E u n b a c i o
s p o r c o s a
s p o g l i a r m i i l c
u o r e d a g l i i n c u b i .
_ * _
Sei dentro.
Io non so come sia successo. È una di quelle cose
che capitano e – no, non potrei. Non posso fare questo.
Tu sei così bello. Semplicemente tanto bello. Devo
averlo pensato sempre, ma mi ci è voluto un po’ prima di vedere appieno la
perfezione macchiarti in superficie. Sui tuoi occhi è stato detto di tutto,
forse perché in pochi ne hanno compreso il colore; e se mai Arte ha codificato
i tratti di una bocca perfetta, allora è adagiata con casualità sul tuo viso.
Carnosa e gonfia, delineata. Morbidissima, mostruosamente. E la pelle che hai,
è liscia. Così liscia che scivola, come acqua, come vento.
E sei freddo. Non freddo come il ghiaccio, o come
tutte quelle cose stupide che si dicono per tentare di spiegarlo. È una
temperatura, spiegarla non si può. Però si può sentire, e io sento che nulla ha
la tua freddezza affilata. Non è perché te ne stai sulle tue, perché parli
quanto basta, perché hai uno sguardo tanto distratto. Non ha nulla a che vedere
con questo; il punto è che tu non sembri pensare a niente. Provare niente.
Sembra che tutto quello che hai dentro scivoli e scivoli e scivoli, e corra sul
posto per andare chissà dove; il fatto è che corre tanto svelto da impedirmi di
vederlo. Dunque è come se dentro non avessi proprio un bel nulla.
Non so se accade con tutti, per il semplice fatto
che sono gli altri, che sono quelli fuori. Ma so che con te non è mai successo
diversamente.
Qualcosa è cambiato, naturale. Non era lo stesso,
prima. Prima c’era come una barriera, di vetro appannato dai fiati dei tentati
contatti. C’era una barriera, e c’ero io, da un lato, e tutto il mio mondo, la
mia musica, la mia vita, e tutte le mie belle astrazioni. E dall’altro c’eri
tu, irraggiungibile e incorruttibile, e credi, Brian, mai una volta ho
coscientemente desiderato di abbattere quel muro.
Devi essere passato attraverso senza che me ne
accorgessi, perché ora so cosa vedo. La barriera c’è ancora, ma adesso tu sei
con me, dalla mia parte, mentre tutto il mio mondo neppure compare. Come fosse
in una terza dimensione la cui profondità continua a sfuggirmi. E dal tuo lato
della barriera non vedo altro che il nostro riflesso; l’immagine speculare dei
me e te che abitano il mio cosmo. E il giorno in cui le due immagini si
dissoceranno, e i me e te che stan dall’altra parte verranno a reclamare
porzioni di vetro, allora li vedrò gemelli, pallidi in volto, e turbati, premere
contro la barriera e dirci che il tempo è scaduto. E saprò che sei uscito dalla
mia vita per sempre.
Fino ad allora, fino a quell’Apocalisse intima cui
guardo con terrore, non ho che da chiedermi di te, congetturare della tua
presenza così irreale nel mio ecosistema.
Perché sei irreale. Lo sei tanto.
Sarà colpa della tua pelle che scivola e della tua
freddezza, e di quel sembrare vuoto e insensibile e tanto inerte, come un fiume
che di continuo inverte il proprio corso, finendo in stasi imperitura. Certo è
che nessuno dei miei sforzi vale uno solo dei tuoi sguardi, e nessuno dei miei
sforzi può portarmi più vicino.
Dove voglio andare io, le distanze s’annullano. Io
voglio entrarti dentro.
Non lo so, Brian. Potrebbe essere solo l’ennesima
delle mie stupide astrazioni – quelle che ci siamo negati, noi due, perché la
banalità non ci è concessa. La paventiamo, non possiamo permettercela. Siamo
artisti, modelli, siamo quelli cui si guarda con occhio diverso perché è
chiaro, conseguente che siano persone diverse. Sono speciali perché devono
esserlo, perché sembra che abbiano un mondo di cose da dire – e se lo sembra
dev’essere vero.
Astrazioni, dunque.
Non posso parlare d’amore, non me lo perdoneresti.
Tanto meno potrei concedermi d’andare più a fondo di così, e hai anche solo la
minima idea di quanto sia difficile fugare la convenzione? Pertanto non
cercherò di coinvolgere i sentimenti; ma dovrai consentirmi una perifrasi che
mi tormenta da quando hai eluso la mia barriera.
Sei qualcosa che mi è dentro costantemente. Un
pensiero latente che pulsa, spesso doloroso.
Hai risvegliato demoni orribili, in me. Aperto una
voragine di buio tale da sconcertarmi, per quanto repentinamente è nata.
E io vorrei tanto sapere che lo stesso è per te.
Che siamo in grado di condividere questo malore agghiacciante, sordo e subdolo,
perché quanto proviamo l’uno per l’altro non sarà giusto, ma ci tiene uniti.
Se finisse con l’oscurarci del tutto, eclissare i
nostri ego e sigillare ciò che siamo stati, insomma, avrebbe forse reale importanza?
Non pensi valga la pena di mutare in automi, o, al peggio, in uomini diversi,
pur di conservare il più piccolo stralcio di verità che è nel bene della nostra
insania?
Non lo so, Brian. Vorrei solo scoprirmi capace di
toccarti, almeno una volta.
E sentirti vero. Ed esserlo, io stesso, per te.
C’è un curioso mix di rabbia gelida e muta
disapprovazione, nel modo in cui mi fissi.
“Hai scritto tutto questo perché io lo leggessi?”
Mi affretto a negare, paladino illuso di un’onestà
che non esiste.
“No, no, davvero. Io… mi dispiace.”
Una nuova sfumatura a velarti gli occhi, come lo
strato di colore supplementare dato dal pennello di un pittore solerte.
“Di cosa?”
“Beh, che tu l’abbia letta. E che te la sia presa.
Non avrei dovuto lasciarla in giro, mi dispiace.”
Ancora.
“E non ti spiace forse d’avermi mentito?”
Mi tendo sotto il tuo scrutinio vago, troppo per non
mettermi a disagio.
Te ne rendi conto? Neppure la tua rabbia sembra vera.
“Non l’ho fatto.”
“Invece sì. Non avrei trovato questo foglio se non
fosse stata tua intenzione lasciarlo in giro.”
“Davvero Brian, non è come pensi.”
“Smettila di rifilarmi le tue scuse. Non
m’interessa.”
Ti avvicini a me, ed ogni passo brucia sull’orlo
della voragine scura che mi scavi dentro.
“Lascia solo che metta in chiaro qualcosa, con te.”
Non voglio. Dio solo sa quanto tu mi faccia paura,
adesso, nella tua irrealtà che parla del fantasma dei miei incubi. E non ho
neanche il coraggio di evocare alla mente la mia barriera: mi terrorizza il
pensiero di ciò che potrei vedere.
Devo essermi perso il tuo incedere perfetto, perché
affondo nella tua bellezza tutto a un tratto, senza possibilità di resa. Sento
il calore incerto delle nostre carni che scivolano insieme, una contro l’altra,
mentre la tua bocca disegnata mi sfiora la linea del mento.
“Le astrazioni di cui parli non esistono, Matthew. Ci
sei solo tu e il caos di demoni che contieni a stento; il fuori non importa.
Non ha senso. Tutto ciò che puoi sentire viene da te, dalla mente, dal corpo.”
Le labbra risalgono verso il lobo di un orecchio, il
collo, la nuca. Respiri lievemente, ma Dio, Brian, puoi immaginare cosa mi fai?
“Io non sono affatto dentro di te. Non sono neppure
dentro me stesso.”
Trema ogni singola fibra del mio essere. Ti sento
strusciare, sfregare, plasmare e piegare alle voglie di quella tua bocca
assurda centimetro dopo centimetro della mia pelle. Mi sfugge un sospiro
nervoso, strozzato dalla sorpresa. Le tue mani sono su di me.
“Se riuscissi a penetrarti tanto a fondo, credi, mi
sentiresti.”
E ti sento, sì, maledizione, checché ne dica.
Chiudo gli occhi, sperando di serrare all’esterno – quell’esterno che sostieni
non esistere – la pressione decisa e torrida delle tue dita sul cavallo dei
jeans.
“Dimmi, Matty… sono tanto freddo, adesso?”
Fondo come cera in gemiti di piacere frustrato e
sconnesso, travolto dalla tua lingua che risale, lenta e ferma, e dalle mani
che lavorano fra le mie cosce – forti, fortissime, insinuanti, e come diavolo
riesci a toccarmi in quel modo, strapparmi via un orgasmo dopo l’altro e
lasciarmi a chiedere di più?
“Se vuoi entrarmi dentro devi solo scoparmi.”
Mormori ad un soffio dalle mie labbra; prendendole,
infine, e forzandomi in un bacio morbido e bagnato, caldissimo, morbido e
bagnato, così caldo e maledettamente erotico, così allusivo, così morbido,
bagnato, sensuale, così pieno di sesso e, cristo, mi scopro addosso un
bisogno disperato. Spingo contro e verso di te, nelle tue mani. E loro mi
assecondando, incalzandomi a mugolare sulla tua lingua – mentre la forza del
tuo tocco si mesce alle immagini oscene, non sai quanto, che mi affollano la
testa.
Quando credo di non poter raggiungere una pressione
maggiore ti affretti a smentirmi.
Con le dita duelli e vinci la chiusura dei miei
jeans, aprendoli in uno scatto che è tanto affamato da suonare violento.
Affondi all’interno, la precisione inarrestabile di un’arma dell’eros.
Il tuo bacio si rompe, permettendomi di rilasciare il
fiato in un gemito tremante. Provo a inarcarmi ancora per sentirti lì dove ne
ho più bisogno, e solo adesso comprendo che qualcosa è cambiato.
Ti allontani, serio in volto come non ricordo
d’averti già visto.
“...O restare a guardare.”
Giuro, lo giuro, non riesco a seguirti. Tutto ciò che
so è che mi tocca fermarmi qui, imbambolato, mentre mi dai le spalle, raccogli
il soprabito e giungi alla porta.
"B-Brian..."
Sosti sulla soglia, un piede già fuori.
E vorrei poter ignorare quel che significa. Che il
linguaggio del tuo corpo continua a comunicare, lampeggiando come un unico led
impazzito.
"Impara a vedere, Matt. Ora hai qualcosa da
aspettare."
Non potrei fermarti neanche se fossi fisicamente in
grado di raggiungerti.
Lo scatto della serratura mi riconsegna al silenzio
interrotto del mio appartamento, improvvisamente immenso, deforme, indisioso.
Mi ero abituato a viverlo in funzione di te, della tua presenza, ingombrante
anche nelle visite passeggere.
Non tento neppure di evocare il limbo della mia
barriera. Mi casca addosso, letteralmente, con la chiarezza di un incubo che
viene al reale.
Ed è come pensavo. La tua figura è ancora al mio
fianco, ma inizia a sbiadire. Dall'altro lato i nostri riflessi hanno rotto gli
argini.
Sento le ginocchia cedere; le lascio fare. Il muro mi
è da supporto. Compassionevole, assorbe la gravità del peso che ho sulle spalle
e accoglie il loro muto sfogo.
Mi hai lasciato con un pensiero di vetro.
Chissà se arriverei mai a ribellarmi, fossi uno
specchio.
Sono passati quattro mesi da quando Brian se n’è
andato.
Io sto bene. Riesco di nuovo a sentirmi tranquillo;
contento, se non sereno. Posso interagire con me stesso e con gli altri senza
trovarlo poi troppo complicato, e questo rinvenuto benessere si ripercuote
sulla mia musica e il mio lavoro.
Dom dice che non mi ha mai visto tanto allegro.
Probabilmente ha ragione. D’altronde mi conosce
meglio della maggior parte delle persone con cui ho a che fare ogni giorno: la
sua opinione conterà pure qualcosa. Deve aver un fondamento di verità, o almeno
esser sincera nell’intenzione.
Brian mi è ancora dentro, certo.
Ma ora è più simile a una presenza di sfondo, un
background agrodolce. Parte del mio cervello vi è perennemente connessa, come
fosse adibita alla sola funzione di pensarlo, costruire l’idea di lui a partire
dai ricordi e dai sentimenti. Il resto invece va avanti. Si concentra su altro
e si lascia distrarre, facilmente, in fretta.
Suppongo di esser regredito ad uno stadio di ovattata
superficialità.
Alle astrazioni ci credo ancora. Non sono stato in
grado di separare ciò che avverto come reale dalla dimensione soprasensibile
delle essenze, e neppure stabilire un legame fra loro. In sintesi, le parole di
Brian mi suonano tuttora estranee, quindi non è il momento giusto per
ricongiungermi a lui.
Oh, sì, so perfettamente che quel momento arriverà. È
la lezione che mi è stato imposto d’imparare, previa una solitudine
annichilente che ha rischiato di farmi a pezzi – finendo col solo distruggere
quel baratro di demoni che mi portavo dietro. Posso ancora percepire la
minaccia delle loro ombre scure, ma lo squarcio d’incubi con cui iniziavo a
fondere è sparito completamente.
Quanto ai ragazzi, loro non sanno cos’è successo.
Pensano che con Brian sia semplicemente finita, ma non è così. Non lo è.
Soprattutto, né Dom, né Chris, né Tom né nessun altro ha la minima idea di
quello che è cambiato in me. Tutti loro hanno visto lo stato in cui ero fino a
qualche mese fa, e ne hanno preso atto senza incolpare – direttamente ed
esplicitamente – l’uomo che, nel bene o nel male, ha annientato in un mosaico e
ricomposto le tessere delle mie convinzioni. Brian ha avuto il merito di farmi
vedere le cose sotto una luce diversa, in un’ottica più disincantata e meno
disperatamente irrazionale. È stata una doccia gelida: orribilmente penosa,
infinitamente salutare. Il punto è che gli altri non possono neppure iniziare a
comprendere quanto profondo sia stato l’impatto che perdere la testa in quel
modo ha avuto sulla mia vita.
E c’è dell’altro. Credo di aver compiuto il primo
passo verso la cognizione dei miei difetti logici.
Non esiste più alcuna barriera fra il mondo e me;
stimoli e istinti passano per i soliti vecchi filtri, quelli innocui del
buonsenso e dell’abilità civile. Temo sia stato, in realtà, nulla più di un
sistema protettivo d’emergenza: senza Brian a dare un ordine spietato al mio
spazio non avrei più saputo dove collocare le mie mura di vetro.
Non ero pronto a rivederti tanto presto.
Le ore e i giorni, e i giri d’orologio, le albe e il
colore del mercurio sui termometri. Posso sentire tutto, vedere tutto, capire
tutto, assorbire tutto quello che ci ha separati per necessità negli ultimi
mesi. Sapere di non averlo condiviso con te – chiedermi se tu l’abbia persino
vissuto, questo ciclo di tempo in spirali acciaio – vi dà e toglie valore.
Proverei a chiederti cosa ti è successo, se non sei forse rimasto immobile in
un angolo, aspettando di arrivare ad un’illuminazione tale da rischiarare il
buio del tuo cantuccio. Ci proverei, se il dubbio non mi attanagliasse ad
innumerevoli, spessi livelli.
Quel che è certo, ci crederesti?, è che non ti
ricordavo tanto piccolo.
Ho voglia di toccarti come non ho mai fatto. Senza
quella fame disperata, quella brama inestinguibile di prendere quanto eri
disposto a darmi. Senza l’ansia di donarmi completamente, pur non persuaso
della tua volontà di ricevermi.
“Mi fai entrare?”
È così buffo che tu lo chieda. Lo sento nel modo in
cui le pronunci, sai esattamente qual è il peso di queste parole. Saresti una
perfetta macchina da gioco, non fosse per l’assenza di goliardica passione
nelle tue mosse.
“Certo, scusami.”
Guadagno un’occhiata storta, contrariata. Me la sono
meritata appieno e, ti dirò, l’avevo prevista. Inizio forse a cogliere la tua
visione del mondo?
La risposta è lampante nel momento in cui mi baci.
Aderisci alle mie labbra con forza e precisione, le
braccia sui miei gomiti, a mantenere il controllo. Mi provochi con quella tua
dolcezza fittizia – perché è così che l’ho avvertita sempre, Brian – in
un’altalena leggera di bocche che si accarezzano senza entrare in contatto,
solo spostando masse su masse d’aria bollente.
Toccarti. Ti afferro e attiro e stringo, la mia
lingua ad affondarti dentro: disperatamente puerile e cieca e sciocca, come se
il tempo non fosse esistito.
Catturi una delle mie gambe e arretri, fino a sentire
il muro contro le spalle. Mi spingi a caracollarti addosso, pressi i nostri
corpi insieme.
Immagino potrei fermarmi e chiederti che intenzioni
hai. Solo che non lo farò. E se in parte dipende dalla meraviglia che mi
penetra nel sentirti sulla pelle, posso giurarti che non si tratta
dell’eccitarmi nei tuoi baci. Del volerti sotto innumerevoli aspetti.
È solo la lezione che sto imparando.
Mi hai chiesto di stare a guardare, Brian. Te lo
ricordi?
Spingi un ginocchio fra le mie cosce, strappandomi un
sospiro urgente. C’è un bisogno insolito e palese nella frequenza dei tuoi
gemiti, e vorrei dirti che non mi stupisce, perché ormai ho compreso ogni cosa.
Però non è così. E un po’ mi interrogo, mentre sussurri la voglia sulle linee
della carne e ti esponi alla mia indagine, aprendoti e svelandoti, caldissimo,
inebriante, hai un profumo diverso, te ne sei accorto?
Ti cerco sotto i palmi, sussultando quasi alla
percezione del denim teso a mille.
Voglio spogliarti, suggerisce malevola una scossa di
lascivia. La assecondo, senza negarmi della calma elegante nell’estrarre i
bottoni dalle asole della camicia, e tirare già la zip dei jeans. Non mi fermo
alla rivelazione erotica del tuo addome, liscio, accaldato, né alla ruvidità
sgradita dei boxer sotto i polpastrelli. Prendo di più, prendo ogni cosa, i
bordi dei vestiti e li spingo in giù. E semi spogliato, eccitato, esposto,
ancora puoi allontanarmi e costringermi a riconoscere la tua presenza.
Mugoli più del dovuto, come se potessi regalarti un
piacere immenso solo forzando la stoffa lungo le tue anche. Poi cerchi di
attrarre di nuovo le mie labbra. Mi fissi, confuso in modo delizioso, devo
ammetterlo, quando mantengo le distanze.
Ho bisogno di guardarti negli occhi. Spero tu possa
perdonarmi.
Ti cingo un fianco nudo con la sinistra, la destra
sparisce. Ma tu la senti chiara e forte, sulla pelle viva, ed io provo a
seguirne il percorso, che si snoda vizioso fra le tue gambe.
Non ci riesco, Brian. Devo tornarti dentro a modo
mio, studiando le espressioni in cui atteggi il viso da bambola. Pendendo dalle
tue labbra dischiuse mentre ti abbandoni alle mie cure con inedita
arrendevolezza.
È quando inizio a pensare sia solo lascivia che soffi
via ogni paura.
Hai le mani ancora strette ai miei gomiti. La
sinistra allenta la presa e corre verso il basso, su binari invisibili di
stoffa, perentoria e muta, e perfettamente lucida e chiara. Non avremmo
realmente bisogno, noi due, di dar voce ad alcunché; suppongo sia un tratto di
convenzione cui, semplicemente, non possiamo rinunciare.
“Matt…”
Mi sarei fermato in ogni caso, lo sai. Ancor di più,
adesso, perché il tuo non è un richiamo alla calma, non è un invito, non è un
lamento. Non è desiderio e non è timore. Non è neppure disagio, no davvero, non
ti si addice. E lo so, certo, di aver visto in te cose che alla tua immagine
non si addicevano per nulla, e averle riconosciute come tue nondimeno; ma le
eccezioni non cambiano l’uomo che sei. Non possono renderti migliore, né
peggiore. Solo riempirti di pura essenza.
Le mie eccezioni non cambiano l’uomo che sono, Brian.
Cerco di trasmettertelo, con quei brandelli di coscienza che mi restano, mentre
trovo la pelle morbida dietro le orecchie e le dono un sussurro.
“Ti sono mancato?”
Tremi e ti allontani, senza respingermi.
Dubito che esista qualcun altro, in tutto il mondo,
capace di farlo con la tua eleganza.
E di nuovo ti voglio. Voglio volerti, in realtà, più
di quanto capricci veraci abbiano mai preteso; più di quanto con leziosità
infantile e prepotenza abbiano saputo strapparmi.
Ma sei rapido a spegnermi, sgretolando il suolo sotto
le mie mani che ancora ti cercano, senza riuscire a trattenerti.
“Fammi uscire.”
Devi ripeterlo mille, un milione di volte, mentre
infine ti accasci fra le mie braccia e accetti il piacere. Lo ansimi nella mia
bocca e tra i capelli, me lo scrivi addosso con le unghie. Lo disegni con la
punta della lingua e me lo soffi negli occhi. Cerchi di imprimermelo a fuoco
nel cervello, scavandovi solchi di memoria irriducibile e versando orgasmi.
Tento di capirlo. Riuscendo, forse.
L’assenza ha aperto in te lo stesso squarcio di male
che ho trovato amandoti.
Potrei liberarti, io soltanto. Ma quando mai conviene
fidarsi degli altri per le cose che contano?
Sono certo apprezzeresti. È il mio modo di applicare
i tuoi insegnamenti, ignorarti e farti spazio. Conservarti dentro comodo e
caldo, sia pure contro il tuo volere.
Una teoria discutibile di cui non intendo
vergognarmi. Te la illustro, persino – dopo l’amore, dopo la crisi. E una
risata cancella ogni cosa, salvo quell’unica supplica che è il tuo istante di
verità.
Fammi uscire.
O prenditi tutto, a chi vuoi che importi?
_ * _
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mentre mi dai
le spalle, raccogli il soprabito e raggiungi la porta.ito tremante. è tanto affamato da suonare violento. orza d