Cuore di dea

di jellyfish
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cuore di dea ***
Capitolo 2: *** Tre bambine dal destino già segnato ***
Capitolo 3: *** Cambiamento e incontro ***
Capitolo 4: *** Sogni e litigi ***
Capitolo 5: *** Confessioni e nuovi compiti ***
Capitolo 6: *** Lui ci può vedere ***
Capitolo 7: *** Punizione ***
Capitolo 8: *** Anni dopo ***
Capitolo 9: *** Piccola bugia e un' altra confessione ***
Capitolo 10: *** Rischio ***
Capitolo 11: *** Disobbedienza scoperta ***
Capitolo 12: *** Degenero ***
Capitolo 13: *** Flaren ***
Capitolo 14: *** Salvataggio ***
Capitolo 15: *** Passato... ***
Capitolo 16: *** Rabbia ***



Capitolo 1
*** Cuore di dea ***


I

Salve! Ecco la mia nuova storiella, spero che a qualcuno piaccia!!! La vera storia in realtà inizia tra un po’ ma dovevo per forza iniziare così o non si sarebbe capito niente. Per favore se a qualcuno piace mi lasci scritto almeno due righe per farmelo sapere!!! Se no mi passa la voglia di continuare a scriverla! Se poi pensate che sia tanto terribile ditemelo comunque così almeno cerco di migliorare e, se proprio devo, cancello tutto e riscrivo… adesso vi lascio alla lettura del primo capitolo. Bye ^^

I

 

-Mio signore, la vostra futura sposa è arrivata- era stato il piccolo e timido Tonke a parlare, un semi-dio dalle sembianze di un ometto piccolo e quasi insignificante, con la voce stridula e incerta e un’espressione da ingenuo continuamente stampata sulla faccia. Il suo interlocutore? Il maestoso e potente dio della morte e della guerra: Balor. Alle parole del servo, la sua reazione è strana; la fronte severa si riempie ancora di più di rughe, la mascella, già dura di suo, si irrigidisce e si serra; l’occhio aperto, quello che non distruggerebbe tutto ciò che si trova ai suoi piedi con un solo sguardo, si incupisce e si socchiude, lasciando intravedere solo una macchiolina del suo verde brillante. Non sembra molto contento dell’incontro con la sua sposa.

-falla entrare- la sua voce un tuono, cupo come il suo aspetto. Decisamente non sembra un uomo che varrebbe la pena di sposare. Ma quale donna, seppur una dea, poteva opporsi alla sua volontà di diventare sua moglie, quando quello sfortunato giorno egli decise di prendere moglie? Nessuna. Nessuna ne aveva il coraggio. Era il padre di tutti gli dei dopotutto.

Il piccolo Tonke, servitore del dio da ormai secoli, corse fuori dall’imponente stanza reale per fare entrare la sposa. La stanza era davvero regale, il trono su cui sedeva Balor era di legno finemente lavorato e magnificamente intarsiato, con alcune parti ricoperte interamente d’oro. Il trono era appoggiato alla parete di fronte alla porta, una porta in legno massiccio come il trono stesso e riccamente decorata con incisioni di manifattura divina. Davanti ai piedi del dio, c’era un enorme tappeto rosso morbidissimo e in un angolo dell’enorme sala c’era un piccolo tavolo apparecchiato con le più dolci delizie che un uomo o un dio potesse desiderare. Tutto nella stanza profumava di sfrenata ricchezza.

Ad aggiungere ancora più bellezza e meraviglia alla sala del dio Balor, fu la comparsa di una donna, anzi di una dea. Era la bella Branwen. Anche il freddo Balor non poté esserle indifferente; la sua bellezza spezzava il fiato e fermava per un attimo il cuore. Non per niente era la dea dell’amore. I capelli rosso fiamma le ricadevano sulle spalle come una cascata impetuosa, domata da due treccine molto fini, che partivano dalle tempie per poi unirsi in un’unica treccia sulla nuca. In forte contrasto con i capelli erano gli occhi; avevano un taglio orientale, leggermente allungati, ed erano di un celeste glaciale, più azzurri del cielo in primavera e più cristallini dei freddi ghiacci della loro gelida isola, invisibile agli occhi degli umani. Il viso aveva una dolcezza infinita che veniva trasmessa soprattutto dall’espressione dei suoi occhi e raggiungeva chiunque. Il suo fisico era perfetto a dir poco; alta, con la vita sottile e un portamento fiero che imponeva a tutti di portarle rispetto, oltre che amore incondizionato. Balor aveva saputo scegliere bene la sua consorte.

-e-e-eccola mio signore. La dea Branwen- anche il servitore era rimasto ammaliato dalla stupenda donna che aveva avuto l’onore di accompagnare dal suo signore. I due futuri sposi si osservarono a lungo, prima che lui iniziasse a parlare, interrompendo le fantasticherie del servo, che si era come incantato a fissarla con i suoi piccoli occhietti color nocciola.

-serviteci da mangiare e da bere, non voglio che la mia ospite, nonché futura moglie muoia di fame- il dio aveva quasi sorriso, nel limite delle sue possibilità ovviamente; le labbra erano talmente poco avvezze al sorriso, che fu per lui un’impresa ardua allargarle in una parvenza di sorriso. Anche la bellissima dea sorrideva, ma di un sorriso completamente finto. Come poteva lei, dea stupenda, sposare uno come lui? Un uomo alto e muscoloso sì, ma dall’aspetto così rude e arcigno, con quei capelli spettinati e disordinati, una benda sull’occhio destro e quella voce tonante e per niente musicale? Erano così diversi, eppure aveva acconsentito al matrimonio, non aveva avuto altra scelta a dir la verità. Quando si era sparsa la voce, attraverso i diversi messaggeri alati, che il dio della morte cercava una compagna, si era sparso il terrore tra le figure femminili divine. Tutte sapevano di essere possibili candidate, sapevano che il potente dio non si sarebbe mai accontentato di una qualunque mortale o semi-dea. Sicuramente avrebbe voluto una delle più belle dee dell’isola. E così infatti era successo, aveva scelto niente di meno che la dea dell’amore, la dea più bella tra tutte, insieme alla dea della bellezza stessa. Di tutte, infatti, erano queste due ad avere avuto più paura di tutte e a ragione.

-allora, mia cara, celebreremo le nozze il prima possibile. Giusto?- i suoi occhi erano puntati con aria di sfida in quelli fieri di lei, come a volerla invitare a dirgli di no.  

-e come potrei dirvi di no, mio signore?- la sua voce era dolce almeno quanto il suo volto e non c’era nessuna traccia di provocazione, sparita anche dai suoi occhi, dove però si poteva ancora leggere molta la fierezza. Adesso Balor stava cercando di regalarle un altro sorriso; due tentativi nello stesso giorno: una gran novità portata dall’idea del matrimonio.

-bene, mangiamo pure adesso- e addentò un pezzo di una coscia di maiale, in modo piuttosto maleducato e poco fine. Branwen represse un lieve conato di vomito, vedendo il suo futuro marito ingozzarsi così, e cercò di non fargli notare il suo sguardo di schizzinoso disappunto. Distolse lo sguardo e iniziò anche lei a servirsi di un po’ di cibo, che iniziò a mangiare con educazione, sperando di mettere in imbarazzo l’altro di fronte a sé, ma senza risultati apparenti. Egli continuava a mangiare con la stessa foga di prima, senza badare alla sua ospite che gli indirizzava sguardi un po’ sorpresi e un po’ dispiaciuti nel vederlo mangiare così. Terminarono il pasto in silenzio, prima che Balor ordinasse a Tonke di sparecchiare la tavola e di lasciarli soli.

-vi accompagno a vedere il nostro giardino, sono sicuro che lo troverete di vostro gradimento- stavolta non tentò di sorridere di nuovo. Lei invece gli sorrise per fargli capire che l’idea le era gradita, anche se in realtà dentro di lei stava urlando e piangendo, al solo pensiero di essere da sola con lui in un immenso giardino. Se pensava che sarebbe stata la sua compagna per l’eternità, si sentiva svenire, quindi meglio non pensarci e continuare a sorridere per compiacere il suo accompagnatore. Ma dentro la sua testa e il suo cuore continuava a ripetersi che era impossibile che stesse per sposare quell’individuo; lei, la dea dell’amore, che si sposa con un uomo che non ama e che non a sua volta non la ama, ma vuole solo avere degli eredi da iniziare alla sua terribile professione? Un’ombra le apparve sul tenero volto e venne riflesso dai suoi occhi in una fontanella che il suo promesso le stava mostrando. Stava continuando a parlare per spiegarle come era stato creato quel magnifico giardino, ma lei non stava ascoltando una sola parola, persa completamente nei suoi pensieri, e non stava nemmeno osservando nulla del giardino, anche se sicuramente le sarebbe piaciuto, se ammirato in un altro momento. Balor si accorse della sua assenza.

-non è di vostro gradimento, cara?

-no, no di certo. È tutto meraviglioso, ma sono molto stanca e vorrei ritirarmi nella mia camera, se non vi dispiace.

-ma certo. Vi accompagno personalmente- la riportò in casa e la condusse in una camera enorme, immediatamente di fianco alla sua.

-la vostra camera è vicinissima alla mia, se avete bisogno di qualcosa non esitate a chiamarmi- e poi aggiunse, indicando una ragazzina dall’aria allegra che la fissava, tutta contenta di avere una padrona così bella da servire –questa è Olimpia, sarà la vostra cameriera e dama di compagnia, spero che andrete d’accordo-

-sarà sicuramente così, grazie mio signore- ed entrò nella sua nuova e lussuosa camera. Iniziò a guardarsi intorno.

Anche quella camera era enorme e sfarzosa, esattamente come la stanza dove aveva pranzato con Balor. Le pareti erano decorate con pannelli color pesca e alle finestre le tende erano abbinate con lo stesso colore ed erano di un tessuto morbidissimo; sulla parete a sinistra della porta c’era un grande armadio, sicuramente già pieno di bellissimi vestiti della sua misura. Sulla parete di fronte all’ingresso c’era il gigantesco e stupendo letto a baldacchino, con delle coperte di seta anch’esse abbinate alle pareti e alle tende e i cuscini grandi e morbidi di una tonalità in contrasto; tutto era circondato da un fine e sottile velo leggerissimo e morbidissimo, che celava in parte la vista dell’interno del letto agli osservatori esterni. In un angolino della camera c’era poi un lavabo in finissima porcellana, decorata con disegni fatti a mano, e una specchiera, con appoggiati sul ripiano i profumi più delicati che una donna potesse desiderare. Era tutto stupendo, ma sembrava più entusiasta la serva che la padrona.

-vuole riposare, mia signora?- la vocetta allegra e giovane della cameriera aveva distolto Branwen dall’osservazione della camera.

-sì, grazie. Ma ti prego almeno tu, non chiamarmi mia signora, mi sento una vecchia.

-e come volete che vi chiami?- Olimpia era sorpresa, tutto si aspettava, tranne che quella dimostrazione di confidenza da parte di una dea così bella e regale.

-Branwen andrà benissimo, grazie Olimpia. 

-va bene Branwen- la dea iniziò a pensare che quella ragazzina che la serviva sarebbe stata la sua unica amica in quell’enorme palazzo, che per lei era già una prigione dorata.

 

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Le nozze erano programmate per due giorni dopo il loro primo e unico incontro; Balor non si era certo preoccupato di passare del tempo con lei il giorno successivo ad esso, tutto preso com’era ad organizzare nel minor tempo possibile il matrimonio. Da come erano state progettate, sarebbero state le nozze più sfarzose che si fossero mai viste sull’isola degli dei. Migliaia di servitori erano alle prese con l’organizzazione, Balor voleva che tutto fosse perfetto e indimenticabile, sia per lui che per la sua signora. La cosa sicuramente più spettacolare di tutte era il magnifico vestito della sposa. Branwen era nella sua camera e Olimpia la doveva aiutare a vestirsi, cosa non molto semplice con un vestito tanto elaborato. Era di un bel bianco panna, con delicati ricami colorati sullo stretto corpetto e sul bordo della gonna, che si allargava dolcemente dalla vita in giù; magnifiche e rare perle bianche seguivano i ricami dorati, sia sul corpetto, che sul bordo della gonna. Sul corpetto inoltre, c’erano ricchi merletti lavorati a mano, che continuavano fin sulle maniche, le quali erano aderenti alle braccia fino al gomito, per poi allargarsi fino in fondo. Tutto era accompagnato da un paio di scarpe lucide, dello stesso colore del vestito e da una fine coroncina di perle. Con tutti i nastri per allacciarlo sulla schiena, era davvero impossibile indossarlo senza nessun aiuto.

Per fortuna, Olimpia fu molto abile nell’allacciarle tutto e in poco tempo la splendida dea fu pronta per il suo matrimonio imminente. Solo la sua espressione non era radiosa, come dovrebbe invece essere per una sposa nel giorno delle sue nozze. Altro che radiosa, si sentiva come una condannata nel giorno della sua esecuzione; una bellissima lucciola imprigionata in un vaso di vetro, un magnifico e decorato vaso di vetro, ma pur sempre una prigione. Uscì con passi lenti e leggeri dalla camera, accompagnata dalla serva, e si diresse verso l’enorme giardino decorato a festa per la grande occasione. Nel giardino sembravano essere riuniti tutti gli dei maggiori dell’isola, standoci perfettamente, senza essere stretti. Non c’era un solo albero che non fosse decorato con luci, gigli bianchi o lunghi nastri color panna; non un solo tavolo che non fosse apparecchiato con le più superbe delizie paradisiache e decorato anch’esso con candele candide e fiori di ogni tipo, tutti rigorosamente bianchi o color panna. Non si era mai visto nulla del genere.

Branwen si sentì quasi mancare, ma fu prontamente sostenuta da Olimpia e nessuno se ne accorse; si stampò sul grazioso viso un sorriso che non aveva nulla da invidiare ai sorrisi di vera gioia presenti sulle facce degli invitati. Anche Balor riuscì a sorridere, anche se non con molta grazia. La cerimonia si svolse con la massima solennità, celebrata dallo stesso dio della guerra. Mentre parlava il silenzio era il più assoluto possibile, nessuno fiatava, gli invitati quasi non respiravano per paura di disturbare Balor e Branwen. In compenso, dopo la cerimonia, tutti si lasciarono andare ai bagordi, alle danze e ai canti, per festeggiare come si deve i novelli sposi. Tutti sembravano così felici per la nuova coppia… tutti tranne la sposa. Aveva una paura cieca e folle del nuovo marito e aspettava con crescente orrore il momento in cui sarebbero rimasti soli, magari in una smisurata camera da letto. Ma sapeva che quel momento di panico sarebbe arrivato, non poteva scappare, sarebbe durato per sempre. Doveva cercare di abituarsi all’idea, per quanto terribile fosse.

 

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Capitolo 2
*** Tre bambine dal destino già segnato ***


II

II

 

Nove mesi dopo quel matrimonio indimenticabile, anche se non nel senso positivo della parola, Branwen stringeva tra le braccia una piccola bambina strillante, che reclamava insistentemente di essere nutrita. A vederla appena nata, non era tutta questa bellezza, ma la madre in cuor suo era convinta che sarebbe diventata una vera meraviglia. Il padre, appena sentiti gli strilli acuti di un neonato provenire dalla camera della moglie, si precipitò da lei con il cuore in gola. Era ansioso e spaventato allo stesso tempo, non aveva mai avuto altri figli e aveva paura che qualcosa potesse andare storto. Non era preoccupato tanto per la madre, ma per il figlio. Il figlio. Doveva essere un maschio. Assolutamente un maschio. Si era sposato per questo e per nessun altro motivo: poteva avere nel suo letto tutte le donne che desiderava anche prima del matrimonio, non aveva bisogno dell’amore e dell’affetto di nessuna moglie, ma necessitava di un erede legittimo. E doveva essere un maschio, per accollarsi, una volta cresciuto, parte dei doveri del padre. Balor, infatti, era stanco, tremendamente stanco del suo lavoro; ogni volta sempre la stessa cosa, era da tutta l’eternità che andava avanti così e ora da solo non ce la faceva più. Gli umani erano continuamente destinati a morire a causa della loro natura fragile e doveva esserci per forza qualcuno che ne prendesse l’anima e la trasportasse nella loro destinazione finale. Sarebbe stato più semplice e meno faticoso se il dio della morte avesse avuto un aiutante. 

Entrato nella stanza, vide la bella moglie rossa in viso e con ciocche di capelli sudati che le ricadevano scomposti sulla fronte bagnata. Sapeva essere stupenda anche in quel momento. Stringeva tra le braccia una creatura minuscola, che Balor difficilmente immaginava come il futuro aiutante del dio della morte. Branwen stava cullando dolcemente la creatura e gli occhi le brillavano per la felicità; anche il suo consorte era felice, si avvicinò a lei e accarezzò la piccola sulla testolina, dalla quale spuntavano un paio di ciuffi bianco candidi.

-mi piacerebbe chiamarla Badb- la voce della dea era bassa e più dolce e soave del solito, mentre guardava incantata la sua bambina. Non notò lo sguardo di disappunto del marito.

-la? Mi state dicendo che è una bambina?- nella voce di Balor si poteva leggere una pesante nota di rabbia e collera. Dov’era il suo erede? Cosa se ne faceva lui di una femmina?

-sì, caro, è una bellissima bambina. Non siete felice?- gli occhi di Branwen si erano spostati dalla figlia al marito ed ora avevano cambiato completamente espressione, adesso erano furenti per le parole del dio. Rispose alla rabbia del marito con un tono di accusa che lasciava spazio a ben poche repliche. Il marito non rispose, ma semplicemente uscì dalla camera con il volto più scuro e ombroso di sempre, terribilmente deluso dalla nascita di quella bambina.

Quella stessa scena si ripeté per altre due volte. A distanza di una decina di mesi dalla prima, chiamata poi Badb, nacque Macha, la secondogenita. Per concludere il trio, dopo circa un anno di distanza da Macha, arrivò anche Nemain. Erano tre bellissime bambine, ma Balor odiava tutto questo. Provò e riprovò ma la moglie non rimase più incinta. Dovette così accontentarsi di tre figlie femmine e non smise mai di rinfacciarlo alla povera Branwen, che al contrario di lui era al settimo cielo e non batteva ciglio davanti alle accuse del suo infelice sposo. Tutti i servitori degli dei erano a conoscenza della frustrazione del dio della morte, anche se egli si confidava solo con il timido Tonke.

-cosa posso fare? Volevo un maschio che potesse alleviare il mio peso, non tre femminucce! Non mi servivano altre tre dee dell’amore sull’isola!- gli stava salendo la rabbia che aveva cercato di reprimere fino a quel momento e il povero Tonke cominciava ad aver paura dei suoi sbalzi d’umore.

-non lo so, mio signore, se proprio non ci sono più speranze che nasca un figlio maschio, potreste sempre ricorrere ad un’amante e riconoscere il figlio bastardo, non sarebbe la prima volta che accade sull’isola

-no, non potrei mai! Lo saprebbero tutti che non è mio figlio legittimo! Non sarebbe rispettato! Ho bisogno di un erede legittimo!

-allora non lo so proprio… non credo che potreste educare le vostre figlie al vostro lavoro, non è proprio un mestiere che conviene a una donna- una risatina nervosa proveniva dalle labbra del servo. Un’idea iniziava a farsi strada nella mente del dio. Infondo erano pur sempre delle piccole dee, perché non potevano diventare tre dee della morte, invece che tre dee dell’amore? Senza nemmeno rispondere al servitore, che rimase lì impalato senza nemmeno avere il tempo di fare un inchino al dio che usciva dalla sala, corse dalla moglie che giocava con le bambine. Branwen stava tenendo in braccio la più piccola, Nemain, mentre Olimpia nutriva Macha e Badb, già più grandicella, giocava con l’orlo ricamato della veste della madre, sul letto, vicino a lei. La dea e la sua serva girarono di scatto la testa verso la porta che si apriva violentemente e Olimpia, quando riconobbe la figura che stava entrando nella stanza, prontamente fece un inchino con la testa; la piccola Nemain si spaventò, a causa del rumore della porta, e iniziò a piangere e a urlare a squarciagola tra le braccia della madre. Branwen si accigliò per la maleducazione del marito e se la prese con lui.

-non potreste entrare con un po’ più di grazia e delicatezza, almeno nella camera delle bambine?- aveva smesso di essere gentile con lui da dopo la nascita della seconda bambina.

-entro come mi pare e piace, cara moglie, e adesso fate smettere questo rumore insopportabile!

-vi ci dovreste essere ormai abituato a questo rumore insopportabile dopo tre figlie- il tono di Branwen era calmo e pacato, ma si poteva udire una venatura di cipiglio e risentimento verso il freddo marito.

-già tre figlie! Tre figlie femmine. Non siete stata nemmeno capace di darmi un maschio, ma adesso ho io la soluzione

-di cosa state parlando? Non vi lascerò toccare le mie bambine!

-fino a prova contraria sono anche le mie bambine! Quindi vedete di cambiare linguaggio e di iniziare a usare la parola nostre

-e da dove viene fuori tutto questo vostro interesse per loro?

-saranno le mie eredi. Diventeranno il mio braccio destro. Appena avranno compiuto tutte cinque anni, le educherò io, come più mi aggrada. Mi avete capito?- la dea sgranò gli occhi, ma si ricompose immediatamente.

-sì, ma non ho intenzione di ascoltarvi. Non me le porterete via e non ne farete dee di morte e di disperazione come voi! Non lo permetterò!- la voce della dea adesso era forte e acuta, disperata quasi. Sapeva benissimo che le sue erano solo vuote minacce, Balor avrebbe fatto comunque quello che voleva e nessuno lo avrebbe mai fermato. Anche lo stesso dio ne era consapevole, tanto che non le rispose nemmeno, come se non l’avesse nemmeno sentita, e uscì dalla porta, con la stessa violenza con cui era entrato e questa volta tutte e tre le bambine iniziarono a piangere. Olimpia era sconvolta quanto Branwen, non riusciva a credere che un padre potesse fare una cosa del genere alle figlie e alla moglie. La povera Branwen invece era completamente distrutta da quella decisione, presa così all’improvviso, e iniziò a piangere silenziosamente; le lacrime perlacee le rigavano delicatamente il viso, rendendola, se possibile, ancora più bella, nonostante la sua palpabile sofferenza, e scesero lente sulla nuca della piccola Nemain che piangeva. L’unica cosa che ancora la consolava era il fatto che mancasse ancora tempo al quinto compleanno di tutte e tre le figlie e nel frattempo Balor avrebbe anche potuto cambiare idea o lei gli avrebbe dato il tanto desiderato figlio maschio.

 

 

Grazie a ­_sefiri_ per aver commentato il primo capitolo! Spero che anche questo ti sia piaciuto! Grazie anche a chi ha solo letto, anche se un commentino lo potreste anche lasciare, tanto che cosa vi costa??? Bye^^

 

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Capitolo 3
*** Cambiamento e incontro ***


III

 

III

 

Erano passati anni da quello sventurato giorno, ma non era successo nulla di quello in cui Branwen aveva sperato. Suo marito non aveva cambiato idea e lei non era rimasta più incinta. Tutte le sue minacce erano completamente cadute, vane parole sparse al vento; Balor aveva ottenuto come sempre quello che voleva: le tre figlie, una volta che la più piccola compì i cinque anni, furono portate via dalla madre e affidate al padre. Vivevano tutti insieme, ma la casa del dio era talmente grande, che non gli fu difficile tenere Branwen separata dalle bambine. Per anni la dea non seppe più nulla delle sue figlie; viveva nella completa apatia, aveva anche smesso di fare finti sorrisi per compiacere il marito, che non la aiutava di certo, non parlando mai di quello che faceva alle figlie. Ogni volta che Branwen cercava di sapere qualcosa e provava a fare domande, Balor la zittiva o, se era di umore un po’ più allegro, le rispondeva di non preoccuparsi inutilmente perché le bambine stavano bene. La madre non si sentiva assolutamente consolata dalle sue parole, abbassava lo sguardo e dentro di sé urlava e piangeva per la rabbia e l’impotenza. Non smetteva però di tentare, continuava a chiedere notizie delle figlie, nella speranza che un giorno il marito cambiasse la sua risposta. Un giorno ciò accadde e la dea quasi non credette alle sue orecchie.

-smettetela di domandarmi delle vostre figlie, adesso vedrete con i vostri stessi occhi cosa ne è stato di loro, così la smetterete di assillarmi- il tono con cui aveva parlato spaventò a morte la moglie: era un tono fiero, come se il dio fosse molto orgoglioso di quello che aveva fatto e questo non preannunciava nulla di buono alle orecchie della dea, che a quelle parole quasi si sentì svenire. Come sempre la cara Olimpia la sostenne e le permise di non cadere dalla sedia sulla quale era seduta, accanto al tavolo da pranzo nell’enorme sala, dove la prima volta aveva conosciuto il suo attuale marito. Sgranò gli occhi celesti, puntandoli contro la figura del marito di fronte a lei, cercando in qualche modo di leggere in quelli verdi di lui un qualsiasi indizio che la aiutasse a sperare che non fosse successo nulla di male. Vedendo quello sguardo da cerbiatto impaurito negli occhi della moglie, Balor si lasciò sfuggire un sorriso, o almeno un ghigno freddo che impiegava l’allargamento delle labbra e la vista dei denti. Chiamò a gran voce le figlie. Sua moglie si girò verso l’entrata della sala e vide la grande porta aprirsi con delicatezza. Le tre ragazze che entrarono da quella porta non erano più le sue belle bambine che giocavano spensierate con l’orlo della sua elegante veste; erano profondamente cambiate. Innanzi tutto nell’aspetto.

La prima ad entrare nella sala sotto lo sguardo sconvolto della madre e quello orgoglioso del padre fu Badb, la loro primogenita. Era una ragazza stupenda: alta, snella, con un fisico perfettamente modellato e un portamento imponente come quello del padre e, sempre come lui, il suo viso presentava tratti severi e rigidi; aveva lunghi capelli bianchi, con accesi riflessi argentei, che le ricadevano sulle spalle in morbide onde setose, senza alcun fiocco o ornamento ad abbellirli. I suoi occhi avevano preso il colore della madre e in parte anche quello del padre: erano celesti chiarissimi, con però delle leggere sfumature verdi, che donavano al suo sguardo una strana freddezza, sembravano occhi che non potevano provare alcun tipo di emozione.

Subito dietro di lei entrò Nemain, l’ultima nata. La ragazza aveva un aspetto stravagante: era sempre alta e snella, ma più bassa rispetto a Badb, e il suo viso era strano, paffuto e con due occhi grandi e leggermente sporgenti, che sembravano sempre persi tra le nuvole e tra i verdi prati della sua fantasia, da cui prendevano il colore acceso. I suoi capelli erano neri con degli inquietanti riflessi blu e la ragazza li portava corti sopra le spalle; erano ben ordinati e solo una ciocca sfuggiva al filo di perle blu che indossava come cerchietto. Aveva in mano una bellissima arpa di legno, decorata d’oro e riccamente intarsiata. 

Di fianco a Nemain entrò anche l’ultima ragazza: Macha, la secondogenita. Tra le tre sorelle era la più bassa, ma la più graziosa di tutte. Sembrava la perfetta copia della madre: anche lei aveva lunghi capelli rosso scuro, ma più ribelli di quelli della madre; le ricadevano, infatti, sulla schiena e sfuggivano insolenti alla lunga treccia, che le arrivava fin quasi alla vita. I lineamenti del viso erano dolci e delicati proprio come la madre e anche gli occhi avevano il suo stesso taglio orientale, ma erano del colore del padre, unica caratteristica ereditata da lui. A differenza dei suoi però, Macha con gli occhi sapeva comunicare, anche con un solo sguardo, tutti i suoi sentimenti più nobili e non si poteva mai scorgere in essi freddezza o cattiveria.

Tutte e tre le figlie erano vestite in modo piuttosto spartano per essere tre dee. Portavano un lungo abito viola scuro, stretto fino alla vita da una larga fascia di velluto nero e con la gonna molto larga, che copriva loro le gambe fino alla punta delle scarpe, e un mantello nero, allacciato con una fibbia argentata a forma di mezzaluna, che copriva loro le spalle. Le loro espressioni erano diverse l’una dall’altra; Badb aveva uno guardo freddo e altero e teneva gli occhi fissi in quelli del padre; Nemain sembrava essere ovunque tranne che lì con la testa e continuava a far vagare lo sguardo, accarezzando con le dita sottili la sua arpa dorata; Macha invece aveva uno sguardo rassegnato e gli occhi fissavano dispiaciuti quelli sconvolti della madre. Erano diventate esattamente ciò che voleva loro padre: tre dee di morte. Branwen non resistette a lungo e, dopo due o tre minuti di silenzio imbarazzante e carico di tensione, corse via. 

 

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Più tardi la dea si presentò infuriata nella stanza del marito.

-come avete potuto far loro questo? Le avete trasformate nella vostra perfetta copia! Non sembrano nemmeno le mie figlie!

-il mio scopo, mia signora, non era quello di farle sembrare le vostre figlie. Avevo bisogno di un aiuto nel mio lavoro ed ora ce l’ho. Non mi assillate oltre con le vostre lamentele e adesso andatevene- il suo tono non ammetteva assolutamente repliche e Branwen se ne andò in giardino, con lo sguardo già pronto alle lacrime. Si recò alla fontanella sulla quale amava sedersi a pensare, persa nelle acque cristalline, quando sentiva il bisogno di stare da sola. In quel momento ne sentiva assolutamente il bisogno. Si sedette sul bordo della fontana con foga, quasi come se si volesse buttare dentro l’acqua; guardò la sua immagine in quello specchio, turbato solo dalle goccioline degli schizzi provocati dai tuffi dei pesciolini, e quasi non si riconobbe. In poco più di due anni di matrimonio il suo aspetto non era molto cambiato, se non nello sguardo; i suoi occhi avevano perso la gioia di vivere, eppure era consapevole di non poter morire, era un essere immortale e avrebbe vissuto per sempre. Per sempre accanto a quel crudele dio che non sapeva amare. Lo sguardo aveva perso vivacità e gli occhi erano diventati spenti e opachi, non brillavano più e non sorridevano più. Ora sapevano solo piangere. E proprio in quel momento stavano piangendo, versando via tutte le amare lacrime per la riscoperta delle sue amate bambine trasformate in tre esseri freddi come il padre e gocce salate si unirono lentamente all’acqua della fontana.

-perché piangete, mia signora?

La dea si girò di scatto verso quella voce che aveva udito alle sue spalle. Si trovò davanti un ragazzo che la guardava con profondi occhi color cioccolato, che in quel momento avevano una dolce espressione preoccupata, mentre reggeva in mano il suo cappello in segno di rispetto.

-io… io sto bene, grazie. To-tornate pure al vostro lavoro.

Quel giovane era molto bello, sebbene portasse degli umili vestiti da giardiniere, tutti sporchi di terra per giunta e anche il suo viso era incrostato di fango.

-certo mia signora. Mi dispiace avervi disturbata

-nessun disturbo. Siete stato gentile e per questo vi ringrazio- i suoi capelli erano di una bella tonalità sul biondo miele e alcune ciocche gli incorniciavano il volto imperlato di sudore per il faticoso lavoro. A sentire le parole gentili della dea e la sua meravigliosa voce, sorrise con le labbra sottili e rosee e arrossì leggermente, tingendo di rosso le guance piene.

-è stato un piacere esservi stato utile- e sorrise ancora, con una dolcezza che colpì profondamente Branwen; era da tempo che nessuno le sorrideva così e ricambiò con piacere quel sorriso tanto sincero. Il giardiniere si inchinò, continuandola a guardare negli occhi, e se ne tornò al suo lavoro, senza smettere di pensare nemmeno per un secondo allo sguardo triste della dea.

 

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Capitolo 4
*** Sogni e litigi ***


IV

IV

 

Sitchain era stanco morto e con una mano si asciugò il sudore che gli ricadeva a gocce sulla fronte. Aveva finito di potare anche l’ultima siepe di quello smisurato giardino e ora poteva godersi un po’ di meritato riposo nella sua piccola ma accogliente casetta ai margini della reggia degli dei, dove l’aspettava la sua amata sorella. Tornò a casa con i suoi attrezzi stretti tra le braccia e un sorriso abbastanza ebete sulle labbra. Sua sorella, Byre, se ne accorse immediatamente e gli lanciò uno sguardo interrogativo con i suoi occhi arancione. Era molto bella e suo fratello non sopportava vederla lì a faticare come una serva qualunque. Sitchain le andò in contro per salutarla e le diede un tenero bacio sulla fronte delicata.

-cosa ti prende fratellino?- la sua voce era chiara e cristallina, una goccia di rugiada al mattino.

-niente mia cara! Sono solo più felice del solito

Byre ricambiò il suo sorriso e tornò a lavare i panni. Il ragazzo sistemò gli attrezzi, si diede una bella lavata per togliersi di dosso tutto il sudore accumulato, si mise degli abiti puliti e finalmente si sdraiò sul letto. Iniziò a ripensare a quell’incontro tanto splendido di quel pomeriggio, a come era bella anche mentre piangeva. Non riusciva a togliersi dalla testa i suoi occhi azzurri così tristi, ma ancora più belli velati dalle sue delicate lacrime. Chissà cosa le era successo per farla piangere così. Cosa poteva far piangere una dea che sembrava aver avuto tutto dalla vita? Il giovane non lo poteva certo capire, si trovavano in una condizione completamente opposta. Lui, un povero giardiniere che sopravviveva grazie al ricavato del suo lavoro e di quello della sorella e lei, una dea bella e potente, sposata per giunta con il padre di tutti gli dei sull’isola. Correvano però voci tra i servitori che il marito le aveva rapito le figlie ancora piccole e che le aveva trasformate in tre strumenti di morte, esattamente come lui. Forse era questo il motivo che faceva piangere la dolce Branwen? Interrompendo i suoi pensieri, Sitchain iniziò a comporre una poesia dedicata alla bella dea, ma sembrava che le parole facessero fatica a esprimere ciò che voleva il poeta. Era troppo bella per essere cantata, troppo perfetta per essere rappresentata da una semplice poesia. Sforzandosi di trovare le parole, il giovane si addormentò profondamente, sopraffatto dalla stanchezza, e sprofondò in un mondo fantastico, dove c’erano solo lui e Branwen.

 

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Branwen era tornata in fretta a palazzo dopo quel suo strano incontro. Doveva assolutamente togliersi dalla testa l’immagine del viso del giovane che le aveva parlato. Non sapeva nemmeno il suo nome, ora che ci pensava. Forse avrebbe dovuto chiederglielo. No, a cosa stava pensando, non poteva dare tutta quella confidenza a un semplice giardiniere solo perché era stato gentile con lei.

-Branwen, cosa vi prende? Avete un’aria sconvolta- era stata Olimpia a parlarle, l’unica serva che poteva permettersi di chiamarla per nome e non “mia signora”. Quella ragazza non era cambiata di un millimetro da quando l’aveva conosciuta; era sempre la stessa ragazzina allegra di un tempo, con gli occhi scuri ridenti e i lunghi capelli castani e lisci, che la dea da sempre le invidiava. Avevano iniziato a conoscersi i primi giorni di permanenza della dea a palazzo e Branwen aveva saputo che era una delle figlie illegittime di Ran, dea del mare, che non l’aveva mai riconosciuta, quindi era finita lì come serva, nonostante il suo sangue divino. Quella semplice ragazza era diventata la persona più importante per la dea; era quella che la aiutava, la capiva e la ascoltava. Erano diventate amiche, nonostante le diverse classi sociali. E adesso, come sempre, Olimpia aveva capito che c’era qualcosa di strano nella sua padrona.

-no, non vi preoccupate, sto bene, sono solo un po’ scossa

-per le vostre figlie?

-sì, ecco, proprio per loro- la dea abbassò lo sguardo a terra, per non far vedere le lacrime, ma anche per non far leggere nei suoi occhi, a volte troppo rivelatori, che c’era qualcos’altro. Olimpia lo capì da sé, senza bisogno di guardarla negli occhi, ma preferì non dire nulla.

-se avete bisogno di parlare, sapete dove mi trovo- e le rivolse uno sguardo che lasciava intendere che aveva capito che c’era altro, ma che rispettava la sua riservatezza.

-grazie Olimpia. Adesso vado a coricarmi un po’ e poi dopo magari verrò da voi- la ragazza aveva capito. La dea voleva parlarne ma non subito, doveva aspettare prima di riprendersi un momento. Olimpia si inchinò e si ritirò nella sua piccola stanzetta di fianco a quella di Branwen.

Branwen si distese sul suo enorme letto, che ormai da anni non condivideva più con il marito, e poggiò la testa sul cuscino, bagnandolo con le lacrime ancora fresche; si addormentò in pochi istanti e iniziò a sognare.

Si trovava in un prato verdissimo che si estendeva a vista d’occhio in ogni direzione; non c’era un solo albero e non un solo essere vivente, c’era solo l’erba verde e il cielo azzurro. Era sola, completamente sola, e non sapeva cosa fare per andarsene. Continuava a guardarsi intorno, scuotendo la rossa chioma.  Iniziò poi a vagare per quel prato, senza trovarne mai la fine a ad un certo punto vide una figura spuntarle di fronte. Era un bellissimo giovane, con profondi occhi cioccolato e capelli color miele che gli circondavano il viso angelico. Era vestito come un principe e le sorrideva, felice di averla trovata.

-mia signora, non vi ricordate di me?

-io… siete il giardiniere?- Branwen era a bocca aperta dallo stupore.

-sì, sono io- le regalò un altro dei suoi splendidi sorrisi e la dea quasi svenne a quella vista meravigliosa.

-come vi chiamate?

-io sono Si…

Un rumore l’aveva svegliata prima che potesse scoprire il nome dell’affascinante giovane. Si era alzato un forte vento che stava facendo sbattere i rami di un vecchio albero di mele contro il vetro della sua finestra. Uno scontro più violento degli altri l’aveva destata dal suo bellissimo sogno e si era svegliata con un sorriso sognante sulle labbra. Subito si riscosse e si accigliò per la sua stupida felicità dovuta a un sogno tanto assurdo.

 

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Badb, Macha e Nemain erano riunite nella stanza della maggiore e stavano discutendo tra di loro sull’incontro con la madre. Erano tutte e tre sorprese della sua reazione spaventata e allo stesso tempo disgustata.

-che cos’aveva da fare quella faccia lo sapeva solo lei- era stata Badb a iniziare il discorso, con la sua voce fredda e impersonale che la rendeva tanto simile a un robot.

-forse si aspettava qualcosa di diverso da noi- la voce di Macha era invece velata di una nota di malinconia  e dispiacere.

-siamo le figlie del dio della morte, cosa poteva aspettarsi di diverso?

-ma Badb dimentichi che nostra madre è la dea dell’amore! Magari noi saremmo diventate come lei…- la voce della più piccola sembrava venire da un altro mondo, come se Nemain fosse lì, ma solo fisicamente e da un altro mondo stesse leggendo una profezia. Era una voce strana, che le dava ancora di più un’aria da folle. Mentre parlava accompagnava le sue parole con le note della sua arpa.

-Nemain ha ragione, non sono sicura che noi tre eravamo destinate a diventare come nostro padre. Avremmo potuto essere come nostra madre

-e tu avresti preferito essere come lei? Una donna debole che scappa se le persone non sono come vuole lei?- nella voce della sorella maggiore adesso si poteva leggere un disprezzo non celato per la reazione della madre. Macha era invece disgustata dall’opinione che Badb aveva della madre.

-mettiti nei suoi panni! Non ha visto le sue figlie per anni e le sono state restituite completamente diverse da come le ricordava! Come puoi dire che è una  debole?

-lo è! E sicuramente noi non potremmo mai essere dee dell’amore come lei

-questo non è esatto! TU non potresti mai essere come lei! Non noi- a quelle parole Badb guardò furente la sorella che la accusava di essere vuota e senza sentimenti. La cosa che le bruciava di più era che aveva ragione Macha. Le due sostennero lo sguardo l’una dell’altra a lungo, scambiandosi occhiate di rabbia. Nella stanza sembravano esserci scintille di fuoco.  

-smettetela… tanto non andrete mai d’accordo…- la voce profetica di Nemain pose fine al discorso. Era come se ogni volta che parlasse emettesse un’importante profezia che si avverava sempre e comunque.

-andiamo, nostro padre ci aspetta- Badb aveva ripreso il controllo e squadrò Macha dall’alto in basso mentre parlava con lo stesso disprezzo riservato fino a poco prima alla madre,  ma la sorella minore continuava a sostenere il suo sguardo con la stessa sicurezza e decisione di prima. Nemain già non le guardava più e si era persa tra le soavi note della sua arpa mentre camminava verso la sala dove le avrebbe ricevute il padre.

 

 

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Capitolo 5
*** Confessioni e nuovi compiti ***


V

V

 

-eccole! Le mie care figlie! Entrate, ragazze mie, vi stavo aspettando- la voce del padre era stranamente più gentile del solito, ma il suo aspetto era quello burbero di sempre. Badb gli sorrise di rimando, felice di parlare con il padre, Macha invece rimase impassibile e Nemain chi lo sa a cosa stava pensando, persa tra le note dell’arpa come sempre.

-ci avete fatte chiamare padre?- la voce di Badb era ferma e decisa, senza alcuna titubanza, proprio come voleva il padre.

-ma certo care. Come sapete, vi ho educate perché un giorno sareste divenute il mio aiuto. Bene è giunto quel giorno. Fino adesso avete fatto solo qualche piccolo lavoretto secondario, ma ora è tempo di sfruttare il vostro potere fino in fondo. Voglio che agiate unite per ora.

-certo padre. Cosa volete che facciamo?- Balor era commosso dalla dedizione e la fiducia dimostratagli da Badb, che non per niente era diventata la sua prediletta tra le figlie. Gli assomigliava così tanto, fredda, razionale, calcolatrice e diretta.

-come sapete bene, il mio compito è quello di prendere l’anima dei mortali destinati alla morte. Il vostro primo incarico sarà quello di scendere sulla terra e prelevare l’anima dei mortali scritti in questa lista- e tirò fuori da una larga manica del suo mantello una pergamena arrotolata e sigillata con un laccetto di cuoio nero. Consegnò la lista a Badb e le congedò.

-sapete come fare, non c’è bisogno di altre spiegazioni

Badb sorrise, si inchinò e uscì dalla sala, seguita dalle due sorelle. Lei era soddisfatta dell’incarico, Nemain non sembrava nemmeno aver sentito le parole del padre e Macha invece abbassò lo sguardo mentre usciva, non affatto felice di quello che dovevano fare. Si sentiva fuori posto, come se quella non fosse la sua vocazione, come se fosse destinata ad altre cose. Ma come poteva anche solo sperare di poter cambiare il suo destino, essendo suo padre il dio della morte in persona? Non le restava altro da fare che rassegnarsi e obbedire al padre, ma aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno. Ma con chi? Nessuno la poteva capire: a Badb non ci pensò nemmeno e con Nemain era impossibile parlare o anche solo catturare la sua attenzione. Forse si poteva rivolgere alla madre.

 

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-Oh Olimpia, come posso tollerare quello che sono diventate? Quelle non possono essere le mie bambine- Branwen aveva la voce rotta di pianto e se ne stava appoggiata sul grembo dell’amica, che le accarezzava i ricci nel tentativo di calmarla e consolarla.

-lo so… ma non potete fare nulla, vostro marito è troppo potente e non potete sfidare la sua autorità

-ma forse avrei potuto farlo anni fa! Non dovevo permettergli di portarle con sé- la bella dea piangeva a dirotto adesso, frustrata per la sua impotenza nei confronti del marito.

-no, non dite così, non è colpa vostra. Voi non potevate fare nulla- Olimpia moriva dalla voglia di chiederle cosa la aveva sconvolta tanto quel pomeriggio, dopo la storia delle figlie. Le aveva chiaramente letto sul viso che era successo qualcos’altro.

-ma ditemi- le disse dolcemente, alzandole la testa dalle sue ginocchia, ma continuando ad accarezzare la sua chioma -cosa vi ha turbata a quel modo oggi, quando vi siete andata a coricare, non mi è sembrata la stessa espressione sconvolta che avete adesso- a quelle parole Branwen arrossì violentemente e i suoi occhi presero un’espressione sognante e brillarono di una luce che da tempo era sparita dal suo volto. Cercò di darsi un contegno e di tornare del suo normale colorito, prima di rispondere alla domanda. Era piacevolmente sorpresa che Olimpia le avesse carpito quel segreto.

-io… non so se ve ne dovrei parlare

-ma lo sapete che io non lo rivelerei a nessuno, con me potete parlare di tutto ciò che volete liberamente

-lo so, ma è difficile da dire. Non è successo niente di straordinario, sono solo io che sono troppo suscettibile, credo- nonostante la timidezza e la vergogna che provava, Branwen si confidò con l’amica e le raccontò per filo e per segno dell’incontro con il bel giardiniere e di come avesse quasi scoperto il suo nome in sogno. Aveva quasi finito il suo racconto e stava per parlare di come un ramo sbattendo contro il suo vetro l’avesse destata all’improvviso, quando si aprì la porta dell’umile stanza di Olimpia.

-io non volevo disturbare- disse timidamente la nuova arrivata -ma mi è stato detto che vi avrei trovata qui- era entrata dalla porta una figura aggraziata, che rimase sulla soglia in attesa che le venisse accordato il permesso di entrare.

-entra pure- sia Branwen che Olimpia erano sorprese di vedere Macha sulla porta. Subito Olimpia si alzò dal letto, smettendo di accarezzare i capelli della dea, e si inchinò alla sua padroncina.

-no Olimpia, non c’è bisogno che ti inchini. Sono venuta qui solo per parlare un po’ con mia madre

-allora vi lascio sole  

-ma no figurati, è la tua camera, ce ne andiamo noi- Olimpia annuì con il capo in modo affermativo.

Macha e Branwen uscirono dalla camera di Olimpia e iniziarono a passeggiare per il palazzo, entrambe in silenzio, non sapendo come iniziare una conversazione.

-cosa mi dovevi dire?- la curiosità prese il sopravvento sulla timidezza.

-ecco… io non lo so perché sono venuta a cercarvi, almeno non lo so esattamente

-allora te la faccio io una domanda. Come avete fatto a diventare così?- nella sua voce una vena palpabile di disperazione.

-non lo so nemmeno io, ci siamo svegliate una mattina e non eravamo più nel nostro letto e poi è arrivato nostro padre a impartirci ordini su come dovevamo comportarci e ora pretende che svolgiamo il suo lavoro

-cosa vi ha chiesto di fare?- adesso la sua voce era quasi un sussurro. Le due dee quasi identiche non si guardavano negli occhi, ma avevano lo sguardo fisso a terra.

-ha dato a Badb una lista di persone che devono morire e noi dobbiamo far compiere il loro destino. Badb è a dir poco entusiasta. Nemain non lo so, è una ragazza strana e non si riesce mai a capire a cosa stia pensando.

-e tu?

-io sento di essere fuori posto, come se non fosse questo il mio compito, come se non fossi stata destinata a diventare la dea della morte, io non sono come Badb e nemmeno come nostro padre

-tu non puoi essere destinata a essere la dea della morte, sei troppo di animo gentile per esserlo- e aggiunse con una nota amara –sei come me, te lo posso leggere in faccia- adesso le due si stavano guardando negli occhi, specchiandosi una nello sguardo dell’altra.

-oh madre, io non posso fare quello che mi chiede mio padre! Come posso togliere la vita a dei poveri umani? Come possiamo decidere chi deve morire e chi può continuare a vivere?

-siamo dei, possiamo. È questo che ci differenzia da loro, possiamo decidere del destino, noi creiamo il destino. Ma forse tu dovevi avere un altro compito, non questo

-ma perché non hanno loro stessi questo diritto?

-allora la nostra esistenza sarebbe inutile, ma non ti assillare con queste domande. Il mondo è sempre andato così e non lo puoi cambiare

-lo so. Ma non posso accettare i compiti di Balor!

-è difficile, ma ci dovrai fare l’abitudine, mi dispiace piccola mia- Branwen accarezzò una guancia della figlia e la scoprì umida di lacrime. Una solitaria lacrima era scesa sulla sua guancia e Macha si coprì immediatamente il viso con le mani. Iniziò a singhiozzare copiosamente.

-non so se posso riuscirci- la sua voce era rotta dal pianto, segno che adesso non c’era più una solitaria lacrima sulla guancia. La madre la abbracciò dolcemente e la tenne stretta a sé, come quando da piccola la abbracciava se piangeva o faceva i capricci. Stettero ancora un po’ strette in quella posizione, prima che Macha si staccasse per tornare nella sua stanza.

Mentre percorreva il lungo corridoio che separava la sua camera da quella della sorella maggiore, incontrò Nemain che suonava la sua arpa.

-dove sei stata sorellina cara?- la sua solita voce sibillina colse di sorpresa Macha.

-ho fatto un giro

-non vuoi iniziare il lavoro di nostro padre, non è vero?

-esatto

-perché?- iniziò a ridere, una risatina isterica e folle –deve essere divertente e così i mortali potranno ascoltare la mia dolce musica mentre gli strappiamo l’anima!

Macha sgranò gli occhi a tanta freddezza. Non sapeva se la lasciava più sconvolta la freddezza delle sue parole o il suo tono folle accompagnato dalle note aspre dell’arpa.

-ho composto una melodia apposta per loro, la vuoi sentire?

-no grazie!- Nemain ricominciò con la sua risatina crudele.

Come potevano essere tutte così fredde e crudeli? Solo lei aveva ancora dei sentimenti? Possibile che solo lei aveva preso da sua madre ed era ancora capace di provare delle emozioni come l’amore, la compassione e la gentilezza?

 

 

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Capitolo 6
*** Lui ci può vedere ***


VI

Breve riassunto dei capitoli precedenti richiesto da Yum: Balor un giorno decide di prendere moglie e sceglie per sé la bellissima dea dell’amore Branwen e, nonostante i due si conoscono da soli due giorni, si sposano. Dal matrimonio, nove mesi dopo, nasce una bambina, Badb, ma il padre non ne è per nulla felice. A breve distanza ne nascono altre due e un giorno Balor prende la decisione, senza consultare la madre, di educarle come se fossero tre maschi, ossia come suoi aiutanti. Branwen intanto, delusa dal comportamento del marito e dalla visione delle sue figlie anni dopo, scappa in giardino e incontra un giovane che le fa un effetto strano, tanto che una notte lo sogna: un giardiniere che la vede piangere accanto ad una fontanella. Le tre dee vengono comunque istruite dal padre e arriva il giorno del loro primo incarico, tuttavia Macha non riesce ad accettarlo e si sfoga con la madre.

 

Yum mi dispiace che non ti stia piacendo come l’altra!! Ma non ti preoccupare che arriverà il suo seguito!! Solo che devi aspettare un po’ perché al momento sono molto incasinata, infatti non riesco ad aggiornare molto spesso anche questa storia!

 

Per Devilcat: ciao!! Sono contenta che la mia storia ti stia piacendo, mi dispiace però che dovrai aspettare un po’ tra un capitolo e l’altro perché in questo periodo sono davvero lenta a scrivere!! Purtroppo non riesco ad aggiornare molto spesso ma cercherò di fare del mio meglio!

 

VI

 

Qualche giorno dopo Branwen era di nuovo nel giardino, seduta sul bordo della sua fontanella a specchiarsi nelle sue acque, ma con la palese speranza di rivedere quel giovane che da giorni tormentava e agitava i suoi sogni. Stava pensando però alle sue figlie, che a quell’ora erano sicuramente nel mondo degli umani a svolgere quel loro infame compito. Quel giorno faceva particolarmente freddo sull’isola e si diceva che la divinità del tempo prevedesse una pesante nevicata. Apposta per quello la dea si era vestita in modo pesante: aveva un vestito di velluto rosso, ricamato con pizzi bianchi sull’orlo, perle preziose e fili d’oro sul corpetto e su tutta la gonna; per ripararsi ulteriormente dal freddo e dalla possibile neve, aveva una mantella bordeaux con il cappuccio che le copriva le spalle e la schiena fino alla vita ed il bordo era ricoperto da una calda e morbida pelliccia. Anche i guanti erano di velluto e avevano il contorno di pelliccia. Era stupenda come sempre.

-oggi non siete triste- era di nuovo quella voce tanto dolce che aveva sentito giorni prima e poi quasi tutte le notti nei suoi sogni.

-come mai in giardino, se non potete lavorare dato che è prevista neve?

-e chi lo dice, mia signora, che con la neve i giardinieri non lavorano?- le disse con il suo sorriso celestiale –chi coprirebbe le piante e le riparerebbe dal freddo pungente, se noi non lavorassimo sotto la neve?

-avete ragione, giardiniere… non so nemmeno il vostro nome…- lei lo stava guardando con occhi quasi adoranti, come se volesse stamparsi nella memoria ogni suo singolo particolare per non dimenticarlo mai.

-io sono Sitchain, mia signora- a quel nome la dea fu scossa da un brivido lungo la schiena; si ricordò che, nel suo primo sogno, il ragazzo stava per rivelarle il suo nome e si poteva ricordare chiaramente che la prima sillaba pronunciata era “Si”.

-è un piacere fare la vostra conoscenza giardiniere Sitchain

-credetemi, mia signora, il piacere è tutto mio

Branwen non riuscì a trattenersi dal sorridergli, felice di averlo rincontrato e di aver saputo finalmente il suo nome. Proprio in quel momento iniziarono a cadere i primi fiocchi di neve e la bella dea alzò il cappuccio della sua mantellina sui capelli color fiamma, legati in una treccia avvolta sulla nuca. L’odore della neve era inconfondibile, quell’odore fresco che ti riempie i polmoni a ogni respiro; sia Sitchain che Branwen alzarono gli occhi al cielo e annusarono quel gradevole profumo di inverno; il silenzio dei lenti fiocchi che cadevano intorno a loro avvolgeva tutto in un’immobilità che sembrava magica.

-mia signora, inizia a nevicare, venite al riparo- e le offrì la mano per condurla sotto un elegante gazebo di pietra, poco distante dalla fontanella, ma che Branwen non aveva mai visitato. Lei accettò la sua mano con un lieve imbarazzo, che le colorò le guance di rosso. Sitchain la fece sedere su una panca di pietra e a sua volta si sedette di fianco a lei.

-avete uno strano nome, Sitchain, ha un significato particolare?

-significa pace nell’anima

-bel nome e bel significato

La soave voce della dea aveva fatto incantare il giovane giardiniere.

-grazie, mia signora

-basta chiamarmi così, sono stanca di sentirmi chiamare da tutti mia signora. Chiamatemi Branwen

-va bene, Branwen- Branwen: com’era dolce quel nome pronunciato dalle sue labbra.

-ora dovrei andare, a palazzo si saranno accorti della mia assenza

-spero di ricontrarvi ancora, Branwen

-lo spero anche io, Sitchain

I due si guardarono per un attimo negli occhi, senza sapere bene cosa fare o cosa dire; ma la dea si riscosse dal torpore che le provocavano quegli occhi e corse via verso la sua prigione, terribilmente imbarazzata e ripromettendosi che non sarebbe più capitata una cosa simile. Ancora non riusciva a capacitarsi di quello che le stava succedendo. Non solo si era lasciata toccare la mano da quel giardiniere, ma gli aveva dato anche il permesso di chiamarla con il suo nome e la cosa più strana era che le piaceva sentirlo pronunciare dalle sue labbra. Corse come una furia verso la sua stanza e incrociò Olimpia nel corridoio, ma nemmeno la notò, presa com’era dalla sua emozione che ancora le faceva arrossire le guance. La serva comprese al volo che era successo qualcos’altro con il giardiniere e scosse la testa rassegnata, ma anche preoccupata per la sua padrona.

 

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Badb, Nemain e Macha si trovavano nel mondo degli umani, pronte, o quasi, a compiere il loro lavoro. Nel mondo mortale non stava nevicando come sulla loro isola, anzi c’era un sole alto nel cielo e il caldo era quasi insopportabile. La loro prima vittima sarebbe stata una donna di nome Kona, ammalata di una strana malattia. Non dovettero nemmeno cercare la sua casa poiché sapevano esattamente dove si trovavano le vittime e vi entrarono, invisibili, come solo le dee possono essere agli occhi dei mortali. Trovarono una scena che avrebbe scaldato il cuore a chiunque, tranne alle dee della morte. La casa era piccola e restava in piedi per miracolo, era sporca e spoglia, un luogo perfetto per ogni malattia insomma, e in più un acre odore di marcio e malsano impregnava l’aria che gli abitanti respiravano, ma che risultò disgustosa anche per le visitatrici invisibili; Kona era distesa su un pagliericcio che doveva avere la funzione di letto. Era una donna che forse un tempo doveva essere stata bella; aveva i capelli neri, un tempo lucidi, sparsi sul cuscino dietro la sua testa, tutti aggrovigliati, sporchi e pieni di nodi; gli occhi scuri come i capelli si aprivano solo per qualche secondo ed erano lucidi per la febbre e deliranti; anche da sdraiata si potevano vedere le curve del suo corpo rese spigolose dalla magrezza e tutte le ossa sporgenti al di sotto della pelle grigiastra. Come se la scena non fosse già abbastanza triste da osservare, nella stanza era presente la sua famiglia che la osservava morire. Il marito era chino su di lei e le stringeva una mano ossuta, per darle un ultimo conforto prima della sua fine; i tre figli, magri quanto la madre, la fissavano con le lacrime agli occhi e stringendo ognuno un vecchio giocattolo, ormai distrutto dal tempo. C’era però un altro bambino, ai piedi del letto della madre che non piangeva e non stringeva nessun giocattolo semidistrutto, ma guardava con sguardo triste la madre; appena le tre dee entrarono nella loro casa, quel bambino dai tristi occhioni viola scuro spostò lo sguardo nella loro direzione, come se le potesse vedere.

-bene facciamo in fretta- era stata Badb ovviamente a parlare. Macha era invece stravolta all’idea di privare quei quattro bambini della madre e l’affettuoso marito della moglie. Nemain chissà a cosa stava pensando, mentre cominciava a suonare con le sue dita delicate la melodia composta proprio per quell’occasione.

Iniziarono il loro lavoro, Kona vide la classica luce bellissima di fronte a sé e le due dee cominciarono a chiamarla, accompagnate dalla musica suonata da Nemain. Lo sguardo di Macha cadde per errore sul bambino ai piedi del letto della quasi defunta e incrociò i suoi occhi che la fissavano spaventati.

-Badb fermati!

Macha bloccò la sorella, prendendole un braccio. Ma la sorella si limitò a lanciarle uno sguardo infastidito e cercò di scrollarsi la sua mano dal braccio, Macha allora le infilò le unghie nella carne per farla fermare.

-cosa diavolo stai facendo?!

-il bambino! Ci può vedere!

-ma cosa dici?! Nessuno può vederci! Lasciami lavorare in pace!

-NO! Non possiamo ucciderla davanti ai suoi occhi!

-ti ripeto CHE NON CI VEDE!

Badb aveva ignorato la sorella e aveva ripreso il suo lavoro, solo con l’aiuto dell’altra sorella. Macha invece continuava a fissare quegli occhi viola che adesso avevano iniziato a lacrimare copiosamente e la guardavano con un’espressione sconvolta, quasi implorando il suo aiuto. Macha non poteva fare nulla per lui e continuava ancora a guardare fisso nei suoi occhi che erano diventati come una calamita per lei. Tutto avvenne accompagnato dalle struggenti note dell’arpa.

Badb e Nemain terminarono il loro compito e racchiusero l’anima della povera Kona in un cristallo, ciondolo che Badb portava al collo. Era tutto finito e il bambino fissava le tre assassine della madre, mentre il marito e gli altri tre bambini non si erano accorti di nulla e piansero lacrime amare per la morte della persona a loro così cara.

Le tre dee tornarono nel loro mondo, due di loro molto contente per come avevano svolto il compito affidatogli, l’altra invece con il cuore pesante per il senso di colpa che lo opprimeva e lo schiacciava.

Come prima cosa si recarono dal padre per comunicargli l’esito della missione. Ovviamente Balor fu molto contento e orgoglioso delle sue figlie. Tranne di Macha. Badb gli aveva comunicato cosa era successo in quella casa.

-perché ti sei comportata in quel modo? Cosa ti salta in mente, rispondi Macha!

-quel bambino ci vedeva- la voce del dio era irata, mentre quella della piccola dea era calma e sottomessa. Lei stessa stava diventando piccola piccola nei confronti del padre e fissava spaventata il pavimento, in attesa della sua punizione.

-da oggi tu ti occuperai di traghettare con me le anime che le tue sorelle prendono nel fiume che porta alla loro destinazione finale. Rassegnati figlia, sei una delle dee della morte e farai come ti dico- appena pronunciate queste parole il dio si girò, facendo svolazzare teatralmente il mantello sulle sue spalle, e uscì dalla grande sala, lasciando lì le due figlie. Badb aveva un sorriso soddisfatto sulle labbra, Nemain come sempre era assente e non si capiva se avesse sentito anche una sola parola pronunciata dal dio, Macha era sconvolta. La ragazza cadde sulle ginocchia e iniziò a piangere silenziosamente così che le sue lacrime caddero sulla veste scura. Le sorelle uscirono dalla sala per tornare nelle loro camere e la lasciarono lì da sola a piangere.

 

 

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Capitolo 7
*** Punizione ***


VII

VII

     

-Branwen, cos’è successo l’altro giorno? Siete corsa nella vostra stanza e non mi avete nemmeno vista in corridoio- Olimpia e Branwen erano nella stanza della padrona e si stavano confidando, come sempre. Olimpia era preoccupata, mentre Branwen aveva lo sguardo sognante che vagava senza meta per la stanza.

-Olimpia, non sapete quanto io sia felice! Non lo ero così da tempo! I suoi occhi sono stupendi… mi ricordano le castagne che amavo tanto da piccola… e i suoi capelli! Nemmeno l’oro è più brillante della sua chioma! Viene da me tutte le notti, mi raggiunge nei miei sogni! Non chiedo altro che arrivi la notte per poterci incontrare nel nostro bellissimo mondo!- adesso Olimpia era davvero spaventata dal comportamento della sua amica. Come poteva comportarsi così? Si era dimenticata di essere sposata? E con il dio più potente di tutti per giunta?

-ma Branwen! Siete sposata! Se lo sapesse vostro marito… non oso immaginare cosa vi farebbe!

-e cosa potrebbe farmi di peggio se non quello che mi fa ogni giorno? Non mi considera, non mi ama… l’unica cosa peggiore sarebbe separarmi da Sitchain!

-dunque è così che si chiama. Non credete che se vostro marito lo sapesse farebbe del male anche a lui?

-no! Non glielo permetterei! Non lo farei nemmeno avvicinare a lui!

Lo sguardo della dea adesso era deciso e fermo; convinto che avrebbe mantenuto i suoi propositi.

-ma Branwen avete forse perso la ragione?!

-ho perso il cuore, amica mia!

A questo punto Olimpia non sapeva più cosa fare, Branwen era completamente persa nel suo mondo fatato e non voleva più sentire ragioni. La serva continuò per un po’ ad accarezzarle i morbidi capelli e la dea si addormentò serena, raggiungendo il suo Sitchain nel loro mondo. Olimpia emise un lungo sospiro di angoscia. Doveva fare in modo che Balor non lo venisse mai a sapere o sarebbero stati guai per la sua amica e per il suo bel giovane.

 

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Macha e suo padre si stavano recando sulle sponde del fiume che dovevano attraversare per trasportare le anime nella loro ultima destinazione. Arrivarono ad un pontile in legno, con attraccata una barchetta anch’essa in legno. Balor ci salì sopra senza nessuna esitazione e invitò la figlia a fare altrettanto; Macha un po’ spaventata salì sulla barca, con non poca esitazione. La ragazza aveva al collo il ciondolo di cristallo che racchiudeva in sé l’anima di Kona.

-liberala

-ma non se ne andrebbe?

-no, non può

Macha liberò l’anima dal cristallo e una luce si sprigionò da esso, accecando per un attimo sia Macha che Balor. Un attimo dopo una figura bianca e spettrale svolazzava davanti ai loro occhi, per poi posarsi lentamente sul bordo della barca. La ragazza, ancora spaventata, non capiva come mai Kona non scappasse, ma non osava chiederne il motivo al padre. Balor iniziò a remare con una specie di remo improvvisato che si trovava sulla barca e Macha non riusciva a staccare gli occhi di dosso a quella figura spettrale; mentre la fissava le tornarono in mente i sofferenti occhi viola del figlio e provò una fitta dolorosa al petto. Appena riuscì a distogliere gli occhi dalla figura di Kona, Macha vide che l’acqua in cui navigavano aveva uno strano colore: aveva delle strane sfumature bianche, dello stesso colore di Kona. Macha osservò meglio l’acqua sporgendosi leggermente sul bordo della barchetta e scoprì inorridita che il fiume era pieno di anime, candide figure evanescenti come fumo. Spaventata a morte si ritrasse velocemente dal bordo della barca, provocando una pericolosa oscillazione che quasi la fece ribaltare.

-attenta a quello che fai! Se finissimo in quest’acqua non ne usciremmo vivi!

Macha sgranò gli occhi, terrorizzata da quella notizia. Proseguirono il viaggio in completo silenzio e la ragazza cercava in tutti i modi di non fare caso alle figure bianche che ogni tanto provavano a salire sulla barca per tornare nel mondo dei vivi. Mano a mano che si avvicinavano alla loro destinazione, l’aria prendeva uno sgradevole odore di morte e il fiume sotto di loro si riempiva sempre di più di anime che assaltavano l’instabile barca, ma Balor non sembrava curarsene più di tanto. Finalmente il viaggio giunse a termine, dopo un tempo che a Macha era sembrato infinito. Videro un altro pontile di legno, molto simile a quello da cui erano partiti, e Balor vi attraccò la barca. Il dio scese dalla barca e Kona, o meglio l’anima di Kona, lo seguì; Macha si alzò in piedi sulla barca e quasi svenne per la nausea. Subito Balor la sostenne prima che cadesse nell’acqua del fiume, lasciandoci così la vita.

-già nauseata per così poco?! Avanti rialzati

La ragazza stava veramente male, ma il padre non ne voleva sapere di farla tornare a casa senza che avesse svolto il suo compito. Doveva resistere. Lui l’accompagnò, sorreggendola per la sua vita sottile, fin fuori dalla barca e poi la lasciò, ancora traballante e in equilibrio precario, indicandole la strada che avrebbe dovuto seguire.

-mi raccomando, non entrare nella grotta che trovi alla fine della strada che ti ho indicato. Solo le anime ci possono entrare e tu, sebbene tu sia molto pallida in questo momento, non sei una di loro

-certo padre- la voce della povera dea era un lieve sussurro e il suo viso era effettivamente pallido quasi quanto quello della figura di Kona. Il dio della morte incrociò le braccia e guardò la figlia incamminarsi lungo il corso del fiume, con l’anima della donna che svolazzava al suo fianco. Camminava lentamente, come se avesse paura di calpestare l’erba dal colorito spento, forse troppo abituata a stare al contatto con la morte per essere più viva di così, e intanto nel suo cuore aumentavano i sensi di colpa per l’anima di Kona, per i suoi figli e il marito e per tutte le altre anime che si trovavano in un posto del genere. Sensi di colpa sottili, ma ben evidenti e inquietanti, un po’ come le figure che la guardavano camminare lungo il corso del fiume. Arrivò finalmente alla famosa grotta e fece segno a Kona di entrarci; quella le ubbidì subito, ma a Macha sembrò che per un attimo la donna l’avesse guardata con uno sguardo carico di preoccupazione, implorandole di non mandarla là dentro. Ma forse era solo stata tutta una sua impressione, dettata dalla soggezione che le metteva trovarsi in quel luogo. Quel posto era davvero spettrale e terrificante; una nebbiolina grigia aleggiava nell’aria, che adesso puzzava ancora di più di morte e rendeva il paesaggio macabro e degno di un giardino stregato. Non si sentiva nessun suono o rumore al di fuori di quello continuo dell’acqua che scorreva nel letto del fiume e accresceva il suo frastuono quando entrava nella grotta, che fungeva da amplificatore. Guardò entrare Kona nella caverna scura, illuminata solo dalla luce che emettevano le anime stesse che continuavano ad entrare ed uscire da essa attraverso il fiume, ma che in realtà non potevano andare da nessuna parte, e poi tornò il più veloce possibile dal padre e insieme fecero il viaggio al contrario per tornare a palazzo, mentre Macha cercava di dimenticare tutto quello che aveva appena visto, sentito e provato, anche se sapeva benissimo che non le sarebbe stato possibile. Avrebbe dovuto svolgere quel compito a lei così difficile chissà quante altre volte, ma senza la presenza quasi confortante del padre. In fondo se non ci fosse stato lui, la dea sarebbe sicuramente svenuta e caduta in acqua.

Appena misero piede a terra Branwen corse loro incontro e abbracciò la figlia, che a momenti sveniva di nuovo; la madre la sostenne per le spalle e la riportò in casa, nella sua grande camera, dove c’era già Olimpia pronta a curarla dalla nausea. Tutto senza nemmeno degnare di uno sguardo suo marito, che intanto stava assicurando la barca al pontile, profondamente soddisfatto di ciò che aveva fatto fare alla figlia.  

 

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Poco più tardi, appena Olimpia era riuscita a far addormentare un po’ più serena la povera Macha sconvolta, Branwen corse nella stanza del marito come una furia.

-basta! Questa storia deve finire! Non mi importano le vostre ragioni o motivazioni varie, ma non farete mai più una cosa del genere a mia figlia!

La dea era a dir poco furiosa, rossa in viso, con gli occhi ridotti a due fessure che scrutavano crudelmente il consorte, i capelli scarmigliati per la corsa e i pugni stretti che le avevano fatto sbiancare le delicate nocche. Avrebbe volentieri ucciso il marito.

-calmatevi, mia signora. Non è il caso di scaldarsi tanto

-sì che è il caso! Avete visto come avete ridotto vostra figlia?! Farle traghettare le anime?! Non bastava già quello che doveva fare prima per colpa vostra?!

-ho il diritto di fare quello che voglio con le mie figlie! E voi non potete darmi ordini!

-vi ricordo che sono anche le mie figlie e che ho il diritto di prendere anche io delle decisioni! Sono vostra moglie non la vostra serva!

Pronunciate queste ultime parole con astio e odio, Branwen uscì di corsa come era entrata, per recarsi nel suo amato giardino ancora innevato.

Si appoggiò al bordo della fontanella e osservò il suo riflesso nell’acqua ghiacciata e fu non tanto sorpresa, ma felice di vedere comparire al suo fianco quello del bel Sitchain. Senza riflettere nemmeno un secondo la dea si voltò e di slancio si gettò tra le sue braccia forti. Il ragazzo la strinse a sé, senza volerla più lasciare e tuffò il viso in quella morbida massa di capelli rossi. Non c’era bisogno di nessuna parola o spiegazione tra di loro, bastava stare così e non muoversi, tanto nessuno li avrebbe mai visti, in quell’angolo di giardino che sembrava fatto apposta per loro.

-cos’è successo?

La sua voce era una dolce melodia che arrivava diretta al cuore di Branwen.

-Balor… tratta male la povera Macha, eppure è sua figlia! Dovrebbe volere il suo bene non la sua sofferenza!

La dea stava piangendo a dirotto, bagnando con le sue lacrime l’incavo tra il collo e la spalla di Sitchain, che intanto annusava l’odore dei suoi capelli e le accarezzava la schiena per confortarla. Il ragazzo si staccò dolcemente da lei e la salutò con un lieve bacio sulle labbra morbide, prima di allontanarsi da lei per tornare al suo faticoso lavoro. Branwen, ancora sognante, lo guardò andare via e poi si diresse lentamente verso il palazzo e vi entrò, tutta infreddolita e tremante, sia per il freddo che per l’emozione provocatagli da quel bacio.   

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Capitolo 8
*** Anni dopo ***


Grazie dei commenti e grazie anche a chi ha inserito la storia tra i preferiti

Grazie dei commenti e grazie anche a chi ha inserito la storia tra i preferiti!!! Sono contenta che vi stia piacendo!!! Ok non mi dilungo… vi lascio alla lettura del prossimo chappybye… Jelly^^

 

 

VIII

 

Anni dopo, la vita scorreva normale nel bel palazzo del dio della morte. La moglie a sua insaputa aveva il suo amante e si confidava con la sua serva; Badb, la sua figlia prediletta, svolgeva i suoi compiti di dea con diligenza e senza commettere mai errori; Nemain restava sempre assorta e persa tra le note della sua piccola arpa, parlando poco e ascoltando ancora meno di quello che avveniva nel mondo reale; Macha svolgeva i suoi compiti con il cuore pesante e carico di sensi di colpa opprimenti, ma cercando di non commettere errori per non dover anche traghettare le anime al posto del padre. Nulla sconvolgeva l’ordine e l’equilibrio della loro vita e Balor ne era contento. Un giorno però, senza nemmeno volerlo, proprio lui sconvolse irrimediabilmente la vita di tutta la famiglia.

Era nella sua grande sala da ricevimento, come sempre, e sedeva stanco sul suo trono, con una mano che reggeva la fronte aggrottata e l’altra che stringeva tra le dita rattrappite un foglio pieno di nomi; nomi di poveri mortali destinati a vagare per il resto dell’eternità nel macabro fiume che scorreva attraverso l’isola degli dei.

-Tonke, chiamami le mie figlie

-certo, mio signore

Il piccolo Tonke era già sparito dietro la grande porta, senza farselo ripetere due volte. Poco dopo rispuntò dal punto in cui era sparito, accompagnato questa volta da tre bellissime ragazze che entrarono con passo lento e cadenzato nella sala.

-padre ci avete fatte chiamare?- era stata la maggiore delle tre a parlare, con lo sguardo fiero rivolto verso la figura imponente del padre.

-sì, care. Oggi voglio affidarvi del lavoro extra, scusatemi ma non ce la faccio da solo, sembra che oggi ci siano più persone del solito che devono lasciare il mondo mortale!

Aveva un tono quasi allegro, come se quello che aveva appena detto poteva essere motivo di una battuta felice. In effetti per Badb fu una bella notizia, era sempre felice di poter aiutare Balor.

-allora, Badb a te spetta una donna: Ariel

-sì, padre

Badb uscì in fretta dalla sala, orgogliosa di aver ricevuto l’incarico per prima.

-Nemain, a te spetta un giovane col nome di Tom

Nemain uscì dalla stanza senza nemmeno rispondere al padre, semplicemente canticchiando una poesia che stava giusto componendo per lo sventurato Tom.

-Macha, ti affido l’anima di un giovane: Natan, non mi deludere

Con lei la voce di Balor era stranamente più fredda e impersonale.

Anche Macha uscì dalla sala, non per niente contenta di quel lavoro e con il cuore oppresso già solo all’idea di quello che doveva fare. Non le piaceva assolutamente lavorare da sola; non sopportava di dover affrontare i visi delle persone in lacrime attorno al morente e non capiva come facevano le sue sorelle a farlo senza nessun problema, anzi quasi con gioia nel caso di Badb.

 

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Macha era appena arrivata nel mondo dei mortali e, come ogni volta che ci veniva, si meravigliava di quanto potesse essere strano quel mondo ai suoi occhi, rispetto a quello in cui viveva lei. Il mondo divino, la loro bella isola, era così calma e silenziosa, come avvolta in una nuvola ovattata di nebbia che riduceva tutti i rumori. Il mondo degli esseri umani invece era stranamente caotico, come se tutti quanti non potessero fare a meno di correre; correvano dietro qualche capra scappata dai recinti, dietro un ladro che aveva appena rubato un frutto da una bancarella, i bambini si rincorrevano per gioco, i giovani rincorrevano fidanzate che si facevano desiderare e i vecchi correvano dietro a nipoti troppo scalmanati. Nessuno riusciva a stare un attimo fermo e in silenzio e il rumore, in quella strada dove era giunta Macha, era quasi insopportabile. Per non parlare degli odori; al naso fine della dea arrivavano gli odori più strani, sia piacevoli che terribili da sopportare; l’odore di un dolce appena sfornato da una mamma per la sua figlioletta, l’odore di fiori appena raccolti da un giovane innamorato, l’odore di spezie rare che erano esposte sul tavolo di un mercante; ma anche l’odore di sudore di un uomo che aveva appena finito il suo pesante lavoro nei campi, l’odore di letame appena pulito dalle stalle, l’odore di bruciato proveniente dalla cucina di un maldestro apprendista cuoco. Ma la bella dea non poteva soffermasi su quei particolari, aveva un lavoro da svolgere e voleva farlo al più presto. Si diresse verso la casa del giovane Natan e vi entrò senza esitazioni. La casa non era nulla di speciale, piccola e un po’ spoglia, ma fortunatamente ben pulita e libera dagli odori più sgradevoli che Macha temeva di annusare. Trovò il ragazzo con un coltello affilato vicino alla gola, era arrivata giusto in tempo per assistere alla sua fine e prendergli l’anima. Era un peccato che dovesse proprio morire, pensò Macha, perché era davvero un gran bel ragazzo. Aveva neri capelli lisci e leggermente lunghi, con la frangia che gli ricopriva la fronte, sudata per la tensione al pensiero di quello che stava per fare, e i ciuffi che ricadevano sul collo muscoloso anch’esso sudato; doveva avere anche un bel fisico scolpito e doveva essere molto alto, poiché sembrava che facesse fatica a stare piegato in quella posizione, con le ginocchia piegate, la testa appoggiata su queste e il coltello poggiato minacciosamente alla gola. Ad un certo punto alzò lo sguardo, come se avesse sentito entrare qualcuno, e lo posò sulla figura della dea.

Macha restò sconvolta da quello che i suoi occhi videro. Quegli occhi lei li aveva già visti. Erano due grandi e profondi occhi viola, lucidi per la tristezza, che fissavano con una strana espressione quelli sconvolti della dea che gli stava di fronte. Anche lui sembrava averla riconosciuta. Il cuore di Macha ebbe un sobbalzo quando si ricordò dove aveva già visto i suoi occhi e per un attimo fu come se il tempo si fosse fermato per entrambi, per poi tornare indietro di anni, fino a quel giorno di quasi venticinque anni prima; quando Macha aveva preso l’anima della sua prima vittima insieme alle due sorelle: l’anima di Kona. Ecco dove aveva visto quegl’ occhi: erano quelli del bambino che, dal suo angolo ai piedi del letto della madre morente, la implorava con lo sguardo di non portargliela via. Ora non erano più due occhi infantili che la imploravano, ma i due occhi di un adulto che aveva deciso di farla finita, ma che potevano vedere perfettamente la dea pronta a portargli via l’anima.

-perché io vi posso vedere?

-io… non lo so… non dovreste vedermi

-ma anni fa io vi ho vista di nuovo! portaste via mia madre e a poca distanza da quel giorno vidi portare via anche i miei fratelli e mio padre, ma non eravate più voi la loro assassina

-sono state le mie sorelle, io non volevo portarvi via vostra madre, credetemi!

-sì, me ne ricordo. Voi cercaste di fermare la dea dai capelli bianchi

-sì, mia sorella, ma non ci riuscii e i ho sensi di colpa tutt’oggi per avervi fatto assistere ad un simile spettacolo, troppo crudele per i vostri occhi allora infantili 

-e ora siete venuta a concludere il vostro dovere? Sarete voi a prendere la mia anima?

-sì

-era proprio destino che ci rincontrassimo, ma non speravo in questa circostanza

-non vedo in quale altra circostanza avrei potuto incontrarvi

Macha era sconcertata, non pensava che avrebbe mai rivisto il bambino dagli occhi viola e adesso non lo voleva uccidere, il suo cuore sembrava che non volesse permetterglielo e minacciava pericolosamente di smettere di battere, nonostante la sua natura immortale.

-già, avete ragione

Il giovane non sembrava per niente spaventato, anzi sembrava realmente felice di aver rivisto la bella dea, che non aveva mai smesso di perseguitare i suoi sogni sin dall’infanzia. Adesso che l’aveva ritrovata non la voleva più lasciare.

-e se io adesso non volessi più morire? Se volessi passare il resto della mia vita accanto a voi?

Macha era ancora più sconcertata. Non pensava che avrebbe mai sentito pronunciare simili parole da una delle sue vittime e non sapeva come comportarsi. Decise di non porre fine alla sua vita.

-non credo che voi vogliate realmente passare il resto della vita accanto alla dea della morte

-ma voi non potete essere la dea della morte. Siete troppo bella e troppo buona, dovreste essere la dea dell’amore

Quelle parole colpirono a fondo nell’animo di Macha. Quello sconosciuto aveva colto nel segno il suo problema.

-e invece sono quello che sono, ma visto che dite di non voler più morire me ne andrò e spero di non dovervi più rincontrare o sarei costretta a terminare il mio dovere, quindi non cercate più di uccidervi, Natan

Natan, come era dolce il nome di un semplice mortale se pronunciato dalle labbra di quella bellissima dea. Il ragazzo credeva di vivere un sogno meraviglioso e non voleva dirle addio così.

-io invece vorrei rivedervi. Tornerete da me, mia dea? Non so nemmeno il vostro nome…

-sono Macha. No, non credo che tornerò da voi perché non desidero uccidervi. E non cercate di uccidervi per vedermi, perché se dovessero venire da voi le mie sorelle, o peggio mio padre, non vi risparmierebbero

-allora se non volete che io muoia tornate da me

La dea andò via, sparendo dalla vista di Natan, visibilmente sconvolta per quello che era successo e impaurita al pensiero delle conseguenze che sarebbero derivate dalla sua trasgressione delle regole.

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Piccola bugia e un' altra confessione ***


IX

IX

 

-ebbene avete svolto il vostro dovere come si deve?

Balor aveva chiamato nuovamente le sue figlie a rapporto nella grande sala da ricevimento. Le scrutava tutte e tre con uno sguardo curioso, impaziente di sapere l’esito dei loro compiti.

-alla perfezione, padre

Badb si inchinò rispettosa al cospetto del padre, mentre pronunciava quelle parole con esagerata sdolcinatezza. Il padre le sorrise, fiero della sua figlia prediletta.

-e voi?

Balor si rivolse allora con tono più aspro alle altre due figlie che non avevano ancora parlato.

-ho eseguito i vostri ordini padre

La voce di Nemain sembrava come sempre assente.

-anche io padre

Quella di Macha era invece rotta dai sensi di colpa per la bugia che aveva appena pronunciato. Il padre se ne accorse e la fissò con sguardo truce, cercando di leggerle dentro l’anima cosa gli stesse nascondendo. Per paura dell’esame degli occhi paterni, Macha abbassò lo sguardo intimidita, non vedendo l’ora di andarsene da lì. Ma si chiedeva seriamente cosa avrebbe fatto una volta uscita da quella sala. Non poteva parlarne con nessuno, certamente, ma non riusciva ad accettare il fatto che dovesse tenersi tutto dentro.

Balor lasciò perdere l’esame della figlia, ripromettendosi però che l’avrebbe tenuta d’occhio.

-bene, potete andare allora

Tutte e tre le dee si inchinarono nuovamente e uscirono dalla sala di ricevimento del padre. Nemain sottolineò l’uscita con le note musicali della sua arpa.

Macha aveva voglia di restare da sola e pensò di andare in giardino per passeggiare, nonostante la pioggia battente che quel giorno lavava il terreno della loro isola divina. Guardando fuori dalla finestra del corridoio che separava la stanza da ricevimento e la sua camera da letto, si rese conto che la pioggia era davvero forte, così pensò di passare dalla sua stanza a prendere qualcosa che la coprisse di più. Avrebbe potuto rinunciare alla sua passeggiata, ma sperò che con la pioggia non ci sarebbe stato nessuno in giardino, giardinieri compresi, così lei sarebbe stata libera di pensare. Scelse dal suo armadio ben rifornito una mantella bordeaux bella calda e con il cappuccio e l’orlo decorati con ghirigori dorati. La indossò e corse in giardino, dove rimase stupita della bellezza delle piante e dei fiori sotto la pioggia. Si sedette sull’orlo di una fontana e guardò il suo riflesso triste nell’acqua increspata dalle goccioline di pioggia. Si sentì incredibilmente triste e malinconica. Ripensò al giovane che pur di rivederla sarebbe stato disposto a morire, mentre con la mano distruggeva con la violenza della sua frustrazione la sua immagine riflessa che la fissava, come se volesse rimproverarla. Presto le sue lacrime si aggiunsero alle gocce di pioggia, ma, poco dopo, sentì una risata sussurrata che le sembrava familiare. Dava l’impressione che provenisse dal gazebo di pietra lì vicino, così Macha si ripulì il viso dalle lacrime e vi si avvicinò. La risata cristallina era sempre più vicina, ma da quella posizione più vicina poteva sentire anche una voce maschiale, dolce e sensuale. Alzò con una mano la tenda naturale fatta dai rami del glicine in fiore, nonostante la temperatura sfavorevole, ed entrò sotto le colonne di pietra. Nell’esatto momento in cui mise piede nel gazebo, scese un silenzio gelido. Macha non riusciva a credere ai suoi occhi. Lì, di fronte a lei, c’era sua madre tra le braccia di un bellissimo ragazzo, ma con la tenuta da giardiniere.

-Macha?! Co-cosa ci fai tu qui?

-io…io volevo solo restare sola, ma a quanto pare non sono l’unica che ha avuto l’idea di venire in giardino

Branwen era sconvolta, per essersi fatta trovare in flagrante da sua figlia e non sapeva assolutamente cosa dirle per spiegare la situazione. Prima ancora che potesse dire o fare qualsiasi cosa, Macha se ne andò via, riabbassando la cascata di foglie di glicine. Se ne restò sotto la pioggia per qualche minuto, bagnandosi come una spugna, poi rientrò nel castello e lasciò le sue impronte per tutto il corridoio. Si rinchiuse in camera e si lasciò cadere sul letto senza nemmeno togliersi gli abiti bagnati, pochi minuti dopo si era già addormentata, con però il sonno tormentato dalle immagini degli occhi viola di Natan e quelle di sua madre tra le braccia del giovane.

 

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-e ora?

-e ora che cosa? Non ti preoccupare Branwen

-ma ci ha visti

-non ci saranno problemi

La voce di Branwen era preoccupata e quella di Sitchain invece era dolce, ma ferma e rassicurante. Anche il viso di Branwen esprimeva la sua preoccupazione: c’erano delle piccole rughe che le increspavano la pelle della fronte, ma Sitchain gliele distese molto gentilmente, posandole un lieve bacio su questa.

-stai tranquilla

Quelle parole erano solo un sussurro, ma ebbero il potere di alleviare l’inquietudine della dea.

Lei si strinse di più al giovane e, stampatogli un amorevole bacio sulle labbra morbide, gli disse che doveva andare.

-perché? Non puoi restare ancora qui con me?

-no, devo parlare con Macha, voglio spiegarle cos’è successo

-va bene, ci vediamo presto, mia dea

Branwen lasciò il gazebo e corse sotto la pioggia fino alla reggia. Si cambiò in fretta d’abito e prese un magnifico vestito color pesca che la faceva sembrare un petalo di un fiore pregiato. Si asciugò anche i bei capelli rossi, raccogliendoli poi in una coda alta, ma con qualche ciuffo che non era riuscita a domare. Fece un bel respiro e si diresse verso la camera di Macha; bussò e attese per qualche istante una risposta, che però non giunse poiché la dea era profondamente addormentata. Entrò comunque e la trovò sdraiata sul letto, con ancora la mantella bagnata addosso. Si sedette sul letto di fianco a lei e iniziò a sussurrarle qualcosa mentre le accarezzava i capelli così simili ai suoi. Si sentiva in colpa per quel peso che le gravava sulle spalle per colpa del padre, unito a quello non meno impegnativo del segreto di cui era venuta a conoscenza poco tempo prima. Macha intanto si svegliò sentendosi toccata dalla mano della madre. Quando aprì gli occhi, non si rese conto di dove fosse e del perché si trovasse lì; era ancora frastornata per via degl’incubi e Branwen decise allora di aiutarla a cambiarsi l’abito fradicio. Una volta che ebbe qualcosa di asciutto addosso, Macha si svegliò del tutto e lasciò alle spalle il torpore del sonno.

-posso spiegarti tutto

-non ce n’è bisogno, madre. Vi posso capire con un marito del genere

-sapevo che avresti capito. Lui è così freddo, glaciale, non si merita né il mio affetto né il mio amore e tanto meno la mia fedeltà. Io non posso sopportare la sua freddezza, ti giuro che ho tentato di amarlo, ci ho provato con tutta me stessa, ma dopo tutti questi anni ancora non ce l’ho fatta

-non dovete giustificarvi, vi capisco e non vi biasimo. Nemmeno io sarei in grado di sopportare tanta freddezza. Vostro marito non vi merita, avete bisogno di qualcuno che sappia dimostrarvi il suo affetto per voi, non potete e non dovete accontentarvi di lui. Non sarebbe giusto nei vostri confronti, non vi meritate una tale sofferenza

-sono contenta che sei d’accordo con me. Temevo di averti angosciata con la scoperta del mio segreto

-no, madre, e poi voi non siete l’unica ad avere un segreto

-cosa mi vuoi dire? Se hai un segreto, con me ne puoi parlare liberamente

-speravo proprio di poterne parlare con qualcuno

-dimmi pure tutto

Macha raccontò a sua madre di ciò che le era successo, dello strano ragazzo che aveva incontrato e che l’aveva pregata di tornare da lui. La madre restò sconvolta di una cosa simile. Non aveva mai sentito che una cosa del genere fosse mai successa. Era accaduto altre volte che un mortale si fosse innamorato della dea dell’amore o di quella della bellezza, ma non era mai successo che qualcuno si fosse innamorato della dea della morte, addirittura mentre quella gli stava per prendere l’anima. Branwen non sapeva assolutamente che consiglio dare alla figlia. Sapeva bene che disobbedendo al volere del padre sarebbe incorsa in un grave pericolo, ma aveva capito, da come ne parlava la figlia, che lei provava qualcosa per quel ragazzo. Sembrava che fosse scattato qualcosa nella sua testa fin da quando l’aveva visto da bambino, quando la scrutava implorante con i suoi profondi occhi viola.

-tesoro mio, non so cosa consigliarti di fare. Se ti dicessi di seguire la ragione, dovresti tornare da lui e prendergli l’anima come ti è stato ordinato, prima che Balor se ne accorga. Tuttavia capisco che non te la senti, allora ti direi di seguire il cuore e di lasciarlo vivere, ma così ti metterei in pericolo, perché se lo scoprisse tuo padre… mi dispiace di non poterti essere d’aiuto in qualche modo

Macha non se la prese con la madre, poiché sapeva benissimo che nessuno la poteva aiutare, nessuno poteva prendere quella decisione al suo posto.

 

 

Ciao a tutti! Sono contenta di aver raggiunto i 4 preferiti… spero che qualcun altro si aggiunga presto! Scusatemi tanto se sono più lenta di un bradipo ad aggiornare, ma sono davvero incasinata!!! Grazie mille a chi mi lascia gentilmente un commento e anche a chi si limita a leggere! Al prossimo chappy!!! Bye…Jelly^^

 

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Capitolo 10
*** Rischio ***


X

X

 

Il giorno dopo, Macha si ritrovò quasi inconsapevolmente nel mondo degli umani, nei pressi della casa di Natan. Quella casa la spaventava e non sapeva se entrare o no. Aveva paura di non trovare più Natan in vita, che suo padre o le sue sorelle avessero scoperto la sua disobbedienza agli ordini paterni. Si materializzò dentro la casa e con sollievo vide la figura magra di Natan sistemata su di una sedia, che si reggeva a stento in piedi, che le dava le spalle. La dea era entrata silenziosamente e il giovane non si era accorto del suo arrivo, così lei si diresse verso il punto dove si trovava e gli toccò una spalla con delicatezza.

-mia bella dea, siete voi?

-sì, sono io

-siete tornata!

Il giovane si girò e la fissò con i suoi occhi viola, stabilendo con lei un contatto visivo da cui era praticamente impossibile sottrarsi.

-temo per la vostra vita

-non mi interessa, mi basta continuare a vedervi

-quanto siete sciocco! Non potete desiderare la dea della morte! Io dovrei uccidervi! Se lo sapesse mio padre! Siete in grave pericolo ormai e nemmeno io posso salvarvi, il vostro destino è segnato da quando avete cercato di uccidervi con quel coltello!

Natan continuava a fissarla, completamente perso per i suoi occhi verdi, senza riuscire a dire nulla di sensato.

Si alzò dalla sedia, senza interrompere il contatto con i suoi occhi, e si ritrovò all’altezza della dea. Le cinse i fianchi con le braccia e la attirò a sé. Lei cercò di opporre resistenza, ma qualcosa dentro di lei glielo impediva. In un ultimo tentativo di allontanarsi da lui gli chiese come mai poteva vederla, mentre tutti gli altri esseri umani non potevano accorgersi della sua presenza.

-non lo so, so solo che vedo cose strane. Vedo anche le anime dei morti. Quando mi avete portato via mia madre, ho visto la sua anima che si dirigeva verso di voi e precisamente verso una collana al collo di una delle altre dee

Natan le aveva risposto senza allontanarla dal suo corpo.

-sì, ho capito a cosa vi riferite, ma non capisco come fate a vedere certe cose!

-non lo so, ve lo ripeto, ma sono ben contento che ciò accada perché così posso vedere voi

Macha era pensierosa. Non conosceva casi di persone simili a lui e si chiedeva perché una persona con una simile capacità dovesse morire. Decise che avrebbe combattuto per difenderlo sia dal padre che dalle sorelle. Non avrebbe permesso a nessuno di fargli del male. Mentre nella sua mente formulava questo pensiero, si ritrovò completamente abbandonata contro il corpo caldo del ragazzo.

-non permetterò a mio padre di farvi del male

-non voglio che voi rischiate la vostra preziosa vita per me

-la mia vita non è così preziosa e poi mio padre non può uccidermi, sono immortale, ricordalo

-giusto, avete ragione

Macha pensò che quello che gli aveva detto non era completamente vero. Suo padre non poteva ucciderla, a meno che lei non entrasse nel famoso fiume delle anime, allora sarebbe morta come un normale essere umano. Ma non era il caso di rivelarlo a Natan. Quello di cui aveva più bisogno al momento era di affetto e sapeva che quel giovane aveva da offrirne tanto. Restarono in quella posizione per parecchio tempo, fino a quando lei non si staccò di scatto da lui, come se fosse stata raggiunta da una scossa elettrica.

-cosa c’è?

Lo sguardo di Natan non nascondeva minimamente tutta la sua preoccupazione. I suoi occhi viola erano fissi in quelli verdi e spaventati di lei.

-mia sorella! È qui! Nemain sta venendo a cercarti!

-sh… calmati!

-no, non posso calmarmi! È una catastrofe! Se ti trova è la fine per te! Dobbiamo andarcene da qui immediatamente!

Non diede il tempo a Natan di ribattere e si smaterializzò con lui ancora stretto tra le braccia. I due si ritrovarono in una grotta scura nel cuore di una montagna dell’isola degli dei. Era l’unica montagna di tutta l’isola ed era il primo posto che era venuto in mente alla dea per nascondersi con Natan.

Il ragazzo era frastornato e le orecchie gli fischiavano fastidiosamente. La testa gli girò per un attimo e Macha lo sorresse.

-scusa, non avevo considerato che potessi avere problemi con il teletrasporto, ma era l’unico modo per fuggire da mia sorella

-tua sorella non capirebbe?

-assolutamente no. Ci è andata bene poi che non era Badb. Allora sarebbero stati veramente guai se ci avesse trovati

 

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Nello stesso momento, Nemain aveva ricevuto un ordine dal padre: doveva andare a prendere l’anima di un giovane che gli era sfuggito il giorno prima.

-certo padre, vado subito

Balor, però, pensò che non era da lui dimenticarsi di qualcuno. Diede, tuttavia, la colpa alla stanchezza che in quei giorni lo assaliva sempre più spesso e non ci pensò più. Sua figlia, intanto, era già uscita dalla stanza.

Nemain era arrivata sulla Terra e iniziò a cercare con la mente la sua vittima; era contenta di avere qualcosa da fare, un modo come un altro per poter suonare la sua arpa, l’unico suo interesse. Canticchiando, procedette tra i mortali di quella piccola città e si rese conto che quel posto aveva qualcosa di familiare per lei. Non ci fece molto caso e si riconcentrò sul suo compito. Fece uno strano sorrisetto non appena trovò il ragazzo di cui si doveva occupare e si avvicinò alla casa di questi, pronta a divertirsi un po’. Sentì, tuttavia, anche la presenza di un essere sovrannaturale oltre al ragazzo, come se con lui ci fosse già un’altra divinità. Non si accorse fortunatamente che la divinità in questione non era altro che sua sorella. Si fermò davanti alla malconcia porta del mortale, chiuse i suoi grandi occhi verdi, incurvò le labbra in un sorriso rilassato e accordò con le dita paffutelle la sua amata arpa. Lo strumento all’inizio produsse qualche nota capricciosa, ma, subito dopo, le abili mani della dea plagiarono il suono a loro piacimento, producendo una struggente melodia composta solo qualche giorno prima, in un momento di particolare noia. A quel punto si interruppe bruscamente. Nemain spalancò gli occhi e sulla sua fronte comparvero delle piccole rughe di fastidio; sembrava una bambina piccola a cui era stato tolto il suo giocattolo preferito e, in effetti, era davvero così. La presenza della divinità e del mortale erano sparite improvvisamente dalla casa, quindi lei non aveva più il suo passatempo. Rimase un attimo perplessa di fronte alla porta di casa, poi si smaterializzò con ancora stampata in faccia l’espressione capricciosa e se ne tornò immediatamente sull’isola. Per un attimo le era sembrato di aver percepito anche sull’isola quella due stesse presenze, ma poi non ci fece più caso e tornò come sempre alla sua arpa e al suo mondo fantastico, dove nessuno poteva disturbarla.

 

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Capitolo 11
*** Disobbedienza scoperta ***


XI

XI

 

Macha e Natan avevano continuato a vedersi, nonostante quel piccolo incidente. Per circa una settimana, la dea pretese che il ragazzo continuasse a nascondersi nella grotta della montagna, almeno fino a quando non si sarebbero un po’ calmante le acque. Intanto, tra il giovane mortale e la bella dea si stava creando sempre più un rapporto di profondo affetto. Lui era completamente innamorato della sua bella dea e lei, nonostante provasse e riprovasse a resistergli, non riusciva a vincere la tentazione di andare da lui ogni volta che ne aveva l’occasione. Non riusciva a resistere al suo sguardo, alla sua pelle calda, al suo abbraccio morbido, al suo fiato caldo sul suo collo. Dopo non molto, le sue resistenze cedettero del tutto e lei non riuscì, e non volle riuscire, a sfuggire alle sue labbra e ai suoi baci ardenti. Tutto il suo essere era per lei un richiamo irresistibile, aveva bisogno di vederlo, sfiorarlo, baciarlo. Per lui era la stessa cosa. Senza nemmeno sapere come, Macha si ritrovò ad essere innamorata di lui. Tuttavia, incessanti paure la attanagliavano ogni volta che stava per andare da lui; non poteva fare a meno di preoccuparsi per lui, di chiedersi se per caso fosse stato scoperto e se la sua vita fosse stata presa crudelmente da una delle sue sorelle o dallo stesso padre, o se, forse la cosa che temeva di più, che lui ad un certo punto avesse perso la capacità di vederla. Tutte le sue paure svanivano di colpo, non appena incontrava i suoi occhi viola e volava felice tra le sue forti braccia. Nessuno sapeva di quello che le stava accadendo, tranne sua madre, la quale ormai era diventata la sua confidente insieme alla cara e discreta Olimpia. Dopotutto, anche sua madre aveva un enorme segreto e lo stava condividendo proprio con lei e Olimpia; ormai loro tre erano come una coalizione contro la tirannia di Balor e, anche se non potevano fare nulla per sminuire il suo potere, potevano sostenersi l’un l’altra. Ma tutto questo non sarebbe durato ancora per molto tempo.

 

_.¤°*.¸¸.·´¯`»*(o)*«´¯`·.¸¸.*°¤._

 

Tre mesi più tardi, una strana sensazione di errore e di disagio non aveva ancora abbandonato la mente e il cuore del grande dio Balor. Cosa mai poteva turbare la coscienza del dio della morte? Non di certo tutto il male che faceva alla moglie e alle figlie, di quello nemmeno si preoccupava. C’era qualcos’altro e voleva assolutamente scoprire cosa fosse.

-Tonke!

-s-sì? Mi avete chiamato, signore?

-certo che ti ho chiamato!

Tonke era al suo servizio da anni, ma ancora non si era completamente abituato alla presenza imponente del suo padrone. Ogni volta che gli veniva rivolta la parola dal dio, si sentiva serrare lo stomaco in una morsa d’acciaio, spalancava con un movimento involontario i suoi piccoli occhietti e con espressione timida e impaurita si inchinava ai suoi piedi. Si sarebbe mai abituato alla sua condizione di servitore del dio? Probabilmente no.

-cosa desiderate?

-mi devo assentare per qualche ora. Fammi trovare la cena pronta

-certo, signore

Tonke si dileguò dalla porta della sala, dopo un profondo inchino, mentre Balor si alzò dal suo trono dorato. Si concentrò per qualche secondo e senza indugiare ulteriormente si ritrovò nel mondo degli umani. Espanse la mente alla ricerca del problema che gli disturbava da mesi il sonno e finalmente capì di cosa si trattava. Sentiva la presenza di una delle sue figlie insieme a quella di un umano destinato a morire da tempo. La collera iniziò a salire su per la sua schiena muscolosa, gli percorse i pugni stretti in una morsa distruttiva, raggiunse il collo evidenziandone le vene pulsanti, gli serrò la mascella e gli corrugò la fronte. Le piccole rughe della pelle ruvida del dio adesso erano delle profonde rughe di cieca rabbia. Badb non era di sicuro, Nemain nemmeno, doveva essere per forza Macha. Come poteva quella piccola figlia ingrata anche solo pensare di prendere in giro suo padre? Con i pugni ancora stretti, tornò rabbioso a palazzo e arrivò proprio davanti a Tonke, che in quel momento stava preparando la sua cena. Quando si materializzò nella sala da pranzo, il servitore sobbalzò spaventato e quasi fece cadere un prezioso piatto di porcellana, pieno di ogni genere di frutta che piacesse al dio.

-come mai avete fatto così presto, signore?

La voce di Tonke era rotta e tremante per la sorpresa e lo spavento di essersi trovato di fronte il suo padrone molto prima dell’orario previsto per il suo arrivo.  

-fate chiamare immediatamente le mie figlie!

-certo, subito!

Tonke aveva capito perfettamente dal tono della voce del dio che qualcosa era andato storto in ciò che doveva fare. Non si fece ripetere due volte l’ordine e con le sue gambine scattanti si precipitò di corsa fuori per chiamare le tre dee. Ne trovò subito due, Badb e Nemain, in una piccola camera, magnificamente arredata con mobili e tendaggi color oro e abbinati ai tappeti e agli arazzi che ricoprivano le pareti, che fungeva da salotto.

-dov’è vostra sorella?

-perché la cerchi?

Il servitore aveva il fiatone per la fretta e l’agitazione.

-vostro padre… vi-vi sta cercando e… e sembra alterato

-arriviamo subito

Nemain non sembrava nemmeno che avesse sentito il breve scambio di battute tra sua sorella e Tonke, mentre Badb aveva assunto un’aria preoccupata; sapeva bene di cosa poteva essere capace suo padre quando era arrabbiato. Si chiedeva però quale fosse il motivo della sua rabbia.

Proprio mentre le sue sorelle stavano per entrare nella sala da pranzo per raggiungere il padre, il fedele servitore di Balor vide la terza sorella entrare dalla porta del giardino. Corse verso di lei, facendosi notare sventolando le braccia corte e tozze, e lei alzò entrambe le sopracciglia in segno di stupore.

-vostro padre… vi aspetta… in… in sala… pranzo…

Tonke adesso non aveva davvero più nemmeno un briciolo di fiato. Si sentiva mancare, aveva corso solo da una stanza all’altra e poi verso l’entrata del giardino, ma in una casa come quella, dove i corridoi erano tanto lunghi sembrare quasi infiniti, fare anche un solo corridoio per uno piccolo come Tonke era una gran fatica.

Macha si affrettò ad entrare nella sala da pranzo, dove trovò il padre e le sorelle, tutti seduti attorno ad una tavola enorme e quasi tutta apparecchiata, sulle sedie che Tonke aveva già predisposto per la cena.

-padre, avete fatto chiamare anche me?

La situazione sembrava delle più tranquille.

-certo, cara

Tutto quell’affetto con lei, però, non prometteva nulla di buono.

Balor le tenne nella sala a fare conversazione con lui per una buona mezz’ora, ma nessuna delle tre ne conosceva il motivo e lo stesso Tonke, che intanto continuava a preparare la tavola con discrezione, non capiva dove fosse finita la collera di poco prima. Il dio, però, stava solo fingendo di essere calmo e rilassato. Dentro di sé, urlava e si corrodeva per la furia. Si decise alla fine a congedarle con un affettuoso sorriso, che disarmò completamente le tre figlie.

-Badb, tu resta un attimo

La primogenita inclinò la testa di lato e guardò il padre con espressione interrogativa, ma attese che le altre due se ne fossero andate per fare domande.

-ditemi, padre, cosa posso fare per voi?

-ho un piccolo lavoretto extra per te

-ne ben sono felice

Sulle labbra fredde e marmoree di Badb comparve un sorriso crudele, almeno quanto quello del padre.

-voglio che prendi l’anima di un certo Natan

-ma non se n’era occupata mia sorella qualche tempo fa? È il ragazzo suicida vero?

-sì, è lui, ma tua sorella non ha avuto il coraggio di eseguire gli ordini e l’ho trovata con lui prima

La faccia di Badb esprimeva tutto il suo ribrezzo per quello che aveva scoperto dal padre; non solo sua sorella non aveva eseguito un ordine ben preciso, anzi, si intratteneva anche con lui! Era uno scandalo per la loro famiglia e qualcuno doveva porvi fine al più presto.

-perché non ve ne siete occupato voi di persona quando li avete scoperti?

-perché volevo aspettare che Macha tornasse a casa, devo si sistemare le cose con lei personalmente, quindi qualcun altro si deve occupare del giovane mortale

-ho capito, sarà fatto subito

-lo sapevo che mi sarei potuto fidare ciecamente di te

Badb uscì dalla sala e si teletrasportò nel mondo degli umani, bella e crudele come sempre.

 

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Capitolo 12
*** Degenero ***


XII

XII

 

Quel pomeriggio il sole splendeva ancora alto nel cielo, evidentemente il capriccioso dio della notte non aveva voglia di lavorare quel giorno. Macha stava passeggiando in giardino da sola e cercava di riflettere sul motivo di della strana cordialità del padre. Per quello che si ricordava, non aveva mai visto suo padre comportarsi tanto gentilmente, né con le figlie, se non a volte con la sua prediletta, Badb, né con la moglie. Che avesse poi trattenuto anche Badb dopo il loro incontro era ancora più strano; in più, quando il servitore personale del dio l’aveva incontrata in giardino, sembrava agitato e preoccupato, come se il suo padrone fosse arrabbiato. Eppure, entrando nella sala da pranzo, non aveva notato segni di rabbia. Non sapeva cosa pensare, non aveva idea di ciò che passasse per la testa di Balor, ma sperò che non fosse qualcosa di brutto. Si sedette su una piccola statua di pietra a forma di tartaruga e si mise ad osservare i giardinieri che lavoravano ad una siepe più difficile delle altre da potare. Cancellò dalla sua mente quello che era successo con il padre e corse con il pensiero verso Natan; si rese conto che c’era una cosa che continuava a solleticare la sua curiosità riguardo a quel ragazzo. Voleva scoprire assolutamente perché lui la poteva vedere. Immaginò il suo bel viso e non trovò nulla di inusuale rispetto agli altri esseri umani.

Mentre stava pensando a Natan, un giardiniere le si avvicinò.

-buongiorno, Macha

-salve, Sitchain, come procede quella siepe?

-è molto difficile darle una forma precisa! Come sta vostra madre? Mi manca, è da un po’ che non riusciamo a vederci

-immaginavo, credo che, se continuano le belle giornate come questa, mio padre si recherà sempre più spesso in giardino e sarà difficile per voi e mia madre vedervi!

-già… allora spero che torni la pioggia

-lo spererò anche io per voi, ma cosa stanno facendo adesso?

-ah sì, dobbiamo piantare delle viole in quel recinto, le ha richieste vostra madre in persona, spero che le piaceranno!

-sì, ne sono sicura, le dirò di venire a dare un’occhiata il prima possibile

In quella frase c’era molto più della promessa di far vedere le viole a sua madre e Sitchain lo sapeva bene. Il giardiniere si rallegrò, allargò le labbra in uno dei suoi stupendi sorrisi e congedò la dea, per  tornare poi al suo lavoro con le viole e la siepe. Mentre l’osservava andare via, Macha ebbe all’improvviso un sussulto. Aveva capito cosa aveva di diverso Natan dagli altri esseri umani: gli occhi! Nessun altro mortale aveva gli occhi di quel colore! Solo gli dei potevano avere gli occhi di quella tonalità. Ripensò a tutti gli dei dell’isola e le venne in mente un dio con gli occhi viola: non era una divinità qualunque ad avere quel particolare colore, bensì il grande dio del fuoco in persona.

Macha si alzò di scatto dalla tartaruga di pietra, ringraziò mentalmente Sitchain per averle parlato delle viole e corse come una scheggia verso il palazzo. Con il suo lungo vestito azzurro con ricami d’argento che svolazzava per il corridoio, Macha arrivò di fronte alla porta della sua camera e la spalancò di fretta. Se la richiuse alle spalle e si diresse verso il suo armadio, con l’intento di mettersi qualcosa di meno ingombrante per recarsi nella calda casa di Flaren, il dio del fuoco. La casa del dio era isolata e si trovava alle pendici di un piccolo, ma attivo, vulcano. Prese un abito verde, più leggero e con meno veli che avrebbero rischiato di incendiarsi da qualche parte e lo buttò sul letto.

-dove hai intenzione di andare con quel bel vestito?

Macha era saltata letteralmente in aria. Le si gelò in un attimo il sangue nelle vene. Non si era accorta che nell’angolo, seduto su una sedia e che rivolgeva le spalle alla finestra, c’era suo padre.

-co-cosa ci fate voi qui?

La sua voce tremava più di una foglia al vento.

-sono venuto a portarti via da qui, hai finito di crearmi problemi

-ma… cosa…

La porta della sua camera si spalancò con violenza e vi entrarono due colossi vestiti completamente di nero. Macha guardò spaventata prima il padre e poi gli altri due, che intanto le si erano avvicinati e ora la stringevano dai fianchi. Quelle due grosse presenze cupe l’ afferrarono per le braccia senza che lei potesse opporsi, le strinsero con forza la pelle e le provocarono una fitta di dolore. Sentiva che le si sarebbe fermata la circolazione da un momento all’altro. In un attimo Macha si ritrovò con i piedi per aria e iniziò a dimenare inutilmente le gambe e ad agitare convulsamente le braccia nel vano tentativo di liberarsi da quella stretta ferrea.

-ecco cosa succede a disobbedire ai miei ordini! Figlia ingrata! Come puoi anche solo pensare che non avrei scoperto che ti intrattieni con un mortale!?

Balor era furente, aveva trattenuto tutta la sua collera solo con lo scopo di farla esplodere in quel preciso istante.

-ma, padre! Lui non è…

Le sue parole vennero coperte dal suono del pianto che la stava scuotendo contro la sua volontà.

-del fuoco… non…

Non fece in tempo a finire la frase, che i due brutti ceffi l’avevano già portata via dalla stanza. Suo padre sorrise felice. Felice di aver sistemato la faccenda con quella sua difficile figlia. Macha, invece, mentre veniva portata via, urlava che Balor si stava sbagliando, che Natan non era un semplice mortale e lo pregava di non fargli del male. Era completamente disperata e non riusciva a smettere di piangere, mentre continuava comunque ad urlare fino a perdere la voce. Nessuna tra le persone della casa uscì a darle man forte, nonostante la voce della dea fosse abbastanza alta da essere ben sentita. Una persona però, che si stava recando in giardino, era uscita dalla stanza proprio in quel momento ed aveva sentito le urla di Macha. Era Branwen, la quale non riuscì più a muoversi dall’incavo della porta della sua camera, tanto era paralizzata dalla paura e dalla preoccupazione per la figlia. Era anche sconvolta da quello che le aveva sentito dire. Se quel Natan era il figlio del dio del fuoco, allora, forse, per lui c’era ancora una piccola speranza di sopravvivenza. Iniziò a piangere in silenzio, desiderando correre dal marito e urlargli contro tutto il suo odio e la sua rabbia; ma sapeva bene che tutto quello non sarebbe servito a nulla e non avrebbe salvato la vita del ragazzo. Si limitò allora a stringere convulsamente i pugni e pensò a quello che avrebbe dovuto fare. Non voleva che quel povero ragazzo fosse ucciso solo perché Balor non aveva avuto la pazienza di ascoltare fino in fondo le urla della figlia. Corse fuori dalla casa, pronta a fare ciò che stava per fare sua figlia prima di essere catturata come una criminale dal padre.

 

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Capitolo 13
*** Flaren ***


XIII

XIII

 

Arrivò in un attimo alle pendici del vulcano; una delle tante comodità che amava nell’essere dea era proprio il fatto di poter materializzarsi ovunque. Il luogo dove viveva Flaren aveva ben poco di ospitale; per il troppo caldo non c’erano piante intorno alla casa, se non qualche erbaccia secca. Il vulcano alle spalle della piccola casa era una presenza cupa e molto inquietante, la casa già di per sé era inquietante. Da dentro provenivano dei secchi rumori metallici, come se più che una casa quella del dio fosse una fucina o un laboratorio. Quella piccola casa di certo non aveva nulla a che fare con il grande palazzo in cui vivevano lei e la sua famiglia. Branwen emise un lungo e profondo respiro e bussò lentamente alla porta. Per un lungo istante non le aprì nessuno, ma poi finalmente si sentirono dei passi che si avvicinavano alla porta. Le aprì un giovane semidio dall’aria piuttosto sciocca e assente, con lo sguardo perso oltre la dea e due grandi occhi blu notte.

-sì? Desiderate signora?

La sua voce era leggermente gracchiante e la dea pensò che per certi versi quel giovane assomigliasse a sua figlia Nemain.

-ho bisogno di parlare con il dio Flaren, è urgente

-temo che dovrà aspettare, il dio al momento è molto occupato

Branwen non aveva assolutamente intenzione di aspettare anche un solo minuto. Alzò la voce e contorse la faccia in un’espressione di rabbia per spaventare il povero ragazzo e la cosa le riuscì molto bene.

-non aspetterò nemmeno un minuto di più! lasciami entrare, è un ordine!

Il servitore, spaventato a morte, la lasciò entrare e richiuse la porta alle loro spalle; la condusse poi nella stanza dove si trovava Flaren e Branwen notò che in effetti la casa era più che altro una grande fucina. C’era un grande forno in un angolo e lì vicino un uomo stava battendo con un martello dall’aria molto pesante un pezzo di ferro incandescente. Quella figura china sul pezzo di metallo doveva essere Flaren. La dea gli si avvicinò con cautela, temendo di disturbarlo, ma decisa lo stesso a parlargli.

-siete il dio Flaren?

L’uomo si girò verso di lei e distolse la sua attenzione dal lavoro che stava facendo. La squadrò per un momento, cercando di riconoscere la sua visitatrice.

-cosa ci fa la bella dea dell’amore nella casa di un vecchio come me?

-ho bisogno di parlarvi con urgenza, è una cosa molto importante

A sentire il tono della dea, Flaren sentì puzza di guai e mugugnò qualche parola poco convinta mentre lasciava perdere del tutto il suo lavoro.

-Hestir, pensaci tu a questo!

Il ragazzo che aveva aperto la porta a Branwen si diresse verso il camino e prese gli attrezzi dalle mani del dio.

-seguitemi, andiamo a parlare da un’altra parte. Ecco qui staremo più comodi

Flaren l’aveva condotta in una stanzetta piccola, ma ben tenuta. C’era un tavolo in legno al centro della camera con sopra un cesto di frutta e un altro con dei biscotti al cioccolato; sul lato opposto alla porta dalla quale erano entrati c’era un grande scaffale pieno di libri vecchi e polverosi e con qualche ragnatela che pendeva dai libri più sporgenti. C’erano anche due poltrone di velluto rosso e in mezzo a loro c’era un tavolino dorato con sopra un altro cesto di dolci.

Flaren la fece accomodare su una delle poltrone, la invitò a prendere dei biscotti senza fare complimenti e poi prese posto sull’altra poltrona. Intanto Branwen ebbe il tempo di osservarlo bene. Era alto e la sua figura era imponente quanto quella di Balor; aveva i capelli biondi e ondulati, lunghi fino alle spalle e raccolti in una cosa bassa; gli occhi grandi e viola fissavano quelli di lei con un’espressione indecifrabile e allo stesso tempo un magnetismo irresistibile. Solo ora comprese come quel Natan avesse fatto a far innamorare perdutamente di lui sua figlia, con quello sguardo magnetico poche persone sarebbero state in grado di resistergli.

-allora, di cosa mi dovete parlare di così importante?

La sua voce era bassa e leggermente roca.

-è una questione delicata. C’è un ragazzo, un certo Natan, che ho ragione di pensare sia vostro figlio

-mio… che cosa?!

I suoi occhi viola erano spalancati per la sorpresa. Non sapeva se doveva credere alle parole della dea o no.

-sì, credo sia vostro figlio. Ha i vostri stessi occhi e inoltre può vedere gli dei, caratteristiche che non può avere nessun essere umano

Flaren abbassò di colpo la voce, come se stesse parlando da solo e non con Branwen.

-avevo avuto un figlio una ventina di anni fa, almeno credo, non tengo molto conto degli anni. Non so assolutamente cosa gli sia successo, so solo che, qualche giorno dopo la sua nascita, è semplicemente sparito dalla culla. Mia moglie non ne ha mai voluto parlare, dovreste chiedere a lei cos’è successo

-non voglio sapere cos’è successo, almeno non per ora. Voglio solo che mi aiutate a salvare la vita a questo ragazzo. Ha avuto una storia con mia figlia Macha e mio marito l’ha scoperto. Purtroppo Balor non ha voluto sentire ragioni e non sa nemmeno che quello è vostro figlio e non un semplice essere umano. Credo che stia per ucciderlo

-non può ucciderlo, è un dio!

-ma se fosse solo un semidio potrebbe farlo

-ho capito, forse è per questo che mia moglie l’ha fatto sparire, diceva sempre che non avrebbe mai voluto un figlio imperfetto. Va bene lo salveremo, dopotutto è sempre mio figlio

A Branwen si illuminò il sorriso e tutto il viso. Forse sarebbe riuscita a salvare l’amore di sua figlia. Ora però, doveva pensare a come salvare la stessa Macha, che nel frattempo era stata rinchiusa in una torre altissima che Balor aveva fatto costruire un paio di secoli prima dietro il loro palazzo.

 

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La torre era di purissimo cristallo che sfavillava alla luce del sole e aveva quindici piani, più una terrazza in cima. Macha era stata portata fino all’ultimo piano dagli stessi due brutti ceffi che l’avevano catturata in camera. I due poi l’avevano lasciata sola in una stanza fredda e piccola, dalla quale non poteva vedere fuori a causa dei riflessi dell’accecante luce del sole. A fatica la ragazza riusciva a tenere gli occhi aperti per la luce troppo forte; aspettava con ansia l’arrivo della notte. Se ne stava seduta in un angolino della sua prigione lucente e pensava con paura a cosa sarebbe successo a Natan quando suo padre l’avesse trovato. Poi pensò con rabbia e con dolore che forse mentre lei se ne stava lì, Natan poteva essere già morto. Non voleva nemmeno immaginare una cosa simile, ma temeva che le cose stessero proprio così; suo padre non l’avrebbe mai risparmiato. I suoi bei occhi verdi iniziarono a bagnarsi nuovamente di lacrime e lei si rannicchiò ancora di più nel suo angolino, aspettando che arrivasse il sonno a farla smettere di piangere. Circa un’ora dopo scese il buio sull’isola divina e finalmente Macha poté guardare attraverso i muri spessi ma trasparenti della prigione. Non riuscì a vedere molto, a parte le mura posteriori della loro grande villa e qualche macchia scura che doveva essere il giardino. Sconsolata si risedette per terra e a contatto con il freddo cristallo un brivido le salì lungo la schiena. Poco dopo finalmente si addormentò e scivolò in un sonno profondo e senza sogni.

 

Ecco un altro capitolo!!! Finalmente si è scoperto cos’ha di speciale Natan (almeno in parteXD)!!! Spero sia piaciuto a tutti, baci Jelly^^

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Capitolo 14
*** Salvataggio ***


XIV

XIV

 

Badb era appena arrivata sulla terra ed era fermamente decisa, come sempre del resto, a compiere la missione affidatagli dal padre. Non vedeva ciò che doveva fare solo come un semplice compito, ma come una sorta di vendetta sulla sorella. Macha era sempre stata caratterialmente opposta a lei e questo Badb non era mai riuscita ad accettarlo. Adesso aveva l’opportunità di dimostrare a tutti la sua superiorità di carattere. Doveva solo entrare in quella casa e prendere l’anima a quel Natan.

Si avvicinò alla porta d’entrata e si trasportò all’interno della casa, senza nemmeno degnarsi di aprirla normalmente. Trovò la sua vittima seduta su una sedia barcollante e mezza marcia e sorrise malignamente. Il ragazzo stava mangiando un piatto di una minestra verde che non aveva nulla di accattivante. Natan si girò verso di lei e Badb poté chiaramente vedere un guizzo di paura attraversare i suoi grandi occhi viola. Il ragazzo non si aspettava una visita da quella dea.

-aspettavi mia sorella per caso?

La voce di Badb era, se possibile, più fredda e cattiva del solito. Indirizzò al povero Natan uno sguardo divertito, mentre già pregustava la sua vittoria assicurata.

-sì, in effetti aspettavo vostra sorella

Badb stavolta alzò le sopracciglia, sorpresa dalla tranquillità e dall’arroganza con cui il ragazzo le aveva risposto. Era come se la paura che aveva visto nel suo sguardo fosse completamente scomparsa, per lasciare il posto ad una sicurezza che forse in realtà non c’era.

-mi dispiace, ma non credo che la rivedrai molto facilmente!

-su questo non ne sarei tanto sicura!

Badb girò di scatto la testa verso la voce che aveva sentito alle sue spalle. Si sentì frustrata. Presa dalla foga della sua assurda e immotivata vendetta, non aveva prestato attenzione a quello che le succedeva intorno. C’era sua madre, ferma sulla porta, che la osservava con sguardo fermo e più autoritario del solito.

-allontanati dal ragazzo

Branwen non era mai stata tanto ferma e la sua voce non era mai stata più rigida. Badb non si spaventò, ma si accigliò per il contrattempo.

-dovevo immaginarlo! Hai coperto tu Macha! Quando lo saprà mio padre…

-stai zitta! Non pensavo assolutamente che avrei mai potuto partorire una vipera come te! Stento a credere che tu sia mia figlia! Ti ripeto: allontanati dal ragazzo!

-non puoi darmi ordini! Sto facendo solo il mio lavoro, sotto ordine di vostro marito!

Adesso Badb iniziava a spaventarsi. Non aveva mai pensato a sua madre come un’autorità che potesse rivaleggiare con suo padre. Nello stupore iniziale, non aveva ancora notato l’alta e scura figura che accompagnava Branwen. Era un uomo alto e biondo, con lo stesso aspetto rude e severo di suo padre.

-ascolta tua madre

La sua voce era calma e profonda, ma aveva lo stesso tono deciso di Balor e di Branwen in quel preciso momento.

-e voi chi sareste? Per caso il nuovo amante di mia madre?

La voce di Badb era tremante, ma rimaneva comunque una vena di ironia sprezzante. Flaren alzò un sopracciglio, infastidito dall’insolenza di quella giovane dea. Cercò comunque di mantenere un tono calmo, anche se il rossore della sua faccia non l’aiutava a nascondere la sua crescente rabbia.

-sono il dio del fuoco, Flaren, e sono il padre del ragazzo che stai per uccidere. Io fossi in te non vorrei assaggiare la mia rabbia per la morte di mio figlio, del mio unico figlio, oltretutto

L’espressione di rabbia sulla faccia di Badb adesso era evidente. La giovane dea spalancò gli occhi e arricciò le labbra in una smorfia d’ira e bruciante sconfitta. Non aveva nemmeno preso in considerazione l’idea di perdere, figuriamoci contro la madre, che non aveva mai osato fare nulla contro il marito.  

-bene, adesso che abbiamo chiarito, allontanati da Natan

Il ragazzo intanto se ne stava seduto sulla sua sedia come se volesse sparire da quella stanza. Per tutto il tempo era rimasto immobile e completamente in silenzio; era un miracolo se si era ricordato di respirare.

 

_.¤°*.¸¸.·´¯`»*(o)*«´¯`·.¸¸.*°¤._

 

Intanto, nel palazzo dorato di Balor, il dio se ne stava tranquillamente seduto sul suo trono anch’esso dorato per riflettere sulla giusta punizione per sua figlia. Aveva appena ricevuto i tre scagnozzi che si erano occupati di imprigionare la ragazza e aveva saputo da loro che tutto era andato secondo il suo volere. Il crudele dio, a sentire che la figlia mentre veniva portata nella torre si disperava tra le lacrime, fece un ghigno soddisfatto: secondo lui quello era il minimo della sua punizione. Congedò allora i tre uomini vestiti di nero e rimase ancora a pensare al resto della punizione. Per un momento gli passò per la mente che avrebbe potuto anche eliminare del tutto la figlia, ma poi pensò che fosse meglio lasciarla semplicemente rinchiusa nella torre di cristallo per sempre, dove non avrebbe potuto causare ulteriori guai per la famiglia.

Presa quella decisione, si sentì molto più leggero, come se avesse effettivamente eliminato fisicamente la figlia. Un sospiro di sollievo gli uscì pesantemente dal petto e il dio si alzò pigramente dal suo trono. Gli restava da fare solo un’altra cosa e poi, finalmente, avrebbe potuto chiudere nello scrigno del passato quell’evento nefasto: doveva dire lui stesso a Macha quale sarebbe stato il suo destino. Voleva vedere con i suoi stessi occhi la faccia della figlia e godersi fino in fondo la sua espressione sofferente. La sua adesso non era più una semplice punizione, ma puro e semplice gusto per la cattiveria inferta gratuitamente ad una persona, seppure questa era sua figlia. Mentre continuava a sogghignare in silenzio, percorreva con lunghe falcate la distanza tra il suo trono e la torre di cristallo. Non voleva teletrasportarsti e rovinare così quel momento, fece anche i quindici piani di scale a piedi, come un comune mortale, e finalmente arrivò davanti alla porta della cella di Macha. La aprì con le chiavi che tirò fuori da una tasca del suo scuro abito ed entrò nella piccola e buia cella. Trovò la figlia che dormiva appoggiata ad una parete, con le lacrime che ancora non si erano asciugate sulle guance.

-sveglia!

La voce possente di Balor avrebbe svegliato anche un morto probabilmente. Macha aprì lentamente gli occhi, temendo di trovare di nuovo quella luce insopportabile che non le permetteva di guardare fuori. Invece si rese conto che era ancora tutto buio, quindi aprì con più sicurezza gli occhi verdi e li piantò in quelli dello stesso colore del padre.

-sono venuto solo per dirti quale sarà la tua punizione – il dio aveva subito catturato l’attenzione della figlia – bene, oltre, ovviamente, alla morte dello sciagurato essere umano con cui sei stata, passerai il resto della tua vita immortale qui dentro, almeno fino a quando io lo deciderò

Appena finito di parlare Balor si girò per andarsene, non vedendo alcuna reazione da parte della figlia. La reazione arrivò qualche attimo dopo.

-no! Non potete fare questo! Vi prego risparmiategli la vita!

La ragazza stava urlando disperata contro le spalle del padre e aveva iniziato a piangere di nuovo. Non poteva vedere che Balor aveva sfoderato un altro dei suoi ghigni. Aveva ottenuto quello che voleva, la disperazione della figlia. Sempre sogghignando uscì dalla cella e si richiuse la porta alle spalle, mentre Macha sbatteva con violenza i pugni contro la porta.    

 

Ecco che finalmente ho aggiornato!! Ci sono stata una vita!!! Scusatemi!!!!!!!!!!! Spero almeno che vi sia piaciuto il capitolo!!! Bye…Jelly^^

 

 

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Capitolo 15
*** Passato... ***


XV

 

XV

 

-come ti senti?

-u…un po’ frastornato direi

Natan era pallido come se fosse realmente morto e la sua voce era un soffio delicato che Branwen a malapena riusciva a sentire.

-adesso è tutto finito, puoi stare tranquillo, figliolo

-io di chi sarei figlio?

La fronte del giovane era corrugata e un’espressione abbastanza stupida gli era stampata in faccia. Branwen si guardò intorno e con lo sguardo cercò l’aiuto di Flaren.

-saresti mio figlio

Il grande dio aveva parlato con la sua voce forte e ferma, ma che suonava stranamente dolce in questa situazione.

Natan non resse più la tensione e svenne tra le braccia del neoritrovato padre.

-portiamolo a casa, poi dobbiamo pensare a Macha

-purtroppo non vedo altro modo per liberare vostra figlia, che affrontare vostro marito 

-già, non posso fare altrimenti, ma voi sarete dalla mia parte, vero?

-certo! È grazie a voi e alla vostra coraggiosa figlia se il mio figliolo è ancora vivo! Non potrei non aiutarvi!

-grazie! Ve ne sono veramente grata!

Nella voce della dolce dea si poteva chiaramente sentire tutta la sua sincera gratitudine nei confronti del dio del fuoco. Sapeva che senza il sostegno di qualcuno non ce l’avrebbe fatta ad affrontare Balor.

-è il caso di viaggiare normalmente invece di teletrasportarci, non credo che il fisico di Natan, spossato com’è, lo sopporterebbe!

-già, ma come ci arriviamo sulla nostra isola da qui?

-per quello non vi dovete preoccupare Branwen!

La dea guardò con aria interrogativa Flaren, non capendo cosa avesse in mente. Il dio si issò sulle spalle larghe il corpo del figlio e ispirò profondamente, preparandosi a fischiare dentro un fischietto argentato che aveva al collo. Intanto, Branwen lo guardava sempre più stupita. Il fischietto argentato emise un lungo suono cristallino e, pochi attimi dopo, si vide all’orizzonte una piccola barca, scintillante quanto il fischietto, che volava verso gli dei.

-ecco come torniamo a casa senza il teletrasporto! Dopo di voi…

Branwen sorrise, piacevolmente sorpresa dall’ingegno del dio del fuoco e, aiutata dalla sua mano, salì sulla barchetta che le si era fermata davanti ai piedi.

-l’unica scomodità è che ci impiegheremo un po’ ad arrivare…

-non è un problema, così Natan ha il tempo di riprendersi… e poi… se non sono troppo indiscreta, vorrei sapere cosa è successo al ragazzo, com’è finito insomma in una famiglia di mortali

Flaren sospirò sentendo le parole della dea, ma sapeva che prima o poi il discorso sarebbe uscito e si preparò a raccontare.

-io e la mia cara moglie volevamo avere un figlio, la nostra eternità sembrava stranamente vuota senza un piccolo pargolo da crescere – al dio sfuggì un sorriso malinconico nel ricordare gli anni passati, ma si riprese subito e continuò il racconto senza più fermarsi – mia moglie, Sue, la dea dei fiori, è una donna bellissima e dolcissima, ma ha anche lei i suoi difetti. Pretende sempre la perfezione, in tutto e per tutto, non solo per i suoi fiori. Quando nacque Natan, capimmo subito che non era un dio completo, ma un semplice semidio. Io non ne fui per nulla turbato, ma Sue sì e anche molto. Non me ne resi conto subito, accecato com’ero dall’amore per lei e dalla felicità per la nascita del piccolo; dovevo accorgermene quando mi disse che lasciava a me la scelta del nome, ma avevo ancora la mente annebbiata e non mi preoccupai di questo suo segno di non curanza nei confronti del nostro bambino. Decisi di chiamarlo Iridan. Appena lo vidi pensai che era il nome perfetto per lui e anche adesso ne sono convinto. Forgiai per lui la culla più bella che potessi, ma rimanevo accecato e non vedevo l’indifferenza di mia moglie. Qualche giorno dopo il nostro bambino sparì, semplicemente. Un mattino non era più nella sua culla dorata. Pensavo che fosse stata colpa di qualche folle e cercai in tutta l’isola, ma ben presto mi resi conto che il bambino non si trovava più sull’isola divina e nella mia testa si fece strada l’idea che era stata proprio la mia dolce Sue a portarlo via.

Il triste racconto del dio era finito e due grosse lacrimone rigarono le guance di Flaren, preso dalla commozione e dall’amarezza di quel ricordo. Nemmeno la bella Branwen riuscì a essere indifferente a quel racconto. I suoi occhi avevano iniziato a diventare lucidi e le parole di consolazione che voleva rivolgere all’amico le si fermarono in gola. In fondo al suo cuore c’era anche una vena di rabbia e incomprensione verso Sue. Come poteva aver abbandonato suo figlio, solo perché non era un dio completo? Come può una madre non accettare suo figlio? Il suo cuore non poteva nemmeno lontanamente avvicinarsi ad un sentimento simile.

-mi dispiace, davvero, io non so cosa dire…

-non c’è nulla da dire. Conoscevo il carattere di mia moglie, avrei dovuto aprire gli occhi. Ora non so come prenderà il fatto che quel bambino imperfetto sia tornato a casa, ma forse è meglio che non lo sappia

-ma io non voglio vivere tra gli dei!

Flaren né Branwen si erano accorti che Natan si era svegliato e che se ne stava seduto tranquillo ad ascoltare il racconto del padre.

-io non voglio creare problemi di nessun genere! Posso tranquillamente restare a vivere sulla Terra, mi basta sapere che a Macha non sia fatto del male per colpa mia! Se mia madre non mi ha voluto quando ero ancora in fasce, non credo mi voglia adesso e io non mi sentirei a casa in mezzo a persone che non mi vogliono, nemmeno se sono i miei veri genitori 

-capisco… ne parleremo dopo, ormai siamo arrivati e tu devi andare a riposare, mentre noi abbiamo un’altra cosa da fare

Branwen aveva messo subito fine al discorso, avendo visto l’espressione sofferente di Flaren nel sentire che il figlio non voleva tornare a vivere in famiglia. A questo ci avrebbero pensato dopo, adesso dovevano concentrarsi su Macha. Decise di non dire nulla al ragazzo dell’attuale prigionia della giovane dea e, una volta scesi tutti e tre dalla barchetta, condusse Natan nel suo enorme palazzo, in una stanza dove né Balor né nessun altro sarebbe entrato e si preparò mentalmente allo scontro con il marito.

 

 

Ecco un nuovo capitolo della mia storiella!! Ringrazio ancora un volta tutti i lettori, chi commenta e chi mi aggiunge ai preferiti, nonostante la mia lentezza da bradipo nell’aggiornare!!!!!! Bye..Jellj^^

 

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Capitolo 16
*** Rabbia ***


XIV

XIV

Balor sedeva beato sul suo trono d’oro, senza nemmeno un briciolo di sensi di colpa per la sorte di sua figlia e del mortale che aveva osato sfidare la sua potenza. Stava serenamente mangiando qualche acino di un grappolo d’uva poggiato in una coppa dorata, quando entrò dalla grande porta la sua figlia prediletta.

-mia cara! Già di ritorno? Deve essere stato più facile del previsto…

sul volto del dio si leggeva il trionfo, ma su quello della figlia erano presenti ben altri sentimenti. Incredulità, forse, poiché ancora non riusciva a credere che sua madre le aveva parlato in quel modo e aveva osato contraddire gli ordini del marito. Paura, per la possibile reazione del padre una volta saputo dell’affronto subito. Fastidio, per aver trovato per la prima volta in sua madre un ostacolo noioso e piuttosto fastidioso.

-no padre, non è stato facile! Anzi, mi è stato impossibile…

a quelle parole l’espressione di trionfo di Balor svanì senza lasciare traccia sul volto rugoso. La sua voce ritornò ad essere quella fredda e impersonale che egli usava con le altre persone e non più la voce calda e orgogliosa riservata a Badb.

-cosa vuol dire? Hai forse fallito il compito che ti avevo assegnato?

-sì, padre

La voce di Badb era un sussurro spaventato e lei non osava alzare la testa ed osservare l’espressione del padre, consapevole che non vi avrebbe trovato nulla di confortante.

Balor cercò di controllarsi.

-e dimmi, cara, cosa c’era di tanto difficile nell’uccidere quell’umano da impedirti di riuscirci?

-è intervenuta Branwen

-che cosa?!

-sì, vostra moglie è intervenuta per salvarlo, ma non era sola

Balor serrò ancora di più le mascelle e una vena di rabbia iniziò a pulsargli sulla fronte. Cercò nuovamente di calmarsi, ma quando parlò di nuovo, la sua voce tremava ancora di rabbia.

-chi c’era con lei?

-il… il dio del fuoco…

-Flaren!?

-esatto…

-MALEDIZIONE! Perché mai si è messo in mezzo quel dio impiccione!? Non poteva restarsene nella sua fucina e lasciarmi lavorare in pace?!

-ma… padre… lui è…

la voce le si spense in gola, ma sarebbe stato ugualmente inutile continuare a parlare, poiché Balor nella sua furia non stava più ascoltando la figlia.

Badb corse fuori dalla sala in pieno panico. Appena giunta in giardino si fermò un attimo a guardarsi intorno, senza riuscire a ragionare su cosa fare. L’unica cosa che al momento riusciva a fare era guardare spaventata il giardino che circondava la grande casa. Cercava di immaginare cosa avrebbe fatto suo padre, accecato com’era dalla furia e si rese conto che avrebbe fatto del male a sua madre o a sua sorella. In un altro momento forse la conclusione a cui era giunta non l’avrebbe scossa più di tanto, ma in quell’istante, presa dalla paura del padre, aveva il solo desiderio di fermarlo. All’improvviso capì cosa doveva fare e corse d’istinto verso la torre dove si trovava rinchiusa la sorella. In pochi istanti arrivò davanti all’altissima torre, tenuta strettamente d’occhio da due scagnozzi del padre.

Badb usò tutta la calma e la freddezza che possedeva e parlò con autorità alle due guardie vestite di nero.

-lasciatemi passare! Mi manda mio padre per vedere la prigioniera

-passate pure giovane dea

le due guardie ci erano cascate in pieno e la dea salì di corsa fino all’ultimo piano, dove trovò altre due guardie che ingannò con la stessa tattica di prima.

Macha stava dormendo appoggiata alla parete opposta alla porta e aveva il viso rigato di lacrime. Badb le si avvicinò senza fare rumore e la svegliò, con un’insolita delicatezza che non sapeva nemmeno lei di avere.

-co… cosa?

-shsono Badb, Macha ci sei? Mi senti?

La dea era ancora frastornata per il sonno agitato e parecchio indolenzita per il contatto con la parete fredda.

-sì… ci sono… cosa… ma cosa ci fai qui? Cos’altro mi volete fare?! Mi avete già rinchiusa qui dentro e avete ucciso il mio Natan! Non potete farmi niente peggio di tutto questo!

-calmati! Non voglio farti più niente! Sono qui per… per darti una mano… lo so che non ci crederai facilmente, ma non sopporto più la cattiveria di nostro padre! Dobbiamo andarcene da qui. Balor farà del male a nostra madre e a Natan!

-cosa?! Natan è vivo?

-sì! Avevo l’ordine di ucciderlo, ma nostra madre l’ha salvato con l’aiuto di suo padre

-il dio Flaren è venuto in suo aiuto?

-certo, è suo figlio Natan!

-si si lo so! Aiutami ad uscire! Dobbiamo fermare nostro padre!

-esatto, ma ci serve anche l’aiuto di Nemain, non possiamo farcela da sole

le due sorelle uscirono dalla torre, sempre con lo stesso trucco per ingannare le guardie, dopotutto gli scagnozzi di Balor ancora non sapevano che Badb si era messa contro il padre. Trovarono la sorella nella sua camera, intenta come sempre a comporre una nuova e struggente melodia, e le spiegarono cosa stava succedendo. Nemain sorrise con la sua solita espressione assente e il suo sguardo folle, tanto che le sorelle non riuscirono a capire se avesse ben chiara la situazione; ma non c’era il tempo per accertarsene. 

 

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