Broken cup

di ilovebooks3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** “The one and only, from the CBI” (T. Lisbon) ***
Capitolo 2: *** “You kept the pieces” (P. Jane) ***



Capitolo 1
*** “The one and only, from the CBI” (T. Lisbon) ***


“The one and only, from the CBI” (T. Lisbon)
 



Ho preparato tutto.
L’airstream addobbato con le luci colorate sembra addirittura accogliente; il tavolino è traballante ma romantico; lo spumante sembra ottimo visto che il suo profumo mi sta già facendo girare la testa (o forse è colpa del profumo di un certo mentalista che oggi compie gli anni?); il cupcake con la candelina è la cosa più simile a una torta che ho avuto il tempo di preparare e che lui potrà accettare senza ombre; il pacchetto regalo con i cuoricini è sdolcinato, lo so, ma per una volta voglio essere sdolcinata. Ho tutto il diritto di esserlo.
Una sdolcinata donna innamorata.
Ho preparato tutto, ma senza esagerare.
Lo so che da quel maledetto giorno Jane odia le ricorrenze e tutto ciò che scandisce il tempo che passa; lo so che non ha voglia di festeggiare il suo compleanno, ma io ne ho, e molta.
Sorride. Forse anche lui, quest’anno, ne ha un po’. O forse lo fa per compiacermi. Non importa.
Di una cosa sono sicura, anzi di due.
Voglio stare con lui: non penso sia un reato e non me ne vergogno.
E voglio anche che questa serata sia speciale. Ma senza esagerare.
Patrick sembra sereno, quasi contento della mia iniziativa.
Contento, forse, è una parola grossa.
È inevitabile che i suoi pensieri, e i miei, stiano silenziosamente correndo ai suoi compleanni trascorsi con Angela e Charlotte: che sono stati troppo pochi.
Ma vorrei tanto che questo fosse un po’ meno triste dei suoi ultimi dodici.
Sempre senza esagerare. Non sarebbe giusto.
Durante la cena ci siamo detti molte cose, abbiamo scherzato, siamo stati in silenzio a sfiorarci e sorriderci.
Io ho sempre odiato i silenzi, mi mettono a disagio.
Con Patrick è diverso, noi ci parliamo anche se stiamo zitti. È un silenzio confortevole e incredibilmente naturale, il nostro. È sempre stato così, anche prima.
Il mio affascinante vecchietto ha appena soffiato sulla candelina.
Sarei curiosa di sapere quale desiderio ha espresso, ma non glielo chiederò. Per delicatezza, ma soprattutto perché se lo dici ad alta voce non si avvera.
Tiene gli occhi bassi, sembra emozionato. Probabilmente è un desiderio importante.
Una strana e piacevole atmosfera ci avvolge.
Vorrei abbracciarlo e tenerlo stretto a me. Non lo faccio perché non so se gli farebbe piacere, ma anche perché mi devo ancora abituare alle mie insolite esternazioni di affetto. Ci sarà tempo per farlo.
Sta per aprire il pacchetto. Immagino che abbia già indovinato da ore di che cosa si tratta. Anzi, ne sono sicura.
Sorride, imbarazzato. Come me.
Lo studia con attenzione e, forse, un po’ di paura.
Anch’io, in realtà, ne ho.
Temo la sua reazione, e temo anche la mia. In quella scatola rossa c’è qualcosa che sta per mettere a nudo la mia anima, ma, proprio per questo, sono elettrizzata come non mai.
Impavida, lo incito ad aprirla.
Finalmente si arrende, e, mentre lo fa, diventa serio.
Poi riconosco un lampo di sorpresa nei suoi occhi.
Forse no, non aveva indovinato.
Prende in mano la tazza azzurra che per sei anni è stata sua inseparabile compagna.
«Lisbon», si limita a dire. La sua voce è carica di emozioni, non serve essere un mentalista per accorgersene (anche se, ultimamente, sono diventata piuttosto esperta in materia).
«L’unica e sola. Dal CBI», rispondo alla sua implicita domanda.
«Hai tenuto i pezzi». E questa no, non è una domanda.
Già. È il motivo per cui sono imbarazzata. È questa la dichiarazione che, a parole, non sono riuscita ancora a pronunciare.
Una dichiarazione retroattiva. Perché sì, ho tenuto i pezzi. O meglio, li avevo tenuti due anni fa; cioè prima.
E non l’avevo fatto solo per lui. L’avevo fatto anche per me.
Quando la squadra di Abbot aveva distrutto il CBI e quella tazza, anche il mio cuore era andato in frantumi. Quel piccolo oggetto di ceramica significava molto per entrambi. Non potevo lasciarlo lì, per terra, in mille pezzi. Era la tazza preferita di Jane. E si sa quanto Jane è attaccato alle sue abitudini. È stata la routine a farlo andare avanti.
Tutte le mattine, cascasse il mondo, lo trovavo nel cucinino del CBI a bere tè. Le altre tazze non andavano bene, lui voleva la sua, quella che nessun altro a parte lui poteva toccare. Mi sono chiesta spesso perché avesse scelto proprio quella, ma i gusti di Jane sono strani e imprevedibili. E ho sempre pensato che è anche un po’ merito di quella tazza azzurra, sempre uguale a se stessa, se non è impazzito nel suo vortice di dolore.
Anche io vivevo di abitudini, senza rendermene conto. E la più piacevole era quando, tra un omicidio e l’altro, io e Jane ci sedevamo vicini sul divano in pelle, lui a sorseggiare il suo tè, io il mio caffè: erano degli speciali momenti di evasione e condivisione a cui non avrei mai rinunciato.  Nonostante, spesso, ne uscissi irritata e con una voglia matta di tirare pugni sul naso; ma, incredibilmente, più leggera.
Mentre giaceva a terra senza vita, avevo la sensazione che quella tazza rappresentasse la nostra amicizia, o qualunque strana cosa all’epoca fosse.
No, non potevo permettere che finisse nella spazzatura.
Non vista, avevo raccolto i frammenti ad uno ad uno; poi a casa, tutte le sere per una settimana, li avevo incollati con pazienza certosina e super attack; mi ero incollata anche le dita più volte, ma era stato divertente.
Una volta portata a termine la missione avrei voluto restituirgli la tazza rammendata, ma qualcosa me lo impediva; mi sembrava di essere andata oltre.
Oltre a che cosa non avrei saputo dirlo.
Poi non ho più avuto l’occasione di farlo. Compiuta la sua vendetta, se n’era andato. Credevo per sempre.
Avrei voluto romperla di nuovo, stavolta definitivamente, quella cerulea tazza sfregiata che non serviva più a nessuno.
Ma non potevo. La guardavo e mi sembrava che Jane dovesse sbucare da un momento all’altro, con un sorriso da mascalzone e la richiesta di un buon tè.
Da vigliacca non mi ero mai chiesta il motivo profondo delle mie inconfessate emozioni; poi, invece, è stato tutto chiaro. Chiaro come il paio di occhi che non pensavo di poter rivedere mai più.
E ora, finalmente, è giunto il momento di restituirgliela. È un po’ ammaccata, come noi due, ma intera. Salva.
«Sì», ammetto facilmente, dopotutto l’intento del mio gesto è proprio questo; «sembra a posto vero?», chiedo, tutta fiera delle mie abilità manuali.
Lui non risponde e si gira il mio regalo riciclato tra le mani.
Non capisco la sua reazione. Dovrei preoccuparmi? La mia brillantissima idea potrebbe aver riportato alla luce ricordi dolorosi; dopotutto quella tazza è il simbolo della nostra vita al CBI; CBI uguale California, e per Jane California uguale dolore.
Forse la mia è stata una scelta azzardata. Ma era quello che sentivo di dover fare. Per aprirgli il mio cuore, in silenzio.
Patrick guarda la tazza, incredulo.
Poi guarda me.
«È perfetta», mi dice. La voce gli trema impercettibilmente, e anche le mani. «Sono senza parole», aggiunge.
Anch’io lo sono.
Sembra felice. Intenerito. Emozionato.
Ma io di più.
Wow.
Ho lasciato senza parole Patrick Jane.
Non è roba di tutti i giorni.
Mi sembra incredibile. Perfino troppo.
Davvero non lo aveva previsto? Proprio lui che si da arie di sapere sempre tutto?
Per allontanare ogni mio dubbio mi suggerisce di guardare il foglietto che stamattina mi aveva infilato nel taschino della giacca. In tutta la giornata non ho mai sbirciato, non mi è neanche balenata l’idea; ma immagino che vi abbia scritto esattamente l’oggetto che ho deciso di regalargli. Impossibile tenere un segreto col signor mentalista.
Invece, evidentemente, è possibile.
“Non ne ho idea”, c’è scritto.
Wow.
Ho sorpreso Patrick Jane.
Wow.
Ma non è che sta fingendo?
«Sono sinceramente sorpreso», mi conferma, guardando la tazza come se fosse la cosa più preziosa del mondo. «È un bellissimo regalo. Grazie mille».
Punta gli occhi nei miei. Ora sta guardando me come se fossi la cosa più preziosa del mondo.
Il mio cuore accelera mentre mi sfiora la guancia con le dita e mi bacia dolcemente.
Vorrei che questo bacio non finisse mai, e invece finisce troppo presto. Una brevissima carezza di labbra.
Mi fa i complimenti per essere riuscita a fregarlo così bene.
Io non demordo e insisto. Siamo sicuri che non stia bluffando per farmi contenta?
Lo so, sono paranoica.
È evidente che il suo sguardo e la sua voce non stanno bluffando.
È davvero sorpreso. E felice.
Ma io di più. Sono riuscita a dirgli quello che non gli ho mai detto.
Che lo amo.
E che, mio malgrado e a mia insaputa, l’ho amato sempre, anche quanto non avrei potuto né voluto né dovuto.
Vabbè, non l’ho detto ad alta voce, ma con una tazza. È la stessa cosa. E lui ha capito.
Brindiamo, sorridenti.
Poi mi bacia di nuovo.
Quando ci separiamo, lui si guarda intorno per un attimo, mentre io non riesco a staccare gli occhi dal suo viso.
E stavolta ho la certezza che no, non sono le bollicine a farmi girare la testa.
 
 
 






********** 
 

Angolo dell'autrice: Colpa di San Valentino (e dell’influenza) ;)
Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate. Spero presto arriverà quella dal punto di vista di Jane.
Ciao a tutti!

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Capitolo 2
*** “You kept the pieces” (P. Jane) ***


“You kept the pieces” (P. Jane)
 

Non amo i compleanni, in particolare i miei, per ovvi motivi.
In realtà non li ho mai amati, anche prima di non avere più nulla da festeggiare e nessuno con cui farlo.
Benché fossi costretto per mestiere ad essere al centro dell’attenzione, una volta che il pubblico usciva da quel sudicio tendone non mi piaceva esserlo. Non che corressi questo rischio; da ragazzini era Angela l’unica persona in tutto il circo a ricordarsi del mio compleanno. E anche da adulti è stato così.
Poi, nei folli anni in cui mi sono travestito da sensitivo, mi importava più fare soldi facili che trascorrere tranquille serate in casa con Angela e Charlotte, per quanto le adorassi. Ci sarebbe stato tempo per quelle cose, mi dicevo. E se mia moglie mi faceva notare che non ero mai presente alle ricorrenze di famiglia, io, con uno stupido sorriso saccente, mi scusavo ribattendo che si trattava solo di convenzioni costruite dall’uomo e che, in realtà, quel giorno considerato speciale era del tutto identico agli altri 364.
In effetti era vero.
Solo che tempo, poi, non ce n’è stato più.
E allora, ogni anno, in quei giorni maledetti, non mi restava che rintanarmi nell’assordante silenzio del divano in pelle o nell’accogliente buio del bullpen, nero come la mia anima; rimpiangere quelle lontane occasioni sprecate e ubriacarmi fino a dimenticare la mia miserabile esistenza; oppure, nella migliore delle ipotesi, ignorare il calendario. Intanto, ormai, ogni giorno era identico all’altro, stavolta per davvero.
Non mi accorgevo, o fingevo di non accorgermi, che no, i giorni non erano affatto tutti uguali: c’era il giorno in cui Lisbon andava su tutte le furie, quelli in cui Lisbon mi rivolgeva un inaspettato sorriso, quelli in cui Lisbon rischiava la vita e quelli in cui salvava la mia. No, i giorni non erano tutti uguali.
Poi, durante i due anni nel mio paradiso blu, avevo smesso di misurare il tempo. Lì non importava che giorno fosse. Lì non c’era nessuna Teresa Lisbon. Solo la mia abbronzatura mi ricordava che la terra continuava a girare intorno al sole come se nulla fosse.
In effetti, a prescindere dalla mia personale e triste situazione, che senso ha festeggiare il fatto che siamo più vecchi di un anno? È un concetto assurdo che non ho mai capito. Bisognerebbe dimenticarsene, se mai.
No, non amo i compleanni.
Ma questa volta è diverso. È tutto diverso.
Questa volta non sono solo a rimuginare su ciò che sono riuscito a perdere.
Questa volta ho qualcosa, qualcosa di bellissimo e importante che non merito.
Questa volta ho lei.
E con lei…beh, perfino il mio compleanno sarà sopportabile. Potrebbe diventare addirittura piacevole.
Ieri mattina ho subito intuito che Lisbon stava architettando qualcosa di inquietante riguardo il mio genetliaco. Non ci voleva un mentalista per capirlo, visto che è stata proprio lei a urlare le sue torbide intenzioni ai quattro venti, chiedendomi di tenermi libero per l’indomani sera.
Perché non avrei dovuto essere libero? Ma la mia vera domanda, rimasta inespressa, era: perché avrei potuto desiderare di trascorrere una serata senza la sua compagnia?
Ed ecco che la bomba è esplosa: il mio compleanno.
Già. Nonostante tutto me ne ricordavo anch’io. E stavolta, per la prima volta in dodici anni (e forse anche di più, forse addirittura da sempre), quella parola non mi ha rivoltato lo stomaco. Strano. O forse no, considerato chi l’ha pronunciata.
La piccola donna d’acciaio che ha cotanto potere su di me aveva avvisato tutti al lavoro che non avrei gradito né canzoncine né torta né regali. Meno male.
Ma la regola non valeva per lei, ha subito aggiunto con aria di sfida.
Ecco, appunto.
Non sapevo se essere terrorizzato o lusingato. Forse dovevo essere entrambe le cose. In ogni caso non potevo fare niente. Ha la testa dura la mia Lisbon. Neanche un terremoto può farle cambiare idea. Modestamente, alcune rare volte, posso riuscirci solo io. Ma questa, purtroppo o per fortuna, non è una di quelle volte.
Con un sorrisetto furbo ha promesso (o minacciato) di farmi un regalo. Una sorpresa. Era così entusiasta che, per un attimo, è riuscita a contagiare anche me, il boicottatore di feste per eccellenza. Il pensiero che Teresa avesse rimuginato, probabilmente per giorni, su qualcosa che mi rendesse felice o che, comunque, mi facesse sorridere, ha provocato un piacevole balzo nel mio petto che ha superato il disagio nei confronti del mio incombente compleanno.
Nessuno aveva più fatto qualcosa di simile per me. L’ultima persona ad avermi fatto un regalo era stata…proprio lei, quando, in occasione del nostro nuovo lavoro insieme, mi aveva donato quell’adorabile paio di calze di lana da cui, raramente, e solo quando lo esige la lavatrice, riesco a separarmi.
Una sorpresa. Lisbon era davvero convinta che sarebbe riuscita a mantenere un segreto con me per 36 ore. La sua ingenua sicurezza è irresistibile. L’ho presa in giro, ricordando le sue scarse capacità da 007 e ottenendo come risposta meravigliosi lampi verdi, ma, in realtà, sapevo perfettamente che aveva ragione: non ho nessuna intenzione di scoprire di che cosa si tratti e di rovinare il suo diabolico piano. Non ho nessuna voglia di avere tutto sotto controllo; ebbene sì, Patrick Jane vuole essere sorpreso e, per una volta, non farà il mentalista.
D’altronde, non potrei neanche se volessi: benché mi piaccia dichiarare il contrario, Lisbon è sempre stata un mistero per me. Altro che “traslucente” e tutte le frecciatine riguardo la sua presunta prevedibilità!
La verità è che, a parte rare eccezioni, non sono mai riuscito a capire che cosa le passasse per la testa. Spesso credevo di farlo, poi, un minuto dopo, un suo piccolo gesto, volontario o involontario che fosse, contraddiceva la mia geniale ipotesi. Fingevo di riuscirci solo per poter intravedere dalla sua reazione successiva quel pensiero che non voleva le leggessi; ma, di solito, la sua reazione era ancora più contradditoria e io ne uscivo ancora più confuso.
Non ho mai smesso di provarci, e non ho mai smesso di fallire. E, ultimamente, (per essere precisi, da quando è comparsa in una sperduta cella di detenzione aeroportuale, regalandomi una gioia che non immaginavo di poter provare ancora), i miei tentativi sono ancora più disastrosi. Il mistero più grosso, quello che mai riuscirò a comprendere, è che cosa abbia visto in un buffone spezzato come me. Penso non lo scoprirò mai.
Tornando alla contingenza del mio dono di compleanno, ieri ho subito immaginato che sarebbe stato più interessante (e divertente) scoprire che di che cosa si trattasse davanti a Lisbon stessa. Sarebbe stato come vedermi riflesso nei suoi occhi.
Forse mi avrebbe regalato un libro? A me piace leggere, a lei meno, preferisce l’azione.
O, dopo lo straordinario successo delle calze, un paio di guanti?
O una pianta, magari carnivora, addestrata ad addentarmi tutte le volte che l’avrei innervosita?
O un mazzo di carte con cui sfidarci a poker fino all’ultimo sangue? O un set di bustine da tè rigorosamente Twinings?
Non ne avevo idea, non ce l’ho tuttora e non importa.
Sì, sono curioso, molto curioso, ma non ho nessuna intenzione, né possibilità, di soddisfare la mia proverbiale curiosità con i soliti trucchetti mentali. Lisbon è l’unica persona al mondo su cui, per qualche misterioso motivo (forse non poi molto misterioso) non funzionano.
Quindi sì, malgrado avessi dichiarato il contrario per innervosirla (l’espressione di sfida di Lisbon è irresistibile) sapevo anch’io che sarebbe riuscita a mantenere il suo segreto fino a stasera.
Già, Lisbon ha la testa dura. La amo anche per questo.
Ora siamo qui, seduti a un tavolino davanti al mio, al nostro, airstream magnificamente illuminato. È bello.
Abbiamo cenato, parlato, ci siamo molto guardati e molto sorrisi. Sto bene. Cose che prima mi sembravano impossibili, con lei diventano addirittura naturali.
Ha mantenuto la parola.
Non una festa, ma una cenetta romantica.
Non una torta, ma un cupcake con candelina.
Non una stupida canzoncina, ma la sua voce emozionata che mi sussurra una semplice frase “Buon Compleanno”,  che mi fa già sorridere di riconoscenza.
E la sua sorpresa: una scatola rossa di cui ignoro il contenuto.
Ecco, la confezione già mi colpisce. I cuoricini della carta non sono affatto da Lisbon, che odia tutto ciò che può assomigliare a melensaggini e sdolcinatezze.
Eppure ha scelto questa scatola. Melensa. Sdolcinata. Per me.
E io la trovo semplicemente perfetta. Come il suo sorriso, spontaneo, ma leggermente imbarazzato.
So da molto tempo, forse da quando l’ho incontrata per la prima volta, che Teresa nasconde delle inaspettate dolcezze sotto gli aculei che la vita, e il suo lavoro, le hanno imposto.
Ma scoprire che questa dolcezza ora è rivolta principalmente verso di me è una novità. Estremamente piacevole. Potrei abituarmici.
Guardo il pacchetto, ma, soprattutto, guardo il viso luminoso che si trova a poca distanza dal mio.
Teresa ha organizzato tutto questo per me. Con delicatezza e rispetto, perché sa, ma con gioia: gliene sono grato. Anche se, in realtà, tutto quello di cui ora ho bisogno per stare bene è lei.
Siamo seduti a questo tavolino e, nonostante la mia diffidenza verso le ricorrenze e nonostante il mio doloroso passato, che non mi è mai sembrato così lontano, non esiste nessun altro posto dove vorrei stare.
Ed è a questo che penso quando Teresa mi invita a soffiare sulla candelina e ad esprimere un desiderio. Penso, per una volta senza l’ombra di sensi di colpa, che vorrei sentirmi così ogni minuto della mia vita. Sereno. Sì, addirittura felice.
Ma non è questo il desiderio che pronuncio nella mia mente.
Sorrido e chiudo gli occhi mentre esito a soffiare. No, non sono indeciso, so benissimo che cosa chiedere.  Mi concentro solo perché vorrei tanto che si avverasse. Con tutto me stesso.
Non ho mai creduto a queste sciocchezze. Eppure, in questo momento, voglio sperare, con tutta quell’anima che non pensavo di avere ancora, che qualcuno mi stia ascoltando. E, a quel qualcuno a cui non so dare un nome né un volto, io chiedo di proteggere la vita della meravigliosa donna che mi ha restituito la mia.
Soffio, e, stranamente, non mi sento stupido come tutte le (rare) volte in cui mi hanno costretto a fare qualcosa di simile.
Gli occhi mi si inumidiscono, li tengo bassi mentre osservo la candelina ormai spenta affinché Lisbon non comprenda la profondità della mia emozione e non la interpreti male.
Mi invita ad aprire il regalo. Sono curioso, ma esito ancora. Vorrei che il tempo si dilatasse all’infinito: noi due, insieme e al sicuro.
Poi mi decido ad aprirlo, e piano piano sollevo il coperchio.
Non capisco subito di che cosa si tratti. Mi colpisce un baluginio azzurro, poi riconosco una rassicurante forma di tazza. Sospiro, emozionato.
Oh. Lisbon ha voluto regalarmi una tazza identica alla mia preferita, quella che, molto tempo fa, era andata in mille pezzi. Non l’ho mai ammesso, ma ne sento tuttora la mancanza. Ha avuto un’idea dolcissima.
La tiro fuori dalla scatola, lentamente, osservandola con attenzione. Il mio cuore perde un battito mentre un folle pensiero attraversa la mia mente.
Non è una tazza azzurra.
È la Tazza Azzurra.
La mia.
Non è possibile, eppure so che è proprio così. Del resto, ultimamente, ho iniziato a credere che nulla sia impossibile.
La riconoscerei tra mille. Ha qualche venatura, intravedo la dedizione che ha incollato i frammenti tra di loro, in un puzzle perfetto.
«Lisbon», mi limito a mormorare, incredulo. Una sola parola, la mia ancora di salvezza in un mare di domande.
E una Teresa sorridente conferma ciò che mi è ormai chiaro: «L’unica e sola, dal CBI».
Ha raccolto i pezzi, tanto tempo fa, li ha conservati, probabilmente senza sapere cosa stesse facendo, o perché.
Poi li ha incollati, uno ad uno, con pazienza certosina. Quasi riesco a vedere la piccola ruga che le si forma tra le sopracciglia quando è concentrata su qualcosa.
Non è la colla che tiene insieme quei piccoli frammenti di ceramica: a farlo è un sentimento a cui Lisbon non ha ancora dato un nome, forse per paura, forse per imbarazzo. Io l’ho chiamato nel più classico dei modi solo nel momento in cui stavo per perderla.
Ma questo, questa tazza, è il suo personale modo di rivelarmelo. Con un gesto che vale più di mille parole.
Mi ama.
Da molto, forse troppo, tempo.
Del resto, lo sapevo già. Forse una microscopica parte di me l’ha sempre saputo.
Mi ha amato in silenzio, forse contro la sua volontà, o forse di nascosto da essa. Come ho fatto io.
Il suo preziosissimo dono significa tutto questo, e molto di più.
Teresa ha aggiustato la tazza proprio come ha aggiustato la mia vita. Vorrei dirglielo, ma non ci riesco: sono troppo emozionato e ne uscirebbe qualcosa di patetico.
«Sembra a posto, vero?», mi chiede, tutta fiera del suo lavoro.
«È perfetta», le rispondo, mentre sollevo finalmente lo sguardo sul suo viso. È così bella. Così tutto. Non so cosa ho fatto per meritarmela. Quello che so è che in questo momento non sono in grado di aggiungere nulla. «Sono senza parole», sussurro goffamente. Con la voce, rotta in modo imbarazzante, non riesco a spiegare quello che sento; provo con gli occhi.
«Davvero non lo sapevi?», mi chiede Lisbon, con uno sguardo di sfida.
Forse come mentalista deve ancora migliorare.
«Controlla tu stessa», le propongo, mentre continuo a rigirarmi tra le mani il mio piccolo tesoro azzurro.
Lei recupera il foglietto nella tasca della giacca. So bene cosa c’è scritto. Che non avevo idea di che cosa mi avesse regalato.
Un guizzo di gioia le illumina gli occhi smeraldini. «Non lo sapevi davvero?», domanda, tutta speranzosa.
«Sono sinceramente sorpreso», confermo; «È un bellissimo regalo, grazie mille».
Mi avvicino e la bacio. È tutta la sera che ho voglia di farlo e dopo gli ultimi avvenimenti non posso più farne a meno. Le sue labbra sono dolci e morbide, non ne avrei mai abbastanza.
Ci stacchiamo troppo presto. Le faccio i complimenti per avermi fregato così bene; ma lei, paranoica come il suo lavoro (e la mia compagnia) le hanno insegnato a essere, dubita ancora che in realtà io stia fingendo per farle piacere. Le spiego che non è così. Ho chiuso con le bugie. La sua sorpresa è riuscita alla grande.
Finalmente la piccola e irresistibile testarda riconosce la mia sincerità: era ora!
Brindiamo, mentre con l’altra mano tengo stretta la tazza ritrovata: vorrei brindare con quella, ma forse non è adatta a contenere l’ottimo spumante che Lisbon ha comprato.
Beviamo, occhi negli occhi, concedendoci poi un altro bacio che sa di bollicine.
Mi allontano sempre troppo presto, per riprendere il fiato e il controllo delle mie sensazioni.
Mi guardo intorno, come per trovare conferma che no, non sto sognando e che tutto ciò che mi circonda è reale; ma lo faccio anche perché, se guardassi lei, so che non resisterei a baciarla di nuovo.
Per questo avremo tutta la notte.
E quella dopo.
E quella dopo ancora.
 
 
 
 
 
 
 

 
 **********
 
Angolo dell'autrice: scusate il mostruoso ritardo, ma il finale di serie mi ha un po' svuotato, e in più in questo periodo ho pochissimo tempo per scrivere.
Spero che questa seconda one-shot vi piaccia!
A presto :)

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