Sing for Me

di Har Le Queen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Ben ritrovate n_n sono tornata con una reituki/aoiha ♥ la reituki sarà il pairing principale, mentre la aoiha sarà trattata in modo più marginale, non è che possono sempre rubare tutto lo spazio >_> doveva essere solo una reituki questa! Comunque, questa ff tratterà di un argomento un po’ particolare, potrà anche non essere di vostro gradimento e lo accetto, ma come dico sempre: le mie storie sono già scritte lì da qualche parte nell’etere, io devo solo leggerle e trascriverle. Dovevo scrivere questa storia, è rimasta ferma per un anno intero e finalmente ha visto una degna fine. Il romanticismo mi è, pian piano, scappato di mano e tutto si è trasformato in una enorme fluff .w. buon per noi, ogni tanto piogge di cuori e arcobaleni non fanno male. Chi ha letto In Blossom forse non mi riconoscerà neanche nello stile, Sing for me vuole essere una ff semplice, delicata, introspettiva e quotidiana.

Mi scuso con tutti coloro che potrebbero sentirsi ‘offesi’ o ‘urtati’ da questo argomento.

I capitoli sono tutti, ovviamente, già scritti

Le parti in grassetto sono in JSL (Japanese Sign Language), cioè il Linguaggio dei Segni Giapponese…avete già capito, vero? In realtà la situazione del personaggio in questione (non voglio svelare nulla) è molto più complicata di come l’ho descritta io in questa ff, me ne rendo conto, leggere così facilmente il labiale non è affatto un dato ‘realistico’…ma il bello delle ff è anche sognare e realizzare l’impossibile ♥

Non mi resta che augurarvi buona lettura e sperare di farvi sognare o, almeno, farvi passare qualche minuto di relax libero dall’ansia e dallo stress *^*

Spero di sentirvi presto, ciao ciao ♥

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Sing for me

 

Mi sono sempre chiesto che suono faccia il vento quando agita le foglie degli alberi. Se quello di un cane che abbaia rincorrendo un gatto sia tanto fastidioso quanto dicono, o che suono abbia la mia voce. Mio fratello dice sempre che è un suono caldo come i raggi del sole e che se potessi mangiarlo sarebbe come il gelato al cioccolato: un gusto fresco, ma deciso e intenso. Io non ci credo, ho paura che nonostante tutti i miei sforzi per nasconderlo sarà sempre dolorosamente ovvio che c’è qualcosa di strano.

È successo quando avevo sei anni, come tutti i bambini sono stato a letto con una di quelle malattie che servono solo a riempirti la faccia di bollicine, solo che è peggiorata così tanto da far sprofondare il mio mondo nel silenzio; da allora non ho più sentito niente, potrei piazzarmi ad un millimetro dalla fonte di rumore più forte del mondo e non sentire neanche un ronzio. Così ho imparato a riempire il vuoto che mi circondava, ad osservare attentamente le espressioni delle persone per capire se sono arrabbiate, tristi o felici, a seguire ciò che dicono le labbra con la massima attenzione e ho imparato a comunicare con le mie mani; non lo faccio sempre, solo a mio fratello e alle persone a me più care permetto di vivere la mia diversità, per il resto del mondo io sono solo un normalissimo ragazzo di vent’anni che non vede l’ora di spaccare il mondo e fare un bel botto. 

Devo davvero tanto a mio fratello, senza di lui non sarei cresciuto così pieno di vita e spensierato; lui ha sempre cercato di riempire il vuoto lasciato dai suoni che non sento perché anch’io so che il mondo ne è pieno, mi ha detto che alcuni sono bellissimi come lo scrosciare dell’acqua nei giorni di pioggia e altri meno come le urla dei vicini quando litigano per ore. Così il borbottio della caffettiera è diventato il solletico sulla pancia, quello del vento le sue carezze leggere sulla pelle, quello degli uccellini che rompono alle sei di mattina i suoi pizzicotti. 

Ma c’è una cosa che non riuscirà mai a spiegarmi, non importa quanto ci provi, so che non riuscirò mai a provare le sensazioni che regala la musica. 

 

 

Akira era ancora avvolto tra le lenzuola quando sentì un fastidio insistente sul braccio che sembrava non volersi arrendere tanto presto. «Mhm...» di solito, però, quando mugugnava in quel modo il mondo ritornava alla sua solita pace; quella volta, invece, diventò più assillante e così fu costretto ad aprire un occhio per scorgere la figura offuscata di Yuu, stava gesticolando cercando di dirgli qualcosa, ma non era ancora abbastanza lucido da capirlo. Si stropicciò gli occhi mettendo a fuoco ciò che vedeva. 

Muoviti o farai tardi, sto facendo il caffè.

Che ore sono?

Le sette.

Tentò di rispondergli ma lasciò cadere il braccio sul letto con l’intenzione di ritornare a dormire, ma il cuscino che gli precipitò in faccia lo fece svegliare del tutto; Yuu era sempre il solito e non mancava mai di prenderlo in giro, o stuzzicarlo quel tanto che bastava per risvegliare il suo carattere gioviale, e di solito era un vulcano in eruzione, solo che alle sette di mattina non ci si poteva certo aspettare un miracolo. Con uno slancio si buttò giù dal letto in tempo per vedere la figura di suo fratello allontanarsi, dopo la solita tappa in bagno lo raggiunse in cucina richiamato dal profumo del caffè. Ogni volta che sentiva quel profumo gli veniva in mente il solletico che Yuu gli faceva sulla pancia, per farlo svegliare diceva lui, ma non gli aveva mai creduto; provava solo un gusto sadico nel torturarlo, ne era convinto.

Finalmente!
Sei tu che vai di fretta.

Ah, non tu che sei lento?

No e muoviti a darmi quel caffè! Una tazza fumante gli si posò davanti non appena si accomodò al piccolo tavolo addossato alla parete, vivevano in quella casa da tre anni ormai, esattamente da quando i loro genitori erano partiti per un viaggio da cui non avrebbero più fatto ritorno.

Oggi fino a che ora lavori? Yuu glielo chiese dopo aver richiamato la sua attenzione sventolandogli una mano davanti al viso. 

Le sei.

Io oggi non lavoro alla faccia tua, quindi me ne starò tutto il giorno a far niente. L’affermazione fu accompagnata da un’espressione di beatitudine celestiale, pur di tirare avanti aveva dovuto accontentarsi di un anonimo posto da impiegato che lo costringeva in un grigio completo con giacca e cravatta, così quando aveva un giorno libero era praticamente capodanno.

Grazie tante eh! E un vaffanculo non glielo tolse nessuno.

Yuu sorrise alzandosi per lasciare la sua tazza vuota nel lavandino, cercando di sistemare i suoi ribelli capelli neri, erano cresciuti in fretta e gli arrivavano già alle spalle. Cosa vuoi per cena? con Akira era sempre così, prima lo provocava fingendo di prenderlo in giro e poi faceva qualcosa per dimostrargli quanto in realtà gli volesse bene. Yuu amava profondamente suo fratello, sin dal primo momento che aveva visto quel minuscolo fagotto azzurro aveva avvertito un senso di protezione; a separarli c’erano soltanto due anni, perciò era come se fossero cresciuti tenendosi per mano. Poi era successo. Loro ci scherzavano su dicendo che si erano rotte le casse come in uno stereo difettoso, solo che per quel bambino di sei anni erano i suoni del mondo intero ad essere andati in pezzi. All’inizio Akira aveva paura di tutto quel silenzio, si chiedeva perché fosse diventato così diverso da tutti gli altri bambini e perché quando parlava con le sue mani quelli ridevano; aveva passato mesi a convincerlo che non era lui ad essere sbagliato, ma gli altri che non vedevano quanto fosse bello quando gli raccontava cosa aveva fatto a scuola senza dire una parola. Così di giorno Yuu lo difendeva dai compagni di scuola, assecondava ogni suo desiderio, lo convinceva ad esercitarsi con il suo linguaggio dei segni e di sera gli raccontava una storia usando solo le sue mani e una lampada per proiettarne le ombre sul muro. La sua ombra preferita era la mamma elefante perché era così semplice che riusciva a farla anche lui ma, con le sue piccole manine, riusciva solo a fare il cucciolo.

A volte Yuu si chiedeva se ci sarebbe mai stato qualcuno in grado di amarlo quanto lo amava lui, qualcuno a cui il suo fratellino avrebbe aperto il cuore senza esitazioni ed era un cuore pieno di cose magnifiche; di sicuro sapeva che fino a quel giorno avrebbe vegliato su di lui combattendo con le unghie e con i denti. 

Visto che hai tutto il tempo che vuoi, perché non mi prepari il sushi?

Ah, ti sei dato allo sfruttamento! Va bene avere tempo libero, ma non aveva messo in conto di passarlo tutto in cucina. 

Sei tu che ti sei proposto! Akira cercò di sfoderare il suo sguardo più dolce per convincerlo a preparare il suo piatto preferito.

Quella faccia non ti è mai venuta bene con me.

Oh dai!

Va bene ok, sushi! Non gli ci voleva poi molto ad arrendersi quando si trattava di lui.

Mi vado a vestire. Akira si alzò pimpante, sottolineando la sua vittoria con un sorriso, gli si avvicinò per ringraziarlo ma stavolta però non fu per il solito bacio sulla guancia: prese tra le dita il bordo della maglietta leggera che indossava suo fratello e la tirò su con forza fino a coprirgli la testa. Scoppiò a ridere sonoramente nello stesso istante in cui lasciò la presa.

Yuu si liberò subito dalla trappola inaspettata. Il sushi te lo scordi stronzo! Inizia a correre o sei morto!

Akira scappò in bagno più veloce che poté lasciando Yuu in cucina a brandire il piatto che minacciava di lanciargli, adorava giocare con lui in questo modo, con lui era così facile dimenticare che gli mancasse qualcosa e che fosse così diverso da tutti gli altri; con lui poteva essere se stesso e non preoccuparsi degli sguardi curiosi della gente che fissava le sue mani mentre si muovevano per  comporre i suoi pensieri. Perché lui non poteva esprimerli liberamente come facevano loro? Loro usavano la voce perché potevano sentirla e non rischiare di urlare troppo, mentre lui usava le sue mani, cosa c’era di tanto sbagliato? Mettendo da parte questi pensieri si infilò sotto la doccia godendo di quei pochi minuti di pace prima che il suo inferno personale avesse inizio. Suo fratello diceva che il rumore della doccia assomigliava a quello della pioggia, quindi era come le sue dita che sembravano suonare il pianoforte sulla sua schiena. S’insaponò velocemente non accorgendosi prima che, nel frattempo, Yuu era entrato in bagno e si era accomodato proprio accanto alla doccia. «Aiuto! Non voglio morire così giovane!» non credeva di urlato troppo, non gli piaceva parlare e farlo era sempre una sofferenza, ma vi fu costretto perché l’altro non avrebbe potuto vedere ciò che aveva da dirgli. Il dito medio di Yuu non tardò ad incollarsi al vetro scatenando le loro risate. «Mi passi lo shampoo? L’ho dimenticato.» anche quello arrivò immediatamente e Yuu ritornò al suo posto, rimase fermo per un po’ finché non posò il suo palmo contro il vetro opaco; la mano di Akira andò a posarsi in corrispondenza di quella in attesa rimanendo così per secondi che parvero anni. Yuu lo faceva sempre ed era il suo modo di dirgli che per lui ci sarebbe sempre stato, che anche attraverso un vetro appannato poteva infondergli la sua forza per affrontare il mondo. Come siamo sentimentali stamattina. Akira non si era lasciato scappare l’occasione di prenderlo in giro non appena aveva aperto il box doccia e lo aveva visto poggiato contro il lavandino.

Di tutta risposta il moro gli lanciò addosso l’accappatoio. Copriti. Sei scandaloso.

Sei solo geloso!

Senza troppa attenzione Akira compì le azioni che lo avrebbero portato fuori dalla porta di casa vestito di tutto punto, dopo anni riusciva immediatamente a distinguere una pessima giornata e, quando cominciava a ricercare con troppa attenzione i suoni che lo circondavano, voleva dire che il punto di rottura era vicino; avrebbe avuto una delle sue solite crisi di rifiuto nonostante fossero passati quattordici anni. Non importava quello che tutti continuavano a dirgli, non era facile accettare di dover passare tutta una vita nel più completo silenzio. E ogni anno diventava sempre più difficile perché c’erano sempre più cose che avrebbe voluto ascoltare: una canzone su uno di quei canali di musica che Yuu guardava mentre cucinava, la suoneria di un cellulare, i dialoghi dei film che era costretto a guardare con i sottotitoli. Il mondo andava avanti e cresceva con i suoi suoni, mentre lui restava indietro senza conoscere neanche la sua stessa voce.

Yuu lo salutò con le solite raccomandazioni strappandolo dai suoi pensieri ed Akira percorse la solita strada per arrivare a lavoro, allo studio aveva sempre preferito lavorare e si era accontentato di qualsiasi mansione quando, nei mesi estivi, lavorava per racimolare qualche soldo e comprare ciò che desiderava e che i suoi non potevano permettersi; era stato allora che aveva conosciuto Komui lavorando nel suo negozio di animali, aveva dichiarato il fallimento dopo due anni di attività e, visto che suo fratello lavorava per una famosa casa discografica, ora si ritrovava a portare il caffè a gente famosa che per lui valeva meno di niente. Era una bella legge del paradosso per un sordo lavorare in un luogo in cui non si faceva altro che musica, se Komui fosse stato a conoscenza del suo piccolo segreto non lo avrebbe mai mandato lì, ma la paga era buona e con i mesi si era conquistato la fama dello stronzo di turno troppo preso da se stesso per rispondere a chi osava chiamarlo per i corridoi come un cane da riporto. Meglio fargli credere questa stronzata che ammettere la verità, lo avrebbero trattato tutti diversamente, compatendolo come se fosse stata colpa loro. Se combinava qualche guaio in preda alla fretta di preparare un caffè dopo l’altro, voleva essere sgridato come chiunque altro. 

Fu in divisa con dieci minuti di ritardo, ma il capo non disse nulla limitandosi a lanciargli un’occhiata bonaria, era stato giovane anche lui e riconosceva il volto di chi aveva passato la notte a giocare alla play station cercando di battere un fratello troppo saccente. Ci aveva guadagnato una settimana di schiavitù, anche se ora che ci pensava non ne aveva approfittato quanto avrebbe potuto. «Akira, pronto?» la giornata aveva inizio, era il momento di lasciare i pensieri in un angolo e concentrarsi su ciò che gli dicevano.

«Prontissimo!»
«Allora comincia con le consegne.»

Il ragazzo si avvicinò al piccolo carrello pieno di bicchieri da consegnare, due volte a settimana se ne occupava lui e, puntualmente, rientrava a casa con un mal di testa di quelli così forti per cui l’unica soluzione era immergersi nel buio più assoluto e lui odiava il buio perché i suoi occhi erano le sue orecchie ed era già abbastanza avere un solo senso fuori uso. Diventava davvero difficile riuscire a leggere le labbra quando era circondato da una miriade di persone che parlavano contemporaneamente, sembrava di seguire una partita di tennis con migliaia di giocatori. Forse avrebbe dovuto arrendersi e rivelare il suo segreto, a volte era così frustrante, ma poi gli tornavano in mente quegli inutili sguardi impietositi e si convinceva di dover continuare a tenere duro.

Cominciò dal primo piano dove i dirigenti si riunivano per prendere le loro importanti decisioni, poi fu la volta dei gruppi del secondo e terzo piano e, dopo più di un’ora, arrivò il momento di raggiungere i piani alti e consegnare l’ultimo caffè ad un certo Ruki. Hoshi, il suo capo, si era raccomandato tanto che fosse ben caldo, leggermente zuccherato e macchiato al punto giusto, diceva che questo Ruki era un cantante bravissimo di come ce n’erano pochi in Giappone, ma era esigente e perfezionista. Che tradotto voleva dire solo che era un grandissimo stronzo. 

Quando fu davanti alla porta si decise a bussare, era inutile per lui attendere una risposta perciò abbassò la maniglia ed entrò, le opzioni davanti a lui erano due: che qualcuno gli avesse effettivamente detto di entrare, o sorbirsi l’ennesima ramanzina sulla privacy e l’educazione. Neanche stesse portando un caffè al presidente degli Stati Uniti. Per sua grande fortuna la stanza si rivelò essere vuota, così avanzò fino alla scrivania dove avrebbe preparato ciò che doveva, gli avrebbe lasciato tutto lì e tanti cari saluti alla superstar isterica; si mise subito d’impegno per seguire alla lettera le istruzioni che gli erano state date, ma la sua schiena era rivolta alla porta e non si accorse quando questa si chiuse con un tonfo. 

«Chi ti ha detto di entrare!?» ma, ovviamente, Akira continuò ad occuparsi della sua mansione come se nulla fosse. «Hei, tu!» non ci fu alcuna risposta. «Cos’è?Sei sordo per caso?!»

Akira si sentì strattonare all’improvviso e con una tale forza da non riuscire a salvare il caffè che gli si versò addosso e andò a sporcare il pavimento, i suoi occhi si posarono sulla figura di un ragazzo magrissimo e non troppo alto, dai capelli biondi nascosti da un orribile cappello, il viso quasi oscurato completamente da un paio di giganteschi occhiali da sole. Se quello scriciolo era il Ruki che tutti tanto adulavano, dovevano proprio essere messi male. «Le ho portato il caffè.» professionalità prima di tutto, ci teneva al suo posto di lavoro.

«Lo vedo. Chi ti ha detto di entrare?»

«La porta era aperta e non c’era nessun cartello fuori che dicesse il contrario.»

«Beh allora muoviti e fallo doppio! Mettici la panna e-» ed ovviamente si era voltato. 

Se c’era una cosa che Akira odiava era proprio quando la gente si voltava impedendogli di leggere le loro parole, questo lo costringeva a chiedere di ripetere e non sempre gli andava bene. «Come ha detto, scusi? Panna e?»

«E cacao. Niente zucchero.» per fortuna la star si era voltata per mostrargli tutto il suo inutile disappunto e questo gli aveva dato l’opportunità di leggere le sue labbra. Che faccia di cazzo. Sembrava una forchetta che stride sul piatto, non che l’avesse mai sentita, ma suo fratello odiava quel suono e ogni volta metteva su una faccia che era tutto un programma.

In silenzio si dedicò al suo lavoro. Doppio, senza zucchero, con panna e cacao, che caffè di merda. Quando fu pronto glielo mise davanti poggiandolo sulla scrivania ingombra di fogli, ma Ruki non lo ringraziò neanche e nascose il suo naso nel bicchiere in polistirolo, erano solo pochi minuti che Akira si trovava in quella stanza e già non vedeva l’ora di mandare a fanculo quel ragazzino troppo viziato e versargli addosso il tè rimasto nel thermos. «Desidera altro?»

«Si, una ciambella al cioccolato.»

«Non ne ho qui con me, ma posso portargliela.»

«D’accordo, vai e non metterci troppo.»

Akira si allontanò chiudendosi la porta alle spalle, magari poteva sputarci sulla ciambella. O magari non ne valeva la pena e non si sarebbe abbassato a tanto. Prima che raggiungesse il piano terra sentì il telefono vibrare due volte per avvisarlo dell’arrivo di un sms, lo recuperò immediatamente incuriosito da chi potesse essere a quell’ora. Yuu.

“Come va la giornata?”

Si affrettò a rispondere prestando attenzione a dove metteva i piedi e, ogni tanto, al display. Beato lui che era a casa a godersi il riposo. “Una merda.”

Cosa è successo?”

“Uno stronzo.” Digitò la sua risposta con una velocità esperta.

Il telefono vibrò di nuovo. “Sarai simpatico tu! Comunque ho una buona notizia: è tornato Yutaka e stasera cena con noi”. Un sorriso illuminò il suo volto non appena lesse quel nome: Yutaka era il suo migliore amico, lo aveva conosciuto ai tempi delle superiori quando era stato costretto a frequentare una scuola per quelli come lui e non si era mai sentito tanto solo seppur circondato da gente che avrebbe dovuto capirlo; un giorno, alla fermata dell’autobus, era stato salvato dalle grinfie di un gruppo di teppistelli, ad aiutarlo era stato un ragazzo dai capelli neri ed un sorriso tanto dolce da scaldare il cuore. Da allora erano diventati inseparabili ed ancora oggi si amavano come fossero fratelli, ma erano anche qualcosa di diverso e il mondo non aveva ancora inventato una parola per descrivere la loro relazione, di certo non gli aveva mai fatto pesare la sua sordità. Akira non fece in tempo a rispondere al messaggio di Yuu che subito ne arrivò un altro. “E levati quel sorriso dalla faccia, sembri un macaco!”

“E tu levati quel grembiulino rosa, sembri un trans!” Non si lasciò scappare l’occasione per controbattere.

Un’altra vibrazione, ma stavolta si trattava di foto di Yuu con addosso un imbarazzante grembiulino rosa con tanto di merletti. “Perché? Non mi sta da Dio?”

Akira non riuscì a trattenersi e non se ne importò di richiamare l’attenzione degli altri quando rise di cuore. Yuu era davvero impossibile quando ci si metteva e riusciva sempre a trovare un modo per rendergli migliore una giornata potenzialmente di merda, ma il sorriso si spense quando posò gli occhi sul carrello delle vivande che spingeva con l’entusiasmo che ci avrebbe messo un bambino che andava dal dentista: la ciambella. Forse avrebbe potuto convincere Yuko a portargliela, doveva convincerla o avrebbe dovuto rivedere quello stronzo e temeva che avrebbe finito col mettergli le mani addosso.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


 

 

Sing for me

 

Finalmente dopo ore infinite la giornata di lavoro stava per giungere al termine, Akira chiuse l’armadietto con uno scatto e si lanciò verso l’uscita augurando a tutti un buon fine settimana; lui l’avrebbe passato nel riposo più assoluto, avrebbe mangiato fino a scoppiare e magari avrebbe anche potuto sfidare Yutaka a battere il suo record al nuovo gioco per la play. Non che fosse facile per lui, era una schiappa, doveva solo ammetterlo. E lui doveva ammettere che non vedeva l’ora di rivederlo, era stato a Narita per una settimana intera piena solo di duro lavoro e una routine sempre troppo scomoda. Decidendo di non pensarci più Akira sospirò, proprio come se quei pensieri fossero stati dei nuvoloni neri e fosse stato sufficiente soffiarci su per allontanarli, affrettò il passo impaziente di arrivare alla fermata della metro più vicina e non si accorse della macchina che era sbucata all’improvviso da una curva troppo stretta. Fece appena in tempo a fare un salto indietro, ma il paraurti colpì ugualmente il suo ginocchio, di sicuro quello stupido al volante ora stava suonando il clacson come un matto lanciandogli insulti di ogni genere. Poco male non poterlo sentire in quel momento.

Quando Akira alzò lo sguardo si ritrovò davanti la star del caffè, nonché colui che aveva cercato di evitare per tutto il giorno: Ruki. Era sceso dalla macchina gesticolando ed urlava così tanto che gli venne quasi da ridere, ai suoi occhi quando le persone facevano così sembravano solo dei matti che cercavano di scacciare mosche fastidiose, avevano delle espressioni così buffe e non se ne accorgevano neanche. 

«Vorresti anche avere ragione? Sei fortunato che non chiami la polizia!» Akira fu costretto a parlare nonostante avrebbe fatto volentieri finta di nulla ed indicò il segnale di divieto di accesso all’angolo della strada. Era un’infrazione da ritiro della patente. «Guarda dove vai la prossima volta!» una cosa era certa: se l’avesse messo sotto avrebbe dovuto pagarlo oro quanto pesava. Lo vide boccheggiare come un pesce rosso in una bolla di vetro e lo lasciò lì, non c’era altro da dire e lui voleva solo tornare a casa il più presto possibile. Il ginocchio gli faceva un po’ male, di sicuro gli sarebbe uscito un bel livido, ma era la giusta conclusione di una giornata cominciata col piede sbagliato.

Dopo pochi minuti si ritrovò all’interno della stazione più vicina, con movimenti fluidi recuperò la tessera magnetica che gli avrebbe permesso di entrare e raggiunse il binario affollato dove sbuffò, inalando e esalando l’aria riscaldata dai condotti di areazione e resa pesante da respiri e odori di tutte le persone che vi transitavano ogni giorno. Si sentiva nervoso, infastidito e non riusciva a togliersi dalla testa quello stupido di poco fa. Lui non capiva, nessuno capiva.

Quell’idiota sarebbe tornato a casa dimenticando quello che era successo e concludendo la sua giornata come se niente fosse, ma per lui equivaleva quasi ad una sconfitta personale perché ce la metteva davvero tutta a colmare la sua mancanza, osservava tutto sempre con maggiore attenzione rispetto agli altri e gli era bastato un solo momento di distrazione per essere quasi investito. E tutto perché lui quella macchina non l’aveva sentita arrivare. Avrebbe potuto evitarla se l’avesse sentita? A volte Yuu gli diceva che capitava anche a chi sentiva di non accorgersi di un rumore, ma questo non bastava a permettergli di mettersi il cuore in pace. Aveva paragonato Ruki ad un pesce rosso in una bolla, ma forse era lui ad esserlo e si sentiva proprio come se osservasse la sua vita da dietro un vetro e l’acqua densa e trasparente avvolgesse le sue orecchie in una carezza soffocante.

Yuu diceva anche che il silenzio ha un rumore, una specie di ronzio che diventa sempre più forte quando cerchi di non ascoltarlo, ma Akira non sapeva neanche cosa fosse un ronzio e, magari, un giorno avrebbe scoperto che nel suo silenzio non c’era posto neanche per quello. 

Quando fu sicuro di essere ben ancorato ad un palo e non cadere alla prima fermata recuperò il telefono che aveva chiuso in una tasca della borsa, avrebbe dovuto avvisare suo fratello; quando la sua mano strinse la plastica del cellulare, le sue dita si attorcigliarono per caso intorno ad un filo. Incuriosito Akira sbirciò nella tasca per scoprire che il filo apparteneva agli auricolari collegati al lettore di Yuu, doveva averlo lasciato lì il giorno prima quando aveva usato la sua borsa.

Per un po’ rimase a fissare quell’oggetto che lo aveva sempre affascinato, sapeva che dentro ci si poteva mettere la musica, ma non concepiva secondo quale legge fisica la musica potesse essere imprigionata in un file elettronico. Forse se avesse saputo cos’era davvero la musica avrebbe potuto capirlo, certo conosceva i principi fisici che si nascondevano dietro alla propagazione e alla ricezione del suono, ma erano sempre rimaste idee astratte per lui, se non addirittura impossibili. Come Babbo Natale o gli gnomi in groppa agli unicorni. 

Portare la musica sempre con sé e poterla ascoltare ovunque, in qualsiasi momento: doveva essere un sogno. E così, più per istinto che reale logica, districò il filo nero e si portò gli auricolari fino alle orecchie dove trovarono uno spazio perfetto in cui incastrarsi; sapeva quanto fosse stupido un gesto del genere, ma così la gente avrebbe pensato che era la musica a distrarlo dal mondo esterno e non la sua totale assenza di suono. Era bello fingere, anche solo per pochi minuti, di essere un normale ragazzo che tornava a casa dopo una lunga giornata di lavoro lasciandosi alleggerire dalle note graffianti di una canzone rock; se avesse potuto sentire era sicuro che il suo genere preferito sarebbe stato il rock perché adorava la cura che ci mettevano nel suonare i loro strumenti, il loro abbigliamento, il significato che sceglievano per i loro testi e la passione che mandava in estasi i loro volti persino nei video che vedeva in tv.

Il suo sguardo si posò su altri ragazzi che, come lui, si erano rifugiati dietro un paio di auricolari e per una frazione di secondo si sentì stupidamente come loro. Sapeva che tutto quello non faceva altro che distruggere tutti gli sforzi fatti in quattordici anni per adattarsi alla sua sordità, ma non riusciva a farne a meno. Doveva essere come gli altri. Doveva. O si sarebbe spinto troppo in là per riuscire a tornare indietro. 

All’improvviso si ricordò del cellulare, stava quasi per dimenticarsene e non aveva nessuna intenzione di sorbirsi una ramanzina senza fine, digitò velocemente il messaggio e tornò a concentrarsi sul mondo intorno a sé, doveva fare attenzione e scendere alla fermata giusta. Per ora, quella era l’unica cosa importante perché poteva fingere quanto voleva, ma tanto lui sapeva che la musica non c’era e non ci sarebbe mai stata.

 

*

 

Quando Akira girò le chiavi nella serratura, la porta si spalancò aprendo la visuale sul salotto illuminato dalla tenue luce artificiale della lampada sul piccolo tavolo all’ingresso. Si era aspettato di vedere Yutaka corrergli incontro come faceva di solito, invece dovette togliersi cappotto e scarpe e lasciare la borsa prima di raggiungere la cucina e trovare quei due impiastri intenti ad arrotolare il riso intorno a sottili strisce di salmone. Gli davano le spalle ed Akira notò che la tv era accesa sul solito canale musicale, il volume doveva essere alle stelle per questo non l’avevano sentito. Per qualche secondo accarezzò l’idea di restare lì, con la spalla contro lo stipite, e vedere quanto ci avrebbero messo ad accorgersi di lui. Ma poi, da bravo stronzo, decise che sarebbe stato molto più divertente farli spaventare.

«E meno male che il sordo sono io!» e come previsto i due idioti balzarono al suono della sua voce, Yutaka si voltò mostrando il suo bellissimo sorriso e gli si avvicinò per abbracciarlo facendo attenzione a non sporcarlo con le mani piene di riso. Quel sorriso valeva sempre più di mille parole. Il suo profumo era sempre lo stesso e la sua euforia contagiosa, riuscì quasi a sentirla sotto la pelle della braccia fino ai polpastrelli quando ricambiò la sua stretta. 

Come stai? Yutaka cercò di ripulirsi come poteva prima di rivolgersi al suo migliore amico.

Bene, tu piuttosto devi raccontarmi tutto. Il motivo principale del suo viaggio era un corso di aggiornamento sulle ultime tecniche di realizzazione dei dolci che tanto amava fare, anche se lui non ne aveva affatto bisogno, il suo era un talento naturale: riusciva a mescolare ciò che provava agli ingredienti, tanto che a volte ti sembrava di mangiare un pezzo del suo sorriso.

Prima ci aiuti con il sushi?

Qualcuno… Sottolineando volontariamente il gesto, Akira fissò suo fratello che nel frattempo si era voltato. Avrebbe dovuto aver già preparato tutto.

E dai, mi sono addormentato!

Che stronzo! Io a sgobbare e tu a dormire! Con un sospiro recuperò un grembiule dal cassetto in alto a destra e si sciacquò le mani sotto l’acqua fredda, non aveva intenzione di ritrovarsi sui vestiti quegli stupidi chicchi appiccicosi. Yuu, da dove comincio? Non gli era mai piaciuto il segno che convenzionalmente avrebbe dovuto usare per l’hiragana Yu, da bambino diceva che assomigliava ad una forchetta, perciò ne aveva inventato uno per lui; gli era sembrata una cosa molto divertente quando aveva sette anni, aveva immaginato di essere una spia dei servizi segreti in missione e quel segno scambiato con suo fratello fosse una sorta di codice che solo loro avrebbero potuto comprendere. Un segreto solo per loro, un linguaggio solo per loro due.

Dal cetriolo che ti piace tanto. Ma poi si chiedeva come aveva fatto a venir su così scemo.

Semmai da quello ci cominci tu e so pure che devi farci. Quando, però, il suddetto ortaggio gli finì in testa non gli restò altro che cominciare a sbucciarlo. Avrebbe dovuto aspettare per parlare con Yutaka, non era l’ideale gesticolare con le mani sporche rischiando di spargere riso ovunque. 

Ma Yutaka sembrò non pensarla come lui e richiamò la sua attenzione con una lieve gomitata. Com’è andata a lavoro?

Come al solito, anche se ho incontrato uno stronzo.

Chi è? Stavolta fu Yuu a parlargli.                        

Non so se lo conoscete, io non avevo mai sentito il suo nome. Si chiama Ruki. I due sbarrarono gli occhi increduli.

Ruki? Ruki il cantante?

Si perché? È davvero famoso?

Si, praticamente ovunque. Era stato Yutaka a dirglielo, ma non fu sorpreso che lui non lo conoscesse, i cantanti non erano di certo tra le sue preoccupazioni maggiori.

Per me è solo uno stronzo. Stasera mi ha anche messo quasi sotto con la sua stupida macchina supercostosa!

Yuu lasciò andare il coltello con cui aveva appena finito di tagliare il cilindro di riso e cominciò ad ispezionarlo ovunque. Ti sei fatto male? Dove? Il braccio? La gamba? Era diventato molto apprensivo con lui ultimamente, eppure quando erano bambini era completamente l’opposto; che si trattasse di un ginocchio sbucciato cadendo dall’altalena o di  un livido ricevuto come testimonianza della lite per il possesso del giocattolo più bello dell’asilo, Yuu aveva sempre fatto finta di niente persino quando correva da lui in lacrime. A distanza di anni capiva che lo aveva fatto per farlo crescere, ma sembrava che ora stesse recuperando tutti gli anni persi a non preoccuparsi. 

Non è niente, ho sbattuto solo il ginocchio, ma mi sono spostato in tempo.

Devi fare attenzione Akira.

Non è mica colpa mia! E non capiva proprio perché avrebbe dovuto esserla. Era lui a guidare contromano!

Poi mettici qualcosa sul ginocchio.

Si mamma!

Scemo! Yuu gli diede una piccola spinta non troppo energica, stava sorridendo, non era più preoccupato. 

Aki. Il suo migliore amico richiamò nuovamente l’attenzione del coetaneo. È così bello anche dal vivo?

Chi?

Come chi? Ruki.

A me non è sembrato un granché. È basso e praticamente è un manico di scopa.

Un giorno di questi posso sostituirti a lavoro? A me è sempre piaciuto e poi è bravissimo!

Lo ha detto anche il mio capo. Akira annuì per andare, subito dopo, a lavarsi le mani. Non aveva più voglia di preparare sushi, già era un miracolo che non avesse il suo solito mal di testa, l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di un lavoro che richiedesse un’elevata dose di concentrazione. 

E si può sapere cosa ti ha fatto per essere odiato così tanto? Fu Yuu a chiederlo incuriosito.

Mi ha trattato da schifo! E poi è uno snob. E lui odiava i ragazzini viziati.

Magari era solo nervoso.

Magari è stronzo e basta. Non capiva perché dovesse per forza esserci una motivazione per la sua stronzaggine, certe persone lo erano e basta senza appellarsi ad una giornata storta o al mancato allineamento dei pianeti; quel Ruki lo era decisamente a prescindere.

O magari prepariamo la tavola così non moriamo di fame! Yuu s’intromise interrompendo la loro conversazione.  

Ogni tanto una buona idea!

 

*

 

 

Non ancora mi hai raccontato com’è andata. Akira fece sparire il primo pezzo di sushi, sapeva che sarebbe stato seguito da molti altri giusto per non farlo sentire troppo solo nel suo stomaco, magari accompagnati da un pizzico di wasabi.

Perché non c’è molto da dire, noioso come sempre.

Almeno fai quello che ti piace. Pensa a me: tutto il giorno a servire caffè a montati del cazzo!

Dai, non possono essere tutti cosi! Non rientrata nella forma mentis del suo buonumore il concetto che il mondo potesse essere un luogo senza luce, doveva per forza esserci un fiore in una roccia da qualche parte.

Non sono mica tutti come te Yutaka.

Lo so, prendi la moglie del capo per esempio: non fa altro che maltrattare tutti, persino quel poverino di Kouyou che non ha mai dato fastidio a nessuno.

Non lo avevano licenziato? Yuu intervenne prendendo un pezzo di sushi al tonno.

Non potevano soltanto perché ha rifiutato le avances della moglie del capo. È un tipo tranquillo, con la testa a posto, ha voglia di imparare e poi non l’avrei mai permesso, è pur sempre il mio allievo.

Ormai sono mesi che parli di lui e non ce lo hai ancora presentato, devo cominciare a pensare che non esiste? Ad Akira sembrò una giusta osservazione.

Esiste eccome, scemo!

E allora perché non lo fai venire domani sera a cena, è sabato.

Non saprei, ma potrei chiederglielo.

È gay secondo te? E Yuu se ne uscì così, tra un boccone e l’altro, senza un minimo di tatto.

Ma che ne so! Non è di certo la prima cosa che chiedo: ciao, piacere Yutaka, sei gay?

Chiedevo soltanto, poteva essere la volta buona.

Per te tutte le volte sono quelle buone Yuu! Akira avrebbe tanto voluto dargli anche uno scappellotto, non era possibile illudersi tanto sul filo rosso che avrebbe dovuto semplificati la ricerca. Fosse stato così sarebbe bastato tirare il filo per scorgere chi c’era dall’altra parte ed invece troppo spesso il filo si logorava, si sfibrava fino a spezzarsi.

Non è mica colpa mia se piaccio. Yuu assunse la posa sognante di una di quelle star del pop troppo finte per poter respirare davvero, magari di quelle che facevano strage di cuori tra le ragazzine tredicenni.

Ed ecco a voi la stronzata delle undici e venti!

È davvero così tardi? Yutaka sembrò risvegliarsi da un sogno, stava così bene insieme agli altri due da dimenticare che esistesse un concetto chiamato tempo. Devo scappare.

Resta dormire qui se così tardi. Non era certo la prima volta, a volte dormiva sul divano e a volte nel letto insieme a loro.

Domani lavoro, attacco alle otto.

È tutta una scusa per non lavare i piatti, di la verità.

Akira finse di essere scandalizzato dall’affermazione di suo fratello. Avresti il coraggio di farli lavare a lui?

Io avrei il coraggio anche di farle lavare a te. E lo disse con la naturalezza che avrebbe usato nel dire che il cielo è azzurro e il mare blu.

Che faccia da culo! E di tutta risposta Yuu si alzò dal tavolo sorridendo e mostrando soddisfatto il suo dito medio un po’ storto. Si adoperò per recuperare un contenitore da uno dei pensili per poter dare a Yutaka una bella porzione del sushi avanzato.

Nel frattempo Yutaka aveva recuperato tutti i suoi averi e, dopo aver preso la sua cena e salutato Yuu con un sonoro bacio sulla guancia, si era riavviato all’ingresso seguito da Akira. Allora vi aspettiamo domani a pranzo.

Lo trascinerò anche contro la sua volontà!

Buonanotte. Akira gli sorrise. 

Notte. Yutaka sparì dietro le porte specchiate dell’ascensore e Akira tornò in casa passandosi una mano tra i capelli castani e cercando, con un bel respiro, di fare un po’ di posto nel suo stomaco, come al solito non aveva saputo trattenersi davanti al suo piatto preferito e ora rimpiangeva la sua ingordigia. Quando arrivò in cucina venne colto da un brivido, la grande finestra che dava sulla veranda era aperta facendo entrare il fresco della sera, il suo cappotto lo aspettava sul tavolo proprio accanto ad una sigaretta. Sorridendo recuperò tutto ed uscì in veranda, si accomodò subito accanto a suo fratello sul piccolo divanetto imbottito, Yuu gli passò l’accendino ed anche la sua sigaretta prese ad ardere. 

Come mai qui fuori stasera? Per carità, era bello starsene lì insieme, ma non lo facevano spesso.

Yuu fece spallucce. Volevo vedere le stelle, ce ne sono tante stasera.

Se volevi baciarmi potevi anche evitare tutta questa messa in scena! Akira rise aspirando un’altra dose di nicotina, era frustrante doversi voltare ogni volta per guardare ciò che Yuu aveva da dirgli, se avesse dovuto racchiudere in una parola la sua sordità sarebbe stata proprio quella: frustrazione. Perché non poteva guardare le stelle come tutti gli altri mentre ascoltava la voce di suo fratello? Magari accompagnata dal rumore del vento, o del traffico in strada.

Ma quanto sei scemo! Anche Yuu rise e si lasciò scivolare leggermente sul divanetto allungando le sue gambe lunghe e incrociando i piedi.

Dopo qualche minuto Akira sospirò schiacciando ciò che restava della sua sigaretta nel posacenere, piaceva anche a lui starsene lì fuori a guardare le stelle, ma dopo un po’ cominciava a perdersi tra i suoi pensieri e non tutti erano felici perciò quando richiamò l’attenzione di Yuu se ne pentì immediatamente, ma lui era troppo curioso per lasciar stare.

Ora me lo dici, se no lo sai che non dormo!

Esagerato!

Dai!
Akira prese un bel respiro. Pensi mai a Kaito? Erano mesi che non toccavano quell’argomento, eppure qualcosa nel cielo gli aveva fatto ripensare a lui ed era stupido che gli venisse in mente ora, dopo una serata a dir poco fantastica. Yuu sembrò prendersi qualche attimo per riflettere e poi, lentamente, annuì.

Ma non penso a lui come immagini tu. Penso a lui per ricordarmi quanto possono essere stupide le persone e quanto lo sono stato io a fidarmi di lui.

Io... Le mani di Akira si fermarono a mezz’aria, sapeva che suo fratello l’avrebbe picchiato se avesse detto una cosa del genere, ma sentiva di doverlo fare ugualmente. Mi dispiace che sia andata così.

Non è mica colpa tua.

Si che lo è. Tu lo amavi e... E lui lo aveva lasciato quando aveva scoperto che suo fratello era sordo. Non lo biasimava per questo, tutti erano sempre pronti a lanciarsi contro le discriminazioni dei più sfortunati, ma non erano altrettanto pronti ad accettare la diversità quando gli era così vicino.

Akira, non voglio mai più sentire una stronzata del genere, mi hai capito? Ora nei suoi occhi brillava una strana luce simile alla rabbia. Se quel coglione mi ha lasciato la colpa è solo del suo cervello grande come quello di una gallina! Tu sei mio fratello e sei la persona più importante della mia vita, chi non accetta te non accetta me. Punto.

Io so solo che voglio vederti felice e non voglio essere un peso per te. Potresti vivere la tua vita e non sacrificarla per stare dietro a me.

Vuoi davvero essere picchiato stasera, dì la verità! Lo vuoi capire che io senza di te non vado da nessuna parte? Noi siamo Akira e Yuu Shiroyama e non permetterò a nessuno di mettersi tra di noi. Va bene? Akira si ritrovò ad annuire stringendosi un po’ di più nel cappotto. E non a causa del freddo. E poi, in realtà, sei tu che ti prendi cura di me. Effettivamente, la maggior parte delle volte, era lui ad occuparsi della cena, del bucato o delle pulizie, ma Akira non avrebbe mai pensato che fosse lui a badare a suo fratello. Io faccio solo danni, ti ricordi quella volta che ho tinto tutto il bucato di rosa? Akira scoppiò a ridere di gusto, non era stata la cosa in sé a farlo ridere fino alle lacrime quella volta, ma l’espressione di Yuu quando aveva tirato fuori il bucato dalla lavatrice ed era stato costretto a girare per casa con delle ridicole mutandine rosa finché non ne aveva comprate delle altre. Però tu poi tu sei scivolato sul pavimento bagnato! Ti sei fatto tutto il corridoio! Quella volta Akira aveva usato troppo detersivo, un attimo prima aveva posato il secchio e un attimo dopo si era ritrovato in camera da letto dove Yuu lo aveva preso in giro per due ore intere.

Parli tu che eri convinto che il forno a microonde potesse cuocere anche le uova.

Ma può!

Ma non col guscio!

Era bello ridere così spensieratamente, e lo era soprattutto non dover smettere per poter parlare, non c’era neanche bisogno di riprendere fiato. Andarono avanti per quelle che parvero ore, ma la luna era ancora alta quando decisero di andare a letto scambiandosi soltanto un’occhiata complice. 

Loro erano così: forti e spensierati come una risata.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Eccovi qui fringuelline ♥ sono tornata con un nuovo capitolo, a quanto pare la ff sta andando bene (o comunque meglio di quanto mi aspettassi xD) quindi vi ringrazio m( _ _)m ma vediamo come sarà l’ingresso in scena di Kouyou *w* buona lettura~

 

Sing for me

 

 

Quella mattina Yuu si era svegliato di ottimo umore. Aveva potuto dormire beatamente finché non era stato risvegliato dal profumo del caffè ancora fumante che aveva trovato sul comodino, aveva preso tutto il tempo che voleva per una doccia da sogno ed aveva raggiunto il supermercato all’angolo. Era una magnifica giornata di sole e la sua unica preoccupazione era stata scegliere tra un vino italiano ed uno francese, alla fine aveva comprato una bottiglia di profumato Chianti perché quel sabato andava celebrato nella sua ventata di buonumore.

Quando girò l’angolo  riuscì a malapena a fare due passi che il suo nome gli giunse trasportato dal vento, si voltò per incontrare la figura di Yutaka in dolce compagnia. Gli si avvicinarono quasi subito e non poté fare a meno di notare la scatola rettangolare che stringeva in mano il moro e in cui sicuramente si nascondeva una delle sue prelibatezza a cui nessuno riusciva a rinunciare. Avrebbero mangiato così tanto da star male, lo sapeva. 

«Sempre il solito!» Yuu indicò il misterioso dolce scatenando la sua ilarità.

«Anche tu.»

Il moro mise in bella vista il suo acquisto. «Mi ci ha mandato Akira.»

«Lui è Kouyou.» Yutaka gli presentò il ragazzo altissimo che gli stava vicino. «E lui è Yuu.»

«Piacere.» la sua voce era profonda e trasparente aldilà di ogni previsione. I capelli ramati incorniciavano il viso dagli zigomi leggermente sporgenti, i lineamenti erano armoniosi e abbastanza comuni, ma labbra così non ne aveva mai viste: quello superiore era sporgente soltanto al centro, quasi fosse rimasto intrappolato in un bacio, o ne chiedesse uno a gran voce e chi era lui per rifiutarsi?

«Piacere mio.» ma si limitò soltanto a stringere la mano che gli porgeva e fu come trovare un senso alla sua vita. Non aveva mai visto un uomo così bello, poteva sembrare una vuotissima frase fatta, ma non riuscì a pensare niente di più coerente; se gli avessero chiesto di descrivere la sua bellezza in una parola, lui avrebbe fatto scena muta perché tutta quella perfezione non poteva essere racchiusa in uno stupido ammasso di lettere. «Andiamo, o Akira ci verrà a prendere di peso.» ma non trovando le chiavi che credeva di aver preso, si ritrovò costretto a bussare.

Akira lasciò sul tavolo l’ultimo bicchiere e si precipitò al citofono non appena vide la luce all’ingresso lampeggiare insistente, sollevò la cornetta ed attese che l’immagine nel display fosse abbastanza nitida da scorgere l’espressione più idiota che suo fratello avesse mai potuto metter su: il suo sopracciglio si alzava ritmicamente ammiccando con il suo occhio scuro che, in quel momento, era l’unica cosa che riusciva a vedere del suo viso. Fece scattare la serratura trattenendo a stento una risata, eppure credeva di aver conosciuto il fondo della sua stupidità. 

Aprendo la porta Akira vide i tre percorrere il piccolo vialetto lastricato che portava ai quattro gradini prima dell’ingresso, Yuu faceva strada ridendo di ciò che Yutaka gli stava dicendo a giudicare dal suo gesticolare e a chiudere la fila c’era un ragazzo altissimo che doveva essere Kouyou; era molto diverso da come se l’era sempre immaginato grazie alle descrizioni di Yutaka che non gli rendevano affatto giustizia.

Non appena furono a destinazione, suo fratello gli passò davanti lasciando la solita scia del suo profumo, Yutaka lo salutò con un bacio sulla guancia facendogli capire subito dopo che il suo dolce non poteva più aspettare di essere messo al fresco. «Tu devi essere Kouyou, piacere Akira.» non era il tipo da lasciarsi imbarazzare da stupide formalità, perciò strinse subito energicamente la mano lattea che l’altro gli porgeva.

«Kouyou, piacere.»

«Vieni, accomodati.»

Lo vide togliersi le scarpe ed avanzare guardandosi intorno con aria curiosa, lo precedette per raggiungere la cucina dove Yutaka si stava occupando della torta.

«Che hai fatto stavolta?» il moro chiuse il frigo e si voltò sorpreso di aver udito la sua voce, ma non accennò nulla a riguardo, ormai lo conosceva così bene da riuscire a decifrare ogni suo comportamento. Doveva avere a che fare con Kouyou.

«Non te lo dico.»

«Dai!» 
Yuu scosse il capo sorridendo a quella scena e si allontanò per raggiungere il tavolo dopo aver stappato una bottiglia del vino che aveva appena comprato. «Porto i piatti in tavola!» Akira recuperò i piatti stracolmi che aspettavano fermi sul ripiano della cucina che fingeva di essere marmo, non gli era mai piaciuto ed ogni volta che lo vedeva gli faceva crescere dentro una punta di irritazione che, però, svaniva subito dopo. Lui odiava le finzioni, probabilmente perché lui stesso aveva basato la sua vita su una menzogna che diventava sempre più grande, temeva che un giorno gli sarebbe sfuggita di mano

«Ti aiuto?» Kouyou si propose gentilmente, per fortuna si era voltato in tempo per vedere ciò che aveva da dirgli.

«Puoi prendere quel piatto, grazie.» chissà se Yutaka gli aveva detto del suo udito.

Gli sorrise mentre raggiungevano il salotto dove una tavola imbandita creava un’atmosfera di casa, Yuu aveva già pensato al resto dei piatti perciò i due ultimi arrivati non dovettero fare altro che sedersi. «Avete notato che oggi stranamente caldo?» Yuu intavolò il discorso per frantumare la brina che si era posata su di loro e che, altrimenti, si sarebbe trasformata in ghiaccio.

«Sì, credevo che il freddo sarebbe arrivato senza pietà, invece ritarda!» del resto era normale in quel paese parlare del tempo prima di ogni altra cosa. «Almeno mette di buonumore.» Yutaka sorrise illuminando l’intera stanza.

«Non fare complimenti, prendi tutto quello che vuoi.» Yuu cominciò a servirsi passando agli altri il piatto di portata pieno di invitanti verdure fritte.

Kouyou si guardò intorno con l’espressione di un bambino in un negozio di caramelle: indeciso, ma con la chiara intenzione di fare la scelta giusta; puntò i gamberetti accanto ad Akira e lontano dalla sua portata. «Potrest-» ma si fermò quando si rese conto che l’altro era concentrato altrove e non avrebbe potuto vedere ciò che aveva da dirgli. Come se avesse sentito il suo sguardo su di sé, Akira si voltò nella sua direzione. «Potresti passarmi i gamberi?» aveva parlato molto lentamente, insicuro sulla giusta velocità che gli avrebbe permesso di capire. Aveva fatto bene o era sembrato solo un idiota? Magari era stato scortese, ma si sentiva un po’ a disagio all’idea che dall’altra parte ci fosse qualcuno che viveva in un mondo ovattato che lui poteva solo sperare di raggiungere dall’esterno.

Akira gli passò subito ciò che gli aveva chiesto con un sorriso. «Puoi parlare normalmente, so leggere benissimo le labbra.» Yutaka gliene aveva parlato eccome e non poteva certo biasimarlo, era lui a volerlo nascondere al resto del mondo, era lui non accettarlo per primo; per gli altri era una cosa normale e faceva parte della sua natura, come se avesse avuto i capelli neri invece che castani. Akira era alto, aveva gli occhi castani, era magro e sordo. Niente di straordinario, ognuno è ciò che è.

«Scusa.» aveva cominciato col piede sbagliato. Non che fosse una novità, probabilmente nella sua vita non esisteva ancora qualcosa che aveva fatto nel modo giusto.

«Non preoccuparti, di solito urlano convinti che sia una questione di volume.» non c’era posto per una dose di tagliente ironia nella sua voce, in realtà non avrebbe saputo coglierne la sfumatura per imitarla, tutto ciò che poteva catturare sull’emozioni umane risiedeva solo nell’espressione del viso.

Il nuovo ospite parve tranquillizzarti cominciando a mangiare. «È davvero buono!» e non lo diceva solo per essere gentile, non era il tipo di persona che si lanciava in complimenti fini a se stessi.

«Grazie, ma sono sicuro che non saranno mai buoni quanto i tuoi dolci.» Akira aveva passato l’intero pomeriggio sui fornelli, mentre quello sfaticato di suo fratello aveva pensato solo a fare da assaggiatore ufficiale, perché qualcuno doveva pur fare da cavia per la scienza.

«Non so se non siano poi così buoni.»

«Come no? Yutaka non fa che vantarti, devo ammettere che mi ha riempito di curiosità.» intervenne Yuu.

«Sei davvero bravo, altrimenti non saresti nella mia pasticceria.» sentendosi chiamato in causa lo chef ci tenne a fare la sua precisazione.

«Allora devi farci assaggiare qualcosa!»

«Volete sentirvi male?!» una risata era sempre la miglior cosa per condire un pomeriggio pieno di novità.

«Ops, non ho portato l’acqua!» Yuu si accorse della sua mancanza guardando speranzoso suo fratello che, lanciandogli uno sguardo annoiato, si allontanò per raggiungere la cucina trascinando quasi piedi. Gliel’avrebbe fatta pagare, quanto avrebbe goduto nel guardarlo lavare quella montagna di piatti che avrebbe incrementato con ogni mezzo, a costo di usarli per appoggiarci l’aria.

«Spero non se la sia presa per prima.» Kouyou era terrorizzato all’idea di aver, in qualche modo, offeso Akira.

«No, tranquillo. È abituato a cose peggiori.» Yuu riuscì chiaramente a vedere quanto fosse limpido e cristallino il ragazzo che gli sedeva di fronte, sembrava fosse un vetro trasparente oltre al quale leggere le sue emozioni; e poi se davvero avesse fatto, o detto, qualcosa che avesse dato fastidio al suo piccolo Akira, lo avrebbe sbattuto fuori casa senza esitazioni. Neanche davanti a quel bellissimo viso. Akira ritornò con due bottiglie d’acqua e la conversazione poté continuare. «E così, ti sei trasferito da poco?»

«Si, da Osaka.»

«Per forza sei bravo in cucina allora!» non per niente quella città era conosciuta come la capitale della buona tavola.

«Credo siano più bravi in America, anche se gli ingredienti hanno sapore completamente diverso lì.»

«Ci sei stato?!» Yuu sbarrò gli occhi dalla sorpresa. Gli sarebbe piaciuto lanciarsi in un viaggio di quella portata, raggiungere una destinazione diametralmente opposta, così lontano da tutto e tutti per poter ricominciare senza che qualcuno si aspettasse qualcosa da lui. «Ti piaceva vivere lì? Come mai sei venuto a Tokyo?» Yuu aveva sempre avuto grandi sogni e grandi progetti per il suo futuro, ma gli aveva sempre messi da parte perché, come diceva lui: i sogni non pagano le bollette. Per lui lasciare il paese delle mille opportunità doveva essere più o meno come strappare una banconota da mille yen perché, in fondo, era solo carta. Una pazzia. Akira si chiese, inevitabilmente, se i suoi sogni li avesse messi da parte solo per stare con lui.

«New York è davvero troppo caotica e io non abitavo neanche in una zona movimentata, può sembrare un sogno, ma viverci giorno dopo giorno ti fa pentire di averci anche solo pensato e poi il Giappone resta sempre la mia casa. Bisogna cercare il proprio posto nel mondo, quello in cui ti senti a casa e non era lì; almeno posso dire di averci provato.»

«Beh, dico solo che lì sarebbe stato più facile diventare qualcuno, realizzare i propri sogni perché se vali sanno aiutarti.»

«Potrei avere qui le stesse opportunità e non saranno un lavoro o un conto in banca a rendermi qualcuno. Io so già chi sono e cosa voglio.»

Akira riconobbe all’istante la scintilla nello sguardo di suo fratello, ad innescarla era l’attimo in cui qualcuno lo contraddiceva o se ne usciva con una frase che stuzzicava il suo interesse. «E chi sei?» in quel momento gli sembrò davvero un gatto dispettoso che aveva appena puntato la preda a cui avrebbe dato la caccia, non si sarebbe fermato finché non l’avrebbe avuta tra le unghie, magari poi l’avrebbe lasciata andare, ma niente sarebbe stato appagante quanto sapere di aver vinto. 

«Non sono io a doverlo dire.»

«Dovrei scoprirlo da solo?» e Yuu ne sembrò divertito.

«Perché no?»

Akira alzò lo sguardo su Yutaka aspettando che anche lui lo guardasse per comunicare con lui e sussurrargli la sua richiesta d’aiuto. Si è trasformato in un appuntamento al buio! Mi si stanno staccando gli occhi! Andava bene tutto, ma non guardare suo fratello flirtare in quel modo indecente, non che gli desse così tanto fastidio, ma sentiva il bisogno di allontanarsi per un attimo: per lui Yuu era dolce ed asessuato come i putti dai riccioli castani che si scambiavano un bacio attraverso lo sguardo innocente.

Yutaka gli sorrise mostrandogli le fossette in cui gli era sempre piaciuto infilarci la punta dell’indice. Andiamo a prendere gli altri piatti?

Akira annuì e si alzò seguito dall’altro, nonostante fosse sicuro di aver fatto rumore spostando la sedia quei due non gli prestarono la minima attenzione. 
Gli venne quasi da ridere, e anche da piangere perché quando a Yuu piaceva qualcuno era la fine per tutti.

 

*

 

Se non fosse stato per il messaggio ricevuto poco prima di mettersi a dormire, a quell’ora Akira sarebbe stato nel suo letto a ronfare beatamente. Invece, da bravo amico qual era, si ritrovava a montare il latte da aggiungere ai due cappuccini che aspettavano solo di essere bevuti; non avrebbe dovuto essere lì quella domenica mattina, a servire quei pochissimi pazzi che, presi dalle smanie di potenza, si presentavano a lavoro anche quando non dovevano. Il suo amichetto Kenji avrebbe fatto meglio a procurarsi tutto l’occorrente per costruirgli una bella statua tutta d’oro, magari grande come quella del Buddha a Kamakoura. Spolverò un po’ di cacao nelle tazze davanti a lui e sorrise agli strani ragazzi che le aspettavano, proprio come se gli piacesse da matti servirli e fosse la sua massima aspirazione di vita; odiava stare al banco, ma per fortuna quando dava le spalle ai clienti c’era un enorme specchio dove riposavano le bottiglie che gli permetteva di tenere tutto sotto controllo, poteva gestire la situazione con relativa calma impedendo alla sua testa di gridare vendetta qualche ora più tardi. Con la coda dell’occhio vide il suo capo rispondere al telefono, per fortuna non gli aveva mai chiesto di farlo, o avrebbe dovuto inventare una scusa che non avrebbe mai retto. Quando riagganciò gli andò incontro con un biglietto in mano, qualcuno aveva fatto un ordine dai piani alti.

«Cercano te.»

«Eh?» Akira non fu sicuro di aver capito bene, Yuu gli aveva detto che di tanto in tanto lo facevano anche quelli che avevano sentito bene, ma che si prendevano un po’ di tempo per pensare alla giusta risposta.

«Gli è piaciuto così tanto quello che gli hai preparato ieri, che ha chiesto espressamente di te. Vai, qui ci penso io.» il ragazzo prese tra le dita il foglietto dell’ordine: cappuccino con cacao, panna a parte. Ruki. Terzo piano. Quello stronzo aveva voglia di scherzare, doveva averlo riconosciuto la sera precedente ed ora aveva voglia di urlare contro di lui come una checca isterica, ma si sbagliava di grosso se pensava di aver ragione. Si mise subito a lavoro, stavolta ci avrebbe sputato nel cappuccino, o magari avrebbe sputato direttamente sulla sua faccia da schiaffi. Mise tutto sul vassoio e si precipitò verso l’ascensore, dopo cinque minuti si ritrovò a percorrere il lungo corridoio isolato, quando arrivò a destinazione trovò la porta già spalancata, ma prima di entrare bussò ugualmente. All’interno scoprì che Ruki non era solo, era in compagnia di altre persone che non aveva mai visto prima, uno di loro gli fece segno di avvicinarsi e di posare ciò che aveva in mano sulla grande scrivania al centro della stanza. A quanto sembrava erano intenti ad ascoltare qualcosa che li stava entusiasmando parecchio, lo poteva facilmente dedurre dai movimenti delle loro dita che battevano il tempo in sincronia con la testa del più anziano che annuiva contento. 

«Tu non hai sentito niente qui dentro, ragazzo!» un uomo robusto sulla quarantina gli si rivolse continuando a sorridere.

«Assolutamente niente.» ad Akira venne quasi da ridere, non sapevano quanto ciò che dicevamo avesse del vero. Con la voglia di tornarsene dietro al suo adorato bancone, avanzò reggendo in bilico il vassoio pieno di bicchieri di polistirolo su cui campeggiavano i suoi kanji eleganti e sbilenchi, così lui non avrebbe dovuto parlare più del dovuto e tutti avrebbero saputo quale bicchiere prendere.

«Ah, ragazzo! Come ti chiami?» Akira vide un uomo che lo stava fissando quindi dedusse che doveva avergli rivolto la parola.

«Akira.» era difficile dedurre dalle espressioni ciò che avrebbe dovuto capire dal tono di voce, dalla sfumatura di indecisione di una domanda imbarazzante, dal tremore dell’insicurezza di una dichiarazione d’amore, per lui le voci erano tutte uguali e avevano tutte il colore del silenzio. Ma riusciva a capire quando era solo il suo nome che gli chiedevano.

«Akira, perfetto! Ci prepareresti altri due cappuccini?»

«Certo.» si mise subito all’opera ringraziando di aver portato con sé latte e caffè extra. Versò con cura la bevanda scura e, successivamente, il latte montato a  schiuma con un solo pensiero in mente: non doveva trovarsi lì, non in quella stanza in cui si sentiva fuori posto. Avvertiva delle strane vibrazioni all’altezza del petto, sicuramente dovevano avere il volume livelli inauditi. Non comprese le parole che si scambiarono sorridendo, ma vide l’attenzione di tutti finire intrappolata nelle immagini che si agitavano su uno schermo non troppo distante. Neanche fosse una ragnatela psichedelica intessuta con cura da un ragno velenoso. Osò guardare lo schermo solo per pentirsene nello stesso istante: Ruki era proprio lì, seduto con noncuranza mentre rincorreva un pensiero. Non indossava più quel vergognoso cappello del giorno prima, rivelando dei capelli biondi tenuti in alto in una strana coda sbilenca mostrando addirittura qualche centimetro di ricrescita. Le sue orecchie erano ricolme di anelli e c’era persino in dilatatore al lobo destro che scintillò colpito dalla luce del neon, ai suoi occhi non sfuggiva mai nulla: nemmeno la sfumatura di nocciola delle iridi che lo fissavano incredulo. Akira poté quasi vederli i puntini che la sua mente stava collegando, aveva riconosciuto l’esatto momento in cui l’altro aveva capito chi si ritrovava davanti.

«Fate ripartire il video, guardiamolo ancora una volta.» e le luci si abbassarono lasciando scendere un velo di terrore davanti ai suoi occhi spalancati, odiava il buio perché nell’oscurità poteva nascondersi di tutto e non avrebbe potuto sentire il pericolo arrivare alle sue spalle; di notte dormiva sempre con una piccola luce accesa sul suo comodino, non avrebbe potuto ugualmente sentire se qualcuno irrompeva in casa o se Yuu gli urlava di aver bisogno di aiuto, ma tra un sogno e l’altro poteva rassicurarsi che tutto andasse bene guardando suo fratello dormire beato al suo fianco. Nel frattempo lo schermo aveva cominciato a lampeggiare immagini di Ruki che, ora, appariva come il più innocente degli angeli e l’attimo dopo sembrava fissarti dritto negli occhi ordinandoti di saltargli addosso e scoparlo come fosse l’ultimo dei tuoi giorni, ma Akira continuava a fissarlo senza vederlo, si domandava solo come fosse finito in quella situazione che aveva del ridicolo. Avvertiva solo delle vibrazioni propagarsi attraverso il legno della scrivania su cui poggiava le mani inermi: il basso e la batteria, questo lo ricordava, e forse anche la sua voce. Poteva una voce umana creare le vibrazioni che sentiva arrivargli impercettibilmente al petto? Tante volte aveva posato le dita sulla gola di Yuu sentendo il formicolio sui polpastrelli mentre parlava, forse cantare duplicava l’effetto, forse avrebbe sentito uno strano tremore posando le dita su quella gola nascosta da una soffice sciarpa vaporosa. O forse sarebbe dovuto semplicemente scappare il più lontano possibile da quel luogo di tortura simile all’inferno, ma l’illuminazione tornò prima che potesse concretizzare quel pensiero, ora vedeva di nuovo tutti gli occhi puntati su di lui come fosse la star ed invece era soltanto un cameriere con indosso il suo grembiule macchiato di caffè. Non doveva essere lì, ma a casa, nel suo letto, nel suo sogno.

«Prego.» senza dire altro, lasciò i cappuccini sulla scrivania ed uscì a corto di fiato. Aveva un nodo stretto intorno alla gola, una sensazione che non provava da quando aveva otto anni e un bambino l’aveva preso in giro davanti a tutta la classe per il modo in cui parlava. Per lui era difficile articolare i suoni che non riusciva a sentire e si era sentito così impotente perché non riusciva neanche a capire cosa facesse ridere, così tanto, quello stupido idiota. Da allora era stato escluso e soprannominato dokuzetsu ma questo non l’aveva mai raccontato a Yuu. Da quel momento aveva faticato tanto per capire al meglio cosa il mondo diceva intorno a lui e, se non ci riusciva, lo immaginava; così come aveva immaginato la sua voce o quella di suo fratello. Ma non riusciva ad immaginare quella di Ruki. Cosa poteva mai esserci di tanto meraviglioso da mandare in estasi tutti presenti in quella stanza? Le aveva viste le loro facce e li aveva invidiati. Non sapevano neanche che grande fortuna avessero e sicuramente la davano per scontata.

Aveva soltanto bisogno di una pausa e di una sigaretta, perciò raggiunge di corsa il tuo armadietto e rovistò nel fondo perché sapeva di avervi nascosto una sigaretta per i casi di emergenza; non appena raggiunse la terrazza aspirò la dose di nicotina come fosse un salvagente lanciato ad un uomo che sta per annegare, in vita sua non gli era mai capitato di desiderare così tanto di sentire o sapere come potesse suonare una voce. Perché doveva capitare in quel momento? E perché la voce che aveva violentato la curiosità che aveva ucciso durante tutti quegli anni, doveva essere proprio quella di Ruki? Tutto quello non aveva senso, non un fottutissimo briciolo di senso. Lo aveva visto di sfuggita, lo aveva quasi investito e ora non riusciva a sopportare l’idea di non sapere che voce avesse; l’aveva visto muoversi con una tale lussuria che aveva immaginato fosse uno di quelli che riescono a farti venire nelle mutande con una sola parola, figuriamoci cantando. Doveva solo andarsene da lì, non era il lavoro giusto per lui, ne avrebbe trovato un altro più adatto in cui non sarebbe stato circondato da persone che gli ricordavano ogni giorno che cosa era costretto a rinunciare.

Schiacciando ciò che restava della sigaretta sotto la suola, tornò indietro per recuperare i suoi averi e tornare al suo nido sicuro.

 

Dokuzetsu: wicked tongue, quindi malalingua direi òwo un modo ‘carino’ per dirgli che parlava male, insomma u_u eeeh, a volte i bambini sanno essere davvero malefici è_é povero piccolo pulcino indifeso twt *parla lei che gli ha inflitto queste sofferenze* xD ma veniamo al dunque: Kou e Yuu si sono conosciuti, Kou ha fatto parecchie esperienza in giro per il mondo, ma nessun posto era come casa…se no come avrebbe fatto a conoscere Yuu? >w> purtroppo non posso darvi anticipazioni, ma posso solo dirvi STATE ATTENTE A_A non abbassate la guardia mhauhuahuhauah~ Akira, invece, è sempre più ossessionato da Ruki…come si dice: la lingua batte sempre dove il dente duole u.u *sadica* ha faticato così tanto per abituarsi alla sua situazione e il primo pinco pallino che arriva rovina tutto D: inconsapevolmente tra l’altro…ma chissà, chissà cosa accadrà *carezza Aki* ç_ç beh, lascerò crescere le vostre aspettative e vi lascerò fantasticare, così farete vostra la storia *w* ♥

Grazie a tutte, un abbraccione enorme~

Al prossimo capitolo ♥

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Rieccoci qui *-* sono ancora nella navicella madre, ma sono riuscita ad accendere questo coccio di pc che 10 anni li avrà eccome òwo la storia deve pur proseguire insomma u_u perciò buona lettura e grazie a tutte *^*

 

Sing for me

 

 

Entrando in casa notò solo le scarpe di Yuu dimenticate con noncuranza accanto al portaombrelli, si tolse il cappotto lasciando cadere la borsa dove più le piaceva, le scarpe finirono chissà dove e senza neanche accorgersene si ritrovò a percorrere il corridoio. A metà strada tra il salotto e la camera da letto, lo vide sdraiato sulle coperte assorto nella visione di qualche demenziale programma pomeridiano, incrociò il suo sguardo per un decimo di secondo che gli parve pregno di una muta domanda ovvia, ma non gli rispose nemmeno con i suoi occhi scuri limitandosi a stendersi accanto a lui per nascondere il viso nell’incavo che la sua spalla creava col cuscino. Non gli serviva altro che il suo braccio intorno alle spalle che non tardò ad arrivare, voleva solo non pensare, sentirsi di nuovo un bambino e credere che nulla al mondo avrebbe potuto fargli del male.

Restarono così per quelle che parvero ore, forse furono solo minuti. Akira riemerse dal suo nascondiglio sicuro solo per incrociare il volto di Yuu che lo stava guardando aspettando una spiegazione. Cos’hai? Ma sapeva che non gliel’avrebbe detto stavolta.

«Sono solo stanco.» e Akira prese tra le sue una mano di suo fratello, grande e calda, la tirò fino a sé per posizionarla sull’orecchio che non poggiava sul cuscino, gli piaceva dormire in quel modo perché aveva l’impressione di non sentirci solo per colpa di quella mano, così poteva concentrarsi sulle sue fantasie e sperare di fare un bel sogno. Magari stavolta avrebbe sognato la sua voce.

 

*

 

Si era svegliato avvertendo il vuoto accanto a sé quando Yuu si era alzato, per lui non c’era nulla di diverso: era solo un altro giorno come tutti gli altri in cui avrebbe indossato il suo completo migliore sperando di arrivare a sera senza aver combinato un disastro irreparabile. Akira si alzò con movimenti stanchi e pesanti, non aveva dormito bene e si era svegliato più volte con la sensazione che stesse succedendo qualcosa in casa: magari Yuu non era riuscito a svegliarlo, magari era proprio lui ad essere in pericolo, o magari si era trattato solo di incubi e lui era un paranoico del cazzo. Entrò in cucina solo per trovarla vuota, non aveva voglia di caffè ma solo di latte caldo, fuori pioveva e la pioggia aveva il potere di intristirlo fino alle ossa. Yuu arrivò qualche minuto dopo, mentre lui era impegnato ai fornelli senza realmente vederli, si sentì toccare una spalla in modo così delicato che sembrava si fosse trattato di un gatto; di solito non si spaventava in quel modo, eppure sobbalzò preso alla sprovvista. Così lo bruci. Yuu spense il gas versando il latte fumante in una tazza con un cane troppo felice, usava quella da quando era bambino. Tieni. Si sedettero uno di fronte all’altro, il moro si era preparato un caffè prima di perdersi in bagno ed ora era freddo ed imbevibile. Lo lasciò lì sul tavolo, come se fosse la ragione per cui non si precipitasse ad indossare le scarpe per correre via. Oggi non vai al lavoro? Erano già le sette e suo fratello era ancora in pigiama.

No. Akira verso un po’ di latte freddo per stemperare quello troppo bollente. Esisteva qualcun altro al mondo capace di capirlo come faceva suo fratello? Forse no. Forse l’intero animo comprensivo del mondo si era condensato in un’unica persona e si trattava proprio di suo fratello, in modo che crescesse con una guida forte nei primi decenni della sua vita, ma un giorno avrebbe dovuto staccarsi da lui per percorrere la sua strada e allora avrebbe dovuto imparare a farne a meno. Nessuno avrebbe più capito cosa si nascondeva dietro al muro che aveva costruito giorno dopo giorno, mattone dopo mattone.

Mi dici cosa ti è successo? È da ieri che sei strano.

Ho avuto una brutta giornata a lavoro. E in fondo era vero, non aveva mai vissuto una mattinata tanto spiacevole da quando lavorava lì, soltanto da bambino, ma allora non aveva la consapevolezza dei vent’anni.

Questo lo dici a Yutaka per evitare le sue domande, a me cosa dici invece? Il suo viso era sereno, avrebbe usato un tono dolce e delicato se avesse parlato.

Non credo di riuscire a lavorare lì dentro ancora per molto. Tanto valeva essere sinceri, era stanco di mentire e di provare ad essere ciò che non era; avrebbe voluto dire essere considerato diverso da un mondo che non aveva nessun diritto di giudicarlo, ma era davvero pronto a correre questo rischio e combattere?

Cos’è? Qualcuno ti ha fatto qualcosa?

No, è solo che non è il posto adatto a me. Lo so che me lo avevi detto, ma ora sta diventando difficile stare in un posto pieno di... era difficile persino dirlo.

Di cose che non puoi sentire. Yuu gli strinse il braccio con tutto l’amore che era in grado di provare, lui era sempre quello che diceva ciò che lui non riusciva a dire, che prendeva le decisioni che lui non riusciva a prendere. Non preoccuparti, troveremo un altro lavoro e tutto andrà bene. Gliene era grato, ma prima o poi avrebbe dovuto imparare a combattere stando in piedi con le proprie forze. Erano giovani si, ma presto Yuu si sarebbe costruito una vita: la sua in cui lui sarebbe stato una costante, ma non un’assoluta presenza ingombrante; non gli avrebbe mai permesso di rinunciare a tutto solo per continuare a fare il fratello maggiore.

Akira annuì semplicemente, come faceva sempre quando Yuu gli diceva di non arrendersi. Farai tardi. Non era il momento di pensare ai suoi capricci, c’era gente che avrebbe fatto di tutto per prendere il suo posto e Yuu aveva già i suoi problemi, svegliarsi ogni mattina sapendo di dover fare qualcosa che non hai scelto sapeva essere davvero frustrante.

Il mondo non andrà in rovina per mezz’ora di ritardo. Ah, a proposito, oggi lavoro fino alle tre, ci vediamo per il pranzo? Così magari facciamo un giro. Riuscivano raramente a star insieme fuori casa e, quando succedeva, amavano girovagare per le strade affollate osservando le vetrine, magari comprando qualche oggetto inutile solo per prendersi in giro qualche mese dopo, o vagare per il parco alla ricerca dell’angolo che gli facesse dimenticare di essere a Tokyo. Akira sarebbe andato anche in capo al mondo con lui, perché tanto si sarebbe sentito sempre al sicuro.

Si, ti cucino il bento. Impegnare la sua mente con qualche nuova ricetta sarebbe stato un buon modo per non pensare ai suoi problemi.

Mi fai i polipetti?

Kanako, la loro dolce madre, glieli nascondeva sempre sotto il riso in modo che fosse costretto a mangiarlo tutto per liberare i pezzi di wurstel. Akira non aveva mai avuto il cuore di dirle che il riso non lo mangiava Yuu ma lui che, in cambio, poteva liberarsi di quelle cattivissime verdure amare che odiava. Era un patto tra fratelli e non poteva certo infrangerlo, pena l’impiccagione del povero Bunny-chan: il coniglio di peluche che gli teneva compagnia tutte le notti. Si, va bene!

Ecco come una giornata storta, in un attimo, poteva diventare speciale.


*


Uova, formaggio e prosciutto per le omelette. Certo non sarebbero state buone quanto quelle di Yutaka, ma ce l’avrebbe messa tutta potendo addurre come scusa che qualsiasi cosa il suo migliore amico cucinasse, sembrava esser scesa dal cielo. Di riso ce n’era in abbondanza in casa, quindi gli servivano solo gli ingredienti per i famosi polpi felici, doveva solo trovarli in mezzo a quella miriade di scaffali stracolmi; per colpa dei lavori di manutenzione alla strada che faceva di solito, era stato costretto a cercare un supermercato nell’isolato più vicino, trovandolo dopo mezz’ora di vagare incessante tra case e persone tutte uguali. Se non fosse stato pieno giorno se ne sarebbe tornato a casa di corsa, giusto per non far la fine del protagonista dell’ultimo film horror che aveva visto. Per pura fortuna intercettò ciò che cercava non appena svoltò l’angolo girando intorno allo scaffale del ramen, aveva appena agguantato la sua preda quando si sentì strattonare per la giacca.

«Fai finta di parlarmi!»

Ovviamente non aveva capito una sola parola. «Cosa?!» ritrovarsi davanti un ragazzo incappucciato, il viso coperto da un paio di enormi occhiali da sole e l’aria guardinga non era certo roba da tutti i giorni. Di sicuro stava spacciando droga, o aveva appena rubato la borsa ad una vecchietta, lo avrebbero arrestato per favoreggiamento e cosa avrebbe detto poi a Yuu? Che stava solo cercando gli ingredienti per il suo bento?

«Fai finta di parlarmi, non devono vedermi!» e in effetti, basso com’era, stava cercando di usare la sua altezza per nascondersi.

«Ma chi?»

«Quelle pazze isteriche!» pazze che sbucarono dalla corsia accanto, correndo come se stessero cercando l’ultimo paio di scarpe in saldo. «Non guardarle!» il tipo sospetto le sentì avvicinarsi e dedicò tutta la sua attenzione ad un barattolo di maionese pigramente esposto davanti a lui. «Mhm, questo ci starebbe benissimo con l’insalata, non credi?»

«Ma che dici?!» eppure aveva qualcosa di familiare. Quegli occhiali improponibili su quel viso minuto li aveva già visti, ma quando?

«Reggimi il gioco, ti prego!» Oddio. Era Ruki. Akira non fece in tempo ad esternare tutto il suo disappunto che la famosa Star lo lasciò dov’era, rimettendo a posto la maionese e migrando all’angolo dello scaffale per sporgersi e verificare dove fossero le pazze che, evidentemente, erano passate dietro di loro senza che lui se ne accorgesse. Mise ciò che aveva ancora in mano nel cestino che pendeva dal suo braccio e si diresse placidamente verso la cassa. «Dove stai andando?!» Ruki lo tirò per una manica.

«Si può sapere che vuoi? Se ne sono andate, ora lasciami in pace!» aveva già fatto troppo per i suoi gusti.

«Ti sembra! Sono furbe, saranno ancora qui in giro.»

«Sono problemi tuoi, mica miei!»

«Ma se mi trovano sono finito, non sai chi sono!»

«Lo so e non mi interessa.» e dando un poderoso strattone liberò la manica dalla presa dell’altro. Aveva già fatto troppi incontri per quella mattina, era meglio pagare e tornarsene alla pace della sua casa, preparare il bento per Yuu e raggiungerlo a lavoro; tutto sarebbe andato bene, senza altri incidenti di percorso. Alla cassa non c’era nessuno in fila, quindi si affrettò a sistemare i suoi acquisti solo per rendersi conto che Ruki lo aveva seguito, davvero irritante. Aveva ragione sul suo conto e l’aveva capito sin dal loro primo incontro, per non parlare del secondo in cui aveva rischiato di rimanerci stecchito; ma ora doveva solo concentrarsi sulla cassiera e capire quanto avrebbe dovuto pagare.

Con il portafogli più leggero Akira fu libero di riprendere aria e, soprattutto, di ritrovare la strada di casa senza metterci l’intera giornata; voltandosi si accorse che Ruki era proprio dietro di lui, per fortuna non poteva sentirlo perché lo aveva visto parlare senza sosta per tutto il tempo e sarebbe impazzito altrimenti, almeno era bravo nell’ignorare le persone e non era costretto a sentire discorsi inutili contro il suo volere. Una magra consolazione. Ma quando vide che quel maledetto non voleva proprio saperne di lasciarlo in pace, la sua esasperazione prese il sopravvento. «La smetti di seguirmi?!» doveva averlo preso alla sprovvista, perché l’altro parve quasi spaventato.

«Non ti sto seguendo, è che... sto cercando di capire da che parte devo andare.» sembrava spaesato, come se si fosse addormentato a casa sua e risvegliato da tutt’altra parte.

«Ti sei perso?»

«Non mi sono perso, è solo che se capissi dove mitrovo sarebbe più semplice.»

«Non hai un telefono?»

«No.»

«E con tutto quello che si sente in tv, vai in giro senza telefono?!»

«Beh, saranno affari miei!»

«Bene, allora resta qui. Sai che me ne importa!» e lui che aveva persino pensato di aiutarlo, ma questo solo per una frazione di secondo e prima che lo facesse pentire di avergli anche solo rivolto la parola. Voltò l’angolo a passo spedito imponendosi di dimenticare quello spiacevole incontro, ma non fece neanche dieci passi che una goccia gli cadde sul viso. Quando era uscito di casa aveva visto i nuvoloni grigi in lontananza, perciò aveva portato un piccolo ombrello con sé, ma non pensava che avrebbe dovuto usarlo tanto presto. Pochi passi dopo quella che sembrava essere solo una pioggia stagionale si trasformò in un vero è proprio temporale, fu inevitabile pensare a quello scemo fermo sotto la pioggia, non gli sembrava di aver visto ombrelli nelle sue tasche e per di più non aveva neanche un telefono. Ma perché cavolo non imparava mai ad ignorare la gente? Sembrava facile visto che lo facevano tutti, ma lui era troppo buono e la sua coscienza glielo avrebbe rimproverato tutta la notte; era successo anche a lui di trovarsi in difficoltà e, se non fosse stato per quelle poche persone gentili del mondo, chissà dove sarebbe finito. E poi, pensandoci con razionalità, l’unica colpa che quel Ruki aveva, oltre ad essere uno stronzo antipatico, era quella di sentire, di vivere di musica, di ciò che lui non conosceva neanche ma che lo attirava più di ogni altra cosa al mondo.

Con ritrovato orgoglio Akira tornò indietro trovando Ruki sotto un pergolato sbilenco che non avrebbe protetto nemmeno una formica, lo raggiunse coprendolo come meglio poteva per non bagnarsi a sua volta. «Allora, dove devi andare?»

Ruki sembrò sul punto di rispondere, ma si limitò ad estrarre un bigliettino dalla tasca della sua giacca in pelle ormai completamente fradicia. Stessa prefettura, stesso quartiere, ma a quanto pareva la loro destinazione si trovava sul lato opposto a quello in cui abitava lui.

«Abiti qui?»

«Non proprio, è una lunga storia. Lascia stare, se non sai dov’è...»

«Muoviti, andiamo.» aveva pur sempre un navigatore a portata di mano e stava facendo una buona azione, il karma lo avrebbe ripagato un giorno.

Camminarono per qualche isolato cercando di orientarsi. Gli indirizzi giapponesi erano un vero inferno, ogni volta si ritrovava a maledire il genio del male che aveva avuto la brillante idea di inventare quel sistema, ma all’improvviso si sentì tirare per un braccio per la quinta volta nel giro di due ore. «Ho capito chi sei! Quello del caffè alla Psc

«Si quello che hai quasi investito.»

«Oh dai, era buio pesto!»

«Non è una giustificazione, mi hai quasi rotto un ginocchio.»

«Io volevo portarti al pronto soccorso, non so quante volte ti ho chiamato, ma tu continuavi ad ignorarmi.»

«Sono bravissimo a non sentire ciò che mi infastidisce.» non sapeva neanche come gli era venuta fuori un’affermazione del genere, proprio a lui che non riusciva a sentire neanche quello che voleva e ne aveva un chiaro esempio esattamente davanti agli occhi. E Ruki gesticolava animatamente guardando nella direzione opposta, sembrava anche un po’ imbronciato, ma non riuscì a cogliere il senso del suo malcontento. Akira guardò l’orologio solo per accorgersi di essere terribilmente in ritardo sulla tabella di marcia. «Va bene, la strada è questa, il numero otto dovrebbe essere in fondo.» c’era anche abbastanza spazio per correre sotto ai pergolati ed evitare una polmonite. «Non perderti.» Questo voleva dire che lo avrebbe visto spesso ora?

«Non sono mica così scemo!»

«Prego comunque.» e voltandosi si avviò diretto alle strade periferiche del quartiere.

«Aspetta!» Ruki lo fermò tirandolo per un braccio, aveva capito che altrimenti l’altro non l’avrebbe degnato della minima attenzione. «Non so neanche il tuo nome.»

«Chiamami ragazzo del caffè.» entrare in confidenza sarebbe stato un grave errore che non aveva intenzione di commettere. Stavolta si allontanò quasi correndo mentre il ticchettio della pioggia sembrava quasi suggerirgli di restare.

 

 

Bene u.u troviamo un Akira sempre più incasinato e un Takanori sempre più antipatico >w> o no? Mhm, chi lo sa uwu mi scuso per il capitolo troppo corto, rimedierò postando presto il 5 *lancia cuori a tutti*

A presto mie care ^^



 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Ma ciaooo fringuelline ** sono ritornata subito, come promesso ♥ vediamo un po’ come si mettono le cose in questo capitolo e concentriamoci un po su Yuu, anche se in maniera marginale, anche lui deve vivere la sua storia d’amore, no? E poi torniamo a vedere come se la cavano Aki e Taka +w+ ammetto di essere davvero cattiva, vi porto sulle montagne russe: prima scendiamo, poi risaliamo e poi giù di nuovo xD ma arriverà tutto al momento giusto, se no che gusto c’è **

Buona lettura, a prestissimo ^-^

 

Sing for me

 

Yuu non portava la cravatta e il colletto pendeva pigramente sul petto, mostrando l’incavo in cui le clavicole cercano di toccarsi senza riuscirci. «Signor Shiroyama, un po’ di contegno.» Akira si stava già preparando al loro solito scambio di battute, ma suo fratello non parlò guardandolo con aria preoccupata. «Cosa c’è?»

«Andiamo.» ne avrebbero parlato in un luogo tranquillo, magari mentre consumavano il bento al loro solito tavolo in legno nascosto tra gli aceri secolari, a ottobre le foglie avevano le sfumature del tramonto e sembravano emanare calore nonostante l’aria fosse sempre più pungente. «Ce li hai messi i polipetti!» Yuu aveva insistito per aprire il contenitore in plastica ancor prima di stappare la birra che si erano fermati a comprare lungo la strada.

«E non sai neanche che ho dovuto sopportare per colpa loro.» ma Yuu sembrava non ascoltarlo nemmeno. «Insomma mi vuoi dire che è successo?»

Un breve sospiro e poi la verità, senza stupidi giri di parole perché tanto sarebbero stati inutili con lui che sapeva leggere così bene nei suoi occhi. «Mi hanno licenziato.»

«Non è possibile!»

«Invece si. La società è stata acquistata e non c’era posto per tutti, ero tra gli ultimi arrivati e non ho una famiglia da mantenere, perciò non è stato difficile scegliere me.»

«Come facciamo ora? Io non guadagno abbastanza.»

«Troverò una soluzione.»

«Lo dici sempre, ma stavolta-»

«Stavolta non sarà diversa dalle altre, ti ho mai lasciato nella merda?»

«Non si tratta di me.»

«Invece si, visto che sarai costretto a restare lì.»

«Lasciare il lavoro era solo un capriccio e sono troppo grande per queste cose, ho la mia parte di responsabilità e dobbiamo tirare avanti.»

«Mi dispiace Aki

«Non è mica colpa tua.» ma di qualcuno doveva pur esserla. «Tanto la giornata è cominciata male, non poteva certo migliorare.»

«Perché?»

«Se ti racconto chi ho incontrato non ci credi.»

«Chi? Qualche persona famosa?» non era inusuale trovare per la città accampamenti di troupe televisive impegnate nelle riprese di qualche nuovo drama per ragazzine, anche se doveva ammettere di averli visti anche lui di nascosto qualche volta e di aver persino pianto come un idiota per la morte della protagonista nascondendosi tra i cuscini del divano.

«Ho incontrato Ruki al supermercato, si stava nascondendo dalle sue fans impazzite e voleva usare me come diversivo. E quando siamo usciti, visto che pioveva e io non imparo mai a pensare solo agli affari miei, l’ho accompagnato a casa perché l’intelligente non aveva né ombrello né telefono.»

«E da dove arriva questo impulso di gentilezza? Non avevi detto che non lo sopportavi?» era un dubbio più che legittimo quello di Yuu.

«Infatti non ho cambiato idea, ma il punto non è questo, il punto è dove abita: nel nostro isolato, a solo qualche traversa da noi. Che bello.»

«Mi auguro che stavolta sia stato simpatico almeno.»

«Ammesso che, secondo me, quel tappo di bottiglia può essere simpatico solo come un calcio nei coglioni, devo dire che è stato abbastanza innocuo.»

Yuu quasi si strozzò con l’omelette cercando di trattenere una risata. «Tappo di bottiglia?! Ha parlato il monte Fuji!»

«Ma se mi arriva alla spalla!»

«Sei davvero stronzo con chi non sopporti, eh? Attento a non finirci insieme.»

Akira lo guardò strabuzzando gli occhi, magari nel tentativo di vedere meglio con quale faccia era stato capace di dire una cosa del genere. «Che?! Piuttosto divento un monaco!»

«Non ti ci vedo pelato.» era così divertente prenderlo in giro perché Akira se la prendeva davvero per ogni cosa, come quando a tredici anni gli faceva credere di avere le orecchie a sventola. «Ma nei manga dall’odio nasce sempre l’amore, sei sicuro di non-»

«Se non la smetti faccio diventare te pelato! Te lo presento se ci tieni così tanto

«Sono già incasinato così grazie, non ho tempo per nessuno.»

«Ma come, non ti piaceva Kouyou?» ora era il suo turno di prendersi gioco di lui, il momento della sua piccola vendetta personale.

«Ora non posso.» nel frattempo il bento era finito e Yuu si era ritrovato a fissare gli scomparti vuoti del contenitore blu senza realmente vederli.

Ma quando il vento si alzò fece frinire le foglie ingiallite come fossero cicale in una notte di agosto, gli scompigliarono i capelli neri quasi accarezzandoli e piantando il seme di un idea che germogliò in pochi attimi, come se fosse sempre stata lì, come una di quelle querce intorno a loro. «Sei un genio!»

«Finalmente te ne sei accorto!»

«Ma no! Ti ricordi che Yutaka ci aveva detto del nuovo posto da cameriere?»

«Veramente no.» Yutaka diceva sempre un mare di cose e non poteva certo ricordarle tutte, non ricordava neanche cosa avesse mangiato il giorno prima.

«Ma come? Ora che hanno ampliato il locale cercavano un nuovo cameriere, potrei chiedergli di mettere una buona parola con il suo capo.»

«Sì potresti, lui lo farebbe.» era la cosa giusta da fare, ma non era il momento di pensarci «Ma ora andiamo a prendere un gelato?»

«Poi non lamentarti quando diventerai obeso.» quando faceva così Akira sembrava ancora il piccolo bambino mai cresciuto che era stato a sei anni, quando ancora poteva sentire la voce del mondo che, ora, urlava nel suo petto invece che nelle sue orecchie; ricordava ancora quando andavano tutti insieme al parco e Akira non si dava pace finché non aveva avuto il suo gelato prima di tornare a casa, anche in pieno inverno. Minacciava di restare a vivere con le papere nel lago, perché loro il gelato glielo avrebbero comprato. Che stupido che era, ma per fortuna esisteva una persona come lui al mondo. Che posto orrendo sarebbe stato altrimenti.

 

*

 

«Hai qualche esperienza come cameriere?» l’uomo davanti a Yuu incuteva un certo timore con quei capelli radi che cercava di moltiplicare con una strana pettinatura, alto, sulla cinquantina, con la classica pancia da uomo divano.

«No, ma imparo in fretta»

«Meglio per te, perché ti darò due giorni di prova e non voglio sentire un solo piatto in frantumi. Questo è un locale di un certo livello, non un bar di periferia; se Takashima è disposto a insegnarti è tutta una sua responsabilità.»

«Garantisco io per lui, signor Takana

«Fate come vi pare, a me serve solo un cameriere. E ora a lavoro!» il proprietario del locale si allontanò portando con sé una marea di scartoffie e tutto il suo malumore.

«Un benvenuto caloroso, non c’è che dire.»

«È che si occupa raramente di queste cose.»

«Sei sicuro che a Kouyou stia bene?» Yuu si sentiva un po’ in colpa: non aveva ancora parlato con lui, eppure doveva sobbarcarsi tutta la responsabilità.

«Certo, gliene ho parlato ieri sera e, sapendo cosa avrebbe detto Takana, ha accettato senza problemi.»

«Beh, è stato davvero gentile.»

«E poi sono io che comando.» e Yutaka lo disse con una strana luce negli occhi.

«Non lo maltratterai mica?!»

«Solo quando non è alla mia altezza.» ora che ci pensava, Yuu non aveva mai assistito al suo famoso cambio di personalità, ecco perché in quel momento sembrava tanto spaesato. Ma quando si trattava di lavoro diventava un’altra persona, non c’era posto per la minima distrazione. «Ma cominciamo, hai solo due giorni per imparare tutto.»

«E perché lo dici sorridendo?»

«Perché so quello che ti aspetta.»

«Oddio lo fai sembrare un inferno, questo posto sembra così carino!» in perfetto stile occidentale, sembrava quasi un ritrovo per signore pronte a spettegolare all’ora del tè.

«Non farti ingannare dall’aspetto rincuorante.» nel frattempo Kouyou aveva fatto il suo ingresso nel locale sentendo l’ultimo stralcio della loro conversazione.

«Oh, ciao.» Yuu si voltò in direzione della voce che non avrebbe riconosciuto se quella sera non lo avesse colpito così tanto, da rivederlo una volta o due nei suoi sogni.

«Mi vado a cambiare e cominciamo.» erano solo le dieci di mattina, ma tutti i dolci dovevano essere pronti prima dell’apertura al pubblico prevista per le cinque di pomeriggio.

«Nel frattempo ti faccio fare un giro.» Yutaka gli mostrò le tre salette interne destinate alla clientela più riservata, la cucina, i bagni, il magazzino pieno di oggetti di cui Yuu non sospettava neanche l’esistenza e qualche minuto più tardi si ritrovò al cospetto di Kouyou, al centro del salone principale in attesa di scoprire quali sarebbero state le sue mansioni.

«Dunque, cominciamo da qui.» Kouyou indicò una vetrinetta piena di torte e pasticcini dall’aspetto invitante. «Sai il francese?»

«Perché ti sembro uno che sa il francese?»

«No, ma tutti i nomi di questi magnifici dolci sono francesi. Questa è una Charlotte aux fraises et au chocolat, questo un Croquembouche, queste delle Viennoiserie; molto spesso i clienti chiederanno gli ingredienti, un tuo parere o, magari, con quale bevanda accompagnarlo. Ce ne sono davvero tanti di indecisi, a volte è solo gente che ha bisogno di provare qualcosa di diverso, a volte gente che non è capace di far nessun tipo di scelta.»

«Caspita! Conosci bene queste cose.» e a dir la verità si sentiva alquanto spaventato; era già complicato prendere le sue decisioni, ci mancavano quelle degli eterni indecisi.

«Beh si, prima di passare in cucina ho fatto il cameriere qui per qualche mese, ma io ero avvantaggiato perché già sapevo realizzare la maggior parte di questi dolci.»

«E come si finito “dall’altra parte”?»

«Quando ho saputo che Yutaka Uke lavorava qui mi sono precipitato, non potevo perdere questa occasione, dovevo assolutamente essere suo allievo. Purtroppo, però, lui non ne voleva uno è così sono finito a fare il cameriere; non mi sono arreso e un giorno gli ho fatto trovare la cucina invasa dai miei dolci, al che lui ha dovuto assaggiarli per forza e da allora sono nella sua cucina.»

«Perché è così famoso?» Yuu stentava quasi a crederci, lo conosceva da anni, ma non gli aveva mai dato modo di pensare che fosse qualcuno.

«Ma certo!» Kouyou sembrò quasi scandalizzato.

«Lui non parla malto di queste cose, è molto modesto, lo sai.»

«È proprio questo che mi piace di lui, sarebbe capace persino di dire che i suoi dolci non sono niente di che.»

Che cos’era quella punta di disagio che Yuu sentì fermentare nel petto? Aveva quasi sapore di una torta alla gelosia. «E i tuoi dolci invece?»

«Non sono così buoni da meritare l’attenzione di qualcuno, sto ancora imparando e mi limito a fare quello che mi dice lo chef. Mi fido di lui.»

«E lo chef continua a sentirvi! Perché siete ancora lì?» Yutaka sbucò dal nulla provocando ad entrambi un principio di infarto.

«Corriamo!» Kouyou doveva avere davvero tanta paura di Yutaka, ma il timore era tanto quanto l’ammirazione che aveva per lui. Si avvertiva chiaramente. Ora che ci pensava Yuu non aveva mai avuto un interesse tutto suo, quella passione così forte da sfiorare l’ossessione; si era limitato a vivere la vita che gli spettava senza chiedere di più: era andato a scuola, aveva preso il suo sudatissimo diploma e si era imprigionato in un completo grigio che aveva spento per sempre i suoi sogni e le sue aspettative. Aveva vissuto per fare il fratello maggiore, per essere quello responsabile per tutti e due quando, magari, Akira non gli avrebbe mai chiesto un simile sacrificio. Ormai non erano più bambini, né adolescenti e il suo fratellino sapeva badare benissimo a se stesso senza il suo aiuto. Era giunto il momento per mamma chioccia di stare a guardare mentre il suo pulcino imparava a volare, ma non era facile accettare di non essere più indispensabile come un tempo. Aveva sempre avuto la passione per la musica e, in quella che sembrava essere un’altra vita lontana, aveva anche preso lezioni di chitarra; non l’aveva mai detto ad Akira per non ferire i suoi sentimenti, ma forse poteva ancora rimediare, forse non era troppo tardi per accendere la luce e smetterla di proseguire a tentoni.

 

*

 

Quel giorno non era cominciato nel migliore dei modi. Dopo aver portato il caffè a letto a Yuu, aveva rovesciato la sua tazza e quando era uscito di casa si era ritrovato sotto il diluvio universale, ma il problema non era neanche quello considerando che aveva sempre con sé un ombrello. Il problema era che uno stronzo al volante aveva deciso di fargli un bagno proprio mentre percorreva, a piedi, l’ultimo tratto tra la stazione della metro e la casa discografica. E ora indossava degli stupidi pantaloni ridicoli che teneva nel fondo dell’armadietto per le emergenze, perché la lavanderia non gli aveva lavato quelli della divisa; e se Hoshi non avesse accettato la sua proposta, si sarebbe buttato a terra lasciandosi calpestare dalla folla.

«Volevo chiederti se posso restare al banco per un po’, di solito mi lasciano qualche yen di mancia e ne avrei bisogno.» era sempre stato molto sincero e, stavolta, non sarebbe stato diverso.

«C’è qualche problema?»

«È che Yuu è stato licenziato, quindi finché non troverà un altro lavoro…»

«Va bene, non devi aggiungere altro.» il suo capo era sempre stato molto paterno nei suoi confronti. «Poi andare ai piani alti con quei pantaloni!» era fantastico essere presi in giro da un uomo di cinquant’anni che indossava camicie floreali, ma una risata non avrebbe fatto altro che consolarlo.

«Non vedo l’ora di rimettere i miei jeans.»

«Sarebbe meglio, ci parlo io con quelli della lavanderia. Ora a lavoro però!»

«Corro! Grazie, Hoshi.»

«Ah, sparisci!» non avrebbe mai capito la sua integrità che non si scomponeva davanti a nessun sentimento, era comune a molti uomini essere impermeabili alle emozioni, ma lui non voleva diventare un uomo che aveva paura di mostrare ciò che sentiva.

Tornando al lavoro Akira non sapeva che, quando si pensa di aver raggiunto il fondo e di non poter più andare oltre nella propria discesa, è lì che ci si sbaglia perché il destino è sempre in agguato dietro l’angolo pronto a farti ricredere. Aveva messo su la storia delle mance soprattutto per evitare di incontrare di nuovo Ruki, ma come recitava un antico proverbio: Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto, proprio come l’amato beniamino desiderato ed acclamato da fans disposte a seguirlo al supermercato, aveva deciso di degnarlo della sua presenza sistemandosi al tavolino più appartato con una ragazza che di buono sembrava non promettere nulla. Da come era vestita sembrava appartenere anche lei al mondo dello spettacolo, poteva facilmente immaginarsele tutte le sciatte oche giulive che conoscevano il suo letto solo per una notte; vedendo il modo in cui Ruki spostava una ciocca di capelli dal viso della bionda rifatta davanti a lui, quella doveva essere la vittima della notte appena passata. Probabilmente le stava facendo credere di essere stata la migliore, mentre pensava ad un modo per sbarazzarsi di lei; quante volte aveva visto quella scena da quando lavorava lì, quindi perché stavolta si lasciava infastidire come uno stupido?

Forse perché erano solo le otto di mattina e alle 10:00 in punto Ruki si presentò con una mora, alle 15:24 di nuovo con una bionda e alle 19:52 con una rossa. E ogni volta aveva avuto un atteggiamento diverso, a tratti disinteressato, tanto che alcune volte aveva guardato nella sua direzione, ma Akira aveva fatto in modo di farsi trovare sempre concentrato su ciò che stava facendo. Non erano affari suoi, il mondo andava così e non avrebbe dovuto interessargli minimamente con chi Ruki andava a letto, ma continuò a pensarci mentre si cambiava i vestiti e metteva al sicuro i tremila yen che di mancia che aveva ricevuto in quella lunga giornata.

Qualche minuto dopo si trovava fuori meravigliandosi dell’umidità che era calata dopo il tramonto e nella borsa aveva trovato una sigaretta, probabilmente ce l’aveva messa Yuu perché sapeva quanto gli piacesse fumare dopo il lavoro, l’accese chiedendo aiuto al primo passante che vide e si avviò verso la stazione della metro. Amava passeggiare dopo la pioggia, quando le strade erano piene di pozzanghere in cui si riflettevano le luci, il cielo e i palazzi dalle mille luci, aveva sempre creduto che quello fosse un mondo parallelo in cui tutto era capovolto e, chissà, magari saltandoci dentro sarebbe potuto finire dall’altra parte; forse era questo ad essergli accaduto da bambino, forse nell’altro mondo poteva ancora sentire. Sarebbe bastato saltare nella grande pozza proprio davanti a lui per scoprirlo e risolvere tutto, ma per evitare di bagnarsi di nuovo i pantaloni ci mise solo un piede dentro, aspettando che le increspature si fermassero. Alzò lo sguardo attratto dai fari di un’auto che gli passò accanto e la seguì fino a vederla sparire dietro gli alberi del parco che costeggia va la casa discografica, a giudicare dal costo della macchina doveva trattarsi di un artista, magari un manager, di certo non di un semplice barista come lui.

E proprio a pochi metri dal punto in cui aveva perso di vista la lussuosa vettura, nella strada in cui aveva fatto il suo incontro devastante on Ruki, c’era proprio lui in compagnia di un ragazzo dall’aspetto eccentrico; lo aveva visto spesso in giro per i corridoi e ogni volta con un look diverso: ora, per esempio, sfoggiava dei capelli verdi e rosa e il suo atteggiamento non lasciava niente al caso. Vide chiaramente le sue labbra quando spinse il suo bacino contro quello di Ruki bloccandolo tra sé e lo sportello dell’auto scura dietro di loro. «Cos’è? Hai paura che qualcuno ci veda?» a volte malediceva la sua dote così sviluppata.

«Lo sai che non me ne frega un cazzo di quello che pensa la gente!» e, poi, accadde tutto in un attimo. In un secondo gli occhi di Ruki saettarono in quelli di Akira, ancora fermo con un piede nella pozzanghera. Il cantante sapeva di essere stato visto e lo salutò con un cenno del capo, prima di salire in macchina con quel ragazzo e lasciarlo in compagnia di una strana sensazione di vuoto.

 

E quindi Ruki non fa altro che lasciargli occhiate…chissà perché? >w> lascio a voi la scelta che preferite *perfida*

Al prossimo capitolo, mie care, vi do un indizio: preparate i biscotti

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Buongiornoooo~ avete preparato i biscotini? *w* bene, ora vediamo come li preparano loro xD ci vediamo giù ♥

 

 Sing for me

 

 

«Dio mio! Datemi dei piedi nuovi!» Yuu entrò in cucina lasciando che le porte ondeggiassero come in un bar del Far West. In un certo senso quella sera aveva davvero duellato con i clienti, i piatti dall’equilibrio precario, le scarpe strette e i pantaloni scomodi.

«Se non sei sicuro di aver fatto tutto, non sederti, è un consiglio.» Kouyou stava sistemando i tegami che quel povero ragazzo di Watase non avevo fatto altro che lavare.

«Credo di aver fatto tutto, si

«Allora riposati, te lo sei più che meritato, ma sappi che non ti rialzerai facilmente da quella sedia.»

E quando Yuu avvertì la splendida sensazione che invase il suo corpo gli sembrò di rinascere, gli venne addirittura da ridere e dovette far forza su se stesso per non lasciarsi scivolare fino al pavimento e restarsene lì inerte. Yutaka era già andato via lasciandoli praticamente soli, in realtà non sapeva se credere del tutto alla sua innocenza. «Che stai facendo?» riaprendo gli occhi aveva visto Kouyou prendere della farina.

«Devo fare dei semplici biscotti di pasta frolla per domani.»

«Ma è tardi! Non ci torni mai a casa?»

«Resto sempre qui dopo l’orario di chiusura. Durante il giorno ci occupiamo dei dolci più difficili, ma qualcuno deve pur fare quelli più semplici.»

«Non è facile star dietro a Yutaka, eh?»

«Per niente, ma mi piace creare dolci, anche solo dei semplici biscotti. Mi sento capace di qualcosa, almeno una volta nella vita.»

«Ti darei volentieri una mano, ma non so da che parte cominciare. Sono bravo a rompere le uova, anche se mio fratello ti direbbe che non rompo solo quelle!» la risata di Kouyou gli piaceva, era fresca e dolce come il pezzetto di cioccolata che aveva rubato da una fetta di torta prima di servirla.

«Vuoi provare?»

«Sicuro che non ti darei più problemi che aiuto?»

«No, saranno buonissimi e domani li serviremo con il tè e la cioccolata, vedrai che sarà una bella soddisfazione.»

Ora che Yuu ci pensava con la dovuta attenzione, realizzò che per tutto il giorno non aveva fatto altro che guardare i volti di donne e uomini di ogni età deformati dall’estati che attraversavano quando davano il primo morso al dolce che avevano ordinato. Eppure era sicuro che nessuno di loro avesse pensato a quanto lavoro ci fosse dietro il miscuglio di ingredienti senza un apparente senso logico. «Avverto Akira che farò tardi.» come gli aveva detto, rialzarsi fu una fatica che non si aspettava, ma mandò un messaggio suo fratello, si lavo le mani e arrotolò le maniche della camicia bianca fino ai gomiti. Il gilet nero poteva anche lasciarlo da qualche parte. «Cosa faccio

«Allora, per prima cosa metti un grembiule, altrimenti ti ritroverai il pantalone un disastro. Poi prepariamo gli ingredienti: qui ci sono zucchero e farina. Rompiamo sei uova e sciogliamo il burro.»

«Oui chef!» glielo aveva sentito dire a Yutaka in risposta ad un ordine che gli aveva appena impartito, un ordine che lui ovviamente non aveva capito. Era lontano anni luce dal mondo di Kouyou, ma vederlo all’opera lo affascinava incredibilmente, era come vedere un artista che crea la sua opera d’arte dal bianco asettico di una tela. Quale modo migliore per conoscerlo che mettere direttamente le mani in pasta? Avrebbe toccato con mano gli ingredienti con cui costruiva le sue opere d’arte, magari avrebbe anche scoperto che cos’era questa grande soddisfazione di cui parlava.

«Fai un buco nella farina, così.» Kouyou glielo mostrò immergendo la mano nella polvere bianca. «Ora rompi le uova e comincia ad impastare.» e detto così sembrava davvero essere una cosa estremamente semplice, ma quando Yuu andò a distruggere la barriera di farina, il liquido cominciò ad espandersi in tutte le direzioni.

«Oddio, sto facendo un disastro!»

«Calmo, non è nulla.» Kouyou gli sorrise prendendo in giro la sua espressione di panico.

«Ma te non è successo!»

«Ti aiuto io.» e le loro mani finirono in pasta insieme, un tutt’uno con le uova e la farina. Neanche fossero i protagonisti di quel film degli anni novanta in cui finivano fare un vaso di argilla insieme, solo che Yuu si ritrovo a due centimetri dal volto dell’altro che aveva un po’ di farina tra capelli raccolti in un ciuffo che cerca in ogni modo di sembrare una coda. Quella che credeva essere una guancia liscia, era coperta da un filo di barba quasi impercettibile, ma quello che più di tutto lo colpì fu il suo odore: sapeva di buono, di una crostata lasciate raffreddare tra le tendine svolazzanti di una giornata di sole, di casa della nonna quando la domenica cucina i tuoi piatti preferiti costringendoti a mangiare finché non respiri, di tutti quei sapori che sai di non poter più ritrovare e così diventano ricordi preziosi.

Fu in quel momento che se ne innamorò, anche se Yuu ancora non lo sapeva.

 

*

 

Era stata una di quelle giornate che Yuu non avrebbe mai immaginato di vivere, ritrovarsi ad impastare biscotti con un ragazzo bellissimo che si conosce appena succedeva solo in tv e, soprattutto, non succedeva a lui che era sempre stato mediocre in tutto, non a lui che era gay in un paese in cui anche tenersi per mano poteva rischiare di essere troppo intimo. Non a lui che era sempre stato un disastro nelle relazioni, che a volte aveva paura di perdere l’orientamento, di girare troppo veloce su se stesso e di non riuscire a ritrovare l’equilibrio; troppe volte aveva dato la colpa all’altro e l’unica volta che aveva deciso di fidarsi era stata quella in cui aveva ricevuto il colpo più duro.

Eppure Kouyou non gli comunicava nulla di tutto questo, anzi. Gli ispirava sesso su una scrivania prima dell’orario di chiusura, quando c’era ancora il rischio di essere scoperti, gli faceva immaginare una fuga notturna, un gelato d’inverno, l’hanami e il fumo che si alzava imprevedibile dalla sigaretta che aveva appena finito di fumare. Sapeva che non avrebbe dovuto fare quel tipo di pensieri, in fondo lo conosceva appena e si sentiva così superficiale da farsi schifo da solo, perché si sarebbe fatto volentieri una sega sotto la doccia pensando a lui, a come poteva essere senza vestiti o sudato in un letto con le lenzuola sfatte. Ed ecco che ritornava di nuovo al punto critico nel giro di cinque secondi. Non scopava da troppo tempo.

Nel frattempo era arrivato alla porta con passo deciso senza far troppo rumore, se Akira poteva benissimo continuare a dormire indisturbato, lo stesso non valeva per i vicini che sapevano essere dei grandissimi stronzi quando volevano. Entrando in salotto trovò abbastanza luce per vedere dove lasciava scarpe e giacca, per non inciampare nel gradino dell’ingresso e trovare Akira sul divano raggomitolato come un bambino, doveva essersi addormentato guardando qualche noioso programma in tv, quelli senza sottotitoli che non riusciva mai a capire e pieni di facce stupide. E conoscendolo, anche sentendo freddo, non aveva avuto la forza di alzarsi per prendere una coperta, o magari l’aveva fatto un paio di volte nella sua mente prima di addormentarsi del tutto; non era proprio il caso di lasciarlo lì a congelare, perciò lo svegliò il più delicatamente possibile, posandogli una mano sulla spalla e cercando di penetrare fino agli strati più profondi del sonno in cui era caduto. A volte lo invidiava perché lui, invece, si svegliava per il minimo fruscio e passava le notti insonni ad ascoltare il frastuono della vita che continuava in strada. Sua madre gli diceva sempre che lo faceva per istinto di protezione verso Akira, perché se ci fosse stato un pericolo lui non l’avrebbe sentito, ma ormai era cresciuto e non aveva più bisogno di lui per svegliarsi al mattino, andare a lavoro, fare la spesa, o semplicemente vivere la sua vita.

Akira lo guardò confuso e con la fronte corrucciata da un lieve fastidio per essere stato svegliato, ma quando capì che Yuu gli stava dicendo di andare in camera si lasciò sollevare senza opporre resistenza e, nell’intontimento del sonno, si fece guidare fino a poggiare la testa sul suo morbido cuscino di cui riconobbe la consistenza. Era vero quello che dicevano dei sensi, se ne manca uno gli altri quattro fanno in modo di diventare di nuovo cinque, anzi se ne può avere anche un sesto o un settimo se si conta la capacità di comprendere il mondo meglio di chi è distratto dall’abitudine: quando si nasce perfetti si dà per scontato e tutto ciò che si ha passa in secondo piano, ma è quando qualcosa viene a mancare che non si può continuare senza ricordarlo ad ogni respiro. Eppure ora non era il tempo di pensarci perché vedeva davanti a sé suo fratello Yuu ed il suo migliore amico placidamente rilassati sul divano in salotto, sembravano troppo presi dal discorso per accorgersi di lui, ma Akira non aveva potuto fare a meno di notare le loro espressioni rilassate e soddisfatte; ovviamente non riusciva a sentire ciò che dicevano, ma capì ugualmente che stavano parlando di lui.

«Finalmente mi sono liberato, non sai che peso enorme ho dovuto sopportare tutti questi anni!»

«Non hai idea di dove sia? Sei sicuro che non sia di là?» Yutaka non parve neanche lontanamente preoccupato.

«No e non m’importa, tanto non ci sentirebbe lo stesso.» Yuu sospirò. «Era solo un peso, un’inutile zavorra che sono stato costretto a trascinarmi per anni! Ora potrò fare quello che voglio, persino far venire Kouyou qui da me senza che ci sia lui in giro a dar fastidio. Non ha ancora capito che le persone si sentono a disagio quando c’è lui? Ah, e posso anche tornare con Kaito se voglio. Sono libero finalmente, non mi sembra vero!» Yuu socchiuse gli occhi godendosi quel momento di piacere.

«A dir la verità mi sento sollevato anch’io. È sempre stato difficile stargli dietro, passare una serata tranquilla al cinema o in un locale era un’impresa colossale. Forse era compassione quella che mi teneva vicino a lui, continuavo a ripetermi che sarebbe stato da stronzi accanirsi su chi è già sfortunato. Si, mi ha sempre fatto pena.»

Akira non era riuscito a muovere un solo muscolo, la sua mente era più attiva che mai, ma il suo corpo sembrava scollegato; il suo peggiore incubo si era appena realizzato davanti ai suoi occhi e, l’unica cosa che riusciva a fare, era cercare di controllare il respiro impazzito. Non voleva più restare in quella stanza un minuto di più ora che tutti e due lo fissavano inespressivi e senza accorgersene neanche si ritrovò davanti ad una porta, non aveva niente di speciale, era una comunissima uscita di sicurezza; gli venne quasi da ridere per il suo aiuto provvidenziale. Abbassò la maniglia antipanico ritrovandosi avvolto in un turbinio di luci e corpi ammassati che si dimenavano come rapiti da un’estasi mistica, gli bastò fare qualche passo per vederlo in un completo di velluto rosso mentre sembrava urlare le sue maledizioni ad un mondo che non lo capiva. Ruki era su un palco luminoso e si era fermato solo per fissare le iridi artificiali che riempivano il suo sguardo nelle sue, naturali e di un colore caldo e intenso. Era così bello da sembrare irreale.

E adesso insieme a lui lo guardavano tutti, additandolo e ridendo di lui, domandandosi cosa mai ci facesse un sordo in un luogo come quello. Non riuscì a trovare una risposta perché si ritrovò nel suo letto a fissare i numeri verdi della radiosveglia con il fiato corto: 06:32. Ovviamente Yuu stava ancora dormendo e non era il caso di svegliarlo, visto quanto fosse tornato tardi la scorsa notte, perciò scostò delicatamente le coperte sapendo che sarebbe stato inutile cercare di tornare a dormire e si diresse in cucina senza preoccuparsi di essere a piedi nudi. A quell’ora il sole era ancora indeciso, ma presto avrebbe svegliato tutta Tokyo e lui avrebbe dovuto affrontare un nuovo giorno nel mondo, l’ennesima estenuante lotta che non era sicuro di riuscire a vincere dopo quel sogno. Si lasciava davvero troppo influenzare dai suoi sogni, lo sapeva, ma quella spiacevole sensazione era stata reale e non voleva saperne di abbandonarlo; ne sentiva ancora il sapore amaro sulla lingua.

L’odore del caffè avrebbe cancellato ogni traccia della notte e, forse, sarebbe stato meglio berne un po’ prima di sciogliere la tensione sotto la doccia; facendo attenzione ai suoi movimenti preparò la moka ed attese di vederla fumare come un treno a vapore, si addossò alla parete raggomitolandosi su una sedia e stringendo tra le dita la sua tazza fumante. Non si accorse che Yuu lo aveva raggiunto in cucina fino a che, questi, non gli si piazzò davanti con un sorriso assonnato; per lui era così facile perdersi tra i suoi pensieri, era isolato in un mondo da cui non aveva scampo.

Buongiorno!
Ti ho svegliato?

Yuu scosse il capo mentre si versava una dose di caffeina. Tu che ci fai sveglio a quest’ora?

Ieri sera sono crollato troppo presto. Mentì, non gli andava di lanciarsi in una spiegazione che non avrebbe portato a nulla.

Brutta cosa la vecchiaia!

Disse il sedicenne. Certo che suo fratello era davvero un idiota, era impossibile portargli rancore o essere, in qualsiasi modo, arrabbiato con lui. Oh, ma...quello non è un capello bianco! Mimando un’espressione inorridita, lo ringraziò mentalmente per avergli fatto tornare il sorriso.

Non ci casco.

A proposito, ieri hai fatto le ore piccole. C’è qualcosa che dovrei sapere?

Niente di quello che immagini tu, ho solo aiutato Kouyou a fare dei biscotti.

Ah, allora è farina quella tra i capelli!

Davvero?! Yuu si passò una mano nella chioma scura, eppure non gli era sembrato di essere stato così imbranato da portarsi della farina a casa.

No, a meno che non vi siate rotolati sul tavolo! Akira rise di gusto mentre si avvicinava al lavandino per sciacquare la sua tazza.

Magari!

Sei proprio vergognoso! Gli schizzi d’acqua non tardarono a piovere sul volto di Yuu che, per vendicarsi, lo ricorre fino in bagno minacciandolo di morte per soffocamento dovuto all’eccessiva dose di solletico a cui lo avrebbe condannato.

Tra le risate, il buonumore gli s’incollò addosso plasmandosi come cera liquida, ma svanì del tutto quando Akira si ritrovò, qualche ora dopo, davanti all’ingresso della casa discografica. Aveva la forza di affrontare un altro giorno, ma presto si sarebbe esaurita anche quella, lasciandolo come un involucro vuoto che continuava a muoversi come un automa senza emozioni.

«Buongiorno Akira, non ancora ti sei svegliato oggi?» il suo capo gli passò accanto con un sorriso gioviale.

«Mi serve un altro caffè.» il ragazzo si decise a compiere il primo passo che lo avrebbe portato in quella gabbia di matti. Era inutile far finta di nulla: aveva paura di incontrarlo, di guardare quel volto che aveva visto in sogno e scoprirvi la stessa espressione derisoria, ma tra un croissant e un cappuccino, decise di non pensarci.

 

 

u.u chiedo perdono, non succede praticamente nulla in questo capitolo >.< a parte la preparazione dei biscotti apparentemente innocente, ma ambigua *//////* continuiamo pure a shippare Yuu/Akira ♥ li adoro come non mai, vi capisco *^* dite che incontrerà Ruki a lavoro? O riuscirà ad evitarlo? >w> secondo la mia scaletta………non posso dirvi nulla u_u

Ohohohohoh~ *ride come Babbo Natale* al prossimo capitolo care ♥ vi ringrazio tutte .w.

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Ohohoh~ non dico altro, ci risentiamo giù *w*

 

Sing for me

 

«Faccio venti minuti di pausa!» e, come sempre, la sua pausa cominciava sempre dopo quella di tutti gli altri, come se fosse un essere umano di serie B.

«Fanne anche quaranta se vuoi, non ci sarà molta gente fino alle cinque.» quando l’ora della pausa pomeridiana sarebbe arrivata puntuale come la mannaia di un boia.

«Grazie!» Akira si allontanò prima che Hoshi cambiasse idea, volò quasi per i corridoi rincorrendo la sua piccola dose di libertà che lo avrebbe portato in terrazza. Gli piaceva osservare la città da lassù, non ci andava mai nessuno e aveva cominciato a ritenerlo il suo rifugio speciale. L’ultimo piano era deserto, come il resto dei corridoi e, quando passò davanti allo studio di Ruki, il suo nome sulla porta sembrò quasi un monito a girare alla larga; sperò vivamente di non incontrarlo, aveva già abbastanza preoccupazioni per dare retta anche a lui, ma non riuscì a raggiungere l’uscita di sicurezza. Una figura gli si parò davanti all’improvviso, in tutta la sua arroganza e irritazione. Ruki.

«Ciao.» sembrava estremamente rilassato e pericolosamente sorridente. «Ah, ho trovato-» Akira non riuscì a capire cosa stesse farfugliando finché non lo vide ricomparire, subito dopo, con un oggetto tra le dita. «L’ho trovato dopo che sei scappato via, credo sia tuo.»

Una piccola papera di gomma, gialla e dallo sguardo lontano e trasognato, la portava agganciata al cellulare per poterlo distinguere da quello di Yuu. «Si, è mia.»

«Ti ho chiamato per restituirtela, ma non ti sei neanche girato.»

«Andavo di fretta e, poi, non era così importante.» in realtà, non aveva nemmeno realizzato di averlo perso.

«Ok, ormai ho capito che non mi sopporti, volevo solo ridartelo.» Ruki alzò le mani in segno di resa.

«Non è vero.» Akira se ne pentì nello stesso istante, era stata una risposta istintiva; un conto è pensare di odiare qualcuno, un altro è esserne sicuro mentre lo guardi dritto negli occhi accusatori da cucciolo indifeso. Che diavolo stava combinando? Doveva solo andare fuori a fumare, non dare confidenza all’ultima persona sulla faccia della terra a meritarla. Avrebbe dovuto fargli credere che non sopportava la sua presenza, così il loro rapporto sarebbe rimasto al livello di “reciproca sopportazione sul luogo di lavoro”, niente di più. Niente di troppo pericoloso.

«Stai andando a fumare?»

«Pensavo di andare a raccogliere margherite, in realtà.» cosa mai poteva fare, fermo lì, con una sigaretta che fremeva tra le dita?

Ruki gli mostrò un sorriso luminoso. «Ti dispiace se vengo con te?»

«Beh, la terrazza è di tutti.» non poteva certo impedirgli di raggiungere un luogo comune, un luogo che apparteneva soltanto alla casa discografica per essere precisi.

Si ritrovarono avvolti dall’aria frizzante dell’autunno che stava sfumando velocemente nell’inverno, accompagnati dal silenzio imbarazzato di quando si divide uno spazio angusto con un estraneo. «Allora, da quanto lavori qui?»

Akira aspirò una dose generosa di tabacco aggrappandosi alla rete metallica di protezione. «Qualche mese.»

«Io sono qui da due anni, mi chiedo come abbia fatto a non vederti in giro.»

«Sono solo giù al bar.» non era degno di nota o attenzione, sicuramente non tanto importante da catturare il suo interesse. Probabilmente le loro strade si erano già incrociate, ma entrambi erano troppo presi dalla loro vita per notarlo. O magari, semplicemente, non era il momento giusto. «E comunque, neanche io ti avevo notato prima.»

«Ma sapevi chi sono.»

«Sinceramente no.»

«Eppure lo sanno tutti.» che irritante affermazione di modestia, eppure il suo sguardo era sembrato tutt’altro che pieno di autocelebrazione. Sorpreso. A tratti compiaciuto.

«Cos’è che ti fa tanto ridere?» il suo tono non doveva essere stato affatto cordiale, Akira lo riconobbe.

L’altro scosse la testa continuando a sorridere. «Devo ringraziarti.»

«E di cosa?» era impazzito improvvisamente, non c’era altra spiegazione possibile.

«Per avermi fatto sentire di nuovo uno qualunque, anche se solo per cinque minuti.» Ruki spense ciò che restava della sua sigaretta sotto lo stivale borchiato e se ne andò, silenzioso come una foglia trasportata dal vento che si era alzato con l’avanzare della sera.

«Che idiota!» Akira tornò a lavoro con la mente intrappolata in un caos di pensieri incoerenti.

 

*

 

«Mi dispiace, ragazzo, ma non posso darti questo lavoro.»

Yuu rimase inespressivo mentre una doccia ghiacciata lavava via tutte le sue emozioni. «Ma non ho combinato nessun guaio, non ho sbagliato neanche un ordine, non capisco.»

«Tu non c’entri, non ho abbastanza incassi per permettermi un altro dipendente. Forse tra qualche mese…»

«Ma io ho bisogno di questo lavoro.»

«Come io ho bisogno di guadagnare per poterti pagare.»

«Daichi, potresti detrarre la cifra dal mio stipendio, pareggeremo i conti quando potrai.» Yutaka s’intromise nella conversazione, si sentiva in qualche modo responsabile per la sorte di Yuu, in fondo gli aveva promesso qualcosa che non era in suo potere.

«No Yutaka, è troppo, non posso accettare.» nonostante tutto, il moro apprezzò la sua generosità, era parte di lui senza bisogno della conferma in tali manifestazioni di altruismo.

«È una situazione difficile anche per me, ragazzo. Mi spiace.» il signor Takana non era una cattiva persona, in fondo, ma saperlo non rendeva la situazione meno critica.

«È un ottimo lavoratore Daichi, lo sai anche tu. Ha imparato in fretta e nessuno si è lamentato del servizio, anzi. Potresti solo guadagnare con lui.» Kouyou non aveva potuto continuare a guardare restando in disparte e tenendo per sé i suoi pensieri.

«Potremmo trovare un accordo: sei disposto a lavorare senza paga per i primi mesi? In qualche modo ti ridarò quello che ti sei guadagnato, mi impegno ad assumerti regolarmente una volta che gli affari saranno decollati.»

Yuu si ritrovò ad annuire, ancora una volta era stato schiacciato dalla morsa di un destino che aveva scelto per lui imponendogli una strada difficile. Lavorare senza una paga: era un po’ come la vita, si vive gratuitamente in previsione di ciò che poi, un giorno, si spera ci verrà restituito. È ciò che ci spetta di diritto, ma questo non sembra mai abbastanza. «Grazie, signor Takana

«Allora a lavoro, tra un’ora cominceranno ad arrivare i primi clienti.» Daichi si ritirò nel suo ufficio, portandosi dietro la sua camicia dal dubbio gusto.

«Prima ho bisogno d’aria.» Yuu si sentiva quasi soffocare lì dentro, come se la pesantezza della conversazione appena conclusa fosse rimasta a permeare l’aria.

«Vai pure, ci penso io qui.» Yutaka si mise subito a lavoro indossando il suo grembiule, a volte sembrava un’armatura luccicante con cui combatteva per far restare in vita il suo sogno minacciato dal drago chiamato realtà. 

«Yutaka…» Kouyou parlò quasi sottovoce, con tono preoccupato e quasi supplichevole. Non conosceva bene Yuu, anzi non lo conosceva affatto, eppure nelle ore passate insieme negli ultimi giorni aveva capito quanto fosse sensibile e premuroso, divertente e speciale. Era piacevole stare in sua compagnia, tanto che ne risentiva quando tornava al suo appartamento trovandovi solo silenzio.

«Vai.»

Kouyou raggiunse fuori il suo improvvisato aiutante, trovandolo seduto su un muretto non troppo alto che delimitava i confini della proprietà del locale. «Tieni.»

Yuu non l’aveva sentito arrivare, aveva visto soltanto una sigaretta spuntare dal nulla come fosse manna caduta dal cielo. «Come lo sapevi?»

«Riconosco una faccia che ne ha bisogno.»

«Grazie.» Yuu ne fu quasi commosso e quel ringraziamento celò molto più di quanto fosse disposto ad ammettere.

«Non preoccuparti, si sistemerà tutto. È solo un brutto periodo, ma passerà.»

«Spero tu abbia ragione, quei soldi mi servono.»

«Yutaka non ti lascerà nella merda e nemmeno io.»

Yuu si voltò sorpreso. «Ma nemmeno mi conosci.» non si aveva un simile atteggiamento verso chi si conosce appena, non di solito almeno. Cosa c’era dietro tutta quell’accondiscendenza?

«Credo molto nel mio istinto e, stavolta, mi dice di fidarmi di te. Raramente le mie “prime impressioni” sono sbagliate.»

«Beato te, le mie lo sono quasi sempre e faccio puntualmente l’errore di fidarmi delle persone sbagliate.» e neanche riuscì a finire, che una figura familiare si stagliò in lontananza, illuminata dalla luce arancione del tramonto; sembrava che il destino stesse lì nascosto da qualche parte ad origliare, pronto a giocare il suo tiro mancino. «Tipo lui.» il ragazzo si avvicinò con la lentezza con cui si dimentica il passato, peccato che sia altrettanto veloce a tornare nel momento sbagliato.

«Yuu!»

«Ciao Kaito.» era l’ultima persona gradita in quel momento di bilanci e sconfitte.

«Come stai?»

«Bene.»

«Lavori qui adesso?»

«Così pare.» di certo non era diventato un manager di successo con indosso un grembiule da cameriere. Lo vide lanciare un’occhiata anonima a Kouyou che era rimasto lì, in piedi, accanto a lui. «E tu che ci fai da queste parti?» ricordava che il suo appartamento fosse dall’altra parte della città.

«Abito qui vicino adesso, mi hanno assunto in uno studio legale e mi sono trasferito.»

«Capisco.» forse era infantile provare invidia per il successo di qualcun altro, forse un giorno il karma l’avrebbe punito, ma per ora si limitò ad esternare indifferenza.

«Beh, io torno dentro.» Kouyou doveva essersi sentito chiaramente a disagio ascoltando una conversazione di cui non faceva parte.

«Aspetta, rientro anche io. Scusami Kaito, devo tornare a lavoro.» lo ringraziò mentalmente per avergli dato quella via di fuga.

«Ma certo, vai pure.»

Yuu gli rivolse un cenno del capo, accompagnato da un amaro sorriso, prima di seguire il pasticcere in cucina.

Ripresero a lavorare su una strana torta al cioccolato, ma Yuu sembrava stranamente silenzioso, la cucina non era la stessa senza la voce del suo buonumore. «Tutto bene?» Kouyou non sembrava allarmato, forse solo un po’ preoccupato.

«Si, scusami, è che non mi aspettavo di rivedere il mio ex.»

«Oh, quindi sei…»

«Gay, si. Tu…no?» aveva paura della sua risposta, un terrore che si dimostrò essere fondato.

«No.» Kouyou non notò lo sguardo sul volto di Yuu perché lo nascose con maestria, era stato allenato dagli anni in cui, per continuare a vivere una vita più normale possibile, aveva dovuto imparare a dissimulare le sue vere emozioni. Aveva perso il lavoro, avrebbe dovuto lavorare gratis per chissà quanto tempo e il ragazzo che gli piaceva era etero. Cosa poteva peggiorare ancora quella giornata?

«Capisco che non è piacevole rivedere qualcuno che credevi di aver dimenticato, se vuoi puoi tornare a casa.» Yuu doveva aver vissuto un po’ troppe emozioni quel giorno.

«Cosa ti fa pensare che non l’abbia dimenticato?»

«A me non sembra. Ci sono passato anche io: stavo per sposare una donna che credevo mi amasse, ma lei mi ha tradito poco prima del matrimonio. Con il senno di poi posso ringraziarla per aver avuto la decenza di farlo prima che fosse troppo tardi per tornare indietro, comunque avevamo un accordo prematrimoniale e ho dovuto rivederla spesso per annullarlo. Allora l’amavo ancora, quindi riconosco uno sguardo del genere.»

«Beh, stavolta il tuo istinto ha sbagliato. È solo rancore ciò che provo per quello stronzo, stavamo bene insieme ma mi ha lasciato perché non riusciva a vivere la sordità di mio fratello. So che non è da biasimare, non tutti riescono a gestire qualcosa di così diverso dal loro “piccolo mondo perfetto”, ma è più forte di me. Akira è una parte importantissima della mia vita e Kaito ha fatto soffrire soprattutto lui, per questo non lo perdonerò mai. Io l’ho sempre protetto, vedo ogni giorno quanto lotti con se stesso per adattarsi alla vita che non riesce ad accettare, io ho tutto, sto bene, mentre lui è intrappolato in un mondo da cui io non posso tirarlo fuori. Non sai quante volte ho dovuto fingere che tutto andasse bene, quante volte ho dovuto reprimere la rabbia verso chi osava deriderlo proprio sotto i miei occhi. Non lascerò che sia stato tutto invano. Non posso amare una persona come Kaito, ma solo augurarmi che stia il più lontano possibile dalle nostre vite.»

Kouyou era disorientato. «Scusami, non immaginavo che…» che fosse tutto così complicato, che le sfumature d’ombra fossero così tante in una vita che sembrava luminosamente perfetta.

«Ma no, scusami tu, davvero, non avrei dovuto prendermela con te. Forse hai ragione, dovrei tornare a casa.»

«Ci penso io qui, vedrai che domani andrà meglio.»

«Già, scusami ancora.»

«Yuu, non preoccuparti. Ogni tanto fa bene parlare con qualcuno, non dobbiamo sempre essere perfetti, o fare ciò che gli altri si aspettano da noi. Puoi anche essere un essere umano qualche volta.»

«Grazie Kou.» Yuu recuperò i suoi averi e si liberò del grembiule scuro. «Ci vediamo domani.» ma prima che potesse raggiungere la porta, Kouyou richiamò la sua attenzione.

«E comunque avevo ragione, il mio istinto non sbaglia mai.»

«Riguardo a cosa?»

«A te. Sei una persona splendida.»

Con il cuore in subbuglio, Yuu si perse tra le strade affollate.

 

*w* finalmente quei due hanno scambiato qualche parola in modo decente! Che cosa avrà voluto dire Ruki così enigmatico? u_u non è chiaro se Akira ne sia meno irritato o continui a non sopportarlo…come sono cattiva éwè ma vedrete che quando le cose saranno maturate, mi ringrazierete per non aver corso ♥

Povero piccolo Yuu *abbraccia* una tranvata dopo l’altra T^T niente lavoro, incontra l’ex e Kou gli rivela di essere etero D: come minimo ora si va a buttare da un ponte xD ma io vi avevo detto di stare in guardia perché niente era quello che sembrava, ma NON DISPERATE e abbiate fiducia in me ♥ non ve ne pentirete! Eppure Kou è così ambiguo che i nervi, non trovate?! *lo picchia con il mattarello*

Grazie a tutte voi che leggete e/o recensite ♥ al prossimo capitolo~ *lancia coriandoli*

 

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


 

Sing for me

 

«Buona serata Akira e salutami Yuu!»

«Anche a te, Hoshi, a domani.» Akira mise finalmente fine alla lunga giornata piena di aperitivi ed espressi. Non vedeva l’ora di essere a casa con il suo caldo pigiama, sul divano, con la pancia piena mentre magari si addormentava davanti alla tv. Quando lasciò l’edificio non fu solo l’aria fredda a colpirlo: in strada c’erano alcune ragazze particolarmente agitate, parvero addirittura essere molto deluse quando ad uscire dalla casa discografica fu lui e non la Star dei loro sogni. Di solito smontava dal lavoro prima delle sette, quindi era la prima volta che assisteva a quello spettacolo che aveva dell’assurdo.

Cosa spingeva delle persone ad aspettare per ore al freddo, sperando di riuscire a vedere qualcuno che non le avrebbe degnate di uno sguardo? E quel qualcuno si rivelò essere, senza la dovuta sorpresa, proprio Ruki. Lo riconobbe dalla camminata furtiva e dal modo in cui cercava di tirarsi su il cappuccio della felpa nera, tutto sembrava uno stupido e assurdo déjà vu. Capiva che per altri potesse essere molto importante, ma l’essere scortati dalla sicurezza fino al furgoncino fermo in strada no, questo non lo concepiva. Le fans seguirono di corsa il van quando partì a tutta velocità diretto chissà dove. Era questo probabilmente ciò a cui si riferiva prima in terrazza Ruki. Per lui era solo uno come tanti, una persona comune, invece ora capiva che non poteva vivere senza che la stampa, o orde di ragazzine urlanti, lo sapessero e lo soffocassero con la loro presenza ingombrante. Non doveva essere quella che si chiama una situazione piacevole, sicuramente c’erano cose peggiori nella vita, ma almeno se lui avesse fallito o avesse avuto una giornata storta, non l’avrebbe saputo il mondo intero.

Nonostante tutto non riusciva a provare pietà nei suoi confronti, era stato lui a scegliere quel genere di vita ed era l’unico da biasimare se ora non riusciva neanche a raggiungere l’altro lato del marciapiede. Dovette farsi strada a forza, un passo dopo l’altro, fino a raggiungere la piccola stradina dove ancora una volta il destino decise di giocare con lui. Una monovolume gli si parò davanti con fare minaccioso, il vetro scuro si abbassò piano fino a rivelare il mago dei travestimenti: portava i suoi enormi occhiali da sole e una mascherina bianca oscurava quasi completamente il suo viso; gli stava parlando mentre gesticolava nervoso, non poteva certo immaginare che l’altro non l’avrebbe mai sentito. Cosa ci faceva lì poi? L’aveva visto salire su quel van con i suoi occhi.

«Non parlo con chi non ha una faccia.» in qualche modo doveva pur risolvere quella situazione. Visto da vicino, ora che si era avvicinato allo sportello, era ancora più inquietante. Stava per andarsene quando vide Ruki liberarsi dal suo travestimento di agente segreto in missione speciale.

«Così va meglio?»

Akira finse di pensarci su. «No, forse era meglio prima.»

Ruki gli regalò un sorriso spontaneo e luminoso. «Dai sali, ti do un passaggio!»

«No grazie, non disturbarti.» non era il caso di arrivare a quel tipo di confidenza e stare insieme a lui nello stretto abitacolo di una macchina.

«Ma quale disturbo, la strada è la stessa! Dai, prima che mi vedano.»

Akira si guardò intorno alla ricerca di una scusa qualunque, ma dentro di sé sapeva di essere spacciato: faceva freddo, il cielo non prometteva una serata limpida e le prime gocce di pioggia non tardarono ad arrivare. Aggirò la macchina e si beò del calore che lo invase avvolgendolo con accoglienza. «Ti ho visto salire sul quel van poco fa, cosa ci fai qui?»

«Sono costretto a ingannarle: una volta girato l’angolo, recupero la mia macchina. Non mi riconosceranno.»

«Se sta bene a te.» Akira sperò di non pentirsi di quella scelta pericolosa, non riusciva a rilassarsi: restava nella costante paura che Ruki potesse parlargli, quindi lo osservava furtivamente attraverso lo specchietto laterale e quello retrovisore.

«È il mio nuovo singolo, ti piace?» vide Ruki alzare il volume e sorridere soddisfatto, quasi fosse un padre che mostrava con entusiasmo la fotografia della sua primogenita.

«Mhm.» che altro avrebbe potuto dire in fondo? Che avvertiva soltanto una tiepida eco lontana di ciò che doveva essere, in realtà, la sua musica? Aveva l’impressione che fosse potente quanto la forza dell’acqua che lentamente scava il suo percorso, purificatrice come il fuoco, invadente e impetuosa come il vento e solida come la terra a cui aggrapparsi per costruire le proprie certezze.

«Non è il tuo genere eh?»

«No.» la conversazione lo stava portando verso le sabbie mobili e, come gli eroi nei fumetti, poteva soltanto proseguire il suo cammino a testa alta e affondare.

«Che genere ti piace?»

Possibile che con tanti argomenti di cui discorrere, Ruki avesse scelto proprio la musica? Era un cantante, lo capiva, così come sapeva bene che era una delle prime domande di cortesia con cui rompere il ghiaccio di una conversazione in stallo. Probabilmente non voleva affatto saperlo, né aveva intenzione di conoscerlo meglio, perché lui aveva sempre creduto che la musica potesse dire davvero tanto sulle persone senza bisogno di spiegazioni o vuote parole. «Metal.» lo aveva detto senza pensarci troppo, seguendo l’istinto che finora lo aveva sempre salvato in caso di necessità. Non sapeva neanche che genere di musica facesse Ruki, magari aveva appena fatto la figuraccia del secolo.

«Oh, sei un tipo tosto allora! Più di me.»

«Così dicono.» gli era andata bene anche stavolta, ma non avrebbe dovuto continuare a sfidare la fortuna in quel modo sfacciato, prima o poi gli avrebbe voltato le spalle lasciandolo a brancolare nel caos. Sul volto di Akira, allora, comparve un sorriso carico di tensione: lo sguardo continuava a saettare dallo specchietto al viso dell’altro, l’osservava di sottecchi per paura che potesse parlare ancora trovandolo impreparato. Perché diavolo aveva accettato quel passaggio? Anche se era una soluzione alquanto confortevole, in quel momento avrebbe preferito essere un anonimo passante delle strade affollate.

«Perché mi guardi così?» Ruki aveva notato lo sguardo insistente del passeggero, era quasi penetrante e sembrava pesargli sulla pelle come una carezza. Lesse una sfumatura di panico negli occhi scuri dell’altro quando vi si perse dentro.

«Meglio della strada.» non era certo ciò che poteva definirsi un complimento, né tanto meno una risposta soddisfacente.

«Mhm sarà. Sei gay vero

«Oh, che domanda diretta!» nonostante Akira avesse una mentalità molto aperta, era pur sempre un giapponese: c’erano argomenti assolutamente taboo.

«Strano, di solito non sbaglio.»

«Chi ti ha detto il contrario?» per un po’ scese il silenzio tra di loro, ci fu solo uno strano gioco di sguardi indecifrabili. Probabilmente si stavano studiando come avrebbero fatto due duellanti di un lontano passato, cercando di capire la prossima mossa dell’avversario, di capire chi avessero davanti.

«Sai, alcuni ucciderebbero per stare al tuo posto in questo momento e invece tu fai il sostenuto.» ormai era diventata una questione di principio: non poteva credere che quel ragazzo lo trattasse come uno sconosciuto qualunque. Tutti lo adoravano quasi come una divinità, mentre lui lo ignorava completamente, anzi sembrava che la sua presenza gli provocasse un fastidio latente. Improvvisamente davanti a lui si aprì un ventaglio di possibilità e tutte, allo stesso tempo, possibili. Avrebbe potuto cercare di conoscere meglio quel ragazzo diffidente: finalmente qualcuno che non si aspettava niente da lui, che non lo giudicasse dal suo involucro.

«Immagino, se le tue fans sono tutte come quelle pazze del supermercato...»

«Beh, solo alcune per fortuna.» merito della stessa dea bendata che aveva deciso di giocare con i fili del destino dell’ignaro Akira, stringendoli tra le dita aveva deciso di restare a guardare mentre la vettura scura si incolonnava in un ingorgo senza apparente salvezza. «Comunque continui a non dirmi il tuo nome.» Ruki si era messo comodo, stranamente rassegnato a passare lì molto del suo tempo.

«Perché continuo ad essere il ragazzo dei caffè.»

«Non fare il difficile. Io mi chiamo Takanori, ma non dirlo in giro, sono in pochi a saperlo.» difendeva con ferocia il suo nome. Ruki era la celebrità, Takanori era un ragazzo come tanti, se stesso, il volto che guardava allo specchio ogni mattina. Non voleva essere giudicato per questo, la gente guardava il suo riflesso e sceglieva la personalità da indossare, lui indossava Ruki; era una parte di lui, ma non lui.

«Ok.»
«Ma...che irritante! Prima o poi scoprirò come ti chiami, stanne certo.»

«E non ti sarà difficile.» un timore del tutto fondato il suo, sicuramente avrebbe scoperto altre verità sul suo conto e, allora, sarebbe sparito esattamente come gli altri. Doveva distogliere la sua attenzione da quei dettagli compromettenti. «Allora, da quanto abiti vicino casa? Non mi sembra di averti visto in giro.»

«Solo da un mese a dir la verità, avevo bisogno di un posto calmo e isolato e questa casa era perfetta. Ma non li leggi i giornali!?»

«No.»

«Beh, sarai l’unico in tutta Tokyo a non saperlo. Non molto tempo fa alcune fans hanno scoperto dove vivevo, da allora non ho più avuto un attimo di tregua: erano lì, notte e giorno a controllare ogni mia mossa, venivo letteralmente assalito quando osavo entrare o uscire. Vivere lì era diventato un inferno.»

«E poi osi dire che non sono pazze da internare!»

«Non tutte sono così. La fai sembrare qualcosa di orribile, ci sono anche fans che sanno rispettare i tuoi spazi e la tua persona.»

«Ma quindi è vero quello che si dice delle Star? Che la vostra vita è complicata e pericolosa a suo modo?»

«E anche stancante, non dimenticarlo. Come per qualsiasi altro lavoro ci sono cose che fai volentieri e altre meno, ma l’ho scelto consapevolmente e non posso assolutamente lamentarmi. Non è paragonabile ai duri lavori di operai o donne di casa, ma spesso non si dorme, ci sono scadenze da rispettare, persone da tenere in considerazione: persone che hanno più potere di te e sono in grado di importi limiti e scelte, perché senza i loro soldi diresti addio al tuo sogno.»

Avanzarono di qualche metro prima che Akira si concedesse qualche attimo per valutare quelle affermazioni con un giudizio adeguato: non si trattava della lamentela di un ragazzino viziato, ma di un adulto consapevole che non siamo noi a scegliere la strada giusta, ma è lei a scegliere noi e, spesso, si tratta di quella più difficile. «Non è meglio essere un nessuno qualunque? Un indipendente e anonimo passeggero della vita che fa le proprie scelte tenendo conto solo del suo desiderio, senza che nessuno lo sappia e sia lì pronto a giudicarti.»

«Tu riusciresti a rinunciare al tuo sogno una volta che ci sei dentro? Si ingoiano tanti bocconi amari nella vita, ma se riescono a farti realizzare il tuo sogno, saresti disposto a divorarli. Non intendo soltanto riuscire a intravedere la meta, ma raggiungerla, afferrarla e viverla. Nonostante tutto ammetto che può essere pericoloso, perché una volta realizzato il progetto potrebbe non essere come l’hai immaginato, oppure stancarti troppo presto.»

«E il tuo è come ti aspettavi?»

«No. Molto meglio

«Ma se lo hai realizzato, vuol dire che non hai più sogni ora, cosa ti spinge ad andare avanti?»

«Non è vero che non ho più sogni. I sogni possono essere anche molto piccoli, ma altrettanto importanti.» Ruki sorrise bonariamente, i suoi occhi sembravano guardare aldilà del parabrezza un po’ appannato, come se riuscissero a vedere un futuro perfetto. «E cercarne uno nuovo è la parte migliore.»

«Per esempio? Quali sono i tuoi sogni adesso?»

«Non posso dirtelo: i sogni sono i segreti dell’anima.»


*


«Allora… grazie del passaggio.» fermi davanti al cancello di casa Shiroyama, Akira non dimenticò la sua gratitudine e la sua felicità per poter finalmente mettere fine a quella tortura psicologica.

«Di niente, quando vuoi, anzi mi fa piacere non viaggiare da solo.»

Akira non rispose, si limitò ad osservarlo cercando di decifrare il suo sorriso, di solito gli occhi delle persone erano trasparenti, uno specchio di emozioni in cui non aveva nessuna difficoltà a distinguere la giusta sensazione; stavolta si ritrovò davanti uno sguardo difficile da collocare, sembrava che i suoi veri pensieri fossero trincerati dietro un velo di diffidenza. Il telefono vibrò nella sua tasca distogliendolo da quelle preoccupazioni, quando lo recuperò lesse le parole di Yuu: sarebbe tornato tardi a casa e gli chiedeva di occuparsi della cena. «Merda!» tutto sommato la giornata non era andata poi così male, quindi il pensiero di trovare il vuoto ad attenderlo al rientro non lo allettava di certo, se poi si considerava la cena da preparare diventava un vero disastro.

«Tutto bene?»

«Si, devo correre a cucinare qualcosa. Meglio che mi muova.» ora come ora il pensiero di dover scendere da quella macchina aveva perso dell’attrattiva che aveva conservato fino a qualche attimo prima.

«Se non ne hai voglia, potremmo cenare insieme, io sono solo stasera. Tu?»

«Aspetto mio fratello.»

«Oh.»

«Perché? Sai cucinare?» ora che prestava la dovuta attenzione alla piega della loro conversazione, si rese conto di aver dato per scontato che un tipo come Ruki non fosse in grado di far molto da solo.

«Cosa credi?! Potrei sorprenderti...e in tutti i sensi.»

Ad Akira non sfuggì la sfumatura maliziosa di quell’affermazione. «Vado o non farò in tempo.»

«Ci vediamo domani. Buonanotte.»

«Notte.» sfidare il freddo umido non fu terribile quanto correre verso il cancello e allontanarsi dalla luce dei fari che gli illuminavano il cammino. Akira non riuscì a vedere in controluce oltre il vetro scuro, ma sapeva che Ruki lo stava osservando, sentiva il suo sguardo pesargli addosso come un mantello. Quando varcò la soglia del cancello in ferro battuto, se lo chiuse alle spalle sperando di trincerare fuori quella strana sensazione che non riusciva a decifrare e ad abbandonare. Cosa diavolo gli prendeva? Non poteva permettersi di avvicinarsi così tanto a Ruki, né a qualsiasi altro ragazzo; non poteva essere così egoista da trascinare qualcun altro nel suo mondo silenzioso. A soffrire sarebbe stato sempre e solo lui, intrappolato in un limbo che sprofondò nel buio quando Ruki si allontanò portando con sé la sua luce.

 

*

 

Ti prego, dimmi che hai cucinato qualcosa! Sto morendo di freddo e sarei capace di mangiarmi un bue intero! Yuu corse in cucina grato nel vedere una pentola sui fornelli, allungò le mani lasciando che il vapore gliele riscaldasse.

C’era solo del pollo in frigo. Se mi avessi avvisato prima, avrei comprato qualcosa.

Ma va benissimo qualsiasi cosa, preparo la tavola.

Come mai sei tornato così tardi oggi?

C’era tanto da fare.

Capisco che è l’inizio e vuoi impressionare il tuo capo, ma non dovresti lavorare così tanto.

Infatti non stava lavorando, era stato tutto il giorno in giro per la città e, quando il freddo era diventato troppo pungente, si era rifugiato in un anonimo negozio di musica. Non mi dispiace aiutare Kouyou. Si sentiva terribilmente in colpa, raramente aveva mentito ad Akira e mai si era trattato di una bugia di quella portata. Per una volta era grato che non potesse ascoltare la sua voce, o l’avrebbe colto in fallo leggendo la paura nell’incrinatura della sua affermazione; si odiò all’istante per quel pensiero.

Non si nascondeva nulla di compromettente nella verità, ma non voleva parlare di ciò che era successo: del suo incontro con Kaito, della sua chiacchierata con Kouyou, di ciò che aveva provato quando le sue dita avevano accarezzato le corde rigide e contratte sul legno lucido della chitarra. L’aveva vista lì, adagiata in un angolo triste e sola e si era sentito come lei. L’aveva imbracciata e, quando si era seduto su quel piccolo sgabello e aveva cominciato a suonare si era sentito improvvisamente libero, più che suonare si era limitato a mettere in fila note senza ordine, ma era bastato per sentirsi sopraffatto da tutti gli anni passati lontano da se stesso. Si era allontanato dallo Yuu che era a sedici anni, da chi avrebbe voluto e potuto essere, per poi scegliere una strada piena di responsabilità in cui, pian piano, il ragazzino ingenuo era annegato scomparendo nell’oceano dei sogni. Ora sapeva che non era mai del tutto scomparso, ma era rimasto lì in attesa di poter tornare a vivere. Ma ora mangiamo, buon appetito! Era pronto ad accettarlo? Era pronto a dare spazio a se stesso, ai propri sogni? Era pronto a vivere la sua vita invece che quella di Akira? Si era sempre illuso di averlo fatto per lui, di aver fatto un sacrificio per un bene superiore, ma forse lo aveva fatto solo per paura di credere in se stesso e restarne deluso. Poteva quasi sentirla la chiamata del destino.

Yuu, sei pronto?

Si.

 

*w* capite in che situazione siamo?? Perché hai accettato il passaggio, Akira caro, se ti stava così antipatico??? >w> e come mai Ruki si è lanciato in discorsi così profondi e personali?? uwu aspetto con ansia le vostre riflessioni ♥ anche su Yuu che pian piano ‘sta crescendo’, sta maturando e si sta staccando da Akira =w= mi sa che non è Akira a dipendere da lui, ma il contrario ♥ *li ama* spero che il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima ne~ ♥v♥ *ama tutti*

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


A_A AVVISO: CAPITOLO BOOM! xD

 

Sing for me

 

«Ma dai! Son finite le sigarette!» proprio ora che Akira ne avrebbe volentieri fumata una, aveva dovuto fare i conti con la realtà. 

Si, scusami. Yuu abbandonò sul divano il joystick che stava passando un brutto quarto d’ora a causa dei nemici da sterminare. Ho fumato l’ultima stamattina.

E ovviamente lasci il pacchetto vuoto sul tavolo.

Altrimenti come avrei fatto a vedere quell’espressione sulla tua faccia?

Che stronzo!

Ti voglio bene anche io! Yuu riprese a giocare rivolgendo tutto il suo interesse ad un passaggio particolarmente delicato. «Maledetti bastardi, vi ucciderò tutti!»

«Esco e vado a comprarle. Mi senti?»

Yuu annuì distrattamente. «Ah, già che ci sei, mi compreresti qualcosa da mangiare?»

«Ti compro una carota, così puoi infilar-» Akira non poté metter fine alla sua rivendicazione perché venne attaccato da un cuscino volante. Lasciando perdere la vendetta, si premurò di indossare sciarpa, guanti e un bel cappotto pesante, ormai erano in pieno inverno; dicevano fosse prevista una nevicata di almeno venti centimetri durante la settimana di Natale. Una festività davvero inutile a suo parere, ma come ogni anno avrebbero invitato Yutaka e mangiato fino a scoppiare. «Non andare più avanti del sesto livello, aspettami!»

Ok!
Ciao.
Quando uscì di casa rabbrividì preso alla sprovvista da una temperatura che non si  aspettava così bassa, infilando le mani in tasca si chiuse il cancello alle spalle e proseguì verso il supermercato più vicino. Stava pensando che una busta di pop-corn sarebbe andata più che bene per soddisfare la voglia di Yuu, quando voltato l’angolo si scontrò con un passante affrettandosi a scusarsi con un profondo inchino. «Mi scusi, non l’avevo vista.» ma quando rialzò lo sguardo rimase quasi sconcertato. «Ma...sei tu!»

Takanori massaggiava energicamente la fronte arrossata, dove sicuramente sarebbe spuntato un bel bernoccolo; si trovava proprio all’altezza del suo mento, doveva essere stato un bell’impatto. «Oh, ciao.»

«Mi stai pedinando per caso?» non c’era davvero pace, era costretto ad incontrarlo persino di domenica. Non esistevano più i giorni di riposo di una volta.

«Potrei dire lo stesso di te.»

«Veramente io sono ancora sotto casa mia.»

«E io stavo andando al supermercato e questa è la strada più veloce.» sembravano due bambini che bisticciavano su chi dei due avesse diritto di essere lì.

«Non mi dire...»

«Cosa?»

«Sto andando anche io al supermercato.» era una condanna, triste, lenta ed atroce.

«Allora andiamo insieme!» Takanori ne sembrò estremamente contento e Akira sospettava avesse qualche subdolo piano in mente. Doveva far presto e tornare a casa di corsa.

«Cosa hai cucinato di buono ieri sera?» il cantante sembrava stranamente a suo agio tra gli ortaggi e la frutta di stagione. Jeans neri da cui pendeva una catena, infilati in stretti anfibi borchiati, un maglione bianco extra-large che urlava a chiunque leggesse che il proprietario era “nato per essere un ribelle”; un cappotto nero imbottito incorniciava il look da perfetta rock star, non potevano mancare occhiali da sole e il cappello di lana nera che aveva visto spesso. Forse ci dormiva con quel cappello. Nonostante tutto, era strano vederlo lì, tra quegli oggetti assurdamente quotidiani; lo aveva sempre immaginato circondato da manager e fattorini maltrattati.

«Del semplice pollo. Tu cosa hai mangiato invece?» non che gli interessasse davvero, ma di solito una conversazione sul più e il meno comportava partecipazione. Certe volte la gente aveva proprio paura del silenzio, lo sapeva bene.

«Una pizza.»

Poteva quasi immaginarselo tutto solo mentre mangiava la sua pizza, magari appollaiato sul divano in compagnia di un film d’azione, chissà se gli piacevano. Lui li odiava. «Mi serve del ramen istantaneo per le emergenze, andiamo.» e uno dopo l’altro, i prodotti più disparati andarono a saturare il carrello. «Tu le mangi le fragole?» una crostata era in bella mostra davanti a loro, invitante come un peccato.

«Beh, si, non mi hanno mai fatto nulla di male.»

«Io le odio, da bambino ne ho fatto indigestione.» e sembrava essere un’informazione di vitale importanza. «Le ciliegie?»

«Mangio davvero tutto, Ruki.»

«Chiamami Takanori.» e la torta finì a fare compagnia ai cereali e all’insalata. Se era tutto un piano per scoprire il suo nome, Akira non ci sarebbe di certo cascato.

«Ma quanta roba stai comprando?»

«Tutta quella che mi serve.» Akira ebbe un brutto presentimento quando arrivarono alla cassa. Non l’aveva visto in auto. E le buste aumentavano in numero e volume. «Mi aiuti?»

Lo sapeva. «Se non ci fossi stato e avessi preso tutta questa roba, come avresti fatto? Fai come se non ci fossi!»

«Ma l’ho presa proprio perché ci sei tu. Andiamo.» irritante, presuntuoso e provocatorio come un bambino. Lo avrebbe volentieri lasciato lì, godendo nel vederlo annaspare per trasportare tutta quella roba. Invece aveva preso due buste e si era incamminato verso l’uscita, per fortuna all’ultimo minuto si era ricordato di lanciare tra la spesa dell’altro le sue sigarette e un pacco di patatine per Yuu; quel Ruki riusciva davvero a mandargli in fumo i pensieri, per poco non aveva rischiato di tornare a casa a mani vuote.

«Sarà meglio che mandi un messaggio a mio fratello, in teoria ero uscito soltanto per le sigarette.» e si era ritrovato a fare la spesa per un mese. Neanche fosse uno di quegli uomini che escono di casa con una scusa banale, solo per non farvi più ritorno.

«Ce la fai?» Takanori lo vedeva in difficoltà, era impossibile recuperare il telefono in tasca e mantenere in equilibrio le buste precarie.

«Non osare prendermi in giro, o ti lascio tutto qui in strada e me ne vado.»

«Su, non essere così permaloso, siamo quasi arrivati.» e, appena dietro l’angolo, apparve una villetta a schiera bianca e anonima. «Vieni.» all’interno l’arredamento era spartano: un divano, un tappeto sotto un tavolino, una libreria stracolma e una tv a schermo piatto. Nulla che potesse rivelare qualcosa sulla personalità del padrone di casa, solo un buon profumo che accoglieva i visitatori, lo stesso che aveva addosso Takanori. «Lascia pure le buste qui, poi ci penso io a sistemare tutto.» nel frattempo si era liberato degli indumenti di troppo.

«Beh, allora direi che posso andare ora.» Akira stava cercando di recuperare i suoi acquisti, ma l’altro glielo impedì.

«Cosa? Credi davvero che ti lascerei andare così? Come minimo ti devo un tè, o un caffè, o qualsiasi cosa preferisci

«Ma no, davvero, non preoccuparti.»

«Mi preoccupo eccome! Da bravo, togli questo cappotto.» e non fu semplicemente un suggerimento, ma un ordine. «Le pantofole le trovi qui. Avvisa tuo fratello che farai più tardi del previsto, se vuoi puoi anche chiamarlo: il telefono è lì. Ti aspetto in cucina.» recuperando da una busta di carta la crostata alle ciliegie, Takanori sparì lasciandolo confuso come dopo il passaggio devastante di un uragano. Era davvero un’impresa riuscire a stargli dietro, parlava sempre a raffica senza dargli il tempo di realizzare ciò che aveva letto su quelle labbra piene ed erotiche. Facendosi coraggio si liberò piano delle scarpe, continuava a guardarsi intorno con sospetto, cosa diavolo ci faceva lì? Ma ormai era in ballo, non poteva certo voltarsi e scappare il più lontano possibile. Avanzò percorrendo il salotto fino ad arrivare in cucina, era molto più piccola dell’ingresso, ma arredata con più attenzione e molto accogliente, quasi intima; era una stanza vissuta. «Preferisci tè nero o verde? Un infuso ai frutti di bosco? Una birra?»

«Il tè nero va benissimo.»

«Bene, lo preferisco anche io.» mentre Takanori si avvicinava al lavandino per riempire il bollitore, si lasciò accarezzare da un pensiero: forse non erano poi così tanto diversi, l’aveva riconosciuta l’indifferenza con cui si rivestiva Akira perché era stata la sua compagna per molti anni. Come lui teneva il mondo a distanza, come lui aveva paura che le situazioni potessero sfuggirgli di mano e ne rimanesse intrappolato; con il tempo aveva capito che l’unico modo per tirare fuori tutto il marcio che sentiva dentro era attraverso la musica, se non l’avesse fatto a quest’ora ne sarebbe stato soffocato. Probabilmente non sarebbe stato in quella cucina a preparare del tè, ma qualche metro sotto terra. «Vieni, ti faccio fare un giro della casa. È un po’ spoglia forse, ma ho fatto del mio meglio.»

Akira seguì quel piccoletto troppo pimpante in salotto, a vederlo così a suo agio non sembrava potesse fargli del male con la sua presenza, eppure si sentiva minacciato da ciò che Takanori rappresentava: il mondo a cui non era mai stato così vicino ora che davanti a sé riposava placida una sala di registrazione. «Questo è il mio piccolo angolo di paradiso!» a Takanori quasi brillavano gli occhi. «Passo qui la maggior parte del mio tempo, a volte mi dimentico persino di mangiare!» il suo sorriso fu contagioso, non si poteva restare indifferenti alle emozioni che si impadronivano di quel viso, ti investivano in pieno prendendo possesso del tuo corpo, proprio come se fossero sempre state lì. «Qui c’è un piccolo bagno, al piano di sopra la mia camera e un armadio tutto mio, un lato positivo deve pur esserci nel vivere da solo!» dentro di sé Akira preferì non salire al secondo piano, sarebbe stato troppo intimo guardare il letto in cui dormiva ogni notte, in cui faceva sesso.

«L’hai sistemata proprio bene.»

«Grazie. Oh, il tè è pronto.» il bollitore doveva aver smesso di borbottare, perciò si ritrovò seduto su un alto sgabello da bar, la sua tazza fumante lo aspettava sulla penisola in legno scuro al centro della stanza. Su un piatto, una fetta di crostata alle ciliegie. Akira soffiò sul fumo che si innalzava dalla sua tazza, dopo il freddo di dicembre era piacevole stringere qualcosa di caldo tra le mani. Takanori venne distratto all’improvviso da un rumore, perciò si diresse verso l’ingresso. «Maledetto telefono.» parlò per quasi mezz’ora, nel frattempo il suo tè divenne freddo. «Scusa, era per lavoro, sto organizzando un tour e c’è sempre qualcosa da fare.»

«Oh capisco.» una vuota frase di circostanza, in realtà non capiva minimamente di cosa stesse parlando.

«La prima data è qui a Tokyo, ti va di venire a vedermi? Ovviamente ti riserverò un posto vip, potrà non essere il tuo genere ma potrei convincerti.»

«Di cosa?»

«Di essere bravo.»

«E modesto, non dimenticarlo.»

Takanori rise, punto nel vivo. Ora che ci faceva caso, i suoi denti erano molto piccoli, sembravano delle piccole perle: bianche e candide, disposte in una fila perfetta come quelle di un bracciale che ornava il polso dei monaci buddisti. «È che amo quello che faccio. Magari qualche canzone potrebbe anche piacerti, altrimenti avevi ragione tu e non te lo chiederò più. Sarà comunque una serata diversa. Allora, ti va?»

Akira non sapeva davvero cosa rispondere. Un concerto. Una volta ci era stato ad un concerto, aveva accompagnato suo fratello al parco di Ueno e aveva sentito delle vibrazioni nel petto così forti da esserne quasi spaventato, Yuu gli aveva detto che quelli erano i bassi: i tamburi della batteria e le corde del basso, quello con il manico più lungo della chitarra. Forse le persone sentivano tutti i rumori in quel modo, li sentivano fin dentro al petto come se entrando dalle orecchie finissero fin dentro al corpo facendolo vibrare. Per sentirli meglio magari. «Forse non è il caso...sarebbe meglio destinare quel posto a qualcuno che ci tiene davvero. Non...»

«Ok va bene, se dovessi cambiare idea sai dove trovarmi. È il venti gennaio, hai molto tempo per pensarci su. Terrò un posto per te in ogni caso.»


*


«C’è un ordine da consegnare: due cappuccini e due ciambelle al terzo piano, studio 46B.»

«Non può andarci Yuko

«Yuko è già al secondo piano.»

«Vado subito.» eppure c’era qualcosa che non tornava, il suo istinto gli diceva di non andare: era una trappola. E più si avvicinava alla sua meta, più sentiva il pericolo crescere come l’onda di uno tsunami. I numeri si susseguivano sotto al suo sguardo attento, crescevano e si duplicavano finché non fu davanti alla porta che aveva cominciato a temere. Ruki era intento a smanettare con i tasti di una consolle, completamente chino su un foglio, perso in un dettaglio che sembrava rincorrere come un’idea; si accorse di lui solo quando si schiarì la voce.

«Ciao Akira.» anche non potendo sentire il tono che aveva usato, non era difficile decifrare la sua espressione: un misto di luminosità e soddisfazione.

«Ciao Takanori.» più tardi avrebbe strozzato il suo capo, doveva essere stato lui a rivelargli ingenuamente il suo nome. Lui e la sua maledetta bocca larga.

«Oh, allora te lo ricordi?!»

«Certo, non sono ancora rincoglionito.» Akira lasciò il vassoio sulla scrivania, lo poggiò in malo modo rischiando di far esondare il cappuccino. «Buon lavoro.»

«Aspetta, dove corri? A quanto pare sei un po’ tonto, sai?»

«Eh?» aveva voglia di litigare forse?

«Io sono solo qui in studio, eppure ho ordinato una colazione per due.»

«Quindi

«Per chi credi che sia?»

«Non sono affari miei.»

«Invece lo sai.»

«Forse una di quelle gallinelle sciatte che ti porti dietro?!»

«Siamo gelosi Shiroyama?» Takanori ci stava quasi prendendo gusto a punzecchiarlo in quel modo, quella era stata una reazione piacevolmente inaspettata.

«Perché dovrei?»

«Non lo so, ma dal tuo tono sembra che ti infastidisca pensare a chi mi porto a letto.»

Akira restò trincerato dietro un ostinato silenzio. «Dovrei tornare a lavoro.»

«Dai, facciamo pace: la colazione è per te. Sei sempre così sfuggente che l’unico modo che ho per parlare un po’ con te è ordinare qualcosa al bar, sperando che sia tu a portarmela.»

Non gli piaceva che avesse quel potere su di lui, che ad un suo capriccio fosse costretto ad assecondarlo. «Perché?»

«Sei davvero così ingenuo?»

«A volte preferirei esserlo.»

«Siediti.»

E Akira lo fece.  


*^* vi avevo avvisato che sarebbe stato un capitolo BOOM u.u interamente reituki ♥ perché sono i protagonisti, in teoria xD la spesa insieme, l’invito al concerto…la colazione ♥v♥ quindi Akira, finalmente hai capito chi hai davanti? Hai capito che Ruki è tanto caro e vuole fare amicizia con te..pare un bambino che rompe: e daaaai ascoltami, parla con me e dai e dai e daaaiiiii *^* Sciogliti un po’ e vedrai che tutto andrà bene =w= Aspetto con ansia la vostra opinione..chissà perché mi aspetto una valanga di cuori e arcobaleni xD A presto, ne~ ♥

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


 

Sing for me

 

«E tutto quello che riuscivo a fare era guardarlo come se fosse un alieno! Ti giuro che non mi è mai capitata una situazione comica come quella.»

Takanori rise di gusto immaginandosi, con dovizie di particolari, la comicità della scena che Akira gli aveva appena raccontato; avrebbe tanto voluto esserci per vedere l’espressione dell’altro quando quell’uomo in strada si era abbassato i pantaloni chiedendogli come gli stessero i suoi nuovi slip da donna. Era uno di quei momenti da scolpire nella memoria e ripescare negli attimi tristi della vita. «Non è possibile!»

«Tu ridi! Intanto io pensavo fosse uno scherzo di qualche stupido programma televisivo. Non sapevo se ridere o picchiarlo!» Akira dedusse che Takanori non doveva avere una bella risata, ogni volta si copriva il viso, quasi a voler nascondere il suono che ne risultava. Chissà com’era la sua? Sgradevole o melodiosa? Magari rassicurante. «Non l’ho mai scoperto, ma spero per quel povero uomo di non essere arrivato a tali livelli di pazzia!» l’ascensore finalmente era arrivata dopo minuti interminabili e Akira si era sentito spingere all’interno dello stretto abitacolo.

«Scendo con te, il capo mi cerca.» il cantante gli fu accanto premendo lo zero. Le porte si chiusero, ma trascorse solo una manciata di secondi prima che il mondo si bloccasse con un sobbalzo.

«Cosa cazzo è successo?»

«No!» Takanori inveì sui tasti, premendo quel che poteva: l’ascensore non dava segni di vita, era irrimediabilmente bloccato. Potevano solo lanciare l’allarme e aspettare che qualcuno li salvasse.

«Non può essere! Merda!» la luce si era offuscata, ora solo un pannello luminoso alle loro spalle contribuiva a creare un ambiente raccolto, ma soffocante. «Aiuto! Qualcuno mi sente?»

Akira imprecò più di una volta, ma si arrese quando i secondi passarono inalterati. Si voltò, l’altro era stranamente tranquillo.

«Soffri di claustrofobia?»

«Cosa?» non era riuscito a distinguere quella parola, perciò si spostò in modo che la luce fosse alle sue spalle illuminando il volto dell’altro.

«Claustrofobia.»

«No.»

«Allora dobbiamo solo restare calmi, ho suonato l’allarme. Qualcuno verrà a prenderci, agitarci ci toglierà solo aria preziosa.» Takanori si lasciò scivolare fino a sedersi a terra, con le spalle contro la parete d’acciaio.

Akira lo imitò, gli si accomodò di fronte invidiando la sua calma. Il destino aveva un modo tutto suo di giocare, uno strano modo contorto e imprevedibile: più cercava di evitare la compagnia dell’altro, più era costretto a starci insieme in luoghi sempre più angusti e intimi. Lì dentro le loro gambe si sfioravano ad ogni movimento, i loro profumi si mischiavano con l’alzarsi della temperatura. «Come fai ad essere così calmo?»

«Ho imparato a gestire lo stress. Almeno siamo in due, pensa ad essere bloccati qui dentro da soli!»

«Hai ragione.» ma era ugualmente una situazione paradossale. «Il telefono!» che stupido era stato a non pensarci prima.

«Non servirà, non c’è campo qui.»

Akira guardò con sofferenza lo schermo su cui campeggiava la scritta “solo chiamate d’emergenza”. «Ma di cosa sono fatte queste stupide ascensori?! Di piombo?» in un impeto d’ira, gettò il cellulare lontano da lui.

«Quello è tuo fratello?» lo schermo, ancora illuminato, mostrava un ragazzo dai capelli neri intento a stringere Akira in una morsa di wrestling affettuosa. Takanori lo raccolse per analizzare meglio la complicità che si nascondeva nei loro sguardi, quel momento comunicava una felicità senza pari.

«Si, quello scemo di Yuu.»

«Non vi somigliate molto, ma si vede che siete fratelli: avete lo stesso sguardo profondo e delle labbra piene stupende.»

Akira assomigliava a sua madre, mentre invece Yuu aveva ereditato i tratti decisi del padre. «Anche tu hai delle labbra bellissime.» era vero, aldilà di qualsiasi tecnica di difesa potesse attuare, doveva dirglielo. «Devono averti detto un centinaio di volte quanto sei bello.» e dunque la sua parola aveva il valore di urlo nel vento.

«Si, ma non ci ho mai creduto.»

Imbarazzo. «E tu hai fratelli?» Akira preferì conversare d’altro, si era già spinto troppo oltre.

«Lo avevo. Da quando la mia famiglia mi ha allontanato, non ho più notizie di lui, eppure eravamo molto uniti.»

«Cosa è successo?» Akira non voleva essere invadente, ma dovevano pur riempire quei minuti strappati alla vita quotidiana.

«Sono sempre stato troppo da gestire per i miei genitori: troppo ribelle, troppo eccentrico, troppo esigente.» era buffo: secondo lui era sempre stato troppo poco. «A mio padre non andava giù l’idea che volessi cantare. Mio figlio che va in giro vestito e truccato a quel modo! È inammissibile! Sei un uomo, non una donna! Devi crescere, trovare un lavoro di tutto rispetto, costruire una famiglia e vivere una vita normale!. Non gli dissi neanche di essere gay, penso mi avrebbe ucciso altrimenti.»

Akira ne fu sopraffatto. Come si poteva bandire un figlio per le sue scelte? Per il suo modo di essere? Non doveva essere stato facile per lui sopravvivere a quegli anni difficili, da solo, perso, mentre lui aveva sempre avuto Yuu al suo fianco. «Eppure ti ho visto con delle donne.»

«Mi crederesti se ti dicessi che ho avuto una storia soltanto con una di loro? Alcuni pensano sia bisex, ma io mi sento semplicemente attratto da ciò che mi piace. Fine della storia. Io odio le “categorie”, il mondo non è come vogliono farci credere, ce lo dipingono in un modo e si aspettano che tutti seguano quell’idea. Il mondo non è bianco o nero.»

«Hai ragione, è solo nero.»

«È nero perché ti convinci che lo sia. Può essere di qualsiasi colore, anche di tutti i colori insieme. È come vuoi vederlo tu, è questo a fare la differenza.»

«Per quanto tu voglia cercare di credere a questa teoria, prima o poi dovrai arrenderti. Il mondo fa schifo, è un brutto posto e noi fingiamo di essere liberi. Rientrerai sempre in una categoria, che tu lo voglia a no.»

«Non e vero.»

«Si. In questo momento rientri in quella fatta da persone che non vogliono appartenere ad una categoria. Ce ne sono a centinaia come te.»

«Ma non tutti quelli che vi appartengono sono uguali.»

«No, ma simili almeno. Le categorie esistono per tenere sotto controllo il mondo, per capirlo, per essere sicuri che non ci saranno sorprese. Altrimenti sarebbe tutto soltanto caos.»

«E tu a quale categoria appartieni allora?»

Akira ci mise un po’ a rispondere, non ci aveva mai pensato prima di allora. «A quella di chi si accontenta.»

«Non dovresti. Cosa ti manca per essere chi vorresti? Sei intelligente, testardo quanto basta e bellissimo.» e lui ne sapeva certamente qualcosa sulla sua testardaggine.

Akira abbassò il volto imbarazzato, se solo l’altro avesse saputo la verità. Gli mancava tutto ciò di cui aveva bisogno per essere completo. Si voltò guardando il suo riflesso nello specchio: era quello di un ragazzo alla continua ricerca di se stesso. Probabilmente non si sarebbe mai trovato. All’improvviso vide un movimento, tutto si svolse troppo velocemente perché potesse capire che Takanori si era inginocchiato sporgendosi verso di lui; le loro labbra si incontrarono per la prima volta come due passanti che si lanciano un’occhiata furtiva in un giorno di pioggia. Lui continua per la sua strada pensando che sarebbe bello fuggire dal suo matrimonio per imbattersi in quella ventata di libertà che ha appena intravisto, lei si volta speranzosa ascoltando i suoi passi che si confondono con la pioggia che scivola sul suo ombrello rosso. 

Il sapore è dolce, i fiati si mescolano. «Ancora non l’hai capito che mi piaci?» Takanori era in ginocchio, il viso a qualche centimetro dal suo futuro.

«E tu ancora non hai capito che non posso?» 

«Perché?»

Solo il silenzio rispose, quel silenzio pieno di parole impossibili da dire. Quelle parole mai pronunciate per cui c’è una lacrima da versare da qualche parte lì in fondo al cuore.

Con uno scossone l’ascensore riprese la sua discesa, le luci illuminarono i loro volti imbarazzati. Non si scambiarono una parola nei minuti che trascorsero tra quel momento ultraterreno e il loro ritorno al mondo. Ciò che era successo in quegli interminabili minuti sarebbe rimasto in quell’ascensore, piano si sarebbe dissolto nel vociare della vita che continuava imperterrita. «Ruki-san, tutto bene?» un ragazzo anonimo si avvicinò al cantante, era visibilmente scosso. «Non sai che paura ho avuto quando ho capito che c’eri tu lì dentro.»

«Non preoccuparti Yamato, sto benissimo, per fortuna non ero da solo.» ma quando si voltò per trovare conferma nella presenza di Akira, ad attenderlo ci fu solo il vuoto. Era davvero uno strano ragazzo. «Torna pure a lavoro, c’è tanto ancora da fare.» che voleva dire con quel non posso? Non era una giustificazione esaustiva. Non lo aveva respinto per il suo aspetto fisico, né a causa del suo carattere a volte invadente, ne era sicuro. Si sarebbe accontentato se gli avesse detto di non piacergli, ma così non aveva senso. Una cosa era certa: aveva visto un piccolo barlume in fondo a quegli occhi malinconici, una fievole speranza uccisa sul nascere con una forza brutale. C’era una possibilità, lo sentiva, non si sarebbe arreso così facilmente.


*

 

«Ma questa torta è il paradiso!» se qualcuno avesse fotografato Yuu in quel momento, la sua espressione sarebbe rientrata a pieno titolo in uno di quei quadri in cui dubbi personaggi raggiungono un’estasi mistica. «Metterò su almeno dieci chili, se continuo così!»

«E allora non mangiare.» Kouyou continuava imperterrito a creare soffici fiocchi di panna per la decorazione di un pandispagna al cioccolato, si muoveva con velocità esperta, l’occhio vigile dietro gli occhiali dalla montatura nera. Sembrava un chirurgo nel bel mezzo di un’operazione salvavita.

«E come faccio? Sei un Oni venuto sulla terra per tentarmi, ormai l’ho capito.» non poteva spiegarsi, altrimenti, il gusto raffinato delle sue creazioni.

Yutaka entrò in cucina trafelato, non esisteva un solo attimo di tranquillità per lui che doveva occuparsi di una cucina che sfornava almeno venti chili di dolci al giorno. «Chi ti ha detto che potevi mangiarla?» sul tavolo in marmo lasciò cadere un enorme sacco di farina, lo squarciò con poca delicatezza per dividerne il contenuto in dosi più maneggevoli. Maneggiava un coltello grosso e affilato, solo chi lo conosceva bene avrebbe potuto riconoscere quella sottile punta di ironia nel retrogusto delle sue parole.

«Me la sono più che meritata! Tra quel branco di studentesse e gli eterni indecisi, non so chi sia stato peggio. Per non parlare di quelle due vecchie zitelle: credo abbiano preso una doppia porzione solo per il mio culo.»

«Che è da brividi, scommetto.»

«Lo puoi ben dire! Lo fissavano senza ritegno. Dovresti ringraziarmi, invece di sgridarmi.»

«Beh, non guardarmi con quegli occhi da pesce lesso! Prendi altri due piatti, non vorrai finirla tutta tu?»

«Oui Chef!»

Qualche attimo dopo erano assorti nello strano silenzio in cui si gustano meglio i sapori, Yutaka fu il primo a finire la sua porzione. «Che programmi abbiamo quest’anno a Natale?» ovviamente, non c’era più bisogno di un invito formale dopo tutti quegli anni.

«Sempre lo stesso. La cosa più natalizia che faremo, sarà appendere una ghirlanda dietro la porta.»

«Povera ghirlanda, le saranno rimaste sì e no dieci foglie.» sintetiche, tristi e rinsecchite. «Ci penso io a voi.» certe volte si chiedeva dove sarebbero finiti quei due senza le sue attenzioni.

Yuu rispose con un’alzata di spalle, era del tutto disinteressato ad una festa religiosa; per lui ciò che contava era condurre un giusto stile di vita e poteva essere una buona persona anche senza appartenere ad un’istituzione che imponeva regole e dettami. «Tu cosa farai invece, Kouyou?»

«Niente di particolare.»

«Nessun impegno?» Yuu posò il piatto ormai vuoto sul bancone in acciaio alle sue spalle, si spinse in avanti poggiando i gomiti sulle ginocchia divaricate. Così gli sembrava di essere un duro, come gli uomini tutti di un pezzo dei colossal americani, gli serviva coraggio per tramutare in parole il pensiero balenato all’improvviso nella sua mente.

«No.»

«Perché non lo passi con noi?» non poteva sopportare di saperlo tutto solo in un giorno come quello. Con o senza uno scopo, bisognava stare insieme.

«Beh, non saprei…»

«Stare tutto solo è meglio che stare con noi?!»

«Non volevo dire questo!» il ragazzo si affrettò a chiarire l’equivoco, imbarazzato e incerto. «È che non vorrei essere di troppo.»

«Kouyou, tu non potresti mai esserlo. In nessun caso.» anzi, si chiedeva come avesse fatto a vivere senza la sua presenza fino a quel momento in cui aveva stretto la sua mano. Ormai aveva capito che i suoi sentimenti erano destinati a restare sterili come un campo arido, sferzato dalla pioggia, ma spaccato da solchi così profondi da riuscire ad intravedere il nulla. Non per questo, però, sentiva di doversi privare della sua vicinanza: vederlo, parlargli, osservarlo vivere era sufficiente per il momento e lo sarebbe stato finché il suo cuore non avrebbe più retto. Allora avrebbe cercato riparo.

«Va bene, mi farebbe molto piacere passare in Natale con voi.» Kouyou sorrise, come a voler ricambiare l’improvvisa gentilezza inaspettata che gli aveva riscaldato il cuore.

«La Kurisumasu Keki la faccio io!» Yutaka si propose immediatamente, non era Natale senza quell’anonima torta di panna guarnita con fragole e qualche strano pupazzo di zucchero. 

 

*w* etoooo…quindi si sono baciati .w. beh, Ruki si è lanciato sulla preda e Akira è ancora ben lontano dall’arrendersi >_> ma Ruki non si arrenderà così facilmente, state tranquille =w= e quindi, Kouyou passerà il natale con Yuu ♥v♥ i rapporti continuano a crescere e trasformarsi, chissà dove andranno a finire xD credo proprio che il prossimo capitolo sia di fondamentale importanza per lo sviluppo della storia, quindi non vi farò aspettare troppo come al solito *^*

Ciao ciao~ *ama tutte/i* ♥

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


Posso dire, ancora una volta, capitolo KABOOM? xD credo che d’ora in poi saranno tutti capitolo kaboom .w.

 

Sing for me

 

Takanori era concentrato, il capo chino su un foglio bianco e maledettamente vuoto. Di solito le parole sgorgavano dalla sua mente come se fosse una sorgente sotterranea, fresca e limpida, non aveva nemmeno bisogno di rincorrerle: erano semplicemente lì, galleggiavano nell’etere e a lui non restava che leggerle e trascriverle. Stavolta c’era qualcosa che tormentava i suoi pensieri, un kanji lo fissava sfidandolo a continuare: ame. Pioggia. Quella che ora cadeva incessante e incurante di tutto, a volte gli sarebbe piaciuto essere come lei. Sciogliersi e ricomporsi altrove.

«Matsumoto-san.» non l’aveva neanche sentito arrivare, perso com’era nei suoi pensieri ed era l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare in quel momento. Quando lui si muoveva di persona era solo per decisioni importanti.

«Hajime-sama.» quello era il suo produttore, un uomo apparentemente innocuo, capace di decidere le sorti del mondo della musica. Senza la sua approvazione niente poteva raggiungere il mercato discografico, se decretava un pezzo un successo, miracolosamente questo scalava le classifiche; aveva puntato tutto sul suo primo singolo ben due anni prima e lo aveva reso un dio.

«Yamato mi ha detto che stai lavorando a qualcosa di nuovo.»

«Si, ma non è ancora pronto. Temo ci voglia ancora molto.» appena possibile avrebbe dato una bella strigliata al suo assistente troppo chiacchierone.

«Io credo due settimane. Calcolando i tempi di registrazione e promozione, dovremmo farcela per marzo.»

«Cercherò, non prometto nulla, l’ispirazione non ha padroni.» glielo aveva detto decine di volte e lui, puntualmente, fingeva di non averlo sentito. Non gli era mai piaciuto quell’uomo. All’inizio si era fidato di lui, sembrava disponibile e affabile, ma dopo il primo anno di guadagni si era rivelato per lo squallido opportunista che era. Lo aveva reso famoso e ricco, ma gli aveva tolto la libertà; non era diventato un musicista per stare dietro alle richieste di un vecchio pazzo.

«Va bene, te ne concedo tre, ma solo perché si tratta di te. Una ballad sarebbe perfetta, vendono molto in questo periodo, sarà l’inverno che incupisce.» Hajime si alzò sistemandosi la cravatta. «Per il Pv dovrebbe andar bene un look semplice, di classe. Lascerò indicazioni a Yamato, a presto Matsumoto-san.» Takanori non si mosse, in fondo volevano che fosse un burattino no? E ora non c’era più nessuno a manovrarlo. Era stanco di tutto quello schifo, doveva fare qualcosa.

Guardò di nuovo il foglio vuoto, la matita era ancora al suo posto, come attratta da una calamita invisibile nascosta sotto la superficie bianca: stretta nella sua mano, la mina spezzata dalla rabbia. Aveva bisogno d’aria, perciò prese il cappotto e si diresse in terrazza. Si riparò sotto il pergolato, da lì la pioggia sembrava un ruscello: scivolava sulle tegole e si schiantava al suolo a fiumi. Sospirò pesantemente. Credeva di sapere cos’era a bloccare la sua creatività in quel modo, ma non voleva accettare che quel ragazzo avesse tanto potere su di lui. Aveva baciato Akira, si era esposto in quel modo per nulla e ora il suo “non posso” lo tormentava come un tarlo.

«Giornataccia?» Takanori non si voltò neanche, poteva essere solo lui a raggiungerlo in quel posto.

«Da cosa lo hai capito?»

«Come?» ora lo aveva accanto, investito dal vento che portava il suo profumo.

«Da cosa hai dedotto che la mia giornata non fosse delle migliori?» sorrise, dentro di sé sperava di incontrarlo, per quello si era diretto lì.

«Dal modo in cui hai schiacciato quella povera sigaretta, sembra che neanche lei sia riuscita a calmarti.»

«Già.»

«Che brutta giornata oggi, mi mette tristezza. A te piace la pioggia?»

«Qualche volta, oggi si.» era incredibile il modo in cui faceva finta di niente. Lo avrebbe volentieri picchiato in quel momento, così, giusto per sfogarsi, ma ci fu una raffica di vento così gelata da reprimere qualsiasi istinto. Si strinse ancora di più nel cappotto, avvolgendo il viso nella sciarpa in lana in cerca di calore. «Tu almeno hai avuto una buona mattinata?» le mani in tasca gli diedero un minimo sollievo.

L’altro lo fissava in silenzio, lo sguardo un po’ teso, i movimenti nervosi. Gli si avvicinò e insinuò l’indice tra la stoffa e la sua bocca, tirò giù la sciarpa fissandolo dritto negli occhi. «Perché ti nascondi, hai paura di me?»

«Paura? Ma se fa un freddo boia!» era impossibile non sentirlo, a meno che non fosse fatto d’acciaio.

«Allora dovresti tornare dentro, io vado a cominciare il mio turno. Ci si vede in giro.» spense la sigaretta a metà e scappò letteralmente via.

«Akira.» ma lui continuò per la sua strada finché non fu alla porta. «Akira, aspetta!» se la richiuse alle spalle con un tonfo. Takanori non si arrese e scivolò dentro beandosi del calore che lo avvolse. «Ti devo parlare, aspetta!» ma il castano sparì dalla sua vista dietro l’angolo. «Ah, vaffanculo!» ma che problemi aveva quel deficiente? Ignorarlo a quel modo! Neanche fosse un fantasma. Tornò in studio con l’umore più nero di una notte senza luna, pensava che vederlo lo avrebbe aiutato, invece aveva solo peggiorato la situazione; aveva bisogno di un parere esterno e disinteressato: da mesi pensava di lasciare quella casa discografica e mettersi in proprio, era una mossa rischiosa e lui non aveva amici con cui parlarne. C’erano solo conoscenti nella sua vita: collaboratori, superiori, sciacalli pronti a mettere le mani sulla piccola miniera d’oro che custodiva dentro la gola. Per loro la sua voce era tutto ciò che era in grado di offrire, niente emozioni né sensazioni, non era un essere umano come loro; solo una voce nel buio. Lo stesso buio in cui avrebbe voluto rintanarsi in quel momento, ma tornò alla sua scrivania indossando le cuffie e isolandosi dal resto di quel mondo sbagliato.

Doveva assolutamente trovare le parole giuste per completare quella melodia che lo tormentava da giorni, gli graffiava l’anima con unghie affilate e denti aguzzi per uscire allo scoperto. C’era una promessa di mezzo, la promessa che aveva fatto a se stesso quando aveva intrapreso quella strada: non si sarebbe innamorato, non avrebbe avuto distrazioni, non avrebbe frammentato il suo amore per la musica in tanti piccoli pezzi. Un frammento per le sue labbra, uno per i suoi occhi, uno per le sue mani. Spesso gli avevano detto di somigliare ad un temporale estivo, sconvolgente e rinfrescante, ma dall’effetto temporaneo e volubile; ogni volta scappava a gambe levate quando la situazione cominciava a farsi troppo seria. Eppure, stavolta, sentiva qualcosa di diverso.

Quella promessa che sembra annegare nella pioggia incessante…” Da giorni gli sembrava di essere sospeso tra immaginazione e realtà, tutto aveva perso i suoi confini. Mi chiedo di chi sia questo sogno e per chi. Voglio vedere tutto di te, amarti tutto. Cosa c’è che non va?” Tutto e lui era in un bel guaio.

Si accorse della presenza di Yamato solo quando se lo ritrovò davanti, lo sguardo rilassato e una mascherina a coprirne il volto. Dovette interrompere il flusso dei suoi pensieri e togliersi le cuffie per capire cosa gli stesse dicendo. «Cosa?»

«Ho incontrato Hajime-sama, scusami se gli ho detto che stavi componendo, lo sai com’è fatto.»

Non valeva neanche la pena di prendersela con lui. «Non preoccuparti, lo so.» tornò a trincerarsi nel suo mondo di musica, ma un pensiero colpì improvvisamente la sua mente con la forza di un fulmine. Yamato gli aveva parlato, ma non l’aveva sentito finché non aveva liberato le sue orecchie da quella prigione temporanea. Quella sera in macchina, aveva parlato con Akira offrendogli un passaggio, lui gli aveva chiesto di togliersi la mascherina e non aveva fatto altro che fissarlo. Poco fa gli aveva abbassato la sciarpa, come se avesse bisogno di vedere le sue labbra per poterlo comprendere. Ogni volta che aveva urlato il suo nome, non si era voltato. Come se non lo avesse sentito. Possibile? No. Cosa andava a pensare? Era solo furioso perché lo aveva ignorato in quel modo indegno e cercava una scusa a cui appigliarsi. In realtà, però, non sapeva neanche perché non dovesse essere un’opzione plausibile; spiegava molti dei suoi comportamenti strani dando un senso ad ogni cosa. No, era assurdo. Perché avrebbe dovuto nasconderlo poi? Non aveva un briciolo di senso e lui era sempre troppo melodrammatico. 

Avrebbe dovuto fare più attenzione ai dettagli, prima di giungere a conclusioni affrettate.


*


Rintanato in un angolo, le spalle al muro per sostenere quella lunga giornata tediosa sfuggitagli di mano. Quando si era svegliato, più di dieci ore prima, non aveva immaginato certo di passare, per la terza volta, la sua pausa pomeridiana sorseggiando tè e cercando una spiegazione al comportamento di Akira. Lo vedeva muoversi sicuro davanti a sé, in quell’ambiente che conosceva bene; eppure, se la sua ipotesi era esatta, come faceva a districare quel groviglio di persone e ordini? Sarebbe stato impossibile tenere il passo, voltarsi per preparare un caffè e registrare l’ordine per un croissant. Takanori lo osservò molto attentamente, finendo per perdersi nell’eleganza e la precisione dei suoi gesti; erano letali e fluttuanti, abbaglianti come la lama di una katana in controluce.

Armato del suo fedele foglio bianco, era deciso a comporre la sua canzone osservando direttamente la sua personale musa. In realtà non sapeva neanche perché si trovasse lì, non aveva basi per la sua supposizione, l’idea era nata all’improvviso dal nulla proprio come una delle sue canzoni. Akira era svelto, efficiente, attento e capace, nulla avrebbe fatto pensare che in realtà non potesse ascoltare il mondo intorno a sé. Ma quando qualcuno gli rivolgeva la parola, il suo sguardo saettava dagli occhi alle labbra, poi tornava di nuovo agli occhi per finire nuovamente al punto di partenza. Non era un prova sufficiente, ma una cosa era certa: c’era qualcosa che non andava. Era finito in un groviglio, in una matassa di lana di cui non trovava il capo del filo che gli avrebbe permesso di scioglierla. Cosa poteva fare? Starsene lì ad osservarlo? Non si erano neanche più parlati dopo quel giorno in terrazza.

«Ti porto qualcos’altro?»

Takanori trasalì, non si aspettava di trovarselo così vicino, senza accorgersene doveva essersi perso in qualche pensiero che lo aveva portato lontano, in un luogo lontano anche nel tempo. «No, va bene così.» ormai lo stomaco gli si era chiuso del tutto.

«Posso portarla via?»

La tazza riposava vuota e gelida sul piccolo tavolo nero. «Si, certo.» lo vide voltarsi per tornare al suo posto, troppo lontano da lui. C’era una voce dentro di sé che gli diceva di non farlo, non era quello il modo giusto, ma lui non l’ascoltò. «Akira…»

Niente.
Non si era voltato.

Sospirò. Questo cambiava davvero molte cose.

Eppure, allo stesso tempo, non cambiava assolutamente nulla. Non era certo di ciò che aveva visto e quel ragazzo restava sempre Akira. C’era sempre il suo sguardo gentile, così profondo da potersi perdere, il suo desiderio di essere toccato da quelle mani, baciato da quelle labbra, spogliato da quello stesso sguardo. E sapeva anche che per quel ragazzo non era lo stesso. La sua mente gli sussurrava di lasciar stare, di arrendersi e andare avanti con la sua vita, ma il suo cuore gli urlava di andare avanti a testa alta come aveva sempre fatto. La matita scivolò leggera sul foglio macchiandolo di segni veloci e disordinati. Era affascinato dal processo di trasformazione che avveniva davanti ai suoi occhi: tutto partiva da un pensiero incorporeo, diventava una parola che si incastrava in una melodia, il tutto per comunicare un’emozione.

Takanori continuò a fissare Akira. “Voglio amarti finché non sentirò più il vuoto. Non sorridere in questo modo davanti a me.


*

«Le ho già detto che non dipende da me, mi dispiace.» da circa dieci minuti quell’uomo lo stava tormentando, aveva visto Ruki passare un paio di volte e lanciargli un’occhiata inquisitoria, ma al momento era più interessato a liberarsi da quella tortura.

«Ma è impossibile!»

«Deve parlare con il mio capo, non con me.» gli avrebbe rovesciato addosso del tè bollente, se non fosse stato per l’aiuto provvidenziale che arrivò come acqua rinfrescante.

«Akira-san, cercavo proprio te! Puoi venire un attimo con me?» Ruki non attese la sua risposta, lo trascinò semplicemente via e si fermò solo quando furono al sicuro dietro un angolo. «Tutto bene?»

«Si! Non so come ringraziarti, davvero.» Akira era imbarazzato, erano giorni che evitava di restare solo con lui. Dopo quel bacio sapeva che non sarebbe più stato lo stesso e il problema era che avrebbe ceduto. Lo aveva visto arrivare al bar, ogni giorno alla stessa ora, sedersi al solito tavolo ad osservarlo. All’inizio lo aveva innervosito, poi si era abituato a quella presenza, ma ora che lo osservava così da vicino sentiva che, se lo avesse baciato di nuovo, stavolta avrebbe ceduto. Che diavolo gli diceva la testa? Non poteva. Per orgoglio, coerenza e istinto di sopravvivenza. Niente legami, quando avrebbe scoperto la verità, perché prima o poi sarebbe accaduto, sarebbe stato troppo tardi per rimediare.

«E allora non lo fare, non ce n’è bisogno.»

«Ma ho comunque un debito con te.» Akira sorrise. Cos’era quella strana luce che gli vedeva negli occhi? Erano diversi, Takanori era diverso: sembrava stanco, ma luminoso allo stesso tempo e, forse, perché si era concesso di guardarlo davvero per la prima volta.

«Dimenticalo. Piuttosto, tra qualche giorno è Natale, hai già impegni?»

«Lo passerò a casa con Yuu, come sempre. Tu?»

«Lavoro, sono già in ritardo sulla tabella di marcia.»

«Ma come, anche a Natale?!»

«Beh, organizzare un tour non è una passeggiata.»

«Già.» se ne era quasi dimenticato. Il tour a cui lo aveva invitato, ci sarebbe stato un posto vacante nelle tribune del Budokan quella sera.

«Senti, volevo parlarti…» Ruki s’interruppe, voltandosi infastidito.

«Cosa c’è?»

«Ti stanno chiamando.» Takanori abbassò lo sguardo sui suoi anfibi consunti dal tempo.

«Eh?» il castano vide sbucare dal nulla Kenji, divideva con lui il turno pomeridiano quel giorno.

«Eccoti qua, finalmente ti ho trovato!» l’amico si avvicinò in tutta fretta.

«Dimmi, Kenji.» ora era leggermente infastidito per essere stato interrotto in quel modo.

«Hoshi-san ci vuole tutti nel suo ufficio, dice che è importante.»

«Ok, arrivo subito.» Akira si concentrò sul piccolo cantante davanti a sé. «Scusami…»

«Ma figurati. Vai.»

«Ci vediamo in giro.»

«Si.» Ruki annuì, ma sapeva che era una bugia.

 

 

Mhm mhm *si schiarisce la voce* dunque i versi tra virgolette e in corsivo sono di Calm Envy ♥ la traduzione non l’ho fatta io, ringrazio VampAnna u.u tié xD

E…dopo giorni passati a stalkerarlo, Ruki lo ha finalmente capito u_u ma per ora se lo tiene per sé, se Akira vuole nasconderlo non sarà di certo lui a sbandierarlo ai quattro venti xD povero Rukino patatino, incompreso della situazione °^° Akira sei una cacca e non capisci niente è^è secondo te perché ti ha chiesto quali erano i tuoi piani per Natale?! Merdina >_> *si è lasciata prendere dalla situazione* xD eppure pian piano Aki sta cedendo, ha capito che deve starne ancora più lontano perché altrimenti non potrebbe resistere u.u *lancia ciabatta* ma vediamo come si svilupperà la questione ♥v♥ fidatevi sempre di me *ama tutti e tutte*

Al prossimo capitolo ne~ ♥

P.s. come fate a resistere e aspettare tra un capitolo e l’altro per me resta sempre un mistero LOL

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Lo devo dire?! BOOOOOM u_u

 

Sing for me

 

La neve aveva ricoperto ogni cosa, era scesa durante la notte ferma e silenziosa e aveva avvolto la città in una coperta bianca e soffice. Per le strade si aggiravano ancora i soliti ritardatari che si affrettavano a rimediare gli ultimi acquisti, prima di rintanarsi in casa e festeggiare una ricorrenza relativamente nuova per la cultura orientale. Eppure il mondo correva a perdifiato verso la globalizzazione, presto ci sarebbero stati persino il Giorno del Ringraziamento e qualche altra scusa per incrementare le vendite.

Takanori aveva sempre vissuto in maniera diversa il periodo natalizio, anche quando viveva ancora con la sua famiglia, il massimo sforzo era mangiare una torta alla panna ricoperta di fragole. Per questo non le mangiava, la storia dell’indigestione era una bugia: le fragole gli ricordavano la sua famiglia e non voleva pensare al modo in cui lo avevano cancellato dalla loro vita. Chissà cosa stavano facendo in quel momento? Avrebbe potuto chiamarli, si diceva che il Natale rendesse tutti più buoni, ma sapeva che questo non valeva per i suoi genitori, né per suo fratello. 

Il fulcro di tutto era stato suo padre, un militare di vecchio stampo abituato a condurre una vita tranquilla nel pieno rigore e nella normalità; poteva quasi immaginarselo ad imprecare contro la tv mentre scorrevano le immagini di uno dei suoi video musicali, o di qualche intervista monotona. Non biasimava sua madre, si era ritrovata divisa da una scelta: seguire l’uomo che aveva sposato o suo figlio. Si diceva che i figli fossero frammenti di cuore, ma a quanto sembrava lui non era stato un frammento abbastanza grande per lei. Spesso l’aveva sentita litigare con suo marito per cercare di farlo ragionare, ma in realtà ne aveva sempre avuto timore e aveva ceduto alle sue minacce. Suo fratello, invece, aveva agito per gelosia, questo lo aveva capito solo molto tempo dopo; lui era il primogenito e non gli era stato permesso di costruire il suo futuro come più gli aggradava, gli avevano imposto di seguire le orme del padre e a lui aveva sempre rinfacciato di non aver avuto la sua libertà. Takanori non riusciva a sentirsi in colpa, non era lui ad averlo obbligato, se c’era qualcuno a cui avrebbe dovuto dare la colpa quello era se stesso: per non aversi saputo imporre, per non aver saputo rischiare come aveva fatto lui.

Credeva che non avesse avuto paura quando, di notte, si ritrovava solo in una stanza presa in affitto? Quando quell’uomo gli aveva promesso il successo solo per cercare di scoparselo? Sapevano quanto avesse sofferto per la fame? Quante volte era stato sul punto di mollare? Ma ogni volta si era ricordato di aver perso la sua famiglia per quel sogno e allora aveva continuato a crederci e, alla fine, la fortuna gli aveva sorriso. Sospirando decise di non pensarci più, non avrebbe risolto nulla standosene lì ad osservare il suo riflesso in una vetrina piena di un’allegria che non avrebbe più provato. Non gli restava che chiudersi in casa, al caldo, avrebbe mangiato qualcosa e avrebbe fatto ciò che più gli piaceva: cantare. Non aveva bisogno di altro, era un giorno come tutti gli altri. Continuò a ripeterselo mentre girava le chiavi nella toppa ed entrava in una casa fredda e silenziosa.


*


«Lascia quel bastardo a me, non riuscirà a passare!» Yuu era concentrato, armato di un pizzico di coraggio e la giusta dose di pazzia, proprio come se si trattasse di una vera battaglia. Dopo l’abbondante pranzo natalizio, non c’era stato bisogno di una votazione per decidere cosa fare: tre contro uno avevano optato per una gara ai videogiochi. «Vai Kouyou! Ora!» ma il guerriero con l’armatura del dragone finì, inesorabilmente, k.o. «No!»

«Te l’avevo detto che non sapevo giocare.»

«Ah non importa, è solo un gioco, ma dobbiamo recuperare. Possiamo ancora farcela.»

«Perché invece non facciamo un due contro due, chi perde lava i piatti.» Yutaka intervenne dal suo comodo posticino sul divano. Quando voleva, sapeva come alzare la tensione e stimolare la competizione.

Yuu parve affilare lo sguardo. «Kou, non possiamo perdere, schiaccia tutti i tasti che puoi!»

«Ma avevi detto che era solo un gio

«Non ho detto proprio nulla! Tu hai sentito qualcosa Yutaka? E tu Akira?»

«No.» Akira ritornò dall’isolamento del suo telefono giusto in tempo per assistere a quello scambio di battute. «Di che stiamo parlando?» sì rivolse allo chef per avere delucidazioni.

Due contro due, chi perde lava i piatti.

Akira lasciò che la soddisfazione piegasse le sue labbra in un sorriso diabolico. «Yuu, faresti meglio ad indossare già il tuo grembiule! Quello rosa con i merletti.» aveva Yutaka dalla sua parte, la vittoria era sicura.

«Non mi farò intimidire! Vai, Kou, so che puoi farcela.» massaggiò vigorosamente le sue spalle mentre prendeva la sua posizione.

«Secondo me, Akira ha ragione.»

«Non essere negativo!»

Schierati come in una gara dei centro metri, tutti e quattro aspettavano che il conto alla rovescia gli desse la possibilità di farsi valere: Cigno e Andromeda, contro Pegaso ed Dragone. La lotta fu delle più sanguinarie, Yutaka e Akira faticarono ad imporsi, ma dopo le combinazioni di tasti più complesse, la vittoria non poté che scegliere loro. «Era ovvio.» nella voce di Yutaka non vi era neanche la giusta dose di soddisfazione, era stato come sparare sulla croce rossa.

«E va bene!» Yuu lanciò il joystick sul divano alzandosi per sciogliere i muscoli in tensione dovuti alla posizione tenuta troppo a lungo.

«Mi dispiace.» Kouyou non lo era davvero, le sue labbra trattenevano a stento il sorriso nel vedere i due fratelli bisticciare.

«Tieni, c’è da lavare anche questo.» Akira aveva recuperato il bicchiere in cui aveva versato solo dell’acqua. Faceva volume, quello era l’importante.

«E questa invece no?» Yuu strofinò energicamente i capelli di suo fratello, gli aveva bloccato la testa contro il petto come quando, da piccoli, fingevano di lottare corpo a corpo.

«Non farci caso, sono sempre così.» Yutaka aveva notato lo strano sguardo di Kouyou.

«Sono fantastici.» Yuu lo era, lo aveva capito subito. Ciò che non comprendeva, però, era quella lieve vergogna che provava quando Yuu lo guardava. Non aveva senso, né un motivo per sentire le sue guance arrossarsi, eppure gli sembrava sempre di essere nudo davanti a quegli occhi neri e profondi. Cosa gli prendeva?

«Andiamo?» Kouyou si riscosse trovandosi Yuu davanti, gli aspettava una gran bella punizione, ma il tempo sarebbe volato come sempre quando era con lui.


*


Vai.
Cosa?
Yuu gli si era seduto accanto cogliendolo di sorpresa, Kouyou e Yutaka erano in cucina alle prese con il caffè.

Ci hai pensato tutto il giorno, ti conosco. Non so chi è, ma deve averti preso molto.

Davvero non avrebbe mai potuto nascondergli nulla, a volte gli faceva paura. É la persona sbagliata.

Se lo fosse, non ti piacerebbe.

Lui...è...non lo so nemmeno io. Non poteva certo dirgli ciò che neanche lui sapeva e neanche che si trattasse di Ruki, persona che aveva ammesso ripetutamente di odiare.

Beh, magari puoi fargli capire che potete essere solo amici. Per ora. Ma se ti piace Akira...

No, non posso.

Yuu posò una busta sul piccolo tavolo davanti al divano. Nel caso dovessi scegliere di andare da lui, ogni tanto lascia che le cose vadano da sole. Il moro lo lasciò da solo raggiungendo gli altri in cucina. Era preoccupato per Akira, ma anche felice che ci fosse qualcuno a rubargli i pensieri. Doveva volare prima o poi e, ironia della sorte, doveva essere proprio lui a spingerlo fuori dal nido.


*


Era impazzito. Perso senza possibilità di salvezza e ora se ne stava davanti a quel cancello che era molto più di quello che sembrava. Era ciò che lo divideva dal suo imminente futuro o dal suo sbaglio più grande, ma ormai era lì e non gli restava che andare avanti. Non sapeva neanche se Takanori fosse in casa, probabilmente era in giro per la città ad occuparsi del tour e lui, invece,  stava soltanto cercando scuse. Perché si trovava lì? Non era stato capace di ammettere la verità neanche con se stesso, si era ostinato a mentire fingendo che quel ragazzo gli fosse indifferente. Non si poteva restare inermi davanti ad uno come lui, si veniva inevitabilmente risucchiati dal vortice e trascinati nella sua vita. Con un sospiro rassegnato Akira bussò non sapendo, di preciso, in cosa sperare. Una cosa era certa: se fosse andata male anche quella storia, almeno avrebbe potuto dare la colpa solo a se stesso e alla sua mancanza di determinazione. Vide il cancello aprirsi leggermente: Takanori era in casa e il suo cuore cominciò a battere incontrollato. Lo vide sulla porta ancor prima di percorrere il vialetto lastricato.

«Ciao.»
Ad Akira sembrò di avere un deserto al posto della lingua. «Ciao. Ti ho disturbato? Magari stavi lavorando.»

«Ma no, entra. Mi fa piacere che tu sia qui.»

Il ragazzo entrò liberandosi dei vestiti che ora non gli servivano più. «Ti ho portato dei dolci, il mio migliore amico è un pasticcere, quindi...»

«Ti sei preoccupato per me, allora non ti sono del tutto indifferente.»

«Come se fosse possibile.»

«Oh, non devi fare per forza il duro, ammettilo!»

«Non devo ammettere proprio un bel niente!»

Takanori sorrise. «Vieni, andiamo in cucina.» la stanza era sempre la stessa: accogliente e in un ordine maniacale, non vi era nessun odore particolare quindi non doveva essere stata usata di recente. «Vuoi da bere?»

«No, grazie.» si limitò ad osservarlo mentre, con l’espressione di un bambino monello, sbirciava nella busta di cartone e ne estraeva il contenuto con un’espressione soddisfatta. Si sedette accanto al suo ospite, le gambe premute contro il petto. Era così minuto che riusciva a starsene lì, rannicchiato su quella sedia, come se fosse la cosa più naturale del mondo; lui riusciva a stento ad allacciarsi le scarpe senza piegare le ginocchia.

«È buonissima! Fai i complimenti al tuo amico, come si chiama?»

«Yutaka.» Akira lo disse quasi con fierezza. «Che ho interrotto? Cosa facevi

«Stavo componendo, credo di non aver fatto altro tutto il giorno.» e sembrava averlo realizzato in quel momento. «Usciamo?»

«Ma si gela fuori.»

«Oh, non fare il vecchio. Sono stato chiuso lì dentro per ore, voglio uscire. Con te.» Takanori corse all’ingresso, senza rinunciare alla fetta di torta che continuò a divorare anche mentre indossava il cappotto. «Nevica?» si fermò dandosi dello sciocco mentre indossava il secondo stivale, li sfilò e tornò in cucina dove Akira era ancora seduto non volendosi arrendere all’idea di dover sfidare, di nuovo, la temperatura esterna. «Nevica?» ora si che avrebbe potuto leggere le sue labbra.

«Non mi pare, almeno non quando sono venuto qui

«E che ci fai ancora lì? Dai, muoviti!»

Dopo pochi minuti si ritrovavano in strada, a passeggiare sotto la neve che cadeva disordinata; d’inverno la sera arrivava con troppa impazienza, ma avevano ancora un paio d’ore prima dell’imbrunire. «Certo che ti basta poco per essere felice.»

«Si, adoro la neve.» Takanori camminava rasente ai muri per poter calpestare la neve intatta, lì dove nessun passante si era spinto, silenziosamente li stava ringraziando per aver lasciato tutta quella neve per lui. Adorava soprattutto il suono che faceva sotto le sue suole, quel crack compatto e sonoro, ma questo evitò di dirlo.

«Non mi dispiace, forse perché quando nevica è tutto sempre stranamente silenzioso.»

«Hai ragione, non ci avevo mai pensato.» doveva essere stato suo fratello a dirglielo. Se lo immaginava Akira a fare domande su questo e quello e Yuu che, prontamente, gli descriveva i suoni in modo che anche lui potesse capirli. Avrebbe tanto voluto fargli capire la musica di cui lui viveva, doveva trovare un modo.

«Si può sapere dove stiamo andando?» erano già dieci minuti che camminavano.

«Lì.» un piccolo parco dormicchiava indisturbato. «Non ci sono bambini in giro, quindi quella neve è tutta per noi.» immacolata e intonsa. «Mettiti a lavoro, lo voglio bello grande.»

«Cosa?»

«Il pupazzo, no?»

«Ma è roba da bambini!»

«Oh scusa, nonno. Dai!» Takanori cominciò ad ammucchiare manciate di neve.

«Ma lo hai mai fatto un pupazzo?»

«Beh non tutti i giorni, signor ingegnere!» Takanori gli fece il verso, ma si maledisse: con Akira non aveva davvero senso.

«Se cominci a rotolare una piccola quantità, la neve si attaccherà da sola e tu non avrai fatto il minimo sforzo. Guarda.» in breve un’enorme sfera era pronta ad ospitare la testa del pupazzo. «È grande abbastanza?» Akira non riusciva ancora a capire perché continuava a stargli dietro, in altre circostanze sapeva che avrebbe mandato tutto a quel paese e sarebbe tornato a casa.

«Si, ora la testa.» Takanori era davvero un bambino troppo cresciuto, anzi forse neanche tanto. Era piacevole stare in sua compagnia, era una ventata di vitalità incontaminata dalle brutture del mondo.

«Falla tu, io cerco qualcosa per gli occhi e la bocca.» si allontanò alla ricerca di sassi e foglie, dovette spingersi fino ai bordi delle aiuole dove gli alberi tendevano al cielo i loro rami secchi e tristi.

«Akira!» Ruki si diede dello stupido. Per giorni aveva evitato di pensarci, come se in quel modo fosse stato meno reale, ma ormai ne era più che certo e non aveva potuto che provare un’immensa rabbia. Non pietà, né tristezza, ma rabbia per tutto quello che Akira non poteva sentire; simili ingiustizie non sarebbero dovute esistere, era una crudeltà creare tanti suoni meravigliosi e privare qualcuno della loro bellezza. «Akira!» stavolta si sbracciò per attirare l’attenzione dell’altro che, nel frattempo, si era incamminato sulla via del ritorno. Gli fece capire che al pupazzo servivano anche delle braccia e che, quei rami che sporgevano proprio sulla sua testa, sarebbero stati perfetti.

«Tieni, sei tu l’artista.» il castano consegnò il suo bottino indietreggiando di un passo per ammirare meglio l’opera finita: un paio di sassi come occhi e naso, una foglia come bocca. I rami tesi e rinsecchiti che puntavano in due direzioni diverse, sembrava quasi che stesse aspettando un abbraccio con un sorriso sornione e poco intelligente.

«Allora?» di tutta risposta, Akira annuì sorridendo. «Gli serve un nome: Yuki. Neve.»

«Che fantasia!»

«Allora trovalo tu!»

«Mh, ha la faccia da fesso

«Quindi

«Quindi gli starebbe benissimo il nome Takanori.»

«Come osi?!» lì per lì non aveva realizzato ciò che l’affermazione di Akira implicasse, ma un attimo dopo lo stava rincorrendo inciampando qua e là dove la neve era meno compatta. «Non scappare!» ma l’altro era veloce, quando riusciva a sfiorarlo con le dita scattava nella direzione opposta, sfuggevole come il vento gelido che non sembrava tanto aggressivo ora che cominciavano a riscaldarsi. «Preso!» quando riuscì a tirarlo per un braccio, Akira si sbilanciò finendogli addosso.

«Scusa.» eppure non accennò a rialzarsi. Se ne stava lì, il suo corpo per metà su quello di Takanori, per non gravare troppo su quell’essere gracile dalla forza di mille vulcani. Non riusciva a fare altro che fissarlo in quegli occhi magnetici, erano di un caldo castano rossiccio, quasi luminoso. Le labbra piene e morbide, un po’ screpolate per il freddo. Cosa sarebbe successo se lo avesse baciato? Perché era quello che gli gridava il suo intero essere.

«Akira…» il respiro di Takanori strozzato da mille aspettative.

«Si è fatto tardi.» la luce stava sfumando nell’oscurità e, presto, non sarebbe riuscito a leggere con chiarezza le sue parole. Si alzò con esasperante lentezza. «Ti accompagno a casa.»

 

.w. avete tutto il diritto di lanciarmi qualsiasi cosa abbiate a portata di mano, ma confido nella vostra clemenza m(_ _)m *le arrivano addosso ortaggi e oggetti contundenti*

Torniamo a noi u.u ci ho tenuto a sottolineare la differenza tra la solitudine di Takanori (povero pulcino innocente é.è) e l’atmosfera calorosa e goliardica che, invece, si è creata dall’altra parte >.< si son messi a giocare con i Cavalieri (di cui ho rispettato l’otp CrystalxAndromeda xD), si *^* sono stata influenzata dall’ultimissimo film di animazione che avevo appena visto e poi li adoro sempre e comunque, anche se sono vecchia ♥  ma…ma u.u alla fine, nonostante 14587 pippe mentali Akira ha deciso di arrendersi *w* un po’ spinto da Yuu un po’ dal pensiero che fosse da solo in casa a lavorare ç.ç ha il cuoricino tenero lui~ anche se cerca 8000 giustificazioni, poi cade come una pera cotta xD personalmente ho trovato molto carino il modo in cui Takanori sa, ma finge di non sapere per non ferirlo e si premura di essere sempre nella visuale di Aki ♥v♥ *parla come se non l’avesse scritta lei* mi metto nei vostri panni xD e Yuu? Yuu deve solo avere un attimo di pazienza, mi sto attrezzando anche per lui u.u

Ooh, ma ho scritto un papiro ò_o vi saluto gioie care altrimenti che scrivo nelle risposte alle recensioni? xD Oh, vi saluta anche Takanori-pupazzo ♥

Al prossimo capitolo, ne~ ^-^

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Boomkaboomsparakaboom u_u

 

Sing for me

 

«Perché non resti a cena?» Takanori lo guardava intensamente, fermo nell’imbarazzo di un invito che poteva essere rifiutato. In piedi sulla porta di casa, un piede fuori, mentre tutto il resto lo invitava a seguirlo.

«Non ci sono più i tuoi amichetti a tenerti compagnia?» uomini o donne non faceva alcuna differenza per lui, no? Non voleva essere polemico, solo gli sembrava strano che ora lo chiedesse proprio a lui.

«Ora lo sto chiedendo a te Akira. Vuoi restare?» ormai aveva capito che doveva metterlo alle strette per avere una risposta, o una qualsiasi reazione. Poteva quasi capirlo, non sapeva molto di lui, del suo passato o del suo presente; sapeva solo ciò che lui aveva deciso di svelare.

Di tutta risposta il castano si mosse per raggiungerlo nel tepore del salotto, non sapeva con precisione cosa sarebbe successo quella sera, ma ne aveva una vaga idea. «Cosa ti va di mangiare?»

«Possiamo ordinare del ramen, direi che abbiamo preso abbastanza freddo oggi insieme a Takanori.»

«Non sei felice? C’è un tuo sosia a Tokyo.»

«Si, come no.» il cantante aspettava sorridendo con il telefono in mano pronto a digitare il numero e fare il suo ordine. «Allora, ti piace il ramen? Ci vuoi la carne?» aveva fatto molta attenzione a rivolgergli la parola in modo che potesse comprenderlo.

«Certo.»

«Non arriveranno prima di mezz’ora, c’è traffico e neve.» Takanori riattaccò con impazienza, in realtà non aveva invitato Akira solo perché voleva passare una piacevole serata con lui, ma per mostrargli ciò a cui aveva lavorato febbrilmente in quei giorni. Forse stava per commettere un grande errore, forse era il modo più sbagliato per fargli comprendere ciò che sentiva per lui e ciò che non conosceva.

«Fantastico.»

«Già, perché questo vuol dire che abbiamo abbastanza tempo. Vieni.» Takanori era visibilmente agitato mentre aspettava che l’altro prendesse la mano che gli stava porgendo.

«Dove?»

«Fidati di me.» quando entrarono nella sala registrazione lo sentì irrigidirsi. C’era un buon odore lì dentro: di legno, di prodotti per lucidare gli strumenti, di carta e di fumo. La sua vita. «Vorrei farti ascoltare una canzone, non è ancora perfetta, ma tengo molto al tuo parere. In realtà pensavo a te quando l’ho scritta.» Ruki non credeva che sarebbe stato così facile ammetterlo, di solito faceva fatica persino a guardare qualcuno negli occhi, invece con Akira la voglia di fargli sapere cosa provasse superava la timidezza. Accese tutte le luci, anche se stavolta non avrebbe avuto bisogno di quelle nella piccola cabina che ospitava il microfono, né di cantare, gli serviva solo che l’impianto audio diffondesse la canzone già completa in ogni dettaglio. 

«Ok.» in quel momento Akira si pentì amaramente di non avergli detto prima la verità e ora, forse, era troppo tardi per gettare la maschera a cui si era così tanto  abituato da considerarla, ormai, il suo volto. Si preparò a dire l’ennesima bugia, forse dolce e a fin di bene, ma sempre una sporca menzogna. Stavolta gli avrebbe detto che era una canzone bellissima, pregna di emozioni e perfetta. Meritava un po’ di soddisfazione per il suo duro lavoro che doveva, sicuramente, essere impagabile.

«Grazie.» quanto doveva essergli costata quella risposta? Akira non sapeva cosa avesse in mente, quanto avesse lavorato per scoprire qualcosa in più sul modo in cui viveva e comunicava. Aveva passato ore davanti ad un pc imparando i gesti che gli avrebbero permesso di cantargli la sua canzone, di fargliela ascoltare nella sua lingua, di renderlo partecipe di qualcosa di assolutamente nuovo per lui.

La musica partì leggera come un sospiro, sembrava una carezza sulla pelle, un cielo illuminato piano dall’alba. Questa promessa sembra annegare nella pioggia incessante, mi chiedo di chi sia questo sogno e per chi? Akira rimase immobile. Frastornato. Cosa stava facendo Takanori? Perché le sue mani eseguivano gesti che lui conosceva alla perfezione? Aveva scoperto la verità. Sentì il sangue defluire dal suo corpo, se avesse potuto si sarebbe lasciato scivolare fino a toccare terra, le sue gambe non lo avrebbero retto ancora a lungo.

Voglio vedere tutto di te, amarti tutto. Cosa c’è che non va? La risposta annega in un sorriso, continui a stringerla così forte che non può scomparire. Quelle mani che si muovevano leggere erano ipnotizzanti, sembravano eseguire i movimenti lenti e precisi di una danza da geisha; fluttuanti e incorporee come il vento: un tempo quelle donne celavano il loro vero essere per diventare un’opera d’arte vivente, Takanori invece stava mettendo da parte la sua arte per mostrargli tutto ciò che era. Senza filtri né timore.

Voglio amarti fino a quando non sentirò più il vuoto, non sorridere in questo modo davanti a me. Lo guardava dritto negli occhi, cercando di fargli capire quanto sentisse quelle parole, gli erano sgorgate dal quel cuore che si era strappato dal petto e che ora gli porgeva.

Non abbandonarmi, o altrimenti* fai svanire la mia debole passione come il fumo di una sigaretta. Quando Ruki si fermò, Akira si accorse di aver dimenticato persino di respirare, era stato completamente rapito da quella visione e colpito a fondo da quelle parole. Takanori sapeva e aveva escogitato un modo per comunicare con lui, per fargli ascoltare quella canzone. Era la prima volta che qualcuno faceva qualcosa di simile per lui, non riusciva a crederci.

«Che...che stavi facendo?» aveva provato le stesse emozioni dell’altro, commuovendosi quasi per il trasporto che aveva visto sul suo viso, eppure non doveva cedere.

«Non hai più bisogno di fingere con me Akira, puoi essere te stesso.»

«Di che stai parlando?» non era facile accettare che lo sapesse, che non avrebbe più dovuto fingere con lui quando lo aveva fatto per tutta la vita.

«Smettila Aki

«Smettila tu.»

«Perché? Perché capivi benissimo ciò che stavo dicendo, vero?»

Akira sospirò a lungo e, nonostante i buoni propositi, capitolò con estrema facilità. «Da quanto lo sai?» era improvvisamente stanco di quella vita e sollevato, come se gli avessero tolto dalle spalle un mantello troppo pesante; ora poteva respirare.

«Da un po’.» ma lo sospettava da molto prima.

«Come lo hai scoperto?»

«Per me è una cosa così importante che prima o poi dovevo accorgermene, mi è bastato osservarti attentamente.» ecco perché era andato al bar in quei giorni, ora tutto trovava un senso. «Anche se tu sei davvero bravo a dissimulare la verità. Mi chiedo se questa tua bravura valga per ogni cosa che ti riguarda, magari anche il tempo che abbiamo passato insieme...»

«No! Quello era autentico. La mia grande menzogna si limita al mio udito.»

«Ne sei sicuro, Akira? Perché fingi di essere chi non sei?» non poteva negare di essersi sentito preso in giro all’inizio. Non si era fidato di lui, non gli aveva detto la verità. Di che cosa aveva avuto paura?

«Io non fingo! Sentire o no, non incide sulla mia personalità! E, sinceramente, non accetto una paternale da chi finge di essere una rock star ribelle e anticonformista, quando invece è solo un ragazzino sperduto.» attaccare per difendersi, bella strategia, era sempre stato molto bravo in questo e stavolta non faceva eccezione. Anche se, ora, aveva paura di perdere.

«Vorresti dire che siamo uguali? Le nostre menzogne non sono paragonabili. Io indosso un abito e del trucco, ma quando li tolgo torno ad essere Takanori. Tu puoi dire lo stesso?»

«Dico solo che siamo i primi a mentire perché non ci piace ciò che siamo, tu dovresti capirmi più di chiunque altro.»

«Hai ragione ed è proprio per questo che ti dico di smetterla con queste bugie, a lungo andare diventeranno sempre più grandi fino a prendere il completo controllo della tua vita. Capisco che tu possa avere paura del giudizio degli altri, gli esseri umani sanno essere come bestie senza ragione, ma a me piace ciò che sei. Tutto. Perché non me lo hai detto? Perché non ti sei fidato di me?»

«Non saresti qui ora.»

«Non mi hai dato la possibilità di dimostrarti il contrario, perché non proviamo ad essere sinceri l’un l’altro ora e stare a vedere quello che succede?» in fondo, ormai, non avevano più nulla da nascondere.

«Adesso dici così, ma prima o poi questa situazione ti stancherà.»

«Non sono abituato a lasciare che gli altri decidano per me, io scelgo te perché mi piaci e voglio provarci, ora sta a te fare la tua scelta. Non cercare altre scuse: ti piaccio anch’io, oppure no?» gli sembrava che le parole della sua canzone fossero state molto chiare a riguardo, era stanco di girarci intorno come una stupida falena attorno ad una lampadina incandescente. Prima o poi si sarebbe bruciato. Il loro incontro non era stato affatto casuale, in questo credeva fermamente: lo aveva incontrato perché doveva. Come recitava un saggio proverbio giapponese: anche gli incontri casuali sono opera del destino.

Akira ci pensò intensamente, ma non riuscì più a mentire, ormai la sua maschera frantumata era irreparabile. «Il problema è proprio questo: anche tu mi piaci.» e non riusciva a capire quando fosse accaduto. Quando l’odio si era trasformato in qualcos’altro? E in cosa, poi? Aveva bisogno di rivederlo mentre si perdeva in un linguaggio nuovo, doveva far ordine in tutto quel caos che sentiva dentro di sé. «Perché non mi fai riascoltare la mia canzone?» da quando provava quella strana attrazione nei suoi confronti? Bello da impazzire, così gracile da volerlo protegger con tutte le proprie forze e, al tempo stesso, così forte da devastarlo. Stava sbagliando tutto, ma non riusciva a fermarsi.

«Tua?»

«Beh l’hai composta pensando a me, quindi è mia.» Takanori sorrise, stavolta non ebbe bisogno di alcuna musica, la immaginò come aveva fatto decine di volte. Ogni gesto studiato alla perfezione, ripetuto fino allo sfinimento solo per lui. Aveva il diritto di far parte di quel mondo. «La mano deve essere più aperta, il polso meno rigido.»

«Fa molta differenza?» ma Takanori non stava ascoltando davvero la sua risposta, il suo cuore si era fermato quando la mano di Akira aveva avvolto la sua. Era grande e calda, calma come un nido sicuro e la consistenza della sua pelle afrodisiaca.

«Sì, in questo tipo di linguaggio la perfezione è tutto, così come le espressioni fondamentali. Non hai altro modo per comunicare ciò che senti...» se solo avesse saputo decifrare ciò che provava in quel momento, sentiva il petto in subbuglio lì dove il cuore minacciava di esplodere; avvertiva un’attrazione fuori dal comune e tutto ciò che non aveva intenzione di fare stavolta era resisterle. Le loro labbra ci misero poco più di un attimo ad incontrarsi, minuti interi ad assaporarsi. Entrambi sembravano guidati da una forza estranea, una passione mai provata prima in quella misura dirompente; non ci fu bisogno di pensare oltre, Akira si sentì tirare dall’altro con una strana urgenza. Sapeva dove volesse condurlo e non vedeva l’ora di sapere come sarebbe stato entrare dentro di lui, toccare la sua pelle arrossata da un velo di sudore, respirare l’odore del sesso tra di loro.

Salirono veloci, inciampando sui gradini rivestiti di moquette e raggiunsero la camera da letto raccolta e semplice come il resto della casa: una mansarda dove c’erano solo una piccola scrivania, una libreria, un comodino e un letto a due piazze. Tutto ciò che serviva. Takanori spinse l’altro con foga e Akira si lasciò cadere sul materasso, rimbalzò finché non venne fermato dal suo stesso peso. Continuavano a baciarsi, a guardarsi, a studiare i loro lineamenti con impazienza.

Fu Takanori a spogliarsi per primo e a restare con addosso soltanto gli slip, fece lo stesso all’altro, veloce e vorace come uno sciacallo. Akira prese il sopravvento, ribaltò le posizioni salendo a cavalcioni sul suo stretto bacino, non poteva sentire il suono del suo fiato, ma poteva avvertirlo accelerare contro le proprie labbra: sembrava un caldo vento di scirocco, sapeva di lui, né di fumo né cibo, soltanto di lui. Piano sfregò la sua erezione contro quella dell’altro, stoffa contro stoffa e poi pelle contro pelle finché Takanori non resistette più e si liberò da quella tortura. Era bravo a farlo impazzire, ma lui aveva aspettato troppo. Non c’era bisogno di prepararlo né di perdere altro tempo prezioso perché sapeva che entrambi erano pronti, perciò si contorse fino a far coincidere la punta di Akira con la sua apertura. Non spinse oltre, questo toccava a lui.

«Akira...» era impaziente e incredulo. Si sentì prendere per le spalle e tirare giù verso il dolore e il piacere. Il castano gli alzò le gambe portandosele sulle spalle e prese a spingere aggrappandosi alla testiera del letto. Spingeva e ad ogni spinta lui gli andava incontro, non si sarebbe di certo spaccato, lo avrebbe avuto solo più dentro, giù fino al cuore. Era come salire al paradiso, ma restare a guardarlo dall’altra parte dei cancelli dorati.

Si baciarono ancora, lasciarono scie umide sulla loro pelle, i loro ansiti si rincorsero più volte prima di fondersi. Akira poteva vedere chiaramente la sua espressione e capire cosa gli stesse dando più piacere, aumentò la stretta sul suo membro quando avvertì l’orgasmo arrivare. Si liberò dentro di lui e Takanori, invece, tra i loro ventri piatti dalle vene rese sporgenti per lo sforzo. Poteva giurare che avesse urlato, ma lui non aveva sentito le sue grida. Un orgasmo senza urla era la stessa cosa? O restava monco di piacere? Gli avevano detto che ascoltare i silenzi è fondamentale per dare un senso alle parole che altrimenti risulterebbero un ammasso di suoni, ma anche i suoni danno un senso al silenzio e, in quell’occasione era troppo da sopportare.

Akira fece per muoversi, ma Takanori lo fermò. «Resta ancora un po’.» rimase dentro di lui così come gli aveva chiesto e quasi si addormentò, cullato dall’ondeggiare del petto su cui aveva posato la fronte.


*


Sì svegliò quando la luce colpì i suoi occhi. Si guardò intorno confuso, ma all’istante tutto gli affiorò alla mente: era in camera di Takanori che ora dormiva beatamente alla sua sinistra e la notte precedente avevano fatto sesso. Merda.

Ne era consapevole: si era trattato di un atto di pura passione e lussuria, c’era stato trasporto si, ma di certo non amore. Non era un ragazzino stupido ed innocente. Che cosa aveva fatto? In che guaio si era cacciato? Aveva fatto tutto ciò che si era ripromesso di non fare, cosa si sarebbe aspettato da lui ora il destino? Aveva troppa paura, più si sarebbe esposto e più avrebbe sofferto poi.

Cercando di non fare rumore, con movimenti delicati quanto quelli di un gatto, si alzò cercando i suoi vestiti; erano finiti ai piedi del letto nella foga di liberarsene, infilò velocemente la maglia e saltellò per entrare nei pantaloni. Trovò due occhi enormi a fissarlo.

«Che stai facendo?» Takanori lo guardava confuso, seduto a petto nudo, la pelle increspata da un brivido. Non gli era sembrato affatto restio qualche ora fa.

Akira rispose al suo sguardo con un’espressione imbarazzata, aveva fatto un errore a lasciare che l’altro entrasse nel suo mondo. «Scusami...» scappò via racimolando le sue cose, non si voltò per scoprire se Takanori lo stesse seguendo, non avrebbe mai saputo se l’avesse chiamato a squarciagola. In ogni caso, non sarebbe tornato indietro.


*


Entrò a casa che erano le nove di mattina, Yuu era in cucina: guardava la TV mentre sorseggiava la colazione. Ciao.

Ah, sei vivo. Va bene l’indipendenza, ma potevi avvisare. Yuu non sembrava arrabbiato, svolgeva solo il suo compito di fratello maggiore.

È stato un fuori programma... Akira si lasciò cadere su una sedia, indeciso. Ho fatto una cazzata.

Cioè?

Ci sono andato da quel ragazzo, in realtà ci ho passato tutta la notte.

E quindi? Non era certo la prima volta che passava la notte fuori casa.

Ci sono finito a letto.

E ora? Quando mai è stato un problema?

È la persona sbagliata per me.

Se lo fosse non te lo saresti scopato, non pensarci troppo. Yuu lasciò la tazza vuota nel lavandino alle sue spalle.

Yuu... Doveva dirglielo, o sarebbe scoppiato. Ma con quale coraggio? È Ruki.

Cosa?!
Lo so.

È un cantante.

Lo so.

Che dicevi di odiare.

Lo so.

Sai tutte queste cose eppure...fa sul serio?

A quanto pare si, ma sono io il problema.

Lo sa?

Si.

Il problema non era Akira, ma il tempo: tra qualche mese si sarebbe stancato di lui e lo avrebbe lasciato come facevano tutti. Non era neanche un comportamento da biasimare. È una decisione che spetta a te Aki, io posso solo dirti che per qualsiasi cosa mi troverai sempre qui. Non poteva interferire così tanto nella sua vita e nelle sue scelte. Puntualmente da bambino faceva i capricci per andare a giocare sull’altalena, si sbucciava un ginocchio e tornava piangendo da lui, ma non per questo gli aveva mai impedito di tornarci. Non pensarci ora, una bella doccia ti sistemerà le idee. Ci sarebbe stato tempo per capire come affrontare quella nuova situazione.

Akira annuì, una doccia avrebbe rimesso tutto al suo legittimo posto. Il muro che aveva costruito con così tanta fatica, tra lui e il resto del mondo, si era appena intaccato ma non sarebbe crollato e lo avrebbe protetto ancora con tenacia. Tutti avevano un muro intorno a sé, sceglievano di guardare e non osservare, sentire e non ascoltare; lui invece poteva soltanto scandagliare quello che vedeva perché era tutto ciò che gli era concesso attraverso il suo muro di vetro.

E, per quanto volesse negarlo, ora dall’altra parte vedeva soltanto Takanori.

 

*altrimenti l’ho aggiunto io per fare avere più senso alla frase in quel contesto: o resti e mi ami o te ne vai u.u

Lo so, lo so u.u sono perfida, cattiva e maledetta u.u ma andiamo con ordine: la canzone che Taka dedica ad Aki è Calm Envy ♥ l’ha scritta nei capitoli precedenti e doveva fargliela “ascoltare” in tutti i modi =w= solo perché è diverso, non è detto che questo modo sia sbagliato, no? *^* l’ho trovata una cosa carinissima, anche se questo ha svelato “i giochi”: Taka ha confessato di sapere u.u e Aki all’inizio insiste, ma poi si arrende sconfitto...si arrende così tanto da finirci a letto insieme D: più che pentirsene, poi, è spaventato dalla sua stessa debolezza per aver ceduto così pienamente °^° tutte le sue barriere sono crollate in un colpo solo, e ora? Takanori dice che non è importante, ma Aki questa storia l’ha sentita altre 1000 volte e sa come andrà a finire >.< Cosa farà ora? Cederà tornando sui suoi passi? Capirà di aver fatto un grosso errore? Gli chiederà perdono in ginocchio? D: mi dispiace lasciarvi languire così, soprattutto ora che si avvicinano le vacanze di Pasqua e io non ci sono fino al 7 aprile T^T ma nel frattempo potete stalkerarmi, contattarmi ed insultarmi con tutto l’amore di cui siete capaci ♥ perciò vi auguro Buona Pasqua, mangiate tanta cioccolata e fate le brave ♥3♥

Al prossimo capitolo, ne~ ♥

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


È corto, lo so, chiedo perdono m(_ _)m in tutto ne sono 19, quindi lentamente ci stiamo avvicinando alla fine °^° ma le cose procedono come devono u_u buona lettura~ *0*

 

Sing for me

 

Osservando Kouyou non si poteva che notare degli strani atteggiamenti ultimamente: era lontano, rispondeva a monosillabi, sembrava che dormisse a malapena un paio d’ore a notte e non toccasse cibo da giorni. Era un vero straccio. «Kouyou, sei sicuro di stare bene?» che avesse l’influenza? Yuu cominciava a preoccuparsi davvero.

«Sì, certo.» puntualmente arrivava la stessa risposta.

«A me non sembra, dovresti prendere un giorno di riposo.» non poteva certo dire di conoscerlo bene, ma chiunque avrebbe capito che c’era qualcosa che non andava. 

«Non posso, c’è sempre troppo da fare qui.» e questo, purtroppo per lui, era vero. Gli affari stavano andando per il verso giusto e, continuando così, presto il signor Takana avrebbe potuto assumerlo; finalmente la fortuna cominciava a girare anche per lui. «Piuttosto, mi serve quella planetaria lassù.»

Da più di mezz’ora erano in magazzino a fare rifornimento, Yuu era stato ben lieto di collaborare e recuperare tutto ciò che l’altro gli chiedeva. «Che cosa? Abbiamo un planetario qui dentro?» sì voltò stupito, cercando di restare un equilibrio sulla scala precaria.

In altre occasioni il lato permaloso del suo carattere lo avrebbe fatto saltare come un gatto a cui pestano la coda, ma sentire la risata spontanea di Kouyou dopo tutti quei giorni, fu un calmante naturale. «La planetaria, serve per impastare, è quella in acciaio con la ciotola. Alla tua destra.»

«Oh, questa!»

«Fai attenzione, è pesante.» anche lui avrebbe dovuto fare attenzione, in realtà, perché sentì il battito accelerare quando vide la camicia di Yuu sollevarsi e scoprire un lembo di pelle. La sua carnagione era leggermente scura, l’epidermide liscia e glabra, leggermente increspata da un brivido improvviso. Che cosa diavolo gli stava succedendo? Non lo capiva, per questo non dormiva da giorni e mangiava anche meno. Lui non era gay, né aveva mai provato interesse per un altro ragazzo, quindi perché avvertiva quelle nuove sensazioni nei confronti di Yuu? Forse il fatto di sapere che fosse gay lo aveva, in qualche modo, influenzato? Non era una deduzione logica, non c’era niente di logico in lui in quei giorni. 

«Perché cavolo dovevano metterla così in alto?!» Yuu riprese fiato dopo l’ennesimo sforzo.

«Dai, manca solo un sacco di farina e abbiamo preso tutto.»

«Dovrai ripagarmi per tutta questa fatica, non credere che sia gratis!» mentre si arrampicava di nuovo sulla scala, gli vennero in mente una decina di modi diversi in cui avrebbe potuto farlo e, tutti, non prevedevano vestiti. 

«Va bene, farò un tiramisù solo per te. Contento?»

«Cominciamo a ragionare.» e magari dopo il tiramisù… Avrebbe fatto meglio a smettere di pensare a certe cose, o avrebbe avuto un problemino più difficile da gestire di una scala traballante. Finalmente la scalata era conclusa, mancavano soltanto due pioli e avrebbe toccato di nuovo terra, ma secondo il fato aveva cantato vittoria troppo presto: quando raggiunse l’ultimo passo, si sbilanciò all’indietro scivolando sulla superficie di alluminio. Se non fosse stato per il repentino intervento di Kouyou, sarebbe rovinato al suolo schiacciato dal sacco di farina da cinque chili. «Oddio, grazie.» gli si aggrappò come un’ancora di salvezza, stringendo le sue braccia e saggiandone la consistenza sotto le maniche della divisa bianca. La nuvola di farina che li avvolse lo fece tossire, ma non riuscì a distogliere lo sguardo: quel viso era troppo perfetto da cogliere in un solo sguardo, con le sue particolari imperfezioni che lo rendevano unico, con quelle labbra dalla forma come non ne aveva mai viste. Kouyou sembrava quasi imbarazzato, gli occhi languidi e indecisi, ingoiò una saliva sicuramente inesistente. 

«Figurati.» si allontanò fingendo che non fosse successo nulla, si caricò in spalla ciò per cui si erano avventurati in magazzino e cercò di dimenticare l’euforia che gli scorreva nel corpo come elettricità. Non l’aveva mai guardato così da vicino, non aveva mai stretto quella vita sottile tra le sue braccia, non aveva mai sentito il suo profumo invaderlo così violentemente. Era tutto nuovo per lui e tutto completamente sbagliato; non ci si scopriva gay da un giorno all’altro, eppure... 

Sospirando si impose di non pensarci più del dovuto, stava lottando da solo contro mulini a vento e doveva soltanto ritrovare la ragione.

 

*

 

Akira era davvero un idiota e lui un emerito coglione perché pensava ancora a lui, al modo in cui i loro corpi si erano avvinghiati l’uno all’altro e come, poi, era scappato. Erano passati cinque giorni dal loro ultimo incontro, da allora si erano evitati a lavoro come fossero due ragazzini alle prime scenate di gelosia: da parte sua aveva preferito non fare ordinazioni, ma era convinto che qualora lo avesse fatto, a consegnarle sarebbe stato qualcun altro. Era un comportamento davvero infantile, se Akira aveva qualcosa da dirgli preferiva che lo facesse guardandolo in faccia e dimostrando di avere ancora un briciolo di coraggio. Cosa c’era che non andava in lui? Era per la sua carriera? Il suo carattere? Non lo sapeva e questo lo mandava in bestia. Lanciò con rabbia una busta di mele nel carrello, fare la spesa gli aveva tenuto la mente occupata solo per dieci minuti, non era efficace neanche cantare e non aveva tempo per le distrazioni. La sua vita stava arrivando ad una svolta, veloce come una macchina da corsa che affronta una curva pericolosa a cento all’ora, si sarebbe schiantato o sarebbe andato oltre più forte di prima? Per di più mancavano solo venti giorni prima che cominciasse il tour ed era la vigilia di capodanno. Faceva bene a odiare quel periodo dell’anno. 

«Carta o plastica?» alla cassa c’era una ragazza molto carina e giovane che gli sorrideva imbarazzata, doveva averlo riconosciuto.

«Plastica.» fantastico. A questo si erano ridotte le decisioni della sua vita: a scegliere una busta di plastica invece di quella di carta perché, l’ultima volta, era stato Akira a portarla fino a casa sua. 

«Questo è il suo resto, grazie e buon anno nuovo.»

«Grazie.» di quel passo non lo sarebbe stato di certo. Lo stesso passo che al ritorno lo portò a percorrere la strada più breve che, inevitabilmente, lo condusse sotto casa sua. La luce era accesa al secondo piano, qualcuno doveva essere in casa, forse lui. Ma cosa ci faceva li? Era un masochista, ma non riusciva ad arrendersi, aveva bisogno di una spiegazione. Si strinse di più nel cappotto quando cominciò a nevicare e si perse ad osservare il fumo denso che usciva dalle sue labbra, avrebbe aspettato ancora dieci minuti e poi sarebbe tornato a casa chiudendo quella storia per sempre. Guardò su, verso il cielo di uno strano rosso spento, sembrava che la neve comparisse dal nulla invece che scendere da quelle nuvole a chilometri di distanza. Ritornò subito alle sue scarpe, avrebbe dovuto indossare un paio più pesante.

Inaspettatamente sentì dei passi e, speranzoso, alzò lo sguardo dall’asfalto che pian piano stava diventando bianco, ma non trovò Akira; c’era un ragazzo dai capelli neri che riconobbe all’istante: suo fratello. «Tu devi essere Yuu-san.» non aveva senso far finta di nulla, ormai lo aveva visto e, magari, lo aveva anche scambiato per un maniaco.

«Sì e tu devi essere Ruki.»

Abbassò lo sguardo come se fosse una colpa. «Si

«Non fraintendermi: non mi piace intromettermi e non sarà nemmeno un terzo grado, ma sai che devo parlarti.»

«Lo immagino.»

«Sarò diretto e sincero: non hai idea in cosa ti stai imbarcando, con lui non sarà una vita facile, non fomentare una storia che non sai se riuscirai a gestire. Se nascosta, anche in un piccolissimo angolo, c’è l’idea di non poterci riuscire, non farlo.» il suo tono era calmo, quasi triste e rassegnato. «Akira è un bravo ragazzo e ha sofferto molto, tu te ne tornerai a casa archiviando tutto come avrai fatto in passato per altre storie, invece lui si spezzerà e sarò io a dover raccogliere i cocci.» lo aveva fatto innumerevoli volte e il Kintsugi non funzionava anche sulle persone. Riparare un oggetto frantumato con dell’oro gli dava sicuramente più valore, ma le cicatrici sarebbero rimaste per sempre a ricordare il passato, qualcuno avrebbe potuto scambiarle per sorrisi, ma erano e restavano squarci dell’anima. «Non merita di essere ingannato.»

«Non so che tipo di ragazzi abbia frequentato finora, ma il fatto che tu sia suo fratello non ti da il diritto di parlarmi in questo modo. Neanche tu sai come andrà a finire una storia finché non la vivi, quindi perché mai dovrei rinunciare a quello che può succedere tra di noi?»

«Ti sto solo chiedendo di non farlo soffrire.»

«Non ne ho intenzione e non voglio nemmeno rinunciare a lui così facilmente. Perché dovrei poi?»

«Perché tu vivi di qualcosa che lui non ha più e che non ha mai dimenticato: la musica. Ne è quasi ossessionato, soprattutto da quando ti ha conosciuto.» lo aveva visto passare giornate intere davanti al computer, ricercava febbrilmente informazioni su Ruki, guardava i suoi video musicali, si torturava cercando di capire come funzionasse un pianoforte o un violino. Si stava soltanto facendo del male, ma non aveva voluto ascoltare i suoi rimproveri.

«Chi ti dice che non possa viverla anche lui? Può farlo a modo suo, sarà pur diverso dal modo in cui lo faccio io, o tu e il resto del mondo, ma chi ti dice che sia sbagliato?»

La conversazione non poté continuare oltre, ad interromperla fu proprio Akira, doveva averli visti dalla finestra e aveva deciso di intervenire: se per difenderlo o infliggergli il colpo mortale non poteva dirlo, ma presto lo avrebbe scoperto. «Yuu, è tutto ok.» lo vide rientrare, non era convinto di lasciarlo solo con Ruki, ma alla fine si arrese e rimasero da soli, faccia a faccia: era il momento della verità. «Scusalo, lui vuole solo proteggermi e a volte è un po’ troppo duro.»

«Lo capisco, è tuo fratello. Invece non capisco te, perché sei scappato senza darmi spiegazioni? Non riesco a capire quale sia il problema. Se non ti piaccio dimmelo chiaramente.» ma Akira rimase chiuso nel suo silenzio, lo guardava con i suoi occhi dolci e malinconici, con lo sguardo di chi ha così tanto da dire ma non trova le parole per farlo. «Non ci riesci perché non è vero.»

«Io non sono come te Takanori, siamo troppo diversi. I nostri mondi sono incompatibili.»

«Non è affatto vero, devi solo volerlo e io troverò un modo-»

«Un modo per cosa? Per guarirmi?» era già infastidito per il tono di cui quella conversazione si stava tingendo, perciò si allontanò per poter rientrare in casa al sicuro, ma Ruki lo trattenne costringendolo a voltarsi.

«No, per fare in modo che non ti manchi più nulla, per-»

«È impossibile Taka! Se sei venuto per questo, hai fatto tanta strada per nulla.» ancora una volta provò a scappare, da codardo qual era, ma ancora una volta non gli fu possibile. Era frustrante litigare in quel modo, ma in qualche modo avrebbe dovuto provare ad odiare Takanori, così tutto sarebbe finito. «Smettila di parlarmi, smettila di urlare! Non ti sento e non potrò mai sentirti! Sono sordo, Ruki! Tutto questo non ha senso, non puoi stare con me. Non meriti qualcuno che non possa apprezzare la tua musica, lei è ciò che sei ed una parte di te che io non potrò mai cogliere nella sua abbagliante bellezza. Non puoi voler stare con me, meriti di più!»

«Perché credi di sapere ciò che voglio, o cosa sia giusto per me? Sei sordo e allora? Questo non mi ha certo impedito di innamorarmi di te.»

Innamorarsi? «Te ne andrai, prima o poi ne avrai abbastanza come tutti.» come tutti coloro che avevano detto di amarlo.

«Ancora con questa storia? Io non sono tutti, io sono Takanori, porca puttana! Credi di sapere già quello che faranno le persone, credi di essere nella loro testa o nel loro cuore: ti lasceranno per la tua sordità e tu potrai continuare a dare la colpa a lei invece che a te. Il problema è il tuo atteggiamento Akira, tra te e la tua felicità ci sei solo tu.» era esausto, davvero stanco di essere circondato da persone che gli dicessero chi essere, cosa pensare e addirittura come agire. «Credo di sapere perché, come dici tu, tutti prima o poi se ne vanno: sono esasperati dal tuo comportamento. Sei tu che non ti accetti per primo, come puoi pretendere che lo facciano gli altri incondizionatamente? La tua sordità NON è un problema, finché non lo capirai non ci sarà spazio che per lei nella tua vita. Salvati Akira, o almeno permetti a qualcuno di farlo, ma ti prego: salvati.» Takanori non attese oltre, si allontanò con la stessa fretta con cui aveva deciso di andare lì in cerca di una spiegazione. Doveva metterselo in testa una volta per tutte: quella storia era finita ancor prima di cominciare, come dei semi mai piantati, ricchi di vita e potenzialità ma sterili.

Buon anno Takanori, buon anno alla sua testardaggine, buon anno anche ai suoi sentimenti calpestati e congelati dalla neve.

 

>w> bene…abbiamo capito tutti cosa frulla nella testolina di Kou, vero?! Voi non ci siete mai cascate in realtà xD è una ff yaoi, ok, ma potevo anche farlo etero Kou u.u eppure il mio cuoricino non avrebbe retto altrimenti ♥ perciò il loro rapporto continua a mutare e Kouyou è perso in 1000 pensieri, ora è il suo turno >.< poveri reituki se no xD ecco, loro danno sempre filo da torcere, ma non poteva essere altrimenti dopo quello che aveva fatto Akira è.é personalmente ho amato la lite finale, il modo in cui Takanori cerca di sistemare la cosa, ma si fa prendere da tutta la rabbia e la delusione repressa e gli urla tutto in faccia. Qualcuno finalmente gli ha detto come stanno le cose: il problema non è la sua sordità, ma il suo atteggiamento...gli fa comodo incolpare “lei” quando le cose vanno male, ma lui ha mai fatto qualcosa per evitare che accada? u.u Come direbbe il caro Jack Sparrow: Il problema non è il problema. Il problema è il tuo atteggiamento rispetto al problema. Comprendi? Quando ha ragione Takanori! L’ho amato tanto ♥v♥ so che il discorso fatto da Yuu può sembrare invasivo e fuori luogo, ma è pur sempre lui ad aver cresciuto Akira, ha vissuto per proteggerlo e ha curato le sue “ferite” ogni volta più profonde, quindi lo capisco é_è nu? Ora non ci resta che capire cosa farà ora Akira. Accetterà il “rimprovero” o attaccherà per difendersi ancora una volta? U_U beh, non resta che attendere i prossimi capitoli~

A prestissimooooooo~ ♥

 

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


Gne gne gne ♥v♥ più che capitolo Boom, stavolta è capitolo Ansia + CuoriVolantiSugliArcobaleni~ ♥

Buona lettura –w-

 

Sing for me

 

Dieci giorni di inedia, dieci giorni in cui il suo senso di colpa era lievitato fino a prendere pieno possesso delle ore infinite. Non faceva altro che ripensare alle parole che Takanori gli aveva urlato, era rimasto lì minuti interi a fissare la strada ormai vuota dove lo aveva visto sparire senza voltarsi. Non si era mosso finché Yuu non lo aveva riportato in casa, erano andati a casa di Kouyou a festeggiare il nuovo anno e la vita era ripartita con il ritmo di sempre. Tedioso e inopportuno. All’inizio aveva provato tanta amarezza per il modo in cui erano andate le cose, poi rabbia a causa della forza inesauribile di quelle parole che, a distanza di giorni, ancora bruciavano come carboni ardenti. Infine, si era arreso: Takanori aveva ragione. Era sempre stato lui il problema, aveva sempre avuto troppa paura che la sua mancanza fosse un problema insormontabile; quando cominciava una storia, aveva così paura di essere abbandonato che diventava quella paura stessa, la riversava sugli altri e prima o poi diventava realtà. Non perché fossero stanchi della sua sordità, ma perché erano stanchi di lui, esasperati dal suo comportamento.

Eppure non riusciva ad accettare ciò che gli era capitato, la sua curiosità era sempre viva e vorace, forse sarebbe stato meglio non conoscere affatto tutto quello che aveva perso; era difficile andare avanti sentendo ancora la voce di persone che non erano più lì con lui, sentendo ancora la canzoncina di quel cartone animato di cui si era innamorato a cinque anni, la voce di Yuu stridula e immatura come solo quella di un bambino poteva essere. Erano pochi i ricordi che custodiva ancora, il resto era stato eroso dalle onde del tempo.

Se per Takanori tutto quello non rappresentava un problema, per lui lo era ancora e, forse, quel ragazzino testardo poteva essere la soluzione; avrebbe potuto insegnargli un modo per esplorare il suo mondo, per farlo sentire parte di qualcosa che non avrebbe mai immaginato così vicina a sé. Era stata un’idea difficile da metabolizzare, ma il seme aveva attecchito e pian piano i primi germogli avevano visto la luce.

Ma era ancora in tempo? Takanori non era certo tenuto ad aspettarlo, anzi non gli doveva proprio un bel niente, ma almeno sperava di potergli parlare e chiarire quella situazione. Non gli piaceva sapere che ce l’avesse con lui, che lo avesse fatto soffrire a tal punto da aspettarlo sotto la neve, il solo pensiero lo faceva star male, ma non lo vedeva da una settimana: né in giro per il quartiere, né a lavoro. Era sparito nel nulla, come se non fosse mai esistito, come se l’avesse solo sognato. E, forse, era stato proprio così perché non avrebbe mai più incontrato uno come lui.

Allora aveva preso coraggio e si era fermato davanti al cancello che, ironia della sorte, tante volte si era ripromesso di non varcare più. Aveva bussato e aspettato, ma tutto era rimasto fermo com’era. Le tende chiuse, il vialetto pieno di neve e la porta chiusa, come a volerlo tenere lontano dalla sua salvezza. Aveva riprovato due, tre volte, ma forse trattandosi di lui Takanori aveva deciso di non aprirgli. O magari aveva sbagliato la tempistica e, semplicemente, non era in casa; perciò rimase lì ad aspettarlo per mezz’ora prima di tornare a casa con l’amaro nel cuore.

Hei. Yuu stava preparando il pranzo, il profumo dolce e speziato gli aveva augurato il bentornato con accoglienza. Tra dieci minuti è pronto.

Non ho molta fame, in realtà.

Yuu posò le hashi e si assicurò di essere ben in vista, prima di parlargli. Non fare il coglione! Tu adesso mangi, non hai fatto neanche colazione. Cosa speri di risolvere facendo così?

Yuu, non esagerare, ho solo detto di non aver fame.

Ti ho cresciuto io, mio caro, se permetti ti conosco meglio di te stesso. Chi gli teneva la mano quando faceva gli incubi? Chi sciugava le sue lacrime quando si sentiva inadatto ed escluso? Non sapeva perché non corresse nell’abbraccio di sua madre, forse per non farla preoccupare più del dovuto, o forse perché aveva sempre visto lui come sua guida.

Quindi cosa starei cercando di fare, secondo te?

Soffrire per una situazione che tu stesso hai creato non porta a niente. Sapeva di essere eccessivamente diretto, ma glielo doveva. Se proprio ci tieni a sistemare le cose cercalo, trovalo, costringilo a parlarti e spiegagli ciò che senti. Sai una cosa? Ruki aveva ragione.

Lo hai sentito?

Lo ha sentito tutto il quartiere, se è per questo. Ha ragione nel dire che sei solo tu il tuo problema, lui è sincero e tu non lo sei mai stato nemmeno con te stesso.

Non voglio che il mondo mi consideri diverso, ne abbiamo già parlato mille volte!

E per mille volte io ti ho ripetuto che non c’è niente di diverso, se non nella tua testa Akira. Ti fai del male e meriti una vita serena. Va da lui. Lo aveva realizzato all’istante: il suo fratellino si era innamorato e combatteva una lotta interiore che doveva vincere, gli serviva solo una piccola spinta per superare la paura iniziale. Ruki poteva essere quello giusto nonostante tutto, sperava davvero che con il suo aiuto Akira avrebbe imparato ad accettarsi.

Fosse così facile. Non riesco a trovarlo, sono andato a casa sua, ma nulla.

Beh, a lavoro sai dove cercarlo, no?

Si.

E allora lascia stare quello che ti dice la testa Aki, segui l’istinto e, se dovessi farti male, un giorno potrai dire di aver fatto tutto il possibile.

Anche tu dovresti seguire il tuo consiglio, sai?

Beh, la mia situazione è leggermente più complessa, se non te ne sei accorto: Kouyou non è gay. Era una sofferenza persino dirlo.

Non dirmi che non hai notato come ti guarda!

E con questo? Non posso fraintendere e perderlo come amico.

Come amico? Non sarà mai un amico per te. E, poi, un giorno non vuoi poter dire di aver fatto tutto il possibile? Akira scimmiottò i gesti di Yuu con enfasi. Doveva stare attento: i consigli potevano essere boomerang che, a volte, ritornavano indietro.

Ma tu guarda che stronzetto irriconoscente! Fila a lavarti le mani e di corsa a mangiare! Bisognava sculacciarli da piccoli, così non sarebbero diventati impertinenti da grandi, lo diceva sempre il loro caro vecchio nonno Koji.

Sorridendo al suo ricordo, Yuu servì il pranzo, le cose dovevano solo maturare e al momento giusto i fiori sarebbero sbocciati da soli; le consapevolezze non arrivavano nel giro di una notte, ma per realizzarle bastava un solo battito di cuore.


*


Aveva approfittato della sua pausa pomeridiana per avere più tempo a disposizione, non aveva fatto altro che pensare al modo in cui organizzare il discorso: poteva cominciare con una lunga lista di obiezioni a suo favore, o dalla precisazione che fosse stato lui a cercarlo per primo, ma delle semplici scuse sarebbero state più che sufficienti.

Arrivò allo studio del terzo piano con il fiato corto, il cuore gli batteva così forte da fargli quasi male; la porta era chiusa, bussò con timore ed entrò. La stanza era deserta. Non c’erano neanche gli strumenti e i cavi che, di solito, affollavano il pavimento. Niente fogli sparpagliati sulla scrivania, niente sigaretta lasciata a consumarsi nel posacenere, niente Takanori. Cosa diavolo era successo? Stava cominciando davvero a preoccuparsi e l’ansia si velava pian piano di panico; non gli piaceva vedere quella stanza vuota, gli dava una sensazione di mancanza difficile da gestire. Per fortuna qualcuno venne in suo soccorso, un ragazzo che portava uno scatolone vuoto, probabilmente da riempire con ciò che era rimasto ancora lì.

«Lei è? Come posso aiutarla?»

«Dov’è Ta- Ruki-san?»

«A casa con l’influenza.» un’ondata di sollievo lo invase come una doccia calda. «Eppure sono passato a casa sua, ma-»

«Ha traslocato.»

«Oh, e non sai dove abita ora?»

«Mi dispiace, non posso dare questo tipo di informazioni.»

«Capisco, grazie.» cosa si aspettava? In fondo lui non era nessuno. Non un familiare, né un amico, solo un perfetto sconosciuto. Anzi, un perfetto stronzo.
Cominciava a pensare che fosse il destino a non volere che lo trovasse. Era troppo tardi per scusarsi, troppo tardi per sperare in una nuova vita; aveva sbagliato e ora doveva pagarne le conseguenze. Gli restava solo un’opzione, la sua ultima chance per poter rimettere tutto al suo posto, ma avrebbe dovuto fare appello a tutto il suo coraggio.


*


«Kou non guardarmi in quel modo.» spalle al muro, Yuu vibrava di attesa.

«Quale?» lascivo, peccaminoso, più crudele di mille diavoli infernali: se ne stava lì, a pochi centimetri dai suoi occhi, a incatenare le sue iridi dorate alle sue. «Non capisco...»

«Così come continui a fare adesso...» il respiro non resse e si frantumò. «Perché io ci trovo qualcosa che non esiste. Mi dispiace dirtelo e so che questo rovinerà tutto, ma mi piaci Kou.»

«Mi dispiace, Yuu. Mi dispiace che tu non me l’abbia detto prima.» e Kouyou si avvicinò così tanto alle sue labbra che la sensazione di euforia lo fece svegliare.

Ci mise qualche momento a realizzare di stare fissando il soffitto della sua camera da letto, la debole luce dell’alba filtrava attraverso le tende pesanti e Akira dormiva ancora beato accanto a lui. Era stato di nuovo tutto un sogno, quando avrebbe imparato a distinguerli dalla realtà? Si girò infastidito diverse volte e non si accorse di essersi riaddormentato fino a quando non riaprì gli occhi, stavolta il sole era quasi allo zenit. Ci mise un po’ a recuperare lucidità e si accorse che Akira non c’era. Recuperò il cellulare per capire che ore fossero e notò di avere un messaggio in entrata, lo lesse con il battito impazzito: “Ti va di pranzare da me?” Kouyou. Yuu non poté evitare di sorridere come un idiota, magari il suo sogno era stato un avvertimento del destino. Non poteva illudersi così, lo sapeva, ma sognare non costava nulla. “Certo.” Rispose senza pensarci per più di un battuto di ciglia. “Ti passo a prendere alle 12, a tra poco.” Non vedeva l’ora di vederlo, di andare da lui e perdersi tra gli oggetti di casa sua, magari scoprire la storia dietro ogni fotografia e suppellettile. Ci era già stato per il capodanno, ma una sola notte non era bastata.

Fu solo per caso che il suo sguardo si posò sui numeri in alto a destra dello schermo, segnalavano stranamente le 11.28. Non poteva essere, questo voleva dire che aveva soltanto mezz’ora per essere almeno presentabile. «Oh merda!» si liberò delle coperte come se stesse combattendo con un cobra gigantesco che si avviluppava alle sue membra, prese la rincorsa per schivare l’angolo del letto, la poltrona accanto alla porta, la maniglia innamorata delle sue maniche lunghe e arrivò in bagno trafelato. Cominciò subito a spogliarsi, nonostante in doccia ci fosse già Akira; era inutile urlargli che stava per entrare anche lui, aprì direttamente le ante e lo colse di sorpresa.

«Oddio!» Akira non l’aveva neanche visto arrivare, aveva visto solo un’ombra comparirgli alle spalle, il primo istinto era stato quello di allontanarsene, ma ci aveva guadagnato solo uno scontro tra la sua testa e una sporgenza delle tubature. «Cazzo, che male! Ma che vuoi?!» non poteva lasciarlo in pace neanche in doccia?

Muoviti, passami lo shampoo! Kouyou mi ha invitato a pranzo da lui e tra mezz’ora sarà qui. Non ho tempo!

«Oh oh, un appuntamento romantico!» Yuu stava già insaponando i capelli con lo shampoo che Akira aveva recuperato per lui.

«Macché!»

«Già mi ti immagino con gli occhi da cerbiatto: oh, Kouyou questo tofu è buonissimo!» ed il tofu in questione, in quel momento, era la spugna che gli stava passando.

Ma io odio il tofu.

Non quello di Kouyou! E i pensieri di Yuu non furono assolutamente casti in quel momento.

«Fai meno lo spiritoso e pensa a Takanori tu.» Yuu si risciacquò alla velocità della luce. Prendo il tuo accappatoio, tu fai il bravo e buon lavoro. Augurami buona fortuna.

«Poi riportami l’accappatoio!» non aveva nessuna voglia di gocciolare fino alla porta o, peggio, fino in camera da letto perché era lì che altrimenti lo avrebbe lasciato.
Con ritrovata pace Akira poté finalmente ritornare alla sua meritata doccia rilassante, Yuu era davvero un maledetto ciclone e l’aveva stravolto nel giro di cinque minuti, quando ce ne aveva messi almeno dieci per rilassarsi.

Sperava vivamente che almeno per lui le cose sarebbero andate nel verso giusto. Era una situazione difficile, non poteva negarlo, ma le sorprese erano sempre dietro l’angolo. Ora doveva solo pensare al bouquet di fiori che avrebbe fatto recapitare al Budokan.

 

*

 

«Vieni, entra.» Yuu si fece avanti, riconoscendo all’istante quel profumo che aveva cominciato a considerare familiare. Il viaggio in macchina era stato tranquillo: avevano chiacchierato, inveito contro gli automobilisti incapaci e ascoltato un po’ di musica, cantando sui vecchi successi che li avevano fatti sentire di nuovo giovani. C’era il sole in quella mattina di gennaio, un sole che aveva illuminato le loro vite per più di un fugace attimo, aveva guardato Kouyou con attenzione mentre guidava sicuro nel traffico dell’ora di punta; i capelli che risplendevano come fili di rame, gli occhi indecisi su quale sfumatura adottare: l’ocra del deserto in tempesta, o quello della sabbia bagnata dalle onde spumose? Vi si era perso dentro, nella profondità che aveva assunto l’iride, nell’imbarazzo che vi ci leggeva. Sperava vivamente di non essersi sbagliato. «Lascia pure tutto qui, andiamo in cucina.»

«Sento già un buon odorino, non pensavo che avessi già cucinato.» allora aveva davvero invitato soltanto lui, aveva temuto di trovare una presenza sgradita una volta lì.

«Certo, spero che ti piaccia l’ebi-tendon.»

«Scherzi? È il mio piatto preferito!»

«Davvero?»

«Si.» e qualcosa gli diceva che non fosse una sorpresa, un uccellino doveva aver cantato.

«Allora mangiamoli subito.» furono subito al piccolo tavolino in salotto, uno di fronte all’altro inginocchiati sugli zabuton. «Allora, come va? Ti vedo meno abbattuto del solito in questi giorni.» Yuu addentò un gamberetto sentendosi in paradiso.

«Va decisamente meglio, si.» non era un mistero per Yuu, più volte aveva notato i cambiamenti del suo umore, gli era dispiaciuto oltre ogni dire farlo preoccupare, ma non aveva potuto evitarlo.

«Ne sono felice.» lo era davvero, nel profondo.

«L’aiuto di Yutaka è stato fondamentale. C’erano molte cose che non riuscivo a capire, che sfuggivano dal mio controllo, ma poi ho capito di dover smettere di cercare di comprenderle.» gli era sembrato di inseguire qualcosa di vitale importanza, non sapeva cosa fosse, sapeva solo di dover correre per raggiungerla e correva a perdifiato senza chiedersi neanche perché. E poi, all’improvviso, si era fermato e aveva capito.

«Sembrano cose piuttosto importanti.»

«Si, lo sono. Potrà sembrarti strano così all’improvviso, potrà stravolgerti, ma ho bisogno di parlartene.»

Yuu si fece subito serio, posò le sue hashi concentrandosi sull’altro. «Dimmi Kouyou, qualsiasi cosa sia io non ti giudicherò.» non sapeva cosa aspettarsi, davanti a lui c’erano milioni di opzioni e lui, sicuramente, sperava in quella sbagliata.

«Solo, lasciami finire prima di...»

«Certo.»

Kouyou ingoiò la sua paura, bevve un sorso di coraggio e lasciò che le parole sgorgassero libere. «In questi mesi ho capito perché continuavo a collezionare un fallimento dopo l’altro, perché non riuscivo a trovare l’altra parte di me nonostante mi affannassi così tanto a cercarla: eri tu Yuu e ti aveva proprio davanti ai miei occhi che si ostinavano a non vedere. Ci pensavo notte e giorno, non ho dormito per giorni interi cercando di capire perché una cosa del genere stesse capitando proprio a me, ma poi ho realizzato che per queste cose non serve pensare, bisogna solo arrendersi e accettarle per ciò che sono.» insieme a quelle parole, sentiva la tensione evaporare. «Sei sempre stato tu Yuu e non capisco come abbia fatto a non capirlo prima, sentivo solo che il mio cuore non era in pace e ora so il perché: mi sono sempre rifiutato di vedere, di conoscere me stesso fino in fondo. E, beh, ora sono qui e spero che non sia troppo tardi.»

Doveva dire qualcosa, lo sapeva, ma tutto quello che riusciva a fare era continuare a fissarlo, a guardare i suoi contorni sciogliersi per colpa delle lacrime che non era riuscito a controllare. Ci aveva sperato così tanto, ci aveva creduto fino all’ultimo istante, con così tanta forza che ora non gli sembrava reale. «Kou…» aveva bisogno della sua vicinanza, ma non aveva la forza per alzarsi e raggiungerlo, così fu l’altro a farlo. «Per te non sarà mai troppo tardi.» baciarlo fu come diventare un fuoco d’artificio esploso nel buio di una notte d’estate. 

 

u_u su, un pochino mi sono fatta perdonare? @.@ la aoiha era di sfondo, ok, ma meritava una giusta “fine” ♥ non potevo lasciarla così, nell’incertezza dei sentimenti di Kou che ha passato davvero un momento terribile e decisivo per la sua vita. Quante volte sentiamo storie di gente sposata e infelice che, dopo il divorzio, si “riscopre” gay? La paura di accettare se stessi a volte è troppo grande, così enorme da costruire la propria vita su una bugia ed è un po’ quello che è successo al mio Kou…non mi permetto di giudicare scelte e sentimenti così personali, ho soltanto usato la “cosa” ai fini della ff xD visto che si era dichiarato un etero convinto, dovevo pur trovare qualche modo per farlo accoppiare felicemente con Yuu e questo non poteva avvenire dall’oggi al domani, ma soltanto attraverso un profondo cambiamento (la κρίσιςcrisis- greca per intenderci) interiore u.u e vissero per sempre felici e contenti ♥ loro sono sistemati ( *0*)/

All’appello mancano soltanto i reitukini >_> la loro situazione è decisamente complicata A_A dove sarà mai finito adesso Takanori?! Se ben vi ricordate, prima della grande lite, Ruki aveva tentato in ogni modo di parlare con Akira che non lo aveva calcolato minimamente >_> cosa voleva mai dirgli se non: sto lasciando la casa discografica e quindi la mia casa momentanea, ciao ciao u.u sciocco babbano che non è altro, se solo avesse ascoltato quel povero pulcino a quest’ora non si farebbe prendere dall’ansia di non trovarlo…ben ti sta è_é e io non ti dico mica dov’è! Tsk >_> ci sta tutto che ora Takanori sia incazzato con lui! Non ti lascio neanche un biglietto, inutile sciocco! è___é Ma posso dirvi di aver fiducia in me, come sempre *w* le cose si sistemeranno, ovviamente ♥ ma un po’ devono soffrire u.u anzi, ora è il turno di Akira di languire >w>

Mi scuso profondamente per non aver più risposto alle recensioni T^T voi vi impegnate tanto per scriverle e io devo fare altrettanto con le risposte, ma l’università è una sanguisuga di tempo, voglia e denaro xD ho ripreso a scrivere Inside Beast (l’ispirazione è tornata, si +w+) quindi ho ancora meno tempo di prima D: cercherò in ogni modo, ma non vi prometto nulla…spero mi perdoniate ç_ç

Al prossimo capitolo, fringuelline~ ♥

 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


Non vorrei fare la guastafeste, ma ricordate sempre che i capitoli sono 19, quindi stiamo per giungere alla fine T^T

P.s. preparate i cuori e gli arcobaleni ♥

 

Sing for me

 

«Buongiorno Ruki-san.»

«Buongiorno Yamato.» Takanori salutò l’unica persona che aveva avuto il coraggio di seguirlo in quella pazzia, aveva persino lasciato il suo posto fisso alla casa discografica perché, come diceva lui, era prima di tutto un suo fan. In realtà, però, quella non sarebbe stata affatto una buona giornata: non aveva chiuso occhio sopraffatto da mille preoccupazioni, da un pensiero costante che era rimasto lì a languire. Non aveva tempo di pensare a lui, ora aveva troppe responsabilità e tutto dipendeva da lui, dal minimo particolare all’effetto finale, non c’era più una potente casa discografica a coprirgli le spalle e doveva avvalersi di collaboratori capaci e volenterosi.

Le luci, gli strumenti, la gestione delle fans, la vendita dei goods, il suo outfit e tutto ciò che gravitava intorno a quel tour era sotto la sua diretta supervisione, come un’ape regina doveva assicurarsi che ogni singolo operaio svolgesse il suo lavoro alla perfezione. Aveva scelto persone altamente selezionate, alcuni con molta esperienza e qualche ragazzo volenteroso e impaziente, perché il gruppo doveva bilanciarsi. «Buongiorno a tutti.» entrò nella sala riunioni senza togliersi neanche il cappotto. «Oggi è un giorno importante per tutti noi.» era il momento di verificare se quella squadra fosse perfetta come aveva sperato. «C’è ancora molto da fare, ma lavorando tutti insieme sono sicuro che sarà un enorme successo. Confido in voi e so che non mi deluderete, date il meglio di voi e migliaia di persone ve ne saranno grate.» lui prima di tutte, avrebbero notevolmente alleggerito il peso che gravava sulle sue deboli spalle.  «Ora riguarderemo la setlist, alle 10:00 ci sarà la prova luci, alle 12:00 il soundcheck, alle 14:00 la pausa pranzo. Poi continueremo con il make up e la sartoria, alle 17 apriranno i cancelli, avremo due ore per far defluire la folla e ci aspettiamo un affluenza di 12.000 persone. Alle 19:00 inizierà il live e durerà fino alle 21:00. Questa tabella di marcia è indicativa, se dovessero esserci problemi chiedete pure a me o a Yamato-kun. Grazie a tutti per il vostro impegno, gambarimasho!» doveva mostrarsi concentrato e motivato, quegli uomini venivano pagati, ma voleva che pero loro quello fosse un piacere più che un lavoro da svolgere senza passione.

C’erano tutti lì con lui, tranne l’unica persona che avrebbe voluto davvero al suo fianco in quel momento, sapeva che era chiedergli molto, ma non poteva arrendersi al modo in cui era andata: si era illuso che potesse vederlo senza filtri, che finalmente avesse trovato qualcuno che lo amasse per ciò che era veramente, invece lo aveva usato esattamente come tutti quelli che andavano a letto con Ruki e si risvegliavano con Takanori*.

Doveva tenere la mente occupata ad ogni costo, o di quel passo sarebbe impazzito e vi si impegnò così tanto che non si accorse di essere già pronto per andare in scena, solo allora si era concesso un momento per fermarsi a guardare il suo riflesso nello specchio. Gli restituiva un’immagine che non riconosceva: eccessiva e provocatoria ed era esattamente ciò che doveva essere per dimostrare, a tutti coloro che non avevano creduto in lui, che era capace di farcela con le proprie forze. Che si trattasse di riempire uno stadio, o raggiungere le vette delle classifiche, non gli importava, per lui ciò che davvero contava era essere un faro di speranza nella vita di ognuna delle persone che lo aspettavano lì fuori; le aveva fatte piangere, sorridere, le aveva consolate, gli aveva infuso speranza. Grazie a lui per un po’ non avrebbero pensato ai loro problemi, alle loro paure, avrebbero dimenticato persino di esistere. Era così che si sentivano? Cosa provavano davvero quando le luci si spegnevano e il sipario calava? Tutto finiva e diventava sfumato come in un sogno, o restava impresso a fuoco nell’anima?

Pian piano una nuova melodia si andava formando nella sua mente, ma non poté raggiungerla. «Ruki-san, sono arrivati i bouquet.» Yamato era efficiente come sempre, anche quando si trattava di salvarlo inconsapevolmente dai suoi pensieri.

«Andiamo.» purtroppo le formalità erano d’obbligo, era naturale in Giappone augurare buona fortuna con una ricca composizione di fiori freschi, ma non ne aveva mai capito il motivo. Per lui i fiori erano davvero troppo effimeri per comunicare un sentimento, o un’idea destinata a sfidare il tempo.

«Questi sono da parte dei Diru, i Nokubura e i Lynch.» ce n’erano almeno una ventina, in realtà, tutti contraddistinti da uno stile particolare.

«Prendi nota, dovrò mandargli i miei ringraziamenti. Ma quelli? Da parte di chi sono?» il suo cuore aveva avuto un sussulto, aveva sperato con tutto se stesso di aver avuto la giusta sensazione.

«Kiyoharu-sama

«Oh.» era solo uno stupido. Quello era il suo idolo e, invece di toccare il cielo con un dito, ne era rimasto deluso; il suo entusiasmo si era spento come un incendio domato dalla forza irrispettosa dell’acqua, aggrinzito come un fiore sotto il sole di agosto.

«E questi?» c’era un bouquet più discreto degli altri, tanto delicato da rischiare di passare inosservato; un manto di rose rosse così vellutate da sembrare finte e tra di loro spiccava, proprio al centro, una camelia bianca. «Saranno di un mitomane, c’è uno strano biglietto.»

Ma Ruki ne sapeva abbastanza sull’Hanakotoba da poter intuire il significato di quei fiori: amore e attesa. «Fammi vedere.» la speranza aveva bisogno di un attimo per appassire, ma ancor meno per ricominciare a vibrare. “Mi dispiace, perdonami se puoi. Il ragazzo dei caffè.

«Me ne libero subito, non preoccuparti.»

«No, portali in camerino.»

«Non saranno mica da parte di quel ragazzo della Psc? Quello che è venuto a cercarti.» il ragazzo collegò gli avvenimenti come in quegli stupidi giochi di enigmistica. Erano mesi che vedeva quel ragazzo gravitare intorno a Ruki come una luna.

«Mi ha cercato?! Quando?»

«Sarà stato una decina di giorni fa...»

«Perché non me l’hai detto?»

«Non pensavo fosse importante.» era visibilmente dispiaciuto, ma non era certo colpa di Yamato. Se non erano riusciti ad andare oltre le loro incomprensioni, la colpa era solo del loro stupido orgoglio. Forse non era troppo tardi, forse non tutto era perduto, ma non aveva tempo per pensarci.

«Va bene, ora vai in camerino e raggiungimi in sala per l’ultima riunione.» doveva solo arrivare alla fine di quella giornata, soltanto allora avrebbe potuto decidere il da farsi, ora non aveva spazio per i suoi sentimenti, ora era soltanto Ruki.


*


«La smetti di ridere?!» Yuu era infastidito e divertito allo stesso tempo, non avrebbe mai potuto essere davvero in collera con l’amico di una vita.

«Scusami, ma non ce la faccio!» Yutaka continuava a ridere come se non potesse fare altro. Era stato lui a cominciare quella pantomima, lui a spiegare ad Akira cosa fosse successo in quella casa piena di specchi e pericoli.

«D’ora in poi ti chiamerò Venticello!» ovviamente Akira non avrebbe mai potuto astenersi dopo aver capito perché avesse visto quella strana espressione sul volto di Yuu.

«È che non me lo aspettavo!» Yuu protestò con un broncio adorabile. Per festeggiare adeguatamente il suo compleanno, aveva deciso di passare una splendida serata al parco divertimenti adiacente al Tokyo Dome; quando aveva proposto di entrare nel labirinto di specchi, non si aspettava certo di morire di paura per uno strano soffio d’aria, l’aveva colto completamente di sorpresa e la sua espressione di panico era stata epica. «Kou, aiutami! Almeno tu!» da allora quei due avevano cominciato a ridere senza voler smettere e neanche lui sembrava essere dalla sua parte.

«Mi dispiace, ma sei stato troppo divertente!» la sua risata si stagliava contro le mille luci che splendevano in quella piazza enorme, ma nessuna era luminosa quanto lui.

«Non puoi tradirmi anche tu, sono il festeggiato e non potete trattarmi così! Ve lo tolgo io il sorriso dalla faccia adesso: prossimo giro sulle montagne russe.» il suo sguardo di sfida si trasformò in soddisfazione quando vide le loro facce devastate dalla sorpresa.

«No, non puoi farci questo, Venticello!» la serietà di Akira era durata solo il tempo di un respiro, era grato a Yuu per avergli regalato quei minuti di distrazione, per tutta la sera non aveva fatto altro che pensare a Takanori. Magari non aveva ricevuto i suoi fiori, o forse ora giacevano spezzati in un cestino dei rifiuti. Ciò che lo innervosiva maggiormente era non poterlo chiamare, doveva rincorrerlo come se fossero ancora negli anni passati; ora si trovava a solo venti minuti da lì e lui non poteva raggiungerlo. Anche se si fosse presentato in quell’enorme stadio, non gli avrebbero mai permesso di entrare, tantomeno di vedere Ruki.

«Ah ma allora le vuoi prendere! Muoviti, andiamo a fare la fila.»

«Non vorrai andarci davvero? No, dico, le hai viste?» Yutaka ora era serio, aveva sempre avuto timore dell’altezza e quella diavoleria si arrampicava come edera sui palazzi intorno a loro, saliva fino al cielo per lanciare i passeggeri contro le proprie paure alla velocità della luce.

«Si, mio caro. Anzi, ti voglio proprio accanto a me, cosi sentirò meglio le tue urla.» per tutto il tempo dell’attesa Yuu non fece altro che stuzzicare la sua ansia crescente, gli descrisse le acrobazie che avrebbero compiuto in volo, ma gli diede il permesso di tenergli la mano. «Queste montagne russe non sono affatto terrificanti, anzi, roba da niente.»

«Peccato che non sentirò le tue di urla, quanto avrei goduto!» Akira prese il suo posto accanto a Kouyou, suo fratello e il povero Yutaka erano proprio davanti a loro.

«Non urlerò.»

«Invece si, me lo dirà Kouyou. Vero?»

«Puoi contarci.»

E Yuu urlò, urlò eccome. Così come fece ogni passeggero di quell’attrazione apparentemente innocua. Davanti a loro una salita ripidissima da far mancare il fiato, un susseguirsi di curve, salite, giri vorticosi e discese vertiginose fin quando non si ritrovarono al punto di partenza.

«È stato fantastico, vi prego rifacciamolo!» Yutaka non si era mai sentito tanto libero dalla gravità, dalla vita e dai pensieri di ogni giorno.

«Così non c’è gusto, però!» Yuu aveva sperato nella sua occasione di rivincita, ma aveva dovuto abbandonare i suoi propositi bellicosi davanti ad uno Yutaka sorridente come un bambino.

«Voi piuttosto, non avete fame?» Kouyou aveva urlato così forte da aver mal di gola, si stava divertendo insieme a quei matti e a Yuu. Pian piano stava scoprendo nuovi lati del suo carattere che amava da matti, come quando faceva il gradasso per nascondere le sue paure e, in realtà, era così sensibile da commuoversi per un film. Ma tutta quell’adrenalina aveva stuzzicato il suo appetito, così optarono per il chiosco di yakitori e promisero al miglior pasticcere di tutta Tokyo di fare un ultimo giro della morte prima di tornare a casa.

Hei. Yuu richiamò l’attenzione di Akira con una lieve gomitata, erano fermi tra la folla aspettando di ordinare la loro cena.

«Mh

Vai.

«Dove?»

«Al Budokan. Sono le nove, credo che tu faccia ancora in tempo.» non era uno stupido e non voleva che suo fratello perdesse la sua occasione.

«Ma Yuu...» per quanto desiderasse raggiungere Takanori, non aveva minimamente pensato di lasciare tutti lì e, per una volta, fregarsene di tutto.

«Il mio compleanno capita tutti gli anni e abbiamo passato insieme la vita intera, Takanori non sarà lì ad aspettarti per sempre.» il moro strinse a sé quel ragazzo dalla vita stretta e le spalle possenti, lo abbracciò con tutto l’amore che era in grado di provare per lui ed era così tanto che, se lasciato libero, era sicuro avrebbe inondato l’intera città. Quando si staccò da lui, gli strinse le braccia in una presa rassicurante. «Corri.»

«Grazie Yuu.» Akira era quasi commosso, gli voleva un bene dell’anima e non perché fosse suo fratello, Yuu era davvero una persona fantastica.

Cominciò a correre come se fosse inseguito da un mostro, ma in realtà a spingerlo ad aumentare l’andatura era la paura di non arrivare in tempo, di non riuscire a vederlo, tanto meno parlargli. Non aveva tempo di raggiungere la fermata della metro più vicina, aspettare e rischiare di sbagliare direzione; correndo per le strade poté seguire le indicazioni che lo portarono proprio davanti al caratteristico edificio a forma di pagoda. Centinaia di ragazze si erano riversate nella piazza antistante, era un buon segno: il concerto doveva essere finito da poco, ma quando si avvicinò all’ingresso scoprì che le porte erano già state chiuse. E adesso? Cosa poteva fare? Prima o poi Takanori sarebbe dovuto uscire, quindi poteva aspettarlo sperando di scorgere la sua macchina o il van su cui si era nascosto quella volta alla Psc. Doveva aspettare, a costo di congelare sarebbe rimasto immobile al suo posto, non poteva perdere quell’occasione nonostante la pioggia sottile che cominciò a cadere.

Passarono i primi venti minuti e, pian piano, intorno a lui restarono solo poche decine di ragazze; alcune piangevano ancora, altre mostravano fiere i loro acquisti. Possibile che per loro Ruki fosse così importante? Se solo avessero saputo che lui era lì per il loro idolo, che ci era andato a letto e che lo aveva conosciuto in un’intimità che loro sognavano con ardore. Se solo avessero saputo che, per lui, non era Ruki, ma solo Takanori. Eppure aveva osato ferire il suo animo gentile, dove aveva trovato il coraggio per farlo?

Rimase da solo dopo più di un’ora, ma di lui ancora nessuna traccia; stava cominciando a tremare per il freddo che ormai era penetrato fin dentro le ossa, così decise di fare un giro di perlustrazione, magari sarebbe uscito dal retro o avrebbe potuto chiedere aiuto a qualcuno. Doveva pur esserci un assistente, un manager o un addetto alla sicurezza da qualche parte e lui lo avrebbe trovato.


*


«Buonanotte Ruki-san, ci vediamo venerdì. Non lavorare troppo in questi giorni.»

«Buonanotte.» Ruki sorrise lasciandosi cadere sul divano in pelle nera, era appena rientrato in camerino e si sentiva così stanco da non avere la forza di pensare. «Lo stesso vale per te.» Yamato era davvero un bravo ragazzo, aveva deciso di restare oltre l’orario prestabilito ed aiutarlo ad organizzare gli ultimi dettagli per la prossima data al Saitama. Era solo l’inizio e pensare che ne avrebbero avuto ancora per mesi.

Yamato lo salutò ancora lasciandolo solo, percorse i corridoi già vuoti assicurandosi che non ci fosse più nessuno, passò nella sala principale per controllare che gli operai stessero svolgendo al meglio il proprio lavoro. Gli strumenti erano già al sicuro, così come tutto il resto, mancavano soltanto gli ultimi cavi. Tornò indietro e si diresse all’uscita posteriore, ad attenderlo trovò la sua fedele monovolume, l’aveva parcheggiata non troppo lontano dal parco che costeggiava l’edificio. Stava per immettersi sulla strada principale, quando notò una figura familiare: il ragazzo che aveva cercato Ruki alla casa discografica, era fermo davanti al cancello del parcheggio. Yamato si fermò, scese dalla macchina e lo raggiunse, aveva paura che stavolta il suo capo non gli avrebbe perdonato quell’errore; vide l’altro illuminarsi quando lo riconobbe. «Ciao, tu sei Akira giusto?» era stato proprio Ruki a dirglielo: «Se dovessi vederlo, portalo qui. Si chiama Akira, ha i capelli castani-»

«So bene com’è, ti gira intorno da mesi.» Ed ora eccolo di nuovo lì.

«Sì. Senti, devo assolutamente parlare con Takanori. Ti prego.» Yamato trasalì, se lo aveva chiamato per nome, dovevano essere molto intimi. «Non so come fare, l’ingresso è sbarrato, la sicurezza non ne ha voluto sapere-»

«Seguimi.»

«Davvero?!» era difficile riuscire a leggere le labbra con quel buio, ma dalla postura aveva dedotto il resto.

«Vieni.»

«Non so come ringraziarti.»

«Non preoccuparti.» ormai ne era convinto, era stato quel ragazzo a mandare quel mazzo di rose per Ruki. Se le aveva fatte portare in camerino, era sicuramente una questione importante. «È la stanza 56H, in fondo a sinistra.» lo aveva guidato per i corridoi labirintici e deserti, ora la sua presenza sarebbe stata del tutto superflua perciò lo lasciò proseguire da solo.

«Grazie.» Akira lo vide allontanarsi. Era giunto il momento di affrontare le sue paure, non aveva più scuse per giustificare la sua mancanza di coraggio. Il primo passo fu quello più difficile, ma subito lo seguì il secondo, se avesse potuto era sicuro che avrebbe sentito i suoi passi riecheggiare in tutto quel silenzio accompagnato dal suo respiro spezzato. Si fermò davanti al camerino solo per prendere fiato e bussare. Sembrava tutto uno stupido dejà vu.

Ingoiando l’ansia aprì la porta trovandosi davanti Ruki, era sorpreso e indossava ancora i vestiti di scena: un completo estremamente vivace con una stampa che riproduceva le fantastiche sfumature del manto di un pavone, due enormi occhi da gufo lo fissavano minacciosi dal gilet dallo scollo profondo; quasi a volerlo spogliare di tutti i suoi segreti e incolparlo dei peccati più oscuri. I suoi capelli erano acconciati con cura, il trucco pesante gli dava un’aria di arrogante bellezza. Era semplicemente splendido: il nero intorno agli occhi sfumava fino al fucsia sulle tempie e il rossetto era rosso sangue e vellutato come le rose che riposavano sul tavolo al centro della stanza.

«Akira...» Ruki era incredulo, aveva sperato fino all’ultimo istante che si trattasse di lui, ma vista l’ora tarda si era convinto che fosse Yamato, aveva l’abitudine di dimenticare sempre qualcosa di suo in giro.

«Ciao.» non lo vedeva da settimane, lo aveva cercato fino in capo al mondo e ora, che finalmente lo aveva trovato, era stata l’unica cosa che era riuscito a dire. I pensieri gli si erano ammassati diventando confusi e irriconoscibili, Takanori aveva un certo effetto su di lui, questo era stato chiaro sin dall’inizio.

«Vieni.» averlo nell’intimità del suo camerino gli fece uno strano effetto, era felice che lo avesse finalmente raggiunto. La sua presenza voleva significare soltanto una cosa, ma non volle essere troppo affrettato anche solo nel pensarla; c’era sempre il rischio di restare deluso. «Togli il cappotto o morirai di caldo.»

«In realtà sto benissimo adesso, fuori si gela.» Akira si sentiva quasi a disagio davanti a lui: non era il ragazzo timido e vivace che aveva imparato a conoscere, ma quel Ruki era austero e sfrontato, padrone dei propri sentimenti e Takanori sembrava indossarlo come un’armatura.

«Almeno siediti.» gli creava tensione vederlo in piedi in preda ad emozioni contrastanti. Doveva aver aspettato al freddo per ore, a giudicare dai capelli umidi e dal cappotto striato dalla pioggia, il tempo non doveva essere stato dei migliori; nonostante tutto, però, non sarebbe di certo bastato a fargli abbassare la guardia, continuava a tenerla ben alta incrociando con forza le braccia al petto.

«No.»

«E allora cosa sei venuto a fare fin qui? Non ho molto tempo, sono stanco e vorrei tornare a casa.» voleva prenderlo ancora in giro? Stavolta si sarebbe scontrato col muro della sua ostinatezza, non avrebbe ceduto davanti ad un faccino tenero.

«Mi dispiace, io...ho così tanto da dire, che non so da dove cominciare.» Akira sembrò prendere una decisione in quello stesso istante. «In realtà due cose vorrei dirle subito: scusami, sono un coglione, avevi ragione tu.»

«Beh, queste sono tre cose e una mi piace particolarmente.»

«Sono un coglione?» in fondo se lo meritava.

«Anche. Ma è meglio sapere che almeno un po’ ti dispiace per ciò che hai fatto.» aveva mancato di rispetto principalmente a se stesso.

«È la verità. Dall’ultima volta che ci siamo visti, ho avuto modo di pensare molto e sono giunto ad alcune conclusioni che non sono state facili da accettare. Avevi ragione a dire che la colpa è soltanto mia, avevo così paura di quello che sono da allontanare tutti indistintamente, senza realizzare che c’erano persone che volevano soltanto aiutarmi.» era diventato come un cane randagio che, ormai, ha perso fiducia nell’uomo e morde anche la mano che gli porge del cibo. «Ti ho cercato ovunque, casa tua era deserta e il tuo studio completamente abbandonato. Tu non c’eri e ho avuto paura che ti fosse capitato qualcosa, o che te ne fossi andato per sempre senza lasciare traccia. Non mi è piaciuta la sensazione che ho provato: mi sono sentito svuotato di ogni speranza, credevo fosse troppo tardi per rimediare al mio sbaglio.» e poteva esserlo ancora, Takanori non era tenuto a perdonarlo e a ricominciare. Gli si avvicinò con timore e prese la sua mano calda e adornata da anelli maestosi, nella sua fredda e vuota. «Quindi, ti prego, dimmi che vuoi ancora salvarmi.» non era mai stato tanto sincero in vita sua, in un’esistenza costruita su una menzogna, instabile come un castello di carte.

Takanori non poté continuare a fingere indifferenza davanti a quello sguardo, a quella supplica disperata. La tensione accumulata si sciolse lasciando libere le sue spalle e strinse la mano di Akira trovandola sorprendentemente grande e accogliente. «Sei solo uno stupido.» sospirò pesantemente, quasi di sollievo. «Ti aspettavo.» e ci aveva messo tutto quel tempo per trovarlo.

«Anche io.» Akira gli si avvicinò ancora sentendosi avvolto con violenza dal suo profumo: un misto tra Ruki, Takanori, il live appena concluso, la sua stanchezza e una buona dose di arrendevolezza. «Da tutta una vita.» quando le loro labbra si scontrarono, fu come se migliaia di farfalle avessero preso il volo nello stesso istante, scappando da un giardino in cui erano prigioniere. Gli era mancato quel sapore dolce mischiato al tabacco, quella sera sapeva anche di tutte le canzoni che aveva cantato e di tutte le emozioni che gli erano state restituite dal pubblico.

«Ora sarà impossibile farti uscire dal mio mondo.»

«E se io non ne volessi uscire affatto?» Takanori aveva capito sin dall’inizio quanto potesse essere abbagliante quel piccolo mondo silenzioso. Un mondo di cui, d’ora in poi, avrebbe fatto parte.

«È quello che speravo.»

«Non aver paura, Akira.» non era più il tempo dei pensieri, dei rimpianti o delle speranze, ora doveva solo stringerlo a sé e cominciare ad essere felice.

 

 

* magari l’avessi inventata io questa frase xD la disse Rita Hayworth… io ammetto la mia ignoranza, personalmente non so chi sia, ma devo citare u.u

♥v♥ ve l’avevo detto di preparare i cuori e gli arcobaleni no?! *v* non potevo resistere ancora per molto, anche la reituki doveva capitolare ai piedi dell’amore ohohoh~ grazie mille Yuu ♥ lui è sempre il solito amore, la spinta che serve ad Akira per affrontare ciò di cui ha paura *ama* ma facciamo un applauso anche a Yamato: una figura molto utile, creata solo per usarla in questo modo in questo capitolo LoooL °0° bene, non so che altro dire..sono invasa dai cuori anche io ♥

Al prossimo capitolo, ne~

 

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


u.u d’ora in poi solo momenti cuoriciosi, eh *w* ♥

 

Sing for me

 

Akira si abbassò per improvvisare un inventario di ciò che il frigo gli proponeva, il suo volto per un attimo fu illuminato dalla luce fioca che si spense quando recuperò l’occorrente per la colazione. Un succo d’arancia e qualche biscotto al cioccolato sarebbe stato sufficiente? In fondo non conosceva i suoi gusti cosi bene da sapere cosa preferisse appena sveglio; magari del caffè amaro, forse soltanto latte. Sicuramente non acquistava cibi che non fossero di suo gradimento, ma il fatto di non sapere praticamente nulla delle sue abitudini, lo lasciò spiazzato. Non gli piaceva quella sensazione, gli sembrava di conoscere un estraneo e doveva assolutamente rimediare, si ripromise di farlo mentre raggiungeva la camera da letto e lo trovava ancora addormentato, avvolto tra le spire del caldo piumone che gli era sembrato troppo ingombrante la sera prima. Takanori si era addormentato quasi subito, la sua voglia di fare l’amore con lui era evidente, ma la stanchezza aveva avuto la meglio.

Akira lasciò il vassoio al sicuro e si stese accanto a lui sulla porzione di letto su cui aveva riposato tutta la notte, cercò di far piano per non svegliarlo e rovinare, così, quel momento di grande intimità; gli piaceva restare lì ad osservare quel volto rilassato mentre la sua mente era persa in luoghi lontani, gli occhi chiusi dalle ciglia lunghe e folte, il taglio di una perfetta mandorla dolce; il naso leggermente schiacciato dava alle narici la forma di una goccia. E le labbra. Potevano esistere al mondo labbra tanto piene e raccolte quanto un bocciolo? Le aveva viste sorridere, piangere, arrabbiarsi e ora aveva una gran voglia di baciarle, perciò si sporse fino a toccarle con le sue. Fu allora che l’altro si svegliò, prendendo fiato e stiracchiando i muscoli intorpiditi come un gattino. Gli sorrise. «Ciao.» Takanori teneva ancora gli occhi chiusi indeciso: era davvero sveglio o aveva soltanto sognato di vedere Akira lì accanto a lui?

«Ciao, ti ho portato la colazione.» Akira si alzò con il busto, lasciando che il peso della testa gravasse sul gomito. «Non sapevo cosa preferisci mangiare...»

«Oh, mi va bene davvero qualsiasi cosa, ho imparato ad adattarmi.» durante i suoi tour cambiava così tanti alberghi e città che non poteva permettersi, di certo, stupide moine. «Però così mi vizi.» Takanori addentò un biscotto, recuperato dal vassoio ai piedi del letto, e lo fece andar giù con un sorso di succo.

«Beh, sai, di solito è quello che si fa con il proprio ragazzo.» era strano rivolgersi all’altro pensandolo suo, ma ormai lo era. Certo, la loro storia era ancora agli inizi, ma pian piano si sarebbe assestata e avrebbero capito se l’eterna ricerca fosse finalmente finita. La vita stessa era una scommessa, figuriamoci l’amore.

«E quando sarò in tour?»

«Ci sarà il tuo assistente, è lì per questo, no?»

«Ma io voglio te.»

Akira lo vide mettere su un broncio degno di un bambino a cui è stato detto che non ci sono più caramelle. «Quanto starai via?»

«Almeno tre mesi.» sarebbe stato un tour sfiancante, pianificato nei minimi dettagli per sfruttare al massimo la pubblicità che ne sarebbe derivata; era solo ora è aveva bisogno di gente che credesse in lui a tal punto di investire sulla sua musica. Nella vita reale, il suo sogno aveva un costo davvero molto alto.

«È davvero un sacco di tempo.» e separarsi così, ora che si erano appena ritrovati, era un supplizio ingiusto.

«Per questo ti chiedo di venire con me.»

«Intendi venire con te in tour? Lasciare tutto? E il lavoro? Non posso lasciare Yuu nella merda, ci serve quel poco che riesco a guadagnare.» era una di quelle scelte a cui non si potrà mai essere pronti, avrebbe potuto passare anni a rimuginarci sopra, ma la risposta non sarebbe cambiata: serviva solo un pizzico di coraggio e una buona dose di follia e lui non ne aveva mai avuti. Era improvvisamente spaventato.

«Se è una questione di soldi, con me ne guadagneresti ancora di più. Potresti essere il mio assistente, o l’addetto al catering, potrai occuparti di qualsiasi cosa tu voglia. Vieni con me Akira.» ora sembrava una supplica, più che una richiesta.

«Così mi sembra di sfruttarti, non lo so...» il fidanzato famoso che subito gli trovava un buon lavoro, una coincidenza davvero molto sospetta. Dall’esterno lui avrebbe visto una relazione basata solo sull’interesse.

«Ma che dici?! Te lo sto chiedendo io, no? E mi pare che stia insistendo parecchio, vista la tua testardaggine.»

Akira ci pensò su ancora qualche attimo. «E, ammesso che dicessi di si, quando dovremmo partire?»

«Dopodomani.»

«Cosa?!» non aveva praticamente tempo di organizzare il tutto, preparare le sue cose o parlarne con Yuu.

«Lo so, non è molto tempo per una decisione del genere, ma penserò a tutto io. Tu devi solo dirmi di si.» i suoi occhi erano così pieni di speranza, sembravano già vedere le loro mani unite davanti ad un futuro sfavillante.

Lo aveva già ferito una volta, dove avrebbe potuto trovare il coraggio di farlo ancora? Allora Akira sorrise, dentro di sé sentiva che era la scelta giusta da fare, quella poteva essere l’occasione che aspettava da sempre, eppure appena gli si era presentata aveva provato quella sensazione che conosceva bene: paura. Ma aveva promesso o no a Takanori di non averne più? «Ok, va bene.» doveva fidarsi di lui, lasciare che le cose andassero da sole, a tutto il resto ci avrebbe pensato il destino. Lui lo avrebbe salvato da se stesso.

«Ora vieni qui...» Takanori era al settimo cielo, visibilmente felice, così tanto da essere quasi fuori di sé. Si lanciò verso Akira sbilanciandolo con il suo peso e, per la spinta inaspettata, finirono stesi sul materasso che ancora troppo poco aveva visto di loro. Il cantante prese a baciare quelle labbra carnose ed invitanti quanto un peccato, non le conosceva bene, non le avrebbe riconosciute ad occhi chiusi, ma sentiva che il loro sapore ogni volta nuovo gli avrebbe fatto cambiare idea sull’esistenza del paradiso. Il contatto divenne più intimo, i baci si moltiplicarono: percorsero il viso, volarono sul collo diventando morsi, scesero sul torace fino ai capezzoli trovandoli già turgidi.

Akira gemeva, inerme nella sua stretta, come prigioniero del piacere che scaturiva dai loro sessi che si scontravano attraverso la stoffa sottile degli slip; era bello sentire la sua voce piegarsi in quella nuova sfumatura, se avesse potuto avrebbe sussurrato dolci parole all’orecchio che ora mordeva con enfasi e voracità. Senza preavviso Akira invertì le posizioni prendendo il controllo di quella che stava diventando una lotta per la supremazia del più forte, piano insinuò la mano oltre l’elastico dell’unico indumento che indossavano, prese subito a massaggiare l’erezione già calda trovando quel membro come lo ricordava: piacevolmente ingombrante. Non ci pensò oltre, aveva voglia di sentirlo dentro di sé, perciò prese la mano di Takanori, scelse l’indice e il medio e li fece sparire nella sua bocca.

La pelle dei polpastrelli era salata, ma morbida e vellutata allo stesso tempo; leccò le sue dita piano assaporandole fino in fondo, inumidendole e lasciandole sufficientemente lubrificate per permettergli un’intrusione non troppo traumatica. Già soltanto guardare il volto di Takanori era stato sufficiente a fargli divaricare le gambe e a portarsi a cavalcioni sul suo bacino; i suoi occhi socchiusi lo guardavano attraverso un velo di lussuria, la sua bocca leggermente aperta richiedeva baci a gran voce. Perciò liberandosi dell’ingombro degli slip, Akira si chinò a baciarlo per permettergli di raggiungere più facilmente la sua apertura; sentì il primo dito entrare con difficoltà, ma si abituò presto a quell’intrusione prima che arrivasse anche il secondo. «Mhm...» quel diavolo di Takanori trovò subito la sua prostata e prese a massaggiarla con vigore, i movimenti precisi e morbidi lo portarono ad allargare le gambe; di più, ne voleva di più.

Takanori allora tolse le sue dita per sostituirle con il suo pene, entrò incontrando una lieve resistenza e rimase immobile per lasciare che l’altro si abituasse alla sua presenza. Lo vide cominciare a muoversi lentamente su di lui, il solo pensiero che a tirare la sua pelle fossero i muscoli interni di Akira sarebbe stata sufficiente a fargli raggiungere l’orgasmo; per questo aveva bisogno di spingere, di sfogare la forza del suo desiderio cercando di entrargli sempre più dentro. Si mossero insieme, senza staccarsi, ritrovandosi stesi ai piedi del letto, avvinghiati come in una lotta corpo a corpo: Takanori spingeva e massaggiava l’erezione di Akira con la stessa velocità con cui lo possedeva. Era alla sua completa mercé, indifeso come un cucciolo, feroce come una tigre quando avvolse le sue gambe intorno al suo stretto bacino; cercò i suoi baci e li ricevette insieme ai morsi che lasciarono segni rossi sulla sua pelle. Il ritmo delle spinte accelerò insieme allo schiaffeggiare del suo bacino contro le natiche dell’altro, sempre più veloce fino a diventare un unico movimento convulso che si fermò con un sussulto quando entrambi riversarono il loro piacere: Akira tra i loro ventri piatti e Takanori dentro di lui. Rimasero fermi a lungo rincorrendo i loro respiri fino a regolarizzarli.

«Direi che la giornata è cominciata bene.»

Takanori rise di gusto. «E andrà sempre meglio, andiamo a fare la doccia?»

La risposta di Akira fu un dolce bacio che sapeva di promesse.


*


Quindi, fammi capire bene, vorresti lasciare tutto e seguirlo? Yuu sorrideva quasi divertito, era contento che le cose fossero andate per il verso giusto. Non gli avrebbe rinfacciato di aver previsto tutto: dall’odio poteva nascere l’amore, succedeva negli shoujo manga e ora anche nella vita reale.

Può sembrare una pazzia, ma lavorerei per lui.

Non sei qui per chiedere il mio parere, in realtà tu hai già deciso, non è vero? Non era arrabbiato, stava solo costatando un dato di fatto. E poi sai bene che qualsiasi cosa tu decida di fare io sarò sempre dalla tua parte, è una tua decisione e sai a cosa andrai incontro.

Lo so, ma non posso restare lontano da lui per tutto quel tempo, tre mesi passeranno veloci vedrai.

Tre mesi che spero diventeranno cinque, poi dieci, un anno e poi due... Devi cominciare a vivere la tua vita Akira. E questo avrebbe comportato lasciare il nido. E la tua vita con lui. Non pensare a tornare, vai avanti e lasciami pure indietro, io sarò sempre qui. Il suo sguardo era sereno, consapevole che il momento di crescere era finalmente giunto, per lui e soprattutto per il suo fratellino. Era difficile da accettare senza provare una stretta al petto, ma non era nulla paragonata alla felicità per la vita che aveva cercato in ogni modo di costruire per lui. Doveva smetterla di dar retta a quella vocina insistente che gli diceva di non abbassare la guardia, era solo il solito stupido istinto di protezione.

E ti lascio in buone mani, a quanto pare!

Si, per ora stiamo bene insieme, certo non sono sempre rose e fiori, ma ci completiamo. Forse era questa la chiave di tutto, la formula della felicità: trovare qualcuno che colmasse le lacune e valorizzasse i pregi.

Credo di capire cosa provi.

Già. Yuu parve essere colpito improvvisamente da un’idea. Come farai con il lavoro alla casa discografica?

In realtà ho già parlato con Hoshi, tutto ciò che mi ha risposto è stato: “Mi chiedevo quando ti saresti deciso a lasciare finalmente questo posto, non fa per te, meriti di più.”

L’avevano capito tutti tranne te, quindi.

Lo sai che sono sempre l’ultimo a sapere le cose!

E anche a prepararti, non dovresti fare le valige?

Mi aiuti? C’era così tanto da riordinare che gli veniva voglia di arrendersi al solo pensiero.

Sfruttatore senza pietà, dì la verità: sei tornato solo per questo! Sapeva che non avrebbe mai potuto dirgli di no.


*


«Ah basta, andiamo in pausa, vieni ragazzo.» il capo squadra era un uomo sui quarant’anni, aveva moglie e due fantastiche bambine, da ragazzo gli sarebbe piaciuto diventa una rock star ma ora si accontentava di gestire l’allestimento degli stadi. Costruire la scenografia, assistere ai live e garantirne la riuscita per lui era più che sufficiente.

«No, preferisco finire di montare questo arnese!» Akira era stato sotto la sua supervisione tutta la mattina rubando i segreti del mestiere e i suoi consigli; ora si sentiva pronto a lanciarsi da solo in quella nuova avventura.

«Non stancarti troppo, dopo il concerto ci sarà tanto da fare.»

«Non vedo l’ora.» in realtà per lui ci sarebbe stata un’attività fisica aggiuntiva, ma questo di certo non poteva saperlo nessun altro oltre a lui e Takanori.

Ma fu Ruki a raggiungerlo sul palco dove era impegnato a montare i tamburi della batteria secondo lo schema che gli era stato indicato, un bel diversivo dopo decine di cavi e bulloni. «Cercavo proprio te.» Akira si accorse della presenza dell’altro solo quando comparve nel suo campo visivo.

«Hei!» ormai si era abituato a vederlo con quegli abiti di scena, ma ogni volta la sua bellezza gli mozzava il fiato come se fosse la prima volta.

«Come va?» Ruki gli si strinse al collo baciandolo nonostante il rossetto.

«Ma-»

«Se a qualcuno da fastidio, può anche andarsene! Non ho intenzione di averti qui, così vicino a me, e non baciarti.» ma non c’era nessuno lì, l’intera squadra era in pausa pranzo.

«Sono l’amante del capo, allora!» Akira lo tirò a sé, sollevandolo di peso per fargli compiere un mezzo giro. Non resistette oltre e ricambiò il suo bacio. «Mi sei mancato.» lo sussurrò a fior di labbra, come se fosse un segreto pericoloso.

«Anche tu. Ti piace star qui?»

«Si, pensavo peggio, invece mi piace.» far parte di uno spettacolo cosi grande era appagante, poteva essere soltanto una piccola formica operaia per il resto del mondo, ma nel suo piccolo lui si sentiva importante.

«Mi fa molto piacere.» all’inizio aveva avuto paura che quella mansione fosse un azzardo per lui.

«Sei pronto per stasera?» Akira non voleva saperne di sciogliere il loro abbraccio, continuava a tenerlo stretto per paura che potesse scappare.

«Ho un po’ paura, hai visto quanto è grande questo posto?!»

Il castano si guardò intorno con aria sognante. «E sarà tutto pieno!»

«Questo non aiuta affatto

«E non avranno occhi che per te, sarai una loro proprietà per due ore, ma poi tornerai da me.»

«Sempre.»

«Ma ora devo finire di montare questa batteria, o Kai-san non potrà fare il suondcheck.»

«L’hai preso proprio sul serio questo lavoro!» e se gliel’avessero detto, non ci avrebbe creduto.

«Solo perché lo spettacolo è tuo!» Akira avvitò un bullone che andò giù con facilità. «Comunque…quello è il basso?» per tutto il giorno non aveva fatto altro che cercare di avvertire qualche vibrazione, qualcosa che potesse fargli capire la natura degli strumenti che vedeva intorno a sé.

«Questa è la chitarra, quello il basso.»

«E che suono ha?»

«Beh...» Ruki ci pensò su cercando le parole giuste per far capire cosa fosse una chitarra a chi non ne aveva mai sentita una, avrebbe potuto concentrarsi sulle sensazioni che dava o cercare dei paragoni adatti. «La chitarra è come i grossi felini: può ruggine come un leone, ma può essere sinuosa come una pantera o dolce come un gattino. A volte avvolgente e consolatrice, a volte aggressiva.»

Akira era quasi ipnotizzato, ascoltava quelle parole come fossero una rivelazione pari allo scopo della vita umana sulla Terra. «E il basso?»

«Il basso vibra fin dentro lo stomaco, vieni.» Ruki si avvicinò allo strumento in questione, lo sollevò dal suo piedistallo e lo imbracciò. Fece pressione sulle corde e lasciò che l’altro vi posasse una mano per sentirne le vibrazioni. «Le senti? Poggia la mano sull’amplificatore.»

«Si, le sento.» era una vibrazione continua e leggera, quasi come un vento leggero, gli piaceva. «E quella invece?» ora che la sua curiosità trovava finalmente pace, non poteva pensare di smettere; si sentiva come un assetato che attraversa il deserto e scorge un’oasi in lontananza.

«La batteria invece è un colpo secco al petto, ogni tamburo è un colpo più o meno forte, i piatti sono come una rincorsa che finisce con una  scivolata.»

Akira sorrise vedendo Takanori mimare le azioni che gli descriveva, era convinto che tutto ciò che gli stava dicendo fosse la pura e semplice verità. «Visti così non fanno più tanta paura.» anzi, erano quasi familiari perché riproducevano sensazioni che anche lui conosceva. Non si sentiva più escluso.

«Io non voglio assolutamente criticare tuo fratello, né tantomeno giudicarlo, ma Yuu ti ha fatto nascere una sorta di paura verso la musica. So che lo ha fatto per proteggerti, ma ora sei cresciuto. Ora ci sono io e non dovrai più avere paura di nulla.» Ruki prese il volto di Akira avvolgendolo con le sue mani; avrebbe costruito un mondo soltanto per lui, un mondo in cui vivere la musica attraverso il tatto, la vista, il gusto e l’olfatto sarebbe stato considerato più che normale. Glielo doveva, così come lo doveva un po’ anche a se stesso.

«Credo proprio di amarti.» glielo disse così, con una semplicità disarmante, come se avesse solamente preso fiato.


Credevate che Rukino sarebbe partito senza di lui, eeeeh? >w> proprio ora che si sono ritrovati?! Impossibiru A_A so che può sembrare una mossa azzardata per Akira, ma gli aveva promesso o no di non fare più il fesso e lasciarsi salvare? Beh, lasciarsi salvare significa anche fidarsi dell’altro al 100% ♥v♥ e dargli anche qualcos’altro u.u infatti la lemon era d’obbligo *^* come al solito ci ho messo 3 vite per scriverla, ma stranamente sono soddisfatta del risultato *w* Akira passivo attivo mi piace xD è un giusto compromesso :9 E, quindi, Yuu è sempre il solito patatino, per lui abbiamo già versato fiumi di arcobaleni xD

Rukino è un cuore rosa ♥v♥ lui ha subito trovato un modo per far vivere la musica anche ad Aki che come poteva non innamorarsi completamente di lui?? =w= eeeeh~ *sospira cuori* solo momenti felici d’ora in poi, tanti stralci di vita per farvi capire come sono andate le cose poi ♥ resistete fringuelline, -2!

Grazie a tutte di tutto, al prossimo capitolo~ ♥

 

 

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***


é_è il penultimo capitolo è giunto. Non vi fate ingannare, c’è sempre una valanga di cuori dietro l’angolo

 

Sing for me

 

Fu grazie ai suoi riflessi pronti che si destreggiò con agilità evitando i suoi nuovi compagni di squadra, stavano trasportando pesanti bauli e non avrebbero potuto evitare la collisione. «Ciao Akira.»

«Ciao ragazzi!» a modo loro erano tutti brave persone, si erano affiatati durante quelle tre settimane e ormai gli bastava un cenno per capire dove fosse necessario il proprio contributo. Non avevano compiti prestabiliti, c’era così tanto da fare che l’aiuto di tutti era indispensabile; ora, per esempio, lui stava portando balle di cavi da dieci metri su per l’enorme sala che presto avrebbe ospitato la nona data del tour. Gli piaceva lavorare, occupare il corpo e la mente tanto da non pensare a se stesso, quel ritmo era distruttivo e, spesso, avevano dovuto rinunciare ad una notte di sesso; eppure trovavano sempre il modo di incontrarsi furtivamente nei corridoi, sfiorarsi inconsapevolmente, scambiarsi sguardi pieni di desiderio: una volta avevano addirittura approfittato della pausa pranzo per una sveltina in camerino. La loro assenza non era certo passata inosservata, ma tutti ormai sembravano aver capito il tipo di legame che c’era tra loro; non aveva neanche più senso nascondersi, ma era terribilmente eccitante.

«Dopo che hai lasciato quei cavi, mi aiuteresti con gli amplificatori?»

«Certo.» quando il capo lo richiamava all’ordine, non poteva certo rifiutarsi, ma prima doveva portare a termine il suo compito principale. Passò distrattamente tra le sedie ancora vuote e si guardò intorno cercando Ruki, lo vide in consolle mentre impartiva i suoi ordini al tecnico delle luci, aveva un’espressione tesa che da parecchi giorni non sembrava voler lasciare quel viso splendido. Ruki incrociò il suo sguardo e gli rivolse un cenno senza colore.

Più volte gli aveva chiesto se stesse bene, ma la risposta non variava: era solo stanchezza, avrebbe solo dovuto riposare di più. Eppure Akira sentiva che c’era qualcosa dietro quella maschera stizzita, qualcosa che non gli diceva, forse per non causargli inutili preoccupazioni e in realtà era proprio quel non dirgli nulla ad incrementarle. In quel momento non avrebbe potuto far nulla per lui, se non montare quei pesantissimi cavi facendo attenzione al giusto colore delle entrate e delle uscite, di certo non era un tecnico del suono ma quel lavoro avrebbe potuto svolgerlo anche un bambino.

«Hai finito?» Masato lo aveva raggiunto sul palco, era ora di occuparsi d’altro.

«Si

«Allora colleghiamo gli amplificatori: io penso alla parte di destra.»

«Ok.» quindi a lui sarebbe toccata la seconda chitarra, il basso e la batteria, perciò si mosse immediatamente. Si accorse che Masato lo stava chiamando a gran voce, solo quando si rialzò per passare al cavo successivo, gli venne quasi da ridere e si avvicinò al caposquadra. «Masato-san, è inutile urlare con me, non potrò mai sentirti. In realtà, io sono sordo.» dirlo fu più facile di quanto avesse immaginato, ma sentì un peso enorme sollevarsi dal suo petto, evaporare via come un sospiro trattenuto troppo a lungo. Aveva sempre avuto paura di quella parola, più di ogni altra cosa e aveva passato ore allo specchio ripetendo a se stesso una infinita litania: sono sordo, aveva osservato le sue labbra mentre attraversavano quelle consonanti e il mostro era cresciuto a dismisura. Eppure, era stato così semplice da far quasi paura. Non voleva più nascondersi, era stanco di mentire a se stesso e agli altri e doveva ringraziare Takanori: “Devi smetterla, devi essere te stesso e imparare a prendere ciò che puoi dal mondo intorno a te, nulla di più. Dicendo la verità nessuno si aspetterà da te ciò che non puoi, vivere non sarà più l’inferno che è stato finora, te lo prometto.” Riusciva ancora a vedere il suo volto poggiato sul morbido cuscino bianco e anonimo dell’ennesimo hotel in cui avrebbero passato la notte, la luce dell’abat-jour alle sue spalle lo faceva sembrare un angelo biondo ed evanescente.

«Akira, non si scherza su queste cose!»

Il ragazzo sorrise appena. «Ma non sto scherzando.»

«Non può essere, dai...» l’uomo era visibilmente incredulo e a buon ragione.

«Sono serio, Masato. Sono sordo.» era una semplice verità, fin troppo semplice. Forse era quell’atmosfera goliardica e frenetica a farlo sentire così bene nonostante tutto, c’era un’aria carica di aspettativa e soddisfazione cristallizzata nella possibilità di far felici migliaia di persone con il loro lavoro. «So leggere benissimo il labiale, ma davvero urlare non serve.» Akira vide la solita espressione di circostanza, tinta dall’indecisione e da un lieve imbarazzo.

«Ma...allora che ci fai qui?» la sua obiezione era più che legittima.

«Per amore. Inseguo il sogno della persona che amo.»

Masato sorrise con la saggezza degli anni, aveva visto molte cose nel corso della sua vita, alcune incredibili altre straordinarie e aveva avuto modo di capire che forza stravolgente avesse l’amore: migliorava le persone, cambiava il destino e realizzava l’impossibile. «Allora torna a lavoro, o non riuscirai a raggiungerlo.» con una pacca sulla spalla decretò la fine della conversazione.

«Ah, che volevi dirmi?»

L’uomo ci pensò su, ma scosse la testa. «L’ho dimenticato!»

Akira sorrise tornando al suo lavoro, si ripromise di raggiungere Ruki il prima possibile o non sarebbe riuscito a sopportare altre nove ore lontano da lui.


*


«Ciao superstar!» Akira si affacciò in camerino, gli fu sufficiente sporgersi per vedere Ruki alle prese con gli ultimi ritocchi all’acconciatura.

«Akira...» cercò il suo sguardo nel riflesso dello specchio davanti a lui incatenandolo in una muta richiesta, sembrava aver bisogno di lui, ma non erano soli: con loro c’era Kaolu, il suo personale truccatore.

«Potremmo restare un attimo da soli? Ti dispiace?» Akira sperava di non aver usato un tono troppo duro, ma non riusciva a contenersi. Non gli era piaciuto sin dalla prima volta che lo aveva visto, era un ragazzo dallo strano look fuori dalle righe, palesemente gay e riversava davvero troppe delle sue attenzioni sul suo uomo. Dove c’era lui, trovava anche Kaolu, quando lui sorrideva l’altro era pronto ad imitarlo. Non poteva continuare così, era ora di cominciare a marcare il territorio.

«Si, abbiamo quasi finito.»

«Vai pure Kaolu, è tutto perfetto così, grazie.» fu solo quando Ruki intervenne che il ragazzo uscì dalla stanza lanciando un ultimo sguardo al ragazzo fermo sulla porta che ricambiò con un’occhiataccia poco cordiale.

«Cosa c’è?»

«Ti gira intorno uno po’ troppo per i miei gusti.» Akira guardò verso la porta per assicurarsi che non ci fosse più anima viva oltre loro due.

«È il mio make-up artist, se non te ne sei accorto, dovrebbe girarmi eccome intorno.»

«E dovrebbe anche limitarsi al suo lavoro.»

«Sei geloso?!» Ruki sorrideva di gusto, qualcosa che non faceva da giorni ormai.

«Si. Tu sei mio e non ho intenzione di dividerti con nessun altro.» poteva sembrare l’affermazione di uno stupido bambino troppo possessivo nei confronti del suo giocattolo preferito, ma Akira aveva davvero paura di perderlo dopo aver sofferto così tanto per abbandonare il suo vecchio se stesso. Lui era riuscito lì dove tutti avevano fallito, non poteva abbandonarlo proprio ora.

«Non devi aver paura, io sono solo tuo.» Ruki si nascose nel suo abbraccio, aveva bisogno di una presenza familiare, del profumo che lo aveva inebriato nelle lunghe notti di sesso. Delle labbra che aveva cercato nella penombra delle prime ore del mattino trovandole, poi, vogliose di lui.  Chiuse gli occhi per assaporare meglio quelle sensazioni, per far sì che gli entrassero dentro.

«Tutto bene?» Akira sentiva che c’era qualcosa di strano, lo avvertiva sulla pelle che fremeva sotto il suo tocco. «Come ti senti? Sei pronto per stasera?» probabilmente, anche vedendola con i propri occhi, nessuno avrebbe creduto a tutta l’insicurezza che Ruki mostrava prima di un concerto. Era un essere umano, un ragazzo come tanti, era normale che avesse paura.

«Si...» il cantante si allontanò per tornare a guardarsi nello specchio, indossò la giacca per completare il suo outfit e sistemò gli ultimi dettagli già perfetti; ma continuava ad osservarsi senza realmente vedersi.

«Andrà tutto bene, come sempre. Se può aiutarti a calmarti, sappi che io sarò in fondo alla sala ad aspettarti.» era fin troppo scontroso in quei giorni, distante, perennemente irritato come se ci fosse sempre qualcosa che lo infastidisse. Cosa poteva fare per lui? «Sei già perfetto Takanori, basta. Hei, guardami.» gli prese il volto tra le mani, costringendolo a voltarsi. «Va tutto bene, ora non pensare a niente.» Akira avanzò fino a poggiare la sua fronte su quella dell’altro cercando di trasmettergli, come attraverso la telepatia, un po’ della sua calma. Portò la sua mano fino al petto di Ruki e quella del cantante la fece posare sul suo, magari sentire il ritmo lento e pacato del suo cuore lo avrebbe aiutato a calmarsi.

«Ruki-san, è ora di andare.» Yamato venne a fare il suo annuncio proprio un attimo dopo il loro bacio. 

«Arrivo.» fu così che si separarono per quella che sembrò un’eternità.


*


Lo spettacolo era stato un successo. Akira era stato tutto il tempo in fondo alla sala, la prima volta era accaduto tutto per puro caso: doveva assicurarsi che le uscite di sicurezza fossero sgombre ed accessibili e si era ritrovato intrappolato come un insetto nella tela di un ragno. Più tentava di muoversi, più avvertiva i fili sottili e letali stringersi intorno alle sue membra, era rimasto fermo lì rapito dallo spettacolo che si apriva sotto i suoi occhi. Takanori si muoveva con una sicurezza che, in realtà, non possedeva, sul palco si trasformava in Ruki: sensuale come un Dio e peccaminoso come un demonio. Le luci erano abbaglianti, avvolgenti, creavano giochi di ombre e figure così ipnotiche da sapere sin dall’inizio che non ti sarebbero bastate. La scenografia alle sue spalle si muoveva insieme alla musica, alle parole cantate con una forza tale da far vibrare l’intero stadio, era questo ad aver sorpreso Akira: non riusciva soltanto a sentire i tonfi e le vibrazioni della musica, ma anche quelle della sua voce, era così potente da raggiungere persino la sua anima, ammaliarla e convincerla a restare.

Ma ora tutto era di nuovo silenzioso nel piccolo abitacolo immerso nel buio, una Mercedes scivolava silenziosa per le strade mentre li conduceva all’albergo dove avrebbero dormito ancora per una notte. Takanori aveva bisogno di riposare, perciò si era lasciato andare abbandonando la testa contro la spalliera del sedile posteriore mentre Akira gli sedeva accanto impossibilitato anche solo a capire cosa gli accadesse intorno, se non fosse stato per le luci della città avrebbe brancolato nel panico, preda della sua paura del buio. «Siamo arrivati.» Takanori si riscosse scendendo dalla macchina e correndo al riparo senza dargli nemmeno il tempo di realizzarlo, aveva liquidato il suo assistente per quella sera, quindi dovette occuparsi lui della noiosa trafila alla reception. C’era seriamente qualcosa che non andava, non era da Takanori comportarsi in quel modo. Lo trovò ad aspettarlo agli ascensori, raggiunsero la loro stanza in silenzio e, appena la porta si chiuse alle loro spalle, Akira non resistette oltre. «Si può sapere che ti prende?!»

Takanori parve essere stato preso alla sprovvista. «Non so di cosa parli.» aveva cominciato a spogliarsi, la maglia e le scarpe giacevano già sul pavimento.

Akira sapeva come sarebbe andata a finire: avrebbe fatto una doccia veloce, avrebbe detto di avere mal di testa mettendosi a letto per addormentarsi quasi subito e lui avrebbe passato la notte a fissare la sua schiena. «Se ho fatto qualcosa-»

«Ma che dici!» il biondo si voltò per recuperare dei vestiti puliti dalla valigia.

«Non voltarti, guardami. Takanori, guardami!» sapeva che in quel modo non avrebbe potuto continuare quella conversazione, né tantomeno decifrare il suo stato d’animo; aveva usato quello sporco trucco contro di lui ferendolo come non mai. «Adesso tu mi dici cosa non va.»

«Cosa vuoi che sia? Sono solo stanco…»

«Questa scusa non regge più! Io ti ho seguito, ho lasciato tutto per te e ora non me ne starò con le mani in mano quando hai bisogno di me!» perché ormai era chiaro che qualcosa lo tormentasse più di un incubo, non voleva rinfacciargli ciò che aveva fatto per lui, solo fargli capire quanto fosse importante. «Parlami Taka.»

«Ti stai sbagliando, non c’è niente che non vada.»

«Takanori Matsumoto, conto fino a tre…»

«Smettila!»

«No.» la prima piccola crepa si era creata nel muro del suo silenzio, doveva soltanto insistere e colpirlo con più forza. «Tu non ti sei arreso, hai abbattuto tutte le mie barriere e mi hai salvato contro la mia volontà e ora farò lo stesso con te. Parlami, non escludermi come il resto del mondo, non tu.»

Il biondo abbassò lo sguardo sconfitto, poté quasi vederle le sue emozioni straripare e abbattere la diga della sua ostinazione, fu allora che la prima lacrima solitaria solcò la sua guancia pallida e perfetta. «Akira…io…»

«Dimmi, qualsiasi cosa sia, dimmi tutto Taka.»

«Io…credo di essermi perso, Akira. Non so più chi sono, non so più cosa voglio.» ora le lacrime scendevano copiose.

«Vieni qui, siediti.» Akira lo fece sedere sul bordo del letto matrimoniale accomodandosi accanto a lui. Con pazienza aspettò che tutte le lacrime fossero versate, tutti i singhiozzi svaniti, tutte le paure dissipate.

«Ho sempre creduto di sapere cosa volevo, ho sempre combattuto per arrivare dove sono ora, ma mi guardo intorno e mi chiedo se sia davvero ciò che voglio. Per anni mi hanno detto cosa fare, come vestirmi, come cantare e persino chi essere e li ho accontentati, sono stato chi volevano che fossi.» era questo il motivo per cui aveva lasciato la casa discografica rischiando tutto solo per se stesso. «E mentre li lasciavo fare, non ho avuto il tempo di capire chi c’era davvero sotto tutto quel trucco. Credevo di saperlo, ma non è così. Sono sbagliato, completamente sbagliato…»

Akira lo strinse a sé accarezzandogli i capelli dorati e sottili. «Non sei affatto sbagliato, sei esattamente come tutti noi Takanori. Forse non basta una vita intera per capire chi si è davvero, magari ci cerchiamo un posticino e, anche se è stretto, cerchiamo di entrarci a tutti i costi convincendoci che sia quello giusto.» proprio come i piccoli paguri nascosti sotto la sabbia irrequieta del mare, scelgono d’istinto una conchiglia come loro casa e si ostinano a trascinarsela dietro difendendola con tenacia, ma quando quella casetta diventa troppo piccola sono pronti a cercarne una più grande e abbracciano il cambiamento con naturalezza e sollievo. Gli esseri umani avrebbero dovuto imparare da loro: cambiare sempre in meglio cercando il posto più adatto alle proprie esigenze. Senza perdite né rimpianti. «Il fatto è che cambieremo di continuo, la vita ci farà crescere e cambiare e tutto quello che possiamo fare è adattarci e smettere di combattere.» Akira lo aveva imparato col tempo, ci aveva provato per una vita intera e solo con Takanori aveva raggiunto l’equilibrio necessario per arrendersi a ciò che era. «Vedrai che tutto ti sarà chiaro quando meno te lo aspetti, arriverà un momento in cui capirai tutto.» accettare con serenità quella persona che ci guarda dallo specchio ogni mattina è la cosa più difficile al mondo, a seconda di chi guarda quel volto il risultato sarà sempre diverso fino ad avere personalità completamente diverse che convivono nello stesso corpo, ma è la propria opinione che conta: siamo la persona più importante per noi, aldilà del rapporto con il resto del mondo, resteremo tutta la vita con noi stessi. «E io vedo solo uno splendido ragazzo che è riuscito a realizzare il suo sogno, ma che ha soltanto troppa paura per credere che sia vero. Non è il sogno sbagliato, tu sei nato per cantare, per essere Ruki e per essere il mio Takanori: dolce, orgoglioso, testardo, irascibile…»

«Avrò pure qualche qualità?!»

«Certo, fammici pensare. Oh, hai un pupazzo di neve come sosia!»

Takanori rise stemperando l’atmosfera che si era troppo appesantita. «Che scemo! Mi ero completamente dimenticato di Takanori.» quello stupido pupazzo inutile di cui, ormai, restava soltanto un ricordo.

«Non devi!» asciugando la sua ultima lacrima, ormai anche Akira poté tornare a respirare, la sua missione era compiuta: far tornare il sorriso al suo uomo. «Io non ne ho uno, sono geloso.»

«Ma smettila e vieni sotto la doccia!» ora la malinconia e la paura sembravano più distanti e meno minacciose, quasi come se a piangere solo pochi minuti fa fosse stata un’altra persona. Aveva sempre creduto in lui, sin dall’inizio aveva capito quanto fosse splendido Akira, lo aveva riconosciuto tra milioni di persone ed ora era assolutamente convinto che fosse lui la sua metà. Lo trascinò sotto l’acqua anche se indossava ancora i suoi vestiti, lo baciò alzando lo sguardo verso il suo cielo personale. «Grazie Akira, ti amo.»

 

*w* per noi sono passati 3 giorni, per loro 3 settimane xD quei due trombano furtivamente come ricci, Akira si è ambientato, ha fatto coming out e ha marcato il territorio A_A non che abbia dovuto scervellarmi più di tanto eh! Quell’odiosissimo Kaolu, che io chiamo affettuosamente (tanto affetto quanto verso una zanzara) KaoluBanana sta sempre appiccicato a Ruki A__A è un continuo, gli bomba tutte le foto, in ogni ripresa dove c’è Ruki c’è anche lui…nel WT la sua presenza era così snervante che avrei messo volentieri un bollino sulla sua faccia e ha osato chiamarci “le nostre fans” >_> non mi risulta che la sesta componente del gruppo sia tu, cara Kathy, ma noi! Perciò ti dico io che devi farci con i tuoi pennelli, %&”!?#§!!!  *viene bippata*. Chiedo scusa a tutte quelle che, invece, lo sopportano e magari lo amano, ma non ce la faccio u.u probabilmente anche Reita non ce la fa, vedendo questo nuovo intruso tra di loro è_é o forse non se ne preoccupa sicuro della sua posizione mmmhh A_A Rei-chan attento!

Ma torniamo alla ff: Rukino si è un po’ perso per strada é_è povero cucciolino, ma probabilmente era inevitabile dopo anni in cui gli hanno detto chi doveva essere. Fortunatamente il nostro Takanorino ha Akiruccio bello con sé ♥ che subito, come un eroe dei fumetti, lo mette in salvo ♥ è stato il turno di Akira, ora toccava a lui salvare Takanori ne?! ♥v♥ lo avevo detto che i cuori erano sempre pronti dietro l’angolo~ =w= amo questi due piccioncini puppilini ♥ ma purtroppo manca solo l’ultimo capitolo T^T sarà un trauma anche per me, ve lo assicuro ç_ç ma avete 3 giorni per preparare l’anticarie (?) u.u

Dunque, al prossimo capitolo fringuellin/i ♥ *w*

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


Lo so, sarà un capitolo dolce/amaro ç_ç romantico come uno zucchero, ma resta sempre l’ultimo T^T facciamoci forza

 

Sing for me

 

«Spostati, non riesco a vederti!» Akira cercò di trovare la giusta posizione per permettere al segnale di raggiungere il computer di Takanori, aveva fatto il suo accesso a Skype e ora dall’altra parte vedeva uno Yuu congelato in un’espressione esilarante. «Ti faccio una screenshot, non si sa mai!» l’avrebbe messa come sfondo del suo telefono prima o poi, se lo sentiva, giusto per non perdere il ricordo di quella faccia da fesso di suo fratello. Non che fosse possibile.

Ora?

«Sì.» decisamente molto meglio, per forza di cose doveva assicurarsi che il video fosse di qualità almeno mediocre per riuscire a capire cosa dicesse Yuu.

Che noioso! Spostati tu, no? Magari è il tuo segnale, non il mio.

Non fare la vecchia bacucca lamentona! Akira sbuffò, con lui era sempre la solita storia.

Non ti inventare nuovi segni!

«Vecchia lamentona, te lo dico anche a voce.»

Disse colui che pensa di morire con un raffreddore!

Che c’entra? Piuttosto dimmi come stai. Kouyou e Yutaka? Non li vedeva da più di un mese e mezzo, ma la loro mancanza si era fatta avvertire immediatamente. Non vedeva l’ora di tornare a casa, magari non proprio la casa in cui era cresciuto con Yuu, ma la loro nuova casa: quella che avrebbe costruito insieme a Takanori, avrebbero messo il letto matrimoniale sotto la finestra, possibilmente di una mansarda da cui godersi il cielo comodamente sdraiati, doveva avere un grande giardino per il cane che avrebbero adottato, una stanza abbastanza capiente per lo studio di registrazione di Takanori e una tv enorme per i suoi videogiochi.

Stiamo tutti benissimo, in realtà c’è una cosa che dovrei dirti.

Sei incinta? Non gli sarebbe dispiaciuto diventare zio, in realtà.

Beh, fossi stata una donna avrei partorito già settanta bambini!

Non voglio sapere dei vostri giochetti erotici...

Giusto, stavo dicendo: io e Kouyou abbiamo intenzione di andare a vivere insieme. Lui è in affitto, quindi la cosa migliore sarebbe che si trasferisse qui da noi, tu sei d’accordo?

Ma certo, avresti anche potuto non chiedermelo, lo sai che al mio ritorno non tornerò a casa, si? Lo sapevano entrambi quella mattina, quando si erano salutati con un lungo abbraccio. Yuu aveva anche versato qualche lacrima, ma lui aveva finto di non vederla, era sempre stato lui quello più sensibile tra loro due.

Lo so! Ma questa è anche casa tua e lo sarà sempre, poi andartene a vivere da Takanori non vorrà dire che non mi avrai tra i piedi così tanto che dovrai prendermi a calci per avere un po’ di privacy!

Non preoccuparti, faremo un letto a tre piazze. Invece della suocera, loro avrebbero avuto il fratello invadente. O al massimo, potrai dormire insieme a Koron.

Chi?
Il cane che adotteremo.

Ah fate già progetti?! Yuu rise di gusto, si vedeva già tutto contento mentre portava a spasso il suo piccolo nipotino peloso.

Facciamo quel che possiamo.

Dove siete ora?

A Niigata. Si trovava sulla costa ovest del Giappone, una città abbastanza occidentalizzata famosa per le sue risaie.

Andrete al matsuri?

Probabilmente.  

Non provare ad andarci senza mandarmi video e foto!

Agli ordini!

«Ciao Yuu.» nessuno dei due aveva visto né sentito arrivare Takanori, Akira lo aveva lasciato dormire beatamente quando si era preso tutto lo spazio costringendolo in un angolo. Era bellissimo anche appena sveglio: aveva insistito per indossare una sua maglia come pigiama e il risultato era tenerissimo, gli andava troppo grande perché potesse riempirla e le sue gambe sbucavano toniche dall’orlo che gli arrivava a metà coscia; i capelli raccolti in una coda troppo alta da cui scappavano alcune ciocche bionde che gli solleticavano il collo, gli occhi ancora un po’ gonfi dopo le ore di sonno.

«Ciao Takanori, stai facendo parlare molto di te in questi giorni, ne sono felice.» il suo successo stava diventando un fenomeno nazionale, prima o poi avrebbe raccolto molto più di quanto aveva seminato.

«Grazie, il merito è anche di Akira.» il biondo si sedette in braccio al suo compagno, il corpo nella sua direzione in modo che potesse vedere le sue labbra.

«Non so, io mi limito a montare.» lo sguardo malizioso fece cogliere il doppio senso ad entrambi i suoi interlocutori.

«Va bene, con questo direi che possiamo salutarci e risentirci tra qualche giorno.»

«Non preoccuparti, mi prenderò cura io di Akira.» ora Takanori era tornato serio, non aveva avuto più occasione di parlare con Yuu dopo quella sera di dicembre, ma sapeva che era protettivo come qualsiasi altro fratello maggiore, anche il suo lo era quando ancora vivevano insieme.

«Sono sicuro di lasciarlo in buone mani! Vado a lavoro, mandatemi qualche foto del matsuri.»

«Ciao.» la comunicazione Skype si chiuse con il solito suono distintivo e nella stanza d’albergo scese un invitante silenzio.

«Buongiorno.» Akira baciò le labbra del suo piccolo amore. Poteva anche avere una corporatura minuta, ma per lui era un gigante coraggioso, era il suo eroe e si stava lentamente riprendendo dalla crisi che lo aveva colpito solo due settimane prima. Pian piano, grazie a lui, stava ricostruendo se stesso ripartendo dalle fondamenta; ogni giorno si riscopriva per ritrovarsi sempre più innamorato di lui. Akira era l’unica vera sicurezza della sua vita.

Takanori si nascose nel suo abbraccio, nella naturale cavità formata dalla spalla che sale diventando collo, per poi tornare a guardarlo negli occhi nocciola profondi e felini. «Lo sai? Sei bellissimo quando parli con il tuo linguaggio.»

Akira baciò quella fronte liscia e, forse troppo alta, che amava alla follia. Nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere, facendolo sentire quasi fiero di ciò che era. «Mi sento più a mio agio, non mi è mai piaciuto troppo parlare e temo che col tempo mi riuscirà sempre più difficile.» aveva passato anni ad esercitarsi, anche se ora sentiva di non averne più bisogno, avrebbe dovuto continuare ad adattarsi ad un mondo che era fatto da persone che potevano sentire.

«Beh, tutto sembra tranne che tu sia sordo.»

«Davvero non si sente?»

«Sembra solo un lievissimo difetto di pronuncia come tanti altri.» Takanori continuava ad osservarlo mentre spostava una ciocca castana dietro il suo orecchio. Poteva capirlo, non doveva essere affatto piacevole non poter sentire nemmeno la propria voce, aver paura di urlare troppo, o troppo poco.

«E com’è la mia voce?» adorava quando Takanori gli descriveva il mondo intorno a sé, ogni volta era sempre stato pronto a placare la sua curiosità, mai troppo stanco né irritato dalla sua insistenza.

«È come tornare a casa mentre fuori diluvia e fa freddo e trovare calore, il profumo della cena e la persona che ami che ti corre incontro perché gli sei mancato.»

«Non è poi così male.»

«Ma se non ami parlare, non farlo allora. Insegnami il linguaggio dei segni, rendimi bello quanto te.»

Akira si sciolse in una beatitudine celestiale. «A una sola condizione.»

«Cioè?»

«Solo se adesso verrai a fare un bagno con me.» il castano si alzò portando con sé Takanori che si aggrappò a lui come un koala al suo ramo preferito. Avvertì le vibrazioni della sua risata contro la sua spalla e ne fu felice, ormai tutto ciò che riusciva a percepire dal mondo esterno era prezioso come manna caduta dal cielo e aveva cominciato a bastargli. L’acqua cominciò a riempire la vasca, il sapone lievitò in una schiuma che prese ad assomigliare sempre di più ad una nuvola, Akira si spogliò per primo e aspettò che l’altro facesse lo stesso, lo raggiunse immediatamente e si immersero nell’acqua calda che, subito, sciolse qualsiasi tensione. Erano uno di fronte all’altro o non avrebbero potuto comunicare.

«Quindi ora sei il mio piccolo allievo, potrei essere un insegnante davvero molto severo.»

«Chissà se riuscirò a corromperti, sensei.» la punta del suo piede scivolò in avanti aiutata dall’acqua fino a raggiungere l’inguine caldo di Akira, stuzzicò i suoi testicoli tonici godendo della sua reazione.

«Concentrati e ti prometto una ricompensa da sogno.»

«Ok, sono pronto.» alla fine era stato lui a corromperlo, quindi con movimenti lenti lo vide comporre una parola utilizzando le sillabe con maestria. «Cosa mi hai detto?» quello poteva diventare un gioco davvero molto divertente che, sicuramente, sarebbe degenerato in qualcos’altro.

Akira lo ripeté più lentamente, stavolta aggiungendo la sua voce. «Ta-ka-no-ri.»

«Davvero è il mio nome? E il tuo?»

Akira glielo mostrò, si sentiva al settimo cielo, finalmente anche con lui si sarebbe sentito a suo agio; lo avrebbe portato nel suo mondo silenzioso in cui la minima espressione racchiudeva un torrente di parole in piena che non avrebbero potuto essere espresse in nessun altro modo. Continuarono così per svariati minuti, mentre passavano distrattamente una spugna sulla pelle dell’altro, coccolandosi a vicenda in quel momento di serenità.

«Guardandoti ho appena avuto l’ispirazione per una nuova canzone, devo correre a scriverla o la perderò!» Takanori uscì dall’acqua ormai fredda, si avvolse nell’accappatoio e corse in camera da letto. «Ci voglio violini e pianoforte, no forse no, oddio mi sta sfuggendo!»

Akira gli si sedette accanto lieto di quell’euforia ritrovata, erano mesi che non riusciva più a comporre. «Se non me la descrivi, non potrò aiutarti.»

«Voglio parlare alle mie fans, voglio chiedergli cosa provano quando finisce un concerto, cosa gli resta dentro.»

«Posso dirti quello che resta a me: mi sento come se avessi sognato. È tutto così incredibile e surreale.»

«La scena perde colore, come se ti risvegliassi da un sogno...» Takanori cominciò a scrivere frettolosamente aggiungendo qua e là le note di una melodia incerta. «Le luci prima infinite, subito svaniscono...»

«Ti va di andare in spiaggia?» Akira si era perso nei suoi pensieri immaginando quella nuova canzone che non avrebbe mai ascoltato, ma che sentiva di conoscere; guardando l’azzurro dell’oceano in lontananza gli era venuta voglia di passeggiare insieme a lui sotto il sole, i piedi nudi accarezzati dalla sabbia, la mano nella sua.

«Con te andrei ovunque.»

La spiaggia in questione non era molto lontana, si estendeva a perdita d’occhio e la sabbia chiara rifletteva la luce del tramonto. Dopo aver camminato per svariati minuti senza incontrare anima viva, si erano seduti non troppo distanti dal bagnasciuga in modo da assaporare la salsedine portata dal vento.

«Quindi mi stai dicendo che fanno un fracasso insopportabile?!» non poteva essere vero, per tutta la vita aveva creduto che le onde fossero il suono più bello da ascoltare per calmare i tormenti dell’anima, non potevano avergli mentito.

«Beh quando il mare è agitato come ora non sono poi così piacevoli, ma quando è calmo si, è rilassante, ti fanno sentire pieno e appagato. Come quando facciamo l’amore e tu cerchi di entrarmi sempre più dentro.» glielo aveva sussurrato nonostante fossero soli, gli sembrava qualcosa di troppo intimo per dirlo così ad alta voce, e se Akira non avrebbe avvertito la differenza il vento lo avrebbe fatto di certo.

«Ed è quello che farei proprio in questo momento.» non gli importava che qualcuno potesse vederli e giudicare il loro amore, anzi che guardassero pure provando invidia verso quel sentimento che giudicavano sbagliato e che alcuni di loro non avrebbero mai provato con così tanta intensità; qualcosa di così forte non avrebbe mai potuto essere sbagliato.

«Ti amo.» Takanori si lasciò baciare arrendendosi completamente alla forza del sentimento che lo avvolgeva come una coperta trapunta di stelle, le stesse che ora li guardavano immobili nel cielo che si inscuriva sopra di loro.

 

*

 

Ruki era al centro del palco, immobile mentre cercava di regolarizzare il respiro. Era così concentrato da non sentire su di sé neanche lo sguardo delle migliaia di persone che affollavano lo stadio; era stato un lungo percorso fin lì, a volte piacevole e altre meno, ma era giunto alla fine e si sentiva una persona nuova, più matura, completa e felice. «Oggi stravolgerò la setlist, spero mi perdonerete. Non canterò Miseinen, ma una nuova canzone che ho scritto soltanto per voi, spero che ciò che provo vi arrivi senza riserve e vi ringrazio per l’amore che non avete mai esitato a dimostrarmi.» a vederlo dall’esterno, nessuno avrebbe riconosciuto l’ansia e la paura che gli si agitavano dentro, Akira aveva tentato di rassicurarlo in mille modi diversi e sentiva ancora le sue parole riecheggiare nella mente.

“Dici che gli piacerà?”

“La ameranno esattamente come la amo io, non pensare ad altro e canta come sai fare tu. Canta per loro, canta per me.” come quando decine e decine di volte, stesi a letto, gli aveva chiesto di intonare una canzone soltanto per lui; allora Akira si emozionava ogni volta sentendo le vibrazioni sotto i suoi polpastrelli poggiati contro la sua gola.

Ruki prese fiato, ora non si trovava a letto con Akira, ora era Ruki. «Questa è per voi, To Dazzling Darkness.» e le prime note vibrarono nell’aria. «Ora, il sipario si chiude tra le luci, subito ci trasformiamo in ombre e ci congiungiamo con l’oscurità.» il pubblico era preda del silenzio, beveva le sue parole come i fiori facevano con la luce del sole: alcune piangevano stringendo l’amica che l’aveva accompagnata in quella follia, altre cercavano una consolazione nel loro silenzio, tra poco tutto quello sarebbe finito per sempre. «Mi chiedo cosa ti ho lasciato, amore, dolore, dispiacere, rabbia, gioia. Cosa hai provato? Il tempo è fugace…» e passò inesorabile trasportato dalle note che si susseguivano veloci. «Non c’è un futuro certo, i fiori continuano ad appassire.» se avessero saputo a quale triste destino andavano incontro, quei fiori sarebbero nati lo stesso così splendidi e così delicati, eppure così effimeri? Si, esattamente come aveva fatto il loro amore, all’inizio non sapeva cosa ne sarebbe stato, ma ora era convinto che la loro storia sarebbe durata in eterno impressa nei versi delle sue canzoni, una parte di loro avrebbe sfidato il tempo e la morte. «Facciamo diventare i nostri cuori una cosa sola

Godendo delle ovazioni del pubblico, Ruki ringraziò i suoi fan con un inchino profondo ed impeccabile, lasciò il palco prima di essere travolto dall’emozione. Si rifugiò dietro le quinte, lì dove trovo ad attenderlo Akira, il suo sorriso valeva più di mille parole. Akira, gli è piaciuta.

Ti avevo detto che l’avrebbero amata. Akira lo strinse forte a sé, forse per paura che svanisse come in un sogno.

Si. E ora che è tutto finito possiamo pensare a noi. Takanori aveva studiato tanto in quei mesi, aveva passato ogni momento libero ad esercitare il suo stentato linguaggio dei segni, doveva impararlo a tutti i costi e doveva farlo per lui. Lui il cui solo pensiero era sufficiente a riempire i suoi occhi di stille di felicità.

Facciamo diventare i nostri cuori una cosa sola.

Lo sono già, non lo sapevi, Akira?

Un sorriso. Un bacio. La promessa di un per sempre. Alcune persone sono come meteore nella nostra vita, passano veloci come stelle cadenti lasciando qualche frammento dietro di sé oppure restano per un po’ a guardarci, altri vanno via un po’ prima, altri troppo presto. Lui non sarebbe stato di passaggio nella vita di Takanori, sarebbe stato una roccia solida a cui avrebbe potuto aggrapparsi quando la corrente sarebbe stata troppo forte. Voglio essere la persona che ti conosce meglio di te stesso, quella a cui ti rivolgi quando non sai cosa fare, quando non sai più chi sei. «Voglio amarti fino alla fine del tempo.»

 

Fine

 

ç_ç lo sooooo~ *distribuisce fazzoletti gratis* con questo capitolo l’intera ff si commenta da sola ♥ sto soffrendo sapendo di dover lasciare la mia creatura al suo destino T^T ma non possiamo fare altrimenti, son felice di averla scritta e averla condivisa con voi ♥ vi ringrazio tutte, una ad una, per averla letta/recensita *w* senza di voi tutto questo non sarebbe stato possibile =w= va bene che scrivo per il piacere di farlo, ma avere un feedback positivo e così caloroso è sempre stupendo ♥ non mi resta altro da fare che rintanarmi nel mio angolino buio e segreto e lavorare su un’altra ff :3 restate sintonizzate fringuelline, le sorprese sono sempre dietro l’angolo~

ohohoh *ride come Babbo e sparisce*

♥w♥

 

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