Il Talismano della Follia

di Floffy_95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Isilmo ***
Capitolo 2: *** Telperiën ***
Capitolo 3: *** Lond Daer ***
Capitolo 4: *** Ghân-rani-Ghân ***
Capitolo 5: *** Andrast ***
Capitolo 6: *** Drúwaith Iaur ***



Capitolo 1
*** Isilmo ***


Capitolo I:

Isilmo

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La luna sorge pallida a Ovest del Monte Fato, intrisa dei vapori della montagna.

Respiro a pieni polmoni l'aria della notte, la faccio scorrere nelle mie narici.

È gelida e odora di fuliggine.

Sbatto le palpebre, mirando le ombre che si stagliano ai piedi del vulcano: rigurgitano di orchi, 

le cui torce accese sfavillano a sprazzi nell'oscurità satura di miasmi.

Il mio sguardo si perde lontano, fra le nubi accese dai lampi sopra la Torre Tetra, sopra Lugbúrz.

Il mio respiro si infiamma.

Sento l'ira invadermi le membra come un soffio di fuoco.

Stringo i pugni sul manico di Castigo di Udûn, la mia grande mazza nera.

Vuoi bere il sangue dei ribelli? Pazienta, mia cara, presto ne berrai tanto da esserne completamente lorda.”

Ammicco sprezzante, posando lo sguardo sull'Occhio senza palpebre,

ardente di una fiamma che si alimenta di odio, inestinguibile, inavvicinabile.

Lancio un urlo potente, stridulo alle mie orecchie.

Un grido che potrebbe gelare il sangue e far tremare i polsi anche al più prode degli Uomini.

Ma io non sono più un Uomo.

Inclino il capo, in ascolto.

Un coro di grida selvagge e stridule empie l'aria, dilaniandola come la vela di una nave nel pieno di una tempesta.

I miei fratelli stanno rispondendo alla chiamata del loro signore.

Scorgo delle figure volteggiare fra i miasmi dell'Orodruin.

Abomini alati che nacquero molti secoli fa in luoghi remoti che il mondo ha obliato.

Le nuove cavalcature degli Spettri dell'Anello.

Ormai sono vicini, avverto i loro sospiri tormentati.

Gli occhi mi cadono sui guanti d'acciaio nero che ricoprono il vuoto della mia carne.

Signore dei nove.”

Ecco qual'è adesso il mio ruolo.

Ma non era sempre stato così.

C'era stato un tempo in cui aveva provato paura, vergogna e... amore.

Un tempo in cui aveva vissuto come principe nell'obliata Ovesturia.

Tanti e tanti anni prima.

Prima che tutto cambiasse.

Prima che il fato mi portasse via tutto quello che avevo di più caro al mondo.”

 

 

L'erba mi solletica le dita dei piedi, florida e verdissima.

Indosso una veste damascata di velluto nero.

I miei capelli si agitano nella brezza marina come spighe di grano maturo.

Stendo le braccia davanti a me.

Le mie mani incontrano quelle di Anariën.

Veste un abito di raso bianco, stretto in una cintura dorata con pallidi cristalli.

Arriccio le labbra, pieno di soddisfazione.

Lei ricambia il sorriso.

Ha occhi grigi e brillanti come stelle e capelli lucenti color della notte più tersa.

La sua pelle emana il profumo delle viole selvatiche.

Entrambi indossiamo dei leggeri diademi in filigrana d'argento incastonati di gemme bianche.

Ho il fiato corto per l'emozione.

Il sacerdote si avvicina, fissandoci lungamente con un'espressione di soddisfazione sul volto.

«Scambiatevi gli Anelli della Promessa!»

Le mie mani non vogliono lasciare quelle di Anariën.

Tremo, staccandomi dalla mia sposa.

Un paggetto si avvicina, porgendomi su un cuscino il suo anello.

D'oro puro, raffigura due mani che si uniscono con al centro un cuore sormontato da una corona.

È il simbolo del nostro eterno amore.

Era di sua madre ma adesso passerà a lei.

Anche il paggetto di Anariën ha un anello identico, dono di mia madre.

Prendo l'anello e lo faccio scivolare dolcemente nell'anulare affusolato della mano

sinistra della mia amata, con la punta del cuore rivolta al polso.

Mi allargo in un sorriso pieno di esaltazione.

Sono così felice!”

Anariën prende a sua volta il mio anello.

Mi stringe la mano in modo febbricitante.

I suoi occhi splendenti si posano su di me mentre le sue gote avvampano.

Mi infila l'anello al dito nella medesima posizione del suo.

Ci stringiamo le mani vicendevolmente.

Il suo tocco è così incerto e caldo!

Il sacerdote annuisce e declama con voce stentorea:

«La mano destra per sorreggersi a vicenda, la mano sinistra per non lasciare l'altro mai da solo, 

il cuore come simbolo di eterno amore, la corono come testimonianza di fedeltà!»

Afferra una brocca d'argento colma di acqua marina immergendovi un aspersorio e inizia a

benedirci aspergendoci con esso.

Le sue labbra si muovono in una preghiera silente, poi annuncia:

«Vi benedica Ulmo con l'acqua e con il sale!»

Inizia a dondolare un incensiere sulle nostre teste avviluppandoci con in suo fumo.

L'odore è dolciastro e stordente.

«Vi benedicano Varda Elentári e Manwë Súlimo con l'incenso sacro!»

Annuisce ai due paggetti che iniziano a spargerci addosso petali profumati.

«Vi benedica Yavanna Kementári con i frutti della terra!»

Uno dei paggetti porge un vasetto dorato al sacerdote che lo apre ed intinge le dita nell'olio sacro.

«In nome di Eru Ilúvatar! Siate benedetti con l'olio santo! Siate fedeli l'uno a l'altra e

giuratevi amore eterno davanti a Lui!»

Entrambi chiniamo il capo ed il sacerdote ci unge le fronti componendo il glifo elfico per “vita”.

La sua voce ci raggiunge potente.

«Alzatevi ora, figli di Eru! Siate per sempre uniti! Che nessuno attenti alla vostra felicità!»

Alzo lo sguardo e incontro gli occhi ridenti di Anariën.

La bacio con passione.

Freme tutta sotto le mie labbra, morbide e dolci come il miele.

Mi stacco dal bacio di malavoglia, stringendola a me.

La folla esulta, lanciandoci addosso chicchi di melograno.

Posso sentire il suo profumo di viole ancora più intenso.

Le avvicino le labbra all'orecchio e sussurro: «Ti amo... Anariën.»

La sento singhiozzare sulle mie spalle.

La scosto spaventato.

«Ma... Amore! Cosa fai, piangi?»

Anariën si allarga in un dolce sorriso, gli occhi scintillanti di lacrime.

Mi attira a sé, stringendomi forte.

«Oggi è semplicemente il giorno più bello della mia vita!»

 

 

Il vento soffia gelido fra i pascoli ingrigiti.

Trascina nembi plumbei sull'orizzonte.

Mi sferza il viso, incessante.

Incito la mia giumenta.

«Veloce! Più veloce Azrakarbî1!»

Galoppo furiosamente verso Est, verso la tempesta in arrivo.

I lampi squarciano il cielo, illuminando a sprazzi la città di Arminalêth2,

celata dalle ombre ai piedi del Minul-Târik3.

Odo un ruggito minaccioso attraversare l'aria, come un rullare di tamburi da guerra.

Anariën!

La mia mente non riesce a pensare ad altro.

Aspettami!”

Il cuore mi palpita furioso.

I minuti passano lentamente, troppo lentamente.

Posso distinguere il suono degli zoccoli che sbattono contro il terreno, il frusciare dell'erba sbattuta dal vento,

le gocce di pioggia che iniziano a martellarmi addosso.

Traggo un profondo respiro.

Il mio bambino sta per nascere!”

La pioggia mi frusta il viso, scrosciando furiosa.

Rigagnoli d'acqua imperversano ovunque, tramutando in pantano le fertili valli dell'Arandor.

Per fortuna ho superato il Siril ore fa, altrimenti sarei stato fermato dalla piena del fiume.

La mia giumenta ansima stremata, inizia ad inciampare su ogni sasso che incontra.

Ho il fiato corto.

«Forza, bella! Ci siamo quasi!»

Intravedo la città, sempre più vicina, fra le falde della Montagna.

La pioggia continua a cadere e il vento si alza, togliendomi la vista.

Alzo il viso al cielo, digrignando i denti.

Maledetta pioggia! Non mi impedirai di vedere mio figlio!”

Sprono ancora la mia giumenta.

Arranca nel fango, trascinandosi lentamente nella tormenta.

«Azrakarbî! Avanti, bella! So che puoi farcela, non deludermi!»

La mia giumenta pare avermi sentito e con un colpo di reni si issa fuori dalla fanghiglia, scalciando.

Con un forte nitrito si impenna e si getta al galoppo fra i campi.

Non manca ancora molto.

Le mura della città torreggiano davanti a me.

La pioggia mi offusca la vista, ma vedo chiaramente la torre di Indilzar4 stagliarsi oltre la foschia.

Estraggo il mio corno e soffio a pieni polmoni.

Il suo suono stridulo serpeggia per le colline, attraversando la tormenta.

Un suono roboante di catene che scorrono e argani che si muovono mi investe.

Lentamente, le grandi porte della città si aprono.

Con un ultimo sforzo, la mia giumenta balza verso l'ingresso, quasi travolgendo le guardie.

«Fate largo!» grido «Sta nascendo mio figlio!»

Galoppo furiosamente su per le strade della capitale.

Gli zoccoli del cavallo sbattono incessantemente sul lastricato reso

scivoloso dal fango delle grandi vie che portano a palazzo.

Posso sentire il cuore martellarmi nel petto.

Avverto il sangue scorrermi nelle vene.

Sprono ancora una volta la mia giumenta.

Prendo aria a pieni polmoni.

Sospiro.

Avvicino la bocca all'orecchio di Azrakarbî.

«Ormai ci siamo!» le sussurro.

La mia giumenta scuote orgogliosamente la criniera bianca, nitrendo forte.

Il palazzo scintilla nella pioggia, smagliante di balaustre e bassorilievi coperti di argento e oricalco.

Raggiungo le stalle in un baleno.

Smonto con un salto e per poco non mi fratturo una gamba.

Sono sudato fradicio.

Senza voltarmi, affido a la mia Azrakarbî a uno stalliere e corro su per le scale del castello.

Le guardie accennano a un inchino e mi lasciano passare.

Ho il fiatone e sono scosso da brividi.

Il temporale è alle mie spalle ormai.

Mi volto intorno scuotendo la testa fradicia, disorientato.

Quanti corridoi ci sono in questo dannato palazzo?”

D'un tratto sento il debole richiamo di un vagito.

Corro in quella direzione più veloce che posso.

I miei stivali coperti di fango lasciano impronte sui pavimenti lucidi del castello ma non me ne curo.

Grido forte.

«Anariën! Anariën, Sono qui!»

Il vagito si fa più forte.

Proviene da dietro una porta, dall'altro lato del corridoio.

Spalanco le porte e irrompo nella camera quasi saltando.

«Anariën!»

Uno stuolo di levatrici mi squadra con acidità.

Una delle donne più corpulente si piazza fra me e la mia sposa.

«Vi sembra il modo di entrare nella camera di una donna che ha appena partorito?»

Sono confuso, scuoto la testa nervosamente.

«Come sta lei?»

La levatrice scuote la testa a sua volta, abbassando lo sguardo.

«Ha perso molto sangue, mio signore... forse è il caso che voi...»

«No!»

La flebile voce di Anariën ci fa voltare.

Impallidisco.

Il suo bel viso è solcato da profonde occhiaie, la sua pelle madida è arrossata per la febbre.

Mi avvicino a lei.

Le stringo la mano.

«Amore...»

Anariën mi stringe a sua volta le mani.

È debolissima.

«Isilmo... sei... arrivato... alla fine...»

viene colpita da un accesso di tosse.

Mi inginocchio ai suoi piedi.

«Va tutto bene,» le sussurro «Tutto bene.»

Le scosto una ciocca nera dal viso.

È fradicia.

Anariën deglutisce e reclina il capo sui cuscini, sfinita.

Si sforza di guardarmi, ammicca.

Le sue labbra sono secche.

Mi volto verso le domestiche.

«Un po' d'acqua fresca, per favore!»

Una delle levatrici annuisce ed esce dignitosamente dalla stanza, portandosi una caraffa vuota.

Torno a guardare Anariën.

Il suo volto, prima rosso per lo sforzo è ora pallido come un lenzuolo.

Le stringo la mano.

«Amore! Come stai?»

Anariën sospira profondamente.

«Io... sto... bene... lui... lui... Isilmo, come... come sta nostro figlio?»

Deglutisco e sempre stringendole la mano mi volto in cerca di risposte.

Le levatrici mi sorridono incoraggianti, sebbene i loro volti siano crucciati per lo stato di Anariën.

Quella che sembra la più anziana mi indica una culla poco distante.

«Non preoccupatevi, vostra grazia. Il bimbo è maschio, è sano ed è forte.»

Mi sporgo sulla culla.

E vedo mio figlio.

Una creaturina minuscola dai radi capelli bruni incollati alla fronte dal sudore che sporge

a malapena fra le spesse coperte di lana.

Una delle levatrici me lo mette in grembo.

«Ecco vostro figlio, mio signore.»

Con le dita gli solletico la manina paffuta.

È così piccolo...”

Gli carezzo la testa rotonda.

È perfetto.

Il mio erede.”

Sorrido, incantato da tanta bellezza.

Anariën viene colta da un altro accesso di tosse.

Mi volto verso di lei.

«Anariën?»

Guardo le levatrici, ansimante.

«Ha bisogno di aiuto?»

La levatrice più anziana scuote dolcemente la testa.

«No, vostra grazia.

Le abbiamo già fatto degli impacchi con l'Athelas, e il medico di corte è già venuto a farle visita.

Tutto quello che possiamo fare ora è attendere.»

L'uscio della camera si apre.

Tutti ci voltiamo.

La giovane levatrice è tornata con dell'acqua fresca.

Arrossisce e inchinandosi mi porge la brocca.

«Ecco, vostra grazia.»

Immediatamente ne riempio un bicchiere per mia moglie.

«Ecco. Bevi, amore mio.»

Le carezzo la fronte, ancora sudata.

Ora non scotta più.

«Grazie, marito mio.»

Si irrigidisce e piega la testa di lato.

«Dov'è Minastir? Dov'è il mio bambino?» ansima.

Le bacio la fronte.

«Con calma, amore! Nostro figlio sta bene. Non hai nulla di che temere.»

Mi sorride dolcemente.

I suoi occhi sono lucidi.

«è un maschio...»

le bacio piano le labbra.

«lo so.>>

è così fredda!”

Mi volto verso le levatrici.

«Non avete di che coprirla?»

Queste si inchinano.

La levatrice anziana increspa le labbra in un sorriso timido.

«Non preoccupatevi, mio signore. La vostra sposa è ben scaldata.

La sua freddezza è dovuta alla grande perdita di sangue che ha subito.

Presto si rimetterà. Per il resto, siamo nelle mani di Eru.»

Aggrotto la fronte, annuendo.

«Ho capito.»

Anariën mi chiama debolmente.

«Isilmo! Ti-ti prego... fammi vedere... nostro figlio...»

Le sorrido dolcemente, cercando di non apparire troppo teso.

«Certo, amore mio.»

Le porgo il bebè.

«Ecco... riesci a vederla, tesoro? Questa è la mamma!»

Anariën allunga debolmente le braccia verso di lui.

Lo stringe con premura, tremante.

Temo che non potrà sorreggerlo a lungo.

«Il mio bambino... il mio Minastir...»

Scoppia a ridere, interrotta da qualche colpo di tosse.

«Sono così felice... Isilmo... è nato... nostro figlio è nato...»

La stringo forte a me, sorreggendo il piccolo.

La gioia di Anariën mi contagia.

Arriccio le labbra, estasiato.

Mi prudono gli occhi dalla commozione.

Non devo piangere!”

«Sì, zirân5. Ora siamo una vera famiglia.»

Rimaniamo stretti in un lungo abbraccio, finché Anariën non si addormenta.

Ormai è calata la notte.

Con un sospiro porgo il bambino nelle amorevoli braccia della sua nutrice che lo mette a dormire.

Contemplo il volto della mia sposa dormiente.

Ora che è serena, il suo volto appare bello quasi quanto il giorno del nostro matrimonio.

Sbadiglio.

Forse sarebbe meglio se anch'io andassi a letto.”

Mi sto voltando per andarmene quando sento battere piano alla porta.

Una voce soffocata prorompe dall'altra parte.

«Mio signore?»

Apro lentamente per non disturbare Anariën.

Appare un servo dall'abito riccamente ornato.

Assumo un cipiglio rabbioso.

«Cosa succede? Perché mi disturbi a quest'ora? La mia signora sta riposando.»

«Mio signore... vi prego di perdonarmi, innanzitutto vi faccio le mie più sentite

congratulazioni per la nascita di vostro...»

Scuoto una mano nervosamente, interrompendolo.

«Grazie. Ora dimmi perché sei qui.»

Il paggio deglutisce, arrossendo.

«S-sua altezza il Re desidera vedervi. Subito.»

Annuisco, perplesso.

«Bene, di che si tratta?»

«Della salute di sua altezza.»

sbatto le palpebre, stupito.

«Non capisco.»

Il paggio si guarda attorno nervosamente.

«Il Re sta morendo...»

 

 


1Adûnaic, lett. "Giumenta del Mare"

2Adûnaic, Armenelos

3Adûnaic, Meneltarma

4Adûnaic, Elros

5Adûnaic, diletto, amore

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Capitolo 2
*** Telperiën ***


Capitolo II:

Telperiën

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Il vento sibila da oriente fra i merli delle spettrali mura di Minas Morgul, portando con sé il fetore del Vulcano.

Poso un guanto sul ventre della mia cavalcatura.

La bestia freme sotto le mie dita, scuotendo il capo e lanciando deboli strepitii.

Ammiro il suo collo sinuoso, la pelle spessa e pallida solcata da innumerevoli grinze.

Odo il suo respiro affannoso.

Schiocca il becco dentellato, impaziente.

«Vuoi nutrirti, non è così? Presto assaggerai le tenere carni dei servi di Gondor.

Dobbiamo solo attendere il segnale del Padrone.»

La creatura strepita agitando il capo, sbattendo debolmente le ali e facendo dondolare le

escrescenze adipose che le ornano il collo.

Fra me e me sorrido.

Fiera di morte, flagello degli uomini, presto voleremo insieme sui cieli di Minas Tirith

per portare a compimento il piano del nostro signore.”

Contemplo la lividezza della sua pelle glabra, i riflessi opachi dei suoi occhi cerulei.

Questo mi fa venire in mente mio padre.”

Mio padre.

 

 

Quando morì sembrava proprio così, come un vecchio uccello avvizzito dal collo rugoso e pallido,

niente più che un guscio vuoto di quello che era stato il Re di Númenor.

Ripensandoci mi tornano alla memoria altri dettagli.

Il colore nero e argento delle tende del baldacchino, la corte riunita al capezzale del loro re...

Ci sono candele accese ovunque.

L'aria è pesante, gravida di attesa.

Sono vestito così come sono uscito dalla camera della mia sposa, il mantello logoro,

gli stivali ancora macchiati di fango.

Me li tolgo sull'uscio.

Punto gli occhi su mio padre.

Tar-Súrion giace nel suo letto avvolto da molte coperte.

Nonostante il camino sia acceso, vengo scosso da un fremito.

La sua testa canuta è poggiata su numerosi cuscini ricamati di velluto nero, i capelli sparsi come cera liquida.

Il suo volto emaciato e ceruleo è coperto da un velo di sudore.

Si aggrappa spasmodicamente alle coperte di pelliccia con le mani ossute e pallide.

Il suo respiro è debole.

I suoi occhi acquosi fissano il vuoto.

Emette un rantolo.

Sospiro profondamente, tanto che alcuni dei cortigiani si voltano verso di me.

«Maestà» sussurra il ciambellano «vostro figlio è qui.»

Mia sorella mi scruta preoccupata.

Il suo viso altero è pallido e solcato da cupe occhiaie ad incorniciargli gli occhi color del mare in tempesta.

Porta le trecce dorate raccolte in una crocchia, fermata sulla nuca da un velo nero.

Muovo incerto qualche passo verso il letto.

«Padre...» La mia voce è roca.

Il Re viene colpito da un accesso di tosse.

Biascica qualcosa di incomprensibile.

Ormai sono al suo capezzale.

Gli stringo la mano.

È terribilmente fredda e sudaticcia.

Con gli occhi cerco mia sorella.

I nostri sguardi si incrociano.

Tento di aprire la bocca ma non ne esce alcun suono.

Deglutisco.

Mia sorella sospira.

«Telperiën.» La mia voce trema.

La principessa viene scossa da un fremito che presto estingue stringendosi le mani in grembo.

Abbassa lo sguardo.

Mio padre mi stringe forte la mano.

Emette un altro rantolo.

Mi chino su di lui.

«Padre?» sussurro.

Tar-Súrion si agita fra le coperte.

Scuote il capo.

Ansima.

Viene colto da un altro accesso di tosse.

Un altro rantolo.

Mi sembra che abbia detto qualcosa.

Gli passo una mano sulla fronte imperlata di sudore.

Scotta.

«Cosa avete detto, Padre?»

Tar-Súrion emette un suono gutturale.

Ansima ancora, stringendo più forte la mia mano.

«...Eriën.»

Mi acciglio, fissandolo sconcertato.

«Come?»

Mio padre emette un suono strozzato.

Mi attira a sé, avvicinando le labbra al mio orecchio.

Trema vistosamente.

I cortigiani mi fissano incuriositi, con uno sguardo a metà fra il sorpreso e il preoccupato.

Il Re borbotta qualcosa di incomprensibile.

Il ciambellano guarda il medico di corte, sconvolto.

«Cosa dice? Che dice?» ma le sue parole sono rivolte a me.

Cerco con lo sguardo mia sorella.

Con sollievo la trovo accanto a me.

È sbiancata e i suoi occhi sono velati dalle lacrime.

Fissa mio padre, immobile.

Tar-Súrion emette un rantolo ancora più forte di prima.

Mi stringe spasmodicamente.

«...Eri-ën... Tel-peri... ën!»

Mia sorella corre al suo capezzale.

«Attû6

Le lascio la mano di nostro padre, ancora tremante.

Lei la bacia, stringendola forte sulla guancia.

Le sue gote sono rigate di lacrime.

Tar-Súrion sospira debolmente. È quasi un soffio.

Ormai non manca più molto.

Stringo i pugni.

Dèi salvatelo! Eru, ti supplico.”

Lentamente, il Re allontana la mano dalla guancia di Telperiën, stringendosela in grembo.

Tremando si sfila l'anello di mithril che porta all'indice destro.

Afferra la mano di mia sorella.

Telperiën rimane col fiato mozzo.

Il Re le infila l'anello nell'indice destro.

Emette un debole rantolo.

«Ti... affido... il regno... ora... tu... sei... regina.»

Reclina la testa sui cuscini.

Mia sorella si guarda la mano, tremante, quasi incapace di accettare quello che sta succedendo.

Tar-Súrion ansima quasi impercettibilmente.

Stringe convulsamente la mano di Telperiën.

«Ti do la mia... be-ne-dizione. Possa il tuo... regno, essere... lungo e pacifico... e...

che il tuo dominio possa conoscere... la... la...»

Tira il fiato, pronunciando la parola in un colpo solo.

«Saggezza.»

Il Re emette un lungo e roco rantolo.

Lancia un lungo sospiro.

Il suo corpo si distende, come se potesse adesso riposare per la prima volta.

Sui suoi occhi opachi è sceso un velo.

Mio padre guarda mia sorella senza vederla.

La sua mano scivola via da quella di Telperiën, inerte.

La bocca dischiusa.

Il medico di corte si china lentamente sul suo re, posandogli le dita alla base del collo.

Il suo volto non sembra far trasparire nessuna emozione.

Si irrigidisce.

«È finita» sospira «Il Re è morto.»

Il ciambellano si inchina frettolosamente davanti a mia sorella, scuotendo la piuma del suo cappello.

«Il Re è morto, viva la Regina!»

Tutti i cortigiani si inchinano a loro volta, ripetendo il ciambellano con voce stentorea.

«Il Re è morto, viva la Regina!»

Dopo aver dato un'occhiata fugace a mio padre accenno ad un inchino.

«Il Re è morto, viva la Regina!» ripeto.

Il medico chiude gli occhi al suo Re e vi distende sopra un lembo di coperta.

Telperiën fissa l'anello di mithril quasi sbigottita, suo malgrado alzandolo al cielo perché tutti possano vederlo.

I cortigiani applaudono, gridando con voci fiere.

I servi accorrono nella camere del Re e si inginocchiano a loro volta, unendosi al coro.

«Viva la Regina! Viva Tar-Telperiën!»

 

 

Le falde del Minul-Târik ci abbracciano da ogni lato, inghiottendoci con le sue lunghe ombre.

Noirinan, la Valle delle Tombe, ci circonda con le sue cripte e camere funerarie scavate

direttamente dentro la roccia della Montagna.

La strada silente è ora gremita di gente.

In silenzio, il corteo si dirige verso le Tombe dei Re, dove riposano Tar-Anárion, padre di mio padre e le sue figlie.

Sia io sia Anariën siamo riccamente vestiti, ornati con diademi argentati alla maniera di Númenor.

Mi volto verso la mia sposa.

Anariën ha insistito per tenere fra le braccia il bambino, nonostante la nutrice volessero il contrario.

La mia sposa tiene lo sguardo fisso sulla bara del Re.

Telperiën marcia in testa, l'abito di broccato nero ricamato con il simbolo argentato dell'Albero Bianco.

Molti di noi sorreggono candele accese di cera purissima.

La marcia si interrompe.

Siamo arrivati.

Telperiën si dirige a passo ritmato verso un altare di pietra serena,

coperto di rune elfiche e infestato da macchie fiorite di gelsomini.

Una volta posizionatasi di fronte all'altare, si inginocchia aiutata dalle ancelle che le reggono lo strascico.

Il sacerdote avanza fra la folla impettita agitando un incensiere e salmodiando nella lingua degli Alti Elfi dell'Ovest.

La sua stola di bisso verdemare che reca ricamati in oro i Due Alberi ondeggia al vento.

Giunto dietro l'altare il sacerdote alza le braccia al cielo ed esclama con voce stentorea:

«Êru! Ti affidiamo questo tuo figlio, nostro signore e Re di Númenor!

Che le Bianche Sponde lo accolgano alla fine del suo viaggio!»

Il corteo grida in risposta:

«Salute, Tar-Súrion, Re dei Re, possa il tuo viaggio condurti sicuro alla Casa del Padre!»

Osservo la bara bianca di mio padre farsi strada fra la folla, sorretta da sei giovani della capitale.

È scoperchiata, così che tutti possano vederla.

Aiutato da dei giovani, il sacerdote accatasta dei rametti sbucciati di cedro sull'altare e vi versa dell'olio.

Con una pietra focaia inizia a spigionare delle scintille

azzurre che si depositano sui legni scatenando una fiamma arancione

che inghiotte presto la piccola catasta e si alza in spire scarlatte verso il cielo.

Il sacerdote unisce le mani aperte davanti la viso, socchiudendo gli occhi e rivolgendo una preghiera silenziosa agli Dèi.

La bara di mio padre viene condotta fin sotto l'altare, circondato da crisantemi dipinti di nero e di oro.

Mia sorella si alza e fa spazio mentre i ragazzi posano la bara a terra.

Il sacerdote allarga nuovamente le braccia e sparge grani d'incenso sulle fiamme che crepitano

diffondendo zaffe di fumo dall'odore stordente.

Il sacerdote guarda mia sorella, che si inchina leggermente davanti all'altare e poi gli si mette a fianco.

«Che il Re riposi nelle Case Senza Tempo, finché il mondo non sia rinnovato!»

Tutti noi chiniamo il capo mentre il sacerdote rivolge un'altra preghiera silenziosa al Valar.

Il sacerdote si inchina a sua volta e dopo aver preso una brocca argentata

rovescia dell'acqua marina sul fuocherello, estinguendolo.

«Che la sua carne non si distrugga mai, che possa essere ancora splendido nella Dagor Dagorath7

Il sacerdote si avvicina a mia sorella, accennandomi di fare lo stesso.

«Siete pronti? Ora potete dare l'ultimo saluto a vostro padre.»

Telperiën si china sulla bara e fissa mio padre, immobile.

Allunga una mano sul viso di nostro padre.

Lo carezza lievemente.

Posa le labbra sulla sua fronte fredda.

Sospirando si rialza, annuendomi.

Mi volto verso Anariën.

La mia sposa mi sorride debolmente.

Mi chino su mio padre.

Per sette giorni è stato chiuso nelle Sale di Passaggio, 

per sette giorni gli imbalsamatori hanno cosparso il suo corpo di strani intrugli e

hanno operato sulla sua salma, affinché potesse tornare bello come un tempo.

Sbatto le palpebre, ammirato.

Tar-Súrion appare fiero e sereno nel sonno eterno, la barba ben spazzolata,

i capelli in ordine tagliati alle spalle, 

candidi come la neve e rigidi come fili metallici.

«Addio... padre.»

Poso le labbra sulla sua fronte.

È amara e gelida, dura come il freddo marmo, come se fosse una statua scolpita.

Mi volto verso il sacerdote, annuendo.

Il sacerdote ricambia, facendo un cenno ai suoi aiutanti.

Mia sorella ordina alla fanfara di cominciare.

I suonatori impugnano i lunghi corni e iniziano a soffiare.

La melodia che ne esce è cupa e roca, come gli abissi immoti del mare.

Un coro di voci bianche attacca alla seconda strofa, innalzandosi in gorgheggi acuti e malinconici.

I giovani che sorreggevano la bara ora la sollevano di nuovo e la calano per mezzo di funi in un sarcofago più grande,

di pietra.

Vi viene posto sopra un coperchio di cristallo sfaccettato che viene benedetto dal sacerdote.

Il sepolcro viene quindi fissato a dei buoi e trascinato sopra dei tronchi mondati,

strisciando fino alla camera mortuaria, sempre sotto le acute note funebri.

Per un istante mi perdo nei miei pensieri, seguendo con lo sguardo il sarcofago che si allontana,

mentre un'aria soave si diffonde fra i templi.

Osservo Telperiën china sull'altare, le mani in grembo.

Le porte della cripta reale vengono sigillate e la musica sfuma nelle note dolci e

malinconiche dei liuti e delle arpe fino a concludersi.

Tutti si inchinano davanti alla tomba e poi davanti a Telperiën.

Io e Anariën facciamo lo stesso.

Il sacerdote si china davanti alla sua regina e la conduce per mano davanti all'altare.

Telperiën si inginocchia e congiunge le mani.

Tiene gli occhi bassi, il viso pallido.

Un paggetto porge al sacerdote un vasetto bianco.

Il prete intinge le dita e unge la Regina con l'olio sacro, disegnando sulla sua fronte il simbolo elfico per “re”.

Un altro paggio si accosta, inchinandosi, reggendo un cuscino con uno scrigno dai listelli dorati.

Il sacerdote lo apre ed estrae una cordicella di mithril sfavillate con la centro incastonata una gemma bianca.

Alza le braccia al cielo e girda:

«In nome Êru Ilúvatar e delle Potenze che siedono nel Máhanaxar8,

io ti incorono Tar-Telperiën, decimo sovrano e seconda Regina Reggente di Númenor!»

La folla applaude, lanciando grida di gioia.

Un sorriso mi affiora dalle labbra mentre mi unisco ai festeggiamenti.

Il sacerdote aggiunge con voce stentorea:

«Sia lode a Tar-Telperiën, prima del suo nobile nome, Regina dei Dúnedain,

Signora di Arminalêth e Protettrice del Reame!»

Il sacerdote eleva la corona sul capo dorato di mia sorella e le cinge le tempie.

Il corteo grida a pieni polmoni.

«Lode a Tar-Telperiën!»

Mia sorella sorride amabilmente alla folla, ma il suo è più un sorriso di circostanza.

Telperiën si volta e il sacerdote si inchina davanti alla sua regina e si fa da parte.

La Regina si gira verso il corteo e alza le mani in segno di benedizione, sempre sorridendo.

Tiene alto l'anello di Elros, così che tutti possano vederlo.

Il sacerdote si fa nuovamente a fianco di mia sorella.

«Ecco lo scettro Arminalêth.» Le dice, porgendole una verga d'oro finemente lavorata.

«Ecco la Spada dei Re.»

Telperiën afferra una spada lunga, di fattura elfica.

È Aranruth, la spada di Thingol, Re del Doriath e uno dei più antichi cimeli del regno, simbolo dei re.

Quando gli applausi si spengono, Telperiën posa dinnanzi a sé la spada e lo scettro,

posando la mano destra sul petto, mentre eleva l'altra.

Il pubblico resta immobile, in silenzio.

Telperiën Apre le morbide e chiare labbra, gli occhi limpidi che scrutano lontano.

La voce che ne esce, chiara e malinconica, ammalia la folla silenziosa.

«Et Endorëllo Andorenna utúlien. Sinome maruvan ar Hildinyar tenn’ Ambar-Metta!»

Così canta Telperiën, intonando il Giuramento di Indilzar ai piedi del Minul-Târik,

mentre le sue ancelle saturano l'aria con i petali dei fiori di Nimloth,

l'Albero Bianco di Númenor e dei liuti e delle arpe accompagnano dolcemente la melodia.

La Regina reclina il capo, portandosi ambe due le mani al petto, con un singulto.

La canzone è finita.

La folla resta per qualche istante in silenzio, come stregata dalle parole della Regina.

Inizio a battere le mani, seguito da mia moglie e da tutti gli altri.

Gli araldi sventolano la bandiera della casa reale di Númenor, campo nero con l'Albero Bianco ricamato in oro, 

mentre le trombe squillano e la folla prorompe con forti grida:

«Viva la Regina di Númenor! Viva Tar-Telperiën!»

Le mie labbra si piegano in un sorriso di soddisfazione e mi volto verso mia moglie.

Anariën mi stringe la mano, sorridendo anch'essa.

Sembra una bambina nel giorno del suo compleanno.

I miei occhi si posano con un sospiro su quelli grigio mare di Telperiën.

«Viva la Regina.» sussurro senza smettere di battere le mani.

 

 

Entro nella stanza con incedere malsicuro.

Non mi sento a mio agio nelle sale del palazzo, ampie e maestose, scolpite per il volere degli antichi re.

Sono passati alcuni mesi dall'incoronazione di mia sorella.

I miei passi mi conducono nella sala del trono, debolmente illuminata da bracieri d'oro sospesi.

Punto il mio sguardo oltre le colonne cesellate e il pavimento intarsiato di mille colori,

aldilà della cortina di fumo profumato d'incenso,

verso il trono innalzato su sette gradini, verso la Regina.

Sospiro.

Tar-Telperiën siede rigida sopra un lungo mantello di velluto nero fuori e purpureo dentro,

cinto di ermellino che ricopre il trono di marmo.

La sua toga le ricade morbida sulle spalle e sui fianchi, chiusa in vita da una cintura d'argento e perle.

I suoi occhi grigi sono spenti e annoiati, circondati da occhiaie scure,

tuttavia il suo viso ovale appare luminoso sebbene pallido.

Raggiungo il trono e mi inginocchio.

Tar-Telperiën muove una gamba per sedersi in maniera più comoda,

scostando lo strascico della gonna plissettata verde rame.

«Salve, fratello.»

La sua voce mi pare stanca, come se un grande peso fosse calato su di lei da quando è ascesa al trono.

Abbasso lo sguardo.

«Regina.»

Sento un debole risolino farsi strada da sopra di me.

Alzo gli occhi, tenendo una mano stretta sul petto.

Incontro gli occhi di Telperiën.

Nonostante l'evidente stanchezza si è illuminata in viso e mi sorride amabilmente.

Con sguardo attento scruta la sala alla ricerca di possibili incomodi.

«Fra noi non c'è bisogno di queste formalità, almeno nel privato.»

Annuisco e sospiro ancora.

«Mi hai chiamato, sorella?»

questo appellativo pare soddisfarla e Telperiën arriccia le labbra,

tamburellando con le dita affusolate sui braccioli intarsiati.

«Ci sono novità dalle Grandi Terre. Ereinion, signore di Lindon,

che tutti chiamano Gil-Galad richiede il nostro intervento.»

Aggrotto la fronte, perplesso.

«Di che si tratta?»

Telperiën si appoggia allo schienale di marmo nero e bianco, coperto di bassorilievi d'oro e d'argento.

«Apparentemente, il Re è preoccupato circa l'intervento di un certo elfo fabbro

che sembra appartenere alla schietta dei vanyar.

Sembra che questo elfo, che si fa chiamare Artano9 e Mairon10 conduca degli affari non molto

chiari nel paese di Eregion, abitato dal principe noldor Celebrimbor.»

Scuoto la testa.

«Cosa importa a noi degli affari degli elfi?

Della Terra di Mezzo poi, neppure fossero i nostri amici dell'isola di Eressëa.»

Telperiën lascia un lungo sospiro.

«Non ne ho idea. Sinceramente non so cosa pensare.»

Mi mordo un labbro.

«Comunque il fatto che usi dei titoli piuttosto che il suo vero nome lo rende un poco misterioso.»

Telperiën sbuffa.

«Oppure è simbolo del suo smisurato ego. Sai come sono fatti gli elfi, credono di essere superiori a tutto e tutti.»

«Forse hai ragione. Che cosa hai intenzione di fare?»

La Regina si scosta un poco dallo schienale.

«Credo che la cosa migliore sia quella di lasciare che gli elfi se la sbrighino fra di loro.»

Mi fa cenno di alzarmi.

«Avevi qualcosa da dirmi?»

Mi rialzo con un ghigno sulle labbra.

«Non hai i tuoi consiglieri per questo? Perché hai chiamato proprio me?»

Telperiën scrolla le spalle.

«È un nido di serpi.»

«Il ciambellano Îbal ha servito per molti anni nostro padre.»

«Lui è il peggiore di tutti.»

La tensione si è fatta un po' troppo forte.

Mi tormento la catena d'oro che porto al collo.

«Comunque c'è una cosa di cui vorrei parlarti...»

Telperiën stringe nel grembo lo scettro.

«Ti ascolto.»

«Vorrei chiederti il permesso di trasferirmi in Emerië, nella Bianca Casa di Erendis.»

Telperiën si mordicchia il labbro.

«Il motivo?»

Deglutisco.

«Ecco... la vita di palazzo mi ha stancato, sorella. 

Sento il peso del mio rango ad ogni sospiro e non sono mai libero di comportarmi come vorrei. 

E poi ho una famiglia, adesso. Devo prendermi cura di lei e tenerla lontano dal caos della capitale.»

«Fratello... vuoi forse dunque abbandonarmi con questi avvoltoi? E come crescerà il principe Minastir? 

Camuffato da pastorello ignorante come la regina Ancalimë?»

scuoto il capo. Telperiën non capisce.

«No, sorella. Minastir crescerà come un principe degno del suo lignaggio, mi occuperò io stesso della sua istruzione, 

come fece nostro padre con noi ma cercherò di tenerlo lontano dagli intrighi di palazzo.»

Telperiën incrocia le dita, squadrandomi con aria truce.

«Cosa dovrei fare io? Dovrei forse lasciarti partire per vivere come un signore di campagna mentre io sono bloccata qui, 

priva del tuo aiuto, tartassata da cortigiani arrivisti?»

Sospiro.

«Telperiën io...»

«Sono vostra altezza la Regina Tar-Telperiën per te.»

Il suo volto si indurisce un attimo, fissandomi meditabonda.

Poi il suo viso si distende tornando sereno.

Sorride debolmente, abbandonandosi sul trono con un sospiro.

Sembra molto stanca.

Forse è delusa da me.”

Telperiën si passa una mano sugli occhi.

«Permesso accordato. Puoi andare. Va' pure a mungere capre nell'Emerië.»

Mi passo una mano sulla barba bionda, cercando di mascherare un sorriso.

«Grazie, altezza.»

Mi inchino e faccio tre passi indietro.

Faccio per voltarmi quando la voce di mia sorella mi richiama indietro.

«Sì, altezza?»

Telperiën sorride amaramente.

«Vedi di farmi vedere mio nipote, qualche volta, intesi?»

«Sì, vostra maestà.»

«E non chiamarmi più “vostra maestà”!»

Rido sonoramente mentre lascio la sala e il rumore dei miei stivali echeggia dietro di me.

Grazie, sorella”.

 

 


6Adûnaic, padre

7Sindarin, Battaglia delle Battaglie, Battaglia Finale

8Quenya, Anello della Sorte

9Quenya, Alto Fabbro

10Quenya, Ammirevole


Angolo dell'Autore:

In questo capitolo ho condensato alcuni avvenimenti storici a scopo narrativo.

La regina Tar-Telperiën ascese al trono nell'anno S.E. 1556, quando il re Tar-Súrion abdicò

e questi morì dunque sedici anni dopo, non già all'incoronazione della figlia primogenita.

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Capitolo 3
*** Lond Daer ***


Capitolo III:

Lond Daer

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Una pioggerella leggera di fine estate picchietta sui davanzali della Bianca Casa di Erendis,

che prende il nome dalla mia omonima antenata.

Il camino è acceso nella sala e mia moglie è distesa sopra un triclinio, intenta a leggere.

Con un sospiro mi abbandono sul mio scranno di quercia lavorato, stringendo una coppa di vino rosso dello Hyarnustar.

Le luci de vespro già accendono il tramonto di porpora e viola.

La piccola mano delicata di Anarwen si posa sul mio braccio.

«Attû

Mi volto verso di lei.

Ammiro il suo viso chiaro e fresco come una rosa in boccio, gli occhi luminosi come argento vivo.

«Cosa c'è, tesoro mio?»

Anarwen scrolla le piccole spalle, agitando la chioma dorata come la mia.

Ha cinque anni.

«In collo!»

Alzo un sopracciglio.

«Ancora? Ma se ti ho tenuta sulle mie ginocchia per tutto il pomeriggio!»

Anarwen piega le labbra carnose in un buffo sorriso sdentato.

«In collo!»

Sbuffo, sforzandomi di non sorridere e cercando inutilmente di avere un espressione severa.

Poso il bicchiere sul tavolo che ho davanti e prendo la mia bambina fra le braccia.

La sollevo in alto.

«Ohi ohi ohi! Quanto pesi!» ridacchio con malizia.

Inizio a dondolarla in aria, solleticandole le paffute gote con la mia barba ispida.

«Ti mangio! Ti mangio!»

Anarwen grida e lancia risolini mentre cerca di divincolarsi.

«iiih! Smettila! Aaah! Dai! Dai non vale! Smettila padre!»

Agita le gambine per aria, facendo svolazzare la gonna.

La poso a terra.

Anarwen mette il broncio.

«Già finito?»

Sospiro e alzo gli occhi al cielo.

«Tuo padre è stanco adesso, giocheremo domani!»

Sento il rumore di piedi scalzi per il corridoio.

«Noi vogliamo giocare adesso!» gridano Elmo e Tarion, gettandosi a rotta di collo su di me.

Per l'impeto casco dalla sedia.

Anarwen si aggiunge al gruppo.

Le loro voci si alzano allegre.

«Adesso! Adesso! Adesso!»

Ridacchio furbescamente e con un sorriso malizioso afferro Elmo, sette anni, riempiendolo di baci e fingendo di morderlo.

«Adesso mi mangio anche te!»

«Aaah! No! La tua barba buca, padre!» strepita, tentando di divincolarsi.

Gli altri due ridacchiano e si nascondono dietro le sedie, abbandonando il fratellino al suo destino.

«Vigliacchi, vigliacchi!» grida, sorridendo però compiaciuto.

Minastir sbuca da dietro la porta con un sorriso da volpe sul viso.

«Cattivo padre! Tutti addosso!»

Sorrido sornione mentre mi preparo a subire l'assalto.

Minastir ha soltanto dodici anni ma ha già il carattere di un leader.

In un baleno tutti e quattro i miei figli mi sono addosso.

Afferro Elmo per un braccio e tento di arginare la furia di Tarion mentre Anarwen mi tiene per i capelli

e Minastir mi si getta letteralmente al collo.

«Buoni, buoni! State buoni!»

Un suono sordo interrompe la nostra lotta.

Piego la testa in ascolto.

Qualcuno sta bussando alla porta.”

Conscia del mio stato, Anariën si avvia ad aprire, lanciando un'occhiataccia scherzosa ai miei figli.

Tarion grida a pieni polmoni.

«Ora che si è distratto!»

Nuovamente mi ritrovo disteso con quattro marmocchi che si contendono il mio corpo come fossi un bottino.

Stiamo ancora lottando quando Anariën appare con un rotolo fra le mani.

«Sposo.»

«Sì? Cosa c'è amore mio?»

Riesco appena a dire riemergendo sudato dal groviglio dei nostri corpi.

Lo sguardo preoccupato di mia moglie mi toglie ogni sorriso dalle labbra.

Mi alzo a fatica, staccandomi dalla presa ferrea di Anarwen e Tarion.

«Cosa succede?»

Anariën si stringe nelle spalle, porgendomi il rotolo.

«È arrivato un messaggero da Arminalêth. La Regina chiede la tua immediata presenza a palazzo.»

 

 

Entro nella sala del trono con una certa apprensione.

Mi guardo attorno.

Il palazzo sembra essere rimasto identico a come lo avevo lasciato qualche anno fa,

tranne che per la polvere che ricopre un po' tutto.

Sembra che qui non si pulisca da anni.”

Poso il mio sguardo su mia sorella.

La Regina è assisa in trono, la schiena dritta e la postura rigida.

Con la mano destra stringe lo scettro e con la sinistra si tiene un lembo del mantello screziato.

Sbatto le palpebre, incredulo.

Dèi, quanto è invecchiata!”

La fronte pallida di Telperiën è solcata da profonde rughe.

Probabilmente dovute alla preoccupazione.”

I capelli un tempo lucenti appaiono sbiaditi come pallido oro alla luce di una lanterna.

Gli occhi chiari sono incorniciati da scure occhiaie.

Non dormirà da giorni.”

Sul su viso sembra come calata un'ombra.

Mi inginocchio, abbassando lo sguardo.

Mi schiarisco la voce.

«Mi cercavate, altezza?»

Telperiën rimane immobile per qualche istante.

«Sì.»

Trattengo a stento un singulto.

Cosa ti è successo, sorella mia? La tua voce è così debole e roca.”

Telperiën si sposta un poco dallo schienale.

«Ho bisogno del tuo aiuto, fratello.»

Alzo gli occhi e incontro i suoi.

La Regina lancia uno sguardo furtivo in giro.

«Sei l'unico di cui mi possa fidare.»

Annuisco.

«Se è nelle mie possibilità, lo farò.»

Telperiën si appoggia allo schienale con un debole sospiro.

«Nella Terra di Mezzo si trova un avamposto conosciuto come Lond Daer11,

in antico Vinyalondë12 che è sempre appartenuto alla nostra gente.

Recentemente, a causa della deforestazione causata dall'abbattimento degli alberi per la costruzione delle nostre navi, 

alcuni nativi dei boschi si sono rivoltati contro di noi, 

organizzando assalti e azioni di disturbo per impedire e

contrastare i nostri cantieri navali e una volta sono riusciti perfino a bruciare il porto stesso.»

Telperiën si copre gli occhi con una mano.

«Potresti occupartene personalmente?

Vorrei che tu provassi a trovare un compromesso con gli indigeni e al

contempo mantenere stabile il nostro controllo sulla regione.»

Sospiro.

«Questo significa che dovrò abbandonare la mia famiglia per non so quanti mesi giusto? E quando dovrei partire?»

Mia sorella allontana la mano dagli occhi.

«Il prima possibile. Desidero che la situazione sia risolta entro un anno, altrimenti lasceremo perdere.»

Annuisco, rialzandomi.

«Come desiderate. Cercherò di completare la mia missione entro un anno.»

Telperiën mi sorride debolmente.

«Sono molti anni che non vedo i miei nipoti.

Dimmi, come stanno? Minastir ama ancora così tanto la lettura? Tarion è ancora un avventuriero? Elmo? E la piccola...»

«Anarwen.» completo io.

«Stanno bene, vostra altezza.

Minastir ha dodici anni adesso, Tarion nove, Elmo sette e Anarwen cinque. Minastir mi chiede spesso di voi.»

Telperiën fissa un punto impreciso del soffitto a volta, accennando un sorriso nostalgico.

Torna a guardarmi.

«Mentre sei in viaggio la tua famiglia potrebbe trasferirsi qui,

così potrei passare del tempo con i miei nipoti e la mia cognata.»

Scuoto il capo.

«Vi prego, altezza. Preferirei che la mia famiglia restasse lontana da palazzo, se possibile.»

Telperiën storce la bocca ma non replica.

Sembrerebbe contrariata.”

La Regina abbassa lo sguardo e si porta le mani in grembo, carezzando lo scettro meditabonda.

«Ne sei proprio sicuro? Starebbero bene qui e verrebbero trattati con tutti gli onori. 

Vivrebbero come principi e principesse come è giusto che sia per via del loro rango. 

Del resto, fratello, non potrai tenerli a vivere come pastorelli per tutta al vita.

Inoltre non ho figli e dunque Minastir potrebbe diventare il mio erede.»

Sorride incoraggiante.

«Non te lo sto comandando, Isilmo. Questa è una richiesta da zia, non da regina. Ti prego di pensarci.»

Annuisco.

Di lei posso fidarmi, ma della corte? Chi difenderà i miei figli quando sarò partito?”

«Non so cosa decidere, altezza.

In fondo farebbe bene ai miei figli conoscere la loro zia e regina...

tuttavia il cuore mi tiene in guardia da quello che potrebbe accadere durante la mia assenza.»

Telperiën si mordicchia un labbro.

«Perché non lasci decidere a loro, dunque? Alla fine si tratta di un solo anno.»

Sospiro profondamente, faccio scorrere l'aria nei miei polmoni e la ributto fuori.

«D'accordo, altezza. Per quanto riguarda la mia missione...»

«Una nave ti attende già nel porto di Rómenna13.

Se vuoi puoi partire domani, così potrai salutare la tua famiglia.»

Abbozzo un sorriso.

«E se non avessi accettato la proposta?»

Telperiën si pizzica le labbra sottili, osservandomi con occhi maliziosi.

«Io sono la Regina.»

Scoppio a ridere, tanto forte che l'eco rimbomba per la sala.

«Avete ragione, altezza.»

Mi inchino e mi volto.

Sono arrivato quasi alle porte della sala quando mi arriva la voce di mia sorella.

«Abbi cura di te, fratello!»

 

 

La brezza marina mi scompiglia i capelli, porta con sé il richiamo dei gabbiani e degli uccelli marini.

Mi guardo intorno.

Il porto di Azûlada è davvero gigantesco, circondato da ogni dove da moli e pontili, banchine, magazzini, palazzi.

Un grande mercato si apre al centro del porto.

Punto gli occhi su mia moglie.

Il mattino successivo la mia convocazione sono partito per l'Emerië e

da lì con la mia famiglia verso l'Arandor, senza mai fermarmi.

Ormai è calata la sera e il cielo si tinge già dei colori del tramonto.

Stringo le mani di Anariën.

«Prenditi cura dei miei figli, banâth14

Anariën abbozza un sorriso.

«E tu prenditi cura di te stesso, marito mio!»

La attiro a me e la bacio con passione.

So che non la rivedrò per molto tempo.

Le sue labbra sono così morbide e calde...

Mi stacco dal bacio e la stringo forte, carezzandogli i capelli e baciandole la fronte.

Il suo profumo di viole selvatiche mi inebria.

«Ti amo Anariën Faelëar15.» Le sussurro.

Lei si illumina in un sorriso radioso.

«Ti amo, Isilmo della Casa di Indilzar.»

sento le sue braccia stringermi più forte.

Sospiriamo entrambi e l'abbraccio si scioglie.

Anariën fa tre passi indietro.

Mi volto verso Minastir.

È magro e pallido, i capelli bruni arruffati, gli occhi grigi malinconici.

Gli tiro un buffetto sulla guancia.

Ti voglio bene figliolo.” vorrei dirgli.

«Fai il bravo ometto, intesi? Dai retta sempre alla mamma e bada ai tuoi fratelli.»

Minastir abbassa lo sguardo.

«Sì padre.»

Lo bacio dolcemente sulla fronte.

Mi volto verso Tarion.

Sorride lietamente, mostrando due adorabili fossette sulle guance rosa.

Gli arruffo i capelli a ciotola bruni con una mano.

«Da' retta a tua madre e non litigare con Minastir.»

Sorride ancora di più, scoprendo la bocca un poco sdentata.

«Non preoccuparti, attû. Fai buon viaggio!»

Mi giro verso Elmo.

Sta singhiozzando e regge a stento le lacrime.

Sorrido dolcemente e poso un ginocchio a terra.

«Amore mio!»

lo bacio sulla testa dorata ma lui mi scosta, indispettito.

Gli asciugo le lacrime con le mani e lo stringo a me.

«Tornerò presto, vedrai.»

lo bacio ancora, poi mi volto verso Anarwen.

La piccola è in lacrime, la bionda chioma al vento.

la prendo in braccio, sollevandola in aria.

Geme, mentre le lacrime calde di dolore le rigano le gote e le bagnano le labbra carnose.

«Padre! Non andare via, padre! Non andare!»

La bacio sulle gote arrossate.

«Piccola mia! Mia dolce, piccola Anarwen! Tuo padre tornerà presto! oh, no, no, non piangere!»

Anarwen mi si aggrappa al collo,

stringendo le braccia in modo spasmodico e cercando con tutta se stessa di non lasciarmi più.

«Non andare via! Non lasciarmi sola!»

La stringo forte a me in un caldo abbraccio.

«Tornerò presto, promesso.»

Le bacio la testolina bionda.

«Te lo prometto, bambina mia. Tornerò da voi, tornerò da te. Ma adesso devo andare.»

Anarwen mi si stringe ancora di più addosso.

Trema, scossa dai singhiozzi.

«No! No! Non lasciarmi sola!»

Le carezzo la lunga chioma riccioluta.

«Ora devo andare, amore. E poi non sei sola, hai la mamma qui con te e ci sono i tuoi fratelli che ti vogliono bene.»

Anarwen mi appoggia la testa sul petto ansimando.

«Come farò a sapere se sarai tornato?»

Le poso una mano sulla guancia, carezzandogliela.

«Guarda a Oriente.»

Ormai è tutto pronto.

Sospiro profondamente, assaporando l'odore del mare.

Le onde si infrangono debolmente sulla carena della nave.

Salgo sul ponte.

Il capitano ordina di mollare gli ormeggi e la nave si stacca dolcemente dal molo.

Si allontana nel fiordo.

Nella luce dorata prima del crepuscolo posso ancora vedere la mia famiglia in fila

sul pontile osservarmi scomparire in lontananza.

Anariën agita le braccia in segno di saluto, oppure è un segnale per richiamarmi?

Mi grida qualcosa.

Non ho sentito bene.

Le grido in rimando.

«Come?»

Anariën mette le mani a coppa intorno alla bocca e grida a pieni polmoni.

«So... ...inta!»

Non ho afferrato il significato.

«Cosa?»

«Ti ho detto che sono incinta!»

Sento una vampata di calore partirmi dal ventre e risalirmi fino alla punta delle orecchie.

Le lacrime mi pungono gli occhi.

Le caccio via e allargo le labbra in un sorriso di pura gioia.

Non avendo un cappello a portata di mano afferro quello di un marinaio e inizio a sventolarlo sopra di me.

Grido a voce spiegata.

«Sono di nuovo padre! Sono di nuovo padre!»

Il marinaio mi guarda male per qualche istante ma poi

scoppia in una sonora risata e si unisce anche lui ai festeggiamenti.

Quando le risa si spengono, la città e il porto di Rómenna sono ormai scomparsi in fondo al fiordo.

Mi giro di lato e vedo l'isola di Tol Uinen affiorare dalle acque nere.

Una luce si accende nel faro della Calmindon16 che vi si erge, rischiarando il cielo stellato.

La nave scivola leggera sulle onde scure del mare, mentre la pallida luna sorge a est, colorando le nubi d'argento.

Sento un grave peso cadermi addosso.

Sono molto stanco.

Mi passo una mano sugli occhi indolenziti.

Credo sia ora di andare a letto.”

Con uno sbadiglio mi stiracchio e mi dirigo sottocoperta.

Quante emozioni tutte in una volta!

Cerco di calmare il mio cuore mentre mi chiudo la porta della cabina alle spalle.

La mia camera è la migliore dopo quella del capitano e mi addormento

quasi subito quando mi stendo alla fine sul mio letto.

Il mattino dopo il cielo è terso e azzurro.

Il vento si è fatto più forte e ha spazzato via le nuvole dall'orizzonte.

Viaggiamo così per sei giorni.

Al settimo, la nostra agile nave giunge finalmente a destinazione grazie all'abilità dei nostri marinai.

È mattina inoltrata e il cielo è coperto e plumbeo.

L'oceano si stende liscio davanti a noi come un enorme drappo grigio,

increspato qua e là dalla schiuma bianca dei cavalloni.

Il lamento dei gabbiani mi arriva alle orecchie.

«Siamo quasi a terra!» gridano i marinai.

Dopo qualche ora infatti intravedo il profilo bluastro delle scogliere.

La nave inizia a seguire il profilo della costa finché davanti a noi iniziano a sfavillare le luci di una piccolo porto fortificato.

Mentre la nave entra nel porto osservo i profili verdi e azzurri della foresta sconfinata che si staglia dietro il porto.

Così questa è la Terra di Mezzo. Invero è selvaggia e misteriosa.”

Finalmente io e i marinai scendiamo a terra e appena attraccati ci viene incontro uno stuolo di uomini riccamente vestiti.

Un tizio ben piantato dalla corta barba nera si inchina profondamente davanti a me,

sventolando il suo cappello piumato non appena 

nota il sigillo reale attorno al mio medio destro.

«Benvenuto a Lond Daer, mio signore.»




11Sindarin, Grande Porto

12Quenya, Nuovo Porto

13Quenya, Verso Est

14Adûnaic, moglie

15Sindarin, poetico, Barbagliare del Sole sul Mare

16Quenya, Torre di Luce

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Capitolo 4
*** Ghân-rani-Ghân ***


Capitolo IV:

Ghân-rani-Ghân

 

 

 

Sorrido cordialmente all'uomo che ho davanti.

«Grazie. Sono il principe Isilmo della Casa di Indilzar. Voi siete?»

«Adrahil di Nindamos, magistro governatore di questa colonia del reame, vostra grazia.

Ho lavorato per vostro padre e ora lo faccio fedelmente per vostra sorella come amministratore di Lond Daer.»

Mi guardo intorno con circospezione, lisciandomi la barba bionda.

«Ditemi, Adrahil, come vanno gli affari in città?»

Il magistro mi scruta con sguardo amareggiato.

Scuote la testa.

«Male, con questi selvaggi guerrafondai.»

Adrahil sospira profondamente e si mette a fissare il suolo con occhi meditabondi.

Cala un silenzio imbarazzante.

Il magistro si riscuote dai suoi pensieri.

«Ma non è bene parlare qui alle porte della città. Venite, nel castello staremo più comodi.»

Annuisco sorridendo con accondiscendenza.

Con un cenno, saluto i miei uomini che tornano alla nave.

Le porte si aprono e seguo il magistro oltre le mura.

Una larga via lastricata porta al castello, tozzo e massiccio, di pietra grigia.

Alzo lo sguardo.

Alte finestre a sesto acuto si aprono verso occidente, mentre tetti d'ardesia ricoprono aguzzi le torri quadrate.

La via è perlopiù percorsa da pescatori e falegnami che compongono la maggior parte della popolazione della colonia.

Arrivati nel castello veniamo subito accolti dalle guardie scelte che si inchinano appena alzo il braccio destro, mostrando l'anello.

Adrahil mi fa strada attraverso una scalinata fino alla sala maggiore, in cui arde un camino centrale interrato e molti uomini scrivono

seduti a dei tavoli raccolti attorno.

Adrahil indica gli scribi intenti a pesare monete e a scribacchiare su rotoli di pergamena.

«Questa è la sala dei contabili che si occupano delle imposte sulle colonie.»

Arriviamo a una scala a chiocciola che si arrampica su una torre più grande delle altre.

Arrivati in cima ci ritroviamo in una sala spaziosa, affrescata con scene di caccia e con arazzi appesi alle pareti.

Adrahil si abbandona su uno scranno di legno dipinto con un sospiro.

«Qui staremo più tranquilli.»

Mi fa cenno di sedermi su una sedia imbottita lì vicino.

Incrocia le mani sul ventre prominente.

«Dunque. Voi siete qui per conto della Regina, giusto?»

Scuoto una mano.

«Con tutto il rispetto, il perché sono qui è affar mio.»

Adrahil annuisce gravemente.

«Certo, certo! Non intendevo questo, mio signore.»

si stuzzica il pizzetto.

«Ma qualunque cosa voi vogliate fare, avrete bisogno del mio aiuto.

Io sono l'autorità della Regina, qui, e il mio aiuto potrebbe farvi molto comodo, qualsiasi cosa voi intendiate fare a Lond Daer.»

Mi passo una mano sulla mascella.

Posso davvero fidarmi di lui?”

«Siete molto gentile, sire Adrahil.»

Il magistro sorride conciliante.

«È il minimo che possa fare, vostra grazia.»

Lo fisso con occhi inquisitori e lo vedo impallidire.

Dopo un po' allento lo sguardo e mi rilasso sulla poltroncina.

«Sto facendo delle ricerche sullo stato di mantenimento della colonia e sul conflitto scoppiato con gli abitanti autoctoni della regione.»

Adrahil scuote una mano con disgusto.

«Barbari, selvaggi abitatori delle foreste. Non meritano la tua attenzione, mio signore.»

«La meritano eccome visto che hanno incendiato a più riprese il porto e i suoi giacimenti di legname.»

Adrahil si sistema sullo scranno, come se fosse scomodo come l'argomento trattato.

«Vedo che siete ben informato, mio signore.»

Sospira con fare stanco.

«Comunque da quando abbiamo cintato il porto di mura quei sozzi selvaggi hanno

attaccato solo qualche magazzino o stocco di legname, nulla di grave.»

Scuoto la testa bionda con convinzione.

«Se fossi in voi non chiamerei “sozzi selvaggi” gli indigeni della Terra di Mezzo. Sono anche loro della razza degli Edain, così come i nostri antenati.»

«Come voi dite, phazân17

Inspiro profondamente e ributto fuori l'aria lentamente.

Adrahil sospira a sua volta.

Passano alcuni istanti.

Mi alzo dalla sedia.

Il magistro fa lo stesso.

«Comunque vorrei incontrarmi con i nativi.»

Adrahil scuote debolmente il capo.

«Lasciate perdere, mio signore. Quei... quegli uomini sono ottusi e duri come la pietra. Abbiamo già provato invano di convincerli, non c'è modo.»

Lo fisso con sguardo penetrante.

«Lasciatemi tentare.»

Adrahil annuisce e fa un cenno in direzione della porta.

«Certamente. Ma ora sarete stanco, venite, vi condurrò nelle vostre stanze.

Datemi due giorni o tre e troverò un interprete.

Nel frattempo potrete visitare la città, benché non vi sia certo molto da vedere per un principe di Arminalêth.»

Il magistro si avvia verso le scale e io lo seguo a ruota, lanciando un'occhiata alle finestre.

Il mare grigio sussulta sulla costa, agitando le sue acque turbinose in pennacchi di schiuma che si infrangono sugli scogli.

Cosa starai facendo adesso, Anariën?”

 

 

La notte è calata da un pezzo ma non riesco a prendere sonno.

La mia stanza è sobria ma degna di un uomo del mio rango e si apre su un portico che guarda in un cortile interno.

Sbuffo.

Mi alzo dal letto a baldacchino, scostando la coperta con un gesto brusco.

Mi avvicino alla finestra aperta.

Il mare è nero come i capelli di Anariën.

Scruto il cielo limpido e terso, sfavillante di stelle.

Sarai diventato una stella anche tu, padre?”

Mi passo una mano sugli occhi.

Mi sento terribilmente solo.

Cosa faranno i miei figli? Tarion farà il bravo? E Elmo? Anarwen avrà smesso di piangere?

E Minastir? Come starà il mio primogenito?”

Sono in ansia per lui. Avrei dovuto consolarlo, invece gli ho solo dato degli ordini.

Prendo una boccata d'aria.

È gelida e il sapore del mare si diffonde nelle mie narici.

Vorrei essere a casa adesso. Vorrei poter proteggere la mia famiglia da ogni male.”

Incrocio le braccia sul davanzale e vi appoggio il mento.

Aguzzo la vista, cercando di scrutare oltre l'orizzonte, verso casa.

Il cielo e il mare sono mescolati in una tonalità di blu scuro, rendendo impossibile distinguerne i confini.

Sbuffo ancora e chiudo le imposte.

Mi sdraio nuovamente sul letto e mi seppellisco sotto le coperte.

Il mio cuore batte forte.

Quando infine riesco ad addormentarmi sogno di stare con la mia famiglia.

Siamo nel giardino di casa nostra.

Sono seduto sul porticato e tengo Anarwen sulle ginocchia.

Mia moglie è al mio fianco.

Si carezza la pancia, ora molto visibile.

«È un maschio.» Mi sussurra.

 

 

Mi sveglio a mattino inoltrato.

Mi alzo dal letto stiracchiandomi con vigore e apro le imposte.

È un bel mattino soleggiato con poche nuvole e poca brezza, il mare è liscio e i gabbiani strepitano nell'aria,

volteggiando sui tetti delle case e delle baracche dove si aggregano a pasteggiare con il pescato appena raccolto.

Ammicco, abbacinato dal sole.

Mi lavo il viso in una catinella di ceramica vicina al letto e mi vesto.

Mi sto infilando gli stivali quando sento bussare alla porta.

«Avanti.»

La porta si apre.

Mi volto sorpreso.

Sgrano gli occhi.

Davanti a me si erge un omone dai muscoli guizzanti, la pelle olivastra abbronzata e gli occhi lunghi come mandorle amare.

Indossa dei comodi pantaloni alla zuava e babbucce di pelle di cervo.

A parte una fascia di seta rossa e un gilet anch'esso di seta ricamata mostra il petto e l'addome lucido e glabro completamente nudo.

Al fianco porta una scimitarra dal manico istoriato e la guaina decorata di nappe dorate.

In testa porta un elmo di bronzo dalla cima aguzza e bordato di pelliccia sui bordi.

«E voi chi sareste?» esclamo esterrefatto.

Il gigante si inchina profondamente e si toglie l'elmo, mostrando la testa pelata, ad eccezione di una coda di cavallo,

nera come i suoi lunghi baffi sottili.

«Io sono Kadom Kambarov, mio signore. Sono qui per ordine della Regina.»

Mi riscuoto, osservandolo meglio negli occhi neri.

«Parli bene la mia lingua, ma il tuo accento è insolito, così come il tuo aspetto.»

«Vengo da Tarasgrad, nel Rhûn, mio signore.»

Mi passo una man sulla mascella.

«Così ti ha inviato qui mia sorella, eh? E con quale scopo?»

«servirvi come guardia del corpo e proteggervi nella vostra missione.»

Incrocio le braccia sul petto e alzo un sopracciglio.

«Credi di esserne in grado?»

L'uomo mi scruta con sguardo fiero.

Scopre i denti bianchissimi in un sorriso tronfio.

«Ero il più forte del mio villaggio, mi signore. Vi proteggerò da ogni pericolo.»

Increspo le labbra.

«Puoi proteggermi da me stesso?»

Kadom aggrotta la fronte, sembra confuso.

Faccio una risatina amara.

«Lascia perdere.»

Rimaniamo in silenzio per qualche istante.

«Così tu saresti la mia guardia giurata è così?» esclamo.

«Sì, mio signore.»

«Puoi giurarlo?»

Il gigante si inginocchia e sfodera la scimitarra.

Alza le braccia e mi porge la spada.

«Giurerò per voi.»

Arriccio le labbra, divertito.

Afferro la scimitarra.

«Giuri di servirmi e di obbedirmi con onore?»

Kadom china il capo rasato.

«Lo giuro.»

«Giuri di proteggermi e di sostenermi nelle difficoltà, tacendo quando ti sarà dovuto?» continuo.

Kadom sorride soddisfatto.

«Lo giuro.»

Lo fisso con severità.

«Giuri di obbedirmi anche quando l'ordine fosse di fuggire e salvarti la vita?»

Il gigante stringe i denti.

«Lo giuro.»

Alzo la scimitarra e gliela poggio sulla spalla destra.

«Allora alzati, Kadom Kambarov della mia scorta.»

Poggio la lama sulla sua spalla sinistra.

«Ora sei un cavaliere.»

Kadom si alza con un sorriso sfrontato.

«I sono un mercenario, non un cavaliere.»

Mi raddrizzo, cercando di darmi un tono di fronte alla sua smisurata mole.

Tengo alta la testa, fissandolo dritto negli occhi.

«E a chi devi fedeltà?»

«A voi, mio signore.» e non vi è menzogna nelle sue parole.

 

 

Le vie di Lond Daer pullulano di gente.

Il mercato è in piena attività, le donne rammendano le reti e i falegnami trascinano cataste di assi e tronchi lavorati,

mentre dai forni si diffonde l'odore del pane.

Attraverso le mura della città, ritrovandomi nel porto.

Le banchine sono piene di pescatori che tornano a riva dopo la pesca notturna e partono per la pesca diurna.

Dalle baracche aperte viene la voce dei carpentieri intenti nella costruzione delle navi.

La gente si allontana intimorita vedendomi passare sotto l'ombra di Kadom.

Scruto l'orizzonte.

I profili di alcuni mercantili si avvicinano oltre la foschia azzurrognola che cela i confini del mare e aldilà di esso, Númenor.

Sento uno scalpicciare di piedi alle mie spalle.

«Mio signore!»

Mi volto, sorpreso che qualcuno mi rivolga la parola.

Un ometto sottile e allampanato si china davanti a me, ansimando per il fiatone.

«Menomale che vi ho trovato! Il vostro compagno messere qui, è ben difficile da confondere!»

Kadom gli scocca una occhiata torva che lo zittisce immediatamente.

Alzo gli occhi al cielo. Se mia sorella voleva darmi una protezione avrebbe fatto meglio a

trovare qualcuno che desse un po' meno nell'occhio!

«Che cosa volete?»

Il paggio si toglie il cappello in segno di saluto.

«Sire Adrahil desidera vedervi. Vi aspetta alle porte del Castello.»

Annuisco e il paggio correi via a perdifiato.

«Che avrà tanto da correre quel topolino spaventato? Non è certo una grande città questa.»

esclama Kadom ridacchiando.

Scrollo le spalle.

«Andiamo.»

 


Al castello ci attende il magistro, più una squadra di soldati scelti.

Appena mi vede sorride accomodante.

«Mio signore Isilmo! Non sapevamo dove vi eravate cacciato!»

Sorrido a mia volta con malizia.

«Ero andato a visitare il porto, come mi avevate suggerito.»

Adrahil tossicchia, coprendosi con la mano a pugno.

«Comunque, ho fatto più velocemente del previsto e vi ho portato l'interprete.

È una ragazza che parla molto bene la nostra lingua e capisce anche quella degli abitanti dei boschi.»

Scorgo solo ora una figura incappucciata a fianco del magistro, piccola e gracile.

La ragazza alza lo sguardo timidamente.

Ha grandi occhi marroni e spaventati.

Arrossisce, chinando il capo.

«Mio signore.»

Le sorrido dolcemente.

«Qual'è il tuo nome?»

«Rianni, appartengo al popolo del fiume Gwathló18.»

Sorrido ancora di più.

«Quanti anni hai Rianni?»

«Diciassette, quasi diciotto, mio signore.»

Adrahil le tira una pacca sulla spalla.

«Mostrati meglio al nostro ospite.»

Rianni arrossisce ancora ma tira giù il cappuccio, mostrando un viso ovale e lunghi riccioli bruni.

Mi avvicino a lei.

«Rianni, vuoi condurci dagli abitanti della foresta?»

La ragazza scuote il capo.

«I drûgin non amano la Gente del Mare. Dicono che siete venuti qui per razziare le coste e

per abbattere gli alberi, che per loro sono sacri.»

Sospiro sonoramente.

«Io voglio provare a trovare un accordo con loro. Mi aiuterai?»

La ragazza si inchina goffamente.

«Come comandate, vostra grazia.»

Adrahil fa un passo verso di me.

«Questi uomini vi scorteranno fino al villaggio dei... degli abitatori dei boschi.»

Gli sorrido con sicurezza, scoccando un'occhiata d'intesa con Kadom.

«Non ce ne sarà bisogno, sire Adrahil. Kadom basterà a proteggermi e certo lui non temerà i figli dei boschi.»

Adrahil sembra d'accordo ma si accosta e mi sussurra all'orecchio:

«State attento! Quei piccoli diavoli conoscono più di un segreto per uccidervi!

Usano frecce avvelenate e chissà che altro trucco.»

Gli stringo l'avambraccio in segno di saluto.

«Vi ringrazio. Starò attento.»

 

 

Le porte della città sono ormai lontane dietro di noi, mentre camminiamo lungo

il sentiero che porta dritto nel cuore della foresta.

Camminiamo per ore finché non ci sorprende il crepuscolo.

Stiamo organizzando un accampamento di fortuna quando Rianni mi si accosta.

«Loro sono vicini!» sussurra con un fremito.

Non faccio in tempo a rispondere che scorgo delle luci baluginare nell'oscurità.

«In guardia!» grido sottovoce a Kadom, il quale sfodera la scimitarra e si posiziona con un'espressione truce sul viso.

In breve, una dozzina di piccoli uomini dalla pelle scura ci circondano da ogni lato, reggendo piccole torce.

Uno di essi dalla pelle grinzosa e dagli occhi lucenti si avvicina a Kadom, credendo forse che sia il nostro capo.

Inizia a parlare in una strana lingua gutturale dai suoni profondi e rochi, aiutandosi a gesti.

Kadom scuote la coda di cavallo nera con convinzione e si volta verso la ragazza.

«Rianni! Cosa diamine sta dicendo questo tizio?»

La ragazza si stringe nelle spalle ma poi si avvicina prudentemente al piccolo uomo dal viso tatuato.

Inizia a paralre nella strana lingua della foresta alzando e abbassando continuamente tono.

Indica me, poi Kadom e sé stessa, quindi nuovamente me.

L'uomo la interrompe bruscamente e le sibila qualcosa, impugando quindi la sua lancia e minacciando di percuoterla.

La ragazza cade a terra.

Istintivamente sfodero la spada.

La folla di indigeni prorompe in grida selvagge.

La situazione sta degenerando.”

«Rianni! Che succede? Hai bisogno di aiuto?»

La ragazza scuote il capo, sgranando gli occhi. Sembra confusa.

«Non capisco! Lascia che parli ancora con lui.»

Rinfodero la spada.

«D'accordo.»

Kadom tiene la scimitarra dritta davanti a sé.

«Non sembra che lui voglia continuare la conversazione!»

Rianni intavola una nuova discussione, con toni accesi e accorati.

Questa volta il nativo tace.

Gli altri smettono di gridare.

Il nativo con la lancia mi si accosta, ignorando di proposito la ragazza.

Inizia a parlare nella sua strana lingua.

Alza in alto un pugno.

Sgrano gli occhi, perplesso.

«Che dice?»

«Che vuole assaggiare la mia scimitarra!» grida Kadom avventandoglisi contro.

«No! Fermo!» gredo e il gigante si arresta.

Il nativo indietreggia un poco ma poi si ferma ad osservarci.

Indica la ragazza e poi fa un gesto con la mano verso di noi.

«Credo che voglia che tu traduca.» sussurro a Rianni.

La ragazza deglutisce e si rialza, spolverandosi i vestiti con fare nervoso.

«Il drûg dice che noi abbiamo violato la foresta e che meriteremmo al morte.»

Fisso negli occhi il nativo che ricambia con ostilità.

«Dice inoltre che vuole sapere perché siamo qui e che cosa vogliamo dai drûgin.» continua Rianni.

«Ci ritiene invasori e nemici e ci invita ad andarcene. Subito. Non ci faranno del male se ce ne andremo.»

Scuoto la testa con insistenza teatrale e indico me e lui.

«Digli che se vorremmo potremmo facilemente bruciare l'intera foresta e radere al suolo il loro villaggio.

Ma noi siamo qui per la pace, per trovare un accordo con la sua tribù.»

Rianni mi scocca un'occhiata dubbiosa mentre inizia a tradurre.

L'uomo si gratta il pizzetto e inizia a borbottare qualcosa a bassa voce, poi però si rivolge a Rianni.

La ragazza ascolta attentatamente e poi si volta verso di me.

«Lui dice: D'accordo. Ci guiderà verso il suo villaggio. Dice che conosceremo il grande capo Ghân-rani-Ghân.»

«Ghân-rani-Ghân!» esclama il nativo con espressione compiaciuta.

Alza un braccio e mi fa cenno di seguirlo, quindi, dopo aver scoccato un'occhiata storta a Kadom

si avvia di gran carriera nel fitto della boscaglia.

In silenzio, tutta la comitiva di nativi lo segue dileguandosi fra gli alberi.

«Sono spariti!» grida Kadom, voltandosi in più direzioni.

Un braccio di un nativo spunta fuori da dietro un albero.

Esclama qualcosa e poi sparisci di nuovo.

Ci dirigiamo nella direzione dove sono spariti i nativi ma per quanto cerchiamo

rimaniamo soli in mezzo alla vegetazione lussureggiante.

Dopo un po' decidiamo di tornare indietro ma proprio allora sbuchiamo in mezzo a una radura,

circondati da ogni lato da torme di nativi.

Iniziano a gridare.

«Ghân-rani-Ghân! Ghân-rani-Ghân! Ghân-rani-Ghân!»

Alzo lo sguardo e noto che siamo in mezzo a case di frasche costruite sugli alberi.

Rianni mi tira per un braccio.

«Lui è qui! Ghân-rani-Ghân è qui!»

Mi volto nella direzione in cui indica la ragazza e mi trovo di fronte ad un uomo molto vecchio, piccolo e curvo, dalla faccia piatta e la fronte sporgente.

Ha occhi neri e penetranti e capelli crespi e grigi, lunghi fino alle sopracciglia.

Il vecchio si gratta la corta barba grigia.

Veste solo di una gonna di erba secca e la sua pelle, scura e grinzosa è cosparsa di tatuaggi.

La sua bocca si apre e ne esce una voce roca e profonda.

Rianni si volta verso di me.

«Dice: Ghân-rani-Ghân ti ascolta.»

 

 


17Adûnaic, principe, figlio del Re

18Sindarin, Inondagrigio

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Capitolo 5
*** Andrast ***


Capitolo V:

Andrast

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Prendo un respiro profondo

Butto fuori l'aria lentamente.

Mi inchino leggermente.

Fisso il capo tribù dritto negli occhi.

«Grande capo Ghân-rani-Ghân...»

Gli occhi neri del capo dei drúedain sfavillano appena sente il proprio nome.

«...Siamo venuti qui per trattare la pace fra i númenóreani e gli abitanti della foresta.» continuo.

Rianni mi scocca uno sguardo insicuro e traduce, indicando noi tre e poi loro.

Mi schiarisco la voce.

«Io sono il principe di Númenor, Isilmo della casa di Indilzar. 

Vorrei conferire con voi per la pace e il reciproco scambio che spero possa far felici ambo le parti.»

Rianni continua a tradurre.

I suoi occhi brillano speranzosi.

Ghân-rani-Ghân si schiarisce la voce a sua volta, un suono aspro e raschiante.

Nel suo tono cupo mostra amarezza e riesco a individuare anche una punta di ironia.

Mi fissa con sguardo truce.

Arriccia le labbra.

Rianni mi fissa.

I suoi occhi bruni sembrano spaventati e carichi di dubbio.

Forse è indecisa se tradurre o no.”

Rianni deglutisce e allarga le braccia.

«Dice: Benvenuti nella mia casa, stranieri. 

Cosa volete realmente dalla mia gente? Perché girate con il ferro di morte vicino alla mia dimora?»

Alzo lo sguardo, cercando di avere uno sguardo fiero.

Mi liscio la barba bionda.

«Sono qui per le navi, mio signore.

I númenóreani abbisognano del legname per fabbricare le navi e gli alberi adatti

si trovano solo nella vostra foresta che, a quanto mi dicono, voi ritenete sacra.»

Faccio cenno a Rianni di tradurre.

La ragazza viene percorsa da un fremito ma poi esegue.

Ghân-rani-Ghân storce la bocca.

Nel suo tono ora leggo rabbia.

Scuote debolmente la testa.

Rianni vacilla un attimo ma poi traduce.

«Dici il vero, straniero. Gli alberi sono sacri per noi drûgin. 

E questi in particolare esistono da ben prima che la vostra razza mettesse piede su queste sponde. 

Il... paese di Drughûn-dinû19 è costruito su questi alberi, alberi che parlano con noi... ma tu non puoi capire.»

Mi passo una mano sulla mascella.

Butto fuori l'aria sonoramente.

Mi volto verso Rianni.

«Digli... chiedigli cosa vuole che facciamo e cosa vogliono i Drûgin per trattare la pace.»

Rianni traduce frettolosamente.

La sua voce mi sembra stanca e preoccupata.

Ha paura di loro?”

Ghân-rani-Ghân ascolta pazientemente.

Chiude la punta delle dita in un gesto di domanda.

Rianni si passa nervosamente una mano fra i riccioli bruni.

«Dice: Dovresti averlo capito, straniero. 

Non ci può essere pace se entrambi abitiamo queste terre. 

La nostra ostilità finirà solo con la vostra partenza da questi

lidi per non farvi mai più ritorno se non in amicizia della foresta stessa.»

Mi torco le mani.

Non sta andando molto bene.”

I miei occhi incontrano brevemente quelli di Rianni e poi il suolo.

«Capisco. Digli che io rispetto la sua gente ma che non me ne andrò a mani vuote.

Digli che siamo disposti a donare molte scorte di tutto quello che desiderano,

gioielli meravigliosi creati dalle mani dei nostri artigiani più abili, cibi deliziosi, 

uccelli canori e fiori del colore dell'arcobaleno, specchi con cui riflettersi, 

amuleti benedetti dai nostri sacerdoti, armi per difendersi, stoffe soffici e morbide come nessun altra cosa...»

Rianni scuote debolmente la testa, come se non capisse.

Il suo sguardo è opaco e vi leggo confusione.

Stringe le labbra e si rivolge al capo tribù.

Ghân-rani-Ghân ascolta con interesse crescente.

Quando Rianni ha finito di tradurre il capo scoppia in una roca risata, simile al suono di sassi scivolati in un pozzo.

Rianni lo fissa per un istante con occhi sgranati.

Ha il fiato corto e tiene la bocca semi aperta.

Ascolta attentamente le sue parole, amare come il fiele e profonde come le radici delle montagne.

Fa cenno di aver capito e si rivolge a me.

I suoi occhi scuri tradiscono ansia e frustrazione.

«Lui... lui dice... io sono Saggio erede di Saggio, non cercare di ingannarmi.

Ai drûgin non interessano oro o ricchezze. 

Non desiderano gioielli se non per la frivolezza da fanciulla per il loro luccichio e non apprezzano le armi di metallo. 

Non sentono nulla di più comodo e soffice delle foglie e non desiderano niente che la foresta non possa procurargli.»

Fa una breve pausa, lanciando uno sguardo furtivo verso il capo tribù.

«La foresta è la loro casa. Dice di andarcene subito, non siamo più i benvenuti qui.»

Kadom fa uno strano verso gutturale.

«Fine delle trattative... forza, andiamo prima che questi piccoli selvaggi inizino a bersagliarci di dardi.

Non amo né essere pungolato né tantomeno il veleno.»

Scuoto la testa con convinzione.

Fisso dritto negli occhi il grande capo.

Lui ricambia con stoica ostilità.

Sospiro nervosamente.

Indico noi e poi loro, più volte.

Mi volto verso Rianni.

«Digli che torneremo domani e cercheremo di trovare nuove strade per trattare con loro.»

Rianni alza timidamente lo sguardo e apre la bocca.

Si rivolge al vecchio capo tribù, battendosi le mani sulle cosce e sospirando sonoramente.

Rivolge ai nativi qualche parola dai suoni quasi soffocati.

Scrolla le spalle, scuotendo la chioma bruna.

«Ho fatto, mio signore. Ma non credo che saremo benvoluti se e quando torneremo.»

Annuisco profondamente e mi volto.

«Lo terrò a mente.»

 

 

È quasi mezzodì quando infine giungiamo in prossimità di Lond Daer.

L'aria è rovente e la città appare circondata da una foschia accesa dal sole.

Kadom cammina con passi pesanti e cadenzati, quasi stesse tenendo un ritmo che lui solo può udire.

Mi passo una mano sugli occhi.

Digrigno i denti, sospirando sonoramente.

La trattativa è fallita, per ora... e adesso dovrò affrontare anche Adrahil.”

La mano mi scorre sui capelli, indugiando sulla nuca.

ma alla fine riuscirò a trovare un compromesso. Devo... per Telperiën.”

Dalla bocca mi scappa un lamento.

Non dormo dalla mattina precedente.

Sbadiglio sonoramente.

L'occhio mi cade su Rianni.

La ragazza tiene il capo chino,

trascina i piedi nella polvere stringendo la sua sacca che appare incredibilmente pesante.

Le sorrido con dolcezza.

«Ce la fai, ragazza? Vuoi che ti prenda in braccio?»

Rianni alza lentamente il capo.

Scrolla le spalle, intorpidita.

Mi fissa con sguardo vacuo.

«C-come, mio signore?»

Le prendo una mano fra le mie.

«Ti vedo stanca... vuoi che ti porti?»

Un guizzo passa sui suoi occhi scuri.

Le sue gote avvampano.

«N-no! Ce la faccio benissimo da sola! Non sono più una bambina!»

Annuisco con gravità e mi volto.

Ormai la colonia è vicina e le ombre delle sue mura possenti ci inghiottono.

Le guardie, vistici arrivare si precipitano verso di noi.

Quello che sembra il capo si tocca l'elmo in segno di rispetto ed esclama:

«Salve, principe Isilmo! Vado subito ad avvertire il Governatore, attendete qui.»

Le guardie spariscono dietro i cancelli della città, lasciandoci soli all'ombra delle mura.

Rianni si appoggia all'arco delle porte, accasciandosi con un sospiro.

Kadom si siede sopra un ceppo, tira fuori la sua scimitarra e con una pietra inizia ad affilarla con gesti bruschi.

Io trovo posto appoggiandomi alle fredde pietre dell'arco interno delle mura.

Mi giro verso Rianni.

Tiene gli occhi chiusi e la bocca semi aperta.

Il petto le si alza e abbassa lentamente.

La prendo in braccio.

Dopo un po' giunge Adrahil tutto sudato e con la faccia rossa, circondato dalle sue guardie scelte.

«Sire Isilmo! Scusatemi per l'attesa! Che vergogna farvi attendere così sulle porte come un branco di mendicanti!»

Adrahil lancia uno sguardo velenoso al capo delle guardie.

Questi fissa il suolo, le gote rosse, mentre tormenta l'elmo che tiene in mano.

Adrahil scuote la testa, sbuffando.

«Purtroppo sono circondato da idioti!

Prego, venite, dal vostro aspetto si direbbe che non abbiate passato una buona nottata.»

Esplodo in una fragorosa risata.

«Potete dirlo forte!»

 

 

Lo studio del Governatore è fresco e avvolto dalla penombra, lontano dalla canicola esterna.

Adrahil prende un sorso di vino speziato dalla coppa di vetro e oro che tiene in mano.

«E così le trattative non sono andate a buon fine.»

Prende un'altra sorsata.

«Come già vi ho detto, lo immaginavo. Non ci possono essere negoziati con quei selvaggi...»

Mi sistemo sullo scranno che il Governatore mi ha prestato, rigirandomi una coppa di vino fra le mani.

«Gradirei che si esprimesse in modo diverso quando parla dei nativi della Terra di Mezzo.»

Adrahil sbuffa, rigirandosi la coppa fra le mani.

«Già... voi li ammirate.

Ma lasciate che vi dica una cosa, mio principe:

Quegli indigeni sono poco meglio degli orchi. 

Bersagliano i nostri artieri e boscaioli con dardi avvelenati e usano tattiche barbariche

per incendiare i nostri depositi e le nostre case. 

Non ci si può fidare di loro. In nessun caso.»

Sospiro gravemente.

«Quegli indigeni... sono nostri fratelli. 

Hanno combattuto con valore nella guerra contro Morgoth, si sono dimostrati abili guaritori e fedeli alleati. 

Númenor dovrebbe farseli amici, non avversari.

Non possiamo ottenere niente dalla Terra di Mezzo senza che i suoi abitanti non ci siano favorevoli.»

Adrahil scuote la testa debolmente.

«Questo lo dite voi, mi signore. 

Ma quei selvaggi hanno sfidato una volta di troppo il nostro impero. 

Se non riuscirete voi a farli ragionare, mi toccherà usare la forza bruta che sembra l'unica cosa che capiscano.»

Mi alzo dallo scranno con uno scatto.

Contengo a stento l'ira che mi divampa nel petto.

Sento le gote bruciarmi e le mani tremare.

«Sire Adrahil! Sembra che proviate gusto nel governare come un tiranno!

Chissà cosa ne penserebbe mia sorella di tutto questo!»

Questa volta è il Governatore ad alzarsi, la bocca storta in un'espressione di disgusto, gli occhi che lampeggiano.

«Perdonatemi mio signore, ma non vi permetto!

Io sono un fedele suddito di sua maestà e non attento certo a nessun tipo di dispotismo!

Ma quei barbari abitanti della selva vanno fermati! E se non sarete voi, allora, in nome degli dèi, sarò io a farlo!»

Osservo Adrahil con apprensione.

La tensione si sta facendo un po' troppo forte. È meglio calmarsi.”

Sospiro profondamente, gettandomi sullo scranno.

Mi passo una mano sugli occhi.

«D'accordo allora.

Tenterò io di far ragionare i drûgin, ma provate a sfidare la mia autorità di messo reale prima che 

questa faccenda venga risolta e giuro che finirete a spalare sterco di maiale per il resto dei vostri giorni!»

Adrahil si siede rigidamente sul suo scranno foderato.

Avvicina le labbra alla coppa, affogando la frustrazione nel vino.

Dopo essersi inumidito le labbra schiocca la lingua ed esclama:

«Affare fatto, principe Isilmo!»

 

 

Sono passate tre settimane da quella discussione.

Per dieci volte sono stato a parlamentare con i drúedain e per altrettante volte sono stato mandato via

con esito negativo.

Sospiro con gravità, chiudendo gli occhi.

Fisso l'orizzonte con sguardo interrogativo.

Il mare grigio si stende infinito davanti a me, muovendosi sotto il cielo del mattino come un drappo agitato dal vento.

Appoggio il viso sulle mani, puntando i gomiti sulla balaustra.

Cosa starai facendo adesso Anariën? Dove ti troverai? E i nostri bambini? Che faranno di bello loro? Vi mancherò?”

Mi passo una mano sugli occhi, feriti dall'improvviso bagliore del sole che sfavilla fra le nuvole schierate.

Mi mancate molto, miei gioielli del mare.”

Stringo i pugni fino a far sbiancare le nocche.

No! Io tornerò presto, riuscirò a convincere Ghân-rani-Ghân della mia buona fede.

So che posso farcela e poi... tornerò da voi.”

 

 

La città di Drughûn-dinû ci circonda da ogni lato con le sue costruzioni innalzate intorno e sopra gli alberi.

Il gran capo Ghân-rani-Ghân siede di fronte a me per l'ennesima volta, vestito solo di una gonna di foglie secche.

Entrambi sospiriamo lentamente.

Il silenzio ci avvolge.

Centinaia di occhi sono puntati su di noi.

Kadom è al mio fianco.

Il bestione rimane taciturno, gli occhi scuri che lampeggiano silenti.

La mia guardia giurata è pronta a fare a pezzi chiunque voglia farmi del male.

Rianni è accovacciata alla mia sinistra.

Tiene il volto basso, i lunghi riccioli bruni a solleticarle il viso.

Accenno un inchino verso il capo tribù.

«Grande Ghân-rani-Ghân, sono qui davanti a te per l'ultima volta. 

Se non riuscirò a convincerti allora abbandonerò per sempre questa foresta, ma così non farà la mia gente. 

Altri verranno, strappandovi ciò che è vostro con la forza e allora rimpiangerete di non esservi messi d'accordo

con me quando ne avevate la possibilità.»

Mi schiarisco la voce.

«Rianni.»

La ragazza, che sembra riscuotersi da un sogno ad occhi aperti, si sistema meglio sul terreno soffice di foglie morte.

Dopo un po' che ha tradotto, Ghân-rani-Ghân si passa una mano fra i capelli grigi, grattandosi in modo svogliato.

Emette una lunga sequela di versi in inintelligibili.

Rianni si piega leggermente verso di me.

«Lui dice: Straniero, non cercare di minacciarmi. 

Già sapevo che se tu avessi fallito, altri ancora sarebbero giunti.

Perché l'uomo venuto del mare non si ferma mai, è ingordo, avido e ladro.»

Rianni fa una pausa.

«Comunque, dice, ascolterò cos'hai da dirmi e valuterò.»

Annuisco, sorridendo con gentilezza verso il capo tribù.

«Come puoi immaginare, non è possibile né la nostra dipartita né la vostra. 

Siamo costretti entrambi a convivere e se dobbiamo farlo, allora sarebbe meglio che lo facessimo da amici.»

Rianni comincia a tradurre, accompagnandosi con dei gesti.

Fisso lo sguardo dritto negli occhi di Ghân-rani-Ghân.

«Digli... digli che abbatteremo solo gli alberi che indicheranno loro,

digli che non toccheremo la città costruita nella foresta.»

Faccio una breve pausa.

«Ti do la mia parola, che come principe di Númenor non tradirò il patto siglato con voi e che lo rispetterò finché avrò vita. 

Tuttavia non sarei onesto se ti dicessi che lo rispetterà anche la mia gente. 

Finché avrò vita, giuro che farò in modo che il mio popolo rispetti il giuramento, ma dopo la mia morte non posso giurare.»

Rianni finisce di tradurre con un sospiro.

Ghân-rani-Ghân si passa una mano sulla corta barbetta ispida.

La sua voce è profonda e roca.

Rianni lo guarda con occhi pieni di apprensione.

Finalmente parla.

«Usi parole prudenti e sagge, straniero. 

Ma possiamo davvero fidarci di voi?

Possiamo davvero stringere alleanza con un popolo sleale e codardo che cava le ossa di sua madre per trovarvi tesori, 

che le strappa via i capelli per costruire mostri marini? 

Inoltre non ci sono alberi che possiate abbattere. 

Questa foresta è vecchia, straniero. Più vecchia di qualsiasi altra cosa. 

Più vecchia delle montagne, più vecchia dei fiumi. C'era già quando i miei antenati giunsero qui, c'era già quando gli...»

Rianni si interrompe un attimo.

Mi rivolge una timida occhiata.

«Credo che la parola sia... elfi. 

Questa foresta c'era già quando gli elfi arrivarono dal lontano oriente. 

È la nostra casa ed esisterà per sempre, ammenoché voi non la distruggiate. 

E non ti illudere, ho già sentito che l'uomo venuto dal mare necessita per le sue... 

Ehm, navi, credo, del legno degli alberi millenari più alti e robusti, che facciano loro solcare le acque con più sicurezza,

ma in quei tronchi sono intrappolati gli spiriti dei nostri antenati. Mio padre dorme in uno di essi.»

Lascio andare un sospiro di frustrazione.

Mi volto verso Rianni.

I suoi occhi scuri incontrano i miei.

Avvampa e distoglie lo sguardo.

Deglutisco, stringendo forte le mani fra loro.

"Evidentemente, l'unico modo per risolvere la questione in modo pacifico è 

spostare i nostri approvvigionamenti più a Sud, verso il corso del fiume Angren20.

Solo così otterremo la pace. Provvisoria immagino, ma pur sempre una pace."

«Taglieremo solo gli alberi sulla costa vicino a Lond Daer e poi lasceremo queste terre, spostandoci più a Sud.»

Lascio andare il fiato.

«D'accordo. Rianni, traduci.»

La ragazza annuisce, i riccioli bruni a coprirgli il viso.

Le sorrido incoraggiante.

A bassa voce, quasi borbottando, inizia a tradurre.

Ghân-rani-Ghân affila lo sguardo su di lei, serrando la mascella.

L'indigeno mi scruta con sguardo penetrante.

Aggrotta la fronte.

Per un lungo attimo carico di tensione non accade nulla.

Poi l'espressione corrucciata sul suo viso scompare lasciando il posto ad un sorriso ironico.

Quando apre bocca la voce ne esce altrettanto sarcastica e roca, quasi sghignazzante.

Rianni annuisce al nativo e si volta verso di me.

I suoi occhi scuri sono profondi come pozzi e le sue labbra carnose tremano leggermente.

«Lui dice: Chi ci assicura che le nostre foreste non verranno più toccate?

Come ci promettete che vivremo in pace, d'ora in avanti?»

La ragazza tace, chinando il viso.

Sorrido con orgoglio.

Alzo il braccio in alto, affinché tutti possano vedere l'anello che brilla sulla mia mano.

«Questo è il sigillo della Regina di Númenor. Io sono il messo della Regina e la mia parola è la sua parola. 

Se ordino che le foreste non siano più oggetto di discordia e che vi siano lasciate, ciò avverrà. Hai la mia parola.»

Faccio una pausa.

«Ma se questo non ti bastasse, te ne farò dono, così che chiunque te lo veda al dito capirà e obbedirà.»

Rianni traduce frettolosamente.

Una punta di nervosismo sfiora la sua voce.

Ghân-rani-Ghân si gratta la barbetta grigia, adocchiandomi con sguardo meditabondo.

Infine allunga il braccio, agitando la mano come per scacciare un insetto molesto.

La sua risposta non si fa attendere.

Rianni fissa il capo tribù come assorta ma poi scrolla le spalle si gira verso di me.

«Provalo! La tua parola vale come se detta al vento per un drûg. 

Il tuo sigillo vale solo perché luccica ai miei occhi e

inoltre un uomo del mare vedendomelo al dito penserebbe subito che io lo abbia rubato. 

Conosco fin troppo bene come trattate la mia gente. Non voglio il tuo anello.»

Mi alzo in piedi seguito subito dopo da Kadom.

«Rianni digli...»

Mi passo una mano sugli occhi.

Sospiro debolmente.

Mi avvicino lentamente al nativo.

Ormai sono tanto vicino da poterlo toccare.

Le sue guardie del corpo non muovono un passo ma si limitano a

stringere più forte le loro lance e a fissarmi con cipiglio torvo.

Punto il mio sguardo dritto negli occhi del gran capo.

I suoi, scuri come le profondità della foresta si rispecchiano nei miei, grigio cielo.

Lentamente, mi sfilo la fede nuziale dall'anulare destro e allungo l'altra mano verso il nativo.

Appena tocco il dorso della sua mano ruvida e callosa una torma di indigeni si gettano urlando su di noi.

Un urlo perentorio squassa l'aria, echeggiando sotto le navate degli alberi.

I drughûn restano immobili.

Ghân-rani-Ghân mi fissa accigliato, quasi con meraviglia.

Cerca di ritrarre la mano ma lo afferro per il polso.

Gli giro lentamente il palmo verso l'esterno e vi poso con l'altra mano l'anello.

Gli chiudo la mano e ritraggo le mie.

Ghân-rani-Ghân mi aggrotta la fronte.

Socchiude gli occhi e dischiude la bocca.

Nei suoi occhi noto smarrimento.

China la testa e osserva l'anello che ha nella mano.

Punto i miei occhi su di lui, fissandolo con convinzione.

«Questo anello vale per me più di qualunque altra cosa. 

È il simbolo del legame eterno e dell'amore che nutro per la mia sposa.

Forse non puoi capire, ma per me significa un patto di sangue. 

Facendoti questo dono io mi impegno affinché il popolo di Númenor

non tocchi mai più la foresta dei drughûn sinché avrò vita e il mio anello rimarrà in mano tua.

In cambio il popolo dei boschi non attaccherà mai più Lond Daer o

qualsiasi altra colonia del mio reame e tratterà da amici tutti i miei parenti.»

Rianni muove lenta le labbra e la voce che ne esce è chiara eppure dolce seppure

lenita dai suoni aspri e gutturali della lingua dei drughûn.

Ghân-rani-Ghân resta in silenzio ma stringe al petto l'anello, annuendo grave.

Emette un suono simile al raschiare della gola e pronuncia una parola dura

come le radici degli alberi millenari della foresta.

Rianni si volta verso di me, una luce brilla nei suoi occhi marroni.

«Ughu'sh ta, che così sia!»

Ghân-rani-Ghân si volta verso un suo suddito che dopo averne ascoltato le parole annuisce, svanendo nella boscaglia.

Il capo tribù fa un cenno con la mano a Rianni, parlandole nella sua strana lingua.

Rianni si porta ambo le mani alla bocca.

Le scappa un gridolino che presto soffoca.

La guardo meravigliato.

«Che succede?»

Rianni deglutisce.

Un brivido le percorre la schiena.

Sta tremando.”

Ghân-rani-Ghân sembra domandargli se ha capito.

Rianni annuisce.

Prende una profonda boccata d'aria ed espira lentamente.

I suoi occhi sono lucidi.

«Ghân-rani-Ghân dice: c'è un ultima cosa, straniero. Lascia che ti faccia un dono. Il Marchio degli Spiriti.»

Mi acciglio.

«Che significa?»

Rianni scuote la testa e china il capo.

«Io... io... credo che vogliano farvi un tatuaggio, mio signore. Come segno di appartenenza alla tribù dei drûgin.»

Due wose seguiti dal tipo di prima mi si accostano con fare furtivo.

Uno dei due mi prende un braccio, scoprendomi la casacca fino al gomito.

Estrae dalla cintura di pelle un aculeo d'istrice affilato e fa per colpirmi il polso.

«Ehi! FERMATI! FERMATI SUBITO!»

La voce di Kadom riecheggia nella foresta.

«Calmo! Calmo! Va tutto bene!» riesco a gridare prima che il bestione possa falciare con la sua scimitarra

la testa del piccolo uomo che mi stringe l'avambraccio.

Il drûgin scuote la testa, gridando.

Sgrana gli occhi, battendosi una mano sulla testa.

«È spaventato! Lascialo in pace! Non vuole farmi del male.»

Sento un dolore acuto risalirmi dal palmo fino al gomito.

Il nativo sta percuotendo la pelle del mio avambraccio con piccole,

precise stilettate che presto ricoprono il mio braccio di un rosso acceso.

Rianni si porta le mani a gli occhi, facendosi scappare un lamento.

Kadom guarda il sangue sgorgare con occhi cupi e straniti.

«Mio signore! Non credo che sia una buona idea assecondare questi piccoli uomini. Tramano qualcosa...»

Si passa una mano sui baffi neri, fissando le ferite con occhi meditabondi.

«Questi ratti hanno il morso velenoso!»

Due degli indigeni mi tengono il braccio fermo, tamponando il sangue che continua a sgorgare con dei lembi di pelle, 

l'altro inizia a spargere sulle ferite una polvere bluastra che si lega al sangue,

riempiendo i solchi che mi accorgo ora formano un complicato disegno a spirali.

Contraggo la mano in un pugno.

Il dolore è molto forte. Quasi stordente.

Gli wose iniziano a intonare una cantilena, sempre più forte, finché si trasforma in vere e proprie grida.

Il drûg che mi ha sparso addosso la polvere blu ci sputa sopra e comprime con le dita la povere sulle ferite, 

spalmandovi sopra un liquido viscido e trasparente che si asciuga presto, facendo smettere di sanguinare le ferite.

Dopo avermi tamponato ancora un po' il tatuaggio i tre mi lasciano andare.

Ghân-rani-Ghân stesso mi afferra per il polso ed eleva il mio braccio in alto,

così che tutti possano vedere il mio Marchio degli Spiriti.

I drûgin iniziano a battere le mani ritmicamente.

Gridano parole incomprensibili.

Mi volto verso Rianni.

«Cosa dicono?»

La ragazza sorride timidamente, le gote rosse.

«dicono che ora siete un mezzo drûg ora e fate parte della comunità, mio signore.»

Mi allargo in un sorriso cordiale che rivolgo al mio pubblico.

Ghân-rani-Ghân sembra soddisfatto e si accovaccia sulle foglie morte, stringendo un frutto con la mano inanellata.

Vedendo l'anello con le due mani incrociate ho una fitta al cuore, ma sospiro profondamente e chiudo gli occhi.

Meglio non pensarci. L'ho fatto per il regno... l'ho fatto per mia sorella, per te, Anariën, per rivederti.”

Ghân-rani-Ghân allarga la bocca sdentata in una smorfia che sembra un sorriso.

Dice qualcosa che Rianni prontamente traduce.

«Ghân-rani-Ghân dice: arrivederci straniero. Sei un mezzo drûg ora.

I tuoi nuovi fratelli e sorelle ti accompagneranno al limitare della foresta.

Dì agli uomini venuti dal mare che non daremo loro più alcun fastidio. 

Digli anche che ora la foresta è nostra e che non dovranno metterci piede mai più.»

Annuisco e lascio che gli wose ci conducano al limitare del bosco.

«Arrivederci!» grido.

 

 

I gabbiani strepitano nel cielo aranciato del tramonto, portando seco l'odore del mare.

Le onde si infrangono sul greto roccioso dei moli,

facendo ondeggiare la nave che mi porterà a casa, da Anariën, dalla mia famiglia.

Adrahil si frega le mani con gesto nervoso, mentre camminiamo sulla banchina del porto di Lond Daer, seguiti da Kadom.

«Mi state dicendo... mi state dicendo che voi avete promesso l'intera foresta a quei selvaggi?»

Scrollo le spalle con fare brusco.

«È così.»

«E che avete donato a uno di loro come pegno il vostro Anello della Promessa?»

Faccio qualche passo avanti.

«Esattamente, phazgân21

Adrahil si ferma davanti a me.

«Con tutto il rispetto, vostra grazia, siete forse impazzito?

Dove credete che prenderemo il legname per costruire le nostre navi d'ora in avanti?»

Fisso il governatore con sguardo distaccato.

«Dalle foreste a sud dell'Agathurush22 a quelle vicine alle sponde del fiume Angren.»

«Che però sono troppo lontane da Lond Daer.» ribatte seccamente Adrahil.

Mi volto verso il mare.

«Può darsi. Allora la città dovrà trovare nuovi impieghi di sussistenza.

La pesca non è il secondo mezzo dopo il legname?»

Adrahil mi lancia uno sguardo gelido.

«Così facendo Lond Daer si trasformerebbe in un misero villaggio di pescatori e

perderebbe il proprio primato di produttrice di legname per l'impero.»

Gli rivolgo un sorriso stanco.

«Così facendo non avrete più il cruccio dei drûg e potrete proseguire le vostre attività.»

Adrahil stringe i pugni.

«Evitando il problema? È così che vi hanno insegnato la diplomazia, Isilmo? Scappando?»

Adesso sono io che stringo i pugni ma sulle mie labbra si dipinge un sorriso sghembo.

«Ho evitato una guerra nell'unico modo possibile. 

Per tutti questi giorni sono stato a contatto con i nativi. 

Li conosco ormai e vi assicuro che sono degli avversari irriducibili. 

Non si arrenderanno mai.

Concedergli la foresta era l'unica cosa possibile da fare ad eccezione della guerra...

o forse voi volete questo?»

Adrahil mi lancia un sorriso di sfida.

«E se fosse? Noi dovremmo rinunciare a questo bene inestimabile per farli continuare a vivere

come gli pare nella loro maledetta foresta? 

E per cosa? Credete davvero che la Regina sarà felice di questo quando lo verrà a sapere?»

Deglutisco.

Non ho mai pensato a come reagirà mia sorella alla notizia

che ho ricevuto un battesimo drûgin e che sono in combutta con loro.

Sorrido debolmente all'idea.

«Mia sorella sa cosa è meglio per il reame, a differenza vostra, mi pare, viste le vostre ignobili idee guerrafondaie.»

Adrahil sbianca e subito dopo diventa paonazzo.

«Non ve lo permetto! Prima tiranno e ora guerrafondaio!

Sto solo cercando di fare gli interessi della Regina! A differenza vostra che mi ostacolate in tutto!»

Affilo su di lui lo sguardo.

«O forse state solo facendo i vostri di affari, “governatore”.

Sembra che vi piaccia un po' troppo fare il prepotente con i più deboli e 

indifesi come i nativi della Terra di Mezzo e privarvi di qualunque scrupolo pur di avere gloria, ricchezze e merito!»

Adrahil pesta i piedi come un bambino.

«Ora basta! Siete folle! I veleni dei selvaggi vi hanno offuscato la mente! 

Prepotente io, che faccio solo il mio dovere di governatore! E voi, messere? 

Vi che non avete fatto altro da quando siete giunto qui che screditarmi?

Oh, ma io l'ho capito il vostro piano, principe Isilmo!»

I suoi occhi sono iniettati di sangue.

«Vi ha inviato qui la Regina, vero? Ma con che scopo?

Siete davvero venuto qui per il problema dei barbari delle selve? 

Oppure siete giunto sin qui a guisa di ratto, scivolando fin nel tugurio del pescatore per sobillarlo alla rivolta?

Ecco il vostro piano di calunniatore! 

Sradicare il rispetto per me dai miei stessi concittadini e imbeccarli alla rivolta! 

E perché mai? Ho forse mai fatto qualcosa contro la Regina? O contro voi stesso? 

Ho mai forse cercato una qualsivoglia forma di dispotismo per regnare come re e dominare

Lond Daer come un oscuro signore? 

Sono forse Mulkhêr23 sul suo trono di tenebra?

La ragione vi ha dunque abbandonato? 

Ma fallireste credendo davvero ad una simile follia! 

È più forse evidente che la Regina Telperiën vuole scalzarmi, come un vecchio calzare,

gettarmi via a marcire in una capanna come uno fra i selvaggi

oppure peggio ancora in una fredda cella nelle segrete della città.»

Adrahil mette mano alla spada che tiene di fianco.

Kadom lo nota subito e si getta davanti a me, la scimitarra puntata avanti.

Vista la mole dell'uomo di Rhûn, Adrahil impallidisce, gettandosi a terra, prono.

«Mi arrendo! Mi arrendo!»

Poso i miei occhi su di lui.

«Sire Adrahil. Voi avete minacciato di morte un principe della casa di Indilzar. 

Basterebbe questo per farvi arrestare come traditore e lasciarvi marcire davvero in un cella per il resto dei vostri giorni. 

Ma non ho tempo per voi. Devo tornare dalla mia famiglia che mi aspetta ad Arminalêth. 

Se volete, fate come vi ho detto, altrimenti ve la vedrete con la giustizia di sua maestà

e con la fierezza del popolo drûgin.»

Adrahil si rialza, asciugandosi le lacrime con le maniche.

Lo fisso negli occhi.

Gli occhi rossi di chi ha perso tutto.

«Vi risparmio la vita, governatore. 

Ma se sentirò una sola parola su disordini dovuti al conflitto con gli abitanti della foresta

vi riterrò direttamente responsabile e con me la regina.»

Adrahil cade in ginocchio, mentre mi dirigo alla nave che mi porterà a casa.

Fra me e me sorrido.

Sto arrivando, Anariën.”

 

Il cielo è nero, solcato di volta in volta da lampi accecanti e tuoni che squarciano l'aria.

La mia nave, un grande mercantile a remi, lotta contro le onde e il vento forte che si alza da Occidente.

Il capitano, un tipo dalla pelle color bronzo antico si agita da una parte all'altra del ponte di coperta,

vociando all'equipaggio tutto fradicio dopo che è stato investito da un'onda.

I miei occhi faticano a vedere nella tempesta che ci sta colpendo.

Raffiche di vento e pioggia mi sferzano il viso cadendo oblique e accecandomi, 

i tuoni rimbombano nelle mie orecchie mentre un fulmine spezza il nostro albero maestro.

Il capitano, visibilmente disperato urla tutta la sua angoscia quando un'onda più alta delle altre

spazza via ogni cosa davanti a me.

L'acqua fredda mi invade i polmoni, li sento bruciare mentre un senso di oppressione schiaccia il mio petto.

Devo respirare!”

Sento che sto soffocando, che annegherò presto... non rivedrò mai più i miei figli. Non rivedrò mai più Anariën.

Al mio orecchio sento attutita la voce di Anarwen che mi chiama disperata.

«Attû! Attû! Torna da me! Torna da me! Lo hai promesso!»

Stringo i denti.

Non posso morire ora!

DEVO RESISTERE DEVO FARLO PER LORO!”

Le onde mi sovrastano, sbattendomi come un burattino verso le profondità dell'oceano.

Contraggo le braccia e mi sforzo di nuotare, agitando i piedi e facendomi strada fra i relitti dell'imbarcazione.

Vedo una macchia opaca brillare sopra di me.

La superficie!”

Con un ultimo sforzo mi tiro fuori dall'acqua, gemendo.

Tossisco violentemente, mentre cerco di restare a galla con movimenti sempre più deboli.

Nel buoi individuo qualcosa che galleggia vicino a me.

Mi avvicino a grandi bracciate, sforzandomi di non svenire.

È un mezzo barile, ma galleggia ancora e non vedo nient'altro intorno a me.

La nave è sparita nella cieca notte e i cavalloni che mi ruggiscono intorno mi impediscono qualunque altra azione.

Esausto, mi accascio sopra il mezzo barile, lasciando che l'oblio cada sui miei occhi.

 

 

La prima cosa che avverto è un forte dolore alla schiena.

Avverto la sabbia fra le mie mani, la sento ruvida contro il mio viso.

L'acqua fredda mi carezza le gambe, solleticandomi i piedi.

Avverto il calore cocente del sole sulle mie gambe e sul mio collo.

Nonostante il calore rabbrividisco al contatto con i mie vestiti pregni di acqua salmastra.

Apro lentamente gli occhi.

Quello che vedo è una macchia marrone su cui scintilla qualcosa di metallico.

A un secondo sguardo mi accorgo che si tratta di un mucchio di assi di legno tenute insieme da fasce di ferro.

Ora ricordo, il barile! È quel mezzo barile che ho usato come scialuppa improvvisata.

Mi ha salvato la vita.

La testa mi gira come se avessi preso una gran botta e le orecchie mi pulsano in modo fastidioso.

Sento il richiamo dei gabbiani.

Il loro stridore lacera le mie orecchie.

Me le tappo con ambedue le mani sporche di sabbia umida.

Il movimento brusco mi provoca un altro spasmo alla schiena.

Mi volto su un fianco. Posso vedere le onde che si infrangono sulla sabbia e oltre, 

un faraglione dalle rupi scoscese, coperto di macchia di mirto e lauro.

Sospiro, richiudendo gli occhi.

Sono sopravvissuto alla tempesta.”

Avverto un intenso bruciore alla bocca dello stomaco seguito da un brontolio sommesso.

Mi tocco la pancia, la carezzo con movimenti concentrici.

Un altro brivido mi corre giù per la schiena.

Devo liberarmi di questi vestiti”.

Lentamente mi alzo a sedere.

Gemendo, mi massaggio la schiena e il collo.

Questo brucia intensamente.

Devo essere rimasto in questa posizione al sole per ore.”

Istintivamente mi stropiccio gli occhi per il sonno.

Per gli dèi!”

I granelli di sabbia scavano nei miei occhi come se vi fossero dei coltelli.

Lacrimo copiosamente e mi sciacquo più che posso con l'acqua marina.

Al sollievo immediato segue repentino un bruciore fortissimo che mi acceca momentaneamente.

Sento come se i miei occhi andassero a fuoco.

Mi copro gli occhi con i palmi, mugugnando.

Dopo un po' mi stiracchio e mi tolgo la casacca ricamata, pesante e viscida.

Levo anche i calzoni e le calze mezze.

Ho perso gli stivali.

Rimango solo in camicia e brache ma anche queste sono umide e mi costringo a spogliarmi del tutto.

Nudo sto più comodo ma il sole cocente mi stordisce.

Ho la gola e le labbra secche.

Cosa non darei per un goccio d'acqua.”

Devo trovare cibo e un riparo.

Mi guardo attorno, schermandomi gli occhi con le mani.

Una spiaggia ampia almeno trenta piedi e lunga finché occhio può vedere.

Aldilà di questa, rocciosi altipiani coperti da una fitta e bassa macchia di mirto, alloro, 

rosmarino e ginestra spinosa e oltre ancora una vasta foresta dal tetto verde, selvaggia e remota.

Qualcosa mi dice che sono molto lontano da Lond Daer. Vediamo...

l'ultima volta la nave era in alto mare, più o meno all'altezza del fiume Isen.”

Inizio a disegnare sulla sabbia, aiutandomi con uno stecco.

Sì, dev'essere così. Sono quindi nell'Enedwaith? O forse sono capitato nelle rocciose coste dell'Andrast?

Potrebbe essere così.”

Osservo il mare.

Sembra tranquillo ora.

Kadom, Rianni... dove saranno finiti? L'ultima volta che li ho visti erano con me sul ponte della nave...

oh, spero che stiano bene!”

Getto a terra lo stecco, cadendo in ginocchio.

I miei occhi lacrimano senza che io possa far nulla per fermarli.

Un forte gemito mi sale alla gola.

«Dove sono finito? Tornerò mai casa?»

Con questi quesiti mi accascio a terra, nudo e in lacrime.

«Anariën! Anariën! Anariën!» gemo.

Dopo un po' mi asciugo le lacrime e dopo aver rivolto una maledizione verso il mare mi alzo in piedi,

tentando di dirigermi verso la scogliera.

Traballo e poco dopo cado in terra.

Dopo un po' ritento.

Lo stesso risultato.

Stringo i denti e con un ultimo sforzo mi tiro su, contraendo le scapole che mi dolgono come mai prima d'ora.

Se soltanto avessi fatto la vita da marinaio come sognavo da ragazzo!”

Respiro a fondo e poi tento di muovere un passo: Uno, due, tre...

Passo dopo passo mi dirigo verso la scogliera.

C'è un basso cespuglio di ginestra spinosa che potrei usare per issarmi su.

Proprio sopra, infatti, c'è un pino marittimo dai rami torti che si abbarbica a

metà della salita e le sue fronde salgono fin sopra la cornice rocciosa.

Raccolgo i miei abiti ancora fradici e tenendoli sotto braccio mi muovo verso la scogliera.

Quando infine la raggiungo mi accorgo sgomento che i rami più alti del pino non sono abbastanza

robusti per sostenermi fino in cima.

Mi arrampico subito sulla ginestra, trattenendo un lamento.

Le spine del cespuglio odoroso si infilzano profondamente nelle mie mani.

Con un ultimo colpo di reni mi isso sul tronco contorto e sbilanciato in avanti del pino e mi ci accascio sopra.

Il caldo si fa via via più soffocante.

Boccheggio, mal riparato dalle fronde radi e spinose del pino.

Ma l'immediato frescore che mi dona non appena mi siedo alla sua ombra è tale che nonostante il caldo mi sento leggero.

Nonostante la ruvida corteccia prema fastidiosamente sulla mia schiena e sulle mie natiche nude,

sento le palpebre pesanti.

Sospiro profondamente e chiudo gli occhi.

Prima che me ne possa accorgere sono sprofondato in un lungo sonno ristoratore.

 



19Drúedainic, abitato da drughûn

20Sindarin, fiume Isen

21Adûnaic, governatore

22Adûnaic, Gwathló

23Adûnaic, Morgoth

 

Angolo dell'Autore:

Eccoci qui al quinto appuntamento! Isilmo è sopravvissuto a una tempesta e ora non ha idea di dove si trovi.

Riuscirà a tornare dalla sua famiglia? Continuate a seguirmi se vi va e lo scoprirete!

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Capitolo 6
*** Drúwaith Iaur ***


Capitolo VI:

Drúwaith Iaur


Trascino i piedi nel fango, incespicando nel groviglio di mangrovie e piante acquatiche che mi intrappolano in questa palude.

Ho il fiato corto, sento freddo e i miei piedi sono viscidi.

Le liane mi si attorcigliano intorno al corpo, mi avviluppa le braccia e le gambe.

Mi divincolo inutilmente.

Urlo a pieni polmoni ma mi agito con scosse sempre più deboli.

Una liana striscia intorno al mio collo, simile a una serpe.

Sento la mia gola contrarsi, mentre la mancanza d'aria mi fa boccheggiare.

Annaspo con foga avvinghiando le liane con le dita, ma le mie mani scivolano sulla superficie viscida delle mangrovie.

Morirò!” penso, mentre sento la vita sfuggirmi lentamente dal corpo.

Chiudo gli occhi.

le braccia mi cadono sui fianchi, molli e inerti.

Lacrime silenziose mi rotolano sulle guance.

«Anariën.» riesco solo a mugolare mentre le liane possedute da una forza misteriosa mi stritolano a morte.



Mi alzo con un sussulto sul letto, i capelli incollati alla fronte dal sudore.

È notte fonda e riesco a vedere solo una cieca bruma.

«Anariën...» gracchio, senza voce.

Mi porto una mano alla gola.

Solo un brutto sogno.”

Mi distendo nuovamente sul mio talamo.

Allungo una mano nell'oscurità, tastando alla cieca il materasso.

Al mio fianco non vi è nessuno.

Il lenzuolo è freddo.

«Isilmo...»

La voce calda di mia moglie mi fa sussultare.

Mi alzo a sedere sul letto.

«Anariën? Dove sei?»

«Isilmo, ti prego... aiutami!»

Mi alzo con uno scatto e avanzo scalzo lungo il corridoio buio, tastando le pareti come un cieco.

«Isilmo!» la voce di mia moglie si trasforma in un lamento.

«Ti prego!»

Raggiungo il soggiorno.

Il camino è spento e l'aria è fredda.

Un brivido mi percorre la spina dorsale.

«Amore? Amore, dove sei?»

«Li hai uccisi... li hai uccisi tutti...» la voce di Anariën è lamentosa e incrinata dal pianto.

Rimango immobile.

Il camino si accende improvvisamente, lanciando le ombre sul soffitto della camera.

Lingue arancioni si sprigionano dalla cenere spenta, crepitando.

All'improvvisa luce che invade la stanza, scorgo delle forme scure che si stagliano contro il camino.

Stringo gli occhi, abbacinato.

Sembrano... sembrano...

Spalanco gli occhi, la bocca piegata in una smorfia di orrore.

Sono bare!”

«Li hai uccisi... ci hai uccisi tutti.» geme Anariën da qualche parte dietro di me.

Mi volto ma non c'è nessuno alle mie spalle.

«CI HAI UCCISI!»

La lunga tavola di quercia che ci ha regalato mio cognato al matrimonio mio e di Anariën è sparita.

Al suo posto, cinque bare sono allineate davanti al fuoco.

Faccio un passo avanti.

So già cosa mi aspetta.

Faccio un altro passo, poi un altro e un altro ancora.

Arrivo davanti alle bare.

Prendo fiato e mi sporgo in avanti.

I miei quattro figli giacciono pallidi e composti nelle bare scure.

Anariën è al centro, il ventre gonfio.

Vacillo.

Il suo viso è bolso e verdognolo, i suoi capelli sono bagnati.

«No!» faccio un passo indietro.

«No, non può essere!»

Corro via, sbattendomi la porta del salone alle spalle.

Sento la sabbia fra le dita dei piedi.

Mi schermo il viso con una mano dal sole cocente.

Appena i miei occhi si abituano alla luce scorgo una spiaggia assolata fiancheggiata da una cornice rocciosa.

Vicino alla battigia un uomo sta scavando usando una pala.

Muovo qualche passo verso di lui.

È canuto e la barba lunga e incolta è sporca di sabbia.

Veste di stracci che un tempo forse erano una lunga casacca di pelle istoriata, arrotolata sui gomiti.

È scalzo e indossa dei calzoni di lana strappati all'altezza delle ginocchia.

Una bandana sbrindellata gli cinge il capo, sventolando ad ogni suo colpo di pala.

Il vecchio continua a scavare come se nulla fosse.

Ed è allora che lo noto.

Cinque tumuli di sabbia sono ammonticchiati al suo fianco con infilati su ogni cima uno stecco

con legata una bandiera ricavata da uno straccio.

Muovo qualche passo incerto verso di lui.

Quando sono abbastanza vicino da poterlo toccare si volta repentino.

I suoi occhi grigi come i miei mi incontrano.

Vi leggo follia e smarrimento.

«Maledetto! Sei maledetto! Li hai fatti morire! Li hai fatti morire tutti!» gracchia con voce roca.

«No!»

Mi ritraggo, il volto contratto dalla paura.

«No! Non è vero! Non è vero! Non è possibile!»

Di colpo capisco: quel vecchio sono io!

«Maledetto!» grida «Maledetto!»



Mi riscuoto con un sussulto tanto forte da graffiarmi le cosce e le natiche con la ruvida corteccia del pino marittimo.

Emetto un lungo sospiro, detergendomi con le mani la fronte, umida di sudore.

Mi passo una mano sugli occhi.

Attraverso le dita vedo il sole scivolare in mare.

Il cielo azzurro e arancio è solcato da nuvole rosa e argento.

«Solo un incubo.» sussurro.



Il sole de mattino mi accoglie pigramente sorgendo dalle montagne coperte di foreste alle mie spalle.

Il cielo è sereno ma coperto.

Il mio stomaco brontola ma tento di ignorarlo.

Metto le mani sui fianchi e inspiro la dolce brezza che soffia dalla foresta.

Punto gli occhi dritti sul muro di roccia che mi sovrasta.

Oggi tenterò di salire sulla cornice per cercare da mangiare e vedere se posso ottenere una vista migliore da lassù.

Per prima cosa mi infilerò le brache, così sarò più protetto.

Sono asciutte ma umide e odorano di sale.

Le scrollo e me le infilo, legandole in vita.

Mi afferro con ambedue le braccia al tronco del pino marittimo.

Con un colpo di reni mi isso su.

Contraggo i fianchi e stringo le cosce.

Come una scimmia mi tiro via via più in alto, incurante del dolore acuto che provo ai genitali.

Sono arrivato in cima al pino.

Con uno sforzo mi afferro alla roccia.

La selce friabile si sbriciola fra le mie dita.

Dopo qualche tentativo, azzardo un balzo sul costone roccioso.

Scivolo in basso e mi aggrappo con tutte le mie forze alla roccia che però si spezza sotto il mio peso e frana giù, portandomi con sé.

Rovino a terra, sbattendo forte la schiena contro la sabbia compatta e i sassi.

Dalle labbra mi scappa un lamento.

In bocca sento il sapore del sangue.

Con un gesto brusco mi rialzo a sedere.

Ho fallito.

Mi massaggio la schiena, piena di contusioni.

«Ohi, ohi, povero me!»

con gesto rabbioso mi passo una mano fra i capelli pieni di sabbia.

Scrollo le spalle.

Sospiro profondamente.

Mi isso in piedi, facendo forza con le mani sulle ginocchia.

Mugugno un po' e poi mi stiracchio.

Inizio ad avanzare sulla sabbia rovente in direzione del mare.

I miei piedi scottano e ho le vertigini per la botta che ho preso.

Nonostante il caldo afoso che inizio a sentire comincio a sudare freddo.

Infilo i piedi nell'acqua fredda con sollievo.

Mi chino nell'acqua bassa e mi porto le mani a coppa sul viso, tenendo gli occhi chiusi.

Mi detergo un po', facendo scorrere l'acqua sui miei capelli seccati dal sole.

Il refrigerio è inebriante, sento il frescore calmare i miei fuochi interni.

Una scarica di brividi mi percorre la schiena.

Mi passo una mano sugli occhi chiusi.

La testa mi gira.

La pelle mi scotta.

Noto che le mie spalle e il mio petto sono arrossati.

Mi raddrizzo sulla schiena con un gemito.

Un lampo di dolore mi attraversa.

«Ossë24 salvami...»

Massaggiandomi la schiena torno verso il pino.

Cammino lento, nonostante i miei piedi gridino pietà per la sabbia che scotta.

Raggiungo il pino e mi infilo le calze.

Sento fastidio ai piedi ma almeno così sentirò meno dolore.

Tasto la casacca, i calzoni e la camicia.

La camicia è asciutta ma i calzoni e la casacca sono più umidi delle brache, quasi bagnati e ancora un po' viscidi.

Lego la camicia sulla fronte per ripararmi dal sole e stendo sulla sabbia vicino al pino il resto.

Almeno, con un po' di fortuna, si asciugheranno, anche se il cielo è coperto infatti, l'aria è ancora molto calda.

Umida. L'aria è umida. C'è un sentore di pioggia nella brezza marina.”

La mia gola è riarsa e le mie labbra sono spaccate.

Devo bere.”

Schiocco la lingua secca sul palato.

Devo trovare un fiume. Anche un piccolo rigagnolo andrà bene.”

Avanzo con passo cadenzato sulla sabbia calda, dirigendomi nella direzione da cui sono arrivato la mattina prima.

La testa mi duole e pulsa in modo frustrante.

Tengo i piedi sulla battigia dove la sabbia è fresca e molle.

Continuo ad avanzare, ancora, ancora e ancora.

Cammino per ore.

Alzo in alto gli occhi.

Il cielo si sta facendo scuro.

Dev'essere in arrivo una tempesta.”

Sorrido con amarezza.

Una come quella che mi ha sbattuto qui.”

I tuoni cominciano a squarciare l'aria, mentre lampi sempre più forti accendono le nubi plumbee che mi sovrastano.

La pioggia inizia a scrosciare sopra di me, infradiciandomi completamente.

Mi fermo, restando immobile sotto il diluvio.

Alzo lo sguardo.

Le gocce di pioggia mi frustano il viso.

Apro la bocca, mettendo le mani a coppa vicino al viso per trattenere più acqua che posso.

Bevo con foga quello che posso dalle mani rese ruvide dal sale e dal sole.

Sospiro profondamente e cado in ginocchio.

«Anariën, bambini.»

mi porto le mani al viso.

Sento le lacrime pungermi gli occhi e rigarmi le guance, mescolandosi alla pioggia.

«Amori miei!»

Cado prono, scosso ormai da singhiozzi incontrollabili.

«QUANDO VI RIVEDRÒ?»

Ti supplico Eru, fa' che li riveda...”

Ormai esausto mi abbandono al pianto e lascio che la pioggia lavi via la mia amarezza.



Il temporale è passato e così il mio dolore.

Arien25 guida la nave del sole nel cielo terso e sgombro di nuvole.

Ho proseguito il cammino, mettendo un piede dopo l'altro, avanzando ancora, ancora e ancora.

Stringo i pugni.

Il sole mi fa girare la testa.

Improvvisamente noto una figura di fronte a me.

Aguzzo la vista, schermandomi gli occhi con una mano: È una donna.

Sgrano gli occhi.

Dèi! Non può essere!”

A una ventina di passi da me una donna velata d'azzurro dai lunghi capelli neri come la notte sta dritta in piedi e mi fissa.

I suoi occhi sono velati di lacrime.

«Anariën!» grido senza fiato.

Allungo un braccio verso di lei.

«Aspettami!»

Con uno scatto la raggiungo.

Anariën scoppia in un pianto accorato.

«Amore mio, non piangere! Ci sono qui io! Non resterai più sola!» le grido.

Tento di stringerla a me, di farla sentire al sicuro contro il petto su cui così tante volte ha sospirato.

Mi ritrovo ad abbracciarmi da solo.

Le mie dita scivolano su sé stesse.

Cado in ginocchio.

Soltanto un'illusione.”

Sento il lamento di Anariën da qualche parte intorno a me.

Il vento porta via le sue parole.

Mi stropiccio gli occhi con convinzione.

Devo svegliarmi.”

Lentamente mi alzo sulle ginocchia e mi isso in piedi.

Lancio uno sguardo di sfuggita alla scogliera:

A quanto pare le rocce sono più basse qui, e la sabbia è ghiaiosa.

Con passo barcollante mi dirigo verso la cornice rocciosa.

Facendo leva sulle braccia mi arrampico sugli scogli squamosi di selce.

I miei muscoli bruciano per lo sforzo.

Con un sospiro mi getto sopra un cespuglio di mirto.

Ci sono riuscito. Sono salito sopra la scogliera.

Troppo stanco per fare alcunché, mi stendo a fianco del cespuglio, sull'erba secca e mi addormento.

Dopo un po' mi alzo in piedi e sempre barcollando mi dirigo nella macchia.

Cespugli di rosmarino fragrante e ginestra spinosa si abbarbicano alla dura terra per una lungo tratto della costa.

Macchie di mirto e alloro si confondono sulle colline ondulate, oltre le quali si staglia una remota foresta.

Continuo ad avanzare fino al crepuscolo.

La notte mi sorprende sotto un ulivo selvatico dal grosso tronco argentato.

Sfinito mi appoggio al suo fusto dopo aver fatto incetta di piccole olive amare, scure e legnose.

La bocca del mio stomaco gorgoglia per l'acidità e la fame ma senza curarmene scivolo nel sonno.



Ho passato tutto il mattino successivo nella foresta di alte querce scure.

I miei piedi mi conducono nel fitto della vegetazione.

Con un po' di fortuna trovo un melo selvatico e alcuni noccioli.

Dopo essermi sfamato tendo le orecchie in tutti i sensi per captare il rumore dell'acqua.

Non odo nulla.

Ho paura di perdermi, così torno al limitare del bosco.

Dopo ore buttate a tentare di accendere un fuoco torno nella foresta.

Il mio stomaco gorgoglia e la pancia mi brucia.

Dolorosi crampi cominciano ad opprimermi il ventre.

Con una smorfia lacero la camicia che tengo in testa e ne lego un lembo al ramo di un albero.

Così spero di non perdermi.”

Con una lancia ricavata da un ramo aguzzo mi inoltro nel profondo degli alberi.

Devo trovare al più presto della selvaggina se non voglio morire di fame.”

Raggiungo una radura in mezzo all'intrico degli alberi.

Mi fermo di colpo, restando immobile.

Il mio torace scottato dal sole si alza e si abbassa ritmicamente.

Posso sentire il battito del mio cuore.

Finalmente riesco a sentirlo.

Questo è rumore d'acqua!”

Le ombre degli alberi si allungano nella radura e sento i crampi al ventre farsi sempre più forti.

Mi gira la testa e cerco di concentrare lo sguardo sull'intrico di rami davanti a me.

Una cieca sete si impossessa di me.

Acqua. Acqua!” non riesco a pensare ad altro.

Correndo come un folle mi fiondo nella direzione che credo mi conduca a un torrente ma quando arrivo

getto la lancia e mi butto carponi, rigirandomi fra le mani foglie morte e ghiaia.

Ho effettivamente trovato il letto di un fiumiciattolo ma è secco da tempo.

Il fango sul greto è secco e polveroso, ciuffi d'erba spuntano qua e là fra i sassi.

Mi passo le mani sugli occhi, le faccio scivolare sulla fronte e mi stringo i capelli scarmigliati.

Sto impazzendo. Sto diventando matto.”

Soffoco un gemito, nascondendo il viso fra le mani.

«Anariën...»

Un lampo attraversa la mia mente, offuscando il mio dolore.

Devi essere forte per loro! Solo così li rivedrai!”

Stringo i denti, cacciando le lacrime indietro.

Devo essere forte!”

Con un sospiro mi alzo in piedi e afferro la lancia improvvisata.

Per Anariën per i bambini!”

con passo stanco mi trascino verso l'uscita della foresta.

Come un fulmine, un'ombra scura e snella schizza fuori dai cespugli, sfrecciando davanti a me.

Sgrano gli occhi e spalanco la bocca per la sorpresa.

Un camoscio mi è appena passato davanti?”

Senza pensare stringo più forte la lancia e mi precipito al suo inseguimento.

Un lampo di dolore mi acceca per un istante.

Stramazzo al suolo.

Mi rannicchio su me stesso, incurante del camoscio, stringendo la caviglia destra.

Devo essermela storta.”

Co un lamento mi alzo in piedi, zoppicando.

Mi guardo attorno.

Il camoscio è svanito nel fitto della boscaglia.

Sempre zoppicando mi incammino verso l'uscita del bosco.

Quando infine esco dalla foresta il sole è scivolato in mare e le ombre del crepuscolo si sono fatte lunghe e scure.

Sbadigliando mi accascio in terra e lì dove sono caduto, come un bambino, mi addormento.

Al mio risveglio noto che le stelle brillano su di me.

Metto un braccio dietro la testa e cerco la Falce dei Valar, messa a protezione della terra contro il Nemico.

Fisso le stelle, commosso.

In loro rivedo i tuoi occhi, Faelëar.”



Il vento scompiglia i miei capelli bruciati dal sole.

Il mattino successivo al mio incontro con il camoscio sono tornato sulla spiaggia e sono tornato al punto di partenza.

Lì ho indossato la casacca e i calzoni e ho ripercorso nuovamente la spiaggia in tutti i sensi.

Ma non ho trovato nessun indizio sul passaggio di Kadom o Rianni.

Niente di certo, perlomeno.

Il richiamo dei gabbiani mi fa voltare.

Mi passo una mano sulla mascella.

Il camoscio è troppo veloce e io sono troppo stanco. Ma un pesce...

Rimediata la lancia mi dirigo dove lo stridio dei gabbiani è più forte e dove più alte sono le grida dei pulcini.

Arrampicatomi sulla scogliera con qualche sforzo nella sua parte più bassa mi dirigo di soppiatto sul crinale, fin sopra il faraglione.

Sotto di me le onde si infrangono contro la dura roccia aguzza, lanciandosi in alto in barbe di schiuma.

Il vento gelido mi soffia in faccia, rombando cupo.

Alzo lo sguardo.

Nuvole d'argento attraversano l'azzurro del cielo, preannunciando pioggia.

Cammino sul ventre come una di quelle lucertole giganti che i mercanti hanno portato una volta a palazzo dalle torride lande del sud.

Mi avvicino a uno dei nidi.

Attendo che uno dei gabbiani si avvicini con il pesce in bocca e mi getto su di lui.

Per il terrore che io voglia assalire il suo nido il gabbiano lascia andare il giovane tonno che tiene nel becco e si scaglia su di me, mirando agli occhi.

Mi schermo con il braccio sinistro e con la mano libera tasto le rocce alla ricerca del pesce.

Un brivido mi percorre quando lo trovo.

È viscido e freddo.

Lo afferro per la coda che ancora si dimena e corro giù per il crinale, inseguito dal gabbiano.

Dopo un po' l'uccello torna nel suo nido e io riesco con grande sforzo a discendere sulla spiaggia.

Lo stomaco mi brucia come se avessi dei tizzoni ardenti nella pancia, tuttavia non ho intenzione di mangiare il tonno crudo.

La sola idea mi ripugna.

Legna!”- mi rammento -“Ho bisogno di legname e di qualcosa per accendere un fuoco.”

«Oh! Se solo avessi appreso l'arte di accendere il fuoco ora non sarei in questa situazione!»

Con passo svogliato mi sto incamminando verso la scogliera quando avvisto qualcosa in mare.

Non può essere!”

Sgrano gli occhi per la sorpresa e lascio andare il pesce sulla sabbia.

Per tutti gli Dèi e tutte le Dee e per Eru santissimo, quella è una nave!”

«Ehi!»

Mi sbraccio, grido a squarciagola e quasi salto per l'eccitazione.

«Ehi, sono qui!»

Salto più in alto e mi dimeno più che posso.

Tutto inutile.

La nave presto si allontana e svanisce nella foschia.

Mi getto a terra, incurante del pesce.

Sento gli occhi pungermi mentre stringo le mani per la frustrazione.

«Avevo... avevo la possibilità di salvarmi, di tornare a casa... ma non sono stato neppure in grado di accendere un fuocherello.

Oh Dèi! Perché mi punite così? Cosa ho fatto di male per meritarmi di rimanere qui, sperduto nelle terre selvagge, lontano da coloro che amo?»

Batto i pugni a terra.

«Non è giusto! È troppo crudele.

Se devo morire voglio farlo fra le braccia di coloro che amo, non qui! Voglio tornare a casa! Voglio tornare a casa, maledizione!»

Quando ho smesso di piangere mi asciugo le lacrime con le mani e mi rialzo a fatica, respirando a grandi boccate.

Voglio vivere. Devo vivere. Loro mi stanno aspettando. Devo tornare da loro.”

Metto il pesce ormai morto nella tasca dei pantaloni.

È terribilmente freddo e umido.

Avanzo sulla battigia, camminando ancora, ancora e ancora.

Metto un piede davanti a l'altro e mi dirigo verso la parte scalabile della scogliera.

Cammino per ore.

Devo aver superato il punto scalabile da tempo.

Ormai ho perso la percezione del tempo.

I minuti e le ore scorrono inesorabili.

Lo stomaco mi brucia come se vi si aprissero le porte di Angband26.

La testa mi gira.

Sento un forte dolore ai polpacci e alla schiena.

I piedi mi sono diventati quasi insensibili.

Ogni passo è un dolore.

Crampi sempre più dolorosi mi percorrono le gambe e la schiena.

Anariën.”

Arranco nella sabbia, quasi zoppicando.

Sento la pioggia picchiettarmi addosso.

Alzo lo sguardo.

Il cielo sopra di me è coperto di dense nuvole scure.

Minastir.”

La pioggia scroscia abbondante su di me, frustandomi il viso.

Odo un ruggito e un brontolio sommesso fra le nubi accese dai lampi.

Tarion.”

Abbasso lo sguardo.

Elmo.”

Incespico in un sasso.

Cado in ginocchio.

Mi rialzo.

Anarwen.”

Crollo al suolo, il viso contro la sabbia fradicia.

L'oblio scivola sui miei occhi.



La prima cosa che avverto è qualcosa che mi trascina per le spalle.

Sento la sabbia sotto di me e poi qualcosa di morbido e di terribilmente fetido.

Odora di sangue e di selvatico.”

Vicino a me, sento il calore di un fuocherello che scoppietta.

Arriccio il naso e stringo le palpebre.

Il sole vi filtra attraverso in modo fastidioso.

«Anariën...» riesco a biascicare con la voce impastata.

La testa mi gira e il collo e le gambe mi bruciano come se fossero cosparsi di fuoco.

Sento le schiena indolenzita e dolorante.

Odo un respiro affannoso simile al soffio di un mantice di fianco a me.

«Per tutti i Bogov!27 Alla fine si è svegliato!»

Apro lentamente gli occhi.

Ciò che vedo davanti a me mi fa sgranare gli occhi per la sorpresa.

Un testone rasato e cotto dal sole troneggia davanti a me, adombrandomi, i piccoli occhi neri stupiti.

«Eru santissimo! Siete vivi!» grido con voce eccitata.

Kadom scopre i denti bianchissimi in un sorriso beffardo.

«Puoi dirlo forte, mio signore! E a quanto pare sei vivo anche te, anche se non sembri al meglio.

Rianni! Da brava, ragazza, dagli un po' da bere.»

Alla mia destra spunta la ragazza, sulle labbra un dolce sorriso.

«Mio signore! Sono così contenta che siate vivo!»

Rianni mi si getta addosso.

Nei suoi occhi colgo un guizzo.

Arrossisce violentemente.

«Perdonate l'irruenza, mio signore. Sarete stremato, bevete!» dice stappando una borraccia di pelle e porgendomela timidamente.

Le rivolgo un ringraziamento silenzioso e mi rovescio il contenuto della sacca in gola.

L'acqua brucia nella mia gola riarsa come fuoco liquido ma bevo comunque a sazietà.

Lancio un lungo sospiro e mi ridistendo sulla pelle.

Chiudo gli occhi.

«Dove siamo?»

Kadom emetto un verso secco.

«Per quanto ne so io, mio signore, ovunque. So navigare sui fiumi e sul placido mare di Rhun.

Non conosco il Grande Mare. Chissà dove ci hanno sbattuto le onde.»

Annuisco grave.

Riapro gli occhi.

«È già una fortuna esserci ritrovati.»

Kadom mi lancia uno sguardo in tralice.

«Se non fosse arrivato Kadom, ora saresti nei guai, mio signore.»

«Come mi avete trovato? Vi siete incontrati da molto? Dove avete trovato da bere? »

«Calma, Calma! Una domanda per volta, mio signore.

Abbiamo vagato sulla spiaggia sperando di trovarti e così, con un po' di fortuna è stato.

Io e Rianni siamo stati sbattuti dalla tempesta nello stesso posto, altrimenti la ragazza non sarebbe sopravvissuta a lungo.

Per quanto riguarda l'acqua abbiamo trovato un piccolo torrente potabile che sfocia in mare.»

«Ti devo la vita, cavaliere! Te la dobbiamo entrambi.»

Sento Kadom ridacchiare.

«Non c'è di che, mio principe. Ma sarà meglio conservarla adesso! Fra poco mangeremo...»

Il rumore di carne che viene dilaniata mi fa girare su un fianco.

Kadom sta facendo a pezzi un animale, forse un cervide usando la sua enorme scimitarra.

Il gigante, vedendomi accigliato mi rivolge un sorriso fiero.

Si liscia i lunghi baffi con una mano.

«Questo bel camoscio se ne scorrazzava per la foresta là sopra. L'ho trafitto e ho steso la sua bella pelle al sole.»



Quella sera, dopo aver cenato con il camoscio arrostito su fuoco e aver cantato delle canzoni mi stendo sulla pelle, osservando il cielo pieno di stelle.

Rianni e Kadom sono al mio fianco.

«Nelle Terre Selvagge, si dice che il Grande Cacciatore percorra il firmamento con la sua muta di cani ogni notte,

suonando forte il suo corno di uro selvatico e cacciando le tenebre al suo passaggio.» borbotta Kadom, agitando una mano contro il cielo in modo vago.

«Da noi si dice che la Regina delle Stelle abbia posto il Carro Celeste a sfida contro il Nemico, tanto tempo fa...» sussurra Rianni.

Sorrido beatamente, scrutando gli astri.

«Il mio popolo ha tradizioni simili, ma chiama quelle stelle la “Falce dei Valar” e dice che Avradî28 protegga coloro che le invocano sul proprio cammino.»

Sospiro profondamente.

Vorrei essere con voi adesso, amori miei.”

«Chissà se ritorneremo mai a casa...»

Sento Rianni singhiozzare nell'oscurità.

Forse avrei dovuto starmene zitto.”

Kadom sospira stancamente.

«Dormi ora, mio signore. Avrai bisogno di forze per domani. Ci attende un lungo viaggio...»

 

 

Il mattino successivo è caldo e soleggiato.

Kadom e io Affiliamo delle lance improvvisate e anche Rianni da una mano,

annodando della fibra vegetale sui manici dei bastoni e raccogliendo dei sassi da usare come arma.

Quando è tutto pronto ci dirigiamo sulla scogliera e dopo un'aspra salita raggiungiamo la foresta.

Acquattati a terra senza far rumore ci dirigiamo nel folto degli alberi.

Camminiamo per circa un'ora nella profondità del bosco.

Improvvisamente sento un rumore provenire alla mia destra.

Mi volto per controllare ma è troppo tardi.

Prima che me ne possa rendere conto una rete si solleva sotto i nostri piedi chiudendoci in trappola.

La rete si issa su fino a due metri d'altezza, fissandosi ad un ramo abilmente camuffato.

Mentre cerco di dare un senso alla cosa, sento un bisbiglio continuo provenire dagli alberi.

Uno dopo l'altro, una dozzina di piccoli uomini tatuati ci circonda, parlottando fra loro con voci roche e profonde.

Li adocchio sorpreso.

«Sono drûgin!»

Quello che sembra il capo, un tipo più magro e alto ma anche con lo sguardo più torvo squadra Kadom in modo insolente.

Le parole che escono dalla sua bocca sono inquisitorie e cariche d'ira.

Stringo le mani intorno ai fori della rete, sporgendomi in avanti.

«Che cosa dicono, Rianni?»

Rivolgo alla ragazza uno sguardo penetrante.

Rianni sembra turbata quanto me.

Scuote il capo.

«Non capisco molto bene. Parlano uno strano dialetto, questi drûgin. È complicato seguirli.

Ma aspetta! Parlano di pietre... asce di pietra e sangue e teste e... ah! Non riesco proprio a comprendere.»

Il capo dei nativi si mette a berciare qualcosa di incomprensibile all'indirizzo di Kadom, gesticolando in modo nervoso.

Gli wose si affrettano a muovere gli argani che ci tengono legati e calano la rete fino a terra.

«Guardate!» Grido a Rianni e Kadom «Ci tirano giù!»

Kadom agita la coda di cavallo come un puledro scalciante.

«Se provano a toccarci gli farò assaggiare la punta della mia scimitarra!»

I drûgin sciolgono la rete e ci liberano con gesti bruschi, ma subito tentano di ghermirci.

Mi volto verso Kadom.

Il gigante di Rhûn sfodera repentino la scimitarra ricurva che compie un guizzo e sfavilla nella luce maculata della foresta.

Sento che la situazione sta precipitando.

«Rianni! Digli di lasciarci liberi! Di' loro che noi siamo amici dei drûgin!»

La ragazza esegue con voce tremolante e incerta, faticando con le aspirazioni.

Il capo degli aborigeni, sentendola parlare nella propria lingua ordina agli altri di fermarsi con un gesto secco della mano.

I suoi occhi scintillano.

Quando parla nuovamente la sua voce è più sorpresa che arrabbiata.

Rianni risponde e annuisce.

indica noi e la foresta, poi di nuovo noi.

Ad un mio sguardo preoccupato Rianni mi sorride incoraggiante.

«Sto spiegando che siamo loro amici e che siamo arrivati dal Mare a causa di una tempesta.»

Annuisco.

Fisso dritto negli occhi il capo degli wose.

Il piccolo uomo tarchiato ricambia con ostilità.

Improvvisamente lancia uno strillo acuto e i drûgin ci assalgono.

Mi volto verso Kadom.

L'uomo sta mulinando la sua fedele scimitarra dentellata e si sta pericolosamente avventando contro i nativi.

«Fermo! Non toccarli! Lascia che ci prendano! Se li aggredisci ora non potremo più trattare!»

Kadom stringe le mani sulla spada ed emette un ringhio di sfida.

«Ma loro non vogliono trattare!»

«Fa' come ti dico!» Sbraito.

Kadom emette un lungo sospiro e rinfodera la scimitarra.

Immediatamente gli abitanti della foresta ci afferrano.

Dopo averci legato le mani ci spintonano in modo rude, conducendoci nel cuore della foresta.

Camminiamo per circa un'ora a passo svelto nell'intrico degli alberi.

Finalmente arriviamo in un'ampia radura circondata da enormi querce millenarie.

Alzo lo sguardo.

Sopra gli alberi sono ammassate capanne a un solo piano dal tetto di frasche e lunghe passerelle traballanti di corda.

Ai piedi delle querce si alzano grandi pietre levigate e coperte di pittogrammi sconosciuti.

Molti bracieri rischiarano le ombre della foresta.

Ma è un'altra cosa ad attirare la mia attenzione:

Pile di teschi umani e animali sono impilati un po' ovunque.

Mentre passo nella radura noto i resti di un uomo infilzato sopra un palo.

Una scarica di brividi mi attraversa.

Sento l'angoscia attanagliarmi.

Mi rendo conto che sto temendo per la mia vita.

Kadom si agita dando strattoni alle corde che ci imprigionano.

«Ci mangeranno! Sono cannibali!»

Rianni tiene gli occhi bassi sotto il groviglio dei suoi capelli scuri.

È incredibilmente pallida.

A forza di spinte e strattoni veniamo condotti sotto una quercia più grande delle altre, coperta di disegni geometrici dalle spirali bizzarre.

Un volto umano è scolpito a metà del tronco e i suoi occhi e la sua bocca colano sangue.

Sotto la quercia, seduto sopra una pila di crani coperti da una pelle, sta un ometto tarchiato ed enormemente grasso.

La sua pelle scura è attraversata da tatuaggi neri e blu e i suoi capelli crespi e neri sono tagliati all'altezza delle sopracciglia, scure e irsute.

I suoi occhi neri e profondi come pozzi lampeggiano alla nostra vista.

La sua voce cavernosa esce quasi melliflua dalle labbra carnose infilzate da una spina di istrice.

Rianni rabbrividisce al sentirlo ma i drûgin chinano il capo.

Kadom gli lancia un'occhiata torva.

«Questo grassone ci infilzerà su un palo e ci farà arrosto sempre che non ci preferisca crudi, ammenoché non imbracciamo le armi. Subito!»

Mi volto verso di lui.

«No! Dobbiamo restare calmi! Rianni, cosa dice questo tipo? È il loro capo?»

Rianni deglutisce e lascia andare il fiato.

«Sì.»

Il capo clan si sporge in avanti, carezzandosi la mascella pendula.

Le sue parole suonano un misto di derisione e fastidio.

Rianni risponde timidamente, con voce quasi soffocata.

La ragazza mi rivolge uno sguardo d'intesa.

«il capo dei drûgin vuole sapere chi siamo e cosa ci facciamo nelle sue terre.

Io gli ho risposto che tu sei il principe degli Uomini Alti del Mare...»

Deglutisco.

«Chiedigli qual'è il suo nome e che cosa vuole farne di noi.»

Rianni risponde lentamente studiando bene le parole.

Il drûg si sistema sulla pelle, traballando come un budino.

Le sue parole suonano aspre e arroganti al mio orecchio.

Rianni annuisce.

La guardo attentamente.

Trema.

«Lui è Lôd-buri-Ghâr. Dice che noi abbiamo invaso le sue terre e che... che per questo noi... meritiamo la... la morte.» Mi sussurra.

Le annuisco e alzo lo sguardo.

I miei occhi grigi si incontrano con quelli scuri come la pece di Lôd-buri-Ghâr.

«Rianni! Digli che io sono un mezzo drûg. Digli che ho ricevuto il marchio degli spiriti!»

La ragazza mi osserva con occhi dubbiosi.

Guarda lui, poi di nuovo me.

La sua voce suona debole e arrochita.

Gli occhi di Lôd-buri-Ghâr mandano scintille.

La sua risposta è secca e perentoria.

Rianni mi rivolge uno sguardo in tralice.

«Capo Lôd-buri-Ghâr chiede di mostrarglielo.»

alzo le braccia, mettendo in evidenza le corde che mi legano e le adocchio, scambiando un intenso sguardo il capo tribù.

La voce del wose è ancora più tagliente.

Cinque nativi mi si avvicinano circospetti.

Tre di essi mi tengono fermi mentre gli altri due mi slegano le braccia e alzano in alto il destro.

Un boato di sorpresa attraversa la radura.

Molti occhi sono puntati su di me.

Mi guardo attorno.

Questa tribù appare più numerosa rispetto a quella di Ghân-rani-Ghân.

Lôd-buri-Ghâr si china a parlottare con i suoi sottoposti.

Si rivolge a Rianni.

Questa volta il suo tono di voce è più caldo e accogliente.

Sorride scoprendo i piccoli denti giallastri in un ghigno che vorrebbe significare amicizia, forse.

Rianni annuisce e si volta verso di me.

Nei suoi occhi leggo paura.

«Lôd-buri-Ghâr dice: Bene! Sei un amico del mio... popolo, credo. Ma gli altri due? Chi sono?»

Fisso Rianni per un lungo momento.

«Digli che se toccano me o la ragazza li faccio a fettine così sottili che nemmeno cento vite basterebbero per rimetterle insieme!» sbraita Kadom.

Gli scocco un'occhiata accigliata e il gigante si zittisce.

«Calmati Kadom! Rianni, per favore, digli che voi siete sotto la mia protezione e che non intendo lasciare che vi facciano del male.»

Rianni annuisce e posso quasi vedere un sorriso speranzoso affiorarle sulle labbra.

Lôd-buri-Ghâr si passa una mano sulla mascella pendula, pizzicandosi il labbro inferiore.

La sua voce cresce in potenza e suona quasi di sfida.

Rianni sbianca.

Inizia a tremare.

«Lui... lui... io... io non...»

La guardo con apprensione.

«Per tutti i valar, Rianni, che succede?»

La ragazza si schiarisce la voce.

«Lui... lui dice... dice che tu puoi andare... ma non noi. Noi restiamo qui.»

«Glielo faccio vedere io cosa succede a quel ciccione arrogante se prova a fermarci!» ruggisce Kadom, stringendo le mani sul fodero della scimitarra.

«Aspetta! Rianni, digli che non me ne vado senza di voi, digli che anche tu sei un'amica dei drûgin e lo è anche Kadom.»

Deglutisco, saettando lo sguardo su Rianni, poi su Kadom e in fine sul capo tribù.

Lôd-buri-Ghâr posa il suo sguardo su Rianni e dopo un po', ridacchiando fra sé e sé si mette a parlare nella sua strana lingua.

Rianni pare sconvolta.

Tiene la bocca semichiusa e gli occhi sbarrati.

Con fatica, lentamente, riesce a tradurre.

«Ho deciso straniero. Tu e la donna che parla la nostra lingua potete andare, ma il... bestione... NO.»

«Rianni, digli che... Kadom, FERMO!»

Mi getto sul gigante di Rhûn e riesco a fermarlo appena in tempo prima che, scimitarra alla mano si getti sul capo clan.

I drûgin saltano indietro strillando.

Molti cercano riparo nelle case sugli alberi.

Ma Lôd-buri-Ghâr rimane immobile, gli occhi taglienti fissi sulla lama della scimitarra.

In silenzio, si alza dal suo scranno di teschi umani e allarga le braccia.

Tutti i presenti fanno silenzio, gli occhi di tutti sono fissi sul drûg.

Quando parla di nuovo, Lôd-buri-Ghâr sembra compiaciuto.

Rianni sembra rabbrividire ma tiene la testa alta.

«Lui dice: quello che ha tentato il tuo amico è gravissimo, l'unico modo di salvarlo è un... duello, credo, con cui potersi riscattare.

Se vincerà sarete tutti liberi, in caso contrario morirete tutti.

E visto che siamo nella mia... casa, lui... lui combatterà contro dieci dei nostri, dato che è così grosso...»

Poso il mio sguardo su Kadom, vedo i suoi muscoli lucidi contrarsi, osservo il suo respiro cadenzato.

I suoi occhi incontrano i miei.

Annuisce lentamente.

Alzo lo sguardo e fisso a lungo il capo tribù che ricambia con stolidità.

«D'accordo.» esclamo.

 


24Quenya, uno dei maiar al servizio di Ulmo

25Quenya, maia del Sole

26Sindarin, Prigione di Ferro

27Rhûnic, dèi

28Adûnaic, Varda

 

 


Angolo dell'Autore:

Non ci sono fonti certe sulla pratica del cannibalismo fra i drûgin a differenza degli orchi incontrati nel suo viaggio da Eärendil,

sebbene spesso si trovarono in conflitto con i númenóreani come a Lond Daer .

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