Tale as old as time.

di Marti5
(/viewuser.php?uid=819242)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cops and Flowers. ***
Capitolo 2: *** Discovery and Vodka. ***
Capitolo 3: *** Misterious and Magnetic. ***
Capitolo 4: *** Fast and Tears. ***
Capitolo 5: *** Scream and Exam. ***
Capitolo 6: *** Sickness and Memories. ***
Capitolo 7: *** Waiting and Hunters. ***
Capitolo 8: *** Prisoner and Dance. ***
Capitolo 9: *** Goodbye and Freedom. ***
Capitolo 10: *** Kitchen and Thrift Shop. ***
Capitolo 11: *** Dreams and Glass. ***
Capitolo 12: *** Church and Warrior. ***
Capitolo 13: *** Space and Lullaby. ***
Capitolo 14: *** Shadows and Lessons. ***
Capitolo 15: *** Mountain and Sparkling. ***



Capitolo 1
*** Cops and Flowers. ***


Cops.
La pioggia batteva senza remore su ogni persona e cosa intralciasse il proprio precipitare verso terra: contro le teste dei poliziotti, contro le divise della croce rossa, pioveva sulle auto e sull'ambulanza accostata al loro fianco. Il buio della notte era rischiarato soltanto dalla luce aranciata dei lampioni e dal bianco accecante dei fari delle volanti, accesi ad illuminare la scena quasi come in una di quelle serie tv spettacolari.
Deimos restava immobile sotto le innumerevoli gocce di pioggia insistenti e gelide, il cappuccio della felpa calato a coprire malamente i capelli corvini mezzi infradiciati. Intorno a lui i rumori parevano ovattati e lontani, quasi stesse ascoltando una radio con una pessima ricezione, l'unica cosa a fuoco era il viso di Lhyr, distesa sulla lettiga senza conoscenza. Dannata ragazza, pensò mentre la caricavano sull'ambulanza per scortarla al pronto soccorso. Dannata Lhyr e dannato quel caratteraccio che si portava dietro dal primo giorno in cui aveva messo piede in centrale, con la sua camminata sexy e quel sorrisetto impertinente sempre in mostra. 
Glielo aveva detto di stare attenta, e più di una volta, per giunta. Le aveva detto che una missione del genere non era cosa da prendere alla leggera, che bisognava misurare le parole e che la copertura non sarebbe dovuta saltare assolutamente. E lei che aveva risposto? Nulla. Si era limitata a zittirlo prendendogli la mandibola con una mano e dandogli della 'mammina ansiosa', prima di schioccare un bacio umido sulla sua guancia.
Deimos aveva scosso la testa, tentando di convincersi che sarebbe andato tutto secondo i piani. Lei avrebbe portato il pacco a Mr. Blunks a nome del pentito che loro avevano in pugno, lui ci sarebbe cascato e l'arresto sarebbe avvenuto in meno di un istante. 
Tuttavia le labbra spaccate e l'ematoma sulla fronte di Lhyr erano ancora impressi a fuoco nella sua testa, mentre lei giaceva in quella dannata ambulanza e raggiungeva l'ospedale. Quella sua dannata boccaccia, con quel suo dannato sapore dolce.
Deimos buttò la cicca a terra in un gesto rabbioso, raggiungendo il retro dell'altra ambulanza ancora ferma accanto alle volanti. L'arresto di quello schifoso moscerino di Blunks era concluso da più di un'ora ormai, ma parecchi dei loro erano rimasti coinvolti nello scontro. Uno di quei bastardi tirapiedi se ne stava disteso bello tranquillo con la sua dose di morfina appena somministrata per lenire il dolore, dolore che Deimos avrebbe voluto alimentare fino a farlo impazzire. Salì senza troppe cerimonie sull'ambulanza, facendo segno all'infermiere di scendere e di tacere. Prese il polso rotto dell'uomo tra l'indice e il pollice, e strinse talmente tanto che avrebbe polverizzato quel che rimaneva delle ossa, se fosse stato solo un tantino più incazzato. Nonostante la sorpresa, l'intorpidimento da morfina non fece uscire vere e proprie urla di dolore da quel fetido boccaporto che aveva il coraggio di chiamare gola; riusciva appena a mugolare in segno di disapprovazione. Con la mano libera strinse la mascella dell'energumeno, piantando lo sguardo di ghiaccio in quello frastornato e dolorante di lui.
"Sappi che ti farò pagare ogni livido che troverò sul suo corpo. Tu sai perfettamente a chi mi riferisco, brutto stronzo."
Sibilò ad appena un centimetro dalla sua faccia, prima di mollarlo con malagrazia sul lettino, distrutto.
Scese velocemente, lanciando uno sguardo ammonitore verso l'infermiere, paralizzato e scosso fuori dalla vettura.
Mentre guidava spedito verso il pronto soccorso, Deimos pensava che Lhyr avrebbe assistito ad una ramanzina epica, con tanto di sospensione dal suo incarico, se la sua faccia non fosse stata così maledettamente attraente persino ricoperta da sottili rivoli di sangue.


Flowers.
Prometheus prese un tulipano rosso, rubato da un mazzo per una cerimonia, e se lo rigirò per qualche istante tra le lunghe dita. Quella mattina il piccolo negozio era deserto, i mille colori delle diverse specie di fiori risplendevano nell'ambiente come se l'arcobaleno stesso fosse esploso al suo interno. Eppure mancava un colore fondamentale per lui, un colore che solo il grano e il sole uniti potevano regalare ai suoi occhi. 
Eos quel giorno però non si era ancora vista. Di solito entrava verso le dieci, portando con sé il suo profumo fresco di talco e quel sorriso spensierato che superava in bellezza qualsiasi altra cosa presente in quella città. L'uomo non poteva che tentare di ricambiare come poteva quell'allegria con i propri timidi mezzi, rispondendo con cortesia alle parole gentili che lei sempre gli rivolgeva. 
Stava quasi per allontanarsi dal bancone abbattuto dall'assenza della sua visita giornaliera, quando quei capelli dorati fecero capolino, appena scomposti dal vento forte di quella giornata, incorniciando l'ovale perlaceo di Eos, come sempre illuminato e radioso. 
La ragazza si ricompose appena, una volta varcato l'ingresso. Quel vestito bianco le donava un candore ancora più accentuato, e quasi si perdeva il confine tra la stoffa e il pallore della sua pelle. Si mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio, avanzando raggiante verso il bancone.
"Mi sono svegliata tardissimo, sono anche in ritardo per andare a lavoro! Quella sveglia dovrò cambiarla, prima o poi..." disse, mentre il suo discorso si tramutava sempre di più in un'accesa risata, una risata che Prometheus aveva trovato estremamente graziosa persino quando per errore aveva lasciato cadere un'intero vaso pieno di ibiscus rarissimi, ed aveva sciolto la tensione con quelle risa gentili. Lui scosse la testa, traendo da sotto il ripiano del banco il proprio caffé e lasciandolo nelle mani delicate di Eos, appena tremanti sotto il suo tocco. La giovane arrossì, mentre Prometheus si discostava appena e poggiava gli avambracci muscolosi sul piano. "Te ne regalerò una, promesso."
Le sorrise, prima di scorgere il suo rossore farsi più insistente. Mentre si voltava per uscire, lui lasciò cadere nella borsa quel tulipano rubato, e sorrise nel vederla lasciare il suo piccolo angolo fiorito con un piccolo pezzo del suo giardino accanto a sé.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Discovery and Vodka. ***


Discovery.
Le sequoie gigantesche padrone di quel bosco sovrastavano ogni cosa, avvolgendo il terriccio con una coltre di fogliame scuro e rami possenti. Pallas dovette suo malgrado stupirsi di tanta maestosa e selvaggia bellezza, vibrante di vita nelle cortecce ruvide. Il barbaro scavalcava tronchi e incedeva con passo poco sicuro, dato l'inusuale ambiente dove si ritrovava a vagare. 
Fu quando finalmente percepì di nuovo la freschezza gravida di pioggia dell'aria aperta che Pallas placò il proprio umore inquieto, volgendo le proprie gambe verso essa. Udiva un gorgogliare indistinto nel folto della foresta, e dopo poco tempo una radura si aprì davanti al suo sguardo. Un piccolo torrente scorreva serpentino e placido nell'angusto spazio aperto, la debole luce grigia illuminava maggiormente la boscaglia rada. L'uomo tuttavia non si beò dalla bellezza del paesaggio, bensì trattenne il fiato, rimanendo nascosto tra il fitto dei cespugli.
Non aveva mai visto i Celti, o i Britanni. Aveva appreso sommariamente la loro lingua durante quel viaggio, ma non conosceva la loro cultura, né gli era mai interessata più di tanto.  Ma quella visione gli procurò un fastidioso e ammaliante prurito alle mani, ancora strette intorno all'arco.
Vedere quella lunga chioma baciata dal fuoco, quella pelle lattea e quelle fattezze delicate, nel bel mezzo di una foresta adombrata, gli dette la sensazione di trovarsi in un sogno. Non aveva mai visto capelli così, e se ne sentì attratto prima ancora che potesse rendersene conto. La giovane immersa nell'acqua si muoveva lenta, quasi in trance, e sussurrava parole prive di comprensione per Pallas, che però assisteva alla scena rapito. 
Euterpe rilassava le membra stanche, immersa nel fiume. Il corpo nudo scosso da lievi tremori, date le fredde punture dell'acqua. Teneva gli occhi semichiusi, mentre pregava distrattamente e sorrideva senza un apparente motivo. Restava così, sospesa nel dolce abbraccio del fiume, convinta della propria solitudine. Fu quando udì uno scricchiolio che si volse turbata verso la fonte del rumore. Osservando nel buio leggero del fitto degli alberi, notò due iridi blu come il mare stagliarsi nell'ombra, e una prima sensazione di panico l'avvolse. Portò le mani a coprire i seni acerbi, e si mosse verso la sponda del fiume, recuperando subito il mantello e avvolgendosi completamente in esso. Prima che potesse occultargli la vista, Pallas ammirò il pallore di quelle gambe lunghe, il ventre piatto contratto e il petto morbido agitato da un respiro affannato. Scoperto, decise di uscire tenendo le mani di fronte a sé, cercando di intimarle di non aver paura. Euterpe lo fissò interdetta, stringendosi maggiormente nel mantello e indietreggiando appena.
"Non voglio farti del male." Le parole abbandonarono smorzate e mal pronunciate le labbra piene dell'uomo, lasciando un senso di stupore sul volto pallido di Euterpe. Conosceva la loro lingua? Eppure non sembrava appartenente a nessuno dei clan nei dintorni, e il suo accento era decisamente straniero. La giovane restò in piedi, all'erta, pur riconoscendo una nota di gentilezza e premura in quella voce arrochita. Pallas accennò un sorriso, mentre posava a terra l'arco.
La giovane inclinò il capo da un lato, ora maggiormente incuriosita da quell'uomo che probabilmente rappresentava una minaccia. Lo lasciò avvicinare, fin quando non furono a qualche passo di distanza. Suo padre l'avrebbe presa per pazza, vedendola lì, a nemmeno tre piedi da quello straniero, con lo sguardo inesorabilmente attratto da quegli occhi e l'anima protesa verso quell'assurda situazione. Lui allungò il grande palmo verso di lei, trattenendo sul volto un'espressione tranquilla. Euterpe osservò la mano dell'uomo, per poi sollevare il proprio sguardo su di lui. La sua altezza notevole la sovrastava, e la ragazza si strinse nelle spalle, innervosita ma interessata al mistero che aleggiava intorno alla sua comparsa. Titubante, posò la propria mano sul palmo di lui; era ruvido, ma caldo, ed Euterpe lasciò che le proprie dita lo studiassero con velata curiosità. 
Alzò ancora lo sguardo su di lui, ricambiando timidamente il sorriso che ora illuminava completamente i tratti di quel volto straniero piacevolmente inaspettato.


Vodka.
Mandò giù per la gola un altro sorso bruciante di vodka, imprecando per il fastidio e ridendo della buffa danza che Theia si apprestava ad eseguire.
Perses scosse la testa, mentre la raggiungeva, incespicando nel porre un piede davanti all'altro. La vista annebbiata lasciava sfumare davanti a lui ogni contorno, e l'unica cosa che gli riusciva di distinguere era il groviglio di riccioli biondi di fronte a lui. La donna lo aveva preso per un braccio e lo trascinava per il marciapiedi deserto, cantando sguaiata una canzone che era abbastanza sicuro di aver udito in uno di quegli stupidi film sui pirati. Ma in quel momento era troppo preso dall'alcool e dalla precaria stabilità del proprio corpo per preoccuparsi di quelle cazzate.
La seguiva mansueto, sorridendo ogni volta che alzava la voce in risposta ad una lamentela di un qualche stronzo nelle vicinanze. Non si risparmiava gesti e imprecazioni poco adatte per una ragazza, eppure lui non le avrebbe mai chiesto di uscire, se non fosse stata esattamente così: vera, spontanea e irriverente. I suoi amici si erano tutti stupiti, quando lo schivo e taciturno Perses li aveva lasciati quel pomeriggio dicendo: "Stasera esco con una, non aspettatemi per il pub.", senza dar loro modo di replicare o ammiccare eloquentemente nella sua direzione.
Theia si sedette malamente sul bordo rovinato del marciapiedi, portando Perses a fare lo stesso. La giovane rubò la bottiglia dalle mani del compagno, e si scolò un quarto di bottiglia in un solo sorso. Poi sorrise vacua, ma trattenendo il proprio sguardo in quello dell'uomo. 
"Aspetti l'autobus con me? Prima che passi diventerò vecchia e rincoglionita, vorrei un po' di compagnia." 
Lui rise roco, stendendo le lunghe gambe di fronte a lui e asserendo col capo. La ragazza lo osservò, metà rapita dai fumi della vodka e metà da quegli occhi ombrosi. Quel visetto da bravo ragazzo non gliel'aveva mai data a bere, come pure quel comportamento da bel tenebroso che si ostinava a mostrare all'università. Certo era riservato, ma era certa che quell'aura da dannato gliel'avessero affibbiata. Le sue amiche praticamente si bagnavano ogni volta che per sbaglio il suo sguardo le intercettava, mentre lei si divertiva a prenderle bonariamente in giro. Non credeva di potergli interessare, dato l'effervescente carattere così discordante con quello di Perses. Tuttavia quella sera Theia aveva avuto modo di constatare che due pezzi di un puzzle, per incastrarsi, devono per forza essere diversi.
Sorrise nel buio, mentre poggiava la testa sulla spalla del giovane uomo. Lui dal canto suo era più che intenzionato a lasciarla lì, anzi se avesse dormito da lui non avrebbe mosso polemiche. Posò la guancia sui suoi capelli, lasciandosi accarezzare dalla loro morbidezza. Lei mosse una mano a stuzzicargli il lembo della maglia grigia, mentre sorrideva maligna. 
"Sei sempre così eloquente o io stasera sono fortunata?" mormorò divertita, mentre alzava lo sguardo e lo scrutava con un sopracciglio alzato. Perses aggrottò la fronte e si strinse nelle larghe spalle, abbozzando un sorriso sbilenco. "Mi hai stordito con le tremila parole che sputi al minuto, come faccio ad farti un discorso?"
Per tutta risposta la spalla minuta di Theia cozzò malamente contro il proprio braccio, facendolo cadere con la schiena contro l'asfalto del marciapiedi. Lanciò un'imprecazione al cielo buio, mentre il viso di Theia appariva quasi indistinto nella sua visuale offuscata, il rumore di freni e la luce dell'autobus che debolmente illuminavano la scena.
"Se non mi chiami domani, ti stacco le palle." Gli sussurrò, prima di premere le proprie labbra su quelle sottili dell'uomo. Sapeva di alcool, di lime, di peperoncino. Sapeva di lei.
Salì sull'autobus con un balzo, senza nemmeno voltarsi a lanciargli un'ultima occhiata e lasciandolo lì steso.
Si tirò su malamente, osservando l'autobus che s'allontanava sfocato, e trattenne a stento una risata, mentre si dirigeva verso casa, il numero di Theia come unico pensiero saldo nella mente offuscata di Perses.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Misterious and Magnetic. ***


Misterious.
Persephone lasciò vagare lo sguardo sul camaleontico groviglio di corpi e festoni, vibranti di vita al ritmo del jazz. Sugli scaloni di marmo andavano e venivano fiumi di personaggi improbabili e personalità eccelse della società. In contesti differenti, nessuno di loro si sarebbe mai rivolto la parola; eppure, in quella villa ricolma di lusso e sfavillante falsità, lo studente in fuga dalla propria routine poteva trovarsi a bere champagne accanto ad un funzionario pubblico, o nascondersi nel buio del giardino sottostante in compagnia di un'attrice hollywoodiana in ascesa.
Dal canto suo la giovane si limitava a lanciare timidi sguardi in ogni direzione, scrutando tra la folla nella speranza di scorgere il misterioso proprietario di quella gigantesca giostra, illuminata a giorno da mille luminarie scintillanti. Si narravano storie di ogni tipo, su di lui: dalla brillante carriera militare alla sua apparente immissione nello spionaggio. Qualcuno osava persino insinuare che avesse ucciso un'uomo. Eppure, nella sua casa, ognuno di loro continuava a tornare per godere dello sfarzo e delle belle cose messe a disposizione per chiunque ne avesse voglia.
Ogni cosa pareva trovare il suo posto in quel disegno ricco di particolari e strabordante di colori. Nulla pareva essere lasciato al caso,persino le sbronze assumevano la loro componente poetica in mezzo allo sfarzo ostentato da palloncini dorati, bicchieri di cristallo e danze frenetiche racchiuse negli abiti più eleganti che si potessero vedere in tutta West Egg.
Presa com'era dalle sue supposizioni, Persephone non si accorse dell'uomo ritto di fronte a lei, tanto che si trovò a cozzare con l'esile spalla contro il suo petto. La giovane si profuse in mille scuse mentre cercava di non far cadere il calice che teneva tra le mani, prima di sollevare lo sguardo sul malcapitato. I tratti marcati di quel viso le parvero la cortesia fatta persona, complice forse il tocco leggero della sua mano sul proprio braccio, a volerla sorreggere. Persephone scrutò gli occhi di ghiaccio che, sorridenti, le si rivolgevano con innata cura, quasi lei fosse il principale pensiero che quell'uomo possedesse.
"Perdonate voi la mia sbadataggine, signorina." si profuse in avanti, nel pronunciare con voce melliflua quelle parole e sollevando la mano pallida di Persphone "Vi prego di accettare le mie scuse. Ero venuto per chiedervi un ballo, se permettete." Le labbra dell'uomo si posarono per un attimo appena sul dorso della sua mano, e il suo sguardo non abbandonò la ragazza nemmeno per un istante. La giovane abbassò lo sguardo, lievemente imbarazzata: non era raro che gli uomini le dedicassero attenzioni, ma essere guardata in quel modo da un uomo del genere le faceva quasi tremare le gambe.
Asserì appena con il capo, lasciando che il suo interlocutore portasse la propria mano contro il suo braccio. Pochi passi, e la musica divenne lenta, placida, adatta all'occasione quasi fosse stata studiata per quel momento. Persephone sgranò appena gli occhi osservando le coppie intorno a lei disporsi per le danze, prima di sollevare lo sguardo sul suo misterioso cavaliere. Si schiarì la voce, mentre lui la portava contro il suo petto e la conduceva lento.
"La festa è di vostro gradimento?" Mormorò lui, lo sguardo perennemente fisso nei suoi occhi. La giovane sorresse come poté quegli occhi, amabili e penetranti al tempo stesso.
"E' magnifica." Esalò, osservando per qualche istante i colori variopinti che quasi si confondevano l'uno con l'altro intorno a loro. "Ma la mia curiosità non è stata appagata. Avrei voluto conoscere il proprietario... Dicono che nessuno l'ha mai visto davvero." L'aura di mistero intorno a quella figura l'aveva affascinata sin da subito, e ora il desiderio di conoscere quell'uomo andava oltre ogni limite. Il suo accompagnatore sorrise. Un sorriso colmo di comprensione e forse di qualcos'altro, qualcosa che la ragazza non riusci a definire con esattezza. Si accostò maggiormente a lei, facendola arrossire violentemente, e portando le labbra al suo orecchio. Quel sussurro, impercettibile per gli altri ospiti, fece sì che Persephone non dimenticasse mai più quella serata e quell'uomo dai modi tanto garbati.
"Mi rincresce non essermi presentato prima. Io sono Hades, e spero di non aver deluso le vostre aspettative."


Magnetic.
Era l'unico ad aver ricevuto un invito formale. Il piccolo foglietto era ancora stretto tra le sue dita, nonostante fosse entrato ormai da più di un'ora cercando di farsi notare il meno possibile; operazione semplice, vista la fiumana di persone ondeggianti che pareva aver invaso i saloni e i giardini della villa. Aggiustò la posizione degli occhiali sul naso, sorseggiando distrattamente il suo martini e osservando timidamente gli ospiti intorno a lui, tutti decisamente più brilli e, secondo lui, più interessanti. Gli sfuggì un sorriso nel notare come un vecchio signore panciuto, riconosciuto poi come il primo ministro, caracollasse dietro ad una famosa diva del cinema nella speranza che lo degnasse di uno sguardo. 
Morpheus era rimasto sinceramente colpito, quando gli avevano recapitato quell'invito. E uno stupore ancora maggiore gli aveva illuminato lo sguardo limpido quando, mostrando il foglietto all'usciere, questi gli aveva sorriso senza nemmeno accertarsi che la sua partecipazione fosse reale, lasciando che il ragazzo venisse trascinato all'interno dell'immensa anticamera della villa, dove un improbabile individuo suonava come un folle un organo gigantesco. 
Tossicchiò imbarazzato, notando uno sguardo insistente da parte di una ragazza bionda poco distante da lui, che fortunatamente fu raccolta da un paio di braccia e portata chissà dove lontano da lì. Aveva sentito di queste strabilianti feste da quando aveva preso residenza proprio nella casa accanto alla Villa dalle mille luci, che pareva risplendere di gioia e frivolezza ogni fine settimana. Non era molto avvezzo a quel tipo di festa, e cominciava già a domandarsi che fine avesse fatto Persephone. Restare da solo in posti affollati lo rendeva inquieto, e lo portava a chiudersi ancor di più dietro le spesse lenti dei suoi occhiali.
L'agitazione parve inglobarlo completamente, quando dalla scalinata gremita apparve una figura familiare al ragazzo. I lunghi capelli rossi, così simili ai suoi, stavano raccolti in un'acconciatura quasi troppo severa per una come lei; la veletta del fermaglio che tratteneva le ciocche ramate ricadeva con grazia sul suo sguardo, conferendogli un'aria ancor più maliziosa e aristocratica. Morpheus deglutì e abbassò lo sguardo, mentre veniva riconosciuto dalla slanciata figura di Tyche. 
La giovane si avvicinò col suo solito passo mellifluo, tanto da costringerlo a soffermarsi sul movimenti di quelle gambe che l'avevano affascinato dal primo momento in cui le aveva viste, a casa di sua cugina. Sollevò appena lo sguardo, fino ad incontrare l'espressione ermetica e accattivante della ragazza, tossicchiando di nuovo e riportando gli occhiali nella posizione giusta. 
"Non credevo che vi avrei mai visto qui, Morpheus." Persino la sua voce era capace di imbarazzarlo, e lei sembrava più che cosciente di questo particolare. Giocava, eppure non del tutto; lasciava aperte porte che stimolassero il giovane a sbirciare all'interno di lei, all'interno di quella pelle bianca come il latte e di quel sorriso indecifrabile. Morpheus si costrinse a sorridere, altalenando lo sguardo dall'interessantissimo pavimento a quegli occhi celesti.
"Ho ricevuto un invito. Pare, ecco, che sia stato l'unico." Ride forzatamente, percependo la pateticità della sua risposta come un pugno in pieno stomaco. E' solo quando lei gli prende la mano e lo trascina in pista, nel grande salone della villa il cui proprietario ancora non si è fatto vedere, e persino negli oscuri ambienti dei giardini sottostanti alla piscina, che il ragazzo si concede di rilassarsi appena. Almeno, fin quando Tyche non porta proprio quella mano contro la sua schiena, al limite della curva del sedere; in quel momento Morpheus è abbastanza certo che il suo colorito è passato dal pallido e vagamente malaticcio al porpora scuro.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Fast and Tears. ***


Fast. 
L'odore penetrante della pioggia permeava ogni lembo di terreno dove le gocce d'acqua corpose andavano a posarsi. Sterope camminava nervosa e quasi correndo lungo il viale della casa della sua migliore amica, dove le luci della festa ancora riempivano i vetri delle finestre e il suono ovattato della musica sembrava bucare le pareti.
Ancora non sapeva come aveva fatto a farsi incastrare a quel modo. Le grandi feste dell'ultimo anno le erano parse stupide e inutili fin dal primo momento in cui aveva messo piede all'università. Occasioni in cui mostrare la maggior parte della propria pelle e soprattutto dei propri istinti apparentemente incontrollabili, da quel che aveva potuto constatare coi suoi occhi.
Non c'era stato un solo essere vivente racchiuso là dentro che non ci avesse provato. O meglio, c'erano ancora molti ragazzi che stavano aspettando il loro turno per approcciarsi, ma con l'ultimo la giovane aveva decisamente esaurito la pazienza. Aveva appena fatto in tempo a sfiorargli il sedere con la mano, che un grosso segno rosso s'era espanso su tutta la guancia, tra le imprecazioni e le urla degli ubriachi poco distanti da loro.
Finalmente libera all'aria aperta, Sterope cominciava a dirigersi verso casa, a piedi e al buio. L'adrenalina e il nervosismo non accennavano a calare, e nemmeno quando Thanatos fece la sua comparsa al suo fianco, leggermente affannato per la corsa, diede segno di voler rallentare.
"Per la cronaca, gli hai rotto il labbro con quello schiaffo, e sentivo di dover venire a farti le mie congratulazioni." Avrebbe voluto essere ironico, ma era davvero sollevato che quel deficiente avesse avuto ciò che gli spettava.
Preso da quei pensieri, quasi gli sfuggì il cambiamento di direzione che Sterope fece all'improvviso.
Quasi non si accorse della macchina che sopraggiungeva a tutta velocità.
Quasi non riuscì a cogliere la figura della ragazza illuminata dai fari dell'auto, lo sguardo terrorizzato rivolto verso il mezzo in arrivo.
Un attimo, e avrebbe perso tutto.

Un forte fischio le bucava i timpani, e l'accecante luce al soffitto le impedì di aprire gli occhi per i primi secondi.
Sterope s'alzò d'istinto a sedere, percependo una lieve fitta al costato. Abbassò lo sguardo, notando che gli abiti che aveva poco prima erano stati sostituiti da un camice ospedaliero largo e fresco. 
La giovane cercò di ricapitolare l'accaduto, con una netta e terribile sensazione a fendere il respiro nel suo petto. Si guardò intorno, constatando la sua solitudine e portandosi le mani al viso.
Come aveva fatto a sopravvivere ad un frontale del genere? Com'era uscita illesa da una situazione che le sarebbe dovuta costare la vita? Fece per scendere dal letto, ma un'infermiera entrò proprio in quel momento, seguita da un lettino e da una collega.
Sterope inorridì, vedendo il volto tumefatto di Thanatos. Il suo corpo quasi non entrava il quel lettino, e le fasciature su svariati punti le lasciarono intendere quello che la sua mente non aveva avuto il coraggio d'immaginare. 
L'infermiera la costrinse di nuovo a letto, passandole una mano sul capo e aumentando di poco la dose di morfina. Lanciò uno sguardo al ragazzo, ora sistemato nel letto più grande proprio accanto a quello della giovane.
"Se la caverà, non preoccuparti." Asserì materna, tornando a scrutarla con fare tranquillo. "Ha riportato lesioni interne e gravi abrasioni, ma siamo riusciti a riprenderlo. Sei stata fortunata ad averlo lì accanto."
Sterope la guardò persa mentre usciva dalla stanza, lasciandola sola con Thanatos. Si era beccato due tonnellate di metallo sparato ad ottanta chilometri orari per salvarla. Per salvare lei.
Sterope lo guardò allibita, prima di poggiare sfinita la testa sul cuscino. Allungò una mano, sfiorando le dita ruvide del ragazzo, e non le lasciò fin quando, la mattina dopo, non percepì quelle stesse dita stringere la presa sulle sue.


Tears.
Harmonia osservò mesta dal piccolo oblò dell'aereo la pista allontanarsi, lasciando spazio solo all'azzurro del cielo terso.
Lasciò cadere le spalle contro lo schienale del proprio sedile, sbuffando e guardando sconsolata la brochure della sua nuova università. La borsa di studio l'aveva resa felice, in un primo momento. Almeno fin quando non aveva realizzato che sarebbe dovuta partire per Parigi, allontanandosi da Londra e soprattutto dai suoi affetti.
Il volto di sua madre e di suo padre avevano solcato la sua mente per molte notti, ma mai al pari di quanto dolore aveva provato sapendo di dover lasciare Kratos nella grigia città inglese, a migliaia di chilometri dalla Francia.
Non avrebbe nemmeno voluto dirglielo. Sapeva quanto fosse impetuoso l'animo di Kratos, e sapere di provocare la sua rabbia o la sua tristezza la faceva sentire terribilmente in colpa. 
Certo non credeva che ci avrebbe messo tanto, a trovare qualcun'altra. Lui era bello, e forte, e meraviglioso, e la piccola smorfia che faceva quando era arrabbiato la faceva ridere, anche se non glielo avrebbe mai detto.
Il tempo era comunque scaduto. Ormai non c'era più nulla da dire, né da recriminare. 
Harmonia era partita, e Kratos era rimasto.
Le lacrime salirono a pizzicarle gli occhi, e il passeggero accanto a lei fu gentile a concedergli il proprio fazzoletto. 
La giovane non guardò la figura seduta accanto a lei. Se l'avesse fatto, non sarebbe stato il profumo familiare a risvegliare in lei determinati ricordi, né sarebbero state le lettere ricamate sul tessuto a rammentargli qualcuno.
La ragazza non fece caso a ciò che considerava uno scherzo crudele della propria memoria, e consegnò il fazzoletto al proprietario quasi senza guardarlo. 
Tuttavia la stretta che racchiuse la sua piccola mano la costrinse ad alzare lo sguardo, e a farle perdere un battito.
"Pensavi di esserti liberata di me?" Quella voce fu capace di scaldarla quasi quanto la vampata di calore che corse a colorarle le guance rosee, mentre i suoi occhi si perdevano nelle iridi chiare di Kratos.
"Non crederai sul serio che ti lasci andare senza nemmeno impegnarmi, no?" Continuò, portando la mano delicata di lei alle labbra, senza smettere un solo istante di guardarla.
Rossa in viso, con gli occhi gonfi e l'aria scarmigliata, riusciva ad essere la donna più meravigliosa sul quale il suo sguardo si sarebbe mai posato.
E fu con un naturale impeto che Kratos avvicinò il busto ad Harmonia, serrando il corpo fragile e minuto di lei in un abbraccio. Le sue labbra premettero con delicatezza su quelle carnose di lei, e se avesse sbirciato avrebbe constatato che il rossore acuto, andato ad espandersi su tutto il viso, le donava dannatamente.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Scream and Exam. ***


Scream.
"Guarda che non vuoi farlo."
Asserì, lanciando uno sguardo decisamente poco convinto all'imponente costruzione che la gente si ostinava a chiamare "montagne russe", ma che lui personalmente avrebbe definito "trappola per tachicardici". Lui amava andarci sopra, ovviamente, ma la mole di persone che, una volta salite, gli rintronavano le orecchie di urla e strepiti gli facevano quasi passare la voglia di sentire il vento sulla faccia.
E in cuor suo sapeva benissimo che May avrebbe urlato come una forsennata. Non l'avrebbe ammesso nemmeno se glielo avesse chiesto il presidente degli Stati Uniti in persona, pena la morte. Ma ormai era talmente abituato a quel lato di lei che nemmeno ci faceva più caso.
La ragazzina dal canto proprio si sentiva stranamente irrequieta, ora che era finalmente stretta nell'imbracatura della giostra, il busto ancorato da un tubo di ferro e la vita stretta dalla cintura. Non era tipa da farsi venire i giramenti di testa per cose del genere, né aveva mai avuto paura, ma forse la presenza di Aeolus, con la sua aria da sapientone e quel sorrisetto furbo perennemente stampato in faccia la facevano agitare. Si, doveva essere colpa sua. Ma dopotutto, era sempre colpa sua.
Lanciò uno sguardo verso Aeo, accanto a lui, che a stento riusciva a stare all'interno dello scheletro di ferro per quanto era alto. Sarebbe stato divertente, magari, vederlo volare via alla prima brutta curva, e di svolte del genere ce n'erano davvero tante, in quel percorso.
"Non mi dire che un uomo ha paura di una montagna russa." Disse, ostentando una sicurezza che si ostinava a trattenere persino con lui, che l'aveva vista praticamente in ogni situazione e sapeva a menadito come raggirarla, sebbene non l'avrebbe ammesso mai nemmeno con sé stessa.
"Ovviamente no. Mi preoccupo della tua pressione." Osservò lui, stringendo il tubo di ferro con aria quasi svogliata, prima di lasciare che un barlume gli accendesse lo sguardo, portandolo ad inchiodarlo nei suoi occhi.
"Scommetto un pranzo che non riuscirai a trattenerti dal gridare."
Far vedere del rosso ad un toro sarebbe stato forse meno avventato. May si voltò con aria furibonda, gli avrebbe tirato un calcio, se solo le carrozze non fossero state azionate, iniziando la salita vertiginosa.
"Perderai miseramente, donnicciola."
Sapeva anche lei che avrebbe consumato i polmoni a forza di urlare, ma mai gli avrebbe dato soddisfazione.
Nemmeno presentandosi il giorno dopo davanti al ristorante, con un vestito vagamente femminile e le guance in fiamme, gliel'avrebbe data vinta. Inarcò un sopracciglio, guardandolo da dietro il menù.
"Potevi scegliere un posto più carino, perlomeno."
 
 
Exam.
Logan ci aveva provato tante di quelle volte a dare quel dannato esame che quasi aveva perso il conto. 
Probabilmente suo padre s'era rassegnato alla cosa, visto che gli aveva dato carta bianca e l'aveva praticamente pregato di cambiare corso.
Il ragazzo però non l'avrebbe mai fatto. Oltre perché mancava solamente quello stupido test alla Laurea, il suo restare era dovuto prettamente a qualcosa che lo teneva ancorato al proprio banco. Il motivo del suo andamento non era racchiuso né nei numeri bassi né nelle parole che non riuscivano a fluire, almeno non in presenza della giovane assistente del professore che, puntualmente, era sempre assente, e lo costringeva a dover fissare quelle sue iridi acquose come il mare senza riuscire a spiccicare una parola che avesse un senso.
Sapeva il suo nome solamente perché l'aveva sentito dire ad una sua amica, probabilmente, mentre aspettava di entrare in classe. Aveva preso un latte macchiato poco zuccherato alla macchinetta, come sempre, e a Logan era sopraggiunto quel nome tanto particolare quanto incredibilmente bello, tanto quanto la sua proprietaria.
Ci aveva seriamente provato a studiare, davvero. Ma per quanto fosse preparato e per quanto ormai conoscesse l'ubicazione degli argomenti nel libro a memoria, bastava alzare appena lo sguardo su di lei, al di là della cattedra, perché i discorsi preparati crollassero nella propria mente.
 
Logan si avvicinò alla cattedra, meno titubante del solito, e prese posto dinnanzi ad Astraea, un latte macchiato con poco zucchero stretto nella mano.
La ragazza sollevò lo sguardo su quello che era -sperava- l'ultimo studente della giornata, e fu con un sorriso accennato e divertito che accolse il giovane, l'ennesimo tentativo che sperava questa volta sarebbe andato a segno.
"Wentworth... Buongiorno di nuovo." Asserì, vergando il cognome del ragazzo e portando le mani ad incrociarsi, nello spostare il suo sguardo in quello di Logan. Aveva occhi simili ai suoi, aveva notato durante quegli innumerevoli colloqui. Tuttavia gli sembravano meno pesanti, più liberi e sereni dei propri, e probabilmente era questo a renderglielo vagamente simpatico.
Lanciò uno sguardo al bicchiere di carta stretto nella sua mano, e lo indicò vagamente contrariata. 
"Mi spiace, ma non si possono tenere bibite o cibo durante un esame.."
Lui per tutta risposta glielo allungò, ostentando un sorriso accomodante. Astraea lo osservò vagamente sgomenta, acuendo notevolmente la propria sorpresa nell'udire le parole che seguirono quel gesto.
"Vieni a colazione con me, domani. Il bar qui sotto fa un latte macchiato migliore della macchinetta."
Forse fu la semplicità di quella frase, o forse l'aria pulita e raggiante che la speranza donava alle fattezze piacevoli di Logan, Astraea non seppe dirlo con esattezza. Prese il bicchiere, scansandolo appena verso la sua destra, e tornò a fissarlo, evitando di dare a vedere il proprio imbarazzo.
"Solo se superi l'esame."
Inutile dire che la presenza della folta chioma rosso fuoco nel bar appena fuori l'Università, la mattina dopo, era stato un premio migliore del conseguimento dell'esame per Logan.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Sickness and Memories. ***


Sickness.
L'aria umida non aiutava il raffreddore che ormai da cinque giorni attanagliava il petto di Alan senza remore.
Ormai era diventato uno starnuto perpetuo e ogni passo era un colpo di tosse in più. La pioggia battente sul suo ombrello, inoltre, non aiutava per nulla il suo umore, guastato oltre che dal proprio malessere fisico, da un pensiero costante che non gli faceva smettere di rimurginare.
Non si sarebbe mai perdonato di averla lasciata andare senza tentare, s'era detto quella stessa mattina. Così aveva infilato il primo maglione che aveva trovato e aveva imboccato la via principale del proprio quartiere, diretto alla casa di Ariadne. Svoltato l'angolo, era rimasto sotto la sua finestra, la pelle pallida e il naso arrossato, così simile da un pupazzo di neve da farlo quasi sorridere.
La ragazza però non aveva voglia di vederlo. Non in quel momento, che le sue certezze venivano sgretolate tanto facilmente da qualcosa di così naturale, così normale qual era il trasferimento che aveva coinvolto il suo ragazzo.
Ariadne non era più sicura di nulla, in quel momento. Avrebbe voluto urlargli di andarsene, di tornare ad impacchettare le sue cose e lasciarla libera di andare avanti. Perché al momento per lei non esisteva una soluzione diversa.
Insieme da un tempo che le era parso eterno, lei ed Alan non potevano sembrare più diversi. Lui scontroso, chiuso e a volte profondamente turbato da ciò che il mondo gli aveva riservato, dal rapporto con i suoi genitori e dalle migliaia di dubbi che sempre gli avevano attanagliato la mente. Bello da toglierle il fiato.
Lei, così fragile all'apparenza, e tanto disposta a trovare ciò che di buono esisteva in ognuno degli individui che incontrava. Così gentile e amabile da farlo stare male, da farlo impazzire di un qualcosa cui non sapeva dare nome.
Ariadne gli stava dando la possibilità di voltare pagina, di non rimanere legato a lei che sarebbe rimasta lì, una costante in una cittadina che ne era interamente composta. E lui non voleva.
Era un onore straordinario poter prendere parte ai progetti che suo zio aveva in serbo per lui. Potersi ricostruire un futuro al di fuori delle mura paterne, lasciarsi alle spalle un'infanzia colma di urla e di perché che, ora sapeva, non avrebbero mai trovato risposta. 
Alan voleva un futuro, ma voleva che Ariadne ne fosse l'inizio.
La giovane scorse fuori dalla finestra la sagoma di lui, zuppa e coperta alla meglio dal maglione e dalla sciarpa, l'ombrello come debole riparo dalla pioggia scrosciante. Scosse la testa, ricacciando indietro le lacrime. Glielo dicevano sempre che era una dalla lacrima facile.
Corse giù per le scale, e si catapultò fuori dalla porta senza nemmeno preoccuparsi di coprire il pigiama che aveva con un cappotto. Camminò a piedi nudi sull'erba del proprio prato, raggiungendo a grandi passi Alan e colpendolo con la propria mano serrata a pugno, nascondendo il viso nei capelli fradici.
"Lo vuoi capire che te ne devi andare? Non puoi stare qui!" Disse, urlando, mentre cercava inutilmente di spostarlo, anche di un solo millimetro. Era alto almeno venti centimetri più di lei, ma la giovane continuava imperterrita, percependo ormai il calore delle lacrime sul viso. Alan le bloccò la mano, tentando di coprirla con l'ombrello come poteva, e ricercando il suo sguardo al di sotto dei suoi capelli.
"Si, me ne vado." Asserì, il tono tanto duro da costringere Ariadne a fermarsi, e sollevare lo sguardo incredulo su di lui. Fino ad allora non le si era mai rivolto a quel modo.
Lui poggiò la sua mano contro la guancia di lei, tanto piccola da entrare perfettamente nel palmo grande di lui.
Accennò un sorriso, stavolta. "Me ne vado. E tu devi preparare le tue cose, perché vieni con me."
Ariadne non commentò in alcun modo quelle parole. Non sapeva se fosse stato fattibile, non sapeva come sarebbe stata la vita oltre la strada accogliente che l'aveva vista crescere.
Non disse nulla, ma le sue labbra si posarono con calore su quelle di Alan, senza che i malanni del giovane potessero spaventarla in alcun modo. Gli occhi lucidi s'aprirono su quelli di lui, arrossati, una volta staccatasi da lui, e rise.
"Se non mi attacchi il raffreddore, potrei pensarci."


Memories.
Atlas attraversò le porte bianche muovendosi velocemente per i corridoi spogli dell'edificio.
Ogni faccia all'interno dell'ospedale gli sembrava un fantasma, un'anima rubata ad un corpo disperso che vagava inquieta e senza parlare. Gli metteva tremendamente tristezza, eppure si sottoponeva a quella tortura ogni settimana, pur di vederla.
Erano passati mesi, forse anni. Nemmeno lui sapeva più dirlo con esattezza, ormai i giorni si susseguivano vuota e colmi di una speranza che sapeva benissimo essere vana, e che nonostante tutto continuava a rischiarargli la via. Era incredibile: non era mai stato un tipo da sciocchezze del genere. Era sempre fermo e deciso sulle proprie convinzioni, seppur stesse ben attento a tenerle celate a tutti sotto un velo di malizia ed ironia perenni. Ed invece ora le vedeva cadere, castelli di carte spazzati via da una consapevolezza dura e crudele che non avrebbe mai accettato, non completamente almeno.
L'infermiera si accostò a lui durante il suo percorso, e lo fissò con aria puntigliosa. "L'orario di visite è terminato da un quarto d'ora, caro. Dovresti saperlo."
Gli dava sui nervi quell'aria da maestra delle elementari decaduta, quei capelli bianchi ostinatamente raccolti in una crocchia severa e il taglio degli occhi sottile e affilato. Lui la odiava, ma doveva rimanere calmo se voleva continuare a tornare da lei.
"Incontro di lavoro. Mi spiace di non essermi liberato prima." La osservò per un istante, ormai arrivato davanti alla porta della stanza. Era arrivato ad implorarla in silenzio, pur di evitare di attaccarla e di prenderla a male parole. 
Katie scosse piano la testa, ed alzò un dito. "Ti dò dieci minuti."
Lo diceva sempre, quando arrivava in ritardo. Ogni volta Atlas poteva vedere la porta sbarrata, la via per arrivare a lei chiusa da quella donna. E lei, puntualmente, non lo privava mai del suo desiderio.
Atlas chinò la testa in silenzio, un sorriso tirato sulle labbra, prima di varcare la soglia della camera.
Era una stanzetta spoglia, esattamente uguale a tutte le altre. Lui ne aveva viste solamente due o tre, da quando era cominciato il suo calvario in quell'intreccio senza fine di 'Non può vederla, non la riconoscerebbe' e 'Sarebbe meglio se non tornasse più, signore'. Da quando Jane aveva avuto quel brutto incidente, non avevano fatto altro che ripeterglielo.
Tutte balle, pensava lui. Dal momento che poteva averla ancora davanti, se ne sarebbe sbattuto bellamente di tutti i 'se' e di tutti i 'ma' che quella gente gli avrebbe sbattuto in faccia.
Lei era lì, seduta sul letto, a guardare l'aria fredda di Londra appena fuori dalla finestra. Avrebbe potuto toccarla, aveva pensato qualche volta, se solo le signore che si affaccendavano intorno al suo letto ogni mattina non le avessero vietato l'uscita. 'E' ancora presto', avevano detto. Ma presto per cosa? si chiedeva lei, confusa da tante premure nei suoi confronti.
"Ciao, perdona il ritardo."
La voce dell'uomo alle sue spalle le fece girare di scatto la testa, e Jane osservò incuriosita la figura che le si era parata di fronte. Aveva capelli bruni, lunghi fin sopra le spalle, e occhi scuri e profondi.
"Salve signore." Asserì, cortese com'era sempre stata, e assottigliando appena lo sguardo. "Cosa desidera?"
Atlas sorrise chinando il capo. Aveva sempre avuto quei modi antiquati, che l'avevano sempre fatto ridere. La prendeva in giro, prima, asserendo di essersi invaghito di una bella vecchietta.
"Desidero parlare con te, se vuoi." Disse, prendendo posto sul letto, e prendendole la mano. Si presentò per l'ennesima volta, lanciando uno sguardo alla piccola cicatrice presente sulla sua fronte, che tuttavia non riusciva a sminuire la bellezza di un volto pallido e delicato quanto il petalo di una rosa.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Waiting and Hunters. ***


Waiting.
Il lunedì era una tortura. Perché non averla accanto nel proprio letto era sempre terribile, quando il suo profumo fresco era ancora vivido e presente sulle lenzuola.
Se possibile, il martedì e il mercoledì erano anche peggiori, in quanto l'odore di Phoebe lentamente svaniva, e veniva sostituito dal profumo anonimo di un ammorbidente che avrebbe volentieri gettato via, se fosse bastato a permettergli di premere il naso sul cuscino e percepire di nuovo l'essenza della donna.
Poi iniziava la rinascita. Giovedì era proiettato nel futuro, e già poteva sentire la morbida consistenza dei suoi capelli sotto le dita callose. Il venerdì sognava le sue labbra, dischiuse e rosee come un fiore di pesco. 
Sabato si svegliava con la sensazione d'aver trattenuto il fiato per giorni interi. Diveniva un fuoco d'artificio al solo pensiero della notte, e del manto scuro che li avrebbe coperti sino al sorgere del timido sole domenicale. Poseidon l'aveva aspettata così tanto tempo che il pensiero di poterla avere solo di tanto in tanto lo rendeva isterico. 
Perché doveva essere così? Perché mai qualcosa di tanto reale, palpabile, sanguigno doveva restare un loro segreto? L'uomo avrebbe voluto gridarlo dalla finestra, dal balcone, dalla porta del suo studio nel palazzo poco distante. 
Poseidon amava Phoebe, e non era mai arrivato a chiedersi se lei lo amasse quanto lui. Gli bastava leggerlo in quegli occhi azzurri, sinceri come la loro padrona forse non avrebbe voluto che fossero, non così tanto, in sua presenza.
Phoebe non avrebbe voluto cedere alle attenzioni di un uomo diverso da lei, un uomo che pensava non sarebbe mai potuto essere null'altro che l'ennesimo nome da aggiungere alla lista dei dimenticati, dei respinti e degli imperfetti.
Lei avrebbe voluto così, ma Poseidon aveva deciso che doveva averla, e l'aveva avuta. 
Solo che ora averla per un giorno soltanto ogni sette non gli bastava nemmeno più.
"Domani ho giorno libero." Lo buttò lì, una semplice constatazione ad orecchie poco attente. Phoebe alzò lo sguardo vagamente assonnato su di lui, e increspò appena le labbra in un sorriso. Il sole appena nato all'orizzonte penetrava dalla finestra, e colpiva i suoi capelli rendendoli oro colato tra le sue dita, nascoste in quei filamenti. 
"Mh.. Bene. Avrai più tempo per rimettere a posto quei vecchi contratti..E' più di un mese che li vedo sulla tua scrivania."
Sapeva perfettamente che lui si stava riferendo a tutt'altro. Phoebe si morse il labbro, posta dinnanzi a quel pensiero che l'aveva assillata per tutti i mesi passati nei quali s'erano frequentati. La paura di una gabbia sembrava essere più potente di qualsiasi altra sensazione quello sguardo profondo le provocasse. 
Poseidon alzò appena la testa, per poterla guardare meglio. La preferiva così, appena sveglia la domenica mattina, senza ombre di trucco pesante a velare una bellezza di cristallo, tanto splendente da sembrare incapace d'infrangersi.
"Potresti farmi compagnia. Sono un disastro con queste cose..." 
Poseidon era maniacale quando si parlava di lavoro. Quella bugia la fece sorridere, e lui si beò di quella luce come fosse stata l'ultimo sorso d'acqua fresca, prima della condanna. O della salvezza. Tutto era concentrato sulle labbra di Phoebe, com'era stato quando le aveva chiesto un'uscita e come sarebbe stato sempre.
Lei indugiò un momento, riflettendo. Poteva cedere, e rischiare che quel rapporto divenisse un'altra prigione, o fuggire, e lasciare che divenisse lentamente ed inesorabilmente insostenibile.
Lo fissò per qualche secondo. Poseidon non avrebbe mai potuto chiuderla in gabbia, pensò. Avrebbe corso insieme a lei, semmai, lasciandosi alle spalle ogni paura, ogni ansia ed ogni pensiero che avrebbe potuto ostacolarli. Avvicinò le labbra al naso di Poseidon, lasciandovi sopra un lieve bacio.
"Voglio la colazione a letto."


Hunters.
Bia cominciava ad inquietarsi, ormai era da più di un'ora che giravano senza sosta intorno allo stesso punto, senza racimolare nulla che potesse sfamarli.
La donna si volse, per controllare che Nereus fosse ancora dietro di lei. Non era una vera e propria paura di perderlo, quanto un velato invito a rompere quel maledetto silenzio che perdurava ormai da ore.
Irrazionale, irrequieta, imprevedibile. Questo intanto pensava lui, il fucile stretto tra le mani e l'aria vigile sempre presente su quel volto dai tratti marcati. Avrebbero dovuto concentrarsi sulla caccia, sullo stramaledetto bisogno di cibo, e di un riparo per la notte. Erano passati soltanto pochi giorni dalla loro fuga, il carcere situato poco lontano dalla regione boscosa ancora dedito ad interrogarsi su com'era possibile che due detenuti fossero riusciti a sfuggire alla loro presa d'acciaio.
Eppure Nereus e Bia erano riusciti in ciò che la metà dei prigionieri sperava accadesse, senza concludere nulla che non fossero vaghi sogni di libertà e vane illusioni di vittoria.
Loro ce l'avevano fatta, ma ora la parte difficile sarebbe stata sopravvivere sino al ciglio della strada, a più di quaranta chilometri di distanza dal punto dove si trovavano. Avevano dormito vicini, la notte prima, e la stranezza di quelle ore era stata per entrambi monito di silenzio, la mattina dopo. Non avevano più parlato, a parte qualche sporadica indicazione buttata lì senza che ve ne fosse bisogno.
Nereus non sentiva il calore di un'altra persona accanto da mesi, così com'anche Bia. Nelle loro anguste celle la solitudine era divenuta routine, e così la presenza di qualcun altro arrivava a turbare l'equilibrio già precario delle loro menti.
Eppure erano rimasti così, la testa di lei contro il petto di lui e la coperta a cercare di proteggerli dal gelo delle notti autunnali. Nessuno dei due s'era mostrato desideroso di quel contatto, sulle prime, e tuttavia il manto notturno li aveva visti restare l'uno contro l'altro, diminuendo lievemente la rigidità dei loro corpi.
Bia scosse la testa, allontanando da sé il pensiero della sua mano appena poggiata sulla schiena, e stringendo appena tra le dita la pistola che avevano rubato dall'armeria. Si accucciò dietro un cespuglio, seguita da Nereus. Un lieve scricchiolare di rami, i loro respiri immobili.
Un cervo dal manto scuro e le corna imponenti brucava tranquillo, senza sospettare del pericolo. Per Nereus fu semplice alzare appena la canna e sparare, colpendolo al centro degli occhi grandi e scuri.
L'uomo sogghignò soddisfatto, mentre lei si avvicinava al cadavere ed estraeva dallo stivale un pugnale sottile.
"Mi dai una mano o preferisci guardare?" Asserì lei, voltandosi e lanciandogli uno sguardo eloquente, prima di affondare la lama nel ventre dell'animale. Dal canto proprio avrebbe preferito starle il più lontano possibile, ma si fece comunque largo tra le fronde sino a raggiungerla e chinarsi davanti all'animale.
"L'ho comunque ucciso io. Non te lo scordare." Asserì cupo, evitando di guardarla. Lei per tutta risposta sollevò il pugnale, puntandole l'estremità sulla guancia ruvida dell'uomo e costringendolo a voltarsi.
Si guardavano come se di lì a qualche istante entrambi potessero prendere fuoco. E nessuno dei due voleva comprendere il perché di quelle sensazioni così esagerate, per due semi sconosciuti.
"Senza di me l'avresti mangiato con tutta la pelle." Sibilò lei, lo sguardo intenso piantato nelle iridi di lui.
Di carne di cervo ne avrebbero avuto abbastanza, un giorno, ma mai si sarebbero stancati di attaccarsi silenziosamente sotto l'ombra degli alberi.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Prisoner and Dance. ***


Prisoner.
Alcyone continuava a battere senza sosta sul vetro della propria teca, immersa in acqua oramai stantia e priva delle correnti gentili che erano solite accarezzarle la pelle lucente. 
Batteva e batteva, e continuava a mostrare i denti perlacei ogni qualvolta un viso ostile s'avvicinava alla superficie trasparente. Che fosse per schernirla o per bearsi della sua bellezza, ella non voleva saperlo. La loro anima sarebbe perita sotto i suoi spergiuri e le sue dannazioni, e il fuoco nel proprio sguardo poco aveva a che fare con il gelo che le pervadeva le membra durante il cammino tortuoso verso la fonte.
Coeus, da sotto il grande cappello, osservava con velata crudeltà la figura sottile della ragazza contorcersi in un moto perpetuo, nonostante fosse in trappola e non avesse possibilità di scampo. Avrebbe ammirato la testardaggine di quelle creature, se non fosse stato troppo impegnato a perorare la sua causa, più importante di ogni altro essere vivente al di sotto di lui.
Nulla esisteva oltre la gloria e l'infinito, per il Capitano della Queen's Anne Revenge. Egli avrebbe avuto ciò per cui aveva strappato anime da corpi e per cui aveva ridisegnato la propria rotta più e più volte. La ricerca della fonte della giovinezza gli sarebbe potuta costare ogni singola vita facente parte il proprio equipaggio, non gl'interessava. Avrebbe ottenuto la vita eterna, e sarebbe stato disposto a pagarne il prezzo.
L'aveva fulminato Alcyone, quando il volto aguzzo del proprio carceriere s'era avvicinato al vetro. Egli aveva sorriso, per poi far vagare il proprio sguardo sulla figura distesa nella teca. La coda s'agitava furiosa, andando a fondersi all'altezza del bacino al ventre piatto della giovane e straordinaria creatura. Alzò una mano, tornando ad ergersi.
"Fermi." Ordinò, portando tutti i volti a girarsi per osservarlo. Egli lanciò uno sguardo alla sirena, ghignando. "Fatela uscire."
Alcyone fu quasi sorpresa da quel gesto, e trovandosi aperta la piccola gabbia di vetro fece per saltare contro uno dei tanti tirapiedi. Sfortunatamente questo si ritirò prima ch'ella potesse agguantarlo, e le mani della sirena toccarono il terreno aspro e grinzoso della foresta.
La giovane mugolò appena, prima di sollevarsi sulle braccia sottili e lasciar saettare il proprio sguardo verso chiunque osasse avvicinarsi, producendo un verso simile ad un sibilo, terribilmente inquietante seppur fosse una fanciulla dall'eterea bellezza a produrlo.
La coda perse di solidità, e si divise in due arti, che presto presero la forma di due gambe nude e snelle; Alcyone fu rapida a serrarle contro il proprio petto, i capelli umidi incollati per metà sul volto dai tratti perfetti.
Fu Coeus stesso il primo a rivolgerglisi, osservandola ghignando e ben nascondendo l'attrazione verso quel corpo dalle forme morbide. "Cammina."
Alcyone non le fece ripetere due volte; l'indomita anima che premeva prepotente nel petto della giovane sirena esigeva riscatto, e tentare di mettersi in piedi per poi saltargli alla gola era ciò che la mente le suggeriva per riuscire nell'intento.
Tuttavia ogni tentativo, ogni passo, ogni spinta sulle proprie gambe non portò a nulla, se non a rovinose cadute. La fanciulla sollevò il viso, il labbro squarciato dall'ultimo urto contro il terreno, lo sguardo felino assottigliato contro la bestia dagli abiti sontuosi che aveva dinnanzi. "Cane crudele." Sputò, senza prestare attenzione ai due mozzi che la sollevavano da terra e la posavano di malagrazia su una barella di fortuna, lanciandole una grezza camicia come copertura.
Coeus s'avvicinò alla giovane distesa, calciando appena la struttura rudimentale di legno e facendo segno al gruppo di proseguire. Camminò accanto a lei qualche tempo, lo sguardo chino sul corpo appena coperto dalla stoffa e il ghigno aperto sulle labbra.
"Come vedi sono un uomo magnanimo. Ti ho dato una possibilità, e non l'hai presa. Piangi quella lacrima per me, e potrei decidere di essere benevolo, come lo sono stato oggi."


Dance.
Strinse maggiormente la presa, aprendo completamente la mano sulla schiena scoperta e portandola alla propria destra, in un movimento fluido.
Erebus non era un uomo solare, né esponeva agli sguardi altrui le proprie passioni, taciute seppur forti e potenti oltre ogni limite. Le freddezza era diventata un'arma da usare, un mezzo per frapporre tra sé e il resto del mondo una gigantesca barriera, da cui nessuno avrebbe potuto scorgere alcunché del proprio cuore avvizzito e gelido.
Nessuno, eccetto lei.
La musica delle viole e dei violini li accompagnava, così come faceva anche con il resto delle persone divise in coppie attorno a loro. Lui la portava con sé, e seppure in apparenza fosse stoico e incredibilmente distante, Nyx sapeva perfettamente che suo marito fremeva sotto la pelle diafana. Fremeva di portarla ancora più vicino di quanto non fosse già, fremeva di scacciare via ognuno di quegli stolti disturbatori pur di averla per sé soltanto, in veste di qualsiasi cosa ella potesse essere per lui: moglie, amante, confidente, vita.
Erebus incastrò il proprio sguardo in quello della compagna, roteando appena sui talloni e portandola a volteggiare, sino a fermarsi contro il suo petto ampio. Nyx sorrise, ad un centimetro dal profilo del marito.
"Questi mesi d'attesa saranno valsi il piacere di riaverti qui?" Chiese, cercando certezze in quegli occhi di ghiaccio, tanto gelidi quanto lo era l'animo che dava loro la vita.
Erebus rispose a quel sorriso, increspando appena le labbra carnose, e lasciando che il busto di lei cadesse nella sua presa forte, trattenendolo con la mano grande posata sulla schiena. Il suo vestito pareva brillare d'una luce oscura, paradossalmente, e l'uomo si beò d'una visione che gli era mancata per intere settimane, e che nonostante fosse votato alla solitudine, il pensiero di lei tornava ogni sera, al calar delle tenebre, ad offuscargli la mente.
La riportò contro di sé, l'altra mano a trattenere la sua all'altezza dei loro visi. Accostò le labbra al suo orecchio, chinandosi appena per raggiungerla.
"E' sempre così, lo sai. Ho mai deluso le tue aspettative?" Rispose, velatamente divertito.
Il suo profumo gli parlava di cose che non vedeva, ma che poteva sentire attraverso di lei. Sentiva il vento freddo e rigenerante delle montagne, il calore del fuoco, la forza d'un corpo florido, che sarebbe appartenuto a lui e lui soltanto.
Nyx si rabbuiò, tuttavia, pensando ai giorni difficili che in quegli anni c'erano stati. La separazione dall'uomo che amava era stata una tortura costante, e non sapeva più se in lui vi fosse semplicemente un ammaliatore e se sentisse il proprio petto lacerarsi sotto i colpi del proprio cuore, come capitava a lei. Poggiò la testa contro il suo petto, ed espirò come dubbiosa riguardo l'ultima affermazione di Erebus.
L'uomo si turbò appena, nel percepire quel silenzio improvviso, guastato solo dal bassissimo vociare degli astanti e dalla musica che melodiosa riempiva l'ambiente. Ne ricercò lo sguardo, l'aria austera e velatamente preoccupata intrisa nelle fattezze serpentine. 
"Ti ho mai delusa?" Chiese, questa volta serio in viso, bloccandosi al centro della pista e sollevandole il mento con due dita. L'eterocromia di quelle iridi che l'avevano stregato anni prima non finiva mai di intrigarlo, e quello sguardo non aveva mai cessato di essere chiaro come l'acqua per lui. 
Nyx lo osservò tanto a fondo da dargli l'impressione che gli stesse scandagliando l'anima. Sentiva che diffidare non era più possibile, non ora che rileggeva in quegli occhi che molti avevano definito vuoti e freddi la stessa passione che aveva animato le loro giornate, prima del periodo difficile che Erebus stava affrontando.
"Se l'ho fatto," riprese, stringendola maggiormente per la vita e osservandola con una sincerità disarmante nello sguardo "pagherò ogni giorno, ogni ora e ogni minuto, se avrò la certezza di averti con me."
Nyx sentì gli occhi inumidirsi, ma lasciò che un semplice sorriso s'aprisse, mentre tornava a muoversi con lui su quella pista, in attesa del momento di perfezione che solamente l'uno con l'altra avrebbero potuto ritrovare.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Goodbye and Freedom. ***


Goodbye.
Astraeus indurì i tratti marcati del volto, arrivando in vista del treno. 
Quello sputo di città non l'aveva mai visto, un mezzo del genere. Sulle montagne era già raro trovare una carovana d'impavidi idioti avventurarsi sul profilo aguzzo, figuriamoci se fosse mai sorto nelle fantasie dei paesani il pensiero d'un treno vero, in ferro e bulloni. Un serpente, capace di destreggiarsi su per quelle alture.
L'uomo aveva storto il naso, sulle prime. Non gradiva cambiare le proprie abitudini, specialmente se potevano portarlo via dalla propria terra natìa, e da lei.
Terpsichore camminava, accostata al suo fianco, e lui non voleva guardarla. Non voleva, perché sapeva che vi avrebbe trovato richieste cui non poteva piegarsi, preghiere che non doveva ascoltare; ed un paio d'occhi tanti profondi da farlo vacillare sulle sue stesse gambe, sicure e forti come sequoie.
Rimase stoico, camminando accanto a lei. Erano una contraddizione vivente, Astraeus e Terspichore.
Lui era dura roccia, modellata dalle tormente e intessuta di forza. Lei era pallida primavera, delicata come un fiore e sottile quanto un giunco. 
Nessuno in quel piccolo paese avrebbe mai creduto che potessero trovare null'altro che incomprensione, l'uno nell'altra. I modi rudi di Astraeus erano capaci di farla arrossire infastidita, e l'innocenza di Terpsichore lo rendeva cieco di rabbia. 
Eppure nelle notti d'inverno non c'era bisogno di parole, quando gli spigoli e le curve di entrambi parevano contrarsi, ed assumere forme che non avrebbero mai creduto di poter creare. Quando lui partiva con le carovane diretto in città per lavoro, lei attendeva paziente il suo ritorno, e sapeva che oltre le montagne lui bramava i suoi capelli biondi.
Ora li teneva legati in una crocchia scomposta, ed Astraeus lanciò loro uno sguardo contrariato. Li preferiva liberi dalle costrizioni, se possibile stretti nelle sue mani callose, indelicate ma dedite a lei più di quanto desse a vedere.
Caricò la propria sacca su un vagone a caso, conscio del fatto che questa volta, per rivedere quel viso, sarebbe stato necessario molto più tempo. Non aveva la minima idea di quando sarebbe tornato, a stento ricordava il nome della sua destinazione.
Un eterno pellegrino, che prima di Terpsichore non aveva mai avuto un motivo per tornare.
Si volse, portandosi dinnanzi a lei. Bella, eppure fredda in quel momento, tanto da dargli l'impressione che la sua partenza non la sfiorasse neppure. Tuttavia, sollevandole il viso, ad egli ed egli soltanto fu concesso di scorgere il brillare d'un velo acquoso sulle iridi azzurre. 
Astraeus sogghignò, a metà tra il divertito e il rassegnato, portando il fragile corpo di lei a cozzare piano contro il suo.
"Le algide donne del nord non dovrebbero piangere." Asserì, portando un pollice a sfiorarle la gota, a raccogliere quel che gli sarebbe rimasto di lei, una volta oltrepassato il confine.
Lei sollevò maggiormente il mento, piantando lo sguardo in quello dell'uomo, e accennando un lieve sorriso velato.
"Gli uomini che stanno per partire non dovrebbero preoccuparsi di queste sciocchezze." Rispose, posando la propria mano su quella di Astraeus.
Lui si perse per un mero attimo in quello sguardo pulito, intaccato di una bellezza eterea e impossibile da dissipare. Posò avido le labbra sulle sue, mentre le ultime grida riempivano la stazione intimando i passeggeri di salire.
Ne custodì il sapore dolce, staccandosi e salendo agile sul treno in partenza.
Terpsichore strinse convulsamente le mani sul grembo, sorridendo mesta alla figura dell'uomo che, nonostante ogni previsione, sapeva sarebbe tornato da lei.
Unica sregolatezza nella sua vita, Astraeus l'avrebbe fatta penare per mesi, forse anni, lasciandola in attesa: ma non sarebbe mai riuscita a dubitare del fatto che un giorno l'avrebbe visto tornare, sul volto l'espressione sprezzante di sempre, e nel cuore mille asperità sotto cui scavare.


Freedom.
Oceanus mirò il proprio riflesso nello specchio, infranto in un punto e usurato in molti altri, esattamente com'era lui.
Sarebbe stata l'ultima volta. L'ultimo sguardo in quella superficie logora, che avrebbe visto altri innumerevoli visi all'interno di quella stanzetta carceraria. 
Vi aveva sprecato interi anni, a contemplare le pareti di freddo cemento che lentamente sembravano occludergli l'aria nei polmoni, la vista, il tatto. Ogni cosa s'era affievolita in lui, sino a renderlo l'ombra che era.
Oceanus sbatté con violenza il pugno contro lo specchio, distruggendolo e rigando di sangue le proprie nocche.
Persino quello spettro si rifiutava di piegarsi, si ritrovò a pensare. Persino quella sagoma che era diventato sembrava capace di infuriarsi, e di lasciare che il proprio impeto cercasse di rinvigorire quanto rimasto di lui.
L'uomo lanciò uno sguardo a terra, osservando i pezzi di specchio gettati alla rinfusa, e senza sprecare altro tempo si voltò, raccolse il borsone in cui aveva racchiuso i pochi vestiti che aveva avuto per quella che gli era parsa una vita intera e prese la porta.
Non lanciò alcuna occhiata alla cella, lasciandosela alle spalle senza nemmeno pensarci. 
Era certo che non sarebbe venuto nessuno. Il suo rilascio avrebbe scaldato ben poche anime, e da quello che sapeva Dione non era in città, in quel periodo. Le avrebbe fatto una sorpresa, e lei come al solito si sarebbe arrampicata sulla sua schiena, facendolo sorridere.
Increspò appena le labbra, prendendo la porta ed uscendo alla luce cocente del sole estivo. Il miglio si stendeva dinnanzi a lui, ma non per portarlo verso il definitivo addio. Procedette calmo, seppur la presa della guardia al suo fianco lo costringesse a indurire la mascella. Fortunatamente, alla fine di quel percorso nella polvere, avrebbe nuovamente spiccato il volo.
A metà strada, oltre le recinzioni, Oceanus vide qualcuno che non si aspettava. Qualcuno che non era mai stato lasciato indietro dalle proprie congetture, ma che tuttavia non si aspettava di trovare ad attenderlo.
Themis incrociò le braccia al petto, l'espressione stoica e altezzosa visibile sin dalla sua posizione. L'uomo nascose la gratitudine verso di lei dietro un sorriso malizioso, chinando il capo.
Lei lo vide sopraggiungere, ticchettando le dita sulle braccia in un moto nervoso. Non sapeva mai dove iniziasse il suo desiderio di prenderlo a pugni e dove finisse il desiderio di perdersi nell'oscurità che quelle iridi cristalline erano capaci di creare. Dall'alto del suo orgoglioso modo di essere, Themis non avrebbe mai confessato il perché fosse andata a prenderlo, a portarselo via sperando di non vederlo mai più scomparire dietro le sbarre di quella vecchia prigione.
Lei stessa era in dubbio. Il fatto che l'amasse al di sopra della propria freddezza, del proprio stupido orgoglio, era una risposta che ancora faticava ad accettare.
Oceanus fu finalmente libero delle manette, e non degnò d'uno sguardo la scorta che l'aveva portato fin lì. l'apertura nella recinzione venne aperta, e sebbene l'aria calda l'avesse già travolto abbastanza, la vista di una Themis così vicina da poter essere toccata gli faceva lo stesso effetto della sbuffata d'un vulcano in pieno viso.
L'uomo uscì, lento, quasi inesorabilmente attratto dalla presenza di lei. Si fermò a meno di un passo, osservandola con un misto di riconoscenza, paura, voglia di non vedere quelle iridi così arrabbiate puntate su di lui. Tutto e niente, racchiuso in uno sguardo che Oceanus non avrebbe mai potuto scordare, nemmeno se avesse trascorso secoli rinchiuso in un loculo.
"Beh, non si saluta?" Chiese, mostrandosi piccato sebbene un sorriso vagamente spavaldo piegasse le sue labbra. Sapeva che lo detestava, quel sorriso. Glielo avrebbe cancellato a suon di schiaffi, pensò, prima che la mano di Themis s'ancorasse alla sua nuca, portandolo a cozzare contro le sue labbra.
Gettò a terra il borsone, e portò le braccia a circondarle la vita, in una lotta tra istinti ed umori tanto simili da cozzare tra loro.
Fu un bacio arrabbiato, delirante, tanto forte da bruciare. Quando si staccarono, Themis rimase per un attimo ad un centimetro dal viso di Oceanus, osservandone i tratti piacenti da vicino.
"Se mi rifai questo scherzo, sarà l'ultimo." Commentò, lasciandolo ed increspando appena le labbra arrossate in un sorriso. Gli diede le spalle, incamminandosi certa che l'avrebbe seguita, così come lei aveva seguito lui e così come avrebbero continuato a fare.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Kitchen and Thrift Shop. ***


Kitchen.
Crios sbuffò, notevolmente infastidito, spostando con mano più delicata del solito il piccolo gatto appropriatosi del suo letto.
L'uomo fece per sollevarsi, posando il peso del busto scoperto sugli avambracci e guardandosi intorno, alla ricerca di una figura ben più piacevole di quella palla di pelo dannata.
Lui le aveva espressamente vietato di mettergli in subbuglio la casa con quel demonietto che si ostinava a chiamare gatto. Il suo appartamento era sacro, e già il fatto che le avesse permesso d'invaderlo era qualcosa di insolito da parte sua.
Crios sogghignò, ricordando con piacere per quale motivo lo aveva permesso. Averla tutte le sere a propria disposizione era un pagamento più che accettabile per un'intrusione nemmeno così involuta come dava a vedere. Nemmeno coi suoi figli era più capace di nascondere quanto quella piccola anima avesse sensibilmente cambiato alcune sue abitudini. Ora era costretto a controllare accuratamente che non girasse mezza nuda per casa, quando Pallas, Perses o Astraeus facevano visita. 
Si sollevò dalla morbidezza delle coperte, senza curarsi di coprire il petto muscoloso e portandosi svogliatamente in corridoio, verso la cucina.
La trovò intenta a cucinare, la bassa statura che non le permetteva di arrivare ai ripiani più alti aiutata dallo sgabello. Crios sogghignò tra sé, avvicinandosi senza fare rumore e sollevandola per la vita fino a farle raggiungere quel barattolo troppo in alto, facendola sobbalzare.
Makaria tuttavia accolse quel piccolo aiuto, sbuffando via dal viso una ciocca di capelli ribelle. Crios percepì sotto le dita la morbidezza della sua pelle, sebbene il tatto gli fosse precluso dal tessuto della camicia che lei gli aveva preso senza permesso. La riportò a terra, concedendosi di restare più del dovuto con le mani sui suoi fianchi, facendole scivolare sul ventre piatto in una sorta d'abbraccio possessivo, che di puro aveva ben poco.
"Giorno." Mugugnò, le labbra vicine all'orecchio tracciarono una linea fino ad immergersi nell'incavo del suo collo. 
"Te l'ho detto mille volte: non toccare le mie camicie." Aggiunse poi, borbottando soffocato sulla sua spalla.
Makaria rise, per tutta risposta, appena arrossita e con le mani strette sul barattolo. Adorava sentirlo borbottare, poteva dire che fosse la sua musica preferita. Era divertente vederlo perdere le staffe pur tentando di mantenere un contegno, contegno che svaniva del tutto quando le mani e le labbra di Makaria lo sfioravano con aria falsamente innocente.
"Ma sono belle le tue camice!" Asserì, divertita, sfuggendo alla sua presa e tornando davanti ai fornelli. Con aria concentrata travasò una piccola parte del contenuto del barattolo sulla padella, creando un piccolo cerchio di pastella. 
Crios la osservò pensieroso, poco distante da lei. Da quando era arrivata, aveva smesso di mangiare roba precotta o take away, ma la sua povera cucina aveva dovuto sopportare gli esperimenti di quello scricciolo. Non che la cosa avesse un'importanza disumana, ma una parte di lui temeva quella dimestichezza, quella naturalezza con la quale s'era abituato a lei in poco tempo, senza che nessuno dei due potesse evitarlo.
La raggiunse di nuovo, osservando il pancake volare dalla padella sul piatto, e accennò un mezzo sorriso nel vederla così entusiasta del proprio lavoro. 
Lei percepiva la sua presenza alle spalle quasi fosse una gabbia, tanto era più imponente di lei. Eppure non si turbò, e lasciò che vegliasse silenzioso com'era quasi sempre. Si domandò quanto tempo ci avrebbe messo per caricarsela in spalla e portarla di nuovo in camera da letto: di solito la mattina non riusciva a stare tranquillo per più di dieci minuti.
E difatti, dopo nemmeno tre pancake riusciti, le mani di Crios tornarono a pretendere attenzione da quel corpo che non poteva evitare di rispondere con entusiasmo a quei tocchi grezzi. Makaria sorrise tra sé, mentre si voltava e se lo ritrovava a poco meno di un palmo dal viso.
"Non te la sporco, la tua adorata camicia." Proferì, schioccando un bacio casto sulle labbra sottili dell'uomo. Lui, per tutta risposta, la sollevò da terra e la posò sull'immenso piano da lavoro, portando i loro visi alla stessa altezza e percependo distintamente le gambe sottili di lei chiudersi intorno al suo bacino.
"Sarà meglio, altrimenti comincerò a farti girare nuda."


Thrift Shop.
"Guarda che carino questo!"
Cassie gridò nella sua direzione, voltandosi e reggendo un esemplare eccezionalmente terribile di pelliccia tigrata. 
Brendan, appena comparso da dietro un espositore particolarmente alto, stava giusto per mostrarle una bella camicia hawaiana con degli elefantini su fondo giallo.
Entrambi si guardarono stupiti un istante, poi scoppiarono a ridere, e s'avviarono l'uno verso l'altro reggendo i capi improbabili.
Non aveva idea di come fossero finiti in un negozio di roba usata. A dire la verità non sapeva nemmeno come fosse finita in compagnia di Brendan, che conosceva solo di vista, e per la reputazione scolastica. I professori non erano molto entusiasti: a voler essere puntigliosi, lo rimbeccavano sempre durante le lezioni, probabilmente perché il ragazzo era portato ad assentarsi con la mente ogni tre per due. Non era arrivata da molto in città, quindi non poteva dire di conoscere davvero qualcuno, ma era sicura che quel ragazzo con gli occhiali squadrati e l'aria solare potesse essere un buon inizio.
Dal canto suo Brendan non si era lamentato quando quella ragazza dai capelli rosso carminio, sbucata dal nulla, aveva deciso di sua spontanea volontà di parlargli. Non sapeva quasi niente di lei, soltanto che era appena arrivata, e che sembrava spaesata quanto lui che invece si trovava in quella benedetta scuola da due anni ormai.
Poi da lì all'invito per un gelato era bastata una mezza mattinata vicini e una punizione di un'ora per aver disturbato la lezione con schiamazzi e risa strozzate. Di solito i suoi compagni di banco tendevano ad essere noiosissimi, a seguire tutti mogi senza nemmeno degnarlo d'uno sguardo. Avere qualcuno capace di divertirsi quanto lui era stata una vera e propria manna dal cielo.
Soltanto che, ovviamente, durante il tragitto avevano perso la strada almeno due o tre volte, troppo impegnati a fantasticare sui loro gusti di gelato preferiti o su quali fossero le saghe fantasy meglio riuscite della storia. L'insegna del negozio era apparsa in fondo alla strada, luminosa solo a metà e un po' vecchia, ed aveva acceso la scintilla della curiosità nelle menti di entrambi.
Sicuramente era un appuntamento tutto particolare, aveva pensato Cassie guardandosi allo specchio: con quel cappellino anni venti calato sul viso accanto a Brendan con addosso la pelliccia tigrata, sembravano i personaggi improbabili di una commedia noir. Rise di gusto, aggiustando il cappello da marinaio sulla testa del ragazzo.
"Questo stava meglio con quella" Disse, indicando la camicia con gli elefantini abbandonata su un ripiano. Brendan si passò una mano sulla nuca, leggermente imbarazzato nel trovarsela tanto vicina. Poteva contare le lunghissime ciglia, e vedere da vicino i tratti delicati del viso della sua nuova amica. Sorridendo in risposta, le infilò un paio di occhiali a fondo di bottiglia verde fluo. "A te il cappellino dona, ma ci vuole un tocco eccentrico."
Scoppiarono a ridere di nuovo, mentre la guardia del negozio li osservava con aria truce dall'angolo in fondo.
Brendan non si curò di lui, la sua attenzione rubata da un cerchietto adorno di fiori bianchi e rosa, che lo rendeva simile a quelle coroncine intrecciate che aveva visto addosso alle sirenette di Peter Pan. Non le diede tempo di ribattere, e rubatole gli accessori la incoronò solennemente col grazioso cerchietto, osservando poi soddisfatto il suo lavoro.
"Così va ancora meglio!" Aveva esclamato, soffermandosi forse un po' troppo sugli occhi di Cassie, piuttosto che sul suo operato. Era più facile del solito distrarsi, se lei era nei paraggi. Si cacciò le mani nelle tasche, l'espressione sorpresa per nulla rassicurante. "Ops."
Voleva comprargliela, ma con suo sommo rammarico aveva perso di nuovo quei pochi soldi che aveva nelle tasche quella stessa mattina. La osservò mutare espressione, ed assumere un'aria interrogativa. Brendan tuttavia non era un tipo troppo riflessivo, e con un gran sorriso stampato in viso, decise di rischiare.
Le prese la mano e corse fuori trascinandosela dietro e senza rendersi conto di avere ancora addosso il cappello da marinaio. Le urla dei vecchi proprietari e la brevissima corsa della guardia giurata a nulla valsero contro le gambe veloci dei due giovani, che tra le risa divertite e il cuore leggero svoltarono al primo incrocio e sparirono.
Non sarebbero mai tornati in quel negozio, ma Bren non avrebbe dimenticato l'espressione di Cassie, quando col fiato mozzo s'erano fermati e gli aveva stampato un bacio sulla guancia.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Dreams and Glass. ***


Dreams.
Phantasos scrutò oltre il vetro della finestra lasciata aperta, puntando lo sguardo nella piccola stanza scura.
Solo la fioca luce d'una candela illuminava l'ambiente, ma il ragazzo era convintissimo che si fosse nascosta lì dentro. Aprì piano la finestra, senza far rumore, e planò silenzioso sul pavimento. I suoi piedi tuttavia non trovarono il duro del marmo, o il liscio del parquet. Un'irregolare morbidezza, che lo costrinse a far caso che, sparsi ovunque sul perimetro della stanza, ci fossero degli indumenti. Assottigliò lo sguardo, abbassandosi e raccogliendo ciò che aveva senza volere pestato. Aveva una forma strana, con due triangoli di stoffa tenuti insieme da dei lacci. Phantasos alzò le spalle, gettandolo di nuovo a terra e dando uno sguardo accurato in giro.
Quella stanza tutto gli pareva tranne che una camera da letto. Il profilo del materasso e dell'armadio si distingueva appena, sotto le decine di abiti e sottovesti sparsi ovunque, e tutto quel caos gli avrebbe dato non pochi problemi a ritrovare ciò che aveva perso.
Si voltò di scatto, percependo la presenza della propria ombra sulla destra, e trovandosela ad appena qualche passo di distanza: il tentativo di nascondersi sotto la poltrona non aveva funzionato, e Phantasos si tuffò per aggrapparsi ad un lembo della sagoma oscura, riuscendo nell'intento.
Smosse non poche cianfrusaglie, e con sguardo atterrito si trovò a lanciare occhiate ovunque, aspettandosi di trovare qualcuno pronto a sgridarlo per il baccano. Certo mica poteva spiegare ad un adulto che stava inseguendo la sua ombra: gli avrebbe detto che doveva tenere più cura delle sue cose e l'avrebbe certamente rimbeccato!
Il giovane non trovò nulla di tutto questo ad attenderlo, tuttavia la sua attenzione fu attratta dalla luce della candela, che si posava delicata su una persona, affondata placidamente nel sonno nel mezzo del proprio letto vaporoso.
Phantasos fu veloce a tirarsi su, le proteste della sua ombra del tutto inutili. La trattenne nella mano, mentre si avvicinava silenzioso al baldacchino, scoprendo il velo che gli rendeva impossibile vedere chi ci fosse addormentato lì dentro. 
Fu con un'espressione rapita che osservò la giovane distesa, assopita e quieta nei suoi bei sogni in cui lui non sapeva ancora come entrare. La bocca spalancata per lo stupore, Phantasos si accostò appena al suo viso, mirando i suoi bei capelli color dell'oro e la sua pelle così chiara da scomparire nel bianco delle coperte.
Sembrava...Una fata! Il ragazzo si perse ad analizzarne i tratti, cercando di trovare un simbolo, un qualcosa che gli confermasse cosa realmente fosse quella bellissima creatura. Se era davvero una fata, forse si stava facendo male alle ali, visto che era sdraiata di schiena...Forse non le aveva più! Un primo pensiero fu quello di sollevarla per controllare, ma l'espressione angelica e così in pace del viso della ragazzina lo dissuase. Non voleva disturbarla, non sarebbe stato carino svegliarla, e come borbottava Spugna quando, addormentato, doveva destarsi per difendersi dai suoi attacchi: "Porta male svegliare un uomo che dorme!"
Così il ragazzo preferì bearsi di quella visione, prendendo a fluttuare sopra di lei, la testa poggiata sugli avambracci e un sorriso sornione stampato in faccia.
La dicitura sulla testiera del letto diceva 'Selene'. Phantasos altalenò lo sguardo da lei alla scritta, e pensò che non sarebbe esistito nome migliore: gli piaceva come suonava nella sua mente, e ancor di più adorava posarlo idealmente su di lei. 
Preso dalla situazione, sentì forte l'impulso di renderla una cosa sua, che nessun altro avrebbe potuto avere al posto suo. Phantasos era abbastanza possessivo con le sue cose, e soprattutto non aveva mai avuto una cosa così bella in vita sua! Si sporse, piano, fino a sfiorarle col naso la guancia morbida. Posò un bacio sulla pelle morbida, prima di saettare fuori, ridendo divertito e felice della sua nuova cosa preferita.
Selene si svegliò, puntando il piccolo pugnale che le aveva dato la mamma per protezione nell'aria. Si guardò intorno, ormai sveglia e abbastanza confusa. Aveva sognato che c'era un ragazzino, con un viso squadrato e due begl'occhi che la guardavano sognanti. E aveva sentito come una piuma sul viso.
Si strofinò la guancia, prima di notare la finestra lasciata spalancata. La ragazzina corse a piedi nudi sino al davanzale, e notò una sagoma volare nel cielo, sino a scomparire dietro una stella. Allora...non era un sogno!
Strabuzzò lo sguardo, sorridendo tuttavia della propria fortuna; un giorno ci avrebbe parlato, si ripromise, e da quella sera continuò a lasciare la finestra aperta, di modo che il proprio amico dal cielo potesse farle visita ogni qualvolta volesse.

Glass.
"Attenta alla testa qui" Disse, trattenendo la sua mano nella propria.
Come primo approccio sarebbe sembrato poco ortodosso e sicuramente di scarso effetto, ma Eris non aveva esitato a seguirlo nei sotterranei del vecchio ospedale, proprio sotto le sale caldaie. Dionysus sembrava davvero convinto di quello che stava facendo, e sebbene i suoi dubbi fossero ancora vividi nella sua mente, alzando gli occhi al cielo si era accostata a lui, ed ora lo seguiva nei meandri oscuri al di sotto delle stanze ospedaliere.
Un luogo che aveva sempre rifuggito, Eris, forse per allontanarsi da qualsivoglia debolezza potesse sfiorare la sua pelle. L'ultima epidemia non aveva lasciato molti superstiti, e persino alcuni tra i suoi fratelli erano rimasti colpiti dalla mano insinuante della difterite. Meno vedeva quelle finestre spoglie, meno si accostava a quei letti d'ospedale, più poteva fingere che nulla potesse toccare quella corazza di titanio che s'era costruita intorno.
Tuttavia Dionysus sembrava immune all'aria algida e distaccata che la giovane ostentava così tanto, e con una semplicità disarmante sembrava riuscire a far cadere ogni sua convinzione.
Se fosse complice la faccia da schiaffi, oppure la dedizione con la quale i suoi occhi si soffermavano sul suo viso, Eris non avrebbe saputo dirlo.
"Ci siamo quasi, eh, non disperare" Aggiunse lui, ironico, voltandosi per accertarsi di avere ancora la sua attenzione. La donna alzò gli occhi al cielo, domandandosi cosa potesse avere in mente da farla sprofondare nelle terrose vie dei sotterranei, tra tubature e aria di chiuso.
Era impossibile smorzare l'entusiasmo dell'uomo, ed era altrettanto impossibile non lasciarsi coinvolgere da esso. A volte Eris lo guardava convinta di avere davanti un ragazzo, piuttosto che un adulto. Eppure lei aveva visto ben più di un semplice scavezzacollo dietro quegli occhi brillanti, così come lui non s'era fermato davanti alla diffidenza di lei. Era uno scoprirsi, uno scavare sempre più a fondo nell'uno e nell'altra, con la consapevolezza sempre maggiore che ciò che lo sguardo carpiva non era sufficiente a definire due anime come le loro.
Ad Eris sembrava di camminare da ore, la schiena appena incurvata per non sbattere la testa contro le tubature in alto, quando finalmente s'aprì uno spiazzo davanti a loro. La stanza era appena più grande degli ambienti da dove erano passati, sebbene fosse ugualmente angusta e scavata nella terra. Una piccola apertura dava sulla strada, da cui la luce del tramonto filtrava abbondante in quel momento, complice la posizione favorevole del sole. Un mucchio di bottiglie rotte dai vari colori giaceva a terra, uniche presenze all'interno dell'altrimenti vuota stanzetta.
A Dionysus non sarebbe servito altro.
"Posso chiederti a cosa avevi pensato? Sinceramente?" Chiese lei, a metà tra il sospettoso e il divertito. Era oltremodo diffidente, questo sì, ma stranamente provava una fiducia priva di logica nei confronti di quello sprovveduto. Dionysus la prese per le spalle e la posizionò proprio sotto la finestrella, di modo che la visuale fosse perfetta. 
"Oh, vedrai." Disse, prima di assumere un'aria vagamente cospiratoria. 
"Io ho per le mani l'Aurora Boreale, sai? Devi solo avere un minimo di immaginazione. Il sole" Asserì, indicando l'apertura con un gesto del mento e sorridendo con fare affabile, andando verso le bottiglie. Le spostò sino a farle incontrare con i raggi dorati, alzando poi il viso su di lei. "Le calotte polari..."
"Calotte polari? Ma sono solo pezzi di vetro rotti" Affermò Eris, arcuando un sopracciglio e trattenendo una risata. 
Dionysus non le diede tempo, tuttavia, di proporgli altre obiezioni togliendosi da davanti il mucchio di bottiglie. "E, lì a Nord..."
La luce s'abbatté con innaturale delicatezza sulla parete di fronte a loro. La giovane rimase a bocca aperta, soffermandosi con lo sguardo sulle sfumature che aveva assunto infrangendosi contro la superficie colorata delle bottiglie rotte. Lui le aveva regalato l'Aurora, ed Eris si sentì colta da una sensazione di meraviglia tale da lasciarsi sfuggire di mano la maschera ironica che aveva sempre tenuto con sé.
"E' bellissima...." Aggiunse, portando le dita a giocare con i fasci di luce e col loro riflesso contro la parete.
Dionysus restò al suo fianco, appena dietro di lei, perso nelle pieghe che non aveva mai visto in quello sguardo, ma che tuttavia sapeva c'erano sotto la sua corazza. Le strinse le dita della mano libera, ignorando bellamente la sua creazione per mirare qualcosa di più perfetto dell'Aurora Boreale stessa.
"Si....è bellissima."

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Church and Warrior. ***


Church.
I lunghi capelli rossi dondolavano sconnessi nella folle corsa, mentre la ragazza saettava tra la folla cercando di scappare dalla presa del giudice, ridendo tuttavia dell'idiozia dei suoi sottoposti.
La cristallina risata della giovane vibrava spensierata, quasi estraniata dalla situazione caotica che s'era sviluppata intorno a lei. La gente tuttavia si spostava al suo sopraggiungere, agevolando il passaggio di quella giovane gitana dai capelli di fuoco e dalle movenze ammalianti. In più d'uno aveva dato voce alle proprie voglie perverse riguardo quel corpo formoso, additandola come una strega per averli resi schiavi di quella bellezza, ma ella non si curava di quei paranoici, fintanto che la strada e buona parte della folla le offrivano qualcosa.
La sua visuale raggiunse il profilo mastodontico di Notre Dame, e l'idea che aveva già sfiorato la sua mente prese del tutto forma, invitandola a procedere nascosta tra la folla sino a raggiungere i grandi portoni intagliati nel legno e nel ferro. Provò una lieve sorta di timore nel percepire la cattedrale sopra di sé, immensa e gigantesca da poterla inghiottire. Non le piaceva l'idea di chiudersi lì dentro, di non poter più saggiare il vento che liberamente scompigliava i suoi capelli e muoveva la lunga gonna, non le piaceva che il proprio spirito selvaggio potesse essere trattenuto da quella costruzione. Eppure, risoluta come solo Artemis poteva essere, varcò la soglia, chiudendosela alle spalle.
Contrariamente a fuori, nella grande chiesa non un'anima sembrava sostare. I suoi sospiri riempivano l'aria immobile, e i suoi passi risuonarono lievi lungo le pareti di pietra.
Il suo sguardo si perse un attimo sugli altissimi soffitti, le cui volte a tutto sesto sembravano sospese nell'ombra. Mosse qualche passo verso la navata centrale, prima di percepire i propri sensi all'erta. La vita di strada non toglieva nulla, piuttosto regalava ed elargiva consigli che i gran signori avrebbero solo sognato per tutta la loro insulsa e ricca vita. 
Fu un attimo: le bastò afferrare un candelabro in ferro alto quanto lei e fendere l'aria voltandosi, prima d'incontrare la causa di quel respiro che aveva sentito proprio alle spalle.
L'uomo aveva evitato l'arma di fortuna quasi per miracolo, balzando indietro d'un passo. Ora la guardava impassibile, mentre le candele ormai spente gli sfioravano la leggera barba incolta. La scintillante tenuta militare poco spazio lasciava alla fantasia di Artemis, che rinvigorì la presa sul candelabro e lo fissò, il mento alzato nonostante la statura non le concedesse vantaggio.
"Stai calma, dammi la possibilità di scusarmi..." Asserì, in tono vagamente contrito. Artemis assottigliò lo sguardo, rivolgendosi rabbiosa al capitano delle guardie. "Scusa per cosa?"
Per tutta risposta egli le scastrò di mano il ferroso oggetto, facendola sbilanciare e portandola a cadere sul pavimento freddo. "Per questo, per esempio." Commentò, un sorriso vagamente sornione sul volto.
Lei quasi ringhiò per quell'affronto, e fu rapida a brandire un secondo candeliere, colpendolo in pieno viso.
L'uomo si prese la tempia con la mano, la testa colpita da quel tocco decisamente poco delicato. "Touché, i-OH!"
Si piegò in due, constatando con suo abbastanza sommo dolore la presenza di qualcun altro in quella cattedrale. Sollevò lo sguardo su di lei, tossicchiando appena ed ergendosi di nuovo.
"Non avevo visto la capretta."
"Non le sono simpatici i soldati." Sputò lei, l'aria indomita e sprezzante quasi al pari di quella sul volto dell'uomo, che nonostante tutto manteneva una sorta di ghigno sul viso piacente.
"Si, ho notato. Comunque, permettimi: sono Apollo. Per gli amici Dio Sole." Asserì, vagamente ironico -nemmeno lui era così vanaglorioso da presentarsi in quel modo davvero, tuttavia le sue capacità non potevano essere messe in dubbio. Lei alzò elegante un sopracciglio, mentre lui riprendeva.
"Hai creato un gran trambusto là fuori...come ti chiami?" Il suo tono era a metà tra lo sprezzo e l'ammirazione, tra l'arroganza ed il sincero interesse. Artemis fu costretta ad aggrottare la fronte.
"Che t'importa di come mi chiamo? Non vuoi arrestarmi?" Chiese, sospettosa e diffidente. Lui quasi rise di quell'affermazione, puntando lo sguardo negli occhi dardeggianti della giovane. 
"Non finché sei qui." Disse, indicando col mento la cattedrale, scenario di quell'incontro dalle sfumature violente, eppure curiosamente singolare. Lo attraeva pur nella sua sprezzante insolenza, forse perché gli ricordava il fuoco scoppiettante d'un camino, o la tempesta estiva, forte e incapace d'essere domata.
Lei abbassò appena il candelabro, inclinando la testa e guardando quei tratti piacenti, di cui sentiva di non potersi fidare del tutto, ma che avevano lo strano potere di farle dubitare di una delle poche certezze che aveva: tenersi lontani dalle guardie del giudice.
"Artemis." Asserì, convincendosi a posare il candelabro e lasciando penzolare le braccia davanti al proprio grembo, incerta. "Non somigli agli altri soldati."
Apollo questa volta rise, facendosi vicino di un passo solamente, e percependo nella propria mente il singolare suono di quel nome particolare. "E tu batti bene quasi quanto un uomo."
Lei sollevò lo sguardo, ghignando e puntandolo nel suo. "Stavo per dire la stessa cosa riguardo a te."


Warrior.
"Ehi, ehm...dov'è che ci si arruola?? Ah, anche tu con la spada eh? Ce l'ho qui anch'io! Queste sono cose da...da....OH!"
Clarice tentò di estrarre la spada dal fodero per un paio di volte senza risultati, prima che questa saettasse fuori e le sfuggisse di mano. Nel tentativo di trattenerla s'aggrappò all'elsa e l'arma, pesante com'era, finì per trascinarsela dietro, facendola piegare in due. La ragazza sbuffò esasperata, cadendo di peso seduta a gambe incrociate sull'erba morbida. Ci sarebbe voluto un miracolo per renderla credibile come soldato. Persino il suo stesso cavallo sembrava non temerla con quella lama in mano, e continuava a guardarla curioso e a brucare indisturbato.
La giovane tornò a raddrizzarsi, e prese a spolverare con la mano la corazza che aveva sul petto. Come poteva pensare che sarebbe durata un solo giorno? Cosa le era venuto in mente?
Osservò il proprio riflesso nel piccolo stagno della radura dove aveva sostato, riconoscendo sotto la polvere che le macchiava il viso e quei capelli troppo corti sempre la stessa persona, la stessa ragazza che aveva fatto un grosso sbaglio ad allontanarsi da casa sua.
Se avesse ammesso di non volerlo fare, Clarice avrebbe mentito a sé stessa. Se avesse detto di non tenere alla propria famiglia tanto da sacrificare sé stessa pur di salvarla, avrebbe mentito. Lei era partita sapendo di andare incontro a qualcosa di troppo grande, troppo spaventoso perché una come lei potesse saperlo gestire.
Eppure l'aveva fatto. Cosa avesse spinto le sue azioni lo sapeva benissimo, lo vedeva riflesso in quello stesso momento negli occhi dei ragazzi che incrociava, finalmente scesa al campo e giunta tra le spire del proprio destino.
Sentiva d'essere inadatta a qualsiasi attitudine le comparisse davanti agli occhi. Non era stata una buona donna per la mezzana, ed era fin troppo palese che non potesse essere all'altezza delle armi come lo erano gli uomini. Tuttavia la vita di suo padre qualcosa valeva, e se lei doveva compiere una follia, l'avrebbe fatto pur avendo la testa piena di giudizi contro sé stessa. 
Persino con gli altri membri dell'esercito sembrava avere problemi. La voce più o meno sapeva camuffarla, ma in quanto a modi...
Aveva visto qualche ragazzo in città salutarsi con i pugno, ed aveva ben pensato che potesse essere una buona idea rompere il ghiaccio assestandone uno mediamente forte sul viso di uno tra i più tozzi. Aveva sentito le nocche scricchiolare, ma sperava di aver dato l'impressione di essere un tipo affabile.
Questo prima della sua corsa maldestra per sfuggire alla presa del tizio cui aveva dato il proprio saluto. Corsa che si era inesorabilmente interrotta quando sotto i suoi piedi era capitata una fila di persone in attesa del pranzo che era stata capace di far cadere una dopo l'altra dietro il suo passo malfermo in mezzo a loro.
La cosa stava prendendo un'aria vagamente seria, ora che tutti se la stavano prendendo con tutti, quando nel caos generale una voce risuonò su tutte. Da sotto le proprie mani Clarice intuì che si trattava di un ragazzo, nonostante il suo tono mascherasse una certa autorità. Non udì ciò che chiese, ma allargando appena l'indice e il medio si scoprì accerchiata, con la figura di un giovane a sovrastarla.
Fece per alzarsi, incespicando prima di mettersi dritta e tentare di levarsi i chicchi di riso dai capelli. Osservò col viso basso il ragazzo di fronte a sé; doveva avere massimo ventitré anni, non molti anni in più rispetto a lei. La osservava con aria dubbiosa, le mani dietro la schiena e il busto rigido di chi è fin troppo sicuro di quello che è il suo compito.
Victor strinse le mani, come aveva visto fare a suo padre anni prima, alzando un sopracciglio di fronte alla recluta che gli altri ritenevano responsabile di quel disastro. S'avvicinò d'un passo a quello strambo ragazzo, puntando lo sguardo negli occhi titubanti. Doveva essere all'altezza e dimostrare ai propri superiori che era un buon leader, e se per farlo doveva imporsi a quel modo, tanto valeva farlo bene.
"Fammi vedere l'avviso di arruolamento." Chiese imperioso. Prendendo dalle sue mani la pergamena tuttavia, si lasciò sfuggire un'espressione confusa. 
"McAdams. Quel McAdams?" Domandò poi, mentre il ragazzo dai capelli rossi accenna un lieve sorriso ostentando sicurezza. "Non sapevo avesse un figlio."
"Ah, ehm, si, sono suo figlio ma lui non parla moltissimo di me" Asserì lei, cercando invano di apparire un vero uomo e provando a sputare. Il risultato penzolante dalle sue labbra lasciò ancor più confuso il ragazzo. Questi scosse la testa, rivolgendosi agli altri e tuttavia non abbandonando il profilo di Clarice.
"Bene signori, ringraziate McAdams perché passerete la nottata a raccogliere ogni singolo chicco di riso.
E domani comincerà il vero lavoro."
Clarice osservò la figura del capitano sparire oltre l'ingresso della tenda. Forse, pensò mentre constatava che bel di dietro avesse, doveva lavorare meglio sui rapporti sociali.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Space and Lullaby. ***


Space.
Phobos era sinceramente colpito.
Non poteva pensare che quella ragazzina alta la metà di lui potesse essere sergente dell'aeronautica, o ufficiale, qualunque fosse il dannato ruolo che ricopriva all'interno di quell'incubo che conosceva come N.A.S.A.. 
La osservava mentre spiegava loro qualcosa che non stava seriamente ascoltando, non quando colei che cercava di prepararli ad una missione suicida era così dannatamente carina.
Non arrivava nulla alle sue orecchie, se non i commenti dei suoi degni compari riguardo a quelle natiche sode rinchiuse in quella dannata tuta troppo larga perché si potesse sopportare. 
Da quando avevano accettato quell'offerta al limite del disumano, Phobos aveva incominciato a spegnersi sempre più profondamente. La prospettiva della morte sembrava sì accenderlo d'eccitazione, ma anche gettarlo in un baratro di ma e di se cui credeva di non poter dare risposta prima della fine.
Svagarsi come poteva era l'unico mezzo con cui la disperazione sembrava poter essere rimandata, scostata dalla propria mente come il leone con la iena. Peccato che le iene tornano sempre, laddove c'è odore di carcassa.
Tuttavia quel genere di intrattenimenti era sempre ben gradito all'uomo, amante delle donne quasi quanto della vita. E quella donna era sicuramente una tra le più attraenti che avessero preso il proprio interesse. E fu con una gomitata rivolta a Bear, imponente accanto a lui, che palesò quell'interesse.
"Vorrei essere collaudato anch'io." Sussurrò, notando con aria divertita lo sguardo minaccioso della ragazza verso di lui. Nella grande capsula ove venivano svolti i test di gravità sembrava persino più minuta, più sottile di quanto non apparisse all'aria aperta, quando il vento che spazzava la campagna piatta e smorta intorno a loro le arruffava i capelli, rendendola più selvaggia di quanto già non desse a vedere.
"Phobos." La voce acuta ed imperiosa della ragazzina lo raggiunse, ed egli abbassò il mento, ghignando.
"Sì?"
Lei fece qualche passo, le mani serrate dietro la schiena. "Stavo spiegando come far restare il tuo culo attaccato alla navicella. Ti stai annoiando, per caso?"
Lo guardava con astio, le labbra serrate in un'espressione piccata di disappunto. Lyra si fermò esattamente davanti a lui, il mento sollevato a mostrare una sicurezza impavida, oltre a facilitarle il compito di fissarlo negli occhi.
Era dannatamente alto, e questo la infastidiva ancor di più. Molti avevano avuto da ridire, in merito d'una ragazzina che aveva conquistato letteralmente in cinque anni una carica piuttosto buona, in una società del genere. In molti avevano storto il muso, e a quei molti ella aveva dato una mano a raddrizzarlo, a suon di parole o, eventualmente, di pugni.
Non gli diede modo di rispondere, incalzandolo con aria angelica.
"Perché se ti dessi un calcio nelle palle," Iniziò, seguita da versi e sussurri di vaga sorpresa da parte dei suoi degni compari che avevano scelto di partecipare a quella missione di vitale importanza. "Cosa ti succederebbe?"
Phobos abbassò lo sguardo su di lei, puntandolo nelle iridi accese di fastidio. Erano troppo belle perché potesse davvero preoccuparsi di quello che gli stava rinfacciando. Comunque, per quieto vivere, decise di apparire il meno sfacciato possibile, e di rimangiarsi i commenti che avrebbe tanto voluto sbatterle in faccia.
"Fluttuerei via, credo." Asserì, piegandosi di qualche centimetro in avanti e osservandola ancora più da vicino. Non gli sfuggì il lieve rossore che colorò le guance della ragazza, e le proprie labbra si piegarono in uno sghembo e sottile sorriso.
Lyra s'aggiustò la tuta, fulminandolo con lo sguardo e maledicendosi per avergli mostrato il lievissimo effetto che i suoi occhi avevano su di lei. 
"Perfetto. Quindi se non vuoi una dimostrazione pratica, taci."
Si mosse veloce per scostarsi dall'uomo, tornando ad esporre il piano riguardante gli spostamenti senza gravità. Non avrebbe mai ammesso che, per un attimo, avrebbe voluto schiaffeggiarlo davanti a tutti.
Come una donnetta delle telenovelas. Che schifo. Lyra non era tipa da smancerie, né da tremori vari, nemmeno se procurati da un volto dannatamente piacevole e schifosamente attraente quanto lo era quello di Phobos.


Lullaby.
Ceto rigirò tra le proprie dita il ciondolo d'argento, così piccolo nei suoi palmi da sembrare misero.
Eppure il metallo scintillante con cui era stato forgiato era prezioso, prezioso come solo un ricordo può essere e come solo un sentimento può divenire.
L'uomo distolse lo sguardo dalla superficie ruvida del pendaglio, discostandolo dalla forma che troppo tempo aveva mirato nella speranza di ritrovare la propria pace in quegli spigoli irregolari e in quella patina argentea. Troppo a lungo aveva bramato colei le cui dita affusolate l'avevano stretto, prima di donarglielo come pegno di un'amore bruciante quanto l'inferno stesso.
Ceto s'alzò in un improvviso moto di rabbia dal proprio scranno, evitando lo specchio rotto posto nella sua stanza. Non voleva ricordare a sé stesso fin dove la maledizione del proprio cuore, riposto a miglia e miglia di distanza sotto una volta sabbiosa, lo aveva spinto. Fin dove la sua anima era arrivata a dannarsi in merito di un'amore impossibile, che gli veniva concesso una volta soltanto ogni dieci anni.
Prese il corridoio, ignorando le povere anime che si trascinavano a bordo mugolando e bestemmiando contro la libertà perduta per sempre. Veloce si mosse sulle assi di legno logoro della nave, casa sua ormai da tanto tempo che nella memoria una vita passata non c'era nemmeno più.
Il volto di lei pareva sovvenirgli ad ogni passo, ogni svolta, ogni cenno che rivolgeva ai propri sottoposti. Non v'era mai stata pace in lui, mai la quiete aveva abbracciato le membra stanche del capitano dell'Olandese. Irrequieto e furioso egli s'aggirava, raramente e per poco tempo per gli ambienti della nave che non fossero la propria stanza e la sala dell'organo, dove le sue gambe lo stavano trascinando.
Come un richiamo, i tasti dello strumento sembravano sortire l'effetto di un ricordo, di una memoria passata che ogni decennio si ripeteva, tornava a vivere e a rinnovarsi del calore del sentimento.
Eurybia era lontana, e il carillion era la sola cosa che la teneva legato a lui, quel motivo lento e malinconico l'unico appiglio cui la mente sull'orlo dell'oblio poteva aggrapparsi. Sentiva nella propria testa la sua voce colma di gentilezza, le sue membra pallide strette dalle mani troppo ruvide che possedeva. Si guardò i polpastrelli, la pelle indurita dai calli sembrava volgergli concedere di percepirla di nuovo addosso a sé, vincolata da un cuore estraneo al proprio petto che tuttavia ne reclamava le attenzioni con famelica bramosia.
Varcò la soglia della sala, spoglia e semplice, e la serrò a doppia mandata. Mosse qualche passo, trovando lo sgabello e sedendosi davanti all'imponente strumento. Soverchiava l'intera stanza, ed era l'unico oggetto che ne riempisse lo spazio. Posò le grandi mani sui tasti, sfiorandoli solamente. Lasciò il ciondolo sul ripiano accanto, aprendolo e caricandolo.
La melodia risuonò debolmente, arrivando appena alle sue orecchie. Tuttavia l'avvolse completamente, in un mutevole abbraccio di note e sensazioni che si ritrovava ad odiare, perché lontane dalla cura che spettava loro. La cura della sua donna, le carezze amabili in netto contrasto con la gelida presenza di Ceto, le morbide curve in contrasto con le asperità del proprio animo. 
Suonava, Ceto, dimenticando quanto dannato e maledetto fosse il proprio cuore, e innalzando il proprio silente messaggio alla donna che amava, che oltre gli oceani sempre in ascolto era, sempre in attesa del suo ritorno. La contrizione delle proprie espressioni tradivano una debolezza, una fragilità che in lui non era possibile trovare altrove, che portava un solo nome, e che sempre sarebbe appartenuta a lei e lei soltanto.
Eurybia era convinta di udirlo, qualche volta, nella profondità della foresta dove aveva trovato la propria dimora, lontana da ogni vita presente su quella terra. Gli uomini si rivolgevano a lei in nome dei loro problemi e dei loro malanni, sperando di trovare in colei che si presentava come una strega la soluzione ai propri peccati.
Eppure ella d'un solo peccato riusciva a rammaricarsi, a far sì che il proprio cuore divenisse inconsistente, dissolto nelle fiamme del legame con Ceto. 
Ella cantava la loro nenia, sicura che, oltre il filo dell'orizzonte, lui suonasse per lei, disperandosi quanto lei dinnanzi alla propria dolce condanna.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Shadows and Lessons. ***


Shadows.
Camminava tranquilla, nonostante la luce smorzata dei lampioni lasciasse cadere sul marciapiede ombre e sagome inquietanti, intervallate dai cerchi aranciati del debole getto luminoso. 
La notte non l'aveva mai spaventata davvero. L'inquietudine iniziale aveva lasciato posto alla familiarità, all'abitudine che la lieve stretta allo stomaco rappresentava ormai da troppo tempo perché potesse ricordare di preciso quando aveva smesso di preoccuparsi.
Forse quel momento risaliva solamente a qualche mese fa, forse addirittura qualche anno. E Myra non riuscì a scomporsi nemmeno quando la figura imponente di un uomo irruppe della sua visuale, senza darle la possibilità di oltrepassarlo.
Fermò la sua camminata veloce, probabilmente nervosa, e sollevò lo sguardo vagamente indurito sul viso squadrato: se lo aspettava, sebbene fosse quasi impossibile prevedere le mosse di Crixus con precisione. 
Tuttavia Myra era più che convinta di aver cominciato a capire il funzionamento di quella macchina inesorabile e crudele, all'apparenza priva di sentimenti.
"Che cosa vuoi." Proferì, il tono alla ricerca di una indifferenza che tuttavia non avrebbe mai potuto mostrargli. 
Lei, al contrario di lui, non era mai stata incomprensibile per quel paio d'occhi freddi come il ghiaccio. 
"Spiegami perché." Crixus dall'alto della sua statura si sentiva un gigante rispetto alla figura minuta di lei. 
Eppure sotto il suo sguardo quella sensazione non durava che un mero attimo, un battito di ciglia. Un fugace momento, e tornava ad essere un semplice ragazzo, nulla più di un teppistello da quattro soldi. Questo si sentiva, quando a fissarlo con aria grave erano gli occhi di Myra: sinceri, ripuliti, in qualche modo persino premurosi nei suoi confronti. Lui, che di premure non ne aveva vista nemmeno una durante la sua vita, si trovava spiazzato, senza sapere come prendere un tale dono. 
Myra sbuffò, facendo per superarlo e continuare a camminare. "Non c'è nulla da spiegare. Ho chiuso con il clan, nient'altro." 
Crixus fu rapido ad afferrarle il braccio, stringendo appena la pelle lasciata scoperta dalla canotta. Dio, odiava vederla girare a quel modo durante la notte. Non erano state rare le litigate, per quello stupido particolare, che tuttavia agli occhi del giovane continuava ad apparire allarmante. Pensare alle mani di quei coglioni della zona ovest sulla pelle pallida di Myra poteva arrivare a farlo impazzire, portandolo a rompere qualche zigomo fuori dai pub più malfamati della zona.
"Cos'è, cerchi redenzione?" Chiese, duro e inflessibile, non accennando a volerla lasciare. Myra dal canto proprio non sapeva cosa volesse dire la propria scelta. Da una parte l'effimera illusione della forza che il gruppo le aveva dato, e la sicurezza delle braccia di Crixus. Dall'altra un mondo diverso dalla miseria e dalla violenza in cui s'era costretta a vivere, un mondo dove avrebbe potuto davvero combinare qualcosa, oltre che minacciare con un dannato coltello i primi che gli capitavano a tiro. 
"Perché non vuoi capire?? Mi sono stufata. Sono esausta. Voglio una vita vera."
Crixus invece la capiva, cazzo se la capiva. Non era sicuro, però, di sentirsi degno di qualcosa del genere. Nel suo mondo era Dio. La fuori non era che un ragazzo. Nella vita vera, le cadute non spaccavano semplicemente il labbro, né causavano ferite superficiali. Nella vita vera c'era molta posta in gioco. Non sapeva se era disposto a cedere così tanto. 
Lei sarebbe stata una ragione valida. Ne sarebbe valsa la pena, se lei non lo avesse lasciato. I dubbi di Crixus tuttavia non avrebbero trovato risposta quella sera, perché l'orgoglio è duro da buttare giù, e lui di orgoglio se ne riempiva i polmoni ad ogni boccata d'aria.
La lasciò andare, allontanandosi di un passo e fissandola. "Forse non capisco davvero."Non le avrebbe lasciato altro, per quel momento, ma sapeva che il richiamo della sua luce l'avrebbe cercato nelle bettole, nei locali, fin dentro il suo letto. 
La verità di Myra l'avrebbe ancorato a lei, e Crixus avrebbe dovuto fare i conti con le proprie insulse difese, e decidere.
Decidere se, per lei, sarebbe stato disposto ad adattarsi all'ignoto.


Lessons.
Il ragazzo sbuffò via dalla fronte un ricciolo ribelle, uno dei tanti caduti ad incorniciargli l'ovale squadrato e l'aura giovanile eclissata parzialmente dall'avvento della maturità. 
Si raddrizzò, seguendo con lo sguardo l'ondeggiante andatura di Tethys, e stando bene attento a fingersi parecchio provato dalla mancata comprensione di quel ballo che la donna si apprestava ad insegnargli.
Lei dal canto proprio rise sommessa, voltandosi dopo aver spento lo stereo e trovando il faccino turbato di Damian ad attenderla qualche metro più in là. Era credibile quanto la neve in agosto, eppure lasciò che quel gioco continuasse, arcuando elegantemente un sopracciglio e sporgendo il labbro inferiore all'infuori.
"Oh, non crucciarti caro. E' questione di allenamento." Asserì divertita, portandosi di nuovo davanti al ragazzo e portando la sua mano a posarsi sulla schiena minuta, senza staccargli gli occhi di dosso un solo istante.
Damian dal canto suo non obiettò minimamente, ed anzi si fece più vicino, tanto da portare i loro bacini a cozzare e i loro petti a scontrarsi. 
"Spazio vitale" Cantilenò lei, spingendolo suo malgrado qualche centimetro indietro, ridendo della bramosia che lo sguardo del giovane le dimostrava ogni secondo in cui aveva la fortuna di specchiarvisi.
Mai avrebbe detto che l'insegnante si sarebbe potuta invaghire di un proprio allievo, prima della comparsa dei boccoli bruni e della faccia da schiaffi di Damian alla porta della propria aula di danza. Avevano un modo di stringersi che superava di molto i limiti del ballo, nonostante per il tango e i balli latini fosse necessaria un po' di chimica, per far sì che le movenze risultassero vere e sentite.
Tethys non ricordava di essere mai stata guardata a quel modo da nessuno, nemmeno dal suo ex marito. Scaldò la voce, mordendosi le labbra e notando con una punta di divertimento la cedevolezza delle voglie di Damian davanti a quel gesto. Troppe volte l'aveva fregato solamente prendendo tra i denti perfetti il labbro inferiore, e il ragazzo cominciava a pensare che forse quell'attrazione cominciava ad essere più forte di quanto sapesse gestire. Tuttavia non gli dispiaceva affatto.
"Il passo è un-due-tre, un-due-tre, non un-due, un-due" Spiegò lei col solito tono tranquillo, quella quiete nello sguardo che Damian aveva sempre cercato di mantenere tale e che rarissime volte aveva visto incrinarsi. Provocare gli era sempre piaciuto, e vederla tremare di rabbia o di piacere era qualcosa che lo galvanizzava, ma che tuttavia non bastava a renderlo sicuro che lei fosse sua e sua soltanto. Aveva cominciato ad aver bisogno d'altro, di qualcosa di più di un semplice tremolio di gambe che era capace di creare in molte delle ragazze cui aveva fatto battere il cuore.
Gli incontro occasionali, chiusi nella palestra adiacente all'aula di danza, a sfiorarsi avidi e ciechi nel buio della segretezza che s'erano costretti a mantenere sino ad allora non bastavano più.
Senza preavviso si bloccò nel mezzo del ballo silenzioso che si apprestavano a provare, e sollevò con una mano il mento di Tethys sino a ritrovarsi i grandi occhi cerulei davanti, disarmati e alquanto sorpresi.
"Il passo che vorrei io" Asserì, serio come raramente era mai stato "è in avanti. Non dondola avanti e indietro." 
Sorrise arcuando appena le labbra piene, Tethys, dinnanzi a quella confessione inaspettata. Damian non aveva mai fatto cenno a qualcosa del genere prima d'allora, e la donna fu costretta a serrare le labbra, prendendo un momento per riflettere.
Non aveva mai avuto certezze nella sua vita. Non sapeva nemmeno se quel bel paio di scarpe fosse in tinto col suo umore, mutevole e altalenante nonostante ella si curasse di celarlo sotto una maschera di beltà e quiete che aveva tolto solo davanti a lui negli ultimi anni. S'era pericolosamente esposta a Damian, e non era più sicura che la cosa potesse davvero interferire con ciò che tra loro fioriva di giorno in giorno.
Tethys sollevò quindi il mento, liberandosi dalla presa del giovane e stampandogli un bacio rapido sulle labbra schiuse. "Stasera, allora, mi porti a cena." Asserì, voltandosi e facendo per raggiungere lo stereo, aggiungendo "Però paghi tu."
Le braccia di Damian tuttavia reclamarono la presenza di lei, troppo elettrizzate al pensiero di quell'atto d'incoscienza, o forse di coraggio, che avevano spinto il loro padrone verso Tethys. Lei finse naturalezza, nel rivolgerglisi ridendo e posando le mani delicate su quelle del ragazzo. "Ora però mi fai il santo favore di farmi questi passi come si deve, altrimenti ti metto in castigo."
"Uuuuh" Mugolò lui, la faccia affondata nell'incavo perlaceo della donna, sorridendo di nascosto. "Se la maestra viene in castigo con me, starò volentieri all'angolino."

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Mountain and Sparkling. ***


Mountain.
Thalìa masticava la spiga tra i denti con fare nervoso, come al solito, osservando il calare del sole oltre i picchi delle montagne. 
Aveva sempre odiato quel genere di mansioni. Le bestie al pascolo erano troppo quiete, troppo insulse per poterle davvero interessare, ma in quel buco di paese dove s'era andata a cacciare sembrava l'unica cosa degna di nota che potesse accaderle. O almeno, questo era prima dell'arrivo di Electra.
Aveva storto il naso, quando le avevano comunicato l'arrivo di una nuova allevatrice. Quel lavoro l'aveva sempre svolto lei, lei si erano spaccata la schiena dormendo sui sassi nelle notti calde d'estate, e lei aveva tenuto quel gregge lontano dai pericoli delle montagne. Era un compito cui aveva adempiuto per qualche mese da sola, e se l'era cavata benissimo senza l'ausilio di nessuno.
Il fatto che le avessero messo alle calcagna un'altra persona l'aveva infastidita non poco, sulle prime. E a quanto pareva nemmeno Electra era del tutto entusiasta di trovarsi a lavorare con lei. 
Avevano passato i primi tempi senza nemmeno guardarsi, dormendo nella tenda dandosi le spalle ed evitando qualsiasi argomento di conversazione che non fosse strettamente necessario.
Le settimane erano diventate mesi, e le due ancora non accennavano a voler cedere davanti alla ritrosia dell'altra. 
Tuttavia nemmeno il più cocciuto degli animi può sopportare tre mesi di silenzio incessante, e così gli sguardi arcigni avevano finito col trasformarsi in occhiate curiose. 
Thalìa ricordava perfettamente la loro prima conversazione. Una pecora era scappata per un passo tra falde del monte ove si erano sistemate, e lei aveva ben pensato di allontanarsi il minimo indispensabile per recuperarla senza perdere di vista il gregge.
Non aveva fatto caso al paio d'occhi che l'avevano seguita, l'aria famelica intrisa nello sguardo quanto nell'istinto animale che muoveva le mosse del lupo grigio. Thalìa fece in tempo ad afferrare la lana della pecora smarrita, prima di percepire il pericolo alle sue spalle.
S'era voltata lentamente, ed aveva visto la propria paura riflessa negli occhi gialli dell'animale. Una paura fottuta, che tuttavia stentava a mostrare persino a sé stessa. Aveva cercato il coltello che teneva sempre legato alla cintola, ma non aveva trovato nulla. Se Electra non avesse sparato, probabilmente ci avrebbe rimesso un braccio.
Forse la vita.
Thalià rise del ricordo di quella prima interazione, iniziata con un "Me la cavo da sola"sputato con astio e finita con un bacio insensato, assurdo, fuori contesto, eppure incredibilmente vero. 
Era sbagliato, era privo di senso, e se l'era ripetuto anche mentre ne ricambiava l'irruenza. Electra aveva labbra morbide, e un sapore speziato che le faceva girare la testa. Era stato uno shock scoprire quell'attrazione che aveva smosso la ragazza verso di lei fin dalle prime volte, attrazione che a lei era rimasta estranea fino a quel momento.
Credeva fosse colpa della solitudine che le stringeva ogni anno l'una contro l'altra, sempre più vicine, se quella situazione assumeva ai suoi occhi sfumature insperate giorno dopo giorno. Era certa che, lontana da lei, quella sensazione alla bocca dello stomaco si sarebbe dissipata. 
Anche Electra lo credeva. Eppure l'autunno arrivato dopo quel bacio rubato non portò altro che vuoto, e quell'inverno in cui rimasero lontane fu gelido, ma non per le basse temperature. Entrambe bramavano la presenza dell'altra, entrambe richiedevano i silenzi e le rare parole. E fino al giugno successivo tutte e due s'erano appassite ed erano rifiorite nella speranza di ritrovarsi.
Da quei giorni erano passati due anni. Gli incontri s'erano estesi anche ai mesi invernali, e Thalìa aveva preso casa nella stessa stradina ove abitava Electra, fingendo il nulla quando la incontrava di giorno, accendendo il proprio sguardo quando di notte restavano sole, a stringersi nel gelo di dicembre.
Scese dalla staccionata, il gregge tranquillo brucava indisturbato sul pendio. S'avvicinò a lei, posando una mano delicata sulla spalla e aggirandola, ponendosi di fronte a quel paio d'occhi che aveva imparato ad amare senza avere paura.
"Quest'anno non ci sono molti branchi in giro" Asserì distrattamente, portando lo sguardo oltre i pini secolari e le vallate. La vita da quel punto era straordinaria, eppure Thalìa non poté evitare di essere attratta da un elemento lontano miglia dai picchi dei monti, eppure racchiuso nell'azzurro delle sue iridi.
Electra rise, posando la fronte contro quella di lei, e socchiudendo gli occhi.
"Già. Possiamo stare più tranquille, una buona volta." Proferì divertita, portando il corpo ad aderire contro quello di Thalìa e cingendole la vita. "Più o meno..."
La giovane aprì gli occhi, sorridendo maliziosa e stampando un bacio semplice sulle labbra piene dell'altra. 
Non sapeva ancora come avrebbero affrontato quell'ennesima estate, ma in cuor suo sentiva che finché c'era lei avrebbe potuto affrontare tutti gli orsi e i lupi che Dio gli avesse mandato contro.


Sparkling.
La fiumana di persone presenti alla serata sembrava non avere fine, e si estendeva per svariati metri fuori dal Moulin Rouge.
Tuttavia Tristane non aveva nessuna intenzione di restare fuori. Aveva qualcosa di importante da fare, da dire, e se a stento sapeva come lei avrebbe potuto prendere quell'improvviso moto da parte sua, quel poco di incoscienza che aveva lo avrebbe fatto arrivare sotto quel palco anche a costo d'oltrepassare con la forza la calca.
Era stato sciocco. L'illusione di un amore sicuro gli aveva distorto la vista, inebriato dalla sicurezza di due braccia che non sarebbero mai state le sue, di due occhi che non potevano eguagliare la luce nelle sue iridi.
L'aveva lasciata andare via, e non sapeva se si sarebbe mai perdonato per questo. Non sapeva nemmeno se la propria contrizione sarebbe bastata come prova, ma avrebbe dovuto provare, quantomeno.
Perlopiù uomini accalcavano l'entrata, e Tristane provò un lieve senso di rabbia invadergli il petto.
Erano tutti lì per un motivo, e quel motivo era la sola luce che potesse illuminare davvero il palcoscenico del Moulin Rouge. Diamante Splendente, la chiamavano ora.
A lui era arrivata voce da una vecchia conoscenza. Non credeva che lei avrebbe mai potuto lavorare in un luogo del genere: se la ricordava timida, introversa, vulnerabile come un pulcino. E l'aveva amata da sempre, forse proprio per questo, senza rendersi conto. L'aveva trascurato, quel sentimento, ed era appassito lentamente sotto il suo sguardo, offuscato dalla figura di un'altra.
Ora che Tristane cercava di rimettere insieme i pezzi della sua vita, ora che lo spirito bohemien premeva sulle pareti del suo animo redento, l'unica Musa che avrebbe potuto ispirarlo era lì, nelle sale di piacere del più grande locale di Parigi.
La sicurezza aveva lasciato la sua mente nel momento stesso in cui aveva capito che stava marcendo dentro, che aveva perso la propria voglia di vivere dietro certezze effimere.
Ora, scavalcando le persone all'interno della grande sala, sentiva di non avere altro da fare che aggrapparsi ad un'altalena, lasciando che decidesse il suo fato. Un'altalena che ora calava dall'alto, e gli mostrava di nuovo le sembianze di lei. Paradossalmente non s'era mai sentito così vivo, come quando le sue dita avrebbero potuto saggiare l'ebbrezza di una fine definitiva.
Gli era sfuggita dalle mani per interi anni, e finalmente, allo smorzarsi delle luci, la vedeva. Un faro ne illuminava la figura, pallida ed eterea quanto la stella del vespro, e gli abiti ricoperti di gioielli lasciavano ben poco all'immaginazione.
Tristane non riuscì tuttavia a staccare lo sguardo dal viso perlaceo di lei, che con fare sicuro restava sospesa, inafferrabile e lontana, cantando la sua ostentazione al potere dei diamanti.
Sulle note di quella canzone Tristane s'avvicinò al palco, ove le gambe lunghe di Merope si stagliarono ben presto. Non sapeva perché, ma ora il nome da legare a lei era diverso da Daisy, così com'anche la sua natura sembrava del tutto differente. Era una donna a calcare quel palco, era una donna colei che danzava e cantava come fosse la dannazione più profana e la benedizione più pura al tempo stesso.
Il ragazzo intercettò il suo sguardo, e per un istante interminabile rimasero immobili, la gente e la musica dissolti nell'aria intorno a loro. Merope tentennò un attimo soltanto, prima di puntare lo sguardo con maggior sicurezza negli occhi di lui.
Che recitasse a Tristane apparve persino troppo chiaro, ma l'ombra dello stupore sul volto di lei gli diede la certezza che l'aveva riconosciuto. Non sapeva cosa fare, o cosa poterle dire in quel frangente.
Fu lei a rompere quel divario, avvicinandosi e continuando a cantare, senza distogliere lo sguardo dagli occhi cristallini di lui. Era certa che potesse scorgere nei propri occhi la paura, l'incognita che quella visita le aveva scaturito dentro. Tristane era sempre stato capace di leggerle dentro, come nessuno mai. E forse fu proprio quella consapevolezza a spingerla contro di lui, in una recita che sapeva fin troppo di verità non dette. 
Roteò attorno a lui, molto attenta a non toccarlo eccessivamente: persino sotto i guanti lo sfiorarlo ancora gli dava alla testa, la faceva ribollire e per quanto cercasse di combattere quelle sensazioni che aveva relegato per sempre in un angolo della sua mente, era inevitabile che provasse ancora così forte quelle sensazioni, sotto lo sguardo sempre pulito di Tristane.
S'accostò al suo orecchio, sul finire dello show, schioccandogli un bacio semplice sullo zigomo.
"Vieni dietro le quinte, e dimmi perché." Il suo tono avrebbe voluto essere freddo ed algido, ma quel turbine di domande che le balenavano in mente ogni secondo tradirono l'irrequietezza che non avrebbe più dovuto esistere, in lei. 
Tristane serrò la mandibola, vedendola sparire dietro le pesanti coltri di velluto rosso, e s'apprestò a raggiungere il retro.
Che fosse o meno una splendida attrice, la sua vista l'aveva sconvolta quanto lei l'aveva colpito, quella sera, mostrando una donna che avrebbe voluto essere diversa, ma che volente o nolente restava Daisy.
La sua Daisy, forse.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3101771