Cronache di adolescenze bruciate

di Ulysses
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nuda ***
Capitolo 2: *** Uno qualsiasi ***
Capitolo 3: *** Crisi ***
Capitolo 4: *** La teoria dei gruppi ***
Capitolo 5: *** Wish you were here ***
Capitolo 6: *** Lei ***
Capitolo 7: *** Le onde ***
Capitolo 8: *** Gladiatori ***
Capitolo 9: *** La ragazza del mio migliore amico ***



Capitolo 1
*** Nuda ***


Dalle piccole e comode cuffie bianche usciva “Baba O’ Riley”, una delle mie canzoni preferite. La ascoltavo sempre, soprattutto a quei tempi. Oddio, parlo solo di un anno fa, forse meno. Ma credo di essere cambiato molto. Prima di tutto non ho più 16 anni e non mi farei qualsiasi ragazza giusto per il gusto di scopare. 

Ero sul mio motorino, un Liberty grigio 125, un po’ scassato dalla parte anteriore (c’avevo fatto un incidente col mio amico Michele, per fortuna entrambi illesi). Facevo zig-zag tra le auto che affollavano le auto sulla strada, volevo arrivare sotto l’Umberto il primo possibile. Flavia mi aspettava già da 20 minuti, e quando aspettava troppo si incazzava, o almeno di solito così faceva. Adesso non lo so più. Mi sembra di non sapere quasi più niente su Flavia, a parte che viveva alla fine di Via de’ Mille e andava al liceo classico Umberto. 

A quei tempi, aprile, un anno fa più o meno, sapevo tutto di lei. La sua personalità, il suo carattere, i suoi modi di fare. Erano a nudo. L’unica cosa che non riuscivo ad avere nuda, era l’unica cosa che volevo. Cazzo, scopare con lei è stato un po’ difficile.

Arrivato vicino il grosso liceo grigio, che mi metteva, e mette ancora, un po’ di tristezza, parcheggiai il motorino in doppia fila dietro un rottame verde, che non osavo nemmeno vedere di che marca fosse. Misi il solito catenaccio attorno alla ruota anteriore, e dopo essermi assicurato che fosse ben chiuso (a Michele gli avevano fregato il mezzo un mese prima, a via Chiaia, e da allora ero paranoico). Nel frattempo, la canzone degli Who era finita, era partita “Ai se eu te pego” di un brasiliano, il cui nome mi sfugge sempre. Non mi piaceva granché, ma quella canzone si portava e la sentivo ogni cazzo di sabato che andavo all’Accademia o al Duel o al Voga o ad una qualsiasi discoteca napoletana. Misi la mano sulla tasca del mio jeans scuro per tirar fuori il mio iPhone 3GS, quando, forse avvertendo la sua presenza, alzai lo sguardo e vidi Flavia che mi sorrideva.

Era bellissima, cazzo. Avevo sempre preferito le bionde. Invece lei era mora. Capelli neri che le scendevano fino all’allaccio del reggiseno. Speravo di arrivarci anch’io a quell’allaccio, per toglierlo. Era l’unica alla quale pensavo. Era diventata un’ossessione. Giovanni mi aveva detto un mese prima che non me la sarei mai riuscita a fare, perché era diversa, non era una puttanella come Francesca o Chiara, al quale il mio ciuffetto biondo e quell’aria da stronzo nato con la camicia poteva piacere. Giovanni diceva che lei uscisse solo con ragazzi che amava. Amava, cazzo. Io mi sarei dovuto far amare da lei, solo per avere tre, forse quattro minuti da soli, stesi su un letto? Era una sfida, mi era stata lanciata. E, a quei tempi, non rifiutavo mai sfide così.

Mi venne incontro, sarei dovuto rimanere affascinato dagli occhi, azzurri cristallini, e invece fissavo le tette, che non erano nemmeno grossissime, che sobbalzavano mentre correva. Era magra, e aveva proprio un bel corpo. Era la ragazza più bella del secondo anno, o almeno così dicevano. Io volevo solo farmela. Un altro nome alla mia lista.

-Ce ne hai messo di tempo.- esordì lei -Pensavo non venissi più... come è andata a scuola?

-Tutto bene...- tagliai corto, non avevo voglia di parlare di quelle stronzate.

-Andiamo a farci un giro? Volevo parlarti un po’... ieri sei stato dolcissimo a restare alzato per leggere le mie stronzate su WhatsApp.

-Non erano stronzate... non dici mai stronzate- le dissi, ma invece lo erano. Gran cazzate. Non avevo voglia di sentire la sua stupida storia sul suo stupido ex ragazzo, un coglione che aveva successo con le ragazze e faceva l’alternativo, tipo che usciva solo con quelle che le piacevano. Il tizio, Marco, lo avevo conosciuto un paio d’anni prima a Procida, entrambi passavamo lì il mese di agosto. Era un coglione. Non sapeva nemmeno farci con le ragazze. Ma era un bel ragazzo. Molto più bello di me. Io avevo dalla mia la simpatia e sicuramente il fatto che sapevo fingermi interessato ai discorsi delle ragazze. Mai sottovalutare questo potere.

-Ieri gli ho mandato un messaggio...

-Che gli hai detto?- risposi, fingendomi interessato. Continuavo a fissare le tette, meno male che portavo gli occhiali da sole a specchio della Ray-Ban.

-Niente... che finalmente sono riuscita ad andare avanti... e che è uno stronzo. Può farsi Ludovica quando vuole, non è affar mio con quali zoccole si vede. E poi ho trovato una persona speciale...

-Chi?- sapevo già la risposta, io ero bravissimo a diventare quella persona speciale.

-Tu... E’ incredibile che ci conosciamo da... da quanto? Tre settimane? Un mese? Eppure è come se ci conoscessimo da una vita. Mi sento in grado di poterti raccontare tutto. Io.. credo che mi piaci, Ettore- e fece un sorriso. Bellissimo, proprio come lei. Il sole le illuminava il volto già raggiante di suo.

-Anche io mi sento di poterti dire tutto... non mi è mai successo. Credo che vorrei essere più che un amico per te.

Le mie parole uscirono spontanee, lineari, tranquille. Sembravano le avessi letto da un fogliettino nascosto sotto la manica della mia felpa blu. Era perché quella era la mia frase. L’avevo detto almeno una decina di volte. Ad una decina di ragazze diverse. Almeno in quell’anno, in quel funesto 2011. Flavia non fu la prima a sentirselo dire, e nemmeno l’ultima. Ci cascavano tutte, come pesci presi all’amo. Non c’era niente da fare, con quelle parole e un bel visino, te le scopavi tutte. Flavia era più sensibile, più matura, ma anche lei cedeva alle tentazioni. E io l’avrei fatta cedere. Per avere quei quattro minuti, almeno una o due volte alla settimane, per un po’ di tempo, due settimane, un mese, due mesi, chissà. 

Io e Flavia eravamo però realmente entrati in contatto. Che lo volessi o no, mi ero dovuto esporre molto di più con lei. Ho dovuto “aprire il mio cuore”, ogni tanto la usava con me per convincermi a parlare dei miei problemi. “Tutti ce li abbiamo, Ettore... e oggi ti vedo triste, perché non vuoi parlarne?” mi diceva. E io, se anche non avevo qualche pensiero malvagio per la testa, me li inventavo e parlavo con lei per un’ora e poi continuavamo sul cellulare. Quel mese era passato così. Ci eravamo visti quasi ogni giorno, soprattutto nelle ultime due settimane. Si era affezionata a me. E io a lei, ma non provavo un fuoco, un sentimento profondo, un qualcosa di più profondo del semplice desiderio di metterla a novanta. E’ triste da dire, ma era così. Ero uno stronzo. L’ennesimo stronzo.

Comunque, dicevo, lei era praticamente nuda ai miei occhi: sapevo tutti di lei. Mi aveva parlato del fatto che non le piacesse il suo corpo, che non le piacesse la sua faccia, a suo dire schiacciata come quella di una tartaruga. Una volta mi disse che aveva pensato che fosse inutile. Che stronzata. Quella volta le dissi, e lo pensavo veramente, che non doveva mai pensare a roba così. La vita andava vissuta, senza sentimenti così di pena. L’avevo consolata una decina di volta, l’avevo fatta sentire al sicuro. La andavo a trovare quando era triste, abbandonavo i miei amici per andare da lei (i quali però erano d’accordo perché erano a conoscenza del mio losco piano). Tutto questo senza nemmeno chiedere un bacio in cambio, un appuntamento, un’uscita. Niente. Solo uno scambio di emozioni. Principalmente era lei a parlare. A me piaceva ascoltarla. A lei piaceva parlare, di tutto. Dopo le prime volte, credevo veramente che avesse problemi, che veramente pensasse al suicidio, che si credesse una cessa, ma alla fine, ai miei occhi, si era rivelata come le altre. Quando sono nude, sono tutte così. Anche quando l’anima è nuda. Prendeva 400 mi piace a foto su facebook e postava almeno una foto al giorno. E poi andava in giro a dire che era brutta e che nessuno la voleva. “Ma vammi in culo”, quell’espressione che usavamo nel mio gruppo, mi venne alla mente e d’istinto mi venne da ridere, ma fortunatamente riuscii a non farlo.

Tornai alla realtà, eccola di fronte a me. Allungai le braccia, ci stringemmo forte, per un minuto intero. Poi lo baciai. Senza lingua, ovviamente. Non volevo partire in quarta. Le sue labbra erano soffici e calde, non umide, proprio come le avevo immaginato, solo mille volte meglio. Restammo un po’ così, per diversi secondi, poi ci staccammo e andammo a fare un giro sul lungomare Caracciolo. Il prof. Gamba mi avrebbe interrogato l’indomani in fisica, ma non era la mia prima preoccupazione. “I’m a man on a mission”, queste parole conficcate nella mia testa. Non avevo mai perso una scommessa del genere. 

Dopo un altro mese, ci siamo detti “ti amo”: così facile dirlo. Lo aveva detto lei per prima, prendendomi alla sprovvista, ma riesco ad improvvisare molto bene e le ho risposto che anche io l’amavo. Non era vero. Mi piaceva, e non era come altre, veramente. Sembrava più speciale, ma sicuramente non l’amavo. I sentimenti che ora provo per Federica non sono assolutamente paragonabile a quelli per Flavia. Eppure non resistetti all’impulso di farla contenta, di farla sentire apprezzata, di mentirle. 

Uscivamo quasi ogni giorno e ben presto arrivammo a fine maggio, i compiti a scuola diminuivano, le giornate di sole aumentavano e noi eravamo sempre in giro sul mio Liberty. Ogni tanto l’ho portata anche a casa mia, sperando che volesse farlo, ma non fu così. Ci baciammo, ma niente di più, se non qualche mano sui seni. Lei non me la toglieva ma era evidente che non volesse andare oltre.

E poi, come d’incanto, come una qualche magia, un giorno di inizio giugno andammo a casa sua. I genitori non c’erano, entrambi in vacanza con sua sorella più piccola, la casa era praticamente vuota perché Flavia dormiva dalla zia che abitava non distante da casa mia, alla fine di via Roma. Sapevamo che eravamo soli. E tutto fu molto naturale, senza alcun timore. 

-Ti amo... e sono pronta- mi disse. Io non le risposi, le sorrisi e la baciai. Aprii il mio portafoglio nero della Guinness, che avevo comprato a Dublino durante una delle mie vacanze, e tirai fuori un profilattico, uno di quelli classici, ma ben resistenti. Non ero un pazzo come Michele che lo faceva anche senza. L’idea di rischiare di metterla incinta era troppa. E poi a me piaceva così. 

Lei vide quella specie di calzino in gomma trasparente e non disse niente, semplicemente si inizio a spogliare. Finalmente nuda, senza vestiti. Pochi mesi prima l’avevo denudata dei suoi segreti, delle sue paure, la sua anima ai miei occhi era nuda e trasparente. Adesso però c’era proprio lei nuda davanti a me. Non era la mia prima volta, ovviamente. Per lei invece sì. 

Fu tutto sommato piacevole, il giorno prima mi ero masturbato e sono durato un paio di minuti in più. Ero io a comandare i movimenti e dopo sette minuti circa (ho l’abitudine di controllare l’orologio quando finisco di fare sesso, per vedere se sono migliorato) sono venuto. Lei non era arrivata all’orgasmo ma dopo mi ha sussurrato che era stato bellissimo e che mi amava. Dissi la stessa cosa. Buttai il preservativo nel cesso di casa sua e scaricai. Poi ci vestimmo e scendemmo a fare in giro. Col senno di poi, ho capito che lei aveva parlato con le sue amiche e queste, chissà per quale colpo di fortuna a mio favore, avranno detto che era amore reciproco, che ero un bravo ragazzo (o almeno che ero cambiato e lo ero diventato) e che ero anche il ragazzo giusto con cui farlo la prima volta. 

Anche quella sfida era stata superata. Quando lo dissi ai miei amici, scoppiarono tutti in un boato e mi fecero degli applausi, non curanti della gente che ci stava intorno a via Chiaia. Erano felici per me, mi ero confermato lo stronzo che riesci a farsi chi vuole. Io non lo ero tanto. Né per me né per Flavia. Per la prima volta mi sentivo in colpa, sentivo che lei era diversa. Inoltre, non lo avevo mai fatto con una vergine quindi ero sicuro che lei se lo sarebbe ricordato per tutta la vita. Anche se non posso trascurare il fatto che provavo grande piacere a farlo con lei, sembrava esperta ed era fantastica a letto. Mi ricordava Megan Fox: non era bella quanto lei, ma sicuramente era molto bella. Aveva 15 anni, uno in meno a me. Se avessi aspettato un altro anno, probabilmente lei lo avrebbe fatto con un altro stronzo o magari con quel coglione di Marco, il suo ex. Che tra l’altro incontrai come al solito a Procida pochi mesi più tardi.

Dopo quel pomeriggio da lei, lo facemmo più e più volte, una volta addirittura tre volte in una settimana, cosa che non mi sarei mai aspettato. Probabilmente anche lei ci aveva preso gusto con questo giochino chiamato “sesso”. Ma mai mi sarei aspettato ciò che successe a luglio, quando io, come ogni anno, ero andato in vacanza studio per imparare l’inglese. L’anno scorso andai a Brighton, vicino Londra. Fu una bella vacanza studio, rimasi fedele a Flavia, anche se forse lo feci semplicemente perché non ne trovai una che mi attizzava particolarmente. Ma il ritorno da quei 14 giorni all’estero fu drammatico.

Daniele, una sera che scendemmo insieme anche con Giovanni, Michele, Tommaso e Francesco (insomma il nostro solito gruppo), mi chiamò in disparte e mi rivelò una tragica verità. Flavia era uscita, e con uscita intendo baciata, con Marco. E poi lo avevano fatto. Daniele aggiunse che lo sapevano quasi tutti e che presto Flavia glielo sarebbe venuto a dire per decidere sul da farsi. Quando me lo dissi, quasi piansi. Ma non potevo piangere di fronte ai miei amici, non volevo che mi vedessero così abbattuto, anche perché poi avrebbe fatto scelte impulsive e di fretta, tipo andare sotto casa di Marco Staffa, farlo scendere e picchiarlo. Non volevo si creasse un casino del genere. Sapevo come gestire quella situazione.

La sera dopo, era un venerdì, scesi con gli altri sul lungomare, andai da Chiara, che a quanto pare anche dopo quei mesi era rimasta la troietta ricca dell’alta borghesia napoletana, e le chiesi di andarci a fare un giro. Lei era single, quindi ancora meglio. La portai a casa mia, uscimmo e poi facemmo sesso. Con lei l’avevo già fatto una decina di volte, stavamo insieme, prima che ci lasciammo a vicenda. 

-E adesso cosa fai con Flavia?- la sua voce stridula e acuta, in disarmonia con il corpo e il viso da urlo, uscì poco dopo aver finito.

-Niente. Dillo a chi vuoi... A me lei non interesse più. Io tra una settimana parto per Procida, lei si può fare chi cazzo gli pare.

-Mi hai usata?

-Sei fantastica e bellissima... non rovinare le cose con domande così stupide.- le dissi, chiudendo l’argomento. Poi diedi un’occhiata all’orologio sulla mia scrivania,  indicava le 11:47. Di conseguenza, scendemmo di nuovo giù a via Caracciolo, parcheggiai il mezzo e salutai Chiara. Mi aspettava Flavia lì di fronte. Non mi disse niente. Cazzo, pensi di conoscere una persona, pensi che questa sia leale e onesto, e che vada perdonata e poi tutto quello che pensi viene consumato da azioni così. Per tutta la serata non mi accennò all’uscita con Marco o al fatto che scoparono. Che troia che era diventata. E io l’avevo fatta diventare così? 

Non riuscii a togliermi l’ultimo sfizio, così le chiesi se avesse voglia di venire a casa mia, e con la scusa che non ci eravamo visti per 14 giorni, le chiesi se se la sentiva di farlo, in quel preciso istante. Lei annuì, mi sorrise e disse che mi amava. Ricambiai il sorriso, ma questa volta non dissi “ti amo anch’io, tesoro”. La portai dritta sul letto, non avevo preservativi, l’ultimo l’avevo usato un’ora prima con Chiara, e facemmo sesso. Questa volta ero arrabbiato, volevo accontentarla ma al tempo stesso sapevo che io non avrei mai goduto abbastanza. Dopo una decina di minuti, capii che stavo per venire, tornai in me e mi scostai ma alla fine venni sulla gamba abbronzata di Flavia. Fu fantastico. La vendetta è un piatto che va servito freddo.

Dopo pochi giorni, ero tornato con la reputazione abituale dello stronzo. Si sparse la voce che mi ero fatto Chiara e Flavia nella stessa sera. I miei amici chiesero conferma, ma sapevano già che era vero. Mi diedero il cinque e davanti ad una birra ridemmo di tutto quello che era successo.

Flavia non mi parlò più, mi inviò solo un messaggio. “Immagino che hai saputo... Io però l’ho fatto perché ero debole e tu non c’eri. Sei uno stronzo... io ti amavo”. Pensai per un paio di minuti alla risposta giusta insieme a Daniele, il primo che mi aveva avvertito del tradimento di Flavia. Alla fine optai per un serenissimo messaggio di chiusura: “Io no. Vaffanculo”.

Che classe.

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Capitolo 2
*** Uno qualsiasi ***


Non sono il ragazzo più bello di Napoli. Nemmeno il più brutto. Non sono il più simpatico. Nemmeno quello più noioso. Non sono il più intelligente, né il più stupido. Non vado in una scuola particolarmente importante, né in una pessima. Non sono il più popolare, ma nemmeno uno sfigato. Non sono il più alto, né il più basso. Non sono ricco, ma nemmeno povero. Non sono il più spericolato del mio gruppo, né quello più tranquillo. Non ho tantissimi amici, ma non sono solo. Non sono il più bravo a calcio, né quello più scarso, anzi io non pratico proprio calcio. Non faccio nessuno sport. 

Sono un ragazzo qualsiasi, con un nome anonimo, che vive a Napoli e che ha 18 anni come tanti. Sono uno qualsiasi. Se dovessi scrivere un libro o anche solo tenere un diario con le storie su di me più interessanti, non saprei cosa scrivere. Non ho nulla da offrire, nulla da dire al mondo. La mia voce è soffocata da quelle di ragazzi più belli o più popolari o più intelligenti. Io non ho nessuna attitudine particolare. Nessun interesse in particolare.

Non sono solo, questo è vero. Ho diversi amici. Peccato che non sono il miglior amico di nessuno. Nel senso che sono amico di cinque, sei ragazzi, con i quali esco il sabato sera regolarmente, fingendo di divertirmi e che tutto vada bene. Ma nessuno mi considera il suo migliore amico. Non sono bravo nelle relazioni, non sono sincero, ho paura di esternare i miei pensieri, non sono portato a dare consigli giusti. E di conseguenza, nessuno mi vede come un fratello di madre diversa. E io non vedo nessuno di loro come il mio migliore amico. La cosa che più odio è che preferirei essere totalmente solo, per esempio come quel matto di Vincenzo in classe con me. Quel ragazzo, è solo, non esce mai, addirittura non è rimasto alla festa all’Accademia per il MAK TT della nostra scuola. Che cosa triste? Be’, non tanto. Due mesi prima si era svegliato, si era lavato i denti, aveva fatto colazione, aveva salutato i genitori e stava per uscire di casa, quando il telefono di famiglia squillò. La madre alzò la cornetta e lo passò al figlio. Era la London School of Economics. Era stato chiamato perché aveva superato anche il colloquio orale, il ché, combinato a ottimi risultati nella prova di ammissione scritta, gli avrebbe permesso di frequentare Economia dopo il liceo. Vincenzo è uno sfigato, in vita sociale intendo, ma ha un futuro. Era bravissimo in matematica e informatissimo su borse, titoli di stato e tutta questa roba qui. Se non mi sbaglio, una volta ha detto che volesse diventare un broker. Credo, non ne sono sicuro perché non sono nemmeno un ragazzo particolarmente attento. Quanto avrei dato per essere come Vincenzo. Avere un sogno, proteggerlo, inseguirlo e realizzarlo.

E così, mi ritrovo anche ad invidiare gli sfigati. Invidio anche quei tipi alternativi, magari che sono pure bellocci, ma preferiscono stare sulle loro perché hanno visioni del mondo diverse da ragazzi di 18 anni che pensano a sballarsi il sabato sera e scopare con una ragazza. Ne conosco un paio di tipi così e sembravano tutti più felici di me. Probabilmente pensano che io e gli altri miei amici, o altre persone come noi, siamo gli sfigati. Gli idioti. In effetti, almeno io lo sono.

Mi sento sempre solo, anche quando non lo sono. Non sono bravissimo con le ragazze, ma ne ho avuta una e in generale sono uscito con delle ragazze più di una volta. Non avevo niente da offrire a loro. Non ho niente di interessante, non so trovare le parole giuste per farle abboccare all’amo. Mi stupisco di come sia stato per cinque mesi con Melissa, ma alla fine anche lei mi ha lasciato. Forse si è resa conto che sono troppo anonimo, non ero uno speciale. 

Manca un mese all’esame di stato, non ho un’idea per il futuro. Andrò all’università, questo è sicuro. Ho fatto il liceo scientifico, quindi mi pare ovvio. I miei genitori nemmeno sono interessati granché alla mia vita. Non mi capiscono. Quando mi guardano, vedono un ragazzo normale che ha amici, che porta voti sufficienti a casa, che sembra felice della sua vita normale. E poi, non sono il loro primogenito. Nemmeno l’ultimo nato. Sono quello di mezzo. Quanto odio essere quello di mezzo. Maria, mia sorella maggiore, sta per laurearsi in Medicina, è l’orgoglio di mamma e papà. Giovanni ha appena otto anni, ed è quello più coccolato. Io voglio bene ai miei fratelli e ai miei genitori, questo sia chiaro. E questo aumenta il mio dispiacere dell’essere consapevole di non poter offrir niente nemmeno a loro.

Ogni tanto, proprio come ora, mi stendo sul mio letto, nella mia camera, senza un poster o una libreria con romanzi particolarmente interessanti, e fingo di dormire. In realtà, chiudo solo gli occhi e penso. Penso, rifletto sulla vita. Sulla mia vita. Non sono brillante, non arriverò a nessuna conclusione, ma è l’unica cosa che mi intrattenga. Magari prima o poi, steso su quel letto di una piazza e mezzo, nel buio della stanza, mi verrà un’idea. Tipo facebook per Mark Zuckerberg. Lo spero, così non sarò più uno qualsiasi. 

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Capitolo 3
*** Crisi ***


Vivere a Napoli, più precisamente a Via Chiaia, in una casa a pochi passi dal cinema Metropolitan, può essere molto bello per un adolescente come me. Scendi da casa e ti ritrovi subito nella zona più frequentata della bella gente napoletana. Scendi e ti ritrovi subito nell’ammuina (il casino, la folla, il disordine come lo chiamiamo noi). Se vivi a via Chiaia hai tutto quello di cui hai bisogno a pochi passi di distanza. Se sali trovi i negozi e poi via Roma e scendi ci sono i baretti, il Voga e poi via Caracciolo. Ragazzi come me vivono il sabato sera praticamente in quella piccola zona e ne sono felici perché tutti vengono a passare il sabato sera proprio lì. Da Pozzuoli, da Pianura, dal Vomero (ogni tanto ma non sempre) viene gente stanca delle solite facce dei loro quartieri meno chic. Diciamo che via Chiaia, via de Mille, rappresentano un’elite: non ci vivi lì se tuo padre non è medico o un degno avvocato o se non è un notaio. 

Io, sfortunatamente, sono nato proprio lì e la mia casa è proprio a via Chiaia, al numero 135. Mi ritrovo circondato da gente ricca, da ragazzi ricchi, molti snob, persone molto diverse da me. Io, a dir la verità, vorrei essere come loro, ma non posso. Io sono povero. 

Ma nessuno lo sa... almeno per il momento. Mio padre è stato licenziato e mia madre insegna al Garibaldi, ho un fratellino più piccolo, di 5 anni e vivere con un solo stipendio è davvero dura. Molti dei miei amici non sanno cosa vuol dire, né si interessano se il padre ancora effettivamente porta i soldi a casa. Ma non voglio incolpare loro: lo sanno che il padre porta i soldi a casa, e anche tanti di soldi perché i miei amici sembrano poter permettersi tutto. Non c’è un sabato dove non vogliono andare a mangiare da Sorbillo o da Brandi o al Much More o al Vanilla. E poi subito vogliono fare il giro di un paio di locali nella zona dei baretti. Se non sapete cosa siano i baretti, perché magari vivete su Marte, ve lo spiego in breve: un incrocio di vie con locali, alcuni molto piccoli, altri a due piani, che servono da bere; lì c’è il vero e proprio casino, la ressa del sabato sera. Ogni tanto scoppia una rissa, ma è decisamente piacevole stare lì; tra uno shot e l’altro magari incontri una bella ragazza e le offri qualcosa. 

Ma ritorniamo alla mia storia: i miei amici, quindi, dopo aver mangiato in una pizzeria storica o in un bel pub, dopo un paio di birre, vogliono finire la serata con un paio di cocktail o andando al Voga. Adesso, beh, io sono felice per loro: possono permetterselo, fanno la bella vita, ma a me il tutto fa soffrire.

Non c’è una volta che possa rispondere ai messaggi di Daniele e dirgli: “Ok, fra’, alle 9 al Much More”. Non mangio con loro da gennaio. E ora siamo a maggio. Daniele e gli altri fortunatamente non fanno tante domande, anche perché riesco sempre a trovare una buona scusa. “Devo tenere d’occhio Marco finché i miei non tornano dalla cena”, oppure: “La cameriera, che come ben sai è un’ottima cuoca, oggi prepara i calamari ripieni e proprio non voglio perdermeli, ci vediamo direttamente ai baretti più tardi”.

Oddio, magari capitava veramente che dovessi tenere d’occhio mio fratello, ma non perché i miei erano fuori a cena. Al massimo perché erano da zio Raffaele, che, a differenza di noi, non ha alcun problema economico e ci sta aiutando un sacco in questi ultimi tempi. Men che meno era vero che la cameriera preparasse i calamari. Non ce l’avevamo nemmeno la cameriera, la domestica. Un lusso impensabile, dice papà e io ovviamente sono d’accordo con lui. 

Non ne ho voluto mai parlare con i miei amici, ho paura che andrebbero dai genitori e dicessero loro la mia situazione familiare e magari poi i loro genitori telefonerebbero i miei per parlare e dare conforto, oppure, ancora peggio, i genitori potrebbero dire ai figli di lasciarmi perdere dato che ormai non sono più nell’elite di Napoli centro. Qualcuno di voi può pensare che non possa essere vero, ma mi è già capitato di vedere come i meno abbienti quasi venissero discriminati. Che schifo, è questo quello che penso. Ormai conta solo il denaro. E quello ci manca.

Non incolpo i miei genitori, papà sta facendo il possibile per riavere il suo posto in banca. Mamma ora tiene anche ripetizioni pomeridiane di matematica a qualche ragazzo meno portato ma con genitori che possono permettersi di volere che il figlio vada alla Bocconi. Il problema dell’università, almeno per ora, non mi tocca. Ho 17 anni, sono al quarto anno del Mercalli, quindi c’è ancora tempo per riprendersi da questa situazione economica sfasciata. 

Sto pensando seriamente di lavorare. È maggio, magari potrei trovare qualche posto da cameriere in un bar in zona oppure potrei falciare il prato delle signore ricche, come si vede nei film americani. Farei qualsiasi cosa. Non voglio essere un peso. È per questo che ho lasciato basket, lo sport che amo di più al mondo. Sono anche molto bravo: l’anno scorso in U17 ho mantenuto la media di 14 punti a partita con la Partenope, la mia squadra. Il mio coach infatti è rimasto esterrefatto quando a febbraio, a campionato iniziato, gli ho detto che avrei mollato.

-Tommaso, capisco, sei libero di fare quello che vuoi... ma se posso saperlo, perché vuoi lasciarci così di punto in bianco? Stiamo facendo bene, secondo me passiamo il primo turno quest’anno e un’ala come te ci serve. È per il fatto che non giochi quanto l’anno scorso? Perché se è per questo, beh, lo sai che abbiamo avuto nuovi ragazzi e devo far giocare anche loro, ma nelle partite più importanti ci sarai assolutamente e probabilmente ti farò giocare per tutta la partita. Ma non lo dico per non farti andare via, ma perché sono questi i miei piani.

-No, coach, non è per questo...- dissi con gli occhi bassi. Affianco a me, i miei compagni di squadra, anzi, ormai ex-compagni, entravano in campo per l’allenamento in vista della partita di venerdì contro la Cestistica Ischia. 

-E allora perché?- rispose il mio coach con gli occhi in continua ricerca di miei: pensava che mentissi, che stessi scherzando. -I voti a scuola?

Che assist, degno di Chris Paul direi io. -Eh sì, coach... non so proprio come fare quest’anno, ho un paio di insufficienze e i miei dicono che devo recuperare per forza altrimenti rischio di venire rimandato se non bocciato addirittura... Ma mi hanno promesso che ci sarò l’anno prossimo se tutto va bene.

Avevo sfruttato l’occasione per uscire da quell’imbarazzante conversazione. 

Io vado benissimo a scuola. Ho la media dell’otto. 

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Capitolo 4
*** La teoria dei gruppi ***


Uscire la sera a Napoli può essere un’impresa. Anche nel pomeriggio, a dirla tutta. Uno non può semplicemente uscire, soprattutto se vuoi essere popolare. Ti serve un gruppo, una compagnia di amici, altrimenti sei fuori dalla vita sociale. 

Io fortunatamente ce l’ho. Sono in gruppo abbastanza figo, mettiamola così. I miei compagni di uscita sono Genny, Tony, Michele, Matteo e Raffaele. E poi ci sono io. Siamo quindi sei, il numero che più consiglio per un gruppo popolare. Ripeto, sono fortunatissimo ad essere andato al Genovesi con loro, così posso uscire ogni sabato praticamente senza problemi. 

C’è tanta gente piena di problemi. Il problema sta appunto nel gruppo, come vi dicevo. Tutti ne hanno bisogno, non tutti possono permetterselo. Prima di tutto vi spiego le regole del gruppo. Il numero (sei è quello perfetto, ma ve l’ho già detto) deve andare da un minimo di quattro ad un massimo di sette. Se siete due, siete ridicoli. Sembrate froci. Se siete tre, sembrate un po’ solitari: non potrete mai essere quello più popolare, ci saranno sempre gruppi più fighi; a meno che non siete tutti dei Zac Efron. Quattro, dunque, è il numero minimo, ma veramente il minimo. E così via fino alle sette persone, a mio parere il numero massimo. Otto è puro sovraffollamento, non riesci mai ad organizzarti in tempo per una cena o una serata in discoteca. Ma il maggior problema con un gruppo così numeroso è che le divergenze vengono troppo spesso a galla: andiamo, siamo onesti, è difficile trovare otto o più persone che vadano d’amore e d’accordo. Ti può sempre capitare quello che sta sul cazzo agli altri, quindi meglio non rischiare e mantenere un numero contenuto. 

La seconda questione è il luogo delle uscite del gruppo. Certo, non siamo nell’Upper East Side e non c’è nessuna Gossip Girl a pubblicare pettegolezzi su internet, ma state certi che tutti parlano di tutti. Ed è meglio che parlino bene del tuo gruppo altrimenti rischi di non essere invitato ai festini più cool. E se vuoi che parlino di te, devi essere sempre presente. Dappertutto. La maggior parte delle volte scendiamo sul lungomare Caracciolo, d’estate è decisamente il posto dove bisogna stare. Di questi tempi più freddi, scendiamo lì spesso, ma qualche volte andiamo anche al Vomero, a piazza Vanvitelli. C’è un Irish Pub carino e molto frequentato. Nel pomeriggio, di sabato per un aperitivo, per esempio, bisogna andare all’Amadeus oppure al Michelangelo, che sono più in centro, vicini alle nostre case a Piazza dei Martiri. 

Sistemata la questione del luogo delle uscite, arriviamo al cuore del gruppo: i suoi componenti. Io, Matteo e compagnia cantante stiamo bene assieme perché siamo amici, certo, ma anche perché siamo persone simili, è questo ci fa uscire assieme. Siamo tutti ragazzi che vogliono la stessa cosa: scopare. Per scopare serve una bella ragazza, per una bella ragazza serve la popolarità, per la popolarità serve un gruppo ben assortito di bei ragazzi simpatici ed estroversi. Di certo non parliamo di cazzate o di politica o di fottutissimi libri. Cioè, abbiamo 16 anni, mica 40. Devo dire che sono felice di stare con loro, perché sono sempre felice. Ci divertiamo un sacco, usciamo con tante ragazze, ce la comandiamo noi in pratica. 

Siamo il gruppo migliore, senza ombra di dubbio. Il migliore di noi, ahimè, non sono io, ma Raffaele. Ci sa fare un casino con le ragazze, sa sempre le parole giuste per ogni occasione, la sua voce calda e profonda poi le convince a bevere qualsiasi delle sue stronzate. Raffaele non è il più bello, Genny e Tony lo sono, ed è il più stupido del gruppo. È stato già bocciato una volta e praticamente non sa nulla di quello che succede all’infuori di Napoli e del campionato calcistico. È scandalosamente stupido anche per noi, che non siamo vere e proprie cime. Ma non possiamo escluderlo, è questo il punto del quale parlavo poco fa. Ci sa fare, è una pedina fondamentale per noi. Se lui è figo, anche noi lo siamo. Ma certo anche noi dobbiamo mantenere alti standard. Dobbiamo uscire con le ragazze e poi fare gli stronzi. Vincenzo Porpora è stato escluso l’anno scorso. Era un bravo ragazzo, simpatico, ma un disastro con le ragazze. Il più delle volte ci metteva in imbarazzo, era una palla al piede. Non mi dispiace averlo eliminato. Semplicemente non abbiamo più risposto ai suoi messaggi. Poverino.

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Capitolo 5
*** Wish you were here ***


Il fritto di calamari era pessimo. Immangiabile. Per non parlare del risotto. Diamine, ad un matrimonio il cibo deve essere buono. La maggior parte degli invitati vengono solo per quello, probabilmente. Non che io sia venuto in questo stupido posto per mangiare. Non sono nemmeno venuto per lo sposo, mio pro-cugino. Non fraintendetemi, sono felice per lui, ma non me ne frega un cazzo.

Sono stato costretto da mia madre. “Un’uscita di farà bene, Elia”. Io ne ero certo che non mi sarei divertito, ma non costa nulla provare, ecco perché ora mi ritrovo in questo costosissimo posto per ricevimenti, matrimoni, feste e roba così. Ma il cibo, ripeto, fa schifo. Peccato, i genitori di mio cugino c’avranno speso una fortuna. 

Ormai alzatomi, decido di fare un giro di esplorazione. C’è tanta gente. Tantissima. Troppo. Quasi mi manca il respiro, mi allargo il nodo della cravatta nera lucida, altra geniale pensata di mia madre. Scorgo un divanetto un po’ più isolato e libero, così decido di sedermi, nella tranquillità. Tiro fuori dalla tasca interna della giacca le cuffiette bianche e le collego al cellulare. Metto casuale. La prima canzone è “Mother” dei Pink Floyd, e questo mi fa ridere. Perché la canzone non sembrava parlare di Pink, ma di Elia D’Annunzio, mancato rampollo dell’alta borghesia di Via Scarlatti e dintorni. Ma forse il “muro”, quello psicologico costruito intorno a me, l’oggetto del mio album preferito, non me l’ha costruita quella povera e brava donna di mia madre, fortunatamente inconsapevole della sua inadeguatezza nella mia vita. Mi ha amato e mi ama ancora, ancora dopo ciò che è successo, e questo le fa onore, ma è inadeguata proprio come chiunque altro nella mia vita, al momento. Il muro me lo sono costruito io. Una persona importante e adeguata c’era eccome. Peccato che non ci sei più, nonno. Ora sono solo, ancora una volta, e se il primo tentativo non è riuscito, dovrò provarci ancora? 

I miei pensieri vengono magistralmente interrotti da un cameriere dalla barba ben curata e capelli neri, un tipico ragazzo del posto insomma, che mi offre dal vassoio d’argento un bicchiere di prosecco. Il volume della musica era basso, lo capisco subito, ma rimango nel silenzio indugiando per qualche secondo.

Può bere un ragazzo emotivamente squilibrato che ha tentato il suicidio poche settimane fa? La risposta è sicuramente sul fondo del bicchiere.

“Ne prendo tre, per favore...”, a ciò il cameriere mi guarda stranito, temendo che avessi forse un problema con l’alcol? 

“Ehm... gli altri due sono per due persone che sto aspettando!”. Gli sorrido, un sorriso falso ma abbastanza convincente, il cameriere ride e poggia i tre bicchieri di vino sul tavolino vicino al divanetto bianco sul quale ero seduto. 

Lo vedo allontanare e il mio sguardo si posa sui bicchieri. Bevo il primo praticamente in un sorso, quasi mi ingozzo e quindi tossisco un paio di volte, il che mi fa venire da ridere. Di lì a pochi minuti, finisco anche gli altri due e ricomincio a pensare. A pensare a tutto ciò che è successo, a quei coglioni di Michele, Tony, Genny, Giò e gli altri di quella banda di idioti con la quale ho avuto a che fare al Genovesi. E penso a Marta.

Marta è stato il mio primo amore. Che strano, quando dico “è stato”. Perché in effetti è stato ed è tutt’ora il mio primo amore. Ora forse il sentimento è cambiato, passato al più misto “Odi et amo” catulliano. Ho passato due anni ad inseguirla. Precisamente, mi sono innamorato di lei il 27 settembre 2011, lo so perché l’avevo prontamente scritto nel mio diario da sognatore, quando i giorni erano ancora belli e soleggiati. Lei era al primo anno, io al secondo e lei venne da me a chiedere se sapessi dove si trovava la prof. Roberti, che era anche la mia professoressa di Latino. Era venuta da me. Da me. Ero anche l’unico in giro, forse per questo lo ha fatto. L’incontro fu tanto impacciato quanto bello, perché io me ne innamorai subito, mi persi in pochi secondi nei suoi occhi verdi e lei, nel frattempo, chiedeva solo un’informazione, forse non se n’era nemmeno accorta del mio temporaneo smarrimento. Dopo l’euforia appena successiva all’incontro, mi chiesi se poteva essere la mia Beatrice. Sì, ne ero sicuro. L’unica cosa che dovevo fare era amarla, amarla ininterrottamente, e lei... e lei mi avrebbe amato, avrebbe ricambiato. Perché “amor c’ha nulla amato amar perdona”, sì, ecco il perché.

Lo scorso luglio finalmente le rivelai ciò che provavo per lei. Era sabato e sono uscito di casa, da solo, certamente. Era già un grande passo uscire la sera, dato che non avevo (e non ho ancora adesso) qualcuno con uscire. Ma non importava, solo lei importava. Quindi l’ho timidamente chiamata in disparte e lei si è allontanata dalle sue amiche che ridacchiavano e hanno iniziato a parlare tra di loro guardandoci. Espressi il mio più tenero sentimento in un discorso ben congegnato, una specie di lettera che nella mia testa avevo ripetuto a memoria nelle precedenti ore. 

Le recitai “Benedetto sia ‘l giorno e ‘l mese et l’anno” di Petrarca, il mio sonetto preferito. E poi le dissi che avevo solo lei in testa e che, con tutto quello di brutto che mi stava accadendo, l’unica cosa bella, l’unica cosa che mi avrebbe fatto felice, sarebbe stato il suo abbraccio, il suo bacio, il suo amore.

E lei... Lei non disse niente, troppo imbarazzata per dire qualcosa. Rossa, e non per l’abbronzatura, riuscì poi a elaborare una frase. 

“Mi dispiace, Elia, ma non provo le stesse cose... grazie per le bellissime parole, ma non posso dire la stessa cosa, possiamo però diventare amici, se ci tieni!”.

Quel giorno era l’8 luglio 2013 e, come due mesi esatti prima se n’era andato mio nonno, così se ne andò una parte del mio cuore, mortificata se non uccisa dalle parole di quella che avevo immaginato come la mia Beatrice, la mia salvatrice. 

Non so cosa andò male quel giorno, anzi, non so cosa andò bene quel giorno, perché potevo ricordare solo quello.

E in quel momento, che avevo perso dopo gli amici, mio nonno e la tranquillità scolastica a causa di quei coglioni del gruppo di Giò che mi tormentavano (e tormentano tutt’ora), avevo appena perso l’ultimo appiglio alla vita, il mio unico amore.

Perché, Marta? Perché hai rifiutato il mio cuore? Ti avevo e ti avrei messa su un piedistallo. Ma evidentemente non piacevo. Lo testimoniavano i pressoché inesistenti “mi piace” alle mie foto o stati su facebook, le battutine sui miei ricci non proprio sexy, sulla mia faccia non proprio bella. 

Ritorno alla realtà: non sono più seduto sul divanetto in penombra, sto vagando nel giardino e il mio sguardo viene catturato dall’open bar. Ordino una grappa, cosa che ho sempre voluto assaggiare. Infondo non sai mai cosa può accadere quindi perché sprecare occasioni? La mia gola si infiamma dove che mando giù il potente digestivo, quindi ne prendo un’altra. Tanto vale esagerare dato che è una delle mie più uniche che rare uscite.

Passano alcuni minuti e inizio a sentire quel confortevole intorpidimento dell’alcol. Mia madre mi sopraggiunge, sorridente, è bellissima e diversissima da me. Vorrei poter essere felice come lei. Mi dice di andare a ballare con lei, io sorrido, le dico di no e la guardo, appoggiato ad un palo di legno.

Si diverte con mio padre e con mia zia, ballano come se fossero ancora giovani, ballano come se avessero la mia età. Forse i ruoli si sono, per uno strano caso del destino, invertiti e sono io il genitore preoccupato che dirà loro di tornare presto a casa.

Passano un paio di canzoni, sono ancora leggermente imbambolato. E terribilmente stanco. Saluto mio pro-cugino e rinnovo gli auguri, poi saluto i miei genitori.

Dico loro grazie, dico loro che sono stanco e che li voglio bene e che andrò a riposarmi, finalmente. Sono stanco, già.

Nel tragitto verso casa, sulla mia Lambretta, un recente regalo eccezionale di papà per tirarmi sù di morale, mi capita di ascoltare “Wish you were here” e torno a riflettere. A chi mi manca di più, a chi vorrei in questo momento. Penso a nonno Matteo, a Marta, al mio (ex) amico Federico, anche a quei coglioni che mi prendono in giro. Perché, io vi dico, che tutti sono meglio di nessuno, e che qualsiasi compagnia è migliore della solitudine. 

Sono arrivato a casa, entro in cucina e faccio un sorso d’acqua dalla bottiglia. 

Apro il cassetto e trovo il coltello. 

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Capitolo 6
*** Lei ***


Le prime luci del mattino mi arrivarono dritte negli occhi non appena entrai in quella specie di galleria-tubo che mi porterà all’aereo. Guardo l’orologio: sono le 7.42 ed è un martedì mattina, un martedì di metà settembre.

Era una domenica quando tutto cambiò, una calda ma non afosa domenica di inizio agosto, era una domenica perfetta, era il giorno perfetto ed io ero a Glasgow, la città che mi ospitava da un paio di settimane, a quel tempo. Ero lì per un corso di inglese, mi avrebbe aiutato anche per un possibile e futuro Erasmus, dato che di lì a poco avrei cominciato ingegneria alla Federico II. Quel corso mi ha aiutato con l’inglese e quelle tre settimane sono state le tre settimane più belle della mia vita, perché è stato lì che ho conosciuto lei, perché c’era lei.

La ragazza più bella del mondo, non scherzo. I capelli erano biondi ramati, splendidi occhi smeraldo, profumava dell’erba al mattino presto, quando la rugiada l’ha già inumidita. Era perfetta e lo è ancora. E non capisco perché ha deciso di baciarmi, quella domenica pomeriggio, su quella panchina in quel parco. Il giorno più bello della mia vita, non posso essere nient’altro che ripetitivo, perché quando baciai quelle labbra capii che nessun altra mi avrebbe potuto dare quella sensazione di libertà e di prigionia allo stesso momento, perché quel bacio liberò tutti i miei sentimenti ma strappò anche il mio cuore dal mio petto e lo diede a Anne. Anne è la ragazza di cui stiamo parlando, certo. Ha la mia età e viene da Stoccolma. Ve l’ho già detto che è bellissima? Mi perdo nei suoi ricordi e non vedo l’ora di perdermi di nuovo tra i suoi baci e le sue braccia, perché niente ormai mi può dare una tale felicità. 

Sulla sua bellezza, non si può obiettare nulla, ma magari qualcuno potrebbe avere qualche dubbio sul carattere, perché infondo nessuno crede nella perfezione, beh, questo principalmente perché non hanno potuto conoscere lei. 

Diecimila ragazzi a farle la corte, ma ha deciso di donarsi ad un povero napoletano e, senza saperlo, di cambiargli la vita definitivamente. È gentile, non se la tira, non si “sbatte”. È educata, non è sguaiata, non è volgare. Ha una voce delicata, non troppo acuta come un’oca, non da ragazza qualunque. I suoi occhi sono smeraldo, non verde, non un misto tra verde e marrone. 

Lei è perfetta, non è sbagliata, non è stronza. Lei è la ragione.

In quella settimana con cui passai la maggior parte del mio tempo con lei, imparai e capii la mia fragilità, perché bastava un mancato bacio o un mancato appuntamento per farmi sbiancare e darmi la voglia di andare nel bagno della mia camera a piangere. Perché quando incontri lei, capisci che tutte le stronze e le stronzate che hai fatto sono solo un vago ricordo di un’altra persona.

Quando tornai a Posillipo, la malinconia e il ricordo di lei e me assieme mi torturò. Gennaro o Achille o Andrea, per quanto possano essere i migliori amici che potessi mai desiderare, non capirono, erano disorientati dal nuovo me, come se a tornare fosse un mio sosia, lo stesso bel ragazzo ma con un’animo diverso. 

Inutile dire che non ci provai con nessuna da quando tornai da Glasgow. La colpa non è di Federica, povera ragazza, a cui piacevo (e forse piaccio ancora) o di Martina (una alla quale fui più che felice dire di ‘no’, in quanto un anno prima fu lei a darmi un palo) o di Nadya, tutte belle ragazze. Non avevano nessuna colpa se non quella di non essere lei. 

Mi dispiace per loro, perché non possono capire. Ma spero che capiranno, perché sarebbe da egoisti credere che nessuno possa trovare ciò che ho trovato io.

Mentre mostro la carta d’imbarco e ricevo le indicazioni sul mio posto, accenno un sorriso, ma la mia testa è altrove, immersa in questi pensieri. Mi libererò solo quando sarò atterrato.

Mi siedo al mio posto, accendo le cuffie e sento qualche canzone, per distogliere la mia mente da lei. Come reagirà? Non l’ho avvertita. O meglio, ieri notte le ho mandato un messaggio: “Hei sweetie, tomorrow I’m coming to Stoccolma, hope to see you asap! Miss you so much, but I’m glad tomorrow I’ll stand by you again.”

Non mi ha ancora risposto. 

 

Io amo lei e spero che lei contraccambi. C’è tempo per l’università, per gli amici, per i miei genitori che troveranno questa sorpresa quando si sveglieranno e vedranno il mio letto vuoto. c’è tempo per il resto della vita, perché lei è la ragione per la quale sto partendo per Stoccolma.

Lei è la mia lei.

Sto venendo, perché ti sto aspettando da tutta la vita. 

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Capitolo 7
*** Le onde ***


I nostri sogni sono onde contro scogli. Sono inutili, non portano a nulla.

I nostri sogni sono onde contro scogli. Perché gli scogli sono appuntiti, grossi, imponenti, ci fermano, ci bloccano, ci impediscono di vivere. Sono insuperabili. E le onde battono sulla roccia dura, fredda, crudele: il mondo reale.

Ma per quanto gli scogli siano alti, appuntiti o grossi, nessuna ha mai visto un’onda morire, nessuno ha mai visto un’onda che non si vada a scontrarsi di nuovo contro la roccia dura. Le onde non si fanno male, per quanto gli scogli possano essere taglienti, sono sempre vive e mai possono essere soppresse. 

E piano, lentamente, magari con un vento un po’ più forte e il tempo dalla propria parte, le onde consumano anche gli scogli, che cambiano forme, si rimpiccioliscono e poi svaniscono.

Nessuno può fermare le onde, né può impedire che ogni giorno sbattano senza pausa contro quel muro.

Nessuno può fermare i nostri sogni.

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Capitolo 8
*** Gladiatori ***


Mentre rientro nell’Accademia, con ancora un fazzoletto premuto con forza sulla narice destra, ho un solo pensiero. Io devo uccidere quel coglione di Daniele. Gli devo tirare un bel cazzotto dritto tra i denti. Non sul naso. Non come ha fatto lui, questo coglione.

I pensieri affollano la mia mente, troppo occupata da essi per accorgersi del cambio di temperatura sbalorditiva in quel freddo giorno di fine ottobre. La discoteca è stracolma proprio come trenta (o forse erano quaranta? Ho perso la cognizione del tempo) minuti fa, quando Daniele, affiancato dai suoi tipici amichetti del cazzo, che si credono dei scesi in terra, me ne ha tirato un destro. Perchè? Già, questo me lo chiedo anche io. Daniele è uno stronzo e così lo sono quei suoi amici idioti: Giovanni, Michele, Francesco, Tommaso e, poi, ovviamente Lui. La più grande testa di cazzo di tutto l’Umberto, Ettore Marconi. Non mi sono simpatici, per niente. Sono stronzi con gli altri ragazzi, reputano chiunque non sia del loro gruppo uno sfigato, ma soprattutto lo sono con le ragazze. Ettore l’anno scorso fu fidanzato con quella che allora era la mia ex e ora è la mia attuale fidanzata, Flavia. Lui l’ha scopata per un po’, poi è partito per la sua vacanza nel Regno Unito e quando è tornato ha avuto la bella sorpresa di scoprire che anche io c’ero uscito. A testimonianza del fatto che sono più bello e che me la tiro molto meno e che non sono stronzo come lui. Ettore poi si è fatto quella troia di Chiara, che è un po’ la cannetta del sabato sera a piazza Bellini: se la fanno tutti. Lui ora sta ancora con Federica, credo.

Comunque per qualche assurdo motivo e per qualche bicchiere di quella pisciazza color rossa, comunemente chiamata “vodka redbull e fragola” da froci, mi ha preso alla sprovvista, in mezzo alla folla mentre ballavamo, e mi ha colpito forte. All’inizio non me n’ero capacitato, andava tutto al rallentatore. Credo sia questo l’effetto di quella cosa che chiamano adrenalina. Se non mi sbaglio, praticamente ti fa essere reattivo anche sotto stress, pompa più sangue più velocemente, forse. Preso il pugno, sono inevitabilmente caduto a terra (anche colpa dell’eccessivo alcol, probabilmente) scatenando l’ilarità di Daniele, Ettore e Michele e di quegli altri quattro loro scagnozzi senza personalità. Mi sono alzato e sono andato di forza verso Daniele ma Vincenzo mi ha fermato e così ha fatto anche Mario. Cazzo quanto li voglio bene, sono i miei migliori amici, ma li  dovevano lasciarmi andare. Loro sono anche messi bene fisicamente, li avremmo distrutti. 

Eccomi dentro, mi guardo attorno, in cerca del mio nemico. Affianco a me ci sono Vincenzo e Mario, stanno parlando, forse con me, ma non li ascolto. Mi conoscono benissimo, sanno che sono infuriato. 

-Prendiamoci qualcosa, Marco- dice Vincenzo tirandomi la spalla in modo che mi giri verso di lui per guardarlo negli occhi. Lo vedo un po’ preoccupato: non siamo tipi che fanno a botte, di solito andiamo a ballare, ci divertiamo, ci portiamo qualche ragazza e poi a casa. È la prima volta. 

-Buona idea, offro io. Ho il cinquantone di Papi stasera- aggiunge Mario, fingendo un sorriso per calmarmi. 

Non dico niente, annuisco, non ho voglia di parlare. Di bere forse sì.

Ci avviciniamo al bancone, c’è una fila enorme. Sono tutti ragazzi, quasi tutti più piccoli di noi. Riconosco Genny, Tony e il resto del loro gruppo, dei ragazzi del ’97. Parlano tra loro nell’orecchio, ci guardano. Tutti intorno al bar fanno lo stesso. Ci fanno andare avanti, qualcuno mi dà una pacca sulla spalla di incoraggiamento o di supporto. Non mi giro, non ho voglia di ringraziare o di parlare o di sorridere. A quanto pare la voce è circolata già in tutta l’Hdemia. Probabilmente mi seguiranno con lo sguardo per vedere cosa farò. 

Intanto Mario ordina tre Long Island e paga. In cinque minuti, sono col bicchiere in mano, già mezzo vuoto. La musica sembra essere “estesa” quando sono brillo. Non so spiegare bene la sensazione, ma è come se fossi immerso in quella musica. Delle ragazze ci salutano, forse sono toste, ma non dico niente, Vincenzo, il solito marpione, scambia due chiacchiere e probabilmente spiega che “stasera non è serata”. 

I miei occhi vagano per il loro locale, cerco il doppio taglio nero inconfondibilmente tagliato dai fratelli Testa. I miei due amici mi guardano, siamo appoggiati al muro, dalla porta opposta dei tavoli. Spero che Daniele ed Ettore e gli altri non si siano presi un tavolo, o la cosa si sarebbe complicata. 

Una persona cattura la mia attenzione, accenno ad un sorriso perché so che troverò presto il mio nemico. Federica cammina assieme a Claudia. Sono rispettivamente le fidanzate attuali di Ettore e dell’altro coglione. Il fatto curioso è che Claudia è stata una mia ex-ragazza. Forse ragazza però non è il termine appropriato: le piacevo follemente e siamo usciti con lei per qualche sera, poco prima che si mettesse con Daniele.

Sempre nel mio meditativo silenzio, comincio a camminare tenendo a debita distanza le due ragazze che sicuramente sono state informate della piccola imboscata ai miei danni.

Claudia aveva un vestitino nero, non scollato, davanti praticamente a coprire quasi tutto, mentre dietro si apre e lascia vedere un po’ di schiena. È un vestito di un materiale simile al pizzo, un po’ trasparente. Si intravedono le forme dei seni, abbondanti per una ragazza così snella. Sento qualcosa.

Intanto i miei amici mi seguono, sono preoccupati, ne sono sicuro. Mentre camminiamo, la gente praticamente si apre al nostro passaggio. Finalmente, per mia felicità, constato che le due ragazze si dirigono effettivamente verso i loro fidanzati che, per mia sfortuna, sono seduti ad un tavolo e bevono i loro cocktail da rotti in culo. Un’idea squarcia la mia mente e accelero il passo, perché non posso farmi sfuggire l’occasione.

-Claudia!- grido. La mia voce sembra a me e ai miei due amici uno strano strano giocattolo della nostra infanzia che ritroviamo dopo tanto tempo, quasi dimenticato. Lei non mi sente, o forse non vuole sentirmi, accelero ancora il passo e sbraccio passando alla gente che c’era tra me e le due ragazze.

-Claudia!

Lei finalmente si gira. Non mi mostra più i bei capelli castani ramati e la sua schiena e il suo bel culo, ora ce l’ho di faccia, ad un paio di metri. Per quanto sia quasi ubriaco, riesco a leggere la sua espressione e a capire che non è preoccupata. È semplicemente spiazzata, sorpresa, incredula. 

-Ehm, ciao Marco!-, eravamo rimasti in buoni rapporti seppur la reciproca inimicizia tra me e il suo ragazzo. Accenna ad un sorriso, forse un po’ forzato. -Senti ora sto andando da Daniele... ah... ho sentito... beh, quello che è successo tra di voi, mi dispiace, spero chiarirete, ora provo ad andargli a parlare anche di questo, ha fatto lo stronzo, poteva evitarselo...

La guardo, prendo qualche secondo. Lei non si gira, aspetta una mia risposta, quindi tutto è pronto, perfetto, cotto al punto giusto, proprio come lei è ancora cotta di me.

-Già è stato un coglione...-, Claudia sta per replicare forse per darmi ragione e per calmarmi, ma io continuo, -Stai andando da lui? Così hai detto, giusto?

-Sì.

-Allora vieni qui, voglio dirti una cosa, un messaggio per lui, per dimostrare che non ho affatto voglia di fare a mazzate con lui.

Claudia, nuovamente presa in contropiede, si avvicina lentamente, fa per porgere l’orecchio, per capire bene il messaggio che ho per il suo fidanzato, Daniele.

“È ora, vaffanculo Daniele Barone.”, ecco quello che penso. E ora ecco quello che faccio.

Prendo la sua mano, è delicata, liscia, usa ancora quelle lozioni super costose per rendere la sua pelle così morbida, vellutata, eccitante. Con l’altra mano le sposto la testa, siamo faccia a faccia e lei non dice nulla,  non capisce.

La bacio, prima per un istante: mi aspetto che lei si stacchi subito, e invece, a quanto pare, è ancora più cotta di quanto pensassi. Rimani per qualche seconda in più, sento la lingua per pochissimo, poi ci stacchiamo.

Lei è senza parole, Federica ha la bocca spalancata, Vincenzo beve nervosamente il suo Long Island con gli occhi sgranati, Mario ride come un dannato e io sorrido. E tutto è perfetto.

In cinque minuti, si scatena il casino. Il gruppetto si alza dal tavolo, sta venendo verso di noi. Ho ancora un ultimo sorso di drink, quindi lo finisco. So che devo avere bisogno di una scusante il giorno dopo per quello che ho fatto e per quello che farò. 

Daniele è infuriato. Sono sei in tutto. Noi siamo tre. Ci sono ancora diverse persone che ci separano: vengono sbalanzate dai coglioni infuriati, veramente, giuro, infuriati!

“Bene”.

Daniele prepara il pugno, il suo destro, quel freddo punto che ho conosciuto un’oretta prima. Lo guardo, sono anche io pronto.

Ecco che siamo alla giusta distanza, Daniele sta per tirarmelo di nuovo, Ettore e gli altri lo seguiranno, io alzerò subito anche i miei pugni.

E poi. Beh. I miei migliori amici sono i miei fratelli (non di sangue ma di cuore). Ve l’ho detto.

Vincenzo atterra Daniele proprio mentre stava per alzare il pugno per colpirmi. Mario scatta e prima da uno spintone fortissimo a Francesco che cade, trascinando con sé Giovanni, e poi passa a Tommaso, atterrandolo con il suo sinistro. Grazie a Dio è un maniaco della palestra.

Vincenzo nel frattempo si occupa di Michele, tutto sembra così facile. Daniele nel frattempo si tiene ancora il labbro, Vincenzo gliel’avrà dato fortissimo. Ettore è indeciso e io lo colpisco. Tutti e sei sono ora doloranti, chi ora si sta rialzando, chi invece si tiene lo stomaco o il naso o il mento dolorante. 

Tutti ci guardano e i buttafuori, ovviamente, corrono verso di noi. La musica intanto continua al massimo volume e noi usciamo da vincitore dall’Accademia, c’è chi ci guarda storto (saranno filo-Danielesi), chi invece ci sorride. 

I bodyguards dopo qualche stronzata ci lasciano andare. Questa volta la felicità mi permette di accorgermi della temperatura artica al di fuori della discoteca. Salgo sul motorino di Vincenzo, Mario intanto prende la sua Vespetta.

E ora, si ritorna a casa.

I gladiatori.

 

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Capitolo 9
*** La ragazza del mio migliore amico ***


Ogni volta che guardo Maria, la ragazza della quale Marco è sempre stato innamorato (o quasi, dato che me ne parlava ininterrottamente dalla terza media, cioè da ben cinque anni), e che finalmente aveva ceduto alle sue avance, e si erano messi assieme lo scorso novembre, non posso fare a meno di pensare al bacio che ci siamo dati. Ai baci che ci siamo dati. E a quella notte. E a quella seconda notte.

Ogni volta che guardo Maria e ripenso a quella notte di inizio ottobre, non posso nemmeno fare a meno di sentirmi profondamente in colpa, per Marco. Mio fratello dalle elementari: ne avevamo passate, ne passiamo ancora di tutte i colori. Eppure? L’ho pugnalato, l’ho tradito. Sì, l’ho fatto.

Mentre mangiamo in questo pub a Vanvitelli, non posso ancora nemmeno crederci di averlo fatto. Non mi ero mai considerato uno stronzo, prima di quella di notte di inizio ottobre. Non era da me... o forse sì? La verità è che Maria, a quei tempi, non usciva ancora con Marco, ma con Daniele Lana, uno che sta al secondo dell’università, e che veniva nella nostra stessa scuola; Marco in quella notte di inizio ottobre era sicuramente già e ancora innamorato di Maria. Teoricamente, avevo tradito anche Daniele, un tizio simpatico, forse un po’ troppo perennemente ubriaco nei sabati sera, e sicuramente non la migliore offerta per Maria. 

Non era stata la prima volta che uscivo con una fidanzata. Uso il termine fidanzata perché stavano effettivamente assieme da quanto?, due, forse tre anni. E io? In quel periodo mi vedevo con Gemma: non so se il nome è tanto arrapante all’ascolto per me quanto per voi, ma vi giuro, vi giuro che alla vista lo è, arrapante. Gemma non è straordinariamente bella, ma molto carina, con un grande culo, ha due anni in più di me, e la nostra relazione era leggermente libertina, ma a me non fregava se le persone che sapevano di noi si potessero contare con le dita di una mano. Ve lo ripeto: con quel culo, quel corpo ben fatto, aggiungo anche quel sorriso, oppure potreste pensare che io sia uno stronzo misogino antiromantico, ve la sareste fatta ogni notte. E infatti così succedeva in quei due mesi: me la faceva quasi sempre. Quasi dimenticavo: è bionda; io impazzisco sempre per le bionde. Ma Gemma non è il punto di questa storia, no; magari di lei vi racconterò un’altra volta.

Maria non è bionda, è carina, viene in classe con me al Sannazaro, è abbastanza intelligente, è simpatica, ogni tanto fa battute provocanti ma mai scade nella volgarità, e questo è stato sicuramente un punto a suo grande favore. Uscire con Vittorio Martone sicuramente le sarà piaciuto, come, in fondo, era piaciuto a Gemma e a tante altre in quel periodo, e prima di quel periodo, e dopo quel periodo, e ancora ora, a marzo 2015, a oltre cinque?, sì, cinque mesi da quella notte di ottobre, quando le sue labbra si avvicinarono un po’ troppo alle mie.

Come era successo? Perché lo avevo fatto accadere?

“Sei il migliore con le parole, te ne rendo atto”, Elia, un altro mio migliore amico, me lo dice sempre e me lo diceva sempre anche prima di quella notte. Ero stato io a convincerla: ci avevo provato? Sì. Alto tradimento verso Mario, allora. Sì.

Maria parla bene il francese, io pure. Catalizzati da un paio di bicchieri di vino bianco e uno o forse due cocktail ai baretti, abbiamo cominciato a parlare in francese. Era stata la prima volta che ci provavo in una lingua diversa dall’italiano, il che fu interessante. O meglio, era stata la prima volta che ci provavo con un’italiana in una lingua diversa dall’italiano. Ma non è questo il punto: cominciamo a parlare, e sì, una cosa tira l’altra, finiamo sul discorso della nostra amicizia. Tante risate, nulla di serio, quindi totalmente leggero e non imbarazzante. In effetti, io e Maria in quel periodo eravamo BFF come dice qualche ragazzina o qualche coglione senza palle, e ci dicevamo tutto. 

-Puoi anche fare quello che vuoi, a me- aveva detto in quella maledetta sera di inizio ottobre. Eravamo seduti fuori ad un baretto, tantissima gente attorno, troppa per farci notare, anche dallo stesso Mario che era a pochi metri di distanza a parlare con altri nostri amici e amiche. Quella sera eravamo andati a mangiare tutti assieme: il nostro gruppo era uno dei più popolari della scuola e uno, in generale, molto conosciuto tra i ragazzi della nostra età in giro per Napoli; c’erano belle ragazze e bei ragazzi, di conseguenza eravamo riconosciuti, e lo siamo ancora.

-Puoi anche fare quello che vuoi, a me.

Ritorniamo a questa frase, ecco. Perché sono frasi così, frasi così innocentemente eccitanti che ti fanno mandare a fanculo il tuo autocontrollo, il tuo amore fraterno (sottolineo amore, perché io per Marco farei realmente qualsiasi cosa), e ad avventarti su quella ragazza.

Maria è bassina, non un tappo, ovviamente non è grassa ma ha un culo un po’ grande, e per questo attirava le attenzioni di tanti ragazzi. Quella sera, dopo quelle parole, aveva già un nome marchiato addosso, Vittorio Martone, il mio di nome. 

Le dissi se potevo quindi anche baciarla, dato che eravamo BFFs, lei disse di sì, e la baciai. A stampo. Un secondo. Ci facemmo una risata. Poi chiesi di farlo di nuovo e lei disse di sì. Con le mani che coprivano il nostro incontro di bocche, la baciai ancora, con la lingua. Si staccò, si mise a ridere, disse di non farlo con la lingua, ma la terza volta mise anche lei la lingua durante il bacio. 

Un bacio è sempre più appassionato del sesso. O almeno così è stato per me, fino ad ora. Avevo letto la stessa cosa in Donne di Charles Bukowski. Quel bacio fu abbastanza appassionato. 

Accadde un qualcosa di simile anche un mesetto più tardi. Poco prima che si mettesse con Marco. E poi? E poi nulla.

Fortunatamente lei non lo disse a nessuno, io nemmeno. Ci saremmo portati quel segreto nella tomba, o nel letto, magari.

A distanza di cinque mesi, eccoci lì, lei felicemente abbracciata a Marco, e io, in fondo, sono molto contento per lui. Maria non mi piace abbastanza da rovinare una così grande amicizia. Non lo farei mai. 

Rido e scherzo con lei, sembra che quella notte per lei non ci sia mai stata. O forse, ci pensa spesso anche lei, ma non lo dà a mostrare? 

Non lo so, ma un brivido mi raggela dopo aver pensato un pensiero che non avrei dovuto mai pensare: per un attimo, un istante, un nanosecondo, penso non solo a quel bacio con Maria, ma al fatto che vorrei baciarla di nuovo, stasera stessa.

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