Pur di essere qualcuno per te

di IMmatura
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Autore: IMmatura
Titolo: Pur di essere qualcuno per te
Fandom: Axis Powers Hetalia
Tipologia:
Long-fic (3 capitoli)
Generi: Romantico, Introspettivo, Malinconico
Avvertimenti: Nessuno
Note: AU
Pacchetto: Gusto
Nda:
//

 

Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Hidekaz Himaruya; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


Pur di essere qualcuno per te

Capitolo 1

-Quindi dovrei... assecondarlo?- mormora con un filo di voce Matthew, mentre definisce con il medico gli ultimi dettagli affinché Arthur sia dimesso. Voleva portarlo fuori da quel maledetto ospedale da quando gli aveva visto riaprire gli occhi. Fisicamente stava bene e quei corridoi bianchi, freddi, asettici e vuoti non l’avrebbero di certo aiutato a risolvere... l’altro problema. Solo il tempo poteva, a detta del medico, e non ne sarebbe servito poi molto.

-Non è tenuto a farlo, se non se la sente, ma sarebbe il modo migliore di approcciare il soggetto. Questa fase di... confusione... durerà al massimo qualche giorno, mi creda.- La voce del medico è tecnica e affilata come un bisturi, impietosa del povero ragazzo che suda, trema, e avvampa notevolmente.

-Va bene. L’importante è che Arthur stia bene.-

Con quelle parole si congeda dall’esimio dottore, che lo indirizza alla porta con un sorriso di circostanza.

Arthur sta aspettando fuori, e sembra leggermente irritato. I capelli biondi, più arruffati del solito e il viso leggermente pallido sono una stretta al cuore per Matthew, che si sforza di sorridere. Un sorriso largo, di quelli che non è abituato a fare. Si sente ridicolo. I muscoli facciali protestano irrigidendosi in una maschera dolorosa, ma non gli importa. Non finché l’altro cammina al suo fianco, borbottando di non vedere l’ora di tornare a casa e prepararsi un vero the, ben diverso dalla brodaglia della mensa.

Matthew gli mette un braccio sulle spalle, perché sa che è questo che Arthur si aspetta, ed ignora le sue proteste per quel gesto d’affetto. In fondo gli fa piacere stringerlo a se, sentirlo vicino. Una sensazione a cui non è ancora riuscito ad abituarsi.

Arthur è più basso di lui, apparentemente gracile. Ogni muscolo del suo corpo, però, è tonico e sembra perennemente teso. Un fascio di energie indomabili, è quello che stringe ancora a se, inspirando l’odore dei suoi capelli per scacciare dalle sue narici quello asettico e pungente della corsia.

Finché, finalmente, non sono fuori. Un’insolita giornata di sole rallegra i ritagli di cielo tra i palazzi, riempiendoli d’azzurro e qualche spruzzo di nuvole candide. Tutti e due si rallegrano e, guardandosi, sorridono istintivamente. Anche Matthew, stavolta, ha un sorriso sincero, non calcolato, che sorprende Arthur. Dolce, quasi timido, quel sorriso... quasi il ringraziamento per un regalo insperato.

Tornato a casa Arthur non si azzarda più a divincolarsi dal suo goffo abbraccio. Esplora quell’espressione, con l’impressione di vederla per la prima volta. Il suo ragazzo ha un’aria assorta. Gli chiede cosa stia pensando e lui risponde che lo stava guardando. L’inglese protesta arrossendo, ma in fondo è felice.

Rientrare nel portone è una conquista. Non vedeva l’ora di rivedere il giallino della rampa di scale, così vivido paragonato ai corridoi grigi e bianchi dell’ospedale.

-Hai controllato la cassetta delle lettere?-

-Come diavolo ti viene una domanda del genere adesso?- chiede arrabbiato, pensando all’atmosfera appena caduta in frantumi sotto i suoi piedi. Sbuffa.

-D-dovresti farlo... magari c’è qualcosa di importante.-

Dato che insiste, lo accontenta (non ha voglia di litigare proprio oggi) e trova biglietti di circostanza, più un catalogo pubblicitario. Fratelli, sorelle e parentado tutto si congratulano per la pronta guarigione. Un collage di calligrafie ben curate, di ipocrisia levigata carattere per carattere: come se a qualcuno di loro importasse realmente qualcosa...

Leggendoli per farsi due risate, e commentandoli acidamente uno ad uno, risale le scale seguito a ruota dall’altro a cui, giustamente, ha mollato la sacca con le sue cose, per punizione. A dimostrazione del suo realismo la chiave della porta spalanca un antro con le serrande abbassate e odore d’aria viziata e stantia.

-Almeno tu potevi venire ad arieggiare un po’ l’ambiente...-

-Ho perso la chiave.-

“Tipico.” pensa, fiondandosi verso la finestra del soggiorno per riportare un po’ di vita in quella camera ardente. Grazie al cielo non ce n’è bisogno, sta benissimo.

-Allora io intanto preparo il the?- si sente proporre da una voce stranamente esitante, proveniente dalla cucina.

-Tu? Davvero?- chiede perplesso, per poi sorridere -Accidenti, sai sempre come farti perdonare...-

Lo invade la serenità delle vecchie abitudini. La casa esattamente come doveva averla lasciata, gli oggetti leggermente impolverati ma in ordine. Si siede sul divano concedendosi finalmente un po’ di calma. I problemi che deve ancora affrontare relegati ad un futuro remoto, sovrastati dalla riscoperta dei piccoli dettagli di se stesso e della sua quotidianità. Le riviste sul tavolinetto, lasciate in disordine. In cima a tutte una rivista di viaggi, con la copertina patinata tempestata dalle luci notturne di New York. Per qualche motivo la cosa lo infastidisce, così sposta altrove lo sguardo.

Intanto un frastuono assordante gli ricorda il the che sta aspettando.

-Puoi farcela, eh...- commenta sarcastico.

-Mensola sbagliata.- annuncia lui, con una risatina forzata. Ha l’impressione che la sua voce sia leggermente affaticata, come avesse il fiatone. Ripensandoci, è un po’ di giorni che sembra sottotono.

-Sicuro di stare bene, hai una voce strana...-

-Questo dovrei chiedertelo io!- ribatte piccato, facendo spuntare la testa dall’uscio e sorridendo, con la teiera in mano. -Comunque l’ho trovata, nessun problema. Ho tutto sotto controllo!-

-Certamente.-

Ridacchiano tutti e due, e poi Matthew sparisce di nuovo. Appoggia la schiena alla parete, scivolando lentamente fino a sedersi sul pavimento polveroso, con la testa tra le mane, pesante per i dubbi e le paure.

“Arthur ha già iniziato a preoccuparsi” deve constatare amaramente “Non funzionerà mai. Che diavolo sto facendo?”

Nonostante tutto la forza della disperazione gli fa compiere i gesti che servono. Acqua, bustina, tazzine. Mai dimenticare il limone, quella spruzzatina acida che ad Arthur piace tanto. Facendo appello a tutto il suo (scarso) coraggio, Matthew mette piede nel salone, per affrontare il resto di quella splendida, tremenda giornata.


---


Trattenendo il respiro, Matthew si è intrufolato nello studio, per poi accendere la lampada da tavolo. Nel cerchio di luce solo la sua mano, una penna, e una lettera quasi impossibile da scrivere. Il brusio leggero della punta che graffia il foglio è l’unico suono a spezzare la quiete della notte. Arthur dorme sereno, nella stanza accanto.

Si prende un secondo per pensare a come l’ha lasciato, scivolando via dal suo abbraccio. I capelli biondi più arruffati del solito, il viso affondato nel cuscino, con le labbra dischiuse, intente a sussurrargli chissà quale segreto. Forse ricordi che cominciano a riaffiorare.

Matthew scrive e cancella, riscrive, corregge, lottando con la voglia di far cadere sul foglio una lacrima. Non vuole piangere, perché quel che sta raccontando è qualcosa di bello. Così si sforza di lottare con l’inquietudine e i dubbi, riordinando sentimenti che prima di allora aveva faticato anche solo ad ammettere a se stesso. Sulla scrivania, una tazza di the al limone. Matthew ne aspira avidamente l’aroma, che pian piano sta riempiendo l’ambiente immerso nella penombra.

Si ferma per prenderne un sorso, ingoiando senza sforzo quel sapore che, poco a poco, ha imparato ad amare. Quel sapore intenso, con una punta di acidità, quel gusto che ha sempre, inevitabilmente, associato ad Arthur... chiedendosi se fosse quello il sapore dei suoi baci. Può sentire il sangue salire alle guance. No, questo non lo scriverà!

Per il resto, però, non censurerà più nulla, iniziando da prima della spiegazione che vuole dare, facendo un passo indietro rispetto a quello strano scherzo del destino. Tornando alla prima volta in cui si erano incontrati, e a come si era innamorato.


Matthew era sempre stato un tipo timido, silenzioso, remissivo. Difficilmente la gente si accorgeva della sua presenza e ancor meno spesso riusciva a suscitare il benché minimo interesse negli altri. Si era a poco a poco abituato così tanto a quella normalità, da sobbalzare notando quegli occhi verdi fissi su di lui. Impossibile pensare ad una coincidenza: un guizzo aveva illuminato quelle iridi smeraldine, mentre le sopracciglia incredibilmente folte si aggrottavano e lo sconosciuto si faceva largo come poteva tra la folla del bar.

Ricordava perfettamente di aver pensato ad un prato infinito percorso da un brivido di vento, e di aver sentito qualcosa di analogo correre lungo la sua spina dorsale. Quello sguardo l’aveva fatto sentire, in qualche modo, riconosciuto. Matthew avrebbe desiderato a lungo un’altra occhiata del genere.

Sfortunatamente, scoprì quasi subito di essere vittima di uno scambio di persona (l’ennesimo). Neppure il tempo di spiegare che lui non era suo fratello Alfred, che quest’ultimo sbucò da chissà dove a riprendersi con la sua ingombrante presenza il centro della scena. La normalità stava cercando di riassorbirlo nel suo ruolo di ombra silenziosa, ma finche osservava Arthur scusarsi, tossicchiando imbarazzato con un pugno chiuso davanti alla bocca, Matthew si sentiva diverso... più vivo.

Fu felice di rimanere a prendere un the con loro (anche se il fratello aveva dato segni non troppo discreti di non volerlo tra i piedi) e non si perse un movimento delle labbra di Arthur. Non capiva tutte le parole, frastornato dalla confusione del bar, ma quel che riuscì a sapere dell’altro gli piacque e, per quanto banale, lo registrò come qualcosa di eccezionale. Studiava Storia all’università, ed era all’ultimo anno della magistrale. Divagò a proposito della sua tesi sull’età elisabettiana, facendo velatamente pesare ad Alfred l’aver interrotto i suoi studi per organizzare una non meglio precisata sorpresa per il compleanno di un loro amico comune. Il tutto girando con la punta delle dita il cucchiaino in una tazza di the, seduto con le gambe accavallate e il torso un po’ girato, cosicché la camicia, anche se un po’ troppo larga, lasciava intuire con le sue pieghe un fisico asciutto e sensuale.

La risata di Alfred, decisa e un po’ ridondante, aveva riempito il resto della conversazione, assieme a varie ed eventuali battutine, a cui Arthur aveva risposto a tono. A Matthew piaceva molto il modo combattivo con cui tirava un’energica gomitata a suo fratello, senza però perdere del tutto la compostezza. Per il resto, infatti, sembrava una persona assolutamente educata. La stretta di mano che gli riservò era decisa, ma non troppo energica (a differenza di Alfred, che di solito scuoteva energicamente il braccio frastornando chiunque avesse la disgrazia di presentarglisi...). Si congedò salutando entrambi ed alzando il bavero di un cappotto marrone che lo nascondeva per tre quarti. Poi sparì oltre la porta, aprendo l’ombrello.

Quella figura in cappotto marrone, con la chioma arruffata, sotto l’ombrello con i colori della Union Jack, avrebbe tormentato a lungo i pensieri di Matthew. Il suo nome gli veniva alle labbra da solo, mentre cercava inutilmente di studiare. Pensava alla sua stretta di mano ed una sorta di scossa elettrica lo scuoteva fino alla spalla. Era più distratto e silenzioso, tanto da dar preoccupazione persino ad Alfred, di solito proiettato solo su se stesso. Lui però si limitava a liquidare le sue preoccupazioni con un sorriso sereno che, a qualcuno di più scaltro, avrebbe svelato tutto.

Ci mise un po’ a capire cosa provasse. Si rese conto che era amore quando, per la prima volta, sentì suonare il citofono dell’appartamento che condivideva con Alfred. Riconobbe subito la voce, ed aprì senza neanche chiedere chi fosse, con la mano che tremava e una nuova, inspiegabile frenesia che lo faceva camminare nervosamente avanti e indietro. Sentiva il rimbombo del battito cardiaco nelle orecchie. Si, si era preso proprio una cotta indegna, un assurdo colpo di fulmine.

A differenza di tanti suoi coetanei Matthew non aveva mai pensato all’amore, prima. Al liceo era condannato a rimanere nell’ombra di suo fratello, il campione della squadra di football della scuola. Quando poi si erano trasferiti in Inghilterra, ormai, si era abituato alla solitudine, dandola per scontata come unica compagna di vita. Triste, ma vero.

Di colpo recuperava tutto. In preda ai tremendi, primi batticuori, aprì la porta dell’appartamento e spiegò che Alfred non era ancora rientrato.

Gli offrì un the, e si sentì chiedere se aveva del limone. A quanto pare adorava quel sapore, quel retrogusto acidulo. L’odore intenso dell’agrume pizzicò il naso di Matthew inducendolo, assieme al nervosismo, a strofinarselo distrattamente con un dito. Impacciato, tentò una conversazione che si sarebbe rivelata piuttosto stimolante, se fosse stato in possesso delle sue facoltà mentali. L’inglese era un ragazzo dotato di grande intelligenza e, dopo poco, si rivelò anche un appassionato oratore. Non che Matthew avesse nulla da ribattere (avrebbe annuito anche se gli avesse detto che il cielo era fucsia, probabilmente...), in ogni caso Arthur era portato istintivamente a difendere gli argomenti che gli stavano a cuore, sviscerandoli e preoccupandosi di essere seguito da chi aveva di fronte...evidente la sua predisposizione per l’insegnamento. Fortunatamente non decise di interrogarlo, altrimenti il povero Matthew, paonazzo e balbettante, avrebbe fatto una pessima figura.

Quando finalmente aveva trovato la forza di formulare una frase un po’ più lunga, la sua voce uscì ancor più debole e strozzata del solito.

-Come, scusami?-

-No, niente... io, solo... volevo chieder...-

In quel momento entrambi sobbalzarono, sentendo sbattere la porta. Maledetto il pessimo tempismo di Alfred.

Per fortuna avrebbero avuto spesso occasione di riparlarsi, in compagnia. In mezzo ad un gruppo di amici di cui, a poco a poco, Matthew iniziò a fare parte. C’era Kiku Honda, il famoso “amico comune”, un giapponese dall’aria, se possibile, ancor più riservata ed impacciata della sua. C’era Francis, un ragazzo molto più sciolto di lingua che, un paio di volte, gli era sembrato ci stesse provando...

Lui però non aveva occhi che per Arthur, e per il suo modo di essere. Apparentemente così rigido, ma anche volitivo, energico, orgoglioso. A tratti rude quando si trattava di ribattere alle frecciatine del loro amico francese sulle sue sopracciglia, o sulla sua pessima cucina. Lo chiamavano “l’acido della situazione” e Matthew sentiva un’istintiva ribellione contro l’accezione negativa che quel soprannome voleva avere. Era vero: c’era una punta d’asprezza nel modo in cui si rapportava con gli altri, ma per la maggior parte del tempo era una persona seria, disponibile. Amabile.

Qualcosa che fece perdere la testa a Matthew, che attendeva senza leggere una riga dei suoi libri di sentir suonare il campanello, per poi abbandonare appunti e tutto, appena riconosciuta la voce di Arthur in salotto. Era bello riceverlo anche da solo, cosa che piano piano iniziò ad avvenire più spesso...e che a qualcuno di meno accecato dall’infatuazione, avrebbe dovuto far intuire qualcosa.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


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Pur di essere qualcuno per te

Capitolo 2

Lo smartphone è un’invenzione orribile. Matthew arriva a capirlo alla seconda occasione in cui, durante quell’ennesima, difficile giornata, quell’arnese infernale gli causa problemi.

La prima era stata nel pomeriggio, quando Arthur aveva tentato per ben tre volte di accedere a Facebook, senza successo.

-Damn! Questo dannato social network è impazzito... non riconosce la mia password.- aveva sbraitato gettando l’apparecchio al capo opposto del divano, con violenza.

-Magari l’hai dimenticata.- aveva suggerito pacatamente l’altro, continuando a guardare la TV, fingendosi sotto ipnosi mediatica. Un modo come un altro per non rischiare di commettere passi falsi.

-Impossibile. Non l’ho più cambiata da quando ci siamo messi insieme...- ammise Arthur arrossendo -Questo non può avere a che fare con l’amnesia.-

L’inglese era perfettamente consapevole del suo problema, Matthew non aveva fatto nulla per cercare di nasconderglielo. L’aveva lasciato parlare da solo con il medico da quando era stato in grado, discutendo in separata sede solo l’aspetto più delicato della faccenda.

Da una parte, ogni volta che Arthur gli rivolgeva la parola per fargli domande e confermare ricordi orgogliosamente recuperati, lui ammirava la sua tenacia e si sforzava di essere il meno vago possibile, desideroso di aiutarlo, e sapendo che era quella la cosa giusta da fare. Dall’altra, quando rimaneva solo in una stanza, strofinava velocemente gli occhi lucidi, sforzandosi di non piangere, e non pensare che in quella situazione ci fosse qualcosa di dannatamente ingiusto nei suoi confronti.

Sapeva che sarebbe successo: poco a poco Arthur si faceva dubbioso, sospettoso, forse un po’ anche per la sua scarsa capacità di recitare. Un po’ per volta quel ponte, che Matthew si era sforzato di costruire sopra la voragine della sua memoria persa, veniva corroso da gocce d’acido. Il castello sereno di bugie si scioglieva lentamente, lasciando posto all’asprezza della verità.

E Matthew poteva solo guardare. Si sentiva chiedere se gli stava nascondendo qualcosa e si sentiva soffocare, nello sforzo di soffocare un singhiozzo improvviso.

Arthur ricordava già qualcosa dell’incidente: flash visivi di un guard-rail e lo stridio delle gomme, che aveva portato via tutto il resto, le memorie di alcuni mesi di vita.

Di nuovo, odia quel cellulare che gli squilla in mano, con un nome sullo schermo. Alfred. Esce sul balcone per rispondere cosicché, attraverso il vetro della finestra, Arthur possa osservarlo. L’inglese si sforza di scacciare quella strana impressione di disagio, come un presentimento di qualcosa di terribilmente sbagliato. Si sforza di raccogliere pensieri piacevoli, agli angoli della sua rabbia impotente. Sa di essere rimasto indietro, ma ancora si sforza di autoconvincersi che vada tutto bene, che le sue siano stupide impressioni e l’altro non stia cercando volontariamente di farlo rimanere indietro.

Eppure ci sono tante cose che non quadrano.

Innanzi tutto l’atteggiamento dell’altro, così stranamente, esageratamente remissivo. La calma che improvvisamente sembrava averlo avvolto, e la risata falsissima dietro cui si nasconde quando Arthur gli fa notare che sembra troppo silenzioso. Poi le attenzioni esagerate di cui lo ricopre, da sempre segretamente desiderate, ma adesso quasi soffocanti, tanto da fargli venir voglia di gridare che, dannazione, adesso sta bene. Non è diventato di porcellana!

Il suo compagno però lo tocca da giorni come tale, timoroso, fin troppo delicato, quasi imbarazzato. Un tocco che finiva per sembrargli quasi estraneo. E gli abbracci forzati con cui cercava, poi, di rimediare, non scacciavano quella strana impressione di scoprire, sulle sue labbra, un sapore nuovo.

Allo stesso tempo, però, si sente in colpa per quei pensieri.

“No, non mi nasconderebbe nulla di proposito” tenta di convincersi, ripensando alla prima sera e al senso di sicurezza che gli aveva dato addormentarsi abbracciato a lui, senza che insistesse per ottenere di più. Un abbraccio comunque intenso e protettivo, che l’aveva cullato abbastanza in fretta nel mondo dei sogni, dandogli appena il tempo di notare che l’altro sembrava un po’ deperito.

Più lo osservava, più questa impressione nello specifico diventava intensa. Anche adesso, guardando attraverso la finestra, gli sembra che quel viso conosciuto sia diventato più pallido, il fisico leggermente più asciutto. Impressioni che si spiegava con un altro ricordo, di ieri pomeriggio: si erano assopiti entrambi sul divano, e Arthur si era svegliato per primo, sentendosi praticamente stritolare da una presa convulsa. L’altro aveva un’espressione sofferente e (così gli era sembrato) mugugnava con voce lamentosa di non volerlo perdere.

Doveva essere stato un brutto spavento, saperlo in ospedale. Questa era la motivazione che, inconsciamente, aveva accettato, ma che adesso gli sembra labile ed incompleta.

Intanto Matthew da le spalle al soggiorno, per non farsi scorgere mentre versa, finalmente, lacrime rabbiose dopo aver riattaccato. L’ingiustizia di quella situazione gli piove addosso, di fronte a quell’ennesima telefonata, accompagnata da una punta di inconfessabile rancore verso quell’egoista di suo fratello. Per un momento Matthew desidera davvero diventare come lui, egoista, e portare avanti quella recita, continuare a combattere per qualcosa che, per una volta, rende felice lui.

Solo incrociare lo sguardo di Arthur, rientrando, gli fa cambiare idea. Non può fargli una cosa del genere.

 

---

 

Arthur gli lancia un’occhiata interrogativa sulla soglia della sua stanza. Matthew indica lo studio dicendo di avere due cosucce da sbrigare, e sapendo che passerà li un’altra notte insonne. L’inglese borbotta qualcosa sbattendo la porta, e lui rimane solo in corridoio, con il silenzio pieno di frasi disordinate, che vorrebbe disperatamente dire.

L’unica risorsa è sedersi alla scrivania e scrivere. Senza fare sconti a nessuno, ma senza neppure essere crudeli. Quel che deve scrivere oggi è più complicato, doloroso e fraintendibile. La penna esita tra le mani tremanti.

Odia aver contrariato Arthur. Lo pensa solo in camera e si chiede se quella rabbia gli stia ricordando altri racconti. Forse anche questo, a lui, tornerà utile.

Per Matthew invece è un altro ampio passo in avanti verso la fine di quella farsa, verso un baratro di solitudine che, dopo aver sperimentato quella dolce, tiepida vicinanza, non gli era più familiare, e quasi lo atterrisce.

Alla fine riesce a vergare le prime parole, raccontando di come, la prima volta, aveva fatto un passo indietro. Un primo assaggio di quel nuovo, doloroso distacco.

 

Aveva scoperto nel modo peggiore il fidanzamento di Arthur e Alfred, cioè sorprendendoli in soggiorno in atteggiamenti inequivocabili, che implicavano bocche appiccicate e colletti sbottonati. Fortunatamente, non era arrivato in una fase più avanzata. Ignorando le proteste di Alfred (“Ma tu non eri in biblioteca?”) si era trincerato nella sua stanza, a studiare la maniera migliore di guarire il suo cuore infranto, fingendo di preparare un esame.

Si era fatto da parte, forse per abitudine, forse per paura di un confronto che per esperienza sapeva sarebbe stato impari. Aveva trovato a poco a poco una giusta distanza di sicurezza dalla quale quei due sembravano quasi una bella coppia. Ricordava di averlo pensato una volta, vedendoli insieme per caso nei pressi del bar dove gli era stato presentato Arthur. Erano passati senza notarlo di fronte alla vetrina. Suo fratello teneva un braccio attorno alle spalle dell’altro, che sbuffava ma sembrava gradire, a giudicare dal colorito imbarazzato delle sue guance. Il sorriso di Alfred era così largo da investire con la sua gioia il mondo intero. Sembrava così immensamente giusta, quella scena, vista da quella prospettiva...

Doveva ammettere che, per un breve arco di tempo, l’appartamento fu invaso da un confortante silenzio, che con la sua tranquillità contribuì a lenire la delusione. Alfred era raramente a casa, e quando c’era studiava. Forse influenzato dalla serietà di Arthur, aveva finalmente iniziato a prendere gli studi sul serio... o almeno questo era quel che credeva.

Un giorno però sentì sbattere la porta, e la voce assordante dell’altro chiamarlo per le stanze, facendo rimbombare passi di corsa di qua e di là.

-Dude, ce l’ho fatta! Ho vinto la borsa di studio...vado a New York!-

-Congratulazioni...- mormorò confuso. Non ricordava gliene avesse parlato...

-Incredibile! Non ci speravo davvero, sai? Comunque si vede che sono il migliore!-

Non se la sentì di pensare male di lui. Sapeva benissimo quanto, a differenza sua, Alfred fosse rimasto legato ai suoi ricordi negli States. Tornare nella Grande Mela, per lui, doveva essere una specie di sogno diventato realtà. Ragion per cui finse di condividere il suo entusiasmo, telefonando agli orgoglioso genitori per dare la notizia, ed accompagnandolo a festeggiare... cioè ad ingozzarsi senza ritegno in un fast-food. Eppure qualcosa non andava. Si morse la lingua più volte, cercando di combattere contro un crescente disagio, una scomoda curiosità, un retrogusto acido.

-E Arthur?- non riuscì a non chiedere ad un certo punto.

Suo fratello cambiò immediatamente espressione, sospirando.

-Non lo so...spero non la prenda male...-

-Vuoi dire che non gliel’hai detto? Cioè, non hai neanche accennato all’idea?- chiese sgranando gli occhi.

-Lo so che avrei dovuto dirglielo prima, però...non sapevo nemmeno come... Comunque alla fine sono sicuro che sarà contento per me. Mi ama, no?-

Capi che persino per lui era una decisione difficile. Tuttavia non poteva fare a meno di preoccuparsi soprattutto per Arthur, perché Alfred, che continuava a ripetere “lo so, lo so” in realtà non sapeva niente.

Non aveva mai notato il modo in cui istintivamente Arthur era portato a tenere d’occhio che si avvicinava troppo a lui, o la punta di apprensione nelle sue domande su come aveva trascorso la giornata. Non aveva capito che, in fondo, anche l’inglese aveva le sue insicurezze, e non avrebbe preso bene quello che, a conti fatti, era un abbandono senza preavviso.

Alfred non aveva mai notato neppure le occhiate distratte di Arthur agli annunci edilizi, alla ricerca di un appartamento grande abbastanza da contenere tutti e due, e l’incontenibile confusione che l’americano portava ovunque. Non aveva capito che con lui Arthur avrebbe già voluto fare seri progetti.

Alfred dormiva quando Arthur, nel cuore della notte, telefonava per sapere come stava. Era Matthew ad accogliere i sussurri di quella voce, spogliata dalla notte degli accenti più acuti ed orgogliosi, rispondendo con inutili rassicurazioni ai suoi “ultimamente mi sembra... un po’... come dire... distante. A te ha detto qualcosa?”, invidiando profondamente la dolcezza dell’inevitabile chiusura “Ah, ha studiato tutto il giorno? Allora no, non fa niente, lascialo dormire.” Quelle ultime parole le soffiava quasi nella cornetta, come temesse anche così di poterlo svegliare: in quei momenti Arthur aveva una voce esitante e delicata come la sua.

Quella di Matthew, invece, divenne gelida. Non alzò la voce, ma prese il telefono e glielo mise davanti agli occhi:

-Chiamalo. Ora. Altrimenti glielo dico io.-

Fu l’inizio di una fase molto diversa, all’interno dell’appartamento. Non una parola tra di loro, ma le pareti rimbombavano comunque di urla. Urla al telefono e, a volte, anche faccia a faccia, quando Arthur veniva con le migliori intenzioni per cercare di affrontare l’argomento.

Per Alfred voleva solo costringerlo a rimanere e rinunciare al suo sogno, al suo futuro, a se stesso. Lui, lui e sempre lui. Matthew si innervosiva, ma non aveva il coraggio di intervenire. Solo una volta aveva tentato, ricevendo da parte del fratello un’occhiata preoccupante. Occhi sgranati e quasi aggressivi, che non gli aveva mai visto prima.

Fino al giorno della partenza, ovvero dell’amnistia generale, degli abbracci con gli occhi lucidi, di auguri in fondo sinceri. Matthew era talmente felice di aver riconquistato la quiete nel suo spazio vitale da rendersi conto solo allo squillare del telefono dell’ennesima difficile situazione che Alfred gli aveva lasciato da risolvere.

La televisione, dimenticata accesa, ronzava. L’annunciatrice allarmata parlava di una tempesta in arrivo. Matthew guardava fuori dal vetro, dove già un velo di sottile pioggerellina appannava la visuale della strada sottostante, e le raffiche di vento schiaffeggiavano un paio di piantine sul balcone. Sobbalzò e rispose. Era esattamente chi temeva che fosse.

-No, è già uscito... credevo sarebbe passato prima di andare all’aeroporto.-

Silenzio. Matthew si scusò. Non ebbe il coraggio di aggiungere consolazioni di circostanza, sapeva che Arthur gli avrebbe riattaccato in faccia. Non era il tipo da ammettere facilmente la sofferenza, ne da resa facile. Non riusciva ad immaginare come potesse sentirsi davvero in quel momento, perciò non pretese di capirlo. In qualche modo intuì che non stava piangendo. Gli riusciva impossibile immaginare gli occhi verdi di Arthur appannati dalle lacrime. Piuttosto poteva immaginarli venati di rosso, insonni, ma con ancora una scintilla combattiva.

-Quando parte il volo?-

-Tra un’ora, se il tempo non peggiora. In televisione dicono che forse potrebbero sospendere i decolli per la tempo...-

Lo stridio di un paio di gomme sull’asfalto lo interruppe, facendolo sobbalzare. Riportò istintivamente lo sguardo alla finestra e vide un ramoscello ancora tenero e verde spezzato sbattere contro il vetro, spezzato da un colpo di vento più forte. Come ipnotizzato osservava quella piccola piantina a cui aveva dedicato tante cure amorevoli e silenziose, mentre Arthur gli diceva qualcosa al volo prima di riattaccare rudemente. Tipico di Arthur.

Se solo avesse prestato maggiore attenzione a quelle impressioni, a quei presentimenti, forse le cose sarebbero andate diversamente. Era e sarebbe rimasto per sempre il più grande rimpianto della sua vita.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


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Pur di essere qualcuno per te

Capitolo 3

La sera dopo. Matthew non accenna a muoversi. Il cellulare, in bilico sull’angolo della scrivania, cade scosso dalla vibrazione. Lo afferra al volo e legge il messaggio di suo fratello: “In partenza”.

Fino all’ultimo aveva sperato di avere più tempo. Inspira profondamente, pensando ai segnali che non può più ignorare. Poche ore prima Arthur gli aveva chiesto confuso e, per una volta, con gli occhi lucidi, se prima dell’incidente avessero litigato. Lui aveva risposto di si.

Arthur aveva chiesto silenzio, per riordinare le idee. Era in salotto a sorseggiare il the, e poi sarebbe andato a letto. Matthew non l’avrebbe raggiunto.

La busta già aspettava, nella sua tasca, di accogliere quella lettera, che ormai sembrava più un romanzo, o una confessione, ed essere lasciata nella cassetta della posta.

Era il momento di scrivere dell’incidente.

 

Il giorno dopo il telefono squillò ancora. Matthew alzò distrattamente la cornetta, mentre riordinava dei vestiti che Alfred aveva lasciato sparpagliati mentre preparava le valigie. Il sorriso quasi nostalgico con cui aveva messo mano a quel marasma si spezzò improvvisamente. Nel suo orecchio la voce di Kiku spiegava cose che già non stava più ascoltando. Le parole “incidente” ed “ospedale” avevano completamente annichilito la sua mente. Si mosse senza pensare verso il cassetto con le chiavi di casa e della macchina. Nello stesso stato percorse le strade ricoperte ancora di pozzanghere, senza neppure farsi domande. Eccetto, l’unica, assillante, opprimente: “Come starà Arthur?”

Le spiegazioni vennero dopo. Viaggiava a velocità troppo elevata su un tratto scivoloso, in direzione dell’aeroporto. Il resto riuscì a ricostruirlo da se. Non sapendo cosa fare tentò di contattare Alfred. Irraggiungibile.

Un’infermiera grassoccia ed imbronciata gli ordinò di spegnere il cellulare e lui ubbidì, ripromettendosi di ritentare il prima possibile. Era come soggiogato da qualsiasi indicazione gli venisse data. Non era ancora nel pieno della sua lucidità.

Arthur rimase incosciente per diversi giorni. Matthew gli rimase vicino, constatando con amarezza che nessun parente si era presentato al suo capezzale. Le poche volte che si concedeva una pausa, approfittava delle gentili visite di Kiku. Una volta venne anche Francis, che accolse il suo sfogo improvviso. Un pianto quasi infantile, ma soffocato, rispettoso anche del dolore altrui, tra i corridoi dell’ospedale. Il francese loro amico, che aveva intuito tutto da tempo, lasciò che piangesse sulla sua spalla, e non criticò la dedizione con cui si ostinava a rimanere.

Quando finalmente l’inglese riaprì gli occhi Matthew credette di morire di felicità. I suoi occhi verdi erano stati percorsi da un guizzo, vedendolo. Un guizzo fin troppo familiare. A fatica Arthur si era sollevato sui gomiti, farfugliando qualcosa con la bocca impastata dai medicinali. L’aveva abbracciato e Matthew aveva ricambiato quasi con la smania di sfiorare quel corpo così desiderato. Poi aveva sentito il suo fiato vicino all’orecchio, un nome sussurrato.

Gli si era gelato il sangue. L’aveva chiamato Alfred.

Amnesia lacunare. Era stata quella, la diagnosi. Il medico disse che sarebbe durata pochi giorni, massimo qualche settimana. Disse anche che era naturale che Arthur cercasse di riordinare i suoi ricordi, e che nel processo potevano avvenire fenomeni singolari come quello.

Matthew era stato sottoposto ad un impietoso interrogatorio.

In che rapporti erano Arthur e suo fratello? Stavano insieme.

Ultimamente i loro rapporti com’erano? Tesi, forse si erano anche lasciati, non lo sapeva...

E lui, invece, in che rapporti era con Arthur? Buoni, amichevoli.

Fisicamente lei somiglia a suo fratello? Molto.

-Capisco.- aveva pacatamente esposto alla fine -Credo sia un meccanismo inconscio di difesa. Il paziente ha subito un forte shock e il suo subconscio cerca di evitargli ulteriore stress emotivo. Ha rimosso tutto il periodo dei litigi, gli ultimi mesi. A questo punto è subentrato il meccanismo di ricostruzione: essendo convinto di essere ancora coinvolto in una relazione stabile, si aspettava il suo compagno al suo capezzale. Il cervello ha rielaborato la sua presenza in base a quell’aspettativa.-

-M-ma perché continua ancora a confondermi con lui?-

-Beh...non posso averne la certezza, ma credo che il paziente stia inconsciamente colmando così il suo recente vuoto emotivo. Mi ha detto che i suoi rapporti con il soggetto erano più pacifici e stabili: il subconscio del soggetto ha registrato quest’informazione e ha fatto si che lei diventasse un surrogato.-

Matthew mormorò a mezza bocca quella parola. Surrogato.

-Recupererà certamente la memoria, ed anche piuttosto in fretta. La cosa importante, adesso, è che non subisca un nuovo shock, che potrebbe alterare seriamente il suo stato psichico.-

-Quindi dovrei...assecondarlo?-

Facile a dirsi, molto meno a farsi. Recitare notte e giorno un ruolo che gli calzava decisamente stretto. Il tutto con le telefonate di Alfred, divenute sempre più insistenti da quando, finalmente, era riuscito ad informarlo dell’accaduto.

I toni erano diventati in fretta accesi, ed era stato questo a convincerlo a scrivere. Non voleva che Arthur fraintendesse, si sentisse preso in giro in nessun modo. Non voleva sospettasse alcuna malafede. A Matthew interessava davvero solo e soltanto la sua tranquillità. Se poi aveva iniziato a desiderare segretamente qualcosa di più, a temporeggiare, ad accettare i suoi baci, era stato solo per debolezza. Tuttavia, Arthur stesso ne era testimone, non si era mai spinto oltre. Non l’avrebbe mai ingannato con  malignità.

Alfred, invece, dopo il panico iniziale, era stato letteralmente dilaniato dalle circostanze. Era proprio vero: per capire il valore di ciò che si ha bisogna rischiare di perderlo. Quasi subito aveva iniziato a chiamare Matthew ad ogni ora del giorno e della notte.

Alla fine era stato costretto a spiegargli la faccenda dello scambio di persona, e lui non l’aveva presa bene. Assieme all’amore, al pentimento, si era risvegliata un’improvvisa gelosia. Ricordava bene una delle ultime chiamate:

-Non provare ad approfittarti della situazione!-

-A-approfittare? Come ti viene in ment... -

-Non sono stupido, Matthew. Ho visto come lo guardavi.-

-E se anche fosse? Proprio per questo non potrei mai volere qualcosa di cui poi si pentirebbe. Come puoi pensare..?-

Aveva pianto di rabbia e di tristezza assieme, asciugandosi con un pugno una lacrima dallo zigomo.

-Digli come stanno le cose, o lo faccio io.-

-Ti stai vendicando, per caso?- chiese, riconoscendo in queste parole l’eco delle sue.

-E anche se fosse?- rispose, facendogli il verso con una punta di cattiveria.

-Beh, allora sei un vero idiota! Lo sai dove stava andando Arthur, in macchina, quando ha sbandato? All’aeroporto. Deve aver pensato che con la tempesta il volo fosse stato sospeso.-

-Stai dicendo che è colpa mia?-

-No, sto dicendo che è te che ama, e proprio perché continua ad amarti, ed ha un disperato bisogno di te sta succedendo tutto questo. Se davvero te ne importa ancora qualcosa, anziché fare il geloso e assillarmi al telefono, salta su uno stupido aereo e vieni qua!-

-Ho già prenotato. Arrivo lunedì.-

-Perfetto.-

-Davvero?- aveva chiesto, dopo un attimo di esitazione, dilatato dal senso di colpa -Bro, per prima...mi dispiace. Grazie per quello che stai facendo.-

Si erano salutati con le consuete frasi di circostanza, mentre Matthew si frugava dentro cercando di capire se Alfred potesse, in fondo, avere ragione. Quanto aveva influito sulla sua disponibilità a quella farsa il fatto che fosse innamorato di Arthur?

Quanto era stato egoista, dietro le mille scuse che aveva propinato anche a se stesso? Aveva paura di scoprirlo, ma gli piaceva credere, o almeno sperare, di essere riuscito a regalare qualcosa ad Arthur, in quei pochi giorni. Un briciolo d’affetto che lo convincesse a non pensare troppo male di lui.

 

---

Il sole sveglia Arthur, colpendolo con un raggio dritto sul viso. L’inglese cerca istintivamente il corpo di Alfred al suo fianco, per poi ricordare. Ricordare tutto ciò che ha sognato quella notte, le memorie che sono, finalmente, tornate. Dolorose ed intere. Alfred è a New York. Lui è solo...oppure no? Perché in quei giorni qualcuno gli era stato vicino, giusto?

Si rizza a sedere tra le lenzuola candide, con gli occhi sgranati, scosso da dei brividi.

Si, qualcuno era stato li. Eppure, non poteva essere Alfred. In preda al panico scese dal letto, spalancando una porta dietro l’altra. Dove? Chi?

Gli sembra un incubo: qualcosa di talmente assurdo ed irreale da credere di averlo immaginato. Baci dolci. Tocchi delicati. Un abbraccio protettivo, di qualcuno che l’aveva guardato addormentarsi con sguardo adorante, senza pretendere nient’altro. Quel pensiero lo tranquillizza leggermente. Non aveva dato se stesso a qualcuno che non era Alfred.

In quel momento il citofono suona.

Parecchi minuti dopo, mentre Alfred (quello vero, stavolta) spinge per l’ennesima volta il citofono, Arthur finisce di rivestirsi e decide di scendere le scale per controllare, prima di sbloccare il portoncino. Poteva essere chiunque e lui voleva vederci chiaro in tutto quel groviglio di ricordi e impressioni.

Lo vede attraverso il portoncino di vetro. Stavolta ne è assolutamente sicuro. Si fionda ad aprire, rischiando persino di inciampare all’ultimo gradino.

-Dude, mi dispiace...come stai? Cosa ti ricordi? Come te la sei cavata in questi giorni?-

Questo è Alfred. Preoccupazione pura, violenta e infantile. Con le lacrime agli occhi.

-Non posso credere che... mi dispiace. Mi dispiace per tutto! Comunque adesso sono qui, e non devi preoccuparti più di niente. Il tuo eroe è arrivato e non ti succederà niente di male.-

Arthur non avrebbe mai pensato di commuoversi per una di quelle sue uscite stupide, a proposito dell’essere “il suo eroe”. Di solito si era sempre limitato ad accoglierle con un sospiro, e alzando gli occhi al cielo. Tuttavia gli erano mancate così tanto...

La coda dell’occhio esplora il pianerottolo, ma non vede bagagli. Si chiede se sia passato prima da casa, ma scarta l’ipotesi. Si vede che è corso direttamente li, in preda ad un’ansia del tutto momentanea. Il fiatone, ed il modo in cui lo abbraccia, non cambiano il fatto che non sia tornato per restare.

Il cuore di Arthur smette di battere all’impazzata, scivola dalla gola giù, come un pesante macigno fino allo stomaco.

-Matthew si è comportato bene, vero?-

“Matthew!” pensa “Ovvio, come ho fatto a non pensarci!”

-Si...per quello che mi ricordo... però credo se ne sia andato. In casa non c’è più nessuno.-

La bocca di Alfred si allarga in una risata che Arthur vorrebbe disperatamente condividere. Eppure di colpo l’atmosfera è straniata. Si sente come se stesse assistendo a quella scena da fuori di se stesso, e fosse in attesa di qualcosa. Un’intuizione risalendo le scale. La cassetta delle lettere.

Senza sapere perché ci fruga dentro. Un comportamento automatico. In quei giorni Matthew glielo suggeriva ogni volta che passava per l’androne, quasi preparasse le circostanze per fargli trovare quella corposa busta. Nessun nome. Nessuna intestazione. Tuttavia Arthur ha la certezza assoluta di chi sia il mittente.

-La posta? Ma ti sembra il momento?- chiese Alfred, sporgendosi oltre la sua spalla.

-Sta zitto.- ordina l’inglese girandosi di scatto, perché non sbirci. Risale le scale accompagnato dal ciarlare allegro di Alfred, che cerca di colmare il silenzio e combattere l’imbarazzo. Sanno entrambi cosa succederà, appena arrivati a casa, o al massimo quella sera. Arthur sa che non riuscirà a dire di no, perché Alfred, l’uomo che ama, nonostante tutto, gli è mancato da morire.

Sa anche che ricomincerà a mancargli presto, forse già dal mattino dopo. Perché la sua testa, forse, è già altrove. Di nuovo a New York.

L’immagine della sua casa vuota, buia come una cripta, com’era quando era rientrato dall’ospedale, gli danza davanti agli occhi. La solitudine è un’ombra che, a poco a poco, divora la felicità del momento.

Alfred parla anche di Matthew, ed Arthur si scopre interessato, mentre un leggero tepore gli invade le guance. Non sono solo belle parole, quelle per il fratello. Anche qualche frecciatina, dettata dalla gelosia, cui lui vorrebbe ribattere. Quel che ricorda lui, di quei giorni con Matthew, è solo tranquillità. Sorrisi dolci, attenzioni, premure, il the sempre pronto e servito sul tavolinetto del salotto. Presenza.

Quei ricordi lo tormenteranno spesso, da allora, nella stanza vuota, di fronte al computer, in attesa che Alfred si connetta su Skype. Arthur non lo ammetterà mai, ma rileggerà spesso le ultime righe di quella lettera di tante, troppe pagine:

“Ti prego di perdonarmi, se puoi, per averti rubato questi pochi giorni che per me sono stati i più belli della mia vita. So che non può essere una scusa sufficiente, ma spero tu abbia capito che pur di essere qualcuno per te, ero disposto a indossare qualsiasi maschera potesse piacerti. Il desiderio che tu mi guardassi con amore forse mi ha reso un po’ egoista, ma ho cercato di ricambiare con tutto l’amore che potevo la gioia che mi dava starti accanto.

Ho deciso di partire per un po’. Non ho indicato la destinazione perché probabilmente non t’interessa e perché vorrei non mi cercassi, per ora. Non riuscirei ad affrontare il tuo eventuale risentimento. Preferirei conservare nella memoria quel poco che di bello c’è stato, di là dalle bugie, sperando che, con il tempo, possa vederlo anche tu.

Con amore (per quel che può valere)

Matthew.”

Arthur ci penserà spesso, la notte, nel letto vuoto del suo piccolo appartamento, guardando il buio e pensando ai chilometri di distanza che lo condannano alla solitudine. Ricorderà il calore di una discreta, devota presenza e, qualche volta, senza sapere perché, verserà una lacrima.

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