By Your Side In Your Mind

di rachel_hetfield
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Feci schioccare le dita per la terza volta, cercando di contenermi mentre mi stiracchiavo. Ormai non prestavo attenzione alle lezioni da un bel po’ di tempo, da quando avevo cambiato scuola. Non che fossi un  alunno modello, o studioso o con tanta voglia di imparare, semplicemente non rischiavo mai la bocciatura o temevo di perdere un anno, cosa che invece stava accadendo quell’anno. Curioso, il fatto che me ne importasse. Ero all’ultimo anno, in una scuola diversa, la terza che cambiavo, un diciottenne annoiato e anche poco socialmente attivo.
All’uscita al suo solito c’era mamma in auto, china sul suo cellulare concentrata a completare qualche gioco idiota di caramelle e palline da far scoppiare. Era divertente osservarla e vederla imprecare dentro di sé quando sbagliava o perdeva la partita.
«Frankie, scusa, ero così concentrata qua sopra...»
Ridacchiai. Era davvero divertente.
«Niente di nuovo nemmeno oggi, vero? Ah, ho anche fatto le unghie, carine vero?» disse tutta contenta mentre me le sventolava davanti alla faccia. Annuii cercando di dire qualcosa di carino ma riattaccò a parlare.
«Sei silenzioso Frankie, che hai tesoro? Non ti piacciono?»
Scossi la testa aprendo bocca, ma mi interruppe di nuovo. Era una scena comica, vista da qualcun altro, ma per me era un momento difficile. Mamma era sempre stata morbosa con me, l’unico figlio che doveva crescere e anche da sola.
Decisi di fingere di avere mal di testa per zittirla e mi appoggiai al finestrino. Si stava avvicinando la settimana di vacanze natalizie, non vedevo l’ora in un certo senso. Non mi sarebbe mancata la scuola, ero molto pigro e molto timido, quindi stare a casa a dormire qualche ora in più e andare a letto tardi era come infrangere un po’ le regole per me, staccare da tutti,  e ne avevo bisogno.
«Hai mangiato qualcosa in mensa?»
Annuii a mamma che aprì la porta di casa, così potei entrare e salire su per le scale fino alla mia camera, dove mi sedetti sul letto sospirando. Era una giornata piuttosto tranquilla. Mi piaceva avere giornate tranquille. Non avevo una gran voglia di fare qualcosa, anche se avrei potuto fare tante cose come disegnare, scrivere, leggere, mettere musica, ma la pigrizia vinceva sempre e me ne stetti sdraiato sul materasso a fissare il soffitto.
«Frankie» chiamò mamma da dietro la porta bussando, ma non aspettò il permesso per entrare «ti va una pizza con i vicini stasera?»
Girai la testa verso di lei e mi misi a sedere. Mi strinsi nelle spalle. Avevo dimenticato che fosse sabato e che mamma aveva sempre impegni con amici e compagnie varie, e cercava sempre di trascinarmici.
«Dai Frank, non puoi restare a casa anche oggi, così sembri asociale, e non lo sei, quando sei con la compagnia giusta ti diverti così tanto!»
Alzai gli occhi al cielo, e alla fine annuii. Non ero di molte parole, mai stato, mi limitavo a dire “sì, no e forse” con la testa e con gli occhi. Accettai, alla fine era solo una serata in compagnia. Magari non mi sarei annoiato, avrei anche potuto fare amicizia con i vicini di casa. Mamma era socievole. Io ero abbastanza timido.
Guardai l’ora, era ancora primo pomeriggio, che avrei potuto fare fino a sera? Giocare alla playstation, disegnare, leggere qualcosa... optai per il sonno. Dormii. Non fu difficile addormentarmi.
 
 
«Frankie, mi raccomando, presentati, sii gentile, offri una mano e soprat- buonasera!»
Roteai gli occhi, ed era già un modo per stare antipatico ai vicini. Si presentò alla porta una signora di almeno mezza età, che ci scrutò con gratuita simpatia, ma che non mi andò a genio. Mamma sembrò gettarsi tra le sue braccia, fossi stato nella padrona di casa mi sarei spaventato, e invece ricambiò l’abbraccio cordialmente. Feci saettare lo sguardo ovunque quando dovetti entrare pur di non guardare in faccia nessuno, e sembrò funzionare finché mamma non mi agguantò il braccio come una piovra presentandomi alla coppia adulta davanti a noi, che mi fissavano in modo insistente e con un sorriso largo che sembrava messo apposta come su una statua di cera. Mi sentii in soggezione e per poco non mi venne un attacco di panico. Lui mi tese la mano, e quando dovetti porgere la mia per presentarmi, stava sudando. Ottima mossa, Frank.
La serata procedette così, tra sguardi all’apparenza felici e cordiali, che mi mettevano a disagio e dovetti constantemente tenere la testa bassa, finché ci proposero di andare a fare un giro nel centro della città. Mamma, come al suo solito, era d’accordissimo, le piaceva camminare e andare in giro. Io fui costretto a seguirli.
Tutto d’un tratto fui attratto da un rumore assordante. C’erano due automobili che slittavano sul cemento liscio. Una delle due finì capovolta. Non seguii tutta la scena. Non capii cosa successe davvero. Vidi solo le due automobili , una capovolta, l’altra contro il muro, ammaccata. Ne uscì fuori un uomo, barcollando. Aveva dei tagli sulla fronte.
«Frank!» chiamò mia madre. Mi voltai un attimo e tornai a guardare la scena. Perché non si avvicinavano anche loro a guardare? Perché ignoravano quell’incidente? Qualcuno poteva essersi fatto male.
«Frank, non fermarti!»
Feci per avvicinarmi, ma lei fu più veloce e mi tirò per un braccio. «Andate avanti.»
Furono le prime parole della serata. Mamma mi ascoltò. Si allontanò con la coppia adulta e rimasi da solo ad assistere a quel casino. Non c’era folla attorno a tutto quanto. Non c’era nessuno in giro.
L’uomo cadde per terra, pensai di dover andare a dare una mano, ma qualcosa mi bloccava. Mi sentivo paralizzato.
Distolsi lo sguardo per un attimo, e quando guardai c’era un’ambulanza. Quando era arrivata? Non l’avevo sentita, nemmeno la sirena. Vidi che prendevano dall’auto capovolta il corpo esile e giovane di un ragazzo dai capelli corti e color rosso fuoco. Lo guardai. Aveva gli occhi chiusi e le sopracciglia contratte. Stava soffrendo. Era così bello. Feci per avvicinarmi, ma dopo due passi mi sentii paralizzato di nuovo. Lo misero nella vettura. Sentii il rumore delle scariche elettriche. Poi sentii il fischio della macchina per il battito cardiaco. Sentivo qualunque cosa. Una scarica di terrore mi percorse la schiena, riempiendomi di brividi, qualcuno era morto, era morto davanti a me. E nessuno si era avvicinato per vedere appena era successo.
Non trovai quella forza che mi opponeva a muovermi. Riuscii a sbloccarmi e indietreggiai. Corsi via.
La mattina dopo in città, nella piazza principale, vidi un gruppo di persone.  Mi avvicinai per vedere cosa stesse succedendo, e stavano tutti in fila per firmare qualcosa. Fu il mio turno, ma non firmai. Riuscii solo a leggere un nome: Gerard Way.
Mi chiesi chi fosse, perché non lo avessi mai sentito nominare. Forse aveva la mia età, forse più grande. Una donna dietro di me faceva le stesse domande, e le risposte furono “quel giovane caro, ha perso la vita così presto” e un’altra “la macchina si è capovolta e lui è morto sul colpo”.
Parlavano di ieri. Dell’incidente di ieri. Nessuno si era avvicinato, nessuno se n’era preoccupato, allora perché improvvisamente firmavano qualcosa per la sua morte così all’improvviso? Cos’era successo in quelle dieci ore di tempo?
Mi sedetti sulla panchina vicino all’ingresso del parco, come ogni domenica mattina. Un’ombra davanti a me sembrò sostare. Non alzai lo sguardo. Magari non ce l’aveva con me.
«Scusami, potr-»
Sobbalzai. Si spaventò anche la persona davanti a me per la mia reazione. Non aveva una voce così roca. Aveva un tratto del viso femminile, se non fosse per le sopracciglia. Lo osservai meglio, e in due secondi mi balenò in mente lui, quel Gerard Way, quello morto nell’incidente.
«Ti ho spaventato?»
Scossi la testa con nervosismo. Aveva uno sguardo così penetrante. Non poteva essere Gerard Way, lui era morto. Era morto ieri sera, davanti a me, davanti ai miei occhi, avevo assistito ai suoi ultimi secondi di vita. Mi sentii stringere il petto. Che sensazione orribile.
«Volevo chiederti se è libero accanto a te» disse con tranquillità, come se non avesse capito che ero terribilmente a disagio. Annuii. Dopotutto sapevo fare solo quello: dire “sì, no e forse” con la testa.
Si sedette. Presi il cellulare e guardai nervosamente lo schermo, facendo avanti e indietro con la schermata principale come se fossi impegnato a fare qualcosa. Fui tentato di alzarmi e scappare ma sarebbe sembrato fatto apposta. Quel ragazzo era Gerard Way. Ma Gerard Way era morto.
«Scusa, sai l’ora? Ti sto dando fastidio, lo so.»
Alzai di scatto la testa e ci scambiammo un’occhiata. Reagii imbarazzato qualche istante dopo. Lessi l’ora.
«Le dieci e mezza.»
Annuì con gratitudine. Anche quando distolse lo sguardo per cercare nella sua tasca qualcosa, continuai ad osservarlo. Non poteva essere Gerard Way. Gerard Way era morto.
Tirò fuori un libro. Era Il Palazzo Della Mezzanotte. Cavolo, uno dei miei libri preferiti!
«Ti piace Zafòn?» chiesi, senza nemmeno pensarci due volte. Lui mi guardò con uno strano bagliore negli occhi.
«È il mio autore preferito» sorrise a trentadue denti. Notai che aveva dei denti piuttosto piccoli. Era inquietante da vedere, ma il suo viso era davvero bello. Aveva gli occhi verdi. Verde chiaro, stupendi.
«Ho letto Il Palazzo Della Mezzanotte quando ero più ragazzo, ne ero innamorato» iniziai una conversazione con una persona che forse era morta, e nemmeno lo sapevo. Forse parlavo da solo. Forse ero pazzo.
Lui annuì. «Il mio preferito è Il Gioco dell’Angelo. Sai, misteri, tanta gente che muore... sono proprio il mio genere. Non sono psicotico, semplicemente mi piacciono le cose psicotiche» fece una risatina che sembrò forzata.
Rabbrividii.
«Ho capito solo dopo aver letto L’Ombra del Vento il vero significato di quel romanzo. È davvero tutto molto contorto, non trovi?»
Improvvisamente non sapevo cosa rispondere. Non era Gerard Way quel ragazzo. Gerard Way era morto.
Feci che annuii, turbato. Se ne accorse. Stava per chiedermi se avessi qualcosa, lo sospettavo. Ma mi alzai mormorando una scusa qualsiasi e mi allontanai stringendo le dita in un pugno. Non sentivo il cuore battere così velocemente da troppo tempo.
 
 
«Ma che ti è preso ieri sera? Cosa guardavi?»
Mi meravigliai di quella domanda. Cosa guardavo, aveva chiesto. Non aveva visto niente, o forse non aveva voluto vederlo.
«Frank» insistette.
«Mamma, chi è Gerard Way?»
«È morto in un incidente stradale qualche anno fa, era il figlio del sindaco Way. Perché me lo chiedi?»
Qualche anno fa?
«N-no così, ero curioso. Sì, ero curioso.»
Mi guardò di traverso. «Frank, hai smesso di prendere i farmaci? Di nuovo?»
Io non prendevo medicinali. «C-che farmaci? Cosa stai dicendo? Credi che sia pazzo? Non sono pazzo!»
«Calmati, tesoro, calmati, fai finta che questa conversazione non sia mai esistita.»
Corsi di sopra, in camera. Raggiunsi la camera. Mi venne in mente quel ragazzo dai capelli corti e rossi come il fuoco uscire dalla macchina, senza vita. Poi lo vidi di nuovo, che mi chiedeva l’ora, sorridente, sereno. Uscii dalla stanza. Aprii la porta del bagno. Vomitai. Non ero pazzo. Gerard Way era morto. Non era Gerard Way, l’avevo scambiato per qualcun altro. Non sapevo nemmeno che faccia avesse Gerard Way, poteva essere chiunque. Forse il ragazzo della macchina era un soggetto, quello della panchina era un altro, e Gerard Way non era nessuno. Sì, non era nessuno. Dovetti ripetermelo diciassette volte per convincermi. Gerard Way non era nessuno. Non l’avevo mai visto. Stavo bene. Non ero pazzo.
 
 
 
 
 
SPAZIO AUTRICE (leggetelo, almeno questo qui)
Premetto che è la prima fanfiction frerard che scrivo nonostante le mille idee che ho sempre in mente (idee migliori di quelle di Gee sicuramente), nonostante la tanta voglia di scrivere qualcosa, questa è la prima frerard in assoluto.
Come potete notare è piuttosto strana e ammetto di essermi ispirata moltissimo a A Splitting Of The Mind, che un bel numero di sventurati ha letto e che probabilmente hanno ancora quella ferita scoperta nel sentirla nominare, ebbene, se trovate dei riferimenti a quella fanfiction sappiate che sono fatti apposta, non intendo copiare l’autrice e prendermi dei meriti non miei.
Ringrazio Miriam (@ghostvofme) che mi ha incitata a scrivere e pubblicare e non vi annoio più, ve ne sarei grata se in una recensione, anche breve, mi diceste cosa ne pensate!
Aggiungo infine che troverete errori di battitura, di ortografia, sintassi e quant’altro, ma dopotutto non sono una scrittrice, mi passo solo il tempo scrivendo le idee folli. No, non metto su band, le mie idee sono migliori.
Un abbraccio, Adam Angelica

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Non ero mai stato un soggetto facilmente impressionabile, o almeno, poche cose mi turbavano come quanto era successo il giorno precedente. Dubitavo fosse tutto frutto della mia testa, non ero folle, non avevo allucinazioni, probabilmente erano tutte dannate coincidenze che volevano farmi credere di essere pazzo. Non cercai informazioni su Gerard Way, non era affar mio, non avevo voglia nemmeno di immischiarmi in faccende familiari già passate, semplicemente avevo bisogno di staccare ancora una volta da tutto il resto finché fosse possibile. Ero intimorito nel tornare a scuola, quel lunedì. Non mi aspettavo succedesse qualcosa di strano, alla fine, era solo un incidente, forse avevo visto male. Sì, avevo visto male.
Cercai di autoconvincermi ancora una volta di non essermi immaginato l’incidente, il ragazzo dai capelli rosso fuoco che leggeva Il Palazzo Della Mezzanotte. Quel ragazzo. Era così normale, così distaccato. Così dannatamente attraente. Nemmeno detto oggettivamente, lo dicevo per me, era davvero bello.
Insicuro com’ero, dubitavo anche su chi fossi io veramente. Voglio dire, non avevo mai avuto una ragazza, non ne ero attratto, molto probabilmente ero omosessuale. Non lo sapevo, non avevo mai avuto nessun tipo di rapporto e basta. Feci una smorfia pensandoci. Ero così chiuso e solitario da non sapere nemmeno se fossi attratto dagli uomini o dalle donne.
Mamma quella mattina fu più insistente del solito. Più premurosa, ma meno loquace. Non disse cose inutili. Si preoccupò piuttosto di lasciarmi il pranzo fatto da lei, come se il cibo della mensa contenesse allucinogeni e non si fidasse. E se fosse proprio così? Magari mi ero drogato. Avevo immaginato tutto perché forse i vicini avevano messo qualcosa nel cibo. Era così, ne ero certo. Erano troppo inquietanti per essere normali. Mi avevano drogato? Sì. Non sarei più andato da loro, questo era sicuro.
Tutti questi pensieri mi disconnettevano dal resto del mondo più del solito. Curioso, qualcuno si era anche seduto accanto a me durante l’ora di informatica. Non si sedeva mai nessuno accanto a me. Forse puzzavo, o ero troppo strano per far sì che qualcuno si avvicinasse. Fatto stava che qualcuno si sedette, ma non lo guardai, non ne avevo né voglia né mi sarebbe andata una coversazione con uno sconosciuto. L’ultimo sconosciuto con cui avevo parlato mi era rimasto impresso nella testa per ventiquattro ore. Più di una volta mi chiese come mi chiamassi, semplicemente lo ignorai.
«Iero!» mi chiamò qualcuno da dietro. Fui come destato dal sogno. Sobbalzai girandomi nella direzione dalla quale proveniva il suono.
C’era la ragazza che ogni tanto mi salutava la mattina seduta proprio dietro di me che cercava di sussurrarmi qualcosa, chissà, forse mi stava chiedendo di rispiegargli qualcosa che non aveva capito. Ero molto bravo in informatica.
«Ehi, Iero, puoi darmi una mano?» chiese in tono quasi supplichevole.
«Sì» sussurrai, annuendo.
«Bene, perfetto, vengo a sedermi accanto a te» fece un ampio sorriso. Stavo per dire che c’era già qualcuno seduto accanto a me, ma quando mi voltai era sparito. Sparito. Avrei giurato di aver visto qualcuno sedersi accanto a me e chiedermi come mi chiamassi, lo avevo sentito ma lo avevo ignorato.
La ragazza di cui a stento ricordavo il nome – forse Jamia o una cosa del genere – si sedette velocemente accanto a me, chiedendomi di rispiegarle come si facesse a translare il quadrilatero sulla linea opposta del foglio di lavoro. Velocemente rispiegai, con mezzi termini, in modo che capisse alla svelta. Le feci fare un tentativo da sola, e sembrò riuscirci. Mi ringraziò a voce alta, e annuii. Sapevo solo dire “sì, no e forse” con la testa.
Tornai a concentrarmi sulla sedia vuota accanto a me. C’era qualcuno prima di lei. O forse con la coda dell’occhio avevo visto qualcun altro, ma che era più lontano, ogni tanto la mente mi faceva questi giochetti illusionistici. Probabile.
Era così asfissiante stare in classe. Fortunatamente il tempo volava, ed ero invisibile, quindi quelle poche volte che venivo interpellato era per chiedermi qualche suggerimento dai compagni o l’orario. I professori a volte si dimenticavano che esistessi, forse perché il mio cognome così inusuale e la mia e collaborazione così limitata facevano loro scordare che ero in classe. Meglio così.
Inoltre ero, come dire, basso. Molto basso, rispetto a quelli della mia età. Loro giocavano a pallacanestro, a football, a rugby, facevano nuoto, sport, io non praticavo niente di tutto questo, ero un piccoletto invisibile e silenzioso che non dava fastidio a nessuno. Nemmeno un metro e settanta, ma era un vantaggio per il mio carattere introverso, o sbaglio?
In mensa aprii il sacchetto del pranzo che mamma mi aveva dato, c’erano due sandwich che sembravano appetitosi. Non era innaturale da parte sua, preoccuparsi di prepararmi il pranzo, ma non ero stupido, sapevo che lo aveva fatto per qualche motivo.
Mentre tiravo fuori i miei sandwich e li poggiavo sul vassoio, notai una scatoletta nel sacchetto. La tirai fuori. Erano farmaci. Con allegato un bigliettino. La scrittura era della mamma, l’avrei riconosciuta tra mille altre. Citava testualmente “Frankie, prendi due di quelle pastiglie, stanotte ti è salita un po’ di febbre”, e dovetti farlo. Non sapevo se era una bugia, il giorno prima mi aveva palesemente chiesto se avessi smesso di prendere i farmaci. Ero più pallido del solito? Perdevo capelli? Cosa c’era che non andava?
Di fatto presi le due pastiglie, non si sapeva mai. Forse girava qualche strana influenza. Forse ero pazzo, e dovevo prendere medicine per curarmi, ma era escluso, io non ero pazzo.
Per due secondi vidi qualcuno accanto a me, ma non appena alzai la testa non vidi più nessuno. Al diavolo, Frank, cosa ti prende?
 
C’era la cugina Sally nel pomeriggio a casa. Lei e mamma sono sempre andate d’amore e d’accordo come madre e figlia, e la cosa mi sollevava, almeno mamma smetteva di essere asfissiante per un paio d’ore.
Sally faceva dei piercing, era davvero brava, sentivo le mie compagne di classe vantarsi dei propri elix o dei propri septum fatti da lei, e di aver sentito solo un leggero pizzicorio. Mi venne improvvisamente voglia di un piercing. Avevo diciotto anni, mamma non poteva di certo dirmi di no. Era solo una richiesta, e non chiedevo mai niente a lei.
Scesi velocemente le scale, sperando che Sally non fosse andata via. Fortunatamente era ancora lì, a prendere il tè con mamma. Chiaccheravano animatamente, con serenità, niente di preoccupante. Per due secondi pensai che avrebbero potuto parlare di me e delle follie che avevo visto la sera prima ma non accadde, non ero pazzo, lo sapevo io e lo sapevano anche loro. L’importante era che ne fossi convinto io.
Ma non lo ero.
«Ciao Frankie! Sei sceso, eh?» annunciò mamma, così che Sally si voltasse e mi sorridesse radiosamente. Si alzò dalla sedia e aprì le braccia per darmi un abbraccio che non rifiutai, non rifiutavo mai i suoi abbracci. Era l’unica che si degnasse di avvicinarsi a me senza fare smorfie o commenti.
«Voglio un piercing» dissi quasi con nonchalance. Mamma piegò la testa di lato.
«Perché così all’improvviso?» rise la cugina «Sei così pulitino e casto, un piercing ti darebbe l’aria da cattivo ragazzo.»
Mi scappò un mezzo sorriso. Un cattivo ragazzo. «Che ne dici?»
«Dico che un labret qui» indicò un punto sotto il labbro inferiore, a sinistra «ti starebbe davvero bene.»
Probabilmente mi si illuminarono gli occhi, perché Sally fece una risatina guardando la mia reazione entusiasta. Era l’unica che mi entusiasmava. Chissà se c’era qualcun altro là fuori capace di farlo.
«Ehi, e del mio parere non ne volete sapere?» intervenne mamma fingendosi offesa. La guardai di traverso.
«Andiamo, zia, Frank ha bisogno di qualcosa di nuovo ogni tanto» mi difese, e mamma in risposta sospirò. Non avrebbe combattuto così tanto per  impedirmelo.  «Quando vuoi farlo?»
Aprii la bocca, ma il suono mi uscì pochi istanti dopo. «Adesso.»
«Adesso?»
«Adesso» stavo per pentirmene, ma al diavolo, lo avrei fatto e basta.
Dire che mi trascinò con sé fino all’auto e poi a casa sua ridendo sembrerebbe comico, ma lo fece, letteralmente, mi afferrò per un braccio e mi trascinò all’auto senza smettere di ridere. Mamma scosse la testa, ma non ne era delusa. Dopotutto il suo unico figlio aveva bisogno di un po’ di svolte, a diciotto anni.
 
Non fece nemmeno male. Sapeva distrarmi mentre bucava la pelle. Mise un semplice piercing con la pallina, raccomandandomi di prendermene cura, disinfettare, non toccarlo e di non cambiarlo prima di tre settimane come minimo. Conoscevo già le procedure e il resto. Dire che ne ero soddisfatto era dire poco, mi piaceva, mi stava bene. Non mi guardavo spesso allo specchio.
«Sai che ti ci vorrebbe, Frank?»
Deglutii. «Un tocco di vitalità?»
Rise. «Un nuovo taglio di capelli. Questi sono lunghi e sciupati...»
Li guardai nello specchio, e non aveva tutti i torti. Ma cosa sarebbe cambiato, tagliandoli? Ero sempre io, Frank, con un buco sulla faccia e un po’ di emozioni represse venute a galla. E tanta, tanta confusione.
«La settimana prossima ti porto a fare un bel taglio. Qualcosa di semplice, giusto per sistemarteli.»
Risi sotto i baffi mentre me lo diceva. Mi aveva già riaccompagnato a casa. Scesi dall’auto ringraziandola, ed entrai in casa, c’era silenzio, sicuramente mamma già dormiva. Infatti la vidi stravaccata sul divano a ronfare. Mi strinsi nelle spalle e salii di sopra, nel mio bagno. Un taglio di capelli.
Presi la forbice e iniziai a tagliare sul lati e dietro. Tagliavo, tagliavo, tagliavo, finché non furono cortissimi. Erano belli. Sembravo più ragazzo. Tagliai anche il ciuffo, rendendolo corto fino alla fronte. Mi sentivo... bello. Figo. Come mai mi ero sentito prima.
Nonostante fosse pieno dicembre tolsi i pantaloni e mi infilai sotto le coperte calde. Non chiusi gli occhi, un po’ per il prurito per i capelli appena tagliati, un po’ per il sovraccarico di pensieri che mi facevo ogni sera. Avevo dimenticato per qualche ora l’incidente e il ragazzo dai capelli rosso fuoco, forse dovevo frequentare più spesso mia cugina. Ma non appena chiusi gli occhi, mi sembrò di rivivere la scena. Le auto che si scontravano, gli infermieri dell’ambulanza che tiravano fuori il ragazzo. Aveva i capelli rosso fuoco, erano corti. Erano belli, lui era bello.
Aprii per un attimo gli occhi e rischiai di morire d’infarto.
«Ciao Frank» mi salutò una voce nel buio.
Sperai di morire velocemente, se fosse stato un assassino o un ladro. Ma non era un ladro. Aveva i capelli rosso fuoco e gli occhi verdi. Era troppo bello per essere un ladro. Forse era un’anima dannata. Forse avevo le allucinazioni.
Ma era troppo reale, e io ero troppo spaventato per dire qualcosa. Mi guardavo intorno, cercando il tasto per accendere l’abat-jour. Finalmente lo trovai. Lo premetti. Davanti a me, i capelli rosso fuoco danzavano tra le due dita. Era imbarazzato. E io ero spaventato a morte.
Come diamine aveva fatto ad entrare?
«Ti ho spaventato?»
L’avevo già sentita quella frase, quella voce.
«Scusami, stavolta ti ho spaventato sul serio.»
Ero troppo nel panico per rispondere. Chi cazzo era, come cazzo aveva fatto ad entrare, che cazzo voleva da me?
«Lascia che ti spieghi.»
Mi sentii mancare. Era dannatamente reale. Lo era. Non ero pazzo. Lui c’era. Lo vedevo distintamente.
«Mi chiamo Gerard.»
A quel punto mi piegai verso il pavimento e vomitai. Tutto, qualunque cosa. Mi bruciò il buco che avevo fatto quel pomeriggio sotto il labbro, ma continuai a vomitare, tossendo per cercare aria. Non alzai la testa per vedere se fosse andato via. I capelli rossi. La macchina che si schiantava.
Non smisi di vomitare finché mamma non entrò nella stanza agitata e nel panico, più di quanto lo ero io. Chiusi gli occhi, stringendo le palpebre. Era sparito di nuovo.
Mi chiamo Gerard.
Ma Gerard Way era morto.
«Frankie, shh, va tutto bene... va tutto bene» mormorò mamma mentre mi sorreggeva la fronte, anche se avevo smesso di vomitare. Mi metteva ansia la sua voce così spaventata, ma non lo era quanto me, ero terrorizzato, ero convinto che fosse stata un’allucinazione. Lo era. Stavo dando di matto, di nuovo.
La sentii sussurrare tra sé un “che ti succede, Frank” che mi fece accaponare la pelle. Avevo paura che avesse ragione, che mi stesse succedendo qualcosa. Sperai di non aver vomitato quei farmaci di quella mattina, o forse sì, forse lo sperai.
«Mamma» la chiamai, con voce strozzata. In bocca avevo solo il sapore acido della cena e dei succhi gastrici «mamma, sto bene.»
«Ho paura che ti portino di nuovo via...»
Mi si strinse il cuore. Chi doveva portarmi via?
«Eri guarito, Frank.»
«Sto bene
Lo ripetei dentro di me altre sette volte mentre mi tiravo su con la schiena. Faceva male. Mi bruciava tutto, mi girava la testa, mi sentivo terribilmente svuotato, spaventato, fuori di me. Avevo bisogno di distrarmi, e sapevo a chi rivolgermi.
 
 
SPAZIO AUTRICE
Immagino che i capitoli siano troppo corti, ma vedete, preferisco farne di più ma corti che pochi e lunghi, che renderebbero la lettura anche pesante. Sono veloce ad aggiornare come potete vedere.
Innanzitutto un sentito grazie a chi ha recensito il primo capitolo e al popolo di twitter che mi sostiene, vi ringrazio davvero tantissimo.
Volevo chiarire un punto del primo capitolo che sicuramente non è molto chiaro: chi era veramente Gerard Way?
Gerard Way come si è potuto capire era il figlio del sindaco morto in un incidente stradale anni addietro.
E cos’era quella folla in piazza che firmava per lui?
Una sorta di petizione che serviva a rendere più rigido il controllo e la sicurezza stradale perché, come si è capito, le vittime della strada giovani sono tante, anche nella vita reale, non solo nella fanfiction. Quindi non bevete quando tornate a casa in macchina. Se avete una macchina.
Detto questo posso tornare nell’ombra e progettare il prossimo capitolo *svanisce in una nuvola di fumo*
Un abbraccio, Adam Angelica

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Fui quasi costretto a restare a casa, ma in un modo o nell’altro, convinsi mia madre che avevo mangiato troppo dalla cugina Sally la sera precedente e che non avevo nessun tipo di virus o influenza. Avevo dieci dollari con me, pensai che bastassero. Il solito gruppetto di spacconi, di ragazzi ribelli, erano lì, nel vicolo attraverso il quale non ci passava più nessuno tranne se per cercarsi guai o unirsi a loro. Non cercavo guai, non ero uno violento. Avevo solo bisogno di calmare tutti i muscoli troppo tesi da troppi giorni che sembravano non passare mai. Certo, con un grammo di erba sarebbe rallentato ancora di più il tempo, ma almeno sarei riuscito a distrarsi per qualche ora.
«Ma guardate chi si vede!» annunciò uno del gruppo con i capelli biondi con la ricrescita castana che riconobbi quasi all’istante.
«Frankie» ridacchiò un altro, con il labret, gli occhi azzurri e un ciuffo biondo chiaro che chiamandomi con quel nomignolo mi fece rabbrividire. Sembrò averlo fatto apposta.
«Ciao Bob, ciao Mikey» mormorai schiarendomi la gola, come se avessi timore di parlare con loro. Non sapevo molto sui due ragazzi, degli altri tre ne sapevo ancora meno, ma mi bastava sapere che Bob era un rinomato pusher che era già finito nel carcere minorile un paio di volte. Doveva tutto ai suoi genitori che avevano soldi da buttare se non era dentro.
Mikey si avvicinò. «Che ci fai qui, Iero?»
«Pensavo» mi morsi la lingua «avevo intenzione di distrarmi un po’, e sapevo già a chi rivolgermi, quindi...»
Bob si girò verso di me, e quasi mi spaventò il suo sguardo glaciale. «Ma hai fatto un piercing?»
Me ne ero scordato. «S-sì.»
«Frankie, sei proprio un cattivo ragazzo!» fece una risata grossa e amara, alla quale si unirono anche gli altri eccetto Mikey. Mikey non rideva mai, era sempre così dannatamente serio. Ma non lo era sempre stato, qualche anno prima lui sorrideva, era felice.
«Allora, quanto vuoi?» tagliò corto Mikey.
«Con dieci dollari quanto posso fare?»
Bob sollevò un sopracciglio. «Vieni da me con dieci dollari?»
Mi spaventai. Sembrò che volesse molto di più, e per qualche istante mi si accaponò la pelle sudando freddo. «Credevo che...»
«Frank, siamo amiconi, non dovresti nemmeno pagarmi» gli scappò un’altra risata rumorosa, e quasi mi associai, ma con la mascella tremante. Bob era strano, forse più di me. Eravamo una gabbia di matti, in quel paese.
«Ti faccio lo sconto della metà se ti unisci a noi anche domani» propose.
«N-non lo so, ho già marinato la scuola oggi, se perdo l’anno...»
«Ma che ti importa, su, bisogna provarle certe cose!»
Se venisse a saperlo mamma, pensai.
Alla fine accettai, dopotutto avevo l’occasione di spendere di meno e avere più tempo per pensare a qualunque cosa che non fosse l’episdodio di ieri sera. Bob tirò fuori un involucro bianco già pronto, evidentemente la teneva per sé. Me la porse. Era lunga sì e no sei centimetri, e io non avevo nemmeno mai fumato una sigaretta in vita mia. Immaginai il meccanismo, lo vedevo sempre fare agli altri. Mi porse anche l’accendino, e l’accesi. Mi sedetti sul marciapiede. Feci un tiro, inspirai, sentii un sapore come tabacco mischiato al senso di colpa. Mi voltai alla mia destra, c’era seduto qualcuno. Non ero ancora fatto, non dopo un tiro, vedevo ancora bene e non mi sentivo strano. Lo guardai e rischiai un altro infarto. La chioma di capelli rossi, stavolta era leggermente più lunga.
«Che stai facendo, Frank?» mi chiese con un tono quasi di rimprovero. Non risposi. Non potevo rispondere, avevo perso la voce per lo spavento. Da dove era arrivato? Perché non lo avevano salutato?
«Che stai facendo, Frank?»
La voce era un’altra. Alzai la testa e c’era Mikey davanti a me che mi guardava torvo. Lanciai un’occhiata accanto a me e il posto era di nuovo vuoto.
«N-niente credevo... credevo ci fosse mia madre» mentii. Non potevo di certo dire di essermi immaginato Gerard Way accanto a me che mi rimproverava.
«Dai, su, che è la migliore che abbia rullato in tutta la mattinata!» mi incoraggiò Bob, che maneggiava un altro involucro scoperto, pieno di materiale verde scuro, marrone e qualcosa di nero. Tornai alla mia canna. La guardai per un paio di secondi, e poi la portai di nuovo alla bocca. Inspirai, espirai. Inspirai, espirai. Lo stesso meccanismo finché non arrivai verso la fine, agli ultimi tiri, dove la cenere era vicina al filtro e mi bruciava le labbra. Era più amaro, si sentiva di più. Il battito cardiaco aveva iniziato ad aumentare, sentivo sempre meno la voglia di muovermi e di alzarmi. Un’immagine distorta davanti a me sembrava sorridermi. Guardai Mikey accasciarsi accanto a me, con le palpebre socchiuse. Aveva messo le cuffie, si stava completamente rilassando. Provai ad imitarlo, poggiando la testa sul muro rivolta verso l’alto ad osservare il cielo chiaro che si muoveva danzando davanti a me. Sembrava che il tempo volasse, e invece quando – con grande sforzo e fatica – presi il cellulare per controllare l’orario notai che erano passati solo cinque minuti. Cinque minuti.
Bob e gli altri tre sghignazzavano tra di loro e ridevano come mai avevo sentito Bob ridere. Invece Mikey si era dissociato dal gruppo, e immaginai fosse sempre così. Non avevo mai avuto la possibilità di conoscere bene Mikey, e a dirla tutta non consocevo nemmeno il suo cognome. Sapevo solo che i suoi genitori e quelli di Bob erano amici ed erano schifosamente ricchi.
Avevo sonno, ma non dormivo. Ogni tanto tremavo, ogni tanto muovevo la testa a destra e a sinsitra. Con le mani infilate nelle tasche, non avevo voglia di tirarle fuori, come non avevo voglia di alzarmi o di parlare o di vivere. Non riuscivo a ridere. Capivo cosa facevo, non lucidamente, non completamente, ma mi sentivo estremamente pesante con la testa leggera, come se improvvisamente potessi pensare qualunque cosa senza darci peso.
Pensai a Gerard Way, alla sera prima, a pochi minuti prima che mi aveva rimproverato. Non era esattamente un rimprovero, ma suonava così.
Una risata potente mi distolse dai pensieri. «Ehi, Frankie! Che te ne pare?»
Scossi le spalle, senza sapere cosa dire. O forse volevo parlare ma non ne avevo voglia. Bob rise ancora più forte, chissà come dovevo essere conciato. Notai che Mikey si era tolto le cuffie e si era alzato barcollando e con parecchi sforzi. Bob era troppo impegnato con gli altri due a sbellicarsi dal ridere per qualunque cosa.
E Gerard Way era di nuovo accanto a me. Forse stavolta era davvero un’allucinazione, magari nell’involucro ci avevano aggiunto anche qualcos’altro.
«Non abbiamo finito quella conversazione su Zafòn quella volta, comunque» mi sorrise. Non avevo la forza di alzarmi e andarmene, neanche di sentirmi spaventato. Ero così rilassato che anche uno spettro, cosa che probabilmente era, mi faceva paura. Non riuscivo nemmeno a credere di essere pazzo. Per una volta mi convinsi che non lo ero.
«Marina è da leggere» commentai, a bassa voce, per timore che mi sentissero gli altri tre, ma facevano talmente tanto baccano che nemmeno mi badavano.
«Già letto, e posso assicurarti che il finale mi ha scioccato. Come in tutti i suoi romanzi.»
Annuii. «Sai, non me l’aspettavo che facesse quella fine.»
«Cosa ti aspetti dalla vita, Frank?»
«Non si può aspettare niente dalla vita, soprattutto se non ti da l’opportunità di aspettarti qualcosa.»
Sembrò riflettere, io invece avrei preferito essere abbastanza lucido da sapere almeno cosa dicevo. Parlavo a vanvera, con uno spettro poi, davanti ad altre tre persone che se se ne fossero accorti mi avrebbero preso per pazzo, ma io non ero pazzo, lo sapevo, ne ero certo ormai. Gerard Way non era un’illusione della mia mente, non poteva esserlo.
«Vorrei darti qualcosa per cui valesse la pena aspettare l’indomani, Frank» ammise, a testa bassa. Arrossii. Feci un sorriso troppo largo. Era così bello in quel momento, innocuo, gentile, e soprattutto non ci stavo capendo niente. Quindi, che importava? Era vicino, ci parlavo.
«Vuoi tormentarmi l’anima?»
Rise, e mi trascinò con sé a ridere. «Tu credi che io non sia reale.»
«No» scossi la testa, come per evidenziare la negazione «io spero che tu lo sia.»
«E se non lo fossi?»
Aprii la bocca per rispondere, ma effettivamente non sapevo cosa dire. E se fosse stato frutto della mia mente? E se fosse stato un’allucinazione, o un fantasma? E se i fantasmi fossero esistiti davvero? Chi era Gerard Way, cos’avrei potuto fare e credere? Di certo non ero matto. Lo vedevo bene. A volte me lo immaginavo, ma non ero matto. Ci stavo parlando, ci stavo conversando.
«Se tu non fossi reale» feci una pausa, per esprimere al meglio quella marea di cose che stavo pensando «non vedo perché dovrebbe essere reale tutto il resto.»
Gli scappò un’altra risata, mettendo in mostra i denti piccoli. I suoi occhi quando ridevano erano adorabili, lui era adorabile. Avrei dato l’anima pur di avere la forza e la voglia di sfiorarlo, ma ero in condizioni pessime, e sarebbe andata avanti così almeno un’altra ora.
«Sei divertente, Frank.»
«Tu non sei morto, vero?»
Inclinò la testa in avanti, per guardarmi meglio. Mi vergognai dell’aspetto da strafatto che sicuramente avevo, ma da un lato ringraziai di avermi tenuto fermo e calmo all’incontro. «Io sono qualunque cosa che la tua mente voglia credere.»
«Tipo il mio angelo custode?»
Sorrise. Alzai la testa davanti a me, e mi si raggelò il sangue. Bob e gli altri tre mi fissavano chissà da quanto tempo. Non dissero nulla, e non dissi nulla nemmeno io. Temetti che Gerard se ne fosse andato per evitare qualche guaio, e invece era ancora lì, accanto a me, serio. Guardava i tre davanti a me. Non riuscii a guardarli negli occhi per l’imbarazzo. Magari avevano origliato e avevano pensato che fossi gay, ma non ero gay, o forse sì, o forse mi ero invaghito di un ragazzo con il quale stavo parlando.
E se fosse stato lui il problema?
Magari avrebbe potuto dire alla polizia di questo posto, di loro, e finire di nuovo dietro le sbarre. Magari sarebbe toccato anche a me. Chissà mamma se ne fosse venuta a conoscenza, che delusione. Ero una delusione di figlio.
Con una forza che mi sembrò sovrumana mi alzai dal marciapiede senza reggermi bene in piedi, e mantenendomi al muro camminai lungo il vicolo, dove verso l’uscita vidi Mikey.
«Ti senti bene, Iero?» domandò con disinteresse.
Annuii muovendo pesantemente la testa. Tirai fuori i dieci dollari. «Questi sono di Bob. Alla prossima, Mikey.»
Non ricambiò  il saluto. Semplicemente camminai barcollando da una parte all’altra senza sapere dove andare. Non c’era Gerard con me, forse era rimasto nel vicolo, magari conosceva Mikey e gli altri e si era fermato a fare due chiacchere. Non andai a casa, mamma si sarebbe accorta di tutto. A fatica presi il cellulare, erano le nove e mezza, ed era prestissimo. Avrei dovuto ronzare per la città per altre sei ore, come minimo. Fortuna che l’effetto nel giro di un’ora sarebbe in parte svanito e mi sarei sentito meglio.
 
 
Al solito orario mi feci trovare davanti alla scuola. Mamma non era ancora arrivata per fortuna. Mi sedetti sui gradini della scuola, prendendomi la testa tra le mani. Non avevo nitido ciò che avevo fatto poco tempo prima, era tutto confuso e distorto, come in un sogno. Non chiusi gli occhi per non addormentarmi, tanto a momenti sarebbe arrivata mamma e sarei andato a casa a dormire. Gerard Way non si era rifatto vivo dal momento in cui avevo iniziato a non capire più nulla, iniziai a pensare che fosse stata davvero un’allucinazione. Avrei voluto essere fatto ogni giorno della mia vita solo per convincermi che non faceva tutto così schifo ed essere troppo rilassato per autocommiserarmi e preoccuparmi di ciò che accadeva tutt’intorno.
Ad esempio, Gerard Way non mi preoccupò così tanto mentre ero semicosciente. Come prima canna, non ero nemmeno collassato, forse era una cosa buona, ma non ne capivo di certe cose, semplicemente avrei preferito rimanere così per un altro po’ di tempo, giusto per sperare di rivedere Gerard senza spaventarmi e fare troppe domande.
Marina aveva un finale davvero di merda, come tutti i romanzi di Zafòn.
Un clacson mi risvegliò dai pensieri. C’era mamma davanti all’uscita che si sporgeva dal finestrino, facendomi segno di entrare in macchina. Mi alzai barcollando, feci il giro e mi sedetti sprofondando nel sedile. Mi osservava. Temetti capisse che avessi fumato, e mi sforzai di essere normale e lucido. Lo ero. Ma non avevo controllato se avessi le pupille dilatate o gli occhi rossi.
«Ciao, tesoro» sospirò con stanchezza. Non ricambiai il saluto, poggiai la testa sul finestrino tenendo gli occhi bassi. Il senso di colpa di aver marinato per la prima volta e di aver anche fumato mi faceva sentire meglio da un certo senso, per una questione di ribellione e di libertà, dall’altra ero terribilmente a disagio.
«Hai mangiato qualcosa a mensa?»
Il pensiero di dover mangiare qualcosa mi fece ricordare che non avevo toccato cibo quel giorno. Improvvisamente sentii una fame assurda, come se mi fossi svuotato di qualunque sostanza nutriente all’improvviso. Scossi la testa. «Muoio di fame.»
Sorrise debolmente, accese il motore e partimmo verso casa. La guardai di sottecchi, e vidi che non era serena come sempre.
«Non guardarmi, Frank» mormorò con la voce spezzata. Il battito cardiaco accellerò, e mi si bloccò il respiro. Pensai che avesse saputo qualcosa. Che se ne fosse accort. Diamine, era adulta, certe cose le sapeva.
«C-che è successo?» mi finsi innocente. Sperai fino all’ultimo che non si trattasse di quello che avevo fatto.
Si passò una mano sugli occhi, strofinandoli. «Notizie da papà.»
Avrei tanto voluto tirare un sospiro di sollievo, solo sapendo che non si trattasse di me. Ma non riuscii a tranquillizzarmi. Mi sentivo peggio di prima. Notizie da papà. Non sentivo papà da anni.
Quando arrivammo a casa salii velocemente le scale nonostante fossi completamente a pezzi, stanchissimo, con un terribile bisogno di addormentarmi per tutta la giornata. Notizie da papà.
«Vedo che ti sei ripreso.»
Sobbalzai. Fortunatamente riuscii a non spaventarmi come le prime volte, dopo quella mattina Gerard Way non era più così spaventoso, ma non risposi comunque, l’ansia che riusciva a provocarmi mi impediva di emettere anche una parola.
«Eri più loquace, stamattina» mormorò quasi deluso «ti è passata la voglia di fare il cattivo ragazzo?»
Alzai un sopracciglio. «Cattivo ragazzo?»
«Sì, sei un cattivo ragazzo.»
Lo guardai per qualche secondo, poi abbassai la testa incapace di sostenere il suo sguardo. Non ero un cattivo ragazzo, ero solo uscito dalle regole per qualche ora. Mi martellava il cuore in gola. «No, non lo sono.»
«E cos’era quello che hai fatto oggi?»
Mi brontolò lo stomaco per la fame, avevo bisogno di mettere qualcosa sotto i denti, assolutamente. Mi alzai dal letto e lo schivai, scendendo di sotto. Mamma era sul divano a guardare la televisione, con il telecomando tra le mani, sospeso a mezz’aria. Forse si era addormentata così. Mamma dormiva sempre quando tornavo da scuola, per fortuna, quindi non avrebbe visto Gerard girare per casa.
Afferrai un panino che mi aveva preparato e arrotolato nella carta d’alluminio e lo addentai come un assetato trova acqua nel deserto.
«Sai, non dovresti ignorarmi» si strinse nelle spalle una volta che fu accanto a me. Gli lanciai un’occhiata veloce e poi tornai a riempirmi la bocca e lo stomaco di cibo.
«Non ti sto ignorando.»
Sollevò un sopracciglio.
«Ho semplicemente fame.»
Gli scappò una risata quasi sincera. «Io ieri sera mi sono presentato, non so se te lo ricordi.»
Annuii. «Sì, scusami se appari all’improvviso nel buio e io come un essere umano normale vado nel panico.»
«Oh, una frase completa» ricambiò il mio sarcasmo.
«Sai già come mi chiamo...» mi bloccai «ma come lo sai?»
«Frequento la tua scuola.»
Non l’avevo mai visto in giro, mi sembrava fin troppo strano. E soprattutto, non era morto? Gerard Way era morto. Forse non era quel Gerard Way.
«Sei perplesso» mi fece notare, come se non lo sapessi già «hai molte domande da farmi.»
«Sembra una storia alla Twilight» feci finta di ridere, ma ero perplesso davvero, e anche leggermente spaventato. E confuso. E nel dubbio se fossi pazzo o no.
Gli scappò una risata. «Twilight? Credi che sia un vampiro?»
Scossi la testa. «Intendo dire...»
«Una specie di storia d’amore?»
Improvvisamente sentii caldo in faccia. Una ventata rovente mi prese in pieno viso, ero arrossito in una maniera vergognosa. «N-no, io... io non so niente di te.»
«Mi chiamo Gerard, che altro vuoi sapere?»
«Come fai ad entrare in casa mia? Di notte, di mattina, quando vuoi. Ti trovo sempre qui.»
Si strinse nelle spalle. «È raro che una madre mi abbia impedito di entrare in casa di qualcuno. Soprattutto se mi definisco suo amico.»
L’aveva fatto entrare mamma? Ma lei stessa mi aveva detto che fosse morto. Mi stavo confondendo. Non era Gerard Way, quello. Ma lei avrebbe potuto dirmi “c’è un tuo amico, lo faccio entrare”. Niente. Non ero mica stupido, non c’era niente che quadrava in quella storia.
«Perché mi guardi male?»
Distolsi lo sguardo. «Sto solo... pensando.»
«Voglio essere tuo amico, Frank.»
Feci un mezzo sorriso tra lo stupore e la scetticità. «Io non ho amici.»
«Appunto, voglio aiutarti» mi tese la mano «hai bisogno di essere aiutato.»
«La confusione che mi provochi mi rende solo più vulnerabile al mondo esterno. Mi fai credere di essere pazzo, e non lo sono, quindi in cosa vorresti aiutarmi?»
Sembrò rifletterci. Si morse il labbro. Intravidi di nuovo quei denti così piccoli per appartenere a un ventenne. «Ti piace l’arte, Frank?»
Annuii.
«Dovresti sfruttare l’opera d’arte che c’è dentro di te, ma non lo fai. Voglio aiutarti in questo.»
Quante cose sapeva? Blaterava? Ci stava provando? O ero semplicemente pazzo?
Non avevo più paura di Gerard. Nessun Gerard Way. Era solo Gerard. Non gli avrei chiesto il cognome, non avrei voluto avere la conferma di tanti dubbi che già mi turbavano notte e giorno, sarebbe stato solo e soltanto Gerard. Il mio primo vero amico.
«D’accordo.»
Non sapevo a cosa stavo andando incontro, ma sicuramente la mia vita stava prendendo una svolta diversa, forse più importante di papà. Non avevo intenzione di vederlo. Non di nuovo. Non in quel periodo.
 
 
 
SPAZIO AUTRICE
Allora! Ho allungato il capitolo perché mi sembrava giusto dar spazio finalmente a Gerard e al legame che si svilupperà con Frank. È una storia contorta, lo so, ci sto aggiungendo io stessa dettagli che probabilmente dimenticherò o ai quali farò fatica fare tornaconto e dare spiegazioni.
Nonostante tutto il casino che sto creando, ringrazio sentitamente tutti quelli che recensiscono, aggiungono alle preferite/ricordate/seguite, o leggono silenziosamente. Prometto che aggiornerò in fretta almeno in questa settimana, anche perché tra poco si torna a scuola e come tutti sapete, mi toccherà darmi da fare.
Se avete domande, dubbi, curiosità potete chiedermelo in recensione, per posta o in DM su twitter (@suicidewintxr).
Alla prossima! Un abbraccio, Adam Angelica (sì lo so inizia ad annoiare ma l’ho presa come abitudine)

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Quella mattina non mi ero ritirato dall’andare a scuola, anche se la notte precedente non avevo chiuso occhio, non ne volevo sapere. Gerard non si era trattenuto in casa mia per troppo tempo, appena era andato  via mamma si era svegliata, ma non mi aveva fatto domande. Chissà, forse se n’era dimenticata.
Odiavo andare a scuola il giovedì, era sempre stato il mio giorno sfortunato. Entrai in classe deglutendo più volte, finché non mi si seccò la bocca. Sentirmi tutti quegli sguardi addosso, quei maledetti sguardi insistenti che sembravano volermi spogliare anche delle ossa. Mi mettevano così in imbarazzo. Raggiunsi in fretta il mio banco e mi sedetti, rannicchiandomi quasi su me stesso. Ero così bravo a sembrare invisibile.
«Iero» sussurrò una voce femminile dietro di me. Mi voltai quasi all’istante. «Che fine hai fatto ieri? Ti ho visto davanti alla scuola, ma non sei venuto.»
Ma chi era quella, Jamia? Cosa le importava? Era la tizia che avevo aiutato in informatica. Mi strinsi nelle spalle e tornai nella posizione che mi rimpiccioliva.
«Dai, Frank, a me puoi dirle queste cose» insistette «hai marinato?»
Venni scosso da brividi di rabbia e mi sentii avvampare. Non le risposi di nuovo, doveva star zitta.
«Ti va di fare un giro questo sabato? È il giorno prima della Vigilia.»
Mi stava prendendo in giro?
«Ho impegni.»
«Non sei mai impegnato.»
Strinsi i pugni. Era entrato il professore in aula. «Come fai a saperlo? Che cosa ti interessa?»
«Sei l’unico in questa classe che sta sempre da solo, credevo te ne fossi accorto, e volevo solo farti un po’ di compagnia.»
Sospirai. «Non ne ho bisogno.»
Venimmo interrotti dal professore che ci richiamò. Ci mancava questa. Maledissi quella ragazza con tutto me stesso. Tornai a farmi piccolo ma non feci in tempo a nascondermi che il professore mi chiamò.
«Iero, vieni alla lavagna e svolgi questi esercizi.»
Per tre secondi rimasi fermo sul posto. Nessuno mi chiamava mai, e aveva anche sbagliato la pronuncia del cognome. Non sapevo svolgere quegli esercizi di fisica, non avevo studiato. Deglutii. Immaginai di avere tutti gli sguardi rivolti verso di me, che mi fissavano, come a volermi spogliare anche delle ossa. Lo avevo detto due volte nel giro di dieci minuti, il che mi inquietò. Che giornata iniziata di merda.
«Prendi il gessetto.»
Sapevo cosa dovevo fare, non ero stupido. Ma non sapevo svolgere l’esericizio. Non sapevo nulla. La vergogna mi travolse, arrossii cercando di non sbattere il gessetto sul nero della lavagna, per far sentire quanto mi sentissi frustrato e umiliato in quel momento. Non doveva andare così. Non doveva succedere, potevo ignorarla o marinare anche quel giorno, sperare di essere abbastanza pazzo da rivedere Gerard Way e non pensare a nient’altro che a lui.
Mi balenò nella mente il suo volto, la sua voce.
Gerard.
Lo vidi entrare dalla porta dell’aula senza fare rumore, nessuno badò a lui. Si sedette al posto vuoto accanto al mio, sorridendomi composto. Nessuno l’aveva notato. Il professore mi richiamò.
«Iero, l’esercizio.»
Lo guardai velocemente prima di rivolgere di nuovo lo sguardo a Gerard. Sbagliò di nuovo la pronuncia.
«Non hai nemmeno giustificato l’assenza di ieri.»
Si stava facendo pesante. Iniziai a odiarlo, e si appesantì la testa, il respiro, il peso sotto al mio corpo. Cercai con gli occhi una risposta da Gerard, che non arrivò. Abbassò la testa con un sorrisetto trattenuto, e fu un colpo al cuore. Non perché fosse bello, o che mi avesse fatto tenerezza, lui aveva detto di avermi voluto aiutare e non lo stava facendo.
«Non vorrei costringermi ad avvertire i tuoi genitori.»
«Sono maggiorenne.»
«Finché sei in questa scuola, non sei libero di scorrazzare in giro per il paese invece di svolgere il tuo dovere» alzò il tono di voce e avrei voluto tappargli la bocca, o scappare, o dare un calcio al muro. Non scelsi nessuna di queste opzioni.
«Non ho scorrazzato in giro per il paese» risposi a denti stretti.
«Frank» dissero due voci in coro, una femminile e una maschile. Gerard, e anche la stupida dietro di lui. Maledissi lei e implorai lui con lo sguardo. Gerard ricambiò lo sguardo implorante, voleva che tacessi. Avrei taciuto, se era così che voleva.
«Bene, prendi le tue cose e vai in Presidenza, convocheremo tua madre.»
Battei un pugno sulla coscia stringendo le labbra, per combattere la rabbia. Andai al mio posto e sussurrai un grazie a Gerard, che ricambiò con un sorriso spento. «Ci vediamo dopo.»
Annuii.
«Perché grazie
Era stata Jamia a parlare. La guardai torvo. «Non dicevo a te.»
Per un attimo la vidi spalancare gli occhi, poi mi alzai dal posto e a passo svelto lasciai l’aula. Chiusi la porta alle mie spalle, sospirando, forse per non piangere. Non avevo intenzione di andare in presidenza, perciò guardai l’ora: ero ancora in tempo prima che il professore finisse la lezione e mi portasse dal Preside, perciò chiamai mamma e mentii che non mi sentivo benee che forse avevo un’influenza. Arrivò non troppo tempo dopo, giusto in tempo per firmare e poi la campanella suonò. Andai a passo svelto verso l’uscita accompagnato da mamma e salii in macchina, facendo finta di avere mal di stomaco. Arrivati a casa, senza dirci una parola, sentii un nodo in gola. Corsi nel bagno del piano terra e vomitai per davvero, inaspettatamente. Mamma mi soccorse tenendomi la fronte, come succedeva ogni volta.
«Devi restare a casa» mugolò.
Scossi la testa emettendo un no strozzato, ansante. Come avrei visto Gerard? Dovevo vederlo, potevamo fare lezione insieme. Potevamo parlare, potevo avere un amico, non volevo restare a casa.
«Frank, ti prego, non sei in ottimo stato, e poi domani...»
Quell’interruzione non mi piacque. Era il telefono che squillava. Sentii la mano della mamma allontanarsi dalla fronte, e mi pulii la bocca con l’asciugamano. Ero in ansia, mi ero dimenticato che il professore avrebbe chiamato mamma e gli avrebbe detto che avevo marinato. Mi avrebbe messo in punizione, mi avrebbe fatto mille domande, mi avrebbe tolto il permesso di farmi altri piercing e di uscire ancora di meno, mi avrebbe impedito di vedere Gerard. Ma non potevo permetterlo, non potevo non vedere Gerard. Avrei inventato una scusa, una qualsiasi, qualcosa di credibile ma che non mangi la foglia, qualcosa di idiota e semplice in modo che non andasse alla ricerca di prove o che mi cacciasse in altri guai. Già la storia della canna doveva rimanere nascosta il più possibile, andava bene tutto, ma non che sapesse quello.
Mamma pose fine alla telefonata, non avevo fatto in tempo a preparare una scusa e andai nel panico, sentii un altro conato di vomito minacciare di uscire. Ecco perché vomitavo: gli attacchi di panico.
«Frank» pronunciò il mio nome senza espressione, atona. Dovetti reprimere un altro conato. Avevo caldo ma allo stesso tempo sentivo il gelo nelle vene. Stai calmo Frank, Cristo santo, stai calmo.
«Papà vuole venire a prenderti.»
Papà. Papà era peggio dell’essere scoperti di aver marinato. Era peggio dell’essere convocati dal Preside, era peggio dell’essere scoperti a fumare una canna con gente quasi estranea e poco di buono, papà no, non volevo stare con lui, mi odiava, odiava anche mamma, no.
Mi aggrappai alla porta del bagno per non cadere. Lui mi voleva male. Voleva uccidermi, lo aveva sempre voluto. Mamma lo aveva allontanato perché voleva farci del male. Ero il suo male. Mamma diceva che lo amava ancora, ma lui voleva solo il nostro dolore. Scossi violentemente la testa.
«Frank, lui non vuole farti del male» sentii una nota di rimprovero nella sua voce. Come lo sapeva? Lei non sapeva niente di cosa mi faceva papà quando ero solo con lui a casa. Mi avevano tenuto lontano da lui, da casa sua, perché sapevano che mi avrebbe fatto del male, che mi avrebbe ucciso.
Disapprovai scuotendo la testa con forza, stringendo i pugni. Volevo vomitare.
«Smettila
«Mamma, no! No! Non voglio stare con lui!»
«Lui non ti ha mai fatto del male!»
«Sì, invece! Mi ha colpito con un piede di porco! Mi ha spinto sugli scalini, mi sono rotto il naso, mi ha chiuso in quel posto orrendo, senza luce, mi ha picchiato! Mi ha sempre picchiato!»
«ERA LA SCHIZOFRENIA A FARTELO CREDERE, FRANK!»
Mi sentii mancare. No. Non ero schizofrenico. Non ero malato. Nemmeno pazzo. Provai a scuotere il capo, a rispondere, a reagire, ma ero paralizzato. Non ero pazzo, lui mi picchiava davvero, lo avevo visto, lo avrebbe rifatto. Non sarei andato con lui, non di nuovo. Arretrai nel bagno, piegandomi sul water.
«Oddio, Frankie, scusami, scusami tanto...» singhiozzò, prendendomi la fronte. Vomitai di nuovo. «Non avrebbero dovuto smettere di controllarti.»
«Non sono pazzo» sputai tra i colpi di tosse «mi odia.»
«Hai smesso di prendere i farmaci...»
«Non sono pazzo...»
«Va tutto bene, Frank, va tutto bene. Stai bene.»
Mi presi la testa tra le mani, preso da un forte mal di testa, poggiando i gomiti sul bordo del water. La testa girava lentamente, volevo dormire, dormire e non svegliarmi più. Non sono pazzo, mamma. Papà mi picchiava. E Gerard è mio amico. Gerard esiste, e io ho bisogno di lui.
 
 
«Come ti senti?»
Guardai la figura che mi scrutava di sottecchi dal bordo del letto, e mi misi a sedere. «Mi fa male la testa.»
«Vuoi che vada via?» chiese sottovoce, ma scossi la testa. Non volevo restare solo, soprattutto prima di vedere papà. Non avrei nemmeno dovuto chiamarlo papà quell’uomo, avevo paura di lui.
«Mio padre verrà a prendermi e...»
Gerard si fece vicino. A pensarci, non avevamo mai avuto un contatto fisico, nemmeno con le mani. Trasalii quando mi guardò dritto negli occhi. «Io sarò con te, Frank.»
«Vuole farmi del male, lo so.»
«No, io sarò al tuo fianco.»
Annuii. Tirai fuori la mano da sotto le coperte e lui l’afferrò. Tremai, era caldo, mi stringeva. Era così vero, così vicino. Mi stesi di nuovo stringendo la sua mano, ma non si mosse di più, e ne rimasi quasi deluso, ma non potevo aspettarmi di più. Era solo un amico. Un amico bello e misterioso.
Chiusi gli occhi, ma non dormii, il mal di testa era troppo forte per conciliarmi il sonno. La presa era ancora salda, stretta, sicura. Non mi avrebbe lasciato andare.
Dopo qualche minuto lo sentii fare dei rumori con i vestiti, alzai un occhio e vidi che si salva togliendo le scarpe senza spostare la presa delle nostre mani. Salì le gambe sul materasso con cautela, come se avesse paura di svegliarmi, e si posò accanto a me, verso l’esterno, con le mani ancora intrecciate ma senza toccarmi di più. Deglutii, e temetti mi avesse sentito. Aprii gli occhi e mi stava guardando intensamente.
«Gerard-»
«Dormi, Frank.»
«Mi distrai» ammisi, distogliendo lo sguardo da quegli occhi verdi, verdi, verdi, verdi. Così verdi. Così fottutamente verdi.
Lo vidi sorridere. «Anche tu mi distrai.»
Lo guardai di nuovo con aria interrogativa.
«Mi distrai dalla realtà.»
«Inizio a pensare che sia io la tua allucinazione» ridacchiai, anche se sotto sotto non ne ero divertito da quell’affermazione. Avevo detto a me stesso di essere pazzo, forse.
«Frank, sei ancora convinto che io sia un’allucinazione?»
Mi guardai intorno. «Sto cercando di non chiedermelo.»
Le mani erano ancora strette. Più strette di prima, lo stavo stringendo, come se avessi paura che svanisse come polvere, ma era ancora lì, fermo, sereno.
«Se continui a guardarmi così ti ritrovi con me addosso» fece una risata più rumorosa, quasi seduttiva, mostrando i suoi denti così insoliti. Risi con lui, imbarazzato.
«Ma tu mi stai tenendo la mano» mi giustificai, come se servisse a qualcosa. Invece lo fece avvicinare di più con la testa e deglutii rumorosamente, non staccava gli occhi da me. Erano così penetranti. Così maledettamente... verdi.
Sollevò il capo e lo fece vicinissimo alla mia faccia e per poco non gli finii addosso per la voglia di baciarlo. Volevo baciarlo, perché era bellissimo, e le sue labbra sembravano così morbide. Gli stavo urlando “baciami” da tutti i pori, ma non lo faceva. Restava solo a pochi centimetri da me, respirando sofficemente sulle mie labbra, stringendomi la mano.
«Gerard...»
Suonò come un gemito e avvampai allontanandomi.
«Non ti lascio, Frank.»
«Non devi.»
«Non lo farò.»
«Promettimelo.»
«Te lo giuro sulla mia anima.»
«Ce l’hai un’anima, Gerard?»
 
 
Temetti che mi avrebbero imbavagliato e legato con la camicia di forza pur di farmi stare zitto e fermo, ma il fatto di dover vedere papà ed essere costretto a passare con lui un’intera giornata mi faceva andare nel panico. Aveva fatto credere a tutti che era una persona a posto e che quello pazzo fossi io, perché diceva che inventavo cose, ma io vedevo, non ero stupido, e ricordavo. Ricordavo quando mi colpì con un piede di porco sulla schiena mentre sistemava il garage e io rientravo da scuola. Ricordavo quando da piccolo stavo salendo gli scalini e mi spinse facendomi rompere il naso. Ricordavo qualunque avvenimento, qualunque cosa mi avesse fatto, ma nessuno mi credeva, pensavano che fossi pazzo e paranoico, ma non lo ero, avevo la certezza che fosse lui il folle assassino che cercava di farmi fuori nel modo peggiore possibile.
L’ansia mi travolse di nuovo diventando presto panico. Dov’era Gerard? Lui non mi avrebbe lasciato solo.
«Frank, io vado, d’accordo?» mormorò mamma nell’orecchio e trasalii. Mi stava lasciando solo con dei camici bianchi sconosciuti a farmi incontrare di nuovo papà. Sarei voluto svenire e svegliarmi il prossimo mese, o il prossimo anno, magari la prossima vita. Quell’uomo aveva soldi, donne, tutte le lussurie della vita, ed era quasi rivoltante definirlo mio padre. Mamma ed io eravamo la sua sventura. E voleva uccidermi, voleva togliermi dai suoi piedi per sempre. Veniva a prendermi per questo, ne ero certo.
Annuii a mamma dopo un tempo indeterminato che stesse aspettando.
«Mi prometti che ti comporterai bene?»
No. Scossi la testa. Non le promisi un cazzo. Mi avrebbe ucciso.
«Ti aiuteranno, Frank.»
Solo Gerard poteva aiutarmi, e non era con me. Avevo bisogno di lui in quel momento e mi sentii schiacciare i polmoni, sentivo che stava arrivando. Papà stava arrivando.
Mamma mi lasciò un bacio sulla tempia e andò via, lasciandomi nella stanza poco arredata con due uomini con un lungo camice bianco. Dottori.
«Non voglio stare qui» mi lamentai «voi dovete fare qualcosa. Quell’uomo mi ucciderà, mi odia, avete capito?»
«Signorino Iero, non è il caso» uno dei due fece pressione maggiore sulle spalle per tenermi fermo.
«Un cazzo! Non voglio morire! Che ne sarà di Gerard? Che farà senza di me?»
«Non siamo tenuti a rivolgerle la parola in questo momento» masticò l’altro in un borbottio.
«Lasciatemi andare!» dovetti protestare cercando di liberarmi, ma mi tenevano fermo, erano davvero più muscolosi.
«Dottor Toro! Il cliente è arrivato» squittì una voce femminile e acuta alle nostre spalle.
No. No. No, no, no, no. Non poteva essere vero. Volevo morire, all’istante, senza sofferenze. Volevo scappare, fuggire lontano e non tornare mai più nella speranza di non rivederlo nemmeno quando saremmo stati entrambi nella tomba.
Il personaggio ambiguo in camice bianco alla mia destra si piegò verso di me, sorridendomi con falsa gentilezza, me lo sentivo, era lui la causa dell’inizio dei miei problemi. Me lo ricordavo, quell’uomo. Parlava come anche qualche anno fa, mi faceva domande di continuo e mi chiedeva se fossi da solo o ci fosse un amico con me. Era lui il paranoico, io non vedevo mai nessuno con me. E continuava a farmi la stessa domanda: Frank, c’è qualcuno con te?
Rispondevo sempre di no.
Vidi Gerard sedersi accanto al dottore, gli sorrisi e ricambiò.
«Non mi hai mai sorriso così, Frank» si immischiò il pazzo.
Lo guardai stranito. Ero strabico? Avevo guardato male? Non ero mica io il pazzo là in mezzo. E poi, quanti anni poteva avere, venti? Non era nemmeno chissà quale adulto esperto della vita e della psicologia umana, e cercava anche di capire se avessi malattie e altre cose.
Involontariamente, voltai la testa verso di lui credendo che Gerard mi avesse chiamato, e invece no, e quindi il dottore, come lo chiamavano gli altri uomini vicino a me, mi lanciò un’altra occhiata inquisitoria.
«Chi guardi, Frank?»
Ad ogni domanda, ogni frase, ogni sillaba metteva sempre il mio nome alla fine, come se non ricordassi come mi chiamavo e avevo bisogno di farmelo ricordare. Non ne avevo bisogno, idiota.
Scrollai qualcosa dalle spalle, forse una foglia. Poi lo guardai fingendomi innocente e gli sorrisi di sghembo. «Guardavo i tuoi capelli.»
«Ti piacciono?»
«No.»
Si alzò in piedi, allontanandosi. «Oh, salve Mr. Iero!»
Rabbrividii. Il cielo fuori dalla finestra si era fatto più scuro. Presi a tremare, mentre una voce mi chiamava. Era accanto a me, mi teneva la mano.
«Frank, Frank, Frank» parlò velocemente «ci sono io qui con te, va tutto bene.»
«Gerard, non lasciarmi» non fui ancora capace di alzare la testa e guardarlo in faccia. Avevo paura di incontrare il suo sguardo, di vederlo incendiarmi con gli occhi, non volevo essere bruciato da quell’odio.
«Non ti lascio, te l’ho promesso.»
«Voglio morire» dissi con un filo di voce, singhiozzando, avevo già la vista offuscata. Piansi. Una mano forte e sicura mi prese la spalla, costringendomi ad alzare la testa. Mi stava fissando. Papà, non farmi del male. Non farlo. Non ti odio. Non farmi male.
 
 
SPAZIO AUTRICE
E con più di dieci giorni di ritardo sono qui! Sì beh oh avevo un attimo perso il filo della storia e avevo bisogno di qualche problema da mettere in mezzo, e non avevo idea di come svilupparlo, quindi mi sono presa il mio tempo.
Come avevo anticipato, con la scuola (e i debiti da recuperare, soprattutto) il tempo di aggiornare si è ridotto, ma non lascio la storia. Forse. O forse no.
Detto questo, grazie delle recensioni a Gwen, Gaia e alle altre, grazie anche a Miriam, Elis e Ada che leggono sclerandomi in chat. Lov iu.
Alla prossima. Un abbraccio, Adam Angelica

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


«Vado a piedi.»
«Ma ci vuole mezz’ora di cammino...»
«Ci vado a piedi.»
«Frank, davvero, non c’è nessun-»
«TI HO DETTO CHE VADO A PIEDI!»
Riuscii a zittirlo quello stronzo. E se mi avesse portato chissà dove invece di accompagnarmi a scuola, per uccidermi e nascondere il mio cadavere? Ne ero terrorizzato. Non riuscivo a guardarlo negli occhi, stavo sempre il più lontano possibile da lui. A pranzo rimanevo chiuso a chiave in camera, sopportando i morsi della fame fino alle diciassette, ovvero quando andava al lavoro, uscivo e andavo a comprare un hamburger al fast food, non sia mai che avesse avvelenato il mio cibo. Ogni mattina mi alzavo prima di lui e scappavo fuori da casa per andare a scuola a piedi, correndo, nella speranza che non mi raggiungesse con l’auto. Era come essere in ostaggio, ma io ero in ostaggio, ero il suo piccolo indifeso ostaggio che avrebbe fatto fuori al primo segno di cedimento o di spavalderia. Non potevo permettermi di essere spavaldo con lui, ma almeno gli dicevo di no. Gli dicevo di no a pranzare insieme. Gli dicevo di no a dormire insieme. Gli dicevo di no a sedermi con lui sul divano. Gli dicevo di no ad accompagnarmi a scuola. Gli dicevo di no anche di respirare nella stessa stanza. Non aveva il diritto di starmi vicino, non dopo avermi rovinato l’infanzia e aver rovinato il matrimonio a mamma.
Quella mattina si era alzato prima, aveva capito il gioco. Ero sul punto di uscire di casa quando mi piantò una mano sulla spalla. Mi girai di scatto, la porta si aprì e lui mi sferrò un pugno. Lo vidi avvicinarsi e chinarsi di nuovo. Non riuscii a urlare, ero paralizzato. Le lacrime agli occhi, il respiro bloccato, sentivo il terrore bruciarmi nelle arterie, nello stomaco, nei polmoni. Ero fottuto, mi avrebbe ammazzato lì, in quel preciso istante. Istintivamente mi coprii la faccia con entrambe le braccia, singhiozzandoci contro. Poi sentii dei passi allontanarsi. Era andato via.
Con cautela e ancora tremante spostai le braccia, e quando effettivamente vidi che se n’era andato cercai di alzarmi e correre ma finii per gattonare velocemente verso l’uscita. Annaspando, mi alzai, chiusi la porta alle mie spalle e corsi, corsi, corsi come mai avevo fatto. Sentivo che sarei volato da un momento all’altro per la troppa velocità, non riuscivo a fermarmi. Mi bruciava la gola, e le gambe dolevano da impazzire, ma correvo in preda alla paura. All’improvviso mi fermai.
Crollai a terra, sfinito, in preda al dolore ai muscoli delle gambe e all’ossigeno che non si decideva ad entrare.
«Frank!»
Era lui. Cercai di alzarmi per vederlo meglio ma mi sentivo inchiodato all’asfalto.
«Frank, ehi, mi senti?» si era fatto vicino, accarezzandomi una guancia. Annuii ancora senza fiato, con la gola dolorante e il sangue pulsante nelle tempie. Cercai la sua mano, ed era lì, pronta ad afferrarmi.
«Cosa ti ha fatto?»
«Mi...» ansimai, ma di meno, stavo riprendendo lentamente fiato «mi ha dato un pugno...»
«Non succederà di nuovo, te lo prometto. Se solo fossi lì...»
Scossi la testa. «Io non torno lì, Gerard, no voglio tornarci.»
«Vuoi metterti in piedi? Fa freddo lì per terra» mi fece notare, prendendomi la mano. Annuii con energia ancora con la bocca spalancata per riprendere fiato e mi sollevai da solo, mi bastava che mi tenesse la mano. Barcollai un po’, ma rimasi in equilibrio. Ci guardammo negli occhi, con le mani ancora strette. Non parlammo più quella mattina. Camminò al mio fianco fino a scuola, tenendomi la mano, a volte stringendola, a volte allentando la presa, ma erano sempre unite. Avevo freddo, e mi teneva caldo. Avevo paura, e mi proteggeva.
Alla fine della giornata a scuola, ero di nuovo davanti al portone immobile, senza sapere cosa fare e dove andare. Papà non sarebbe venuto a prendermi come le altre volte, sapeva cos’aveva fatto, e come avevo reagito. Lo avrei detto alla polizia. E lui non avrebbe rischiato.
Vidi Gerard raggiungermi a mio fianco, e senza prenderci la mano camminammo fianco a fianco, vicinissimi. Ogni tanto lo guardavo perché, Cristo, non si poteva non guardarlo, era bellissimo. Era pallido, con gli occhi verdi e sereni, le sopracciglia più scure e i capelli rosso, di un rosso strano, quasi ciliegia. Quasi rosso sangue. Ma non andavo matto per la vista del sangue, quinti optai per il rosso ciliegia. Non rinunciavo a ricambiare i suoi sguardi, erano sempre così invitanti.
Eravamo sul viale che portava al parco della città, e osservai il cancello aperto in lontananza. Mi sarei potuto nascondere lì, con lui. Avremmo potuto parlare senza essere disturbati, stare da soli, insieme, mi avrebbe protetto e salvato.
Lo precedetti e quasi correndo entrai nel parco, deserto. O forse no, c’erano un paio di studenti del college intenti a leggere o a scrivere tesi, preparare esami, rilassarsi. Io ero lì per stare con lui. E lontano dall’altro lui.
Mi guardai alle spalle e lo vidi che era esattamente dietro di me, mi sorrise, gli sorrisi, e ci inoltrammo nel parco, nel verde, nella natura. Il cielo era grigio scuro, c’erano delle nuvole grosse e minacciose. Temetti si mettesse a piovere, perciò ci riparammo sotto il capannone abbandonato, quello dove mamma mi portava sempre quando ero più piccolo quando mi scappava la pipì e il bagno del bar era dall’altra parte del parco. Volevo tornare da mamma, lei non mi avrebbe mai fatto del male. Nemmeno Gerard. Ed ero con lui, in quel momento, sotto al capannone, in silenzio. Mi guardò di nuovo, e lo osservai con la coda dell’occhio. Lo vidi leccarsi le labbra e per un istante il mio cuore fece un tuffo. Le sue labbra.
Erano così belle, rosee, sembravano morbide. Mi fece girare la testa quel pensiero. Ero così... gay.
Qualcosa di piccolo e bianco scese dal cielo, posandosi sull’asfalto fuori dal capannone. Poi un altro. E un altro ancora.
E altri dieci, venti, trenta. Mi alzai in piedi, mi affacciai e venni investito da tanti fiocchi di neve, tutti diversi, ognuno fatto a modo suo; ogni fiocco di neve era speciale nella sua forma, nel suo modo di essere, ed erano tutti bellissimi. Mi voltai verso di lui e stava sorridendo, perciò si alzò ed uscimmo fuori, sotto la neve. I due studenti erano andati via, e quindi eravamo rimasti soli. C’era la neve, e c’era Gerard, tutto il resto non importava più.
Mi prese la mano, mentre guardava verso il cielo e i fiocchi banchi si posavano leggeri sul suo viso che sembrava così duro ma caldo allo stesso tempo. Sembrava liscio, volevo accarezzarglierlo. Mi feci più vicino a lui e abbassò la testa per guardarmi. Eravamo troppo vicini, come pochi giorni prima nella mia stanza. Fece una leggera risata mentre si piegava a poggiare la fronte sulla mia. Non mi sentivo più respirare, ero paralizzato, terribilmente emozionato. Il cuore mi batteva così velocemente da sentire il sangue pompare nelle arterie. L’altra sua mano si posò sulla mia guancia, ed era congelata che a contatto con la mia pelle mi fece sussultare, e venni scosso dai brividi.
«Ehi» sussurrò con un sorriso adorabile.
Annuii senza motivo. «Sei bellissimo.»
«Shh, Frankie.»
Gli guardai un’ultima volta le iridi verdi, poi le labbra prima di chiudere gli occhi e sentirle sulle mie.
Ero pazzo.
Di lui.
 
 
Era seduta davanti a me e mi guardava con aria di rimprovero. Feci di tutto pur di sembrare dispiaciuto, ma non mi riuscì, con la testa ero ancora sulle labbra di Gerard. Sorrisi debolmente al pensiero e mamma prese a parlare con voce spezzata.
«Con chi sei stato?»
Alzai la testa e la guardai. «Da solo.»
«A fare cosa?»
«Mamma, ho diciotto anni.»
Sapevo che non era per niente una valida giustificazione, ma non le avrei mai potuto dire “ehi mamma tranquilla, ero con Bob Bryar e la sua banda di strafatti e cocainomani a passarmi il tempo”, neanche per sogno. Non avevo troppe motivazioni valide. Ero un ragazzo oppresso? Volevo marinare per il gusto di farlo?
O forse perché avevo bisogno di sentirmi per qualche ora meno pazzo del solito?
Scosse la testa. «Papà ha chiamato, era preoccupato...»
«Preoccupato un cazzo! Mi ha colpito! Mi ha dato un pugno!»
«Non hai niente in faccia» mi zittì, fredda. Non era mai così fredda.
Digrignai i denti. Perché non voleva credermi? Perché solo Gerard mi credeva e mi ascoltava? Ero strano, pazzo, immaginavo le cose? No. Non l’avevo immaginato,l’avevo sentito quel fottuto pugno. Cazzo, se l’avevo sentito. Doveva credermi, doveva lasciarmi restare a casa mia, con Gerard, non con papà. Doveva capirmi, ascoltarmi, avevo diciotto anni, potevo decidere da solo cosa fare e con chi stare.
«Io resto qua.»
«Frank-»
«E se la mia presenza è un peso posso affittarmi un appartamento, io con quello non ci vivo!»
Sembrò andare su tutte le furie, perché le si infiammò il viso. «Quello è tuo padre, Frank. Non ti vuole fare del male. Sei semplicemente malato
Marcò la parola malato in un modo che mi inquietò da morire. No, non lo ero, forse lo ero stato, ma ero guarito. Stavo bene. Non ero pazzo.
«Posso andarmene.»
«No, puoi restare qui. A patto che andrai a scuola e prenderai tutti i farmaci che ti dico io. E che frequenterai il dottor Toro.»
Sbuffai, ma non potevo rifiutare. Tanto il tempo per stare con Gerard lo avrei avuto, in un modo o nell’altro. Era la mia priorità, non i farmaci, il dottor-o-almeno-fingo-di-esserlo-Toro e papà. No, papà era sempre una priorità, ma non di quelle positive. Gerard era la cosa più bella che mi fosse capitata. Sentivo di appartenergli. Sentivo che me ne sarei potuto innamorare, e non ci vedevo niente di meglio. Chissà se avrebbe mai potuto amarmi quanto io sentivo di poter amare lui. Era tutto così confuso e insicuro, ma lui c’era. Mi bastava questo.
Accavallai le gambe in attesa che aggiungesse qualcos’altro, ma tacque. Mamma era di poche parole quando si trattata di situazioni spiacevoli. Non avrei mai dimenticato quando quello si era tolta la fede nuziale, aveva messo qualche vestito nella valigia ed era uscito dalla porta. Un sollievo per me, una tragedia per mamma. Era convinta di amarlo ancora, e in che modo? Come si poteva amare una persona che faceva del male al proprio figlio, al proprio sangue? Lei lo amava ancora, si vedeva, ma di lui non ne sapevo niente. Non intendevo saperlo. E forse nemmeno mamma voleva avere delle risposte da lui, in fondo era sempre stata così, loquace ma taciturna allo stesso tempo. Era loquace quando si rifaceva le unghie o facrva shopping, era loquace quando c’era qualche pettegolezzo nel vicinato, era loquace quando era invitata a cena da amici e parenti. Poi c’era la mamma taciturna, che avevo paura a conviverci anche io. Era silenziosa, di quel silenzio tombale che mi faceva sentire freddo nelle ossa. Sperai di vederla il più tardi possibile silenziosa come una tomba. Letteralmente.
Mi alzai lentamente dalla mia sedia ma mi bloccò per un polso. «Ti voglio tanto bene, Frankie.»
Aggrottai la fronte, e quel freddo glaciale mi pervase le ossa. Avrei preferito non sentirla, quella frase, pronunciata in quel modo quasi dispiaciuto. Quasi come se si sentisse profondamente in colpa per qualcosa.
Lasciò andare il polso e le diedi le spalle, salendo le scale fino al piano superiore. Gli scalini non mi erano mai sembrati così numerosi, e così alti, e così faticosi. Mi mancò l’aria, e tutto prese a girare vorticosamente. Sentii di striscio una cornacchia ridere di me. Vidi il corpo della cornacchia sfrecciarmi davanti: completamente nero. Era un corvo. Non una cornacchia.
Inciampai sull’ultimo gradino e il corvo sparì, insieme alla sua risata che mi derideva. Finii a terra in un tonfo sordo, cacciando un gemito di dolore. Entrai in camera zoppicando leggermente e mi stesi sul letto. Non riuscivo a fare niente. Non ce la facevo. Non volevo.
«Non sono pazzo» cercai di dire a me stesso «non sono pazzo.»
Più me lo ripetevo meno me ne convincevo.
Non sono pazzo.
«Frank...»
«Gerard» non mi sorpresi nemmeno di vederlo accanto a me «sono pazzo.»
Scosse la testa. Si fermò a riflettere, poi la scosse di nuovo. Di più. Aveva smesso di crederci anche lui, che fossi sano di mente.
«Tu non esisti, Gerard.»
Mi lanciò un’occhiata disorientata, quasi spaventata.
«Non esisti.»
«No, non è vero.»
Sentii pizzicare il naso. «Tu sei morto! Morto! Sei morto in quell’incidente, ti ho visto!»
I suoi occhi si inumidirono, così come i miei. Non volevo. Non volevo dirglierlo. Come avevo potuto ricordare a qualcuno di essere morto? E se lo avessero detto a me, che fossi morto?
«Sei uno psicotico, Frank» vidi una lacrima spaccargli la guancia. No. Non doveva piangere. In risposta, a me scesero due lacrime. E una terza. La quarta si preoccupò di bloccarla lui baciandomi la guancia.
«Sono pazzo...»
«Smettila» mi implorò, singhiozzando «non lo sei.»
«Quando sei morto?»
Lo sentii deglutire sulla mia guancia, mentre mi baciava la fronte. «Il 31 dicembre 1996.»
«Non esisti.»
Si staccò dal mio viso, senza guardarmi. «E tu sei psicopatico.»
Annuimmo insieme.
Lui non esisteva.
Io ero pazzo.
Avevo immaginato quell’incidente, ma lui era morto davvero quasi dieci anni fa, e io mi ero innamorato di qualcuno che era frutto della mia malattia.
«Puoi baciarmi, Gerard?»
Esitò un attimo, guardandomi perplesso, poi posò le labbra sulle mie, aprendole, lasciarmi sfiorare la sua lingua. Non sentivo niente. Né gioia, né emozione, niente. Sentivo solo lui che accarezzava la lingua e le labbra dolcemente, come un bacio d’addio. Ma non era un bacio d’addio, e nemmeno di benvenuto, era solo Gerard, che mi era rimasto accanto nella mia testa.
Nella mia fottuta testa.
 
 
SPAZIO AUTRICE
Ho con me un giubbotto antiproiettili, se permettete ho bisogno di chiarire alcuni punti.
Dunque, ricapitolando: avevate già capito che Frank fosse malato, che Gerard fosse frutto delle sue allucinazioni, e dopo essermi fatta un giro su wikipedia (cosa che non ho fatto prima di iniziare a scrivere, damn) ho accuratamente esaminato i vari disturbi psicologici che provocano allucinazioni uditive, olfattive, tattili e visive. Ho letto che la schizofrenia si manifesta in casi rarissimi in giovani – in questo caso, Frank ha appena diciotto anni – e mi sembrava ambiguo dire che fosse stato schizofrenico in passato, che fosse guarito e che si fosse manifestata di nuovo nel giro di pochi anni.
Per questo, nei prossimi capitoli sistemerò questo mio errore, diciamo, di analisi della patologia. Come sono colta oggi. Ho potuto constatare che quello di cui è effettivamente affetto Frank è la psicosi.
Vi annuncio che il finale è imminente, purtroppo quest’id** non è destinata a durare a lungo per il fatto che è stata avventata e poco progettata, e per evitare di sospenderla per mancanza di id** ho deciso di accorciare il tutto e porre presto una fine. Del resto, era solo un modo per riprendere a scrivere.
Scusate il piccolo papiro nelle note, non uccidetemi per questo capitolo relativamente breve, estremamente fluff e confuso. L’ho scritto nell’arco di cinque giorni ma è pessimo, lo so.
Un abbraccio, Adam Angelica

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Spensi tutte le luci per restare nel buio più totale della stanza, in modo tale da non poter più vedere Gerard, e non potevo neppure valutare se fosse ancora con me o se ne fosse andato.
Che ore erano?, le due, di notte, probabilmente. Da quando avevo avuto quella discussione con mamma non ero uscito dalla mia stanza tranne che per andare al bagno, avevo una bottiglia d’acqua e non avevo alcun bisogno di uscire e vederla, o vedere la luce, o fare qualunque altra cosa. Dalle quindici fino a quel momento Gerard era sparito nel nulla, non l’avevo visto, non l’avevo sentito, da un lato mi stava distruggendo dentro il fatto che se ne fosse andato, dall’altro ne ero sollevato. Mi faceva credere più di chiunque altro che fossi impazzito, di nuovo.
Sei psicotico, Frank.
Sì, lo ero. Ero psicotico. Ed avevo un brutto presentimento su cosa sarebbe potuto accadere ora che ne ero consapevole. Decisi che mi sarebbe rimasto ben poco da fare quando mamma avrebbe iniziato a costringermi ad andare dal dottor Toro, quindi sarei voluto andare a vedere Gerard per l’ultima volta. Non sapevo dove trovarlo né come rintracciarlo, forse avrei solo dovuto aspettare che venisse lui ma no, non potevo saperlo. Forse se n’era andato e aveva deciso di non vedermi più.
Mi alzai dal letto, procedendo a tentoni e rabbrividendo per l’improvvisa differenza di temperatura che c’era tra la stanza e sotto le coperte. Presi il cellulare per controllare l’ora e l’improvvisa luminosità del display mi fece male agli occhi, solo dopo che mi abituai vidi che erano quasi le due di notte. Pensai che fosse l’orario meno adeguato per “uscire” di casa, chiamiamola vera e propria fuga, ma lo feci lo stesso. La temperatura era quasi sotto allo zero, dovetti coprirmi quanto più potei. Uscii dalla stanza in punta di piedi, presi le scarpe, scesi le scale con cautela. Presi le chiavi e indossai le scarpe solo una volta fuori di casa, dopodiché camminai velocemente senza sapere dove andare. Alla villa del paese? Nel parco a due isolati di distanza? Obiettai per la villa, era più grande. Ispirai a fondo l’aria notturna e rabbrividii per il freddo, sentendomi congelare la punta del naso e le orecchie. Mi rimproverai a non aver indossato il cappellino di lana.
Le luci erano accese, e le strade erano abbastanza illuminate, ma deserte, e quell’assenza di gente da un lato mi confortava, dall’altro mi intimoriva. Non ne feci una questione e non valutai nemmeno l’idea di tornare a casa, ormai ero fuori, a fare chissà che cosa, non lo sapevo neanche io, l’istinto mi aveva detto di fare così. Il cielo non era minaccioso, qualche nuvola chiara sparsa a macchiare il manto scuro della notte profonda. Raggiunsi l’entrata della villa in non così tanto tempo, e mi addentrai lungo il viale, sentendomi più al sicuro. Un pipistrello sfrecciò davanti a un lampione, e mi fece sobbalzare. Mi rannicchiai sotto un albero fissando il bloccaschermo dell’iPhone. Avvertii come un senso di vuoto e di smarrimento, a ritrovarmi da solo sotto un albero, in piena notte. Non avevo neanche sonno, perciò sarei stato capace di rimanere sveglio fino all’alba. Sbloccai il cellulare e cercai tra le canzoni una adatta a rilassarmi, ma neanche senza farlo apposta misi in riproduzione la playlist degli Avenged Sevenfold, che stavo cercando di evitare in quel momento. La prima canzone era I Won’t See You Tonight Pt.1, e fu un colpo basso. Era la mia canzone preferita in assoluto.
 
No more nights, no more pain
I’ve gone alone
Took all my strenght
But i’ve made a change
I won’t see you tonight.
 
«Frank.»
Feci un salto all’indietro sbattendo contro la corteccia per lo spavento. Accanto a me si stava sedendo un ragazzo, dai capelli rossi, e dovetti ancora riprendermi dallo spavento.
«Perché sei qui?» chiese con un tono di rimprovero.
Tenendomi una mano sul petto come per calmare il battito cardiaco che era aumentato vertiginosamente, inspirai a fondo. «Potrei farti la stessa domanda.»
«Non mandarmi via, Frank» mi pregò, avvicinandosi.
«Ma io non voglio essere pazzo.»
«Lo sei già, sciocco.»
Scossi la testa. «Non sono pazzo. Ho solo una malattia...»
«... che ti rende pazzo.»
Non risposi. Non lasciai nemmeno che si avvicinasse. Restammo così tutta la notte, fino al leggero schiarire del cielo, ascoltando la musica, e ogni tanto mi voltavo per accertarmi che fosse ancora con me, contro la corteccia, con la testa rivolta al cielo e gli occhi verdi che si spegnevano ogni minuto di più. Per un attimo ebbi l’impressione che stesse evaporando, o che stesse perdendo luminosità, come in una nuvola di fumo, ma era sempre lì. Non mi guardò neanche una volta, e un po’ mi ferì, ma il fatto che restava accanto a me mi faceva sentire meno male.
Quando vidi che erano circa le cinque, mi alzai e tornai verso casa, attardandomi girando per tutte le vie del paese. Erano quasi le sei quando rientrai, senza nemmeno preoccuparmi di aver fatto rumore. Risalii le scale con pesantezza, arrancando ogni tanto, e mi stesi di nuovo sul letto, beandomi del calore che c’era in casa rispetto al gelo all’esterno. Nel frattempo, qualche altra nuvola dall’orizzonte carica e scura era apparsa. Aprii la finestra, lasciando entrare la tenue e timida luce solare dell’alba, e osservai incuriosito le nuvole che fluttuavano veloci in aria. Una era molto scura, e il cielo non era più così blu come l’alba. Era di nuovo cupo, triste. Scesero dei fiocchi di neve. Pensai a Gerard. Mi mancava.
 
 
«Gerard Way, dici?»
Annuii al vecchio che stava davanti al cimitero a vendere le rose nel capannone tutte le mattine. Non sembrava così contento nel sentire il suo nome.
«Dovresti andare dritto dritto finché non sbucano quegli abeti, lì, ecco, ora ricordo bene, sì, devi andare dritto dritto fino agli abeti e poi svolti a destra. Hai capito? A destra. Là c’è una lapide con tanti di mazzi e di lettere. Quello là è Gerard Way. Sai quanta gente viene a vederlo ogni giorno?»
Scossi la testa.
«Tutti. Era il figlio maggiore del sindaco. Credo che oggi debba venire anche il più piccolo, come si chiama, quel ragazzo biondino e scheletrico. Anzi, dall’ultima volta ho visto che ha messo massa.»
«Grazie, devo andare.»
A passo svelto attraversai il cancello arrugginito e camminai “dritto dritto fino agli abeti”, poi esitai prima di svoltare a destra. Ne ero sicuro? Sì.
Erano iniziate le vacanze di Natale, e volevo vederla, la lapide. Sarebbe stato come rendermi conto sul serio che era morto. Inspirai e svoltai a destra. Più lontano da un paio di cespugli diventati bianchi per la neve di quella notte, c’era una specie di altare, con una foto al centro. Riconobbi subito i capelli rosso fuoco, ma più corti, più belli. Lo ammirai con tanta di quella malinconia che ero sul punto di accarezzarla, la fotografia. Mi mancava così tanto Gerard.
«Sei venuto a trovarmi?»
Alzai lo sguardo e lo vidi di nuovo accanto a me, ma non ci avrei mai fatto l’abitudine. «È qui che vivi?»
Scoppiò a ridere. «Se è così che vuoi chiamarlo, sì, vivo qui.»
«Ehi, tu!»
Sobbalzai davvero stavolta, e quando mi voltai di scatto vidi Mikey, l’amico di Bob.
«Che ci fai qui, Frank?»
«Niente» mentii, o forse no «niente, facevo... un giro. Non c’è Bob con te?»
Scosse la testa. Notai che aveva un fiore in mano. «Sono venuto a fare visita a mio fratello.»
Era come se mi fosse crollata la mascella per terra. Ecco perché mi sembrava di conoscere Mikey, era suo fratello. Ecco perché gli somigliava così tanto. Ecco perché non sorrideva mai, ecco perché fumava, perché ogni tanto lo vedevo uscire dal reparto psicologico dell’ospedale dove andavo io. Era Mikey Way. Ed era il fratello di Gerard, il figlio del sindaco.
«Perché mi guardi così?» domandò, infastidito. Mi sorpassò e posò il fiore accanto alla fotografia del fratello, che osservò per un paio di secondi. Avrei tanto voluto dirgli che Gerard era esattamente accanto a lui, a guardarlo con un sorriso divertito. Ci scambiammo un’occhiata.
«Senti, Frank, non l’ho ancora superata, va bene? Non ce la faccio, era una parte di me, era il mio migliore amico. Fammi il piacere di non girarmi intorno quando sono qui.»
Non sapevo esattamente come replicare. «Io lo vedo.»
«Cosa vedi?» sembrò ancora più infastidito.
«Gerard!» risposi con ovvietà. Mi avrebbe tagliato la lingua dall’occhiataccia che mi lanciò.
Gerard da dietro di lui mi fece segno di tacere.
«Tu sei matto» scosse la testa «te l’ho già detto, non ronzarmi intorno.»
«Mikey, io lo vedo, ci parlo, è mio amico.»
Stavolta assunse un’espressione più seria. «Giuro che se mi stai prendendo per il culo ti ammazzo, qui e ora.»
«No! Perché dovrei?»
Era spaventato, da me. «Frank, dovresti farti vedere da qualcuno.»
«Ho le allucinazioni. Lo so.»
Sospirò. «Pare proprio di sì.»
Riflettei sulla risposta che avrei potuto dare, ma non la trovai. «Gerard era innamorato?»
Sollevò un sopracciglio. «No.»
«Io sì.»
«Okay.»
Guardai di nuovo Gerard, ma teneva lo sguardo basso. Non era vero che non era innamorato, lo sapevo, come poteva non esserlo? Indietreggiai, ma senza incontrare gli occhi di Mikey. Uscii dal cimitero a testa bassa, sentendomi qualcosa bruciare da dentro. Mamma mi avrebbe mandato dal dottor Toro, quel pomeriggio, e non ero pronto a sentirmi chiedere di nuovo “chi c’è con te, Frank?”. Era odioso.
 
 
Tenni il brocnio durante tutta la seduta, borbottando qualche risposta accennata. Mi aveva chiesto inizialmente cos’avessi fatto durante la settimana, se avessi conosciuto qualche amico, e mi aveva chiesto se stavo bene. Alla prima risposi con un secco “niente di importante”, alla seconda mormorai un “no” bugiardo, e all’ultima esitai prima di dire “bene”.
«Dovresti essere più allegro, figliolo! Hai qualcosa che ti turba. È successo qualcosa? Qualcuno ti infastidisce
Non mi piacque quel termine. Avrei tano voluto sapere dove sarebbe voluto andare a parare. «Nessuno.»
«A me sembra che ci sia qualcuno che ti tormenta. Sei innamorato? Hai una ragazza?»
«No» arrossii. Non ce l’avevo e non l’avrei mai avuta, ma ero innamorato. Pazzo.
«E con tuo padre?»
Trasalii senza rispondere.
«Hai parlato con lui?»
Ancora tacqui.
«Vuoi parlarci?»
«NO!» sbottai. Gerard era seduto sulla sedia accanto alla finestra, un po’ a guardare me divertito, un po’ a osservare la neve che cadeva dal cielo. Ci scambiammo un’altra occhiata, più intensa, e il dottore se ne accorse.
«Cosa guardi, Frank?»
«Nessuno.»
Sollevò un sopracciglio, improvvisamente molto più interessato. «Nessuno? Ma io ti ho chiesto se guardavi qualcosa, non qualcuno
Un brivido mi risalì la schiena. «Mi ero distratto.»
«Chi o cosa ti ha distratto?»
Gerard mi sorrise, un sorriso triste. «Gerard.»
«Chi è Gerard?»
Mimò con le labbra due parole, due semplici parole che mi fecero esplodere in mille pezzi: ti amo.
«Frank» insistette.
«È il mio ragazzo» sussurrai ancora guardandolo mentre mi sorrideva con tristezza.
Il dottor Toro iniziò a scrivere delle cose su un blocco note. Guardai prima lui, poi Gerard, e mi passai una mano sugli occhi.
«Bene, Frank, direi che per oggi è abbastanza.»
 
 
Entrai a casa sbattendo tutte le porte, correndo verso la mia stanza. Chiusi la porta alle mie spalle senza delicatezza e mi accasciai contro il legno scoppiando a piangere. Mamma bussò per parecchie volte chiamandomi a gran voce, e se ne andò solo quando le intimidai urlando di andarsene. Ero un gran casino. Mi aveva detto che mi amava, e non avevo risposto. Avevo detto al dottor Toro della sua esistenza. Avevo rovinato la mia vita e la sua.
Mi trascinai contro il letto, e mi infilai sotto le coperte a continuare a piangere. Dov’era Gerard quando ne avevo bisogno? Perché non gli avevo detto che lo amavo anche io, che cosa me lo impediva?
Non volevo perderlo, non volevo vivere senza di lui. Mamma bussò di nuovo, e non trovò me che facevo resistenza contro la porta, perciò entrò con un bicchiere dal contenuto discutibile.
«Mi dispiace così tanto, amore mio, ma devi prendere questa.»
«Dove mi porteranno?»
«In un posto dove ti aiuteranno.»
Mi si riempirono gli occhi di lacrime di nuovo, e quelle più grosse scesero lungo le guance. Mi avrebbero portato via da Gerard. Lasciò sul comodino il bicchiere pieno fino a metà e mi raccomandò di berlo. Non appena chiuse la porta, Gerard camminò accanto a me verso il letto, abbracciandomi come non aveva mai fatto. Sorpreso e bisognoso di quel contatto, gli diedi un bacio sulla labbra che ricambiò con non poca delicatezza.
«Non potrò venire con te» mi sussurrò in un orecchio, e lo stomaco si contorse.
«Anche io ti amo» sussurrai contro la sua spalla.
«Addio, Frank.»
Mi lasciò un altro bacio più vorace, ma più passionale, più caldo, e poi si alzò. Quando riaprii gli occhi nella stanza ero già da solo. Mi sentii sprofondare. Volevo morire. Dovevo morire.
 
 
SPAZIO AUTRICE
Quanto tempo è passato da quando ho aggiornato? Cosa? Quasi due mesi? Le botte me le merito, lo so. Scusate per la brevità – come al solito – del capitolo, l’ho scritto molto di passaggio perché, eh già, mi duole dirlo, ma il prossimo sarà il finale.
Grazie delle tante letture che ricevo su wattpad e grazie delle poche – ma buone – recensioni su efp, spero di non annoiarvi troppo e di non fare errori madornali.
Un abbraccio, Adam Angelica

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Mi piaceva quella stanza, era piccola e spoglia e non mi faceva pensare a nulla, aveva quell’intonaco un po’ vecchio e scrostato di un colore indaco chiaro e ammuffito, dava l’impressione di essere resistito a tante persone, a tante tragedie, a tanta tristezza, e anche alla follia. Ogni tanto giravo intorno a me stesso facendo girare vorticosamente la testa e ricadere sul materasso, per trovare qualcosa da fare che non sia stato fissare il muro. A lungo andare quel colore mi faceva diventare ancora più pazzo.
Non avevo visto Gerard da quando ero lì, mi mancava da morire, mi mancava come l’aria. Mi aveva detto addio e se n’era andato, mi aveva lasciato da solo quando avevo bisogno di lui.
L’ospedale non era così male dopotutto, se non fosse stato che non potevo ascoltare la musica, neanche avere il mio cellulare o i miei CD. Gli infermieri dicevano che qualunque oggetto avrebbe potuto danneggiarmi, ma la musica no, non mi danneggiava.
Dicevano anche che mi stavano aiutando, che mi stavano curando e sarei tornato un ragazzo normale, e avrei voluto tanto essere un ragazzo normale, ma se ciò implicava stare lontano da Gerard e non rivederlo più, allora la normalità era solo un problema.
Mi piaceva essere pazzo quando c’era lui, mi piaceva essere anormale e diverso dagli altri. Gerard mi faceva sentire pazzo e felice, e sicuro. Lì Gerard non c’era, era sepolto sotto tre metri di terra e sigillato in una cassa come se potesse scappare. Ma lui era già scappato, idioti, ed era con me. Non più, almeno. Non eravamo più insieme da due mesi, e sentivo la sua mancanza come un pesce fuor d’acqua. Non avevamo passato abbastanza tempo insieme, non avevo potuto sentire abbastanza le sue labbra e mi pentivo ogni giorno che passava di aver tentato di mandarlo via più di una volta.
Che senso aveva essere normale se non potevi avere la persona più bella del mondo al tuo fianco?
Ma Gerard era al mio fianco, nella mia mente, e da un lato speravo che non se ne andasse mai più. Preferivo morire col suo ricordo che continuare a vivere senza sapere di aver conosciuto l’amore della mia vita, morto, ma almeno l’avevo conosciuto.
Più riflettevo su quelle parole più pensavo che ero davvero matto.
La serratura scattò e di nuovo entrò quell’infermiera che da due mesi mi rompeva l’anima con le medicine. Non le volevo le medicine, non ero malato. Eppure continuava a ripetermi “se vuoi guarire...” “con queste guarirai”, non ero malato, ero pazzo, e avevo letto sui libri che essere pazzi voleva dire essere innamorati, e lo ero, lo ero davvero tanto.
«Frank, non fare storie, devi prenderle» insistette quella mattina.
Scossi la testa con fermezza.
«Il dottore vuole che tu le prenda e devi farlo. Lo facciamo per il tuo bene.»
«Le medicine fanno male, me l’hanno sempre insegnato, alleggeriscono il dolore ma non eliminano il problema» risposi con aria di sfida.
Sbuffò. «Beh, queste il problema lo eliminano al cento per cento, ora prendi questo maledetto bicchiere e bevi tutto d’un sorso. E se nascondi la pastiglia sotto la lingua per poi sputarla te le iniettiamo.»
Rabbrividii. Afferrai il bicchierino di plastica senza delicatezza e bevvi il contenuto in un sorso, poi la guardai come per dire “contenta adesso?” e fece un’espressione di sollievo.
Prima di uscire si fermò sulla soglia. «Non vomitare, altrimenti ti facciamo pulire con la lingua.»
La guardai feroce e si chiuse la porta alle spalle. Non ero l’unico che non voleva i farmaci, nessuno li voleva. L’ora di cena sarebbe arrivata a momenti, dato che ci portavano le pastiglie ogni pomeriggio alle sei e trenta e ogni mattina alle otto e un quarto. Non ero uno abituato agli orari, ma avrei dovuto rispettarli, o mi avrebbero chiuso in isolamento, e non volevo, avevo paura di stare in isolamento. Quella stanza aveva le pareti bianche, era grande, e non c’era nient’altro se non un letto piccolo e scomodo al centro e con le asti per le flebo. Avevo visto che ci chiudevano un uomo là dentro, aveva provocato una rissa con un altro. Urlava, scalciava e rideva così forte da farmi raggelare, mi aveva anche guardato e detto “tu sei il prossimo”. Quella notte non dormii, restai a fissare la parete immersa nell’oscurità e la mattina dopo mi sentivo più pazzo e scorbutico del solito. Quando uscii nel corridoio mi guardava più di qualcuno, con curiosità, o immersi nella loro follia, all’improvviso vedevo la loro insanità come una cosa normale, come se non fossi l’unico. Erano riusciti a farmi impazzire davvero, invece che guarirmi. Avevo bisogno di essere guarito, e non lo facevano. Mi sentivo un cane abbandonato a cui somministravano iniezioni una dietro l’altra pur di non farmi scorazzare libero per la città rischiando di ferire nessuno, ma io non ferivo nessuno, non ero pericoloso, non volevo fare del male. Ero semplicemente innamorato, e lui mi amava. Lo sapevo che mi amava. Anzi no, non mi amava, perché se mi avesse amato davvero non mi avrebbe lasciato solo in questo posto che puzzava di siringhe e disperazione. E malattia.
Gerard mi mancava da morire, sarei morto per la sua assenza. In un senso logico o illogico, sarei morto. ero certo che sarei morto, presto o tardi, mi mancava troppo. Gli infermieri non lo capivano. Quando chiedevo se fosse passato a farmi visita, mi rispondevano che non sarebbe venuto nessuno, e non era vero, Gerard sarebbe venuto a prendermi, ne avevo la certezza. Mi amava, non poteva lasciarmi solo per il resto – breve – della mia vita.
Eppure ero pazzo. Sapevo anche questo.
Nella sala comune c’era una ragazza vestita bene, molto carina e curata. La osservai da lontano e quando si voltò a ricambiare lo sguardo lo distolsi subito, imbarazzato. La conoscevo, sicuro. Perciò mi avvicinai e mi sorrise radiosa.
«Ciao Frank» adesso il suo sorriso era più triste «sei ridotto... male.»
«Ti conosco» dissi.
«Sì, lo so, sono Jamia. La tua compagna di classe.»
Annuii trionfante. «Lo sapevo. Perché sei qui?»
Si strinse nelle spalle un po’ in imbarazzo. «Volevo... sì, volevo venire a trovarti. Con un po’ di storie, ma sono riuscita a venire. Ascolta, ti devo parlare.»
«Voglio uscire da qui, Jamia» mormorai «non sopporto questo posto. Ho bisogno di stare con...»
Le si illuminarono gli occhi come se sapesse di chi stavo parlando. «Con...?»
«Con lui. Con Gerard. Mi manca così tanto.»
Le cadde il sorriso. «Qui- qui potranno aiutarti, Frankie. Davvero. Sono dei bravi medici e... hai bisogno di cure. Vedrai che quando starai meglio uscirai da qui e potremo uscire insieme, andare al cinema...»
Avevo già sentito abbastanza. Anche lei era convinta che fossi malato.
«Vaffanculo» sibilai indietreggiando. Sperai non mi fermasse. Non lo fece. Non avevo bisogno della sua compassione, né delle sue cure, né dei fottuti medici. L’unica cosa che volevo veramente era sepolta sottoterra, ma io potevo vederlo, eccome se lo vedevo, ma non poteva entrare lì dentro. Nell’ospedale. Psichiatrico.
Ero in un cazzo di ospedale psichiatrico.
Perché ero pazzo.
Volevano curarmi, o forse cancellarmi la memoria. Non avevo niente da curare, la follia non era una malattia. Non potevo essere salvato. Mi avrebbero fritto il cervello con l’elettroshock, o chissà quali altri metodi dolorosi. Non volevo dimenticare, ero innamorato, e se lui fosse tornato? Se fosse venuto a prendermi? Non me lo sarei ricordato. E non saremmo potuti più stare insieme.
Mi sedetti su un divanetto in fondo alla sala, lontano da tutti, tenendomi la testa tra le mani, pensando a come fuggire, o evitare il cervello fritto. Non feci in tempo a pensare. Due uomini in bianco mi presero per le braccia e mi portarono via. Piansi tutto ciò che avevo da piangere. Forse urlai il nome di Gerard, ma non me lo ricordai. Non potevo ricordare. Sentivo già la friggitrice che mi faceva evaporare ogni ricordo.
Sentii frastuoni.
Un fischio potentissimo.
Non vedevo, ero cieco.
Non sentivo, ero sordo.
Non ragionavo, ero pazzo.
C’era Gerard, da qualche parte, in quella stanza, che mi stava urlando quanto mi amava. Avrei voluto ricambiare, ma ero anche muto.
Chi era Gerard? I dottori dicevano che non era nessuno, che non lo conoscevo. Bugiardi. Io me lo ricordavo. Ero innamorato di Gerard.
Dicevano che era morto. Cazzate. Mi aveva baciato. Mi aveva detto che mi amava.
Dicevano anche che sarei uscito da quel posto, mi dicevano tante stronzate, mi dicevano che stavo migliorando, ma io la notte piangevo e prendevo a pugni il muro. Volevo scappare.
Non sarei scappato, non c’era via d’uscita. Sarei rimasto là dentro per sempre.
Piansi ancora una volta pensando a Gerard, a quanto mi mancava. Non ci saremmo rivisti mai più.
 
 
 
«Ma quel matto che fine ha fatto poi? Lo facevo uno normale» rise Bob mentre sigillava la cartina, infilandosi poi la canna tra le labbra.
«Sta’ zitto. Non voglio neanche sapere dove sia e cosa stia facendo.»
«Iero in un ospedale per matti non resisterebbe neanche due settimane, figuriamoci a stare finché non lo curano. Anche perché, diciamocelo, una volta che ti chiudono in manicomio o ne esci morto o ne esci con qualche miracolo legale.»
Rabbrividii al pensiero di Frank Iero morto nell’ospedale. Non potevo permettermelo, ne valeva della mia coscienza, e io con la coscienza sporca non volevo vivere, neanche per sogno. Mi sentivo coinvolto nel suo dramma amoroso con una persona che neanche esisteva, ma che colpa ne aveva, era solo un povero matto che non era mai stato curato del tutto. Che cazzo di diagnosi gli avevano fatto, schizofrenia? Non era schizofrenico, era troppo ammattito per essere schizofrenico.
Giorni prima ero passato dal cimitero per lasciare dei fiori a Gerard, e c’era una coppia adulta. Riconobbi i tratti del padre, erano i genitori di Frank. Stavano osservando la foto di mio fratello. Chiesi loro perché fossero lì, e la donna mi disse che Frank se n’era innamorato, e lo aveva scoperto solo quella mattina grazie a una sua compagna di classe, Jamia, mi pareva si chiamasse. Era venuta a vedere chi fosse. Aveva capito tutto. Frank Iero era peggiorato, non aveva mai avuto le allucinazioni, mi aveva detto anche.
Il padre era stato accusato dal figlio di atti di violenza, ma non lo aveva mai toccato, cosa di cui invece Frank era convinto, e i filmati delle videocamere nascoste mostravano che il signor Iero era innocente. Mi disse che lo tenevano nell’ospedale psichiatrico del paese accanto, il Greystone Park.
Bob attaccò a discutere con Matt, quell’altro imbecille del suo amico fattone con il quale mi aveva tranquillamente rimpiazzato mesi addietro.
Non avevo voglia di fumare, e mi alzai dalla panchina e me ne andai a passo svelto, verso casa. Presi lo scooter, e guidai dritto verso una sola direzione: al Greystone.
 
«Frank Iero, dici?»
Annuii, deglutendo a vuoto.
«Sei un suo parente, un amico?»
Incrociai per un istante gli occhi al dottore riccioluto con le labbra a canotto, dalla targhetta potevo leggere “Toro R.”, quindi era il famoso dottor Toro che aveva il caso di Frank da anni. «No, sono... sono un conoscente.»
«Non so se posso dirti molte cose personali di Frank, però puoi dare un’occhiata al suo fascicolo.»
Mi porse una busta gialla contenente fogli, fotografie, dati medici. «Non posso vederlo?»
Scosse la testa, rammaricato. «Temo non sia più possibile.»
 
Frank Iero, anni diciotto, statura media, un metro e sessantanove, capigliatura castana, occhi nocciola, corporatura magra. Paziente dal 23 dicembre 2013. Riscontrati disturbi psicotici, tra le quali allucinazioni sviluppate, infermità mentale aggravata nel corso dell’adolescenza. Sotto la cura del dottor Ray Toro dall’anno 1998, diagnosticata schizofrenia, era stato dichiarato guarito nell’anno 2001. Riscontrati sintomi di schizofrenia nel 2012. Farmaci non assunti, malattia aggravata. Nel 2013 il paziente soffre di allucinazioni visive, tattili e uditive. Ricoverato nella clinica di Greystone fino al 9 aprile 2014.
 
Il primo foglio si concludeva così. Non diceva dove fosse, come stava, se si fosse ripreso. Continuai a guardare l’ultima data: 9 aprile 2014. Pochi giorni prima. Il giorno del compleanno di Gerard.
Mi tremarono le mani mentre poggiavo il foglio sulla scrivania del dottore, che mi scrutava con aria infelice. Non ero sicuro di voler leggere il secondo foglio.
Era stato trasferito, probabilmente, magari stava meglio.
 
Data del decesso: 9 aprile 2014
Luogo del decesso: clinica psichiatrica Greystone Park, NJ
Cause del decesso: suicidio per strozzamento
 
Un conato di vomito rischiò di uscire. Gettai il foglio per terra, tremando.
«Mi dispiace.»
No. Non doveva finire così.
«C’è una cosa che abbiamo trovato nella sua stanza che vorrei leggesti tu. Era indirizzata a qualche suo amico, non sappiamo chi o come rintracciarlo, magari tu lo conosci.»
 
 
Ciao Mikey,
non so perché voglio dirlo proprio a te. È davvero l’unica cosa che non so. Il resto però sì, e voglio dirti tutto quanto. Fai un bel respiro, siediti, non vomitare. Non so quanto schifo possa farti l’idea che un povero matto come me fosse innamorato del tuo fratello morto.
Perciò ti dico tutto, dall’inizio, alla fine, alla mia fine.
Non sono mai stato veramente pazzo, è sempre stata una roba clinica, capisci? Come nei film, dove ti incastrano e ti fanno credere pazzo da tutti quanti quando invece sei l’unico a sapere la verità. O, più semplicemente, quando il tuo migliore amico ruba l’ultimo cioccolatino del vassoio, lo vedi, mamma da la colpa a te e cerchi di dire che sia stato lui, ma non ti crede. Però tu sai la verità, non importa se non ti crede nessuno. E non importa se gli altri ti mentono pur di farti passare per bugiardo o per pazzo, come nel mio caso.
Io c’ero il giorno dell’incidente, ma non me lo ricordavo perché è stato il trauma. Quando mi hanno fatto la terapia per rievocare ricordi conservati nell’inconscio, ho rivisto l’incidente, e io ero nell’altra macchina, quella che ha ucciso Gerard. Prima di scontrarci io e lui, da lontano, ci siamo guardati negli occhi, terrorizzati ma anche dispiaciuti, come a dirci “scusami”. Eppure non l’ho mai sentito come un addio. Sapevo che in qualche modo quel ragazzo dai capelli rossi non era solo un’innocente vittima di mio padre che guidava ubriaco. Sapevo che c’era dell’altro.
Ho visto l’incidente in terza persona un anno fa, o poco più, quando ero in giro con mamma e altra gente ambigua che – a ricordarmene, oddio – non vedeva l’incidente. Lo vedevo solo io, come se la mia mente volesse dirmi “ehi, è successo, renditene conto, lo hai ucciso”. L’ho vista quella chioma rossa inerme che usciva dalla macchina. Ho sentito il suo cuore che cessava di battere. E mi stavo chiedendo perché lui e non io.
Poi, il giorno dopo, si sedette accanto a me nel parco.
Iniziò a seguirmi in casa. Mia madre non lo sapeva. Anzi, non poteva saperlo, lei non lo vedeva e non lo avrebbe mai e poi mai visto. Doveva essere me per riuscirci.
Mi piaceva stare con lui, mi faceva sentire protetto, mi voleva salvare da mio padre che non era altro che un folle omicida, e voleva uccidere anche me. Ma non ci è riuscito. Mi dispiace.
Mi ero innamorato. Capisci, non è una cosa da poco. Non potevo vivere senza la sua presenza.
Mia madre mi accusava di nuovo di non prendere i farmaci, e in effetti non li prendevo, non mi servivano affatto, o almeno ne ero convinto io. Tutti sapevano che ne avevo bisogno.
Mi hanno portato qui, a Greystone, sono stato qui dentro per più di un anno, capisci, un anno. Sono diventato ancora più matto. Senza vedere Gerard, non ero niente, non servivo a niente, mi sedavano quando davo di matto perché non mi lasciavano vedere mia madre, o quando un altro matto mi rompeva le palle e rispondevo per le rime. Se parlavo di Gerard con il dottor Toro lui mi diceva che non era nient’altro che un senso di colpa che non riuscivo a rimuovere, nient’altro che un’allucinazione.
Ma una semplice allucinazione non può essere così bella, Mikey. Spero tu sia innamorato. È una sensazione stupenda, quando sei con lei, o con lui. Ti auguro di innamorarti come io ero innamorato di Gerard, anche se il mio non era un amore sano. Ma non importa. È pur sempre amore.
Adesso ascoltami: leggi questa lettera, e poi bruciala. Non deve restare niente di me.
E ti prego, ti prego, quando vai da Gerard, lì dove dorme per sempre, digli che lo amo. Ti scongiuro di farlo. Io non posso uscire da qui dentro, in nessun modo che mi consenta di restare vivo.
Perciò, esco da qui. E vado da Gerard. Te lo saluto.
Grazie, Mikey. Mi sarebbe piaciuto essere tuo amico, in una vita normale. Ma la vita normale non fa per me. Quando leggerai questa lettera sarò sicuramente morto. È strano scrivere una lettera sapendo di essere morti. Sono già morto dentro da parecchio, da quando mi hanno strappato via da Gerard. Inutile mentire a se stessi.
Ti auguro il meglio.
Io starò bene. Starò meglio. Muoio prima che possano salvarmi l’anima.
Frank
 
 
Non riuscii a reggere tutto insieme. Svenni.
Starò bene. Starò meglio.
No, Frank. No dovevi.
Muoio prima che possano salvarmi l’anima.
Non hai niente da salvare. Non è colpa tua.
 
I suoi genitori decisero di cremarlo. E forse era meglio così. Non voleva che rimanesse niente di lui.
E, Frank, Gerard ti ama.
Si ricorda di te, tu non ricordi? Eravamo piccoli. Giocavamo tutti e tre insieme. Gerard era ossessionato da te. Ti cercava, era incollato a te. Ti amava. Ma tu hai deciso di amarlo troppo tardi.
Eravate destinati. Magari tu non mi crederai, Gerard neanche mi crederebbe, ma era così.
Ma l’importante era che lo sapessi io, non importava se non mi credeva nessuno.
 
 
«Ti piace l’arte, Frank? Dovresti sfruttare l’opera d’arte che c’è dentro di te, ma non lo fai. Voglio aiutarti in questo.»
Ti amo anch’io, Gerard.
 
 
SPAZIO AUTRICE
Scappo prima che qualche lancia mi trafigga il cervello va bene sì addio.
Scusate l’enorme ritardo... mi merito tanti insulti.
Niente da aggiungere.
Era scontato che finisse così.
Angelica

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