Il regno del ghiaccio

di Malvagiuo
(/viewuser.php?uid=131070)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Successione ***
Capitolo 2: *** Consiglio ***
Capitolo 3: *** Scontro ***
Capitolo 4: *** Acclamazione ***
Capitolo 5: *** Presagio ***
Capitolo 6: *** Sacrificio ***
Capitolo 7: *** Dubbio ***
Capitolo 8: *** Rivelazione ***
Capitolo 9: *** Dolore ***
Capitolo 10: *** Tradimento ***
Capitolo 11: *** Furia ***
Capitolo 12: *** Decisione ***
Capitolo 13: *** Fuoco ***
Capitolo 14: *** Ossessione ***
Capitolo 15: *** Ritorno ***
Capitolo 16: *** Rimorso ***
Capitolo 17: *** Piani ***
Capitolo 18: *** Responsabilità ***
Capitolo 19: *** Fiamma ***
Capitolo 20: *** Guerra ***
Capitolo 21: *** Destino ***
Capitolo 22: *** Battaglia ***
Capitolo 23: *** Primavera ***



Capitolo 1
*** Successione ***




Volgrim scrutò l’orizzonte. Il mare era bianco e immobile come un osso levigato. Il ghiaccio ricopriva tutto, estendendosi a perdita d’occhio fino al margine del mondo, nascondendo sotto di sé i banchi di pesci e l’oceano di acqua salata. Rivoli congelati si facevano strada lungo la spiaggia pietrosa, come minuscoli tentacoli in cerca di preda sulla terraferma.

Volgrim avanzò su quella che un tempo era la battigia, calpestando il sottile strato di ghiaccio e facendolo scrocchiare sotto i suoi piedi. Man mano che andava avanti, il rumore del ghiaccio infranto si faceva sempre più rado, fino a scomparire del tutto. L’immensa banchisa non scricchiolava e non dava segni di cedimento: era robusta, dura come ferro. Se c’era stata una qualche speranza che il pallido sole della tarda primavera potesse scioglierla o ammorbidirla, quella speranza era morta.

«Dove sei, Grijndir?» chiese Volgrim, sottovoce.

Il vento gelido fu l’unica risposta che ricevette, un soffio innevato proveniente dalla banchisa, che recava un sinistro ululato.
 

***


Roigkal non si muoveva. Coperto da un fitto strato di pellicce, era difficile osservare il movimento del suo petto e capire se respirasse o meno. Un flebile filo d’aria dalle narici faceva vibrare i peli più sottili della barba, e quello era l’unico segno a testimoniare che suo padre fosse ancora vivo. Due lune di immobilità quasi totale. Volgrim era ormai rassegnato al peggio. Il colorito bluastro della pelle del vecchio Roigkal non lasciava presagire nulla di buono. Il male l’aveva colto all’improvviso, a nulla era valso il riposo, a nulla gli infusi di erbe medicinali. Suo padre stava morendo, abbandonava troppo presto la sua ascia in una terra che più che mai aveva bisogno della sua guida.
Alle sue spalle, Volgrim udì il lembo di tela all’entrata che veniva scostato. In un primo momento, pensò che fosse sua madre. Ricordò subito che non poteva essere lei, perché il sole non era ancora tramontato. Era suo zio Iorig.
«Continua a bruciare?» chiese, con la sua voce che era poco più di un sussurro.

Volgrim non si voltò a salutarlo. Con un cenno della mano, tuttavia, lo invitò a sedersi. C’era posto dall’altro lato del giaciglio, quello più vicino al braciere. Era chiaro, a quel punto, che il calore non avrebbe influito sulla guarigione di Roigkal.

Iorig si avvicinò e prese posto nel punto che gli era stato indicato. Tese le mani nude verso le fiamme, strusciandole per riscaldarle. Era disarmato, notò Volgrim. Nemmeno Iorig avrebbe osato presentarsi armato al capezzale del fratello morente.

«Ha detto qualcosa?»

Volgrim alzò lo sguardo verso lo zio. I suoi occhi non esprimevano nulla. Le sue labbra si dischiusero lentamente, pronunciando poche parole in tono quasi del tutto neutro.

«No. Non dice nulla da tre giorni.»

Iorig piegò il capo verso il fratello maggiore. Protese una mano sulla sua fronte, la ruvida superficie callosa adombrò la testa di Roigkal. Rimase sospesa un attimo, poi si posò con delicatezza sulla pelle cinerea. Le dita restarono immobili per qualche istante, come se attendessero la reazione che li avrebbe allontanate, che fosse di Volgrim o di Roigkal. Ma nessuno dei due si mosse. Dopo un minuto, Roigkal era ancora disteso a morire e Volgrim era ancora accovacciato a fissare il volto del padre. L’unico rumore era il debole scoppiettare delle braci.

«È freddo. Non vedrà un altro giorno.»

«Dì quello che sei venuto a dire, e lasciami solo.»

Iorig scostò la mano dalla fronte di Roigkal. Solo allora Volgrim scrutò negli occhi lo zio, in attesa di ricevere il suo messaggio. I gelidi occhi grigi che temeva fin da bambino lo soppesavano da capo a piedi. La bocca e le guance erano nascoste da una fitta barba rossastra, rendendo la sua espressione indecifrabile. In quel momento, per quanto ne sapeva Volgrim, sul volto di Iorig potevano essere dipinti un sorriso o una smorfia. Era una delle tante cose che aveva sempre detestato in lui: l’incapacità di prevedere il suo atteggiamento.

«Il popolo ha bisogno di un askarl» esordì Iorig.

Volgrim non disse nulla. Voleva che fosse Iorig a sollevare la questione. Così, forse, avrebbe avuto un vantaggio su di lui, nei giorni a venire.

«Tuo padre ti ha nominato erede?» chiese Iorig, senza ulteriori preamboli.

«Sono il suo unico figlio. Se mio padre ha un erede, quello sono io.»

«Ma non sei stato nominato erede dalla sua bocca» dedusse Iorig. Non c’erano inflessioni di alcun tipo nelle sue parole. C’era solo fredda, implacabile logica. «Stai rivendicando il titolo di askarl per diritto di nascita. È una cosa molto diversa.»

«Era desiderio di mio padre che fossi io a succedergli come askarl» la voce gli si incrinò leggermente per la frustrazione, ma Volgrim riacquistò subito il controllo. Non poteva mostrare segni di debolezza a suo zio. Non si sarebbe lasciato trarre in inganno così facilmente dalle sue provocazioni.

«Eppure, nonostante sentisse vicina la morte, non ha sprecato le sue ultime parole per chiamarti jahr-askarl.»

«Lui non sentiva vicina la morte.»

«Che la sentisse o meno, la morte è su di lui. E la nostra gente ancora non conosce il suo futuro signore.»

«Sei venuto qui, al cospetto di tuo fratello morente, per strappare a me, suo figlio, le terre e i doveri che mi spettano?»

Iorig distolse lo sguardo. Per un istante, Volgrim credette che persino un uomo come Iorig avesse dei ripensamenti di fronte a una simile prospettiva. Ma fu solo un’illusione. Gli occhi grigi tornarono a fissarlo, e questa volta non c’erano dubbi sull’espressione che si nascondeva sotto la barba ispida. Un ghigno sardonico faceva capolino tra le labbra sommerse dai peli.

«Terre e doveri...» il ghigno si allargò. «Terre e doveri. Volgrim, è dalle tue parole che mi convinco a non poterti lasciare il potere che fu di tuo padre. Mi stai accusando di disonorare il letto di morte di mio fratello per derubarti di terre... e doveri! Sciocco ragazzo. Sabbia pietrosa, ciottoli, praterie congelate e foreste di tronchi avvizziti: queste sono le terre di tuo padre. Quanto ai doveri... cosa credi di sapere sui doveri di un askarl? Quale sarebbe il primo?»

«Proteggere la mia gente» rispose pronto Volgrim.

«Proteggerla da che cosa, ragazzo?» domandò Iorig di rimando.

Volgrim aprì bocca per ribattere, ma le parole non uscirono. Aveva mosso le labbra, sicuro che ne sarebbe uscita una risposta in grado di zittire le contestazioni di Iorig, gli occhi di Volgrim attendevano di assistere al suo trionfo in quello scontro verbale, trionfo che consisteva nell’osservare lo sguardo incredulo di quei maledetti occhi grigi, dapprima sbalorditi, poi nervosi in cerca di soluzione, infine rassegnati alla sconfitta. Ma non avvenne nulla di tutto ciò, perché alla domanda di Iorig fece seguito solo il silenzio.

«Proteggerla dai suoi nemici, da chi vuol farle del male...»

Volgrim riuscì a dire solo questo. Il tono non era più sicuro. Si rese conto che il silenzio sarebbe stato preferibile a una risposta tanto misera.

Iorig sospirò. Fissava Volgrim con attenzione, come se cercasse un punto debole dove affondare la lama.

«Hai ragione, figliolo. Un askarl ha il dovere di prendersi cura del suo popolo. Deve proteggerlo da chi potrebbe causargli danno. In questo momento, Volgrim, il maggior pericolo per la tua gente sei proprio tu.»

Volgrim rimase sconcertato.

«Come osi accusarmi di questo?»

«Tuo padre ha officiato per più di vent’anni i riti sacri al grande Grijndir. La primavera è cominciata e, a causa della malattia, Roigkal non ha potuto offrire il tributo alla Bestia del Mare. E quest’anno, il ghiaccio non è stato ancora rotto. Tutto il mare è ghiacciato, e il nostro cibo si sta esaurendo» disse Iorig, senza distogliere lo sguardo. «Io posso compiere i riti. E tu, Volgrim?»

Volgrim tacque. La rabbia cominciava a farlo tremare. Le sue mani si chiusero a pugno, stringendo i lembi dei calzoni.

No, Volgrim non poteva compiere i riti in onore del grande Grijndir. La sua istruzione non era completa. Aveva assistito a una sola cerimonia, l’anno precedente, nella quale aveva assistito per la prima volta suo padre durante l’offerta sacrificale. Non era abbastanza, per poterla officiare. Iorig, d’altro canto, non aveva mai assistito suo padre, ma era stato presente allo svolgimento di più di venti cerimonie, nei vent’anni in cui era stato al fianco di Roigkal. Era l’unica persona del suo stesso sangue in grado di svolgere quel delicato compito. Volgrim lo sapeva, anche se rifiutava di accettarlo.

«Cosa accadrebbe se sbagliassi il rituale? Prova a immaginare le conseguenze, se offendessi la Bestia del Mare. Porteresti la rovina su tutti noi.»

La voce di Iorig era ferma, quasi paterna. Le parole erano addirittura ragionevoli. Non avrebbe faticato a convincere il resto degli uomini, Volgrim cominciava a rendersene conto.

«È per questo che saresti un grande pericolo per la tua gente, Volgrim, se diventassi askarl.»

«Questo lascialo decidere al popolo.»

Gli occhi di Iorig si infossarono. Le rughe sulla sua fronte si moltiplicarono, facendolo sembrare di colpo molto più vecchio.

«Vorresti convocare il Consiglio, e perdere altro tempo, mentre le nostre scorte continuano a diminuire?»

«È mio diritto.»

«Lo è, certo. Sei un uomo» Iorig fece per alzarsi. Si diresse verso l’uscita, ma prima di varcarla gettò un’ultima occhiata in direzione di Volgrim. «Ma pensi e agisci ancora da bambino.»

Prima che Volgrim potesse replicare, era già scomparso nella luce diafana del giorno.

 




NOTE AUTORE

Hola! Grazie per aver letto questo primo capitolo. Spero di averti intrattenuto e che la storia ti abbia preso. Se hai voglia di mandarmi un messaggio o di lasciare un commento o una recensione, mi trovi sempre pronto a rispondere e a ringraziarti. Naturalmente accetto ben volentieri critiche negative, poiché il mio primo interesse è migliorare le mie capacità di scrittura. Mi auguro di poterti offrire capitoli sempre più interessanti, per ora ti ringrazio per aver letto. Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Consiglio ***




Bjria tolse la scodella dal fuoco e la avvicinò al ripiano di pietra al centro della stanza. Levato il coperchio di peltro, un denso vapore evanescente si sprigionò dall’interno del recipiente, inondando l’aria di un denso aroma di pesce bollito. Se Roigkal non fosse stato a un passo dalla morte, la cena avrebbe potuto essere una festa.

«Il respiro è sempre più debole.»

Volgrim non disse nulla. Si sforzò di concentrarsi sui pezzi di pesce che galleggiavano nel brodo giallastro, mentre affondava le dita nel liquido per afferrarne uno. Strinse tra pollice e indice un trancio dalla polpa bianca e sgocciolante, e lo infilò in bocca. Masticò a fatica, incapace di badare al sapore o al calore che gli ustionava la lingua.

«Iorig dice che non vedrà l’alba di domani.»

«Anche Iorig si è sbagliato, in passato.»

«Non questa volta.»

Volgrim pose il coperchio sulla scodella, per impedire che il contenuto si raffreddasse. Non aveva più fame. Bjria non guardava nemmeno la cena. I suoi occhi erano fissi sul marito, ormai quasi del tutto immobile. Pareva già morto. Non fosse stato per il flebile respiro roco che si udiva a tratti, avrebbe tirato la coperta a coprirgli il volto.

«Madre...» esordì Volgrim. Non poteva più attendere per porre quella domanda. «Credi che il popolo mi seguirà?»

Bjria si voltò a guardare il figlio. Il suo sguardo era spento, la carne del viso emaciata, i lunghi capelli rossi raccolti in una treccia che toccava terra. La sua espressione lasciava trapelare una risposta precisa.

«Oh, Volgrim» mormorò. «Se solo avessi qualche anno di più... se solo conoscessi meglio i riti...»

«Ci sono stati askarl più giovani di me.»

«Questo è quello che raccontano i bardi. Ma non è con le filastrocche dei cantastorie che si sopravvive all’inverno. Se il ghiaccio non si rompe al più presto, non avremo più niente. Solo Grijndir può spezzare la banchisa, ma questo avverrà solo se ci sarà un askarl a eseguire il rito.»

«Mio padre avrebbe voluto che fossi io a farlo, in sua vece. Mi ha voluto al suo fianco, durante la cerimonia dell’anno scorso!»

«Non c’è dubbio. Ma questo non basterà mai a convincere il Consiglio. In un momento come questo, c’è una sola cosa che conta: ottenere il favore di Grijndir affinché distrugga il ghiaccio che minaccia di farci morire tutti. E per farlo, occorre un askarl degno di questo compito. L’unico che la nostra gente abbia a disposizione, ora, è Iorig.»

«Io posso sostituire mio padre! Convincerò il Consiglio. Madre... sai bene cosa ci accadrà, se Iorig diventa askarl.»

Bjria abbassò lo sguardo verso le proprie ginocchia. Ciuffi di capelli si tesero verso il basso, coprendole il volto di sottili filamenti ramati.

«Come li convincerai, figlio mio?»

«Io... non lo so» disse Volgrim, frustrato. «Non lo so davvero. Ma dovrò farlo, in qualche modo.»

 

***

 
Il Consiglio fu convocato in un giorno di pioggia. L’acqua scrosciava dagli speroni di roccia affilata, producendo un frastuono assordante. Il terreno divenne fangoso, laddove non c’erano ciottoli a ricoprire il selciato. Faceva freddo e il mare era sempre silenzioso, sepolto sotto un pesante strato di ghiaccio opalescente.

Volgrim procedeva verso la capanna di Bjorik, avvolto da una folta pelliccia d’orso. Le gocce di pioggia battevano sul suo viso ancora privo di barba, impiastricciandogli i capelli sulla fronte. Quando varcò la soglia della capanna, cercò di non sembrare infreddolito. Si avvicinò al fuoco, che ardeva al centro della dimora del vecchio cacciatore. C’erano almeno venti uomini sotto il suo tetto, da qualche parte doveva esserci anche Iorig. Molti degli ospiti di Bjorik lo salutarono con rispetto, e questo faceva ben sperare Volgrim. Forse non tutto era già scritto.

Holf val’Hulf gli si avvicinò, poggiandogli una mano sulla spalla.

«Mi rincresce per tuo padre, ragazzo.»

Volgrim ringraziò per le condoglianze, ma una parte di lui fu turbata da quelle parole. Se lo chiamavano ragazzo, significava che non lo consideravano un loro pari. Finché non fosse stato pienamente riconosciuto come uomo, aveva scarse possibilità di prendere il posto di suo padre. I saluti contriti, gli abbracci e le parole di conforto non erano un segno di rispetto, ma di compassione. Il Consiglio non avrebbe eletto askarl un ragazzo di cui aveva compassione.

Bjorik val’Kjorn gli si fece incontro, illuminato dal caldo bagliore del braciere ardente. Le sue braccia poderose cinsero le spalle di Volgrim, stringendole fino a far scricchiolare le ossa. La barba e i capelli di Bjorik ne ricoprivano le spalle e buona parte del torace, facendo da contorno a un volto rubizzo nel quale spuntavano due occhi sinceramente rattristati.

«Eccoti qui. Sei pronto ad affrontare questa giornata?»

«Lo spero, vecchio amico. Lo spero.»

«Iorig lo è, puoi giurarci. Non intende lasciare questa capanna senza l’ascia di tuo padre. L’hai portata, non è vero?»

Volgrim estrasse da sotto la pelliccia un’asta di legno lungo circa quattro piedi, la cui estremità era avvolta da un panno oleato. La forma sotto il tessuto non poteva che appartenere alla lama di un’ascia.

«Nemmeno io intendo farlo.»

«Molto bene» disse Bjorik. «Sono dalla tua parte, ma Iorig ha già molti sostenitori. Non puoi fare errori.»

Dopo circa un’ora furono raggiunti dagli ultimi uomini del villaggio. Le mura di pietra della casa di Bjorik e il suo fuoco scoppiettante li proteggevano dal freddo, ma l’atmosfera che regnava tra gli astanti erano tutt’altro che calorosa. Dopo i primi convenevoli, gli sguardi in direzione di Volgrim si erano fatti sempre più radi, e anche l’atteggiamento nei suoi confronti cominciò a mutare. Di colpo, era come se nessuno volesse mostrare apertamente di aver mai avuto a che fare con lui. Iorig era dalla parte opposta della stanza, non si era avvicinato a Volgrim e non gli aveva rivolto nemmeno uno sguardo. Sotto gli strati di cuoio del suo abito, Volgrim intravide una lama. Non era proibito portare armi al Consiglio, ma non era certo un segnale incoraggiante. Le sue mani si strinsero ancor di più intorno al manico di legno dell’ascia. 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Scontro ***


Bjorik prese posto in piedi di fronte al braciere. Tutti gli uomini del villaggio erano rivolti verso di lui. Il silenzio sarebbe stato totale, senza lo scroscio della pioggia che li raggiungeva dall’esterno.

«Roigkal val’Rundor è morto questa notte, come voi tutti sapete. Un male oscuro ci ha tolto il nostro signore, in un momento che non poteva essere peggiore» esordì Bjorik. «Abbiamo due candidati a succedergli. Uno di questi è suo figlio, Volgrim val’Roigkal, a cui chiedo di prendere posto alla mia destra.»

Volgrim si fece largo in mezzo alla folla, in direzione di Bjorik. Fu grato al vecchio amico per essersi esposto in suo favore: nominandolo per primo, infatti, lo aveva presentato al villaggio in una posizione di preminenza, quasi a indicarlo come il successore designato. Un fatto che non sfuggì a Iorig e a chi lo sosteneva, come Volgrim intuì dallo sguardo dello zio. Bjorik gli era stato leale, ma quel gesto poteva costargli caro. Aveva rivelato da che parte stava, e se Iorig fosse prevalso nella disputa, il suo futuro sarebbe stato incerto quanto quello di Volgrim.

«Il secondo candidato è il fratello di Roigkal, Iorig val’Rundor, che invito a venire qui alla mia sinistra.»

Iorig si mosse con lentezza, facendosi spazio tra un gruppetto di pescatori accanto al braciere. I suoi movimenti erano pacati, addirittura ossequiosi. Non sembrava irritato per il fatto che a contendergli l’ascia di askarl fosse un giovanotto imberbe. Il suo volto appariva sereno, le braccia conserte in modo rilassato, la lama ora invisibile alla vista.

«Questi sono i nostri candidati. Li riconoscete come potenziali successori?»
In base a quello che raccontavano gli anziani, i quali narravano ciò che gli anziani prima di loro avevano raccontato, fin da quando esisteva il popolo di Grijndir quella domanda era sempre stata una mera formula rituale, alla quale il sì del Consiglio era scontato. Quel giorno, nella dimora di Bjorik val’Kjorn, secoli di tradizione furono interrotti.

«Il figlio di Roigkal è troppo giovane. Io non lo riconosco come successore.»

A parlare era stato Algwi il Boscaiolo. Era un vecchio pastore che viveva sul limitare della valle, la regione più esterna della terra abitata dal popolo di Grijndir. Volgrim non lo aveva mai conosciuto, ma sapeva chi fosse. Anche nel tepore della casa di Bjorik, indossava due giacche di stoffa lacera e un largo cappello che gli nascondeva buona parte del volto. Del suo aspetto, si distingueva solo la folta barba grigia e la pelle rugosa delle guance e degli zigomi ossuti. Prima di quel momento, Volgrim aveva persino dubitato che avrebbe voluto partecipare al dibattito sulla successione.

Gli astanti erano sorpresi, ma nessuno sollevò obiezioni alle parole di Algwi.

Sembrava che nessuno volesse esprimere apertamente la propria opinione. Era come se tutti aspettassero qualcosa, un segnale, un momento decisivo.

Bjorik, dopo lunghi istanti di silenzio, riprese la parola.

«Volgrim val’Roigkal ha assistito a una cerimonia di sacrificio per il grande Grijndir, l’anno scorso. Secondo le nostre leggi, solo un adulto può prendervi parte. Volgrim, quindi, non può essere considerato troppo giovane. Il tuo rifiuto non è motivato, Algwi. Hai altre ragioni da opporre?»

Algwi il Boscaiolo non replicò. Un mormorio si diffuse tra i presenti. Volgrim credette di distinguere singole parole nel brusio che riempiva la sala, e da quel poco che riuscì a udire intuì che la maggior parte di loro riteneva che Bjorik fosse stato troppo sbrigativo a liquidare la protesta di Algwi.

«Ora, riconoscete tutti questi candidati?»

Per quella che parve un’eternità, la sala fu percorsa da mormorii sommessi, senza che nessuno però prendesse parola per esprimere una nuova contestazione. Lo sguardo di Volgrim si soffermò su quasi tutti i volti degli uomini riuniti nel Consiglio, senza osare fissarli per più di un istante. Si sforzò di non tremare. Che cosa era venuto a fare, là? Era ovvio che non lo avrebbero mai scelto. Non si fidavano di lui, non credevano in lui. Quegli stessi uomini che si erano affidati alla guida di Roigkal, alcuni dei quali presenti quando era stato acclamato askarl vent’anni prima, ora guardavano suo figlio con diffidenza. Ma la cosa peggiore di tutte, Volgrim si rese conto, era il fatto che quella diffidenza fosse giustificata.

Non era la guida di cui avevano bisogno. Malgrado le parole di Bjorik, non era un uomo. Era un ragazzo che sorreggeva un’ascia troppo pesante per le sue braccia.

«Volgrim val’Roigkal e Iorig val’Rundor sono dunque riconosciuti dal popolo di Grijndir come pretendenti askarl. Spetta a loro parlare, adesso.»

La voce di Bjorik riportò Volgrim nella realtà, strappandolo dai suoi pensieri. Il padrone di casa lo aveva indicato, affinché parlasse per primo. Per un attimo, Volgrim percepì un vuoto completo nella sua mente, come se non una parola, un’immagine o un suono vi fossero mai entrati. Non aveva nulla da richiamare, nulla a cui attingere per imbastire una semplice frase, figurarsi un discorso di fronte a decine di uomini. Quell’attimo di paralisi sembrò protrarsi per secoli, un singolo istante dilatato all’inverosimile, durante il quale un fischio assordante riecheggiò nelle sue orecchie.

Si riscosse e cercò gli argomenti, le parole con cui comunicare alla sua gente. Batté le ciglia, richiamò saliva in bocca e deglutì, perché la voce non lo tradisse al momento decisivo. Aveva poche cose dire, ma le avrebbe dette alla maniera di suo padre. Sottolineare il loro legame era l’unica strada da percorrere.

«Figli di Grijndir» disse Volgrim «sono l’uomo più giovane in questa sala. Vedo il dubbio nei vostri occhi, e lo comprendo. Come può un ragazzo avere una saggezza superiore a quella di uomini con ben più anni di esperienza sulle spalle, quali siete tutti voi? Avete ragione, infatti. Io non sono più saggio di voi. Anzi, ognuno di voi qui riuniti avrebbe molto da insegnarmi. Eppure sono qui a chiedervi sostegno, a chiedervi di riconoscermi come vostro capo. Con quale diritto, se ho appena ammesso il mio bisogno di imparare?

«Io non vi chiedo di scegliermi in quanto unico figlio dell’askarl. Vi chiedo di scegliermi perché sono l’unico, tra i candidati che vi sono stati proposti, disposto a compiere qualunque sacrificio per il vostro bene. C’è un’ombra che grava su di noi, come tutti sapete. La primavera è alle porte e il ghiaccio è ancora intatto. La Bestia del Mare non è giunta a rompere la barriera che ci impedisce di pescare, navigare e raggiungere le isole vicine. So che molti di voi ne dubitano, ma io posso officiare i riti al grande Grijndir. Non temo la cerimonia e non temo il sacrificio richiesto. Offrirei la mia vita, se necessario. Ricordatevi di questo, e considerate se un altro askarl sarebbe disposto a fare altrettanto.»

Il discorso di Volgrim fu seguito da un lungo silenzio. Non ci furono risposte o cenni di assenso. Tuttavia, a Volgrim parve di notare meno scetticismo nei volti di molti, e questo lo rincuorò. Forse, le sue parole non erano vuote come temeva. La sua arringa non era del tutto improvvisata, ma aveva modificato molte parti dalla sera prima, quando per la prima volta aveva cominciato ad abbozzarla.

Bjorik si rivolse a Iorig.

«Adesso parlerà Iorig val’Rundor.»

Volgrim ruotò la testa per osservare lo zio, ritto in piedi oltre la sagoma imponente di Bjorik val’Kjorn. Con una certa inquietudine, Volgrim notò che l’espressione dello zio era distesa, del tutto serena, come se Iorig avesse previsto ogni sua singola parola, e fosse pronto a ribattere e annientare ognuna delle sue frasi. Si schiarì la voce, assicurandosi che la platea gli rivolgesse la massima attenzione. Parlò con il tono di voce più tranquillo e rassicurante che Volgrim avesse mai sentito uscire dalla sua bocca.

«La giovinezza! Come non rimpiangerla? L’illusione di avere il mondo in mano, di poter cambiare il destino a seconda della propria volontà. Mio nipote è davvero figlio di suo padre, parla con lo stesso ardore. Ma non è di ardore che abbiamo bisogno, fratelli. Né di belle parole. È di cibo, che abbiamo bisogno.

«Non vi illuderò, non userò parole dolci per rassicurarvi. Non ne avete bisogno, quello che dovete fare è guardare in faccia la realtà. Siamo in trappola. Il mare davanti a noi è una distesa di ghiaccio sterile: troppo spesso per essere infranto, troppo vasto per essere attraversato. Dietro di noi, le montagne e i loro valichi ostruiti dalla neve. Il passaggio per il sud è bloccato fino al disgelo, che non avverrà ancora per mesi. La nostra unica fonte di salvezza è il mare, certo: io, però, la vedo in modo diverso.

«Il mio giovane nipote sostiene con orgoglio che si immolerebbe per tutti noi. Un gesto nobile, ma vano. Il suo sangue non ci sfamerebbe, se il suo sacrificio non bastasse a richiamare Grijndir. Non è del suo sacrificio che avete bisogno, ma di un capo che sappia guidarvi in battaglia. Mi riferisco ai popoli della costa del sud: le loro terre sono lontane, ma più calde delle nostre. Le loro riserve di cibo sono certo più abbondanti delle nostre. Come vostro askarl, vi guiderei in guerra e, al termine della conquista, mi assicurerei che ognuno di voi non abbia meno di quello che gli spetti.»

Volgrim rimase impassibile, ma dentro di sé avvertiva un vortice di sentimenti contrastanti. Scrutò i volti degli uomini, notando come la maggior parte sembrasse interessata alla prospettiva offerta da Iorig. Il saccheggio non era stato praticato dal popolo di Grijndir da lungo tempo, ma era una risorsa che più di una volta era stata presa in considerazione. Persino suo padre Roigkal, anni prima, aveva progettato un’incursione a sud, come soluzione estrema alla minaccia di carestia provocata da un inverno più rigido del solito. Ma allora Grijndir era giunto, rompendo la banchisa e allontanando la necessità di ricorrere alle armi.

Volgrim comprese di non aver considerato l’ipotesi del fallimento. E se il rito non avesse prodotto risultati? Se la Bestia del Mare non fosse venuta e il ghiaccio fosse rimasto intatto? Cosa gli sarebbe rimasto da fare?

Non aveva pensato a quelle domande, dando per scontato la riuscita del rito in onore del Dio degli Abissi. Iorig si era portato in vantaggio, proponendo già una soluzione in caso di mancata riuscita dei propositi di Volgrim. La gente avrebbe forse potuto vedere il ragazzo in veste di sacerdote dei sacri riti, ma mai in quella di condottiero.

Su quel campo, Volgrim non aveva possibilità di vittoria.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Acclamazione ***


Gli schiavi erano utili quando c’erano campi da coltivare. In assenza di messi da accudire, erano la prima scelta per i sacrifici rituali. La maggior parte di loro comprendeva la lingua del popolo di Grijndir, anche se la parlavano con un orribile accento e infarcendo le frasi di strani termini appartenenti alla loro lingua madre. Per molti, l’esistenza da schiavi nella terra di Volgrim era migliore di quella da uomini liberi sugli scogli su cui erano nati. La scorsa estate, le navi di Roigkal erano tornate dalla loro razzia annuale con a bordo oltre quaranta schiavi. Più che sufficienti per officiare i riti nell’anno a venire.

L’indomani, Volgrim aveva deciso, avrebbe celebrato per la prima volta la cerimonia di primavera in onore della Bestia del Mare.

L’ascia era sorretta sulla schiena da una correggia di cuoio, il manico avvolto dai ciuffi di pelliccia del mantello. Il vento si era fatto più forte. Volgrim assaporò il rude sbuffo del vento tra i capelli. Fu costretto a socchiudere gli occhi, perché la brezza gli alitava in faccia. Mancava una sola cosa allo scenario che stava osservando: il rumore della risacca della onde sulla spiaggia rocciosa. Ma presto anche questo avrebbe fatto parte di quella visione.

«Volgrim...»

L’askarl si voltò. Iorig era a pochi passi dietro di lui. Era ritto in piedi, immobile. Volgrim non sapeva come decifrare la sua espressione. Per un attimo, temette che fosse lì per toglierlo di mezzo. Erano soli, avvolti nel silenzio della baia congelata. Volgrim giurò che se lo zio avesse fatto un solo passo in avanti, avrebbe sfoderato l’ascia per affrontarlo.

«La strada che vuoi percorrere è un errore.»

In seguito a quelle parole, Volgrim credette di intravedere l’emozione dietro gli occhi grigi di Iorig. Suo zio era affranto. Per la prima volta da quando lo conosceva, osservò una sfumatura di tristezza nel suo volto. Il vento spostava i peli della sua barba, la folta chioma rossa ondeggiava nella stessa direzione.

«Di che parli?»

«I sacrifici non ci salveranno. Grijndir non è qui. Non più. Ci ha abbandonati. Dobbiamo cercare un altro modo per sopravvivere.»

«Finiscila di bestemmiare in mia presenza. Devi ricordare che adesso sono l’askarl, e ho il dovere di punire chi oltraggia il Dio degli Abissi.»

Iorig avanzò. Un movimento lento, ma deciso.

Il braccio destro di Iorig si distese. Un gesto altrettanto lento, altrettanto deciso. Avrebbe tenuto fede al suo proposito, se necessario. Doveva dimostrare a tutti, compreso se stesso, di essere degno del titolo che portava. Questo significava dover spargere sangue quando necessario. Iorig lo avrebbe reso necessario?

«La salvezza è a sud. Ci stai chiudendo in una bara di ghiaccio.»

«Sei un vigliacco, Iorig. Approfitti della fame e della paura per dominare il mio popolo. Ma loro hanno scelto me perché sanno che non sarei mai così vile da fare una cosa simile.»

«Non è di me che hanno paura» rispose Iorig, sussurrando. «È l’ignoto che temono. Sanno che io li porterei oltre i confini di ciò che conoscono, e non possono accettarlo. Per ora.»

«La tua è una minaccia? Oseresti versare il sangue del figlio di tuo fratello, il tuo stesso sangue?»

Iorig era a meno di tre passi da Volgrim. Un rapido slancio in avanti e gli sarebbe stato addosso, trascinandolo a terra e pugnalandolo fino alla morte. Volgrim non avrebbe avuto il tempo di impugnare l’ascia. Solo ora se ne rendeva conto. Gli aveva permesso di avvicinarsi troppo, senza sapere come avesse potuto permetterglielo.

«Volgrim, figlio di Roigkal, figlio di mio fratello...» mormorò Iorig, quasi più a se stesso che al ragazzo. «Questa è la domanda che mi tormenta da anni. Oserei versare il sangue della mia famiglia, per il bene della mia gente? Una domanda senza risposta. Sarebbe così facile se il dilemma coinvolgesse solo il mio, di sangue. Lo verserei volentieri, senza esitazione. Ma quello di tuo padre? Il tuo? Non lo so. La mia disperazione non è ancora tanto profonda. Fa’ in modo che non lo sia mai, Volgrim. Ricorda sempre: esiste un’altra strada.»

Iorig gli diede le spalle. Si avviò lungo il sentiero che conduceva al villaggio, allontanandosi dalle sponde congelate.

Volgrim rimase a fissarlo, interdetto. Le parole dello zio avevano inciso un segno maledetto dentro di lui, anche se non era ancora in grado di valutarne la portata. Fu tentato di richiamarlo, ma qualcosa lo fece desistere. Un rombo sordo, distante, echeggiò nella valle. Anche Iorig si arrestò, sollevando lo sguardo, in cerca dell’origine del rumore. La individuarono nello stesso momento: una valanga, a est. Intravidero un fiume di ghiaccio e neve scorrere verso il fondovalle, in lontananza, nella regione dei valichi. Troppo lontano per essere una minaccia. Tuttavia, quel fenomeno aveva un che di sinistro. Il disgelo non era ancora cominciato. Il freddo era pungente, cingeva ogni cosa in una morsa di ferro. Non era il tempo dello scioglimento dei ghiacciai e del distacco della crosta di neve delle montagne. Che cosa significava quella valanga, avvenuta in tempi tanto immaturi da essere anomala?

«È un presagio, Volgrim...» disse Iorig «... e non occorre un saggio per capire che è infausto.»

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Presagio ***


Gli schiavi erano utili quando c’erano campi da coltivare. In assenza di messi da accudire, erano la prima scelta per i sacrifici rituali. La maggior parte di loro comprendeva la lingua del popolo di Grijndir, anche se la parlavano con un orribile accento e infarcendo le frasi di strani termini appartenenti alla loro lingua madre. Per molti, l’esistenza da schiavi nella terra di Volgrim era migliore di quella da uomini liberi sugli scogli su cui erano nati. La scorsa estate, le navi di Roigkal erano tornate dalla loro razzia annuale con a bordo oltre quaranta schiavi. Più che sufficienti per officiare i riti nell’anno a venire.

L’indomani, Volgrim aveva deciso, avrebbe celebrato per la prima volta la cerimonia di primavera in onore della Bestia del Mare.

L’ascia era sorretta sulla schiena da una correggia di cuoio, il manico avvolto dai ciuffi di pelliccia del mantello. Il vento si era fatto più forte. Volgrim assaporò il rude sbuffo del vento tra i capelli. Fu costretto a socchiudere gli occhi, perché la brezza gli alitava in faccia. Mancava una sola cosa allo scenario che stava osservando: il rumore della risacca della onde sulla spiaggia rocciosa. Ma presto anche questo avrebbe fatto parte di quella visione.

«Volgrim...»

L’askarl si voltò. Iorig era a pochi passi dietro di lui. Era ritto in piedi, immobile. Volgrim non sapeva come decifrare la sua espressione. Per un attimo, temette che fosse lì per toglierlo di mezzo. Erano soli, avvolti nel silenzio della baia congelata. Volgrim giurò che se lo zio avesse fatto un solo passo in avanti, avrebbe sfoderato l’ascia per affrontarlo.

«La strada che vuoi percorrere è un errore.»

In seguito a quelle parole, Volgrim credette di intravedere l’emozione dietro gli occhi grigi di Iorig. Suo zio era affranto. Per la prima volta da quando lo conosceva, osservò una sfumatura di tristezza nel suo volto. Il vento spostava i peli della sua barba, la folta chioma rossa ondeggiava nella stessa direzione.

«Di che parli?»

«I sacrifici non ci salveranno. Grijndir non è qui. Non più. Ci ha abbandonati. Dobbiamo cercare un altro modo per sopravvivere.»

«Finiscila di bestemmiare in mia presenza. Devi ricordare che adesso sono l’askarl, e ho il dovere di punire chi oltraggia il Dio degli Abissi.»

Iorig avanzò. Un movimento lento, ma deciso.

Il braccio destro di Iorig si distese. Un gesto altrettanto lento, altrettanto deciso. Avrebbe tenuto fede al suo proposito, se necessario. Doveva dimostrare a tutti, compreso se stesso, di essere degno del titolo che portava. Questo significava dover spargere sangue quando necessario. Iorig lo avrebbe reso necessario?

«La salvezza è a sud. Ci stai chiudendo in una bara di ghiaccio.»

«Sei un vigliacco, Iorig. Approfitti della fame e della paura per dominare il mio popolo. Ma loro hanno scelto me perché sanno che non sarei mai così vile da fare una cosa simile.»

«Non è di me che hanno paura» rispose Iorig, sussurrando. «È l’ignoto che temono. Sanno che io li porterei oltre i confini di ciò che conoscono, e non possono accettarlo. Per ora.»

«La tua è una minaccia? Oseresti versare il sangue del figlio di tuo fratello, il tuo stesso sangue?»

Iorig era a meno di tre passi da Volgrim. Un rapido slancio in avanti e gli sarebbe stato addosso, trascinandolo a terra e pugnalandolo fino alla morte. Volgrim non avrebbe avuto il tempo di impugnare l’ascia. Solo ora se ne rendeva conto. Gli aveva permesso di avvicinarsi troppo, senza sapere come avesse potuto permetterglielo.
«Volgrim, figlio di Roigkal, figlio di mio fratello...» mormorò Iorig, quasi più a se stesso che al ragazzo. «Questa è la domanda che mi tormenta da anni. Oserei versare il sangue della mia famiglia, per il bene della mia gente? Una domanda senza risposta. Sarebbe così facile se il dilemma coinvolgesse solo il mio, di sangue. Lo verserei volentieri, senza esitazione. Ma quello di tuo padre? Il tuo? Non lo so. La mia disperazione non è ancora tanto profonda. Fa’ in modo che non lo sia mai, Volgrim. Ricorda sempre: esiste un’altra strada.»

Iorig gli diede le spalle. Si avviò lungo il sentiero che conduceva al villaggio, allontanandosi dalle sponde congelate.

Volgrim rimase a fissarlo, interdetto. Le parole dello zio avevano inciso un segno maledetto dentro di lui, anche se non era ancora in grado di valutarne la portata. Fu tentato di richiamarlo, ma qualcosa lo fece desistere. Un rombo sordo, distante, echeggiò nella valle. Anche Iorig si arrestò, sollevando lo sguardo, in cerca dell’origine del rumore. La individuarono nello stesso momento: una valanga, a est. Intravidero un fiume di ghiaccio e neve scorrere verso il fondovalle, in lontananza, nella regione dei valichi. Troppo lontano per essere una minaccia. Tuttavia, quel fenomeno aveva un che di sinistro. Il disgelo non era ancora cominciato. Il freddo era pungente, cingeva ogni cosa in una morsa di ferro. Non era il tempo dello scioglimento dei ghiacciai e del distacco della crosta di neve delle montagne. Che cosa significava quella valanga, avvenuta in tempi tanto immaturi da essere anomala?

«È un presagio, Volgrim...» disse Iorig «... e non occorre un saggio per capire che è infausto.»

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Sacrificio ***


Bjria osservava Volgrim. I lunghi capelli ramati le ricadevano sulle spalle.

«Hai già scelto?»

Volgrim, al riparo dell’ombra di casa, scrutava l’esterno, in direzione della capanna degli schiavi. L’edificio in legno e paglia ospitava, sotto lo stesso tetto, cinquantacinque schiavi, uomini e donne. Per il primo rito, che si sarebbe tenuto il giorno seguente, avrebbe dovuto sceglierne uno.

«Sceglierò domani. Uno o l’altro, non fa differenza.»

«Sai che non è così» disse Bjria. «Anche le mele dello stesso albero hanno un sapore diverso.»

«Grijndir vuole sangue. E sangue gli darò.»

«Grijndir vuole un sacrificio. Il sacrificio comporta una privazione, un dolore. Se non c’è sofferenza nel sacrificio, non vale nulla.»

«Devo affezionarmi agli schiavi prima di ucciderli? Questo è ridicolo. Mio padre non l’ha mai fatto.»

«No, non lo faceva. Ma puoi star certo che quei sacrifici erano per lui fonte di autentico dolore.»

Volgrim non disse nulla. La mente rifiutava le parole di sua madre, ma in cuor suo un ricordo continuava a gravargli nel petto. Era il ricordo dell’unica cerimonia che aveva presieduto accanto a suo padre, l’anno prima. Nel solo, fuggevole attimo in cui aveva sollevato lo sguardo verso di lui, Volgrim aveva scorto un rivolo di lacrime scorrere sulle guance di Roigkal. Il volto era impassibile, i lineamenti duri e la mascella serrata, ma gli occhi tradivano una tristezza sconfinata. Bjria aveva ragione. Roigkal soffriva, durante l’esecuzione del rito. Ma perché?

 «Te lo avrebbe spiegato, se ne avesse avuto il tempo.»

«Ma non l’ha avuto, e ora il popolo mi ha scelto. Devo essere all’altezza del compito che mi ha affidato. Domani darò inizio ai Giorni del Sangue, e farò sì che ci portino la benedizione di Grijndir» disse Volgrim. «Ne abbiamo disperato bisogno.»

Bjria non proseguì la conversazione. Distolse lo sguardo, osservando il cielo nuvoloso oltre la finestra. Il tempo diventava più rigido. Il vento continuava a portare brina, il ghiaccio del mare si estendeva sempre più lungo la terraferma.
 

***


Il primo Giorno di Sangue vedeva la sua alba, con alcune centinaia di uomini ad accoglierlo. Il sole era minuscolo e pallido all’orizzonte, avvolto da una coltre perlacea di bruma. L’ululato del vento aleggiava per tutta la vasta pianura, provenendo dal mare.

Volgrim guidava la processione, avanzando sul sentiero di rocca che conduceva alla spiaggia. Dietro di lui una giovane schiava valchimera, le mani legate. La ragazza procedeva con la schiena curva, coperta da una semplice tunica di lana grezza, che le lasciava scoperte le braccia e le gambe. I piedi erano avvolti da un groviglio di stracci. Il volto era nascosto dalla massa di capelli arruffati, le cui ciocche erano sospinte sulla faccia dagli sbuffi di vento. Volgrim la udì mormorare qualcosa, pronunciato nella sua lingua natia, che non riuscì a comprendere.

A seguirli c’era l’intero popolo di Grijndir, che camminava con cerimoniosa lentezza, nel più assoluto silenzio. Il crepitare delle rocce sotto i loro piedi si trasformò in uno scricchiolio quando il peso della processione gravò sulla distesa di ghiaccio che era il regno della Bestia del Mare.

Volgrim proseguì a lungo, mettendo una certa distanza tra la loro posizione e la terraferma. Il vento spirava più forte, l’ululato si fece più assordante. L’askarl decise di fermarsi. A debita distanza, il popolo di Grijndir fece altrettanto.

La giovane valchimera fissò gli occhi su di lui. Erano grandi, verdi come l’acqua marina d’estate, liquidi. Volgrim scorse una fiera determinazione dentro di essi. Sapeva quello che stava per succedere, ed era pronta ad affrontarlo.

Volgrim lasciò che la pelliccia gli scivolasse di dosso. Espose il proprio torso nudo all’insulto del vento, l’ascia stretta nei pugni. Fronteggiò la ragazza. Per un attimo, si fissarono negli occhi. Volgrim vedeva bene cosa c’era in quelli di lei, ma non aveva la minima idea su cosa esprimessero i suoi in quel momento. Erano fieri come quelli della giovane? Ne dubitava. Che cosa vi regnava, allora? Dubbio? Ripensamento? Paura, magari? Non lo sapeva. Né aveva intenzione di scoprirlo, perché dopotutto sapere certi dettagli era solo un ostacolo.

L’estremità dell’ascia toccò le ginocchia di lei. Una, due volte. Infine, la ragazza capì che doveva inginocchiarsi. Lo fece lentamente, prima un ginocchio e poi l’altro. Volgrim si spostò sul suo lato destro. La pianta dei suoi piedi era nera, semicongelata, in alcuni punti si vedevano lesioni da freddo. La pelle scoperta di lei era bianca come un cencio, le labbra bluastre. Non avrebbe resistito a lungo. Volgrim doveva fare in fretta.

Sollevò l’ascia. Il popolo di Grijndir osservò con attenzione quel gesto, teso al limite del punto di rottura.

Un urlo eruppe dalla bocca dell’askarl. Il nome del Dio degli Abissi venne evocato con tutta l’aria contenuta nei suoi polmoni. Il grido si protrasse per innumerevoli secondi, che parvero minuti, che parvero ore. Il vento trasportò quella voce a ogni uomo presente.

Poi, l’ascia calò.

Il rumore fu quello di un frutto molle che si spiaccica a terra, precipitando dal ramo. Il corpo della giovane valchimera si abbatté sul pavimento di ghiaccio. Volgrim rimase a osservare la ferita aperta nel suo cranio. I capelli color grano tentavano di nasconderla, ma non potevano celare il fiume di liquido rosso che da essa sgorgava, abbondante e lento, intingendo il ghiaccio di nettare che avrebbe richiamato il grande Grijndir.
 

***


«Come è stato?» chiese Bjria. «Che cosa hai  provato?»

Volgrim era davanti al fuoco. Il riflesso delle fiamme dava vita a un’oscura danza di ombre sulla sua pelle, mentre gli occhi scintillavano di un bagliore rossastro.

«Non ho provato nulla. Andava fatto.»

«Certo, è così. Ma hai ucciso. Tuo padre provava sempre qualcosa.»

«Io non sono mio padre.»

Volgrim si alzò, fuggendo dal camino, fuggendo dalla casa, fuggendo da sua madre. Il freddo sembrava aumentare, fuori. Il vento si era placato, ma la neve ricopriva ancora tutto. Il mare era meglio non guardarlo. Quell’infinita distesa di ghiaccio aveva il potere di renderlo pazzo.

Il rito non aveva avuto esito, quel giorno. Non era un evento inconsueto. Spesso era così, Grijndir non si presentava al primo sacrificio. A volte ne occorrevano quattro o cinque, prima che il suo corno emergesse dagli abissi a dilaniare la crosta ghiacciata della banchisa. Tuttavia, Volgrim si sentiva a disagio, teso come non era mai stato in tutta la sua vita.

«Dove sei, Grijndir?» si sorprendeva a mormorare sempre più spesso. «Perché ci metti tanto?»

Ad accrescere la tensione di Volgrim era la necessità di un nuovo sacrificio. E poi di un altro ancora, magari. E ancora un altro, finché la Bestia del Mare non avesse deciso che poteva bastare, che il sangue versato era sufficiente. Ma quando sarebbe giunto quel momento? Quanti schiavi avrebbe dovuto ammazzare, quante volte l’ascia sarebbe calata sul cranio di un uomo o di una donna?

O di un bambino?

C’erano bambini tra gli schiavi, alcuni dei quali nati durante la prigionia.

«Non sono come noi» ripeteva Volgrim, sottovoce, quand’era certo che nessuno potesse sentirlo. «Non sono come noi. Non sono come noi. Non sono come noi

Passeggiò fino alla distesa di ghiaccio. Proseguì fino al luogo che avrebbe voluto evitare a ogni costo. Vide la macchia di sangue secco, congelato. Era ancora nitida, i bordi sfrangiati, il rosso acceso. Avrebbe attirato un branco di lupi, se ci fossero stati lupi da attirare.

Ma non c’erano.

Forse, non c’era neanche Grijndir.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Dubbio ***


Il secondo giorno di riti ebbe inizio. Un’altra processione, un altro rito da consumarsi nell’atmosfera cristallizzata della pianura ghiacciata. Due schiavi, due ragazzi. Uno alto, i capelli rasati, gli occhi pesti e il torace scheletrico, nudo dalla cintola in su, i piedi nudi. Era uno di quelli che non si rassegnavano, che fino all’ultimo aveva lottato con i guardiani. Ora sembrava più docile. Le palpebre serrate, lo sguardo basso. Una nuvola di vapore come respiro, a galleggiare davanti al suo volto per pochi istanti, prima di svanire.
 
Volgrim lo fece inginocchiare. Udiva le sue parole, un brontolio di parole inconsulte. Una preghiera nella sua lingua, forse. Oppure una maledizione. O magari, il semplice farfugliare a vuoto di un condannato a morte, la cui mente si sia rifugiata nella pazzia.

La lama colpì precisa, un fendente netto alla base della nuca. La testa rimase attaccata, come Volgrim voleva che fosse. Non era un’usanza del suo popolo separare le parti del corpo di un uomo. Recidergli la testa sarebbe stato considerato un sacrilegio. Una delle tante regole da tenere bene a mente durante l’esecuzione dei riti.
 
Il sangue inondò la lastra di ghiaccio. La pozza di liquido denso si allargava lentamente, ricoprendo la polvere di neve che lo circondava da ogni parte.
Il secondo ragazzo era in uno stato peggiore. Tremava, ma non per il freddo. La sua pelle era ricoperta di lividi e cicatrici, non c’era più nemmeno un dente nella sua bocca. Gli occhi non esistevano più, sostituiti da un poltiglia bruciata. Avevano usato il ferro rovente con lui, nella speranza di renderlo mansueto. In effetti, era piuttosto calmo. Non aveva visto la fine del compagno, né poteva vedere Volgrim e la sua ascia calare su di lui. Forse avrebbe pianto, se avesse avuto ancora gli occhi. Volgrim notò una sottile crosta giallastra sulla sua gamba sinistra. L’urina si era congelata sulla sua pelle.

Lo fece inginocchiare. Sollevò l’ascia.

Volgrim si era ripromesso di mantenere una concentrazione totale durante il rito. Così aveva fatto il giorno prima, con la giovane valchimera, e così quel giorno. Eppure, quel ragazzo ebbe il potere di far vacillare la sua attenzione. Che cosa fu a distrarlo, Volgrim non lo avrebbe mai capito. Quando l’ascia calò, colpì più in basso rispetto a dove aveva mirato. La lama penetrò a fondo nella carne, non sul cranio, ma nella parte alta della schiena. Volgrim sentì le vertebre incrinarsi, e poi le urla. Il ragazzo crollò a terra, vivo. Lo vide contorcersi, in preda a un dolore che nessun uomo vivo poteva comprendere. Le gambe e le braccia rimanevano immobili, ma le spalle e la testa si muovevano in modo forsennato, gridando con tutta la disperazione di una sofferenza indescrivibile.

Volgrim alzò d’istinto l’ascia una seconda volta. Ma si interruppe, bruscamente.

Un fendente, un sacrificio.

Se ne era ricordato appena in tempo. Non era consentito infierire più di un colpo. Doveva lasciarlo morire da solo, nessun altro fendente poteva toccarlo. Nel momento in cui usciva il primo sangue, il sacrificio apparteneva a Grijndir. Colpirlo una seconda volta, in maniera più precisa, era blasfemo.

Volgrim lo guardò morire in agonia. Ci impiegò molto, almeno due ore. Il freddo rese più difficile il suo trapasso. La macchia di sangue, alla fine, fu talmente ampia da includere sia il ghiaccio dove giaceva il cadavere sia quello dove si ergeva Volgrim, che rimase immobile a lungo, a guardare, dopo che tutti se n’erano andati.
 
***

«Perché mi hai chiesto che cosa ho provato, l’altro giorno, quando ho ucciso quella schiava?»

Era inutile usare mezzi termini. Sacrificato, immolato, consacrato o qualsiasi altro giro di parole avrebbe solo reso più difficile la conversazione. Uccidere era uccidere.
Bjria non mostrò sorpresa per il fatto che Volgrim avesse adoperato a quella parola così brutale. Volgrim le fu grato per questo.

«Volevo sapere che cosa provavi durante un sacrificio.»

«Ho detto che non provavo nulla» disse Volgrim. «Volevo che fosse così, in realtà. Ma mi sbagliavo. Non è così. Non è per niente così.»

«Lo so. Lo temevo.»

Bjria si accostò al figlio, piegato in due su una panca, intento a fissare il pavimento.
«Hai intenzione di continuare?»
 
«Quale scelta mi rimane?»

«Non sei obbligato a fare tutto questo. Forse non sei ancora pronto.»

Volgrim rizzò la testa di scatto. Era sgomento, i suoi occhi si fecero gelidi. Si sentiva tradito.

«Tutto il popolo ha lo sguardo fisso su di me, e sento che già si rammarica di avermi scelto. Iorig è là fuori, da qualche parte, che aspetta solo che commetta un errore. Le mie mani sono luride di sangue, ho ucciso tre persone e dovrò ammazzarne altre, e di Grijndir ancora nessun segno. Avrei sperato che almeno mia madre mi offrisse il suo appoggio, o che almeno rimanesse l’unica persona a non dubitare di me.»

«Io non dubito di te, Volgrim. Ma non so dove ti porterà questa strada, e ho paura.»

«Per adesso mi porta fuori di qui.»

Volgrim afferrò la pelliccia, la indossò e uscì spalancando la porta con uno spintone, senza curarsi di richiuderla alle sue spalle.

Bjria attese a lungo prima di affacciarsi alla soglia.
 
***

«Oggi è il terzo giorno» disse Holf val’Hulf, sputando per terra. «Se anche oggi non succede niente, si dovrà fare qualcosa.»

«E che cosa vorresti fare esattamente, Holf?» domandò Bjorik val’Kjorn. Il tono della sua voce era pacato, addirittura sereno. Pareva un vecchio saggio che ascolti con pazienza le spiegazioni di un bambino con poco sale in zucca.

«Se lo sapessi, l’avrei già detto!» esclamò Holf, diventando paonazzo.

«Non è colpa dell’askarl, se il Dio degli Abissi non ha fatto ritorno. I riti sono stati eseguiti alla perfezione, finora.»

«Non sarà colpa del ragazzo, ma Holf ha ragione: qualcosa bisogna pur fare» a intervenire era stato Algwi il Boscaiolo.

«E tu cosa proporresti di fare, Algwi?» Con Algwi, il tono di Bjorik era diventato ancora più paziente. Questa volta, il vecchio saggio ascoltava un povero idiota.

«Beh, la proposta di Iorig era interessante. Insomma, muoverci a sud. Trovare altri villaggi e... prendere il cibo.»

«Rubarlo, vuoi dire. Bruciare villaggi, stuprare donne e saccheggiare raccolti. Un’impresa degna del popolo di Grijndir» la voce di Bjorik aveva perso la sua pacatezza. Il disprezzo, ora, trasudava chiaramente dalle sue parole.

«Non lo vorrei fare, ovvio. Ma quale scelta abbiamo? Non sarà un’impresa degna, ma senza quell’impresa il nostro popolo cesserà di esistere.»

Bjorik si morse la lingua. Avrebbe voluto ribattere, ma non c’era motivo di farlo. Holf e Algwi ormai avevano un’opinione ben precisa su quello che c’era da fare. Non sarebbe stato lui a far loro cambiare idea. Il problema era un altro. Quanti altri sarebbero stati convinti dal ragionamento di Algwi? A quanti la parola di Iorig suonava di giorno in giorno più convincente?

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Rivelazione ***


Il recinto degli schiavi era situato all’ombra di una piccola foresta di pini bianchi. Gli aghi che sporgevano dai rami erano intirizziti dal gelo, ricoperti da un sottile strato di brina. Accanto alle radici si sollevava la staccionata di legno, sovrastata da un tetto di paglia. I muri di pietra permettevano al calore di ristagnare al suo interno, alimentato dal fiato di quaranta schiavi incatenati alle pareti. Nessuno di loro apparteneva al popolo di Grijndir: la schiavitù per un uomo del popolo era contemplata solo per crimini molto gravi, di cui nessuno si macchiava da decenni.

Quegli schiavi erano per la maggior parte valchimeri, strappati alle loro tribù isolane, oppure valigeri, trascinati in mezzo alle montagne dalle loro pianure a ovest. Erano stati falegnami, fabbri, contadini nelle loro terre. Nessuno di loro era un guerriero. I loro sguardi erano bassi, fissi sul suolo congelato che faceva da pavimento. Fissavano negli occhi i loro padroni solo nel momento del sacrificio.

«Non mi aspettavo di trovarti qui.»

La voce era quella di Bjorik val’Kjorn. Volgrim si voltò verso di lui, sollevando la testa per osservarlo negli occhi, dal momento che il vecchio lo sovrastava di tutta la testa.

«Mi stavi cercando?»

«Sì, a dire il vero. Avrei voluto parlarti fin dal primo giorno, ma ho preferito aspettare. Mi sono reso conto di non poter attendere oltre.»

«È per i riti, immagino. E per Iorig.»

Bjorik si accostò al giovane askarl. Entrambi guardarono in direzione della capanna, fissando gli spazi bui al suo interno, nei quali stavano rannicchiati gli schiavi. Nessun rumore giungeva all’esterno.

«Sono solo pochi giorni che sei askarl, e sei più debole che mai. Grijndir non appare, il freddo aumenta e il cibo è sempre più scarso» disse Bjorik, senza giri di parole.
«Oggi è il terzo giorno di sacrificio. Se anche oggi non avviene nulla, temo che Iorig prenderà il potere.»

«Hai sentito delle voci?»

«Molto più che voci. La gente è stremata, Volgrim. Sono tentati dalla via di Iorig. Vogliono correre a razziare a sud. Ogni giorno che passa trovano meno motivi per restare fermi ad assistere ai riti. Grijndir si sta facendo attendere troppo a lungo. Anche i più devoti cominciano a dubitare.»

«Bjorik, hai consigliato a lungo mio padre e ti chiedo di consigliare anche me. C’è qualcosa che posso fare? Che cosa posso aver trascurato?»

«Tuo padre ti ha istruito sull’esecuzione dei riti, immagino.»

Volgrim, d’istinto, inclinò la testa e osservò la punta dei suoi stivali immersa nella neve. Si obbligò a risollevare il capo.

«In parte. La mia conoscenza non è completa.»

Bjorik aggrottò la fronte. La sua voce si fece cupa.

«Ricordo un passo dal tuo discorso al Consiglio, che mi è rimasto impresso: non temo la cerimonia e non temo il sacrificio richiesto. Da queste parole, io e molti altri nel Consiglio abbiamo inteso che tuo padre ti avesse insegnato la parte più importante del rito del sacrificio.»

Volgrim rimase in silenzio. Attese che Bjorik continuasse, poiché non era sicuro di sapere che cosa intendesse dire.

«Non basta versare sangue per richiamare Grijndir. Se il sacrificio fosse solo questo, a che servirebbero gli schiavi? Perché affrontare una lunga traversata ogni anno per catturarli? Sacrificare animali sarebbe più semplice» spiegò Bjorik. «No, Grijndir non vuole questo. Il sangue che pretende è un’offerta di dolore. Grijndir vuole pena. Sofferenza. È di questo che si ciba. È questo che lo richiama, che fa sì che non ci abbandoni e che ogni anno lo faccia riemergere dagli abissi per distruggere il ghiaccio che ci intrappola.»

Volgrim rimase in silenzio. Ricordò che sua madre gli aveva fatto un discorso simile. Anche lei aveva parlato di qualcosa del genere. Ma Volgrim continuava a non comprendere.

«Come posso soffrire, mentre sacrifico uno schiavo? Provo qualcosa, ma so che non è abbastanza. Uccido, e questo non mi piace. Ma non provo neanche pena. Mia madre dice che Roigkal soffriva, quando compiva il rito. Perché?»

Bjorik lo guardò negli occhi.

«Tua madre non te l’ha detto?»

Volgrim scosse la testa.

«Non c’è sofferenza più grande del versare il proprio sangue. Questo tuo padre lo sapeva bene» disse Bjorik, gli occhi socchiusi, come a rievocare ricordi sepolti nella memoria da troppo tempo. «Ha perso tre figli prima di te, lo sapevi? Tutti uccisi dal freddo o dalla fame. E prima ancora, due fratelli. Suo padre e sua madre morirono quando lui e tuo zio erano ancora giovani. Iorig era l’unico membro della famiglia che gli fosse rimasto. Roigkal comprendeva a fondo la natura del rito. Sapeva che occorreva dolore per attirare Grijndir. Il dolore più grande che conoscesse era quello della perdita della propria famiglia. Un dolore tanto grande avrebbe sicuramente portato Grijndir sulle nostre sponde, ma come rievocarlo? Non avrebbe mai sacrificato Iorig, mai. Per quanto grande fosse la necessità di spezzare la banchisa, tuo padre non avrebbe mai sollevato l’ascia contro l’unico fratello che gli era rimasto.

«Lui e tuo zio, assieme ai guerrieri del popolo, cominciarono a fare razzie sulle isole. All’inizio era solo per ricavarne oro e pelli, ma poi Roigkal li condusse nella nostra terra, costruì i capanni e li imprigionò lì. Li nutriva e li faceva sorvegliare, li costringeva a lavorare, e per molto tempo nessuno contrastò la sua decisione. Quando l’inverno arrivava, però, si parlava apertamente di lasciarli morire. Erano bocche da sfamare, e non potevano permetterci di sprecare le nostre riserve per loro. Ma Roigkal si opponeva con fermezza. Arrivò a fare la guardia lui stesso ai capanni, per esser certo che nessuno toccasse gli schiavi. Verso gli ultimi anni, mi rivelò cos’era a giustificare quel comportamento.

«Roigkal doveva soffrire durante un sacrificio. L’uccisione doveva portargli autentico dolore. Ma per quanto si sforzasse, non provava nulla per gli schiavi. Non capiva la loro lingua, il loro pensiero, non gl’importava affatto che vivessero. Fu così che diede vita a degli schiavi che gli fossero consanguinei.»

Volgrim aveva le orecchie spalancate. Quell’interruzione non era casuale. Bjorik aveva concesso un istante a Volgrim affinché comprendesse la portata di quelle parole.

«Stai dicendo che mio padre... ha avuto figli con le schiave?»

«Sì, ne ha avuti diversi. Ha dovuto attendere anni per lasciare che crescessero, e quando i primi di loro furono pronti, li immolò sul ghiaccio. E Grijndir venne.»

Volgrim non voleva ascoltare, ma non poteva farne a meno.

«Ogni anno, Roigkal uccideva uno dei suoi figli, avuti con una schiava. Lo ha fatto per molti anni. Ha garantito la nostra sopravvivenza per tutto questo tempo.»

«Questo non ha senso» ribatté Volgrim. I suoi pugni erano chiusi, frementi.

Bjorik lo osservava, lo sguardo impassibile. Nella sua barba erano disseminate gocce di neve sciolta, che formava rivoletti che colavano fino alla punta.

«Come facevano gli askarl prima di lui a richiamare il Dio degli Abissi? Quale sangue veniva versato per compiacere Grijndir?»

Bjorik sospirò. Quell’argomento lo metteva a disagio, ma dall’espressione sul suo volto Volgrim comprese che era deciso a portarlo avanti.

«Uccidevano i loro fratelli. Quando non ne avevano, sacrificavano le mogli. E se il gelo o il fato li avevano privati anche di questo, toccava ai figli. Tuo padre è stato il primo a trovare il modo di... aggirare la tradizione» disse Bjorik. «Ha continuato a versare il suo stesso sangue, e a continuato a provare un dolore sufficiente affinché Grijndir ne venisse attirato e non offeso.»

«Stai dicendo che ho offeso Grijndir? Per questo ignora le nostre suppliche?»

Bjorik non lo guardò in faccia. In quegli ultimi istanti, era come se il vecchio si ostinasse a evitare lo sguardo di Volgrim. Non voleva incrociare i suoi occhi, come se temesse di trasmettergli qualcosa che doveva restare celato. Rispose con un filo di voce.

«È possibile, Volgrim. È possibile.»

Bjorik si allontanò, la neve scricchiolava assordante sotto i suoi piedi. Volgrim rimase solo, dinanzi alla capanna degli schiavi.

Una parte di sé aveva già compreso. La sua mente rifiutava ancora di comprendere, ma non avrebbe resistito a lungo. Era il dolore il sacrificio richiesto. Volgrim aveva sacrificato solo carne, un dono che non poteva interessare in alcun modo a Grijndir. Quale dolore aveva da offrire, per ripagare la Bestia del Mare dei miserabili doni che aveva immolato finora?

Non poteva più fingere di non sapere. La risposta era lì, non poteva più essere allontanata. Più vi rimuginava, più cercava una scappatoia, e più la sua inesorabile realtà gli piombava addosso, costringendolo alla decisione.

Perché era sua madre, che avrebbe dovuto sacrificare.

L’unica persona che gli fosse rimasta da amare, l’unica che amasse. Solo la sua morte poteva provocare quel dolore incontenibile in grado di risvegliare, dal profondo dell’oceano, la Bestia del Mare. 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Dolore ***



 
Le sue ginocchia cedettero, affondarono nella neve morbida. Anche le mani precipitarono nel manto candido, inzuppandosi di quell’acqua così gelida che sembrava pervadergli le vene. La sua schiena inarcata tremava, senza che il freddo fosse coinvolto in quegli spasmi. Volgrim voleva urlare, anche se questo non sarebbe servito a nulla, voleva sfoderare l’ascia e abbattere quanti più uomini possibile, fare a pezzi una volta per tutte quel ghiaccio maledetto, spaccarlo con tale violenza da far sì che mai più, finché fosse esistito l’uomo, il ghiaccio avesse potuto riformarsi. Ma era follia, naturalmente. Pur in preda all’angoscia, Volgrim lo capiva.

L’ascia sulla sua schiena gravava come un macigno. Desiderò scagliarla lontano, oltre le vette, oltre il mare, oltre ogni cosa.

“Tu lo sapevi, padre” pensò Volgrim, gli occhi sbarrati. “Me lo avresti detto, mi avresti fatto unire agli schiavi, così che generassi i sacrifici del futuro?”

Ma ora non c’era più tempo. Non poteva ricorrere ai metodi usati da suo padre. Restava solo una via da percorrere, l’antica tradizione. Il sangue dell’askarl. Doveva versarlo, doveva ridare vigore ai riti nella loro forma più ancestrale, più maledetta. Quella che tutti avevano voluto dimenticare.

“Per questo mi hanno scelto” capì Volgrim, decifrando le parole di Bjorik. “Hanno inteso che io avrei fatto questo. Le mie stesse parole mi hanno tradito. È come se avessi detto, davanti al Consiglio, che sarei stato disposto a uccidere mia madre pur di compiere il rito. Iorig non avrebbe mai potuto farlo. Lui non ha nessuno per cui versare lacrime. Nessuna morte lo colmerebbe del dolore necessario. È questo che li ha convinti. Tutti, in quel momento, sapevano. Tutti, tranne me.”

Sentì lo stomaco aggrovigliarsi. Riversò il contenuto dello stomaco sulla neve, incapace di trattenerlo oltre. Quando risollevò la testa, una dozzina di occhi lo fissavano dal bordo della capanna. Sguardi perplessi, per la maggior parte. Molti lo fissavano con paura, altri con aperto disprezzo. Uomini e donne, di tutte le età.

“Molti di loro sono miei fratelli e sorelle. Non saprò mai esattamente chi di loro mi è parente, so solo che mio padre li avrebbe uccisi per non uccidere mia madre e me. E Iorig. Io avrei dovuto fare altrettanto, una volta pronto. Ma non sarò mai pronto. Non sono abbastanza forte per fare questo. Io non sono un askarl.”

Il frastuono della valanga lo distrasse dai suoi pensieri. Un’immensa distesa di ghiaccio slittava verso una delle valli a est, infrangendosi contro le foreste di abeti. Un grosso pezzo della crosta ghiacciata si era distaccata in prossimità del sentiero che conduceva ai valichi. Era lontana, ma era avvenuta in una regione più vicina alla loro, rispetto a quella che l’aveva preceduta.

“Le valanghe si avvicinano. Perché? In nome degli déi che dimorano nelle cieche profondità del mare, che sta succedendo alla mia terra? E che cosa succederà a noi tutti?”

 
***
 
Bjria sentì la porta aprirsi.

Il cigolio si protrasse a lungo, accompagnato dal sibilo del vento che soffiava all’esterno. Sentì i passi pesanti di suo figlio sul pavimento di pietra, attutiti dalla neve sotto gli stivali. Volgrim richiuse la porta, ma il vento continuò a ululare oltre la soglia. Lo sguardo di Volgrim val’Roigkal era fisso a terra, le braccia distese sui fianchi, i pugni serrati. Bjria fu convinta di scorgere la sua sagoma tremare, ma poteva sbagliarsi. Non era facile distinguere i movimenti nella penombra.

«Non ti senti bene?»

Volgrim non rispose. Non sapeva cosa dire.

Bjria si avvicinò. Volgrim non alzava lo sguardo e non si muoveva. Quando gli appoggiò le mani sulle spalle, comprese che non si era sbagliata: suo figlio tremava, in maniera impercettibile, ma inequivocabile. Percepì quel tremore anche sotto lo strato di pelliccia che lo ricopriva.

«Che cosa succede?»

«Ho capito cosa devo fare.»

Bjria non disse nulla. La sua presa sulle spalle di Volgrim si fece più salda. Sapeva che quel momento era vicino, che era solo questione di tempo prima che piombasse su di loro.

«Volgrim... non c’è altra scelta.»

Finalmente, Volgrim sollevò il capo e i suoi occhi incrociarono quelli di sua madre.

«Tu sapevi.»

«Sì, anche se ho preferito fingere di no» mormorò lei. «Come tutte le cose brutte, ho cercato di ignorarla per quanto possibile. Ho voluto dimenticare, mi sono comportata come se non sapessi niente, ma è qualcosa che non si può fare a meno di ricordare. Sarà più difficile per te che per me, credo.»

«Tu capisci che lo devo fare, vero?»

Bjria accarezzò il volto di suo figlio. Era gelido, c’erano sottili croste di ghiaccio sulla pelle.

«Io lo capisco, figlio mio. Spero che un giorno anche tu lo capirai. E lo accetterai.»

 
***
 
Volgrim sentiva il ghiaccio tremare sotto i piedi. Era vero, o era solo un’illusione?

L’ascia era così difficile da sollevare. Il duro legno di quercia era saldo sotto la sua presa, liscio come roccia levigata, eppure avvertiva delle spine su di esso. Voleva lasciarlo scivolare dalle mani, che cadesse sulla lastra innevata sotto di sé, che sprofondasse negli abissi.

Invece l’ascia si sollevò. Un gesto su cui non aveva il controllo. La lama mandò un bagliore argenteo, riflettendo la pallida luce del sole che faceva capolino oltre lo strato di nubi grigiastre. Puntini bianchi si depositavano sul metallo nero, galleggiando nell’aria come privi di peso. Toccavano il ferro e sparivano. Il bianco spariva, lasciando solo il nero del ferro e il nero del sangue secco rappreso. Non si poteva pulire quel sangue, per quanti sforzi si impiegassero.

Centinaia di occhi su di lui e sull’ascia. Là in mezzo, anche quelli di Iorig.

Che cosa stai pensando, adesso? Non credevi che sarei arrivato a questo? Solo un bambino piagnucoloso, che non alzerebbe un dito contro la propria madre, questo pensavi di me. Ti sbagliavi. E anche voi tutti, bastardi figli di Grijndir, non pensavate che l’avrei fatto veramente. Mi avete scelto per sfidarmi, per mettermi alla prova. Eccola qui, la vostra prova. Sacrificherò la mia stessa madre. Perché io non sono un ragazzino spaventato. Io sono Volgrim val’Roigkal, sono un uomo, e sono il vostro askarl.

I muscoli erano rigidi, ma avrebbero obbedito. Attendevano solo la sua volontà, per muoversi. Un ordine che tardava ad arrivare.

Perché esiti? Lei è d’accordo. Lei sapeva che saremmo giunti a questo. Non le fai del male. Lei lo vuole.

Non poteva farlo, mentre guardava sua madre. Ma doveva. Non poteva permettersi uno sbaglio. E se fosse successo come l’ultima volta? Se la mira fosse stata difettosa, avrebbe condannato Bjria a una morte atroce. Se fosse successo, non avrebbe potuto tollerarlo. Sarebbe intervenuto, a costo di profanare i riti. E sarebbe stata la fine.

Potrei lasciar perdere. Rinunciare.

Rinunciare... quell’idea lo solleticò, per un istante. Abbandonare la cerimonia, l’ascia di suo padre, Grijndir, la sua terra, le montagne, tutto ciò che possedeva. Poteva cedere il titolo a Iorig, in cambio della promessa di avere salva la vita di sua madre. Iorig non era degno di fiducia, ma non avrebbe avuto motivo di negargli quell’accordo: che vantaggio ne avrebbe ricavato? Una volta rinunciato al titolo, per Volgrim e Bjria esisteva un solo destino. L’esilio nelle regioni oltre i valichi.

Quella degli esuli era una vita di miseria.

Rinunciare.

No, nessuna rinuncia. Nessun esilio. Non era quello il destino di Volgrim val’Roigkal.

Perdonami.

Lei non si mosse. Sentì l’ascia calare sulla sua nuca, eppure non sussultò. Il colpo fu preciso. Una nuvola di capelli rossi si allargò nell’aria gelida, fluttuando per un breve istante prima di ricadere al suolo, trascinati dal peso morto del corpo che crollava, inerte.

Il sangue zampillava dalla voragine nel cranio. Sangue gocciolava dalla lama dell’ascia. Un mondo immerso nel sangue.

Volgrim urlò. Il nome di Grijndir riecheggiò, trasportato di eco in eco, fino alle vallate più remote circoscritte dalle montagne silenziose.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Tradimento ***




Iorig val’Rundor avanzò nella foschia del mattino. Il gelo era persistente in quei giorni, più duro del ghiaccio che copriva il mare. Lo scricchiolio dei suoi piedi sulla neve che ammantava il terreno annunciò il suo arrivo presso la capanna di Holf val’Hulf.

Varcata della soglia, lo accolsero un tiepido tepore e gli sguardi preoccupati di venti uomini, tra cui Algwi il Boscaiolo e Bjorik val’Kjorn. Lui era la persona che attendevano con trepidazione, e decise di mantenere ancora un po’ quello stato di attesa, togliendosi di dosso la pelliccia con lentezza calcolata, avvicinandosi con calma al braciere nel centro della stanza per riscaldare le mani.

«Abbiamo commesso uno sbaglio» fu Algwi a rompere il silenzio.

Le parole di Algwi ruppero un incantesimo. Dopo che ebbe parlato un mormorio sommesso si diffuse nella stanza, che cominciò a crescere man mano che gli animi si accendevano. Dopo pochi minuti il caos regnava nella dimora di Holf val’Hulf, rendendo incomprensibile il dibattito che animava gli uomini del villaggio. Ma Iorig non aveva bisogno di comprendere quello che dicevano: conosceva già perfettamente i discorsi, le idee, le intenzioni che allignavano nei loro cuori. Doveva solo far sì che emergessero dalle profondità, che venissero espressi ad alta voce. A quel punto, avrebbe avuto la situazione sotto controllo.

«Non è detto che sia uno sbaglio» gridava Bjorik, tentando di sollevare la propria voce al di sopra di quella degli altri. «Dobbiamo avere fiducia nel nostro askarl.»

Per gli altri, Bjorik blaterava cose senza senso. Iorig lo vedeva chiaramente: non lo ascoltavano. Aveva perso ogni credibilità presso di loro, non lo degnavano neppure di uno sguardo. Un brav’uomo, Bjorik figlio di Kjorn, uno degli anziani più rispettabili, saggio come pochi al villaggio. Avrebbe voluto averlo dalla sua parte. Almeno cinquant’anni di vita gravavano sulle sue spalle, un’esperienza non trascurabile, di cui avrebbe saputo fare buon uso. Ma Bjorik non lo apprezzava. Non lo avrebbe mai appoggiato, questo Iorig lo sapeva. Povero, vecchio Bjorik. Sarebbe morto di sete, se bere acqua durante i riti avesse significato violare la tradizione.

Quando si iniziò a parlare apertamente di successione, Iorig capì che era il momento di intervenire.

«Un askarl non può essere toccato» disse Iorig, e il silenzio fu immediato. Quella marmaglia non aspettava altro che lui prendesse parola. «Volgrim è stato scelto dal Consiglio, e questo lo rende il nostro askarl a vita.»

«Ma ha fallito!» gridò Algwi il Boscaiolo. «I suoi sacrifici non sono graditi a Grijndir. Nemmeno il sangue di sua madre è bastato a richiamarlo!»

«Volgrim ha fallito, su questo non c’è dubbio» rispose Iorig. «Ma non ha senso parlare di sostituirlo. Se anche eleggessimo un nuovo askarl, che cosa cambierebbe? Chi di noi potrebbe immolare un sacrificio più alto di quello di Volgrim, che ha ucciso la sua stessa madre pur di mantenere il voto fatto al popolo di Grijndir?»

Il silenzio calò di nuovo nella sala. Nessuno aveva una risposta. Tutti aspettavano che Iorig proseguisse il suo discorso.

«No, non è con un nuovo askarl che le cose miglioreranno. Ci troviamo di fronte a qualcosa che non abbiamo mai dovuto affrontare prima. Grijndir ci ha abbandonati. È orribile anche solo pensarlo, ma dobbiamo accettare questo fatto, prima che sia troppo tardi. Gli è stato offerto il sacrificio più grande e tuttavia non si è mostrato. Non è più qui. Io non so dirvi perché, ma posso dirvi cosa bisogna fare per sopravvivere. Se ci ha abbandonato, lo abbandoneremo anche noi.»

«Sei un lurido bestemmiatore, Iorig. Se Roigkal non fosse stato tuo fratello...»

«... mi avresti ucciso da tempo, Bjorik. Lo so» rispose Iorig, placido. «Ma se Roigkal fosse qui ora, dubito che la situazione sarebbe diversa. Nemmeno lui riuscirebbe a richiamare il Dio degli Abissi. Bisogna rassegnarsi: il tempo della Bestia del Mare è finito. E se non vogliamo finire anche noi, dobbiamo ricorrere a rimedi drastici.»

«Quali rimedi?»

Iorig non riconobbe la voce, proveniente dal centro della folla. Si rivolse verso il punto da cui era giunta la voce, come se avesse individuato l’interlocutore.

«Ce n’è uno solo, a dire il vero: spostarsi a sud. Raggiungere le terre verdi oltre le montagne e dimenticare i riti, poiché laggiù non ci serviranno. Daremo inizio a una nuova epoca, per il nostro popolo.»

Gli uomini ricominciarono a mormorare. Iorig non scorse in loro l’inquietudine che li aveva dominati durante la seduta del Consiglio nella quale Volgrim era stato eletto askarl. Nei loro occhi scorgeva ora la scintilla della speranza, alimentata dalla prospettiva della salvezza. Gli avevano preferito Volgrim perché il giovane figlio di Roigkal rappresentava l’ultima speranza di mantenere le cose come stavano. Nessuno vuole cambiare, finché non vi è costretto dalle circostanze. Ma ora, non c’era più scelta: Volgrim aveva fallito e non c’era più motivo di indugiare oltre. Bisognava partire. Era questo che mormoravano.

Ma c’era un ostacolo, naturalmente.

Volgrim avrebbe ascoltato la volontà del popolo? Sarebbe stato disposto a rivedere le sue decisioni, dopo tutto quello che aveva sacrificato per portarle a termine?

Dopo un poco, il silenzio tornò a regnare nella sala. Gli sguardi degli uomini erano tutti su di lui. Iorig comprese che avevano preso una decisione, ed era facile intuire quale. Scrutò a fondo i volti di ognuno dei presenti riuniti in quella dimora. Fu così che si accorse che mancava qualcuno. Bjorik era scomparso.
 
***

Traditori. Traditori maledetti.

Bjorik arrancava a fatica nello spesso strato di neve appena caduta. Le fiamme crepitavano nei bracieri accesi lungo il sentiero che si snodava al centro del villaggio. Un tenue chiarore rossastro illuminava la via nella notte, senza offrire alcun tepore. Bjorik si strinse nella pelliccia grigia che iniziava ad ammantarsi di neve, scrollandosi di tanto in tanto le spalle per evitare che il ghiaccio scivolasse sul collo.

La casa dell’askarl non era lontana. Doveva discutere con Volgrim sulle intenzioni di Iorig, ormai palesi. Forse non era troppo tardi per evitare che quel cane blasfemo infettasse col suo veleno le orecchie di tutti gli abitanti della baia di Grijndir. Avrebbe dovuto prendere provvedimenti severi, questo era certo. Una condanna a morte sarebbe stata la cosa migliore. Il processo sarebbe stato rischioso, ma andava celebrato. La posizione di Volgrim era già critica, non poteva permettersi di perdere ulteriore prestigio giustiziando suo zio senza processo, com’era usanza del popolo di Grijndir.

E se...?

Bjorik si bloccò di scatto. Un’idea lo aveva folgorato. Esisteva eccome un modo per togliere di mezzo Iorig senza ricorrere a un processo. Bjorik si rese conto che un interrogatorio pubblico avrebbe solo reso più forte quel viscido manipolatore: le sue idee si sarebbero diffuse più rapidamente, il pericolo di una ribellione era troppo alto. No, niente processo. C’era un’altra via. 

Una via più spregiudicata, e infame. Ma l'unica che si potesse percorrere.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Furia ***




La casa  di Volgrim era vuota. Bjorik trovò la porta aperta. Il focolare era spento, un sottile strato di acqua fangosa allagava l’entrata della dimora, ma all’interno tutto sembrava in ordine. Per un attimo, un oscuro scenario prese forma nella mente di Bjorik. E se Iorig avesse già agito? Se fosse stato già troppo tardi? Bjorik non faticava a immaginare Iorig intento a uccidere il suo stesso nipote, pur di conquistare il potere. Le sue parole non contavano nulla: conosceva quell’uomo da anni, sapeva fino a quali gesti poteva spingerlo la sua ambizione.

Ma c’era qualcosa che non convinceva Bjorik. Quella non era una casa che avesse ricevuto la visita di un assassino. La porta non era sfondata, non c’erano impronte di fango sul pavimento. Niente era stato toccato. L’unico elemento fuori dal comune era la pozza di fanghiglia in prossimità dell’uscio, che si era fatta strada attraverso il varco lasciato dalla porta accostata. Il vento aveva spinto all’interno la neve, che aveva prodotto la pozzanghera. E quello sembrava tutto.

Dov’era Volgrim, tuttavia?

Bjorik serrò la porta e si incamminò nella gelida aria notturna. C’era un altro posto dove avrebbe potuto trovare il ragazzo. Malgrado le ardue prove che aveva affrontato, Bjorik continuava a considerarlo tale: un ragazzo da proteggere. Aveva esitato, prima di sostenere la sua candidatura di fronte al Consiglio. Alla fine, si era convinto che fosse l’unica scelta possibile e in cuor suo, sentiva che i fatti gli avevano dato ragione. Ma gli altri, gretti e incapaci di vedere al di là del proprio naso, si ostinavano a vedere solo il lato peggiore del breve regno di Volgrim. I suoi riti non funzionavano, certo, ma che cosa avrebbe potuto fare di più? Nessuno pareva rendersi conto che, in quei giorni, Volgrim si era comportato da vero askarl, compiendo i sacrifici in maniera impeccabile, arrivando perfino a comprenderne la natura più profonda. Quanti altri erano riusciti in una simile impresa, per di più in tempi così rapidi? Quelli come Algwi e Hulf erano la rovina del popolo di Grijndir. Pretendevano il premio senza prender parte all’immenso sacrificio che questo richiedeva. Vigliacchi e bastardi.

Per non parlare di Iorig, la minaccia più grande che si fosse mai abbattuta su Askoldir, dopo le lunghe ere del Ghiaccio Eterno.

Una folata di vento si abbatté sul volto di Bjorik, costringendo il vecchio a socchiudere le palpebre per resistere al freddo pungente. Oltre la foschia di nebbia e neve cristallizzata, si estendeva a perdita d’occhio la banchisa, l’immenso mare di ghiaccio avvolto nelle tenebre. Un riflesso bluastro si sollevava dalla calotta ricoperta di ghiaccio, un pallido riverbero che la faceva assomigliare alla superficie di uno zaffiro. Sulla spiaggia, rivolto verso l’infinito congelato, si ergeva in piedi Volgrim, immobile e silenzioso. Bjorik affrettò il passo verso di lui.

«Mio signore!»

Volgrim non rispose.

«Mio signore!» ripeté Bjorik. «Volgrim!»

Bjorik dovette affiancarsi a lui per ricevere una risposta. L’askarl voltò lentamente il capo nella sua direzione. I suoi occhi erano vacui, come se l’anima fosse stata risucchiata dal corpo.

«Perché non me l’hai detto?»

Bjorik fu colto alla sprovvista. Non capiva il senso di quella domanda.

«Che cosa non ti ho detto?»

«Perché mi hai ingannato?»

«Io non ti ho mai ingannato. Come puoi pensare una cosa simile?»

«Guardami negli occhi e dimmi che non sapevi.»

Lo sguardo di Volgrim si fece cupo, i suoi occhi parvero sondare nelle profondità dell’animo di Bjorik, come a cercare un oggetto celato il cui nascondiglio non possa rimanere segreto a lungo. Bjorik non poté continuare a fingere di non capire.

«Io ti credevo pronto» mormorò, sforzandosi di imprimere convinzione nelle parole. «Sapevo che eri un uomo, come lo era tuo padre alla tua età. Eravate dello stesso sangue, io mi aspettavo da te la stessa forza, la stessa grandezza...»

«Non adularmi. Non osare.»

La freddezza nelle parole di Volgrim acuì il gelo che li circondava.

«Ascoltami, Volgrim» disse Bjorik. «Essere askarl non significa solo governare il popolo. Significa guidarlo verso la salvezza, ma quella salvezza non è sempre facile da riconoscere. Iorig sta sollevando gli animi contro di te. La tua vita è in pericolo, devi agire subito!»

«E che cosa dovrei fare ancora? Ho ucciso tre schiavi, ho versato il loro sangue sul ghiaccio del mare, ho sacrificato la mia stessa madre in nome di Grijndirm ed egli ancora mi rifiuta il suo favore. Dimmelo tu, Bjorik. Cos’altro devo fare?»

«Devi mantenere il trono» rispose Bjorik. «Io non so a cosa sia dovuto il ritardo di Grijndir, ma sono certo che non può durare a lungo. È questione di giorni, ormai. Forse addirittura ore! Non puoi mostrarti debole proprio adesso. Se Grijndir risorgesse in una terra abitata da miscredenti, la sua ira ci annienterebbe tutti. Devi salvarci da Iorig. Non si fermerà di fronte a nulla, pur di strapparti il potere e dominare il popolo di Grijndir, per condurlo nelle regioni a sud, magari per votarli a qualche blasfemo falso dio.

«Bada a ciò che dico, Volgrim. In quanto askarl, hai il potere di ridurre in catene ogni uomo a te sottoposto. Rendi schiavo tuo zio e sacrificalo al possente Grijndir! Il suo sangue benedirà la nostra terra e ci proteggerà dal disastro che incombe.»

La mascella di Volgrim si serrò all’improvviso. La vacuità dei suoi occhi si dissolse, ora brillavano come se una fiamma fosse stata attizzata al loro interno. Per diversi minuti, nessuna espressione si delineò sul suo viso. Infine, una fragorosa risata proruppe dalla sua bocca.

Bjorik rimase interdetto. Era chiaro che non si aspettava quella reazione. Che cosa poteva significare? Non c’era gioia, in quelle risate. Era il verso di un folle, il grido di un uomo che abbia perso l’ultimo residuo della sua umanità.

Poi Volgrim sfilò l’ascia dalla guaina che portava a spalla.

Bjorik indietreggiò d’istinto, prima di rendersi conto appieno di quanto stava accadendo. Non concepiva l’idea che Volgrim potesse aggredirlo: l’aveva visto in fasce, aveva servito suo padre per tutti i lunghi anni della sua infanzia, l’aveva sostenuto durante la sessione del Consiglio ed era persino riuscito a farlo eleggere, contro ogni probabilità. Non poteva interpretare quel gesto come una minaccia. No, Volgrim non avrebbe mai rivolto l’ascia contro di lui. Non poteva farlo.

«Ho ucciso mia madre, ascoltando le tue parole» disse l’askarl. «Adesso le tue parole mi suggeriscono di uccidere mio zio. E dopo che l’avrò fatto, quale sarà il sangue da versare? Il mio, magari?»

«Stai dicendo assurdità, Volgrim. Iorig è un traditore. Sarà lui a ucciderti, non appena ne avrà l’occasione. E quel momento arriverà presto. Devi agire per primo.»

«È quello che sto facendo» sussurrò Volgrim, con voce così bassa che il sibilo del vento la celò alle orecchie di Bjorik. «È quello che sto facendo.»

I riflessi di Bjorik erano sopiti, ma non del tutto spenti. Quando Volgrim sollevò l’ascia, il suo cuore vacillò, e per la prima volta comprese di essere in pericolo. La sua mente ancora rifiutava di accettarlo, ma il resto del suo corpo si preparava a reagire all’incontestabile verità dei fatti: Volgrim voleva ucciderlo. Non capiva perché, ma era certo che l’avrebbe fatto.

L’ascia calò, sferzando di striscio il braccio sinistro di Bjorik.

Gocce di sangue macchiarono le rocce nere della spiaggia. Bjorik non urlò. Si era scansato appena in tempo, le sue gambe si erano mosse contro la sua volontà, e ora lo spingevano lontano, sulla lastra scricchiolante del ghiaccio che ricopriva il mare. Arrancava con passo incerto, sorreggendosi il braccio ferito con quello sano. Spirali di fiato congelato fuoriuscivano dalla sua bocca a intervalli irregolari. Ansimava, senza capire che cosa stesse succedendo, o perché gli mancasse il respiro. Si voltò una volta sola.

Volgrim si avvicinava alle sue spalle. Non correva, procedeva camminando con passo spedito. Impugnava l’ascia con entrambe le mani, il volto nascosto dalla foschia.

Mentre lo fissava, Bjorik appoggiò male un piede e scivolò, sbattendo il gomito del braccio ferito contro il duro pavimento gelato. Urlò per la fitta di dolore lacerante che gli era esplosa in tutto il corpo.

Un’ombra lo sovrastava. Ora vedeva il viso di Volgrim. Due occhi brillanti di una luce che non aveva mai visto prima negli occhi del ragazzo. Per la prima volta, in quegli occhi, c’era la volontà di uccidere.

L’ascia si sollevò ancora, la foschia li avvolse, sospinta dal vento.

Forse Volgrim disse qualcosa, forse non disse nulla.

Forse le ultime parole che Bjorik udì furono pronunciate da lui stesso, nella sua mente. Non riuscì a distinguerle, e rimasero avvolte nel mistero. Qualcosa a proposito di Grijndir.

La lama calò.




 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Decisione ***




Durante la notte, una valanga si abbatté sul versante occidentale della montagna della baia. Il ghiaccio scivolò fino a valle, lambendo i confini del villaggio.

Che cosa significa? si chiese Iorig val’Rundor. Il suo sguardo era fisso sulla vetta della montagna. Osservò la cresta frastagliata delle montagne che chiudevano la valle da ogni lato, alla ricerca di una spiegazione. Non riuscì a trovarne alcuna. Il freddo morde la terra come farebbe un lupo vorace. Questo non può essere il disgelo. Ma allora che cos’è?

Le valanghe erano troppo frequenti. Il rombo cupo delle superfici ghiacciate che si rompevano, in lontananza, era divenuto un suono comune. Qualcuno avrebbe dovuto recarsi ai valichi per indagare, ma sarebbe stato troppo rischioso: la neve era alta e le bufere flagellavano i sentieri conosciuti. Nessuno avrebbe fatto ritorno da una simile spedizione.

Iorig scosse la testa. Presto quel problema, assieme a tanti altri, avrebbe perso significato.

Il popolo era dalla sua parte. Dopo il sacrificio di Bjria, era evidente che Askoldir non godeva più del favore di Grijndir. Volgrim non era riuscito nel suo intento, né ci sarebbe riuscito mai. Per lui era finita. In verità, quella era proprio la questione più spinosa.

Iorig abbassò lo sguardo ed estrasse il pugnale. Un dono di Roigkal, dopo la loro prima caccia insieme. Roig lo aveva guidato nella foresta, un mattino di primavera, e dopo due giorni di inseguimento erano riusciti a catturare un cervo bianco, giovane e magnifico. In memoria di quel giorno, affinché la buona sorte che li aveva accompagnanti potesse non abbandonarli mai, Roig aveva fabbricato dal corno dell’animale un’arma, quello stesso pugnale che ora Iorig reggeva in mano. Il suo taglio non era affilato, ma era un oggetto di raro valore, non solo affettivo. I cervi bianchi erano scomparsi dalle loro terre molti anni addietro. Troppe cose erano scomparse, negli ultimi anni.

Volgrim era suo nemico, ma rimaneva il figlio di Roig. Non l’avrebbe ucciso, questo era un punto sul quale Iorig non intendeva transigere. Ma come privarlo dell’autorità?

Le leggi del popolo di Grijndir non consentivano al Consiglio di eleggere un nuovo askarl fino alla morte del suo predecessore. La morte di Volgrim sembrava essere l’unica via per accedere al dominio della valle. Una morte di cui Iorig non era disposto a farsi carico, a differenza di molte altre. Il dilemma lo assillava da molto tempo, da ben prima che suo nipote venisse scelto per divenire askarl dopo suo padre. Già in passato Iorig aveva considerato la possibilità che a essere designato fosse Volgrim anziché lui. La sconfitta incassata dopo la seduta del Consiglio era stata un duro colpo, eppure – in una certa misura – prevedibile. Quel vecchio bastardo di Bjorik godeva ancora di prestigio all’interno del Consiglio, ed era riuscito a convincere tutti che a scegliere Iorig avrebbero commesso un errore.

Ma ora le cose erano cambiate. Bjorik aveva vinto, ma quella vittoria era stata l’anticamera della sua disfatta. Il fallimento di Volgrim trascinava nel baratro anche lui. La sua opinione era screditata, la sua fama di saggezza veniva macchiata. Praticamente ogni uomo del villaggio era ormai convinto di aver commesso un grave errore nel prestargli ascolto. Iorig era parso da subito la scelta più logica, ma si erano lasciati raggirare e ora ne pagavano le conseguenze. Non avrebbero commesso lo stesso sbaglio una seconda volta. Nel frattempo, tuttavia, bisognava rimediare a quanto era stato fatto, e non era cosa facile.

Iorig avrebbe difeso la vita di Volgrim, se necessario. Ma doveva sbarazzarsi di lui, in qualche modo. Ancora non intravedeva una soluzione.

Camminando nella notte, aveva lasciato che i piedi lo portassero dove desideravano. D’un tratto si riscosse dai suoi pensieri, e scoprì fin dove era arrivato. La capanna degli schiavi era alla sua sinistra, buia e ricoperta di neve. Non c’erano bracieri lì dentro, gli schiavi si riscaldavano con le coperte e con il loro fiato. Iorig guardò a lungo in quella direzione, senza sapere perché. Poi comprese. Seppe quello che doveva fare. Ora gli serviva solo un pretesto.

 
***
 
In quella glaciale mattina, una nuova sciagura si abbatté sul popolo di Grijndir. La Bestia del Mare pareva scomparsa, ma era accaduto qualcosa che per breve tempo avrebbe distolto la sua attenzione da quel dramma. Il corpo di Bjorik val’Kjorn giaceva sulla lastra di ghiaccio che ricopriva l’oceano, circondato da un alone di sangue rappreso. Una serie di orrende lacerazioni ricoprivano ogni parte del cadavere, le braccia e le gambe erano state brutalmente tranciate, al pari della testa, abbandonata alcuni passi più distante, simile a un macabro sasso insanguinato. Dapprima qualcuno pensò agli orsi o a un branco di lupi, ma in seguito tutti concordarono che a provocare quelle ferite era stata un’ascia. Era un uomo il responsabile di quel crimine, e non ci volle molto tempo per risalire al suo nome.

Volgrim val’Roigkal, l’askarl Volgrim val’Roigkal, si era macchiato di un delitto efferato. Rientrava nei poteri dell’askarl la condanna a morte di un uomo, ma una simile decisione doveva sempre avvenire sotto lo sguardo e l’approvazione del Consiglio. Gli abitanti di Askoldir rimasero turbati dal comportamento del loro signore.

«È impazzito» disse Algwi il Boscaiolo, prendendo parola nella sala affollata. «Ha fatto a pezzi un vecchio indifeso, e non sappiamo nemmeno perché.»

«Forse intendeva sacrificarlo...» mormorò Holf val’Hulf, ma la sua voce tradiva la scarsa convinzione in quelle parole.

«Non è così che si conduce un sacrificio, lo sai bene!» ribatté Algwi. «Volgrim ha ammazzato Bjorik, e basta.»

«Non può aver agito senza motivo. Qualcosa lo ha spinto.»

«E che cosa?»

Nessuno rispose. Volgrim non era stato invitato a prender parte alla riunione. Tutti lo temevano. Era un ragazzo, ma aveva dimostrato più volte di esser capace di uccidere a sangue freddo. Finora lo aveva fatto per dovere, ma l’uccisione avvenuta nella notte gettava un’ombra sinistra su tutto il suo operato.

«È un assassino!» gridò qualcuno.

«Sì, lo è» disse Algwi. «E non possiamo farci nulla. È l’askarl, niente può togliergli il titolo. Solo la morte può fare qualcosa.»

«Allora uccidiamolo! I suoi giorni abbiano fine!»

Algwi si prese qualche secondo per elaborare una risposta. Il terreno sul quale si addentravano era assai pericoloso. C’era troppo in gioco: le leggi più antiche del popolo di Grijndir non potevano essere trasgredite così facilmente. Uccidere un askarl avrebbe creato un grave precedente: altri uomini, in futuro, avrebbero potuto sentirsi legittimati a sostituire il loro signore con l’uso della violenza. Non potevano permetterlo: la legge doveva essere rispettata.

Algwi stava per riprendere parole e rispondere con il suo ragionamento, ma qualcuno lo precedette. La risposta fu di Iorig, che non fece uso di parole. Si avvicinò all’uomo che aveva parlato, gli afferrò il collo e lo atterrò. Il suo pugno si levò in alto e si abbatté sul volto della sua vittima. Inflisse un solo colpo, dopodiché costrinse l’uomo a rialzarsi. La sua faccia era una maschera di sangue, il naso era contorto e rossastro, fratturato all’apice. Non disse nulla, si limitò a sputare sangue e sorreggersi con le dita il naso dolorante.

«Meriteresti la morte seduta stante. Il prossimo che suggerirà di uccidere mio nipote, non se la caverà con un naso frantumato.»

Gli occhi di Iorig gettavano lampi. In quel momento, sembrava sovrastare ogni altro uomo nella sala. Avvolto nella sua pelliccia nera, incuteva soggezione all’intera tribù. Il ricordo di Volgrim, al suo cospetto, appariva minuscolo e insignificante. Se la questione doveva venire a galla, tanto valeva porla ora.

«Grijndir non ha rotto i ghiacci» disse Algwi. «È passato troppo tempo, e non possiamo più aspettare. Altri sacrifici sarebbero inutili. Quali scelte ci rimangono?»

Algwi osservò lo sguardo degli uomini. Erano in apprensione, perché ognuno di loro conosceva la risposta. Sapevano tutti qual era l’alternativa. Algwi stava per riprendere il discorso, ma Iorig glielo impedì. Fu lui a prendere in mano la situazione, rivolgendosi ai presenti.

«Andremo a sud. Con o senza il nostro askarl. Prepareremo in pochi giorni il necessario e partiremo. Non ci sarà molto da portare, solo le riserve di cibo e le armi. Tutto il resto se lo prendano i ghiacci.»

«Che cosa farà Volgrim?»

Iorig abbassò lo sguardo. Gli occhi vacui, l’espressione indecifrabile.

«Volgrim dovrà fare una scelta. Qualunque sia, la disgrazia piomberà su di lui. Non si può fare niente per impedirlo. Questo è il destino che ha scelto.»



 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Fuoco ***



La neve circondava il corpo di Volgrim. La tempesta era terminata, ma il gelo opprimeva con il suo morso ogni lembo d’aria della montagna. La pelliccia di lupo non era in grado di proteggere le membra di Volgrim, le cui estremità intirizzite erano ormai insensibili. In piedi lungo la strada ammantata dalla neve, l’askarl procedeva a fatica, facendosi strada tra i cumuli di ghiaccio, avanzando privo di meta. Era lontano dal villaggio, nessuno l’avrebbe udito gridare. Le tracce erano state inghiottite dalla neve, non potevano averlo seguito. Era solo, nel bianco abbraccio della morte.

Era così che sarebbe finita, aveva deciso. Che cosa gli rimaneva per cui lottare? Nonostante tutti gli sforzi impiegati, la sua missione aveva avuto esito disastroso. Il sangue versato non era stato ripagato. Tutto era stato sacrificato, per niente. A quale scopo continuare a vestire i panni dell’askarl, se non era in grado di assolvere il compito fondamentale della sua carica?

Morire in esilio. Un fato amaro, per il figlio di Roigkal val’Rundor. E tuttavia, l’unica scelta possibile.

Non era bastato mancare alla promessa fatta al suo popolo. Si era macchiato di un ulteriore crimine, uccidendo un vecchio con la stessa ascia che gli askarl usavano per difendere la propria gente. Il disonore e la vergogna ricoprivano il suo nome come mai prima d’allora a qualcuno era toccato sopportare. Non c’era più spazio per lui ad Askoldir. Non c’era spazio in nessuna delle terre degli uomini, né a nord, né a sud, né in qualunque anfratto di roccia o mare dell’Hyfrolst. Era un uomo maledetto.

Perché aveva voluto seguire le orme di suo padre? Negli ultimi giorni, Volgrim se lo era domandato spesso. Si era reso conto di non aver mai avuto un valido motivo per intraprendere quella strada. L’askarl era suo padre, non lui. Roigkal era una guida, lui era solo un ragazzo che agiva spinto dalla paura, dal timore di quello che il popolo avrebbe pensato se avesse fallito. E aveva fallito, e la consapevolezza di ciò lo aveva condotto alla pazzia, spingendolo prima a uccidere sua madre e, in seguito, un altro uomo, senza una valida ragione.

Gli sembrò di impazzire. Crollò a terra, le mani che artigliavano la testa.

Il gelo delle lacrime sulle guance divenne caldo all’improvviso. Non solo le guance, ma anche il resto del corpo fu investito da un’ondata di calore. Volgrim riaprì gli occhi, incredulo. La neve che lo circondava si stava sciogliendo con una velocità innaturale, come se il sole si fosse trovato a pochi passi di distanza. La morsa del gelo fu sciolta, un caldo soffocante l’avvolgeva, qualcosa che era impensabile trovare in un luogo come la montagna d’inverno.

Volgrim non capiva. Presto si ritrovò immerso in una fanghiglia calda, formata dall’abbondante residuo di neve sciolta. Una vampata di calore alle sue spalle lo costrinse a voltarsi. Lo sguardo di Volgrim si posò sulla cosa più strana che gli fosse mai capitato di vedere.

C’era un uomo, sul limitare del sentiero che aveva percorso. O almeno, una sagoma che ricordava quella di un uomo. Era difficile dirlo con certezza, perché era immersa in un vortice di fiamme crepitanti. Un penetrante odore di carne bruciata emanava da quella figura. Volgrim si dimenticò chi fosse e dove si trovasse: quella manifestazione di un potere divino lo aveva completamente catturato, impedendogli di considerare qualsiasi altra cosa.

Il bagliore delle fiamme lo accecò. Un grido riempì l’aria. Volgrim non riuscì a capire se si trattasse di un urlo umano o del suono del ghiaccio che si distaccava dalla parete della montagna. Era un suono assordante, qualcosa che non poteva essere prodotto dalla gola di un essere umano, eppure non aveva mai udito niente del genere provenire dalla rottura dei ghiacci.

Il ghiaccio scivolò, lento e maestoso come un’onda, e altrettanto letale, dalla superficie della montagna. Colò come l’acqua di un fiume, precipitando verso la valle, investendo alberi, speroni e qualunque cosa incontrasse sul cammino. Niente poteva avvicinarsi all’uomo di fuoco: ogni rivolo di neve che lo raggiungeva diveniva liquido all’istante, e bruciava anche la terra che aveva sotto i piedi. Forse le braccia erano spalancate, come ad accogliere la forza di quella distruzione, oppure a sfidarla. Volgrim non capiva. Non aveva mai assistito a qualcosa di simile, né aveva mai udito di uomini capaci di tali prodigi.

Il tempo parve dilatarsi all’infinito. Per quanto rimase paralizzato di fronte a quella creatura straordinaria, osservando il suo fuoco divampargli dal corpo? Giorni, forse anni? Non lo sapeva, ma quella visione infine cessò. Le fiamme cominciarono a scemare, facendosi sempre più rade. Quando scomparvero del tutto, Volgrim vide le sembianze di colui che le aveva generate.

Rimase a bocca aperta dallo stupore, quando si rese conto di osservare una donna.

Il corpo era annerito dalle fiamme, bruciato, ustionato. Non c’era una parte del corpo che fosse rimasta sana. Era esile, le braccia e le gambe talmente sottili che Volgrim temette non fossero altro che ossa. Si ergeva in piedi, ma non dava l’impressione di essere stabile. Tremava, nonostante il calore che aveva sprigionato e che continuava a diffondersi lì intorno. Gli occhi chiusi rendevano la sua faccia un’imperscrutabile macchia nera. Non aveva capelli. Nemmeno uno era sopravvissuto al rogo.

Volgrim le si avvicinò. Si accorse di essere finito in ginocchio, in una spontanea adorazione di quel miracolo. Lentamente si alzò in piedi e protese una mano verso di lei.

Prima che le sue mani la toccassero, la donna crollò a terra, producendo lo stesso rumore di un cumulo di foglie secche che viene spazzato via.

 
***
 
Il pallido sole dell’alba illuminò un villaggio in piena frenesia. Il popolo di Grijndir si muoveva di casa in casa, portando all’esterno qualunque cose potesse essergli utile nel lungo viaggio che lo attendeva. Alcuni possedevano carri, dove avevano cominciato a caricare coperte, tegami, scorte di cibo essiccato e sacchi di viveri. Gli altri dovevano accontentarsi di stuoie da trascinare, in grado di portare molto meno carico.

«Non possiamo portare tutta quella roba attraverso i valichi» disse Algwi, osservando dubbioso la gente che si arrabattava intorno ai carri e alle stuoie, nel tentativo di caricarle della maggiore quantità possibile dei propri beni.

«Non passeremo per i valichi» disse Iorig. «Costeggeremo la sponda ghiacciata. Passeremo per il mare a piedi.»

«Sei sicuro che il ghiaccio reggerà il peso? Grijndir non è venuto, ma è quasi primavera...»

«Ho tentato io stesso di aprire un buco nella banchisa. Ho usato ascia, martello, piccone, la spada di mio padre. Qualunque cosa. Il ghiaccio è duro come acciaio. Resisterà al nostro passaggio.»

Algwi annuì. «E Volgrim?»

Iorig rimase immobile. Il suo sguardo era fisso su qualcosa, ma Algwi non riusciva a capire su che cosa.

«Se non lo troveremo, ce lo lasceremo alle spalle. Come abbiamo fatto con Grijndir.»

«Vuoi ancora cercarlo?»

«Non so cosa voglio, Algwi» disse Iorig. «Se Volgrim fosse davvero scomparso, la mia scelta sarebbe più semplice. Se tornasse, tutto dipenderebbe dalle sue parole. Se rivendicasse i suoi poteri e ci ordinasse di non partire, dovrei agire. Ed è una cosa che non voglio fare.»

«E se scegliesse di partire con noi?»

«Volgrim non lo farebbe. Rassegnarsi a una simile decisione, dopo tutto quello che ha fatto per mantenerci qui, sarebbe come ammettere che ogni cosa è stata vana. Significherebbe essersi macchiato del sangue di sua madre senza motivo. È una cosa che non può accettare.»

Algwi si strinse la pelliccia intorno al collo. Una folata di vento gelido si era sollevata dal mare, investendo il villaggio e chiunque si trovasse nei suoi meandri.

«Quanto sarà lungo il viaggio?»

«Quindici giorni per uscire dalla banchisa. Due lune per raggiungere una terra fertile.»

«Come lo sai?»

«Io e mio fratello seguivamo rotte diverse, durante la stagione del mare aperto. A dire il vero, è sempre stato così, fra me e lui» disse Iorig. L’ombra di un sorriso si dipinse sul suo volto, ma svanì con la stessa rapidità con cui era apparso. «Sono stato molte volte a sud. Quando mio fratello l’ha scoperto, non ne è stato affatto contento. Ma non mi ha mai proibito di andarci. Io gli portavo un ricco bottino, e tanto gli bastava. A sud ci sono déi diversi da Grijndir, e condurvi una nave del popolo di Grijndir lo considerava una grave offesa. Secondo lui, la Bestia del Mare avrebbe potuto punirci per questo. Lui non si è mai spinto oltre i Denti della Bestia. Ma io sì. L’ho fatto molte volte e lo farò anche questa volta. Intendo condurre il popolo laggiù, in quello che spero sia il suo ultimo viaggio. La terra che ho visto è verde, il ghiaccio scende una volta l’anno e le foreste sono gremite di animali di ogni sorta. Non dovremo sottostare ai capricci di un dio per sopravvivere. Sarà la terra a nutrirci, e i sacrifici non saranno più necessari.»

«Ma il popolo può accettare tutto questo? Tu hai parlato loro di saccheggi, di bottino da riportare in questa terra. Loro credono che ce ne andiamo per un solo inverno, e sono ancora legati a Grijndir. Come credi che reagiranno, quando indicherai loro i campi da coltivare?»

«Dopo il primo anno di saccheggio, coltiveremo i nostri campi. Quando quei campi daranno i primi frutti, dopo aver conosciuto un anno intero con la pancia piena e il caldo nelle ossa, il popolo accetterà qualunque cosa.»

Algwi e Iorig si scambiarono un’occhiata. Nessuno dei due credeva alle parole dell’altro, ma ciononostante erano entrambi disposti ad accordarsi reciproca fiducia, per il momento. D’altronde, nessuno dei due aveva possibilità di scelta.




NOTA AUTORE
Arrivati a questo punto, sento di dover fare dei ringraziamenti. Tre, per la precisione: uno a alessandroago_94, per la sua costanza nel seguirmi e nel recensire. Un altro a Cygnus_X1 per i preziosissimi consigli sull'impostazione della pagine (me imbranato! :D). Il terzo a chi ha la mia storia tra le seguite e le ricordate, e che spero continui a divertirsi nel leggere la mia storia!

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Ossessione ***



Il fuoco scoppiettava vivace nell’incavo di pietre che Volgrim aveva costruito per circoscrivere le sterpi da bruciare. La grotta era umida, e l’askarl aveva faticato non poco per dare vita alle fiamme. L’antro in cui aveva trovato rifugio doveva essere stato interamente ricoperto di ghiaccio fino a poco tempo prima e solo l’intervento della misteriosa creatura aveva reso possibile il suo accesso là dentro.

La donna era stesa a terra a poca distanza dal fuoco. Era viva, ma ancora priva di coscienza. Il respiro era debole e le ferite erano le più gravi che Volgrim avesse mai visto su un corpo umano. Dubitava che avrebbe passato la notte. Nonostante la sua convinzione, aveva deciso di portarla in salvo con sé dentro la caverna. Non sapeva perché l’avesse fatto. A guidarlo era stato probabilmente un istintivo senso di riconoscenza: si rendeva conto che la donna gli aveva salvato la vita. Non aveva validi motivi per continuare a vivere, ma l’istinto era prevalso sulla ragione, e aveva deciso di prendersi cura di lei finché non si fosse rimessa. Ammesso che ciò fosse possibile.

Volgrim soffiò alla base del fuoco per alimentarlo. Era rimasto a torso nudo, poiché la sua pelliccia faceva ora da coperta e giaciglio per la donna. Il freddo tornava a farsi pungente, se non fosse riuscito a incrementare le fiamme entro breve l’intervento della sua misteriosa salvatrice sarebbe stato inutile.

Dopo quella che parve un’eternità, il falò cominciò a emanare calore. Volgrim protese le mani verso le fiamme, soffiandovi dentro per riscaldarle. Non sentiva più i polpastrelli, per non parlare delle dita dei piedi. Gli stivali erano fradici, li rimosse e avvicinò le punte dei piedi congelati alle pietre calde del focolare. Rimase così per molto tempo, finché non avvertì le estremità di mani e piedi tornare sensibili. Si voltò un paio di volte per osservare la donna, ma le sue condizioni non sembravano mutare. Quando rivolse nuovamente lo sguardo alle fiamme, un turbinio di pensieri prese vita nella sua mente.

Aveva forse perduto la ragione? Che senso aveva quello a cui aveva assistito? Ciò che aveva visto non era opera di un mortale, ma di un dio. Chi altri sarebbe sopravvissuto a un vortice di fiamme di quell’intensità? Volgrim non aveva dubbi sul fatto che il fuoco fosse stato generato dal corpo stesso della donna: il ricordo dell’incendio che divampava dalle carni era più vivido che mai, era stato come osservare la coltre di nebbia che nasce dal ghiaccio appena riscaldato. Il fuoco che aveva visto le apparteneva. Per quanto assurda fosse quell’idea, era la verità.

Era evidente che quel fuoco non era benevolo. Volgrim gettò l’ennesimo sguardo al corpo martoriato della donna, alle ustioni e alla pelle carbonizzata che la faceva gemere nel sonno.

Che razza di divinità era quella in cui si era imbattuto?

Mentre formulava queste domande nella sua mente, un pensiero scosse le fondamenta del suo essere. Qualcosa di sconvolgente, eppure sensato.
Quella donna era padrona di un fuoco soprannaturale. Forse non lo dominava, ma ne era portatrice.

E se fosse stata in grado di scatenarne la furia contro la barriera di ghiaccio che imprigionava il mare?

Volgrim sobbalzò. Il potere di quel fuoco sarebbe stato sufficiente? Sì, non c’erano dubbi. Le valanghe... era stata lei a provocarle. Con quel fuoco divino aveva sciolto nevi secolari, ghiacciai che resistevano sulle montagne da prima che il popolo di Grijndir si stabilisse nella valle. Perché non avrebbe potuto sciogliere anche la banchisa?

Quella creatura, donna o déa che fosse, concedeva un’opportunità straordinaria a lui e al suo popolo. Poteva tornare a essere un askarl! Il crimine di cui si era macchiato uccidendo Bjorik sarebbe stato perdonato, tutto ciò che contava era la salvezza che portava loro!

Ma un nuovo pensiero spense subito l’entusiasmo di Volgrim. La donna era in fin di vita. Chi poteva sopravvivere a ferite del genere? Un uomo dalla tempra più forte non ce l’avrebbe fatta. Quella donna era esile, non mostrava molti anni più di lui. Anche senza l’insulto delle fiamme, doveva essere stata una ragazza gracile: era incredibile che fosse arrivata fin lì attraversando a piedi i valichi.

Volgrim si alzò. Aveva preso una decisione. Se esisteva una remota possibilità che la sua salvatrice, la sua déa, sopravvivesse, avrebbe fatto di tutto per realizzarla. Uscì dalla caverna e si inoltrò nella pianura scongelata, non prima di averle rimboccato la coperta ed essersi assicurato che l’ingresso al rifugio fosse ben nascosto. Il calore poteva aver attirato degli animali: Volgrim ci contava. Trovare selvaggina nelle regioni montuose, in pieno inverno, era un’impresa disperata. Anche Algwi il Boscaiolo si sarebbe dato per vinto. Ma Volgrim doveva riuscire, si rese conto. Se non riusciva a rimettere in sesto la donna, ogni speranza di ricostruire la sua vita, e quella del suo popolo, sarebbe morta con lei.

 
***
 
Il buio era calato da diverse ore quando Volgrim fece ritorno. L’interno della grotta era caldo e accogliente come l’aveva lasciato. Di questo fu grato, perché il gelo all’esterno era tornato rapidamente, una volta svanita la cappa di calore sprigionata dalla déa. Lei ancora dormiva, le sue condizioni non erano migliorate. Forse non sarebbero migliorate nemmeno dopo l’intervento di Volgrim, ma doveva tentare.

In mezzo alle nevi rese morbide dall’improvvisa folata di caldo, Volgrim aveva scovato una tana di marmotte. Il letargo le aveva rese vulnerabili, una di loro era diventata la facile preda di Volgrim. L’askarl aveva scavato nel terreno baciato dal fuoco fino a trovare delle radici, infine aveva raccolto dell’acqua dai canali prodotti dal passaggio delle fiamme nella calotta di ghiaccio. Suo padre non sarebbe stato affatto contento di vederlo cucinare nell’elmo che gli aveva donato, ma non c’era scelta. La donna – e lui stesso – avevano bisogno di mangiare qualcosa di caldo, e la sorte li aveva già favoriti concedendo loro della carne e il fuoco per cucinare.

Versare il brodo tra le labbra screpolate della donna non fu facile. A ogni sorso, Volgrim la sentiva gorgogliare come se stesse affogando. Una sorsata dopo l’altra, riuscì a farle bere almeno metà del contenuto dell’elmo. Lui trangugiò il resto, e subito si sentì ristorato, anche se la fame continuava a mordergli lo stomaco.

Avevano abbastanza cibo per un paio di giorni, poi sarebbe dovuto tornare all’esterno. Entro due giorni, Volgrim era certo, il ghiaccio si sarebbe riformato. Se la donna non si fosse ripresa, c’erano scarse probabilità di uscire vivi dal valico. Ma in fondo, che importava? Senza di lei, anche se fosse sopravvissuto, la sua sorte sarebbe stata comunque segnata.

 
***
 
Volgrim si svegliò di soprassalto. Non si era nemmeno accorto di essersi addormentato. Il fuoco era spento, e nell’oscurità totale della grotta non poteva distinguere nulla. Qualcosa produceva rumore, all’interno della grotta. Un suono acuto, raschiante. Era debole, ma insistente. Volgrim non riusciva a capire se provenisse dall’interno o dall’esterno.

Si orientò a tentoni nel buio, alla ricerca di due frammenti di roccia, che sapeva trovarsi nei pressi del focolare. Tastò la polvere delle braci, ancora tiepida, e di lì mise mano a ciò che cercava. Sfregò le pietre per un poco, batté ruvidamente una sull’altra, e una scintilla rischiarò l’oscurità per meno di un battito di ciglia. Volgrim continuò a sfregare le pietre focaie nel punto dove era probabile che si trovasse l’esigua scorta di sterpaglie raccolte il giorno prima, alla fine produsse un altro paio di scintille. Un bagliore prese vita all’improvviso, Volgrim si affrettò a soffiare accanto al mucchietto di erba secca dov’erano cadute le scintille. Soffiò a lungo e la luce tornò a rischiarare l’ambiente angusto nel quale avevano trovato rifugio.

Quando il fuoco fu di nuovo crepitante, Volgrim si voltò. Rimase sconvolto da ciò che vide. La donna era viva. Non solo era sopravvissuta, ma pareva dotata di una rinnovata energia, poiché era strisciata fino all’ingresso della grotta, chiuso da un mucchio di rami di pino, e si sforzava di passarvi attraverso, ansiosa di raggiungere l’esterno. Non aveva ancora recuperato le forze per stare in piedi, ma aveva abbastanza vigore da scavare con le mani nel fitto strato di legno e aghi di pino, alla ricerca di un passaggio.

«Che cosa fai?» esclamò Volgrim. «Sei troppo debole, non puoi...»

La donna si voltò con uno scotto. Gli occhi sbarrati, un’espressione di puro terrore sul volto. Volgrim decise di rimanere discosto, per non agitarla ulteriormente.

«Devi restare calma. Sei ferita.»

Il bianco degli occhi di lei circondava due iridi verdi come giada. Erano l’unica nota di colore su un viso e un corpo completamente neri.

«Capisci quello che ti sto dicendo?» chiese Volgrim. Un dubbio lo assalì all’improvviso. Si rese conto che esisteva la possibilità che la donna non parlasse la sua lingua.

«Mi capisci?» ripeté, ansioso di ricevere una risposta.

Un suono gorgogliò fuori dalle labbra screpolate di lei, pronunciato con voce talmente roca da sembrare ferro che raschia sulla roccia.

«Sì.»

«Se mi capisci, ascoltami. Sei al sicuro. Non voglio farti del male. Mi sono preso cura di te finché eri svenuta. Devi tornare a riposarti. Là fuori fa molto freddo, in queste condizioni moriresti quasi subito.»

«No... andare...»

«Dove devi andare?»

«Askoldir... valle... Askoldir!»

Volgrim rimase interdetto. Era sicuro di aver capito bene. Quella donna aveva pronunciato il nome del suo villaggio. Era quello il posto che voleva raggiungere con tanta determinazione.

«Conosco quel luogo. Ma perché vuoi andarci?»

Quello che uscì dalla sua bocca fu solo un farfugliare sommesso. Volgrim si sforzò di distinguervi delle parole o frasi di senso compiuto, ma fu tutto inutile. Sembrava che la donna inframmezzasse vocaboli nella lingua di Volgrim con altri di una lingua diversa. O forse erano davvero solo parole senza senso. Volgrim interruppe quel flusso di farneticazioni ponendole un’ultima domanda.

«Come ti chiami?»

La donna lo fissò, gli occhi ancora sbarrati, la paura impregnava il suo volto. Mormorò una sola parola, prima di perdere conoscenza.

«Kalig.»



 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Ritorno ***




Iorig spostò il proprio peso da un piede all’altro. Sentì il ghiaccio immobile sotto di lui, compatto come roccia. Lo scricchiolio era provocato dallo strato di neve che ricopriva la calotta. Il vento soffiava forte, scompigliandogli i capelli e sollevando i lembi del suo mantello. Fissò l’orizzonte con gli occhi socchiusi. Ovunque era bianco e grigio. Lontano, una coltre di nubi oscurava il cielo, foriera di una tormenta. Alle sue spalle, Askoldir e le montagne. Iorig non sapeva quale delle due cose fosse lo spettacolo più tetro.

Algwi il Boscaiolo e altri dieci uomini si unirono al resto del popolo.

«Avete fatto quello che vi ho ordinato?»

«Certo» disse Algwi. «Sono andati, dal primo all’ultimo.»

Iorig annuì. Non aveva senso lasciare gli schiavi in vita. Non si poteva badare a loro durante il viaggio; d’altro canto, lasciarli in balia del freddo e della fame non era una scelta gradita a Iorig. Un uomo deve morire per mano di un uomo, come diceva suo fratello.

Il popolo era pronto. Volgrim non era tornato, ma Iorig val’Rundor non sapeva che cosa provare. Suo nipote era lontano, chissà dove. Aveva abbandonato la sua gente: la sua era stata vigliaccheria o saggezza? Iorig non lo sapeva, e tutto sommato preferiva così. A tormentarlo era qualcos’altro: la consapevolezza che non lo avrebbe più rivisto. Forse, in quel preciso momento Volgrim si trovava sepolto in una tomba di ghiaccio, oppure era finito vittima dei lupi che infestavano i valichi. C’era una parte di lui che non sopportava quel pensiero. Non lo aveva mai voluto morto, rifletté. La sua unica speranza era stata quella che si facesse da parte. Per quanto l’ombra del suo destino lo avrebbe perseguitato? Forse per sempre. Ma avrebbe potuto fare qualcosa per impedirlo?

“No” pensò con decisione. “Non potevo fare nulla. Volgrim ha scelto la sua strada.”

Iorig scosse il capo. Era tempo di marciare. Sollevò il corno e soffiò con tutto il fiato che aveva nel petto. Il suono rimbombò per tutta la valle, annunciando la fine di Askoldir.

 
***
 
Volgrim non aveva proferito parola, dopo la breve conversazione con Kalig. E non perché la donna fosse ripiombata in un sonno così simile alla morte. La mente dell’askarl era inondata da un torrente di pensieri e domande apparentemente senza fine. Seduto accanto al focolare acceso, incurante delle ombre rosse danzanti sulle pareti, il suo sguardo fisso non abbandonava la figura addormentata a pochi passi da lui.

Chi è questa donna?, si domandava. Perché vuole raggiungere Askoldir?

Ma rimuginare su quelle domande non serviva a nulla. La risposta sfuggiva alla sua intuizione, per quanto la cercasse.

Devo portarla al villaggio, risolse. Se tornerà in sesto, potrà parlare e spiegare ogni cosa. Anche la natura del suo potere.

Il suo potere, sì. Le fiamme che aveva visto brillavano ancora davanti ai suoi occhi, un fuoco nitido e splendente, qualcosa che non aveva mai visto. Il calore, poi! Un bruciore così intenso, Volgrim lo aveva percepito anche a distanza. Ripensandoci, stentava a credere che Kalig fosse sopravvissuta alla furia devastatrice da lei stessa emanata. Che cosa avrebbe potuto causare quel fuoco ai ghiacci della valle? Li avrebbe sciolti, sommergendola. Era un pericolo concreto, che andava considerato. Un motivo in più per portare Kalig lontana dai valichi, al villaggio.

E una volta lì, Volgrim avrebbe saputo cosa fare.

Un grande progetto andava delineandosi nella sua mente, i dettagli si facevano più precisi a ogni ora.

Aveva per le mani un potere che mai nessuno, né suo padre né gli avi del popolo di Grijndir, aveva posseduto. Possibilità infinite si dispiegavano di fronte a lui, che ne intravedeva le potenzialità.

Il fuoco di Kalig avrebbe aperto una breccia nel mare ghiacciato. Il fuoco avrebbe distrutto il regno glaciale e immobile di Grijndir, facendo sorgere dalle sue ceneri un nuovo dio.

Il dilemma più interessante, per Volgrim, era stabilire chi avrebbe dovuto ricoprirne il ruolo.

 
***
 
Volgrim sapeva di dover partire il prima possibile. Ebbe uno straordinario colpo di fortuna pochi giorni prima della partenza: a caccia, riuscì ad abbattere un cervo delle nevi. Oltre alla preziosa carne che li avrebbe ristorati nel viaggio di ritorno, Volgrim apprezzò la pelle dell’animale, abbastanza grande da potervi ricavare un mantello con cui ricoprire Kalig, che era rimasta priva di indumenti. La donna era piccola e gracile, non avrebbe avuto difficoltà a trasportarla sulle spalle, anche per lunghi tratti, fino al villaggio.

Volgrim non aveva né gli strumenti né il tempo per produrre una pelliccia durevole. Entro pochi giorni la pelle del cervo si sarebbe disgregata, ma non importava: Askoldir non era così distante, sarebbe arrivato in tempo prima che Kalig fosse esposta al gelo. Impiegò un giorno intero per strappare la pelle al cervo e per ripulirla. Quando fu pronta, non esitò ad avvolgervi Kalig e a legarne i lembi attorno al proprio corpo. L’avrebbe trasportata come un bambino in fasce, aiutandosi con un bastone per mantenere l’equilibrio.

L’alba del mattino dopo partì. La bufera di neve era cessata, ma il freddo era tale da raggiungere le ossa. Volgrim si augurò che Kalig fosse abbastanza in forze da sopportare quel viaggio. Era resistita fin allora, dopotutto. Affondò i piedi nella neve fresca e procedette lungo quello che una volta era il sentiero, costellato da alberi scheletrici e fronde di arbusti, i cui rami spuntavano dalla coltre bianca come dita appuntite. D’un tratto, qualcosa di inaspettato colpì la sua attenzione: un suono scosse il silenzio di morte che regnava nell’aria circostante. Dopo alcuni istanti di incertezza, fu sicuro di riconoscerlo. Era il corno di Askoldir. Il suo urlo si era propagato fino alla montagna. Chi poteva averlo suonato, e perché? C’erano tante ragioni per farlo, comprese Volgrim, ma non gliene venne in mente nessuna che gli permettesse di interpretarlo in maniera positiva. Una sola cosa era certa: doveva fare ritorno al più presto.

Volgrim avanzava più speditamente che poteva, ma il cammino era davvero arduo. La neve era un impiccio costante, ogni passo gli costava un’enorme fatica. Verso mezzogiorno si ritrovò spossato, e d’un tratto Kalig non era più così leggera. Il sole dominava la volta celeste, che era apparsa nitida in uno squarcio tra le nubi bianche che opprimevano il cielo. Quello era il momento più caldo della giornata, l’unico in cui avrebbero potuto bivaccare all’aperto. Volgrim depose Kalig sul soffice manto ghiacciato e tentò di accendere un fuoco. Si rese conto presto che era un’impresa impossibile: ogni pezzetto di legno in cui si imbatteva era fradicio fino al midollo, non avrebbe mai trovato sterpaglie o erba secca lì intorno. Per riscaldarsi aveva solo il proprio fiato.

“Se non raggiungiamo Askoldir entro sera, non sopravvivremo” pensò Volgrim.

C’era ancora molta strada da fare. Da una parte, era stata una follia allontanarsi così tanto dal villaggio. La vergogna, il terrore per le conseguenze delle proprie azioni lo avevano spinto laggiù, nell’inconscio desiderio di trovare una morte rapida e indolore. In quel momento di lucida disperazione, Volgrim sapeva di non avere alcuna via di fuga: il suo prestigio, già incrinato dal fallimento dei suoi riti sacrificali, sarebbe stato definitivamente distrutto una volta scoperto l’assassinio di Bjorik. Eppure, era stata proprio quella colpa a permettergli di incrociare la strada di Kalig. La fuga verso la morte gli aveva riservato, invece di un’anonima fine tra i ghiacci, un’insperata opportunità di rinascita. Un simile incontro non poteva essere frutto del caso, il suo destino non era quello di morire in disgrazia in mezzo alle montagne, da reietto. Un dio vigilava su di lui, guidando il corso degli eventi. Chi fosse, non aveva importanza. La sola cosa che contasse, per Volgrim, era continuare a godere del suo favore.

 
***
 
Nel pomeriggio il sole svanì. Una fitta ombra ricoprì le montagne, il tenue tepore che li aveva riscaldati fino ad allora scomparve del tutto, come se non fosse esistito. Il gelo tornò a insinuarsi nei vestiti e sulla pelle di Volgrim, facendolo rabbrividire. I suoi muscoli cominciarono a irrigidirsi per il freddo e per lo sforzo, ma non poteva cedere. Doveva mancare poco, ormai. Una notte all’aperto li avrebbe uccisi entrambi. Kalig era rimasta incosciente tutto il tempo, ma in quelle ultime ore prima che il sole calasse aprì gli occhi e mormorò qualcosa di incomprensibile alle orecchie di Volgrim. Lui se ne accorse. Tentò di parlarle, per aiutarla a rimanere desta.

«Come ti senti? Riesci a rimanere sveglia?»

Kalig biascicò qualcosa che Volgrim non comprese, ma l’askarl non si perse d’animo. Anche se vaneggiava, quelle parole erano la testimonianza che la ragazza lottava, si sforzava con tutta se stessa di rimanere viva.

«Askoldir. Siamo quasi ad Askoldir.»

Quel nome ebbe un effetto straordinario su di lei. I suoi occhi si spalancarono, brillando di una luce vivida, intensa. La nebbia scomparve completamente dal suo sguardo, la sua presa si fece più forte.

«Askoldir...» mormorò Kalig, a voce bassa ma chiara.

«Sì. È là che stiamo andando.»

Le dita di lei affondarono nella pelliccia di Volgrim, sfiorando la carne. La sua forza stava tornando, notò con piacere l’askarl. Recuperava energie, migliorava a vista d’occhio. In lei c’era qualcosa di davvero straordinario. Nessun uomo si sarebbe ripreso così in fretta da ferite come le sue, eppure la donna pareva risentirne appena dopo soli due giorni. Cos’era a renderla tanto forte?

 
***
 
L’ululato portato dal vento gli raggelò il sangue nelle vene. La luce del giorno era pallida, ma lontano, contro la vetta delle montagne, si intravedeva il rosso scarlatto del sole al tramonto. Il terreno si era fatto più accidentato. Volgrim aveva scelto una strada più rapida per raggiungere la valle, passando per il fianco scosceso della montagna. Il freddo della notte che incombeva non era più il pericolo da temere. Un secondo ululato riecheggiò nell’aria tersa, costringendo Volgrim ad arrestarsi per guardarsi intorno.

I lupi non si vedevano da nessuna parte. C’era solo bianco intorno a loro, cosparso dal nero dei longilinei tronchi di abete che li circondavano. Volgrim cominciò ad ansimare, in parte per la stanchezza, in parte per l’angoscia che a poco a poco si impadroniva del suo cuore.

“Così vicini...” pensò. “Così vicini alla meta, e rischia di finire tutto così.”

Richiamò forza alle braccia, che in quel momento reggevano le gambe di Kalig. Risollevò il corpo della ragazza, la testa di lei sporse leggermente sulla spalla sinistra di Volgrim. Poi prese a correre. Non gli importava di perdere l’equilibrio e di cadere. Aveva fatto troppa strada per permettere che tutto finisse così.

La sua andatura non era molto svelta, ma si sforzò di aumentarla. Una fitta nuvola di vapore continuava a esalare dalla sua bocca, assieme a un abbondante fiotto di saliva che colava dalle labbra. Il cuore batteva all’impazzata, martellandogli il petto e accecandolo di dolore. I muscoli delle braccia e delle gambe erano a pezzi, stremati dalla battaglia contro la neve e contro il tempo. Volgrim sentiva il sangue scorrere a fatica nelle sue vene, quasi fosse ridotto in polvere. Voleva bere, ma non poteva fermarsi.

Kalig non dava segni di vita.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Rimorso ***


 

I lupi li accerchiarono sulla pianura. Erano tre, magri, dal folto pelo nero. Volgrim era talmente spossato da non riuscire a distinguere nemmeno il loro sordo ringhiare. Ciò che vedeva con chiarezza era lo sguardo famelico dei loro occhi rossi. Erano ancora a debita distanza, ma entro pochi istanti sarebbero balzati loro addosso, dilaniandoli con le spietate zanne dei lupi del nord.

Il ginocchio sinistro di Volgrim cedette, affondando nella neve. Kalig scivolò a terra, senza che Volgrim facesse alcunché per impedirlo. Non aveva più la forza nemmeno per tenersi in piedi. Il leggero tonfo sul soffice strato di neve risvegliò Kalig, che fu in grado di sollevare il capo e osservare la situazione in cui erano precipitati.

Era difficile capire quale emozione tradissero i suoi occhi. Era paura, non c’era dubbio. Ma non la tipica, naturale paura di un uomo di fronte alla morte. Ad angustiarla era una paura diversa, qualcosa che pareva angosciarla più della paura della morte stessa. Che cosa poteva mai significare quell’espressione? Volgrim non lo capiva, e ormai non gli interessava più scoprirlo. Era finita. Erano arrivati vicini alla meta, ma non ce l’avevano fatta. Sarebbero stati sbranati, senza che nessuno ricordasse i loro nomi o dove fossero finiti i loro resti. Il loro destino era l’oblio.

Volgrim udì i passi felpati di un lupo che si avvicinava.

“Ci siamo” pensò. “È finita.”

Chiuse gli occhi, sforzandosi di dimenticare tutto, dal colore del cielo al viso di sua madre. Non ci riuscì. Avrebbe voluto piangere.

“Bjria, madre... che cosa ti ho fatto? Potrai mai perdonarmi, quando ci incontreremo nella Bocca di Cristallo?”

Ormai poteva sentire il fiato rancido del lupo sul volto. Il ringhio gutturale era l’unico suono che le sue orecchie percepivano.

“E anche tu, padre... no, tu no. Tu non riuscirai a perdonarmi per quello che ho fatto.”

Il volto di Roigkal val’Rundor apparve nella sua mente, uno sguardo severo, glaciale. Lo sguardo di un uomo che disprezza il proprio figlio dal più profondo del cuore.

“Per che cosa mi disprezzi di più, padre?” continuò a pensare Volgrim, in attesa del morso alla gola che avrebbe posto fine alla sua vita. “Per averti ucciso o per aver fallito come tuo successore?”

Poche gocce di veleno nell’acqua erano state sufficienti. Una decisione d’impulso, non premeditata. Fino all’ultimo, non aveva avuto ripensamenti. Non ne aveva avuti nemmeno dopo, ricordò Volgrim. Voleva il trono di suo padre, e l’aveva ottenuto. Si era reso conto troppo tardi che il difficile non era ottenere l’ascia degli askarl, ma conservarla.

Il fato, gli déi, chiunque reggesse le redini del destino, non si curava di quei dettagli insignificanti. Le cose andavano avanti perché così era scritto, non perché l’uomo ne dirigesse il corso. Il termine del suo percorso era deciso da prima che nascesse, ed era morire laggiù, in quella foresta desolata, per mano di bestie selvagge. Si era illuso che la sorte potesse riservargli qualcosa di più grande. Piccolo, stolto ragazzo.

Un calore improvviso gli bruciò il braccio e la mano destri. Volgrim riaprì gli occhi, accecato dal dolore. Prima di dischiudere le palpebre, un forte odore di carne bruciata gli riempì le narici, quasi soffocandolo. Dovette richiuderle subito, abbagliato dalla luce intensa delle fiamme nelle immediate vicinanze.

L’ultima immagine di cui ebbe memoria, prima di ricadere nella neve privo di sensi, fu quella di Kalig, in piedi accanto a lui, che strangolava uno dei lupi a mani nude, le braccia ricoperte di fuoco, un fuoco che divampava e si allargava lungo il corpo della bestia, divorandola poco a poco, incurante dei suoi guaiti di disperazione.

 
***
 
Quando Volgrim riprese conoscenza, si risollevò dal terreno umido e fango su cui era disteso. C’era un calore umido nell’aria, misto a un acre odore di fumo. Alcune fiammelle crepitavano sui rami degli alberi anneriti poco distanti, ovunque la distesa di neve presentava chiazze di cenere.

Kalig gli era accanto. Era vigile e sembrava in attesa del suo risveglio, inginocchiata vicino alla sua schiena. Volgrim stava per dirle qualcosa, ma ammutolì nel vedere le condizioni delle sue braccia. Se già in precedenza le sue carni erano ridotte in condizioni allarmanti, adesso si vedevano chiaramente spaccature nello strato di pelle che mettevano a nudo la carne viva, di un rosso vivido in mezzo al nero della pelle abbrustolita. Alcune parti di lei emettevano ancora una sottile striscia di fumo. Con orrore, Volgrim constatò che le mani erano ridotte peggio: alla mano sinistra mancavano due dita, il mignolo e l’anulare, mentre nella mano destra si erano prodotte aperture così profonde da formare un varco tra il palmo e il dorso della mano.

Kalig era impassibile. Nei suoi occhi non c’era traccia di agonia, ma solo una lieve perplessità. Era come se i suoi occhi domandassero: “Perché ci siamo fermati?”

Volgrim tentò di toccarle le mani, ma lei le ritrasse. L’askarl capì che non si sarebbe lasciata medicare finché non avessero raggiunto Askoldir. Non aveva altra scelta che proseguire. Ormai erano vicini.

 
***
 
Iorig si coprì gli occhi con le mani. Un velo di acqua ghiacciata ricopriva i palmi, il freddo lo risvegliò completamente dal torpore del sonno. Era ancora buio, ma era tempo di proseguire. Si guardò intorno. Decine e decine di tende ammucchiate una vicina all’altra, circondante dalla desolazione bianca. All’orizzonte, un pallido chiarore a preannunciare l’imminente sorgere del sole.

Iorig respirò a fondo l’aria mattutina. Era diversa da quella respirata fino ad allora ad Askoldir. Presto, anche la sua gente se ne sarebbe accorta. Si rese conto di essersi riferito al popolo di Grijndir come alla ‘sua’ gente, come se gli appartenesse, come se ne fosse l’askarl. Cominciava a considerarsi tale, anche se, di fatto, nulla era cambiato da quando avevano abbandonato il villaggio. O forse sì, tutto era cambiato, ma in maniera talmente profonda da rifiutare ancora di accettare il cambiamento lui stesso. Era pronto a essere un askarl, una guida, per i suoi uomini? Certo che lo era. Se solo lo avessero scelto prima, invece di inseguire vane illusioni... sarebbero già stati nel cuore del sud, grassi e appagati, forse già al lavoro con le prime sementi.

Un corno risuonò nell’aria gelida del mattino.

Tutti si risvegliarono e uscirono dai rifugi, impugnando asce e coltelli. Iorig stesso strinse l’ascia al petto. Il corno che avevano udito non era il loro. Qualcun altro si stava avvicinando.

Erano accampati sul ghiaccio, a est si scorgeva il profilo delle montagne rocciose e dei fiordi, ricoperti da una fitta patina di ghiaccio trasparente. In lontananza, tutto era nero a chiazze bianche. Nessuno poteva provenire da là.

Alle spalle non c’era nessuno che potesse inseguirli, salvo Volgrim. Ma Volgrim non si sarebbe certo annunciato in quel modo. Sarebbe strisciato durante la notte fino alla sua tenda e l’avrebbe sgozzato nel sonno, com’era giusto che fosse. D’altronde, Iorig si era sostituito a lui al comando. Al suo posto, Iorig avrebbe fatto lo stesso.

A ovest c’era solo la banchisa. Centinaia di miglia di vuoto congelato senza fine. Ghiaccio e ancora ghiaccio, così tanto che a un uomo non sarebbe bastata una vita per percorrerlo tutto fino a raggiungere un’altra terra, o il mare.

Restava solo il sud, la direzione verso cui erano diretti. Lunga la linea che conduceva alla meta, Iorig scorse una massa in movimento. Andava veloce, qualunque cosa fosse. Sembravano animali, una mandria di bestie selvatiche. Renne? Alci? No.

Cavalli.

Un branco di cavalli procedeva spedito sul margine della costa, dirigendosi verso di loro. Nella penombra dell’alba, il loro comportamento appariva piuttosto inconsueto. Iorig non aveva mai visto cavalli in quella regione, né comprendeva perché mai un branco si sarebbe spinto fino al remoto nord. Non c’era niente laggiù, se non morte per assideramento.

Man mano che la luce aumentava, Iorig comprese. Non poteva crederci. Un sorriso si delineò sulle sue labbra.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Piani ***


Algwi il Boscaiolo e Holf val’Hulf arrivarono al cospetto di Iorig nello stesso momento.

«Che succede? Che cosa sono, in nome di Grijndir?»

Iorig si concesse una breve risata. I due uomini lo guardarono, increduli.

«Sono cavalli, amici miei. Li abbiamo incontrati prima del previsto.»

«Cavalli?» Holf val’Hulf era basito. «Cavalli... veri? Quelli che i bardi descrivono nelle ballate del sud?»

«Proprio quelli. Li vedrai molto da vicino. E non sono soli.»

Il popolo di Grijndir era piuttosto teso. Iorig se ne rese conto, e comprese che quella situazione rischiava di degenerare. Doveva agire prima che i nuovi venuti fossero al loro cospetto.

«Dite agli altri di stare tranquilli e di riporre le armi. Vado avanti io. Restate indietro.»

Iorig non lasciò loro il tempo di replicare. Oltrepassò il confine dell’accampamento e si mosse in direzione della costa, verso il rumore di zoccoli sempre più forte, lasciando l’ascia dietro di sé. Quando fu abbastanza lontano, prese a correre in direzione dei cavalieri, felice come non mai di incontrarli sul suo cammino così presto.

A guidare la colonna era un destriero dal fitto manto rosso, che alla luce dell’alba riluceva di riflessi ramati. A montarlo, una figura esile dal volto coperto con uno spesso strato di sciarpe di lana. Né costui né altri membri del suo seguito indossavano pellicce. Erano ricoperti da indumenti la cui foggia non era certo quella degli abiti degli uomini del nord: pelle trattata, lana, stoffa, ognuno di loro portava vestiti realizzati con tessuti che non esistevano nelle valli innevate da cui Iorig proveniva.

«Fa freddo, dalle tue parti» disse una voce femminile, proveniente da un punto all’interno del bozzolo di lana che racchiudeva la testa.

«Hai ragione» rispose Iorig, sorridendo. «Avrei dovuto regalarti almeno una pelliccia.»

«Imperdonabile.»

La donna smontò da cavallo. Si avvicinò a Iorig, mentre il suo seguito attendeva a breve distanza. Tolse uno strato di lana dal viso, così che Iorig poté ammirare ancora una volta il colorito bruno della sua pelle. Quegli occhi marroni come nocciole, poi, gli erano mancati più di qualunque altra cosa.

Si abbracciarono. Lei gli concesse un rapido bacio sulle labbra.

«Non potevi aspettarmi, Syrri?»

«Non c’era motivo di farlo. Sapevo che avresti preso questa strada. Sono venuta per scortarti a casa.»

«Hai paura che i lupi mi portino via?»

«Volevo esserti accanto il prima possibile.»

Iorig annuì. Non lo avrebbe mai ammesso, ma aveva patito molto la sua mancanza. Era trascorso più di un anno, dall’ultima volta che erano stati insieme.

«Quanti sono?» chiese Syrri, osservando l’accampamento in lontananza.

«Abbastanza» rispose Iorig, sbrigativo. «Ho detto loro che li attendono campi verdi da saccheggiare e una nuova terra da abitare. Temo che le loro aspettative saranno deluse.»

«Troveranno una terra nuova, questo è sicuro» disse Syrri. «Per alcuni di loro sarà oltre il mare, per altri... oltre questa vita.»

«Non è troppo tardi, vero?»

«No, per fortuna. I mercanti di schiavi sono arrivati tardi, quest’anno. Si tratterranno ancora per un po’. Sanno che è in arrivo una partita di schiavi valigeri, e non vogliono perdere l’occasione: i valigeri sono difficili da catturare, poche centinaia di loro valgono un bel po’ d’oro nelle terre oltre il mare.»

«Li avrai avvertiti che non sono mansueti, spero.»

«Sono mercanti esperti. Hanno già trattato con noi, sanno cosa aspettarsi. Vengono da Shadi’iktar, li spezzeranno come bastoncini.»

Iorig si voltò a guardare il nugolo di persone in trepidante attesa in mezzo alle tende erette sul ghiaccio. Esalò un sospiro profondo, le palpebre sbatterono un paio di volte. Nulla di più.

«Molto bene.»

 
***
 
Volgrim rimase in silenzio per più di un’ora. Non riusciva a capire.

Il villaggio era deserto. La neve ricadeva su capanne vuote, buie all’interno, circondate da un silenzio spettrale. Il pavimento di neve era intatto, privo di impronte o segni di qualunque genere. Quello che era successo, era successo da diverso tempo, da giorni. Forse aveva avuto luogo il giorno stesso della sua fuga. Che cosa era potuto succedere, durante la sua assenza?

Kalig guardava il villaggio assieme a lui. Il suo sguardo spaziava dalle porte sbattute dal vento all’infinito mare di ghiaccio oltre le dimore abbandonate. Si rivolse a Volgrim.

«... Askoldir?»

Volgrim la guardò. Lei vide lo sgomento nei suoi occhi, ma continuò a pretendere una risposta.

«... Askoldir?»

«Sì. Questa è Askoldir. Questa è casa mia.»

Kalig si precipitò tra le vie deserte del villaggio. La sua forza e agilità erano incompatibili con lo stato del suo corpo. Volgrim la seguì, faticando a starle dietro. Vide con orrore diverse ferite aprirsi e squarciarsi a causa dei movimenti bruschi, liberando un essudato liquido giallastro.

«Fermati, maledizione!» le urlò Volgrim. «Ti ucciderai così!»

Kalig si fermò di fronte a ognuna delle porte spalancate. Diede una rapida occhiata dentro ogni casa, frugando con lo sguardo, annusando l’aria, per poi scappare subito alla porta successiva. Cercava in modo febbrile, animata da una foga che aveva qualcosa di folle.

«Che cosa stai cercando? Me lo vuoi spiegare?»

La frenesia di Kalig gli fece dimenticare, per il momento, l’assurdità della situazione che vigeva all’interno del villaggio. Frastornato da troppi eventi sconcertanti, Volgrim si limitò a seguire l’unica certezza di cui disponeva: aveva bisogno di Kalig. Continuò a seguirla nella sua ricerca spasmodica, passando attraverso i sentieri affogati nella neve e calpestando le ombre delle capanne desolate.

Alla fine, Kalig si fermò. Volgrim rimase alle sue spalle, mantenendo una certa distanza. Aveva rovistato in ogni angolo di Askoldir, apparentemente senza trovare quello che cercava. La vide fremere di rabbia, e cominciò a temere che una nuova esplosione di fuoco stesse per travolgerla.

Kalig si voltò di scatto, fissando i suoi occhi profondi occhi neri in quelli azzurri di Volgrim. Il ragazzo si sentì morire. L’aspetto della donna era terrificante, con quelle orbite scavate, la pelle completamente carbonizzata, le ferite disseminate per il corpo che sgorgavano sangue. Era come se a fissarlo fosse la morte in persona. Volgrim riconobbe qualcosa di familiare, in quegli occhi. Qualcosa che aveva già visto, che conosceva, ma che non riusciva a identificare.

«Dove... schiavi?»

Volgrim fu distolto dai suoi pensieri. Era sicuro di non aver capito. Doveva aver detto un’altra cosa, senz’altro. Non poteva aver formulato quella domanda.

«Dove... sono... schiavi?»

Kalig scandì le singole parole, a Volgrim non sfuggì la collera crescente nel suo tono di voce.

La stalla degli schiavi era poco al di fuori del villaggio, in quel momento del tutto coperta dalla neve caduta. Per questo Kalig non l’aveva notata. Perché cercava gli schiavi? Quella richiesta era senza senso. Ciò nondimeno, Volgrim le indicò il luogo che cercava. Esattamente un istante dopo, si pentì di averlo fatto.

Kalig si scagliò contro la stalla, che adesso riconosceva sotto lo strato di ghiaccio che la ricopriva.

I suoi occhi. Certo che li aveva già visti.

Grandi, verdi come l’acqua marina d’estate, liquidi. Intrisi di una fiera determinazione, per di più. Erano gli stessi occhi di una giovane fanciulla valchimera che aveva immolato a Grijndir tanto tempo prima. Gli erano rimasti impressi, perché erano gli occhi del primo essere umano che aveva ucciso.

Tutto acquistò senso, all’improvviso.

Kalig era sua madre.





NOTE AUTORE
Bentrovati! Come vedete, siamo arrivati a un capitolo cruciale. Pian piano gli altarini si scoprono e si delinea il destino verso cui i nostri protagonisti vanno incontro. Grazie ancora a chi mi segue (nella speranza che prima o poi lasci un commento) e alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Responsabilità ***


«Chi sono questi uomini?»

Holf val’Hulf guardava con sospetto i cavalieri del sud. La loro lingua, gli abiti, l’aspetto e ogni cosa in loro destava la diffidenza dell’anziano valigero. Non si sarebbe accontentato delle rassicurazioni di Iorig.

«Guide della costa» disse Iorig, esibendo un sorriso bonario. «Conosco il loro signore. Ho intrattenuto affari con loro, ci possiamo fidare. Ci guideranno fino alle terre verdi.»

«Possiamo raggiungerle da soli» ribatté Holf.

«È meglio non correre rischi, vecchio amico» disse Iorig. «In questa regione ci sono bufere di neve che niente hanno da invidiare alle nostre. Nemmeno io conosco queste terre bene quanto loro. Fidati, ci saranno molto utili.»

«Sono armati, Iorig.»

Iorig esitò un istante prima di infilarsi il boccone di carne arrostita in bocca. Solo un istante, non di più. Avrebbe dato a Iorig la fugace impressione di essere sorpreso, in modo tale che il suo atteggiamento risultasse credibile fino all’ultimo. Mostrarsi del tutto indifferenti avrebbe destato sospetti.

«È normale, Holf. Ci sono orsi e altre bestie selvagge qui intorno.»

«A me sembrano armati per una guerra.»

«Non essere ridicolo.»

«Hanno spade e lance, che Grijndir li maledica!» sbottò Holf.

«E noi abbiamo asce e pugnali.»

«Non mi faccio scortare da quella gente... e da quella donna.»

Iorig sbuffò. Cominciava ad annoiarsi delle lamentele di Holf. Ma doveva portare pazienza. Ancora pochi giorni e il vecchio grassone sarebbe stato solo un ricordo. Iorig pregustava già quel momento.

«Quando la neve pioverà così fitta da impedirti di distinguere la mano destra dalla sinistra, ringrazierai di averli accanto. Mi hanno salvato la vita in passato. Il loro senso dell’orientamento è unico, non si perderebbero neanche sulla montagna di notte.»

Holf non disse nulla. Aveva esaurito le obiezioni, oppure era giunto alla conclusione che ogni altra parola fosse inutile. In entrambi i casi, Iorig era soddisfatto. Niente poteva guastare la felicità di quel giorno. Ogni cosa stava andando meglio del previsto.

 
***
 
Syrri gli baciò il collo. Lo morse, e per un istante Iorig credette che gli avrebbe strappato la carne di dosso. Quella donna era davvero fuori dal comune. La prima volta che l’aveva vista, tre anni prima, gli aveva quasi perforato il cranio con la lancia, dopo averla scagliata da più di cento passi di distanza. L’aveva raggiunta e aveva tentato con tutto se stesso di ucciderla, senza riuscirvi. Era sottile e sinuosa, al tempo stesso letale come un dardo avvelenato. Gli aveva ricordato uno squalo dei ghiacci: aveva la stessa sottigliezza, gli stessi attacchi rapidi e feroci.

Avevano combattuto per quasi un’ora, senza che nessuno dei due riuscisse a prevalere sull’altro. Era calato il sole quando si erano fermati e si erano uniti in un travolgente, inspiegabile amplesso. Iorig l’aveva posseduta come non aveva mai posseduto nessuna donna. Lei era diversa da qualsiasi creatura avesse mai conosciuto, era come lui. Una donna che prendeva quello che voleva, senza badare alle conseguenze.

Le aveva promesso che sarebbe tornato, e l’aveva fatto ogni anno. L’amava? Sì, forse. Di certo, per lei provava il sentimento più vicino all’amore che gli fosse mai capitato di provare. Non sapeva che cosa Syrri provasse veramente per lui, ma non gli importava. Lo voleva, Iorig lo vedeva dalla foga del loro accoppiamento ogni volta.

Syrri ansimò un’ultima volta. Iorig raggiunse il culmine del piacere nello stesso momento, lasciandosi ricadere su di lei. Respirava a fatica, esausto.

«Quattro lune fa ho partorito tuo figlio.»

Iorig sollevò la testa. Lo sguardo annebbiato, la pelle madida di sudore.

«Ho un figlio?»

«Sì. La scorsa primavera mi hai lasciato un figlio in grembo. Un maschio sano e forte, ha i tuoi occhi. Non gli ho ancora dato un nome.»

Iorig sorrise. Strisciò fino alle sue labbra, lasciando che i seni di lei venissero schiacciati dal suo petto. La baciò con passione, sentendo il vigore risvegliarsi nuovamente.

«Voglio altri figli da te. Ne vorrò sempre, da te.»

I suoi occhi azzurri lo guardarono nel profondo, deliziata. Le sfuggì un lieve ansito, mentre lui entrava ancora dentro di lei.

«Come chiameremo nostro figlio?»

Iorig ci pensò su un attimo. C’era un nome che continuava ad affacciarsi alla sua mente, e si domandava se fosse appropriato. Guardò Syrri, il suo sguardo lussurioso, la chioma ramata sparsa sul cuscino, un arcobaleno di riflessi rossi abbandonati sulla sua pelliccia bruna di lupo.

«Volgrim» disse Iorig. «Questo sarà il suo nome. Lo accompagnerò verso un destino più grande di chi ha portato questo nome prima di lui.»

 
***
 
Il cuore di Volgrim batteva all’impazzata. Mai, prima di quel giorno, aveva avvertito quel peso scavargli il petto. Se la sua intuizione era giusta, quale destino lo attendeva?

Il villaggio era abbandonato. La stalla abbandonata anch’essa, ricoperta di neve. Era facile prevedere che cosa fosse successo agli schiavi. Difficile credere che Iorig si fosse accollato quel peso morto, ovunque stesse andando.

Iorig... suo zio infine aveva manifestato il suo tradimento. Doveva essere stato lui a trascinare via il suo stesso popolo lontano, a sud, o in qualunque luogo dimenticato dagli déi lo conducesse la sua follia. Era un askarl senza popolo. Non gli rimaneva niente, solo un regno vuoto e sommerso dal ghiaccio. Un ghiaccio che stava per essere travolto dalla furia di una donna capace di dominare il fuoco più terribile che il mondo avesse mai visto.

Un urlo spezzò il silenzio di Askoldir. Volgrim fuggì verso il mare, in un gesto di primitivo terrore, senza rendersi conto di ciò che faceva. Gli schiavi erano veramente rimasti nella stalla. Volgrim non volle immaginare in che stato li avessero ridotti gli uomini del popolo di Grijndir.

La neve si insinuava negli occhi, le palpebre sbattevano senza sosta, nel tentativo di ottenere una visuale chiara. I ciottoli della spiaggia scricchiolarono sotto i suoi piedi. La lastra di ghiaccio crepitò dietro i suoi passi, compatta e liscia, eterna, immortale.

Volgrim correva verso un orizzonte privo di luce, una bianca, trasparente distesa di acqua congelata, troppo vasta per essere attraversata, troppo forte per essere spezzata.

Si fermò, rendendosi conto della follia che si era impadronita di lui.

Non c’era posto dove scappare. Non c’era rifugio dalla furia di Kalig.

Una lancia di fuoco divampò in cielo, scatenandosi nel punto della terraferma dove sorgeva Askoldir. Le fiamme si sollevarono, un alone rossastro illuminò ogni cosa nella piccola valle stretta tra le montagne innevate. Il villaggio bruciava, Kalig divorava ogni cosa.

Volgrim stette a guardare per quello che sembrò un tempo infinito. Quanto rimase fermo, a osservare? Il tempo di un sospiro, o magari un’ora? Forse di più.

Kalig avanzava a piccoli passi, una figura nera ricoperta di fiammelle voraci. Nuda, la pelle completamente nera per le bruciature, gli occhi ridotti a fessure. C’erano degli occhi, là dentro? A Volgrim sembrarono tizzoni ardenti di un fuoco demoniaco, qualcosa che nessun umano aveva mai visto.

Lo fissò a lungo, senza parlare. Volgrim capì che si aspettava che fosse lui a parlare per primo.

«Io... mi dispiace...»

Una sferzata di calore lo investì in pieno volto. Kalig aveva trattenuto le fiamme, perché un’ondata di quel fuoco sarebbe stata sufficiente a dissolvere Volgrim come una foglia secca.

«... Chi?» chiese Kalig.

Volgrim non era certo di saper distinguere le parole della donna. Parlava con un accento molto pronunciato, e la voce arrochita e alterata non lo aiutava nella comprensione.

«Chi ha fatto questo, vuoi dire?»

Il bagliore negli occhi di Kalig bastò come risposta.

«Io... io non lo so.»

Kalig lo guardò. Non come una donna guarda un uomo. In lei non c’era più nulla di una donna, o di un umano.

«Allora tu muori.»

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Fiamma ***


Un caldo soffocante, sorto in maniera innaturale intorno al ghiaccio che lo circondava, si sprigionò dal corpo di Kalig. Volgrim sentì la pelle bruciare, la bocca farsi riarsa, il cuore battere sempre più forte.

Qualcosa scattò nella sua mente. La disperazione fece muovere le sue labbra, costringendolo a pronunciare parole che, a mente fredda, non avrebbe mai detto. Un sudore gelido gli imperlava la fronte e la schiena, osservava con occhi sbarrati la creatura che si stagliava dinanzi a lui, furente e terribile, pronta a dilaniarlo.

«Conosco l’uomo che potrebbe aver fatto questo» gridò, terrorizzato.

Il calore si abbassò all’improvviso. Si trasformò in tepore, pronto ad attizzarsi di nuovo da un momento all’altro. Kalig era in piedi, immobile, che lo fissava. Attendeva che proseguisse.

«Qui regnava un uomo. Ha ucciso uomini e donne del tuo popolo. Li ha sacrificati al suo dio.» disse Volgrim. Ogni parola gli pesava come un macigno. «Ma ora non è più qui.»

«Dove... andato?» sussurrò Kalig. Era la sua voce, o il vento che soffiava nel nevischio?

Volgrim si voltò e levò un braccio per indicare il mare alle sue spalle.

«Deve essere andato di là. È l’unica via che può aver preso. È fuggito. Temeva che qualcuno sarebbe giunto per reclamare vendetta.»

La menzogna fluiva naturale dalle labbra di Volgrim. I suoi gesti, il tono della sua voce, lo sguardo convinto, tutto era concertato per rendere credibili le sue parole, persino a se stesso. In un attimo, Volgrim si ritrovò a credere in quello che diceva. L’attaccamento alla vita aveva sviluppato in lui questa abilità, così come il desiderio di reggere l’ascia degli askarl gli aveva donato la forza di uccidere suo padre, e convincersi che tutto fosse avvenuto per volere del fato.

Kalig guardò il mare ghiacciato. Cercava qualcosa in lontananza, sperava forse di intravedere la sagoma dell’uomo cui dava la caccia?

«Si chiamava Iorig.»

Gli occhi fiammeggianti di Kalig si fissarono ancora su Volgrim. Ripetè quel nome, con voce talmente roca da ricordare il crepitio di una fiamma.

«Iorig

«Sì» mormorò Volgrim, sostenendo quell’occhiata terribile. «Non può essere troppo lontano. Fuggivo da lui, quando ti incontrai sulle montagne.»

Kalig non disse nulla. Mosse un passo in direzione di Volgrim. I suoi piedi lasciavano una sottile pozzanghera a ogni passo, tale era il calore che sprigionavano. La superficie del ghiaccio dove camminava la donna diventava umido, formando crepe profonde che non si vedevano dalla primavera dell’anno passato. Kalig superò Volgrim e si incamminò verso il mare aperto.

Il suo corpo divenne fuoco. La pelle di Kalig si consumò, precipitando in piccoli pezzi carbonizzati dalle estremità dei suoi arti. Le ossa emersero dalla carne, bruciarono anch’esse, divorate da quel fuoco insaziabile che prendeva vita da qualche parte dentro di lei. Volgrim non udì urla né suppliche. Nonostante le mutilazioni inflitte dalla tempesta di fiamme che aveva generato, Kalig rimase eretta, rigida, inamovibile. Era la regina del mare, una figura austera e maestosa al centro di un pavimento di ghiaccio in rapido dissolvimento.

Quando il ghiaccio sotto di lui diede i primi segni di cedimento, Volgrim si riscosse e distolse lo sguardo. Fuggì verso la riva prima che fosse troppo tardi. Quando fu a pochi passi dal litorale, il calore della fiamma lo investì in pieno, travolgendolo e facendolo precipitare sui sassi della spiaggia. Sentì un bruciore acuto alla base del cranio, ma non osò coprirsi con le mani per proteggersi: temeva che anch’esse potessero finire bruciate.

Serrò gli occhi, rimase disteso a terra nell’acqua torbida, acqua che fino a poco prima era ghiaccio impenetrabile. Lacrime di terrore sgorgarono dalle palpebre serrate, spinte a forza dalla terribile immagine di Kalig che scatenava la più distruttiva fiamma che il suo corpo potesse produrre.

 
***
 
Trascorse molto tempo prima che Volgrim osasse rialzare la testa.

Lentamente, si voltò e guardò dietro di sé. Non poteva credere a ciò che vedeva.

Una densa foschia nera galleggiava sulle acque del mare. La nebbia più nera che avesse mai visto si sollevava verso il cielo in lente, grasse spirali di fumo. Non c’erano fiamme. Non c’era più nemmeno Kalig. Tutto quello che si vedeva, a perdita d’occhio, era un immenso mare verdastro e liquido, ancora ribollente dove la donna di fuoco si era consumata, sprigionando il suo ultimo – e più lacerante – grido di dolore.

 
***
 
Iorig fu svegliato nel cuore della notte. Syrri non era al suo fianco. Una mano rude e callosa gli scuoteva la spalla, di certo non la mano di una donna. A Iorig occorse qualche momento per recuperare lucidità, e ricordarsi che si trovava nella sua tenda, nel campo del popolo di Grijndir. Syrri era con il suo seguito di cavalieri, non poteva e non doveva trovarsi lì. A provocargli quel risveglio inaspettato era stata la mano di Algwi il Boscaiolo.

«Svegliati, Iorig. Dobbiamo parlare.»

«Che cosa c’è?» biascicò Iorig, la voce impastata.

«Riguarda le tue guide. Non sono quello che dicono di essere.»

Iorig tornò completamente lucido. Si mise ad ascoltare con molta attenzione le parole di Algwi.

«Stanotte abbiamo mandato una spia nel loro campo. Ha sentito una loro conversazione. Dobbiamo ucciderli, prima dell’alba.»

«Che cosa ha sentito?»

Algwi parlò con voce sommessa.

«Più di quel che ha sentito, ci preoccupa quello che ha capito. La loro lingua è diversa, ma alcune parole che usano sono identiche alle nostre. Ce n’era una che ricorreva spesso, troppo spesso» disse Algwi. «”Schiavi”.»

Iorig annuì, un gesto pacato e sfoggiato con deliberata lentezza. Si finse pensieroso.

«Dove vuoi arrivare?»

«Io sospetto che quei bastardi là fuori ci vogliano tendere un’imboscata» disse Algwi. «Chi è davvero questo signore delle terre verdi che dici di conoscere?»

«Che dico di conoscere?» chiese Iorig, senza sottolineare più del necessario il tono accusatorio sottinteso nella domanda. La situazione stava diventando tesa, non doveva esasperarla. «Dubiti di me, Algwi?»

Algwi il Boscaiolo rimase in ginocchio accanto a Iorig, che si trovava ancora disteso. Era una posizione di pericoloso svantaggio, si rese conto Iorig. Algwi era veloce, con il pugnale: nel tempo che Iorig avrebbe impiegato a impugnare l’ascia al suo fianco, Algwi l’avrebbe colpito al petto più di una volta.

«Io dubito che le cose stiano proprio come dici tu. Sei stato tu a spingerci in questo viaggio a sud. Tempo un giorno, e compaiono questi tizi. Tu sei l’unico che parla bene la loro lingua, li conosci perfino, parlamenti con loro! E questa notte, una nostra spia ascolta le loro chiacchierate e li sente parlare di schiavi. Che cosa dici di questo, invece?»

«Dico che avresti meritato di morire tra i ghiacci di Askoldir. Se non fosse per me, sareste ancora là a scannare donne e bambini in attesa di un miracolo.»

«Ti stai difendendo, Iorig.»

Un bagliore improvviso. Uno strappo di carne lacerata.

«Tu parli troppo, Algwi.»

Il fiotto di sangue sgorgò copioso dalla gola di Algwi. Gli occhi del Boscaiolo si fissarono su Iorig, un ultimo sguardo ricolmo di sgomento e terrore. Accennò una debole reazione, ma il sangue perso era già troppo. Un ultimo gorgoglio e Algwi ricadde a terra, gli occhi ancora spalancati.

«Dovevi uccidermi nel sonno, idiota» disse Iorig, pulendo il sangue dal pugnale sulla pelliccia del cadavere. «Ma non eri certo della mia colpevolezza, vero? Non volevi crederci. Il dubbio uccide, non è così?»

Algwi non rispose. I pensieri di Iorig si affollarono rapidi, mentre elaborava la mossa successiva.

“Chi altro è coinvolto in questo fastidioso incidente? Chi può sapere della spia?”

Uscì dalla tenda, alla ricerca della tenda di Holf val’Hulf.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Guerra ***


Holf val’Hulf rabbrividì. Una folata di vento gelido si insinuò nel bavero della folta pelliccia di montone. Osservò la fiammella morente al centro del cerchio di pietre, senza curarsi di ravvivarla. Era quasi l’alba, presto la marcia verso sud sarebbe ricominciata. Protese le mani in direzione del tenue bagliore rossastro. Guardò i palmi delle mani stagliati contro l’alone rosso sangue, la pelle illuminarsi di quello stesso colore, mentre un blando tepore la accarezzava.

Bjorik... che cosa avrebbe fatto Bjorik val’Kjorn?

Era stato spesso in disaccordo con lui in molte questioni,  ma non aveva mai disprezzato il suo punto di vista. Holf gli riconosceva la capacità di fornire un’opinione su ogni problema. Cosa che, in quel frangente, Holf non era in grado di fare.

Il nord, Askoldir, e persino Grijndir, erano il passato. Un’ombra di freddo e morte, che avevano dovuto lasciarsi alle spalle. Ma avevano scelto il modo migliore per farlo?

D’altro canto, il sud era latore di un’ombra non meno inquietante. Una terra grande e fertile, senza dubbio. Difficile pensare che non appartenesse già a qualcuno. Qualcuno che, forse, non mandava i suoi emissari a guidare gli stranieri affinché la raggiungessero. Per quale motivo li inviava, dunque? Per ucciderli, magari. Era sensato, ma non era quello che stava succedendo. I cavalieri non avevano teso loro un agguato, erano andati loro incontro spontaneamente. Il che era assurdo. Non era quello il comportamento di uomini inviati a uccidere un nemico.

Ma se non intendevano ucciderli, quali erano le loro intenzioni?

“Non so che darei, per sentire il consiglio di Bjorik” pensò amaramente Holf val’Hulf. “Che tu sia maledetto, Volgrim, ovunque tu sia.”

Un’ombra oscurò la danza delle fiamme.

Holf volse lo sguardo verso destra. Iorig val’Rundor si ergeva al suo fianco, alto e silenzioso, i lucidi capelli neri mossi dalla brezza mattutina. La penombra nascondeva i suoi occhi.

«La notte non ti ha portato consiglio, Holf?» disse Iorig.

«Le notti non mi portano più consiglio da tanto tempo.»

«Parole cupe, vecchio amico. Cos’è a turbarti?» Iorig gli si sedette accanto. Per un po’ stettero entrambi a guardare le fiamme, senza parlare. Poi Holf ruppe il silenzio, la voce priva di inflessioni.

«So che è troppo tardi per cambiare idea, ma non mi piace come stanno andando le cose. Non mi fido degli stranieri, Iorig, nemmeno se sei tu a garantire per loro. Non voglio seguire la loro strada.»

«Ma la loro strada è la nostra. Ti abituerai a loro. Non dimenticare che un tempo li ho combattuti, ma poi ho imparato a conoscerli. Lo farai anche tu.»

«Perché non ci hai parlato di loro, in passato?»

Iorig scrollò le spalle.

«Non c’era un buon motivo per farlo. Mio fratello sarebbe andato su tutte le furie, il resto del popolo non lo avrebbe tollerato. Avreste seguito un askarl che intratteneva rapporti di amicizia con gli stranieri del sud?»

«Probabilmente no» disse Holf. «Ci hai mentito.»

«Se non l’avessi fatto a quest’ora sareste ancora in balia di Volgrim.»

Holf non ribatté.

«Perché non ti fidi di loro?» domandò Iorig.

Holf fissò Iorig negli occhi. Le fiamme, sempre più deboli, dipingevano un alone rossastro sulla sua guancia sinistra.

«Un estraneo, armato di ascia insanguinata, si avvicina alla tua casa. Come reagisci, Iorig? Gli spalanchi la porta e lo inviti a entrare, facendolo sedere accanto a tua moglie e ai tuoi figli?» l’espressione di Iorig era fissa, indecifrabile. «No, non credo che lo faresti. Nemmeno se a garantire per quell’estraneo fosse una persona di cui ti fidi.»

Toccò a Iorig rimanere in silenzio.

«Il comportamento di questi uomini non è normale, Iorig. E tu, perché ti fidi di loro?»

«Non riuscirò a convincerti, Holf. Questo discorso non ci porta da nessuna parte.»

«È un peccato, Iorig. Un vero peccato.»
 
***

La mente di Iorig lavorava frenetica alla ricerca di una soluzione. Holf era in grado di ottenere l’attenzione del popolo di Grijndir; se la sua voce si fosse levata contro di lui, la sua autorità sarebbe stata minacciata. Iorig ricordò di non essere mai stato acclamato come askarl, pur comportandosi come tale. Aveva commesso un grave errore, dando per scontato il suo potere all’interno della tribù. Avrebbe dovuto gestire meglio quell’aspetto, l’arrivo di Syrri e dei suoi cavalieri aveva gettato tutto nello scompiglio.

Era raro che Iorig si lasciasse distrarre dai suoi pensieri. Un errore che non avrebbe più commesso.

La fitta di dolore lancinante lo riportò bruscamente in mezzo alle tende, sul ghiaccio. Una lama di ferro grezzo affondava nel suo fianco sinistro, rigirandosi con ferocia. Il dolore e la sorpresa impedirono a Iorig di gridare. Agì d’istinto, afferrando la mano di Holf e obbligandola a mollare la presa sull’elsa del pugnale. Non aveva la forza per sollevarsi in piedi, fu costretto ad agguantare Holf per il bavero e trascinarlo a terra. Crollarono entrambi sulla brace morente, che non attecchì sui loro abiti umidi. I volti di Holf e Iorig si trovarono a meno di un palmo di distanza, gli occhi sbarrati, i muscoli della faccia contratti dallo sforzo.

Holf sferrò un pugno al fianco ferito di Iorig, che questa volta non poté fare a meno di urlare.

«Quali erano i tuoi piani?» disse Holf, sibilando tra i denti. «Pensavi di poterci ingannare?»

Iorig impiegò tutto se stesso per ignorare il dolore. La sua mano abbandonò il bavero di Holf e si insinuò in una tasca laterale dei calzoni di pelle. Non badò alle parole che gli venivano sussurrate dal vecchio, né alla stretta di lui che si stringeva sempre di più intorno al suo collo. Ogni suo sforzo era votato alla ricerca di un oggetto preciso. Quando le sue dita lo sfiorarono, attinse ogni residuo di energia rimasto nel suo corpo per fare quello che andava fatto.

Il riflesso metallico durò per meno di un istante. La punta della lama si conficcò a fondo nella gola di Holf. Una pioggia di sangue si riversò su Iorig, mescolandosi al fiume rosso che fuoriusciva dalla ferita al fianco.

Iorig ascoltò in silenzio gli ultimi gorgoglii prodotti dalla bocca di Holf. Lasciò che si accasciasse su di lui. Attese gli ultimi spasmi, finché il corpo non fu del tutto immobile. Spingerlo di lato non fu un’impresa facile, gli costò gli ultimi rimasugli di forze. Cominciò a strisciare verso la distesa ghiacciata, inseguito da una scia di sangue che si allungava sempre di più.

 
***
 
La luce inondava l’altopiano ghiacciato quando una sentinella si accorse del corpo disteso a meno di cento piedi dalla sua postazione. Nel buio sarebbe stato impossibile distinguerla, ma alla luce del giorno quella macchia nera si stagliava nitidamente contro la superficie levigata del ghiaccio.

Quando, assieme a due compagni, riconobbe in quell’uomo le fattezze di Iorig val’Rundor, Syrri fu immediatamente informata.

Trascirono Iorig, quasi esanime, all’interno del campo. Gli tolsero la pelliccia e la tunica sottostante. La ferita era profonda e non aveva un bell’aspetto. Quando Syrri arrivò, constatò subito che le condizioni di Iorig erano critiche. Ordinò di avvicinare un braciere e animare le fiamme il più possibile. Estrasse una fiaschetta dalla cintola e ne versò parte del contenuto sulla lesione. Il liquido opaco sfrigolò al contatto con la carne viva, emettendo anche un lieve vapore argenteo. Il volto di Iorig si contrasse in una smorfia, ma i suoi occhi rimasero chiusi. Syrri si augurò che rimanesse incosciente ancora a lungo, considerando quello che avrebbe dovuto fare.

Quando le fiamme furono alte, Syrri depose sulle braci una sottile lama di ferro. La arroventò fino a che il metallo grigio non si trasformò in una superficie rossa luminescente. Senza esitare, Syrri incuneò la lama rovente nelle pieghe della ferita, cauterizzandola dall’interno. Iorig era madido di sudore. Il suo sonno era tormentato dalla sofferenza. La lama toccò i lembi esterni della ferita, bruciando la carne lungo tutto il taglio. Iorig si risvegliò per un breve istante, erompendo in un urlo di agonia. Poi la sua testa ricadde a terra. Era svenuto, Syrri non tentò nemmeno di mantenerlo cosciente. Ricucì la carne con un ago di corno e filo ricavato dai suoi capelli. Terminò il lavoro in fretta, senza permettere che niente la distraesse.

Rimase un’ora sotto la tenda, a sorvegliare Iorig. Pose un panno imbevuto di acqua gelida sulla sua fronte, per ripulirla dal sudore e in previsione di un attacco di febbre. Poi uscì. Doveva parlare con gli altri.

 
***
 
«Hanno capito» disse Skilden. «Abbiamo poco tempo.»

«Non hanno capito niente» ribatté Syrri. «O almeno, non tutto.»

«Hai visto quello che hanno fatto a Iorig.»

«Ho visto Iorig trascinarsi ferito verso di noi. Se avessero capito tutto, non lo avrebbero mai lasciato fuggire. Ma è arrivato fin qui, senza che nessuno lo inseguisse» Syrri scosse il capo. «Se avessero saputo, ci avrebbero già attaccato. Sono molti più di noi e con la sorpresa dalla loro. Non c’era motivo di attendere.»

Skilden annuì debolmente. Non era convinto, ma accettava il ragionamento di Syrri.

«Allora che significa Iorig ridotto in quello stato?»

Syrri pose le braccia conserte. Scrutò in direzione dell’accampamento dei Grijndir. «Non lo so per certo. Spero che Iorig possa dircelo al più presto.»



 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Destino ***


NUOVO CAPITOLO! Annuncio ufficialmente che restano pochi capitoli da pubblicare, in quanto ho terminato di scrivere la storia pochi giorni fa. Spero che la storia vi stia piacendo e che non vi deluda proprio adesso. Grazie a chi mi ha seguito fin qui, dedico il capitolo a tutti voi!




Volgrim era seduto sulla spiaggia. La risacca delle onde lambiva i suoi piedi, una sottile spuma bianca ribolliva in mezzo ai ciottoli della battigia. Era da più di un anno che sentiva quel rumore. Rimase a lungo in silenzio, ad ascoltare.

Ovunque, nei dintorni, l’aria era calda e odorava di fumo. Qua e là, sulle superficie del mare, macchie di fuoco bruciavano sulle lastre di ghiaccio spezzate. Le fiammelle danzavano sempre più deboli, ma una densa coltre di fumo continuava ad aleggiare sulle onde. Le fiamme baluginavano, crepitanti e solitarie, circondate da un alone nerastro. Volgrim ebbe l’impressione di osservare anime di fuoco, emerse dal mare per scrutarlo. Forse per giudicarlo.

Un’onda più lunga delle altre arrivò a bagnargli i calzoni fino alla cintola. Volgrim non vi badò.

Aveva ottenuto ciò che voleva. Eppure, non si era mai sentito così lontano dal suo obiettivo. Il ghiaccio era rotto, ma la sua gente era scomparsa. L’avevano abbandonato, avevano fatto di lui un signore del nulla, un askarl senza popolo.

Che cosa avrebbe fatto, ora?

Chiuse gli occhi, lasciò che il buio ottenebrasse ogni cosa. La risposta rimase nascosta.

Un rumore lontano lo riportò alla realtà. L’acqua gorgogliava, al largo della costa. Un suono udibile anche in lontananza, accompagnato dal crepitio del ghiaccio ancora intatto che andava rompendosi. Quello che rimaneva della banchisa si incrinò, disgregandosi a poco a poco in tutta la sua immensa vastità, proseguendo la sua distruzione ben oltre lo sguardo di Volgrim, in direzione sud.

Dalla superficie increspata dell’acqua cominciava a emergere qualcosa.

Volgrim, dapprima, non riuscì a comprendere ciò che i suoi occhi vedevano. Dall’acqua emerse una lunga colonna opaca, bianca come neve, gigantesca, più alta di qualsiasi cosa gli uomini avessero mai costruito. Apparvero molti altri oggetti simili, Volgrim ne contò una decina. Alcuni erano perfettamente verticali, altri spuntavano obliqui, come pali acuminati di un recinto. Nel cingerli con le braccia, erano larghi a sufficienza da impedire a Volgrim di toccarsi le dita. Osservò quello spettacolo a lungo, senza sforzarsi di capire, guardando e basta.

Altre cose spuntavano dall’acqua. Forme bizzarre, tutte accomunate dal colore bianco smagliante e dalla consistenza opaca e porosa.

Dopo averli osservati per lungo tempo, Volgrim capì.

Erano ossa.

Le ossa di una creatura titanica, grande quanto la baia stessa.

L’acqua colmava a metà un’orbita vuota, in grado di contenere Volgrim per intero.

Stava contemplando i resti di Grijndir, la Bestia del Mare.

 
***
 
Il corno risvegliò Iorig dagli incubi.

La fronte era imperlata di sudore, la vista appannata. Non si era mai sentito così debole, così inerme. Fece appello a tutte le forze che gli restavano per alzarsi a sedere. Non fu una buona idea. Il giramento di testa per poco non lo fece precipitare di nuovo in uno stato di incoscienza. Il fianco pulsava come la tela di un tamburo, riusciva a percepire il sangue pompato in ogni singola arteria di quella parte del corpo. I muscoli delle braccia gli tremavano leggermente. Stava male, ma era vivo. Per il momento, gli bastava.

Inspirò a fondo l’aria gelida che filtrava attraverso l’entrata della tenda. Non era la sua, lo riconobbe subito. Dove si trovava? I ricordi erano sbiaditi, che cos’era successo dopo lo scontro con Holf?

Sentì degli uomini parlare appena fuori della tenda. Un dialetto del sud. Era nell’accampamento di Syrri.

“Sono arrivato fin qui, dunque” pensò, abbozzando un sorriso. “Non è così facile togliermi di mezzo. C’era un motivo, Roig, se mandavi me nelle incursioni a sud.”

Tossì, si appoggiò alla mano destra e si sollevò in piedi, con molta lentezza. Il minimo movimento scatenava dolori lancinanti che si irradiavano dappertutto. Iorig emise un gemito. Con molta fatica, rimase eretto per alcuni minuti, sorreggendosi con una mano la ferita cauterizzata. Espirò, osservando la nuvoletta di respiro esalata dalla sua bocca. Sbatté le palpebre più volte, nel tentativo di far tornare nitida la vista. Afferrò un lembo della pelliccia, la indossò e uscì all’aperto.

Il gelo lo aiutò a mantenersi vigile. Nevicava.

Iorig avanzò tra i falò accesi. Barcollò, urtando alcune armi dimenticate a terra. Si avvicinò al bordo dell’accampamento, dove un gruppo di individui scrutava in direzione nord, pressappoco dove avrebbe dovuto trovarsi il popolo di Grijndir.

Syrri era davanti a loro. I suoi capelli neri erano scompigliati dalla brezza che portava la neve, ricoperti da decine di puntini bianchi. Iorig si fece strada in mezzo ai cavalieri del sud per raggiungerla. Quando lo videro, si scostarono immediatamente. I loro sguardi erano sorpresi. La maggior parte di loro non si sarebbe aspettata di rivederlo vivo.

Quando Syrri si voltò, l’espressione nei suoi occhi non era quella che Iorig si era aspettato. Non c’era sollievo in lei. Tutto quello che poteva leggere in lei era una rabbia furiosa, il risentimento di chi si vede soffiare sotto il naso una preda già conquistata. Per questo l’amava: era sempre imprevedibile.

«Che cosa è successo?»

Iorig incespicò, procedendo verso di lei. Syrri era di fronte a lui, più bassa di tutta la testa, eppure sembrava un gigante al suo cospetto, malridotto com’era.

«Alcuni dei miei hanno covato dei sospetti. Hanno tentato di uccidermi, ma non ce l’hanno fatta» disse Iorig, con un debole sogghigno. «Ma temo che i sospetti abbiano messo radici. Non riusciremo a portarli a sud con le buone.»

Syrri socchiuse gli occhi. Era delusa. E furiosa. Per un istante, Iorig pensò che l’avrebbe ucciso. Non gli sarebbe dispiaciuto morire per mano di Syrri. Era la migliore morte che potesse desiderare.

«Capisco. Faremo questa cosa in un altro modo» Syrri si rivolse ai suoi cavalieri. «Sellate i cavalli e foderate gli zoccoli.»

Skilden guardò Syrri. Iorig vide l’indecisione nel suo volto. Non voleva contestare la sua signora, ma sentiva di doverlo fare.

«Vuoi attaccarli?»

«Abbiamo scelta?»

«Il ghiaccio...»

«Il ghiaccio reggerà. L’hai sentito sotto i piedi. Questo non è ghiaccio comune, è il cristallo del nord. Solo le Bestie del Mare hanno la forza di distruggerlo. Quindi, sella il tuo cavallo e fodera i suoi zoccoli. Non voglio vederti scivolare durante l’assalto.»

Skilden e altri venti uomini si diressero verso i propri destrieri, obbedendo agli ordini.

Iorig prese posto accanto a Syrri.

«Sei sicura di riuscirci?»

«Sei stato tu a mettermi in questa situazione. Come hanno fatto a capire?»

Gli occhi nocciola di Syrri bruciavano di ardore. Erano gli stessi occhi che aveva visto brillare il giorno in cui si erano affrontati.

«Non sono degli stupidi. Ho cercato di rassicurarli, ma non è bastato. Hanno scelto di non fidarsi.»

Syrri sbuffò.

«Adesso dovremo ucciderne la metà. Sperando di riuscirci.»

«Li ucciderò io stesso, se necessario.»

«Tu?» Syrri lo guardò, sprezzante. «Stai in piedi a malapena, Iorig. Saresti il primo a cadere.»

«Non mi importa.»

«Importa a me. Prendi un cavallo e osserva la scena da quel promontorio laggiù» Iorig seguì il braccio di Syrri, l’indice che puntava uno sperone roccioso al di sopra della baia congelata.

Iorig tentò di replicare, ma Syrri lo zittì.

«Ti mostrerò come uccidono i cavalieri di Valigen.»

Il tono della donna troncò la conversazione. Iorig non aveva la forza per combattere, tanto meno per contrastare il volere di Syrri.

Inerme e allontanato dallo scontro, Iorig provò una fitta più lancinante di qualsiasi taglio nella carne. L’orgoglio messo a dura prova, procedette – sotto lo sguardo severo di Syrri – in direzione dei cavalli, pronto a obbedire anch’egli ai suoi ordini, esattamente come i suoi uomini. Montando in groppa, comprese che non sarebbe mai stato askarl, né a nord né a sud. Era il suo destino, e non aveva altra scelta che accettarlo.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Battaglia ***



Il corno ruggì ancora. Il cupo suono rimbombante proveniva da nord, da una schiera di Grijndir in movimento che si disponevano nello spazio antistante l’accampamento. Quanti di loro erano in grado di combattere? Iorig stimò almeno settanta validi combattenti tra le fila del suo popolo.

Dall’alto della rupe dove Syrri lo aveva relegato, Iorig osservava. Il campo di battaglia era una piana di ghiaccio ricoperto da una sottile brina, i primi raggi del sole vi si riflettevano e abbagliavano la sua visuale. Gli uomini schierati, da una parte e dall’altra, sembravano muoversi su una gigantesca lastra d’oro.

Syrri e i suoi cavalieri erano disposti in due file, al di fuori del loro modesto accampamento. Furono loro a muoversi per primi. Syrri era fatta così: non poteva attendere le mosse di un nemico. Mirava sempre a colpire per prima, incapace di gestire l’attesa che precedeva lo scontro.

Le due colonne di cavalieri avanzarono lentamente verso i Grijndir. Questi si erano disposti in un semplice blocco compatto irto di asce e pugnali, senza una strategia ben definita. Chi era a comandarli? Iorig si rese conto per la prima volta che i Grijndir erano rimasti senza una guida. Non riusciva a immaginare chi potesse essere al comando, adesso. Chiunque fosse, non stava facendo un gran lavoro. Anziché attendere la carica dei cavalieri e sfruttare il vantaggio della posizione, i Grijndir avanzarono a loro volta decisi a sferrare un attacco frontale, incoraggiati dalla loro superiorità numerica.

Iorig non rimase troppo sorpreso nel vedere le due colonne di cavalieri che si separavano e si allontanavano sempre più l’una dall’altra, generando un baratro laddove fino a poco prima si stagliava una fila uniforme di guerrieri a cavallo. I Grijndir si ritrovarono ben presto a caricare in direzione del nulla. La manovra di Syrri li mandò rapidamente in confusione: i cavalieri stavano prendendo posizione ai due lati dell’armata Grijndir, i cui uomini cominciarono a uscire dai ranghi provocando lo sfilacciarsi del gruppo. Da gruppo compatto, i Grijndir si tramutarono in un caotico ammasso di formiche.

Iorig fu colpito dalla destrezza dei cavalieri, nonostante si muovessero su una superficie ghiacciata. Syrri era un condottiero esperto, sapeva quali stratagemmi adottare su quel tipo di terreno. Coprire gli zoccoli dei cavalli permetteva alla sua banda di cavalcare come se fosse in mezzo a una prateria. Le loro manovre erano ordinate e precise.

La colonna di sinistra accelerò all’improvviso, superando lo schieramento nemico e portandosi nelle sue retrovie. La colonna destra invece rallentò e aumentò la distanza tra sé e i Grijndir. C’era molto ghiaccio a separare i due eserciti, nessuno dei due era ancora alla portata dell’altro. Iorig ebbe l’impressione di osservare dei lupi che minaccino un gregge di pecore, girandogli attorno.

La colonna di sinistra, ormai alle spalle dei Grijndir, caricò senza preavviso. Il loro fu uno scatto repentino, azzerarono la distanza in meno di un minuto. L’impatto fu brutale, ma non penetrò molto a fondo nelle file dei nemici. Vedendo i compagni sotto attacco, il resto dei Grijndir si precipitarono ad accalcarsi nella loro direzione, comprimendosi ulteriormente e aumentando il disordine nei ranghi.

Fu in quel momento che la colonna di destra, lontana e ormai dimenticata, tornò ad avvicinarsi, veloce e letale come un pugnale nell’ombra. La loro carica fu molto più violenta rispetto a quella dei compagni sulla sinistra. Colpirono il fianco dell’esercito nemico, abbattendo la sua scompaginata prima linea e penetrando in profondità nel suo schieramento. Iorig vide molti suoi compatrioti venire schiacciati sotto l’impeto dei cavalieri, che continuarono ad avanzare fino a ricongiungersi con i propri fratelli d’arme, nel cuore dell’armata nemica.

I cavalieri di Valigen erano inferiori di numero, eppure sembravano esserci solo loro sul campo: i cavalli scorrazzavano all’interno del formicaio dei Grijndir, i quali conducevano sterili offensive isolate che venivano prontamente debellate. Iorig cominciò a notare sempre meno uomini in piedi. Alcuni fuggivano in direzione dell’accampamento, altri finivano schiacciati sotto gli zoccoli, altri ancora venivano trapassati dalle lance e dalle spade dei guerrieri di Syrri.

Molto prima che i Grijndir se ne rendessero conto, Iorig vide la loro disfatta.

Si sorprese di non provare nulla, nell’osservare la scena. Laggiù c’era il suo popolo che perdeva la sua ultima occasione di tornare a vivere. E laggiù Syrri combatteva e si copriva di gloria, mentre lui era invalido. O forse era morta durante uno degli assalti. Nemmeno questo pensiero lo scosse. Chiunque vincesse, la sua battaglia era già persa.

 
***
 
Metà dei guerrieri Grijndir era caduta in battaglia. Syrri, ammesso che fosse viva, non ne sarebbe stata contenta. Gli uomini forti erano proprio gli schiavi più attesi dai mercanti di Shadi’iktar, pronti a venderli come carne da macello per le fosse da combattimento dei regni oltre il mare. Con i pochi Grijndir rimasti, buona parte dei quali sarebbe morta per le ferite entro pochi giorni, c’erano poche speranze di vedere l’oro nella quantità che desideravano.

Un nuovo rombo squarciò il silenzio dell’aria.

Iorig sollevò la testa di scatto. Una nuova carica dei Grijndir? Impossibile. Dall’alto della rupe, era chiaro che non erano rimasti guerrieri nell’accampamento. Tutto ciò che rimaneva erano donne, vecchi, bambini. Niente che potesse rappresentare una minaccia per Syrri e i suoi cavalieri, nessuno tanto stupido da suonare il corno per rianimare una futile resistenza.

Eppure, quel suono era riecheggiato per la baia ghiacciata, accompagnata da un sordo crepitio.

Poi, un terrificante crack spezzò il silenzio del mare ghiacciato. Iorig rimase sconvolto. Era come sentire l’osso di un gigante spezzarsi di netto a metà.

La banchisa su cui poggiavano entrambi gli accampamenti cedette all’improvviso. Una crepa immane dilaniò la superficie candida del ghiaccio, seguita da una serie infinita di crepe, grandi e piccole, che incrinarono il mare ghiacciato fin dove occhio potesse vedere. L’acqua sgorgò, libera da catene, in mezzo alle fenditure e inghiottì quello che si trovava al di sopra di esse. I cadaveri, le armi, gli accampamenti sprofondarono nel mare gelido. Anche i vivi seguirono la stessa sorte, uomini e cavalli, immersi in una ragnatela di acqua e ghiaccio che si estendeva fin dove occhio poteva vedere.

Iorig udì le grida. O forse le immaginò soltanto, perché era molto lontano dal campo di battaglia. In mezzo a quelle urla, vere o immaginarie che fossero, fu certo di sentire la voce di Syrri. Fu quell’illusione, quella voce che urlava nella sua mente, a scatenare, in Iorig val’Rundor, il primo, vero sentimento di terrore che avesse mai provato.

Quando non ci fu più ghiaccio, ma solo acqua ribollente, Iorig percepì che Syrri era morta.

Rimase immobile fino a quando la superficie del mare non tornò placida, e il silenzio scese a regnare sulla baia. Enormi pezzi di ghiaccio galleggiavano sull’oceano verdastro, senza che essere umano vi trovasse riparo al di sopra.

Tutto era scomparso, tranne Iorig.

 
***
 
L’acqua trasportata a riva dalla risacca era tiepida. Non fresca, tanto meno fredda, ma tiepida. Qualcosa di innaturale, che non poteva essere in quel luogo.

Inginocchiato sulla spiaggia, stremato per il camino, Iorig affondava entrambe le mani nei ciottoli della spiaggia, attendendo immobile che le onde gli si infrangessero sulle braccia e le gambe. A ogni risacca, osservava il proprio volto riflesso nell’acqua, deformato e tremolante. Se si fosse rimirato nello specchio d’acqua di un lago immoto, la sua espressione sarebbe apparsa deformata allo stesso modo.

Quel ghiaccio era di ferro. Non doveva rompersi. Non poteva rompersi.

L’aria che lo circondava era gelida. La rottura della crosta non aveva nessun senso.

Nel profondo dell’animo di Iorig, si faceva strada una risposta. Qualcosa che rifiutava di accettare, che avrebbe fatto di tutto per impedire che venisse a galla. Ma la volontà di conoscere era più forte, e la risposta si fece strada dentro di lui fino a raggiungere la sua mente.

“Volgrim... ce l’ha fatta. I ghiacci sono spezzati. Grijndir è tornato.”

Non era possibile. Ma non c’era altro che potesse spiegare quel disastro.

C’era un solo modo per sapere la verità.

Fece forza sulle ginocchia tremanti e riuscì a sollevarsi. Fissò il mare un’ultima volta, prima di voltarsi. La tomba di Syrri emetteva un debole sciabordio, mentre le onde prodotte dal ghiaccio in movimento increspavano l’acqua dorata.

Montò a cavallo, prendendo la strada verso nord.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Primavera ***


Grijndir lo osservava. Per quanto tempo le sue ossa cave avevano giaciuto al di sotto del ghiaccio? Almeno un anno, rifletté Volgrim. Il gelo non era bastato a conservarne le carni. Gli squali del ghiaccio, i pesci carnivori del mare e le altre bestie inferiori avevano infierito sul loro signore, una volta che questi aveva abbandonato le sue spoglie terrene. Ma le ossa erano rimaste, a testimoniare la grandezza di quella creatura che rimaneva immortale negli occhi di chi l’aveva veduta.

La spina dorsale raggiungeva un’altezza tale da offuscare il sole. L’ombra circondava Volgrim, che contemplava l’immenso scheletro come se la fissità del suo sguardo potesse riportarlo in vita. L’estasi che lo colmava non accennava a diminuire, pur essendo consapevole che ciò che osservava non era altro che polvere congelata.

Il mare era tornato liquido, caldo persino. Un miracolo che solo gli Dei potevano compiere. Grijndir l’aveva fatto per migliaia di anni, ma ora aveva cessato di assolvere quel compito. Per quanto angosciante fosse il pensiero, Volgrim in quel momento si rese conto che anche gli Dei, con il trascorrere di epoche infinite, potevano morire. Ma non tutto era perduto, se comparivano nuovi Dei a cui rendere omaggio, a cui chiedere benedizione.

E un nuovo dio era apparso. Dopo millenni di ghiaccio e freddo, era giunto il fuoco.

Kalig non poteva essere l’unica. Era giunta da oltre i valichi, da una terra sconosciuta che forse celava ancora il segreto di quel potere incredibile.
Askoldir era finita. Aveva negato quella realtà per troppo tempo. Tutto ciò che era stata e che avrebbe potuto essere, aveva cessato di esistere con Grijndir. Senza Grijndir, Askoldir e gli askarl non avevano più ragion d’essere.

Volgrim val’Roigkal era di fronte alla più grande decisione della sua vita, più cruciale persino di quella che lo aveva portato ad ascendere al trono. Le vittime di quella scelta erano state suo padre, sua madre, decine di schiavi, l’intero popolo di Askoldir. Non aveva più nulla da sacrificare. Ma il tempo del sacrificio era finito. L’alba riluceva dinanzi a lui, nascondendo il passato che gli era di fronte e illuminando la strada alle sue spalle.

 
 ***
 
Non c’era motivo di aspettare. Avrebbe intrapreso il cammino verso i valichi quel giorno stesso. L’alba era diversa, quel giorno. Un sole caldo, abbagliante, illuminava l’intera baia. Lo sciabordio delle onde sovrastava qualunque altro suono nei dintorni. Uccelli marini stridevano in lontananza. Era la vita che si risvegliava. Il lungo letargo era davvero finito.

Poche ore di preparativi e avrebbe abbandonato Askoldir, proprio come aveva fatto il suo popolo. Volgrim ormai non pensava più a loro. C’era una nuova causa, ben più importante, cui votarsi. Avrebbe trovato i nuovi Dei e si sarebbe consacrato a loro. La marea di fuoco avrebbe travolto anche il sud, ne era certo. Era solo questione di tempo.

Immerso nei suoi progetti, Volgrim dapprima non notò la figura solitaria stagliata sulle rive del mare. Quando l’uomo a cavallo avanzò nella sua direzione, si arrestò di scatto, sconvolto da quella visione. Troppe cose, in quella sagoma oscura, turbavano Volgrim: il fatto che quello fosse un cavallo, una creatura di cui aveva solo sentito narrare, e che per un attimo ebbe il potere di meravigliarlo persino più delle spoglie di Grijndir. Poi, il mistero che aleggiava intorno alla figura del cavaliere: chi era e da dove proveniva? Quali erano i suoi scopi? Che cosa era venuto a cercare nella defunta Askoldir?

Ma ciò che turbava Volgrim più di tutto, ciò che gli fece serrare d’istinto la stretta attorno al manico dell’ascia, fu l’impressione di riconoscere, nei tratti del cavaliere misterioso, l’immagine di suo zio Iorig.

 
***
 
«Sei vivo, dunque?»

Volgrim non rispose. Era la voce di suo zio. Iorig gli era di fronte, in groppa a un cavallo dalle zampe tremanti. L’animale era esausto, doveva aver galoppato per molte miglia senza sosta.

«Sono vivo. Mi dispiace dover dire lo stesso di te.»

Con fatica, Iorig smontò da cavallo. La sua postura era ingobbita, l’aspetto molto lontano dalla fierezza e dalla forza di un tempo.

«Sei ferito, vedo.»

«Già. E credo che tu non sia estraneo a quello che mi è successo.»

«Davvero? E in che modo sarei responsabile?»

La testa di Iorig si voltò in direzione del mare. Contemplò per alcuni istanti le ossa di Grijndir e l’oceano brillante che le circondava.

«Hai trovato il modo di spezzare il ghiaccio, alla fine. Lo stesso ghiaccio su cui poggiavo i piedi. Io e almeno un migliaio di altri.»

Volgrim si fermò a riflettere. Comprese solo allora la portata di ciò che aveva fatto Kalig. La rottura della banchisa aveva avuto ripercussioni su tutta la costa per molte miglia, era evidente. Il popolo di Grijndir, marciando verso sud lungo la distesa ghiacciata, era stato coinvolto nel suo scioglimento. Un’eventualità a cui non aveva pensato, e che fece avvampare il suo cuore di sentimenti contrastanti. Non sapeva se sentirsi addolorato o benedetto dal compimento di una giusta vendetta.

«Sì, l’ho fatto» mormorò Volgrim, dopo un lungo silenzio. «La Bestia del Mare è tornata in superficie.»

«Quello che è tornato in superficie» disse Iorig «è un mucchio di ossa congelate rosicchiate dagli squali. Una grande vittoria.»

«Di certo non grande quanto la tua» rispose Volgrim. «Hai tradito il tuo askarl e condotto il tuo popolo in un cammino senza ritorno per il sud. Hai cancellato noi tutti dalla faccia della terra, Iorig.»

All’improvviso, Iorig scoppiò a ridere. Una risata talmente fredda e glaciale che l’aria circostante sembrò tornare a congelarsi.

«I bardi avranno sempre di che sfamarsi, raccontando la nostra storia!» disse, soffocando le ultime risate. «Chi causò la grande sciagura che si abbatté sul fiero popolo di Grijndir? Sedete, giovani, vi narreremo di Iorig, la Guida-Senza-Ritorno, e di Volgrim, il Distruttore di Ghiacci! Accorrete, brava gente, e ascoltate!»

«Tutto questo ti diverte?»

«A seconda di come la racconteranno, la colpa passerà di volta in volta da uno all’altro. Ci siamo contesi il titolo di askarl per tutto questo tempo, ora ci contenderemo per sempre quello di carnefice di Askoldir» disse Iorig. «Sì, lo trovo davvero divertente.»

«Non hai mai voluto risvegliare Grijndir, non è vero?»

Gli occhi di Iorig scintillarono. Volgrim non seppe come interpretare quel cambio di espressione. Che cos’era quella luce sinistra apparsa per un breve momento nel suo sguardo? Un barlume di follia emerso dal lato più recondito dell’essere umano? Volgrim non voleva saperlo.

«Io ero l’unico a non poter attendere che la Bestia del Mare decidesse il mio destino, a quanto pare. Trascorrere la vita a catturare sacrifici per il sommo Grijndir, perché questi aprisse il mare e ci permettesse di correre a catturare altri sacrifici per l’anno a venire, in un cerchio senza fine? No, questo non lo accettavo già da bambino. E Roigkal, il mio stesso fratello, così cieco nella sua devozione, così feroce nel difenderla... non poteva che allontanarmi dalla rotta che voleva che seguissi. Alla fine, ho trovato una nuova strada, ed ero disposto a tutto pur di seguirla. Se questa decisione richiedeva a sua volta un sacrificio, sarei stato ben lieto di offrirlo.»

«Quale sacrificio eri disposto a offrire?»

«Quale sacrificio non sarei stato disposto a offrire?» ribatté Iorig. «Non c’è niente che non avrei sacrificato, Volgrim. Né la mia anima, né il mio popolo.»

Volgrim cominciò a intuire dove volessero andare a parare le parole dello zio, anche se un’ombra ancora ne velava il significato.

«Avresti ucciso tutta la nostra gente, in cambio della tua libertà?»

«No di certo. Avrei scambiato la loro libertà per la mia.»

D’un tratto, Volgrim comprese. Il progetto di Iorig, dopo tanto tempo, finalmente gli fu chiaro.

«Li avresti venduti come schiavi?»

«Non sono mai stati altro che schiavi, Volgrim. Avrebbero solo cambiato padrone.»

«Non voglio più prestare ascolto alla tua follia. Vattene. Perché sei tornato?»

Iorig esplose in una nuova risata. L’urlo sguaiato che produsse la sua bocca era una chiara manifestazione della pazzia che ormai lo divorava.

«Continui a sbagliare le domande, Volgrim» disse, fissandolo ora con occhi che parevano schizzare dalle orbite. «La domanda giusta è: perché mi hai obbligato a tornare?»

Convinto della follia di Iorig, Volgrim non tentò nemmeno di trovare un senso alla sua domanda. L’unica cosa che sapeva era che doveva lasciarlo parlare. Doveva guadagnare tempo.

«Perché dici questo?»

«Il tuo miracolo, il tuo prodigioso richiamo della carcassa del vecchio Grijndir, non ha sterminato solo il branco di orsi scabbiosi che abitava in queste capanne incrostate di ghiaccio e merda» sibilò Iorig. «La donna che amavo, e gli uomini che ci avrebbero accompagnati in trionfo verso una nuova vita, condividono la loro stessa tomba. Non riesco a immaginare un affronto più vergognoso. Quella stessa donna che mi aveva dato un figlio, un figlio che non potrò mai vedere, al quale ho avuto la dissennatezza di dare il tuo nome, giace sotto una lapide di ghiaccio senza nome, sommersa dalle acque che tu hai sprigionato, mentre eri animato da una follia ben più assurda di quella che credi di leggere dentro di me.»

Iorig fece una lunga pausa. Nessuno dei due parlò per molto tempo.

«Tu hai cancellato per sempre la mia libertà. Ecco perché sono qui.»

«Vuoi uccidermi, dunque?» disse Volgrim. La sua voce era priva di inflessioni. «Eccomi. Non ho armi per difendermi e non tenterò di difendermi. Io sono l’askarl, eletto per volere di Grijndir, signore di questa terra. Posso solo morire da askarl, Iorig

Iorig non ribatté. Lo fissò con compassione, come se ascoltasse un bambino disquisire su un argomento che non capiva con il suo povero, ingenuo linguaggio. Estrasse il pugnale e si avvicinò.

 
***
 
«... Iorig

Iorig si arrestò a metà fra un passo e l’altro. La sorpresa gli fece quasi perdere l’equilibrio, prima di poggiare il piede a terra. Non era stato Volgrim a parlare. Le sue labbra erano rimaste serrate, mentre il suo nome veniva pronunciato. L’askarl era immobile di fronte a lui, le braccia sollevate, le mani spalancate e vuote, invitandolo a colpire.

La voce, inoltre, non era la sua.

Ebbe bisogno di un istante per comprendere che la voce gracchiante che aveva sentito proveniva da un punto imprecisato alle sue spalle.

Si voltò, e la vide.

Una creatura informe, che ricordava vagamente un essere umano, avanzava barcollando verso di lui. Iorig fu percorso da un fremito di terrore, nell’osservare le condizioni di quell’essere. Era gracile quanto uno scheletro, ricoperta da uno strato di pelle incenerita e fradicia, gli occhi iniettati di sangue che lo osservavano famelici.

Era verso di lui che si muoveva, non c’erano dubbi. Avanzava dalla riva del mare barcollante, ma decisa.

«Che cos’è questa cosa?» mormorò Iorig, ormai dimentico della presenza di Volgrim.

«Quella, Iorig...» rispose Volgrim, in un sussurro «... è l’erede di Grijndir.»

Iorig ascoltò senza capire. Le parole di suo nipote non avevano più alcun senso. Non aveva mai visto un essere umano ridotto in quello stato. Quale forza soprannaturale animava quelle spoglie semidistrutte, quale volontà muoveva i suoi muscoli? Nessun uomo sarebbe sopravvissuto con ferite simili... ferite da fuoco, senza dubbio.

Un istinto primordiale lo fece indietreggiare. Percepiva il pericolo, in lei. Il modo in cui lo guardava, l’ostinazione con la quale si sforzava di avvicinarsi... era una creatura troppo sinistra per non averne soggezione, era come se la morte stessa procedesse tentoni verso di lui, cercando di agguantarlo.

«Non so che cosa tu voglia da me» disse Iorig, obbligandosi ad assumere un tono di voce autoritario «ma stammi lontano. Non ti farò del male, se mi lascerai in pace.»

La figura solitaria si fermò. Gli si stagliava innanzi, alta e minuta, l’oceano alle spalle. Il rombo delle onde e il gorgoglio dell’acqua sulla spiaggia era l’unico rumore per miglia.

D’un tratto, Iorig percepì una strana sensazione sulla pelle del volto.

Calore, per quanto assurdo. Un caldo da estate del sud cominciò a irradiarsi dal suo viso. Un accesso di febbre, fu la prima cosa a cui pensò. Era ancora debole, la ferita era profonda e avrebbe avuto bisogno di molto tempo per riprendersi. Ma quel calore, così improvviso, era davvero strano. Si stava trasformando a poco a poco in bruciore.

La pelle della donna arse. Iorig osservò le fiamme prendere vita dalle sue braccia, dalle gambe, le spalle e ogni altra parte del corpo. Fu inghiottita dal fuoco. Iorig pensò di fuggire, ma le sue membra non risposero all’ordine. Rimase immobile, inerme, sconcertato da quella manifestazione di stregoneria.

Ignorò la pelle che abbrustoliva e desquamava, gli occhi che si scioglievano e le ossa che incenerivano. Il suo ultimo pensiero, lampo fugace nella mente che liquefaceva, non fu per Syrri o per il figlio che non avrebbe mai visto.

Pensò a Roigkal, suo fratello.

E a ciò che aveva generato.

 
***
 
La fiamma non fu avvolgente come quella che aveva sciolto i ghiacci. Volgrim poté osservarla senza nascondersi. Non dovette neppure celare gli occhi. Fu una fiamma contenuta, ma forte abbastanza da spegnere due vite allo stesso tempo.

Iorig cadde a terra, divorato da migliaia di fiammelle danzanti. Di Kalig non rimase nulla, quel poco che era rimasto del suo esile corpo si dissolse del tutto, senza lasciare alcuna traccia del suo passaggio sul suolo di Askoldir.

Quando l’incendio si fu placato, Volgrim si avvicinò, cauto. Le ceneri di Kalig e Iorig colavano in un’unica scia verso il mare, accompagnate nel tragitto da un rivolo d’acqua nato dalle nevi in scioglimento. Il mare li avrebbe presi, il mare sarebbe stato la loro tomba.

Per Volgrim, non c’era motivo di far sì che le cose andassero diversamente.

Era solo. Completamente solo.

Non c’era più niente ad Askoldir, nel nord, per cui valesse la pena restare.

Recuperò il pugnale dai resti di Iorig. Avrebbe potuto trovare un’altra arma, frugando nelle capanne abbandonate. Ma non voleva un’arma diversa. Una parte di lui desiderava che ci fosse qualcosa di Iorig ad accompagnarlo nel lungo viaggio che lo attendeva. Non avrebbe saputo spiegarlo, ma era così.

Si voltò, scrutò le montagne all’orizzonte, in cerca dei valichi nascosti.

S’incamminò lungo la strada, affondando i piedi nella neve.

C’era aria di primavera.



SPAZIO AUTORE
E questa fatica è compiuta! Siamo giunti alla fine, non posso che ringraziare di cuore chi mi ha seguito fino a questo lontanissimo punto. Grazie per aver dedicato tempo e pazienza alla mia storia. Se volete lasciare un commento sull'intera storia, una critica, due parole di qualunque genere, domande e dubbi non risolti, beh, questo è il momento giusto!
A presto!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3102089