Dirty Little Secrets

di StarFighter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A chance to change my lonely world ***
Capitolo 2: *** Sliding Doors ***
Capitolo 3: *** Don't give up ***
Capitolo 4: *** When can I see you again? ***
Capitolo 5: *** Frozen Heart ***
Capitolo 6: *** Take me home ***
Capitolo 7: *** Awakenings ***



Capitolo 1
*** A chance to change my lonely world ***


CAPITOLO 1: A chance to change my lonely world

 

New York al tramonto era qualcosa che riusciva ancora a sorprenderla, nonostante la Grande Mela fosse diventata la sua nuova casa da almeno quattro mesi: il Sole si stava tuffando dietro quel mare di grattacieli e cemento armato, facendo risplendere le infinite distese di vetro come cristalli d’ambra. Ma nonostante l’oscurità stesse progressivamente avanzando dall’Oceano, le milioni di luci che pian piano stavano prendendo vita, facevano apparire le strade come in pieno giorno: una fiumana di gente si affrettava da un capo all’altro delle immense avenue; i tipici taxi gialli sfrecciavano per quanto possibile nel traffico, perennemente imbottigliato. Non c’era posa per la città e per i suoi abitanti, se n’era resa conto dal primo momento: quando era arrivata la prima volta alla Central Station era rimasta disorientata dall’infinità di persone che le passavano accanto senza degnarla di uno sguardo, ognuna persa nel proprio microuniverso personale. Era partita con il sogno di vivere una grande avventura nella città più famosa del mondo, la città che non dorme mai, quella stessa città che aveva da offrirle tutto e niente. Aveva fantasticato tante volte di voler andar via da casa, vivere la sua vita, libera dalla costante e asfissiante presenza dei suoi genitori, lontano dall’aria provinciale della piccola cittadina del Colorado dov’era nata e quando finalmente era stata accettata all’NYU, il suo sogno si era realizzato: aveva messo otto stati tra sé e il suo passato. Avrebbe avuto quello che aveva sempre desiderato, nuove amicizie, una laurea in una prestigiosa università e, tempo permettendo, ci sarebbe stato anche spazio per una grande storia d’amore, come quelle delle commedie romantiche che tanto la facevano piangere. New York le sembrava lo scenario ideale per la sua nuova vita. Ma dopo il primo mese di permanenza, aveva cominciato a sentire la mancanza di qualcuno con cui parlare o fare una passeggiata sulla quinta strada; insomma, era in una megalopoli con migliaia di divertimenti e party ad ogni angolo, ma non aveva nessuno con cui godere di tutto quello. Era davvero sola e in quattro mesi non aveva fatto grandi passi avanti, se si escludeva la comparsa della sua nuova coinquilina Merida, una scozzese psicopatica che dormiva con un arco appeso sul letto, e la ragazza della tavola calda dove andava a fare colazione ogni giorno da almeno due mesi, Ashley.

Ma non aveva mai instaurato un vero rapporto di amicizia con loro due, nonostante fosse la persona più socievole del mondo: Ashley era una ragazza un po’ più grande di lei così dolce e carina, con cui scambiava volentieri quattro chiacchiere; ma non rimaneva mai molto tempo in sua compagnia, perché troppo pressata dalla proprietaria del locale, che le urlava dietro ordini su ordini. Merida invece era una causa persa in partenza: i loro dialoghi si limitavano ai semplici saluti. A volte la sua coinquilina la portava sull’orlo della sopportazione, molte volte avrebbe voluto urlarle contro che avrebbe dovuto tenere le sue cose nei posti a loro designate, che avrebbe dovuto lasciare la biancheria sporca nel cesto apposito, non in giro per l’appartamento, che rivolgerle la parola più di una volta al giorno non l’avrebbe uccisa, e cosa più importante, avrebbe dovuto dirle quando un bene di prima necessità finiva, non farglielo scoprire in ritardo, come quando aveva trovato il cartone del latte vuoto nel frigo. Avrebbe voluto ammazzarla. Ma non le aveva mai detto nulla di tutto ciò, troppo preoccupata per la sua incolumità.

Durante una delle tante telefonate settimanali, la madre le aveva consigliato di stringere amicizia con i suoi colleghi di corso. Le aveva detto che ci avrebbe provato, ma i suoi tentativi erano miseramente falliti: nessuno sembrava essere interessato a fare amicizia in quel posto, le loro vite scorrevano come tante rette parallele incapaci di trovare un punto di contatto. Era una situazione scocciante e pesante, a cui non aveva ancora trovato soluzione.

Anche ora che si trovava schiacciata nella metro, tra centinaia di persone, si sentiva sola. Mai come in quel momento avrebbe avuto bisogno di qualcuno con cui parlare, con cui sfogarsi: aveva appena chiuso una chiamata e la rabbia che le aveva lasciato addosso le parole della sua interlocutrice, ancora la scuoteva. Stringeva forte la sbarra della metro per tenersi ferma, mentre lo sferragliare ritmico e metallico delle rotaie la calmavano pian piano: cosa si aspettava? Perché avrebbe dovuto ricevere una risposta differente rispetto ai mesi precedenti? Ancora si ostinava a non volerla vedere, ma perché?

-“Elsa, dimmi solo perché?”- l’aveva supplicata.

-“Lasciami in pace Anna...”- glielo aveva sussurrato quasi, ma quelle parole l’avevano colpita come un pugno nello stomaco.

Non s’incontravano da tre anni e sentiva terribilmente la mancanza della sua unica sorella, l’unico legame con il passato che avesse in quella città. In tre anni aveva ricevuto solo sporadiche chiamate e cartoline di New York imbiancata dalla neve, per Natale. Non era mai tornata a casa per le feste o in estate, non aveva mai accennato ai suoi studi o alla sua situazione finanziaria. Anche lei frequentava la NYU, ma nella sede di Brooklyn: ogni tanto aveva fatto un salto per chiedere di lei e le avevano indicato il numero del suo appartamento. Aveva bussato fino a farsi male alle mani e poi una ragazza le aveva aperto, ma non era Elsa, era una certa Megara, la sua coinquilina, una tipa altezzosa, che le aveva intimato infastidita di togliersi di mezzo, che Elsa non c’era e che non sarebbe tornata prima di sera.

-“Ritenta, sarai più fortunata la prossima volta!”- le aveva detto con voce piatta.

L’aveva salutata sgarbatamente e poi aveva atteso all’esterno dell’edificio il ritorno della sorella, ma quando il freddo della notte ormai le era entrato fin nelle ossa, di Elsa non s’era vista nemmeno l’ombra.

Era tornata sconfortata al suo piccolo appartamento e aveva trovato Merida che giocava alla PS, con una fetta di pizza in bocca e i piedi poggiati sul tavolino da caffè davanti a lei. In un altro momento le avrebbe detto di mettersi composta, ma non aveva nemmeno la forza per arrabbiarsi: si era rinchiusa in camera sua a piangere e non ne era uscita se non il mattino successivo, con gli occhi gonfi e rossi.

Uscire dal vagone della metro era sempre un’impresa e quella sera non fece eccezioni: spintonò per uscire e si guadagnò una sfilza di occhiatacce e imprecazioni che si lasciò alle spalle, troppo sconfitta nello spirito per potervi prestare anche la minima attenzione.

Per fortuna l’appartamento era a pochi passi dalla fermata della metro e non dovette indugiare molto ancora tra le strade grigie del quartiere. Scivolò come un fantasma tra i corridoi della struttura, non facendo molto caso alle decine di studenti che chiacchieravano davanti alle porte degli appartamenti, lanciandole occhiate strane: doveva essere davvero uno spettacolo pietoso, pensò.

Aprì la porta e la richiuse con un sospiro, sperando che Merida non avesse fatto nulla per farla arrabbiare ulteriormente. Le stanze erano stranamente silenziose, di solito a quell’ora la scozzese era sempre in piena attività.

-“Sono tornata.”- gridò con poco entusiasmo, al nulla. Niente. Nessuna risposta o nessun rumore che rivelasse la presenza della ragazza. Si diresse in camera sua e gettò la borsa a terra; si buttò a peso morto sul letto e scalciò via le scarpe che le avevano massacrato i piedi per l’intera giornata. Sentì la porta d’ingresso sbattere e poi dei rumori concitati provenire dalla camera della coinquilina. La vide, o meglio, vide la sua chioma rossa fiammeggiante passare davanti alla sua porta semiaperta e poi fermarsi e tornare indietro.

Chiuse gli occhi, stanca: non aveva voglia di scoprire cosa stesse macchinando quella testa calda.

-“Ehi! Tutto bene?”-

Sobbalzò colta di sorpresa: da quando in qua, Merida le chiedeva come stava?

-“S-sono solo stanca, grazie.”- mugugnò.

-“Sicura? Perché non hai una bella cera.”-

-“Senti, non è serata, chiaro? Quindi se devi prenderti gioco di qualcuno va altrove!”- le disse col tono di voce più acido che avesse mai usato in vita sua, inchiodandola con lo sguardo.

-“Qualcuno è stato morso da una vipera, a quanto vedo. Sai in casi come questi l’antidoto ideale è una buona dose di svago. Hiccup da una festa stasera, che ne dici, ti va di venire?”-

La fissò per un minuto buono, senza parole: Merida le aveva appena rivolto la parola di sua spontanea volontà, le aveva detto una frase con più di tre parole e l’aveva invitata ad una festa…qualcosa non andava, forse era morta in un incidente della metro oppure si era addormentata sul letto. Si tirò su a sedere e si schiarì la voce: “Perché me lo stai chiedendo? Noi non siamo amiche, giusto? Di solito a stento mi saluti e ora salta fuori addirittura un invito! Cosa hai rotto? Su, avanti puoi dirmelo, prometto di non arrabbiarmi.”- si fece una x sul cuore.

-“Non ho rotto niente! Ma per chi mi hai presa, per una poppante? Era solo per essere gentili; insomma so di non essermi comportata al meglio in questi mesi e volevo farmi perdonare: la scelta era tra un invito ad una festa o una cena preparata da me. Ma la cena sarebbe stata un tantino ambigua, non credi?”-

Continuava a non risponderle.

-“Senti se non ti va, puoi tranquillamente rimanere qui a macerarti nella tua depressione. Non sono problemi miei, ma sappi che sei vuoi parlare sono qui, nella stanza accanto alla tua o schiacciata sul divano a fare zapping.”- Merida aveva fallito, ma almeno lo aveva fatto tentando.

-“Perché?”- quella parola le sfuggì di bocca, mentre la scozzese le girava le spalle.

-“Perché, cosa?”- le rispose scocciata.

-“Perché proprio adesso, insomma perché aspettare tanto per instaurare uno straccio di rapporto?”-

-“Semplicemente perché sei la mia coinquilina e lo rimarrai per almeno altri sette mesi; e perché per quanto tu possa essere fastidiosa a volte, non mi va di continuare ad ignorarti. Siamo entrambe sole e lontane da casa: morale della favola potremmo diventare amiche.”- Merida si avviò nella sua camera e la lasciò lì a riflettere su quello che le aveva detto.

Quella pazza l’aveva lasciata senza parole. Forse qualcosa era cambiato quel giorno; forse il karma la stava premiando per averla sopportata ogni giorno di quei quattro lunghi mesi; forse la vita le stava aprendo una nuova porta davanti, dopo che sua sorella gliel’aveva bellamente sbattuta in faccia. Forse, forse…se avesse accettato l’invito, quella sera la sua vita sarebbe cambiata! Forse era la svolta che avrebbe cambiato il suo solitario mondo fatto di libri, corse per arrivare in orario a lezione, metro piene di persone e sere spese a guardare i vecchi episodi di ‘una mamma per amica’.

Saltò giù dal letto e corse nella camera della rossa, trovandola intenta a rovistare nei cassetti: “A che ora hai detto che è questa festa?”-

 

 

 

NDA: piccolo esperimento senza pretese che mi è saltato in mente una notte che non riuscivo a dormire. Ovviamente è un AU/crossover, ce n’è bisogno su questo fandom. Il piano iniziale era quello di inserire tutte le disney princess, ma mi sono resa conto che sarebbe un po’ difficile gestire così tanti personaggi, ma vedrò di inserirne quante più possibile. Anzi se avete idee su una vostra principessa preferita, vi esorto a scrivermele, così da creare una AU in comunità…non sarebbe una cattiva idea!XD Ashley, la ragazza della tavola calda, è Cenerentola, giusto per chiarire.

La trama comunque è ancora in pieno cambiamento quindi per ora il rating è arancione, ma potrebbe diventare rosso…non lo so.

Coooomunque, nn so che dirvi se non grazie x essere passate…ci si becca in giro! Amen.

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Capitolo 2
*** Sliding Doors ***


Capitolo 2: Sliding doors

 

 

La sera stava calando sui grattacieli, lasciando intravedere nel cielo già livido di nuvole, le prime stelle, quelle più luminose, le uniche che non impallidivano rispetto alle luci di Times Square o a quelle dei cartelloni pubblicitari di Broadway. La temperatura era scesa fin quasi allo zero, costringendo i newyorkesi a coprirsi con abiti pesanti ed ingombranti: il meteo aveva preannunciato neve per la notte.

Anna correva sulla 32ma strada, stringendosi nel suo cappotto rosso, in ritardo come al solito all’appuntamento del venerdì sera con i suoi nuovi amici; era passato quasi un mese e mezzo da quando Merida l’aveva trascinata alla festa di Hiccup, e dopo quella ne erano venute altre, quasi ogni sera, lasciandole ben poco tempo per commiserarsi o per pensare ad Elsa. Aveva conosciuto più gente in quell’ultimo mese che in tutto il suo soggiorno newyorkese, entrando in confidenza con persone a cui non avrebbe pensato mai di poter rivolgere la parola. Primo su tutti, lui, il ragazzo più bello su cui avesse mai posato gli occhi; fisico asciutto, sguardo magnetico, sorriso accattivante e un patrimonio pecuniario da far invidia a quello dei Tramp: Hans Westerguard. Uno dei tredici eredi dell’immensa fortuna della compagnia navale più importante della East Coast, la Westerguard Oceanic Trade Company.

L’aveva visto ad un party esclusivissimo dell’élite dell’Upper East Side, una di quelle feste che ti fanno venir voglia di non voler più tornare nel mondo reale, piena di lustrini e champagne, a cui si erano imbucate lei e Merida; aveva ballato con lui, confondendosi perfettamente tra le ragazze vestite come modelle di Victoria Secrets, con abiti così succinti da lasciar poco all’immaginazione; ricordava d’aver bevuto parecchio e che ad un certo punto, con una penna spuntata dal nulla, gli aveva scritto il suo nome e il suo numero sulla mano. Da quella sera non l’aveva più dimenticato, anche perché, prima di andarsene alla chetichella alle prime luci dell’alba, lui l’aveva fermata e l’aveva baciata.

Merida l’aveva dovuta trascinare via a forza, prima che lei avesse avuto la possibilità di gettarsi ai suoi piedi e dirgli che poteva fare di lei quello che voleva. Nei giorni successivi aveva pensato incessantemente a lui e aveva cominciato a fantasticare su una loro possibile storia, anche se lui non l’aveva ancora richiamata.

Diede uno sguardo all’orologio: era in ritardo di ben quarantacinque minuti. Merida le avrebbe fatto una strigliata di capo, che non avrebbe di certo dimenticato: la scozzese infatti non amava chi tardava agli appuntamenti.

Le mancava ancora più di mezzo isolato da percorrere e fu quasi tentata di fermare un taxi ma, osservando bene la coda infinita del traffico, valutò che quella breve corsa le sarebbe costata troppo. Allungò il passo, facendo lo slalom tra la folla; in lontananza riusciva già a vedere le luci al neon dell’insegna del pub: Olaf’s place.

Qualche minuto dopo arrivò a destinazione. Si fermò a riprendere fiato davanti alla vetrina del locale, sbirciando tra le decorazioni natalizie, cercando con lo sguardo il resto del gruppo: c’erano tutti, ma la chioma fiammeggiante di Merida non si vedeva da nessuna parte. Tirò un sospiro di sollievo e con un sorriso trionfante entrò nel bar, facendo tintinnare la campanella sulla porta. Il proprietario, Olaf, si voltò per accogliere il nuovo cliente e quando la vide si illuminò con un enorme sorriso: “Anna! Sempre in ritardo come al solito, eh?”-

Anna gli lanciò un bacio con la mano, mentre si sfilava la sciarpa: “Ma stasera non sono l’ultima arrivata almeno!”

Olaf la guardò con un’aria interrogativa con i suoi occhietti neri, che le ricordavano tanto due bottoni di ossidiana, inarcando un sopracciglio scuro. Poi tornò a servire i clienti al bancone, canticchiando allegramente il ritornello di Jingle Bell.

Raggiunse il tavolo dove s’erano sistemati gli altri e prese posto, togliendosi il cappotto e i guanti: “Ciao a tutti, che si dice stasera?”- disse mentre si accomodava.

-“Stavamo scommettendo sul tuo ritardo. Ormai è una cosa così certa che possiamo tranquillamente puntarci qualcosina su.”- Flynn, il ragazzo di Rapunzel, una sua compagna di corso, non si smentiva mai, sempre sicuro e pieno di sé, con la battuta sempre pronta –“Anzi, a proposito, mi devi cinque dollari, caro.”- si sporse a recuperare la sua ricompensa dalle mani di uno sbuffante Hiccup.

-“Ripongo troppa fiducia in te, Anna. Ho scommesso che avresti fatto meno di mezz’ora di ritardo, ed invece hai battuto il tuo precedente record, stavolta hai tardato quasi di un’ora.”- le disse sconfitto il ragazzo mingherlino.

-“Hai ragione, ma almeno stasera non sono l’ultima arrivata.”- sentenziò- “Dov’è Merida, io non la vedo: per una volta è più in ritardo di me. Le rinfaccerò tutte le scenate che mi ha fatto, ah!”-

Rapunzel, seduta difronte a lei, rideva sommessamente, guardando alle sue spalle, mentre gli altri due, scoppiarono a ridere.

-“Che c’è tanto da ridere? Ho qualcosa in faccia?”- recuperò velocemente uno specchietto dalla borsa e si esaminò il viso in cerca di una macchia di qualcosa o di un brufolo pronto ad esplodere, ma niente, era in ordine come al solito. Una macchia di colore rosso fuoco, però, faceva capolino nell’angolo destro dello specchio; regolò l’angolatura e il riflesso di Merida le sorrise dalle sue spalle: “Dicevi, riguardo alle sfuriate?”

-“E tu da dove spunti?”- chiese pallida: dove cavolo si era nascosta! Ora le aspettava un discorso sull’educazione di almeno una ventina di minuti.

-“Ero al bagno ad incipriarmi il naso, ovviamente.”- ironizzò la rossa, sedendosi al suo posto, e solo in quel momento Anna notò la custodia dell’arco e l’impermeabile verde militare della coinquilina, appoggiato ad una sedia.

-“Stasera Anna sarà così gentile da pagare da bere a tutti. Così la prossima volta eviterà di farci aspettare.”- la rossa era davvero infastidita.

-“Aspetta, che? Non è giusto, prometto che non lo farò mai più, giuro! È solo che il prof ci ha trattenuti dopo la lezione e…”- cercò di scusarsi.

-“Anna, seguiamo lo stesso corso, ricordi? Perché allora io sarei arrivata prima di te?”- le chiese retoricamente Rapunzel.

Anna le rivolse uno sguardo omicida: “Perché tu, fiorellino, hai Flynn, che ti fa da chauffeur con la sua bella Mustang antidiluviana.”- sospirò –“ Io invece per arrivare qui devo prendere la metro!”- si lamentò, accasciandosi contro lo schienale della sedia e incrociando le braccia al petto- “Ricordatemi, perché continuiamo a venire qui?”-

-“Perché Olaf ha la migliore birra d’importazione di tutta New York.”- le disse Hiccup.

-“Ehi, la mia auto non è affatto antica, semmai è un pezzo da collezione.”- le rispose Flynn.

-“Non è comunque una scusa accettabile, non ci vogliono quarantacinque minuti per arrivare fin qui. Saranno si e no tre isolati dall’università.”- continuò imperterrita Rapunzel, sprezzante del pericolo che correva ad insistere contro Anna.

-“Punzie, se fossi in te mi guarderei le spalle d’ora in poi: non si sa mai, potrebbe accaderti qualcosa di spiacevole.”- ridacchio sadicamente Anna.

-“Ma io ho Flynn che mi protegge!”- si attaccò al braccio del ragazzo –“Vero?”- gli chiese con gli occhi dolci.

-“Ovviamente, biondina.”- disse, passandosi una mano tra i capelli e sorridendole in maniera seducente.

-“Prima o poi capiterà che ti ritroverai da sola in un vicoletto buio e io sarò lì, pronta ad attendere nell’ombra la mia vendetta!”- concluse ridendo sguaiatamente, imitando la risata malvagia dei cattivi dei cartoni animati.

-“Si, si, come no. Se prima non ti uccido io.”- la interruppe Merida, e tutto il tavolo fece silenzio –“Ehi, stavo scherzando.”-

-“Con la faccia che ti ritrovi e con quell’arco a portata di mano, lo scherzo è abbastanza inquietante.”- ridacchiò nervosamente Hiccup, grattandosi la nuca.

-“Orrendo*, taci!”- lo zittì la rossa, con un’occhiata di fuoco.

-“Scusa, è solo che…”- il povero ragazzo non concluse la frase che un’altra ragazza dai capelli rossi, raccolti in una coda di cavallo, si avvicinò al tavolo, interrompendolo.

-“Salve ragazzi, cosa vi porto?”- chiese con un sorriso enorme.

-“Ciao splendore!”- Flynn le fece l’occhiolino, prendendole la mano- “Io sono Flynn e tu sei?”-

-“Oh scusate, io sono Ariel. Oggi è il mio primo giorno qui.”- disse accennando un saluto con la mano.

-“Molto piacere di conoscerti Ariel. Io sono Anna e questi sono fiorellino, schizzata, singhiozzo** e bellimbusto, che si è già presentato. Tieni a mente le nostre facce perché ci vedrai spesso qui.”- fece indicando gli altri e sorridendole calorosamente.

Ariel le lanciò uno sguardo preoccupato, non sapendo cosa rispondere. Rapunzel notò il suo imbarazzo crescente e accorse in suo aiuto: “Io sono Rapunzel e loro sono Merida e Hiccup.”- precisò.

-“Piacere di conoscervi.”- disse facendo vagare lo sguardo sui tre ragazzi.

-“Non far caso alla svampita qui, è pazza.”- sussurrò Merida, coprendosi la bocca con una mano come se le stesse rivelando un segreto.

-“Ehi! Sono a portata d’orecchio: ti ho sentita.”- sbuffò Anna, lanciandole uno sguardo di sfida.

-“Okay, il teatro delle meraviglie chiude i battenti. Non fatele perdere tempo, lei sta lavorando.”- Hiccup le fermò, prima che potessero ricominciare con le loro infinite diatribe su chi fosse più pazza dell’altra, rivolgendo un sorriso incoraggiante ad Ariel- “Per me una pinta di Lysholmer Ice, grazie.”

-“Una Augustus Weiss per me e una tequila sunrise, per raggio di Sole.”- ordinò Flynn, scorrendo con lo sguardo la lista delle birre d’importazione.

-“Oddio non ci avevo mai fatto caso, c’è una birra al cioccolato!”- urlò tutto ad un tratto Anna, con lo sguardo puntato sul menù.

-“Si, la Brooklyn Black Chocolate Stout. Segno?”- Ariel era pronta ad inserire l’ordine nel palmare.

-“Ovviamente si.”- confermò Anna, battendo una mano sul tavolo.

-“Per me una Tennent’s Super.”- disse piatta Merida.

-“Ma dai, è la birra più scontata di questo mondo. Puoi scegliere tra tutte queste varietà e opti per una scozzese?”- la punzecchiò Anna.

-“Stasera ho nostalgia di casa, problemi?”- la zittì acida.

-“Arrivo subito con le vostre ordinazioni.”- Ariel si dileguò, tirando un sospiro di sollievo: nel giro di qualche minuto, quei cinque le avevano mandato il cervello sottosopra.

 

Qualche minuto dopo Ariel tornò con il vassoio delle loro ordinazioni, più due ciotoline con noccioline e salatini.

-“Allora, quel tizio del party non ti ha ancora richiamata? Come si chiamava: Hans, giusto?”-

-“Oh ti prego, Punzie! Perché gliel’hai chiesto? Ora passerà l’intera serata a parlare di lui, con quella voce idiota che usa quando è fusa.”- si lamentò Merida.

-“Ehi non è vero che parlo sempre di lui. Lo nomino solo ogni tanto.”- Anna si sentì punta sul vivo: perché dovevano sempre prenderla in giro?

-“Se per ogni tanto intendi almeno una volta ogni ora, allora posso accettarlo; ti ricordo che due giorni fa ho sprecato un’ora e mezza della mia vita ad ascoltare i tuoi discorsi farneticanti sul vostro matrimonio e la casa che comprerete giù a Boca!”- la incalzò Merida- “Cavolo Anna, non lo conosci nemmeno e già hai stilato una lista di nomi per i vostri futuri figli!”-

Eugene e Hiccup per poco non si strozzarono per le risate- “Sei un caso irrecuperabile.”-

-“Hiccup, pensa per te; ho una sola parola da dirti: Astrid.”- Anna lo guardò sorridendo, alzando e abbassando velocemente le sopracciglia.

Il sorso di birra che aveva appena fatto, gli andò di traverso e tossendo si ripulì le labbra dalla schiuma: “Andiamo! Dovevi per forza cacciar fuori questa storia?”-

-“Allora smettila di ridere di me. A quanto pare, io non sono l’unica ad avere un’ossessione.”-

-“Ma devi ammettere che questo è un colpo basso da parte tua.”- le rinfacciò Eugene –“Insomma tu ci hai parlato con questo tizio, Hiccup invece si limita solo a fissarla da lontano, come un pesce lesso.”- e scoppiò a ridere, mentre Merida gli batteva il cinque.

-“Piccoli stolker crescono.”- disse la rossa, lanciandogli una nocciolina in faccia.

-“Ah-ah! Molto divertente. Ridete pure delle mie sciagure.”- rispose infastidito con il viso in fiamme.

Calò il silenzio, mentre il piccolo locale si riempiva di gente, che come loro si riuniva per bere: ormai tutti gli sgabelli e i tavoli erano occupati. Olaf, dietro al bancone, chiacchierava animatamente con due tipi enormi con due boccali di birra davanti, mentre Ariel si destreggiava tra la folla con il vassoio delle ordinazioni, impugnando il palmare ogni volta che sentiva tintinnare la campanella della porta. L’aroma pungente del cibo che usciva dalla cucina, pizzicava i sensi, confondendosi con l’odore del fumo delle sigarette, che usciva in bianche volute dalla saletta dei fumatori, quando qualcuno apriva la porta. L’aria era piana del cozzare tra loro dei bicchieri, delle risate sguaiate di un gruppo di ragazze sedute vicino alla vetrina, che come le amiche di Sex and the City sorseggiavano cocktail colorati, adocchiando i ragazzi al bancone, e della voce acuta e simpatica di Olaf che metteva ogni cliente a proprio agio.

Anna osservò i suoi amici, persa nei propri pensieri: erano tutti diversi, ognuno con le proprie passioni e i propri problemi a cui far fronte, ma tirando le somme erano un gruppetto ben assortito. Eugene osservava la folla di avventori, con un braccio posato mollemente sullo schienale della sedia della fidanzata; Hiccup sospirava guardando il fondo del suo bicchiere; Merida osservava seria i riflessi ambrati del suo boccale e Rapunzel…cosa diavolo stava facendo?

-“Fiorellino, si può sapere cosa stai facendo?”- Anna si sporse sul tavolo di legno, scostando una ciocca di lunghi capelli biondi, dal viso dell’amica, intenta a scarabocchiare qualcosa sul legno consunto.

-“Cosa?”- Rapunzel uscì dal suo mondo, raddrizzandosi- “Oh, niente…ho pensato che questo è il nostro tavolo e che c’era bisogno di qualcosa che lo differenziasse dagli altri.”- disse scostandosi i capelli dal volto, chiudendo un pennarello spuntato dal nulla.

-“Dove l’hai preso quello?”- le chiese Merida lasciando perdere per un momento il suo boccale.

-“Io giro sempre con un pennarello in tasca o anche con una matita. Ma la matita non avrebbe di certo funzionato su tutti questi intagli.”- fece scorrere le dita su tutte le scritte lasciate nel tempo da quelli che avevano occupato il tavolo prima di loro.

-“Fa vedere.”- Eugene si sporse per guardare meglio- “Wow, biondina è davvero bello.”- le disse stringendole un braccio attorno alle spalle.

-“Grazie.”- rispose arrossendo appena la ragazza, soffiando sul disegnino che aveva lasciato sul tavolo –“Guardate, siamo noi. Cioè, le nostre caricature.”-

Anche gli altri si avvicinarono per vedere meglio. Anna sorrise eccitata alla vista del suo alter ego d’inchiostro, mentre Merida sbuffò contrariata: “Te lo concedo, è carino. Ma i miei capelli non sono così gonfi.”-

-“No, hai ragione, lo sono di più!”- rise Hiccup, spingendola, attirandosi il suo sguardo infastidito.

-“Guardate. Nevica!”- Anna spostò la loro attenzione dal tavolo alla strada oltre la vetrina: la neve cadeva lieve sulle teste dei passanti, scendendo dal cielo in spirali candide, imbiancando i tetti delle macchine parcheggiate lungo il marciapiede.

-“Era ora!”- esclamò Olaf al di sopra del frastuono del locale, cominciando a canticchiare Let it snow, mentre metà delle persone lo seguiva in quell’intermezzo canoro. Anche Anna e Rapunzel si unirono al gruppo, mentre Hiccup tirava fuori il suo smartphone per immortalare il momento: “Un sorriso per i posteri.”

Le due ragazze si abbracciarono, tirando con loro anche Merida, sfoderarono i loro luminosi sorrisi.

-“Credo mi verrà una paresi facciale. L’hai scattata questa foto?”- si lamentò Anna pochi secondi dopo, continuando a sorridere.

-“In realtà è un video, quindi potete continuare a cantare.”- spiegò ridacchiando.

Merida gli lanciò la prima cosa a tiro: “Cosa aspettavi a dircelo?”

La bionda e la rossa ricominciarono a cantare, sgolandosi per superare con le loro voci il coro del resto dei clienti del pub.

-“Che spettacolo imbarazzante.”- esclamò confuso Eugene continuando a guardare le due amiche cantare a squarciagola, attirando l’obbiettivo dell’ iphone di Hiccup su di sé.

-“Questo va direttamente alla regia di American Idol!”- disse il ragazzo, stoppando la registrazione, mentre la gente batteva le mani, applaudendo la propria esibizione –“Dobbiamo assolutamente fare una serata karaoke.”- concluse.

Rapunzel e Anna si guardarono e poi cominciarono a lanciare urletti estatici, come se quella parola avesse un certo potere su di loro.

-“Come si chiama quel sushibar dove fanno il karaoke il sabato sera?”- chiese a Merida.

-“Il Mushu Palace?”-

-“Già, quello del tuo amico Shang.”- intervenne Eugene- “Che tipo strano.”- disse scuotendo il capo.

-“Dobbiamo tornarci, c’era una cameriera davvero carina, come si chiamava?”- chiese Hiccup.

-“Mu…”-cominciò Merida.

-“Elsa!”- la interruppe tutto ad un tratto Anna, con gli occhi spalancati e lo sguardo rivolto fuori dal locale.

-“Ma no, si chiama Mulan.”- la corresse la rossa, non facendo caso al suo comportamento, abituata alle sue pazzie.

-“No, no. Non capisci: lì c’era Elsa!”- esclamò esasperata, scuotendo il capo.

-“Anna calmati, ma che…”- ma non concluse la frase che la sua coinquilina si era già fatta strada nel pub, spingendo per uscire in strada.

 

 

Il freddo della sera le entrò nelle ossa non appena mise piede fuori dalla porta, in mezzo alla strada innevata. La neve continuava a cadere instancabile, andandosi a posare sui suoi capelli, mentre correva tra la gente, incurante del freddo: aveva lasciato il cappotto appeso alla sedia, ma non se ne era preoccupata. Non aveva esitato nemmeno per un istante e si era lanciata all’inseguimento della sorella, o almeno di quella che sembrava Elsa: vedeva i suoi capelli biondi, di quel colore quasi platino che avrebbe riconosciuto tra mille, raccolti in una lunga treccia che le oscillava alle spalle.

-“Elsa!”- la chiamò, allungando il collo per vederla meglio.

Il moto perpetuo dei capelli della bionda si fermò, quando la ragazza si bloccò di colpo, girandosi piano.

Anna la vide, vide i suoi occhi chiari cercare qualcuno tra la folla e poi spalancarsi per la sorpresa quando si posarono su di lei. Poi prima che la rossa potesse anche solo farle un cenno con la mano, Elsa si voltò di scatto e cominciò a correre, cercando di confondersi con la calca di persone che stava scendendo le scale della metropolitana.

Anna spintonò per passare e quasi cadde, inciampando sulle scale.

-“Elsa! Fermati!”- chiamò di nuovo, ma l’altra continuava imperterrita a non voltarsi e a procedere nella sua fuga.

La rossa si bloccò davanti alle sbarre delle macchinette dei biglietti e si maledisse quando, frugandosi nelle tasche dei jeans non trovò nemmeno un centesimo. Alzò lo sguardo per cercare ancora Elsa, e la vide, ferma a pochi centimetri dalla linea gialla del binario.

Anna scavalcò la sbarra, incurante delle proteste della gente dietro di lei e cercò di raggiungerla, ma un secondo prima che riuscisse a prenderla, la bionda sgusciò nel vagone della metro e le porte scorrevoli si richiusero dietro di lei.

Elsa la guardò per alcuni secondi con uno sguardo dispiaciuto, mentre il mezzo partiva lento, poi abbassò gli occhi triste.

Anna rimase ferma sul bordo del binario, dove un attimo prima sostava la sorella, e si lasciò sfuggire un verso disperato, mentre lacrime di frustrazione cominciavano a caderle dagli occhi. La metro era sparita nel tunnel buio e con lei la speranza di parlare con Elsa. Inspirò profondamente, per cercare di calmarsi, ma l’aria malsana della ferrovia sotterrane di New York fece solo peggio, acuendo il suo stato di malessere: il fetore di urina e di gomma bruciata, le ardeva in gola, lasciandola senza fiato.

Si asciugò gli occhi con la manica del suo maglione, con un gesto furioso, riducendo il suo make-up ad un ammasso informe di matita e mascara. Si incamminò a testa bassa verso l’uscita, non prestando molta attenzione a dove andava, resa parzialmente cieca dalle lacrime che continuavano imperterrite a riempirle gli occhi.

Per quale ragione Elsa l’aveva evitata quasi come fosse la peste bubbonica, fuggendo via, come se non volesse vederla? Perché il suo sguardo era così triste? Doveva esserci qualcosa che non andava, altrimenti il suo comportamento non si spiegava!

Trascinata dal flusso inesauribile dei suoi pensieri non si rese conto di quello che aveva davanti e andò a sbattere contro quella che a prima vista le sembrò una colonna, cadendo sul suo didietro.

-“Ouch!”- si lamentò.

Qualcuno le urlò dietro qualcosa di incomprensibile in un tono di voce basso e minaccioso. Ma i suoi occhi si spalancarono quando si rese conto che la colonna era in realtà una persone e le parole incomprensibili erano una lunga fila di imprecazioni. Risalì la figura dello sconosciuto, su, su, sempre più su…ma quanto cavolo era alto quel tizio?

Si alzò, massaggiandosi la parte dolente: “Sei sempre così fine?”- gli disse di rimando, mentre lo sconosciuto si passava una mano sul cappotto sporco e con l’altra manteneva un bicchiere di caffè.

-“Dove diavolo hai la testa, eh?”- le urlò contro, puntando i suoi occhi scuri su di lei, spostandosi i capelli biondi dalla fronte.

Anna fece un passo indietro intimorita, poi cercò di riprendersi: “Non c’è bisogno di essere così alterati. Scusa, non volevo ero sovrappensiero.”-

Il ragazzo grugnì in disappunto, gettando il bicchiere mezzo vuoto in un cestino lì vicino.

-“Senti, ti pago la lavanderia. Ecco tieni.”- cercò di nuovo nelle tasche, ma ovviamente non trovò nulla e con un sorrisino imbarazzato gli disse: “Ehm, al momento non ho contante, ma se mi lasci provare posso…”- cominciò a strofinargli la manica del suo maglione sulla macchia di caffè, cercando di farla sparire, peggiorando solo la situazione.

Alzò lo sguardo sul ragazzo di fronte a lei, temendo una sfuriata: quel tizio era grande e grosso, alto almeno due metri.

-“Lascia perdere.”- le tirò via le mani e sbuffò contrariato, mentre si allontanava- “Imbranata!”- esclamò a mezza voce, ma lei lo sentì.

-“Idiota!”- gli rispose arrabbiata. Lui si voltò di nuovo nella sua direzione e la fissò per un secondo con uno sguardo strano. Anna temette il peggio e se la svignò tra la folla, su per la scala per tornare in superficie.

Una volta fuori tirò un sospiro di sollievo -“C’è mancato poco.”- disse piegandosi in due a riprendere fiato.

La neve aveva smesso di cadere ed ora la città sembrava avvolta da una fredda coperta di quiete, nonostante l’andirivieni incessante della gente che affollava le strade. Si allontanò lungo il marciapiede, stringendosi le braccia al petto per riscaldarsi, ma una voce la chiamò.

-“Anna?”-

Si voltò a fissare chi l’aveva fermata e per un secondo si scordò di respirare.

 

 

 

*Orrendo, riferito al fatto che Hiccup nel suo universo di cognome fa Horrendus.

** Hiccup in inglese vuol dire singhiozzo.

 

NdA: scusate l’enorme ritardo, ma davvero non sapevo cosa scrivere in questo secondo capitolo e mi sono resa tristemente conto che gestire più di una long per volta è molto difficile e stressante. Spero di non avervi annoiate; anche se questo capitolo è molto statico e non dice niente di che, introduce nuovi personaggi e situazioni. Con i prossimi aggiornamenti vedrò di inserire più indizi sul comportamento di Elsa.

Comunque grazie per aver letto e grazie ad Amberly_1, bioshock1988 e robylovatic98 per aver inserito la ff tra le loro preferite e a chiarotti2000, giascali, ily95, LysL_97, mintheart e Poseidonson97 per averla annoverata tra le loro seguite.

Al prossimo aggiornamento XD

Mi raccomando: R&R!!

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Capitolo 3
*** Don't give up ***


CAPITOLO 3: Don’t give up

 

La metro era piena di persone, come ogni sera, come ogni singolo giorno da quando era arrivata in quella maledetta città. Ma quella sera c’era qualcosa di diverso, qualcosa che la disturbava e le faceva venir voglia di scappare, di diventare invisibile: era come se gli occhi di tutta quella gente fossero puntati su di lei, come se le avessero voluto scavare dentro, come se conoscessero il suo segreto e la biasimassero per quello. Si strinse di più nel suo cappotto bianco, candido e puro rispetto alla sua espressione scura e ai suoi pensieri tetri, cercando di nascondersi, alzando il colletto e affondando il naso nella sciarpa che aveva stretta attorno al collo. Le mancava l’aria e avrebbe voluto urlare. Non era da lei dare di matto, di solito era sempre pacata e silenziosa, ma tutti quegli sguardi puntati addosso la stavano facendo impazzire: forse stava davvero impazzendo, forse nessuno la stava guardando ed era la sua testa che le faceva vedere occhi accusatori ad ogni angolo.

Ancora una fermata e poi sarebbe scesa, sarebbe uscita da quella trappola infernale e sarebbe tornata in strada. Odiava prendere la metropolitana, perché non sopportava tutta quella gente che la spingeva, la urtava e le si strusciava addosso senza chiedere nemmeno scusa. Ma quella sera aveva fatto un’eccezione: aveva dovuto allontanarsi il più velocemente possibile da Anna. Per un attimo aveva temuto che quelle porte scorrevoli non si sarebbero chiuse in tempo e che la sorella l’avrebbe raggiunta; ma subito dopo, per un istante infinito, aveva sperato il contrario: aveva desiderato che le porte rimanessero aperte per permetterle di toccarla, parlarle anche solo per un secondo.

L’aveva fissata a lungo, con uno sguardo affranto e il cuore che le si spezzava nel petto, finché la sua figura si era confusa con quella delle altre centinaia di persone in attesa sul binario, sperando che Anna riuscisse a capire che non c’era posto per lei, nella sua vita.

‘Mi dispiace, Anna.’- si ritrovò a pensare, mentre guardava due ragazze che sorridevano e chiacchieravano amabilmente tra loro- ‘Proprio come noi, prima di tutto questo.’

-“Prospect Park”- la voce metallica nell’interfono del vagone la fece sobbalzare, era arrivata.

Salì in superfice, anelando l’aria fredda della sera, con il vento gelido che le sferzava il viso; se da una parte quella sensazione di lame ghiacciate sulla pelle delicata la tormentava, dall’altra la faceva sentire viva. Ormai erano pochi i momenti in cui riusciva a sentirsi così: la maggior parte del tempo si trascinava nella quotidianità come uno zombie, una non vivente.

Alla sua destra gli alberi di Prospect Park si muovevano seguendo il ritmo del vento: era come se quei rami, spogli e rinsecchiti dal rigido inverno newyorchese, ballassero una danza macabra, beffandosi del suo stato d’animo, della sua condizione di non vita.

Camminò su per i marciapiedi grigi e semideserti, per un altro po’, nonostante il suo appartamento fosse vicino alla fermata della metro dov’era scesa. Non se la sentiva di rinchiudersi in quelle quattro mura che puzzavano di sottomissione. Vagò per almeno un’ora nel quartiere, senza meta, poi decise di prendere la strada di casa; i negozi del vicinato erano tutti chiusi, ad eccezione del minimarket aperto ventiquattrore al giorno proprio di fronte agli appartamenti degli studenti, e le strade erano stranamente troppo tranquille; guardò l’orologio: erano quasi le undici.

Prese l’ascensore e fissò il suo riflesso allo specchio: quella non era lei. Gli occhi che la scrutavano erano quelli di una sconosciuta debole, meschina ed egoista. Dove era andata a finire la Elsa dei bei tempi, la ragazza più corteggiata dei corsi di legge, quella con la media più alta, quella che con un solo sguardo faceva capitolare tutti gli uomini nei paraggi?

‘È morta!’- pensò con amarezza.

Uscì sul pianerottolo e si avvicinò alla sua porta: sopra c’era appesa una lavagnetta con su scritto ‘Elsa & Meg, Rules!’. Megara aveva tanto insistito per metterla, per conservare un minimo di normale apparenza. Fuori da quella stanza era tutto un ‘sorridi- saluta- sii cordiale- ridi alle battute’, poi quando quella porta si chiudeva non c’era altro che silenzio e frasi mezze dette; lì dentro non c’era posto per la felicità, anche se c’era stato un tempo in cui quell’appartamento brulicava di gente e di feste ogni sera.

Inserì la chiave nelle toppa e quando la porta si aprì con un sonoro click, la accolse l’oscurità. L’unico angolo di luce era lo spicchio che entrava dalla porta, dischiusa sul corridoio illuminato.

-“Meg?”- chiamò preoccupata.

-“Dove sei stata?”- la voce di Meg la colse di sorpresa, da un luogo imprecisato in quel buio.

Richiuse la porta sospirando: “In giro.”- rispose seccamente. Brancolò nel buio fino all’interruttore della luce e l’accese. Le ci vollero un paio di secondi per abituarsi alla luminosità della lampadina che riverberava sulle pareti bianche.

Meg era seduta sul divano, con le gambe tirate al petto e il mento posato sulle ginocchia, con il viso girato verso la finestra che dava sulla strada.

Lasciò la borsa e il cappotto su una sedia, poi si avviò nella piccola cucina alla sua sinistra: aprì uno dei mobili e ne tirò fuori lo scatolo dei cereali al cioccolato, che tanto le piacevano: solo quello in quel momento poteva tirarle un po’ su il morale. Poi prese una ciotola e ci versò il latte che aveva recuperato nel frigo; infine ci tuffò dentro i cereali e prendendo un cucchiaio si avviò verso la sua camera. Non aveva voglia di sorbirsi il silenzio persistente di Meg.

Proprio prima di chiudersi la porta alle spalle però la coinquilina la fermò: “Devi dire a tua sorella di lasciarti in pace, non vuoi che si faccia male, vero?”

Elsa rimase congelata sulla soglia della sua stanza, immobile, con un boccone di cereali fermo in bocca. Inghiottì, e fece un respiro profondo, cercando di calmarsi.

-“Come…?”- fece per chiedere, ma Meg l’anticipò.

-“Mi ha chiamata Herc. Ha detto che una rossa ti seguiva: ho fatto due più due e ho pensato che fosse tua sorella. È un po’ che non si fa vedere da queste parti. Pensavo avesse rinunciato, ma a quanto vedo è tornata alla carica.”- disse con tono ironico.

-“Perché Herc mi seguiva? Non ho bisogno di essere pedinata.”- le rispose seccamente.

-“Gliel’ho chiesto io.”- la interruppe bruscamente-“ Non voglio che ti capiti qualcosa di brutto.”- aggiunse poi con un tono di voce addolcito.

Elsa non rispose. Sapeva che dietro quelle parole brusche c’era nascosta la frase ‘ti voglio bene’, e anche lei gliene voleva, ma non aveva la forza per risponderle. Tornò indietro e si accomodò sul divano, con la ciotola dei cereali ancora stretta tra le mani, accanto a lei, che non accennava a cambiare posizione.

-“Come stai?”- le chiese Meg qualche secondo dopo in un sussurro. Sapeva che ogni volta che vedeva o sentiva Anna poi il suo umore peggiorava e l’aveva vista piangere tante volte per quel motivo.

-“Non bene. Insomma dovrei essere felice, sono riuscita ad evitarla per l’ennesima volta; ma non ci riesco…non ce la faccio più a nascondermi dietro la segreteria telefonica o dietro stupide cartoline di Natale. Io ho bisogno della mia famiglia, ho bisogno di Anna.”- si lamentò con la voce tremante, mentre posava la ciotola sul tavolino da caffè davanti a lei.

-“Elsa, dai lo sai che…”- cominciò la ragazza accanto a lei cercando di consolarla.

-“No Meg, basta! Sono stufa di questa storia, va avanti da due anni! Capisci? Due! Quando finirà? Doveva essere una cosa temporanea, ed invece ci siamo dentro fino al collo e non possiamo uscirne.”- tremava, non riusciva a controllarsi, ed aveva anche alzato la voce –“Io mollo!”- concluse.

-“Non dire idiozie! Non puoi mollare ora, siamo ad un passo dalla fine.”- Meg cercava di farla ragionare.

-“Eravamo ad un passo dalla fine anche un anno fa ed invece siamo ancora bloccate in questa…”-

-“Merda. Lo so. Ma l’ultima che aveva deciso di mollare ora è stesa supina in un letto d’ospedale. Aurora è viva per miracolo, eppure sono le macchine a tenerla in vita e la cosa più straziante non è tanto vedere lei immobile, ma Phil al suo capezzale che si deprime giorno dopo giorni e che spera che prima o poi lei si svegli dal coma. Come vedi credere nelle favole non l’ha aiutata: il bacio del vero amore non la salverà.”- concluse sprezzante, voltandosi verso di lei. Un enorme livido si stava formando sul suo zigomo sinistro, proprio sotto l’occhio.

Elsa sussultò: “Meg…chi te l’ha fatto?”- le disse non riuscendo a staccare lo sguardo da quella macchia violacea.

-“Oh, niente. Ho sbattuto contro lo spigolo della porta.”- disse cercando di sorridere.

-“Meg, non sono stupida. Chi è stato?”- la incalzò.

La ragazza tirò un respiro profondo, aggiustandosi i capelli scuri che le erano scivolati davanti al volto come una cortina: “Mr Ades.”- sputò fuori quel nome in tono velenoso, con tutto l’odio che provava per quell’uomo.

Elsa non le chiese il motivo di tale gesto, aspettando che fosse Meg a continuare il racconto: “Big Mama lo ha chiamato dicendogli che una ragazza ti aveva seguita, urlando a squarciagola il tuo nome per strada. Lui è venuto qui, voleva sapere chi fosse, ma io gli ho detto che non lo sapevo e lui ha continuato a richiedermelo dicendomi che mi avrebbe tirato a forza un nome dalle labbra. Poi io l’ho mandato al diavolo e lui mi ha colpita.”- sospirò, voltandosi dall’altra parte per non lasciarle vedere le lacrime di rabbia che le stavano riempiendo gli occhi.

Elsa rimase spiazzata: Meg aveva protetto la sorella, aveva taciuto il suo nome, salvandola dalle conseguenze. E ora stava soffrendo per colpa sua, perché non era stata capace di tenere Anna lontana da lei.

Le si avvicinò stringendola in un abbraccio: “Meg, mi dispiace tanto. Grazie, ma perché l’hai fatto?”-

La bruna tirò su con il naso e si ripulì dal mascara sbavato, allontanandosi dalla sua stretta: “Perché so quanto tieni a tua sorella e perché conosco il dolore che si prova quando un tuo caro ti viene strappato via con la forza. È un dolore che non augurerei nemmeno al peggiore dei miei nemici.”- Elsa le accarezzò una guancia, rigata da lacrime nere. Conosceva il passato di Meg e ammirava la sua forza di volontà, si era tirata su da sola, andando contro tutto e tutti, diventando una delle persone più forti che conoscesse.

-“Come faceva Big Mama a sapere di Anna?”-

-“Ti ha sguinzagliato dietro i gemelli pel di carota. Anzi mi chiedo come non te ne sia accorta, sono così ingombranti e i loro capelli sono catarifrangenti, non passano di certo inosservati.”- le rivolse un mezzo sorriso, cercando di smorzare l’atmosfera pesante che si era venuta a creare tra loro.

-“Credo che dopo questa storia mi toccherà andare in analisi.”- sbuffò Elsa, recuperando i cereali sul tavolino e mettendosene una cucchiaiata in bocca. Il significato allegorico di quella frase era ‘d’accordo, hai vinto tu, cercherò di farcela fino alla fine’.

Meg la osservò masticare rumorosamente, con la bocca piena, come uno scoiattolo con le guance piene di ghiande: “Insieme ce la faremo, vedrai.”-

Elsa le sorrise riconoscente: anche quella sera Meg aveva risollevato il suo umore nero.

 

 

 

 

NdA: Buonsalve gente! Allora come promesso ecco qualcosa su Elsa, non so se si comincia a capire qualcosa, ma non disperate saprete tutto nei prossimi capitoli. La scrittura di questo capitolo è stata davvero veloce come la luce, c’ho messo solo due ore(cosa strana per me che di solito impiego giorni per scriver quattro righe!), in primis perché ce lo avevo scritto praticamente in testa e in secundis perché dovrei studiare invece di perdere tempo a scrivere ff e quindi ottimizzo i tempiXD Quindi se trovate errori fatemelo sapere, mi raccomando.

Mmm non saprei cosa dirvi più, perché sono davvero a corto di parole ultimamente XD Comunque spero che questo capitolo vi sia piaciuto e se vi va fatemi sapere cosa ne pensate, sono aperta a qualsiasi critica; vi dico solo che se qualcuno, in questo momento, mi dicesse cancellala perché è pessima, io lo ascolterei! Quindi datemi un buon motivo per non farlo! ;)

*Rate&Review*

A presto!

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Capitolo 4
*** When can I see you again? ***


Capitolo 4: When can I see you again?

 

-“Anna?”- la chiamò una voce alle sue spalle.

Si voltò per scoprire a chi appartenesse e per un momento si dimenticò di respirare.

Era LUI, in tutto il suo splendore, con i capelli rossicci perfettamente pettinati, le basette curate (cavolo, non conosceva nessuno che ce le avesse!), gli occhi verdi che la scrutavano luminosi, e un sorriso che avrebbe fatto scogliere la donna più frigida del mondo. Era lui, il solo ed unico, inimitabile: Hans Westerguard.

-“Hans?”- chiese incerta.

-“Ehi, ti ricordi di me!”- esclamò felice, avvicinandosi a lei.

Come dimenticarti, pensò: “Mmm, certo.”- gli sorrise, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi e riprendendo a respirare.

-“Sai, pensavo di aver preso una svista, ma quando ti sei voltata ho visto questa e”- le disse sfiorandole una ciocca di capelli più chiara delle altre -“ho capito di aver davanti la persona che cercavo.”

Il fiato le si smorzò in gola e il cuore cominciò a galopparle furioso nel petto, quando lui le rimise la ciocca dietro l’orecchio. Il suo sguardo si oscurò quando scrutò attentamente il viso di Anna: “Qualcosa non va? Sembri stravolta.”- le chiese sinceramente preoccupato, passandole l’indice sotto il mento.

Anna cadde dalle nuvole, sbattendo più volte le palpebre e facendo un passo indietro, si sottrasse malvolentieri al suo tocco: “N-no. Va tutto bene. Ho solo...”- non voleva raccontargli dei suoi problemi, non voleva che si facesse un’idea sbagliata di lei –“niente.”- concluse, sforzandosi di sorridere.

-“Scusa, non volevo intromettermi nelle tue faccende personali.”- le disse rivolgendole uno sguardo dispiaciuto.

-“No, ma figurati è solo che…non mi va di parlarne.”- rispose sfregandosi le mani sulle braccia, intirizzite per il freddo che passava tra i buchetti del suo maglione.

-“Dio, ma tu stai congelando. Tieni questo.”- si tolse il cappotto e glielo posò sulle spalle. Anna inspirò il profumo di colonia costosa, che impregnava la stoffa chiara, chiudendo gli occhi per un momento –“Va meglio?”- le chiese, riscuotendola dalle sue fantasie.

-“Si, grazie. Ma ora quello che congelerà sei tu.”- constatò, abbozzando un sorrisino divertito.

-“Non preoccuparti. Il freddo non mi ha mai infastidito.”- le disse, accompagnando le sue parole con un gesto della mano, per sottolineare la sua indifferenza per l’aria gelida che soffiava sopra New York- “Ma tu non saresti dovuta uscire fuori senza nulla addosso. Saremo almeno a due gradi sopra lo zero!”-

-“Beh, in realtà hai ragione, ma è una lunga storia.”- Anna si perse per un momento nel suo sorriso caldo e rassicurante, poi si accorse di essersi imbambolata a fissarlo e si schiarì la voce: “Allora… hai detto che mi stavi cercando?”- cambiò discorso.

-“Già. Ma anche questa è una lunga storia, ti andrebbe qualcosa di caldo? Una cioccolata, magari? Così posso raccontartela mentre stiamo comodamente seduti ed entrambi al coperto.”- le propose su due piedi.

-“Ehm, si perché no.”- accettò subito, però poi si bloccò di botto –“In realtà, dovrei recuperare il mio cappotto e scusarmi per il mio comportamento con dei miei amici.”- disse, dispiaciuta che quell’incontro fortunato fosse avvenuto in un momento così poco appropriato.

-“Beh, potrei accompagnarti, se ti va e poi potremmo comunque andare da qualche parte.”-

-“D’accordo. Mi sembra un’ottima idea.”- gli sorrise davvero riconoscente per la sua cortesia- “Vieni, è da questa parte.”-

Anna lo condusse verso il pub di Olaf, ripercorrendo al contrario la strada che aveva fatto per raggiungere Elsa. Per tutto il tragitto, commentarono il tempo, trovandosi d’accordo sul fatto che quella nevicata avesse aggiunto un’aria ulteriormente natalizia alla città, già bardata a festa con milioni di lucine e ghirlande. Anna si ritrovò a pensare che, nonostante Hans avesse i natali e l’apparenza di un ricco figlio di papà, interessato solo al proprio tornaconto, parlare con lui le riusciva proprio facile: l’aveva messa a proprio agio fin da subito, dimostrando una galanteria e una cordialità che era difficile ritrovare nei ragazzi di quei tempi. Sembrava fosse uscito da uno di quei film in costume in bianco e nero, che tanto piacevano alla madre.

Un perfetto principe azzurro, pensò mentre camminava al suo fianco e cercava di non fissarlo troppo.

 Una volta davanti alla vetrina, si tolse il cappotto e glielo porse: “Tieni, faccio in un attimo.”- disse mentre spariva nella calca del locale.

Si fece strada a forza di gomitate, cercando di raggiungere il tavolo dei suoi amici: erano ancora tutti lì.

-“Anna! Ma che ti è preso?”- le chiese Rapunzel, non appena uscì trionfante dalla folla e si avvicinò a loro. Gli altri si voltarono a guardarla, interrogativi, aspettando una risposta.

Prese fiato: “Niente, poi vi dirò tutto. Scusate se sono scappata via così.”- disse mentre recuperava il suo cappotto e sfilava una banconota da dieci dal portafogli.

-“Dove stai andando?”- fece Merida, fermandola per un braccio.

-“Già. Almeno questo ve lo posso dire: indovinate chi ho incontrato per strada?”- disse mentre recuperava il suo boccale, bevendo un sorso al volo. La corsa le aveva seccato la gola e l’incontro con l’uomo dei suoi sogni non aveva fatto di meno.

-“Babbo Natale?”- chiese Flynn, alzando un sopracciglio.

-“Il fantasma del Natale passato?”- fece eco Merida, ridacchiando.

-“Lady Gaga?”- esclamò Hiccup, speranzoso. Quattro paia di occhi si voltarono verso di lui, osservandolo con uno sguardo perplesso –“Che ho detto?”- fece lui, indispettito dal loro comportamento. Merida lo colpì dietro la testa, facendolo sbandare in avanti: “C’è che sei un idiota! Lady Gaga? Ma ci pensi, prima di dirle le cose?”- la scozzese sospirò, scuotendo la testa.

-“Hans?”- concluse Rapunzel, piantando gli occhi in quelli di Anna.

La rossa squittì esaltata, saltellando sul posto e annuendo con forza: “Si!”- esclamò al settimo cielo –“È qua fuori che mi aspetta, andiamo a prendere qualcosa insieme.”- concluse infilandosi il cappotto e la sciarpa.

-“Tu, fortunella, voglio tutti i particolari quando torni. Se sto dormendo, ti autorizzo a svegliarmi.”- le disse Merida.

-“D’accordo. Sarà fatto.”- acconsentì sorridendo e facendo il saluto militare.

-“Vacci piano, tesorino. Non spomparlo già al primo appuntamento!”- le raccomandò Flynn.

Anna rise imbarazzata, con il volto in fiamme: “Ehi, per chi mi hai presa? E poi questo non è un appuntamento.”-

Flynn ignorò le sue proteste, scacciandole con un gesto della mano, come si fa con una mosca fastidiosa: “Si, si.”

-“Scappo, non voglio farlo aspettare troppo. Potrebbe cambiare idea e mollarmi qui.”- si voltò per andarsene e mentre era di nuovo sommersa dalla folla, sentì le due amiche urlare: “Vogliamo un resoconto dettagliato!”

Ridacchiò fra sé e prima di uscire si fermò al bacone, dietro il quale c’era uno specchio lunghissimo che rifletteva l’interno del locale. Si osservò attentamente, si raccolse i capelli in una coda di cavallo, rimosse le ombre del mascara sbavato dagli occhi e si pizzicò le guance per colorire un po’ il volto pallido. Annuì soddisfatta e si accorse che Olaf e alcuni clienti si erano fermati a guardarla: “Come sto?”- chiese sorridendo imbarazzata.

-“Una meraviglia.”- le rispose il proprietario del pub, accompagnato dalle occhiate di apprezzamento degli uomini al bancone.

Anna gli fece l’occhiolino e sparì in strada, con il sonoro tintinnio della campanella appesa sulla porta.

Con suo sommo piacere, Hans era ancora lì, fermo sul marciapiede con le spalle voltate verso la vetrina del pub, mentre si soffiava sulle mani. Il ragazzo si voltò, attirato dal rumore della porta che si chiudeva: “Ehi.”- l’accolse con un sorriso.

-“Ehi, scusa l’attesa.”- gli sorrise di rimando–“Andiamo?”-

 

 

Hans la condusse lungo la 42ma strada, sotto la neve che aveva ricominciato a cadere lenta, fermandosi davanti ad una piccola porta di legno, che sarebbe passata inosservata, se non fosse stato per il colore rosso brillante con cui era dipinta. Anna alzò lo sguardo sull’insegna, dall’aria alquanto antica, che riportava la scritta ‘Snow White’.

-“Non ti ho fatto camminare tanto, per niente.”- le disse prima di entrare –“Quando avrai assaggiato la loro torta di mele, non potrai più farne a meno, credimi.”- abbassò la maniglia e la fece segno di entrare per prima.

Anna diede uno sguardo in giro e rimase a bocca aperta; anche se la torta avesse fatto pena, quel posto sarebbe risultato comunque fantastico ai suoi occhi: alle pareti, ricoperte da panelli di legno scuro, erano appesi quadri raffiguranti boschi e castelli dal sapore europeo; i lampadari, molto simili a candelabri, diffondevano una luce calda e soffusa; decine di tavolini dallo stile moderno, contrastavano, ma allo stesso tempo si mescolavano bene, allo stile retrò del resto del locale; le note di un pianoforte, accarezzavano le orecchie, donando ancora più atmosfera all’ambiente, senza infastidire. Ma quello che catturò l’attenzione di Anna, facendole spalancare gli occhi per lo stupore, fu l’enorme albero che capeggiava al centro della sala, ricoprendo con i suoi rami frondosi alcuni tavolini: tra le foglie, spiccavano delle lucine gialle e alcune decorazioni natalizie.

-“Vieni.”- Hans la colse di sorpresa, prendendole la mano, conducendola proprio sotto l’ombra dell’albero: le scostò la sedia e la fece accomodare, sempre sorridendole, poi prese posto difronte a lei.

 -“Dalla tua espressione direi di averti sorpresa.”- constatò ridacchiando adorabilmente, facendole l’occhiolino.

-“Oh…oh si. Questo posto è fantastico!”- riuscì solo a dire, troppo presa da quello che le stava attorno e dagli occhi chiari di Hans, puntati saldamente nei suoi.

-“Già, è un piccolo gioiellino che ho scoperto per caso, nel mio girovagare per la città. Mi piace scovare posti insoliti e poco conosciuti.”- ridacchiò fra sé, passandosi una mano tra i capelli perfettamente in ordine –“So che potrà sembrarti strano, ma almeno quando sono da solo, di giorno, preferisco frequentare posti calmi e silenziosi, lontani dal chiacchiericcio mondano.”-

-“No, non mi sembra una cosa strana, anzi la trovo…carina.”- gli disse arrossendo –“Però se non ricordo male, noi ci siamo incontrati in uno dei locali più in voga di tutta New York, o sbaglio?”- chiese sfacciata.

-“Già, beccato. Almeno di notte, diciamo, che mi piace fare baldoria. Ma anche in quel caso non mi piace eccedere, non sono uno di quei tipi straviziati che per uscire dalla propria apatia, osano superare il limite della decenza. Diciamo che mi diverto.”- confessò, scrollando le spalle.

-“Buono a sapersi. Allora…non dovevamo parlare di qualcosa?”- fece abbassando lo sguardo imbarazzata.

-“Hai ragione, ma prima ordiniamo.”- le rispose, alzando una mano per attirare l’attenzione di una cameriera.

Una ragazza, con un corto caschetto di capelli neri e un rossetto rosso ciliegia, si fece strada tra i vari tavolini con passo aggraziato, evitando per un soffio un’altra cameriera che portava tra le mani un vassoio in bilico: “Buonasera, benvenuti allo Snow White. Cosa posso portarvi?”-

Hans rivolse un sorriso alla ragazza e poi si voltò verso Anna, guardandola con uno sguardo strano: “Ti fidi di me?”

Anna rimase interdetta per un istante, poi rispose prontamente: “Si!”

-“Allora prendiamo due cioccolate calde alla cannella e due fette di torta di mele. E non dimenticare il gelato con la torta.”- recitò, non staccando mai lo sguardo da Anna, quasi ignorando la ragazza che trascriveva sul palmare.

-“Wow, mi stai invitando a nozze?”- gli chiese Anna, non filtrando quello che le diceva il cervello, prima di aprire la bocca.

Hans la guardò confuso: “Cosa?

-“Oh, io…cioè intendevo dire che adoro la cioccolata e con la tua scelta mi hai invitata a nozze, ma non una proposta di matrimonio: perché sarebbe da pazzi, ci siamo appena conosciuti! Non che non mi piacerebbe, intendiamoci, se me lo chiedessi risponderei di si; insomma, sei così galante e…”- Anna si fermò a rirendere fiato, con la faccia in fiamme, mentre Hans, con un sopracciglio alzato, rideva sommessamente –“Imbarazzante…”- concluse Anna, abbassando lo sguardo, poi si riscosse, come colpita da un’idea fulminante: “N-non tu, solo per…io sono imbarazzata, tu sei bellissimo.”- si tappò la bocca con le mani e lo fissò con gli occhi spalancati dal terrore.

Hans continuava a ridere: “Grazie. Anche tu sei molto bella.”- le disse con quel suo charm intossicante, mentre lentamente le toglieva le mani dalla bocca.

Anna lo fissò interdetta, stordita quasi dalle sue parole e dall’intensità del suo sguardo: “Oh…lo pensi davvero?”- gli chiese sinceramente incuriosita: insomma, lei non era un granché, con quelle lentiggini sparse un po’ dappertutto come se avesse la scarlattina, i capelli di un colore indefinito tra il biondo e il rosso (per non parlare dell’inconfondibile ciocca bianca)e le spalle troppo piccole e i fianchi troppo larghi e il naso all’insù! Insomma quando si guardava allo specchio non pensava certo alla parola bella, ma ad un più semplice carina, tuttalpiù passabile. Lui aveva a disposizione le donne più belle di New York, come poteva dirle che era bellissima?

-“Assolutamente, altrimenti non saremmo qui.”- le sorrise –“Anzi, per questo ti cercavo. Alla festa mi hai colpito, devo ammetterlo, ed è raro, credimi. Però prima che potessi fare una qualsiasi mossa, sei scappata via come una moderna Cenerentola, lasciando dietro di te solo un nome: Anna.”-

Anna manteneva un’espressione tranquilla, quasi neutra, ma dentro urlava dalla gioia: i suoi neuroni stavano ballando la conga e nello stomaco sentiva uno sciame di farfalle svolazzare su di giri.

Ho fatto colpo su Hans Westeruard…Hans Westerguard! Ohmiodiocredochestopersvenire! Respira Anna, inspira ed espira, lentamente… lui ti sta guardando, non dargli una buona ragione per scappare via.’ –pensò fra sé, mentre continuava a guardarlo –‘Di’ qualcosa, altrimenti crederà di star parlando con una celebrolesa!

-“Ma io ricordo di averti scritto il mio numero, da qualche parte…”- fece dubbiosa.

-“Oh, si. Me l’hai scritto sul palmo della mano, ma ho salutato parecchi gente quella sera e dev’essersi cancellato. In poche parole, non avevo nulla per rintracciarti, nessun elemento che potesse servirmi. Così ho chiesto un po’ in giro se qualcuno ti conosceva, ma nessuno sembrava conoscerti o averti mai vista; era come se tu non fossi mai stata a quella festa. Così ho pensato di averti sognata. Da pazzi, eh?”-

-“Oh, beh, veramente io…in teoria non sarei dovuta essere a quella festa.”- Hans la guardò interrogativo -“Mi sono imbucata con una mia amica…scusa, lo so che non si dovrebbe però…”-cominciò a scusarsi per il suo comportamento, ma lui la fermò.

-“Ehi, ehi. Sta tranquilla!”- la rassicurò –“Anch’io mi sono intrufolato senza invito ad alcune feste private.”- spiegò.

-“Si, ma tu sei Hans Westerguard. Io sono solo…io. Se ti avessero scoperto sarebbero stati onorati della tua presenza, invece se avessero preso me, non sono sicura che sarebbe andata a finire proprio bene.”- disse, cercando di spiegargli il suo punto di vista.

-“Non ti seguo: siamo due persone completamente uguali, dove sarebbe il problema?”- chiese scettico.

Anna prese un respiro profondo: “Il problema è che tu appartieni ad una casta chiusa, che di rado lascia entrare nella propria cerchia gente come me, diciamo qualcuno con un cognome non altisonante, capisci?”

-“Oh, ora capisco il tuo punto di vista. Ma credimi, se ti dico che non tutti sono come pensi: io ti sembro uno di quelli che badano al cognome e al conto in banca, di una persona?”- le chiese con tono leggero.

-“No, affatto.”- rispose lei sorridendogli timidamente. I loro sguardi si incontrarono, rimanendo incatenati per interi secondi, senza che nessuno dei due dicesse niente.

-“Ecco la vostra ordinazione.”- vennero interrotti dalla ragazza che aveva preso l’ordinazione, che posò sul tavolo le tazze fumanti e i piatti con la torta.

Hans si schiarì la voce: “Grazie mille.”

La ragazza fece un sorriso e poi sparì veloce com’era arrivata, lasciandoli in un imbarazzante silenzio.

Anna posò le mani attorno alla tazza bollente, godendosi il calore che sprigionava la cioccolata calda; se la portò alle labbra e ne prese un sorso, lasciando che il liquido denso e scuro le riscaldasse la gola e lo stomaco. Arricciò il naso, al sapore amaro della cioccolata: allungò una mano verso lo zucchero e sobbalzò quando le sue dita incrociarono il dorso della mano di Hans. Perfetto cliché, secondo i suoi canoni romantici.

-“S-scusa.”- blaterò sottovoce, ritraendo la mano.

Lui scosse il capo, come per dirle che non importava, mentre girava il cucchiaino nella sua tazza: “Allora, eravamo qui per raccontarci delle storie: la mia l’hai già sentita, ti va di raccontarmi la tua?”

 

 

L’orologio alla parete puntava la mezzanotte e lui era ancora inchiodato lì, seduto su quella scomodissima sedia di legno pressato, con l’osso sacro che gridava vendetta dal fondo della sua spina dorsale, a farsi un solitario contro il pc. Il dipartimento di polizia era vuoto, e sarebbe potuto tranquillamente tornare a casa, se non fosse stato che a parte lui e il capo, che se ne stava rintanato al caldo dentro il suo studio da almeno due ore, non c’era nessuno. Si era offerto di sostituire Herc per il turno di notte, lasciandolo alle sue faccende incasinate.

Guardò fuori dalla finestra accanto alla sua scrivania e sospirò alla vista della neve: avrebbe tanto voluto essere fuori da quel posto triste e silenzioso, magari al caldo, nel suo letto abbracciato alla sua adorabile mogliettina. Sospirò di nuovo, stropicciandosi gli occhi stanchi. Si alzò per sgranchirsi le gambe e si avvicinò alla macchina del caffè, versandosene una tazza. Aprì il catone delle ciambelle e quasi urlò dalla gioia, quando ne trovò una sopravvissuta alla mattanza mattutina. Il primo morso era andato e quasi gli andò di traverso quando le porte dell’entrata principale si aprirono violentemente, lasciando entrare il collega, che avrebbe dovuto essere altrove: “Ma che..?”- esclamò, quasi lasciando cadere la tazza che teneva tra le mani.

Herc si fermò a guardarlo un secondo, con il fiato corto, come se avesse corso fino ad un momento prima: “È ancora lì dentro?”- gli chiese indicandogli la porta del capo.

-“S-si, ma che ti prende…ehi, lascialo stare non tira una buona aria!”- gli urlò dietro, mentre il ragazzo si avviava a grandi falcate verso la porta chiusa.

-“Dopo che gli avrò parlato, sarà anche peggio. Tienitene alla larga Woody.”- abbassò la maniglia di scatto, spalancando la porta, facendone vibrare il vetro opaco su cui era scritto a caratteri cubitali: Comandante Buzz Lightyear.

Il comandante alzò la testa dalle sue carte, senza scomporsi più di tanto, guardando in malo modo chi aveva interrotto il suo minuzioso lavoro organizzativo: “Non avevi la serata libera tu?”- chiese distogliendo lo sguardo e spillando dei fogli.

-“Devi tirarle fuori da quel posto!”- esclamò Herc, per niente intimorito dal comportamento freddo e distaccato del suo superiore.

-“Come? Di chi stai parlando?”- chiese innocentemente.

-“Sto parlando di Elsa e Meg. Devi porre fine a questo giochetto, sta diventando troppo pericoloso.”- sbottò infastidito.

-“Quando hanno firmato sapevano a cosa andavano incontro: erano e sono le migliori, sapranno cavarsela per un altro po’. E poi non butterò tutto all’aria proprio ora che siamo ad un passo dalla fine.”-

-“Ades ha picchiato Megara! Non bastava che dovessero sopportare carezze lascive e complimenti di quei vermi schifosi, ora devono subire anche le angherie di quel pazzo?”- gli urlò contro, mentre sbatteva una mano sulla scrivania, rovesciando un portapenne.

Il comandante rimase in silenzio ad osservarlo, mentre riprendeva fiato.

-“Basta con i tuoi giochetti di potere! Se a loro succede qualcosa non avrai la tua tanto ambita promozione, meglio fermarsi finchè siamo in tempo, prima che qualcuno si faccia male sul serio.”- disse con tono più calmo.

Woody era fermo sulla porta, ad osservarli, mentre si scrutavano intensamente in silenzio, come se aspettassero un contraccolpo da parte dell’altro: “Herc, porta pazienza vedrai che…”-cominciò, cercando di placare gli animi.

-“No, Woody. Questa storia finisce ora!”- lo bloccò.

Il comandante lo guardò serio, sistemò dei fogli negli appositi portadocumenti e poi incrociò le mani davanti a sé: “Decido io quando finisce il gioco. Non devi intrometterti, non lascerò che i tuoi interessi personali distruggano il lavoro di due anni. Quando sarà tutto finito, avrai Meg tutta per te, ma fino ad allora lei rimane una delle pedine più importanti del piano.”- osservò Herc stringere i pugni per la rabbia, fino a far sbiancare le nocche –“Questa è la mia decisione. Non ritornerò sull’argomento, ora dovesti andare.”- concluse con tono piatto.

-“Se non posso sperare nel tuo aiuto, allora sarò costretto ad agire per conto mio. Ma sta pur certo che non me ne starò a guardare mentre le riducono a meri esseri consenzienti.”- promise con voce tagliente.

-“Ma che bravo, da zero a eroe, a meno di un anno dalla tua uscita dall’accademia: sai, il corpo della polizia avrebbe bisogno di più gente come te.”- lo canzonò.

-“Io vado. Non sono venuto qui per farmi prendere in giro da te. Non dire che non ti avevo avvisato, però.”- fece per andarsene.

Herc ebbe solo il tempo di fare due passi verso la porta, prima di essere fermato: “Tu non vai da nessuna parte.”- sentenziò il comandante alzandosi.

Il ragazzo di voltò per fronteggiarlo e se lo ritrovò a pochi centimetri di distanza: “Come hai intenzione di trattenermi?”- fece, abbozzando un mezzo sorriso beffardo.

-“Così…”-

-“No, Buzz!”- urlò Woody, prima che il pugno destro partisse, diretto alla faccia del ragazzo, ma il comandante non si fermò, mandando a segno il suo colpo.

Herc stramazzò stordito ai piedi dei due, mentre Buzz faceva scrocchiare le dita della mano con cui l’aveva colpito: “Chiudilo nella cella numero due. Lo terremo buono fino a domattina, chissà la notte potrebbe portargli consiglio.”- sogghignò, riaccomodandosi sulla sua poltrona, dietro la sua scrivania.

Woody gli lanciò uno sguardo strano, ancora scioccato dal gesto del capo: “Si, signore.”- acconsentì sottovoce, prima di trascinarsi un’inerme Herc per le spalle.

 

 

-“Wow, non dev’essere stato facile vivere con dodici fratelli maggiori.”- esclamò sorridendo Anna.

Hans la stava riaccompagnando al suo appartamento, dopo averle tenuto compagnia per tutta la serata, intrattenendola con storielle divertenti sull’élite newyorchese. Avevano lasciato lo Snow White quasi un’ora prima e avevano tranquillamente continuato a camminare lungo le strade, sempre piene di vita, del centro, godendo della reciproca compagnia. Anna non era mai stata tanto bene in vita sua: le preoccupazioni di qualche ora prima, sembravano essere evaporate grazie al buonumore in cui l’aveva precipitata Hans.

-“No, infatti. Se a questo aggiungi che in realtà siamo fratellastri, capirai che la situazione in casa Westerguard non è mai stata delle migliori.”-

-“Cosa, fratellastri?”- chiese stupita.

-“Già. Mio padre si è risposato per ben quattro volte. Immagino che non avesse ancora trovato la donna della sua vita.”- constatò imperturbabile –“ Quello che ai miei fratelli non va giù, è che mio padre stia ancora con mia madre. Quindi per gran parte della mia vita ho dovuto subire la loro frustrazione e sorbirmi il frutto della loro gelosia. Pensa che due di loro, per due anni, hanno fatto finta che io non esistessi. Era snervante, devo ammetterlo, ma almeno dovevo sopportare meno prepotenze da parte loro.”- le confessò sorridendole.

-“E io che pensavo di essere sfortunata con i miei parenti. Grazie Hans, mi hai finalmente fatto capire che c’è chi sta peggio di me.”- cominciò a ridere e lui la seguì, spingendola piano.

-“Prego, è stato un onore.”- le rispose scherzando, facendole una finta riverenza.

Rimasero in silenzio per alcuni minuti, camminando l’uno al fianco dell’altra, poi lui disse: “Tranquilla, sono sicuro che presto tu e tua sorella Elsa, tornerete a parlarvi.”- la rassicurò.

-“Spero tanto che sia così. Questa situazione è davvero pesante da sopportare.”- si lamentò.

Camminarono per altri cinque minuti e raggiunsero gli alloggi degli studenti: “Ehi, siamo già arrivati.”- Anna si fermò, dispiaciuta che quella serata fosse giunta al termine.

-“Peccato, si sta così bene in tua compagnia.”- commentò lui, facendola arrossire.

-“Beh, allora grazie di tutto e…buonanotte.”- disse, battendogli goffamente una mano sulla spalla, cercando di imitare un saluto amichevole.

Hans sorrise del suo imbarazzo e come aveva fatto per tutta la serata, la sorprese con un ultimo gesto eclatante, che le mandò in circolo una scarica di adrenalina che di certo non l’avrebbe fatta dormire: la baciò. Piano, a fior di labbra, ma comunque fu un bacio.

Quando lui si allontanò, le scappò un verso strano, come di disappunto: “Allora, quando posso rivederti?”- le chiese.

-“Cosa?”- fece lei, presa alla sprovvista.

-“Hai superato la prova, hai i requisiti adatti per un vero primo appuntamento.”- le disse ammiccando.

-“Ah, quindi questa era solo una prova…e sentiamo, quali requisiti avrei?”- rispose stando al gioco.

-”Beh, sei bella, simpatica e possiedi un acuto spirito intellettuale, inoltre non sei una squilibrata e nemmeno una cacciatrice di ricchi eredi, quindi posso ritenermi soddisfatto.”- ridacchiò per le sue parole.

Anna rise e poi prese un lungo respiro: “Allora, se è così…sono sempre disponibile per un primo appuntamento.”- gli rispose.

-“Bene, allora ti farò sapere presto il posto e l’ora del nostro incontro.”- le fece il baciamano, non staccando gli occhi dai suoi- “Buonanotte.”

-“B-buonanotte.”- balbettò lei, prima che lui si allontanasse lungo la strada.

Aprì il portone d’ingresso in trance e salì in ascensore fino al suo piano, in uno stato di catalessi totale. Solo quando richiuse la porta dell’appartamento dietro di sé, metabolizzò tutto quello che era appena accaduto. E l’unica cosa che le venne spontanea da fare, fu cominciare a saltellare come un’idiota, urlando a bassa voce: “Si, si, si.”

Merida uscì di corsa dalla sua camera, con i capelli sparsi a raggiera attorno alla sua testa e gli occhi socchiusi per il sonno: “Allora, com’è andata?”

 

 

 

 

NdA: buon sabato gente! Come va? Era da un po’ che non aggiornavo, ma sapete com’è è un periodo un po’ incasinato XD Comunque oggi ho cercato di buttar giù qualcosa ed è uscito questo…capitolo. Non dice un granché, ma ho inserito altri personaggi quindi boh…spero vi piaccia e vi prometto che cercherò di destreggiarmi meglio nella vita reale per poter pubblicare più in fretta. Come sempre vi invito a farmi sapere cosa ne pensate, e mi riferisco a voi, si proprio a voi lettori silenziosi, uscite dal vostro mutismo! Una recensione farebbe felice me e anche chi mi sta intorno, si perché meno recensioni per me vuol dire più rottura per mia sorella e co. So che non ve ne può fregare di meno ma pensateci ;) Ah e poi le recensioni mi carburano, quindi potrei scrivere più in fretta…questo forse vi interessaXD

Ovviamente grazie mille a chi ha inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate…ci si legge alla prossima! Baci ^.^

 

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Capitolo 5
*** Frozen Heart ***


Capitolo 5: Frozen Heart

 

E il loro primo vero appuntamento c’era stato, eccome. Due giorni dopo il loro fortuito incontro, ed il cervello di Anna, da allora, era andato in vacanza su una nuvola rosa di zucchero filato. Era tutta sospiri sognanti e occhi persi nel vuoto a costruire castelli in aria. Nemmeno i disastri di Merida erano riusciti a riscuoterla dal suo buon umore: la scozzese aveva rotto la sua tazza preferita, le aveva fatto restringere il suo maglione rosa cipria, regalo di Elsa, e aveva lasciato i suoi vestiti sporchi sparsi in giro per l’appartamento. Lei non aveva fatto una piega: aveva ripulito tutto, pezzo per pezzo senza fiatare, canticchiando sottovoce una sdolcinata canzone d’amore; aveva scrollato le spalle alla vista del maglione diventato della misura di un neonato e aveva raccolto i vestiti della coinquilina, portandoli nella lavanderia nel seminterrato del palazzo.

Merida le aveva tastato la fronte per sincerarsi che non avesse la febbre e poi l’aveva scossa energicamente per le spalle: “Ritorna in te, Santo Cielo! Dove l’hai messa Anna, quella che si arrabbiava per ogni minima cosa?”- le aveva urlato qualche giorno dopo il famoso appuntamento.

-“Ma di cosa parli? Ehi, mi stai facendo male!”- si lamentò,non riuscendo a sottrarsi alla presa dell’amica.

-“Si può sapere che cos’hai in questi giorni? Sembra tu viva su un altro pianeta.”- Merida mollò la presa, rimanendo davanti a lei, ridacchiando sorniona.

-“Si!”- sospirò-“Sul pianeta del vero amore.”-

-“No, direi più sul pianeta degli idioti innamorati persi.”- sbottò-“ Ma che diavolo ti ha fatto questo Hans, il lavaggio del cervello?”-

Anna si lasciò cadere sul divano, stringendosi le ginocchia al petto, sospirando per l’ennesima volta.

-“Soffri d’asma?”- le chiese Merida.

-“Che?”- fece, colta di sorpresa.

-“Non fai altro che tirare lunghi sospiri inquietanti, da quando sei tornata da quell’appuntamento!”- puntualizzò, facendo rinvenire per un momento Anna, dai suoi sogni ad occhi aperti.

-“Oh, Mer. Non puoi immaginare quanto lo ami…”- mugugnò in un cuscino che aveva stretto al petto, stringendolo forte, arrossendo come una ragazzina alle prese con la sua prima cotta.

-“Che? Ma non lo conosci che da pochi giorni! Come puoi dire di amarlo? E non cacciarmi fuori quelle scemenze del colpo di fulmine, del vero amore e dell’essere fatti l’uno per l’altra. Non attaccano con me!”- le disse, sedendosi sul tavolino basso tra il divano e la tv, di fronte all’amica, che continuava a tenere la faccia rintanata nel morbido cuscino-“Dev’esserci qualcos’altro, per forza: raccontami dell’altra sera.”

-“Ma l’ho già fatto.”- le giunse la voce ovattata di Anna.

-“No,carina. Hai solo cacciato fuori urletti isterici, continuando a ripetere cose del tipo ‘oh mio dio, è l’uomo della mia vita’ oppure ‘è perfetto, è carino, è galante’ eccetera. Non mi dilungherò su tutti gli aggettivi che gli hai affibbiato, alcuni sono addirittura ridicoli per un essere umano del genere. Ma di quello che avete fatto, non hai detto una parola. È ora di sputare il rospo: non dirmi che siete arrivati al sodo, già al primo appuntamento?”- esclamò scioccata .

-“Ma per chi mi hai presa?”- Anna alzò la testa dal cuscino, tirandolo alla scozzese che lo evitò facilmente-“E poi Hans è un gentleman, non oserebbe mai avanzare tali proposte così presto. Al contrario si è comportato come un vero principe delle favole.”- puntualizzò con l’ennesimo sospiro.

-“Già, come quello del film che abbiamo visto qualche settimana fa? Ora che ci penso non si chiamava Hans anche lui? E indovina un po’: lui era carino solo all’apparenza, ma in realtà aveva delle idee deplorevoli in mente.”-

-“Ah-ah, molto divertente. Ma quello era un film per bambini. Hans è diverso!”- sbottò scocciata.

-“Non ne dubito…”- blaterò sottovoce, incrociando le braccia al petto.

-“E con questo che vorresti insinuare?”-

-“Niente, ma non vorrei che tu ti affezionassi troppo. Sai come si comportano quelli della sua stessa estrazione sociale. Tutti che girano nella Jaguar del paparino e che cambiano le ragazze, come cambiano la biancheria al mattino.”- le disse con la faccia seria.

-“Ah, ed è qui che ti sbagli!”- le rise in faccia-“Hans guida una Maserati.”

Merida la guardò per alcuni secondi senza dire niente e poi scoppiò a ridere, seguita da Anna: “Niente e nessuno ti farà cambiare idea su di lui, vero?”- le chiese alzandosi dal tavolino, scompigliandole i capelli.

-“Assolutamente no.”- ridacchiò Anna, scacciando la mano della coinquilina, cercando di aggiustarsi i capelli.

-“Bene, spero tu non ti sbagli sul suo conto. Mi dispiacerebbe vedere la mia svampita preferita, triste.”- le disse mentre entrava nella sua stanza.

-“Ehi!”- Anna la rincorse fin sulla soglia della stanza-“Oddio, scusa.”- si coprì gli occhi. Merida si stava svestendo.

-“Ah, non preoccuparti, entra.”-

Anna, la spiò tra le dita della mano che le copriva gli occhi, sospirando di sollievo quando vide che l’amica aveva indossato un’altra maglietta, con un paio di jeans strappati.

-“Dove stai andando?”- le chiese mentre curiosava tra la roba sulla sua incasinatissima scrivania.

-“Devo vedermi con Hic. Deve insegnarmi ad usare un programma di grafica per un esame che ho tra qualche mese. Meglio partire in anticipo, non si sa mai.”- le rispose, mentre infilava il suo portatile in borsa, assieme ad alcuni libri e blocchi da disegno.

-“Tu e Hiccup mi nascondete qualcosa. Ne sono certa. Cos’è questa storia dello studio? Di domenica pomeriggio per giunta! Potreste trovare una scusa migliore.”- la stuzzicò la rossa, mentre passava in rassegna alcuni oggettini carini, tra tutte le cianfrusaglie presenti in quella stanza. Ne prese uno: un semplice laccio nero, con un ciondolo a forma di orso-“E questo cos’è?”

Merida si voltò verso di lei e lanciò uno sguardo a quello che Anna teneva stretto tra le dita: “È un regalo di mia madre. Diciamo più un monito: ‘guarda che sono sempre con te, quindi riga dritto’. A casa la chiamiamo mamma orso, per questo quel ciondolo. L’ha fatto lei.”- Merida sorrise pensierosa, mentre lo raccoglieva dalle mani dell’amica e se lo infilava al collo-“ Pensavo d’averlo perso, grazie per averlo ritrovato.”

-“Se mettessi un po’ d’ordine ritroveresti molte cose, compresa la maglia che mi incolpi d’aver preso senza chiedertelo.”- l’accusò Anna.

Merida le lanciò uno sguardo incredulo: “Dici sul serio? Tu vuoi fare la paternale a me sul tenere in ordine le mie cose? Mi sbaglio o tu sei quella che come armadio ha una sedia con decine di vestiti buttati alla rinfusa, che lancia le scarpe sotto il letto e che ha una scrivania così disordinata che sembra ci sia scoppiata sopra una bomba.”

-“Come non detto.”- Anna fece dietrofront-“Divertiti con Hic, non traumatizzarlo mi raccomando, è un così bravo ragazzo.”-

Nonostante fosse fuori dalla stanza, sentì distintamente i grugniti contrariati di Merida, e lo spostamento d’aria della scarpa che le volò dritta sopra la testa, mancandola per poco.

-“Io non nascondo niente a differenza tua: tra me e Hiccup non c’è nulla che non vada oltre il rapporto amici/colleghi di corso. Se dovesse mai esserci qualcosa sarai la prima a saperlo, non temere. Ma fino ad allora tieni la bocca cucita sull’argomento.”- le lanciò uno sguardo infuocato.

Anna si ritrasse sbuffando: “Perché tanta curiosità sul quello che ho fatto con Hans? Se proprio lo vuoi sapere ecco il sunto della serata: siamo andati a cena, a passeggiare sotto le stelle e poi mi ha riaccompagnata a casa, punto.”

-“Oh, ci voleva tanto? Sai, raccontata senza sospiri sognanti e parole sdolcinate, la vostra serata sembra essere stata davvero noiosa.”- ridacchiò, mentre si allacciava le scarpe ed indossava il cappotto.

-“Già, noiosa come il Big Bang.”-

-“Ci vediamo dopo, non so quando tornerò. Se hai bisogno, sai dove trovarmi.”- fece per uscire, ma Anna la fermò.

-“Uffa, io che faccio ora? Sai se Punzie è libera da Fitzherbert?”-

-“No, Flynn ha l’appartamento libero, il suo coinquilino è partito per le vacanze. Passeranno di sicuro una romantica serata…da soli.”- le fece l’occhiolino.

-“Oh mio dio, ma sono insaziabili!”- sbottò arrossendo Anna -“L’unica che non si divertirà stasera sono io, a quanto pare.”- constatò.

-“Il tuo principe azzurro dov’è?”- le chiese corrucciando la fronte.

-“Oh, lui ha detto d’avere un improrogabile impegno di famiglia, al quale non poteva assolutamente mancare.”-

-“Mm-mm.”- annuì Merida.

-“Dico sul serio…e ora cosa faccio?”- si lamentò, mordicchiandosi il labbro inferiore.

-“Hai l’appartamento tutto per te, puoi fare quello che vuoi: salta, canta, guarda la tv, gioca alla xbox, ordina da mangiare, leggi. Cose così.”- le propose.

-“Mmm credo che andrò da Olaf, per non restare da sola. Forse farò nuovi incontri, chissà.”-

-“Beh, buona serata allora.”- le fece l’occhiolino e chiuse la porta dietro di sé, lasciandola da sola nel bel mezzo dell’appartamento silenzioso.

Si guardò attorno, aspettando qualcosa che le rivoluzionasse quel tardo pomeriggio invernale: “E adesso che faccio?”- chiese al nulla.

Senza pensarci più di tanto, si precipitò in camera sua, tuffandosi tra i vestiti gettati alla rinfusa sulla sedia, tirando fuori un pantalone nero e un maglione rosso sgualcito. Li infilò saltellando, mentre correva in bagno a lavarsi i denti.

Si guardò allo specchio e fece un verso disgustato: aveva un’aria terribile, doveva assolutamente rimediare. Okay, non doveva fare colpo su nessuno perché lei aveva già il suo Hans, ma la sua faccia pallida e i suoi capelli spettinati, erano un crimine contro il genere femminile. Raccolse i capelli in due morbide trecce, si passò un leggero velo di ombretto sugli occhi e concluse con tocco di mascara. Si guardò ancora una volta e annuì alla se stessa riflessa: “Così va meglio, ragazza.” 

Raccolse in un angolo la sua borsa e ci buttò dentro tutto quello di cui avrebbe potuto aver bisogno. Poi raccattò un libro che Rapunzel le aveva prestato qualche giorno prima, consigliandoglielo calorosamente. Se non avesse incontrato nessuno di interessante, almeno si sarebbe potuta rintanare in un angolo del pub a leggere.

Infilò i suoi stivaletti nuovi di zecca, il cappotto e la sciarpa, e uscì di casa fuggendo dal silenzio, pronta a gettarsi tra il chiacchiericcio della gente.

Anche se il pub di Olaf distava pochi isolati dal suo appartamento, e avrebbe potuto tranquillamente raggiungerlo a piedi, decise che per quella volta avrebbe preso la metro. Aveva voglia di arrivare presto alla sua meta, per rifugiarsi al caldo. Le strade erano gelide, spazzate da folate di freddo vento del nord, che le schiaffeggiavano, senza troppe scuse, le guance arrossate.

Per una volta, fu piacevole ricevere dritta in faccia l’aria afosa e maleodorante della metro, che le procurò un piacevole brivido lungo la schiena.

Durante la breve corsa, cacciò dalla borsa il libro prestatole e cominciò a leggerlo, per intrattenersi. Non l’aveva mai sentito nominare e ad essere totalmente sincera non leggeva spesso, ma le rare volte che lo faceva preferiva buttarsi su romanzetti romantici e strappalacrime, scritti discretamente. Questo non era uno di quelli di certo, non era niente di che, anzi avrebbe quasi osato dire che era piatto e scritto male, ma Rapunzel aveva tanto insistito nel darglielo, le aveva detto che le avrebbe svelato un mondo. Si era fidata e aveva promesso di leggerlo al più presto. Non aveva nemmeno cercato la trama su internet, né aveva letto la quarta di copertina per avere ulteriori informazioni.

Insomma, si era gettata alla ceca in questo libro “rivelazione”: Cinquanta sfumature di grigio.

-“Vedrai, ti piacerà.”- le aveva detto una ragazza seduta proprio di fronte a lei, che le aveva rivolto un sorrisino divertito.

-“Ne dubito.”- le aveva risposto Anna, ricambiando con un timido sorriso.

Un volta arrivata alla sua fermata, aveva letto appena quattro pagine. Lo chiuse gettandolo di nuovo nella bolgia che chiamava borsa, e si apprestò a scendere.

Una volta in strada osservò distratta le vetrine illuminate dei negozi, pensando a cosa stesse facendo Hans in quel momento.

Forse anche lui si sta annoiando a morte e sta pensando a me.’ Sospirò, sorridendo tra sé.

Quando entrò nel pub, l’accolse il rumore delle voci di decine di persone,per lo più uomini, intenti a gridare contro il megaschermo appeso su una parete: come aveva fatto a dimenticarsi della partita di campionato? Di solito anche a lei piaceva guardare le partite, seduta comodamente sul divano, con il telecomando in una mano e una fetta di pizza nell’altra; ma da quando usciva con Hans, i suoi interessi erano stati messi in ombra dalla voluminosa presenza del ragazzo. Fu tentata di fare dietrofront e di tornarsene al suo appartamento ma, prima che potesse fare anche solo un passo, la voce squillante di Olaf la bloccò sul posto: “Anna!”- le fece segno di accomodarsi in un posto libero al bancone.

-“Hey Olaf, come vanno le cose da queste parti?”- lo salutò, mentre si sedeva sullo sgabello traballante.

-“Alla grande e tu invece, è un po’che non ti facevi vedere da queste parti! Non è che mi tradisci con la concorrenza?”- le chiese facendole l’occhiolino.

-“Perché, tu hai anche una concorrenza?”- rispose ingenuamente, sporgendosi sul bancone.

Olaf rise di gusto, mentre sistemava dei bicchieri sulle mensole dietro il bancone: “Allora, tutta sola stasera?”

-“Chi ti dice che non stia aspettando i miei amici?!”- fece un sorrisino enigmatico.

-“Anna, per favore…tu che aspetti loro?! Non si è mai sentito.”-

-“Beh…si sono sola soletta, anzi no, sono in compagnia di questo libro.”- e tirò l’oggetto incriminato fuori dalla borsa, mostrandoglielo.

Olaf spalancò gli occhi e per poco non si strozzò per le risate: “Non ti facevo tipa da certe letture…audaci.”-

-“Audace? Ma di che parli, questo libro è banale e per niente intrigante, lo leggo solo per far piacere a Punzie.”-

-“Ma sai almeno di cosa parla?”- le chiese alzando un folto sopracciglio nero.

-“Mmm, in realtà no. Sono arrivata appena a pagina quattro, perché?”-

-“Beh, niente, non voglio rovinarti la sorpresa. Quando lo avrai finito ne riparleremo.”-

-“Sembra quasi che tu lo abbaia letto.”- lo rimbeccò lei.

Olaf arrossì violentemente, rimanendo muto per almeno dieci secondi, cosa molto strana per lui: “N-no, affatto, ma so di cosa parla e se tu non lo sai, beh vuol dire che negli ultimi mesi hai vissuto su un altro pianeta!”-

-“Può darsi…”- sussurrò tra sé e sé.

-“Piccoletto, da questa parte. Un altro giro per me e il mio amico.”- un omaccione sulla quarantina, interruppe la loro chiacchierata, sbracciandosi sopra la folla, sovrastando con il suo vocione il rumore del locale.

-“Scusami, il dovere chiama.”- si scusò il proprietario.

-“Va pure non preoccuparti…”- cominciò, ma Olaf era già fuori portata d’orecchio-“…chi si muove da qui.”- concluse aprendo il libro e cominciando a leggere da dove aveva interrotto.

Dopo aver letto altre tre pagine, cominciò a ricredersi su quel libro tanto misterioso, facendosene un’opinione diversa.

Qualcuno si frappose tra lei e la luce del faretto appeso di fronte: doveva essere Olaf di ritorno.

-“Ascolta Olaf, potresti portarmi il solito?”- chiese senza alzare lo sguardo dalle pagine fitte.

Olaf non rispose, ma l’ombra non si spostò dal libro. Forse era Ariel: tremenda gaffe chiamarla Olaf, ma perché non diceva nemmeno una parola?

-“Scusa Ariel pensavo fossi…”- Anna alzò spazientita lo sguardo sul suo interlocutore e rimase con la bocca spalancata nel bel mezzo delle sue scuse.

E questo chi cavolo è?!- pensò tra sé, quando le sinapsi del cervello ritrovarono il contatto, dopo il breve blackout. Lasciò vagare lo sguardo sul ragazzo che le stava davanti, sui suoi occhi scuri, di un colore tra il caramello e il cioccolato al latte; sui capelli biondi che gli ricadevano scomposti sulla fronte e soprattutto sui bicipiti scolpiti che nascondeva sotto una maglietta nera con il logo del pub.

-“Ehm…tu non sei Ariel.”- riuscì a dire.

-“A quanto pare.”- le rispose seccamente il tizio.

-“E nemmeno Olaf.”- proseguì.

Il tizio sbuffò scocciato: “No.”

Silenzio.

-“Chi sei allora?”- continuò imperterrita.

-“Kristoff.”-

Ancora silenzio.

-“Sei un chiacchierone a quanto vedo.”-Anna cercò di smorzare l’imbarazzante silenzio-“Lavori qui, Christofer?”- gli chiese, recuperando un po’ della voce che aveva perso.

-“È Kristoff, per la precisione. E si, lavoro qui.”-

-“E da quando?”-

-“Da ieri.”-

-“E dov’è Ariel?”- chiese ancora, guardando l’espressione del tizio cambiare da scocciata ad alterata.

-“Ma cos’è questo, un terzo grado?”- sbottò, facendo sobbalzare Anna sullo sgabello. Kristoff si accorse subito della tremenda figuraccia che aveva fatto, quando Anna abbassò lo sguardo sul suo libro chiuso.

-“Ascolta”- cominciò  per attirare di nuovo la sua attenzione, ma si bloccò non conoscendo il suo nome.

-“Anna.”- rispose prontamente lei, con un sorriso.

-“Ascolta Anna, scusa per la risposta brusca, ma è stata una giornata un po’ pesante e non sono proprio in vena di chiacchierate.”-

-“Oh, okay scusami tu.”- si affrettò a dire, mentre si sistemava una ciocca di capelli inesistente dietro l’orecchio.

-“Allora?”- chiese lui.

-“Allora, cosa?”- fece lei guardandolo fisso negli occhi.

-“Cosa ti porto?”-

-“Oh, ma certo”- ridacchiò nervosamente, dandosi mentalmente della stupida-“un…un Vodka Lemon!”- esclamò, sollevata di essere riuscita a trovare il nome di uno dei tanti tipi di drink che le giravano nel cervello in quel momento.

-“È il tuo ‘solito’?”- gli chiese lui, mentre le porgeva un sottobicchiere.

-“N-no, ma mi ci voleva qualcosa di più forte di una birra,stasera.”- disse sovrappensiero, sedendosi meglio sullo sgabello.

 Le preparò con mani esperte quello che aveva chiesto e si incantò ad osservarlo: “Sei bravo.”- gli disse mentre lui le porgeva il bicchiere.

Kristoff scrollò le spalle, sena dire nulla.

Anna invece, non ce la faceva a rimanere in silenzio e per di più, la curiosità di conoscere qualcosa in più su di lui la stava uccidendo.

-“Sei un barman?”-la buttò li, per fare conversazione.

-“Oh certo, è l’aspirazione della mia vita rimanere per sempre dietro un bancone a servire uomini molesti e donne depresse.”- le rispose, incrociando le braccia al petto.

-“Sei ironico, vero?”- le chiese lei turbata, girando la cannuccia nel bicchiere.

-“Certo.”- rispose solo.

Anna continuò a concentrarsi sul liquido giallognolo del suo bicchiere, sorseggiando pian piano, arricciando il naso al sapore aspro dell’alcool, che le bruciava la gola. Cercava, senza molto successo, di ignorare gli occhi di lui, puntati su di lei, provando a convogliare la sua attenzione verso le pagine del libro che aveva aperto di nuovo. Con un’occhiata veloce si assicurò che lui non la stesse ancora fissando, ma sfortunatamente  incrociò i suoi occhi socchiusi. Una strana sensazione le fece contorcere lo stomaco e le mani cominciarono a sudarle, appiccicandosi poco graziosamente alla copertina del libro.

-“Cosa?”- gli chiese, ricominciando a respirare. Non si era resa conto di star trattenendo il fiato.

-“Credo… di averti già vista da qualche parte.”- le disse, scrutandola attentamente.

-“Impossibile, mi ricorderei di te.”-disse lei senza pensarci-“Ehm, cioè non che tu sia una persona così particolare da ricordare, ma tu ecco…sei…sei”- cominciò a blaterare, gesticolando ampiamente verso di lui, mentre il viso le andava in fiamme. Poi affondò la faccia nell’incavo delle sue mani, incapace di fare o dire altro per tirarsi fuori da quella situazione imbarazzante: perché continuava a dare fiato alla bocca senza pensare prima di parlare? Era un suo difetto congenito, ce lo aveva da quando era nata e non poteva fermalo dal rovinarle la vita!

-“Ora mi ricordo!”- esclamò lui, puntandole un dito contro.

Lei lo fronteggiò con la faccia rossa, osservando la sua espressione contrariata, e solo allora qualcosa le balenò nella mente: una colonna che non era una colonna, parole ringhiate a denti stretti, l’aria malsana della metro, odore di caffè versato, occhi scuri arrabbiati…

-“Il tizio del caffè!”-  urlò saltando quasi giù dallo sgabello.

-“L’imbranata della metro.”- confermò lui, sporgendosi sul bancone per guardarla meglio.

-“Ah, vedo che vi siete conosciuti!”- li interruppe la voce gioiosa di Olaf, mentre loro si voltavano a guardarlo-“Spero ti abbia trattata bene, Anna. Sai, lui tende ad essere un tantino brusco, non è vero cugino!”- disse, battendogli una mano sulla spalla, mentre Kristoff abbassava lo sguardo colpevole.

-“Oh, ehm si si, non preoccuparti è stato…molto gentile.”-rispose, guardando di sottecchi il diretto interessato, accennando un sorriso tirato.

-“Bene. Non vorrei interrompere la vostra chiacchierata, ma lì c’è bisogno di te.”- disse indicando dei tavoli in fondo al pub.

-“Affatto, non sono in vena di chiacchierate.”- rispose subito Anna, ripetendo le parole che lui le aveva detto qualche minuto prima.

-“S-si, vado subito.”-Kristoff, scattò sull’attenti, rivolgendole uno sguardo strano, mentre si allontanava.

Se Olaf non fosse stato li a guardarla, gli avrebbe di certo fatto una linguaccia, ma si contenne.

-“Ciao Christofer,è stato un piacere conoscerti.”-gli disse invece, sventolando una mano nella sua direzione, con il sorrisetto di una bambina pestifera.

-“Si chiama Kristoff.”- la corresse Olaf.

-“Lo so.”- disse semplicemente lei, mentre riprendeva a bere, sorridendo tra sé. L’idiota della metro, chi l’avrebbe mai detto.

-“Ma allora perché…”- cominciò Olaf.

-“Lui lo sa.”- tagliò corto, facendogli l’occhiolino.

Olaf si strinse nelle spalle, non capendo cosa c’era tra quei due che non andasse.

-“Allora, dov’è finita Ariel e come mai l’hai rimpiazzata con… tuo cugino!? Sul serio Kristoff è un tuo parente? Non vi assomigliate per niente. Cioè tu sei…e lui è…”- okay,aveva di nuovo parlato senza filtrare i suoi pensieri. Stupido cervello difettoso!

Olaf rise, intuendo le sue parole: “Perché io sono basso, emaciato ma bello, mentre lui è alto quasi due metri, ha il fisico di un giocatore di football, ma è brutto…lo so, lo so è questo che stavi per dire, vero?”-

Una risatina nervosa scappò dalle labbra di Anna, mentre si torceva una treccia con le mani tremanti, tremendamente imbarazzata.

-“È una lunga storia, ma comunque si, siamo imparentati in un certo modo.”- spiegò senza scendere nei particolari.-“Ariel se n’è dovuta andare. A quanto pare non aveva diciotto anni, ma quindici, ed era scappata di casa.”- fece una pausa quasi teatrale, sospirando e scuotendo il capo-“Il padre è uno dei magnati più influenti di Wall Street e quando ha scoperto che la figlia intratteneva una relazione con il figlio di uno dei suoi rivali economici, ha sbarellato. Lei pensava di poter sfuggire al controllo paterno e di poter tirare avanti con un lavoro da cameriera, certa che il suo principe azzurro sarebbe venuto a salvarla dalla situazione in cui si era cacciata, ma lui invece si è appena fidanzato con un’altra…povera Ariel era distrutta quando lo ha saputo.”

Anna annuì distratta solo parzialmente interessata alle sventure della ragazza, mentre con gli occhi seguiva le mosse di Kristoff, che si aggirava con la grazia di un elefante tra i tavoli del pub, con un’espressione frustrata sul volto, davvero esilarante secondo lei.

Non durerà nemmeno una settimana - pensò tra sé.

-“Kris aveva bisogno di lavoro e io di un aiutante, quindi ho preso due piccioni con una fava.”- continuò Olaf, riscuotendola dai suoi pensieri.

-“Mmh, capito.”- commentò, finendo il suo drink e mettendosi in bocca un cubetto di ghiaccio- “Me ne porteresti un altro o qualsiasi cosa tu mi consigli, ma che abbia un tasso alcolemico un po’ più alto di una Coca Cola.”- gli chiese, spostando verso di lui il bicchiere, ormai pieno solo di ghiaccio semi sciolto.

-“Sicura di reggere?”- le chiese con un sopracciglio alzato.

-“Ma certo…dovrò pur svoltarla questa serata, e se non sono almeno brilla la partita perde d’interesse per me.”- disse indicando il megaschermo alle sue spalle.

-“Non sapevo ti piacesse il football.”-

-“Sono molte le cose che non sai di me.”- gli disse a bassa voce, avvicinandosi a lui.

-“D’accordo. Allora ti preparo un Frozen Heart.”- Olaf cominciò a tirar fuori, dall’apparentemente infinita riserva di super alcolici alle sue spalle, diverse bottiglie colorate.

-“Frozen Heart?”- chiese lei, sporgendosi per vedere quello che stava facendo l’amico. Olaf annuì sorridendole, mentre con gesti esperti versava e dosava le quantità dalle varie bottiglie- “Mai sentito.”- sentenziò, risistemandosi al suo posto.

-“Ti fidi? È un drink di mia invenzione.”- le disse infine, porgendole un bicchiere con i bordi ghiacciati e un liquido denso e del colore del cielo terso-“Pronta? Quando l’avrai assaggiato non potrai tornare più indietro.”-  

Anna prese il bicchiere tra le mani, osservando i ghirigori del ghiaccio lungo i bordi, e ne odorò il contenuto. Poi con un sorriso disse:“Olaf, si vede che non mi conosci: sono nata pronta!”-

 

 

 

NdA: Salve, salvino gente! Come ve la passate? Era da un po’ (tanto!) che non aggiornavo questa ff, e quindi mi sembrava ora di farlo XD So che va un po’ a rilento e che le situazioni sembrano sempre le stesse, ma non la scartate dopo la lettura di questo capitolo, perché vi prometto che l’azione ci sarà e anche i colpi di scena…se potessi dirvi quello che viene dopo lo farei, però poi non avreste più nessun interesse nel leggere quindi…dovete aspettare! ;) Sono lenta nelle pubblicazioni, direi quasi eterna, ma non lascio mai una cosa incompiuta, quindi con un po’ di pazienza arriveremo alla fine anche di qst ff!

Piccolo spoiler: nel prossimo capitolo vedremo davvero cosa aveva da fare Hans…e ci sarà anche Elsa.

Comunque volevo precisare che io non ho MAI letto “Cinquanta sfumature di grigio”,quindi il giudizio di Anna sul libro non è il mio! Il Frozen Heart è un drink a tema che ho inventato al momento e se esiste davvero, non ne sapevo nulla, giuro XD Ovviamente con quello che scrivo non voglio invogliare al bere e nemmeno esaltare l’alcool, anzi disapprovo il bere con tutta me stessa…fatelo anche voi, mi raccomando! Ma mi serve far bere Anna per esigenze di trama ;)

Okay, dopo la paternale vi incito a farmi vostre considerazioni su questo capitolo (non siate troppo cattive/i, sono debole di cuore!) e se avete idee per il seguito della storia sottoponetemele :)

Baci, ci si legge alla prossima!! *.*

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Capitolo 6
*** Take me home ***


Capitolo 6: Take me home

 

Continuava a rigirarsi quella coppa di Dom Perignon tra le mani da troppo tempo ormai. Il liquido dorato, era diventato caldo ed imbevibile, ma avere qualcosa con cui tenere occupate le mani, lo rilassava. Se non fosse stato altrimenti, avrebbe di certo tirato un pugno a uno dei suo fratellastri, che si erano riuniti come un piccolo coro a cappella, in un angolo dell’enorme salone principale del Waldorf Astoria, chiacchierando animatamente delle loro famigliole perfette, delle loro conquiste di una notte, o semplicemente di quanti soldi avessero guadagnato quel giorno, ignorandolo completamente.

Ma a lui andava bene così: rimanere semplice spettatore di tutto quell’andirivieni di uomini d’affari e ricche ereditiere, lo faceva sentire come un giudice super partes.

Aveva mentito ad Anna, quando le aveva detto che i galà mondani non gli interessavano, perché non era vero: i lustrini e l’oro erano il suo elemento naturale, come l’oceano per uno squalo. Lui c’era cresciuto in tutto quel lusso inutile, conosceva pregi e difetti di ognuna delle persone che popolavano quella sala, gli piaceva vestirsi bene e sguazzare nella superficialità di quella gente, il cui unico pensiero, era rimpolpare i propri conti bancari alle Cayman.

Aveva amato più di una di quelle donne finte e calcolatrici, strette in vestiti griffati, con parure di diamanti, che gli lanciavano occhiate provocatorie, a cui lui rispondeva con un lieve sorriso: tutte storie di una notte e via, perché per quanto potessero essere belle, nessuna di loro meritava davvero la sua considerazione. Tutte troppo vuote, nonostante avessero studiato nelle università più prestigiose del mondo, come delle bambole a molla, che ripetevano un certo numero di frasi, all’infinito.

Quando a quella festa aveva visto Anna, aveva subito pensato che si trattasse di una di quelle, ma quando aveva aperto la bocca, dalle sue soffici labbra non erano usciti fuori i ricchi resoconti delle proprietà di paparino. Non ricordava come, ma erano finiti a parlare dell’arte e del bello, più in generale: Anna sembrava intendersene e restare ad ascoltare, tra tutto quel vuoto chiacchiericcio, le sue considerazioni sulle opere di Monet e Renoir, era stato per lui un piacere. Aveva capito subito che lei era diversa e quando l’aveva salutata, si era reso conto troppo tardi di non averle chiesto nulla più che del suo nome.

Ritrovarla tra le strade innevate di New York, era stata una piacevole sorpresa, e con suo grande stupore, il suo cuore aveva fatto una capriola quando l’aveva vista con il viso rigato di lacrime.

Non aveva la bellezza sofisticata delle donne che di solito frequentava, ma quella più semplice e genuina di una ragazza qualunque, e stranamente la trovava più attraente di molte altre. E poi, da quello che ne sapeva, le rosse erano tutte fuoco e fiamme: di certo non si sarebbe annoiato con lei.

Quella serata, a cui l’avevano trascinato a forza, si stava protraendo troppo, per i suoi gusti e non c’era nulla di interessante con cui far passare il tempo, nemmeno un giocattolino carino: erano tutte accompagnate da fratelli e padri iperprotettivi. Se non fosse accaduto nulla di interessante nei successivi trenta minuti, avrebbe tolto le tende.

Ed invece qualcosa accadde. Qualcosa che cancellò dalla sua mente Anna, i suoi fratelli e la gente stipata nella sala.

Fu come se un fulmine lo avesse colpito in pieno petto, facendogli perdere la cognizione di quello che aveva attorno, lasciando che la sua mente si concentrasse solo sull’elettricità che gli circolava in corpo.

Da una delle porte del salone, entrò Mr Ades, che a dirla tutta era fondamentalmente un ospite  onnipresente a serate del genere, ma quello che catturò la sua attenzione, furono senza ombra di dubbio le due bellissime ragazze che portava sottobraccio. Una bionda e una bruna. Ma la prima aveva qualcosa che la seconda non aveva: una grazia nei movimenti, simili a quelli di un felino. Aveva tutta l’aria di uno di quegli animai pericolosi, da cui non riesci a distogliere lo sguardo, troppo preso da tanta bellezza, come una tigre siberiana a caccia.

Un viso di porcellana, incorniciato da capelli così biondi da sembrare fatti di candida neve, su cui spiccavano gli occhi, due acquemarine finemente tagliate. Aveva qualcosa di esotico, ma familiare al tempo stesso, qualcosa a cui non sapeva dare un nome. La stoffa argentata del vestito che indossava, fasciava perfettamente la sua figura, mettendo in risalto le curve giuste, lasciando ben poco all’immaginazione. Era come se fosse vestita di stelle.

Ades si fece strada tra la folla di ospiti, trascinandosi dietro le due ragazze, attirando gli sguardi di molti ospiti, e si fermò proprio davanti a suo padre, Mr Westerguard. Il capo, come lo chiamava lui, salutò calorosamente il nuovo arrivato con una stritolante stretta di mano, ignorando le due ragazze, che si staccarono da Ades e si confusero tra la folla. Ma due tipe del genere non potevano passare inosservate: passeggiavano per la sala, con gli occhi di tutti gli uomini e di tutte le donne puntati su di loro, incuranti dei risolini o delle cattiverie che queste ultime riversavano loro addosso.

Aveva già visto quella spettacolare creatura, in precedenza, all’annuale crociera sull’Hudson che suo padre aveva organizzato per festeggiare il 4 Luglio. Aveva calamitato la sua attenzione fin da subito, con quella sua aria altezzosa, la postura rigida e l’indifferenza agli sguardi degli uomini presenti. Non aveva parlato con nessuno se non con la sua compagna, scambiandosi occhiate tetre, e con Jack North, uno dei suoi migliori amici. Cosa avesse North che gli altri presenti non avessero, non era riuscito a capirlo, stava di fatto che solo in sua compagnia la ragazza, di cui non conosceva nemmeno il nome, aveva sorriso: un sorriso timido e quasi tirato, ma che le aveva illuminato gli occhi.

Anche quella sera, non fece eccezione: Hans le tenne gli occhi puntati addosso, fissandola con malcelata curiosità da un angolo della sala, mentre lei scivolava silenziosa come un’apparizione, facendo attenzione a non urtare nessuno, guardando sempre davanti a sé, senza incrociare lo sguardo di nessuno. Qualcosa era cambiato dall’ultima volta che l’aveva vista: la luce di fiera dignità, che le aveva visto brillare negli occhi, aveva lasciato il posto ad uno sguardo opaco ed insicuro, quasi spento. Stava cercando qualcuno tra la folla, se ne rese conto quando la vide fermarsi e guardarsi attorno. Cercava qualcuno che accorresse in suo aiuto, glielo leggeva negli occhi.

La tentazione di avvicinarsi fu troppo forte per metterla a tacere, e con passo certo si fece strada verso di lei, salutando con un gesto del capo alcuni suoi conoscenti. Non aveva uno scopo preciso: voleva solo sentire la sua voce.

-“Cerchi qualcuno in particolare?”- le chiese senza troppi preamboli, arrivandole alle spalle.

La vide sobbalzare impercettibilmente, mentre si voltava verso di lui, recuperando una postura rigida e una faccia neutra: “No.”- rispose solamente, fissandolo negli occhi.

-“Quindi posso offrirmi di essere il tuo salvatore per questa sera?”-

-“Da cosa dovrei essere salvata?”- fece lei, alzando un sopracciglio chiaro, interrogativa. Aveva ragione, la sua voce era quanto di più melodioso avesse mai sentito.

-“Ah, non saprei, ma la tua faccia mi dice che questo non è il posto dove vorresti essere al momento.”- lei si strinse le mani, come per nasconderne il tremore –“Credimi, gettarsi nella vasca degli squali da soli non è granché, meglio se si è accompagnati. Come si dice: un problema condiviso è un problema dimezzato.”- le sorrise affabile.

-“Ti crea problemi, rimanere qui? Non mi sembri il tipo da disprezzare una serata del genere.”- puntualizzò lei , distogliendo lo sguardo, facendolo vagare sulla sala.

-“No, affatto. Ma senza una compagnia decente, anche la festa migliore perde d’interesse. Ti andrebbe di farci compagnia a vicenda?”- fece una pausa studiata, per osservare la sua reazione.

-“Non conosco nemmeno il tuo nome…di solito non do corda agli sconosciuti.”- ribatté fredda.

-“Perdona la mia mancanza, sono un maleducato: Hans Westerguard.”- fece un piccolo inchino, portandosi la mano destra la petto.

-“Oh, tu sei il figlio di…”- la ragazza lo guardò con gli occhi spalancati, gesticolando verso la folla.

-“Del grande capo, si.”- confermò lui sorridendo-“E tu sei?”

-“Elsa.”- soffiò fuori.

Come la sorella di Anna? Che strana coincidenza.

-“Elsa e …?”-

-“Elsa e basta!”- scattò lei.

Hans rimase per un momento interdetto, ma lasciò perdere il suo comportamento: “Allora, Elsa e basta, andiamo a bere qualcosa?”-propose.

-“Se posso evitare, non bevo.”- rispose diplomaticamente, stringendo ancora di più le mani.

Hans sembrò contrariato dalla risposta, ma non le fece pressione, perché la vide osservare qualcosa e spalancare gli occhi, impaurita. E all’improvviso si ritrovò una delle sue piccole e affusolate mani, nell’incavo del gomito.

-“Ma se insisti.”- blaterò, mentre lo conduceva verso il free bar, sul lato lungo della sala.

Hans si lasciò condurre in silenzio, ma prima si voltò verso la cosa che l’aveva fatta impallidire: Mr Ades li fissava scuro in volto, seguendo ogni passo di Elsa con uno sguardo indecifrabile, ma quando si accorse di essere osservato, gli rivolse un sorriso inquietante e un veloce saluto con la mano.

Un brivido gli scese lungo la schiena, e l’unica cosa naturale che gli venne da fare, fu stringere la mano fredda di Elsa.

 

-“Cavolo, passala! Passa quella palla, maledetto egoista!”- Anna aveva già da un po’ cominciato ad inveire poco finemente verso il megaschermo. Al suo terzo drink, era scesa dallo sgabello e si era avvicinata per sentire meglio il commento dei cronisti, sovrastato dal vociare della clientela. Dei ragazzi le avevano fatto posto al loro tavolo, invitandola a bere con loro e lei aveva accettato su di giri.

Da quando era quasi caduta sui suoi stessi passi, Olaf non le aveva tolto un attimo gli occhi di dosso, per paura che potesse succederle qualcosa. E poi, una ragazza sola e brilla, nel bel mezzo di un branco di bestioni esaltati, non lasciava presupporre nulla di buono.

Lui e Kristoff si erano fermati un momento per osservare l’azione di gioco: “Dai passala.”- commentò Olaf-“ Perché non la passa?”- chiese poi rivolgendosi al cugino, che gli rispose facendo spallucce, senza staccare lo sguardo dal megaschermo –“Secondo te la sa passare?”- continuò.

Intanto sullo schermo, il quarterback continuava a correre, dopo aver superato con una finta la prima linea di difesa sulla linea delle 50 yards. Il ricevitore si sbracciava sulla linea delle 20, cercando di smarcarsi dai due corner back che gli alitavano sul collo. Da un momento all’altro il quarterback avrebbe di sicuro lanciato. Doveva farlo, altrimenti l’azione sarebbe stata un fallimento. Superò illeso anche la seconda linea difensiva e nel pub c’era già chi gridava al miracolo, poi caricò il destro e tirò la palla verso il fondo sinistro del campo. La palla ovale atterrò direttamente tra le braccia del ricevitore, intento a zigzagare tra gli strong safety, l’ultimo baluardo della difesa avversaria.

Nel pub scese il silenzio, mentre diverse persone rimasero con il fiato sospeso, pronti per esultare: tra questi c’era Anna.

Quando la palla rimbalzò sull’erba verde della meta, scoppiò il caos. L’ovazione che seguì il touchdown fu qualcosa di emozionante. Anna gridò così forte da farsi male alla gola, e abbracciò i suoi compagni di bevuta, esultando felice: “Si,si, si!”

I pochi tifosi della squadra avversaria, rimasero muti a scuotere il capo demoralizzati. Olaf improvvisò un balletto, imitando il ballo della vittoria in cui si stava esibendo, a bordo campo, il giocatore che aveva appena segnato.

-“È davvero imbarazzante, smettila.”- commentò Kristoff, mentre si allontanava di un passo dal cugino.

Olaf si fermò nel mezzo di un moonwalk sgangherato e lo fissò serio: “Ma tu sai divertirti?”

A salvare il proprietario del pub, dallo sguardo omicida del cugino, ci pensò Anna, che arrivò tutta sorridente e traballante: “Non posso crederci, non ci speravo nemmeno! Ma te lo immagini? I Denver Broncos alla finale del Super Bowl!”- si riaccomodò sullo sgabello che aveva abbandonato poco prima- “Devo chiamare mio padre, starà esultando anche lui. Deve assolutamente procurarsi i biglietti per la finale.”-si sporse per recuperare il cellulare dalla borsa e quasi cadde.

-“Tutto okay?”- le chiese Olaf preoccupato.

-“C-credo di si. Mi gira solo un po’ la testa, non è nulla, sono stata in condizioni peggiori.”- gli scoccò un sorriso divertito-“ Te lo avevo detto che riuscivo a reggere,no?!”-.

Dietro di lei, arrivò uno dei ragazzi del tavolo dove era stata invitata poco prima: “Ehi rossa, bicchierino della staffa?”- le chiese, sedendosi sullo sgabello libero al suo fianco.

-“Prima di tutto io sono Anna.”-disse alzando un dito-“E secondo non so davvero cosa sia un bicchiere della staffa! C’entrano  per caso i cavalli?”- chiese ingenuamente, sorridendo.

-“Sei uno spasso.”- esclamò il ragazzo, battendo una mano sul bancone, facendo sobbalzare Olaf -“No, intendevo l’ultima bevuta prima di andare via. Ci stai?”

-“Ma certo!”- esclamò felice Anna, attirando lo sguardo severo del proprietario del pub.

La ragazza era chiaramente alticcia e sembrava non essersi resa conto del faccia poco raccomandabile del tizio seduto al suo fianco: “Anna, so che non sono fatti miei, ma direi che per stasera può bastare, no?”- cercò di farla ragionare, avvicinandosi a lei, per non essere sentito dal tale.

-“Ehi, piccoletto, servici da bere e non discutere! È quello il tuo mestiere, no?”- intervenne il tizio, che cominciava ad assumere un’aria poco affidabile, ogni minuto che passava.

Olaf rimase interdetto per pochi secondi e fece per rispondere a tono, quando Anna lo anticipò,lasciandolo con la bocca semiaperta, pronto a ribattere: “Aspetta che? Non osare rivolgerti al mio amico in questo modo!”-

-“Andiamo rossa, non c’è bisogno di prendersela tanto.”- cercò di metterle un braccio attorno alle spalle-“Stavo solo scherzando, vero piccoletto?”-

Anna si scansò indignata, mentre Olaf gli rivolgeva uno sguardo omicida.

-“Smettila di chiamami così, ti ho già detto che mi chiamo Anna!”- protestò lei, alzandosi a fronteggiarlo-“ E lui è Olaf e non è un piccoletto…è solo un po’ più basso.”-

Olaf fece un colpo di tosse, alzando un sopracciglio, scoccandole uno sguardo dubbioso.

Anna si riprese dal lapsus: “Ehm, volevo dire che è basso, ma è un concentrato di zucchero, cannella e ogni cosa bella!*” –

La ragazza stava straparlando più del solito, lasciando che le parole sconnesse, che le si formavano in testa, fluissero libere sotto la spinta dell’ebbrezza , attraverso le sue labbra screpolate.

-“Non sapevo fossi una Power Puff Girl!”- scoppiò a ridere il tizio, indicando Olaf.

-“Anna!”- si lamentò il piccoletto, voltandosi verso di lei.

-“Che c’è?”- chiese, scuotendo le spalle, ignara del casino che aveva appena fatto.

-“ Allora, questo bicchierino quando arriva?”- continuò imperterrito il tizio.

-“Bevitela da solo la tua staffa!”- borbottò Anna, recuperando la sua borsa per uscire.

Il tizio l’afferrò per la vita, prima che potesse fare due passi: “Te ne vai così? Senza nemmeno il bacio della buonanotte?”- le alitò in faccia, stringendola di più.

Anna cercò di divincolarsi, aggrappandosi al suo braccio con le unghie laccate di rosso: “Lasciami andare, brutto…”-

Olaf cercò di scavalcare il bancone, cadendo rovinosamente in terra tra gli sgabelli, per aiutare l’amica.

-“Ehi, toglile le mani di dosso.”- intervenne una voce alle loro spalle.

Il tizio si voltò verso Kristoff, che era accorso non appena aveva visto Olaf cadere goffamente.

-“E tu chi diavolo sei, per dirmi quello che devo fare, eh?”- gli chiese alzandosi a fronteggiarlo, continuando a tenere ferma Anna, che per quanto si applicasse, non riusciva a liberarsi dalla presa ferrea di quell’idiota, che ora fronteggiava l’idiota del caffè: “Il suo ragazzo?”

-“No, sono…suo fratello.”- sputò fuori Kristoff, cercando di mantenere il sangue freddo.

-“Sul serio? Non vi assomigliate per niente.”- ridacchiò, spingendolo indietro con una mano.

-“Abbiamo un padre diverso.”- proruppe Anna, cercando di dare manforte al biondo-“Ora, dopo la spiegazione del nostro albero genealogico, ti dispiacerebbe lasciarmi…andare?”- continuava a dimenarsi senza esito.

-“Sentito mia sorella? Lasciala subito, altrimenti ti ritrovi con il culo nella neve nel giro di tre micro secondi.”- continuò Kristoff, facendosi sempre più vicino al tizio, sovrastandolo con la sua altezza.

Il braccio che teneva ferma Anna si allentò, fino a lasciarla completamente libera.

-“Ehi, stiamo calmi. Volevo solo divertirmi un po’.”- esclamò facendo un passo indietro.

-“Con me? Hai sbagliato persona, fratello.”- gli rispose Anna, aggiustandosi il maglione sgualcito, e agitando un dito davanti alla faccia del tizio.

Kristoff la osservò ondeggiare paurosamente, quasi stesse perdendo l’equilibrio, e prima che potesse cadere addosso all’idiota o con la faccia sul pavimento, l’afferrò per mano, tirandola su: “Calmati furia scatenata, il tuo amico se ne sta andando, vero?”-

Il tizio scoccò un’altra occhiata ad Anna e poi alla mano di Kristoff che la teneva ferma: “Non c’era bisogno di tutta questa scena, te la puoi tenere. Non mi interessano i giocattoli di qualcun altro.”- poi si girò e raggiunse il gruppo di amici che aveva lasciato al tavolo.

Anna cercò di avventarsi su di lui, ma Kristoff la tenne ferma: “Credo sia ora che tu torni a casa.”- le disse facendola sedere.

-“Già, lo credo anch’io.”- disse Olaf, massaggiandosi il fianco dolorante-“La accompagni tu? Posso finire io qui.”-

-“Che?”- proruppero entrambi.

-“Posso farcela da sola, non ho bisogno della tata.”- sbottò lei.

-“Io non porto la gente a casa.”- si lamentò lui.

Olaf li fissò per pochi secondi, prima di puntare il dito verso Anna: “Tu non lascerai questo posto, se non accompagnata da qualcuno di mia fiducia.”- si voltò verso Kristoff- “E tu sei l’unico di cui mi fidi al momento. E poi lei non è ‘gente’! Lei è Anna, una delle mie clienti affezionate e da ora anche ottima amica.”- sorrise alla ragazza.

Le labbra di Anna si piegarono in un morbido sorriso, prima che le parole di Olaf giungessero al suo cervello in tutta la loro chiarezza: “Senti, Olaf apprezzo il fatto che ti preoccupi per me, ma…”

-“Shh!”- la zittì lui.

-“Ma io…”-cercò di continuare.

-“Shh-shh!”-le puntò un dito alle labbra-“ Niente obiezioni. Ci vediamo Anna. Dormi bene.”- le augurò dandole un buffetto sulla guancia, lasciandola senza parole.

-“Kristoff, noi ci vediamo domani. Mi raccomando portala a casa sana e salva.”- aggiunse allontanandosi.

I due rimasero a fissarlo, senza muoversi, poi si voltarono l’uno verso l’altra e i loro sguardi si incrociarono per un imbarazzante secondo, prima che lui si schiarisse la voce: “A-aspetta qui, i-io devo prendere le chiavi.”-

Anna lo guardò avventurarsi nel retro del pub e uscirne qualche minuto dopo con un mazzo di chiavi in mano e il cappotto addosso, quello su cui gli aveva versato il caffè, da come poteva dedurre dall’alone scuro sul petto.

Lui si avviò verso l’uscita, aspettando che Anna lo seguisse, ma lei rimase seduta a guardarlo con un’aria strana: “Allora, vieni?”- le chiese sospirando scocciato.

Anna si riscosse e recuperando la sua borsa lo seguì fuori, in silenzio.

-“Senti, non c’è bisogno che mi accompagni, davvero. Ce la faccio anche da sola e poi io abito a qualche isolato da qui, potrei prendere la metro.”-

-“Non se ne parla. Se Olaf viene a sapere che ti ho lasciata vagare per le strade di New York”- si fermò a guardare l’orologio-“…all’una di notte! Cavolo non pensavo fosse così tardi. Comunque non me lo perdonerebbe mai.”- disse, scrollando il capo.

-“Se ci tieni tanto…beh, allora portami a casa.”- accettò, seguendolo barcollante sul marciapiede, fino ad una macchina nera-“Non posso crederci, ma voi maschi siete fissati con le Mustang? Cos’è vi impiantano la voglia di averne una nel codice genetico?”- sbuffò, guardando la vecchia macchina, tirata a lucido.

-“Spero tu stia scherzando! Questa è una Impala del ’67, della Chevrolet…non ha nulla a che vedere con una Mustang.”- le rispose accarezzando la carrozzeria e aprendo lo sportello del guidatore.

-“Si, è lo stesso. Per me una vale l’altra.”- lo liquidò, salendo al posto del passeggero, battendo la testa.

-“Ce la fai a salire o ti serve una mano?”-

-“Ehi, non sono ubriaca, mi gira solo un po’ la testa.”- in realtà vedeva quasi doppio e la testa le vorticava come sulle montagne russe, ma non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di cadergli davanti agli occhi.

-“Come vuoi.”- tagliò corto, mentre lei chiudeva lo sportello-“ Metti la cintura.”-

Lei obbedì come una brava bambina, tirò la cintura e cercò con tutta la buona volontà di inserirla al suo posto, ma non riusciva a capire quale, delle due fessure che vedeva, fosse il congegno per fermare la cintura.

Kristoff la guardò, cercando di non ridere: “Hai fatto?”- le chiese facendola trasalire.

Anna alzò lo sguardo su di lui, lo fissò attraverso i capelli che le erano sfuggiti dalle trecce, imbarazzata: “Ehm, potresti…”-

Click. La cintura era la suo posto, senza che lei avesse avuto il tempo di concludere la frase.

Quando il rumore del motore riempì il silenzio dell’abitacolo, Anna si accasciò contro lo schienale del seggiolino, sospirando: chi avrebbe mai pensato che l’idiota del caffè, sarebbe potuto diventare il suo salvatore! Doveva ringraziarlo. Se non l’avesse fatto subito, ne era certa, se ne sarebbe dimenticata.

-“Garzie…p-per prima.”- biascicò a metà tra il sonno e la veglia –“Gli idioti come quello meritano di essere presi a calci.”-

-“Anch’io  allora, perché secondo il tuo giudizio rientro nella categoria degli idioti.”- la punzecchiò, mentre sostavano ad un semaforo.

Anna ci pensò su un attimo: “Nah, stai facendo passi avanti: ora sei nella categoria finto-fratello-che-non-sapevo-di-avere-che-mi-ha-salvata-dall’imbecille-di-turno. Continua così e potresti anche diventarmi simpatico.”-

Il sorriso che gli vide spuntare sulle labbra, mentre ripartiva, le fece attorcigliare lo stomaco, o forse era solo quello che aveva bevuto che le si stava rinfacciando. Così impari a bere a stomaco vuoto, idiota.- si accusò, chiudendo gli occhi e scivolando in un piacevole torpore.

 

 

Elsa stringeva tra le mani il bicchiere, come se da esso dipendesse la sua stessa vita, mentre ascoltava con poco interesse quello che il rampollo Westerguard aveva da dirle. Megara la fissava dal fondo della sala, con uno sguardo preoccupato, scoccando delle rapide occhiate tra lei e Ades, che chiacchierava animatamente con un nutrito gruppo di lupi di Wall Street.

Hans era stato un’ottima scappatoia, prima che Ades la costringesse a fare compagnia a qualcuno dei suoi vecchi amici. Era stato gentile e finora non aveva fatto passi falsi, le aveva offerto da bere e si era lanciato nel riepilogo delle storie scandalose dei presenti, quindi per il momento era al sicuro.

-“Vedi quello laggiù?”- le disse indicando un vecchio con il doppiopetto e un sigaro tra le dita-“Quello è Joe Dallas, uno dei petrolieri texani più ricchi della nazione. Ha settant’anni suonati, tre matrimoni alle spalle, una decina di figli e continua ad importunare le giovani ragazze. È un giocatore incallito di poker e proprio il mese scorso, ha perso un ranch di sua proprietà con una mano sfavorevole.”- sorrise tra sé, sorseggiando il suo Martini.

-“Perché  mi stai raccontando tutto questo?”- gli chiese, cercando di capire dove volesse andare a parare con tutte quelle storielle indecenti.

-“Solo per dimostrarti che non devi temere questa gente. Anche loro hanno dei segreti e delle debolezze.”- le sussurrò in un orecchio.

Il suo fiato caldo, contro la pelle delicata del collo, le fece correre un brivido lungo la schiena: “Io non ho paura di queste persone.”- disse in un soffio, guardandolo negli occhi.

-“I tuoi occhi dicono il contrario, cara Elsa. La paura è una cosa che non si può nascondere. Affiora in superficie senza che tu possa far nulla, con piccoli segni evidenti: le mani che tremano, le pupille che si dilatano.”- le disse posandole una mano, sopra le sue, chiuse attorno al bicchiere, fermandone il tremito-“ Chi è, che ti fa tanta paura qui dentro?”- le accarezzò una guancia con il dorso della mano, libera dal Martini.

Lei si fermò a fissarlo in quegli occhi di un verde innaturale, per capire cosa si nascondesse dietro tanto interesse, mentre tratteneva il respiro. Si scostò brusca, facendo un passo indietro: “I-io devo andare, è stato un piacere fare la sua conoscenza signor Westerguard.”- si affrettò a dire, prima di essere bloccata da un braccio attorno alla vita.

-“Els, vedo che hai conosciuto il figlio del capo di tutta la baracca.”- le sorrise il nuovo arrivato-“Come va West?”- chiese porgendogli una mano.

Lei tirò un sospiro di sollievo, nello specchiarsi negli occhi chiari del suo amico Jack.

-“Bene, prima che arrivassi tu, North.”- Hans strinse la mano dell’amico di controvoglia, dato che gli aveva appena rubato il suo passatempo.

-“Di che stavate parlando? Spero non di me, mi offenderei a morte.”- fece fintamente offeso.

-“In realtà, me ne stavo andando.”- puntualizzò Elsa.

-“Direi che ritirata strategica, si addice di più a quello che stai facendo.”- la provocò Hans, scoccandole uno sguardo divertito.

-“Bene allora, che ne dici se ti accompagno io a casa?”- le chiese Jack, ignorando il commento dell’altro.

-“Si. Portami a casa.”- lo supplicò quasi lei, stringendosi al suo braccio, non staccando lo sguardo dagli occhi magnetici di Hans.

-“Come desidera mia regina.”- scherzò Jack-“West, è stato un piacere rivederti. Dovremmo vederci qualche volta, per una partitella o che ne so.”- gli disse sorridendo.

-“Si, certo.”- lo liquidò Hans recuperando il suo Martini e svuotando il bicchiere in un sorso, mentre li guardava allontanarsi verso l’uscita.

Quando Elsa si voltò a guardarlo un'ultima volta, prima di varcare la porta, decise che sarebbe stata sua, in un modo o nell’altro. Al diavolo tutto il resto: se poteva averla Jack North, di certo poteva farcela anche lui.

 

 

-“Grazie.”- gli sussurrò una volta che furono da soli.

-“Elsa, non devi ringraziarmi. Finché potrò salvarti da certe situazioni, lo farò sempre.”- Jack fissava la strada davanti a lui, tenendo una mano sul volante e l’altra stretta a quella di lei.

-“Spero tanto che finisca tutto e in fretta.”- si lamentò nel buio della macchina.

-“Lo spero tanto anch’io. Tooth non vorrebbe vederti in questo stato, le si spezzerebbe il cuore se fosse qui.”-

Silenzio. Solo silenzio, pesante come un macigno.

-“Credi che ce la farò?”- una lacrima le scese lungo la guancia, mentre guardava fuori dal finestrino.

-“Non ho dubbi. Sei più forte di quanto tu creda.”-

Ancora silenzio.

-“Credo che tutti voi riponiate troppa fiducia in me.”-

 

 

La macchina inchiodò all’improvviso, riscuotendola dal suo improvviso attacco di narcolessia, e facendole rivoltare lo stomaco. Spalancò gli occhi di botto, portandosi una mano alla bocca.

-“Siamo arrivati.”- disse con calma Kristoff, voltandosi verso di lei e cominciando ad agitarsi alla vista della sua faccia pallida e delle mani saldamente premute sulle sue labbra-“Qualcosa non va?” le chiese, sperando che lei non gli rispondesse quello che temeva.

-“Sto per vomitare.”- Anna confermò le sue paure, mugugnando in disappunto.

-“Non pensarci nemmeno per sogno!”- sbottò lui-“Ho appena finito di pagarla.”- cominciò ad agitarsi sul seggiolino mentre combatteva contro la cintura, per togliersela.

-“Avresti dovuto pensarci prima di inchiodare a quel modo! Un aereo che atterra, frena con meno forza di te!”- gli rispose stizzita, portandosi una mano allo stomaco, sentendo che l’attacco di nausea cominciava a scemare. Scese con non poca fatica dalla macchina, mantenendosi allo sportello chiuso.

Si voltò a guardare l’enorme palazzone grigio dove abitava e una domanda le sfuggì dalla bocca: “Come facevi a sapere dove abito?”- spalancò gli occhi, colta da una nuova rivelazione-“ Oh mio dio, sei uno stolker. Stai indietro sono cintura nera di shiatsu.”- gli intimò portando i pugni chiusi davanti alla faccia. Che strano, vedeva quattro delle sue mani.

Kristoff sospirò sfinito dal suo modo di fare: “Se vuoi stendermi a colpi di massaggi, fa pure.”- ridacchiò della sua espressione contrariata- “Sta tranquilla, me l’ha detto Olaf.”- la rassicurò, voltandole le spalle e avviandosi verso l’entrata -“E poi non sei il mio tipo.”- blaterò sottovoce.

Anna abbassò la guardia e lo seguì verso l’entrata. Una volta dentro l’ascensore, si lasciò scivolare vicino alla parete di metallo: “Guarda che non c’era bisogno di accompagnarmi fino alla porta.”- gli disse senza alzare lo sguardo dalla punta dei suoi stivali.

-“Io sto salendo al mio piano.”- replicò con poco entusiasmo, stropicciandosi gli occhi. Era stata un giornata davvero pesante e non vedeva l’ora di buttarsi con la testa sul cuscino, per dormire fino al mattino successivo.

-“Abiti anche tu qui?”- gli chiese sorpresa, mettendosi dritta.

Lui annuì semplicemente, mentre le porte dell’ascensore si aprivano sul pianerottolo illuminato:“Allora, buonanotte.”- la salutò.

-“Cosa? No, questo è il mio piano, non esiste al mondo che tu possa abitare qui e che io non me ne sia mai accorta!”- uscì in fretta, prima che le porte dell’ascensore si richiudessero-“Com’è possibile?- chiese al nulla, avvicinandosi alla porta del suo appartamento.

-“I misteri della vita.”- borbottò lui, mentre infilava le chiavi nella toppa della sua porta.

Anna intanto cercava di fare lo stesso, con miseri risultati: fece cadere le chiavi e abbassandosi a raccoglierle, un capogiro fece capitolare anche lei. Si tirò su a sedere, con la schiena rivolta verso la soglia, sbuffando. Ok, era così tanto ubriaca che non riusciva ad aprire la porta e a rimanere in equilibrio per più di tre secondi, e allora?

-“Serve aiuto?”- la sua voce,troppo  vicina, la fece trasalire. Lei lo guardò, mentre le tendeva una mano per rialzarsi. La tirò su e lei gli mise le sue chiavi in mano: “So che avevo detto che ce la facevo, ma ti dispiacerebbe…”- gesticolò verso la porta ancora chiusa, mentre vi si poggiava con tutto il suo peso.

Kristoff rovistò tra le varie chiavi e ne provò alcune, mentre Anna chiudeva gli occhi per l’ennesima volta, senza che lei potesse fare nulla per evitarlo. Quando sentì la serratura scattare ne fu sollevata, e fece un passo dentro il piccolo appartamento.

-“Da qui in poi ce la faccio da sola, grazie. Non credo serva che tu mi porti a letto.”- biascicò, mentre lanciava la sua borsa da qualche parte al buio, ignara di quello che aveva appena detto.

La faccia di Kristoff cambiò cinquanta sfumature di rosso in pochi secondi: “Oh, beh…okay. C-ci vediamo.”- fece per andarsene, sollevato che il suo compito fosse finito, ma un tonfo e parolacce dette a denti stretti, lo fecero tornare sui suoi passi.

-“Sto bene, s-to bene. Sono solo inciampata.”- cercò di difendersi.

Sospirò demoralizzato, mentre l’aiutava per la seconda volta a mettersi in piedi: perché lo faceva? Ormai era arrivata a casa, era un problema suo se cadeva e ci rimaneva secca sul pavimento. Avrebbe potuto tranquillamente chiudere la porta del suo appartamento dietro di sé e scivolare nel mondo dei sogni, senza doversi preoccupare della sorte di quella svampita.

-“Sto bene, davvero, ma…”- si voltò per ringraziarlo, ed incrociò il suo sguardo caldo e rassicurante, così diverso da quello che gli aveva visto nella metro o quello che le aveva rivolto quella stessa sera al pub. Trattenne il fiato, mentre lui la guardava di rimando, tenendola ancora stretta per…quale motivo?

-“Lasciala immediatamente o per quanto è vero che gli scozzesi indossano il kilt, ti ficco questa su per il…”- Merida sostava sulla porta della camera, imbracciando l’arco armato, puntandolo verso Kristoff.

-“Woah! Mai sei pazza.”- esclamò lasciando andare Anna, che barcollò all’indietro presa alla sprovvista, cercando di recuperare l’equilibrio.

-“Mer!”- scattò verso l’amica, facendole abbassare l’arco, che sembrava molto fuori luogo tra le quattro mura di un appartamento per collegiali-“Ti sembra il modo?”- la rimproverò.

-“Anna, ma quanto hai bevuto?”- Merida si scostò dall’amica.

-“Un po’.”-

-“Un po’ quanto? E lui chi diavolo è?”- protestò, indicandolo bruscamente.

-“Ehm, io sono quello che toglie le tende e se ne va a dormire.”- Kristoff uscì alla svelta, evitando di guardare l’invasata con l’arco.

-“No, tu non vai da nessuna parte! Ora mi dici perché Anna è in queste condizioni e…”- cercò di seguirlo.

-“Mer! Lascialo stare, mi ha solo riaccompagnata a casa.”- la rabbonì, mettendosi a sedere sul divano.

-“Ma come…?”-

-“Chiudi la porta, la luce mi fa male agli occhi.”- si lamentò, lanciandole un cuscino-“Christofer, ti devo un favore!”- urlò poi, indirizzata al ragazzo che aveva battuto in ritirata, barricandosi nel su appartamento.

-“Anna!”- Merida chiuse di scatto la porta, facendo sobbalzare la coinquilina per il rumore, che nelle sue orecchie ubriache rimbombava come il motore di un jumbojet.

-“Shhh!”- la zittì-“Ne parliamo domani.”- Anna si stese sul divano, premendosi un braccio sugli occhi, troppo pesanti per tenerli aperti.

-“Non finisce qui.”- l’avvertì la scozzese.

 

 

 

 

NdA: come butta bella gente? Ho aggiornato alla velocità della luce secondo i miei standard…spero siate felici almeno la metà di quanto sono felice io d’aver postato ;)

Allora non ho nulla da dire, perché tipo questo capitolo è la continuazione del precedente. Spero solo vi sia piaciuto.

Ho alcune cose da chiarire: non conosco il football americano e per descrivere un’azione mi sono dovuta documentare su Wikipedia, quindi se ho detto cavolate lasciatemele passare XD I Denver Broncos sono la squadra di Denver appunto, la capitale del Colorado, lo Stato da dove viene Anna nella mia ff, per questo lei tifa questa squadra. Inoltre i Broncos sono stati per davvero alla finale del Super Bowl quest’anno, che poi abbiano perso contro i Seattle Seahawks è un altro discorso XD

Anna dice che Olaf è un concentrato di “zucchero, cannella e ogni cosa bella” e il tizio molesto ride, dicendo che non sapeva che lui fosse una Power Puff Girl. Spiegazione: le PPG sono le Superchicche, non so se qualcuno di voi se le ricorda e la sigla diceva che il loro creatore aveva usato zucchero, cannella e ogni cosa bella, per realizzarle. Forse spiegata non fa più ridere, ma tant’è…XD

La macchina di Kristoff, l’Impala del ’67, è la macchina dei fratelli Winchester di Supernatural e mi piaceva per lui.Ora avete capito che mi piacciono i riferimenti a telefilm e cartoni di vario genere? Spero li apprezziate :)

Se qualcos'altro non è chiaro fatemelo sapere :) Credo d’aver detto tutto…

Anzi NO! Rullo di tamburi…c’è una sorpresa, o almeno per me lo è stata ;) La dolcissima e talentuosissima Laura, alias weepingangel qui su efp, mi ha inviato dei bellissimi disegni ispirati da questa ff eccoli qui: Grazie mille!

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Capitolo 7
*** Awakenings ***


Booom! Questo chap è per te Adri!! X’D
 
 
Capitolo 7: Awakenings

 

 

7:22 del mattino. Chi diavolo era che la disturbava a quell’ora assurda? Di lunedì mattina per giunta!

Il cellulare continuava a vibrare nella sua pochette, che aveva gettato senza tanti complimenti da qualche parte sul pavimento la sera prima. E lei continuava a fissare l’orologio digitale, con i suoi numeri rossi e giganti, che in quel momento batteva le 7:23.

Rotolò via dalla presa dell’uomo al suo fianco, infinitamente piano, per non svegliarlo: non voleva vedere i suoi occhi e nemmeno il sorriso divertito che le avrebbe rivolto appena avesse posato il suo sguardo su di lei. In effetti  non c’erano pericoli: dormiva così profondamente da sembrare morto.

Con l’aspetto che si ritrova, direi più il dio dei morti, concordò con se stessa, lasciando vagare lo sguardo sulla figura possente e semi coperta dell’uomo.

Recuperò la sua camicia dal pavimento e se la infilò, non per romanticismo o per qualcosa che implicasse il fatto che lui le piacesse, ma solo perché infilarsi il vestito che lui le aveva tolto con tanta velocità la notte precedente avrebbe richiesto troppo tempo, tempo in cui il vibrare del cellulare le avrebbe trapanato il cervello.

Raggiunse velocemente l’oggetto incriminato e sbloccò lo schermo, sospirando nel leggere il messaggio che le avevano lasciato.

DOVE SEI? -H

Se solo lo sapessi, non mi guarderesti nemmeno più in faccia, pensò oscurando lo schermo, senza rispondere.

Rimase a fissare il cellulare tra le sue mani per alcuni minuti, vergognandosi come una ladra per quello che aveva fatto. L’uomo alle sue spalle si rigirò nel letto, riscuotendola dal suo stato di torpore. Uscì in fretta dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé. La luce del sole che sorgeva su un altro giorno la avvolse non appena mise piede nell’enorme salotto, che si affacciava sullo skyline di New York. Addormentarsi in un superattico aveva i suoi pregi, e tra le tante cose, quella era una delle poche che le piacesse così tanto: vedere la città svegliarsi pian piano, animarsi di taxi e pedoni indaffarati, che da quell’altezza sembravano formiche impazzite. Anche lei sarebbe dovuta essere per strada, lontana da quel posto. Il suo riflesso nella gigantesca vetrata le rimandava l’immagine di una piccola donna, troppo coinvolta in qualcosa più grande di lei, schiava degli istinti e della paura.

La sentì arrivare, la crisi di nervi imminente del giorno dopo. Strinse i pugni e ricacciò indietro le lacrime. Rovistò tra le tasche della sua giacca, lasciata sul divano di pelle, alla ricerca delle sigarette. Le teneva in una scatolina di metallo nero laccato, assieme allo zippo decorato con un teschio.

Così fine eppure così kitsch, sorrise tra sé, mentre ne sfilava via una e se la metteva in bocca.

La piccola fiamma dell’accendino le bruciò i polpastrelli, mentre l’estremità della sigaretta diveniva incandescente. Posò l’accessorio dove l’aveva trovato e inspirò profondamente. Trattenne il fiato per tutto il tempo possibile, poi cacciò il fumo, guardando le volute grigie diradarsi nell’aria attorno a lei. A volte anche lei si sentiva così, come se il più semplice refolo di vento avesse potuto dissolverla, trascinandola via nella corrente.

Aspirò ancora una volta, poi di nuovo, persa nel momento di quiete dopo la tempesta. Poi una mano, la sua mano, le tolse la sigaretta dalle dita, spegnendola con un movimento veloce nel posacenere di cristallo, sul tavolino da caffè, che sembrava più un pezzo d’arte che un mobile d’arredamento.

Non l’aveva sentito arrivare.

-“Sai che odio quando lo fai?”- le soffiò la sua voce, arrochita dal sonno.

-“Cosa? Fumare?”- lei lo sapeva, lo faceva di proposito ogni volta che si risvegliava nel suo appartamento. Qualunque cosa pur di fargli dispetto: era la sua piccola rappresaglia per fargli sapere che lui non comandava su tutto, che almeno qualcosa le era ancora concessa.

-“Già. È davvero volgare, sembri una…”-

-“Prostituta d’alto bordo? Ma lo sono.”- lo beccò, interrompendolo, un’altra cosa che lo infastidiva.

-“Smettila di giocare alla bambina cattiva. Il broncio non ti si addice.”- le disse.

-“Non mi sembra d’avere molto per cui sorridere.”- gli rispose, voltando il viso lontano dal suo sguardo penetrante. Lui prese a giocherellare con i suoi capelli, lasciati liberi a coprirle le spalle.

-“Sicura? Avresti potuto svegliarti nel letto di Dallas o peggio ancora di uno dei Westerguard: sai, ho sentito dire che sono parecchio esigenti.”- ridacchiò a labbra strette -“Invece eccoti qui fiorellino. Mi sembrava che apprezzassi la mia compagnia, ieri sera.”- le disse, tirandole una ciocca di capelli scuri, che aveva arrotolato attorno al dito indice.

-“Mi fai schifo.”- sibilò tra i denti lei, sottraendosi al suo tocco.

-“Non è vero Meg cara, e lo sai, altrimenti non saresti qui.”-

E lei lo sapeva perfettamente e si odiava per quello. Lo disprezzava con tutta se stessa, ma non poteva fare a meno di lui. Sindrome di Stoccolma, le avrebbe detto Elsa. Ma non era vero perché, per quanto lui fosse il suo aguzzino, lei gli si era consegnata spontaneamente, senza giochetti psicologici o violenza fisica. Quando qualche tempo prima l’aveva colpita, lo aveva fatto colto da un eccesso d’ira, per cui poi si era scusato in un modo molto efficace. E quando Elsa l’aveva trovata rannicchiata sul divano in lacrime, con un livido sulla guancia, non le aveva detto il vero motivo per cui piangeva; non per il dolore, o per la paura, ma solo per il disgusto che provava verso se stessa: gli si era concessa, allettata dalle languide carezze e dalle frasi sussurrate sulle sue labbra. Era umana, donna per giunta, e per quanto ne potesse dire la sua coinquilina, non era per nulla forte. Aveva bisogno d’amore nella sua vita piena di fantasmi e, anche se quella era la cosa più lontana dall’amore che esistesse, lui la faceva sentire desiderata e amata, a modo suo.

E poi lui era…lui. Anche con i suoi quasi 40 anni, rimaneva l’uomo più piacente e seducente che avesse mai visto.

-“Non mi pare d’aver avuto molta scelta. Se te l’avessi chiesto, mi avresti lasciata andare?”-

-“No.”- rispose secco, facendole accapponare la pelle. Sapeva farla rabbrividire di piacere e al tempo stesso farle venire la pelle d’oca per la paura, solo con un’inflessione della voce.

-“Sai,”- cominciò, prendendole il mento e voltandole il viso verso di lui –“potrei decidere di non lasciarti andare mai più; potrei decidere di tenerti per me soltanto, senza l’intromissione di altri uomini; potrei decidere di lasciare solo la tua amichetta a fare il lavoro sporco.”- le sussurrò sulle labbra –“Ti piacerebbe?”-

Meg lo fissò intensamente, con gli occhi spalancati per la paura: non poteva dire sul serio.

-“Come puoi chiedermelo?”- fece quasi sconvolta –“Non potrei mai lasciare Elsa da sola in mezzo a tanti”- temporeggiò pensando alle parole da usare –“… rifiuti umani!”

-“Meg, Meg, Meg.”- la canzonò –“L’altruismo e il cameratismo poche volte aiutano e, di solito, non ti portano lontano.”- le sue carezze diventarono più insistenti.

Meg chiuse gli occhi, cercando di non cedere alla malia di quelle mani esperte e tentatrici.

-“E poi Elsa non sembra avere nei tuoi confronti la stessa premura che hai tu verso di lei.”- quelle parole la riportarono con i piedi per terre, risvegliandola da quel torpore intossicante in cui la gettava la presenza di Ades, come una secchiata d’acqua gelata –“ Ti ha lasciata da sola ieri sera, o sbaglio? È fuggita via assieme a quel bamboccio del figlio di Nick North, senza preoccuparsi di te, di quello che sarebbe potuto accaderti, o di chi ti avrebbe riaccompagnata a casa…o se, saresti tornata a casa.”

-“Stava lavorando anche lei, no? Perché avrebbe dovuto preoccuparsi di me?”- cercò di eludere la domanda, anche se il pungiglione velenoso delle sue parole, l’aveva colta su un nervo scoperto: il solo pensiero che Elsa l’avesse lasciata di proposito da sola o che, ancora peggio, non si fosse interessata della sua sorte, la faceva sentir male.

Sobbalzò, presa alla sprovvista, quando Ades le strinse forte i fianchi e l’attirò a sé con prepotenza, con uno sguardo irato negli occhi: “Credi che non mi sia accorto a che gioco sta giocando la tua amica? Crede di essere furba, mmh? E tu di certo non puoi sperare di prendermi in giro come lei, tesoro. Sei un libro aperto per me: riesco a leggere tutto quello che ti passa per la mente, attraverso il tuo sguardo.”- ridacchiò compiaciuto –“Ad esempio, in questo momento vorresti colpirmi, ma la paura ti blocca. Fallo , Meg. Colpisci forte.”- la stuzzicò.

Meg cercava di mantenere un’espressione neutra e lo sguardo impassibile, così che lui non potesse leggervi altro, anche se il cuore le batteva impazzito nel petto ed era sicura di essere diventata di una sfumatura di bianco cadaverico.

La battaglia di sguardi durò alcuni infiniti secondi, prima che lui la lasciasse andare, con un sorriso, quel sorriso che lei tanto odiava, trionfante.

Lo aveva fatto di nuovo. Aveva vinto lui.

-“Ho una riunione importante e non posso far tardi. Ci rivediamo stasera.”- le disse dandole le spalle –“Nic ti riaccompagnerà al tuo appartamento.”- 

Lo guardò allontanarsi di qualche passo e poi voltarsi di nuovo verso di lei: “E di’ ad Elsa che non ci sarà sempre Jack North a salvarla.”

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L’odore dei pancake l’aveva ingannata, facendole immaginare di essere di nuovo a casa, al caldo nel suo letto, con le coperte tirate fin sul naso, Anna che ronfava nella camera accanto e la mamma giù in cucina a preparare la colazione per tutti. Ed invece, quando aprì gli occhi, con un sorriso davvero felice sulle labbra, si ritrovò in una camera che non era quella di casa, né quella del suo appartamento.

Le ci volle qualche minuto per realizzare dove fosse.

Le camere degli ospiti le facevano sempre uno strano effetto, perché erano vuote, prive di un’anima propria, senza un pizzico di vita a colorarne le pareti o le suppellettili: la facevano sentire estranea e non voluta, come un regalo indesiderato, lasciato in un angolo. Questa, per quanto accogliente fosse, non faceva eccezione.

Eppure, era solo una sua strana sensazione, nessuno l’aveva accolta lì di controvoglia, anzi. La sera prima aveva pregato Jack di non riaccompagnarla al suo appartamento, ma di portarla ovunque ci fosse la vita vera.  Andiamo a bere, per quanto ne possiamo sapere potremmo essere morti entro domani mattina, gli aveva detto. Ma Jack non si era lasciato impressionare da quelle parole: l’aveva guardata trattenere a stento le lacrime che le riempivano gli occhi e aveva ingranato la quinta, senza rivelarle la loro destinazione.

Quando erano arrivati nei garage sotterranei del North Building, l’aveva ringraziato silenziosamente per non averle dato ascolto e, appena ne aveva avuto l’opportunità, lo aveva stretto in uno di quegli abbracci che molto raramente concedeva, trattenendolo a sé più del necessario. Ma lui non si era scostato. Aveva ricambiato il gesto con più trasporto di quanto Elsa s’aspettasse.

-“Preferisci dormire nella camera degli ospiti o…”- le aveva chiesto, appena avevano varcato la soglia del suo appartamento.

-“La camera degli ospiti andrà benissimo.”- lo aveva interrotto prontamente lei, abbassando lo sguardo imbarazzata.

Lui le aveva fatto strada, anche se lei avrebbe saputo trovarla ad occhi chiusi quella stanza. La vista dell’enorme letto a doppia piazza aveva immediatamente risvegliato la sua stanchezza, lasciandole addosso il desiderio di tuffarsi tra quei morbidi cuscini e non risvegliarsi mai più.

- “Vuoi che resti a farti compagnia finché non ti addormenti?”- le aveva chiesto ancora, quando lei aveva tentennato sulla soglia, tremando impercettibilmente.

Aveva annuito, senza pensarci due volte. Quel letto così invitante le era sembrato all’improvviso troppo grande, freddo e vuoto. Jack le aveva rivolto un piccolo sorriso rincuorante ed era sparito per alcuni minuti, per riapparire poi con indosso la sua tenuta da notte e degli indumenti adatti per lei, tra le mani.

-“Credo che questi ti vadano bene…erano di Tooth.”- le aveva detto, depositando sul letto gli abiti piegati.

Aveva annuito sovrappensiero, poi si era cambiata in fretta e in silenzio, evitando di indugiare troppo sui suoi pensieri tetri, sui ricordi conservati in quella casa, tra le pieghe di quelle lenzuola, nel profumo di quegli abiti che non le appartenevano, ma che non avevano più un proprietario.

Si era lasciata cullare dall’abbraccio di Jack finché il sonno non l’aveva vinta, non trovando nessun imbarazzo in quella loro vicinanza o nelle parole di conforto che le aveva rivolto. In realtà, sarebbe stata bene con lui anche in silenzio, ma lui sembrava ostinato a voler riempire quelle pause con gesti premurosi e frasi apprensive. Si era sentita amata, come non le accadeva da molto e il suo sonno era stato piacevole e ristoratore, privo degli incubi che la turbavano quasi ogni notte. Si sentiva a casa tra le braccia di Jack. Eppure non aveva sognato lui quando il sonno l’aveva vinta.

Un paio di occhi giada avevano danzato dietro le sue palpebre chiuse, per tutta la notte. Occhi che la scrutavano attentamente, che le scavavano dentro, alla ricerca di un tesoro dimenticato sul fondo della sua anima. Per quanto assurdo fosse stato il loro incontro, Hans Westerguard, con il suo portamento fiero, il sorriso luminoso, lo charme di un uomo d’altri tempi e i suoi modi affabili, si era indubbiamente scavato una piccola nicchia nei suoi pensieri. Le era  difficile decifrare quali sensazioni le suscitasse il ricco erede: oscillavano dall’inquietudine ad un’insana attrazione. Ma anche ora che si trovava in quel letto troppo grande per lei sola, ad osservare il soffitto stuccato, non riusciva a venire a capo di quel mistero che era il più giovane dei Westerguard.

Tutto in lei aveva gridato fuggi, quando lui le si era avvicinato come un predatore, con passo sicuro e silenzioso, quasi temesse di farla scappare se avesse fatto il minimo rumore. Si era sentita come un uccellino in gabbia, messo all’angolo dal gatto. Tuttavia la sua voce calda e pacata, e il suo tocco leggero sulle sue mani fredde, aveva calmato il ritmo accelerato del suo cuore.

E quando Jack l’aveva portata via, sottraendola alla sua presenza ingombrante, non aveva potuto fare a meno di voltarsi a guardarlo per un’ultima volta, incrociare il suo sguardo sicuro e penetrante, guardare quegli occhi troppo belli per essere veri e la sua espressione delusa nel vederla andare via.

Un bussare alla porta la richiamò alla realtà: “Els, sei sveglia?”

Si alzò a sedere, stropicciandosi gli occhi: “Tra un po’.”- disse sorridendo a Jack, che si era fermato sulla soglia.

-“Babbo Natale e signora sono seduti a colazione, ti andrebbe di farmi compagnia?”- le chiese, prendendo il giro il padre con quel soprannome calzante.

-“Con piacere.”-  disse strofinandosi di nuovo gli occhi. Le mani erano diventate nere, piene del makeup con cui era andata a dormire –“ Forse dovrei rendermi presentabile prima, che dici?”-

-“Il bagno sai dov’è e per quanto riguarda i vestiti, puoi benissimo venire in pigiama, ma se vuoi l’armadio di Tooth è sempre nello stesso posto.”- le disse abbassando lo sguardo.

Elsa gli si avvicinò e gli lasciò un bacio sulla guancia: “Grazie.”- Si ritrovò a pensare che, molto probabilmente, non avrebbe mai smesso di ringraziare Jack North.

*-*-*-*-*-*-*

Rovistare tra i vestiti della sua migliore amica morta, come fosse in uno dei tanti franchising Target, non era il modo migliore per cominciare la giornata. Purtroppo le toccava se non voleva scendere in strada con un pigiama verde con stampe di colibrì, o ancora peggio con un vestito Armani ricoperto di paillette a specchio che avrebbe praticamente calamitato l’attenzione di mezza New York su di lei. Essere al centro dell’attenzione era tutto ciò che non voleva in quel momento. Così scelse gli abiti più semplici che riuscì a trovare: un paio di jeans, un maglione blu e delle snickers che un tempo dovevano essere di un bianco immacolato.

Si vestì in fretta, guardando in giro, osservando i resti materiali della vita di Toothiana North, la prima amica che avesse mai avuto, la sua spalla al liceo, la sua complice, la sua migliore amica, la sua sorella maggiore. Erano praticamente cresciute assieme. Quando i North avevano lasciato Arendale per trasferirsi nella Grande Mela, aveva sofferto come un cane: non c’era più alcun divertimento senza Tooth. Ma quando anche lei era arrivata a New York tre anni prima, le scorribande erano ricominciate e il divertimento si era triplicato, fino a quando... Ancora non le sembrava vero che lei non ci fosse più. Era qualcosa che la consumava dentro, il dolore della sua perdita. Poteva solo immaginare come dovesse sentirsi la sua famiglia, cosa provasse Jack. Toothiana era stata una figlia devota, un po’ pazza,  ma dedita alla sua famiglia, una studentessa modello, prima in tutti i suoi corsi, ed un brillante futuro chirurgo. Eppure tutti i suoi sogni erano andati persi, rinchiusi in un scatola. Per sempre.

I suoi occhi luminosi le sorridevano dalle foto appese nel lungo corridoio che portava alla sala da pranzo. C’era anche lei in alcune di quelle foto e in una c’era persino tutta la sua famiglia al completo: gli Aren e i North erano amici di lunga data. Alcune foto ritraevano il signor North con suo padre Agdar, insieme alla squadra di canottaggio di cui avevano fatto parte al college. In un’altra, i coniugi North si abbracciavano, con il piccolo Jack che faceva capolino da un fagottino tra le braccia della madre. Ingrid North le era sempre piaciuta, con il suo portamento elegante e i lunghi capelli biondi e quegli occhi scuri, profondi come due pozzi, capaci di inghiottirti, colmi di una tristezza che sembrava bruciarle l’anima. Si era sempre chiesta cosa nascondessero quegli occhi tristi, quale segreto celassero sul fondo. Eppure il suo sguardo era dolce e attento.

-“Eccoti Elsie.”- la salutò la padrona di casa, chiamandola con quel nomignolo infantile che le ricordava giorni più felici.

-“Buongiorno.”- sorrise, sedendosi al fianco di Jack che leggeva il giornale.

-“Elsa! Dovresti farti vedere più spesso da queste parti. Sai che casa nostra è sempre aperta per te.”- la rimproverò con un sorriso bonario il signor North.

-“Sono stata parecchio…impegnata negli ultimi tempi. Vedrò di farmi perdonare, zio Nick.”- rispose, versandosi del caffè.

North rise di gusto: “Era da tanto che non mi chiamavi più così. Ma tu in fondo rimani sempre la piccola Els, non è vero?”-

-“Già, la piccola Els.”- borbottò pensierosa, portandosi la tazza alle labbra. Era davvero quella di una volta? Molto probabilmente, no. Ma glielo avrebbe lasciato credere, ci avrebbe creduto anche lei per il momento, perché alla vecchia Elsa mancava sentirsi così, parte di qualcosa. Parte di una famiglia.

-“Quando Jack mi ha detto che eri nostra ospite, ho chiesto a Mariah di preparare i pancake per colazione. I tuoi preferiti, se non ricordo male.”- le sorrise Ingrid dall’altro lato del tavolo- “Lì c’è lo sciroppo d’acero e lì la cioccolata.”- le indicò due contenitori affusolati.

-“Si, grazie.”- le se illuminarono gli occhi: quanta premura mostravano nei suoi confronti, e lei non era stata capace di perdere due minuti per chiamare e chiedere di loro, di come se la passavano. Erano quello che di più vicino ad una famiglia avesse a disposizione al momento. Doveva ricordarselo più spesso.

Si riempì il piatto e ci versò su il cioccolato. Il primo boccone mandò in estasi le sue papille gustative e il secondo le mandò in circolo una quantità sproporzionata di endorfine, facendola rilassare ancora di più.

-“E Anna?”- chiese Nick. La semplice menzione del nome di sua sorella annullò tutti gli effetti benefici del cioccolato, che si trasformò in fiele sulla sua lingua

-“Dovremmo organizzare una cena una di queste sere e stare tutti assieme.”- continuò Ingrid, girando il cucchiaino nel suo tè.

Elsa scambiò un’occhiata con Jack, che non aveva ancora aperto bocca.

-“G-già”- farfugliò –“sarebbe una bella idea. Ad Anna farebbe sicuramente piacere.”-

Jack notò il suo disagio e intervenne: “Els io devo fare delle commissioni ad Harlem, vuoi che ti riaccompagni a casa?”-

-“Jack! Lasciala finire in pace. Posso farla riaccompagnare da uno degli autisti.”- lo rimproverò il padre.

-“No, no. In realtà avrei anch’io da fare. E uno strappo mi farebbe comodo.”- si scusò politicamente, pulendosi le labbra con un tovagliolo e alzandosi –“È stato bello stare con voi, anche se per poco.”- sorrise.

-“Torna quando vuoi Elsie.”- le ricordò ancora la madre si Jack, andandole incontro e stringendola in un abbraccio. Lei ricambiò, inspirando il profumo della donna, così simile a quello di sua madre.

 Lasciò a malincuore casa North quella mattina. Un pezzo di lei era rimasto lì con loro, nella rassicurante routine quotidiana, fatta di gesti piccoli e ripetitivi. La vecchia Elsa, quella vera.

Jack la riaccompagnò al suo appartamento di Prospect Park: “Mi dispiace per prima. Loro vogliono bene sia a te che ad Anna, e non immaginano nemmeno lontanamente tutta questa brutta situazione.”

-“Non c’è bisogno che tu dica niente, Jack.”- lo rassicurò –“Sono stati magnifici, come sempre. Anzi, sono stati un toccasana per me. Mi hanno fatto sentire meno la mancanza di casa.”

Jack le sorrise triste, prima di sporgersi sul seggiolino e posarle un bacio leggero sulla fronte: “Quella è anche casa tua, Els. Lo è sempre stata.”

-“Lo so.”- disse guardando fuori, evitando di incrociare il suo sguardo –“Grazie di tutto, J.”- aprì lo sportello.

-“Ci vediamo presto.”- la salutò l’amico.

Osservò la macchina sparire tra le strade trafficate e poi si voltò verso il palazzone grigio che le si stagliava davanti. Sospirò sconfitta.

-“Ricomincia la recita.”-

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Era in coda, da quanto? Venti minuti, mezz’ora? Non lo sapeva di preciso, ma sapeva con assoluta certezza che tra non molto sarebbe esplosa come una supernova. Cosa mi aspettavo? È lunedì mattina, si lamentò tra sé, battendo insistentemente il piede in terra. Il tizio alla cassa, davanti a lei, aveva ordinato venti diversi tipi di bevanda, tra caffè macchiati e tè al ginseng, da mandare ad un ufficio nel palazzo adiacente alla caffetteria. Stava sciorinando, con una cadenza lenta e fastidiosa, i nomi di tutti i suoi colleghi da apporre sui bicchieri.

-“Karis, con la K o con il Ch?”- chiese il commesso dietro al bancone, con un pennarello in un mano e un bicchiere di carta nell’altra.

Non ci vide più dalla rabbia: “Insomma amico, stai scherzando?”- sbottò, calamitando l’attenzione di mezzo negozio- “Quante Karis potranno mai esserci in un ufficio? Che importanza fa se è con a K o con il CH?”-

-“Finalmente qualcuno l’ha detto.”- sentì qualcuno borbottare dal fondo della fila alle sue spalle.

Il commesso scribacchiò veloce sul bicchiere, poi liquidò il cliente con uno sterile ‘Arrivederci’.

Merida scalò di un posto, finalmente capace di ordinare per sé: “Un doppio espresso e un London Fog.”-disse al ragazzo, che ormai la guardava come si guarda un bomba ad orologeria, mentre lei, ignorandolo, digitava un messaggio sul cellulare, da mandare ad Hiccup.

M- Prendi appunti. Oggi foldo, faccio da balia alla testa rossa.

H- Sta male?

M- Notte di bagordi…è tornata a casa con uno sconosciuto.

H-  Uno che non era Mr.IoHoUnContoInBancaaSeiZeri? Voglio tutti i retroscena.

M- OMG! Ti rendi conto che sembri una vecchia zitella in cerca di scoop? E ti chiedi anche perché Astrid ti ignora?

H- Sono curioso…tutto qui.

M- Devo andare. Ti aggiorno dopo Miss Marple XD

Gettò il cellulare in borsa, passò una banconota al cassiere e recuperò la sua ordinazione. Sorseggiò il suo tè, rigorosamente bollente ed amaro, mentre ritornava all’appartamento, ammettendo con sé stessa che la teiera che aveva acquistato qualche mese prima, era praticamente diventata un soprammobile, da quando aveva scoperto la comodità della caffetteria all’angolo.

Quando arrivò alla porta, aveva bevuto quasi tutto il contenuto del bicchiere, senza accorgersene, persa nei propri pensieri. Poggiò l’altro bicchiere ai suoi piedi e rovistò nella borsa alla ricerca delle chiavi, maledicendo quella sottospecie di pozzo nero e la tutta la paccottiglia inutile che si portava dietro. Quando finalmente riuscì ad entrare, trovò tutto come l’aveva lasciato quasi un’ora prima: Anna doveva ancora risvegliarsi dal suo coma indotto. Al suo risveglio l’avrebbe aspettata un terzo grado coi controfiocchi, dal quale poi avrebbe redatto un sunto da inviare ad Hiccup, che a sua volta lo avrebbe inoltrato a Rapunzel e in meno di dieci minuti la bionda si sarebbe fiondata nel loro appartamento, salendo tre rampe di scale a due a due, per accertarsi delle condizioni fisiche e mentali dell’amica in stato comatoso.

Sperò solo che Anna si svegliasse presto, perché a) il caffè che le aveva preso si sarebbe altrimenti freddato, diventando una ciofeca imbevibile e b) i suoi nervi avrebbero cominciato a dare i numeri.

Sbatté con forza la porta.

Anna, eccoti un piccolo aiuto.

*-*-*-*-*-*-*

Il rumore della porta che sbatteva la richiamò alla realtà, trascinandola via da un sonno senza sogni, popolato solo da ombre scure e visioni distorte. Rotolò nel letto, aggrovigliandosi nelle lenzuola; non ricordava di essere mai arrivata al letto o di essersi tolta le scarpe, ma eccola, distesa lì, più morta che viva.

Aveva un sapore atroce sulla lingua, una banda di mariachi scatenati che le suonavano la cucaracha in testa, e un buco allo stomaco profondo come la faglia di Sant’Andrea. Si stropicciò gli occhi e provò a mettere a fuoco la stanza e soprattutto la sveglia sul comodino.

9:35…la bastarda traditrice non aveva suonato!

-“Merda!”- saltò a sedere, con la conseguenza che la stanza cominciò a vorticarle furiosamente attorno e ricadde scomposta sul materasso, con le gambe ancora avvolte per metà nelle lenzuola.

Sospirò, scostandosi i capelli finitigli davanti agli occhi, analizzando la situazione: era tornata a casa ubriaca, accompagnata da qualcuno, di cui al momento non ricordava né il nome né i connotati, a cui associava senza sapere perché la cioccolata; ricordava anche del rosso che le aveva danzato davanti agli occhi per alcuni minuti, e quella non poteva che essere la prova schiacciante che ad un certo punto, nel suo stato delirante, Merida era saltata fuori dalla sua stanza, e un boato assordante, proprio come quello che l’aveva appena svegliata.

Poi buio. Solo benefico e piacevole buio, seguito da un altrettanto gradito silenzio.

Provò di nuovo a rimettersi in piedi, con più calma stavolta, liberando le gambe dalle lenzuola. I primi passi che mosse, furono accompagnati da un senso di rallentamento inquietantemente fastidioso. Si fermò due volte, tenendosi la testa, prima di arrivare alla porta della sua stanza.

-“Eccola che risorge dal regno dei morti.”- la accolse la voce della coinquilina, non appena mise piede nel piccolo salotto-“Pensavo d’averti persa per sempre. Avevo già fatto piani per la tua stanza: sappi che sarebbe diventata il mio imaginatorium.”-

-“Devi smetterla di farlo.”- biascicò con la bocca impastata, ignorando le sue frecciatine.

-“Cosa?”- le fece eco Merida dalla cucina.

-“Quella porta verrà giù un bel giorno.”- sbottò indicandola, mentre si lasciava cadere sul divano e richiudeva gli occhi, ancora troppo pesanti da tenere aperti.

-“Tieni. Giù, senza fiatare.”- la scozzese le si parò davanti, porgendole un bicchiere d’acqua e una compressa bianca.

-“Vuoi drogarmi?”- le chiese con un sorrisetto, prendendo il bicchiere e ingoiando la pillola con un sorso d’acqua.

-“Come se avessi bisogno di una pillola per farti perdere conoscenza.”- Merida roteò gli occhi e si riavviò in cucina-“Basta darti una serata libera e una bottiglia. Farai tutto da sola.”-

-“Questo è un colpo basso.”- si lamentò stiracchiandosi -“Non stavo così male.”-

-“Mmh-mh.”- la rossa tornò indietro, con il caffè –“Chi è Christopher?”- le chiese a bruciapelo, sedendole accanto.

Anna prese un sorso di caffè e fece una faccia disgustata: “Mio dio, è amaro!”-

-“È  caffè, cosa ti aspettavi?”-

-“Sinceramente, della cioccolata.”-

-“Non sviare il discorso…Christopher, chi è?”-

-“Lui è…ehm.”- valutò le varie risposte che le frullavano in mente, poi scelse la meno improbabile - “Il fattorino carino della pizzeria all’angolo.”-

Il sopracciglio sinistro di Merida schizzò su, fin quasi all’attaccatura dei capelli: “Sul serio? Questa è la risposta migliore che quel tuo cervello spostato riesce a darmi?”-

-“Mi sono appena svegliata, cosa pretendi!”-

-“Non è il sonno che ti annebbia la mente, mia cara. Sono i fumi dell’alcool che ancora ti circolano in corpo.”- puntualizzò, facendole segno di bere il caffè –“Si può sapere quanto hai bevuto ieri sera? Per la pellaccia di Mor’du, non ricordi nemmeno chi ti ha riaccompagnata a casa!”-

-“Chi è Mor’du?”-

-“Anna!”-

Sospirò: “Christopher?”- chiese esitante, guardando Merida dal bordo del bicchiere.

La coinquilina annuì: “Ti ho trovata sulla porta, tra le braccia di questo Christopher, mezza intontita e la faccia di una che si era divertita abbastanza.”- ridacchiò a quelle ultime parole- “Cos’è, hai già dimenticato il tuo principe azzurro senza macchia e senza paura, in sella al suo cavallino rampante?”- la pungolò con un dito.

-“Aspetta che?”- balzò sull’attenti-“Cosa intendi per tra le braccia di questo Christopher? Noi stavamo…”-lasciò in sospeso la frase, ingoiando a vuoto.

-“Non sulla porta di casa, per lo meno. Ma non so prima dove tu sia stata e cos’abbia fatto.”- scrollò le spalle-“Ti sei divertita?”-

-“Non è successo niente, ne sono assolutamente certa: sono stata da Olaf, e c’era la semifinale di campionato e credo d’aver bevuto da sola, almeno all’inizio. Poi…poi”- si colpì la fronte -“Ma certo, Christopher! Tranquilla, è il cugino di Olaf. Ora ricordo tutto: mi ha solo riportata a casa, non è successo nient’altro.”- sorseggiò ancora il caffè- “Che ti dicevo, dovevo solo svegliarmi meglio.”- incrociò i piedi sul tavolino davanti a sé, poi li riabbassò velocemente, colpita da un pensiero- “Hans non dovrà mai venire a sapere di questa cosa, non vorrei che si facesse un’idea sbagliata. Intesi?”- farfugliò.

-“Croce sul cuore.”- la prese in giro l’amica.

Merida prese il telecomando, abbandonato sul tavolino, e si sistemò meglio sul divano, accendendo la tv: “Peccato che non sia successo niente.”- blaterò, facendo sobbalzare Anna.

-“Che vuoi dire?”-

-“Sai, Christopher non è niente male.”- ridacchiò.

-“Ah si? Non me ne sono accorta.”- tergiversò, guardando casualmente lo schermo della tv dove passavano una replica dei Muppets.

-“A me non sembrava: lo guardavi come si guarda qualcosa da mangiare. Avrei scommesso che l’avresti morso.”-

-“Non essere ridicola. Christopher è l’idiota del caffè, non potrebbe mai piacermi in quel senso.”-

-“L’idiota del caffè?”- chiese Merida, sempre più curiosa.

-“Storia lunga e noiosa.”- tagliò corto Anna, strappando il telecomando dalle mani dell’amica. Fece zapping per alcuni secondi, poi scelse il notiziario: il giornalista della pagina sportiva si stava lanciando in un caloroso resoconto della schiacciante vittoria dei Broncos alla semifinale della sera precedente.

-“Dico sul serio. Sei sicura che Hans sia sempre la tua prima scelta?”- Merida si riappropriò del telecomando, facendole quasi versare il caffè addosso.

-“Assolutamente si. E poi non lascerei mai Hans per uno appena conosciuto.”- puntualizzò.

-“Hans l’hai conosciuto una sera di tre mesi fa, te ne sei innamorata al primo sguardo e state praticamente assieme…grande coerenza da parte tua.”-

-“Ma Hans è…”-

-“Ti prego non dire l’uomo della tua vita.”- la stoppò sul nascere-“Se dovessi ascoltare ancora una volta i tuoi discorsi deliranti sul vero amore, potrei morire sul serio.”-

-“Ma è così! La nostra è una di quelle storie d’amore che capita una volta in dieci generazioni: siamo fatti l’uno per l’altra.”-

-“Hai fame?”- le chiese all’improvviso, alzandosi dal divano e dirigendosi nella piccola cucina.

-“Cos’è questo cambio di registro?”- chiese sospettosa Anna.

-“Devo trovare un modo per tapparti la bocca.”- aprì il frigo e ne cacciò le uova e il latte -“Allora? Qualche preferenza?”-

-“Mmm no. Basta che sia roba commestibile. Ho una fame che mangerei anche te.”-

-“E che pancake siano, allora!”- esclamò Merida, soddisfatta d’aver messo a tacere sul nascere qualsiasi sproloquio/soliloquio sulla compatibilità di coppia tra Anna e il suo principe delle favole.

-“Credo dovremmo fare della spesa se non vogliamo mangiare cereali e Coca Cola per pranzo. Te la senti di scendere?”-

-“Certo. Dammi da mangiare per riempire questo buco nero che ho nello stomaco, un’altra aspirina e mezz’ora per prepararmi e sarò operativa.”- le rispose tra uno sbadiglio e l’altro.

-“Le aspirine sono nell’armadietto in bagno, i pancake saranno pronti tra un po’ e…Anna?”-

-“Mmh?”-

-“I denti. Lavali.”-

-“Mer!”- fece scandalizzata.

-“Hai un alito che sveglierebbe i morti.”-

Anna le lanciò una delle sue ciabattine rosa fosforescente, che volò dritta dal salotto alla cucina, colpendo in pieno il cartone del latte, rovesciandone fuori tutto il contenuto.

-“Anna! Ma dico, sei impazzita?”- sbraitò la scozzese rossa in viso, con goccioline di latte che le cadevano dai riccioli rossi.

-“Ops…quando sono sbronza la mia mira ne risente.”- disse trattenendo a stento le risate.

-“Ah, ora saresti sbronza?! Beh, grazie alla tua mira puoi dire addio ai pancake. Ci toccherà andare alla tavola calda.”-

*-*-*-*-*-*-*

-“Che ti avevo detto: fare la spesa a stomaco pieno, aiuta a non comprare cose inutili e nocive per la salute.”- sorrise contenta Merida spingendo il carrello pieno di frutta e verdura giù per la corsia del supermercato.

Avevano da poco lasciato la tavola calda sotto casa, dove avevano consumato una colazione degna di quel nome: uova e bacon, pancake e caffelatte.

-“Per me abbiamo esagerato con la natura... ci sono troppi pochi coloranti e zuccheri.”- si lamentò Anna mentre osservava con l’acquolina in bocca gli scaffali pieni di biscotti e dolciumi che le correvano ai lati.

Un verso deliziato le sfuggì di bocca quando passò davanti ad uno scaffale pieno di buste colorate e si fermò estasiata.

-“Mer! Mer, ti prego! Una di queste, una sola, poi chiuderò il becco e non mi  lamenterò più per il resto della settimana.”- le mostrò una confezione di marshmallows ricoperti di cioccolato.

-“Poniti questa domanda: sono necessari?”-

-“Assolutamente si!”- sbottò.

-“A cosa ti servono, sentiamo.”-

-“Te l’ho mai detto che soffro di cali di zuccheri?”-

-“Tu? Di cali di zuccheri?”- Merida scoppiò a ridere –“Tu hai una raffineria di zucchero in corpo, non uno stomaco, altro che cali.”- la scozzese riprese a camminare, spingendo il carrello verso le casse.

-“Allora? Posso prenderne una?”- continuò Anna, correndole dietro con la confezione stretta saldamente tra le dita, come se da essa dipendesse la sua vita.

Merida guardò prima la faccia sorridente e supplicante di Anna, poi il pacchetto incriminato. Annuì rassegnata, indicandole di metterlo nel carrello con il resto della spesa.

-“Sai, da quando abito con te, non ti ho mai vista mangiare nulla di sano. Praticamente ti nutri di biscotti, pasticcini, noodles in scatola, degli hamburger di Olaf, occasionalmente di uova e bacon della tavola calda e non sia mai che manchi cioccolato in quantità industriale nella tua dieta!”-

Anna mise su il broncio, farfugliando tra sé che era grande e poteva mangiare ciò che più le aggradava.

-“Almeno stasera mangerai qualcosa di buono. Ho deciso di preparare lo stovies (*).”- disse mettendosi in coda per pagare.

-“Devo preoccuparmi?”- saltellò sul posto Anna, affiancandola.

-“Fidati, mi chiederai di rifarlo.”-

-“Se è buono la metà della cena del Ringraziamento, allora di sicuro.”-

Merida controllò velocemente che ci fossero tutti gli ingredienti necessari e sospirò scocciata- “Ho dimenticato le carote. Ti dispiacerebbe andarle a prendere?”-

-“Poniti questa domanda:”- le fece il verso-“sono necessarie?”-

-“Si.”- le rispose con la faccia più seria che riuscì a tirare fuori.

Anna si avviò sconfitta giù per i corridoi del supermercato, canticchiando a bassa voce, fino al reparto degli ortaggi che, per quanto non le piacessero, erano una gioia per gli occhi: il rosso dei pomodori, il giallo delle pannocchie, il verde dei cavoli e l’arancio delle carote.

Si avvicinò a passo svelto allo stand e valutò quali prendere, osservandole con occhio critico, con una mano sotto il mento e il dito indice che le batteva sulle labbra al ritmo della musica che suonava bassa nell’aria.

A casa non era mai lei a fare la spesa. Di solito se ne occupava la governante o al massimo la mamma. Né lei né Elsa avevano mai messo piede in un supermercato, prima di New York. Si vergognava di confessarlo alla coinquilina, perché avrebbe potuto tacciarla di essere ancora più inutile di quanto già non fosse.

Sostò lì per alcuni minuti indecisa: non voleva scegliere quelle sbagliate, altrimenti Merida l’avrebbe rimandata indietro a prenderne altre. La scelta di Anna, borbottò tra sé. Quando cominciò a battere anche il piede destro in terra, e prima che cominciasse ad ancheggiare come un’invasata al ritmo della musica, qualcuno si schiarì la voce alle sue spalle, facendola sobbalzare. Si portò le mani al cuore, voltandosi di scatto.

-“Oh mio dio!”- esclamò- “Sei solo tu.”- poi si ricompose.

-“Ciao anche a te.”- la salutò Kristoff cercando di aggirarla.

Anna arretrò, presa alla sprovvista, andando a sbattere contro lo stand: “C-che fai?”

-“Carote.”-

-“Che?”-

 -“Dietro di te.”-

-“Oh…c-certo.”- Anna gli fece spazio e lui afferrò le prime che gli capitarono a tiro. Poi le rivolse un cenno del capo e fece per andarsene.

-“Aspetta!”- lo richiamò, guadagnandosi uno sguardo interrogativo e lievemente scocciato –“I-io…ti dispiacerebbe sceglierne anche per me? Si, insomma le…”- fece un colpo di tosse per nascondere l’imbarazzo della voce-“ ehm, carote.”-

-“Dici sul serio?”-

-“Ti sembro una che scherza?”-

-“Tu sei pazza.”- si voltò di nuovo per andarsene.

-“Anche, ma ascolta: devo sceglierle per la mia coinquilina, che è già alla cassa, e se prendo quelle sbagliate potrebbe anche decidere di sbattermi fuori sul pianerottolo e, per quanto sia confortevole, non mi sembra proprio il luogo ideale per vivere. Inoltre ti disturberei a tutte le ore del giorno per ogni minima cosa, quindi se non vuoi che…”-

-“Cosa stai blaterando?”-

-“Le-carote-sono-di-vitale-importanza!”- sillabò.

Kristoff la osservò bene, senza parole: la rossa sembrava venuta fuori da uno di quei cartoni animati per le bambine, tutta pimpante e chiassosa, e il maglione natalizio con una renna sul davanti che le spuntava dal cappotto, non faceva altro che confermare la sua teoria sulla dubbia sanità mentale della ragazza che aveva di fronte.

Sospirò demoralizzato, acconsentendo in silenzio alla sua richiesta; prese un mazzo di carote e gliele passò: “Contenta?”-

-“Sicuro vadano bene?”-

-“Fidati.”-

-“Cos’è, sei un esperto di carote?”- indagò petulante.

-“Le vuoi o no?”- sbottò scocciato, agitandole gli ortaggi arancioni davanti al viso.

Anna le afferrò e gli rivolse un’occhiataccia: “Non c’è bisogno di essere scortesi.”

Il ragazzo le voltò di nuovo le spalle e si avviò giù per un altro reparto. Anna lo seguì a ruota e lo affiancò, scrutandolo da capo a piedi con un sorrisino sulle labbra.

-“Vedo che ti sei ripresa alla grande dalla super sbronza di ieri.”-

-“Mmh, si. Merito del caffè e delle aspirine.”-

Fecero silenzio. Era una situazione imbarazzante.

-“Non hai qualcun altro a cui dare i tormenti, lentiggini?”- le chiese, innervosito dalla sua presenza assillante.

Anna storse il naso al soprannome, ma lasciò correre: “Non ti sto seguendo. Stiamo solo facendo la stessa strada.”- puntualizzò, rovistandosi nelle tasche del cappotto.

Tirò fuori degli incarti di caramelle, le chiavi dell’appartamento, un biglietto usato della metro e degli scontrini di Starbucks, prima di trovare quello che stava cercando.

-“Tieni.”- gli porse un cartoncino giallo.

-“Cos’è?”- le chiese senza prenderlo, guardando il pezzo di carta come fosse un serpente velenoso.

-“U-un buono per la lavanderia. Si insomma, per ringraziarti per ieri sera e per le carote. Ti devo ancora un caffè, ma questo mi sembra un buon inizio.”- gli sorrise, facendogli cenno di prendere il buono.

Lui arrossì impercettibilmente, almeno così le sembrò, e distolse lo sguardo: “N-non ce n’era bisogno. Ho fatto solo un favore ad Olaf…”-

-“Insisto. Ti ho creato solo guai dal primo momento: ricordi l’incidente della metro?”- gli disse correndogli dietro per mantenere il suo passo.

-“Come dimenticarlo.”- ridacchiò lui, indicando la macchia di caffè schiarita che ancora imbrattava la fronte del suo cappotto.

-“Prendilo, su.”- continuò, sorridendogli riconoscente.

Lui lo afferrò e per un momento le loro dita si sfiorarono, ma nessuno dei due sembrò accorgersene.

-“Grazie.”- le disse guardandola per la prima volta dritto negli occhi.

-“Figurati.”- gli rispose scrollando le spalle, sostenendo il suo sguardo. Ecco perché quella mattina aveva associato il cioccolato alla sua figura: i suoi occhi erano praticamente del colore della cioccolata calda che amava tanto.

-“Anna! Ma quanto c’hai messo?”- la riscosse una voce, facendola sussultare.

Merida aveva un diavolo per capello: l’aveva aspettata per ben dieci minuti davanti alle casse e aveva ceduto il posto a venti persone diverse. Odiava aspettare.

-“Stavo per mandare una squadra di soccorso a cercarti!”- esclamò, prendendo le carote dalle mani dell’amica-“Ci voleva tanto per delle stupide carote?”-

Anna e Kristoff si scambiarono uno sguardo: “Cosa ti avevo detto?”- disse lei scuotendo il capo.

La scozzese sembrò accorgersi solo in quel momento del ragazzo e lo squadrò da capo a piedi: “Heilà, Christopher!”- lo salutò come fosse il più vecchio dei suoi migliori amici, con un sorriso raggiante sulle labbra mentre punzecchiava il fianco di Anna con un gomito.

-“Heilà mmm…pazza con l’arco.”- ricambiò titubante.

-“Già! Scusa per ieri sera, non volevo essere così violenta, ma Anna era in quelle condizioni e tu sei...”- lo indicò gesticolando ampiamente-“Insomma, chi non avrebbe frainteso? Mettiti nei miei panni Christopher, badare alla testa rossa qui, non è facile.”- si lamentò.

-“Si chiama Kristoff, Mer. E poi non ho mica bisogno della tata, sono capace di cavarmela da sola.”-

Kristoff omise il fatto che si era appena fatta aiutare a scegliere delle verdure, per non peggiorare la sua situazione.

-“Ah, siamo già passati al nome di battesimo?”- la stuzzicò, glissando sulle sue proteste.

-“Che?”-

-“Lascia perdere.”- ridacchiò la scozzese, rimettendosi in fila- “È stato un piacere, Kristoff.”-gli disse porgendogli la mano-“E per la cronaca, io sono Merida.”

Kristoff la afferrò e Merida la scosse energicamente:“Si, si, anche per me.”- si affrettò a dire, anche se conoscere l’altra rossa gli era sembrato più un incontro del quarto tipo. Da dove venivano fuori quelle due invasate?

-“Beh”- si intromise Anna- “Ci vediamo in giro, o sul pianerottolo o…dovunque sia.”- farfugliò, ripetendo il gesto della coinquilina.

Il ragazzo strinse anche la sua mano e una scossa di elettricità statica li fece saltare sul posto.

-“S-si…c-ci vediamo in giro.”- bofonchiò lui allontanandosi.

Anna si strinse la mano al petto e lo guardò allontanarsi con le spalle incurvate.

-“Tipo singolare.”- le disse Merida ridacchiando sorniona.

-“Smettila, ho capito a che gioco stai giocando.”- la ammonì- “Se proprio ti interessa tanto perché non te lo prendi tu?”-

-“Non è il mio tipo.”- tagliò corto.

Prima che Anna potesse controbattere che il suo tipo ideale poteva essere solo un orso, il cellulare le cinguettò in tasca.

Passo a prenderti alle 9 in punto. Andiamo a cena in un posto speciale.

-“Anna? Anna!”- Merida le agitò una mano davanti al viso –“Stai bene? Fissi quello schermo con uno sguardo che potrebbe bucarlo.”- la trascinò per un braccio alla cassa: era finalmente arrivato il loro turno –“Chi ti ha scritto?”

-“Hans.”- soffiò fuori, con occhi sognanti.

-“Ah, ecco spiegato quello sguardo.”- sbuffò –“Cosa dice? Che anche stasera ha da fare?”-

-“Tutt’altro.”- Anna le piazzò il cellulare sotto gli occhi –“Credo che il tuo stovies dovrà aspettare.”-

 

 

(*)Stovies: piatto tipico scozzese a base di carne e verdure. Tipo un Gulash, per capirci.

 

NdA: Saaaaaaalve! Come ve la passate da queste parti? Spero con tutto il cuore che stiate tutti bene ;) Era da un po’ che questa storia non veniva aggiornate, eh! Credevate che fossi morta, vero?! Non vi libererete mai di me...muahuhauahuah! Ne è passata di acqua sotto i ponti in tutti questi mesi, sono successi fatti, ho fatto cose e la vita è andata avanti. Eppure il fatto di dover aggiornare questa ff ha continuato a martellarmi in testa per tutto il tempo XD Sarò sincera: sono stata tentata di abbandonare tutto e tirare i remi in barca. Non avevo proprio voglia di continuarla, né questa né le mie altre ff, un po’ per mancanza di ispirazione, un po’ per pigrizia e un po’ per i tiri mancini della vita reale, che sembrava essere di mezzo ogni volta che mi accingevo ad aprire word. Ma grazie ad Adriana (aka Amberly_1, accendete una candela per questa santa ragazza che mi ha praticamente tenuto compagnia tutti i giorni, mi ha letteralmente raccolto con la paletta e mi ha rimesso in carreggiata con le sue dolcissime parole e i suoi preziosi consigli! Senza di lei questo capitolo non esisterebbe!) e alle recensioni che non sono mai mancate in questi mesi, nonostante la mia lontananza da efp, la voglia mi è un po’ ritornata, se non per il bene della storia, almeno per la vostra felicità (spero! XD).

Anyway, now I’m back snowflakes ^.^

Spero di poter aggiornare presto anche Slice of Life in Arendelle e la raccolta di one shot Kristanna *.*

Come sempre, ci si legge in giro! ;)

Ah, per poco non me ne dimenticavo: in questi mesi mi sono un po’ cimentata con Gimp, che per chi non lo sapesse è un programma di grafica, e dopo vari tentativi e molti fallimenti, sono riuscita a creare delle cover/copertine per questa ff. Fanno schifo, lo so! XD Vorrei che voi ne sceglieste una e quella che piacerà di più sarà la copertina permanente di Dirty Little Secrets :) Se poi queste non vi piacciono e qualcuno di voi a tempo perso volesse cimentarsi come me e ne volesse creare una propria, io sono aperta a tutto XD

Ecco, ora ho davvero finito!

 

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