.
Non ci posso credere. Ringrazio Dio o chiunque ci sia lassù, perché stavo davvero per morire anche io assieme a lui.
Mikey batte le palpebre e afferra alla cieca un asciugamano per asciugarsi il viso. “Ma che diavolo…?”
Poi alza lo sguardo verso di me. “Frank…”
Faccio un respiro profondo e cerco di cancellare il terrore puro che si legge sul mio volto. “Mikey, tu hai fumato marijuana. E stavi per andare in overdose, lo sai?”
In questo momento vorrei solo abbracciarlo e dirgli che è tutto finito e che starà bene, non accadrà mai più perché non è così che si riesce ad annullare il dolore, non è per niente così.
Mikey si rialza in piedi. Noto che barcolla un po’, evidentemente ha ancora un po’ di quella merda in corpo. Ha le pupille dilatate e mi fissa un po’ stralunato. “Sul serio? Senti, io…”
“Cosa diavolo ti prende, Mikey? Eh? Credi che così facendo non proverai più nulla? Credi che tutto questo svanirà, che i tuoi problemi svaniranno come per magia? È questo che credi? E scommetto anche che hai preso i soldi per comprarti quella roba dal fondo che vi ha lasciato Gerard, quello che si è guadagnato con tanto sudore lavorando perché VOI poteste stare bene!”
Lui mi guarda senza dire una parola.
Sospiro. Non sono bravo con le ramanzine, non sono bravo con i ragazzini, non sono bravo affatto in queste cose. Mesi fa ero anche io un bambino, infantile e irrazionale, e avrei dato di tutto per trovare un metodo che mi facesse smettere di soffrire.
Non posso accusarlo di qualcosa che avrei fatto io stesso, al posto suo.
Mi volto, torno in camera sua e afferro la marijuana dal letto. “Ti tengo d’occhio, Mikey” gli dico, e quando gli passo accanto non posso evitare di dargli una spallata. “Buonanotte.”
Torno a casa a piedi, passeggiando per le strade illuminate soltanto dai lampioni a gas.
Mentre sono immerso nei miei pensieri, si ferma accanto a me un’auto, probabilmente un taxi, e subito dopo dallo sportello posteriore scende una donna. Faccio finta di niente e continuo a camminare, ma qualche istante dopo mi volto e la trovo lì, ferma. Il taxi è andato via e l’ha lasciata sul marciapiede, da sola, con due valigie tra le mani e l’aria smarrita.
I nostri sguardi si incrociano e lei mi sorride subito, venendo verso di me. “Oh, santo cielo, meno male che c’è qualche buon gentiluomo in giro a quest’ora” mi dice allegramente.
Più per cortesia che per altro, mi offro di portarle le valigie e lei accetta di buon grado. “Sa, sto cercando l’indirizzo della casa in cui dovrei trasferirmi e… dovrebbe essere qui da qualche parte” mormora, guardandosi intorno. Tira fuori un foglietto dalla tasca del cappotto costoso e lo legge pensierosa.
“Fa’ vedere a me” dico gentilmente, e quando leggo l’indirizzo sul foglietto le faccio un sorriso rassicurante. “Stia tranquilla, l’accompagno io a casa. Non è molto lontano da qui”
Il suo viso si illumina di felicità pura e mi fa un sorriso quasi abbagliante. “Oh, la ringrazio così tanto!” esclama. Noto solo ora che è una donna molto bella, con i capelli neri raccolti in una reticella tempestata di brillanti e occhi altrettanto scuri ma intensi e luminosi.
Decisamente non il mio tipo. Non che mi interessi, tra l’altro. Non mi sono mai soffermato sul mio orientamento sessuale, ma non essendo mai stato attratto seriamente da una donna, beh… e posso solo supporre cosa significhi voler baciare il proprio migliore amico.
Non appena arriviamo all’indirizzo indicato sul foglietto, lei si ferma davanti ad un portone con battenti in oro. “E’ qui” dice, prendendo le valigie dalle mie mani. Si sporge verso di me e mi lascia un delicato bacio sulla guancia. “Non so davvero come ringraziarla”
“Si figuri. Beh, io abito proprio a un isolato da qui perciò spero proprio di rivederla, uno di questi giorni” dico, contagiato da tutta la felicità che sprizza da lei.
“Ma certo!” risponde lei.
Le porgo una mano. “Io sono Frank, comunque”
Lei me la stringe, non smettendo di sorridere. Dio, inizia quasi a darmi sui nervi, e non sono un tipo che si spazientisce facilmente.
“Piacere, Lindsay.”

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Only old friends ***


Oook, domani io mi sveglierò e mi ritroverò di nuovo al 23 dicembre, quando le vacanze di Natale erano appena iniziate e io ero felice e spensierata, veroverovero?
Beh, suppongo di no. Comunque, vi lascio al capitolo che sicuramente scioccherà un bel po’ di voi… ma ehi, senza qualche colpo di scena non c’è gusto, no? Ovviamente avrete parecchie domande alla fine, ma ogni dubbio che sicuramente vi farà porre questo capitolo, sarà spiegato nei successivi, giuro
Spero vi piaccia
Baci, M.
 
CAPITOLO 6 – ONLY OLD FRIENDS
 
FRANK
 
Gli ultimi tre mesi prima del ritorno di Gerard trascorrono relativamente tranquilli. Ogni santo giorno vado a casa di Mikey per controllare che tutto vada bene, e che non faccia qualche altra cazzata. E nonostante non trovi più nulla di sospetto nella sua camera, noto che ha cominciato a fumare e questo non mi piace. Anche perché non so proprio distinguere una canna da una sigaretta normale, perciò non posso controllarlo nel vero senso della parola.
Rivedo Lindsey un paio di volte, prima al supermercato, poi una sera al bar dove lavoro. Mi chiedo ancora cosa ci faccia una donna così giovane da sola in questa città, dove ti fissano male anche se porti una spallina abbassata. Lei però è sempre così gioviale e allegra, e non sembra curarsi di quello che mormora la gente.
“Cosa dirai a Gerard quando tornerà?” mi chiede Mikey una sera. Siamo in camera sua e lui è sdraiato sul letto e fa rimbalzare uno yo-yo per terra, mentre io sono seduto alla sedia della scrivania a leggere un libro. Nonostante la paura per Mikey, casa Way è l’unico posto in cui posso dire di trovarmi davvero a mio agio. È l’unico posto dove so di trovare un rifugio sicuro, qualsiasi cosa accada. L’unico posto in cui ho dato e ricevuto amore.
“La verità” rispondo senza troppi giri di parole.
Il tump tump dello yo-yo si ferma di colpo. Guardo Mikey, che sta fissando il soffitto in silenzio. “Mi dispiace” mormora.
“Per cosa?”
“Per tutto. Per averti trascinato in questa storia. So che ti senti in colpa, e che quando tornerà Gerard dovrai dirgli di non essere stato in grado di badare a me.”
“Io sto badando a te.”
Lui scuote la testa, sorridendo appena, ma non dice più nulla. Cerco di insistere, di chiedergli cosa intende, ma dopo quelle ultime parole rimane muto per il resto della serata.
Ho paura. Non so nemmeno io di cosa, ma ho paura.
 
 
E poi arriva. Arriva la sua lettera, scritta con la sua solita calligrafia storta e disordinata, in cui ci comunica che tornerà la settimana prossima, e che se vogliamo possiamo aspettarlo alla stazione.
Potrei dire che non sono elettrizzato, che non sto letteralmente morendo di ansia, che non sono al culmine della felicità... ma mentirei.
La verità è che sia io che Mikey trascorriamo l’ultima settimana prima del suo arrivo in uno stato quasi catatonico, in cui non facciamo altro che muoverci in silenzio senza sapere cosa dire, cosa fare, cosa pensare.
Gerard torna.
Gerard torna dopo un anno di assenza.
Torna da noi.
La signora Way si dà da fare per preparare una specie di festa, e io e Mikey la aiutiamo. Non posso ancora crederci che tra pochi giorni rivedrò il mio migliore amico, l’unica persona a questo mondo che mi abbia letto dentro, nel profondo di me stesso.
Sembro una bambina impazzita. Faccio le prove davanti allo specchio del mio appartamento, cercando di assumere l’espressione che farò o di dire ciò che dirò quando me lo ritroverò davanti, e i suoi occhi si poseranno su di me e lui mi sorriderà, quel sorriso sempre così raro e per questo così prezioso.
O forse non accadrà nulla di tutto questo, e Gerard sarà cambiato inevitabilmente, cresciuto e maturato, e io annegherò nella tristezza.
Non voglio pensarci. Non DEVO  pensarci.
 
La mattina del “grande giorno”, io, Mikey e la signora Way ci dirigiamo con un’ora di anticipo alla stazione. E sì, siamo davvero esagerati, ma provate a pensarci un po’. Donna Way ha soltanto i suoi figli come unico conforto nella sua vita, Mikey è un quindicenne sbandato a cui manca suo fratello, io… io sono un ragazzo che non riesce ancora a crescere e si aggrappa al passato.
Abbiamo tutti e tre bisogno di Gerard nella nostra vita.
Ci sediamo a una panca di legno, in attesa. Donna fissa insistentemente le rotaie, quasi desiderando che da un momento all’altro compaia suo figlio. Mikey giocherella con le maniche del maglione, io mi mangiucchio le unghie.
Attesa.
Attesa.
Qualcosa mi si ritorce nello stomaco. Non so se è la paura di chi potrò trovare davanti a me tra qualche minuto, o la voglia di rivederlo nonostante i rischi e tutto.
Le sue ultime parole sono state “Frank…”, e poi quell’abbraccio che ho faticato a dimenticare. Così freddo, così inutile. Avrei preferito non lo facesse affatto, che tormentarmi per un anno con un ricordo del genere.
Dopo un po’ di tempo, altra gente comincia ad affluire in stazione. Molti sono famiglie venute ad accogliere i loro figli, altri partono per chissà dove, e tra la folla… tra la folla scorgo una figura scura, in attesa, che mi sembra familiare.
Lindsey.
Ma cosa ci fa qui? Probabilmente aspetta qualcuno, perché non ha né borse né valigie. Forse qualche sua amica che andrà a vivere con lei, o magari chissà, il suo fidanzato.
E poi… poi non ho più tempo per pensare, perché si sente un fischio in lontananza e io e Mikey scattiamo in piedi di colpo.
“E’ il treno di Gee?” chiede lui, fremente di ansia.
Annuisco. “Sì. È il treno di Gee.”
La locomotiva rallenta stridendo lungo i binari, fino a quando non si ferma del tutto. Dopo qualche secondo, le porte si aprono e dall’interno comincia a scendere gente.
Io, Mikey e la signora Way ci facciamo largo tra la folla che sgomita, cercandolo, ma non c’è la minima traccia di lui. Comincio a preoccuparmi. Forse non era questo il treno, forse ha sbagliato a indicarci l’orario, forse non è partito, forse….
“Gerard!”
Mi volto di scatto al suono di quella voce.
E il tempo si congela. Non c’è più nessuno, non c’è più il treno, non ci sono più i passeggeri che scendono e ci passano accanto, non ci sono più Donna e Mikey. Ci sono io.
E c’è questo ragazzo che ha appena messo piede a terra, con una borsa sulle spalle e un’aria imbronciata che conosco bene. Ha gli occhi verdi, luminosi come nessun altro, un naso perfetto con la punta all’insù, e folti capelli neri che gli ricadono in ciocche scomposte sulla fronte, dandogli quell’aria ribelle che ho sempre adorato. È più alto, più magro ma al tempo stesso leggermente più muscoloso.
È Gerard. È bellissimo.
E una donna gli si è appena buttata tra le braccia.
All’improvviso tutto ritorna al proprio posto. La folla, i rumori, il treno che sbuffa mentre sta per ripartire, Mikey e Donna accanto a me, tutto sembra travolgermi all’improvviso e l’impatto è così forte che barcollo all’indietro, andando a sbattere contro un signore che si volta fissandomi male.
Ma io sto guardando Gerard. Sto guardando Gerard che sta stringendo tra le braccia una donna con i capelli neri e un sorriso smagliante, una donna che io già conosco. Lui si stacca e le dice qualcosa nell’orecchio, lei fa un risolino e poi si baciano.
Si baciano.
Gerard. Bacia. Lindsey.
“Eccolo!” urla Mikey, e corre verso di loro trascinandosi dietro la madre. Gerard si volta e li vede arrivare, Mikey gli salta al collo, Donna fa lo stesso, Lindsey li guarda sorridendo amabilmente.
Io rimango qui. Immobile.
Sono confuso. Cioè, sì. C’è… c’è qualcosa che non quadra. Forse sto impazzendo, forse mi sto immaginando tutto e Gerard non è mai partito e ora noi siamo nella sua stanza a chiacchierare come facevamo sempre fino alla sera tardi, e non è mai successo nulla di tutto questo.
Sì, deve essere così. Sono quasi tentato di tirarmi un pizzicotto per risvegliarmi da questo assurdo incubo, ma a un certo punto Mikey dice qualcosa a Gerard e lui alza lo sguardo e incrocia il mio.
Viene verso di me, accompagnato da Lindsey che gli si è aggrappata come una sanguisuga al braccio.
È tutto un sogno.
Sto sognando.
“Ehi, ma tu sei Frank!” esclama la donna, poi guarda Gerard che sta fissando me che sto fissando lui.
Credo di stare per cadere nei suoi occhi. È sempre stato così, ogni volta che mi guardava. Perdevo la cognizione del tempo, perdevo il controllo, perdevo tutto. Volevo soltanto continuare a fissarlo per sempre, sarebbe stata più che soddisfacente come eternità per me.
“Ciao Frank” mi dice, e il suono della sua voce mi mancava così tanto che…oh, dio.
Faccio un respiro tremante. “Ciao Gerard.”
Lui pare riscuotersi perché distoglie lo sguardo da me e lo posa su Lindsey, ancora al suo fianco. “Frank, ti presento mia moglie, Lindsey. Lindsey, lui è Frank”
Sto per vomitare.
Devo… devo assolutamente trovare qualche posto in cui nascondermi, perché non riuscirò a trattenermi a lungo. Devo vomitare devo vomitare devo vomitare non posso io non…
“Si lo so” ride lei “ci siamo già incontrati. È quello che mi ha aiutato a trovare casa nostra, hai presente?”
“Ah, già…”
“Ma voi due vi conoscete quindi?”
Esita un istante. “Siamo solo dei vecchi amici.”
Sono in polvere sul pavimento. Una poltiglia di cenere scura, grigia, smorta. Passerà di certo qualcuno a pulire questo posto, e mi troverà qui, a terra, senza vita. Fate in fretta però. Il dolore è troppo forte.
Ti presento mia moglie, Lindsey.
Dolore.
Siamo solo dei vecchi amici.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** I was dead ***


 So di aver lasciato tutti(o almeno quei pochi a cui piace questa storia) un po’ in sospeso con il capitolo precedente, e vi siete fatti tante domande ecce ecc. Perciò beh, con questo risolverete un bel po’ di dubbi, e c’è anche un pizzico di frerard (nulla di romantico, purtroppo) che non dispiace mai a nessuno : )
Ps. Mi scuso perché forse risulterà un tantino corto, ma ho sempre odiato i capitoli lunghissimi e noiosi, spero mi capiate.
M.
 
 
CAPITOLO 7 – I WAS DEAD
 
FRANK
 
“Ma come avete fatto a sposarvi mentre eri in caserma?!”
Ecco beh, adoro Mikey per essere andato dritto al sodo.
Siamo seduti attorno al tavolo di casa Way, a pranzare. Gerard e Lindsey sono seduti vicini, vicinissimi, e ogni tanto lei gli accarezza la mano da sotto il tavolo.
Che schifo.
Gerard sospira, Lindsey scoppia a ridere. “Beh, tesoro, prima o poi dovrai dirglielo no?”
Tesoro.
Non so davvero chi mi trattenga dall’impulso di vomitare la pasta appena mangiata.
“Lindsey è la figlia del senatore Ballato. Durante i primi mesi di addestramento, il nostro compito per un paio di settimane, in via del tutto straordinaria, fu quello di proteggere la villa del senatore da eventuali attacchi, poiché la guerra era appena iniziata ed eravamo tutti un po’ nel panico. E lì l’ho conosciuta.” Si guardano per un istante, sorridendosi. Gerard sembra… se non lo conoscessi così bene direi quasi che forse sta mentendo, che finge, che non la sta davvero guardando con amore.
Ma è così. La sta guardando come io ho sempre guardato lui sin da quando l’ho conosciuto.
“Ci siamo innamorati subito” interviene Lindsey, cercando un sorriso o almeno un appoggio in ciascuno di noi, ma evidentemente non ne trova nessuno, dato che io ho la testa abbassata sul piatto da più di mezz’ora, Mikey è troppo piccolo e Donna Way continua a sorridere e ad annuire senza chiaramente capirci nulla.
Però continua, imperterrita. “Mio padre ci ha scoperti, e mi ha segregato in casa. Lui… beh, voleva che sposassi un uomo del mio stesso ceto sociale. Un politico importante, o un avvocato o un dottore o chissà cos’altro, ma non di certo un semplice soldato. Perciò, insieme a Gerard ho progettato la mia fuga. Sono scappata di casa con i risparmi necessari – molti se considerate il patrimonio della mia famiglia -  e sotto consiglio di Gerard ho affittato una casa qui, nella sua città natale, così quando sarebbe tornato avremmo potuto stabilirci in un luogo vicino alla sua famiglia. Prima che fuggissi abbiamo contattato il sacerdote del paese, che ci ha sposati nella chiesetta accanto alla caserma.”
Sembra una storia di quei romanzi rosa che pubblicano a puntate sui giornali. Sembra quasi troppo perfetta per essere vera.
Eppure lo è.
Questa ragazza ha lasciato la sua vita di lusso e comodità soltanto per sposare Gerard. E posso solo immaginare un amore così grande da spingerti a sacrificare tutto ciò.
Dolore.
Non pensarci.
“Ma che bellissima, bellissima storia d’amore!” esclama all’improvviso Donna, afferrando le mani sia di Gerard che di Lindsey e stringendole tra le sue. “Oh, sono così felice che il mio figliolo abbia trovato qualcuno che lo ami, oh come sono felice…”. Sembra quasi che stia per scoppiare a piangere da un momento all’altro. Lindsey sorride imbarazzata, e io e Mikey ci guardiamo.
Sì, non piace a nessuno dei due.
Ad un tratto lo sento. Sento il suo sguardo su di me, e alzo inevitabilmente il mio per fronteggiarlo. Fisso Gerard sfrontatamente, quasi invitandolo a chiedermi “Cosa c’è che non va?”. Lui mi fissa di rimando, e sembra quasi che non sia cambiato nulla da quando eravamo due amici liceali. Anche allora ci parlavamo con uno sguardo.
Ora però, per la prima volta da quando lo conosco, non riesco a interpretare quello di Gerard. È impenetrabile, impassibile, freddo. Non c’è nulla in quegli occhi, o almeno nulla che io possa scorgere.
E all’improvviso capisco.
Gerard è tornato dietro la lastra di vetro. La sua lastra, quella indistruttibile e dura come l’acciaio, quella attraverso la quale lui può vedere il mondo, ma il mondo non può vedere lui. Quella che si è costruito scheggia dopo scheggia, per anni, fino a quando non sono arrivato io.
È tornato lì dietro, e so già che c’è poco da fare.
“Quindi… adesso tu andrai a vivere con lei?”
La voce di Mikey spezza la tensione, facendomi distogliere gli occhi da Gerard. Ha pronunciato “lei” con un tono così sprezzante, quasi dispregiativo, ma non posso dargli torto.
Lindsey allunga una mano verso di lui. “Puoi venirci a trovare quando vuoi, sai?”
Mikey guarda la sua mano disgustato. “Ah ok.”
Lei ci rimane quasi male e la ritira, ma ad un “no” silenzioso di Gerard con la testa, capisce di non dover insistere. “Mikey, dopo io e te dobbiamo parlare.” mormora.
Il fratello minore si alza di scatto in piedi, rovesciando a terra la sedia e facendoci sobbalzare tutti. “Non ho voglia di parlare con te!” sbotta, e senza dire un’altra parola corre su per le scale, scomparendo oltre la porta della sua stanza.
Donna indica la sedia, sconcertata. “Queste sedie le aveva comprate Donald…” sussurra, accennando a suo marito.
Sento che sta per arrivare una sua crisi a momenti. Io e Gerard ci guardiamo e come se ci fossimo capiti al volo ci alziamo contemporaneamente per portare Donna in soggiorno. “Su mamma, ora va a leggere un po’ il giornale, ci occupiamo noi di sparecchiare” le dice dolcemente suo figlio, prendendola per mano e accompagnandola fino alla poltrona. Lei lo guarda come se non lo conoscesse. “Oh, davvero? Fareste questo per me?”
“Se vuoi le faccio compagnia io” si alza Lindsey “sicuramente tu e Frank avrete molto di cui parlare e non voglio essere d’intralcio”
Sia io che Gerard stiamo per replicare, ma lei sorride. “Avanti, avete quelle cosette di voi maschi, non mentite”, e dicendo ciò raggiunge Donna in salotto.
Siamo soli.
Ora sarebbe il momento perfetto per baciarlo in bocca e dimenticare tutto, o mandarlo a fanculo e lasciarlo qui a sparecchiare da solo.
Già. Ma non faccio né una né l’altra. Comincio a levare i piatti dalla tavola, mettendoli nel lavandino, e Gerard mi imita subito.
“Come stai?” chiede dopo un po’.
Ha anche il coraggio di chiedermelo. Mi sa che a stare in quella caserma si è beccato qualche forma di demenzialità senile.
“Bene” rispondo a mezza voce, iniziando a sciacquare i piatti.
Evidentemente non è convinto, perché apre di nuovo la bocca per parlare, ma io lo blocco. “Senti, se devi stare qui allora devi aiutarmi, altrimenti puoi tornartene a casa con la tua mogliettina” borbotto, non riuscendo a trattenermi.
“In teoria questa è casa mia” ribatte lui.
Mi fermo e lo guardo. “Questa non è casa tua da parecchio tempo, Gerard.”
Mi ignora. “E dovrei essere io a lavare i piatti di casa mia, non tu.”
“Mi stai cacciando?”
“Io non…”
“Bene.” Mi asciugo le mani, prendo il cappotto di pelle dalla sedia e sto già per uscire quando lui mi afferra un braccio, strattonandolo e costringendomi a guardarlo.
Occhi negli occhi.
Non guardarlo, dannazione.
Deglutisco. “Gerard…” dico in tono di ammonimento.
“Frank…” fa lui nello stesso tono.
Cerco di liberarmi dalla sua presa ma lui stringe più forte, facendomi quasi male il polso. Chissà quanta massa muscolare ha messo su in anno. Finalmente alzo lo sguardo. “Mi spieghi cosa diavolo vuoi?”
“Voglio sapere che ti prende. Voglio sapere perché non sei felice.”
Perché non ho più te.
Invece gli pongo una domanda anche io. “La ami?”
Lui sbatte le palpebre, colto di sorpresa. “In… che senso?”
“Nel senso in cui si ama una persona, Gerard. La ami? Faresti di tutto per lei, daresti la vita per lei, rinunceresti a tutto ciò che hai?”
“Io…”
Non risponde perché non sa la risposta o ha paura di ciò che potrebbe dire?
Ben presto è chiaro. Lui non lo sa.
Annuisco, e mi scappa una risatina. “Beh, complimenti allora. Almeno saremo in due a soffrire grazie a te.”
Molla di colpo la presa, come se si fosse scottato. Mi guarda sconcertato. “Di cosa diavolo stai parlando?”
Forse sono andato troppo oltre, e me ne rendo conto solo ora. Non avrei dovuto dirlo, ma adesso è troppo tardi per riparare: lo lascerò a trarre le conclusioni da solo. In fondo cosa ho da perdere? La sua amicizia? Beh, quella si è inevitabilmente rovinata da quando ha rimesso piede sul suolo di questa città. La mia vita? È una merda anche senza complicazioni di questo genere.
“Frank, io ero morto” dice all’improvviso, cogliendomi di sorpresa. “Io ero morto dentro, e tu lo sai. Andarmene da qui, lasciare te, la mamma e Mikey, trasferirmi in quello schifo di caserma dove tutti gli sguardi erano fissi su di me, ostili, feroci, diffidenti… non è stato facile. Ero solo come non mai in vita mia, e Lindsey mi ha risollevato. Mi ha aiutato a superare quei mesi, mi ha aiutato in tutto. Sono cambiato. Il vecchio Gerard è morto, devi accettarlo.”
Le sue parole mi scavano un solco nel profondo, scandagliandomi l’anima come tanti aguzzi pezzi di vetro che ti lacerano la carne. E fa male. Tanto male. “E io e te?” replico con voce strozzata, “Io non avrei potuto aiutarti? Non ti ho aiutato quando eravamo al liceo? Non sono stato l’unica persona oltre a Mikey che ti è rimasta accanto sempre, in ogni istante?”
“Sai, Gee” mormoro dopo qualche attimo di silenzio, usando di proposito il vecchio nomignolo con cui lo chiamavamo io e Mikey “mentre tu eri impegnato a farti “aiutare” da Lindsey scopandotela, qui noi cercavamo di sopravvivere senza di te. E abbiamo aspettato un anno intero per vederti tornare. Ma ehi, il vecchio Gerard è morto no? Beh” concludo con voce glaciale “vallo a spiegare a tuo fratello di sopra.”
Lui rimane paralizzato a fissarmi, incapace di parlare. So che con Mikey ho toccato un tasto debole. So quanto deve avergli fatto male vederlo reagire così a tavola.
Ma sono troppo arrabbiato a preoccuparmi dei miei sentimenti feriti, per badare ai suoi.
Nella vita siamo tutti egoisti, alla fine. Non ci sono eccezioni.
“Ciao Gerard”
Ed esco sbattendomi la porta alle spalle.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** We only live once ***


Comincio ad odiare questa fanfiction. Trasmette troppe cose a me per prima che la scrivo, e mi chiedo perché io stia creando qualcosa di così doloroso e triste. Eppure continuo, perché credo nella storia e so che almeno a una buona parte di voi piace, e questo mi fa davvero davvero felice, non sapete quanto: )
Comunque.
Buona lettura
M.
 
 
 
 
 
CAPITOLO 8 – WE ONLY LIVE ONCE
 
 
FRANK
 
Non torno più in casa Way per le successive due settimane, o anche più. Mi sento in colpa per Mikey, perché sicuramente neanche lui avrà più voluto vedere Gerard ed è rimasto da solo. Di nuovo.
Lo odio. Lo odio per quello che ci ha fatto, lo odio per averci fatto aspettare, sperare, desiderare che lui tornasse. Lo odio per essere tornato e aver distrutto tutto, con una semplice frase.
Lei è mia moglie, Lindsey.
Odio anche quella donna, perché ci ha portato via Gerard.
E lui non ha neanche vent’anni, dannazione. È un ragazzo. Un ragazzo che è cresciuto troppo presto, e ora si ritrova sposato con una donna ricca sfondata che lui non ama. Non so nemmeno perché lo ha fatto.
So soltanto che non riavrò più indietro il mio amico, e devo farmene una ragione.
Come se non bastasse, qualche settimana dopo il nostro ultimo incontro, eccolo varcare la soglia del bar in cui lavoro. È accompagnato da Lindsey e un altro paio di coppie. I ragazzi sono tutti soldati con la divisa militare, proprio come Gerard, mentre le donne sono sicuramente ragazzine ricche e viziate come Lindsey.
Ecco le sue nuove compagnie, quindi.
Io sono dietro il bancone, e quando uno di loro si avvicina per ordinare qualcosa mando Jonas, il cameriere più giovane, perché non ho proprio voglia di avere a che fare con nessuno di loro.
“… e per questo mi ha detto ‘Non ci pensare nemmeno amico!’” ride uno dei soldati, e tutti quanti ridono con lui, compreso Gerard. Solo che quella non è la sua risata. Non è la risata che ero abituato a sentire, quella serena e spensierata che riusciva a tirarmi sempre su di morale in qualunque situazione. È una risata estranea, sconosciuta e fredda. Falsa.
Proprio in quel momento, come se si fosse accorto dei miei occhi posati su di lui, alza lo sguardo e mi nota. La sua faccia è palesemente sorpresa: non sapeva che lavorassi qui.
Mi rendo conto, con un colpo al cuore, che lui non sa più nulla di me. Non sa cosa ho fatto negli ultimi dodici mesi, non sa che me ne sono andato di casa, non sa che ho comprato un appartamento, non sapeva nemmeno del mio nuovo lavoro, e di certo non sa quanto ho lottato per prendermi cura di Mikey. Cosa che lui ha smesso di fare.
Il tempo scorre, e loro al tavolo continuano ad ordinare alcolici. Gerard beve più di tutti, ed è strano perché lui mi aveva sempre detto di odiare la birra e cose simili, e ora invece è al quarto bicchiere pieno. Vorrei tanto correre lì e tirargli una sberla, gettargli quella dannata birra in faccia e scuoterlo per farlo svegliare, ma l’unica cosa che riesco a fare è continuare a guardare quanto si diverte, quanto sembra felice.
Potrete dire qualsiasi cosa di me, ma non che il mio istinto mi tradisce. Il mio istinto non sbaglia mai. E adesso mi sta dicendo ciò che è certo come la morte: Gerard è diventato un vero e proprio pezzo di ghiaccio, un concentrato di falsità che non so proprio dove abbia trovato, e non so proprio perché lo sia diventato.
Dopo qualche minuto, non ne posso più. Avere uno spettacolo del genere davanti non è davvero il massimo, così mi dirigo in cantina, dove c’è sicuramente da sistemare qualche scatolone o roba simile.
Appena sono da solo mi siedo su una cassa e poggio i gomiti sulle gambe, sospirando. In queste settimane non mi sono mai fermato a pensare, a riflettere, ma ora ecco che mi crolla tutto addosso in pochi istanti.
Sono solo.
La mia vita è solitudine pura.
Uno schifo, insomma.
“Quindi questo è il tuo sancta sanctorum?”
Sobbalzo al suono di quella voce e trovo Gerard sulla soglia della cantina, barcollante e frastornato, mentre si regge allo stipite. “E’ dove vieni a meditare eccetera?”
“Sei ubriaco. Torna dai tuoi amichetti” dico seccamente, rialzandomi e riprendendo a riordinare in giro. In realtà non c’è proprio nulla da riordinare, ma fingo di spostare qualche cassa di birra da un lato all’altro della stanza solo per mostrargli che sono impegnato. E che non ho nessuna voglia di parlargli.
“Frank, io voglio parlare con te”
Ecco. Ti pareva.
“Beh, io no. Specialmente con te in queste condizioni. Torna di sopra”
Lui si avvicina, si avvicina troppo e mi costringe a fermarmi e a cercare di respingerlo. “Gerard, smettila” borbotto. Non so cosa abbia intenzione di fare e non mi interessa.
“Frank”
Lo guardo.
“Sai che mi è sempre piaciuto il tuo nome? Frank… è così dolce, ha un suono così… così…” biascica con voce impastata, e sono sicuro che nemmeno lui sappia cosa sta dicendo.
“Gerard, stai delirando. Va via, se il proprietario ti vede qui mi licenzia”
Lui aggrotta la fronte, poi fa un sorrisetto malizioso. “Perché, cosa potrebbe pensare di noi?”
Sono scioccato. “Gerard, cosa diavolo…”
Lui sospira e allunga una mano per scostarmi una ciocca di capelli dalla fronte. Il contatto è così inaspettato e soprattutto delicato che mi fa rabbrividire inevitabilmente, e per quanto cerchi di nasconderlo lui se ne accorge. Il suo sguardo si fa improvvisamente triste, quasi nostalgico. “Mi dispiace, Frank.”
“Per cosa?” chiedo a mezza voce, temendo già la risposta.
“Per averti deluso. Io non sono quello che tu credevi che fossi. Sono una brutta persona, e io voglia che tu stia alla larga dalle brutte persone.”
Le sue parole sono assurde e completamente sbagliate. “Brutta persona? Senti tu stai male, ora ti porto da Lindsey così ve ne andate a casa” dico, lo prendo per un braccio e cerco di trascinarlo via, ma lui ribalta la situazione e mi attira verso di sé, fino a quando non sono a pochi centimetri dal suo petto.
La situazione sta degenerando. Gerard è ubriaco, non sa quello che dice, non sa quello che fa, e io mi sto lasciando trasportare da tutto questo... ardore che ha ripreso a dimostrare nei miei confronti. E non dovrei.
“Io ho dovuto.” continua a blaterare “Ero solo, e ho dovuto… ho dovuto cercare una soluzione. Lindsey era la mia soluzione. Lo è ancora, quando ho bisogno di scappare dalla mia vita.”
“Gerard…”
“Io e te siamo uguali, Frank. Siamo così uguali ma anche così diversi, e tu non sai quanto mi sei mancato, io pensavo solo a te e …” Scuote la testa per un momento, come per ritornare lucido. Non so se sia l’effetto dell’alcol o se intende veramente tutto ciò, ma in ogni caso non ho più così tanta voglia di andarmene.
Ingoio la paura e l’insicurezza. “Anche tu mi sei mancato” sussurro, guardandolo negli occhi.
Lui sorride, e il suo volto si illumina. Era questo il sorriso che volevo, che desideravo rivedere. E volevo che lo indirizzasse a me, soltanto a me. E sta succedendo.
“Sai cosa fanno alla gente come te, come me?” chiede dopo un attimo, ritornando mortalmente serio “Sai cosa fanno a un certo tipo di persone, in Europa? Li rinchiudono in grandi campi di lavoro, a zappare la terra, a morire di fame e freddo, e quando sono diventati ormai inutili, li uccidono.”
Sbatto le palpebre, confuso e spaventato. “Di che cosa stai parlando?”
“Delle persone come noi” replica lui, carezzandomi lentamente una guancia e provocandomi una scarica di elettricità lungo la schiena “Gente che prova…  prova quello che provi tu per me e… e quello che provo io per te.”
Il mio cuore perde un battito. Si blocca letteralmente, e poi riprende a galoppare più veloce di prima, sembra quasi che stia per uscirmi dal petto. Ho la gambe di gelatina e una confusione nel cervello che mi impedisce di pensare razionalmente, di fare o dire alcunché, riesco solo a fissarlo sbalordito.
“Tu cosa provi per me?” mormoro timorosamente dopo un tempo indefinito di silenzio.
Non risponde. Mi passa una mano dietro il collo, delicatamente, e con l’altra mi stringe a sé.

“Si vive solo una volta, sai?” sussurra nel mio orecchio, sfiorandomi dolcemente il lobo.
Poi mi bacia.
Mi coglie così di sorpresa che per un attimo sono tentato di arretrare, o di respingerlo, o di non ricambiare. Ma poi sento le sue labbra morbide che invitano le mie ad aprirsi, e improvvisamente qualcosa si scioglie dentro di me.
Tutta la tensione accumulata durante l’anno, tutta l’angoscia, la paura, e la rabbia quando l’ho visto tornare con Lindsey, trovano finalmente sfogo quando le sue labbra si posano sulle mie. E non ripenso al bacio di un anno fa, quando nessuno dei due sapeva come sarebbe andata a finire, quando io ero troppo ingenuo per capire di essermi andato a cacciare in un bel guaio. No.
Questo è diverso, perché allungo le mani e gliele infilo tra i capelli, guidando la sua bocca sulla mia, e lui mi stringe più forte e non si stacca nemmeno per respirare. Sento la sua lingua farsi strada nella mia bocca e la accolgo volentieri, sentendo pian piano un calore che non avrei mai creduto si potesse provare tutto in una volta, diffondersi dentro di me, su per la schiena e lungo le braccia e le gambe e sto andando in tilt, mi gira la testa e vorrei solo non smettere mai di baciarlo e sentire il suo respiro nel mio.
Sto soffocando. Sto soffocando in una marea di emozioni che si affollano dentro di me, l’una sull’altra, rischiando di farmi collassare. E mentre fino a qualche minuto fa lui era l’ultima persona che avrei voluto vedere sulla faccia della terra, ora mi sembra soltanto così sciocco che io abbia pensato per un momento di non avere bisogno di… questo. Di tutto questo. Di non avere bisogno di lui.
“Gerard? Sei qui?”
Ci stacchiamo di colpo, respirando affannosamente. Ho a malapena il tempo di allontanarmi da Gerard che Lindsey compare sulla porta. “Oh eccot…ah! Frank! Che piacere rivederti!” esclama, venendo verso di me e abbracciandomi.
La stringo debolmente e poi faccio un passo indietro, imbarazzato. Guardo Gerard che intanto sembra essere tornato l’ubriaco fradicio di poco fa e sta cercando di mantenere un po’ di contegno.
E se non l’avessimo sentita arrivare? E se ci avesse scoperto?
Solo adesso ricordo, con una sorta di puro terrore misto a senso di colpa, che Gerard è sposato. Ha una moglie che lo ama, e anche se lui può non amarla non ha il diritto di tradirla alle spalle.
Che cosa abbiamo fatto?
Il senso di colpa comincia a scavare dentro di me, rosicchiando tutto ciò che incontra, facendosi strada passo dopo passo.
È tutto così sbagliato.
Non… non doveva andare così. Non so nemmeno perché Gerard mi abbia baciato. Non so nemmeno perché io abbia ricambiato, visto quanto ero arrabbiato con lui fino a poco tempo fa.
“Sarà meglio tornare a casa, siamo entrambi ubriachi tesoro” dice Lindsey, prendendo sotto braccio Gerard e mandando un bacio volante a me come saluto. Gerard si gira un’ultima volta, lanciandomi anche lui un bacio volante e sbattendo le ciglia con fare civettuolo.
Dio, non ha decisamente il controllo delle sue azioni.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Safe and sound ***


Ok, devo ammettere che ho fangirlato molto anche io per il capitolo precedente. Spero di avergli dato la stessa intensità che intendevo dargli, perché sì, io non riesco a pensare a un ipotetico rapporto tra Gerard e Frank se non come intenso. Non ci sono vie di mezzo, solo tanti tanti feels ew
E, come al solito, spero di non spoilerarvi un po’ le cose anticipandovi già che non tutto finirà come tutti(compreso me), speriamo. Perciò con questo e il prossimo capitolo le cose inizieranno a complicarsi ulteriormente, eh già SORRY
Buona lettura
M.
 
 
 
CAPITOLO 9 – SAFE AND SOUND
 
 
FRANK
 
“Mi stai dicendo che hai passato tutto questo tempo a drogarti, fumare e a litigare con i professori?”
Oh porca miseria. La voce incazzata di Gerard si sente già dal vialetto di ingresso, e quando sono arrivato alla porta le urla di lui e suo fratello sono praticamente assordanti. Fortunatamente qualche tempo fa Mikey mi ha dato una chiave di riserva, così posso entrare senza essere notato.
Mi dirigo di sopra, verso la camera del minore. Li trovo lì, a urlarsi l’un l’altro, Mikey con il broncio e le braccia incrociate e Gerard con un pacchetto sospetto di sigarette in mano (evidentemente lo ha sorpreso a fumarle) e l’aria furiosa.
“Tornatene dalla tua puttanella e smettila di venire a rompermi le palle, ok?” urla infine Mikey, e sono scioccato perché non l’ho mai sentito usare parolacce in presenza di suo fratello. Mikey. Il ragazzino più dolce su questa terra.
Gerard infatti rimane più sbalordito di me, apre bocca per parlare ma non ne esce alcun suono. Il fratello sbuffa e scoppia a ridere. “Cosa hai da dire ora?”
“Non chiamare mai più Lindsey puttanella.”
“Perché, non lo è? La sfrutti come una prostituta qualunque!”
È evidente che a quest’ultima frase, Gerard non avrebbe retto. Lo conosco troppo bene, e più qualcosa colpisce nel segno per la sua verità, più lui si infuria e nega tutto.
Va verso il fratello e lo afferra rudemente per il bavero della camicia azzurra, fissandolo dritto negli occhi. Rimangono entrambi in silenzio per alcuni secondi, e la tensione è così palpabile che si può quasi toccare. Lo sguardo di Mikey è una sfida, una sfida a parlare, a negare ciò che tutti sappiamo. E Gerard la perde.
Sospira e allenta piano la presa, fino a mollarlo del tutto. Abbassa gli occhi e fissa un punto imprecisato nel pavimento, stringendo i pugni. “Mikey, io…”
Poi Gerard alza lo sguardo, e vede me sulla soglia della camera.
La sua espressione cambia repentinamente, e passa dal puro dolore a una specie di calma glaciale e innaturale. “Bene” dice, rivolto al fratello ma continuando a fissare me. “Non uscirai di casa per una settimana. Sei in punizione.”
Mikey emette un verso di disgusto misto a sbalordimento. “Cosa? Ma che diavolo…? Tu non puoi comandarmi Gerard, non puoi decidere cosa posso fare o non posso fare, tu non sei nessuno!”
Gerard mantiene a stento la calma, lo noto dalle vene pulsanti che gli percorrono la gola. “Io sono il tuo fottuto fratello. E tu farai quello che dico io, o chiamo gli assistenti sociali e ti faccio sloggiare da questa casa. Chiaro?”
E a quel punto non c’è proprio nulla da replicare, perché lui si volta e lascia la stanza, passandomi accanto senza neanche guardarmi.
Rimango solo con Mikey, fermo al centro della camera con una sorta di espressione di orrore sul viso.
“Quello non è mio fratello.”
E non potrei essere più d’accordo con lui.
 
Raggiungo Gerard in salotto. È seduto scompostamente al divano, con le gambe accavallate e l’espressione torva. Quando entro io non alza nemmeno la testa, continua a fissare la parete di fronte a lui come se potesse spuntarci all’improvviso la soluzione a tutti i suoi problemi.
“Gerard, non puoi trattare tuo fratello così” dico sospirando e sedendomi al suo fianco. Sto attento a non avvicinarmi troppo né a sfiorarlo in alcun modo, perché il ricordo di quella sera nella cantina del bar è ancora troppo vivido dentro di me. E spero anche dentro di lui, nonostante nessuno dei due abbia accennato più a nulla che riguardasse quella sera.
È meglio così, mi ero detto la mattina dopo, quando dopo aver incontrato Gerard lui mi aveva ignorato bellamente. È meglio così, anche se ho il cuore ridotto a piccoli pezzettini insanguinati. È meglio così perché lui è sposato e io sono uno stupido ragazzino che non pensa alle conseguenze.
È meglio così.
“Quando è iniziata tutta questa storia?” chiede lui, ignorando le mie parole.
Beh, è giunto il momento di dirglielo. “Pochi mesi dopo la tua partenza. Io sono venuto qui e lui… lui stava andando in overdose. Aveva fumato della marijuana e ti giuro, credevo fosse… credevo fosse…”
“Morto” completa la frase lui, senza la minima inflessione nella voce. Dopo qualche secondo annuisce tra sé e sé, poi si volta verso di me. “Perché non me lo hai detto?”
Perché ero troppo impegnato a soffrire per te, mi rendo conto improvvisamente. Sono stato egoista. Ho messo me al primo posto, invece di pensare che forse Mikey ha ancora più bisogno di Gerard di quanto ne abbia io.
“Tu… beh, eravamo tutti parecchio scioccati dal tuo ritorno e… credevo che con te qui presente le cose sarebbero migliorate.”
Scuote la testa, e per un istante noto una sincera confusione sul suo viso. “Perché si comporta così…? Io… io sono qui, lui dovrebbe parlarmi e…”
“Magari dovresti provare a parlargli tu”
Gerard mi guarda, quasi colpito da un’illuminazione. “Credi davvero che… funzionerà?”
“Lo spero. Per lui e soprattutto per te.”
“Frank…”
Inspiro bruscamente. Il suo tono di voce mi spaventa. “Sì?”
Mi guarda per qualche secondo in silenzio, come per cercare le parole giuste. Alla fine sospira. “Senti, so che forse sarai arrabbiato con me, e che non mi sono affatto comportato bene, ma…”
Sto quasi per mangiarmi le unghie dall’ansia. E so che non dovrei, perché è sbagliato e bla bla bla e lui è sposato con Lindsey, maledizione, ma è pur sempre Gerard. È pur sempre colui che tiene stretto il mio cuore in una morsa ferrea da quando l’ho visto per la prima volta. E nonostante tutto, questo non cambierà. Non cambierà mai.
Metterò sempre lui al primo posto. Sempre.
E in quel momento lo sentiamo entrambi.
Un gemito, e poi un tonfo secco. Io e Gerard comunichiamo come sempre con un unico sguardo, e ci alziamo all’unisono per correre in cucina a controllare.
La troviamo lì, stesa sul linoleum, con un braccio abbandonato sul petto e l’altro allungato verso la porta, come in una muta richiesta di aiuto.
Sento qualcosa congelarsi dentro di me, e la consapevolezza mista a terrore che forse, proprio quando pensavo che peggio di così non sarebbe potuta andare, è capitato.
Accade tutto a rallentatore. Gerard mi raggiunge, io mi faccio da parte, lui guarda il corpo steso a terra e spalanca la bocca e sul suo viso si alternano shock, sconcerto, paura, terrore, disperazione.
Dolore.
“Mamma!” urla Gerard, correndo verso di lei e inginocchiandosi al suo fianco. Le posa subito il capo sul petto per ascoltare il battito, e noto il tremore convulso delle sue mani mentre cerca di sollevarla e prova a trasportarla sul divano. “Dammi una mano” mi grida con voce rotta dai singhiozzi, e proprio mentre la stiamo adagiando sui cuscini compare Mikey sulla soglia del soggiorno.
“Chiama un’ambulanza!” gli urla suo fratello, e il ragazzino pare riprendersi dalla paralisi improvvisa perché corre in cucina a comporre il numero del 911. Sento la sua conversazione con loro mentre gli spiega con voce tremante l’indirizzo, mentre Gerard cerca disperatamente di rianimare Donna. Invano.
Mi sento inutile.
Mi sento completamente inutile, perché vedo lo sguardo negli occhi di Gerard, e so che provare a consolarlo ora sarebbe inopportuno e servirebbe a ben poco. L’unica cosa che posso fare è pregare qualsiasi cosa ci sia lassù, anche se non ci ho mai creduto. Pregare che Mikey e Gerard non perdano l’ultimo brandello rimasto della loro famiglia. Pregare che non rimangano più soli di quanto non lo siano già.
I soccorsi arrivano dopo pochi minuti, e quattro uomini si precipitano dentro casa per adagiare Donna su una barella e trasportarla nel loro furgone fino all’ospedale.
Gerard prova a seguirli, imitato da Mikey, ma uno di loro scuote la testa. “E’ meglio che ci raggiungiate direttamente all’ospedale.”
Gerard fissa il furgone sgommare via con una sorta di sguardo quasi al limite della sanità mentale.
E so con certezza che, se Donna muore, lui perderà definitivamente quella poca umanità che gli è rimasta.
 
 
“Le condizioni sono stabili. L’infarto che ha subito non ha danneggiato le funzioni vitali, perché per fortuna siete intervenuti in tempo e avete chiamato subito i soccorsi. È stato un vero miracolo.”
“S..si riprenderà?” chiede Mikey timorosamente.
Siamo nel corridoio dell’ospedale, davanti alla porta chiusa della stanza in cui è ricoverata Donna. Dal vetro sulla parete la si può vedere mentre dorme serenamente nella sua camicia da notte a fiorellini rosa.
Il dottore sospira. “Si riprenderà, sì. Ci vorranno giorni, ma ben presto si regolarizzerà tutto. Ora, vi consiglio di andare a riposarvi. Avete passato la giornata qui ad aspettare, ne avete bisogno. Ce ne occupiamo noi.”
“No” mormora Gerard. “No. Io resto. Frank, porta a casa Mikey. Puoi dormire nel mio letto.”
Annuisco. Nonostante Mikey abbia fatto un po’ di proteste per rimanere anche lui, alla fine cede perché si rende conto di essere praticamente stanco morto. “D’accordo, va in sala d’aspetto. Ti raggiungo tra poco.” gli dico, e lui se ne va lasciandomi solo con Gerard.
Lo raggiungo davanti alla finestra che dà sulla stanza di Donna, affiancandolo. Lui appoggia la testa sul vetro, inspirando lentamente.
È distrutto. Completamente distrutto.
Gli poso delicatamente una mano sulla spalla, quasi temendo che possa ritrarsi. Il mio è solo un gesto di conforto, un modo per ricordargli che ci sono, che gli sono vicino, ma appena la mia mano si posa sulla sua pelle lui la afferra, stringendola forte e quasi stritolandomi le dita. Rimane così, con il capo chino e la mia mano tra la sua, respirando forte.
Si sta aggrappando a me. Si sta aggrappando a me con tutte le sue forze rimaste, e ne sono quasi… onorato.
“Frank, perché non sei andato via?” mi chiede dopo un po’.
“In che senso?”
“Perché sei rimasto? Quando… quando hai saputo che io e Lindsey, insomma sì… so che ci sei rimasto male. So che ti ho rovinato la vita. Perché sei rimasto, perché sei tornato e mi hai perdonato? Perché non sei andato via per sempre?” continua a incalzarmi quasi con disperazione.
Gli sorrido, un sorriso debole ma necessario. Gli prendo la mano e me la poso sul petto, proprio sul mio cuore. “Non ricordi Gerard?”
Lui aggrotta la fronte, perplesso.
“Tu mi fai sentire al sicuro, e sarà sempre così. Con te io sono sano e salvo. Sempre.”

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Special needs ***


Ehilà! È la prima volta che pubblico dopo due luuuunghi giorni, e mi sento un po’ in colpa ma ew, ho avuto tantissimo da fare (tra cui un ritratto di gerard che ho messo da parte per finire questo capitolo, sigh)
E poi *zanzanzaaaan* ho iniziato ad ascoltare i The Used, già. Ok, forse può non fregarvene una ceppa, ma dovete sapere che io prima li odiavo e avevo tutti quegli assurdi pregiudizi e blablabla, ma diosanto sono davvero bravi vbb(grazie gwen aw)
E nada, buona lettura
PS. Sì, il titolo del capitolo è una canzone dei placebo<3
M.
 
CAPITOLO 10 – SPECIAL NEEDS
 
FRANK
                                                           
“Sono incinta.”
Gerard sputa l’acqua che stava bevendo, schizzandola tutta sul tavolo.
Io rimango immobile. Fermo. Non sono del tutto sorpreso, perché avevo già immaginato che la loro vita sessuale fosse piuttosto “intensa”, e che prima o poi sarebbe successo. Non così presto, certo.
Dolore. Dolore ovunque.
Deglutisco il groppo di ferro e chiodi che mi si è formato in gola, poi inspiro ed espiro lentamente. “Oh ma… che bella notizia” mormoro, alzandomi per pulire il disastro che ha lasciato Gerard sul tavolo.
Lindsey batte le mani eccitata, poi tocca il braccio del marito. “Amore, non sei contento?”
Gerard è ancora troppo scioccato per rispondere, perché riesce solo ad annuire. “Cioè… noi.. avremo un bambino?”
Lei scoppia a ridere. “Così sembra”
Gerard si alza lentamente in piedi, afferrando il bordo del tavolo fino a farsi sbiancare le nocche. “Ma noi… non possiamo… la guerra… io non…”
Lindsey lo fissa sconcertata. “Tu… non lo vuoi?”
Oddio. La situazione sta degenerando.
“No!”esclama Gerard, per poi correggersi subito dopo “Cioè sì, lo voglio eccome, cioè wow… ma tra poco scenderemo in guerra e tu dovrai crescerlo da sola e io non potrò vederlo, e sarà tutto così…così…”
“D’accordo” mormora Lindsey, alzandosi anche lei. “Abortirò.”
“NO!” gridiamo io e Gerard all’unisono, facendola sobbalzare.
Non posso permettere che una stupida ragazzina viziata commetta un crimine del genere. Non posso permettere che uccida un bambino innocente ancor prima di vedere la luce e venire al mondo.
Ed evidentemente Gerard è del mio stesso parere, perché afferra sua moglie per le spalle e la fissa dritto negli occhi. “Lynz, noi avremo questo bambino. Lo cresceremo nonostante tutto, e sarà nostro figlio. Nostro. E non potrei essere più contento.”
Lindsey annuisce, quasi con le lacrime agli occhi, poi si sporge per baciarlo. Gerard ricambia stringendola affettuosamente, ed è ora che mi sento di troppo.
Lascio silenziosamente la cucina e mi dirigo di sopra verso la camera di Mikey.
Non esce quasi mai da lì, da quando sua madre è in ospedale. Spero che quando tornerà, tra due giorni, le cose si ristabiliscano. Perché mi fa male vederlo così vuoto, così morto dentro. E so che fa male anche a Gerard.
Busso piano allo stipite, nonostante la porta sia aperta. “Mikey?” chiedo, facendo un passo o due all’interno della stanza.
È sdraiato sul letto e dorme serenamente, con le ginocchia al petto e le braccia strette attorno alle gambe, come un bambino. Gli occhiali gli si sono parzialmente tolti, e mi affretto a piegarli e a poggiarli sul comodino accanto al letto.
Lo guarda per qualche attimo, sorridendo appena. È una scena che mi fa troppa tenerezza. Tutto di lui emana un’aura di serenità, di pace, di innocenza, e posso quasi dimenticare le brutte parole che ha detto a suo fratello qualche giorno fa. Parole che tra l’altro lui non intendeva davvero.
Gerard è tutto ciò che gli rimane.
Sento qualcuno dietro di me, e quando mi volto trovo proprio Gerard, che fissa Mikey come io lo stavo fissando qualche attimo fa.
Viene accanto a me e sorride tristemente. “E’ un angelo.” sussurra, temendo quasi di svegliarlo.
“Già.”
E gli angeli non dovrebbero vivere così. Gli angeli dovrebbero stare in cielo, o dovunque è il loro posto. Non qui, a cercare di non affogare tra la merda di questa vita.
 
 
Quando torno a casa, trovo una lettera nella cassetta della posta. Viene dai miei genitori, dall’Italia.
Non mi scrivevano da mesi ormai, e io non ho nemmeno scritto loro, un po’ perché sono stato impegnato, un po’ perché non volevo dargli altri dispiaceri confessando che avevo lasciato casa degli zii.
Caro Frank,
tuo padre è morto. Ci ha lasciati combattendo con onore per il nostro paese, perciò dobbiamo essere fieri di lui.
Io, tua nonna e tua cugina siamo rimaste sole, sole come non mai, e ormai è sempre più difficile portare ogni giorno il pane a casa. La guerra ci sta uccidendo, ad uno ad uno, senza distinzioni.
Un po’ sono contenta che tu sia lì, al sicuro in America, ma un altro pochetto di me spera che tu possa raggiungerci qui, per proteggerci come tu e Anthony avete sempre fatto. E so che è troppo da chiederti, so che la tua vita è lì, e probabilmente avrai già una fidanzata e un lavoro, perciò mi vergogno quasi a implorarti, ma devo: abbiamo bisogno di soldi, Frank. So che puoi aiutarci.
Anche una minima somma ogni mese… qualsiasi cosa, pur di non far morire la nonna e tua cugina di fame. Sai che non sono quel tipo di persona, sai che non chiedo mai aiuto soprattutto se quell’aiuto non è necessario, ma… stavolta lo è.
Pensaci, e soprattutto se puoi… i funerali di tuo padre si terranno la settimana prossima. Sarebbe bello averti qui, per piangerlo assieme.
Per sempre tua madre,
Linda Iero
 
Passo la successiva mezz’ora così, seduto al tavolo del mio appartamento, con la lettera tra le mani, senza muovere un muscolo. Non so nemmeno a cosa pensare, o cosa fare, o cosa stia succedendo nella mia testa.
So soltanto che non riesco a muovermi. Non lo decido io. Il mio corpo rifiuta di alzarsi o spostare anche soltanto la mano sinistra di un millimetro.
Sono in una stanza completamente bianca. Quadrata, con le pareti altissime, il pavimento piastrellato, ed è tutto così accecante che devo schermarmi gli occhi.
Sono rannicchiato al centro della stanza, fermo.
Non si sente un solo rumore, non un suono, non un sospiro, nulla. Solo il silenzio, il mio silenzio, ed è tutto così irreale che non mi accorgo delle pareti che iniziano a muoversi lentamente, venendo verso di me, minacciando di schiacciarmi.
Sto per morire schiacciato.
Sto per morire.
Non so nemmeno se stavo sognando, so soltanto che riprendo coscienza delle cose qualche tempo dopo, e quando guardo fuori dalla finestra è già sera.
Mio padre è morto.
Mio padre è morto.
Mio padre è morto.
Non riesco ancora a realizzare questa notizia, non riesco ad assimilarla, non riesco a rendermene conto. Mio padre, quell’omone che mi portava in spalla quando ero ancora troppo piccolo per camminare, colui che mi ha incitato a coltivare le mie passioni, e a inseguire i miei sogni, e a non farmi mai bloccare da nessuno, nemmeno da me stesso. Mio padre, quello che ha insistito con mamma fino a quando lei non ha ceduto a mandarmi in America. Mio padre. Quell’uomo. Non c’è più.
E sapete di cosa avrei bisogno ora? Sapete cosa mi farebbe davvero, davvero, davvero stare meglio?
Sì che lo sapete. Tutto il mondo lo sa. Solo il diretto interessato non lo sa.
Gerard, dove sei?
E, come se, per un assurdo scherzo della sorte, il destino mi avesse ascoltato, sento qualcuno bussare alla porta. So che è lui, me lo sento nelle ossa. Come sento nelle ossa quando mi guarda, quando vuole dirmi qualcosa, quando è preoccupato, quando è semplicemente accanto a me.
Io lo sento.
Vado aprire senza neanche chiedere “chi è?” e come immaginavo, è Gerard.
È appoggiato allo stipite, con il respiro affannoso e una sorta di disperazione negli occhi. E per un istante ritorno a quella sera di due anni fa, quando scesi le scale e lo trovai sul vialetto di casa, stanco e affannato, che voleva dirmi qualcosa. Ritorno alle sue parole, al mio shock nel sentirle, al bacio.
Non so cosa mi stia succedendo. So soltanto che rivivrei quel momento dieci, cento, mille volte, all’infinito. Credevo di essere salito improvvisamente in paradiso, ed è tuttora la sensazione che provo quando Gerard è con me, quando io sono con lui, quando siamo insieme in qualsiasi luogo.
“Cosa succede?” gli chiedo preoccupato, lasciando perdere le mie elucubrazioni folli.
Gerard entra in casa senza dir nulla, e si richiude la porta alle spalle. Ci si appoggia contro, sospirando e riprendendo fiato. Poi mi guarda. “Il Giappone ha attaccato Pearl Harbor, nelle Hawaii. Siamo ufficialmente in guerra.”
Prendo un profondo respiro, chiudendo gli occhi. Troppe notizie brutte in una sola giornata. E io non ho abbastanza forze per reggerle e assimilarle tutte senza venirne schiacciato.
Ripenso ai muri della stanza bianca che si stringono, e per poco non mi viene da vomitare.
È a quel punto che vedo Gerard dirigersi a grandi passi verso di me.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Destroy me ***


Allora.
Questo capitolo è stato un parto, letteralmente. Ero impacciata, confusa e anche un po’ timorosa di scrivere qualcosa di troppo osceno e privo di significato, o al contrario troppo semplice e superficiale, o di non descrivere appieno tutto ciò che avrei voluto descrivere, perciò sì, se non è un granchè beh… io ci ho provato.
Oh e… godetevelo. Ve lo dico col cuore, perché probabilmente è l’unico capitolo non doloroso di tutta la ff(sono sadica sì vero sì) <3
Baci, M.
 
 
 
CAPITOLO 11 – DESTROY ME
 
FRANK
 
 
Fermate il tempo. Fermate gli orologi, fermate la gente che cammina per le strade, fermate il cane dei vicini che abbaia e il gocciolio del rubinetto nel bagno.
Fermate ogni cosa, perché Gerard viene verso di me spingendomi quasi violentemente contro la parete, afferrandomi per le spalle e avventandosi sulle mie labbra senza darmi nemmeno il tempo di pensare o chiedergli spiegazioni. Le mie parole affogano nella sua bocca, che inizia a divorare la mia senza chiederle il permesso.
E la mia ricambia. Altroché se ricambia. Gli afferro i capelli, affondandoci i polpastrelli dentro, mi spingo contro di lui e lo bacio come non l’ho mai baciato prima (e sì che è successo soltanto due misere volte, ma okay), gli passo le braccia attorno al collo e siamo un groviglio di lingue, carezze, sospiri e sguardi ardenti.
Mi stacco di colpo, fissandolo affannosamente. “Gerard, tu non…”
“Sssh” fa lui, posandomi un dito sulle labbra. Lo lascia scendere lungo il mento, sul mio collo, fino al petto, per poi circondarmi di nuovo la vita e riavvicinarsi. Sto letteralmente rabbrividendo di piacere.
“Non ce la facevo più” sussurra contro le mie labbra, con il suo respiro che mi solletica le guance. “E dopo tutto questo… io avevo solo bisogno… avevo solo bisogno di averti.”
Assaporo le sue parole ad una ad una, sospirando e chiudendo gli occhi.
Ha ragione. Tutto quello che è successo oggi, tra la notizia di Lynz, la morte di mio padre, la guerra… non credo avrei potuto rialzarmi dopo tutti questi colpi e tornare in piedi come se nulla fosse successo. Non credo sarei riuscito a superare il dolore.
Avevamo entrambi bisogno di questo.
Non gli rispondo nemmeno. Semplicemente, gli poso le mani sul petto, continuando a fissarlo negli occhi, e gli sbottono la camicia, bottone dopo bottone, il più lentamente possibile. Mi tremano le mani mentre lo faccio, e il suo sguardo intenso non fa che mandarmi ancora di più nel panico, ma quando finalmente riesco a toglierla, ne sono contento.
Lui è… perfetto. Bellissimo, all’esterno come all’interno, di una bellezza particolare e rara, quelle che trovi soltanto poche volte nella vita, quelle bellezze che ti fanno chiedere “ma perché non sono nato così?”, quelle che fanno invidia a qualsiasi individuo, maschio o femmina che sia.
Lascio scorrere le mani sul suo petto, sulla pancia, sulla schiena, dietro il collo, e lui chiude gli occhi come se davvero gli piacesse, come se davvero mi volesse.
Gerard Way mi vuole.
Vuole me.
All’improvviso lui fa allontanare le mie mani e mi afferra per i fianchi, facendomi sedere sul tavolo e posizionandosi tra le mie gambe. In questo modo io sono alla sua stessa altezza, e rimaniamo così a fissarci negli occhi per qualche istante.
Gerard scuote la testa, sorridendo. “Frank…”
“Cosa?” chiedo, un po’ allarmato.
Lui appoggia la testa nell’incavo tra la mia spalla e il collo, inspirando forte. “Nulla” bisbiglia. “Nulla. Voglio solo stare con te, non importa dove e come.”
E capisco. Sono le stesse parole che mi disse due anni fa, quando lo invitai a casa dei miei e trovammo tutto quel disordine, ed io ebbi una sorta di crollo emotivo proprio di fronte a lui. Ricordo quanto ero debole allora, ricordo la mia vergogna nel mostrarmi con le lacrime agli occhi davanti al mio nuovo amico, ma lui venne verso di me senza esitare e mi disse di stare tranquillo, e disse proprio quelle parole.
Voglio solo stare con te, non importa dove e come.
Questa volta sono io a baciarlo, sporgendomi verso di lui e sfiorando le sue labbra dolcemente. Lui mi posa una mano sulla guancia con delicatezza, come temendo che io mi possa rompere da un momento all’altro, e per l’ennesima volta stiamo affogando l’uno nell’altro, senza possibilità di risalire a galla, senza paura di morire, senza nessuna concezione del mondo all’infuori di noi.
È sempre stato così. È come se ci annullassimo l’un l’altro.
Non so nemmeno come, qualche tempo dopo, finiamo nella mia camera, sul mio letto, ma a un certo punto sento il materasso contro le mie gambe e mi ci lascio cadere con sollievo, accogliendo Gerard sopra di me. Lui continua a baciarmi lasciando scorrere le sue mani sul mio corpo, e ci stiamo esplorando l’un l’altro con una foga mai provata prima, come se volessimo cancellare tutti questi mesi di lontananza non smettendo di toccarci.
Non so nemmeno cosa stia succedendo, non so nemmeno perché stia succedendo, so soltanto che non ho voglia di pensare alle conseguenze, non ho voglia di pensare né al prima né al dopo, solo al presente. Solo ad ora, alle sue mani che stringono le mie, che mi accarezzano in posti del mio corpo che non credevo fossero così sensibili, ai suoi sospiri contro la mia pelle, ai miei gemiti quando raggiunge l’orlo dei miei jeans e….
Diosanto.
“Vuoi…?” chiede Gerard, quasi incerto.
Mi mordo le labbra, imbarazzato. Sì, eccome se voglio. Lo desidero da una vita, e non aspetto altro. Eppure… qualcosa mi tormenta, qualcosa di cui dovrei tenere conto, qualcosa che dovrebbe fermarci, un lieve, sottile senso di colpa che comincia ad annidarsi in me…
“Sì.”mormoro, e lui si abbassa su di me per tornare a baciarmi, mentre contemporaneamente mi sfila pantalone e boxer, e poi infine la maglietta.
Sono nudo sotto di lui, e dopo poco anche lui è nudo sopra di me. Nudi e vulnerabili. Scoperti. Solo che non c’è il mondo a guardarci, non c’è nessuno, niente di niente, soltanto noi due.
E siamo abbastanza.
Gerard mi bacia dappertutto. Mi bacia il collo, la clavicola, il petto, la pancia, l’ombelico, poi risale su e mi bacia dietro l’orecchio, provocandomi una scarica di elettricità che mi fa tremare, e so di stare perdendo il controllo.
E poi arriva il momento, quel momento. Mentirei se dicessi che non fa male. Fa male, e anche più di quanto avessi immaginato. Ma quando lui entra dentro di me, più del dolore sento qualcos’altro: sento una sensazione così intensa da sovrastare tutto il resto, i suoni, gli odori, tutto. Ricopre ogni cosa, inondandomi il cervello e impedendomi di pensare razionalmente. E so che Gerard sta provando lo stesso, perché chiude gli occhi e si aggrappa alle mie spalle, affondando le unghie nella carne e gemendo piano.
Poi inizia a muoversi, e allora vado completamente in tilt. Non c’è più spazio per nulla che non sia un piacere troppo intenso per essere espresso a parole, una sensazione troppo devastante per essere descritta, e i suoi occhi nei miei. Non perdiamo mai il contatto visivo, anche quando inizia a muoversi velocemente, anche quando soccombiamo entrambi e iniziamo a gemere senza controllo, senza ritegno.
E mentre ci muoviamo, vorrei dirgli tante di quelle cose. Vorrei dirgli che mi è mancato così tanto, e che non ho fatto che aspettare questo momento dalla prima volta che l’ho guardato dritto negli occhi, e che mi ha fatto il cuore a brandelli ma chissenefrega, è l’unico che può permettersi di farlo e poi ricomporlo con un solo, semplice gesto. E che vorrei rimanere qui per sempre, occhi negli occhi, senza preoccuparci di niente e nessuno, tranne che di noi. Noi.
Noi.
“Frank…”mugugna Gerard, e all’improvviso lo sento anche io. Un’onda, più alta delle altre, altissima, gigantesca, che ci travolge ancor prima di rendercene conto, e Gerard continua a muoversi sempre più velocemente, e io mi spappolo, letteralmente, sfaldandomi in tanti piccoli fili diversi che prendono una strada propria, disperdendosi nel nulla.
E poi precipito, lentamente. La sensazione è così intensa che mi sembra di morire, mi sembra di soffocare, di non riuscire a respirare più.
Con un’ultima spinta, Gerard si accascia su di me, sudato e sfinito. Io gli poso una mano sul capo, carezzandogli i capelli dolcemente, chiudendo gli occhi per lasciar scorrere via gli ultimi rimasugli di quelli che sono stati i venti secondi più belli della mia vita.
“Distruggimi, Gerard.”mormoro sulla sua guancia “fa quello che vuoi. Distruggimi e rimettimi in piedi, come hai sempre fatto, ma… per favore” imploro quasi, con la voce spezzata “non mi lasciare mai.”
 
 
“Quando partirai?” gli chiedo dopo un tempo indefinito. Lui è ancora sdraiato sopra di me, e io sostengo il suo peso senza lamentarmi. Non vorrei essere in nessun altro posto che qui.
“Domani, probabilmente.”
“Anche io devo partire.”
Lui solleva piano la testa, aggrottando la fronte. “Cosa?”
Sospiro. “Gerard, non te l’ho detto ma… ho ricevuto una lettera di mia madre. Mio padre è morto. E… io voglio essere presente quando lo seppelliranno. Devo esserci, assolutamente.”
Gerard chiude gli occhi. “Mi dispiace” mormora, sinceramente dispiaciuto.
“Già”
“Ma Mikey…”
 Mi duole il cuore, perché anche io lo avevo pensato. Senza me e Gerard, Mikey sarà abbandonato a sé stesso come non mai. “Lo so. E non sai quanto mi dispiace, ma io devo andarci. Credo che tu possa capirmi.”
Gerard annuisce piano, sollevandosi e poi sdraiandosi al mio fianco. Mi accarezza piano la guancia, sorridendo appena. “Tornerai presto, vero? Lì in Italia è pericoloso. Non voglio che tu rimanga lì a lungo.”
“Tornerò subito dopo il funerale. Te lo prometto.”
“Frank?”
“Sì?”
“Io…”
So cosa sta per dire. Gli poso un dito sulla bocca. “Non dirlo. O quando… quando tornerai a casa te ne pentirai ancora di più. Per favore.”
Lui annuisce. Ha capito.
Vorrei tanto dirgliele io, quelle parole. Sarebbe perfetto, ora, dopo tutto questo. Ma non posso, e lo sappiamo entrambi.
Ti amo, Gerard Way.
Ti amo come non ho mai amato nessuno in vita mia, ti amo più di me stesso, ti amo più di quanto si possa amare, ti amo e vorrei urlarlo a tutto il mondo, senza avere paura di quello che possano dire.
Ti amo, ripeto nella mia mente, guardandolo negli occhi. E anche lui lo dice, in un muto sguardo che conta più di mille parole.
Mi basta questo.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Falling into hell ***


*rullo di tamburi*
È con grande piacere che vi annuncio….
Il ritorno del POV di Geraaaaard!
Insomma non so a voi ma a me è mancato molto, anche se so che vi è stato parecchio sulle palle leggendo del suo comportamento nei confronti di Frank *sigh*… ma ehi è pur sempre Gerard orgasmo/cucciolo/polentino Way, e il suo vecchio ego(?) manca a tutte, io lo so. (ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale)
Comuuunque, le ambientazioni cambieranno da questo capitolo in avanti, direi proprio che questa è tipo la “seconda parte” della storia, e inutile dirlo, le cose si complicheranno parecchio. Ma parecchio parecchio.
Anyway, buona lettura e pls, recensite, so che leggete in silenzio ma per favoooore ho bisogno di pareri : )
Baci, M.
Ps. Ohoh e guardate un po’ chi compare in questo capitolo aw
 
CAPITOLO 12 – FALLING INTO HELL
 
GERARD
 
Plin.
Plin, plin, plin. Plin.
 
Mi rivestii in fretta. Mancavano poche ore alla partenza del treno, e dovevo ancora finire di fare i bagagli e passare da casa per salutare Mikey.
Guardai Frank, a pancia in giù e con le braccia piegate sotto la testa. Era ancora disteso sul letto, coperto fino alla vita dalle lenzuola, e mi soffermai per un attimo a fissare la curva perfetta della sua schiena, a memorizzare le linee dolci del suo viso, la curva del collo e….
Avrei voluto prendere il mio taccuino e disegnarlo, ora, in questo preciso momento.
Ma non potevo.
‘Non vieni alla fermata?’ gli chiesi.
Lui scosse la testa. ‘Preferisco di no’
Sapevo perché. L’ultima volta era stato doloroso anche per me, e nessuno dei due voleva che si ripetesse una cosa del genere.
Indossai la giacca e mi diressi verso di lui. Sapevo che lo avrei ricordato per sempre così, con quel sorriso triste negli occhi e la rassegnazione di chi vorrebbe che le cose vadano diversamente, ma non può far nulla per cambiarle.
Frank scese dal letto e ci scontrammo l’uno contro l’altro senza neanche volerlo. Lo baciai con forza, premendo violentemente le labbra sulle sue, e rimanemmo così per secondi, minuti, ore, secoli. Non avrei saputo dirlo. Solo che avrebbe potuto essere per sempre, e non mi sarebbe ancora bastato.
‘A presto, Gerard.’ mi sussurrò nell’orecchio. Gli accarezzai piano la guancia liscia e mi drogai di quegli occhi, quello sguardo che mi provocava qualcosa che niente e nessuno avrebbe mai potuto provocarmi, da qui a cent’anni.
‘A presto.’
E sperai di mantenere quella promessa.”
 
Plin.
È inquietante come un unico, lieve suono possa infastidire più del fragore di una mandria imbizzarrita, eppure è proprio quello che mi succede ascoltando da ben due ore o più il lavandino che gocciola ad un ritmo preciso e regolare.
Plin.
Plin, plin, plin. Plin.
 
“Raggiunsi la mamma in camera da letto. Era sdraiata sotto le coperte e fissava il soffitto intensamente, come se potesse spuntarci un mostro da un momento all’altro. Era come se dopo l’infarto le sue condizioni fossero peggiorate. Ora a malapena parlava.
‘Mamma?’
Non rispose, e io preferii avvicinarmi al letto e prenderle la mano tra le mie, stringendogliela forte. Deglutii e raccolsi un po’ di coraggio per parlare senza scoppiare a piangere. ‘Sai… tornerò presto. È… è una promessa, sul serio.’
Lei sorrise appena, e mi parve che mormorasse ‘Lo so.’
Beh, almeno uno di noi due ne aveva la certezza.
Probabilmente era l’ultima volta che la vedevo.
O era l’ultima volta che lei vedeva me.’
 
Forse sono più di due ore. Forse ho perso la cognizione del tempo e sono qui da giorni, o settimane. Non ricordo nemmeno l’ultima volta che ho mangiato, anche perché ho scoperto di soffrire il mal di mare. E vivere in un transatlantico per più di due settimane non è il massimo per il mio stomaco.
Plin.
Plin, plin.
Il soffiare del vento e l’infrangersi delle onde sulla prua della nave sono gli unici suoni che mi permetto di ascoltare, perché qualsiasi altro semplicemente non viene assimilato dal mio cervello.
A malapena li ascolto quando mi parlano.
A volte scrivo, o disegno. Certo non più come prima, ma quando lo faccio mi impedisce di pensare, mi impedisce di affondare nella depressione e mi aiuta a superare un altro giorno di pura noia e attesa.
 
‘Mikey?’
Nessuna risposta. Entrai nella sua camera e lo trovai raggomitolato in un angolo, accanto al letto, con la schiena poggiata alla parete e le ginocchia strette al petto. Aveva la testa incassata tra le spalle, gli occhi chiusi, e non era difficile capire che aveva appena smesso di piangere.
Mi sedetti accanto a lui, mettendomi nella sua stessa posizione. Gli posai una mano sulla testa, accarezzandogli piano i capelli. Notai che aveva perso molto peso, negli ultimi mesi. Era sempre stato magro, ma adesso era praticamente scheletrico.
Avevo paura per lui. Avevo più paura per lui che per me.
In effetti non avevo affatto paura per me. Dovevo morire? Beh, sarebbe successo prima o poi. Ma volevo che le persone a cui tenevo fossero vive, sane e salve, al sicuro.
E non era quello che stava succedendo.
‘Mikey, ti prometto che tornerò’
Ma ovviamente mio fratello non era mia madre, e convincere un ragazzino di quindici anni che suo fratello tornerà dalla guerra non è un’impresa facile.
‘Per favore, va’ via. E non tornare mai più.’
Cercai di ignorare quelle parole e lo costrinsi ad alzare il capo e guardarmi. ‘Ehi, ehi. Ascolta. Io sono tuo fratello. E ti voglio bene. L’unico motivo per cui ti sto dicendo che tornerò sei tu.’
E Frank.
Lui si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi. ‘Non ci credo. E se tornerai, sarai ancora peggio di prima. Non sarai mio fratello più di quanto tu non lo sia ora.’
Sospirai. Gli presi il volto tra le mani e lo fissai dritto negli occhi. ‘Io sarò sempre tuo fratello, Mikey. Questo non cambierà mai. E so che tu mi vuoi bene, te lo leggo negli occhi, e la dimostrazione di ciò è quanto stai soffrendo ora.’
Sapevo di aver usato parole forse un po’ troppo dure, ma erano necessarie. Mikey rimase a guardarmi per qualche istante, poi mi si gettò letteralmente al collo, stringendomi quasi come se volesse soffocarmi. Si aggrappò alla mia camicia, affondò il viso nella mia spalla e cominciò a piangere senza fermarsi. Io ricambiai la stretta, e non sapevo davvero dove trovassi la forza di non scoppiare anche io.
Dovevo essere forte. Per entrambi.
‘Ti voglio bene, Mikey. Tornerò.’ “
 
Adesso sono raggomitolato proprio come Mikey, nel bagno ai piani bassi della nave. Forse è per ricordare lui, forse è per tentare di far restare il suo ricordo dentro di me.
Non so nemmeno perché ho fatto tutte quelle promesse. Un ‘a presto’ a Frank, un ‘tornerò’ a mia madre e uno a mio fratello.
E Lynz.
 
“Era dolcissima quando si metteva la mano sulla pancia, quasi come se il bambino fosse già in procinto di nascere.
Mi guardò con i suoi soliti occhioni allegri, questa volta però illuminati da una felicità quasi smorta, spenta. O per meglio dire, vera e propria disperazione.
‘Promettimi che mi scriverai ogni giorno.’
Scoppiai a ridere per non scoppiare a piangere, e le passai una mano intorno alla vita. Lynz si divincolò fissandomi truce. ‘Sono seria, Ger.’
‘Non potrò scriverti ogni giorno, tesoro. Non ce ne daranno il tempo. Ma prometto che almeno una volta al mese riceverai una mia lettera.’
Lei annuì piano, poi affondò la testa nel mio petto inspirando il mio odore. Io inspirai il suo, imprimendomelo bene nella mente, e cercai di non pensare a qualche ora prima quando ero a letto con Frank, e lei non era che un piccolo pensiero ai margini della mia mente.
Mi chinai in avanti e lasciai un bacio sulla sua pancia, e lei sorrise accarezzandomi i capelli. ‘Ti amo.’
‘Ti amo anche io.’
 
Tre promesse, una bugia.
Sono una persona orribile.
Sento del trambusto all’esterno, e finalmente mi costringo ad alzarmi. Sono stato così tanto tempo sul pavimento che mi fa male dappertutto, e devo sgranchirmi un po’ le gambe prima di riuscire a camminare fino alla porta e ad aprirla.
Vedo dei soldati passarmi davanti correndo, e fermo uno di loro per chiedere spiegazioni.
‘La nave ha attraccato al largo delle Filippine’ mi spiega un ragazzo. ‘Dobbiamo salire sugli elicotteri e paracadutarci a terra’
Le Filippine. Siamo nelle Filippine.
Sono così lontano da casa che al solo pensiero mi viene da vomitare.
E potrei vomitare anche pensando a ciò che mi aspetta fra poco.
Mi aggrego al resto dei miei compagni d’armi che sale in superficie, fino a quando non ci ritroviamo tutti sul ponte e vengo accecato dalla luce solare, che probabilmente non vedevo da giorni.
Si dirigono tutti verso il grande spazio a poppa dove sono parcheggiati una decina di elicotteri, pronti a partire e a portarci fino alla terra ferma. Guardando l’orizzonte infatti, noto che la spiaggia è a qualche chilometro da noi, solo che è preferibile atterrare con i paracadute per non farci scoprire dagli isolani.
Io e un altro gruppetto di ragazzi corriamo verso il primo libero e ci saliamo dentro, accalcandoci l’uno sull’altro.
Il pilota ci fa un cenno di saluto con la testa. “Allacciatevi i paracadute dietro la schiena, poi chiudete i portelloni” ci intima, e noi facciamo come ci dice.
Mi tremano le mani, mi tremano le gambe, sto letteralmente fremendo sul sedile. Senza neanche darci il tempo di rendercene conto, ci siamo già sollevati in volo e stiamo salendo sempre di più, allontanandoci dalla nave. Mi affaccio al finestrino e la vedo diventare sempre più piccola sotto di noi, mentre ci dirigiamo con gli altri elicotteri verso l’isola.
È finita la pacchia, Gerard. D’ora in avanti non sei più tu con la solitudine.
Sei tu con la morte.
Mi guardo intorno, scrutando i miei compagni. C’è chi guarda fuori dal finestrino, che recita una preghiera reggendo il rosario, chi è perso nei suoi pensieri e chi semplicemente è così calmo che mi chiedo come faccia.
Il tipo accanto a me mi fa un sorriso tirato. “Ehi” dice, come cercando di intavolare una conversazione.
Beh, non poteva esserci momento peggiore, decisamente.
“Ehi” mugugno cercando di mantenere ferma la voce. Lo avevo già notato prima: è un tipo un po’ strano, con una matassa di capelli ricci e castani in testa e l’aria di chi prende la vita un po’ come capita, senza curarsi di ciò che pensa il resto della gente.
“Hai paura?”
Deglutisco, e non so perché ma gli rispondo dicendogli soltanto la pura verità. “Sì, ma non mi importa.”
Lui scoppia a ridere, e lo fisso stralunato. Come può ridere in un momento del genere? Gli altri gli rivolgono una semplice occhiata, poi tornano ad ignorarci.
Evidentemente tutti tranne me sanno che questo tizio è un po’ tocco.
“A nessuno di noi importa, amico” ride. “Altrimenti non saremmo così calmi ora.”
Annuisco, riflettendoci seriamente su. Forse ha ragione. Forse tutti dentro di loro stanno tremando come me, semplicemente non lo danno a vedere.
“Comunque, io sono Ray” mi dice, tendendomi la mano. Io libero la mia dalla cintura di sicurezza e gliela stringo.
“Gerard.”
E poi non abbiamo il tempo di dire nient’altro, perché il pilota aziona un bottone e improvvisamente il portellone si spalanca, lasciando entrare una folata travolgente di vento.
“Avanti, avanti! Scendete uno alla volta, muovete il culo!”
E il primo sono io. Mi alzo reggendomi allo stipite e mi dirigo verso l’orlo dell’elicottero, cercando di trattenere la bile che minaccia il mio stomaco.
Posso farcela. Altri dopo di me lo faranno, perché non devo riuscirci io?
Prendo un profondo respiro, chiudo gli occhi. Cerco di non guardare giù, non so nemmeno dove atterrerò e cosa dovrò fare dopo. So soltanto che sto per cadere da un’altezza vertiginosa, e che stavolta posso contare soltanto sulle mie abilità fisiche. Non posso contare sulla scrittura, sul disegno, su Frank o Mikey, né sul mio io interiore.
Sono forte abbastanza?
Non lo so. Forse no. Forse non sono mai stato forte.
Ma lo sono abbastanza per provarci, e per pensare soltanto ad una persona quando allungo un piede nel vuoto.
Frank.
E mi lascio cadere.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Sleepwalking ***


Allora, spero mi perdoniate per il mio primo ritardo nell’aggiornare ma *sigh* ieri(per la precisione ieri notte alle 3) ho terminato di leggere trust me…….
E sì, ho passato una giornata intera in stato catatonico ad asciugarmi le lacrime e a ripetere “non è reale non è reale non è reale”, un po’ la reazione che ho avuto con a splitting of the mind, insomma! (il prossimo sarà the dove keeper, me lo sento ew)
Poi ho acceso il pc e mi sono detta che vabbe, per ora ho sofferto abbastanza, adesso facciamo soffrire un po’ gli altri!xD
No dai, scherzo, io vi adoro e adoro quelli che recensiscono e aggiungono la storia alle preferite/seguite/ricordate, non vi ringrazierò mai abbastanza, mi fate salire l’autostima e la gioia di scrivere questa fanfiction.
Detto questo, ho deciso di alternare il POV di Gerard a quello di Frank, perché davvero mi duole il cuore ad abbandonare uno dei due, e poi serve anche ai fini della storia, perciò… ecco il nostro Fronkeh alle prese con il suo viaggio in Italia(e tante altre cosette…)
Baci, M.
PS. So che ve lo chiedevate e sì, è la canzone dei bmth<3
Ps.2 Ok, mi sono completamente inventata il nome del paese natale di Frank ma vbb, spero me lo perdoniate:/
 
CAPITOLO 13 - SLEEPWALKING
 
FRANK
 
Non sapevo cosa aspettarmi tornando in Italia, ma non rimango sorpreso quando, mettendo piede a terra, trovo esattamente quello che c’era prima che partissi per l’America, se non peggio.
Desolazione. Ovunque.
Mi faccio strada attraverso il porto, allontanandomi dalla nave su cui ho passato quasi una settimana, tra mal di mare e nostalgia. C’è poco movimento qui, sembra quasi che stiano ancora tutti dormendo nonostante sia mattino inoltrato. Alcuni pescatori hanno appena attraccato e stanno scaricando a terra il pesce pescato, c’è gente che scende ancora dalle navi, e chi abbraccia i propri famigliari. Solo che sembra tutto stranamente spento, le voci sono soffuse, il cielo greve e nuvoloso, e lo sguardo negli occhi della gente è così sospettoso e triste che sono costretto ad abbassare il capo e a non guardare in faccia nessuno.
È la guerra, penso. È la guerra che è entrata nei cuori della gente e che sta scavando nelle loro anime, consumandoli a poco a poco. Non hanno più la voglia di vivere, non hanno più nulla. È come se fossero tutti sonnambuli, come se tutto fosse ancora immerso nel sonno.
E io ho paura di cosa troverò tornando a casa.
Bellerati è sempre stato un paese piccolo e tranquillo, in cui le notizie viaggiano veloci, e non mi sorprendo molto quando parecchia gente si volta a guardarmi come se sapesse di me, come se sapesse che vengo dall’America e che mio padre è morto. Mi sento terribilmente a disagio, abituato com’ero al confortante caos del New Jersey, nel quale potevo mescolarmi e nascondermi senza temere di essere riconosciuto.
Non ricordo esattamente la stradina della mia vecchia casa, perciò mi fermo ad un chiosco del mio quartiere per chiedere informazioni.
“Oh!” esclama l’anziano proprietario vedendomi. Aggira il bancone venendo verso di me e inizia a parlare in italiano, e straordinariamente riesco ancora a capirlo. “Tu sei Frank! O santo cielo, ma come sei cresciuto, Linda sarà felicissima di vederti” dice, battendomi delle pacche vigorose sulla spalla. Poi si fa un attimo triste. “Mi dispiace per Anthony… era un brav’uomo. Davvero. Uno dei pochi che non ha mai avuto debiti con me… ricordo quando passava ogni mattina per andare a lavoro e comprava il giornale e mi salutava, ed era così spensierato e…”
Lo fermo, posandogli una mano sulla spalla. Avevo dimenticato quanto fossero chiacchieroni gli italiani. “Lo so, lo so… io ora devo andare, potresti ricordarmi in che vicolo…?”
L’anziano signore scoppia a ridere, dandomi altre fastidiose pacche sulla spalla. “Hai scordato la via di casa tua? Cosa ti ha fatto l’America, eh? Hai trovato qualche bella donzella?”
Deglutisco, spostando il peso da un piede all’altro. Devo trovare una scusa con cui dileguarmi. “Io… ehm…”
“Samuele!”
Mi volto al suono di quella voce femminile, e vedo una ragazza correre verso di noi affannosamente. Si ferma accanto a noi e mi fissa per un attimo, incantata.
Aggrotto la fronte. Non credo di conoscerla, ma mi sembra in qualche modo familiare.
Poi la ragazza si gira verso il proprietario del chiosco. “Samuele, Frank sarà sicuramente stanco. Lo accompagno a casa, d’accordo? Potrete chiacchierare tranquillamente un’altra volta.”
L’anziano sembra capire, perché annuisce e mi dà un’ultima pacca sulla spalla, poi torna dietro al bancone. “A presto, americano!” e ride, come se avesse appena fatto una battuta.
E io mi ritrovo solo con questa ragazza sconosciuta. Le sorrido. “Beh, direi che mi hai appena salvato”
Lei si lascia scappare un piccolo sorriso e si porta subito la mano alla bocca, come per nasconderlo. “Proprio non mi riconosci?”
Scuoto la testa. “Cioè no, però forse…”
“Frank, sono Jamia!”
Rimango un attimo perplesso, poi la riconosco. È possibile che in tre anni una persona possa cambiare così tanto? Beh, è proprio quello che è successo a lei. La fisso sconvolto. “Jamia…”
Jamia è stata la mia unica migliore amica sin da quando ero bambino. L’unica, prima di Gerard. Abbiamo vissuto l’infanzia insieme, poiché lei era un’amica di mia cugina e passava tutto il tempo a casa da noi.  I suoi genitori erano morti quando era ancora neonata e lei viveva con la zia di origini inglesi, che le aveva dato quel nome strano per cui veniva presa in giro a scuola.
Solo la sera prima di partire per l’America, scoprii che era innamorata di me. Era ancora una ragazzina non ancora formata, sottile come un fuscello e ancora più bassa di me, e mi aveva fermato prima che tornassi a casa perché doveva dirmi “una cosa importantissima”. Mi aveva detto che aveva una cotta per me da quando ci eravamo conosciuti, e che questa cotta pian piano era cresciuta diventando amore, e che non poteva sopportare che io me ne andassi per sempre perché, a quanto sosteneva, sarebbe morta senza poter vedermi.
Io la presi per le spalle, cercando di essere meno duro possibile e di non ferire i suoi sentimenti da adolescente. Le dissi che era ancora piccola, che noi eravamo troppo diversi e che io stavo per cominciare una nuova vita, e che anche lei molto presto avrebbe dovuto cominciarne una, trovare un marito e sposarsi. Le dissi che non eravamo fatti l’uno per l’altra, ma che sarebbe sempre rimasta nel mio cuore perché era l’unica persona a cui tenevo davvero oltre alla mia famiglia.
La lasciai lì, sulla soglia di casa, in lacrime. Non me ne pentii, no, avevo fatto la cosa più giusta. Ma non potrò mai scordare la sua espressione, il dolore nei suoi occhi.
E ora so cosa vuol dire vedere andar via la persona amata, senza poter far nulla per fermarla.
Adesso è qui davanti a me, e sembra un’altra persona. È cambiata, è diventata più alta, più slanciata e formosa. Le è cresciuto il seno, ha i capelli raccolti in una coda ordinata e il viso pulito e dolce come sempre. Indossa un completo grigio e ha una busta tra le mani, probabilmente è appena tornata dal mercato.
Annuisce, continuando a sorridere. “Proprio io, in carne ed ossa”. Allarga le braccia, e capisco che si aspetta un abbraccio. Vado verso di lei e la stringo forte, sollevandola quasi.
In fondo mi è mancata. Mi è mancata tantissimo.
Quando si stacca, mi prende per mano e inizia a trascinarmi in una piccola stradina che credevo di aver dimenticato. “Vieni, ti porto a casa. Ti stanno tutti aspettando.”
Quando arriviamo di fronte alla porticina dell’appartamento a pianterreno della mia famiglia, vengo subito sopraffatto dai ricordi.
“Ricordo che giocavamo qui” dico, indicando il marciapiede di fronte. “Con la palla… e c’erano anche i figli dei vicini…”
Jamia mi stringe più forte la mano, inspirando. Capisco che anche lei sta ricordando. “Già. Bei tempi.”
Poi si volta di colpo, come ritornando in sé, e mi fa un sorriso radioso. “Avanti, che aspetti? Bussa!”
Allungo una mano e faccio toc toc sulla porta in modo quasi esitante. Non dobbiamo attendere molto, anzi non dobbiamo attendere affatto perché non appena stacco la mano dalla porta questa si apre di colpo e sento un peso calarmi addosso improvvisamente.
Due braccia mi stanno praticamente soffocando, e io ricambio confusamente l’abbraccio desiderando che finisca subito.
“Rossana, così lo strangoli!” esclama Jamia ridendo.
Mia cugina si stacca, guardandomi negli occhi e continuando però a tenere le braccia attorno al mio collo. “Frank!” urla praticamente, e cerca di nuovo di stringermi di nuovo ma io mi divincolo, sorridendo imbarazzato. “Ehm, credo sia meglio entrare”
Rossana è sempre stata una ragazza energica e sempre allegra, era lei quella che portava la felicità in famiglia nei momenti più tristi, era lei quella che mi risollevava su il morale.
Anche lei è cresciuta. È diventata davvero una giovane donna, forse un po’ troppo magra, ma posso soltanto immaginare quanto poco mangi la gente qui in giro di questi tempi.
“Frank.”
Potrei riconoscere questa voce tra un miliardo di altre voci. È la voce che mi canticchiava la buonanotte prima di addormentarmi, è la voce che mi consolava quando cadevo e mi sbucciavo un ginocchio, è la voce che mi intimava di mangiare quando non avevo fame, è la voce che mi ha cresciuto, che mi ha accompagnato per 17 anni senza mai stancarsi, senza mai essere affaticata, senza mai essere rotta dai singhiozzi.
“Mamma” sussurro, e mi volto verso quella voce.
È invecchiata, oh se è invecchiata. Me lo aspettavo sì, ma non mi aspettavo tutti quei capelli grigi e le rughe attorno agli occhi. Non mi aspettavo lo sguardo rattristato di chi ha già visto tutto e ne è schifato, non mi aspettavo le labbra tirate in un sorriso quasi vuoto, e così doloroso da far male. È vestita completamente di nero, per il lutto. Viene verso di me lentamente.
“Oh, Frank.”
La abbraccio, e in quell’abbraccio scarico ogni cosa. Scarico via tre anni di amore, dolore e tormento, scarico via gli insulti della gente, il vuoto nel mio cuore, la tristezza e la nostalgia di casa. Mi concentro soltanto sul battito confortante e tranquillo del suo cuore contro il mio petto, sull’odore materno che porta ancora addosso, sulla gioia nel rivederla.
E sì, questo è l’unico abbraccio che non vorrei finisse mai.
Vedo comparire nonna Beatrice, che si avvicina lentamente. Lei è l’unica che è rimasta come la ricordavo: anziana, piccola, saggia, con un sorriso sornione sul volto, come se sapesse sempre tutti i segreti di questo mondo.
Si unisce a noi nell’abbraccio, e ben presto lo fa anche Rossana.
Siamo qui, stretti l’un l’altro, come a volerci proteggere dal resto del mondo. Sono circondato dalla mia famiglia, da persone che mi vogliono bene, da persone che capiscono la mia perdita perché è anche la loro perdita, e mi sento al sicuro dopo tanto tempo, mi sento al sicuro come se fossi con Gerard, come se stessi abbracciando lui, solo che quello che provo ora non è proibito dalle convenzioni e non lo devo nascondere.
Sto provando un affetto reale, legittimo, puro.
Non dovrei pensare a nient’altro.
E allora perché sento come se mi mancasse un pezzo fondamentale, come se non potessi essere felice neanche qui circondato dai miei parenti, come se per esserlo io abbia sempre bisogno di lui, sempre, costantemente, inevitabilmente?
Non posso semplicemente lasciarlo fuori, metterlo da parte, eliminarlo dalla mia mente. Non ci riesco.
È inutile che mi sforzi.
Lui.
Gerard.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Just a coward ***


Salveeee ho fatto il più presto possibile. Ho appena finito di studiare una trentina di pagine di biologia e nada, mi scoppia la testa, ma per voi che attendete con ansia i miei capitoli questo e altro<3
*esce fuori tema* avete sentito dei Metallica in Italia a giugno? Ewew io sì, ma tanto fino a Milano i miei col cavolo che mi mandano quindi sì, posso solo sclerare nei miei sogni (so che non vi interessa, tranqui)
Nulla, volevo solo rivelare al mondo intero la mia identità, tanto ormai: su twitter sono @ghostvofme e no, non mi sto facendo pubblicità, rido. Solo se avete qualcosa da chiedere o magari volete minacciarmi di morte per le cazzate che scrivo qui beh, potete farlo lol
A presto, baci
M.
 
 
CAPITOLO 14 – JUST A COWARD
 
GERARD
 
Sono andato una sola volta al mare, quando ero davvero piccolo. Erano i primi anni in cui si era sviluppata la consuetudine di stare in spiaggia seminudi e farsi il bagno in pubblico, ma mio padre decise che ci avrebbe portato me e Mikey, semplicemente perché gli andava, e perché lui era fatto così.
Ripensandoci, forse gli andava anche di abbandonarci, quando l’ha fatto. Forse era l’unico, vero, insensato motivo.
Ricordo che Mikey era ancora quasi neonato, e che papà lo portava in braccio mentre mi incitava a tuffarmi. Ricordo che avevo una paura terribile, avevo paura che lì sotto in profondità ci fosse qualcuno pronto ad afferrarmi le caviglie non appena avessi messo piede in acqua.
Eppure, dopo varie esitazioni lo feci. Mi tuffai di pancia, inesperto com’ero, e non appena portai la testa sotto strizzai gli occhi e l’acqua mi entrò immediatamente nelle orecchie, tappandomele ed estraniandomi dal mondo esterno. Non sentivo più nulla, solo un leggero fischio quasi impercettibile ed un silenzio assordante, tutto all’improvviso.
Ed è proprio quello che succede quando la prima bomba cade a pochi metri da me.
Non ho nemmeno il tempo di accorgermene. Un attimo prima seguivo il resto dei soldati su per la collina per raggiungere il campo, un attimo dopo veniamo sbalzati letteralmente fuori dal mondo, io e qualche altro mio compagno.
Si sente un boato assordante e mi sento spingere violentemente, fino a quando non crollo a terra qualche metro più indietro. Mi fischiano le orecchie, non sento più alcun suono, vedo i miei compagni d’armi muoversi freneticamente da una parte all’altra della collina, cercando di scappare, cercando di trovare un rifugio dalle bombe che hanno improvvisamente iniziato a cadere dal cielo.
Rimango qui. Ho una specie di indolenzimento alle gambe che mi impedisce di muovermi. Ruoto la testa da una parte all’altra, incontrando gli steli d’erba sotto di me che mi solleticano le guance. Contraggo e stiro le dita, controllando che siano tutte intere e ancora funzionanti.
Alzo la testa verso il cielo. Vedo gli aerei passarmi sopra veloci, mollando bombe che cadono in lontananza sollevando grandi zolle di terra e mietendo vittime, e il tutto scorre in silenzio come in un film muto, e so che se non mi alzo in fretta un’altra bomba mi cadrà vicino, e stavolta molto molto più vicino.
Dopo un tempo imprecisato mi costringo a tirarmi su, lentamente, faticosamente. Pian piano l’udito sta ritornando, e gradualmente ricomincio a sentire i vari boati delle bombe e le grida dei soldati e dei comandanti che strillano ordini a destra e manca.
Comincio a correre verso il cespuglio più vicino e mi ci nascondo dietro, unendomi ad altri due soldati. Uno di loro è Ray, il tizio che ho conosciuto in elicottero prima di atterrare in questo inferno.
Sono passati tre giorni. Tre giorni di puro terrore.
Vorrei potervi dire che sono stato forte. Vorrei potervi dire che non ho vomitato ogni santa sera quando ingerivo anche soltanto un cucchiaio della mia porzione di cibo. Vorrei potervi dire che non ho pianto pensando a casa, ogni notte nella mia tenda. Vorrei potervi dire che è stato tutto facile, che non ho desiderato di mollare e ficcarmi la pistola in bocca ogni volta che vedevo un corpo crollare a terra accanto a me, ogni volta che vedevo in lontananza un soldato nemico e sollevavo l’arma per sparargli dritto sul petto.
Durante l’addestramento non ci avevano preparato a nulla di tutto questo.
Non ci avevano preparato alle grida, al sangue che inzuppa il terreno, ai filippini che cercano di proteggere i loro figli dalle bombe e gli incendi; non ci avevano preparato allo sguardo negli occhi dei soldati nemici quando ti muoiono davanti, crollando ai tuoi piedi e supplicando qualcosa, e tu vorresti disperatamente sapere cosa, ma puoi solo rimanere lì immobile a guardarli mentre la vita abbandona i loro corpi lentamente.
Atroce.
“Ci hanno colti di sorpresa, credevo che i loro aerei stessero facendo delle incursioni molto più a sud” dice l’altro soldato, indicando il cielo.
Io annuisco, non sapendo cos’altro dire. Non me ne frega un cazzo delle loro incursioni. Non mi frega di nulla, io voglio solo tornare a casa. Voglio solo tornare da Frank. Da Mikey. Sapere come sta mamma. Stringere la mano a Lynz mentre partorisce. Cullare in braccio mio figlio.
Sei un codardo, Gerard.
Sei solo un codardo.
“Io vado ad aiutare quell’altro gruppetto più in basso” dice il soldato senza nome, indicando una parte sotto di noi, dove i nostri si sono scontrati con i nemici giapponesi. “Rimanete qui da sentinella” e detto questo si alza e corre verso di loro.
Accade tutto in un attimo. Il proiettile lo colpisce in pieno sulla tempia mentre sta correndo, e vedo come a rallentatore il suo cranio esplodere e schizzare sangue ovunque.
 Un attimo dopo è morto.
A terra, esanime. In un lago di sangue che si allarga lentamente sul terreno, impregnando l’erba.
Non devo vomitare.
“Cristo santo” sussulta con voce strozzata Ray accanto a me.
Deglutisco, ingoiando la bile amara che mi è salita in gola. Provo a dire qualcosa, ma mi esce soltanto un lamento sconnesso e senza senso.
Chissà cosa succederà ai suoi famigliari quando sapranno la notizia. Chissà come la prenderanno. Chissà se ha una moglie, dei figli, una casa e un padre e una madre che lo aspettano.
Chissà ora dov’è.
“Moriremo tutti.”
Guardo Ray che ha appena pronunciato quella frase con una sorta di rassegnazione mista a fredda tristezza, come se non si trattasse di lui e di me, come se lo stesse vivendo da lontano, in disparte. Forse il suo è il modo migliore per non soffrire.
“Lo so.”
“Spero solo che nella mia prossima vita io sappia suonare”
Aggrotto la fronte. Mi ero dimenticato della stranezza di quest’uomo.
Lui ridacchia, come se avesse appena detto qualcosa di divertente. “Ho sempre voluto suonare qualcosa, tipo la chitarra. Mi piace. La musica, intendo. Quando rinascerò voglio far parte di una band famosa.”
Lo ignoro, tornando a soffermarmi sul paesaggio oltre il nostro cespuglio sicuro. Mi sembra assurdo che noi siamo qui a chiacchierare allegramente di musica e vite parallele quando laggiù si stanno ammazzando a vicenda, ma mi risulta confortante sapere che non sono l’unico a non fremere dalla voglia di gettarmi nel massacro.
Codardo.
 
 
“Ciao Frank.
Non so nemmeno come iniziare questa lettera. Non so nemmeno cosa scriverti, e soprattutto se dovrei scriverti, perché la sola idea di questa carta nelle tue mani mentre leggi mi fa male al cuore, perché vorrei assurdamente essere anche soltanto una carta, pur di vederti e starti vicino.
Ok, non ho mai scritto qualcosa di così sdolcinato e smielato in vita mia, lo ammetto.
La verità è che non so nemmeno come facci a pensarle queste sdolcinatezze, dato la situazione in cui mi trovo.
La morte mi striscia accanto ogni giorno, Frank. È come un’amica fedele, mi segue dappertutto, segue me e gli altri miei compagni, ci sfiora le spalle e almeno una volta al giorno minaccia di prendere il sopravvento su di noi.
Oggi stavo per morire. Una bomba mi è praticametne sibilata accanto, e poi ho passato tutto il resto della giornata in disparte, lontano dalla battaglia, fino a quando non abbiamo battuto in ritirata, perché avevo paura.
Ho paura, Frank. Tu non sai quanto.
Perché ti sto scrivendo? Diosanto. Dovrei scrivere a Lynz. Le avevo promesso che le avrei scritto appena avessi potuto. Mi sento così in colpa, davvero.
Solo che… ci credi che non riesco a pentirmi di ciò che abbiamo fatto prima che io partissi? Non rimpiango nulla di quel giorno. Nulla. E lo rifarei altre mille volte. Ti bacerei altre mille volte, ti stringere altre mille volte, e farei l’amore con te altre mille, diecimila, centomila volte senza mai fermarmi, senza mai stancarmi.
Non mi importa. Non potrebbe importarmene di meno, in questo momento, di ciò che pensa il mondo o di ciò che non avremmo dovuto fare o di ciò che provo per te.”
Sento un fruscio fuori dalla mia tenda, e subito dopo qualcuno entra. Infilo la lettera al riparo nella mia giacca e mi volto.
Davanti a me c’è un soldato del mio battaglione, lo conoscevo già di vista ma non ci ho mai parlato e non so nemmeno il suo nome. Porta i capelli neri quasi completamente rasati se non fosse per una sottile peluria. Mi è sempre sembrato un tipo piuttosto solitario e scontroso, e anche ora il suo sguardo sospettoso mi percorre da cima a fondo.
Ricambio, altrettanto sospettosamente. “Cerchi qualcosa?” gli chiedo.
Lui scuote la testa, e quando si muove noto che ha il suo sacco a pelo tra le braccia. Mi supera e lo va a posizionare a qualche passo dal mio, a terra.
“Ehi ehi” dico avvicinandomi, allarmato “Che significa? Questa è la mia tenda”
“Il mio compagno ha bisogno della tenda tutta per sé perché è in fin di vita e stanno cercando di alleviargli il dolore. Io sono di troppo” dice con voce bassa e greve, come se ne stesse annunciando già il funerale.
“Oh” commento. “Mi dispiace.”
Ciò non toglie che non voglio assolutamente nessuno a dividere la tenda con me. Ne ho scelta una delle poche singole proprio per questo.
Lui finisce di sistemare il sacco a pelo e ci si siede sopra, levandosi gli stivali e stendendosi. Fa proprio come se non ci fossi.
Stupido maleducato.
“Anche a me dispiace. Ma meglio a lui che a me.”
Ok, è proprio stronzo, altro che maleducato.
Rinuncio definitivamente a terminare la lettera e mi sdraio anche io sul mio giaciglio. “Comunque io sono Gerard” mormoro, tirando fuori il massimo della mia socialità.
Lui grugnisce un piacere in risposta, poi si gira dall’altro lato. “Io sono Bert. ‘Notte.”
Sospiro. Spero che Bert non si chieda cosa siano gli strani singhiozzi che sentirà durante la notte.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** My dependence ***


Oggi *zanzanzaaaan* niente compiti, perciò sono riuscita a scrivere il capitolo, e l’ho fatto semisdraiata sul divano a mangiare schifezze e ad ascoltare i mychem. Fiko, sì.
Nulla, volevo dirvi che ho conosciuto alcune di voi su twitter e aww mi ha fatto troppo piacere (ciao Ilaaa), siete tutte dolcissime e vi amo e vi stalkero tbh <3<3
Detto questo, vi lascio al capitolo che ho già scocciato abbastanza, mi scuso se questi ultimi sono risultati un po’ monotoni ma tra un po’ la situazione si movimenterà…e parecchio, anche (e forse scorreranno lacrime…)ew.
Buona lettura
M.
 
 
CAPITOLO 15 – MY DEPENDENCE
 
FRANK
 
 
Caro Frank,
sono andato a stare con Lynz. Mamma è ricoverata in un ospizio a tempo indeterminato, e il parente più vicino è soltanto quella donna con cui non vorrei avere niente a che fare. E invece devo sopportarla giorno e notte, sentire i suoi scleri quando parla del bambino nella sua pancia, quando si lamenta di avere nausea e vomito e altre cose da donna che non capirò mai.
Non ho ancora scritto a Gerard, sai? Non voglio farlo. Perché se davvero ci tiene a me può scrivermi lui, e perchè se magari gli scrivessi e poi non ricevessi risposta… beh, sai che non potrei sopportarlo. Né tu né io potremmo sopportarlo, e mi sento abbastanza grande e maturo da immaginare che nemmeno tu gli hai ancora scritto, non è così?
Sì, è così.
La scuola va bene. Lynz mi sta mandando a ripetizione da una ragazza che conosce, e sta pagando tutto di tasca sua. Forse è l’unica cosa buona che ha fatto fino ad ora.
Ieri ho preso una B in chimica, e mi sento abbastanza orgoglioso. Il professore credeva che avessi copiato e mi ha tipo guardato malissimo, ma Frank ti giuro che ho fatto tutto da solo, sono rimasto sveglio fino a tarda sera a studiare per quel fottuto test.
Mi mancate tanto. Tu e Gerard, indistintamente. Siete gli unici due punti di riferimento rimasti nella mia vita, e come si può avere dei punti di riferimento se sono entrambi lontani chilometri da te?
Lynz mi sta chiamando di sotto. Probabilmente vuole che prepari la tavola o la aiuti a raggiungere qualche mensola in alto. Mi sa che devo proprio andare.
Non so quando ti arriverà questa lettera, mi sono fatto dare il tuo indirizzo in Italia da Gerard prima che partisse, perciò spero che la riceverai.
Ti voglio bene, Frank.
Mikey
Ps. Credi davvero che dovrei scrivere a Gerard?
Ps2. (non so se si può usare un post scriptum 2 ma lo metto lo stesso, domani chiedo alla prof di grammatica) Ho trovato un gattino mentre tornavo da scuola. Lynz lo ha fatto vaccinare e io l’ho chiamato Gee. È carinissimo, nella busta trovi anche una sua foto.
 
Stringo per qualche minuto la lettera di Mikey contro il petto, respirando piano. È scritta con la sua calligrafia piccolissima e quasi illeggibile, molto simile a quella del fratello, e le sue parole sono quelle di un adolescente innocente che vuole imitare l’atteggiamento disinvolto dei grandi, così piene di tenerezza e ingenuità da far commuovere.
Tiro fuori la foto presente nella busta e la osservo. C’è Mikey seduto a terra sul tappeto, a gambe incrociate, e in braccio ha questo piccolo gattino tigrato dagli occhi pigri e stanchi, che fissa l’obiettivo come se si chiedesse cosa ci fa lì. Mikey ha lo sguardo assorto, quasi distratto, come suo solito. Non è mai stato fotogenico, e nelle foto è sempre apparso imbronciato o con gli occhi accidentalmente chiusi.
Ma guardandolo sento un groppo salirmi in gola, e posso quasi sentire le lacrime che minacciano di uscire. Mi manca così tanto che potrei scoppiare.
Forse sta davvero meglio come sostiene nella lettera. Dubito che sia felice e spensierato, ma non sta più soffrendo come i primi giorni. Magari gli serviva proprio la nostra assenza per imparare a resistere, per imparare ad essere forte e per crescere senza l’appoggio quasi opprimente di me e suo fratello.
O forse sta solo fingendo di essere forte e in realtà soffre. Proprio come me.
Mi siedo sulla mia branda, sospirando. La mia vecchia camera è proprio come la ricordavo: piccola ma accogliente, con le pareti piene zeppe di miei disegnini a matita e una pila di libri vecchi e polverosi in un angolo.
Solo che non c’è più mio padre che veniva  a svegliarmi la mattina con un bicchiere di latte, facendomi il solletico fino a quando non mi tiravo su ridendo.
Lui non c’è più. Puff. Sparito.
È come quando stai ricordando una scena della tua vita, e ti ritrovi stranamente dentro qualcosa che non c’entra niente con quel ricordo, e allora compare una mano gigante e invisibile a scacciare via quel qualcosa, per sempre. Come se non fosse mai esistito.
Così è successo con papà, non appena ho letto la lettera di mamma quella sera. Un attimo prima lui esisteva, un attimo dopo non esisteva più. In un lampo.
“Frank?”
Mi volto verso la porta e trovo mia madre sulla soglia, con una retina nera di pizzo a coprirle il volto e un lungo abito scuro. “Siamo tutti pronti, andiamo?”
Annuisco, alzandomi. Anche io indosso un abito nero, e ironia della sorte, era appartenuto a papà. Mi sistemo meglio la cravatta allentandola per non soffocare, e mi avvio verso mamma.
 
 
“…perciò, preghiamo per il sereno riposo del nostro fratello, amico, marito e padre: Anthony Iero. Riposa in pace. Amen.”
Non ho ascoltato nemmeno una parola del sacerdote. Non sono più cattolico praticante da anni ormai, probabilmente da quando ho iniziato ad essere abbastanza grande per capire che la religione non serve a nulla, se non a darci false speranze e a giustificare tutti i perché assurdi di questo mondo.
Ho fissato il loculo di mio padre per tutto il tempo, calcando con la mente la scritta del suo nome e la data di nascita e di decesso, come a volermi imprimere a fuoco quelle parole in testa. Ho ascoltato mamma singhiozzare, ho sentito nonna Beatrice muoversi a un certo punto per abbracciare mia cugina Rossana, in lacrime.
Non ho versato una sola lacrima.
Dovrei sentirmi in colpa? Probabilmente sì. Solo che non riesco a piangere.
Riesco solo a pensare all’ultima volta che l’ho visto. Eravamo al porto, e io ero pronto a partire per l’America, e probabilmente a non tornare mai più. Papà aveva posato le valigie a terra e mi era venuto accanto, guardandomi commosso negli occhi e provando a dire qualcosa senza però riuscirci. Alla fine mi aveva abbracciato e stretto così forte che avevo creduto di soffocare, e aveva detto di essere orgoglioso di me e io per un attimo avevo pensato di mollare tutto e rimanere lì, con lui, con la mia famiglia, e di non lasciarli mai. Poi si era staccato, io avevo abbracciato la mamma, e l’ultima cosa che avevo visto prima di salire a bordo erano stati i loro occhi pieni di lacrime mentre mi salutavano, fieri del loro figlio.
Papà.
Papà.
Papà.
Dopo il funerale, vedo Jamia dirigersi verso di me. Probabilmente è appena arrivata, perché non l’avevo vista prima.
“Ehi” mi fa con voce flebile, quasi temendo una risposta.
Io sono ancora fermo davanti al piccolo loculo riservato al corpo di mio padre, in alto a destra accanto a tanti altri uomini, tutti soldati morti in battaglia. Alcuni sono addirittura senza nome, sconosciuti, dimenticati dal resto del mondo. Spero che almeno lassù (se esiste un lassù) qualcuno si prenda cura di loro.
“Ehi” dico in risposta.
Lei mi viene vicino, e posso quasi sentire il suo fiato sul collo quando sussurra “Come stai?”
Secondo te come sto? Ma non glielo chiedo. Rimango in silenzio, credo che sia la risposta più adatta.
Lei sospira e mi posa una mano sulla guancia, delicatamente.
Poi mi abbraccia.
Per qualche istante rimango rigido al mio posto, con le mani ancora giunte e la schiena dritta. Poi lentamente mi rilasso, inspirando il suo profumo di pulito e affondando la testa nei suoi capelli, stringendola a mia volta.
Non ho mai avuto così bisogno di un abbraccio in vita mia. E sì che non è il suo abbraccio che vorrei, ma quello di un’altra persona. Solo che devo accontentarmi, per forza. O crollerò, e poi nessuno riuscirà più a rialzarmi.
 
 
Siamo a casa. Rossana sta preparando la tavola, perché tra un po’ viene a pranzo il suo fidanzato. Avevo detto a mamma che non era il caso invitare qualcuno il giorno di un funerale, ma mia cugina ha insistito a volercelo presentare e così ci stiamo dando tutti da fare per cercare di rendere presentabile una misera casupola a pianterreno con tanto di tubi di scarico in bella vista sul soffitto e le crepe nei muri.
E poi arriva.
Non era di certo come lo avevo immaginato. È alto, molto alto, ma potrebbe avere sui trent’anni o anche di più, mentre mia cugina ne ha a malapena 18. Avevo dimenticato le stupide, grette usanze italiane.
Si chiama Matteo, ed è un ufficiale dell’esercito italiano, quelli ai gradi alti, quelli che quando passano per strada a quanto pare devi salutarli con tutti gli onori e le riverenze.
“Salve signora” dice non appena entra in casa, andando subito a salutare mia madre con un sorriso affettato, baciandole la mano. Fa lo stesso con nonna Beatrice, poi lascia un casto bacio sulla guancia a mia cugina e infine si sofferma su di me, squadrandomi da capo a piedi.
Gli arrivo a malapena al petto, e questo mi fa sentire non poco inferiore.
“Oh” commenta con un sorriso falso “Tu devi essere il figlio tornato dall’America”
“Già. Piacere, Frank” borbotto, allungando la mano soltanto per non essere sgarbato. Non è soltanto perché è un soldato. Non mi piace il suo tono ipocrita, quegli occhi che ti scandagliano anche l’anima e quel dannato sorriso che gli tirerei un pugno sulle gengive pur di levarglielo dalla faccia.
Non mi stringe la mano. Rimane lì a guardarmi, annuendo piano. “Matteo. Il piacere è tutto mio.”
A tavola Rossana comincia a blaterare di come si sono incontrati, e di come è stato amore a prima vista, e di come lui è forte e gentile e coraggioso e blablabla, e sembra che gli unici qui non interessati siamo io e nonna Beatrice, che scuote piano la testa mentre è intenta a piluccare il pasticcio insipido di verdure che ha nel piatto.
Beh, se quello scuotere il capo è un “vorrei che uscisse da questa casa ora e subito”, il sentimento è reciproco.
“Allora, Frank” dice Matteo, rivolgendosi a me per la prima volta. “Qual è la posizione dell’America riguardo al fascismo? Riguardo all’Italia e al nostro patto con Hitler?”
Deglutisco. So a malapena di cosa diavolo sta parlando. “Io… noi vogliamo solo che si ponga fine a tutto questo.”
“E’ interessante come usi il pronome “noi”. Ti senti già parte del loro Stato? Ti senti uno di loro, Frank?” continua a insinuare fastidiosamente Matteo, non staccando il contatto visivo.
Lo fronteggio, sfidandolo. “Io sto dalla parte di chi viene in pace. E non mi sembra che l’Italia venga in pace.”
Mattteo stringe i pugni sul tavolo, stritolando praticamente il tovagliolo. Rossana gli posa una mano sul braccio, cercando di calmarlo. Linda mi fissa sbalordita, come se avessi appena detto un’eresia.
Cosa ho detto?
“Potrei denunciarti per questo, amico mio. Lo sai? O negli Stati Uniti non esistono le leggi? Eh?”
“No, non lo farai” si alza di colpo Rossana, accarezzando la testa del suo fidanzato e cercando di rabbonirlo. “Frank non sa quello che sta dicendo, tesoro. Ha passato troppo tempo lontano da qui, non sa delle nuovi leggi. Non sa che deve tenere la bocca chiusa” conclude, pronunciando quest’ultima frase guardandomi furiosamente negli occhi.
Vorrei che qualcuno mi confortasse ora. O che mi dicesse che non ho sbagliato, che ho detto la cosa giusta, che non sono pazzo o criminale solo perché ho esternato ciò che penso. Vorrei quella persona capace di spazzare tutto via con un sorriso, con uno sguardo, con un abbraccio.
Voglio Gerard, come al solito.
Finirà mai questo disagio che provo stando accanto a qualsiasi altro essere umano che non sia Gerard Way? Finirà mai la mia dipendenza da lui?

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Maybe I owe you ***


NO MA DICO LO AVETE VISTO GERARD CON LA TINTA GRIGIA? *sclera*
Ok ok, devo stare calma. Cioè è un patato, un cucciolo, un akeokfepokrtlbhl (ovviamente spero anche che sia temporanea, non voglio che Gerard si trasformi in Gandalf il Grigio okay)
Cioè in questi giorni il fandom è in delirio bc Gerard si fa la tinta alla tbp era, si veste alla revenge era, dice che gli manca suonare con Mikey (awww), dice di voler dimagrire, e poi quei messaggi “subliminali” sul sito dei mychem….
Sì, avete capito bene. Mi sto illudendo per NIENTE. Sono tutte suggestioni e io sono suggestionabile. Fine.
Vbb, vi lascio al capitolo, buona lettura
M.
PS. RAGA PLS RECENSITE, DAI LO SO CHE LA MIA FF VI PIACE ALMENO UN PO’ E IO HO BISOGNO DI VOIIII DAIDAI CHE VI VI BI <3 (vi regalo i biscotti)
 
CAPITOLO 16 – MAYBE I OWE YOU
 
GERARD
 
Un mese.
Un mese di sconfitte dopo sconfitte, ritirate dopo ritirate, morti su morti. Un mese di angoscia e di paura e di terrore e di respiri mozzati e sguardi muti e imploranti. Un mese di inferno.
Sono ancora vivo?
Non credo di esserlo. Probabilmente sono morto, o il mio cervello è completamente addormentato e il mio corpo continua a trascinarsi giorno dopo giorno, battaglia dopo battaglia, senza nemmeno chiedersi il perchè.
Il fatto è che non riusciamo ad avanzare. Se almeno riuscissimo ad impadronirci di una buona parte del territorio, sarebbe più semplice fronteggiare i giapponesi. Ma loro continuano a respingerci ferocemente, a decimarci, e ben presto siamo costretti a chiamare rinforzi e ad aspettare l’arrivo di altre truppe americane prima di ripartire al contrattacco.
Spesso sono in compagnia di Ray e Bert. Sono gli unici due con cui ho stretto una sorta di rapporto. Parliamo, o almeno lo facciamo quando non siamo impegnati a evitare la morte.
Ray è… Ray. Non c’è un giorno in cui è triste, o si lascia abbattere dalle situazioni, o cerca di mollare tutto. È fermamente convinto che, anche se morirà, ci sarà un’altra vita dopo questa, in una specie universo parallelo o qualcosa del genere. Ed è la sua unica spinta, il suo unico motivo per tirare avanti.
In un certo senso, nonostante l’assurdità delle sue parole, lo invidio.
Mi ha raccontato di avere una moglie, da qualche parte in California, e un bimbo di appena sette mesi. Scrive loro ogni santa settimana, mentre io ho soltanto trovato il coraggio di terminare e spedire quella lettera a Frank, ma non ne ho ancora scritta una a Lynz.
Spero che gli arrivi e che la legga, anche se ho qualche dubbio.
Bert è un tipo strano. Ma proprio strano. Cioè, nonostante condividiamo il giaciglio e il pasto e tutto il resto, a malapena ha scambiato una decina di parole con me dal giorno in cui si è presentato nella mia tenda. È taciturno e scontroso, sopporta a stento i rimproveri del generale Morrison, solo che… solo che intravedo qualcosa in lui, un barlume di dolore e rabbia, qualcosa di profondo che gli alberga dentro e che gli impedisce di relazionarsi con la gente.
E questo suo lato oscuro e nascosto, devo ammetterlo, mi piace. Il suo dolore, nonostante non ne conosca la natura, mi ricorda il mio e mi aiuta a tirare avanti. Perché capisco di non essere l’unico a voler lasciare questo fottuto posto.
Perciò, abbiamo instaurato un bizzarro rapporto. Non ci parliamo, sì, ma è come se fossimo sempre dov’è l’altro. Mentre cerchiamo di ripararci dalle bombe scegliamo gli stessi nascondigli, prendiamo le stesse scorciatoie e la sera sediamo accanto al fuoco uno di fronte all’altro assieme a tutti, e questa cosa un po’ mi conforta, anche se non ho capito bene cosa significhi esattamente.
Ma mi fa sentire meno solo.
 
 
“Attaccare il loro accampamento è fondamentale.” sta dicendo il generale Morrison. Ci ha svegliati nel cuore della notte per “una riunione di massima importanza”, e ora siamo all’aria aperta, mezzi assonnati e infreddoliti, per ascoltare le se parole.
“Potrebbe dettare le sorti di questa missione, e potrebbe portarci alla vittoria dopo tutte queste sconfitte. Perciò, attaccheremo stanotte. Vi dividerete in gruppi di tre o quattro uomini e avanzerete da quattro angoli diversi, cogliendoli alle spalle. Confido in voi.”
Vorrei essere messo in squadra con Ray o al massimo con Bert, ma alla fine capito con altri tre soldati di cui a malapena conosco il nome: Zach, il più alto e quello più amichevole, con cui ho parlato alcune volte; Thomas, un tizio grassottello e calvo con le mani costantemente sudate; e Milicevic, un russo con una folta barba e l’aria truce.
Mezz’ora dopo, siamo in cammino verso l’accampamento dei giapponesi. A noi spetta il compito di attaccare da destra, ammazzando quanti più soldati possiamo per poi ritrovarci tutti nel padiglione centrale dell’accampamento, dove dorme il comandante, e ucciderlo.
Non appena raggiungiamo le prime tende, Zach, che ha preso automaticamente il comando del nostro piccolo gruppetto, ci fa cenno di sbrigarci e ognuno di noi prende una direzione diversa. Io scelgo la tenda a destra, quella più lontana, sperando che nessuno senta eventuali rumori sospetti.
Mi muovo silenziosamente, calpestando piano l’erba, col cuore in tumulto e l’adrenalina che mi scorre nelle vene. Non c’è tempo di pensare, non c’è tempo di avere paura. Devo solo agire. Alla fine ho capito cosa riesce a farti vivere più a lungo qui: non devi riflettere. Agisci, fa quello che devi fare, senza fermarti a pensare alle conseguenze. Altrimenti, soffermandoti a pensare a come infilare il coltello nella gola del tuo nemico, egli avrà fatto prima di te e ti ritroverai tu con la gola squarciata.
Raggiungo la tenda e mi fermo un attimo per accertarmi che chiunque sia all’interno stia dormendo. E in effetti posso sentire il russare regolare di un soldato.
Bene, mi è capitata la tenda singola. Tiro un sospiro di sollievo e lentamente alzo un lembo della tenda, facendo attenzione a non provocare il minimo spostamento d’aria.
Tiro fuori il coltello e mi avvicino di soppiatto al corpo sdraiato nel sacco a pelo, che si alza e si abbassa al ritmo del suo respiro.
Calma, mi dico. È soltanto uno dei tanti. Ne ho uccisi a centinaia. Uno in più non farà differenza.
Solo che uccidere un uomo alle spalle, mentre dorme, senza neanche dargli il tempo di difendersi…
Calma.
Sollevo il coltello, preparandomi a sferrare il colpo. Prendo un profondo respiro e abbasso velocemente la lama e….
Un urlo squarcia il silenzio assordante della notte, facendomi rimanere con le braccia a mezz’aria. Mi si gela il fegato, le gambe mi si paralizzano, il mio cervello va in tilt.
Ci hanno scoperti.
Cazzo, cazzo, cazzo.
E proprio in quell’istante, svegliato dall’urlo improvviso, il soldato sotto di me si volta di colpo, gli occhi aperti, e mi fissa a metà tra il sorpreso e il terrorizzato.
Accade tutto in un istante: lui solleva le braccia per difendersi, io abbasso il coltello con tutta la forza che ho in corpo e glielo conficco tra le costole, spingendo a fondo fino al manico. La sua reazione è immediata: le braccia che prima cercavano di bloccarmi si irrigidiscono, poi crollano a terra, gli occhi si spalancano e mi fissano in una muta espressione di orrore, fino a quando il suo cuore smette di battere e io mi allontano tremante dal suo corpo inerme, strisciando a terra.
L’ho ucciso.
Io l’ho ucciso.
Ho ucciso quest’uomo.
Fuori, il trambusto aumenta. Si sentono varie urla, scalpiccii, gente che corre e ordini sbraitati in lingua giapponese. Ci hanno scoperti, e se non esco subito di qui scoveranno anche me.
Mi alzo in piedi, cercando di regolarizzare il mio respiro affannoso. Lancio un’ultima occhiata al giovane soldato: non poteva avere più di vent’anni, probabilmente aveva una fidanzata a casa ad aspettarlo, una madre e un padre preoccupati per lui, e io gli ho tolto tutto.
Tutto.
Esco dalla tenda, quasi inciampando, e faccio in modo di mescolarmi tra la gente che corre a destra e manca. Mi levo il fucile dalla spalla e sparo a caso, colpendo tutti i giapponesi che mi si parano davanti. Non so dove andare e non so cosa fare, perciò mi limito a sparare per non essere sparato, e a nascondermi accovacciato tra i cadaveri.
Ad un certo punto noto Bert a pochi metri da me. Sta combattendo corpo a corpo con un giapponese: la sua arma è a terra lì vicino, e lui sta cercando di levare l’altra dalle mani del nemico.
Solo che non si accorge di un soldato che gli si sta avvicinando alle spalle pronto a sparargli una pallottola dritto in testa.
Quello che accade dopo non lo decido io. Accade e basta. Agisco, agisco senza pensare, come ho imparato faticosamente a fare in queste settimane. Ed è come se mi sdoppiassi, come se il mio corpo si muovesse da solo mentre la mia mente si chiede “cosa sto facendo?”
Mi lancio in avanti, e in pochi veloci passi riesco a gettarmi addosso al soldato dietro Bert, aggrappandomi al suo braccio e togliendogli la pistola di mano. Lo trascino con me a terra e siamo un groviglio di corpi, sento il suo ginocchio nelle reni e le sue mani che cercano di sferrarmi pugni uno dopo l’altro. Sollevo lentamente la mano con la pistola rubata al soldato e gliela punto allo stomaco, e proprio mentre quello sta cercando di strangolarmi con le mani attorno alla mia gola, premo il grilletto.
Dopo lo sparo, vengo alleggerito del peso del corpo sopra di me, che crolla inerte al mio fianco. Mi rialzo velocemente e vedo Bert a terra, sopraffatto dal giapponese con la pistola puntata contro di lui.
Sollevo la mia e premo ancora.
E poi ci siamo solo io e Bert, e lui mi fissa negli occhi e io gli faccio un mezzo sorriso stanco. “Stai bene?”
Vado verso di lui e gli tendo una mano per aiutarlo a rialzarsi. Annuisce, poi continua a guardarmi come se fossi un alieno sceso dal cielo. “Tu… mi hai salvato la vita, amico”
“Immagino si possa definire così, sì”
“Sono in debito con te. Sul serio.” Si spazzola i pantaloni, poi si china per raccogliere il suo fucile e rimetterselo in spalla. Attorno a noi, la battaglia imperversa ancora più feroce di prima.
“Ci vediamo al padiglione” gli dico.
Lui sorride per la prima volta da quando lo conosco. “Sì. A dopo.”
E ci separiamo.
Non sono ancora ben consapevole di quello che ho fatto. Cioè, ho salvato la vita ad un’altra persona. Ho salvato la vita a qualcuno. A qualcuno che, senza di me, sarebbe morto. Gli ho dato la possibilità di vivere ancora, almeno per un po’.
Forse… forse non sono del tutto codardo. Forse dentro di me c’è del buono.
Mi chino anche io per raccogliere il fucile caduto a terra nella lotta, ed è a quel punto che accade.
Un’esplosione, alla gamba sinistra, un lampo di dolore accecante, puntini neri che mi offuscano la vista, ginocchia che cedono, e dolore dolore dolore dolore dolore ovunque.
Urlo e crollo a terra, sentendo le forze venirmi meno. L’ultima cosa che vedo è l’erba impregnata del mio stesso sangue.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Ghosts in the snow ***


Saaaaalve! Amikissime mie, ho fatto il più presto possibile, anche perché questo capitolo è importante quasi quanto il precedente e fremevo dalla voglia di scriverlo e farvi sclerare un po’ tutte (deheheh)
Vbb, non ho nulla da dire se non che mi duole il cuore a scrivere certi capitoli e non credete che mi diverta a farvi soffrire, ci soffro pure io… MA ADESSO BASTA SPOILER, godetevi la lettura e nada, alla prossima<3
Baci, M.
 
 
CAPITOLO 17 – GHOSTS IN THE SNOW
 
 
FRANK
 
 
Chiudo gli occhi, accarezzando delicatamente la carta della lettera come se fosse la pelle di Gerard. Sono pazzo e ridicolo, sì.
“Perché la sola idea di questa carta nelle tue mani mentre leggi mi fa male al cuore, perché vorrei assurdamente essere anche soltanto una carta, pur di vederti e starti vicino.”
Sospiro e la ripongo nel cassetto, al riparo sotto tutti i vestiti, poi mi ricordo che dovrei fare le valigie e mi assale un senso di sollievo misto a malinconia. Da una parte sono contento di lasciare questo posto desolato e ormai estraneo, e di tornare da Mikey e vedere come sta, dall’altra non voglio abbandonare di nuovo la mia famiglia, specialmente mamma, che si trova in un periodo difficile, e Jamia, che in questi giorni è stata un’inesauribile fonte di conforto per me.
E poi è quasi Natale. Mamma mi ha chiesto di restare per festeggiarlo insieme, e per partecipare al matrimonio di Rossana con quel tipo arrogante, Matteo, ma io non posso e non voglio. Devo tornare a casa, la mia vera, nuova casa. Lì si trova il mio cuore, non qui.
“Ho paura, Frank. Tu non sai quanto.”
Improvvisamente mi assalgono i brividi, e indosso la giacca di lana che nonna Beatrice mi ha premurosamente cucito in poco più di due giorni. Non posso dire che non mi trattino bene. Mi offrono tutto ciò che hanno, e nonostante sia un tutto ben misero in confronto a ciò a cui sono abituato, io lo apprezzo lo stesso, davvero.
Guardo fuori dalla piccola finestra della mia camera e osservo la neve cadere a piccoli fiocchi, posarsi sul terreno e sui tetti e sulla gente per strada, e ricoprire tutto di una pacata immobilità che conferisce un nuovo senso alle cose, come se la povertà fosse stata sostituita da una sorta di serenità rassegnata.
Chissà se anche laggiù nel New Jersey nevica ora. Magari Mikey ha fatto un pupazzo di neve nel giardino di Lynz, magari ora è fuori a lanciarsi palle di neve con gli amici.
La porta dietro di me si spalanca di colpo ed io mi volto per vedere Jamia avanzare a grandi passi verso di me. Indossa un cappotto pesante e un cappello di lana che le copre le orecchie, e ha le guance e il naso arrossati in un modo che la rende ancora più graziosa.
“Frank!” esclama, prendendomi per mano e trascinandomi fuori dalla mia stanza. “Dai dai vieni, sono tutti in strada!”
Aggrotto la fronte, confuso e un po’ divertito, e mi lascio guidare da lei. Mi conduce nel vialetto davanti casa e vedo i bambini rincorrersi lungo la via, lanciandosi palle di neve e gridando contenti, vedo Rossana che stringe il braccio di nonna Beatrice, aiutandola a sedersi ad una piccola panchina, vedo i vicini che aiutano i propri figli ad accumulare più neve per farne un pupazzo, e vedo la gioia a lungo repressa e nascosta negli animi di ciascuna di queste persone.
Vedo Matteo, il fidanzato di Rossana, comparire nel mio campo visivo. Mi passa davanti, lanciandomi una lunga occhiata dall’alto in basso che io ricambio con aria di sfida, poi va dalla sua fidanzata e iniziano a parlare. Sembra quasi che confabulino, e la sua aria cospiratrice mi lascia perplesso. Le sta dicendo qualcosa di importante, qualcosa che….
Sento una palla di neve infrangersi contro la mia schiena e mi volto, trovando Jamia che mi fissa divertita con un’altra palla pronta nella mano sinistra. Io mi abbasso velocemente, evitandola mentre la lancia sopra la mia testa, e ne raccolgo una per contrattaccare. Continuiamo così per un paio di minuti, cercando di colpirci l’un l’altro, rincorrendoci come tutti gli altri bambini, e la mia risata mi sembra quasi troppo estranea e sconosciuta.
Ad un certo punto riesco a raggiungere Jamia e la afferro da dietro, circondandole la vita con le braccia e lei ride e io rido e ridiamo e aiuto, è tutto troppo bello.
“Uh, attento!” esclama ad un certo punto Jamia, e prima che possa accorgermene o fare qualcosa mi sento trascinare a terra e cado con lei, atterrando sulla neve soffice.
Siamo sdraiati l’uno di fianco all’altro, quasi sfiorandoci, e lei volta la testa per guardarmi ed io la guardo a mia volta. Ci sorridiamo. “Da quanto tempo non ti sentivi così felice?” mi chiede, non sapendo quanto a fondo abbia colpito con questa domanda.
Sospiro. Dall’ultima volta che ho visto Gerard, vorrei risponderle, ma mi limito ad un “Da molto tempo.”
“Frank” Mi guarda dritto negli occhi. “Ti prego, resta.”
Guardo il cielo quasi bianco sopra di noi. Non voglio affrontare lo stesso discorso di tre anni fa. Non so se Jamia sia ancora innamorata di me, se mi ha dimenticato o se continua a tenere dentro di sé l’abbandono subito. So solo che mi dispiace, proprio come allora, che debba sentirsi rifiutata. Se solo potessi dirle la verità….
No. Non posso, assolutamente. Per quanto mi fidi di lei non posso.
Ricordo ad un tratto le parole di Gerard, qualche tempo fa. “Sai cosa fanno alle persone come me, come te, in Europa?”
Rabbrividisco e scuoto la testa, come per liberarmi di quel pensiero. “Non posso. Sai che non posso.” le rispondo.
Lei annuisce piano. Lo immaginava. “Beh, spero che le persone che sono lì ad aspettarti ti meritino. E che ti amino come… come…” e poi le muoiono le parole in gola, ma io so cosa stava per dire.
Gerard mi merita? Dio, forse no. Con tutto quello che mi ha fatto…. O forse sono io che non merito lui, forse lui è troppo per me, o forse non ci meritiamo a vicenda e magari insieme siamo solo un terribile, grosso sbaglio.
Ma questo sbaglio è l’unica cosa che conosco. L’unica che mi permette di non mandare completamente a puttane la mia vita.
Siamo ancora sdraiati sulla neve, ma non abbiamo nessuna intenzione di alzarci o spostarci da qui. La gente continua a camminarci attorno e noi semplicemente ce ne stiamo in silenzio, perché io non so cosa rispondere alla quasi-dichiarazione di Jamia, e lei aspetta invano la mia non-risposta, che non arriva.
Fino a quando mi volto verso di lei, girandomi di fianco, e stavolta sono io a guardarla dritto negli occhi. “Jamia, tu non mi ami. E lo sai.”
Lei sorride tristemente. “No, forse no. Del resto, non so quasi nulla di te. Sei cambiato, sei diverso, sei cresciuto, e noi abbiamo troppo poco tempo per scoprire tutte le cose che ci siamo perse dell’altro. Ma…” deglutisce, prendendo fiato e formando una nuvoletta bianca col suo respiro “…ecco, avrei voluto imparare ad amarti. Avrei voluto avere il tempo necessario, e le circostanze giuste. È tutto quello che ho sempre sognato. Una persona… come te. Insomma, chi non ti vorrebbe” dice, ridendo un po’. “Guardati: sei l’ideale di quasi tutte le ragazze. Carino, intelligente, premuroso e dolce. E io potevo averti. Potevo.”
Chiudo gli occhi. So quanto le fa male ammettere ciò che sta dicendo, so quanto è imbarazzante e doloroso esprimere i propri sentimenti a qualcuno che non li ricambia, o che li ricambia solo in parte.
“Jamia, io… io… il mio cuore appartiene ad un’altra persona.”
Lei annuisce. “Lo so. Ti ho visto. È un’altra cosa che ho trovato cambiata in te: ora hai… hai una luce negli occhi, qualcosa di intenso e costante che compare ogni volta che ti perdi nei tuoi pensieri.”
È così evidente? Mi chiedo quanti altri lo abbiano notato. Mi chiedo se Gerard lo abbia mai notato. O forse semplicemente quando ero con lui non avevo bisogno di quella luce, perché ce l’avevo di fronte.
“Mi dispiace, Jamia.”
“Anche a me dispiace, Frank.”
Mi abbraccia. Rimaniamo così, abbracciati nella neve, e non mi importa di cosa pensi la gente.
 
Dopo essere tornati in casa, raggiungo mamma che sta preparando la zuppa in cucina. La stringo da dietro, posando la testa sulla sua spalla e la sento sussultare, sorpresa ma felice. “Quando partirai?” mi chiede mentre termina di condire il cavolo.
“Domani. Devo solo fare le valigie e il biglietto.”
“Bene.”
Poi si volta, facendomi allontanare di qualche passo, e mi punta il mestolo contro. “No, non va bene per niente, Frank.”
Sono confuso. “Cosa?”
Sospira, posando il mestolo e abbracciandomi di nuovo. Ora è lei che si appoggia a me come per cercare conforto. “Mi sei mancato così tanto… e ora tornerai a mancarmi, e io come farò?”
Cerco di trattenere le lacrime e le accarezzo il viso solcato da poche rughe leggere. “Io ci sarò sempre, mamma. Sempre, come tu ci sei stata per me.”
Lei sorride con gli occhi lucidi. “Lo so, amore mio. Lo so.”
 
 
 
Vengo svegliato così di soprassalto, a notte fonda, che sento il cuore farmi un tuffo nel petto, come se stesse per bucarlo e saltare fuori. Apro gli occhi di scatto e mi tiro a sedere, sento del trambusto nel corridoio e non ho nemmeno il tempo di capire cosa stia succedendo che la porta della mia camera si spalanca con un tonfo, lasciando entrare la luce.
“NO!”
“Signora, ci lasci passare o la denunciamo”
“Voi non potete, lui non ha fatto niente! È di razza pura, è italiano, voi non potete!”
“Tenetela ferma!”
“NO no no no!”
Una figura in controluce si staglia sulla soglia, e dopo di essa altre due o tre che arrivano di corsa, oscurandomi di nuovo la visuale. Sento delle urla, la voce disperata di mamma, quella roca di nonna, ma l’unica cosa a cui riesco a pensare è “E’ finita. Mi hanno scoperto. È finita.”
È finita.
“Frank Iero, lei deve venire con noi”
La voce è quella di Matteo, il fidanzato di Rossana. E poi la vedo, dietro di lui, che quasi si nasconde, e noto che Matteo nella mano regge una lettera.
Una lettera.
Quella lettera.
Oh, no.
Scendo piano dal letto, ma non mi danno neanche il tempo di mettere piede a terra che due soldati mi afferrano brutalmente per le braccia, strattonandomi e portandomi al cospetto di Matteo. Cerco di divincolarmi, provo disperatamente a liberarmi, a scappare, ad andare via lontano lontano lontano ma…
Ma.
È finita.
È tutto finito.
Sento il panico crescermi dentro, scorrermi nelle vene, salire fino al cervello e poi scendere fino alle punte dei piedi e sto per soffocare, non sento più niente e la vita mi sta scivolando via dalle dita lentamente inesorabilmente inevitabilmente.
“Lasciatelo stare!” urla di nuovo mia madre, e la vedo sulla soglia, anche lei tra le braccia di alcuni soldati assieme a nonna Beatrice, e poi sento lo sguardo di Rossana su di me e le sue labbra che mimano un “mi dispiace”, e capisco.
“Rossana… cosa hai fatto?” chiedo quasi sospirando, rassegnandomi all’inevitabile.
Matteo non le lascia il tempo di provare a rispondere. Mi indica con un dito. “Frank Iero, è stata trovata questa lettera nel cassetto della sua stanza. È sua?”
Deglutisco, ingoiando bile amara. “Sì” dico in un sussurro quasi impercettibile.
Matteo annuisce, ed è impossibile non notare il sorriso compiaciuto sul suo volto. Si gira e si rivolge a mia madre, che ci sta fissando confusa e terrorizzata.
“Signora. Suo figlio è omosessuale.”
C’è un istante di completo silenzio, quasi sconcertato, in cui tutti assimilano quelle parole e con esse il loro significato.
È finita.
È finita è finita è finita è finita è finita.
Poi Matteo fa un cenno ai suoi uomini.
“Portatelo via.”
Sento il gemito di dolore puro di mamma, le sue urla che mi seguono fino a quando non esco di casa e mi sanguina il cuore, sta sanguinando e mi sta impregnando la camicia e le braccia e tutto e non riesco più a pensare, vedo solo la figura esile di Jamia correre in strada spaventata, la sua voce quando urla “Frank! No, Frank!”
E poi salgo sul loro furgone. Matteo mi ci spinge dentro brutalmente, facendomi picchiare le ginocchia ed io mi accascio su un fianco, svuotato di tutte le forze. Poi i portelloni si chiudono, il guidatore, chiunque esso sia, mette in moto, e l’ultima cosa che vedo sono gli occhi tristi e colpevoli di Rossana, e la sua espressione mentre dice silenziosamente che le dispiace.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Crawling back to you ***


*si schiarisce la voce* *si guarda intorno imbarazzata*
Ooook, so di avervi letteralmente lasciato a bocca aperta col capitolo precedente. Ho ricevuto minacce di morte e insulti vari se non avessi aggiornato entro due giorni e ehm…con un po’ di ritardo, eccomi qui. Tanto si sa che qualsiasi cosa abbia da fare durante la giornata, la sera mi ritroverò sempre e comunque davanti al pc per continuare questa maledetta storia (che adoro ciononostante)
E vbb, buona lettura <3
Baci, M.
 
CAPITOLO 18 –Crawling back to you

 
GERARD
 
Non so dove sono stato tutto questo tempo. Non so nemmeno a quanto equivale esattamente questo tempo. Forse un giorno, o due. O una settimana, o due, o un mese. O un anno, o due, oppure tutto il resto della mia vita, e sono morto. Forse forse forse.
È come se all’improvviso, dopo secoli e secoli di buio e confusione e tante voci che mi si affollavano nella testa, mi si fosse aperto un sipario, un sipario che ha scacciato le lingue di tenebra e la confusione e mi ha permesso di vedere meglio.
La prima cosa che sento è: dolore.
Del resto, subito dopo questa sensazione paralizzante che mi inonda il cervello, mi scopro a riflettere che non dovrei sorprendermi. Il dolore ha pervaso quasi ogni momento della mia vita, dall’infanzia ad ora, è sempre stato un mio compagno di avventure, un amico che mi ha tenuto la mano e a volte me l’ha quasi stritolata, a volte mi ha quasi trascinato giù, in fondo, con sé, ma c’è stato sempre.
E c’è ora. Presente, ovunque. Mi offusca i pensieri e mi impedisce di aprire gli occhi.
Ho paura di quello che potrei scoprire.
Alla fine, dopo un tempo indefinito, sbatto piano le palpebre incrostate, cerco di mettere a fuoco l’ambiente circostante e fallisco, ci riprovo e fallisco, ci riprovo ancora e ci vedo un po’ meglio, poi ancora e ancora e ancora fino a quando non scorgo dei contorni, delle forme, e poi la luce.
E poi le sensazioni arrivano tutte insieme.
Caldo. Sudore che mi scorre lungo la fronte, giù per la schiena, sul petto. Capelli impiastricciati sul volto, umidi, forse di sangue. Gambe paralizzate, dolore lancinante quando muovo appena la sinistra. Mal di testa. Fame. Sete. Labbra rinsecchite. Un odore di putrefazione che mi inonda le narici.
Non so nemmeno come riesco a formulare pensieri coerenti. Soltanto dopo qualche istante mi rendo conto che ci stiamo muovendo.
Sono sul retro di un furgone, all’aperto, col vento che mi sfiora delicatamente il viso portando via un po’ di sudore, e sono sepolto in mezzo ad una decina di corpi.
Corpi morti.
Mi tiro su a fatica, poggiandomi contro la parete del furgone. Il tanfo è insopportabile, un odore di morte così opprimente da impedirmi quasi di respirare. Mi porto la manica lurida e stracciata sul naso, cercando di regolarizzare il respiro. Inevitabilmente lo sguardo mi cade su un viso tra quella marea di cadaveri giapponesi: pelle rattrappita, una smorfia innaturale sul viso, la lingua gonfia e nera, gli occhi spalancati in una muta espressione di orrore.
Trattengo i conati di vomito e volto lo sguardo verso il panorama che mi scorre accanto. Stiamo attraversando una specie di boscaglia lungo un sentiero fangoso, e l’aria è così torbida che sembra quasi mi si appiccichi addosso.
Mi giro e cerco di capire chi c’è al posto del conducente, ma a giudicare dalle voci sommesse che sento provenire dai sedili anteriori devono essere giapponesi. Il che significa che mi hanno catturato.
Sono prigioniero.
Potrei scendere dal furgone e rotolare velocemente giù nella foresta. Oppure potrei far finta di essere svenuto, e non appena il furgone si ferma potrei scappare più veloce che posso.
Il problema è che non potrei andare molto lontano. Non riesco a muovermi, e quando do uno sguardo alla gambe sinistra trovo il pantalone completamente impregnato di sangue e una ferita così profonda e purulenta da farmi salire altri conati. Il dolore è quasi insopportabile, ma mi costringo a stringere i denti e a cercare di rimanere lucido.
Non doveva finire così. Cioè, sì, prima o poi sarebbe successo. Non sarei mai potuto durare a lungo, qui. Ma non in questo modo. Non nelle loro mani. Mi aspettavo qualche ferita grave, magari anche qualche lesione irreparabile, avrei accettato di tutto, ma volevo che almeno mi rimandassero a casa. Ora invece morirò da solo, in campo nemico, prigioniero, senza nessuno a tenermi la mano.
Nessuno.
Forse era questo il mio destino dall’inizio. Forse conoscere Frank e innamorarmi così disperatamente di lui è stata solo una concessione, qualcosa che mi è stato donato da lassù giusto per non rendere la mia esistenza un completo fallimento.
Sì, ho fallito. Ho fallito con Mikey, lasciandolo da solo a fronteggiare i suoi problemi. Ho fallito con Lynz, l’ho sposata solo per scappare dai miei sentimenti, l’ho abbandonata mentre portava in grembo nostro figlio, e non l’ho mai amata come avrei dovuto. E anche se forse l’unica cosa bella che mi sia mai capitata nella mia vita è stata proprio la presenza di Frank, ho fallito anche con lui. L’ho illuso, l’ho fatto soffrire, l’ho trattato di merda e poi ho abbandonato anche lui.
Ho abbandonato tutti. Ho abbandonato anche me stesso, il mio vero io, quello che scompigliava i capelli a Mikey dopo la scuola, quello che scarabocchiava frasi sul suo bloc notes, quello che passava le serate con Frank a immaginare il futuro. Quello innocente e ingenuo e forse un po’ solitario, ma che nonostante tutto aveva dei buoni propositi per la sua vita. Il Gerard che non si arrendeva.
Qualcosa mi afferra la caviglia improvvisamente, stringendomela in una morsa ferrea, e io per poco non lancio un urlo. Tra la massa di corpi e arti freddi e morti, un braccio spunta, muovendosi a fatica, poi una testa.
Sono scioccato. “Bert?”
Il suo corpo balza fuori all’improvviso, e lui striscia scavalcando i cadaveri e venendo a sedersi accanto a me. Mi lancia un mezzo sorriso, soffiandosi via i capelli umidi dalla faccia e spolverandosi i vestiti sporchi di sangue e chissà cos’altro.
Lo fisso sbalordito, col cuore che mi batte all’impazzata. Bert è qui. È qui. Con me. Non so come sia potuto succedere, non so cosa accadrà ma so soltanto che mi sento meno solo, e che se devo morire almeno sarà con una persona amica accanto.
“Che cosa ci fai qui?” chiedo, e per la prima volta ascolto la mia voce da quando ho ripreso conoscenza. È roca, debole, quasi un sussurro, e non appena chiudo bocca la riapro di nuovo per tossire. Bert mi dà delle pacche sulla schiena e mi intima di stare zitto.
“Nessuno deve sapere che sono qui” dice, parlandomi quasi nell’orecchio. Io continuo a guardarlo, assorbendo ogni sua parola. Forse… forse c’è una speranza. Forse è qui per salvarmi
“Ma come… cosa…?” provo a formulare una domanda decente, ma lui capisce al volo.
Sospira. “Quando li ho visti che ti colpivano, sono tornato subito indietro per venire a soccorrerti, ma la battaglia già volgeva al termine e i giapponesi si stavano ritirando. Siamo riusciti a distruggere completamente il loro accampamento, perciò la loro unica possibilità era quella di indietreggiare e portar via con sé i feriti e i morti per andare ad accamparsi più lontano. Solo che… noi abbiamo preso in ostaggio il loro colonnello, così loro hanno preso in ostaggio te.”
“E ora dove mi stanno portando?”
“Non lo so” ammette lui “probabilmente in un campo base il più lontano possibile dal nostro. E accetteranno di rilasciarti soltanto se noi rilasciamo il loro capo.”
Deglutisco, capendo subito in che situazione sono. “Ma il generale Morrison non lo farà vero?” chiedo con un filo di voce “Non gli importa niente di me. Mi lascerà morire e ucciderà l’ostaggio.”
Bert aggrotta la fronte, come a voler negare quella crudele verità. Ma è così, ed io lo so. Anche lui lo sa, perché alla fine abbassa la testa e annuisce piano. “E’ per questo che mi sono mescolato tra i loro cadaveri e sono salito su questo furgone.”ammette.
“Bert. Perché?”
“Perché cosa?”
“Perché io? Noi… ci conosciamo a malapena. E tu stai rischiando la vita per salvare la mia. Perché?”
Un sorriso amaro si apre lentamente sul suo volto. “Non lo so. Solo che non voglio che tu muoia. Io ho… o lasciato che morissero troppe persone nella mia vita. E ora sono qui, e ho la possibilità di ripagare gli errori che ho fatto. Ho la possibilità di fare qualcosa di buono nella mia esistenza. Posso farlo, e lo farò. E inoltre avevo anche un debito con te, o hai già scordato di avermi salvato la vita?”
Rimaniamo qualche secondo in silenzio, entrambi riflettendo su quelle parole. Sono ancora così sconcertato dalla sua presenza che non mi pare vero, e vorrei quasi allungare un braccio e toccare il suo per verificare che sia effettivamente Bert, e non un miraggio. Forse sono morto e questo è solo il mio ultimo incubo – o sogno, non saprei – prima di finire lassù o dovunque io debba andare.
“E poi” conclude alla fine, quando io già mi ero perso nei miei pensieri “tu hai qualcuno per cui vivere. Io no.”
 
 
Non so quanto tempo passi prima che il motore si fermi pian piano, scoppiettando. Prima ancora che me ne possa accorgere, Bert scivola di nuovo sotto tutta la massa di cadaveri, e prima di svanire definitivamente si posa un dito sulla bocca e mima un “sssh” in mia direzione.
Mi fingo svenuto, ma evidentemente ai giapponesi non la do a bere perché sento qualcuno afferrarmi brutalmente per le braccia e trascinarmi giù dal furgone. Sento un dolore negli stinchi, uno di loro deve avermi colpito col calcio del fucile, e crollo in ginocchio urlando di dolore. Atterro proprio sulla gamba ferita, perciò urlo doppiamente e sto quasi per perdere conoscenza se qualcuno non mi tirasse di nuovo su, puntandomi un fucile dietro la schiena e gridandomi degli ordini in giapponese che interpreto come un “sbrigati a camminare o ti pianto una pallottola nella spina dorsale”.
Perciò cammino, avanzando piano, trascinandomi dietro la gamba sinistra, e mi guardo intorno. Siamo in un campo base ancora più grande di quello che avevamo attaccato, si estende per tutta l’immensa radura e finisce quando ricominciano di nuovo gli alberi della foresta, quasi un chilometro più in là.
Mi guardo indietro, lanciando uno sguardo disperato al furgone con i cadaveri. Dove li porteranno? E se Bert si facesse scoprire? E se il suo piano, qualunque esso sia, fallisse? E se morissi?
Il soldato con il fucile dietro di me mi incita ancora ad avanzare, perciò abbasso la testa e mi costringo a non pensarci.
Mi conducono in una piccola tenda verso il centro dell’accampamento, sorvegliata da due uomini. Vengo buttato violentemente all’interno, un giapponese mi lega i polsi dietro la schiena e mi spinge a terra, poi se ne va lasciando quei due a sorvegliarmi.
Appoggio la testa sull’erba, inspirando ed espirando, cercando di calmarmi. Posso sopravvivere una giornata intera in attesa? Posso convivere con l’ansia fino a stanotte? Posso trattenere l’impulso di tagliarmi la gamba pur di far sparire il dolore?
Sì, ce la posso fare.
 
 
Bert non mi lascia attendere molto. Non appena cala il sole e le voci e i rumori nell’accampamento si quietano, lasciando spazio al silenzio e a qualche russare sommesso qua e là, sento degli scalpiccii all’esterno.
Solo che non mi aspettavo che Bert mi raggiungesse da dietro, facendo un buco nella parte posteriore nella tenda e cogliendomi così di sorpresa che devo portarmi una mano alla bocca per trattenere un sussulto scioccato.
Lui mi fa un cenno e mi passa un coltello, indicando l’entrata della tenda. In assoluto silenzio taglia i legacci che mi legano i polsi e insieme ci alziamo, dirigendoci verso le due guardie all’esterno.
Ci guardiamo, immobili. Bert inizia a contare con la mano. Tre, due, uno.
Faccio un respiro profondo.
Agisci.
Alziamo di colpo i lembi della tenda e ci lanciamo senza esitare sulle due guardie. Bert colpisce il primo uomo in pieno petto, spezzandogli subito il collo per evitare che emetta un qualsiasi suono. Io imito le sue mosse e soffoco il secondo tenendogli le mani premute sulla bocca, cercando di non udire i suoi mugugni disperati e imploranti, fino a quando non si rilassa sotto di me e capisco che è morto.
Bert indica la foresta e mi fa cenno di sbrigarmi, così trasciniamo i due soldati all’interno della tenda e ci mettiamo a correre silenziosamente verso i margini dell’accampamento, il più velocemente possibile.
La gamba mi duole in un modo pazzesco, e probabilmente si sta infettando sempre di più perché ha ripreso a sanguinare e ora assieme al sangue c’è anche del pus giallognolo e disgustoso.
Ce la posso fare. Siamo a un passo dalla salvezza, siamo quasi arrivati, la foresta si avvicina sempre di più e le tende dell’accampamento si allontanano dietro di noi, e il pericolo si fa sempre minore, e vedo Bert tirar fuori un piccolo sorriso e sorrido anche io perché ce l’abbiamo fatta, e vorrei tanto abbracciarlo, dirgli che gli sono grato e che non potrò mai ripagarlo per avermi salvato la vita.
E poi delle grida, e uno sparo.
Per un attimo tutto si immobilizza: sono quasi tentato di controllarmi il petto, o le braccia o le gambe, perché forse la pallottola ha preso me, forse non è come già sospetto che sia, forse non è accaduto davvero.
Ma è la realtà. La nostra corsa si ferma di colpo perché Bert che correva accanto a me crolla a terra di faccia, e quando torno indietro con una sorta di dolore sordo nel petto vedo una chiazza di sangue allargarsi sotto di lui. Sangue. Sangue ovunque.
Grida in giapponese, trambusto, caos, rumori, alzo la testa e vedo alcuni soldati iniziare a correre verso di noi, i fucili in pugno.
“Bert” La mia voce è lontana, quasi inudibile. Mi inginocchio accanto a lui e gli alzo il viso sepolto nell’erba, e vedo i suoi occhi che già cominciano a chiudersi e il panico si impossessa di me tutt’a un tratto, rendendomi difficili i movimenti.
Agisci. Agisci agisci agisci.
I soldati si stanno avvicinando. Alcune pallottole mi fischiano accanto, mancandomi per un pelo. Allungo le braccia e sollevo Bert da sotto le ascelle, mettendomelo in spalla e riprendendo a correre con la gamba che mi urla di fermarmi e le spalle che per poco non cedono per il peso, ma io corro e corro e so che ce la posso fare, avanti, non può finire così. Mi scappa una risata isterica e cerco di soffocarla. Eravamo a un passo così dalla fine. Eravamo arrivati. Ce l’avevamo fatta.
E ora sbam.
No no no no no no no.
“G-g-ge-rard”
No.
“Sta’ zitto Bert. Siamo arrivati”
“Ge-rar-d… mettimi g-giù”
Dannazione, no.
“Zitto. Non chiudere gli occhi. Resisti. Ci siamo.”
Altri spari. Passi vicini, vicinissimi, loro sono qui e stanno per prenderci.
Crollo a terra. Non l’ho deciso io, cado e basta, inciampando in qualcosa o semplicemente cedendo, sfinito, e Bert rotola accanto a me e mi guarda col viso sporco di fango e sangue. “Lasciami, Gerard. Continua tu. Avanti. Stanno arrivando, ce la puoi fare.”
“No!” urlo, cercando di nuovo di caricarmelo in spalla, ma la gamba mi cede di nuovo e sono costretto a rimanere perfettamente immobile per non vomitare o avere uno svenimento.
“Gerard.”
Dio mio, no.
“Gerard, corri”
Una pallottola mi ferisce di striscio il braccio e io urlo, singhiozzo, chinandomi in avanti e non può finire così, non può finire.
“Corri.”
E poi un pensiero mi fulmina, passandomi veloce per la mente e sparendo di nuovo, e io quasi arranco per aggrapparmi ad esso.
Frank.
Devo tornare da Frank.
Sento l’ultimo respiro di Bert come se fosse il mio, e quando volto la testa lui è morto.
A malapena ho il tempo per abbassargli le palpebre e far cadere una sola lacrima, poi mi alzo.
Sì, mi alzo. Mi alzo e corro.
Frank.
Frank Frank Frank.
Sto tornando da te.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Little pink triangle ***


*big premessa* Ok, non so se avete mai visto il film “Dallas Buyers Club” . Se la risposta è no, beh, ve lo consiglio assolutamente, ma se lo avete visto allora saprete riconoscere il personaggio che ho introdotto in questo nuovo capitolo dehehe
In ogni caso lascio una piccola illuminazione a chi si stesse chiedendo di che diavolo sto parlando: il personaggio in questione(di cui ovviamente ho cambiato caratteristiche e nazionalità per adattarlo alla storia) è Jared Leto(asfdgthjkjl sì, il Gesù barbone nonché frontman della mia seconda band preferita), o più precisamente il trans malato di AIDS che Jared interpreta in Dallas Buyers Club, un personaggio che ho amato sin dal primo momento e che… no sentite, dovete vedere quel film assolutamente. Stop.
Buona lettura<3
M.
 
 
CAPITOLO 19 – LITTLE PINK TRIANGLE
 
FRANK
 
Sono due giorni che la neve non smette di cadere. Si fa sempre più fitta man mano che ci avviciniamo alla Germania, facendo sì che tutto il paesaggio sia come ammantato da una coperta bianca.
Non che io possa vedere molto. Le poche volte che posso avvicinarmi alla stretta finestrella sbarrata presente sulla parete destra del vagone, è soltanto di sera, quando tutti gli altri dormono nei loro angoli e mi lasciano un po’ di spazio per respirare e per muovermi.
Le giornate invece le passo rannicchiato nel mio angolo, tra una coppia di gay che non fanno che stringersi il più stretto possibile, e un anziano signore che non ha proprio l’aria da omosessuale. Del resto, nessuno qui ha l’aria di un omosessuale, né le donne né gli uomini. Sarebbe impossibile distinguerci se fossimo tra la gente comune, perché in ognuno dei miei “compagni di viaggio” vedo lo stesso terrore, la stessa paura della morte, la stessa disperazione che ci sarebbe negli occhi di una persona “normale” se fosse nella nostra stessa situazione.
Qual è il confine tra normalità e diversità? Qual è la differenza, e perché è così importante? Perché non la si può semplicemente accettare e basta, come si accetta il sorgere del sole al mattino, o come si accetta la diversità tra un volpino e un bulldog?
Potrei farmi queste domande fino alla fine dei miei giorni. Probabilmente se le fanno anche tutti gli altri passeggeri di questo maledetto treno, giusto per passare il tempo, perché non avremo mai una risposta. Intanto noi andiamo a morire chissà dove, poi magari tra qualche anno la troveranno. Forse, un giorno, qualcuno più intelligente di noi la troverà.
Dopo aver passato un paio d’ore nel furgone di Matteo, nel buio più totale, senza sapere dove mi avrebbero portato né se avrei mai più rivisto la luce, siamo arrivati ad una stazione. Lì mi hanno lasciato nelle mani dei controllori, e insieme ad un altro centinaio di persone sono salito su questo treno. L’ultimo sguardo che Matteo mi ha rivolto, al riparo nella sua macchina, mentre io venivo spinto a forza in un vagone, è stato così sprezzante, così pieno di crudeltà nuda e cruda da farmi chiedere come possano essere racchiusi in una sola persona così tanti sentimenti negativi.
Non esagero quando parlo di un centinaio di gente, anzi probabilmente ne sono molto di più. Vengono tutti da paesi diversi, paesi in guerra dove essere ciò che siamo è un reato proprio come in Italia, e mi chiedo se anche loro sono stati traditi dal sangue del loro sangue, ma ne dubito.
Rossana….
So che non lo ha fatto davvero per cattiveria. So che stava soltanto cercando di piacere a Matteo, e ha fatto ciò che lui le ha ordinato perché credeva fosse la cosa più giusta da fare. Magari quando si è intrufolata in camera mia non credeva nemmeno di trovare nulla di sospetto, ed era convinta di tornare dal suo fidanzato a mani vuote e porre fine a quella storia.
Solo che non riesco a non biasimarla. Lei mi ha condannato a tutto questo. Lei ha fatto sì che ora io sia qui, diretto in qualche campo di sterminio dove morirò di fame o di stenti, o dove semplicemente mi uccideranno. Lei ha permesso tutto questo, mi ha strappato da mia madre e da nonna e da Jamia e da Mikey… e da Gerard.
Non riesco a pensare lucidamente a lui. Non posso permettermi di pensarlo, o di immaginare il suo volto, o di riascoltare mentalmente le sue ultime parole, quell’ “A presto” che non si avvererà mai. Se ci penso impazzisco.
O forse sono già pazzo.
Forse sono già pazzo, perché credo di non poter sopportare un secondo di più i sussulti e i singhiozzi disperati della gente stretta attorno a me in questo vagone di pochi metri quadrati, i loro colpi di tosse, i loro starnuti, i loro respiri, l’odore dei loro corpi sudati, credo di non poter sopportare ancora a lungo la fame che mi corrode lo stomaco, la sete che mi sta prosciugando la bocca, e il cattivo odore che anche io mi porto addosso ormai da giorni.
È che ormai mi sono rassegnato. In fondo, chi voglio ingannare? Io sono sempre stato debole. Ero debole quando a scuola mi spingevano e mi prendevano in giro, e lo sono ancora adesso. Non è cambiato nulla.
Probabilmente se io ora fossi Gerard combatterei. Combatterei per cercare di sopravvivere, farei qualcosa, o semplicemente non mi darei per vinto e aspetterei l’occasione giusta, anche soltanto per dimostrare loro che non mi avranno, che non sono di nessuno e che non possono decidere della mia vita, anche se ce l’hanno in pugno.
Ma io sono Frank. Sono Frank Iero, il ragazzino basso e timido, quello con lo sguardo sempre a terra e i libri stretti al petto, quello che non ha mai combinato nulla di buono nella propria vita se non cercare di diventare amico di Gerard Way. E quando ci è riuscito, le cose hanno iniziato a precipitare, perciò in un certo senso non ce l’ha fatta neanche in quello.
Non soffro per me stesso. Non ho mai avuto paura per me, ho sempre subito passivamente aspettando che le cose migliorassero, ma senza mai dirmi che così non poteva continuare e che non potevo più farcela. E ora è lo stesso, perché penso a Mikey e a cosa accadrà quando non mi vedrà tornare, e passeranno i giorni e mi manderà lettere su lettere a cui non riceverà mai risposta. Mi chiedo cosa accadrà quando Gerard, semmai dovesse tornare dalla guerra, lo scoprisse. Cosa gli succederà. Se riuscirà a farcela, se riuscirà a tirare avanti.
Probabilmente sì.
È lui quello forte, sapete?
Forse l’ho già detto.
C’è una ragazza che mi fissa di continuo. Non fa altro che starsene lì, con le ginocchia magre e pallide strette al petto e lo sguardo azzurro e intenso fisso su di me. Mi guarda così attentamente, come se temesse che io sparissi da un momento all’altro, che mi sento a disagio ogni volta che incrocio i suoi occhi. Finalmente, dopo un tempo che non saprei definire se non come “ore passate a fissare il nulla”, mi si avvicina, e d’un tratto capisco tutto.
È un travestito.
Cioè, uno di quelli dei nightclub, quelli che la società a malapena conosce, quelli che negli Stati Uniti sono considerati alla stregua di prostitute, ma che almeno hanno il permesso di esercitare la loro professione in qualche locale – quei pochi presenti -  per omosessuali.
È un uomo vestito da donna.
Si siede accanto a me, stringendosi di più il cappotto attorno alle spalle troppo larghe per appartenere ad una donna, e ad un seno inesistente. Come ho fatto a non accorgermene prima? Ha la mascella dura e squadrata, tipica di un uomo, e lineamenti chiaramente maschili, nonostante vengano parzialmente coperti da qualche ciuffo castano di quella che probabilmente è una parrucca accuratamente confezionata.
Eppure… c’è qualcosa di così triste e indifeso nei suoi occhi azzurri, qualcosa di così fragile nel suo sguardo quando si posa su di me, che improvvisamente so per certo che risulterebbe assurdo e fuori luogo se appartenesse ad un uomo.
E tutti i pregiudizi che potevano avermi attraversato la mente quando l’ho vista avanzare verso di me svaniscono nel nulla, come se non fossero mai esistiti, quando lei apre la bocca per parlare con un sussurro dolce e appena accennato. “Ciao”
Dio, non ho mai sentito nulla di così ingenuo e puro in vita mia. Non… non so nemmeno perché, ma è come se mi venisse spontaneo il desiderio di proteggere questa creatura, qualsiasi cosa sia, qualsiasi cosa ci faccia qui.
Mi apro in un piccolo sorriso per la prima volta dopo secoli. “Ciao” le dico in risposta.
E lei mi sorride, quasi sorpresa che io sia così gentile.
“Qual è il tuo nome?” mi chiede ancora, e noto che ha un leggero accento francese.
“Frank.”
Mi tende la mano. “Io sono Rayon”. Gliela stringo, e la sua stretta è delicata e al tempo stesso forte, una contraddizione come lo è lei stessa, del resto.
“Sai, quel tizio laggiù sostiene che siamo quasi arrivati” mi dice, indicando un signore grassottello che confabula con un altro paio di persone. “Dice che lo sente nell’aria, e che presto le nostre sofferenze finiranno e andremo tutti in un posto migliore”
“Se per posto migliore intende un campo di concentramento, allora deve avere una strana visione delle cose” commento quasi sarcasticamente, e Rayon si porta una mano alla bocca per coprire una piccola risata.
“Ti avevo visto qui tutto solo e avevo pensato che magari ti servisse un po’ di compagnia” dice ancora, come se fossimo in un bar e mi stesse offrendo un drink, come se fosse la cosa più normale del mondo, come se non stessimo in una situazione in cui rimanere vivi è già un miracolo.
Annuisco, ma non riesco a dire nulla di significativo. Del resto, cosa potrei dire? “Beh sì, fa sempre piacere parlare con qualcuno prima di morire”, o “Potresti essere l’ultima persona a cui rivolgerò la parola”, o “Buona fortuna, magari ci rivedremo in un’altra vita”.
Rayon sembra capire, perché rimane in silenzio e non aggiunge altro.
“Frankie?” mi chiede dopo un po’, quasi esitante, e in un certo senso mi diverte che usi quel soprannome dopo esserci conosciuti da appena dieci minuti.
“Sì?”
“Possiamo essere amici?”
La guardo, e lei mi fa un sorriso smagliante. Questa ragazza – o ragazzo, non mi importa poi molto – mi sta chiedendo di fare amicizia ad un passo dalla morte, in un treno diretto chissà dove, lontano da tutto e tutti, lontano dalla libertà e da ciò che dovrebbe chiamarsi vita.
E per quanto assurdo e assolutamente pazzesco possa essere, io accetto. So che me ne pentirò e soffrirò ma… accetto.
“Amici.”
 
 
Potrebbe essere passato un giorno come una settimana da quella conversazione a quando le porte del vagone si aprono finalmente, scorrendo via e lasciando entrare una luce abbagliante e una folata di vento freddo che mi ghiaccia le ossa.
Stiamo letteralmente tremando tutti, mentre una decina di soldati si affaccia sulla soglia della carrozza e ci urla di scendere in tedesco. Per fortuna ho imparato quelle poche nozioni basilari a scuola, ma anche se così non fosse non ci sarebbero dubbi su ciò che vogliono, perché iniziano a tirarci su brutalmente ad uno ad uno e a farci scendere dal vagone.
Io riesco ad alzarmi pian piano, appoggiandomi alla parete, mentre Rayon è così tremante e intirizzita che un tedesco la afferra letteralmente dal bavero della giacca e la rimette in piedi.
Scendiamo dalla carrozza e atterriamo nella neve, guardandoci intorno. Come me, sono tutti sperduti e spaventati. C’è altra gente che scende da altri vagoni, ci sono altri soldati che fanno disporre le persone in fila e li portano via, chissà dove, chissà dove.
Rayon mi si stringe addosso, aggrappandosi al mio braccio, e in un certo senso gli sono grato perché sto letteralmente tremando dal freddo.
I tedeschi fanno mettere in fila anche noi, uno dietro l’altro, e ci conducono via dalla stazione, lungo un viale innevato e spoglio fino ad un grande, gigantesco cancello.
Lo guardo, e so già di cosa si tratta. La recinzione si estende per chilometri, con tanti fili di ferro appuntiti e sicuramente elettrificati, e soldati appostati ovunque. Al di là di essa, vedo solo desolazione. Morte e desolazione.
E noi stiamo per entrarci.
Davanti al cancello ci sono diversi uomini seduti a dei tavolini di legno, e per ciascuno di loro c’è una fila diversa di persone. Ai prigionieri di una certa fila, una volta arrivato il loro turno, applicano una stella a cinque punte sulla manica, e capisco che sono ebrei. Alla nostra fila invece non riesco a capire cosa spetti, fino a quando non tocca a me e io mi ritrovo davanti a questo ometto pelato e con gli occhiali che non mi guarda nemmeno in faccia. Prende una spilla da una ciotola, e poi mi applica un pezzo di stoffa sulla parte sinistra del petto.
Un triangolo di stoffa rosa.
Immagino sia questo il loro modo di distinguerci dagli altri. Per loro siamo questo: dei triangoli di stoffa, dei numeri, delle stelle a cinque punte, senza nome, senza identità, senza niente che possa definirci alla loro pari.
Tutto questo non ha senso. Non ha davvero senso, io non… non riesco a capire. Sul serio, qualcuno dovrebbe illuminarmi o spiegarmi cosa diavolo ci faccio qui, e cosa sono tutti questi soldati che ci trattano come se avessimo commesso dei crimini, come se fossimo degli schifosi assassini che meritano la morte. Qual è la nostra colpa?
Dopo che la fine è terminata, i cancelli vengono aperti e i tedeschi ci ordinano di avanzare. Quando ormai siamo dentro, io e qualche altro ci voltiamo a guardare, e li vediamo di nuovo richiudersi dietro di noi, con un tonfo finale che mi fa salire un brivido ghiacciato su per la schiena.
Incrocio lo sguardo di Rayon, che mi fissa spaventato. Nei suoi occhi, la mia stessa domanda: “Qual è la nostra colpa? Che cosa abbiamo fatto per meritarci questo?”
Per la prima volta da quando mi hanno portato via da casa, ho paura.
Ho paura. Sapete, è sempre stato Gerard quello forte.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Falling in love will kill you ***


Kiauuu ok un salutino veloce just bc non so davvero che dirvi se non che il titolo del capitolo è un duetto tra Gerard e i Wrongchilde e che sono in fissa da giorni e vbb, buona lettura<3
M.
 
 
 
CAPITOLO 20 – FALLING IN LOVE WILL KILL YOU
 
 
GERARD
 
 
Avere una lacuna nel tuo cervello è qualcosa che ti strazia l’esistenza. Potrà sembrarvi assurdo o banale, ma vi assicuro che vi fa impazzire.
Il fatto è che ricordo poco o niente da quando ho lasciato l’accampamento giapponese dopo la fuga e la morte di Bert. Ricordo che corsi per un centinaio di metri, inoltrandomi nella boscaglia e inciampando ad ogni passo, e poi sbam, vuoto più totale. Ricordo che tra sogni, incubi e dormiveglia intravidi il viso di Ray, e di quell’altro soldato, Zach, che mi parlavano quasi urlandomi nelle orecchie, chiedendomi se stessi bene. Ricordo di aver scosso la testa e aver pronunciato il nome di Bert, e poi ancora vuoto.
Ricordo un letto d’ospedale, lenzuola bianche e pulite, odore di disinfettante, il bel volto di un’infermiera che mi sorrideva. Ancora Ray, e poi Bert nei miei sogni che mi sussurrava di correre, e il viso di Frank quasi indecifrabile e impassibile, e poi coperto di sangue e lui urlava di andare a salvarlo, come se ne andasse della sua vita. Io mi che mi contorcevo sul letto, febbre, sudore, freddo e poi caldo, dolore alla gamba e caos.
Caos.
Ripresi conoscenza soltanto dopo circa una settimana. Ray era seduto accanto al mio letto nell’infermeria, con un braccio fasciato e l’aria stanca. Quando lo guardai, lui mi sorrise genuinamente e all’improvviso mi resi conto di quanto gliene ero grato. Non sapevo nemmeno che ci fosse tutto questo attaccamento tra noi due, tanto da spingerlo a vegliare su di me per tutti quei giorni, eppure lo aveva fatto, e trovare qualcuno lì al mio risveglio era stato qualcosa di così inaspettato quanto piacevole.
“Finalmente” disse lui, posandomi la mano sana sul braccio.
Io indicai la sua fasciatura. “Che ti è successo?”. Era la prima domanda che mi era venuta in mente, ma ovviamente ne avevo così tante altre ad affollarmi il cervello. Sentivo il peso di un’ingessatura all’altezza della gamba, ma non mi doleva più come prima, era più quasi come un dolore sordo e distante. Sentivo delle garze anche sul braccio, dove un proiettile doveva avermi colpito di striscio, ma anche lì il dolore si era attenuato.
Ray si strinse nelle spalle e poi rise un po’. “Niente di che… oh, ma sei tu quello disteso su un letto, mica io!”
Io sorrisi appena, cercando di non pensare a ciò che mi tormentava di più e che mi pesava assurdamente sul cuore.
Ray forse capì, perché cambiò subito argomento. “Dicono tutti che sei fortunato ad avere ancora la gamba tutta intera. Se io e Zach fossimo arrivati qualche minuto più tardi, sarebbero stati costretti ad amputarla.”
“Un momento: arrivati dove?”
Ray sospirò, guardando fuori dalla finestra. “Tu e Bert eravate spariti entrambi, Morrison aveva preso prigioniero quel comandante giapponese e io fatto due più due. Stranamente a me si è unito Zach, e siamo venuti a cercarvi. Il generale Morrison non ce l’avrebbe mai permesso, perciò siamo partiti appena si è fatto sera, e dopo aver vagato a lungo per la foresta ti abbiamo trovato lì, svenuto, sanguinante, in mezzo ai rovi.”
Deglutii. “Ray, io non so davvero come…”
“Eri uno straccio, Gee. Ho avuto paura. Eri… eri davvero… sembravi morto, ecco. Credevo non ci fosse più nulla da fare. Invece poi ti abbiamo portato qui… ed eccoti. Hai dormito per un’intera settimana.”
Rimanemmo in silenzio per un po’, non sapendo cos’altro dire.
“Bert…?” mormorai dopo un po’, inserendoci un esitante punto di domanda alla fine.
Ray scosse la testa, e vidi la tristezza nei suoi occhi. “Non so nemmeno cosa ne abbiano fatto del suo corpo. Non c’era verso di recuperarlo, eravamo in campo nemico e… mi dispiace davvero. Non sai quanto.”
Strinsi le lenzuola tra le dita, chiudendo le mani a pugno fino a farmi sbiancare le nocche. Sentii le lacrime pungermi gli occhi, ma impedii loro di uscire. Non sapevo se avrei dovuto gioire di essere sopravvissuto, o chiedermi perché mai non ero morto io al posto di Bert.
Lui… lui semplicemente non lo meritava. Non dopo essere venuto a salvarmi senza richiedere nulla in cambio.
Ci conoscevamo a malapena. Non sapevamo nulla l’uno dell’altro, eppure aveva trovato non so dove e non so come il coraggio di nascondersi tra tutti quei cadaveri, solo per far sì che io vivessi.
Ed era morto.
“Ci mandano a casa” disse Ray, e improvvisamente la mia attenzione fu di nuovo tutta su di lui.
Sentii il cuore farmi un tuffo nel petto, le mani iniziarono a sudarmi e improvvisamente Bert era lontano anni luce dai miei pensieri.
Frank.
Mikey.
Tornavo a casa.
“Sul serio?” riuscii a mormorare dopo aver racimolato le forze necessarie per aprire bocca.
Ray sorrise, annuendo e indicando la mia gamba e il suo braccio. “Molti di noi sono stati feriti gravemente, inoltre la situazione qui nelle Filippine si è ristabilita, i giapponesi hanno abbandonato tutti i loro avamposti, indietreggiando sempre di più, e il generale Morrison ha deciso di darci un periodo di licenza. Due mesi, Gerard. Due mesi a casa.”
Due mesi.
Una lacrima mi scappò, scendendo lentamente lungo la mia guancia, e io me la asciugai in fretta. Due mesi con la mia famiglia.
Due mesi con Frank.
Nonostante insistessi ogni giorno, l’ospedale non mi rilasciò che dopo altre due settimane. Nel frattempo avevo già scritto una lettera a Lynz, in cui la informavo semplicemente che stavo bene e sarei tornato presto, e una a Frank in cui invece gli raccontavo tutto, senza riserve, senza freni, senza nascondere nulla. Ottenni una risposta veloce ed eccitata da mia moglie, con tanti saluti anche da parte di Mikey, ma soltanto il silenzio da Frank. Mi dissi che non dovevo preoccuparmi. Probabilmente anche lui era diretto a casa, e quando sarei tornato lo avrei trovato insieme agli altri ad attendermi.
 
Mi sbraccio per un paio di minuti prima che un taxi si fermi accanto a me e ci entro subito, indicando al tassista l’indirizzo.
Non appena l’auto parte, apro completamente il finestrino e sporgo la testa fuori, chiudendo gli occhi e godendomi beatamente l’odore della mia città, i rumori, i suoni, tutto. Mi era mancata ogni cosa, senza distinzioni.
Non so bene come sentirmi al pensiero che sono a casa. Guardo i palazzi scorrermi accanto veloci, la gente che cammina per le strade, il cielo luminoso sopra di me e mi chiedo se riuscirò a godermi appieno questi mesi, se passeranno troppo presto, se andrà tutto bene, se sarò felice dopo tanto tempo.
Se se se.
Non sto nella pelle.
Ho qualcosa nello stomaco. È tipo un piccolo ometto contorsionista che si arrotola attorno ai miei organi, stritolandomeli quasi, provocandomi delle fitte alla pancia di ansia e trepidazione. Vedrò Mikey, abbraccerò Lynz, mia madre… e abbraccerò Frank.
No, penso con una piccola risata isterica. No, decisamente non lo abbraccerò. Probabilmente mi verrà l’impulso di baciarlo lì sul posto, appena lo vedrò, perciò mi tratterrò dall’abbracciarlo e appena saremo soli lo bacerò come non l’ho mai baciato, annegherò nei suoi occhi e sfiorerò ogni centimetro della sua pelle, e faremo l’amore ovunque ci capiti, anche sulle mattonelle del bagno o contro un muro. Voglio solo essere con lui, dentro di lui, esserci per lui.
Non lo vedo da così tanto tempo che l’ultimo ricordo che ho, quello di lui sdraiato sul letto, con la linea morbida della schiena nuda illuminata dal sole, è troppo sfuocato, troppo distante e lontano, e devo rimediare assolutamente. Devo rimediare il prima possibile, o impazzirò. Non mi importa di Lynz, non mi importa di niente.
Devo vedere Frank.
Devo… devo poterlo toccare, sapere che è lì accanto a me, che c’è, che ci sarà sempre, che non è stato tutto un sogno l’averlo incontrato, che non è tutto svanito nel tempo che sono stato via, e che i suoi sentimenti per me sono ancora intensi come lo sono i miei.
Sono così immerso nei miei pensieri che neanche mi accorgo dell’auto che si ferma, e quando alzo lo sguardo il tassista è girato verso di me con una mano protesa per ricevere la mancia, e fuori dal finestrino ecco casa mia, la casa dove sono cresciuto, la casa dove ho vissuto i momenti più dolorosi ma anche quelli più felici e spensierati della mia vita.
Come in un sogno, do i soldi al tassista e scendo dalla macchina, attraversando il vialetto d’ingresso e fermandomi davanti alla porta.
Sto letteralmente tremando, e quando poso la mano sul battente non c’è neanche bisogno che bussi perché la mia mano lo fa da sola, fremendo come una foglia.
Non ho neanche il tempo di prendere un respiro profondo che la porta si apre di colpo, e sulla soglia c’è Lynz.
È ingrassata un po’, ha le guance più piene e il sorriso più dolce e pacato, gli occhi luminosi come sempre e un leggero rigonfiamento sotto gli abiti che rivela ciò che porta in grembo.
È bellissima comunque, e mi è mancata. Mi è mancata così tanto.
Non appena mi vede, lancia un urlo e si porta le mani alla bocca scoppiando a piangere. Io faccio un passo avanti ed entro in casa, chiudendomi la porta alle spalle e poi mi volto verso di lei e lei mi salta al collo e nonostante tutto è ancora così leggera che riesco a sollevarla e a stringerla per la vita, e sento il bambino che scalcia nella sua pancia e poi lei mi bacia, mi bacia una decina di volte, sulla bocca e sulle guance e sul naso e sulla fronte e credo di stare collassando, la gioia è troppo forte, troppo intensa, non ce la faccio.
Sono qui.
Io sono qui. Sono a casa.
Quando si stacca, mi prende il viso tra le mani e mi guarda singhiozzando di felicità. “Oh, Gerard” mormora, e torna a baciarmi.
E poi lo vedo.
Mi stacco immediatamente da Lynz, oltrepassandola e andando verso di lui. È seduto sul tavolo, con le gambe che penzolano pigramente nel vuoto, la camicia beige che indossava sempre nei giorni di festa e un mezzo sorrisetto sul volto, come se sapesse quanto sono contento di vederlo ma cercasse comunque di non mostrare la sua contentezza.
Scende dal tavolo.
Mi viene incontro.
Gli vado incontro.
“Mikey…”
E poi ci scontriamo. Io sollevo anche lui, stringendolo come se volessi farlo annegare dentro di me, abbracciando le sue ossa sottili e striminzite, accarezzandogli i capelli castani, baciandogli la fronte, allontanandolo per guardarlo meglio, e lui per tutto il tempo… ride.
Ride, e rido anche io, ride mentre lo abbraccio, ride mentre lo guardo avidamente assorbendo ogni dettaglio, notando quanto è cambiato, quanto è cresciuto, quanto è diventato più alto e anche leggermente più robusto e i suoi occhi, i suoi occhi sono intensi e pieni di vita, e non vedevo degli occhi così puri e pieni di gioia da una vita intera.
E poi scoppiamo a piangere. Non lo decidiamo noi, soltanto che accade, accade senza una ragione, e io mi inginocchio davanti a lui e gli prendo le mani tra le mie e lo guardo tra le lacrime che mi offuscano gli occhi. Lui si sistema gli occhiali sul naso, e scopro che mi mancava anche questo piccolo, insignificante gesto.
“Sono a casa, Mikey” sussurro con voce rotta. “Sono a casa.”
Lui sorride. “Sei a casa.”
E poi mi alzo.
Ed è allora che noto qualcosa che non va.
Cioè, non so come ho fatto a non accorgermene prima, solo che avevo Lindsey e Mikey davanti e non potevo pensare ad altro se non a loro. Ma ho dimenticato il pezzo più importante, quello fondamentale.
Quello che mi ha permesso di arrivare fin qui, di essere in questa casa oggi.
Come ho potuto?
Mi volto verso Lynz, e quando guardo i suoi occhi sento qualcosa sprofondarmi dentro.
Lei sa. Ha capito, e sa.
Deglutisco.
“Dov’è Frank?”
Viene verso di me lentamente, come se avesse improvvisamente paura di avvicinarsi troppo.
“Dov’è Frank?” ripeto, e quando non ottengo risposta da lei mi volto verso Mikey, ma anche lui mi fissa in silenzio, quasi timoroso.
“Lynz” rantolo, guardandola supplicante. Sento il sangue rombarmi nelle orecchie, la pressione troppo forte per farmi concentrare sull’ambiente circostante, e poi c’è questo brutto presentimento che avevo da quando non ricevetti la sua risposta alla mia lettera, c’è questo brutto presentimento che mi sta crescendo dentro come una bolla, e so che presto esploderà. Ed io esploderò con essa.
Lynz non dice niente.
Non dice assolutamente niente, e sto per urlare, urlare soltanto per spezzare questo fottuto silenzio che sta sommergendo tutto e mi rende difficile capire cosa stia succedendo.
Mi porge una lettera.
“Io… non l’ho aperta. È arrivata circa una settimana fa, dall’Italia. Pensavo che… avresti voluto leggerla tu per primo.”
La afferro con le mani tremanti. Viene dall’Italia, ma non dall’indirizzo di Frank. È un indirizzo diverso ma della stessa città, e c’è un nome che non ho mai sentito: “Jamia Nestor”.
Apro la busta e tiro fuori un foglio giallognolo, scritto con una calligrafia femminile, elegante e ordinata.
Mi siedo al tavolo e mi immergo nella lettura, con la bolla dentro di me che minaccia di scoppiare da un momento all’altro.
Caro Gerard Way,
tu devi essere il famoso Gerard, sì. Non so chi tu sia né come tu faccia a conoscere Frank, ma penso capirai ciò che sto per dirti. Ti scrivo perché sei l’unico a cui posso rivolgermi, perché so che tieni a Frank non quanto ci tengo io, ma anche di più, e che siete legati da un rapporto… più stretto della semplice amicizia.
Come lo so?
Beh, non ti consolerà sapere che lo sanno tutti qui in paese. E che Frank è sulla bocca di ogni dannato abitante di questo posto, da qualche settimana a questa parte.
Lui non è più qui, Gerard. È successa… è successa una cosa terribile, e hanno trovato la tua lettera. Non devi sentirti in colpa, non è colpa di nessuno, sul serio. Solo l’hanno trovata, e il suo contenuto ha indotto a pensare che tu e lui foste omosessuali.
Io non so se lo siete davvero, non so se pensavi davvero tutto ciò che hai scritto in quella lettera, ma chi l’ha letta ha capito il peggio, e Frank è stato preso.
Lo hanno portato via.
Ce lo hanno portato via.
Non so nemmeno perché ti sto scrivendo. Probabilmente tu sei ancora in guerra, e questa lettera finirà nelle mani sbagliate e tu non potrai fare più nulla. Ma se ti arriva… se la stai leggendo, e se ami Frank come lui merita di essere amato (e sappiamo entrambi che lo merita come nessun altro al mondo), allora sai cosa fare.
C’è speranza, io lo so. Non lasciarti abbattere. Io non posso far nulla ormai, ma tu sì, e se ti dico che grazie a degli agganci giusti nella marina so dove stanno portando Frank, mi aiuteresti?
Sì che lo farai.
Io ci credo.
Con affetto,
Jamia
 
All’interno della busta c’è anche un piccolo foglietto ripiegato, e su di esso c’è scritto un luogo, e un nome: “Weirsten Lager, Germania. Chiedi del colonnello Kellin Quinn.
Non so come mi sento.
Probabilmente se mi investisse un camion in questo preciso istante proverei meno dolore.
C’è una bottiglia di vino sul tavolo, proprio accanto alla mia mano artigliata sulla tovaglia.
Allungo la mano.
Afferro la bottiglia.
Sento la voce di Lynz lontana mille miglia da me, sento le mie dita premere forte contro la bottiglia, quasi volessi spezzarla con la sola forza dei miei muscoli, sento il caos nel mio cervello, sento il dolore scorrermi addosso, inondarmi con la stessa violenza di una secchiata di acqua gelida, sento il nome di Frank che si ripete di continuo nella mia mente, stordendomi, impedendomi di ragionare, impedendomi di vedere qualsiasi cosa se non la bottiglia che stringo tra le mani, e prima che me ne possa rendere conto la scaglio con violenza contro la parete.
Quando alzo lo sguardo, vedo gli occhi traumatizzati e impauriti di Mikey e Lynz fissi su di me.
Non mi importa.
Non mi importa un cazzo.
La bolla è scoppiata, e io voglio Frank. Io voglio solo Frank, ho sempre voluto solo Frank, e ora Frank non c’è. Lui non c’è. È da qualche altra parte, e sta soffrendo, sta soffrendo come non mai e io non sono lì a consolarlo, a stringerlo tra le mie braccia, io non sono lì.
Mi alzo lentamente, e cammino verso i cocci rotti della bottiglia sul pavimento. Ne raccolgo uno, abbastanza grande e affilato.
“Gerard?”
“Gee, cosa fai?”
Lo stringo in mano. Sento le punte penetrarmi nella carne, e vedo il sangue fuoriuscire lentamente, come un sollievo.
Spingo più a fondo che posso, prima che Lynz possa fermarmi. Sento le sue urla lontane, lontanissime, ma io riesco solo a pensare a una cosa.
Del resto, quando mai non è stato così? C’è sempre stato lui nei miei pensieri. Sempre. Non finirà mai. Non finirà mai. Io morirò. Voglio morire. Lui mi uccide.
Mi uccide mi uccide mi uccide.
Frank, dove sei?

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Desert song ***


Vbb, non c’è neanche bisogno di spiegare il titolo di questo capitolo *emo tears*
Come alcuni mi hanno fatto notare (vi adoro), i capitoli si stanno allungando, e credo che questo sia un fattore positivo perché anche se ho sempre odiato i capitoli lunghissimi e pesanti nei quali non succede mai nulla, sono odiosi anche quelli troppo corti che ti lasciano con un senso di insoddisfazione :/
Detto questo, passiamo alla figura di Kellin. Devo dire che ero e sono ancora dubbiosa sulla sua presenza, diciamo che per il ruolo che deve svolgere forse sarebbe stato meglio inserirci un Andy Biersack al suo posto, ma sono sicura che anche il nostro cuzzolo Quinn riuscirà a fare la sua parte aw
Buona lettura.
M.
 
 
 
CAPITOLO 21 – DESERT SONG
 
 
FRANK
 
 
Non mi era mai capitato di non sognare.
Sin da piccolo, ogni mattina mi ricordavo sempre il sogno della notte precedente, e se non tutto nei minimi dettagli anche soltanto sensazioni o stralci di immagini.
Non mi era mai capitato di svegliarmi e trovare nella mia mente soltanto un grosso buco nero, senza inizio né fine, ma è proprio quello che succede da quando sono qui.
Semplicemente è quasi impossibile pensare a qualcosa diverso dall’istinto di sopravvivenza. Soltanto questo. Istinto. È tutto ciò che importa in questo posto, e ho dovuto imparare in fretta.
Abbiamo tutti dovuto imparare in fretta.
Il problema è che molto spesso non riesco neanche a dormire. Non è facile quando sei disteso su una dura e fredda tavola di legno come branda, e quando tutt’attorno a te c’è gente che russa, gente che tossisce, gente che parla da sola, gente che piange, gente che ansima in preda a chissà quale malattia fatale. Nessuno di noi riesce a dormire, e quando finalmente io riesco ad assopirmi è già quasi l’alba, e nemmeno un’ora dopo suona l’allarme e dobbiamo essere tutti in piedi in pochi secondi per radunarci nel piazzale principale.
“Frank”
Una voce ormai familiare sussurra dolcemente il mio nome, e per un irrazionale, assurdo attimo penso a Gerard, e vorrei quasi allungare le braccia per stringerle attorno al suo collo, e baciarlo sulle labbra e tirarlo sopra di me.
Ma quando apro gli occhi è soltanto Rayon, che mi scuote delicatamente per una spalla e mi fa cenno di alzarmi. È appena l’alba, ma si stanno tutti già preparando per uscire dal dormitorio ed io sono l’unico ancora disteso.
Rayon mi sorride in modo triste, un sorriso che mi riserva ogni santa mattina, come a dirmi che lei c’è e ci sarà per tutto il giorno e quel sorriso ne è la testimonianza, nonostante la sua venatura di malinconia.
Mi tiro su, stiracchiandomi e facendo scricchiolare le ossa indolenzite e ghiacciate. Oramai il freddo fa parte di noi, ci scorre nelle vene al posto del sangue, provocandoci un tremito leggero che ci accompagna per tutta la giornata e non ci lascia mai, nemmeno di notte, quando abbiamo soltanto una misera, sottile, piccola stoffa per coprirci.
Rayon è cambiata praticamente già dal secondo giorno della nostra permanenza qui. La sua parrucca è sparita chissà dove, e ora porta soltanto un fazzoletto a quadri in testa. I suoi bei abiti colorati sono stati sostituiti dalla casacca grigia che portiamo tutti, il trucco è scomparso e il suo volto è più scarno e pallido che mai. L’unica cosa che risaltano e che non sono cambiati da quando l’ho conosciuta sono i suoi occhi, di un azzurro così intenso da far male allo sguardo.
Quando capita, le do un po’ della mia razione, perché ho capito che il suo organismo ha bisogno di cibo più di me, e perché lei è l’unica che mi offre gentilezza e compagnia nella desolazione più assoluta, perciò ricambio come posso. Lei mi sveglia quando io sono troppo stanco per farlo, mi aiuta a rialzarmi quando cado mentre lavoriamo, ed è l’unica persona che mi rivolge la parola.
“Forza, andiamo” dico come ogni mattina, e ci uniamo al resto del gruppo che sta uscendo all’esterno.
Non appena metto piede fuori, una folata di vento freddo mi assale e mi avvolge in una morsa, stringendomi il petto. Mi stringo le braccia attorno alla vita per cercare di ripararmi, ma la neve si insinua nelle mie scarpe rotte e bucate, nei vestiti, tra i capelli, ovunque. Non ha mai smesso di nevicare qui. È tutto coperto da un manto biancastro, compresi noi che passiamo tutto il giorno fuori a zappare la terra per un motivo ancora poco chiaro.
Le gambe di ciascuno di noi affondano fino al ginocchio nella neve, mentre camminiamo silenziosamente verso la grande piazza al centro del campo. Da altri dormitori affluiscono altre persone. Sono perlopiù tutti ebrei, con la stella a cinque punte sul braccio che li contraddistingue, mentre ci sono pochi di noi con il triangolo rosa, e quei pochi vengono emarginati completamente. Non che si schifino o altro, ma preferiscono starci alla larga, come se fossimo diversi da loro anche nell’attesa della morte.
Ci disponiamo in file ordinate fino ad occupare tutta la piazza. Rayon è dietro di me, lo sento vibrare come un asticella di legno, sento i suoi denti che battono violentemente per il freddo e il suo alito che si condensa in piccole nuvolette.
Poco dopo arrivano gli ufficiali, cinque o sei più il medico giornaliero che controlla le condizioni di ciascuno di noi. Camminano tra le file, urlando ordini incomprensibili in tedesco, scandagliandoci a fondo con lo sguardo, scrutando nelle nostre anime come se potessero vederci dentro, e non possiamo nemmeno alzare lo sguardo perché sarebbe una mancanza di rispetto e verremmo puniti con un turno di lavoro extra, o con chissà quale altro brutale castigo, o con la morte.
Calma.
Rilasso le mani fino ad ora strette a pugno e mantengo la testa fissa sul terreno bianco, evitando di muovermi anche soltanto per battere le palpebre e liberarmi dei fiocchi di neve sulle ciglia.
Calma.
Un ufficiale si ferma accanto a me, facendo cenno al medico barbuto con un paio di piccoli occhiali rotondi sul naso di avvicinarsi.
Calma. Non tremare. Stai calmo. Finirà presto, come ogni giorno.
Il medico mi ascolta il respiro con uno stetoscopio, annuendo piano, e non riesco a capire se la sua sia un’espressione di soddisfazione o disappunto. Mi controlla gli occhi spalancandomi le palpebre a forza, poi fa un passo indietro e dice qualcosa in tedesco all’ufficiale. Dopodiché mi sorpassano, passando a Rayon, ed io rimango col fiato sospeso mentre controllano anche lei. Quando infine sembrano soddisfatti e procedono verso il prigioniero successivo, tiriamo entrambi un sospiro di sollievo.
Ce l’abbiamo fatta anche oggi. A quanto pare, siamo ancora sani, o almeno lo siamo abbastanza per continuare a lavorare.
 Mentre attendiamo che il controllo finisca, sento improvvisamente un urlo da qualche parte tra le file. Ci voltiamo tutti, e vediamo due soldati che corrono ad afferrare per le braccia una donna. È una giovane ebrea, e la conosco. È del nostro stesso gruppo, dorme a qualche pagliericcio da me, ma da qualche giorno a questa parte la sentivamo tutti lamentarsi per dei dolori allo stomaco, la vedevamo diventare sempre più pallida, sempre più disidratata, con un colorito quasi viola e le labbra screpolate. Non parlava quasi mai, piangeva soltanto, a volte silenziosamente, altre volte gridando così tanto che le SS avevano dovuto sedarla o punirla facendola restare senza cibo, ottenendo come risultato che la sua situazione si aggravasse ancora di più.
E infine ecco che il medico ha notato qualcosa di strano in lei, e ora la porteranno via come succede quasi ogni giorno a chi diventa troppo debole per continuare a sopravvivere. Sono bocche da sfamare inutili e inservibili, perciò, secondo il loro ragionamento, meglio eliminarle. Meglio che spariscano per sempre.
La ragazza continua a urlare disperatamente, dibattendosi come un’ossessa tra le braccia dei due soldati, scalciando e tirando schiaffi e pugni, ma in un certo qual modo riescono a portarla via, lontano, lontano, lontano, fino a quando non la vediamo più.
Il campo intero è rimasto a guardare quella scena in un silenzio attonito quanto rassegnato, ma non appena i tedeschi cominciano a urlarci contro rompiamo le file e ci dirigiamo ognuno verso i nostri compiti.
C’è chi viene portato fino alla fabbrica di stoviglie a qualche chilometro dal campo, e ritorna soltanto a tarda sera. Sono quelli che stanno meglio di tutti, perché lavorano al coperto e hanno delle razioni maggiori. Poi ci sono alcune donne che lavorano nella villa strettamente adiacente alla recinzione, la villa del colonnello Quinn. Nessuno di noi lo ha mai visto, ma spesso intravediamo un’ombra solitaria spuntare dietro le finestre, o una figura sul balcone, ma nemmeno le ragazze che lavorano come domestiche per lui sanno che aspetto abbia o chi sia precisamente.
Infine ci sono quelli come me e Rayon, che lavoriamo semplicemente per ampliare ancora di più questo fottuto posto, e che non ci fermiamo fino a sera, quando riceviamo una misera porzione di pane nero e duro come pietra.
Rayon fa fatica più di tutti. Lei non mi dice mai nulla di quale sia stata la sua vita prima di finire qui, ma immagino non fosse abituata a fare lavori forzati e rimanere sotto la neve per intere giornate senza cibo né acqua. Eppure, non dice nemmeno una parola. Non un lamento quando deve sollevare grosse zolle di terra o mattoni pesanti, non un gemito quando le si spezzano le poche unghie rimaste, non un brivido quando lavoriamo in larghe pozzanghere di fango ghiacciato. Ammiro la sua forza interiore. So che non è da tutti una resistenza così accanita e orgogliosa.
“Sei religioso, Frank?” mi ha chiesto una sera, prima di addormentarci.
“No… direi di no”
Lei ha sorriso, stringendosi le ginocchia al petto e guardando verso il soffitto del dormitorio.”Io sì. O almeno, credo che ci sia qualcos’altro oltre a tutto ciò. Insomma, che senso avrebbe? Che senso avrebbe passare tutto questo, e poi morire così, se poi non ci fosse nient’altro dopo?”
“E’ da questo che prendi tutta la tua forza? Da Dio?” le ho chiesto io, quasi troppo sgarbato ma non riuscendo a farne a meno.
“No, Frank, no” mi ha risposto lei tranquillamente “La mia forza viene da me, e da nessun altro. Sarebbe bello avere qualcuno da cui attingere energie, qualcuno a cui pensare per cercare di sopravvivere… ma io non ho nessuno. Io ho solo me stessa. Non so se mi basti, e forse non lo saprò mai, ma mi adatto. Mi dico che ce la posso fare, e ce la faccio.”
In quel momento sono stato geloso. Ho invidiato la sua calma, la sua pacatezza in quelle parole, ho invidiato il fatto che lei non avesse nessuno a cui pensare, nessuno da cui sperare di ritornare, ho invidiato la sua resistenza fisica e morale, ma l’ho anche ammirata più che mai.
“Io rimarrò bella. È semplicemente quello che ho sempre voluto… essere apprezzata dagli altri, e anche se so che non potrò mai esserlo… io rimarrò bella. Fino alla fine.”
Rimarrò bella.
So che Rayon non si riferisce alla bellezza fisica. So cosa intende. Lo so benissimo. Vorrei… vorrei rimanere anche io bello, ma non lo sono ormai da tempo. Non lo sono da quando ho scoperto che il mondo è questo, questo schifo, non lo sono da quando ho perso la mia ingenuità, tanto tempo fa, non lo sono da quando ho iniziato a soffrire.
È così, e non posso farci niente.
Non penso mai alla mia famiglia, perché gli ultimi ricordi che ho di loro sono le immagini di mamma e nonna in lacrime, il volto colpevole di Rossana, gli occhi terrorizzati di Jamia. Non penso mai nemmeno a Gerard, o almeno mi costringo a non pensarci. È una necessità, come quella di respirare, perché se semplicemente mi balenasse in mento un nostro ricordo, felice o triste che sia, potrei cedere, e non devo.
Semplicemente cederei perché capirei di non potercela fare, capirei che non potremo mai più vederci, io non potrò mai più riabbracciarlo, perché, per quanto la speranza non sia completamente morta dentro di me, so bene che questa cosa – questo posto, questa situazione – è definitiva. È per sempre. E con “per sempre” intendo fino a quando non morirò, il che accadrà molto presto.
Magari ha ragione Rayon, e c’è qualcos’altro dopo la morte, e magari quel qualcos’altro ci permetterà di incontrarci lassù.
Magari.
Preferisco non sperare. Preferisco vivere alla giornata e basta.
A un certo punto della mattinata, quando alzo lo sguardo, noto quella ormai familiare figura sul balcone della villa del colonnello Quinn. Continuando a lavorare, strizzo gli occhi e cerco di vederci meglio, e capire se sia veramente lui.
È appoggiato con i gomiti sul davanzale: vedo una chioma scura, e un paio di occhi chiari che fissano in basso, scrutando con attenzione ciascuno di noi.
Mentre mi sto domandando come sia vivere accanto ad un campo di sterminio, e sentire ogni giorno i suoni, le voci, i rumori, l’odore della morte, capisco che l’uomo non sta guardando giù in modo generico, ma sta fissando una persona in particolare.
Poso la pala a terra e vedo una ragazza passarmi accanto con una cesta piena di abiti puliti. È un’ebrea italiana, sui vent’anni, con un bel viso chiaro e pulito e dei timidi occhi verdi. Credo si chiami Martha, o qualcosa del genere. La vedo sempre in compagnia della sorella maggiore zoppicante e probabilmente con qualche infezione che le costerà molto presto la morte. È una delle ragazze che svolgono il compito di cameriere nella villa di Quinn, e solo allora capisco che la persona che sta fissando l’uomo sul balcone è proprio lei.
La segue con lo sguardo passo per passo, fino a quando lei non arriva di fronte al portone dell’edificio e bussa alla porta, e una delle altre cameriere le apre e la fa entrare all’interno.
Il mio sguardo torna a posarsi sull’uomo alla finestra, che – ne sono sicuro al cento per cento – deve essere per forza il colonnello Quinn.
Per un attimo, i suoi occhi scrutano tra la gente, come se si fosse accorto di essere stato visto da qualcuno, e soltanto per una piccola frazione di secondo i nostri sguardi si incrociano ed io torno subito al lavoro, abbassando la testa e cercando di dimenticare quello che ho visto. In effetti, non so nemmeno cosa ho visto. So solo che potrebbe costarmi la vita, se il colonnello si rendesse conto all’improvviso che potrei dirlo a qualcuno.
 
 
 
La giornata si protrae ad un ritmo straziante, diventando sempre più fredda man mano che il sole tramonta. A sera, la neve si è trasformata in grandine, che grazie al forte vento ci crolla addosso con una violenza inaudita, facendoci quasi male. Vedo Rayon e il resto dei prigionieri arrancare assieme a me mentre scaviamo e costruiamo fondamenta per i nuovi dormitori, mentre mettiamo mattone su mattone, pezzo su pezzo, resistendo contro il freddo che ci paralizza le ossa e la disperazione che ci annebbia il cervello.
Perché siamo qui?
Quando finalmente suona l’allarme serale, quello che indica che la giornata è finita e dobbiamo ritirarci tutti nei dormitori, sento anche in lontananza un treno fischiare.
Nuovi prigionieri.
E ciò significa….
No.
Nonostante la mia promessa di non dover più assistere ad uno spettacolo del genere, purtroppo sono costretto a farlo mentre riponiamo le pale e il resto degli strumenti e passiamo proprio accanto al cancello principale, che in quel momento è aperto grazie all’affluenza di circa una cinquantina di gente che si riversa all’interno del campo, spaesata e spaventata come lo eravamo noi all’inizio.
Io e Rayon ci scambiamo uno sguardo malinconico, e poi li vediamo.
Sono più numerosi dell’ultima volta, ne sono circa una ventina. Alcuni soldati li fanno separare dal resto dei deportati e li radunano, invitandoli a prendersi per mano e poi a mettersi in fila indiana.
Bambini.
Solo bambini.
Li vedo mentre si scambiano sguardi quasi allegri, sicuramente contenti di essere scesi finalmente dal treno che li ha portati fin qui. Li vedo scambiarsi sguardi eccitati, convinti di stare andando in chissà quale bel posto, e invece i tedeschi li conducono via, lontano dal resto dei deportati, tra i quali mamme e papà e familiari disperati gridano e invocano i loro nomi, cercando di ribellarsi e correre dietro ai loro piccoli.
Noi siamo costretti a fermarci per lasciar passare i bambini, che ci fanno ciao ciao con la mano o ci fissano curiosi, ed io non so cosa fare.
Vado in panico, perché da un lato vorrei urlare di non andare, di non lasciarsi portare via, di scappare e non tornare mai più, dall’altro vorrei sorridere loro di rimando, cercando di rassicurarli, e che andrà tutto bene e rivedranno presto i loro genitori.
La parte più egoista di me mi dice semplicemente di abbassare lo sguardo e aspettare che tutto questo finisca, ed è ciò che faccio, come ogni volta. È la soluzione migliore, quella più semplice, quella che porta meno guai, e se vuoi sopravvivere qui devi imparare a fare questo tipo di scelta. Sempre.
And did you come to stare or wash away the blood?”*
Una voce sottile, delicata, riesce a farmi risollevare di nuovo il capo. È una bambina, tra gli altri, che sta cantando mentre saltella accanto agli altri. Potrà avere non più di dieci anni, con due codini rosa e un cappottino beige che si stringe addosso come se fosse la sua unica ancora, come se fosse la sua unica compagnia ormai.
Well tonight, well tonight, will it ever come? Spend the rest of your days rocking out just for the dead”
È una canzone che non ho mai sentito prima d’ora, ma è così triste che prima che possa rendermene conto mi ritrovo con le lacrime agli occhi, e quando guardo Rayon noto che anche lei sta fissando la bambina con un sorta di orrore misto a paura e tristezza negli occhi.
Did we all fall down?”
Ripete questa frase un paio di volte, e tutta la scena è così straziante, con il gruppetto di bambini che si allontana lentamente da noi, i genitori in lontananza che gridano ancora i nomi dei propri figli, le urla lontane, irraggiungibili, e poi la quiete che si diffonde quando il canto di quella piccola bambina serpeggia tra noi, tra i tedeschi che la guardano trucemente, tra i dormitori e gli edifici, salendo su su verso il cielo, e sembra quasi che si ripeta in un fragile eco, ma chiaramente udibile ovunque, anche a miglia da qui.
From the lights to the pavement… from the van to the floor… from backstage to the doctor…
Non posso più sopportare questa scena.
Quando i bambini si sono allontanati abbastanza, i soldati ci costringono ad avanzare e a tornare ai nostri dormitori, e noi obbediamo quasi con sollievo.
From te Earth to the morgue, morgue, morgue”
Queste sono le ultime parole che sento, prima che il gruppetto di bambini sparisca dietro l’angolo, diretto verso l’enorme edificio sormontato da due grosse ciminiere di ferro. L’edificio in cui svaniscano tutti quei bambini e tutti gli anziani che arrivano qui ogni volta. L’edificio dal quale non fanno più ritorno.
E quelle due ciminiere, dalle quali, durante la notte, spunta del fumo grigio, lento e inesorabile, che si libra verso le nuvole, e che porta con sé odore di bruciato, odore di morte.
Did we all fall down?”
Questa frase mi si ripete costantemente nel cervello, inarrestabile, cerco di scacciarla ma non va via, e mi accompagna fino a quando non mi stendo nel mio pagliericcio e chiudo gli occhi, provando invano a dormire.
Ora dovrebbe succedere. Nel giro di minuti. Posso quasi sentire ancora il canto di quella bambina, le risate ignare degli altri, i tedeschi che li invitano ad entrare in quel grosso stanzone per farsi una bella doccia.
E poi le urla.
Urla inudibili sì, ma io le sento ogni volta risuonare all’interno del mio petto, rimbalzando da un lato all’altro della cassa toracica, tormentandomi, impedendomi di addormentarmi.
Did we all fall down?
 
 
 
 
*Non ho tradotto la canzone in italiano semplicemente per dare di più l’idea, e perché comunque sarebbe davvero suonato male, ew, spero mi capiate

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Right where he belongs ***


Kiau sono tornataaaa : )
Tra impegni e cose varie non ho nemmeno avuto il tempo di avvicinarmi anche solo al pc, ma ora finalmente sono qui a scrivere sotto le coperte e a mangiare cioccolato lindt (credo di aver sviluppato una dipendenza)
Penso che abbiate visto tutti il nuovo profilo twitter di Gerard, davvero mascolino e very metal devo dire, ew, ma lui è diva e può fare quello che vuole e vbb
Detto questo, passiamo al Gee della mia storia, un po’ più virile e un po’ meno rosa shocking lol
Buona lettura
M.
Ps. La canzone da cui ha preso spunto il titolo del capitolo è Right where it belongs dei Nine Inch Nails, se non la conoscete vi consiglio di sentirla quando volete tipo deprimervi un po’, perché è bellissima e tristissima aw
 
 
CAPITOLO 22 – RIGHT WHERE HE BELONGS
 
 
GERARD
 
 
Frank allungò le mani verso il mio viso, attirandomi a sé. Lo baciai dolcemente, lentamente, senza fretta. Avevamo tutto il tempo del mondo. Accarezzai la sua guancia mentre le nostre lingue si intrecciavano, e non chiusi gli occhi, ma li tenni ben spalancati e fissi nei suoi, per godermi fino in fondo quel momento.
Non sapevo cosa ci facessimo lì. Eravamo in un letto, lenzuola bianche quasi abbaglianti, una stanza spoglia e tanta, tanta luce che entrava dalle finestre. Avrei voluto alzarmi, provare a uscire dalla stanza e capire dove fossimo, o sbirciare fuori dalla finestra, ma l’unica cosa che il mio cervello mi imponeva era di rimanere lì, sdraiato su quel letto accanto a Frank, perché tutto quello sarebbe finito presto e non dovevo sprecare altro tempo.
E così feci.
“Ti amo, Frank” gli dissi, sussurrando le parole nel suo orecchio, sfiorandogli il lobo delicatamente, e lui rabbrividì sotto il mio tocco, come accadeva ogni volta che sentiva le mie mani sulla sua pelle.
“Ti amo, Gerard”
Non ce lo eravamo mai detti prima, e quando ci guardammo ci sorridemmo entrambi, come se fossimo custodi di un intimo segreto. Qualcosa di nostro. Soltanto nostro.
Lui era mio. Io ero suo.
Fine.
Importava solo questo.
“Gerard…”
Premetti il mio corpo contro quello di Frank, salendo sopra di lui, e scesi con le labbra lungo il suo petto, lasciando piccoli baci sulla pelle morbida.
“Gerard” sentii di nuovo il rantolo soffocato di Frank, ma non mi importava. Credevo fosse un gemito di piacere, o magari voleva che mi fermassi e voleva dirmi qualcosa, ma qualsiasi cosa fosse non mi importava. Non mi importava di nulla, volevo solo baciarlo. Sentirlo.
“Ssssh” bisbigliai contro la sua pelle, e scesi ancora più in basso.
Volevo godermi ogni istante. Frank era qui, io ero qui, dovevamo stare insieme e basta.
“Gerard!”
Alzai di colpo la testa, spaventato dalla sua voce ansimante e disperata.
E lo vidi.
Frank… stava andando a fuoco. Letteralmente.
Mi scostai un attimo prima che le fiamme lambissero anche me. Frank si dibatteva e urlava, scalciando via le coperte, dandosi schiaffi sulla pelle per cercare di spegnere le fiamme. Io mi alzai e cercai disperatamente qualcosa per aiutarlo, cercai anche di buttarmi sopra di lui, ma prima che potessi fare alcunché le fiamme si consumarono lentamente, e con loro cominciò a consumarsi anche Frank.
Lo guardai con un misto di orrore e shock, mentre la sua pelle pian piano si sgretolava, cadendo a pezzi. I capelli si consumarono, la pelle bruciò lentamente, e poi dopo di essa anche il cranio, e poi anche le braccia, e il corpo e io urlavo, provavo a muovermi ma non ci riuscivo, gridavo il nome di Frank e lui non mi sentiva, e non potevo nemmeno più guardarlo, o incrociare i suoi occhi, o leggere la disperazione nel suo sguardo, perché non c’era più. Lui non c’era più.
Lui.
Non.
C’era.
Più.
 
Urlo.
Lynz si muove accanto a me, tirandosi a sedere e guardandomi dall’alto mentre mi stringo le lenzuola al petto e fisso il soffitto con gli occhi sgranati.
“Gee?”
Deglutisco, cercando di regolarizzare il respiro.
Il sogno.
Quel maledetto sogno. Sono tre volte che lo faccio, e tutte le volte mi risveglio ansimante nel cuore della notte, con mia moglie accanto che mi guarda con un misto di compassione e preoccupazione.
“S-s-to ben-e”
Mi alzo improvvisamente, sudato. Ho bisogno di prendere una boccata d’aria, o di bere dell’acqua, o semplicemente di allontanarmi dallo sguardo di Lindsey.
Vado in bagno e mi pianto davanti allo specchio, stringendo il bordo del lavandino con le mani e guardando confuso la mia immagine riflessa. Occhi spenti, colorito malaticcio, capelli in disordine e occhiaie.
Sono quattro giorni che va avanti così. Quattro giorni.
Che cosa sto aspettando? Che cosa diavolo sto aspettando? Cosa credo di trovare, nell’attesa? Forse la fine di tutto il mio dolore?
Aspetterò invano, allora. Perché non finirà mai, e lo so benissimo.
La verità è che la lettera di quella Jamia, invece di darmi speranza, mi ha tolto tutta quella che mi restava. Perché non ci credo. Non credo alle sue parole, non credo ad una sola lettera scritta su quel dannato foglio. All’inizio ho negato, ho negato tutto, mi sono detto che non poteva essere possibile, che era tutto uno scherzo e che Jamia Nestor era un’impostora che si divertiva a fare brutti scherzi alla gente.
Poi è venuta la consapevolezza, e poi infine il dolore puro, un dolore mai provato prima. Qualcosa di così intenso da spiazzarmi, da farmi barcollare, da togliermi il respiro e farmi annaspare in cerca d’aria.
Ed è andato avanti così, per quattro dannatissimi, lunghissimi, infiniti giorni. Semplicemente quattro giorni di me in stato catatonico.
So che probabilmente non c’è nessuna speranza. Nessuna. Voglio dire, chiunque sia questo Kellin Quinn, non potrà mai far uscire Frank da un campo di sterminio, o qualunque luogo sia quello dove è rinchiuso.
Se è ancora rinchiuso.
Magari adesso è già sepolto sotto terra da qualche parte.
Magari si sta facendo una bella risata da lassù.
Magari sono un fottuto stronzo che si è rassegnato troppo presto.
Probabilmente la terza opzione, sì.
Di ritorno in camera, trovo Lynz in piedi ad aspettarmi. Lei mi guarda interrogativa, ma io scuoto la testa in silenzio. Capisce che non ho voglia di parlare. Lo capisce, come lo ha capito ogni notte. La prima notte ha cercato di baciarmi, abbracciarmi, e probabilmente la cosa sarebbe continuata oltre se io non l’avessi respinta quasi troppo bruscamente, perché il ricordo di me e Frank poco prima che io partissi mi si era stampato dietro le palpebre, marchiato a fuoco. Lei si era scostata, mi aveva fissato con gli occhi ricolmi di lacrime, poi si era voltata dall’altra parte e non aveva più proferito parola. Il giorno dopo, la stessa cosa, fino a quando non ha smesso anche solo di provarci.
Non c’è più dialogo tra noi. Lei è mia moglie, sarà la madre di mio figlio, e non mi parla.
“Gerard…”
Sentirle pronunciare il mio nome mi ricorda troppo Frank nel mio sogno. La sua voce, il suo volto in fiamme, la cenere….
“No” dico senza volerlo, ma ormai è fatta e leggo l’ennesima delusione negli occhi di Lindsey.
Mi volto ed esco dalla stanza.
Salgo le scale lentamente, facendo un breve respiro ad ogni passo, fino a fermarmi davanti alla camera dell’unica persona che, pur non potendo offrirmi un conforto tanto migliore di mia moglie, è l’unica di cui ho bisogno in questo momento. L’unico pezzo di me ancora intatto.
Poso una mano sulla porta della camera di Mikey, socchiudendola piano. Entro nella stanza buia senza accendere la luce, procedendo alla cieca fino a raggiungere il letto di mio fratello.
Lui mi sente subito, spalancando gli occhi nel buio e aggrottando la fronte quando mi vede lì in piedi. “Gee?”
Mi siedo accanto a lui, facendo sprofondare un po’ il letto dalla mia parte, e Mikey si solleva mettendosi seduto. Non mi chiede cosa ci faccio qui, cosa cerco o cosa voglio dirgli. Non mi chiede niente, ci guardiamo e basta.
In questi giorni Mikey è stato più o meno come me. La notizia di Frank lo ha prima scioccato, poi demoralizzato totalmente. Non mangia, non parla, vive passivamente le giornate proprio come me, per questo può capirmi. Può capirmi come nessun altro. Frank faceva anche parte di lui. Noi tre eravamo parte di un tutt’uno, e ora la vita ci ha separati inevitabilmente, lasciandoci soltanto dolore e sofferenza a compensare il posto vacante dell’altro.
“Gee, quando ce lo andiamo a riprendere?”
Chiudo gli occhi, stringendo le mani a pugno. Sento bruciarmi la ferita sulla mano destra, quella che ho tagliato con i cocci di bottiglia il giorno del mio ritorno qui. “Non so se c’è ancora qualcuno da riprenderci, Mikey.”
“Dobbiamo almeno provare.”
Rimango in silenzio, non sapendo cosa rispondere. So che ha ragione.
“Il vecchio te che conoscevo ci proverebbe. Non si arrenderebbe.”
Mikey mi posa una mano sulla spalla, avvicinando il suo viso al mio e fissandomi negli occhi. “Non si arrenderebbe. Non si arrenderebbe mai, soprattutto se si tratta di Frank.”
Soprattutto se si tratta di Frank.
 
 
 
Apro le finestre, spalancandole e lasciando entrare i raggi solari. La luce inonda la stanza, illuminando anche la poltrona dove è seduta mia madre.
“Mamma”
Lei solleva la testa e mi lancia un sorriso dolce e disarmante, ed io le vado vicino stringendola forte. “Oh, mamma” non posso fare a meno di sussurrare tra i suoi capelli, accarezzandole il viso rugoso. Mi allontano e mi siedo di fronte a lei, sull’altra poltrona presente nella sua stanza proprio davanti al balcone.
In fondo, questo ospizio non è poi così male. Lynz ha saputo scegliere bene, e l’ha sistemata in un posto dove trattano gli anziani con il dovuto rispetto e allo stesso tempo li accudiscono amorevolmente, non facendo mancare loro nulla.
Mamma riprende a leggere il libro di floricoltura che aveva tra le mani prima che entrassi, come se fossi invisibile. Mikey mi aveva detto che era peggiorata, ma non fino a questo punto.
Le poso una mano sul ginocchio, scuotendolo piano. “Ehi? Mamma?”
Lei solleva piano la testa dal suo libro, guardandomi come se mi vedesse per la prima volta. “Sì?”
“Ti ricordi di me?”
Sembra pensarci un po’ su, poi scuote la testa perplessa. “Assomigli a… no, ma è impossibile. Non sei lui. Mi dispiace, non ti ho mai visto prima.”
Sospiro. È una situazione a dir poco straziante. “A chi assomiglio, mamma?” dico, continuando a chiamarla mamma, come se ciò possa farle tornare qualcosa alla mente.
Lei mi scruta bene, sporgendosi un po’ verso di me, spingendosi di più gli occhialetti sul naso, ma alla fine fa di nuovo no con la testa. “Uh beh, insomma pensavo… credevo che tu… cioè, non puoi essere mio figlio, no no. Mio figlio è un po’ più giovane di te, giusto un po’. E anche più simpatico, ha un sorriso più luminoso. No, decisamente non sei lui. È in guerra, sai? Tornerà presto, però.”
“Come si chiama tuo figlio?”
“Mikey. Si chiama Mikey.”
“No, l’altro figlio”
“Oh, Gerard!… oh quel bambino è un dono sceso dal cielo, lo dico sempre io”
“Quanti anni ha?” chiedo, sempre più consapevole di ciò che sta per dire Donna.
“Ne compie 9 tra qualche mese, si si. Faremo una grande festa. Inviteremo tutti i suoi amichetti. E Donald ha detto che gli comprerà un grande grande regalo. Sarà un giorno speciale.”
Mi alzo, e mi avvicino a mia madre per lasciarle un bacio sulla fronte. Lei mi guarda confusa. “Vai via già? Non mi hai nemmeno detto il tuo nome!”
“Ciao, mamma.”
 
 
 
Di ritorno a casa, vedo un’auto sconosciuta parcheggiata nel vialetto di ingresso. Mi affretto a raggiungere la porta, insospettito e perplesso. Per un attimo, un assurdo e irrazionale attimo, penso a Frank, ma scaccio subito quel pensiero dalla testa.
Che stupido che sei, Gerard.
Frank è dell’altra parte del mondo. Non è qui.
Non è qui.
Infilo le chiavi nella toppa ed entro in casa, sentendo subito delle voci in cucina. Quando compaio sulla soglia, l’ultima persona che mi aspettavo di vedere è Ray che mi viene subito incontro, spalancando le braccia e sorridendo genuinamente.
 
Prima che possa dire alcunchè, vengo avvolto in un abbraccio così ingenuo, così tenero da non poter far altro che ricambiare, disarmato. Lo stringo forte, lui mi dà pacche sulla schiena sorridendo, e mi chiedo perché mai ci stiamo abbracciando come se non ci vedessimo da anni, se invece è appena qualche settimana che ci siamo separati per tornare ognuno alle proprie famiglie.
Quando ci stacchiamo, noto che nella stanza ci sono anche Mikey e Lynz, che ci fissano sorridendo, forse Lynz un po’ confusa. Sono certo che si stia chiedendo chi sia quest’uomo.
“Amico” esordisce Ray, posandomi le mani sulle spalle. Il braccio gli è guarito definitivamente, così come la mia gamba a cui ora resta solo una lunga cicatrice che non andrà mai via. È il prezzo giusto da pagare per essere rimasto in vita. Per essere sopravvissuto al posto di Bert.
“Amico” ripeto io, e mi scappa un piccolo sorriso. Poi capisco che devo dare delle mie spiegazioni alla mia famiglia, perciò presento Ray a Lynz e Mikey.
“Tranquillo” dice Ray “ci siamo già presentati. Tua moglie è un tesoro, davvero. E tuo fratello è proprio come me lo avevi descritto”
Mikey arrossisce imbarazzato, Lynz ringrazia e va verso il cucinino per preparare qualcosa da bere.
“Ma insomma, esattamente cosa ci fai qui?” gli chiedo mentre saliamo di sopra, verso la mia stanza. Lo faccio accomodare ad una poltrona ed io mi siedo alla sedia di fronte, posando i gomiti sulle ginocchia.
Ray sorride. “Passavo di qui per caso. Siamo di ritorno da un viaggetto che abbiamo deciso di fare non appena sono tornato da Christa, perché lo progettavamo ormai da anni e se non lo avessimo fatto ora… beh, non so quando sarebbe stato il momento giusto. Solo che Christa e mio figlio hanno proseguito, mentre io mi sono fermato qui in albergo per poterti salutare. Ed eccomi qui” dice ridendo e spalancando le braccia.
Mi chiedo come abbiano fatto a viaggiare con un bimbo di soli sette mesi.Suppongo che quando due persone si amano non ci pensano poi tanto a ostacoli e conseguenze varie. Vivono e basta. Stanno insieme e basta.
Sento una tenaglia fredda stringermi il petto, e scaccio ancora una volta il pensiero onnipresente che spinge agli angoli della mia mente.
Frank.
Annuisco, mostrando un sorriso falso e venato di invidia. “Capisco, capisco. Allora, come stai?”
Ray inarca un sopracciglio cespuglioso, guardandomi dall’alto in basso. “Stai scherzando, vero?”
Sono confuso. “In che… senso?”
Ray mi indica gesticolando con la mano. “Cioè, sei serio? Sembra che tu stia per vomitare il pranzo di Natale scorso, perciò non venirmi a chiedere come sto io. Come stai tu, piuttosto. Avanti, parla.”
Il carattere strano e bizzarro di Ray mi ha sempre colto di sorpresa, ma ora mi chiedo come diavolo abbia fatto a capire il mio stato d’animo anche soltanto guardandomi.
“Ray, io…” balbetto incoerentemente, ma a un certo punto mi scatta qualcosa nel cervello.
Non so cosa mi sia preso, non so nemmeno cosa sto per dire, ma apro la bocca e parlo.
Parlo, e gli racconto tutto. Tutto, dall’inizio alla fine. Tutta la mia storia, da quando ho incontrato Frank, e poi la nostra amicizia finita oltre, la mia partenza per l’addestramento, Lindsey, il mio ritorno, la partenza per la guerra e le mie lettere a Frank. E infine gli mostro la lettera di Jamia.
Dopo aver finito di ascoltare e leggere, Ray alza gli occhi dal foglio e mi scruta attentamente.
Non ha parlato nemmeno una volta, è rimasto completamente muto mentre mi ascoltava raccontare tutto senza peli sulla lingua, e ora ho paura della sua reazione.
Per quanto poco lo conosca, non so se sia omofobo o roba simile. Potrebbe esserlo come potrebbe non esserlo, e nel primo caso perderei un amico, l’unico mio amico rimasto, mentre nel secondo caso… non lo so.
Alla fine parla.
“Gerard, non ci credo che tu sia ancora qui.”
Tiro un sospiro di sollievo. Ok. Calma.
Scuoto la testa, sedendomi accanto a lui sul divano e prendendomi il capo tra le mani. “Non so cosa fare, Ray. Io non so davvero… lui…”
Ray mi posa una mano sulla spalla, massaggiando piano, aspettando che io ricominci a parlare.
“Ho paura. Ho paura di quello che potrò trovare se… se…”
Per la prima volta da quando ho scoperto ciò che era successo a Frank, piango. Tra un singhiozzo e l’altro provo a parlare, ma tutto quello che mi esce sono balbetti confusi e tremiti incontenibili. Non ci posso credere di stare piangendo davanti ad un’altra persona. Non mi importa che sia Ray, con cui ho condiviso la paura della morte per mesi. Non mi importa. Non doveva succedere. Non doveva.
“Ehi, ehi” mormora lui, cercando di rassicurarmi.
Scuoto la testa, e finalmente mi tiro su, fissandolo negli occhi. “Ho una paura terribile. Non riesco… non riesco a fare nulla” confesso “non riesco nemmeno minimamente a sperare di poterlo ritrovare vivo. È come se nella mia mente fosse già morto, e questa cosa mi uccide.”
Ray si alza improvvisamente in piedi, portandosi le mani ai fianchi e guardandomi dall’alto con una sorta di aria di sfida.
“Gerard” dice determinato, e io alzo lo sguardo verso di lui.
Continua a fissarmi, ma io dopo qualche istante lo ignoro di nuovo. Appoggio la testa contro il muro, spingendo come se volessi fare un buco nell’intonaco, e fisso il soffitto.
“Lui è mio, Ray. È mio.” dico in un sussurro quasi inudibile. “Frank è mio. Appartiene solo a me ed io appartengo solo a lui, ed è stato così da ancor prima che ci conoscessimo, perché ci stavamo aspettando. Può sembrare una di quelle cose che si leggono nei romanzetti a puntate, o nei film, ma è così. Quando ci si appartiene a vicenda, non si può fare niente per fermare questa cosa. Possono toglierti tutto, ma non la sensazione che si prova a sapere di avere qualcun altro, qui accanto a te, o da qualche altra parte, avere qualcun altro a cui appartenere. Lui appartiene a me, e deve tornare alla persona a cui appartiene.”
“E allora ti aiuterò a riprendertelo.”
Abbasso la testa di scatto, tornando a guardare Ray. Lui fa un mezzo sorrisetto sornione e mi porge una mano per aiutarmi ad alzarmi. “Non ti libererai facilmente di me, Gerard. Siamo stati in due, laggiù, a guardare in faccia la morte, saremo in due anche qui, e saremo in due anche nelle vite che si susseguiranno, quelle di cui non conosciamo ancora la natura, quelle in cui saremo astronauti, o biologi, o cantanti.  Ma saremo sempre noi, ad affrontare le stesse cose. Insieme.”
Afferro la mano che Ray mi sta porgendo e mi tiro su, fissandolo affascinato.
“Fa’ i bagagli, saluta chi devi salutare, fai i tuoi bisogni ora e dà da mangiare al cane, perché partiamo domattina.”

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Just the shadow of a man ***


AAAH MA LI AVETE VISTI GERARD E MIKEY INSIEME? GLI SGUARDI, L’ABBRACCIO, I SORRISI ASSFJFKJGKLHLHL *-*
Dio, io sono ancora in stato di shock. Due anni, due anni capite? E ora sono tornati a suonare insieme…
*film mentali su un possibile ritorno dei mychem*
No, ok. Tanto illudermi è la mia attività preferita, quindi ew
Bene, domani si torna a scuola e io non ho ancora combinato niente, ma ehi dovevo iniziare Doctor Who (grazie a dolfi, gaia e irene, aw), sclerare su tw per gerard e mikey fucking way e poi scrivere questo capitolo, no?
Well, buona lettura
M.
ps. il titolo del capitolo è ispirato ad una canzone dei Queen, la mia preferita, "Too much love will kill you" aw

 
 
CAPITOLO 23 – JUST THE SHADOW OF A MAN
 
FRANK
 
 
Poso il mattone sul suolo ghiacciato, riprendendo fiato. Prima che possa riprendere a lavorare, vengo scosso da un violento attacco di tosse, uno dei tanti di questi giorni. Un soldato tedesco mi intima di unirmi agli altri e così faccio, cercando di farmi passare la stanchezza.
“Tutto bene?” mi chiede Rayon con voce flebile ed io annuisco in risposta, posandole una mano sulla spalla con fare rassicurante. Quello che trovo sotto il palmo mi spaventa: sento praticamente le ossa, sottili e dure, con appena un po’ di pelle a separarle dal mio tocco.
Rayon aggrotta la fronte ed io levo subito la mano, atterrito. Sta diventando più magra ogni giorno che passa, e le razioni extra che le passo di nascosto non servono poi a molto se ognuna di esse è la metà della metà del piatto che dovrebbe mangiare una persona normale. Ha occhiaie e ombre scure a scavarle il viso, labbra spaccate e secche e gli occhi spenti e acquosi.
Dentro di me so che non resisterà a lungo. Non posso nemmeno negarlo, o evitare di pensarci. È questione di giorni, e il dottore del controllo mattutino si accorgerà di lei e la manderà a morire in una delle camere a gas, o semplicemente la fucileranno in un vicolo.
Non posso permetterlo. Non è per giudicare il resto della gente, ma lei è una delle persone più pure e innocenti qui, e non posso lasciare che sprechi la sua vita in questo modo. Voglio che sia felice, perché se lo merita e perché se devo morire… almeno posso morire per lei.
Non so cosa stia elaborando il mio cervello. Probabilmente sono solo i miei deliri provocati da tosse e raffreddore, probabilmente domani scorderò tutto.
Se ci sarà un domani.
 
 
“Frank, che cosa vuoi dire?”
Rayon lascia il suo giaciglio per raggiungere alla cieca il mio. La vedo avanzare a tentoni, arrancare nel buio e sistemarsi accanto a me, sdraiandosi al mio fianco. Non è la prima volta che dormiamo vicini per riscaldarci durante la notte, perciò la accolgo con un sorriso e mi stringo nelle spalle. “Non lo so. Solo che non puoi continuare così. Non voglio demoralizzarti, ma ti sei vista? Hai visto come ti stai riducendo?”
Rayon alza il capo verso il soffitto, evitando il mio sguardo. La vedo inspirare a fondo prima di rispondere “Sto bene” con voce tremolante e insicura.
“No. No che non stai bene.”
“Sto bene abbastanza per tirare avanti”
Sospiro. “Tirare avanti significa aspettare passivamente che qualcuno ti faccia fuori perché sei troppo debole?”
Rayon finalmente si volta verso di me, piantando i suoi occhi azzurri nei miei. “Ascolta, Frank. Io ce l’ho sempre fatta. Ho… ho vissuto di tutto nella mia vita. E non ho mai avuto bisogno dell’aiuto di nessuno, è chiaro? Perciò non venirmi a dire che vuoi sacrificarti per me, perché sarebbe stupido e illogico. Non sai nemmeno tu cosa vuoi fare, perché dovrei darti retta?”
“Perché voglio donarti una speranza!” esclamo a bassa voce, cercando di non svegliare il resto della gente che dorme attorno a noi.
Lei sorride piano, allunga una mano verso il mio viso e mi accarezza la guancia. Il suo tocco è freddo, glaciale, ma delicato come un fiore. “Oh, Frank… e le tue speranze? Dove sono?”
“Non ci sono più, come me. Io non esisto. Per tutta la gente a cui tenevo ora sono solo un cadavere.”
Non esisto.
Rayon scuote decisa la testa. “Non è vero, e lo sai. Anche se credi di aver perso tutto… non è così. Altrimenti ti saresti già abbandonato alla morte da un pezzo. No, tu un po’ di speranza ce l’hai ancora, dentro di te”
“Questo non c’entra niente.” dico, allontanando la sua mano dal mio viso ma continuando a tenere il suo polso tra le mani. “Ascolta… una delle due ragazze che facevano da cameriere nella villa del colonnello Quinn è morta ieri. Hanno bisogno di una nuova cameriera. Io ho… ho intenzione di mandarci te.”
Rayon ridacchia piano. “Tu ‘hai intenzione’? E a chi vuoi proporlo? Alle SS?”
“Non lo so.” ammetto “Ma sicuramente domani faranno una selezione, e tu devi essere scelta. Assolutamente. È la tua unica possibilità: soggiornare nel dormitorio all’interno della villa, stare al caldo, fare lavori meno pesanti…”
“Non mi prenderanno mai. Per loro io sono… sono un uomo.”
“Non hanno molta scelta. Non sono rimaste donne libere e sane, soltanto uomini. Sceglieranno te, vedrai.”
“E chi ti dice che non morirò comunque? Chi ti dice che non sono già malata? Che non c’è salvezza per me? Del resto quella ragazza è morta, eppure viveva in condizioni migliori delle nostre.”
“Quella ragazza aveva una ferita ormai in cancrena al braccio, e nessuno gliel’ha curata. Tu invece hai solo… hai bisogno solo di cibo e riparo. Tu puoi farcela.”
Rayon chiude gli occhi, si volta e mi passa una mano sul fianco, stringendosi a me. Io ricambio la stretta, e la quiete che trovo nel suo calore è doppiamente confortevole: ho una persona accanto a me, ed è una persona che mi ama davvero.
Non succedeva da secoli.
“Ce la farai. Te lo prometto.” mormoro contro la sua testa, dandole un bacio sulla sottile peluria che ha sul capo, gli unici veri capelli che le sono rimasti ormai.
Rayon annuisce, arrendendosi finalmente. “Mi fido di te, Frank.”
 
 
Il giorno dopo, come previsto, accade quello che speravo. Le SS ci fanno rimanere in fila dopo il controllo e annunciano in tedesco qualcosa, ma quando vedo alcuni uomini (i più vecchi o quelli più deboli e malati) darsi subito un contegno e cercare di apparire più sani, mentre dei soldati passano tra le file, capisco che stanno già facendo la selezione.
Tutti vogliono quel posto.
È l’unica speranza per molti di noi.
I soldati pian piano scartano quasi tutti, lasciando soltanto quelli più deboli, consapevoli anche loro che sarebbe un peccato sottrarre uomini forti al campo per un lavoro così femminile.
Io sono stato scartato quasi subito, ma tra quelli rimasti c’è Rayon. La guardo da lontano, facendole coraggio con gli occhi mentre i tedeschi eliminano ad uno ad uno tutti gli uomini disponibili. Prima che possa rendermene conto, gli unici due rimasti sono Rayon e un altro uomo sui cinquant’anni, brizzolato e con la faccia solcata da parecchie ferite e cicatrici.
Ok.
Calma.
Rayon ha il 90% di possibilità.
Ma non posso rischiare.
Un soldato si avvicina ai due, scrutandoli ad uno ad uno.
Rayon ha lo sguardo terrorizzato, ha paura di non essere preso, cerca me tra la folla ma non riesce a trovarmi e supplica con gli occhi il soldato tedesco, ma quello, dopo avergli dato un’ultima occhiata, si dirige verso l’altro uomo.
Non posso rischiare, no.
Io devo.
Devo, e basta.
Faccio un respiro profondo, probabilmente l’ultimo. Non ho paura.
Non ho paura non ho paura non ho paura non ho paura.
Mi lancio in avanti, spintonando il resto dei prigionieri davanti a me e raggiungendo in un batter d’occhio l’inizio della fila. Come a rallentatore, vedo i soldati tedeschi fissarmi allarmati, vedo alcuni di loro sollevare i fucili e puntarli verso di me e penso “E’ finita”, ma poi raggiungo il soldato che sta esaminando Rayon e l’altro uomo, e mi butto su quest’ultimo, facendoci crollare rovinosamente a terra.
“Tu, brutto pezzo di merda mi hai rubato la saponetta!” grido, falsamente arrabbiato, e comincio a riempire di pugni l’uomo innocente sotto di me.
Cerco di non pensarci.
Lo sto facendo per Rayon. Soltanto per lei. Non importa chi si farà male. Rayon sarà salva, ed è questo ciò che conta. Devo salvare almeno lei. Almeno lei.
Almeno lei.
Sento l’uomo sotto di me provare a rialzarsi, lo sento cercare di fermare i miei pugni, ma io gli salgo sopra a cavalcioni e lo immobilizzo, continuando a picchiarlo.
So che la pallottola arriverà tra tre, due, uno…
È soltanto questione di pochi secondi, che sento qualcuno puntarmi la canna di un fucile dietro la schiena, e un’altra mano afferrarmi violentemente per i capelli e tirarmi su fino a rimettermi in piedi.
Incrocio gli occhi furiosi di un paio di soldati stretti attorno a noi, sento urla, caos, prigionieri che ci fissano ammutoliti, poi guardo l’uomo steso a terra e noto una pozza di sangue sotto la sua testa.
Non l’ho ucciso, no. Per fortuna mi hanno fermato in tempo. Ma l’ho sfigurato abbastanza. Il suo viso è praticamente irriconoscibile, impregnato di sangue, con ferite ovunque e un grosso taglio sulla tempia.
Dio. Cosa ho fatto?
Oh oh perdonami. Chiunque tu sia, perdonami per favore oh oddio che cosa ho fatto, ho le mani sporche di sangue e non riesco più a pensare, ma poi vedo Rayon guardarmi con gli occhi sgranati e ritorno sulla terra e capisco che non sono morto, no. Credevo di morire, credevo che mi avrebbero sparato non appena mi avessero visto scagliarmi sul prigioniero ma no, mi hanno risparmiato.
Non so se esserne grato o….
Sento il soldato che mi tiene fermo per la collottola gridarmi e sputacchiarmi contro, e allora io indico l’uomo a terra spiegando con rabbia che mi ha rubato la saponetta e che non poteva passarla liscia, e altre cose senza senso che non so se capiranno, perché non ho mai saputo se alcuni di loro parlassero inglese o no. Ma il soldato alla fine pare capire, perché mi strattona, continuando a tenere il fucile puntato contro di me, e mi affida ad altri due tedeschi, ordinando loro qualcosa.
Vedo il resto dei militari presenti dirigersi verso Rayon e dirle qualcosa, e quando iniziano a scortarla verso la villa di Quinn, capisco che alla fine in un modo o nell’altro ce l’ho fatta.
Ho ottenuto ciò che volevo. Rayon ce la farà. Lei… si salverà. Io lo so. Non importa che punizione dovrò scontare, non importa che probabilmente non ci vedremo quasi mai d’ora in poi, non mi importa.
L’uomo a terra viene fatto sollevare di peso e portato probabilmente nell’infermeria del campo. Credo che lo cureranno, sì. In fondo ha subito soltanto ferite facciali, e se medicate a dovere potrebbe ancora tornare a lavorare per un altro po’.
Spero che lo curino.
Non posso… non posso sentirmi colpevole per la sua morte.
 
 
Vengono a prendermi soltanto a sera. Per tutto il giorno mi hanno lasciato a lavorare con gli altri, ignorandomi quasi, trattandomi come al solito, ma non appena ci ritiriamo tutti nei dormitori, non faccio neanche in tempo a raggiungere il mio giaciglio che li sento arrivare.
Ne sono in due. Mi afferrano per le braccia, trascinandomi di peso fuori dal dormitorio, sotto gli occhi del resto dei prigionieri che ci fissano a metà tra il compassionevole e il curioso.
Non ho paura.
So di non avere paura. È questa la cosa bella di quando sei consapevole di aver fatto una cosa buona per qualcuno: qualsiasi punizione ti infliggeranno, qualsiasi supplizio pagherai, non sarà nulla in confronto alla soddisfazione di essere riuscito a realizzare ciò che volevi, di essere riuscito a rendere felice o almeno a far star meglio quella persona.
Mi portano fuori, nel piazzale del campo. Si sta alzando una bufera di neve di una violenza inaudita, forse una delle più forti mai vissute da quando sono qui. Io e i due soldati fatichiamo ad avanzare, e dobbiamo chinare la testa e coprirci gli occhi con una mano per non venire travolti da tutta questa neve che cade violentemente dal cielo.
Spero che facciano in fretta, almeno.
Eppure, non appena arriviamo al centro del piazzale, e vedo un ceppo e delle catene, capisco in un lampo. I due tedeschi mi incatenano i polsi, poi si allontanano piano e mi contemplano da lontano, sghignazzando tra loro. Non riesco nemmeno a vederli bene a causa della bufera, e dopo pochi istanti non ci sono più.
Puff. Spariti. Non li ho nemmeno visti allontanarsi. Mi hanno lasciato qui, ed è evidente che dovrò passarci tutta la notte.
Tutta la notte.
Tutta.
La.
Notte.
Qui, da solo, in silenzio, al buio, al freddo, a morire congelato sotto una bufera di neve che di sicuro non cesserà fino a domattina. Sento il freddo penetrarmi sotto la sottile casacca di pelle, nelle calzature ormai rovinate e bucate, sento il ghiaccio incrostarmi le ciglia, la neve incollarsi ai vestiti e ai capelli e sulle guance e non riesco nemmeno a respirare perché il respiro mi si mozza in gola, e i polmoni non riescono a dilatarsi per immagazzinare aria.
Non è possibile.
Questo è peggio… peggio della morte, peggio del beccarsi una pallottola in testa. È dieci, cento, mille volte peggio. Non ce la farò. Morirò.
Morirò, come avevo predetto.
D’accordo, d’accordo. Non ho paura.
N-n-no-n ho o-p-aura.
Anche i miei pensieri stanno congelando. Li sento tremare nella mia testa, li sento stringersi l’un l’altro fino ad annullarsi, solo per sentire un po’ di calore, fino a quando non scompaiono del tutto, e dentro di me rimane solo il vuoto.
Un minuto, due minuti, tre minuti.
Cinque, sei, dieci.
Venti.
Un secolo.
Due secoli.
Freddo.
Così tanto freddo….
Morirò.
Gerard.
Oh, Gerard. Ti amo così tanto. Ti prego ascoltami. Gerard. Gerard guardami. Guardami, sono qui. Gerard. Vieni a prendermi. Sono qui.
Sono qui.
Freddo.
Morirò.
 
 
Non so come mi ritrovano il mattino dopo. Probabilmente non mi rendo conto nemmeno di essere vivo, so soltanto che qualche ora dopo mi ritrovo nel mio dormitorio, a tremare ancora per il freddo come se fosse ormai un riflesso incondizionato. Mi stringo addosso la mia sottile coperta di ruvida tela, e ringrazio chiunque ci sia lassù per aver convinto le SS che ero troppo debole per lavorare, oggi.
All’improvviso vengo scosso da un altro attacco di tosse, più violento dei precedenti. Mi porto una mano alla bocca per soffocarlo, ma quando la allontano noto qualcosa sulla manica.
Sento il cuore farmi un tuffo nel petto. Sento il terrore aprirsi un varco dentro di me. Sento le gambe trasformarsi in gelatina, e il cervello andarmi in panico.
Sulla manica della mia casacca c’è del sangue.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Black black heart ***


No, non è come pensate, lo giuro *incrocia di nascosto le dita dietro la schiena*
…D’accordo ok lo ammetto, ho passato l’intera settimana a drogarmi di Doctor Who e mi sono esiliata dalla società, dalla vita reale e anche da questa ff *sigh*
MA EHIII, SONO TORNATA, e anche se sono ancora a dir poco traumatizzata dalla fine della seconda stagione, eccomi a continuare questa storia che, devo confessarvi, ormai giunge quasi al termine. Mi sento un po’ strana, e proprio come con doctor who e le serie tv o i libri che adoro di più, ho paura di arrivare alla fine, perché poi mi mancherà e ci starò male e non saprò come colmare il vuoto e vbb, piango
Ma tranquilli, mancano ancora alcuni capitoli, e spero che ve li godrete appieno come me li sto godendo io scrivendoli <3
Buona lettura
M.
 
Ps. Beh se non conoscete Black black heart di David Usher (o ancora meglio la cover dei Muse *-*) vi consiglio di rimediare subito assfgghhjkl
 
 
CAPITOLO 24 – BLACK BLACK HEART
 
 
GERARD
 
 
Il treno sferraglia rumorosamente sui binari, facendoci avvicinare sempre di più alla nostra ultima tappa, dopo la quale procederemo a piedi. D’ora in avanti non dovremo più camuffarci o infiltrarci clandestinamente in qualche treno, né superare dogane o posti di blocco.
Siamo in Germania.
Io e Ray, due americani. Nella terra del nemico.
Non so quanto tempo sia passato dal nostro sbarco in Europa, ma devono essere trascorsi cinque o sei giorni, o giù di lì. Troppo tempo. Troppo tempo, continuo a ripeterlo, ma Ray mi tranquillizza e mi dice che siamo quasi arrivati, siamo quasi arrivati, guarda ci siamo quasi, fra un po’ saremo da Frank, ed io gli credo.
Non faccio che sognarlo ogni notte. Sempre lo stesso sogno: prima noi che ci baciamo sul letto, e poi lui che inizia a prendere fuoco senza un motivo apparente, ed io che cerco di aiutarlo, di salvarlo, o di morire con lui, ma ogni volta mi risveglio inzuppato di sudore e devo levarmi faticosamente dalla testa il suo volto sofferente.
Non è stato facile dire a Lynz e Mikey che partivo di nuovo. Non è stato facile dire loro che probabilmente avrei potuto non tornare mai più, che mi sarei di nuovo messo in pericolo di vita, che sarebbe stata una missione suicida e che non avrebbero dovuto più aspettarmi se non fossi tornato entro un mese.
Lindsey mi ha urlato contro per tutta la serata, dandomi la colpa per tutto, gridando così senza senso, tempestandomi il petto di pugni, ma alla fine si è arresa. In fondo mi conosce. E, per quel poco che ha potuto constatare prima che Frank sparisse dalle nostre vite, sa che darei la mia vita per lui. Lo sa e sa che non potrebbe fermarmi, se decidessi di farlo.
Mikey è stato la parte più difficile, ma lui lo ha capito. Lo ha capito e non ha fatto storie, perché era stato il primo ad esortarmi a partire, a darmi speranza. Solo che avevamo passato così poco tempo insieme, dopo il mio ritorno, che mi sembrava di non essere riuscito a dirgli tutto, a spiegargli l’immenso affetto che provavo per lui, e quanto mi era mancato, e quanto volevo solamente che stesse bene e fosse felice.
Poi siamo partiti, e allora non ho pensato più a nulla e a nessuno, se non a lui. Lui.
Non è stato facile nemmeno dopo il nostro arrivo in Europa. Abbiamo dovuto costruirci delle false identità, evitare i luoghi pubblici, non fermarci mai più di una notte nello stesso paese, e soprattutto, man mano che ci avvicinavamo alla Germania, fare di tutto per non essere notati.
Invisibili. Completamente invisibili. È quello che abbiamo imparato ad essere, infiltrandoci in treni merci e nascondendoci tra le casse, vivendo di stenti e mangiando soltanto una volta al giorno, senza mai restare per più di cinque minuti in un supermercato o bar o quel che era.
Se i tedeschi scoprono che siamo qui… siamo veramente fottuti. Non mi importa poi molto di me, e comunque mi farei ammazzare per proteggere Ray, ma mi importa troppo, fin troppo, di Frank, perché se muoio lui morirà, e nessuno mi assicura che potrò rivederlo lassù da qualche parte.
In questi giorni la presenza di Ray è stata praticamente fondamentale. Senza di lui forse ora non sarei qui, non sarei mai riuscito ad arrivare così lontano, mi sarei abbandonato a me stesso alla prima occasione, alla prima difficoltà, e invece con lui ho la forza per tirare avanti, la forza per non lasciarmi abbattere.
“Siamo arrivati” annuncia Ray, e sento il treno rallentare lentamente sui binari. Siamo nascosti nell’ultimo vagone da due giorni, rannicchiati tra casse di pomodori e altra frutta e verdura esportata probabilmente dall’Italia. Non è stato difficile nasconderci nei treni merci che incontravamo lungo il cammino, poiché quasi nessuno controlla mai gli ultimi vagoni e superare i posti di blocco è un gioco da ragazzi.
Il difficile è uscirne una volta arrivati in stazione.
Sentiamo degli uomini avvicinarsi, poi i vagoni vengono aperti ad uno ad uno per scaricare le merci, fino a quando non arriva il nostro turno. Io e Ray ci nascondiamo ancora di più fra le casse, poi sentiamo il portellone aprirsi e la luce ci inonda accecandoci gli occhi. Faccio cenno a Ray di rimanere perfettamente immobile, mentre alcuni uomini entrano dentro al vagone e iniziano a trasportare le merci su un carretto.
Dopo aver caricato alcune casse, si allontanano verso la stazione, facendo sì che questo sia il momento giusto per uscire.
Tre, due, uno.
Ci alziamo e corriamo.
 
 
Circa un’ora dopo, miracolosamente vivi, camminiamo tra gli alberi tenendoci sempre vicino alla strada principale che attraversa questo bosco, procedendo affannosamente per la lunga corsa. Non abbiamo ancora incontrato delle pattuglie tedesche, ma considerato quanto siamo vicini al campo di concentramento, credo che accadrà molto presto.
Non ci posso credere di essere qui. Cioè, a meno che non ci ammazzino all’improvviso colpendoci alle spalle, siamo arrivati. Siamo qui, finalmente. Tra poco potrei… cioè è questione di ore e potrò…potrò vedere Frank. Se è ancora vivo, si intende.
Non voglio illudermi, ma la tentazione è troppo forte. Spero nella speranza, e probabilmente questa cosa mi fotterà ma non voglio pensarci. Lui deve essere vivo. Deve.
“Che cosa faremo, una volta lì?” mi chiede Ray all’improvviso, e forse era ora che qualcuno spezzasse questo silenzio quasi angosciante.
“Non lo so” ammetto “Suppongo dovremo cercare Quinn senza dare nell’occhio”
“E poi? Cosa diremo a quest’uomo?”
E di nuovo mi ritrovo a rispondere con un “Non lo so” che mi butta completamente giù. Sì, gli diremo che ci manda Jamia, e poi? Se davvero Kellin Quinn è un colonnello dell’esercito tedesco, penso sarà alquanto restio a darci una mano per portare via da un campo di sterminio un prigioniero. Chi è Jamia per lui? È abbastanza importante da spingerlo ad aiutarci?
Se lei ci ha fatto il suo nome probabilmente è convinta di sì.
Non so nemmeno chi sia Jamia Nestor, a dirla tutta. So soltanto che mi ha praticamente fatto a pezzi la vita, con quella lettera, e che conosce Frank abbastanza e sa di noi due abbastanza. E che senza di lei non avrei saputo proprio come fare.
Sento la mano di Ray posarsi sulla mia spalla e stringere forte. Lo guardo e mi fa un mezzo sorriso affaticato, aggrappandosi ad un ramo per affiancarmi. “Ce la faremo, sta tranquillo. Siamo arrivati fin qui, non possiamo fallire. Non possiamo andarcene o morire a mani vuote.”
Non possiamo fallire.
Gli credo, o mi sforzo di credergli, non saprei dirlo, ma riprendo a camminare.
Dopo qualche minuto, sentiamo un motore in lontananza avvicinarsi sempre di più, ed io e Ray ci guardiamo intendendoci subito. Lo avevamo pianificato dall’inizio, e ora non c’è più tempo per esitare.
Usciamo dalla boscaglia e ci lanciamo sul sentiero ghiaioso, fermandoci proprio al centro e alzando e muovendo le braccia. Il motore che si sta avvicinando è in realtà un camioncino militare, proprio come avevamo previsto, e ha soltanto due uomini nei sedili anteriori.
Perfetto.
Uno io e uno Ray.
Il furgone si ferma davanti a noi, ed entrambi i soldati scendono con i fucili in pugno, avvicinandosi con aria sospettosa. Gridano qualcosa in tedesco e Ray pare capirli, perché borbotta qualcosa in risposta cercando di non far notare il suo accento americano.
Non sapevo che parlasse tedesco. Il piano era farli avvicinare e poi coglierli di sorpresa, ma così è ancora meglio.
Il primo soldato, un tizio grassoccio con l’aria imbronciata, si avvicina e allunga le mani per perquisirci, rimettendosi dietro la schiena il fucile. Il secondo, più anziano e molto più furbo, rimane un po’ più dietro e continua a tenere l’arma tra le braccia.
Ray si lascia perquisire, e quando il tizio si abbassa leggermente per controllargli le tasche dei pantaloni, capisco che è questo il momento giusto per agire.
Agisci. Agisci e basta.
Con uno scatto fulmineo strappo il fucile dal braccio del soldato e prima che possa rendersene conto sparo all’altro fermo più dietro, mirando dritto alla testa. Quello crolla al suolo, esanime, con una macchia di sangue che si allarga sotto la sua testa, e nel frattempo quando mi giro Ray ha già sistemato l’altro uomo assestandogli un bel calcio nei gioielli. Io lo finisco piantandogli un’altra pallottola nel cervello e poi ci affrettiamo a spogliarli prima che il sangue imbratti i vestiti.
Indossiamo le loro divise e trasciniamo i corpi nel furgone, chiudendo a chiave i portelloni. Poi saliamo a bordo e mettiamo in moto, io alla guida e Ray al mio fianco che cerca di levar via una piccola macchiolina di sangue dalla manica.
Non pensarci non pensarci non pensarci.
Ho ucciso decine e decine di uomini in guerra. Due in più non fanno differenza. Specialmente quando si tratta di Frank.
Agisci.
Procediamo per un bel po’, prima di trovare la fine del sentiero. Con esso termina anche il bosco, e finalmente la strada diventa più ampia, meno accidentata, e in lontananza vediamo finalmente qualcosa.
Degli edifici grigi, una villa, delle ciminiere.
Mi manca il fiato.
Ci siamo.
Ray posa una mano sulla mia. “Da questo momento in poi siamo in pericolo di vita, Gerard” dice in tono sommesso.
Annuisco.
“Lo so.”
Sulla strada fino al campo troviamo diversi furgoni che vanno e vengono, ma nessuno di loro fa particolarmente caso a noi e procediamo indisturbati, fino a quando non raggiungiamo i cancelli del campo di concentramento. Sono enormi, con un’arcata semicircolare e una scritta che dice a grandi lettere “WEIRSTEIN LAGER”.
È questo. È proprio questo. Sento il cuore accelerare i battiti, le mani iniziare a sudarmi, e cerco di mantenere una fredda calma. D’accordo, non ha senso sbagliare proprio ora. Siamo qui, e tra poco potrei vedere Frank. Tra poco, se tutto va bene, e se le mie speranze non sono vane, potrei riabbracciarlo. Tutto questo incubo assurdo potrebbe finire.
Un recinto elettrificato corre per tutta la durata del campo. Oltre di esso, intravedo soltanto sagome lontane che si muovono tra piccole catapecchie di legno, alcuni soldati, altre persone con divise grigie. Suppongo siano i prigionieri. Suppongo che tra quelli potrebbe esserci Frank.
Calma. Sono calmo. Sono davvero calmo.
Il furgone davanti a noi non si ferma ai cancelli, ma svolta a sinistra e segue tutto il perimetro del recinto, fino a quando non lo vedo sparire lontano verso la villa edificata proprio accanto al campo.
Quella deve essere la villa del colonnello Kellin Quinn, e in qualche modo noi dobbiamo parlare con lui.
Decido quindi di seguire il percorso dell’altro furgone e procedo velocemente fino a quando non raggiungiamo un vasto parcheggio sul retro della villa, dove alcuni uomini stanno scendendo dalle auto, altri ci stanno salendo, altri ancora sono fermi a parlottare tra loro.
Parcheggio il furgone il più vicino possibile all’edificio, così che sia più facile raggiungerlo in caso venissimo scoperti. Cosa che spero non accada.
“Dobbiamo entrare lì dentro” dico a Ray.
Lui sospira. “Meno male che avevo un austriaco puro come professore di tedesco alle medie”
Ci sorridiamo e scendiamo dal veicolo, e noto con sorpresa che di nuovo nessuno fa caso a noi.
Almeno fino a quando non ci avviciniamo alla villa.
Due tedeschi ci bloccano il cammino, e uno di loro ci fa delle domande di cui non colgo nemmeno una parola, ma Ray pare capire tutto perché gli risponde pacatamente, e nella sua frase sento il nome “Quinn”. Il soldato lo scruta sospettoso per qualche secondo, poi il suo sguardo scivola su di me e mi fa una domanda diretta, ed è allora che vado nel panico.
No, non può finire proprio ora. Non può.
Apro la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, sento Ray trattenere il respiro accanto a me, probabilmente sta pensando anche lui a un modo per tirarci fuori da questa situazione, ma proprio quando mi sento completamente in trappola, un altro militare tedesco ci si avvicina e scambia due parole con l’uomo che ci stava interrogando, facendogli distogliere la sua attenzione da me.
Tiro un sospiro di sollievo e quando l’uomo torna a guardarci Ray si congeda con poche parole. Il soldato non ci chiede altro e rimane a fissarci mentre noi ci allontaniamo e raggiungiamo l’ingresso posteriore della villa.
Una volta entrati, mi accascio contro la prima parete che trovo e cerco di riprendere fiato. Ray mi imita, ma poi scoppiamo brevemente a ridere. “Immagino non fosse così importante la domanda che mi ha rivolto” commento, curioso di sapere quale fosse.
Ray annuisce. “Voleva sapere se il gatto ti aveva mangiato la lingua o qualcosa del genere” dice ridendo, ed io sospiro sollevato. “Prima di andar via gli ho accennato al fatto che avevi perso la tua famiglia di recente, e che perciò non sei proprio il massimo dell’allegria e della loquacità”
“Ray”
“Cosa”
“Probabilmente non so cosa farei senza di te”
Lui ridacchia e scuote piano la testa. “Se non servo a questo allora per cos’altro sono qui? Forza, andiamo a scovare questo tizio”
La villa è davvero gigantesca. Non sembrava così grande dall’esterno, ma ora che siamo dentro è praticamente impossibile non perdersi tra gli svariati corridoi tappezzati di quadri e arazzi eleganti, tra le enormi sale da pranzo che sembrano destinate ad accogliere più di una ventina di persone, tra le diverse porte chiuse che abbiamo troppo timore di aprire. La casa è deserta, se non fosse per i membri della servitù, e cerchiamo di nasconderci anche da loro perché sarebbe troppo complicato rispondere a delle domande ora. Dobbiamo trovare Quinn il prima possibile e andar via da questo posto.
Finalmente troviamo le scale per il primo piano, e dopo averle salite ci ritroviamo in un altro labirinto di ampi corridoi costeggiati da raffinate porte in ciliegio, ma quando sentiamo dei rumori soffocati provenire da una di esse ci fermiamo di colpo.
“Grazie, Martha, posali pure lì” dice una voce maschile, in inglese ma con un chiaro accento tedesco.
Sento un suono di passi avvicinarsi sempre di più, probabilmente chiunque sia nella stanza sta per uscire, e io e Ray ci guardiamo rapidamente intorno per cercare un nascondiglio.
“Aspetta” dice di nuovo la voce maschile, poi si sente uno stridore di sedia. L’uomo deve essersi alzato, e i suoi stivali avanzano di qualche passo fino a fermarsi, quasi esitanti.
Un sospiro soffocato, poi di nuovo la voce dell’uomo. “Loro… ti trattano bene da quando sei qui?” mormora sommessamente.
Una flebile voce di ragazza risponde. “S-sì…sissignore”
“E tu? Ti piace stare in questo posto?”
Nessuna risposta.
“Dio, che stupido che sono. Certo che non ti piace. Sei anche lontana da tua sorella… scusami”
“Non deve scusarsi, signore. Io… io sto bene”
Dubito che nelle parole della ragazza ci sia un fondo di verità, ma l’uomo sembra rassicurato. Un altro sospiro.
“Martha, io…”
Silenzio.
Sta succedendo qualcosa, perché nessuno dei due parla più.
A un certo punto capisco tutto. Il quadro è completo e chiaro nella mia mente, e finalmente so cosa fare.
“Dobbiamo entrare, Ray” gli sussurro, allontanandomi piano dalla porta. “Dobbiamo coglierlo di sorpresa e sfruttare questa cosa a nostro favore” Lui annuisce, d’accordo con me, e io allungo una mano verso la maniglia.
Un grido alle nostre spalle, un comando urlato in tedesco.
Agisci.
Mi volto di colpo e allungo la mano verso l’arma che ho dietro la schiena, ma prima che io o Ray possiamo fare alcunchè ci ritroviamo due fucili puntati contro il petto.
Due soldati tedeschi ci fissano torvamente e uno di loro comincia a fare domande a raffica, domande a cui né io né tantomeno Ray rispondiamo. Improvvisamente la porta dietro di noi si apre e ne esce prima una ragazza in divisa grigia, pallida ed emaciata, che sgattaiola subito via senza nemmeno guardarci, e poi dietro di lei un uomo.
È giovane, più giovane di quanto immaginassi, ma non riesco nemmeno a guardarlo in faccia che i due soldati tedeschi ci spingono brutalmente a terra, fino a farci inginocchiare, e c’è uno scambio di frasi con un tono furioso sia da parte loro che da parte dell’uomo che immagino sia il colonnello Quinn.
Finalmente.
Devo solo parlare con lui. Devo solo fargli capire che….
Uno dei due soldati ci indica parlando con il colonnello, puntandoci il fucile contro, e quando vedo Ray inorridire capisco in un batter d’occhio. Vogliono fucilarci all’istante, così da eliminare il problema.
Il colonnello Quinn però lo ferma, sollevando una mano. Provo ad alzare la testa per fissarlo, ma il tedesco che mi tiene immobilizzato me la spinge di nuovo giù provocandomi una fitta di dolore. Mi mordo il labbro e rimango zitto.
Quinn sa che noi eravamo dietro quella porta. Deve saperlo, e probabilmente sa che noi sappiamo. La soluzione più semplice per lui sarebbe farci ammazzare così da zittirci per sempre, ma per un motivo ignoto esita.
Con la testa abbassata a fissare il pavimento, riesco soltanto a vedere le sue gambe avvicinarsi fino a mettersi di fronte a me. “Siete americani?” chiede in inglese, ed io e Ray annuiamo piano.
Quinn rimane in silenzio per alcuni secondi. “D’accordo. Portateli nel mio studio al piano di sotto. Voglio interrogarli.”
Io e Ray sospiriamo all’unisono, tremando di sollievo. Abbiamo una sola, ultima occasione per portare a termine questa cosa. E non possiamo sprecarla. Perciò, ci lasciamo trasportare docilmente giù per le scale, attraverso svariati corridoi, fino a quando non giungiamo in un’ampia stanza con una scrivania al centro e una biblioteca che corre lungo tutto il perimetro, alta fino al soffitto, traboccante di libri.
I due tedeschi ci tolgono tutte le armi che portavamo addosso, poi ci infilano delle manette ai polsi e ci fanno sedere sulle due sedie poste di fronte alla scrivania. In attesa.
“Tu” dice uno dei soldati, e quando alzo la testa noto che c’è un’altra persona nella stanza, una persona che non avevo affatto notato. “Se soltanto provano ad alzarsi corri a chiamarci. E vedi di fare un bel lavoro con quei libri, il colonnello non vuole vedere neanche un granello di polvere”
I due soldati se ne vanno, chiudendo a chiave la porta, lasciandoci soli con la piccola figura di cui non mi ero assolutamente accorto, forse perché è così magra e piccola da annientarsi e mimetizzarsi con l’ambiente circostante.
È un… ragazzo, così magro che le ossa gli spuntano al di sotto della casacca grigia e lacera. Ha un fazzoletto colorato legato sulla testa, e porta un piccolo grembiulino bianco come le altre cameriere che abbiamo notato nella villa.
Non ci fissa, non si volta nemmeno, continua a spolverare uno per volta i libri degli scaffali, con le mani che gli tremano e le gambe così fragili e sottili che temo quasi che crolli da un momento all’altro.
Va bene, non mi importa che ci senta. Mi volto verso Ray. “Ce la faremo” gli dico, più per rassicurare me stesso che lui, ma a quanto pare il mio amico è molto più calmo di me perché annuisce solamente e continuare a mantenere lo sguardo fisso su un punto indeterminato della stanza.
“Ce la faremo” sussurra dopo un po’, ripetendo la mia stessa frase.
Sì, anche lui ha paura. Non lo mostra ma ha paura. Aveva paura anche quel giorno in guerra, quando mi parlò di mondi paralleli e altre cose simili, aveva paura e chiacchierava come se nulla fosse, proprio per scacciare quello stesso terrore cieco che si stava impadronendo anche di me.
“Ci ascolterà” dico, riferendomi a Kellin “Ci ascolterà e ci porterà da Frank e…”
Improvvisamente il ragazzo intento a spolverare i libri si volta di scatto, con gli occhi spiritati. Ci fissa per qualche istante e per un attimo sembra quasi che stia per svenire, ma poi sibila quasi impercettibilmente: “Frank?”
Mi alzo di colpo. Il cuore mi fa un salto nel petto e fatico anche soltanto ad aprire bocca. “Frank, sì! Lo conosci?”
Il ragazzo si porta una mano quasi scheletrica alla bocca e vedo un sorriso spuntargli sotto le dita. “Oh, ma tu sei Gerard…sei venuto… a prenderlo…” ansima.
Non faccio in tempo a parlare che la porta dietro di noi si spalanca e mi affretto a risedermi accanto a Ray. Lo guardo con gli occhi sgranati, poi guardo lo strano ragazzo che nel frattempo si è già voltato e ha ripreso a spolverare come se non fosse accaduto nulla.
D’accordo, calma. Fingi, agisci, cerca di ingraziarti il colonnello. Andrà tutto bene.
Andrà tutto bene, Frank. Ti troverò.
La porta si richiude, e vediamo il colonnello Quinn passarci accanto e andarsi a sedere alla scrivania. “Rayon, puoi lasciarci. Vorrei parlare con questi due uomini da solo.”
Il ragazzo molla tutto e ci supera senza guardarci in faccia, richiudendosi piano la porta alle spalle.
Ora ho finalmente l’occasione di guardare meglio il colonnello Quinn.
È giovane, molto più di quanto avessi immaginato, probabilmente ha soltanto qualche anno più di me. Ha la faccia da… ragazzino, liscia e senza nemmeno un accenno di barba, con qualche ciuffo di capelli scuri che gli ricade sulla fronte e due occhi chiari di una tonalità che non riesco bene a definire.
E quando incontro quegli occhi… non so, non ho mai visto qualcosa di così intenso in vita mia. Sono strani, quasi magnetici, e faccio fatica a distogliere lo sguardo, ma la cosa che mi colpisce di più sono i segreti. Tanti, tanti segreti, celati dietro quegli stessi occhi, segreti che nessuno sa, e che forse nemmeno lui conosce appieno.
Tutta la sua figura emana fascino e mistero e passioni, o almeno emozioni molto, troppo intense che non riesce completamente a nascondere.
“Allora” esordisce, incrociando le mani davanti a sé e portando le gambe sulla scrivania, come se fosse assurdamente a suo agio con noi. “Siete americani, ve lo leggo negli occhi e negli atteggiamenti” constata, poi indica le nostre divise “chi avete ammazzato per prendere quelle?”
Decido di essere sincero. In fondo, non credo che riuscirei a mentire a quest’uomo. “Due uomini, nel bosco qualche miglia prima di questo campo.”
Quinn annuisce piano, come se stesse riflettendo. “Avete nascosto i corpi nel vostro furgone?”
“Sì.”
“Chi siete e che cosa volete?”
Diretto, molto diretto. Mi piace, e credo che giocando al suo stesso gioco potremmo ottenere qualcosa.
“Chi era la ragazza nella tua stanza?” domando, quasi con aria di sfida.
Kellin Quinn socchiude gli occhi e mi scruta attentamente, scandagliandomi da cima a fondo, poi fa un piccolo, quasi impercettibile sorriso. “Potevo farvi uccidere, qualche minuto fa, lo sai vero?”
“Ma non lo ha fatto” interviene Ray.
“Già. Non l’ho fatto. Immagino che dovrei pentirmene.”
“Non è detto” lo correggo “Vogliamo solo che ci ascolti.”
“Chi siete?” chiede ancora lui.
“Io sono Gerard e lui è Ray. Siamo della marina americana.”
Kellin si accarezza piano il mento, fissandoci a lungo. “Siete venuti fin qui dagli Stati Uniti? In territorio nemico…soltanto per… per parlare con me?”
“Non esattamente.”
C’è qualche attimo di silenzio teso e quasi elettrico, mentre ci fissiamo a vicenda come due leoni pronti a sbranarsi.
“Quella ragazza è un’ebrea, vero? È almeno consenziente?”
Non mi aspettavo una risposta, credevo avrebbe continuato a tergiversare o che si sarebbe infine stancato, ma dopo qualche secondo inizia a parlare. “No, lei è… sì, immagino che…”
“Mettiamola in questi termini” ride Ray “Tu le piaci?”
Kellin si alza così di colpo che sobbalziamo entrambi. Aggira la scrivania e viene verso di noi, piantandosi davanti alle nostre sedie e indicando le manette che ci legano i polsi. “Siete voi quelli in catene qui. Le domande le faccio io, è chiaro?” dice rabbiosamente.
No, non era questo l’approccio giusto. Io e Ray annuiamo piano.
“Ci manda Jamia” dico finalmente, immaginando che questo possa farlo calmare.
Oppure no.
La reazione di Kellin è immediata. Sbianca completamente, fa qualche passo indietro e si regge al bordo della scrivania con una mano, come se gli tremassero le gambe. “Cosa?” mormora in un ansito soffocato.
Annuisco, deciso a proseguire. Non possiamo più prendere tempo. “Ci manda lei. Io ho… un amico, americano ma con origini italiane, e lo hanno preso. Lo hanno portato in questo campo, qui proprio sotto la tua villa, e Jamia ci ha detto di venire a parlare con te. Che tu puoi aiutarci.”
Kellin sembra riprendersi. Si allontana dalla scrivania, va verso la finestra e rimane a fissare il paesaggio all’esterno. Per “paesaggio” si intende probabilmente il campo di sterminio con centinaia di condannati a morte che zappano la terra, ma a quanto pare per lui non fa differenza. “Jamia…”
“Sì.”
“Cosa…cioè, il tuo amico era ebreo?”
“No, lui…” mi blocco. Se glielo dico, capirà. Potrebbe essere un motivo in più per farci fucilare, alla fine di tutto questo. Scambio una rapida occhiata con Ray, ma lui mi fa cenno di parlare.
“Lui è omosessuale”
Kellin si gira e mi guarda. Fa un mezzo sorrisetto. “Oh, capisco…”
Stai calmo, stai calmo. Non lasciarti trasportare dalla rabbia che ti sta salendo dentro. Deglutisco e rimango in silenzio, aspettando che dica qualcosa.
“Cosa… cosa vi ha detto Jamia?”
Ok, si inizia a bluffare. “Tutto. Ci ha detto tutto.”
 E spero che quel tutto basti.
Kellin fa un profondo respiro. “E io dovrei aiutarvi a tirar fuori dal campo il tuo fidanzato, altrimenti spiffererete tutto, vero?”
“O lo farà lei” aggiungo, per rincarare la dose.
“No, non lo farebbe mai.”
“Teneva molto a Frank.”
Kellin stringe il davanzale della finestra fino a farsi sbiancare le nocche. “Hans!” dice ad alta voce, e qualche istante dopo la porta della stanza si apre facendo entrare uno dei due soldati di poco prima. “Hans, portali nel bunker. Domani verranno processati. Ho deciso.”
Sento il mondo crollarmi addosso.
“No” sussurro, mentre Hans chiama il suo compagno e insieme vengono a prenderci. “No!” urlo poi, rivolto al colonnello Quinn che rimane a fissarci, fermo alla finestra. Il suo sguardo è praticamente freddo e impassibile, e capisco che mi ero sbagliato su di lui. Credevo ci fosse qualcosa….
Ray accanto a me tira una gomitata al tedesco, ma l’altro lo immobilizza all’istante. Io, momentaneamente libero, corro verso Kellin, provando a fare o dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, e vengo subito raggiunto dai due soldati che mi spingono a terra e poi mi trascinano via.
Guardo Quinn con una sorta di muta preghiera negli occhi, con rabbia, disperazione e odio mescolati insieme, ma lui continua a fissarmi come se non gli importasse niente, come se tutta la nostra conversazione non avesse mai avuto luogo.
Glaciale. Impassibile e glaciale.
E veniamo portati via.
 
 
 
“Mi dispiace, Gerard. Mi dispiace così tanto.”
La voce di Ray mi raggiunge nel dormiveglia. Mi ero quasi addormentato, ci ero quasi riuscito. Addormentarmi, e dimenticare tutto. Lasciarmi andare.
Sollevo piano la testa, massaggiandola per averla tenuta poggiata sul pavimento di pietra freddo e duro per troppo tempo. “Non dirlo, Ray” mugugno, sbattendo piano le palpebre per mettere a fuoco l’ambiente circostante.
Siamo in questa cella, due piani sotto terra, da stamattina. E, passata la notte, ci uccideranno all’alba.
Moriremo.
Sì, moriremo. Non credo di avere paura, sono solo… triste. Triste, perché mi sono sbagliato su Kellin, triste perché ho trascinato in questa missione suicida anche Ray, triste perché Frank è là fuori da qualche parte, avevo appena ricevuto la notizia che era vivo da quel ragazzo, lui è a un passo da me e io non potrò vederlo nemmeno una volta prima di lasciare questo dannato mondo.
“Ma è vero. Credevo… io ci credevo davvero”
“Sono io che dovrei dire mi dispiace”
“No, non è vero. Preferisco… preferisco morire così, con il mio amico, che morire anonimamente in guerra, o tra tanti e tanti anni, cadendo dalle scale e spezzandomi la spina dorsale, da solo come un cane.”
Prendo la mano che Ray mi porge, e la stringo forte. Ha ragione. Almeno non siamo soli. Almeno siamo insieme.
Frank, ci ho provato.
Perdonami.
Perdonami, e non dimenticarmi.
E poi, dopo ore e ore passate così, ad aspettare una fine, lo sentiamo. Lo sentiamo, dopo un tempo indefinito. Un rumore che spezza il silenzio, dei passi lontani, una torcia. Il tintinnio di chiavi.
Il suono della porta della cella che cigola, e si spalanca.
“Sbrigatevi. Abbiamo soltanto mezz’ora.”
Sollevo la testa. Il colonnello Kellin Quinn ci sta puntando una torcia in faccia e ci offre una mano per aiutarci a rialzarci.
Potrei baciarlo in bocca proprio in questo preciso istante, ma mi trattengo, e riesco soltanto a fare un sorriso screpolato e assetato e affamato. Ray, accanto a me, riesce a farlo un po’ meglio, e quando guardiamo Kellin anche lui ci sta sorridendo. Il primo sorriso genuino che vedo da quando l’ho incontrato.
“Dite a Jamia che è riuscita a vincere, ancora una volta.”

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Carry me to the end ***


Questo capitolo è un mix assurdo di ansia e dolore e boh, enjoy it e non arrabbiatevi con me pls pls: (
 
 
 
CAPITOLO 25 – CARRY ME TO THE END
 
 
FRANK
 
 
“Ciao Frank. Non so nemmeno come iniziare questa lettera.”
Respira.
Prendi un mattone.
Sollevalo.
Respira ancora.
“…perché vorrei assurdamente essere anche soltanto una carta, pur di vederti e starti vicino.”
Respira.
Metti la calce.
“La morte mi striscia accanto ogni giorno, Frank”
Trattieni la tosse. Non tossire, o non ti fermerai più. Ce la puoi fare. Prendi un altro mattone. Metti la calce. Inspira ed espira. Recita a bassa voce la lettera di Gerard. Non tossire. Ce la puoi fare.
Ce la puoi fare.
Non so quando ho iniziato a pensare come se mi stessi incitando da solo. So soltanto che va avanti da giorni, ormai.
Mi dico quello che devo fare, e lo faccio. Mi dico come lo devo fare e lo faccio. Mi dico che lo posso fare, e lo faccio.
“Solo che… ci credi che non riesco a pentirmi di ciò che abbiamo fatto prima che io partissi? Non rimpiango nulla di quel giorno. Nulla.”
Le parole mi escono fuori in un sussurro appena accennato, come se fatichino a lasciare la mia bocca, come se anche loro siano stremate, stanche morte di questa situazione, di questo tutto.
Non sapevo di avere imparato la lettera, quella lettera a memoria. L’avevo riletta quasi una decina di volte in Italia, prima che mi prendessero, sì, ma non sapevo di averla memorizzata a tal punto. E invece adesso, da qualche giorno a questa parte, come un crudele scherzo della sorte, me le ritrovo nella mia mente.
Premono, spingono, vogliono uscire.
Quelle parole.
Le sue parole.
“E lo rifarei altre mille vo…”
La voce mi si spezza, le lettere si accavallano le une sulle altre e si mescolano, e nel giro di un secondo sto tossendo.
Oh, no no no.
Cerco di fermarlo, cerco di continuare a lavorare, provo, annaspo, ansimo, ma eccolo lì, ecco il sangue che macchia il terreno ghiacciato, ecco il resto dei miei compagni che mi fissa a metà tra il compassionevole e il timoroso, e so che a breve mi vedranno i soldati e capiranno che c’è qualcosa che non va e la mia vita finirà.
In realtà è già finita, e io lo so. Non mi importa. Non mi importa più nulla.
Dio, lo desidero. Lo desidero così tanto. Che finisca. Che finisca e basta. Niente più dolore, niente più freddo, niente più fame, niente più ricordi amari o incubi. Sarebbe un sollievo.
Per favore, per favore.
Ho capito di non avere più nulla a cui aggrapparmi quando ho chiesto aiuto a Joshua.
Joshua è l’unico medico ebreo che abbiamo nel campo, e non so se sia stata più una fortuna o una sfortuna che fosse nel mio stesso dormitorio. È a lui che ci rivolgiamo tutti quando crediamo di avere qualcosa che non va, quando pensiamo che le nostre forze stiano per finire, quando non ci rimane più niente se non una misera speranza di poter guarire. Lui non può fare molto, certo, ma le sue diagnosi, buone o cattive che siano, in qualche modo tranquillizzano la gente.
Joshua dice la verità, e lo apprezziamo. È l’unica cosa che la gente desidera, qui. La verità, nuda e cruda, basta che sia vera.
“Morirai” dice, e la persona che gli sta di fronte lo accetta. Se ne fa una ragione, comincia a conviverci, lascia che quel pensiero influisca su tutto ciò che fa, e alla fine succede. Si avvera.
“Non è grave, ma tieniti al caldo” e la persona che gli sta di fronte lo accetta. Si comporta di conseguenza. Si tiene al caldo. E alla fine riesce a resistere, almeno per un altro po’, proprio come aveva detto Joshua.
Qualsiasi cosa dica, il messaggio dei suoi occhi gentili e bonari è lo stesso: “Andrà tutto bene”. E ci crediamo tutti. Almeno per quel poco che ci basta.
All’inizio non volevo. Non sono mai stato completamente solo da quando sono arrivato qui, ho sempre avuto il sostegno e i consigli di Rayon, e ora senza di lui mi sento completamente perso.
Avevo stabilito di non voler sapere. Non volevo sapere niente.
Ma con i giorni sono peggiorato. La tosse è diventata più insistente, le mie forze più deboli, e ho iniziato a non ragionare più.
Non è stato un trancio netto. Solo che… lentamente, inesorabilmente, pian piano, questa cosa mi ha divorato. Non capivo più nulla. Lavoravo come un automa. Non pensavo. Non parlavo. A malapena mangiavo. Respirare è diventato sempre di più uno sforzo.
E mi sono detto che se dovevo morire almeno dovevo saperlo. Non poteva succedere a mia insaputa. Dovevo saperlo, farmene una ragione proprio come tutti gli altri, accettarlo e far sì che si avverasse.
Per questo ho chiesto aiuto a Joshua.
La sera, prima di andare a letto, mi sono trascinato a fatica, tossendo, verso il suo giaciglio e l’ho svegliato.
“Ah, tu” ha detto, tirandosi su a sedere e stropicciandosi gli occhi. “Sapevo che saresti venuto, prima o poi”
Non ho mai avuto granché coraggio nella mia vita, e lo sapete bene.
Ma in qualche modo ho trovato la forza di dirgli tutto. Ho ingoiato il groppo amaro che avevo in gola, e gli ho descritto i miei sintomi. Gli ho detto della tosse devastante, dei polmoni in fiamme, della sensazione di stare per annegare da un momento all’altro, e di come avessi mal di testa a tutte le ore del giorno, un mal di testa opprimente che mi impediva anche soltanto di pensare. Gli ho detto che probabilmente ho la febbre da giorni, perché tremo di freddo e sono bollente e mi mancano le forze e non ce la faccio più, non ce la faccio più per davvero e doveva aiutarmi.
 Gli ho detto tutto questo.
Non so come, ma gliel’ho detto.
E Joshua si è intristito, si è intristito davvero e si è passato una mano sul volto, sospirando piano. “Nel migliore dei casi è soltanto una polmonite.” mi ha detto, e io stavo quasi per esultare.
Quasi.
Poi ha parlato di nuovo.
“Nel peggiore, tubercolosi.”
Ed è lì che sono morto.
È stato come… è stato come essere travolti da un’auto, o qualcosa del genere. Un attimo prima sei qui, in piedi, in mezzo alla strada, e ti guardi intorno confuso chiedendoti se riuscirai mai a trovare casa, e un attimo dopo ecco delle luci che ti abbagliano. E poi sei morto.
Sbam. Morto.
Travolto dalle ruote dell’auto, ed è così veloce che non senti nemmeno il dolore. E capisci che non troverai mai casa, non potrai più salire sulle scale del portico e bussare e aspettare che qualcuno a cui tieni venga ad aprirti, non potrai mai essere abbracciato da quelle braccia, non potrai mai entrare dentro e sentire il calore e l’odore familiare di quelle quattro mura.
Sei morto e non puoi farci nulla. Te ne stai lì, immobile, sbalzato sul ciglio della strada, sdraiato sul freddo asfalto. Non riesci a pensare. Non riesci a muoverti. Ti eri sempre chiesto quale sarebbe stato il tuo ultimo pensiero, o le tue ultime parole, ma adesso non riesci proprio a fare nulla. Niente di niente.
E quando verranno a prenderti? Perché verranno a prenderti, vero? Devono venire, qualcuno ti terrà tra le braccia e ti porterà al caldo, e anche se tu avrai già perso completamente il contatto col mondo saprai di non essere morto da solo, saprai di avere avuto qualcuno accanto in quegli ultimi attimi.
È questo che mi è successo sentendo le parole di Joshua. Lui mi ha detto che gli dispiaceva, ma che se davvero fosse stata vera la seconda opzione, potevo già considerarmi finito.
Non ha cercato di indorarmi la pillola. Non mi ha posato una mano sulla spalla dicendo che sarebbe andato tutto bene. No. Mi ha detto queste parole, e poi si è coricato di nuovo, dandomi la buonanotte.
È così che va. O lo accetti o non lo accetti, ma per te finirà comunque. L’unica cosa che puoi scegliere è come finirà.
Io sono morto. Sono già morto, semplicemente. Non so come voglio che finisca, perché in realtà è già finita.
Non ho detto niente a Rayon. Non la vedo da giorni, ormai, ed è meglio così.
Non voglio… non voglio che mi veda in questo stato. Lei sta bene, è al sicuro nella villa di Quinn, e vivrà ancora per un bel po’. Almeno un bel po’ più di me. E questo mi basta.
 
 
È un’agonia. Una lenta, lentissima agonia.
Non sento quasi più nulla. Non riesco a sentire nulla sopra il suono dei miei ansiti, non riesco a vedere nulla se non il sangue che accompagna quasi sempre la tosse, non riesco a pensare a nulla se non al mal di testa incessante, al tump tump nel mio cervello che non smette, non smette, non smette.
Non so quanto tempo sia passato.
Forse una o due settimane.
Forse un mese.
Forse due.
Forse tutto questo durerà per sempre.
Oh, sono così stanco. Così dannatamente stanco. Non mi sono mai sentito così stanco in vita mia. Così stanco di alzarmi la mattina e vedere soltanto facce straziate dal dolore, neve ovunque e il recinto, il recinto è dappertutto, ti volti e lo trovi lì, a sbarrarti la vista, e vorrei tanto sapere cosa c’è lì fuori, vorrei tanto… vorrei….
Il mio cervello è stufo di elaborare pensieri. Non ce la fa. Sta messo peggio di me, e lo capisco. Vorrei dirgli che mi dispiace. Che forse doveva trovarsi un altro corpo in cui soggiornare, qualcuno più fortunato, più intelligente, più sano. Vorrei scusarmi per questi ragionamenti senza senso, vorrei disperatamente qualcuno con cui parlare, vorrei Mikey da abbracciare, Gerard da baciare, Jamia con cui ridere, la spalla di mia madre su cui piangere.
Voglio tanto cose.
Non voglio essere morto. Voglio svegliarmi. Voglio riavvolgere il tempo, tornare a due anni fa, tornare al mio primo giorno di scuola, al primo sguardo di Gerard, alle sue prime parole, al suo primo sorriso. Voglio tornare al primo bacio, a quella sera davanti casa, alla sua bocca sulla mia e all’oblio che l’ha accompagnata, quel nulla senza preoccupazioni, quella certezza che tutto sarebbe andato per il meglio, e che noi saremmo durati per sempre.
“E lo rifarei altre mille volte” sussurro al soffitto del dormitorio.
Mi stringo al petto il sottile pezzo di tela che funge da coperta.
Così freddo. Fa così tanto freddo.
Tossisco ancora.
“Ti bacerei altre mille volte, e farei l’amore con te altre mille, diecimila, centomila volte senza mai fermarmi, senza mai stancarmi.”
Dio, Gerard.
Lo senti? Lo senti questo freddo che mi sale lungo le gambe, lungo la spina dorsale, e che mi paralizza il cervello?
Non… non sono pronto. No, io non sono pronto. Non sono pronto a questo. Sono troppo codardo per essere pronto a chiudere gli occhi un’ultima volta.
Ancora un sussurro.
Ce la posso fare.
Avanti.
Ma non ci riesco.
Le palpebre mi si abbassano. Le mie mani smettono di stringere convulsamente la coperta. Qualcosa mi afferra il petto, qualcosa di grosso, degli artigli, e vorrei urlare, non ho mai avuto così tanta voglia di urlare in vita mia, ma posso soltanto spalancare gli occhi verso l’alto, aprire la bocca per provare a dire qualcosa, e e e e
E
c a d o .
 
 
 
 
C’è qualcuno che prova a farmi aprire gli occhi. Ci sono delle mani che mi strattonano, mani sconosciute, e mi sento riportare assurdamente indietro. Ero scivolato e stavo cadendo, cadevo e cadevo e cadevo, ma adesso….
“Frank”
No.
No ti prego non farmi questo.
Non voglio ascoltare.
Provo a muovere le braccia ma c’è qualcuno che me le tira, ci sono tante mani, milioni di mani che mi trascinano, o forse soltanto due, o forse sto immaginando, ma non voglio sentire di nuovo quella voce.
Un ultimo, crudele, scherzo della sorte. No.
Basta.
Basta, vi prego.
“Frank!”
Lo sento.
E non so come, non so perché, non so nemmeno cosa diavolo stia succedendo, ma apro gli occhi.
Apro gli occhi, e lo vedo.
Dio, è tutto un sogno. Mi sveglierò nell’aldilà, o non mi sveglierò affatto, e soffrirò. Non posso… questo non può essere il mio ultimo sogno. Perché devono essere così crudeli con me perché perché perché.
Lo vedo venire verso di me.
Viene proprio verso di me. Sta correndo all’impazzata per raggiungermi.
È un sogno è un sogno è un sogno ma
Ma è lui, è bellissimo, e non capisco perché stia indossando una divisa da tedesco ma è lui, è davvero davvero davvero davvero Gerard.
E poi si ferma.
Mi guarda.
Ed io gli svengo tra le braccia.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Requiem for a dream ***


CIAOoOoOoOo scusate per il terribile, lunghissimo ritardo di circa 20 giorni, so che il mio silenzio vi ha lasciato in un’ansia pazzesca specialmente dopo il capitolo precedente… ma tranquilli, andrà tutto bene… forse… o forse no… mmmh.
Buona lettura ; )
M.
 
 
CAPITOLO 26 – REQUIEM FOR A DREAM
 
GERARD
 
 
Potrei morire di ansia da un momento all’altro.
Kellin non ha detto una parola, da quando ci ha tirato fuori da quella cella fino ad ora, mentre percorriamo silenziosamente la lunga galleria che dovrebbe portarci all’esterno. Da Frank.
Ad ogni passo, mi sembra di avvicinarmi e allo stesso tempo allontanarmi insopportabilmente da lui. Ad ogni passo la speranza torna, più forte e impaziente di prima, ma subito dopo va via ancora, lasciandomi con una terribile sensazione di inquietudine e ansia nel petto che mi rende quasi difficile respirare.
Forse non dovrei pensarci. Forse dovrei soltanto lasciare che le cose accadano, senza stare a contare metodicamente i secondi, quasi avessi paura che il tempo possa finire, che tutto questo non possa durare, che Kellin possa girarsi e pugnalarci di sorpresa, e allora tutto sarà stato vano.
La speranza uccide. L’ho imparato a mie spese, nel corso della mia vita, faticando e lottando e soffrendo e ogni volta mantenendo sempre quel pizzico di speranza, quelle poche aspettative per il futuro che, alla fine, sono sempre state deluse.
Eppure non riesco a smettere. È così strano. È così strano e stupido farsi del male in questo modo, già sapendo che probabilmente quello che troverai non è quello che ti aspettavi, essendo già consapevoli di come la vita ti gioca sempre brutti tiri che non sempre sarai pronto a parare.
Ma sono qui. Sono qui e non vedo Frank da mesi e mesi, e la sua mancanza dentro di me è troppo da sopportare. Nessuno, nessuno dovrebbe mai provare questa sensazione. È più orrenda di una ferita in suppurazione, più dolorosa di una pugnalata al costato, e non c’è nulla, nessuna medicina, nessuna operazione che possa guarirla, se non la presenza dell’altro.
“Perché fai tutto questo?” chiede improvvisamente Ray, affiancandomi e fissando la schiena di Kellin davanti a noi.
Lui non risponde. Inspira bruscamente, continua a camminare, ed è come se la domanda di Ray non sia mai stata posta.
Sento il mio amico stringermi il braccio. La sua presenza, ora più che mai, mi è indispensabile. Se fossi qui da solo ora probabilmente sarei sull’orlo di una crisi di nervi. Potrei commettere una pazzia, potrei tradirmi, potrebbe succedere qualsiasi cosa, ma invece ho Ray a tenermi con i piedi per terra, e gliene sono grato.
Gli faccio un piccolo sorriso.
Andrà tutto bene.
“Seguitemi” mormora Kellin dopo qualche minuto. La galleria svolta bruscamente a sinistra, dove un paio di guardie ci bloccano il cammino.
Ok. Calma. Non è una trappola. Kellin lo sapeva. Ora dirà qualcosa e ci lasceranno passare.
“Devo interrogarli” borbotta semplicemente, e i due soldati chinano il capo e si spostano, lasciando spazio ad una rampa di scale che sale verso la superficie.
Trattengo un respiro di sollievo.
Sì, andrà tutto bene.
Dopo poco le scale terminano, facendoci sbucare direttamente all’aria aperta. Kellin si volta e mi fissa dritto negli occhi. “Abbiamo dieci minuti. Sono in buoni rapporti con alcuni soldati che sono di turno ora, perciò siamo liberi di entrare nel campo. Ho detto loro di prendere il tuo amico e portarlo il più vicino possibile ai cancelli, ma dobbiamo sbrigarci. Non possiamo indugiare nemmeno per un istante. Tutto chiaro?”
Il cuore continua a volermi uscire dal petto. Non riesco a controllare le mie emozioni. Devo stare calmo, devo stare calmissimo. Dieci minuti.
Dieci minuti.
“Andiamo” dico, e ci avviamo verso il campo di concentramento, quasi correndo. In breve tempo siamo ai cancelli, e troviamo un uomo di cui non riesco a vedere il volto per via del buio. Lui e Kellin si scambiano un cenno di intesa e il tizio ci fa entrare attraverso una porticina nascosta tra il cancello e il recinto elettrificato, il tutto senza dire una parola, e dopo pochi istanti siamo dentro.
Mi guardo intorno, assorbendo ogni particolare. È qui che è vissuto Frank per mesi.
Lo sento. Lo sento nell’aria, sento ogni cosa, sento tutti loro come se fossero echi nella mia testa, vedo il sangue anche sui miei vestiti, vedo la gente che mi si aggrappa al collo implorando un pezzo di pane, sento le loro urla, i pianti, gli strepiti, le lacrime silenziose dei bambini, gli spari, gli ansiti. Sento la disperazione, la nostalgia di casa, la consapevolezza di non poter più vedere il mondo lì fuori, la solitudine e la miseria.
Mi inondano non appena metto piede sul suolo del campo. Mi assalgono togliendomi il respiro, e so che anche Ray, e perfino Kellin stanno provando le mie stesse sensazioni.
Questo posto urla dolore da ogni angolo, da ogni stelo d’erba, da ogni baracca.
Dieci minuti.
Andrà tutto bene.
L’uomo che ci ha fatti entrare ci guida verso una casupola distanziata dalle altre, probabilmente una sorta di posto di guardia notturno. Bussa tre volte, poi una quarta in modo più leggero.
Ci vengono ad aprire quasi immediatamente, ed io mi faccio subito avanti, ma l’unica cosa che vedo è il petto di un soldato tedesco che è praticamente il doppio di me, per altezza e corporatura. Accanto a lui, un altro più basso dall’aria quasi stranamente cordiale, scambia due parole in tedesco con Kellin, dopodichè l’uomo che ci ha accompagnato fin qui va via, sempre senza aprire bocca, e noi entriamo nella casupola.
Non è che si possa spiegare quello che succede dopo. Mi era quasi passato per la testa di guardarmi prima intorno, di dare un’occhiata a dove fossimo, ma non è quello che faccio. Non posso, non potrei minimamente distogliere lo sguardo dalla persona qui di fronte a me.
Non è Frank.
Quest’uomo non è Frank.
Sento una risata isterica salirmi in gola, impaziente di uscire. Hanno sbagliato. Tutta questa strada e hanno sbagliato persona. Mi hanno portato l’uomo sbagliato.
No, non è possibile.
Mi giro verso Ray, ma lui si è ritirato pudicamente in disparte, e così anche Kellin e gli altri due soldati. Provo a dire qualcosa, ma poi lo sento.
Un rantolo.
Mi volto di colpo verso l’uomo, ed è allora che la nebbia che mi aveva offuscato la vista se ne va, e riesco a capire la realtà.
Lo guardo. Lo guardo davvero e no, oh no, non è l’uomo sbagliato. Non hanno affatto sbagliato, il problema è che non riesco a credere a quello che vedo.
Davanti a me c’è un uomo, ma sarebbe strano anche definirlo così perché non lo è, sembra più un bambino, una figura piccola e curva, con i capelli neri e sudici incollati al viso e una casacca lacerata a coprirgli a malapena il corpo. Si regge a stento in piedi, sembra quasi che stia per crollare da un momento all’altro e mi fa una pena pazzesca, vorrei sorridergli o abbracciarlo o dirgli che andrà tutto bene, ma è quando alza lo sguardo che mi si ghiaccia letteralmente il cuore.
Proprio così. Un attimo prima batteva all’impazzata, un attimo dopo non più. Sbam. Si ferma del tutto.
Sto per collassare da un momento all’altro. Non si può vivere senza cuore, ne sono certo.
“Ger…a…r…”
La sua voce. Oh, la sua voce. Roca, debole, interrotta da ansiti e respiri affannosi, ma dio, per quanto ho desiderato sentire la sua voce?
“Frank”
Il tempo è congelato proprio come il mio cuore. Siamo tutti completamente ghiacciati sul posto, e l’unico che si muove è Frank, proprio qui, qui davanti a me, Frank con il viso pallido e emaciato, più magro di quanto io lo abbia mai visto, Frank che allunga le braccia verso di me e prova a dire il mio nome, Frank con gli occhi allucinati che riescono a malapena a mettermi a fuoco, e poi no, non è vero, non si sta muovendo solo lui, mi sto muovendo anche io perché prima che possa accorgermene mi sono mosso in avanti, ho attraversato la stanza in due grossi passi, i passi più lunghi e interminabili della mia vita, ed è soltanto quando sento la sua presenza a pochi centimetri da me che lui si concede di crollarmi tra le braccia.
Stop. Stop tutto.
Fermatevi. Non parlate, non emanate un solo respiro, non azzardatevi neanche a muovere un muscolo. Fermatevi, vi prego.
Lo sentite? Lo sentite il mio mondo che implode?
Io lo sento. È così rumoroso, così assordante. Oh sì, dovete sentirlo anche voi. È impossibile da ignorare. Le vedete le schegge che volano via fischiando, raschiandomi il volto, lo vedete il mio sangue che gocciola sulle assi del pavimento, lo sentite il mio respiro che si ferma?
Andrà tutto bene.
Andrà tutto bene andrà tutto bene andrà tutto bene andrà tutto bene.
Il mondo smette di girare su sé stesso, smette di andare in frantumi, e ritorna al suo posto troppo in fretta perché io possa riprendermi in tempo.
Barcollo. Stringo Frank tra le braccia, sentendo soltanto ossa sotto di me. Non un millimetro di pelle. Ossa, dure, fredde, sporche. Ho quasi paura che sia andato in frantumi mentre lo stringevo, proprio come nel mio sogno.
Gli prendo il viso tra le mani. Ha perso i sensi, ha le palpebre abbassate e il viso atteggiato ad un’espressione beata. Tranquilla.
Calma.
Morta.
“No”
Ray è al mio fianco in un attimo. Lui e Kellin sollevano Frank, strappandomelo via, e io sono quasi tentato di urlare ma mi trattengo, mi trattengo, faccio un respiro profondo e ritrovo quel minimo di lucidità che mi occorre per seguirli all’esterno.
Andrà tutto bene.
 
 
Siamo nella stanza di Kellin. Non ho la più pallida idea di dove lui abbia dormito, ma ci ha detto che questa è l’unica stanza in cui nessuno può entrare senza permesso, il che l’ha resa automaticamente l’unico posto sicuro dove nasconderci.
Frank dorme da ieri sera. Non si è mai svegliato. Non si è mai mosso. Respira, il suo cuore batte piano e regolarmente, ma non ha mai ripreso conoscenza.
Io, dal canto mio, non ho chiuso le palpebre nemmeno una volta. Mi bruciano gli occhi, sento la stanchezza che mi pervade il corpo e mi offusca i pensieri, ma non posso permettermi di lasciargli la mano. Non dopo aver faticato così a lungo per potergliela stringere di nuovo.
Dio, è così magro. Così… piccolo. Ho memorizzato ogni particolare. Ho tracciato il profilo delle sue braccia esili, delle vene sporgenti, delle costole che gli attraversano il petto. Gli ho sistemato i capelli dietro le orecchie e gli ho bagnato il viso con un fazzoletto umido. Gli ho baciato ogni ferita, ogni cicatrice, ogni livido.
“Non so più cosa fare. Ti prego, svegliati”
Proprio in quel momento entra Kellin, seguito da un uomo anziano e Ray. In effetti, non so nemmeno dove abbia dormito il mio amico. Non gli ho più rivolto la parola da quando abbiamo riportato Frank qui.
Dovrei sentirmi in colpa?
No. Non sento più niente.
L’uomo anziano deve essere un dottore, perché posa una valigetta sul comodino e la apre, estraendo uno stetoscopio. Lo guardo mentre visita Frank in silenzio, senza mai parlare. Perché Kellin si fida di lui?
Guardo Kellin, che mi fa un cenno con la testa. Guardo Ray, che mi fa un mezzo sorriso provato dal sonno e dalla tristezza. No, neanche lui deve aver dormito.
“Ha la tubercolosi.”
Alzo lo sguardo verso il dottore. Lo fisso apaticamente, quasi senza capire.
Cosa. Cosa significa. Cosa. Significa.
“Tubercolosi in fase terminale, direi. Posso dargli qualche antidolorifico per alleviargli il dolore, ma non posso fare più di così. Mi dispiace.”
Guardo Frank. Guardo il dottore. Guardo Frank. Guardo Kellin. Lui deglutisce e distoglie lo sguardo. Guardo Ray. Anche lui non mi sta fissando.
Sono tutti così codardi.
Mi alzo lentamente, puntando il dito verso il dottore. “Faccia qualcosa” mormoro con più rabbia di quanta intendessi.
L’uomo aggrotta la fronte con aria contrita. “Mi dispiace. Nessuno può fare nulla.”
“Ho detto faccia qualcosa.”
“Io non…”
“Sto aspettando.”
“Gerard…” interviene Ray, facendo un passo verso di me. Lo fulmino con lo sguardo, poi torno a fissare il dottore. “Lei non se ne andrà da questa stanza fino a quando non avrà curato Frank.”
“Non posso curarlo, la prego di capire. Non è ancora stata trovata una cura efficace per la tubercolosi e…”
“LO CURI O GIURO CHE LA AMMAZZO CON LE MIE MANI!”
La porta si spalanca di nuovo, e tutti ci voltiamo di scatto. Ho quasi paura che qualcuno possa averci scoperto grazie alle mie grida, ma poi vedo la persona sulla soglia.
“Oh no, Frank…”
È il ragazzo scheletrico, quello delle pulizie, quello che mi aveva detto che Frank era ancora vivo. Lo fissiamo tutti mentre avanza verso il letto, fino a crollare letteralmente al suo capezzale.
“No no no no Frank ti prego no, me lo avevi promesso” sussurra con voce strozzata, e vedo le lacrime solcargli il viso. Lo vedo mentre afferra la mano di Frank e se la stringe al petto, piangendoci sopra, e mi sento vuoto, mi sento così vuoto, mi sento così insensato in questo preciso istante che potrei crollare anche io da un momento all’altro, proprio come lui. Non so chi o cosa mi trattenga. Non so dove il mio corpo trovi tutta questa forza.
Il dottore si dilegua, e io lo lascio andare.
Sento le mani di Ray sulle mie spalle, ma lo ignoro. Guardo il ragazzo che continua a piangere. Non so chi sia, ma conosce Frank. E sta soffrendo. E ha sentito ciò che ha detto il dottore. Ha sentito quelle assurdità. Devo rassicurarlo, devo dirgli che sono tutte bugie, che io so la verità e che Frank non morirà, no.
“Lui non morirà” dico ad alta voce, e il ragazzo alza la testa per guardarmi. Si passa il dorso della mano sugli occhi, asciugandosi le lacrime.
Annuisce e sorride. “No. Non morirà.”
 
 
“Gerard.”
Una mano mi scuote debolmente. Non ricordavo di essermi addormentato. Alzo la testa e incontro i suoi occhi.
Ed è come se riprendessi a respirare dopo secoli. Mi porto una mano alla bocca, e finalmente permetto alle lacrime di uscire, una dopo l’altra, inarrestabili. “Oh, Frank…”
Gli stringo la mano, quasi stritolandogliela. Lui continua a sorridermi e allora io lo abbraccio, e lui mi tira a sé, mi tira sempre più vicino, fino a quando non finisco disteso accanto a lui.
Tossisce. “Ciao” dice poi.
“Ciao.”
Rimaniamo a fissarci per istanti, minuti, ore. È come se volessimo mangiarci l’un l’altro dopo essere stati così tanto tempo lontani, e non mi sembra vero, non mi sembra affatto vero, perché finalmente lui è qui e io sono qui e basta. Non c’è nient’altro. E non andrà a fuoco. Giuro che non andrà a fuoco mentre lo bacio. Non glielo permetterò.
“Come stai?” mi chiede, e per poco non scoppio a ridere.
“Io? Tu… tu veramente mi chiedi come sto?”
Tossisce ancora.
Oh, ti prego.
Andrà tutto bene.
Silenzio. Ed è adesso che la sento. La tensione. L’elettricità. Non pensavo che avrei provato ancora una volta questa sensazione. Non credevo che sarei riuscito ad avere ancora le farfalle nello stomaco standogli vicino, anche in una situazione del genere.
Ma lui è Frank. Dio, lui è Frank.
Ed è tutto così assurdamente normale, come se non fosse passato neanche un giorno, come se fossimo ancora su quel letto, sotto le lenzuola, a sorriderci, dimenticando tutto il resto.
“Baciami.”
Lo guardo. Deglutisco.
“Ti prego, Gerard. Baciami”
Annullo la distanza tra noi con urgenza, prendendogli il volto tra le mani e premendo le mie labbra sulle sue, cercando, annaspando, desiderando con tutto il cuore di sentirlo, sentirlo davvero e….
Frank si stacca da me, cercando di riprendere fiato. Mi rivolge un sorriso quasi di scuse. “Gerard. Baciami davvero.”
Ha ragione. Ha dannatamente ragione. Abbiamo tutto il tempo del mondo. Questa non è la nostra ultima volta. Non finisce così.
Gli poso una mano sulla guancia, accarezzandogliela piano. Seguo il contorno del suo viso, gli bacio gli occhi, ad uno ad uno, gli bacio il naso, la fronte e i capelli, gli bacio il collo e poi finalmente torno alle labbra, posando delicatamente la mia bocca sulla sua e annegando nella sensazione più bella del mondo, nel suo odore che mi era mancato, mi era mancato così tanto.
Le nostre lingue si intrecciano, cercandosi a vicenda, Frank allunga le braccia attorno al mio collo e mi stringe a sé, mi stringe così forte che temo di scoppiare, e quando finalmente interrompo il bacio lui posa la testa sul mio petto.
Tossisce ancora una volta, e quando abbasso lo sguardo noto degli spruzzi di sangue sulla mia camicia. Gli tocco la fronte e la trovo bollente. Sento il suo respiro ansante, sento gli sforzi che fa per inspirare ed espirare.
Niente, nessuna sensazione, nessun bacio può annullare tutto ciò. Non posso cancellare la realtà.
“Mi dispiace, Gee” sussurra.
“Non dirlo”
“Mi dispiace tantissimo.”
“Frank, andrà tutto bene”
“Voglio che tu ti prenda cura di Rayon. Sistemala. Fa’ che stia bene. Ti prego. Portala via di qui” dice, e so che intende il ragazzo che poco fa era a piangere qui accanto al letto. “E dì a Mikey che… digli che…” la sua voce si spezza, ma stavolta non è la tosse.
Lo attiro ancora di più a me, poggiando il mento sulla sua testa e chiudendo gli occhi. “Frank, stai delirando. Andrà tutto bene, vedrai. Non c’è bisogno di dire nulla a nessuno. Ciò che vuoi dire a Mikey…glielo dirai tu stesso, appena starai bene.”
“Ne abbiamo passate così tante” dice ancora, ignorandomi, parlando tra la stoffa della mia camicia. “Non… nessuno meriterebbe tutto questo.”
Annuisco piano, e so di aver ripreso a piangere. “Lo so” sussurro.
“Però ci siamo salvati a vicenda, Gee. Accade sempre così, tra la gente. Ci si salva a vicenda, a volte anche senza saperlo. Tu l’hai fatto. Mi hai salvato, e lo sai. Nessun Dio mi avrebbe mai salvato nel modo in cui mi hai salvato tu.”
“Frank…”
Lui si stacca da me, e vedo nei suoi occhi qualcosa che mi fa morire le parole in gola.
La vedo. Chiara e limpida, inconfondibile.
Sta arrivando. Sta arrivando per lui.
La morte.
Mi posa una mano fredda, quasi cadaverica, sulla guancia. “Non c’è modo migliore di andar via, lo sai?”
Mi sento paralizzato. Non riesco a muovermi, non riesco a parlare, non riesco a pensare. Non sta accadendo per davvero, è un sogno, è questo il sogno, è l’incubo, è quell’incubo, soltanto in chiave diversa, e quando mi sveglierò nulla sarà mai successo.
Appoggia la testa sul cuscino. La sua mano ricade al suo fianco.
Apre la bocca, ma ne esce soltanto un sibilo, quasi impercettibile.
Ma io lo sento.
“Ba…cia…mi…”
E lo bacio. Lo bacio con tutta la lentezza di questo mondo, prendendomi tutto il tempo, tutto il dannato tempo necessario, e quando non lo sento più ricambiare, quando ormai le sue labbra sono diventate fredde come il resto del corpo, so che il suo ultimo respiro è entrato dentro di me.
Lui è dentro di me. Sempre.

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Ashes ***


Ehi amike ehi…sono di nuovo qui bc non potevo resistere a dare una conclusione a questa storia, per quanto dolorosa. Probabilmente pubblicherò l’epilogo a pochi giorni da questo ultimo capitolo, perciò non disperate perché ci sarà ancora qualcosina per sorprendervi mmh ; )
Buona lettura
M.
 
 
CAPITOLO 27 – ASHES
 
 
GERARD
 
 
“Ho pensato tante, troppe volte a come cominciare questa lettera. Ho pensato tanto anche a come giustificare tutto ciò che sto per fare. In realtà non ci sono giustificazioni, non ci sono scuse, e lo so bene. Non c’è perdono per me.
Eppure, cos’altro potrei fare?
In fondo è pura e semplice scienza. Riuscireste mai a vivere senza arti? Senza occhi, senza polmoni, o senza un cuore? È scientificamente impossibile, esatto.
È la stessa cosa.
Dio, mi sento così patetico. Non ho nemmeno il coraggio di salutarvi. Vorrei potervi dire che mi mancherete tutti, che il mio dolore nel lasciarvi è quasi più forte della mia determinazione.
No.
Non è così.
Non sento niente. Non sento assolutamente niente. È così strano, perché ci ho provato tante volte. Ho cercato disperatamente di sentire qualcosa, qualsiasi cosa, di essere consapevole del mondo circostante, di tornare ad essere umano. Tornare ad essere vivo.
Ma io sono morto.
Sono morto con lui, e lo sapete bene. In fondo, sapete anche voi che questa è l’unica soluzione possibile. Non servo più a niente, perché dovrei essere qui? Magari hai ragione tu, Ray, magari in un’altra vita potrò incontrarlo di nuovo, e allora perché non provarci subito, perché non levarsi subito il pensiero?
Un viaggio di settimane per poter arrivare a lui, e un solo giorno per poterlo salutare. È stata questa la mia ricompensa finale. Un giorno, poche ore, pochi minuti prima che lui si sgretolasse tra le mie braccia, prima che perdessi completamente la presa sulla sua anima e la lasciassi a vagare, finalmente, libera.
No, non è giusto.
E sono passati quasi due anni. Non posso credere che il tempo sia volato così in fretta. Due anni in cui non ho vissuto, ho tirato avanti limitandomi a respirare, a mangiare, a bere, a dormire. Nemmeno mia figlia… nemmeno lei, che Dio mi perdoni, nemmeno lei è riuscita a guarirmi.
Mi dispiace, mi dispiace tantissimo. Non doveva finire così, non doveva finire affatto.
Ricordo ancora la prima volta in assoluto in cui i nostri sguardi si incrociarono. La ricordo perfettamente, come se fossero passati giorni, e non anni.
Ricordo che pensai che non ero solo, alla fine. Che eravamo in due, in tutto quel bel casino. E no, non era uno stupido pensiero da adolescente incompreso. Perché sono maturato, sono diventato un uomo, e lui ha continuato ad essere l’unica persona con cui poter parlare, parlare davvero, l’unica persona a cui poter affidare il mio cuore. Ho continuato a cercare i suoi occhi quando entravo in una stanza, ho continuato ad allungare silenziosamente la mia mano, fino a toccare la sua, ho continuato soprattutto a ferirlo, e sono stato uno stupido, stupido, stupido perché ecco come è finita.
Eravamo due stelle in collisione, e lo scontro è stato duro. Troppo. Alla fine non era possibile evitarlo. Spero vada meglio, la prossima volta.
Sì. Alla prossima volta.”
 
Piego la lettera. La infilo nella busta. Rimetto la penna a posto e mi dirigo verso la porta.
Sono un perfetto automa.
Lynz è andata a fare la spesa e ha portato la bambina con sé, perciò la casa è completamente vuota. Lascerò la lettera sul tavolo, in cucina, poi tornerò in camera e farò quello che va fatto.
Nessun rimpianto. Nessuna esitazione.
Scendo le scale senza fretta, portando un piede avanti all’altro, gradino dopo gradino. Attraverso il corridoio e raggiungo la cucina, completamente buia.
Allungo la mano alla cieca, cercando l’interruttore.
La luce si accende.
“SORPRESAAAA!”
Rimango senza fiato. Sento un corpo che mi cade praticamente addosso, aggrappandosi al mio collo, e soltanto quando si stacca da me riesco a mettere a fuoco Lynz che mi sorride e mi bacia. “Buon compleanno, tesoro” mi sussurra all’orecchio, poi mi prende per mano e mi fa entrare nella stanza.
Mi sembra tutto uno strano sogno tremolante. Le figure mi ondeggiano davanti agli occhi, senza che io riesca a riconoscerle.
C’è Mikey, il mio Mikey, Mikey che mi è stato accanto ogni singola ora, anche di notte, senza dormire, a piangere con me, Mikey che è cresciuto e che ormai è un ragazzo fatto e finito, Mikey che adesso mi abbraccia forte e non mi molla, non mi molla e gliene sono grato.
C’è Ray, che mi viene incontro piano, come se avesse paura di avvicinarsi. Sento le sue mani sulle mie spalle. “Auguri, amico mio”. Dietro di lui ci sono sua moglie e suo figlio, che mi sorridono e mi fanno gli auguri.
Vedo una torta sul tavolo, con la candelina a forma del numero 23. Non sapevo che oggi fosse il mio compleanno. Non sapevo di dover compiere 23 anni.
Non sapevo di vivere ancora.
Jamia mi si avvicina, sorridendo in modo quasi malinconico. Si è trasferita qui in America, appena finita la guerra, qualche mese fa, e da allora lei e Lynz sono praticamente inseparabili. In un certo senso la sua presenza, un’ombra cupa e triste che mi stringe la mano ogni qual volta mi lascio andare alla disperazione, mi ricorda che c’è ancora qualcuno che si ricorda di Frank Iero. C’è ancora qualcuno a cui importa.
Jamia non dice nulla. Mi bacia su entrambe le guance, poi mi accarezza la fronte. Io la fisso di rimando, trattenendo le urla.
Sì, sono due anni che vorrei urlare fino a spaccarmi i polmoni.
Dopo di lei è la volta di Kellin, e mi meraviglio di come anche lui sia riuscito a rifarsi una vita qui, e soprattutto ad evitare la condanna a morte. Non so se viva sotto falso nome, non so nemmeno che lavoro faccia. Non so niente di nessuno, non mi importa niente.
Kellin mi dà delle pacche sulla spalla con la sua solita aria burbera. “23 anni eh?” dice scherzosamente, ma poi nota il mio sguardo e si allontana, annuendo, capendo.
E poi c’è Rayon.
Rayon è l’unica persona a cui mi sono interessato. Glielo dovevo, lo dovevo a Frank. Glielo avevo promesso, qualche minuto prima che mi lasciasse per sempre. Non potevo deluderlo, almeno in questo.
Perciò l’ho portato via dalla Germania. Per un po’ è vissuto a casa con noi, ed era così devastato dalla morte di Frank, e soprattutto così denutrito e malato che ci sono voluti mesi prima che si rimettesse del tutto. Poi ha ripreso a vivere. Adesso ha una casa, un lavoro e degli amici, amici che lo capiscono e lo appoggiano nella sua scelta, e sono felice per lui.
Hanno tutti ripreso a vivere.
Tranne me.
Rayon mi abbraccia, premendo il suo corpicino esile contro il mio. Mi scompiglia i capelli e mi lascia un po’ di rossetto sulla guancia baciandomi e augurandomi buon compleanno. Prima di allontanarsi, mi dice qualcosa.
Mi dice: “Pensi che lui vorrebbe tutto questo?”
E so che si riferisce a me. So che quel “tutto questo” riguarda il mio essere completamente apatico, completamente morto.
All’improvviso mi sento soffocare. Mi guardo intorno, annaspando per un po’ d’aria, almeno un po’, almeno un po’… guardo i volti di tutte le persone attorno a me, le persone a me care, sento il peso della loro compassione, del loro dispiacersi per la mia situazione, e vorrei piangere o picchiarli tutti, non riesco ancora a capirlo bene.
I miei occhi si posano su Bandit.
È tra le braccia della madre, e mi sta guardando e sta allungando le braccia verso di me. “Pa…pa…” dice, balbettando. Vuole che la prenda in braccia.
Mi crolla tutto addosso.
In un istante.
E mi rendo conto che sto ancora stringendo la lettera tra le mani.
Non immaginavo tutto questo.
Io non credevo, non pensavo….
“Gerard” mi chiama Rayon, ed è come se ci fossimo soltanto io e lui in questa stanza. Mi volto di nuovo.
Lo guardo. “Ti prego”
Non so cosa sto dicendo.
“Gerard, ascoltami. Frank non vorrebbe questo. Lui vorrebbe che tu vivessi. Vorrebbe che tu fossi felice. E lo sai bene. Perché continui? Pensi che noi non abbiamo sofferto? Pensi che io, che Jamia” e indica con un dito Jamia, ma io non vedo nessuno, continuo a guardare soltanto lui e ad ascoltare le sue parole e a morire dentro un po’ di più, un po’ di più “pensi che io, Jamia o tuo fratello non abbiamo sofferto? È questo che pensi? Pensi che sia stato facile per noi? Non sei il solo che teneva a Frank. Tutti noi amavamo Frank. Frank era nostro, non soltanto tuo.”
Non ho mai sentito Rayon parlare in modo così duro.
Ma ha ragione.
Dio, se ha ragione.
“Rayon…”
“Svegliati, Gerard. È tempo di abbracciare il tuo dolore e andare avanti. Come abbiamo fatto tutti noi.”
Ed è allora che crollo.
Crollo, letteralmente, ai suoi piedi. Cado in ginocchio, prendendomi la testa tra le mani, dondolando avanti e indietro, lasciando uscire le lacrime, permettendo a tutti quei pensieri che avevo lasciato fuori dalla mia testa di entrare, finalmente, e affollarsi nel mio cervello.
Come ho potuto come ho potuto come ho potuto come ho potuto.
“Non… ce la faccio….” Ansimo, e so di stare facendo una pessima figura ma non mi importa. Voglio Frank, lo voglio qui, adesso, a portata di sguardo, a portata di tocco. Lo voglio come non ho mai voluto nient’altro in vita mia.
Lo voglio e basta, senza come e senza perché.
Lo voglio e non posso averlo. E questa cosa mi sta uccidendo.
Sento un tocco sulla spalla. Un tocco lieve, delicato. Alzo la testa e mi ritrovo faccia a faccia con mia figlia.
Non mi sono mai reso conto di quanto fosse bella. Non l’ho mai, mai guardata davvero in questi due anni.
Si sta reggendo a me, per paura di cadere, e mi sta guardando con quel suo sorrisino sbarazzino, quello che, me ne rendo conto ora, non riesco a smettere di guardare perché mi incanta totalmente.
“Pa…pa..?”
Deglutisco.
Guardo Lynz. Guardo Rayon. Guardo Mikey, guardo tutte le persone che mi sono rimaste accanto per tutto questo tempo.
Guardo mia figlia, che sta ancora aspettando che io la prenda in braccio, o le faccia capire che va tutto bene.
La lettera è ancora nelle mie mani. Abbasso lo sguardo e la fisso per qualche istante.
Poi la strappo.
E prendo in braccio mia figlia.

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Epilogo ***


EPILOGO – JUST STORIES IN THE END
 
 
“Cosa è successo poi?”
Bandit posò sul tavolino la tazza di caffè vuota. Il caffè. Un altro assurdo vizio che aveva ereditato da suo padre: caffè, caffè, caffè sempre, in ogni momento, era sempre ciò che la faceva stare bene.
O che almeno riusciva a tenere a bada, soltanto per un po’, le ombre del passato.
Non sapeva quanto tempo fosse passato. Sapeva che, due secoli o due minuti fa erano scese dalla soffitta, erano andate in salotto e Sarah si era seduta accanto a sua nonna per ascoltare la sua storia, e da allora non aveva aperto bocca.
Non una parola.
Era strano. Non aveva idea che sua nipote potesse mascherare così bene le emozioni. In fondo, quella che le aveva raccontato non era la solita, nostalgica storia d’amore dei film. Non era affatto una bella storia, semplice e chiara, di quelle che si dicevano in giro quando si voleva sorprendere la gente.
Bandit non aveva mai raccontato nulla di tutto ciò a nessuno. Nessuno, nemmeno sua figlia. Era convinta di doversi portare quel segreto nella tomba, in un modo o nell’altro.
Ma poi aveva capito. Aveva capito che non le rimaneva poi così tanto tempo, e che quella storia che l’aveva tanto turbata e affascinata e tormentata per molti anni della sua vita, non poteva finire sepolta sotto strati di terra, assieme a una vecchia troppo codarda per divulgarla.
Perciò ora si ritrovava lì, di fronte a sua nipote, alla fine del suo racconto. E Sarah la fissava avida, curiosa di sapere ancora, e le sembrava di scorgere qualcosa, un luccichio sospetto nei suoi occhi.
Si era commossa?
Bandit scosse la testa e si decise a rispondere. “Nulla. Non successe nulla. Proprio come ti ho detto, dopo che mio padre aveva passato altri due anni sempre tra casa e campo di battaglia, in un’eterna sfida contro la morte, la guerra finì. Lui tornò a casa, e stava quasi per porre fine alla sua vita. Lo desiderava, lo desiderava davvero. E posso capirlo. La nostra mente può davvero impazzire del tutto, se non si ha qualcuno a cui si tiene davvero. E Gerard aveva perso qualsiasi sentimento avesse nutrito verso ognuno di noi. Era diventato un guscio, nient’altro. Poi venne il suo compleanno, e lui da allora cambiò del tutto. Cambiò totalmente, e fui fortunata perché ero ancora abbastanza piccola per scordare quella figura cupa che si aggirava per casa, e cominciare ad amare il padre divertente, affettuoso, completamente dedito alla famiglia.”
“E gli altri? Tutti gli altri?”
Bandit sospirò. “Kellin riuscì a fuggire alla condanna, e portò con sé Martha, l’ebrea che aveva conosciuto al campo di concentramento. Jamia sicuramente lo aiutò, nascondendolo in casa sua. Loro due… non ho mai saputo con certezza che legame avessero. Erano amici da piccoli sì, forse i loro genitori erano parenti alla lontana, non so. Ma lei lo aveva già aiutato in precedenza, ed era l’unica che riusciva a penetrare nella corazza che lui si era costruito. Kellin e Martha si sposarono e si trasferirono qui in America, e furono sempre in buoni rapporti con la nostra famiglia.
“Rayon trovò la sua anima gemella, un uomo di nome George, e fu sempre la persona più serena che io abbia mai conosciuto in tutta la mia vita. Fu come una zia per me, di quelle che ti fanno tante coccole e ti comprano il gelato e ti augurano la buonanotte quando i tuoi non ci sono. Rayon era… incredibile. La vita le aveva tolto tutto, e poi le aveva restituito almeno in parte quello e anche il resto, e la sua gioia era evidente in ogni suo respiro.
“Mikey era il mio secondo padre, mio fratello, mio zio, tutto. Lo hai conosciuto anche tu, del resto, fino a quando sette anni fa il Signore non lo ha preso con sé.
“Ray visse sempre accanto a Gerard. Non lo mollò mai, mai davvero. E credo che mio padre visse un dolore atroce quasi quanto la morte di Frank, quando Ray fu stroncato a 53 anni da un tumore al cervello. Ricordo ancora….” E le si spezzò la voce.
Chiuse gli occhi per un momento, respingendo l’ondata di ricordi. Sentì la mano di sua nipote sulla sua, e gliene fu grata.
Riaprì gli occhi e prese un profondo respiro, riprendendo a parlare. “Gli fu accanto fino agli ultimi istanti. Fu terribile e devastante, e questo gli riaprì quella vecchia, profonda ferita che era riuscito a rimarginare quasi del tutto. E da allora non si riprese più. Mamma provò di tutto, per farlo rinsavire, ma non ci riuscì. Non ci era mai riuscita, e non posso farle una colpa. Lei sapeva, lo sapeva bene. Forse lo aveva sempre saputo, sin dall’inizio, perché non si può non notare un qualcosa del genere. Ma faceva finta di nulla. Amava papà a tal punto da ingoiare ogni groppo amaro e tirare avanti, stargli accanto e crescere me. E in fondo l’ho sempre ammirata per questo.”
Bandit sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia. Non credeva le sarebbe costato così tanto raccontare tutto. “Quando fui abbastanza grande, mi chiamò e mi disse che doveva dirmi una cosa importante. Non tralasciò nulla, nemmeno un particolare. Mi disse che dovevo ricordare, perché era troppo importante.
“Morì a 73 anni. Non so… non so se fu una cosa volontaria. Lo trovammo nella sua camera da letto, sotto le coperte, una scatola vuota di pillole rovesciata a terra e un’espressione di angoscia sul volto. Vorrei poter dire che morì sereno, ma non sarebbe la verità. Papà aveva aspettato troppo. Aveva aspettato a lungo, che mamma invecchiasse, che tutti attorno a lui se ne andassero o morissero, che io crescessi e mi creassi la mia famiglia, lontano e al sicuro da lui. E poi aveva ceduto. Aveva ceduto, si era stancato di aspettare, ma anche negli ultimi attimi era stato sempre tormentato dal dubbio. Lo avrebbe rivisto? Avrebbe potuto porre finalmente fine a quell’ultimo, straziante bacio che avevano cominciato anni e anni prima?”
Non c’era risposta a quella domanda. Se l’era fatta anche lei, da allora. Tra poco lo avrebbe scoperto, forse.
Forse.
Vide Sarah asciugarsi velocemente una lacrima, cercando di non essere vista. Bandit sorrise tristemente. “Conserva questa storia, Sarah. Conservala e ricordala. Non sono cose da dimenticare, queste.”
Non aveva mai creduto nell’amore. Non quello vero, non nella sua vita. Semplicemente non era stato possibile. Ma sì, aveva creduto in quei due, aveva creduto in Gerard Way e Frank Iero, aveva creduto nei loro sentimenti e nella loro storia. Forse erano stati fortunati nella sfortuna, perché magari è soltanto questione di fortuna, sì. A non tutti è concesso, a non tutti capita l’amore, quel tipo di amore, quello che consuma e distrugge, quello che ti segna per tutta la vita.
Ma a loro sì, e nonostante tutto, li aveva fatti a pezzi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
23 novembre 2001
 
La piccola folla del locale li applaudì con un boato quasi assordante. Gerard chiuse gli occhi e si aggrappò al microfono, assaporando quel suono. Suo fratello Mikey gli diede una pacca sulla spalla, ridendo, e dietro di lui Matt e Ray salutarono i fan.
Gerard sentì lo sguardo di qualcuno addosso, ma inizialmente non ci fece caso. C’erano decine e decine di occhi puntati su di loro, probabilmente era solo una di quelle fan piuttosto insistenti con cui avrebbe dovuto fare i conti dopo.
Scesero dal palco passando da dietro le quinte, per poi mescolarsi alla folla e dirigersi verso il bancone del bar. Ordinarono subito da bere, godendosi la birra e chiacchierando.
Gerard pensò che quella era la vita che aveva sempre voluto. Pensò che era lì, con suo fratello e i suoi due migliori amici, e che non avrebbe potuto essere più felice.
Il successo era la migliore vendetta. E loro avevano appena iniziato, e c’era ancora così tanta strada da fare.
E non sarebbe mai finita, mai. Una cosa così non poteva finire, non era minimamente concepibile, Gerard se lo sentiva dentro. La strada avrebbe continuato all’infinito, finché non fossero stati troppo stanchi e deboli per tenere in mano un microfono o pizzicare le corde di una chitarra.
Era una promessa che faceva a sé stesso, a Mikey, a Ray e a Matt, e a tutta la gente che avrebbe avuto fiducia in loro.
Sentì una mano sulla spalla, e si girò di scatto. Non gli piaceva essere interrotto mentre pensava. Davanti a lui c’erano quattro ragazzi, e uno tra questi era quello che teneva ancora una mano posata sulla sua spalla, ammiccandogli. “Voi dovete essere i My Chemical Romance, vero?” chiese il tizio, rivolto anche a Mikey, Ray e Matt.
Mikey annuì, rispondendo al posto suo.
Il tizio si presentò, levando una mano dalla spalla di Gerard e allungandola verso ciascuno di loro, affinchè gliela stringessero. “Io sono John. Siamo i Pencey Prep, ci siamo esibiti poco prima di voi”
Gerard ne aveva sentito parlare. Avevano un contratto con la loro stessa casa discografica, a quanto pareva.
Proprio in quel momento, tra loro si fece strada un quinto ragazzo.
Gerard non seppe bene spiegare cosa successe dopo. In realtà stava quasi per spostare lo sguardo, ma poi riconobbe in quel ragazzo il tizio che lo stava fissando intensamente prima, mentre era sul palco, e a quel punto la sua attenzione era già stata completamente catturata.
Il ragazzo salutò i suoi compagni e andrò dritto verso Gerard, sedendosi accanto a lui, al bancone, e ordinando un boccale di birra. Dopodiché, i loro occhi si incrociarono di nuovo.
Gerard sentì un qualcosa di strano. Deglutì a vuoto.
Il ragazzo gli sorrise. “Gerard, no? Io sono Frank” e gli porse la mano.
C’era qualcosa di familiare in lui, qualcosa che lo attraeva e respingeva e lo mandava in confusione totale. Non capiva, non capiva davvero, ma quando vide quella mano tatuata sporta verso di lui, sentì che doveva stringergliela.
E lo fece.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*si asciuga il sudore dalla fronte*
*si asciuga una lacrimuccia*
*mangia un biscotto*
Ok, è finita. È finita davvero e non so se piangere o boh, perché mi mancherà terribilmente.
Credo che abbiate tutti capito l’ultima parte. In fondo l’avevo accennato dall’inizio, con quella storia di Ray riguardo le vite parallele, ecc.  E’ che volevo lasciare un’ultima speranza, e contemporaneamente, straziarvi ancora di più, proprio quando credevate che fosse tutto finito *muahahah*
Ho finito con l’inizio, e credo che sia giusto così. Quell’inizio, il loro inizio, l’inizio di tutti noi. Perché se Gerard e Frank non si fossero incontrati quel giorno… forse io non sarei qui a scrivere questa ff, e forse voi non sareste qui a leggerla. Ovviamente data e luogo sono inventati, ma il fatto resta.
Sappiamo tutti la fine di quella storia. Sappiamo tutti che no, non finisce bene. Ma è così che va, è così che funziona, e non importa. Perché loro sono ancora qui, sono ancora a fare musica, a riempirci la vita dei loro stupidi tweets, a farci soffrire e gioire e va bene, perché senza di loro non saremmo le stesse persone che siamo ora.
E ok, forse sto diventando melodrammatica ew, ma oggi è il bday di Gerard e volevo scrivere qualcosina di speciale (btw 38 anni raga, 38 ooooohwww)
E niente, forse ho già rotto abbastanza. Stay tuned perché sinceramente ho già qualcos’altro in testa con cui rompervi le palle in futuro, quindi non disperate, perché vi farò soffrire ancora, statene certi lol
Un bacio a tutti gli adepti fedeli che hanno seguito questa storia dagli inizi, a quelli che sono arrivati in ritardo e a quelli che arriveranno, mi mancherete so much
A presto
M.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2969807