Not Another Happy Ending

di beagle26
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il patto ***
Capitolo 2: *** Tristesse Books ***
Capitolo 3: *** El Toro Blanco ***
Capitolo 4: *** Sole, pioggia, neve e tempesta ***
Capitolo 5: *** Una moderata dose di infelicità ***
Capitolo 6: *** La tua Yoko Ono ***
Capitolo 7: *** Infelicità: Livello PRO ***
Capitolo 8: *** Come fare a dirti che ho sbagliato ***
Capitolo 9: *** Quello che provo per te ***
Capitolo 10: *** EPILOGO – Elena Gilbert, professione scrittrice ***



Capitolo 1
*** Il patto ***


 

Capitolo 1 – Il patto
 

I poured a drink for you
But you were smoking with your friends outside and I see
Big things for you
I made plans for you and I
I scream screams for us
Cause I have dreams of bigger stuff and I know
Sometimes it happens
Tell me when I'm gonna get what I want
Get what I want
And forget who I was
And I'm away
 
White Leather – Wolf Alice*

 
 
 
Ancora non riesco a credere ai miei occhi.
Per almeno quindici volte ho percorso la sala con lo sguardo in preda ad un vortice di sensazioni. Un misto di entusiasmo ed eccitazione, proprio come una bambina lasciata libera in un negozio di caramelle.
Mai, mai in tutta la vita avevo anche solo osato sperare di trovarmi qui, circondata da tutta questa gente e per di più in prima fila.
Davanti a me un palco decisamente imponente, le quinte coperte dai pesanti tendaggi color porpora illuminati dalle luci dei riflettori, e poi quella scritta… la scritta.
 
“English Fiction Awards”. Tre parole in grado di farmi tremare le ginocchia.
 
L’aria profuma di aspettative e ambizioni nascoste, oltre che di uno strano misto di mughetto e muffa, che sembra provenire direttamente dalla vecchia signora seduta al mio fianco.
Ho provato ad attaccare bottone per sapere chi fosse, ma a quanto pare è sorda come una campana. Chissà, magari anche lei è qui in cerca di un’occasione per sfondare, proprio come me. Del resto il sole sorge per tutti… prima o poi.
 
Di tanto in tanto sono costretta a sbattere le palpebre, disorientata dalle luci dei riflettori e da tutto questo trambusto.
Deglutisco, poi respiro lentamente una, due, tre volte. Concludo il rito calmante con una lisciatina alle pieghe del vestito blu notte che mi stringe la vita e mi scivola sulle gambe terminando in una morbida nuvola di raso.
Il cartellino del prezzo mi pizzica leggermente la schiena, ma cerco di non farci caso, sperando che non salti fuori nel momento meno opportuno. Domani dovrò restituire l’abito a Bonnie, che l’ha gentilmente “preso in prestito” per me da Liberty, il negozio di Soho dove lavora da un mese come commessa.
 
Il momento tanto atteso sta per arrivare. Nervosa e tremante mi porto automaticamente una mano ai capelli, per acciuffare una ciocca impertinente scivolata dallo chignon e rimetterla al proprio posto.
Per ultimo lancio un’occhiata terrorizzata alle mie spalle, dove incontro il sorriso smagliante della mia amica Caroline. In risposta lei sgrana gli occhioni azzurri e mi fa “ciao ciao” con la mano guantata di bianco.
 
Proprio così. Guanti bianchi.
 
Certo, è una serata elegante, ma non così tanto da richiedere un abito lungo a sirena rosso fuoco. Tanto per non passare inosservata, Care ha aggiunto una veletta a perfezionare la sua acconciatura, un complicato intreccio di boccoli che sfidano ogni legge di gravità.
A quanto pare, da quando lavora alla casa editrice Tristesse, Caroline ha avuto ben pochi momenti di svago o eventi mondani in cui poter sfoggiare il suo fornitissimo guardaroba, e non aveva alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire questa ghiotta occasione indossando un banale tubino nero.
 
Nel frattempo, una voce fuori campo annuncia il presentatore del premio, facendomi voltare automaticamente in direzione del palco. Raddrizzo la schiena e mi schiarisco la voce, nel vano tentativo di ricompormi e assumere un’aria distaccata e indifferente. Certo, perché anche se non dovessi vincere io… chi se ne importa. O no?
Del resto è la mia sola occasione di rivalsa di fronte al mondo dopo le circa quattrocento porte che mi sono state sbattute in faccia prima di imbattermi nella Tristesse, dove, inaspettatamente, ho svoltato.
“Ci dispiace signorina Gilbert, ma il suo romanzo non è stato all’altezza delle nostre previsioni.”
Le lettere con cui gli editori rifiutavano educatamente il mio romanzo suonavano tutte così. Masochista come poche, le conservavo una per una. Le appendevo al muro della vergogna, una sorta di bacheca improvvisata proprio di fronte alla mia scrivania, pensato appositamente per aiutarmi a tenere a mente i miei innumerevoli fallimenti.
E poi… proprio quando mi ero rassegnata a fare domanda come cassiera in qualche supermercato di periferia, ecco che ho bussato alla porta giusta.
E ora sono qui, a rischiare di vincere il premio come migliore autrice emergente dell’anno.
Io, proprio io. Elena Gilbert, la ragazzina timida e impacciata di Camden Town.
Non posso fare a meno di sollevare il mento con aria fiera, guardando di sbieco la mia vicina di posto puzzolente che nemmeno si immagina di essere seduta al fianco di una futura celebrità.
Tsè.
 
Poi, finalmente, le luci si abbassano un po’ e io lo vedo.
Attraversa il palco con sicurezza, posizionandosi di fronte al leggio e lanciando alla folla un’occhiata magnetica, nonché un sorriso a trentadue denti.
Indossa un abito sartoriale di un colore scuro e indefinibile, leggermente lucido come si conviene per una serata elegante come questa. Sulla sua camicia nera e aderente pende una cravatta di una tonalità appena più chiara rispetto al colore della giacca, mentre i suoi capelli sono perfettamente pettinati da un lato.
Caspita, quant’è affascinante. Improvvisamente ho voglia di vincere anche solo per ritirare il premio dalle sue mani.
 
Certo, non so granché di lui, ma quello che vedo mi sembra abbastanza.
Elijah Mikaelson è uno sceneggiatore piuttosto famoso nell’ambiente, anche se in questo momento proprio non mi viene in mente nessun film a cui abbia lavorato.
Sarà colpa dei miei gusti terribilmente sdolcinati ed infantili.
È evidente, Elijah non può che essere dedito al cinema impegnato… sembra così intellettuale.
 
Mi stringo nelle spalle e gli rivolgo tutta la mia attenzione, mentre lui sorride seducente alla platea. Quando inizia finalmente il suo discorso, in sala cala un trepidante silenzio.
 
“È davvero fantastico essere qui a presentare il premio per il miglior scrittore emergente” esordisce, stringendo gli occhi con fare calcolato, quel tanto che basta per assumere un’aria vagamente intrigante “ed è con grande piacere che lo consegno ad una giovane autrice protagonista di un debutto eccezionale. Signore e signori, vince l’edizione 2014… Lieto Fine.”
 
Vedo grigio. Le orecchie mi fischiano mentre Elijah indica la platea con un ampio gesto della mano. Io penso a casa. A mio padre che non è potuto essere qui, ma sicuramente mi sta guardando mentre fa il suo turno in fabbrica. A mia madre che forse può vedermi, ovunque lei sia. E non riesco a muovere un muscolo che sia uno.
 
“Elena! Vuoi smetterla di startene impalata come un baccalà? Hai vinto!! Hai Vinto!! Alza immediatamente quel sedere e sali sul palco.”
 
Care sibila nel mio orecchio, picchiettandomi ripetutamente un indice sulla spalla.
Per una volta la sua nota insistenza serve a scuotermi. Perché Lieto fine è il mio romanzo.
Ho vinto davvero. Io! Proprio io!
Scatto in piedi all’improvviso. Per poco non mi ammazzo inciampando sulla borsetta della mia vicina di posto, che nel frattempo mi guarda con indecisione.
Probabilmente non sa se prendermi per pazza o meno, ma fra poco sarà costretta a ricredersi.
Recuperando un minimo di aplomb salgo gli scalini e mi avvicino a passo spedito ad Elijah, che percorre l’intera mia figura con un’occhiata rapida e attenta, per poi soffermarsi con lo sguardo sul mio viso.
 
“Elena Gilbert, signore e signori.” mi annuncia, pronunciando il mio nome con un tono suadente che mi procura un leggero brivido lungo la schiena.
Poi mi bacia le guance e mi porge il premio, una sorta di libriccino di vetro che riesco già ad immaginare sulla mia scrivania, proprio a fianco al computer e al mio bonsai portafortuna, compagno delle mille notti insonni dopo il mio turno da McDonald’s, trascorse a scrivere pagine e pagine di word in attesa che qualcuno mi notasse.
Afferro la mini-scultura con riluttanza, soppesandola fra le mani.
Un nuovo, terribile dubbio si impadronisce di me. Come diavolo ho fatto a non pensarci prima? Il discorso.
Che cavolo dico adesso? Qualcosa tipo “Dio salvi la Regina” sarà appropriato per un’occasione del genere? Mentre cerco di mettere insieme due parole decenti, Elijah non perde tempo. Riacciuffa il microfono, strappandomelo dalle mani prima ancora che io riesca a spiccicare una parola, tornando a incantare la platea con uno sguardo che ha un ché di calcolato.
 
“Elena qui è una vera scrittrice” attacca, scandendo bene le ultime due parole “e un vero scrittore può attraversare momenti molto difficili. Ma io ti capisco, Elena. Siamo scrittori entrambi, entrambi sappiamo cosa significa affrontare El Toro Blanco. Il terrore della pagina bianca. Ogni giorno lo affrontiamo, insieme. Non è così Elena?”
 
Sono disorientata mentre soffia quelle parole sul mio viso, sempre più vicino. Penso a tutti i ringraziamenti che vorrei fare, le mille cose che dovrei dire, ma sono sopraffatta dal suo sguardo che mi trafigge e non posso fare altro che annuire come un’ebete.
 
“Signore e Signori, Elena Gilbert.” conclude lui, prendendomi sotto braccio e trascinandomi giù dal palco prima che possa dire anche solo una mezza frase. Che ne so, salutare mio padre o la mia vicina ungherese. Ma quando riprendo il controllo di me è già troppo tardi.
 
*****
  
“Sei stata fantastica Elena.”
 
Caroline mi sorride calorosa, afferrando al volo un canapè al salmone dal vassoio d’argento che un elegante cameriere in divisa ci fa scorrere sotto il naso.
Le sorrido a mia volta, ma con poca convinzione, mentre prendo un altro sorso di champagne.
Se non altro, il party post cerimonia offre un rinfresco a cinque stelle che non ho nessuna intenzione di lasciarmi sfuggire.
 
“Beh, perché mi guardi con quell’aria afflitta? Hai vinto, ce l’hai fatta.” mi incalza, distribuendo occhiatine ammiccanti a destra e a sinistra.
 
“Ho fatto la solita figura dell’imbranata.” sbuffo. Che cavolo,  mi sono lasciata scappare il mio momento di gloria e la cosa mi infastidisce non poco. Per una volta potevo vendicarmi di tutti quelli che non hanno creduto in me e invece…
Caroline mi guarda con condiscendenza, accarezzandomi una spalla con la mano ancora coperta di seta.
 
“Coraggio Elena. Che te ne importa? Le vendite del tuo romanzo andavano già alla grande, ma con questo premio schizzerai in cima alle classifiche.”
 
Caroline Forbes e il suo senso pratico. È lei che si occupa di far quadrare i conti alla Tristesse, cosa per nulla semplice vista la scarsità di autori che la casa editrice può annoverare nella propria scuderia. Del resto, il proprietario è una persona che definire difficile è un eufemismo.
Direi che gli aggettivi che gli calzano meglio sono piuttosto… vediamo un po’… cafone, opportunista, stronzo? Ecco si. Stronzo.
 
“A proposito,” continua lei “dobbiamo far ristampare al più presto Lieto Fine. Devo assolutamente parlarne con…”
 
“Damon!” la interrompo, scorgendo l’odiata figura del mio editore spuntare dal nulla oltre le sue spalle. Lupus in fabula, come si suol dire.
 
“Ciao capo.” squittisce Caroline, scattando sull’attenti e ingoiando in un sol boccone la sua tartina. Io mi limito a rivolgergli un cenno di saluto, mentre lui mi osserva da capo a piedi con la solita aria strafottente che lo contraddistingue.
Per l’occasione ha addirittura sfoderato una giacca da sera dal suo guardaroba total black, ma come al solito ha dimenticato di pettinarsi.
Devo ammettere, non senza una certa riluttanza, che questo look vagamente elegante gli dona abbastanza.
Mi rivolge uno sguardo obliquo che cerco in tutti i modi di evitare mentre Care, indossata la divisa della contabile iper professionale, snocciola numeri e possibili prospettive di crescita dovute alla mia recente promozione all’olimpo degli scrittori emergenti.
 
“Che ne dici se ne parliamo domani? Piuttosto, ho visto quel presuntuoso di Mike Stark al tavolo dei dolci. Che ne pensi di andare lì a metterlo al suo posto come sai fare tu? Se lo merita.” la incoraggia Damon, facendole un occhiolino.
 
“Agli ordini capo!” obbedisce lei, sfoderando la sua aria più altezzosa per dirigersi da quel ciccione del direttore della Stark Edizioni, che non più di un anno fa mi ha messa alla porta definendo il mio romanzo un polpettone da quattro soldi.
Damon la guarda soddisfatto mentre si allontana. Non riesco a capire come faccia ad esercitare tutto questo potere su Caroline Forbes, una che di certo non è avvezza a farsi mettere i piedi in testa. Probabilmente è molto bravo a far leva sul suo ego.
O forse sono semplicemente andati a letto insieme. Lo sospetto da un bel po’.
 
Damon mi scruta col suo sguardo di ghiaccio, lo stesso che qualche mese fa mi ha accolta, per così dire, quando disperata ho bussato alla sua porta in cerca dell’ultima spiaggia prima di abbandonare per sempre il mondo della scrittura.
A dispetto di tutto, lui aveva trovato qualcosa di valido nei miei scritti e si era proposto di pubblicare il mio libro, andando contro tutto e tutti. Al tempo lo trovai un uomo straordinario, ma è evidente che non lo conoscevo ancora bene come adesso.
Lo vedo afferrare al volo due bicchieri di champagne da un vassoio di passaggio e porgermene uno, sfoderando un sorriso smagliante quanto inusuale per un tipo cupo come lui.
 
“Ti propongo un brindisi Elena.” attacca, in tono stranamente cordiale. Del resto, l’ho appena reso un uomo se non ricco quantomeno benestante.
 
“Non ti sei neppure fatto vedere alla premiazione…” lo rimprovero, usando il tono più freddo e indifferente che mi riesce. Lui alza le spalle, dipingendosi in volto un’espressione innocente.
 
“Oh, andiamo. Lo sanno tutti che la parte divertente è la festa. E poi adesso sono qui no?” ammicca. Afferro con riluttanza il bicchiere dalle sue mani. Lui lo fa scontrare leggermente con il suo, che poi solleva appena e svuota in un solo sorso.
 
“E comunque l’ho visto sai, il tuo discorso di ringraziamento. Quel salame di Mikaelson non ti ha lasciata nemmeno parlare.”
 
Ora si che sono ferita. Come al solito, Damon ha l’innata capacità di andare dritto al mio punto debole, quasi come mi conoscesse e sapesse leggermi.
 
“È stato galante.” ribatto, punta sul vivo. “E comunque, parli proprio tu che hai cambiato il titolo del mio libro senza nemmeno consultarmi?”
 
“Ancora con questa storia Elena? Credi che avresti avuto anche solo una possibilità di vincere oggi se ti fossi presentata con un titolo come… aspetta come lo volevi chiamare? Ah si. Le angosce senza fine di mio padre.
 
Affondo il naso nel mio bicchiere, serrando il braccio libero contro il petto.
Non ho mai perdonato Damon per aver deliberatamente rinominato il mio romanzo con quel ridicolo titolo. Lieto Fine. Puah. Ancora non mi ci sono abituata. Ma lui è fatto così, un cafone senza il minimo rispetto per le idee altrui.
Damon mi guarda da sotto in su, cercando i miei occhi e avvicinandosi di un passo.
 
“Coraggio Elena. Ammettilo. Io e te insieme formiamo una squadra imbattibile. Le tue idee con le mie revisioni… no, mi correggo. Le tue idee, grazie al mio mastodontico sforzo autoriale, diventano una bomba. E questo premio ne è la prova. Perciò, cosa ne pensi di iniziare subito a lavorare ai prossimi romanzi?”
 
Mastodontico sforzo autoriale?!? Ma chi si crede di essere. Mentre lo fulmino con un’occhiataccia, il mio sguardo è catturato dalla figura elegantissima di Elijah che, poco più in là, solleva il bicchiere in mia direzione rivolgendomi un caldo sorriso.
Gli rispondo con l’occhiata più seducente che mi riesce, scorgendo appena con la coda dell’occhio l’espressione esterrefatta che compare sul volto di Damon, poco avvezzo ad essere ignorato. Mi basta questo per sentirmi improvvisamente potente.
Sono la star della serata, l’autrice esordiente dell’anno. Non mi farò più mettere i piedi in testa da un editore insolente sull’orlo del fallimento.
 
“Sai cosa ti dico Damon? Il contratto prevede un solo libro. Uno soltanto. E non avrò bisogno di te per scriverlo, posso cavarmela benissimo da sola. Avrai la bozza sulla tua scrivania quanto prima, dopodiché non dovremo vederci mai più. Hai capito bene, razza di bastardo?”
 
Per un attimo rimango sconcertata dai suoi occhi, che assumono un’aria seria e un’insolita sfumatura blu cupo. Ma è solo un momento. Un secondo dopo torna a rivolgermi un ghigno obliquo, assumendo la solita aria da stronzo impenitente. L’uomo che non deve chiedere mai. Che faccia tosta.
 
“È così che la pensi? E sia. Cerca di darti una mossa con quella bozza. Prima la concludi, prima smetteremo di dover avere a che fare l’uno con l’altra. Non ci vedremo più. Mai più.” ribatte gelido. Per una volta ci troviamo perfettamente d’accordo.
 
“Ok.” dico semplicemente, puntando gli occhi nei suoi e stringendoli appena.
 
“Ok.”
 
“E ora, se vuoi scusarmi, ho di meglio da fare.” concludo.
Poi poso il bicchiere, mi riavvio i capelli e mi incammino con passo sicuro in direzione di Elijah.
 

 
*Ho versato un drink per te
Ma stavi fumando fuori con i tuoi amici e vedo
Grandi cose per te
Ho fatto progetti per noi due
Urlo grida per noi
Perché sogno cose più grandi e so
A volte capita
Dimmi quando potrò avere ciò che voglio
Avere ciò che voglio
E dimenticare chi ero
E sono lontano
 
 
Ciao ragazze. Eccomi qui con una nuova storia, un esperimento più che altro, che vuole essere divertente e senza troppe pretese.
Comincio subito col dire che l’idea non è farina del mio sacco, ma è scaturita da un film che non credo nemmeno sia uscito in Italia, ma che ho visto qualche tempo fa in streaming.
Il titolo è appunto “Not another happy ending”. Subito è nata in me l’idea di adattarlo e trasformarlo in una ff Delena :-)
Ecco qui quindi il primo capitolo. Nei prossimi torneremo un po’ indietro, al primo incontro fra questi due e all’evoluzione del loro rapporto odio/amore.
Spero di avervi almeno un po’ incuriosite, se avrete voglia di farmi il regalo di un vostro parere ne sarò lieta.
Per concludere, se c’è qualcuno che legge l’altra mia storia, il prossimo capitolo dovrebbe arrivare a giorni. Scusate per l’attesa ma il capitolo è un po’ impegnativo, e poi devo ammettere che il tempo libero è sempre meno uffa.
Grazie a chiunque passerà di qui.
Un bacione
Chiara
 

 
 

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Capitolo 2
*** Tristesse Books ***


CAPITOLO 2 – TRISTESSE BOOKS
 
 
Happiness hit her like a train on a track
Coming towards her stuck still no turning back
***
La felicità l’ha colpita come un treno su un binario
Che arriva verso di lei che è bloccata, ancora non si volta
 
Dogs Days are over – Florence + The Machine
 
 
 
Emily pedalò verso casa più velocemente che poteva.
 
 
Il vento La brezza della sera le scompigliava i capelli.
 
 
Quando aprì la porta, sua madre era già lì.
 
 
 
Fine capitolo 35
 
 

Premo il tasto cinque con un gesto fin troppo teatrale, affannandomi subito dopo a rincorrere l’icona blu – quella raffigurante un floppy disk – con il cursore del mouse.
Non sia mai che ciò che sono riuscita a produrre nelle ultime due ore vada perso per una stupida distrazione, un calo di corrente o che so io.
Non appena mi sono accertata che il contenuto del documento sia stato archiviato nella memoria del computer (e solo dopo aver salvato il tutto anche su una chiavetta USB e su un hard disk esterno), mi rilasso sulla mia poltroncina girevole, stiracchiando le braccia e facendo schioccare le dita indolenzite dal troppo battere sui tasti, per poi gettare una pigra occhiata fuori dalla finestra.
 
Il tempo oggi è triste e uggioso. Il che, a dire il vero, corrisponde alla situazione meteo londinese nel novanta per cento dei giorni dell’anno.
Non mi lamento, a me la pioggia piace. Ricordo che mia madre mi definiva sempre come una meteoropatica al contrario.
Per qualche secondo ancora indugio nel pensiero dolceamaro di lei.
Chissà cosa penserebbe se mi vedesse adesso. Adesso che ho realizzato il mio sogno, che posso vivere di quello che ho sempre desiderato.
Adesso che non sono più costretta a destreggiarmi fra un Crispy McBacon e una Coca Cola gigante mentre un ragazzino presuntuoso qualunque mi rovescia in mano un sacchetto di penny con i quali intende pagare la propria ordinazione.
 
Sorrido allo schermo del mio Mac.
Ancora un capitolo, uno soltanto. Dopodiché il mio secondo romanzo sarà completo. Il solo pensiero mi riempie di una strana sensazione… Malinconia forse? Ansia da prestazione dopo il successo inaspettato di Lieto Fine? Non saprei dirlo con precisione.
So solo che improvvisamente scatto in piedi come punta da un ago invisibile, agguanto l’innaffiatoio rosa di plastica posato sul davanzale proprio davanti a me e mi affretto verso il lavandino della cucina per riempirlo.
Necessito di tutta l’influenza positiva del mio bonsai portafortuna per poter concludere l’ultimo capitolo del mio romanzo nel migliore dei modi – penso – mentre lo annaffio con cura e controllo che abbia tutte le foglioline al proprio posto.
Conclusa la meticolosa opera di giardinaggio mi lascio di nuovo cadere sulla sedia, facendo scivolare lo sguardo sul pavimento per poi sollevarlo, un po’ timorosa, sulla parete alla mia sinistra.
Il muro della vergogna è ormai sgombro delle mille lettere di rifiuto che lo costellavano come tanti promemoria della mia incapacità come scrittrice.
Non appena Lieto Fine ha raggiunto un numero dignitoso di copie vendute, Caroline ha avuto la brillante idea di fare un bel falò di tutta quella cartaccia, come la chiamava lei.
 
Tutto ciò che rimane di quella che un tempo era una bacheca straripante è una vecchia foto, che mi ritrae in una versione molto più giovane, con i capelli sciolti sulle spalle e una ridicola salopette di jeans, mentre abbraccio l’uomo che ho sempre considerato il più importante della mia vita: mio padre.
In questo momento però non è quell’immagine a catturare la mia attenzione.
I miei occhi si soffermano un secondo di troppo su un insignificante foglio bianco, punteggiato da piccoli caratteri che, da questa distanza, appaiono come tante righe nere e indistinte.
Mi avvicino alla parete, quel tanto che basta per allungare la mano e sfiorare la superficie liscia di quella carta preziosa, lasciando scorrere un dito sull’intestazione.
ABP - Associated Book Publishers.
Tre parole all’apparenza banali, che potrebbero cambiare per sempre il corso della mia vita.
Com’è che si dice in questi casi? Se me lo avessero detto un anno fa non ci avrei mai creduto.
 
 
 
Gentile Signorina Gilbert,
siamo spiacenti di comunicarLe che il Suo romanzo “Le angosce senza fine di mio padre” non è stato preso in considerazione per la pubblicazione. Troviamo che il testo sia poco ispirato.
Ci permettiamo di suggerirLe di effettuare un’analisi più approfondita dei personaggi della Sua opera.
Distinti Saluti

 
Afferrai una puntina rossa fra il pollice e l’indice, scrutando con gli occhi la bacheca alla ricerca di un angolino libero.
Non potevo certo fare a meno di appuntare l’ennesimo suggerimento ricevuto.
Un sospiro frustrato sfuggì alle mie labbra. Quelle parole, cortesi quanto distaccate, mi rimbalzarono in testa come la pallina impazzita di un flipper.
Nel frattempo, la vocina fastidiosa che avevo imparato a conoscere fin troppo bene sembrava volermi salire prepotentemente dallo stomaco, urlandomi di lasciar perdere quella follia una volta per tutte.
 
“Stai zitta!” gridai, sgranando gli occhi quando realizzai di essere completamente sola in casa.
Tutta quella situazione mi stava dando alla testa, era ormai evidente.
Quella mattina però sentivo che qualcosa avrebbe potuto cambiare.
Avevo percepito una strana sensazione quando, qualche giorno prima, rispondendo al telefono, una voce maschile lievemente impacciata aveva pronunciato il mio nome.
 
“Elena Gilbert?”
 
“Sono io!”
 
“Buongiorno. Chiamo dalla Tristesse Books. Si ricorda? Ci ha spedito il suo manoscritto e…”
 
“Vi è piaciuto? No? Vi ha fatto schifo. Voglio dire… lo capirei. Può essere sincero con me, del resto, sono al primo tentativo e…” lo assalii.
 
“Calma, calma. Io non ne ho idea, Elena. È mio frat… voglio dire, è il capo editore che si occupa della selezione delle opere. Io sono semplicemente stato incaricato di convocarla per un colloquio.”
 
“Oh. Oh. Certo. Quando si può fare?”
 
Un colloquio. Era la prima volta che mi capitava.
Le opzioni potevano essere due. Il mio romanzo aveva colpito nel segno o, semplicemente, un editore senza peli sulla lingua aveva deciso di sfogare su di me tutte le sue frustrazioni.
Di persona stavolta, tanto per essere originale.
Non sapevo prevedere cosa mi aspettasse, ma quella voce così garbata al telefono mi incoraggiò a tentare il tutto per tutto. Del resto, non avevo proprio nulla da perdere.
Perciò staccai dalla bacheca il post-it giallo sul quale avevo annotato l’indirizzo e mi diressi a passo svelto verso la porta di casa.
 
La Tristesse  Books, a differenza delle altre case editrici che conoscevo, perlomeno di fama, pareva trovarsi ben distante dai quartieri finanziari della City.
L’indirizzo indicatomi dal ragazzo gentile mi portò in una via piuttosto isolata di Shoreditch, l’ex quartiere industriale dall’aspetto eclettico, dove i grandi magazzini di un tempo erano stati  trasformati in gallerie d’arte, botteghe di abbigliamento vintage e giganteschi negozi di dischi che sparavano musica a tutto volume.
 
Dopo aver recuperato una massiccia dose di caffeina in un bar ricreato all’interno di un vecchio autobus rosso fuoco, una delle tante stranezze di quel quartiere, raggiunsi una piccola porta dipinta di verde scuro sulla Columbia Road.
Fui costretta a ripescare il post-it nella tasca dei jeans per ricontrollare l’indirizzo, accertandomi che fosse quello giusto.
Quella sembrava a tutti gli effetti una normalissima abitazione. Nulla a che vedere con i giganteschi grattacieli tra i quali passeggiavo spesso, masochista come solo io sapevo essere, sollevando il naso all’insù in cerca del profumo dei libri che immaginavo nascondersi oltre le vetrate a specchio.
 
Il mio indice tremò leggermente quando allungai la mano verso il bottone dorato del campanello. Esitai qualche istante, dopodiché lo premetti forte. Riuscii a percepire il trillo arrugginito che si riverberò oltre la porta, seguito da un rumore concitato di passi agitati e voci che si rincorrevano.
 
“Stefan! Vai ad aprire!”
 
“Cazzo Damon, sto finendo di vestirmi…”
 
“Cosa vuoi che gliene freghi al postino se non sei pettinato. Fosse la prima volta! Io ho da fare…”
 
Non feci in tempo ad estrarre nuovamente il foglietto giallo dalla tasca, ormai sicura di aver commesso un errore madornale, che la porta si spalancò di fronte a me.
Un ragazzo alto dai capelli biondo cenere mi osservò da capo a piedi con un’espressione a metà fra lo sbigottito e l’imbarazzato.
Aveva uno spazzolino da denti in bocca e la camicia mezza sbottonata.
Teneva una mano ancora appoggiata alla maniglia, mentre con l’altra reggeva un flacone di gel per capelli, consumato per tre quarti.
 
“Chiedo scusa… ho… sbagliato indirizzo. Cercavo una casa editrice, ma è evidente che devo aver confuso il quartiere. Sono così imbranata…” biascicai, senza terminare la frase e coronando quell’accozzaglia di parole senza senso con una risatina isterica.
Maledetto caffè.
Nel frattempo, quella specie di Ken a grandezza naturale si era sfilato lo spazzolino dalle labbra, ancora corrucciate per la sorpresa. Subito dopo aveva sbattuto le palpebre un paio di volte, rivelando uno sguardo verde pallido ancora piuttosto confuso.
 
“Elena Gilbert?” chiese, con la stessa inflessione del ragazzo gentile al telefono.
Solo allora capii con chi avevo a che fare.
Spalancai gli occhi e sorrisi sincera, mentre lui cercava di ricomporsi e si faceva da parte, invitandomi ad entrare senza aggiungere altro.
 
Quando il ragazzo gentile dagli occhi verdi mi condusse nel salottino che ipotizzai essere la sala d’attesa, facendomi cenno di accomodarmi per dileguarsi un secondo dopo, non potei fare a meno di notare qualche altro particolare bizzarro.
Le pareti erano letteralmente tappezzate di libri, in un’accozzaglia di colori e autori che non avevo mai visto prima di allora. Grandi classici della letteratura si contrapponevano a nomi totalmente sconosciuti.
 
Mi persi a scrutare fra gli scaffali per qualche minuto, fino a che la mia attenzione non fu catturata da altri dettagli inusuali.
Il tavolino di fronte al divano in pelle era ingombro di carte e di quelli che sembravano essere gli avanzi di una cena cinese, con tanto di bacchette affondate in un grumo di spaghetti avanzati dall’aria poco invitante.
Molto strano. Forse qualcuno aveva dimenticato di mettere in ordine dopo una riunione operativa.
Inquietanti erano pure gli strepiti che sentivo provenire dalla stanza adiacente, dove una voce arrabbiatissima stava pronunciando una serie irripetibile di insulti ad un qualche malcapitato.
Non riuscii ad afferrare benissimo la conversazione oltre la porta chiusa, ma non potei fare a meno di augurarmi che quella voce non appartenesse al famoso editore capo dal quale attendevo udienza.
 
Mentre rimuginavo su quell’eventualità, afferrai distrattamente un mucchietto di stoffa nera incastrato tra un cuscino e l’altro del divanetto in pelle.
Cercai di districare quella piccola matassa tra le mie mani. Proprio quando realizzai che si trattava di un paio di boxer, un rumore di tacchi echeggiò sul pavimento di legno.
Stavo ancora reggendo le mutande tra le mani quando due piedi infilati in un paio di tacchi vertiginosi si piazzarono proprio davanti a me.
Sollevai gli occhi timidamente, percorrendo due lunghe gambe fasciate da un paio di pantaloni neri dal taglio elegante, seguite da una svolazzante camicetta di seta bianca e, subito dopo, da una massa di boccoli biondi che emanavano un intenso profumo di vaniglia.
Due occhi azzurri e curiosi mi osservavano taglienti, mentre scattavo in piedi imbarazzata e allungavo una mano per presentarmi.
 
“Sono Elena Gilbert. Ho un appuntamento con… uhm… Mr. Salvatore, credo.”
 
“Oh, il capo. Auguri. Oggi sembra di ottimo umore.” rispose quella, sfoderando un sorriso abbagliante.
Che diavolo ci faceva quella specie di cheerleader in una tale gabbia di matti, tra avanzi di cibo e intimo maschile?
Lei non sembrò far caso alla mia espressione perplessa. Posò una pila di fogli sul solito tavolino per poi stringere calorosamente la mano che tenevo ancora sospesa a mezz’aria come un’idiota.
 
“Sono Caroline Forbes, l’addetta alla contabilità e… una quantità di altre cose. Il capo dovrebbe liberarsi a momenti. Posso offrirti un caffè nel frattempo?”
 
“Sarebbe fantastico.” risposi incerta, tanto per essere gentile.
Pessima, pessima idea.
Il mio nervosismo stava raggiungendo picchi stellari. Quando Caroline si allontanò non ero più sicura di voler davvero incontrare il tizio esagitato dall’altra parte della porta chiusa.
Nella mia mente quell’uomo assumeva sempre più le sembianze inquietanti di un mostro gigantesco.
E poi, chi diavolo aveva mai sentito parlare della Tristesse Books? In tutta la vita non mi era capitato nemmeno una volta di imbattermi in un libro edito da loro.
Vittima del mio istinto di sopravvivenza e decisa a non subire altre inutili umiliazioni, afferrai la borsa che avevo poggiato sul divanetto e mi avviai verso la porta, tentando di fare meno rumore possibile.
Ormai avevo raggiunto l’ingresso. Stavo per attraversare la soglia e dileguarmi nella nebbia quando la porta scura del corridoio si spalancò. Ne uscì una ragazza bionda dall’aria scarmigliata, con il viso rosso e gli occhi gonfi di lacrime.
 
“Non puoi trattarmi così!” urlò, rivolgendosi al misterioso tizio che ancora non usciva dalla stanza.
 
“Certo che posso. Non penserai che metta il mio nome su una porcheria del genere. Puoi  fare di meglio.”
 
La bionda gettò un’ultima occhiata in direzione della voce che aveva parlato.
Il suo labbro inferiore tremava, come se fosse sul punto di esplodere in un pianto disperato. Tuttavia non disse più nulla. Esitò un istante per poi precipitarsi nella mia direzione come una furia, infilando la porta senza degnarmi di un solo sguardo.
Rimasi attonita, incapace di muovermi ma col desiderio sempre più impellente di sparire. Non ce ne fu il tempo. Una figura scura si era affacciata dalla stanza degli orrori, mentre io ancora me ne stavo lì, pietrificata come una statua di sale.
 
“Elena Gilbert?”
 
Il ragazzo, perché di un ragazzo si trattava, guardò a sinistra e poi a destra. Io rimasi ferma, con una mano sulla maniglia e l’altra occupata a stringere… qualcos’altro.
 
“S.. sono io.” farfugliai.
 
Lui piegò lievemente la testa da un lato. Un lampo divertito attraversò i suoi occhi.
Erano di un azzurro indefinibile, tanto che per qualche millesimo di secondo mi persi a fissarne le sfumature. Non mi resi nemmeno conto che nel frattempo lui si stava avvicinando, attraversando il corridoio a grandi passi.
 
“Credo che questi siano miei..” sorrise, curvando appena le labbra solo da un lato.
Realizzai con orrore di star stringendo ancora un certo pezzo di stoffa nera fra le mani.
 
“Cos’è vuoi portarti a casa un souvenir?” continuò, sempre più divertito “Coraggio, accomodati.”
 
 
Vrr Vrr Vrr
 
Il cellulare vibra contro il piano della cucina, illuminando ripetutamente una foto mia e di Care scattata qualche mese fa, al party degli English Fiction Awards.
Eravamo davvero allegre, entrambe un po’ brille, ma per motivi diversi.
Premo con un dito il pallino verde, immaginandomela dall’altra parte, seduta alla sua scrivania con il telefono incastrato tra la spalla e l’orecchio e gli occhi fissi sulla sua calcolatrice.
 
“Ehi.” esordisco.
 
“Buongiorno, mia talentuosa scrittrice. Come sta andando?”
 
“Per la verità benissimo. Ancora un capitolo e la bozza sarà terminata. Penso di riuscire a consegnarla a Damon nei prossimi giorni.”
 
Non appena le parole escono dalle mie labbra si trasformano in autentica consapevolezza.
Mi trovo di fronte a una svolta importante, ma soltanto adesso che l’ho detto ad alta voce me ne rendo conto veramente.
I miei obblighi contrattuali con la Tristesse stanno per terminare. Domani potrei vedere il mio nome stampato su un volume della ABP, quelli bianchi e rossi che popolano le librerie di mezzo mondo.
 
“Allora perché ti sento così giù Elena?” chiede Care dall’altra parte, anticipando la domanda che si sta già materializzando nei miei pensieri.
Non le ho ancora parlato della proposta ricevuta, non so neanche io perché.
Del resto, io e lei ci siamo conosciute proprio grazie a Lieto Fine, e un po’ mi sento in colpa.
Ci siamo sempre dette tutto, e questo segreto comincia a pesarmi.
Ecco spiegata la sensazione fastidiosa che ha iniziato a farsi strada nel mio stomaco, facendomi sentire a disagio.
Una cosa è certa però: non mi dispiace affatto andarmene da quella gabbia di matti che è la Tristesse, una specie di nave alla deriva capitanata da un pazzo egocentrico con cui non voglio più avere nulla a che fare.
A dirla tutta non vedo l’ora.
 
 
L’ufficio di Damon Salvatore, questo il nome dell’editore a capo della Tristesse Books, si rivelò essere una stanzetta disordinata e stipata di libri come il resto di quello strano ufficio.
Più avanti avrei scoperto che quella non era nient’altro che la casa che Damon e suo fratello Stefan condividevano, entrambi troppo in bolletta per potersi permettere gli affitti esosi di un qualsiasi buco nella City.
Me ne stavo seduta sul bordo di una piccola sedia posizionata di fronte alla sua scrivania, anch’essa ingombra di fogli, mentre Damon faceva scivolare lo sguardo su quello che riconobbi essere il manoscritto che io stessa gli avevo spedito qualche settimana prima, accompagnato da un’accorata lettera di presentazione che lo pregava di prendere in considerazione la mia opera.
Avevo investito una fortuna in fotocopie, dopodiché avevo scorso l’intero elenco delle case editrici di Londra spedendo a tutte lo stesso identico plico, nella speranza di ottenere un qualche risultato.
La sedia di legno sembrava scottare. Quel silenzio prolungato e l’aria corrucciata di Damon mi impensierivano non poco. E se avessi ricevuto lo stesso trattamento della bionda di poco prima? Maledizione, dovevo scappare finché ero in tempo.
La tensione del momento non mi impedì di soffermarmi per un attimo su quella massa di capelli scuri, che lui si ostinava a tormentare con le dita senza alzare gli occhi su di me.
I suoi lineamenti erano decisi, lievemente offuscati dalla barba di un giorno che gli velava le guance. Quel suo viso così particolare sembrava dominato dai contrasti. Percorsi con lo sguardo la linea dritta del suo naso, scesi sulle labbra.
Arrossii, sperando che non se ne accorgesse. Era bello. Indiscutibilmente, oggettivamente bello.
Mentre quel pensiero mi attraversava la mente, i suoi occhi freddi come il ghiaccio si sollevarono dal plico per piantarsi sul mio viso. Sobbalzai leggermente.
 
“Veniamo subito al punto… Elena. Ho letto il tuo romanzo. Ci sarà bisogno di un grosso lavoro da parte tua. C’è molto… molto da rivedere. In primis il titolo. Le angosce senza fine di mio padre? Che roba è?”
 
“Veramente…”
 
“A parte questo, ho intenzione di pubblicarti. Di certo non mi aspetto grandi numeri, ma sono convinto che tu abbia del potenziale e… che diavolo fai?”
 
“Io… io… non lo so… stai dicendo che…”
 
Non fui in grado di mettere altre parole in fila. Scattai in piedi, rovesciando sbadatamente il contenuto di una cartellina sul pavimento per la troppa foga, mentre Damon mi guardava come se fossi appena fuggita da un manicomio. Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Potenziale? Io? Per la prima volta in vita mia ebbi la sensazione che qualcuno credesse in me.
 
“Terra chiama Elena. Si  può sapere perché stai piangendo?”
 
“Io… non sono mai stata così felice in tutta la mia vita.” dissi tutto d’un fiato, la vista appannata e il cuore gonfio di emozione.
 
 
 
“Si può sapere perché stai piangendo?”
 
La voce di Elijah mi giunge alle spalle. Solo allora mi accorgo della lacrima che mi sta scivolando sulla guancia solleticandomi la pelle. Ho ancora il telefono tra le mani. È evidente che, chiusa la conversazione con Caroline, mi sono persa in uno dei mei soliti viaggi mentali nel passato.
 
“Oh. Non è niente. Pensavo… beh, lasciamo perdere. Piuttosto, sarebbe ora di rimettermi al lavoro. Questa pausa è durata fin troppo. Ho un romanzo da terminare.”
 
“Brava ragazza.” mi sussurra, senza fare altre domande. Mi lascia un piccolo bacio dietro l’orecchio per poi allontanarsi e afferrare la giacca appesa accanto all'uscio. “Io esco, ho un appuntamento. Ci vediamo più tardi.” aggiunge, controllando la propria immagine riflessa nella specchiera per poi infilare la porta.
 
Sospiro forte, cercando di rilassarmi. Mi posiziono nuovamente davanti al Mac e riapro il documento salvato poco prima.
 
 
Capitolo 36

 
Rimango imbambolata per un po’, fissando il cursore che mi lampeggia negli occhi.
Sfioro la tastiera. Le dita tremano leggermente quando si posano sui tasti.
Frugo nei pensieri alla ricerca di una frase, una parola, una sillaba… qualsiasi cosa.
Ma non riesco a trovare altro che un desolante quanto spaventoso vuoto.
 
 
 
 
Ciao! Oggi sono di poche parole. Innanzitutto un doveroso e sentito GRAZIE a voi, che avete accolto la mia storia così bene. Grazie, grazie, grazie di cuore <3
Spero che questo secondo capitolo vi sia piaciuto e di non aver fatto troppo casino fra presente e passato… nulla, vi auguro buone vacanze (per chi le fa!) e in generale buona estate.
A risentirci presto, qui o su WF.
Un bacione.
Chiara

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Capitolo 3
*** El Toro Blanco ***


CAPITOLO 3 – EL TORO BLANCO
 
 
They heard me singing and they told me to stop,
Quit these pretentious things and just punch the clock,
These days, my life, I feel it has no purpose,
But late at night the feelings swim to the surface.
Cause on the surface the city lights shine,
They’re calling at me, “come and find your kind.”
***
Mi hanno sentito cantare e mi hanno detto di smettere,
Smettila con queste cose pretenziose e timbra il cartellino,
In questi giorni, la mia vita non ha nessuno scopo,
Ma di sera tardi i sentimenti vengono a galla,
Perché a galla brillano le luci della città,
Mi hanno gridato “va’ e trova qualcuno che ti somigli”.
 
Sprawl II – Arcade Fire
 
 
“Spellate il pollo e immergetelo nella fragrante marinatura precedentemente preparata con senape e succo di limone. Dopodiché infornatelo per venti minuti e… il gioco è fatto! Buon appetito!”
 
Spengo la tv, gettando il telecomando sul tavolo con un po’ troppa foga.
Il fatto è che quell’odiosa presentatrice col grembiulino azzurro e la vocina da Nonna Papera mi ha proprio stufata.
Un gioco da ragazzi? Fa tutto facile, quella lì.
Io invece, da un quarto d’ora non faccio altro che osservare con sospetto il povero pollastrello avvolto nel cellophane, che se ne sta lì, tristemente abbandonato sul piano della cucina, accanto a una ciotola piena fino all’orlo di una brodaglia giallastra poco attraente.
La “fragrante marinatura”, per l’appunto.
 
“A noi due! Non mi fai paura!” dico ad alta voce, afferrando un coltello e avvicinandomi minacciosamente alla confezione.
 
“Elena! Per cortesia, potresti fare un po’ meno confusione? Sto cercando di concentrarmi, io.”
 
Elijah solleva gli occhi dalla tastiera del suo portatile, sbuffando infastidito.
Gli rivolgo una piccola alzata di spalle e un timido sorrisetto di scuse.
 
“Ops. Perdonami.” mi giustifico, passandomi pollice e l’indice uniti sulle labbra, a significare che d’ora in poi non emetterò più un fiato.
 
“Grazie dolcezza.” sorride, recuperando la calma e tornando in men che non si dica a concentrarsi sul suo lavoro.
Da una settimana a questa parte, Elijah ha cominciato a scrivere una nuova sceneggiatura. Non fa altro che starsene incollato al pc giorno e notte senza mai rivolgermi la parola.
È in pieno delirio creativo insomma, tanto da non essersi nemmeno reso conto che io non riesco a buttar giù una riga che sia una da giorni.
 
Proprio così. Sono bloccata. Ed è una tragedia.
 
All’inizio pensavo si trattasse solo di un momento no, come mi è già capitato altre volte.
Così, dopo aver passato ore a fissare inutilmente il monitor, ho provato a non pensare al mio libro per qualche giorno, distraendomi con un po’ di sano shopping compulsivo e dedicandomi a tutte le commissioni che solitamente non ho mai voglia di fare.
Ma quando mi sono rimessa davanti al computer il risultato non è cambiato di una virgola.
La pagina bianca era ancora lì a fissarmi e le mie dita si appoggiavano sulla tastiera senza riuscire a premere nemmeno un tasto.
Emily, la protagonista del mio romanzo, è sempre congelata nella stessa situazione del capitolo trentacinque: ha spalancato la porta, sta per entrare in casa dove la madre la sta attendendo, ma… le parole le muoiono in gola.
 
Non ho avuto scelta. Ho dovuto iniziare con le maniere forti.
Ho recuperato dal fondo di un cassetto un vecchio manuale: “Come far fuori El Toro Blanco in cento mosse: teoria e pratica”.
 
L’ho comprato tempo fa, quando mi è capitato di trovarmi nella stessa situazione.
Al tempo mi era bastato staccare la spina per due o tre giorni e trascorrere qualche ora ai fornelli per distrarmi e riprendere a scrivere come niente fosse.
Stavolta è diverso. C’è qualcosa che non va, solo che non riesco a capire cosa.
 
Non faccio che sfornare manicaretti a più non posso, ma quel dannato blocco non accenna ad andarsene.
Naturalmente ho provato anche altri rimedi suggeriti dal manuale.
 
  • Jogging mattutino: fatto. Non è per me. Dopo nemmeno duecento metri mi sono dovuta fermare per sospetta embolia polmonare. Così ho comprato una porzione di Fish and Chips al primo baracchino disponibile e me ne sono tornata a casa.
  • Rivoluzionare l’arredamento secondo i principi del Feng Shui. Ci ho provato, ma Elijah non ha voluto collaborare.
  • Découpage: pare sia un hobby tra i più rilassanti. Pare.
 
Appoggio il coltello sul tagliere e rimetto il pollo in frigorifero.
Poi guardo il mio fidanzato.
Se ne sta lì, totalmente coinvolto dalla sua opera.
Ogni tanto ride da solo, scuotendo la testa con aria compiaciuta, probabilmente soddisfatto dalla battuta che ha appena scritto. Lo invidio terribilmente.
Bramo il suo entusiasmo, quella voglia di scrivere che ti riempie i pensieri. Quel desiderio impellente di sedersi davanti al computer e buttare giù le mille idee che ti passano per la testa.
Quando anche un discorso ascoltato per caso ti dà l’ispirazione che cercavi, e devi per forza annotare una frase, una parola, un concetto su qualunque pezzo di carta a disposizione col terrore che possa sfuggirti di mente.
Io l’ho provato, tutto questo. Eccome se l’ho provato.
 
Quella mattina mi svegliai un’ora prima del solito. Non feci colazione – avevo lo stomaco chiuso dalla sera prima – ma indossai il mio maglione preferito, mi pettinai con cura e, contrariamente alle mie abitudini, mi truccai leggermente.
Alla fine mi guardai allo specchio e sorrisi soddisfatta. Ero il ritratto della gioia.
Quel giorno avrei cominciato la revisione del mio romanzo in vista della pubblicazione.
Damon aveva deciso di seguire personalmente l’intero processo assieme a me, cosa piuttosto inusuale per lui.
Caroline mi aveva spiegato che alla Tristesse era Stefan ad occuparsi della prima revisione delle bozze. Secondo lei era più che evidente che Damon fosse rimasto impressionato dal mio talento e che credesse moltissimo nel mio romanzo e nelle mie capacità.
Non mi sembrava vero che qualcuno finalmente avesse visto del potenziale nel mio lavoro.
Da che avevo memoria, avevo sempre utilizzato la scrittura come valvola di sfogo. Prima erano solo pensieri, poche frasi messe insieme per fissare su carta quello che a parole non riuscivo ad esprimere.
Poi erano diventate storie. Tante storie. Occupavano ormai in pianta stabile una cartella del mio computer che diventava ogni giorno più pesante.
Non mi ero mai neanche sognata di far leggere qualcosa di mio ad anima viva, ma l’imprevisto era dietro l’angolo.
Bonnie, la mia migliore amica, aveva trovato in casa mia alcuni appunti stampati e dimenticati in giro per errore. Fu la fine. O l’inizio, secondo i punti di vista.
“Elena, non ho mai letto niente di simile. Tu DEVI pubblicare questa storia. Se non ci credi, lascia che faccia leggere qualche pagina alle mie colleghe. Nessuno saprà che sei tu l’autrice. Vedrai se non ho ragione! Lo sai che sono una mezza veggente io…” mi incoraggiò.
 
Così stampai per lei un piccolo estratto de “Le angosce senza fine di mio padre”.
Non seppi mai se fosse vero, ma Bonnie mi giurò che tutte le sue amiche erano scoppiate a piangere di commozione nel leggere quelle poche righe.
Finii per convincermi di avere qualche possibilità. Ci credevo veramente, ma la realtà si dimostrò più dura del previsto.
 
“Ma da oggi si cambia musica!” mi dissi quella mattina. Presi dalla scrivania il plico rilegato contenente l’ultima versione del romanzo e lo infilai nella mia nuova cartellina arancione fluorescente, comprata apposta per l’occasione. Per non sbagliare presi anche un paio di matite, una gomma per cancellare e la mia Moleskine, che, ne ero sicura, mi avrebbe conferito l’aria intellettuale da vera scrittrice che ormai mi si addiceva.
 
Poco dopo bussai alla porta verde della Tristesse.
Come la volta precedente fui accolta da un trafelato, ma perlomeno vestito, Stefan.
E, proprio come durante la mia prima visita, dovetti aspettare nel salottino invaso dal solito, imbarazzante disordine.
Damon era al telefono e stava litigando con qualcuno. Mi sporsi sul divanetto, nel tentativo di afferrare qualche stralcio della conversazione. Doveva essere il commercialista, o la banca.
Di sicuro qualcuno che pretendeva dei soldi.
 
“No, non mi calmo. Non ho alcuna intenzione di pagare la sua ridicola tassa su… no mi stia a sentire lei. Per quanto mi riguarda può prendere quella lettera e infilarsela lì dove… si ha capito bene, la sto insultando!”
 
Spostai lo sguardo sulla mia cartellina arancione. “Su Elena, non è il caso di agitarsi.” mi dissi. In fondo Caroline mi aveva avvertita. Damon poteva essere un po’ brusco delle volte, ma aveva un talento straordinario e un fiuto senza pari per scovare gli autori emergenti più dotati. Non c’era motivo di preoccuparsi.
 
“Elena sei qui?” lo sentii dire. Il suo tono impaziente, accompagnato dal rumore sordo del telefono sbattuto con violenza sulla scrivania, non ammetteva esitazioni.
 
“A.. arrivo.” farfugliai, afferrando le mie cose per poi raggiungerlo nel suo ufficio.
 
Mi bloccai sulla porta. Lui se ne stava lì, seduto alla scrivania, con una mano infilata tra i capelli e l’altra che reggeva un foglio zeppo di cifre. Indossava una camicia scura con le maniche arrotolate fino ai gomiti e aveva un’aria così… ombrosa. Era l’aggettivo giusto?
Non lo sapevo, ma quando sollevò il suo sguardo cristallino dal foglio per posarlo su di me, mi sorprese a fissarlo imbambolata. Tuttavia sembrò non farci caso.
 
“Che fai lì in piedi? Siediti. Non abbiamo tempo da perdere.” mi disse, allungando appena il mento per indicarmi la poltroncina di fronte alla sua scrivania.
 
Mi accomodai senza aggiungere niente, affrettandomi ad estrarre il plico e la matita dalla cartellina. La Moleskine l’avrei sfoderata al momento giusto, magari per annotare una piccola correzione dandomi un tono più professionale.
 
“Da dove cominciamo?” esordii entusiasta. Damon mi fissò sbigottito, come se mi fossi appena sfilata la maglietta e avessi iniziato a ballare la lap dance sul tavolo. Poi piegò le labbra in un mezzo sorriso sarcastico, incrociando le braccia sul petto.
 
“Cosa ne pensi di partire dall’incipit?”
 
“Giusto, allora l’incipit…” balbettai. Sfogliai le prime pagine del manoscritto e mi schiarii la voce. Ero terribilmente nervosa, ma cominciai lo stesso a leggere.
 
“Non sopporto le giornate uggiose come oggi. Il cielo carico di nuvoloni pesanti  non smette più di piangere le sue lacrime sulla città brulicante di umanità frettolosa, indaffarata e distratta.”
 
“Ok, ok. Basta così,” disse lui, allungando davanti a sé la mano aperta, “iniziamo ad analizzare questa prima frase.”
 
“Va bene. Cosa te ne pare?”
 
“Beh, Elena. Se posso essere sincero… ”
 
“Certo, devi.”
 
“Ottimo. Mi piace questo spirito collaborativo.”
 
Le sue labbra si incresparono in un lieve sorriso al quale risposi debolmente, continuando a scuotere la testa in su e in giù in segno di approvazione. Impugnai la matita pronta ad annotare i suoi suggerimenti. La frase mi sembrava già perfetta di suo, ma ero sicura che con qualche piccola correzione poteva migliorare ulteriormente.
 
“Dimmi pure Damon. Cosa dovrei aggiustare secondo te?”
 
“Ecco vedi, io cambierei… tutto. Questo incipit è terrificante. Se fossi nei panni del lettore e mi ritrovassi davanti questa roba, non userei il libro nemmeno come fermaporte.”
 
 
Se ci penso ancora ricordo il silenzio gelido che seguì a quelle parole. Avrei dovuto capire subito con che razza di pallone gonfiato avevo a che fare, invece…
 
“Ti va una tortina al limone? Le ho appena sfornate.” propongo, posando con delicatezza un tovagliolo con il dolcetto ancora fumante sulla scrivania di Elijah, che nel frattempo continua a battere furiosamente sui tasti come se fosse in trance.
 
“Grazie… la mangio dopo ok?” risponde lui senza prestarmi troppa attenzione. Lo capisco, in questo momento è troppo concentrato sul suo lavoro. È solo che io… ho davvero bisogno di una distrazione. Così poso le mani sulle sue spalle e mi abbasso per abbracciarlo da dietro, posando il mento sulla sua spalla.
 
“Che ne diresti se partissimo per una vacanza, io e te? Potremmo starcene lontani per qualche giorno, rilassarci un po’…”
 
Con l’indice della mano destra disegno piccoli cerchi immaginari sulla stoffa chiara della sua camicia, fantasticando su un’ipotetica fuga. Ho letto sul manuale che un piccolo stacco alla routine è quello che ci vuole quando l’ispirazione tarda a ritornare e…
 
“Elena, non è il momento. Io sono in piena fase di scrittura, tu devi consegnare la bozza del romanzo a giorni. A proposito, com’è che non ti vedo scrivere? Qualcosa non va?”
 
Perché non ci ho pensato prima? Chi meglio di Elijah può comprendere la mia situazione e aiutarmi? Anche lui è un autore e certamente si è ritrovato nei miei panni.
Gli sorrido riconoscente, faccio il giro della sedia e mi accoccolo – forse un po’ troppo bruscamente – sulle sue ginocchia.
 
“Ti capita mai che i tuoi personaggi si rifiutino di collaborare? Voglio dire, è come se… Emily… stesse bocciando tutte le mie idee e mi stesse suggerendo che qualcosa non va. Riesci a capire quello che intendo?”
 
Attendo speranzosa il suo parere mentre lui mi scruta per qualche secondo da dietro gli occhiali da riposo che usa sempre quando lavora.
 
“Certo che no Elena. Non è mia abitudine ascoltare consigli di qualcuno, specialmente se si tratta dei personaggi. Che cavolo, devono fare quello che dico io! Adesso scusami tesoro, ho in testa una scena divertentissima e ho paura che mi sfugga di mente.”
 
Detto questo mi liquida in quattro e quattr’otto con un bacetto sfuggente sulla guancia.
Mi alzo e lo osservo per un po’ in silenzio, per poi lasciar scivolare tristemente lo sguardo sulla mia scrivania intonsa e sul mio bonsai portafortuna.
Poi ritorno in cucina. È giunto il momento di fare la pelle a quel dannato pollo.
 
 
La revisione del romanzo fu una vera e propria agonia. Damon non aveva peli sulla lingua e non mi rifiutava mai commenti pungenti e critiche aspre.
Continuava a rimproverarmi per la mia propensione a infarcire i miei scritti di troppi aggettivi e descrizioni inutili senza arrivare mai al cuore della questione.
Tuttavia la sera, quando rientravo a casa dopo il lavoro e avevo avuto il tempo di metabolizzare le sue osservazioni, ero presa da una specie di raptus creativo e, come per magia, i testi diventavano più fluidi e scorrevoli e tutto filava liscio.
Così, la mattina dopo, mi presentavo alla sua porta con il capitolo del giorno prima rivisto e corretto e finalmente potevamo passare oltre.
Un pomeriggio, dopo l’ennesima sfuriata, ero uscita a prendere un caffè con Caroline.
Ci eravamo sedute all’esterno di un piccolo bar sulla Brick Lane e ci eravamo distratte per qualche minuto osservando i pittoreschi personaggi che lo popolavano.
La studiavo senza farmi notare mentre sbocconcellava un muffin e mi riempiva di chiacchiere, scacciando di tanto in tanto le briciole che cadevano sul suo bel cappotto firmato.
 
“Posso farti una domanda?” le chiesi a bruciapelo.
 
“Spara.” rispose, sbattendo le lunghe ciglia e guardandomi interessata.
 
“Perché lo fai? Voglio dire, senza offesa, mi sembri una che può permettersi il lusso di non lavorare per vivere. Eppure stai tutto il giorno in quel buco di ufficio, se si può definire così, a subire la maleducazione di quello psicopatico.”
 
Lei non sembrò essersela presa. Al contrario, mi rivolse un sorriso dolce e un’alzatina di spalle.
 
“Non ti sbagli Elena. Non è certo un mistero, sono di buona famiglia e i soldi non mi mancano. Eppure… non ho mai conosciuto qualcuno con la passione di Damon per il proprio lavoro. Fidati. È per questo che mi piace lavorare per lui, anche se effettivamente lo stipendio non è dei migliori e a volte Damon può essere un po’… scorbutico, diciamo.”
 
Per qualche giorno le sue parole ebbero un certo effetto su di me.
Guardando Damon con gli occhi di Caroline riuscivo a vederlo diverso. Era palese che la Tristesse non navigasse nell’oro, eppure lui non si tirava mai indietro nel rispedire al mittente proposte, anche allettanti, quando non credeva nel libro che gli veniva sottoposto.
E poi dovevo ammettere che i suoi consigli stavano davvero migliorando il mio stile e trasformando il mio romanzo.
Un pomeriggio però, mentre stavamo correggendo l’ennesimo capitolo, la situazione precipitò per l’ennesima volta.
 
“Questa frase non significa niente Elena. Quante volte te lo devo ripetere? Continui a fare gli stessi errori. Cerca di essere più vera e diretta quando scrivi. Perché non provi ad immedesimarti di più nella condizione di lei? Vuole qualcosa che non può avere. Come credi che si senta?”
 
“Stanca.”
 
“Come dici scusa?”
 
“Sono stanca.” sbottai, scattando in piedi e gettando a terra il foglio zeppo di sue annotazioni che avevo in mano. Esausta lasciai scorrere una mano fra i capelli allontanandoli bruscamente dalla faccia, mentre lui mi osservava confuso spostando i suoi occhi da una parte all’altra del mio viso.
 
“Non ne posso più di te e dei tuoi modi.” proseguii, “Pretendi, pretendi e basta, non mi dai nemmeno il tempo di respirare. Sai che ti dico? Se esco da quella porta non avrai un bel NIENTE da pubblicare col carattere che ti ritrovi. Credi che non lo sappia? Ti sto salvando il culo, razza di stronzo.”
 
Ero offesa. Di più, ero furiosa. Mi lasciai cadere a braccia conserte sulla sedia col fiato corto, ma leggermente sollevata dopo quello sfogo. Nel frattempo Damon non smetteva di guardarmi, prima stranito, poi sempre più incazzato.
 
“Hai finito?”
 
“Si.” ribattei scocciata, soffiando via una ciocca di capelli che mi era scivolata davanti agli occhi.
 
“Ok. Sarà meglio uscire.”
 
Dieci minuti dopo stavamo camminando lungo la riva sud del Tamigi. L’aria era fredda, di lì a poco sarebbe scesa la sera. Tenevo le mani nascoste nelle tasche del cappotto e il viso affondato nella sciarpa di lana. Di tanto in tanto osservavo Damon con la coda dell’occhio. Non sembrava arrabbiato e nemmeno io lo ero più. Non sapevo dire se fosse per lo sfogo di poco prima o per quella passeggiata inaspettata, ma tutto ad un tratto mi sentivo bene.
Avevo l’impressione di essermi finalmente guadagnata il suo rispetto.
 
“Come hai cominciato a fare questo lavoro?” chiesi all’improvviso, interrompendo il pacifico silenzio che era calato fra di noi.
 
Lui aveva sorriso, di quel suo solito sorriso ironico, che gli sollevava solo un angolo delle labbra. Poi aveva rallentato il passo fino ad appoggiare le braccia incrociate sul muretto che delimitava il marciapiede, lasciando vagare lo sguardo sulle acque scure del fiume di fronte a noi come se stesse ripescando nella memoria un ricordo molto lontano.

 
“Ho sempre desiderato farlo. Ho cominciato molto presto in una grande casa editrice della City. Ma poi… beh, ormai mi conosci. Non sono fatto per sottostare alle regole altrui. Così mi sono messo in proprio. Non è esattamente una passeggiata, ma alle volte dà soddisfazione.”
 
Rimasi in silenzio ad ascoltarlo, reggendomi il viso mentre rincorrevo con gli occhi le sue mani che gesticolavano. 
Ad un tratto si fece nuovamente serio e mi piantò quel suo sguardo glaciale e indecifrabile dritto negli occhi, facendomi sussultare come tutte le volte.

 
“Se ti aspetti delle scuse Elena, sappi che non le avrai. Pretendo molto da te, perché hai talento. Ma da solo non basta. Devi tirare fuori quel qualcosa in più che ho letto tra le righe e che sono sicuro tu possa far emergere. Capisci cosa intendo?”
 
“Credo di si.” annuii.
 
“Che ne pensi di rimetterci al lavoro adesso?”
 
“Ok, ma prima andiamo a prendere qualcosa da mangiare. Sto morendo di fame.”
 
Poco dopo stavamo raggiungendo nuovamente la Columbia Road. Avevo le braccia cariche di sacchetti dopo aver fatto incetta di viveri in un piccolo bar del Gabriel’s Warf.
Prevedevo una lunga notte di lavoro, ma tutto sommato mi sentivo leggera.
Dopotutto avevo scoperto che Damon poteva essere anche simpatico se voleva e da qualche parte, ben nascosto sotto il suo cinismo, doveva avere addirittura un cuore. 
Ridevo, non ricordo più nemmeno per quale motivo, quando incrociai la figura esile ed elegante di una ragazza dai capelli rossi che se ne stava posata contro il muro di mattoni dell’edificio che ospitava la Tristesse.
 
“Damon. Che fine avevi fatto? È da un quarto d’ora che sono qui fuori a congelarmi.” sbottò non appena ci vide. I suoi occhi verde chiaro percorsero in un istante tutta la mia figura, per poi spostarsi immediatamente su di lui che, nel frattempo, si era bloccato al mio fianco.
 
“Non ti aspettavo.” rispose Damon, una punta di entusiasmo nel suo solito tono perentorio.
 
“E lei chi è?” domandò la rossa, inclinando la testa con aria incuriosita.
 
“Non ti ricordi di Elena? Ti avevo detto che…”
 
“Giusto, hai ragione. Lo avevo dimenticato. Lei è quella delle angosce senza ritorno o roba così. Piacere, io sono Katherine. Damon non ti ha parlato di me?”
 
***
 
“Ti chiamo fra poco ok?”
 
Chiudo la conversazione e appoggio il telefono sopra alla scrivania, fulminando mio fratello che se ne sta in piedi sulla porta. Lui regge un dossier fra le mani e mi osserva con la solita aria saccente da sotto il suo ciuffo pietrificato dal gel.
 
“Stefan. Se vai avanti così la L’Oreal ti assumerà come sponsor e finalmente avremo risolto tutti i nostri problemi economici.”
 
Lui fa qualche passo verso di me e si lascia sprofondare sulla poltrona di fronte alla scrivania, abbandonando le carte sul tavolo e rivolgendomi uno sguardo sbieco.
 
“In qualsiasi circostanza i miei capelli finiscono per essere argomento di conversazione. Non riesco a capire il perché.” commenta in tono piatto. Dice sul serio?
Sollevo le sopracciglia e, subito dopo, torno a correggere il dannato capitolo che mi tiene inchiodato qui da oltre mezz’ora. A quanto pare però, Stefan ha ancora voglia di chiacchierare.
 
“Chi era al telefono?”
 
“Katherine.” rispondo sbuffando, senza dargli troppi dettagli. Tanto non serve, la predica è già in agguato. Delle volte mio fratello sa essere piuttosto intuitivo.
 
“Ancora quella stronza? Non capisco cosa ci trovi in lei.” sbotta.
Questa volta sono costretto ad alzare il viso dal foglio. Lo osservo per qualche secondo mentre se ne sta lì, con le mani incrociate dietro la testa e l’aria più pacifica del mondo.
 
“A parte rifilarmi i tuoi consigli sentimentali non richiesti sei qui per qualche motivo o cosa? Perché io avrei del lavoro da far..”
 
“Caroline mi ha fatto vedere il bilancio, Damon. Ecco qua, parla chiaro. La situazione è peggiore di quanto immaginassi.”  mi interrompe. Poi mi sbatte sotto il naso le cifre che già conosco a memoria. Scosto i fogli con la mano, dipingendomi in viso un’espressione che vuole essere l’emblema della serenità.
 
“Calma Stef. Scherzavo prima, sai? Non sarai costretto a sfruttare il tuo corpo, o peggio, la tua preziosa chioma per salvarmi il culo. Lo sai bene che abbiamo un best seller fra le mani. Elena non mi ha ancora fatto vedere la bozza ma è questione di giorni. Quella ragazza quando scrive è una bomba…” lo tranquillizzo.
 
“Sarà. Circolano strane voci. Pare che stia per firmare con la ABP.” bisbiglia sottovoce, quasi come se mi stesse rivelando un grosso segreto di stato.
 
“E lascia che firmi!” esclamo, “Non abbiamo mica bisogno di lei. Pubblicheremo il suo ultimo romanzo, ci tireremo un po’ su economicamente e poi, ognuno per la sua strada. Troverò qualcun altro al suo posto.”
 
Stefan sembra soppesare le mie parole con diffidenza. Poi si allunga sulla scrivania e mi scruta con sospetto, puntandomi contro il suo solito, petulante, indice accusatorio.
 
“Non sarà per caso la tua fidanzata a suggerirti queste idee?”
 
“Piantala di fare il Freud della situazione e non preoccuparti. Anzi, se ti può far stare più tranquillo, ora chiamo Elena e le chiedo quando ha intenzione di consegnare il manoscritto, ok?”
 
***
 
Sono talmente concentrata su quello che sto facendo che, quando il telefono suona, lo afferro senza pensarci, infilandolo tra la spalla e la guancia e continuando a mescolare l’impasto della torta. Col pollo non c’è speranza, ho preferito ripiegare su un dolce.
Tra l’altro gli zuccheri, secondo il manuale, mettono in circolo delle endorfine che…
 
“Elena? Ci sei o no?”
 
La voce di Damon a momenti mi perfora un timpano. Merda, perché non ho controllato prima di rispondere? Mentre cerco di recuperare almeno un minimo di aplomb, mescolo l’impasto a velocità supersonica.
 
“Qual buon vento, razza di bastardo?”
 
“Adorabile come sempre, Elena. Ti ricordavo più raffinata però. Comunque, bando ai convenevoli. Quando sarà pronta la bozza?”
 
Quelle parole mi terrorizzano a tal punto che, mentre cerco di farmi venire in mente una scusa, urto accidentalmente la teglia con le tortine che avevo posato sul tavolo, facendola cadere a terra e producendo un fracasso metallico che risveglia perfino Elijah dal suo delirio creativo.
Nel frattempo Damon continua a sbraitare nel telefono.
 
“Che diavolo stai combinando?”
 
“N.. niente. Cucinavo un dol--”
 
Le parole mi sfuggono dalle labbra troppo presto. Ormai è tardi e ho la certezza che Damon, dall’altra parte, abbia già capito ciò che mi passa per la testa.
 
“Come sarebbe a dire che stai cucinando? Lo so benissimo, tu cucini solo quando sei bloccata. Me lo ricordo quel tuo stupido manuale e…”
 
Non gli lascio finire la frase. In un lampo ho già premuto il tasto rosso e interrotto la conversazione. Mezzo secondo dopo il telefono riprende a squillare. Perché diavolo Damon deve essere sempre così dannatamente insistente?
 
“Smettila!” grido, presa dal panico. Un attimo dopo, prima ancora di rendermene conto, ho gettato l’i-Phone nella pastella sotto lo sguardo esterrefatto del mio fidanzato.
 
 
*********
Buongiorno!
Eccomi qui col capitolo che francamente non vedevo l’ora di scrivere per tirarmi un po’ su :P
Non succede moltissimo. Troviamo Elena che tenta in ogni modo o_0 di sbloccarsi e Damon con i soliti problemi economici. Nel frattempo continuiamo a fare luce sulle peripezie di Elena per la pubblicazione del suo primo romanzo. Ah, Kath immaginatevela stronza come sempre ma fisicamente diversa per ovvi motivi.
Il capitolo è proiettato sul passato, ma a breve dovremmo entrare nel vivo.
Importante: in questo periodo sono un po’ (tanto) svampita… mi sono accorta di aver seminato valanghe di sviste e ripetizioni sia nel precedente capitolo sia nell’ultimo dell’altra storia. Il problema è che me ne accorgo sempre un po’ in ritardo. Portate pazienza, ora dovrei aver corretto più o meno tutto, ma chiedo scusa a chi ha letto i capitoli appena pubblicati.
Detto questo, mi dileguo! Grazie di cuore per il sostegno a chi mi ha lasciato la propria opinione la scorsa volta e ha aggiunto la storia alle varie liste. Smack <3
Chiara
 
PS Le sante donne che mi seguono da tanto forse, e dico forse, ricordano quell’incipit. Non volevo auto referenziarmi ma prendermi un po’ per i fondelli, quello si! :P 

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Capitolo 4
*** Sole, pioggia, neve e tempesta ***


CAPITOLO 4 – SOLE PIOGGIA NEVE E TEMPESTA
 
 
Hai fatto tutta quella strada per arrivare fin qui
e ad ogni sosta c'era sempre qualcuno
e quasi sempre tu hai provato a parlare
ma non sentiva nessuno
 
e ti sei data ti sei presa qualche cosa chissà
ma le parole che ti sono avanzate
sono finite tutte nella valigia
e li ci sono restate…
 
Il peso della valigia – Ligabue
 
 
 
“Abbiamo un problema Stefan. No anzi, mi correggo. È una crisi a livello mondiale!”
 
Mentre pronuncio quelle parole frugo nell’armadietto dei liquori per estrarne subito dopo un  ottimo Kentucky Straight Bourbon.
Per qualche istante mi soffermo sull’etichetta color avorio che avvolge la bottiglia, l’ultima decente rimasta in casa. In realtà la conservavo per le grandi occasioni, ma direi che per una tragedia del genere vale ugualmente la pena di sacrificarla: mi aiuterà a concentrarmi.
 
Cerco un bicchiere pulito e lo appoggio sul ripiano della cucina, riempiendolo direttamente fino all’orlo. Nel frattempo, Stefan non reagisce. Tiene gli occhi fissi su un mucchio di carte sparpagliate sulla tavola, che con ogni probabilità riportano i numeri disastrosi del bilancio della Tristesse.
 
“Versane uno anche a me, Damon. Meglio se doppio.” lo sento dire all’improvviso, la voce quasi rotta dal… pianto? Che diavolo gli prende?
 
“Ok Stef, siamo sull’orlo della bancarotta ma non mi sembra il caso di mettersi a piangere come una ragazzina con la sindrome premestr…”
 
Allungo lo sguardo verso di lui fino ad incontrare i suoi capelli scolpiti e il suo capo chino, scoprendo che il mio caro fratellino, invece di ascoltarmi, sta lottando con sé stesso per non mettersi a singhiozzare su una copia tutta sgualcita di Lieto Fine sepolta in mezzo ai documenti.
 
Proprio così, quell’idiota sta leggendo per l’ennesima volta il primo libro di Elena Gilbert: la mia spina nel fianco nonché la donna che mi porterà alla completa rovina.
Troppe volte ho dovuto assistere a scene patetiche come questa quando io ed Elena abbiamo iniziato la promozione del romanzo. Avevo organizzato per lei delle letture in piccole librerie di periferia, alle quali, almeno inizialmente, partecipavano si e no tre persone per volta.
Eppure succedeva sempre la stessa cosa.
Nessuno era in grado di ascoltare la voce di Elena mentre leggeva il suo libro senza versare qualche lacrima.
Poco a poco, vuoi per il passaparola, vuoi per chissà quale miracolo, le tre persone erano diventate cinque, poi dieci, poi cinquanta.
Pochi mesi dopo la gente faceva la fila per aggiudicarsi una copia autografata di Lieto Fine, e tutte le volte era un penoso tripudio di fazzoletti, nasi gocciolanti e pianti disperati.
 
Mio fratello si deve essere accorto della mia espressione a metà fra la rassegnazione e la collera, perché chiude il libro con un tonfo e lo appoggia timidamente da un lato.
 
“Scusa Damon, il fatto è che ogni volta che lo rileggo mi fa lo stesso effetto. È così pieno di drammi e infelicità che non posso fare a meno di chiedermi quanta sofferenza debba aver attraversato la vita di Elena per farla scrivere parole così toccanti e…”
 
“Bla, bla, bla. Se fossi in te la smetterei di concentrarmi sulle tragedie di quella moretta presuntuosa e inizierei a pensare alle nostre, di disgrazie. È bloccata. B-L-O-C-C-A-T-A! Se non terminerà il nuovo romanzo non avremo un bel niente da pubblicare né da vendere. Ergo, finiremo sul lastrico e si dà il caso che io non abbia usato il plurale tanto per fare.”
 
Finalmente mi pare di aver conquistato l’attenzione di Stefan, che assume la solita espressione assorta da psicologo mancato.
 
“Ne sei sicuro? Dici sempre che Elena quando scrive è meglio di un missile guidato!”
 
“Lo so!” sbotto, scuotendo la testa e passandomi le dita fra i capelli con frustrazione. “Però c’è qualcosa che non va. Punto primo non risponde alle mie chiamate, quando avrebbe già dovuto consegnarmi la bozza da giorni. Mi sta evitando capisci? E poi ho saputo che si è messa a cucinare, e lo fa solo nei momenti in cui è blocc--” 
 
“La conosci proprio bene eh?” mi interrompe. Ha quel fastidioso sorrisetto ironico stampato in faccia e studia le mie reazioni col fare di uno che la sa molto lunga.
 
“Cosa vorresti dire scusa?” ribatto scocciato, alzando gli occhi al cielo.
 
“Assolutamente niente. Ma lo sai, quando ti sento parlare di Elena non posso fare a meno di chiedermi cosa ci fai con Katherine. Anzi, a dirti la verità non capisco nemmeno cosa ci trovi lei in uno come te, visto che ormai non hai un soldo bucato…”
 
“Lo dici perché non hai mai fatto sesso con me. E comunque, sai che ti dico Stef? Dovresti preoccuparti meno per la mia vita e deciderti a concludere qualcosa con Barbie Ragioniera.”
 
Scacco matto. Stefan come previsto si agita sulla sedia, sgrana gli occhi e si porta una mano ai capelli, rischiando di rovinare la meravigliosa scultura tricologica che stamattina deve essergli costata almeno un quarto d’ora di lavoro.
Non sopporto quando fa questi discorsi. Kath è perfetta per me. Forse un po’ superficiale alle  volte, ma chi sopporterebbe una come Elena anche nel privato?
 
“Che diavolo… lasciamo perdere Damon. Piuttosto, che intenzioni hai per far sbloccare Elena?”
 
“Non so nemmeno che accidenti le prende! Fino a pochi giorni fa sembrava fosse ad un passo dal concludere il libro. Ma lo finirà, eccome se lo finirà. Dopotutto è ancora sotto contratto con me fino a che non consegna. Sono disposto a tutto. Potremmo proporle degli stupefacenti, cosa dici? Anzi no, proviamo con l’alcol. Una sbronza colossale dovrebbe…”
 
“Per caso c’è una festa di cui io non sono informata?”
 
Io e Stefan ci guardiamo in contemporanea, ma prima che lui possa fulminarmi con una delle sue occhiate di rimprovero sposto lo sguardo sulla porta, verso la voce che ha parlato.
Kath se ne sta lì, allungata sullo stipite con una di quelle minigonne infinitesimali che, se fossimo in altre circostanze, mi piacerebbe molto strapparle di dosso. Ma…
 
“Festa? Che giorno è oggi?” chiedo, colto da una specie di epifania.
 
“Giovedì. Perché?” fanno loro all’unisono.
 
“Fatti bella Katherine. Stasera usciamo!”
 
***
 
Oggi scriverò, è deciso.
Farò come mi ha suggerito Elijah. Sono io che comando, non i personaggi del mio romanzo.
È giunta l’ora che se lo mettano in testa!
Fiera e decisa mi accomodo alla scrivania, di fronte al mio fidanzato che come sempre è concentratissimo sul suo lavoro.
Con un gesto molto professionale apro il mio Mac e clicco sul documento.
La scritta “Capitolo trentasei” mi appare davanti per l’ennesima volta, seguita dal vuoto più totale.
Immediatamente rivolgo lo sguardo al mio bonsai. Ha una fogliolina gialla che proprio non si può vedere. La elimino subito con una forbice, e poi, presa da una specie di raptus botanico, inizio a dare una forma alternativa alla piccola chioma verdeggiante, potando foglie e rami a casaccio fino a quando non mi sento addosso gli occhi perplessi di Elijah che, per un attimo, ha smesso di battere sui tasti del pc come un indemoniato.
 
“Che ti prende Elena? Non mi dire che sei ancora bloccata…” esordisce, con una faccia compassionevole che, non so per quale motivo, mi infastidisce ancora di più.
Decido di cambiare discorso all’istante.
 
“Ti ho mai raccontato la storia del mio bonsai?” chiedo, incrociando le mani sotto al mento. Non ascolto nemmeno la sua risposta, rapita dallo spettacolo malinconico che si presenta fuori dalla finestra, dove una pioggia vaporosa e sottile ha iniziato ad avvolgere le case del quartiere.
 
“È un regalo di mio padre,” continuo “è tutto ciò che mi ha lasciato… prima di andarsene.”
 
 
“Lo avevo ringraziato, un po’ stranita. Voglio dire, di solito ad una ragazzina si fanno regali di altro genere. Comunque, lui mi disse con le lacrime agli occhi che meritavo questo ed altro. Poi mi diede un bacio sulla fronte e sparì dalla mia vita per oltre tre anni. Poco alla volta capii ogni cosa. Tutti i suoi turni straordinari al lavoro, tutte le lacrime di mia madre che passava le sue serate da sola sul divano. Quando le domandavo perché piangesse, diceva sempre che aveva visto una puntata commovente di “You’ve got a mail”.
La realtà era ben diversa. Mio padre, il mio eroe, aveva trovato un’altra donna e un’altra famiglia. Lei, l’altra… aveva una serra biodinamica o qualcosa del genere. Ecco spiegato il bonsai. Sono patetica, non trovi? Avrei dovuto bruciarlo, invece lo curo ancora come una reliquia.”
 
Damon mi osservava senza parlare da oltre la scrivania, i gomiti appoggiati sui braccioli della sua poltrona e un’espressione concentrata sul viso.
 
“L’hai più rivisto?” domandò, ignorando le mie ultime affermazioni.
 
Sospirai.
 
“Mi ha cercata dopo qualche anno ma io mi sono rifiutata di vederlo. Fu allora che iniziai a scrivere il romanzo, riversandoci dentro tutto quello che provavo nei suoi confronti.”
 
“Che faresti ora se tuo padre fosse qui?” chiese lui a bruciapelo. Aveva la tendenza a non girare troppo intorno alle questioni, non solo nella scrittura ma anche come approccio alla vita.
Riflettei per qualche istante prima di rispondere.
 
“Beh, vedi Damon… in un certo senso scrivere “Le angosce senza fine” è stato un processo catartico. E poi, da quando mia madre è morta le mie prospettive sono cambiate radicalmente. Sai che ti dico? Ora come ora farei qualsiasi cosa per riabbracciarlo. Sono pronta a lasciarmi alle spalle tutto il passato, ma mi manca il coraggio per andare a cercarlo…”
 
Non sapevo nemmeno io perché avevo fatto tutte quelle confidenze al mio strano, scorbutico editore. Forse era colpa di tutto il tempo trascorso insieme per revisionare il romanzo, ma tra di noi si era instaurata una certa intesa. Il suo continuo esortarmi a scavare nei miei sentimenti per migliorare i miei scritti aveva avuto degli effetti insperati.
Nessuno al mondo mi aveva mai capita come Damon che, con poche domande, riusciva a tirare fuori cose che non sapevo nemmeno di avere dentro.
 
Damon che se ne stava lì davanti a me, gli occhi azzurrissimi assorti in pensieri a me sconosciuti. Non aggiunse nient’altro ma qualche giorno dopo, mentre ero nel suo ufficio intenta a rivedere alcune correzioni, un’ombra scura si allungò sopra la scrivania dove stavo lavorando.
Quando alzai lo sguardo, mio padre si era materializzato davanti a me.
Era un po’ diverso da come lo ricordavo. Qualche capello grigio in più, qualche ruga a rendere ancor più affascinante il suo bel viso. Ma soprattutto, notai i suoi occhi umidi di commozione e le sue labbra curvate in un timido sorriso di scuse.
 
“Papà!” esclamai, un nodo che mi opprimeva la gola.
 
“Elena… mi sei mancata.”
 
Non servì aggiungere nient’altro. Scattai in piedi e corsi ad abbracciarlo, inspirando lentamente l’aroma familiare e mai dimenticato del suo dopobarba.
Sollevai gli occhi solo per incontrare quelli di Damon che se ne stava in silenzio sulla porta.
Gli mimai un “grazie” con le labbra, e lui mi sorrise in quel suo modo tutto speciale.
Poi, come un fulmine al ciel sereno, arrivò Katherine.
Katherine la stronza, malefica strega, come l’avevo soprannominata suscitando l’ilarità di Care.
Era più forte di me, non la sopportavo.
Quella specie di oca giuliva con la sensibilità di uno zerbino, si era appolipata addosso al suo “fidanzato” come era solita fare, incurante della mia presenza, trascinandolo nell’altra stanza senza degnarmi di uno sguardo e, soprattutto, senza lasciarmi nemmeno il tempo di ringraziarlo come avrei voluto.
Poco male – pensai – mio padre era finalmente tornato.
Avevamo un sacco di tempo da recuperare.
 
Fuori ha smesso di piovere. Inseguo per qualche istante le scie gocciolanti che scorrono sul vetro della finestra, masticando controvoglia una fetta della torta al cioccolato che ho sfornato questa mattina.
 
Non so se sono io che ho smesso di parlare per perdermi nell’ennesimo viaggio mentale, o se è Elijah che ha semplicemente smesso di ascoltarmi.
Il sottofondo della nostra vita è tornato quello di sempre.
Un misto fra il rumore continuo dei tasti sui quali lui continua a picchiare come un ossesso e il suono ancor più assordante dei miei pensieri che però, per quanto incessanti, non riescono a concretizzarsi in nessuna frase scritta.
 
Non c’è manuale che tenga. Sono in preda alla peggiore crisi da pagina bianca della mia vita.
Dannazione, perché non riesco a finire il maledetto romanzo e lasciarmi tutto alle spalle?
Prima finisco, prima consegno, prima potrò firmare con la ABP e dimenticare ogni cosa.
Soprattutto le due paroline magiche che mi fanno imbestialire ogni volta che le sento: Lieto Fine.
 
 
Quella mattina non stavo in me dalla gioia. Perfino nella metro non riuscivo a togliermi il sorriso ebete che mi si era stampato in viso, suscitando gli sguardi compassionevoli degli altri pendolari che, con ogni probabilità, credevano fossi affetta da una specie di paresi facciale.
Non mi importava. Niente avrebbe potuto guastare il mio buonumore, o almeno, questo era quello che credevo.
Una volta riemersa avevo bruciato in pochi istanti la strada che separava la fermata dalla porta della Tristesse. Trovai l’uscio socchiuso e decisi di entrare senza farmi troppi problemi.
Damon era al telefono, incazzato come sempre, ma quello che mi interessava di più era già lì ad aspettarmi.
 
Con le mani tremanti per l’emozione mi avventai sugli scatoloni che affollavano l’ingresso, coperti da grandi etichette gialle che portavano la scritta “Elena Gilbert”.
Il mio romanzo era finalmente stato stampato. Non vedevo l’ora di stringerne una copia tra le dita per affondare il naso tra le pagine e respirare l’odore buono del mio libro.
Avevo sputato sangue per raggiungere quel traguardo, ma ne era valsa la pena.
Strappai letteralmente il nastro adesivo che avvolgeva le scatole, rovistando all’interno per estrarne… un momento. “Lieto Fine”?
 
“Che significa?” urlai contro Damon, sventolandogli il volume sotto il naso mentre se ne stava ancora tranquillamente al telefono, i piedi appoggiati con noncuranza sulla scrivania.
 
“Ti richiamo…” sbuffò nella cornetta, accompagnando le parole con un’annoiata alzata di sopracciglia che non fece altro che irritarmi di più.
 
“Hai cambiato il titolo del mio libro… senza consultarmi??” sbraitai, le guance in fiamme e il fiato corto.
 
“Elena… non fare l’isterica per cortesia. Ammettilo. “Le angosce senza fine di mio padre” non era un titolo commerciale.”
 
“Perché “Lieto Fine” si?”
 
“Ho fatto un’indagine di mercato e…”
 
“A chi avresti chiesto? Sentiamo.” lo esortai, serrando le braccia contro il petto per combattere l’istinto di strozzarlo. Lui si strinse nelle spalle, sfoderando la sua peggiore faccia da sberle.
 
“Beh ecco… a Katherine. Ho pensavo che potesse rappresentare perfettamente la donna tipo che acquisterebbe…”
 
“Katherine? Dici sul serio? Ma se al massimo legge l’oroscopo! Anzi, non mi stupirei se fosse del tutto analfabeta! L’ha fatto apposta perché mi odia!”
 
Le ultime parole mi uscirono violente, cariche del disprezzo che provavo per lui e per quella stronza della sua fidanzata.
 
“Sei paranoica, Elena. Perché dovrebbe odiarti?”
 
Guardai ancora una volta il volume con quel ridicolo titolo stampato in cima prima di scaraventarglielo contro, prendendolo solo di striscio.
 
“Ouch.” sorrise lui, spolverandosi la camicia.
 
“Chi sei? Come hai potuto farlo? Credevo che tu… mi avessi capita.”
 
Ormai ero sull’orlo di una crisi di pianto ma sembrava che a Damon non importasse nulla.
 
“Era un brutto titolo e l’ho cambiato. Se te lo avessi detto prima non mi avresti permesso di farlo. Ora siediti. Dobbiamo parlare della promozione e del prossimo libro.”
 
“Come può essere tutto così semplice per te?”
 
“Forse perché riesco a passare oltre senza crogiolarmi nel dolore dalla mattina alla sera come piace tanto a te.” rispose secco.
 
Rimasi pietrificata per qualche secondo. Non riuscivo a credere di avere di fronte la  stessa persona con cui mi ero confidata per mesi, lo stesso che mi aveva riportato mio padre senza chiedere nulla in cambio. Lottai contro me stessa per non far uscire le lacrime che premevano per venir fuori, mi schiarii la voce e respirai a fondo.
 
“Sai che ti dico? Ok. Faremo la promozione, avrai il tuo fottutissimo secondo romanzo. Dopodiché puoi anche scordarti come mi chiamo.”
 
***
 
“Mi hai portata in uno squallido pub dove fanno il karaoke? Sul serio Damon che ti prende?”
 
Kath sembra piuttosto imbestialita, ma io non le presto troppa attenzione.
Oggi è giovedì e il giovedì è la serata che Elena trascorre puntualmente in questo locale da quattro soldi, un po’ con la scusa di vedere il padre che si esibisce nel suo passatempo preferito, un po’ per fare compagnia alla sua amica Bonnie che fa gli straordinari in questo posto per arrotondare il suo stipendio di commessa.
 
“Cerca di collaborare, ok bellezza? Ne va del futuro della mia casa editrice…” sibilo tra i denti.
 
L’espressione di Katherine si addolcisce leggermente mentre allunga una mano per lasciarmi una carezza sul viso, quasi fossi un cucciolo bisognoso di attenzioni anziché un editore in bancarotta.
 
“Ancora con questa storia? Lascia perdere Damon! Chi se ne importa della Tristesse. Lo sai benissimo che mio padre ti accoglierebbe a braccia aperte se decidessi di iniziare a lavorare per la sua rivista.”
 
Cavallo magazine? Vuoi scherzare? Pensi che abbia sacrificato tutti questi anni per finire a fare il redattore in quella sottospecie di…”
 
“Non disprezzarla. Ha una tiratura molto interessante, dopotutto il polo è uno degli sport che va per la maggiore e…”
 
Non la sto più a sentire mentre cerca di convincermi, concentrato come sono su ogni scampanellio della porta, in attesa che Elena faccia il suo ingresso. 
E alla fine la vedo comparire, avvolta nel cappotto scuro e nella solita sciarpa a righe che tiene sollevata fino al mento.
Quasi mi strozzo con il bourbon che sto bevendo quando mi accorgo che si è fatta accompagnare da quel coglione di Mikaelson, lo sceneggiatore in crisi che ha perso l’ispirazione da anni ma sta sfruttando la recente popolarità di Elena per tentare di uscire dall’ombra.
È stato furbo nel giocare le sue carte alla cerimonia degli English Fiction Awards e lei, ingenua come al solito, ci è cascata con tutte le scarpe.
 
Non riesco più a trattenermi. Mi alzo in piedi di scatto, dirigendomi a passo svelto in sua direzione.
 
“Ehi D. Non mi aspettavo di vederti da queste parti!”
 
“Mister Gilbert!”
 
Il padre di Elena è un tipo alto e allampanato, con una faccetta simpatica e la lacrima facile quanto la figlia. Da quando l’ho rintracciato per fargli incontrare Elena siamo entrati in sintonia, per così dire.
 
“Hai fatto bene a venire. Mi raccomando resta, tra poco canterò Yellow Submarine. Magari potremmo fare un coro, che ne pensi?”
 
“No, no, no, NO. Sono… stonatissimo Mister G.” mi giustifico, sollevando le mani in segno di resa. “In realtà sono qui per… salutare Elena.”
 
“In questo caso, eccola qui. Vi lascio, devo andare a prepararmi per l’esibizione.” esclama lui, affrettandosi poi in direzione del microfono per iniziare i suoi vocalizzi.
 
Elena mi guarda con aria sbigottita. Accanto a lei, il suo fidanzatino che, in quanto a capelli, potrebbe senz’altro fare concorrenza a mio fratello.
 
“Scusami un secondo Elijah.” gli dice lei, per poi afferrarmi per una manica della giacca e trascinarmi in un angolo della stanza.
 
***
 
Me ne sto seduta in disparte, su una panca di legno in fondo al locale ormai vuoto.
Tutti se ne sono andati, eccetto mio padre e alcuni dei suoi amici che, complice qualche birra di troppo, stanno riproponendo l’intero repertorio dei Beatles in chiave blues.
Elijah si è volatilizzato un’ora fa in preda a chissà quale ispirazione improvvisa, lasciandomi ad annegare i miei pensieri in una bottiglia di birra che non sono nemmeno riuscita a terminare.
 
Bonnie mi raggiunge, posando sul tavolo il vassoio colmo di bicchieri vuoti e lasciandosi cadere accanto a me.
 
“Serata pesante eh?” esclamo, senza convinzione.
 
“Mi vuoi dire chi era quello?” chiede lei.
 
“Quello chi?”
 
“Come chi? Alto, moro e bello.”
 
“Non mi pare che Damon sia poi così alto. Comunque, è il mio editore. Anzi no, mi correggo. Ex editore.”
 
Per un attimo ripenso alla conversazione di poco fa. Damon che pretendeva il suo libro, insinuando che fossi bloccata, io che negavo l’evidenza e lui che mi intimava di consegnargli la bozza entro una settimana millantando il famigerato contratto che ancora ci tiene legati.
 
“Si può sapere che hai che non va?” mi ha chiesto, mentre il suo sguardo gelido mi scrutava da troppo vicino. È stato allora che mi sono accorta di Katherine, che stava osservando la scena poco più in là con l’aria spazientita.
 
“Non c’è niente che non vada. Ho raggiunto il successo, ho ritrovato mio padre, ho un uomo che mi ama. Sono felice. Dannatamente F-E-L-I-C-E.” ho sbraitato, per poi girare sui tacchi e allontanarmi da lui.
 
Bonnie mi studia per un po’, una smorfia divertita stampata sul viso. “Elena, Elena… Ora capisco perché non hai ancora terminato il tuo libro né firmato col nuovo editore…” dice infine, per poi farmi un occhiolino e afferrare il suo vassoio, allontanandosi senza darmi il tempo di ribattere.
 
***
 
Dopo aver riaccompagnato Katherine ho raggiunto il mio appartamento, pronto a terminare questa disastrosa serata in compagnia degli ultimi rimasugli del bourbon delle grandi occasioni.
Le parole di Elena continuano a rimbombarmi in testa: FELICE, FELICE, FELICE!
Fanculo la felicità!
Sto per raggiungere la cucina quando vengo attirato da una luce ovattata proveniente dal soggiorno (o sala d’attesa, secondo le necessità).
Mi avvicino senza fare troppo rumore, allungando il collo oltre la porta per scorgere la figura di mio fratello accoccolata sul divano. La stanza è illuminata dalla luce di un candelabro e sembra addirittura che Stef sia in dolce compagnia.
Sono costretto ad avvicinarmi un po’ di più per poter distinguere contro la sua spalla dei familiari boccoli biondi, che inequivocabilmente appartengono a… Caroline.
 
“Era ora!” penso, allontanandomi silenziosamente. Proprio quando sto per infilarmi in cucina, vengo attirato dal suono di quelli che sembrano singhiozzi soffocati.
 
“Poi sono io quello che fa piangere le donne!” esclamo stranito, tornando sui miei passi senza riuscire più a trattenermi.
 
È allora che me ne accorgo. Stefan ha una copia di Lieto Fine tra le mani e Caroline si sta asciugando le lacrime con un fazzoletto di carta. Ci risiamo.
 
“È così triste… che vita tragica deve aver avuto poverina…” singhiozza lei, costringendomi ad alzare gli occhi al cielo per l’ennesima volta in questa giornata di… un momento! Ci sono! Ecco perché Elena non riesce più a scrivere. È troppo felice!
Improvvisamente, quello che devo fare per sbloccarla mi appare chiaro e lampante.
Perché diavolo non ci ho pensato prima?
Devo farla tornare triste, esattamente come era un tempo.
 

 
*********
Buonasera care!
ogni tanto mi chiedo cosa mi è venuto in mente quando ho deciso di pubblicare questa storia che con i nostri Delena ha poco a che fare ma in un certo senso mi diverte :D
Ringrazio tutte voi per il sostegno che mi date e per i complimenti, ricordandovi sempre che mi sono ispirata ad un film omonimo e quindi ho solo il ““merito”” (tra tante, tante virgolette) di aver adattato quest’idea modificandola un po’ secondo i miei gusti.
Inoltre per chi me l’ha chiesto, la storia proseguirà ancora per qualche capitolo ma non ne prevedo moltissimi.
Che altro dire? Spero di non aver incasinato troppo le carte in tavola e di non aver fatto troppi errori (se si, perdonatemi e segnalate!)
E adesso, evaporo! Grazie ancora di cuore a tutte, tutte, tutte!
Un bacio grandissimo da dietro lo schermo del mio pc e a presto!
Chiara
 
PS mi sono presa una grossa licenza poetica con “You’ve got a mail”, ispirandomi a… mia mamma che guarda “C’è posta per te” il sabato sera!!! :P

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Capitolo 5
*** Una moderata dose di infelicità ***


CAPITOLO 5 – UNA MODERATA DOSE DI INFELICITA’
 
 
Never get your bullet out of my head now
I cannot get your bullet out of my head now
I have no control
but I try
Yeah I try
 
***
Non riuscirò mai ad estrarre il tuo proiettile dalla mia testa.
Come posso riuscire ad estrarre il tuo proiettile dalla mia testa?
Non riesco a controllarmi
Ma ci provo,
Sì, ci provo.
 
Bullet – Franz Ferdinand
 
 
 
“Mr. Spencer sarà da lei tra un istante. Può attenderlo qui Miss Gilbert.”
 
La bionda segretaria in tailleur rosso fuoco si congeda educatamente, non prima di aver posato sul grande tavolo un vassoietto d’argento con un paio di bicchieri splendenti e una bottiglia – rigorosamente in vetro – di acqua minerale marca Evian.
 
“Questa si che è una sala riunioni!” borbotto fra me e me mentre scivolo a sedere sulla poltroncina rivestita di morbido tessuto, anch’esso fiammante.
Il rosso è decisamente la tonalità predominante in questa stanza, assieme al bianco candido.
Del resto sono questi i colori che contraddistinguono le copertine dei volumi della casa editrice ABP, ben riconoscibili sugli scaffali delle librerie più importanti di Londra.
 
Mi verso da bere, svuoto il bicchiere e lo riempio una seconda volta.
Ho decisamente bisogno di rinfrescarmi le idee.
Tutta colpa della serata di ieri sera al pub, dell’irruzione di Damon e dei suoi modi esasperanti.
Dio, quanto lo odio! E poi le affermazioni di Bonnie, quel suo “adesso capisco…” carico di sottintesi, mi hanno infastidita a tal punto che non ho potuto fare a meno di raggiungerla al bancone e ordinare un gin tonic.
E poi un altro.
E un altro ancora.
 
Sarà per questo che stamattina mi sono svegliata con un gran mal di testa.
Elijah era già in piedi, occupato come sempre a sbatacchiare rumorosamente sui tasti del suo pc, ma per lo meno aveva già preparato il caffè.
Alla terza tazza ho cominciato a percorrere il soggiorno avanti e indietro come un’indemoniata, posando gli occhi a destra e a sinistra ma ben attenta a non guardare mai, MAI, la mia scrivania impolverata, dove il MacBook giace solo e abbandonato da troppo tempo.
E poi eccola lì. La lettera dell’ABP, appuntata al muro della vergogna ormai vuoto.
Sembrava mi stesse chiamando. L’ho staccata dalla parete, sfiorando con i polpastrelli la carta dalla consistenza pregiata. E allora ho capito.
Ho capito che se voglio sbloccarmi devo necessariamente fare passi in avanti, verso il futuro.
Devo scrollare via la negatività degli ultimi mesi, quella che mi ha messo addosso Damon con i suoi modi del cavolo e la sua totale mancanza di rispetto per le mie idee.
Devo, posso, spiccare il volo.
Sono Elena Gilbert, autrice di un romanzo di successo dal dubbio titolo, vincitrice dell’English Fiction Award come autrice emergente del 2014. È ora di tirare fuori gli attributi!
Stamattina ho deciso di fare il primo passo verso una nuova vita, in barba a Bonnie e le sue teorie psicologiche da quattro soldi.
Firmerò con la ABP.
Sono sicura che questa svolta mi sbloccherà e finalmente riuscirò a concludere il romanzo e liberarmi della Tristesse Books per tutta la vita.
 
“Miss Gilbert. Che piacere vederla!”
 
Mr. Spencer, un uomo corpulento dalla faccia rossa, proprio come il colore della sua cravatta (diamine, è un’ossessione!) mi scruta da dietro un paio di occhialetti tartarugati con un’espressione compiaciuta dipinta sul viso grassottello.
Gli stringo la mano, ricambiando il suo saluto e rivolgendogli un sorriso intimidito.
 
“Quando la mia segretaria mi ha informato della sua decisione di firmare il contratto ero quasi incredulo. Voglio dire, sono mesi che la rincorriamo…”
 
“Veramente…”
 
“Oh, non si giustifichi. Capisco perfettamente gli impegni di una scrittrice…” mi interrompe, scoccandomi un’occhiata d’intesa come se fossi una sua vecchia amica.
La cosa mi fa sentire un po’ a disagio.
 
“Che gliene pare?” continua orgoglioso, mentre indica l’elegante sala riunioni con un ampio cenno della mano.
In effetti l’ambiente, tutto l’edificio per la verità, trasuda lusso e professionalità.
Niente disordine, niente mutande incastrate nei divanetti.
E poi il silenzio. Un silenzio tombale. Qui si che uno scrittore può concentrarsi, al riparo dalle grida isteriche di pseudo editori con manie da protagonismo.
 
“Oh, Mr. Spencer… è tutto così… così…”
 
Rosso, rosso, R-O-S-S-O.
Dannazione Elena, fatti venire in mente qualcosa.
 
“…così carino.”
 
Carino? L’ho detto sul serio? Mi sforzo di apparire tranquilla, ostentando un’aria compiaciuta ma poco convinta.
Mr. Spencer abbozza, ma sembra alquanto perplesso. Probabilmente sta pensando che, per essere l’autrice inglese dell’anno, ho un lessico davvero poco forbito.
Lo vedo scuotere impercettibilmente la testa, per poi tornare a rivolgersi a me col solito tono affabile.
 
“Bando alle ciance, Elena. Posso chiamarla Elena, vero? Che ne dice di dare un’occhiata al contratto?”
 
“Il contratto? Oh si, certo.”
 
Un attimo dopo mi trovo sotto il naso quattro pagine ricoperte di caratteri minuscoli.
La sedia sotto il mio sedere sembra scottare. Mi gira la testa.
 
“Le solite formalità…” mi incoraggia, notando la mia espressione. “Possiamo passare direttamente alla firma se preferisce.”
 
Nel pronunciare quelle parole estrae una Montblanc dal taschino della giacca e la poggia proprio di fronte a me, accompagnando il gesto con l’ennesimo sorriso.
 
“Credo che ci darò un’occhiatina, prima. Sa, giusto per… controllare.” balbetto, sfuggendo al suo sguardo.
Tengo gli occhi fissi sui fogli, sforzandomi di concentrarmi.
Tutto ciò che vedo sono lettere senza senso che si accavallano le une sulle altre, mentre i  ricordi prendono il sopravvento, incuranti della mia volontà.
Non posso fare a meno di pensare a quando con Damon – voglio dire, con la Tristesse Books – le cose non andavano poi tanto male.
Prima che quella gallina di Katherine decidesse che Lieto Fine era un buon titolo.
Prima che lui mi definisse come una scrittrice da poco con una spiccata venerazione per il proprio dolore.
 
Continuavo a fissarlo in attesa, mentre lui, a sua volta, non staccava gli occhi dai fogli che gli avevo piazzato davanti. Eravamo arrivati alla fine di quell’estenuante quanto gratificante lavoro di correzione. L’ultimo capitolo de “Le angosce senza fine di mio padre”.
Un eventuale ok di Damon alle mie ultime correzioni poteva significare che, la prossima volta che avrei visto il mio manoscritto, sarebbe stato rilegato in copertina cartonata col mio nome stampato sopra.
Solo immaginarlo mi faceva scoppiare il cuore di emozione.
E dovevo tutto all’uomo che mi stava davanti.
Quell’uomo complicato, scorbutico e scostante, ma in grado di ascoltarmi e leggermi dentro come nessuno aveva mai saputo fare.
Più lo guardavo, più pensavo che in fondo, per quanto fossi ansiosa di terminare il libro, tutto ciò che c’era stato in quei mesi mi sarebbe mancato. Solo un po’.
 
Damon alzò gli occhi dal plico di fogli, incrociando il mio sguardo. Il suo viso non tradiva nessuna emozione. Si allungò pigramente sulla sua poltrona senza mai togliermi gli occhi di dosso mentre io continuavo a tormentarmi le mani, in attesa del verdetto finale.
 
“È buono. Davvero buono Elena.” disse semplicemente, per poi curvare le labbra in un sorriso a metà.
 
“Ce l’ho fatta. Ce l’abbiamo fatta!” esclamai euforica.
 
Entrambi balzammo in piedi, guardandoci l’un l’altro senza pronunciare una parola.
Avrei voluto dire o fare molte cose, ma non sapevo esattamente quale fosse l’atteggiamento più conveniente da tenere in certe occasioni. E poi, quei suoi occhi glaciali, i lineamenti perfetti del suo viso… Per non parlare di quella t-shirt grigia decisamente aderente che non gli avevo mai visto prima e gli stava così… oh al diavolo!
Tutto di lui in quel momento mi confondeva. Probabilmente perché ero terribilmente emozionata.
Una stretta di mano. Certo. Una bella stretta di mano era l’ideale.
Tante grazie, ottimo lavoro, ho imparato moltissimo da te, ci si vede in giro.
Stavo per allungare il braccio di fronte a me, quando Damon decise di interrompere quell’imbarazzante silenzio per primo.
 
“Ovviamente ho qualche appunto da farti, Elena.”
 
“Oh.” sospirai, lievemente mortificata.
 
Piano piano scivolai di nuovo a sedere sulla sedia.
Lui nel frattempo aveva afferrato i fogli e fatto il giro della scrivania, porgendomeli e posizionandosi alle mie spalle.
 
“Vedi Elena, questo passaggio qui…” mi disse, “ti faccio vedere.”
 
Nel dire quelle parole aveva abbassato il viso su di me, circondandomi col braccio per indicarmi una frase sul foglio che proprio non riuscivo a vedere.
Era talmente vicino che ero in grado di percepire il suo calore sulla guancia e quel dannato profumo penetrarmi nelle ossa.
 
“Fa caldo. Tu non hai caldo?” bofonchiai, portandomi automaticamente una mano al colletto della camicia.
“Che stai dicendo Elena? E soprattutto, che stai facendo?” La mia vocina interiore non mi dava tregua.
 
Avrei giurato che Damon stesse sorridendo, forse divertito dalle mie reazioni alla sua vicinanza. Sentii distintamente la sua mano appoggiarsi alla mia spalla e le sue dita scivolare lievemente sulla piccola porzione di pelle scoperta alla base del mio collo.
Mi voltai verso di lui, un gesto automatico. Era vicino, troppo vicino.
Non smetteva di guardarmi e io non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui.
 
“Damon? Damon sei in casa?”
 
Il portoncino che sbatteva e la voce di Katherine nell’altra stanza sembrarono ridestarmi da quella specie di trance.
 
 
“Elena? Tutto a posto.”
 
Mr. Spencer mi fissa da dietro gli occhialetti, lievemente infastidito. Mi agito sulla sedia, poi appunto i capelli dietro le orecchie con fare nervoso.
 
“Mi scusi. Stavo solo pensando… lasci perdere. Sa ogni tanto mi distraggo un po’.” balbetto imbarazzata, per poi concludere quell’accozzaglia di parole senza senso con una risatina isterica.
Bel colpo, Elena. Un’altra figura da pirla con quello che sta per diventare il tuo capo.
 
“Non si preoccupi.” mi rassicura, il tono nuovamente pacato. “Però ora sarebbe il caso di… concludere. Io sono entusiasta e lei? È pronta a fare il grande salto e iniziare a lavorare con una vera casa editrice?”
 
***
 
“Io le ho dato la felicità, io gliela toglierò!”
 
Batto i pugni sul tavolo con risolutezza, ma quando incontro lo sguardo di uno Stefan a dir poco scettico, mi rendo conto che il mio monologo su come sabotare la nuova condizione psicologica di Elena non deve averlo convinto più di tanto.
 
“Siamo al delirio di onnipotenza. Cominci a preoccuparmi, Damon. Seriamente.” mi liquida in tono asciutto. Subito dopo torna a concentrarsi sul fornello e a girare e rigirare una specie di brodaglia giallina che si ostina a definire omelette.
A quanto pare oggi ha voglia di rivangare le nostre lontane origini francesi.
 
“Coraggio Stef, fai uno sforzo. Non ti ricordi più com’era Elena quando è venuta qui la prima volta? Andiamo, collezionava addirittura i rifiuti degli altri editori su quel dannato muro del pianto, o come diavolo si chiama. Eppure aveva scritto un bel romanzo, ispirato, con un ottimo potenziale. Certo, sono io che le ho dato la chiave per il successo. E poi… suo padre è tornato e, come se non bastasse, crede di aver trovato il grande amore con quella specie di… bah!” sbotto.
 
“Sei solo geloso.” filosofeggia lui, accompagnando le parole con una fastidiosa alzatina di spalle che nel suo linguaggio freudiano significa “è ovvio!”.
Lascio correre, ho cose più importanti a cui pensare. Gliela farò pagare più avanti, una volta risolta la questione della pseudo-scrittrice in crisi.
 
“Veniamo al punto Stef. Devi aiutarmi. Dobbiamo renderla di nuovo infelice. Solo così si sbloccherà e terminerà quel maledetto romanzo.”
 
“Non ho intenzione di assecondare le tue idee assurde. Quella ragazza ha sofferto troppo nella vita. È giusto che si goda questo momento. Perciò non contare su di me, non ho intenzione di collaborare.” ribatte con convinzione, l’aria seria e una mano aperta davanti a sé a dimostrare la sua assoluta risolutezza.
 
Piego le labbra in un ghigno obliquo. Le sue ragioni non mi fanno né caldo né freddo.
 
“Certo che lo farai. Altrimenti possiamo dire addio alla Tristesse e sarai costretto a trovarti un altro posto di lavoro.”
 
Nel dire quelle parole lancio un’occhiata rabbiosa alle diciotto copie di Cavallo Magazine che Kath, non so come, mi ha fatto trovare sulla scrivania e che io ho prontamente gettato nella carta straccia.
Quella ragazza sa essere davvero insistente se vuole. Ma non mi avrà, o almeno, non in quel senso.
Mio fratello nel frattempo sembra aver riflettuto sulle mie parole. La prospettiva dell’imminente disoccupazione pare aver sgretolato in un colpo solo tutti i suoi buoni propositi.
Afferra la padella e la porta al tavolo, riempie i piatti con quella specie di frittata e si accomoda di fronte a me.
 
“Quale sarebbe il tuo piano?” chiede, ostentando un falso distacco. Ora si che si ragiona.
 
“Mi servono idee. Per questo ho chiesto il tuo aiuto. Dobbiamo provocare una lite con suo padre e, possibilmente, far partire Elijah per una qualche destinazione lontana. Tipo la Groenlandia.”
 
“Tu non conosci proprio il senso della misura eh?” ribatte lui, sbuffando.
 
Poi però, quando lo vedo grattarsi il mento e corrugare la fronte stringendo gli occhi, so che sta partorendo qualche idea potenzialmente buona.
In fondo condividiamo lo stesso patrimonio genetico, qualcosa vorrà pur dire. Così rimango in silenzio, studiando ogni suo movimento in attesa dell’illuminante colpo di genio con cui sta per stupirmi. Almeno spero.
 
“Tristezza, tristezza…” continua a rimuginare. “Vedi Damon, secondo me quello che ci serve per sbloccare Elena è qualcosa di meno tragico. Una moderata dose di infelicità. Una… malinconia, ecco la parola giusta.” spiega, rigando la tovaglia con la punta della forchetta.
 
“Uno spleen* alla Baudelaire…” rifletto. Forse sto iniziando a seguirlo.
Non è necessario che Elena si deprima più del dovuto. Ha solo bisogno di un po’ di sano disagio esistenziale, quel sentimento lievemente angoscioso che, da che mondo è mondo, è sempre stato fonte di ispirazione per gli scrittori.
 
“Io un’idea ce l’avrei…” continua Stefan, incrociando il mio sguardo e rivolgendomi un sorrisetto beffardo.
 
“Ora si che ti riconosco.” esclamo. In un impeto di entusiasmo afferro il bicchiere e lo faccio sbattere contro il suo.  “Sentiamo. Sono tutto orecchi.”
 
***
 
Degli insoliti raggi di sole mi riscaldano il viso mentre, seduta sul muricciolo proprio accanto all’ingresso della fabbrica, attendo che mio padre termini il suo turno di lavoro.
Tornando dalla ABP ho deciso di fermarmi da lui per portargli un paio di fette della mia famosa torta alle mandorle, la sua preferita, quella che preparo seguendo alla lettera la ricetta della mamma.
Ormai la mia casa straripa di dolci e Elijah, sempre attento alla linea, non vuole saperne di aiutarmi a mangiarli.
Papà invece ne andrà pazzo. Inoltre ho davvero voglia di passare un po’ di tempo con lui.
Da quando è tornato a far parte della mia vita è diventato così premuroso nei miei confronti! Il suo ottimismo e la sua dolcezza mi faranno senz’altro bene.
 
Quando lo vedo comparire oltre il cancello di ferro lo accolgo con un sorriso felice, agitando per aria il contenitore di plastica dove ho riposto il dolce.
 
“Papà! Ehi, sono qui!” lo chiamo, tutta contenta.
 
Lo vedo avvicinarsi lentamente, gli occhi incollati al suolo e una copia di Lieto Fine sotto il braccio. Probabilmente qualche collega gli avrà chiesto di farmela autografare, come succede spesso.
Purtroppo o per fortuna, mio padre non è quello che si dice un lettore vorace.
Solitamente si limita a leggere distrattamente la pagina sportiva del Times. Gli unici testi che gli interessano davvero sono quelli delle canzoni con le quali si esibisce al karaoke. Chissà cosa succederebbe se mai gli saltasse in testa di sfogliare qualche pagina di…
 
“Ciao Elena.” mi saluta, gelido.
 
Oh oh. Sembra… arrabbiato. Forse ferito.
Non sarà che… no. Non è possibile!
 
“P--papà,” balbetto confusa “ti ho portato la torta di mandorle.”
 
“Al diavolo la torta! E così è questo che pensi di me. Il protagonista del tuo libro e di tutte le tragedie che racconta sono io! Ecco perché tutti mi guardavano storto quando mi vantavo della mia bambina piena di talento. Come hai potuto Elena?” sbraita, agitandomi il volume sotto il naso. Mi sento piccola e stupida, come se di colpo avessi di nuovo cinque anni.
 
“Te ne sei andato. Mi hai abbandonata e io non ho trovato altro modo di liberarmi di quel peso. Scrivere è la mia unica valvola di sfogo. Ma non significa niente papà. Ti voglio bene e sono felice che tu sia tornato a far parte della mia vita.” mi difendo. Mi esce una voce stridula che fatico a riconoscere.
 
“Sei talmente felice che hai sentito l’esigenza di spifferare i fatti nostri a tutta Europa!”
 
“Inghilterra papà. Lieto Fine non ha ancora varcato i confini nazionali anche se magari un giorno…” lo correggo, mormorando a bassa voce. Come diavolo mi è venuto in mente di dire una cosa del genere?
 
“Credevo che tu mi avessi perdonato, Elena. Non avevo capito niente.”
 
Scuote la testa, poi mi guarda speranzoso, forse in cerca di un’assoluzione che in questo momento non sono in grado di offrirgli.
Il passato è passato, ma non ho intenzione di pentirmi di quello che ho fatto.
È stato lui ad andarsene, lasciandomi sola ad accudire quello stupido bonsai.
Sento gli occhi inumidirsi mentre lui continua a fissarmi. Lo conosco e so bene cosa sta aspettando. Vuole che gli chieda scusa.
Forse ha dimenticato che io l’ho riaccolto nella mia vita senza pretendere nulla in cambio. Ma questa volta non l’avrà vinta. Voglio che sia lui a chiedermi perdono per ciò che ha fatto.
 
Mi mordo l’interno della guancia, ostinandomi a restare zitta.
Lui serra i pugni, mi osserva a lungo con la mascella contratta. Poi si gira sui tacchi e si allontana, lasciandomi sola ancora una volta.
 
***
“Sei proprio sicuro che non ci sia nessuno in casa?”
 
“I balconi sono chiusi, l’auto di Elijah non c’è, non sento profumo di torte appena sfornate. Non posso sbagliarmi.”
 
Stefan mi guarda con un’espressione a metà fra lo sconcerto e l’ammirazione. Le mie doti da 007 l’hanno di sicuro impressionato.
Io invece sono piuttosto allibito dal suo look: guanti di pelle, cappello calato in testa, sciarpa tirata su fino al mento. Gli mancano solo una calzamaglia e un piede di porco per essere il ritratto del classico topo da appartamento.
 
“Ok, allora, ripassiamo il piano. Tu Stef resterai in macchina e, se Elena o Elijah dovessero tornare, mi farai uno squillo sul cellulare per avvisarmi. Tutto chiaro?”
 
“Ho qualcosa di meglio…” esclama lui, aprendo con gran compiacimento il cassetto del cruscotto per estrarne…
 
“Walkie Talkie? Ma sei fuori?”
 
È ufficiale. Mio fratello ha preso un po’ troppo seriamente l’operazione spleen. Così abbiamo denominato l’incursione a casa di Elena. Nulla di illegale, sia chiaro, solo qualche input che la aiuterà a recuperare il giusto stato d’animo per ricominciare a scrivere il dannatissimo romanzo che ci salverà dalla bancarotta.
 
“Li ho trovati in soffitta… ti ricordi quando eravamo bambini? Bei tempi quelli…”
 
“Dammi qua.” sbuffo infastidito, afferrando contemporaneamente un sacchetto di plastica dal sedile posteriore dell’auto e aprendo lo sportello.
Mi guardo intorno con circospezione: nessuno nei paraggi.
Avvicinandomi al portone del palazzo di Elena noto una vecchina che sta tentando di entrare in casa, reggendo a fatica due grosse borse della spesa.
Mi avvento su di lei come un falco predatore.
 
“L’aiuto io signora.” le dico, strappandole i sacchetti di mano.
 
“Oh grazie caro.” mormora lei, infilando la chiave nella toppa. E questa è fatta.
 
Una volta sul pianerottolo deposito la spesa sullo zerbino della vecchietta, mi congedo senza troppi complimenti e salgo in fretta e furia i gradini che mi portano proprio di fronte alla porta di casa di Elena. Mi allungo sullo stipite per recuperare la chiave di riserva, sperando di trovarla al solito posto.
 
“Bingo!” esclamo, quando le mie dita incontrano il piccolo oggetto di metallo.
 
Una spinta all’uscio di legno e sono in casa. È esattamente come la ricordavo. Semplice, colorata e dominata da una piacevole confusione: l’appartamento rispecchia alla perfezione la personalità di chi lo possiede.
La prima cosa che noto è una teglia, posizionata in bella vista sul ripiano della cucina.
 
“Torta alle mandorle!” dico ad alta voce, rimuovendo il tovagliolo che la ricopriva con un gesto plateale alla Sherlock Holmes. Me ne servo una bella fetta e subito dopo mi dirigo verso lo stereo, da cui estraggo un cd su cui qualcuno ha scritto “Happy” col pennarello indelebile.
 
“Pharrell Williams? On i iamo popio!” esclamo, tra un morso e l’altro.
 
Il dolce è davvero ottimo, devo ammetterlo, ma i gusti di Elena in fatto di musica vanno assolutamente rivisti. Dal mio sacchetto estraggo “Ambulance Blues” di Neil Young, un singolo che lei stessa mi ha prestato qualche tempo fa. “Deprimente come pochi.” penso, mentre sostituisco il disco con estrema soddisfazione.
Dalla stessa borsa estraggo qualche libro che mi sembra possa fare al caso di Elena: “Memorie del sottosuolo” di Dostoevskij,  “La figlia della fortuna” di Isabel Allende, “Revolutionary Road” di Yates. Perfetto.
 
Sarà il caso di controllare Stefan prima di proseguire.
 
“Tutto a posto lì sotto?”
 
“Roger. Bzzz… Passo e chiudo.”
 
Vorrei tanto lasciarmi andare a qualche imprecazione, ma purtroppo non ne ho il tempo.
Il MacBook, sempre al solito posto sulla scrivania, mi attira come una calamita.
Muoio dalla voglia di sbirciare il nuovo romanzo di Elena, quello che la tormenta e che non mi ha mai permesso di leggere.
Cazzo, c’è la password… vediamo un po’, cosa potrebbe essere?
 
Lieto Fine… accesso negato.
Concentrati Damon, concentrati. Non avrà mica usato il nome di quell’idiota del suo fidanzat-
 
“Mayday, Mayday… Elena sta rientrando! Passo!”
 
Oh merda! Più veloce della luce cerco di nascondere ogni traccia del mio passaggio.
Copro la torta alla bell’e meglio, chiudo il pc, raccolgo le mie cose.
Come tocco finale, sostituisco il famoso bonsai portafortuna di Elena con uno identico, che prima di uscire ho abbeverato con mezzo litro di acqua bollente che l’ha seccato sul colpo.
Mentre sto riponendo con cura la piantina nel mio sacchetto, sento distintamente il rumore della serratura che scatta.
Faccio appena in tempo a nascondermi nello sgabuzzino. Elena è già dentro casa.
La spio da dietro la porta mente appoggia il cappotto e getta un contenitore di plastica nel lavandino.
Non riesco a vederle il viso, ma continuo comunque ad osservarla mente si sfila le scarpe lanciandole in un angolo della stanza per poi sedersi alla scrivania.
È allora che nota la piantina secca. Me ne accorgo dal mezzo singhiozzo che le sfugge dalle labbra. Qualcosa mi dice che dovrei restare. Forse vorrei. Ma non posso.
Quindi approfitto della sua distrazione per dileguarmi in silenzio.
 
Una volta uscito dal palazzo, noto che Stefan sta spiando le reazioni di Elena dalla sua auto, scrutando la sua finestra con un vecchio binocolo rimediato chissà dove.
Quel ragazzo non ha tutte le rotelle a posto. Dev’essere per via dell’astinenza sessuale. Dovrebbe decidersi a darsi da fare con Barbie una volta per tutte.
 
“L’ha presa malissimo. Peggio di quanto pensassi.” mi dice non appena sono dentro.
 
Per qualche istante rimango in silenzio, osservandolo mentre guarda Elena con la faccia di uno che ha appena sparato ad un cucciolo di cane.
 
“Dai qua!” sbuffo.
 
Per poco non lo soffoco mentre gli strappo il binocolo dal collo.
E poi la vedo.
Elena ha gli occhi fissi sul bonsai, si sorregge la testa con le mani. Ed è triste, imbronciata, depressa come non l’ho mai vista prima.
Sembra quasi che invece di quella stupida pianta sia suo padre ad averci lasciato le cuoia.
Sento qualcosa bruciarmi nella gola e poi in fondo allo stomaco. Non saprei definirlo, ma se c’è una cosa di cui sono certo in questo momento è che non mi piace affatto vederla così.
 
Stefan mette in moto e ce ne andiamo, immersi in un silenzio colpevole.
 
“Comunque non l’ho mica ucciso il bonsai…” gli dico dopo un po’, estraendo la piantina intatta dal sacchetto. Me ne prenderò cura io, almeno fino a quando a Elena non sarà passato quel dannato blocco.
 
***
 
“Fammene un’altra Mike.”
 
“Come vuoi Elena.”
 
Il barista mi guarda perplesso. Sono due giorni che mi presento qui al pub e bevo come una spugna. In realtà speravo di incontrare mio padre, ma ha spento il telefono e nemmeno qui nessuno l’ha visto.
La mia ostinazione nel tenergli il broncio è completamente svanita nel momento in cui ho visto quella pianta secca sulla mia scrivania.
Dopo tutti questi anni è andata, finita, distrutta. Non può essere che un segno del destino.
È evidente che oggi ho commesso un errore dopo l’altro. Prima all’ABP, poi con lui.
In tutto questo, l’ispirazione tarda a ritornare.
 
Mike mi posa davanti la birra. Guardo mestamente nel bicchiere. Alla fine non mi resta altro che questo. Verrò ricordata come una meteora nel mondo della letteratura contemporanea, eclissata dopo un solo romanzo e dedita all’alcolismo.
 
“Elena. Speravo di incontrarti qui.”
 
Conosco fin troppo bene la voce che ha parlato alle mie spalle.
Quando mi volto trovo Damon con le mani affondate nella tasca del giubbotto di pelle, la solita massa di capelli aggrovigliati che gli incorniciarno il viso e un’espressione indefinibile a corrucciargli le labbra.
Sembra… preoccupato? Dispiaciuto?
Chissenefrega. La mia giornata ha fatto abbastanza schifo, non ho intenzione di farmela rovinare ulteriormente da lui.
 
“Che diavolo vuoi?” sbotto.
 
Per un attimo desidero che mi risponda per le rime. Un battibecco con lui potrebbe aiutarmi a sfogare la mia frustrazione.
Ma non lo fa.
Rimane in silenzio per qualche istante, senza mai abbandonare i miei occhi che tiene incollati ai suoi.
 
“Ho bisogno di parlarti Elena.”

 
*********
Ragazze, scusate il ritardo ma proprio mi è mancato il tempo per scrivere.
Anche ora ho una fretta pazzesca, quindi mi limito a ringraziare tutte quelle che passano di qui e hanno avuto la pazienza di aspettare e leggere, augurandomi che il capitolo vi abbia fatto ridere almeno un po’.
Io mi sono divertita a scriverlo!
Baci a tutte, grazie di cuore e a prestissimo
Chiara

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Capitolo 6
*** La tua Yoko Ono ***


CAPITOLO 6 – LA TUA YOKO ONO
 
 
Words are flowing out like endless rain into a paper cup
They slither while they pass, they slip away across the universe
Pools of sorrow, waves of joy are drifting through my open mind
Possessing and caressing me
 
Jai Guru Deva Om
 
Nothing's gonna change my world
 
***
 
Le parole volano come pioggia senza fine in una tazza di carta
Scivolano mentre passano, si diffondono per tutto l'universo
Pozzanghere di dolore, onde di gioia fluttuano nella mia mente aperta
Si impossessano di me e mi accarezzano.
 
Jai Guru Deva Om
 
Niente cambierà il mio mondo
 
Across the universe – The Beatles
 
 
 
Damon
 
Quando sono uscito di casa diretto al pub con la speranza di trovarci Elena, Stefan, come al suo solito, ha blaterato di qualche stronzata psicanalitica che avrebbe a che vedere con i miei sensi di colpa verso di lei, solo per il fatto che sto cospirando alle sue spalle per renderla appena un po’ infelice e farle terminare il dannato secondo romanzo, il quale rappresenta la mia unica possibilità di non finire sul lastrico – o peggio – a Cavallo Magazine.
 
Si, certo. Come se si potessero prendere sul serio i discorsi di un tizio travestito da Sherlock Holmes con tanto di walkie talkie e binocolo, che si sente il figlio segreto di Alain Ducasse[1] e dispensa consigli psicologici a destra e a manca nonostante la sua penosa situazione sentimentale sia palese a chiunque.
 
E poi io ho agito con le migliori intenzioni. Volevo solo che Elena tornasse nella condizione mentale più idonea per scrivere, che ritrovasse la malinconia tipica di ogni artista che si rispetti.  Non potevo mica immaginare che se la sarebbe presa tanto per quello stupido bonsai.
 
Ovviamente, se ora sono qui, non è perché ho dato retta a mio fratello. Certo che no.
Devo solo verificare che Elena non sia precipitata in una spirale di autodistruzione.
Fa parte dei miei doveri di editore.
Ok, ammetto che forse, quando l’ho vista appollaiata senza troppa grazia sullo sgabello, la testa fra le mani e lo sguardo perso nel vuoto, un pochino mi è dispiaciuto.
 
Quando ha tirato su il viso e si è voltata, ho notato subito la sua espressione da cucciolo ferito e per un attimo ho riconosciuto quella sensazione fastidiosa allo stomaco, la stessa che ho provato poco fa, a casa sua, quando era così giù e per la prima volta in vita mia ho desiderato non essere proprio io il responsabile di tanta incomprensibile disperazione.
 
E ora continua a fissarmi con quegli occhi scuri e lucidi, mentre suo labbro inferiore gonfio di morsi (Non che la cosa mi interessi, ma la conosco. Si massacra sempre il labbro quando è nervosa per qualche motivo) comincia a tremare in modo impercettibile.
Poi tira su col naso piuttosto rumorosamente come se fosse sul punto di piangere.
Possibile che se la sia presa così a male?
E pensare che all’inizio, quando ho cominciato a ragionare sull’operazione spleen, avevo addirittura ipotizzato di avvelenarle  il cane, giusto per farla deprimere un po’.
Ok, Elena non ha un cane, ma avrei potuto comprargliene uno e poi ucciderlo.
Mica un cucciolo, un cane vecchio e moribondo magari, così sarebbe stata più che altro un’eutanasia.
 
“Che diavolo vuoi?” esordisce lei appena si accorge di me.
 
Sarà pure depressa, ma questo non le impedisce di essere fastidiosamente irritante come al suo solito, e io non sono certo abituato ad essere trattato in questo modo da una donna.
Eppure quel non so che di malinconico nel suo sguardo mi trattiene dal risponderle a tono. Continuo a tenere gli occhi fissi nei suoi, alla ricerca di qualcosa che nemmeno io so di preciso. Lei socchiude appena le labbra di stupore, si lascia sfuggire un mezzo sospiro.
 
“Ho bisogno di parlarti Elena.”
 
Per un attimo sono tentato dall’idea di costituirmi.
 
Scusa Elena, ma devo confessarti che la tua pianta non è appassita per morte naturale: sono stato io. Perdonami… se avessi saputo che era così importante per te…
 
Che poi, tecnicamente non è andata davvero così. L’ho solo sequestrata.
L’ho perfino abbeverata prima di uscire.
E si, ho usato lo spruzzino apposito per bonsai che ho comprato al minimarket dietro casa. Quando faccio una cosa la faccio bene, io.
 
“Stai bene?” dico invece.
 
“A meraviglia…” risponde.
 
E il labbro le trema ancora di più.
 
“Non sembrerebbe… insomma, sei qui che bevi tutta sola.” continuo, indicando la pinta mezza vuota.
 
“Elijah… doveva… lavorare.” si giustifica.
 
Poi abbassa lo sguardo sulle sue mani, con un’espressione vagamente imbarazzata.
 
Ogni tanto mi dimentico che Elena ha qualcosa di meglio di un animaletto domestico: ha uno sceneggiatore con i capelli impomatati.
Quel pirla egocentrico, se tutto va bene, non si sarà nemmeno reso conto che la sua donna è bloccata da settimane e si è trasformata nella versione femminile del Boss delle torte.
Lui non è affatto la persona che può renderla felice, solo che lei non l’ha capito.
Ma per questo ci sono io.
In men che non si dica cambio idea. Altro che consolare Elena, qui bisogna battere il ferro finché è caldo: sono pronto per l’operazione Spleen2.
 
Senza fare troppi complimenti mi accomodo sulla sedia accanto alla sua, mi sfilo la giacca e faccio un cenno alla barista che si affretta a prendere il mio ordine, lanciandomi uno sguardo eloquentemente lascivo al quale rispondo con un mezzo sorriso ammiccante, provocando un’immediata alzata d’occhi al cielo di Elena. Che colpa ne ho se faccio quest’effetto a tutte le donne? Quasi tutte, a quanto pare…
 
“Allora… Elena. Condividere lo stesso tetto con un altro scrittore dev’essere affascinante. Scommetto che avete un sacco di discussioni interessanti sulle vostre opere, scambi di vedute. Stimolante, no? Elijah deve essere fantastico.” la incalzo, invadendo prepotentemente il suo spazio vitale e facendola arretrare di qualche centimetro.
 
“L-lo è.” balbetta lei, frettolosa. Troppo frettolosa.
 
“Allora, che ne pensa il grande sceneggiatore del tuo nuovo romanzo?” chiedo a bruciapelo.
 
Il silenzio che ne segue non fa che confermare tutti i miei sospetti.
 
“Non ti ha mai chiesto di leggerlo. Neanche una pagina, non è così?”
 
Altro silenzio. Bingo!
 
“Dove vuoi arrivare Damon?”
 
“Ti sta usando Elena. Elijah Mikaelson è uno scrittore fallito e privo di ispirazione, che vive a casa tua come uno scroccone e sfrutta la tua popolarità. Scommetto che ti copia pure le idee.”
 
“Non sai di che parli… Elijah non è affatto come lo descrivi tu.”
 
“Invece lo so eccome!” sbotto, alzando automaticamente la voce di tre ottave.
 
Elena mi guarda con gli occhi sgranati, le guance di un colore tra il rosso e il fuxia e l’espressione attonita. Solo adesso mi rendo conto di trovarmi a mezzo centimetro dal suo viso e averla afferrata per un polso, mentre lei respira in modo sempre più convulso.
Non capisco se sta per scoppiare a piangere di nuovo o…
 
“Ecco le vostre birre ragazzi.”
 
La voce della cameriera. Noto gli occhi di Elena spalancarsi un po’ di più. Poi si divincola bruscamente dalla mia presa e…
 
“Ouch.”
 
Non vedo più niente.
 
 
Elena
 
“È un hamburger quello?” bisbiglia Damon, le braccia incrociate sul petto e la testa reclinata all’indietro, sul bordo della sedia di legno, mentre indica con l’indice il cartoccio di cellophane che gli sto tamponando sull’occhio da qualche minuto.
 
“Potevi scegliere fra questo e una confezione formato famiglia di patatine fritte surgelate…” rispondo, accennando un timido sorriso di scuse.
 
Lui fa una smorfia incomprensibile, sposta piano la mia mano e tira su la testa.
Ho fatto veramente un ottimo lavoro: il suo occhio sinistro è gonfio come una pallina da golf e riesce a malapena ad aprirlo.
 
Non che questo lo renda meno bello.
Non che io lo consideri bello, comunque.
Lo dicevo così… da un punto di vista… ehm… scientifico.
Il fatto è che lui ha la capacità di mettermi a disagio e quando sono a disagio mi agito e quando mi agito…
 
“Mi dispiace di essermi innervosita, di aver urtato la cameriera che ti ha urtato col vassoio e averti dato una gomitata che…”
 
“Lascia perdere,” mi interrompe “forse ho un tantino esagerato a dirti quelle cose. In realtà quando sono partito da casa avevo tutt’altre intenzioni.”
 
Sbatto le palpebre un paio di volte, confusa. “Cioè?”
 
“Volevo che tu sapessi che mi dispiace.”
 
Mi soffia addosso quelle parole inattese con una voce bassa, appena un po’ roca, che mi contrae qualcosa dentro. Sembra così diverso adesso, così simile al Damon che avevo imparato a conoscere. Scorbutico si, e anche complicato, ma in grado di comprendermi, tirare fuori il meglio di me e polverizzare le mie resistenze in un istante.
 
“Per cosa?” bisbiglio, incerta.
 
“Beh, Elena, volevo dirti che… sei una scrittrice straordinaria. Non te lo avevo mai detto, ma lo penso. Lieto Fine è davvero buono, il miglior romanzo su cui io abbia speso dei soldi"

"Praticamente l'unico..."

"Non perderti nei dettagli... quante volte te lo devo dire? E poi…”
 
La frase rimane in sospeso, ma per un momento non me ne curo.
Sono troppo concentrata a metabolizzare quello che mi ha detto, troppo presa dal suo sguardo insistente e magnetico, che riempie il mio campo visivo.
Me lo sento addosso e mi stordisce, specie quando si sofferma sulle mie labbra per una manciata di secondi, costringendomi a deglutire.
Soprattutto quando mi rendo conto che le sue dita stringono ancora il mio polso, stavolta con una presa molto più delicata di prima, ma che non mi impedisce di sentire ben distinto il calore che quel contatto produce dentro di me, proprio al centro del mio corpo.
Sto qui, imbambolata, con lo stupidissimo hamburger congelato in mano e non riesco a smettere di fissargli la bocca, ora contratta in un’espressione pensosa – ok, ok… dannatamente provocante –  come se stesse vagliando le parole più giuste da utilizzare.
 
Dannazione, che hai da dire? E perché adesso mi sento in preda a una crisi ormonale?
 
La sua bocca si piega lieve in un mezzo sorriso, appena accennato, forse un po’ divertito, mentre con l’altra mano cattura una ciocca di capelli che mi è scivolata davanti agli occhi e la sposta dietro il mio orecchio, sfiorandomi il lobo e poi il collo con calcolata, estenuante lentezza.
Senza distogliere l’attenzione da lui, mi mordo il labbro. Non posso farne a meno.
Poi, improvvisamente, il suo sguardo si concentra su qualcosa oltre le mie spalle.
 
“…che cos’è quella cartellina?”
 
Mi volto di scatto e anche i miei occhi mezzi ipnotizzati incrociano il rettangolo di cartone che spunta dalla borsa di cuoio che ho posato senza riguardo sopra al tavolo quando ho tentato di soccorrere Damon dopo averlo steso a suon di colpi di vassoio e gomitate.
 
“Oh… quella…” minimizzo. Damon scatta in piedi, mi guarda incredulo mentre i suoi occhi di dilatano di rabbia e le pupille si riducono a due punte di spillo.
 
“Sei stata alla ABP.” sbotta, puntandomi contro un indice accusatorio.
 
“Beh… si.”
 
“Dannazione Elena… perché lo hai fatto! Sono dei mercenari quelli. Non ti capiranno mai… NON VANNO BENE PER TE!” mi urla contro, spalancando le braccia come se avesse appena detto una cosa ovvia.
Per un momento rimango di stucco. Poi, improvvisamente, favorita dal mio ritrovato spazio vitale, incomincio a ragionare di nuovo. Ho capito il suo gioco. Ma certo! Come ho fatto a non arrivarci prima? I complimenti, le maniere gentili, i suoi tentativi di confondermi.
 
“Adesso ci sono, razza di bastardo. Vuoi che resti alla Tristesse, che scriva ancora per te per salvarti dalla bancarotta. Solo questo ti importa.” lo accuso, esasperata. Senza rendermene conto sono già saltata in piedi e ho afferrato la borsa, stringendomi la cartellina rossa al petto quasi come fosse un’ancora di salvezza in mezzo all’oceano di bugie che questo sbruffone mi ha propinato fino ad ora.
E io stavo per cascarci… povera illusa.
Nel frattempo Damon, in piedi di fronte a me, sembra metabolizzare lentamente le mie ultime parole, come se non le avesse capite fino in fondo.
Posso notare i lineamenti del suo viso irrigidirsi poco a poco.
 
“Non hai capito proprio niente. Cosa ti fa pensare che io voglia così tanto male a me stesso da rivolerti indietro?” mi sibila contro.
 
Non faccio in tempo a constatare i danni che quella sua ultima affermazione ha prodotto dentro di me. I miei occhi incrociano la figura alta e sottile di mio padre, in piedi davanti a noi, che ci osserva perplesso, ma con un sorriso a trentadue denti che gli va da un orecchio all’altro.
 
“Elena! D.! Scusate… non volevo interrompervi…” fa lui, tutto imbarazzato.
 
“Non si preoccupi Mr. G.. Me ne stavo andando.”
 
 
Damon
 
Parcheggio l’auto un po’ più distante del solito. Ho bisogno di fare due passi, smaltire la rabbia.
Sbatto entrambe le mani sul volante, pieno di frustrazione.
 
“Dannazione Elena!”
 
Possibile che mi sia fatto bere il cervello da quella ragazzina isterica?
Possibile che prima fossi addirittura sul punto di dirle che non mi importa niente del secondo fottuto romanzo, purché lei non se ne vada?
Deve essere colpa della botta in testa. Per fortuna mi sono fermato in tempo.
 
Mentre mi incammino, spedisco un veloce messaggio a Stefan, digitandolo in tutta fretta sull’i-phone.
 
Abbiamo chiuso con la moderata infelicità. Da domani si passa alle maniere forti.
 
Se ho un piano? Certo che si! E probabilmente avrei dovuto seguirlo fin dal primo giorno, senza farmi influenzare da Stefan, dai suoi metodi soft e dal fottuto spleen.
No, con quella testarda di Elena ci vuole ben altro.
Prima farò fuori Elijah, poi Mr. G.
La risposta di mio fratello arriva puntuale, come le tante cambiali che ho firmato in questo periodo e che si ripresentano a scadenza regolare sopra la mia scrivania, finendo regolarmente insolute.
 
Damon, conosci un sinonimo di psicotico?
 
Spengo il telefono. Ci penserò domani.
Arrivato a destinazione, controllo la situazione della mia faccia sullo specchietto di una macchina parcheggiata a lato della strada. L’occhio è ancora un po’ gonfio, ma di certo Kath non ci farà caso.
 
Suono il campanello. Quando spalanca la porta, indossa la camicetta nera di seta trasparente che le ho regalato l’anno scorso, quando ancora le mie finanze beneficiavano dell’effetto Lieto Fine.
 
“Hai ricevuto i dati che ti ho mandato per mail sulla tiratura di Cav…”
 
“Lo sai che non sono qui per questo.”
 
“Certo che no.” risponde lei ammiccante, infilandomi una mano nei pantaloni che hanno già iniziato a tirare all’altezza del cavallo, mentre con l’altra mi slaccia la cintura.
Una volta dentro il suo appartamento, la prima cosa che faccio scomparire è la camicetta di seta, per poi tapparle la bocca con un bacio prima che possa pronunciare di nuovo la maledetta parola che ha a che fare con gli equini.
Non devo farmi pregare: mi asseconda subito, schiacciandomi fra il muro e il suo corpo e continuando l’opera iniziata poco fa.
Quando mi ritrovo con le sue tette in mano, ne ho l’assoluta certezza: Kath è esattamente la donna per me. Con lei è tutto così semplice…
 
 
Elena
 
“Sono stato un idiota Elena. Potrai mai perdonarmi? Voglio dire, con tutto il male che ti ho fatto non avrei mai dovuto permettermi di trattarti in quel modo…”
 
“È tutto a posto papà, davvero. Non pensarci più.” sorrido.
 
Ok, questa giornata è stata un vero disastro ma per lo meno io e lui abbiamo chiarito.
Era così mortificato per la scenata di oggi pomeriggio che proprio non me la sono sentita di tenergli il muso. In fondo il nostro rapporto è rinato da poco dalle proprie cenere, è normale che possano esserci delle incomprensioni.
Sono felice di aver risolto almeno questo problema.
 
Mentre mio padre termina la sua birra (io no, per oggi ho dato..) scorro col dito sul mio I-phone. Sto consultando una app di cucina dove ho trovato la ricetta di una crostata al triplo cioccolato che non vedo l’ora di provare.
Per questo non mi accorgo subito del foglio che nel frattempo mi ha piazzato davanti.
 
Lo osservo di sfuggita, poi guardo mio padre. Sul suo viso si è dipinta un’espressione a dir poco entusiasta.
 
“Leggi!” mi esorta.
 
Perplessa, prendo il foglio in mano. È il testo di una canzone dei Beatles, la grande passione di papà, che non ricordo di conoscere.
Sembra carino, ma i miei occhi si soffermano soprattutto su alcune parole in corsivo che ricordano una specie di mantra.
 
Jai Guru Deva Om?
 
Che roba è? Cinese forse?
Quell’Om finale mi fa tornare in mente l’unica lezione di yoga a cui ho partecipato, nel vano tentativo di debellare lo stramaledetto Toro Blanco che si ostina a pascolare nelle praterie deserte della mia mente, vanificando ogni tentativo di finire il mio secondo romanzo.
 
Il corso era tenuto da una vecchietta sulla settantina tutta vestita di bianco, che però poteva vantare un corpo più elastico di Tira e Molla. Io invece, solo per sedermi sul tappetino, avevo prodotto un cigolio arrugginito che aveva fatto inorridire tutte le presenti.
Subito dopo la nonnina aveva iniziato a sproloquiare su fantomatici fasci di luce che discendevano dal cielo direttamente fino al coccige, esortandoci ad espirare dalla vagina. Nessuno sembrò stupirsi. Io ancora mi chiedo come sia possibile fare una cosa del genere.
Ovviamente ho preferito non approfondire, scegliendo la via del divano e preferendo aprire pacchetti di patatine davanti alla tv piuttosto che i miei chakra[2].
 
“Che c’è? Non ti piace?” chiede mio padre, notando la mia espressione perplessa.
 
“Di che si tratta?”
 
“Del testo per la finalissima di karaoke. È un duetto Elena… ti andrebbe di partecipare alla gara insieme a me? Sarebbe bellissimo vincere il primo premio accanto a mia figlia.”
 
Lo guardo ancora. È così eccitato e speranzoso che dirgli di no mi sembra un peccato, nonostante io non sia certo famosa per le mie doti canore o particolarmente appassionata di karaoke.
 
“Mi stai chiedendo di essere la tua Yoko Ono [3]?”
 
“Una cosa del genere.”
 
Sorrido. Sorride anche lui.
 
“Ci sto.”
 
 
 
[1] Famoso chef francese.
[2] Concetto inerente allo yoga e alla medicina ayurvedica. I chakra sono punti nel corpo in cui risiede energia e vanno appunto “aperti” per poterla liberare.
[3] Yoko Ono è la seconda moglie (giapponese) di John Lennon, il leader dei Beatles. In realtà questa canzone è dedicata alla sua prima moglie, che a quanto pare era logorroica, dato che ha ispirato il verso sulle parole senza fine.
 
*********
So che quasi un mese di assenza è davvero tanto per pretendere che qualcuno si fili ancora questa storia, ma proprio non sono riuscita a far di meglio. Proverò ad essere più puntuale con gli ultimi capitoli.
Continuano gli equivoci e le incomprensioni fra questi due... immaginavate qualcosa di diverso? Tranquille, nel prossimo tornano Elijah e Stefan a dare una mano a complicare le cose.

Intanto ringrazio di cuore chi arriva fino a qui, vi mando un bacione e vi auguro buon week end.
A presto (ci provo giuro!)
Chiara
 
 

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Capitolo 7
*** Infelicità: Livello PRO ***


CAPITOLO 7 – INFELICITA’: LIVELLO PRO
 
 
What's been happening in your world?
What have you been up to?
I heard that you fell in love
Or near enough
I gotta tell you the truth…
I wanna grab both your shoulders and shake baby
Snap out of it
***
Cos’è successo nel tuo mondo?
Che cosa hai fatto ultimamente?
Ho sentito che ti sei innamorata
o quasi
devo dirti la verità
Voglio afferrarti per le spalle e scuoterti
Reagisci
 
Snap out of it  - Arctic Monkeys
 
 
 
Elena
 
Jai guruuuu deeeeva oooommmmm… nothing is gonna change my world… nanananana…
 
Seduta sul tappeto del soggiorno, sistemo un assurdo temperamatite a forma di ranocchio nella mia nuova scatola delle cose inutili e canticchio sottovoce il motivetto della canzone per la finale di karaoke di stasera.
Ho letto su una rivista che sbarazzarsi del superfluo (o meglio, il decluttering… fa più intellettuale!) è molto terapeutico e aiuta a liberare la mente e sentirsi a proprio agio nello spazio domestico, così mi sono detta… perché non provarci?
 
In sottofondo posso sentire un suono ormai familiare: è Elijah, tutto preso da una sessione mistica di battitura compulsiva di tasti con risatine compiaciute annesse.
Sollevo gli occhi su di lui e lo scopro intento a fissare il monitor del suo computer con un sorriso soddisfatto.
Ecco che mi torna in mente la fastidiosa pulce che Damon mi ha messo all’orecchio: non so nulla, ma proprio nulla, del testo su cui il mio fidanzato sta lavorando.
Non mi ha mai proposto di leggerlo, nemmeno una riga.
E ora non posso fare a meno di chiedermi: perché?
 
Il pensiero mi tormenta dal giorno del mio ultimo, disastroso incontro col mio ex editore. E lo so che non dovrei farmi influenzare dalle sue parole, dette soltanto per imbrogliarmi e convincermi a restare alla Tristesse… ma è più forte di me.
Più forte addirittura del senso di colpa che ho provato nei confronti di Elijah per aver quasi baciato Damon.
Scuoto la testa. No, non è affatto andata così.
È stato lui, non io. Ha fatto quella cosa con gli occhi, per confondermi, quando già ero scossa per via della lite con mio padre.
Fossi stata in me non l’avrei mai fatto.
E comunque, non è successo nulla. Proprio nulla.
 
Non so se siano i sospetti o i rimorsi a muovermi, ma, ignorando il lieve rossore che sento salirmi alle guance, in un attimo sono dietro la scrivania del mio fidanzato e gli circondo le spalle con le braccia, lasciandogli un piccolo bacio di Giuda sul collo per poi gettare un’occhiata fintamente disinteressata allo schermo del suo portatile, un attimo prima che lui lo richiuda con un colpo secco.
 
“Che fai? Non vuoi che legga?” gli chiedo, la voce che acquista una nota di delusione e un’altra – più decisa e totalmente involontaria – di irritazione.
Elijah fa un sorrisetto, mi sfiora la guancia in una breve carezza.
 
“Ma no… che vai a pensare Elena. È solo che… uhm… ci sto ancora lavorando. Devo fare… ehm… parecchie correzioni.”
 
“Sarà…”
 
Infastidita più di quanto vorrei, faccio il giro della scrivania e mi siedo dal mio lato, accendo il MacBook e osservo con la coda dell’occhio il mio povero bonsai rinsecchito.
Nonostante tutti i miei sforzi non si è mai ripreso dal giorno della lite con mio padre e la cosa ancora mi turba parecchio.
 
“Eddai, non fare quella faccia offesa tesoro.” dice Elijah.
 
Incrocio il suo sguardo compassionevole che ha solo l’effetto di irritarmi di più.
 
“Pensavo solo che potrebbe essere costruttivo confrontarci di più sul nostro lavoro. Tu scrivi, io… beh, anche io scrivo… perciò…”
 
Mentre balbetto quelle parole, la scritta Capitolo 36 in cima alla pagina totalmente bianca mi lampeggia negli occhi, provocandomi un’immediata fitta allo stomaco.
Elijah mi fissa per qualche istante, stringendosi le braccia al petto e piegando la testa di lato.
 
“La verità, Elena, è che tu rifiuti di affrontare il tuo problema.”
 
Ci mancava che iniziasse a pontificare. Assumendo un’aria distaccata, incrocio le mani sotto il mento e gli sorrido, fingendo di non capire dove voglia arrivare.
 
“Quale problema scusa?”
 
“Andiamo… non fare la vaga. Sei bloccata.”
 
“Bloccata? Chi io? Ahahahah… ma… ahahah… che stai dicendo?” rispondo, ridendo come una pazza isterica come se avesse detto la cosa più comica di questo mondo.
 
Lui non sembra bersela. Proprio no.
Al contrario, continua a studiarmi grattandosi il mento con un’espressione pensosa, fino a quando la risata mi muore in gola e restiamo a guardarci immersi in un silenzio tombale, interrotto solamente dal suono provvidenziale del timer della cucina che mi annuncia che il dolce al triplo cioccolato è pronto.
Subito mi alzo in piedi e corro in direzione del forno.
Se potessi ficcarci la testa dentro, giuro che lo farei.
Infilo uno stecchino nella torta per verificarne il grado di cottura. Quasi faccio un colpo quando mi accorgo di Elijah che, nel frattempo, mi ha raggiunta e mi osserva appoggiato al frigorifero.
Da dove salta fuori tutta questa voglia di parlare e sviscerare i miei problemi?
 
“Sai Elena… conoscevo un tizio una volta. Un autore eccezionale. Successe anche a lui. Stava scrivendo un testo teatrale, la storia di due fratelli. Non riusciva ad andare avanti… eppure, a un certo punto, trovò il modo di sconfiggere il suo blocco.”
 
“Ah si? E… come?” chiedo, con malcelato interesse.
 
“Semplicissimo! Scrisse nudo. Si si, nudo, hai capito bene! Aveva intuito che è necessario liberarsi di ogni cosa superflua per lasciar fluire il naturale corso dei pensieri e della scrittura.”
 
“Ma piantala!” sbuffo alterata, sbattendo con rabbia lo sportello del forno.
 
Ne ho abbastanza di esperimenti assurdi, dello yoga, del decluttering e del feng shui.
Ci mancava questa scemenza. E poi odio che Elijah mi compatisca, facendo cadere le sue opinioni dall’alto e mortificandomi più di quanto non lo sia già.
 
“Facci un pensierino Elena. Non mi dispiacerebbe affatto vederti girare per casa senza vestiti…” aggiunge poi, sottolineando la frase con un’occhiatina ammiccante. Perché ora mi sembra così squallido?
 
“Non lo metto in dubbio.” rispondo, ormai al limite della sopportazione.
 
Proprio in quel momento, lo squillo del suo cellulare lo distrae finalmente da me e dalla sua fresca ossessione per il mio dannatissimo blocco. Lo preferivo decisamente quando si ostinava ad ignorarmi.
 
“Pronto? Si sono io, Elijah Mikaelkson in persona. Come dice? Chi è che vuole incontrarmi? Julie???”
 
 
Damon
 
“Ma certo che è lei! Julie Plec! Si si, l’americana. Si, quella del telefilm sui vampiri! Si immagino che vi siate già incontrati altre volte. Ma certo, è naturale che uno sceneggiatore di fama come lei sia amico intimo di molti dei nomi più importanti della tv… in ogni caso, ehm… Ju-Julie sarebbe lieta di riceverla questa sera stessa. Certo, dovrebbe partire subito. Ci siamo già messi in contatto con la sua agente, la chiamerà a breve per fornirle ulteriori dettagli.”
 
Ci ho messo un bel po’ a convincerlo, ma devo ammettere che Stefan, contro ogni aspettativa, si è calato a perfezione nella parte. Forse un po’ troppo.
Evidentemente, il corso che ha frequentato qualche anno fa al Sadler’s Wells Tehater gli insegnato anche dell’altro, oltre ad immedesimarsi in foglie secche e fili d’erba.
 
Mio fratello non ama particolarmente ricordare quella fase della sua vita.
Aveva perso la testa per una certa Hayley, un’artistoide hippy e snob in modo fastidioso, che aveva la mania della meditazione trascendentale e trascorreva il proprio tempo tra lezioni di poesia creativa e assurde rappresentazioni teatrali.
Stef le sbavava sopra come un cagnolino ma, come sempre, non è riuscito a concludere.
 
Comunque, il piano sta funzionando alla grande.
È bastato mandare una mail da un finto account di posta all’agente di Mikaelson, che poi altri non è che sua sorella Rebekah.
L’ho anche incontrata un paio di volte in giro: come QI assomiglia al fratello, ma perlomeno lei è figa.
Comunque, era gasatissima e mi ha assicurato che lo avrebbe avvisato al più presto di questa inaspettata opportunità.
Secondo me perfino a lei non sembra vero di levarselo di torno per un po’.
 
E ora questa telefonata, pensata appositamente per alimentare l’ego di quel pallone gonfiato, è la ciliegina sulla torta.
Ho detto a Stefan di dargli appuntamento ad un indirizzo assurdo, disperso in mezzo alla brughiera. Avrei preferito spedirlo all’altro capo del mondo, ma non si può avere tutto dalla vita. Per ora mi accontenterò di vederlo sparire per un paio di giorni, il tempo che mi serve per mettere in atto l’altra parte del piano, quella che Stefan ancora non conosce.  
 
Nel frattempo lui ha chiuso la conversazione.
 
“Mi sembra di averlo convinto.” dice, passandomi il cellulare con un sospiro annoiato.
 
“Ottimo lavoro fratello,” gli rispondo “ma ho ancora bisogno di te.”
 
Lo vedo scattare in piedi, rivolgendomi la solita, tediosa espressione di rimprovero.
 
“Psicotico te l’ho già detto vero? Si può sapere che altro hai in mente Damon?”
 
“Apri le orecchie Stefan. Prima Elijah, poi Mr. G!” scandisco, puntandogli contro un dito mentre lui spalanca gli occhi disorientato.
 
“Oh no… no, no, no. Sai benissimo quanto sia costato ad Elena recuperare il rapporto con suo padre dopo che l’ha abbandonata per la tizia della serra.”
 
Entrambi rivolgiamo uno sguardo mesto al piccolo bonsai, posato accanto a una pila di buste ancora da aprire, con stampato sopra l’inquietante logo della mia banca.
Lui si che sta benissimo!
Sembra proprio non aver risentito del trasloco dalla scrivania di Elena alla mia.
Del resto me ne sto prendendo cura.
Poco fa gli ho lucidato le foglie, non prima di essermi chiuso a chiave in ufficio onde evitare che mio fratello o quell’impicciona della biondina potessero accorgersene.
 
“Stefan, non farla lunga. Il tuo piano, tutta quella stronzata della velata malinconia, ha avuto solo l’effetto di far firmare Elena con un’altra casa editrice. Dobbiamo prendere in mano la situazione. Voglio quel libro e vedrai… alla fine perfino lei mi ringrazierà. Comunque, non ho intenzione di sabotare Elena e Mr. G che giocano a mamma casetta. Voglio solo provocare una piccola lite fra loro, in modo che lei possa tornare a scrivere e…”
 
“Ammettiamo che la tua strampalata idea abbia successo, che Elena si deprima e finisca il romanzo. Poi se ne andrà all’ABP e sarai tu ad essere infelice!”
 
“Ma io voglio che lei se ne vada. E comunque, lei non vuole restare.”
 
“E tu fingi che non te ne importi.” sentenzia, alzando gli occhi al cielo.
 
Ho smesso di seguirlo. Sto cercando di immaginare la prospettiva di un futuro fra queste quattro mura a correggere bozze assurde, come quella che mi è capitato di leggere stanotte.
Non riuscivo a dormire, così ho deciso di pescare a caso fra gli ormai pochi manoscritti che gli aspiranti autori spediscono alla mia attenzione, più per disperazione che per altro.
 
La Tristesse non pubblica qualcosa da… bah, lasciamo stare.
 
In ogni caso, il romanzo era terribile. Parlava di un’improbabile invasione aliena e di una raccapricciante storia d’amore tra la protagonista e l’E.T. della situazione.
Avrei dovuto combattere l’insonnia in una maniera più costruttiva.
Che ne so, ubriacandomi fino al letargo o magari rincoglionendomi davanti a qualche trasmissione trash su Channel 4… ultimamente però, il mio lato masochista ha deciso di prendere il sopravvento sulla razionalità.
Quando ho chiamato l’autrice per comunicarle le mie impressioni, è scoppiata a piangere disperata. Tanto per cambiare.
 
Chissà quando mi ricapiterà qualcosa di buono come Lieto Fine.
Forse ha ragione mio fratello. E anche Kath. Forse dovrei chiudere la baracca e basta.
Dannazione, che sto dicendo?
Scuoto la testa. Non devo lasciarmi commuovere. Ho deciso che andrò fino in fondo e lo farò.
 
“Ok, Stef. Finché la Tristesse si regge in piedi, io sono ancora il tuo capo e ti ordino di collaborare. Mr. G mi ha informato del concorso di karaoke, stasera. Pensa… mi ha chiesto di andare a fare il tifo! Quello che devi fare tu è impedire a Elena di partecipare. Pare che per lui sia davvero importante che lei ci sia.”
 
Mio fratello alza gli occhi al cielo, mugugna qualche imprecazione e poi mi guarda di nuovo. È frastornato, ma finalmente rassegnato a collaborare.
 
“Sentiamo. Come dovrei fare?”
 
“Sei tu l’attore. Improvvisa!”
 
 
Elena
 
“Elena mi hai stirato la camicia? E gli occhiali? Dove sono i miei dannati occhiali?”
 
“Ce li hai sul naso Elijah! Calmati!”
 
Mentre mi infilo le calze con tutta tranquillità, mi godo lo spettacolo del mio fidanzato che corre come una trottola impazzita da una parte all’altra del mio appartamento, si specchia in continuazione e prova l’ennesimo abbinamento per l’appuntamento con… bah!
 
Ammetto che per un brevissimo istante ho provato invidia per lui.
Subito dopo sono tornata in me e mi sono detta che se lo merita. In fondo lavora sodo tutto il giorno ed è giusto che gli sia toccata questa opportunità.
Un attimo dopo ancora mi sono chiesta come fosse possibile che quella tizia proponesse proprio ad Elijah di lavorare con lei.
Andiamo, queste cose non capitano mai!
 
Mentre ci ripenso, mi guardo allo specchio per controllare il mio look per la serata. Quando i miei occhi incontrano il mio viso riflesso, mi sento subito piccola e ingrata.
 
Sei davvero una brutta persona Elena!, urla la mia vocina interiore. Stavolta sono costretta a darle ragione. Sono solo invidiosa, perché Elijah ha successo ed io no.
Lo seguo con lo sguardo mentre chiude il suo trolley e infila convulsamente nella tasca del soprabito i documenti e una boccetta di fiori di Bach.
 
“Andrà tutto bene. Sei uno sceneggiatore pieno di talento!” lo incoraggio, in preda ai rimorsi di coscienza.
 
Lui si blocca al centro della stanza, rivolgendomi uno sguardo tenero.
 
“Hai ragione!” esclama.
 
“Ti chiamo quando arrivo!” aggiunge poi, sbrigativo, lasciandomi un insignificante bacetto sulla fronte prima di infilare la porta in tutta fretta.
E così mi ritrovo sola, o meglio, in compagnia dei miei soliti problemi.
Stasera però non ho intenzione di pensarci. Stasera mi dedicherò a mio padre. Poco importa se non ho mai cantato prima d’ora, nemmeno sotto la doccia. Ho voglia di vederlo felice.
 
Rincuorata da questo pensiero positivo, il primo della giornata, afferro il cappotto e la borsa e mi preparo a raggiungere il pub, dove papà mi aspetta alle nove in punto per iniziare la gara.
Ma quando spalanco la porta, mi trovo davanti l’ultima persona che pensavo di incontrare.
 
“Elena! Cercavo proprio te!”
 
“S-Stefan?”
 
Per tutta risposta il fratello di Damon ridacchia fra sé e sé e mi guarda spaesato, come se mi vedesse per la prima volta, con due occhietti lucidi e l’aria decisamente confusa.
 
“Vieni qui, fatti abbracciare! Amica mia!” mi dice poi, stringendomi subito dopo in una presa soffocante.
 
È in quel momento che me ne rendo conto: puzza come una distilleria.
 
“Stefan sei ubriaco!” esclamo, sottraendomi alla sua stretta e cercando – non senza una certa fatica – il suo sguardo acquoso. “Ehi. Sono qui, davanti a te. Guardami! Si può sapere che ti prende? E soprattutto, che diavolo ci fai qui?”
 
“Oh Elena…” piagnucola “non mandarmi via ti prego. Ho bisogno del tuo aiuto. È per Caroline! Sono disperato. Vedi io… io… la amo!”
 
Non faccio in tempo a ribattere che ha già affondato la testa sulla mia spalla, singhiozzando come un vitello.
 
“Ti prego… se non ne parlo con qualcuno credo che impazzirò!”
 
“Su… su… calmati.”
 
Mentre con la mano destra gli batto su una spalla per rincuorarlo, sollevo il braccio sinistro per controllare l’orologio. Le otto e trenta. In fondo ho ancora mezz’ora, dovrebbe essere sufficiente per rimetterlo in sesto. Almeno spero.
 
“Coraggio, accomodati Stefan.”
 
“Oh grazie. Grazie davvero Elena!” risponde lui, la voce piena di gratitudine, infilando la porta senza lasciarselo ripetere ma non prima di aver afferrato dal pavimento due bottiglie piene di un liquido dall’aria molto alcolica, a cui proprio non avevo fatto caso.
 
 

*********
Ciao!
Capitolo un po’ transitorio… se avessi dovuto arrivare al punto in cui volevo inizialmente, sarebbe durato troppe pagine. Credo che una storia leggera come vuole essere questa finisca per annoiare con capitoli troppo lunghi, perciò ho pensato di dividere, con la promessa di fare tutto il possibile per aggiornare la settimana prossima. Spero non vi dispiaccia!
Un bacio e sempre grazie a chi legge.
Piccolo spoiler: ancora un paio di capitoli e poi… THE END! ;)
Buona festa di Ognissanti a tutte voi <3
Chiara
 
PS: Chi di voi ha il cuoricino in fibrillazione per il Defan?? IO SI!!!

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Capitolo 8
*** Come fare a dirti che ho sbagliato ***


CAPITOLO 8 – COME FARE A DIRTI CHE HO SBAGLIATO
 
 
How can I tell you I was wrong?
When I am
The proudest man
Ever born
 
I stand on the horizon
I wanna step across it with you
But when the sun's this low
Everything's cold
On the line of the horizon
 
Come to me
Oh won't you come to me
***
Come posso dirti che avevo torto
quando sono l’uomo più orgoglioso
che sia mai nato?
 
Sto all’orizzonte
Vorrei attraversarlo con te
Ma quando il sole è così basso
Tutto è freddo
sulla linea dell’orizzonte
 
Vieni da me
Oh, non vuoi venire da me?
 
Stand on the horizon – Franz Ferdinand
 
 
 
Damon
 
Appena faccio un passo dentro al Sussex, vengo investito dal familiare aroma tipico di ogni locale londinese che si rispetti: un misto agrodolce di birra scura, olio fritto troppe volte e hamburger bruciacchiati.
Accanto alla solita clientela, composta perlopiù da avventori mezzi sbronzi ancora in abito da lavoro, stasera si nota qualcosa di diverso. Si tratta dei tizi che parteciperanno alla finale di karaoke. Non ci vuole poi molto a riconoscerli: sono una manica di personaggi di mezza età riuniti in capannelli, tutti concentrati a ripassare i testi delle loro canzoni, canticchiarle e ascoltarne le versioni originali armati di cuffiette, neanche fossimo alla finale di XFactor.
 
Mr. G è l’unico che se ne sta in disparte, rintanato all’angolo più remoto del bancone del bar, col suo foglio davanti e un barattolino tascabile di miele che con ogni probabilità è deputato a trasformare la sua voce nel gorgheggio di un usignolo, cosa che gli garantirà di vincere la competizione.
Peccato che, anche solo per poter gareggiare, gli serva una partner. Nello specifico Elena, che, se Stefan farà il suo dovere, in questo pub non metterà piede.
A proposito di mio fratello, qualunque idea si sia fatto venire, mi auguro per lui che sia davvero, davvero buona. Cerco di scacciare l’idea di lui travestito da ispettore Derrick nel corso della nostra ultima missione e mi guardo intorno, riconoscendo subito dietro al bancone la brunetta carina dell’altra volta. Deve essere una cara amica di Elena. Credo proprio che, se conoscesse le mie intenzioni, non mi sorriderebbe in quel modo.
 
D.! Sei qui finalmente! Grazie per essere venuto!”
 
Mr. G, in pieno clima pre-gara, mi porge una mano sudata che io scanso prontamente con un mezzo sorriso, preferendo salutarlo con una pacca sulla spalla: più virile e decisamente meno rischiosa.
 
“Ciao! Cosa ti porto?” chiede la barista mora con aria ammiccante. Qualcosa mi dice che lei sappia molte cose sul mio conto, molte più di quanto io possa immaginare.
 
Dopo aver ordinato un bourbon per me e per il mio amico, mi accomodo sullo sgabello.
In fondo anche io devo svolgere al meglio la mia parte del piano. Mentre Stefan intrattiene Elena, io devo accertarmi che suo padre si incazzi a morte per la sua defezione, ricordandogli quanto sia fondamentale per lui avere il supporto della figlia in questa stramaledetta gara canora.
Mica roba da poco insomma.
Ma, prima ancora che io possa iniziare a lavorarmi Mr. G, è lui a sollevare il bicchiere in mia direzione, per poi svuotarlo in un unica, nervosa sorsata e partire in quarta con un monologo.
 
“Sono felice che tu sia qui Damon. Si lo so, con Elena non è sempre facile ragionare, ma chi meglio di te la capisce? Voglio dire, sei tu che l’hai scoperta, che le hai permesso di spiccare il volo. Era giusto che anche tu fossi presente. Perché oggi è il giorno del riscatto. Il giorno in cui, vincendo questa gara, realizzerò uno dei desideri più importanti della mia bambina.”
 
Mr. G sbatte il bicchiere sul ripiano di legno, lo sguardo fiero perso nel vuoto come se stesse per cantare God Save the Queen a Wembley di fronte a Elisabetta II in persona, invece che un pezzo anni ’70 seguendo le parole proiettate su una parete.
Aggrotto le sopracciglia, leggermente confuso dalle sue ultime affermazioni. Non mi risulta affatto che Elena sia mai stata un’appassionata di canto in generale, meno che meno del karaoke. Perché mai dovrebbe essere tanto entusiasta di assecondare il padre in quello che, con ogni probabilità, si rivelerebbe uno degli episodi più imbarazzanti della sua esistenza?
 
“Che vuoi dire?” chiedo, perplesso.
 
“Leggi qui D.!” fa lui, tutto tronfio, porgendomi un volantino “Il primo premio è un viaggio in America, a Disneyland. Sarà una sorpresa per Elena! Possibile che non ti abbia mai parlato di Disneyland?”
 
Forse Mr. G non si è ancora reso conto che, mentre lui se la spassava con l’esperta di botanica, sua figlia è diventata una donna. Una donna i cui interessi si discostano lievemente da Topolino e Pippo. Come no. Adesso Elena preferisce gli sceneggiatori falliti e megalomani.
 
Scrollo le spalle. “Veramente… no. Scusa! Fammene un altro dolcezza.” aggiungo, rivolto a una cameriera. Ho l’impressione che sarà una serata piuttosto dura.
 
“È una lunga storia. Ora ti spiego tutto.” Continua Mr. G, entusiasta. Prima che possa subissarmi di chiacchiere, sfodero la mia migliore faccia d’angelo e gli rivolgo un sorrisino condiscendente.
 
“Ne sarei felice ma… non credo ce ne sia il tempo. Tra poco si comincia. Elena ancora non si è vista?” gli chiedo, fingendomi molto impensierito mentre indico il grande orologio da parete che segna già le otto e cinquanta. Mr. G si volta verso la porta, grattandosi il mento con aria perplessa.
 
“In effetti no. Strano, di solito è così puntuale… Che le sarà successo?”
 
 
Elena
 
“E poi Hayley è scappata in Tailandia col suo maestro di Yoga Asana, minando tutte le mie sicurezze. Forse è per questo che non ho il coraggio di farmi avanti con Care… ho troppa paura di soffrire di nuovo. Riesci a capirmi?”
 
“Oh si. Io odio lo yoga. Non sai quanto.”
 
Io e Stefan ci rivolgiamo un’occhiata liquida ed empatica prima di svuotare all’unisono l’ennesimo shot di vodka.
Ormai non faccio nemmeno più caso a quel fastidioso bruciore che mi provoca scendendo giù per la gola. Anzi, a dir la verità, mi sento stranamente leggera e in pace con me stessa mentre me ne sto accoccolata sul divano con lui, che nel frattempo si è tolto le scarpe, si è stravaccato con la testa sulla spalliera e le gambe sul tavolino del soggiorno e mi ha snocciolato una per una le tragedie della sua vita sentimentale. Ho scoperto che, in quanto a sfiga, possiamo decisamente competere.
 
“Caroline è così… wow… così perfetta! Che dovrei fare secondo te?”
 
Mi accorgo solo in quel momento della sua voce impastata e della cadenza strascinata con cui pronuncia quelle parole, particolare che mi provoca una risatina involontaria e senza senso.
 
“Credo che dovresti seguire il tuo cuore. Ti ricordi no? È una follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto… eccetera eccetera.”
 
Un angolo remoto del mio pensiero collaterale mi ricorda quanto io sia pessima nel seguire i consigli che sono tanto brava ad impartire. Fortunatamente sono troppo brilla per fare una sintesi mentale di tutto ciò che non va nella mia vita in questo momento.
Anche Stefan sembra riflettere un secondo sulle mie parole, o forse impiega un po’ più del dovuto per capirle.
 
“Seguire il mio cuore…”
 
“Già.”
 
“Ci vuole un brindisi.”
 
“Sono d’accordo.”
 
Afferro la bottiglia di vodka e la rovescio sul bicchiere, ma tutto quello che ne esce è un misero goccio di liquido trasparente. Come abbiamo fatto a finire anche la seconda? Altra risatina. Anche Stefan ride di gusto, rovesciando il capo all’indietro, per poi incupirsi improvvisamente mentre osserva una piccola crepa nel soffitto, come se fosse sul punto di illuminarlo con chissà quale rivelazione.
 
“Non facciamoci prendere dal panico. Ho del vino in frigo!” esclamo, saltando giù dal divano. Per poco non finisco lunga distesa sul pavimento. Avevo dimenticato quel dannato tappeto marroncino che Elijah mi ha convinta a comprare perché si sposava magnificamente col colore dei suoi occhi.
Mentre incespico in direzione del frigorifero, lancio un’occhiata distratta al timer della cucina e...
 
“Oh merda. Merda, merda, MERDA!”
 
“Qualcosa non va Elena?”
 
“E me lo chiedi?? Sono le nove passate. E io dovrei essere da tutt’altra parte. Come ho fatto a non accorgermene?” urlo, inciampando sui miei passi mentre mi sfilo i calzettoni di spugna e afferro un paio di ballerine dalla scarpiera accanto all’uscio.
 
“Il tempo vola quando ci si diverte. E comunque, chi te lo fa fare di uscire con questo tempo?” dice Stefan, serafico. Mi indica con un dito la finestra, sui cui vetri stanno scivolando, una dopo l’altra, gocce di pioggia sempre più grosse. Maledetta Londra e il suo dannato clima, penso, mentre trafelata mi infilo il cappotto e controllo il mio riflesso nello specchio. Sono un disastro ma chissenefrega. Devo correre!
 
“Tu non capisci Stefan. Avevo un appuntamento con mio padre che… lasciamo stare. Passami il telefono. È lì… sul tavolino. Chiamo un taxi…”
 
“Non essere ridicola. Ho la macchina. Ti ci porto io.” fa lui, alzandosi in piedi con non poca fatica.
 
Mi gira la testa. Ad essere sincera mi viene pure un po’ da vomitare, ma  mi sforzo comunque di fare un rapido calcolo. Se aspetto il taxi finirò per tardare ancora, mentre con l'auto posso forse guadagnare qualche minuto prezioso.
 
“O-ok Stefan.” dico alla fine, mentre lui si infila le scarpe per poi barcollare verso di me con un sorriso ebete stampato in viso.
 
 
Damon
 
“Grayson dobbiamo cominciare. Dov’è tua figlia? Deve ancora firmare il foglio di iscrizione.”
 
“Dammi ancora un minuto Mike. Elena deve aver trovato traffico per via del maltempo.”
 
“Ok. Faccio iniziare la prima coppia. Ma se non arriva tra cinque minuti sarò costretto a squalificarvi.”
 
Mike, che ho intuito essere l’artefice di questa farsa, si allontana da noi con risolutezza e si affretta a spingere sul piccolo palco una coppia di camionisti dall’aria piuttosto scontrosa che però, contro ogni previsione, si lanciano in una versione in falsetto di How you do it di Gerry and the Pacemakers.
 
“E questi chi sono? La versione aggiornata dei Chipmunks?”
 
Mr. G non mi risponde nemmeno. È troppo preso dal controllare l’orologio ogni venti secondi.
 
“Comincio a temere che non verrà.”
 
“Peggio per lei. Vorrà dire che si perderà il viaggio a Disneyland.” rispondo, per poi buttare giù l’ennesimo sorso di bourbon. Non ci provo neanche a mascherare l’ironia.
 
“E io non riuscirò mai a rimediare con quella bambina.”
 
Quelle parole catturano la mia attenzione. Non capisco dove voglia arrivare e sono tentato di chiedere di più. Ma quando mi volto verso di lui, il padre di Elena si è già preso il viso tra le mani, mentre i suoi occhi lucidi sono puntati sull’orologio da parete come se non lo vedesse veramente.
 
“Elena risparmiava un penny dopo l’altro per Disneyland. Ogni Natale, ogni compleanno. E il giorno che me ne sono andato… beh, sai. Per quella donna… ho svuotato il suo salvadanaio. Hai capito bene, le ho portato via tutto. Erano poche sterline in fondo, ma sufficienti per pagarmi una sbronza decente e soffocare i miei rimorsi e la mia rabbia. Non ero veramente innamorato di quella donna. Proprio no. Ma ce l’avevo con la madre di Elena. Lei era cambiata, era distante. Non mi sono preoccupato di chiedermi il perché. Ho scoperto troppo tardi il vero motivo: era già malata. Ecco cosa ho fatto Damon, ho abbandonato mia figlia, l’ho lasciata sola ad occuparsi di sua madre e di uno stupido bonsai.”
 
Rimango in silenzio. Mi sento totalmente sprovvisto di parole o giustificazioni.
Tutto ciò che sento è un fastidioso nodo alla gola che mi blocca dal formulare anche solo una frase di circostanza, ma in compenso non mi impedisce di sentirmi un perfetto coglione.
Non ho capito niente.
 
Mr. G stringe il bicchiere vuoto tra le mani, passa più volte un dito lungo il bordo.
Quando solleva di nuovo lo sguardo nei miei occhi spalancati e attoniti, è umido di commozione ma acceso di una specie di luce che assomiglia vagamente alla speranza.
 
“Quando ho letto Lieto Fine mi sono arrabbiato a morte. Ce l’avevo con me stesso, perché ho capito che non avrei mai potuto recuperare con Elena. Le ho fatto troppo male. Ma se stasera vinciamo la porterò a Disneyland. In America, non quello schifo di Parigi. Oh, scusami… mi pare di ricordare che tu sia mezzo francese.”
 
Sorrido sbieco, poi distolgo lo sguardo. Non ho più il coraggio di affrontarlo. Borbotto qualcosa su una telefonata urgente per allontanarmi da lui e dai suoi sensi di colpa che diventano sempre più anche miei. Mi infilo in un angolo del locale, abbastanza isolato perché Mr. G non possa sentirmi e la voce stridula di quei due non mi rimbombi eccessivamente nelle orecchie.
 
Il telefono di Stefan suona a vuoto per una decina di squilli.
Quando finalmente si decide a rispondere, mi accorgo subito della linea disturbata, probabilmente a causa della pioggia fitta che si è abbattuta sulla città.
 
“Dove diavolo sei?”
 
“Fratello mio!” esclama, biascicando.
 
“Hai bevuto per caso? Apri bene le orecchie: ho bisogno di Elena, qui e adesso. Il piano è annullato.”
 
“Oh-oh.” ride.
 
“Oh-oh cosa?”
 
“Elena è… scappata! Eheheh…”
 
Tra un colpo di singhiozzo e l’altro, mio fratello mi racconta a grandi linee di un rocambolesco viaggio in macchina per arrivare al Sussex, o almeno così credeva Elena.
Il tutto si è concluso con Stefan che, per via della pioggia, dice lui, si è schiantato con la macchina – la mia cazzo di macchina, che quell’idiota ha pensato bene di prendere in prestito –  contro un palo.
Nessuno si è fatto male, eccetto la Camaro. Qualcuno me la pagherà cara, questo è certo.
Il problema è che Elena ha pensato bene di cercare di raggiungere suo padre a piedi.
Il pensiero di lei, disperata sotto la pioggia battente, manda in briciole anche gli ultimi residui della mia autostima.
 
“Va’ a casa Stefan. Anzi no, chiama il carroattrezzi.” urlo nella cornetta. Lui blatera ancora qualche frase sconnessa sul seguire il cuore e sulle rose senza spine prima che, esasperato, gli riattacchi il telefono in faccia.
 
Quando torno dal padre di Elena lo trovo a discutere animatamente con Mike.
 
“Ancora qualche minuto. Per favore.”
 
“Non se ne parla. La gara è solo per coppie e…”
 
“In questo caso non c’è problema.” intervengo. Due paia d’occhi sgranati si puntano sul mio viso. Scrollo le spalle. “Coraggio G. Canto io con te. Vinciamo questo viaggio per Elena.”
 
 
Elena
 
L’auto inchioda sulle strisce pedonali. Il tizio alla guida si sporge dal finestrino, imprecando furioso contro di me.
 
“Mi scusi!” urlo mortificata, certa che purtroppo le mie parole non arriveranno mai a destinazione, coperte dalla pioggia scrosciante e dai rumori della strada.
Mentre corro per raggiungere il marciapiede, scosto con rabbia i capelli che mi si sono incollati al viso per l’ennesima volta.
Il mio aspetto deve essere tremendo.
L’ombrello si è rovesciato dopo pochi metri per via di una raffica di vento, e ora mi ritrovo fradicia, col trucco sparpagliato sulla faccia, i vestiti zuppi e le scarpe che imbarcano acqua ad ogni passo.
Non me ne importa. Se non raggiungo il pub papà non mi perdonerà mai e io non voglio, non posso deluderlo.
Il pensiero mi incoraggia a correre ancora più veloce, scansando i pochi passanti che incontro per la strada e cercando di ripararmi meglio che posso con la borsa.
Arrivata all’angolo della St. Martins Lane, riesco finalmente a scorgere l’insegna di legno del pub e le sue finestre, che proiettano sull’asfalto umido una luce gialla e ovattata.
 
“Finalmente!” penso, allungando il passo per raggiungere la porta. Ma quando mi ritrovo a stringere la maniglia dorata fra le dita, sono invasa da una prepotente sensazione di panico.
 
È tardi, troppo tardi. Mio padre deve essere furioso ed io non ho idea di come giustificarmi per il mio ritardo. Non è colpa di Stefan, avrei dovuto capire che non era in grado di mettersi alla guida. Sono una stupida, non c’è altro da dire e…
 
La porta si spalanca, lasciando uscire due ragazzi che, riparandosi sotto la tenda del locale, si accendono una sigaretta ridacchiando fra di loro. È in quel momento che una melodia fin troppo familiare mi arriva alle orecchie, lasciandomi a bocca aperta e annullando di colpo tutti i miei pensieri.
 
Prendo coraggio e spingo l’uscio. Il calore umido che proviene dall’interno mi invade all’istante, oltrepassando la barriera dei miei vestiti inzuppati di pioggia.
Qualcuno mi guarda storto, ma non mi interessa. Come ipnotizzata, seguo il suono che mi ha attirata qui dentro, facendomi strada tra i tavolini stipati di gente. Urto per sbaglio una ragazza in gran tiro. Lei mi scansa infastidita, mormorando qualcosa, ma io non la sento neanche.
 
Eccolo là. Mio padre sta cantando la sua canzone, un braccio attorno alle spalle di…
 
Che cosa??? Ancora tu???
 
Mi faccio ancora largo tra la piccola folla di avventori, piazzandomi di fronte al palco, gocciolante e sbalordita.
 
Nothing is gonna change my world…
 
Rimango in ascolto fino a che la canzone finisce.
Il pubblico applaude. Arriva perfino qualche fischio di approvazione, e papà finalmente mi nota. Mi saluta con un cenno della mano, gli occhi accesi di entusiasmo e la bocca che si allarga in un sorriso felice. Accanto a lui, Damon. Incrocio il suo sguardo troppo azzurro, smorzato da un che di indefinibile, che si abbassa sul pavimento per qualche breve istante prima di posarsi nel mio, accompagnandosi a quel sorriso a metà che ancora una volta mi confonde.
 
 
***
 
Un’ora dopo, mi chiudo la porta di casa dietro le spalle.
Le scarpe, ormai distrutte, finiscono subito per essere lanciate in un angolo. Appendo il cappotto e la borsa, corro in bagno a levarmi di dosso i vestiti fradici. Li lascio abbandonati sul pavimento e li rimpiazzo immediatamente col mio accappatoio di spugna.
Tamponandomi i capelli con un asciugamano, raggiungo la cucina per mettere la teiera sul fuoco. Accendo il forno e ci infilo una teglia di muffin preparati questa mattina, raccolgo dal tavolino le bottiglie vuote e appoggio i bicchieri nel lavandino.
 
Infine mi lascio cadere su una sedia.
Sono ancora frastornata. Dall’alcol in eccesso, dall’incidente, dalla corsa verso il pub, ma più di tutto da chi ci ho trovato dentro.
Gli occhi mi scivolano sul piccolo trofeo di latta che mio padre mi ha consegnato con un gesto solenne, conclusosi in un abbraccio soffocante durante il quale mi ha blaterato all’orecchio parole confuse sul viaggio a Disneyland che ha promesso di regalarmi.
Non ho detto nulla, limitandomi a stringerlo di più e osservando furtivamente il profilo di Damon, che se ne stava in disparte col suo immancabile bicchiere di bourbon in mano.
 
Stavo per avvicinarlo per chiedergli spiegazioni, ma prima che potessi farlo ecco arrivare Katherine. Si, proprio lei, la stronza. La gallina dalle zampe lunghe.
Sembrava parecchio agitata, ma non ho avuto voglia di approfondirne i motivi. Mi sono limitata a girare sui tacchi e uscire dal locale.
Miracolosamente sono riuscita a fermare al volo il taxi che mi ha riportata qui.
 
Tutto è bene quel che finisce bene.
Non si dice così?
Allora perché mi sento ancora sull’orlo di un baratro?
Mi stringo le braccia al petto, sbuffo e osservo la polvere sui mobili del mio salotto, fino a che lo sguardo non mi cade sullo schermo del Mac che se ne sta lì, (inutilmente) acceso da questa mattina. Mi torna in mente quel discorso idiota di Elijah sul tipo che scrisse nudo per sbloccarsi.
 
“Che stronzata!” esclamo.
 
Poi però…
 
Mi alzo in piedi lentamente, guardandomi intorno con circospezione come se qualcuno potesse saltar fuori da un armadio all’improvviso. E poi lo faccio. Mi sfilo l’accappatoio e lo poso sulla spalliera della sedia, rimanendo nuda come un verme al centro della stanza.
 
“Non è così male!” dico tra me e me, non senza un lieve compiacimento.
 
Raggiungo la scrivania e mi piazzo davanti al Mac, accarezzandone i tasti con le dita.
 
Capitolo 36
 
La mia mente è invasa dal solito, perenne, senso di vuoto cosmico.
 
“Ma vaff…”
 
“Elena… lo so che ci sei! Aprimi!”
 
La voce di Damon, accompagnata da un vigoroso bussare alla porta, mi fa sussultare.
 
“Che diavolo vuoi?” urlo. Guidata dall’istinto, tento di coprirmi con le mani, come se lui fosse in grado vedermi attraverso la barriera di legno dipinto di bianco.
 
“Devo parlarti! Apri questa stramaledetta porta!”
 
“V A T T E N E!”
 
Scatto in piedi con l’intento di afferrare l’accappatoio, ma proprio in quel momento la teiera, dimenticata sul fornello, inizia a fischiare furiosamente. La afferro per il manico, scordandomi di un piccolo dettaglio: è rovente.
 
“Dannazione!”
 
“Stai bene?”
 
“VAI VIA!” grido. Che dolore! Saltello da un piede all’altro e soffio sulla mano ustionata.
 
“Elena…”
 
La voce di Damon sembra pericolosamente nitida e vicina.
Dio, ti prego, fa che mi stia sbagliando.
Mi volto lentamente.
Lo trovo lì, impalato sulla porta aperta, con una mano ancora stretta alla maniglia e una chiave nell’altra.
Ci metto un attimo a focalizzarmi su quella faccia da stronzo impunito.
Un altro istante e realizzo con orrore che l’accappatoio non me lo sono ancora messo.
 
“Non credevo lo avrei mai detto in vita mia. Ma per il tuo bene, e soprattutto per il mio, sarà il caso che tu ti rivesta Elena.”
 
 
Damon
 
Ok, ok. Ho bisogno di un altro minuto per riprendere il controllo della situazione.
Da che ho messo piede qui dentro, ogni scenario possibile ha finito per capovolgersi.
 
Adesso io ed Elena ce ne stiamo qui, muti, a mangiucchiare un muffin ciascuno. Io seduto comodamente sul suo divano come se niente fosse, lei rannicchiata su una seggiola con gli occhi bassi e quella vestaglia rosa che di tanto in tanto si stringe addosso, come se fosse sufficiente a farmi dimenticare cosa nasconde lì sotto.
 
Questa è decisamente una serata di svolte.
Tanto per cominciare mi sono comportato da vero gentiluomo, ma non è solo questo il motivo.
 
Ho partecipato ad una gara di karaoke, vincendola.
Ho capito di essere uno stronzo.
Ho lasciato Katherine. Si, l’ho fatto davvero.
 
E per concludere ho attraversato la città, deciso a scusarmi con la donna che mi odia con tutta sé stessa e confessarle che, per tutto questo tempo, non ho fatto altro che tramare alle sue spalle al solo scopo di renderla infelice.
 
Ok, non è del tutto esatto. Non le ho chiesto scusa. Ancora no.
Ma non perché non voglia farlo.
Sto solo cercando di trovare le parole adatte per dirle che non mi importa se non scriverà quel romanzo. La lascio libera. Libera di essere felice, anche se questo significherà lasciarla andare via.
 
Mi chiedo diverse volte da che parte dovrei cominciare. Non sono bravo in questo genere di cose.
La spio in silenzio, senza farmi notare.
Indugio per un po’ sul quel suo broncio imbarazzato e sulle dita sottili che continuano a spostare una ciocca di capelli ancora bagnati che non vuole saperne di stare al proprio posto.
 
“Almeno potresti dirmi che sei venuto a fare.”
 
Quella sua richiesta, pronunciata con un tono ancora lievemente contrariato, interrompe la mia contemplazione silenziosa.
Sollevo gli occhi nei suoi, incrociandoli un secondo prima che si abbassino di nuovo sul pavimento.
È allora, in quel momento esatto, che una luce bianca cattura la mia attenzione.
No, non si tratta di un’illuminazione divina, ma dello schermo del MacBook che se ne sta lì,  sulla scrivania. Dannatamente invitante.
La pagina aperta su un documento word mi lampeggia negli occhi. Eccolo lì il mio fottuto romanzo!
Prima che Elena possa captare il mio sguardo e comprendere le mie intenzioni, lancio il muffin sul divano e mi precipito sulla scrivania ad agguantare il computer, mentre una raffica di pugni e altrettante imprecazioni mi raggiungono alle spalle.
 
“Damon! Non oserai…”
 
“Oh si. Certo che lo farò.”
 
Elena mi tira per la camicia, ma ormai è troppo tardi. Sono già assorto nella lettura del primo capitolo e non sto più ad ascoltare. Mi accorgo a malapena del sospiro con cui si arrende, raggomitolandosi in un angolo del divano senza mai staccare gli occhi dal mio viso.
 
***
 
“Cosa ne pensi?”
 
La domanda che aspettavo arriva appena dopo un quarto d’ora, che in ogni caso mi è bastato per leggere una decina di pagine.
 
Intercetto due grandi occhi spalancati e speranzosi. Completamente disarmanti.
Non ne ha proprio idea.
Non si rende conto di quanto sia valido ciò che ho appena letto. Altro che invasioni aliene del cazzo. Ma non glielo dirò, o almeno non ancora.
Sarebbe come ammettere che mi mancherebbe troppo.
Che in fondo, Stef e Sigmund Freud la sanno lunga sul mio conto.
Mi limito ad una smorfia di sufficienza e ad un distaccato “Non c’è male”, prima di battere sul divano col palmo della mano, invitandola ad avvicinarsi per ascoltare le mie correzioni.
 
 
Elena
 
“Non capisco. Che diavolo vuoi dire con questa frase?”
 
“Sei sempre il solito!”
 
Damon ride di gusto e io finisco per andargli dietro. Finisco anche per ricordarmi tutti i motivi per cui mi piaceva lavorare per lui. Tutti i motivi per cui mi piaceva… lui. Per cui mi piace.
Al punto che non mi sono nemmeno resa conto del tempo che è trascorso da quando ci siamo messi a correggere il mio romanzo.
 
“Dammi qua!”
 
Si allunga su di me per strapparmi il computer dalle mani e apportare l’ennesimo aggiustamento.
È allora che succede.
Che siamo troppo vicini, ancora una volta.
E io ritorno di colpo la ragazzina euforica e frastornata nel suo ufficio pieno di scartoffie, che ha appena visto realizzato il suo sogno. Ritorno la donna che qualche sera fa non riusciva a staccare gli occhi dai suoi finendo per combinare un casino.
Ed è tutto ancora lì. Dentro ai suoi occhi.
Anche se stavolta, lui non fa proprio niente. Non si muove, non dice una parola.
Continua soltanto a fissarmi e io, ancora una volta, dimentico come si fa a respirare.
Mi risveglio solo quando sento le dita intrecciarsi alle mie. Abbasso lo sguardo sulle nostre mani unite e all’improvviso la testa diventa pesante.
Distolgo lo sguardo. Il tappeto marroncino di Elijah è sempre lì, ai nostri piedi.
Troppe immagini negative mi tornano alla mente. Una su tutte: la gallina dalle gambe lunghe. Mi manca l’aria.
 
“No!”
 
Mi alzo di corsa, annaspo verso la portafinestra ed esco fuori, nel buio.
Il terrazzo è ancora fradicio di pioggia. Mi appoggio alla colonna del balcone nel vano tentativo di riprendermi, ma non riesco a fare a meno di avvertire la sua presenza alle mie spalle.
 
“No…” ripeto un’altra volta, senza nessuna convinzione.
 
“Perché no? Elena…”
 
Mannaggia a te Damon, e a quella voce che ti ritrovi!
Mi aggrappo a tutta la mia forza di volontà residua, ma non basta.
In un attimo torno sui miei passi.
Brucio la distanza che ci divide, intreccio le dita fra i suoi capelli e succede.
Succede che lo sto baciando.
E succede per davvero questa volta, non è che me lo stia sognando.
Perché, porca miseria, è molto meglio di come me lo sia mai immaginato.
 
Si l’ho fatto. L’ho già immaginato.
Una volta. Forse due.
 
Solo che quando l’ho fatto, non c’era lui che mi spingeva contro la colonna con quell’urgenza che sento anche mia. Non c’erano le sue mani a scivolarmi sotto la vestaglia e ricordarmi improvvisamente che non sto indossando la biancheria.
Non c’era questo gemito spezzato a sfuggirgli dalle labbra e nemmeno questa cosa che sta facendo con la lingua che…. Cristo Santo.
Solo quando abbandona le mie labbra per percorrere il profilo del mio mento e scendere giù, lungo il collo, ho la forza di riaprire gli occhi e inalare un po’ d’aria.
 
E poi, accade qualcos’altro.
Il rumore della serratura che scatta, la luce dell’ingresso che si accende illuminando un po’ di più anche il terrazzino. Qualcosa che si trascina sul pavimento.
Un’intuizione che diventa certezza poco a poco. È la voce di Elijah. Del mio fidanzato.
 
“Elena? Elena sei in casa?”
 
 
 
*********
Oh là! Ho scritto un bel poema e me ne sono fregata della lunghezza.
Non sia mai che pensiate che non vi ascolto :)
 
Buonasera!
Lasciatemi dire che sono fiera della mia velocità e di aver mantenuto la parola data per una volta.
Spero che il capitolo, pur così lungo, vi piaccia e non vi abbia annoiate.
Ci ho messo pure un vago sentore di 3x19 che non guasta mai, eheheheh. I bei tempi andati… a proposito, ipotizzo che la 6x06 sgretolerà i miei residui feelings. Voi che ne pensate?
Ora vi chiedo un po’ di pazienza, perché devo dedicarmi a un certo finale che ancora non ho terminato.
Un bacio a tutte e grazie sempre di cuore.
Il vostro sostegno è davvero importante e fondamentale per me! <3
 
Chiara

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Capitolo 9
*** Quello che provo per te ***


N/A: Scusatemi per il mio EPIC ritardo!! Vi riassumo dove ci eravamo lasciati, visto il tempo trascorso! Dopo una serata piuttosto movimentata, Damon va a casa di Elena deciso a confessarle i suoi loschi piani per farle ritornare l’ispirazione. La confessione non è arrivata ma finalmente è scattato il primo bacio fra quei due testoni… peccato che Elijah sia improvvisamente rientrato in casa! Che succederà adesso?
Ci sentiamo alla fine… buona lettura!


 
CAPITOLO 9 – QUELLO CHE PROVO PER TE
 
 
 
Oh I'm in trouble again, aren't I?...
'Cause you turned over there
Pulling that silent disappointment face
The one that I can't bear
***
Sono nei guai di nuovo, vero?...
Perché ti sei girata, hai tirato fuori
quel silenzioso viso di disapprovazione
Quello che non posso sopportare.
 
Mardy Bum – Arctic Monkeys
 
 
 
Elena
 
“Elena? Elena sei in casa?”
 
La voce di Elijah, alterata da una nota acuta di nervosismo, mi rimbomba prepotente nelle orecchie, accompagnata dal suono aspro delle chiavi gettate sul tavolino e delle scarpe lanciate in un angolo del soggiorno con foga eccessiva.
Nel giro di un istante mi sento catapultata nel bel mezzo di una scena del crimine insieme a Damon.
Beh… A dire il vero lui non sembra preoccuparsi più di tanto. Continua a darsi da fare sotto la mia vestaglia, incurante della catastrofe nella quale ci siamo cacciati.
Sono costretta a afferrare letteralmente il suo viso per portarlo all’altezza del mio. Quando incontro l’azzurro liquido delle sue iridi e la sua perenne faccia da schiaffi, improvvisamente non so più a cosa sia dovuto il battito impazzito del mio cuore, che sembra pulsarmi direttamente nelle orecchie. Sono indecisa: prenderlo a pugni o baciarlo di nuovo, fregandomene totalmente del mio fidanzato nell’altra stanza? Diamine, quando sono diventata una persona così orrenda?
 
“Maledizione, che ci fa qui? Non dovrebbe essere disperso nelle lande?”
 
Damon dice quelle parole a mezza voce, soffiandomele sulle labbra con una smorfia metà stizzita, metà compiaciuta.
 
“Che significa?” rispondo, ignorando il brivido che la sua vicinanza mi provoca per scostarmi il più possibile dalla sua presa e poterlo guardare meglio. Lui scuote la testa e mi agita una mano davanti al viso con noncuranza. “Lascia perdere.”
 
Per un attimo restiamo a guardarci in silenzio, increduli. Mi sento smarrita, mentre lui, molto più rilassato, si prende tutto il tempo per lasciarmi la carezza più dolce di sempre lungo il profilo del viso, cosa che non mi aiuta a ragionare e, purtroppo, non mi tranquillizza nemmeno un po’.
Almeno fino a quando il provvidenziale cigolio delle molle del divano mi indica inequivocabilmente che Elijah, non trovandomi, ci è sprofondato dentro, come è solito fare nei pochi momenti in cui non si trasforma in un tutt’uno con il suo adorato computer.
 
Perfetto, ho qualche secondo per pensare. Dannazione Elena rifletti!
 
Deve pur esserci una via d’uscita. Getto un’occhiata nervosa oltre le piantine rinsecchite che occupano il parapetto del terrazzo, soppesando mentalmente l’altezza che ci divide dal marciapiede.
Che saranno mai cinque o sei metri? Forse Damon potrebbe calarsi lungo la grondaia.
L’ho visto fare in parecchi film e non mi è sembrato troppo difficile.
 
“Non pensarci neanche! E non mi nasconderò nemmeno dentro l’armadio delle scope.” esclama lui, intercettando il mio sguardo e mimandomi un deciso no con l’indice sollevato di fronte a sé.
 
“Shhhh! Abbassa la voce.” sibilo tra i denti, portandomi un dito alle labbra. Allungo il collo per sbirciare all’interno dell’appartamento. Nessun rumore e, purtroppo, nessuna via d’uscita.
Non mi resta altra scelta che rientrare in casa e, quando il mio fidanzato mi chiederà cosa stavo facendo mezza nuda in terrazza col mio editore, gli dirò…
 
Già, cosa dovrei dirgli?
Cosa significa tutto questo?
Come sarebbe andata a finire se lui non ci avesse interrotti?
Cosa significa Damon per me? Ma soprattutto, cosa sono io per lui?
Me lo chiedo più volte, indugiando sul profilo perfetto del suo viso, sui suoi capelli arruffati e quelle labbra corrucciate, in contrasto con la scintilla maliziosa che gli riempie gli occhi.
Sembra quasi che, tutto sommato, la situazione lo stia divertendo un bel po’.
Nella mia mente svuotata si materializzano diverse parole, ma nessuna di queste mi sembra confortante: istinto, impulso momentaneo, distrazione. Katherine.
Proprio lei, la stronza che fino a poco fa, al pub, gli stava fastidiosamente appiccicata come un chewing-gum sotto la scarpa.
 
Non riesco a concentrarmi, né tantomeno trovare una risposta convincente a nessuno dei miei quesiti.
Mi limito a seguire i gesti di Damon che, incurante del mio dramma personale, si infila le mani in tasca con indifferenza, scuotendo la testa come se la sua mente fosse appena stata attraversata da un pensiero esilarante.
Un’impulsiva ondata di irritazione mi percorre come una scarica di adrenalina.
 
“È tutto così semplice per te?” sbotto, alzando la voce più del dovuto.
 
“Elena! Ma allora ci sei!”
 
La voce proveniente dal salotto mi fa sobbalzare. Merda! Damon ride sotto i baffi, per nulla intimorito. Istintivamente lo afferro per un gomito e lo trascino dentro casa col cuore in gola, decisa ad affrontare insieme a lui il chiarimento che Elijah, giustamente, pretenderà.
Metto un piede dietro l’altro con circospezione e mi stringo la vestaglia al petto come se fosse la mia unica ancora di salvezza. Entriamo in salotto di soppiatto mentre nella mia mente si prefigurano diverse possibilità, tutte apocalittiche.
Una di queste prevede Elijah che mette in pratica su Damon le sue conoscenze di boxe thailandese (sport a cui dedica almeno un paio di allenamenti a settimana per poi mimarne le mosse allo specchio, tutto fiero) e io sono costretta a medicarlo con gli spinaci surgelati che ho nel freezer, un po’ come l’ultima volta al pub. Sto già immaginando la scena quando una testa di capelli scuri ancora umidi di pioggia e un volto paonazzo si sollevano oltre la spalliera del divano.
 
“Ah, eccoti. Oh, ciao Damon.” dice indifferente, sfiorandoci con uno sguardo apatico per poi lasciarsi cadere nuovamente tra i cuscini come niente fosse. Lo vedo mentre si porta un braccio agli occhi, come se la debole luce proiettata dall’abatjour lo stesse oltremodo infastidendo.
 
Rimango in silenzio per qualche istante, attendendo una reazione. Possibile che non si sia accorto di niente? Damon sgrana gli occhi dentro i miei. Rimaniamo così, fino a quando la voce affaticata di Elijah spezza la parentesi surreale in cui siamo piombati.
 
“Stavate lavorando?”
 
In quel momento, noto il mio pc aperto sul tavolino e i fogli delle bozze segnati di rosso sparpagliati ovunque.
 
Certo! Stavamo “lavorando” in terrazza. Ho pensato di mettermi un po’ più comoda, come mi hai suggerito tu Elijah. E sai che ti dico? Scrivere nudi è un’ottima idea.
 
“Ehm… si. E poi Damon è andato in terrazza a… fumare una sigaretta!”
 
“Ne avevo proprio bisogno… abbiamo fatto gli straordinari questa sera.” mi interrompe lui, accompagnando le parole con un mezzo sorriso ironico che fortunatamente solo io posso notare.
Per un attimo temo che Elijah possa cogliere il sarcasmo in quelle parole. Invece borbotta solo un distaccato bene, bene tenendo sempre gli occhi al riparo dalla luce con l’avambraccio.
 
“Co-come è andato il viaggio?” azzardo, sempre più sconvolta.
 
“Oh, Elena. Una tragedia… a proposito, ho un mal di testa tremendo. Ti va di prepararmi un the?”
 
“Ehm… certo che si. Lo faccio subito.”
 
“Grazie tesoro. Non ti dispiace vero Damon… anzi, se vuoi favorire.” aggiunge poi. Accidenti a lui e all’ospitalità inglese.
 
“Damon se ne stava andando. Per oggi abbiamo finito.” dico seria. Calco bene l’accento sull’ultima parola e sottolineo la frase con una decisa spinta sulle spalle di quello stronzo, che, nel frattempo, non sa più come trattenere le risate.
 
“Ciao Elijah. Riposati e goditi il the. Buona serata.”
 
Un secondo dopo siamo sul pianerottolo e finalmente posso chiudere la porta dietro di me e tirare un sospiro di sollievo.
 
“Sei una pessima bugiarda. Il tuo ragazzo poi, ha un notevole spirito di osservazione. Tipico di voi scrittori, no?” considera Damon, beffardo, con un’eloquente alzata di sopracciglia.
 
“Deve essere successo qualcosa di terribile all’appuntamento con Julie Plec. Non c’è altra spiegazione.”
 
“Ma dai? Julie Plec? Quella dei vampiri?”
 
“Proprio lei. La conosci?”
 
“Ehm… si, certo. Comunque, se tu fossi mia, ci penserei due volte prima di lasciarti sola per una produttrice sovrappeso. L’ho sempre detto che il tuo uomo è un idiota, ma tu ti rifiuti di rendertene conto, Elena.” sentenzia lui.
 
Se tu fossi mia? Bastano quelle semplici parole a mandarmi nel pallone.
Per quanto tempo ho desiderato sentirgliele dire senza mai ammetterlo a me stessa?
 
Respira Elena! Non lasciarti confondere! Concentrati!
 
Fa tutto semplice la mia vocina interiore, ma, per quanto la detesti, so che ha ragione lei.
Non posso lasciarmi andare del tutto se non capisco quello che prova per me… o quello che non prova.
 
“Che significa tutto questo?”
 
Le parole che mi sfuggono dalle labbra, lo colgono del tutto impreparato.
Nel suo sguardo leggo incredulità e incertezza.
 
“Vuoi davvero che ne parliamo adesso?”
 
“Beh… si. Ti ho fatto una domanda. E vorrei una risposta.” balbetto.
 
I suoi occhi nei miei e quel nuovo sorriso complice che lo illumina mi stordiscono. Ancora.
Fa un passo verso di me e sono di nuovo in trappola, totalmente in balìa di ciò che la sua vicinanza mi scatena dentro. Un attimo dopo le sue dita sono ancora sul mio viso, distante appena un respiro dalle mie labbra. In preda all’istinto, piego la testa per approfondire quel contatto. Ho bisogno di sentirlo ancora.
 
“Beh… non ho molte risposte al momento, Elena. So solo che vorrei trascinarti di nuovo in quella stanza, strapparti i vestiti di dosso, e far capire ad Elijah quanto si è sbagliato. È un’ottima idea, non pensi?”
 
La facilità con cui le sue parole appena sussurrate incasinano i miei pensieri e stravolgono ancora una volta le mie priorità mi mette in crisi.
Ho una dannata voglia di ascoltarlo e gettare al vento le mie remore, anche se rischio di farmi molto, molto male. Un desiderio che aumenta quando la sua mano, posata contro la porta, si abbassa sulla mia spalla e poi ancora, percorrendo la curva del mio seno per poi scendere sempre più giù. Il mio respiro accelera in modo imbarazzante.
 
“Elena! Dove sei finita, amore?”
 
La voce ovattata proveniente dall’interno è come un campanello d’allarme che risuona nella mia testa annebbiata.
 
Sei davvero un’orribile, orribile persona Elena Gilbert.
 
Distolgo lo sguardo, deglutisco con fatica. “Scusami Damon. Io sono… confusa.”
 
“Elena…”
 
Devo far ricorso ad ogni briciolo di razionalità residuo per fermare le mie mani, che nel frattempo erano già scivolate lungo il suo petto, pronte a intrufolarsi sotto il suo maglione. Le sposto in fretta e furia sulla maniglia e faccio scattare la serratura.
 
“Per favore, lasciami andare. Buona notte.” gli dico, brusca, indietreggiando per poi richiudermi la porta alle spalle.
 
***
 
“Etciù!”
 
Elijah si soffia il naso e osserva la tazza fumante che gli sto porgendo, indietreggiando verso un angolo del divano per farmi posto accanto a lui.
 
“È darjeeling. Il tuo preferito.” gli dico, mentre sistemo sul tavolino di vetro che ho sgomberato dai fogli e tutto il resto una scatola di biscotti dietetici. Li ho comprati stamattina, apposta per fargli piacere.
 
“Sei un tesoro.”
 
Sorrido, augurandomi davvero di non essere così scarsa come bugiarda. Spero che non si noti quanto mi sento falsa e colpevole per essermi sbaciucchiata col mio ex capo sul balcone non appena il mio fidanzato ha girato l’angolo.
Decido che non è il momento di pensarci e tento di spostare la conversazione su un terreno sicuro. Così prendo un sorso di the dalla mia tazza, e cerco di farmi coraggio.
 
“Perché non mi racconti cosa è successo all’incontro?”
 
Lui sospira forte, si passa una mano tra i capelli con fare nervoso. Sembra proprio depresso.
 
“Non c’è stato nessun incontro. Seguendo le indicazioni che mi erano state date mi sono ritrovato nel bel mezzo del nulla. Pensa che ho dovuto camminare per ore sotto la pioggia prima di riuscire a trovare un taxi che mi riportasse indietro. Ero convinto di dare una svolta alla mia carriera e mi sono ritrovato solo, avvilito e infelice. E lo sai a cosa ho pensato per tutto il tempo?”
 
“Non lo so. Probabilmente al fatto che Rebekah è una pessima agente e dovresti licenziarla, anche se è tua sorella.” ridacchio. Mi pento subito di quella battuta. Elijah non sembra trovarla divertente. Anzi, si fa piuttosto serio quando mi leva la tazza dalle mani per posarla sul tavolino e stringere le mie dita tra le sue, ancora gelate per via di tutto il tempo trascorso fuori al freddo.
Sollevo timidamente gli occhi nei suoi, quasi impaurita dallo sguardo intenso che mi accoglie.
Cosa sta succedendo?
 
“Ho pensato a te, Elena.”
 
“A… me?” balbetto, ricevendo in risposta un mezzo sorriso, riscaldato da un nuovo, imprevisto  accento di dolcezza.
 
“Proprio a te. Mi sei mancata così tanto! Non mi importa niente dell’appuntamento. Sei TU l’unica cosa importante della mia vita. La mia sola certezza. Ti amo Elena.”
 
 
Damon
 
Per la decima volta di fila, un maledetto raggio di sole mi colpisce dritto in faccia.
Impreco a bassa voce, costretto a rotolare con fatica tra le coperte per ripararmi il viso.
È tutto inutile: sono ufficialmente sveglio e, come se non bastasse, ho un mal di testa lancinante. Non senza un certo sforzo, mi porto a sedere nel bel mezzo del groviglio di lenzuola e vestiti che ricopre il mio letto e mi sfrego gli occhi con i palmi aperti. Allungo una mano sul comodino, afferrando la bottiglia di whiskey che mi ha tenuto compagnia in questa notte insonne, ormai completamente svuotata.
 
“Buon giorno anche a te.” le dico, rigirandomela tra le mani. Mi sento già abbastanza coglione, ma, per completare l’opera, decido di prendere il telefono e rileggere per l’ennesima volta il messaggio che Elena mi ha spedito qualche ora fa. Come se non lo conoscessi già a memoria.
 
Ieri sera è stato un terribile errore che non si ripeterà mai più. Io amo Elijah. Lui mi rende felice. Mi dispiace.
 
Un errore.
 
Addirittura peggiore di una vita insieme a quel cerebroleso di Elijah Mikaelson.
Perché lui la rende felice.
Eppure terribile non è l’aggettivo che userei per definire quello che è successo tra noi ieri sera, su quel balcone e anche dopo. Anzi, ho avuto la sensazione che Elena fosse presente quanto me.
 
Allora perché? Cosa è cambiato in lei nel giro di poche ore? E soprattutto, come diavolo è riuscita a fottermi il cervello in questo modo?
Proprio a me! Damon Salvatore, l’editore senza scrupoli che fa piangere tutte le donne.
L’uomo che non deve chiedere mai, disposto a tutto per farle terminare il dannato romanzo, perfino rovinarle la vita che con tanta fatica è riuscita a costruirsi.
Come mi sono ridotto? Me lo chiedo più di una volta, scrutando il mio riflesso nello specchio del bagno con le mani aggrappate al bordo del lavandino.
 
Dopo una doccia, appositamente gelata per togliermi di dosso l’odore di Elena e la frustrazione sessuale che mi porto dietro da ieri sera, vengo attirato in cucina da un provvidenziale aroma di caffè appena fatto.
 
“’giorno Stef.” mormoro, distratto.
 
“Ciao capo.”
 
Sono costretto a sbattere le palpebre un paio di volte per riuscire a mettere a fuoco la figura di Caroline che mi dà le spalle mentre armeggia con gli sportelli del nostro cucinino.
Non dico una parola quando mi porge una tazza fumante con un sorriso radioso per poi dissolversi così come è venuta: una nuvola di capelli biondi e una camicia a scacchi, quella sì terribile, che ho visto fin troppe volte addosso a mio fratello.
Sto ancora fissando la porta aperta quando Stefan compare. Noto con stupore che è spettinato e piuttosto trafelato, ma per motivi molto diversi rispetto ai miei. Che sta succedendo? Per caso il mondo si è capovolto e qualcuno si è dimenticato di avvisarmi?
 
“Posso spiegarti.” dice subito, mettendo le mani avanti.
 
“Non voglio sapere niente. Buon per te. Se i risultati sono questi, le sbronze ti fanno decisamente bene fratello.”
 
“Veramente io parlavo della tua macchina…”
 
“Ah quella.” commento, asettico. Me ne ero proprio dimenticato.
 
Lo seguo con indifferenza mentre afferra una sedia per piazzarsi davanti a me. Quando mi scruta con gli occhi ridotti a due sospettose fessure, ho la certezza che gli spiriti di Sherlock Holmes e Sigmund Freud si siano definitivamente impossessati di lui, creando un mix inquietante e dannatamente pericoloso.
 
“Si può sapere che ti prende Damon?”
 
Non so se sia per la notte insonne, per quel fottuto messaggio che continua a venirmi in mente o perché il mio cervello è andato definitivamente a puttane. Fatto sta che sputo il rospo e gli racconto tutto, partendo da Mr. G, passando per Disneyland e terminando la mia confessione sul pianerottolo di Elena e lei che mi sbatte la porta in faccia per poi liquidarmi con un sms del cazzo. Stefan sta ad ascoltare senza interrompermi.
 
“Allora Stef? Che ne pensi?”
 
In risposta ricevo un’occhiata sconsolata e piena di commiserazione, proprio come se fossi un bambino di cinque anni.
 
“Oh, andiamo. Ti aspettavi per caso che Elena avesse una reazione diversa?”
 
“Chi io? Dopo aver sabotato il mio stesso piano, lasciato la mia ragazza e dopo averle fatto capire che sono pazzo di lei? Beh a dire la verità… SI!
 
“Fatto capire? Tu? Il massimo che può aver intuito dal tuo atteggiamento è che avevi voglia di fartela sul terrazzo. Sei la persona più testarda e orgogliosa che io conosca, e sei talmente cieco da non renderti conto che Elena è semplicemente spaventata. È così ovvio! È innamorata di te e ha paura! Non credi che una ragazza che ha vissuto i suoi traumi si meriti un po’ più di chiarezza? Perché non le dici una volta per tutte quello che provi per lei?”
 
“Semplice! Perché non lo so!” dico, alzandomi dal tavolo per riempire il piccolo innaffiatoio accanto al lavandino e dare da bere al bonsai, facendo bene attenzione a bagnare per bene la terra attorno alle radici, ma senza esagerare. Le parole di mio fratello si depositano poco alla volta dentro di me, ma senza convincermi del tutto.
 
“A proposito,” prosegue lui, schiarendosi la voce mentre appoggia le tazze ormai vuote sul ripiano della cucina,  “ho parlato con Caroline… beh sai… stanotte. La situazione è un disastro. Se non facciamo qualcosa saremo costretti a dichiarare fallimento e chiudere definitivamente la Tristesse. E adesso che hai rotto con Katherine non credo che tu abbia più chance di iniziare a scrivere per Cavallo Magazine, perciò…”
 
“Chissenefrega Stefan. Se per Elena terminare il romanzo significa essere infelice, allora non è quello che voglio. Chiuderò la Tristesse. Tanto è chiaro, come editore sono un disastro e… perché mi guardi così adesso?” dico, notando le sue labbra piegarsi in una smorfia divertita.
 
“E così non lo sai.”
 
“Di che stai parlando ora, Sherlock?” sbuffo, alzando gli occhi al cielo.
 
“Elementare Watson. Di quello che provi per Elena”
 
 
Elena
 
“Amore mi porteresti il plaid? Quello rosso! A furia di stare al pc mi sto congelando le gambe. Mi sa che mi sta venendo l’influenza.”
 
“Arrivo subito!” esclamo. Un secondo dopo sto già rovistando nell’armadio alla ricerca della coperta che Elijah mi ha chiesto. Lo faccio volentieri. Dopotutto, ha detto che mi ama. Mi ama!
E naturalmente anche io lo amo. Come potrei non amarlo? È così… dolce.
Sorrido quando gli appoggio la coperta sulle ginocchia con cura e mi lascia un bacio tra i capelli in segno di ringraziamento.
Ho tutto quello che voglio. Una persona che tiene a me e non ha paura di dimostrarmelo. Non ho certo bisogno di editori lunatici ed egocentrici che cambiano idea come una bandieruola al vento.
 
Sono felice, fottutamente felice. Perfino quando mi siedo di fronte alla sua postazione e, quando apro il computer, la pagina bianca e l’immancabile scritta “Capitolo trentasette” mi compaiono davanti.
Il blocco non se ne è ancora andato, ma è solo questione di tempo. Davanti a me il mio fidanzato batte sui tasti come un ossesso. La delusione di ieri non gli ha certo tolto la creatività.
 
“Elena, tesoro. Sai cosa ci vorrebbe adesso?”
 
“Non me lo dire. Una bella tazza di the. L’ho già preparato. È sul fornello. C’è anche una torta, senza uova e senza glutine, come piace a te.” ribatto, strizzandogli l’occhio. Che male c’è se gli concedo qualche attenzione in più? Del resto, ho qualcosa da farmi perdonare.
 
“Sei fantastica. Vado a prenderlo.”
 
Lo guardo allontanarsi ed è in quel momento che un lampo di genio mi attraversa la mente.
Lo so, lo so. Elijah mi ha promesso che mi farà leggere la sua sceneggiatura quando sarà terminata. Ma che sarà mai una sbirciatina per rubare qualche trucco dal maestro? Dopotutto lui ha molta più esperienza di me e di sicuro ho tutto da imparare dal suo lavoro.
Così, bene attenta a non far rumore mentre scosto la sedia, mi avvicino allo schermo del suo computer dove trovo un documento aperto, scritto fitto fitto.
Quando leggo le prime righe, non riesco a credere ai miei occhi.
 
“Eccomi qui Elena. Guarda, ti ho versato una tazza di… ma che stai facendo? Perché stai piangendo?”
 
“Non posso credere che tu l’abbia fatto davvero. Il tuo romanzo è la copia di Lieto Fine. La brutta copia, aggiungerei. Come hai potuto farmi questo Elijah?”
 
 
Damon
 
“Guida per principianti al sesso nella vita dopo la morte. Sul serio?”
 
“Guarda qua.” dico, sventolando sotto il naso di Stefan il plico di carta ricevuto per posta da un improbabile autore prima di gettarlo nel sacco dei rifiuti insieme agli altri.
Il mondo è pieno zeppo di scrittori imbarazzanti e, a quanto pare, una buona parte di loro ha provato ad avere una chance alla Tristesse Books.
Quasi mi dispiace dover chiudere la baracca e non poter più leggere perle come questa, ma, a quanto pare, è così che andrà a finire.
 
“Per quello che vale, devo proprio dirtelo Damon. Sei un editore pieno di talento.”
 
Sentirmi fare un complimento da mio fratello è così insolito che sono costretto a fermarmi e alzare gli occhi dalla pila di libri che sto per buttare in uno scatolone.
 
“Grazie Stef.”
 
“Non c’è di che. Hai solo un difetto.” aggiunge, giusto per non smentirsi.
 
“Ah si? E quale sarebbe?”
 
“Pubblichi solo gli scrittori che ami.”
 
Ci risiamo. Non si smentisce proprio mai, ma per una volta sono costretto a dargli ragione.
Io amo Elena.
E non solo perché rappresenta l’unico successo della mia carriera. Ma anche perché imbranata, incasinata, complicata e pazza, esattamente come me. Solo che adesso è troppo tardi. Chi sono io per distruggere la sua felicità? Poco importa se l’ha trovata con un coglione come Mikaelson. Per la prima volta dopo tanto tempo è felice e questo dovrebbe bastarmi.
La amo abbastanza da lasciarla andare. Oppure no?
 
“Vado in cucina. Prendo qualcosa da bere.”
 
“Ma Damon, sono solo le undici del  mattino.”    
 
“Che palle Stefan, non formalizzarti come al solito. Dobbiamo brindare al mio fallimento no?”
 
Senza badare alle sue prediche, mi dirigo spedito verso il cucinino con la speranza di trovarci qualcosa di forte abbastanza da aggiustare anche solo un po’ il mio pessimo umore.
Ma quando, entrando, mi trovo davanti una massa di capelli scuri e scompigliati, per un attimo rimango senza fiato.
 
“Elena. Sei qui.” mormoro, impietrito. Da una parte ho quasi paura di muovermi e dire o fare qualcosa di dannatamente sbagliato, dall’altra vorrei rovesciarle addosso tutto quello che ho scoperto troppo tardi riguardo ai miei sentimenti per lei.
 
“Si, sono qui.” risponde. Continua a darmi le spalle con le mani strette al bordo del lavandino e tira su col naso come se fosse sul punto di piangere. “Ero disperata, non sapevo dove altro andare. E così ho pensato… a te.”
 
Le sue parole mi incoraggiano a fare un passo in sua direzione. Allungo una mano per sfiorare la sua spalla, meravigliandomi io stesso della mia esitazione.
Sto per toccarla quando si volta di scatto.
Mi accorgo subito che qualcosa non va.
 
È incazzata. Molto, molto incazzata.
Non ho bisogno di chiederle il motivo: mi basta vedere la piantina che stringe tra le mani per saperlo.
 
“Sei un bastardo. Ti odio.” mi urla contro, per poi infilare la porta e scomparire di nuovo dalla mia vita. Questa volta per sempre.
 
 
 
 
 
*********
Carissime,
non vi tedio con tutti i motivi del mio ritardo. È un periodo pieno, ho la testa altrove e il fisico non collabora. Ma non vi ho dimenticate.
Sarò breve: spero che abbiate gradito il capitolo anche se un po’ diverso dai precedenti.
Grazie mille per le bellissime recensioni allo scorso e scusate ancora se sono così lenta, ma sappiate che detesto lasciare le cose a metà quindi siate fiduciose anche se non mi vedete comparire per lungo tempo.
Approfitto di questo spazio per salutare una di voi: tu sai chi sei… se mi leggi, please, batti un colpo… mai far preoccupare una povera disgraziata al nono mese di gravidanza: potrebbe imparanoiarsi non poco! E poi I miss you so so much :’(
 
Baci a tutte
Chiara

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Capitolo 10
*** EPILOGO – Elena Gilbert, professione scrittrice ***


EPILOGO – Elena Gilbert, professione scrittrice
 
 
E così vorresti fare lo scrittore…
 
… a meno che non ti esca
dall'anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia
o al suicidio o all'omicidio,
non farlo.
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da sé
e continuerà
finché tu morirai o morirà in te.
non c'è altro modo.
e non c'è mai stato.
 
 Charles Bukowski
 
 
 
Damon
 
Per la terza volta in meno di mezz’ora la nonnetta incazzata spunta sul pianerottolo, guardandomi come se fossi sul punto di scassinare la porta con un piede di porco.
Mentre blatera parole incomprensibili, continua ad agitarmi la scopa sotto il naso con fare poco amichevole, ignara del fatto che, se volessi intrufolarmi di nascosto in questa casa, saprei esattamente come fare. Dopotutto l’ho già fatto, più di una volta, ma la mia carriera come topo d’appartamento è senza ombra di dubbio terminata dopo quell’episodio con Stefan.
 
“Calma, calma. Metta giù quell’affare, ok? Vengo in pace!” mormoro scocciato, alzando gli occhi al cielo e le mani in segno di resa.
 
Elena era solita descrivere la sua vicina ungherese con affermazioni del tipo “è tanto cara!” e “una signora deliziosa”. Tipico buonismo alla Gilbert.
In ogni caso è comprensibile che la cara vecchietta non sia del tutto convinta delle mie buone intenzioni. Sono qui da un pezzo, a fissare ogni dannata crepa della porta di casa di Elena e sentirmi un coglione coi fiocchi, mentre reggo tra le mani il sacchetto di plastica dove ho raccolto tutto ciò che mi è rimasto di lei: un mucchietto scomposto di terra e radici che ho trovato sui gradini dell’ingresso della Tristesse.
Riesco ad immaginarmi alla perfezione la scena: Elena che scaraventa il vaso per terra imprecando contro di me, per poi volatilizzarsi nel nulla senza lasciarmi il tempo di raggiungerla e spiegare.
Già, spiegare. Spiegare che cosa poi?
Nell’ordine: che si, sono entrato in casa sua come un cazzo di ladro seminando malinconia, ho finto che la sua adorata pianta si fosse suicidata, ho cercato di sabotarle il rapporto fresco di riconciliazione con il padre e quello col fidanzato giusto perché mi ero messo in testa che renderla infelice potesse farle terminare il romanzo, salvando la Tristesse Books dai debiti e il sottoscritto dal fallimento personale e professionale.
Ok, mi pento di ogni cosa.
Beh, quasi.
Salverei giusto la parte che riguarda Mikaelson. Solo un patetico stronzo come lui poteva credere che Julie Plec – si, quella dei vampiri – potesse interessarsi alle sue sceneggiature da quattro soldi. Stefan l’ha pensata proprio bella, non c’è che dire.
Già, mio fratello. Lo stesso che, poco fa, mentre raccoglievo i cocci dall’asfalto, stava a guardare in silenzio, ricordandomi tutti i miei sbagli con un muto ma ugualmente incisivo “te l’avevo detto” stampato a caratteri cubitali su quella faccetta da bravo ragazzo.
 
“Vedi di piantarla Stef.” l’ho minacciato, mentre già pregustavo la sbronza mattutina con cui avevo intenzione di lobotomizzarmi e annegare la mia ultima conversazione con Elena.
 
È in quel momento che ho intercettato gli occhi impietositi di Barbie, lì, arrampicata sul braccio di mio fratello come un koala su un ramo di eucalipto.
Mi sono sentito un perfetto idiota.
Si perché il piccolo Salvatore, a differenza mia, ce l’ha fatta.
Ha superato le sue paure.
Lui ha la ragazza. Io ho un bonsai in fin di vita.
Caroline, intuitiva come solo una donna impicciona può essere, deve aver notato il mio momentaneo stato confusionale.
 
“Si può sapere cosa aspetti capo?” mi ha incitato con aria saccente, tirandomi per un braccio e sistemandomi la giacca “Corri da lei! Muoviti!”
 
Insomma, eccomi qua.
A fissare questa stramaledetta porta perché non riesco a trovare le parole per scusarmi con Elena. Il che è strano, dato che io con le parole in teoria dovrei saperci fare.
Il suo sguardo di poco fa mi ritorna in mente, insieme a quella fastidiosa sensazione alla bocca dello stomaco che qualcuno potrebbe definire senso di colpa.
Le sue lacrime trattenute a stento, le ultime parole che mi ha detto… beh, non proprio le ultime, quelle subito prima di stronzo, ti odio e tutto il resto.
 
“Ero disperata, non sapevo dove altro andare.”
 
È qui il punto. C’è qualcosa che io non so. Un minuscolo appiglio a cui aggrapparmi, il motivo che l’ha spinta a venire a cercarmi nonostante poco prima mi avesse liquidato con un sms del cazzo, dicendomi di voler stare per il resto della sua vita con il suo mediocre sceneggiatore, vivere con lui felice e contenta e bla bla bla.
Stronzate.
Suppongo che sia giunto il momento di fare qualcosa.
Potrei semplicemente rompere gli indugi ed entrare, usando la solita, benedetta chiave di riserva nascosta in cima allo stipite. Ma quando sfioro la maniglia dorata soppesando quell’eventualità, decido che no, non è così che voglio che vada. Mi piacerebbe fare le cose per bene e che per una volta fosse lei a darmi il permesso di farmi spazio nella sua vita.
 
Busso piano.
 
Silenzio.
 
“Elena… Elena sei in casa?”
 
Ancora silenzio.
 
Eppure mi sembra di sentire qualcosa, un impercettibile fruscio ad annunciarmi la sua presenza. Premo ancora la mano contro il legno bianco. Se la conosco un po’ se ne sta dall’altra parte, a dannarsi pur di non darmi la soddisfazione di rispondere.
Se ha deciso di giocare la tattica del silenzio per mandarmi fuori di testa, si sbaglia di grosso.
Di certo non mi impedirà di dirle quello che penso.
 
“Sono preoccupato per te, Elena. Apri questa porta.” insisto, cercando di sembrare convincente.
 
Inarco un sopracciglio, aspettandomi una scarica di insulti o, peggio, il lancio in pieno viso di qualche oggetto particolarmente contundente, ma nulla di tutto questo accade.
 
“E così ho pensato… a te.”
 
“Dannazione!” impreco, vincendo la tentazione di colpire l’uscio con un pugno.
 
Poi appoggio l’orecchio contro la superficie fredda e lo sento. Un suono ovattato di passi che si avvicinano cauti per poi bloccarsi. Decido di interpretarlo come un segnale positivo. Che almeno abbia deciso di ascoltarmi?
 
“Lo so che sei lì. Perciò ora, ti prego, stammi a sentire. È difficile da credere, me ne rendo conto, ma volevo aiutarti. Voglio dire, dicevi di essere così felice ma non riuscivi più a scrivere. Così ho pensato che se ti avessi resa un po’ più… beh… diciamo, malinconica, avresti terminato il romanzo.”
 
Mentre snocciolo le mie assurde verità, ho quasi l’impressione di poter sentire il calore del suo corpo farsi sempre più vicino e attraversare il muro che ci divide. Allora ricompaiono gli stramaledetti ricordi di tutte quelle volte che le nostre menti sembravano fondersi in una sola.
Con lei, mentre correggevamo Lieto Fine, ho litigato come con nessun altro: le peggiori discussioni e le migliori notti in bianco della mia vita. E penso che sia inutile barricarsi dietro fottute giustificazioni, che se fossimo stati un po’ più sinceri e un po’ meno noi, se lei fosse stata meno cocciuta e io non avessi avuto la sensibilità di una scimmia, forse adesso non starei qui a parlare con una porta chiusa rischiando di farmi prendere a calci in culo da lei o – peggio – dalla sua vicina coi baffi.
 
“Sai che ti dico Elena? Non importa se non vuoi perdonarmi. Me lo merito. E non mi importa più nemmeno del libro, tanto lo so che hai firmato con la ABP. Al diavolo il romanzo e la Tristesse. Ho deciso di chiudere. Tanto come editore sono un disastro, l’unica cosa degna di nota nella mia carriera sei stata tu… E sono disposto a tutto. Ti comprerò un altro bonsai, scriverò di cavalli per vivere, anche di dromedari se sarà necessario…”
 
Silenzio.
 
“Solo dimmelo in faccia che starai bene. Dimmi che sei… felice, davvero, davvero felice e ti lascerò in pace.”
 
Un sospiro. Il rumore di qualcosa che si trascina sul pavimento.
La serratura scatta con lentezza estenuante e io mi ritrovo a sistemarmi i capelli, controllando il mio riflesso sul vetro della finestra che si affaccia sul pianerottolo.
Coglione. Per caso l’ho già detto?
 
“Molto commovente. Complimenti, Damon. Una dichiarazione degna della scena di un film.”
 
Non è esattamente la reazione che mi aspettavo.
Ma quel che è peggio, non è la persona che mi aspettavo.
Il buon vecchio Elijah, lo sceneggiatore pirla che ha donato ad Elena gioia e felicità a palate, se ne sta sulla porta con una faccia asettica, gli occhi che mi squadrano diffidenti.
Realizzare di aver appena aperto il mio cuore a questo tizio con i capelli alla playmobil mi fa venire una gran voglia di prenderlo a schiaffi.
 
“Che fai, parti per una vacanza?” chiedo invece, indicando il grosso trolley su cui appoggia la mano.
 
Oh no, aspetta… fammi indovinare. Qualche produttrice famosa ti ha convocato per un colloquio!
 
Con uno sforzo sovraumano tengo per me la battuta, ma non gli risparmio un sorrisetto ironico a cui lui risponde con un’occhiata truce.
 
“Veramente sto traslocando. A giudicare dal tuo discorsetto di poco fa, immagino sarai lieto di sapere che io ed Elena ci siamo lasciati.” mi informa, in tono del tutto piatto.
 
“Ah. E… perché?”
 
“Differenze di vedute. Diciamo che non ha gradito che per la mia ultima sceneggiatura io mi sia vagamente ispirato a Lieto Fine. Credevo che ne sarebbe stata come minimo entusiasta, invece… ah, ovviamente non concepiva che avessi reso il tutto un po’ meno drammatico e un po’ più divertente, eliminando tutte quelle pippe mentali che… beh, lo sai no?” risponde, senza perdere l’occasione di caricare di sarcasmo l’ultima parte della frase.
 
Ok, fermi tutti. Ero certo che questa patetica testa di cazzo stesse prendendo per il culo Elena, ma addirittura scopiazzarle il romanzo!
È troppo perfino per uno stronzo di fama mondiale come me!
In un attimo tutti i tasselli ritornano al proprio posto. Elena, colei che per un semplice titolo cambiato mi ha giurato odio eterno, doveva essere sconvolta quando si è presentata a casa mia, e il fatto di trovare le prove delle mie cospirazioni nei suoi confronti deve averle dato la mazzata finale.
Il mio senso di colpa si trasforma rapidamente in una voragine senza via d’uscita. Stefan sarebbe fiero di me in questo momento.
 
“Dov’è lei ora?” chiedo, perentorio.
 
“Immagino che stia sguazzando nell’autocommiserazione. Dopotutto le riesce bene.” commenta piatto, controllandosi le unghie con aria disinteressata.
 
“Tu. Sei. Un bastardo.” scandisco, fulminandolo con uno sguardo di ghiaccio, per poi allungare un passo verso di lui con tutta l’intenzione di togliergli dalla faccia quell’aria di superiorità.
Ma lui è più veloce di me e con uno scatto fulmineo ha già chiamato l’ascensore. Le porte si aprono con il loro tipico dlin dlon  e lui si infila dentro in men che non si dica, col suo aplomb da lord inglese.
 
“Non ti conviene avere a che fare con me Damon. Sappi che pratico boxe thailandese. E ora ti saluto. Buona fortuna.”
 
Elijah scompare dalla mia vista. Per un secondo rimango spiazzato, ma ora come ora le mie priorità sono altre. Dove accidenti si sarà cacciata Elena?
 
“Maledizione!” esclamo stizzito, lanciando a terra i resti del bonsai che tenevo ancora in mano. Seguo la traiettoria del sacchetto che finisce proprio in cima alle scale.
 
“Che diavolo fai? Così lo ammazzerai del tutto!” mi sento rimproverare, mentre una mano che conosco fin troppo bene solleva con cautela la busta di plastica.
 
È Elena, con la sua solita borsa di tela piena di fogli e gli occhi gonfi dietro i grandi occhiali da vista che, a quanto ricordo, usa per lavorare. La osservo per qualche istante per valutare il suo livello di incazzatura nei miei confronti, ma sul suo viso è dipinta un’espressione a dir poco illeggibile. Faccio un passo verso di lei, ma la mia solita disinvoltura è come scomparsa.
 
“Elena io…”
 
“Sai, torno dalla biblioteca.” mi interrompe, “Sarai lieto di sapere che ero davvero, davvero depressa. Elijah mi ha copiato Lieto Fine trasformandolo in una specie di cinepanettone.”
 
“Ho saputo”
 
“E poi tu…” aggiunge, con tono di rimprovero.
 
“Posso spiegarti…”
 
“Ma la cosa incredibile” mi blocca, mettendo una mano davanti a sé “è che mi è venuta una gran voglia di scrivere. Più che voglia, lo definirei un bisogno viscerale. E così…”
 
Con un gesto plateale, estrae dalla sua borsa un mucchio di fogli stropicciati che mi piazza sotto il naso con una certa soddisfazione.
 
“Ho terminato il romanzo. Avevi ragione Damon, a quanto pare avevo giusto bisogno di un po’ di malinconia per sbloccarmi.” esclama, concludendo la frase con un sorrisetto sarcastico.
 
Rimango imbambolato come un ebete, clamorosamente senza parole. Elena però non sembra arrabbiata, anzi. È piuttosto divertita. Le punto contro un indice accusatorio.
 
“Un momento! Da quanto tempo sei qui?”
 
“Uhm. Abbastanza.” risponde, caustica.
 
“E… quindi?”
 
“Quindi penso sempre che tu sia un bastardo, cinico, egoista e...” dice tutto d’un fiato, elencando i miei difetti sulle dita della mano. Mentre parla, però, l’espressione sul suo viso si addolcisce poco a poco. Restiamo a fissarci per qualche secondo, senza aggiungere nient’altro, fino a che lei non distoglie lo sguardo, quasi intimidita, e si sposta i capelli dietro l’orecchio con fare impacciato. È dannatamente bella e, quando i suoi occhi tornano nei miei, il suo viso è di nuovo sereno. Forse felice.
 
 
 
Elena
 
“…e vorrei dedicare la mia vittoria come autrice dell’anno ai miei genitori. A mio padre, il mio più accanito sostenitore. E mia madre. Ovunque tu sia spero tu sia fiera di me. Grazie.”
 
La platea mi applaude e io mi allontano con fierezza dal palco, cercando di non incespicare sui tacchi. Certe cose non cambiano mai.
 
Più tardi, al party post cerimonia, anche Caroline si complimenta con me. “Quello si che era un discorso! Niente a che vedere con la tua prima volta agli English Fiction Awards!” mi dice, distribuendo sorrisi smaglianti e agitando i boccoli biondi a destra e a sinistra. È favolosa nel suo luccicante abito bianco a sirena, ma anche Stefan, accanto a lei, fa la sua figura.
 
“Care ha ragione, sei diventata molto più sicura di te.” pontifica lui, con l’atteggiamento di uno che la sa molto lunga. E in effetti, se lo dice lui, posso esserne sicura. Ha appena pubblicato il suo primo saggio: “Psicologia applicata, casi pratici.”
 
Un volume targato Tristesse, ovviamente.
 
Si, è ufficiale: quella casa editrice sgangherata è sopravvissuta alla tempesta e Damon Salvatore non è diventato il caporedattore di Cavallo Magazine. E questo non ha nulla a che vedere con il fatto che le vendite del mio romanzo Confessioni di una mente contorta siano andate alla grande, addirittura meglio di quelle di Lieto Fine.
Semplicemente, Care ha deciso di investire qualche soldo su Damon. Si sono messi in società: Barbie macchinetta, come la chiama lui, si occupa di far quadrare i conti, mentre a lui è rimasta la parte creativa. Le relazioni esterne sono compito di Stefan, decisamente più diplomatico del fratello.
 
Quando i piccioncini si allontanano per salutare qualche collega, decido di fare un giro per la sala piena di gente. Tra una tartina e un flûte di champagne, incrocio lo sguardo di Mr. Spencer, immancabilmente incorniciato da un paio di occhialetti rossi.
Il proprietario della casa editrice ABP mi fa un cenno di saluto con la mano, che io ricambio con un sorriso imbarazzato. Ancora non si è fatto una ragione del perché io non sia entrata a far parte della scuderia dei suoi autori.
Si perché su una cosa Damon si era sbagliato: io non ho mai firmato con la ABP.
Proprio non ce l’ho fatta, quella mattina di tanto tempo fa. Alla fine sono stata colta da una specie di attacco di panico e me la sono svignata inventandomi la scusa di una zia malata o qualcosa del genere. Credo che Mr. Spencer sia ancora convinto che io sia matta da legare per aver preferito a lui l’egocentrico, per nulla professionale, infantile e stronzo Damon Salvatore.
 
“Eccoti qui Gilbert. Finalmente ti ho trovata.”
 
Bello da togliere il fiato, dannatamente sexy e sicuro di sé nell’elegantissimo smoking nero pescato chissà dove, il mio editore tiene gli occhi fissi su di me e mi saluta con un immancabile sorriso sbilenco.
 
“Credevo che tu non frequentassi questo genere di feste.” lo stuzzico.
 
“In effetti hai ragione. Ma non volevo perdermi la premiazione della mia migliore autrice” bisbiglia, attirandomi a sé per un polso e toccandomi casualmente un fianco con un movimento sicuro e deciso “e poi…” aggiunge, sfiorandomi l’orecchio con le labbra e accarezzandomi leggermente la schiena con le dita, “penso che dovremmo discutere di una cosa.”
 
Damon lascia la presa sul mio polso lasciandomi leggermente insoddisfatta ed estrae da una tasca un foglio spiegazzato, che mi porge subito dopo.
 
“Il nuovo contratto con la Tristesse Books? Seriamente?!? Vuoi parlarne adesso?”
 
“Chi ha tempo non aspetti tempo. Non vorrei distrarmi e rischiare che qualche altro editore ti porti via da me. Ovviamente il mio è puro interesse professionale.”
 
“Ovviamente.” rispondo, guardandolo negli occhi che, sotto le luci della sala, sembrano più azzurri e luminosi del solito.
 
“Ok, facciamola finita. Altri tre libri e non se ne parla più, va bene?”
 
“Stai scherzando? Posso sopportarti al massimo per un altro romanzo.” Rispondo. Poi straccio il foglio e faccio svolazzare i coriandoli di carta di fronte a me. Damon scoppia a ridere, io lo seguo a ruota.
 
“Che ne dici di andare a casa Elena?”
 
“Ma la festa è appena cominciata!” protesto.
 
Lui mi prende sottobraccio. “Hai presente la bozza che mi hai lasciato sulla scrivania? Ho un sacco di correzioni da farti.” sorride, afferrando con nonchalance una bottiglia di champagne da un tavolino poco distante.
 
 
 

The (happy) end

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Ciao a tutte! Se siete arrivate qui vuol dire che vi siete raccapezzate con la storia, anche se non la aggiornavo da mesi. Io stessa ho dovuto rileggerla per riprendere mano con i personaggi. è stato un periodo frenetico, tra la nanetta e un lavoro che non sempre va come vorrei, ma mai  e poi mai l'avrei lasciata incompiuta.
Per il resto, il mio animo di fanwriter è rimasto intatto, quindi.... stay tuned!
Grazie a chiunque abbia letto, seguito, preferito la storia. Siete preziose! 
Vi abbraccio forte
Sempre vostra, 
Chiara

 

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