Equinozio

di arwriter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primavera ***
Capitolo 3: *** Mondi ***
Capitolo 4: *** Metarsios ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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           Prologo
 
 
Moriamo quando l’amore muore.
Restiamo in vita fino all’ultimo attimo d’amore, fino all’ultimo respiro, ma poi moriamo lentamente.
Per un momento voltai lo sguardo verso di lui, freddo e intimorito, e poi verso di loro, agguerriti e spietati. Mi fissavano con quegli occhi color incenso e le pupille dilatate, con una posizione eretta, le mani lungo i fianchi e i pugni serrati. Il loro sguardo era diretto per lo più verso la mia mano destra, ma io sapevo già ciò che stavano tramando.
Tra pochi minuti mi sarei trovata tra le loro fauci, sarei rimasta intrappolata in un mondo che conoscevo appena, del quale non avrei avuto il tempo di ammirare le meraviglie.
Ero intrappolata nella sorte del bene e del male, e da lì non si poteva tornare indietro.
Mentre si avvicinavano, pensai che niente avrebbe potuto salvarmi, nemmeno lui, non avevo la certezza che si sarebbe schierato dalla mia parte. Il nostro amore stava morendo.
Feci un respiro profondo, poi avanzai verso di loro.
 

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Capitolo 2
*** Primavera ***


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Primavera



 
Legai infine i miei capelli in una lunga treccia; ero pronta per uscire. Mi misi addosso il giubbotto, presi lo zaino, salutai mia madre e volai dritto verso la porta d’uscita.
La giornata era appena iniziata e io stranamente mi sentivo serena, nonostante al mattino fossi sempre assonnata e stanca. Cliccai play sul mio cellulare e iniziò una canzone che forse non avevo mai sentito: Samuel mi aveva prestato la sua chiavetta per esportarne qualcuna sul telefono, ne risultava che non ne conoscevo la maggior parte.
Arrivai a scuola in poco tempo, come sempre: la mia casa distava poco dalla scuola superiore di Williston. Ad aspettarmi davanti al cancello c’era ovviamente lui, Samuel. Aveva un braccio lungo i fianchi e l’altro alzato con cui si stringeva alla ringhiera, e portava un gilet e dei jeans che non si adattavano totalmente alla temperatura del primo giorno primaverile. Voltò la testa e, quando mi vide, sul suo volto apparve un sorriso smagliante e i suoi occhi azzurri si illuminarono. Appena lo raggiunsi, appoggiò il suo braccio sinistro sulla mia spalla destra e mi condusse verso l’entrata della scuola.
Io e Sam, così lo chiamavo in sua presenza, non eravamo fidanzati, ma ci frequentavamo da qualche settimana, pur conoscendoci dal mio primo anno di scuola superiore. Mi era sempre piaciuto, fin dai primi istanti, quando aveva ancora i folti capelli neri lunghi e un po’ arruffati, e gli occhiali gli coprivano una parte del viso, perciò per me era una conquista essere arrivata al punto di frequentarlo, anche vista la sua trasformazione fisica che l’aveva portato da semplice adolescente ad acclamato ragazzo della scuola. Mi piaceva stare con lui perché era anche intelligente, e oltretutto avevo molti amici maschi, mentre le amiche femmine scarseggiavano, quindi molto spesso passavo le pause scolastiche nel cortile con Sam e i suoi amici, anche se spesso dovevo sorbirmi i loro discorsi da tipici maschi e sopportare l’odore di fumo che proveniva dalle sigarette di tutti i membri del gruppo, esclusa me. Lo stesso successe quella mattina, dopo le prime due ore di lezione, che volarono.
«Ehi ragazzi, avete visto quella ragazza del quarto anno?» disse Matt mentre aspirava il fumo dalla sigaretta accesa.
«Sì ma non preoccuparti, è già mia!», esclamò poi John. Intanto Samuel, come sempre, aveva il braccio sulle mie spalle, il che mi dava conforto.
«Devi scusarci, Alice! Ti annoiamo come sempre, vero?», borbottò Derek, e scoppiammo tutti in una grande risata.
«Figuratevi ragazzi, tanto ormai vi sopporto ogni giorno, sono abituata!», protestai infine.
 
Passarono le ore di matematica e di educazione fisica, per ultima ci fu chimica. Giunsi in classe come sempre in ritardo, poiché mi fermai più del dovuto alla lezione di educazione fisica: amavo la pallavolo e non riuscivo a smettere di giocarci.  Al mio arrivo, tutti i miei compagni erano seduti ai propri posti, e il professore era intento a parlare con un ragazzo che stava in piedi vicino alla cattedra.
«Buongiorno, signorina Wilson». Il professor Owen era sempre molto cordiale nei miei confronti. «Stavo giusto presentando ai tuoi compagni il nuovo arrivato», si voltò poi verso di lui, «Christopher. Ah no scusate, volevo dire Christian». Tutti risero, ma il ragazzo alla cattedra abbozzò solo una piccola curva sulla bocca, mentre continuava a fissarmi. Prendemmo poi entrambi posto e iniziai ad ascoltare la lezione, mentre lui non toglieva gli occhi di dosso alla mia mano.
«Allora ragazzi, come procede? Ovviamente tutti sapete che giorno è oggi, giusto?», domandò Owen.
«Il primo giorno di primavera», esclamò poi il coro dei miei compagni con un tono da cantilena.
«Beh, per vostra fortuna oggi non ci occuperemo di questo, ma torneremo a parlare di chimica».
Ascoltai la lezione molto attentamente, voltandomi ogni tanto verso il lato sinistro della classe, dove si trovava il nuovo arrivato. Aveva il gomito piegato appoggiato sul banco, e appoggiava la testa su di esso.
Quando mi voltavo, ogni tanto incrociavo il suo sguardo.
All’uscita Sam mi stava aspettando come sempre davanti alla sua nuova Audi, pronto ad accompagnarmi a casa, quando all’improvviso una mano toccò la mia spalla. Mi voltai di scatto.
«Ehm... Scusa, non avevo intenzione di spaventarti», mi disse il nuovo arrivato. La sua voce risuonava lievemente nella mia testa, mentre lo guardavo quasi allibita. «Potresti indicarmi l’aula gialla? Dovrei parlare con un professore, ma non ho ancora imparato molto bene ad orientarmi». Mentre tentai di ricollegare i miei vari pensieri, mi voltai un attimo verso Sam, che ci guardava impietrito. Sorrisi compiaciuta.
«Si, è nell’edificio sulla destra, c’è un solo corridoio quindi la troverai subito. Non impiegherai molto a orientarti qui, è molto piccolo come edificio», continuai la conversazione liberamente, anche sotto lo sguardo vigile di Sam. Era una specie di rivincita. «A proposito, che te ne pare della scuola e della città? Da dove vieni?»
Esitò qualche istante a rispondermi. «Uhm...Vengo dal...Canada. North Bay, vicino Toronto», parlava in maniera troppo insicura, non era convincente. «La scuola mi sembra carina, Williston è una magnifica cittadina. Penso che di North Bay mi manchi solamente la vista del lago».
«Strafigo! Non sono mai stata in Canada. Anzi, quasi da nessuna parte fuori dal North Dakota», affermai. «Ora ti prego di scusarmi, ma devo proprio andare». Lo salutai con la mano e lui la fissò, quasi ipnotizzato. Non feci in tempo a muovermi che Sam mi fece cenno di raggiungerlo. La sua espressione era arrabbiata, gli occhi erano socchiusi a mo’ di sfida e i suoi pugni serrati mi ricordavano le statuette dell’antico Egitto.
«Chi era quello?», chiese Sam, non appena mi avvicinai alla sua macchina.
«E’ nuovo, mi ha chiesto indicazioni».
«Sali», disse indicandomi la macchina. Divenni furiosa; non sopportavo di essere trattata così, soprattutto da lui. Fino a qualche tempo fa non mi era mai balenato per la mente che saremmo diventati tanto uniti e tanto in conflitto allo stesso tempo.
Il viaggio fu breve e nessuno pronunciò la minima parola. Arrivata, aprii la portiera, scesi e feci per salutarlo. Con mia sorpresa, scese anche lui e mi si avvicinò.
«Sei geloso?», domandai con un sorriso malizioso. Fece alcuni passi verso di me, fino a quando le nostre bocche erano a meno di un centimetro di distanza. Tentai di prepararmi psicologicamente a ciò che sarebbe successo pochi istanti dopo, ripensai a tutto, a quando lo vidi per la prima volta, a quanto l’avevo desiderato e a quel momento in cui era lì davanti a me, e forse mi avrebbe detto che provava qualcosa di forte, forse con un bacio...
«No», disse serio, quasi contento di avermi illusa, e si allontanò da me. Camminò verso l’auto con un sorrisetto che mi faceva a dir poco venire i brividi e si sedette sul sedile, pronto a partire. Mi salutò compiaciuto mentre io andavo verso la porta di casa con aria arrabbiata. Ero a dir poco infuriata, non mi capacitavo di essere tanto stupida da stare ancora dietro a una persona del genere, dovevo cambiare aria, dimenticarmi di lui e dedicarmi di più ad altre persone. Decisi di uscire dopo aver mangiato, ma non sapevo a chi chiedere di accompagnarmi. Nonostante ciò, una boccata d’aria da sola non mi avrebbe fatto male; tutt’altro.
Il parco Dakota non era lontano da casa mia, solo qualche isolato. Decisi di andare a correre lì, per distrarmi un po’. A quella tiepida ora del primo pomeriggio il parco ancora quasi vuoto; si vedevano già le tracce del tocco della primavera, i fiori iniziavano a crescere, l’erba diventava di un verde più brillante e gli alberi fiorivano. Il viale d’ingresso al parco era alberato, un venticello mi sfiorava il viso scoperto e il sole irradiava i miei occhi.
La musica rimbombava dalle cuffie nelle mie orecchie come un’eco in una grotta, non sentivo ciò che mi accadeva intorno, nemmeno il rumore dei miei passi sul terreno, forse neanche i miei pensieri, offuscati dalla stanchezza dovuta alla corsa.
Mi fermai dopo circa un’ora, dopo aver fatto molte volte il giro del piccolo parco. Avevo scaricato la tensione, ma non mi sentivo ancora completamente bene, così decisi di riprendere a correre, ma dopo pochi secondi cambiai idea. Scorsi Christian, il nuovo arrivato, seduto due panchine dopo la mia, intento a parlare al telefono. Mentre decidevo sul da farsi si voltò e notò che anche io ero lì. Attaccò il telefono e si alzò in piedi verso di me.
«Ehi, ciao Alice. Ti alleni per la maratona?», domandò. Come sapeva il mio nome?
«Di che maratona parli? A Williston non viene mai organizzata».
«Che tradizioni pessime che avete!», bofonchiò.
«Mi dispiace che la nostra città non ti piaccia. Ma allora, toglimi una curiosità», dissi curiosa, «perché ti sei trasferito qui?».
«Avevo bisogno di cambiare aria». La sua risposta non mi convinse molto, e lui se ne accorse. «La mia vita lì non aveva più senso, avevo bisogno di qualcosa che non riuscivo a trovare a North Bay».
«E ora l’hai trovata?», domandai.
«Penso proprio di sì», concluse. Decisi di non insistere, perciò non chiesi niente di più. Il suo sguardo era perso nel vuoto e avrei voluto sapere dove vagabondavano i suoi oscuri pensieri.
«Mi piace il tuo anello», disse dopo qualche secondo di pausa, spezzando la catena di riflessioni che si stava formando nella mia mente. Inarcai il sopracciglio, non sapendo cosa rispondere. «Ne regalerei volentieri uno a mia madre, dove l’hai preso?», mi chiese forse per rompere l’imbarazzo che si era creato da parte mia.
«Uhm... E’ un pezzo d’antiquariato. Me lo regalò mia nonna prima della sua morte, quando era ancora ricoverata in ospedale. Non è il massimo della bellezza, ma mi ricorda di lei». L’anello che portavo al dito era color argento, adornato con un diamante azzurro. Era antico, non sapevo quanto. Non ne sapevo nemmeno la storia a dire il vero: forse era l’anello di matrimonio di mia nonna. Pensai che era difficile non notarlo, per questo se n’era accorto.
«Mi dispiace per tua nonna. Quando è morta? Ti va di parlarne?».
«E’ morta circa 7 anni fa e io ricordo poco o niente, mi dispiace deluderti», risposi sorridendo, anche se ero un po’ irritata per la domanda quasi impertinente.
«Scusa. Parliamo d’altro allora», suggerì, «per esempio: stai con Samuel Cooper?». Presi fiato prima di rispondere, ma lui mi precedette.
«Ti chiedo ancora scusa, non voglio essere impiccione». Sorrisi compiaciuta.
«Non preoccuparti, questo non è un argomento tabù», risposi, ed entrambi ridemmo. «E’... Complicato. Ci frequentiamo, ma oggi mi ha fatto arrabbiare, quindi voglio mettere un punto a questa storia, almeno per ora. Sono stufa di questa situazione. Che mi dici di te?».
Una curva spuntò sulle sue labbra rosee, e mi fece impazzire. Cosa mi stava accadendo?
«Solo qualche storiella, mai niente di serio. Sono sempre stato una persona che vuole divertirsi, ma sento che anche quest’aspetto è cambiato in me, come quasi tutti, all’arrivo a Williston». Un brivido mi scosse. Sentivo una debole attrazione verso di lui, ma non ne comprendevo il motivo: ero sempre stata innamorata di Sam, non avevo mai guardato nessun altro ragazzo prima di quel momento.
Passammo poco tempo insieme quel pomeriggio, poiché dovetti tornare a casa molto presto per preparare la cena alla mia famiglia. Non amavo cucinare, ma a volte capitava di essere obbligata: i miei erano fuori casa e mio fratello Evan in quei casi era come se non esistesse. Era il fratello migliore del mondo, ma in cucina era totalmente impacciato.
La mia notte fu tranquilla: nessuno strano incubo come spesso accadeva. La mattina mi svegliai più presto del solito, mi feci una doccia , mangiai un toast e uscii di casa, pronta ad affrontare la giornata.
Sam era come sempre accanto alla sua macchina, intento a giocare col cellulare. Passai davanti a lui con aria disinvolta e, non appena mi vide, iniziò a seguirmi, non consapevole del fatto che lo stessi evitando apposta.
«Alice», mi chiamò serio. «Voglio che parliamo».
Mi voltai di scatto verso di lui. «E che cosa dovrei dirti, spiegamelo? Sinceramente mi sono stufata», dissi, cercando di calmarmi. «Ok, parliamo seriamente. Il nostro rapporto mi piaceva di più quando eravamo solo amici anche se, beh, ora non so cosa siamo...».
«La scelta è solo tua, non voglio obbligarti e mi dispiace averti fatto star male. Sappi che io sono innamorato di te». A quell’affermazione, sobbalzai. «Sì, me ne sono reso conto da poco, ed è inevitabile. Forse non sono proprio innamorato ma, non so, mi piaci davvero molto. Però se tu mi dici che vuoi che restiamo solo amici allora a me va bene così. Sono cambiato, non sono più lo stronzo approfittatore che ero prima». Volevo riempirlo di domande, chiedergli spiegazioni per il suo comportamento, ma alla fine decisi di tacere. Non ne potevo più.
«Dispiace più a me, ma per ora è meglio così», dissi. «Spero di poter restare tua amica».
«Ma certo!». Detto questo mi abbracciò. Fu un abbraccio forte, affettuoso, di quelli che riscaldano il cuore. Ero ancora innamorata di lui perché non si può dimenticare un sentimento da un giorno all’altro, ma a volte si arriva ad un momento nel quale non si ha più voglia di continuare a tessere inutilmente la tela per poi sfilarla, come Penelope, senza alla fine concludere nulla.
L’esperienza del giorno precedente mi suscitò la voglia di tornare anche quel pomeriggio al parco: forse avrei rincontrato Christian e non volevo farmi sfuggire quell’occasione. Non volevo fare il doppio gioco con due ragazzi, ma c’era qualcosa in lui che mi incuriosiva.
Non lo incontrai.
Passai la notte sveglia con i pensieri che navigavano liberamente nella mia testa; volevo che fosse in un attimo il mattino dopo per l’immensa voglia di vederlo. Mi sorpresi nel notare lo stato d’ingenuità in cui mi trovavo. Mi ero sempre reputata una persona matura, ma in quel momento sembravo la ragazza più stupida della Terra.
«Ciao», esclamò Christian sorridendo, quando lo incontrai la mattina seguente.
«Ciao, Christian. Come stai?». Forse la mia gentilezza era troppo affermata, ma non potevo fare a meno di trattarlo come un Dio greco.
«Purtroppo queste ore a scuola non passano mai, sono molto annoiato. E tu?», disse con un’espressione cupa e seccata.
«Tutto sommato bene, grazie».
«Come te la cavi con Jane Austen?». Rimasi molto sorpresa dalla sua domanda poiché non capii il contesto in cui voleva inserirla.
«Ehm... Non so, perché me lo chiedi?». Come poteva sapere che era una delle mie scrittrici preferite? Si era forse intrufolato a casa mia? Immaginai buffamente la scena.
«Domani ho un’interrogazione di letteratura inglese», dichiarò, e miei occhi si illuminarono di gioia, sperando che non se ne accorgesse, «pensavo che mi potresti aiutare, se ti va».
Abbassai lo sguardo, morivo di vergogna. Anche quello fu un fenomeno strano per il mio corpo: non avevo mai timore né imbarazzo di nulla. «In effetti... Forse potrei...». Avrei voluto dirgli immediatamente di sì, ma non riuscivo. Da una parte ne fui contenta, poiché il primo passo non spettava a me. Infine prese l’iniziativa.
«Che ne dici se ci vediamo oggi al parco alle tre?». Accettai, consapevole che sarebbe stato uno dei giorni più strani e imbarazzanti della mia vita.
 
«Oddio, Alice. Puzzi di fumo. Ma cosa fate a scuola?!», disse mia madre quando mi accolse davanti alla porta di casa, senza nemmeno salutarmi. A volte era troppo apprensiva.
«Buongiorno anche a te, mamma».
«Scusami, tesoro. Com’è andata a scuola?».
«Come sempre». Con mia madre ero spesso apatica, questo perché mi faceva sempre le solite domande e mi annoiavano. «Posso uscire?».
«Non vuoi fermarti a mangiare?», chiese cordiale.
«Prenderò un panino al chiosco. Ho voglia di stare all’aria aperta, scusami mamma».
Robert e Amber, i miei genitori, si conobbero tra i banchi di scuola, ma si sposarono abbastanza tardi. Nonostante il raggiungimento della maturità prima del matrimonio, non trovarono il giusto equilibrio della loro relazione. Vissero insieme solo tre anni, quindi mi ricordo ben poco i tempi in cui il loro matrimonio esisteva ancora. Mio padre vive nella periferia di Williston, sulle rive del Missouri. La sua casa è un posto magico immerso nel verde e a me piace molto andarci, soprattutto d’estate.
Arrivai al parco un po’ in ritardo poiché dimenticai di guardare l’ora, come sempre.
«E’ da molto che aspetti?», gli domandai.
«Qualche minuto, non preoccuparti». Ci fu qualche secondo di silenzio. «Allora, vogliamo iniziare?».
«Cosa devi studiare esattamente?», chiesi curiosa. Non avevo nessun’ansia da prestazione, poiché ero sicura di essere preparata su ogni argomento che c’entrasse con Jane Austen.
«Orgoglio e pregiudizio. Sei preparata sull’argomento?».
«No, ma va. Ho letto quel romanzo solo una quindicina di volte». Ridemmo entrambi, e per un secondo ebbi l’illusione di non trovarmi in quel parco, né che ci fosse tutta quella gente attorno a me. Solo io e lui, che parlavamo come se ci conoscessimo da anni. O meglio: io, lui e il mio libro preferito. L’accoppiata perfetta.
«Cosa ti piace esattamente in quel romanzo?».
«Non lo so... La prima volta che lo lessi non mi piacque per niente. Mi avevano obbligato a farlo  a scuola, se no non penso avrei mai scelto la lettura di un grande classico così pesante».
«E come hai fatto a cambiare idea?».
« “Chi non cambia mai la propria opinione ha il dovere assoluto di essere sicuro di aver giudicato bene sin da principio.”».
«Sono davvero esterrefatto. Potresti prestarmi la tua mente per l’ora dell’interrogazione domani?». Risi allegramente.
«Che pietà hanno i professori per interrogarti dopo pochi giorni dal tuo arrivo?».
«Sinceramente me lo chiedo anch’io».           
 Passammo circa un’ora a parlare di Jane Austen, della sua vita e delle opere, di poesia e letteratura in generale. Trovammo un equilibrio nel parlare, non mi sentivo mai in bilico, e tutto ciò mi dava un senso di sollievo, di libertà.
«Ora possiamo fare una pausa?», propose.
«Si, parliamo d’altro. Per esempio, quando vorrai studiare se domani hai un’interrogazione?», scherzai. Parlare con lui era così facile.
«Mi scusi, maestra», esclamò con un fare superiore.
«Perdonato, ma solo per stavolta. Di che cosa vuoi parlare?».
«Che musica ti piace?», chiese cordialmente.
«E’ difficile scegliere un genere, diciamo che mi adatto a tutto. Tu?».
«Prediligo il rock». Annuii e ci fu silenzio per qualche secondo. « Qual è il tuo piatto preferito?», continuò curioso nella sua indagine.
«Mangio praticamente tutto, e tu?».
«Mi piace la cucina italiana e quella messicana». Annuii nuovamente. «C’è qualcosa che ti turba? Non sei di molte parole». Non avevo nulla, ero solo pensierosa.
«Secondo te c’è qualcosa che non va in me?».
Inarcò il sopracciglio. «Penso di no. Perché questa strana domanda?».
«Ogni tanto mi balena questa ipotesi in testa».
«Penso che tu sia speciale». Alzai la testa e lo guardai sorpresa. Come poteva dirlo se mi conosceva appena?
«E come lo sai?».
«Non saprei, mi dai quest’impressione». Solo in quel momento notai che i suoi occhi erano color ocra; si intonavano benissimo con la sua capigliatura castano scura e la sua pelle un po’ abbronzata. Mi sentii un po’ in imbarazzo per la sua affermazione e lui lo notò, così da deviare il discorso. «Ieri era l’equinozio di primavera».
«Già, proprio così». Perché erano tutti fissati con la nuova stagione? Ogni anno c’era questo giorno fatidico, non era niente di strano.
«Voglio rivederti anche nel giorno del solstizio». Voltai la testa verso di lui e ci fissammo per alcuni secondi, senza aver nulla da dire. «Vorrai uscire di nuovo con me?».
Sorrisi. «Certo che sì».
«Ho la macchina appena fuori dal parco: ti accompagno a casa», disse indicandomi la direzione con la sua mano destra.
«Non ce n’è bisogno, non preoccuparti, abito a qualche isolato da qui», insistetti.
«Farò lo sforzo di scomodarmi», disse con un sorriso smagliante, che mi fece cedere.
Arrivammo davanti a casa mia dopo pochi minuti di macchina nei quali a stento dicemmo qualche parola.
«E così abiti qui. Mi sembra molto carina come casa», affermò mentre perlustrava la strada e l’ambiente che la circondava.
«Grazie».
«Questo vuol dire che prima o poi dovrò venirci», disse con un sorriso beffardo. Risi dolcemente. «Sai che il tuo sorriso è bellissimo?». Arrossii. «Cioè... Non è che piaccia a me: piacerebbe a tutti se ora ti vedessero come ti vedo io. Mi piace come inarchi la bocca e tiri un po’ fuori i denti. E poi ti vengono le fossette sulle guance; hanno una forma di piccola mezzaluna e danno una luminosità al viso. I tuoi occhi si strizzano un po’ per le contratture dei muscoli, ma sono brillanti, ed è impossibile guardarli e non trovare al loro interno la felicità. Sia la tua, che quella dell’osservatore».
La sua affermazione mi spiazzò, ero troppo contenta, mi girava la testa e non sapevo più che cosa dire. Riuscii a pronunciare solo una piccola frase.
«”Sono la creatura più felice dell'universo. Forse altri lo hanno detto prima di me, ma nessuno con tanta ragione.”».





 

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Capitolo 3
*** Mondi ***


 
                                                                                 
 
 
 

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Mondi

 
Lo guardai fisso negli occhi e all’improvviso vidi uno strano riflesso nella sua pupilla. Fiamme. Tutto d’un tratto mi voltai: eravamo circondati dal fuoco, e lui sorrideva. Io ero spaventata, terrorizzata, ma lui non faceva nulla. Urlai, strillai più forte che potevo, tentai di svegliarlo da quello che mi sembrò un sonno ipnotizzante che l’aveva colpito. Ma non riuscii, e le fiamme si propagavano.
 
Mi svegliai di soprassalto. Presi una boccata d’aria cercando di calmarmi. “Era solo un sogno”, continuavo a ripetermi, ma non riuscivo a non pensare all’immagine del viso di Christian, del suo sguardo tanto profondo quanto perso nel vuoto.
Non riuscii più ad addormentarmi, quindi ripresi a leggere per l’ennesima volta Orgoglio e pregiudizio, il mio romanzo preferito. Però quel giorno non era come le altre volte, non riuscivo a concentrarmi bene nella lettura. La mia mente dilagava; ero ancora spaventata per il mio strano sogno. Mi chiesi se sarebbe stato il caso di parlarne con il diretto interessato. Optai per il no.
Pian piano mi riaddormentai, ma dopo circa un’ora le urla di mia madre mi svegliarono da quel sonno che pareva eterno.
«Perché devi sempre stare dalla sua parte, Robert? Evan ha sbagliato, non puoi negarlo!», urlò lei dalla cucina mentre era al telefono con mio padre. Tentai di capire a cosa si riferisse. «Come puoi dire una cosa del genere? Secondo te tornare a casa alle due di notte mezzo ubriaco è normale per un ragazzo di diciannove anni? Ha dato un cattivo esempio a sua sorella». Risi: forse io ero molto peggio di lui.
Quando arrivai in cucina la loro chiamata era già finita. Feci finta di non aver sentito nulla. Dopo la colazione, uscii di casa.
La giornata era umida e piovosa, il contrario della precedente. Mi sentii molto stupida ad andare a scuola a piedi, soprattutto perché dimenticai l’ombrello. Ovviamente Sam non si fece sfuggire l’occasione, quando mi vide.
«Ehi Alice, ti bagnerai! Vieni sotto il mio ombrello». Accettai, poco convinta.
Intravidi John intento a parlare con una ragazza; la riconobbi subito, era del quarto anno, e il giorno prima stavano parlando di lei. L’avevo già vista, era alta, aveva i capelli biondi e un viso che faceva invidia a chiunque.
«Cosa stai guardando?». La voce di Sam mi risvegliò dalle mie fantasie. Mi incantavo spesso e mi soffermavo su ogni cosa che vedevo.
«Uhm, niente. Vedo che John si sta divertendo molto», dissi infine, e ridemmo entrambi, come due grandi amici che si conoscono da tanto tempo, ma a cui forse non basta solo l’amicizia. Con la coda dell’occhio vidi due occhi vigili intenti a guardarmi con un’aria strana.
Christian era appena uscito dalla sua macchina. Non aveva un ombrello, e da bagnato era più bello che mai. Mi accorsi di questi dettagli senza farmi notare, non volevo fare il primo passo. Inoltre mi sentivo un po’ cattiva, non volevo fare il doppio gioco: ero ancora molto legata a Sam.
Non mi rivolse la parola.
Passarono le lunghe ore della giornata ma non lo incrociai, nemmeno a mensa. Decisi di scrivergli un messaggio, con la scusa della sua interrogazione d’inglese. Nessuna risposta.
 
Al mio arrivo a casa, Evan stava uscendo.
«Dove vai?»
«Buongiorno anche a te», disse ironicamente. «Faccio un giro con degli amici».
«Voglio venire anche io», ordinai.
«Te lo puoi scordare, sorellina».
«Ti prego!». Feci l’espressione più tenera che potessi, e infine cedette.
«Uhm, se proprio devo».
«Grazie, grazie, grazie! Ne ho proprio bisogno». Mi sorrise e ci avviammo verso la sua auto. Mi faceva un po’ paura l’idea di uscire con Evan, ma volevo uscire e conoscere gente nuova.
«In realtà non mi hai ancora detto dove andiamo». Sorrise mentre guidava.
«A nord di Williston».
«A fare cosa?», chiesi preoccupata.
«Un giro. Poi ci fermiamo in una birreria lì vicino». Lo fulminai con lo sguardo.
«Guarda che stamattina ho sentito la chiamata di mamma e papà. La devi smettere con queste cazzate».
«Bada a come parli! Voglio solo fare un giro con gli amici».
«Per curiosità, chi c’è dei tuoi amici?».
«Ehm.. Non ti piacerà saperlo». Mi voltai verso di lui nel panico più totale. «C’è Samuel». Sospirai e iniziai a dargli dei colpi sul braccio. «Ehi, calmati! Sto guidando!».
«Perché non me l’hai detto prima?».
«Non ci ho pensato. Non pensavo ti desse fastidio», disse tranquillamente.
«Ma se un secondo fa hai detto che non mi sarebbe piaciuto saperlo!», urlai.
«Dai, calmati. Almeno non sarai completamente sola senza conoscere nessuno». Forse aveva ragione.
«C’è qualche ragazza?».
«Sì, Mia. Non so se la conosci», disse. «Comunque siamo arrivati e siamo in ritardo: ci stanno aspettando tutti».
Mi voltai e vidi un gruppo di ragazzi dell’età di Evan. Non conoscevo praticamente nessuno, ma riconobbi Mia, la ragazza bionda del quarto anno, e ovviamente Sam, che mi sorrise appena incrociai il suo sguardo.
«Scusate, ho dovuto aspettare quella cretina di mia sorella!», disse Evan.
«Attento a come parli!», risposi scherzosamente.
Mi presentai a tutti quanti, e dopo pochi minuti dimenticai i loro nomi. Non feci in tempo a parlare con nessuno che Sam mi si avvicinò. Quella situazione mi sembrava davvero strana: per molto tempo ero stata io a cercarlo, e non avrei mai pensato di arrivare al punto da non volerlo quasi vedere.
«Ehi, che ci fai tu qui?», mi disse.
«Potrei chiederti lo stesso. Non pensavo uscissi con mio fratello».
«Potrei dire lo stesso». Risi e non continuai la conversazione. Dopo una breve pausa, continuò a parlare. «Ho pensato a quello che mi hai detto l’altro giorno, e mi sono dimenticato di dirti una cosa». A volte ritornano, pensai tra me e me.
«Ti ascolto».
«Volevo dirti che io sarò qui ad aspettarti. Ci ho provato, ma non riesco a fare a meno della tua presenza. Con te sto troppo bene. Voglio essere tuo amico. Per qualunque cosa io sarò qui, quando ne hai bisogno mi troverai». Mi commossi; mi sentivo persino un po’ in colpa.
«Non so che dire.. Sono davvero felice, e ti ringrazio. Anche io ci sono sempre per te, sappilo».
«Allora, raccontami. Come va con Hudson?».
«Christian. Comunque, come deve andare!? Normale». Mi innervosii.
«Beh, vi frequentate, o sbaglio?».
«Se può interessarti non penso gli importi qualcosa di me, anzi». Non potei fare a meno di rispondergli male, e me ne pentii. «Scusami».
«Non preoccuparti. Ti lascio un po’ parlare con gli altri». In quel preciso istante arrivò di fianco a me la ragazza dai capelli biondi, Mia. Il suo viso angelico e il suo sorriso smagliante erano ancora più belli da vicino. Iniziammo subito a parlare.
«Piacere, Mia», mi disse con grande entusiasmo.
«Alice».
«Sei ancora più bella di come ti descrive Evan!», disse entusiasta. Rimasi sorpresa.
«Evan vi parla di me?».
«Non esco con lui da molto, ma ne parla più di quanto pensi». Ci fu qualche secondo di silenzio.
«Esci con John?», chiesi, ma mi pentii subito per la mia domanda invadente.
Sogghignò. «Lo conosco da poco. Te l’ha detto lui?».
«No, assolutamente. Era una curiosità, vi ho visti insieme questa mattina». Mi vergognavo tantissimo per il mio atteggiamento da impicciona, ma ormai il danno era fatto.
«Esci con Christian?», mi chiese con la stessa spudoratezza utilizzata da me.
«Lo conosco da poco. Te l’ha detto lui?», dissi, e scoppiammo in una risata. Mia era strana, non era affatto come la immaginavo. Non sono mai stata brava con le amicizie, ma in quel momento mi era sembrato estremamente facile conoscere una persona nuova.
«Comunque anche io vi ho visti insieme», confessò. Abbassai lo sguardo. «Le cose non vanno bene, eh?». D’un tratto mi sentii meno invadente di quanto pensassi.
«Non molto. Esco da una storia difficile», dissi.
«Con chi? E quanto siete stati insieme?».
«In realtà nemmeno un giorno, ma è come se lo fossimo stati per tanto tempo, almeno per me». Ignorai la sua prima domanda.
«Lo conosco?».
«E’ dietro di te ora». Rimase stupita e iniziò a sogghignare.
«Mi dispiace, non vorrei che avesse sentito!».
Dopo un pomeriggio di chiacchiere con Mia, Evan e Sam, ci avviammo verso la birreria “Magic!”. Che nome strano.
Non feci in tempo a varcare la porta della birreria che Mia mi fermò.
«Ragazzi, che ne dite se cambiamo birreria?».
«No, perché mai?», rispose un ragazzo del gruppo di cui non ricordavo il nome.
«Mia, che succede?», le chiesi sottovoce.
«Vuoi proprio saperlo? Voltati».
Rimasi a bocca aperta. Nel tavolo più lontano dalla mia posizione, un tavolo da tre persone, era seduto lui, Christian, e chiacchierava con altri due ragazzi che occupavano il suo stesso tavolo.
«Ha ragione Mia, andiamocene».
«Spiegami che succede», mi disse Evan in disparte.
«Niente, niente. Chiediamo un tavolo?», intervenne poi Mia. La fulminai con lo sguardo. «Non ti preoccupare», mi sussurrò all’orecchio.
Durante il pomeriggio avevo raccontato molte cose di me a Mia, e lei aveva fatto lo stesso, come se ci conoscessimo da una vita. Ovviamente non avevo evitato l’argomento Christian.
«Cosa hai in mente?», le domandai sottovoce.
«Lo devi affrontare, così potrà spiegarti perché ti evita».
«Ma si è accorto che in questo locale ci sono anche io?».
«Non credo. Penso abbia bevuto un po’ troppo».
«Perché parlate solo tra di voi?», domandò Sam.
«Io vado un attimo in bagno». Mi allontanai dal mio tavolo, e mio fratello mi fece l’occhiolino.
Non avevo idea di cosa dire a Christian, infondo non aveva fatto nulla, forse Mia esagerava. Non ci parlavamo solo dal giorno precedente, anche se non capivo il perché del suo evitarmi.
«Ciao! Anche tu qui?». Non mi poterono venire in mente parole più stupide.
«Sì», rispose freddo. Non avevo mai visto i ragazzi che erano lì con lui, probabilmente non frequentavano la nostra scuola.
«Allora com’è andata l’interrogazione di inglese?», chiesi come se niente fosse.
«Bene, grazie». Annuii. Mi fissava dritto negli occhi ma non diceva nulla, e questo mi faceva preoccupare.
«Ti va una passeggiata?». Cercai di evitare di pentirmi della richiesta, ma mi guardò troppo male. Nonostante ciò la sua risposta mi sembrò positiva: mi prese per il braccio e ci avviammo verso l’uscita del locale. Feci un segno a Mia e lei annuì.
Uscimmo dalla birreria e Christian si accese una sigaretta.
«Non pensavo fumassi».
«Solo quando sono nervoso». Sorrisi al pensiero di renderlo così nervoso, ma se ne accorse subito. «Non sono nervoso per la tua presenza, ma per altro».
«Uhm.. Va bene».
«Cosa volevi dirmi?», domandò, sempre con un tono abbastanza rude.
«Io? Niente», mentii.
«Bene, possiamo tornare dentro allora».
«No, aspetta». Si fermò e si voltò verso di me. «Voglio sapere se mi stai evitando».
Esitò prima di rispondermi. «Forse».
«E questo cosa vuol dire?».
«Non lo so, ma non mi va di parlarti».
«A me invece sì».
«Non ti arrendi mai eh?».
«Mai».
«Dai, andiamo al lago». Sorrisi.
Ormai si era fatto buio e quasi nessuno camminava per le stradine del parco dove si trovava il lago di piccole dimensioni dove ci stavamo avviando. Si sentiva il gorgoglio dell’acqua che scorreva e nient’altro.
Gli alberi stavano fiorendo; ormai la primavera era iniziata.
«Quindi in soli due giorni sei diventata pazza di me».
«No, ma mi fa strano che ieri eri così cordiale mentre oggi non mi hai rivolto la parola».
«Tu mi piaci e lo sai». Inarcai il sopracciglio.
«Come posso saperlo se non lo dimostri? E poi se ti piaccio così tanto, spiegami il motivo del tuo evitarmi».
«Stare con te comporterebbe tenerti all’oscuro di una buona parte della mia vita».
«Per questo mi eviti..», dedussi.
«Ci provo».
«Sembra che tu ci riesca».
«Ma tu non ti arrendi mai, mi ossessioni».
«Non ti ho mai detto niente!».
«Nella mia mente lo fai».
«Forse stasera hai bevuto troppo».
«Forse hai ragione, ma dico quello che penso».
Non sapevo più che cosa dirgli. «Vuoi ignorarmi per sempre?».
Non rispose.
Mi avvicinai a lui piano, come per provocarlo, e finimmo per essere sempre più vicini. Ci fu qualche secondo di pausa, poi mi allontanò con la mano il mento dal suo viso.
«Ho capito», dissi rassegnata.
«Mi dispiace».
Scappai via correndo verso la birreria. Ero disperata, ma mi sentivo anche totalmente ridicola. Non mi era mai successo di illudermi così tanto, né di essere tanto triste per una persona che conoscevo da soli due giorni. Correvo, correvo veloce, che quasi mi sembrava di volare. Era quello che avrei voluto fare, prendere il volo come uno di quegli uccelli che in quel momento stava attraversando il pezzo di cielo a me visibile insieme al suo stormo. Avrei voluto migrare anche io, andarmene per sempre dalla monotonia di Williston.
Non sapevo esattamente quanto tempo fosse passato da quando ero uscita dal locale con Christian, ma ero sicura che si sarebbero tutti arrabbiati con me.
Fu così.
Evan mi corse incontro non appena mi vide.
«Dove cazzo sei stata, Alice? Ti ho cercata ovunque! Andiamo via, è meglio».
Salutai Mia con un abbraccio e camminai verso l’auto di Evan. Salutai anche Sam, con la mano, ma ricambiò forzatamente.
«Voglio che mi spieghi tutto, non posso crederci Alice! Poi sono io lo sbadato!», urlò Evan. Avevo le lacrime agli occhi e un enorme nodo in gola, ma lui non se ne accorgeva. Non risposi a nessuna sua domanda.
«Ti ho chiesto cosa è successo Alice, rispondimi immediatamente!».
«In quel fottuto locale c’era Christian, ok?! Vuoi continuare a farmi la predica o per una volta cerchi di capirmi?».
«Scusami, non era mia intenzione. Ma mi hai fatto preoccupare». Gli diedi un bacio sulla guancia. «Però basta smancerie, sto guidando. Raccontami, piuttosto».
«Che devo dirti? E’ finita senza nemmeno essere iniziata».
Arrivammo a casa dopo pochi minuti. Il quartiere era calmo, sonnolento, e l’aria era fresca come una brezza autunnale. Aprimmo la porta senza far rumore, corsi in camera e caddi in un sonno profondo.
 
Il cielo variopinto di sfumature di arancione, rosa e giallo dava l’inizio al nuovo giorno. Era un giorno come gli altri, la solita monotonia si faceva sentire sempre di più, o almeno lo credevo fino a quel momento.
La lezione di storia di quel giorno parlava di patriottismo, anche se non capivo come fosse uscito quell’argomento. Discutemmo per tutto il tempo delle nostre origini fin dai tempi più remoti: i nativi americani, la colonizzazione, le grandi guerre e la lunga storia dell’America nel novecento. Mentre viaggiavo con la mente attraverso secoli di storia, pensai che quel giorno non avrei avuto occasioni di vedere Christian poiché non avevamo alcuna lezione da seguire in comune, e fu così.
Quando tornai a casa, però, vidi una macchina conosciuta parcheggiata vicino al mio giardino. Mi venne un colpo al cuore quando ricordai che l’avevo vista qualche giorno prima e ci ero anche salita sopra per tornare a casa dal parco Dakota. Dopo qualche minuto da quell’auto uscì Christian.
«Ciao», disse freddo.
«Che ci fai qui?», risposi con indifferenza.
«Devo parlarti».
«Non ho molta voglia di sentirti, ma dimmi».
«Voglio che ci proviamo».
«Proviamo a far cosa?».
«A stare insieme. Sarà la cosa più difficile di tutta la mia vita, ma ormai ci sono dentro e non posso fare altrimenti». Sorrisi. Non volevo dargliela vinta subito, ma il mio istinto non riusciva a controllarsi. Riprovai la stessa mossa della sera prima: avvicinai il mio viso al suo, aspettando il suo primo passo. Eravamo vicinissimi, lo vedevo teso, ma forse io lo ero di più. Mi fissava col suo sguardo ipnotico color ocra. Dopo qualche secondo mi prese la mano, la sfiorò con la punta delle dita e il suo sguardo si spostò su di esse. Sfiorò anche il mio anello col diamante che portavo all’anulare. Il suo sguardo ritornò sul mio viso e pensai di aver finalmente capito le sue intenzioni. Dopo pochi secondi si sarebbe avvicinato e ci sarebbe stato il nostro primo bacio.
Non fu così.
L’equilibrio venne spezzato dalle parole di Christian.
«Non ancora. Prima devi vedere una cosa», disse senza nemmeno lasciare che gli rispondessi. Mi prese per il braccio, come la sera in birreria, e mi portò verso la sua auto.
«In qualunque momento tu voglia tornare indietro basta dirmelo, e sarai a casa in poco tempo».
«Voglio solo sapere dove andiamo».
«Pochi chilometri a est di Williston».
«E perché ci stiamo andando?».
«Lo scoprirai tra poco».
Giungemmo in una zona di campagna dove c’erano solo campi coltivati, e ci fermammo davanti a uno pieno di girasoli. Erano meravigliosi.
«E’ stupendo. Ma perché mi hai portato qui?».
«Per farti conoscere una parte di mondo di cui non hai mai saputo l’esistenza».
Ero allibita, non sapevo che dire, non capivo a cosa si riferisse.
«Attraversa il campo con me».
Mi prese la mano e camminammo attraverso i girasoli, cercando di mettere i piedi nello spazio vuoto tra un fiore e l’altro. Evitai di fare domande, anche per la grande confusione che avevo in testa.
Arrivammo ad uno spazio non coltivato di circa un metro quadro.
«Cos’è?», chiesi.
«Una porta».
Christian spostò un po’ di terriccio fino ad arrivare a qualche centimetro di profondità, dove c’era un quadratino di cemento. Improvvisamente prese una chiave dalla sua tasca: era dorata e brillava quasi più della stella lucente che ipnotizzava i fiori circostanti.
«Sei pronta?», domandò.
«Sono pronta».
Inserì la chiave nella minuscola serratura di cemento che, con un movimento repentino, ruotò su se stessa, fino a spostarsi verso destra e lasciare un buco nella terra. Non avevo mai visto una cosa simile e ne rimasi scioccata.
«Prima le signore».
Respirai profondamente e presi coraggio. La mia vita mi scorse in testa in un attimo, pensai alla mia infanzia, a mio padre, a mia nonna e al suo anello.
Poi con un salto mi buttai.
 
 

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Capitolo 4
*** Metarsios ***


 
 

 
 

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Metarsios

 
 
Non riuscii a rendermi conto di quanti metri percorsi sospesa nell’aria, ma ci fu qualcosa di strano nell’atterraggio: all’uscita dal buco di arrivo non caddi a terra, bensì la gravità mi spinse verso dove ero partita. Realizzai così un qualcosa che non mi sarei mai aspettata e che avrebbe sbalordito tutti nel mio mondo: la gravità non attrae i corpi verso il centro della Terra. La gravità si trova in uno strato interno al pianeta profondo circa dieci chilometri (attraverso la quale io ero appena passata); pertanto attrae i corpi sia del mondo umano che di questo ultraterreno. Mi consolò il pensiero di avere i piedi sullo stesso terreno di tutte le altre persone, solo più in profondità. È incredibile venire a conoscenza di un tale fatto; un fatto dimostrato dalla scienza, che avrebbe permesso agli studiosi di capire che del mondo non sapevano assolutamente nulla e avrebbero dovuto ripartire da zero. Tutto mi appariva strano, non sapevo come reagire. Iniziai poi a guardarmi intorno: ci trovavamo in una stanza molto luminosa e al centro c’era la fossa dalla quale provenivo. Negli angoli, invece, c’erano delle specie di computer touchscreen. Davanti a me c’era poi una porta, o almeno così sembrava, sotto la quale il pavimento assomigliava ad una semicirconferenza: capii che era una piattaforma che ruotava su se stessa.
«Dove siamo?».
«Si chiama Metarsios», rispose Christian. Solo allora notai la scritta “Metarsios” sulla porta, adornata anche da un’incisione raffigurante un quetzal, un uccello diffuso in America Centrale, venerato da popolazioni antiche che in quel momento non ricordavo. Non ricordavo nemmeno come potessi sapere quelle informazioni, visto che in quegli istanti la mia mente era praticamente oscurata da altri pensieri.
«Perché sono qui? Hai deciso di stare zitto per l’eternità? Ah giusto, non sei tu che sei appena piombato in un altro mondo, se così si può chiamare», brontolai arrabbiata.
«Ti spiegherò tutto non appena entreremo».
«Vuoi dirmi che non siamo ancora arrivati?! Non ne posso già più!».
«Stai calma, ci devono riconoscere».
«Riconoscere? Chi?».
«I computer. C’è un software che permette di riconoscere chi entra e chi esce da Metarsios, per controllare i traffici».
«Va bene, se proprio devo. Ma vai prima tu», ordinai infine.
Christian si posizionò davanti a un computer, toccò alcuni tasti e la macchina iniziò a far rumore. Una luce blu proveniente dall’apparecchio lo stava intanto perlustrando, per poi far comparire le sue informazioni sullo schermo. C’era scritto proprio tutto: nome, cognome, data e luogo di nascita… C’era persino una sagoma del suo corpo.
«Dai, ora tocca a te». Esitai un attimo, per poi avvicinarmi al computer. «No! Togliti l’anello».
«Non voglio. Perché dovrei?».
«Ehm… fa difficoltà a riconoscere i gioielli: li scambia per armi pericolose, meglio non rischiare».
Lo scanner mi analizzò e io e Christian ci posizionammo sulla piattaforma circolare. Lui premette un pulsante e, come immaginavo io, la piattaforma ruotò su se stessa e ci trasportò oltre la porta.
Ci ritrovammo immediatamente in una grande radura, circondata da alberi di tutti i tipi, che mi coprivano la visuale dell’orizzonte. Il manto erboso era quasi totalmente spoglio e il poco d’erba che rimaneva era di una tonalità giallastra tipica delle stagioni autunnali. Lo stesso succedeva agli alberi: i rami erano quasi spogli, privati delle loro grandi foglie, ormai divenute un manto sul terreno. Anche la temperatura era piuttosto bassa.
Stavo per chiedere nuovamente dove ci trovassimo, ma Christian mi precedette.
«Siamo in Amahati», disse tranquillo. Raggrinzii la fronte e inarcai le sopracciglia. «Come da voi ci sono i continenti, da noi ci sono delle aree ben precise». Smise di parlare quando notò il mio sguardo assorto nel vuoto, che sembrò simboleggiare un disinteresse. «Vuoi tornare a casa?».
«No. Ma prima voglio sapere perché c’è un’aria così autunnale. C’è qualcosa di strano qui, lo sento», risposi turbata.
«Ormai è inverno da quasi quattro secoli».
«Com’è possibile?».
«Quando gli Hidatsa scoprirono la nostra popolazione, tutto andò in frantumi. Per ora preferisco non dirti il perché».
«Chi sono gli Hidatsa?», chiesi più a me stessa che a lui. Forse ne avevamo parlato a scuola lo stesso giorno, ma avevo già dimenticato tutto.
«Una popolazione di nativi americani che vivevano in North Dakota. Anche ora hanno una piccola riserva sulle rive del Missouri».
«E che cosa c’entrano con la vostra popolazione?».
«Entrarono in contatto con la nostra civiltà circa nel diciottesimo secolo. Abbiamo sempre sottovalutato gli umani, ma tra questo clan c’era un grande scienziato, intelligentissimo. Era di origini statunitensi, ma i suoi genitori si unirono presto agli Hidatsa. Si chiamava Thompson, non ne ricordo il primo nome. Scoprì la crepa nel campo di girasoli, e arrivò su Metarsios. Era un uomo cordiale e umile, ma molto presto diffuse la notizia della scoperta nel suo clan, tutto questo per popolarità, visto che era una persona abbastanza povera. Ci fu una lunga e disastrosa guerra, ma alla fine trionfammo, a costo però di perdere un gioiello preziosissimo dalle capacità non solo prodigiose per la salute e il benessere, ma che persino garantivano una stagione estiva: prima qui faceva sempre caldo, gli alberi germogliavano e i fiori crescevano. La fauna vive meglio se fa caldo, sebbene anche con il freddo questo mondo possieda una biodiversità talmente ampia da non essere paragonabile a quella del vostro. Qui vivono molte specie che da voi si sono estinte. Ti sorprenderai nel vederle».
«Vorresti quindi affermare che noi siamo la causa di tutti i mali della Terra e loro povere persone che devono subire la cattiveria dei sottoscritti?». Che stavo dicendo?
La mia domanda retorica precedente lo provocò, così da fargli alzare il tono di voce. «Sì, questa è la realtà. Siete delle persone menefreghiste, egoiste e anche molto ignoranti», concluse infine. Diventai rossa di rabbia, consapevole che non aveva del tutto torto.
«Come puoi dire una cosa del genere del tuo popolo? Non hai rispetto!», gli urlai contro.
Lui inarcò il sopracciglio e raggrinzì la fronte. C’era qualcosa che non gli tornava, ma io non riuscivo a capire cosa fosse. Ci volle qualche secondo per spezzare il silenzio.
«Alice, mi sa che tu non hai capito niente». La sua affermazione mi confuse, e finalmente iniziai a incastrare i pezzi di quell’immenso puzzle.
«Tu… non vivi sulla Terra».
«Non nella tua parte di Terra», mi confermò lui.
Lo fissai per qualche secondo, poi tutta la rabbia che avevo dentro uscì. «Tu sei un bugiardo. Sei un traditore! Perché mi hai portata qui, eh? Spiegamelo! Cosa vuoi da me, alieno? Lasciami in pace, riportami dalla mia famiglia!», gli gridai contro. Me ne pentii subito, ma ormai era troppo tardi. La sua espressione mi fece rabbrividire; sembrava un cucciolo di cane che era appena stato abbandonato. Mi sentivo un mostro, l’avevo trattato troppo male. «No Christian…».
Non feci in tempo a finire la frase. «Non sprecare altre parole. Ti riporterò su, e non mi rivedrai mai più. Purtroppo per te sono disposto anche a questo». Rabbrividii. Non capii a cosa si riferisse nell’ultima frase, ma mi resi conto che non avrei potuto perderlo. Mi aveva mentito, ma non gli avevo nemmeno dato il tempo di spiegarmi il perché.
«Ti prego. Sono troppo impulsiva, non penso davvero ciò che ho detto. Non voglio assolutamente tornare in superficie».
«Non siamo in mare, te lo ricordo. E comunque non ne sei emotivamente pronta. Sei una bambina».
«No! Non è vero!», gridai ancora. Mi resi conto che quell’atteggiamento non mi rendeva affatto matura. «Ok, hai ragione. A volte sono troppo impulsiva, è che sono scombussolata. Non è da tutti ritrovarsi da un giorno all’altro in un altro mondo. Scusami».
«Vuoi proseguire o torniamo a casa?». Presi un respiro profondo, ma infine decisi di restare lì. Ormai ci ero dento, era un qualcosa di troppo importante per andarmene.
 
«Ti chiederai come possiamo vivere senza il Sole. La risposta è semplice: la luce che vedi proviene dal centro della Terra. Forse non è potente come quella del Sole, ma basta a garantirci una vita normale», mi raccontò Christian. «Non so più cosa spiegarti, per me è tutto così banale; d’altronde ci vivo da sempre. Al contrario penso che per te sia come nascere di nuovo: non sai totalmente nulla sul mondo, nemmeno ciò che è basilare», proseguì.
Aveva proprio ragione: mi sentivo più o meno come Alice nel paese delle meraviglie, l’unica differenza era che il mondo in cui finì lei non era interno a quello in cui viveva. Al paragone con il romanzo di Carroll confermai l’ipotesi che ero una persona troppo fantasiosa, ma soprattutto incondizionatamente fissata con la lettura.
«Ti voglio portare da una persona», affermò Christian, interrompendo i miei buffi pensieri. «Ma ti avverto, sarà l’unica che incontrerai qui». Non ne capii il motivo, ma decisi di aspettare: troppe risposte mi avrebbero scombussolato.
 
«Qui non ci sono città?», chiesi ingenuamente.
«Sì, ma siamo in campagna ora. E rimarremo nella zona, visto che la persona dalla quale ti porterò vive qui vicino», rispose Christian mentre guidava la sua auto, che aveva lasciato davanti alla porta d’accesso per il mondo superficiale prima di entrarci. «Siamo arrivati, quella è casa sua».
Ci trovavamo in un paesino simile a quelli dell’Inghilterra meridionale. Non che ci fossi mai stata, ma così si soleva dire. La casa dell’anonimo era una villetta a due piani, formata da mattoncini rossi e circondata da un enorme giardino.
«È…Particolare», commentai.
«Non hai ancora visto la padrona».
Prima di potergli rispondere, una giovane donna ci accolse davanti al cancello della villa, per poi condurci verso la porta, attraverso un vialetto di ciottoli e ghiaia. Il rumore delle mie scarpe su di essi mi fece ricordare la presenza di Terra sotto i miei piedi: mi sentii viva.
Persa nei miei pensieri, non diedi nemmeno un’occhiata alla donna che avevo davanti. Quando finalmente alzai lo sguardo, notai che aveva circa vent’anni, dei lunghi capelli neri lisci ed era magra e bassa. I suoi occhi erano a mandorla, neri come la pece. Iniziai ad avere timore di lei ma, come avendolo capito, si voltò verso di me e abbozzò un sorriso: aveva dei denti bianchissimi, perfetti. Le sue labbra erano sottili e chiare come la pelle, pallida e cerea.
«Sono Eveline», disse in un inglese un po’ titubante. Stranamente non mi ero ancora chiesta che lingua si parlasse su Metarsios.
La sua voce era più armoniosa di qualunque suono che avessi mai ascoltato; parlava in modo celestiale, sublime.
«Io sono Alice».
«Oh, Alice», esclamò scambiandosi subito un’occhiata con Christian. «Sei la benvenuta». Camminava come danzando, era come se per lei la gravità non esistesse: era leggera. «Quella è camera tua».
Camera mia? Non sapevo di dover restare lì. Mi insospettii.
«Solo se lo vuoi», si giustificò immediatamente Christian, «se no ti riporto subito a casa». Cosa avrei detto alla mia famiglia in merito alla mia scomparsa?
Compresi immediatamente che quella era un’opportunità da non perdere. Seguii il mio istinto.
«Voglio rimanere», affermai convinta. A quel punto Christian ci lasciò sole e andò via dalla piccola casetta in campagna nella quale mi trovavo.
La dimora di Eveline non era enorme, ma nemmeno troppo piccola. Al primo piano c’era la cucina, il soggiorno, la sala da pranzo e un piccolo bagno; al piano di sopra ce n’era un altro, insieme a due camere e ad uno studio. La mia era la più grande, con un letto a baldacchino rosa che profumava di vaniglia e una finestra enorme che dava sull’immenso giardino.
Eveline era strana, magica. Non era affatto il prototipo delle ragazze che conoscevo; sapeva cucinare bene, aveva un piccolo orto dal quale raccoglieva i frutti e si dedicava spesso alle pulizie della casa. In cucina aveva inoltre un pentolone appoggiato sui fornelli, il che mi ricordò vagamente le streghe delle classiche favole che si raccontano ai bambini. Intravidi anche un grande pianoforte bianco nello studio al piano di sopra, e ne sentii il suono quando iniziò a maneggiarlo con cura, muovendo dal primo all’ultimo dito della mano tra scale e arpeggi, sempre con la massima leggerezza.  Era bella nella sua stranezza.
Nei primi momenti di quella giornata mi lasciò girovagare da sola nel giardino di casa sua senza rivolgermi la parola, dopo prese confidenza con me e iniziammo grandi discorsi. Capii che parlare con lei di tutti i miei dubbi sarebbe stato più facile che farlo con Christian: la conoscevo da poco, ma c’era più complicità.
«Ora che ho finito alcune faccende domestiche, possiamo chiacchierare un po’», propose Eveline.
«Sì, direi di sì», le risposi sfoggiando il miglior sorriso che potessi.
«Che te ne pare di questo posto? È strano che Christian ti abbia rivelato di Metarsios».
«Ha un nome buffo». La mia affermazione non c’entrava totalmente.
«Deriva dal greco, significa “colui che vola in alto”».
«E perché? Terra invece significa qualcosa?».
«Non so risponderti all’ultima domanda. Il nostro mondo invece si chiama Metarsios perché gli uccelli sono sacri. Ce ne sono ovunque, di tutte le specie. Volano, si posano sugli alberi delle querce qui vicino, migrano in gruppo verso tutte le parti del mondo. Sono degli animali speciali, non credi?». Uscimmo poi sul balcone. La poca luce fioca era quasi interamente coperta da strati di nuvole, e qualche uccello svolazzava. «È una metamorfosi. Alla morte ci trasformiamo in uccelli».
«Che cosa?! Ma come è possibile?».
«È ciò che vuole la natura».
Rimasi per qualche minuto a scrutare l’orizzonte, immersa in un mare di pensieri. Mi sentivo angosciata, scombussolata, frastornata. Eveline interruppe quell’imbarazzante silenzio.
«Lo sai perché Christian ti ha portata qui?».
«Non so, forse sono per lui una grande amica e non mi vuole nascondere nulla».
«È innamorato di te». Raggrinzii la fronte, sbalordita.
«E tu come lo sai? Non è possibile, ci conosciamo da pochi giorni».
«Io so molte cose, Alice», disse scandendo bene il mio nome, «e non è esattamente come dici».
«Vuoi dire che, prima di conoscermi, lui sapeva della mia esistenza?».
«In un certo modo sì. Ma ora non ti posso parlare di questo argomento, è contro ciò che abbiamo di più sacro al mondo. Verranno poi i momenti adatti per farlo, per ora è giusto che tu viva nella funesta e dolente incertezza. Mi dispiace, tesoro».
«Non preoccuparti», risposi come disgustata.
«È l’ora del thè!», urlò di gioia lei. «Vuoi unirti a questa stupefacente usanza?». Eveline esagerava sempre su tutto. Persino un discorso confidenziale con lei prendeva la piega di un tipico sermone del papa.
 
***
 
«Che lingua si parla qui?», le chiesi sorseggiando il thè. Era buonissimo, sapeva di spezie dolci orientali mischiate a fiori di lavanda.
«Lingua Hidatsa, con un paio di minoranze in base all’area in cui ci si trova».
«Quante aree ci sono?».
«Sei», rispose tirando fuori una cartina dal cassetto della cucina. «Apasaki, Midaha, Hade, Amahati, Kidesi, Hunte». Wow, sembra giapponese, pensai.
«Sono tutti nomi Hidatsa?».
«Sì, tutti i nomi delle aree hanno un significato in lingua Hidatsa. Guarda, noi siamo in Amahati, nel nord est. Ancora più a nord c’è l’Apasaki, e più ad ovest l’Hunte. Confinano entrambe con la nostra area. Alla fine di questa grande penisola, c’è la piccola area di Kidesi: è quasi totalmente circondata dal mare, ed è un paradiso naturale», mi spiegò Eveline.
«E qui ci sono la Midaha e l’Hade», constatai.
«Si. La Midaha è a nord ovest e, come puoi vedere, è una grande isola. L’Hade, invece, si trova a sud ovest. Sono tutte terre meravigliose, ma in Hade le persone sono diverse, materiali. Hanno portato loro la scienza qui, ed è un grande bene per tutta la specie. Ma hanno dimenticato l’importanza dei veri valori, sono diventati dei grandi opportunisti», concluse Eveline.
«Il clima è uguale ovunque o ce ne sono di diversi in base ai luoghi?».
«Il clima è praticamente uguale in ogni luogo. Ci possono essere differenze di temperatura, ma sono minime», rispose. «Hai finito con le domande, cara?», mi chiese poi con gentilezza.
«Per oggi sì, sono un po’ stanca».
«Christian sta per tornare. Vuole venire a trovarti, è in pensiero per te».
«Perché?».
«Vuole starti vicino. Pensa che troppe scoperte insieme potrebbero causarti danni».
 
Christian arrivò dopo cena, quando la luce dell’interno della Terra si era ormai spenta: anch’essa aveva bisogno di una pausa ogni quattordici ore. Che strano non vedere la Luna che brillava alta nel cielo di Williston.
«Come va con Eveline? Ti trovi bene qui?», mi chiese mentre guardavamo il cielo dal balcone della stanza della padrona.
«Bene. Tu dove vivi?».
«Qui vicino, con la mia famiglia», rispose. «Domani vuoi tornare a casa?».
«Sì, non posso stare via per così tanto tempo».
«Allora questo è un addio».
«Io voglio tornare qui! Con o senza di te!».
«Ti ho detto più volte che devi calmarti, sei troppo suscettibile. Ti vengo a prendere domani alle undici di sera circa, così i tuoi genitori non lo scopriranno».
«Non voglio fare su e giù per il resto della vita».
«E che cosa vuoi fare?».
«Oggi Eveline mi ha chiesto perché mi hai portata qui. Non le ho saputo rispondere, sai? Me lo vuoi dire tu, per favore?».
«Perché voglio essere sincero con te, volevo che mi conoscessi a fondo prima di affrettarci troppo in una relazione che potrebbe rivelarsi sbagliata».
«E ora che cosa pensi?».
«Dovrei rivolgerla a te questa domanda. Ciononostante, voglio dirti che quello che ti ha detto oggi Eveline su di me è vero. Sono innamorato di te, lo sai. O forse innamorato no, però provo qualcosa di forte per te. Caspita, devo essere proprio stupido».
«Ti ringrazio per l’offesa».
«Tu non sai niente».
«Questo perché tu non me lo dici!», gridai con tutta la voce che avevo.
«Non posso farlo. Per favore, cerca di capirmi: ogni cosa a suo tempo. Ora devi solo dirmi se vuoi provarci».
«Provare a fare che cosa?».
«A metterti in gioco. A lottare, a combattere contro le tante avversità. Sei pronta? Dimmi cosa ne pensi, perché se no impazzirò».
«Voglio lottare».
Christian mi sorrise, mi mise le mani sul volto trascinandolo verso di sé e mi baciò. Fu un bacio intenso, vero, diverso dagli altri che avevo dato. Per la prima volta capii che ero disposta ad affrontare tutto, a mettermi in gioco per qualcuno. Per la prima volta compresi ciò che volevo davvero.
 
 
 
SPAZIO AUTRICE//
E' arrivato il momento di scrivere un commento su questa storia che va avanti da ormai un mese. Volevo ringraziare le persone che la seguono e che la recensiscono, ma anche tutti i lettori silenziosi. Credo davvero in questo romanzo, spero di poterlo pubblicare un giorno. Per far questo ho bisogno di commenti: ditemi dove sbaglio, cosa posso migliorare. Vi ringrazio in anticipo. A presto!

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