Never write forever- Favola Moderna

di Relie Diadamat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C'era una volta... ***
Capitolo 2: *** Poi un giorno... ***
Capitolo 3: *** Finché un mattino... ***
Capitolo 4: *** Ma d'improvviso... ***
Capitolo 5: *** E vissero tutti felici e contenti. ***



Capitolo 1
*** C'era una volta... ***


Autore: Rita221b (Forum) / Relie Diadamat (EFP)
Titolo: Never Write Forever – Favola Moderna
Coppia: Merlino/Morgana; Arthur/Mithian; accenni Arthur/Gwen (nel passato); accenni Gwaine/Morgause (cap.4)
Pacchetto scelto: Merlin

Pacchetto Merlin 
prompt: rogo, bacio, libro 
genere: malinconico, drammatico, fluff 
avvertimenti: what if
citazioni: 
1)Sai che cosa mi piace di lui/lei? Non si aspetta mai una lode. Tutto quello che fa lo fa per il gusto 
di farlo. 
2)Una metà non può veramente odiare ciò che la rende completa. 
3)Sei una domanda che non è stata ancora mai posta. 
extra: nella storia è presente almeno un incantesimo 

Rating: Arancione
Genere: Malinconico, Drammatico, Fluff
Avvertimenti: Tematiche delicate; AU; What if?

NdA (facoltativo): Arthur, Merlin e Uther cambiano nome/cognome per questione di trama, ma sono esattamente gli stessi personaggi del telefilm. Mecoalt è l’anagramma di ‘Camelot.’ Il simbolo (*) indica un breve stacco temporale; il simbolo (**) indica i parallelismi o un completo stacco tra i due paragrafi. La trama del ‘libro’ non segue gli eventi reali del telefilm, ma ne prende spunto. Se in alcuni pezzi il dialogo passa dal formale/informale e viceversa, non è una mia dimenticanza, ma una scelta voluta.
Never write ‘forever’-Favola Moderna
 
“Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.”
- Divina Commedia
 
 
1. C’era una volta…
 
Era stanco.
La mattinata era appena iniziata ed era già stanco. Sapeva che gli sarebbe toccata una nuova ramanzina paterna, siccome stava facendo – come tutti i giorni del resto – tardi a lavoro. Era una vera seccatura avere un padre come datore di lavoro, se poi ci si aggiunge anche quel piccolo particolare che il vecchio aveva un’ossessione per la perfezione e il senso del dovere…beh, non restava che sospirare e – se si era anche devoti ad una gentile e illustre credenza di devoti insoddisfatti – pregare…e poi lavorare!
La verità è che in quei giorni si era ripromesso di incentrare tutta la sua attenzione nel lavoro, cercando magari di non pensare ad altro, a non ricordare quello che era successo pochissime settimane fa.
Adesso, ritto in piedi, nel solito bus che prendeva puntualmente ogni mattina – dal giorno della disgrazia – aveva lo sguardo fisso nel vuoto, ripensando a quanto la vita gli volesse male.
Lasciò ricadere la sua nuca, ricoperta da fili dorati che si ritrovava per capelli, contro la sbarra metallica del bus, utilizzata come appoggio da tutti i passeggeri normali. Ma lui non era normale, di questo ne era fortemente convinto. Le persone normali non avevano una vita piena di problemi surreali.
I suoi occhi azzurri si puntarono sul suo cellulare, un costosissimo Iphone 6, uscito fresco fresco dalla Apple Store. Tra le poche cose buone della sua vita, c’era il lavoro. Era solo grazie al suo posto nell’azienda di famiglia che si era potuto permettere un tale gioiellino.
Certo, avrebbe preferito trovarsi nella sua Porshe Panamera che emanava un grazioso profumo di menta, con la radio in muto per non recargli fastidio di prima mattina (la trovava davvero irritante).
Ma siccome la buona sorte era bendata, ma la sfiga ci vedeva benissimo, la sua adorata bambina era sotto la cura estrema del suo meccanico di fiducia, dopo nemmeno tre settimane di vita nelle sue mani.
Sbuffò sonoro, per almeno la terza volta da quando si era svegliato. Dopo il lavoro avrebbe dovuto catapultarsi fuori scuola, dove un mucchio di marmocchi – a suo avviso molte capre ricoperte da grembiuli colorati – pascolavano isterici all’uscita, ansiosi di correre nelle auto dei propri genitori e sfuggire da quelle stupidisse quattro mura imperniate di infantilismo e stucchevole dolcezza.
Ma cosa ci faceva il signor Arthur M. fuori le porte di una scuola infantile, circondato da marmocchi agitati?
La sfiga.
Era sempre questa la causa di tutti i suoi mali.
Ginevra, la sua ex con la quale aveva condiviso la casa per ben due anni, aveva pensato bene di tradirlo con un altro – il suo miglior amico, per giunta – lasciandolo con una lettera nel giorno del suo compleanno.
Settimane fa, si ripresenta alla porta, Lancelot, il suo carissimo e fedele amico, con una faccia da prendere a schiaffi, irrimediabilmente bagnata dalle lacrime. Stringeva una marmocchia per le spalle, fingendo un tono di voce indifferente e non rotto dall’emozione.
Lo fece accomodare in casa sua, siccome, era un signore… lui.
Vide Lancelot spaesato, con una faccia inespressiva, entrare nel salotto e posare leggermente una mano sulla poltrona in pelle, accanto al tavolino basso. Lo vide rigirarsi più volte a guardare la piccola creatura, dai lunghi capelli biondi e dai grandi occhioni blu, scrutare casa sua.
Solo dopo un lungo tempo di esitazione gli rivelò che lui doveva partire per la guerra – eh sì, era un soldato – e doveva cercare qualcuno a cui affidare la piccola, siccome Ginevra aveva smesso di respirare da pochi giorni.
Gli implorò quell’ultimo favore, fin quando non si fosse congedando e non avrebbe trovato una sistemazione migliore.
Arthur era stato educato da suo padre, dal quale aveva ereditato l’orgoglio come unico e sano principio ma, purtroppo per lui, aveva anche un muscolo chiamato cuore che gli impedì di cacciare a calci dalla sua residenza l’uomo che la sua ex deceduta aveva preferito a lui e la loro bambina; si era così accollato anche quell’insopportabile responsabilità.
«Permesso, mi scusi.»
Una ragazza dai lunghi capelli castani, mossi al punto giusto, lo aveva tamponato e con lui anche il suo Iphone, che irrimediabilmente cadde a terra.
«Merda!» sbottò, irritato.
 La sfiga sembrava davvero perseguitarlo.
Si era accovacciato per raccoglierlo, per poi tirarsi subito su.
«Mi scusi! A volte non so proprio dove metto i piedi…» la ragazza dagli enormi occhioni nocciola aveva iniziato a scusarsi, cercando invano di sdrammatizzare, ma non si rese conto di avere di fronte a sé un furibondo Arthur, il quale non aspettava altro che una scusa per sbollire la sua rabbia «Eh, ho notato infatti!»
La mora si mantenne alla sbarra per non perdere l’equilibrio, mentre il bus riprendeva la sua corsa alla nuova fermata; guardò imbarazzata e un po’ impacciata il biondo che le si parava dinanzi: era avvolto in un costosissimo completo da uomo che lo rendeva semplicemente attraente, più di quanto non lo fosse già in viso. I capelli erano ribelli, tirati in alto e tradivano l’eleganza firmata dal vestiario. Tipi come lui erano pericolosi, perché erano tremendamente affascinanti. Lei conosceva a memoria i tipetti come il biondino: erano viziati, egoisti, boriosi e tremendamente stronzi. Sì, la stronzaggine li contraddistingueva e li rendeva tremendamente adorabili. Perché sotto quella maschera, nascondevano un animo nobile, invidiabile.
Ma gli occhi… non aveva mai visto un azzurro così accecante in tutta la sua vita. Occhi così, dovrebbero essere illegali, pensò.
Si ritirò da quei pensieri malsani, ritrovandosi a giustificare quella sua distrazione «Mi dispiace, spero non si sia rot-»
Neanche il tempo di finire la frase, che già il biondino ritto nel suo completo l’aveva ammonita «La prossima volta faresti meglio a guardare dove vai!»
La giovane sentì la sua pelle tingersi di rosso dalla rabbia. Aveva chiesto scusa, forse anche più del dovuto e quelle sue accuse stavano iniziando davvero ad innervosirla. Era stata sbadata, okay, ma quel tizio stava esagerando «La prossima volta dovresti fare più attenzione alle tue cose!»
«Scusami?!» Arthur aveva aggrottato la fronte, con fare accusatorio. Sicuramente, doveva aver sentito male, si disse.
La ragazza scosse la testa, capendo di aver a che fare con un caso perso, per poi voltarsi verso il vetro leggermente sporco del finestrino. Non era in vena di controbattere ancora, poi suo padre glielo diceva sempre: “la miglior arma è la noncuranza.”
Una frenata brusca di quel cartoccio con le ruote, bastò per far perdere l’equilibrio al biondino, che si schiantò contro il corpo della mora, mentre il suo cellulare dovette scontrarsi contro il duro pavimento scurito del bus.
«Dovrebbe stare più attento a dove mette i piedi.» un’alzata del sopracciglio bastò a ricalcare l’aria di vendetta della giovane, ancora poggiata alla sbarra grigiastra.
Il biondo la fulminò con lo sguardo, non riuscendo ad accettare di essere in fallo «E’ colpa di quell’autista da strapazzo! Vorrei proprio sapere chi gli ha regalato la patente.»
«Mantenersi a qualcosa no? Ah, no certo: il cellulare dove l’avresti poggiato poi?» aveva celatamente rimproverato il biondino, facendolo sentire sempre più idiota e dalla parte del torto. Arthur odiava sentirsi così! Ma la mora non demorse finché non si sentì appagata «Le tasche delicate del completo non avrebbero di certo retto l’insopportabile peso di uno stupido aggeggio elettronico.»
«Iphone, cara. Per la precisione l’ultimo modello lanciato dalla casa Apple, e pagato in contanti.» si abbassò per riprenderlo - per la maledettissima seconda volta - da terra, e rialzarsi lanciando una sguardo di superiorità alla mora, riprendendo vittorioso «Cosa che tu, non potresti mai permetterti, visto che vai in giro con magliette bucate e jeans strappati! »
Gli enormi occhi nocciola si tinsero di fuoco, incenerendo quel biondino viziato solo col suo sguardo «Si chiama moda.» disse, cercando di mantenersi calma, mentre il bus aveva frenato e le porte si erano spalancate «Informati!» gli strappò il costosissimo Iphone dalle mani, per gettarlo con violenza ai suoi piedi e poi sparire dietro le porte, ormai serrate del bus.
Pazza. Quella ragazza doveva essere decisamente pazza, pensò sconcertato.
Si catapultò sul suo gioiellino, notando una netta spaccatura sullo schermo. Bene, andava decisamente tutto bene, pensò digrignando i denti. Cos’altro sarebbe potuto andare storto?
*

Dopo aver compreso di aver saltato la fermata – ed aver maledetto più o meno una quindicina di volte chiunque lo stesse sentendo dall’alto – riuscì ad arrivare a lavoro, con più o meno un’ora di ritardo.
La ramanzina paternale non tardò ad arrivare ed il lavoro si era decisamente accumulato. Grazie a lui, suo padre aveva perso una riunione con un’importante società, alla quale anche Arthur, in quanto socio avrebbe dovuto partecipare.
Se la mattinata non era iniziata nel migliore dei modi… sperò solo che nel pomeriggio non fosse morto.
Quando arrivò il momento della pausa pranzo, il biondo si sentì rinascere. Avrebbe potuto concedersi una mezz’ora di assoluto relax. Eppure gli sembrava di aver dimenticato qualcosa…
 
Scuola primaria, ore 14.30
La scuola era ormai deserta.
Da poco aveva anche smesso di sentire il rumore della scopa, graffiare il pavimento. I bidelli si erano sicuramente concentrati ai piani superiori, dopo aver finito di ripulire l’entrata.
La piccola, d’altro canto, se ne stava seduta sulle grate dell’uscita, ormai deserta, con la testa poggiata tra le mani e lo sguardo ormai perso nel vuoto.
Un taxi posteggiò appena dopo l’entrata, nello spiazzale. Arthur si era procurato un foglio da stampa sul quale aveva scritto con un pennarello nero, a caratteri cubitali, HOPE. Con un attimo di titubanza poggiò il pennarello appena più giù «Come aveva detto si chiamava?» cercò di spremere al meglio le meningi, ricordando come Lancillotto, avesse chiamato la piccola marmocchia; fu del tutto inutile, quindi decise che non ci sarebbero poi stati così tanti ‘Hope’ in quella scuola.
Quando aprì lo sportellino del taxi, e si avvicinò all’entrata, si rese conto che quel cartello non gli sarebbe più servito. Per una volta, in vita sua, il ritardo era stato un toccasana: era stata la bambina ad aspettare lui.
«Sei qui da molto?» d’un tratto si rese conto che forse, avrebbe fatto bene ad instaurare un qualche rapporto con la bambina, per poter convivere – il più breve possibile – serenamente.
“E vissero tutti felici e contenti.” Il giovane ripensò alle ultime righe di ogni dannatissima favola valutando come dopo quella fatidica frase, come a seminare gufate, si materializzavano le due paroline magiche, quelle che mai e poi mai andrebbero scritte. “Per sempre…”
Quelle parole, quelle due maledettissime parole, segnavano la fine di ogni favola e, come per magia, anche quella di ogni storia.
 
Dimora Mecoalt, ore 22.30
 
La bambina avrebbe dovuto essere tra le braccia di Morfeo da almeno già mezz’ora o qualcosa in più, ma non ne voleva proprio sapere di chiudere le palpebre... e la bocca.
Continuava a frignare da un lasso di tempo per Arthur interminabile. Si era catapultato nella stanza dove la piccola sbraitava da sotto le lenzuola, con gli occhi gonfi e la pelle paonazza.
Prima di entrare nella stanza non aveva pensato esattamente a cosa fare, voleva solo raggiungere la fonte di quella lagna infernale, ma una volta ritrovatosi faccia a faccia con la bambina in lacrime, qualcosa dentro di sé si spezzò. Sentì lo stomaco torcersi in un minuto e impotente come non mai, si era fatto coraggio per avvicinarsi alla piccola.
In tutta risposta, la vide scomparire sotto le lenzuola, dalle quali emergeva solamente una chioma dorata. Un vago senso di nostalgia lo pervase. Quella bambina, la figlia di Ginevra, aveva i capelli del suo stesso colore e questo bastò ad Arthur per sentire una seconda morsa nello stomaco.
«Voglio la mia mamma!» urlava la piccola a squarciagola, interrotta da ritmici singhiozzi.
Quello fu un colpo in pieno petto per il giovane. Arthur Mecoalt, in tutta la sua vita, aveva amato solo una donna, la stessa che l’aveva tradito. Se n’era andata dalla sua vita per condividerla con un altro, ed ora se n’era andata di nuovo, abbandonando la propria bambina al suo destino. Per sempre.
Nel letto della dimora Mecoalt, nello stesso letto dove lui e Ginevra, anni addietro si erano amati per la prima volta, c’era sua figlia. Il frutto del suo amore con Lancillotto, che piangeva. Piangeva e chiamava disperatamente la sua mamma, che non sarebbe più tornata.
Si avvicinò al letto, proprio ad un passo dal materasso, gli occhi forse lucidi e una voce malferma «La mamma non c’è.» aveva trattenuto in gola quel groppo dolorante, aveva represso in fondo al palato il dolore per non permettergli di fuoriuscire.
 L’aveva sentita singhiozzare ancora per un po’, prima che riuscisse a parlare di nuovo «Quando tornerà a prendermi?» non si era voltata verso il giovane, forse stava immaginando di aver accanto la sua mamma.
Arthur si sentì morire in quell’esatto momento. Si era sentito così già una volta, anni fa, quando Ginevra era andata via e gli aveva irrimediabilmente spezzato il cuore. A distanza di anni, avvertì il suo cuore spezzarsi ancora, e comprese che mai nessuno meritasse di sentirsi così. Quella donna, non meritava di mandare in frantumi, piccolissimi e dolorosi, il cuore di una bambina. Si fece coraggio, mandando giù il boccone più amaro che avesse mai deglutito «Presto. Tornerà presto.» mentì.
«Davvero?» la piccola si era voltata, finalmente verso di lui, osservandolo.
Arthur lasciò che i suoi occhi oceano incontrassero quelli arrossati della bambina. Non avrebbe voluto vederli lacrimare per colpa di quella donna «Sì, davvero.»
La bambina sembrò convincersi. Si mise a sedere sul lettone, ritrovandosi più fiduciosa nei confronti di quel goffo biondo che si era ritrovata come tutore, così serio da far ridere «Me la leggi una storia?» riprese dopo un secondo di silenzio «La mamma mi leggeva sempre una storia, prima di dormire.»
Quello era un problema: nella biblioteca di Arthur non c’era assolutamente nessun libro della buona notte, siccome non ne vedeva l’utilità. Sospirò, restando autoritario «Non ho libri di favole.»
«Inventa!» aveva proposto la piccola, come una delle più grande idee che la Madre Terra avesse mai ascoltato.
Lo sguardo del giovane si fece più rigido, riconoscendo un suo limite (cosa che odiava) «Non ne sono capace.» disse a denti stretti, quasi imbarazzato. Qualche minuto di silenzio seguì quell’imbarazzante rivelazione, interrotto da Arthur stesso «Ma, se prometti di addormentarti, domani andrò a compararne uno.»

*
 
Era sceso a patti con la peste, di questo ne era cosciente, ma non aveva trovato un’altra possibile soluzione al problema.
Così, il giorno dopo, si era recato nella libreria più vicina a casa sua. Non ci era mai entrato, poiché non gli piaceva più tanto l’odore di carta nuova che si respirava in quel posto.
Dopo un attimo di esitazione, si convinse che entrare fosse la cosa più giusta e sensata da fare, così aprì la porta e il fastidioso rumore di un campanello – disposto appena sopra l’ingresso – annunciò a chiunque vi fosse in servizio dell’arrivo di un nuovo cliente.
Sembrava non ci fosse nessuno, così iniziò a curiosare in giro, tra i vari scaffali. Non era abituato a vedere così tanti libri insieme. L’ultima volta che ne aveva visti in tale moltitudine, era ai tempi dell’università e non gli erano per niente mancati. Anche se a volte, un salto nel passato si potrebbe rivelare piacevole.
Lasciò scivolare lo sguardo sui vari titoli, leggibili dal solo dorso esposto. Si soffermò su uno di questi, Romeo e Giulietta di William Shakespeare.
La mente sembrò volare via, indietro nel tempo.
“E così con un bacio, io muoio.” Gli occhi di Ginevra brillavano come due stelle, ogni volta che rileggevano quelle righe.
 Arthur rimaneva scettico alla bellezza della letteratura, tenendosene alla più larga possibile “Perché ti piace così tanto questa roba? Non ha senso!”
“Perché narra del primo amore. Quello che tutti noi custodiamo gelosamente nel nostro cuore, senza dimenticarlo mai. E’ l’amore immortale, quello che vive in eterno.” gli aveva risposto, con aria sognante, quella che aveva fatto impazzire Arthur sin dal primo giorno. Quella ragazza gli aveva mandato in tilt il cervello e gli aveva rubato il cuore, nessun’altra c’era mai riuscita.
“Io muoio ogni volta che mi baci.” Sorrideva, bella come non mai “Sento il mio cuore fermarsi ogni volta che le tue labbra toccano le mie.”
Erano giovani e inesperti, avevano il cuore non provato da vecchie ferite e non ancora sanguinante. Il primo amore cambia la vita e questo, Arthur e Ginevra lo avevano scoperto quell’estate, all’ombra degli alberi e nel frastuono della città. L’avevano imparato nelle righe di Shakespeare e nel retrogusto agrodolce dei loro baci.
“E sarà così per sempre.” Sentenziò lei, richiudendo il libro, riponendolo in grembo, sul suo vestito bianco di seta.
“Per sempre.” Affermò lui a sua volta, lasciandola morire con un suo bacio. Labbra acre, si congiungevano a labbra dolci, creando il sapore del primo vero amore.
«Serve aiuto?»
Quella voce bastò ad Arthur per riportarlo al presente. Mandò giù anche quel boccone agrodolce, per poi voltarsi verso quella voce femminile; una donna era senz’altro molto più avvezza di lui per procurargli una degna favola della buona notte «Stavo cercando una favola per la buonanotte, ma non riesco a trovar-» l’ultima sillaba gli morì in gola quando riconobbe nello sguardo della donna, l’unico che non avrebbe mai voluto ritrovarsi di fronte.
«Ma, tu sei la pazza del bus!» era indietreggiato di un passo, riscoprendo nella mora una vera minaccia per se stesso.
La donna, in tutta risposta, incrociò le braccia, finendo per lui le presentazioni «Ah, l’idiota dell’Iphone…»
Il biondo roteò gli occhi, riconoscendo in quella donna una vera seccatura. Odiava essere ripreso, ma per di più odiava essere colto in fallo e la mora sapeva farlo bene, fin troppo.
«Lo sai, vero, che Giorgio Armani non ha scritto nessuna favola della buona notte.» quel tono d’ironia bastò ad irritare a dovere il biondo.
 «Il sarcasmo, come la moda, mia cara, è qualcosa che non ti appartiene.» le aveva fatto notare puntiglioso, cercando di sedare la sua corsa nell’umiliarlo.
Lo vide avanzare verso l’uscita, evidentemente aveva dimenticato del perché si trovasse lì «Ehi, Valentino!» canzonò lei «Non ti serve più la favola?» un sorriso beffardo in volto, tradiva un’aria velata di sfida. Era chiaro che quella donna volesse stuzzicarlo, facendogli infine ammettere che avesse bisogno del suo aiuto.
«Allora, mettiamo in chiaro le cose.» aveva detto, dirigendo il suo sguardo sicuro e deciso in quello della mora «Io sono Arthur Mecoalt.» proferì, come se con quella semplice frase avesse risolto un enigma inspiegabile «E non ho bisogno di nessuno.»
Vide la donna alzare le mani in segno di resa, sorridendo lievemente «Beh, in questo caso… buona fortuna, Arthur Mecoalt.» si dileguò, come per magia dallo sguardo del biondo, lasciandolo solo. Solo insieme ad una moltitudine di volumi, tra i quali si sentiva completamente spaesato.
Ginevra… lei avrebbe di sicuro saputo cosa fare. I suoi occhi, troppo piccoli per brillare così tanto, s’illuminavano alla vista di ogni tipo di manoscritto. Che fossero qualificabili o meno poco le importava, fatto stava che riusciva a capirne tutto con un solo sguardo.
Sapeva, anche solo con un’occhiata, capire se quel libro l’avrebbe fatta piangere o se l’avrebbe annoiata; Arthur ne rimaneva strabiliato, soprattutto quando si accorgeva che ciò succedeva.
Si sforzò a tirar giù anche quell’amaro sapore dal palato; Ginevra avrebbe di sicuro scelto il libro giusto per sua figlia, mentre lui non sapeva nemmeno dove orientarsi.
“Che differenza fa! E’ un libro ed i libri sono tutti quanti uguali.”
Ginevra lo rimproverò con uno sguardo, tornando poi a parlare col suo solito tono dolce e pacato, il tipico tono di voce di una principessa, immersa, del tutto focalizzata nel suo mondo “Nessun libro è uguale ad un altro, così come nessuna pagina o nessuna riga. Anche se ne vedrai scritte le stesse parole, con la stessa punteggiatura, assumeranno un significato diverso a seconda della storia che narrano.” tornò con lo sguardo sugli scaffali immensi di quella libreria.
Arthur si era ripromesso che quando si sarebbero sposati, avrebbe fatto costruire una stanza piena di scaffali come quelli, solo per lei. Lo avrebbe fatto solo per ricevere un suo sorriso, come quel pomeriggio, in quella libreria.
“E’ inutile. Non saprei proprio quale scegliere!” il suo sguardo si spostava da un libro all’altro, da un titolo ad un altro.
Una dolce risata risuonò dalle labbra della ragazza “Ma non devi essere tu a scegliere il libro adatto a te. Sarà lui a scegliere te.”
Sbuffò sonoro. Ancora doveva capire perché quella bambina dovesse per forza addormentarsi con un libro delle favole: insomma, la tivù andava più che per bene, a parer suo.
Un lieve colpo di tosse lo distolse dai suoi pensieri. La mora, seduta dietro il suo bancone, teneva volutamente lo sguardo abbassato su un libro, quasi come se non avesse volutamente attirato la sua attenzione. Ma Arthur non avrebbe ceduto: avrebbe trovato da solo un fottutissimo libro della buona notte adatto alla piccola peste e si sarebbe dileguato in fretta e furia da quel posto, sventolando vittorioso il libro dinanzi al naso della ‘pazza del bus’.
Un sorrisetto gli si disegnò in volto, così fece per prendere un volume qualsiasi, nella mischia.
«Oh, Neruda…» la mora aveva canzonato con chiaro sarcasmo «Sei l’unica persona su mezza popolazione a ritenerlo soporifero, sai?» una finta aria di interesse le si era disegnata in volto.
Il biondo, irritato dalla sua intromissione, alzò stizzito un sopracciglio, riponendo il libro al suo posto, per poi afferrarne un altro, subito dopo.
Sentì la ragazza far schioccare le labbra «Beh, non penso che la piccola gradirà una favola con Christian Grey…» continuò più seccante di prima, fingendo con teatralità una finta faccia sconvolta «A meno che non sia attratta da “Cinquanta Sfumature di Biancaneve!”»
Arthur, irato, lasciò ricadere anche quel volume nel mucchio, accorgendosi solo in quel momento delle targhette gialle in cima ai vari scaffali su cui, a caratteri cubitali, vi era scritta la categoria.
Strinse i pugni, infastidito dalla risata cristallina che seguì quella sua sbadataggine. Si avvicinò allora alla categoria ‘bambini’, ma non vi trovò nulla di consono al suo scopo. Nessun libro sembrava attrarlo, nessun titolo sembrava colpirlo.
Erano troppo… stupidi!
«Io le consiglierei di prendersi una bella collana dei Grimm, ma solo entro la mezzanotte, altrimenti…»
Basta. Odiava quando fingeva di portargli rispetto, solo per punzecchiarlo come meglio poteva.
«Buona giornata.» disse secco, avviandosi verso la porta.
«Ma come? Rinunci così presto alla tua favola?»
«Esisteranno altre librerie, con addette magari più qualificate.» scocciato, fece per andarsene, quando l’arrivo di un’altra cliente gl’impedì il passaggio. Per galanteria si scostò, dandole così tutto lo spazio necessario per passare. Se ne sarebbe andato subito dopo se il suo sguardo non fosse caduto sul bancone, appena lasciato vuoto dalla mora, corsa incontro alla nuova cliente.
C’era un libro.
‘La storia del mago e della sua sacerdotessa’, vi era scritto sulla copertina. Era sicuramente un libro di favole, pensò tra sé e sé, il biondo; appena lo vide qualcosa scattò nella sua mente, come se avesse la vaga sensazione che quel libro fosse quello giusto.
La sfortuna era però, inesorabilmente, dalla sua parte: vi era un segnalibro quasi a metà volume, il che stava a significare che era della mora e non era in vendita, almeno non ne aveva viste altre copie tra gli scaffali.
Si chiese se fosse la cosa giusta da fare. Non aveva mai rubato niente in tutta la sua vita, siccome i soldi non erano mai stati un problema, ma in quel momento non vedeva vie di fuga. In fondo, non lo stava rubando, più che altro lo prendeva in prestito. Avrebbe restituito il libro alla ‘pazza’, prima ancora che si accorgesse della sua assenza.
Si guardò furtivamente intorno, accertandosi che la ragazza non lo stesse guardando. Prese il libro tra le mani e lo nascose accuratamente sotto la giacca, uscendo poi di corsa da quel posto.
 
*
 
Dimora Mecoalt, ore 21.30
 
Arthur sfoderò vittorioso il libro che aveva tra le mani e subito gli occhi della piccola divennero due brillanti. A quanto pareva, amava addormentarsi cullata dalla lettura di mille righe, con chissà quali puerili avventure e stucchevoli storie d’amori. Ma ormai aveva dato la sua parola alla peste, e non poteva tirarsi indietro.
«Allora…» il giovane si rigirò più volte il libro tra le mani «Iniziamo?» chiese retorico, anche se un po’ di impaccio c’era da parte sua: non aveva mai letto per nessuno in tutta la sua vita.
«Iniziamo!» tuonò euforica la bambina, mettendosi comoda nel suo lettone, rimboccandosi da sola le calde coperte.
Arthur inspirò, cercando di farsi coraggio e di trovare un senso logico a tutta quell’assurda situazione, ma siccome non ne trovò traccia, si decise ad aprire il libro.
Si schiarì la voce, rileggendo mentalmente quella famosa riga che caratterizzò i primissimi anni della sua infanzia. Poi un attimo di esitazione, si decise, finalmente, ad iniziare la lettura della storia «C’era una volta…»
 
Libro, pagina 1
 
C’era una volta, su una collina verdastra, un castello imponente.
Sulle sue torri, in alto, sventolavano le rosse bandiere con lo stampo di un drago, mosse dal pungente vento inglese.
Dietro la roccia fredda delle mura che circondavano il castello, si udiva un miscuglio variopinto di voci, dalle più cristalline alle più gravi; il popolo di Camelot animava la città bassa e costringeva chiunque a sentirsi nel centro del mondo.
Un giovane ragazzo, dal viso troppo chiaro e gli occhi troppo azzurri, era arrivato nel regno dei Pendragon un mercoledì mattina, col sole splendente alto in cielo.
Appena fu nel centro esatto della folla, si fermò. Osservò l’andazzo allegro delle mille persone, popolani e cavalieri, nobildonne e serve, e per un secondo sentì una particolare scarica di energia partire dallo stomaco ed invadergli ogni centimetro di pelle.
Si diresse allegro e trotterellante nelle stanze del medico di corte, così come, la sua cara mamma rimasta ad Ealdor gli aveva indicato.
Merlin, quello era il suo nome. Era scappato dalla sua città perché era un mago e la cosa sembrava spaventare tutti. Tutti lo guardavano come se fosse un mostro, una bestia e man mano se ne stava convincendo anche lui.
Gaius, il medico di corte, fu il primo a scoprire il suo segreto a Camelot e doveva assolutamente rimanere anche l’ultima persona a saperlo: la magia, nel regno Pendragon, si pagava con la morte.
Ma il giovane si fidava del medico: aveva uno sguardo gentile, anche se apparentemente potesse apparire burbero; i tanti capelli bianchi, lunghi fino al collo, s’ intonavano perfettamente col suo volto segnato dalle rughe che gli donavano un’aria sapiente e saggia.
Il primo incarico di Merlin a Camelot, come aiutante di Gaius, fu quello di portare un rimedio soporifero alla figliastra del re.
Il giovanotto dai capelli corvini, si muoveva agile tra le scale, tra le mura fredde del castello, quasi stesse vivendo un sogno.
La porta appena aperta gli suggerì di azzardare un’occhiata all’intero. Ebbe una mezza intensione di bussare, ma il suo sguardo venne rapido da ciò che si ritrovò dinanzi.
Una ragazza, dalla pelle candida come la neve e le labbra rosse come il fuoco, si tratteneva i capelli tra le mani, quasi come a legarli. Di scattò li lasciò e s’incamminò verso il divisorio.
Merlin non riuscì a fiatare neanche per un secondo. Per un attimo si dimenticò come si riuscisse a respirare, incantato dalla voce gentile della giovane che pensava di parlare alla sua serva.
Un profumo di cedro aleggiava nella stanza, mentre tutto il mondo sembrò fermarsi. I movimenti della ragazza, corvina esattamente come lui, diventarono più lenti ai suoi occhi, quasi volesse imprimersi per sempre quelle immagini nella mente.
Sorrise come un ebete, disarmato in così poco tempo da tanta bellezza. Avrebbe potuto restare così per tutto il tempo. I suoi occhi non si sarebbero mai stancati nel guardare quelle onde nere incorniciare il volto candido della castellana o il semplice movimento delle sue labbra rosse, accese. Labbra dalle quali, già sentiva di pendere.
Tutti i suoi sogni si bloccarono nel momento preciso in cui la ragazza, stranita nel non ricevere risposta, si voltò oltre il divisorio.
Merlin si abbassò, senza farsi notare, cercando di annuire simulando una voce femminile. Vide allora la ragazza proseguire nello spogliarsi, mentre il giovane deglutì a vuoto. Doveva assolutamente uscire di lì, per quanto gli pesasse.
Poggiò la piccola boccetta di vetro contenente il rimedio soporifero e si affrettò ad uscire. Un attimo appena fuori dalla stanza, si poggiò con le spalle accanto alla parete fredda del castello. Nella sua mente l’immagine della ragazza si ripeté in continuazione, fino a farlo sorridere senza volerlo. Subito dopo, un’amara convinzione si fece spazio nella sua mente: era lì in incognito, ma per quel regno rimaneva una bestia. Chi avrebbe mai potuto amare un mostro? Di certo non la figliastra del sovrano.
I giorni a Camelot passarono veloci, soprattutto da quando Merlin, scoprì di dover proteggere il giovane Pendragon, il principe Arthur. Il Drago, rinchiuso nelle viscere del castello, gli rivelò che il suo Destino era unito, legato a quello del biondo.
Così, dopo aver salvato la vita al principe durante un banchetto, Uther Pendragon, re di Camelot, assegnò, come ricompensa, il ruolo di valletto personale del figlio.
A causa di quella folle idea del monarca, il giovane mago fu costretto a passare gran parte della sua giornata a soddisfare tutte le richieste ed i bisogni del principe, ma al tempo stesso, ebbe anche l’opportunità di incontrare Morgana più di frequente.
Imparò a comprendere le sue idee, i suoi modi di fare, persino il suo disappunto verso le leggi del regno che vedevano condannati tutti coloro che praticassero magia.
Morgana, a differenza degli altri, non temeva quelli come lui. Fu per questo che, forse anche consapevolmente, Merlin se ne innamorò.
Vedeva in lei un riparo, anche se la nobildonna non era a conoscenza del suo segreto. Ma era così bella, così decisa, così forte, da fargli perdere la testa.
 
Libro, pagina 12
(Diario segreto di Morgana)
 
Arthur è un idiota.
Riesce a farmi arrabbiare anche senza motivo. Non lo sopporto.
E’ troppo pieno di sé, troppo arrogante. Qualcuno dovrebbe fargli capire che il suo corpo è composto da semplice carne, sorretta da comuni ossa.
È un gradasso! Combatto ogni giorno con la tentazione di sfiorargli il petto con una lama o con una mano. Penso che rimarrà un emblema irrisolto, per me.
Ho smesso di scrivere per un attimo perché mi è venuto da sorridere. A parlare di emblemi mi si è figurato dinanzi agli occhi quel servo impacciato e mingherlino del mio fratellastro.
E’ sempre lì, al fianco di Arthur. Sempre allegro, sempre spensierato.
Si catapulta in ogni missione pur di restargli vicino, lo serve con una devozione tale che non avevo mai visto innanzi in tutta la mia vita.
Ma, sai che cosa mi piace di lui? Non si aspetta mai una lode. Tutto quello che fa lo fa per il gusto di farlo.
Si è fatto tardi, la prima veglia sarà già passata da un pezzo e molto probabilmente Ginevra starà già arrivando nelle mie stanze. Spero solo di non fare altri incubi, non ho proprio voglia di passare un’altra nottata a lottare tra il sonno e la paura.
Chi lo sa, forse pensare a Merlin, goffo com’è mi aiuterà.
Forse, dovrei provarci.

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Capitolo 2
*** Poi un giorno... ***


2. Poi un giorno… 


Il libro stava funzionando e la piccola peste non gli stava più dando fastidi la notte. Arthur però stava rivalutando il fattore ‘la pazza non si accorgerà dell’assenza del libro’ siccome era passata una settimana, ma non gliel’aveva ancora reso.
Si era così deciso a farne delle fotocopie e farlo comparire sotto gli occhi della sua proprietaria, come per magia.
Quella mattina si era perciò alzato prima del previsto, aiutando la bambina nel vestirsi e nel contempo per prepararsi al meglio per il lavoro. Aveva imparato che i marmocchi non mangiano uova fritte, né bevono caffè al mattino, così si era munito di cereali e latte al cioccolato.
Aveva poi riposto con cura il libro della ‘pazza’ nella sua borsa a tracolla, sicuro di potersi togliere quel peso dalla coscienza, uscendone con le mani pulite.
 
Libreria, ore 7.40
 
Aveva aperto da poco le porte della sua libreria. L’aveva ereditata da suo padre e ne era follemente innamorata: tutta la sua storia era sparsa in quei volumi, in tutte quelle pagine, ma all’appello mancava il libro più importante di tutti. Lo aveva lasciato sul bancone della libreria e poi non l’aveva più trovato e stava dando di matto.
Quel libro era tutta la sua vita.
Si sedette afflitta sulla sua sedia rossa imbottita, riposta con cura dietro il grosso bancone di legno, in tonalità noce chiaro. Sbuffò sonora, sporgendo il capo all’indietro e gli occhi al soffitto. Dove poteva mai averlo messo quel dannatissimo libro, continuava a ripetersi.
Improvvisamente nella sua mente ci fu la luce. Si era accesa la lampadina. Aveva lasciato il libro sul bancone e poi si era allontanata verso una cliente, ma in libreria c’era ancora un’altra persona…
«Il biondino!» disse a se stessa, con una punta di irritazione mista ad un’illuminazione divina «Come ho fatto a non pensarci prima?» si chiese ancora, scioccamente.
Non le importava del rapporto che correva tra lei e quel tizio, il libro doveva ritornare immediato nelle sue mani. Lo avrebbe anche strozzato lei stessa al costo di riaverlo. Era troppo importante per lei. Dannatamente importante.
Decisa come un condottiero, si alzò dalla sua sedia comoda, balzando in piedi. Fissò per una frazione di secondi il suo orologio da polso, rendendosi conto di aver fatto bene i calcoli. Prese cappotto, sciarpa e guanti, indossandoli di fretta, ma con una certa eleganza che la contraddistingueva. Di solito, nelle scuole primarie, la prima campanella suonava entro le otto e lei era ancora in tempo per arrivare all’entrata e cogliere il biondino sul fatto: era ovvio per lei che chiunque chiedesse un libro di favole, avesse un bambino a proprio carico. E quale posto migliore, se non la scuola primaria, per cercare un bambino a cui piacciano le favole della buona notte?
Armata di determinazione sin dentro la sua perfetta dentatura bianca, si accinse a lasciare la libreria, voltando il cartello che dava alla vetrata, dove vi era la scritta ‘TORNO SUBITO’.
Subito, certo. Perché dopo aver subito la sua ira, Arthur Mecoalt sarebbe divenuto un capitolo chiuso, sepolto.
 
*
 
Era riuscita a raggiungere la scuola elementare giusto in tempo. Lo spiazzale della scuola era gremito di genitori pronti a salutare i propri bambini che, pimpanti, correvano nell’edificio. Scrutò con lo sguardo le varie famiglie, cercando di cogliere il viso del biondino da qualche parte. Niente. Sembrava non esserci da nessuna parte.
«Verrà a prendermi la mamma?»
Nell’udire quella voce, la mora si voltò, scorgendo la figura di una bambina platinata, ritta al fianco di un uomo in completo.
«Ne abbiamo già parlato, non insistere.» l’aveva liquidata lui.
Gli occhi della donna si sgranarono vistosamente. Conosceva perfettamente quella voce ed un po’ anche quel tono arrogante che lo caratterizzava: quell’uomo era Arthur.
La bambina bofonchiò qualcosa e poi si allontanò. Un sorriso tirato comparve sul volto della donna; molto probabilmente Arthur e la madre della piccola si erano separati. Ovviamente per colpa sua, pensò lei, ma si decise che non erano affari suoi e che l’unica cosa che al momento le servisse era il suo libro.
Inspirò impettendosi, iniziando a muovere dei passi verso l’uomo quando qualcosa la destò. Una donna, probabilmente sulla quarantina, era corsa da lui chiamandolo «Signor Mecoalt!»
Vide l’uomo girarsi e squadrarla con gli occhi, per poi assumere un’aria vagamente difensiva «Sì?»
«Sono Kelly Campbell, la docente di Ygraine.» disse cordiale lei, mentre vide l’uomo irrigidirsi all’istante. Era rimasto pietrificato da quell’affermazione, fin quando non si sentì richiamato di nuovo «C-certo… mi dica.» proferì allora, cercando di trovare stabilità con la voce.
«Vede…» cominciò Kelly, mantenendo un tono educato e cordiale «la situazione, ci sta scivolando di mano. Ygraine è spesso assente ed a volte si rifiuta di rispondere ai docenti, quindi mi chiedevo se… ci fossero complicazioni nel nucleo familiare.»
L’uomo rimase in silenzio per una frazione di secondi, poi la mora lo vide aprir bocca «Ygraine…» disse, quasi stranito da quel nome, per poi correggersi «La madre di Ygraine ci ha lasciati da poco. Il padre è partito per l’Afghanistan, quindi mi occupo io di lei in questo ultimo periodo.» terminò gelido, quasi come se il sol pensiero lo ferisse.
In quel momento la giovane abbassò lo sguardo, esattamente come la signora Campbell, per poi sentirle dire «M-mi dispiace.» balbettò la donna, quasi commossa da quella situazione.
«Le garantisco che… Ygraine riprenderà le sue sane abitudini.» rispose solo, liquidandola con un commiato formale.
La mano della mora cominciò a tremare lievemente, mentre sentì una strana sensazione attanagliarle lo stomaco. Pensò che forse Arthur avesse subito una grave perdita e che probabilmente si era affrettata nel giudicarlo.
 Improvvisamente le parve di vedere quell’uomo sotto una luce diversa. La sua arroganza, il suo essere scostante, le apparirono più chiari nella sua mente: quell’uomo si stava difendendo con l’unica arma a sua disposizione. Quell’uomo si stava difendendo con se stesso.
Cercò di ricongiungere entrambe le mani, intrecciando forte le dita tra loro, almeno per quanto fosse capace. Tremavano ancora lievemente.
Chiuse gli occhi, inspirando quanta più aria possibile. Anche lei avrebbe voluto difendersi con una possibile arma, ma il suo era un caso perso in partenza. Non c’erano armi a contrastare quella guerra che l’aveva colpita e che la stava costringendo a cadere a pezzi.
Aprì piano gli occhi, scoprendo di fronte a sé lo spiazzale quasi vuoto. Erano rimaste solo quattro persone sulle cinquanta precedenti. Quella era la metafora più triste e dolorosa alla quale si stava abituando. Sapeva che, un giorno avrebbe aperto gli occhi, ed avrebbe trovato il nulla ad attenderla. Per sempre.
“Non essere ridicola, Mithian. Il tempo rende il futuro incostante e nessun uomo per quanto straordinario può sapere cosa gli riserva l’indomani. Quindi non promettere costanza per qualcosa d’ignoto. Ne rimarresti delusa.”
La saggezza, nelle parole di suo padre, l’aveva riportata al presente, quello dove il ‘per sempre’ non esiste. Tentò di accennare un sorriso, per poi smuoversi finalmente dal suo posto.
 
*
 
Alcune volte, aspettare nel bus non era proprio l’ideale. La maggior parte delle persone fissavano le immagini scorrere dal finestrino, gli adolescenti messaggiavano tamponando costantemente con i polpastrelli il display dei loro cellulari; le donne più avanti con l’età o le donne maritate in compagnia, si perdevano in futili chiacchiere. Arthur, invece, non sapeva mai cosa fare.
Avere semplicemente pazienza, ed aspettare l’arrivo di una fermata non era il suo forte; non rientrava nel suo stile. Aveva un costante bisogno di tenersi impegnato, anche nella più stupida delle azioni. Il cellulare era ufficialmente fuori questione, siccome, dopo l’ultima avventura nel bus, si era ritrovato con una crepa enorme sullo schermo.
Vinto dalla noia, portò le mani nella sua borsa a tracolla, estraendone il libro che ogni sera a quella parte, leggeva ad Ygraine. Ricalcò quel nome nella sua mente, un tempo sofficiente a farglielo suonare strano, per poi aprire di scatto il libro.
Non voleva cadere nel baratro dei suoi pensieri. Non voleva nemmeno sapere perché mai la sua ex, nonché defunta, ragazza avesse dato il nome di sua madre alla bambina che aveva partorito.
Costrinse i suoi occhi alla visione della pagina biancastra, ricoperta da intere parole tinte di nero. L’unico modo per non pensare, era pensare ad altro.
 
Libro, pagina 20
 
I giorni passavano, così come l’acqua scorreva nei torrenti.
Camelot era splendente, come un cristallo tra mille pietre grezze. Il castello era abbellito da decori sfarzosi, seta purissima e rosso accecante. Eppure, c’era un qualcosa di macabro in quel regno. Vivere a Camelot, sembrava più un sonno perenne che una favola medievale. Vivere a Camelot, era un’impresa ardua, non accessibile ai deboli di mente e di cuore.
Merlin aveva imparato a convivere col suo segreto. Riusciva a guardare negli occhi il principe senza tentennamento nel tono di voce. Era riuscito a trovare un equilibrio statico per la sua sopravvivenza, eppure c’era qualcos’altro che lo tormentava.
Morgana.
Era la persona più sbagliata alla quale il suo cervello era avvezzo a pensare. Ne aveva ormai scalfito nella mente ogni singolo particolare, ogni minima sfaccettatura di quella fanciulla.
Il suo, era un assurdo e univoco sentimento dannoso. Sarebbe dovuto restare tra lui ed il suo cuore, almeno se teneva alla sua testa. Uther, re di Camelot, lo avrebbe fatto giustiziare se solo avesse osato sfiorare la sua dolce figliastra.
Ma Merlin non si sognava nemmeno di sfiorarla. Lui avrebbe solo voluto ascoltarla parlare, per tutte le ore del mattino e tutte quelle della sera. Avrebbe voluto osservare le sue palpebre appesantite, scivolare nel sonno. Desiderava tenerla accanto al sorgere del sole, sognava di vederne la pelle diafana ferita dal rosso di un tramonto. Non l’avrebbe nemmeno sfiorata con un dito, l’avrebbe solo contemplata in silenziosa passività.
Spesso, quando il lume della ragione lo abbandonava e l’istinto prendeva il sopravvento, si fermava ad osservarla più tempo del dovuto, regalandole sorrisi segreti, che mai e poi mai avrebbe visto.
Anche il suo corpo veniva sopraffatto da quel sentimento accecante: quelle volte che si ritrovava con Gaius fuori città, si fermava spesso a raccogliere dei fiori di campo; se li stringeva tra le mani, immaginandoli tra quelle della castellana, poi sorrideva contento.
Il sorriso è l’immutabile stato d’animo dell’innamoramento.
Il servo del principe lo aveva imparato a sue spese.
Quando tornava a castello, trotterellava silenzioso nelle stanze della figliastra del re, poggiando delicatamente i fiori sul suo letto.
Non lasciava scritto nulla. Non le lasciava intendere in nessun modo che fosse egli stesso l’artefice di quei continui doni floreali. Bastava sapere che li ricevesse. Che ne odorasse il profumo. Che se li portasse alle mani, esattamente come lui, nel momento in cui li coglieva.
Tutta questa messa in scena si ripeteva perennemente, con normale equilibrio.
Poi un giorno…

*
 
Lo sguardo di Arthur abbandonò le eleganti pagine del libro, ritrovandosi costretto a scendere alla sua fermata. Leggere purtroppo non era servito a niente, Ginevra era ritornata nei suoi pensieri.
 
*
 
«Sono preoccupato per te, Arthur!»
Il giovane non schiodò lo sguardo dai mille fogli della sua scrivania e, se suo padre non fosse stato così vicino, molto probabilmente avrebbe sbuffato.
Quella era la solita frase che Uther Mecoalt utilizzava, puntualmente, prima di ogni paternale.
«Non hai alcun motivo di farlo. È tutto sotto controllo.» il biondo cercò di deviare il discorso, prendendo una delle tante scartoffie sulla scrivania, portandosela tra le mani.
«Sotto controllo?» gli fece verso il padre con fare austero «Fare sempre ritardo a lavoro ti sembra avere la situazione sotto controllo?!» sbottò, lasciando il figlio inerme, senza parole.
«Quella bambina deve sparire dalla tua vita, immediatamente!» continuò categorico, con un tono che non ammetteva repliche.
Senza neanche rendersene conto, Arthur diede voce ai suoi pensieri «Sparirà dalla mia vita, quando Lancelot riapparirà nella sua.»
Uther accigliò lo sguardo, avvicinandosi sempre di più alla scrivania del figlio, quasi a volerlo incenerire col solo sguardo «Tu, cosa?!» la sua voce era pungente, le parole ancora di più e non solo perché erano urlate «Arthur, quella bambina è la figlia di Lancelot, quel pezzente che quella svergognata della tua ragazza si è portata a letto, gettando disonore sulla nostra famiglia! Ed ora tu che fai? Te ne prendi cura! Ti rendi conto di quello che sta succedendo sì o no?!»
Il giovane biondo, che fino a quel momento non era riuscito a guardarlo negli occhi, si voltò verso il padre, serrando la mascella, ingoiando anche quell’ennesimo boccone amaro.
Parlò a denti stretti, puntando i suoi occhi in quelli dell’uomo «Ti ho detto che sparirà dalla mia vita. Non hai motivo di preoccuparti.» l’oltrepassò come se niente fosse, come se fino a quel momento non avessero discusso; si diresse verso la porta, indossando la sua giacca.
«Dove diamine stai andando, adesso?!» chiese il padre, corrugando la fronte, gli occhi ancora pieni di rabbia.
Arthur ormai nemmeno lo stava più guardando, che già si stava incamminando verso l’uscita «A prendere Ygraine.» digitò sul cellulare il numero di un taxi «Non le piace aspettare.»
 
*
 
«Non mi piace!» Ygraine aveva storto il volto, arricciando vistosamente le labbra quando Arthur le offrì un cono gelato al cioccolato.
«Impossibile! È statisticamente provato che la maggior parte dei bambini impazzisce per il cioccolato!» il giovane insistette con la sua proposta, fin quando la bambina, capricciosa, non scosse la testa, voltando il capo dall’altra parte «La mamma mi faceva mangiare solo quello alla fragola.»
Un sorrisetto nostalgico si disegnò sul suo volto, per pochissimi istanti.
“Ci dia due coni gelato al cioccolato, grazie.”
Arthur si era sporto per pagare alla cassa, quando Ginevra lo interruppe “No, no. Per me a fragola, grazie.”
“Fragola?!” chiese il ragazzo, puntando i suoi occhi azzurri come l’oceano in quelli scuri e intelligenti di lei “Come fai a preferire la fragola al cioccolato?”
Lo scetticismo del suo ragazzo la inteneriva, così tanto da farla arrossire visibilmente, dietro i ricci ribelli “Una volta assaporato la perfezione, non hai più voglia di cercare altro.”
Era davvero ironico il fatto che le parole di Ginevra, iniziassero ad avere un senso solo dopo molto tempo, solo quando ormai era diventata irraggiungibile.
«Mia madre invece mi ha sempre preparato quello al cioccolato.» continuò ad insistere, porgendole ancora una volta il cono gelato «Vedrai che è molto più buono della fragola!»
La piccola tentennò, ma alla fine afferrò il biscotto a cono, portandosi la crema gelato alla bocca.
Si erano seduti accanto una fontana pubblica.
Arthur adorava andare in quel posto, specialmente quando voleva rilassarsi e non pensare a niente.
Frugò nella sua borsa a tracolla, estraendone il libro che Ygraine adorava, mostrandoglielo «Se io ti leggo questo libro, devi promettermi di fare la brava in classe!»
Gli occhi della piccola si erano già illuminati di luce propria, euforica come non mai squittì una serie incontrollata di sì, finché non vide il biondo aprire il libro ed iniziare a leggere.
«Poi un giorno…»
 
Libro, pagina 25
 
Poi un giorno, Merlin entrò nelle stanze della figliastra del re, incurante della sua presenza.
«Sono stufa di questa vita di corte! Tutte queste leggi stupide, tutti questi divieti, sono soffocanti!» la ragazza parlava, nascosta dietro il divisorio, incurante della presenza del servo nella sua stanza.
Il corvino si paralizzò all’istante, non riuscendo a deviare lo sguardo dalla figura candida e angelica della fanciulla. Gli sembrava così perfetta, in così tanta semplicità.
L’amore è cieco. Non permette agli occhi di scrutare i mille difetti della persona amata, ma tende ad ombrarli, mettendo in risalto solo i pregi.
«Voglio evadere!» annunciò infine la corvina, mentre elegantemente cercava di togliersi i suoi regali vestiti da dosso «Vedere come si respira l’aria di Camelot senza essere oppressa da stupide usanze!» il tono della sua voce ebbe un’inflessione sognante, che fece palpitare irregolarmente il cuore del servo.
Non aveva detto nulla di spettacolare, né tanto meno gli aveva promesso amore eterno, eppure, quelle parole seppero scaldargli il cuore: se la immaginò vestita da semplice popolana, i maestosi capelli, scomposti e sempre in disordine. Sarebbe stata perfetta, più di quanto già non fosse.
Perché se Morgana fosse stata una donna qualsiasi, il giovane sarebbe stato libero di amarla. Avrebbe potuto avere il lecito dubbio che lei lo avesse ricambiato.
«Oh… Gwen… credo di aver un problema con il corpetto.» ammise la corvina, immobilizzandosi sul posto.
Il cuore, nel petto del giovane mago, impazzì. Non seppe dirsi se batteva all’impazzata o se avesse improvvisamente cessato di farlo. Una cosa era certa, non sapeva più come si facesse a respirare.
«Gwen?» chiamò ancora la donna, stranita nel non ricevere risposta.
Il servo, seppur scettico ed incerto, avanzò dei passi, col cuore in gola. Un passo, dieci battiti. Due passi, niente pulsazioni.
Camminava, deglutendo a vuoto, sapendo di andare incontro al più grande errore della sua vita.
La giovane, sentendo dei passi si rassicurò e si rigirò di schiena, certa che fosse la sua serva alle sue spalle.
Quando si ritrovò a pochissimi centimetri dalla schiena della castellana sussultò interiormente. Se avesse allungato la mano, avrebbe trovato accesso alla sua pelle diafana, liscia e fresca.
Il profumo di cedro che la pelle bianchissima della donna emanava, gli riempiva le narici, gli offuscava i sani pensieri, gli rendeva impossibile l’utilizzo del senno.
Sedotto dal suo solo odore, Merlin allungò entrambe le mani ai lacci del corpetto della giovane, sfilandoglielo con estrema cura e lentezza. Le mani gli presero a tremare, come le ultime foglie d’autunno, sui rami di un albero, nel bel mezzo di una tempesta.
La ragazza d’altro canto non seppe dirsi il perché, ma sentì il cuore palpitarle in modo strano, quasi come se, sapesse di non essere in compagnia della sua fidata serva.
Era come se il giovane riuscisse a trasmetterle le sue emozioni, sfiorandole appena la pelle, svestendola, in tutti i sensi possibili in natura.
«Porgimi il vestito blu, Gwen.» dalla bocca della corvina, le parole uscirono come un tremolio incerto, dovuto all’ignoto più totale dei suoi sentimenti.
Il ragazzo, le mani ormai fredde e tremanti, il cuore in tumulto, si voltò piano, cercando quasi di non fare rumore, prendendo il vestito regale tra le mani, con una tale eleganza da meravigliarsi da solo.
La castellana alzò le braccia, come per mettere a chiunque le fosse alle spalle di infilarle il vestito indosso. Il servo represse l’istinto maschile, concentrandosi il più possibile nel non essere scoperto.
Issò le braccia, cercando d’infilare nel miglior modo possibile, il vestito regale alla figliastra del re. Le sue mani sfiorarono, seppur di poco, la pelle candida della giovane. Era fresca e liscia, esattamente come aveva sempre immaginato.
«Portami un tuo cambio.» proferì decisa, certa delle sue ipotesi «Gli abiti maschili andranno più che bene.»
Il servo sentì il cuore morirgli in gola.
Morgana era una donna e sapeva distinguere il tocco di un uomo da quello di una serva.
«Sì, mia signora.» soffiò lui, con voce malferma e tremante.
Stava per uscire dalla stanza, volendosi dissolvere nel nulla. Il suo cervello non riusciva ed elaborare quanto accaduto. Sentiva ancora il cuore danzargli nella trachea.
«E grazie per i fiori.» sentì dirgli ancora. Sorrise imbarazzato, sgamato ancora una volta da quella donna bella ed intelligente, poi si voltò, uscendo dalla stanza.
 
Libreria, ore 16.40
 
Mithian era tesa, quasi quanto una corda di violino.
Teneva lo sguardo fisso contro la vetrata della sua libreria, sperando di veder passare il biondo con la bambina.
Le cose erano cambiate. Arthur, per i suoi occhi, non era più un giovane borioso e pieno di sé, ma al contrario, era un uomo che aveva sofferto e che, forse, stava soffrendo ancora molto.
Voleva parlargli, ne sentiva il disperato bisogno.
 «Mi scusi signorina… avrei bisogno di una mano per…» un cliente sulla sessantina, cercava disperatamente l’aiuto della giovane impiegata, ma l’altra non lo stava ascoltando. Al contrario, alzò una mano in segno di pausa «Mi scusi, torno subito.» farfugliò, prima di correre verso l’uscita.
Arthur Mecoalt era passato davanti alla libreria, continuando a camminare a passo spedito, con una bambina dai boccoli d’oro al suo fianco.
«Ehi!» aveva richiamato lei, quel tanto necessario da far voltare entrambi.
Il biondo sbiancò per un momento, ma non si perse d’animo «Posso spiegare.»
«Non voglio spiegazioni, Mecoalt.» la mora scosse lievemente il capo, per poi guardarlo negli occhi «Mi basta sapere che lo tratterai con cura.» alluse al libro.
Arthur l’aveva guardata, per la prima volta da quando si erano incontrati, negli occhi; quelli nocciola, che brillavano nella fioca luce del tramonto «Perché fai questo?» le chiese poi, con un pizzico di diffidenza nel tono di voce.
Era rimasta ad osservare i suoi occhi, fino a saperli descrivere senza neanche guardarli «Perché sei una domanda che non è stata ancora mai posta.» sorrise sbilenca, prima di porgergli la mano destra «Sono Mithian.»
Il biondo sembrò far crollare, almeno in minima parte, quel muro di diffidenza che aveva eretto fin dall’inizio. Strinse la mano alla mora, sostenendo il suo sguardo «Piacere di conoscerti, Mithian.»
La giovane sporse il suo sguardo verso la bambina che, silenziosa, se ne stava al fianco di Arthur, sorridendole amichevolmente.
«Se mai avrai bisogno di qualcosa…» azzardò la mora, soppesando al meglio le parole da usare «Puoi contare su di me.»
«Beh, Mithian… ti ringrazio per l’intensione, ma ti assicuro che non ho bisogno proprio di nessuno.» il biondo cercò gentilmente di chiudere la questione, ma poi sentì la donna incalzarlo «Tutti abbiamo bisogno di qualcuno.»
«Io no.» chiuse la questione, categorico, per poi trascinarsi a sé la bambina «Adesso, se non ti spiace, dovremmo andare.»
Mithian rimase inerme, guardando il giovane allontanarsi con la piccola; un’improvvisa stanchezza invase il suo corpo. Era come se, tutte le forze d’un tratto, fossero scemate.
La mora digrignò i denti: quello era solo un suo effetto collaterale. E, purtroppo, non poteva essere placato.
Era incredibile, continuava a ripetersi. Aveva offerto il suo aiuto ad uomo che, apparentemente, sembrava senza problemi quando ella stessa, solo osservandola meglio, si poteva benissimo capire che necessitasse disperatamente del sostegno di qualcun altro.
Eppure Arthur aveva rifiutato il suo aiuto.
Non ho bisogno di nessuno, le aveva detto.
Mithian sospirò, cercando di mantenersi il più attiva possibile.
Lei aveva il disperato bisogno che qualcuno stesse al suo fianco, eppure si era ritrovata da sola, nascondendo per quanto poteva, tutto quello che le stava succedendo.
Perché anche lei voleva dimostrare al mondo che non aveva bisogno di nessuno, ma più che altro non voleva diventare un rogo. L’idea, di vedere bruciare vive tutte le persone che più le erano care l’annientava. Perché quando si è malati si diventa così, continuava a ripetersi.
La malattia non colpisce soltanto chi n’è affetto, ma anche tutte quelle persone che ci circondano. Gli effetti devastanti si manifestano in poco tempo; la malattia diventa come un fuoco che crudelmente ferisce ogni strato di pelle ed incurante delle sofferenze ti riduce in cenere.
Perché a volte, il fuoco non purifica. Le fiamme incendiano e lasciano solo cenere.
 
Dimora Mecoalt, ore 18.30
 
Ygraine si era finalmente convinta a svolgere i suoi compiti scolastici e questo fu un vero sollievo per il suo tutore.
Nel vederla armeggiare con la penna sui suoi quaderni, Arthur si era concesso una meritata pausa nel salotto, stendendosi a peso morto sul divano. Si era portato dietro anche il libro.
Dopo le ultime pagine lette, il biondo si era leggermente allarmato sulla vera natura dello scritto, non voleva di certo incorrere nel rischio di una qualche scena incensurata. Così, armato di buona pazienza, si era ripromesso di leggerlo tutto, tanto per avere una vaga idea del contenuto. Si sarebbe pertanto accertato se alcuni spezzoni dovessero essere censurati o meno.
Aprì il libro, portandoselo alla stessa altezza degli occhi. Poi, s’immerse nella lettura.
 
Libro, pagina 26
 
Il valletto reale si accinse a procurarsi un suo cambio, il più pulito che possedesse.
Prese tra le mani un paio di pantaloni ed una blusa blu, carezzandoli piano col palmo destro. La pupilla del re avrebbe indossato quegli stessi abiti. Quel corpo, tanto immacolato quanto perfetto si sarebbe ricoperto dei suoi indumenti; vestiti che il mago stesso aveva già indossato in precedenza.
Sentì uno strano calore nel petto, quasi come se un rogo si fosse animato tra le ossa della sua gabbia toracica.
S’ammonì da solo per quei pensieri insani: Morgana era la figliastra del re e sarebbe stato solo doloroso cadere in tali fantasie.
Il rintocco del castello annunciava l’arrivo del vespro. Merlin si sarebbe recato dapprima nelle stanze del futuro erede al trono poi, verso la prima veglia si sarebbe diretto nelle stanze di Morgana, come concordato.
Non riuscì a comportarsi in modo naturale, sentiva le mani tremargli continuamente, perfino quando gli toccò aiutare il principe nel farsi un bagno.
Carezzò la pelle umida del biondo e per un attimo immaginò di sfiorare quella della castellana. Il suo tremolare, insospettì il giovane principe.
«Non sto attestando la tua virilità, Merlin.» punzecchiò il futuro erede al trono «Puoi anche smetterla di tremare.»
Il servo si destò dai suoi pensieri, puntando i suoi occhi sul corpo nudo che stava toccando «S-sì.» boccheggiò imbarazzato dalle sue fantasticherie.
Quella situazione gli stava provocando molti danni e si convinse ancor di più che non fosse una buona idea assecondare i piani della regale corvina.
Quando il giovane fu congedato dai suoi doveri si ritrovò inquieto. Tentennò svariate volte nel corridoio; le stanze di lady Morgana erano poco distanti da quelle del principe e questo bastò per procurargli ancora più ansia.
Sospirò, cercando inutilmente di calmare il suo irrequieto battito cardiaco. Arrivò dinanzi alla porta che lo separava dalla castellana. Alzò un braccio in aria per bussare, ma il passare di alcune guardie lo destò.
Il continuo sentirsi sotto pressione accrebbe la convinzione di essere in errore. Continuò a ripetersi che era una cosa sbagliata e che avrebbe fatto meglio a tornarsene nelle sue stanze ad allietarsi della compagnia del suo mentore.
I suoi pensieri furono interrotti dal cigolare di una porta. Lady Morgana, in vestaglia da notte, era sgusciata col capo all’infuori della porta, tanto per osservare che la situazione fosse quieta.
Si ritrovarono accidentalmente occhi negli occhi, nel silenzio maestoso del castello e della notte. Merlin sentì il cuore accelerare vistosamente, solo nell’osservare la cotanta bellezza nelle iridi della giovane. Sembravano due smeraldi lucenti, incastonati alla perfezione nelle sue cavità oculari.
 «M-mia signora.» salutò con reverenza il servo.
La regale sembrò squadrarlo con lo sguardo «L’hai portati?» chiese in un sussurro, temendo di essere ascoltata da orecchie indiscrete.
«Morgana, vedete… non penso che questa sia una buona idea…»
La corvina sembrò scuoiarlo col solo sguardo «Non pensi, Merlin?» ricalcò accusatoria «E cosa credi che ne penserebbe invece Uther, se sapesse che ti sei intrufolato nelle stanze della sua pupilla?»
Il servo sbiancò, senza riuscire a proferire neanche una parola.
Vittoriosa, la giovane castellana ritornò sui suoi passi «Orbene, ribadisco la mia domanda: li hai portati?»
«S-sì, mia signora.» il mago riuscì a dire, consenziente, porgendole gli abiti rigorosamente ripiegati, nascosti dietro la sua schiena.
«Bene.» soppesò la nobile, rigirandoseli tra le mani «Aspettami qui.» ordinò poi, scomparendo nelle sue stanze.
Merlin credette di aspettare, impalato, fuori dalle stanze della pupilla del re, il tempo di due veglie, mentre ansioso si torturava le mani. Di tanto in tanto muoveva qualche passo in segno di nervosismo, andando su e giù accanto alla porta lignea della sua signora.
La porta delle stanze di Lady Morgana si aprì piano, mentre cautamente la castellana, varcava la soglia. Il servo, che intanto continuava ad andare su e giù, si fermò di colpo. Le sue iridi azzurre vennero catturate dalla figura armoniosa della fanciulla.
La figliastra del re si era raccolta le lunghe onde nere in una treccia laterale che, graziosa, le ricadeva lungo al petto, fino a fermarsi al fianco destro.
La blusa, che il servo stesso aveva indossato qualche giorno prima, era adagiata sulla pelle candida della regale. Vederla calzare i suoi pantaloni poi, lo fece avvampare. Ripensò alle linee sontuose della nobildonna ed il suo viso rischiò d’imporporarsi.
Morgana si accorse dell’espressione attonita del servo e s’affrettò a corrugare la fronte «Che c’è? Non sono forse nelle mie vesti migliori?»
«Siete incantevole…» il mago sentì le sue labbra muoversi da sole, mentre il suo sguardo se ne stava assorto sulla figura della nobile.
La castellana un po’ si sentì avvampare. Sorrise appena a quel tenero complimento, per poi tornare seria «Dovremmo andare.»
«S-sì.»
Merlin distolse repentino lo sguardo dalla corvina, avanzando il passo. Sentiva i passi della figliastra del re alle sue spalle e questo gli procurava sempre maggior ansia. Era come un continuo sentirsi sott’esame, un’interminabile pena. Sentiva costantemente un fuoco ribollirgli nelle vene, nelle viscere del suo stomaco, nelle sue ossa.
 
Quando furono fuori dalle mura del castello, tra le strade buie e fredde, la castellana si sporse a guardare il servo che, con lo sguardo in avanti, procedeva incurante della notte.
Si soffermò sul suo profilo. Dapprima ne ridisegnò i lineamenti del volto con le iridi smeraldo, poi si convinse a prestare attenzione alle mani pendolanti ai suoi fianchi.
Calde.
Le mani di quel servo erano costantemente calde. Ne aveva sentito il calore sulla sua pelle, e in qualche modo, le sembrava di avvertirlo anche in quel momento.
Affusolate e pallide come il suo viso, quelle mani potevano tranquillamente essere scambiate per quelle di un giullare che suona la cedra.
Erano delicate. Mani come quelle avrebbero carezzato dolcemente qualsiasi cosa, assuefacendole al loro tocco. Erano mani da incantatore… ed i suoi erano pensieri divergenti. La corvina spostò repentina lo sguardo sulla strada, cacciando via dalla sua mente certe stucchevoli fantasticherie.
 
**
 
Arthur spostò lo sguardo dalle pagine del libro al soffitto. Tutte quelle storie d’amore… erano così diverse, ma così simili tra loro da far vomitare. Il giovane Mecoalt evitava quanto più gli fosse possibile di leggere romanzi rosa. Li trovava stupidi, banali e ripetitivi.
Non riusciva a trovarci nulla di unico e sensazionale in qualche riga buttata giù a caso, magari in un triste pomeriggio d’autunno. Odiava gli scrittori. Li riteneva persone ridicole che, invece di vivere ogni singolo momento della loro vita, si perdevano tra inutili appunti d’amore.
 
“Se tu fossi in punto di morte… me la scriveresti una lettera d’amore?” Ginevra indossava una leggera camicia di seta, rigorosamente bianca. Le risaltava particolarmente la carnagione scura e gli occhi intelligenti.
“Perché in punto di morte… e poi perché una lettera scusa?!”
Arthur non capiva. Era solo un ragazzo non ancora maggiorenne e di dimostrazioni d’amore, così come dell’amore stesso, ne sapeva ben poco.
“Perché solo in punto di morte scriveresti una lettera d’amore e poi perché… mi piacerebbe poter rileggere all’infinito le tue ultime parole. Mi piacerebbe portarle sempre con me. Quella lettera sarebbe come un libro decorato dal nostro amore. In quanti non sognano una cosa simile?”
 

Il biondo carezzò, forse anche inconsciamente, le pagine del libro che aveva tra le mani, poi lo richiuse con stizza.
L’ultima lettera prima della morte… Il giovane sembrò pensarci a fondo.
Forse, Ginevra aveva lasciato qualcosa per iscritto prima di andarsene, pensò.
Già, ma tutti i suoi pensieri sarebbero rivolti a Lancillotto e non di certo a lui. Fatto tesoro di questa convinzione, si decise che per quel giorno, la revisione del libro era stata più che sufficiente. Così, si alzò dal divano e decise di allontanare ogni tipo di pensiero dalla sua mente.
 
Scuola elementare, ore 14.00
 
«Se continui ad avere quel viso imbronciato, ti si deformerà la faccia.» l’ironia pungente del biondo era un suo marchio di fabbrica, ma Ygraine sembrava ignorarla.
«E’ colpa della maestra!» decretò la piccola.
Il giovane si sistemò nel suo – consueto – sedile posteriore del taxi, sospirando, per poi assumere un’espressione di massima autorità, quasi come un re che accetta l’udienza di un plebeo «Ascoltiamo cosa, questa strega, s’è inventata stavolta.»
«Ci sarà una recita.» continuò la piccola «Ed io dovrò ballare.»
Arthur soppesò la circostanza, senza riscontrarci aspetti negativi «Dunque?»
«Io non so ballare!» sbottò Ygraine, imbronciandosi nuovamente.
«Suvvia, non sarà poi così difficile muovere qualche passo!»
La piccola lo scrutò, ritrovando improvvisamente il buonumore «M’insegnerai tu?» chiese speranzosa.
Alla non risposta del giovane, la piccola sembrò perdere ogni speranza, azzardando una sua supposizione «Non sai ballare…»
«Certo che so farlo!» ribadì Arthur, ferito nell’orgoglio, promettendole che le avrebbe insegnato ogni minimo passo di danza, ma facendo ciò firmò la sua condotta a morte: il giovane non sapeva neanche come si ballasse un lento ed era un vero pezzo di legno, ma non gli andava di essere preso in fallo.
La bambina batté allegramente le mani, felice di poter imparare a danzare. Il biondo, al contrario, guardò fuori dal finestrino, deglutendo a vuoto. Doveva trovare una soluzione al più presto.
 
Libreria, ore 16.30
 
La libreria era deserta e Mithian si beava di quei momenti per poter sfogliare le pagine di qualsivoglia libro, perdendosi nelle righe d’inchiostro nero.
Aveva tra le mani il romanzo di William Shakespeare Romeo e Giulietta, mentre ne rileggeva le ultime pagine.
E così, con un bacio, io muoio.
La mora passò la mano destra sulla frase, quasi volesse accarezzarla, delicatamente. Chissà, forse anche lei sarebbe morta con un bacio, magari.
I suoi pensieri furono interrotti dal continuo tamburellare di nocche contro la vetrata. Alzò lo sguardo e riconobbe la figura aitante di Arthur Mecoalt che, volendo sembrare impacciatamente autoritario, le faceva cenno di avanzare verso di lui.
Sorrise d’istinto, poi però, una volta aperta la porta, aggrottò la fronte sinceramente incuriosita «Che ci fai qui?»
«Cause di forze maggiori.» tagliò corto lui.
La giovane accennò una risata, squadrandolo con finta aria accusatoria «Stai chiedendo il mio aiuto?»
«Il fine giustifica i mezzi!» filosofò il giovane, volendosi tirare fuori da ogni possibile impiccio «Normalmente non te l’avrei chiesto, ma… è una questione delicata.»
Mithian pensando al peggio diventò seria di colpo «E’ successo qualcosa alla bambina?»
Un silenzio innaturale scese tra i due per dieci secondi d’orologio, finché il biondo non si decise a parlare ancora «Deve imparare a ballare.»
 
Dopo che Arthur le avesse spiegato accuratamente la situazione beccandosi una grossa risata della ragazza come risposta, quest’ultima si offrì d’insegnare a ballare alla piccola, ma il biondo rifiutò categoricamente: doveva essere lui ad insegnarlo ad Ygraine, mentre Mithian lo avrebbe insegnato a lui.
Così, mentre la piccola si distraeva alla vista della tivù, i due si segregavano nella camera del giovane Mecoalt, improvvisando lezioni di danza.
«Non è tanto difficile, devi solo seguire i passi.» spiegò lei, cercando di trovare posizione in quel ballo. Arthur però, era così rigido da non consentire neppure alla mora di eseguire un solo passo «Sei troppo teso, Arthur! Devi rilassarti!»
«Sono rilassato!» sbottò l’altro «E smettila di darmi ordini!»
Andarono avanti così, a suon di rimproveri ed anche grosse risate. Mithian cercò di mettere da parte la stanchezza che la sua malattia le provocava, reprimendola, cercando di non darlo a vedere al giovane e sembrò anche riuscirci.
Alla fine riuscirono nel loro intento, così, dopo due settimane di continue prove, Mithian ed Arthur decisero di mostrare alla piccola Ygraine come si ballava.
 
Libro, pagina 28
 
Lady Morgana insistette per entrare in una taverna, dove la presenza delle donne – a maggior ragione a quell’ora tarda – fosse inconsueta.
Merlin, ancora sotto minaccia, dovette accettare i patti della sua signora ed accompagnarla nella locanda.
Appena varcarono la soglia della porta, il servo del futuro erede al trono si convinse che presto, la figliastra del re, se la sarebbe data a gambe levate, inorridita dallo scenario che le si presentava dinanzi alle sue regali pupille.
I tavoli erano occupati pressoché da energumeni o scapoli in cerca di perdersi nel buon sapore della birra che tracollava dai boccali. Popolani molto schietti e sciatti tracannavano forti bibite ed esprimevano, con flatulenze poco signorili, il loro gradimento. Altri tavoli, erano invece popolati da cavalieri, vestiti di semplici vesti, altri con ancora indosso la loro armatura ed il mantello rosso Pendragon.
«Ordina due boccali di cervogia.» comandò la nobildonna al giovane servo.
Merlin, dal canto suo, rimase dapprima spiazzato dalla reazione contenitiva della fanciulla, poi iniziò a rodersi le interiora per averle dato retta fin dall’inizio. Nonostante tutto, fece come gli fu ordinato.
Mentre sorseggiavano i due boccali, la castellana si rese conto delle occhiate languide che molti uomini le propinavano. Il valletto reale ne sembrò quasi infastidito. Quegli uomini avevano intenzioni tutt’altro che nobili, se ne convinse il giovane.
 «Li invidio.» ammise la nobildonna, tutto d’un tratto.
Il mago aggrottò la fronte, riservandole il massimo interesse «Che intendete dire?»
«Insomma guardali! Sono uomini liberi. Liberi di guardare una donna come se fosse una pagnotta di pane e loro bestie affamate. Liberi di tracannarsi interi boccali di birra, incuranti dell’etichetta di corte.»
Il corvino sorrise quasi intenerito, abbassando lievemente lo sguardo «Non sono liberi perché sono popolani, mia signora. Sono uomini, è quella la differenza tra voi… e quei…» il servo cercò il termine esatto da usare, ma le parole gli sfuggirono dalla bocca.
«Vorrei tanto andare via, Merlin.» la voce di Morgana aveva un che d’amaro nel suo timbro «Alcune volte, mi sento soffocare.»
Il giovane servo accennò una risata d’istinto. Lui doveva compiere il Destino, salvando quotidianamente la pelle a quell’Asino Borioso, nascondendo costantemente il suo segreto, Merlin non era sicuro che la nobildonna potesse mai sentirsi soffocare quanto lui.
«Ridi delle mie ferite?» lo accusò, anche se conservava, nel senso molto lato del termine, una vena scherzosa.
«N-no, certo che no, mia signora.» balbettò, cercando di porre rimedio al suo stupido danno.
La donna sorrise compiaciuta della sottomissione del servo nei suoi confronti, poi levò lo sguardo verso l’altro lato del locale «Vorrei tanto danzare.»
 
**
 
Mithian si divertiva nel volteggiare al fianco di Arthur, mentre la piccola Ygraine batteva le mani soddisfatta. Per un secondo non si sentì nemmeno malata. Guardava gli occhi d’oceano del giovane e si riscopriva felice, proprio come lui.
Molte volte, durante la sua giornata, aveva una continua paura della sua malattia, paura degli effetti collaterali che causava. La perdita dell’equilibrio era tra quelle, ma quel giorno non cadde, rimase semplicemente in equilibrio, sorretta dalle braccia muscolose e guidata dai passi seppur arrangiati del biondo.
Era come se il rogo al suo interno si fosse placato di colpo.

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Capitolo 3
*** Finché un mattino... ***


 
3. Finché un mattino…

 
 
Il servo non seppe spiegarsi del come, ma la nobildonna riuscì a coinvolgere la maggior parte dei presenti in un ballo, improvvisato dal suono di alcuni flauti traversi, suonati da alcuni trovatori usciti chissà da dove.
Il corvino corrugò la fronte nel pensare che qualcun altro usufruisse dell’uso della magia, ma poi quella sciocca insinuazione si trasformò in ansia quando, Lady Morgana si offriva come dama di ballo a quei balordi malintenzionati.
Cristo Santo, che avesse dato di matto? Imprecò il mago sbarrando gli occhi, accingendosi il prima possibile a recuperare la donna dalle manacce di quei tizi.
«Mia signora… penso sia ora di…» cercò di dissuaderla il corvino, ma la castellana lo interruppe porgendogli la mano «Ti concedo l’onore di un ballo, Merlin.»
Il mago avrebbe tanto voluto trascinarla fuori dalla taverna a forza, ma sapeva perfettamente di cosa era capace l’arguta Lady ed era anche a conoscenza che il re non avrebbe tollerato nessuna notizia novella sulla sua incursione nella stanza della regale, dunque, deglutendo a vuoto si convinse ad accettare quell’invito – celatamente gentile – stringendole la mano.
Almeno per il momento nessuno avrebbe attentato alla purezza della nobile, si consolò il mago, vedendo il pollicione del re ancora verso il centro e non abbassato del tutto, nella sua mente.
Merlin era un tronco di legno. Non sapeva nemmeno muovere due passi, ma in quel momento non sembrò avere importanza. La corvina gli era di fronte e avvicinandosi piano a passo di danza fece un inchino, per poi indietreggiare nuovamente. Non vedendolo attivo, la nobildonna roteo gli occhi richiamandolo con tono acido «Potrei trovare di meglio, sai?»
Nonostante l’avvertimento si avvicinò di nuovo, alzando lievemente la mano verso l’alto, unita stavolta, al palmo tremolante del ragazzo.
Gli occhi smeraldo della donna non furono mai così vicini alle iridi azzurre del giovane mago e qualcosa di tremendamente caldo scoppiò al suo interno. Sentiva ancora quel rogo consumare ogni centimetro del suo interno.
Morgana era bella, ma il servo avrebbe dovuto sapere che giocando col fuoco si rischia di scottarsi…

**
 
«È… stata una giornata divertente.» valutò il giovane, accompagnandola alla porta «Alla fine il mio innato talento per il ballo è venuto a galla.» disse baldanzoso, provocando la risata cristallina della mora.
«Ygraine n’è stata felicissima.» concordò l’altra, stando ovviamente al suo gioco.
Lasciava scorrere il suo sguardo dalle proprie mani incastonate tra loro, fino alla figura slanciata del biondo. Era bello, quella sera più di sempre, forse perché per la prima volta da quando si erano conosciuti, le era parso se stesso. Senza barriere né difese.
«Non era un libro di favole…» esordì Mithian ad un certo punto, accennando un mezzo sorriso.
Il biondo scrutò bene il suo sguardo. Se ne stava in silenzio, sorridendo sbilenca ed aveva la fronte scoperta, mentre i capelli mossi le ricadevano sulla schiena. Gli occhi non erano particolarmente chiari, ma attraevano la sua attenzione lo stesso.
«Più o meno lo è.» Arthur interruppe quel silenzio creato tra di loro, per poi continuare con fare quasi impacciato, quasi stesse confessando una sua intimità «Nelle favole c’è sempre un grande amore da salvare, no? Per il momento manca il mostro cattivo.»
Mithian rimase felicemente sorpresa da quella sua osservazione. Lei conosceva perfettamente ogni singola pagina del libro fin da quando era piccola e ne era particolarmente legata. Sapere che Arthur Mecoalt non avesse preso quella faccenda sottogamba non poteva che renderla felice.
«Scommetto che ne hai già letto ma non te ne sei accorto.» lo provocò lei, mentre un leggero venticello le muoveva i capelli.
«Okay.» disse il giovane con fare sicuro, accogliendo la sfida «Ti aggiornerò passo dopo passo dei miei progressi nella lettura, così vedremo se non sono così intelligente come credo.» le porse una mano per accogliere la scommessa.
Mithian arricciò le labbra e poi strinse la mano dell’altro «Affare fatto, Arthur Mecoalt.»
 
Libro, pagina 33
(Diario segreto di Morgana)
 
Merlin è diverso.
Quando pensi di conoscerlo ti sorprende, ricordandoti di quanto sia bizzarro o particolare.
È strano… sorride di riflesso ad ogni mia azione, arrossisce con dolce imbarazzo. Non avevo mai conosciuto un ragazzo così. Di solito mi si avvicinano cavalieri boriosi ed arroganti, pieni di sé, eppure nessuno è mai riuscito a colpirmi.
Pensa che io stia dormendo ed invece sono rimasta sveglia solo per pensare alla notte che abbiamo trascorso insieme. Mi sento strana… tutto questo non è da me!
Ho ancora il suo odore addosso, quello dei suoi abiti.
Non è così male come pensavo…
Forse sono solo assonnata, in fondo sarà già passata da un pezzo la seconda veglia e il senno mi sta abbandonando. Se è solo colpa del sonno, allora non me ne vorrà il mio orgoglio se, insonnolita, gli auguro una notte serena…
Suppongo di no. Ad ogni modo, la mia notte più serena l’ho già passata.
 
Azienda Mecoalt, ore 10.30
 
Era nel bel mezzo di una riunione importante ed avrebbe fatto meglio a prestare attenzione, ma la mente di Arthur vagava in tutt’altra direzione. Se ne stava seduto insieme ad altri imprenditori, mentre suo padre farfugliava qualcosa sul rendimento propizio della loro azienda e di come sarebbe migliorata con future fusioni, eppure non ne ascoltava nemmeno mezza parola. Una vibrazione nel taschino della sua giacca attirò la sua attenzione, sussultando appena.
Si era completamente dimenticato di spegnerlo e Arthur sapeva che suo padre sarebbe diventato una belva feroce se lo avesse scoperto. Incurante del pericolo, decise di sbirciare lo stesso, guardandosi cauto intorno.
1 Messaggio Mithian
Arrenditi, non ci arriverai mai.
Il biondo sorrise di riflesso al messaggio, non trattenendosi dalla voglia di risponderle.
A: Mithian
Un Mecoalt non si arrende mai.
Appena premette invio, Arthur si accorse della tosse dell’uomo brizzolato al suo fianco, così cercò di sembrare attento al discorso, nascondendo il cellulare il quanto più possibile. Dopo nemmeno mezzo minuto, il display si accese di nuovo.
Era ancora Mithian che gli scriveva “C’è sempre una prima volta, anche per i Mecoalt.”
L’orgoglio del biondo lo spingeva a risponderle “Questa filosofia non vale per me; non c’è nulla che io non possa fare!”, ma sembrò ripensarci su.
A: Mithian
Stasera a cena, capirai che ti sbagli.
Sorrise d’istinto, subito dopo averlo inviato, finché il richiamo paterno non tardò ad arrivare.
 
Qualche ora più tardi…
 
Arthur si fermò al centro esatto della stanza, le mani sui fianchi a contemplare il suo lavoro. Aveva mandato la marmocchia ad un pigiama party da una sua amichetta… Nimueh se la memoria non lo ingannava, ed aveva avuto tutto il tempo a disposizione per preparare la casa per quell’evenienza.
Mithian non sembrava un tipo da ristorante, ma aveva l’eleganza di una principessa: non l’avrebbe invitata certo nel locale più costoso di Londra, ma le avrebbe regalato una serata indimenticabile nella sua modesta dimora.
Sorrise soddisfatto di sé, rendendosi conto di aver portato a termine i preparativi: la casa era in perfetto ordine, l’orata risposava al forno con le patate ed il vino era già sul tavolo.
Ricongiunse le mani sfregandosele tra loro. Era tutto pronto… tranne che Arthur stesso.
Sbiancò riscoprendosi ancora in quel pessimo stato, correndo a farsi una doccia.
 
Libro, pagina 60
 
Merlin ebbe bisogno di risciacquarsi ripetitivamente il viso prima di poter pensare lucidamente. Il servo sentiva di dover sbollire tutto quel fuoco cocente che divampava nel suo interno, era quasi insopportabile.
Era riuscito a reprimere quel sentimento nocivo per molto tempo e non si degnava del perché adesso non ne fosse capace. Continuava ad apparirgli dinanzi agli occhi il sorriso altezzoso della nobile, le movenze regali. Il suo cervello richiamava il suo odore alla memoria.
Sarebbe impazzito di questo passo, doveva cercare una soluzione.
 
**
 
Arthur lasciò che l’acqua gelida della sua doccia gli scorresse lungo il viso, trovando la pace per un attimo. Quella ragazza sembrava essere diventata un chiodo fisso e… un po’, tutto questo, lo spaventava, anche se non l’avrebbe mai ammesso.
Si era ripromesso di starsene lontano dai sentimenti e per molto tempo ci era anche riuscito. Ginevra era riuscita a spezzargli il cuore in così tanti pezzi che ormai il giovane aveva issato una corazza che nessuno era mai riuscito ad infrangere.
Si era ripromesso di non lasciarsi toccare più da nessuno… ma poi era arrivata Mithian. Lei, era diversa. Non le importava dell’apparire, ma le bastava essere e ad Arthur piaceva da morire quel suo modo di rimanere se stessa.
Mithian era dolce ma non mansueta, bella ma non perfetta, gentile ma non ingenua. Mithian non somigliava in nulla a Ginevra.
 
**
 
L’Asino Reale decise che gli allentamenti sarebbero stati raddoppiati, il che equivaleva a doppia fatica per il giovane mago. Il principe di Camelot diventava particolarmente irritabile quando tutto non procedeva secondo i piani e, ad onore del vero, nulla in quel regno sembrava mai procedere secondo i piani.
Merlin si accinse a rassettare la stanza del futuro erede al trono, dopodiché raccolse i panni destinati al bucato in una cesta, dirigendosi verso la lavanderia.
Una risata cristallina riecheggiò per tutto il corridoio, accompagnata dal rumore di alcune scarpette contro il pavimento gelido «Prima o poi Uther, con la sua insana voglia di maritarmi, perderà il lume della ragione!»
Il mago continuò a camminare, riconoscendo la voce della nobildonna, che continuò a beffarsi del padrigno «Aveva già preso di mira quel cavaliere misterioso, peccato che alla fine si sia rivelato essere una donna.»
«Penso che Morgause non rientri nelle vostre preferenze.» rispose stando al gioco Gwen, la sua serva, mantenendo una risata più contenuta.
Il servo ne rise in automatico, figurandosi dinanzi agli occhi il re che cedeva la mano della sua protetta ad una donna sconosciuta.
«La verità è che Uther non comprende i miei gusti.» ammise la nobile con franchezza.
La sua fedele serva sembrò incuriosirsi tutt’un tratto «E voi cosa desiderereste, mia signora, sempre se non sono indiscreta…» cercò di scusarsi.
«Io vorrei un uomo che sapesse usare la fantasia e non una spada, Gwen! Vorrei qualcuno che vedesse il mondo con occhi diversi… qualcuno che non ti attedi con resoconti di battaglia. Desidero con tutta la mia anima qualcuno per cui valga la pena di vivere ogni giorno, senza che questi siano ridipinti dalla monotonia.» la voce di Morgana era sognante, ma decisa.
«Uomini così sono davvero rari da trovare, mia signora. Dovreste solo affidarvi ad un cantastorie…» sdrammatizzò l’altra, per poi aggiungere «O magari invaghirvi di Merlin.»
Il servo aveva fermato la sua camminata nel corridoio, appostandosi dietro una colonna, per poter udire meglio la conversazione. Sapeva che era sbagliato, ma… non poté farne a meno. E poi ad onor del vero, si stava parlando di lui!
«Quel servo è il ragazzo più strano che abbia mai conosciuto!» sbottò la nobildonna, continuando la sua camminata lungo il corridoio, mentre Merlin poteva già udire il suo odore di cedro.
«Però ha un fascino tutto suo.» si sincerò infine con la sua ancella.
Sul volto del corvino apparve un gigantesco sorriso da ebete. Era come se, avessero messo un poppante al fianco della propria madre, solo che la gioia era triplicata.
Era così perso nel suo piccolo attimo di felicità di non accorgersi neanche del cesto scappato dalle sue mani che, cadendo al suolo, attirò l’attenzione delle due fanciulle.
«Chi è là?» chiese autoritaria la figliastra del re, calmandosi dopo il brusco sobbalzo.
La figura mingherlina ed impacciata del valletto reale si materializzò dinanzi ai loro occhi, mentre incerto tentava di evitare lo sguardo della castellana «Non volevo spaventarvi, mia signora. Chiedo perdono.»
I muscoli della donna si tesero d’un lampo, mentre la gola le diventò secca di colpo «Sei qui da molto?» chiese indagatoria, anche se dal tono sembrava trasparire una certa bruschezza.
«No.» biascicò il giovane, per poi sorridere come un idiota dal suo solito ed inventare una qualsiasi scusa attendibile «Stavo camminando per il corridoio, ma per sbaglio ho lasciato cadere il cesto con la biancheria del principe e… vi ho spaventato.» s’affretto a chiarire il giovane, gesticolando con l’unica mano libera.
Morgana sembrò scrutarlo a fondo, cercando di cogliere la veridicità delle sue parole dalle sue movenze «Bene.» proferì allora con tono inflessibile «Torna pure al tuo lavoro, allora.»
Il corvino abbassò lo sguardo imbarazzato, obbedendo all’istante agli ordini. Era inutile che continuasse a sperarci ancora: Morgana era una nobile e, anche se si fosse accorta di lui, non sarebbero mai stati insieme.

Villetta Mecoalt, ore 21.15
 
Arthur si ammirò allo specchio per l’ultima volta, valutando impettito il risultato ottenuto. Aveva indossato i suoi pantaloni migliori, neri a sigaretta. Aderente al petto vi era una camicia grigiastra, lasciata fuori dai pantaloni.
“Non sei niente male, Arthur Mecoalt.” Constatò da solo, per poi sistemarsi per puntigliosità il colletto della camicia.
Le sue iridi azzurre, sporcate con spruzzi bluastri, inquadrarono bene la sua immagine riflessa allo specchio, riscoprendosi agitato. Per ansia si passò una mano tra i capelli, assicurandosi ancora una volta che fossero tutti al loro posto, finché il suono del campanello non lo distolse dalle sue accortezze.
“E’ arrivata.”
Camminò a grandi passi fino all’entrata, assicurandosi con varie occhiate che fosse tutto secondo i piani, immobilizzandosi dinanzi alla porta. Prese un lungo respiro, quasi come un fiero condottiero prima di iniziare una battaglia, poi aprì.
Una volta spalancata la porta, s’irrigidì per un secondo, ammaliato dalla figura della giovane.
Mithian aveva i capelli lasciati liberi, con le prime ciocche intrecciate e ricongiunte dietro il capo. Non aveva molto trucco sul viso, solo del mascara e del lucidalabbra, ma toglieva il fiato lo stesso.
Indossava un vestito a tubino rosso, lungo fino al ginocchio e con le spalline che le ricadevano più in basso dalle spalle. Le sue labbra rosa s’incurvarono in un sorriso «Ciao…» le guance erano leggermente arrossate per l’imbarazzo, il naso per il freddo.
Arthur le sorrise di riflesso, ripensando mentalmente a quanto fosse bella in quel momento «Sei bellissima.» ammise infine, riuscendo a conquistarsi un altro sorriso dalla mora.
Mithian non era una ragazza ingenua. Era consapevole della propria bellezza, ma non se ne vantava. Era umilmente sicura di sé, come poche.
«Mecoalt…» richiamò lei con la fronte aggrottata «Stai andando a fuoco.» fece notare, puntando lo sguardo sui suoi pantaloni.
Il biondo abbassò repentino gli occhi sull’indumento, accorgendosi delle fiamme all’altezza della caviglia. Dimenò il piede destro con forza, nel tentativo di placare il fuoco.
Con un po’ d’intelletto riuscì a salvare la situazione, anche se doveva ammetterlo: la serata non era per nulla iniziata nel migliore dei modi.
 
Libro, pagina 72
 
Il sovrano, Uther Pendragon, diede l’ordine di allestire la sala reale per il banchetto in onore di Sir Valiant, un cavaliere degno di nota e non ancora unito nel vincolo del matrimonio con nessuna ancella, in visita a Camelot. Il nobiluomo sembrò fin da subito entrare nelle grazie di sua maestà, ma non fu quello a mettere in allerta il giovane mago.
«Ho saputo che Sir Valiant abbia intensione di corteggiare Lady Morgana.»
«Oh, ogni fortuna alle nobildonne!»
Merlin raggelò nell’udire quei pettegolezzi nella lavanderia, dove altre serve confabulavano tra loro. Sapeva di essere solo un servo e sapeva per certo che non avrebbe mai avuto un futuro al fianco della nobile, ma solo a quello di Arthur, eppure saperla maritata con un altro uomo gli mandava in cortocircuito il cervello.
 «Lady Morgana non cederà alle lusinghe di quel cavaliere. Sanno tutti che sua maestà vorrebbe vederla maritata con suo figlio, il principe Arthur.» s’intromise una terza serva, parlando con fare civettuolo.
Il servo incassò il colpo, sentendo un’angosciante morsa allo stomaco.
“Arthur non prova alcun interesse per la sua sorellastra, anzi se potesse spenderebbe tutta la sua vita ad indispettirla con i suoi dispetti fraterni. Morgana lo strozzerebbe con le proprie mani sorridendo trionfante!” il mago si rincuorò con queste constatazioni.
Strizzò il panno che si ritrovava tra le mani, gettando via quei pensieri folli dalla sua mente.
Merlin trovò ben presto molto lavoro da fare grazie all’Asino reale e quel maledettissimo banchetto. Il sole non tardò a svanire, lasciando posto alla maestosa luna che incurante della notte se ne stava tra le stelle, donando un’atmosfera particolare, quella che avrebbe ispirato molti giullari nelle loro composizioni amorose.
La sala fu allestita con enormi tavolate il cui elemento predominante erano i boccali ricolmi di vino. Si respirava un clima allegro e gioviale, mentre candelabri di ogni genere illuminavano le lussuose quattro mura della sala.
Merlin restò in disparte, in piedi con gli altri servi presenti nella sala, aspettando ordini precisi. I banchetti erano per i nobili, non certo per loro.


Casa Mecoalt, ore 21.30
«Lo senti anche tu?»
Mithian si guardò intorno stranita, accorgendosi di uno strano odore che aleggiava nella casa «E’ puzza di bruciato…» costatò la mora, vedendo scolorire il biondo.
Arthur aveva abbellito l’intera casa con le candele dimostrando un lato romantico che Mithian, doveva ammetterlo, ignorava. Il giovane valutò in quel momento che forse non era stata una gran bella idea: nell’arco di solo quindici minuti si era abbrustolito la caviglia ed ora la casa rischiava di andare a fuoco.
Il biondo trovò sollievo nel costatare che nessun angolo della casa andava a fuoco, ma il suo buonumore si abissò nel momento in cui fece capolinea nella cucina. Aprì sconsolato il forno, accorgendosi di aver rovinato l’intera cena.
«Beh, adesso sappiamo che oltre al ballo, nascondi anche altre qualità nascoste.» ironizzò la donna, guardando il viso affranto del giovane sul cibo inerito.
«Il forno è difettoso.» si giustificò il biondo, riponendo la teglia sul bancone della cucina.
La giovane trattenne una risata, per poi assecondarlo «Ovviamente.»
Arthur sembrò non notare il celato beffeggiamento, passandosi una mano tra i capelli per cercare una soluzione, mentre l’altra continuava a riderne da sotto i baffi. Di scattò schioccò le dita «Ho la soluzione.» decantò sicuro di sé, come se avesse appena trovato un rimedio infallibile contro una malattia incurabile.
Si avvicinò ad un cassetto rosso, sospeso circa un metro dal lavabo, aprendolo con fare vittorioso, ritrovandosi però impietrito da ciò che vide. Ritrovandosi con le spalle al muro, prese la confezione di cereali e la mostrò alla mora.
«Oh… era da circa vent’anni che sognavo di mangiare dei Froot Loops.» scherzò su lei, per poi vedere il biondo riposare la confezione sul bancone e partire alla ricerca del suo cellulare «Ordinerò una pizza.» disse risoluto, non intenzionato a gettare la spugna.
Mithian lo vide prendere tra le mani il suo Iphone con una crepa nello schermo. Le venne da sorridere, ripensando a quando si erano conosciuti e a quante cose erano cambiate da quel giorno. Lasciò cadere lo sguardo sulla confezione dei cereali fruttati, rievocando alla mente vecchi ricordi, quelli a lei più cari, quelli legati alla sua infanzia. Ne sorrise di riflesso, per poi volgere lo sguardo verso il volto del biondo. Aveva lievemente la mascella serrata, indice della sua irritazione e gli occhi così proiettati nello schermo da non accorgersi nemmeno delle sue occhiate. Arthur aveva pianificato quella serata nei minimi dettagli e questo per Mithian era più che sufficiente.
«Non chiamare.» gli disse, non appena l’altro si portò il cellulare all’orecchio destro «I Froot Loops andranno più che bene.»
 
Libro, pagina 77
 
Come ogni banchetto gioioso che si rispetti, a corte erano giunti i giullari migliori del regno, pronti ad allietare la serata con musiche allegre.
Il sovrano annunciò l’inizio delle danze, senza tuttavia parteciparci. Se in quel momento fosse stata presente sua moglie, Lady Ygraine, forse ne avrebbe preso parte senza dimostrarsi contrariato a tutta quella frivolezza.
Come il re, anche Merlin non ne tenne parte, in quanto semplice servo, mentre numerosi cavalieri si accingevano a chiedere l’onore di un ballo a molte dame. Arthur cercò quanto più di tenersene alla larga, ma una giovane nobile di cui il mago ignorava l’identità, si affrettò ad avvinghiarsi alle sue calcagna, costringendolo a ballare.
Il valletto reale, dopo la brutta esperienza con Sophia, decise di mantenere lo sguardo vigile sul suo padrone, accertandosi che quella dama non avesse altri fini. Riuscì nella sua impresa, fin quando non vide Lady Morgana accettare di ballare con Sir Valiant.
Il mondo sembrò adombrarsi improvvisamente. I suoni della sala si fecero sempre più fievoli, mentre il silenzio invadeva le sue enormi orecchie a sventola.
Morgana gli sorrideva mantenendo il suo sguardo e fu come una lama dritta nel petto. Rimembrò di qualche giorno ante quella sera, quando a guardarla in quel modo c’era lui e non quel cavaliere.
Fu come una triste metafora, ancora più dolorosa da cogliere: Morgana non faceva parte del suo Destino e un giorno sarebbe stata al fianco di un uomo che non era lui e avrebbe fatto meglio a rassegnarsi.
C’era molta gente nella sala, eppure lui udiva solo il suono delle sue risa ed avrebbe tanto voluto divenire sordo per magia. Incassò l’ennesimo sguardo d’intesa della nobile al cavaliere, sentendo piano il suo cuore sgretolarsi, poi successe l’impensabile. La corvina, impegnata nei passi di una vecchia ballata medievale, incrociò il suo sguardo.
Merlin non seppe dirsi per quale motivo, ma sentì ancora quel fuoco farsi spazio nel suo interno. La castellana però distolse nuovamente lo sguardo ed il servo si sentì un completo idiota per aver solo pensato di poter essere nei pensieri dalla fanciulla. Poi, la vide voltarsi ancora.

**
 
Mithian si sorprese nel riscoprirsi così in sintonia col giovane. Non si sarebbe mai aspettata di passare una serata a mangiucchiare cucchiaiate di latte e cereali fruttati, cercando di non strozzarsi dalle risate.
Erano finiti a parlare, seduti a malo modo sul divano, della loro infanzia senza neanche rendersene conto, forse aiutati inconsciamente dalla loro cena. Arthur le aveva raccontato di quanto sia stata difficile, nel senso più comico del termine, vivere da solo con Uther. Suo padre, aveva affermato il biondo, non era per nulla ferrato nel crescere un bambino eppure Mithian poté notare quanto rispetto e orgoglio nutriva nei confronti del padre.
«Mio padre invece era solito assecondarmi sempre, tanto che mi madre a volte non lo sbranava.» la mora si stampò in volto un sorriso nostalgico, portando alla mente vecchi ricordi «Erano due poli opposti. Il caldo e il freddo, l’estate e l’inverno. Eppure si amavano.»
Arthur rimase in silenzio, non sapendo cos’altro dire. La mora giocherellò col cucchiaio nella tazza vuota, creando cerchi concentrici sul fondo di ceramica «Ygraine ti somiglia molto.» disse spezzando il silenzio.
«Già.» fu la risposta secca dell’altro.
Mithian notò il considerevole cambio d’umore del giovane e la cosa sembrò incuriosirla «Eri molto amico dei suoi genitori?» tentò lei, guardando in volto.
«Sua madre ed io eravamo fidanzati.» rispose semplicemente l’altro, senza far trasparire nessun’emozione.
La giovane inarcò le sopracciglia stupita «Eravate fidanzati?» lo vide annuire, allora continuò «E… come è finita, sì insom-»
Arthur interruppe bruscamente il suo discorso, sbottando infastidito «Perché le cose finiscono, Mithian! Non esiste il per sempre.»
L’altra si morse l’interno labbra per il rimprovero, poi decise di chiudere lì la questione. Non era solita rimanere al suo posto al primo tentativo di zittirla, ma quella frase le era molto familiare. Quella lezione, l’aveva imparata a sue spese.
Il biondo sembrò sentirsi in colpa, o semplicemente gli pesava quell’assenza di parole tra di loro così continuò a parlare, come se niente fosse «E’ Valiant.»
«Cosa?»
«Valiant.» rimarcò il giovane «E’ lui il cattivo.» disse, imitando un’aria trionfante.
La mora però, arricciò le labbra in segno di dissenso «Mi dispiace, Mecoalt. Sei fuori strada.»
Vide l’altro roteare gli occhi, per poi affermare seccato «Allora è Merlin! Quel ragazzo è un idiota!»
Mithian rise del buffo accanimento di Arthur contro quel povero servo, per poi precisare «Non è idiota, è solo un servo. A quel tempo poi, si parla di amor cortese, sai… loro s’innamoravano dell’anima non del corpo.»
Il biondo scosse il capo, rimanendo fisso sulla sua idea «Balle. Amavano lo spirito perché non avevano il coraggio di raggiungere il corpo!»
«Beh oggi è il contrario.» Mithian sembrò diventare seria di colpo «Adesso si mira al corpo perché non si ha il coraggio di amare l’anima, di una persona.» lasciò che i suoi occhi si perdessero nelle iridi profonde dell’altro. Erano distese d’acqua gelida, mentre la pupilla era l’isola che Mithian lasciava inesplorata, tanto era persa nella magnificenza di quel colore bluastro.
 
**
 
Merlin si sentì strattonare al centro della sala senza neanche rendersene conto.
«Ti concedo l’onore di questo ballo.» disse provocatoria la corvina, porgendogli la propria mano.
Il servo sentì il cuore palpitargli nella trachea, mentre sentiva il respiro mozzato. Probabilmente se il re l’avrebbe visto gli avrebbe fatto mozzare la testa «N-non posso, mia signora. Uther mi farebbe giustiziare all’istante.» cercò di dissuaderla il giovane, sguardando di sottecchi la clavicola della nobildonna, sentendosi avvampare.
«Stai dunque rifiutando la mia generosa offerta? Molti uomini si lascerebbero trafiggere da mille delle spade dei Pendragon pur di avere quest’onore.» la voce della castellana aveva quell’inflessione provocatoria che tanto la caratterizzava, quel misto di sensualità e divieto che Merlin avrebbe tanto voluto ignorare.
Ignorando l’etichetta di corte, la donna prese nuovamente l’iniziativa, quasi fossero tornati indietro nel tempo in quella taverna.
La musica dei flauti si fece più incalzante, le mani dei due giovani presero a toccarsi. Quella destra dell’uno contro la destra dell’altra, girando per un breve arco di tempo in cerchio, per poi cambiare giro.
I loro occhi erano incatenati, uniti da una forza invisibile e impossibile da spezzare. Morgana quella sera era bellissima, in quel momento era perfino più bella di qualche istante prima. Portava i capelli raccolti, mentre alcune ciocche erano state lasciate libere e le sfioravano le guance. Il pallore regale della sua pelle era in contrasto armonioso con le labbra rosse e carnose, i capelli corvini richiamavano all’attenzione quei smeraldi splendenti che erano i suoi occhi.
Il corpo della fanciulla era avvolto da un elegante vestito viola, colore che tra l’altro, le donava particolarmente. Merlin si sentì così sminuito dalla sua semplice essenza. Lui aveva indosso i suoi semplici indumenti quotidiani e non c’era niente di straordinario che potesse attrarre l’interesse della donna, eppure lei stava danzando con lui. Con lui e nessun altro. Il resto del mondo sembrò perdere d’importanza, mentre tutta la mente del mago si soffermava sulla nobildonna.
Per loro grande sfortuna, il re li avvistò dal suo posto, tenendo uno sguardo accigliato e le mani chiuse in due pugni. Morgana era un’incosciente e non si rendeva conto delle sue azioni, continuava a ripetersi il monarca.
La musica ancora non si era fermata che il sovrano vide i due allontanarsi dalla sala, imperdonabilmente vicini. Fece per alzarsi con stizza, ma fu fermato dall’avvicinarsi di un suo fido alleato, anch’egli presente in quella ricorrenza. Tentò di reprimere la collera, accogliendo il vassallo in arrivo.
«Vado a cercare Gaius.» aveva esordito il servo, guardando la smorfia di dolore sul volto della regale.
«Sto bene.» obbietto ella, zittendolo «Avevo solo voglia di evadere da quel posto.»
Il silenzio calò tra i due. Il mago si perse nuovamente nella figura slanciata della nobildonna, rimanendone ammaliato, con lo sguardo perso, poi però un ricordo si fece vivo nella sua mente «Dunque avete intensione di maritarvi con Sir Valiant.» affermò il servo, con una nota di dispiacere nella voce, ma sforzandosi di mantenere un’espressione allegra.
La castellana lo guardò di sottecchi, notando il mutare della sua voce «E a te che importa?»
«Nulla.» si affrettò a dire il corvino risoluto «Spero solo nella vostra felicità.»
Morgana scrutò a fondo l’immagine del giovane che le stava di fronte. Nella poca luce del corridoio sembrava ancora più pallido del normale. Aveva il capo chino e le mani lungo i fianchi, cercando di evitare il quanto più possibile il suo sguardo. La figliastra del re sapeva perfettamente l’effetto che aveva sul valletto reale e ne gioiva trionfante.
«Non sposerò Valiant.» lo sorprese lei, avvicinandosi al mago «La mia mente è già occupata da un altro.»
Merlin voltò piano lo sguardo su di lei, puntando le sue iridi azzurre in quelle verdi della donna. Morgana mantenne la sua espressione enigmatica, lasciandogli intendere ben poco, eppure qualcosa lo costrinse a smuoversi. Aveva i piedi inchiodati al suolo, ma fu come se qualcosa al suo interno lo avesse comandato di andare verso la donna. Accadde nel silenzio più totale, nel silenzio che sapeva di completa estraniazione dal resto del mondo. Il servo lasciò con lentezza implacabile che le sue labbra si posassero su quelle della castellana, in un bacio casto.
Il cuore gli si bloccò in petto mentre poteva sentire il calore ed il profumo della donna contro il suo viso. Fu una sensazione che conservava il sapore della perfezione.
Le loro labbra si staccarono piano, mentre il corpo di Merlin prese lievemente a tremare. Morgana rimase con le labbra schiuse e gli occhi spalancati a fissare il servo. In quel momento il mago si maledisse per ciò che aveva fatto, temendo la più catastrofica delle reazioni, mentre invece la corvina lo sorprese. Incurvò le rosse labbra in un sorriso soddisfatto, mentre energica riprese a baciare le labbra del servo. Merlin portò entrambe le mani sul viso della donna, premendoselo contro il suo, baciandola a sua volta.
Fu quasi come assistere ad incendio che divampa tutt’intorno, senza che quel fuoco possa toccarti. Ne si avverte il calore, ma non si viene bruciati.

**
 
«Mi ha tradito.» il biondo soffiò quella frase a denti stretti, lottando contro il suo orgoglio.
Mithian si chiese se fosse stato lecito porgli altre domande o se invece le avrebbe risposto in modo brusco come qualche minuto addietro. Arthur aveva un carattere complicato e per nulla semplice da comprendere. Aveva bisogno di trovare il coraggio di fidarsi e la forza di combattere il suo orgoglio, perché per una qualche motivazione assurda, quel giovane non ammetteva di essere in fallo, non contemplava la macchia dell’errore.
«Era tutto perfetto. Stavamo bene, so che era così!» le parole piene di risentimento di Arthur vagavano nella stanza in totale silenzio.
Erano rimasti seduti alle due estremità del divano, l’uno di fronte all’altra, nella penombra della stanza illuminata dalla sola luce delle candele, disposte un po’ ovunque. Mithian incassò il dolore del giovane, deglutendo per lui un boccone amaro.
«L’ami ancora?» trovò il coraggio di chiedergli, sorridendo con un solo angolo della bocca, mantenendo lo sguardo fisso nei suoi occhi bluastri.
L’altro la guardò in silenzio, serrando lievemente la mascella «Non lo so.»
La mora gli sorrise incoscientemente, ritenendo quella riposta come un’affermazione. Un po’ le era pesato, si sentiva il rimpiazzo di turno e non le andava di essere la seconda scelta. Mithian sognava di essere amata, ma sfortunatamente si era resa conto che la vita non era così generosa come potesse sembrare.
Non le piaceva quella situazione, per niente. Si alzò di scatto dal divano, avviandosi verso il corridoio, quando la voce di Arthur la paralizzò «Però una cosa la so.» disse, vedendola fermarsi nel centro esatto della stanza.
«Cosa?» gli chiese, cercando di trattenere le lacrime che cercavano di fuoriuscire. Non si era mai sentita tanto fuori posto come in quel momento.
Il biondo si alzò dal divano, arrivando a grandi passi alle spalle della donna «Questo.» disse semplicemente, per poi farla voltare prendendola per il polso, allungando una mano dietro la sua nuca ed avvicinarsela al volto.
Fu inaspettato, come potrebbe esserlo una bufera nel giorno di Ferragosto. Mithian si lasciò abbandonare sulle labbra del giovane, abbassando ogni difesa. Schiuse le labbra, facendo capire all’uomo che poteva osare di più, garantendogli libero accesso. Fiondò una mano tra i capelli dorati, lasciandosi andare.
Il rogo che da un po’ di tempo a quella parte le stava divorando ogni cellula vitale sembrò placarsi, mentre ad ogni movimento di Arthur la vita iniziava a pullularle in tutto il corpo. Fu come rinascere per una seconda volta.
Così, mentre Romeo moriva con un bacio, Mithian riprendeva a vivere, ritrovando quella pace che tanto aveva cercato.
 
Libro, pagina 97
 
La vita a Camelot sembrò scorrere come granelli di sabbia in una clessidra.
Gli sguardi complici dei due amanti divennero un codice segreto decodificabile solo tra loro, le mani diventarono strumenti creati per sfiorare linee candide di pelle e tessuti. Le mura del castello dei Pendragon diventò a poco a poco un nascondiglio d’amore perfetto.
Finché un mattino…
Morgana tenne il broncio al sovrano per tutto il tempo che poté, si ribellò capricciosa, ma si rivelò tutto inutile. Uther Pendragon aveva preso la sua decisione ed aveva accolto la richiesta di Sir Valiant a prendere in moglie la sua figliastra.
La nobildonna si dimostrò contrariata, prese ad insultare il suo tutore come meglio poté, ma ricevette solo uno schiaffo in volto da un monarca irato che continuava a ripeterle di non insistere.
«Sposerai quell’uomo, che tu lo voglia o no!» tuonò austero, col palmo ancora spiegato a mezz’aria.
La castellana, ricaduta a terra per la violenza del gesto, si portò una mano alla guancia, mentre i suoi occhi s’inumidirono di nuove lacrime, lacrime che avevano il sapore della rabbia e del dolore.
«Preferirei morire anziché sposarmi con un uomo che non amo!» gli ringhiò contro, senza perdere il coraggio che l’aveva sempre caratterizzata.
Il re si avvicinò minaccioso alla figliastra, stringendole il polso esile nella sua mano forzuta, annullando quasi del tutto la distanza tra loro «Non te lo sto chiedendo.» soffiò spregevole, per poi mollarle di colpo la presa, facendola indietreggiare lievemente «Te lo sto ordinando.»
A nulla servì digrignare i denti, graffiando il pavimento con le unghia e gridargli in gelido “Va’ all’inferno.” Il sovrano, non cambiò la sua idea, né allora né giorni innanzi.
Uther prese quella decisione sospettando di una possibile relazione tra il servo personale di Arthur e Lady Morgana. Ricollegò tutti i tasselli, comprendendo il continuo rifiuto della figliastra ad ogni baldo cavaliere. S’infervorò paurosamente, prendendo quella scellerata bravata come una mancanza di rispetto nei suoi confronti.
Il re non poteva sopportare che la sua protetta lo tradisse in quel modo, disonorando la casata dei Pendragon con un semplice servo. Valutò la possibilità di giustiziarlo o quanto meno di mandarlo in esilio, ma ciò non avrebbe placato l’ira di quella scellerata.
Avrebbe preso provvedimenti a tempo debito, per il momento il più dell’opera era conclusa.
Si sedette sul suo trono con un volto inespressivo, lo sguardo perso in un punto indefinito. Morgana sarebbe partita verso il suolo natio di Valiant, scortata da alcuni cavalieri di Camelot, escluso il principe. Arthur, si sarebbe di certo portato dietro quel disgraziato del suo servo e Dio solo sapeva quanto l’indulgenza di suo figlio avrebbe dato modo a quei due svergognati di amarsi, senza ogni pudore.
Serrò i pugni fino a farsi male.
Avrebbero pagato entrambi il prezzo di quell’affronto.
Il giorno successivo, ai primi bagliori, Lady Morgana si diresse verso il suo destriero bianco, scortata da una quindicina fra i cavalieri più qualificati. Fu concesso alla sua serva di partire con lei, ma ciò non allievò il dolore nel cuore della giovane corvina.
Sapere di dover abbandonare Camelot per andare in sposa ad un uomo che non amava, lasciandosi alle spalle il suo vero amore la tramortiva, ma non vi era un’altra via.
Merlin non ebbe il coraggio di correrle incontro, di baciarla per l’ultima volta. Rimase con i piedi impiantati al suolo, nel vederla andare via per sempre, in tutto il suo splendore. Guardò quegli occhi di smeraldo per l’ultima volta, volendoseli figurare nella mente per tutta la vita. Serrò i denti con più forza che poté pur non permettere alle lacrime di solcargli il volto. Rimase nascosto in un angolo dello spiazzale, senza darle l’ultimo addio.
«E’ giunta l’ora di partire, mia signora.» la informò Sir Leon, avvinandosi con reverenza alla castellana.
Morgana asserì col capo, ma il suo sguardo indugiava altrove. In quei pochi minuti che le rimanevano prima della partenza, scrutò ogni angolo dello spiazzale, voltando lo sguardo ovunque, pur di intravedere la figura del suo amato. Ma mai come in quel momento gli parve più lontano.
«Morgana, non possiamo più indugiare.» la redarguì nuovamente il cavaliere.
La castellana posò lo sguardo in un angolo, accanto ai barili ingombranti, riconoscendo l’immagine di Merlin. Quest’ultimo si scostò appena in tempo, nascondendosi alla sua vista, pur di non soffrire più del dovuto. Se l’avesse avuta ancora una volta tra le braccia, non l’avrebbe lasciata andare mai più.
«Arrivo.» si arrese lei, tornando sui suoi passi.
Il mago sentì la giovane salire in sella al suo destriero e chiuse gli occhi con foga, cercando di placare quel dolore enorme, al centro del suo petto.
La castellana si sistemò in sella al suo purosangue, guardandosi per l’ultima volta indietro. Il cuore le doleva nel petto, così tanto che pensò di morirne. Una tristezza immane la pervase convincendosi che mai, avrebbe rivisto il volto del suo amato.
Merlin si maledisse da solo per quello che stava per fare, ma decise d’impulso di non poterla lasciare andare via così. Strinse forte i pugni, uscendo allo scoperto «Morgana, aspettate!» urlò disperato.
La nobildonna sgranò gli occhi, vedendo la figura goffa del valletto reale venirle incontro; sentì il suo cuore perdere un battito ad ogni passo del servo.
«Merlin!» gridò di rimando, smontando dalla sella al meglio che poté, catapultandosi nella sua direzione, incurante dei mille richiami della sua serva e dei cavalieri. Ogni passo contro il pavimento gelido sembrò un battito mancante nel suo cuore, certa che anche se lo avesse tenuto stretto tra le sue braccia, avrebbe dovuto dirgli addio in ogni modo.
Merlin fermò la sua corsa portando entrambe le mani a sorreggere il viso candido della nobildonna, sorridendole tra le lacrime, mentre l’altra ansimava per l’emozione.
«Promettimi che sarà per sempre.»
Il naso era arrossato per le lacrime, mentre le labbra tremolavano dai singhiozzi.
Il mago sentì il cuore spezzarsi in quell’esatto momento, ritenendo ingiusta una sorte così crudele ad un amore così puro. Le asciugò coi pollici le lacrime che presero a scenderle dal volto, mentre egli stesso aveva il labbro tremolante e gli occhi lucidi «Te lo prometto.» le disse ad un passo dal suo volto, sforzandosi di guardarla fissa negli occhi.
Morgana aveva lo sguardo tremante, immersa nella speranza che si trattasse di un suo solito incubo, ma certa dell’amara verità che fosse tutto vero. Avrebbe vissuto il resto della sua vita senza poter più vedere quel volto, lontana dai loro sguardi languidi e dallo sfioramento delle loro pelli.
Si sporse in avanti, premendo forte le sue labbra su quelle del servo, incurante del resto del mondo, non prestando la minima attenzione allo sguardo attonito dei cavalieri o di Gwen. Quello era il loro bacio d’addio.
Le lacrime continuarono a volerle scendere dal volto in quel momento più che mai. Fu un po’ come morire, con l’arma più infima che il Creato avesse mai conosciuto.
Merlin sentì il suo cuore diventare cenere, mentre il rogo che lo attanagliava sembrò divorargli l’interno. Fu lento e incosciente, un po’ come la morte. Ne si assapora il gusto aspro e maligno senza saper come. Allo stesso modo sentì Morgana sfuggirle dalle mani, mentre il calore del suo corpo si disperdeva nella sua memoria.
«Troverò un modo per portarti indietro da me.» le sussurrò, vedendola strattonata dalla sua serva che invano imprecò che il re non li avesse visti per il bene di entrambi, dirigendosi verso il gruppo attonito dei cavalieri.
Il servo la vide allontanarsi e prendere posto sulla sella del suo stallone immacolato. Osservò col cuore a pezzi ogni zoccolata degli equini aumentare la distanza tra lui e la corvina. Fu straziante, quasi come accorgersi di avere ancora il suo sapore sulle labbra e nel palato. Quel sapore dolce, che il tempo seppe tramutare nell’amaro più indigesto della sua vita.

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Capitolo 4
*** Ma d'improvviso... ***


           4.Ma d’improvviso…
 

Libro, pagina 120


Fu terribile, ogni giorno che seguiva la notte.
Il mago credette di bere ogni dì un bicchiere e mezzo d’aceto. Scolarlo fino all’ultima goccia per poi sentir nascere quella voglia irrefrenabile di correre in qualsiasi luogo e buttare fuori tutto. Ma nulla uscì dalla sua bocca, non un mezzo singhiozzo, non una lacrima dai suoi occhi.
Imparò a convivere col dolore concentrando tutta la sua attenzione sulla missione dettatagli dal Fato. Andava tutto a gonfie vele nel bagliore del mattino, ma poi il cielo s’imbruniva ed il sole dava il suo cambio alla luna; fu come cadere.
Di notte, quando ogni rumore sembrava annullarsi nel silenzio, Merlin si perdeva nella totale assenza di suono, riscoprendo, steso sul suo letto, ancora vivo il ricordo della voce di Morgana nella sua mente.
Cercava di riportane alla mente il profumo di cedro, il fresco della sua pelle diafana e alcune volte gli pareva di averla accanto. Lasciava ricadere piano le palpebre a coprirgli gli occhi azzurrognoli, per poi sentirli vibrare febbrilmente.
“Sei solo un bugiardo!”
Quando Merlin riaprì gli occhi, erano tinti d’oro, mentre al suo lato sinistro accovacciata al suo fianco c’era la figura evanescente di Morgana.
“Non esiste il per sempre.” Il volto etereo della nobildonna s’imbronciò, per poi puntarsi sul braccio del servo.
Il mago non parlava, se ne stava lì, fermo nel suo letto con la testa incrinata verso la sua proiezione mentre sbilenco, le sorrideva.
L’immagine bluastra della corvina prese a carezzargli il braccio con l’indice, effettuando movimenti circolari. Era così concentrata sulla sua pelle da sembrare assente.
Merlin la lasciava fare, immaginando di sentire per davvero il suo tocco fresco sulla sue pelle, ma tutto ciò che lo toccò fu aria. Semplice e banalissima aria.
“Ti sei già dimenticato le ultime parole che mi hai detto.” Ghignò provocatoria, facendo assumere alla sua faccia una strana smorfia che ormai il servo aveva imparato a comprendere bene “Cosa aspetti a portarmi via?” conturbò ancora, lasciando scivolare la mano sul torace, per poi scendere sempre più in basso.
Poteva vederla, poteva anche illudersi di poter sentire la sua mano contro il proprio corpo, ma non avrebbe avuto senso prendersi in giro fino a quel punto. Chiuse gli occhi, prima ancora che il palmo aggraziato della nobildonna potesse toccargli il cavallo dei pantaloni.
Piombò in un silenzio surreale, nulla pareva avere più voce o rumore. Né la luna sembrava più splendere in cielo accanto alle sue stelle. Riaprì piano gli occhi, riscoprendosi solo, nella sua stanza buia, illuminata solo dalle luci degli astri.
Se il suo mentore avesse saputo che da quando Morgana era partita, per disperazione aveva imparato quell’incantesimo, molto probabilmente lo avrebbe guardato in malo modo, riservandogli una paternale senza clemenza, ma poi si sarebbe intenerito perché Gaius era una brava persona e lo avrebbe consolato, prendendolo per le spalle. Ma poi non sarebbe stato più libero di recitare quella magia e ciò era impensabile per lui.
Necessitava di vederla, di sentirla parlare, di saperla in parte ancora sua. In fondo cosa c’era di sbagliato, si ripeteva. Chiunque avrebbe serbato nel profondo del cuore la memoria della persona amata, rivedendola nei sogni dove sarebbe stato libero di baciarla e viverla in parte. Non era forse la stessa cosa che faceva anche lui, si giustificava.
Si rigirò sul fianco, cercando una posizione stabile almeno nel suo letto, costringendo il proprio sguardo a fermarsi nella maestosa semioscurità della sua stanza. Doveva ammettere che Arthur aveva proprio ragione: vi era più disordine tra le sue cose che nella mente d’un uomo.
Sorrise di riflesso a quel pensiero, posando lo sguardo sui vari oggetti sparsi un po’ ovunque. Le labbra s’irrigidirono nella loro posizione curva, quando le iridi del mago incontrarono i propri abiti maschili, tenuti stranamente ripiegati con cura. Merlin sapeva perché vi era tanta cura nel trattamento di quegl’indumenti.
Morgana si accorse dell’espressione attonita del servo e s’affrettò a corrugare la fronte «Che c’è? Non sono forse nelle mie vesti migliori?»
«Siete incantevole…» il mago sentì le sue labbra muoversi da sole, mentre il suo sguardo se ne stava assorto sulla figura della nobile.
Rapidi come lampi i ricordi riaffiorarono nella sua mente. Si alzò dal letto dirigendosi verso il suo completo maschile, senza neanche rendersene conto. Le mani sembrarono agire da sole, sollevando il vestiario all’altezza del torace.
«Mia signora… penso sia ora di…» cercò di dissuaderla il corvino, ma la castellana lo interruppe porgendogli la mano «Ti concedo l’onore di un ballo, Merlin.»
Il mago si portò il viso sul tessuto grezzo della sua blusa, ispirando tutto l’odore racchiuso nella stoffa.
La corvina gli era di fronte e avvicinandosi piano a passo di danza fece un inchino, per poi indietreggiare nuovamente. Non vedendolo attivo, la nobildonna roteo gli occhi richiamandolo con tono acido «Potrei trovare di meglio, sai?»
Sapeva ancora di lei. Quell’odore nei suoi abiti era ancora il suo profumo. Si perse nella vaga fantasia nel rivederla con i suoi indumenti addosso, magari con una treccia che le ricadeva di lato, mentre elegante e sensuale come sempre danzava, sovrana di ogni cosa.
Sentì lo stomaco torcersi dolorosamente, mentre un nodo alla gola sembrava impedirgli il respiro. Morgana era partita da molti giorni, mesi forse ed era dunque lecito pensare che ormai fosse diventata la moglie di Sir Valiant.
Il cavaliere insinuava le sue mani tra le curve della consorte e lei non opponeva resistenza. Rude era il suo tocco sui seni della donna, vinto dal desiderio virile di possederla. Ma Morgana lo lasciò fare, permettendogli di spogliarla nel semibuio di una stanza. L’uomo allora osò di più, aggravando la donna del suo peso, cercando terra fertile.
Il corvino batté con forza le ciglia con fare repentino, dissolvendo quell’immagine da dinanzi i suoi occhi. Saperla maritata con un uomo, saperla toccata e… Dio, lo faceva impazzire! E lo uccideva, piano e dolorosamente, lo uccideva.


**

 
Arthur distolse piano lo sguardo dal libro. Quella mattinata in azienda non c’era molto lavoro da fare, così si era portato avanti con la revisione del manoscritto – e quanto pareva aveva fatto bene, certe scene era meglio non spiegarle ad Ygraine – immergendosi nella lettura.
Qualcosa però, gl’impedì di andare avanti.
Ricordò di tempi addietro, del primo mese trascorso senza Ginevra. Fu come impazzire. Una lenta e triste agonia.
Se la immaginava sorridente, tra le braccia di Lancillotto ricordandosi di quando era lui a stringerla in quel modo. La rabbia e la tristezza finirono per inghiottirlo del tutto, mentre nel profondo, una volta rimasto da solo, continuava a chiedersi cosa avesse fatto di tanto sbagliato da meritarsi una come Ginevra.
Un rogo lo consumava, alimentato dal suo stesso rancore. Non si intromise tra i due, li lasciò liberi di viversi la propria vita, augurando ai due una vita allegra e piena di gioie.
Adesso, più si guardava dentro più sentiva tutto fermo, nessun fuoco, nessuna fiamma ad ardergli l’interno.
Erano le dieci del mattino e fuori non c’era molto sole. Dalle finestre penetrava una luce priva di calore; si posava su ogni oggetto della stanza, conferendogli un colori e ombreggiature diversi. Dal vetro satinato della porta, scorgeva la sagoma autoritaria del padre discutere al telefono chissà con chi, chissà per cosa.
Gli sembrò di vedere il mondo statico dinanzi a lui, mentre si dilettava a compiere movimenti apparenti. La contemplazione della staticità gli era sempre parsa buffa: nulla si muove, nulla muta, nulla brucia… Arthur non si era mai sentito così spento in tutta la sua vita.
Con uno scatto fulmineo si alzò dalla sua sedia mo’ di ufficio, prendendo tra le mani il suo cappotto e le chiavi della sua auto – finalmente tornata nelle sue mani – e quelle di casa propria. Afferrò il tutto frettoloso, uscendo a capo alto con un solo pensiero nella mente.
 
Era da tempo che non sentiva rombare il motore della sua Porsche, così rimediò all’istante. Aveva bisogno di velocità, di sentire il vento scuotergli i capelli. Doveva sapere il mondo in movimento e non in eterna pausa, come ormai era la sua vita da tempo.
 
Scese dall’auto come una furia, dirigendosi senza alcuna esitazione verso il garage, sollevando la serranda con impeto, fino a farla rialzare con un frastuono fastidioso. Avanzò a grandi passi al suo interno, dirigendosi verso l’angolo più remoto, dove vi era uno scatolone sigillato con lo scotch. Impugnò le chiavi della sua Porsche, utilizzandone l’estremità come taglierino affondandola nel cartone. Divise a metà la superficie della scatola, dando immediato uno sguardo al suo interno.
Restò a fissarne il contenuto per un tempo a lui indecifrato, sentendo la mente volare via nel tempo. Issò lo scatolone da terra incurante della polvere che lo rivestiva, poi lo adagiò nei sedili posteriori della sua auto.
 
Libreria, ore 10.30
 
Non c’era molto sole, ma la luce mattutina batteva lo stesso sulla vetrata della libreria, rendendo l’ambiente più confortante. Mithian amava quel posto, ma erano in pochi a pensarla come lei; non tutti riuscivano a perdersi tra le pagine di una storia, quasi nessuno sembrava saper viaggiare stando in completa immobilità.
Ad ogni modo, la libreria rimaneva un luogo per persone solitarie, non avvezze a perdersi nella banalità del contemporaneo, anche se a volte la mora riusciva a scambiare piacevolmente qualche parolina con clienti abituali. La Signora Hunit, ad esempio, passava puntualmente nel fine settimana con il suo bel cagnolino Will. Era una bella donna, sempre allegra e solare; a Mithian non dispiaceva chiacchierare un po’ in sua compagnia e magari dispensare qualche coccola all’energico cagnolino.
Lavorare in una libreria consentiva anche d’incontrare coppie assurde, quelle che nessuno sognerebbe mai di vedere.
Mithian era intenta a sistemare gli ultimi arrivi negli scaffali quando il campanello le annunciò l’arrivo di un nuovo cliente. Subito si affrettò all’entrata e fu lì che il suo sguardo incrociò quello di due novelli sposi – almeno così si presentarono – ritti in piedi dinanzi al bancone.
La donna aveva biondi capelli mossi, lunghi fino a metà schiena. L’eleganza del suo stile la contraddistingueva, dandole un’aria regale. L’uomo al suo fianco era moro, aitante, i capelli sbarazzini lasciati al vento ed una barba pungente ad incorniciargli il viso. Lei era posata ed aggraziata, lui un ‘Don Giovanni’ travestito da clown. Fu come ritrovarsi dinanzi agli occhi Mary I felicemente sposata con Dante Alighieri: sconcertante.
Era una coppia molto particolare, una di quelle che il Destino sembrava aver unito per beffa. Mithian si divertì nel vedere gli inutili tentativi di corteggiamento dell’uomo – Gwaine, se la memoria non la ingannava – nei confronti della donna che prontamente lo zittiva, rimanendo beffardamente sorridente indicando alla mora i libri che le interessavano.
Un po’ le ricordarono i suoi genitori. Anche loro erano due universi a parte. Suo padre era un inguaribile romantico, sua madre era una donna crudele.
Dopo quel bacio con Arthur si fermò a pensare al loro rapporto. Non si somigliavano in nulla, ma non erano opposti. Dove il biondo non arrivava c’era lei ad aiutarlo, anche se Arthur per cocciutaggine e orgoglio infantile non gliel’avrebbe mai riconosciuto.
Erano… complementari. Ma ogni coppia lo è, a proprio modo, pensò la mora.
Quella mattina la libreria era semivuota. Talvolta Mithian amava la solitudine, proprio come sua madre. A dire il vero, lei era una donna emblematica: se un giorno desiderava starsene da sola, quello dopo si trascinava nel centro, facendo impazzire il suo povero marito. Litigavano spesso, anche per cose futili. Era una guerra perenne, ogni santo giorno, ogni dannatissima ora, eppure l’amore sapeva tenerli uniti.
«Pensare significa oltrepassare.»
Mithian sobbalzò, portandosi una mano in petto, girandosi verso il suo fianco destro. Un uomo corvino, sulla cinquantina, sorrideva lievemente, mentre i suoi occhi di cristallo si posavano sulla giovane «Ernst Bloch.»
«Papà…» soffiò la mora, togliendosi la mano dal petto «Mi hai spaventata.»
L’azzurro accecante delle sue iridi penetrarono la pelle della mora, mentre la sua bocca prendeva la curva di un sorriso, infondendo nella giovane calore paterno «Non era mia intenzione.» si spostò verso il bancone, poggiando una mano su una pila di libri di genere storico. Le dita affusolate parvero carezzare quell’ammasso di carta, evidenziando un forte amore verso la sapienza «A volte il tempo è pura relatività.»
Mithian restò immobile, prendendo familiarità con la presenza del padre nella stanza, osservando i movimenti. Era sempre stato un uomo profondo, pieno di mistero. Lasciava trapelare saggezza nelle sue parole anche se ad occhio e croce pareva tutt’altro che saggio. Col tempo il colore dei suoi capelli era mutato di poco; la chioma corvina era stata profanata da alcuni fili bianchi nel mezzo.
«Come mai sei venuto qui?» s’interessò la figlia, cercando di trovare uno spazio individuale tra loro, mantenendo un tono familiare, anche se tradito da una vena di tristezza.
«E’ pur sempre stata la mia libreria.» l’uomo lasciò scivolare il palmo destro sul dorso esposto di vari libri, fino a fermarsi al volume di Shakespeare; alzò lo sguardo verso la figlia, scrutandola bene, come era solito fare «Ma so che è in ottime mani.»
Erano in quei momenti che il cuore di Mithian si riscaldava. Era profondamente legata a suo padre, condividendone un legame speciale. Quand’era piccola sognava di vivere per sempre al suo fianco, provando talvolta gelosia nei suoi confronti se dava più attenzioni a sua madre che a lei, ma in una cosa non aveva mai fallito: suo padre sapeva dimostrarle quanto fosse fiero di lei, portandola sempre ad un passo dalla commozione.
Sorrise sincera, imbarazzata dal complimento, poi volse la discussione su un altro fronte per mascherare l’apprezzamento goffo dell’elogio «Com’era l’America?»
«Meno male di tuo nonno.» scherzò su l’uomo, per poi avvicinarsi alla figlia «L’uomo tende a dare una misura ad ogni cosa, ritrovandosi con idee scostanti.» alzò le spalle scrollando via di dosso quell’aria filosofica, cedendo all’ironia «Magari tu l’avresti trovata meravigliosa.»
La mamma l’avrebbe trovata meravigliosa.
Mithian si tenne per sé i suoi pensieri, asserendo col capo «L’America è meravigliosa.»
«Disapprovo ciò che dici…»
«Ma difenderò alla morte il tuo diritto di dirlo.» l’anticipò la mora trionfante, provocando un sorriso compiaciuto sul volto dell’uomo. Suo padre l’adorava, ma soprattutto amava il modo in cui riuscissero ad entrare in sintonia.
In momenti come quello, si creava una fitta rete magnetica tra i due, un qualcosa d’inspiegabile. Era come trasportarsi in una dimensione a parte, dove entrambi vedevano le cose con occhi diversi dagli altri. Mithian si sentiva compresa al cento per cento solo da suo padre, ma adesso la cosa la spaventava. La figlia non gli aveva rivelato della sua malattia, temendo di farlo soffrire. Non voleva essere crudele come sua madre, lui non se lo meritava.
Due manate di clacson distolsero la mora dai suoi pensieri, catapultando il suo sguardo oltre la vetrata.
«Che razza di asino bussa in quel modo?» si lamentò l’uomo, infastidito dal suono acuto del clacson.
Mithian sentì il cuore danzarle instancabilmente nel cuore, con fare impazzito. Dalla vetrata vide Arthur nella sua Porsche Panamera che l’aspettava con un braccio poggiato oltre il finestrino abbassato e lo sguardo verso la vetrata della libreria.
Scendere dall’auto e venirle incontro come tutte le persone normali no, eh? Imprecò mentalmente la donna, infastidita dall’imbarazzo di quel momento.
«Scusami un secondo.» si congedò dal padre, issando il palmo spiegato per fargli cenno di aspettarla, dirigendosi poi verso l’uscita.
Il padre suo malgrado rimase in silenzio, riservando le domande per un momento più opportuno. Vide la figlia aprire frettolosa la porta della libreria, avvicinandosi all’auto «Scendere era troppo faticoso?»
«Sali in macchina.» Arthur si era aggiustato sul suo sedile, prendendo a guardare la strada.
«Cosa?» domandò attonita.
Finalmente il biondo sembrò voler collaborare, guardandola in volto. Mithian sentì una strana sensazione invaderle lo stomaco. Il viso di Arthur era diverso… sembrava spento. Capì subito che c’era qualcosa che non andava, non aveva senso in quel momento fare altre domande, lui aveva bisogno di lei, ora.
«Torno subito.» lo rassicurò la mora.
Lo vide rimanere immobile, mentre lei si affrettava a rientrare nella libreria.
«Devo assentarmi. Non è che per caso potresti pensarci tu qui?» Mithian prese in fretta il cappotto ripiegato sulla sua sedia, oltre il bancone, per poi stampare un bacio sulla guancia destra del padre «Grazie.» l’anticipò, fiondandosi verso l’uscita.
«Chi è quel tizio?» la incalzò lui, fermando i suoi passi.
La giovane sorrise, scuotendo il capo con fare superficiale «Arthur.» si limitò a dire.
«Arthur?» domandò ancora, alludendo ad altre informazioni.
«Arthur Mecoalt.» rimarcò, convinta di aver dato tutte le delucidazioni opportune. Per Mithian in fondo era così, bastava il solo nome di quell’uomo per crearle un mondo intero nella sua mente.
 

Arthur fu silenzioso in macchina.
Erano di quei silenzi che i poeti definirebbero soffocanti. Il biondo continuava a tenere lo sguardo sulla strada, senza pronunciare una sola sillaba. Mithian si era ripromessa di non interrompere il suo attimo di rifugio; Arthur era solito rifugiarsi nei suoi silenzi, proprio quando le parole gli sarebbero pesate più di un milione di macigni, ma lei non era mai stata una tipa consenziente.
«Dove stiamo andando?» domandò, cercando il suo sguardo perso verso la strada.
Trascorsero bonariamente altri trenta minuti d’orologio. Mithian se ne stava seduta nel sedile anteriore sinistro, accanto al posto guida occupato dal giovane. I capelli legati in uno chignon spettinato dal vento, sembravano darle più impatto con l’aria violenta che soffiava dai finestrini abbassati della Porsche.
«Riceverai la risposta che meriti.» disse d’un tratto l’altro, facendo cadere la mora in uno stato confusionario, finché tutto non le fu più chiaro.
«L’ami ancora?» trovò il coraggio di chiedergli, sorridendo con un solo angolo della bocca, mantenendo lo sguardo fisso nei suoi occhi bluastri.
L’altro la guardò in silenzio, serrando lievemente la mascella «Non lo so.»
Deglutì nel silenzio scandito dal solo dal motore dell’auto, diretta chissà dove. Rimase zitta, aspettando solo di arrivare a destinazione, sperando che non le facesse troppo male.
 

Libro, pagina 140
 

Camelot parve dilettarsi nel prendersi berla del povero mago.
Il cocente sole non brillò mai così tanto come quel dì, le distese verdastre non furono mai sì piacevoli da mirare. L’allodola non annunciò mai con tal armonia l’arrivo del nuovo sole.
Anche il Mondo, pur stando immobile deride un cuore dolorante, il corvino scostò gli enormi tendoni rossi, permettendo alla luce di ferire il viso assonnato del suo padrone.
Il principe mugugnò qualcosa, rigirandosi sul lato, per poi strofinare la sua guancia contro il candido cuscino regale. Il servo ne sorrise intenerito: alcune cose, ahimè, non cambieranno mai.
Gli sfilò con familiare confidenza il cuscino da sotto il capo, facendo ricadere il viso del regale contro il materasso, mentre quest’ultimo continuava a regalargli generosamente insulti asinini.
Quel giorno, sembrò solo uno dei tanti passati a Camelot in continua attesa di un qualcosa d’indefinito… ma d’improvviso…
Le campane suonarono in tutto il palazzo, mentre cavalieri allarmati si catapultarono nello spiazzale.
Merlin ed il giovane Pendragon si guardarono attoniti, non capendo cosa stesse succedendo. Il servo aiutò il suo padrone a vestirsi alla svelta, accompagnandolo fuori dalle mura del castello.
Il mago rimase qualche passo indietro, sorvegliando la schiena del regale, guardandolo fermarsi accanto a Sir Leon «Che succede?»
«Lady Morgana…» il cavaliere rispose con reverenza al suo signore, tratteggiando con un sorriso lieve una contentezza fedele alla sorte della propria padrona «E’ tornata, Sire.»
Il cuore si paralizzò nel petto del giovane mago, E’ tornata…
«E’ stata aggredita.» concluse diplomatico il cavallerizzo.
Ancora, il silenzio, fu protagonista dell’ansia implacabile nel cuore del corvino.


**

 
Arthur posteggiò l’auto dopo almeno un’ora di guida silenziosa.
Si erano ritrovati a Brighton, sulla spiaggia immensa e deserta; Arthur sorreggeva tra le mani uno scatolone impolverato, mentre Mithian gli stava accanto, sentendo la sabbia sotto la suola delle sue scarpe. L’odore di salsedine le perforava i polmoni, mentre il rumore del mare la cullava dolcemente. Adorava il mare, anche fuori stagione, ma sapeva per certo che il biondo non l’aveva portata lì per quello.
Arthur si chinò a posare sulla rena ricoperta di piccoli ciottoli, lo scatolone impolverato, per poi rialzarsi, senza fiatare.
Il vento feriva i loro visi, ma il giovane pareva non coglierlo, come se nulla lo stesse toccando. Dopo un attimo di esitazione portò le mani all’interno del cartone, estraendone della legna.
 «Cosa stai facendo?» Mithian era confusa e spaesata.
Il biondo iniziò a sistemare la legna sulla sabbia, indietreggiando di qualche passo. Mithian non si era ancora accorta della grandezza effettiva di quel cartone, ma sembrava simile alla ‘borsa di Mary Poppins’.
 «Dobbiamo scavare.» annunciò dittatoriale il giovane, come se fino a quel momento non avessero parlato d’altro.
La mora corrugò la fronte «Sono le undici e quaranta del mattino, a cosa ci serve un falò?» la brezza marina le mosse le poche ciocche ribelli che le pizzicavano il viso, portando con sé l’odore del mare.
«Sarà il nostro rogo
 

Una volta aver scavato a dovere ed aver disposto dei fogli di giornale – usciti sempre da quel fantastico scatolone – nella buca di sabbia ed averci adagiato sopra i rametti di legno, Arthur cercò di darle fuoco con un accendino e parve riuscirci molto tempo dopo, quando il vento gli concesse quella clemenza.
Mithian rimase a guardare in passivo silenzio le fiamme accrescere. Anche da quella distanza il calore si percepiva benissimo. Era come vedere la propria immagine riflessa allo specchio: si era sempre identificata come un rogo, ed era per questa ragione che non voleva avvicinarsi più di tanto a nessuno.
«Passami le cose che trovi lì dentro.» Arthur porse una mano verso la mora, aspettando un qualsiasi oggetto da afferrare, mentre con lo sguardo continuava ad osservare il fuoco danzare.
La giovane si redarguì dai suoi pensieri. Voltò lo sguardo verso lo scatolone; ancora doveva ben capire cosa contenesse e la curiosità stava iniziando ad accrescere. Si chinò per poi frugare con le mani all’interno. La sua mano toccò un qualcosa di cartaceo e liscio e se lo tirò su con lei.
Era una fotografia: Arthur sembrava aver a stento diciott’anni. Aveva i capelli un po’ più lunghi ed il viso più giovanile; indossava una maglia del Manchester ed un jeans scolorito a zampa d’elefante. Al suo fianco, con un sorriso timido c’era una ragazza. La pelle mulatta, gli occhi piccoli e scuri, una cascata di ricci in capo, si avvinghiava al braccio destro di Arthur.
Qualcosa le si mosse nello stomaco e con un coraggio a lei sconosciuto, voltò la fotografia. Sul retro c’era scritto:
Al mio amore Arthur, perché quest’anno ce lo ricorderemo per sempre.
Un senso di vuoto le attanagliò l’interno. Il biondo tendeva ancora la mano, aspettando paziente. Mithian si rigirò tra le mani la foto, guardando ancora una volta quella ragazza in volto, dando una figura concreta al grande amore di Arthur Mecoalt. O almeno a quel che era stato del loro amore.
Gli porse la foto. Il giovane se la rigirò tra le mani e senza nemmeno pensarci su, la gettò nel fuoco. Presto le fiamme divorarono l’intera foto, lasciando spazio solo alla cenere.
«Ancora.» la incentivò Arthur, dispiegando nuovamente il palmo della mano.
La mora si smosse, cercando di reprimere quello strano nodo alla gola che le si era formato; si abbassò di nuovo sulla scatola, estraendone un pupazzo a forma di fragola. Sulla stoffa del peluche c’era scritto: Ricordati che a lei piace solo la fragola. Se mangia altro inizia a fare facce buffe per il sapore. A me non importa, tanto è bella lo stesso, sempre.
Deglutì, cercando di districare quel nodo alla gola, riconoscendo quella grafia come quella di Arthur. Gli porse anche quel pupazzo, senza indugiare oltre. Anche quel ricordo fece la fine della foto, incenerita dalla fiamme.
Il biondo stava distruggendo l’intera storia di una vita condivisa fianco al fianco, all’insegna dell’amore. ‘Al rogo’ finirono anche altre foto, altri ricordi. Su ogni biglietto c’era sempre scritto ‘per sempre’, proprio come nelle fiabe. Ed Arthur lo stava incendiando. Stava dando fuoco a quel per sempre che ad altro non era servito se non a ferirlo.
L’ultima foto doveva essere quella più vicina alla rottura. La mulatta aveva i capelli coperti da un capellino, forse per coprire qualcosa che non c’era più. Sorrideva, stretta nelle braccia possenti del suo uomo, più maturo. Quell’uomo che era cresciuto con lei e con la loro storia d’amore. Sul retro compariva la seguente scritta: Se mai dovessi perdermi non disperare e per favore, non odiarmi. L’amore vero vive del per sempre; in un modo o nell’altro ritroverai ciò che amavi. Sembrerà che tu non mi abbia mai perso. Con amore immenso, tua Ginevra. Finché il fuoco non si spegnerà.
Dare anche quella foto al biondo, sembrò come contribuire alla completa cancellazione di quell’amore. Mithian comprese in quell’istante che Ginevra non era sana. Il fuoco del quale la mulatta scriveva, lei lo conosceva molto bene, ma Arthur sembrava non averlo mai capito. Ad ogni modo, decise che quello non era affar suo e gli porse anche quell’ultimo straccio del loro amore.
Bruciò tra le fiamme, così come Mithian, giorno dopo giorno, sentiva di essere incenerita nel suo interno. Durò una frazione di secondi, poi il suo cuore si separò in milioni di schegge sanguinanti. Arthur aveva singhiozzato. Nella quiete di quella tempesta, il biondo sembrò aver abbassato ogni difesa, crollando.
Mithian si sentì morire. Anche lei avrebbe potuto essere un rogo per Arthur. Per un attimo se lo immaginò ad incenerire tutte le loro foto, piangendo al dolore che gli aveva causato.
Col cuore a pezzi e l’anima in bilico tra l’agonia e la tristezza, lasciò scivolare la propria mano nel palmo freddo dell’uomo. Sentiva che aveva bisogno di lei, in quel momento come mai.
Non lo amerò mai, non lo amerò mai, non lo amerò mai, continuava a ripetersi, mentre un nodo alla gola le opprimeva il respiro; gli occhi pizzicavano e pungevano nella brezza marina diventata improvvisamente vento polare.
Il pianto di Arthur si fece sentire e proprio in quel momento rispose al gesto della mora, stringendo forte la sua mano.
Fu in quell’esatto momento che Mithian capì di aver fallito. Una lacrima le solcò il volto, ferendolo come una lama affilata. Non se ne diede cura di asciugarla, ma accettò in silenzio la sua sconfitta, incastonando al meglio le proprie dita in quelle del biondo.
 Oramai, già sapeva di amarlo.


Libro, pagina 145


Lady Morgana era stata portata d’urgenza nelle proprie stanze, per poi essere visitata dal cerusico di corte. La nobildonna non presentava lividi o ferite sulla pelle biancastra, ma Gaius ci tenne a precisare al sovrano che la figliastra era sotto shock.
A quanto pareva qualcuno aveva assalito la coppia maritata, uccidendo il consorte della nobile. Morgana era palesemente sconvolta, le sue vesti stracciate e ricoperte di sangue seccato.
Il sovrano sembrò dimenticare il rancore verso la fanciulla, sostituito da una profonda pena: Uther Pendragon, per quanto fosse un uomo rude, gelido, aveva un cuore, e quel cuore pareva battere solo per due persone al mondo. Una di queste, era Lady Morgana.
Morgana, fra le lacrime, annunciò anche la scomparsa della sua leale serva, probabilmente prigioniera, se non assassinata, dello stesso assalitore.
Ricordava tutto, eppure non ebbe modo di ricordare il volto del farabutto; causa dello shock, affermò il medico, somministrandole qualche calmante per poi lasciarla riposare.
 

Il cuore di Merlin rimase in bilico tra l’immensa felicità di aver ritrovato la sua amata, e la pena per la sua salute.
Ricordò di molti mesi addietro, quando Morgana non condivideva con lui nient’altro che la residenza nel castello. Era solito regalarle dei fiori.
I fiori sono per le donne, l’unico rimedio a qualsiasi male… o quanto meno, l’unico pegno d’amore che accettano ben volentieri, il corvino ripeteva quella cantilena nella sua mente, ogni tal volta che si accingeva a cogliere dei fiori per la nobile, e poi lasciarli di nascosto nelle sue stanze.
Decise di fare lo stesso, anche in quel mentre. Raccolse un mazzo di fiori violacei che profumavano di buono, stringendosi gli steli in pugno.
Si diresse con uno strano sorriso sulle labbra nelle stanze della nobile, appena dopo qualche ora dal suo risveglio. Alzò la mano per bussare, ma la porta cigolò verso l’interno appena le sue nocche picchiettarono lievemente la superficie lignea. Udì delle voci provenire dall’interno.
Riconobbe quella maschile dell’erede al trono, e poi quella, ancora un po’ scossa, della nobile. Avanzò, seppur incerto sul da farsi; l’idea di poter rivedere il viso della donna amata dopo tutto quel tempo, era così forte da non permettergli di restare immobile.
Le mani gli tremolavano leggermente, mentre avanzando cautamente, sentiva sempre le voci più vicine. Si sporse verso il centro della stanza dove, i due fratellastri si tenevano stretti in un abbraccio.
«Merlin…» soffiò la donna, oltre le spalle del principe, dove il suo mento riposava.
Il corvino sentì il cuore salirgli nella trachea, mentre il giovane Pendragon si era voltato a guardarlo, con aria interrogativa.
«Ehm… sua maestà ha dato l’ordine di portare questi a Lady Morgana.» improvvisò, mostrando impacciato i fiori al suo padrone. L’altro parve convincersi, tanto che si voltò nuovamente verso la sorellastra per congedarsi, per poi lasciare la stanza.
Il valletto reale però non lo seguì; rimase ritto in piedi nella stanza della nobile, con la gioia di rivederla in volto dopo tanto tempo. Non sembrava cambiata. I capelli, anche se più spettinati del solito erano sempre corvini e lunghi quanto ricordava. Gli occhi, seppur velati dallo smarrimento, brillavano del loro verde naturale, quello simile ad uno smeraldo.
Il corvino perse la cognizione nel tempo e non seppe dirsi in quanto tempo si sentì addosso il calore del corpo della nobile, che sorridente premeva forte le sue labbra contro quelle del mago.
«Sono riuscita a tornare da te.» gli disse, staccando piano le labbra carnose da quelle screpolate e rosee del servo «Niente potrà più dividerci.» continuò, mentre i suoi occhi presero a brillare in modo assurdo. Si morse il labbro inferiore, per poi rigettarsi tra le labbra dell’amato.
Merlin dapprima rispose ai suoi baci con tenerezza, poi un dubbio lo arrestò. Le parole della corvina continuarono a vagare nella sua mente, facendo nascere nel servo un brutto presentimento. Il sorriso sparì lieve tra le sue labbra, mentre cercava di ritrarsi dalla sfilza di baci affettuosi della nobildonna «Cosa vuoi dire?»
L’altra non accennò a fermarsi, osando anche oltre, carezzandogli il torace con fare seducente «Smettila di parlare.» gli sussurrò, avvicinando le sue labbra umide all’orecchio destro del servo.
La tentazione di lasciarsi andare fu forte, ma una strana sensazione continuava a farsi viva in lui, impedendogli di abbandonarsi alla passione «Morgana… ti prego.» la respinse dolcemente, insistendo.
«Ma qual è il tuo problema?!» sbottò infastidita, staccandosi autonomamente con fare brusco «Non era questo quello che volevi?!» lo pressò lei, assumendo un’espressione contrariata «Volevi avermi tua ed io ho provveduto!»
Il sangue nelle vene del mago si gelò di colpo, riscoprendo la gola improvvisamente secca, le mani senza alcuna sensibilità «Morgana…» tentò di richiamare il servo, sentendo quello strano presentimento sempre più vivo.
«Cosa avrei dovuto fare?!» la castellana gli urlò contro, irata in volto con la sensazione di non essere compresa «Non ho avuto altra scelta! Odiavo come mi toccava, il modo in cui mi baciava…»
«No, non è vero.» la interruppe. Non voleva sentire ciò che già aveva intuito da sé, in quel momento tutto ciò che desiderava era zittirla, ma non ci riuscì.
«L’ho fatto per te!» gli rinfacciò, sentendo gli occhi inumidirsi «Per noi.» ricalcò più pacata, avvicinandosi piano al servo.
Il corvino scosse il capo, rifiutandosi di credere a quello che le sue orecchie stavano udendo «No, non è così.»
«Sì che è così!» inveì lei con fare autoritario «Ma probabilmente non mi ami come dicevi.»
Merlin perse ogni contatto col mondo reale, vedendo tutto intorno adombrarsi. Non riusciva più ad udire nessun suono, la mente gli si era paralizzata.
Avrebbe preferito morire che sentire quelle parole.
«Va’ via.» ringhiò la nobile, dandogli le spalle con sufficienza.
Il corvino rimase impalato, sentendo i piedi inchiodati al suolo. Avrebbe voluto urlare, piangere, baciarla, dirle che era tutto un brutto sogno, ma non fece nulla di tutto ciò. Non sentiva più nulla e più nulla riusciva a fare.
«Vattene!» urlò ancora, stringendo i pugni, delusa dalla reazione del suo amato. Pensava l’avrebbe capita. Si era macchiata di sangue per lui, si era inoltrata nella buia foresta e camminato per molto, senza cibo con sé, né acqua a sufficienza. Si era sfamata con i resti di carcasse ed aveva bevuto dai ruscelli più limpidi, ma a Merlin pareva non importargliene.
Il valletto reale uscì di scatto dalla stanza dopo l’ennesimo urlo della corvina.
Non m’ama, come tanto decantava, la nobildonna mirò la sua immagine allo specchio. Delle lacrime avevano prese a solcarle il viso; corrugò il volto con fare guerrigliero: mai nessuno l’aveva mai fatta sentire tanto stupida come in quel momento.
 
Merlin camminava, senza neanche rendersene conto. Tutto il mondo sembrava essersi dissolto nel nulla; i suoni si erano affievoliti, la luce del sole eclissata.
Morgana, la sua Morgana era sparita; perché quella donna, di lei non aveva nulla.
 

Brighton viaggio verso Londra, ore 13.20
 

Brighton era stupenda nella sua semplicità. Dai finestrini della Porsche, Mithian vedeva il mondo scorre, pullulante di vita. La linea dei bus era sempre attiva, proprio alla loro sinistra. Si vedevano spesso e volentieri ragazzi correre sulle loro biciclette.
Era come osservare un quadro in movimento.
«Si sta facendo tardi!» si lamentò ad un tratto Arthur, rompendo il silenzio tra loro «Non ce la faremo ad arrivare a Londra per le 14!»
Mithian arricciò le labbra, notando l’inconsueta fila di macchine che si estendeva dallo loro auto, fino a non vederne né l’origine né la fine «Sono in momenti come questi che anche una Porsche si abbassa alle volontà del traffico.» ironizzò la mora, scostandosi delle ciocche ribelli dal viso.
Arthur sospirò, prendendo tra le mani il suo cellulare, approfittando dell’ormai immobilità del traffico. S’irritò anche solo all’idea di dover chiedere un favore simile all’ultima persona consona a quell’occupazione, ma non aveva altra scelta. Si avvicinò il telefono all’orecchio, sentendolo squillare.
«Pronto?»
«Papà.»
Mithian osservò i muscoli tesi del biondo, mentre rumorosamente inspirava. A quanto pareva, Arthur non era solito chiedere alcun tipo di favori al padre.
«Ygraine uscirà da scuola fra un’ora, ma io non potrò esserci.» aveva iniziato, convincendosi che fosse, se non la cosa giusta da fare, la sua unica via di fuga «Ti sarei molto grato se te ne occupassi tu.» disse infine dopo una breve pausa, tenendo a denti stretti l’orgoglio represso.
La mora osservò la scena in silenzio, aspettando di capirne qualcosa da una possibile reazione del biondo, tenendo ella stessa le dita incrociate per quest’ultimo.
«Ti ringrazio.» un sorriso grato si disegnò sul volto del biondo, facendo intendere anche a Mithian che fosse tutto apposto.
 

Libro, pagina 170


La situazione era degenerata.
A quanto pareva anche Lady Morgana possedeva poteri magici, ma la tragedia non si esauriva lì; Morgause, sua sorella di sangue, l’aveva soggiogata con un incantesimo, rendendola schiava della vendetta e del potere. Morgana iniziò a desiderare la morte del suo padrigno e del principe di Camelot, potendo così salire al trono e regnare secondo le sue leggi.
Il regno dei Pendragon non dava diritto di vita a streghe e stregoni e Morgana volle ribellarsi per prima a quella stupida caccia contro la magia. Seguendo un piano segnato dall’odio e dal rancore.
Il Grande Drago aveva avvisato il giovane mago della catastrofe imminente, convincendolo di una cosa: Morgana andava fermata.
Merlin però, non ne ebbe mai il coraggio. Più la guardava più continuava a domandarsi dove tutto l’amore della sua anima fosse finito.
Non sembrava più lei. I suoi occhi non brillavano più della stessa luce sognante, ma erano iniettati d’odio e di vendetta.
Sembrava non ci fosse modo per eliminare l’incantesimo, se non eliminare il problema alla sua origine. Ma il mago, ne avrebbe mai trovato il coraggio?
 


La vendetta di Morgana non si fece attendere.
Nella notte buia e tetra, le stanze regali presero fuoco, disturbando la quiete del castello. Merlin già non dormiva, una sensazione di angoscia gli attanagliava le viscere dello stomaco e quando ebbe la conferma di un assalto al re, accrebbe ancora di più.
Quando arrivò sul posto, delle guardie stavano soccorrendo il re, svenuto per aver respirato troppo fumo. Merlin si guardò attorno ansioso; non vi era traccia di Morgana, probabilmente scappata dal rumore delle guardie… o fermata da qualcuno.
Il cuore del servo perse un battito, percorrendo mentalmente la lista delle persone indigeste di Morgana.
Arthur!, il mago corse, più forte che poté in ogni stanza del castello, temendo il peggio per il suo padrone.


Londra, ore 14.52


Arthur aveva deciso che fosse più opportuno riprendersi prima la bambina dalle amorevoli cure del padre e poi riaccompagnare Mithian a casa.
Passarono il centro della città, dirigendosi nelle zone periferiche, quelle dove le grandi ville iniziavano a figurarsi dinanzi agli occhi dei due giovani.
Il biondo svoltò lungo un vialetto che dava ad una villa in perfetto stile inglese, con tanto di giardino. Era grande da impressionare per chi come Mithian, era sempre stata abituata ad una vita passata in un appartamento al Seymour Street.
Arthur parcheggiò accanto al garage, prevedendo che sarebbe stata una breve visita. Mithian si slacciò la cintura di sicurezza e scese dall’auto, imitata dal giovane. L’aria era più pungente rispetto alla mattina, mentre il sole si era già dileguato dietro nuvoloni grigiastri. L’erba potata del giardino era di un verde scuro, mentre le pareti della villa davano un senso di freddo oltre la maestosità.
Arthur le fece strada fino all’abitazione, ma l’attenzione della giovane fu catturata da risa infantili. Si fermò di colpo, voltandosi intorno, capendo che probabilmente provenivano alla villa.
Almeno non l’ha ancora strangolata, si consolò il biondo, capendo che la bambina fosse ancora viva e non persa chissà dove, da sola e al freddo.
«Mecoalt…» lo richiamò la mora, che intanto si era fermata accanto ad una delle grandi finestre della villa «Guarda un po’ qua.» gl’indicò con lo sguardo di guardare verso l’interno.
Il biondo fece come gli fu detto. L’affiancò a grandi passi, per poi volgere lo sguardo verso la finestra, finché i suoi occhi non si sbarrarono visibilmente.
Dietro al vetro trasparente, seduti sul tappetto persiano a gambe incrociate, suo padre ed Ygraine se ne stavano beati, mangiando cucchiaiate di gelato al cioccolato dalla vaschetta disposta tra loro. Arthur non credeva ai suoi occhi: suo padre, Uther Mecoalt, si era lasciato andare con una bambina dai capelli dorati, assecondando le sue infantili richieste. Per un momento fu come tornare indietro nel tempo. Il biondo non aveva mai visto suo padre così sereno da quando sua madre era ancora con loro.
Sorrise di riflesso a quella vista, pensando a quanto quella bambina somigliasse per davvero alla cara Ygraine.
«Andiamo.» Arthur colse la mora di sorpresa, prendendola per mano.
Si accorse solo in quel momento che forse, tutto ciò che aveva, non era poi così male come credeva.


Seymour Street, ore 19.30


Stava aspettando fuori dal portone da un tempo a lui indecifrato, rigirandosi tra le mani quel fascicolo clinico. Lasciò che il fumo della sua Winston gli colmasse tutto lo spazio possibile nella bocca, per poi rilasciarlo lentamente, dal naso.
Vide una Porsche fermarsi poco dopo l’appartamento, per poi vederne uscire la figura elegante della figlia. Mithian sembrava raggiante e salutava, scuotendo il palmo della sua mano, chiunque fosse dall’altro lato del finestrino, per poi incamminarsi verso casa.
Il volto della mora cambiò drasticamente una volta che si accorse della presenza del padre. S’immobilizzò all’istante, vedendo tra le mani dell’uomo quelle maledette carte. Sbiancò, senza avere il coraggio di proferire parola, dandosi della stupida per non averle nascoste meglio.
«Dobbiamo parlare.» gli occhi azzurri la inchiodarono sul posto, ferendola profondamente. Mithian non voleva affrontare quel discorso, era troppo doloroso, per entrambi.
«No.» si rifiutò lei, cercando di oltrepassarlo per aprire il portone.
«Mithian, ne voglio parlare con te.» insistette, serrandole la strada.
 
Arthur non era ancora ripartito; Ygraine aveva insistito per sedersi nel sedile anteriore dell’auto, accanto al posto guida e lui non aveva replicato, lasciandola fare. Prima di mettere in moto però, il suo sguardo si fermò sullo specchietto retrovisore.
Colse la figura di Mithian cercare di oltrepassare quella pressante di un uomo, corvino, abbastanza alto. Vide il polso della mora essere afferrato da quell’individuo e il sangue gli arrivò al cervello, mandandolo in tilt. Chiuse i pugni con foga tale, da rendere le nocche pallide.
Scese impetuoso dall’auto, sotto lo sguardo attonito di Ygraine alla quale aveva soffiato tra i denti un “Torno subito, non ti muovere.”
 
«No, io non voglio!» Mithian cercò in vano di trattenere le lacrime, convincendosi di essere una completa cretina. Non voleva che il padre soffrisse ancora a causa sua e per una sua dimenticanza, lo avrebbe fatto.
 «Ascolt-» la frase del padre fu lasciata a mezz’aria a causa di un pugno sferratogli sulla guancia, con forza brutale.
Mithian sgranò gli occhi, mentre Arthur urlava rabbioso contro l’uomo «Lasciala in pace, brutto pez-»
«Arthur ma sei impazzito?» gli remò contro la donna, catapultandosi verso il padre ad impedire qualsiasi reazione tra i due «Papà, mi dispiace tanto.» si scusò stupidamente, per qualcosa che non aveva commesso.
Arthur sbiancò nel sentire quella parola, sentendosi improvvisamente piccolo come una formica.
«Tranquilla. Solo che non sapevo che gli asini sapessero picchiare così bene.» punzecchiò l’uomo, portandosi la mano sulla guancia ferita.
Il biondo trattenne la stizza dovuta all’insulto, sapendo di essere dalla parte del torto «Mi dispiace.» disse a tenti stretti, per poi incrociare lo sguardo mortificato e incredulo di Mithian.
Indietreggiò, facendo per andarsene, ma la mora lo raggiunse appena prima che fosse accanto alla sua Porsche «Arthur…» lo chiamò.
Il biondo si voltò, irritato nel sentirsi in fallo e mortificato per la pessima figura, ma la giovane anticipò qualsiasi sua azione «Ci ho pensato molto e… ho pensato che sia meglio non vedersi più. Penso che tra di noi non potrebbe mai funzionare.»
 

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Capitolo 5
*** E vissero tutti felici e contenti. ***


Nda: Salve! Oggi è giunto il momento di mettere un punto definitivo a questa storia. Spero che l'epilogo sia di vostro gradimento.
Ringrazio coloro che hanno recensito: le recensioni fanno davvero bene alla salute, fidatevi.
Ringrazio coloro che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/preferite, siete stati davvero adorabili. E ringrazio anche tutte quelle persone che hanno solo letto la storia,standone in silenzio.
A voi tutti, questo finale.
Alla prossima!
 
 

5. E vissero tutti felici e contenti… Per sempre
 
Libro, pagina 200


Morgana era stata fermata e sbattuta nelle segrete. Il re intanto aveva già punito la sua ribellione con la pena di morte. La Sacerdotessa avrebbe bruciato nelle fiamme di un rogo, ai primi albori.
I capelli erano arruffati in capo, la pelle si era tinta dello sporco della cella. Infreddolita cercava riparo, rannicchiandosi su se stessa. Merlin, che si era intrufolato nelle segrete, la stava guardando da molto, senza riuscire a cancellare le immagini della veglia precedente dalla sua mente.

Era entrato come una furia in ogni stanza del castello, fino a spalancare con impeto la porta che dava accesso alla stanza del trono. Morgana era ritta in piedi, con una spada tra le mani a sfiorare con la lama il petto dell’erede al trono, sbattuto contro una parete, privo di sensi.
Per un attimo Merlin credette il peggio. Il suo cuore perse un battito, mentre sconvolto cercò di farla ragionare “Morgana, fermatevi!”
“Oh, Merlin!” lo canzonò, voltando il capo nella sua direzione “E’ sempre un grosso dispiacere vederti.” Ghignò maligna, ritornando a fissare il suo vero obiettivo.

Morgana se ne stava distesa sul suolo umido e freddo, senza emettere nessun suono, ma il mago sapeva che soffriva.

“Non fatelo.” la supplicò ancora una volta, avanzando di qualche passo.
“E’ tardi per le suppliche.”

Il servo non seppe dirsi se la donna dormisse o fingesse, ma sapeva che con la mente lo stava già maledicendo, imprecando contro di lui e sperando la sua morte.

“Troveremo un altro modo. Non deve per forza finire così.” Il mago si avvicinò il più possibile alla donna, che sembrò abbassare la guardia.
Gli occhi le diventarono lucidi per una frazione di secondo. Ma lei era Morgana Pendragon ed i sentimenti non erano più tollerati “Sei un bugiardo. Le tue promesse, non valgono nulla.”

Le sue vesti erano insanguinate, probabilmente le doleva ancora il fianco. Percepiva il suo dolore dal rumore del suo respiro. Era girata di schiena e non poteva vederla in volto, ma la immaginava triste. Gli occhi persi nel vuoto, le labbra sanguinanti a furia di mordersele.

Morgana si voltò verso il suo fratellastro, issando la spada in aria per sferrare il colpo di grazia, ma qualcosa la fermò. Il gladio cadde a terra, mentre nella stanza risuonò il rumore della lama a contatto con il suolo. La sacerdotessa boccheggiò dal dolore, sentendo la presenza di una lama nel suo fianco.

Sentì gli occhi pizzicargli, mentre il petto diventava dolorante. Cercò di trattenere l’amarezza per non farsi sentire dalla donna, che intanto soffriva, ogni secondo di più.

“Mi dispiace.” Fu l’esile sussurro del servo, che con la mano impugnava Excalibur; la spada forgiata dal fuoco di un drago, la cui ferita era mortale per chiunque. Sentì il sangue di Morgana colargli sulle dita, mentre la donna si aggrappò a lui, ferita ancora una volta dall’amore mancato della sua
vita.


Non doveva finire così, Merlin ne era convinto mentre una lacrima solitaria gli rigò il volto. Gli sembrò di poter avvertire ancora l’odore disgustoso del sangue; se lo sentì ancora addosso, sulle proprie mani, colargli dalle dita.

Morgana non aveva più lacrime da piangere, più parole per maledirlo. Le sembrò persino di avere un cuore troppo provato per continuare a soffrire. I suoi occhi di smeraldo non furono mai così cupi; se li sentì pesanti, ma non per la fatica. Il servo la guardava con sguardo sofferente, ma era lei quella ad essere ferita.


Il mago lasciò che le sue palpebre si abbassassero, mentre nel silenzio delle segrete i suoi occhi cominciarono a vibrare febbrilmente, tingendosi d’oro.
Morgana sentì i suoi capelli scostarsi dal viso, come una carezza regalatale dal vento, ignorando la presenza del valletto reale alle sue spalle.
Merlin prese a carezzarle la pelle pallida e sporca col solo pensiero, scostandole ciocche ribelli dal volto, immaginandosi il suo viso in quel momento. Strinse forte le palpebre chiuse, figurandosi nella mente l’immagine che amava, quella che gli era familiare.


“Dimmi che mi ami!” Morgana sorrideva, splendida come non mai. Indossava la sua veste preferita, quella di color turchese e i capelli erano curati, in perfette onde corvine.
“N-non posso… ‘ti amo’ non è una cosa che si dice a comando!” sorrise intenerito dalla prepotenza della castellana che, imprudente, l’aveva trascinato dietro una colonna del castello.
“Dimmi che mi ami!” continuò provocatoria, massaggiandogli il torace come solo lei sapeva fare.
Merlin l’amava. L’amava da morire. L’amava da sempre. Sorrise di riflesso alle sue infantili pretese, per poi risponderle con tono serio “Sempre.”
L’altra sorrise soddisfatta, stampandogli un lungo bacio sulle labbra. Il servo si abbandonò in quel momento, divenendo un semplice strumento nelle mani della nobile. Ogni suo bacio era un motivo in più per continuare a fingere, rimanere a Camelot, lottare ogni giorno sfidando la morte.


Riaprì gli occhi, vedendo quelle immagini di un tempo passato allontanarsi dalla sua mente, mentre nuove lacrime presero a rigargli il volto. Sulle sue labbra riaffiorò il sapore amaro del loro ultimo bacio, quello dove Morgana gli aveva detto addio, per sempre.
Perché quella donna, ferita mortalmente, non era la sua Morgana. La odiava per quello che aveva fatto, ma al contempo l’amava, senza capacitarsene. La Sacerdotessa non avrebbe visto l’alba e non sarebbe mai stata bruciata da nessun rogo, il suo mago invece, lo sentiva dentro di sé. Quelle stesse fiamme lo spinsero ad amarla ed in quel momento lo spinsero a dirle addio.
Perché il ‘per sempre’ non esisteva; all’ignoto non andrebbe mai promessa costanza, ne si rimarrebbe terribilmente delusi.


**

 
«Poi?» domandò Ygraine curiosa, seduta a gambe incrociate sul divano.
Arthur cercò invano di sfogliare oltre il libro, ma vi erano solo pagine bianche, senza neanche una parola «Non c’è scritto… nulla!» s’innervosì consapevole di aver letto a vuoto una storia incompleta.
«Come nulla?» si disperò la piccola, mostrando una smorfia di dispiacere.
«Nulla.» confermò il biondo, mostrandole le pagine bianche. Vide la bambina intristirsi, quasi come se quel libro raccontasse la storia della sua vita e nessuno ne avesse scritto la parte più importante, ma poi ricordò. Anche Arthur era stato un bambino e sapeva bene quanto per un bambino il ‘per sempre’ fosse importante.
«Facciamo così…» le sorrise intenerito, cercando un compromesso, ma la sua frase rimase sospesa in aria, interrotta dal suono del campanello. Stranito nel ricevere visita, Arthur guardò dubbioso verso il corridoio che dava all’entrata, poi scambiò un’occhiata con la piccola.
Dopo il secondo scampanellio, il biondo si decise ad alzarsi dal divano e dirigersi verso la porta.
Potrebbe essere Mithian, pensò.
L’aveva chiamata così tante volte dopo quella sera, ma non aveva mai ricevuto risposta, così si era arreso, assecondando l’idea della mora dello smettere di frequentarsi. Ma magari adesso aveva cambiato idea e lo stava cercando.
Accogliendo quell’idea, perse una frazione di secondi nel mirarsi allo specchio fissato contro il muro del corridoio, sistemandosi per bene i suoi fili dorati, dopodiché un altro tintinnio lo schiodò dal suo posto.
Prese una boccata d’aria, sistemandosi il colletto della camicia, per poi aprire.
«Arthur…»
Non era cambiato di molto. I capelli bruni erano leggermente più corti di quando l’aveva visto l’ultima volta. Il viso era più tirato, indice di una vita passata tra i fuochi. Se ne stava ritto, con una postura da vero soldatino, sorridendogli gentilmente, come era sempre stato solito fare. In una vita passata a fare cazzate insieme, aveva imparato a conoscere il suo miglior amico meglio di chiunque altro, peccato che le cose, col tempo, fossero cambiate…
«Lancelot.» lo salutò di rimando, scostandosi per farlo accomodare nella sua dimora… e per ridargli ciò che era suo di diritto.
 
«Hai fatto la brava bambina?» Lancelot issò la sua bambina da terra, stringendosela tra le sue braccia. La piccola gli circondò il collo, aggrappandosi alla meglio, continuando a stridulare la parola ‘papà’ all’infinito.
«Non è così marmocchia come credevo.» s’intromise il biondo che, seduto sul divano, osservava impotente la scena.
«No.» acconsentì il soldato, strofinando energicamente la sua mano sulla schiena della piccola «Non lo è.» disse poi, orgoglioso della sua bambina.
Lancelot era un padre straordinario, Arthur dovette ammetterlo, attestandolo con i propri occhi. Forse non era perfetto, ma era sicuramente migliore di quanto lui potesse mai esserlo.
«Ti sei congedato, dunque.» il biondo cercò di scacciare via quel silenzio imbarazzante tra i due, giocherellando per ansia con le sue dita, ma mantenendo lo sguardo fisso negli occhi scuri del giovane.
«Sì.» rispose l’altro, sistemandosi la piccola tra le braccia «Il fratello di Ginevra mi ha proposto di lavorare con lui nel negozio di famiglia. Non è molto… ma è sicuramente qualcosa.»
Arthur si limitò ad annuire col capo, non sapendo cos’altro aggiungere. Dopo il tradimento di Ginevra, il loro rapporto non era più stato lo stesso.
«Quando torna la mamma?» la piccola squittì entusiasta, mentre i suoi occhi presero a brillare in un modo innaturale.
Lancelot rimase di sasso a quella domanda, voltandosi titubante verso il biondo che, colto in fallo, tentò di guardare altrove per discolparsi.
«Penso sia arrivata l’ora di andare.» annunciò il moro, facendo scendere la piccola dalle sue braccia.
«Sì.» acconsentì Arthur, accompagnandoli entrambi alla porta.
La piccola venne accompagnata dal padre fino all’entrata, mentre il biondo guardava i due allontanarsi sotto i suoi occhi. Non l’avrebbe più rivista, di questo ne era sicuro… ma un po’ gli dispiaceva.
«Ma… il libro!» si lamentò la piccola, girandosi verso quello che era stato, fino a qualche minuto addietro, il suo tutore.
Arthur si abbassò alla sua altezza, poggiandole entrambe le mani sulle spalle minute «Ti prometto che troverò il lieto fine che merita.» le promise, sotto lo sguardo spaesato di Lancelot.
Inaspettatamente la piccola si gettò nella braccia del biondo che, impreparato a quello scambio affettuoso, rimase impalato come un idiota.
«Ti voglio bene.» gli sussurrò piano all’orecchio, mentre presa sotto braccio dal padre, veniva allontanata dal giovane «Dobbiamo andare, Ygraine.» le ricordò Lancelot, tenendo lo sguardo fisso negli occhi bluastri del suo vecchio amico, il quale però riservava tutta la sua attenzione alla bambina.
Qualcosa scattò dentro di lui, proprio mentre la vide allontanarsi dalla sua vita, scortata dal padre. La vide salire in macchina e salutarlo con la manina dal finestrino abbassato.
Arthur non voleva che quella bambina scomparisse dalla sua vita e lo comprese solo in quel momento.
Ti ridarò il tuo ‘per sempre’, Ygraine. Te lo prometto, il biondo alzò una mano in segno di saluto mentre l’auto diventava un punto sempre più lontano dalla sua vista.


Libreria, ore 11.30
 

Mithian sentiva che la situazione si aggravava ogni giorno di più. Le medicine non servivano ad affievolire il tremolio delle sue mani, l’equilibrio stava peggiorando, mentre la sua grafia diventata sempre più illeggibile.
Chiuse gli occhi, pensando a qualcosa che le tirasse su il morale.

Arthur la prese per il polso, facendola voltare nella sua direzione. Sentì la mano del biondo dietro la sua nuca, mentre il suo volto si avvicinava a quello di lui. Quando le loro labbra s’incontrarono fu come toccare il suolo del Paradiso, senza nemmeno sapere come fosse fatto.
Rispose al bacio del giovane dischiudendo le labbra, lasciandogli libero accesso alla sua bocca. Fu come rinascere dopo anni di morte apparente. Un bacio e Mithian riprese vita.

Aprì lentamente gli occhi, mentre l’amarezza si fece spazio sul suo volto. L’aveva lasciato andare per non farlo soffrire, ma inevitabilmente si era ferita a sua volta.
Stare senza Arthur le faceva male, ma non poteva fare altrimenti.
Il tamburellare di alcune nocche contro la vetrata della libreria la scosse dai suoi pensieri, costringendola a puntare lo sguardo verso il vetro trasparente.
Sentì qualcosa muoversi nello stomaco, mentre un sorriso pretendeva di nascere sul suo viso.
Arthur se ne stava dietro il vetro, con uno sguardo serio e la mano contro la vetrata, aspettando una sua risposta.
Represse all’istante quell’assurda felicità, decidendo di ostentare quanto le era possibile indifferenza. Raggiunse l’uomo fin fuori la sua libreria, ammonendolo all’istante «Cosa ci fai qui? Pensavo di essere stata chiara…»
«Ho bisogno di te.» disse senza alcun ritegno il biondo, stupendo la donna che colta di sprovvista sgranò gli occhi dalla sorpresa.
«Ho bisogno di baciarti, di tenerti accanto e al momento sento anche di avere bisogno di tante cose che non mi sono mai servite, ma soprattutto, ho bisogno di te.»
Era tutto ciò che avrebbe sempre voluto sentire da lui, ma in quel momento non poteva accettarlo. Non poteva permettersi di essere felice e lasciare che Arthur si rovinasse la sua vita, un’altra volta. Tuttavia, non era capace di respingerlo esplicitamente, così decise la via della burla «Ma tu non eri quello che ‘Io sono Arthur Mecoalt e non ho bisogno di nessuno.’» gli fece il verso, cercando di trattenere l’emozione.
«Quello ero io prima che incontrassi te ed Ygraine. Voi non siete normali…voi siete… così naturali da rendere speciale tutto ciò che vi circonda ed io non ho alcuna intenzione di perdervi. Ho perso tanto nella mia vita e non permetterò a me stesso di lasciarvi andare via in questo modo.» Arthur si era liberato di quel peso che l’opprimeva, sentendosi d’improvviso più leggero.
«Non sempre le cose vanno come vorremmo.» cercò di liquidare la questione lei, voltandosi verso la libreria, ma qualcosa la trattenne. Arthur le bloccò il passaggio tenendola stretta per un braccio «Ho bisogno di te, anche per non perdere Ygraine.» le confessò, non ammettendo risposte negative.
Mithian comprese che non poteva ignorare la sua richiesta d’aiuto. In fondo non riguardava solo lei, ma anche la piccola e non poteva negare una mano ad un uomo che ne necessitava, andava letteralmente contro l’insegnamento che le era stato impartito da suo padre.
«Cosa ti serve?» domandò, perdendosi nel blu dei suoi occhi.
Il biondo rimase a fissarla in silenzio per una frazione di secondi. Era bellissima, come sempre. Si accorse di amare tutto di quella donna, dal suo modo stravagante di vestire all’eleganza dei suoi portamenti. Amava il modo in cui si legava i capelli ed i giochi di colore che creavano le sue iridi alla luce del mattino.
Sentì il bisogno incontrollato di baciarla, stringersela al petto ed amarla, come se non ci fosse mai stato un domani, ma represse il tutto, concentrandosi sul problema inziale «Lo scrittore. Devo conoscere quell’idiota da strapazzo!»
«Non posso aiutarti…» finse lei, scuotendo il capo. Non poteva portare quel tizio dallo scrittore di quel libro, siccome avrebbe riaperto in loro vecchie ferite, non ancora risanate.
Il giovane però, parve perdere la pazienza. Le strinse il braccio per nervosismo, mentre il suo tono diventava autoritario «Devi aiutarmi e so che puoi farlo.»
La mora si arrese a mostrare resistenza, soggiogata dallo sguardo implorante del giovane che, sfortunatamente, amava.
«D’accordo, come vuoi tu.»
 


Arthur iniziò a nutrire i primi dubbi sull’identità di quello scrittore da strapazzo quando Mithian gl’indicò la strada da seguire, ma quando arrivarono a Seymour Street, tutti i suoi presentimenti si rivelarono fondati.
Arthur posteggiò la sua auto come qualche giorno prima, quando involontariamente aveva aggredito il padre della mora, scambiandolo per un malintenzionato. Scesero entrambi dall’auto, dirigendosi verso il portone in legno mogano dell’appartamento. Mithian estrasse un mazzo di chiavi dalla sua borsa, aprendo la serratura per poi far passare il biondo.
Salirono le rampe di scale, fino ad arrivare al terzo piano; la mora si fermò accanto ad una porta, la cui targa aveva inciso il cognome ‘Myrddin’. Bussò per semplice cortesia, in quanto fosse totalmente inutile per lei farlo.
Sentirono dei passi avvicinarsi all’ingresso, poi il rumore di un chiavistello che si apre. Quando la porta si aprì, due occhi cristallini scrutarono i loro volti, mentre delle labbra carnose s’incurvarono in un sorriso gentile «Oh… non siete venuti qui per picchiarmi, vero?» lanciò una frecciatina al biondino che, per nulla contento della risposta serrò la mascella con fare indispettito «Forse.»
Mithian lo ammonì con lo sguardo, ricordandogli che l’uomo dinanzi ai suoi occhi fosse suo padre. Ma quest’ultimo sembrò non curarsene alzando le spalle «Beh, in questo caso: siete i benvenuti.»
 


Si accomodarono nel salotto.
L’uomo si sedette sulla poltrona mentre di fronte, Mithian e Arthur si accomodarono sul divano.
«Allora… in cosa posso esservi utile?» domandò, riservando un’occhiata alla figlia. La mora colse in pieno il colpo; cercò di tirarsi via di dosso quel senso di disagio che l’aveva improvvisamente attanagliata, sistemandosi al meglio sul divano.
«Risposte.» la voce di Arthur arrivò come un suono secco alle orecchie del corvino. Quest’ultimo si rigirò i pollici delle sue mani, accennando una risata. S’incurvò lievemente in avanti, sporgendosi verso il biondo «Non mi sembra che tu mi abbia posto delle domande.»
«No, infatti.» lo assecondò il giovane con sufficienza, per poi lasciare cadere a peso morto il libro sul tavolo «Le più puerili se l’è poste da solo.»
Mithian lasciò scorrere lo sguardo innervosita, prima su uno e poi sull’altro, non comprendendo quell’assurda aria di sfida che si era creata fra i due.
L’uomo guardo la copertina del libro, rivivendo vecchi rancori. Le sue iridi azzurre si spostarono prima sulla figlia che, sentendosi in difetto abbassò lo sguardo colpevole, poi sul biondino che, con aria di sfida sembrava volesse averla vinta.
Accolse con piacere il gioco velato d’insulti del biondo, poggiando la sua schiena contro lo schienale della poltrona «Un libro non contiene domande, caro ragazzo.» ricongiunse le mani, intrecciando le dita tra loro «E’ solo uno strumento utile per iniziare a porsele.» gli sorrise, convinto di avergli dato la piacente delucidazione.
«Non m’importa chi fa le domande!» sbottò Arthur perdendo il filo del discorso, non digerendo per niente quell’aria filosofica che quel tizio emanava «Voglio solo sapere come diamine va a finire questo stupidissimo libro.»
L’altro corrugò la fronte, ignorando volutamente l’irritazione del giovane «C’è scritto se non erro.»
«Beh, sì. Erra!» ringhiò stufo di quell’aria saccente da parte di quello scritto da strapazzo «Il quel maledettissimo libro non c’è nulla che somigli ad un lieto fine!» inveì contro l’uomo, puntando stizzito l’indice verso il libro.
Rise sornione, sminuendo per quanto gli fosse possibile l’irritazione ingiustificata di quel tizio «Non è mica una favola della buona notte.» si raddrizzò nel suo posto, sentendo la schiena smetterla di dolergli «Probabilmente dovresti mirare a generi più…»
«Era una favola della buona notte.» s’intromise la mora, interrompendo per la prima volta nella sua vita un discorso del padre.
L’uomo la guardò stupito, mentre il biondo sembrò ringraziarla dell’appoggio. Mithian però non stava solo assecondando i capricci del giovane come quest’ultimo credeva, Mithian diceva la verità «Poi però è diventato un incubo.»
Il corvino incassò quel colpo basso, capendo forse di aver tirato troppo la corda. Abbassò lo sguardo sui suoi pollici che, meccanicamente, roteavano tra loro, poi lo lasciò ricadere sul biondo, assumendo un’aria più gioviale. Sospirò, sbattendosi le mani sulle cosce «Bene. Ora che mi sono vendicato per il generoso gancio che mi avevi donato, sono pronto a rispondere alle tue domande.» inclinò il capo, spiegando il palmo, facendogli cenno di proseguire.
«Voglio il lieto fine.» disse solamente, senza dare ulteriori spiegazioni.
L’uomo scrutò a fondo le iridi bluastre del giovane, cogliendone grande determinazione ed un forte senso dell’orgoglio «Non c’è un lieto fine.» rispose arricciando le labbra, alzando le spalle «Quella, è l’unica fine del libro.»
Mithian stava diventando stranamente nervosa. Il suo corpo sembrava aver perso il controllo. La sua mano sinistra, accanto alla coscia di Arthur iniziò a tremare lievemente. La mora serrò forte la mascella, pregando chiunque la stesse ascoltando che suo padre non se ne accorgesse.
Sentì il calore della mano del biondo sovrastare la sua, mentre con dolcezza prese a stringergliela. Mithian si voltò verso il giovane che però non la guardava, concentrato com’era a tenere telepaticamente testa al corvino. Il cuore le si sciolse in petto, riscoprendosi per la prima volta da quando era malata, protetta da qualcuno.
Il padre si accorse del gesto del biondo, con grande rammarico da parte della giovane.
«Mithian…» la richiamò, fingendo disinteresse «Potresti preparare un caffè, grazie.»
 

Quando la mora fu abbastanza lontana da non udire le loro conversazioni, il corvino si decise ad aprire nuovamente bocca «Lasciala andare.»
Arthur corrugò la fronte, non capendo dove quell’uomo volesse andare a parare «Cosa?»
«Penso che mia figlia non sia la ragazza giusta per te.» affermò serio, sporgendosi verso di lui.
«Decido io ciò che è meglio per me.» dissentì il biondo, irritato dalla stupida affermazione dell’uomo.
L’altro però, mantenne la sua posizione, parlando chiaro «Mithian è malata. Molto malata. Stare al suo passo rallenterebbe il tuo e credimi, non c’è cosa peggiore che innamorarsi di una persona non sana.»
«Ma che diamine stai dicendo?!» il biondo accigliò lo sguardo, guardandolo con disprezzo.
L’uomo lasciò correre il tono diffidente del giovane, porgendogli dei fascicoli medici «Non lo dico solo per il tuo bene, ma anche per quello di Mithian. Lei cercherebbe in tutti i modi di stare al tuo passo… ma ciò finirebbe solo per ferirla.»
Il biondo guardo con fare sospetto le carte che l’uomo gli porse, decidendo solo infine a prenderle tra le mani. Diede una rapida occhiata all’uomo che non aveva ancora perso la sua espressione seria, poi controllò cosa quelle stupide carte dicessero.
Sgranò gli occhi, sentendo improvvisamente il respiro venirgli meno.

La paziente Mithian Myddrin risulta affetta dal morbo di Parkinson, riscontrando alcuni effetti collaterali della malattia:
  • Perdita dell’equilibrio;
«Permesso, mi scusi.»
Una ragazza dai lunghi capelli castani, mossi al punto giusto, lo aveva tamponato e con lui anche il suo Iphone, che irrimediabilmente cadde a terra.
«Mi scusi, non so proprio dove metto i piedi!»
  • Sbalzi d’umore improvvisi;
Si alzò di scatto dal divano, avviandosi verso il corridoio, quando la voce di Arthur la paralizzò «Però una cosa la so.» disse, vedendola fermarsi nel centro esatto della stanza.
  • Tremolio agli arti;
Mithian stava diventando stranamente nervosa. Il suo corpo sembrava aver perso il controllo. La sua mano sinistra, accanto alla coscia di Arthur iniziò a tremare lievemente.
 
Il giovane chiuse furioso quel fascicolo, gettandolo in faccia all’uomo, indignato. Non poteva essere possibile, Mithian non poteva e non doveva essere malata. Anche se tutto, nella sua mente fu subito più chiaro.

«Beh, Mithian… ti ringrazio per l’intensione, ma ti assicuro che non ho bisogno proprio di nessuno.» il biondo cercò gentilmente di chiudere la questione, ma poi sentì la donna incalzarlo «Tutti abbiamo bisogno di qualcuno.»

Si diede dello stupido da solo per non aver colto subito i segnali.
«Te lo dico per esperienza personale, se l’ami, lasciala andare.»
Arthur volse lo sguardo ancora attonito all’uomo e solo in quell’istante si accorse che i suoi occhi erano lucidi. Il Parkinson è una malattia ereditaria ed era facile presuppore dunque, che anche la madre di Mithian ne fosse affetta.
 «Il libro era solo una metafora di un amore distrutto dalla malattia.» spiegò il corvino, continuando a tenere fisso lo sguardo in quello del biondo.
L’altro non gli rispose. La rabbia era talmente forte che Arthur non riuscì a controllarsi. Si alzò con stizza dal divano, correndo fuori dall’abitazione come una furia.
Era arrabbiato con quello scrittore da strapazzo. Era arrabbiato con Lancelot che gli aveva propinato l’incarico di badare a quella bambina, arrabbiato con Ygraine per averlo costretto a leggerle un libro della buona notte; irato con Mithian per essere stata così se stessa da nascondere l’imperfezione più fatale; irato con se stesso, per non averlo compreso prima.
 

*

 
Un tonfo di una tazzina contro il pavimento attirò l’attenzione del corvino; si voltò in direzione della cucina, decidendo di andare a controllare.
Avanzò piano, finché il rumore di singhiozzi strozzati dal pianto non lo paralizzò. Con cuore bloccato nel petto decise di scorgere oltre l’arco che dava alla cucina.
Mithian si era accovacciata a terra, tenendosi le mani tremolanti accanto alla tempie, disperandosi straziata. Continuava a ripetere frasi sconnesse, maledicendosi da sola per la sua stessa malattia. Qualcosa che, volente o nolente faceva ormai parte di lei.
Quando la mora si accorse dello sguardo del padre su di sé, cercò in vano di rialzarsi, ricadendo impacciatamente sul pavimento, ripetendo continuamente le sue scuse per quell’ignobile condizione nella quale riversava. Suo padre non meritava una figlia così fragile, continuava a ripetersi.
«Mithian…» il padre s’inginocchiò, portandosi alla sua altezza. Aveva la voce tremante e gli occhi lucidi; con i suoi pollici asciugò le lacrime sulle guance della propria bambina, ormai cresciuta «Mithian io sono tuo padre, non devi nascondere il tuo dolore anche a me.»
Tentò di trattenere le lacrime per quanto possibile, sentendo un fastidioso nodo alla gola che le impediva di respirare, mentre un dolore immane la costringeva a singhiozzare «Non voglio ferirti come la mamma. Non voglio essere la causa del tuo dolore.»
Le parole di sua figlia furono come una lama dritta nel petto: sua figlia stava nascondendo un dolore immenso per non farlo soffrire e ciò lo uccise. Non poteva essere fiero di se stesso se Mithian si piegava in due dal dolore, anche a causa sua. Le prese il viso tra le mani, alzandoglielo all’altezza delle sue iridi cristalline «Io amavo tua madre, Mithian. L’amavo più della mia stessa vita e credimi, se ti dico che sono contento di aver sofferto con lei, piuttosto che sapermi felice con qualunque altra donna al mondo.»
I pensieri della giovane furono tutti orientati verso il biondo. Ormai, non pensava ad altro in quei giorni. Arthur era diventato il perno della sua vita e dirgli addio era doloroso e straziante… quasi impossibile.
«Io lo amo.» singhiozzò la mora tra le lacrime, stanca di nascondersi dietro un sorriso falso «Lo amo, papà.» ripeté piangendo, perché consapevole di non poterlo avere.
L’uomo si sentì così vuoto, così impotente dinanzi al dolore lancinante che attanagliava la sua piccola Mithian. Ricordò di quando aveva sette anni e cadendo si sbucciava il ginocchio. Con le lacrime agli occhi correva da lui, solo per farsi coccolare, anche se in realtà la ferita già non le faceva più male. Adesso sua figlia era lì, in lacrime e lui non poteva fare nulla; nulla se non abbracciarla e consolarla con semplici carezze.
Il corvino deglutì il boccone più amaro che avesse mai assaporato, trascinandosi la figlia tra le braccia, cingendole le spalle. Sentì le lacrime di Mithian bagnargli la maglia bluastra, mentre le sue spalle si rialzavano a ritmo con i singhiozzi. Se la strinse forte a sé, carezzandole delicatamente il capo, mentre delle lacrime pungenti lottavano per scendere dai suoi occhi.

“Perché diamine stai piangendo, Emrys?!” sbottò Morgaine irata con le lacrime ad appesantirle gli occhi “Sono IO quella che avrà una vita di merda, sono IO quella malata!”
Emrys rimase in silenzio, non sapendo cosa dire. Ricordò il solo il mondo crollargli addosso, dopo nulla più. E l’unica cosa che poté fare fu guardare impotente, mentre perse tutto ciò che gli era di più caro nella vita.

«Andrà tutto bene.» le sussurrò all’orecchio, per poi stringerla più forte. Gli sembrò così piccola e fragile nelle sue mani, tanto che ebbe paura di spezzarla «Te lo prometto.»
 

Qualche giorno dopo…
 

Azienda Mecoalt, ore 9.30



Arthur cercò di dimenticare, siccome i ricordi iniziarono a fare troppo male.
Quella rabbia che aveva dentro non si era ancora placata.
Perché il mondo è così ingiusto? Si domandava, serrando forte i pugni fino a farsi male.
Aveva sempre avuto tutto ciò che desiderava, gli bastava solo chiederlo e l’avrebbe avuto. Arthur era sempre stato un tipo caparbio e determinato, catapultato nel mondo in continuo movimento, mirando sempre più in alto, ma la vita sembrava volerlo sfidare ogni volta. L’aveva fatto cadere quando si era innamorato di Ginevra, ma Arthur era riuscito a rialzarsi anche quella volta.
Ma Mithian era stato un colpo basso. Innamorarsi di lei non era nei suoi piani, però era successo e… per un minuto si era anche convinto che fosse stata la cosa migliore che gli fosse capitata; ma l’amore era cieco e la sfiga ci vedeva benissimo, quindi la malattia aveva fatto la sua comparsa, rovinando il migliore dei quadri che fossero mai stati disegnati.
«Ho saputo che Lancelot è tornato.»
Arthur si accorse solo in quel momento della presenza autoritaria del padre nella stanza. Indossava il suo impeccabile completo, mentre al polso s’intravedeva il quadrante del suo Calvin Klein.
«Potrò vederti più diligente nel svolgere il tuo lavoro, dunque.» Uther si sedette oltre la scrivania, sistemandosi su una sedia a mo’ di ufficio, poggiando i gomiti sul tavolo, ricongiungendo le mani «Suppongo che questi non siano giorni facili per te, soprattutto dopo aver scoperto della malattia di Ginevra... ma un Mecoalt deve sempre guardare innanzi, senza farsi mai abbattere.»
Il biondo parve ascoltarlo solo in quel momento. Corrugò la fronte, guardandolo in volto «Ginevra?»
Il padre si accorse di aver parlato in sproposito così cercò di liquidare la faccenda «Pensavo che il tuo amico te ne avesse parlato.»
Arthur alzò il tono, allontanando il dorso della sua mano sinistra dalla guancia, lasciandolo sospeso a mezz’aria «Ginevra era malata?!»
«Ormai è passato.» concluse il brizzolato alzandosi dal suo posto «Non ha ormai più alcuna rilevanza.»
Si aggiustò la giacca con fare fiero, per poi dare le spalle al figlio. Si avvicinò alla porta quando si sentì il braccio circondato da una morsa.
«Esigo sapere.» gli occhi di Arthur erano colmi di rabbia e risentimento ed il suo tono non ammetteva repliche.
Il padre si voltò a guardarlo, inarcando le sopracciglia e dischiudendo le labbra dallo stupore. Suo figlio non si era mai rivolto a lui in quel modo; Arthur non aveva mai osato sfidarlo o ribellarsi alle sue parole fino a quel giorno.
Fingere ormai era inutile, se ne convinse il brizzolato, così riprese la sua espressione quotidiana caratterizzata da una faccia dittatoriale «Siediti.» lo intimò, cedendo alla sua volontà.
 
Telefonata, casa Mecoalt


«Era malata.» la voce di Arthur risuonò strana dall’altra parte della cornetta «E tu lo sapevi.» rimarcò, incastrandolo.
Lancelot si fece coraggio, sapendo che prima o poi sarebbe arrivato quel momento; puntò lo sguardo verso un punto indefinito della stanza, stringendo tra le mani la cornetta del suo telefono «Non voleva che tu lo sapessi, ed io le avevo dato la mia parola.»
«Avevo il diritto di saperlo… in fondo siamo stati insieme.» il biondo sibilò quella frase a denti stretti, riscoprendosi ancora ferito nel profondo.
 «Non voleva che tu soffrissi.» la voce di Lancelot era un veliero in balia di onde di un mare di ricordi, in procinto di tempesta «Per questo ha finto.»
Il silenzio si materializzò tra i due. Nessuno fiatò per un paio di secondi, finché il moro non proseguì «Preferiva essere odiata per un tradimento che non aveva commesso, piuttosto che addossarsi la colpa di un dolore che non avrebbe potuto guarire.»
Arthur sentì il sangue gelarsi nelle vene.
Cercò di realizzare quanto gli fu detto, temendo di aver compreso male.
Ginevra non l’aveva tradito. Se n’era andata dalla sua vita per non farlo soffrire, consapevole che l’avrebbe superato.
«Perché ha cercato te?» domandò, volendo ormai togliersi ogni dubbio e vederci – per suo diritto – finalmente tutto più chiaro.
«Ginevra si svegliava ogni giorno temendo che fosse l’ultimo.» nella voce di Lancelot traspariva molta malinconia; si era lasciato abbandonare in ricordi amari e dolci, quelli di una donna che condivideva tutto con lui, tranne che il suo cuore. Quello era tutto rivolto ad Arthur. Sorrise, facendosi coraggio, essendole ugualmente grato per tutto ciò che avevano condiviso «Io ero un soldato ed ogni volta che uscivo dalla porta di casa, non sapevo se vi avrei fatto più ritorno. Condividevamo la nostra più grande paura. Non dovevamo temere di essere l’uno la caduta dell’altro. Eravamo delle mine già innescate, stavamo solo aspettando l’ultimo countdown prima di esplodere.»
Arthur rimase sospeso in quelle parole, maledicendosi ancora una volta di essere stato così cieco. Si sentì una pessima persona per aver gettato al rogo tutti i loro ricordi, dicendo definitivamente addio al loro amore.
Un ultimo dubbio gli tornò alla mente «Ha lasciato scritto qualcosa?» domandò, per poi aggiungere dopo qualche attimo di silenzio «Una lettera in punto di morte o qualcosa così?» tentò.
«Sì.» gli rispose, soltanto.
Arthur aspettò in silenzio che continuasse, sentendogli il cuore compiere strane palpitazioni nel petto.
«L’hai già ricevuta, effettivamente.» disse, provocando confusione nel biondo. Lancelot sorrise, rievocando vecchi ricordi «La sua lettera per te era Ygraine.» cominciò a dire, vagando con la mente nella memoria «Quando scoprì di essere incita ebbe paura che in qualche modo la bambina potesse nascere malata, così si convinse ad optare per l’aborto. L’accompagnai all’ospedale, dove incontrammo un paio di coppie nella sala d’attesa. Ginevra guardò una ragazza giovane, sulla ventina sorreggersi la pancia. Ne sorrise di riflesso dicendomi ‘Non voglio condannare la mia bambina all’oblio, senza che abbia mai potuto vedere la luce del sole.’ Così uscimmo dall’ospedale. Fu per lei una gravidanza molto sofferta, ma si sforzò nel regalarmi sempre un sorriso in quei pochi giorni che mi ebbe accanto. Quando arrivò il momento del parto io le stringevo la mano, ma il suo viso era assente; perso nel dolore. Guardava altrove, concentrandosi in un punto morto. Quando la bambina uscì dal suo corpo e ne udì il pianto, la vidi sorridere di riflesso nel vuoto. Qualche ora più tardi, dopo essersi svegliata mi ha detto ‘E’ stato con me tutto il tempo, aiutandomi. Sua madre gli è stata portata via troppo in fretta ed io voglio rimediare in qualche modo. Voglio che la nostra bambina si chiami Ygraine.’ Io annuii consenziente, accettando anche quel pegno d’amore rivolto ad una persona che non ero io.»
Calde lacrime colarono dagli occhi del biondo, mentre qualsiasi parola moriva nella sua bocca. Non l’aveva mai ringraziata per tutto ciò che gli aveva sempre donato, anche solo stando al suo fianco, ma quel giorno ne trovò il coraggio.
Grazie, per tutto, le disse con la mente, immaginandosela sorridere appagata dalle sue parole.
 

*

 
Arthur era rimasto chiuso in casa a rimuginare su quanto fosse stato cieco. Era stato al fianco di Ginevra per così tanti anni, senza mai accorgersi della sua malattia… e lo stesso era successo anche con Mithian.
Uno scampanellio lo distolse dai suoi pensieri; voltò lo sguardo verso il corridoio, dove il suono si era propagato, ignorando del tutto chi potesse mai cercarlo. Suo malgrado, si alzò dal divano e si avviò verso la porta, aprendola senza troppi indugi.
Il viso cordiale dell’uomo lo accolse con un sorriso beota «Suppongo di non essere di disturbo.» aggiunse poi, rimanendo impalato di fronte al biondo, nei suoi abiti casual.
«Sì, lo è.» rispose di rimando, facendo per chiudere la porta. L’uomo però, avanzò di un passo, bloccando la ante col suo piede contro lo stipite.
 «Sono venuto per chiederti scusa.» aggiunse il corvino, insistendo.
«Non mi servono le tue scuse.» tagliò corto il biondo, con fare acido, ma l’uomo fece maggiore pressione, riuscendo a spalancare quanto meno la porta «Insisto!»
Arthur lo guardò indignato, arrendendosi nel lasciargli campo libero «Oltre ad essere uno scrittore da strapazzo è anche un idiota.»
«Terribilmente idiota.» precisò il corvino, chinandosi per prendere un pacco sigillato e porlo al giovane «Ma fa parte del mio fascino.»
«Cos’è?» chiese il giovane, indicando con lo sguardo il pacco.
«Il pacco che non ho avuto il coraggio di gettare al rogo.» l’uomo insistette, porgendoglielo ancora una volta, finché il biondo non parve convincersi, rigirandoselo tra le mani con fare indagatorio.
«Sei una brava persona, Arthur Mecoalt e meriti le risposte che desideravi.» gli disse solamente, per poi incurvare le labbra in un sorriso nostalgico. Arthur lo guardò allontanarsi, rigirandosi ancora per una volta quel pacco tra le mani, poi decise di entrare.
 


Il biondo aveva aperto il pacchetto sigillato dallo scotch, ritrovandovi vecchie foto sbiadite a ricoprire un cd. Lo prese tra le mani, guardandone la superficie sporcata da un pennarello nero. C’era scritto Il vero lato della storia.
Accese il suo lettore audio, capendo che si trattasse di un videofilmato, prendendo posto sul divano. A braccia incrociate guardò lo schermo, subito dopo aver premuto Play.

L’immagine di una donna corvina si materializzò sullo schermo. Aveva i capelli raccolti in morbide onde, la pelle bianca in netto contrasto con gli occhi smeraldo e le labbra rosse “Sono le quattro del mattino e l’aria è pungente… Forse ti chiederai perché mi sto riprendendo nel cuore della notte o forse no: in fondo hai sempre saputo quanto fossi strana… a volte. La mia calligrafia è diventata illeggibile a causa… del-tu-già-sai-cosa, così ho preferito filmarmi: tanto la mia immagine è ancora perfetta.” Ci fu una brevissima pausa, poi la corvina continuò a parlare, stavolta lacrimando “Ho tanta paura, Emrys. E sono arrabbiata con il mondo. La mia malattia mi porterà via tutto ed io non posso sopportarlo. Quando il dottore mi ha diagnosticato quella cosa, ho visto il tuo viso adombrarsi. Sei crollato davanti ai miei occhi, senza neanche accorgerti che quella che avesse bisogno di sostegno ero io. La verità è che ho paura di te. Paura che tu possa odiare ciò che sto diventando. La malattia mi porterà via tutto ed io…” la donna si strinse le labbra, guardando in alto per non far scendere le lacrime sul suo volto, poi continuò “Avevo deciso di prendere quelle pillole: la via più facile e quella più indolore. Sono sempre stata una donna crudele e ciò non dovrebbe sorprenderti. Però io quelle pillole le ho buttate. Sono egoista e non m’importa di chiederti tanto, perché ti amo. Ho bisogno che tu ti prenda cura di me, anche se ciò ti farà soffrire come non mai in vita tua, ma so che non te ne pentirai. Come hai sempre detto tu ‘Una metà non può veramente odiare ciò che la rende completa.’ E tu mi hai resa completa, Emrys. Non mi hai regalato un ‘per sempre’, ma una ragione per continuare a lottare e vivere. Ed io ti ringrazio, per il nostro amore avverso alla malattia e all’infinito. Perché per davvero, l’amore vince su ogni cosa e tutto ciò che si fa per amore lo si fa aldilà del bene e del male.”

Arthur premette il tasto stop mentre l’immagine di Mithian gli balenò dinanzi agli occhi. Lui amava quella donna e non gliene importava nulla s’era malata e se avrebbe rallentato in qualche modo la sua ascesa nel mondo: voleva stare con lei, perché lo rendeva completo.
Convinto della sua scelta, si alzò di scatto dal divano, raggiungendo a grandi passi l’entrata, chiudendosi malamente la porta alle spalle.

 
Seymour Street, ore 19.50


Parcheggiò malamente la sua auto sul ciglio del marciapiede, scendendo in tutta fretta, incurante della pioggia che batteva forte sul suo corpo.
«Mithian!» prese ad urlare, sotto la pioggia incessante, aspettando che la donna si facesse viva alla finestra.
Dopo l’ennesimo urlo la vide uscire allo scoperto. Aveva i capelli spettinati e la faccia lievemente arrossata, e sgranava i suoi occhioni nocciola, riprendendolo «Arthur, ma che diamine stai facendo?!»
«Dovevo dirti che la fine di quel libro fa pena; che Merlin è un idiota e che ti amo!» le urlò di rimando, socchiudendo gli occhi d’istinto per la pioggia che ne ricadeva sopra.
La mora scosse il capo «Ne abbiamo già parlato!» disse, alzando il tono quanto il giovane per farsi sentire.
«Ed io ho deciso!» la incalzò, zittendola «Ho deciso che preferisco stare con te rischiando di soffrire, piuttosto che sapermi incompleto per il resto della mia vita!» i vestiti aderivano al suo corpo, ormai rovinosamente bagnati, zuppi come i suoi capelli «Non avremo un ‘per sempre’, ma saremo felici. Perché tu mi rendi completo ed io ho bisogno di te!»
Mithian era tentata nel cedere, nel scendere le rampe di scale e catapultarsi nelle braccia del biondo, ma il suo più grande timore non l’abbandonava «Non voglio che tu soffra a causa mia!» confessò, in procinto di versare delle lacrime.
«Soffrirò lo stesso, qualsiasi cosa decida di fare.» sentiva la pioggia ricadere copiosa sul suo viso, mentre le sue iridi bluastre erano fisse sull’immagine della mora «Adesso sta a te decidere. Vuoi soffrire con me o preferisci gettare al rogo l’unica possibilità di sentirti pienamente completa?»
I loro sguardi s’incrociarono, mentre l’unico rumore che fece loro da sottofondo fu lo scrosciare della pioggia contro i tetti ed i veicoli impazziti della città. Mithian comprese di avere due possibilità: la prima era lasciare andare Arthur per sempre, privandosi di tanti momenti di dolore, quanti di felicità; la seconda era corrergli incontro, dimenticando il futuro e viversi il presente, così come sarebbe venuto.
Strinse le mani sulla mensola della finestra, prendendo la sua decisione.


Sette mesi dopo…
 
«Allora marmocchietta, che ne dici del nuovo finale?» Arthur sorrise vittorioso, aspettando con impazienza la risposta della piccola, dall’altra parte della cornetta.
 «Mi piace!» decretò soddisfatta, con un’inflessione – ovviamente – infantile nel tono di voce.
Emrys Myrddin si era rimesso all’opera, modificando – sotto consiglio severo di Arthur – la fine del suo libro, trovando il coraggio di pubblicarlo sotto consiglio pressante della figlia.
Lancelot intanto aveva detto la verità ad Ygraine riguardo la madre, ma il peggio sembrava essere passato. Padre e figlia adesso, riuscivano ad avere un rapporto sereno, beandosi di teneri e sfiancanti momenti familiari.
«Dovresti scrivere anche tu una favola!» propose la bambina, euforica.
«Beh…» Arthur si voltò verso l’allegra tavolata allestita nel giardino della villa Mecoalt, dove Mithian rideva gioiosa ai primi tentativi di ‘rapporto civile ed armonioso’ tra suo padre ed il Signor Uther Mecoalt «Qualcosa l’ho già buttata giù.»
Uther, con immensa sorpresa da parte di suo figlio, aveva accettato ben volentieri Mithian come sua ragazza, in quanto la ritenesse colta, aggraziata ed intelligente; tante doti che sembrava adorare con fissa maniacale.
«E ci sarà il ‘per sempre’?» chiese incuriosita la piccola.
Emrys si era rivelato un uomo dalle mille sfumature. Sapeva essere scherzoso, mentendo sempre quell’aria saccente e filosofica che Arthur tanto odiava. Ma alla fine, erano riusciti ad instaurare un rapporto, seppur strano, ma comunque civile. “Puoi chiamarmi papà.” Gli aveva detto una sera, ma Arthur aveva cordialmente rifiutato la proposta, roteando gli occhi.
Poi c’era Mithian. La loro relazione era come quella di tante coppie normali: litigavano di tanto in tanto, ma c’erano sempre l’uno per l’altra.
La malattia non aveva ancora vinto, e mai l’avrebbe fatto. I medicinali sembrarono funzionare, soprattutto dopo che Arthur si fosse messo in contatto con il medico migliore di Londra, il Dottor Draco Kilgharrah.
C’erano momenti brutti esattamente come quelli belli ed il biondo, d’altro canto, non pretendeva altro.
«No.» le rispose infine.
Mithian l’aveva scrutato dalla tavola e gli aveva sorriso, eguagliando in un solo momento la bellezza di quella giornata; Arthur le sorrise di rimando, parlando alla piccola «Ma posso assicurarti che vivranno tutti felici e contenti.»



Fine.

 

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