Sleeping Brain

di WingsBrain
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Sleeping Brain

1.
I DON'T WANT THE WORLD TO SEE ME
 
 

Chissà perchè molte parole legate alle malattie mentali cominciano per ‘psico’. Psicologia, psichiatria, psicopatico..
Sulla targa affissa alla porta dello studio della Wilkinson, c'era inciso espressamente Psichiatra, e ogni volta che mi soffermavo a rileggerlo prima di entrare, per sottopormi alla mia seduta giornaliera, mi domandavo se in realtà il suo intento fosse quello di curarmi l'anima o il cervello.
Infondo la psiche non era l'anima? Se mai mi avessero assicurato che il greco mi sarebbe servito a qualcosa nella vita, vi giuro che probabilmente mi sarei fatta una grossa risata e avrei mandato chiunque fosse a quel paese. E invece mi ritrovai a ricredermi.
Eppure continuavo a non capirci niente. 
Avrei scommesso anche questa volta sulla mia intelligenza, che l'affezzione patologica fosse situata dentro al nostro cervello danneggiato. Perdonatemi, mi correggo: dentro al loro cervello danneggiato. Il mio era sano come un pesce.
Ma allora l'anima c'entrava poco e niente.
Risanata o no per loro, io mi sentivo bene e a breve mi avrebbero dimessa. Non ero malata, ma solo un po' distratta. Anche se all'inizio cominciavo di nuovo a dialogare con me stessa, poi alla fine perdevo sempre il filo del discorso e la cognizione del tempo. Era sicuramente una cosa da me. Non era intenzionale eh. Non ero poi così di fuori. E io non cambiavo mai, ma rimanevo sempre fedele a me stessa. E me stessa era decisamente stanca. E il ciclo dialogo-nondialogo poteva anche aspettare. 
Mi sentii improvvisamente più annoiata di prima e quindi calcolai di mettermi a fare qualcos'altro. Ma la mia voglia si sgretolò come nulla fosse non appena mi ricordai che non avrei potuto realizzare assolutamente un bel niente. Perchè in primo luogo, non riuscivo neanche lontanamente a pronunciare nella mia testa il nome esatto di quel sentimento opposto alla noia. Com'era? Ecco non me lo ricordavo. Decisi che allora non esisteva.
Dunque mi limitai alle solite cose.
Smisi di guardare fuori dalla finestra il cielo che inscuriva, ancora. Scivolai sgraziata di petto lungo lo schienale della poltrona e mi costò un ulteriore sforzo girarmi, soprattutto perchè non ero in vena di farmi soprendere dalla faccia da maniaca di Beth.
Preferivo ammirare il cielo a ripensarci. Ecco perchè ero rimasta a lungo in quella posizione. Me ne ero dimenticata, diamine! Non era possibile che mi fosse sfuggita ancora una volta quest'osservazione: mi toccava indugiare ancora un altro pochino sporta alla finestra perchè era più comodo che lasciarmi squadrare da Beth.
Perchè poi incappavo in situazioni poco gradevoli come questa. Ed io ero così stupida. Perchè di conseguenza avrei rischiato di apparire un'idiota complusivaossessivaqualcosa come le altre ragazze, a riacquisire la medesima postura di poco prima. Cavolo, se ero stupida. Non mi era possibile agire come una trottola avanti e indietro, e permettermi una figuraccia del genere. Non desideravo che mi lanciassero occhiatacce o che ridessero di me. Non mi restava che aspettare per lo meno che gli altri intorno a me si fossero già dimenticati che soltanto due secondi prima io ero immobile, girata, a fissare il mondo là fuori. Già, il mondo.
“Hai preso la tua pillola?” mi chiese gentilmente, accorgendosi di me visibilmente agitata, l'infermiera di cui attualmente mi sfuggiva il nome. Non faceva alcuna importanza. Non potevo permettermi nemmeno questo; era troppo rischioso per me, memorizzare ulteriori informazioni futili tra l'altro, come il nome di una delle tante infermiere là dentro. Per il mio cervello era opportuno preservarsi, altrimenti nuovi ricordi si sarebbero affollati e poi accavallati su quelli vecchi e chissà cosa mi sarebbe successo. Per me era troppo inutile e insignificante e allo stesso tempo influente, quel minuscolo dettaglio. Come le sciocchezze che si imparano a scuola. Tranne il greco, questo l'avevo imparato a mie spese oramai. Anche se, alla fine avrei potuto sottovalutare anche il resto. E se il nome dell'infermiera fosse stato in realtà utile? 
Poco importava, non avrei di certo potuto chiederglielo. Non potevo permettermi un simile errore, per una sciocchezza poi. Qualcosa di cui non ero nemmeno sicura al cento per cento. Dovevo prestare più attenzione.
Infine scossi leggermente la testa per risponderle di no, senza guardarla.
“Ma devi prenderla.” ritentò, persistendo con quel suo fare cordiale e tranquillo che mi irritava altamente.
Burbera, sbuffai e afferrai il picchiere d'acqua e la pillola dal piattino sul tavolino, e me la infilai dritta in bocca. Sorseggiai e deglutii rapidamente.
Contenta? Le rivolsi una smorfia.
“Brava.” mi sorrise. Ma cosa aveva da sorridersi quella donna? Faceva l'infermiera per dei malati mentali ed era segregata lì dentro proprio come noi tutti. Eccetto durante le ferie. Beata lei. Ecco perchè mi sorrideva allora. Non lo faceva per me o perchè magari le stavo simpatica. Stronza. Decisi di odiarla. E per giunta io odiavo i complimenti. Non mi piaceva riceverne. Brava, ripetei nella mia testa. Mi suscitavano uno strano senso di forte ansia. Nessuno avrebbe mai dovuto aspettarsi qualcosa da me. Questo me lo ricordavo.
La minacciai silenziosamente con lo sguardo affinchè mi lasciasse da sola e così fece.
Finalmente, mi rallegrai. Anche Beth era andata via. Aveva in programma una seduta tra cinque minuti. O così mi era parso di sentire. Sapevo che non era una buona abitudine, quella di origliare. Ma quando capitava coglievo l'occasione e sinceramente me ne fregavo e basta delle buone maniere e dell'educazione. Che tanto in quel posto non mi sarebbero servite sicuramente.
Ad ogni modo, rimanere senza qualcuno intorno era piacevole, davvero. Non c'erano persone fastidiose che mi facessero sentire una mummia, pressata affinchè spezzassi il silenzio e dicessi qualcosa. 
Io non ci riuscivo a parlare. La difficoltà stava tutta nel dar voce ai miei pensieri.
Era iniziata come una sorta di difesa, credo. Era più rassicurante per me, che gli altri apprendessero già in partenza che non avrei risposto alle loro fatidiche domande come “qual è il tuo problema?” o “cosa ti turba?”. 
Ma magari non esisteva proprio qualche cosa in particolare che non funzionasse bene dentro al mio cervello e che di conseguenza mi rendesse diversa dagli altri. Perchè era di questo che si trattava. Per assurdo io ero diversa, secondo loro. Altrimenti non mi avrebbero rinchiusa in una casa di cura. A proposito, l'atrio era uno spazio ampio eretto da pareti chiare e guarnite di due finestre ognuna: l'unico contatto che potevo permettermi con il mondo esterno. Anche se per mia sfortuna c'era sempre qualcuno che invadeva il mio spazio e le poltrone di cui ormai dichiaravo legittima proprietà. Mi piaceva davvero fermarmi lì. Questo lo ricordavo molto bene.
Nella poltrona che io occupavo abitualmente, alla mia sinistra, si apriva un largo corridoio che mi offriva la libertà di osservare i medici quando percorrevano le porte, mentre proseguivano per controllare i loro pazienti all'interno delle stanze. Io personalmente non mi trattenevo quasi mai nella mia camera per più di due ore di riposo, (a parte la notte) quindi nessuno passava a farmi visita e ad assicurarsi che stessi bene o che non soffrissi di qualche crollo emotivo.
Non potevamo uscire all'aperto senza il permesso, chiaro. Ma non mi si addiceva, e soprattutto non mi andava, di farmi scortare in giro mano nella mano da una stupida badante, a soli sedici anni. Così me ne restavo al coperto ogni volta. Ma almeno preservavo la mia dignità e la padronanza di sentirmi autonoma. Perchè ne ero in grado, al contrario di ciò che diceva la cara Wilkinson. Che tutto era, tranne che cara.
Ero anche al corrente dei discorsi che sicuramente avrebbero tenuto sul mio conto, a scuola i miei compagni di classe, quando avrebbero scoperto che il mio ritiro era stato dovuto ad un ricovero in una clinica per malati mentali: “Io l'avevo detto che era pazza”. Si bene, lo avevi detto e allora? Cosa ci hai guadagnato alla fine? Niente. E per la cronaca: non sono mai stata pazza. Fidatevi, se vi foste ritrovati al posto mio vi sareste comportati alla stessa maniera.
Pensandoci bene, nessuno era mai venuto a farmi visita. Meglio, ritenni. Non volevo vedere quelle facce di cazzo lì dentro, nel mio territorio. In realtà non ero sorpresa nemmeno del fatto che la mia famiglia non si fosse mai degnata di venire. 
Mi capitò in quel conciso istante: mi distrassi.
Qualcosa, o meglio qualcuno, attirò maggiormente la mia attenzione e incuriosì il mio interesse.
Era..un..bamb..
Oh no, era decisamente un ragazzo. 
Pensai subito che si trattasse di uno fresco. Li riconoscevi a vista d'occhio, soprattutto dal momento in cui perdevi addirittura il conto dei giorni che avevi trascorso, o meglio sprecato, in quella misera casa.
Comunque era così che definivamo i nuovi acquisti, voglio dire, i nuovi arrivati. Dei freschi. Persone dall'aria innocente e spaesata, che non ci conoscevano e non avevano la più pallida idea di cosa aspettarsi da quel covo di sconosciuti.
Ero in procinto di fare qualcosa, probabilmente precipitarmi difronte a lui e offrirgli il mio caloroso benvenuto con una stretta di mano audace. Ma non era da me. Un'opzione simile ad un “Ciao e benvenuto all'inferno.” Ma non ero così impulsiva.
Sarebbe risultato sicuramente uno spasso scoprire le rughe sul suo volto contorcersi in un'espressione allarmata. Ma non ero così crudele.
Mi piaceva spaventare le altre persone, soprattutto quelle che mi credevano di fuori. Non ci avrei perso nulla tanto.
Nel caso in cui invece si fosse rivelata essere una persona apatica, la notizia mi avrebbe tirata giù di morale. Ne eravamo già pieni fino al midollo, di tipi così.
Non mi piacevano gli apatici.
Entrò dalla porta d'ingresso scortato-ma si potrebbe anche dire pedinato- da Josh, uno degli infermieri. Il suo nome lo conoscevo bene: una volta lo avevo utilizzato per inveire ripetutamente contro di lui mentre intanto infilzava uno stupido ago nelle mie vene estremamente sensibili. Dunque mi era rimasto impresso nella mente e non ero ancora riuscita a scrostarmelo, purtroppo.
Dimenticandomi gradualmente di Josh, persistetti nell'osservare il ragazzo con scrupolosa attenzione soprattutto per i particolari.
La prima impressione che mi diedero i suoi occhi, fu di morbidezza. Strano, vero? Potei giurare che il colore fosse il medesimo che tinteggiava il cielo durante le sue giornate serene in cui il sole primeggiava. Ma allo stesso modo erano anche caratterizzati da un luccichio di amarezza. Supposi che non erano nemmeno naturali. Doveva portare sicuramente le lenti, perchè le iridi erano estremamente lucenti.
Questo me lo ricordavo eccome: Io osservavo spesso il cielo, in tutti i suoi mutamenti.
Senza prima attendere che il mio cervello elaborasse l'azione, feci sprofondare lentamente il gomito sul bracciolo bianco della poltrona e il mento contro al palmo della mano, mentre l'altra era appoggiata sulla coscia.
Studiai più attentamente la sua bocca e trovai finalmente gli indizi per concludere, e darmi da sola, la risposta che stavo cercando all'inizio: non era apatico. Una persona senza sentimenti non provava rabbia. Ed era così, le sue labbra erano irrigidite da far paura. Chissà come mai. 
Comunque i suoi capelli erano neri come lo sfondo che mi si rifletteva davanti agli occhi quando li aprivo al buio, e il suo epidermide era niveo come lo zucchero a velo. Ma a mio parere, degli atteggiamenti che era propenso assumere, tradivano la dolcezza della sua pelle.
Era scontroso e puntava costantemente uno sguardo fulminante contro chiunque tentasse di fissarlo per le lunghe. Per fortuna non si era accorto di me, ancora.
A quel punto qualcosa si mise, subdola, a rimuginare dentro al mio stomaco come ne dichiarasse il pieno diritto, mentre lo osservavo. Si raccolse e si agglomerò contorcendosi senza tregua. Non avrei saputo esprimere con precisione a parole esatte di cosa si trattasse, ma era di sicuro un campanello nuovo quello che mi aveva allarmato. E non mi piaceva per niente avere a che fare con sensazioni che non conoscevo. Io avevo il dovere di mantenere la situazione sotto controllo, dentro di me. 
Oppure mi sarei seriamente persa, come credevano tutti.
Comunque l'agglomeramento fastidioso risalì su per lo stomaco fino ad arrivare alle mie labbra. Pensai subito ai conati di vomito. Ma nulla.
Digrignai i denti e fremetti per lasciar sfogare la mia agitazione. Era rabbia forse. Ma non potevo affermarlo con certezza, perchè in tutto ciò c'era uno schizzo di differenza che spiccava dal resto delle altre volte in cui mi ero sentita così. Sospirai a lungo sperando di scaricare la tensione. Mi resi conto che sarei dovuta riemergere al più presto possibile, da quel tuffo che avevo fatto.
Quindi stabilii che fosse giunto, ancora una volta, il momento di alzarmi dalla mia poltrona, e di tornare nella mia stanza. E lo feci, senza tornare con lo sguardo sul ragazzo nuovo.

 

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Capitolo 2
*** 2. ***


Sleeping Brain

2.
HOW DOES IT FEEL


 


Vi è mai capitato di non voler vivere ma nemmeno morire?
Gettando gli occhi al soffitto, mi distesi a pancia in su e soltanto allora, tra i brontolii che gorgogliavano nel mio stomaco, mi resi conto che erano già passate le nove e che non avevo ancora cenato.
Sbuffai e mi trascinai in piedi contro voglia.
Uscii dalla mia stanza e percorsi il lungo corridoio fino alle porte che si aprivano alla mensa. 
Era già chiusa. Diamine, erano solo le nove! Non riuscivo a concepire che fossero così puntuali e precisi all'interno di un istituto nel quale le persone a malapena si ricordavano di che giorno fosse.
Avanzai a passo felpato in direzione dell'atrio per provare a chiedere a qualcuno di gentile di aprirmi le porte della mensa, o per lo meno di farmi recapitare un vassoio a letto. Quasi tutte, le luci erano state spente al di fuori delle camere
, ma si aggirava ancora qualche infermiere nei dintorni, qualcuno che sostava per controllare la cartella di un paziente, qualcun altro che infilava una moneta nella macchinetta per prendersi un caffè e sorseggiarlo in compagnia di un collega.
“Sai che ore sono?” sobbalzai al suono della voce ferma alle mie spalle, che avrei saputo riconoscere tra mille.
Mi voltai e incontrai immediatamente gli occhi vispi e severi della Wilkinson. Difficilmente, sarebbe apparsa più simile ad un rigido carabiniere che controlla l'ordine pubblico e ostacola la malavita. Ma andiamo, sul serio, in quella casa di quale malavita si sarebbero potuti mai lamentare? Di Beth che squadrava maliziosamente chiunque? Bleah, che insolito fastidio che mi suscitava quella ragazza, seriamente. Come al solito la Wilkinson era comparsa silenziosa e cauta, a schiena dritta, come avesse inghiottito un intero palo della luce, senza mai una ciglia fuori posto, e mi stava fissando con quei suoi occhi verdi a fessura
 gelidi come lastre di ghiaccio, che in determinate situazioni tradivano quasi dei sorrisi, e si scioglievano al sole. Mezzi sorrisi. Era una donna salda, che agiva senza mai lasciare nulla al caso. E se non altro era sincera, almeno nei miei confronti.
Nell'eleganza, era riposto il suo distintivo. E con eleganza non intendevo riferirmi solamente alle gonne attillate, alle camiciette e ai gioielli di marca, alla pettinatura tirata in una coda di cavallo sempre perfetta che slanciava la sua figura, o al trucco leggero. E nemmeno al camice bianco che ricadeva a pennello al di sotto della sua vita. Oh no, erano proprio il suo portamento e il suo atteggiamento, quelle caratteristiche che mi infastidivano principalmente. A nessun uomo era mai capitata occasione di scoprirla rannicchiarsi con la schiena ricurva, come si ritrovavano a fare le persone normali. O nessuno l'aveva mai pizzicata a sbavare nel sonno, a sudare per il caldo, o a imbrodolarsi con il cibo.
A proposito di mangiare.
Con l'indice della mano destra le indicai le vivande oltre il vetro della macchinetta per farle intendere che avevo fame.
“Non hai cenato questa sera, Abby?”
Accennai con la testa un no di risposta, dapprima esitante.
“Sai benissimo che qui dentro vige un orario severo da rispettare, signorina. Per tutti, e non puoi sempre agire di testa tua. E ti ripeto che nessuno deve sottostare ai tuoi capricci, o men che meno alle tue regole.”
Incrociai le braccia al petto e mi sforzai di sottrarmi al suo sguardo, ma inevitabilmente quegli occhi a raggi x mi violarono la pelle. Era davvero uno sguardo penetrante, il suo.
Ma io non riuscivo a concedermi di pensare ad altro che non fosse il mio seccante digiuno, e fatalità, il mio stomaco brontolò proprio in quell'istante, su due piedi, stendendosi anche all'interno delle orecchie della strega dagli artigli rosso rubino.
“E va bene.” concesse alla fine. “Ma ti giuro che questa è l'ultima volta che-” io reagii con un ritmato accenno di testa, come un disco che si è incantato, e lei d'un tratto si arrestò. Sospirò. 
“Muoviti.” mi intimò soffocando un accenno di sorriso sottinteso in gola.
Senza timore avanzai di un passo verso di lei che mi seguì a ruota, e camminammo silenziosamente verso la caffetteria, dove giunte sulla soglia dell'entrata, afferrò di tasca un mazzo di chiavi, e senza troppa fatica recuperò quella giusta. Appena varcata la soglia, la Wilkinson pigiò con il dito sull'interruttore della luce e di colpo mi fu tutto meglio percepibile. Io proseguii a testa bassa, ovviamente senza permettermi di proferire parola.
“Deve essere rimasto sicuramente qualche avanzo in cucina. Aspetta qui.” mi impose in una punta di benevolenza prima di camminare via.
Io praticai il consiglio che mi era stato indicato, più che altro perchè me lo aveva reso come un ordine. E mi misi a sedere su di una sedia, quella più a portata di mano.
Proprio come ogni sera, quando mi capitava di presentarmi in ritardo perchè cenassi all'ora di chiusura, mentre invece tutti gli altri pazienti erano già nel letto e sotto le loro coperte, anche a quel giro l'avevo spuntata liscia senza fastidiose pecche nel piano. Cominciavo però a credere che a breve i miei successi sarebbero falliti miseramente. La Wilkinson non era per niente stupida. Fiutava le menzogne a distanza chilometrica come un segugio, questo lo sapevo molto bene. Ma forse si trattava solo di un particolare periodo in cui le mie prospettive tendevano maggiormente verso la negatività. Poteva darsi che lei sorvolasse su specificate cose perchè molto probabilmente non erano poi così deleterie, infondo. Voglio dire, non facevo nulla di male ad aspettare di poter mangiare per conto mio. Magari lei mi capiva. 
O forse ero io che volavo troppo nella fantasia certe volte, perchè la Wilkinson non mi capiva, questo si poteva considerare fuori discussione.
Nonostante tutto, era indubbiamente gradevole la libertà di sporcarmi con il cibo e il sollievo di non dover prestare attenzione a nessun altro.
Era pressoché purificatorio, per qualunque fosse la presunta zona guasta del mio organismo -anima o cervello che fosse, sempre secondo l'opinione di medici incompetenti- che mi aveva costretta lì dentro, assaporare ogni pezzetto mentre intanto il mio volto appariva sicuramente assente, i miei occhi incantati su qualche punto disperso difronte a me, e la mia testa soprappensiero. A causa della presenza di altra gente intorno a me era ovvio che non avrei goduto dello stesso agio, e che quindi avrei dovuto prestare attenzione a non disegnare espressioni strampalate con i lineamenti del viso, o a non scoppiare a ridere senza alcun tipo di motivo apparente, e altri episodi curiosi che potevano toccare soltanto a me. Insomma, anche mangiare mi sarebbe risultata una noia alla fine. Vi spiego meglio, per me raggrupparmi insieme a tanta altra gente era come immergermi in un mare stracolmo di pericolose meduse. Ed io odiavo il mare. E anche le meduse.
Il mio cervello ci impiegava sempre più tempo di quello degli altri per registrare la sensazione di sazietà, così credevo ancora di avere fame.
Avevo sviluppato una sorta di dipendenza da insalata, ormai mi piaceva mangiare solo quella, ma a volte dovevo pur accontentarmi di altri piatti purtroppo. Quella sera mi era andata decisamente bene invece.
Finii di ingoiare anche l'ultimo boccone di tonno, mi alzai e mi voltai ritrovandomi la strega difronte, poggiata di schiena al porta vassoi del bancone per la distribuzione dei piatti.
Mi osservava con aria stanca, ma imperturbabilmente seria.
“Ora torni a letto,” cominciò cauta con i suoi ordini del cavolo “ci rimani,” marcò con espressione sull'ultimo, in modo tale che io afferrassi inevitabilmente il concetto. Come se la dottoressa si stesse rivolgendo ad una povera idiota, “e dormi tranquilla.”
Se il suo intento consisteva nel farmi un dispetto, o addirittura attribuirmi una punizione per il mio scarso impegno nel rispettare gli orari, allora doveva aver fallito nei suoi calcoli. Non era poi così furba. Doveva giocarsi un'altra carta, perchè con quella del sonno, l'avrei stracciata senza dubbio. A me piaceva dormire, quindi avrei eseguito più che volentieri la “punizione”, anche senza il suo indisponente invito.
Le indirizzai un'occhiata di assenso, quando lei mi augurò la buona notte. Come se non lo avessi capito, che era sarcastica.
Sgattaiolai via sotto la sua autoritaria visuale. Il buio si era espanso gradualmente tra la maggior parte delle varie corsie dell'edificio e dovetti prestare più intenzione a non inciampare.
Rientrai nella mia stanza marciando in silenzio, richiudendomi la porta alle spalle, senza permettermi di lasciar scappare alcun rumore di troppo attraverso i miei movimenti, altrimenti avrei disturbato il sonno- già difficile- di Samantha che dormiva beatamente come quasi mai era solita fare.
E allora potei infilarmi anche io sotto al calore delle mie coperte.
Come previsto, mi addormentai in men che non si dica.

Quella mattina Samantha non c'era più nel suo letto. Mi dissero che aveva ingerito inconsciamente delle pillole di troppo e che avevano dovuto trasferirla in un altro tipo di ospedale.
Mi dispiaceva per la sua salute, ma il vero problema l'avrei vissuto io non appena gli inservienti si sarebbero occupati di appiopparmi una nuova “coinquilina”.
Io preferivo di gran lunga la mia personale compagnia a quella di chiunque altro.
D'altronde Samantha si era scoperta una persona alquanto gradevole e degna del mio rispetto: non batteva ciglio, non fiatava, non spostava o prendeva i miei oggetti senza chiedere il permesso. Le nostre conversazioni si limitavano ad un cenno di saluto, ogni tanto. Purtroppo, meglio di questo non potevo chiedere. E adesso mi toccava ancora una volta, da quando ero stata disgraziatamente deportata, preoccuparmi di una seconda nuova sconosciuta. Mi scocciava parecchio di ritrovarmi una ragazza loquace a dormire nel letto difronte al mio. Una di quelle con la parlantina fastidiosa, a cui non fai altro che dire di si, nonostante tu non le stia neanche ascoltando seriamente. Io non godevo di tutta questa scioltezza di parola, e a volte mi veniva da riflettere che il mondo sarebbe risultato di certo un posto migliore e più equilibrato, se caratteristiche come la loquacità, la felicità, la tristezza, fossero state distribuite ad ognuno in maniera più adeguata. Così non ci saremmo posti il problema della depressione, per esempio. Gente per cui la tristezza si è presentata bussando alle porte del cervello in una quantità superiore, della felicità. 
Sostai in piedi, per la durata di circa cinque minuti, dietro alla porta che purtroppo dovevo assolutamente affrettarmi ad attraversare, perchè ero già abbastanza in ritardo. E se di sera certe cose me le lasciavano passare chiudendo un occhio a riguardo, di giorno non ci avrebbero pensato su due volte, prima di rimproverarmi a dovere, e privarmi inoltre di qualche privilegio già che c'erano.
Ma io avevo origliato delle voci confuse provenire dal corridoio, e allora avevo sbirciato attraverso la serratura. La situazione non mi prometteva nulla di buono. Infatti, oltre la soglia c'erano Elena e Sofie, le gemelle anoressiche- e soprattutto pettegole e vanitose- che alloggiavano nella stanza accanto.
Diamine, dovevo assolutamente arrivare allo studio della strega perchè c'era la mia fottuta seduta mattiniera.
Eppure passare difronte a loro era impensabile per la mia incolumità mentale. Non che me ne importasse molto, considerato anche il luogo in cui stavamo, ma quella mattina non avevo dedicato tanto tempo, come del resto facevo solitamente, alla cura del mio aspetto esteriore.
E no, non volevo ugualmente sentirmi squadrata da capo a piedi da quelle stupide oche. Mi innervosivano i loro occhi gelidi e il loro modo di impegnarsi eccessivamente nel soffermarsi a studiare malamente la mia vecchia vestaglia bianca e i miei lunghi capelli sempre spettinati e pieni di nodi.
Così escogitai un'altra scappatoia.
Sorpassai i pochi metri che formavano la stanza e giunsi alla finestra. Era l'unico modo.
Dovevo uscire dalla finestra.
Per fortuna in quel misero ospedale, se così poteva definirsi a causa della sua età ormai avanzata e delle rovinate infrastrutture, si ergevano solo due piani, e io mi trovavo al piano terra. Dunque non riscontrai la minima difficoltà nel sollevarmi dal pavimento per issarmi sul davanzale, e infine scavalcarlo.
Al contrario, l'atterraggio si rivelò costare qualche fatica e dolore in più. Ma niente di rotto per fortuna.
L'ingresso era deserto e nemmeno i due inservienti poggiati al bancone si accorsero della mia inusuale entrata.
Mi sbrigai verso lo studio della Wilkinson e non appena bussai risuonò oltre il legno in frassino bianco un fastidioso per quanto piatto “Sei in ritardo. La porta è aperta, puoi entrare.” 
Eseguii e mi misi a sedere composta.
La stanza era poco ammobiliata.
C'era una specie di divanetto in pelle nera alle mie spalle; uno scrittoio altrettanto nero e infine due sedie di cui una la stava occupando adesso il mio peso.
La dottoressa arrestò all'istante tutti i suoi movimenti; si disinteressò delle carte sulle quali stava scrivendo, ripose la penna sulla scrivania, rilassò le spalle e mi guardò:“Allora Abby,” sospirò. Non si udiva nient'altro che la sua voce. Anche le lancette dell'orologio appeso al muro sembravano essersi bloccate. Le mosche non si azzardavano a volare neanche per sbaglio. “come vanno le cose?”



 

 

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Capitolo 3
*** 3. ***


Sleeping Brain

3.
I DON'T WANNA FIGHT THE WORLD ALONE





Francamente ero da sempre stata d'accordo con la frase “la colazione è il pasto più importante della giornata”. D'altronde, per lo meno il mio organismo aveva bisogno di parecchia energia affinchè affrontasse tranquillamente una nuova giornata, soprattutto in seguito ad undici ore di digiuno.
Nutrivo abbastanza spesso dei sensi di stanchezza che persistevano a presentarsi anche dopo il riposo. Ma probabilmente era una sensazione collaterale dovuta alla microcitemia. 
Ero particolarmente seccata dal solito menù che consisteva nei biscotti che la donna della mensa lasciava aperti ad indurire in maniera negligente, e che di conseguenza assumevano lo stesso sapore del cartone e si privavano del loro gusto originale. E infine c'era il latte caldo.
Odiavo il latte riscaldato. Gradivo molto di più quello freddo. Ma nonostante le mie ripetute richieste scritte alla cuoca, non c'era stato nulla da fare. Pertanto dovetti accontentarmi, pur di non arrivare esausta a fine giornata.
C'erano altri ragazzi seduti ai tavoli della mensa. Ognuno di loro conversava piacevolmente con il proprio gruppo sedutogli attorno, e probabilmente, a quanto mi capitava di sentire per caso a tratti, si raccontavano anche di quello che succedeva durante le loro sedute private. Idioti, pensai: quelle erano questioni personali che ognuno avrebbe dovuto mantenere per sé. E invece loro non si premuravano minimamente di non sbandierare ai quattro venti, quali fossero i problemi che li affliggevano. Forse non esistevano nemmeno dei problemi per loro. Magari si trattava soltanto di persone limiate ed esibizioniste, e che per giunta soffrivano al massimo di un'accentuata inclinazione al vittimismo. Io al contrario ero stata costretta a finire lì. Non lo avevo stabilito io. E  soprattutto sapevo già in partenza di essere perfettamente sana. Ma nonostante ciò, non raccontavo niente a nessuno di quello che mi passava per la testa.
Poco lontana da me, vidi Caroline. Come sempre pettinata ordinatamente, i capelli mai sporchi e le magliette più belle. Insomma, rimaneva miss perfezione nonostante fosse mentalmente disturbata. Si stava ingozzando di cereali integrali mentre sfoderava senza contegno la sua risata a fischietto. Desideravo con tutta me stessa strapparmi le orecchie con entrambe le mani, pur di non sentire lo squittio di quel ratto velenoso.
Caroline non era umana; era la peggiore feccia che l'umanità potesse contare nella sua storia e nelle lunghe liste di personaggi deplorevoli. Quando camminava muovendo le sue gambe per di più storte, mi sembrava di avere davanti una terrorista dell'Isis. Era crudele, e se qualcuno glielo rinfacciava lei reagiva con una risata. La sua personalità consisteva ristrettamente in questo: in una risata beffarda che a parer del suo ego risuonava anche ammirabile.
No, fidatevi, era una di quelle risate che ti facevano solo salire la voglia di puntarle una pistola alla tempia per poi premere piacevolmente il grilletto. E in quel caso l'omicidio sarebbe risultato giustificabile a tutti gli effetti, perchè aveva come fine la pace e la concordia comune. Avrei solo reso giustizia.
Mi risvegliai dal mio sogno ad occhi aperti come riemergendo da un teatro di sangue e distruzione. Dunque mi ricomposi e deglutii il sapore del liquido che sapeva di nocciola e cannella e che mi si era disperso in bocca. Avevo bisogno di acqua.

Il calore dei raggi solari si stagliava nei miei paraggi e batteva unicamente sulla mia testa. Mi sentivo indubbiamente felice di restarmene per conto mio in silenzio.
Finito di mangiare, mi infilai le mani nella tasca della vestaglia trovandovi un vecchio fazzolettino in quella destra.
Stavo ancora seduta al tavolo, sulla panca gialla da tre posti, ma che come al solito occupavo soltanto io.
Ero annoiata. Sbuffai e mi guardai intorno. Prima a destra, poi a sinistra. Con calma studiata, senza che a qualcuno potesse mai venire in mente che io lo stessi osservando o che stessi compiendo una sorta di analisi, solita di una psicopatica.
L'ombra di una persona si riflettè sullo strato di superficie del tavolo. Capii a chi appartenesse ancora prima che la mia testa scattasse verso l'alto.
“Non hai finito il latte.” Beth mi fissava spostando compulsiva lo sguardo da me alla tazza.
Ma chi era lei? Mia madre? Non era certamente affar suo che io bevessi quella disgustosa e puzzolente poltiglia bianca oppure no.
Serrando le labbra e roteando gli occhi, mi voltai altrove oltrepassando la sua brutta figura, irritata che fosse venuta proprio da me. Sperai che levasse le tende al più presto.
“Se non ti va, lo bevo io.” fece spallucce, dondolandosi avanti e indietro, prima sulla punta e poi sui talloni dei piedi.
Rilassai improvvisamente il viso dapprima irrigidito. Feci per rifletterci puntando gli occhi a vuoto. Spostai lo sguardo sulla tazza blu un'ultima volta. 
Di risposta, la mossi lentamente verso Beth, dall'altra parte del tavolo, senza rialzarla.
“Grazie.”
Pensai che non fosse per niente igienico quello che stava per fare, ma non le dissi nulla. Ovviamente.
Non ebbi il tempo per evincere con esattezza in quale momento successe, ma per qualche assurda ragione a me sconosciuta, Beth ricevette la mia sorta di “gentilezza” come un invito a sedersi insieme a me.
Battei più volte i pugni sul tavolo per attirare la sua attenzione.
Niente da fare, era troppo impegnata a sbrodolarsi mentre con le mani alzava la tazza e intanto piegava la testa all'indietro sempre di più.
Ma che problemi aveva?
Attesi che terminasse di bere e nel frattempo mi misi a martellare con le unghie sul legno cercando di smaltire la rabbia riversandola altrove.
Trattenni a bada le fibre del mio corpo che premevano a favore della violenza. Recuperai brevemente ogni briciolo di pazienza di cui ero dotata, affinchè non mi alzassi e non le mollassi un pugno dritto contro la faccia.
Ero in procinto di ricominciare a battere i pugni, magari con più veemenza, in modo tale che inevitabilmente questa volta non potesse evitare di sentirmi.
Ma una mano mi si piazzò inaspettatamente sulla spalla.

Girai il capo e gli occhi della Wilkinson mi salutarono con un sorriso.
Si sporse in avanti. “Dovrei parlarti due minuti in privato.” mi confessò bisbigliandomi vicina all'orecchio. Poi lanciò un'occhiata veloce a Beth che era rimasta seduta difronte a noi e adesso ci stava guardando.
“Solo due minuti, faremo veloce."ripropose sorridendo a tutte e due con una punta di benevolenza. Improvvisamente mi fu tutto più chiaro: la dottoressa doveva avermi vista per la prima volta seduta in compagnia di qualcuno, e di conseguenza aveva dedotto che io e lei fossimo diventate amiche.
"Ti lascerò libera di tornare dalla tua amica in men che non si dica.” disse infatti, in un tono che lasciava trasparire orgoglio per la mia apparente nuova vita sociale. Ma aveva capito proprio male.
Replicai scuotendo la testa e facendo cenno di no con l'indice della mano destra indicante Beth. Beth arricciò il naso per aggiustarsi meglio gli occhiali e sorrise con il volto improvvisamente velato di imbarazzo, disagio e.. tristezza. Non eravamo amiche e io non volevo sprecare il mio tempo con lei. Infatti mi alzai senza salutarla e in un gesto che sembrava un battito di ali, sfilai via dalla panca.
Percepii dietro di me lo sbuffo della Wilkinson e un debole “Lasciala stare. È fatta così.” Per la prima volta mi ritrovavo ad essere d'accordo con una frase che era uscita direttamente dalla bocca della strega, wow.
In quel momento mi venne in mente che l'ultima volta che avevo incontrato la strega, era stata la mattina precedente. 
La seduta si era conclusa come al solito in un monologo della dottoressa sul mio comportamento noncurante per la mia stessa salute. Perchè se volevo guarire dovevo cominciare a parlare con lei, raccontarle e spiegarle i miei motivi.
Ma quali erano questi miei motivi?Perchè dovevano esistere dei motivi? E perchè avrei dovuto confessarli a lei? Chi era lei?
Per ora mi limitavo a tenere certe scomode domande custodite gelosamente all'interno del mio cranio.

Salii di corsa gli scalini e udii le scarpe della Wilkinson fare lo stesso.
“Ehi, rallenta.”
Mi voltai un attimo per controllare dove fosse rimasta. Era appena dietro di me.
Mentre la risata corale di alcuni ragazzi scorreva infondo al corridoio, io e lei entrammo nello studio. Un dettaglio mi sfuggiva però al momento. Non era di certo l'ora della mia seduta.
Mi augurai di non aver commesso danni irreparabili o reati azzardati (impossibile, io non facevo mai niente), e approfittai del silenzio grave che era piombato sulle nostre teste e che era come se mi stesse opprimendo il cervello, per rannicchiarmi sulla sedia e iniziare a far battere le unghie sulla scrivania.
“Ti prego Abby, è fastidioso.” esclamò in tono di rimprovero.
Ritirai la mano e l'abbandonai sulla coscia. Ne riemerse il silenzio fastidioso di prima. E adesso?
“Allora, scommetto che vuoi sapere perchè ti ho chiamata, non è così?” Beh, in effetti si. Penso che chiunque si fosse ritrovato al mio posto avrebbe nutrito almeno un pizzico di curiosità a riguardo. Era normale.. 
Scomparve un secondo oltre la sua borsa per cercare di prendere il cellulare. Ricomparve e questa volta assunse una posizione più comoda, scaricando il peso del suo busto sui gomiti poggiati allo scrittoio. 
Io mi sentii fuoriluogo.
Poi, scoccando un'occhiata dispiaciuta, lei aggiunse:“Hai saputo di quanto è successo alla nostra povera Samantha, uh? Ho chiesto personalmente a Josh di fartene parola. È stata veramente una cosa improvvisa, non pensavamo che sarebbe stata capace di arrivare a tanto..” fu come se ad un certo punto la sua voce si fosse spezzata ed io riuscii quasi a sentirne il crac. Raccogliendone i pezzi, riprese a parlare con professionalità. “Ad ogni modo, temo che approfittando del posto, almeno per il momento Beth verrà costretta a trasferirsi nella tua stanza, che questo ti piaccia oppure no.” 
No, no, no, no, no. No!
No che non mi piaceva. Noncurante, ignorai le sue ultime parole e protestai ugualmente. Battei ripetutamente la suola delle converse sulle mattonelle in marmo grigio, nel mentre che scuotevo la testa animatamente per farle arrivare dritto e chiaro il messaggio: Non si azzardi ad appiopparmi quella lì. Non avrei più dormito la notte al solo pensiero di avercela difronte. Era pazza!
“Non accetto scuse, signorina.” Detestavo quando mi dava della signorina, mi sentivo presa in giro ed era tremendamente irritante! 
“Magari è la volta buona che ti fai un amico.” 
Oh per carità!
“Ora torna da lei come le ho promesso che avresti fatto e scortala educatamente con te.”
Non capivo, ma perchè doveva venire a stare da me? Non aveva già la sua camera, la sua compagna, la sua vita?!
Come se fosse stata in grado di leggermi nel pensiero (sperai vivamente il contrario, altrimenti, Dio che vergogna. Il mio cervello era un'area strettamente riservata. La privacy era tutto ciò che mi era rimasto.) la dottoressa aprì bocca per aggiungere ancora qualche altro particolare al suo catastrofico discorso. “Vedila in questo modo: a Beth è toccato dormire da sola negli ultimi due anni, fino ad oggi. Semplicemente perchè non erano rimaste altre ragazze disponibili.” 
E ci credo, quale povera sfigata avrebbe accettato che Beth alloggiasse sotto il suo stesso tetto? Oh, giusto, quella povera sfigata ero io adesso. “Magari anche lei è riservata, e timida..”
Certo, tanto è vero che alla mensa non era stata lei ad avvicinarsi a me, a rivolgermi la parola, ad assillarmi per uno schifosissimo rimasuglio di latte.
La strega stava fallendo miseramente, se il suo intento consisteva nel somministrarmi la notizia cercando anche di addolcirmi la pillola. Erano tutte parole che precipitavano a vuoto, le sue, distruggendomi.
Io non desistetti, ne mi smossi minimamente dalla mia posizione ferma. Ero coerente per quanto mi riguardava.
Ripresi la mia danza di opposizione con la testa. 
Ci fu qualche attimo scandito dal silenzio.
La Wilkinson si sporse in avanti, arcuando lievemente la schiena. E come avevo già affermato, non era solita assumere determinate pose.
Si abbandonò con la faccia nell'apertura delle mani, e per poco non mi convinsi che avrebbe anche cominciato a piangere. Ma era quasi scontato che non l'avrebbe fatto. E infatti riemerse da quella posizione massaggiandosi con i polpastrelli delle dita le palpebre congiunte degli occhi. Ma per via della stanchezza.
“Ascoltami bene Abby,” il suo, risuonava quasi come un tono di implorazione. “So che per te non è facile, che preferisci rimanere da sola, chiuderti nel tuo mondo e non permettere a nessuno di entrarvi. Capisco benissimo la tua diffidenza verso gli altri, il tuo scetticismo per le mie parole in particolar modo. Infondo chi sono io per te?” Mi ripresi solo in un secondo momento rendendomi conto di essermi persa e che senza fiato stavo pendendo quasi letteralmente dalle sue labbra. La strega mi capiva.. Interiorizzai quello che mi stava rivelando con non poco trasporto e provai a riflettere adeguandomi al suo ragionamento.
“Però devi capire che non esisti soltanto tu. Ci sono anche altre persone. Altri problemi da affrontare in questa clinica. Beth è la ragazza più dolce e gentile di tutto l'ospedale. Lei vuole solo sentirsi accettata. Vuole che qualcuno le dia finalmente la prova che si aspetta da anni che lei vale qualcosa e che c'è ancora qualcuno in questo mondo che ci tiene, che si interessa della sua salute. Quindi ti prego, non ti chiedo di parlarci. Ma almeno non fare in modo che la sua voglia di autodistruggersi riaffiori in lei ancora una volta. Ti prego di farmi almeno questo favore, perchè so che puoi farlo.” Attesi che finisse di sedimentare quelle parole. Scivolavano dalla sua bocca e come un ago pungevano la mia pelle.
Mi veniva improvvisamente da vomitare. La bile risaliva, ma era invisibile. Premeva sotto forma di particelle sottilissime ad altezza dell'esofago. Anche i miei occhi provavano la stessa sensazione. Ed era orribile.
Riversai lo sguardo a terra arrossendo violentemente. Non volevo piangere. Non difronte a lei. Queste soddisfazioni non gliele avrei mai concesse.
Mi misi a canticchiare parole a caso nella mia testa, quelle che venivano: you are my sunshine, you are my love, my heart..
Dio che schifo, i mass media mi avevano rammollito il cervello. Erano pieni zeppi di pezzi schifosi sull'amore e tra l'altro tutti molto uguali. Parole sdolcinate, messe insieme, e che per via della ripetitività perdevano ogni valore.
Ma almeno la voglia di piangere era finalmente sfumata via.
A quel punto fui in grado di rialzare il volto, e ne approfittai per farlo.
Ma la Wilkinson riprese a diffondere per lo studio parole rassegnate con la bocca. “Avanti torna pure dove vuoi. Proverò a chiedere a Vanessa e Ashley. Magari loro..”
Troncai il suo monologo in partenza, con un pollice alzato in segno di okay.
La Wilkinson passò in rassegna, dapprima sulla mia mano, subito dopo sulla mia figura, il suo sguardo che era stato come colpito da una frustata di disorientamento.
“Cosa significa?”
Mi sforzai anche di sorridere, per farle intendere meglio magari. Mi risultava davvero troppo, troppo pericolosamente facile accondiscendere a quella stronza patentata.
“Wow.” Fu il suo commento sorpreso.
“Grazie.” Sorrise di rimando.
E di che? Infondo non avevo fatto niente di grandioso.




 

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Capitolo 4
*** 4. ***


Sleeping Brain

4.
TODAY IS GONNA BE THE DAY 



 

Per ogni minuto che trascorreva, la depressione mi costava sempre di meno. A quel punto, tempo e umore erano entrambi diventati due concetti indirettamente proporzionali per me.
Era come se un grosso blocco di strato trasparente si stesse trascinando avanti e indietro dal mio cervello al ventre.
Il personaggio preferito, nonché protagonista, del mio libro altrettanto preferito, era deceduto.
Nell'ultimo capitolo la malattia lo aveva consumato e se l'era divorato lacerando via ogni candida cellula del suo corpo.
E sapevo meglio di chiunque altro, che la morte fosse parte integrante del corso naturale della vita. Infatti non ne ero spaventata. Egoisticamente, non mi preoccupavo nemmeno per la salute degli altri. Insomma, ero sola. A chi avrei dovuto porgere interesse? E soprattutto verso chi avrei dovuto versare lacrime? Non invidiavo la gente sotto questo punto di vista. Semplicemente perchè, per me, era di sicuro tutto molto più facile. 
Non ero cinica. Prevenivo.
Il protagonista, Ron, aveva ceduto erroneamente durante gli ultimi mesi della sua giovane esistenza, e aveva cominciato proprio in quel momento a concepire diversi tipi di sentimenti per le persone che lo circondavano. E questi ricambiavano quei determinati sentimenti. Aveva concesso all'ondata umana delle passioni il via libera e quindi di stravolgergli l'anima eliminando la sua pochezza. E il triste mietitore aveva bussato maleficamente alla porta per lui, come per gli amici, con una realtà che pesava il doppio del normale. 
Richiusi le mani a mo’ di battito, con la copertina del libro in mezzo, e nel chiudersi riprodusse un leggero tonfo.
Sfilai difronte allo specchio e mi sfuggì un'occhiata forse di proposito (ero pur sempre una ragazza) sullo specchio affisso alla parete in carta vetrati. La forma a cucchiaio che aveva assunto ultimamente lo strato di pelle sulla mia pancia mi disgustò terribilmente.
Mi sistemai nuovamente sul letto con le gambe incrociate per via dell'abitudine. 
Lanciai avidamente uno sguardo alle lancette dell'orologio che rintoccavano, augurandomi che il tempo non trascorresse così in fretta come invece si stava stringendo a fare.
Mi ero svegliata con qualche ora di anticipo e non ero più riuscita a riprendere sonno. 
Al contrario di me, Beth dormiva serenamente, con la testa sprofondata nel morbido del cuscino e ogni tanto la sua bocca emetteva fastidiosi rumori.
Glielo dovevo però. Accoglierla senza ulteriori lamentele, intendo. Per ogni particolare volta in cui l'avevo ignorata, o semplicemente disprezzata (anche limitatamente dentro alla mia testa).
Magari i miei pregiudizi su di lei si sarebbero rivelati sbagliati in seguito ad una conoscenza più approfondita, e l'avrei anche riconsiderata in qualità di amica.
Ma che cazzo sto dicendo? Oh Gesù…
Presi dal comodino accanto al mio letto l'mp3 corredato di bianchi auricolari e me li aggiustai entrambi nei padiglioni auricolari senza farmi mancare qualche impaccio e imprecazione.
Con le unghie delle dita destre ticchettai sulla coscia a ritmo di musica.
Era ancora presto, per fortuna. Disponevo di tutto il tempo necessario del mondo, per darmi una spinta e rimettermi in piedi, lavarmi, vestirmi, prepararmi alla bell'e meglio, e magari concedermi anche un aspetto carino per una buona volta. Ma non lo feci.
Lasciai scorrere via tutti quegli inutili pensieri e mi rilassai maggiormente, supina e comoda sul materasso.

“Queste ti servono?”
Giuro che adesso esplodo. Non la pianta di parlare da quando si è svegliata. Ma che ha al posto della lingua? E le sue corde vocali poi, non si stancano mai? Dio cosa darei per il solo privilegio di togliermela di torno. 
Lasciai cadere dalle mie mani al comodino il quadernino rosso che stavo controllando prima di uscire. Sbattei le palpebre, agitai la testa e mimai un no con la bocca. Non mi servivano adesso quelle stupide matite.
Beth continuò a maneggiarle maniacalmente quasi come le stesse studiando per decifrarne un qualche probabile significato simbolico. Poi tornò a guardare me. “Oh, posso prenderle?”
Stentai un sorriso che si deformò in verità in una smorfia indisponente, e con l'indice gliele indicai a mo’ di permesso.
Gli si illuminò un sorriso cordiale.“Grazie.” 
Scrollai le spalle per farle intendere che la mia azione non comportava niente di significativo e con la coda dell'occhio la puntai accigliata. Infondo si trattava solo di matite. E avrei continuato a trattare lei alla stessa maniera di tutti i giorni.
Grugnii e ripresi il quaderno fra le mani per poi sistemarlo nel fondo della tasca della vestaglia: mi toccava un'altra fantastica seduta.
Camminando fuori, ripensai alla domanda di Beth. Mi chiedevo a cosa le potessero servire quelle matite. Beth scriveva? Disegnava? Al solo pensarci mi misi a ridere.

Saltai la colazione e presi direttamente posto nello studio della dottoressa.
Lei non era ancora arrivata. Ed io ero in anticipo. Magari si sarebbe anche congratulata con me. Non mi andava molto a genio l'idea che si illudesse che io mi stessi iniziando a comportare bene per guadagnarmi la sua simpatia. Perchè non era affatto vero.
Allungai le gambe sotto alla scrivania e mi piegai con i gomiti di sopra.
Canticchiai mentalmente un particolare motivetto che mi era rimasto impresso dall'ultima volta che ero rimasta ad ascoltare la radio.
Non sentii nemmeno il pomello abbassarsi quando la porta si spalancò improvvisamente e io sobbalzai di colpo.
Dopo un accenno di secondo ne fece il suo ingresso una Wilkinson indaffarata e alla prese con un tablet nero dalla cover luccicante. Arrivata alla porta non si era ancora accorta della mia presenza.
Distrattamente mi diede un'occhiata veloce mentre era intenta a dirigersi verso la sua postazione. Mise da parte il tablet e risollevò il capo nella mia direzione, alquanto sbigottita potrei dire. “C-che ci fai tu, già qui?” 
Ora ci mancava soltanto che le rendessi spiegazioni anche per le volte in cui mi presentavo puntuale. Ero lì, bastava questo.
Riemersa per metà dallo shock, la strega prese ad accomodarsi silenziosamente, mettendosi seduta sul cuscinetto della sua sedia costosa. “Non posso negarlo, mi sorprende.” aggrottò la fronte.
Le concessi un sorriso che non sapeva ne di vero, ma nemmeno di falso. 
“Mi hai preceduta, comunque. Questa mattina in effetti avevo intenzione di scambiare giusto due parole con te a proposito di un'attività.. extra.”
Un'attività extra? Non presagiva nulla di buono quella frase..
Si grattò il capo e si schiarì la gola soffermandosi sulle sue unghie come vi fossero segnate sopra le parole giuste da utilizzare con me in quella circostanza. “Allora..” Indugiò. “come va?”
Ohh andiamo! Sempre la stessa domanda, sempre la stessa assenza di risposta. Mi ero convinta ormai che si trattasse di una prassi richiesta dal suo mestiere da strizzacervelli, quella di documentarsi insistentemente su come mi sentissi a riguardo? e dunque lei aveva l'obbligo di non sorvolare su determinati e inutili convenevoli. In ogni caso non era mica questo che doveva dirmi di tanto urgente, e glielo li si leggeva in faccia. La strega al momento divagava affinchè mi lavorasse bellamente a ricevere chissà quale sorta di notizia. L'ultima preparazione ad un discorso del genere risaliva al giorno in cui mi disse che avrei dovuto sottopormi al controllo ulteriore di altri medici perchè forse il problema risiedeva nel fatto che non le attribuissi fiducia sufficiente. Ma per quanto io mi sforzassi di darle ragione, alla fine constatai che non si trattasse assolutamente di questo.
“Sai Abby,” il mio nome pronunciato da lei con quel tono ghiacciato non prometteva niente che mi regalasse sollievo. Ma al contrario l'ansia mi stringeva. Il presentimento che mi aveva assalito all'inizio si andava trasformando lentamente in paura. Mi sentivo abbastanza pallida in viso e molto nervosa nel modo di pormi. “mi è capitato più e più volte negli ultimo tempi, di riflettere sull'evolversi delle nostre sedute. È evidente che non stiamo risolvendo il problema andando avanti in questo modo. Dobbiamo per prima cosa partire dalla radice; Tu ancora non parli con me e da quel che vedo non sei intenzionata a farlo. Quindi mi sembra necessario a questo punto, provare qualcosa di diverso, che credo proprio faciliterebbe la terapia.”
Ho capito: vuole scaricarmi ad un nuovo dottore. Meglio. Tanto l'odio e l'irritazione oramai erano diventati sentimenti puramente reciproci. Finalmente avrà capito che tra di noi non poteva venirsi a creare complicità e che..
“Che ne dici di prendere parte ad una seduta di gruppo?”
Io cosa?!
Per un istante temetti quasi che i miei occhi guizzassero fuori dalle loro orbite per il modo in cui ero scattata subito all'in piedi. Ma un attimo più tardi mi trovavo ancora a guardarla sconcertata e non avevo idea di come fare per convincerla che quella era una pessima, pessima opzione.
Non poteva dire sul serio! 
Non si era accorta, in tutti questi mesi, che io non ero capace di relazionarmi? 
Mi avrebbero preso tutti in giro. Questo significava una sola cosa: vergogna.
Anche ammettendo che sarebbe servito a qualcosa, non ci avrei provato ugualmente. Su questo ci avrei scommesso.
Tornai a rannicchiarmi sulla sedia ed evitai di incrociare il suo sguardo sbirciando altrove fuori dalla finestra.
“Sapevo che avresti reagito così.” riconobbe ad entrambe.
Ah si? E allora perchè me lo hai chiesto lo stesso?
“Ti propongo un patto.” mi disse piacevolmente.
Quella però era slealtà.
Si guardò intorno brevemente, come per assicurarsi che nessuno ci stesse ascoltando. “Fai un tentativo! Prova,” incalzò tra l'amareggiato e l'aspettativa. “E io…ti…ti concederò una settimana di libertà. Questo significa niente più sedute. Sarai libera di restartene a letto per i prossimi sette giorni.”
Io rimasi ammirata difronte a quelle parole. Una settimana senza terapia ripetei nella mia testa.
Da una parte il mio cervello restava propenso a ribadire un ennesimo e definitivo no, ma dall'altra… Si trattava pur sempre di una settimana di libertà.
Concordai annuendo e rivolsi la faccia verso il sole per catturarne il tepore e per nascondere-se era possibile- la titubanza sotto ai raggi luminosi.
La dottoressa si esaltò immediatamente e mi ringraziò assicurandomi che questa volta avrebbe funzionato sicuramente e che mi stavo dimostrando matura.. E altre stronzate insomma.

Quando entrammo, alcuni ragazzi erano già seduti sui loro sedili di plastica disposti in cerchio al centro della stanza. Quando mi videro, i loro occhi mi sottoposero ad un esame fastidioso e per niente educato. Si soffermarono poi sulla vestaglia che mi ero permessa di indossare. 
Accidenti, ero libera di scegliere da sola come riempire il mio armadio! 
La Wilkinson presentò solare il mio nome a tutti coloro che partecipavano alla sessione, inclusa la dottoressa Jackson. E non ci mancò che mi assicurasse ancora mille volte che sarei stata bene.
Strinsi le labbra. Mi sentivo paralizzata dal terrore. Dopo un paio di secondi il groppo in gola mi impediva quasi di respirare.
Mi accomodai accanto ad una ragazza dai capelli biondi e la guardai impietrita. Spostai il mio sguardo su ognuno degli altri pazienti. Sembravano spaventati quanto me, e la cosa per fortuna mi infuse un pizzico di sollievo in più.
“Abby?” mi richiamò alla realtà la Jackson sorridendomi gentilmente. “Vuoi cominciare? Puoi partire dal tuo nome o dalla tua età se preferisci.”
Sentii una strana nausea raggomitolarsi all'altezza dello stomaco. I pensieri gridavano indecifrabili nella mia testa. Avevano paura, anche loro erano atterriti quanto me. Le mie mani sudavano e si nascondevano a fondo nelle tasche del pigiama. I capelli celavano il mio volto resosi notevolmente rosso per il sangue che vi circolava.
Aria, avevo bisogno con urgenza dell'aria.
Seguendo un impulso improvviso, mi alzai dalla mia postazione, spalancai l'anta e scappai fuori dalla stanza.
Mi fermai e mi appiattii contro il primo muro che incontrai, ansimando irregolarmente.
“Abby!” Mi sentii richiamare in lontananza. Era la Wilkinson. Inveniva adirata contro di me. Era tornata la stronza di sempre. Cazzo
Sapevo che se mi avesse raggiunta, la sua pazienza avrebbe superato il limite massimo che invece aveva sviluppato pazientemente con il corso del tempo. E oltre a privarmi della mia settimana libera-che tra l'altro mi aveva promesso-, avrei passato chissà quanti e quali guai.
Avvertii ancora il suono velenoso della sua voce. Decisi di scendere di corsa le scale. Cavolo, non sapevo nemmeno dove andare a nascondermi.
I passi degli stivali col tacco a spillo risuonavano sempre più vicini e minacciosi alle mie spalle.
Per fortuna trovai una porta nelle vicinanze.
L'aprii senza preoccuparmi di domandare il permesso, o per lo meno bussare.
Le urla della strega si dispersero fino a svanire completamente.
A quel punto inspirai ed espirai, improvvisamente più tranquilla.
Soltanto quando mi richiusi la porta alle spalle e dopo essermi voltata, mi resi consciamente conto di essere piombata nel bel mezzo di una seduta.
Provai una stretta allo stomaco. Ma non era paura, la paura la conoscevo molto bene.
Con mia meraviglia, mi accorsi che c'era il ragazzo di qualche giorno prima. Il fresco. Quello con gli occhi del colore del cielo e lo sguardo fulminante.
Avevo spaventato sia lui che il suo psichiatra.
Mi guardavano come fossi un alieno appena atterrato da Marte.
Mi focalizzai sul ragazzo. Mi stava osservando con aria indagatrice, ed era piuttosto irritato.
Ci fissammo allibiti.
E quella, potei custodirla per sempre nello scrigno della mia memoria come la prima volta in cui i suoi occhi si accorsero dell'esistenza dei miei.




 

 

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Capitolo 5
*** 5. ***


Sleeping Brain

5.
WHEN I'AM ALONE I FEEL SO MUCH BETTER



 

Trassi un sospiro di sollievo e mentre mi accarezzavo la superficie della testa per darmi una leggera aggiustatina, mi meravigliai del fatto che, magnanimi, mi avessero concesso il privilegio di non assolvere alla mia seduta pomeridiana.
Rotolai di pancia sul letto ed evitai di badare a Beth che finora non aveva spiccicato una sola parola. Grazie a Dio.
Sotto alle coperte udii un rumore ovattato proveniente dalla porta che si apriva. E fu l'unico suono che intralciò l'immacolato silenzio della nostra stanza, quando un'infermiera vi allungò un passo di ingresso.
“Andiamo Beth, il dottor Martin ti aspetta.” L'aiutò a sollevarsi di peso offrendole l'appoggio di entrambe le mani per il sostegno.
“Ciao Abby, ci vediamo più tardi.” tentò di salutarmi Beth, sperando che io le concedessi una mia qualche reazione.
Quel pomeriggio, mi aveva nuovamente rivolto parole inutili e non solo, si era anche prodigata nell'intento di riuscire a farmi aprir bocca. Si era incollata in quella testolina caparbia l'idea assurda che magari un giorno, con più confidenza, e più fiducia, mi sarei aperta a lei.
Inutile dire in quali azioni si risolse la mia risposta. Insisteva, e per me era come parlare (metaforicamente) ad una botte forata.
E prima di coricarmi definitivamente, mi ero anche concessa il lusso di lanciarle un cuscino in piena faccia senza però farmi mancare il centro.
La sua voce persistente era calata fino a perdere del tutto il tono esaltato iniziale. “Okay” aveva mormorato come una bambina che non ha voglia di prestare ascolto ai propri genitori.
Ma io non ero sua madre. E lei non era la mia psichiatra. Dunque quella conversazione era sprovvista delle basi solide necessarie, affinchè si reggesse da sola in piedi.
“Ciao.” si sprecò di salutarmi aspra, l'infermiera del cazzo.
Alla cieca sollevai una mano in aria per salutare Beth, non quella stronza di infermiera di merda. E sperai vivamente che non ignorasse ma che afferrasse al volo l'intenzione che avevo avuto di dire ciao in esclusiva alla mia compagna di stanza.
Okay, forse sto esaltando troppo Beth, mi calmo.
Suonò la campanella degli hobby pomeridiani, e allora sloggiai fuori dalla tana. 
In me era presente un elemento differente che caratterizzava questa volta, da tutte le altre. Mi ero permessa di passarmi un tocco di matita nera sugli occhi, e mi ero anche pettinata e sbrogliata i nodi con ardore.
Appena ebbi terminato di prepararmi e fui pronta, mi introdussi in corridoio trattenendomi a chiudere l'anta della porta. Camminai lentamente fra le persone. Arrivai nell'aula di musica e guardai obliquamente le altre ragazze. Alcune di loro si stavano esercitando in un'orrenda coreografia di danza. La musica classica era praticamente impossibile da far piacere. A me perlomeno. Era fottutamente fastidiosa.
Non mi ero mai classificata come una persona tipica da Beethoven o Mozart, ma preferivo di gran lunga le melodie disordinate e chiassose. Le mie influenze erano improntate soprattutto dal genere rock.
Nella mia modesta opinione musicale, il rock presiedeva il trono al primo posto. 
Quel casino ritmato e armonico di strumenti pesanti paradossalmente filtrava al mio cervello un nuovo tipo di ordine.
Ritrovavo una parte della mia stabilità e della mia sicurezza. Nel rock non era necessario dimostrarsi eccellenti a suonare uno strumento, e non peccare nemmeno di uno stupido errore. O sottostare perfettamente alle regole, oppure agghindarsi come un albero di Natale soltanto per piacere agli altri. No, potevi essere uno che tirava avanti appena, ma venire lo stesso amato per la tua unicità da milioni di persone.
E poi, non ero sicuramente schiava della moda, quindi mi piaceva ascoltare musica diversa, o perchè no, anche migliore.
“Tu,” specificò con l'uso dell'indice la donna bionda che indossava un body ridicolosamente rosa. “sei in ritardo.”
No, ma io non ero lì per sgambettare i suoi passi di merda, volevo solo distrarmi un po’ e magari strimpellare malamente una vecchia chitarra.
Così, sforzando un sorriso imbarazzato le feci cenno di no con un'espressione di rincrescimento chiaramente falsa. Non mi andava proprio il balletto.
“Suvvia, non essere timida. Sei così carina, e quelle due stecche di gambe dovranno pur servirti a qualcosa.” persistette sottolineando tratti del mio aspetto che io invece non consideravo mai. Insomma, conservavo praticamente quella vestaglia incorporata addosso da secoli.
La mia, fu la medesima risposta di qualche secondo prima.
La donna fece come se non le avessi detto niente (beh, in teoria non le avevo detto niente, ma fatto sta che glielo avessi comunque mimato a gesti, e se lei era tanto stupida da non capire, non era colpa mia). “Andiamo, sbrigati che non abbiamo altro tempo da perdere. Dobbiamo completare la coreografia prima della fine dell'ora, vieni!” e questa volta me lo urlò praticamente contro.
Puttana.
Respinsi l'affermazione e la guardai con ferocia, infuriata. Non avrei potuto alzarle le mani addosso, non ero maleducata. E comunque si sarebbero messi poi tutti contro di me, per giunta dandomi della violenta e non andava bene. Tutto ciò non andava bene per niente perchè non mi conveniva affatto attirare l'attenzione, per nessun motivo al mondo.
Soffocando diligentemente l'irritazione concitata con dei pugni contratti, surclassai la sua acuta testardaggine. Sottintesi un definitivo ‘no’ e svogliatamente mi voltai e mi diressi su per le scale fino al piano degli strumenti. 
Era incredibile quanto spazio occupasse l'aula della musica, trattandosi pur sempre di un ospedale.
“Ohhh! Fa’ come credi!” mi sentii brontolare alle spalle.
Superai il ripiano con la batteria, e arrivai dritta alle chitarre. Dio, quanto mi sarebbe piaciuto imparare a suonare uno strumento del genere. Agitare magari le dita delicatamente o anche con maggior impeto perchè no, pizzicando le corde. Udire la musica che producevano i miei piccoli e deboli gesti, e godere di tutto ciò.
Ma contrariamente a come poteva sembrare, ero a conoscenza a malapena del significato di “accordare una chitarra”. Sapevo solo e più o meno che senza questa procedura, il risultato era un suono diverso ma peggiore.
Senza curarmi del fatto che la prima chitarra che presi fosse o meno accordata, me la disposi sulle gambe (probabilmente era errata anche la mia postura) e cominciai a strimpellare seguendo unicamente lo spartito dentro alla mia testa.

“Abby Moore.” Reagii allungandomi sulla poltrona e salpando all'in piedi non appena sentii freddamente fare appello al mio nome.
Attraversai rapidamente il gruppo di pazienti schierato in una fila disordinata e accettai anche la pillola bianca di quella sera.
L'ora soggiorno era ormai agli sgoccioli praticamente e mancavano esattamente due minuti e tutti si sarebbero riversati all'interno della caffetteria per cenare.
La routine a volte era stancante, ma preferivo non smuovere le acque, o c'era il rischio serio di affogarci dentro.
Lentamente e con scrupolosa disinvoltura passeggiai lungo le mattonelle restanti che mi separavano dalla mia porta.
La cricca di Caroline risuonava così chiassosa anche da lontano.
Ancora pochi passi…
“Dove vai?!” saltò su, alle mie spalle, Beth. E chi se non altri?
Questa volta non mi sprecai nemmeno di voltarmi contro la sua disgustosa faccia da psicopatica maniaca del cazzo. 
Oh no. Per colpa sua e del suo squittio acuto continuo, venimmo improvvisamente riprese dagli occhi invadenti dell'Adest che indugiava cautamente sull'entrata alle docce. L'Adest svolgeva tutti i compiti riferiti alla nostra cura fisica: igiene, vestizione..
Maledizione, mi stava guardando. Ora mi stava facendo cenno con la mano di raggiungerlo.
A mio malgrado, dovetti eseguire. Anzi, dovemmo. Beth mi stava fastidiosamente alle calcagna.
Un già consapevole tuffo al cuore mi percorse quando lo intravidi aprire bocca.
“Dove stai andando?”
Deglutii amaro. Perchè ce l'avevano tutti con me? Non ero mica l'unica che tergiversava ancora per i corridoi!
Cominciai di conseguenza a pormi come al solito sulla difensiva e gli accostai uno sguardo provocatorio,  che con mia sorpresa, precedette Beth.
“Stavamo andando a mangiare! Prima però ho chiesto ad Abby di trattenersi insieme a me perchè volevo passare in camera e mettermi addosso qualcosa di più pesante. Fa freddo, non trovi?” farneticò gesticolando. LEI mi aveva cacciata in quella spiacevole situazione. Ma fortuna che il suo buonsenso non fosse andato del tutto perduto. 
“Capisco benissimo Beth. Tu puoi stare tranquilla,” quel singolare così specifico non mi era per nulla chiaro. Mi accigliai, eppure nessuno parve accorgersene. Era come se tutto d'un tratto io fossi diventata magicamente invisibile. Magari. “Ma se il primario decide di farsi un giro e vi vede ancora qui, se la prenderà con le infermiere che ci andranno di mezzo, come del resto ormai è abitudine, per colpa dei capricci di alcune ragazzine impertinenti che occupano la maggior parte del loro tempo a considerare esclusivamente loro stesse.” Frecciatina poco irriguardosa nei miei confronti, devo dire. Nonostante non avesse menzionato il mio nome, era praticamente evidente a chi si fosse rivolto.
Di fatto non avevo commesso nessun reato, quindi il primario poteva anche andare a farsi fottere altrove. Solo, era tipico di me, che non mi andasse giù il fatto di dover cenare insieme agli altri. Ed era chiaro ormai che anche lui l'avesse afferrato.
Beth si schiarì la gola. “Si scusaci, non si ripeterà.” Legò la sua mano alla mia- ew, che schifo- e ci incamminammo nuovamente.
Quella ragazza adoperava un modo di parlare altamente veloce e confuso, che allo stesso tempo era capace di diffondermi sulla pelle tutta l'ansia che conteneva.
Secondo il mio umile criterio, Beth doveva fare pace con se stessa e riacquistare il pieno autocontrollo di sé, se mai ne fosse stata dotata. Era eccessivamente agitata. La sua, sembrava una perenne corsa ad ostacoli.
Appena fummo in un'altra corsia sciolsi bruscamente la stretta di mano. Pensai per un momento di dover ringraziarla. Ma ehy, no. D'altronde era in debito con me e soprattutto me lo doveva.
“Dai Abby scusami ti prego! Non l'ho fatto apposta. Non sapevo che stessi evitando la cena.” cominciò a lagnare, fastidiosamente per i gusti solenni delle mie orecchie. 
Con una pacca impacciata sulla spalla sperai perlomeno di farla ammutolire. 
Dai miei occhi si liberò un'esortazione a rassicurarla. Evidentemente ci riuscii, perchè per il resto del tragitto, regnò un melodioso silenzio.

Il buio non si classificava esattamente come un qualcosa di cui andarne pazza. Al contrario, mi aveva da sempre destato il terrore. Non che fossi solita immaginare scene macabre come un uomo dal volto coperto con un mantello e cappuccio neri ed un'ascia impugnata nella mano che improvvisamente arrivava alle mie spalle e mi assaliva.
Vedete, voi sareste in grado di guidarvi senza problemi in uno spazio privo di alcuno sprazzo di luce? Ecco, io non credo si tratti di un'impresa resa così facile. 
Non era mica un caso se io non riuscissi a concentrarmi sul temere i mostri, quando esisteva ben altro di cui preoccuparsi in situazioni oscure. Temevo semplicemente un'oggettiva ed estrema tendenza naturale al disorientamento. L'innato terrore di ritrovarmi al buio e non sapere minimamente come muovermi non mi piaceva affatto, mi rendeva vulnerabile. Ma era sicuramente una cosa da me.
E odiavo che in quel fottuto ospedale spegnessero le luci così presto.
Scoprii in poco tempo che la strada si era quasi esaurita e che io non vedevo l'ora di buttarmi a capofitto nel mio invitante letto.
Qualcosa però piombò a rompere i miei piani.
Sentii delle mani afferrarmi per i fianchi pesantemente coperti in una presa salda, e allora mi saltò il cuore in gola. 
Fui strappata indietro violentemente e spinta contro un altro corpo.
Dalla mia bocca si liberò un incontrollato gemito di paura che si strozzò in mezzo alla gola a causa di quella mani che adesso mi premevano sulle mie labbra.
Forse la storia dell'uomo con l'ascia non era del tutto inventata.
Provai un crescente allarme che mi si radicò nel cervello sfociando in un istantaneo capogiro.
Quella presenza così estranea era tutt'altro che rassicurante. E il soggiorno dell'ospedale, a quell'ora di notte, tra i residui di sottili strisce di luce che illuminavano la stanza, riallacciava l'aspetto del set di una vecchia pellicola horror. 
Un istante, che a mio malgrado parve durare un'intera vita, ed una bocca delicata ma aspra che faceva pressione per parlare direttamente contro il mio orecchio. “Non ti permetterò di mandare all'aria il mio piano, ragazzina.” 
E non fui mai veramente in grado di realizzare con effettiva precisione, a cosa furono dovuti tutti quei brividi che mi percorsero deliberatamente la colonna vertebrale.




 


 
 
 

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