Back and forward

di Feynman
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Back and forward ***
Capitolo 2: *** Rootless tree ***
Capitolo 3: *** I remember ***



Capitolo 1
*** Back and forward ***


Back and forward





 

 

«Finalmente sei arrivata!»
«Sì, scusate ragazzi. La macchina non aveva voglia di partire, stasera»
«Scuse. Sempre scuse, Noemi»
«Ah, Alberto! Non iniziare a rompermi il cazzo, appena arrivata. Le abitudini sono dure a morire, ma tu non sei cambiato di un pelo nemmeno dopo vent’anni»
«Ma se ci siamo visti l’altro giorno!» esclamò Alberto.

Alberto, Noemi e Massimo non si erano mai persi di vista. Erano passati più di vent’anni, dai tempi del liceo – tentavano di perdere il conto, ogni tanto – e non si erano mai lasciati. Era una storia strana, certo, e l’Università, frequentata in zone diverse dell’Italia – persino del continente e del mondo, in alcuni periodi – aveva giocato la sua parte, nel loro rapporto; eppure erano riusciti a non perdersi di vista.
C’erano state le mail, le telefonate intercontinentali e non, le videochiamate e poi Facebook e Skype e così tanti altri modi per vedersi e per riuscire a rimanere in contatto come tanti anni prima.

Quella era nata come un’uscita fra vecchi amici. Erano compagni di classe al liceo, e ritrovare tutti quanti era stata la cosa più difficile che, in dieci anni, Massimo avesse  mai fatto – ed era un professore, quindi le cose difficili le affrontava tutti i giorni –; non aveva nemmeno dovuto specificare, a Noemi e Alberto, che sarebbe stato un revival delle vecchie cene di classe: loro due li aveva dentro casa praticamente tutti i giorni, adesso.
Avevano deciso di rimettere insieme la vecchia 5F – perché vent'anni  erano passati sul serio, avevano il sabato libero e la casa di Massimo aveva un salotto abbastanza grande per ospitarli tutti.

Francesca era in America – a fare il chirurgo plastico, tipo –, Tommaso si trovava in carcere per frode informatica – sarebbe mancato a tutti, quella sera – e chissà cos’altro e Rosa, semplicemente, non se l’era sentita di venire: era ingrassata di trenta chili, dopo le due gravidanze, e non voleva distruggere le fantasie di nessuno – solo quelle di Massimo, che aveva continuato a vederla e aveva fatto da padrino di battesimo a Carolina.

«Cos’è ‘sta storia della macchina, quindi?» le chiede Massimo, versandosi un bicchiere di vino.
«Niente di che. Quando ha scoperto che avrebbe dovuto rivedere quel rompicoglioni del Serravalle mi ha fatto “non credere che io parta! La BMW di quel tizio, mi sta sul cazzo” e quindi non è partita» ammicca verso Massimo, e fa la linguaccia ad Alberto – il Serravalle, appunto.

  Alberto Serravalle e Noemi Cascione erano stati i due secchioni della classe – in materie diverse, fortunatamente.
Lei si era laureata in astrofisica e lavorava con quei maledetti contratti di tre mesi – di cui due li passava all’estero, perché era la studiosa di punta dell’Osservatorio –, Alberto, invece, faceva il filosofo a tempo perso e il padre single a tempo pieno – Giulia, la figlia sedicenne, era un’alunna di Massimo.
Massimo Biagi, invece, non aveva mai amato la scuola come istituzione e infatti, ironia della sorte, aveva finito per lavorarci dentro – nel suo vecchio liceo scientifico – come Garante dell’Educazione di un Manipolo di Giovani Reclute – amava definirsi così, lasciamogli qualche soddisfazione.
«La BMW era una succhia-benzina, mortacci sua»
«Linguaggio, Socrate! Non siamo più al liceo, Serravalle»
«Non mi far parlare, Noemi… già ci pensa Giulia, al mio linguaggio. Da quando ha lui», inizia Alberto, indicando Massimo che era intento a soffiare sul mestolo di legno per assaggiare il sugo, «come professore di Italiano, non fa altro che riempirmi la testa di “il professor Biagi è così bravo! Ed è così intelligente! Papà, ma mi stai ascoltando?”» cercò di imitare una voce stridula da quindicenne senza rendersi conto, però, che Giulia Serravalle non parlava così da almeno cinque anni.

«Tua figlia non parla così, Alberto.» gli fece notare, ovviamente, Massimo che doveva ascoltarla parlare per almeno quattro ore a settimana – senza contare le ore di latino, ovviamente – «E poi, è una delle mie alunne migliori! Dovresti esserne felice».
«Mi ricorda tanto Teresa, lo sai?» gli dice Alberto, voltandosi. Massimo ha inarcato un sopracciglio, nel frattempo, e cerca il nesso tra quella ragazzina con lo sguardo sveglio e Teresa, una delle loro vecchie compagne di classe, che non brillava per intelligenza e prontezza.
«Giulia non è per niente come Teresa, Alberto! Che cazzo dici?» si intromise Noemi che, al contrario di Massimo, non stava, per niente, dando una possibilità alle constatazioni di Alberto.
«Hanno la stessa dedizione per lo studio» e lo disse come se fosse stata una cosa ovvia. Lampante. Cristallina. Matematica, si potrebbe definire.

«Alberto…» lo apostrofa Massimo, togliendosi gli occhiali dal naso, «tu mi stai forse dicendo, sul serio, che Giulia avrebbe la stessa dedizione di Teresa, nello studio?»
«Sì, ovvio! Ma te la ricordi quanto era secchiona? Prendeva un sacco di bei voti…»
«Ma tu parli di Teresa Iannone?» volle sincerarsi Noemi.
«Sì, Teresa Iannone. Alta, non riusciva a vedersi i piedi per quanto aveva le tette grosse, portava le extension nere… dai che ce l’hai presente, Massimo!»
«Alberto Serravalle!» esplose Noemi, alzandosi in piedi e scostando la sedia di legno, con forza, «Teresa Iannone usava la bocca, più del dovuto, con la maggior parte dei nostri insegnanti. Stai dicendo, forse, che tua figlia fa i lavoretti a Massimo?»

Il suddetto, aveva le braccia incrociate al petto mentre Noemi stava sbattendo la pianta del piede a terra, impaziente di ricevere una risposta da Alberto. Quest’ultimo, intanto, iniziò ad esaminare l’amico con occhio attento: «Spero per lei, che tu abbia un’ottima igiene intima…».
«Porca miseria, Alberto! È tua figlia!» sbottò la donna, alzando le braccia al cielo e chiedendo venia a chissà quale entità ancestrale – forse il dio Pan, conoscendo il tipo. «E poi, sappiamo bene che a Massimo non piacciono, queste cose».
«Che c’entra, Noemi!? Tanto, sicuramente, queste cose già le fa… e così, si assicura un buon voto senza molti sforzi»
«Ma che percezione hai di tua figlia?» gli chiese Massimo, a quel punto, aprendo un’altra bottiglia di vino rosso – avrebbe prosciugato la cantina, di quel passo – «e poi, cosa le insegni?».
«I giovani d’oggi sono più liberali e-»
«Non ci vendere fumo, coglione d’un filosofo. Ha sedici anni, diamine! Tu hai davvero pensato una cosa del genere, di tua figlia?» chiese allibita Noemi, riprendendo il suo posto.
«In mia difesa, dico che non sapevo nulla dei… passatempi di Teresa, a diciassette anni»
«A quindici, a sedici, a diciotto…»
«Noemi, abbiamo recepito il messaggio» puntualizzò Massimo, fermando il monologo della donna. «Anche noi professori abbiamo una deontologia, non credere».
«Non ti mascherare dietro questi paroloni, Max! Mia figlia è una bellissima ragazza…»
«Fortuna che ha ripreso da tua moglie» disse Noemi, sperando che Alberto la sentisse – cosa non esattamente difficile visto che la cucina di Massimo poteva stare all’interno di una palla con la neve.
«Stai dicendo che sono brutto?».
«Oltre che brutto, caro Alberto, sei anche coglione.» volle puntualizzare la donna, versandosi a sua volta del vino, «Preferiresti che tua figlia facesse dei… servizi al tuo migliore amico, piuttosto che sentirti dire che è intelligente?».
«Fa sempre piacere sentirsi dire che l’intelligenza l’ha ripresa dal padre, e non dalla madre».
«Continui a insultare Giulia» gli fece notare Massimo. «E poi, il fatto che sia una bella ragazza, non c’entra assolutamente nulla: non farei una cosa del genere con nessuna delle mie alunne».
«Solo perché non sono il tuo genere» concluse Alberto. «Ma davvero Teresa faceva le pompe ai professori?» chiese, dopo una lunga riflessione durata trenta secondi – il tempo per un altro bicchiere, insomma.
«Quanta grazia» sospirò Noemi, accavallando le gambe sotto il piccolo tavolo della cucina.
«Le chiamo solo con il loro nome, Noemi! Non fare la donna pudica e vergine: non ti si addice né l’una né, tantomeno, l’altra».
«Il tuo è un rarissimo caso di misoginia fulminante, a quanto pare» diagnosticò Massimo, guardando Alberto sopra le lenti degli occhiali.
«Oggi è uno di quei giorni» disse Noemi come se la sapesse fin troppo lunga – avrebbe potuto scriverci un trattato sopra, per quanto ne sapeva.
«Io non ho nessun giorno, Noemi. Non iniziare con le tue teorie fuori da ogni concezione».
«Sei te, fra i tre, che sei fuori ogni concezione. Se solo lo venisse a sapere Giulia…» ridacchiò Massimo decidendosi, finalmente, a spegnere il fuoco sotto il sugo e controllando l’arrosto nel forno.
«Cambiando argomento…» iniziò Noemi, furbamente, «tu non hai niente da raccontarci, professor Biagi?»
«Cosa dovrei raccontarvi, di grazia?».
«Ma del tuo appuntamento, ovvio!».
«Max?! Un appuntamento? Ma quando? Perché non me l’hai detto?».
«Perché so come reagisci ogni volta che ne ho uno, Alberto».
«E come reagisco?».
«Non mi stai facendo, sul serio, ‘sta domanda».
«Certo che te la faccio! Come reagisco?».
«Tu non aiutarmi, eh!?» si voltò verso Noemi.
«Mi sto divertendo troppo, per intervenire».

Massimo, sbuffando, si strinse la radice del naso e chiuse gli occhi; stava cercando, nel suo quasi infinito vocabolario, le parole necessarie per non ferire Alberto – che non sembrava in sé, quel giorno – e di risultare il più chiaro possibile, allo stesso tempo.

«Diventi una madre isterica, quando Massimo esce con qualcuno».
«Noemi!».
«Be’?! Ho detto solo la verità. E poi, tu ci stavi mettendo troppo».
«È davvero come dice lei, Massimo?» gli chiese l’amico, guardandolo dritto negli occhi. Massimo stava cercando di mantenere, il più possibile, il contatto visivo con Alberto ma stava perdendo miseramente; l’amico aveva tirato fuori il labbro inferiore e i suoi occhi si stavano illanguidendo sempre di più – dannata Noemi!
«Fo- forse…».
«Oddio, lo faccio davvero!» esclamò, uscendo dalla cucina come un’attrice di teatro.
«Non esagerare, Alberto! Succede a tutti…» cercò di convincerlo Massimo, correndogli dietro in salotto. «Mi raccomando, Noemi, non muovere un muscolo, eh!».
«Non succede a tutti, Massimo! Io non lo faccio apposta… io mi preoccupo per te-».
«Come faceva sua madre, insomma».
«Noemi, finiscila di fare la vipera! Se fosse per te, andrebbe col primo che capita!».
«E usa anche le stesse parole di tua madre» notò la donna, raggiungendo gli amici in salotto.

Massimo stava per risponderle quando, improvvisamente, il campanello suonò e interruppe, sul più bello, la discussione fra i tre amici. Erano le otto di sera e, sicuramente, erano i vari invitati che arrivavano.
«Vado ad aprire. Voi due non vi scannate, mi raccomando. Ho appena lavato i tappeti» scherzò il padrone di casa, aprendo la porta d’ingresso.

«Ho portato il vino. Chi è che non deve scannarsi?».
«Teresa…». Massimo si bloccò sul tappeto dell’ingresso, la mano sinistra a tenere la porta aperta, l’altra rivolta verso la donna per invitarla ad entrare – cosa che ancora non le aveva chiesto di fare.
Sarà stato perché fino a cinque minuti prima stavano parlando di lei, sarà stato perché erano vent’anni che non la vedeva, sarà stato per tanti di quei motivi che sarebbe stupido – e inutile – riportare tutti qui, adesso.
Teresa, negli anni, era cambiata. A diciannove anni, presa la maturità scientifica, tutti persero le sue tracce e nessuno seppe che fine avesse fatto la bella e provocante Teresa Iannone, terzo banco a sinistra, accanto alla finestra che dava sul cortile interno del vecchio liceo.
Tutti avevano sognato, almeno una volta, il corpo di Teresa durante le notti da adolescenti – perfino Massimo, quando ancora non sapeva se preferire lei o le mani grandi del suo compagno di banco, o i suoi occhi svegli o quel sedere da peccato, per dirne una – e dopo vent’anni vederla ancora bella, in forma e assolutamente desiderabile – non per Massimo, ovviamente, che alla fine aveva optato per il sedere del compagno di banco – come se tutti quegli anni non fossero passati veramente.  

«Già, Teresa Iannone. Ti ricordi di me? Tu non sei cambiato per niente» gli disse lei, sorridendogli e facendolo sentire in colpa per le cattiverie che aveva detto.
Teresa era cambiata, come erano cambiati tutti loro: Alberto era stato tradito dalla moglie e aveva avuto una figlia, lui era diventato professore e… e Teresa? Teresa che fine aveva fatto?

«Ma certo, Teresa! Scusa è che… nemmeno te sei cambiata! Sei sempre bella». Lei arrossì e Massimo credette, per un attimo, di avere di nuovo davanti quella diciassettenne che tutto sembrava tranne che una puttanella in erba – come quando, diciassette anni li aveva davvero.
«E tu sei sempre un gentiluomo. Io… posso entrare?» esitò sull’uscio, come le signore della buona società con il cappellino e i guanti dei primi anni '20 – i guanti li portava sul serio.
«Certo, certo! Ovviamente! Entra pure».
«È già arrivato qualcuno?».
«Solo Alberto e-».
«Massimo, chi-».
«E Noemi, appunto».
«Ciao, Noemi».
«Teresa…».
«Sei sempre uguale».
«Spero che tu sia cambiata, invece».

Teresa allargò le braccia, Noemi le aveva intrecciate all’altezza del petto. Era in posizione d’attacco: il piede sinistro lo aveva portato leggermente avanti, come se fosse pronta a scattare in qualsiasi momento e se ne avesse avuta l’occasione.

Tra le due, non aveva mai scorso buon sangue: Teresa, al liceo, aveva fatto carte false per escludere Noemi dal “gruppo delle ragazze” – non che a Noemi interessasse, poi, visto che stava sempre con Massimo e Alberto.
L’aveva presa in giro sempre e Noemi ne aveva sofferto. Teresa era una di quelle che aveva scelto il liceo scientifico perché non era distante da casa sua, imparava le materie a memoria e poi faceva in modo di dimenticarsi tutto nel minor tempo possibile.
Era una di quelle ragazze che a sedici anni faceva carte false per rendersi più stupida di quanto fosse; Teresa, poi, stupida non lo era mai stata ma decise di esserlo per non diventare come Noemi – mors tua, vita mea.

«Dammi la giacca, Teresa; fai come se fossi a casa tua», le disse Massimo, prendendole il soprabito elegante dalle spalle e appoggiandolo sull’attaccapanni dietro la porta.
«Ti faccio strada io, Teresa. Massimo non ha mai imparato le norme base del buon padrone di casa» scherza Alberto, prendendola sotto braccio e portandola in salotto.

Noemi sembrava esser tornata di vent'anni indietro: cupa in volto, si tormentava le mani e aveva già iniziato a mordere le punte dei capelli castani – meno ricci, di quelli che aveva a sedici anni.
«Hai quarant'anni, Nemi. Non è più come al liceo» cercò di rassicurarla Massimo, sfregandole il palmo sulla schiena. «Pensa alla strada che hai fatto...».
La donna scosse la testa, come per scacciare un brutto ricordo – un ricordo che profuma di violetta e burro di cacao – dalla mente: «Non sto pensando a quello che tu pensi che stia pensando».
«Adoro quando ti esprimi così chiaramente» rise Massimo. «Dai, o Alberto penserà che ho raccontato prima a te, dell'appuntamento».
«È quello che hai fatto, Massimo» gli rispose la donna, nuovamente sorridente. «Sai, è strano».
«Cosa?».
«Noi tre, che così poco ci eravamo inseriti, abbiamo organizzato questa cena per rivederli tutti».
«Il bello è che ci eravamo ripromessi di odiarli a vita» ricordò Massimo, avviandosi verso la cucina. «Vado a spegnere l'arrosto nel forno. Tu va’ di là e non pensare».
«Tenterò». Noemi se la ricordava bene, quella notte – la notte prima degli esami – quando, nell’ultimo tentativo di ripassare per il saggio breve che li attendeva la mattina successiva, si erano promessi di dimenticare ogni singolo componente della 5F – per vivere meglio, niente di più.
Si ricorda, Noemi, di averlo proposto lei e che Alberto non aveva capito il perché – mentre lei lo sapeva bene, perché voleva dimenticare tutto e tutti.

«Che fine hai fatto, Teresa, per tutti questi anni?».
Teresa aveva guardato Noemi, prima di non rispondere alla domanda di Alberto. Teresa aveva fatto finta di non aver sentito e aveva puntato quei suoi occhi azzurri – azzurri come il cielo d’estate e il mare sotto casa sua – in quelli marroni – caldi come la terra bruciata dal sole e la corteccia delle querce secolari – di Noemi.
Già, Teresa, che fine hai fatto?, pensa Noemi lasciandosi cadere su una delle poltrone e osservando, distratta, la tavola già apparecchiata da Massimo.

Teresa l’ha seguita con gli occhi – guardami Noemi, le sembrano voler dire – e ha accompagnato la sua figura fino alla poltrona, osservandola mentre ci si adagiava sopra.
Noemi era bella solo per chi riusciva a vederla; una di quelle bellezze vichinghe, giunoniche che sanno di protezione, forza e di selvatico. Noemi era una di quelle belve leggendarie che popolano le favole dei bambini, durante l’inverno e Teresa non ti ha mai amata, quindi finiscila di farti le pippe e passa alla droga seria; il suo cervello si sta ribellando. Si dice che lei non avrebbe mai potuto pensare una cosa così, di Teresa. Si dice che non la vede da vent’anni – bugia – e che non l’ha mai pensata – bugia – perché di quella donna, nel suo cuore, non c’è rimasto niente – bugia – e che la vita continua.

«Niente di che» rispose Teresa, alzando le spalle e accavallando le gambe. Teresa ha ancora gli occhi azzurri come il mare e i capelli biondi come il grano maturo. Teresa non è mai stata banale, come donna – anche se a sedici anni, portava le extension perché non voleva essere né banale né, tanto mai, bionda.

Lei che era stata sempre giudicata dalla forma perfetta, dalla taglia perfetta di reggiseno, dal girovita perfetto, dal taglio degli occhi perfetto e dalla forma della bocca. Lei che non aveva mai potuto schermarsi dietro la solita scusa dell’adolescenza, perché la sua era stata oggettivamente bella; c’erano state le gite al mare, le feste sulla spiaggia, la settimana bianca in montagna e le feste di Capodanno in discoteca. Per Teresa, c’era sempre stata una bottiglia di champagne e un tubino nero ed elegante a scoprirle le spalle.

«Alla fine, sei entrata in Accademia?». La voce di Noemi era un sussurro – lei che non aveva mai bisbigliato, in vita sua – e Teresa, stavolta, non può fari finta di non averla sentita perché Noemi – così bella, anche a quarant’anni, da risultare violenta – le sta chiedendo se ha realizzato i suoi sogni o se ha mandato a ‘fanculo tutto, come suo solito.
«Sì, ci sono entrata» le rispose la donna, continuando ad osservare l’altra ancora persa ad osservare l’inesistente panorama che la finestra di Massimo offriva. «E non ne sono più uscita».
Noemi annuì e si abbandonò ad un leggero sorriso che non evitò di rivelare le piccole fossette sulle guance, quelle che tutti avevano amato.
«Tu, invece? L’hai superato l’esame di… cos’era? Termodinamica?»
«Sì, era Termodinamica» sorrise Noemi, ricordando il suo secondo anno all’università – complicato quasi quanto il primo – quando aveva dovuto sostenere tutti quegli esami insieme per non rimanere indietro. «Mi hanno dato un venticinque, alla fine».

Si erano dimenticate di Alberto, e Noemi se ne era resa conto.
Teresa e Noemi avevano, di nuovo, diciassette anni ed erano tornate fra i banchi di scuola. Erano tornate ad odiarsi – e ad amarsi da lontano – quando tutto sembrava più complicato, più bello e più doloroso. Si vedevano così: Teresa si era tolta quelle schifose code di topo dai capelli e aveva rinunciato alla tinta, riprendendo il colore naturale – quello del grano maturato al sole –, e Noemi portava solo jeans strappati sulle ginocchia, camicie maschili e i capelli asciugati al sole.

«Quindi sei entrata all’Accademia di Belle Arti?» le chiese Alberto che mai, a Noemi sembrò più di troppo. Alberto non lo aveva mai capito; anche quando faceva il filo a Teresa e lei rifiutava – anche quando Massimo cercava di non pensare al suo sedere – lui non se n’era mai accorto.
La donna sorrise, toccò i corti capelli biondi – al liceo le arrivavano fino alla base della schiena – e distogliendo lo sguardo dall’altra donna, gli disse: «No, all’Accademia Militare. Sono il colonello del 152° Reggimento di fanteria meccanizzata della Brigata Sassari».

Un fischio di apprezzamento, provenne dall’entrata del salotto. Massimo, portando un vassoio di salatini e quattro Martini, sorrise a Teresa porgendole uno dei bicchieri. «Ecco perché nessuno aveva tue notizie e ho dovuto insistere tanto, per invitarti stasera».
«Tutti pensano che il grado dia dei privilegi in più, confronto ai semplici soldati», iniziò mescolando il drink con l’oliva sul fondo, «e invece porta solo tanti grattacapi in più e… tante soddisfazioni».
«I capelli ti stanno bene, però. Il taglio militare è una di quelle cose che mi ha sempre fermato dal trovare… attraenti, le forze militari», Massimo sapeva bene come dirottare su argomenti più frivoli, una conversazione complicata. Lui sapeva, ovviamente; Noemi aveva sempre preferito parlare di queste cose con lui, piuttosto che con Alberto, lui non aveva preso bene, ai tempi del liceo, scoprire che la prima ragazza che aveva avuto il coraggio di puntare, fosse lesbica – per poi non lasciarsi più.
«Non devo sprecarci tanto tempo, come prima. La disciplina militare rafforza il carattere e mette in evidenza le vere priorità della vita».
«Come il morire circondata da mosche, sangue e terroristi?». Noemi, stavolta, non aveva sussurrato perché non ne aveva avuta l’intenzione. Aveva urlato, anche allora, tutto il suo disappunto per quella scelta – ci siamo allontanate per colpa loro, lo ricordi?
«Mi sembra di essere ancora viva e vegeta» le rispose l’altra, alzando un sopracciglio e lasciando che lo sguardo di Noemi la percorresse – la riscoprisse e la trovasse, di nuovo, bellissima.

«Sono passati vent’anni e Noemi continua a urlarti addosso» scherza Alberto, bevendo il Martini tutto d’un sorso. Massimo cercò di incenerirlo con lo sguardo, non sortendo effetti visibili. «Non riuscirete ad andare d’accordo nemmeno nella tomba, voi due».
«Alberto, per favore, ‘sta zitto».
«Non te la prendere anche con me, Noemi».
Noemi, di nuovo diciassettenne, si alzò in piedi e uscì dal salotto. Alberto guardò Massimo come a chiedergli cosa caspita fosse accaduto e Massimo alzò gli occhi verso il soffitto. La porta, nel mentre, sbatté forte e una voce si sentì nel corridoio: «Che mi sono perso?».

Nicola – l’ultimo arrivato – comparve sulla porta e indicando l’ingresso disse: «Mi ha fatto entrare la Cascione, credo. Anche se mi ha investito sulla porta…».
«Ciao, Nicola. Accomodati pure», lo salutò Massimo, ancora scosso, per la prematura uscita di scena di Noemi. «Credo sia meglio che qualcuno di noi la vada a riprendere».
«Troppo tardi» annunciò Teresa, accanto alla finestra del salotto, «ha appena preso il via con la macchina».
«Cazzo», esclamò Massimo. «Questa è tutta colpa tua, come al solito! Ma io dico: che cazzo ti è saltato in testa, cretino?!».
«Perché deve essere sempre colpa mia? Avrà avuto il ciclo!».
«No, non aveva il ciclo. Non ti sei mai accorto di niente, tu, e hai pensato bene di ricordarcelo proprio stasera» sbottò l’uomo mentre apriva la bottiglia di vino che stava sopra il tavolo apparecchiato.
«In effetti sembrava parecchio incazzata» assicurò Nicola, prendendo il bicchiere dalle mani di Massimo e indugiando nello sfiorare le sue dita.
«Credo sia colpa mia» azzardò Teresa, riprendendo posto sul divano, accanto ad Alberto che non sembrava per nulla sconvolto, dall’uscita di Noemi e infatti disse: «Noemi è sempre stata instabile».
«Ma cos’è successo?» chiese, di nuovo, Nicola che sembrava sempre più confuso e spaesato. Aveva riconosciuto Teresa – pensava fosse morta, visto che nessuno aveva mai saputo che fine avesse fatto.
«Alberto ha esagerato, come suo solito» spiegò, sbrigativamente, Massimo.
«Nessuno gli ha tolto il vizio, allora. Il piccolo incidente che abita dentro casa tua, non ti ha proprio insegnato niente, eh Alberto?» gli chiese Nicola, ridendo.
Alberto alzò un sopracciglio, guardò Massimo per pochi secondi e, poi, chiese: «Come fai a sapere che ho una figlia?».
«Lo… lo sanno tutti, Alberto» tentennò Nicola, sulle prime sillabe.
«No, non lo sanno tutti. Sono vent’anni che non ti vedo, Nicola, e non capisco come tu sappia di Giulia. Non ti ho invitato, al mio matrimonio» puntualizzò, con le mani sui fianchi.

L’uomo, a quel punto, colto in fallo, iniziò a chiedere aiuto con lo sguardo a Massimo che, alla sua sinistra, si era di nuovo preso la radice del naso fra le dita ed era impegnato in un’accesa discussione col Signore sul perché capitassero, sempre a lui, tutti quegli uomini stupidi e infantili. «Gliel’ho detto io, Alberto» decise di tagliare corto Massimo, guardando l’amico negli occhi.
«E perché gliel’avresti detto?».
«Perché ad un appuntamento si è soliti parlare delle conoscenze in comune».
«Quindi è con lui, che sei uscito?» chiese, un po’ troppo calmo, Alberto.
«Esatto».
«E Noemi lo sapeva?».
Massimo annuì. «Ovvio».
«Ecco perché se n’è andata» sparò Alberto, teatralmente. «L’ho sempre saputo che era innamorata di te, e non ha potuto trattenere la sua rabbia quando ha visto lui,» disse indicando Nicola, come un novello Hercule Poirot, «in casa tua».
«Ma lei-» tentò Nicola, di inserirsi nel discorso ma venne prontamente interrotto da Massimo che stava perdendo, velocemente, quel poco di pazienza che gli permetteva di non urlare contro gli studenti più stupidi: «Ti senti quando parli, Alberto? Senti quello che dici? Certo che lo senti; tu ami il suono della tua voce, o no? Noemi. Innamorata di me. Noemi è lesbica, razza di cazzone, e il bello è che lo sai pure!».
«L’amore non ha sesso».
«Non ricominciare con le tue cazzate filosofiche» lo redarguì Massimo, alzandosi rabbiosamente dalla poltrona. «Non ti sei mai fermato a pensare, prima di dare aria alla tua grossa bocca. I filosofi pensano; forse è per questo che non hai ancora pubblicato niente».
Alberto si scoprì a trattenere il fiato. Certo che sapeva che Noemi era omosessuale, chissà perché, però, nella sua mente funzionava tutto così bene. Massimo e Noemi avevano, da sempre, avuto un rapporto diverso, anche quando erano ragazzi. Lui aveva sempre preferito far finta di niente e continuava a scherzare, come se niente fosse – è così che funzionano i triangoli, amico mio.

«Questa te la potevi risparmiare, Massimo» gli dice Alberto, a testa bassa e ringhiando leggermente. Lui lo sapeva che non era mai stato quello intelligente del gruppo. L’aveva sempre saputo che non sarebbe mai riuscito a prendere il posto di Noemi nel cuore di Massimo, e il posto di Massimo nella mente di Noemi. Non voleva dire niente, per quei due, aver diviso più di vent’anni di vita – sempre a stretto contatto – come se il mondo non gli sarebbe mai bastato.
«Io credo che potremmo concludere qui la serata» propose Teresa, alzandosi dalla poltrona. «Chiama gli altri; hai i loro cellulari. Di’ a tutti che tua madre si è sentita male… o qualche altra stronzata del genere» disse Teresa, come a voler rispondere alla muta domanda di Massimo.
«Sì, credo sarà meglio per tutti».
Alberto si alza, finisce il vino nel suo bicchiere, prende la giacca leggera dall’attaccapanni dell’ingresso ed esce, sbattendo la porta. Teresa rivolge un timido sorriso a Massimo, gli dà un paio di baci sulle guance e gli promette, con gli occhi, che si rivedranno presto anche se lei ha talmente tanti impegni che le bastano per due vite intere. Saluta Nicola con una semplice stretta di mano, prende il suo soprabito elegante anche lei e va via, così come era entrata nell’appartamento in stile vintage di Massimo.
Tra lui e Nicola, adesso, c’era il classico imbarazzo di due amanti che si conoscono poco e che si sono già visti nudi, fin troppe volte.
«C’è dell’arrosto, in forno» gli comunica Massimo, indicando la cucina con un cenno della testa. «Lo riscaldo, mentre chiamo gli altri per avvisarli?».
«Mi piacerebbe assaggiarlo, sì» gli sorride Nicola, porgendogli l’ennesimo bicchiere di vino rosso della serata.
«Sai, è piuttosto strano che non mi sia ancora ubriacato».
«È ora di rimediare, non credi?». 










 

**Angolo Autrice**

Salve a tutti quelli che sono arrivati fino a quaggiù. 
Questa piccola storia - saranno solo tre capitoli ed è finita, praticamente - è stata pensata, dalla sottoscritta, come una piccola pausa dalla mia storia originale. Nata da uno dei tanti prompt che mi regala la mia mogliaH praticamente ogni giorno, è diventata qualcosa di completamente diverso in praticamente tre giorni di scrittura ininterrotta. 
Spero che possa piacervi. 

Alla prossima, 
Feynman. 



 MESSAGGIO ALLA GENTILE CLIENTELA *PLIN PLON*



Per chi bazzica sul fandom di Sherlock, 
Avrete sicuramente notato, per chi ha letto la storia di ermete, che mi sono permessa di usare il nome con cui Sherlock, chiama Tom Stone, "Socrate", riferendosi al suddetto professore di filosofia. Se ermete dovesse passare di qui, spero non se la prenda a male ma è stata una tentazione troppo forte e non ho saputo resistere (ho adorato quella storia, così come adoro la Tomcroft). Perdonatemi, se questa cosa dovesse offendere qualcuno ma non era mia intenzione. 

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Capitolo 2
*** Rootless tree ***




 
Rootless tree



 
 
 
Teresa aveva litigato con le compagne del suo gruppo, perché la sera precedente aveva preferito rimanere in camera sua piuttosto che andare a fumare marijuana in quella che condividevano Massimo e Alberto; e così, in giro per i corridoi, aveva incontrato Noemi che stava giocando a scacchi contro se stessa.
«Stai vincendo?» le aveva chiesto, rimanendo in piedi e abbastanza lontana da quella belva avvolta nella flanella verde pisello.
«La mia avversaria è intelligente» le rispose Noemi, alzando gli occhi verso la poltrona occupata dall’aria. Teresa si ritrovò a pensare che la sua avversaria doveva essere intelligente sul serio: nessuno poteva vincere contro Noemi se non lei stessa.
«È un gioco noioso».
«È un gioco di pazienza e di strategia» le disse, senza guardarla. «Quindi sì: per molti è un gioco noioso» sorrise, alzando lo sguardo.
Teresa aveva visto pochi occhi, belli quanto i suoi. Aveva gli occhi azzurri, aperti e sinceramente stupiti da tutto ciò che vedeva. Noemi, invece, li aveva scuri come… come la terra bruciata. Noemi sapeva di fuoco, fumo e distruzione.
«Quindi perché ci giochi, se sai che è noioso?» chiese Teresa, sedendosi sulla poltrona di fronte a Noemi e schiacciando l’invisibile avversaria della ragazza.
«Il gioco degli scacchi è un modo per aumentare le capacità deduttive, anche se è praticamente impossibile prevedere che mossa farà, l’avversario».
«Sherlock Holmes e il professor Moriarty-»
Noemi, improvvisamente, mise due dita sulle labbra di Teresa e puntò, di nuovo, le sue iridi profonde e spaventose nelle sue. «Tu hai visto Gioco di ombre?». Noemi, mentre formulava la domanda, pensò che Teresa l’avrebbe presa per stupida. Magari aveva capito male lei e non aveva detto, davvero, “Sherlock Holmes e il professor Moriarty” ma “nell’ultimo Harmony” o “hai visto Anthony” – anche se ignorava l’esistenza di Anthony.
 
«Certo che l’ho visto!» rispose piccata Teresa, togliendo la mano di Noemi dalla sua bocca. «Robert Downey Junior è un figo pazzesco!». Scoperto l’arcano, pensò Noemi, «e poi ho letto tutti i libri di Conan-Doyle» finì Teresa, incrociando le braccia al petto.
Forse l’ho offesa, pensò Noemi per un attimo, dopo aver spostato lo sguardo sull’entrata del corridoio. Poteva tranquillamente affermare, che quella fosse l’unica conversazione più o meno pacifica che avesse intrapreso con Teresa, da quando si conoscevano.
 
Non aveva un carattere semplice, la Iannone. Noemi, poi, la sopportava poco perché tendeva a rendersi più stupida di quanto non fosse, in realtà, solo per essere accettata da quella banda di oche che le andavano dietro.
 
«Come mai non sei con Carlotta e le altre?»
«Abbiamo discusso» tagliò corto Teresa, rincorrendo gli occhi di Noemi senza farsi notare.
«Sono capaci di sostenere un conversazione, allora» sputò l’altra, con cattiveria per poi pentirsi; erano le amiche di Teresa e non era stata una mossa intelligente, insultarle. «Scusa, non avrei dovuto…».
«No, hai ragione. Sono quattro stupide… ma sono le uniche cose che ho» le confessò Teresa, trovando finalmente gli occhi di Noemi.
«Potresti ambire di più».
«E a cosa?».
«Potresti avere me, ad esempio».
 
 
 
Sicuramente non se l’era immaginata così, la serata.
Aveva portato del vino, come fa ogni buon invitato a una cena. Non considerava Massimo, un vecchio amico e niente – neanche in passato – l’aveva avvicinata lui. Nemmeno quando le condizioni si erano fatte favorevoli perché, semplicemente, non ce n’era stato il tempo.
 
Non si stupì nel vedere che Noemi non aveva cambiato casa, col tempo. Era sempre lì, in via Giacomo Leopardi, a due passi dalla metropolitana e un po’ di più dall’università, quella che lei aveva deciso di non frequentare.
La donna, sul marciapiede, guardava distrattamente quell’unica luce accesa, sulla facciata del palazzo – un solo dente rimasto, sulle gengive arrossate e invecchiate dal tempo. Teresa sa che Noemi, in quel palazzo, c’ha trascorso un’intera vita e anche se continuava a dire di volersene andare, di cambiare vita, di fare un colpo di testa al lavoro, era ancora lì e lottava come quella leonessa che era.
Teresa sorride, a quella luce solitaria sulla facciata del palazzo e decide di abbandonare il fianco della macchina, attraversare il marciapiede e suonare a quel campanello – il terzo, dal basso. Il nome di Noemi è sbiadito e solitario, segno che non c’è ancora nessuna nella sua vita – Teresa sorride, perché forse è rimasta l’unica.
 
«Sì?» risponde Noemi. Teresa se la immagina: sicuramente si sarà già sbarazzata del reggiseno e delle calze, avrà indossato subito un paio di pantaloncini corti e avrà sciolto i capelli da quella coda costrittiva e severa, che portava a casa di Massimo.
 
Quando si erano viste, l’ultima volta – un’era geologica fa, si ritrova a pensare Teresa – Noemi non era cambiata per niente, dall’incostante e lunatica liceale che era. A casa di Massimo, invece, l’aveva trovata incredibilmente diversa con quei suoi pantaloni classici dalla piega dritta, con i capelli castani – una volta ribelli – tirati indietro e la camicia bianca, dal taglio maschile, chiusa fino al collo. Chissà quanto Noemi l’avrà trovata cambiata, lei. Chissà se anche il suo cuore ha mancato un battito, quando l’ha rivista alla porta di Massimo. Chissà cosa avrà pensato.
 
«I testimoni di Geova hanno cambiato orario per la conversione delle anime?» Noemi stava iniziando a spazientirsi. Teresa si rese conto che non sapeva per quanto tempo fosse rimasta a fissare in nome di Noemi, sul citofono, senza proferire parola.
«Sono Teresa».
«Ah» disse la voce dall’altra parte. «E che vuoi?».
Teresa sollevò un sopracciglio e cercò di non offendersi, per il tono che aveva usato Noemi. «Non vuoi farmi entrare?» chiese lei, abbassando la voce il più possibile.
Dal citofono arrivava solo il respiro calmo e regolare di Noemi.
Teresa la immaginò mordersi l’unghia del pollice – chissà se lo faceva ancora – che era sempre più lunga delle altre, perché doveva suonarci la chitarra e odiava i plettri.
«Va bene, sali» si arrese, dopo attimi di attesa infinita. «La strada la conosci».
 
La “strada”, la conosceva fin troppo bene; nessuno aveva mai saputo che Noemi, a due settimane dall’esame di maturità, le aveva dato piccole ripetizioni di matematica e che l’aveva aiutata a portare a termine la tesina. Si erano avvicinate dopo il campo-scuola a Berlino – il famoso viaggio della maturità della 5F – e da lì, ogni tanto uscivano insieme all’insaputa di tutti – o meglio, all’insaputa delle amiche di Teresa.
Noemi aveva una reputazione da mantenere, ovviamente, tra i cortili del liceo scientifico, ma a lei poco importava con chi passava il suo tempo: finiva per isolarsi comunque. Quindi non aveva importanza se mangiava il gelato con lei, se si faceva accompagnare a fare acquisti in via del Corso – Noemi non era mai d’accordo –, se la costringeva a tenerle la tendina del camerino quando si cambiava.
Poi, quando uscivano dall’ennesimo negozio uguale al precedente, Noemi la spingeva verso la Galleria Alberto Sordi, non per altri vestiti ma per la Feltrinelli, all’interno. La portava, poi, in via Nazionale per un altro giro finché, troppo stanche anche per pensare, prendevano la metropolitana, trascinandosi dietro troppe buste.
Ogni sabato la stessa storia. Il pomeriggio con Teresa, la sera con Massimo e Alberto. Noemi, per colpa sua, aveva iniziato ad avere una seconda vita – come lei, d’altronde.
 
Teresa si lasciò l’androne alle spalle, ignorando la portinaia che le chiedeva dove pretendeva di andare a quell’ora, e percorse l’elegante scala a chiocciola che si arrotolava attorno al vano ascensore – irrimediabilmente rotto da vent’anni.
Noemi la stava aspettando sulla porta, proprio come se l’era immaginata: pantaloncini corti per combattere la calura estiva romana, capelli liberi di inondarle le spalle e gli occhi sospettosi di chi non sa cosa aspettarsi. Non ha la stessa postura di quando sei entrata in casa di Massimo; adesso è appoggiata, morbidamente, allo stipite della vecchia porta e ti osserva, ti studia come quando eravate due ragazzine e tu sei andata a suonare a casa sua per chiederle una mano – perché altrimenti, il quinto superiore l’avresti dovuto ripetere.
 
«Perché?».
«Mi avevi promesso una serata assieme». Teresa rimase sul pianerottolo; non azzardò nemmeno un passo, in direzione di Noemi. Sapeva come andava trattata e sospettava che non fosse poi tanto cambiata, anche con il passare degli anni.
«Te l’ho promessa diciassette anni fa».
«Non credi sia arrivato il tempo della riscossione?» le chiese Teresa, sorridendo leggermente e atteggiandosi da donna coraggiosa. Aveva visto la guerra, laggiù in Afghanistan. Aveva sparato. Aveva ucciso… non ne andava fiera, ma era il suo lavoro.
Noemi era stato il suo primo Afghanistan; aveva fatto pratica con lei.
«Chi ti dice che non sia già impegnata?».
«Sei impegnata?».
«No» rispose Noemi. «E chi ti dice che non stia mentendo?».
«Noemi Cascione non racconta cazzate. Quello è il compito di Alberto».
 
Noemi si allontanò dallo stipite e lasciò il passaggio libero. Disse a Teresa di passare, di entrare dentro casa e di sistemarsi come meglio credeva, senza usare neanche una parola. Glielo disse con gli occhi e l’altra annuì, entrando in quello che era stato il palcoscenico di un’intera estate di una seconda vita che nessuno, tranne loro due, aveva vissuto.
 
La casa aveva conservato quel leggero sentore ottocentesco che la madre di Noemi – Maria Aventi – quando era in vita, aveva amato tanto. Maria era stata una delle donne più forti che Teresa, in vita sua, avesse mai conosciuto: aveva superato il dolore di un divorzio, l’umiliazione di un tradimento ed era riuscita a non morire cinica. La madre di Noemi era morta credendo nell’amore per la vita e pregando affinché quella figlia tanto particolare, trovasse tutto ciò che lei non aveva mai avuto.
Sul lungo corridoio, si affacciavano tutte le stanze della casa; la cucina si trovava esattamente dal lato opposto all’ingresso ed era collegata con il salotto, a destra e con lo studio, a sinistra. Le prime stanze che si incontravano erano le due camere da letto – una accanto all’altra – e il bagno.
Le pareti erano state pitturate di azzurro cielo ed erano invase da riproduzioni di famose opere d’arte, stampe architettoniche d’epoca e intricate costruzioni geometriche rinascimentali. La casa, adesso, era la fedele riproduzione del cervello di Noemi, pensò Teresa.
«Mi piace come l’hai arredata».
«Non condividevo con mia madre l’amore per l’occulto e tutte quelle altre… cose».
«Me le ricordo le… teste vodoo».
«Tsantsa. È così che si chiamano. In realtà ne ho ancora qualcuna, ma le tengo ben nascoste».
«Tua madre nemmeno ci provava, in realtà; le aveva appese sopra la porta, da quel che mi ricordo» sorrise Teresa, al ricordo di quelle piccole testoline.
«Sosteneva tenessero lontani i preti, i bigotti e suo marito» ricordò Noemi, facendole strada verso la cucina.
La donna aprì il frigo e prese un paio di birre senza chiedere a Teresa se ne volesse una. Le aprì, velocemente, usando il lato del vecchio tavolo di legno e gliela porse. «Se vuoi rimanere, ti tocca farmi compagnia».
«Mi è sempre piaciuto bere in tua compagnia».
«Non sempre» volle puntualizzare Noemi, scostando una sedia e sedendo a cavalcioni.
«Già, non sempre» sussurra Teresa, prendendo un sorso dalla bottiglia di vetro. «Sembra essere passato un sacco di tempo, vero?».
«È passato un sacco di tempo, Teresa».
«A me sembra ieri» confessa la donna, cercando gli occhi di Noemi.
 
Stavolta le sta chiedendo esplicitamente di guardarla, a sua volta. Teresa e Noemi non sono più due diciottenni spaventate dal corso degli eventi e dalle loro stesse ammissioni. Questa sera, Teresa sa cosa sta facendo. In questa notte estiva, sa cosa sta desiderando e Noemi lo capisce – perché Noemi è sempre stata più intelligente delle altre – però non si muove da lì; non si alza dalla sedia, non si protende verso Teresa, non le chiede niente – neanche con gli occhi –, perché è finita quella seconda vita in cui passavano i pomeriggi a letto, pigramente abbracciate e deliziosamente nude con la paura perenne che la madre di Noemi le scoprisse – perché Maria sapeva che la figlia era omosessuale ma lo studio, veniva prima di tutto – e allora ripassavano formule matematiche, Ungaretti e Nietzsche con il fiatone, il sudore che si raffreddava sulla pelle e a voce alta affinché Maria le sentisse e non sospettasse niente.
La camera arancione di Noemi, era il loro piccolo angolo di paradiso dove la realtà si confondeva e il tempo diventava relativo sul serio. Erano talmente dentro la rete temporale da riuscire a scherzare con James Joyce e litigare con Montale, come se fossero lì – come se tutto l’Universo fosse prigioniero di quelle quattro pareti arancioni.
 
A diciott’anni era stata Noemi a prendere in mano la situazione. Era lei che aveva fatto capire a Teresa quanto fossero invischiate in quella storia che, in tre settimane, era diventata già quel qualcosa in più. Teresa, allora, le aveva urlato addosso che era stata sua, la colpa; che lei l’aveva corrotta con i suoi modi da strega atea e che sua madre, con le sue teste vodoo, l’aveva avvelenata per poi abbracciarla stretta e piangerle addosso tutta la paura che aveva – perché Teresa era vergine col cuore, tanto non lo era più col corpo.
 
A trentanove anni, Noemi ha capito che fare i Primi Passi non conviene mai. È stata lasciata troppe volte, perché è stata la Prima Volta di qualcuno ed è stufa di venir abbandonata nel nome dell’Esperimento – quegli stessi esperimenti che lei venera e che porta avanti con tenacia e passione. Per tutti questi motivi – e molti altri –, Noemi non si muove e smette anche di bere quella birra che in realtà non voleva, ma le serviva per nascondere il tremolio alle mani.
Teresa capisce un attimo dopo averglielo chiesto con gli occhi, che l’altra non intende far nulla. Le sta lasciando, di nuovo, il risultato della partita: sta a lei decidere come deve finire – come l’altra volta.
 
Teresa si alzò, lasciando la bottiglia sopra il tavolo e si avvicinò, lentamente, a Noemi che, nel mentre, aveva indietreggiato col busto. I capelli, scivolandole sulla schiena, le avevano lasciato il collo scoperto; Teresa si ricordava bene quanto profumava quel lembo di pelle: fumo, arance e un leggero sentore di sudore. Aveva amato leccare quel pezzo di lei, fin sotto l’orecchio e sentire, dentro lo stomaco, quanto la facesse sentire potente quando Noemi si lasciava andare ai gemiti, dimenticando qualsiasi nozione appresa sul Super-Io.
 
Teresa, questa notte, non ha più diciotto anni e sa che quello che sta per fare è pericoloso – pericoloso per lei, pericoloso per i ricordi che il respiro ansante di Noemi le sta riportando alla mente, pericoloso per tutto quello che c’è stato e che forse, per una notte, potrebbe tornare a vivere – ma non indietreggia, perché Noemi è stata il suo primo Afghanistan e l’ha lasciata – così come ha lasciato quello vero.
Teresa continua ad avanzare e vorrebbe inchiodare Noemi, a quella sedia di legno. Vorrebbe vederla pregare, per un suo bacio come lei la supplicava di toccarla e di farla sentire viva, in uno di quei pomeriggi di fine maggio. Ma Noemi non supplica, non lo ha mai fatto, però decide di rimanere inchiodata alla sedia e di aspettare qualsiasi cosa decida di fare Teresa perché lei si è sempre fidata.
Teresa le passa una mano sulla nuca, in mezzo ai capelli, e li tira indietro esponendo il collo, leggermente olivastro, di Noemi e le sussurra: «Voglio sentire se davvero non hai cambiato profumo» e la lingua della donna impatta sulla pelle dell’altra e Noemi sospira, leggermente, accorgendosi di andare incontro alla bocca di Teresa.
«È sempre quello che piace a te» le risponde, cercando di mantenere il controllo su se stessa. Ha la pelle d’oca, Noemi, mentre Teresa inizia a suggerle quella striscia di pelle dietro l’orecchio, per poi passare a tormentarle il lobo. E Noemi inizia a mugolare, perché Teresa sa quanto sia sensibile e quanto abbia odiato che lei l’avesse scoperto così presto, allora.
«Ti sei mantenuta sensibile, Noemi» sorrise Teresa, soddisfatta di quella piccola riscoperta. Noemi, stufa di quella posizione da sottomessa, si alzò velocemente e la fece stendere, con una leggera spinta, sopra il tavolo della cucina. «Adesso sì che ti riconosco, Tigre» le sussurra Teresa, un attimo prima che Noemi decida che è il momento di finirla di prendersi in giro; posa le labbra su quelle dell’altra dandole un bacio che sa di birra, fumo e arance – perché l’odore di Noemi è rimasto quello, anche a vent’anni di distanza.
È un semplice sfiorarsi, all’inizio, che poi si trasforma in un bacio fatto di saliva, morsi e respiri presi di corsa. Teresa assaggia Noemi; Noemi beve Teresa, ed è come se fossero tornati i pomeriggi di maggio.
 
Noemi sfilò la camicia di Teresa dai pantaloni classici e porta la mano sull’addome percorrendo la linea degli addominali disegnati; le dita corrono fino al reggiseno e le braccia tirano sempre più su la stoffa, scoprendo altra pelle. Infila, prepotentemente, la mano sotto il ferretto e afferra un seno, stringendolo piano sentendo Teresa, sotto di lei, sempre più bisognosa d’aria. Le lascia andare la bocca, mentre inizia a sbottonarle la camicia e a fargliela scendere sulle spalle, scoprendole.
Teresa afferra la maglietta di Noemi e gliela sfila dalla testa, scoprendola orgogliosamente nuda. L’altra era sempre stata più in carne, di lei. Teresa aveva sempre curato la sua forma fisica ma aveva scoperto che amava le morbide fattezze di Noemi e che adorava morderle la pancia, vicino all’ombelico ben disegnato. Le prese fra i denti quel pezzo di pelle e lo strinse, un poco, fra gli incisi appuntiti e poi ci passò la lingua, attenuando il bruciore del morso, lasciando che Noemi le gemesse fra i capelli.
Noemi tolse il reggiseno a Teresa, gettandolo a terra e spingendola sul tavolo, in modo che fosse completamente sdraiata.
«Pensi terrà?».
«Da quando ti interessano i dettagli tecnici?» le chiese Noemi, iniziando a succhiarle un capezzolo.
«Da quando… da quando non ho più vent’anni».
«Fidati, Teresa, e spegni il cervello» le ringhiò contro Noemi, iniziando a toccarla con veemenza crescente. «E poi, sicura di voler arrivare fino in camera da letto?».
Teresa gemette solamente, in risposta alla domanda di Noemi che si poté considerare soddisfatta: era l’unico modo che conosceva, per far azzittire l’altra.
«E pensare, che tutti credevano che ti dessi da fare coi professori, Teresa».
«Sta’ zitta e baciami, Strega» le ordina, graffiandole la linea della mascella con i denti.
 
Noemi la bacia di nuovo, come se non le bastasse mai. Le dirà, quando saranno troppo stanche anche per pensare, che sarebbe inutile sprecare altro tempo a ignorare quello c’è sempre stato tra loro. Le dirà che è stata stupida, a vent’anni, quando decise di lasciarla andare a farsi ammazzare dai talebani; le dirà che ha vissuto col terrore di non poterla rivedere più perché un proiettile gliel’avrebbe portata via, quando finalmente era riuscita a catturarla fra le dita.
È per questo – e per tanti altri motivi – che Noemi diventa prepotente e le afferra le spalle, con forza, mentre le accarezza il palato e le morde le labbra; e Teresa, per paura di non vederla mai più, l’aiuta a sbottonarle i pantaloni e le allaccia le gambe dietro la schiena: ha bisogno di sentirsela dentro – col corpo, con la bocca, con le dita, con la mente. Sente il bisogno di venir posseduta da Noemi, come vent’anni fa – perché è di nuovo estate e fuori fa caldo.
 
Teresa urla, sulle labbra di Noemi.
Noemi trema, fra le gambe di Teresa e le sfiora le scapole come a voler carezzar le ali di una farfalla, per impedirle di volare – di fuggire.
Teresa vorrebbe piangere e invece inizia a ridere, sempre più forte. Ride di lei, di Noemi, di Alberto e di tutta la 5F. Ride, pensando al fatto che nessuno ha mai capito che l’unica persona che ha mai amato è stata Noemi, che adesso le respira addosso e riprende fiato annusando quel buon odore di violette e burro di cacao che mi mescola alle arance e al fumo.
Noemi si alza dal tavolo, rimira la figura di Teresa, mollemente sdraiata sotto di lei, completamente nuda e con la pelle cosparsa di sudore. Le porge una mano, per aiutarla ad alzarsi – perché non hanno più vent’anni – e le sorride. «Rimani a dormire?».
«Ho bevuto troppo per rimettermi a guidare».
«La sicurezza, prima di tutto» e si ritrovano a ridere, insieme. 





 




**Angolo Autrice**

Un altro capitolo e la storia si chiude. 
Ve l'avevo detto che erano tre XD. 
Sperando che possa essere di vostro gradimento, vi aspetto al prossimo capitolo. 

Feynman

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Capitolo 3
*** I remember ***


I remember


 
 
Alberto rincasa e posa le chiavi nel piattino, sul mobile dell’ingresso. Non accende la luce, perché spera che Giulia stia dormendo, nel suo letto, anche se sono solo le nove della sera ed è sabato. Le ha detto, prima di uscire, di ordinarsi una pizza o di chiamare il giapponese e farsi portare la cena, perché quella mattina si era dimenticato di andare a fare la spesa e in casa non c’era niente. Giulia aveva roteato gli occhi e gli aveva detto che, senza di lei, sarebbe sicuramente morto di stitichezza, visto le schifezze che continuava a mangiare. Lui le aveva sorriso e le aveva detto di farsi una vita sociale, invece di pensare a lui.
 
Alberto l’avrebbe voluto davvero che Giulia pensasse a vivere, piuttosto che rimanere sveglia fino a tardi, con la cena tenuta calda dentro al forno per lui e un sorriso a tirarle le labbra, quando rientrava dal lavoro. Avrebbe voluto che fosse menefreghista quanto la madre e non ansiosa come lui, sempre amorevole e pronta per farsi in quattro per chi ne aveva bisogno.
 
«Già tornato? Avete fatto baldoria, tu e il prof, eh». La voce di Giulia – non così stridula, come lui pretendeva che fosse – gli arrivò dal divano. La ragazza era distesa, con il computer sulle gambe e con una cuffietta nell’orecchio. Giulia era cresciuta tanto, da quando la scuola era finita; ormai svettava su tutte le altre ragazza, arrivando all’altezza delle sue orecchie. Sua figlia era bella quanto la madre e sfortunata, quasi quanto lei.
 
«Che guardi?» le chiese, non veramente interessato perché lui, di quelle cose moderne, non ci capiva un granché – in realtà non ci aveva capito un cazzo neanche quando sedici anni, li aveva lui.
«Iron Man».
«Il mio?».
«Ovvio, quello che è uscito il mese scorso fa schifo anche ai ciechi» gli risponde, sedendosi a gambe incrociate e abbassando lo schermo del portatile. «Che è successo, papà?».
Giulia è intelligente, e Alberto lo sa. Maledice il cervello della figlia, ogni volta che capisce, solo guardandolo negli occhi, quello che gli passa per la testa. La figlia anticipa ogni sua mossa, prevede ogni suo desiderio e puntualmente glielo sbatte in faccia – dannata adolescenza ribelle.
«Niente di che» le dice, sprofondando nel divano, accanto a lei.
«Hai litigato con Noemi?» gli chiede, mettendo in pausa il film. Alberto nota a malapena l’espressione di Robert Downey junior, nel momento in cui il film è stato bloccato.
 
Stavolta, l’uomo vorrebbe chiederle come ha fatto a capirlo. Le vorrebbe dire che la dovrebbe finire di leggersi tutti i libri sulla Scienza della deduzione – quella dannata roba che scrivono quelli della sua generazione, cercando di mantenere vivo un mito – e che potrebbero prenderla per strega, se continua su questa strada.
 
Alberto sospira e lascia andare la testa sulla spalla della figlia, che inizia a massaggiargliela e a tirargli i capelli. «Da cosa l’hai capito, genio?».
«Elementare. Ogni volta che stai così da schifo è perché Noemi ti ha fatto capire quanto sei stupido – e io non finirò mai di darle ragione» gli dice, tirandogli una ciocca con più forza, per sottolineare il concetto.
«Ah, grazie» scherzò, alzando la testa. «E pensare che i figli dovrebbero dare supporto e conforto».
«Per il supporto ci sono le stampelle e niente è meglio della cioccolata, per il conforto».
«Sei peggio di lei, certe volte» le confessò, alzandosi dal divano e dirigendosi in cucina. «Che hai mangiato, per cena?».
«Ho ordinato una pizza anche per te; è in microonde» gli rispose Giulia, riprendendo la visione del film.
Alberto diede un paio di minuti alla pizza e ritornò a sedersi, accanto alla figlia sul divano. «Perché ti piace tanto, ‘sto film?».
«La maggior parte dei film della tua generazione, sono veramente geniali. Alcuni fanno piangere, per quanto sono brutti… però, altri, sono talmente pregni di significato…».
«Parli come Massimo, certe volte».
«Il professor Biagi è un grande uomo, papà!» gli disse Giulia, entusiasta.
 
Sì, pensò, Massimo era sempre stato un grande uomo, anche quando erano solo tre ragazzi che non credevano nel futuro che gli veniva offerto; Noemi sognava di scoprire buchi neri e di passare l’intera vita, col naso puntato verso il cielo. Massimo voleva diventare uno scrittore, un regista, uno sceneggiatore e, alla fine, non si era allontanato dal loro vecchio liceo, dove insegnava Letteratura alle Nuove Menti. L’amico gli diceva sempre, che i suoi ragazzi erano completamente diversi dagli adolescenti che erano loro: sanno di avere molte più possibilità, perché la generazione di Alberto ha risollevato il mondo – senza l’aiuto di leve – e credevano di avere tante possibilità di scelta, forse troppe. Erano ragazzi cresciuti da genitori che o ce l’avevano fatta, o avevano fallito miseramente – se i primi erano affamati, i secondi sarebbero riusciti a divorare il mondo.
 
Giulia era una ragazza diversa, anche grazie all’influenza positiva di Noemi. Alberto, senza una figura femminile, aveva dovuto aiutare la figlia con la sua prima delusione d’amore, con le mestruazioni e con tutto ciò che comportavano; Alberto, per Giulia, si era fatto donna. Non si pensa, quando si diventa genitori, a tutte le complicazioni che arriveranno, ai no che si diranno, alle notti insonni aspettando che rientri a casa – anche se sono solo le undici di sera, e le ragazze fanno molto più tardi.
 
«Non dovresti pensare così tanto, sai» gli disse, appoggiandosi alla sua spalla e spegnendo il computer. «Corrughi la fronte, quando sei arrabbiato. Non mi piace».
«Lo so, che non ti piace» sospirò, arreso dall’evidente superiorità intellettiva della figlia. «Mi è impossibile non pensare; sono un filosofo, dopotutto».
«La zia Nemi, stavolta, deve averti proprio buttato a terra, eh».
«Perché chiami Noemi “zia” e Massimo no?».
«Massimo, è un mio professore. Il primo giorno di scuola, quest’anno, l’ho chiamato “zio” e in classe è sceso il silenzio» gli raccontò lei, imbarazzata. «Sai che non sopporto essere chiamata “cocca del professore”. Pensano che mi esimi dallo studiare…».
«Lasciali perdere. I ragazzini, alla tua età, sono tutti dei coglioni».
Giulia sospira e chiude il portatile, lasciando Iron Man orfano di attenzione: «Io vado a dormire. E la tua pizza è pronta da mezz’ora».
«Buonanotte, Gioggiò».
«’Notte, vecchio». Giulia gli posò un semplice bacio sulla guancia e, con il computer sotto braccio, se ne andò. Il soggiorno era più spoglio, adesso. Alberto era solito chiamare “minimal”, lo stile di casa sua quando era semplicemente “mancanza di grana” – pensava potesse far star meglio sua figlia, invece serviva a lui per sentirsi meno in colpa.
Non avrebbe mai capito cosa frullasse nella testa dell’ex-moglie, quando aveva deciso di rinunciare all’affidamento di Giulia. Le donne, si era detto, sono programmate per fare le madri; nascono praticamente apposta per mettere al mondo altri figli…
 
Ignorò il suono snervante del microonde e lasciò che la pizza si raffreddasse, di nuovo. Si ritrovò a pensare, senza cognizione di causa, come in un libro di Joyce, che lui aveva amato per primo, Massimo e Noemi. Li aveva amati e sostenuti quando non c’era nessuna Teresa o Nicola, all’orizzonte e quando le loro uniche preoccupazioni era quale gusto di gelato scegliere, una volta finita la pizza.
Quando uscivano assieme, Noemi era sempre raggiante e riposata, anche quando gli esami si stavano avvicinando e trascorreva più tempo a studiare da sola, che con loro.
Alberto ricordava, quel periodo, come uno dei migliori nella sua vita e aveva paura, per quando sarebbe toccato a sua figlia.
 
Il liceo aveva lasciato cicatrici profonde, in tutti loro.
Non cresci, dopo cinque anni di liceo; impari solo a cavartela da solo e come superare le sbornie del sabato sera. Si esce di lì, con la consapevolezza di non essere stati compresi appieno dalle persone che hai visto per trenta ore a settimana, che hai odiato e amato. Hai pianto e riso, per colpa loro. Hai fatto a botte per loro e con loro. Le hai conosciute, si dice Alberto, senza conoscerle del tutto, neanche dopo vent’anni.
 
Quella, era stata una serata sbagliata sotto molti punti di vista. Dovrebbe chiamarli, Noemi e Massimo, ma sapeva che avrebbe disturbato.
Noemi e Massimo, quella sera, si staranno riscoprendo adolescenti fra le braccia di altri e cullati dai loro respiri che non sanno di innocenza e gioventù.
Alberto può dire di essere l’unico adulto, fra loro tre. Ma chi ha detto che è un complimento?
 
Si stiracchia, lamentandosi per il dolore alla schiena. Si alza dal divano, apre la porta della sua camera da letto e trova Giulia, con le coperte sul fondo del letto, che dorme beata.
 
Forse, si dice, avrà anche lui la sua possibilità di rivivere l’adolescenza, ma non è ancora arrivato il tempo: Giulia ha bisogno di lui, non di un sedicenne con l’acne che le dica di buttarsi nel fiume, per dimostrare di valere qualcosa.
 
Entra in camera, si sdraia accanto a sua figlia e le scosta una ciocca di capelli biondi, dal viso. Le augura, tra un respiro e l’altro, le migliori cose di questo mondo e le promette che, niente e nessuno, le farà il male che lui ha fatto agli altri.
 
Le promette che, per lei, sarà diverso.
Diverso e uguale.
Alberto ricorda e culla, la sua bambina, con le canzoni che Noemi suonava con la chitarra e che Massimo cantava. 






 
**Angolo Autrice**

Una storia senza alcun senso ma che avevo voglia di scrivere, per prendermi una pausa. 
Ognuno può vederci ciò che vuole e per me, forse, è solo un ritorno alle origini. 

Alla prossima,

Feynman

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