Equation

di Pleasebemywill
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** one ***
Capitolo 2: *** two ***
Capitolo 3: *** three ***
Capitolo 4: *** four ***
Capitolo 5: *** five ***
Capitolo 6: *** six ***
Capitolo 7: *** seven ***
Capitolo 8: *** eight ***
Capitolo 9: *** nine ***
Capitolo 10: *** ten ***
Capitolo 11: *** eleven ***
Capitolo 12: *** twelve ***
Capitolo 13: *** thirteen ***
Capitolo 14: *** fourteen ***
Capitolo 15: *** fifteen ***
Capitolo 16: *** sixteen ***
Capitolo 17: *** seventeen ***
Capitolo 18: *** eighteen ***
Capitolo 19: *** nineteen ***
Capitolo 20: *** twenty ***
Capitolo 21: *** twenty-one ***
Capitolo 22: *** twenty-two ***
Capitolo 23: *** twenty-three ***
Capitolo 24: *** twenty-four ***



Capitolo 1
*** one ***


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Equation
(My new life in USA)

by pleasebemywill



1


Charlotte Wilson

Erano i primi di Settembre. Quei ventosi e caldi primi giorni di Settembre in cui salutai drasticamente i miei amici, lasciai la mia casa e miei ricordi in Australia partendo verso l'America.

«Charlie, non possiamo restare in Australia se tuo padre deve andare a lavorare in America.»

Così mi diceva mamma ogni volta che accennavo anche solo l'argomento "trasferimento". Non era una cosa facile da accettare. Sì, adoravo l'America, lì ci giravano praticamente tutte le serie televisive che guardavo. Come facevo a non adorarla? Ma non così tanto da andarci a vivere. Nonostante tutti i tentativi di opposizione, l'idea dei miei genitori rimaneva sempre la stessa. In America in realtà avevo i nonni e mi confortava l’idea di poter contare su di loro per qualsiasi problema o comunque per un primo approccio. La casa che avevamo comprato era molto distante dalla loro, stessa città ma quartieri completamente diversi.

Stavo in macchina, lì, per l’ultima volta per molto molto tempo, ad agitare la mano e a guardare le villette a schiera davanti la costa passar una dopo l’altra e sapevo che non avrei smesso di piangere, mentre salutavo, per quello che poteva essere un “addio”, dolorosamente la mia migliore amica, Juno.

«Sei fortunata Charlie. Puoi essere quello che vuoi, puoi presentarti con una personalità del tutto diversa senza che nessuno ti dica che tu non sia vera, perché nessuno ti conosce quanto me. Ma mi mancherai, lo sai.» E mi mostrò la sua collanina a forma di cuore, quella che le avevo regalato per il compleanno, ricordandomi che l’avrebbe portata al suo collo fino alla fine dei tempi. Questi furono gli ultimi momenti strappalacrime fra noi due, prima che potessimo coronare il momento in un affettuoso abbraccio, lasciando che qualche lacrima ci rigasse le guance.

Australiana, sedici anni. In piena adolescenza mi ritrovai a dover accettare l’idea di ricominciare tutto da capo. Ma sapevo che l'unico modo per affrontare la cosa era cercare di inserirmi al meglio nella nuova città.






Era una giornata di sole, quando scesi dal taxi che ci aveva portato dall’aeroporto di New York alla nostra nuova casa in un quartiere di Brooklyn. Quella che mi ritrovai di fronte non era come la mia vecchia casa. Non era costruita sopra uno spiazzo di sabbia, non sentivo l’odore salino del mare, che con una leggera brezza entrava fin dentro casa, non vedevo i surfisti cavalcare le prime alte onde del mattino, messi i piedi a terra non ebbi la scomodità di ritrovarmi le infradito piene di finissima sabbia. Proprio perché forse non avevo nemmeno le infradito, proprio perché forse lì non vedevo nemmeno la sabbia. Lì vedevo solo alti palazzi e case analoghe fra loro: una strada, asfalto, cespugli da decorazione, marciapiedi e quello che poteva sembrare il mare in lontananza in realtà era solo il colore del cielo - solo un po’ più intenso. Ma era comunque bella, con tutta onestà, la mia nuova casa, più grande di quella in cui avevo abitato dalla nascita, ed aveva persino un odore diverso, che non era di nuovo, era solo diverso.
 
Aperta la porta, dopo che papà ebbe inaugurando le nuove chiavi di casa di fronte a me a mamma, presi le mie valige e salii con fatica le scale per arrivare fino alla porta della mia futura camera da letto. Sapevo qual era. Papà ci aveva mostrato il progetto dell’intera casa in pianta e sapevo che a me sarebbe toccata la prima stanza di fronte le scale. Ed era come me l’aspettavo, come avevo visto su carta: c’erano due finestre che illuminavano come fosse primavera l’intera stanza, i muri erano bianchi e il pavimento era in parquet chiaro, come avevo sempre desiderato. Nella casa in Australia il parquet era bianco e non mi piaceva, poi cigolava troppo. Come mobili era spoglia, c’era solo un letto a due piazze. Mi ci buttai sopra gettando giù un urlo estenuante. Rimasi in quella posizione per molto tempo fino a quando non mi girai a pancia in su e fissai il soffitto: Bianco. Proprio bianco. Come il vuoto che ristagnava nella mia mente.

E i giorni seguenti furono proprio così, vuoti. Ci presentammo ai nostri nuovi vicini, ricevemmo quantità industriali di dessert e teglie intere di maccheroni al formaggio come buon benvenuto dal vicinato. Perché una delle cose che contava di più era “l’immagine”. L’immagine, sì insomma, come apparivi alla gente. Se il tuo giardino era secco e non curato, era una brutta immagine. Perché? Perché si proiettava in te l’immagine della trascuratezza. Stessa cosa la piscina. Era piena di foglie e non avevi voglia di cambiare il filtro, calcolando che comunque non eri capace a farlo? Bene, l’immagine della sporcizia. Uscivi fuori a prender il giornale e non ringraziavi il tizio della consegna? Bene, l’immagine della maleducazione.
 
Questo significava per mia madre l’idea dell’immagine. E io per lei dovevo avere una buona immagine. Dovevo salutare chiunque passasse di lì, pretendendo da me persino di far -ciao ciao- con la manina, anche agli sconosciuti. Dovevo pulire spesso la finestra, ma solo agli occhi dei vicini. Specialmente agli occhi dei nostri nuovi vicini. Dovevo uscire sempre con i capelli in ordine, dovevo sempre ringraziare, dovevo dare del lei e non sbagliare a dare del tu, in confidenza. Ed era necessario, sosteneva lei, tutto questo. Affinché la gente non pensasse male di noi. Ed ero ossessionata da queste buone maniere tanto da esserne letteralmente stufa. Fin dalla mia nascita abitavo in una casa in cui le regole erano importanti tanto quanto i dieci comandamenti, e per assurdo avrei potuto persino ripeterle durante la preghiera di ringraziamento ad ogni pranzo e ad ogni cena.

Qualche giorno dopo la sistemazione, o quella che lo era solo in parte, mi iscrissero alla mia, o quello che sarebbe stata, nuova scuola. La "Gilbert High School". Non sapevo nulla di quella scuola. Avevo paura, tanta. Non sapevo precisamente di cosa, ma ricordo solo che il mio stomaco, come solito in queste situazioni, si intrecciava spesso in assurde paranoie. Probabilmente credevo che sarebbe stato difficile farsi nuovi amici. Ed era vero. Era la cosa che mi terrorizzava di più, fra le tante altre.
Non avevo nessun problema con le materie, a scuola me la cavavo abbastanza, studiare infondo era uno dei miei doveri, ed ero determinata nel prendere ‘A’ quest’anno. Avevo preso ‘A’ lungo tutta la mia carriera scolastica e non stavo pianificando di rovinare i miei standard elevati quest’anno. Buona condotta e buon rendimento scolastico facevano di me la gioia dei miei genitori. Mai un brutto voto, mai un rimprovero.. Insomma mai una virgola fuori posto che potesse far parlare la gente.






Era arrivato. Un po’ in ritardo, ma era arrivato: Il primo giorno di scuola.

Si perché, fra tutte le “grazie” che mi riservava il signore, la più gratificante era proprio quella di trasferirmi durante il secondo anno di liceo e nel secondo mese di scuola. Cosa significava? Significava che sì, in qualunque mese o giorno fossi arrivata, mi sarei scrollata di dosso il titolo di “freshman” (matricola del primo anno) per acquisire quella di "sophomores" (studente del secondo anno) ma sarei stata in tutti i casi la "nuova arrivata".

«Il secondo anno. Cioè Charlie, tu farai il secondo anno!»

La mia coscienza non perdeva occasione di ripetermelo per più di una volta al giorno. E io e Juno ci eravamo preparate psicologicamente mesi e mesi prima, promettendoci che il liceo lo avremmo affrontato insieme, ci saremmo iscritte agli stessi laboratori, saremmo tornate a casa insieme… Insomma per il primo anno aveva funzionato, per il secondo un po’ meno. Ed era proprio per lei che non avevo digerito tanto bene la novità del trasferimento. Saperlo un solo mese prima poi, beh, mi aveva ucciso.

Me l’ero presa comoda per fin troppe mattine, da quando ero arrivata. Sia per il trasloco, sia per la pulizia, sia per i documenti… Ero stata impegnata in tutto, tranne che ad andare a scuola. Ma non potevo saltarla per sempre, specialmente con la media che mi ritrovavo.

Quella mattina mi accompagnò mio padre. Tutto. Avrei preferito di tutto. Arrivare a scuola con una carretta, con un cavallo, con una carrozza, con un tandem. Ma non con mio padre. Inutile raccontarlo, la cosa è molto prevedibile, ed è ovvio che un padre metta in imbarazzo la propria figlia. Ma continuavo a ripetermi che Dio non mi odiava poi così tanto, dopotutto. Almeno non conoscevo nessuno, e nessuno avrebbe potuto sparlare di me senza sapere il mio nome. Anche quando il padre in questione ti strizza le guance e ti farfuglia cose dolci che servono solo a farti innescare ansia e irritazione.

"Sono disponibili presso la segreteria della scuola la circolare e i moduli per domanda relativa alla fornitura gratuita o semi gratuita della divisa scolastica obbligatoria per tutti gli studenti. […] Inoltre ogni nuovo studente è convocato e ha il diritto di ricevere documenti e il giusto orientamento scolastico presso la segreteria o l’ufficio del preside".

Questo, e molto altro, c’era scritto nel cortissimo modulo d’iscrizione di sole dieci pagine che mio padre mi aveva consegnato prima che potessi aprire lo sportello della macchina e uscire di tutta fretta, avviandomi in direzione per farmi dare appunto una dritta su tutto ciò che era necessario che io sapessi. In parole povere, un colloquio con il preside.

Non azzardai guardare nessuno negli occhi nel tragitto macchina – direzione. Molti degli studenti erano infatti fuori a parlare, a copiarsi compiti, a fumare, a sbaciucchiarsi e quant’altro. Davanti la porta d’ingresso dovetti superare la compagnia bella di ragazzi e ragazze seduti sulle scalinate, non differente dal gruppo vicino alla fontana che si atteggiava a pari modo come importanti membri di un circolo dell’élite. Superati, a sguardo basso ma con mille occhi puntati addosso, mi avviai e arrivai senza problemi a destinazione.

Un ometto dalla bassa statura, con i segni dell’età sul viso, pelato e vestito per bene, mi trattene per più di una mezz’ora, fino al suono della prima campanella. Era il preside - di cui scordai in breve tempo il cognome. Russell? Ronalds? Rogers? Rodriguez? No, no. Ma iniziava con la R…

Mi indicò la materia che avrei dovuto conseguire alla prima ora: Storia. E fu quando aprii quella porta, con quella etichetta chiodata sopra, della classe di Storia, che sentii una forte fitta allo stomaco. Sentivo battere il cuore a mille, neanche avessi la pressione alta o avessi visto il mio idolo in mutande. Cambiare scuola, classe… Classe? Quella non era una classe. Quella era solo un’ora, era solo una materia. Non erano sempre gli stessi quindici compagni che ti portavi per chissà quanti anni, che vedevi ogni giorno, ogni ora. E soprattutto non erano quindici. Non riuscii a contarli con la vista senza usare un calcolo mentale appropriato, ma ad intuito ne calcolai una trentina. Una trentina di coetanei che avrei visto un’ora al giorno. Forse due. Avrei visto più persone nel giro di sette ore al giorno, ogni giorno.

Dio non ci capivo più nulla.

In Australia la mia scuola contava duecento studenti. Non che tutte le scuole in Australia contino duecento studenti, perché di scuole così grandi in Australia ce n'erano. Ma la mia? Nella mia, durante gli anni delle medie e anche durante il primo anno, ci conoscevamo tutti, sapevamo i nostri nomi, ci odiavamo, ci amavamo, ma non era importante. Ci conoscevamo.

Ma in una scuola in cui gli alunni erano all’incirca mille, come ci si poteva conoscere tutti? Nemmeno se avessi stretto la mano ad ognuno, e mi fossi presentata con nome e cognome, sarei stata capace il giorno dopo di ricordare tutti i loro nomi. Nemmeno nel giro di tre anni!

Notai subito che il professore non era ancora in classe. Erano ancora tutti in piedi, seduti sopra i banchi o con i libri aperti a leggerci sopra. Non potevo vedermi, ma di sicuro la mia faccia cambiò colore. Cambiò colore, quando più di due occhi mi si puntarono addosso, scrutandomi come un pezzo di pane in una tavola senza cibo. Più persone stavano fissando nello stesso momento, non feci altro che abbassare la testa e trovare il primo banco libero. Ma anche quando mi sedetti e posai lo zaino a terra, quegli stessi occhi rimasero incollati su di me. Forse si erano pure moltiplicati, nel frattempo. Ed era peggio di quando mezz’ora fa avevo attraversato l’entrata fra il mucchio di quella gente “apposto”. Tutto ciò mi metteva sottopressione e metteva sottopressione anche le mie mani, che si nascosero sotto quelle maniche lunghe della mia nuova divisa.

Ah! loro sì che potevano.

Io invece non potevo sprofondare sottoterra - come avrei voluto.

Cosa mi salvò? Quel benedetto, battezzato signore del professore di storia, che era appena entrato in classe con più di un libro in mano, chiudendosi la porta alle spalle. Tutti si scomposero, anzi, si sistemarono e si sedettero come avrebbero dovuto fin dal suono della campanella.

«Buongiorno ragazzi. Seduti per favore.»









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Capitolo 2
*** two ***


2


Charlotte Wilson

Uscii i libri dallo zaino e misi accanto ad essi "La guida dello studente" in alternativa alle dieci pagine dei moduli scolastici che ancora non avevo finito di leggere, mentre entrò un uomo alto, moro e con una camicia blu navy. Non aveva l’aria di un professore, se non avesse avuto il registro di classe tra le mani l'avrei probabilmente scambiato per lo psicologo della scuola, uno di quelli che si vedono nei film, uno di quelli giovani e sensuali. Appoggiò i suoi libri e la valigetta sopra la cattedra, senza sedersi si avvicinò alla prima fila di banchi e in poco tempo il suo fondoschiena toccò la superficie della stessa cattedra, senza permettere che gli occhi vispi delle mie coetanee lo ammirassero ancora. Nessun “Siete preparati oggi?”, nessun “Oggi interrogo, cominciate a ripassare”. Nulla di nulla. Ma qualcosa la fece, oltre a mostrarsi di buon umore davanti alla classe. Gesticolò con le mani facendoci segno di alzarci dalle sedie (anche se ci vollero dei secondi per me per capirlo) e nell’alzarmi dovetti tenermi e sistemarmi la gonna che si era alzata più del dovuto. Scrutai fra le teste davanti a me per capire il motivo del suo ordine, ma anche dopo che tutti si furono alzati io non ero ancora stata capace di capire cosa stessimo per fare. C'era da dire che non avevo poi un'ottima visuale della classe, avevo preso posto in uno degli ultimi banchi (ed era davvero strano che io ne avessi trovato uno vuoto), ma fui sicura di aver visto, dopo secondi di silenzio, lui poggiare una mano nel petto e simulare probabilmente uno schiarimento di voce. Confusa corrugai la fronte, quando lui e tutti quelli che avevo attorno cominciarono ad intonare in coro quello che sembrava un inno.

«I pledge allegiance to the flag of the United States of America and to the Republic…»

E non seppi né come iniziare né come continuare. Non avevo la più pallida idea di cosa stessero recitando, non provai nemmeno a far finta di sillabare - davvero un'incapace. In uno stato di disagio mi bagnai le labbra, me le morsi e persino una mano cominciò a scorticare il braccio opposto. Alcuni se ne accorsero, propriamente quelli accanto a me e la fila appena davanti. Guardavano e si giravano in alternanza sorridendo. Stupidi! E io che stavo perdendo pelle per la vergogna. Abbassai lo sguardo, e solo quando prestai attenzione al mio banco vidi una mano estranea picchiettare sulla superficie in legno. Era una mano femminile, ben curata. Le unghie dipinte e lucide, con dello smalto celeste, ma per la maggior parte mangiate. L’attenzione che avevo prestato alle unghie divenne futile, quando le sue dita rovistarono quello che sembrava "La guida dello studente". Fu rapida nei movimenti, e arrivata alla pagina desiderata picchiettò un’altra volta il banco. Alzai lo sguardo. Aveva i capelli castani, dei boccoli le scendevano lungo la schiena. Mi guardava irritata, non perché fossi stata così stupida nel non dire nemmeno una parola, forse proprio perché non stavo recependo all’istante il suo suggerimento: leggere. Mi si illuminò la mente, quando seguii le ultime parole degli altri ragazzi.

«…for which it stands, one nation, indivisible, with liberty and justice for all.»

“The Pledge of Allegiance” lessi. Sapevo cos’era ma non l’avevo mai recitato, un giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d'America, che forse avrei fatto meglio a memorizzare la sera prima. Nonostante tutto attirai comunque l’attenzione dei miei coetaneii, e non solo, anche quella del professore, che finendo di recitare l’inno mi guardò sorridendo, indicandomi prendendo il registro fra le mani. «L’ultima arrivata, Charlotte Wilson. Australiana vero?»

«S-si» Sibilai, mentre tutta quell’attenzione mi stava mangiando viva. Odiavo essere fissata. Odiavo l’attenzione. L’avevo sempre odiata, fin da piccola, fin dal primo giorno di elementari, quando Tesy McDonalds disse a tutti che io, Charlotte Wilson, avevo i pidocchi. Ovviamente non era vero, ma tutti ci credettero e passai l’anno intero a star da sola, in crisi di pianti e attacchi isterici.

Non successe questo, stavolta. Non avevo i capelli legati in una coda, ma erano così chiari che niente poteva nascondersi in mezzo a quella lunga chioma bionda che non potesse visivamente vedersi, non ricevetti nemmeno altre lusinghe, dopotutto aveva una lezione da affrontare, e non era poi neanche così leggera. Storia non era mai stata di certo una delle mie materie preferite, ma comunque così sopportabile da passare in fretta.

Al suono della campanella per il cambio d'ora seppi che avevo giusto dieci minuti di tempo, per rassettare i libri e inaugare quello che sarebbe stato il mio nuovo armadietto, ma ne erano già passati quattro, non avevo completamente idea di dove si trovasse il mio armadietto. A me toccava il ‘536, piano ‘2. Ruminavo tra i fogli dei moduli per trovare una qualche cartina che mi potesse aiutare, e solo quando ne trovai una sobbalzai in aria, nel sentirmi poggiare una mano nella spalla e vedere un corpo famigliare passarmi accanto.

«Ahi Ahi, Charlotte, stiamo cominciando con il piede sbagliato!» Un'altra volta la stessa ragazza. La ragazza mora con i ricci. Era una ragazza carina. Di solito le ragazze carine non parlano con le nuove arrivate no? Specialmente se quella nuova arrivata non è ancora stata capace di individualizzare il proprio armadietto. «Prima lo zaino, poi la gonna troppo corta e infine il The Pledge of Allegiance»

«Cosa vuoi dire, scusa?» Cercai di chiederle, con il tono più tenero che potessi usare.

«Mai giocare con il fuoco, Charlie.»

Dopotutto non potevo aver idea di chi fosse quella ragazza, né di come si chiamasse, né in quale "gruppo sociale" appartenesse. Una cheerleader, una di quelle studentesse con i voti più alti, una paladina della moda… Cercai solo di non essere scontrosa, ecco. Ma lei continuò a camminare, a superarmi con passo veloce. «Ehh. Se riesci a trovare il tuo armadietto, te lo spiegherò alla seconda ora!» E mi mostrò un sorriso mille denti, uno di quelli belli, che indossati da tipe come lei fanno venire i brividi, e abbassare notevolmente l’autostima: da cinque su dieci a meno zero su dieci. L’avermi lasciata interdetta non avrebbe impedito comunque l’imperterrita ricerca dell’armadietto. Mancavano tre minuti per la lezione della seconda ora. Bene, benissimo. E io non l’avevo ancora trovato. Non ero nemmeno stata capace di applicarmi nell’uso della cartina, perché troppo sottopressione per studiarci sopra.

Avete presente quei turisti con i sandali, i calzini, lo zaino da campeggio sulle spalle, cartina del luogo in mano e occhi folgorati per il disorientamento? Ecco, precisa descrizione di me in quel momento. Non avevo i sandali con i calzini, non avevo lo zaino da campeggio… Ma ero nella confusione più totale. Mi grattai con le dita una tempia, con una spalla reggevo lo zaino e con l’altra mano afferravo saldamente quella benedettissima cartina. Passò poco, che intuii che quel giorno la mia spalla destra doveva sicuramente essere così maledettamente sexy, per la seconda volta sentii la presenza di una mano afferrarmela. Era un tocco più pesante e azzardato, era una vera e propria presa. Quello di prima, della ragazza castana, era solo stato un picchiettio volatile, in confronto. Mi limitai a sobbalzare quando la stessa persona che mi aveva afferrato la spalla mi si era avvicinata di fianco, abbassando lo sguardo verso la cartina che tenevo in mano. Non era una ragazza. E l’avrei potuto capire fin dall’inizio quando il suo braccio muscoloso mi aveva avvolto la nuca e le spalle. Ero sconvolta dall’improvvisa confidenza, alzai lo sguardo per scrutarlo senza però riuscire a vederlo con chiarezza. Aveva i capelli scuri, più corti nei laterali e più lunghi sopra. Non erano estremamente corti, ma nemmeno estremamente lunghi. Un taglio particolare, ma nemmeno troppo originale. Un taglio morbido, ciuffetto arruffato portato su ma naturalmente, senza uso di gel o cere varie. Non erano nè ricci nè troppo lisci. Non era un taglio all’antica, ma nemmeno un taglio troppo alla moda. Era difficile da capire, visto da un’angolazione così scomoda, ma ero stata così concentrata nei suoi capelli che nel frattempo non mi ero accorta che con la stessa mano che mi aveva afferrato la spalla, reggeva con l’indice e il medio un mozzicone di sigaretta ancora acceso. Stava lentamente scrollando la cenere in eccesso, picchiettando la parte inferiore con il pollice. Proprio accanto alla mia spalla, al mio braccio. L’ossessiva maniacalità di mamma sull’uso scorretto del fumo e della cenere mi stava divorando.

«Armadietto ‘536.» Affermò curiosando sul foglio e violando crudamente la così detta “privacy”. Abbassò poi rapidamente il tono di voce, cominciando a fare un calcolo veloce, applicandosi. «Cinque più tre più sei... uguale quattordici.» E poi sbuffò sorridendo. Potevo giurare di avere le parole da dire sulla punta della lingua, ero davvero pronta a dire qualcosa, qualsiasi cosa. Ma non mi uscii nulla, e per di più il mio viso non aveva arrestato quella stupidissima espressione da cretina. Dopo poco per fortuna allontanò se stesso e la sua lercia sigaretta da me e dal mio naso. L’odore classico di tabacco mi faceva rivoltare lo stomaco.

«Lucas! Quattordici, pari! È tutta tua!» Urlò frettolosamente, con la briga di andarsene e di proseguire il suo percorso, mentre si voltava per richiamare un ragazzo biondo che distava da noi pochi metri.

«Dai smettila!» Rispose con lo stesso tono e con un mezzo sorriso sulle labbra, come da non prendere sul serio. Pari? Della sigaretta si era per caso aspirato su per il naso tutto il filtro?

«Che cosa!?» Reclamai interdetta ed irritata.

«Sono dannatamente attratto dai numeri dispari. Mi spiace!» Il ragazzo dai capelli scuri racchiuse tutta la sua espressione in un ghigno, per poi voltarsi e salutare con un cenno il ragazzo dietro. Non mi aveva nemmeno guardata in viso. Non che io lo avessi fatto, perché un possibile contatto visivo avrebbe azzerato tutte le mie possibilità di autodifesa.

Ma cos’è questa? La sfiga della “nuova arrivata”? Tutti i tizi che non conosci ti sputano cose addosso? A stordirmi, più di quanto già non lo fossi, fu lo stritolio acuto della campanella. Frustrata con me stessa e costretta a raggiungere la classe di Biologia con ancora lo zaino sulle spalle, fui prima fermata nuovamente. «Scusalo, davvero.» Riconobbi il tizio biondo che aveva completato il triangolo della situazione.

Non prestai molta attenzione a ciò che disse, perché nel momento in cui lo guardai mi cedettero le gambe. Era alto, abbronzato e muscoloso. Aveva questi capelli color miele, e dei favolosi occhi color nocciola. Abercrombie aveva firmato un contratto con la Gilbert High School? Non era uno dei ragazzi più belli che avessi mai visto, ma non gli avrei di certo sputato addosso, fermo restando che il contatto visivo era micidiale. Almeno lo era per me, ed era tipico mio in queste situazioni far altro pur di rispondere sanamente o formulare una frase concreta. Posai i fogli dentro lo zaino e afferrai velocemente il mio cellulare, guardandoci l’orario. «Devo andare in classe, è già suonata!» Senza staccare gli occhi da sopra lo schermo del mio cellulare cominciai a prendere qualche passo.

«Hai problemi con l’armadietto?» Insistette seguendomi.

«No.» Risposi senza perder tempo, con l’unico intento di non svelare la “me” incapace.

«Il ‘536 è in fondo al corridoio.» Aggiunse, senza togliermi gli occhi di dosso.

Mi voltai verso il fondo corridoio, pensando a quanto fossi stata sbadata a non averci fatto caso prima. «Sì, lo so.» Rivelai falsamente. Volevo soltanto andare in aula, e scuocermi le guance rosse che mi stavano avvampando. Aumentai il passo, riposando il cellulare nello zaino, tanto non avevo più tempo per posarlo lo zaino. Ma lui stavolta non mi seguì. E fu davvero strano, perché sentii il bisogno di girarmi. Lo feci, infatti. Mi fermai, e ancora rossa in viso, portai dietro l’orecchio una ciocca di capelli. «Scusa. Arrossisco sempre per qualsiasi motivo, non è che abbia voglia di evitare le persone...» L’avevo detto davvero? Richiamai il signore, scongiurandolo di dirmi se la frase appena detta l’avesse sentita solo lui e nessun altro al di fuori, o se l’avessi detto ad alta voce. «Insomma, non ti conosco neanche.» Aggiunsi a distanza di pochi secondi, sorridendo per l’imbarazzo. Mi aspettavo una sua qualche reazione, una sua qualche risposta. Anche se crudele, anche se umiliante. Ma nulla. Ricevetti solo un’occhiata inespressiva, priva di senso.

Scoppiò a ridere. «No, tranquilla. Scusa me. In realtà il tuo armadietto è dall’altra parte dell’edificio.» Non mi ci volle molto a realizzare che l’aveva fatto apposta, che ero stata una stupida ad averci creduto e ad aver tentato di imbrogliare. Non potevo aspettarmi che anche per una sola volta mi riuscisse bene, mentire, ovviamente. Troppo ben educata.

«Mi stai dicendo che… Lo hai fatto apposta?» Domandai retoricamente. Diamine, che cretina.

«Sì. Ero sicurissimo che non l’avessi trovato.» E smise di ridere, lasciando fra le labbra un dolce sorriso. Un dolce sorriso che mi contagiò e mi fece ridere. Così senza senso. Perfetto sconosciuto. Risi mentre lui mi fissava ancora. «Che materia hai ora?»

«Biologia, credo»

«Perfetto. Il signor Morelli di Biologia entra sempre in ritardo, te lo garantisco. Fatti accompagnare all’armadietto per posare lo zaino.» Ma cosa avevano tutti contro lo zaino? Era pratico da portare in aula. Ci mettevo dentro tutti i libri. Prima la ragazza castana, poi lui. Nel giro di pochi secondi si era presa una confidenza tale da propormi di accompagnarmi a quella destinazione che, poco prima da sola, non ero riuscita a raggiungere.

In Australia non mi era mai successo. Di solito i tipi così neanche mi si filavano, un sorriso e passava tutto quanto. «Tu? Mi accompagneresti tu?» Azzardai.

«Sì. Ho già fatto colazione, non ti mangio.» Chiamarsi sarcasmo. Battuta già detta, già sentita. Ma non potetti fare a meno di mostrargli almeno un sorriso per lo sforzo.

«Non sarà mica qualcosa sui numeri pari?» Schernii, senza averne capito ancora il significato.

«No l’ho già detto, scusalo è un coglione.» E ricominciò a ridere. Solo che io non stavo ridendo. Gli avevo chiesto esplicitamente di approfondire la questione, non di dirmi quanto fosse coglione o meno il suo amico- se sempre lo era. Cominciò a camminare e io lo seguì, cercando di non stargli ne troppo dietro, ne troppo avanti. Ma nemmeno troppo vicina. Ero un po’ incasinata con le scarpe. La divisa richiedeva questi tacchetti innocentemente rivoltanti. Ma almeno riuscii a seguirlo per tutto il tragitto senza prendere storte o inciampare qua e la. Era la prima volta che mi capitava, ad essere scortata intendo. E se poi venivo scortata da un tizio come lui, beh tanto meglio. La divisa che indossava non era uguale a quella degli altri ragazzi, che vedevo passarmi accanto con una faccia demolita da prima mattina. Prima di tutto i pantaloni erano più scuri, le scarpe pulitissime, quanto il giaccone che indossava. Aveva un numero, tredici. Posto sulla schiena, con il cognome appena un po' più sopra. Era rossa, rossa e bianca. E fu palese da capire: era un giocatore, era uno sportivo. E se il corpo non mi aveva ancora suggerito nulla, fu una toppa a destra della giacca, una toppa a forma di palla marroncina a suggerirmi che sì, faceva parte della squadra di rugby della scuola.

“Chissà quanti anni ha” mi domandai. «Oh cielo Charlie, smettila. Va al tuo armadietto e chiudila qui. Non fantasticare.»

Potetti confermare che il mio armadietto era davvero dall’altra parte dell’edificio. Era di un color rosso lucido, come tutti gli altri del resto. Senza l’aiuto del biondo non sarei stata capace di trovarlo entro la giornata. «E’ questo qui.»

Freddamente mi avvicinai all’armadietto. «Vedo, grazie.»

«Mm… Sai la combinazione?» Domandò, mentre si mise una mano dietro la nuca.

«Sì» Invitandolo con lo sguardo a non guardare, perché la stavo per l’appunto inserendo.

«Sì, scusa! Allora io.. io vado.»

«Ok.» Mi stavo comportando d'un tratto in maniera fredda, e ne ero cosciente. Ma ero troppo stressata per badare 'all’immagine'.

«Ciao!?» Reclamò, successivamente.

«Sì, ciao!» E arrossii distrattamente. Non volevo nemmeno essere maleducata, ma non avevo mai preso un ritardo e non l’avrei di certo preso ora, il primo giorno di scuola. Indipendentemente da quanto lui fosse carino. Mi fece un cenno e poi seguirono giusto alcuni suoi passi, la mano dalla nuca passò ai capelli. Se li stava decisamente stressando. Mentre provavo ad aprire l’armadietto, l’osservavo andarsene. Poi si girò di scatto, e io fui costretta a fare lo stesso, ma verso l’armadietto, senza che pensasse che fino a  secondi prima lo stavo fissando.

«Ah. Comunque piacere, Lucas. Lucas Sanders!» Si riavvicinò a me, porgendomi la mano.

Ah! Beccato! Era un trucchetto già visto e me lo aveva insegnato Juno. Secondo le sue perle di saggezza, o almeno, secondo le perle di saggezza di un articolo del giornale di gossip Seventeen, lui voleva solo sapere il mio nome, e siccome questa faccenda dei numeri pari-dispari non mi convinceva. «Piacere, piacere Lucas Sanders.» Risposi. Fu proprio in quel momento che con l’altra mano riuscii ad aprire l’anta dell’armadietto. Ci misi dentro lo zaino, lasciando l’occorrente per Biologia nella mano libera. Richiusi l’anta, ingoiai la saliva che mi si era formata dal nervoso e mi inumidii le labbra, aggiungendo di gusto un sorriso prima di sorpassarlo, mentre mi tenevo i suoi occhi interdetti posati addosso.

«Tutta questa audacia Charlie?»






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Capitolo 3
*** three ***


3


Charlotte Wilson

 
Seguirono le ore successive: Biologia e Letteratura inglese. Non mi capitò nuovamente di essere scortata fino all’armadietto, anche se al suono della seconda campanella ammetto di aver perso ben sei minuti per ritrovarlo. Oltre all’armadietto anche il senso dell’orientamento. Se quella scuola era così grande, che potevo farci? Troppe aule, troppi corridoi, troppi spiazzi, troppi cortili.

Ma avevo una nuova tappa: La mensa.

Avevo già visto parecchi film, in cui la nuova arrivata o il nuovo arrivato finisce sempre e comunque per mangiare solo fra i tavoli più scomodi e più sporchi della sala. Mentre tutti li guardano, e cominciano a parlucchiare sul loro nome e sul loro stato. Parlano dei loro capelli, del loro fisico, della loro precedente località, se gli è morto il pesce, se hanno un fratello, uno zio… Parlano di tutto. Ma forse era meglio metter da parte il mio bagaglio di esperienze cinematografiche per concentrarmi più su come poter superare questo ostacolo.

«E’ il primo giorno, solo il primo giorno. Questo finirà. Se sempre non rimarrai sola per tutto il resto dell’anno.»

Lei si che era confortevole, grazie coscienza.
 
Avevo molta fame, davvero molta. Ed era strano, perché mi sentivo particolarmente agitata. Avevo un panino con la cotoletta che mi aveva preparato mamma, pronto e ancora profumato in una sacchetto da asporto marroncino. Ma in realtà detestavo la cotoletta. Specialmente come la cucinava lei. Papà cucinava meglio, anche se sapeva fare solo il chili e le bruschette. Mamma invece sapeva fare molte pietanze, comprava sempre libri e enciclopedie di cucina, ma era davvero pessima a lavorarci. Diciamo che il cibo non era il suo forte. Lo trattata probabilmente, come vedeva trattare i corpi durante un parto, durante un operazione o durante un trapianto. Lei era un’infermiera, papà invece un direttore di un piccola azienda. Ed era proprio per questo che lui non aveva mai molto tempo per cucinare, o per andare contro mamma. A casa ci stava davvero poco, e quando tornava la sera era sempre molto stanco. Non mi hanno mai fatto mancare nulla, per la verità, ma la mia vecchia casa era sempre vuota. E io stavo sempre da Juno quindi non ci facevo molto caso, non sentivo molto la loro assenza. Perché anche io ero assente. Però a colazione, a pranzo e a cena, non c’era lavoro o amici che tenevano o che ci separavano. Quelle occasioni erano come il nostro momento di ricongiunzione, anche se parlavamo di gente morta, di malattie incurabili o di documenti e operai intrattabili. Mi andava bene anche così. Qui sarebbe successo lo stesso, con la differenza che non c'era nessuna Juno, nessun'altra amica da cui andare. Ma una ragazza così piccola in una casa così grande e così vuota, può mai contare qualcuno, qualcosa? Poi mamma era molto protettiva, e anche un po’ severa. La prima volta che dormii da Juno fu all’età di otto anni, quando nonno Jake si ruppe la caviglia e nonna stava già in ospedale per problemi di cuore e così mamma era stata costretta a cedere e permettermi di dormire dalla mia migliore amica, perché troppo impegnata a medicarli per tenermi d'occhio. I genitori di mia madre intendo, non quelli di mio padre. Nonna Karin e nonno Reece, invece, erano molto informa e mantenevano molto bene la loro età. Sapevo che saremmo andati a visitarli a breve, non avevo mai visto la loro casa qui in America.
 
Riuscii a tornare alla realtà, solo quando ricevetti uno spintone da una tizia alta e bruna, seguita da altre due dietro più basse. Non disse nulla, ma fu molto scortese. Dopotutto ero io che mi ero trapiantata davanti alla porta d’ingresso della mensa, e non potevo di certo lamentarmi. Stetti zitta e proseguii verso l’interno della sala. Avevo lasciato il sacchetto con la cotoletta dentro l’armadietto, l’avrei buttata poi nel cestino più vicino.

«Charlie ricorda, non si getta il cibo.» Potevo sentire la voce di mia madre irrompere nella mente. Ma l’avevo sempre fatto dal tempo delle elementari, me lo aveva insegnato proprio Juno, che faceva così quando capitava che sua madre le preparava i broccoli per cena. Lei lo dava di nascosto al cane, io non potevo perché non l’avevo mai avuto. Così compievo questo peccato da sempre, che era ormai diventato un’abitudine. Ah, se lo scoprisse mamma - Però a quest’età era veramente umiliante portare il cibo da casa.

Mi avvicinai ai banconi più vicini contenenti tutto lo svariato cibo e afferrai uno dei vassoi neri che si trovava in catasta uno sopra l’altro. Non c’era molto da scegliere, e quel che c’era non aveva un aspetto invitante. Forse era meglio la cotoletta di mamma.

Applicai lo stesso criterio del “ Mai giudicare un libro dalla copertina” sul cibo e presi ciò che mi ispirava di più. La tizia con la retina aveva un bel viso dolce. Anche un grande neo a fondo mascella, anche peloso. Non mi ci soffermai molto - dato che volevo evitare di vomitare prima di mangiare. Mi voltai, stando attenta a non versare il cibo e prestando attenzione al giusto equilibrio che davo alle mie braccia per sostenere il vassoio, cercai con lo sguardo un posto o almeno un tavolo vuoto. Ma nulla di nulla. Non c’era un posto che potessi vedere e che potessi occupare.

«Mangerai in piedi.»

Ma durante la mia fantastica ricerca di circa cinque minuti, adocchiai con un breve sguardo poco acuto, la ragazza mora di due ore prima. Era lei, i suoi capelli erano inconfondibili. D’altronde,  non avevo avuto modo di vederla durante le due ore di lezioni, perché molto probabilmente le materie avute non corrispondevano, oppure le aveva saltate.  Non sapevo nulla di lei, nemmeno il nome. Il prof non aveva fatto l’elenco e non l’aveva nemmeno chiamata. Se ne era stata tutto il tempo a sonnecchiare sopra il banco, come un peso morto. Doveva essere di sicuro una cheerleader, me lo sentivo. D’altronde sono tutte così. Si interessano solo allo smalto, ai salti ,alle spaccate, alle piroette e hanno iniettato nella mente una buona dose di: “cosa c’è stasera in TV?”.

Non mi stupirei se lei non mi rivolgesse più la parola. Ma mi ero quasi bloccata, e solo dopo molti secondi mi accorsi che la stavo fissando. Per fortuna non se ne accorse. Da lontano sembrava parecchio nervosa e arrabbiata. Parlava con un ragazzo, un ragazzo più alto e più robusto di lei. L’avrei scambiato per Lucas, ma se non fosse per la giacca rossa, tutto il resto era diverso. Aveva i capelli scuri, un profilo differente, un pelle un po’ più chiara e un portamento decisamente diverso. Non che sapevvi molto di quel Sanders, ma fisicamente mi era davvero rimasto impresso. Quello lì invece, doveva essere il suo ragazzo. E forse stavano litigando, anche se sembrava lui non curarsene molto, o almeno non tanto quanto lei. Lui sorrideva, lui era abbastanza tranquillo. Lei a confronto sembrava una sguaiata, e gesticolava molto.

L’inconfondibile gruppo di cheerleaders stava attorno al grande gruppo dei ragazzi in giacca rossa, e anche loro, avevano quella solita divisa riservata. Era rossa, anche la loro, sì. Ma era molto più corta e molto più scoperta. Che avessero avuto un problema con la lavatrice e con il lavaggio a secco? Si erano ristrette tutte le divise contemporaneamente? La ragazza mora aveva la mia stessa divisa, non quella rossa. Non che questo mi aveva fatto pensare tutto ad un tratto che lei non fosse una cheerleader. Piuttosto pensai che l’avessero sbattuta fuori, e che lei si stesse lamentando. Probabile. Ma molto più probabilmente l’avrei scoperto a breve, perché potevo vederla venire verso me. Verso me?

In realtà spalleggiavo il bancone del cibo, quindi sicuramente il cibo era la sua destinazione. Non ne fui tanto sicura però, quando si fermò proprio davanti a me e cominciò a fissarmi. Cosa voleva? Cosa voleva dirmi?

«Che dici, ti sposti? Avrei fame.»

«Oh, scusa!» Mi spostai così velocemente che non mi seppi spiegare come nessuna briciola di cibo si fosse riversata a terra, con la non curanza che avevo prestato al vassoio. Lei era molto seria, abbassai lo sguardo e cercai di allontanarmi, forse non mi aveva riconosciuto. Meglio.

Si avvicinò al bancone. «Diamine, stavo scherzando!» Si voltò, mentre potevo vedere in lei un viso divertito. Perché la gente si divertiva così tanto quel giorno con me? «Si vede che sei nuova qui.» Continuò a ridere mentre allungando un braccio afferrava uno dei miei. Mi avvicinò a se e raggiunse con un sussurro il mio orecchio destro. «Io non berrei il latte, la scorsa settimana Freddie ci ha trovato dentro un pezzo di formaggio. Anche abbastanza stagionato.» E guardò il cartoncino di latte a sinistra del mio vassoio, con una faccia disgustata. Non potei non sconcertarmi e di certo non l’avrei bevuto. Scivolai il vassoio in una sola mano e con l’altra cercai di afferrare il cartoncino. Ma il tempo di dosare il peso, che non vidi più il cartoncino nel vassoio. Che fosse caduto? «Scherzavo, è così buono invece. Ed era anche l’ultimo» Per l’ennesima volta sentii la sua risata raggiungermi le orecchie, e non solo, risentii per altro lo stesso sgomento di presa in giro nell’arco di sole tre ore. Aprì facilmente il cartoncino e poggiò le labbra per poterci bere. Dissi addio al mio latte, per quel giorno.

Che avrei dovuto dire? Rimasi a fissarla a bocca aperta per circa cinque secondi, senza sapere come reagire. «Avanti. Non fare quella faccia. Sei una preda facile, fammici divertire un po’.» Mosse le mani con una certa nonchalance, portandosi ancora alle labbra il cartoncino del mio latte.

Sottolineo il mio latte.

«Era il mio latte.» Inarcai un sopracciglio, per farle capire l’irritazione che mi stava provocando.

«Dai, domani ne prendo due, e uno lo do a te»

«No, grazie.» Buttavo via la cotoletta di mamma, ma il latte... Il mio latte nessuno doveva toccarlo, diamine. Posai il vassoio nel bacone vicino, e mi riavvicinai a lei cercando di afferrarle il cartoncino dalla mano.

Lei l’allungò, in modo che non potessi arrivarci. «Ormai è mio!»

«Ma che dici!? Ridammelo!» Cercai di difendermi, mi misi persino in punta di piedi.

«C’è tanto di bava ormai dentro il cartoncino, l’ho infettato. Ed è di mia proprietà»

«Non importa, ho sete!» Non avevo voglia di mollare, anche se stavo provando un particolare disagio. Capivo la sfiga della nuova arrivata, la possibilità che lei fosse importante tanto quanto un trofeo del primo posto in una gara di mille partecipanti, ma questo era troppo.

«Ehii ragazze, calme. Questo lo prendo io.» Intervenne una terza voce. Una ragazza dai capelli castani, lisci , e da una presa debole,  riuscì in realtà ad afferrarle il cartoncino di mano. «Oh ragazza, dovresti evitare Emily Henderson durante l’ora di pranzo. E’ peggio di un tritarifiuti» Si rivolse a me, mentre gettava il mio latte nel cestino accanto. Si sfregò le mani soddisfatta e ci mostrò un sorriso vincitore.

«Ross! Il latte! Dio mio, il latte!» Si disperò la boccolosa.

«Smettila di lamentarti come una piccina a cui le è stato rubato il ciuccio, sai non ci fai una bella figura!» Fu così che "Ross" intervenne nel bel mezzo del round fra me e la boccolosa. Mi indicò, facendomi quasi sentire un elemento da rispettare. La ragazza con i boccoli invece cominciò a fare il muso e a guardare il cestino. Diamine, ci ero rimasta male anch'io. Mi era costato ben un dollaro e novantanove. Sarei rimasta dissetata per tutto il resto della giornata. L’acqua non mi piaceva.

Ad un tratto, come un ondata di caldo, arrivarono sul posto una carreggiata di ragazzi. I ragazzi dalla giacca rossa. I ragazzi della squadra di rugby. E lui era fra loro, Lucas. Presumibilmente se li era portati appresso la ragazza che piangeva dentro di se ancora per il cartoncino di latte. Ma poi li vidi uno ad uno svuotare il vassoio, o lasciarlo lì, al destino del prossimo nel bacone, quindi indipendentemente lì indipendentemente dalla sua presenza.

«Usi i soldi per comprarti quelle cazzo di espressioni? Spendili meglio se hai ancora fame.»

Mi allarmai e mi voltai, convinta che quelle parole erano rivolte a me.Sentii un nodo alla pancia, e raggruppai le dita della mano destra in un pugnetto. E se lo avesse detto Lucas? Era del tutto plausibile. Non gli avevo detto il nome, e ora lui si stava vendicando facendomi imbarazzare davanti a tutta la sua squadra. Ma il timbro di voce era diverso. Sempre maschile sì, per carità, ma era non so… Forse più sciolto. Era più sicuro, più roco. E poi Lucas non si era fermato, era già davanti la porta di ingresso con il cellulare in mano.

Mi guardai così intorno vedendo avvicinare alla mia avversaria lo stesso tizio con cui l’avevo vista minuti prima discutere aggressivamente a metri di distanza, che ora la stava punzecchiando mentre posava il vassoio vicino lei. «Sta un po' zitto.» Grugnì. Quel suo broncio si trasformò in una linea così rigida così quanto seria. Mi ritrovai a credere che fosse più essenziale scoprire la faccia del ragazzo piuttosto che riprendere il mio vassoio e andare a cercare alla svelta un posto libero per consumare il mio pranzo, prima della fine dell’ora.

Forse era diventata una fissazione, guardare i capelli intendo. Per quanti analisi potessi fargli, per quanto tempo avrei potuto perderci, mai potetti realizzare così istantaneamente che era lo stesso taglio che avevo visto forse durante la mattinata.

“Aveva i capelli scuri, più corti nei laterali e più lunghi sopra. Non erano estremamente corti, ma nemmeno estremamente lunghi. Un taglio particolare, ma nemmeno troppo originale. Un taglio morbido, ciuffetto arruffato portato su ma naturalmente, senza uso di gel o cere varie. Si capiva. Non erano ne ricci ne troppo lisci. Non era un taglio all’antica, ma nemmeno un taglio troppo alla moda. Era difficile da capire, visto da un’angolazione così scomoda.”
 
Sì. Era proprio lo stesso. Anche il profilo, anche le mani. Era proprio lui. Solo quando raggiunsi il suo volto,  capii bene i lineamenti del suo viso, e riconobbi la voce roca. Un bel ragazzo, su questo non c’erano dubbi. Non aveva le labbra carnose, ne tanto meno una paio di occhi grandi. Ma erano azzurri. Precisamente blu, blu intenso. Che non capivo se erano il loro colore naturale o semplicemente erano ciò che io volevo che fossero. E poi risaltavano. Ne ho visti tanti di occhi azzurri, ma i suoi erano evidenti. Ti accecavano la vista. E se non ne uscivi cecato con qualche grado in meno, comunque non ne risultavi vincitore, perché tanto poi ti entravano e stavano lì fermi  in mente. Come un'immagine in trasparenza.

Se prima era solo una supposizione, ora ne ero davvero sicura. La ragazza con i boccoli era una cheerleader e lui era il suo ragazzo. Perché andava sempre così. Ai belli toccano belli. Ai brutti toccano i brutti. E alle disgraziate come me? Alle nuove arrivate? Alle nuove arrivate chi tocca?

Scossi la testa e ricordai l’odore nauseante del tabacco che aveva raggiunto e impregnato il mio naso ore prima, con quella sigaretta a pochi centimetri di distanza dal mio corpo. E per giunta arrivata a casa avrei dovuto immergermi in una doccia fredda, per pulire dai miei capelli i residui di un odore indesiderato, specialmente indesiderato da mia madre. Se pochi secondi fa i suoi occhi mi avevano scosso, ora le sue labbra e le sue mani, non mi avevano suggerito nulla. Se non senso di ribrezzo.

Eppure non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. E lui lo notò. Fu proprio questo il problema, fondamentalmente. Io che lo stavo disturbando con lo sguardo. E lui avrebbe reagito, in modo o nell’altro. Aggrottò le sopracciglia, e cominciò a fissarmi. Era pericoloso, perché quel suo sguardo non mi trasmetteva tutta quella tranquillità che mi ero illusa trasmettesse minuti prima, mentre parlava con la ragazza accanto. Era pericoloso perché sentii il bisogno di fare un respiro grosso,  inghiottire la mia stessa saliva, e inumidire le labbra.

Si avvicinò a me. Mantenni uno sguardo ferreo e non riprovai a tuffare il mio nel suo. Afferrò una ciocca dei miei capelli e precipitai subito in uno stato di trance. «Mm.. da lontano sembravano quasi veri.» Nel giro di pochi secondi lo sentì sorridere, poi ridere, per passarmi dietro con il gruppo di ragazzi e scomparire al di là dell’entrata della mensa.






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Capitolo 4
*** four ***


4
 

Charlotte Wilson

«Mm… Da lontano sembravano quasi veri»
 
“Anche da vicino, credimi! Lo sono diamine, lo sono! Sono bionda, bionda naturale, come mamma mi ha fatto, come la biologia e il suo codice genetico affermano che io sia nata. Pura come l’acqua, come unghie senza smalto, come una finestra senza tenda, come un pavimento senza polvere.” Ma le parole mi rimasero in gola. Quella donna non mi permetteva nemmeno di metterli sotto piastra, sotto diffusore, si allarmava quando superavo il limite stabilito di centimetri della distanza del fono dai capelli. Tingerli? Ma figuriamoci. Il suo tesoro non poteva permettersi di stressare i capelli. Avrebbe dovuto capire che l’unica che stressava era lei.
 
Cominciai a fissarmi i capelli, facendomi trascinare da strane paranoie. Davvero erano così biondi da non sembrare naturali? Non che mi importasse sapere che potessero sembrare tinti, ma il tono e l’ironia usata mi stava ancora mangiando quella serenità da primo giorno.

C’è un primo giorno per tutto, d’altronde. Primo giorno di scuola. Primo giorno di danza. Primo giorno di sbronza. Primo giorno di mare. Ma in nessun primo giorno di solito c’è serenità - quindi era normale. O almeno, provai a convincermi. E sembrava infatti che per scherzo della natura tutto andasse liscio, come quando un biondo mi aveva scortato fino all’armadietto.
 
«Tu e il tuo ragazzo dovreste rivedere i parametri della buona accoglienza» Accusai con tono stroncato alla ragazza che sembrava sciupa di zuccheri. Ma non fisicamente, piuttosto sanamente. Non che fosse grassa, aveva un bel corpo invece. Ma se di grasso avesse avuto il buon senso e la buona educazione sarebbe riuscita sicuramente meglio come persona.

«Il mio ragazzo?» Replicò.

«Non pretendo di avere la tua amicizia, soprattutto se è il mio primo giorno. Ma smettila di tormentarmi.» Riuscii davvero a dirle questo e contemporaneamente guardare dritto verso i suoi occhi. Sapevo di essermi giocata l’intero anno a sputare cose del genere a una ragazza probabilmente così importante. Ma al diavolo. Non sarei stata la mira di nessuno. Presi il mio vassoio pieno ancora di buona roba da consumare e che avevo abbandonato nel bancone e senza osare più dire altro, mi avventai ad uscire fuori da quella discussione per cercare un posto libero, prima del suono della campanella.
 
«Ma che le hai fatto?» Si rivolse una all'altra, rimasta scossa dalla strana reazione, ma Emily fece spallucce senza riuscire a trovare una risposta adatta da dare all’amica.

«Sarà il latte.» Decise di spiegarsi.






Abbastanza interessante come primo giorno. Non sapevo di avere delle palle anche se non mi vantavo nemmeno di averle sapute uscire. La zip l’avevo tirata giù, il resto sarebbe venuto con il tempo. Avevo appena superato le mie prime sette ore di scuola. Non ero molto stanca, se non fosse per i chili persi, forse, scorrazzando di qua e di là per il famoso, ormai, armadietto perduto.

Ero già al secondo piano, avevo già preso il mio zaino e stavo già raggiungendo le scale per precipitarmi al primo piano verso l’uscita, per poi prendere l’autobus. Percorrendo l’ultimo corridoio per raggiungere le scale, ecco che notai quel che forse non avrei mai dovuto vedere. A causa della lontananza non riuscii a scorgere con precisione chi fosse, ma capii bene cos’è che stessero facendo.

La lontananza si accorciava sempre più, perché io avrei comunque dovuto raggiungere le scale, nonostante la mia coscienza mi stette suggerendo di star ferma, nascondermi e arrestare il passo. Ma come avrei potuto se nel bel mezzo degli scalini, in un angolo poco remoto, una coppia si stava amorevolmente scambiando effusioni, più che d’amore, di necessità fisiologica? E per di più come avrei potuto, sapendo che fra i due, uno era il coglione della mensa e l’altra non era la ladra di latte?

Simile ad una telenovela, la situazione sgradevole in cui mi ci ero appena ficcata. Mi ritrovai nella scomoda situazione di capitare nel giusto momento del, oserei dire, tradimento. Era difficile pensare ad un taglio netto e azzardato di capelli della ragazza in questione, fra la terza e la settima ora. E poi, quei capelli. Erano più lisci di una porta appena segata. La ladra di latte aveva dei boccoli invidiabili, capelli ben curati. Come lui del resto. La ragazza dai capelli segati e corti invece come una scodella in testa era avvinghiata a lui come una cozza. Lui non sembrava rifiutarla, tutt’altro. Erano anche abbastanza movimentati e indaffarati, e io non avrei di certo interrotto il loro da fare, anche se in qualche modo dovevo pur smuovermi. In pochi secondi, nonostante fossi ancora del tutto scossa per la scena, la mia mente diede alla luce un’ idea brillante e abbastanza fattibile, che mi avrebbe aiutato a sgattaiolare via con l’intento di non farmi mai vedere. Ma quasi dimenticavo che quello fosse il primo giorno. I primi giorni non sono mai sereni.

Proprio nel momento in cui mi azionai a indietreggiare per imboccare una seconda scala, quella posta a fondo corridoio dalla parte opposta dell’edificio, ecco che uno dei due, libera lo sguardo dall’altro, per guardare altrove. E quell’altrove ero proprio io.

Ma non ero io che li avevo adocchiati troppo allungo, piuttosto era stato il mio corpo a muoversi troppo impacciatamente. Fu proprio lui, a fissarmi dapprima distrattamente, poi pericolosamente, facendomi riprovare la sensazione che avevo provato in mensa. Mi sentii in imbarazzo quando il suo sguardo si spostò sul mio viso. Un sorriso sghembo si aprì sul suo volto, nei suoi occhi dominava della sicurezza, una di quelle assurde ed indelebili. «Cosa c’è piccola? Non hai mai visto due etero baciarsi?»

Le mie labbra si schiusero, contemporaneamente anche quelle della ragazza di fronte a lui, che spostò il suo sguardo su di me, voltandosi e guardandomi quasi minacciosamente. «Mm, n-no.. cioè sì!» Mi guardai intorno, prima di fissare nuovamente il mio sguardo su di loro, mentre un velo roseo si stava colorando sulle mie guance. «Io.. vado!» E stavolta indietreggiai con decisione, strinsi meglio la spalliera sinistra del mio zaino, mentre quella destra ciondolava accanto. Girai l’angolo e a passo veloce cercai la seconda scala, che probabilmente mi avrebbe salvato. Salvato da che?

Volevo solo andarmene. Volevo solo andare a casa e bere del buon latte e se mamma si fosse scordato di comprarlo, beh avrei bussato alla porta di tutti i vicini fin quando non me l’avrebbero dato.

Arrivai la piano di sotto, mi riguardavo, con la sensazione che loro fossero ancora lì di fronte a me, a guardarmi e a pensare a quanto io fossi stata guastafeste. Ma il guastafeste era lui! Sì diamine. Era lui che aveva baciato una ragazza che non era sua. Era lui che doveva sentirsi terribilmente il colpa, e doveva corrermi dietro in modo da evitare una mia possibile confessione. Forse dubitava della mia conoscenza con la boccolosa. Forse non si ricordava nemmeno di me, e del mio colore di capelli, e della sigaretta, e dell’armadietto e di quel fottuto numero pari. Forse ero io che ricordavo. Lui no.

Uscii dalla porta principale quasi correndo, i tacchi facevano un gran rumore ma forse ora potevo finalmente sentirmi serena. Messo un piede fuori, sentii attraversare il mio corpo da un vento tiepido, vidi gli alberi dell’entrata oscillare e alcune foglie cadere. Quelle più secche. Fu veramente piacevole. I miei capelli si stavano scompigliando leggermente e alcune ciocche bionde mi svolazzarono davanti gli occhi, impedendomi brevemente la visuale. E in tutto quel biondo, in tutto quel chiaro, non potei non notare che altre ciocche mi stavano oscurando la vista. Erano le ciocche di un Lucas che vedevo in lontananza, fermo davanti ad un auto rossa, poggiato sul cofano a braccia conserte. Per tutto il giorno avevo fantasticato su cosa e su non cosa fare con lui. Volevo almeno ringraziarlo nel modo giusto, mettendo da parte la timidezza e magari farci due chiacchere. Era l’unica cosa positiva che mi era capitata in tutto il giorno.

Ma sì, ero decisa. Lui era solo e non sembrava ne andar via ne aspettare qualcuno. Sarei andata lì e l’avrei almeno salutato. Avrei balbettato, sarei entrata in panico, mi sarebbero sudate le mani. Ma l’avrei fatto, mi dissi. Così cominciai a incamminarmi verso la sua direzione, mentre mi sistemavo da una gobba, mentre mi passavo una mano tra i capelli, per evitare che rifinissero di nuovo in faccia.

Ero quasi arrivata ma… Arrestai il passo, quando vidi a pochi metri, un’altra ragazza avvicinarsi a lui. Aveva un borsone, una tuta, i capelli raccolti in un coda e delle lussuosissime scarpe da corsa. Ma che fosse una sportiva, ben importava, perché chissà in quale sport abile, anche a baciare credo se la cavi abbastanza bene. Non capii da dove precisamente fosse arrivata, ero forte troppo impegnata a scostarmi i capelli dalla faccia. Aveva afferrato il viso di Lucas con le mani, per premere le labbra sulle sue. E io cosa dovevo premere? Il palmo della mano sulla mia faccia.

«Charlie, sei sempre la solita»

In realtà la mia coscienza si riferiva al fatto che io mi illudevo sempre. Per qualsiasi cosa. Ma non era una mia illusione, che la ragazza per quanto fosse stata rapida a baciarlo, teneva sulle labbra un qualcosa si spento, debole e distratto. Gli sussurrò delle cose mentre poggiava le due mani sul suo grande petto e lui nel frattempo le cingeva la vita. Non volli più aspettare. Indietreggiai, come prima, come prima nelle scale, ma stavolta nessuno mi notò. Acquisii un passo terribilmente veloce, mentre scorgevo un autobus giallo, che mi avrebbe accompagnato a casa.
 
«Charlotte!»
 
Le lettere del mio nome rimbombarono più volte, come un eco - forse solo nella mia mente. Mi voltai di scatto. Era la ragazza dai capelli lisci e dall’accento strano che aveva ucciso il mio latte. Non che il mio accento sia tanto meglio, ma il suo, per quante poche parole abbia detto, era davvero strano. Solo alla luce del sole, capii che i suoi capelli erano del colore della terra quando è bagnata. Ma perché oggi ero in fissa con i capelli?

«Charlotte, ferma.» Disse a denti stretti, un’altra ragazza dietro di lei. Rieccola. Dio mio, ma era una sventura dal cielo? Era davvero possibile rivedere per più volte in solo giorno sempre la stessa persona, senza nemmeno conoscerla? Prima che potessi accorgermene, mi afferrò il braccio e mi trascinò a se, impedendomi di salire sul bus. L’autobus partì, senza aspettarmi ed io lo guardai scioccata e con sgomento, che percorreva l’asfalto come un aereo al decollo.

«Ma sei pazza? Come torno a casa ora? Cosa vuoi da me?» Dissi con voce soffocata, ingoiando la mia stessa saliva.

«Di certo non torni a casa con quello..» Replicò Ross, trattenendosi dal gridare e dalla soddisfazione di esser riuscita insieme all’amica nell’impresa.

«Ahi ahi, di male in peggio oggi eh?» Aggiunse con sconforto Emily.

«Che volete dire?» Sibilai, non tentando nemmeno in realtà di capire perché non ne avevo voglia, perché volevo tornare a casa il prima possibile.

«Gonna, giuramento, armadietto, pranzo... E ora il bus?» Grazie per avermi ricordato la mia giornata di merda, meglio di una rubrica, davvero. Infinitamente grazie.

«Cosa c’è di male a prendere il bus?»

«C’è di male che ti rovina per un anno intero.»

«Di certo non puoi, essendo al secondo anno, ma se fossi stata al primo, avresti avuto buone probabilità a finire come peggior matricola della scuola» Aggiunse.

«Solo per il bus?»

«Sì, solo per quello»

«Ma..»  Continuai imperterrita.

«Solo chi è preso dalla sfiga sale su quel bus. Perché rovinarti con le tue stesse mani?» Tanto non potevo neanche più salirci. Ma avrei preferito rovinarmi la reputazione tutto l’anno piuttosto che sentire mia madre urlare sguaiata al mio rientro.

«Non che lei oggi sia poi così fortunata.» La killer di latte e lattici rivolse uno sguardo all’amica accanto, notando e puntualizzando una certa verità.

«Come torno a casa?» Alzai gli occhi al cielo e imprecai una qualche presenza sovraumana che potesse aiutarmi a liberarmi e ad uscire da questo strazio di primo giorno. Ma soprattutto, liberarmi da queste pazze.

«Cosa è successo con la gonna Emily?» Chiese con curiosità l’amica.

«I miei genitori mi uccideranno, mia madre lo farà, o dio..» Poggiai una mano sulla testa, e cominciai ad agitarmi facendomi prendere dal panico.

«Le sta un po’ corta, però c'ha un sedere così piccolo che neanche si nota.» Mi ignorarono e cominciarono a squadrarmi, usandosi forse della propria mente per calcolare i centimetri esatti della gonna.

«Che dici? A me sembra normale» Si sentì di confermare l’amica.

«Non mi farà mai più tornare a casa da sola, verrà mio padre con la sua volvo nera..» Che poi era una bella macchina, se non fosse che al secondo giorno di possedimento un tizio con un camion gliel’abbia graffiata, proprio nella parte del suo sportello. Parte che ogni mattina guarda con rimpianto.

Venni bloccata. «Cosa verrà con chi?» Si allarmò con faccia schifata la boccolosa.

«Una volvo» Sbottai io con nonchalance, stringendomi nelle spalle.

Ross parve incredula. «No no, chi? Tuo padre?»

Mi comportai naturalmente, come se per un attimo mi fossi scordata dei miei genitori e della loro predica. «Sì! che c’è di-»

«-Oh Signore! Ma ti applichi? Cioè lo fai apposta?» Urlò esterrefatta Emily.

«Tu hai bisogno di aiuto» Sospirò la killer rassegnata.

Emily si voltò verso l’amica, gesticolando incredula. «Con suo padre, ti rendi conto?»

«Voi siete pazze.» Cercai di finire io tentennando e indietreggiai guardandole come se fossero appena uscite da un manicomio, afferrai meglio in una spalla il mio zaino e feci qualche passo. Mi avvicinai alla panchina cinque metri distante, dove si trovava un alto palo blu, con sopra un foglio con gli orari del bus di linea. Non avevo la più pallida idea di dove si trovasse la metro, così ci sarei dapprima arrivata con il bus chiedendo informazioni all’autista.

«William!» Sentii urlare alle mie spalle. La voce era di quella pazza psicopatica di Emily.

«Non ti darò un passaggio, scordatelo.» Rispose questo ragazzo alto, dai capelli scuri e dalla voce roca, mentre si incamminava verso la sua auto.

Smisi di leggere, solo per ascoltare. Perché c’è da dire che io stavo davvero leggendo. Non mi voltai, ma li spiavo con la coda dell’occhio, mentre facevo finta di cercare con l’indice l’orario desiderato sopra la carta. Ovviamente era un viso conosciuto. Fin troppo per quel primo giorno di scuola. Era il coglione traditore. Ha pure un nome carino. Diamine, l’avrei chiamato Genoveffo o Anastasio in rapporto alla sua stupidità.

Trattenni il fiato, cercando di pensare a mente lucida. Cosa avrei dovuto fare? Se mi notava quando indietreggiavo con fare passivo, figuriamoci quando scappavo e mi davo alla fuga. Mi rivenne in mente quale minuto prima, quando ero dentro e avevo avuto l’occasione di ammirare uno spezzone di una puntata della serie sex and the city. No no, non potevo. Se ne sarebbero accorti tutti.

«Sei uno stronzo!» Gli urlò contro la boccolosa. E dici bene ragazza.

«Ho da fare, non rompere Emily.» Sbottò mentre apriva la portiera della sua auto, posando il borsone nei posti dietro.

«Derek?» Imprecò Emily. Derek. Chi era ora Derek? Cos’era? il suo secondo nome? Il suo cognome?

Solo dopo aver sentito pronunciare questo nome da Emily, capii che c’era un ennesima presenza dietro di me, di fronte a loro. Cercai di aguzzare la vista al mio occhio sghembo, per capire chi fosse e quale ruolo svolgesse nella situazione. Ebbi l’opportunità di notare una certa persona che guardava con certi occhi sognati e bava quasi all’apice delle labbra quest’altro fusto alto e muscoloso. L’amica della boccolosa, ovviamente, Ross.

«Ho portato la macchina ad aggiustare, mi accompagna lui. Ed è lui il padrone della carrozza.» Sospirò lui ironizzando, quasi in pena per la ragazza.

«Quindi resta sempre un soave... No.» Affermò William il traditore. Che avessero litigato? Allora la mia supposizione in mensa era del tutto corretta. Semplice. Improvvisai un ragionamento: La ladra di latte viene sbattuta fuori dalla squadra delle cheerleader, il suo ragazzo non dice nulla e probabilmente non al difende affatto. Allora la ladra di latte si infuria e lo lascia. Lui che fa? Se ne trova un’altra nel giro di poche ore.

Semplice. Del tutto semplice e scontato. Ma ora perché io mi dovevo sentire così tirata in mezzo? Perché non potevo farmi i fatti miei?

«Lucas, hai preso quello che ti ho chiesto?» Sbottò con fare autoritario. Lucas? Quel Lucas? Quello che minuti fa avevo visto baciare con una tizia castana? Mi girai curiosa, solo per confermare le mie supposizioni. Si era lui. Mi voltai di nuovo. E ovviamente accanto a lui non poteva mancare la ragazza “tutto sport”.

«Cosa mi avevi chiesto?»  Chiese dubbiosamente il biondo mentre si avvicinava a Derek e alle ragazze.

«Come cosa ti avevo chiesto?! Ti ricorda qualcosa la parola “Marlboro”!?» Rispose irritato.

«Oh. L’avevo dimenticato.»

«Ma cazzo Lucas, la macchinetta è a cinquanta metri dall’edificio. Cosa ti costava?»

«Mi vedi in fronte stampato in nero “Schiavo di William”?» Il ragazzo bisognoso di sigarette batté la mano sul cofano della macchina e ci girò intorno fino ad arrivare a lui.

«Lo sai che ho un allenamento fra quindici minuti, o ti devo ricordare che stiamo ancora nella merda quest’anno? I Collins ci schiacceranno come moscerini nel parabrezza nella prossima partita, con elementi del genere in squadra.» Era infuriato, e non credevo che un tizio all’apparenza così tranquillo, anche se traditore, potesse scaldarsi così tanto.

«Tieni, ne ho una io» Intervenne un tizio poco più lontano dall’entrata. Giacca rossa, numero dietro, palla stampata e bla bla bla. Un ennesimo giocatore di rugby. Era di colore, aveva dei denti bianchissimi, ed era un figo assurdo.

«Ma sei in debito di una sigaretta!» Aggiunse sorridendo, estraendo dalla tasca posteriore un pacchetto già scartato e da lì un lercia sigaretta.
 
«Ok.» rispose ingratamente il ragazzo scuro. Scuro di capelli e scuro di carattere. Ormai si era formato un gruppetto. Le ragazze sembrarono entrare in confidenza, dato che probabilmente si conoscevano già.I ragazzi raggruppati sembravano i cavalieri della tavola rotonda, e ovviamente re Artù era reincarnato da chi aveva il mare negli occhi, William.

Presi il cellulare dalla tasca inferiore dello zaino, pur di non girarmi e distrarmi in qualche modo, fino a quando loro non sarebbero scomparsi e dileguati altrove. Mi urtava non esser riuscita ancora a trovare una via di fuga decente.

«Guarda Will! la nuova arrivata, quella di cui ti avevo parlato.» Quasi urlò senza logica il fornitore di sigarette, dando una pacca sulla spalla al compagno agitato truffatore di sigarette, e mi indicò. Merda. Già solo la parola “nuova” mi dava i brividi e mi faceva contorcere lo stomaco.

“La ragazza di cui ti avevo parlato.” Si parlava di me? Da quando si parlava di me? E quel tizio chi lo conosceva?

L’unica cosa da fare, pensai, era continuare a evitare il contatto visivo e passivamente far finta di nulla. Ma nonostante tutto, non potei non sentirmi puntati addosso gli occhi di ogni individuo lì presente. Non c’è cosa più fastidiosa di esser guardati alle spalle.

«Ma guarda un po’..» Cominciò lui, sembrando acquisire un certo non so che di gusto. «La finta bionda!»  Mentre si accendeva la sigaretta con un quell’ aggeggino infernale, chiamato accendino.
 
Eh no cavolo. Potevo capire “la nuova” , ma la “la finta bionda” no. Sarebbe mai finita questa agonia? Questi nomignoli? Presa dalla rabbia e urtata per l’ennesima volta quel giorno dal così rinomato “William” mi voltai e risposi a tono. «Tu invece sei così stronzo che sia da vicino che da lontano si capisce che sei proprio vero.» Quegli stessi ragazzi che fino a pochi secondi fa tenevano gioco all’amico con delle risatine, dopo quella mia risposta, li vidi scoppiare in una fragorosa e rumorosa risata. William mentre poggiava fra le labbra la sigaretta, cominciò a squadrarmi, quasi in malo modo. Emily, Ross e la tizia “tutto sport” erano decisamente rimaste ad occhi aperti. Avevo appena detto –ciao ciao- alla mia già inesistente reputazione.

«Sta tranquilla, oggi ha il contro cazzo, non prenderla così alla personale.» Cercò di rassicurarmi Lucas, che per poco non mi stava facendo cedere le gambe. Mi stava difendendo? Ricevette una manata sulla nuca, da William. Aggrottai le sopracciglia, per il vento che si stava levando sempre più, e che mi infastidiva gli occhi.

«Comunque "la nuova", ha un nome.» Queste sono le conseguenze, quando Charlotte Wilson non beve la sua dose giornaliera di latte. Me ne sarei pentita di tanta spavalderia.

«Ti ascoltiamo “biondona”» rispose sbuffando il fumo dalle labbra, mentre teneva con la mano sinistra la sigaretta. Assunse quel che io uso chiamare “faccia da bastardo”, e con quei suoi occhi blu intenso osò tirarmi una frecciatina. I suoi amici gli facevano da sfondo, come un atto teatrale con gli oggetti di scena, le comparse e il protagonista in prima linea. Stavo per rispondere, per dichiarare il mio nome a quel branco di scimmie, e a quelle pazze uscite dal manicomio, ma...

«Vai al diavolo!» Schernii sollevando la mano e lasciando capire che non volevo sentire altro e mandandolo a quel paese,  mentre scossi la testa e mi voltai verso la direzione a me più comoda. E forse anche quella risposta era quella più comoda da dare. Avrei tanto voluto affrontare l’imbarazzante situazione spifferando tutto o urlando a mezzo parcheggio , sì perché l’entrata è affiancata al parcheggio, cosa avevo visto e non visto minuti prima e magari specificare anche che tipo di bacio era. La ragazza sembrava tenace e sarebbe finito in lacrime, lui.

Figura di merda. E’ come se mi ci fossi tuffata apposta in una pozzanghera di fango, smerdandomi come un maiale. Mi ero rovinata. Potevo cambiare scuola, e se era necessario ritornare in Australia. Magari sarei scappata da casa la sera stessa, e avrei preso il primo biglietto, il primo volto per quella destinazione.
 
Stavo vagando già da cinque minuti senza meta, rimuginavo ossessivamente il mio peggior primo giorno. Una doccia o del buon latte, non sarebbe bastato a rinsavirmi come nuova. Ero a pezzi, avevo dimostrato anche se per poco, di avere anche io delle palle. Ma ora quelle stesse palle si stavano nascondendo e marcendo dentro. Ad un tratto ebbi la sensazione che qualcuno mi stesse seguendo. Intuii la presenza di alcune persone dietro di me. Solo questa ci mancava. il nodo al fiocco. Nel giro di pochi secondi, quelle stesse persone me le ritrovai accanto.
 
Sobbalzai per lo spavento. «Scusami. Questo è il tuo latte. Se fossi andata più velocemente non ce l’avremmo fatta a fare una sosta al negozio per potertelo restituire.» Era la boccolosa, che con un sorriso debole e con occhi lucidi rivolti al cartoncino di latte, mi rivolse davanti questo strano dono. Mi fermai, mi voltai: erano le ragazze di prima. Mi avevano seguito?

«Comunque non ci siamo ancora presentate, io sono Emily, Emily Henderson» Aveva davvero detto tutto ciò con una voce così tenera e gentile? Lo aveva fatto davvero o stavo avendo una qualche allucinazione? Lo sapevo già il suo nome, come quello dell’altra. “Ross” soprannome di Rossella. Non è un nome che ne in Australia ne in America si sente spesso. Era italiana. E quel suo accento poteva confermarlo.

«Sei lentina. Dovresti fare allenamento! Piacere, Madison» Sorrise, porgendomi una mano schietta. Era l’unica ragazza di cui non sapevo il nome, la ragazza “tutto sport”, la ragazza con la coda perfetta, con il borsone, con la tuta. Era la ragazza di Lucas. Non ebbi il tempo di stringere quella mano, che subito la terza ragazza, Rossella, mi prese a braccetto con un inesistente confidenza. Cominciarono a camminare. Ma io non mi mossi nemmeno di un centimetro, nonostante Rossella, mi stesse tirando e suggerendo di seguirla.

«Allora? vuoi stare lì tutto il giorno, o pensi di dirci dove abiti? Noi stiamo andando a casa. Vieni con noi?» Mi ero resa ridicola davanti a mezza squadra di Rugby, ero andata via mandandoli a quel paese. Così sorrisi, e mi riavvicinai a loro. Sembravo una bambina a cui le avevano appena comprato lo zucchero filato.

«Le nuove arrivate sono sempre così strane. Sembrano pazze, bisogna starne alla larga. Non bisognerebbe rivolgerle la parola nemmeno per del latte.» Grugnì Emily, mentre soffocava le sue labbra in un adorabile sorriso.






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Capitolo 5
*** five ***


5


Charlotte Wilson

Che fosse stato l’orso yoghi a segnarmi la strada con dei sassolini o il signore ad indirizzarmi sulla retta via seguendo le sue stesse sette stazioni, beh…  ero arrivata a casa.
 
Che poi erano davvero sette le fermate della metro contate mentalmente mentre Rossella parlava a Madyson di una nuova boutique aperta in certo, ed Emily, probabilmente nauseata dal discorso,
si sbatteva la testa più volte ad intervalli più o meno irregolari sul vetro del finestrino che aveva di fianco a se. Lei che il posto lo aveva trovato. Noi che stavamo in piedi attaccate tutte ad uno stesso palo, potevamo fare concorrenza alla miglior cubista di New York.
 
Che poi erano davvero simpatiche, tralasciando che:
Una mi aveva lasciato dissetata;
Una aveva fatto in modo che io perdessi l’autobus scolastico;
Una aveva baciato Lucas.
 
Lucas, Lucas Sanders. Non che mi ci ero presa la fissa, ma quasi. E poi mi aveva difeso, non è una robetta da niente, insomma.
 
Nell'ultima ora non avevo fatto altro che immaginarmelo travestito da Superman della situazione, con tanto di mantello rosso e "S" stampata sul petto - ovviamente “S” di Sanders.
 
Tutto nella mia mente malata e psicopatica in quel momento coincideva. Ma forse lo faceva con tutte, con tutti, sì, forse ci è proprio nato per difendere le persone nelle situazioni più sgradevoli.
Un po' come un paladino della giustizia. Ma parlando di paladini, invece di un mantello o di una tuta abbastanza aderente, avrebbe dovuto avere in testa un turbante e un serpente che gli uscisse dalla sacca di vimini. Tuttavia, per quanto tutto questo potesse essere scenografico, distruggeva e macellava il mio precedente flash quasi erotico della sua figura.
 
I paladini sono quelli? Non credo di sapere bene cosa e chi siano, ma questa parola mi indirizza sempre a un abbigliamento simile ad uno di quei tizi che spesso si vedono sui parchi per racimolare qualche moneta. Forse mi sto confondendo con “Aladino”. Paladino, Aladino. Sono molto simili le parole.
 
Qualcuno dovevo pur ringraziare se mi trovavo rinchiusa dentro la mia stanza, in un angolino ancora vuoto (per via dell’assente cassettiera, il trasporto non me l'ha ancora recapitata dall'Australia), con le cuffie nelle orecchie e un sorriso da ebete stampato in faccia.
E quella persona era più che casualmente William, o Will. Dipende dalla confidenza che gli si voleva dare. Era lui che aveva fatto in modo che Lucas potesse prendere parola e dire quello che ha detto.
 
Il “ringraziare” è sarcastico.
 
Non ce nulla di buono a illudersi e fantasticare su un ragazzo fidanzato. Madyson l’aveva baciato, e a meno che sia un rapporto di amicizia molto ma molto stretto, non c’era niente su cui discutere o rimuginare. Non avevo avuto l’occasione di domandare a lei stessa in che rapporti fosse con Lucas, e forse più che occasione non ne avevo avuto proprio il coraggio. Dovevo smetterla di pensarci, dovevo smetterla di pensarlo.
 
Non che lo pensassi così tanto. Solo tre volte ogni minuto.
 
Cazzo quanto mi mancava Juno. Lei era sempre quella che con i ragazzi ci sapeva fare e di certo ne sapeva più di me.
 
A casa ero sola, mamma era al suo primo giorno di lavoro e papà era buttato nel suo ufficio in chissà quale palazzo di Manhattan per questione di affari.
 
Quel biondo me lo sarei portato nella testa fino a sera? L’avrei portato fino alla notte?
Fino ad un profondo coma di sonno?


La mattina seguente uscii di fretta, non avevo neanche fatto colazione, diedi veloce un bacio a mamma che stava ancora raccontando di quanto fosse incompetente il direttore dell’ospedale, e a papà che aveva già la valigetta in mano per andare a lavoro.
 
Le ragazze avevano avuto tempo a sufficienza per manipolare la mia mente e per convincermi a fare la strada di casa-scuola con loro. Anche se non ho di certo perso tempo a riflettere… era assolutamente un SI pieno anche prima che me lo domandassero.
 
Quella mattina tirava un po’ di vento, così appena messo il naso fuori dalla porta, dovetti rientrare per avvolgermi al collo una sciarpa bianca pesante.
 
Ma credetemi ci fu un clima più raccapricciante, più freddo, quasi polare,  quando entrammo in ritardo alla prima ora e la professoressa “Peterson” di scienze sociali, mentre picchiettava ripetutamente e fastidiosamente la sua bic nera nella cattedra proprio sopra il registro, ci chiese spiegazioni.
 
Il mio primo ritardo, perfetto direi.
 
«Signorine .. come mai questo ritardo?» Le notai sul viso un neo sotto il naso, proprio sopra il labbro superiore.
 
«No prof, stamattina non ci andava proprio di vederla, e così abbiamo tardato appositamente.» Rispose Emily con un assurda nonchalance, mentre prendeva posto.
 
Ma cos’era? impazzita?
In realtà eravamo arrivate in ritardo per via di Rossella, che quando sia io che Emily eravamo pronte, lei doveva ancora truccarsi e piastrarsi i capelli per bene.
 
«Bene Henderson, tu, tuo fratello e il vostro simpatico sarcasmo non vi smentite mai. Sai cosa facciamo?»
 
STOP. Emily aveva un fratello? Emily aveva un fratello minore “simpatico” quanto lei? Emily aveva per caso un fratello che già si trovava a spassarsela al college?
 
Che fosse figlia unica o che avesse un fratello, non ebbi bisogno di mesi o anni per capire quanto fosse azzardata, presuntuosa e sfacciata. «Cosa? Una maschera rigenerante e nutriente per il suo bel viso poroso?» Ribatté lei alla Peterson.
 
«HENDERSON!» Se avessi saputo che il suo tono di voce si sarebbe alzato più di ‘130 decibel, avrei fatto in tempo a tapparmi le orecchie. Era colpa sua se mi ero appena ritrovata con un timpano non funzionante.
 
Accompagnò l’urlo con un altro tonfo rumoroso, batté la mano sulla cattedra e si alzò dalla sedia infuriata. «In presidenza!»
 
Ma non fu in grado di spaventare Emily, tanto meno che di farla preoccupare. «Qui a scuola ci si insegna a dir la verità. Le ho solo fatto una critica costruttiva, non si offenda. Poi noto anche una leggera tendenza acneica proprio vicino alle narici. Dovrebbe prestarci più attenzione, sa?»
 
Non potemmo non ridere. Io stessa che cercavo sempre di restar seria a frecciatine tra alunni-insegnati dovetti mordermi il labbro inferiore per cercare il più possibile di trattenermi.
 
«Non crede che la presidenza sia eccessiva, professoressa?» La difese Rossella , che aveva poggiato i libri sul banco e accanto ad essi uno specchietto color fuxia fluo. Insomma, discreta la ragazza.
 
«Tu dici Rossella?» La Peterson si addolcì, quasi da far paura.
 
«Beh..» Tentennò Rossella, mentre apriva lo specchietto e ci si stava persino specchiando.
 
«Hai ragione, il preside è sempre così buono e così comprensivo.» Poi spostò lo sguardo su di Emily. «Voglio lasciarti una punizione più lunga, più dolorosa… Stancante! Qualcosa che possa metter a tacere il tuo sarcasmo e la tua vocina insopportabile.»
 
La ‘boccolosa’ non si agitò più di tanto. Si portò con il corpo più avanti nel banco, mise conserte le braccia e mantenne uno sguardo imperterrito sulla Peterson. «Le devo cercare una buona estetista? Mia madre va da una tizia in centro..»
 
«In detenzione, signorina Henderson! pomeriggio l’aspetto nell’anfiteatro. La recita di Natale si avvicina e ci sono così tanti compensati da dipingere, e così tante paillette da cucire!»
 
Mi accostai di fianco al banco di Rossella. «Cosa? Mancano ancora due mesi per Natale.» Sussurrai.
 
«Signorina..» La Peterson sfogliò velocemente il registro e raggiunse la mia pagina, poi si sentì in dovere di aggiungere.. «Signorina Wilson, c’è qualcosa che non va?»
 
«No nulla.» Avevo sussurrato così piano - come aveva fatto a sentirmi?
 
Sobbalzai al suo richiamo tanto da rimettermi composta. «Dici bene, mancano due mesi per natale, la tua amica potrebbe non farcela da sola.. aspetto anche lei pomeriggio nell’anfiteatro. Quattro mani son meglio di due. Un bel poker.»
 
Cazzo. Ritardo, detenzione… Scherzava vero?
 
«E dato che la signorina Esposito ha tanta voglia di intraprendere una carriera di giurisprudenza, le tolgo subito lo svizio, gli farai compagnia, come la signorina Madyson e l’altra accanto, Leila, che da quando sono entrate non fanno altro che far salotto.» Continuò, ignorando le mie imprecazioni mentali e il mio viso non poco panicato.
 
Chi lo avrebbe detto a mamma ora?








«Chi ha detto che glielo devi dire per forza? Lei non lo saprà.»
 
Ultima ora, mi trovavo con Emily, Rossella, Madyson, e quest’altra ragazza, Leila. Stavo imparando ora dopo ora il percorso da effettuare per raggiungere il mio armadietto.
Per la fine dell’anno ci sarei riuscita.
 
«Forza Charlie!»
 
«Mi stai dicendo che.. dovrei mentire?» Risposi ad Emily quasi singhiozzando  al solo pensiero di farlo davvero.
 
«Tu non stai mentendo. Tu stai solo tenendo per te, un fattuccio di nessun valore.» Aggiunse minimizzando, con una voce non molto convincente, ne per me ne per i miei genitori.
 
«Ohh, voi non conoscete i miei genitori.» Chi li conosce in realtà? Vengono sicuramente da un altro pianeta, e io, povera umana, ero stata adottata.
 
«Sì, ma ce ne parli da due ore: rigidi e possessivi.» Grugnì Rossella, mentre si limava le unghie e ci soffiava sopra.
 
«Non ho mai detto questo dei miei!» Insomma, l’ho pensato tante volte, ma proprio detto... No. Forse …
 
«Oh scusa, vogliamo far cenno alle miliardi di parole con cui ci hai girato sopra pur di non dire “rigidi” e “possessivi”?» Svelò Madyson, che teneva quel giorno in particolare un umore irritato.
 
«E’ tutta colpa tua Emily. Dovresti smetterla di rispondere ai professori!» Rossella ci ricordò. Ed aveva ragione,  io avevo solo provato incertezza sulla vera data del natale.
 
«Io non rispondo a nessun professore, è la Peterson che altera il mio sistema nervoso!»
 
“Emily, ci ha solo chiesto perché eravamo in ritardo.” Avrei voluto risponderle. Non potevamo di certo aspettarci che ci tirasse addosso petali di pesco.
 
Ma altro che petali di pesco! Mi madre mi avrebbe tirato addosso tutto il tronco, con allegate radici, appena avrebbe saputo.
 
«Quindi non chiamano a casa?» Chiesi ancora timorosa.
 
«Ma per cosa?» Fecero loro in coretto. «Per la detenzione..» Risposi.
 
«Ci mancherebbe. E’ solo uno stupido laboratorio della Peterson.»
 
Ah già... I laboratori.
Mi sarei dovuta iscrivere a breve e non avevo ancora ben chiaro utilità di ognuno. Dopo quest’accaduto avrei di certo evitato quello di teatro. E non so perché ogni volta che penso al “teatro” inteso come attività scolastica, mi viene in mente uno di quei balletti di “High School Musical”, che tanto mi fatto ballare e cantare una ragazzina squinternata davanti alla Tv :
 
Mucho gusto, hay que fabulosa, rrrrr, hay hay hay, arrriba, quieres bailar .. Mirame.. I believe in dreamin' shootin' for the stars, Baby to be number one You've got to raise the bar.. Kickin' and a scratchin' grindin' out my best…
 
Se poi ci aggiungiamo il vestito scintillante color turchese e i tacchi argento di Sharpay Evans,
in detenzione sarei arrivara senza ombra di dubbio ballando, e mostrando a tutti il mio vero talento per il tip tap.
 
Tip Tap. Il mio cuore faceva tip tap. Ed ero così sicura di non avere un cuore con scarpe adatte per poterlo ballare. Avevo appena visto l’amico dell’arcangelo Gabriele. Superman, Aladino… Lucas.
Aveva appena svoltato l’angolo, seguito da altri ragazzi dietro. Non potemmo non notarli, noi ci trovavamo proprio lì vicino la spazzatura, perchè Emily doveva buttare la chewingum, dicendo che ne aveva un’altra con se e che l’avrebbe masticata durante l’ora di “teatro”.
 
E fra una masticante insipida e un cestino poco profumato, alzai lo sguardo, anche per distogliermi dalla nauseante fragranza.
 
«Ciao!» Accennò Lucas.
 
Lo aveva detto davvero? No perché ero davvero sicura di aver visto le sue labbra muoversi e le sue corde vocali vibrare. Sì! Mi aveva anche sorriso. Sorriso luminoso e davvero molto tenero. Arrossii, ma non ebbi il tempo di poter ricambiare tanta dolcezza. Mi ero paralizzata e con me anche le mie labbra. Come se fossi appena uscita da un intervento di botuline. Non che io ne sappi qualcosa del dolore e delle condizioni dopo certi interventi, ma ricordo che all'età di cinque anni subii un intervento al ginocchio e numerosi punti. All’era caddi dalla bicicletta, perché l'incapacità di mio padre a dare indicazioni sulle direzioni e sull'uso dei pedali e dei freni si era rivelata un vero fallimento. E tutt'ora ero così sicura che il mio ginocchio non parlasse. Non che i ginocchi parlino, ma dopo l'intervento sembrava un grosso labbro cucito.
 
Ritornai alla realtà, tra ginocchi e grosse labbra che parlano, nel momento in cui quello stesso ragazzo biondo aveva appassito il suo sorriso e indebolito i lineamenti del viso, quando oltrepassato me aveva incrociato lo sguardo di un ennesima ragazza: Madyson.
 
E lei fece lo stesso, con la differenza che lei cercò subito di distrarsi indossando un sorriso forzato, incitandoci ad entrare nell'Anfiteatro.
 
Ma il giorno prima si erano baciati? Cosa era cambiato da un giorno all’altro?
 
Avevo già intuito un litigio fra Emily e il suo ragazzo e ora stavo intuendo probabilmente uno dei loro. Se sempre ne abbiano avuto altri, se sempre lo abbiano avuto o era solo una giornata no.
 
Cos'era? La stagione di caccia? In cui uno si uccideva con l'altro?
 
Ma non erano fatti miei. La stagione di caccia dopotutto si era aperta anche per me, ma non con il ragazzo , piuttosto con i miei genitori. Avevo i minuti contati per avvertire i miei. In un primo momento decisi di avvertirli del mio rientro a casa di quel pomeriggio ma con un forte ritardo, perché trattenuta a scuola per delle lezioni extra. Al rientro, avrei forse trovato il coraggio di avvertirli del vero. Tanto a casa ero sicura non ci stesse nessuno.
 
Emily, fosse stata in me, non avrebbe nemmeno chiamato… E non aveva tutti i torti.
 
«…Il telefono potrebbe essere spento o non raggiungile, la preghiamo di richiamare più tardi, grazie…»
 
Al diavolo.
Avrei mandato un messaggio ad entrambi, nella speranza che non fossero troppo impegnati per leggere o rispondere.
 
«Charlie hai finito? Entriamo?» Emily mi aveva chiamato Charlie. Era la prima da quando fossi arrivata qui a New York ad avermi chiamato per soprannome e non per nome intero.
 
«Arrivo!» Le risposi. E la seguì, tirando di fianco a me la lunga stoffa della tenda rossa che nascondeva la porta con la grande maniglia della sala dell’anfiteatro, insieme alle altre che non a differenza mia erano parecchio seccate.
 
«…Nel teatro il concetto di spazio ha almeno due significati: il primo è lo spazio fisico, il luogo della rappresentazione, il secondo è lo spazio dell'immaginazione…» Letteralmente annoiata qualsiasi cosa lei stesse dicendo, mentre il suo grosso neo alle pendici del naso, che sembrava più un vulcano, si stringeva e si contraeva, specialmente quando pronunciava le vocali lunghe, come la “u”.
 
Non ho mai provato tanta noia in un’altra qualsiasi lezione. Eppure credevo che Storia fosse la materia più seccante in assoluto. E far teatro rientrava nella lista dei laboratori da contrassegnare? Preferirei far dieci giri di corsa intorno l’intero campo di rugby, piuttosto che conseguire altre lezioni con la Peterson e con il suo cucciolo peloso - già era anche peloso. Come quello della tizia della mensa. Probabilmente questa scuola aveva fatto dei provini e dei colloqui appositi, qualcosa del tipo: “A chi ha il neo più grosso”.
 
«Emily, ma non dovevamo dipingere o cosa?» Le sussurrai, come una vecchietta mentre dice il rosario. «Io le dipingo la faccia, a forza di schiaffi però. Troia.» Mi rispose, con una particolare serenità, mentre scrutava con occhi socchiusi, da nuovo sceriffo arrivato in città, quella bellissima donna della Peterson. E menomale che non eravamo costrette a seguire davvero le sue parole, non essendo membri effettivi del laboratorio.
 
Stavamo in un angolino, senza da fare, e ci guardavamo con le mani in mano. Ognuna nel proprio banchetto, ma abbastanza vicine per poter parlucchiare. Ma quell’angolo mi era molto di gusto. Insomma, probabilmente godeva di una delle viste migliori della scuola. L’alto finestrone cinto da ghirigori dorati, sicuramente di cartapesta e da tendoni rossi scuro, svelava nella sua trasparenza la visione dell’intero campo di rugby. Ed eravamo così fortunate che proprio in quell’ora i ragazzi si stavano allenando.
 
Già i ragazzi. E c’erano tutti.
Anche re Artù, che nonostante non fosse in sella ad un maestoso cavallo bianco, capitanava tutta la squadra che gli stava dietro. E non avevo ben capito chi dei due fosse il quarterback. Intendo, se Lucas o William-solenne-Artù. E nella storia si narra che sia stato lui a portare le corna, mentre Ginevra se la spassava con Lancillotto. Solo che, nella storia della Gilbert, per lui non era affatto così.
 
Osservavo a tratti Emily, e poi fuori la finestra. E non avevo la più pallida idea di cosa avrei dovuto fare.
 
Non credevo se lo meritasse. Né scoprire il tradimento, né essere in primis tradita, ovviamente. Ma io non sono mai stata brava a trattenere le cose per me, le bugie, le menzogne.. i tradimenti. Io sarei stata capace di tenermelo in gola per sempre, un macigno addosso che non avrei mai scacciato via. Io dovevo dirglielo, dovevo diamine.
 
«Emily, c’è una cosa che devo dirti.» Sillabai giusto quelle poche parole, e strinsi i denti stretti, cercando di capire se avrei potuto pentirmene o meno.
 
«Mm... nascondi i tuoi dentini da latte ancora sotto il cuscino con la speranza che un giorno la fatina dei denti te li scambi con delle banconote da cinque dollari? Lascia perdere. Ci ho provato anch’io. I genitori mentono, e se è per questo anche la TV.» Spiritosa la ragazza. Con nonchalance, aveva infilzato una cannuccia trasparente sul fresco bicchiere di milk-shake alla fragola, che aveva appena prelevato dalla macchinetta infondo alla sala. Pochi minuti prima mi aveva rivelato il suo sgomento nell’alzarsi e raggiungere quella così tanto lontana macchinetta. Se alla fine era riuscita  a combattere la forza più che della gravità della pigrizia, di alzarsi per dissetarsi, beh… Doveva avere davvero sete.
 
«No, è una cosa un tantino più seria..» Continuai, osservando le goccioline di condensa formarsi sulle pareti del bicchiere che conteneva il frullato ghiacciato. Lei alzò lo sguardo, e per un attimo aggrottò le sopracciglia. «Sei sposata?» Cercò di scoprire, mentre le sue labbra si schiudevano.
 
«No diamine, sono persino vergine se ti interessa davvero saperlo.» Le risposti quasi con una vocina isterica. Ero vergine, non in meno pausa.
 
«Benvenuta nel club, sorella.» Rilassò i muscoli facciali e ritornò al suo frullato, e quelle stesse labbra che poco fa aveva schiuso ora le aveva poggiate sulla cannuccia.
 
«C’è una cosa che dovrei dirti… Sul tuo» Mi bloccai. Avrei potuto dirle : cane, papà, curriculum. Qualsiasi cosa per salvarmi la pelle.
 
«Sul tuo ragazzo, Emily» Finì, liberando le parole che mi erano rimaste in gola.
 
«Il ragazzo di Emily?» La voce di Rossella era inconfondibile, e a quanto pare anche il suo udito. Si intromise mentre si alzava sui gomiti poggiati sul banco, e con il sedere che si era appena sollevato dalla sedia.
 
«Il mio ragazzo Charlie, il mio ragazzo?» Tolse le labbra dalla cannuccia, come il pollice e l’indice della mano sinistra che le servivano a reggerla.
 
«Non vorrei essere io a dirtelo, perché sì,  sono “la nuova arrivata” e non va bene immischiarsi su faccende altrui..» Cercai di continuare ignorando la mia coscienza. Ma sapevo che Rossella mi aveva appena messo su i suoi occhi. Ed erano anche parecchio sconvolti. Forse lei lo sapeva e stava cercando di farmi capire che non l’avrei dovuto dire.
 
Emily notò poi, questa mia stessa impressione di Rossella, e cominciò a fissarla stupita. «Credo lei si riferisca al mio adorabile , bellissimo profumato Brad. Brad Pitt.» Poi la ‘boccolosa’ riportò i suoi occhi color nocciola su di me. «Sta tranquilla, non ascoltare le menzogne su Angelina Jolie, è solo una copertura. In realtà viviamo felicemente insieme  con un labrador e un pesciolino rosso, in una fantastica villa a Miami.» La quindicenne sospirò, assaggiando un altro sorso di milk-shake con un sorrisetto malizioso sulle labbra. Il frullato scivolò lungo il suo esofago, rinfrescandola per delle poche frazioni di secondi.
 
Ma mi stava prendendo per il culo?
 
«Cosa quindi tu… Tu e William, non…» Ero parecchio confusa. Perché dovrebbe piacerle scherzare sul fatto di aver il ragazzo? Io non lo farei.
 
«Io e William!?» Fece scivolare le mani giù dal suo frullato e lo spostò in avanti nel banco, mentre dalla cannuccia sgocciolavano alcune gocce di frullato alla fragola. Corrugò la fronte e spalancò gli occhi.
 
«Charlie, vedi che noi-»  Non fu lei a bloccarsi. Fu un rumore, un forte rumore. Un tonfo, un rumore stordente, più stordente degli urli della Peterson.
 
Alcuni banchi in prossimità del finestrone vennero spostati dall’istinto dei membri che li occupavano. Ma il rumore dei banchi trascinati a terra, i crudi stritolii, le urla degli studenti lì dentro, coprirono un altro rumore, quello di un vetro rotto.
 
In poche frazioni di secondi ci ritrovammo, noi che eravamo nell’angolo, sommerse di pezzi di vetro, freddi pezzi di vetro. E non avevo la condizione mentale adatta di controllare se alcuni di quei pezzi mi avevano graffiato o lacerato la pelle.
 
Sotto i nostri piedi del vetro rotto ricopriva tutto il pavimento della stanza. Il pavimento, il pavimento scintillava, il sole batteva sui pezzi di vetro, che li faceva sembrare diamanti.
Che cosa aveva spaccato il vetro del finestrone?
Il sole? Un suono?
No.
Un palla.
Una di quelle palle inconfondibili, marroni, dalla forma quasi ovale, quelle che assomigliano ad un uovo. E chi non poteva decifrarla più di me? Avevo visto quella stessa palla colpire dapprima il vetro e poi con una traiettoria quasi perfetta il bicchiere del milk-shake di Emily. Non cadde a terra, tuttavia  fece un volo impossibile da descrivere, e come una ciliegina sulla torta, il frullato ghiacciato alla fragola si rovesciò sui miei capelli.
 
Non riuscivo a capire se più freddo era il vetro o la bevanda che adesso mi ritrovavo sporcarmi i capelli. Indietreggiai con la sedia, allargai le braccia, poggiai le mani sulla testa, mi chiusi in me, allo stesso modo gli occhi.
 
Era tutto finito, ma perché temevo ancora?
 
«RAGAZZEEE!» Non erano bastate le sequenze di rumori appena accaduti, la voce alterata e preoccupata della Peterson giunse alle nostre orecchie come fossimo già morte.
 
Silenzio. Si sentiva solo la preoccupazione e i fischi fuori del coach. Poi dei passi. L’erbetta del campo ricopriva il suono di passi silenziosi.
 
«Scusate?» Una voce dall’esterno, una voce quasi roca, lo ruppe. Una voce azzardata, una voce che sembrava di troppo.
 
Aprii gli occhi, il sole per pochi secondi mi accecò la vista, e sapevo che le mie iridi erano diventate più chiare del dovuto. Un mix di paura e di raggi solari. Poi capii. Vidi l’ombra del ragazzo dalla voce roca che si era piazzato davanti il finestrone ormai rotto. Era lui.
 
«Charlie, ti presento mio fratello. William, William Henderson.» Disse Emily con amarezza.
 
Mio fratello. Nessun Emily e William. Nessun tradimento. Niente di niente.
 
«State bene?» Ma cosa aveva in mente quel ragazzo? Stiamo bene? Non vedi da cosa siamo ricoperte? A te sembrano caramelle?
 
«Stiamo bene? Ma ti senti?» Grugnii isterica, alterando il tono di voce. Mi alzai dalla sedia, mentre mi toccavo i capelli appiccicosi, e nel mentre sentivo cadere a terra altri pezzi di vetro che dapprima si erano depositati sopra la stoffa della mia gonnella.
 
«Wilson.» Aggiunse il ragazzo, mentre metteva entrambi le mani nella tasca del pantaloncino bianco e rosso di tuta e mentre disegnava sul suo viso un sorriso malizioso. Il suo sguardo aveva incrociato il mio. Nei suoi occhi il mare era calmo, nei miei in preda ad una tempesta.
 
«T-tu..» Balbettai io, non per la timidezza, ma per l’agitazione che il mio corpo poco a poco stava innescando.
 
Come sapeva il mio cognome? «Ho fatto le mie ricerche.» Mi spiegò come se mi avesse letto nella mente. Poi guardò davanti a se, a terra scrutando il territorio come se fosse un cane. Mise un piede sulla grada, nel dislivello fra la finestra e l’esterno. Salì sopra e entrò nella sala sorridendo a tutti.
Fece qualche passo, analizzando il danno che aveva creato, e non aveva affatto l’aria di uno disperato o almeno con un minimo senso in colpa. Calpestava i pezzi vi vetro, con le sue scarpe da ginnastica. Forse gli piaceva sentire il rumore dello sbriciolamento. Perché era stato lui l’artefice. Lui aveva tirato quella fottuta palla.
 
La sua figura mi raggiunse. Indietreggiai. Ma non ci fu modo, perché mi raggiunse comunque. Mi fissò, mi squadrò. Si stava avvicinando fin troppo, fin troppo pericolosamente. L’avrei picchiato se mi avrebbe anche solo sfiorato. Ora potevo, ora “l’immagine” era andata a farsi fottere, per l’ennesima volta in due soli giorni.
 
«Mmm...» Mugolò, mentre mi fissava i capelli. «Ti dona il rosa... Nuova tinta? Mi piace.» Aggiunse non facendosi problemi e senza abbandonare quella faccia da bastardo, incorporata forse dalla nascita. Lo vidi trascinare un dito sui miei capelli, per poter assaggiare la bevanda ormai consumata dai miei capelli. Schiuse le labbra e ci mise dentro quello stesso dito, leccando quella sostanza dolce e appiccicosa. «E’ anche buona.» Sussurrò.







Ehilà!
Prima di tutto, scusate il fortissimo ritardo.
Ho avuto dei problemi con l'html e poi lo scrivevo e la fine non mi piaceva mai, perciò diciamo che questo capitolo è stato tenuto un po' troppo sotto mano.
Essendo la prima volta che lascio un commento, ringrazio ora, fin dal primo capitolo, tutti quelli che mi stanno seguendo e che mi lasciano recensioni!
So che questi capitoli sembrano un po' noiosi, troppo descrittivi, ma ricordiamoci che la storia è rating arancione, e quindi qualcosa prima o poi dovrà pur succedere.. no?
Potrebbe anche diventare ROSSO.. insomma, vedrete!
Comunque, spero di aggiornare presto, un bacione






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Capitolo 6
*** six ***


6


Charlotte Wilson

«Mamma non pagherà per quello che hai combinato, William!» La voce quasi soffocata di un Emily del tutto arrabbiata, rimbombava e riempiva come casse da grande acustica in un concerto da stadio, un corridoio scolastico pieno zeppo di studenti.
 
«Chi ti ha detto che dovrò pagarlo? È solo un ‘fattuccio’ di poca importanza.» Sventolò la mano destra in aria con nonchalance, tenendo un passo più veloce di quello della sorella, immune alla preoccupazione mentre saluta e veniva salutato da chiunque incrociasse il suo sguardo nel solo giro di pochi metri.
 
Probabilmente sotto quella grande maglietta nascondeva uno di quei pratici giubbotti antiproiettile, chissà. Era così bravo a nascondere i propri problemi che sembrava non averne.
 
Il rumore dei tacchi che colpivano il pavimento lucido era così pesante... Desiderai per ogni crampo al piede di usare le sneakers già dall’indomani stesso, nonostante fosse severamente vietato.
 
«Su Charlotte, non violeresti mai una regola.»
 
Sapevo benissimo che in quel momento la cosa che sarebbe andato di fare ad Emily era usare quelle sue delicatissime mani, che stava dondolando nevroticamente attorno ai fianchi serrati in pugnetti, per metterle addosso al fratello e riempirlo di dolci carezze.
Sì, proprio carezze, proprio dolci.
 
La stava ignorando, e per quanto io abbia intuito, per quanto io stessi studiando Emily, era una cosa che le dava molto fastidio. Essere ignorata. A me invece andava benissimo. Stavo dietro, dietro di loro, insieme a Madyson. Avevo bisogno di una ripulita, dovevo levarmi quella schifezza dai capelli che già quasi non si vedeva più, per via dell’assorbimento rapido.
 
Tuttavia adesso ero sottocorrente che ai miei capelli non dispiaceva la fragola. Avrei potuto seriamente preparargli una torta domani. Madyson continuava ad adocchiarli, come fossero esperimento da dissezionare, ma mi stavo quasi abituando al nauseabondo odore di fragola, più degli urli della Peterson, che in proposito era veramente pentita di averci fatto rimanere a teatro. Come se si fosse sentita in colpa, ecco.
 
Ma sappiamo bene chi deve e chi non deve sentirsi in colpa qui. Lo avevo davanti, a due metri. Avrei potuto sferrargli un calcio? - Avrei voluto.
 
Ma ero ritornata in me, e l'immagine pareggiava 1-1 quel giorno. E quando William salutò un ennesimo ragazzo, e si girò scherzandoci, raggiunse per poco il mio sguardo. Dapprima non ci fece caso, poi si voltò e non sapevo cosa fosse più attraente se il movimento del suo corpo o la breve oscillazione dei suoi capelli. Contrasse la mascella, formando un ghigno sulle sue labbra. Lo anticipai.
 
«Non dire nulla. Non sei simpatico.»
 
«E lo credo. Non mi conosci abbastanza per dire che io lo sia.»
 
«Va al diavolo!» E con la grazia più che di dio, della coincidenza, svoltai con un certo effetto nella mia direzione più comoda, sinistra, trovandoci la porta del bagno.
 
Spinsi con il gomito la porta, facendoci forza, in modo da aprirla, poi la tenni abbastanza per passare e aspettare il cambio di presa di Madyson, la porta si sarebbe richiusa dietro di noi, in automatico, una volta che l'avremmo lasciata.
 
Un fitto corridoio, tappezzato di mattonelle bianche lucide, due specchi grandi alla nostra destra, poi sei cabine di gabinetti a sinistra.
 
Poggiai le mani sul davanzale del lavandino, sporgendomi in avanti per poter vedere la mia immagine riflessa. Più che immagine, i capelli. Erano uno schifo. Per non parlare dei graffi sul braccio, lievi ma pur sempre scomodi da vedere.
 
Lei invece ne era uscite immune. Nessun graffio, capelli perfetti. Madyson era stata fortunata.
 
Si avvicinò al distributore di salviettine  estraendone più di una. Le bagnò aprendo l'acqua di uno dei rubinetti, poi richiuse la manovella velocemente  avvicinandosi a me e strofinandomi le salviettine bagnate sui capelli.
 
Almeno l'avevo fatta sorridere. Fino a pochi minuti fa teneva uno strano muso, ora quasi rideva. Ero cosciente del fatto di esser  venuta qui in questa scuola come ruolo di pagliaccio, forse meglio giullare di corte - e mi stavo abituando.
 
L'aiutai a strofinare e a tenere le salviettine. Prima il fumo, poi il frullato. I miei capelli si consumeranno a via di lavarli tutti i giorni.
 
«C'è qualcosa che non va?» Ruppi il silenzio, cercando di capire da cosa fosse così presa da tenere il muso tutto il giorno, approfittandomene di un suo attuale e probabilmente momentaneo sorriso.
 
«Nei tuoi capelli intendi? Credo che in parte stia andando via» Mentre continuava a strofinare e strofinare, e mostrandomi una salviettina imbrattata di rosa.
 
«In realtà parlavo di te, ma questo comunque mi rincuora» Sbuffai un sorriso e nel momento in cui rivolsi lo sguardo allo specchio di fronte a noi, notai che anche lei in quel momento si stava specchiando, e più che specchiando probabilmente stava riflettendo, usando lo specchio come punto fisso.
 
Le sue iridi marrone ramato infatti si allargarono e si strinsero. Poi distolse lo sguardo, e continuò a strofinare. «Di me?» Sorrise e lasciò cadere le salviettine nel cestino dei rifiuti accanto uno dei lavandini. «Come mi vedi?» Aggiunse, mentre si sporse con il bacino nel piano del lavandino e aprì il rubinetto dell’acqua fredda per sciacquarsi le mani.
 
Estrassi altre salviettine asciutte dal distributore, e me le strofinai ancora nei capelli. «Non lo so. Triste?» Domandai con discrezione.
 
«Triste.. nevrotica, isterica, alterata?» Continuò lei, contando fra le dita delle mani gli aggettivi troppo gentili che si era auto-appioppati.
 
«Beh, lo hai detto tu.» Scherzai, strofinandomi le mani per la misteriosa consistenza che avevo  nelle mani un po’ troppo appiccicosa. Stavo per avvicinarmi al lavandino accanto, per poter rimuovere questo fastidio dalle mani, magari con dell’acqua e con del sapone, quando un tonfò mi fece sobbalzare.
 
Madyson batté la mano nel  piano del lavandino e si voltò verso di me, ma senza guardarmi negli occhi. «Io e Lucas ci siamo lasciati»
 
«Ehh?» Sputai io.
 
«Lucas, Lucas Sanders ... Lo hai già conosciuto?»
«Mmm…» Mi si formò un nodo in gola, inghiottì con fatica la mia stessa saliva. «S-sì.»
 
Lasciai dentro di me uno spazio , alleluia, all’armonia soave di una dolce arpa.
“Io e Lucas ci siamo lasciati.”
Chiassosi ed esultanti cori dagli ultras della curva B, e da quelli della curva A… E da quelli dei posti centrali! Coriandoli, trombette e guantoni giganti sventolanti per aria con incredibile enfasi.
 
«Dio Madyson, mi dispiace!» Cercai il più possibile di dispiacermi. Ma in realtà mi dispiaceva quanto potrebbe dispiacermi mangiare una fetta di torta setteveli.
 
«Calma i bollenti spiriti Charlie, lei ci sta male, è così egoista un tale gesto da parte tua. Smettila di gioire per la disgrazie degli altri.»
 
In realtà io gioisco per le grazie personali, ma questione, sempre, di punti di vista.
 
«A me no.» Come faceva a non dispiacerle? Stavamo parlando di un ragazzo alto un metro e settantacinque, cioè chiariamo, non mi ero mai permessa di misurarlo in centimetri, né di portare un metro a scuola… Forse il metro in borsa insieme al kit di cucito che mi aveva dato mamma, ma non sembrava, a prima vista, un fatto anormale.
 
«Com’è successo?» Dovevo pur dir qualcosa, prima che cominciassi ad urlare insieme agli ultras di tutto lo stadio.
 
Lei guardò il ripiano del lavandino, stavolta però non mi sembrò volesse spaccarlo, piuttosto ci si sedette sopra, accavallando le gambe e sistemandosi la gonnella.
 
Visto Emily? Visto che non sono l’unica?
 
«L’ho lasciato io, non ce la facevo più.»
 
Come si fa a lasciare Lucas?
 
«Se hai due minuti…»
 
«Anche cinque, tranquilla.» Mi appoggiai al muro, senza perderla di vista, lasciai fottere i miei capelli e mi concentrai su Lucas, ehm cioè su li lei. Le mostrai che c’ero, che l’avrei ascoltata. Di solito era così, era più facile parlare di queste cose con persone sconosciute o conosciute da poco.
 
«Perché lo hai lasciato?» Le domandai io curiosa. «Ha, ha un’altra?”.» Non so perché appena pronunciata quella frase mi sentii così terribilmente in colpa.
 
«Charlie, tu non ci hai fatto nulla. Ci hai solo parlato, ed è legale farlo.»
 
E se ci avesse visto parlare? Forse lo ha lasciato per questo?
 
«No. O almeno no, non credo.»
 
«Allor-» Provai a continuare io, prima che mi bloccasse. «Credo di aver fatto bene.» Sospirò. «Ma certo che ho fatto bene! Ho un allenamento diverso ogni due ore tre volte al giorno, aiuto papà con la casa, poi i compiti, le mie docce interminabili…» Gesticolava, come fosse ad una gara di poesie.
 
Non avevo mai visto una gara di poesie, ma supponevo che le persone che le recitano tendevano a gesticolare.
 
«Insomma non avevo tempo per lui, per quanto lui potesse averne per me. È un ragazzo molto dolce, ma io sono troppo incasinata per poter stare con lui.» Non credevo che Madyson fosse una ragazza così tanto impegnata. L’avevo vista il giorno prima con una tuta, un borsone e una bella coda. Ma credevo uscisse dal semplice laboratorio di nuoto.
 
«Quest’anno gareggiò alle gare agonistiche di nuoto, corsa, salto in alto, tennis...»
 
Alla faccia. Io se pulivo casa al posto di mamma era tanto. Quello era il mio sport.
Pulizie casalinghe a livello agonistico, per ben due categorie: “Pulizie Artistiche” (chiamate così perché accompagnate da balletti improvvisati e da un i-pod di vecchia generazione dell’Apple) e “Pulizie ‘200 metri “ (tutto il perimetro della casa con la scopa o il mocio in mano).
Tuttavia, non ho mai pulito più di una volta casa. Mamma diceva che lo facevo male ed era meglio se studiavo.
 
«È poi diciamoci la verità… Non mi piace neanche più come prima.» Disse portandosi un sorriso deplorevole sulle labbra. «E forse la cosa è reciproca.» Con un tono un po’ più serio. «Cioè si, si è un po' arrabbiato, ma sembrava quasi sollevato.» Sbuffò per poi rimettere i piedi a terra, e lasciare il ripiano del lavandino. Si avvicinò alla porta e sorrise.
 
«Fors-» venni nuovamente bloccata.
 
«Grazie Charlie, grazie per avermi ascoltato»
 
«Ma..» Rischiai di finire senza parole, quando invece avrei voluto, sì, avrei voluto almeno confortarla.
 
«Chiamami Maddy!» E mi schiacciò un occhiolino, sorridendomi, ancora. Aprì la porta con forza, anche se tuttavia fatto da lei sembrava esser fatto con davvero molta delicatezza, per poi uscire e scomparire fra i corridoi. Aspettai pochi secondi. Strinsi le mani in dei pugnetti, alzai i gomiti all’altezza del bacino e portai indietro gli stessi gomiti, sussurrando un “sì” con molta discrezione.
 
Mi guardai intorno, tossii e inosservatamente e passivamente uscii per ultima dal bagno.







Aaalloraaa.
Scusate l'enorme ritardo, non ho ne giustificazioni a portata di mano, ne tanto meno motivi esaudienti.
Avevo pensato di farlo più lungo, ma alla fine ho deciso di far così, e spostare al successivo un fatto ancora più importante.
Cosa posso anticiparvi?
Beh, abbiamo capito che per Charlie è stata, diciamo, una bella notizia.
Lucas single.. ok,ok. Insomma, non è finita qui ecco.
Tutte le ragazze che hanno letto la storia su facebook sanno già come va a finire, quindi le prego di non dir nulla e di tapparsi la bocca con un buonissimo e appiccicosissimo (più del frullato alla fragola di Emily) nastro adesivo.
(anche se anche a voi aspetta una bella sorpresa(?)insomma bella si fa per dire.)
Sto già scrivendo il seguito, quindi keep calm.
Credo che non vi farò aspettare molto tempo come questo capitolo.
Grazie mille alle 16 recensioni (YAIII!) e a tutte le persone che mi stanno seguendo.
un bacio.






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Capitolo 7
*** seven ***


7


Charlotte Wilson

Era già passata una settimana.
Le mattine erano sempre quelle, le materie sempre le stesse, le persone anche, anzi quelle forse.
Giorno dopo giorno ero stata impegnata con la scelta dei laboratori, degli sport, dei punti extra per gli esami di fine corso, riacquisizione di bava persa guardando Lucas… Insomma abbastanza impegnativo, ecco.
 
Che poi faceva davvero male alla salute fissare una stessa persona ogni ora, per più di due minuti a volta. Tipo arresti cardiaci, deficienza mentale, respirazione stentata…
 
E poi c’era Ross, si ormai la chiamavo così, che mi iniettava assiduamente complimenti, elogi e storielle sul suo ragazzo proibito, sul suo principe azzurro, sul suo Derek Foster. Sì, stavano insieme ed erano proprio una bella coppia… Però, beh, peccato che lui non lo sapesse. Del fidanzamento, intendo. Però Ross ce lo aveva ficcato dentro insieme a tutte le altre cose, dentro il suo mondo, dentro le sue paranoie, sogni e fiabe Disney, e se è per questo nella realtà, nel mio mondo, nel mondo di tutti, non si cacavano nemmeno di striscio. O almeno, lei sì, lo cacava eccome. Ma lui, lasciando perdere le fuggitive occhiatine a cui spesso si lasciava trasgressivamente andare, a “Rossland” non ci aveva mai proprio messo piede. Ross diceva che era davvero un bel posto, diceva anche di avere una bella villa e tanti piccoli Foster in giro per casa.
 
Ahh, che sventura! Esser padri così giovani e nemmeno saperlo, senza nemmeno aver mai “consumato”! Ma a parte scherzi, come coppia me li ci vedevo, e se Ross non si sarebbe fatta avanti nel giro di pochi giorni, l’avrei fatto io per lei.
 
Forse anche io mi ero creata il mio mondo, “Charlieland” dove le due piccole pesti erano figli di Lucas, mia madre era un chiwawa e i soldi erano conchiglie.
 
 
Ero arrivata a scuola, al solito orario con le tre ritardatarie. Anzi mi correggo. Quattro ritardatarie, e la “quattro” non sono io. Leila, la ragazza che ho avuto modo di conoscere in detenzione al teatro.
A prima vista sembrava del primo anno, ma in realtà non lo era, aveva la nostra stessa età. Era la vicina di casa di Madyson, ed era più morbida di un marshmallow. No, non era cicciottella. Era dolce, morbida di carattere, si scioglieva facilmente. Magari anche senza bastoncino di legno e fuoco da accampati in tenda. Infatti era davvero molto timida, arrossiva per qualsiasi cosa, un po’ come me, ed era per questo che eravamo subito entrate in simpatia. Con la differenza che io quando mi intimidivo diventavo impacciata, lei invece diventava un angioletto, un angioletto dai capelli rossi e languidi occhi verdi, mentre le sue lentiggini venivano ricoperte da un solito tenero rossore.
 
Lasciai le ragazze proseguire la corsa per entrare alla prima ora, mentre io raggiungevo la segreteria per consegnare dei moduli sanitari. Non ci sarebbe stata nessuna prima ora per me, ero già in ritardo e la procedura dei moduli che dovevo consegnare era lunga e durativa.
Perciò… Giustifica! Giustifica firmata da papino bello.
 
Dovetti scendere giù per delle scale, la segreteria stava al piano di sotto, e se non fossi stata sicura che la classe della Peterson si trovava a due piani più su, avrei di certo scambiato quel forte urlo e quei chiassosi rimproveri che udivo a pochi metri di distanza dall’ingresso della segreteria, per i suoi. Mi accostai allo stupide della porta grigia e bianco lucido, e tesi le orecchie.
 
«Hai chiuso il professore Morelli dentro gli spogliatoi durante l’ora di ginnastica, hai marinato ben tre volte la scuola, sei stato beccato a giocare con la PSD in classe durante l’ora di letteratura, hai spento la sigaretta nella testa del professore di musica, hai rubato le chiavi della macchina del bidello Riviera e ci hai fatto persino un giro fuori dalla proprietà della scuola. Noi della segreteria, gli insegnanti e i bidelli ti abbiamo beccato più volte avere rapporti fisici con ragazze degli altri anni o de tuo stesso anno, e recentemente hai rotto il vetro dell’aula di teatro. » Insistette la segretaria, quella spilungona di una segretaria dai capelli cotonati, enumerando questi pochi “reati” tra le dita delle mani.
 
Con un sguardo furibondo fissava l’interlocutore davanti a se,  che si grattava il braccio e sbadigliava a pochi intervalli irregolari. «E tutto questo nel giro di un mese, signorino Henderson» ammiccò.
 
«Andiamo! Sono etero da quando sono nato, sappiamo entrambe che non è proprio da un mese che scambio giusto qualche parolina con le ragazze qui a scuola.» Rispose “il signorino” autocompiacendosi.
 
«Abbiamo ricevuto delle lamentele da parte degli insegnati e da parte di alcuni genitori» Gli specificò lei.
 
«Ehi, ehi, ehi. » Il fusto spostò il peso corporeo da una gamba ad un’altra e si inumidì le labbra che si erano di già seccate.
 
«Non è colpa mia se le loro figlie sono ragazze facili.» Continuò sventolando la mano in aria con nonchalance.
 
«Hai tradito Emma con Avalanna. » Ammiccò “Miss tette rifatte”.
 
Si perché qui a scuola c’erano le migliori specie. Insegnati con il timbro di voce da ULK, signore della mensa con nei pelosi, e avrei aggiunto alla lista, stangone di segretarie rifatte.
 
«Karen,» Liberò lui in un sospiro e con uno sguardo magnetico. «lei è di parte, sua figlia Emma sapeva già i miei fini sbarra scopi.» Accompagnando questa  affermazione con una simpatica simulazione di una “sbarra” con le mani tra le due parole “fini” e “scopi”.
 
«Non chiamarmi per nome, Henderson. » Non sembrò acconsentire la segretaria.
 
«Uhh, oggi è una gattina che morde Karen. Niente sesso mattutino oggi per lei? Suo marito è andato prima a lavoro?» Sussurrò sensualmente il “re”, provando anche forse ad ammaliarla usando qualsiasi sua arma e conoscenza nel campo.
 
«Sei incorreggibile.» Lo sbeffeggiò lei.
 
Poi ci furono alcuni secondi di silenzio.
E c’ero io davanti alla porta come una cretina, con questi fogli in mano e tanta frustrazione alla vista dell’assaggiatore esperto di frullati serviti sui capelli. Non potevo rimanere lì a lungo, se anche solo uno dei due si fosse accorto della mia presenza inopportuna, sarei finita a difendere questa così detta “Emma” e a schiaffeggiare il così detto “William”.
 
«Ed Avalanna era la sua migliore amica, dio che stupide a quest’età. » Aggiunse più tardi la segretaria, non permettendomi quindi di fare il passo decisivo verso l’interno della sala per consegnare questi maledetti fogli.
 
«L’ho sempre detto io, hanno tutti gli ormoni scossi.» Rispose quasi con una leggera aria di sfida. Che poi perché doveva portarsi la mano nei capelli per spostare il ciuffetto in una posizione più comoda?
 
«Appunto Charlie, posizione comoda. Non centra nulla con il fatto che vuole infatuarti senza saperlo.»
 
Si lo sarà per lui “posizione comoda” ma non per me.
 
Era la seconda volta che in realtà glielo vedevo fare, e come la prima anche la seconda avrei potuto rischiare un infarto istantaneo, probabilmente incurabile.
 
«Non fare il sarcastico Henderson, stai rischiando molto. Il preside non vuole darti la sospensione solo perché pensa che potrebbe rovinare la tua borsa di studio. Ma questo non vuol dire che puoi comportarti come il principino!» Spiegò con afflizione la donna dalle tette rifatte.
 
«Dovreste espellermi allora. Due anni e non lo avete ancora fatto. Aspetterete l’ultimo giorno del dell’ultimo anno?» Sfidò, facendo notare in modo implicito alla segretaria, il suo puro menefreghismo per la reale situazione.
 
«Fuori Henderson!» Gettò un urlo privo di finezza e di decoro. Lui non pareva muoversi, le uniche cose che sembrava si fossero mosse erano le labbra, che si delinearono in un ghigno sghembo e accalappiante.
 
«Eppure sua figlia Emma è così attratta da me.» Sussurrò in tono provocatorio mentre la massa corporea in cui balzavano come barche in un mare in tempesta i due cocomeri -alias tette- lo spingeva a via di manate fuori dalla sala. Erano davvero enormi. Un solo suo cocomero, sarebbe servito a me per riempirla in piena quella seconda scarsa che mi ritrovavo.
 
E mentre riflettevo su questa assurda teoria e osservavo le tette della cotonata, (cosa che di natura mia non dovrebbe succedere) i miei occhi messi a fuoco focalizzarono , all’improvviso come un colpo basso, quelli color oceano dell’inconfondibile a me William Henderson.
 
Tuttavia era in un’impeccabile traiettoria, avrei potuto sputargli in faccia e centrare perfettamente il colpo.
 
«Non lo faresti mai. Piuttosto spintonalo e vai via.»
 
«Vedo che non perdi tempo.» Balbettai con una certa sicurezza io, io che avrei dovuto spintonarlo via o sputargli. Che razza di affermazione era? A me non interessava davvero sapere di più della sua vita mondana, né tanto meno sottolineargli la situazione di pochi secondi prima. Probabilmente era stato qualche neurone perverso della mia testa, che si stava ribellando per il troppo spazio fantasioso dedicato in precedenza, pensando a lui come possibile fidanzato di Emily.
 
Ma fui scontrosa. E questa mi rendeva al quanto fiera. Non fiera di quello che fece lui dopo. Lo vidi avvicinarsi a me (strana cosa perché in quel momento ero così convinta di indietreggiare), mentre si azzardò a perforarmi gli occhi con il solo sguardo, e senza che me ne rendessi poi così conto, mi alzò delicatamente il mento sfruttandosi dell’indice e del pollice della sua mano destra.
 
«Per me le ragazze non sono mai perdita di tempo. » Sussurrò con tono caldo e sorrisino provocatorio. Provocatorio in tutti i sensi.
 
Sentii un forte e fitto nodo allo stomaco e una calura espandersi da testa a piedi. Che il termometro da ambienti stesse scoppiando da un momento all’altro? Non riuscii a capacitarmi di tanta poca distanza e di poca tanta confidenza.
 
Sfuggii al demonio, scacciando in un tempo non tanto breve la sua lurida mano via dal mio viso. Sapevo di essere arrossita, ma questo non significava nulla.
 
Arrossisco sempre, mi pare di averlo già detto, no?
 
«Da quando la confidenza di toccarmi?» Grugnii, quando già avevo deviato il mio sguardo altrove e stringevo in pugnetti le mie mani, tirandomi con le dita le maniche del maglioncino leggero della divisa.
 
«Già, da quando William?» Ripeté un ragazzo biondo alle sue spalle. Un ragazzo che più che casualmente rispondeva al nome di “Lucas Sanders”.







Eccomi!
Via alle bestemmie in turco e aramaico dalle lettrici tra 3..2..1..
NO OK.
Io ho accettato il consiglio di accorciare un po' i capitoli successivi, perchè quelli già scritti erano un po' troppo lunghi.
Me lo avete detto in molte e non so come possono prenderla le altre "molte".
Tuttavia, spero di postare a breve il Capitolo 8.
Beh, avrete ben capito che in questo capitolo invece si ha una presentazione un po' più completa di questo personaggio, William Henderson.
"Un po' più completa"
In realtà non sarà mai completa la sua presentazione.
Sappiatelo.
Comunque, per l'ennesima volta ringrazio le recensioni e le tizie/ tizi che mi stanno seguendo, un bacione enorme!






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Capitolo 8
*** eight ***


8


Charlotte Wilson

Tempismo perfetto, Superman. Vidi questo ragazzo dalla chioma bionda richiamare il latin lover (che avevo a pochi centimetri di distanza), poggiandogli  una mano ben ferrea su una delle sue due spalle.
 
Charlie, abbiamo tutti due spalle.
 
Per non parlare di quel viso irritato che gli si era dipinto in volto.
 
«Lucas!» Esclamò re Artù, senza scomporsi e senza permettere che gli sfiorasse nemmeno di un millimetro il pensiero di togliermi gli occhi di dosso- idem quel fottuto sorriso sghembo.
 
«Apposto amico?» Continuò Lucas, cominciandomi a fissare come se fossi io il suo interlocutore, da spalle enormi e profondi occhi azzurri.
 
Insomma, con gli occhi c'ero. Nonna Karin, madre di mio padre, ha permesso alla genetica di dotarmi di questi occhi celesti, grigi. Dipende dal tempo. Ma per quanto riguarda la corporatura, ero più fragile di una foglia. E se geneticamente lo ero, per giustizia della natura, adesso, con questi due sguardi puntati addosso, mi sentivo non più fragile come una foglia, ma spaesata come una piuma in volo. Come fossi un cervo fresco e indifeso davanti un branco di tigri, e magari quelle con i denti a sciabola, estinti appunto, perché disconoscevo la situazione in cui mi ci ero ritrovata senza dire A e senza dire B. In questo caso, senza dire W e senza dire L.
 
Eppure non capii a fondo il comportamento di Lucas. Prima un tono minaccioso, poi uno tranquillo e confidenziale, come se si fossero incontrati due volte in situazioni completamente diverse, ma nello stesso arco di un minuto.
 
«Apposto. Ma forse il numero 14 qui si è perso» Rispose William.
 
Persa in tutti i sensi. Prima di tutto, udite udite gente, mi ero reincarnata in un numero. O era il numero che si è reincarnato in me? E secondo, non ero più tanto sicura di rispondere correttamente al nome di "Charlotte Wilson".
 
Perché? Perché a Charlotte Wilson non accadono mai queste cose. Charlotte Wilson ha passato la nottata più emozionante della sua vita giocando a Monopoli dalla zia, e ha assistito a duelli eccitanti solo guardando partite di scherma in TV. Quindi, sì William. Il numero 14 si era perso. E non nei tuoi occhi sia chiaro, principe senza cavallo.
 
«Non mi sono persa. Devo entrare in segreteria, mi sei d'intralcio.» Risposi innocentemente io, giocandomi la carta delle bionde. E probabilmente anche Lucas aveva appena giocato la stessa carta.
Aveva buttato sul tavolo una bella coppia di “J” accompagnata da una risata scarna. Come un "XD" o un "LOL" da fine conversazione. Come la convinzione della vincita di una partita non ancora terminata. William pareva invece non arrendersi, e ora, pareva essersi giocato le sue carte vincenti..
 
«Madison? Come va con Madison?»
 
Poker. Un bel poker di assi. Soddisfatto avrebbe anche potuto raccogliere le fishes dal tavolo, lasciando oltre che al portafoglio, a bocca asciutta l'avversario. Fu in quel momento che non vidi più gli occhi di Lucas puntati su di me, occhi color nocciola che avevano spostato la propria traiettoria nel pulitissimo pavimento sotto i propri piedi. Anche il pavimento era più attraente di me. Superman non dovrebbe mai abbassare lo sguardo. Sempre per eccezione che lo si abbassi per ammirare le venature e la pulizia del pavimento.
 
«Credo di dover andare.» Aggiunse il vincitore dalle iridi color oceano.
 
Esiste una sfumatura di azzurro che prende il nome di “oceano”? Non che io la conosca. Forse me la sto solo inventando al momento. Forse quella sfumatura di azzurro non esiste nemmeno, se non nei suoi occhi. Dovrebbe essere illegale, portare un colore di occhi così intenso, intendo.
 
Si tolse da quella situazione un po’ stretta, che stretta di certo proprio per lui non era. Probabilmente sarebbe tornato con una lattina di pepsi e un sacchetto di popcorn. Che poi al cinema i popcorn non te li mettono in un “sacchetto”, te li mettono in un cilindro, un bicchiere, un bicchiere enorme... Si chiama vaschetta? No, la vaschetta è quella dei gelati. Fatto sta che tutti lo chiamano “sacchetto”, e a me da fastidio. E sapete cosa mi da fastidio? Che William tutto ad tratto era scomparso come un mago, senza il trucchetto del fumo però, e mi ero ritrovata a fissare Lucas come fosse un cucciolo bastonato, uno di quei cuccioli ‘bruttarelli’ che non vuole nessuno.
E Lucas non era ‘bruttarello’.
 
«Credo di dover andare anche io, questi moduli non si consegneranno da soli»
 
“Credo” proprio per niente. Mancava poco che le mani mi sudassero tra i fogli che tenevo in mano.
 
«Aspetta!» Sentii tirarmi il braccio, mentre cercavo di entrare in segreteria. E di certo chi mi aveva tirato verso se non era l’aria.
 
«Devo parlarti.» Continuò il biondo fissandomi negli occhi.
 
Mamma quel giorno a pranzo avrebbe potuto fare pasta al pomodoro con me come ingrediente principale. Ero convinta di non esser mai arrossita tanto più volte in un solo giorno.
 
Distolsi velocemente lo sguardo dal suo, per evitare svenimenti o attacchi cardiaci. Incontrai quello della segretaria bionda cotonata, e potei  oltre che intravedere, sentire, il picchiettio delle sue unghie lunghe scontrarsi contro la scrivania grigia. Mi fulminava con i soli occhi e pareva abbastanza irritata, e se non l’avessi capito da sola..
 
«Qui dobbiamo lavorare, che deve fare signorina?» Lo interruppe, e anche me. Avevo bisogno di secondi per riacquisire il mio color roseo del viso. Di certo il rosso non mi dona.
 
«Io dovrei consegn- »
 
«Andiamo subito, ci scusi»
 
«Nulla Sanders, andate in classe»
 
«Certo, non si preoccupi» Continuò a tenere ben ferrea la presa nel mio braccio sinistro, e cominciò a trascinarmi via.
 
C’è solo un piccolo particolare, Lucas. IO NON SONO IL TUO AMICO WILLIAM. Il braccio mi fa male, se tenuto così.
 
Perciò, provai a deliberarmi.
Davvero? Ovvio che no. Lucas Sanders mi stava toccando. Le sue mani erano entrate in contatto con la mia pelle. Come avrei potuto anche solo allontanarlo da me? Non mi strattonò molto lontano, si fermò giusto nel corridoio accanto, e quando si fermò lasciò la sua presa dal mio, ormai divinamente, infetto braccio.
 
«Veramente io.. io dovevo consegnare questi moduli..» Balbettai, guardandomi dietro. In realtà era solo una scusa per non incastrarmi nuovamente sul suo insistente sguardo privo di attenzioni dalla sottoscritta. Stavolta sarei svenuta davvero.
 
«Non so se hai saputo..»
 
Se ho saputo che sei un figo pazzesco!? Si. Certo che l'ho saputo. Se ti riferisci a quello, sia chiaro. Non sto alludendo, non alludo mai a fantasie su di te.
 
«.. Io e Madison ci siamo lasciati..»
 
O e Madison che ha lasciato te, Lucas?
O almeno, la pensavo così, dato che una settimana prima Madison si era confidata con la sottoscritta. O almeno, mi aveva detto così.
 
Provai a mentire, provai a mentire fissandolo con dispiacere e con totale estraneità ai fatti. Come se nessuno mi avesse mai detto niente, come se mi dispiacesse da amica, come se Madison non fosse mai venuta a raccontarmi la più bella notizia di tutta settimana. Come se io appena arrivata a casa non avrei fatto i salti di gioia, come se io non l’avessi già fatti.
 
Lucas me lo stava confermando. Lui e Madison si erano lasciati.
Ma perché me lo stava confermando?
 
«Ho visto che avete stretto amicizia.. Pensavo te ne avesse parlato, di me, di lei.. di noi ecco» Ora era meglio tornare nel pianeta terra e annuire cercando di non farmi scappare stritolii o canti esultanti.
 
«Si, me ne ha parlato.» Dissi fredda io. «Non che una settimana di conoscenza basti a conoscere i dettagli.» Volli aggiungere. «Cioè, non li ho mai voluti sapere»  Dovevo essere chiara se il messaggio che volevo inviargli era quello di sola compassione. Infondo non lo conoscevo bene.
 
«Si, certo. Già.» Annuì il biondo, distogliendo lo sguardo, come se stesse iniziando a narrare una di quelle storie lunghe, lunghe storie raccontate a bambini per guadagnarsi il sonno veloce. «Davvero Lucas io devo andare in quel posto.. Segreteria volevo dire, per consegnare queste cose.. I documenti, sì proprio questi documenti.»
 
Perché tutto ad un tratto non mi venivano le parole? Perché facevo fatica a parlare?
 
«Tu cosa ne pensi?» Sussurrò lui, mentre mise le mani dentro le tasche del suo pantalone della divisa rossa.
 
«Dei documenti? Sono una rottura..» Incominciai io, sentendomi quasi speciale, quasi speciale perché finalmente aveva notato i documenti fra le mie mani. «Oh, forse ti riferisci alla segretaria! Penso che sia stata montata dalla Mattel… Sarà una brava donna, per carità» Decretai infine. Volevo esser sicura di rispondere bene alla domanda che mi aveva posto.
 
«Mi ha detto di essere sempre impegnata, che non gli piaccio più come prima..»
 
La segretaria aveva una cotta segreta per Lucas?
 
«Ma di tempo ne ha, quindi sarà che proprio noi ci siamo stufati.» Ah, Madison. Pregai Dio di salvami da quella malattia.
 
Liberami, oh signore, da tutte queste fantasie e illusioni che si procreano in me come miele in un alveale di api.
 
«E dico noi perché infondo anche io non provo più quello che ho provato due anni fa quando l'ho vista per la prima volta al lago con la tavola da surf.» Tavola da surf? lago? Ok, stavolta avevo sentito e capito bene.
 
Dio, stai giocando a freccette con i miei neuroni?
 
«Che cazzo doveva farci con una tavola da surf in un lago?» Ecco, avevo capito bene. E proprio quando avevo realizzato la necessità quasi urgente di recarmi da un serio e bravo dottore, Lucas si inerpicò in una dolcissima risata. “Dolcissima” perché l’oggetto della discussione era proprio più che casualmente Madison?
 
«E mi sento libero ora. Libero di guardare le altre, di uscire con i miei amici, di flirtare con le professoresse per cercare di avere un voto più alto senza che poi possa sentirmi in colpa.»
 
Magari mi ci accompagni tu dal dottore? Così, per gioco. Così, per vedere se sto più male io o stai più male tu.
 
«Capisci Charlotte?»  Ah? «Capisco.» Annuii, senza aver capito realmente che cosa dovevo capire. Non stavo capendo che cosa dovevo capire. Capivo che non ci stavo capendo più niente.
 
«E poi, sai cosa?» Lucas pretendeva troppo da me. Prima di capire, poi di sapere… Che cosa si aspettava? Che sentissi? Che mangiassi? Che dormissi? Che bevessi?
 
«Beh, è questo che fanno le persone normali, Charlie. Sai com'è, per vivere e fare tutto il resto.»
 
«Ci sei tu e..»
 
Si, ci sono io. Bravo Lucas, vedo che non hai ancora perso colpi. No perché io già li ho persi.
 
Avevo cominciato a perderli quando mi aveva afferrato quel fottutissimo braccio che non avrei più lavato. Ma dopotutto, c’ero. Fisicamente c’ero. E c’eravamo io e mio padre, adorabile padre, che al mio rientro a casa mi avrebbe scaraventato  dal finestrone del soggiorno, con i moduli non consegnati tra le mani, facendomi atterrare dritta sullo strato di foglie secche appena cadute dai due calici piangenti che abbiamo in giardino. Sapete, quel particolare periodo dell'anno in cui la natura si ribella, e separa le madri dai bambini, ovvero le foglie dagli alberi... Autunno, no? Charlie passione naturalista.
 
«Che vuoi dire?» Era proprio l’ora che glielo domandassi. Tanto per avere un po’ più chiara la situazione.
 
«Voglio dire che… Non lo so, ecco.»
 
A bene. Se non lo sai tu come posso saperlo io?
 
«Non capisco Lucas» E fu così che cominciai a dare voce hai miei pensieri.
 
Fa signore, che da questo momento in poi non mi passino per la testa certe cose.
 
«Nemmeno io Charlie.» Si bagnò le labbra con la lingua, prese fiato e continuò. «Ora ci sei tu e..»
 
Ora ci sono io… Rettifico, prima c’ero io.
 
Non riuscivo a capacitarmi dell’accaduto. Non riuscivo a capacitarmi di come in pochi secondi avevo perso il lume della ragione e della sanità mentale. E non mi capitava spesso. Se pochi minuti prima ero quasi andata in tilt pensando che la sua mano aveva sfiorato il mio braccio, in quel momento, che le sue labbra stavano sfiorando le mie, la parola “tilt” non era sufficientemente appagabile per spiegare come realmente mi stessi sentendo. Fu una cosuccia di cinque secondi. Forse otto, calcolando che negli ultimi tre secondi non avevo più contando il tempo. Mi afferrò rapidamente e agilmente il viso, con le sue belle mani abbronzate,  e si chinò per poter travolgere, più di quanto non lo avesse già fatto, il mio viso scottante.
 
Non capivo bene, ma mi sentivo quasi come una di quelle tante pietre ardenti nelle sabbie Hawaiane, quelle pietre usate per sfide di coraggio o per veri e propri omicidi. Chissà perché mi sentivo così. Ma nonostante tutto, fu una cosa improvvisa, una cosa che non riuscii a controllare, e se proprio volete saperlo, nemmeno a godermi. E quando capii che forse dovevo un po’ lasciarmi andare, l’unica cosa che sentii non furono più le sue labbra ma la sua voce.
 
«E’ da una settimana che non faccio altro che pensare a te, Charlie.»
 
Dante pensò a Beatrice dall’età di nove anni a tutta la vita.
Lui era riuscito a baciarmi dopo poco più di una settimana dall’avermi conosciuto.
 
Il nostro sarà di sicuro un amore epico.
 





Give me your smile.

my first one shot.






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Capitolo 9
*** nine ***


9


Charlotte Wilson

«Ti ha baciato Charlie. Ti ha baciato!»
 
Con questo la mia coscienza non voleva paragonarmi ad un’adolescente alle prese con la solita tempesta ormonale, perché vi dirò, sarei stata più eccitata se avessi sentito qualcosa di diverso, qualcosa scattare, ingranaggi fermarsi e poi di conseguenza guastarsi senza più possibilità di riuso.
 
Non che fosse stato il mio primo bacio, quindi non è che mi aspettassi chissà quali farfalle allo stomaco, o un'esperta gara di nodi allestita e gareggiata da marinai provetti capaci di bloccarmi la digestione. Ma ebbi da ridirmi che quel bacio del biondino abbronzato non riuscì nemmeno un po’ a  far concorrenza al mio vero effettivo primo bacio.
 
Nel senso che mi aspettavo di più. Era stato piacevole come una fetta di torta sette veli, anzi, più che una fetta, metà. Metà fetta, già, e in quella metà fetta non ero riuscita a trovare e gustare il croccante paradisiaco sapore del caramello.
 
 
Vagavo nei corridoi tra una classe e l'altra, durante le cinque, forse sei… Decisamente sette ore di scuola – o carcere minorile, dipende dai punti di vista. Chiunque in questo arco di tempo si fosse imbattuto in me a chiedermi qualcosa, chiunque si fosse preoccupato per il mio evidente disagio mentale, chiunque ecco, si era ritrovato a ricevere come risposta un vago: "hai l’altra metà fetta di torta?" ancora insoddisfatta del gesto impuro, chiamiamolo così, di Lucas. E poi susseguiva una piccola risatina, da una che, senza ombra di dubbio, sembrava apparentemente, seriamente mentalmente disturbata. E zucchero e poco caramello prolungarono il loro effetto stupefacente solo fino alle prime ore. Persino la rana da dissezionare durante l'ora di biologia mi era parsa un dessert. E se rane e fette di torta sette veli avevano occupato la mia mente nelle prime materie, nelle ultime amaro e crosta di dolce bruciacchiata incoraggiarono al peggio la mia coscienza.
 
«E ti aveva pure detto di chiamarla "Maddy".»
 
Nuvolette nere e pioggia a catinelle non facevano altro che aggirarsi sopra di me.
 
«La vedi anche tu questa nuvola? Dovremmo prendere un ombrello.» Suggerii a una tizia durante l’ora di Inglese. Mi ignorò. Peggio per lei se poi si sarebbe bagnata.  Ma non sapevo bene perché, l'unica che riuscivo a vedere bagnata e sudata fradicia aggirarsi nei primi molti metri quadri ero io, ed ero molto agitata. Il senso di colpa si era impossessato di me.
 
«Come hai potuto farlo? Con quale coraggio Charlotte Wilson? Non potrai più chiamarla Maddy.»
 
La confidenza e la fiducia donatami sarebbe declassata in un insipido "Madison".
“Complimenti, davvero”. Continuavo a ripetermi. E ancora tanti complimenti per essere scappata via da lui.
 
«E’ da una settimana che non faccio altro che pensare a te, Charlie.»
 
Spiazzata, come un birillo in pista.
«Non importa da quanto tempo pensi a me, cosa che mi stranisce e mi sorprende al riguardo, solo non avresti dovuto farlo.» Pensai in quel momento, invece di usare le labbra e la capacità di parola donatami da dio alla nascita per poterle uscire fuori. Non che a un mese di vita parlassi, ma credo di essermi ben spiegata. Infatti scioccata decisamente dalle parole, e davvero avvampata come un fuocherello da campeggio nel sentirmi queste parole, lo avevo scansato  via ed ero scappata di tutta corsa senza farmi comprendere.
 
Mentre rimuginavo su quanto mi fosse accaduto e a quanto avrei dovuto rimproverarmi, qualcosa fortunatamente mi distrasse.
 
«Charlie, aspetta!» Sentii rimbombare il mio nome come un eco nel corridoio ormai quasi vuoto.
 
Fa che non sia Madison, fa che non sia Lucas, fa che non sia Madison , fa che non sia Lucas.
Pregavo, come ripetessi un rosario tra me e me.
 
Mi voltai timorosa, tenendomi stretta la bretella dello zaino, usandola come presa di sicurezza. «Emily, grazie al cielo.» Imprecai senza pensare.
 
«Capisco la tua devozione al cielo, alla terra, agli uccelli e alle stelle, ma sono solo io.» Rispose la ‘boccolosa’, portandosi sul viso un sorriso stranito.
 
Era sola per fortuna, i ragazzi della squadra di nuoto erano già usciti per delle gare amichevoli contro un'altra scuola a diversi isolati da qui, e la squadra di rugby era ancora sotto allenamento. Per stare più tranquilla e evitare rischi di attacchi cardiaci avrei potuto ricordarmelo prima.
 
«Tranquilla, ti compatisco.» Ma non mi poteva davvero compatire, non poteva compatire il mio stato di deficienza. Tendevo al bipolarismo, a volte. «Siamo all'ultima ora, oggi è stato il giorno più pesante.» Sbuffò contro questo supplizio di scuola, mentre cercava di chiudere l'armadietto con una chiave. Il mio aveva la combinazione, quello di molti per essere aperto e sbloccato aveva bisogno di una chiave, oltre che la combinazione. Probabilmente gli armadietti vecchi, ricordai in breve tempo che soli due giorni prima avevo ricevuto una chiara spiegazione da parte sua su questa faccenda… E si era anche lamentata al riguardo. Nonostante fosse una studentessa del secondo anno, le era toccato un armadietto di quelli dell'ultimo. Fin dal primo aveva questo armadietto e non a caso era costantemente irritata che gli studenti dell'ultimo anno che avevano gli armadietti accanto al suo a volte la infastidivano, e lei era costretta ad usare le maniere forti. Forse proprio per questo aveva sviluppato un carattere che tendeva all'aggressività. Graziosa, ma incredibilmente aggressiva.
 
«Allora Charlie, che ne dici?» Sentenziò Emily.
 
«Eh?»
 
«Non mi hai ascoltato!? » Grugnì spalancando gli occhi. «A volte entri in un mondo a parte Charlie, come fai a farlo così facilmente?» A volte. Sbuffò una risata quasi compiaciuta, chissà forse perché era riuscita finalmente a chiudere l'armadietto.
 
«Scusami, puoi ripetere?» Chiesi mortificata e riattaccando la spina della realtà.
 
«Dicevo,» cominciò sorridendo «stasera le ragazze vengono a dormire da me… Sai cosa intendo… Popcorn, film sdolcinati, chiacchiere… »
 
«Pigiama Party?» Esaltai io, come una bambina di cinque anni.
 
«Dio per favore, non chiamarlo così. Non sono tipo da pigiama party, tu che dici?»
 
«Ok, non lo chiamerò così.» Sdrammatizzai alzando a due quarti in aria le mani in segno di autodifesa.
 
«Perfetto. Ti andrebbe di unirti a noi?» Mi stava seriamente invitando? Invitando me, Charlotte Wilson?
 
«Posso? Posso davvero?» Mi lasciai sfuggire un evidente entusiasmo e a quelle parole i miei occhi incrociarono quelli della’ boccolosa’.
 
«Se te lo sto chiedendo…» Alzò le sopracciglia e inclinò la testa come per dire: ‘quale parola non ti è chiara del mio invito?’
 
«Già hai ragione..» Annuii arrossendo.
 
«Sei un po' strana, ma sei simpatica… Dopotutto.» Non sapevo bene se “strana” potesse essere considerato un complimento, ma credo che “simpatica” si avvicinasse un po’ più a un qualcosa di carino verso i miei confronti. «Sai com'è, non faccio entrare chiunque in casa mia.» Elargì Emily, mentre accompagnava la sua affermazione con la mano, e presentandosi con un certo charm e con una certa eleganza che sicuramente in lei non avrei mai più rivisto.
 
«Sono onorata.» Stetti al gioco, mentre scappò dalle mie labbra una risatina poco composta.
 
«Allora? Vieni?» Ripropose con una certa fretta e curiosità.
 
«Si, si certo.» Confermai io.
 
«Perfetto.» Riconfermò lei.

«Oh già. Devo chiedere prima a mia madre… Sai com'è.»Non ero così sicura che lei potesse “sapere com’è”, perché a parte me, nessuno sapeva com’era mia madre.
 
«Ok, tranquilla.» Sembrò capire. Si sistemò la tracolla della borsa, e ci mise dentro le chiavi con l’intento poi di salutarmi. «Tua madre lavora nell'ospedale  St Vincent's?» Parve ricordarsi ad un tratto.
 
‘St Vincent's’. Ci stavano molti ospedali qui, ma ero davvero sicura che mamma mi avesse pronunciato almeno una volta il nome di quell’ospedale. Certo, non mi aveva mai detto “Ci vediamo più tardi sto andando nell’ospedale St Vincent's  a lavorare”. Ma fra i suoi tanti “bla bla bla” ci stava anche un “St Vincent's”.
 
«Credo di si... Come fai a saperlo?» Mi incuriosii, cercando di pensare nel frattempo se oltre ad averlo sentito da mamma, lo avessi anche sentito uscire dalle mie labbra.
 
«Ieri sera a cena mia madre parlava di una nuova collega... C'è l'ha descritta, e mi è venuto in mente che potesse essere tua madre.» Spiegò, provando ad indovinare l’aspetto fisico, che la sera prima di sicuro aveva studiato. «Mi avevi detto che faceva l'infermiera.» Sottolineò, per non fare la figura della pazza visionaria.
 
C'è l'ha descritta.
 
Questo voleva dire che si era parlato di mia madre nella sua famiglia, si era parlato anche di me. Questo voleva dire che William Henderson sapeva di mia madre.
 
«Ah già, anche tua madre è infermiera.» Rimuginai io, facendole voce dei miei pensieri. O almeno una parte, fortunatamente.






«Sono a casa!»
 
E come l'ennesimo giorno, la mia voce chiara fece eco per tutta la casa vuota. Stanze lucide e nuove. Non per l'età effettiva della proprietà, ma per l'età di esperienza di mia madre in detersivi e prodotti di pulizia per interni. Se la cavava anche con quelli da esterni. Ma quel giorno c'era un odore diverso, un’aria diversa.
 
Agganciai dubbiosa le chiavi su uno dei tre gancetti dell'appendi chiavi al muro bianco di fianco la porta d'ingresso e avanzai verso la cucina. Tutto ad un tratto non mi sentii più sola.
 
«Mamma, papà.» Li richiamai io, mentre con lo zaino ancora tra le spalle affievolii il peso del mio corpo poggiando le mani sull'isola in mezzo alla stanza.
 
«Tesoro, è andata bene oggi a scuola?» Se papà per "bene" intendesse quel genere di giorno in cui si riceve un bacio stordente, in si pensa alle rane in modo delizioso e commestibile, in cui si vedono nuvole nere e piogge effettivamente non reali… beh.
 
«Si, credo di si» Esordì io, senza pensarci troppo.
 
«Ti piace la frittata?» La domanda inadeguata di mamma e quel sorriso sgargiante comparire sulle sue labbra a un certo orario del primo, anzi, primissimo pomeriggio, non facevano una piega. Era suo solito. Sorridere anche con la stanchezza tra le spalle.
 
«Si, va benissimo mamma.»
 
Mi piace la frittata, specialmente come la fa lei, anche se è l’unico piatto che cucina bene. Non spostò neanche di un centimetro il suo sguardo dai fornelli e dalle patate, era davvero concentrata. Dovevo colpire ora, adesso. Veloce come una freccia scoccare dall’arco.
 
«Dovrei chiedervi una cosa…»
 
«Dicci tesoro.» Si misero in totale disposizione i miei genitori. Mio padre era seduto su uno sgabello a leggere il giornale, anche se era solito leggerlo la mattina presto, quando le notizie erano fresche di stampa.
 
«Ecco, so già che mi direte di no, ma è una cosa a cui terrei...» Provai a anticiparli, cercando di accompagnare la mia prossima richiesta con occhi pieni e languidi.
 
«Dipende. Se prima non ci dici cosa e chi non potremmo decidere.» Rispose prontamente mia madre, mentre versava le patate a cubetti dal tagliere alla padella. I cubetti arrivati nella superfice della padella cominciarono a cuocere, tra olio e altri ingredienti, con quel rumore caratteristico di frittura. Come quando si versa nel bicchiere acqua frizzante o spumante appena stappato.
 
«In questa settimana ho stretto amicizia con delle ragazze... Sapete sono davvero simpatiche...» Sorrisi, pensando nel momento stesso, Rossella, Emily, Leila.. persino Madison.
 
«Continua.» Mi incoraggiò cruda mia madre.
 
«Stasera si riuniscono, dormono insieme… » Non sapevo se ce l’avrei mai fatta a finire. «Mi hanno chiesto di unirmi a loro.»
 
«Ci sei quasi Charlie.»
 
«E quindi?» Continuò mia madre, mentre staccò, per la prima volta che ero entrata in quella stanza, i suoi occhi dai fornelli per rivolgerli a me.
 
«Posso?»
 
«Ok, ce l’hai fatta.»
 
Fremevo dentro di me, attendevo con ansia... Stavo friggendo dall’impazienza, peggio delle patate.
 
«No.» Sentenziò fredda mia madre. La mia di madre, che riteneva necessario il mio segregamento in casa.
 
«Ecco, infatti.» Finii io, come se lo avessi sempre saputo, fin da quando fossi entrata in cucina. Anzi, fin da quando avevo ricevuto l’invito a scuola. Sollevai le mani dall’isola, strinsi gli occhi , afferrai meglio lo zaino alle mie spalle e feci qualche passo dall’uscita della cucina.
 
«Aspetta Leticia.» La voce di mio padre parve rimbombare in quella stanza, eppure non c’era eco. Forse l’eco stava nella mia testa. Ultimamente ci stava tutto nella mia testa. Aveva pronunciato il nome di mia madre, non il mio, non Charlie o Charlotte. Ma il mio cuore si arrestò come i miei passi, come se rispondessi io al suo nome.
 
«Da chi dovresti andare a dormire?» Si affacciò dalle pagine del suo giornale, e anche se non potevo vedere su quale fosse fermo intendo a leggere secondi prima, potevo indovinare fosse la pagina dello sport. I suoi occhi erano indecifrabili.
 
«Da Emily.» Spiegai, ma senza speranze.
 
«È una ragazza apposto?» L’unica immagine al momento che mi venne di Emily era quella di una ragazza con i boccoli castani, dal visino tremendamente bello, con un corpo davvero molto proporzionato... Che con un’incredibile aggressività e violenza strappava via dalle mani un cartoncino di latte.
 
«Molto, credimi.»
 
«E le altre?»
 
«Anche loro.»
 
«É distante da qui?»
 
«Cosa?»
 
«La casa di questa Emily.. » Dove voleva arrivare mio padre? E mia madre? Con quello sguardo buio ma al contempo stesso allarmato puntato dritto su di lui?
 
«Non abita nel nostro quartiere, è un po' distante. » Spiegai, senza capire e senza essere poi così sicura di dove si trovasse casa sua.
 
«Hai bisogno di essere accompagnata allora.» Finì mio padre con un sorrisino quasi sghembo e con il giornale di nuovo fra i suoi occhi, intento a riprendere il segno da dove l’aveva perso.
 
«Steven cosa stai dicendo? Ho detto no.» Grugnì subito mia madre. «Non sappiamo neanche chi sono i suoi genitori» Continuò.
 
«Tesoro, per me è si.» Mio padre aveva di certo una voce molto più autoritaria di mia madre.
 
«Davvero papà?» Quasi lacrimavo, giuro. Mio padre si arrese alla lettura delle due di pomeriggio, piegò il giornale chiudendolo, lo appoggiò sull’isola e puntò i suoi occhi sui miei, mostrandomi quasi compassione.
 
Papà sono timida, mamma mi sottomette spesso, troppo spesso, ma non sono un cucciolo bastonato.
 
«Te lo devo. Hai bisogno di fare nuove amicizie.» Sì, avevo perso la mia Juno, avevo perso i miei compagni, la mia scuola, la mia casa, la mia Australia. Ma pareva ricordarselo solo lui.
 
«Si ma... » Strabuzzò gli occhi mia madre, incredula alla svolta degli eventi.
 
«Dai Letizia, è solo per una notte… Vero Charlotte?» Incrociò lo sguardo di mia madre, e poi il mio. Mio padre non era fatto per mettersi in mezzo. Di solito faceva decidere mia madre, troppo sforzo per lui. Poi mia madre sembrava un piccolo chiwawa sbraitante, perciò è più che logico che lui ne volesse rimanere fuori la maggior parte delle volte.
 
«Si! Si solo per una notte!» Balbettai io per  l’esaltazione.
 
«È anche tua figlia. Fa quello che vuoi.» Mandò al diavolo mia madre. Sia me, che mio padre.
 
«Mamma sicura?» Dissi incerta, testando se mia madre era ancora tutta intera, o se da un momento all’altro sarebbe scoppiata, come una mina sotto terra.
 
«Io no. Ma dato che tuo padre ha deciso così, non posso dire altro.» Grugnì, mentre provava a finire la sua bella frittata. O almeno speravo, fosse bella.
 
«Ti accompagno io tesoro.» Sorrise mio padre, facendomi capire con una sola frase che dovevo correre subito di sopra a prepararmi per la sera, per quando mi avrebbe accompagnato. E che dovevo essere puntuale quando lui sarebbe salito in macchina.
 
«Perfetto!» Esultai. «Vado a prepararmi!»






Mio padre mise i piedi sui freni, e la sua Opel asta nera frenò davanti la proprietà Henderson. Scorsi la testa fuori dal finestrino, e quella che mi ritrovai sulla mia traiettoria a primo impattò mi sembrò una bella casa, niente di tanto lussuoso, era molto simile alla mia, esteriormente.
 
Diedi un bacio veloce a mio padre, ringraziandolo. Non solo per il passaggio ma anche per aver insistito tanto e aver convinto mia madre. Lui lo sapeva che non era stato facile per me Il trasferimento. Sapeva il rapporto che avevo con Juno, e senza nasconderlo, gli piaceva questa amicizia. Per lui la famiglia di Juno era "apposto", di conseguenza lo era anche lei. Che poi lo fosse davvero o no, era tutta storia.
 
Scesi dalla macchina, afferrai borsa e cuscino e chiusi dietro di me lo sportello. Ero emozionata, non avevo mai fatto altre serate, se non con Juno…
 
Aprii il cancelletto nero che mi ritrovai di fronte, vidi mio padre inoltrarsi via nell'asfalto con l'auto  e procedetti nel vialetto decorato con della ghiaia bianca e cespugli di viole. Salii le scalette del portico e dopo pochi secondi e molti minuti, mi decisi a suonare. Non guardai nemmeno la targhetta del campanello, c’è ne era uno solo e andai ad intuito. Non aspettai molto, la porta in legno bianco venne aperta. Tenevo la testa bassa, avevo sporcato le ballerine, c'era della terra… Probabilmente nel vialetto o in prossimità delle scalette avevo affondato il piede senza accorgermene.
 
Quando mi accorsi che la porta si stava aprendo, alzai lo sguardo. Delineai un corpo robusto e abbastanza alto. Mai sarebbe potuto corrispondere ad un corpo femminile. Insomma speravo vivamente di no, perché mi aveva fatto un certo effetto. Era a torso nudo, era tutto nudo. Se non fosse per quello straccio di pantaloncini di tuta che gli ricoprivano metà gambe, lo era davvero. Senza soffermarmi sui dettagli, raggiunsi il viso, e capii tutto.
 
«Anche tu? Nuovo membro dello ‘sleepover club’?»  Mi accolse l’interlocutore.
 
Dovevo aspettarmelo da un giocatore di rugby. Dovevo aspettarmelo da un quarterback. Dovevo aspettarmelo da William Henderson. Il fisico, intendo.
 
Pensavo che Lucas fosse l’unico ben piazzato, pensavo.








Allora, prima di tutto eccomi qui per l’ennesima volta a scusarmi per il ritardo.
Sono stata in vacanza e non ho avuto modo di avvisarvi meglio.
Coomunque.
Non so se vi sia piaciuto o meno il capitolo, infatti aspetto vostre recensioni anche per capire se sto migliorando o no.
In tal caso, avrei proprio deciso di svelarvi i volti di queste fanciulle.
Delle personaggie(?).
Ora.
Queste sono delle linee, dei prestavolti che gli vanno davvero vicino..
Ognuno può avere di certo la sua Emily, la sua Charlie la sua Madison .. avete capito.
Intanto io ve le presento, per farvi un idea

Per vederle basta andare sulla pagina del primo capitolo qui e scorrere verso il basso.





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Capitolo 10
*** ten ***


10


Charlotte Wilson

«Non c’è nessun ‘club’, nessun ‘sleepover’.» Schiarii la voce riuscendo a controbattere. Non ottenni molto. Il suo sguardo era fisso sul mio, privo di espressioni ed emozioni. Se in un primo momento era riuscito ad incastrarmi con il suo sorrisino sghembo, in un secondo aveva letteralmente ribaltato il gioco a quello dell’indifferenza. «Cosa credi ci faccia qui con borsa e cuscino? Sono di sicuro passata solo per salutare te.» Continuai, cercando di farmi spazio ed entrare dentro casa.
 
«Oh, che carina.» Sorrise di un colpo il quarterback, donando vita alle sue fossette appena sopra il sorriso smagliante. Poi ricadde subito nell’inespressivo, facendomi capire quanto fosse bravo a recitare la falsità. «Ok, ciao.» Decretò infine, indietreggiando di quale centimetro e sbattendomi la porta in faccia.
 
«William!» Urlai dapprima nella mia mente, e poi lo sentii concreto provenire dall’interno, da una voce che pareva quella di Emily. «È Charlie, vero?»
 
«Era passata solo per un salutarmi non scomodarti è già andata via.» E proprio quando avevo finito di orecchiare la discussione che si era creata all’interno, la porta mi fu riaperta. Questa volta era Emily, Emily e la sua faccia da dura aggressiva, riempendo secondi dopo il suo sguardo in commiserazione e scuse da parte sua per il fratello.
 
«Che problemi ha?» Grugnii, facendomi largo dentro casa.
 
«Molti.» Mi confermò, sbuffando e alzando gli occhi al cielo. «Sai com'è, la famiglia non si sceglie.»
 
«Ti ho sentito.» La voce matura e roca di William Henderson si impossessò di tutto l’eco del piano terra.
 
«Ed era proprio quello che volevo.» Urlò forte la sorella sfortunata (ad avere un fratello così lo si deve essere davvero parecchio).
 
Emily chiuse la porta dietro le nostre spalle, di fronte a noi delle scale in legno. Mentre tenevo borsa e cuscino sotto lo stesso braccio, nell'altro sentii una leggera pressione, pressione che Emily stava applicando necessariamente per guidarmi, stringendo con poca forza, quasi inesistente, il mio esile braccio verso il piano di sopra. Durante la ‘scalata’, se così si può dire, fino a quando la traiettoria permetteva, tirai giusto un'occhiatina fuggitiva verso la cucina, verso quella stanza, verso un certo William Henderson dalla schiena nuda, liscia e muscolosa, con mani che armeggiavano uno stappa bottiglie e... Forse birre, non ne ero pienamente sicura.
 
Alzai gli occhi verso il nuovo piano, più stretto  con un corto corridoio e tante porte. In quegli istanti mi venne proprio il dubbio che la dose di zucchero iniettati tra un ora e all'altra la mattina mi avessero stordito o tanto meno messa “KO” di fronte la stracciante realtà. Ma tutto apposto. Riuscivo ancora a riconoscere e distinguere i volti delle persone e a non scambiarli con allusive strane fantasie.
Quello davanti ad una delle tante porte era proprio Lucas, Lucas Sanders con un amico accanto, che molto più che probabilmente era 'il-principe-azzurro-proprietà-di-rossella-esposito' , o più comunemente chiamato 'Derek Foster'.
 
Meno male che prima che i miei occhi toccassero loro, i miei piedi avevano già toccato il pavimento, e se fossi stata ancora sull'ultimo scalino, sarei di sicuro ceduta insieme la mia dignità giù per le scale rotolando di dolore.
 
Un sorriso giunse alle mie labbra, un sorriso più spento di quanto mi potessi aspettare, e un roseo vago sulle guance, appena appena. Su di loro solo occhiatine fuggitive. O almeno quella di quel fusto occhi verdi lo era, quella del biondino non ne ho idea. Il colore comune delle sue iridi mi ricordava molto vagamente Madison e la mia poca fedeltà. Così mi concentrai e mi costrinsi a non guardare ciò che non si poteva toccare - o baciare, in questo strano, parecchio strano caso in cui mi ero immersa fino alle labbra.
 
Eccolo poi il vero sguardo, di fronte a me, con un lenzuolo in mano e sorriso e stampato in faccia come quelle bambole di porcellana che fanno poca paura. Madison aveva tutta l'aria , più che voglia, di rivestire il letto e spupazzare cuscini. «Ragazze c'è Charlie!» Esclamò vedendomi al ciglio della porta.
 
Ah già, ci sono anche le altre.
 
E per altre non intendevo Lucas Sanders o Derek Foster che parevano un miraggio. Per altre intendevo Leila con le mani in mano a fissare la finestra fino alla mia comparsa, Rossella con le mani sul cellulare, e un viso a me sconosciuto.
 
Un eco di saluti e sorrisi giunse sia alle mie orecchie che ai miei occhi. «Mi pare che voi non vi conosciate ancora.» Intervenne Emily ignorando, a differenza mia, i due ragazzi davanti la porta accanto.
 
«Lei è Lily, Lily lei è Charlie.» Ci presentò.
 
Lily era una ragazza non molto alta, aveva i capelli neri come la pece. Erano liscissimi, che se glieli avessi anche solo toccati mi sarebbero rimasti, forse, in mano. Sembravano delicati, e in perfetto ordine. Li teneva con una riga in mezzo, un riga che le delineava perfettamente i due occhi neri a mandorla e la bocca piccina. Non ci volle molto a capire che Lily era nipponica… O perlomeno asiatica.
 
«Beh, piacere Charlie» Si sporse verso di me con la mano tesa, e io fui felice di stringergliela.
 
«Lei è la mia vicina, viene nella nostra scuola, sai?!» Squittii Leila dal fondo della stanza, con un aria aurea.
«Davvero?» Rimasi sorpresa, sorpresa di non averla mai vista durante la mia prima settimana di scuola. Ma non era la cosa che al momento mi suscitava tanto interesse. C’erano cose più importanti da chiarire.
 
«Emily mi spieghi che ci fanno loro qui? » Deviai magnificamente il discorso con tanto di faccino preoccupato. «Per loro, intendo i ragazzi.» Specificai.
 
«Finale di rugby in TV.» Arrivò dritta al punto la ladra di latte. «Non è colpa mia se mio fratello si usa di ogni scusa possibile pur di bere e fare casino quando mamma non c’è.» Aggiunse come se si stesse quasi scusando. Ma in realtà non sapeva davvero di cosa dovesse scusarsi. Non sapeva che io stavo cercando il più possibile di non vedere, non pensare e non sentire Lucas Sanders e il suo bacio.
E stavo per dire qualcosa sul serio, qualcosa di tanto carino per spiegargli che l’avrei uccisa in un modo o nell’altro, o che magari me ne sarei andata da lì a poco fuori con gran velocità.
 
«A me sta bene.» Squittì Rossella, che aveva appena, e per poco, alzato gli occhi dallo schermo del cellulare, facendo un sorriso così grosso che si estendeva per tutto il viso. Questo era l’effetto collaterale che le faceva Derek Foster, e sapendolo qui nei dintorni, non poteva non essere così euforica. Le ragazze la guardarono e risero prendendola affettuosamente in giro. L’avrei fatto anche io, ma “ad essere in giro” era proprio la mia testa.
 
«Non… Non ti ho mai visto a lezione… Come mai? Sei della nostra età... Giusto?» Provai in tutti modi quindi di non spiegare, o almeno ad alta voce, o almeno alle ragazze, o almeno a me stessa, il mio sgomento per questa “finale di rugby in TV” in camera di Re Artù.
 
Ma aveva dovuto  riunire tutta la tavola rotonda proprio stasera!? Ad esempio, lo stadio è un bel posto per vedere una partita, in diretta. No?
 
«Sì, stesso anno. Sono solo partita per un mese. Sai, sono tornata ieri…» Rispose Lily dando fumo ai miei contorti pensieri. «Tu devi essere la nuova arrivata» aggiunse con una voce quasi insopportabile.
 
La perdonai, senza dirle “ti scuso” perché non aveva senso, perché alla fin fine dava fastidio solo a me questo nomignolo. Pare che tutti si siano abituati a chiamarmi “la nuova arrivata” e che quindi a tutti piaceva. «Sì lo sono.» Risposi fredda, controllando tutto. E per tutto intendo “la nuova arrivata” e “Lucas Sanders”.
 
«Devi aver conosciuto suo fratello, allora» Continuò l’asiatica, o nipponica, non so come soprannominarla se non Lily, Lily e basta. Quest’ultima indicò Emily, facendomi capire che il fratello in questione era il suo.
 
«Lily ne parli come fosse l’attrazione circense della scuola.» Rispose a quel dito puntato la ladra di latte.
 
«Lo è.» confermò convinta Lily. E forse aveva ragione.
 
«E poi devi aver conosciuto la Peterson, le simpaticissime cheerleader, Alexia e le sue seguaci…»
 
«Alexia e chi!?» Feci una faccia schifata, anche se non ne avevo la più minima intensione. Stavo cercando di tenere a bada la mia testa e le mie labbra. Ma stava parlando troppo veloce e questi nomi mi stavano confondendo.
 
«In nessuna scuola mancano le troie, sappilo. In qualsiasi scuola c'è una Alexia.» Marcò Lily, contorcendo le labbra e guardando le altre, cercando segni di approvazione. E li ebbe. Poi scoppiò in una risata, una risata rassegnata, e le altre la seguirono.
 
Mi sentii spaesata e non è che fossi così entusiasta di sapere che non solo nella mia scuola in Australia c’erano le così dette ‘zoccolette di turno’. Ne sarei rimasta felicemente fuori da questa “Alexia” o come si chiamava. Non volevo problemi, più di quanti ne abbia già collezionati in una settimana.
 
«Non so chi sia. Assolutamente. Ma in compenso conosco una cheerleader.» Sorrisi guardando Emily.
 
«Perché guardi me?» mi rispose dubbiosa.
 
«Tu non ..»
 
«No» affermò Emily, chiara e coincisa. Spalancò gli occhi schiuse le labbra e entrambe capimmo che ci eravamo letteralmente fraintese. O che ameno io avevo frainteso lei e molte delle altre cose. «Ma dove ti va la testa?»
 
«Non sei una cheerleader?» Cercai di chiarire, sbuffando una risata e arrossendo per la brutta figura. Lei mi seguì ridendo, e lo fecero anche le altre, allibite.
 
«Mai stata, darling.» Imitando un accento fortemente britannico.
 
E per chi si stia chiedendo cosa voglia dire “darling”, “darling” esprime tutto il concetto di “tesoro”.
Un concetto molto, molto stretto e molto molto inglese... Più che americano. Non che non lo usassi in Australia, ansi si sentiva molto, ma in America per quel che ne sapevo non si sentiva, non si sentiva affatto.
 
«Ma, quella volta alla mensa… Ti ho vista. Eri vicino a loro e sembravi una di... Una di loro» Provai a spiegarmi, cercando di farle capire che davvero non è così strano che io abbia scambiato una bella ragazza come lei per cheerleader.
 
«Preferisco certamente un palo nel culo.» Rispose freddamente.
 
«Ok, credo di aver fatto troppa confusione. » Poggiai due mani nella testa e avvampai di rossore e incapacità di riflessioni.
 
«Già decisamente.» Tutte si guardavano ed era come se fossi la pazza della situazione. «Emily una Cheerleader, eh? » Sdrammatizzò Lily. Così incoraggiò alle altre una risata, e risata fu. Mi sentii sollevata, ma dovevo smetterla con le riflessioni, e tutto il resto. Dovevo smetterla di parlare, pensare respirare… Tutto.
 
«Smettetela. È disgustoso anche solo il pensiero.» Emily scosse la testa, sconcertata per il pensiero e per le risa in stanza.
 
Non ne azzeccavo una. Un po' come quando la sera, seduta insieme ai miei genitori in salotto a contemplare la tecnologica scatola magica, alias Televisione, provavo ad indovinare le risposte del solito quiz televisivo Answer &Win, trasmesso ogni volta, ogni giorno, allo stesso orario. Alle ‘20:00. Le sbagliavo tutte. Che si trattasse di Storia, Geografia, Cultura, Musica o Spettacolo. Eppure i miei voti a scuola avrebbero dovuto spingermi a risposte e intuizioni più argute, di quanto argute possano essere quelle che poi in realtà decretavo.
 
 
Avevano scelto un filmetto svedese, di cui non ricordo nemmeno il titolo, di cui non mi sono neanche interessata. Non male, nessuna scena violenta, nessuna testa sgozzata, nessuna gamba volante, nessun serial killer pronto a tormentarti nei sogni. Insomma, uno di quei film che mi piaceva, uno di quei pochi che però mi annoiava. Rossella aveva le lacrime sul viso, il tizio che stava insieme alla protagonista era morto, e gli avevano celebrato un funerale meritevole. Lei si era emozionata. Lei non la protagonista, lei Rossella.
 
Quando eravamo intente a far finta di leggere i titoli di coda, un rumore alle nostre spalle attira l'attenzione. Non che avessi capito cosa fosse stato, ma punzecchiai un occhiataccia sorpresa alle altre, sperando che loro potessero spiegarmi. Ma la risposta non era in nessuno dei loro occhi. Tutte intente a osservare il punto da dove era provenuto il rumore. La porta del bagno. Del bagno di Emily, il suo bagno, e forse anche quello del fratello, per quello che capii il loro bagno era collegato tra le camere da letto tramite due porte.
 
Poi di nuovo. Lo stesso rumore.
 
Non ci volle un terzo colpo per realizzare che qualcuno stava spingendo o tipo sbattendo
contro la porta, anima e corpo. Non sapevo di che legno fosse la porta, ma speravo potesse reggere. Qualsiasi cosa le andasse contro. Non ci volle un terzo colpo per capire, vero. Ma ce ne volle un quarto per farla aprire nel modo meno delicato che si possa mai usare per una porta. Da quel bagno venne prima fuori una risata, poi più di due, una diversa dall'altra che si contrapponevano alla sigla di sottofondo del nostro lacrimoso adorabile filmetto svedese da due soldi. I ragazzi erano dentro il bagno, e le risate, giustamente, erano le loro. Come i tonfi contro la porta.
 
Scattammo in piedi e ci avvicinammo alla porta.
 
«O mio dio. Cosa è successo qui dentro?» Esclamò Emily sbalordita tanto quanto noi.
 
Il bagno era un disastro, e non credevo fosse uno stile d’arredamento art-moderno del secolo. Il tappetino era sopra la doccia, molti flaconi di shampoo e bagnoschiuma erano a terra o a ridosso del lavandino, alcune asciugamano erano sparse qua e là, la tavolozza del gabinetto tirata su… E cinque ragazzi fuori posto.
 
Li avevo riconosciuti tutti, o più o meno. C’era un tizio più basso che non avevo ancora mai visto. Bel fisico, faccino carino. Un bel pulcino.
 
«Marc, quella è solo la tua immagine riflessa. Non tua madre.» Spiegò Lucas a Marcus, mentre gli teneva i bracci dietro la schiena e lo spingeva a se, cercando di calmarlo. Ed era così figo mentre lo faceva.
 
«Mia madre è una Troia.» Affermò con una strana voce Marcus. Una voce quasi acuta. Il resto dei ragazzi non si preoccupava ne di aiutare Lucas ne di aiutare Marcus in quel suo evidente stato di ebrezza. Piuttosto ridevano e si soffocavano in interminabili e piacevolissimi sorrisi “ammazza-ragazze”.
 
Ammettiamolo, i ragazzi quando ridono sono incontrollabilmente perfetti. Anche se sempre dipende dal ragazzo. Ma con William Henderson, Lucas Sanders, Derek Foster, Marcus Davis e il pulcino sconosciuto, in una stanza così stretta e in sorrisi così pieni, non c’è proprio nulla da dire.
 
«Ditemi che lo state filmando.» Riuscì a dire per pochi secondi William prima di ricadere in una tremenda risata. Avevo provato a cercare il viso di William per capire cosa stesse succedendo, ma non essendo capace di decifrare ne lui ne la sua espressione, scrollai il mio interesse su di Lucas, fissandolo in cerca di una spiegazione.
 
«Marcus sta delirando, ha bevuto troppo e... » Spiegò Lucas quasi mortificato. Lui mortificato, lui. Non avevo idea di cosa avessero in mente, ma di certo sapevamo tutte cosa avessero nel fegato e nello stomaco.
 
«Cazzo amico calmati mi distruggi una casa!» Esclamò William, mentre cercava di riprendere un tono o almeno un pizzico di serietà. Mi convinsi che se la casa in cui stava succedendo questo non fosse stata sua, non l’avrebbe mai detto e non se ne sarebbe mai preoccupato.
 
Nessuna risposta, se non una degenerazione totale dentro la stanza. Fu in quel momento che raggiunse tutti i nostri occhietti vispi e preoccupati. «Che cazzo volete?» Grugnì.
 
«Marcus è pericoloso, per favore rientrate...» Lo seguì Derek, che ero più che sicura avesse suscitato una sorta di deficienza su Rossella.
 
Allora Marcus urlò, decisamente agitato e sopraccitato. «Non è vero che sono pericoloso. Cazzo dici amico?» Farfugliò subito dopo, attirando l’attenzione di tutti. Più di quanto non lo avesse già fatto prima. «Ma guarda chi c’è, Ross, vieni qui !» Delirò, avvicinandosi  fin troppo pericolosamente a Rossella, facendola indietreggiare a ridosso del muro del bagno e provocandole un certo shock. E Rossella non riuscì neanche a difendersi, perché lo fece qualcun altro per lei.
 
«Coglione, non risicarti, sai?» Scagliò Derek con un tono violento contro il corpo di Marcus che stava diventato indifeso. Gli diede diversi spintoni, sia per farlo allontanare dalla, ormai deceduta, Rossella Esposito e sia per puro sfogo personale. Non ci fu una sola persona in quella stanza che non si accorse di tale poca indifferenza di Derek nei confronti di Ross.
 
E piombò il silenzio, tra i bisbigli confusi di Marcus e le provocazioni di Derek.
 
«Ma santo Dio, ve ne andate? » Fu William Henderson a irrompere nel silenzio, in modo che ingegnosamente ci distraessimo dall’accaduto.
 
Cos’è che stavo vedendo? Non lo stava mica coprendo?
 
«William c’è un casino! Ma che cazzo vi viene in mente?» Rispose la sorella, che si stava sgolando.
 
Ma re Artù colpì ancora, mirando alla sorella uno sguardo di severità, e forse, dico forse, protezione. Si avvicinò a lei senza staccargli gli occhi di dosso. «Ti ho detto che devi uscire da questo fottuto bagno.» Scandì lentamente con un tono severo. «Lo capisci?» Le sue tempie di corrugarono spaventosamente insieme alla mascella.
 
Emily parve rimanere allibita, peggio di Ross che si era ritrovata Marcus a pochi centimetri dalla faccia. Non disse parola e fece scorrere parecchi secondi. «Andate al diavolo!» Si infuriò successivamente, uscendo dalla porta e chiedendoci di seguirla e lasciarli perdere.







Eccomi, ed ecco il nuovo capitolo.
In questo capitolo (anche se non sembra) ci sono molte frasi importanti.
Troppo importanti.
Che serviranno e che ritroverete più avanti nella storia...
Secondo voi quali sono queste “frasi importanti”?

Ho aggiunto le foto dei prestavolti maschili, nel fondo pagina del primo capitolo insieme a quelle delle ragazze qui .





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Capitolo 11
*** eleven ***


11


Charlotte Wilson

Forse dovevo cercare di capire più mamma e la sua ossessiva possessione nei miei confronti. Avrebbe potuto essermi utile e chissà, magari ottimizzare particolari situazioni.
 
Ero convinta che certi avvenimenti come questo non fossero scritti ed inseriti nella scaletta di ogni pigiama party. Un po’ come una lista di quello che si dovrebbe fare e quello che si dovrebbe evitare. Ma una lista di quelle serie, però. Tuttavia, non potevo immaginarmi una lista del genere con una voce che esprimesse: “Osservare un tizio ubriaco, ubriaco abbastanza da sfasciare un intero bagno”. E poi a seguire roba come mettersi lo smalto alle unghie dei piedi, battaglia dei cuscini e pop corn. Se fosse esistita di certo qualcosa non sarebbe quadrato.
Come Lucas. Lui non quadra proprio per niente.
 
Non rivisti più i ragazzi, né quella sera né la mattina seguente. Passarono due lunghi giorni prima che io potessi rivederli a scuola, tutti insieme appassionatamente ad allenarsi in campo con l'attrezzo dei loro sogni: palla ovale marrone con rifiniture bianche all'estremità.
 
Noi ragazze (e per "noi ragazze" intendo davvero tutte le ragazze del mio stesso anno) eravamo fuori, appena qualche passo dallo stesso campo a svolgere la nostra normale ora di educazione fisica accanto ai cori e alle spaccate esemplari delle benamate cheerleader. La loro euforia di solito era molto contagiosa, davvero, ma non oggi.
 
«Ma Derek?» Domandò con una certa sfumatura retorica la mia amica 'boccolosa' all'altra, quella dell'incontro ravvicinato con “Marcus l’ubriaco”.
 
«Derek cosa?» Squittì Rossella in risposta, mentre si piegava e contorceva nel suo stretching personalizzato.
 
«Ieri sera ha fatto quella scenata per te…» Si intromise Madison.
 
«Non credo possa essere definita scenata.» Rispose l'interpellata inarcando un sopracciglio e sbuffando come se noi, noi tutte però, non avessimo capito nulla di ciò che avevamo visto due sere prima.
 
Per quanto potessi conoscerla, Rossella aveva spesso presentato nel giro di una settimana questo suo evidente lato da saccente maestrina. Non era un insulto, nemmeno un pregiudizio. È che c'aveva proprio tutta l'aria di riuscirci benissimo.
 
«Ross, lo abbiamo visto tutti.» Replicò Emily con indifferenza, mentre non provava nemmeno ad imitare la sua amica maestrina e il suo complicato stretching.
 
Rossella scosse la testa, portandosi con quel movimento tutta la sua certezza, e qualche capello fuori posto. «Marcus era solo ubriaco.»
 
«Ok, ma Derek no.» Non che Emily fosse davvero tanto interessata a Derek e al suo castello costruito senza licenza tra i prati rosa, le piscine di caramello e le cascate di cioccolato nei pressi di “Rossland”, ma di certo controbatteva solo per assaporare il dolce gusto della ragione.
 
L'avevo capito. L'avevamo capito. Forse anche Ross l'aveva capito.
 
«Scommetto che tuo fratello non ha risistemato nulla di quello che Marcus ha toccato in quel bagno.» L'idea fu di Lily, l'idea di rompere il ghiaccio e la statua che si stava man mano costruendo nella forma più perfetta di “Derek Foster”.
 
«Infatti non lo ha proprio fatto. L'ho fatto io.» Rispose Emily distraendosi.
 
«Tua madre lo ha scoperto?» chiesi dunque io curiosa. Mia madre l'avrebbe scoperto in questo caso. In qualsiasi caso, in realtà.
 
«No. Sono troppo brava.» E vidi vaneggiare in modo troppo improbabile la 'boccolosa', che oggi pareva proprio averne di più di boccoli, e di più scuri cinti in una composta coda di cavallo.
 
«Smettila.» Sventolò la mano al vento Rossella. «Tua madre non si è nemmeno accorta che tuo fratello fuma.» Continuò con una spessa sicurezza.
 
Ah già, William fuma. Cos'è che William Henderson non fa?
 
Che ci fosse stato qualcuno che oltre a descriverlo nei suoi trasgressivi peccati o nella sua bellezza eccessiva, mi avesse detto: " William non fa questo”.
 
«Credo che lo abbia intuito. Ma cosa può dirgli? Può vietarglielo?» C'era una sorta di enorme punto interrogativo stampato in stampatello fra occhi di Emily. L'aggettivo che vorrei meticolosamente usare per descrivere la sue espressione è molto vicino a 'rassegnata'.
 
«Con mio padre non l'avrebbe passata poi così tanto liscia.» Aggiunse quale secondo dopo, con la stessa espressione di prima.
 
Non che sia proprio seduta nel posto giusto per poter parlare e dire la mia, ma andiamo, l’80% degli adolescenti fuma. Certo, io rientro in quel 20% scarso, ma non è che bisogna stupirsi.
 
Che Emily stesse parlando in generale? Che il fumo fosse solo una delle tante cose? Delle tante cose di William Henderson?
 
«Charlie non sa di tuo padre, vero?» Asserrò Lily mentre legava i capelli.
 
Che cosa avrei dovuto sapere di suo padre?
 
Emily gettò giù un sospiro ed evitò il mio sguardo, chinandosi su se stessa per toccare con le punte delle dita i suoi piedi, dimostrando una particolare flessibilità.
 
«Oh, no. Ma se non ne vuoi parlare non ti preoccupare.» Suggerii dopo qualche secondo di silenzio imbarazzante.
 
Così Emily lasciò stare i suoi piedi e la sua favolosa flessibilità e puntò i suoi occhi suoi miei. «Ma che hai capito? Non è mica morto.» Dichiarò ridendo, guadagnandosi l’attenzione di tutte.
 
«No, non avevo capito questo.» Cercai di smentirmi farfugliando e agitando le mani davanti a me.
 
«Tutt'altro.» Sorrise Rossella ignorando le mie parole e osservando Emily.
 
Emily allora si fece tutto ad un tratto seria, come se secondi prima non avesse deriso quella situazione. Si stiracchiò portandosi le braccia dapprima in alto, sopra di sé, e poi dietro la nuca in modo da sentire qualsiasi parte del suo corpo scrocchiare. Batté la sua lingua contro le labbra, bagnandosele, e si portò dietro l’orecchio qualche capello che gli si era impigliato tra la guancia destra e la bocca e che la stava infastidendo coprendogli il viso. «Mio padre non vive più con noi da un bel po' di anni. Ha preferito la sua costosa villa di Malibu a noi.»
 
Capii che per noi intendeva “Lei, sua madre, suo fratello”. Notai una sorta di scalpore nei suoi occhi, scalpore che ebbi la sensazione di provare anch’io data la sua confessione. Oltre allo scalpore c’era anche un tono non poco leggero di ironia, ironia andata a male, però. Tuttavia, la più sensibile fra le due sembravo proprio io, sentii i miei occhi inumidirsi e cogliendo l’attimo in cui nessuna e dico proprio nessuna mi stava guardando, cacciai subito le lacrime che erano in procinto di rigarmi le guance.
 
«Quanti anni avevi?» Chiese con ingenuità Leila, che pareva esserselo scordato, dato che l’unica che non ne era a conoscenza ero io. E per la cronaca, se l’avessi saputo e se fossi stata al posto loro, non avrei scordato nulla. Nemmeno l’età che aveva nell’anno dell’accaduto.
 
«Tipo... Undici?» Cercò di indovinare Rossella che accigliò lo sguardo e socchiuse le labbra.
 
«No, ne avevo dieci di anni, quando i miei si sono divorziati.» Confermò guardando me piuttosto che Rossella.
 
«Mm.. Mi spiace, davvero» Balbettai, cercando di non alterare la mia voce in qualcosa simile ad un lamento o ad un pianto.
 
«Non ci penso nemmeno più ormai. Tra i due chi l'ha presa davvero male al tempo è William, io un po' di meno.» Chinò la testa, come se ci stesse davvero ragionando sopra.
 
«William!? Perché scusa quanti anni aveva?» Domandai scettica.
 
«Dodici. Ora Diciassette. Ma lui era più affezionato a mio padre.» Rispose lei con voce piatta e stranamente ragionevole. «Sai c'è sempre un genitore che preferisci, tra i due. È brutto pensarla così, ma è la verità Charlie. E William preferiva lui.» Continuò ampliando il concetto.
 
A dire il vero io non mi sentivo così. Non avevo un genitore ‘preferito’ tra i due. Li detestavo entrambi. Anche se certo, se avrei dovuto trarre le somme del migliore, il prescelto sarebbe stato mio padre, dato che mia madre l’avrei tenuta più come cane da guardia.
 
«È sempre stato così tuo fratello?» Domandai interessandomi in modo troppo puntiglioso.
 
«Così.. Come?» Emily inarcò un sopracciglio non capendo.
 
«Così, insomma» Mi strinsi nelle spalle come se non c’era un concetto preciso per descrivere il mio “così”.
 
«Dici il suo egocentrismo, la sua stupidità?...» Cominciò la ladra di latte, cogliendo a pieno, solo adesso, quello che volevo intendere. Sarebbe andata avanti probabilmente con i difetti se io non l’avessi subito bloccata accennando un ‘sì’ timido.
 
«Quello da sempre. A parte che non fumava, non rischiava ogni anno di rimandare materie importanti.. Era meno peggio, ecco.» Sorrise infine.
 
«Quando?»
 
«Un anno prima del divorzio, perché non sono così convinta che sia colpa del divorzio, ma qualcosa del genere.» Aggrottò le sopracciglia guardando un punto fisso.
 
Non potevo davvero immedesimarmi nella loro situazione. I miei genitori erano sempre stati così uniti, e l'idea di un possibile divorzio a me personalmente ammazzerebbe.
 
Tutto ad un tratto sentii un dolore forte e netto vicino la tempia sinistra. Qualcosa mi aveva colpito, sperai non la morte. Il tempo di realizzare che a colpirmi la testa era stata una palla, che vidi dritto in faccia l'artefice del tentato omicidio.
 
Gettai via senza contenermi un urlo di dolore, passandomi poi istintivamente un palmo della mano lungo il luogo dove stavo sempre più catalizzando la botta, attirando l’attenzione di molti studenti. Aggrottai tutti i muscoli facciali in un espressione sconcertata, e imprecai Dio di fulminare William Henderson all'istante. Anche al ciel sereno. Meglio. Sarebbe stato ancor più di effetto.
 
«Sembrerebbe che tu abbia un certa calamità per le palle, Wilson» E il ragazzo con un più che immenso oceano in entrambe gli occhi contorse a quella sua improponibile affermazione un ghigno divertito, un ghigno che traspariva un opaco e lurido doppio senso.
 
Mi trattenni dal rifilargli una catena mostruosa di insulti e brutte parole sentite tra le partite di wrestling in TV e i scaricatori di porto che risiedevano anche in alcune familiari coste australiane.
 
«Accidenti William! Miravi a me per caso?!»
 
«In realtà miravo al tuo bel faccino, peccato che tu ti sia girata giusto giusto nelle ultime frazioni di secondi.» Con aria parecchio sarcastica.
 
«Giuro su quanto è vero Dio che io oggi ti uccido!» Strillai contro con occhi inferociti. Per quanto potessi sentire pulsare di atroce dolore la tempia e tutta la testa che probabilmente aveva assorbito la botta, non feci altro che scagliarmi contro di lui attraverso una corsa veloce per tutto il perimetro del campo.
 
Insomma fino ad un certo punto veloce. Lui, lui sì che era veloce. Io? Io tenevo due gambe da cerbiatto, fragili stecchini stanchi e incapaci di rincorrere e raggiungere addirittura la preda. Nonostante cercassi di dimostrargli che a Charlotte Wilson era salito fino a tutte le ossa del corpo il crimine, non ero riuscita a veder altro nel suo viso se non un simpaticissimo sorrisino esaltato al punto giusto fra le labbra e gli zigomi. Si perché oltre a tenere una corsa veloce, guardava dietro di se, come se stesse giocando a Mosca ceca, e io ero quella che aveva la penda tra gli occhi.
 
Mi stupii il fatto che non gli venne in mente l’idea di prendere degli scacchi, e ci avesse fatto una partita nel mentre, o che so, magari un caffè o un racchetta con una palla da Ping Pong.
 
La sua maglia rossa con riflessi lucidi bianchi alle maniche era un po' sudaticcia, quanto i capelli, e i pantaloni che somigliavano più ad una sorta di scomoda calzamaglia bianca ricadevano perfettamente tra le sue gambe muscolose e il suo sedere simmetrico. La botta alla testa doveva esser stata davvero forte per farmi blaterare così senza ritegno.
 
Ci fu poi, dopo un po', un momento in cui il mio corpo aveva cessato quasi di vivere e le mie gambe imprecavano di smetterla, smetterla di usarle così inutilmente. Così mi fermai e mi ripiegai su me stessa, cercando proprio per niente di allungarmi in riscaldamenti o mosse strane varie. Volevo solo far penzolare il mio corpo, dal bacino in su, a ridosso del restante, mentre una mano cingeva il mio stomaco e poi i miei poveri polmoni. I capelli si erano sparsi tra la schiena e la faccia, vidi ricadere insieme ad essi davanti a me un ombra artificiale.
 
Sia chiaro che per ombra artificiale non intendo quella del sole. Quella sarebbe un ombra naturale. Almeno, secondo le mie idee.
 
«Sei lenta.» Schernì Achille piè veloce di fronte a me.
 
«Sei soprannaturalmente veloce.» Risposi con prontezza.
 
Lui sorrise e si portò una mano vicino le labbra cercando di trattenere altre risa. «Hai già il fiatone?! Come pensi di punirmi ora?» Domandò lui con ironia.
 
«Speravo cadessi o inciampassi. Non è successo.» La mia però non era ironia.
 
Mi aspettavo una risata, un sorriso, anche uno di quelli sghembi come lo sa fare lui, ma nulla.
Una ciocca scompigliata mi permetteva di intravedere attraverso una breccia il corpo sagomato di quell'essere soprannaturale. Indietreggiò di un passo piuttosto che avvicinarsi più a me, sporse la mandibola sul lato destro e gettò dalla bocca uno sputo che ricadde sull'erba corta e verde attorno a noi. Poi si leccò le labbra con la lingua umidendole e sbuffò un sospiro, sfregandosi una mano sull'ampio torace.
 
Era calato un silenzio imbarazzante e non capivo se lui mi stesse guardando come per chiedermi se avrebbe dovuto far da testimone per la mia morte o se stessi bene anche con i miei respiri stentati. Così mi rialzai, provando non solo il precedente dolore fitto alla testa, ma anche un nauseante giramento della stessa.
 
«Avevi giurato su Dio, a quanto pare non esiste.» Mi ricordò, colpendomi a pieni polmoni. O quel che ne era rimasto di essi.
 
«Non bestemmiare.» Inacidii, non riuscendo a guardarlo in faccia.
 
«Sei tu che hai bestemmiato su di lui giurandoci sopra.» Mi fece notare con discrezione e incredibile attenzione.
 
«Era solo un modo di dire.» Farfugliai rimanendo senza parole.
 
«Se la metti così allora lo era anche il mio.» Protestò con indifferenza. Irreparabile.
 
Non che calò nuovamente il silenzio, ma quasi. E non così come doveva essere perché aveva appena messo in dubbio la mia credenza cristiana, ma perché l’unica cosa che aveva fatto in modo di metter in dubbio era oltre che i miei polmoni anche la mia respirazione.
 
Dico davvero, dico davvero di averla quasi persa quando incrociai il suo sguardo e le sue iridi azzurro oceano che predominava sul mio azzurro scolorito.
 
Il mio viso si colorì e mi sentii avvampare. Ma perché? Che diamine di effetto mi stavano facendo i suoi occhi? Smettila di battere così velocemente, cuore. Tu dovresti impazzire solo per Lucas, ricordi?
 
Provai a scacciare dalla mente l’immagine dei suoi occhi fissi sui miei ma non ci riuscii, ebbi la capacità di riuscirci solo quando distolsi e abbassai lo sguardo da lui, schiudendo le labbra confusa.
 
Lui fece lo stesso, distolse lo sguardo e lo puntò dentro il campo, notando che probabilmente i suoi compagni di squadra lo stavano cercando. «Cosa c'è tra te e Lucas?» Sputò tutto ad un tratto con indifferenza.
 
«Non c'è nulla.» Mentii. Anche se tra noi non c’era davvero niente, se non un bacio di mezzo.
 
«Mm…» Arricciò le labbra e quasi mugolò fissandomi con poca convinzione.
 
«Cos'era?» ringhiai.
 
«Cosa?»
 
«Quella cosa.» Continuai.
 
«Quale cosa?»
 
«Quella smorfia.»  Ma lui non mi rispose, concentrò di nuovo la sua attenzione sul campo. Sentii un nodo alla pancia. Che avesse capito qualcosa?
 
E se l’avrebbe spifferato a tutta la scuola? Insomma, chi non crederebbe al playmaker?
 
«Credo che sia, come dire... 'Geloso'?» Disse d’un tratto, non distogliendo lo sguardo.
 
«Come scusa?» Domandai distraendomi nel guardare il suo profilo e la luce del sole che colpiva i suoi capelli arruffati.
 
«Lucas, intendo.» Specificò, ritornando a osservarmi.
 
«Ah.» Sillabai.
 
«Che c'è Charlie?! Sembri quasi delusa che non lo sia io.» Sbiascicò con un sorrisino soddisfatto e malizioso fra le labbra.
 
«Ti sbagli.» Risposi fredda, quando dentro stavo morendo. Non so di cosa, ma stavo morendo.
 
«Non è geloso.» Aggiunsi con fermezza. «Di cosa dovrebbe essere geloso?» Presi una piccola pausa mentre i suoi occhi non parevano distrarsi più, il che mi rendeva difficile le cose, le parole. «E poi perché?» Continuai. «Non vedo cosa mi leghi a lui.» Strabuzzai gli occhi falsificando la verità e coprendomi dalle sue intuizioni.
 
«Quello sguardo, forse.» Disse con voce sicura e piatta, lanciando uno sguardo nuovamente sul campo, nuovamente su di Lucas. E così aveva fatto tutte le volte prima che aveva guardato lì, mentre io mi perdevo su di lui.
 
«Quale sguardo?» Mi allarmai io, girandomi verso la direzione lontana che mi suggerirono i suoi occhi.
 
Ed era vero, Lucas ci stava guardando. Non so con quale sguardo, ma ero uno strano sguardo.
 
«Lo stesso che ho fatto io quando mi hanno sequestrato la PSP.» Ironizzò continuando a guardarlo, e forse pensando con rammarico alla sua PSP persa.
 
«Ma di cosa ti fai?» Me ne uscì io.
 
«Dovresti provarla. È stupefacente. » Innalzò le sopracciglia, così come il suo sorriso e il suo senso dell’umorismo si impossessò del suo stesso viso.
 
«Era bruttissima questa.» Confessai schifata.
 
«Come te.» Allora lui fece una faccia più schifata.
 
«Smettila di stuzzicarmi, provocarmi… Parlarmi.» Mi innervosii, diventando rossa dalla rabbi.  Serrai le mani in pugni.
 
«Credo proprio che lo sia.» Mi ignorò continuando la sua ipotesi sulla gelosia.
 
«Mi dai sui nervi.» Snervai.
 
«Ti piace vero?» Mi fulminò come se sapesse già la verità ma che volesse sentirla uscire dalla mie labbra. Sembrava così divertito da ciò.
 
«Amo farmi auto-salire i nervi. Sai?» Decisi di stare al gioco, evitandolo.
 
«Tu non sei tu.» William aggrottò le sopracciglia e provò a esprimersi meglio, osservando qualsiasi mio movimento. «Tu non sei ironica. Tu sei buffa, impacciata. E corri pure male.» Denigrò. «Charlie, chi stai cercando di mostrare?» Continuò quasi colpito, come se ora avesse capito. «Te, o la ragazza che stai cercando di costruire?»
 
Non credevo  fosse così sveglio, sveglio abbastanza da capire pure per me. Perché sia chiaro, io non stavo capendo ne cosa stesse dicendo lui ne cosa volessi dimostrare io.
 
«Ma che stai dicendo?» Divenni rossa e incapace di dire altro, cominciarono a tremarmi le mani, perciò cercai di nasconderle dentro le maniche della felpa della tuta rossa. Mi morsi un labbro e guardai basso, le mie scarpe. Come se guardarle potesse togliermi da quell’imbarazzante discussione.
 
«Nulla.» E si portò una mano dietro la nuca. Lui parve notarlo, notare il mio comportamento. E poi il suo, il suo di comportamento, al di fuori della normale portata. Ebbe clemenza. Sia per me che per lui stesso. «Dovresti dirgli che ti piace. Insomma, non è che sia il massimo baciarsi e poi non cacarsi.» Decretò infine abbassando lo sguardo. Non lo aveva ancora mai fatto in tutte le volte che mi ero ritrovata a discutere con lui. Poi si riprese. «Non fraintendermi, fosse per me andrebbe benissimo, ma pare che a te non vada bene.»
 
Eccolo di nuovo L’Henderson dalla botta e via. E non mi ero neanche ancora accorta che lui aveva detto che io e Lucas ci eravamo baciati. Merda. Allora lo sapeva.
 
«Chi te lo ha detto?» Sobbalzai alzando lo sguardo preoccupata.
 
«Cosa?» rispose dubbioso.
 
«Che ci siamo baciati.» Dissi sussurrando timidamente e tenendomi più sulle mie.
 
«Tu.»
 
«Quando?» Spalancai gli occhi sorpresa. Non ricordavo che io avessi detto qualcosa a qualcuno.
Nemmeno a Juno per telefono, diamine. Se l’avessi fatto mi avrebbe urlato di felicità e avrei sentito tutta la sua eccitazione tramite l’umile cornetta del telefono.
 
«Adesso.» Sorrise allora con inganno.
 
Cazzo. Mi aveva manipolato. «Ti odio.» Urlai senza contegno. Poi però accorgendomene mi calmai.
 
«Anche io.» Enfatizzò serrando la mascella sentendosi insultato. Forse non aveva mai avuto una discussione così lunga con una ragazza che non comprendesse baci ed effusioni varie. Per questo forse si era agitato.
 
«Smettila.» Dissi senza pensare. E il mio “smettila” si riferiva al non pensare cose sconce su di lui. Non che le stessi pensando. Pensavo solo che lui le stesse pensando.
 
«Smettila tu.» Controbatté. Si girò di colpo sorpreso, accorgendosi che la nostra discussione si stava perdendo in parole senza senso. «Stai attenta.» Aggiunse senza guardarmi.
 
«A evitare accidentali palle da te?» Ironizzai.
 
«Anche.» Annuì freddamente. Allora io rimasi immobile alla vista del suo collo scoperto. «Guardati da Lucas.» Continuando ad evitare il mio sguardo.
 
«Che vuoi dire?» Sbiascicai con voce mozzata e un nodo alla gola.
 
William si voltò nuovamente, mirò tutta la sua spietatezza su di me. Ancora. «Non so. Forse la te che soffochi lo sa.» Rispose esaudiente. Esaudiente almeno secondo la sua opinione.
 
«Io sono io. Non ho nessun doppio lato. Nessuna seconda me.» Risposi dunque esausta di questa sua sbagliata, sbagliatissima idea.
 
«Eccome se la hai.»
 

«Sei fortunata Charlie. Puoi essere quello che vuoi, puoi presentarti con una personalità del tutto diversa senza che nessuno ti dica che tu non sia vera, perché nessuno ti conosce quanto me. Ma mi mancherai, lo sai.»

 
Mi venne questo improvviso flashback e riuscii a sentire fitte le parole di Juno. E capii anch’io. «E chi sarebbe scusa? Oltre la ragazza che corre male, che è buffa e poco ironica?» Domandai frustata.
 
«Dovresti dirmelo tu. Sai, forse mi conquisteresti.» Accinse alle sue labbra un non so che di brillio attraente, donò ai suoi occhi calamità e mi fece capire che nessuna ragazza sarebbe scappata dalle sue grinfie. Per poco mi venne in mente che forse stava proprio flirtando.
 
«Questa sono io.» Dichiarai con maggiore sicurezza.
 
«Uguale a tutte le altre.» Disse anticipando qualsiasi altra mia parola.
 
«Bisognerebbe rivedere i tuoi parametri.» Suggerii.






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Capitolo 12
*** twelve ***


12


Charlotte Wilson

Che nervi. Ma per chi si spacciava? Cupido? Non è che ora perché si era ritrovato per pura casualità con un paio di splendidi occhi azzurri, poteva esser o diventare qualsiasi cosa nella vita. Ad esempio, non vedevo quale sua vena artistica lo stesse spingendo nel ramo di consulente di coppie/relazioni professionista. Che si prendesse la sua palla e che si fottesse.
 
Era iniziata così la mattinata, quella successiva, con tanto sonno per una notte bianca spesa in contorti e piccanti pensieri. Debbo poi aggiungerci tanta rabbia, rabbia che bolliva e ribolliva lungo tutto il mio esile corpo. Avevo passato il pomeriggio precedente a studiare, dato che ero leggermente indietro rispetto ai miei compagni, infatti avrei avuto un interrogazione durante la terza ora. Sperai fosse solo un brutto risveglio, la rabbia.
 
Percorsi tutto il corridoio principale per raggiungere le scale che mi avrebbero portato al piano superiore, dove si trovava il mio armadietto. Mi sentivo qualche sguardo puntato addosso, e capivo anche il perché. Ieri non avrei dovuto rincorrerlo. Eravamo sotto gli occhi di tutti e tutti parlavano, farneticano, girano propri film privati senza sapere i contenuti. Invece non sapevano che con William Henderson, o per meglio dire 'Cupido' io non ci volevo avere proprio nulla a che fare. Così feci finta di nulla e provai a non destare molto interesse a queste mie impressioni da pazza visionaria.
 
Svoltato l'angolo vidi le ragazze. Diamine se ero in ritardo! Le avrei salutate più avanti, magari alla fine della prima ora. Poi sentii qualcuno singhiozzare. Ero sicura di non esser io. Insomma, ero sicura di non esser arrivata al punto di piangere senza accorgermene o senza aver la capacità di controllare i miei istinti.
 
Mi bloccai, sinceramente curiosa di sapere da dove proveniva questo afflitto pianto lagnoso. Realizzai che una delle ragazze stava piangendo, allorché tutte erano a cerchio e una stava nel mezzo a non prender nemmeno un filino giusto di aria pura ossigenata. Mi ero già ritrovata in quella situazione. Da protagonista intendo. In più credevo di essere asmatica, quindi avevo anche solo il terrore nel vedere una persona rinchiusa in uno spazio così stretto. Traballai sul primo scalino delle scale, vedendo la scena, così riscesi e le raggiunsi. Ad esser onesti, non mi andava di parlare con nessuno comunque. Ero intrattabile prima di qualsiasi interrogazione o compito, poi c’era la scomoda situazione su di Lucas, e la scomoda situazione che non si è venuta a creare per parlarne.
 
«Era lui! Ne sono così sicura. L’ho visto!» Singhiozzava Rossella, con il viso tutto stampato di rosso, e le lacrime sulle guance. I suoi occhi erano lucidi, e le sue mani stringevano i rispettivi bracci di Leila e Lily, le quali probabilmente avrebbero perso la vita o tanto meno il respiro a furia di stringere così forte e con tanta enfasi.
 
«Ross, calmati. Sai quanti ragazzi simili ci sono in questa scuola?» Proferì Emily, davanti alla figura debole di Rossella che scosse la testa come per dire ‘no’. «Molti.» Si rispose da sola.
 
«Molti, molti, molti, molti..» Ripeté Rossella con voce strozzata per almeno altre cinque volte, come un giradischi guasto. «Ma lui è l’unico, Derek non è simile a nessuno. » Continuò velocemente a fiato sospeso, per poi lasciarsi in un soffocante pianto. Continuava a lagnarsi, i suoi occhi si strinsero e le lacrime scorrevano via a fiumi.
 
Intanto le ragazze mi notarono, ed io non potei non presentarmi a tale scena con una faccia addolorata e preoccupata. Emily si rivolse a me con dissenso, scuotendo lentamente la testa e facendo una smorfia, facendomi capire che avrebbe vomitato da un momento all’altro per l’eccessivo melodramma dell’amica. Tutto in modo molto discreto, e molto celato.
 
«C-che è successo!?» Domandai dunque.
 
E l’addolorata che pareva aver affievolito il pianto, ora ci era come ricaduta. Emily mi stava maledicendo sottovoce e con poco riguardo, per questo. Così  Rossella provò con tutte le sue forze a spiegare il motivo di tante lacrime amare, ma ovviamente non capì nulla. Le sue non erano parole, erano vocali messe lì una dietro l’altra senza un vero senso logico.
 
«Sì ok, ma non alzare la voce e smettila di piangere che sennò ti vedono tutti, ci vedono tutti.» Bofonchiò Emily seccata.
 
Dato che sia Emily che Rossella parevano intrattabili, una per un motivo diverso dall’altro, diressi il mio sguardo alle altre ultime due sciance.
 
«Rossella ha visto Derek baciarsi con una tizia.» Svelò Lily senza donare alcun cenno di espressione o di emozione, dal momento in cui stava per perdere uno dei due suoi preziosi bracci.
 
«Stavano pomiciando!» Urlò Rossella correggendo meticolosamente l’amica, con quella poca voce che gli era rimasta. E sicuramente non con tutto questo piacere.
 
«Ma cosa ti aspettavi che fosse un fottuto casto? Andiamo.» Grugnì Emily in risposta.
 
Contieniti Emily. O è casto o è fottuto. Logicamente è impossibile essere entrambi le cose.
 
«Rossella, ma ne sei così sicura?» Provai a chiederle.
 
«Certo, cazzo.» Rispose enfatizzando l’ultima parola, mentre Emily le faceva segno di star zitta o quanto meno di parlare piano, lasciandosi scivolare l’indice lungo le labbra.
 
«Forse dovresti… Uhm… Parlarne con lui.. » Provai a consigliarle, dato che non aveva ancora smesso di piangere.
 
«Ma che cazzo dici?» Ricevetti in coro dalle due pazze. Che sia chiaro, che Rossella era perdonata, ma Emily era semplicemente… Emily era semplicemente Emily.
 
«Pessimo consiglio.» Continuarono le altre due amiche in accordo.
 
«Ragazze ho interrogazione.» Spiegai come per scusarmi. E tutte capirono e compresero il mio pessimo consiglio. Anche se proprio pessimo non era.
 
Insomma, se ti piace un ragazzo perché non dirglielo? O almeno, se vuoi rimanere tra le tue e vuoi nasconderlo, fallo con discrezione.
 






Ottimo voto, ottima presentazione, buona la proprietà di linguaggio e ricerca ricca di contenuti. ‘A+’.
Come sempre, del resto. Accettai i complimenti della professoressa e uscii al suono della campanella immediatamente da quella classe.
 
Non c'è nulla di meglio nel sentirsi realizzati e soddisfatti quando ci si sbarazza di un interrogazione.
 
Sì, stavo meglio. Eppure quello stesso giorno ero riuscita a ricredermi, e sì c'era qualcosa di meglio. Lucas Sanders e la sua pelle abbronzata. Anche se ero convinta che prima o poi mi avrebbe stufato. Sembrava un surfista californiano. Era vicino al suo armadietto, stava prendendo alcuni libri da lì dentro, frugando fra gli scomparti. Cominciai ad osservarlo, poi a fissarlo. E lui se ne accorse. Allora deviai lo sguardo, ma non ci fu nulla da fare, la golosità si paga. Il suo sguardo si incastrò con il mio, e i suoi ciuffi biondi parevano scintillare un po' di più, come se anche loro stessero contribuendo a rendere le cose più difficili. Chiuse l’armadietto dietro di se, appoggiò la schiena contro il metallo freddo mantenendo lo sguardo e la sua attenzione su di me. Lasciai uscire un sospiro che non mi ero accorta di star trattenendo.
 
Le cose stavano peggiorando: ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Baciarlo aveva decisamente peggiorato tutto. E non potevo permetterlo, mi stavo incasinando giorno dopo giorno.
 
Mi avvicinai allora, non sapendo con quale forza, coraggio o gambe… Di certo quelle non erano le mie. Andavano troppo veloci. Percepii avere una certa incontrollata voglia dentro di me, voglia che disconoscevo. Realizzai di aver perso la testa nel momento in cui afferrai il suo viso tra le mie mani e poggiai le mie labbra su una delle sue due guance. Sollevai gli occhi e incontrai le sue labbra. Non mi sembravano belle, mi sembravano solo delle labbra, sottili labbra. Sentii le sue mani sulla mia vita, strinse il mio corpo al suo.
 
Fu allora che mi infastidii. Capii che questo forse era il genere di cose che piacevano a lui, voleva che tutti ci vedessero, e io gli avevo fornito tutta me stessa. Spinsi da me il suo corpo con una garbata delicatezza e mi bloccai, farfugliai dunque qualcosa senza  riuscire a guardarlo negli occhi. Eppure i suoi mi stavano perforando, erano su tutto il mio corpo e non potei fare a meno di arrossire.
 
«Cosa c’è?» Domandò Lucas, come se non ci fosse nulla di cui preoccuparsi, come se eravamo una di quelle coppiette tutto amore ed effusioni, come se aveva già dato per scontato che lui era mio ed io ero sua.
 
«Nulla, non c’è nulla.» Mi guardai attorno, c’erano alcuni studenti in quel corridoio, non conoscevo nessuno, ma nel giro di poche ore tutti avrebbero saputo chi fossi io. Madison non era in giro da stamattina, non l’avevo proprio vista oggi. Per fortuna.
 
«Lucas. Io…» Tentennai, indietreggiando ancora di un passo, e rimuginando su uno di quei tanti discorsi che mi ero creata fra me e me la sera prima, invece di dormire.
 
«Io credo che dovremmo conoscerci meglio.» Mi anticipò lui. Bravo ragazzo.
 
«Ecco.» Acconsentii alle sue parole, ma non potevo fare a meno di perlustrare la zona, non volevo che si diffondessero strane voci. Lucas mi lanciò un’occhiata interrogativa, esaminando il mio volto in cerca di emozioni nascoste. «No, non va bene.» Aggiunsi un po’ in ritardo. Ed era così, non andava assolutamente bene.
 
«Scusa sono stato troppo impulsivo.» Quasi balbettò lui. Capii che si stava mettendo dell’ansia addosso, o che probabilmente ero io che gliela stavo attaccando, come una malattia. Più che ansia penso sia più corretto dire che mi sentissi da schifo. Avevo questa strana sensazione in pancia che oggi sarebbe stata una delle mie peggiori giornate a scuola (accantonando il bel voto nell’interrogazione di storia).
 
«Anche io.» Confessai in risposta.
 
Calò un silenzio quasi imbarazzante, l’ansia/schifezza aveva ormai preso il sopravvento,  e le mie dita si stavano arrampicando sulle maniche della felpa della divisa, nascondendosi. Lui si passava a tratti la mano dietro la nuca e  alzava lo sguardo, imbarazzato. Potevo capire che era davvero imbarazzato quanto me dalle sue mosse che stavano diventando quasi un fastidioso tic.
 
«Non  avrei dovuto baciarti, Charlie, lo so.» Sputò fuori con difficoltà, dopo mezzo minuto circa.
 
«Uhm, è che... M-mi hai messo in una situazione scomoda.» Balbettai sentendomi un nodo alla gola.
Lucas alzò un sopracciglio contrariato, aggrottò la fronte e fece una strana smorfia con le labbra.
 
«Non mi sembrava che non ti fosse piaciuto.» Sbiascicò confuso.
 
Non è questo il punto Lucas. In realtà questo non è nemmeno una virgola. Madison, piuttosto, è il punto e virgola, è il punto esclamativo, il punto interrogativo, è i due punti, è tutto.
 
«Hai fatto tutto tu.» Grugnì in cagnesco, facendomi superare la linea rossa. Sincronizzatamente spalancammo gli occhi, non mi ero resa davvero conto di cosa avevo detto e come lo avevo detto. Serrai dunque le labbra, strette che più strette non si può. Lucas sbuffò un mezzo sorriso, e pareva incredulo. Si guardò intorno, distolse lo sguardo salutando due ragazzi che passarono di lì. Probabilmente era qualcuno che conosceva.
 
«Se li ha salutati Charlie, tu che dici?»
 
Poi riconcentrò tutta la sua attenzione su di me, ma questa volta in modo diverso. «Charlie..» Sussurrò, avvicinandosi e provando a poggiare la sua mano sulla mia guancia destra. Mi ritirai d’istinto. «Mi attrai un casino, sei carina e poi sei molto timida e mi piaci.» Riprovò allora, senza sfiorarmi nemmeno, vedendo che io mi ero già irrigidita come un cucciolo quando ha freddo.
 
Abbassai lo sguardo, quasi lusingata. Mi aveva detto che ero carina, che lo attraevo, che gli piacevo... E che ero timida. «Appunto. » Marchiai, dando peso alla questione.
 
«Cosa?»
 
«Altro? Insomma pensi altro di me? » Iniziai, con un tono più grave di quanto mi aspettassi.
 
“Questo ragazza è troppo melodrammatica.” Stava di certo pensando Lucas Sanders di me.
 
Che ‘Sanders’ poi mi ricordava chissà quale marca di vestiti, tipo “Hollister”, come un logo stampato in uno di quelle striminzite t-shirt, top, come vogliamo chiamarle, sapete no? Quelle che assomigliano ad una canottiera, quelle dove un reggiseno colorato di sotto è rigorosamente d’obbligo, se sempre non si vuol rischiare che si vedano tutte le tette. Insomma, quelle che ormai usano tutte le ragazze “hipster”. Anche se non sapevo concretamente i canoni esatti per poter rientrare in questa categoria.
 
«Beh…» Sbuffò lui con un risolino. Fece un cenno di assenso, sfoderando infine una brillante risata. Che tanto brillante non era, perché non era proprio adeguata, per l’appunto.
 
 
«Stai attenta.»
«Guardati da Lucas.»
 
 
Mi balenarono queste frasi nella mente. Quella voce roca.
 
«Credo che dovremmo far finta di nulla, tu non mi hai mai baciato e io non ci sono mai stata.» Sfoderai dunque, afferrando meglio la spallina del mio zaino celeste chiaro, che più che celeste era proprio scolorito. «E’ vintage.» Mi ricordava sempre mamma, con un sorrisino sulle labbra. Ma molto probabilmente la sua unica intenzione era quella di convincermi a non chiederle di comprarmi uno zaino nuovo. Non l’avrei chiesto comunque, questo zaino mi piaceva.
 
Ma non potevo farmi prendere da argomenti così stupidi mentre cercavo di far la seria ed impormi davanti a Lucas. «Ehi, aspetta. » Mi sentì afferrare prontamente un braccio, mentre cercavo di allontanarmi.
 
«Non è successo niente. Ok?» Sottolineai, in modo che capisse.
 
«Questo è quello che vuoi?» Sospirò con voce piatta. Non risposi. Non lo guardai nemmeno, se è per questo. «Ok.» Aggiunse, arrivando alle conclusioni. Mi lasciò il braccio, ed io fui libera di andarmene.
 
«Mhh. Perfetto allora.» Mugolai in accordo prima di congedarmi.
 
«Perfetto.» disse flebile.
 
«Perfetto.» disse William Henderson.






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Capitolo 13
*** thirteen ***


13


Charlotte Wilson

«Perfetto.» Disse William Henderson, battendo con sarcasmo le sue grandi, mature, belle mani.
 
Era lì, appena sorpassato l’angolo, e il biondino se ne era già andato senza soffermarsi più di tanto. William se ne stava appoggiato al muro con accanto un estintore. Che non è che secondo me si fosse messo lì per pura coincidenza. Dico, in tal caso prendesse a fuoco uno dei due, in un modo o nell’altro, ecco. Aveva il capo all’indietro e i capelli neri spezzavano il bianco della parete. E poi erano arruffati, e rischiavo di arruffarmi anche io. Ma il suono delle mani che si scontrarono per formare un applauso, un applauso chiuso in un sorrisino sghembo e nocivo, frastornarono la mia mente, e le mie orecchie. Sobbalzai nel vederlo lì, in quel posto, in quella maniera…
 
«William!» Lo riconobbi mentre la mia mano trovava le labbra, ormai spalancate per lo stupore.
 
«Uhm… come gridi bene il mio nome.» Incrociò le braccia e piegò un sopracciglio mentre i suoi occhi bruciavano di malizia nei miei.
 
«Depravato.» Digrignai con sdegno. Per evitare di staccare dal muro quell’estintore, estraniai gli occhi dai suoi. Alzai semplicemente gli stessi occhi al cielo e risistemai la mano lungo il fianco, sperando che la figura che mi era stata appena proposta fosse solo un’apparizione. «Finiscila di darmi tanta confidenza.» Sbuffai.
 
Questa giornata stava andando davvero di bene in meglio. Che ci faceva lì?
 
Ebbi l’onore di guadagnarmi cinque secondi del suo silenzio, mentre mi squadrava da capo a piedi come fossi una di quelle statue greche esposte nei musei a pagamento.
 
«Il fatto è che non ho mai visto una ragazza tanto scioccata nel vedere due persone etero baciarsi. Non posso far a meno che studiarti, sei un caso particolare.»
 
Dannato.
 
Mi fece venire subito alla mente quel giorno, quelle scale, quella ragazza, quelle effusioni, lui. E quella che pensavo fosse la sua fidanzata, Emily.
 
«Non eri tu quello che ha detto che ero tipo uguale a tutte le altre e che tipo stavo cercando di essere un'altra persona e che tipo io non ero io!?» Lo tacciai subito, dissolvendo quelle immagini e riportando in tavola i bei complimenti che mi aveva fatto il giorno prima.
 
William sorrise, come se gli avessi appena detto ‘che bel sorriso che hai’, anche se non stava proprio sorridendo fino a secondi prima, anche se forse trovavo davvero il suo un bel sorriso. «Una ragazza che dice così tante volte 'tipo' deve avere di certo una seconda personalità.» Finì per incrociare nuovamente le braccia e riappoggiarsi al muro.
 
«Che cosa vuoi da me?» Sospirai esausta dalle sue rispose.
 
«Come va con Lucas?» Domandò subito, approfittando della mia attenzione.
 
«Perché non me lo dici tu? Dato che ci stavi spiando.» Mi presi più tempo per pronunciare l’ultima frase, tanto per evidenziarla al resto.
 
«Ehi, io non stavo spiando. Io mi sono appostato, il che è molto differente, e poi è molto più professionale. » Si discolpò mister ‘appostato’, mentre gesticolava con le mani per rendere più chiaro e più di effetto il concetto. «Non confonderti.» Aggiunse puntandomi addosso l’indice della mano. Così mi venne di fissare più del dovuto quel dito.
 
Una sola domanda: Perché? Non mi capacito minimamente ancora del perché, onestamente.
 
Arrossii appena mi accorsi che aveva notato questo così strano interessamento verso il suo indice, divertendosi ancora di più.
 
«E così straziante vederti non fare nulla. Faccio il tifo per te, ma sei come ad una gara tra tartarughe e sappilo Wilson, in questo momento tu sei la tartaruga che perde.» Incredibile quanto potesse essere bravo nel spiegarsi. Dietro tutti quei muscoli e tutto quell’oceano negli occhi, c’era qualcosa di interessante (oltre il suo dito) e non l’avrei mai detto. Mi stava irritando comunque, se non era già stato reso chiaro.
 
«Non che tu mi deluda,» riprese «solo che lo dico per te. Non vorrai mica rischiare di svelare la vera te?» Rieccolo. Prima dubita del colore dei miei capelli, poi della mia identità. Di cosa avrebbe dubitato più? Del mio sesso? Un giorno di questi se ne sarebbe spuntato con qualcosa tipo “Charlie Wilson, sei femmina? Non è che sei maschio, vero?”
 
«Io credo ci sia qualche tipo di malattia, una specie, non so, forse una fobia. No no, proprio una malattia, malattia dei discorsi o qualcosa del genere. E tu sei stato fortemente colpito da questa.» Farfugliai, velocizzando terribilmente il ritmo e lo spazio tra le parole.
 
«Stai bene?» Dunque mi domandò lui fingendo un’espressione preoccupata.
 
«Sì, sì! Ma tu no. Ti piace così tanto discutere con me di quel che sono, di quel che non sono e di quel che faccio?» Continuai, probabilmente sembrando una pazza esaurita davanti ai suoi occhi.
 
«Un casino, sei… Sei bizzarra.»
 
Ok, questo è il genere di risposta che non mi sarei mai aspettata, da nessuno per l’appunto. Che parlando di risposte, aveva per caso una risposta pronta per qualsiasi cosa gli avrei detto ancora?
 
«Quel che volevo dire, è che.. non sei in grado di giudicare, dato che tu passi da una ragazza ad un'altra come la pallina di un flipper impazzito.» Lasciai uscire con un respiro abbastanza profondo, quando realizzai di non avere nulla dentro il cervello.
 
«Charlie gli hai appena detto che è una… Cosa?»
 
Pallina, pallina di un flipper impazzito. Forse ero davvero così bipolare come diceva lui.
 
«Gioco bene. Non posso lamentarmi.» Ridacchiò meravigliato. E non è che per ‘gioco’ intendesse il rugby.
 
«Non fai mai partite serie, vero?» Ormai dopo il flipper impazzito avrei potuto dirgli la qualunque, tanto la mia faccia era già stata affissa sulla bacheca delle peggiori battute dell’anno.
 
«Charlie Wilson, non è che sei interessata?» Dopotutto non potevo non aspettarmi una facezia a sfondo sessuale.
 
«Diamine, no! No, no e no.» Mi agitai scuotendo la testa e negando con le mani, con i diti, con i diti dei piedi… Con tutto quello che avevo a disposizione.
 
«Non mi si addice.» Continuò lui quasi ignorando la mia manifestazione dei  ‘no’. Ridacchiò un po’, distogliendo lo sguardo da me, e sia benedetto il signore per questo, non avrei tollerato ancora per molto i suoi dannati occhi su di me.
 
Ma poi rieccoli. Colpita e affondata nuovamente da quell’azzurro. «Forse non ci riesci. » Sbiascicai, tutta presa dal colore delle sue iridi. Mi sentii avvampare, e cercai di tranquillizzarmi pensando ai cuccioli di cane e ai corni degli unicorni. Pensare qualsiasi cosa che non somigliasse a William Henderson, intendiamoci.
 
«Forse Wilson, forse. Ma la tua te che stai soffocando implora di smetterla, la sento, sai? Stai giocando male, la tua parte.» Aveva appena portato il discorso da un capo linea ad un altro. William Henderson stava evitando un discorso. E di certo, non potevo perdermi l’occasione, quindi pensai ancora un altro po’ a quanto fossi stata bene con addosso un corno, dritto sulla fronte.
 
«Giocare male è sempre meglio di non giocare.» Ripresi.
 
«Ho sempre sostenuto il contrario.» Rispose prontamente il mio, ormai più che ovvio, avversario.
 
«Come fai a dirmi che sono uguale a tutte le altre, quando tu non sai neanche innamorarti, perché sai posso giurare di averti visto con più ragazze, fare più cose, in più posti, nel giro di una sola settimana.» Sputai tutto a ruota libera. Non l’avessi mai fatto.
 
«Senti biondina.» Vidi la sua mascella contrarsi, come tutte le vene che si ritrovava lungo il collo.
Mi afferrò gli avambracci, e un brivido mi percorse la schiena, sentendomi le sue dita sulle lunghe maniche, appunto, della felpa della divisa, immaginando cosa sarebbe successo o come mi sarei sentita se non avessi avuto la felpa, la maglietta, nessuno strato di sotto, sì a pelle nuda. Mi rivolse, quindi, contro il muro bianco, sfiorando appena l’estintore, facendo ribaltare le posizioni. Aveva decisamente fatto tutto da se. Ora era inevitabile il contatto visivo, fisico e quasi respiratorio. Pensare ai corni e ad un unicorno senza corno (che in tal caso sarebbe solo ‘uni’) o ai cuccioli di cane era praticamente impossibile. La visuale mi era stata privata dal suo largo petto e poco più sopra dal suo collo, viso e tutto quel cespuglietto ordinato arruffato nero dei suoi capelli. Le mi gambe erano fra le sue, non provai nemmeno a divincolarmi, dato che sarebbe stata una battaglia persa in partenza.
 
«Ci sono un paio di cose che non hai ancora capito. La prima è di sicuro che io non sono proprio il ritratto spiaccicato del principe azzurro.» Cominciò. «Non ho un cavallo, non ho un castello, non credo nel perdere la verginità dopo il matrimonio.» Elencò senza usare le dita delle mani per tenere il conto. «Amo voi ragazze, siete sempre tutte così carine e avete sempre così tanto da donarmi, e vi rispetto in questo. A volte sapete essere delle donatrici di organi fantastiche.» Continuò con un tono leggermente più ironico. «Ma sta attenta Wilson, te lo dirò solo una volta. Questo è il mio gioco. Tutto qui. Io non mi innamoro e non mi innamorerò mai. La parola stessa mi rabbrividisce.» Sembrò finire, sconcertato da quest’ultima frase.
 
Le mie labbra erano un continuo chiudersi-schiudersi, sentivo il petto alzarsi e abbassarsi celermente, quasi boccheggiavo. Chiesi al mio corpo di non ricordarsi, per almeno giusto un tempo limitato, che io soffrivo d’asma. Non ne ero sicura, avrei dovuto chiedere conferma a mia madre. Anche se non è che fosse stato asma se mi sarebbe mancato il respiro.
 
La sua voce così contratta e così roca mi stava facendo inebriare. I suoi denti bianchi erano davanti ai miei occhi, e io me li sarei mangiati di quanto sembravano belli, più che buoni. Non credevo che si potesse provare del piacere nel guardare un ragazzo a distanza ravvicinata.
 
«Non è che io non lo sappia fare, la verità e che disconosco completamente questo tipo di stereotipo.» Continuò, fortunatamente non notando il mio stato di deficienza.
 
«Stereotipo?» Sbiascicai con un filino di voce che non era neanche filino, dato che sembrava più una parola con un punto interrogativo campato in aria. E poi venne il colpo peggiore. Accorgendosi di come mi aveva sfinito psicologicamente e mentalmente, decise di finire in bellezza, o almeno per la sua bellezza, avvicinandosi pericolosamente più al mio corpo esile, portando le sue labbra su una delle mie orecchie, non ricordo quale, se sinistra o destra, in quel momento tutte le distanze, dimensioni, logiche o qualsiasi altra proprietà erano sfiorite inesorabilmente in uno spazio tempo a tutti sconosciuto.
 
Con una mano diete un pugno leggero al muro, accompagnando la testa più su un lato, quello dell’orecchio fortunato, il suo corpo era ormai rigettato sul mio, ed avevo paura che sentisse le pulsazioni accelerate del mio cuore. Dunque le sue labbra e il suo respiro erano sul lobo dello stesso orecchio, parte del corpo che, fino a pochi secondi prima, dichiaravo come pelle morta. E quindi, c’era da dire, alla faccia della pelle morta.
 
«Due persone non possono innamorarsi. Due persone possono solo provare a combattere e convivere, in una sorta di dolcezza, la necessità del reciproco bisogno fisico.» Sussurrò come stesse recitando una poesia personale, una di quelle che si scrive e che si tiene nascosta a tutti, che si tiene per se.
 
«E del supporto morale con cui una coppia si sostiene… Cosa mi dici?» Ribattei, provando a riprendermi, in modo che il suo sguardo non incontrasse nuovamente il mio prima che mi fossi ristabilizzata.
 
«Si risolve tutto con il sesso.» Rispose con voce più roca, facendo risuonare la parola “sesso” come “cioccolato” o che so “nutella”, qualcosa da orgasmo insomma. Poi sorrise, e sentii il suono del suo sorriso lungo tutto il meato acustico, fino al cervello. Non potevo permettergli dell’altro. Non volevo sentire altro, e per ‘sentire altro’ non intendo solo la sua voce, piuttosto certe presenze che volevo risparmiarmi e che sapevo sarebbe arrivate, mantenendo tale posizione.
 
«Non mi interessa.» Pronunciai appena. Lo scansai con tutta la mia forza, e con difficolta riuscii a ritrarmi da lui. Senza dire nient’altro, e dunque liberandomi, andai via prendendo le scale più vicine.






Nei giorni seguenti provai ad evitare qualsiasi sottospecie di ragazzo rispondesse al nome di Lucas Sanders o William Henderson – con successo. E ne erano passati due di giorni, potevo davvero essere soddisfatta di me stessa.
 
Era già mercoledì, ed il mercoledì era il giorno dei laboratori. Nessuna di noi ragazze, a parte Madison, aveva già aderito ad un qualsiasi laboratorio. Leila aveva proposto di sceglierne uno solo che andasse bene a tutte. E ci avevamo provato, sul serio. A scegliere un solo laboratorio, intendo.
Ma non è che le nostre capacità e i nostri gusti combaciavano poi così perfettamente.
 
Dato che Madison era quella con le idee più chiare, provammo ad accordarci tutte al club di nuoto. Rossella era eccitata, adorava anche solo l'idea di indossare una di quelle cuffiette colorate, ma Leila non sapeva nuotare, perciò dovemmo escludere l’idea in partenza. Allora Emily propose il club di cucina, capimmo più tardi che il suo unico scopo non era quello di cucinare ma bensì esclusivamente di mangiare. Lily se ne uscì con la brillante idea della fotografia, ma non avevo mai avuto una reflex, ne una macchinetta digitale fra le mani, per intenderci. Infine Leila fantasticò sull'aula del laboratorio di arte, affermando di averla vista e di essersene innamorata, desiderando dunque di perseguirne il laboratorio. A me piacque un sacco come idea, perché in Australia passavo interi pomeriggi a guardare il tramonto dalla finestra e a disegnare a terra in ginocchio fra il pavimento e il tappeto della mia stanza, su tanti medi fogli da stampante, con gli acquerelli e le matite colorate. E mi mancava farlo, perciò l'idea mi entusiasmava, anche se sapevo che dei tramonti Australiani non avrei visto neanche l’ombra.
 
Ma le altre dissentirono. Eravamo comunque riuscite ad arrivare ad una conclusione: "Club di tennis". Era qualcosa di nuovo e sicuramente da sperimentare. Consisteva un po' in tutto, alla fine.
Come prima cosa era uno sport, e Madison viveva solo di quello, a quanto pare. Come seconda, invece, Rossella si era già lasciata immaginare indossare una di quelle gonnelline ultra corte e ultra sexy. Poi quando si parla di un torneo, c'è sempre di mezzo un buffet, ed Emily aveva già l'acquolina in bocca. A Lily era andato bene perché era andato bene a noi, Leila pensò come potesse essere bello giocare tutte assieme e io mi lasciai trasportare dall'entusiasmo. Non avevo mai toccato una sola palla o una sola racchetta in vita mia.





James Morgan

Era la nostra ennesima ora di allenamento, tutto normale. Lucas provava alcune tecniche di difesa, Marcus perfezionava i tiri liberi (non era molto bravo in questo da quando aveva avuto quell'incidente sullo scooter a quindici anni rompendosi  un braccio), gli altri palleggiavano o facevano dei passaggi, il che era tutto molto smorto, per una squadra che in genere fa di più durante le ore di allenamento.
 
Ma oggi era mercoledì, ed era il giorno dei laboratori.
 
Il coach era impegnato con le matricole o comunque con quei poveri illusi - come direbbe William - che ogni anno tentavano di entrare in squadra provando ad effettuare dei banalissimi placcaggi. L'ultimo arrivato ero io e per dire, passavo la maggior parte del mio tempo in panchina, come riserva, quindi non capivo  perché si continuassero ad aprire 'iscrizioni' ogni anno al resto degli studenti di questa scuola. Eravamo pieni, non volevamo nessuno. O tanto meno, William non voleva nessuno.
 
Non voleva neanche me all'inizio, poi ero riuscito a prenderlo per il verso giusto, e mi aveva accettato. O almeno credo. Lui era a terra, ad allacciarsi le scarpe e ad aggiustare un ferro storto del casco, Derek si era avvicinato a lui consigliandogli, probabilmente, di provare alcune tecniche di pece o hand-off, dato che il suo ruolo è quello di "Running back" ovvero una sorta di braccio destro del quarterback. Derek in quella squadra era davvero l'unico competente che potesse avere e che si potesse veramente meritare il ruolo di Running Back. L’aveva un po' fatto per tutta la vita, al di fuori del gioco, era sempre stato in gamba ed al suo fianco. Al fianco di William.
 
Fin da piccolo li osservavo, e un po' li invidiavo, sembravano fossero fratelli ed io non aveva mai avuto con nessuno così tanta confidenza quanto l'avessero loro tra di essi. Non sarei mai arrivato al loro livello, in campo.
 
Io ero seduto in panchina, cercavo di far roteare la palla sul mio indice. Io volevo giocare, volevo correre, afferrare quella fottuta palla come fosse il boccino d'oro di Harry Potter. Fissare i placcaggi inesperti era davvero noioso. Anche William pareva annoiarsi parecchio, di solito era molto attivo. Vidi Derek porgergli una mano per alzarsi, William allora accettando l'aiuto, una volta in piedi, lo aveva spinto giù facendolo cadere a terra. Risi godendomi la faccia impagabile di Derek, che da un momento all'altro gliel'avrebbe fatta pagare.
 
Mentre aspettavo la vendetta, decisi di alzarmi e di andargli incontro. Mi avvicinai quasi correndo. «Amo il mercoledì. Amo questo mercoledì.» Introdussi mirando al campo da tennis.
 
«Sembri mia nonna quando sa che è il giorno del Bridge con le vecchiette del quartiere.» Esordì con il suo solito sarcasmo William.
 
«Divertente. Ma le ragazze in gonnella lo sono di più.» E non mi sbagliavo affatto.
 
Il club di tennis teneva gli allenamenti accanto al nostro campo, evidentemente si erano scordati ancora una volta di sistemare il terreno nel campo vicino la palestra, distante da qui, dal nostro campo, dalla nostra furia e soprattutto da noi.
 
«Tua sorella ed il tennis, William!?» Derek si asciugò la fronte, alzandosi il lembo della maglia, mentre osservava Emily accigliato.
 
«Mia sorella ed una palla? Derek, non credo che sia capace a gestirne una sola, pensa due.» William e i suoi doppi sensi. Era speciale in questo, riusciva a dire qualcosa di sporco o villano in un modo così leggiadro e raffinato.
 
«Non sembra male.» Aggiunse Derek scrutandola ancora per un po’. William allora si girò lentamente verso l'amico che aveva parlato forse fin troppo, e nel giro di pochi secondi lo aveva spintonato a pugni, azzeccandogli più manate sulla nuca libera ridendo.
 
Si ammazzano e ridono. Chi li capisce?
 
Marcus teneva una borraccia in mano, una borraccia rossa con sopra lo stemma della scuola, con l'altra di mano, reggeva il laccetto del casco, che ricadeva tra le sue muscolose scure gambe. «Lucas, carina la tua nuova amica.» Debuttò, dando anche lui un'occhiata alle ragazze che si stavano allenando, o tanto meno che stavano facendo dei provini.
 
«Chi?» Rispose Lucas sorpreso.
 
Era sempre preso dai potenziamenti, aveva questa fissa per la difesa. Ma ho sempre creduto esagerasse negli allenamenti, con i pesi e con tutte queste tecniche professionali.
 
«La biondina, uhm, mi pare… Charlie!?» Lo stuzzicò l'amico di colore, mentre cercava di indovinare il nome della sfortunata. Sfortunata perché di qualsiasi ragazza si parli, tra le nostre bocche, finisce sempre per diventare elemento di attrazione. Come quelle di un circo.
 
«Si, Charlie.» Annuì il biondo il risposta.
 
William parve sapere di chi si parlasse, perché avrei potuto giurare di aver visto puntare gli occhi addosso Marcus come fosse carne da macello, e secondi dopo essersi comportato con indifferenza.
 
«Potreste farci un'orgia.» Disse comunque il quarterback. Noi tutti scoppiammo a ridere in risposta, non c'era chissà cosa di divertente, ma il tono forse, quel tono piatto e quasi naturale erano il pezzo forte di William Henderson.
 
«Uhm... Sono più un tipo da more però, mi spiace Lucas, quando ti tingerai i capelli sarò tutto tuo.» Si difese Marcus, quasi gettandosi fra le braccia del biondino con voce e gesta effemminati.
 
«Dio quanto sei gay Marc.» Schernì William, marcando con enfasi la 'g' di 'gay'.
 
«Ehi, parlavo di Lucas, questa Charlie potrebbe andare bene. »Riprese Marcus, riaffermando a noi e al mondo la sua ‘eterosità’.
 
«Non fa per te.» Lucas parve veramente serio. Aveva persino scaraventato a terra il suo casco, per poi ricontrollarsi in un secondo momento.
 
Uhm sì, Charlie era carina, ma non di certo il mio genere di ragazza. A me piacevano quelle riservate, quelle che si nascondevano e passavano il loro tempo libero in biblioteca a leggere romanzi piuttosto che studiare per la lezione del giorno dopo. Non che mi piaccicassero i romanzi, ma era una cosa dolce per le ragazze, era qualcosa che mi attraeva.
 
Una bella ragazza che sogna e che legge romanzi di autori sconosciuti. Che c'è di meglio?
 
Leila Florence era il ritratto della ragazza perfetta. Della mia ragazza perfetta. Ma probabilmente ero fuori dalla sua portata. Era così bella che non mi avrebbe mai notato, nemmeno qualora entrassi in campo a giocare, piuttosto di stare seduto in panchina a prendere la muffa.
 
«Giusto. Fa per te.» Annuì Marcus con un’adorabile sfumatura di presa per il culo.
 
«È un numero pari, dopotutto.» Rispose prontamente, con un sorrisino pieno di lussuria.
 
«Sono ingenui i numeri pari» Ci appuntò il quarterback distrattamente, mentre continuava ad aggiustare lo stesso ferro del suo casco. E ed era sempre stato storto quel ferro. Non aveva, fin ora, mai voluto comprare un casco nuovo. Forse era semplicemente leggenda, ma così mi avevano detto i ragazzi che erano dentro la squadra da più tempo.
 
«Non ditemi che questa cosa dei numeri va ancora avanti. Vi prego.» Imprecò Derek, mentre guardava sbigottito i protagonisti della faccenda.
 
«Ci divertiamo.» Constatò sarcasticamente Lucas, con un largo sorriso. Gli altri ragazzi annuirono in assenso, per poi scoppiare in un mare di risate al suo commento  mentre io continuai solamente a guardarlo confuso, aspettandomi di ricevere una spiegazione su ciò di cui si stava parlando.
 
«Che cazzo è!?» Esclamai allora. Non mi lasciavo sfuggire facilmente parole volgari come “cazzo”, non ero tipo da imprecare così facilmente, e neanche mi piaceva . Ma certe cose dovevo farle, per riuscire a restare al passo degli altri ragazzi.
 
«Un modo per gestirci le nuove arrivate.» Mi rispose il biondo.
 
Ma io continuai a non capire, gli suggerì con lo sguardo di uno che non sa nemmeno il suo nome, di continuare a spiegarsi ed esprimersi meglio.

Lucas mi ignorò e fece un cenno a Marcus che mi spiegò subito dopo. «Dipende tutto dal loro numero di armadietti. Se la somma dei tre numeri corrisponde ad un numero dispari, la ragazza è di Will, ovvero sarà lui a rimorchiarla o a portarsela a letto nella maggior parte dei casi. Se il numero è pari allora la ragazza è per Lucas.»
 
«Quindi vuoi scopartela?»  Domandai più schiettamente che retoricamente, ora che avevo capito.
 
«Ci sto provando.» Lucas aggrottò le sopracciglia e annuì acconsentendo. «Insomma in realtà ha un certo caratterino, non so, credo che mi piaccia.»
 
In tutto ciò, William parve estraniarsi dal discorso, ora anche lui osservava le ragazze nel campo. Percepii una sorta di concentrazione massima dello stesso per ciò che lo aveva distratto, e mentre Lucas e Marcus ribattevano e prolungavano la discussione, io provai a raggiungere, seguendo gli occhi di William, l'oggetto della sua attenzione. Mi feci dunque largo con lo sguardo tra la mischia delle ragazze in gonnella, e con difficoltà riuscii ad individuare il punto focale. Era quella stessa biondina dal numero pari, che pur non essendo dispari, era comunque al centro dell'attenzione del quarterback. Rispostai lo sguardo su quest'ultimo, e vidi un William quasi folle che se la rideva fra se e se, sussurrando qualcosa che non riuscii a captare perfettamente : «È così impacciata.» O qualcosa del genere. Avendo paura che si accorgesse di essere fissato da me, distolsi subito lo sguardo ritornando agli altri.
 
«E Maddy?» Chiesi preoccupato, indirizzando il mio sguardo sul biondo, mentre non mi ero accorto che il discorso tra i due era già terminato.
 
Insomma, credevo che ancora gli piacesse, nonostante fosse finita tra loro. Era passato poco tempo dalla rottura, e ne sono stati molto di più insieme.
 
«Andiamo ragazzi. Metteva le corna a Maddy tre volte a settimana.» Ridacchiò Marcus.
 
E tutti risero, dimostrando di saperlo già.







Ecco finalmente il capitolo 13!
Prima di tutto ringrazio come al solito le persone che continuano a seguirmi e alle 7 recensioni ricevute nel capitolo precedente – anche se sono diminuite clamorosamente.
Vi adoro lo stesso.
Anyway, questo capitolo è un po’ particolare, perché ho aggiunto il punto di vista di un ragazzo della squadra, James Morgan (foto a fondo pagina qui, insieme al resto dei ragazzi.
Fatemi sapere cosa ne pensate, un bacio.






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Capitolo 14
*** fourteen ***


14


James Morgan

Eravamo appena usciti da scuola, ed oggi non ci saremmo trattenuti per l’allenamento. Davanti l’entrata c’era la solita confusione, le solite persone. E non è che avessi voglia di impiegare quindici minuti prima di uscire definitivamente dall’edificio. Per questo c’era William Henderson, che scansava la massa allo stesso modo di come solitamente scansava i suoi nemici sul campo e noi, fedeli compagni, omaggiavamo del suo potere per permetterci qualche privilegio che normalmente non potevamo neanche soddisfare se non avessimo fatto parte della squadra.
Ad esempio il distributore di bevande nello spogliatoio, chi poteva esser riuscito ad ottenerlo se non William mi-scopo-tutti-per-ottenere-ciò-che-voglio Henderson? A quanto pare alcuni docenti della nostra scuola sono facilmente corruttibili.
 
«William! Oggi sembri distratto, che succede? Hai sbagliato buco? Hai inavvertitamente scambiato una vagina per un ombelico?» Se ne uscì Marcus, che puntualmente non riusciva ad evitare di esordirsi in simpatiche buffonerie.
 
Ridemmo, forse perché troppo sovraeccitati di uscire da quell’inferno di scuola, o forse perché consapevoli del fatto che tutto ciò che di solito esce dalla sua bocca ha solo lo scopo di divertirci.
 
«Vedete che può succedere. » Si giustificò, mentre allargava un sorriso e i denti bianchi spiccavo nella carnagione scura.
 
«Sì, a te Marcus. » Sbiascicò William, camminando a distanza di circa un passo da tutti, davanti, come un leader, come il leader.
 
«Uhm, no davvero amico, ti vedo distratto dall'allenamento di oggi.» Sussurrai forte da dietro, come l’ultimo chiodo del carro. Ricevetti una gomitata allegra da Lucas, che in realtà parve proprio non capire il mio fine/scopo di quella osservazione. Dopotutto, solo io avevo visto William Henderson mirare Charlotte Wilson, e volevo capirne il perché.
 
«Oggi giocavano a tennis le ragazze del secondo e terzo anno. Su chi hai puntato? » Ridacchiò Lucas, cercando l’assenso e le risate del resto del gruppo, che ovviamente ottenne.
 
«Secondo me una del terzo… Econ una quarta.» Si trastullò ancora una volta Marcus - non che stesse alludendo a qualcosa di improbabile, comunque. «È degno di William Henderson, le sfere prima di tutto.»
 
William si limitava ad ascoltare oggi. Frugava la mano in tasca, sicuramente cercava le chiavi della sua auto, auto che dopo poco aveva realizzato di non avere, in quanto portata il giorno prima dal meccanico per la sostituzione dei fari.
 
«Cazzo William ci stai ascoltando?» Cercò di attirare l’attenzione Josh, altro membro della squadra. Il ragazzo dagli occhi azzurri si voltò lentamente per guardarci, poi si dimenticò quasi di noi ritornando nel suo percorso.
 
«Sono circondato da idioti.» Disse forte, in modo che noi potessimo sentire.
 
«Dai amico, chi è la sfortunata? » Rimarcò Lucas euforico.
 
«Io amo Marcus. Non vorrò mai nessuna al di fuori di lui. Ti amo Marcus.» Esclamò William, lasciando uscire una risata e roteando gli occhi, chiedendo probabilmente al cielo perché dio gli avesse recapitato noi come compagni.
 
Non lo pensavo perché lo immaginavo, lo dicevo perché una volta ce lo aveva proprio detto che era ancora in attesa di una risposta dal signore, per una cura alla nostra stupidità. Ed eravamo proprio stupidi se come risposta davamo risate di adulazione e compiacimento.
 
«William vieni con me? Devo prendere un nuovo casco. Forse è il momento che te ne prenda uno nuovo anche tu.» Propose Derek, mentre ricordava a William che comunque era proprio il caso di chiedere un passaggio, dato che mancava di un’auto o comunque di un mezzo per tornare. E poi credo volesse davvero che William comprasse un nuovo casco, il coach su questo ha fatto molte pressioni, potrebbe non essere a norma, potrebbe farsi male.
 
«No, non ne comprerò uno nuovo, ma vengo con te, mia madre vuole che io pulisca oggi. Non sa ancora con chi ha a che fare, dovrebbe conoscermi dopo diciassette anni no?» Rispose William.
Entrambi salirono in macchina, ci salutammo e io accettai un passaggio da Marcus - pericolo stradale, perciò implorai chiunque di pregare per me.
 





Derek Foster

Non vedevo l’ora di arrivare a casa, piazzarmi davanti la tv e giocare alla playstation.
Ero insieme a William già per la via di ritorno, ma le strade della città erano più affollate che mai.
 
«Ha ragione comunque James. » Pronunciai nel silenzio assoluto, mentre tenevo le mani sullo sterzo e William fissava chissà che cosa fuori dal finestrino.
 
E’ una cosa che faceva sempre, che faceva sempre quando eravamo in macchina da soli. Non capivo bene cosa guardasse o a cosa pensasse, ma lo faceva, e un po’ stonava con il carattere che presentava ventiquattro ore su ventiquattro al di fuori di quest’auto, ogni giorno con qualsiasi altra persona. Specialmente a scuola.
 
«Derek, oggi non abbiamo fatto un cazzo, ci siamo grattati le palle tutto il tempo.» Mi rispose ancora assolto, non degnandomi ne di uno sguardo ne di una qualche attenzione.
 
«Puntavi una oggi, vero?» Continuai a punzecchiarlo con lo sguardo, mentre cercavo di star attento alla strada che avevo davanti. Anche se la guida non scorreva fluida a causa della fila.
 
William estrasse dalla tasca del pantalone un pacchetto di Lucky Strike, sfilò una sigaretta e se l’incastrò tra le labbra, porgendone una anche a me. L’afferrai mantenendo la guida, per pochi secondi, con una sola mano, e feci lo stesso maledicendo i clacson che suonavano e che mi scheggiavano le orecchie. «Ah, me l’accendi?» chiesi al mio fornitore accanto, che aveva appena acceso la sua.
 
Senza rispondere si avvicinò e porse l’accendino all’apice della mia sigaretta, girò la rotella per l’innesco e mentre la piccola fiamma aveva raggiunto la punta toccando il tabacco, aspirai ed afferrai la sigaretta tra le dita per accenderla , espirai poi, liberando la prima boccata di fumo.
 
«Allora?» Riportai qualche minuto dopo mentre la fila pareva dissolversi.
 
«Ma cosa?» Sbiascicò lui, che si stava ancora godendo la sua, con una mano fuori dal finestrino.
 
«William.» Non se ne sarebbe uscito così facilmente, con un falso e confuso ‘cosa?’.
 
Passarono altri minuti, decisi di non togliergli gli occhi di dosso per un gran lasso di tempo, anche perché la fila pareva essersi ricomposta, e non avevo altro da fare.
 
«Alexia..? Sai che voglio farmela, perciò smettila di chiedermelo.» Parve confessare, infastidito dai miei sguardi e dal disagio che sapevo come ben procurargli.
 
«Non puntavi Alexia.» Risposi, sapendo bene le tecniche delle sue bugie. Imboccavano sempre strade diverse, erano difficili da smascherare a volte, ma William e le bugie erano qualcosa di incompatibile, o almeno, io la vedevo così.
 
Conoscere una persona da un sacco di tempo porta i suoi benefici dopotutto.
 
«Si.» Ribatté lui.
 
«No.» Ribattei io. Stentai qualche altra boccata, ai rimasugli del mozzicone.
 
«Domani sera verrà con noi, al bowling dopo la partita. A fine serata la porto via, la faccio salire in macchina, guido fino a qualche stradina isolata… Mi ci fermo e me la trombo.» Spiegò William passo passo, accentuando il tono di voce nell’ultima frase, con un sorrisino sghembo e soddisfatto.
 
«Uhm. Ma non puntavi Alexia.» Lo contradissi, con l’intento di portarlo all’esaurimento.
 
«Cazzo Derek, mi stai fracassando le palle.» Esaurì. Perciò era il momento che mi giocassi qualche nome.
 
«Charlie?» Domandai con un’espressione facciale provocatoria. E non me la tolsi dal viso per parecchio tempo.
 
«Sei coglione o cosa?» Sclerò, gettando dal finestrino il mozzicone di sigaretta ormai terminato, subendosi urla di rimproveri dai conducenti delle auto alla sua destra, che si lamentarono per la sua maleducazione.
 
«Senti sto solo dicendo che è l'ora che tu e Lucas la smettiate di fare questa cazzata dei numeri. Un giorno vi ritroverete nei guai.» Stavolta ero serio e preoccupato. Non che avessero avuto problemi fino ad ora, e lo sapevo, ma non sarebbero riusciti a spuntarla per sempre. E poi era una cosa così infantile, mi sorprendeva che William lo facesse ancora dai tempi delle medie. All’era anche io lo facevo, semplicemente come sfida. Ma ora non avevamo bisogno di sfide, William avrebbe avuto le sue ragazze anche senza fare ciò.
 
«Ma per che cosa? È una cazzata Derek. Credi che ci arrestino per questo? Ci divertiamo.» Rise, portando agilmente la questione su un piano leggero, un piano che però sarebbe crollato.
 
Decisi quindi di non rispondere, notando vagamente che stava continuando a sogghignare fra se e se. «Charlie è un'amica di tua sorella.» Gli ricordai, pur sapendo che stava pianificando come trombarsi al meglio Alexia.
 
«Andiamo Derek, la conosce da... Da appena un paio di settimane! E poi non voglio farci nulla, non è nemmeno carina.» Vaneggiò gesticolando e nel mentre rispondendo agli automobilisti lì fuori che avevano ancora da lamentarsi.
 
«No?» Cercai di accertarmi.
 
«No.» Rispose, senza però lasciarmi soddisfatto. «Credimi Derek, non è il mio tipo.»
 
Mugolai, non ancora convinto, e mi sentii lo sguardo di William puntato addosso, ma stavolta, a differenza di pochi secondi prima, con poca esitazione. «Se per qualche assurdo motivo mi stai chiedendo un assurdo permesso, sappi che puoi fartela.» Grugnì una volta che lo degnai di un briciolo d’attenzione.
 
«Smettila.» Risposi nel suo stile, ignorandolo e fissando tutt’altro... La strada ad esempio.
 
«Amico scopatela e basta, sei bello e le bionde sono ragazze facili.» Continuò, non più distratto dai clacson e dalle urla pesanti.
 
«A me non interessa William.» Ed ero serio. «Ma grazie per il “bello”.» Conclusi sorridendo, e facendo finta di imbarazzarmi, come una bimba davanti ad un complimento.
 
«Tu e Marcus potreste cimentarvi in una nuova esperienza di relazione omosessuale, ti prego non diventare gay come lui.» Si sconcertò, desiderando ancora a lungo di avere un migliore amico del tutto etero.
 
Cominciai a mandargli scherzosi bacini passionali, per poi terminare con una soffocante risata.
 
«Ah Giusto.» Disse tutto ad un tratto William.
 
«Cosa?»
 
«Rossella.» Sogghignò quel bastardo con gli occhi azzurri.
 
«Ancora?» Mi lamentai, pregandolo di non iniziare nemmeno il discorso.
 
«Non puoi divertirti solo tu.»





Charlotte Wilson

«No Juno, non mi piace. È successo due giorni fa, con Lucas non ci ho più parlato.»
 
Stavo parlando da ore al telefono con Juno, e non è che avessi le chiamate a costo illimitato, illimitate erano le ramanzine che mi avrebbe fatto papà alla resa della bolletta del telefono a fine mese.
 
«Charlie stavamo parlando di William, non di Lucas.» Sottolineò acuta dall’altra parte della cornetta.
 
«Senti sai che ti dico? Chiudiamola qui.» Mi innervosì, dato che la maggior parte del tempo mi aveva proprio portato a parlare di William, della tonalità del colore dei suoi occhi, della sua voce roca, dei suoi capelli… Di quanto fosse lurido e bastardo.
 
«Dai Charlie!» Mi pregò con una vocina lagnosa. «Non puoi reagire così a…  Ad un ragazzo che ti dice quelle cose, in quel modo poi, dio santo Charlie non ti sei eccitata? Io mi sarei bagnata.» Enfatizzò quella stessa vocina in qualcosa di irritante e perversamente sporca.
 
«Juno! No, assolutamente no! È solo un cretino che va dietro a tutte, poi... Poi no. È un puttaniere.» Negai d’istinto con il capo, pur sapendo che lei non mi avrebbe visto.
 
«Ma che te ne frega? Se è carino.» Continuò come un capriccio, come quando andavamo in bottega e non avevo abbastanza soldi per le masticanti alla fragola: «Che te ne frega? Non se ne accorgerà mai se te le metti in tasca e te ne vai senza pagare.»
 
«Non ho mai detto che lo è.»
 
«L'ho cercato su Facebook.» Rivelò senza problemi, incitandomi però a strozzarla mentalmente, dato che fisicamente non avrei potuto, comunque.
 
«Diamine Juno, ma come...?»
 
«Se lo vuoi sapere sto guardando le sue foto proprio ora. È uno da scopare Charlie, per favore scopatelo.» Mi incitò la mia cara amica perversa, che capii nel frattempo stesse sgranocchiando qualcosa, probabilmente barrette di cereali dietetiche.
 
«Ciao Juno.» Esasperai, dopo ben due ore e trentaquattro minuti di chiamata.
 
«Aspetta Charlie!» Il suo urlo mi aveva stonato un timpano. Era così allarmante da poter sembrare che stesse morendo.
 
Decisi di tagliare corto «ciao, ti voglio bene un bacio», e di chiudere la chiamata.
 
La odiavo quando si comportava così. Questo mi ricordava costantemente quanto in realtà lei fosse da sempre stata più esperta di me, sui ragazzi , sulla prima volta, su tutto quello che c'era da sapere ma che io non sapevo. Il paradosso era che lei però era proprio come me, vergine e conservata.
 
 
I provini di tennis erano stati un disastro. Avevamo perso parecchie palle, rotto una racchetta e sporcato tutte le tute. Io ero caduta più di una volta, non riuscendo a mantenere l'equilibrio con la racchetta in mano e non vedendo nulla per il sole che mi batteva in faccia. Rossella aveva avuto un certo attacco isterico quando aveva visto la tizia che si era baciata con Derek pochi giorni prima.
Non mi spinsi neanche a chiederle come fosse riuscita a scoprire chi fosse. Non riuscivo a capire come le cose che succedevano in questa scuola si sapessero e si diffondessero in un tempo così breve.
 
Comunque si chiamava Rachele. Secondo le fonti riportate la mattina durante l’ora di tennis, era una delle due ‘seguaci’ di Alexia, la ragazza di cui si era già parlato al pigiama party. Era un anno avanti a noi, anche se sembrava davvero più piccola. Ad essere onesta, non mi sembrata tanto antipatica, a pelle. Era molto carina, aveva un bel fisico e sembrava gentile. Non che io ci avessi parlato, però.
 
L'altra si chiamava Jenna, ed era un po' brutta messa a confronto alle altre. Il suo seno però compensava il viso.
 
In più, Emily non si era di certo fatta sfuggire l’occasione di punzecchiarle con frecciatine e occhi storti per tutto il tempo della lezione, ritirandosi persino dal campo, non riuscendo più a proseguire la lezione per il tono di voce di Alexia , che spesso si sbilanciava in stritolii così acuti da poter spaccare, oltre che i vetri, i timpani. Però i ragazzi sbavavano praticamente su di lei, e lei si atteggiava, come se lo sapesse, come se sapesse di esser bella, ecco. Anch'io avrei voluto avere tutta questa autostima. Persino William oggi la guardava…
 
Non che mi interessi però.
 
 
La sera della tanto attesa partita di inizio anno era arrivata.
 
Che poi perché la chiamavano 'partita di inizio anno' se eravamo già a Novembre?! Sarebbe stato più corretto chiamarla 'partita di Novembre', per l'appunto, o che so, 'la prima partita dell'anno' anche se in questo caso sarebbe stato troppo lungo da pronunciare e la gente si sarebbe seccata persino a venire, probabilmente.
 
O forse, sempre probabilmente, mi stavo dileguando in un monologo interiore così inutile e superficiale che i venti minuti per arrivare erano diventati cinque, o giù di lì. Durante il tragitto in macchina ero riuscita ad ascoltare sulla radio una delle ultime canzoni di Lana del Rey, e se fossi stata triste e sull'orlo della depressione, questa avrebbe potuto letteralmente spingermi dentro un baratro oscuro.
 
Ah e sì, ero in macchina perché mi aveva accompagnato papà.
 
Non si sa mai, se qualche stupratore malato si trovasse in giro a vagabondare per la città, ‘non si sa mai’, diceva mamma. Perché non potevo comportarmi come tutte le altre ragazze della mia età?! Perché? Non ero una fottuta principessa, una fottuta cantante, attrice o che so, alcolizzata ricercata.
 
Mio padre mi lasciò davanti scuola ed era sfrecciato via in ufficio per delle ultime questioni di lavoro, ed io feci uno squillo ad Emily per sapere dove diamine si  trovassero.
 
Dopo poco le raggiunsi. Erano tutte molto carine.
 
Carino anche il proposito di andare a questa benedetta fottutissima partita. Rossella aveva già perdonato mentalmente e poco sanamente il suo latin lover, che poi proprio 'latin' non era, dato che rispettava proprio tratti americani, e quindi non poteva di certo perderselo mentre teneva in mano una palla ovale. Emily era stata costretta da sua madre, in quanto 'la famiglia prima di tutto' ed è giusto supportare il fratello in questi eventi, ma non il figlio a quanto pare, dato che sua madre stessa non era ancora qui e probabilmente non sarebbe venuta neanche più tardi. Ed era un bene per entrambi gli Henderson, mi aveva spiegato Emily per telefono, mentre sfogava attraverso la cornetta tutto l'odio profondo di questa costrizione. Leila stava scrivendo un saggio scolastico riguardo le attività extra sportive, e vedere la partita le sarebbe servito da buon materiale.
 
Quando ci sono di mezzo ragazzi sudati e ‘fisicati’ è sempre buon materiale.
 
Lily preferiva stare con le amiche piuttosto che vedere sua madre allenarsi con stupidi video di stretching davanti la Tv, quindi qualsiasi cosa avremmo fatto, anche infilzarci di aghi, l'avrebbe preferito. Poi c'era Madison, felice come sempre, che spero davvero non fosse venuta con il proposito di osservare Lucas, dato che in tal caso, giusto per pura coincidenza, con lo stesso proposito non sarebbe stata l'unica.
 
Ci accomodiamo nei sediolini rossi della tribuna centrale, quasi sulla destra, e non ci volle molto che i miei glutei già urlavano di dolore, se sempre i glutei possono urlare, avrebbero tanto voluto tornare a casa e mettersi comodi sul divano.
 
Avevo un vestitino blu navy e degli scarponcini beige, evitavo sempre i capi bianchi in queste occasioni, proprio perché ero una di quelle ragazze che si sarebbe sporcata persino con dei fiori. Però adoravo il bianco, era il mio colore preferito.
 
Non fummo le prime ad arrivare, ma il campo si stava riempiendo sempre di più, ed io non potevo far altro che notare che la maggior parte degli spettatori erano del sesso femminile, quindi rettifico, spettatrici.
 
Emily aveva la stessa espressione da ormai diciotto minuti e ventitré secondi. Era decisamente annoiata e avrebbe forse preferito fare stretching insieme alla madre di Lily. Si rianimò subito quando vide una ragazza dai capelli neri lunghi e da un sedere sculettante urlare il nome di suo fratello come se stesse chiamando il suo cane personale. A distanza da due giorni mi chiedevo ancora cosa Emily avesse contro quella ragazza. Forse questa repellenza era dovuta al fatto che Alexia all'apparenza sembrava una ragazza abbastanza 'vivace' e fin troppo eccentrica, e che a quanto pareva proprio tutto il gruppo non la reggeva. L'unica cosa che io non riuscivo a reggere era la sua voce, onestamente. Su questo potevo da dargli ragione. E mentre osservavo il suo tubino rosso accorciarsi magicamente sempre di più, non mi ero accorta che l'oggetto della sua attenzione era proprio accanto a noi, a stuzzicare la sorella, che stasera non era proprio dell'umore adatto.
 
«Biondina! »
 
Lo ignorai completamente. Non lo sopportavo, stavo sviluppando una certa reazione allergica. E poi non riuscivo a guardarlo negli occhi. Mi sentii puntare tanti occhietti vispi dalle mie compagne accanto che si aspettavano probabilmente che io rispondessi. Ma come potevo rispondere ad un tizio in calzamaglia? Quando la cosa peggiore era che proprio lui con quei pantaloni stretti pareva irresistibile?
Juno gli sarebbe saltata addosso, lei amava i giocatori di rugby. Io però, preferivo non saltare addosso a William Henderson.
 
Ritornai nel mondo reale, quando mi sentii afferrare il cerchietto dai capelli, ed alcuni ciuffi ricaddero mosci sul viso. Sobbalzai di scatto e nell'intento di riprendermi il cerchietto, capii che il ladro era proprio il quarterback, che sventolando in aria il cerchietto beige come fosse vermi per pesci , era riuscito ad attirare la mia attenzione.
 
Mi alzai e mi misi in piedi nel sedile per poi scavalcarlo e andargli incontro con la furia gettata come un secchio di aceto in faccia, ma era troppo altro ed io non riuscivo a mettermi nel suo stesso livello per riprendere, dopotutto, solo ciò che era mio.
 
Odiavo il suo modo di ridere, mi dava ai nervi, perché era così bello tanto quanto inadeguato.
Il suo modo di ridere intendo. Non mi andava di urlare, 'l'immagine' prima di tutto, cosii provai ancora un altro poco a sbracciarmi mentre beffeggiava la mia altezza e la mia goffezza, e mentre ero sul punto di farcela, persi d'un tratto l'equilibrio e mi aggrappai istintivamente ai suoi bracci muscolosi ed al suo petto duro.
 
Smise di ridere. Smisi di implorarlo. Avvampai e mi sentii così fottutamente fottuta.
Non doveva vedere il rossore che diveniva sul mio viso, non doveva vedere che mi ero imbarazzata da morire. Eppure non sapevo che cosa fare. Lui non si spostava, io non mi spostavo.
 
Il mio cerchietto era ancora in una delle sue due mani, o almeno, fino a quando lui si ritrasse dalla sottoscritta e prese la decisione saggia di rimettermelo in testa, poggiando le mani appena sul mio collo mentre le dita inserivano il pezzo di plastica tra le orecchie. E comunque ci fu quel maledetto contatto visivo che avrei tanto voluto evitare.
 
Perché se ne stava zitto ad osservarmi così? La madonna scesa dal cielo, ecco cos’ero. Perché Alexia non la smetteva di guardami come fossi carne da macello?
 
«E dì qualcosa per l’amor del cielo! Smettila di fissarlo, smettetela di fissarvi a vicenda.»
 
Non avrei mai creduto che prima o poi si fosse arreso, eppure era successo. Non ebbi il tempo di dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, che già aveva raggiunto Alexia, prendendola per mano, incamminandosi insieme verso le scale che portavano giù al campo.







*si nasconde dietro ad un tronco di un albero*
VI CHIEDO UMILMENTE PERDONO (E SE POTESSE SERVIRE, MI INGINOCCHIO PERSINO)
La nuova scuola è una giungla, nuovi professori, nuovi compagni, programmi di materie diversi da quelli già fatti... Insomma un vero e proprio inferno.
Ho cambiato scuola, sono al terzo anno di liceo e mi sono ritrovata in un ambiente totalmente nuovo con un disorientamento incredibile.
Un po' come Charlie, davvero.
Comunque le mie colpe, lasciando perdere la scuola, le ho.
Cioè ho tra le mani il nuovo 3ds con uno dei miei videogiochi preferiti, ho i miei pensieri (povera me), i miei amici i miei nemici (eheh) e le mie distrazioni.
In poche parole, anche io ho una vita sociale, assolutamente attiva, quindi vi prego ancora di perdonarmi per la pubblicazione in super ritardo.
Detto questo, non vi prometto nulla, non vi prometto che per il prossimo capitolo starò più attenta ma neanche voglio scoraggiarvi dicendovi che il prossimo capitolo sarà così in ritardo come questo.. perciò.. rassegnatevi a questa sconsiderata di una scrittrice alle prime armi.

ps. ringrazio le recensioni, tutte, incluse quelle negative che potrebbero esser considerate costruttive, in alcuni casi.
Un bacio. ❤






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Capitolo 15
*** fifteen ***


15


Charlotte Wilson

Non che mi aspettassi che tutto ad un tratto piombasse un orso in tutù a sparare miele con delle pistole ad acqua alla gente sulle tribune.. Ma questa partita stava diventando davvero pesante sia da reggere che da seguire. Non potrei mai limitarmi all’aggettivo ‘noiosa’, sarebbe un eufemismo, ma a tener le pupille spalancate erano quelle amabili, attillate, strette tute dei ragazzi.
E i ragazzi.
Le urla e le incitazioni degli spettatori sono sicura non fossero solo per il netto vantaggio della squadra della nostra scuola, la Gilbert, sulla squadra avversaria, con l’arrivo del tanto atteso fischio di fine partita. Addirittura posso affermare di aver visto una tizia in bikini e con il viso truccato nel perfetto stile militare. Probabilmente era rossetto, non fango però.
Tutti si alzarono in piedi urlando e festeggiando, ma c’era troppa confusione e nell’attesa e nella speranza di uno smaltimento delle file createsi tra le scale e le porte di uscita, rimanemmo sedute ai nostri posti.
 
«Ragazze!» Urlò Emily richiamando la nostra attenzione, mentre teneva tra le mani il suo cellulare e l’applicazione dei messaggi aperta.
 
«Mio fratello mi ha chiesto di portargli un asciugamano pulita, che tiene nell’armadietto.» Ci fece presente, lanciandoci uno sguardo languido e molto opportunista, per la verità.
 
«Hanno finito le scorte?» Rispose Rossella distratta, che non la stava nemmeno degnando di uno sguardo.
 
«Nah, non credo. E’ lui che è viziato.» Ribatté prontamente senza batter ciglio, conoscendo bene i difetti del fratello.
 
Anche se, a dirla tutta, non è l’unica a conoscerli.
Non sono proprio la persona più adatta per dirlo, ma sono fermamente convinta che più o meno tutti in questa scuola, alla domanda “Chi è William Henderson?”, ostenterebbero ad elencare una serie di ampie conoscenze relative al soggetto, magari attraverso una tesi o un bel saggio breve, o solo saggio, senza breve.
 
«Ma non è ancora in campo?»
 
«Il messaggio è di prima, lo ha scritto durante la fine del primo tempo ma non so perché mi è arrivato solo ora.»
 
«Povero principino.» Mi commossi falsamente, mostrando un labbruccio compassionevole.
 
Le altre si astennero e lei si ricompose nel suo seggiolino rosso, stiracchiando la schiena e iniziando una nuova partita di Candy Crash con i piedi incrociati e poggiati sullo schienale del seggiolino davanti a se.
 
«Allora?» Chiese Leila interessata, secondi più tardi.
 
«Allora cosa?»
 
«Non glielo porti?»
 
«Scherzi? Io, sola per i corridoi a quest’ora? E’ già abbastanza pauroso la mattina ad inizio delle lezioni. Insomma tutte quelle facce da coma e tutte quelle occhiaie terrificanti di gente che striscia fino alla porta della propria classe come zombie senza cervello.» Gesticolò Emily ironizzando, accorgendosi poi del netto “game over” scritto a lettere cubitali sullo schermo del cellulare, cellulare che a scatto felino gettò all’interno della sua borsa, imprecando mentalmente con occhi rivolti al cielo, cielo buio e stellato.
 
«Beh, una di noi potrebbe sempre accompagnarti. » Propose con voce tenera Leila, che non sopporta, in fondo, quel tanto menefreghismo di Emily per William.
 
Leila non ha né fratelli né sorelle, ma ne ha sempre desiderato uno, quindi credo non sappia bene come vadano di solito questi strani rapporti tra fratelli o sorelle. Ha un gatto, ma non credo sia la stessa cosa. Insomma, non credo che mai Emily gratterebbe e si farebbe fare le fusa da suo fratello, ma probabilmente Leila la vede così, e forse vede tutti un po’ più teneri, come il suo gatto.
 
«Uhm. » Bofonchiò Emily senza distogliere lo sguardo dal cielo. E non perché fosse bello, ma perché le appariva un po’ più interessante di tutto ciò che la circondava.
 
Ma Leila non demorse, e ce la mise tutta per riuscire a lungo a sostenere uno sguardo materno su Emily, e quel suo sguardo le voleva dire di alzare subito quelle benedette chiappe e di portare al suo fratello/gatto l’asciugamano richiesta.
Gli occhioni verdi di Leila possono non passare così facilmente inosservabili, perciò i ruoli si invertirono, era Emily ora che ce la doveva mettere tutta per non farsi convincere.
 
«Ok. Ross?»  Emily dichiarò così la vittoria di Leila.
 
«Eh?» Assente, Rossella era completamente assente. Presente  di corpo, sì, con la mente che viaggiava altrove. E questo altrove aveva persino un nome.
 
«Fai una cosa Ross…  Salutami Derek con la manina!» E fece sventolare la sua mano davanti la faccia dell'amica, mostrando anche un carinissimo anello dorato con incastonata una pietra di medie proporzioni color turchese.
 
Ridemmo, notando anche noi come si fosse imbambolata ad osservare Derek Foster sua magnificenza, accanto ai suoi compagni di squadra in campo a congratularsi.
Rossella aggrottò le sopracciglia, leggermente confusa, e si voltò per fronteggiare chiunque l’avesse tirata in ballo.
 
«Maddy?» Proseguì la ‘boccolosa’, che proprio questa sera aveva tirato su quei suoi boccoli in una sorta di coda che sembrava più una cascata color cioccolata, acconciatura che, tra l’altro, le donava un aurea sexy.
 
«Santo dio, ma che problemi ha il numero tre? Sta ancora leccando il culo all’arbitro. Guardalo, guardalo! Non ha ancora capito che la partita è terminata?» Sbraitava lei, come uno di quei vecchietti che seguono le partite da casa, e che seduti comodamente sul divano, credono di avere questo magico e speciale potere di far arrivare la loro voce, e i loro preziosi consigli, alle orecchie dei diretti interessati. Difficile da capire anche per Maddy, che si trovava in una distanza tra lei e il campo di circa, diciamo, un’infinità di metri.
 
«Leila?» Cambiò allora vittima, apaticamente.
 
«Uhm. Quando dicevo qualcuna non intendevo me. Sai che ho paura del.. »
 
«.. buio?» Terminò Emily per Leila.
 
«Sono troppo isolati i corridoi.»
 
«Nah. C’è sempre Anthony del quarto anno che spaccia vicino al bagno delle ragazze, o Marny che vende abusivamente i biglietti per i concerti di Lady Gaga, o sì.. Jenna che si prostituisce come se non ci fosse un domani e che aspetta i suoi clienti davanti la porta della classe di Biologia.»
 
«Tutta brava gente infondo.» specificò.
 
«F-fottiti.» Singhiozzò intimorita la stessa Leila, mostrando uno sguardo terrificato.
 
«“Beh, una di noi potrebbe sempre accompagnarti.” » Emily le fece la ripassata, riportando le stesse parole dell’amica, e l’amica stessa si nascose il viso dietro i palmi delle proprie mani.
 
«Charlie?»
 
«C’è anche Lily.» Risposi prontamente.
 
«Lily ora si alza e va a vedere se ci sono dei posti alla pizzeria qui accanto. La pizza è buona e c’è sempre tanta confusione.» Parlò in terza persona di se stessa.
 
«Ed Emily adora la pizza.» Continuò Emily con il sorriso di chi non mangia da un pomeriggio intero e di chi non aspettava altro da tutta la sera.
 
«Charlie?»
 
«Io?» In queste cose non sono mai stata fortunata.
 
A dire il vero non sono fortunata in niente. Perdo sempre nei giochi di società, da tavolo... Perdo sempre, persino contro la mia cuginetta Julianne al ‘Memory’ delle principesse. La bella addormentata assomiglia un sacco a Cenerentola, ed io le confondo sempre, puntualmente.
E se sono così sfigata nel gioco, in amore o alla tombolata di natale, non posso assolutamente detenere il titolo di perfetta sfigata se non lo sono anche nella scelta occasionale di “accompagnatrice forzata”.
 
«Ok.» Acconsentii.






«Sappi che lo sto facendo per te, non per tuo fratello.» Ci tenni a specificare.
 
Dopo aver impiegato ben dieci minuti solo per uscire dalla tribuna, ci avviammo verso la prima porta che ci avrebbe condotto all’interno dell’istituto, lasciandoci alle spalle fischi, cori, gomitate e scomodi guantoni giganti. Mai visto tanta acclamazione ed euforia per una semplice partita scolastica.
 
Avevamo entrambi le guance rosse, accaldate per il notevole sbalzo di temperatura. Dal gelo di autunno inoltrato dello scoperto campo, al calore della compressa e incredibile folla.
 
«Perché dovresti farlo per lui?» Riprese Emily, una volta esserci ricomposte e sempre più avanzando verso il silenzio dei corridoi. Ed in effetti era la stessa domanda che stavo ponendo alla mia sporca coscienza. Un’improvvisa irrequietezza albergò dentro di me.
 
«Dov’è il suo armadietto?» Chiesi apparentemente interessata. Solo che tanto lo sapevo già.
 
«Bel modo di sviare il discorso, comunque stiamo arrivando.» Mi guardò intensamente, attendendo una mia qualsiasi risposta alla sua precedente domanda, fino a quando non si arrese, sospirando poi pesantemente e spostando gli occhi altrove.
 
«Sta zitta Charlie, sta zitta.»
 
«Come va con Lucas?»
 
«Touché, ti ha scoperta!»

Scalciai l’incoerente opinione della mia vocina interiore, totalmente fastidiosa. Che si parlasse di Lucas piuttosto che di suo fratello, mi sollevò parecchio.
 
«Lucas? Di cosa stai parlando?» Rispondo con aria elusiva, già avvertendo il panico crescere dallo stomaco lungo l’esofago fino alla gola.
 
«Charlie, si vede. Disgraziatamente per te, si vede.» Confessò quasi con dispiacere.
 
«Cosa si vede!?» Fu l’unica risposta con cui fui capace di uscirmene.
 
«Cosa ha fatto piuttosto? Ti ha detto quanto sia figo mentre fa i pesi? Ti ha detto di amare sua madre o di preparare biscotti per sua nonna tutti i giorni?» Assunse un’aria interrogatoria, incrociò le braccia e piegò un sopracciglio mentre i suoi occhi bruciavano nei miei in cerca di risposte che non potevo propriamente darle.
 
«No. Che vuoi dire?» Spalancai gli occhi confusa, e cercai di invitarla a continuare cosa aveva da dire.
 
«Lucas fa sempre così.» Tagliò corto. «Anche con Madison, fa tanto lo sbruffone. E per la cronaca non fa e non ama un cazzo.» Mi rassicurò sarcasticamente, picchiettando la mia spalla.
 
Per quanto potesse interessarmi il comportamento evidentemente a me sconosciuto di Lucas, dovevo tenere a mente che la mia intenzione non era proprio quella di estorcere informazioni, piuttosto quella di chiarire le cose come in realtà stavano. E farle capire il contrario, ovviamente.
 
«Non so dove ti sia venuto in mente che io e Lucas-»
 
«-Madison lo sa.» Mi bloccò.
 
Panico. Tutta una serie di rimpianti mi trafissero lo stomaco, macellandolo in tanti piccoli pezzetti.
I sensi di colpa, invece, cominciarono a bruciarmi in mente, a bruciarla in realtà, come si fa incenerire una carta straccia.
 
«COSA? È stato tuo fratello v-vero? Io… Io non so quello che gli faccio!» Cominciai ad agitarmi, a provare tanto odio tanta quanta delusione. Anche se la delusione ero io.
 
«Mio fratello cosa?» Domandò scettica. «Comunque lei vi ha visti qualche giorno fa, quando hai detto qualcosa tipo 'facciamo finta che non sia successo niente'. » Concluse, cercando di imitare la mia voce mentre lo dicevo. E non era affatto brava ad imitarla.
 
«Uhm no, io gli stavo dicendo che..» Sbiascicai appena, sentendomi frenata dal nodo in gola che mi si era ormai formato. Abbassai il capo mortificata come se fosse l’unica via di fuga per nascondermi dalla vergogna.
 
«Lo sa. Non è arrabbiata, tranquilla. Conosce Lucas, non conosce te però, quindi ti sei guadagnata qualche punto respingendolo.» Spiegò, cercando di tranquillizzarmi. «Anche se lei avrebbe voluto il contrario.» Puntualizzò dopo. Parve rifletterci su.
 
«Contrario?»
 
Si strinse le braccia a se, al suo giubbotto, probabilmente aveva sentito lungo la pelle un brivido di freddo, freddo che a dire il vero ristagnava brutalmente nei corridoi, al contrario mio, che stavo scoppiando di calura. «Non sopporta più Lucas. Continua ad inviarle messaggi e a chiamarla la sera per uscire. Vuole davvero scaricarlo a qualcuna.»

Continua ad inviarle messaggi e a chiamarla la sera per uscire.

Questa frase cominciò a balenarmi in testa, come un infinito “repeat” di una canzone preferita. Ma non era la mia canzone preferita, era praticamente l’ultima canzone, l’ultimo suono, l’ultimo rumore che avrei voluto ascoltare in quel momento. Ed in altri, in realtà.

«Continua a chiamarla?» Balbettai incredula.

«Sì. Come se non fosse successo niente.»

«Oh, non lo sapevo.» Cercai di discolparmi subito, mettendo le mani avanti e il cuore indietro.
 
«Non importa.» Fece suonare dolce e sonnolento come un anestetizzante, la 'boccolosa'.

«Se ti ci metti le fai un favore.» Finì.






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Capitolo 16
*** sixteen ***


16


Charlotte Wilson

Il ragazzo dall’aspetto californiano si era rivelato anche un grande scocciatore, agli occhi di Madison. E ora capivo perché lei preferiva lo sport, una bella corsa o un ora in più in palestra ad una bella pomiciata o scopata con un tale idiota, carino, ma pur sempre idiota.
O forse non l’avevo ancora davvero capito cosa fosse.
Di certo non era un ragazzo spigliato, e nemmeno tanto uomo, solo troppo bisognoso. E se io dovevo proprio essere una di quelle, lì a risolvere e soddisfare i suoi bisogni (primari o secondari che siano), preferivo darmi in pasto ai leoni. Ok forse proprio in pasto no, e nemmeno ai leoni. Dare un pasto ai leoni, questo forse sì, ma è pur sempre un pericolo.
 
I corridoi erano troppo silenziosi, il pavimento appariva tanto più lucido e gli armadietti parevano addirittura essersi moltiplicati tra le classi e i bagni. Ad esser onesta faceva persino un po’ senso la scuola di sera. Sembrava più un grande magazzino o una fabbrica, pronta a riempirsi di operai il giorno dopo. Ero colpita comunque dell’estrema pulizia, e del profumo di detersivo economico nell’aria di quella stessa struttura che l’indomani sarebbe diventata uno zoo. Ma rimasi più colpita, quando davanti all’enigma della combinazione dell’armadietto di William, la sorella seppe rispondere correttamente, con l’inserimento di quattro numeri. Afferrò quell’asciugamano e richiuse l’anta.
 
«In realtà non ho nessuna intenzione con Lucas.» Ci tenni a specificare, riprendendo il discorso di prima, a cui stavo ancora rimuginando. Non mi andava bene che le persone pensassero cose su di me, soprattutto cose non vere, ma mi parve che comunque a lei questo non importasse molto, dopotutto ultimamente sembrava che solo a me importasse di Lucas.
Prima che potessi ripetere nuovamente la domanda, arrivando a pensare che magari non avesse neanche ascoltato quello che le avevo detto, mi fermò lei stessa dal dire qualsiasi altra parola, sillaba, vocale o verso.

«Shh! Senti?»  Sussurrò, mentre mi stava trascinato ad appostarmi dietro ad un angolo del corridoio successivo con affare abbastanza furtivo. «C’è qualcuno.» Mi avvisò, cercando di coinvolgermi.

«Emily ma che diamine…» Sussurrai con aria interrogativa.

Nel buio riuscii a vedere la sua bocca spalancarsi, mentre lei sola stesse sbirciando da dietro l’angolo. «Non ci posso credere.»

Mi tirò un po’ dal braccio per farmi sporgere e vedere ciò per cui si era sorpresa. «Chi è quella?» Mi venne spontaneo domandare. Erano in due. Uno dei due di certo era un ragazzo, e l’altro una ragazza.

«Non capisco. E’ di spalle, però ha dei pessimi capelli.» Appuntò Emily mormorando.

Odio quando le ragazze non si lavano i capelli. Perché? Costa poco un flacone di shampoo e l’acqua va bene anche quella dello sciacquone.

Stemmo ad osservare una manciata di secondi, poi quei secondi divennero minuti. Ma bastarono pochi di essi per accorgerci che il ragazzo era Lucas. I due erano praticamente attaccati, Lucas parlava, lei (ancora dall’identità sconosciuta) gli stuzzicava il braccio «E’ meglio andare.» Non volevo vedere altro.

Ma Emily non volle darmi retta. «Se fai silenzio sentiamo quello che dicono.»


«Non ti aspettavo in realtà.» Sentimmo dire dalla ragazza.

Lucas cominciò a guardarsi intorno prima di risponderle. «Come se non ti facesse comodo.»

«Fa più comodo a te.»

«Andiamo, non fare la puritana» Rise, aumentando il tono di voce.

«Tutt’altro.» La ragazza, forse per dimostrazione di quanto detto, allacciò le mani al collo di Lucas e cominciò a baciarlo dando il via ad una sorta di pomiciamento, sempre più aumentando la foga.

Dalla nostra prospettiva, potemmo vedere Lucas punzecchiarle il sedere più volte. «Qui no. Entriamo dentro.» Ritraendosi, per riprendere probabilmente fiato.

«E’ finita la partita?» Chiese la ragazza, come sorpresa.

Io ed Emily ci guardammo, lei per poco non scoppiò a ridere, non so se per la situazione in cui ci trovavamo o se per la bestialità dimostrata dalla ragazza riguardo la partita. Io tutt’altro, avrei voluto sprofondare, mi sentii nauseata, un nodo allo stomaco, pensando a come mi fossi illusa in questi giorni su Lucas, nonostante avessi deciso di lasciar perdere.

«Meno male che la dai.» Sogghignò Lucas alla ragazza.

La ragazza parve freddarsi. «Che vuoi dire?»

«Sì, è finita la partita.» Le rispose, trattandola come vera idiota.

«Perfetto.»  Squittì la ragazza, e nel momento in cui aprì la porta dietro di se e lo spinse per entrare dentro l’aula, intravedemmo il volto misterioso.
 

«Accipicchia. Allora è vera la storia che gira su Jenna e la prostituzione.» Ecco, era Jenna.

Chi cazzo era Jenna?

«Charlie?» Emily si voltò cercando la mia attenzione, ma io stavo già tornando sui miei passi. «Ehi, aspetta!» La sua voce fece eco nei corridoi.

«N-no io.. vado a casa.» Mi sentii d’un tratto irrequieta, infastidita. Da cosa poi? Ero stata io a dire a Lucas di far finta di niente.

«Davvero? Aspetta te ne vai a casa per..» Ed Emily aveva capito.

Ma non mi andava di piagnucolarle davanti, avevo già combinato troppi danni, e se pochi minuti prima avevo deciso di negare, ora, non avrei cambiato di certo idea. «Uhm, no, n-no io devo tornare a casa.»

«Pensi che io ti lascia andare da sola?» Disse con tono protettivo. Mi ricordò quasi mia madre.

«In realtà sta venendo mio padre.» Mentii.

Ma Emily non era stupida, forse un po’ strana, menefreghista, ma non stupida. «Umh?» Piegò le sopracciglia sospettosamente.

«Sì.»

«E’ una balla?» Chiese più che seriamente, retoricamente.

«No.»

«Non mi piacciono le balle.» Rimarcò, mettendo le mani conserte, ed il suo sguardo era penetrante.

«Ah, dammi a me, glielo porto io.» Afferrai dalle sue mani l’asciugamano, e provai a scrollarmi di dosso i suoi occhi acuti.

Riafferrai per bene la tracolla che pendeva da una spalla, e indietreggiai nell’intento di andarmene. «Charlie?»

«Le altre ti staranno aspettando, raggiungile sento da qui il tuo stomaco che brontola.» Provai a tirare un sorriso, come ai saggi di danza o alle recite. Quei sorrisi mille denti cheti spaccano la mandibola.

«Ma.. Dove ti aspetta tuo padre? Io.. non credevo te ne saresti tornata così presto... »

Emily ti prego, lasciami andare.


«Mia madre rompe, sarei rimasta ma…» Mentii, ancora. Ed era strano davvero, sia mentire, sia realizzare che mamma non mi aveva dato nessun orario di rientro.

«Giusto. Tua madre, la dittatrice, l’ape regina, o come la chiami sempre tu ti attende nella reggia.»

«Esatto.» Le sorrisi ancora, ero troppo ben educata per andarmene senza salutare per bene.

«E’ tutto ok?» Mi chiese. Eppure potevo capire di poter suonare strana mentre dicevo le bugie o facevo più sorrisi che battiti di ciglia.

«Sì. Perché non..?»

«No, non credo dovresti star male per..» Non dirlo Emily, non dirlo.

«E’ di qua, giusto?» Indicai il lato sud del corridoio, provando ad indovinare la strada per raggiungere gli spogliatoi.

«Sì, ma-»

«-Scappo!» Dissi frettolosa.

«Charlie!»

«Tranquilla.. Sto bene.»

«No dico, chiama appena arrivi a casa.. Ok?» Mi guardò come si guarda un cucciolo dietro il vetro di un negozio d’animali.

«Ok.» Abbozzai un ennesimo sorriso e apprezzai la sua amichevole apprensione.






Ecco. Era troppo strano da pensare, troppo strano da esser vero che un bel ragazzo, un bel ragazzo come Lucas poteva essersi innamorato di me. Le solite cazzate, insomma. Che io non ero innamorata di lui, che non ho mai avuto la capacità di innamorarmi così velocemente di qualcuno, per così poco poi, ne ero certa. E allora è andata così, non ci credeva poi così tanto neanche lui. Ma stavo di merda, merda davvero. E’ come quando si riceve qualcosa che non si aspetta o che non si ha mai cercato. Nei primi momenti  può non importare molto, lo si tiene, ci si prova. Fino a quando un bel giorno non la si perde  e per un motivo abominevolmente sconosciuto ci si sente un po’ vuoti, come se nessuna cosa fosse stata fatta in realtà per rimanere, o addirittura per te, unicamente e solamente per te. Capisci che forse avresti dovuto impegnarti, almeno un po’ di più. Ma io mi sono impegnata. Mi sono impegnata a fare l’amica, a fare la ragazza seria, a far felice sia mia madre che me stessa, cercando di dare al massimo una buona immagine di me stessa medesima.  Ma c’è qualcosa che ancora non va, riguardo la questione della famigerata immagine iniettatami abusivamente nel cervello da mia madre:  Sento di star ancora disegnando per me qualcosa che non mi rispecchia. Come avere in mano un pennarello giallo e trovarsi nella condizione di decidere se quel giallo sarà per il sole o per la luna: e mettiamo che per una decisione un po’ azzardata o al contrario per una scelta fin troppo meditata, o addirittura perché costretti,  si scelga di disegnare il sole, nonostante si desideri rappresentare la luna. Una luna un po’ più grande del sole, un po’ più luminosa. Una luna di mattina, e non di notte. Ed io mi sento un po’ la luna della situazione, e sono in una fase di eclissi solare, dove io da luna, vengo nascosta alla terra dal sole.
Forse sto sparando una marea di stronzate, ma non so come spiegar meglio come mi sento, se non così. Quindi possiamo dedurre che Lucas, probabilmente, è soltanto una vittima incastrata lì, tra i miei ragionamenti contorti e le mie deduzioni impercettibili.
 
Mi misi a frugare nella borsa nel tentativo di recuperare il mio cellulare, affinché potessi chiamare qualcuno per venirmi a prendere. Se fosse venuta mamma mi avrebbe fatto mille domande, e non ce l’avrebbe smessa più.
Se fosse venuto papà, invece, mi avrebbe fatto una ramanzina per l’orario (e direi comprensibile), il buio e gli stupratori. Quindi scelsi papà. Le domande di mamma vanno ben oltre l’apprensione.
Peccato che non si tratti di scegliere… Se per un karma contrariato, chissà, magari divertito o sadico, il cellulare è scarico. E questo non potei deciderlo. Morto, morto completamente defunto, schermo nero e tasti impotenti. Mi limitai dunque ad imprecare, a parlare, a sbuffare, lamentare, o a fare qualsiasi altra cosa se non quella di pensare, controllandomi, a portare a termine la consegna.
 
Alzai gli occhi al cielo, e quello che non era luce divina era un lampione all’angolo della strada, a illuminarmi il sentiero del retro scuola, un sentiero di ghiaia bianca e polverosa che avrebbe dovuto indirizzarmi all’edificio degli spogliatoi, il che mi ricordò l’entrare inevitabilmente in contatto con il re del sarcasmo, il re di un po’ di tutto: William Henderson. Ed era proprio l’ultima cosa che volevo.
Supposi di essere arrivata a destinazione, intravisti quel ben piazzato fusto di Derek Foster, in piedi a fumare una sigaretta e ad asciugarsi il corpo dal sudore. Era davanti alla porta degli spogliatoi, e non era una mia intuizione, c’era proprio scritto a lettere cubitali in una targa nella facciata principale dell’edificio. Avrei voluto fare retro marcia, neanche avvicinarmi, avrei voluto lasciare l’asciugamano a terra e scappare via a gambe levate. I ragazzi mi fanno questo effetto. Che loro mi piacciano o no, questa è la mia reazione, questo è ciò che automaticamente si innesca dentro di me ogni volta che mi scontro con qualsiasi individuo di questa arretrata e sudicia razza, una sorta di rifiuto, inspiegabile. Chiamiamola timidezza, ma la odio. Odio dovermi sentire così, come se non fossi alla loro altezza, come se fossi un mostro mitologico. Chiamiamola autostima, autostima sotto zero, ma odio anche lei allora, più della timidezza.
Realizzai che quindi non c’era nulla di male a far vincere nuovamente, come sempre diciamo, le mie invincibili nemiche… Se non fosse che già l’idolo di Rossella si era accorto della mia presenza, notandomi. Qual è il comando della retro marcia? Mente annebbiata, non riconobbi più i comandi della mia auto, della mia mente. Così fui costretta a sfidare faccia a faccia le mie nemiche, e per l’ennesima volta avrebbero potuto  vincere loro. Ma ho sempre vinto la matematica, vinto la storia, vinto la biologia, vinto la letteratura italiana… Come non potevo vincere anche loro? Cosa avevano e cosa hanno in più di un equazione fratta o di una cellula vegetale?

«M-mi presteresti il cellulare?»

Questo era tutto quello che riuscii a fare, e se questa, vista nel campo scolastico, fosse stata un interrogazione, beh, avrei preso due, un bel due irrecuperabile. Ma non perché l’avessi ripetuta male o altro, affatto, piuttosto fu un po’ come ripetere l’intera Iliade ad un interrogazione di chimica.
Inopportuna, non adeguata, completamente fuori contesto. Ed il contesto poteva includere un minimo e semplice saluto, tipo ‘ciao’ o ‘grande, bella partita!’. Ma mi serviva davvero un cellulare, e quindi l’aver puntato più ad un bisogno primario piuttosto che ad uno secondario, non era affatto cosa anormale per le mie capacità socio-esponenziali. O almeno così cercai di autoconvincermi.
 
L’espressione sul suo volto tutt’ora e ancora non si può spiegare, o almeno non a parole povere. Quindi non la spiegherò affatto. Appariva tanto sorpreso quanto effettivamente era.

«Uhm, sì certo. Spera solo che non sia, che non sia morto.»

«Ho perso la speranza con il mio circa cinque minuti fa.» Risposi mortalmente seria, lasciandomi poi scappare un sorriso. Lui aspirò per l’ultima volta nicotina dal suo mozzicone per poi gettarlo a terra, mettendoci sopra la suola della scarpa per spegnerla. E Dio, grazie di averlo fatto. Il fumo si stava già accoppiando amorevolmente con i miei capelli.

«E’ successo qualcosa?» Oltre ai miei capelli barbecue intendi?

«Oh no, come vedi mi si è solo scaricato il cellulare e diciamo che.. Sono rimasta a piedi.» Continuai a rispondere preservando quella vera e disgraziatamente seria verità riguardo anche il mio adorabile karma.

«Solo questo?» No, in realtà c’è che ho visto Lucas pagare per scoparsi una tizia della nostra scuola, che tra l’altro credo proprio tu conosca, data la fama, l’amicizia con Rachele, Alexia o puttanella varia che tenga, o piuttosto che non se la tenga per se. Aggiungici che ho baciato un tizio del genere, che non potrò più davvero chiamare Madison ”Maddy”, e allora sì, con questo è davvero “solo questo”. Ah, e poi ci sei tu a dorso nudo.

«Sì.» Riassunsi limitandomi.

«Beh, credo che uno di noi tranquillamente possa anche darti un passaggio fino a casa, non è un problema.» Gesticolò in modo tale che io potessi rivolgere il mio sguardo agli spogliatoi, e poter pensare ad uno qualunque della squadra, piuttosto che al suo dorso nudo. Grazie Derek.

«Non voglio assolutamente scomodare, non.. ecco non.. » Riuscii in un modo quasi assurdo ad impappinarmi, ad arrossire e ad andare in iperventilazione prima del tempo stimato, al solo pensare una cosa simile.

«Non ti sentiresti a tuo agio?» Finì per me.

«Esatto.» Annuii in assenso. Due volte grazie, Derek.

«Non ti facevo timida.» L’arrossire, il balbettare, il parlare veloce mangiandosi le parole, lo sbiasciare, l’evitare il contatto visivo.. Che sintomi gli servivano ancora per percepirlo?

«Lo sono.» Ammisi sia a lui che a me stessa.

«No è che, insomma ti ho visto intorno ad Emily, e sai, Emily ha un carattere un po’ così, quindi credevo fossi-»

«-Come lei?» Intervenni, capendo perfettamente cosa stesse per dire. Lui sorrise, forse sorprendendosi che qualcuno aveva avuto il coraggio di interromperlo, impedendogli di finire una frase. O forse lo stavo solo pensando io, che non avevo mai avuto il coraggio di farlo.

«Non credo ci sia nessuna come lei.» Continuò, sorprendendo me, stavolta.

«Che vuoi dire?»

«A dire il vero non c’è nessuno come gli Henderson, solo questo.» Giusto. Se lo dice lui che probabilmente passa ventiquattro ore su ventiquattro accanto a William… Evidentemente ha proprio ragione. Mi stimolò un sorriso che poco dopo mi imbarazzai a mostrare.

«Comunque aspetta qui, vedo a che stato vitale si trovi il mio cellulare.» Sbloccò l’imbarazzo, ritornando alla mia richiesta di partenza.

«Ok.» Però non era “ok”, perché ora stavo totalmente ignorando il suo dorso nudo e piuttosto pensando disgraziatamente a quel che aveva detto. Ed era fottutamente vero. Se penso ad Emily alla mensa, quel giorno che mi stava per staccare i capelli per un cartoncino di latte, o a William, che… Che non lo so, non dovrei neanche pensarlo. Se penso a loro due mi vien da dire che sì, più che non esserci persone come loro, non ci sono due tizi squilibrati quanto loro. E non li avevo ancora conosciuti abbastanza.
Ritornai alla realtà, quando mi accorsi che Derek era già alla soglia della porta degli spogliatoi, ed io avevo dell’altro da dire, ricordandomi anche di cosa avevo tra le mani.

«Ah, a-aspetta l’asciugamano a.. »Quasi Urlai, ma era troppo tardi, era già dentro. « .. William.» Finii la frase, affievolendo il tono di voce.






«Consegna? Resto mancia?» Disse con sarcasmo William per autoproclamarsi, comparendo dall’interno dell’edificio degli spogliatoi dopo una manciata di minuti, facendomi quasi alludere ad un cambio strategico con l’amico per sfracassarmi definitivamente gli ormoni.

Almeno lui, aveva addosso una T-shirt, quelle con lo scollo a V, di un colore sicuramente più casto di se, bianco. Non mi soffermai però a lungo sul suo corpo o a come fosse vestito, il suo sorriso sghembo stava già fin troppo attirando la mia attenzione. Avrei tanto voluto sferrare un pugno sul suo adorabile viso, ma oltre che ad irritare il mio sistema nervoso, il suo sorriso era anche tanto bello, provocatorio soprattutto.

«No grazie, grazie comunque.» Risposi, cercando invano di smorzare il suo sarcasmo.

Che diavolo ci faceva qui? Perché era uscito?

«Non hai nemmeno lo scontrino?» Continuò, soffermando il suo sguardo dapprima su quello che avevo tra le mani, l’asciugamano, che spiegava quindi anche la sua battuta, poi su di me, anche se non sapevo cosa stesse esattamente guardando della sottoscritta, perché imbarazzata dei miei stessi pensieri mi interessai improvvisamente all’erba del prato sotto i miei piedi, rimproverandomi severamente della timidezza che stavo mostrando. Eppure era andata così bene con Derek.

Mi feci coraggio e alzai lo sguardo, ma dato che sarebbe stato troppo difficile guardarlo negli occhi, e per non rischiare di far scivolare lo stesso sguardo ingenuamente sulle sue labbra, decisi di mirare la fronte. No, non ero pazza, o almeno non ancora. Ricordai di aver letto un libro, una tale scemenza, che affermava che uno dei metodi più efficaci per aggirare il problema del contatto visivo era quello di osservare la fronte dell’interlocutore.
 
«Tieni. Derek?» Pronunciai appena con voce secca e pretendente, sempre senza perdere d’obbiettivo la fronte.

«Derek o … Il suo cellulare?» Mosse soddisfatto le sopracciglia in maniera allusiva, quando mi porse il cellulare come se avesse in mano qualcosa con cui avrebbe potuto facilmente ricattarmi.

«Oh, grazie mille!» Squittii quasi di tutto colpo afferrando il cellulare, per il quale stranamente non mi aveva imposto nessun tipo di contrattazione o fatto alcun tipo di pressione.

«C’è il codice.» Era un I-phone nero, credo un 4, forse 4s. Non aveva nessun tipo di sfondo da blocco schermo, nemmeno uno di quelli che si trovava già nelle impostazioni. Avrei voluto tentare qualcosa, qualche numero a caso, ma non conoscevo per niente Derek, ne la sua data di nascita ne le prime quattro lettere della targa della propria auto.

«Quattro-cinque-otto-sette» Rispose sveltamente.

«Sai a memoria tutti i codici o solo il suo?» Sorrisi, mentre digitavo nello schermo la sequenza che effettivamente lo sbloccò, dopotutto ero anche abbastanza sollevata di avere finalmente la possibilità di chiamare a casa.

«Veramente so solo il mio.» Mi informò, mostrando una certa serietà.

«Aspetta, questo è… No grazie.» Arrestai le mie stesse azioni, e gli restituii immediatamente il cellulare senza pensarci due volte, ero davvero convinta che quel telefono fosse di Derek, perché questo è quello che mi aveva fatto intendere.

«Cos’è questa forma di razzismo contro il mio cellulare ora?» Suonò contrariato, ma con il sorriso stampato sulle labbra.

Sospirai e mi portai una mano ai capelli guardandomi intorno. «In realtà è contro te.»

Ero punto e da capo. Perfetto. Anche se avrei voluto, non avrei comunque potuto raggiungere Emily e le altre. Non avevo idea di dove fosse questa pizzeria, e anche stesso in quel momento nei dintorni c’era molta confusione.

Ci fu qualche secondo di silenzio, lui non intendeva togliermi lo sguardo di dosso, e io al contrario, non intendevo ricambiarlo. «Perché te la prendi tanto?» Ruppe lui poco dopo il ghiaccio che si era creato tra di noi, o più normalmente era davvero interessato a capire la mia ultima affermazione. E forse l’avevo anche offeso.

«Non me la prendo tanto.» Irritata da tutta la situazione. «Vado.» Grugnii inconsciamente, senza avere realmente l’idea e la volontà di andarmene, indietreggiando e ritornando sulla stradina in ghiaia che mi aveva portato fin qui. Tutto ciò che non volevo stava accadendo, non volevo sentirmi minimamente in debito con lui, anche solo per una chiamata, non volevo aver a che fare con nessuno, a dire il vero, se non con i miei genitori.

«Charlie, aspetta.» Disse dietro le mie spalle, e il modo in cui il mio nome scivolò sulla sua lingua mi inviò brividi lungo la spina dorsale. La sua voce era suonata così roca – e così dannatamente sexy.

Dovetti sforzarmi per controllarmi. «Cosa c’è? William non ho tempo per il tuo sarcasmo stasera.» Ammisi finalmente, spiegandogli esplicitamente cosa di lui in realtà mi dava tanto fastidio da farmi impazzire.

«Lascia stare il mio sarcasmo.»

E fu in quel momento che dimenticai totalmente di usarmi del metodo “fronte”, facendo incontrare disgraziatamente i nostri sguardi. Dio, i suoi occhi. Non fui più così sicura di trovarmi con i piedi per terra, le mie gambe avrebbero ceduto da un momento all’altro, potevo sentirlo questo. Le sopracciglia folte e scure mettevano in evidenza ciò che c’era di paradisiaco in quel colore delle iridi così intenso. Nel giro di pochi secondi diventai paonazza in viso, e chissà cosa stesse pensando di me in quel momento. Sicuramente stava escogitando di tutto per mettermi in imbarazzo.

Tutto questo si spezzò, quando entrambi sentimmo, forse prima lui che io, i passi rumorosi di qualcuno, di scarpe che si scontravano contro la ghiaia del sentiero. Prima che però avessi modo di riprendermi del tutto e inviare messaggi d’aiuto al mio cervello, forse malamente scottato, per fare qualcosa, qualsiasi cosa di sensato, fui preceduta da William, che mi trascinò dal polso, senza curarsene molto, dapprima nella parete affianco dell’edificio degli spogliatoi, poi verso di se. E così il mio corpo era contro il suo, di nuovo, come meno di una settimana fa nei corridoi, solo che questa volta era lui dalla parte del muro, e mi cingeva stretta la vita con una mano. E quella mano. Potevo sentirla nella schiena meglio di qualsiasi altra cosa. Il suo corpo era caldo, e la sensazione del mio petto contro il suo mi stava mandando in escandescenza. Maledetti ormoni. Il fatto che non fosse affatto un tipo sgradevole, fisicamente almeno, non mi aiutò molto.

Ma tutto questo se pur - difficile da ammettere - terribilmente eccitante, non fu molto colto al volo da lui, che non si stava neanche preoccupando della mia eccessiva reazione ormonale da normale quindicenne. Per fortuna, la stava decisamente ignorando. Guardava alla sua destra, cercando di sbirciare dall’angolo per decifrare il viso di quel qualcuno che aveva interrotto quel non so cosa tra di noi.
Così curiosi gli Henderson, prima Emily poi William, nel giro di una sola serata.

«Uhm, una sveltina. Avevo scommesso per un servizio completo, dannazione.» Imprecò.

Capii subito che quello era un fottuto scherzo del karma, che aveva accumunato ai due casi persino la stessa persona, Lucas. E comunque William parve molto scontento, tanto da non accorgersi, ancora, della poca distanza tra noi due. Non capii se la scommessa di cui parlava era seria o era semplicemente la presenza della sua ironia in momenti così poco azzeccati.

«Oh, avete quel tipo di rapporto strettamente confidenziale da arrivare al punto di dirvi persino con chi andate a letto. Capisco.» Mi disgustai parecchio, riferendomi più che a loro due all’intera squadra, mentre potei capire da William stesso che Lucas era già entrato dentro senza sospettare nulla, dato che era risbucato quel sorrisino sghembo fra le sue labbra, appena resosi conto dell’imbarazzante postazione in cui mi aveva tanto spinto.

Nonostante tutto non parve perdere di vista la mia affermazione, ennesima affermazione, nei suoi confronti. «Con Jenna non si va a letto. Con Jenna diciamo che è più tutta una posizione eretta contro il muro o sopra la cattedra. Sai con le gambe un po’-»

«-Stop. Conosci meglio le posizioni porno di Jenna piuttosto che le tue tasche, ho capito, ma non mi interessa.» Adesso ero ufficialmente sconcertata. Vaghe immagini inondarono la mia mente, di Jenna e Lucas nel clou di un possibile momento di appagamento. Distrattamente picchiettai a occhi chiusi più volte i palmi delle mani contro il suo largo petto, cercando di scacciare quelle scene poco carine.

«No, non la conosco affatto. Cioè non da quel lato, da nessuno dei due lati in realtà. Lucas invece molto bene.» Mi istigò, premendo la stretta attorno la mia vita, facendomi un poco sobbalzare. Andai il tilt, e forse per questo non capii bene se William si fosse mai scopato Jenna o no.

«Le vostre gesta erotiche più che eroiche non mi interessano, ripeto.» Ci vollero dei secondi per afferrare ciò che io stessa avevo appena detto, il che era tragico. In poche parole parlai a vanvera, realizzando che però era stata una frase abbastanza sfacciata, tanto da non lasciarmi credere che era appena uscita dalle mie pudiche labbra.

«Hai visto qualcosa? Si dice che lei abbia delle mani d’oro, ma non ci credo molto.» Mi chiese apparentemente interessato, quando invece mi stava semplicemente stuzzicando.

«Cosa vuoi dire?»

«Sulle sue mani? Non mi piacciono, tutto qui. Credo siano pettegolezzi infondati.»

«Non intendevo le sue mani.» Il modo in cui riusciva così facilmente a cambiare l’atmosfera tra se e il suo interlocutore, o almeno in quel momento con la sottoscritta, era tanto notevole e molto professionale. Era riuscito a farmi quasi eccitare senza neanche accorgersene, mi aveva fatto disgustare, mi aveva fatto arrossire nei peggiori dei modi, e adesso mi stava istigando con quel sarcasmo di cui ne va sempre tanto fiero.

«Ma questo lo sai perfettamente. Già, sapevi che non mi riferivo alle sue mani ma comunque parli di esse come per sviare il discorso. Non vuoi rispondermi, ed è ok. Anzi, non lo è affatto, e io ho bisogno di una risposta, quindi rispondimi e-»

«-E calmati. Sei peggio di un giradischi, quando vuoi.» Susseguì al mio monologo ingarbugliato William, riuscendo a farmi smettere di parlare oltre che con le parole anche con le gesta, afferrandomi il viso con entrambe le mani, e alzandomelo leggermente verso l’alto, verso il suo.

«Cosa avrei dovuto vedere?»

«Quanto sono mozzafiato a dorso nudo. No?» Scivolò via le sue mani grandi dal mio viso, e quelle stesse mani presero il bordo della sua t-shirt, come per sfilarsela. Riuscii in tempo ad impedirglielo, ovviamente, bloccandogli le mani severamente. «O quanto sei scemo a cervello spento?» Lo rimproverai di conseguenza. «O quanto sia scemo Lucas, a cervello acceso?» Rispose prontamente.
La mia bocca si spalancò per la confusione, non capendo quanto serio potesse essere ciò che aveva appena detto.

«Idiota in realtà. Gli ho insegnato che gestire più ragazze contemporaneamente può essere pericoloso se non si è all’altezza. E lui, è chiaro, non ne è completamente all’altezza.» Continuò, parlando come se fosse ad un colloquio genitori, lui nelle vesti da professore e Lucas come suo provetto studente.

Mi adirai in disapprovazione. «Lui non mi gestisce!»

«E meno male.» Riprese. «Perché credo che sia davvero divertente gestirti, e per Lucas è divertimento assai sprecato.» Si inumidii le labbra, mettendo per poco in vista la lingua.

Così capii tutto. «L’hai fatto apposta.»

«Sei un po’ tarda però, dovremmo lavorarci su.» Mi ignorò totalmente, i suoi occhi vagavano altrove.

Cercai di trarre un pensiero concreto, che potesse mettere in ordine l’intera vicenda. Era tutto così chiaro adesso. «Sapevi perfettamente che lui sarebbe stato con Jenna in quel preciso momento, e in quel preciso momento sapevi che io e tua sorella…» Non riuscii a completare, ero sorprendentemente scioccata.

William, a conferma della mia formulazione, liberò un sorriso soddisfatto. «No in realtà non avevo gestito nulla, e non era nulla cronometrato a secondi, il karma mi è andato semplicemente incontro, o meglio, è andato incontro a te. Se fosse stato a mio favore l’avrei vista io la scena. Vorrei davvero tanto vedere come ulula Lucas mentre scopa, sai?» Si morse un labbro e scosse il capo, sarcasticamente deluso, con occhi che imprecavano al cielo.

«Eri così convinto che io scendessi con tua sorella per portarti-» Abbassai lo sguardo verso i nostri piedi cercando quell’asciugamano bianco (ragion per cui ero lì), cadutomi a terra probabilmente quando le mie mani erano intente a picchiettare il suo petto. Accertatami di dove si trovasse, i miei occhi incrociarono un secondo asciugamano pendere a cavalcioni dal suo collo. «-un asciugamano che evidentemente nemmeno ti serve, e me ne sono accorta soltanto ora. Bene.» Strillai. Così dannatamente catturata dal suo sorriso, dai suoi occhi maledetti, merda, da non aver focalizzato quell’asciugamano attorno collo.

Lui lo sapeva.

«Certo eri troppo concentrata sui miei addominali, è comprensibile, tranquilla.»

«Tu sei stato così…»

«Così?»

I miei occhi erano fuochi in fiamme. Mi lasciai sfuggire dalle labbra un grugnito esasperato ritraendomi immediatamente da lui, che non parve aderire a ciò.

«E’ una messa in scena? Tu e Lucas vi siete messi d’accordo, giusto? Giusto è proprio così.» Ne risolsi arricciando le labbra e respirando pesantemente.

«Se non ce la smetti con queste pippe mentali, di fantasticare e di drammatizzare, ti rubo un’altra volta il cerchietto.» Mi puntò il dito contro, cercando di trattenere a se le risa.

«Che intimidazione.» Schernii, andando ancora peggio su tutte le staffe.

Di conseguenza, per ribellarsi di non avergli ubbidito, mi afferrò da un braccio e abilmente invertì le posizioni.

Merda, contro il muro no.

Potevo vedere i suoi occhi navigare su tutto il mio corpo, e poi sbarcare sui miei. Anche uno sguardo come quello mi faceva sentire terribilmente debole dentro. La distanza tra di noi diminuiva, i battiti del mio cuore acceleravano.

«C-come facevi a saperlo allora?» Sbiascicai, posando di puro istinto una mano sopra il mio cerchietto.

Non l’avrei ricorso di nuovo.

«Potevi solo essere tu ad andar dietro mia sorella.» Rispose, distogliendo l’attenzione dai miei occhi alle mie labbra.

Concentrai lo sguardo su qualsiasi cosa attorno a noi. «Non le sono andata dietro, io…» Dannazione, era tremendamente affascinante mentre era intento osservare le mie labbra.

«Io sono nuova, e devo farmi delle amiche e bla bla bla.» Disse sbrigativo.

Perché tra i due solo io non riuscivo a dire qualcosa di apparentemente concreto?

«Assolutamente no, mi andava semplicemente di farlo.» Ed era vero.

Dimostrò di starmi veramente ascoltando, quando alzò gli occhi e cambiò tono di voce, incredulo. «Se. Perché volevi vedere Lucas?»

«No.» Squittii.

«No?» E di nuovo fissò le mie labbra.

«No.» E allora fissai anch’ io le sue.

Se ne accorse.

«Uhm. E dimmi un’altra cosa, hai visto Lucas giocare, stasera?» Disse maliardo.

«No.»

«L’asciugamano è di Lucas?»

«No.»

«Di chi è?»

«E’ tua.»

«E’ mia?»

Il desiderio accrebbe. Volevo toccare le sue labbra, più di quanto già non mi stessi  accalorando al contatto dei nostri corpi. Mi stava trascinando pian piano nell’oblio, e la sensazione mi scompigliava lo stomaco.

«Vedi, lo sto facendo ancora.» Riscaldò l’aria attorno a noi con una profonda voce calda.

Qualcosa scattò nella mia mente. «Vedo, lo stai facendo ancora. Mi stai gestendo.» Mi ripresi dallo stato di trance, mentre potevo vederlo annuire bastardo.

«Ora ho capito come porti sempre gli altri a fare e a dire sempre ciò che vuoi tu, ma questa volta non ci sei riuscito, William, non con me. Hai semplicemente torto.» Lo respinsi, usando tutta la mia forza per liberarmi della sua figura. Non potevo crederci di essere arrivata a farmi incantare così tanto.

«Io invece sono abbastanza soddisfatto, ci sto riuscendo, e non si tratta di torto o meno. Non ti porto dove voglio io, porto semplicemente dove è giusto la parte di te che sai benissimo avere ragione.»

«Credevo che voi atleti liceali foste solo degli svitati senza cervello. Perché tu non sei svitato e hai il cervello?»

«Lo sai meglio di me.»

Mi rifiutai di guardarlo, feci qualche passo, portandomi avanti a lui, mentre sapevo cercasse disperatamente la mia attenzione.

«Perché non accetti semplicemente il fatto che io…»

Lo interruppi, guardando oltre la mia spalla per fulminarlo. I miei occhi divennero due fessure, potevo sentire accelerare il battito del mio cuore, ed era come se la mia gola si fosse chiusa stretta. Non lo stava per dire, vero?

«… che tu vuoi tornare a casa.» Ingarbugliò, recuperando lucidità e lasciando incompiuta la frase che stava formulando precedentemente. I suoi grandi occhi glauchi non mi mostrarono niente se non shock ed estremo stupore, per ciò che stava per dire egli stesso.

«Esatto. » Risposi appena confusa. Lui annuii in assenso, cercando di convincermi, di convincersi.

Calò un silenzio artico, abbastanza disagevole. Provai imbarazzo ad osservarlo mentre si passava una mano tra i capelli, probabilmente pensando a quanto per un pelo di culo si fosse salvato dal dire qualcosa di estremamente taboo.

«Però fatti dare un passaggio.»

«Ti scrocco un passaggio e per te va bene?» Gli domandai, piegando un sopracciglio.

William arricciò le labbra contrariato. «Non me lo stai scroccando. Te lo sto praticamente servendo io stesso sul piatto, non ribaltare le cose Wilson.» Tutto parve riallinearsi.

«Alexia.»

Forse non tutto.

«Uhm. Alexia.. cosa?» Si voltò verso me e lanciò un’occhiata interrogativa.

«Eri con lei stasera.» Asserii.

«Sì, è vero. Avrei voluto essere su di lei piuttosto che con lei, ma… Credo che per questa sera eviterò il dessert.» Si era fatto intendere abbastanza. Anche se come il resto delle cose, non avevo ancora capito chi William stesse frequentando al momento.

Prima che potessi fare un riepilogo di tutte le ragazze che nel giro di queste settimane avevo visto attorno a lui, un suono familiare giunse alle mie orecchie, scoprendo la suoneria del cellulare di William. Nonostante la distanza ormai visibile tra noi, potei decifrare il nome sopra lo schermo illuminato, e chi lo stesse chiamando.
Alexia.

«Poi ti lamenti di Lucas che non sa gestirle, lui.» Sogghignai fin troppo spontaneamente, ma anche fin troppo fieramente.

Lo vidi rifiutare la chiamata, scorrendo il pollice nel riquadro rosso. «Io le ragazze non le gestisco. Io le domo.» Puntualizzò inchiodando gli occhi suoi miei.

«Ce la vogliamo smettere con questi termini a sfondo erotico? Almeno per stasera, ti prego, risparmiami.»

«Li conservo per un'altra sera allora?» Gnignò William, con affare lascivo.

Dissentii. «No, non li conservare proprio.»

Scosse la testa, un sorriso morbido si allargò sulle sue labbra. «Dove abiti?»

«Qui.»

«Qui, a scuola?» Sollevò un sopracciglio.

Afferrai di colpo la borsa che avevo a tracolla, l’aprii e estrassi da dentro il portafoglio. «N-no! Io..  Ecco io dovrei avere qui…  Eccolo…» Spulciai tra le carte di credito, documenti, carta sanitaria e d’identità, per poi afferrare un foglietto.

«E’ assurdo!» William iniziò a ridere.

Da quando ero arrivata qui in America più mi sforzassi a memorizzare l’indirizzo e la localizzazione del mio quartiere e della mia casa, più lo dimenticavo. Così mamma mi aveva costretto a scrivermelo su un pezzetto di carta, almeno in caso di smarrimento, avrei sempre potuto chiedere a qualcuno dove si trovasse, o mi trovassi.

Gli porsi il foglietto spiegazzato, mostrandogli l’indirizzo. «Sai dov’è?»

«Sì.» Annuii dopo aver in breve focalizzato probabilmente la zona.

«Uhm ok.»

Rimasi immobile dopo aver risistemato l’indirizzo e il portafoglio dentro la borsa, non avendo la più pallida idea di cosa dire.

Avrei dovuto ringraziarlo già da ora?
Mi ero rifiutata di usarmi del suo cellulare, eppure il passaggio l’avevo accettato senza pensarci due volte. - Ah, se mamma e papà sapessero.

«Per me puoi anche entrare.» La sua voce mi richiamò dall’immagine di mia madre che sbraitava contro di me e mio padre che sbraitava contro lei per cercare di farla smettere. Ricevendo comunque una punizione, decisa da entrambi.

Era già di fronte la porta degli spogliatoi, indicandomi l’entrata per raggiungerlo. Ma non credo fosse molto serio, evidentemente era la prima unica cosa che aveva pensato di dirmi, per non mostrare scortesia. «Ti aspetto fuori al cancello.»

Parve un poco preoccuparsi. «Aspettami al parcheggio, almeno lì è illuminato.»

«Che pensiero.» Mi sorpresi, disgraziatamente ad alta voce.

Roteò gli occhi al cielo, infastidendosi della mia presa di posizione. «Aspettami fuori al cancello.» Ed entrò dentro, mostrando disinteresse nei miei confronti.

Ci pensai su, mi guardai intorno e notai la desolazione improvvisa al di fuori del cancello che aveva rimpiazzato la confusione di fine partita. «N-no, ti aspetto al parcheggio, d-dove c’è luce!»










Chiedo semplicemente scusa per il ritardo imperdonabile ma ultimamente non è stato un periodo facile a scuola, quindi sto solo cercando di tirare avanti e non lasciarmi schiacciare. Non per questo infatti ho aggiornato sotto le vacanze.
Più passa il tempo più divento meticolosa, odio fare le cose di fretta e controllo sempre eventuali errori, sia di battitura che non  ( e mi scuso profondamente se me ne sia fatto scappare qualcuno).
Passiamo al capitolo: Ho passato ore interminabili a finirlo. Cristo santo. Per me è stato come partorire un figlio, naturalmente e non con il cesareo, sia chiaro. Ho cercato di rendere al massimo l'emozioni di Charlie, sia riguardo Lucas sia riguardo William. Quest'ultimo influisce molto sulla sanità mentale della protagonista, o sbaglio? lol.
Non voglio dirvi e anticiparvi nulla, ma personalmente adoro scrivere le battute di William, sarcastiche e non, e amo scolpire granello dopo granello il suo carattere.
Detto questo, ringrazio per le recensioni e le visite, nonostante faccia la monella e posti un po' in ritardo.
 
Love you so so so much. ❤






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Capitolo 17
*** seventeen ***


17


Charlotte Wilson

Non passarono giorni, non passarono settimane. La mattina seguente già gran parte della scuola era a conoscenza dei lavoretti e delle favolose mani fatate di Jenna, e di chi le avesse provate, Lucas.
 
«Eppure faceva una così bella coppia con Madison!»
 
Cercai di ignorare il chiacchiericcio azzardato di alcune ragazze vicino al mio armadietto. La notte prima mi ero strafatta di camomilla e acqua calda per potermi permettere di dormire. Avevo avuto lo stomaco sottosopra.  Non c’era stata sostanza che avesse tenuto. Uscivo da una notte insonne, da una serie di angosciosi gira e rigira tra i cuscini e le coperte del letto.
E le occhiaie non mi donavano proprio.
 
Ebbi del tempo quindi in piena mattinata di spalmarmi, come mai avevo fatto prima, strati di copri occhiaie così spessi che sarebbero durati fino a fine della giornata. Avevo persino guardato di sbieco il mascara e l'eyeliner che spuntavano da dentro la trousse verde acqua in pizzo rosa posata sulla specchiera di camera mia (da pochi giorni arrivata con l’ultimo carico del trasloco insieme ad altri mobili). Ma mamma non mi permetteva di truccarmi per andare a scuola, o almeno, non tanto. A volte infatti riuscivo a passarmi un filo di matita marrone senza che lei se ne accorgesse o lo notasse. Ma quella mattina non lo feci, quello che mi ero spalmata sotto gli occhi era sufficiente, anche se non desideravo altro che sentirmi carina, accettabile, credendo a mio discapito di dover dimostrare chissà che cosa a quel Lucas Sanders dopo quanto visto in prima persona, al di là dei pettegolezzi.
 
Non mi sentivo inferiore a Jenna, anzi, mi sollevava pensare che non ero quel tipo di persona come lei. William mi aveva persino fatto un discorso a riguardo, durante il viaggio in macchina la sera prima, che spiegava che nella nostra scuola di ragazze come lei ce n'erano un'infinità. D'altronde si sa, le grandi scuole contano una grande quantità di puttane,  matematicamente parlando.
 
«Come va fuggitiva!?» Chiusi l'anta dell'armadietto e mi ritrovai di fronte un' Emily diplomatica - si fa per dire, tutta fresca e pimpante. Aveva i capelli raccolti in uno chignon scompigliato, tenuto su da due bacchette orientali, da cui pendevano dei morbidi boccoli, dal colore così scuro da contrapporsi alla camicetta bianca che indossava e che mostrava un leggero decolleté - sbottonata infatti di almeno due bottoni. Non era volgare, era quasi innocentemente sexy. Qualcosa che io non sarei mai riuscita ad essere o diventare.
 
«Come la mia faccia.»
 
Incalzò un sorriso per la mia risposta, notando anche probabilmente che non avevo in alcun modo cercato di controbattere al “fuggitiva”. «Ieri sera ti sei persa una pizza buonissima.»
 
Lo sapevo. Una volta arrivata a casa non avevo avuto modo di avvicinarmi alla cucina, mamma e papà aspettarono il mio ritorno impazienti in salotto, seduti uno accanto all’altro sul divano con le gambe accavallate e le mani conserte. E mentre il mio stomaco brontolava, le urla di mamma mi perforavano il timpano sinistro, e quelle di papà quello destro. Ci volle un’ora buona per poter spiegare con calma con chi e come ero tornata a casa- e la cosa non gli piacque molto, nonostante io fossi stata sincera. Non raccontai comunque nulla di ciò che avevo visto insieme ad Emily, né quello che William in qualche modo (e per quel poco che a me pareva tanto) fosse riuscito a fare su di me, ovviamente. Ma mi era andata bene, nessuna punizione, “l’importante e che ora sei a casa, tesoro” aveva sospirato papà alla fine di tutta l’accesa discussione, lasciando mamma con qualche perplessità e dandomi il permesso di salire in camera.
 
«Davvero?»
 
«No. sapeva di mostarda, era disgustosa. Non chiedere altro, per favore.» Disse con l’aria di una che avrebbe potuto vomitare tutto ciò che aveva mangiato a colazione al solo ricordo.
 
Anche a me veniva da vomitare pensando alla sera prima, comunque. Quindi la comprendevo benissimo.
 
«Mi spiace esser andata via così presto.» Se quell’idiota di suo fratello non avrebbe cercato in tutti i modi di farmi vedere quello che riteneva giusto farmi vedere su Lucas, a quest’ora non avrei sentito il bisogno di scappare e stamattina non avrei riportato queste drastiche condizioni. Avrebbe potuto farsi i fatti suoi, per dire, avrei preferito non scoprire nulla e procedere con la mia vita tranquillamente, pensando a Lucas come un bravo ragazzo ingiustamente  ferito da Madison.
 
Non si convinse molto, anche se non stavo mentendo. «Ti dispiace veramente, Charlie?»
 
«S-sì?» Risposi con lo stesso tono, pensando che stesse sdrammatizzando. Poi cominciò a fissarmi, sollevando un sopracciglio dubitando, e allora ricordai che forse mi ero scordata di chiarire un piccolo particolare. «Oh, ecco potrei aver mentito sul fatto che mio padre stava per venirmi a prendere, ieri sera.» Dissi allusivamente, abbassando un po’ lo sguardo per evitare di farmi intimorire da una sua possibile lesiva reazione.
 
Spalancò la bocca e parve sarcasticamente sorpresa. «Ma no?!»
 
Prima che potessi aprirla io la bocca, il suono della campanella mi precedette interrompendo qualsiasi parola stesse per uscire dalla mie labbra.
 
Lasciò finire la campanella. «Ne riparliamo Charlie. Abbiamo la Peterson ora, e io onestamente non ho nessuna intenzione di entrare alla sua ora. Tu non mi hai ancora visto stamattina.» Mi raccomandò puntandomi il dito addosso e guardandosi attorno, prima a destra e poi a sinistra, affrettandosi ad allontanarsi dal corridoio, da scuola. «A dopo.»
 
Merda.
 
Odiavo mentire, ogni volta che lo facevo, o almeno quando riuscivo a farlo, mi sentivo così terribilmente in colpa.  Me ne sarei preoccupata più tardi, ripetevo tra me e me che dovevo smetterla di stare sempre in ansia per qualcosa. Avrei avuto una morte prematura solo per questo.
 
Ma non potevo non riuscire a pensare cosa avrebbe fatto mamma alla scoperta del mio primo ritardo e della mia prima punizione ottenuta nei primi giorni. Con la Peterson, per giunta. Non le avevo detto ancora nulla. Eppure non si era accorta dei miei capelli appiccicosi e profumatissimi di fragola al rientro a casa.
 
Beh, non c’era, per questo non se ne era accorta, peccato.
 
Non avrei comunque fatto in modo di prenderne un altro, e con una camminata abbastanza veloce entrai dritta in classe riflettendo rassegnata però a come poter spiegare a mamma il secondo ritardo dell'anno, dato che la campanella era già suonata da un paio di minuti.
 
Immaginando che molto probabilmente erano già state segnate le presenze e le assenze, mi accorsi solo secondi dopo esser effettivamente entrata che la professoressa non era ancora dentro. Era lei che stava tardando.
 
Grazie a Dio.
 
Mi feci largo tra i compagni cercando un banco libero, gli ultimi posti erano già stati tutti occupati, ed Emily non c’era davvero - anche se non avevo affatto dubitato delle sue parole. Qualcuno mi fece cenno con la mano, come per salutarmi, altri ignorarono completamente la mia presenza. Ero contenta comunque, nel notare come le cose stavano man mano cambiando dal primo giorno.
 
«Charlie?!»
 
Sentii qualcuno nominare il mio nome dal fondo della stanza, e alzai il capo per capire chi mi stesse chiamando mentre posavo lo zaino nel banco libero appena trovato.
 
«Charlie che fine hai fatto ieri sera?» Era Rossella, e sarebbe stato un pensiero carino, se non lo avesse quasi urlato. Le feci segno si abbassare il tono di voce comunque, e lei mi raggiunse.
 
«Sono tornata a casa, io…» Non sapevo bene come spiegarmi. In realtà non volevo spiegarmi affatto. Era stato di certo un errore far trapelare le mie emozioni di fronte ad Emily, e pur non avendo detto niente ero certa che lei avesse capito tutto quello che c’era da capire. Perché ero scappata così improvvisamente, su come mi sentivo o su come avrei desiderato strozzare Jenna per qualche subdolo motivo.
 
«Sì sì, per Lucas.» Disse mentre annuiva con la testa con un tono sempre più alto, come se fossimo da sole, in una stanza, senza persone, con pareti insonorizzate.
 
«Shh!» Lasciai scorrere l’indice di fronte le mie labbra.
 
«Scusa.» Troppo tardi, non credi? Sembrava comunque seriamente dispiaciuta, apparentemente non sembrava averlo fatto appositamente.
 
Mi guardai intorno, sperando che nessuno l’avesse sentita. «Chi te lo ha detto?»
 
Si sedette nel banco accanto a mio, anch’esso vuoto, e si sporse più vicino a me. «Madison. Ah, sta tranquilla lei non è-»
 
«-arrabbiata. Lo so. E questo è così strano. Insomma, io mi sarei arrabbiata se fossi stata al suo posto.» Usai un tono basso, e apprezzai il fatto che l’avesse usato anche lei.  Seppur con ritardo.
 
Nell’attesa di un suo consiglio al riguardo, conoscendo sicuramente meglio lei di me Madison, mi resi subito conto che la Peterson era entrata sfortunatamente in classe, con la sua solita espressione da ‘stamattina-non-ho-scopato’. Rossella intanto era corsa qualche banco più dietro, per riprendere il possesso della sua borsa poggiata in uno di quei ricercati banchi dell’ultima fila, per poi però rimettersi di nuovo accanto a me. Capii che avremmo parlato ancora, aveva appena rinunciato ad un buon posto, dopotutto.
 
Calò il silenzio, sapevamo già che avrebbe interrogato quel giorno. Io ero molto preparata, ovviamente. Ma ero già stata chiamata la scorsa lezione, dubitavo mi rinterrogasse. Rossella invece era molto tesa, lo potevo vedere da come sfogliava il suo quaderno degli appunti così velocemente. Poi però si tranquillizzò, nel momento in cui la Peterson ci annunciò che oggi avrebbe solo spiegato, per andare avanti con il programma.
 
Probabilmente non erano stati molto forti, ma gli esulti dei miei compagni si fecero sentire.
 
«Quindi ti piace Lucas?» Avvertii bisbigliare la voce di Rossella accanto a me.
 
Mi voltai appena e gli lanciai un’occhiata confusa. «No, non mi piace Lucas.»
 
«Ora si spiega perché sei tornata a casa con William…»
 
Questo attirò la mia attenzione – immediatamente seppi a cosa stava alludendo. «Non mi piace neanche lui!»
 
«Silenzio!» La signora Peterson interruppe la nostra breve conversazione fulminandoci con lo sguardo.
 
«Ci scusi.» Mi ricomposi e le feci capire che non avremmo continuato a disturbarla. Rossella invece sospirò infastidita.
 
Nonostante io volessi prestare attenzione a ciò che solo Dio sapeva stesse dicendo riguardo la Rivoluzione Francese, non riuscii a contenermi ed aspettare la fine della lezione. «E poi non sono tornata a casa con lui. Mi ha solo accompagnato.» Sussurrai, mentre tenevo sotto controllo la signora Peterson con la coda dell’occhio e annuivo giusto ogni tanto senza neanche seguirla poi così attentamente.
 
«Non è successo niente?» Rossella piegò un sopracciglio.
 
«No.»
 
«Dai Charlie. Cosa ha fatto?» Teneva la mano davanti, come per grattarsi il naso, ma in realtà era solo una tattica. La Peterson sapeva bene come punirci. Nessuna delle due aveva intenzione di rimetter piede nell’aula di teatro per allestire scene e dipingere alberi di cartone per stupidi musical o commedie.
 
Ma perché chiedermelo con tanta insistenza? Non avrei retto ancora per molto. Lei si riferiva a ciò che poteva esser successo durante il tragitto, ma a me veniva alla mente solo ciò che era accaduto prima. Non avrei dovuto pensare quelle cose di lui e delle sue labbra, non avrei dovuto permettergli di avvicinarsi a me così tanto. «Assolutamente nulla.»
 
Eppure durante il tragitto gli era capitato di alludere alla circostanza che prima o poi avrei dovuto sdebitarmi con lui, in qualche modo. Tuttavia a dire la verità oltre questo, si era comportato diversamente dai precedenti approcci ravvicinati. Si era comportato bene, ecco. Aveva avuto occasione di rompere i miei timidi silenzi, chiedendomi come mi trovassi a scuola, quando mi fossi trasferita qui a New York, cosa mi piaceva di più di questa città, se avessi avuto scelta, e se davvero era possibile che i miei capelli non fossero tinti. A parte quest’ultima curiosità, sembrava apparentemente più lui interessato di come la pensassi a riguardo che i miei genitori.
 
«Ti ha toccato?» E per “toccato” non credo si riferisse ad una semplice pacca sulla spalla o ad una carezza. Non ero molto esperta riguardo i termini a sfondo sessuale, ma questo intuii ci rientrasse del tutto.
 
Avvertii un opaco rossore in viso, immaginando a ciò che Rossella era arrivata a pensare. «No.»
 
«Avete flirtato?»
 
«No.»
 
«Avete scopato?» Esclamò così esageratamente e abbastanza forte da farsi sentire da tutti in aula, inclusa la signora Peterson che fece cadere sotto shock la penna della lavagna elettronica, mentre potevo vedere fino a secondi prima stesse disegnando uno schemino riassuntivo su tutto ciò che io avevo già studiato – e che avevo già anticipato, in realtà.
 
«Esposito! Ne avete ancora per molto? Non voglio conversazioni del genere nella mia aula. Sono stata abbastanza chiara?» Strillò. Rossella si coprì le orecchie, facendoci ridere tutti. Il fatto che comunque avesse pronunciato e richiamato solo il suo cognome mi fece pensare che il mio non se lo ricordasse affatto. Meglio così.
 
«No, professoressa Peterson. Ci scusi ancora.»
 






«Ma che ti salta in mente?» Finalmente eravamo usciti dall’aula, dieci minuti buoni ci aspettavano per poter chiarire questa sua farneticazione. La Peterson aveva continuato a spiegare, io avevo anche persino ricopiato quello scarno schemino che ci aveva fatto alla lavagna. Decisamente non era la persona più brava nel farli, e Rossella non lo era affatto per ricopiarli. Anche per questo mi ero spinta a fare copia incolla sul mio quaderno, sapevo che me li avrebbe chiesti, e anche se non lo avesse fatto, glieli avrei passati lo stesso.
 
«Che ti salta in mente a te.» Rossella non si era ancora resa conto di ciò che era successo o di ciò che sarebbe potuto succedere dopo la sua euforica domanda.
 
«Te lo ripeto per l’ennesima volta. Ero sola, il cellulare era praticamente scarico e voi eravate già in pizzeria. Ho semplicemente accettato un passaggio . Che c’è di male?» Avevo ripetuto questa versione dei fatti, sì e no, dodici volte. Tre a lei, e le restanti nove ai miei genitori, che si erano ostinati a non capire. Certo, ieri sera poteva anche essere un orario pesante per poter reggere una storia, ma lo era anche per spiegare la stessa identica cosa per più volte, e con scarsi risultati.
 
«C’è che hai accettato un passaggio da William.» So che non avrei dovuto farlo, Rossella, ma per favore, non farmi la ramanzina anche tu.
 
«E’ un ragazzo come tanti. Non sono mai andata in macchina con un ragazzo, lo ammetto. Ma non è stato strano, non mi sono sentita a disagio.» Mentre parlavo Rossella camminava dritta guardando davanti a se, comportandosi normalmente. «Forse solo un po’, nei primi minuti.» Volli rettificare.
 
Mi sorprendeva confessare cose del genere. Quasi non ci credevo neanch’io. Ieri sera avevo fatto una delle tante cose che mamma e papà mi avevano sempre vietato di fare. Mi sentivo qualcosa come “trasgressiva” - e non l’avrei fatto mai più, comunque.
 
Sempre mantenendo un tono distaccato, Rossella parve darmi più attenzioni voltandosi verso di me. «Charlie, perché proprio William?»
 
«Non lo so. Ho semplicemente chiesto a Derek di prestarmi un cellulare e lui mi ha detto ‘va bene’ ma poi è entrato dentro, ed io aspettavo e-»
 
«-sì lo so che hai parlato con Derek.» Mi bloccò con un tono uniforme, il suo sguardo si allacciò al mio ancora una volta.
 
Mi sentii subito a disagio, la mia mente mi portò subito a pensare che quasi certamente mi odiava per questo. Sapevo che si informava, si informava davvero su tutto ciò che faceva Derek e su tutti i suoi movimenti. Sarei stata scritta nella sua lista nera solo per avergli parlato. «Ci sono telecamere nascoste da per tutto in questa scuola?» Sdrammatizzai, facendomi scappare una risatina isterica.
 
«Sfortunatamente no, sarebbe conveniente averle. Ma lo so perché anche io ho parlato con lui.» Strinse al petto ancora più stretti i libri che aveva tra le mani con un sorriso leggero. Nel dirlo parve soddisfatta, si stava sforzando a tener nascosta la felicità che le si scatenava dentro, voleva farlo suonare come se per lei fosse niente ma non ci stava riuscendo molto bene.
 
Ero comunque molto sollevata. «Davvero?»
 
«Sì.» Annuì.
 
«Mi dispiace averci parlato, io volevo solo che mi prestasse il cellulare.» Mi preoccupai di scusarmi, non volevo che pensasse male. In pochissimo tempo mi ero ritrovata a dovermi scusare e a dover persino chiarire cosa avevo fatto e non fatto. Non ero abituata a cose del genere quando si parlava di ragazzi.
 
Lei sorrise. «Tranquilla, so anche questo.»
 
«Quindi tutto questo te lo ha detto lui?» Devono aver parlato molto.
 
«Sì. Sinteticamente, Emily  ieri sera non trovava più suo fratello, neanche al cellulare. Non sapeva dove diamine fosse finito. Così mi ero proposta di chiedere giusto delle informazioni, e... Credo di averlo fatto bene. Sono andata a chiedere a Derek se ne sapeva qualcosa, e abbiamo preso discussione.»
 
«Su tutte le mie sventure?» Chiesi digrignando i denti.
 
«Esatto.» Sorrise. «Quindi, grazie.»
 
Se per comunicare con Derek aveva avuto bisogno di parlare di Charlotte Wilson, beh… Potevo anche accettarlo. «Non c’è di che.» Odiavo comunque quando si discuteva di me, anche se positivamente. «Ci parlerai ancora?» E questa volta spero di qualcos’altro.
 
Lei sospirò. «Non so. Credo di sì, anche se forse si frequenta con Rachele.» D’un tratto si rattristò.
 
«Parlare non è peccato, tutto sommato, no?» Mi si disegnò sul volto un sorrisino complice. Mi ero appena fatta sfuggire dalle labbra qualcosa che non pensavo potesse mai uscire dalla mia testa.
 
«Assolutamente.» Annuì in accordo, e mi trasportò in una risata contagiosa. «Neanche accettare un passaggio.» Sussurrò infine, mordendosi il labbro e guardandomi di sbieco come per aspettare incerta una mia reazione.
 
«Ancora? Non è successo nulla, posso giurartelo!» Quasi strillai, per poi sorridere stremata. Non volevo essere scortese, ma più me ne parlava più ci pensavo. Non volevo sul serio ripensare alla sera scorsa. Erano successe troppe cose ed ero ancora abbastanza confusa.
 
Si susseguirono lunghi secondi di silenzio, Rossella si ammutolì e smise di sorridere. Forse ero stata troppo maleducata? Non avrei voluto urlarglielo comunque, non era stata mia intenzione offenderla.
 
Si passò una mano nella nuca e si sistemò dietro l’orecchio alcune ciocche che gli ricadevano sul viso infastidendola. Si fece seria. «Non è necessario che tu mi giura qualcosa, ma lasciami consigliarti una cosa. Seriamente, stai lontana da William. Solo questo.» Suonò come una raccomandazione.
 
Entrai in allerta. «Non sono minimamente interessata a lui, ma perché dici-»
 
«-non ti sto mettendo in guardia da qualcosa. Solo qualcosa del genere.» Il suo gesticolare mi stava facendo entrare in paranoia. Cosa ancora non le era chiaro di ciò che le avevo ripetuto più o più volte?
 
«So che è un puttaniere.» Dissi spalancando gli occhi involontariamente. Forse era questo che intendeva, forse credeva che io questo non lo sapessi già.
 
«Sai anche che è il fratello di Emily.» Questa affermazione mi turbò. Corrugai la fronte chiedendole di spiegarsi meglio. «Ascolta, Emily ne ha dovute passare tante per suo fratello.»
 
«Cosa vuoi dire?»
 
Rossella si guardò intorno prima di continuare a parlare. Poi si fermò. «Per Emily è difficile essere la sorella di William, ecco. Nel corso degli anni tutte le ragazze che le si avvicinavano come amiche, in realtà finivano sempre per interessarsi a suo fratello. O lo erano fin dall’inizio.»
 
«Che meschine…» Mi fermai di rimando, e mi strinsi tra le bretelle del mio zaino diventando cupa.
 
«Già. All’inizio lei non lo capiva, anzi faceva di tutto per poter aiutare le ragazze che la scongiuravano di parlare di loro a William, o di combinargli perfino un appuntamento. Ma poi finiva sempre come doveva finire.»
 
Annuii comprendendo. «Dal tipo di ragazzo posso capire.»
 
«Sì. Se le faceva e poi le salutava, mettiamola così. E questo danneggiava Emily, ogni ragazza che finiva con suo fratello praticamente non le parlava più o arrivava ad odiarla.»
 
«Come si fa ad odiare lei, per suo fratello?» Balbettai allibita.
 
«Semplicemente erano amicizie false. Tutte mirate ad un solo scopo: William.»
 
«Mi dispiace molto…» E mi dispiaceva davvero.
 
Sapevo che tipo di ragazzo era William, ma non mi ero mai imbattuta in uno come lui precedentemente. I ragazzi così in Australia neanche mi andavano dietro, e io non andavo dietro a loro, semplice. Ognuno stava al proprio posto. Il fratello di Juno era molto bello però, aveva più di qualche anno in più di noi, e quando andavo a casa sua potevo vederlo insieme a molte ragazze. Non sapevo però come si sentisse Juno vedendo questo. Non diceva nulla, ma aveva un buon rapporto con lo sciupafemmine, credo che la cosa non la infastidisse, anche perché nessuna ragazza le aveva mai chiesto una raccomandazione per suo fratello. O per quanto io ne sappia.
 
«Anche a me. C’è stato un periodo in cui mi ignorava, non mi parlava, dubitava persino di me. Conosco Emily dalle medie, forse un po’ prima. Ma non sono mai stata coinvolta in questo genere di cose. Io sono sempre stata innamorata dello stesso ragazzo, e forse sai, avrei preferito anche io come tante altre, infatuarmi di William, così da non esser completamente  cotta di un ragazzo a cui appaio solo invisibile.»
 
Mi si inumidirono gli occhi. «Sei sempre stata innamorata di Derek?»
 
«Sì.» Sorrise, cercando di pensare ad altro - e molto probabilmente non riuscendoci.
 
«Beh, guarda il lato positivo. Almeno sei rimasta accanto ad Emily come vera amica per tutto questo tempo. Qualcuno e qualcosa ne uscito incolume, no?» In un primo momento dubitai della sua confessione, William era un bel ragazzo, che in tutti questi anni non avesse mai fatto un pensierino su di lui mi pareva fin troppo anormale. Insomma, non che io me ne stessi facendo, ma voglio dire, forse sì.
 
La vidi sorridere. «Grazie per avermelo detto.» Dissi più tardi.
 
«Figurati. Ma non dire ad Emily che te l’ho detto. Mi ucciderebbe.» Riprese a camminare e mentre teneva ancora ben saldi i libri tra le mani, cercò di prendere il cellulare dentro la borsa che reggeva con il gomito destro. Di sicuro la teneva così per comodità, non ne dubito, ma chiunque nella mia vecchia scuola l’avrebbe definita snob. Anche perché la borsa mi sembrava rigorosamente firmata.
 
«Spero solo che tu abbia capito. Non dico che tu non debba parlarci, ma solo… Non essere una delle tante. Credo di aver capito che ad Emily piaci, come persona. Non è solita stringere amicizia così facilmente.»
 
«E le altre? Madison, Leila, Lily?» Erano state tutte omaggiate del mio stesso onore? Oppure come Rossella anche loro non riuscivano a vedere in William un potenziale partner?
 
«Lily è tremendamente attratta dai nipponici e dagli asiatici, come il suo aspetto può benissimo dimostrare. Forse è scontato, ma è così, indipendentemente se lei sia straniera o no. Ah, ultimamente è presa dai ragazzi di colore.»
 
«Tipo Marcus?»
 
«No. Pensa sia un idiota. E non si sbaglia.» Eppure lui è di colore, ed è davvero un bel ragazzo. Chi in quella squadra non lo è, dopotutto? «Per dire, siamo sicure che trovi William indifferente.» Parve esserne certa. «A Madison non frega nulla dei ragazzi, a volte ci sorprendiamo a pensare che si sia davvero messa con Lucas. E comunque è finita, già da un po’, prima che si lasciassero. Lucas sa essere più imbecille di William. William sa come gestirsi, sa anche mettersi dei limiti, poi sono le ragazze che cercano lui, raramente il contrario. Lucas no. Rimorchia tutte come fosse affetto da qualche malattia rara, la quale unica e sola cura possa essere la vagina.»
 
Nonostante avesse nominato Lucas, il suo modo di pensare mi fece ridere molto. Di solito non sopportavo le volgarità, Juno lo sapeva -anche se a volte ne sparava qualcuna appositamente per farmi irritare. Sapevo comunque che stando con loro ne avrei sentite molte altre. Era solo questione d’abitudine.
 
«Poi c’è Leila. Ma lei è… Semplicemente Leila. E’ molto timida, dolce, gentile. Ha davvero un bel carattere. Emily non si è mai interessata di sapere se lei fosse attratta o meno dal fratello. Leila ha vinto in partenza. Non si può non adorarla. Molte ragazze la evitano per questo, sa essere molto buona a volte, e molte se ne approfittano. La stiamo aiutando piano piano a farle capire di quali persone può davvero fidarsi. Non tutti accettano certe qualità in una persona, o semplicemente non riescono a vederle. Noi le abbiamo viste. Io le ho viste, ed anche Emily.»
 
In confronto mi sentii una brutta persona.«Anche io voglio vederle.»
 
«Avrai del tempo stando con noi. Tutte abbiamo visto qualcosa in te, sai? Sei un po’ buffa.» Arricciò il labbro e sorrise subito dopo.
 
«Questa è la mia qualità?» Ero certa che la mia personalità le divertisse, di fatto. Oltre che buffa ero molto impacciata. «Diciamo.» Entrambe scoppiammo a ridere, ma non sapeva che mentre ridevo fuori ridevo davvero molto anche dentro. I complimenti mi lusingavano, sentirmi accettata mi faceva stare bene.  Ragazze belle e alla mano come lei dubito potessero provare lo stesso. Era accettata da chiunque in questa scuola e molte altre ragazze parlavano spesso con lei, chiedendole anche dei consigli. Riuscii a notarlo, in queste settimane.
 
«Si parla di un puttaniere, ed eccolo.» Rossella smise di ridere e indirizzò lo sguardo dietro le mie spalle, a fondo corridoio. Era William.
 
«Forse è meglio se ci avviamo a lezione.» Avevo già preso la strada opposta.
 
Lei rimase ferma ad osservarlo ancora un po’ con discrezione. «L’idea potrebbe dispiacergli. Sta venendo verso di noi, verso te. Meglio che vada solo io.» Mi bloccò e indirizzò una frecciatina complice. E tutto quello che mi aveva detto su Emily e tutto il resto?
 
Entrai in panico. «Aspetta Ross-» 
 
«-vado a cercare Emily, ha la brutta abitudine di saltarsi più ore in un solo giorno, dovrebbe smetterla, non può sfuggire alle interrogazioni per sempre.» Alzò gli occhi al cielo manifestando un ironica rassegnazione. Intanto William si avvicinava sempre di più a noi. «Ciao Will.» Sorrise Rossella verso lo stesso, e scomparì subito. Lui le fece un cenno di rimando senza mostrare alcuna emozione.
 
Si fermò davvero. «Wilson.» Enunciò con voce particolarmente roca.  Aveva un grande borsone rosso che reggeva a tracolla sulla spalla. Questo mi fece pensare quanto muscoloso dovesse essere. Dio.
 
«William.» Mi rifiutai di chiamarlo per cognome. Sarei stata al suo gioco, e non volevo giocare. Lui non parve notarlo comunque, aprì il suo borsone distogliendo lo sguardo frugandoci molto delicatamente dentro. Mi diete in vista il suo ben delineato profilo, e quanto realmente era perfetto il suo naso nessuno poteva saperlo. Mi imbambolai, osservandolo senza badare a tutti gli studenti che ci stavano guardando. Una cosa che stavo pian piano imparando era che bastava stare accanto a lui per essere notata.
 
Alzò poi lo sguardo, e io feci in tempo a ricompormi, e a far finta di fissare altrove. «Non credo che questo sia mio.» Attirò la mia attenzione. O mi convinsi la stesse attirando solo ora.
 
«La mia giacca!» Sorrisi sbalordita. Me la porse gentilmente, mostrando a mio grosso discapito le vene del suo polso. L’afferrai e mi venne un brivido lungo la schiena, toccava la mia giacca così delicatamente che sembrava stesse tenendo qualcosa di molto importante. Era ben piegata, e questo mi fece capire quanto potesse essere ordinato ed educato con le cose che di fatto non gli appartenevano.
 
«Non dico che sia brutta, l’ho anche provata, ma mi sta un po’ larga. Sei fortunata che non mi stia bene, non te l’avrei più ridata.» Ironizzò sorridendo.
 
Focalizzai di averla dimenticata nella sua auto la sera prima: Ero uscita velocemente chiudendo lo sportello dietro di me, mi ero giusto girata per salutarlo e ringraziarlo, ma poi ero scappata subito verso il portone di casa. Non mi ero ancora accorta fino a quando me l'aveva porsa che mi mancava. Che poi era molto soffice, blu scuro. Sperai fosse anche profumata, desiderai in realtà che dentro il suo borsone ci avesse spruzzato quella sua colonia che mi ero accorta usasse e che profumasse davvero di maschio. Mi sentii una vera disagiata.
 
«Il blu però ti dona.» Dissi senza pensarci. Cazzo.
 
Questo riuscì a fregarmi totalmente. William stava già sorridendo di gusto, capendo che mi era decisamente scappato di bocca e che avevo dato voce ai miei pensieri ingenuamente. Ma si sbalordì tanto quanto me. «Gli altri colori no?» Chiese piegando un sopracciglio.
 
Non sapevo perché lo avesse fatto, ma aveva portato il discorso in un piano più comodo per me, e lo stavo davvero mentalmente ringraziando per questo. «S-sì c-certo.»
 
«Non balbettare, non ti servono consonanti in più.» Disse spietatamente. Chiuse la cerniera del borsone, si infilò una mano nei capelli e fece qualche passo lasciandomi così, imbarazzata con le guance cremisi. L’ odiavo, ma non se ne era approfittato più di tanto.
 
L’osservai andarsene, poi guardai la giacca passando un dito sul piccolo stemma a forma di gabbiano della marca Hollister cucito sopra. Alzai la testa, di nuovo, stavolta incontrando il suo sguardo.
 
«Dai, scherzavo.» Disse già lontano di qualche metro, sorridendomi appena.







O- kappa, ecco il capitolo diciassette.
So che mi state odiando, anche io mi sto odiando, quindi fate pure.
Meglio tardi che mai … no?
Ammetto che mi sento disagiata tanto quanto Charlie, per aver descritto la parte della giacca così accuratamente. Avevo molti altri dettagli in testa, ma ho deciso che era meglio risparmiarvi. Adoro le descrizioni e quando posso non faccio altro che prolungarle.
Anyway, in questo capitolo vediamo Rossella che mette in guardia Charlie da William, e William stesso che pare non esser tanto indifferente alla piccola Charlie. Inoltre c’è una sfaccettatura del carattere in più che vediamo di lui, o che almeno vede Charlie, ed è quella della delicatezza, quando vuole. Ammetto che avrei voluto inserire una parte in più su Alexia, ma penso che lo farò più avanti, dandovi più spiegazioni.
*Scusami Giada, non volevo. Ti saluto tanto, e non mi uccidere*
Per adesso è tutto, prometto che cercherò di scrivere e postare il prossimo il prima possibile, vi prego non abbandonatemi, ciao. HAHAHAHAH

 






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Capitolo 18
*** eighteen ***


18


Charlotte Wilson

«Oggi sei riuscita a trovare l'armadietto, quasi non ci credo.» Sembrava più una di quelle frasi dette in un pomeriggio deprimente, contro quei personaggi della tv così stupidi per bambini. Ma non ero a casa, non ero depressa e non ero stata io a parlare. Ero ancora a scuola, ed avevo ancora ben altre quattro ore davanti per poter tornare a casa e magari fare ciò.
 
«Sì.» Risposi freddamente a Lucas, mentre mi fissava con quell’espressione da ebete e da uno che stava sperimentando un impercettibile sarcasmo, che per discapito sia suo che mio, era più fastidioso di un capello in bocca.
 
«Però mi sono scordato dove si trova il mio, non è che mi aiuteresti?» Era un ragazzo carino, molto. Le prime volte mi era sembrato rispettoso ridere, o per lo più mostrare anche solo un frammento di sorriso. Ma adesso non avevo nessuna voglia di fare ciò davanti a tale gesto di rimorchio. Non era divertente, non era seducente. Mi faceva solo vomitare.
 
Rimasi in silenzio a catalogare dalla ‘A alla ‘Z, per genere e colore nei ripiani dell’armadietto, i libri e i quaderni delle materie che avrei avuto nei prossimi giorni. Mi era necessario farlo, sia perché non sopportavo il disordine e sia perché, essendo cosciente di avere un corpo esile e uno zaino capace di trasportare anche sessantatré kili di pietre, dovevo riuscire a portare a casa lo stretto necessario. Giusto il materiale per poter studiare.
 
«Senti Charlie, non crederai mica a quello che dicono in giro?» Si stupì della mia inaspettata indifferenza, così tanto da mostrarsi infastidito.
 
Ma ciò che provavo, più che disgusto, era disagio. Non ignoravo mai le persone, era segno di maleducazione. «Uhm?!» Mugolai, facendo finta di non capire, cercando di resistere.
 
«Non è vero! Sono solo voci messe in giro da qualche idiota.» Frignò, serrando i denti e distogliendo lo sguardo. Sembrò un gesto molto teatrale, lo era effettivamente. Stava mentendo, e stava cercando semplicemente di metter a tacere i pettegolezzi, che oramai si erano diffusi a macchia d’olio. «Secondo me è stata Madison…»
 
«Io credo che l'idiota sia tu.» Non riuscii più a trattenermi. Io sapevo la verità. Io l’avevo visto.
 
«Cosa?» Spalancò sia occhi che labbra. Di certo non si aspettava una risposta del genere. E nemmeno io. Vero, tenevo molto all’immagine, ma ancora più vero non sopportavo ascoltare menzogne.
 
«Hai capito. Devo andare a lezione.» Chiusi l’anta dell’armadietto con un estrema tranquillità, dimostrando di certo una maturità superiore alla sua. Afferrai lo zaino da terra e lo misi sulle spalle.
 
«Non è neanche suonata.» Mi guardò lentamente andare via, realizzando di esser fallito nel suo intento. «Non stiamo insieme e posso scopare con chi voglio!» Esclamò a qualche metro di distanza.
 
«Già.» Mi limitai.
 
«Ma vaffanculo!» Urlò stavolta, facendosi sentire da tutti i presenti. Serrai stretti gli occhi e proseguii senza voltarmi. L’avrei insultato di rimando mentalmente per tutto il giorno, ma non avrei fatto una scenata.






«Jason Haynes fa un festino, nella sua grandiosa villa con piscina ad Avenue street. Non importa che quartiere di rilevanza sia, sarà comunque uno schifo. Sai che intendo. Sesso, Alcool, Erba… » Emily si esaltò attraverso il telefono.
 
«Perché me ne stai parlando?» Mentre cercavo di sembrare in qualche modo interessata, mi stavo dedicando agli appunti che avevo preso a scuola riguardo il nuovo argomento di trigonometria. Sentire queste cose non mi sconvolgeva, negli ultimi tempi Juno non mi parlava d’altro. Non capivo bene in che razza di compagnia si fosse inserita da quando mi ero trasferita.
 
«Perché voglio andarci. Quest’anno non sono ancora andata a nessun festino, quelli di Jason poi dicono siano spettacolari! Ti prego vieni con me.» Eppure non pensavo fosse quel tipo di ragazza capace di entusiasmarsi per qualcosa del genere. Doveva trattarsi di uno di quei festini spettacolari in stile Project X.
 
Smisi di mangiucchiarmi la gomma della matita, rimproverandomi mentalmente per aver acquisito in qualche assurdo modo quel cattivo vizio. Emily aveva chiesto a me di accompagnarla, la cosa mi rendeva in un certo senso felice. «Solo io e te?»
 
«Charlie sì, è un appuntamento.» Disse schietta. La matita mi cadde dalle mani, finendo a terra lontano dalla scrivania. Mi sarei dovuta alzare per riprenderla, la cosa mi sgomentava al solo pensiero. Mantenni il silenzio per un istante, ovviamente aspettandomi qualche genere di spiegazione.
 
«Scherzo Charlie, rilassati. E sai, a questo punto non vedo l’ora di dimostrarti quanto etero io sia. Ma se ci va anche mio fratello dubito io possa fare qualcosa al riguardo, dovrò tenere a bada i miei ormoni.»
 
Mi arrampicai sulla sedia, poi mi inginocchiai protendendomi verso il basso cercando di afferrare la matita senza il bisogno di dovermi alzare. «Tuo fratello?»
 
«Ci vanno tutti. Cani e maiali.» Farfugliò, mentre potevo capire si stesse mordicchiando le unghie. «In tal caso, siamo già io Rossella e Lily.» Giusto. Ovvio. L’aveva chiesto anche alle altre, ma certo.
 
«Perché mai dovresti ora essere l’unica persona a cui per prima ci si voglia rivolgere per andare ad un festino?»
 
«Le altre?» Stentai la voce mentre mi sforzavo ad allungare più la mano verso la matita.
 
«Madison odia Jason Haynes, una volta si allenavano insieme, ritiene sia uno spocchioso narcisista montato e cose così. Leila invece... Beh Leila non è tipa da festini.» Neanche io.
 
La sedia si mosse e dovetti far ricorso a tutti gli anni di arrampicata sulla corda praticata durante l’ora di ginnastica alle medie, per evitare di cadere e di mollare il telefono. «Emily, sei stata tu a diffondere il pettegolezzo su Lucas e Jenna?» Se non altro dubitavo fortemente la presenza di qualsiasi altra persona in corridoio a quell’ora oltre che noi.
 
Emily sogghignò. «Chi altro?» Potei sentirla sorridere soddisfatta. «Non ringraziarmi.»
 
Scoppiai a ridere, avrei voluto ringraziarla, anche se non godevo di ciò. I pettegolezzi, seppur quell’idiota se li fosse meritati, in qualche modo erano comunque una brutta bestia per chiunque.
 
«Per quanto riguarda mio fratello…»Emily fece una pausa di silenzio aspettandosi che io le rispondessi qualcosa o che le togliessi qualche dubbio. In quel preciso momento non riuscii più a reggere in equilibrio sulla sedia, e caddi di faccia sul pavimento. Era una strana sensazione quella delle labbra contro il pavimento gelido, e desiderai immaginare per un secondo se quelle di William al contatto fossero così fredde o invece calde, magari più morbide.
 
Le guance mi si arrossarono mentre realizzavo che pensare questo era assolutamente sbagliato. Cercai velocemente di sedermi a terra e riprendere il telefono. «Te l’ho detto. Ti prego non farmelo ripetere.» Grugnii, mentre mi toglievo i capelli da davanti la faccia. Capii subito che si stava riferendo al passaggio fino a casa che mi aveva dato due sere prima, ignorando però che era stato un semplice gesto di cortesia.
 
«Comunque ci parlerò. Ti lascerà in pace, vedrai.»
 
«Non mi ha fatto nulla.» Scattai.
 
«Lo farà.»
 
Inserii il vivavoce e nascosi il viso tra le mie mani, rifiutandomi di affrontare l’argomento. «Invece di parlare di un festino a cui mancano ancora circa tre settimane, perché non mi racconti di questa gita?» Mi alzai da terra e mi avvicinai al comodino vicino al letto, portandomi appresso anche il cordless.
 
«Quale gita?» La potei sentire accigliata.
 
«La gita in campeggio, quella proposta dalla signorina Freedman. E’ interessante, ho qui davanti il dépliant, il posto offre itinerari naturalisti e culturali, è programmata un escursione e alcune attività di gruppo classe. Ci sono degli appartamenti, bungalow con vista sulle montagne, anche una cascata, la cascata di Kobarid praticamente attorniata dalla roccia e … - mi stai ascoltando?» A volte parlavo così velocemente da intraprendere senza volerlo lunghi monologhi, che non mi accorgevo propriamente se l’interlocutore mi stesse ad ascoltare o no.
 
«Cosa?» Parve cadere dalle nuvole.
 
«Dai! Credo che darò la conferma, domani c’è la scadenza, e fra una settimana si parte.»
 
«Lo sai che non è una vera gita, vero? E’ a due ore da qui.»
 
Come non potevo saperlo? I miei non mi avrebbero mai mandato se il viaggio d’istruzione fosse stato programmato in uno stabilimento più lontano, specialmente mia madre, la quale era ancora persino incerta se lasciami partecipare o no. Papà sarebbe di sicuro riuscito a convincerla del tutto.
 
«Ti divertirai un mondo.» Emily fece trapelare apaticamente le sue emozioni al riguardo.
 
«Ma se voi non venite sai, uhm, credevo che avessimo un po’ stretto… è passato poco tempo lo so ma, uhm, sai, sarebbe piacevole andare in gita con voi.» Mi ci era voluto impegno per dire ciò. Mi morsi la lingua comunque, non avrei dovuto far parlare la mia mente così liberamente.
 
Sentii Emily ridere. «Charlie non ti preoccupare. Possiamo passare del tempo insieme anche senza andare a questo stupido campeggio.»
 
«Credo che ci sia troppo freddo per lasciarci dormire in tenda, comunque. E’ per questo che non ci vuoi andare?»
 
«Anche. In realtà preferisco il mio letto, la mia riserva di cioccolata e un buon film, ad una nottata attorno al fuoco a cantare stupidi canzoni sotto la pioggia.»
 
Riposai il dépliant da dove l’avevo preso e mi rimisi a sedere, afferrando prima da terra la matita. 
 
«Leila e Madison comunque so che hanno già dato l’adesione, Rossella era ancora incerta. Ha sentito che la classe di Derek partecipa. William non me ne ha parlato comunque, dubito che Rossella venga se -William te ne vai? Stai origliando?» Emily si innervosì.
 
Cosa cazzo aveva detto? William?
 
«No. Veramente sto uscendo. Comunque puoi dire all’italiana senza speranze che Derek ci sarà. Stupido campeggio.» Sentii grugnire William dal mio telefono, ed Emily imprecare a bassa voce.
 
«Non parlare così di Rossella.»
 
«Lo sa mezza scuola Emy. Ma quale delle tue racchie è al telefono?»
 
«Non t’importa.» Potevo immaginarmi Emily mettere le mani conserte.
 
«Bho ok, hai detto a mamma della lavatrice?»
 
«L’hai rotta tu, non io. Non mi prenderò la colpa al posto tuo.» Scattò Emily contro il fratello.
 
«Deve ancora digerire la storia del finestrone, quello della sala teatro. Non ci penso nemmeno a darmi la colpa per una stupida lavatrice, sappilo.»
 
«Sarò io a dartela. L’hai caricata tu per ultimo.»
 
«Sì ma sei stata tu a comprare quella merda di detersivo ai “frutti tropicali”. Fino a quando non l’hai comprato non credevo nemmeno esistesse! E’ quasi impossibile che una sostanza per pulire dei fottuti vestiti sia ai “frutti”, andiamo! Sono quasi sicuro che la lavatrice si sia in qualche modo drogata di questa improbabile spremuta di frutta. Per questo si è inceppata!»
 
Ridacchiai. «Emily?»
 
«Charlie scusa, ti richiamo.» Rispose velocemente,  per poi terminare la chiamata.
 
Presi a ridere e posai il telefono accanto ai fogli sparsi nella scrivania, cercando di concentrami di nuovo sui compiti che avevo da svolgere.






Era stato impossibile concentrarsi. Nell’ultime due ore non avevo fatto altro che rimuginare sulle parole che Lucas mi aveva gettato contro durante quel piccolo battibecco la mattina. Non era mio solito lasciarmi prendere da questo tipo di situazioni. Sì, ero molto emotiva, ma non mi ero mai permessa di compromettere la mia carriera scolastica trascurando i compiti o lo studio. E ultimamente questo accadeva spesso.
 
Ero comunque giunta alla conclusione che la prima cosa che avrei dovuto fare per poter continuare a studiare senza dover avere la mente corrotta da continui sbalzi di ipersensibilità, era quella di parlare e chiarire con Madison.
 
«Charlie!» Aveva un cappello da football alla testa, con la visiera dietro il capo, di un azzurro scolorito e macchiato di pittura bianca, come il grembiule che portava e dei larghi pantaloni da muratore, quando mi ero presentata davanti la porta di casa sua.
 
«Scusa il disturbo, io…» Mi strinsi nel giubbotto, faceva molto freddo, e non ero mai stata in quella zona della città.
 
«No figurati, entra. Scusa il casino, mio padre sta imbiancando casa e... Siediti, gli stavo dando una mano… Papà! C'è una mia amica, continua da solo!» Strillò verso suo padre che doveva trovarsi in un’altra stanza, e mi fece accomodare in quel che potetti capire tra la confusione fosse il salotto.
 
«Ok tesoro!» Le rispose una voce maschile di rimando.
 
«Ma, come hai fatto a... Trovarmi?» Avevo impiegato del tempo per riuscire a trovare l’indirizzo dell’abitazione, avevo mandato un messaggio ad Emily per farmi dare una mano. Per non parlare di come mi ero avventurata da sola a salire sopra qualsiasi mezzo di trasporto disponibile.
 
«Oh, non importa. Io dovevo assolutamente parlarti e…  Scusami davvero se ho interrotto- »
 
«-non dirlo. Non è che abbia chissà quale voglia di aiutare mio padre, per me va bene se mi fai perdere tempo. Che poi non è che perdo tempo, insomma hai capito.» Era stata molto ospitale, e sperai non fosse tutta una finzione, magari per poi in realtà uccidermi e nascondermi dentro la vasca da bagno.
 
Mi suggerì di sedermi, mostrando il divano. Rifiutai in un primo momento. «Io... Madison mi dispiace.»
 
«Per cosa?»
 
«Lo sai. E' imbarazzante che tu non faccia nulla a riguardo. Mi merito il peggio quindi so che sono stata una cattiva persona io-»
 
«-aspetta. Stai parlando di Lucas?» Madison si tolse il cappello e lo posò sopra un tavolino pieno di cianfrusaglie e fazzolettini sporchi. Quella casa era un casino, era il caos primordiale.
 
Ma non mi feci coinvolgere dal disordine, anche se pensai per un attimo che lì dentro mia madre sarebbe impazzita e non sarebbe resistita per più di un secondo. «Sì. Io non volevo! Credevo che voi vi foste lasciati, non sapevo che vi sentivate ancora.» Ero davvero mortificata.
 
Si mise a ridere e si sedette in una poltrona vicino, guardandomi dal basso all’alto. «Charlie. Noi ci siamo lasciati esattamente quando te l'ho detto quel giorno nei bagni della scuola. È lui che continua a chiamarmi, mandarmi messaggi, stressarmi… Dio santo non ce la faccio più!» Sbuffò pesantemente, coprendosi il viso per via della disperazione che trapelava dalle sue parole.
 
«Scusami, non sono... Non mi merito la tua fiducia io-» Era la prima volta che mi scusavo per una cosa del genere, io non rubavo i ragazzi alle altre, io non rubavo, io non avevo ragazzi, io non avevo mai avuto un ragazzo. Ma non era neanche però la prima volta che parlavo in quel modo con qualcuno. Durante la recita di quinta elementare non ero riuscita a ricordarmi la battuta, e avevo cominciato a scusarmi davanti a tutta una sala di cinquecento genitori e parenti senza smettere di piangere.
 
Mi trattenni stavolta dal frignare.
 
«- Charlie smettila di scusarti. Ok, forse ho fatto male a non dirti nulla sul fatto che sapevo di te e di Lucas, ma non l'ho fatto per tramare di nascosto o farti stare male. Semplicemente ero stufa di lui. Tutto qui.» Mi lasciò a bocca aperta. «Anzi, all'inizio ero quasi, oddio, ero contentissima quando ho visto te e Lucas che vi baciavate. Ma poi mi sono sentita una stronza, in realtà gioivo solo perché ero sollevata si fosse trovato qualcun'altra da scocciare.»
 
«Sul serio?» Mi corrucciai.
 
«Sì. Ma alla fine non credo che tu ti merita questo. Lucas è un imbecille, un idiota.» Il suo carattere mi impressionava. Non sapevo bene se stesse mentendo o no, ma a me sembrò dire la verità. «Sai conosco Lucas, non farti problemi.»
 
«Cosa vuoi dire? Sono perdonata io... Non capisco.» Il suo ragionamento in effetti era parecchio contorto. O forse ero io troppo in ansia per assimilare la qualsiasi cosa mi venisse detta.
 
«Non me la sono mai presa con te.»
 
«Ok, fatico a crederci.» Non riuscii più a tenermi in piedi, e mi sedetti di fronte a lei sul divano che poco prima mi aveva indicato.
 
«Lucas mi ha tradito un sacco di volte, mentre stavamo insieme. All'inizio ci stavo male, poi ci ho fatto l'abitudine perché sentivo che non me ne importava più di tanto. Lucas è stato un bel passatempo, lui dubito mi abbia mai amato, in fin dei conti stava con me solo per del sesso sicuro. Si sbagliava se pensava che con me avrebbe fottuto per sempre. Adesso mi assilla perché non ha più quella sicurezza, ho persino sentito che ha pagato Jenna, è messo davvero male.»
 
Come potevo biasimarla? «Come persona fa un po' schifo.»
 
Incrociò le gambe a cavallo. «Molto. Però se vuoi passarti il tempo fa pure, è bravo a letto, non posso negarglielo.» Si stava comportando con indifferenza, il che mi preoccupava.
 
Arrossii. «Io veramente non… Non sono il tipo.» Era così normale alla nostra età parlare di sesso e di come un ragazzo potesse farlo meglio di un altro? Perché sembravo l’unica a scioccarsi al riguardo ogni volta che se ne parlava?
 
Madison ghignò, si sporse in avanti come per rivelarmi qualcosa in confidenza. «Uhm, un po' lo immaginavo. Sembri innocente quasi quanto Leila.»
 
Tutte mi parlavano di lei come fosse davvero una brava ragazza timida e capace di restare al proprio posto, anche se fragilmente. Cominciavo a stimarla senza neanche conoscerla poi così bene. Avrei voluto chiederle di più, riguardo Leila, ma prima che potessi aprir bocca il padre di Madison irruppe nel salotto, con un cappello tra le mani e un sorriso imbarazzato. Si presentò e io fui stranamente sciolta nel fare lo stesso. Capii dopo qualche scambio di parole che quell’uomo era capace di trasmettere una tale sicurezza da riuscire a convincerci a passare nell’altra stanza, in cucina, per fargli compagnia e magari prepararci un te o una cioccolata calda. Io optai per il tè.




«L'hai più baciato?» Madison era raggomitolata in una coperta di pile, con la tazza di tè in mano e le mani ancora sporche di pittura. Per fortuna aveva lasciato me preparare il tè.
 
Soffiavo sopra la miscela, aspettando che si raffreddasse ancora un po’. «No. L'ho respinto alla fine, te lo detto.»
 
«E lui?»
 
«Stamattina veramente ha provato a parlarmi, io sono stata un po' fredda, poi lui mi ha mandato a quel paese… Ora che ci penso, è stato volgare in realtà.» Ne parlavo come fosse un lontano ricordo ormai archiviato, ma non era poi così lontano e in realtà c’ero anche rimasta parecchio male.
 
Suo padre era sopra una scala portatile, che stendeva con un pennello abbastanza grande della pittura bianca, forse intonaco, nel soffitto della cucina. Non pareva ascoltare i nostri discorsi, era molto concentrato. Quella stanza, a differenza del salotto, era molto illuminata, vicino al frigo una finestra rettangolare al di sopra del bancone, ornata da tende. Nel davanzale si intravedevano tre piantine di basilico.
 
Madison scostò le labbra dalla tazza bollente. «Uhm. Sei un numero pari, vero?»
 
«Come scusa?» Rischiai di scottarmi la lingua.
 
«Ti ha scelto così?»
 
Non mi era sconosciuta questa storia del ‘numero pari’, mi sconvolgeva solo che lei lo sapesse. «Qualcosa del genere... è una storia lunga, William mi ha detto subito che ero un numero pari, quattordici se non sbaglio.»
 

«Lucas! Quattordici, pari! È tutta tua!» Urlò frettolosamente, con la briga di andarsene e di proseguire il suo percorso, mentre si voltava per richiamare un ragazzo biondo che distava da noi pochi metri.
 
«Dai smettila!» Rispose con lo stesso tono e con un mezzo sorriso sulle labbra, come da non prendere sul serio.
 
Pari?
 
Della sigaretta si era per caso aspirato su per il naso tutto il filtro?
 
«Numero che!?» Reclamai interdetta ed irritata.
 
«Sono dannatamente attratto dai numeri dispari. Mi spiace!» Rispose il ragazzo dai capelli scuri. Racchiuse tutta la sua espressione in un ghigno, per poi voltarsi e salutare con un cenno il ragazzo dietro. Non mi aveva nemmeno guardata in viso. Non che io lo avessi fatto, perché un possibile contatto visivo avrebbe azzerato tutte le mie possibilità di autodifesa.



«Non ti sei mai chiesta cosa vuol dire?» Madison interruppe il flashback nella mia mente. Ricordavo perfettamente tutto.
 
«Sì, ma non l'ho mai capito.» Questo attirò inequivocabilmente la mia attenzione, per non parlare della mia curiosità. «Tu lo sai?»  
 
Madison sorrise e se non avesse avuto la tazza di tè in mano, ero sicura avrebbe battuto le mani euforica. «Ok, te lo spiegherò. Anche per me è andata così. Ero un numero pari, cioè addizionando le tre cifre del mio armadietto usciva un sei, da quattrocentoquarantuno.» Quel numero era una specie di scioglilingua assurdo.
 
«Non capisco.» E non capivo cosa c’era da essere così euforici.
 
Madison posò la sua tazza senza lasciare che la coperta di pile l’abbandonasse. «Una sera Lucas era totalmente andato, eravamo ad una festa e si era ubriacato molto. Io volevo sapere quest'assurdità del 'numero pari' e così gli chiesi cosa stesse a significare. Lui mi disse che era un gioco che avevano sempre fatto con William per le nuove arrivate. I pari sono sempre andati a Lucas, i dispari a-»
 
«- William.» La interruppi percettiva.
 
«Esatto.»
 
E quindi era così? Lucas mi ero andato dietro fin dall’inizio solo per uno stupido gioco? «Che stronzi!» Scattai disgustata e furibonda.
 
«Lo so. Tu sei la conferma che lo fanno ancora.»
 
«Credi che non abbiano mai smesso?» Domandai, guardandola con incredulità.
 
«No.»
 
«Neanche dopo di me?»
 
Rise. «No, perché avrebbero dovuto? Sono dei tali deficienti.» Cosa c’era di ridere? «Sei offesa, ed è comprensibile. Lo ero anch'io. Ma guarda il lato positivo, non sei finita nelle mani di William. Ha una tale abilità a portare a letto le ragazze.»
 
Nessuno mi avrebbe portato a letto per uno stupido gioco.
 
«Io non posso non dirgli nulla. Io mi sento profondamente presa in giro Madison. Io devo-»
 
«- fargliela pagare. Esatto. Io l'ho fatto, lasciandolo. E' stata una vendetta fredda. Ora tocca a te.» Sembrava la candidata perfetta per una nuova donna nell’iconico manifesto “We Can Do It!”. Una versione moderna di Rosie the Riveter insomma.
 
«E cosa potrei fare?» Feci spallucce, indirizzandole uno sguardo interrogativo cercando di calmarmi. Potevo percepire suo padre osservarci e allo stesso tempo dipingere. Era inquietante in realtà. Ma non volevo mostrarmi isterica, soprattutto davanti ad un genitore.
 
«Non so. Illudilo. Fallo innamorare che so. E poi abbandonalo.» Parlava così liberamente che ignorava la presenza del padre.
 
La guardai puramente incredula. «Non credo io sia in grado. Non sono brava a far innamorare i ragazzi.» Sussurrai imbarazzata della cosa.
 
«Charlie non credo si possa fare quello che dici tu, non puoi decidere come e se far innamorare una persona di te. A meno che tu non sia Angelina Jolie o Megan Fox. Provaci. Rifiutalo, semplice. Poi però dagli l'illusione della possibilità. Stacci intorno qualche volta, poi ignoralo di colpo, poi ritorna. Insomma fallo soffrire un po'.»
 
«No no, io non... E-ecco credo sia troppo.»
 
Madison sospirò udibilmente. «Andiamo Charlie, ti piace davvero?»
 
«No, non è questo. Mi fa schifo, se vuoi sapere la verità.» Precisai, il che era probabilmente la cosa più ovvia al mondo dopo quello che mi aveva raccontato. Dopo tutto in realtà.
 
«E allora? Fallo per tutti i numeri pari della storia.» Allargò le mani e alzò lo sguardo al cielo, dando l’idea d’immenso.
 
«Non ho mai fatto qualcosa del genere, sono tipo negata, ecco.»
 
Lei roteò gli occhi e sorrise alla mia risposta. «Non importa. Fa finta di star giocando con un ceco a scacchi. Fai le tue mosse improvvisando.»






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Capitolo 19
*** nineteen ***


19


Charlotte Wilson

«Avrebbe potuto piovere. Almeno ce ne stavamo a casa.» Madison era più in forma che mai quella mattina. Erano circa le 7:00, eravamo partiti due ore prima e Leila aveva avuto bisogno dell’aiuto del polsino anti-nausea per poter affrontare il viaggio in autobus senza vomitare.
 
«È così bello questo posto. Poi si respira un'aria pulita, che sa di fiori e corteccia di alberi centenari.» Inspirai a pieni polmoni, godendomi e apprezzando tutto ciò che vedevo attorno. Ad occhi esterni poteva sembrare una cosa un po’ bizzarra, ma mi piaceva la natura… E anche stare lontano per un po’ dall’apprensione di  mia madre.
 
«Ma ti prego. Cosa sei, una scout?» Schernì Madison. Rossella faceva la fila per prendere gli zaini, dove guarda caso si faceva largo un assonato Derek Foster e la sua incontenibile euforia. Solo per oggi, nessun campo, nessun gioco, nessuna palla. Sicuramente un’esperienza del tutto nuova sia per lui che per tutto il resto della squadra, costretta a partecipare dal coach in carica. Gli era andata comunque bene, avrebbe potuto sempre costringerli ad andare in ritiro spirituale per una settimana, essendo un uomo molto devoto e religioso. Mamma sarebbe stata entusiasta se io avessi avuto un professore così, magari lo avrebbe anche invitato a casa per una grigliata, a mangiare salsicce, a parlare di Dio e di come noi giovani d’oggi trascuriamo e sottovalutiamo la religione.
 
«No, ma l’ho sempre desiderato.» Seppi ben rispondere, difendendomi dall’irrisione. Anche Rossella aveva sempre desiderato qualcosa, e quel qualcosa era proprio davanti ai suoi occhi che sbadigliava e tendeva le braccia verso il proprio zaino. Sia io che Leila e Madison, notando lo stato di deficienza che sempre più stava risucchiando l’italiana, accorremmo in salvataggio e l’aiutammo a prendere gli zaini per portarli nel nostro bungalow.
 
Le micro foto stampate nel dépliant non rendevano giustizia al paesaggio, e a tutta la sua bellezza. Per questo, prima di partire, mi era venuto in mente di fare qualche ricerca su internet per documentarmi meglio sulla zona e sull’esperienza che come gita la scuola ci offriva e ci proponeva di fare. I miei genitori per fortuna erano favorevoli ad internet, sapevano che ci si poteva trovare di tutto e che se ben usato poteva aiutarmi molto nello studio, ma evitavo di passare il mio tempo concesso sui social network, tipo facebook o twitter, non ero proprio il tipo di persona a cui piaceva mettersi in mostra con foto che ritraessero me stessa (mi pare che i miei coetanei li chiamino ‘selfie’), o stati che potessero spiegare il mio umore o la mia relazione sentimentale - non che ne avessi proprio una.
 
«Oh mio dio. Avete visto quanto è figo oggi? Sarà il tempo, con il sole i suoi occhi si schiariscono sempre, tendono ad un verde smeraldo che mi fa veramente impazzire!» Eravamo arrivati da soli dieci minuti e Rossella non aveva intensione di trattenersi nel dire ciò che già sapevamo pensasse.
 
«Ross, così farai impazzire noi però.» Madison non riusciva a sopportarla, e lo si poteva vedere da come sbuffava ogni volta che si parlava del braccio destro di William. Ed in effetti era un po’ l’argomento principale di tutte le ragazze della scuola, molte erano attratte da Derek, molte dal quarterback, molte da entrambi. Ma a me sembrava tanto un cliché da telefilm. Ero sicura ci fossero tanti altri speciali ragazzi in quella scuola, solo con meno riflettori puntati addosso.
 
Ammiravo la forza di volontà e di ripresa di Rossella, doveva sicuramente essere la prima a sapere che tipo di ragazzo fosse quello di cui si era pazzamente innamorata eppure, nonostante pochissimi passi avanti, lei ancora ci sperava, ci credeva. «E’ vero, ha dei bei occhi.» Annuii in assenso, lasciandomi alla spalle una Madison in evidente disaccordo.
 
Rossella notò la smorfia dell’amica, poi si voltò e mi sorrise. «Tranquilla Charlie, lei ed Emily mi sfottono sempre al riguardo. Ma mi fa piacere che tu tanto meno mi compatisca.» Per quanto le ragazze si fossero sforzate di convincere Emily a venire ( io non avevo insistito, non era giusto opprimere le persone con ossessive richieste) lei si era più che ovviamente rifiutata di unirsi a noi. Lily invece si era presa il morbillo ed era circa una settimana che non la vedevamo a scuola.
 
«Non c’è bisogno che tu venga compatita, c’è solo bisogno che tu ti dichiara.» Ammiccò Madison in risposta, mentre ci accorgemmo che, dopo poca strada, avevamo raggiunto di già il bungalow che avremmo condiviso la notte stessa.
 
Era interamente in legno, all’interno c’erano due letti a castello, una sola cassettiera e un piccolo bagno. Mi affacciai ad una finestrella e vidi come un esplosione di verde saltarmi addosso, nelle sue gradazioni più varie. Riuscii ad intravedere persino alcuni sentieri artificiali, probabilmente utili per giri in bici, passeggiate al calar del sole o chissà magari anche per delle caccie al tesoro. Come una campagna, solo senza erbacce. Era tutto così perfetto, era tutto così come una cartolina. Tanto verde, che mi ricordava la freschezza della primavera in Australia. Eccola, la prima zanzara, avevo già il primo bozzolo rosso tra le gambe scoperte, indossavo un pinocchietto di jeans elastico. Eccone un'altra. Questa la cacciai via però.
 
Non potemmo rimanere lì dentro per molto, improvvisamente si udì provenire da fuori il suono del fischio che segnava l'inizio delle attività.
 
Così, scelti i letti e posati gli zaini, dovemmo raggiungere il resto dei compagni, la guida e gli animatori del campeggio dirigendoci verso il campo, che si trovava a pochi metri dalla schiera dei bangalow.
 
«Ragazzi per favore! Silenzio!» Si poteva udire la voce stritola di una donna sulla ventina d’anni che cercava di attirare l’ attenzione di noi studenti con gesta e fischi da sopra un palco in fondo al campo. Camminammo verso la folla, alzandoci sulle punte dei piedi per vedere oltre tutto quel subbuglio, e mentre aprivamo qualche breccia ero riuscita a riconoscere alcuni volti di ragazzi e ragazze che più volte mi era capitato di vedere tra i corridoi scolastici. Come William che, avendomi identificato a sua volta, non si era fatto scappare un sorriso sghembo come cenno di saluto. Io finsi di non notarlo, distolsi anzi lo sguardo e cercai di stare attenta ad ascoltare cosa avesse da dirci la donna che con l’aiuto dei suoi colleghi era riuscita ad ottenere un minimo di silenzio.
 
Si proseguì un quarto d’ora di falsi elogi di benvenuto, dato che probabilmente l’unica cosa che avrebbe desiderato fare in quel momento Jasmine, la ventitreenne che si era finalmente presentata, era quella di arrivare a fine giornata sana e salva e con un normale timbro di voce che non ricordasse quello di una chitarra scordata. Ci fu spiegato il programma, le attività che si sarebbero susseguite in giornata e ci furono date anche delle raccomandazioni.
 
«La prima attività prevede un escursione attorno al campus. Sarete divisi in coppie, ed ogni coppia avrà una bussola. Dovrete far ricorso a tutto il vostro intuito e a tutta la vostra esperienza da escursionisti, non vi verrà data nessuna mappa. Non sarete voi a scegliere il compagno con cui stare, deciderà la sorte. Inoltre ci sarà un mescolamento delle età, non sarete in alcun modo assegnati ad un vostro coetaneo. Avete comunque una lista da completare prima dell'ora stabilita.» Jasmine, cercando di mantenere l'ordine, ci porse ,con l'aiuto di altre ragazze dello stuff, delle ceste contenenti dei diversi foglietti colorati con dei numeri impressi sopra. Ci spiegò come il nostro compagno avesse lo stesso esatto numero e colore. Ne estrassi uno. Giallo, 56.
 
Giallo, 56. Giallo, 56. Giallo, 56. Ripetei tra me e me.
 
Quasi urlai di gioia quando vidi Rossella pescare un cartellino giallo. Ma sfortunatamente aveva un numero diverso. Oltretutto, avevamo la stessa età, quindi non avremmo mai potuto stare insieme.
Sospirai quando trovò la sua compagna e guardai verso le mani di ognuno, ignorando chiunque avesse un altro colore oltre al Giallo. Leila aveva trovato il suo compagno quasi subito, mi pare fosse uno ragazzo dell’ultimo anno, eppure ripetente. Chissà come si stesse sentendo Leila, la sua espressione in viso poteva suggerire parte delle sue emozioni avverse.
 
Mentre camminavo attraverso la folla di persone altrettanto ansiose di trovare il loro compagno, qualcuno mi picchiettò sulla spalla. «Uhm, Wilson… Qual è il tuo patetico numero?» William sembrava molto imbarazzato, anche se forse era più che altro seccato. Doveva ritenere infantile questa specie di ‘caccia al compagno’. Notai del rossore sopra le sue guance, anche se teneva lo sguardo e il capo rivolto verso il proprio cartellino.
 
Girai il mio, per svelare il numero. Stavo pregando Dio che lui non avesse lo stesso. Dopo aver deciso di ignorarlo per quel piccolo sorriso maledetto, supposi che il mio karma avesse fatto ritorno per prendermi a schiaffi in faccia.
 
Per piacere Dio, Budda, Allah, grande banana, chiunque ci sia lì su, non farci mettere in coppia!
 
Lui adombrato girò il suo pezzo di carta. Il numero 46 era scritto sul suo cartoncino blu.
 
Feci spallucce mostrandomi neutrale per qualsiasi cosa ci fosse stata scritta nel cartoncino. Ma mi sentii a disagio qualche minuto dopo quando notai che la maggior parte, o tutti, avevano smesso di cercare.
 
Improvvisamente, Jasmine  indicò verso di me notandomi solitaria vagare nello spiazzale. Era così imbarazzante. «Quanti anni hai?» Urlò dal palco per poi farmi cenno di avvicinarmi.
 
«Quindici.» Risposi flebilmente.
 
«Diciassette.» Rispose William, quando fu indicato e invitato a raggiungerci a sua volta.
 
«Perché sono rimasti due ragazzi con biglietti di colore diverso? Siete sicuri che tutti di là hanno un compagno?!» La ventitreenne si girò consultando il resto dello stuff.
 
Perché queste cose devono succedere sempre e solo a me? Il resto degli studenti stava cominciando ad accorgersi che c’era qualcosa che effettivamente non quadrava, e William era sicuramente in procinto di insolentirsi. Potevo sentire gli occhi di molte ragazze bruciare su di me, molte urlavano sfacciatamente e disperatamente di poter scambiare il proprio compagno con il quarterback, ed altre si erano già portate avanti avvinghiandosi a lui, cercando un minimo di attenzione dello stesso.
 
Jasmine fu interrotta da qualcuno che picchiettava sulla sua spalla, dietro di lei. «Jasmine?» Le chiese con calma la donna che le si avvicinò all’orecchio, dicendole qualcosa con leggerezza e tenendo in mano la sua cartellina rossa. Anche se parlava a bassa voce, chiunque altro era persino più silenzioso. Quindi fui in grado di ascoltare, tenendo conto anche di quanto fossi vicina.  «Mancano all'appello due ragazzi, che avrebbero dovuto accoppiarsi a loro due, credo.» Jasmine alzò le sopracciglia, mentre l'altra continuò a parlare. «Madison Powell e Lucas Sanders si sono allontanati dal campus dopo aver preso i cartellini, possono confermarlo alcuni ragazzi che li hanno visti. E ora sono praticamente scomparsi.»
 
William sottolineò a bassa voce l'ultima parola con un sorriso malizioso. Così improvvisamente gli era passato il malumore?
 
Jasmine portò indietro la testa come se fosse scioccata. «Scomparsi
 
La donna si scostò dal suo orecchio e la interruppe annuendo, facendole capire che non avrebbero potuto fare nulla fino a quando non sarebbero tornati. «Va bene, avranno ciò che gli spetta al ritorno o quando li avremo trovati, intanto finiamo di formare le coppie.»
 
Ero tanto stupita tanto quanto confusa di ciò che avevo sentito. Doveva esserci per forza uno sbaglio, doveva trattarsi di un altro Lucas, o di un’altra Madison.
 
Jasmine afferrò la cartellina rossa della donna e sembrò sfogliare un elenco. «Charlotte Wilson, giusto?» Mi sentii richiamare.
 
«Sì.»
 
«Tu sei…?»
 
«Disponibile.» Rispose in un primo momento guadagnandosi un’occhiataccia dalla ventitreenne. Quanto idiota poteva essere in una scala da uno a dieci? «William.» Accennò poco dopo. «Henderson.» Aggiunse una ragazza dai capelli rossi che era appena riuscita ad appoggiarsi al suo braccio, illudendosi probabilmente di poter ritentare la fortuna e di poter esser messa in coppia con lui, ovviamente seguita da tutto un ronzio di cuori palpitanti e speranzosi che stavano ancora cercando di farsi largo verso il proprio sogno erotico. Mi chiesi se William conoscesse quella ragazza, chissà magari anche solo di vista.
 
Jasmine scrisse qualcosa sopra i nostri cartellini per poi riconsegnarceli. «Bene. Potete andare ragazzi, buona fortuna.» Mi mostrò un sorriso mille denti e ammiccò come in alleanza, ignorando le stritoli richieste delle mie coetanee.
 
Fiù, almeno non sarei stata in coppia con Luc-William? Non ero appena stata accoppiata con William, vero?






«Perché non ci appartiamo, compagna?» Dovevo solo accettarlo. Queste due ore di escursione sarebbero passate velocemente se solo fossi stata capace di ignorare quanto bastava lui e le sue cafonate. «Sai potresti rispondermi ogni tanto, anche solo per sgranchire le corde vocali e per rilassare quel broncio.»
 
Non tutte le coppie erano partite dallo stesso punto, questo era stato escogitato e studiato appositamente per non permettere di influenzarci l’una con l’altra. Ciò che ci avevano dato oltre ad una bussola e ad una lista, era una macchina fotografica, una di quelle istantanee della Fujifilm, una meticolosa imitazione della Polaroid anni ’80. Ciò che dovevamo fare invece, era fotografare i luoghi o le cose che ci richiedeva la lista.
 
«Vedi che chi tace acconsente.» Continuò ad istigarmi, questa volta avvicinandosi al mio orecchio e sussurrandomelo.
 
«Mhmm!» Mormorai, sperando di sembrare sarcastica. In realtà ero solo molto stufa, e confusa. Di questo passo la mia mente non sarebbe stata più tanto lucida. William era un bel ragazzo, e io non ero abituata a questa strana forma di attenzioni - a nessuna in realtà.
 
Portò via la lista dalle mie mani e cominciò a leggerla distrattamente. «Mi sembra sempre più interessante che fotografare, più o meno cosa? Un deforme masso, un’inutile cascata, un albero... Un albero con radici tanto grandi quanto il mio-»
 
«-ti prego.» Istintivamente mi allontanai da lui di qualche centimetro, desiderando pensare che quello che stava per dire non era poi così perverso di quanto stessi immaginando.
 
«Non fotograferò un albero.» Disse mettendo su il broncio.
 
Fotografa direttamente il tuo pene, se ne hai voglia.
 
Sbuffai, quando mi accorsi che stava man mano prendendo il controllo e il comando di tutto, ed io lo stavo seguendo. Mi facevo così tanto influenzare da lui e dalle sue decisioni ed eravamo appena partiti! Questo non era assolutamente positivo e non poteva spingersi oltre. Avrei dovuto godermi questa escursione non patirla. «Sai usarla?» Chiesi insolente indicando la bussola.
 
«Certo.» Rispose sicuro, mentre sembrava la tenesse tra le mani come una pietra piatta da lanciare e da far saltare in acqua. «Perché dovrei essere così incapace da non saper usare una bussola?»
 
Cercai di esprimermi nel modo più gentile possibile. «N-non mi fido.» Balbettai. Accidenti. Odiavo balbettare, era una cosa che mi portavo dietro fin da piccola e che non mi ero mai scrollata di dosso, ogni volta che cercavo di sfidare la timidezza la mia lingua diventava stretta sua alleata.
 
Mi era già capitato di balbettare parlando con lui, e molte volte in un modo o nell’altro me lo aveva fatto notare. Ma parve non notarlo, o almeno, parve semplicemente ignorarlo questa volta. Normale, chissà a quante ragazze era capitato di balbettare in sua presenza. «Wilson, devi fidarti del tuo compagno. Non è poi questo lo scopo di questa stupida escursione?»
 
La gola mi si seccò, la maglia che aveva addosso era davvero inadatta per fare campeggio. Era leggera e aveva uno scollo a V che avrebbe permesso a qualsiasi zanzara intorno ai cinquanta metri di attaccarlo senza pietà. Ma i miei occhi apprezzavano, e poi non sembrava aver ancora nessun segno di irritazione, prurito o cose così. Io ero alla sesta puntura, nel giro di un’ora e mezza. «Perché sei venuto se credi che questo campeggio sia così tanto stupido?» La sua strafottenza mi irritava.
 
Lui ne parve divertito, poi si fece sorpreso. «Allora eri tu al telefono con mia sorella, la settimana scorsa.»
 
«Ma che dici? Quando?» Giocai con l'orlo della mia maglietta, guardando altrove. Era una semplice domanda alla quale dovevo rispondere sì o no, ma non volevo ammettere che l'avevo sentito persino attraverso al telefono quasi imprecare per una stupida lavatrice, e che avevo anche riso per quello. «Fa lo stesso.» Mi affrettai ad aggiungere per cercar di chiuderla lì. Il suo sorriso si allargò. Ero nervosa e lui lo sapeva. Lo poteva sentire, maledizione.
 
Decisi che da quel momento non avrei osato dire altro, e lo seguii facendolo capitanare, punendomi mentalmente per aver anche solo voluto sfidare il contatto visivo. Avevo già superato da un pezzo quella fase che mi faceva negare la sua bellezza. Era così bello, William era davvero un bel ragazzo. Non riuscivo a distinguermi dal pensiero di tutte le altre ragazze che lo idolatravano. Solo che io, ecco, non lo idolatravo, cercare di trattarlo male o ignorarlo era ciò che mi riusciva meglio.
 
«Con Lucas com’è finita?» Disse più tardi.
 
«Avevi finito le tue domande di riserva?» Gli risposi, stranamente sorridendo. Non che la mia risposta fosse qualcosa di speciale o di estremo sarcasmo, ma potei sentire il mio cuore perdere un battito come la dissi. Non era nemmeno ironica o incredibilmente originale, ma comunque gli avevo parlato senza sentirmi intimidita. In qualche modo dopo la sera della partita mi ero trasformata in una gelatina, mi sentivo adesso con lui come mi ero sempre sentita con tutti gli altri ragazzi che ritenevo estremamente carini.
 
Ridacchiò. «Più o meno.» E poi c’era in sospeso la questione dei numeri pari/dispari, ero mortalmente offesa di questo, e dovevo ricordarmi che non dovevo esserlo solo con Lucas. «Cosa?» Continuò, quando vide che ero soprappensiero.
 
Cosa avrei dovuto fare? Alla fine non è che potessi dirgli chissà cosa, ero completamente d’accordo con Madison, ma non sapevo come ben appellarmi. «Lascia perdere.»
 
Abbassai lo sguardo, indecisa se lasciar perdere davvero o dirgli qualcosa di cattivo al riguardo. Avrebbe funzionato, probabilmente sarei giunta ad una conclusione azzardata, giusta, sbagliata che so, nella mia mente, se solo non avessi sbattuto … «Auuch!» … contro un albero.
 
William scoppiò in lacrime dalle risate, cioè non proprio concretamente, non pianse davvero. Si fa solo per dire.  Mi voltai per puro spirito di autolesionismo, per vederlo coprirsi il viso per il troppo divertimento. Che vergogna. «Ti avevo già detto che sei un soggetto interessante da osservare?» Disse quando finalmente riuscii a guardarmi in faccia.
 
Mi sfregai la fronte, cioè il punto dove avevo incassato la botta. Adesso mi faceva un gran male, ma non era nemmeno la prima volta che sbattevo la fronte contro qualcosa, quindi sapevo bene che nel giro di dieci minuti o un quarto d’ora mi sarebbe passato. «Non è normale.»
 
«Cosa? Che io mi diverta osservandoti?» Senza che me ne accorgessi me lo ritrovai davanti, e in una frazione di secondo aveva già afferrato il mio volto con entrambi le mani per alzarlo verso l’alto. Inizialmente pensai che lo avesse fatto per ottenere una maggiore mia attenzione - oddio voleva baciarmi? Cosa avrei dovuto fare? Perché così improvvisamente?
Poi invece realizzai che stava semplicemente osservando la fronte e cosa mi ero fatta. Probabilmente  era uscito fuori un grosso livido su di essa, e la sua improvvisa serietà me lo confermò.
 
I nostri visi distavano tra di loro di soli pochi centimetri, stavo godendo di una visuale migliore delle sue iridi - mamma mia che ciglia lunghe, e delle sue labbra, la parte inferiore più carnosa dell’alt- aspetta dove sono finite le sue labbra?
 
Non capii come. Non ricordai nemmeno se avesse detto qualcosa prima. Ero in trance. Sembrava tutto sfocato e, di colpo, sentii la mia fronte sfiorata da qualcosa di mormido, poi caldo, e lento. Ecco dov’erano finite le sue labbra.
 
Il mio cuore accelerò, sapete era facile per chiunque sparlare di William Henderson, o rifiutarlo a parole da molti metri lontano, magari da casa, ma non lo era affatto quando lo si aveva a poca distanza. Mi ritrassi con delicatezza, annotando mentalmente di lodarmi per esser riuscita a farlo anche in modo astuto. Ma fu la parte stupida a parlare. Prima che potessi fermarmi, sbottai. «Non hai altre ragazze da scocciare? Fai così con tutte?»
 
«Beh, delle ragazze di cui ho a che fare conosco solo la parte superficiale.» Comparve quel sorriso malizioso sul suo volto.
 
Quanto gliel'avrei voluto togliere a forza di schiaffi. «Appunto, credo che ci siano esseri umani più interessanti di me, anche secondo i tuoi interessi e i tuoi scopi.»
 
Incrociò le braccia la petto senza smettere di fissarmi senza cambiare espressione. «Sta tranquilla Wilson, se avessi voluto metterti sotto l’avrei già fatto senza girarci intorno.» Aggrottai le sopracciglia, confusa.
 
Mettermi sotto cosa?
 
«Sai, di solito vado dritto al punto, come Lucas e Madison. Anche se però loro fanno spesso questo strano tira e molla che fa tanto parlare la gente. Secondo me perdono solo tempo, far finta di essere fidanzati, far finta di lasciarsi, far finta di tutto tranne che di scopare. Sono come una costante, instabile voragine… Se solo ci mettessero un po’ più di impegno potrebbero colpire tutti in una grande, grandissima orgia.»
 
Ma che diamine aveva detto? Credetti stesse tipo delirando, orgia?
 
«Dovresti unirti.» Provai a seguirlo, anche se sentire quei due nomi mi aveva fatto venire un nodo alla gola.
 
«Sembri scocciata.»
 
Scioccata.
 
«Sì, se si fossero presentati a quest'ora noi due non saremmo stati compagni.» Suonò maligno, ma ero veramente arrabbiata con Madison. Non capivo se perché era scappata con Lucas dopo tutto quello che mi aveva detto solo una settimana prima, o perché mi aveva lasciato in un divertentissimo gioco di sopravvivenza con William.
 
«Io sarei stato in coppia con Madison.» Parve ricordarselo solo ora, come se non ci avesse davvero riflettuto. Certo, come avrebbe potuto mentre era impegnato a declinare tutte le richieste da parte di tutte le sue spasimanti? Sanguisughe.
 
«Avresti potuto scocciare lei.» Sbeffeggiai.
 
«Avrebbe potuto scopare te.» Sempre la risposta pronta lui eh?
 
Parlare, sentire o comunque la presenza di Lucas attorno o addirittura in alcuni discorsi sapeva irritarmi parecchio. Non ero stata nemmeno io a baciarlo, avevo avuto la capacità di accorgermi quanto stupido fosse, insieme al suo compare William, credo in tempo e prima che potessi innamorarmi o cose così precocemente. Di solito cupido con me non aspettava molto tempo, ci rimanevo secca fin da praticamente subito, ed era tanto strano che non ero ancora arrivata a strapparmi i capelli per lui.
 
Divenni tutta rossa in viso, l’allusione a qualsiasi cosa di perverso che riguardasse me insieme ad un qualsiasi altro ragazzo mi metteva a disagio. «Come se glielo avessi permesso.» Che poi non mi sentivo la tipica ragazza da poter violentare, credevo piuttosto che persino gli stupratori avrebbero girato l’angolo con me. Desideravo avere l’autostima di tutte quelle ragazze che decidevano spesso di rimanere a casa o di non uscire con qualche ragazzo per paura di essere stuprate. Ad avercelo un appuntamento con qualcuno, io.
 
William mi osservava in silenzio, ci eravamo fermati e non aveva intenzione di ripartire. «Senti, se vuoi puoi metterti le cuffie, ascoltare la musica, e… Ancora, perché sei venuto?» Esasperai. I miei occhi si spalancarono poco dopo. Come potevo essere stata così stupida? Se avesse deciso di avvicinarsi e tirarmi uno schiaffo, non l'avrei biasimato. Ero stata così ineducata.
 
Sperai che come al suo solito sorridesse, non prendendosela a male. «Mi stai dando dello scansafatiche?» Si fece mortalmente serio.
 
Guardai altrove. In cosa mi ero cacciata? Perché avrei dovuto dire qualcosa di simile? «N-no ho solo detto che- »
 
«-Credi che sia uno scansafatiche?» Ripeté con tono sempre più brusco.
 
Trattenni il respiro, sperando che se l'avessi trattenuto per abbastanza tempo, mi sarei svegliata da qualsiasi altra parte. Da arrabbiato mi faceva paura. «Io non… Dammi la bussola!» Me ne uscii, cercando di assumere una posizione.
 
«Pessima scelta Charlie, Pessima.» 
 
D’altronde stavo battibeccando con un quarterback, quindi un leader, un massimo esponente, un re.
 
«Non te la darò.» Fece quasi una faccia schifata e riposò con poca delicatezza la bussola nelle tasche dei suoi pantaloni.
 
‘Ok, ci siamo’ pensai. Mamma, papà vi ho sempre voluto bene - oddio proprio sempre sempre no.
 
Si avvicinò di nuovo molto pericolosamente a me. «Rispondimi.» Non sembrava aver  la faccia di uno che mi avrebbe baciato la fronte una seconda volta.
 
Indietreggiai contemporaneamente. «No.» Risposi invece ferma, mentre potevo notare la sua espressione cambiare notevolmente, in peggio.
 
Mi ero affidata ad un’ovvia logica, più avessi indietreggiato più sarei riuscita a scappare da lui. Beh, che logica di merda, dietro di me c’era un ennesimo albero. Non potevo essere così sfortunata, se non per opera del karma. Era pur vero che eravamo in mezzo ad un bosco, cosa speravo di trovarci? Caramelle? Come in California Girl di Katy Perry? Ma purtroppo niente California, niente spiaggia e niente mare per Charlie.
 
«Perché sarei uno scansafatiche?» Le sue parole si scagliarono contro me e contro il tronco dell’albero che mi stava reggendo. Perché noi due finivamo sempre in queste posizioni? Stava diventando un’abitudine, un classico.
 
Decisi allora di arrendermi ma di sfruttare il momento e morire con dignità. «Non hai neanche lo zaino.»
 
«Non ne ho bisogno. Wilson. Perché sarei uno scansafatiche?» Perché mi sentivo quasi elettrizzata dalla paura di rimetterci le penne? La risposta stava nei suoi occhi fissi suoi miei, e i miei fissi sui suoi. Non ero ancora mai riuscita a mantenere un contatto visivo con lui così a lungo prima d’ora. La presi come sfida, e avrei preso io il voto più alto.
 
E come volevasi dimostrare, un A+ per Charlotte Wilson. William cedette e perse nel momento in cui spostò lo sguardo, dandomi il tempo di divincolarmi e di uscire dalla scomoda posizione. «E’ da un pezzo che giriamo intorno inutilmente. Sei sicuro che sia ben regolata?» Dissi allontanandomi di qualche passo d lui senza osare guardarlo, cercando di non sembrare tanto soddisfatta ma nemmeno tanto scontenta da non sentirmi più stranamente elettrizzata come pochi secondi fa.
 
Aspettai qualche secondo prima di ricevere una risposta. «Certo.» Affermò con voce disinteressata.
 
«Vabbè dammela, so usarla meglio.»  Mi voltai di scatto, la bussola per me era come la pagella di fine anno in quel momento. O come il suo trofeo d’oro dopo la super finale di rugby.
 
«Io allora so usarla ancora meglio...  Sono andato in campeggio anche l'anno scorso, sai?» Avrei riso se non lo avessi avuto davanti. Mi aveva ricordato Juno quando da piccole avevamo litigato per chi dovesse montare sulla bicicletta. Lei era più esperta, io andavo ancora su quella con le rotelle.
 
«Sei andato in campeggio anche l'anno scorso?» Innalzai un sopracciglio scettica.
 
Sorrise. «Sì... Ma il gruppo era migliore.»






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Capitolo 20
*** twenty ***


20


Charlotte Wilson

Il sole era alto in cielo, si intravedeva dagl’alti, fitti alberi slanciati come grattacieli di Manhattan, e nonostante sapessi che l’inverno fosse alle porte, mi stupii di quanto cominciasse a far freddo, era sicuramente diverso dall’inverno Australiano. «Credo che noi non abbiamo ancora, sì insomma parlato di... Sai di quella cosa di Lucas la sera della partita.» Mi morsi l’interno della guancia, pentendomi quasi subito di ciò che avevo detto pur di sbloccare il silenzio che si era creato tra noi due in seguito al suo mirato scherno. «Probabilmente se tu non avessi fatto in modo che io vedessi quel... Ci sono molte cose che non capisco in realtà, specialmente il perché tu l’abbia fatto.»
 
«Tranquilla, non accadrà di nuovo. Volevo solo farti un favore, spingi i freni.» Quasi mi strangolai con la mia stessa saliva appena lo disse, non mi aveva nemmeno degnato di uno sguardo, e per come realmente era sembrato, la cosa doveva sicuramente averlo annoiato ancora di più. Io lo annoiavo. Dovevo esser apparsa così disperata, o comunque qualcosa del genere. Perché avevo appena chiesto di Lucas?
 
«Stupida Charlie, stupida.»
 
«Non è assolutamente quello che volevo intendere…» Avvampai, con questo dovevo esser apparita doppiamente disperata. «…Io-»
 
Alzò lo sguardo dalla bussola, facendo trasparire un’espressione arrogante. «-Cosa Wilson?»
 
Perché diavolo stavo continuando a parlare? William s’era fatto d’un tratto così strano, ma di certo la colpa doveva esser mia, dopotutto non era mica abituato a stare in compagnia di tipe come me. E viceversa. «L-lascia perdere.» Mi sembrava quasi di sentirmi in colpa, dato che avevo appena dato il via libera ad un suo lato acido e scontroso che fino ad ora non avevo avuto modo di conoscere. O forse avevo scelto il momento peggiore per poterne parlarne, o sempre ancora forse, non c’era davvero un momento adatto per parlarne, non c’era affatto.
 
Anche se mi era parso di aver ricevuto un incipit di conversazione ad inizio escursione, come mi ero potuta illudere di intraprendere una discussione sensata con William Henderson? Era già qualcosa che mi riusciva difficile con praticamente chiunque, a parte con la mia famiglia e Juno. Con lei poi diventavo tutt’altra persona, mi sentivo sempre così a mio agio da poter parlare senza dover sentirmi arrossire, balbettare o mancare la saliva.
 
Doveva esser passato qualche minuto prima che potessi accorgermi che qualcosa non andava, e che quel qualcosa non ero io. «Cosa stai facendo con quella bussola?» Non mi importò al momento quanto preoccupata potevo esser sembrata con il mio tono di voce.
 
Si strofinò una mano sulla nuca, distogliendo lo sguardo per un secondo. «Uhm, nulla.» Pessima recitazione.
 
«Oh si certo, che sta succedendo William?» Spontaneamente mi gettai su di lui,  nel tentativo di afferrare dalle sue mani quella bussola. Potrei anche aver pestato un suo piede senza accorgermene. Sempre così goffa.
 
Lui si divincolò facilmente, io dovevo averlo aiutato nel ritrarmi di conseguenza. «Ho detto nulla. Chiudi quella bocca.» Agitò la mano scansandomi, i miei occhi si spalancarono.
 
Chiudi quella bocca. Chiudi quella bocca. Chiudi quella bocca.
 
Con il volto rosso nemmeno paragonabile al diavolo in persona, il vapore praticamente mi uscii dalle orecchie. Fu come se le emozioni verso William stessero crescendo. Ma non era nulla di sentimentale. Potevo sentirle costruirsi, come se fossi la superfice di un terreno, ed un edificio di mattoni si stesse edificando con il passare del tempo sopra di me. Non riuscii più a contenermi. Lo spinsi con le mani, applicando insieme a tutta la rabbia anche tutta la forza che avevo in corpo. Non dovevo averne abbastanza però per non esser riuscita a gettarlo a terra come la mia mente, ormai offuscata, mi aveva portato per un qualche secondo a desiderare.
 
Non ricordai molto di quello che successe, dopo averlo fatto. Non ricordai nemmeno se avesse detto qualcosa in risposta o addirittura in che posto mi stessi dirigendo. Attraverso la mandibola serrata, le parole strisciarono fra i miei denti. «Fottuto stronzo!»
 
Ero in trance. Sembrava tutto sfocato e, di colpo, mi ritrovai davanti a dei grossi massi bagnati da un piccolo lago, nel quale a sua volta si gettava un imponente cascata. Non riuscii a capacitarmi del tempo trascorso, dopo quei precedenti attimi in cui ero scoppiata sicura di me, avevo realizzato ciò che avevo fatto e che c’era un’ampia possibilità che lui mi avesse sentito.
 
Mi voltai e poi mi guardai attorno. Ero sola, decisamente sola. Non mi aveva rincorso romanticamente nel tentativo di fermarmi, come succedeva sempre nei film che guardavo. Non c’era alcuna sua traccia, e capii che forse era passato più di qualche attimo, secondo, minuto. Ma tutto ciò su cui mi soffermai pensare non si limitava al dubbio dell’avermi sentito, rincorso oppure no. Mi ero comportata così male che non mi capacitavo nemmeno di come fossi riuscita a farlo. Non mi riconobbi più. Ero stata così furiosa che adesso non riuscivo più ad esserlo.
 
Forse a calmarmi era stata proprio la vista di quella cascata, il suono dell'acqua crollare, il paesaggio verdeggiante circostante, il profumo della acqua stagnante e la sensazione di cadere da un momento all’altro de quel masso su cui mi ero seduta. Aveva avuto modo di calmarmi, anche  se la forza della stessa cascata che sprigionava, la rendeva simile a qualcosa di sereno e allegro - ciò che non ero in quel momento. Incrociai i piedi e guardai le scarpe bianche sporche di terra. Le tolsi, tolsi anche i calzini. Non avrei dovuto neanche portarle da casa.

«La cascata di Kobarid.» Per pochi secondi ebbi l’impressione di morire d’infarto o cadendo dal grande masso per lo spavento nell’udire una voce sconosciuta, tra il cinguettare degli uccelli e il ronzio delle zanzare. 

Mi voltai accertandomi di chi si fosse, anche se non ce ne era realmente di bisogno. «Mi stupisce che tu abbia letto il dépliant.» C’era molta cattiveria in questa frase, ma doveva esser suonata così serena tanto quanto il tono di voce che avevo usato. Non riuscii a guardarlo a lungo, ripresi a fare ciò che stavo facendo, ovvero guardare la cascata cercando di godermela.

Lui trovò un modo per sedersi accanto a me. «C’è scritto lì.» Seguii con lo sguardo il punto che mi aveva indicato. Il nome della cascata era inciso in un cartello segnaletico in legno qualche metro lontano da noi. Ripresi comunque ad ignorarlo nei secondi successivi, mentre potevo sentire il suo sguardo su di me, in cerca forse della mia attenzione.

Seppe in parte guadagnarsela, quando mi porse accanto quella stessa bussola che era riuscita a rivelare il peggio di me. Potetti notare le vene leggermente rialzate del suo braccio teso con il quale la protendeva verso di me. La rifiutai, glielo feci capire voltando il capo dall’altra parte.

Aspettò qualche secondo accertandosi della mia decisione, e poi con la coda dell’occhio lo vidi lanciarla verso l’acqua del piccolo lago. Strabuzzai gli occhi a quel gesto, lui reagì ignorandomi come avevo fatto io con lui fin ora. «Deve essersi smagnetizzata tre ore fa mettendola, anche se per pochi minuti, dentro la tasca dei pantaloni.» Spiegò più tardi senza che glielo chiedessi.

«Scusa, tre ore fa?» Ero seriamente arrabbiata adesso, avevo già capito da tempo che al suo comportamento così inappropriato corrispondeva un motivo più che logico. Come aveva potuto non dirmelo subito?

Approfittò della mia attenzione per continuare a parlare. «Già. Questo non vuol dire che non sono capace di usarne una. Solo incapace a mantenerla funzionante.»

«Mi stai dicendo che mi hai guidato per tre ore con una bussola non funzionante?»

Non aspettò nemmeno che finissi la frase. «In realtà due. E’ da un ora che ti cerco, sapresti come scomparire se qualche stalker ti venisse dietro.» E così era passata proprio un’ora?

Provai d’un tratto così tanta vergogna per ciò che avevo fatto. Non era assolutamente quello che mia madre durante questi quindici anni mi aveva insegnato. L’avevo spinto, l’avevo insultato e mi ero allontanata da lui così sgarbatamente da far in modo addirittura che mi potesse perdere di vista. «Senti, qualsiasi cosa ti abbia offeso… Non farlo mai più. Mi sono preoccupato.» Il suo tono di voce un po’ meno distante mi aveva fatto capire che c’era della sincerità in ciò che aveva detto.

Sentii i miei occhi umidificarsi e le guance accaldarsi. «Preoccupato?» Nascosi il mio viso portando davanti alcune ciocche di capelli.

«Sembravi una specie di pazza.» Ridacchiò. «Non è qualcosa che ti aspetti da una che sta sembra stare sempre zitta e ferma al suo posto.» Effettivamente non mi era mai capitato di reagire così esageratamente per qualcosa. Probabilmente non si era reso conto di cosa realmente mi aveva portato ad impazzire.

«N-non ti sei comportato bene nemmeno tu. La mia è stata solo una reazione, ecco tutto.» Balbettai rannicchiandomi sulle ginocchia sempre più.

«Sembravi una fottuta ‘so tutto io’ che voleva avere il controllo su praticamente tutto, ero nervoso mi hai fatto sentire come se dovessi dimostrarti qualcosa che non c’era bisogno di dimostrarti.» Capii che non si sarebbe mai scusato per ciò che mi aveva detto. Era così difficile per lui farlo? Susseguirono minuti di silenzio, non avevo né la capacità né la voglia di controbattere al fine di farglielo notare, finalmente però anche lui aveva notato la bellezza di quella cascata e cominciò a fissarla. «Arrivati a casa, se ci arriviamo, prometto che ti comprerò una bussola. Tutta per te. Diventerai la ragazza più felice della terra.» Disse senza distogliere lo sguardo.

Arrossii senza controllo nel voltarmi e notare i suoi occhi immersi nell’azzurro dell’acqua pura della cascata, avevano una forma dolce, sembravano essere due fessure perfette e armoniose, incorniciate da ciglia lunghe e scure. I lineamenti erano morbidi, delicati e nobili. La sua pelle sembrava non avere pori, diafana e perfetta. Vellutata, sembrava emanare luce. Il naso dritto ed elegante, gli zigomi alti, le guance asciutte. La sua bellezza era disarmante. «Non mi servirebbe. Neanche io so usarla.»

«Cosa? Scusa ripetilo.» Si girò di colpo meravigliandosi, ma non aspettò che lo ripetessi davvero. «Uno, io non ho detto di non saperla usare a differenza di quello che stai dicendo tu ora. Secondo, sei veramente una grande bugiarda! Ti meriti qualcosa di veramente cattivo.» Non avevo mai preso in considerazione fino ad ora la possibilità di poterglielo rivelare, ma era stata la mia bocca a parlare e decidere per conto suo senza consultarmi.

Per cercare di farla tacere, estrassi dal mio zaino una bottiglietta d’acqua, appoggiai le labbra sulla fessura e ne bevvi un sorso. «Credo che tu abbia detto abbastanza di cattivo per oggi.» Dissi prima di riprendere nuovamente a bere. Lui non sembrava togliermi gli occhi di dosso. Con la coda dell’occhio potevo percepire del desiderio in essi. Il mio corpo reagì subito accaldandosi, una sensazione febbricitante si irradiò in ogni mia cellula. Ma non potevo realmente pensare che avesse stampato quello sguardo per via della mia figura. «William siamo in una riserva non in un deserto. S-se hai sete puoi anche chiedermene un goccio.» Dissi imbarazzandomi, prima di mettere il tappo alla bottiglia. Doveva avere sicuramente molta sete.

Distolse lo sguardo da me velocemente, si passò una mano tra i capelli mettendo ben in vista le sue dita affusolate. Mi sembrò d’un tratto imbarazzato. Avrei dovuto dargli la bottiglietta direttamente senza aspettare che me la chiedesse? «Non credo basti per un bagno.» Si voltò poi, disegnando sul suo volto un sorriso sghembo. I suoi occhi adesso parlavano di altro, mi venne in mente la disgraziata idea che a breve avrebbe potuto suggerirmi qualcosa di veramente assurdo. Un bagno? C’eravamo persi, perché sì, c’eravamo persi, e a lui quale idea geniale per uscire da questa situazione veniva in mente?

Non ebbi il tempo di controbattere, o di realizzare davvero cosa intendesse con quell’affermazione, che lui era già sceso dal masso e si era incamminato verso la riva del laghetto. «L’igiene prima di tutto, no?»

«William sei matto? C’è un tale freddo!» Urlai da lontano. Quel ragazzo doveva avere qualche problema serio legato al cervello. Solo guardarlo togliersi la giacca e vederlo rimanere dapprima in maglietta a maniche corte e poi completamente a torso nudo, mi era venuta una terribile pelle d’oca. Avevo già avuto l’occasione di vedere il suo corpo asciutto e atletico scoperto solo da alcuni indumenti, ma c’era una gran differenza da vederlo ora con solo addosso un baio di boxer. Cosa avevo davvero meritato per vedere ciò? Sapevo di essere un bersaglio facile per il karma, ma raramente mi aveva ripagato con così tanta gratitudine.

Mi riscossi dall'osservarlo quando compresi che da un momento all’altro si sarebbe immerso nell’acqua gelida del lago. «William!» Urlai ancora il suo nome, contro la grande parete della cascata, contro gl’imponenti tronchi di alberi e contro un corpo semi nudo di un ragazzo eccessivamente gettonato tra i miei coetanei. Nessuno c’avrebbe creduto, nemmeno me stessa una volta uscita dalla riserva, potevo sentire la vocina di Juno dentro la mia testa ridere maliziosamente. Io non ero come lei, tutto ciò che stavo vedendo mi imbarazzava parecchio, avevo avuto l’istinto di coprirmi il viso con le mani, i fiori rossi d’ibisco stampati sul tessuto del mio zaino non erano paragonabili al rossore che avevo io colorato in viso. Aveva persino le mutande firmate.

«Come scusa?» Così sovraumano da poter sentire ciò che pensavo?

Il mio treno dei pensieri era arrivato al capolinea. «C-cosa?» Si voltò e si incamminò verso di me, una vampata di calore sopraggiunse e percorse tutto il mio corpo, alla vista del suo. Avevo visto così tanti ragazzi in costume tra le spiagge Australiane, ben palestrati e muscolosi. Perché adesso stavo avendo questa esagerata reazione? «Non ti avvicinare!» Indietreggiai da seduta, e rischiai stavolta davvero di cadere e rompermi la testa in due.

«Cos’è quel rossore Wilson? Non hai mai visto nessun uomo in mutande? Nemmeno tuo padre?» Era così vicino, ero così fottuta. Sapeva bene come intimidire una ragazza, sapeva farlo sufficientemente già solo con lo sguardo. Indossava dei boxer grigio scuro, mi proibii di guardare in basso, sarebbe stato imbarazzare venire colta in flagrante nel guardare lì sotto.

«Senti fa come vuoi, fatti questo dannato bagno e ripartiamo.» Mi alzai dal grande masso, prima di cedergli, raccolsi le mie scarpe insieme ai calzini e a piedi nudi tra gli altri massi mi allontanai di qualche metro.

«Non sai cosa ti perdi!» Rimbeccò William. Mi voltai cercando di nascondere il viso paonazzo. Odiavo essere un adolescente, un fottuta adolescente con dei fottuti scatenati ormoni. Non era qualcosa che facilmente accettavo, e William stava rendendo questo particolarmente difficile.

Non conoscevo bene William, ma ciò di cui ero sicura era il suo poco buon senso. Non potevo permettere che si prendesse un malanno, sarebbe davvero imbarazzante se lui prendesse malattie come la febbre o la broncopolmonite, pensai, tutti avrebbero da dire qualcosa del tipo “ Sua madre è un’infermiera, certe cose dovrebbe insegnargliele, ha fatto in modo che a William succedesse questo senza riuscire a farlo ragionare” o cose così. Ma anche la madre di William era un’infermiera, quindi a meno che la stessa fosse un’incompetente, il quarterback non aveva di certo alcuna scusa – era sconsiderato di suo.

Lasciai le scarpe a terra, estrassi dallo zaino un asciugamano che avevo messo dentro per qualsiasi emergenza, e mi avvicinai alla riva, superando i grandi massi e notando che William era già dentro l’acqua. «E’ calda.» Sogghignò. «Vieni?»

«No.» Mi sedetti con l’asciugamano in mano, cercando di non apparire tanto ridicola. William sorrise di gusto quando capì che probabilmente ero in apprensione.

«Dai, vieni?» Disse, simulando un labbruccio, che in breve sfociò per mia disgrazia in un largo sorriso.

«N-non capisco perché ti stai azzardando a chiedermelo per la seconda volta.» Mai mi ero applicata così tanto per cercare di non guardare verso una persona. Insomma, mi riusciva sempre così naturale, dire di ‘no’ non era mai stato così difficile in vita mia fino a quel momento.

«Allora?»

«Ti ho detto di no.» Ripetei con fermezza.

Ma lui non parve accettare la mia decisione. «Ti devo spogliare io?» Strabuzzai gli occhi e gli prestai attenzione, aveva fatto qualche passo verso la riva.

«Ti ho detto di starmi lontano! Prova ad avvicinarti e ti ammazzo.» Strillai senza pensarci, ero così agitata. Mollai e feci cadere accanto a me l’asciugamano. Era stata una pessima idea ritornare.

«Con cosa?» Potevo vedere il suo corpo atletico bagnato avvicinarsi, chissà quanto si allenava per mantenersi così in forma.

Feci vagare le mani nel terreno. «Con.. questa.. pietra.» Cercai di minacciarlo afferrandone una ma sempre tentando di non deconcentrarmi. Era ormai praticamente impossibile muoversi per allontanarsi.
Lui osservò la pietra che avevo in mano, poi scettico inarcò un sopracciglio. «Uhm. Credo di poter resistere al colpo.» Senza avere il tempo nemmeno di evitarlo, lui si precipitò verso me e agilmente era riuscito ad afferrarmi e a caricarmi su una spalla come un sacco della spazzatura.

«Ti sei appena paragonata a qualcosa di sudicio e puzzolente Charlie, sei arrivata decisamente sul fondo del pozzo della tua autostima.»
 
«William!» Cercai di divincolarmi e di scendere, ma il modo in cui le sue mani mi avevano immobilizzato mi impediva di ribellarmi, guardai la mia immagine storpia riflessa sull’acqua a testa in giù con aria estremamente contrariata, e la profondità del lago aumentare mentre venivo trainata vicino la cascata. William rideva così tanto che al contatto potevo sentire il suo torace muoversi su e giù.
 
«Sai, potresti puzzare più avanti, non penso scatteremo presto queste foto.» Me ne ero completamente dimenticata. La cascata era una di quelle cose segnate sulla lista da dover fotografare, ma ben poco me ne importava al momento, nel giro di pochi istanti sarei precipitata sul l’acqua ghiacciata. «Non mi piacciono le ragazze che mi contraddicono.» Disse estremamente serio, mentre provavo a scongiurarlo di lasciarmi andare e di riportarmi alla riva.
 
«A me non piaci tu.» Contestai, l’odio che stavo provando per lui in quel momento aveva superato di gran lunga l’avversione imperitura per quell’oca di Tesy McDonalds della mia vecchia scuola.
 
«Non avresti dovuto dirlo.» D’un tratto senza scrupoli mi gettò, come aveva già ben progettato da qualche minuto, nel gelo di quell’acqua pura.
 
In pochi secondi rivenni a galla. Stropicciai gli occhi e gettai uno stritolio istintivo. «Che narcisista.»
 
«No, non avresti dovuto dire un’altra bugia.» Rettificò, dopo essersi goduto la scena. Ero così infreddolita. Mi mostrai mortalmente offesa, le mie gambe non ce l’avrebbero fatta a lungo lì dentro. Scansai William e a passo lento presi la strada verso la riva, presi in mano i miei capelli e li strizzai un poco, metà del mio corpo era già venuto in contatto con l’aria fredda, cominciai a tremare. «Sono cuori quelle cosine rosa stampate sulle mutandine?» Ridacchiò alle mie spalle.
 
«Sta zitto!»






Calò il sole, e con il sole, anche la nostra possibilità di raggiungere per primi l’arrivo. Ci classificammo per ultimi, come volevasi dimostrare. Le uniche due foto che eravamo riusciti a scattare erano state quella della cascata di Kobarid e quella dell’albero centenario, che avevamo trovato per caso inciampando uno di seguito all’altro nell’enorme radice, nella via del ritorno - anche quella scovata per caso. In poche parole, eravamo stati fortunati, nei peggiori dei casi ci sarebbero potuti venire a cercare, e allora la cosa sarebbe diventata estremamente imbarazzante. Era già stato sufficiente subirsi le indescrivibili espressioni dei nostri coetanei, nel momento preciso in cui io e William eravamo giunti al campus tutti fradici e bagnati.
 
Mi ci era voluta un’ora intera per togliermi dalla testa l’immagine dei volti sconcertati di Jasmine e degli altri membri dello staff, che non si erano contenuti dal darci una punizione. Per cosa poi? Ero già stata punita abbastanza per essermi avventurata in una scadente escursione con William Henderson.
 
Rossella aveva avuto da lamentarsi della ragazza che aveva vinto insieme a Derek Foster l’escursione, ma almeno questo le dimostrava che di sicuro non si erano permessi nessuna sosta lungo il tragitto. Tipo per pomiciare o soddisfarsi a vicenda. Così la pensava Madison, che non aveva avuto il coraggio di far voce alla questione della sua misteriosa scomparsa con Lucas Sanders. Intanto lei si era salvaguardata dal beccarsi la stessa punizione che avevano dato a me e al quarterback e che avrebbero potuto dare anche a lei e al biondo californiano, inventandosi una scusa così scadente che nessuna testa vuota avrebbe mai potuto cascarci. Ma certo, c’era da comprenderla Jasmine, che era stata troppo occupata a flirtare con il suo capo piuttosto che per occuparsi dei fuggitivi piccioncini.
 
Leila invece si era classificata quinta insieme al suo compagno, o sesta. Non si era capito in realtà, ma era così contenta, entrambi erano stati precedentemente compagni d’asilo ed erano riusciti a scoprirlo parlando - qualcosa che come a me anche a Leila veniva difficile.
 
Tutti si sarebbero divertiti al falò di stasera, abbrustolendo marshmallow davanti al fuoco. Chissà, magari Lucas e Madison non si sarebbero presentati, ma in percentuali certe io e William ce ne saremmo dovuti stare chiusi ognuno dentro il proprio bungalow. Che punizione originale, quasi crudele.
 
Dopo aver mangiato tutti insieme alla mensa, le ragazze erano rimaste lì per raggiungere il falò vicino la piazza,  i loro volti compassionevoli erano sinceri, mentre io e William eravamo stati accompagnati personalmente da Jasmine ai nostri bungalow. Chissà perché c’aveva messo più tempo ad accompagnare il quarterback, di sicuro si era persa nella strada di ritorno. Era comunque una serata serena, il cielo era limpido e stellato. Dalla mia camera a Brooklyn non ero ancora riuscita a vedere tutte quelle stelle. Cercai di scrutare nel cielo qualche costellazione, ma ero negata in materia, non sarei riuscita a riconoscere il piccolo carro nemmeno a due centimetri di distanza. Ipotesi che era comunque logicamente e fisicamente impossibile. Si stava così bene seduti sul portico del bungalow, mi ero permessa di prendere una boccata d’aria, e di rilassarmi con i piedi comodi sopra il tavolo in legno.
 
«Stai bene? Di questo passo ti scorticherai la pelle.» Sollevai il viso, che era rimasto a guardare un lume sopra lo stesso tavolo, sussultai quando sentii una voce provenire dalla mia sinistra fin troppo famigliare, che mi guardava giocherellare con la fiamma accesa.
 
«H-ho punture di zanzare ovunque.» Spiegai balbettando mentre ripresi istintivamente a grattarmi il braccio. Non mi sarei aspettata una tale infrazione da parte sua. Eravamo stati puniti, non potevamo uscire, e poi perché William si era conciato così bene? Avevo sempre avuto un debole per le maglie a scollo a V, proprio come quella che aveva lui sotto una giacca di lana aperta.
 
I bungalow erano tutti uno vicino all’altro, non mi sorprendeva che William fosse passato di lì, il suo doveva essere poco lontano, il sentiero che stava seguendo era quello verso la piazza, ma si avvicinò e si appoggiò con i bracci e il mento alla ringhiera del portico, scrutandomi negli occhi. Ad illuminarci era solo quel piccolo lume. «Un metodo per guarire dalle punture di zanzara è quello di farsi fare la pipì sopra di esse.» Disse serio.
 
Mi lasciai sfuggire un sorriso divertita, dovetti rettificare. «Quello è per le punture di medusa.»
 
Ma lui ci pensò comunque su, notai come si mordeva il labbro inferiore soprappensiero. «Ah, già.» Ne venne tardamente a conclusione. Sbuffò e si drizzò allontanandosi dalla ringhiera.
 
Mi scostai dallo schienale e incrociai le gambe sulla sedia. «Aspetta, come lo sai in ogni modo?» Aveva detto una cosa così assurda, ma non era pienamente falsa.
 
Lui si fermò a qualche metro dalla ringhiera, forse stupito dal mio interessamento. «Ehi, vedi che non solo voi in Australia avete il mare.» Dubitavo però che lui avesse mai visto in vita sua una medusa. O uno squalo. Non che io ne avessi mai visto uno, ma quando andavo in spiaggia venivo sempre raccomandata di star ben attenta a non andare troppo a largo. Era lì che si insediavano gli squali in Australia.
 
«Dove stai andando? Ero convinta fossimo costretti a rimanere dentro.»
 
«Mi pare che neanche tu sia dentro.» Mi stava prendendo in giro?
 
Si riavvicinò alla ringhiera. «Comunque non è stato difficile corrompere Jasmine. Mi ha dato il permesso di raggiungerli al falò.» Sul suo volto si disegnò un sorrisetto sghembo e soddisfatto.
 
Deglutii, potendo già ascoltare l’eco assordante dei battiti cardiaci nella mia testa. Che diamine di novità era ora questa? Gelosia? «Capisco. Non immagino nemmeno cosa abbia tu potuto offrirle in cambio.» Ero stata così sarcastica quanto bastava.
 
«Andiamo Charlie, si fotte praticamente tutte, cosa ti aspetti che sia? Un fottuto casto?»
 
Lui ridacchiò. «Vuoi venire?» Sputò poi d’un colpo, non lasciando che i suoi occhi si deconcentrassero da me.
 
«L’hai corrotta tu, non io. Che centro?» Avrei dovuto fare qualcosa al riguardo? Insomma, se fossi andata anche io avrei dovuto dare qualcosa in cambio a Jasmine? Ero comunque sicura che William era in grado di corrompere per due.
 
Roteò gli occhi. «Puoi stare con me, farò in modo che non ti dicano nulla, andiamo.»
 
Ci fu qualche secondo di silenzio, cominciai ad osservare un punto fisso in modo che potessi concentrami per pensarci. Potevo sentirmi i suoi occhi addosso nell’oscurità della notte. Non era mio intento farlo aspettare, solo dovevo esser sicura di cosa dover rispondere, e se accettare o meno. La cosa mi elettrizzava parecchio, non mi ero mai imbucata in un falò, o comunque non avevo mai fatto qualcosa del genere con un ragazzo. «E’ un pensiero gentile, ma… No, rimango qui, non mi va nemmeno poi così tanto.» Ridacchiai nervosamente. Mi andava eccome, ma la gente poi avrebbe parlato, preferivo starmene qui da sola che attirare l’attenzione, William era una specie di star famosa, dove c’era lui ronzavano altre cinquecento persone attorno. E a me non piacevano tutte quelle attenzioni,  le odiavo.
 
«Perché? Insomma immaginavo fossi una tipa casa e chiesa, restia alla mondanità, ritrosa. Ma non fino a questo punto.» Abbassò lo sguardo verso la tasca dei suoi pantaloni, estrasse un pacchetto di sigarette e ne rimosse una con i denti e le labbra invece che con le dita, per poi riposarlo. Si controllò anche le altre tasche, poi gettò gli occhi al cielo imprecando. «No, diamine! Hai un accendino?» Disse quasi disperato. Mi corrucciai, scossi vagamente il capo. «Come non detto, domanda stupida.» Ci era arrivato. Prima o poi avrei dovuto fargli presente quanto mi infastidiva l’odore del tabacco, ma questo implicava sottopormi ad una discussione seria con lui, ero abbastanza convinta che William fosse capace di sostenere abilmente un qualsiasi dibattito, e che nonostante le mie conoscenze avrei perso miseramente - quindi rimandare era la cosa migliore al momento.
 
Gli si illuminò lo sguardo guardando verso il tavolo, salì le scale del portico e si avvicinò al piccolo lume, portò la fiamma sulla punta della sigaretta, e aspirò solo un paio di volte con forza per accenderla. Ne ero meravigliata. Doveva essere facile come bere dalla cannuccia un frappè al cocco. «Che c’è?» Sogghignò con la sigaretta tra le labbra e si sedette nella sedia di fronte a me. Qual era il modo più carino per potergli tenere presente che la struttura e i mobili dell’intero bungalow erano in legno? Era una zona altamente incendiabile, anche lui lo era, diamine dovevo smetterla di fissarlo come un ebete.
 
«I-io non ho.. uhm, detto nulla.» Balbettai. Cazzo. C’era così silenzio intorno che William non poteva non essersene accorto.
 
Gettò via il fumo dalle labbra e mi guardò intensamente, sporgendosi per avanti i suoi gomiti toccarono le ginocchia. «Ascoltami. Prima di dire qualsiasi cosa, fai un respiro profondo, conta fino a tre. Poi rilassati, e dilla.» I suoi occhi mi paralizzarono.
 
«Mi hai preso per… Una minorata di cervello?» Mi impermalii. Lui ne era chiaramente a corrente di questo mio difetto, ma a me imbarazzava così tanto, perché non potevo scegliermi le persone con cui balbettare? Sarebbe stato tutto più semplice.
 
Lui ridacchiò. Probabilmente riguardo  al “minorata di cervello”, e se davvero era così, effettivamente non potevo dargli torto. Non sapevo nemmeno di conoscere quell’ insulto prima di sentirlo uscire dalla mie labbra. «No assolutamente, tu solo… Fallo.»
 
Voltai il capo dall’altra parte per poi sentirmi arrossire in viso. «È così imbarazzante.» Mi imbronciai. Non poteva ignorarlo semplicemente? L’aveva fatto chiunque fino ad ora, era da quindici anni che andava avanti questa storia, di certo lui non sarebbe riuscito a cambiare le cose proprio adesso.
 
Cercò di attirare la mia attenzione seguendo i movimenti del mio viso, con la sigaretta in mano ed il tabacco che bruciava da solo per la maggior parte del tempo. «Ti prego, fallo.» Mi scongiurò per più volte. Perché ci teneva tanto? Si divertiva vedermi imbarazzata?
 
Feci quello che mi aveva detto, anche se probabilmente dovevo esser sembrata una totale idiota.
 
Respiro profondo.
 
Uno, due, tre.
 
Rilassati.
 
Dilla.
 
«Crema di formaggio!» Sputai fuori strizzando gli occhi.
 
Potei sentire William strozzarsi con il tabacco che aveva appena aspirato, cominciò a tossire e a ridere così forte che se gli fossero uscite alcune lacrime dagli occhi non mi sarei stupita affatto.  «Qualsiasi cosa avesse un cazzo di senso!» Riiniziò a ridere addirittura più forte di prima.
 
La sua risata era contagiosa, ma risi di mio solo accorgendomi dell’assurdità che avevo detto. Crema di formaggio? Seriamente? «Ha funzionato, comunque.» Ammisi con fatica ma con grande riconoscimento.
 
«Ora userai “crema di formaggio” come intercalare standard?» William inarcò le sopracciglia ironicamente, continuando a scherzarci su.
 
Sogghignai. «Credo di saper dire tante altre cose.»
 
Aspirò due volte la sigaretta, lasciò che il fumo uscisse dalle sua labbra e che incontrasse l’aria pura della natura. «Tipo “fottuto stronzo”?» Spezzò il silenzio.
 
Deglutii difficoltosamente e non passarono secondi che il mio viso si colorò eccessivamente. «Non puoi esserti offeso davvero per quello.» Mi strinsi nella sedia, raggomitolandomi e portando le ginocchia vicino al mento. Nascosi il viso ripensando a quello che gli avevo sputato contro solo poche ore prima. Ebbi la conferma che l’aveva sentito. «Credo ti dicano di peggio.»
 
William rise, mostrando i suoi perfetti denti bianchi. «Noto l’intervallo di tre secondi tra una frase e l'altra.»
 
Scossi il capo e ridacchiai di conseguenza. L’adorai in quel preciso momento, lo ringraziai mentalmente per aver cambiato abilmente discorso, favorendomi. Non avrei saputo esattamente cosa dire ancora, anche se mi rendevo benissimo conto che ciò effettivamente mi era successo, l’insulto che mi era uscito dalle labbra, non era stato per niente qualcosa di carino, e che non proprio rientrava nell’educazione alle buone maniere di mamma. E per questo mi sentivo parecchio in colpa, ma un po’ più per lei, che aveva sempre evitato di farsi scappare brutte parole dentro casa o di fronte a me cercando di mostrarsi come un buon esempio - come se non se ne dicessero fuori di termini volgari, come se non se sapessi.
 
«Saresti anche un ragazzo simpatico, chissà magari anche… Anche un buon amico, premettendo che non ho molti amici maschi, buonissimo amico se solo non...»
 
«Vuoi che io sia tuo amico, Charlie?» Spense la sigaretta nel bordo del vasetto contenente il piccolo lume, facendo ben attenzione a non sporcare troppo, poi la lanciò lì vicino il mozzicone, facendolo disperdere sul terreno. Non doveva di certo avere un animo ambientalista, ma almeno aveva evitato di gettarla accesa rischiando di far prendere tutto quel legno a fuoco.
 
«Perché no-»
 
«-è legale?» I suoi occhi divennero due fessure. «Essere amico di una ragazza e non scoparci?»
 
«... Sì?» Uscì come una domanda, ma William non parve notare la mia confusione. Allargò le gambe e si stese un po’ sulla sedia, in modo da permettersi di infilare una mano dentro la tasca dei pantaloni. Estrasse il pacchetto di sigarette e se ne portò un’ennesima sulle labbra, si usò nuovamente del lume per accenderla. Cominciai a chiedermi quante potesse fumarne al giorno, e se ne fosse dipendente o meno.
 
«E cosa dovremmo fare, per... Essere amici?» Rifletté.
 
«Il tuo obbiettivo non era questo? Poter diventare amici? E’ imbarazzante, dirlo, ma perché mi trovi interessante? Me lo hai detto più volte, se non sbaglio… Non lo so, io davvero non ti capisco. Non sei per nulla chiaro e mi fai sempre entrare in confusione.» Desiderai che l’odore del tabacco potesse magari lasciarmi indifferente, ma non fu così, pungeva già sulle mie vie respiratorie. In compenso avrei potuto imbambolarmi, guardandolo fumare per ore e ore. Quello sguardo pensieroso, gli occhi socchiusi e i capelli tirati indietro dal leggero venticello. Perché fumare rendeva la gente così fottutamente attraente?
 
In qualche modo ottenni l’attenzione di William, ma lasciò che calasse nuovamente il silenzio scrutandomi un po’. Questa cosa mi metteva estremamente in imbarazzo. «Parliamo Wilson, parliamo. Fatti conoscere, dimmi le cose che ti piacciono le cose che odi... Dimmi chi sei non lo so... Sei già abbastanza interessante senza che tu mi dica nulla, solo osservandoti come un animale da savana. Se mi parlassi di te...»
 
«Se ti parlassi di me non saresti più così tanto interessato come tanto dici di essere...» Dissi spedita, rattristandomi un po’. Ero solita disprezzarmi, ma raramente lo facevo davanti agli altri, solo che era praticamente la verità. Io non ero appariscente come Alexia, ne iperattiva come Rossella, ne tanto meno avevo trofei da mostrare, vincite da raccontare come Madison, se non quelle dei giochi matematici o delle gare di scienze.
 
«Ma ti piace che io sia interessato a te, vero?» William captò i miei pensieri, gli angoli della sua bocca si sollevarono in un piccolo sorriso malizioso mentre portava ancora lo sguardo su di me.
 
«No. Non lo so. Non so cosa vuoi dire.» Cominciai ad agitarmi.
 
William schiaffeggiò una mano sulla sua gamba ridacchiando e scuotendo il capo. «Neghi sempre! Tutto, praticamente tutto.»
 
Sgranai gli occhi. «Non è vero!» Dissentii senza pensarci, facendomi scappare un sorrisino subito dopo aver realizzato che effettivamente l’avevo appena rifatto.
 
Lui aspirò la sigaretta lasciando che il mio sorriso lo contagiasse. Mi morsi il labbro innervosendomi e mi avvinaci al lume, ripresi poi a giocare con la fiammella e a scrutare il contenitore. Lo scrutai da capo a piedi ed era ancora di rame; ma non più di metallo duro e freddo bensì di rame giallo e morbido, malleabile.
 
«Attenta, o ti sporcherai così.» Disse con voce rauca e molto lenta, sfiorandomi le dita e allontanandole dalla cera. Sollevai il viso dopo essermi prestata al suo leggero tocco, sentii i suoi occhi bruciare nei miei, le sue lunghe e scure ciglia crearono delle ombre sotto i suoi occhi, facendo in modo che le sue iridi azzurre risaltassero ancora di più nel buio della sera.
 
Mi ci volle qualche secondo per realizzare il doppio senso che si nascondeva in quella frase, disgustata dalla sua abilità mi ritrassi e distolsi lo sguardo imbarazzata. «Più ti dico di volerti conoscere più ti chiudi nel tuo guscio. Non è la strada giusta se vuoi essere mia amica.» Riprese più tardi, puntandomi il dito contro come fosse un professore.
 
Ma non appena mi voltai verso di lui, notai che l’unica cosa che aveva puntato contro di me erano i suoi occhi, una potente arma micidiale, la sua arma, la migliore arma di Re Artù. Non sarei mai riuscita davvero ad osservarli a lungo. «Ti ho già detto di smetterla!» Quello sguardo, lui lo faceva apposta.
 
«Tu non vuoi che smetta davvero.»
 
«No! smettila, scommetto che lo fai con tutte, scommetto che porti tutte a questo punto… Io, di solito non… Non ti sto allontanando? Allontano sempre tutti, non tratto male le persone ma in qualche modo loro si allontanano.» Sclerai e di conseguenza non riuscii più a limitarmi, ciò che avevo appena detto era semplicemente la solita conclusione azzardata che mi davo ogni volta, senza riflettere poi tanto sul mio modo scadente di socializzare e relazionarmi con le persone.
 
«Allora abbiamo qualcosa in comune, anche io allontano sempre tutte… Insomma, dopo.» Fece una smorfia.
 
Scossi la testa e risi sarcasticamente. «Appunto non è la stessa cosa. Tu ti comporti male con loro, e le usi…» Lui aveva così tanti amici e persone intorno (comprese le molteplici sanguisughe), qualsiasi cosa avesse fatto non avrebbe mai rischiato di ritrovarsi senza. Non poteva capire, non poteva assolutamente ritenere fosse qualcosa che avessimo in comune.
 
«E che ne sai come mi comporto?» L’irritazione era ora visibile sul suo volto, scrollò la cenere in eccesso dalla sigaretta.
 
«Lo vedo.»
 
Piegò un sopracciglio, indirizzandomi un’occhiata interrogativa. «Ma non lo sai.»
 
«Sì invece. Sei il classico prototipo di ragazzo bello ma un po' misterioso, anticonformista, temerario, con un atteggiamento disincantato... Ho visto tanti film sai? So che tipo sei.»
 
William sorrise. «E tu sei la protagonista? Quella che, prima o poi, arriva ad un punto del film che si stanca e cede al ragazzo?» Lasciò le sue labbra schiuse ed inarcò le sopracciglia in attesa di una mia risposta, ma le mie guance divennero cremisi alle sue parole. Mi astenetti totalmente di fare qualsiasi cosa, a parte respirare.
 
Non passò molto tempo che il quarterback si stufò di aspettare, anche se per lui osservare il mio volto imbarazzato doveva essere una tale goduria. «Tu pensi che io mi scopi tutte.» Aspirò la sua sigaretta e espirò prima di continuare. «Ed è vero, quindi sai già una cosa di me. Sai che non credo a questa cosa dei fidanzati perfetti, soprattutto a quest’età. Non ne sarei capace, ti ho anche già detto cosa penso dell'innamorarsi, del sesso, o come vuoi chiamarlo.» Gesticolò e strabuzzò gli occhi alle ultime parole della sua frase. «Tu invece non la pensi così, tu sei quella romantica, quindi-»
 
«-non sono romantica. Non lo sono, okay? Non so cosa sono, non mi sono mai spinta oltre, non so dirti cosa penso al riguardo, ma credo che sia molto più di quello che credi tu.» Farfugliai. William non sembrava infastidito dalla mia risposta e semplicemente mi guardò, silenziosamente incitandomi a continuare. «Tu sei nato da un matrimonio, da due persone che si amavano, hanno scelto di avere te, hanno capito che avere un bambino insieme fosse una cosa meravigliosa. O no? Sai certe cose non accadono per sbaglio. Puoi ritenere i tuoi genitori siano dei vecchi ma anche al tempo c'erano le precauzioni.» Ero riuscita a formulare un discorso concreto e sensato senza incepparmi o balbettare. Ammirevole.
 
«I miei sono divorziati, Charlie.» Sembrava mortalmente serio, probabilmente sentendo ci fosse qualcosa di sbagliato in ciò che avevo detto.
 
«Immagino che allora sia per questo che la pensi così sull'amare una persona. Per divorziarsi i tuoi si sono dovuti sposare prima, e quindi prendere delle decisioni insieme, responsabilità e condividerle. Poi forse qualcosa è andata male, ma prima no.» Presi fiato avendo parlato velocemente ma scandendo comunque bene le parole. «Sarebbe tremendo mettere al mondo qualcuno senza amare la persona complice.» Fissai un punto fisso convincendomi, con quello che avevo appena detto a William, che mai avrei voluto avere un figlio da qualcuno che non fossi stata sicura di amare davvero.
 
Mi guardava con attenzione e sogghignando. «Sei romantica.»
 
«Questo non è essere romantici.» Lo tacciai subito.
 
Lui sbuffò con un sorriso sulle labbra e si riposizionò meglio sulla sedia. «Charlie, da come parli, da come ti comporti… Sai anche dal modo di vedere le cose, anche con quello che mi hai appena detto, non ci vuole molto a capire che sei vergine e bla bla. Aspetti ancora il tuo principe azzurro, come per gli ebrei il messia. Ed è ok. Non molte ragazze sono come te, molte ragazze con cui sono stato non si ponevano problemi di questo tipo. Ma devi essere un po' più realista. Cambierai idea alla prima delusione, credimi. Tu pensi che io sia il prototipo ragazzo da film. Io penso che tu sia il prototipo di ragazza da fiaba.» Mi lasciò completamente esterrefatta. «E l'ho capito subito.» Continuò, fissandomi come se stesse cercando di dirmi qualcosa di più.
 
E forse avevo capito. «Per questo non hai strane intenzioni con me.»
 
William annuì lentamente. «Sì. Se non ti fa male sentirtelo dire.» Lo guardai incupita, lui reggeva il suo sguardo su di me, controllando ogni mio gesto che potesse suggerirgli una mia qualsiasi reazione, poi riprese. «Però è una cosa carina, insomma io-»
 
«-tu sei più per 'viva il sesso facile, viva le troie e chiunque me la dia'.» Gesticolai con le mani, megalomanizzando il concetto.
 
«Esatto.» Rispose asciutto.
 
«Devo sentirmi fortunata allora. Mi stai mettendo in guardia da te stesso, magari si scopre anche che sei un maniaco e che hai una malattia psicologica che ti costringe a trombare chiunque come se non ci fosse un domani. Come se la tua vita dipendesse solo da questo. Ehi, sono tanto fortunata, già sono fortunata.» Sorrisi e annuii di continuo sarcasticamente -  dovevo sembrare una tale pazza.
 
William si inumidì le labbra. «Non è così, è più... E’ molto più positivo di quanto tu creda.» Provò a spiegarmi.
 
Mi corrucciai. «E chi sarei per te? Mi conosci a mala pena.»
 
«Sei-»
 
«-diversa? Sì certo.» William non poteva essere così scontato. Nell’arco di un mese avevo avuto modo di conoscere una parte di lui, cioè quella che mi aveva fin ora mostrato e che probabilmente aveva sempre mostrato a tutti, ed era in parte riuscito a farmi ricredere dall’iniziale azzardato giudizio che avevo su di lui. Perciò se ora se ne sarebbe uscito con qualcosa del tipo ‘sei diversa da tutte le altre’ senza conoscermi poi così bene, di certo mi avrebbe deluso.
 
«No, sei interessante.» Questa parola, “interessante”, era uscita così tante volte dalle sue labbra che probabilmente se queste avessero avuto vita propria avrebbero avuto modo di ribellarsi.
 
«Che cosa vuol dire? Che cosa?»
 
«Non lo so. Dimmelo tu.» William scosse le spalle.
 
«Non so perché tu mi reputa interessante. Credo di essere molto noiosa in realtà, e anche molto monotona.»
 
«Non è vero. Questo è il giudizio che hai di te stessa, e non rispecchia mai quello che gli altri pensano di te, o comunque è quello che vuoi far credere o che sei convinta di essere.» Alle sue parole mi accigliai. Lui continuò. «Ad esempio, io credo di essere un ragazzo molto intelligente, ma la metà delle persone che conosco sono convinte che non sia così. Alcune mi sottovalutano, molte mi sopravvalutano. Tu mi sottovaluti però, quindi va bene, probabilmente io ti sopravvaluto ma va bene anche così.» Sorrise. «Ma sono sicuro che tu sei esattamente quello che penso che tu sia. Ho un buon intuito.»
 
Questo doveva essere una sorta di secondo round, adesso ero doppiamente esterrefatta. «Oltre alla “ragazza da fiaba”?» Domandai.
 
Annuì. «Sì, oltre quello.» Aspirò uno degli ultimi tiri, ormai diventata un mozzicone era sul punto di finirla e gettarla come la precedente.  «Hai ragione. Potremmo essere degli ottimi amici, abbiamo molto su cui discutere.» Rifletté. «Oh, quindi posso dire di essermi appena contraddetto dicendo che è possibile essere amici senza pensare oltre. E’ legale.» Ridacchiò.
 
«Mi spiace contraddirti dopo che ti sei già contradetto, ma in realtà stiamo ancora discutendo di cosa tu pensi di me e io di te. Non è la strada giusta, insomma non stiamo discutendo dei tuoi interessi, dei tuoi film preferiti, dei tuoi libri-»
 
«- i miei libri preferiti sono le fiabe.» Si morse il labbro inferiore e fece in modo che i suoi occhi bruciassero sui miei.
 
«Io penso che tu sia il prototipo di ragazza da fiaba.»
 
Potevo sentire la sua voce echeggiare nella mia mente. Mi aveva preso in giro per tutto questo tempo. «Sei così stronzo.» Sputai fuori disgustata dalla sua abilità di raggirarmi.
 
William si alzò dalla sedia, gettò il mozzicone di sigaretta verso il terreno desertificato, si avvicinò pericolosamente a me tanto da poter sentire il suo respiro sul mio viso. «E tu così ingenua. Non sarò tuo amico, e tu non sarai mia amica. Mettitelo in testa, Wilson.» Deglutii al timbro di voce usato per il mio cognome, non ebbi il tempo di decifrare cosa avesse realmente detto, che era già sceso dal portico del bungalow ed aveva imboccato la strada verso la piazza del campus.

 






Hello!
What time is it? Summer time!
Finalmente, anche se non è ancora ufficialmente passato il 21 giugno, può iniziare questa maledettissima estate 2014. Basta studiare, basta libri, basta compiti, basta tutto adesso posso davvero rilassarmi.
Scrivere e postare decisamente prima di quanto abbia fatto fin ora, non dovrebbe essere un problema. Salvo qualche viaggio da vacanze estive, dovrei proprio concentrarmi alle mie fanfiction, quindi spero di rivedervi e di ricevere tante altre vostre recensioni (ringrazio come sempre tutte quelle persone che fin ora mi hanno sostenuto).
Passiamo al capitolo:
Probabilmente questo è uno dei pochi capitoli interamente dedicati a Charlie e a William, questo personaggio un po' temerario e disincantato, come dice la nostra Charlie.
Si divide in due macroscene, la prima segue l'escursione, la seconda la seduta da "salotto" nel portico del bungalow di Charlie. Molte frasi da captare, William fa davvero impazzire Charlie e come sempre la mette in confusione. Il dialogo termina con un colpo di scena, William, per chi non lo avesse capito, dice implicitamente a Charlie che le sue intenzioni con lei non sono certo quelle di una semplice amicizia.
Cosa ne pensate voi?






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Capitolo 21
*** twenty-one ***


21


Rossella Esposito

«William tua sorella ha intenzione di andare al festino di Haynes.» Derek diete una pacca sul torace dell’amico, ridacchiando e inconsapevolmente  gettando della benzina sul fuoco.
 
«Sei un fottuto rompi palle!» Gridò Emily indietro, inviandogli fulmini con gli occhi.
 
Noi due c’eravamo accasciate sui primi scalini delle scale che collegavano i corridoi principali del terzo e quarto piano dell’istituto, mentre le altre ragazze erano sparse in giro. Sembrava non finire mai questa giornata, dopo l’ora di trigonometria il mio cervello era ora diventato una poltiglia commestibile per soli cani randagi.
 
Il quarterback non sembrò scomporsi più di tanto. «Ma Emily lo sa bene che tanto la sera del festino sarà barricata in camera. Vero Emily?» Si rivolse con delicato tono di minaccia alla sorella.
 
Potevo già sentire i denti della stessa digrignarsi in cagnesco, gli sarebbe di sicuro saltata addosso se non avessi fatto in modo di calmare le acque. «In realtà volevo andarci anch'io, se siamo in due è già diverso, no?»
 
William mi guardò per qualche secondo con molta serietà, per poi scoppiare a ridere. «Si certo come no. Tu puoi fare quello che vuoi, lei fa quello che dico io. Anzi, che idea geniale! Fatevi compagnia certo, ma dentro casa. Guardatevi un film, mangiate schifezze, ingrassate anche, passatevi sulla faccia stupide creme per i brufoli e cose così.»
 
Io ed Emily c’aggrottammo contrariate, William invece lanciò un’occhiata divertita all’amico, quell’amico. Derek Foster era davvero per me quell’elemento d’arredamento essenziale per dare ad una stanza un tono soddisfacente. Ed io, in quel momento, mi sentivo come una stanza incompleta.
 
«Che strane idee vi vengono in testa? I festini di Haynes non sono cosa vostra.» Svalutò Derek, e lanciò un’occhiata su di me di proposito.
 
Sollevai le sopracciglia sorpresa di ciò che avevo sentito uscire appena dalle sue labbra. «Non è cosa vostra?» Aveva davvero incluso me in tutta questa faccenda? Che io ed Emily fossimo gemelle separate alla nascita?
 
«Beh considerando che Emily non ci va, perché non ci va, non sarebbe l'ideale andarci da sola no?» Sogghignò.
 
Gli lanciai un’occhiataccia (cosa che mi venne particolarmente difficile) «Chi ti dice che eventualmente andrò sola?» Ci fu qualche secondo di imbarazzante silenzio. Con la coda dell’occhio notai Emily guardare William con sguardo segretamente sbalordito e William abbastanza divertito. Era stata così di effetto la mia risposta?
 
“Oh, fa solo l’amica Emily!” Pensai. Ma non avevo avuto bisogno di far ricorso dandole un grande doloroso pizzicotto al braccio, perché lei poi capì che doveva darci un taglio con un mio sguardo fulminio. Sembrava tanto stando testando le mie capacità. «Appunto, lei verrà con me.» Intervenne prendendomi per un braccio come fossi di sua proprietà. Beh, grazie Emily, sempre così di tuo propositiva.
 
«E poi scusa, mi pare sia stato invitato chiunque al festino, persino le gemelle Tanner pensano di andarci.» Continuai.
 
Derek apparse meravigliato. «Da quando parli con, o frequenti, le gemelle Tanner ?»
 
Le gemelle Tanner erano conosciute dall’intera popolazione degli studenti dell’istituto anche come ‘le scaccolatrici’ perché… Beh, perché era questo che facevano realmente per la maggior parte del loro tempo in pubblico. Era qualcosa di veramente disgustoso. «Ho solo sentito la loro discussione. Ne parlavano durante la lezione di Biologia.» Spiegai quasi subito.
 
Emily sospirò. «Quello che in parole povere vuole dire Rossella è che, insomma hanno invitato oltre che alle gemelle, anche due babbei come voi, perché dovremmo starcene a casa, dopotutto?» Un sorriso provocatorio si disegnò sulle sue labbra.
 
Derek si scaldò. «Ehi, ehi. Testa fischiante, frena.»
 
«Lasciala perdere, è uno scarto della società.» William trattò dall’alto in basso fermandolo, quando vide Emily alzarsi in risposta e pronta a scontrarsi in un qualche modo.
 
Ma Emily andò decisamente su tutte le furie. «Scarto della società!?» I suoi occhi sembravano proiettare del fuoco.
 
Mi alzai automaticamente. Per evitare che la situazione degenerasse in una lite tra i due fratelli (come sempre del resto) presi la provocatrice per un braccio e cercai di farci dileguare entrambe.  «Emily andiamo.»
 
«Mi pare che sia sangue del tuo sangue il presunto scarto della società!» Urlò lei, mentre la trascinavo via dal corridoio lontano da William - che a differenza sua se la stava ancora ridendo. Emily tendeva a infuriarsi spesso quando si trattava di suo fratello. Eppure era quel tipo di ragazza che sapeva come mantenere la calma, e si scontrava spesso con chiunque avendo sempre la meglio.
 
«Sai che ti dico? Vado a sparlare di mio fratello un po’ in giro, un po’ di qua e un po’ di là.» Si liberò della mia presa e apparse come una tale isterica, sia ai miei che agli occhi degli altri presenti.
 
«Emily!» Le urlai, provando a starle dietro, fino a quando non sentii una voce richiamare il mio di nome. Mi fermai immediatamente.
 
«Rossella?» Derek mi raggiunse e dalla sua espressione potetti capire fosse un po’ teso.
 
Sorrisi. «E’ andata via, sei fortunato che se la sia presa solo con suo fratello. Penso sia il caso che le vada dietro e la tenga sotto controllo, non ti preoccupare, non farò uscire nulla che possa aggravarvi dalle sue labbra.» Così mi voltai e ripresi i miei passi verso quelli indelebili di Emily.
 
«No, in realtà se hai due minuti volevo parlare con te.» Tossicchiò in risposta.
 
«Con me?»






Charlotte Wilson
 
 
Erano le nove di mattina e il cielo era scuro. Blu intenso. Con questa atmosfera avrei voluto tanto chiudere gli occhi e cadere volentieri nel mondo dei sogni, ma non potevo. Fin che la mia mente permetteva, dovevo concentrarmi a leggere gli appunti che avevo davanti, seduta in una delle panchine in cemento vicino la fontana del cortile. L’aria era pungente, i cespugli che ornavano l’intero cortile nel confine e quelli vicino le panchine non erano altro che ammassi di rami secchi e scuri, nessun fiore, nessuna foglia. La primavera non era proprio alle porte, ma lasciai che la mia fantasia decorasse e colorasse il tutto con dei Garofani rossi, Gerani gialli, e piante di rampicanti stesi sul muro in mattoni.
 
«Devo parlare con te, tipo, subito!» Quasi Rossella mi urlò in faccia spuntando da chissà dove. Non mi diede il tempo di rispondere che frettolosamente si sedette sulla panchina accanto a me. Lasciò che la sua borsa colma di libri - o di qualcosa come trucchi, spazzole e giornaletti di moda - ricadesse accanto a lei con frastuono, facendoci ricevere sguardi da diverse persone. Ma non si fece distrarre comunque dagli occhi curiosi dei nostri coetanei, continuò a guardarmi. Lo sguardo sul suo viso era decisamente troppo serio per i miei gusti, doveva esserci qualcosa di terribile che non andava. Oppure stava esagerando come Emily affermava facesse sempre. Silenziosamente pregai fosse così.
 
«Sono così felice di averti trovata! Devi assolutamente sapere una cosa, spero non ti sia già arrivato all'orecchio. In qualsiasi caso, credo di poter trovare un modo per mettere a tacere queste voci che ci sono in giro.» Esclamò, usando le braccia per enfatizzare quanto drammatico pensava fosse. Piegai un sopracciglio, non avendo idea di cosa stesse parlando. «Si tratta di te e William.» Continuò Rossella, il suo sguardo vagò per il cortile mentre abbassava la voce. Spalancai gli occhi al suo accostare il mio nome accanto a quello del quarterback, persi un battito e dovevo esser arrossita. «Mentre eravamo in campeggio, dopo il vostro arrivo dall'escursione - quando entrambi siete tornati tutti bagnati intendo – sai, devi sapere che erano tutti scioccati. Insomma, dovevi assolutamente vedere le facce di alcune ragazze in cagnesco, erano così invidiose! Così tanto che qualcuna è venuta a domandarci se tu e William... Cioè se tra te e William ci fosse qualcosa.» Questo non mi scioccava affatto, avevo fatto attenzione a questo particolare. Sia dopo, sia prima che potessimo partire per l’escursione.
 
«Leila semplicemente non ha risposto, Madison era insieme a Lucas con i docenti che infuriati esigevano spiegazioni per la loro chissà se romantica fuga. Io invece sinceramente mi sono permessa di mandarle tutte a quel paese.» Riprese dopo qualche secondo di silenzio. «Ecco, riguardo ciò, scusa se non te ne abbiamo parlato subito, solo non ci sembrava il caso, non è la prima volta che ci chiedono qualcosa riguardo William. Solo perché usciamo con Emily tutti ci vedono come possibili fonti di gossip o cose così riguardo la loro star.»
 
«Nessun problema.» Scossi le spalle. «Ma cosa stai cercando di dirmi? C'è dell'altro?»
 
«Ci stavo arrivando!» Rispose alla svelta prima di continuare. «Ci sono in giro delle voci, non so esattamente chi sia stato a lanciarle comunque, dicono che tu e William vi siate baciati o cose del genere, vi hanno visto durante l'escursione. Non vi siete accorti che non eravate soli?» Baciati?
 
«Noi non… Noi non ci siamo assolutamente baciati e... Che storia assurda è mai questa!?» Sbottai, iniziando ad essere seccata.
 
«Non c'è nulla di male Charlie, non saresti la prima a baciare William Henderson.» Disse comprensiva. «Dio però Emily la prenderà malissimo! Tranquilla mi inventerò qualcosa, farò in modo che si parli d'altro.»
 
La interruppi. «Rossella, noi n-non abbiamo fatto nulla, davvero devi credermi! Perché avrei dovuto baciarlo o tanto meno farmi baciare da lui?» Mi irrigidii, dovevo esser diventata rossa in viso, cominciavo a sentire una tale caldo.
 
«Charlie, non sto dicendo che sia vero, solo che... Ti ho raccontato di Emily, e... Non voglio che lei cominci a provare odio o cose simili per te, ci piaci veramente e sai personalmente a me non importa cosa tu faccia o no con suo fratello, solo non voglio che Emily ne esca per l'ennesima volta fottuta. Poi, sai com’è William-»
 
«-sì, so esattamente com’è William.» La interruppi ancora. Una sensazione spiacevole mi inondò, facendo accelerare il battito del mio cuore. Era come se la mia gola si fosse chiusa stretta.
 
«Credo di aver capito perché William sia arrivato tardi al falò, nonostante foste stati messi in punizione e lui è spuntato lì come nulla fosse. Siete stati insieme prima vero?» Ridacchiò Rossella. Il suo sguardo mi fece capire che stava sicuramente alludendo a qualcosa di veramente intimo.
 
«Rossella! Io n-non sono il tipo, non sono quel tipo di ragazza che permetterebbe ad un ragazzo qualsiasi di usarmi o di spogliarmi. Soprattutto in gita, con i professori nei dintorni. Sarebbe davvero umiliante.» Sputai fuori. «William non ha alcuna importanza per me, quindi non… Non fantasticare, ti prego.»
 
«Ero ironica.» Rossella roteò gli occhi. «Comunque di pettegolezzi così se ne sente uno al giorno, se è vero come dici potresti anche spiegarlo ad Emily, se sarai fortunata capirà. L’anno scorso si raccontava anche di lei che avesse baciato un certo Richard Collins, o Coleman, non ricordo bene il cognome, ed ovviamente erano tutte stronzate.» Mentre Rossella continuava a divulgarsi nel parlare, la mia mente viaggiò fino a William. La mia bocca doveva essersi spalancata ormai per lo shock più puro.
 
Non poteva essere vero. Era come se il mio respiro fosse stato cacciato fuori da me e il mio cuore avesse smesso di battere. Quindi questo era ciò che succedeva stando insieme a lui anche per poche ore. Avrei dovuto aspettarmi che sarebbe successo qualcosa del genere e che la gente poi avrebbe parlato. Guardai Rossella e vidi la sua bocca continuare a muoversi mentre faceva qualche movimento con le braccia, significando che stesse ancora parlando. Ma il suono della sua voce pareva essersi affievolito.
 
Venni riportata alla realtà quando qualcuno scosse la mia spalla. Il mio attimo di sordità era scomparso e Rossella mi stava guardando dritta negli occhi, lanciandomi un’occhiata interrogativa. «Mi stai almeno ascoltando?»
 
Annuii velocemente, lanciandole un piccolo sorriso. Dentro di me, stavo tremando per la rabbia. Chi poteva aver detto in giro una cosa così assurda? E chi aveva dei seri problemi di cecità? La gente sapeva essere così originale nell’inventare storie, o trasformarle. L’unica cosa che avrei voluto fare in quel momento era ficcare la testa sotto terra, o che so… Anche qualcosa di piccolo come picchiare qualcuno così forte da ucciderlo.
 
«Charlie, a cosa stai pensando adesso?» Tentò di rassicurarmi poggiando una mano sulla mia coscia. «E poi tranquilla, per ora sulla top teen del gossip scolastico ci stanno Lucas e Madison, per la loro misteriosa scomparsa. Che stupidi, c’è chi pensa che siano ritornati insieme.» Rossella rise in senso ironico ritenendo ciò qualcosa di poco serio, non attendibile, probabilmente ridicolo e assurdo. Strano come sarei stata scioccata per una cosa simile una settimana prima, ma ora invece non me ne poteva fregare un cazzo del comportamento strano di Madison. Se voleva scopare con Lucas, non l’avrei fermata. Ovviamente, era disgustoso, e del tutto incoerente alle parole dispregianti che fino a qualche giorno prima mi aveva confidato riguardo Lucas.  Ma non era che mi importasse più per davvero ciò che lei faceva o non faceva con il suo californiano – ex ragazzo. La mia mente era rivolta a William, chissà se erano arrivate anche a lui le voci, chissà come si stava comportando al momento e al riguardo. Forse si stava impegnando a dissentire, o forse era così talmente incazzato che stava già prendendo a pugni qualcuno per una cosa così assurda che avrebbe potuto facilmente e in poco tempo macchiare la sua reputazione.
 
Abbassai il capo, mi ritrovai decisamente spiazzata da questa situazione. «S-secondo te è stato William? Non so chi potrebbe avercela così tanto con me da-» Mi bloccai. Pensare che potesse esser stato William stesso a lanciare questa versione dei fatti non fu una cosa assurda, se solo non mi fossi ricordata di un certo ragazzo biondo alto un metro e ottantacinque ed abbronzato, da poco da me nettamente rifiutato e con, guardo caso, una grande sete di vendetta.
 
«No, assolutamente no. William sa veramente esser stronzo, ma diffondere cose del genere sul suo conto proprio non è da lui. Non che la cosa possa sminuirlo o aggravarlo comunque, sei un bella ragazza, quindi è okay. Insomma, a quale ragazzo non piacerebbe avere una fama da ‘guardate-come-tutte-cadono-ai-miei-piedi’ come la sua? Qualsiasi individuo che si ritrova con un pene tra le gambe vorrebbe essere come lui, si è scopato così tante ragazze! - e non solo per sentito dire. Non tutti i pettegolezzi, come può esser successo nel tuo caso, sono infondati.» Sogghignò.
 
Rossella era diventata per me una sorta di guida all’orientamento tra i teenager della Gilbert High School.
 
Passò qualche minuto di silenzio, in quel lasso di tempo la mia mente era stata capace di arrestare ogni mia attività vitale, tipo sbattere le palpebre o quasi respirare. Rossella invece sembrava estremamente vegeta, e dopo aver digitato con le dita a lungo nello schermo del suo cellulare si arrestò e cominciò a fissarmi, come se avesse altro da rivelarmi. Non durò ancora per molto il suo silenzio al riguardo. «Derek mi ha invitato ad andare al festino di Haynes insieme a lui.»
 
«Cosa? Hai parlato con Derek? Quindi è stato lui a parlarti di questi pettegolezzi che circolano su me e…? No ok, non importa, non credo di volerlo davvero sapere. Invitato, davvero?» Cercai di staccare due secondi la spina della corrente dal mio cervello, da quella sezione che riguardava tutto ciò che avesse a che fare con “me+pettegolezzi+William”.
 
Sarebbe stato egoista, anche egocentrico, concentrarsi solo su di me ed i miei problemi. «È.. È una lurida tattica per impedire ad Emily di andare.» Disse con disdegno Rossella, incrociando le braccia. Confusa sollevai le sopracciglia. «È logico Charlie. Ti spiego: Come William, Derek è convinto che se io, in un modo o nell’altro, decidessi di non andare più al festino, o appunto di andare con qualcun altro, Emily si ritroverebbe da sola senza nessuno che possa andare con lei. Automaticamente, sempre secondo loro, la stessa Emily si convincerebbe a rimanere a casa e a rinunciare al festino.» Rossella notò il mio persistente disorientamento. «È complicato. Ma Derek e William, soprattutto William, non vogliono permettere ad Emily di andare, e credo stiano tramando qualcosa.» Annuii vagamente, non ero completamente in grado di capire ciò che stava dicendo. «In parole povere, Derek non vuole davvero andare al festino con me.» Continuò Rossella. Mi sorprendeva quanto fiato per parlare avesse dentro il corpo. «Cioè gli sembro stupida?»
 
Tossicai in risposta. «Uhm.. Non conosco bene William, figurati Derek... Ma credi che Derek possa essere così sleale nei tuoi confronti da fare una cosa del genere?»
 
«No. Di solito tra i due Derek è quello con il buon senso. Ma non lo so... È da un po' che lo penso, credo che Derek si senta come una sorta di secondo fratello per Emily, in realtà è stato da sempre così anche se non lo dà molto a vedere ed entrambi tendono ad evitarsi. Ma questo inevitabile senso di protezione che ha verso di lei per via di William, potrebbe permettergli di fare di tutto, anche prendere per il culo le persone. Tipo me.» Rossella sospirò.
 
«Quindi cosa vorresti fare? Ma hai accettato... No?» Chiesi retoricamente. Rossella mi guardò con un’aria non del tutto convinta e non sembrava darmi cenni positivi. «Ross non hai accettato?» Mi tappai la bocca. «Oh.. mi è scappato il tuo… Il tuo nome abbreviato… Scusa non volevo, mi è uscito automatico!»
 
«Non gli ho risposto. Volevo fare la vaga e prendermi del tempo per formulare un declino azzeccato. E comunque Charlie sei così carina. Mi chiamano tutti Ross, è il mio soprannome. Anche noi ti chiamiamo Charlie, e non... Solo non ci si pensa a queste cose. Prenditi un po' più di confidenza da noi, davvero.» Sorrise teneramente.   
 
Potei sentire le mie guance arrossire quando realizzai ciò che intendeva, probabilmente aveva ragione, ed era stato carino da parte sua incitarmi a  fare ciò. Cominciai a sentirmi più partecipe al suo problema adesso, volevo aiutarla davvero. «Prima di... Non voglio darti consigli sbagliati, ma... Forse prima dovresti chiarire.»
 
«Charlie, stiamo parlando di Derek Foster, andrei con lui non ad uno, non a due, ma a cento festini! Lui è così sexy! Ma non accetterò, non a queste condizioni.» Abbassò lo sguardo sui suoi piedi ed espirò lentamente.
 
«Emily non sarà in nessun caso sola.» Le lanciai uno sguardo dolente, pensando a ciò che stavo per dire.
 
«Se io però scelgo di andare con Derek sì. Questo è il punto.»
 
Mi inumidii le labbra e scossi il capo. «No, saremo solo un po' di meno.»
 
«Saremo? Oddio Charlie andrai al festino?» La sua voce era risuonata nel mio timpano più acuta di sempre.
 
«Non è colpa mia se Emily ha un tale potere di assuefazione. Non so ancora come farò ad avere il permesso dei miei genitori per venire, ma ce la metterò tutta per convincerli.» Ma che cazzo stavo dicendo? Non sarei mai riuscita a convincere nessuno per avere il permesso di andare. Non si trattava nemmeno di possibilità calcolabili in percentuale, o qualcosa come l’1% di riuscita. Era un 100% di “tu-non-andrai-da-nessuna-parte”.
 
«Io volevo andarci solo per vedere Derek, ma dal momento in cui, a quanto pare, per lui sono solo mezzo punto… Credo proprio che me ne starò a casa. Appena saprà che Emily ha trovato qualcun'altra con cui andare... Beh chiederà a quel qualcun'altra di andare al festino con lui, pur di impedire alla sorellina del suo migliore amico di drogarsi, ubriacarsi, fumare, scopare o cose del genere. Quindi… Aspettati un invito da parte di Derek Foster.» Rossella si alzò di scattò, prese la sua borsa e indirizzandomi un cenno di saluto si allontanò tra i corridoi.
 
«Ross?» La richiamai senza cogliere la rapidità. Presi un respiro profondo, calmandomi. Avevo ancora due minuti buoni per finire di ripassare, potevo farcela prima del suono della campanella, dopotutto.
 
«Ora capisco il rifiuto. C'è di mezzo William Henderson.» Un corpo robusto fece ombra sui miei fogli di fronte a me. Niente serenità per Charlie.
 
Sollevai gli occhi e vidi davanti a me Lucas e il suo probabile odio nei miei confronti spiaccicato sul suo viso. «Dovresti essere il primo a credere che i pettegolezzi sono così stupidi da non doverci badare.» A quanto pare la notizia stava viaggiando a velocità Jay Garrick. «Se sempre tutto quello che dicono di te in giro non sia vero.» Ironizzai con un sorrisetto. Stavo diventando sempre più brava.
 
Lucas scosse la testa ridendo sarcasticamente. «Sei così stupida Charlie. Se credi che io sia un tale coglione, non immagini nemmeno cosa sia William.»
 
«Lucas, uhm… Mi pesa dirtelo, ma mi stai facendo perdere solo tempo, tra meno di dieci minuti ho un test di verifica, e come vedi, beh... Stavo ripassando gli argomenti.» Sollevai i miei appunti in modo che potesse vederli, e che potesse andar via. Ero davvero arrivata ad odiarlo.
 
«Studia, studia. Tanto perdo solo tempo con te.» Disse con disgusto, poi si dileguò con il suono assordante della campanella in sottofondo.






«Mi guardano praticamente male tutte le ragazze della scuola.» Dissi, con un’espressione sul viso fredda come una pietra. Ero riuscita a beccare William prima della fine della scuola, era davanti al suo armadietto a riposare dei libri – chi lo avrebbe mai detto, anche lui li usava per studiare?
 
Non avevo potuto aspettare altro tempo per parlare con lui. Come avevo fatto a resistere per alcune ore era già parecchio ammirevole.
 
Chiuse l’anta del suo armadietto, dandomi la visuale del suo profilo ben delineato. «Non sei contenta? Vuol dire che hai un viso ed un fisico che urla: Invidiatemi!» Rispose, falsificando una vocetta acuta.
 
«Ma che stai dicendo? Senti devi mettere a tacere queste voci. Insomma tu puoi no? Ci riusciresti.» Misi le mani conserte, e provai a fissarlo dritto negli occhi - beh, cosa che per il momento mi sarebbe venuta anche piuttosto facile dato che mi stava proprio del tutto ignorando.
 
Lui non si scompose, aveva il capo chinato verso il borsone che aveva in una spalla e ci stava controllando dentro con una mano a frugare, sembrava aver perso qualcosa. «E cosa dovrei dire? “Non è vero che io e la biondina abbiamo scopato ve lo giuro sul signore”.»
 
Mi scioccai. «Quindi è questo che si dice esattamente? Che abbiamo, uhm, cioè che siamo stati insieme in intimità? Perfetto.» Sciolsi le braccia e battei le mani sui fianchi vagando lo sguardo. Questo era peggio di ciò che Rossella mi aveva detto. Peggio di qualsiasi altra cosa.
 
Si bloccò. «Insieme in intimità?» Scosse la testa, ridendo. «Ad ogni modo, tra una settimana si parlerà d'altro, tranquilla.» Riprese a frugare, doveva essersi deconcentrato da quello che doveva star facendo prima nel prestarmi dell’attenzione. Ma poi rise di nuovo, quasi rinunciandoci e chiudendo la cerniera. «E poi ti da davvero così fastidio?» Alzò lo sguardo verso di me. Letale.
 
«T-tu cosa credi?» Balbettai, non riuscendo a mantenere il contatto visivo.
 
«Che ti fai troppi problemi.»
 
Sospirai, lanciandogli uno sguardo di disapprovazione. «Non capisci, non capisci quanto tengo che le persone non parlino di me. Sono sempre stata nell'ombra-»
 
«-ti sei così abituata a stare nell'ombra che adesso la luce ti ha accecata? Charlie devi calmarti.» Sollevò un sopracciglio, probabilmente non comprendendomi appieno.
 
«Non mi calmo, non sto tranquilla a sapere che mezza scuola creda qualcosa di così-»
 
«-assurdo? Non è assurdo, il peggio che potrebbe accaderti sarebbe passare solo come una delle tante. Scommetto che la maggior parte non ti conosce e non sa nemmeno il tuo nome, tanto quello che spezza i cuori qui sono io.» Disse come se la sua fosse una condanna, e la vera vittima di tutta la faccenda. Oh, poverino.
 
«Una delle tante.» Ripetei le sue parole, facendole anche riecheggiare dentro la mia mente.
 
«Cosa vuoi che ti dica? Che non è vero?» Ne risolse.
 
Schiusi le labbra e liberai un risolino isterico scuotendo il capo. «Tu ci sarai abituato, io ci tengo a cosa le persone pensano di me.»
 
«Non stanno mica dicendo che hai ucciso qualcuno. Non so come ti andavano le cose in Australia, ma qui sei solo un numero come tutti gli altri. Ho saputo che sei davvero intelligente e che prendi voti alti, beh dimostra la tua superiorità, no?» No, non era completamente in grado di capire ciò che stavo dicendo.
 
In quel momento passò un gruppo di ragazze, riuscii a vedere che uscivano una ad una dalla palestra.  Pensai che se ci avrebbero visto insieme non saremmo mai riusciti a smentire i pettegolezzi, così indietreggiai di qualche metro facendo finta di star passando lì per caso. William parve meravigliarsi del mio gesto, e non fu per niente distratto dall’ondata di studentesse che gli passarono accanto.
 
«Giuro che per me questa è la prima volta.» Rise falsamente, non aspettando che le ragazze si dileguassero del tutto.
 
«D-di cosa?» Farfugliai cercando di ignorarlo e di apparire sorpresa che lui mi avesse rivolto lo sguardo.
 
«Che qualcuno si vergogni di essere visto con me.» Continuò con maggiore fermezza.
 
Mi avvicinai a lui, quando il flusso di ragazze nel corridoio sembrò svanire. «Uhm, no. Voglio solo metter a tacere i pettegolezzi.» Sussurrai, cercando di spiegarmi.
 
«Si perché magari tra un giorno si dirà che io e te ci siamo sposati in una spiaggia di Miami con pochi invitati ed una torta stratosferica. Magari capita anche che invitiamo il presidente degli Stati Uniti d'America insieme alla moglie e alle figlie.» Disse con aria sarcastica e irrisoria.
 
Roteai gli occhi. «Non fare lo stupido.»
 
«Smettila tu, piuttosto.» Quasi mi aggredì aumentando il tono di voce.
 
«Di fare cosa esattamente? Sto solo tentando a tutti i costi di non esser considerata una delle tante.» Ero davvero così furiosa che non pensai a ciò che ero riuscita a dirgli. «Ovviamente non puoi capire.» Continuai.
 
La porta della palestra si sentì chiudere pesantemente, entrambi  fummo attirati dal rumore che riecheggiò per tutto il corridoio. Era rimasta ancora una ragazza, la stessa che aveva chiuso la porta. Non ci volle molto a riconoscerla. Il corpo, i capelli… Alexia. L’Alexia di William, l’Alexia che l’aveva chiamato a fine partita e che lui aveva ignorato spudoratamente.
 
Con un allucinate coincidenza, un’ondata di studenti riempirono il corridoio appena dopo il suono di un’ennesima campanella. Giusto, la settima ora dell’ultimo anno.
 
Prima che potessi dire altro, fu William a parlare. «Sai che ti dico? Ho capito.» Lo guardai titubante e confusa per la baraonda che si venne a creare. «Ho capito, davvero.» Ripeté, accertandosi di togliermi il dubbio che presumibilmente mi si era ritratto sul viso. Afferrò meglio il suo borsone e si allontanò da me, attirando ulteriormente la mia attenzione quando mi toccò un braccio in modo che mi girassi e guardassi mentre lui andava via.
 
Il suo nome stava per uscire dalle mie labbra, incapace di accettare il fatto che la discussione potesse davvero finire così, ma le mie labbra si schiusero per ben altro, quando notai William dirigersi verso la ragazza dai capelli lunghi neri, facendosi spazio lungo la folla. Vidi le loro labbra muoversi per qualche saluto o convenevole, imprevedibilmente poi, lui l’attirò a se per i fianchi e in un modo incredibilmente fulminio la spinse contro gli armadietti. Con la stessa velocità insinuò la lingua dentro la sua bocca, baciandola così passionalmente da attirare l’attenzione di tutti i presenti.
 
L’aveva fatto. Aveva capito davvero, come dare alla gente altro di cui parlare.







Finalmente sono riuscita a postare il capitolo ventuno!
Quanti adesso fremono di conficcarmi un rastrello giù per la gola?
Scusate veramente l’immenso ritardo.
 
Per questo capitolo ho deciso di introdurre oltre che il punto di vista di Charlie anche quello di Rossella.
E’ proprio così infatti che si apre il capitolo, spero molte di voi non si siano confuse credendo fosse Charlie a narrare!
Vediamo un Lucas del tutto ignorato dalla nostra protagonista, e in più la parte finale è un po’ un colpo di scena: William bacia Alexia per, forse, dimostrare qualcosa a Charlie…
Cosa ne pensate?
 
Ringrazio chi mi ha lasciato delle recensioni, e spero di poter contare ancora su di voi per i prossimi capitoli!






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Capitolo 22
*** twenty-two ***


22


Charlotte Wilson


«Nonna cos'è questo profumo?» Scesi al piano di sotto dopo non aver neanche finito tutti i compiti assegnati per il lunedì successivo, la mia testa sembrava esplodere e, sfortunatamente, non ero riuscita a trovare nella credenza dei medicinali nessun antidolorifico per liberarmi di quell’enorme mal di testa che al momento mi colpiva.
 
«Tesoro, sto preparando la salsa al curry piccante che a te piace tanto insieme al pollo, contenta?» Domandò, e sperai non intendesse davvero che le rispondessi. A me piaceva la salsa al curry? Mi parve di ricordare di averla sempre apprezzata ma senza tanto entusiasmo. In fin dei conti, in quel momento, ero davvero in grado di capire e rimembrare quali fossero precisamente i miei gusti culinari con tutto quel malessere che c’avevo addosso? Non si trattava di un semplice mal di testa, si trattava delle mie sorti di liceale, rinchiusa con la nonna a casa il venerdì sera.
 
«Nonna, uhm a me… Oh niente lascia perdere.» Mi massaggiai la testa, illudendomi che magari quel gesto potesse allievare il dolore.
 
«Poi ho comprato del succo di mirtilli, sai fa bene alla vista. Ah e poi sto facendo il purè di patate, dove tiene le spezie tue mamma? Siete così poco organizzati!» Era così indaffarata, aveva in una mano il guanto da cucina che la mamma tanto odiava e che aveva portato in America per un motivo a noi tutti ancora sconosciuto, persino a lei stessa.
 
Intanto il Chiwawa sguaiato era in viaggio con il mio caro papà a pernottare in chissà quale hotel di lusso (si fa per dire, massimo saranno state tre stelle) e a cenare in chissà quale ristorantino romantico, perché gli “affari di lavoro” immaginavo si sbrigassero solo a certi orari del giorno, ed io qui che mi permettevo di non andare al festino di Haynes.
 
«Charlotte staremo via solo pochi giorni, il tempo di riuscire a chiudere questa trattativa. E poi tu e la nonna non passate molto tempo insieme.»
 
«Beh, sapete quando eravamo in Australia non mi è mai stato possibile farlo. Mai che vi sia venuto in mente di farmi viaggiare per poter venire a farle visita.»
 
«Tesoro smettila.»
 
Avevo i genitori peggiori del mondo. «Nonna, stasera... Sono nello sportello all'angolo, se guardi in alto papà ha proprio montato un ripiano per metterle.»
 
Vagò lo sguardo intorno a se fino a quando non lo trovò con la vista. «Oh, guarda che carino.»
 
«Nonna stasera-»
 
«-Avete Sky Cinema? Possiamo guardare qualche film sul divano, oh cosa guardate voi giovani d'oggi? I Norror? Oppure possiamo affittarne qualcuno, faccio scegliere a te!» I Norror?
 
«No, non abbiamo Sky Cinema. Si chiamano Horror nonna, e non mi piacciono.» Ma da quale epoca era sbucata fuori? Dal Rinascimento?
 
«Uh! Come scotta!» Continuava a fare domande e ad ignorarmi allo contempo stesso. Era stata capace di affermare di non aver mai visto un Horror, ero quasi sicura esistessero già dagli albori del ventesimo secolo, eppure si permetteva di non prestarmi attenzione, o almeno quel minimo che mi serviva al momento.
 
«Sai cosa mi piacerebbe? Andare ad una festa. Stasera ne organizzano una.» Finalmente.
 
«Festa?» Drizzò subito le orecchie.
 
Annuii. «Sì non è neanche tanto lontano da qui, ho guardato su Google Maps.» Sempre se sapesse davvero di cosa stessi parlando.
 
«Oh. Tua madre non me ne aveva parlato.» Si accigliò.
 
Le mie mani cominciarono a tremare, dovetti nasconderle dietro la schiena, ero così sensibile. Se solo avessi saputo il metodo segreto per mentire bene a quest’ora sarei stata in grado di conquistare tutti i diritti che mi spettavano dentro la famiglia in cui mi ritrovavo. «Ecco, in realtà a lei non ho detto nulla. S-sai non volevo farla preoccupare! Però possiamo affittare un film, possiamo farlo sì. I-insomma dovrei anche prepararmi ma... Tanto non posso fare miracoli alla mia immagine no? Quanto tempo ci vorrà-»
 
«-Tesoro, ho capito. Solo avvisa la mamma.» Si girò di nuovo verso i fornelli e stranamente si fece taciturna.
 
«Uhm, non penso mi... Insomma sai mamma si preoccupa sempre tanto.» Eccessivamente, ecco qual era in realtà  la parola giusta. Si susseguirono altri lunghi secondi si silenzio. Rimasi in piedi davanti l’isola da cucina aspettando un valido responso.
 
«Se la mamma ti da il permesso per andare posso anche mangiare il curry da sola.» Inacidì. Quella che avevo davanti era mia nonna o una mia compagna di classe? Per quel che sapevo, i nonni non si trasformavano in yogurt scaduti con i propri nipoti.
 
«No, il curry lo voglio.» Risposi velocemente.
 
Dopo di che, successe una cosa strana. Vidi la nonna poggiare i palmi di entrambe le mani sul ripiano da cucina e si prese una pausa dall’attività che stava svolgendo. Rimase immobile per mezzo minuto, poi si voltò ancora verso di me. «È il preferito di tua cugina Catherine, vero?» Domandò con un aria in realtà molto consapevole riferendosi al pollo con la salsa al curry.
 
«Forse di Abbey.»
 
Scosse la testa, probabilmente sentendosi ingannata dalla sua stessa memoria. «Giusto, Abbey. A te piacciono le mele caramellate.» Era venuta pochissime volte in Australia, ma parve che questo almeno se lo ricordasse.
 
Annuii. «Sì le adoro. Ma mi piace anche il curry, io posso… Posso andare a questa festa? Le mie amiche ci vanno…»
 
«Hai delle amiche?» Chiese sorpresa.
 
«Ehm sì, una specie. In realtà non so come chiamarle, ma sono delle ragazze fantastiche che ho conosciuto a scuola, io-»
 
«-Charlotte, chiamo la mamma.» La nonna si tolse in fretta il guanto da cucina e si diresse verso il telefono fisso.
 
Riuscii a fermarla prima. «No! Non credo le vada bene. Sai, a lei non va mai bene niente.» Ridacchiai con una voce stritola cercando di rendere la cosa quasi evidente. Dannazione.
 
«C'hai provato piccola.» Disse tornando in cucina e facendomi rassegnare una volta per tutte.

 






Odiavo il curry. Con un sapore così forte, eccessivamente piccante per il palato, pesante… Per non parlare del pollo, che era crudo all'interno e proprio mal cotto. Mi stavo già preparando psicologicamente al fatto che avrei avuto i crampi allo stomaco durante la notte, rassegnata come se Zeus mi stesse per lanciare fulmini mortali agli organi digestivi. Quindi ero praticamente al completo, e senza nessun antidolorifico.
 
Appena finito di cenare fui costretta a fingere uno sbadiglio e darmi per assonnata… In qualche modo dovevo pur esercitarmi a mentire, no? Era solo il modo migliore per evitare di guardare un film con la nonna. Non che non mi piacesse stare in compagnia, ma se non potevo andare al festino tanto valeva che andassi a ripassare o semplicemente a leggere un libro sdraiata a letto in modo che mi si appesantissero gli occhi. O comunque, speravo almeno che se avessi impiegato il mio tempo a scopo produttivo i sensi di colpa di questa bugia si sarebbero in parte dimezzati.
 
Avevo scelto di leggere “I fiori del male” di Baudelaire, un toccasana per il mio stato di salute attuale, era da un po' che aspettavo di farlo, diciamo da quando l'avevo comprato in libreria, ma dopo aver letto poco più di tre pagine la mia mente stava già vagando altrove e rivangando i tempi passati. Realizzai che era come se la scena si stesse ripetendo: Al mio primo anno di liceo in Australia i ragazzi più grandi, di solito quelli dell'ultimo anno, organizzavano almeno una o due volte alla settimana un falò in spiaggia con tanta gente, musica ed alcol... Qualcosa che poteva a tutte le regole definirsi un festino. Ma a me e a Juno non ci era mai stato permesso andare, per i seguenti motivi: Mia madre una proprietaria di una campana di vetro (io la bambola di porcellana all'interno); La madre di Juno solo una donna facilmente persuasibile, soprattutto da mia madre. Mi vennero in mente le parole di Juno, quando cominciai a fissare i vestiti sopra la sedia della scrivania che avevo preparato qualche ora prima, destinati ad essere indossati per il festino.
 
«Sei fortunata Charlie. Puoi essere quello che vuoi, puoi presentarti con una personalità del tutto diversa senza che nessuno ti dica che tu non sia vera, perché nessuno ti conosce quanto me. […] »
 
Avevo fallito miseramente anche questa volta. Potevo essermi trasferita, potevo aver cambiato scuola, amicizie… Ma non la mia personalità, né le mie abitudini. Juno mi conosceva davvero così bene, ciò che speravo con questo trasferimento era poter cambiare me stessa, conoscermi meglio, probabilmente maturare una volta per tutte e riuscire a saper dire la mia ogni tanto. Ci stavo provando, ci stavo provando davvero.
 
«Tu non sei tu.» William aggrottò le sopracciglia e provò a esprimersi meglio, osservando qualsiasi mio movimento. «Tu non sei ironica. Tu sei buffa, impacciata. E corri pure male.» Denigrò. «Charlie, chi stai cercando di mostrare?» Continuò quasi colpito, come se ora avesse capito. «Te, o la ragazza che stai cercando di costruire?»
 
E la realtà era che William questo era stato bravo a capirlo, più di quanto Emily, Ross, o chiunque altro ci avesse provato nel giro di un mese. Lui non poteva conoscermi, troppo poco tempo e nessuna stregoneria, ma aveva percepito le mie intenzioni. Non sapevo con certezza cosa la gente ne pensasse di me, eppure stavo cominciando finalmente a capire cosa ne pensassi io, che fin ora se stavo fallendo era semplicemente perché nel tentativo di cambiare la mia personalità in realtà stavo cercando inconsciamente di cambiare me stessa. Come una ricetta stavo sostituendo totalmente gli ingredienti,  invece di equilibrarne le dosi o nettamente diminuirle o aumentarle. Col tempo magari avrei anche capito quale fosse l’unico ingrediente segreto che mi mancava, ma per il momento dovevo andarci a tentativi, e l’ingrediente che quella sera decisi di provare fu l’indisciplina.
 
Chiusi il libro di scatto scaraventandolo accanto a me sul letto, presa dal momento di euforia. Mi alzai e chiamai Emily per dirle che anche io ci sarei stata, che l’avrei accompagnata a quel fottuto festino (o comunque che lei avrebbe accompagnato me) e che sì, in un modo o nell’altro sarei uscita di nascosto. Double blow! Il mal di testa era persino scomparso.
 
Connettei il cellulare al caricabatterie dopo aver parlato con Emily e lo lasciai sul comodino, scesi al piano di sotto velocemente come nulla fosse per dare un ultimo bacio della buonanotte alla nonna, che parve non sospettare nulla, anzi. Risalii sopra e mi chiusi dentro la mia stanza, misi con un assurda frenesia il vestito bordò già stirato e calzai un paio di stivaletti stile British. Un’Australiana in America vestita all’Inglese - ero decisamente una bomba multietnica. Ai capelli non potetti fare gran che, li raccolsi in uno chignon e misi giusto un filo di matita agli occhi - dopo aver lacrimato per circa un quarto d’ora.
 
Da lì a breve vidi lo schermo del mio cellulare illuminarsi, avevo ricevuto un messaggio.
 
Da: Emily Henderson
– 20:31
Non preoccuparti, andrà tutto bene. Non c’è modo che tua nonna o i tuoi possano scoprirlo. Ricordi? Devi agire come una gatta felina.
 
Era confortante come Emily appoggiasse il mio folle piano e mi rassicurasse, ma era anche qualcosa che comunque le dovevo. Aveva speso così tante energie per convincermi ad andare durante le ultime tipo due settimane. Tuttavia, cominciarono ad incombere i primi sensi di colpa.
 
A: Emily Henderson
– 20:33
Non ce la farò Emily.
 
Bloccai lo schermo del cellulare e cominciai a saltellare un po’ di qua e un po’ di là intorno al letto cercando di scrollarmi di dosso tutti i pensieri negativi, togliendomi le scarpe ovviamente. Sembravo più uno sciamano nell’intento di invocare la pioggia, comunque.
 
Da: Emily Henderson
– 20:34
Arrg!
 
Saltellai un altro po’, sempre senza scarpe per evitare un inevitabile frastuono dello schiantarsi dei tacchetti contro il parquet. La nonna era sorda, ma non così tanto. Chissà cosa stesse facendo al momento di sotto, doveva aver sicuramente finito di lavare i piatti,  forse si stava guardando un Norror. Per amor del cielo.
 
Da: Emily Henderson
– 20:56
Ti sto aspettando, sono appostata dietro ad una macchina nera.
 
Questo era il segnale. Rimisi gli stivaletti ai piedi e mi guardai per un ultima volta allo specchio. Mi morsi il labbro e capii che la ragazza che rifletteva lo specchio probabilmente sarebbe finita in un grosso guaio… O in una grossa punizione della durata di circa un mese.
 
Da: Emily Henderson
– 20:57
Forse è grigia, sai il buio.
 
Come avevo visto fare nei film, presi due cuscini e qualche peluche e li infilai velocemente ma con accuratezza sotto le coperte del letto, disponendoli in modo tale da poter sembrare una Charlie dormiente. Chiusi la porta a chiave e mi precipitai di fronte la finestra. Panico. Primo piano. Vertigini. Mi sedetti a cavalcioni con timore sul davanzale e feci penzolare una gamba nel vuoto, tenendomi stretta agli infissi con entrambi le mani . Guardai un’altra volta di sotto. Rimisi entrambi i piedi dentro e aprii il computer per cercare su Youtube un video che potesse spiegarmi come poter fare.
 
Da: Emily Henderson
– 21:07
Sbrigati. C’è un gatto che mi sta ringhiando contro. Odio i gatti, che motivo hanno di esistere se ci sono già le tigri?
 
L’unica cosa che trovai fu un video di un maiale che veniva gettato da una finestra e che una volta atterrato aveva cominciato a fare strani versi simili a dei lamenti. Rassegnata spensi tutto una volte per tutte, mi presi di coraggio e mi arrampicai ad una grondaia che passava proprio accanto ai muri in direzione della mia stanza, e arrivata a metà feci un salto per gettarmi di sotto nel modo più aggraziato possibile. Mi sbucciai un ginocchio.
 
A: Emily Henderson
– 20:15
Sono a qualche metro da te, sei così carina mentre accarezzi il gatto.
 
Emily sorpresa si tirò su e guardò già con aria nostalgica andar via il gatto dal pelo arancione dei vicini che in realtà era uscito dal recinto della loro proprietà.
 
«Stai... Veramente bene. Per essere una a cui proibiscono anche di smaltarsi le unghie, ragazza, sai vestirti.» Si complimentò Emily, susseguendo pure un breve applauso. Feci un simpatico inchino e arrossii per quello che avevo appena fatto. Dovevo esser sembrata così patetica.
 
«Cosa hai fatto al ginocchio?»
 
«Incidente di percorso.» Sbiascicai, cercando di tirar giù il vestito in modo che non si vedesse. Per fortuna non avevo le calze. Con un paio di quelle addosso strappate sarebbe stato tutto più imbarazzante. «Stai così bene con quelle ciglia lunghe…» Cercai di cambiare discorso, anche se in realtà lo pensavo davvero. Emily stava bene con praticamente tutto addosso, secondo la mia opinione, e non si trattava solo di trucco o un paio di belle scarpe.
 
«Sono finte. Tranquilla, ti darò una sistemata prima di entrare, ma adesso andiamo.» Mi afferrò per il polso ed impaziente intraprese una camminata veloce. Lo sapevo che non mi ero truccata abbastanza.
 
«È la cosa più folle che abbia mai fatto in vita mia.» Quasi urlai quando già avevamo svoltato la via di casa mia. «Sono scappata dalla finestra!» Ridacchiai davvero schifosamente eccitata di ciò che stavo facendo. «Come nei film capisci? Speriamo mia nonna non se ne sia accorta.» Avrei voluto fare un salto a casa per vedere se i cuscini sotto le coperte erano apposto. Oddio, forse mi ero scordata la luce del bagno aperta. «Emily, mi sento così una brutta persona. Forse dovrei tornare a casa e prendermi la punizione che mi spetta.»
 
«Charlie, spegniti.»






«Ascoltami bene. Due semplici cose da ricordare: Non accettare drink dagli sconosciuti e non fissare i fidanzati delle altre.» Mi confidò Emily quando cominciammo a udire un sottofondo di musica House infondo alla via.
 
«Chi fissa i fidanzati delle altre?»
 
«Io non più.» Rispose Emily in maniera asciutta.
 
Bicchieri rossi coprivano l’erba del prato tagliato della grande villa di Haynes, le luci dei faretti da esterni si confondevano con la luce psichedelica che proveniva da dentro la struttura. Eravamo arrivate. «Emily? Sono apposto?» Domandai, guardandomi addosso maledicendomi di aver indossato un vestitino.
 
«Sei perfetta, sciogliti. Non devi essere tu quella ad indurirsi. Mi sono spiegata, no?» Scossi la testa, ridendo alle sue parole.
 
C'era gente sparsa qua e là, casse di birra ben in vista, e la musica davvero abbastanza alta per quello che penso potevano permettersi ad una certa ora. La villa di Jason Haynes era bellissima, ero così invidiosa. All’entrata un gruppo di miei coetanei stava parlando, ridendo e fumando qualcosa che sapeva di dolce, un odore che non avevo mai sentito prima.
 
«Erba.» Commentò Emily, rispondendo alla domanda che non le avevo neppure posto.
 
Annuii solamente, disgustata, seguendola dentro casa. Diedi una veloce occhiata in giro, scoprendo di essere appena diventata parte di un tipico festino del liceo. Perlomeno l’ottantacinque per cento della gente dentro e attorno alla casa era ubriaca da far paura, il forte odore dell’alcool, come quello dell’erba, era presente nella stanza. La gente ballava, o meglio saltava nei dintorni come dei completi idioti.
 
«Guarda un po' chi ci onora della sua presenza! La bella sorella del mio miglior cliente.» Un ragazzo non esageratemene alto ci venne incontro e si avvicinò più ad Emily per poterle baciare la guancia.
 
«Smettila, Matthew. Non te la darò neanche stasera.» Rispose aspra la boccolosa.
 
Le puntò gli occhi addosso, squadrandola da testa a piedi. «Non perdo le speranze Henderson.» Ed entrambi scoppiarono a ridere.
 
Sentii una voce femminile urlare attraverso la stanza. «Emily!» Una ragazza arrivò incespicando sui piedi nudi, tenendo nella mano sinistra i suoi tacchi. Il secondo seguente stava gettando le braccia attorno a questo ragazzo di cui avevo appena fatto la conoscenza senza presentarmi davvero , strillando come se avesse appena vinto la lotteria.
 
 «Louisa? Di cosa si è fatta?» Ridacchiò Emily osservando la ragazza evidentemente ubriaca. «Non lo so, io non centro nulla.» Il ragazzo alzò le mani in alto fingendo dell’innocenza, mentre ancora la ragazza si stava strusciando su di lui in un modo poco raffinato.
 
Emily mi fece fare un passo avanti. «Lei è Char-»
 
«-Charlotte Wilson, ho presente. La nuova arrivata.» Parve finalmente notarmi. Il suo viso aveva dei bei lineamenti, particolari, e il sorriso sghembo che aveva stampato in faccia mi aveva già dato una mezza idea del tipo che potesse essere. «Ma parla anche?» Disse rivolgendosi a me. Arrossii incapace di rispondere o, che so, interagire.
 
Emily sbuffò sentendo le parole del ragazzo. «Matthew, servimi.» Disse pretenziosa.
 
«Questa sera sul leggero, ti voglio sobria.» Matthew si scrollò di dosso la ragazza e le disse di aspettarlo sul divano. Non credo avesse davvero capito la ragazza, si era praticamente volatilizzata. Estrasse da un taschino interno alla giacca un sacchetto di cartone, con le dimensioni simili di un pacchetto di sigarette, e glielo porse.
 
La boccolosa afferrò il pacchetto e diete un colpetto sul braccio del ragazzo. «Non aspettarmi troppo in camera da letto Matthew.» Disse con evidente ironia, e sincronicamente ripresero a ridere, facendomi domandare perché diavolo ridessero tanto.
 
Emily parve allontanarsi da Matthew subito dopo, io rimasi immobile senza seguirla intuendo cosa stesse andando a fare. «Charlie sto uscendo fuori a farmi qualche tiro, cerca di rilassarti torno da te appena finisco, posso allontanarmi o... Insomma se vuoi venire-»
 
«-no tranquilla. Starò qui seduta ad aspettarti.» Indicai lo sgabello di un piano bar vicino a noi, e da lì a breve mi ci sedetti vedendo Emily scomparire nella stanza piena di persone. Non ci ero rimasta male, ma speravo tornasse a breve, quella casa sembrava così dispersiva…
 
Non riuscivo a crederci, era come se stessi vivendo dentro una realtà totalmente a me estranea. Chi l'avrebbe detto che io Charlotte Wilson avrei avuto l'occasione di partecipare ad un festino? Ridevo già nell'immaginarmi l'espressione di Juno via Skype una volta che gli avessi raccontato di essere riuscita a scappare di casa. Magari avrebbe anche provato un po' di invidia... Juno non si era mai spinta a tanto, probabilmente anche per i cani da guardia che vigilavano nel suo giardino. Poteva aver baciato più ragazzi di me, ma insomma, stasera stavo vedendo più ragazzi io di quanto in assoluto ne avesse visti lei in tutta la sua esistenza sulla terra. No ok, forse stavo esagerando un po'.
 
Un ragazzo di colore dietro il bancone interruppe il treno dei miei pensieri, chiedendomi che cosa volessi da bere. Entrai nel panico. Non sapevo come si chiamassero i drink, né che gusto avessero. E poi, avrei dovuto pagarlo? Avevo in borsa solo cinque dollari. In tutta la mia vita avevo assaggiato solo una bevanda alcolica, ed era il Malibù, con della cola, ad un open bar di un matrimonio di una zia in Australia.
 
Il ragazzo parve percepire il mio disorientamento, si sporse vicino al mio orecchio e quasi urlò per la musica eccessivamente alta. «Ti faccio uno shot, per cominciare, ok?» Annuii in risposta ricambiando un sorriso. Cosa diamine era un shot?
 
Mi guardai intorno cercando con lo sguardo se ci fosse qualcuno che conoscessi, anche solo di vista ovviamente, o Emily. Mi sentii rincuorata quando intravidi Rossella seduta su un divanetto vicino a Derek. Cercai di attirare il suo sguardo, ma mi sentii osservata dalla gente intorno per i gesti che stavo facendo ed allora mi rimisi in quiete imbarazzata.
 
«Questo lo prendo io.» Matthew afferrò il bicchierino che il ragazzo ti-faccio-uno-shot aveva appoggiato di fronte a me sul banco e lo bevve tutto in un sorso. Da dove diamine era spuntato? Non era con Emily?
 
Gli lanciai un’occhiataccia. «Scusa?»
 
«C'era una pasticca nello shot.» Matthew sogghignò, guardandomi per un secondo. «No scherzo, nessuna pasticca ho solo pensato di aver necessariamente bisogno di questo drink.»
 
«Grazie.» Dissi ironica ed alzai gli occhi al cielo. Perché era così facile prendermi per il culo? «Solo perché è la mia prima volta.» Farfugliai.
 
I suoi occhi divennero due fessure mentre continuava a guardarmi. «Ora sì che si spiega tutto… Sai il primo festino si ricorda per tutta la vita. Vedi di renderlo speciale e di non tenere il broncio.» Sorrise incoraggiante, poi chiese al ragazzo dietro al bancone un altro shot.
 
«Hai visto Emily?» Chiesi preoccupata.
 
Lui si morse il labbro e guardò il vuoto dritto davanti a se. «Oh, se l'avessi vista non starei qui.»
 
«Matthew.» Una voce maschile famigliare lo chiamò con tono uniforme. William si fece largo tra me e Matthew e dopo essersi salutati amichevolmente, con stretta di mano e pacca sulla spalla, si appoggiò con i gomiti al banco. «Apposto?» Continuò, mentre gli era bastato alzare un dito per far capire al ragazzo di colore cosa volesse da bere.
 
«Sì.» Annui Matthew. «Conosci Charlotte? È di molte parole.» E mi indicò facendo in modo che William mi notasse, cosa che credetti in realtà fosse già successa. Perché ignorarmi? Dovrei essere io ad ignorare lui – cosa praticamente impossibile per come si era conciato. Quella camicia bianca, quei capelli spettinati, quei pantaloni semi aderenti, quella piacevole scia di profumo che era entrata prepotentemente nelle mie narici. Uno schifo insomma. Schifosamente sexy.
 
Si voltò con nonchalance verso la mia figura. «Problemi, Wilson?» Disse con voce tremendamente roca. L’aveva fatto di proposito, fottuto. Cercai di mantenere il contatto visivo per qualche secondo, poi afferrai il bicchierino che mi aveva appena ripreparato il ragazzo dietro il banco e lo bevetti tutto di un sorso, come avevo visto fare a Matthew qualche minuto prima. Una volta svuotato lo riposai con aggressività e mi mostrai a William con un sguardo di superiorità senza dire una parola. Rimase mortalmente serio e mi squadrò, senza aspettare il drink che aveva chiesto se ne andò indignato. Uno a zero per Charlotte Wilson.
 
«Ma si paga?» Sussurrai a Matthew appena problemi-wilson-gnigni si volatilizzò.
 
Ridacchiò. «Scherzi? Haynes si farebbe mordere un dito pur di non far pagare da bere ai suoi invitati. Tutto quello che vedi qui è proprietà-Haynes. Beh, questo perché è schifosamente ricco.» Annuii comprendendo, e ne fui assolutamente contenta dato che non avevo intenzione di pagare due gocce di drink che mi avevano fatto contorcere il palato.
 
«Cosa c'è tra voi due? Quest'aria così statica.» Chiese all’improvviso. «Psicologo Matthew Campbell al suo servizio.» Girò lo sgabello in cui era seduto verso me e mise le mani conserte come pronto ad ascoltare.
 
«Non c'è davvero nulla, e non ho bisogno di alcuna seduta.»
 
Matthew gettò lo sguardo nella mischia. «Ti piacciono i cattivi ragazzi.» Ne dedusse, quando vide Alexia dare distrattamente un bacio sulle labbra di William e facendomelo rigorosamente notare. «Non sto cercando di impressionarti o altro, ma quando avevo tredici anni e Disney Channel mi ha chiesto di entrare sul suo sito internet con il permesso dei miei genitori, beh, sai ho fatto io? Non gliel'ho chiesto. Fa di me un cattivo ragazzo?»
 
Scoppiai a ridere per la stronzata che aveva detto. «Cattivissimo.»
 
D’un tratto il volume della musica si abbassò, e tutti si misero in cerchio attorno ai divanetti del salotto. «Attenzione prego.» Urlò William alzandosi in piedi sopra un tavolino. «Haynes, un festino che merita non è un festino senza discorso. Puoi concedermi l'onore?» Chiese, mantenendo un volume di voce abbastanza alto e tenendo una mano sul petto in attesa di approvazione. Un ragazzo alto con una maglietta a scollo a V nera annui con un sorriso - Haynes era veramente un figo.
 
William tossì, sgranchendo le corde vocali prima di iniziare con il suo discorso. «È una festa fantastica, non ci deludi mai fratello. La tua villa è stupenda e tutte queste casse di birra lo sono ancora di più. Ci sei nato Haynes, ricordo di quando sei riuscito ad organizzare un festino in sole tre ore in un garage abbandonato e con il diluvio universale. Ci siamo spaccati di Alcol quella sera, e fatto altre cose che non riesco a ricordare. Dovresti, sì dovresti dirmi dove intendi andare al College, ti seguirei. Se fossi una ragazza ti succhierei il cazzo.» Scherzò su, e la gente attorno cominciò a ridere e a incitarlo come fosse il pezzo forte della serata- cosa che in realtà era, persino più di Haynes. «Credo di potermi dichiarare più tardi peró Haynes, magari in intimità.» Rise di gusto e si fece passare un bottiglia di birra. Avevo appena visto William esibirsi con una cafonata, la gente rideva ma io ne ero sdegnata. «Ah, posso approfittare?» Disse prima di scendere dal tavolino.
 
«Nessuna campagna propagandistica sul tuo pisello Henderson!» Urlò un qualche ragazzo dal fondo della stanza.
 
Lui stesso sorrise, poco dopo cercò di farsi serio. «Come quarterback a nome della mia squadra colgo questa occasione, gente presente qui stasera, studenti della Gilbert High School, per ringraziarvi. Apprezziamo con tutto il cuore il vostro supporto e il vostro tifo sempre così caloroso, caldo, come le cheerleader giusto?» Una massa di maschi ignoranti cominciò a sopreccitarsi a quelle parole, le cheerleader si guardarono tra loro con sguardi di adorazione verso il loro Leader Henderson Supremo. Oh signore.  «Sapete che vi dico? Vi assicuro che vinceremo e chiuderemo in bellezza questa stagione ragazzi, spaccheremo i culi!» Si voltò verso i membri della sua squadra, radunati in gruppo come un gregge, per riceverne la loro approvazione. «E poi c’ho davvero un bel pene lo sappiamo tutti.» Disse sfociando di nuovo nella stupidità.
 
Volevo decisamente andarmene, avevo già visto troppo, perché non ero rimasta a casa ad intrattenere la mia serata con Baudelaire?
 
«Un brindisi quindi ad Haynes in primo luogo, al nostro coach, alle cheerleader, ai musicisti, alla nostra mascotte, ai nerd, al preside, ai bidelli, ai secchioni, agli artisti, ai nuovi arrivati, ai gay, agli etero, e soprattutto ai vergini... » Si bloccò per qualche secondo, cercando probabilmente qualcuno tra la massa. «Wilson non sembri molto a tuo agio.» Oh no, non lo aveva fatto sul serio. «Devi tranquillizzarti, nella nostra scuola le vergini sono ben accette, c'è una fila proprio di ragazzi esperti ben disposti ad aiutarti e farti sentire, come dire, meno diversa. Vero ragazzi?» Se già praticamente tutti si erano voltati a guardarmi, adesso ne stavano persino ridendo più forte di prima.
 
«Sei vergine, davvero?» Chiese Matthew sorpreso ed inopportuno prima che potessi scendere dallo sgabello e allontanarmi.
 
«Chi si offre? Al primo una birra in omaggio.» Continuò William. Un improvviso nodo alla pancia mi fece venire la nausea, le mie mani cominciarono a tremare, il mio corpo bollire di rabbia e imbarazzo. Tutte quelle persone stavano continuando a fissarmi con pietà e divertimento. Le voci di quella stanza si amplificarono nella mia mente, la mia vista si offuscò un po’, un senso di smarrimento mi colpii, mentre mi dirigevo senza controllo verso la figura di William, sceso dal tavolino come avesse finito il suo show.
 
«Sei un tale stronzo!» Avvicinandomi a lui lo spinsi forte, facendo pressione sul suo petto. Delle lacrime cominciarono a rigare il mio viso.
 
Strinse delicatamente le sue mani intorno entrambe i miei bracci. «No, no piccola, non hai motivo di piangere. A meno che qualcuno non ti ficchi due dita nella vagina.» Disse spietato. Mi liberai dalla sua presa, e istintivamente sganciai uno schiaffo con tutta la forza che possedevo contro il suo bel viso. Un inquietante silenzio calò in tutta la sala, il suono doveva esser rimbombato in tutta la stanza, persino sopra la musica. Avevo perso i controllo, la sua guancia adesso era di un color rosso scarlatto, e calando lo sguardo verso la mia mano, notai che anche essa lo era. Scappai in preda al panico e uscii fuori percorrendo una ventina di metri lontano dalla villa. Fu lì, che mi accasciai dietro un secchio dell’immondizia e scoppiai a piangere scossa. Perché aveva fatto una cosa così cattiva?
 
«Charlie!» Sentii chiamare. «Charlie!» Questa volta con più insistenza. Era la voce di Rossella, che mi raggiunse, trovando il mio nascondiglio. Si abbassò verso me tenendosi sulle ginocchia, prendendo il mio viso e asciugandomi le lacrime. «Ehi, va tutto bene.» Disse guardandomi dritta negli occhi. Si sbilanciò per abbracciarmi, e lo fece forte, tenendomi stretta e accarezzandomi la testa. «Va tutto bene.»







Chiedo venia per il ritardo!

Salto le scuse e passo subito a informarvi di una cosuccia. Non so quanti di voi conoscano Polyvore, ma ho creato un account per le mie storie di efp, dove ho già pubblicato alcuni outfit (potete followarmi, lasciarmi qualche like e spulciare il mio profilo)
Cliccando sui nomi delle ragazze sarete indirizzati sugli outfit indossati nel capitolo 22, ovviamente al festino. Come impiegare il mio tempo in scemenze varie, esatto.

Charlotte Wilson - Emily Henderson - Rossella Esposito

Passando al capitolo... Beh, che dire? E schiaffo fu, caro William.
Il carattere di Charlie sta mutando, la vediamo sempre più determinata, e sempre più attratta dal maschio alfa Henderson, che si è davvero comportato da "Tale Stronzo" detto con le stesse sue parole.
Per non parlare di Emily, scomparsa all'improvviso dopo neanche aver appena messo piede dentro la casa. Da non sottovalutare il ruolo di Matthew in questo capitolo, che riesce con la sua confidenza a strappare un sorriso a Charlie.
Cosa accadrà?
Per adesso vi invito, come sempre, a lasciare una recensione ed uno vostro parere.

Un baiser à tous!






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Capitolo 23
*** twenty-three ***


23


Emily Henderson


«Sai perché ci sono così tanti piatti da lavare in questa casa? Beh, vediamo se riesci a trovare la risposta infondo al tuo bitume di stomaco!» borbottò William, mentre con un paio di guanti rosa shocking, il grembiule di nostra madre con su scritto sopra "the queen of the kitchen" e la spugnetta dalla parte dello strato di fibra verde, sgrassava via lo sporco dai piatti e dagli utensili usati durante la cena di quella domenica sera. Ma William aveva detto tante di quelle cose nel giro di un quarto d'ora che nemmeno uno scherno in riferimento alla mia fame perennemente chimica avrebbe fatto sì che gli rivolgessi la parola. Mi limitavo a svolgere il mio compito, ovvero quello di sciacquare e asciugare.
 
«Fai pratica per entrare in convento? Vedi che il voto del silenzio è un’altra cosa, non basta tacere con me e poi urlare “mamma manca la carta igienicaaaa” da dentro il bagno, seduta sopra il cesso, facendo rimbombare la tua voce per tutta la casa.» Odiavo quando si comportava così, in realtà odiavo William quando si comportava in qualsiasi modo, era così insopportabile e fastidioso. Cosa ci trovassero di tanto speciale le ragazze in lui io non lo avrei mai capito, ma non era molto difficile supporre che molte di loro si limitavano all'aspetto fisico.
 
Faceva così freddo quella sera, portavo dei calzettoni di lana fino al ginocchio ma l'acqua che scorreva sopra i piatti ed alcune posate rendeva gelide le mie mani. Quando si trattava di lavare o pulire io e mio fratello eravamo veramente dei fenomeni, formavamo una squadra efficiente, ma il meccanismo che eravamo riusciti a ingranare quella sera ad un certo punto si arrestò. «Guarda, sono il vecchio che abita qui a lato» lo sentii blaterale ancora al mio fianco. Mi voltai curiosa di ciò che volesse intendere con quella frase e lo vidi ricoperto di schiuma di sapone sul viso dal naso in giù come volesse ricreare una barba, e dell'altra schiuma sopra le sopracciglia. Ma ciò che ottimizzava l'imitazione era il sorriso spaventosamente mille denti, gli occhi corrucciati, la schiena curva e la mano socchiusa come reggesse una bastone immaginario. Tutto questo era così divertente e mi dovetti sforzare per trattenere una risata ed ignorarlo. Sapeva lavorare bene di fantasia, ma con quell’imitazione era praticamente identico al Sig. Garcia, sfortunatamente nostro vicino (si lamentava e borbottava sempre, vedovo da pochi anni e probabilmente impotente da molti di più).
 
William, proprio come avevo previsto, non parve accettare facilmente il fatto che io avessi appena snobbato un’altra delle sue buffonate, e soprattutto l’indifferenza nei suoi confronti che si stava prolungando già da circa due giorni. «Ti lecco la faccia» mi minacciò, con la lingua sporta a pochissimi centimetri dalla mia guancia.
 
Mi ritrassi immediatamente. «Smettila!»
 
Scaraventò con forza la spugna sopra il resto dei piatti ancora sporchi, chiuse il rubinetto dell’acqua e batté con forza una mano sull’orlo del lavandino, per poi fissarmi rabbioso e disorientato. «Mi dici che cazzo ti prende in questi giorni?» Finalmente aveva smesso di comportarsi come un bambino. «Anche se, non posso non ammettere che ho passato i due più bei giorni della mia vita a non sentire la tua vocina pretenziosa e fastidiosa percuotermi dannosamente i timpani e i coglioni.» Come non detto.
 
«Qualcuno però avrebbe dovuto percuoterti un altro po’ la faccia di schiaffi.» Presi la spugna e continuai ad insaponare i piatti al posto suo. Non mi sarei persa il film della domenica su ABC Family, e quella sera avrebbero trasmesso Hunger Games. Dio, quanto poteva esser bello Liam Hemsworth?
 
William gettò un forte sospiro seguito da delle urla. «Finalmente! Ti applaudirei ma ho le mani fatte di sapone per piatti… No scherzo, te le batto lo stesso!» Così facendo un po' di schiuma di sapone che aveva tra le mani schizzò tra i miei vestiti. «Sto aspettando che il tuo moralismo mi sporchi il cervello di cazzate» continuò con tono canzonatorio.
 
«Di tutte le cavolate che tu abbia fatto questa è la peggiore. Umiliare una ragazza davanti a un mucchio di gente per che cosa esattamente?» Mi voltai appena. «Hai realizzato di non essere abbastanza figo quella sera fino a quando non ti è venuta in mente questa brillante idea di fare il deficiente per trascinare la tua barra della popolarità fino allo schifo?» Ero veramente furiosa per questo. Sapevo che mio fratello non aveva mai avuto bisogno in vita sua di fare qualcosa del genere per poter spostarsi al centro dell'attenzione, né aveva alcuna necessità di scalare la top list del gossip scolastico dato che beh, era praticamente sempre il primo in classifica.
 
Deglutendo sospirò e guardò avanti a se, nel vuoto. «Senti Emy, mi pare che non ti abbia gonfiato di botte come avrei voluto e dovuto fare per non avermi ascoltato ed essere andata comunque al festino di Haynes, soprattutto prendendo in considerazione il fatto che mamma non ne è totalmente al corrente di questa tua uscita di venerdì sera. Quindi, per ricambiare il mio bel gesto, dovresti stare zitta e non osare neanche processarmi riguardo a ciò che è successo.» Poi si voltò verso me, sorridendomi sarcasticamente. Rimasi a fissarlo disgustata. «Poi perché lo fai? Perché questa volta ci è andata di mezzo la tua nuova amichetta del cuore super-super-duper?»
 
«No forse l’hai fatto proprio perché lei è la mia nuova amica… Super-quello che è! Ti odio, perché devi rendere la mia vita un inferno?» Mi asciugai nervosamente le mani su una pezza da cucina appesa su un pomello di una delle due ante del bancone sotto il lavandino. 
 
William lasciò uscire una corta risata. «Credi davvero che io abbia abbastanza tempo per rovinarti la vita? E poi se davvero l’avessi voluto l’avrei fatto tempo fa, quando dalla mia culla ascoltavo i divini e religiosi ansimi di mamma e papà che copulavano per il tuo concepimento!»
 
«Smettila di infastidire le persone che mi stanno intorno» lo bloccai subito, volendo evitare di sentire di peggio uscire dalle sue labbra.
 
«Smettila di rompermi le palle che mi stanno attaccate proprio al basso ventre» rispose a tono. Non era affatto divertente.
 
Quando mio fratello aveva umiliato Charlie davanti a un mucchio di gente io non ero presente, ma avrei potuto giurare che se fossi stata lì in quel momento avrei sicuramente fatto qualcosa per impedirlo. Mi avevano raccontato tutto comunque, e non c’era stato bisogno di chiedere spiegazioni una volta che, uscita fuori dalla villa di Haynes, avevo trovato Charlie in lacrime tra le braccia di Rossella. «Ti sei servito di lei perché è una ragazza molto sensibile e introversa.» Alcune immagini di quella sera vennero subito alla mia mente, Charlie con un viso distrutto e le mani tremolanti.
 
«Introversa? Mi pare sappia fare bene la troietta con i ragazzi che neanche conosce» sputò fuori come veleno.
 
Dalla faccia che fece subito dopo capii gli fosse scappato di bocca. «Lo sapevo» urlai. Lui sollevò immediatamente la manopola dell’acqua, riprese tra le mani la spugna e cominciò a strofinare i piatti sporchi restanti.
 
«Tutto ciò non mi interessa comunque» borbottò.
 
In quel momento mi era tutto chiaro. «Fai veramente schifo, per il tipo che sei non mi è difficile credere che hai dell’interesse nel trombarti Charlie solo perché ha un aspetto carino! Cosa ti da fastidio esattamente? Che lei sia attratta da ragazzi più intelligenti di te? E poi che diamine dici, sono sicura che lei non si sia atteggiata, neanche considerando il minimo significato della parola, con nessun ragazzo!»
 
«Non hai idea delle cazzate che stanno uscendo dalla tua bocca.» Scrollò la testa in disaccordo. Non capii bene precisamente riguardo cosa, se per non averlo considerato un ragazzo intelligente o se per aver ipotizzato un suo interesse nei confronti di Charlie, o entrambe.
 
«No Will! Ti sei trombato tutte le mie amiche delle medie e hai giurato, se non sbaglio, che non avresti più uscito dalla tana la tua talpa!» Sbraitai, chiudendo sotto i suoi occhi la manopola impedendogli di distrarsi ed ignorarmi. «Lo abbiamo stipulato, ho ancora la tua firma sul quel pezzetto di carta» gli ricordai – e non stavo scherzando. Avevamo davvero fatto un accordo, alcuni anni prima. 
 
«E l'ho mantenuto! Poi non esagerare… Non proprio tutte» farfugliò.
 
«Clarissa la disabile non conta» risposi rapidamente. Strano c’è da dire, dato che comunque di respirare respirava, di avere una patata in mezzo alle gambe l’ aveva, e che quindi era il tipo di ragazza che a mio fratello al tempo andava più che bene.
 
«Ah» sibilò. L’espressione sul mio volto era fredda come la pietra. «No aspetta, c'è Rossella!» Esclamò poco dopo, quasi sentendosi offeso da me.
 
Lanciai uno sguardo di disapprovazione. «Che centra, lei non te l'avrebbe data comunque né hai tempi delle medie né in questi.» Benedivo la sua cotta platonica per Derek, in questi unici casi, per il resto era una vera scocciatura.
 
«Ma io non ci ho provato, ed è questo che conta» ammiccò, ricevendo in risposta un secondo sguardo di disapprovazione. «Sto scherzando! Santo Dio.» Roteò gli occhi al cielo. «E poi tutta la tua stupida piccola gang, tipo Leila, Lily e Madison…»
 
«Va bene, hai mantenuto l'accordo, dopo il contratto. Ma ti consiglio di continuarlo a mantenere, se non te ne fossi reso conto vale anche per Charlie.»
 
«E tu se non te ne fossi resa conto, stai continuando ad urlare, irritandomi notevolmente e abradendo con carta vetrata a grana fine il mio venerabile scroto!» Si stava permettendo di urlare così tanto solo perché nostra madre non era in casa. Lei non tollerava quel tipo di linguaggio volgare che usava spesso mio fratello, perciò lui non era solito farlo davanti  a lei.
 
«Dato che siamo in argomento, dovresti evitare di trombarti Alexia, lo sai che è totalmente scorretto! Nonostante, devo dire, sia la cagna fertile del quartiere dei cani. Quello che è successo con-»
 
«-sta zitta.» mi interruppe prima che potessi finire la frase, e lasciò la stanza dopo essersi scrollato di dosso grembiule e guanti da cucina. “Fantastico, ancora alcuni piatti da lavare e lui si trasforma subito in una puttanella permalosa lasciando finire il lavoro a me” pensai.






«Allora? Vi siete baciati?» Chiese con insistenza Lily, mentre eravamo tutte sedute ad ascoltare l’interminabile storiella di Rossella al nostro tavolo speciale da Gino’s. Era un bar Italiano vicino scuola ma, ad ogni modo, di cibo Italiano c’era ben poco.
 
«No» rispose secca l’interrogata in questione. Che poi non si mangiava male, anzi, si mangiava malissimo. Il cornetto che prendevamo tutte le mattine era sicuramente surgelato. Che poi, insomma, quale sana persona di mente sperava davvero di trovare un cornetto fresco a New York? Però era un bar che ci veniva di strada, un bar in cui i proprietari ci facevano sempre lo sconto (grazie alla mia simpatia, sia chiaro, le altre sono sempre state tutte delle  morte viventi) e poi ci convocavamo praticamente tutte le nostre riunioni d’urgenza, tipo quando una volta a Lily tardò il ciclo mestruale e la disperazione della situazione era praticamente palpabile dato che eravamo arrivate a pensare, essendo vergine, che fosse finita incinta tramite immacolata concezione (beh, a pensarci bene, questo è successo davvero parecchio tempo fa).
 
«Ma come no?» Scioccò Madison. Certo, doveva esser davvero difficile come cosa da concepire dato che, a differenza dell’Italiana, lei l’aveva già data via al suo primo appuntamento. A Lucas. Ovviamente.
 
«Ti ha respinto o cose così?» Si preoccupò di dire Leila. “Ragazze la respinge da circa cinque anni, qual è la novità adesso?” Avrei voluto dire io, ma me la risparmiai.
 
«No! Io non c'ho provato.»
 
«E lui nemmeno» dissi con, credo, davvero pochissimo tatto, guadagnandomi una frecciatina dall’interessata. Inoltre mi sentivo già abbastanza ostile con il sapore in bocca di marmellata sicuramente andata a male. Ma perché ci ostinavamo ancora a mangiare lì?
 
«Non siamo stati sempre da soli» si difese Rossella. «La squadra di rugby era sempre intorno a noi, e a Derek sembrava non dispiacere la loro compagnia.»
 
«Specialmente quella delle cheerleader» sottolineai.
 
Alcune delle vene sulla sua fronte si gonfiarono, le sue mani si irrigidirono e la bocca si contorse (tipico di Rossella quando sta per raggiunge l’apice dell’impazienza). Sì trattenne con un sospiro e continuò. «Di solito si accerchiano intorno a William, ma la presenza di Alexia sembrava intimorirle, e quindi erano tutte praticamente attaccate a Derek, Santo Dio! Queste cagne non sanno stare nella propria corsia!» Batté un pugno contro la superficie del tavolo facendoci sobbalzare. Godzilla era tornato in città gente.
 
«Non ti ha nemmeno palpato? Nemmeno un pochino? Non so, le gambe o il fondoschiena?» Domandò Lily. Mi stavo divertendo davvero tantissimo.
 
«No.»
 
Che delusione. «Perché Derek sa essere così gay?» Mi lamentai.
 
Rossella decisamente irritata ormai evitava il mio sguardo su di lei. «È stato molto educato, ha persino controllato il mio drink, ieri sera circolavano parecchie pasticche. “Non me lo perdonerei mai” mi ha persino detto.»
 
Cosa? «Ma quando? Quando giravano le pasticche io non ho sentito neanche l'odore! Mannaggia.»
 
Le ragazze risero. «Emily contieniti. Charlie potrebbe scambiarti per una a cui piace drogarsi» Leila ridacchiò.
 
«Io? Probabilmente è mio fratello quello che ieri ha esagerato con qualcosa» Ripensai alla discussione con lui della sera prima, e cominciai a farmi qualche domanda in proposito. Mi venne spontaneo concentrare il mio sguardo su Charlie.
 
«Si è messo così in imbarazzo, è andato di matto» continuò per me Rossella. Dopo di che, calò praticamente il silenzio. Le altre ragazze non erano andate al festino, quindi tecnicamente non potevano sapere cosa era successo, ma praticamente invece lo sapevano. A cosa servivano i telefoni allora? Solo per ricevere fastidiose chiamate dalle compagnie telefoniche? Infatti pensai di avvertirle io stessa, per decidere insieme come comportarci in proposito, arrivando alla conclusione di appoggiarla irrompendo a scuola con i capezzoli al vento e con frasi femministe scritte sui nostri corpi, come una vera rivolta. Cioè no, in realtà questa era stata la mia conclusione, le altre si erano accordate per offrirle una pizza.
 
Bocciata la mia idea, mi ero almeno concessa di esplicitare più volte di non far uscire gli argomenti “William”, “Festino” e “Verginità” per i prossimi giorni a venire di fronte a Charlie. Ma evidentemente Rossella, stupida per com’era, si era già dimenticata di questa raccomandazione e aveva cominciato a raccontare la sua noiosissima storia, ed io ero dovuta correre subito ai ripari con del sarcasmo. Dopotutto, cosa potevo aspettarmi da una che si specchiava in media cinquecento volte al giorno?
 
«Sta tranquilla a chi vuoi che importi?» Spezzò il silenzio Leila, proprio lei, che quella sera era rimasta a casa a fare biscotti con sua madre e che quindi non poteva sapere cosa era successo al festino di Haynes in una villa a quarantacinque minuti da casa sua. “Massima segretezza ragazze, massima segretezza” avevo detto qualche sera prima per telefono. Un corno! Stavo vedendo andare in fumo il mio piano, per di più  in una location da quattro soldi. Quanta nostalgia della vita da agente del’FBI che già avrei dovuto fare.
 
«Charlie sei stata davvero grande! Io ad esempio non ne sarei stata capace...» Continuò la stessa Leila.
 
Madison ci mise pure del suo. «L'odio che devi provare per lui ora deve essere davvero qualcosa di incomparabile.»
 
Allorchè, come avevo previsto, Charlie scoppiò. «Io devo andare… A scuola? Sì a scuola. D-devo finire un progett- un compito... Un qualcosa del genere, prima che suoni la campanella. Scusatemi, ci vediamo.» Già, era scoppiata del tutto.
 
«Ma Charlie non hai preso nulla!» Urlò Rossella quando la bionda si alzò per andarsene, con il senso del dovere da neo-amica di offrirle qualcosa a tutti i costi pur di tirarla su di morale. Strano, si erano accordate per una pizza, non per una colazione da “Spazzatura e Catrame”.
 
Che disastro.
 
Le ragazze cominciarono a darsi la colpa a vicenda per quanto era successo, i clienti attorno a noi, tra cui anche studenti della nostra scuola, ci guardavano con occhi curiosi cercando probabilmente di captare anche un minimo delle nostre discussioni per poi ricavarne in stile patchwork una versione dei fatti personale da passarsi tra di loro, e dato che tutto ciò mi infastidiva, mi alzai dal mio posto e senza neanche pagare uscii dal locale per raggiungere Charlie, qualcosa che avrei dovuto fare già molto tempo prima.
 
Mancavano ben dieci minuti al suono della prima campanella, ma mi dovetti affrettare ad entrare a scuola per non perdere di vista Charlie che quasi sicuramente si era recata al suo armadietto come era per lei e per praticamente tutti consuetudine fare la mattina all’ingresso.
 
«Non era mia intenzione lasciarti da sola» sputai con il fiatone, una volta trovata proprio dove avevo immaginato. Lei si stupì vedendomi lì e sentendo cosa  le avevo detto, ma cercò di non scomporsi tanto e, continuando a svuotare il suo zaino dai libri che lo riempivano, cercò quasi di liquidarmi. «Uhm, tranquilla.»
 
«No, non passarci sopra. Insultami, dimmi qualcosa di cattivo. So riconoscere quando c’è qualcosa di cui devo essere punita, e questa è tra le tante. Quindi avanti, e vai sul pesante mi raccomando.» Mi impuntai davvero, i sensi di colpa che mi avevano accompagnato lungo questi ultimi giorni mi stavano uccidendo.
 
«Non ho nessuna intenzione di farlo» rispose quasi esterrefatta, voltandosi verso la mia figura.
 
«Oh beh, è un bel gesto, sì insomma un gesto alla Charlie, perdonarmi senza dire nulla in proposito e per di più, così facendo, dimostrando una certa superiorità… E’ ammirevole!» Ero stata più sincera che sarcastica. «Sì ma è anche inaccettabile, non provare mai più a fare la superiore con me, occhi languidi. Ti è permesso solo questa volta, dato che l’ho combinata veramente grossa.» Così dicendo riuscii a farla sorride.
 
«Tu sei tutta matta, che problema hai?» Rise ancora chiudendo l’anta dell’armadietto e mettendosi sulle spalle il suo adorato zaino.
 
Risposi di fretta, senza controllare cosa avessi per la mente, e senza trattenermi sul cosa dire e su cosa no, come avevo fatto prima al bar. «Beh, non uno. Tanti in realtà. Come mi è solo passato per la mente di lasciarti da sola? Mi dispiace davvero che sia successo, e mi dispiace anche che mio fratello sia un tale cretino.» Non era mio solito scusarmi per qualcosa, odiavo farlo. Ma in quel momento mi era davvero venuto spontaneo. «Sappi che io non l’ho mai voluto nella mia famiglia, ma ehi sono arrivata dopo di lui, non ho avuto la possibilità di lamentarmi o impedire la sua nascita perciò...» Continuai. La sua espressione crollò, probabilmente facendole ricordare nuovamente quanto era successo. A differenza di quanto avevo detto sia alle altre che a me stessa precedentemente, realizzai che forse per lei parlarne con qualcuno sarebbe stato meglio. «…Come ti senti?» Domandai spronandola, notando che si era ammutolita d’un colpo.
 
«Devo andare davvero a lezione, tu non hai Letteratura Inglese adesso, vero?» Cominciò a camminare superandomi, con una certa fretta ed ignorando totalmente il fatto che mi stessi preoccupando per lei.
 
Sentii un certo senso di irritazione. «No, Sociologia» le risposi contenendomi. D’altronde stava a lei scegliere se sfogarsi al riguardo o meno, non potevo obbligarla. Cercai inoltre di ricordare a me stessa che il suo comportamento era del tutto normale e non aveva alcun senso aggredirla.
 
«Ci vediamo a Chimica allora» disse camminando sempre più velocemente.
 
L’osservai per un po’ nei suoi movimenti .«Seconda ora, giusto?» Quasi urlai, quando lei ormai era molti metri lontano da me, ricevendo come risposta solo un cenno di conferma. Grazie a Dio, non ricordavo davvero a quale ora si fosse tenuta la lezione di Chimica quel lunedì, mi sentii una totale svampita. Fino a quando i miei occhi non incrociarono qualcosa che in quel periodo mi interessava particolarmente. Mi avvicinai con discrezione, guardandomi intorno. «Scusami? Uhm, sai dov'è lo stanzino delle scope? Devo darci un'occhiata sai, per vedere se dentro ci stanno tutte le... Scope.» Scandii bene le parole, assicurandomi che la figura maschile che mi si era proposta davanti capisse perfettamente.
 
Ottenni della collaborazione. «Certo, seguimi. Come hai detto che ti chiami?»
 
«Emily, Emily Henderson.»
 
«Oh, la sorella del famoso William Henderson?» Fece finta di meravigliarsi, mentre insieme ci incamminammo verso la non lontana meta.
 
«Lo conosci bene, vedo.» Continuai, stando perfettamente al gioco.
 
«Già, giochiamo nella stessa squadra» annuì lui con un sorriso malizioso. «Ecco, siamo arrivati. Aspetta che ti aiuto.» Aprì la porta dello stanzino, mi diede la precedenza ed entrammo senza smuovere l’interruttore della luce, facendo i modo che la stanza rimanesse buia. Appena chiuse la porta dietro di noi, mi trattenni dal ridere e rubai dalle mani la sua sacca scaraventandola a terra. «Pensi che qualcuno ci abbia visto?» Sussurrò afferrando il mio bacino e trascinandolo verso se.
 
«Brian, è probabile, ma tanto non ci hanno mica visto fare questo.» Non aspettai altro e fiondai le mie labbra sulle sue, impaziente di colmare quell’astinenza provata lungo gli ultimi giorni senza baciarlo e senza… Sì insomma, senza fare dell’altro. Ci eravamo veramente divertiti al festino di Haynes io e Brian, eravamo soliti rinchiuderci in posti stretti e bui per stare da soli, ed era stato veramente difficile inoltre accontentare le nostre voglie dentro la stanza del guardaroba della Signora Haynes, soprattutto perché c’era davvero molta gente e il rischio che qualcuno ci scoprisse era veramente alto.
 
«Tutto questo è ridicolo. Ma fottutamente eccitante» biascicò Brian con difficoltà, per poi insinuare la sua lingua dentro la mia bocca. Era davvero un gran baciatore, non per questo lo avevo scelto tra la vasta gamma di ragazzi che fremevano di scoprire la mia grotta sotterranea. Peccato che sfuggiva a tutti un fondamentalissimo particolare: Nessuno avrebbe accesso la propria torcia su un luogo naturale di mia totale proprietà. Ma comunque, era divertente per me invece scoprire sempre ogni giorno di più cosa Brian, a differenza mia, non custodiva con cautela.
 
«Non penso di esser pronta a dire a qualcun altro che non sia tu di questi nostri... Sai, incontri speciali» sussurrai contro le sue labbra.
 
Lui si ritrasse per qualche secondo prendendo aria. «Vuoi dirmi che sono la tua puttanella?»
 
«Sì esatto» dissi senza fare tanti giri di parole e facendola sembrare quasi una cosa corretta.
 
«E io ti dico che mi sta più che bene.»





Charlotte Wilson


Oltre ad essere depressa, triste e ancora abbastanza stordita a causa di quanto era accaduto (beh... tecnicamente a causa di quanto era stato detto) alla festa, ero nervosissima. Avevo uno strano presentimento, convinta che mi sarebbe accaduto qualcosa di brutto una volta varcata la porta d'ingresso dell'edificio scolastico occupato per lo più dalle stesse persone presenti al festino di Haynes, che avevano avuto inoltre il piacere di venire a conoscenza della nuova arrivata-verginella. Ma ciò non era ancora stranamente successo. Avevo già varcato quella porta, ed avevo già conseguito la prima ora di lezione senza che nessuno accennasse minimamente l’argomento o ridesse alle mie spalle.
 
Una ragazza che stava smanettando con quello che supposi fosse il suo cellulare, masticando un chewing gum e facendo scoppiare le bolle dentro la bocca, incrociò il mio sguardo e mi sorrise leggermente. «Oh, hey Charlotte!»
 
La salutai con una mano, mentre con l’altra reggevo i libri che sarebbero serviti per la prossima lezione. «Hey Bree.» Avevo chiesto di lei a Emily, durante una delle nostre ultime lezioni di Chimica, notando gli innumerevoli positivi interventi in classe. Avevo saputo per certo fosse molto brava nelle materie scientifiche e la cosa mi interessava parecchio dato che nella mia vecchia scuola ero stata una delle uniche poche ad eccellere in quel campo. Non mi aveva mai salutata prima di allora, chiamandomi per nome, e la cosa mi aveva confusa.
 
Come faceva a sapere il mio nome? Scacciai quel pensiero avvicinandomi a lei. «Mi dispiace per ciò che ti è stato detto al festino. Cavolo William è proprio uno stronzo!» Bree mi risvegliò dai miei pensieri, attirando la mia attenzione come disse "festino".
 
Aggrottai le sopracciglia. «Anche tu l'hai visto?» Chiesi, sperando che ci fosse anche la più piccola speranza che qualcuno non avesse assistito alla cosa più umiliante di tutta la mia breve vita.
 
«Nah.» Rispose. Sospirai sollevata. «Però ne stanno parlando tutti.» No! Il mio cuore cominciò a battere velocemente e mi sforzai a deglutire, nonostante la mia gola e la bocca fossero secche. Insomma, che dovevo aspettarmi? «Comunque, stai andando in classe?» Annuii, rifiutandomi di parlare.
 
Non so, forse era solamente colpa della sindrome premestruale, ma sinceramente... Chi non sarebbe sconvolto, sentendo che tutti parlano di un episodio imbarazzante che ti riguarda personalmente? È senso comune, anche se già nel mio caso l’avevo previsto. Mi schiarii la voce, alzando lo sguardo. Lei continuò a fissarmi, come se aspettasse una mia qualche reazione, qualcosa come “Tu stai andando anche?", come lei aveva fatto con me. Anche quella sarebbe stato senso comune, credo. Di solito ci si comporta come se si fosse interessati tanto per essere educati. Ma non riuscivo a pensare lucidamente. Mi sentivo completamente fuori luogo. La superai, rifiutandomi di guardarla negli occhi. Mi sentivo anche in colpa per essere stata maleducata con lei, dal momento in cui mi aveva detto che tutti stavano parlando di me, ma avevo assunto un comportamento simile anche con le ragazze, qualche ora prima, mentre eravamo sedute ad un bar e si parlava del festino. Ovviamente immaginavo che Emily o Rossella avessero informato le altre di quanto era accaduto e tutto ciò mi imbarazzava, non ero stata capace di far altro che scappare piangendo, e quello schiaffo ad ogni modo non aveva risolto le cose, anzi probabilmente le aveva solo peggiorate dato che chi si difende alzando le mani è solo troppo poco intelligente per difendersi a parole.
 
Dopo essermi sciacquata il viso in una delle fontanelle situate lungo i vari corridoi, raggiunsi la classe di Chimica, mi sedetti al primo banco libero che vidi, scaraventai lo zaino a terra, uscii i libri e con sguardo assente mi misi composta aspettando che l’insegnante arrivasse. Durante il fine settimana non avevo avuto neanche il tempo di anticipare l’argomento del giorno, come ero solita fare, decisamente troppo impegnata a deprimermi e struggermi tra le lenzuola del mio letto. Ma che poteva fregarmene di  meno della regola dell’ottetto e le sue eccezioni o della forma degli orbitali quando qualcuno aveva completamente fatto il mio umore a pezzi? Avrei mai potuto trovare tra le pagine del libro di testo qualche tipo di esperimento da attuare per eliminare dalle mente dei miei coetanei ciò che avevano visto e sentito al festino di Haynes, o che so magari un modo per smolecolarizzare William Henderson?
 
«Stai bene?» Bisbigliò una voce vicino a me. Mi voltai per guardare Emily, che mi stava dedicando un’occhiata interrogativa. Annuii solamente prima di spostare la mia attenzione sul Sig. Flanagan anche se non avevo idea di ciò di cui stesse parlando, né avevo idea del perché lui si fosse posizionato proprio di fronte a me come se stesse aspettando qualcosa. Era sicuramente già entrato da un pezzo durante la corsa senza fermate del mio treno dei pensieri. Adoravo la Chimica, ma quel giorno avrei preferito restare a casa o in quel momento essere totalmente in un altro posto… Tipo sottoterra, all’epicentro, a bollire nel magma come calzini sporchi. Perché alle persone interessava tanto parlare dei fatti degli altri? Eppure ero sicurissima che moltissime altre ragazze in quella scuola fossero vergini e caste esattamente come me, perché allora di loro non se ne parlava? Perché al mondo esisteva William Henderson?
 
«Devi star tranquilla, nella nostra scuola le vergini sono ben accette, c'è una fila proprio di ragazzi esperti ben disposti ad aiutarti e farti sentire, come dire, meno diversa. Vero ragazzi?»
 
«Wilson? Allora! Può rispondere lei?» Quasi urlò il Sig. Flanagan e un sottofondo di risate da parte dei miei compagni riecheggiò per tutta l’aula. Non avevo ascoltato una parola. Mi era stata posta una domanda? E che domanda? Di cosa si stava parlando esattamente?
 
Spostai lo sguardo verso la lavagna e cercai di focalizzare in breve tempo… Ma che diamine significavano quelle cose impresse sopra? Ad un tratto tutto ciò che c’era scritto mi sembrò un ammasso di scarabocchi.
 
«La classe oggi mi sembra più assente del solito, ma devo ammettere che almeno confidavo in lei signorina Wilson. Qualcosa non va oggi?» Domandò amareggiato.
 
«Chi si offre? Al primo una birra in omaggio.»
 
Abbassai lo sguardo. «No, è tutto okay.» Risposi quasi inudibilmente.
 
«No, no piccola, non hai motivo di piangere. A meno che qualcuno non ti ficchi due dita nella vagina.»
 
Mi lanciò ancora uno sguardo dolente. «Sicura? Cosa c’ha?»
 
«Sicuramente la verginità!» Schernì Kevin Rouse in tutta la sua spavalderia quasi urlandolo, in modo che lo sentissero tutti. Ovviamente questo scaturì nuovamente  un sottofondo di risate, io avvampai per l’imbarazzo e provai un nodo allo stomaco, come stessi rivivendo ciò che era accaduto al festino. Non ebbi il coraggio di voltarmi indietro, strabuzzai gli occhi e cercai lo sguardo dell’insegnate che al momento era veramente confuso. Prima che quest’ultimo aprisse bocca per ripristinare la quiete, avvertii uno spostamento d’aria dietro le mie spalle: Emily aveva lanciato una matita contro Kevin, e l’aveva giusto preso in pieno in un occhio.
 
«Rouse e Henderson, in presidenza!» Urlò scioccato il Sig. Flanagan, avviandosi alla porta e aprendola invitando i due ad uscire fuori. Kevin fu quello che si alzò per primo, sostenendo di aver veramente bisogno di andare in infermeria mentre Emily lo insultava dietro pesantemente. Si era veramente cacciata nei guai per me, mi aveva difeso, e Rossella aveva fatto lo stesso quella sera una volta scappata via in lacrime, raggiungendomi e consolandomi. Per questo, decisi proprio in quel momento, che non l’avrei più frequentate. Non avrei permesso di far rovinare anche la loro reputazione.
 
Una volta suonata la campanella, scappai velocemente via dalla classe e mi diressi verso armadietto, stava diventando tutto troppo pesante da gestire, da sopportare, volevo solo prendere le mie cose, andare via e non mettere più piede lì dentro. Volevo tornare a casa, ma proprio a casa mia, in Australia, e avrei fatto di tutto per convincere i miei a farlo, non mi importava del lavoro di papà, sarei andata dai nonni, mi sarei presa cura di loro, oppure da Juno, tanto a casa sua c’era abbastanza spazio per me.
 
Bollivo dentro di emozioni e le mie gambe non erano mai state così veloci, ma una volta arrivata davanti a quello che fino a poco prima pensavo sarebbe stato per l’ultima volta il mio armadietto, quelle stesse gambe si atrofizzarono e dentro non sentii più nulla. Tanti post-it colorati ricoprivano quella superfice di acciaio, post-it di tutte le svariate forme. La mia vista si annebbiò di colpo, mi sforzai di focalizzare il numero sopra la targa, sperando non fosse davvero il mio armadietto, sperando non fosse il 536. Tutti gli studenti che passeggiavo lungo quel corridoio ridacchiavano notando ciò che purtroppo stavo notando anche io, non poteva essere vero.
 
Mi scagliai contro con rabbia e senza fermarmi un secondo staccai tutti quei pezzi di carta con su scritto sopra numeri di telefono anonimi o accompagnati da nomi di ragazzi che neanche conoscevo, che in modo derisorio mi invitavano ad andare a letto con loro. Non ebbi neanche il coraggio di leggere tutte le proposte, accartocciai quelli che potei gettandoli a terra, aprii l’anta e con un gesto netto trascinai tutto quello che c’era dentro lo zaino. Il mio cuore batteva così forte che invece il tempo sembrava andare a rilento, alcuni post-it erano anche all’interno ed era come se levandone uno altri tre spuntavano all’improvviso non lasciandomi in pace. La testa cominciò a martellarmi, non ero poi più così tanto sicura che l’ossigeno mi stesse arrivando al cervello, sarei svenuta lì davanti per l’imbarazzo e il dolore che stavo provando se non fossi uscita immediatamente da quell’inferno.
 
Voltai lo sguardo cercando di capire quante persone stavano assistendo a tutto ciò, ma tutti i volti mi erano così tanto sconosciuti, tutto ai miei occhi apparì confuso. Riuscii a leggerne solo uno chiaramente, un volto inconfondibile. Incrociando il suo sguardo avvertii un comune stesso senso di smarrimento.
 
Forse per la prima volta in vita sua, William Henderson, si sentì sopraffatto e schiacciato dalle conseguenze delle proprie azioni.







E con il 2015 ecco il mio agoniato rietro con un capitolo tutto capitanato dall'ironia e dall'umorismo di Emily Henderson, ma che si chiude con tutto rispetto con la nostra protagonista.

Quanto tempo è passato dall'ultimo aggiornamento? Mesi? Anni? Quante di voi nel frattempo si sono trovate il ragazzo o firmato il mutuo per la prima casa?

A me sono cresciuti solo di qualche centimetro i capelli e spuntato qualche nuovo brufolo sul mento.

Passando al capitolo, devo dire che ho davvero dedicato tutta me stessa nella stesura, e praticamente scritto e cancellato innumerevoli volte.
Ero davvero molto insicura su che forma dargli, ma alla fine ce l'ho fatta e cagata o meno eccolo qui.
E vi ho voluto veramente bene ad aver fatto indossare a William un paio di guanti rosa shocking, già, anche lui lava i piatti e fa i servizi di casa.

Emily si scopre aver un amico di limoni, e probabilmente fonte di distrazione che l'ha impegnata al festino lasciando sola Charlie durante il fattaccio.
Possiamo fargliene una colpa?
Voi che avreste scelto?
La vostra neo-amica o i limoni?
Io i limoni. E se volete fateme una colpa.

La vita di Charlie invece diventa sempre più turbolenta, da quando si è trasferita non ha un attimo di pace interiore, sempre scossa da continue emozioni e sventure che di certo almeno l'aiuteranno a crescere e a maturare nel corso della storia. Se siete capitate qui per caso sperando di trovare una storia con una ragazzina che sprofonda nell'autolesionismo, beh vi siete davvero perse, proprio come se stesse giocando durante una festa in casa a mosca cieca e foste finite a palpare le tette di vostra nonna. Se c'è qualcuno che dovrebbe lesionare qualcun'altro questa è sicuramente Charlie che dovrebbe davvero far perdere molto sangue al tenebroso e acclamato Henderson (oppure potrebbe sempre imparare da Emily e lanciare oggetti di cancelleria addosso cercando di prendere la mira su parti estremamente sensibili). Anche se forse proprio ora non sarebbe il caso, dato che il nostro bad boy si è probabilmente accorto, come dice Charlie, della gran cazzata che ha combinato.

Andiamo invece a compatire Rossella che ahimè di limoni non ne ha visti. Derek sembra quasi più puritano di Charlie, e questo non fa altro che accrescere del desiderio e delle voglie represse nell'Italiana.

Al prossimo aggiornamento, baci bacioni (chissà magari nel frattempo metto su anche qualche taglia di seno).






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Capitolo 24
*** twenty-four ***


24


Derek Foster


«D’accordo ragazzi, abbiamo finito per oggi. Subito sotto le docce!» La voce del coach risuonò attraverso il campo. Un sospiro lasciò le mie labbra mentre una mano batteva il cinque e stringeva quella di William. Ero contento che potessi andarmene dopo due ore di duro allenamento e sicuramente doveva esserlo anche lui, nonostante da quarterback e capitano della squadra cercasse in tutti i modi di non darlo a vedere.
 
Ero riuscito a mantenere la testa sul gioco ma comunque diversi pensieri occupavano la mia mente. Ad esempio, gli esami di fine trimestre erano alle porte ed io non mi sentivo abbastanza pronto per poterli affrontare. Come avrei mai potuto riuscire a prepararmi nel giro di poche settimane? Avrei potuto passarli senza studiare o era davvero necessario farlo? E per cena cosa avrei messo dentro il toast? Di cosa avevo davvero voglia, Cheddar o Gouda?
 
«Fermati, devo parlarti un attimo.» La voce di William a pochi metri dietro di me interruppe i miei pensieri quando fui sul punto di aprire la porta per gli spogliatoi. In un primo momento arrestai il passo, aspettando che si avvicinasse per ascoltare ciò che poteva mai avere da dirmi, ma subito dopo quando invece focalizzò il suo sguardo su Brian, che era proprio di fianco a me, capii che avevo frainteso.
 
Durante il riscaldamento avevo notato come il coach e William avevano avuto da discutere un po’ in disparte dal resto della squadra, era cosa comune, William la rappresentava e veniva sempre coinvolto nelle decisioni più importanti come schemi o tattiche di gioco, quindi tutte le responsabilità ricadevano continuamente su di lui e sulle sue scelte, anche quelle dei compagni. Probabilmente, cominciai a pensare, la precedente discussione tra i due poteva aver coinvolto appunto Brian, considerando lo sguardo severo che gli stava indirizzando adesso.
 
«In questi giorni sei completamente assente in campo. Che cazzo ti prende?» Sputò subito William senza giri di parole al suo interlocutore. Ancora respirando con difficoltà mi sedetti in una panca all’interno, cercando di rimanere concentrato sulla loro discussione. In genere mi divertiva ascoltare questo genere di cose, altre volte invece mi sentivo quasi in dovere di assistere, per intervenire nel caso eventuali liti sfociassero in veri e propri scontri fisici – non ero un vero “Paladino della giustizia”, ma mi piaceva credere di esserlo.
 
«Nulla. A cosa ti riferisci?» Brian non parve impiegare molto tempo per formulare la sua risposta – una cosa che, al contrario, era vivamente consigliato fare se chi si aveva davanti era uno come William Henderson.
 
«Oggi hai mancato diversi passaggi e ti ho placcato più volte quasi come se fossi tu stesso a darmene l’opportunità» rispose automatico. Brian interdetto, questa volta, rimase in silenzio e diede a William la possibilità di continuare. «Ascoltami bene. Fai in modo che il coach non proponga un cambio tra te e Duncan per la prossima partita con i Golden Eagles!» minacciò bruscamente «Duncan non è abbastanza in forma per giocare al momento… O forse non lo sei neanche tu?» domandò poi ancora approcciandolo.
 
Brian come un agnellino impaurito  fece un passo indietro. «Non accadrà Will» chinò il capo per evitare il suo sguardo e subito si allontanò. Questo comportamento lo aveva reso solo più ridicolo e sì, era stato tanto divertente quanto mi aspettavo.
 
«Vedi che ce ne è anche per te, non guardarmi in quel modo» mi indicò dopo che la sua preda risparmiata si dileguò, come fosse sul punto di dare una nota di demerito anche a me. Per quel che ricordavo, William non era mai riuscito a godersi quel tipico momento di stanchezza e sollievo che di norma ci assaliva dopo un allenamento, non si riposava sedendosi semplicemente, lui si aggirava per gli spogliatoi buttando merda in faccia a chiunque l’avesse fatto innervosire sul campo da gioco.   
 
«Avanti Will. Non ti sembra di esagerare? Siamo tutti sotto stress per gli esami di fine trimestre, dacci tregua» gli suggerii, mentre il mio respiro lentamente si alleggeriva e fastidiose stille di sudore ricoprivano il mio corpo.
 
Si tolse la maglietta, la gettò sopra la panchina e restando a dorso nudo, madido anche lui di sudore, si strofinò il petto. «Cosa hanno di differente questi esami dai precedenti? Quanto può essere difficile studiare le solite due cazzate?» Chiuse gli occhi e dopo essersi stiracchiato cercò di rilassare i muscoli delle spalle – era veramente distrutto.
 
«Non siamo tutti come te» gli ricordai affliggendomi. A differenza mia, a lui bastava veramente poco per apprendere una qualsiasi cosa con il minimo sforzo.
 
Mi contradisse quasi subito. «Derek vuoi davvero dirmi che se fate proprio schifo ultimamente in campo si tratta di stress per gli esami?» Sapevo che diceva queste cose e usava questo particolare tono per spronarci a dare il meglio di noi, ma spesso scambiava il suo ruolo con quello di coach e la cosa riusciva ad irritarmi parecchio. Ignorandolo mi avvicinai al mio borsone alla ricerca di un asciugamano pulito per avviarmi alle docce.
 
William non restò lì a fissarmi in attesa di una qualche risposta, si avvicinò al suo borsone e ne estrasse dall’interno una bottiglietta d’acqua. Era da sempre stato molto orgoglioso, non faceva assolutamente trasparire le sue emozioni – eccetto quando si trattava di dover pestare di botte o far una ramanzina a qualcuno, in quel caso era una pala eolica durante un forte giorno di vento. Nonostante ciò, potevo dire con fermezza che lui fosse davvero mio amico e che mi conoscesse veramente bene dall’unico fatto che ormai dopo diversi anni aveva imparato egregiamente che fare il sostenuto con me non l’avrebbe portato affatto da nessuna parte. «Che ci faceva con te Rossella al festino di Haynes, ad ogni modo?»
 
Sapevo me l’avrebbe chiesto, ma una parte di me sperava non se ne fosse neanche accorto. «E’ carina, credo» risposi un po’ indugiando.
 
«Quindi?»
 
«Ci sto provando, suppongo.»
 
William simulò un risolino. «Oh, sai ero convinto del contrario. Non lo sta facendo lei da già… Uhm vediamo, sempre
 
«Beh adesso è differente, okay? Non credo comunque di avere tempo per queste cose al momento, perciò non fa nulla.» Ed era vero. La scuola e gli allenamenti ultimamente occupavano la maggior parte del mio tempo, arrivavo sempre a casa di sera stremato e a fatica riuscivo anche solo a dialogare con la mia famiglia per la troppa stanchezza. Lanciarmi in un qualche tipo di relazione non era nei miei piani, ma l’esser venuto al corrente di una possibile infatuazione di Rossella nei miei confronti aveva suscitato in me quell’interesse nel volerla accompagnare al festino di Haynes. In fin dei conti era davvero una bella ragazza.
 
«Okay amico, rilassati. Dove sta il problema? Sfondala. Ma sbarazzatene subito dopo» ghignò William.
 
«Non credo di voler fare questo» risposi dubbioso.
 
William si stupì e si voltò per guardarmi. «E cosa allora?»
 
A dirla tutta non è che fossi proprio completamente contrario, ma Rossella non sembrava quel tipo di ragazza con cui potessi fare ciò e poi, essendo un’amica di Emily da parecchi anni, era come se l’avessi un po’ vista crescere e mi sarei sentito in colpa a fare qualcosa che avrei potuto invece fare con qualsiasi altra ragazza senza vincoli di nessun genere. Forse dovevo ancora capire cosa fosse giusto e cosa invece volessi fare.
 
All’improvviso un fastidiosissimo rumore metallico alle nostre spalle interruppe la discussione. Entrambe ci girammo di colpo turbati, ma non ci volle molto tempo a realizzare che era stato veramente stupido farsela addosso per lo spavento, tra risolini e mormorii vedemmo uscire dalla porta del ripostiglio delle attrezzature Lucas e la sua bella.
 
«Non trovavo il mio borsone» farfugliò Madison con le guance arrossate e il respiro affannoso, sentendosi quasi costretta a darci una qualche spiegazione quando per prima si accorse della nostra presenza.  
 
Lucas nel frattempo si stava alzando i pantaloni della divisa sportiva, il che non aveva molto senso dato che non si era neanche presentato agli allenamenti e non aveva quindi avuto modo di usarla. «Uhm sì esatto. La stavo aiutando.»
 
«Credevo che voi della squadra di nuoto femminile aveste un vostro spogliatoio. Sai, se fosse stato il contrario me ne sarei accorto» alluse William, mentre potetti capire ci stesse mettendo tutta la sua forza di volontà per trattenere una risata.
 
«Ed è così. Non è come sembra!»
 
«E’ tutto apposto, tranquilla.» La interruppi, cercando di metterla a proprio agio, cosa che al contrario non si stava preoccupando di fare William squadrandola come fosse una sgualdrina.
 
In breve tempo, con imbarazzo misto ad adrenalina, sgombrarono lo spogliatoio, uscendo dalla porta del retro. In pochi attimi sia io che William eravamo a terra dalle risate. Lì intorno non c’era nessun altro oltre noi, pensai fosse andata veramente bene ai due amanti che lo spogliatoio fosse stranamente isolato. Scene e incidenti del genere fanno sì che la gente abbia sempre qualcosa di cui parlare. Non che Madison e Lucas fossero carne fresca, ma la loro indecifrabile e soprattutto incompresa relazione veniva vissuta dal resto del corpo studentesco come una partita di biliardo, ma con un’infinità di palle da metter dentro le buche. E loro erano dentro questa partita da parecchi mesi ormai.
 
«Non come loro due capisci? Lucas ne è praticamente rimasto incastrato, come in una grande rete per pesci, lui è un piccolo Salmerino Alpino senza speranze. Vuoi davvero essere un Salmerino Alpino, Derek?» Disse William, riprendendo la discussione che era stata interrotta, cominciando a boccheggiare un po’ muovendo le braccia come fossero delle pinne, un po’ spalancando gli occhi, facendomi letteralmente morire. Biasimavo Lucas, un po’ meno Madison che mi dispiaceva davvero per lei che avesse passato e stesse passando ancora del tempo con lui.
 
«Oh giusto, quindi dovrei comportarmi come te e Alexia?»
 
Si accigliò. «E’ successo solo quattro volte.»
 
«Smettila William.»
 
«Forse cinque. Se non prendiamo in considerazione la scopata dietro-»
 
«-vedi che sono serio. Dacci un taglio.»
 
«Lo sai che mi fotto anche le sue amiche, e se volessi giuro che potrei farmi persino sua madre.» Contestò.
 
«Puoi scoparti chi vuoi, ma Alexia-»
 
«Sei un figlio di puttana!» Delle urla mi interruppero. Io e William ci guardammo confusi e quando altri insulti provocatori arrivarono alle nostre orecchie, ci affrettammo a raggiungere le docce.
 
«Ho solo chiesto alla piccola Henderson se potesse darmi il numero della sua amica Charlotte, lo sai che ho un debole per le vergini.»
 
«Che cazzo hai detto? Pezzo di merda vieni qui.» Brian si scagliò contro Kevin, e subito gli altri ragazzi che si trovavano intorno si tuffarono per separarli. Le voci si sovrapponevano una sull’altra ed era difficile capire chiaramente.
 
«Che cazzo sta succedendo?» Urlò William rabbioso.
 
Kevin cominciò a ridere di gusto, mentre Brian agitato continuava a delirare. «Tu non ti devi neanche avvicinare a lei!»
 
Era incredibile come Brian si stesse battendo per Charlotte, eravamo tutti scioccati e nessuno aveva idea che si sentisse con la bionda.
 
Dato l’accaduto alla festa di Haynes, distolsi il mio sguardo verso William, il vero interessato, e ad un tratto il suo viso non mi parve aver proprio una bella cera. Erano giorni che provavo a parlare con lui della cazzata che aveva combinato, ma con scarsi risultati. Non aveva da dire nulla in proposito, e l’argomento era diventato un taboo.
 
«Siete un branco di coglioni!» Sclerò il quarterback improvvisamente, alla vista di tutto quel putiferio. «In campo fate i piè e le giravolte, poi dentro gli spogliatoi tutti spocchiosi! Certo, sacchi di merda!» Kevin smise di ridere, e Brian si ammutolì. «Vorrei prendevi a pugni in faccia, con una forza tale da rompervi i denti e farveli sputare uno ad uno da quelle putride bocche!»
 
Calò il silenzio, a rimbombare adesso erano solo le urla di William. L’atmosfera divenne un gelo totale, passò più di qualche secondo prima che William ricominciasse. «E tu sciacquati la bocca prima di parlare di mia sorella o di qualsiasi cosa la riguardi, idiota.»



Charlotte Wilson


Era abbastanza tardi per i miei standard. Avevo appena finito di studiare, ero molto stanca e non vedevo l'ora di mettermi sotto le coperte ad ascoltare un po' di musica, dato che beh, era praticamente l’unica cosa che mi era concesso fare. Da quando nonna Wilma aveva spifferato tutto ai miei genitori riguardo la mia fuga segreta (ora non più tanto segreta) dello scorso venerdì sera, la mia vita si era ridotta precisamente a: scuola, casa, studio e pasti principali. In più, oltre a reggere sulle spalle il peso della mia verginità, avevo sulla coscienza il quasi-infarto che avevo procurato alla nonna nel momento in cui alzando il piumone non era me dormiente che aveva trovato ma un ammasso di cuscini.
 
Non era poi così male dopotutto essere in punizione, non avrei dovuto usare nessuna scusa per declinare qualsiasi uscita mi si proponeva di fare… Cioè nessuna, al momento (le richieste dei post-it non contavano). Forse lo pensavo perché ci ero dentro da soli tre giorni, ma ad ogni modo il mio viso non aveva davvero tanta voglia di farsi vedere fuori (non che qualcuno lo conoscesse, oltre i limiti delle quattro mura della mia scuola).
 
Mamma non immaginava neanche avessi a portata di mano il mio vecchio Ipod, perché nonostante lo custodissi con cura e lo tenessi nascosto per non rischiare di farmelo sequestrare, la verità era che non ricordava di avermelo già sottratto qualche anno prima - come dopotutto non poteva nemmeno essere al corrente della sua pessima reputazione nel nascondere gli oggetti. Prima di mettere le cuffie all’orecchie andai a creare una nuova playlist dall’originalissimo nome “Punizione”, che comprendeva quel genere di musica tollerabile durante il  mio attuale stato emotivo. Non avevo preso bene l’umiliazione di cui ero stata vittima né tanto meno la situazione post-it (così la chiamavo), ma ciò che mi amareggiava più di tutto era l’aver perso la fiducia dei miei genitori e di Wilma (per me era, orribile da dire, una comune parente, dal momento in cui da quando ero nata l’avevo vista sì e no una decina di volte). Quindi di ripartire per l’Australia per un tempo che si protraeva tra il sempre e il sempre non se ne parlava proprio, anche se intanto i maggiori, la sera, erano sempre a spasso da qualche parte a godersi la vita come se si dimenticassero non solo del fatto che non erano proprio più una coppia di neo sposini ma anche di avere una figlia a casa da sola a crogiolarsi per la sua patetica vita. Okay, in realtà questo non capitava sempre, ma la loro presenza non mi avrebbe confortato comunque.
 
Inoltre di conforto quella sera non lo era stato neanche quell’improvviso “driin” del campanello alla porta. Qualcuno (chissà, magari un serial killer, uno stupratore cinquantenne o un orso- che sapeva suonare i campanelli)  aveva appena driindirellato, ed io avrei solo voluto non aver udito quel driindirellìo. Driindirellare alle dieci della sera non era davvero legale, credo - a meno che non fosse la notte di Halloween.
 
Raggiunsi la porta, avevo il fiatone. Non per la corsa nelle scale, ma per la paura di chi ci fosse là dietro a cercare chissà chi a quell'orario così scomodo. Con discrezione sollevai lo spioncino e strizzai l'occhio per focalizzare il corpo e il viso dietro la porta. Mi girai di scatto in modo pateticamente teatrale, sapendo già a chi avrei dovuto aprire. Sembrava tanto uno di quei classici cliché da film, con una sostanziale differenza: purtroppo la mia vita non era un film. Non sapevo cosa fare, oltre alla rabbia si aggiungeva dell'imbarazzo e una sensazione di sollievo. Rincontrare William in quella situazione era a dir poco strano, e surreale soprattutto.
 
Appena aprii l’anta, la luce che proveniva da dentro casa colpì il suo viso illuminandolo nel buio della sera, mentre invece a me qualcosa aveva colpito il petto, forse una freccia, forse quella di cupido.
 
«Ciao» esordì lui dopo circa qualche attimo di silenzio. Non mi scomodai di fingermi sorpresa né di accoglierlo con un sorriso di cortesia, anzi rimasi imperturbabile ai suoi occhi, nonostante stessi letteralmente morendo dentro. Mi odiavo per permettermi di provare quel tipo di emozioni nei suoi confronti, a complicare tutto era il suo look da Danny Zuko di Grease, solo senza ciuffo. O forse avevo solo un debole per le giacche di pelle. «E' tardi?»
 
«Sono le dieci.» Che era un sinonimo di “puoi anche andartene”.
 
«Okay, sapevo fossero le dieci e che era abbastanza tardi ma… Potresti allontanarti da casa due minuti?» disse facendolo quasi sembrare un comando. Ma era ovvio che non ci era riuscito.
 
«Sono in pigiama» usai lo stesso tono, solo più convincente. Bastava ripetere a me stessa quanto in realtà l’odiassi.
 
Annuì guardandosi intorno. «Giusto. C’è qualcuno in-»
 
«-forse» lo tacciai subito. Perché non potevo semplicemente sbattergli la porta in faccia? Fissò il suo sguardo su di me, ed io non mi permisi di demordere. Non importava quanto azzurre potessero essere le sue iridi se le sue labbra avevano sputato fuori cose tanto orribili sul mio conto. Senza distogliere lo sguardo, uscì le mani dalle tasche dei suoi jeans e cominciò a torturare il campanello. «Smettila di suonare!» Urlai rabbiosamente.
 
«Non c’è nessuno» intuì mentre le sue labbra si curvarono in un sorriso sghembo. «Mi fai entrare?»
 
Automaticamente presi per chiudere la porta alla sua richiesta inopportuna, ma la sua mano riuscì a bloccarla. «Okay, okay. Rimango qui fuori.» Lasciai che riaprisse l’anta completamente  senza darmene un motivo logico del perché glielo avessi permesso.
 
«Non sono bravo in queste cose, evito sempre di farlo e quando devo proprio mi rendo le cose abbastanza difficili praticamente da solo. Perciò ascoltami, ti dirò quello che devo dirti e me ne andrò, tu non fiaterai e mi ascolterai. Okay?» Cominciò a giocare con le sue mani e nonostante mi stessi stupendo di come se le stesse torturando, lo guardai ancora più severamente. «Okay. Credo di dovermi scusare con te. Non è molto carino quello che ho detto alla festa. In realtà è davvero terribile, considerando tutta la gente che c'era ad ascoltare.» Prese un attimo di pausa e distolse lo sguardo, sforzandosi di continuare. «E mi sembra sia corretto dirti che… Non ero ubriaco mentre straboccavano cazzate dalla mia bocca, mentirei se ti dicessi di esserlo.»
 
I miei occhi si spalancarono e un nodo alla pancia andava sempre più ad ingarbugliarsi. «Non eri neanche ubriaco-»
 
«-Ero semplicemente incazzato, furioso a dire il vero» mi riprese subito.
 
«Perché mai? Cosa ho fatto per meritarmi le cose che hai detto?» Domandai con una voce che andava rompendosi. «Oh giusto, hai pensato fosse divertente! Perciò perché no?»
 
«Non mi andava l'idea di vederti bere o comunque qualsiasi cosa stessi facendo lì in quel bancone con quello come se fossi senza speranza, credo.»
 
«Matthew, Matthew Campbell. Quello da cui prendi l’erba»
 
William si bloccò, sicuramente realizzando che non ero poi così ingenua come al contrario credeva. «Sì, probabilmente lui.» D’altronde non mi era stato difficile da capire, quando Matthew stesso aveva usato con Emily le parole “sorella del mio miglior cliente”.
 
Irritato, prese un respiro profondo e continuò. «Avevo detto di... Fammi finire ti prego, senno sarò costretto a ricominciare tutto da capo.» Il mio sguardo non si scompose. «Stavo dicendo... Okay devo ricominciare tutto da capo-»
 
«-no, sono proprio senza speranza, hai ragione» intervenni ripetendo ciò che mi aveva detto.
 
«Non sei senza speranza Charlie. Sei... Una bella ragazza, effettivamente bellissima, adoro il tuo pigiama, non farti offrire da bere e non farti abbordare dal primo ragazzo che ti capita davanti.» le sue parole corsero veloci, ma avevano avuto modo di lacerarmi il cuore. «Credevo di averti messo in guardia abbastanza da Lucas. Ho decisamente esagerato, non volevo dirti…  In realtà non volevo affatto farlo sapere in giro, sono abituato a stare attorno a ragazze che hanno perso la verginità da un pezzo, quindi cerca di capirmi. Quando ne vedo una diversa vado di matto.» Parse sincero, la freccia che prima mi aveva colpito il petto, adesso vi era praticamente rimasta incastrata. Non ne ero totalmente sicura, ma i suoi occhi mi parsero languidi, e questo lo rendeva così diverso, al punto da ammutolirmi.
 
Alcune immagini di quel venerdì sera occuparono la mia mente, una musica che suonava a martello e il parlottare della gente che si muoveva nella stanza in modo confuso. Il pavimento appiccicaticcio, alcol misto a vomito e bicchieri rossi sparsi sopra i mobili. Poi il vuoto. Il terribile rumore dell’umiliazione e di un pianto soffocato.
 
«Gli ha davvero sferrato uno schiaffo sulla faccia. Deve essere stato così imbarazzante!»
 
Durante la mia fuga dalla villa di Haynes, le voci di un gruppetto di ragazzi, a pochi metri fuori, colpì la mia attenzione. Tutto quella sera correva più veloce di me.
 
«Si chiama Charlotte Wilson, secondo anno. Credo sia australiana.»
 
«Credete che in Australia non si faccia sesso per timore che la sabbia fina finisca dentro le mutande o che so dentro gli slip del costume?»
 
«Tu per non fare sesso invece che scusa hai Anson?»
 
«Questo è il momento in cui potresti parlare o rispondere con una qualsiasi cosa.» La freccia si era spezzata, ma una parte di essa era rimasta dentro il mio corpo.
 
Come ad un tratto il mio viso si inondò di lacrime, William allo stesso modo scioccò. Non riuscì a dire niente ma il suo corpo parlò per lui, avvicinandosi e afferrandomi istintivamente il viso con una mano, per poi però vederla scivolare via da un mio rifiuto. Scossi la testa, le mie labbra si curvarono in un sorriso privo di speranza mentre le lacrime correvano lungo la pelle delle mie guance. «E’ qualcosa che non posso perdonare William.»
 
«T-ti sto chiedendo scusa.»
 
«Tu credi davvero che delle scuse possano rimediare il bruttissimo gesto che hai fatto? Mi hai messo così in imbarazzo, hai sbandierato una mia cosa personale a praticamente tutta la scuola e altra gente che nemmeno conosco. Mi hai preso così in giro, volevo morire per la vergogna, nessuno aveva fatto qualcosa di così tanto cattivo prima.» Presi una pausa dalle parole e mi voltai indietro per evitare che mi vedesse piangere malamente, anche se ormai era del tutto inutile. «Beh no William, non accetterò mai le tue scuse, non farò in modo che la tua coscienza si ripulisca.»
 
«Tu credi sia venuto fin qui solo per questo? Per togliermi dei sensi di colpa?»
 
«Non mi importa davvero cosa ti aspettavi venendo qui. Non sei mio amico, neanche ti conosco, fin dal primo giorno che ho messo piede in quella dannata scuola non hai fatto altro che confondermi le idee e allontanarmi da cose e persone su cui non ho chiesto neanche nessun parere e nessun consiglio.»
 
«Charlie-»
 
«-io non volevo neanche trasferirmi qui, okay? Non ho scelto la scuola da frequentare, non ho scelto la città in cui abitare, non ho scelto neanche di lasciare la mia vita in Australia e tanto meno non ho potuto neanche pianificare se incontrarti o meno, ma giuro, che se avessi avuto l’occasione di farlo non avrei mai scelto e permesso ad una persona come te di incrociare il mio cammino.» Le mie urla avrebbero potuto svegliare l’intero vicinato, ma non me ne poteva fregare di meno al momento. Uscissero pure dalle loro case a lamentarsi.
 
William mi lanciò un’occhiataccia e aprì la bocca per dire qualcosa, ma velocemente la richiuse prima che potesse gettarmi addosso un insulto. «Okay, va bene.»
 
«Va bene.» Concordai immediatamente. Le mie tempie stavano per scoppiare.
 
Si voltò indietro affrettandosi fuori dal portico. Mentre mi rifiutavo di guardarlo andare via, cacciai via le lacrime dal mio viso, ma presi a singhiozzare e a tossire. Non avevo mai alzato la voce in tale maniera.
 
«Sai cosa c’è?» grugnì ad alta voce prima di lasciare la proprietà. «La metà della gente non ricorda nemmeno cosa sia successo a quella festa, e tu stai rendendo tutta questa situazione più grossa di quanto in realtà non lo sia.» Si riavvicinò alla porta, decimando i pochi metri che ci separavano. «Mi dispiace a questo punto che tu abbia incontrato un tipo come me, mi dispiace che tu sia arrivata qui praticamente costretta, e di aver perso magari tutti i tuoi vecchi amici. Ma adesso tu sei qui, ed io anche. Ti sto porgendo delle scuse. Dovresti accettarle, o accettare solo il gesto che so, dato che non lo faccio tanto spesso, diciamo con praticamente nessuno.» Scandì le ultime parole con prepotenza, inalberando il mio animo fino all’estremo.
 
«Tu dici che la metà della gente non ricorda cosa sia successo a quella festa?» Feci qualche passo indietro e andai ad aprire il cassetto di un mobile all’entrata, frugandoci dentro e trovando proprio cosa stavo cercando. «Beh, sono davvero amareggiata di non aver ricevuto l’altra metà delle richieste di cui avrei potuto usufruire!» Cominciai a scrivere contro lo stipite della porta sopra un blocco di post-it. «Che ne dici di un appuntamento al porto William? Oppure preferisci andarci piano? Una cena a lume di candela in un locale scadente ad un’ora dalla città, per poi fottermi in una stanza d’albergo lì vicino?» Ad una velocità disumana ciò che dicevo, scrivevo. E staccandoli con aggressività dal blocco, allo stesso modo li attaccavo sul petto del quarterback. «Beh se non hai soldi per portarmi fuori, va bene anche il retro del pick up di tua madre, tranquillo faremo in modo che non scopra nulla!»
 
Lo shock di William era chiaramente visibile nei suoi occhi. Lasciai uscire un sospiro, frustrata dal mio stesso comportamento, ma non smisi di scrivere sopra quei post-it fin quando non fu lui a impedirmi di continuare. Prese il blocco che avevo in mano e lo buttò da qualche parte nel giardino intorno a noi, così fece con la penna. Strinse le sue mani intorno ai miei polsi, mi bloccò letteralmente e provò a calmarmi, sussurrandomi di finirla, che mi stavo comportando come una pazza e che l’intera situazione stava degenerando. Ma riuscii a liberarmi e con tutta la forza che avevo in corpo lo strattonai lontano da me.
 
«Non voglio più vederti William, non rivolgermi nemmeno più la parola e soprattutto smettila di immischiarti in affari che non ti riguardano, sono capace di scegliermi da sola i ragazzi con cui uscire o con cui avere a che fare!» Senza aspettare una sua risposta, rientrai dentro e sbattei la porta alle mie spalle, lasciandomi cadere a terra, contro di essa. Mi accovacciai e disperatamente ricominciai a piangere. Non avevo idea del perché mi stessi comportando così, sapevo che dopotutto se lo meritava, ma avrei voluto provare un minimo di soddisfazione, che in realtà non stavo provando. Non avevo idea se William fosse rimasto lì in piedi dietro la porta o se se ne fosse già andato via, ma un successivo suono del campanello mi fece dubitare.
 
Mi alzai subito senza preoccuparmi di come sarei potuta apparire ai suoi occhi, forse era il caso di perdonarlo, forse potevo dargli un’altra possibilità, se era davvero ciò che volevo, se aveva davvero aspettato tutto questo tempo qui fuori.
 
Ma quando aprii la porta non era una versione piacevole di Danny Zuko che mi ritrovai di fronte, ma due grosse valigie rosse e accanto ai miei genitori un terzo incomodo.
 
«Abbey.»









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