Unforgettable...

di The queen of darkness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ricordi ***
Capitolo 2: *** Presentazioni ufficiali ***
Capitolo 3: *** Disturbi del sonno ***
Capitolo 4: *** La squadra ***
Capitolo 5: *** Colpe e Mancanze ***
Capitolo 6: *** Congetture ***
Capitolo 7: *** Il Caso ***
Capitolo 8: *** Nuove scoperte ***
Capitolo 9: *** Amicizie ristabilite ***
Capitolo 10: *** Tracy ***
Capitolo 11: *** Una lunga notte ***
Capitolo 12: *** Evoluzioni ***
Capitolo 13: *** Brutte notizie ***
Capitolo 14: *** Momenti Fatali ***
Capitolo 15: *** La resa dei conti ***
Capitolo 16: *** In ospedale ***
Capitolo 17: *** Passato, presente e futuro ***



Capitolo 1
*** Ricordi ***


ATTENZIONE: Questa storia è stata eliminata ieri perché non c’era il codice HTML, o una roba simile :).
Per coloro che già la seguivano, i capitoli verranno ricopiati uguali ai precedenti e la storia si svilupperà com’era programmata in origine, per tutte le “new entry”..buon divertimento!
 
-Saremo amici per sempre?
-Definisci il concetto di sempre-, rispose il ragazzo.
-Oh, andiamo, Spencer! Sempre, ovvero il più possibile, fino a quando  non esaleremo l’ultimo respiro, va bene?
Era raro farla spazientire, ma Spencer ci riusciva abbastanza spesso, e  con molto successo, tra l’altro. Camminavano fianco a fianco nel sole di mezzogiorno, avvolti nei loro cappotti. Era una bella giornata, abbastanza calda rispetto alle precedenti. Le temperature erano salite di qualche grado, ma il gelo nel cuore di entrambi non si era affatto sciolto.
Spencer Reid, sedici anni da poco compiuti, stava già lavorando alla sua tesi di laurea, la prima di quella che sarebbe stata una lunga serie. Col suo quoziente intellettivo straordinario, il ragazzo sapeva già che la sua vita sarebbe stata interamente dedicata allo studio, e la prospettiva gli pareva comunque allettante. Ma lasciare l’unica amica che avesse mai avuto era una pena troppo grande persino per un cervello così puramente timido e scientifico.
Era stata lei, con la sua allegria e il suo passato che le gravava sulle fragili spalle, a fargli conoscere il concetto di “svago”. La prima e l’unica che gli avesse dato un motivo convincente per leggere un libro lentamente, gustandoselo dalla prima all’ultima pagina, come diceva sempre.
Anche lei, se avesse voluto, si sarebbe laureata qualche anno dopo di lui, in quanto leggermente più giovane, ma faceva di tutto perché il suo rendimento non suscitasse né caldo né freddo nelle menti degli esaminatori.
Lei sosteneva che, per quanto amasse lo studio, non voleva essere sottoposta a esami e quanto ne conseguiva. Teneva la sua mente geniale celata sotto un cappello di lana blu, a domare i ricci castani, e non ci pensava troppo sopra.
Lo studio personale, Spencer (diceva quando lui poneva domande), è la più libera forma d’arte che possa esistere.
Il giovane stentava a capirla, ma aveva smesso di domandarglielo quando non aveva ottenuto risultati diversi da questo.
-Scusami- mormorò, perché non voleva farla arrabbiare proprio nel giorno del loro addio. La vide scuotere tristemente la testa, come a significare che non aveva importanza, era già stato perdonato.
Quel pomeriggio, sul tardi, lei si sarebbe trasferita ad Atlanta, dove una famiglia adottiva si era fatta avanti dopo anni di disperate richieste da parte della fanciulla. Il convincimento generale era arrivato quando il padre era rimasto senza una gamba dopo essersi addormentato ubriaco sulle rotaie di un treno.
A sorpresa, nella strada vuota e silenziosa, lei lo abbracciò stretto, facendolo barcollare e stringere a sua volta le braccia esili sulla schiena della giovane per sostenersi.
Forse era solo una sua impressione, ma la ragazza stava piangendo. Sapendo bene quanto lei odiasse farsi vedere debole, non indagò né fece commenti.
-Mi scriverai, vero?- chiese affogata nella sua spalla.
-Certamente.
-Non mi abbandonerai- chiese, ma sembrava quasi un’affermazione di auto-convincimento.
-Non, non lo farò-. Si sentì quasi in dovere di confermarglielo.
Anche lui, per il proseguimento della laurea, doveva spostarsi altrove, anche se per un periodo limitato. Las Vegas non era esattamente un luogo attrezzato per accogliere menti come la sua, e studiare a distanza stava cominciando a non essere più fattibile.
Ripresero a camminare come se niente fosse successo. Non osavano tenersi per mano.
-Tra qualche ora sarò su un aereo- osservò lei, guardando il vuota avanti a sé. I suoi tratti mediterranei risplendevano nel sole mite.
-Lo so.
-E tra una settimana lo sarai anche tu.
-So anche questo.
-C’è qualcosa che tu non sai?- chiese con un sorriso triste, ma senza nessun’ombra di derisione. Su questo si basava la loro amicizia: il completo e incondizionato rispetto reciproco, per due persone umiliate costantemente anche senza nessun motivo valido.
Arrivarono davanti alla casa della ragazza, ma si attardarono un po’ sul vialetto. La madre doveva essere probabilmente ubriaca; non aveva battuto ciglio alla notizia dell’adozione, e l’aveva anche maldestramente aiutata con i bagagli.
Vide gli occhi neri dell’amica posarsi sulla casa che le aveva causato umiliazione forse più di tutto il resto, nella sua vita: le mura scrostate, il giardino incolto, le erbacce sulla scalinata d’ingresso, la zanzariera bucata che sbatteva sullo stipite, il legno scolorito degli infissi, le finestre celate da tendine logore. Residui di steccato giacevano lungo il perimetro del giardino, come a testimoniare la grottesca esistenza di una delimitazione assoluta, per quanto imprecisa.
-Addio, Spencer.
-Non dire così, ci rivedremo- disse il ragazzo, prendendole le mani e stringendole. Era il primo contatto che intraprendeva spontaneamente, e le infuse un po’ di forza.
-Hai ragione- sussurrò. –Ti voglio bene.
Lo baciò leggermente su una guancia, regalandogli una sensazione che non provò mai più nella sua vita, e si voltò verso casa, camminando attentamente sulle mattonelle sporche che attraversavano l’erba secca.
-Ti voglio bene anch’io, Eva.  

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Capitolo 2
*** Presentazioni ufficiali ***


Si svegliò in perfetto orario, senza nemmeno bisogno del trillo della sveglia.
Le lenzuola fresche e pulite ospitavano solo lei, e questo dettaglio non avrebbe potuto farla sentire meglio.
Odiava gli uomini, pensava, senza nemmeno dare loro una chance. I loro sguardi viscidi si posavano inevitabilmente sulle gambe di una ragazza qualsiasi, e accettavano inviti a letto di chiunque, senza stare troppo a pensare alle conseguenze o alle fidanzate che li aspettavano a casa. Non le piaceva sentirsi osservata da loro, né sapere di essere desiderata, amata o quant’altro. La sola idea la disgustava.
Con la mano, accarezzò la parete liscia e pulita in un gesto a lei inconsueto; aveva deciso che nella sua nuova e normale, piccola casa non ci sarebbe stato posto per nessun quadro.
Abituata com’era agli ambienti luridi e alle stanze che puzzavano di sudiciume, voleva godersi appieno le mura candide ed immacolate, cosa che non si poteva dire per il suo spirito.
Dopo una doccia veloce, frugò il cassetto della biancheria scontrandosi accidentalmente (o per lo meno voleva che fosse successo per caso) con QUELLA fotografia, l’unica che ritraesse il periodo sacro della sua vita.
Sorrise involontariamente, prima che i ricordi spiacevoli tornassero. La sua figura, nonostante fosse un maschio, con tutti gli “attrezzi” per ferirla, le suscitava tenerezza.
Osservò la persona alta, per nulla arrogante o dominante, che le stava quietamente a fianco.
L’amarezza, però, non tardò a tornare: era ben conscia di ciò dei rapporti che erano stati bruscamente interrotti, dei pomeriggi in cui pregava e piangeva, quando le sarebbe bastata anche solo una telefonata per guarire, o anche solo per sopravvivere.
Forse, pensava, era il caso di appenderla, ma rinunciava sempre, e il voto del muro non c’entrava nulla, per quanto si illudesse. Era una fissazione sua; anche quando in strada pensava che l’avrebbero uccisa, non rischiava mai che lui vedesse ciò che doveva subire da dei sudici, grezzi e sudaticci bigotti, infarinati da versetti biblici e con una libidine inarrestabile.
Quando la bizzarra signora Portland le aveva descritto l’inquilino del suo pianerottolo, -schivo, timido, educato e per lo più assente-, il suo cuore aveva avuto un fremito. Possibile che fosse lui?, si domandava. Sarebbe stato davvero comico, dopo quasi vent’anni, trovarsi a vivere fianco a fianco.
Sospirò, vestendosi in fretta e sobriamente. Quasi non poteva credere ai suoi occhi sbirciando nell’armadio, composto da vestiti dai colori neutri e tutto sommato coprenti, soprattutto se messi in relazione agli stracci succinti che era costretta a portare nella sua vecchia vita.
Uscì chiudendo la porta di casa a doppia mandata, scese le scale con una certa abilità nonostante i tacchi e respirò a pieni polmoni l’aria fredda di donna libera. Nessuno aveva il potere di imporle niente, ormai.
E sarebbe stata ancora più autosufficiente col nuovo lavoro.
Sorrise: era proprio strana la vita. Un mese prima era andata in centrale per far arrestare il più prolifico serial killer di sempre, che la teneva prigioniera da chissà quanti anni, e in quel momento stava per recarsi al suo nuovo lavoro niente meno che all’FBI!
Una situazione che rasentava l’assurdo, si diceva pensandoci, soprattutto perché non erano affatto obbligati a metterla in una squadra così famosa, unita e rinomata, ma era stato lo stesso capo a richiederlo, in quanto aveva notato in lei “un elemento prezioso che sarebbe stato di certo utile all’unità del gruppo di agenti”.
Certo, non avrebbe portato pistola e distintivo, non era autorizzata ad arrestare nessuno ed era lì in veste di consulente, ma le bastava, forse era anche troppo.
Stava per realizzare il sogno della sua vita, elaborato quando lui era ancora al suo fianco e si sforzava di pronunciare il suo nome all’italiana, riuscendo a dire solo una cosa come “Ievah”, ma che la colmava di gioia, in quanto era una prova del fatto che lui ci teneva davvero.
Ecco, si riprese mentalmente, l’aveva fatto di nuovo. In quei giorni non riusciva a smettere di pensarlo, di ricordare la sua risata e di gioirne, nonostante tutto quel che era successo.
Scosse la testa disgustata: se gli uomini erano prevedibili, le donne rimanevano uno scomodo mistero.
 
 
 
La gente, a quanto pareva, decideva di schiantarsi per strada proprio nel suo primo giorno di lavoro, perché fu trattenuta dalla bellezza di due incidenti stradali con tutto il corteo di ambulanze, poliziotti e civili curiosi.
Col cellulare, aveva avvertito il sovrintendente generale Aaron Hotchner (Hotch, come voleva essere chiamato) dell’inevitabile ritardo, e la voce glaciale del suo nuovo capo non fece una piega.
Controllato ed indecifrabile come sempre, le aveva risposto che avrebbe aspettato. Beh, meglio così.
Da quel che le era stato dato sapere, l’annessione di un consulente era una decisione dei piani alti, che premevano e facevano di tutto affinché la squadra si sgretolasse.
Hotch, però, aveva trovato un modo assolutamente furbo e originale per affrontare la situazione: aveva scelto di persona l’elemento che gli avrebbe fatto più comodo, pescandolo dalle file di poveri disperati con un potenziale cervello attivo.
Se ripensava a questo titolo e alla vita normale che aveva avuto una volta, le si accapponava la pelle, ma un’esistenza non può definirsi piena se non costellata da migliaia di situazioni diverse. O almeno, così amava dirsi.
Finalmente arrivata all’ufficio, corse letteralmente nella sezione “Analisi Comportamentale” sotto le istruzioni di una guardia armata all’ingresso, dopo aver esibito cartellino  e carta d’identità.
Si era mentalmente preparata all’ipotetica pignoleria dei protettori dell’edificio, ma non pensava potessero arrivare fino a tal punto.
Anche se erano le nove passate, nella grande sala squadrata c’erano solo pochissime persone, apaticamente curve sulle loro scrivanie a svolgere pratiche o varie scartoffie, così poté raggiungere Mr. Hotchner nel suo ufficio al piano superiore, che si affacciava a quello sotto protetto da una ringhiera.
Bussò tre volte alla lucida porta di legno bruno.
-Avanti- ordinò una voce ben poco dissimile da quella che aveva udito poc’anzi. Strano come un apparecchio elettronico non ne distorcesse il timbro, come invece succedeva a lei.
Entrò titubante, pregando di fare buona impressione.
L’aria impersonale e difficile da catalogare della stanza la lasciarono per un momento spiazzata; era complicato non personalizzare un ambiente in cui si passava parecchio tempo. Infatti Hotch aveva l’aria di una persona precisa e meticolosa, che passa al lavoro molto più tempo di quello richiesto.
La tranquillizzò un po’ il segno d’umanità rappresentato dalla foto di un bimbo sorridente sulla scrivania lucida, e cercò di rilassarsi senza far trapelare nulla. Era abbastanza brava in questo, come in molte altre cose.
Con un gesto, l’uomo la invitò ad accomodarsi su una delle sue poltroncine scure, e lei obbedì subito, accavallando le gambe non appena si fu seduta.
Non le passò inosservato il guizzo che gli occhi di Hotch ebbero sull’orlo della gonna che salì per pura inerzia  di qualche millimetro sulla coscia, e facendole provare tutto sommato un certo disgusto.
Aveva capito che quello che le stava di fronte era ben diverso dai clienti con cui aveva avuto a che fare (sobrio, ligio al dovere e rispettoso sia delle regole che della decenza), ma comunque la infastidì constatare che, per quanto freddo e distaccato potesse essere, certi istinti li doveva reprimere lo stesso, anche se in modo ammirevole.
Dopo le solite formalità, per lei fu il momento di presentarsi:- Sono Eva Arcangeli e, come lei ben sa, comincerò a far parte della sua unità. Vorrei sapere quando ritiene più opportuno farmi cominciare.
L’uomo posò la penna. –Anche subito, se non le dispiace. Purtroppo in questo tipo di professione non esiste altro modo di valutare le capacità di un’agente se non vedendolo agire sul campo.
-Posso sapere i vostri metodi riguardo lo svolgimento di un incarico?
-Naturalmente. Di solito, se si tratta di posti abbastanza lontani dalla Virginia, andiamo sul posto, ma solo se l’aiuto è richiesto dall’altro stato oppure se il potenziale S.I è un pericolo concreto che richiede il nostro supporto. Vi è poi un’analisi di vittimologia, modus operandi, zona degli omicidi, modalità e frequenza. A lei verrà chiesto di occuparsi dei famigliari delle vittima, ma in particolare di queste.
La donna annuì. –lo so, sono stata informata, e lo ritengo assolutamente ragionevole se si guarda la mia preparazione in merito. Credo l’abbiano già messa al corrente delle mie lacune riguardo alla psicologia in generale.
Hotch si prese un istante prima di rispondere. –L’ho letto nel suo fascicolo, ma so anche che le sue deduzioni sono state fondamentali. Vede, in situazioni come questa raramente si trova un consulente preparato, ma devo ammettere che lei ha destato da subito il mio interesse.
Non era un complimento per adularla, e lei lo sapeva bene, ma era solo una semplicemente una constatazione.
Cambiò posizione delle gambe quasi inconsciamente, e neanche questo restò inosservato. Anche se per una frazione di secondo.
Controllando il fastidio, rispose misurando le parole con cura: -Sarò alla mercé della sua squadra, e anche molto volentieri, in quanto non avrei mai potuto sperare di meglio. Non serve che mi ricorda cosa mi è permesso fare o meno, si sono già premurati di informarmi in precedenza. Ci tengo a dire che sono disposta ad accettare qualsiasi tipo di caso o pressione psicologica, e ho smesso di badare già da un po’ di tempo ad angherie o ripicche del tutto inutili, se mai ci dovessero essere. L’unico problema che sembra essere rimasto, a quanto pare, è la reazione che i miei futuri colleghi avranno sapendo del mio passato.
Lo affermò quasi sorridendo, ma con una terribile serietà.
Un lampo brillò negli occhi del suo superiore: un bagliore che poteva significare mille cose diverse.
Si limitò a farsi ancora più serio, ma la consapevolezza che lui si fidava di lei e che la rispettava ugualmente si radicò in Eva con assoluta certezza.
-Non si preoccupi, sono profiler, sapranno adattarsi.
La ragazza sorrise lentamente. –Lo spero.
  

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Capitolo 3
*** Disturbi del sonno ***


-In sala riunioni fra quindici minuti- ordinò perentoriamente Hotch, senza lasciare spazio ad obiezioni come al solito.
Reid drizzò le orecchie. Sentiva ancora il sapore del caffè mattutino in gola, ed era un po’ assonnato.
Stranamente, quella notte, aveva dormito poco: continuava a rigirarsi nel letto senza trovare pace, a fissare il soffitto o a cacciare le zone fredde del materasso, per posarci i piedi e trovare sollievo. Tutto un tramestio di coperte, lenzuola e cigolii delle reti.
Era raro che facesse degli incubi: magari si trovava spaventato durante i sogni, o al massimo provava sensazioni spiacevoli, ma il più delle volte la razionalità prendeva il soppravvento anche in uno stato d’incoscienza come il sonno.
Sospirando e stropicciandosi gli occhi arrossati come un bambino, guardò il suo capo risalire le scale e rientrare nell’ ufficio, dov’era seduta anche un’altra figura. Impossibile da lì dire se si fosse trattato di un uomo o di una donna, ma forse dal modo in cui le gambe erano accavallate si poteva presumere una presenza femminile…bah, smettila Reid, lascia perdere, si disse. Anche perché l’avrebbe sicuramente scoperto a breve.
-Ciao ragazzino- lo salutò Derek, passandogli vicino e arruffandogli i capelli già scompigliati.
Lui mugugnò qualcosa in risposta, ma l’uomo si era dedicato ad altro, come testimoniò il suo “bambolina, sempre più bella, ma quando ti deciderai a darti una calmata?”.
Era una cosa che invidiava molto di Morgan, ovvero la scioltezza con cui sapeva destreggiarsi nelle molteplici situazioni quotidiane. La semplicità con cui accettava, ricambiava e scherzava riguardo alle avances con Garcia lo lasciava stupefatto, anche se un po’ divertito dalle loro battute focose.
 Per lui sarebbe stato inammissibile, sia tenere un comportamento del genere in pubblico che ricambiare con epiteti ricchi di sottintesi. Anche perché non solo nessuno gli avrebbe mai concesso un così alto grado di confidenza, ma lui stesso si sarebbe sentito oltremodo a disagio, in quanto l’argomento “amore” gli era chiaro solo dal punto di vista scientifico. Le prove dirette tendevano a scarseggiare, come lui stesso si rendeva amaramente conto. O meglio, se solo fosse stato più presente, forse ora le cosa sarebbero diverse…
-Hey, Reid- esclamò Emily, sorridente.  Aveva fortunatamente interrotto le sue tristi elucubrazioni .
Il suo sorriso, avvicinandosi, si spense poco a poco, fino a diventare un’espressione preoccupata.
-Che hai? La tu cera non è delle migliori.
-Lo so- sospirò il ragazzo. –Ho dormito male stanotte.
Non si era accorto del sopraggiungere di Morgan, alle sue spalle, con una tazza fumante in mano. –Colpa di una ragazza?- ironizzò, dandogli una pacca sulla spalla e rendendo il suo umore ancora più tetro.
-Se per ragazza può andare bene anche la poetessa Saffo allora sì, ho dormito male per colpa di una ragazza-. Non gli andava per niente di fare spirito, soprattutto a quell’ora. In genere, dopo una nottata così, cominciava a sentirsi meno affaticato dopo qualche tempo, nella tarda mattinata.
-Interessanti i poemi lesbici?- domandò, sempre ironico, il collega.
-Abbastanza- ammise, anche se ne aveva letti pochi e solo anni addietro, -però monotoni come se si trattasse di una relazione eterosessuale.
L’uomo gli si era seduto di fronte, e lo scrutava con bonario divertimento; evidentemente si aspettava un sermone sulla Magna Grecia, lo sviluppo dell’omosessualità nell’epoca attuale, le statistiche che coinvolgevano gli adolescenti dal 300 avanti Cristo a oggi, ma non era decisamente dello stato d’animo giusto.
Sbirciò stancamente l’orologio, massaggiandosi una tempia. –Hotch ci aspetta in sala riunioni- annunciò alzandosi. Il collega era arrivato dopo, e quindi  non poteva saperlo.
-Oh- disse soltanto, posando la tazza sulla scrivania di Reid. –Un altro caso?
L’idea di un viaggio chissà dove non faceva piacere a nessuno, anche perché erano appena tornati dalla Florida.
-Non ne ho idea.
Pensava seriamente di aver bisogno di un altro caffè, più che altro per rimanere in piedi senza barcollare in modo indecente, ma non avrebbe comunque fatto in tempo.  Prese la sua cartella e si recò nella stanza, dove Rossi stava sistemando dei fogli e JJ trafficava con gli schermi.
-Giornataccia?- commentò l’uomo  vedendolo entrare.
Dio, ma era preso così male? –Già- osservò laconicamente, perché non aveva particolarmente voglia di spendere dettagli.
All’uomo sembrò bastare, in quanto si dedicò alle sue attività rivolgendo un cenno agli altri agenti che erano entrati dopo di lui.
Reid, appollaiandosi nel posto di sempre cercando di ordinare i pensieri, si chiedeva il perché di quelle riflessioni fatte all’improvviso sull’amore.
Un argomento del genere poteva citarlo a memoria centinaia, anche migliaia di volte. Aveva letto volumi improponibili sull’amore, saggi filosofici, opinioni di santi, di sregolati, di amanti e anche testi scientifici, ne aveva sempre divorati moltissimi, ma era sempre rimasto a bocca asciutta. Non sapeva ancora, se ne rese conto, che cos’era l’amore.
Perché quello studio privato e approfondito, quasi isterico, era solo un’infarinatura che celava la vera sostanza. Era sicuro di non riuscire a dare una definizione di amore e il perché era semplice.
Non era mai stato nei panni di un amante.
La cosa lo fece sprofondare nella poltrona dov’era seduto.  Era sicuro di essere arrossito: “ma cosa vai a pensare?”, si diceva.  La mancanza di sonno doveva fargli proprio male, perché era dalla sera prima, da quando aveva trovato QUELLA fotografia, che si sentiva tutto scombussolato.
A quel punto avrebbe potuto avere una chiara e precisa idea, nonché esperienza, di che cos’è l’amore, ma era stato troppo stupito e troppo attaccato a quelli stupidi libri per rendersi vagamente conto di ciò che aveva perso.
Erano anni che non tirava fuori dal portafoglio la didascalia più importante della sua vita, l’unica prova tangibile che lei non era stata solo un’invenzione della sua mente bisognosa d’affetto.
Ricordava ancora la sua voce gioiosa: “Dai, Spence, facciamoci una foto!”.
E quello che lei diceva non era mai uno scherzo vero e proprio. Aveva fermato un turista per strada, gli aveva mostrato il tasto da premere e l’aveva fatto mettere in posa davanti all’obbiettivo.
E dopo il flash, eccolo lì: un sedicenne alto e allampanato, con una camicia leggermente mossa dal vento bianca e lucente, un bel sole caldo, un sorriso timido e occhiali a fondo di bottiglia, tutti i capelli sparsi sulla fronte. Al suo fianco, tenendogli il braccio come una sorella, o forse un po’ di più, stava lei.
Bellissima, come sempre. I suoi capelli erano agitati dalla brezza, ma nemmeno una ciocca ne oscurava il volto sereno e disteso in un sorriso smagliante. La gonna corta e azzurra lasciava scoperte le ginocchia, senza lividi, per festeggiare la guarigione.
“Guarda Spence, come sono bianche le mie gambe!” aveva detto entusiasta, e lui era rimasto imbambolato a guardarla.
Era troppo impacciato persino con sé stesso per ammettere di avere una cotta per lei, e si accontentava di fare l’amico. E quel ruolo gli piaceva un sacco.
Con mano leggermente tremante, accarezzò il cuoi ammorbidito dal tempo della cartella, nel punto esatto dove si poteva indovinare la sagoma del portafoglio e, sotto di esso, il ricordo più prezioso della sua vita.
Ne avevano una copia a testa e, a meno che lei non se ne fosse liberata, era anche l’unico legame che era rimasto fra i due.
In quell’istante risentì all’improvviso il suo profumo e gli sembrò quasi di poter godere del sorriso puro e bellissimo della sua migliore amica di un tempo.
Era stato crudele a perdere l’indirizzo che lei gli aveva minuziosamente spedito, su quella carta da lettere che profumava di limoni e rosmarino. 
Non avrebbe mai potuto perdonarsi una cosa del gener….-Hey, mi ascolti?- chiese Garcia, infastidita.
Lo sovrastava, e lui sobbalzò quando si rese conto di essere rimasto assente un po’ troppo.
-S..scusami, Garcia, non stavo seguendo, mi dispiace- farfugliò, ritornando bruscamente alla stanza, alla moquette grigia e al tavolo in lucido legno bruno.
-Me ne ero accorta- sbuffò la donna, prima di accomodarsi di fianco a lui e aprire un portatile. –Ti stavo dicendo, zuccherino, che da qui a qualche giorno non mi sembri molto in forma.
Prese a zampettare sulla tastiera con dita frenetiche, migliaia di cifre riflesse sulle lenti dei suoi occhiali.
 -Non dormo molto bene la notte- disse, e se ne rese conto in quel momento.
-E’ la solitudine- osservò lei soprapensiero. Poi si rese conto di ciò che aveva detto, e arrossì. –Oh, scusami, mi dispiace, io non…
Il giovane le sorrise tristemente, ma furono interrotti da Hotch, il quale entrò e, senza troppi convenevoli, disse:- Ragazzi, ci siete tutti?
Entrambi si riscossero, e quando si fu accertato della presenza della squadra al completo, cominciò a parlare in tono controllato e deciso, come sempre.
-JJ, ve ne sarete accorti tutti, comincia a svolgere ruoli che vanno ben oltre la sola comunicazione con i media.
L’interessata arrossì vistosamente, ma non lo interruppe. –Ebbene, in questi anni sono avvenuti molti cambiamenti, ma ciò non significa che dobbiate essere più stressati di quanto non siate già. Per svolgere al meglio il vostro lavoro, dovete avere la giusta assegnazione dei compiti. E’ questo il motivo del mio discorso di oggi: da sempre dobbiamo occuparci dell’assistenza psicologica alle vittime, che spesso possono distrarre dal risolvere il caso.
La tensione nella stanza a quelle parole risultò palpabile; JJ era sempre più imbarazzata, anche se nessuno per il momento ne capiva il motivo, e le loro acute menti da profiler si stavano già arrovellando sul discorso appena prinunciato.
Fu Morgan a risolvere la questione, con la solita concretezza di sempre:- Hotch, cosa stai cercando di dirci?- proruppe.
Nessuno era abituato ai giri di parole del capo.
Lo videro abbassare la testa, scegliendo i vocaboli con cura. –Da oggi nella squadra sarete affiancati da una specialista, che ci seguirà nelle nostre trasferte e si occuperà dei familiari delle vittime e anche di esse, nel caso siano sopravvissute.
Il fiato a lungo trattenuto si librò in un sol colpo nella sala, prorompendo dai loro corpi quasi all’unisono.
Non capivano perché, così all’improvviso, volevano aggiungere un elemento superfluo all’unità che stava rafforzando rapporti già in precedenza minacciati.
-Ma è assurdo!- esplose Emily. Incredibile come il carattere suo e del collega Derek fossero simili.
Hotch cercò di dire qualcosa, ma una voce armoniosa alle loro spalle spezzò definitivamente il discorso, o meglio, lo complicò ulteriormente.
-Scusate l’intrusione-. Tutti si voltarono verso colei che aveva parlato. –Sono la ragazza che, per ordine di Erin Strauss, vi affiancherà nei vostri casi. Molto piacere di conoscervi; io sono Eva.
 

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Capitolo 4
*** La squadra ***


Fu un attimo, ma le parve di riconoscerlo.
Non poté assolutamente trasformare la semplice familiarità in certezza, perché il ragazzo in questione si fece bianco come un cencio e schizzò fuori dalla stanza.
Una signorina bionda fece per richiamarlo, ma Hotch la fermò. –Scusi per il comportamento insolito, non ha mai fatto così.
-Non si preoccupi – rispose cordiale Eva, ma stava pensando tutto il contrario. Non volle dedicarsi per il momento alla sua agitazione, in quanto le presentazioni erano fondamentali.
Si rivolse alla stanza: vi erano altre cinque persone oltre lei e il suo nuovo capo.
Due erano seduti vicini, un uomo di colore che aveva l’aria di essere un maschio alfa e la sua corrispondente femminile dalla pelle di porcellana. Entrambi avevano le braccia incrociate e la osservavano con l’evidente sensazione che lei fosse un elemento assolutamente inutile.
Un signore di circa mezza età, invece, la osservava tranquillo, trasudando un fascino esperto e mite, mentre una signorina vicino a lui, impossibile da non notare, sfoggiava abiti coloratissimi che ne fasciavano il fisico non esattamente adatto per portare tali tubini attillati.
Aveva distolto lo sguardo dal suo portatile, per appuntare uno sorriso gentile sulla nuova arrivata; l’altra donna, vicino alla porta, si risedette. Era molto bella, con profondi occhi blu e capelli color grano.
Hotch fece le presentazioni, sbrigativo come al solito: i due pilastri d’orgoglio erano Emily Prentiss e Derek Morgan, l’informatica variopinta Penelope Garcia, il latin lover affascinante David Rossi ed infine JJ, la signorina quasi materna.
-Piacere di conoscervi, io sono Eva Arcangeli-  ripeté.
-Italiana? – chiese Rossi, con un sopracciglio sollevato.
La donna annuì sorridendo.
Sarebbe potuta nascere una conversazione, magari anche molto breve, che le avrebbe permesso di dare un’ulteriore presentazione di sé stessa, magari mettendo in luce elementi che in circostanze normali non avrebbe mai pensato di dire, e Rossi aveva tutta l’aria di essere una persona molto interessante. Aveva un’espressione rispettosamente curiosa, e la guardava con pacato interesse, tuttavia non ebbe tempo di ascoltare una possibile risposta: Morgan si intromise prepotentemente.
-Quale sarà il suo ruolo nella squadra? – chiese seccamente, rivolgendosi però al capo. Eva, nponostante fosse rimasta sorpresa da quell’improvviso lampo di aperta ostilità, non era affatto decisa a farsi scavalcare in quel modo, quindi rispose direttamente. Non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa tanto facilmente, e trovava stupido parlare tramite terzi come dei bambini capricciosi.
-Non avendo specializzazioni in campo di profiling, mi occuperò delle vittime preda dello shock-post traumatico – osservò, mantendendo un’espressione cordiale.
-Ma ce ne occupavamo già noi – ribatté il suo futuro collega. Ora che la guardava, nei suoi occhi colro nocciola si poteva leggere solo un senso di rifiuto che difficilmente sarebbe stato arginato in poco tempo, soprattutto a causa dell’intilità che vedeva in lei. Forse sentiva minacciata la propria posizione, ma Eva aveva come l’impressione che non fosse tutto ridotto a quello.
-Mettiamola così. Io analizzerò il meglio possibile la vittimologia, parlerò con le famiglie e mi occuperò dei supersiti. Per dirla in termini assolutamente inappropriati, io sarò un chirurgo incaricato di eliminare il marcio e far emergere qualcosa per cui valga la pena vivere. Questo fa in modo che le vittime non trovino conforto nel suicidio con un successo del 74%.
Con questo zittì tutti quanti. Il suo tono era stato misurato ma definitivo, uno schiocco di frusta a chiunque avesse tentato di calpestarla impunemente. Eva aveva affrontanto situazioni ben più difficili di un semplice collega recalcitante, e l’ostilità non era affatto sconosciuta alla sua vita. Avrebbe fatto di tutto per ottenerne almeno il rispetto, anche perché l’unica cosa che lei voleva da quel posto era solo una posizione stabile, non per forza altolocata. Le bastava avere un ruolo d’ufficio che le desse degli orari e delle scadenze, non chiedeva di meglio.
E con quello che aveva appena detto aveva affermato la propria presenza, ribadendo che lei era lì e che lì sarebbe rimasta, a qualunque costo.
Dimostrando di non aver affatto timore di Morgan, si era automaticamente guadagnata un posto nella squadra, soprattutto perché i presenti sembrarono capire quanto poco temesse il confronto.
-Una domanda –, intervenne Rossi, senza nessuna aria di scherno. –Se la vittima dovesse sopravvivere e noi la trovassimo alla fine del caso…lei come si comporterà?
Eva sorrise. –In quel caso starò lì un giorno massimo di più per assicurare la vittima in mani esperte e assicurarmi che non si faccia del male. Il mio scopo principale è arginare i danni, per quanto possa sembrare ridicolo.
Appena pronunciò l’aggettivo sentì Morgan sbuffare, ma ormai neanche la sua fedele vicina di sedia vi badava. Aveva sciolto le braccia dalla loro posa granitica, e questo indicava interesse.
La stava guardando con occhi a fessura, appoggiata allo schienale in un’attenta analisi. Forse si stava chiedendo chi fosse veramente Eva, ma non l’avrebbe mai capito davvero. Sicuramente aveva notato la camminata sciolta nonostante i tacchi, come teneva i capelli (sciolti e lucenti, come per reclamare una sensuale eppure pudica attenzione su di essi) e anche la postura, mai accasciata o innaturale. Erano elementi essenziali al profiling, ed Emily aveva tutta l’aria di sapere il fatto suo in tal campo.
Sarebbe stata una compagnia interessante.
Rossi, tuttavia, non aveva finito con le proprie domande. Era legittimo porre dei quesiti, visto che avrebbe dovuto lavorarvi fianco a fianco e un nuovo caso si avvicinava. Il tempo a loro disposizione non era molto, ma evidentemente l’esperienza doveva avergli insegnato a gestirlo al meglio.
-Signorina Arcangeli…mi permetta una domanda – disse pensieroso. Lei non annuì, perché sapeva che l’avrebbe posta lo stesso, e non voleva assolutamente impedirglielo. –Posso chiederle riguardo alla sua preparazione in merito alla vittimologia?
Un lampo le attraversò la spina dorsale come se fosse una piattaforma elettricata. All’improvviso le parve che la camica che indossava fosse un indumento incatenatole a forza, l’aria si era fatta soffocante e la stanza minuscola. Le sembrò di sentire gli occhi indagatori di mille avvoltoi farsi strada nel suo corpo per controllare per bene ogni singola parte della sua carcassa, ma si ostinò a mantenere un sorriso distaccato e cortese.
Hotch la guardò per un attimo, preoccupato: era il primo nella stanza ad essere stato informato di tutto, tutto quanto, sul suo conto, e anche l’unico fino a data da destinarsi. Non c’era nessuna clausola che vietasse di mantere una vita privata e sconosciuta ai colleghi, fintantochè era legale, perciò sapeva che non avrebbe dovuto dilungarsi su certi dettagli.
Ma erano i ricordi il problema, maledizione. Tante dannate schegge che non sarebbero mai scomparse del tutto dal suo animo non appena veniva nominato l’argomento. Emily si era accorta del suo irrigidemento, e lei fece di tutto per riprendersi e non far trapelare nulla.
-Certamente, ma verrà deluso, Agente Rossi, non c’è nessuna qualifica universitaria  – disse educatamente. –Si può dire che di criminologia ho avuto un’esperienza diretta, ovvero l’essere stata io stessa una vittima.
Non appena quella parola venne pronunciata, nella stanza calò un silenzio opprimente. Garcia, distrattasi un momento a causa del monitor acceso, aveva sollevato sgomenta lo sguardo; Morgan ora la fissava in modo completamente diverso, mentre Prentiss non si era potuta trattenere dal socchiudere le labbra. Rossi fu l’unico che si mantenne imperturbabile, ma sembrava che qualcosa ne avesse ghiacciato i lineamenti. Continuava a mantenere un ostinato contatto visivo con lui, ma in realtà voleva solo sparire; eccolo, il suo marchio, che andava ben oltre delle semplici cicatrici o delle rimembranze spiacevoli.
Proseguì cercando di ignorare l’opinione generale che ora fluttuava fra le pareti, non riuscendo ad impedire alla stanchezza di venire assorbita dalla sua voce, e macchiarne la superficie: -Comunque sia, ho potuto osservare da vicino il comportamento di una persona disturbata e appassionata dalle indagini sul proprio conto– la narrazione divenne amara, opprimente, ma cercava di essere neutra. –Sono riuscita a laurearmi in medicina legale poco prima che fosse troppo tardi, ancora in giovane età, e ho dovuto interrompere una specializzazione in neurologia al secondo anno, a causa di… - deglutì. -…mezzi impedienti.
Nessuno, ora, si azzardava a dir nulla.
-Grazie – commentò Rossi, poi chinò il capo abbandonando i fogli che stava tenendo, forse pentendosi della sua domanda.  
In realtà non aveva chiesto nulla d’insolito, anzi, era naturale volerne sapere di più su qualcuno che avrebbe avuto fianco a fianco per un sacco di tempo. Era un quesito normalissimo, era lei che non rientrava nella media; e avrebbe dato di tutto per poterlo essere, anche se aveva ancora poco da offrire.
Hotch, con insospettabile delicatezza, riprese in mano il discorso, sviando l’attenzione di tutti sul caso che dovevano affrontare. Le assegnò un posto vicino a Garcia e JJ, in un punto abbastanza lontano da Morgan e discretamente vicino a lui, in caso ci fossero stati problemi.
Subito, la donna variopinta le sorrise incoraggiante, chiedendole se le andava un caffè. Eva immaginò che sarebbe stato relativamente facile fare amicizia con lei, per quante remore potesse nutrire nei confronti di una sconosciuta. Comunque accettò volentieri, per dare occasione a quell’ipotetico rapporto di sedimentarsi per bene ed essere reso meno impersonale, come invece temeva sarebbe successo con la maggioranza della squadra.
Ogni tanto le sarebbe servito uno sfogo o una compagnia, perché in quel momento il lavoro sarebbe stato destinato a comporre la sua intera esistenza.
-JJ, per favore, potresti andare a cercarlo? – chiese Hotch, seccato.
La ragazza fece per alzarsi ma dovetti riaccomodarsi. Morgan si era raddrizato in piedi nello stesso momento e l’aveva fermata con una mano, senza toccarla. Le lanciò uno sguardo di scuse prima di dire al proprio capo che era meglio se andava lui.
Eva, in quel momento, ebbe la certezza che Morgan non era un tipo a cui piaceva essere dominato. Mentalità sicuramente aperta, anche perché è estramamente raro trovare un afroamericano razzista, tuttavia una certa inclinazione al comando e grandi doti organizzative, nonché una discreta autorità innata. Aveva lo spirito del leader.
-D’accordo, l’importante è che riportiate qui Reid – concluse l’uomo, per poi sfogliare un fascicolo.
Eva fu percorsa da un brivido, per la seconda volta. La sua mente fu nuovamente temepestata da ricordi di tutt’altro genere, solo che era difficile cercare di mantenere una qualche sorta di razionalità. Possibile che fosse proprio quel  Reid? Non era un cognome molto comune, ma si trattava comunque di diversi stati di distanza, per non parlare di anni!
Non sembrava il tipo da entrare nell’FBI, in quanto era sempre stato un intellettuale tranquillo e pacato. Eppure un pungolo nella sua testa le impediva di non rivedere l’immagine fugace del ragazzo con la tracolla che era scappato dall’ufficio non appena aveva fatto la sua comparsa, con i capelli di un delicato castano chiaro…
Serrò la mascella e abbassò la testa. No. Era assolutamente ridicolo, non poteva essere lui.
Il destino sarebbe stato troppo crudele a metterla a lavorare nella stessa squadra con la prima persona nella sua vita che l’avesse mai ferita, nemmeno Dio poteva prendersi una simile libertà.
Aprì la cartella davanti ai suoi occhi, e cercò di far colmare le proprie iridi di sangue e corpi squarciati, ma quell’orribile presentimento non se ne voleva andare.
E il terrore che Morgan tornasse si fece a dir poco prepotente all’altezza del suo sterno.  

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Capitolo 5
*** Colpe e Mancanze ***


Come sospettava, fu Morgan a trovarlo. Non sapeva come, ma l’uomo aveva imparato a prevedere i suoi movimenti ed elaborare teorie ancor prima di venire a conoscenza della storia integrale; la scienza del profiling non c’entrava nulla in proposito. Era solo istinto.
Derek Morgan era un predatore, un leone, un maschio alfa: come aveva potuto pensare che quel ragazzino mingherlino rintanato sotto al lavello potesse stare nascosto ancora a lungo?
Nonostante l’avesse a malapena intravista aveva una certezza matematica del cento per cento che fosse proprio Lei, l’Eva di tantissimo tempo prima, la sua migliore amica del liceo, la prima ragazza per cui si fosse mai preso una cotta e che lo stesse pure a sentire. La prima e anche l’ultima, da che ricordava, e considerata la sua memoria eidetica non era decisamente un dettaglio trascurabile.
Era altrettanto sicuro che anche lei non si fosse scordata di quel sedicenne allampanato partito dal liceo per laurearsi, nonché unico confidente. Per quanta fiducia nutrisse nelle statistiche, la vergogna gli fece venire voglia di scomparire, di cadere nell’oblio dell’anonimato; ovviamente non era possibile, poiché Eva era una dei pochi esasperati possessori di una memoria incredibilmente precisa e colma di dettagli. I visi non si confondevano mai, le voci rimanevano marchiate a fuoco nella testa, le parole pronunciate erano indelebili anche a distanza di decenni.
“Saremo amici per sempre?” fu l’innocente domanda di quella splendida ragazzina in una giornata invernale. A distanza di così tanto tempo di rese conto di non aver mai risposto, come in previsione di ciò che sarebbe successo. Però quand’erano adolescenti lui ci aveva creduto davvero, aveva sul serio sperato che gli studi e la carriera non li allontanassero tanto irrimediabilmente così com’era successo.
Si rese conto che quella donna lì fuori era la prima persona che avesse mai tradito in un momento molto delicato, sapendo benissimo quanto la sua vita fosse difficile, quanto dolore stesse vivendo, quanto scombussolata potesse diventare in certi pomeriggi, quando rincasava e non trovava nulla di promettente.
Un così abile profiler come lui non aveva saputo badare al proprio comportamento, come se fosse uno sciocco, un bambino capriccioso. Non era mai stato nella sua indole giocare con le persone, e spesso si era torturato sentendo il suono della sua risata rimbalzare fra le pareti del suo cranio giusto per mantenere fresco il senso di colpa derivante dalle sue azioni.
L’uomo di colore entrò circospetto, ma in realtà non aveva avuto il minimo dubbio nel pensare che Reid fosse lì. Il bagno, in quanto poco frequentato, era sempre stato il suo luogo preferito dove trovare asilo dopo una fuga, e quella avvenuta pochi minuti prima non poteva che essere un’evasione in piena regola; già il ragazzo sentì le guance arrossire, tant’era l’imbarazzo per la reazione che aveva avuto.
-Ragazzino, mi spieghi cosa diavolo ci fai qui? – esclamò Derek, non appena intrevide il suo piede, unica parte di lui che non fosse completamente anchilosata o incastrata in pochi centimetri di tubature.
Reid decise di non alzare la testa per non esibire gli occhi arrossati dallo sforzo di piangere, ma tenerla ciondolante senza avere la forza di sorreggerla non contribuì a rincuorare il collega. Anche se non stava guardando sentì il suono delle scarpe dell’uomo mentre si avvicinava circospetto, quasi timoroso di scoprire cosa avrebbe trovato.
Due stivali comparvero davanti ai suoi occhi: uno aveva la punta leggermente rovinata, mentre l’altro aveva un laccio lento, che presto si sarebbe sciolto costringendo il mastodontico agente a piegarsi a metà e a rimetterlo a posto. Se c’era una cosa che Derek odiava, infatti, era quella di apparire in disordine, e non serviva un profiler per capirlo. Essere impeccabile era parte del suo aspetto forte, che contribuiva a renderlo minaccioso in un interrogatorio oppure terribilmente affascinante quando si parlava di appuntamenti galanti.
Dal momento che l’altro non aveva assolutamente intenzione di alzarsi o provare a muoversi, Morgan fu costretto a piegare le ginocchia e portarsi alla sua altezza. Le sue sopracciglia sottili erano corrucciate in un espressione a metà fra l’interrogativo e il preoccupato. Tutti quanti nella stanza dovevano aver già compreso la natura della sua fuga, non scambiandola per, ad esempio, un problema di salute; era sicuro che colui che gli stava davanti non avrebbe mai avuto il minimo dubbio nel fornire un’interpretazione corretta, però gli rimase da sperare che almeno gli altri si bevessero una qualche scusa.
Trovò educato per lo meno guardarlo negli occhi, fissando inespressivamente il viso che gli stava di fronte.
Morgan aveva una bellezza molto particolare, estremamente virile ma anche composta da tratti femminei, come il naso sottile o gli occhi color miele. La sua stazza e il cranio rasato davano al contesto un tocco molto militaresco, facendolo tradire anche nel passo secco e svelto oppure nel modo di appoggiarsi agli stipiti delle porte. Dettaglio forse stupido, ma singolare.
-La collega… - disse a fatica, con voce rotta. -…la nuova arrivata, io…la conosco.
Com’era strano parlare di Eva come se fosse una sconosciuta! Si sentiva meschino a classificarla soltanto in qualità di consulente, di membro annesso alla squadra, perché era un modo come un altro di negare tutto ciò che c’era stato in passato. Il petto venne stritolato da una morsa opprimente, che gli mozzò per un attimo il respiro. Decise di non far trapelare nulla per non suscitare un’eccessiva preoccupazione in Morgan, ma non riuscì a fingere troppo bene.
-E allora? – chiese, senza capire il nesso fra quella semplice informazione e lo sconvolgimento in cui il giovane era precipitato. Dietro al suo sguardo intelligente si potevano quasi scorgere i meccanismi della sua testa all’opera, scervellandosi attorno a quell’enigma con la determinazione di risolverlo al più presto.
Forse non ci sarebbe mai riuscito. Insomma, lo vedeva solo come un nerd imbranato e totalmente incapace di gestire le relazioni umane, quindi forse non sarebbe mai riuscito a capire il collegamento fra loro due. In fondo, quella questione era l’unica nella sua vita che non si trovasse in un fascicolo, in una cartella, in fondo ad uno sgabuzzino polveroso, ma solo nella sua mente.
Era per questo che si era sentito perso quando si era accorto di doverle lavorare fianco a fianco per chissà quanto tempo e, a giudicare dell’aura di intelligenza che ancora trasudava, sarebbe stato decisamente molto.
Quel pezzo di vita rovinato con le sue mani voleva tenerlo per sé, ma si rassegnò all’inevitabilità che presto qualcuno l’avrebbe scoperto e portato in luce, magari non con curiosità ma con stupore. Certo, stupore: cosa ci faceva un gracile agente dell’FBI accostato ad una ragazza alta e bella, più adatta ad un red carpet che non alla moquette sporca dell’ufficio investigazione? Chissà quante domande, quanta curiosità, quanto…dolore, nel dover rivangare costantemente il passato.
All’improvviso il collega sembrò credere di arrivare ad una soluzione, perché le sopracciglia ebbero un guizzo e raggiunse un’espressione terribile, dura, che quasi lo spaventò: -Ti ha forse fatto del male? – chiese truce, indagatore e già pronto allo sterminio.
Reid immaginò che il collega non dovesse aver preso bene l’annessione di un nuovo componente alla squadra, così si ritrovò ad indovinare quanto l’uomo stesse cercando un motivo in più per detestare la nuova arrivata. Inoltre, il suo istinto di protezione nei confronti del giovane ragazzo avevano fatto in modo di attivarlo verso la vendetta prima ancora di conoscere la storia per intero.
Si afferettò a cancellare dalla sua testa quell’idea del tutto errata, negando con forza. –No, no! Nient’affatto, anzi…credo di averle fatto io del male, ed irrimediabilmente, temo.
Era la prima volta che lo diceva ad alta voce, e doveva ammettere che faceva un’effetto strano. Qualcuno ora poteva sentire le sue colpe, capire la sua versione delle cose e, finalmente, avrebbe avuto un accusatore concreto per i suoi misfatti. Si sentiva estremamente colpevole, e tale sensazione lo stava divorando dentro come una larva.
Derek ridistese il viso, mentre si affrettava ad inserire questa modifica nella lista di indizi ai suoi ragionamenti. Poté chiaramente osservare quanto cercasse di dare un senso a quella situazione assurda, come cercasse di immaginarsi un Reid violento o spietato. L’immagine di un marionettista crudele non si addiceva per nulla al genio scheletrico rattrappito in quello spazietto minuscolo, in posizione quasi fetale, visto che quando si preannunciava anche solo l’anticamera di uno scontro fisico il ragazzo si allontanava, cercando di non rimanere coinvolto. Non lo faceva per codardia, però era più che sicuro di essere un intralcio e di fallire, in qualsiasi tipo di lotta gli si presentasse davanti.
Tuttavia Morgan, ben conoscendo il rispetto che il collega aveva per le donne, era precipitato nel caos più totale dopo quell’ammissione, fatta con così tanta sicurezza da non poter che essere vera. Insomma, Reid non era il tipo da ferire volontariamente una persona, soprattutto se una ragazza; forse si era dato la colpa come suo solito, riflettè, e magari i fatti erano diversi.
-Reid, se vuoi il mio aiuto devi dirmi le cose come stanno, altrimenti non saprei proprio da che parte iniziare – disse Morgan, cercando di andargli incontro.
La prima cosa che il più giovane riuscì a pensare fu che non aveva mai chiesto soccorso a nessuno. Si era sempre arrangiato in qualsiasi situazione, avendo troppa paura di essere un peso che gravava sulle spalle dei suoi colleghi per cercare di quantificare a parole il suo dolore. Non ne aveva mai parlato nemmeno con il suo terapista di un tempo, John MacGarth, quando si era dovuto sottoporre ad una serie di sedute per smaltire lo stress di diciassettenne laureato.
La seconda cosa che elavorò fu, senz’ombra di dubbio, che Morgan gli stava offrendo la possibilità di trovare finalmente un attimo di pace. Doveva ammettere che già la prospettiva di confessare tutto lo stava facendo sentire più leggero, quasi lei lo avesse perdonato. Ovviamente non sarebbe successo, però aveva bisogno di illudersi per almeno un istante, dove uccidere la tensione.
Fu per questi motivi che fece ordine nella sua testa; era consapevole che quella era la sua occasione, e che non avrebbe mai trovato il coraggio di chiedere nuovamente supporto. Inoltre le offerte del collega erano valide una volta sola, dopo non venivano mai più riformulate.
-Ho conosciuto Eva al liceo, quando abitavo a Las Vegas. Credo che ad unirci fosse il fatto di essere degli emarginati.
Appena pronunciò quelle parole, il bagno, semplicemente, scomparve: le piastrelle vennero sostituite dalle case del suo quartiere, i muri divennero i sorrisi di persone che non vedeva da tantissimo tempo, le tubature assomigliavano sempre più alle pagine pregne di bellissime poesie. Derek, per stare più comodo, si mise vicino a lui, tenendo un ginocchio piegato e una gamba stesa. Appoggiò sul primo l’avambraccio tatuato, poi si mise ad ascoltarlo senza guardarlo negli occhi, come per stimolare la sua fantasia.
-Ricordo che ci vedemmo per la prima volta in biblioteca, a cercare lo stesso libro; glielo cedetti perchè l’avevo già letto, e in fondo non ne avevo bisogno. Però lei insistette per darlo prima a me, sostenendo che se quella storia mi aveva spinto a riprenderlo nonostante mi fosse già nota, allora meritava sul serio di essere riassaporata.
Sorrise al ricordo, ma continuò: -Ci vedevamo spesso, e facemmo amicizia. Eravamo due persone strane, diverse, però sapevamo conciliarci. Mi ha sempre aiutato in tutto, persino a gestire mia madre, e credo che se non avessi avuto lei non avrei mai avuto neppure il coraggio di partire per New York, quel maledetto giorno.
Fece una piccola pausa, sentendo sopraggiungere la parte più dolorosa. In lontananza, rivide la sagoma di Eva che, durante uno dei tanti pomeriggi passati assieme, si voltava verso di lui per salutarlo un’ultima volta. Sapeva che l’avrebbe trovato girato perché in qualche modo aveva indovinato quanto lui amasse vederla camminare.
-A causa di una complicata situazione famigliare, lei dovette trasferirsi ad Atlanta proprio quando dovetti partire anch’io, con la scusa dell’università. Le promisi di spedirle il mio nuovo indirizzo, visto che ancora non lo sapevo, ma non trovai mai il coraggio di chiamare a casa nei mesi in cui stetti via. Non la contattai né mantenni i contatti, venendo meno al mio giuramento. Credo che lei abbia rinunciato, dopo un po’, a mandare a mia madre il proprio recapito, poichè quando, diverso tempo dopo, dovetti tornare a causa del suo peggioramento, scoprii che non aveva mandato nulla; non approfondii e me ne andai di nuovo.
Esponendola così, nuda e cruda, sembrava davvero renderlo una persona abominevole. Aveva rinchiuso colei che gli aveva dato alla luce in un ospedale psichiatrico, aveva abbandonato la sua unica amica, aveva studiato all’estero e continuato la sua vita senza nemmeno domandarsi una volta “dov’è Eva?”. Era chiaro che lei poteva essere arrabbiata con lui, più che evidente.
Morgan intuì che il racconto non era finito, infatti stette in silenzio fino a quando Spencer non riprese la parola.
- Prima di decidermi ad entrare all’FBI ho vissuto per un certo periodo ad Atlanta, sai? Non ho nemmeno provato a cercarla, semplicemente mi sono fatto gli affari miei e poi sono partito di nuovo.
Ci fu un attimo di denso silenzio. Nessuno osava più parlare, ma il confessore stava incredibilmente meglio. Ciò che aveva fatto era ancora imperdonabile, certo, ma ora non aveva più lo stesso sapore marcio di prima; se Morgan l’avesse accusato traendo in fretta le sue conclusioni, sarebbe forse stato del tutto libero. Finalmente avrebbe ottenuto un conteggio oggettivo dei suoi crimini contro di lei, e sicuramente l’uomo gli avrebbe evidenziato la sua meschinità.
Bastava solo aspettare, nulla di più. Eppure, il collega non si decideva a dir nulla, fino a quando pronunciò le parole che Reid non si sarebbe mai aspettato.
-Ragazzino, tu mi stai dicendo che sei scappato come una femminuccia solo per questo? – prima che lui potesse ribattere, Morgan recuperò la sua aria dominante piazzandoglisi davanti e fissandolo dritto negli occhi. –Ascoltami bene: quanti anni avevi, sedici? Beh, tutti facciamo degli errori a quell’età. Se persino lei ha smesso di provare a cercarti, allora vuol dire che dopo un po’ non avresti ripreso i contatti comunque.
-E questo dovrebbe farmi sentire meglio? – gemette Spencer, affranto.
-Sì. Perché in qualunque caso non è colpa tua, ok? Non lo è. Ti stai solo accusando per niente.
Questa frase lo gettò nella disperazione più totale. Come poteva Morgan non accorgersi di quanto stupido e crudele fosse stato con lei? Cosa le aveva fatto? Non aveva cercato nemmeno una volta sue notizie, per chissà quale paura di ricevere spiacevoli aggiornamenti su di lei, o forse ancora per egistici motivi!
-L’ha fatto, Morgan! – esclamò Spencer, esasperato. –Mi ha mandato il suo indirizzo in una lettera, quasi un anno dopo la sua partenza.
Il collega si bloccò, tornando a ragionare su ciò che aveva sentito. Forse ora non era più sicuro delle sue tesi e, se avesse continuato nella spiegazione dei fatti, le avrebbe sgretolate del tutto.
-Mia madre mi ha mostrato, qualche tempo fa, una busta verde che sapeva di pesca, dicendo che ne aveva bruciato il contenuto durante un attacco d’ansia. Non ho mai cercato di rimediare, mai. Nemmeno una volta.
Ora non era forse evidente lo stato di colpevolezza in cui di giorno in giorno sprofondava? Aveva bisogno di qualcuno che gli ricordasse che tutte le ore sprecate a rimpiangere Eva non erano state vane, ma che tutto trovava giustificazione nella realtà.
Morgan gli prese i bicipidi poco allenati fra le mani, scuotendolo leggermente come per farlo rinsavire. –Appunto! Cosa dovevi fare, sentiamo! È stata Diana durante un momento di follia, mica devi sempre prenderti la responsabilità.
Spencer cercò di insistere, ma di parola in parola si faceva sempre meno sicuro di ciò che doveva dire. Se avesse avuto torto e la responsabilità non era del tutto sua, allora gli anni di disperazione potevano considerarsi una punizione più che sufficiente.
-Sono un federale, Derek – disse. Raramente lo chiamava così, e tanto bastò a farlo tacere. –Potevo cercarla, trovarla, andare a sapere come se la passava, tutto qui. Invece no, non è mai successo, mai, me lo sono impedito fino all’ultimo.
Il collega si scostò rassegnato, premendo le dita contro le tempie. Poi si passò le mani sugli occhi e sospirò. –La mia opinione la sai. Adesso sta a te decidere cosa fare, se lasciarla andar via di nuovo oppure prendere in mano la tua vita e rimediare in parte alle colpe che credi di avere.
Riappuntò il suo sguardo su di lui: -La scelta è tua.
Reid si concentrò su quelle parole per un lungo momento, capendo fino in fondo quanto l’uomo avesse ragione. In effetti, quella si poteva considerare una seconda possibilità, e aveva rischiato di mandarla in fumo già una volta, comportandosi come un ragazzino sconclusionato. Però poteva sempre rimediare, come sosteneva l’amico, ponendo fine a quella catena di incomprensioni e cercando di creare delle basi per un futuro, sempre che lei fosse stata d’accordo. Ovviamente non si sentiva nella posizione per dettare condizioni, ma capì che era il momento di lasciare la ragione da parte.
Mentre un piano si disegnava nel suo cervello, si voltò verso l’uomo e, con occhi spiritati, realizzò: -Morgan, io devo parlarle.
Detto questo, prese la cartella, si azò agilmente da terra e spinse la spalla magra contro la porta, fino a venire inghiottito dal corridoio anonimo. Prima di sollevarsi a sua volta, Derek scosse piano la testa, con rassegnazione.
-Chi l’avrebbe mai detto che si sarebbe fulminato per una ragazza? 

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Capitolo 6
*** Congetture ***


Se c’era una cosa che apprezzava di Hotch era la sua efficienza. Si poteva dire tutto di lui, ma non che non fosse un tipo puntuale e che, com’era prevedibile, non si aspettasse lo stesso dai suoi collaboratori.
Eva non avrebbe mai potuto ringraziarlo abbastanza per aver impedito a Reid di accampare qualche stupida e tremolante scusa: sarebbe stato un evento imbarazzante e a dir poco fuori luogo. Era riuscita a recarsi in aereoporto prima ancora che lui tornasse da dov’era stato, riuscendo ad avere un largo anticipo sulla sua apparizione.
Mentre aspettava la squadra al completo, aveva avuto modo di intrattenere una splendida chiacchierata con Rossi e Prentiss, ai quali si era presto unita anche JJ. Era stato difficile per la collega italiana fare commenti sul fascino perduto degli amanti mediterranei, e con l’arrivo di Morgan le cose erano peggiorate; poi l’attenzione era stata sviata sul suono della lingua, sulla grammatica e sulla disorganizzazione statale che dilagava nel bel paese.
Il tempo era trascorso piacevolmente, facendole quasi dimenticare la minaccia sottoforma di ragazzo che poteva piombarle addosso ad ogni angolo; alla fine era stata lei a cedere, ma non aveva avuto voglia di dilungarsi troppo. Si era fatta strappare la promessa di avere una conversazione in merito una volta risolto il caso davanti una tazza di caffè a casa sua, e l’educazione di Reid l’aveva lasciata in pace per il resto del tempo. Aveva smesso d’insistere o di tentare di parlarle, fortunatamente, perché sarebbe stato straziante doverlo evitare per tutta a durata della trasferta.
Così, dopo aver esibito il proprio tesserino un centinaio di volte e aver stretto la mano al prossimo responsabile delle sue nausee meglio conosciuto come “pilota”, si era ritrovata immersa nel lusso più sfrenato che potesse immaginare, soprattutto parlando di FBI. I sedili in pelle beige erano la cosa più comoda che avesse mai visto, l’angolo per le bevande si poteva facilmente chiamare paradiso e i tavoli bassi in legno scuro, lucidissimi, erano stati studiati per essere perfettamente bilanciati all’altezza degli schienali.
Decise di non fare commenti, accomodandosi in un angolo abbastanza tranquillo, lontana dal finestrino: fissare il cielo capovolgersi non l’avrebbe certo aiutata a sentirsi meglio.
Se doveva essere onesta, le dispiaceva molto aver lasciato Garcia alla centrale, perché era una donna con cui era facile stringere amicizia. Tuffandosi nel mondo dell’orrore come stava per fare avrebbe di sicuro avuto bisogno di un tocco di colore, di una battuta spiritosa o del suo famoso caffè al caramello, che non aveva ancora avuto modo di assaggiare. Sapendo dove fosse solita lavorare mentre loro si godevano il lusso di un jet privato la faceva sentire quasi in colpa; quello stanzone senza finestre e con schermi che proiettavano immagini lugubri aveva rischiato di farle venire un attacco di calustrofobia anche solo per i pochi minuti in cui gliel’aveva fatto vedere.
Capiva anche che Garcia era un elemento fondamentale per la squadra, e che sarebbe stata molto più utile a Quantico che non altrove. Era lei a garantire loro un modesto pernottamento, era lei che avvisava le autorità locali, era lei che effettuava i controlli, era lei che si occupava della documentazione, era lei che evitava loro di cercare fra migliaia di fogli gli interrogatori che i sospettati galeotti avevano fatto. Insomma, risultava fondamentale in molti passaggi delle indagini e si manteneva in perenne collegamento con loro tramite telefono, mail o webcam, rivoluzionando interamente la sua idea di tecnologia.
In quel momento, non appena Hotch ebbe posizionato al centro di un tavolo un portatile acceso, spuntò il suo sorriso solare a rinfrescare l’atmosfera dell’aereo.
-Salve, splendori! – salutò allegramente, beccandosi una battuta focosa da Derek. Dopo aver risposto in modo altrettanto spiritoso e irriverente, passò alle cose importanti, facendosi seria. –Prima di sparire volevo avvertirvi che nei vostri foglietti c’è tutto quanto quello di cui avete bisogno: foto, rapporti del coroner, modus operandi, orari e luoghi del ritrovamento….divertitevi! – mandò un bacio contro la telecamera poco prima che lo schermo implodesse, lasciandoli con i propri pensieri.
Da quel che le avevano spiegato, la donna lasciava loro il tempo di fare congetture e, in quel caso, il viaggio avrebbe assorbito anche lo spazio che di solito veniva dedicato al caso in centrale.
Emily aprì il proprio fascicolo per prima, scorrendo velocemente le pagine. –Quattro donne attorno ai vent’anni, corporatura media, prostitute – sentenziò, forse analizzando le foto a fronte.
Hotch annuì. –Vittime ad alto rischio; forse facevano parte della sua frequentazione.
Rossi lo guardò. –Credi che un sadico sessuale aggredisca persone con cui interagiva abitualmente?
L’altro uomo annuì, per poi alzare un sopracciglio. –Perché non dovrebbe?
L’agente alzò le spalle, tornando a guardare i fogli, dicendo solamente: -Congetture -. Eva non osava interrompere, e lanciò una fugace occhiata a Reid, seduto a pochi sedili di distanza da lei, con le gambe accavallate e l’espressione assorta: stava focalizzando così intensamente la sua attenzione su quei fascicoli che non si sarebbe stupita di vedere la carta sciogliersi.
Era diventato un ragazzo davvero bellissimo, dal vestiario classico e sobrio: in quel momento i capelli pettinati per modo di dire cadevano flosci sulla sua fronte, e gli occhi scuri brillavano d’intelligenza. La fronte alta era del tutto esposta, e l’incarnato pallido pareva splendere. Prima che potesse alzare lo sguardo, Eva decise di tornare al presente, per non distrarsi ulteriormente.
-Sono tutti vicoli ciechi, in una città dove il tasso di prostituzione è alto… - stava commentando Morgan. Dietro quella frase di poteva quasi sentire il muoversi degli ingranaggi nella sua testa.
-È vero – osservò JJ, - e questo non fa che allargare il campo -. Era stata l’unica, fra tutti i presenti, a non aver voluto aprire il plico e guardare le foto, ma Eva poteva capirla; una delle donne le assomigliava davvero moltissimo.
Hotch passò su un altro foglio, facendo una smorfia come per confermare le sue parole. Eva si concentrò sul primo scatto: ritraeva un cadavere freddo e bianco, i cui occhi vitrei fissavano un punto oltre il campo ripreso dalla camera. Al collo c’erano dei segni bluastri, e alcune ciocche di capelli d’un biondo sporco ricadevano flaccidamente sulla bocca semi-aperta o sulle guance esangui, esageratamente truccate.
L’unica cosa che apprezzò fu che non c’era sangue, non in quell’inquadratura. Sembrava fosse un’istantanea qualsiasi, forse un po’ lugubre, ma non esageratamente rossa. Come prima volta poteva dirsi soddisfatta, anche se non era il primo cadavere che vedeva.
-Tu che ne pensi, Eva? – chiese Hotch, distrattamente. Anche se appariva frettoloso in realtà non lo era affatto, e quella curiosità dissimulata con pura cortesia per inserirla nel giro delle opinioni era in realtà un modo come un altro per testare le sue capacità. Se meritava quel lavoro lo avrebbe scoperto dopo quel momento.
Si prese un attimo per riflettere: lasciò che i propri occhi cercassero ogni dettaglio, si colmassero del terrore della vittima, ne diventassero parte, si mise nella prospettiva del carnefice, colse le sue mosse e le riprodusse sul cadavere che aveva di fronte. Il resto del mondo venne del tutto cancellato.
-Secondo il mio parere si tratta di un uomo, difficile però determinarne l’età. Da ciò che dice il referto del medico legale, vi sono state diverse pugnalate nella zona pubica, il che potrebbe indicare impotenza; se è un fattore fisico dovuto ad un incidente, potrebbe essere connesso al fattore di stress. Non ha compiuto il suo crimine interamente nel vicolo, come dimostra l’assenza di traccie di sangue, e… - spremette le proprie meningi cercando un fattore che le stava sicuramente sfuggendo -…il fil di ferro usato per strangolarle è sicuramente un arma occasionale; viene solitamente usato per le recinzioni quando vi sono rifiuti speciali, o discariche. Nelle vicinanze del luogo del ritrovamento, però, vi sono dei fattori comuni molto interessanti.
-La presenza delle stazioni di polizia – disse Hotch, incoraggiandola a continuare. Nella stanza era calato un silenzio di piombo, che la ragazza non si accorse di infrangere.
-Esatto.
Derek intervenì esponendo una propria teoria. –Sembra voler esibire quello che fa, come se volesse sfidare la polizia. Erano tutte morte da poco, in fondo.
Eva si schiarì leggermenta la voce, imbarazzata all’improvviso: -Se posso permettermi, io credo che si tratti più di una consegna.
Rossi alzò lo sguardo. –Consegna?
-Esatto – confermò la ragazza. –Questa cosa mi suggerisce due ipotesi: o vuole ripulire le strade e giustificare così i propri omicidi, oppure vuole solamente appagare un bisogno di attenzione, di riconoscimento, facendole trovare subito.
L’uomo sorrise, forse intuendo che non era tutto: -E tu per cosa opti?
-Trattandosi di un sadico sessuale, violento, irascibile, organizzato e pieno di disprezzo fin sopra i capelli trovo che la seconda sia più verosimile.
-Ottima teoria – commentò Derek, in un complimento asciutto che era nient’altro che una semplice considerazione. Era poco, ma le pareva pur sempre un progresso. L’agente più anziano si riappoggiò compiaciuto sullo schienale chiaro, mentre Prentiss e Hotch chiarivano gli ultimi dettagli relativi al caso.
Eva si sentiva come una ragazzina alla prima cotta: non le pareva vero di aver trionfato in così breve tempo e di aver fatto una buona impressione, anche se magari a livello ridotto. Anche se non la ritenevano una brava persona, le bastava che la rispettassero come agente. E poi, trovarsi in mezzo a persone tanto esperte in casi del genere era assolutamente una goduria:  fra teorie che fioccavano come fiocchi di neve e pareri esperti e fondati, si sentiva una bambina in un negozio di caramelle.
Per quanto doloroso fosse rivivere il proprio passato tramite casi sempre diversi, l’eccitazione della caccia al responsabile appagava totalmente il suo desiderio di giustizia, e le pareva quasi che una ferita nel suo animo si rimarginasse.
Per i minuti successivi, Reid espose in breve un profilo geografico affrettato che aveva messo a punto in quei momenti. Sparava dati e cifre con precisione assoluta, e Rossi stava prendendo appunti per non perdersi nulla; le sue spiegazioni in merito alle zone degli omicidi erano dettagliate e precise, ma davano un territorio spaventosamente largo come probabile contenitore dell’ S.I, ma era impossibile stringere ancora. Anzi, aveva aggiunto, forse era stato fin troppo restrittivo con i margini.
-Bene, per il momento può bastare – sentenziò Hotch, - adesso riposatevi, fra quattro ore ci sarà l’atterraggio.
Eva era sorpresa. Sei ore di volo, da quel che le avevano detto, e in quelli che le erano parsi pochi minuti si erano già consumate due ore, senza che lei se ne accorgesse. Presa com’era dal lasciarsi trasportare dalle teorie sul caso non si era nemmeno accorta dello scorrere del tempo, e avrebbe volentieri continuato ancora. Ma Hotch aveva ragione, rendendosi conto degli istanti trascorsi si sentì stanca e spossata, bisognosa di una tazza di caffè fumante. Le tempie pulsavano fastidiosamente, e aveva il timore che la nausea per il volo minacciasse di farle fare brutta figura.
Prese la borsa e vi frugò un po’ dentro. Gli agenti si erano velocemente dispersi: Emily e Morgan stavano chiacchierando seduti davanti ad un tavolo, mentre Rossi continuava a guardare, assorto, fuori dal finestrino. Il capo aveva appena finito di prendere qualcosa da bere, JJ fissava i fogli chiusi con espressione persa e Reid era scomparso dal suo campo visivo. Era sicura, però, che non avrebbe cercato di parlarle, come per tenere fede a ciò che aveva promesso riguardo ad una conversazione fatta bene in seguito.
Prese un flaconcino arancione da una tasca interna, dopo essersi smarrita fra gli anfratti di stoffa. Fece cadere una pastiglietta sul proprio palmo, sigillò di nuovo il contenitore e rimise via il tutto, sul sedile accanto al suo. L’amosfera frizzante e brulicante di ipotesi di pochi attimi prima era del tutto evaporata, facendoli apparire come fantocci del tutto svuotati dai loro sentimenti. Immaginò che per loro non doveva essere facile doversi scontrare di nuovo con qualche altro caso cruento, e ognuno lasciava all’altro il proprio tempo per riprendersi.
Reid superò il suo posto, lanciandole un’occhiata con la coda dell’occhio e sedendosi più avanti, dandole le spalle. Decise di ignorarlo; sbadigliò e appoggiò la mano davanti alla bocca, ingerendo in fretta la compressa candida.
-Cos’era? – chiese Hotch, spuntandole davanti. Quell’apparizione la sorprese e per poco non sputò fuori tutto, ma si costrinse a mantenere un contegno. Riuscì ad afferrare il flacone e glielo mise sotto agli occhi.
-Pastiglie per la nausea. Non ho mai avuto un buon rapporto con gli aerei – spiegò. Spostò la borsa per un tacito invito a sedersi, visto che era intenzione dell’uomo parlarle.
Sembrò tranquillizzarsi. Essendo stata lei vittima di abusi in passato forse temeva che fosse sotto cura di qualche psicofarmaco, indicazione che non era presente in nessun fascicolo sul suo conto. Eva era pulita, detestava assumere medicinali e quelle pastiglie sarebbero state le acerrime nemiche del suo mal di testa, ma nulla di più.
-Potevi avvertirmi. Caffè?
-Grazie – accettò la tazza fumante con entrambe le mani, sfiorandogli piano le dita in un movimento involontario. Aggiunse due cucchiaiate di zucchero, preferendo non usare il dolcificante. Forse Hotch si sarebbe spaventato a notare altre pastiglie.
Per un po’ non disse nulla, limitandosi ad osservarla. C’era una notevole differenza d’età, fra loro, ed era per questo che lei lo aveva esplicitamente invitato a darle del “tu”. Ovviamente lei non avrebbe mai ricambiato, per lo meno non nel primo periodo, e preferiva evitare di rivolgersi a lui direttamente, onde evitare troppa o troppo poca formalità.
L’inglese era una lingua estremamente ambigua da questo punto di vista, ed era molto difficile per lei modulare bene il tono e scegliere le parole giuste. L’italiano, per quanto intricato, su quest’aspetto era infinitamente meno complesso.
-Complimenti per prima – disse lui, prendendo un lungo sorso dalla sua tazza.
-Era un test, e mi piace superarli. Inoltre da oggi in poi sarà il mio lavoro.
-Ben detto – sentenziò, e da lì capì che il momento congratulazioni era finito. Di fatto, il capo sarebbe anche potuto andarsene, ma ormai che era lì entrambi trovarono saggio scambiare parole meno formali. Era un gioco a studiare i propri comportamenti, ma con due persone tanto abili era quasi impossibile prevedere o compiere delle mosse.
Eva fece una smorfia dopo aver preso la prima sorsata. Aggiunse un’altra bustina di zucchero. –Non credo mi abituerò mai al caffè americano.
Hotch sollevò le sopracciglia, riuscendo stranamente a mantenere un’espressione ancora indagatrice. –Troppo forte?
La ragazza scosse la testa, sorridendo. –Troppo annacquato. In Italia si beve in tazzine che non sono nemmeno un quarto di queste ed è molto più concentrato – spiegò.
-Non ci sono mai stato, in Italia – confessò Hotch, fissando le nuvole oscurate dalla notte fuori dal vetro.
-È un paese bellissimo, ma difficile da sopportare – ammise Eva. Si lasciò cullare dalla stanchezza e dal torpore, dimenticando per un momento che il giorno dopo le sarebbe aspettata una giornata intensa all’insegna della follia umana.
-Mi piacerebbe portarci mio figlio – aggiunse Hotch. Poi sorrise impercettibilmente, come se fosse restio a far trapelare qualcos’altro di sé. –Se le ferie me lo permettono.
La ragazza ridacchiò. –Se i serial killer lo permettono.
-Beh – commentò l’uomo, alzandosi con un sorriso divertito e appena accennato, - in effetti anche loro hanno una certa responsabilità in questo.
Fu l’ultima battuta della conversazione, Eva ne era certa. Avevano interagito e lui le aveva detto quello che doveva, quindi potevano dire di aver fatto tutto ciò che dovevano fare. Tuttavia, l’uno aveva guadagnato un paio di punti in più nella testa dell’altra, e viceversa.
-Buonanotte – disse Hotch.
-Buonanotte – rispose gentilmente Eva.
Anche se l’atmosfera invitava al sonno e l’aria si era fatta più rilassante, nessuno dei due riuscì a chiudere occhio.  

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Capitolo 7
*** Il Caso ***


Bergen, New Jersey; ore: 09.18 a.m.
 
Quando, dopo essere tornati dall’aereoporto, furono accolti dallo sceriffo Dawson, si sentirono quasi a disagio, come se non fossero graditi. L’uomo aveva detto abbastanza sbrigativamente che potevano contare su di lui per qualsiasi cosa, ma era scomparso dopo aver mostrato dove si trovava la stanza adibita a loro uso.
Nel corridoio, tutti gli agenti erano nervosi, Hotch in primis. La mascella si era indurita come se avesse digrignato i denti, per evitare di dire qualcosa di indesiderato. Morgan, invece, si tratteneva meno del suo superiore, dando sfogo in minima parte a ciò che tutti pensavano.
-Accidenti, neanche fossimo venuti qui per uccidere altre persone – borbottò. –La prossima volta se le fa lui quattro ore d’aereo dopo il ritorno dalla Florida.
In effetti, era vero. Il suo discorso era sensato, visto che li aveva liquidati al loro destino; era stato brusco, ritirandosi ai propri doveri subito dopo un breve saluto. Ovviamente non aveva rispettato la buona educazione, e questo era innegabile, tuttavia Eva non poteva biasimarlo per quello, visto che la loro piccola centrale di periferia non era abituata a sorbire, oltre a tutti i vari impegni, anche un serial killer.
Erano anni, infatti, che la polizia locale cercava di combattere i furti, la prostituzione o altri crimini minori, ma le forze dell’ordine non erano decisamente preparate a gestire la situazione, mantenendola soltanto sotto controllo. Viaggiando nella struttura, si rendevano progressivamente conto che lo spazio era davvero ridotto: poche scrivanie, poche stanze, un solo piano, una stanza per gli interrogatori, un’unica ala con un paio di celle per dei criminali occasionali.
Ben presto, arrivarono davanti a due grandi porte a vetri, dove dietro c’era quello che sarebbe diventato il loro quartier generale. Nessun agente li aveva accompagnati, e questo fece nuovamente sbuffare il proprio collega. Il capo, invece, si trattenne a stento.
JJ fu la più diplomatica. –Credo che andrò a prendere qualcosa da bere – disse, sforzandosi di sembrare rilassata, e ne approfittò per sparire oltre il corridoio da cui erano appena sbucati.
Nemmeno questa volta la ragazza aveva qualcosa da ridire.
Morgan si ritirò un momento in un angolo, parlando al telefono con Garcia, mentre Rossi fu il primo ad avventurarsi nel nuovo spazio, invitandola con un sorriso. Reid stava impalato sulla porta e Hotch si stava innervosendo ancora di più a causa delle chiamate incalzanti della Strauss, così Eva non fece fatica a scegliere dove andare.
Doveva ammettere che, nonostante tutto, l’ambiente era stato allestito bene, seppur con stile essenziale. C’era un tavolo grigio al centro con diverse sedie intorno, una lavagna trasparente, un blocco di fogli, alcuni scatoloni e un portatile poggiato su un ripiano. Evidentemente, prima doveva ospitare un ufficio, poiché era rimasta una scaffalatura con alcuni volumi polverosi poggiati sopra.
La ragazza li scorse con lo sguardo. –Sono i testi che studiavo una volta – disse, sorpresa.
-Davvero? – chiese l’uomo dietro di lei. Questo la fece sobbalzare, poiché pensava di averlo soltanto pensato.
Si affrettò ad annuire. –Prima di venire in America ho frequentato qualche anno di formazione classica. Un po’ l’ho ripresa all’università, grazie a questi libri.
-Ah, la conoscenza! – commentò Rossi, ammiccando e facendola sorridere. La cosa che apprezzava di lui era che non solo non era invadente, ma riusciva a metterla a proprio agio.
Per Eva non era facile, infatti, parlare del suo passato come se nulla fosse. Quel primo giorno di lavoro ad un caso aveva rischiato di compromettere più di una volta la sua stabilità emotiva, regalandole anche un leggero mal di testa. Non si arrischiava a prendere un’altra pastiglia per paura di non essere abbastanza lucida; forse, vedendo il flacone, i suoi colleghi si sarebbero irrigiditi troppo, credendola una tossica.
Decise di lasciar perdere. Si sedette in un posto abbastanza discostato dal resto e accettò volentieri la bottiglietta d’acqua che JJ le aveva offerto. Era tornata con un sacco di bevande fra le braccia, ben conoscendo i gusti dei membri della squadra; non era stata l’unica a volere dell’acqua. Distrattamente, notò che Reid stava bevendo da un contenitore identico al suo.
“Meglio pensare ad altro”, pensò con un sospiro.
L’agente più anziano prese saggiamente posto al suo fianco, mentre Spencer il più lontano possibile. Hotch prese posto a capotavola affiancato da Morgan e Prentiss, appena tornata dal bagno, mentre JJ rimase in piedi per esporre sulla lavagna i dettagli emersi in aereo.
Il punto della situazione era, senza troppi giri di parole, che non avevano idea di dove cominciare. La mappa appesa sullo spazio trasparente della lavagna illustrava un percorso formato da puntine da disegno rosse, che disseminavano con precisione tutti i luoghi del ritrovamento. Non sembravano seguire un ordine, anzi; mentre, come le avevano spiegato, con gli altri assassini il cerchio che si forma è abbastanza preciso e di facile individuazione, questa volta si vedevano solo file tremule ed irregolari, che non isolavano dalla carta nemmeno un punto.
-Sembra quasi che voglia estendere i propri tentacoli dappertutto – osservò Emily.
-È vero – intervenne Reid, - prima, parlando con il vice-sceriffo, ho scoperto che vi sono delle zone sorvegliate da agenti in borghese. È estremamente difficile scaricare un corpo senza essere visti, e in genere persino gli spacciatori evitano di aggirarsi lì intorno.
-Questo non fa che sottolineare la sua mania di esibizionismo – commentò Morgan.
-E la sua abilità – fece notare Rossi. –Deve avere una grande conoscenza della città per poter andare a colpo sicuro, inoltre è parecchio svelto visto che nessuno l’ha mai visto.
-Forse – disse Hotch, pensieroso, -il suo aspetto passa particolarmente inosservato. Se le prostitute ci sono ancora anche nelle zone sorvegliate, vuol dire che non sono in strada. Motel, alberghi, forse rimesse o luoghi appartati, e la clientela è formata da persone così comuni da essere insospettabili.
-Quindi stiamo cercando un uomo medio, senza caratteristiche fisiche comuni, dai venti ai sessant’anni, esperto della città, magari nato e vissuto a Bergen? – chiese JJ, scettica.
Il capo si passò una mano sul viso, stancamente. –Hai ragione – osservò.
Non a caso la ragazza aveva usato quel tono; con quella frase aveva messo in evidenza di quante persone stessero parlando e, considerando il luogo d’azione, questo non faceva che rendere tutti gli abitanti maschili possibili S.I, come avevano detto che si chiamava il killer da catturare.
Il soggetto ignoto sarebbe stato ancora più ignoto, per dirla in soldoni, però avevano comunque un punto da cui partire; Eva vi riflettè un attimo, poi si arrischiò a parlare.
-Se frequenta dei motel o altri ritrovi per prostitute, vuol dire che non cerca le ragazze di strada. Può sembrare una cosa stupida, ma vi è una notevole differenza – spiegò. Nessuno osò fiatare quando mise in luce quest’elemento, e il silenzio le lasciò presagire di dovere agli agenti delle informazioni più dettagliate.
-Esiste una clientela specifica che prediligie le ragazze senza protettori “misti”, si può dire così. Quando il tasso di prostituzione è così alto, vuol dire che è controllato da bande o criminalità organizzata locale. Loro non si prendono il disturbo di raggrupparle tutte sotto una stessa persona, anche perché sarebbero troppe, e i vari protettori si mischiano; per esempio, in un quartiere ci possono essere persone appartenenti a bande differenti, e la varietà appartiene al numero di bande presenti.
-Questo comporta un problema? – chiese Hotch.
-Sì. Ogni banda ha un proprio tariffario. Se un cliente abituale va, anche incosapevolmente, dalla ragazza di un’altra banda, allora potrebbe passare dei guai, e dover pagare di più. Per evitare certi problemi, quelli che conoscono il giro preferiscono entrare negli alberghi: non solo hanno una sorta di copertura, ma sanno di chi sono le prostitute che frequentano e i prezzi non variano. Il mercato del sesso è molto più complicato di quello che sembra.
-Quindi – disse Morgan, come per ricapitolare la situazione, - se io fossi interessato ad andare con una prostituta, rischierei di fare un torto ad un boss?
-Solo se la volta prima hai frequentato una ragazza che non gli apparteneva – rettificò Eva.
Ancora una volta, neppure un agente si arrischiò a domandare come facesse ad essere tanto informata sull’argomento, e lei fu loro grata. Sarebbe stato davvero difficile da spiegare, e non era decisamente dell’umore adatto a rivangare, ancora una volta, i traumi della sua vita.
Reid le lanciò un’occhiata penetrante, ma non parlò. Forse si prese come appunto quel dettaglio per riparlarne durante il loro fatidico colloquio, una volta risolto il caso.
-Bene – sentenziò Hotch, - adesso sappiamo dove le prende. Chiederemo allo sceriffo Dawson di spostare i suoi agenti alle entrate e di controllare la clientela.
-Non sarebbe meglio farli chiudere? – domandò JJ, disgustata.
-No – osservò Rossi, placidamente. –È un killer molto particolare. Meticoloso, attento, imprevedibile. Questo, per il momento, è l’unico dettaglio che ci permette di avere un legame con lui; se dovessimo chiudere i suoi riferimenti, allora diventerebbe una mina vagante fuori dal nostro controllo.
Anche Eva, se doveva essere onesta, avrebbe optato per la chiusura di quei posti immondi, ma il ragionamento dell’uomo non faceva una piega. Capiva quanto fosse disgustoso mantenere un sistema del genere e servirsene addirittura, ma era pur sempre un collegamento indispensabile alla cattura del killer. Era sicura che, dopo l’arresto, la polizia avrebbe provveduto a ripulire certi posti dalla propria città; lo sceriffo, anche se sconosciuto alle buone maniere, non sembrava un uomo propenso a lasciar correre cose del genere, fatto testimoniato dall’idea di far sorvegliare la città da agenti in incognito.
-Altro? – chiese Hotch.
Nessuno capì bene a cosa si riferisse, ma a tutti venne spontaneo chinare la testa sulle foto per cercare altri dettagli. Eva scartabellò per l’ennesima volta anche i fogli del coroner, ma ormai i suoi occhi avevano immagazzinato tutte le informazioni fino alla nausea.
-Hanno lo stesso smalto – constatò Prentiss.
-E pesano circa allo stesso modo – osservò Rossi, con sorpresa sincera nella voce.
-Sì… - intervenne cautamente Reid, - anche l’altezza coincide con precisione quasi millimetrica.
Una nuova luce si accese nella stanza, come ad illuminare i loro volti accaldati dall’afa di maggio. Ora, lo sguardo di tutti si era fatto famelico per le sottigliezze, e chiunque cominciò a darsi dell’idiota per aver trascurato delle necessarie comparazioni.
Avevano davanti agli occhi tre vittime, tutte simili fra loro. Ovviamente la fantasia dell’assassino doveva essere molto più dettagliata di ciò che pensavano, vista l’improvvisa necessità di scoprire qualche altro irrilevante fattore che le accomunasse.
-Nessuna ha meno di ventidue o più di ventiquattro anni – constatò invece JJ. Aveva recuperato l’interesse per le scartoffie sul suo grembo.
-Luoghi in comune? – chiese Hotch.
L’entusiasmo evaporò presto. – No – disse Emily, dando voce ai pensieri di tutti, - una è stata trovata all’incrocio fra la sesta e la settima, un’altra nei pressi della quarta e l’ultima nel vicolo secondario della stazione di polizia principale.
Questa frase non fece altro che sottilineare il loro inserimento nella periferia, ovvero nella filiale meno frequentata del luogo.
Con una puntualità sconcertante, si udì un bussare discreto alla porta, che interruppe le loro elucubrazioni riguardo al caso e li costrinse ad alzare gli occhi dai fascicoli.
Se doveva essere sincera, Eva si aspettava di vedere lo sceriffo Dawson, magari venuto per dare una novità qualsiasi alla squadra. Al limite un suo subordinato, magari uno fra gli agenti più giovani, ma non di certo la donna che aveva davanti agli occhi.
Stava sorridendo materna, con una gentilezza innata testimoniata quasi dai fianchi morbidi e dalle gambe fasciate dai jeans, non troppo magre ma neppure esageratemente tornite. Il viso presentava qualche ruga appena accennata attorno agli occhi, ma sembrava così giovane che si creava un notevole contrasto con gli abiti sobri, quasi maschili.
La sua espressione intrisa di cortesia non cambiò nemmeno di una virgola notando la stupita immobilità che aveva paralizzato gli agenti, e non parve offendersi. Da buon galantuomo che era, fu Rossi ad alzarsi e ad aprire la porta, nonostante non fosse né il più vicino, né il più agile.
-Buongiorno – disse la donna, entrando. Aveva un caschetto ordinato di capelli color grano.
-Buongiorno – rispose Hotch, facendosi portavoce della squadra.
Ora che poteva vederla meglio, Eva constatò che lei non poteva avere meno di trent’anni, e che era solo la gentilezza a renderla più giovane di quello che era.
-Scusatemi davvero moltissimo se sono arrivata soltanto ora, ma credevo vi avessero messo nella sede centrale – spiegò, rammaricata. –Sono Laure Dawson, figlia dello sceriffo e responsabile della buoncostume.
Fece il giro del tavolo accompagnando ogni stretta di mano con un sorriso aperto e la voce, in sottofondo, di Hotch, che diceva i nomi di coloro che le si presentavano. Quella comparsa li aveva sorpresi tutti quanti, e non avevano saputo bene come gestire la situazione.
JJ le offrì la sua sedia, visto che sarebbe rimasta in piedi per esporre ancora il caso se ce ne fosse stato bisogno. Nonostante fosse stata un po’ recalcitante, alla fine Laure si sedette.
-Perdonate anche mio padre…è sempre stato così. Non sopporta l’idea di aver bisogno di qualcuno, si è sempre arrangiato in tutto e…beh, è un po’ burbero – disse ridacchiando. – Ma è una brava persona, e non lo dico per tornaconto personale. È riuscito a mettere da parte l’orgoglio per amor della sua città.
-Capiamo perfettamente – disse Morgan, sorridendo. Ad Emily venne da ridere pensando a come aveva reagito prima, ma si trattenne per non fargli fare brutta figura.
-Siamo felicissimi di avervi qui – disse ancora, - il vostro aiuto ci è più che necessario. Non siamo abituati ai crimini seriali, e non abbiamo nemmeno consulenti esperti in materia.
-Che misure avete adottato contro la criminalità organizzata? – chiese Hotch.
-Agenti in borghese nelle zone ad alto rischio, infiltrati nei giri di droga e prostituzione, controlli periodici anti-droga a tutti i senza tetto nei dintorni senza date fisse e controllo dei documenti a posti di blocco e luoghi come parchi giochi, asili, ospedali…
-Capisco – osservò lui, pensieroso.
Eva non era pratica della burocrazia, a differenza di molti di loro, ma credeva comunque che la donna avesse esposto un sacco di cose incredibili, a partire dai controlli. Dalla centrale li aveva estesi anche ai civili con difficoltà economiche, preda principale degli spacciatori, ed era un’idea intelligente quella di farli a sopresa, a ritmi regolari.
Nonostante la città fosse abbastanza piccola, stavano adottando misure davvero sbalorditive per salvaguardare la popolazione dai criminali. Forse era sciocco pensarlo, ma era una zona che non si meritava la presenza di un serial killer.
La donna, sistemandosi la manica della giacca, chiese a che punto erano arrivati con il caso, e Morgan le fece un esauriente riassunto anche sulle ultime scoperte. Era preciso, e non trascurò nemmeno il minimo dettaglio; non le nascose che erano ancora in alto mare, senza minimizzare la cosa, ma fu anche sincero quando le confessò che avevano buone probabilità di scoprire molte più cose durante i sopralluoghi.
-Gli abbandoni dicono tantissime cose sugli assassini – la rassicurò JJ, ma la signora non ne aveva bisogno.
Si accarezzò il mento. –Oggi pomeriggio, se volete, ho disponibile una ventina di agenti. Ditemi quali formazioni vi servono e in che posti, li renderò subito disponibili. Inoltre, se lo desiderate, in magazzino ho fatto preparare diversi GPS, per auto o cellulare, sincronizzati con quelli della polizia, in modo da conoscere le mosse degli agenti.
Rossi alzò le sopracciglia. –È una procedura che usate spesso?
-A dire il vero, no. E’stata un’idea di mio padre; credeva che avreste avuto bisogno di un riferimento per orientarvi, in città.
-Avete un tecnico informatico? – domandò Morgan, estraendo il cellulare dalla tasca.
Laure sorrise: -Certo. Due, a dire la verità.
-Possiamo metterli in contatto con la nostra assistente in centrale? – domandò di nuovo.
-Oh, ma certo. Non vedono l’ora di potervi essere d’aiuto.
Detto questo, lui sparì oltre le porte componendo, molto probabilmente, il numero di Garcia, per informarla di tenersi in contatto con gli uomini di Bergen.
Laure sistemò di nuovo la giacca, che sembrava troppo stretta. Eva si domandò come facesse a tenerla in quel modo nonostante facesse così caldo, ma decise di stare in silenzio, visto che non era un dubbio opportuno; molte donne usavano coprirsi i fianchi forse troppo generosi con abiti larghi, e probabilmente la donna non faceva eccezione.
-Scusatemi, ma adesso devo andare – disse, con tono di scuse, - ho un controllo nella zona ovest, quella dove, finora, non sono stati trovati corpi. Di solito i ritrovamenti sono stati fatti nelle prime ore del mattino, ma è difficile stare sicuri con un killer in circolazione.
Concluse il suo discorso alzandosi.
-Mi scusi – la trattenne Hotch, - cose c’è in quelle scatole?
-Trattati della buoncostume degli ultimi anni, arresti sospetti, crimini simili presenti in archivio e testimonianze varie, la cui maggior parte credo sia opera di mitomani – sorrise, aprendo la porta, - ma, visto che non sono un’esperta, lascio a voi decidere.
Detto questo, uscì dalle porte trasparenti, attraversando il corridoio a grandi falcate. Non ci mise molto tempo a sparire, visto che lo spazio era ristretto in ogni stanza.
Ci fu qualche attimo di silenzio, durante il quale la squadra decise di meditare sopra a quanto era appena accaduto. Rossi sembrava pensieroso mentre guardava le ultime annotazioni sul proprio taccuino, come se non fosse del tutto convinto che le somiglianze finissero lì.
-Bene – esordì Hotch, sbrigativo come sempre. In quel mentre rientrò Derek, ma non si sedette. –Emily, vai con Morgan nella prima scena del crimine.
I due annuirono e, senza aspettare oltre, sparirono dalla stanza.
-Reid, controlla il contenuto delle varie scatole, analizza i dati interessanti e scrivili sulla lavagna accanto alla mappa. JJ, prepara un discorso per i media alla luce delle nuove scoperte, ma non parlare di un possibile profilo.
Anche il ragazzo annuì e si rintanò in quel lato della stanza, pensieroso e quasi in simbiosi con i fogli su cui doveva lavorare. Era proprio vero: delle volte nel DNA di qualcuno vi si leggevano anche le sue passioni, oltre che alle solite informazioni.
La ragazza, invece, recuperò un’espressione professionale e prese appunti su un foglio, scribacchiando con una matita dalla punta esageratamente arrotondata ciò che doveva dire.
-Eva – la ragazza sussultò sentendosi interpellata, - vai con Rossi all’obitorio e dimmi cosa noti di strano, per favore. Io intanto credo dovrò occuparmi dello sceriffo – concluse, parlando più a sé stesso che ad altri.
I due agenti rimanenti si alzarono e, seguendo il rituale cominciato dagli altri, si incamminarono fuori dalla porta, mentre nella ragazza l’ansia di poter essere messa in coppia con Reid svaniva con esasperante lentezza. 

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Capitolo 8
*** Nuove scoperte ***


La patologa era una ragazza giovane che era stata subito affascinata da Rossi e dal suo modo di fare. Certo, all’inizio si era mantenuta sul professionale con entrambi, ma alla fine era stato lui a condurre l’analisi, nonostante non fosse esperto di medicina.
Rivolgeva le domande giuste e pretendeva risposte precise, che non tardavano mai ad arrivare. Se Eva aveva qualche dubbio in merito a quello che era stato detto, lo esprimeva e si faceva dare dettagli tecnici, ma cercava di fare in fretta quando notava una punta di invidia femminile.
Certo, la dottoressa non era mai stata scortese, sbrigativa o poco qualificata, e ad un occhio meno attento sarebbe parsa anche esageratamente disponibile, ma l’agente aveva come l’impressione che quel suo zelo fosse rivolto a farsi ammirare da Rossi e ad uccidere ogni sentore di quello che provava contro Eva.
Alla fine, quando uscirono, ne sapevano poco più di prima, ma era stato utile ad entrambi. Durante il domanda-risposta che Rossi aveva incamerato con la patologa, infatti, Eva si era presa del tempo per esaminare in solitudine gli altri cadaveri, dopo aver ottenuto il permesso di poter sollevare le lenzuola per guardare meglio le ferite.
Si fece un’idea per quanto sommaria dell’arma del delitto, delle metodologie di adoperarla e dei luoghi in cui era possibile reperirla ma, non essendo un’esperta, non volle spingersi troppo oltre con ipotesi azzardate. Voleva andarci con i piedi di piombo, in modo da evitare lo sviamento dell’indagine in canali sbagliati.
L’uomo, mentre tornavano alla macchina, fece una breve telefonata ad Hotch, dove riuscì a riassumere efficacemente tutte le informazioni raccolte nell’obitorio in pochi minuti. Aveva una capacità di sintesi straordinaria, che gli permetteva l’estremo risparmio di tempo senza trascurare nessun dettaglio. Non lasciava trapelare né scetticismo né entusiasmo: lasciò al capo il compito di giudicare e farsi una propria opinione.
Chiuse in fretta la comunicazione e la guardò con un sorriso. –In centrale stanno arrivando i familiari della prima vittima.
-I signori Granger, se non sbaglio – rispose Eva, montando in auto. Era sicura che fosse l’informazione esatta: la sua memoria era infallibile.
Rossi annuì, mettendosi alla guida. La ragazza aveva confessato che le macchine troppo grandi la intimorivano, e che non era particolamente abile a domarle.
-Proprio loro – commentò l’uomo. Accese il quadrante e uscì dal parcheggio in un paio di manovre, immettendosi in strada, piuttosto trafficata. Hotch aveva commesso un’imprudenza lasciandoli partire all’ora di punta: era sì l’unico momento di pausa dell’obitorio in cui avrebbero potuto parlare liberamente, ma era anche un punto cruciale delle imprese commerciali della città, visto che ogni singolo lavoratore si trovava in macchina in quel preciso momento.
La conversazione languiva, ma non era un momento spiacevole. Eva si prese del tempo per ammirare il panorama, ma le insegne spente dei negozi le fornirono una breve distrazione.
-E così sei nata in Italia – osservò Rossi, con leggerezza. Era conscio del fatto che ci avrebbero messo più del previso per andare in ufficio, e stava cercando di tappare i buchi silenziosi.
La ragazza sorrise: -Esatto.
-Ah…mi manca così tanto. L’estate scorsa ci sono tornato per una vacanza, ma sono dovuto tornare a Washington immediatamente; il lavoro chiama sempre quando meno te lo aspetti.
Eva ci meditò un po’ sopra. –Dovete essere reperibili a qualsiasi ora?
-Dobbiamo – la corresse bonariamente, - ma se abbiamo altri impegni dovremmo solo fare i conti con la preoccupazione dei nostri colleghi.
La ragazza ridacchiò, mentre giungevano di fronte all’ennesimo semaforo rosso. –Mi sento un po’ un’intrusa a piombare in questa famiglia all’improvviso -, ammise.
Rossi, sorpreso, la guardò, cercando di riparare al suo tono nostalgico. –Oh, non devi! Sei una ragazza in gamba: sono sicuro che ti ambienterai in fretta.
-Lo spero, ma…quello che credo è di non avere la qualificazione necessaria – disse, alzando piano le spalle. –Contro i serial killer una laurea in medicina può fare ben poco.
-Non si è mai abbastanza qualificati per questo lavoro – confidò Rossi, gentilmente, - è solo una questione di farsi le ossa. E poi non disperare, è pur sempre meglio di niente, no? Anche i dottori possono fare grandi cose nella battaglia contro il crimine.
-Ah, lo spero. Chiamatemi se avete un S.I con l’ulcera – osservò ironicamente.
L’uomo rise, rimettendo in marcia. Guidava con una calma innata, come se non fosse nel suo stile agitarsi per un po’ di auto di troppo. Scivolava fra gli altri guidatori senza fare un torto a nessuno, e sembrava quasi prendersi gioco di chi prendeva la strada troppo seriamente. Ci si rilassava solo a guardarlo.
-Che ne pensi di Reid? – chiese a bruciapelo, ad un tratto, rischiando di farle fare un infarto.
-C…cosa? – balbettò lei.
Lui alzò le spalle. –Beh…mi è sembrato quello con cui hai familiarizzato di meno. Insomma, è un bravissimo ragazzo, ma è un disastro con le donne.
-Non abbiamo avuto modo di parlare molto – disse Eva, sperando che abboccasse, -in fondo sono qui solo da ieri.
-Lo immagino – commentò il collega. –Siamo dovuti partire subito. Se ci fosse stato il tempo, ti avremmo fatto fare un giro panoramico come si deve.
La ragazza rise. –Quando torneremo mi farò guidare volentieri.
L’uomo stette allo scherzo, inciampando nell’ennesimo semaforo rosso. –Non si può immaginare un posto più paradisiaco; noi siamo i più fortunati, perché il frigo nel cucinino funziona, anche se solo nell’ora di andare a casa, e la moquette è stata cambiata solo dieci anni fa.
-È comunque meglio del mio appartamento – commentò lei, divertita. –C’è una determinata fascia di tempo in cui manca del tutto la corrente.
Rossi alzò le sopracciglia, come per dire “che disastro!”. –Ti sei trasferita da molto?
Scosse la testa. –No. sono venuta qui una settimana prima del colloquio con l’agente Hotchner.
-Santo cielo! – esclamò Rossi, - quindi sei fresca fresca di trasloco!
-Sì…non è stato così impegnativo, avevo poche cose da portare con me.
-Credo sia saggio – riflettè il profiler, - attaccandosi troppo agli oggetti, si rischia di diventarne schiavi.
Eva non replicò, pensando a quella frase. Era vero; con i disastri che l’avevano portata a separarsi da tutto, nella sua vita, sarebbe stato un disastro dover fare i conti anche con una collezione o qualcosa di ingombrante da portar via. Certo, forse sarebbe stato quasi più umano avere delle passioni solide da ammirare ogni tanto, ma le bastavano quei pochi libri e qualche vestito che possedeva attualmente. Forse, una volta messo radici, le sarebbe sembrato più naturale dedicarsi a qualche hobby materiale.
Il telefono squillò ancora, e stavolta l’agente mise in vivavoce. –Sì?
-Sono Emily – rispose una voce metallica. –Hotch aveva ragione.
-A che proposito? – chiese Rossi.
-Sulla scena del crimine. È anomala: vicino al cadavere c’è l’angolo abitato da un senza-tetto, mentre l’angolazione della testa è diretta verso la strada, ben visibile. Gli altri corpi sono nascosti, uno è stato gettato in un cassonetto. Perché?
-Non ne ho idea – disse l’uomo, pensieroso. –Forse aveva un collegamento particolare con quel posto.
-O forse qualcuno l’ha visto – azzardò Emily. –Uccidere una persona qui non è una cosa facile da fare, senza testimoni. Evidentemente dopo ha preferito non rischiare più, e si è fatto meno esibizionista.
L’agente ci pensò un po’ su. Svoltò a destra, imboccando un’altra via trafficata, e si mise pazientemente in fila.
-Tutto è possibile. Comunque, noi siamo appena stati all’obitorio: a quanto pare, le ferite sono state inferte con un comune coltello da cucina, e lo strangolamento è avvenuto con un altrettanto comune fil di ferro, preso direttamente dal posto.
-Fantastico – commentò la donna, scarcasticamente. –Nulla che faccia restringere il campo.
-Per quanto sia strano che un uomo maneggi coltelli da cucina, devo darti ragione – ammise Rossi. –Per scrupolo chiederò a Garcia di controllare chi ha comprato coltelli da cucina dalla lama spessa negli ultimi mesi, ma dubito che ne verrà fuori qualcosa.
Fu Eva ad intervenire, questa volta. –E se li vendesse? – chiese.
Emily, in sottofondo, stava rimuginando. –Venderli, dici? – domandò.
La ragazza assentì. –Sì. È strano che un sadico sessuale usi un’arma del genere, perché la penetrazione con i tessuti umani è difficile, se il filo è grezzo. Quindi può darsi che sia qualcosa che aveva a portata di mano la prima volta, un attrezzo semplice che gli avrebbe consentito di rimanere anonimo.
-Mi sembra plausibile – confermò la donna. –E tu, Rossi, che ne pensi?
-Se fosse così, forse il negozio si trova nella zona sicura. Se è un supermercato, può darsi che venda giornali, per tenersi aggiornato sulle indagini, oppure profilattici. Dev’essere così che incontra le vittime.
-Oppure è il fornitore degli alberghi che gesticono il giro – ipotizzò Eva. –Magari è da lui che comprano generi alimentari, o quello che vende.
-Può essere – confermò Emily. –La cosa si fa interessante. Inoltre, il lavoro anonimo che fa potrebbe essere causa della sua frustrazione. Una “castrazione sociale”.
-L’individuo che cerchiamo è un megalomane – confermò Rossi. –Facile che sia il proprietario. Chiederò a Garcia di fare un controllo: piccoli proprietari di negozi con precdenti penali che vendano coltelli da cucina con prezzi alti e insegne luminose.
-Guardando il posto non sarà facile. È pieno, qui – constatò Emily, delusa.
Rossi alzò le spalle. –Vedremo cosa ne viene fuori. Derek?
La donna parve risquotersi. –Oh, è qui con me. Sta parlando con Laure Dawson, è appena arrivata. Pare che ci sia una via secondaria per accedere al vicolo senza essere visti. Probabilmente l’ha usata anche l’S.I.
-Bene. Mi raccomando, fateci sapere. Noi stiamo tornando in centrale.
-Certo. A dopo – disse. Poi chiuse la comunicazione.
L’agente Rossi la guardò con un sorriso compiaciuto in volto, come se fosse fiero di lei. –Complimenti per prima. Non mi sarebbe mai venuto in mente.
Eva arrossì un po’, per quanto si sforzasse di mantenere un colorito normale. Erano anni che nessuno le faceva un complimento, né un apprezzamento gentile. Quell’uomo  era sì un abile latin lover, ma anche onesto quando si trattava di dare meriti. Quindi, ricevere un apprezzamento da lui voleva dire esserselo meritato, e la cosa la esaltava e impauriva al tempo stesso.
-Grazie. Come dire, è il mio lavoro.
L’uomo sorrise. –Oh, vedo che la frase di rito ha dato sin da subito i propri effetti!
-La dite spesso? – chiese Eva.
Finalmente, arrivarono davanti al parcheggio della centrale, dove alcune macchine della polizia erano fermate davanti all’ingresso. Un ragazzo in manette, tatuato dalla testa ai piedi, stava vendendo portato all’interno.
-Ogni volta che qualcuno parla della nostra bravura – disse Rossi. Spense il motore e scese dall’auto, chiudendo lo sportello.
La ragazza lo seguì dentro all’edificio, dove incontrarono lo sceriffo, all’ingresso. Teneva in mano un paio di fogli dall’aria ufficiale e li stava scrutando, torvo.
-Buongiorno, sceriffo – salutarono.
-Ah, buongiorno- disse, distrattamente. –Ho qui l’esame tossicologico delle vittime. L’avevate richiesto, giusto?
Rossi, con un cenno, incoraggiò Eva a parlare. Lui rimase fermo immobile anche quando l’altro porse loro i documenti, così toccò alla ragazza prenderli; era un test, sicuramente: forse pensava che una ragazza gentile l’avrebbe reso meno scontroso nei loro confronti, ma Eva aveva seri dubbi in proposito.
-Certo, la ringrazio. Le hanno riferito nulla? – domandò, cortesemente.
-No, li ho solo sfogliati. Le ragazze sono state stordite con una comune droga da stupro, in minime dosi. Sulla seconda è stato impossibile capirne di più a causa di una forte dipendenza da acidi.
-Lei crede che sia stata ugualmente drogata? – gli si rivolse con garbo, e un leggero sorriso. Sapeva come doveva apparire: la ragazza per bene, che domanda con sincero interesse e rende partecipe chiunque sia qualificato alle indagini come per dare importanza al singolo individuo.
Solo che lo sceriffo ci cascò in pieno: sembrò rilassarsi vedendo di essere stato preso in conderazione.
-Sì – borbottò. –Credo che l’abbia fatto con tutte.
-Grazie mille. Quando vuole, la aggiorneremo sulle ultime teorie. Arrivederci.
Detto questo, girò sui tacchi e si incamminò a passo sicuro verso il luogo dove avevano adibito il loro quartier generale. Sapeva benissimo dove stava guardando lo sceriffo in quel preciso istante: i suoi fianchi si muovevano con il dolce ritmo del suo passo marziale, e grazie ai tacchi il fondoschiena appariva teso sotto alla gonna scura come se fosse appena uscita da una palestra.
Questa cosa le mise lo stomaco in subbuglio, ma si costrinse a rimanere salda nel proposito di superare il test. Solo quando arrivò davanti alle porte a vetri, potè notare lo sguardo soddisfatto di Rossi che le sorrideva paternamente. Eva cercò di mascherare quanto questa prova l’avesse scossa e di come odiasse esporsi a quel modo, ma d’altra parte non era colpa dell’uomo: era stata lei che aveva disperatamente chiesto a Hotch di non dire nulla, e lui era stato di parola. Tutto qui.
Reid, dall’altra parte delle porte, li stava osservando. Aveva visto tutta la scena, e a lui non era affatto sfuggita l’espressione disgustata della ragazza. Una morsa lo attanagliò all’altezza delle viscere, ma non proferì parola: sapeva benissimo che ad Eva poteva dare fastidio una sua intromissione, e le aveva promesso di non intervenire. Le mancava così tanto…
-Ci sono novità – esordì Rossi, entrando.
-Anche noi ne abbiamo – rispose JJ, posando il cellulare sul tavolo. –Al posto di blocco nord della città è stato fermato un sospetto con corde, fil di ferro e un passaporto fasullo.
L’agente alzò un sopracciglio: - È il nostro uomo?
La donna si fece seria. –Aveva una prostituta minorenne seduta sul sedile del passeggero. Incinta. E con una pistola puntata alla testa.    

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Capitolo 9
*** Amicizie ristabilite ***


Eva era letteralmente scappata da lì. Reid non riusciva a capire: avevano appena arrestato un killer potenziale, con una vittima in auto e lei non voleva assistere all’interrogatorio? Assurdo. In fondo, quello era il suo primo caso; era stato anche merito suo se erano arrivati ad un arresto.
Quando vide che si stava dirigendo verso i bagni, capì. Il suo istinto si accese come un allarme; non aveva mai fatto affidamento su quello che gli diceva il cuore, ma aveva sempre e solo ascoltato il cervello. Forse era ora di smetterla, visto che non tutte le sue scelte si erano rivelate esatte.
Per questo non ebbe nessuna esitazione nell’aprire la porta del bagno femminile e di non sentirsi fuori luogo nemmeno per un istante: aveva notato che Eva non stava bene ed era deciso a capire perché.
Come temeva, aveva terribilmente ragione. La ragazza era chinata sul water e stava vomitando.
-Eva! – esclamò. Chiuse a chiave la porta dietro di sé. Non voleva turbarla ancora di più.
Lei tossì, e cercò di voltarsi. Sussurrò il suo nome, ma fu scossa da un altro conato, che la costrinse a piegarsi ancora, con un singulto.
In un attimo di lucidità, agguantò un asciugamano pulito e si precipitò da lei: si inginocchiò al suo fianco e si permise di metterle una mano sulla schiena.
Lei stava cercando di riprendere fiato, spostandosi i capelli dietro le orecchie e pulendosi gli occhi lacrimanti con le dita, cercando di recuperare un contegno. Boccheggiò e dovette chinarsi sulla tazza ancora una volta, ma dopo il suo stomaco sembrò calmarsi, e lei tenne la testa abbassata per qualche altro secondo, come per capire se era il caso di rimettersi in piedi oppure continuare ad essere prudenti. Optò per la prima ipotesi.
-Grazie – gracchiò, accettando l’asciugamano che il ragazzo le porse.
-S…stai bene? – domandò lui.
Eva, il viso arrossato e gli occhi lucidi, lo guardò con un sopracciglio sollevato. Sospirò. –No, non esattamente.
Da anni aveva imparato ormai che il concetto di Reid di “salute” non poteva essere reso evidente se non dopo la domanda di rito. Anche con un proiettile nello stomaco, se si avesse risposto che era tutto ok, il ragazzo si sarebbe sentito rincuorato.
Con uno sbuffo sconsolato rivolto principalmente a sé stessa, si appoggiò alla parete piastrellata, portandosi le mani alle tempie dopo essersi asciugata la bocca.
-Mi sento uno schifo – ammise.
Il ragazzo non ebbe il coraggio di guardarla negli occhi. –Anch’io.
-Davvero? – chiese.
-Sì…non mento su certe cose.
Eva sorrise, piano. –Lo so, ti conosco.
Si accorse solo dopo dell’amarezza che pervase quella semplice frase: in fondo era vero, lo conosceva, ma non poteva sapere tutto quello che era avvenuto dopo i suoi sedici anni d’età, e ora ne avevano quasi trenta! Il che significava che poteva essersi trasformato in qualcuno di completamente diverso dallo Spence che ricordava, lasciandola di nuovo sola e sperduta in mezzo a visi sconosciuti.
-Ti…ti va di parlarne? – provò a chiedere Reid, timidamente. Aveva quasi paura della risposta.
La verità era che si sentiva in colpa, terribilmente in colpa. In fondo, era stato lui ad abbandonarla al proprio destino, senza neppure interessarsi di come stesse, di dove si trovasse o cosa facesse. Se ora stava male, lui non aveva nessun diritto di chiederle nemmeno come stava, visto che non si era fatto vivo proprio quando ne aveva bisogno.
Nel frattempo, lei aveva distolto lo sguardo. Sembrava stanca, pallida e provata. Quella mattina l’aveva vista decisamente più in forma, ma ora la bocca piegava all’ingiù e i suoi occhi erano nostalgici e arrossati.
Dalla posa sembrava essersi chiusa a riccio. Evidentemente, non aveva intenzione di dire nulla.
-È una storia davvero…complicata – spiegò. –E non so nemmeno se ne valga la pena ricordarla.
-Come…come vuoi – mormorò il ragazzo. Anche se era perfettamente consapevole di quanto fosse sciocco preoccuparsi di simili cose, si sentì comunque vagamente deluso dal fatto che lei avesse smesso di confidarsi con lui.
Eva, dal canto suo, sentiva come una sorta di blocco fisico all’altezza della gola, come un nodo o una fascia di stoffa. Durante la sua vita aveva imparato a tenere a freno la lingua e a non far trapelare nulla, di sé, tanto che alla fine si era accorta di quanto poco rimanesse della sua vera essenza. Non se la sentiva di dare una svolta confidenziale al loro rapporto tutto d’un fiato, perché prima aveva bisogno di capire cosa davvero era rimasto dai tempi del college. Tuttavia non escludeva un’amicizia, magari meno intensa, in futuro.
Tossì ancora, temendo di dover vomitare di nuovo. Reid si drizzò a sedere con espressione preoccupata, ma lei gli fece cenno che era tutto a posto. Non credeva che un semplice sculettare avrebbe portato una così vivida serie di ricordi.
-Sai – esordì il ragazzo, schiarendosi la voce, - prima ho parlato con JJ. Dice che sembri una brava agente.
-Oh… - rispose, sinceramente sorpresa. –Ne sono lusingata…non è facile ricevere complimenti durante il primo giorno di lavoro.
-Si domanda dove tu possa aver studiato – sussurrò lui, guardando a terra. Sembrava smarrito, e indifeso. –Se lo domandano tutti.
“Tranne Hotch”, pensò amaramente la ragazza, ma non disse niente. Non aveva senso farlo sentire ancora più solo di quello che era in realtà, sarebbe stato crudele da parte sua. Decise di tacere, evitando di fissarlo direttamente negli occhi.
-Meno ne sai, meglio è, Spence – lo ammonì, con voce stanca. Aveva usato il vecchio nomignolo quasi incosciamente, perché nonostante tutto lui era ancora una delle poche figure amichevoli della sua vita, e il suo ricordo non era mai realmente sbiadito del tutto.
In fondo, non poteva fargli una colpa della lontananza che era intercorsa fra loro. Insomma, fra università, una madre complicata da gestire e chissà cos’altro, lei avrebbe dovuto aspettarsi di passare in secondo piano. Se era stato così difficile da accettare, era solo perché lui era importante per Eva, ma a quanto pareva la stessa cosa non valeva per entrambi.
Il solo pensiero di essere stata sacrificabile per altri scopi l’aveva fatta vacillare più di ogni altro sopruso. Perché se gli altri avevano usato la carne per farle del male, lui aveva utilizzato l’amore.
-D’accordo…i…io non volevo – farfugliò.
Con un sospiro, Eva lo interruppe: -Ho frequentato le scuole in Italia. Sono tornata in America prima di finire la specializzazione; negli USA ho seguito un corso serale per cercare di dare un senso agli studi interrotti, ma non ho avuto il tempo di portare a termine nemmeno quello.
-E tutto questo per quasi vent’anni? – chiese, con un velato e triste sorriso.
La giovane scosse la testa. –No. Ma questa è l’unica cosa che non fa male raccontare.
Questa frase fece molto più male di una verità completa ed esaustiva, perché comunque aveva lasciato intendere quanto dura e cruda fosse stata la sua vita e, a causa della mancanza di dettagli, la mente di Reid aveva subito preso a galoppare a briglia sciolta.
In poche parole, tutto ciò che aveva dovuto subire poteva riassumersi in questo: un passato che è preferibile obliare completamente, il quale è così abominevole da non essere degno di un giusto ricordo, e l’unica consolazione era giunta dalla sezione di cadaveri putrefatti.
Il dottore deglutì. Aveva capito una minima parte di quello che lei aveva lasciato intendere, ma di certo non poteva sapere che anche solo qualsiasi deduzione non poteva che essere un pallido e fioco spettro di ciò che Eva aveva davvero dovuto sopportare.
-Sai… - disse la ragazza, ad un certo punto, -… non sono sicura di voler rimanere nella squadra.
Il dottore strabuzzò gli occhi, senza capire: -Perché?
Eva alzò le spalle in segno di noncuranza, come a lasciar capire che era un dettaglio da nulla, ma non lo guardò negli occhi nemmeno una volta.
-Mah, semplicemente non credo di essere tagliata per questo lavoro – ammise. –È troppo duro, per me. Sempre a caccia di assassini, sempre in calo di amore, di riposo, di pace….ho bisogno di una vita tranquilla, di potermene stare per conto mio quando ne ho bisogno, di riuscire anche solo per un momento a… - si interruppe, per cercare le parole giuste, - … a staccare.
Spencer rimase in silenzio. L’afflizione cominciò subito a farsi strada in lui: se davvero Eva avesse deciso di andarsene dal suo nuovo lavoro, per altro conquistato con molta fatica, allora avrebbe significato che il debole e fragile contatto appena recuperato si sarebbe spezzato di nuovo.
Reid aveva avuto prova di cosa la lontananza potesse fare a loro due; era stato devastante poterla rivedere dopo tutti quegli anni e non poter nemmeno parlarle, esprimerle quanto gli fosse mancata a causa della propria stupidità. Si sentì quasi spezzare a metà per il senso di incompletezza. Aveva quasi raggiunto il proprio obiettivo e ora ecco che tutto gli sfuggiva via dalle mani, un’ennesima volta.
-Capisco cosa intendi dire – mormorò, abbassando la testa.
Vedendolo così rattristato, Eva si intenerì: -Su, non fare quella faccia! Me ne vado dalla squadra, è vero, ma non c’è ancora nulla di deciso. Può darsi che alla fine di questo caso io cambi idea, in fondo lavoro qui da due soli giorni!
-Sembra passata un’eternità – osservò Spencer, sempre a capo chino.
-In effetti è così – concordò Eva, dolcemente, - ma comunque vadano le cose, sappi che non mi allontanerò poi molto. All’inizio, la Strauss mi fece scegliere fra due opzioni: la squadra di profiler più rinomata al mondo, oppure un grigio obitorio di periferia. Posso sempre chiederle se la seconda è ancora valida.
Ci fu un istante di silenzio, durante il quale la ragazza recuperò un po’ di colore sulle guance. Si sentì un po’ meglio, anche grazie al piccolo riavvicinamento avuto con il suo vecchio amico. Le era mancato tantissimo durante la loro separazione, e in cuor suo aveva sperato davvero di riuscire a mettere da parte l’orgoglio.
-Allora… - disse, incerto, - … se vuoi andartene non è colpa mia, vero?
Eva lo guardò per una frazione di secondo, intensamente. Poi scoppiò a ridere.
-Oddio, Spence, certo che hai proprio un masochismo contorto! – esclamò, improvvisamente divertita. Lui arrossì.
Non vedendolo ancora del tutto convinto e ben poco partecipante alla sua ilarità, Eva decise di giocarsi l’ultima carta: -Prendi un foglio e una penna, se non mi credi; ti darò il mio indirizzo, stai tranquillo.
-Non serve scriverlo, me lo ricordo – puntualizzò il ragazzo, raddrizzandosi, - perché io ho un…
- …a memoria eidetica – concluse Eva. –Lo so, lo so.
Questo non contribuì di certo a far tornare il ragazzo di un colorito normale, tuttavia lo fece sentire a casa. Come al solito, con Eva si sentiva al sicuro, a proprio agio, e non aveva minimamente bisogno di trattenersi o fingere; con lei poteva essere sé stesso, fino alla fine.
La ragazza, appoggiandosi meglio al muro, pronunciò l’indirizzo, premurandosi di specificare il palazzo e il numero civico. Spencer fece una smorfia, che si trasformò in una sincera sopresa.
-Hey, ma è lo stesso posto dove abito io! – esclamò.
Eva lo fissò. –Cosa?
Il ragazzo ripetè la via per filo e per segno, con tanto di breve spiegazione di come arrivarci giusto per essere matematicamente sicuro di non essersi sbagliato, cosa per altro impossibile, e dovettero entrambi concordare che stavano parlando dello stesso posto. Ad un tratto, gli occhi di lei si illuminarono di comprensione.
-Ah, ma allora eri tu il ragazzo schivo, timido e un po’ gay descritto dalla signora Portland!
Spencer storse il naso, ma decise non dire niente. Dunque era così che quella signora un po’ strana lo vedeva?
-Caspita – commentò la ragazza, - è incredibile. Pensavo di essere l’unica disperata ad aver bisogno di un appartamento così. Come mai hai scelto un posto del genere?
La domanda era così pregna di sincero interesse che il giovane non poté fare a meno di domandarsi cosa ci fosse di strano in quel condominio. Certo, i prezzi degli affitti erano molto bassi per un motivo specifico, e come zona residenziale non era un granchè, però vivendo nello stesso piano di un idraulico non aveva difficoltà a farsi otturare tutte le perdite che gocciolavano dal soffitto, né nel sistemare il lavandino che aveva sempre qualche bullone fuori posto.
Ovviamente non si trattava di una struttura particolarmente chic, ma era molto vicina alla stazione della metro e anche al centro, in modo da garantire una certa comodità negli spostamenti. Come se non bastasse, il suo ristorante indiano preferito era giusto dietro l’angolo, in modo che nelle serate di ritorno da un caso difficile non doveva nemmeno fare la fatica di mettersi in macchina per un pasto caldo degno di questo nome.
Spencer stava per accingersi a spiegare questa serie di ottimi motivi alla ragazza, ma venne interrotto con un gesto di mano. Eva si era messa in ascolto, drizzandosi a sedere in modo composto. Poco dopo, un discreto bussare alla porta annunciò la voce di JJ:
-Eva? Tutto bene? – chiese discretamente.
-Ehm… certo – rispose la ragazza, lanciando un’occhiata incerta a Reid. –Adesso esco, non preoccuparti.
-D…d’accordo – continuò la donna. –Hotch vuole che tu faccia l’interrogatorio con lui.
La nuova agente deglutì. –Splendido. Mi do una rinfrescata e sono da voi.
-Ok… - disse JJ, incerta. Poi sentirono il rumore dei suoi passi percorrere il corridoio a ritroso.
Tornata la calma, la ragazza si ricompose con estrema velocità: si alzò in piedi, sistemò i capelli in una coda alta e si rinfrescò brevemente, asciugandosi il viso con rapidi gesti.
-Sarà meglio che esca prima io – commentò, - e che tu aspetti cinque minuti. Sai com’è, non tutti potrebbero capire la tua presenza nel bagno delle donne.
Spencer balbettò qualcosa in risposta, magari l’embrione di un’affermazione, ma la ragazza era già uscita. Alzandosi di scatto, si assicurò che la porta restasse ben chiusa per almeno cinque minuti: dovette concordare con la collega, infatti, sul fatto che la sua presenza lì era decisamente fuori dal comune.
 
*
 
Hotch sembrava davvero seccato. Stava parlando al telefono quando Eva tornò nella stanza, e chiuse la comunicazione non appena la vide arrivare.
La ragazza, non abituata a gestire gli umori del capo squadra, cercò aiuto con lo sguardo verso Rossi, ovvero colui che le sembrava il più abile nel placare Hotch, tuttavia l’uomo la contraccambiò solo con un’occhiata curiosa e, forse, diffidente. La stavano analizzando, tutti. Guardandosi intorno, si rese conto di essere sotto esame.
Per un attimo fu presa dal panico, poiché il pensiero che qualcuno avesse potuto spifferare anche solo parte di ciò che aveva dovuto subire le faceva venire la nausea, ma si costrinse a restare eretta e fiera in mezzo a loro, per cercare di capire cosa diavolo stesse succedendo.
-Eva – disse Hotch, severamente, - una prostituta minorenne e incinta chiede di te.
Sollevò un sopracciglio, con una pausa ad effetto. –Come lo spieghi?
L’agente spalancò gli occhi, allibita. –Cosa? – balbettò.
Il capo si scambiò una breve occhiata con Morgan, prima di tornare a concentrarsi su di lei.
-Ammetti di non saperne niente?
La ragazza scosse la testa, stavolta con una certa amarezza. –Al contrario…ne so fin troppo.
Alzò lo sguardo e lo puntò dritto negli occhi di Hotch: -E lei dovrebbe saperlo. Fa tutto parte di quello che sa su di me, signore.
I due si squadrarono per qualche secondo che parve infinito. Ovviamente un possibile coinvolgimento in un caso di omicidio plurimo, con aggravante di rapimento e vilipendio di cadavere assieme ad una buona dose di guai con la buoncostume, la stessa che aveva precedentemente trattato il suo caso, non poteva certo far brillare la sua carriera appena iniziata all’FBI, e in quella stanza ognuno ne era cosciente.
D’altra parte, l’oscurità sul passato della nuova agente aveva destato parecchio stupore, visto che aveva cominciato a lavorare per l’unità solo il giorno prima.
Un sospiro impercettibile scappò dalle labbra severe di Hotch, ma la sua espressione non mutò di una virgola. Con tono stanco, le disse, spostandosi leggermente: - Lì c’è una ragazza che si fa chiamare “Kimberly”. È lei che sostiene di conoscerti.
Eva sbirciò nella direzione dove il braccio di Hotch puntava, e scorse un’adolescente sprofondata scompostamente su una sedia nella stanza grigia degli interrogatori. La prima cosa a colpirla fu il disordine e la trasendatezza del suo aspetto: i capelli ricci, crespi e rossicci formavano una nuvola che le cadeva sulle spalle magre, mentre la pelle pallida e lentigginosa era a stento coperta da degli abiti parecchio succinti ricoperti di lustrini cremisi. Il ventre visibilmente arrotondato lasciava indovinare un’avanzata gravidanza mentre, disposti in file nutrite, braccialetti, collanine, pendagli, cavigliere e sonagli penzolavano inerti e silenziosi dai suoi polsi, o dal collo magro, o dalle caviglie che spuntavano dalle scarpe esageratamente alte.
C’era qualcosa nell’espressione annoiata della cosidetta “Kimberly” che destò il suo interesse. I tratti erano dolci, molto femminili e incrostati di trucco vecchio di giorni. A causa delle lacrime da poco versate, rigagnoli di mascara colato le imbrattavano le guance magre, e gli occhi vacui stavano fissando lo smalto mangiucchiato delle unghie.
Stranamente, si ricordò di lei grazie alla borsetta: era la stessa, o almeno una dolorosamente simile, che portava la prima volta che l’aveva vista.
Eva strabuzzò gli occhi, ma decise di mantenere un contegno. Ogni singolo agente lì presente stava aspettando, palpitante, una sua reazione.
-Si chiama Tracy – disse, senza nessun’ombra di incertezza, - Tracy Chamberlain.
-Sentito, Gracia? – sussurrò discretamente Emily, sollevando davanti alla bocca un cellulare acceso. Un mormorio metallico rispose alla domanda, prima che la donna rimettesse via l’apparecchio. La ragazza non si era nemmeno accorta, nel frattempo, che la donna ce l’avesse sempre avuto in mano.
-Ho bisogno di chiarimenti in merito alle origini della vostra conoscenza – disse Hotch, abbastanza severamente. –Anche in privato – aggiunse poi.
Eva non rispose. Rivedere quella ragazza dopo così tanto tempo, e scoprirla viva nonostante tutto, la fece sentire strana; da un lato sollevata, poiché le si era affezionata, mentre dall’altro terrorizzata. Faceva pur sempre parte di un periodo che stava cercando di dimenticare.
-Devo parlarle, prima – sussurrò l’agente, fissando il vetro.
In quell’esatto momento, notò che la porta dietro di lei si era aperta e che vi era comparso Reid, che si schiarì immediatamente la voce con un moto di imbarazzo. Nessuno fece caso a lui e, notando tutte quelle facce serie, si mise in un angolo con un mortale pallore, prima di fissare insistentemente la schiena dell’amica che aveva appena recuperato.
Ci fu un attimo di indeciso silenzio, poi Hotch diede la sua opinione: -Non più di dieci minuti con Morgan come assistenza.
-Non puoi senza sapere cos’è successo, Hotch! – ribattè l’interessato.
Il capo lo placò con un gesto della mano, parlando abbassando la voce di un tono: -Lo so, Morgan, lo so.
A quest’affermazione, l’agente di colore si bloccò. Strinse gli occhi a fessura, ma non disse niente. Rossi fissò il collega di un tempo negli occhi, come per voler capire cosa quella frase realmente significasse, ma Hotch si ritrasse, voltandosi verso la stanza. La ragazza, immobile, stava ancora guardando le proprie mani.
-D’accordo – cedette Derek, sotto voce. Un istante dopo, Eva era già uscita dalla porta per fare il suo ingresso nella stanza attigua, con il cuore a mille.
Sentendo un movimento alle proprie spalle, Tracy si voltò immediatamente, come se fosse stata punta; non sembrò realizzare subito cosa vide, ma non appena riconobbe la figura che aveva espressamente chiesto di vedere, sorrise leggermente, con una malcelata soddisfazione.
-Lo sapevo – disse, a mo’ di benvenuto, - sapevo che saresti sopravvissuta, Eva.

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Capitolo 10
*** Tracy ***


Un silenzio di piombo cadde nella stanza.
Tracy continuava a fissare con una sorta di strana gioia negli occhi i nuovi arrivati, che non avevano il coraggio di muoversi. Ovviamente, a paralizzarli erano dei motivi differenti: Eva aveva accolto quella voce roca come un eco del passato, il sussurro di un morto che esce dalla propria tomba, mentre Morgan, vedendo lo sgomento e il pallore della collega, non sapeva come agire poiché i suoi ordini erano stati molto imprecisi.
Alla fine, fu lui a prendere l’iniziativa. Prese lentamente posto davanti alla giovane ragazza e aprì un fascicolo, ignorando l’uscita di poco prima. Eva, immobile, assisteva alla scena rintanata in un angolo.
-Guarda – disse Emily, pensierosa, avvicinandosi al vetro: -Sembra che abbia visto uno spettro.
-È vero – intervenne pacatamente Rossi, - ma sono sicuro che Tracy non ne è la diretta responsabile.
-Credi… - cominciò JJ, iniziando a dare l’incipit a parole dei timori di tutti, - … credi che sia coinvolta in questa storia?
Dal momento che nella stanza non volò una mosca, e il silenzio si spargeva anche nella sala interrogatori, la donna continuò con il proprio ragionamento procedendo con estrema cautela: -Insomma, voglio dire…pressioni dall’alto affinchè si unisca alla squadra proprio per questo caso, totale oscurità sul suo passato, nemmeno una presentazione… dico solo che è un po’ strano.
-Non è implicata negli omicidi – tagliò corto Hotch.
-Questo interrogatorio chiarirà molte cose, non è vero? – osservò Emily, con studiata lentezza.
Il capo si limitò ad annuire, facendosi attento agli sviluppi che si stavano alternando davanti ai suoi occhi.
Nel frattempo, Morgan aveva iniziato ad annotare le generalità della ragazza, per confrontarle con i dati appresi durante la pausa da Garcia. La signorina si chiamava davvero Tracy Chamberlain, nata a Bergen il 15 giugno 1996, rimasta orfana all’età di otto anni.
Il resto fu una lettura con voce atona di tutti i piccoli crimini commessi dalla ragazza nell’arco della sua giovane vita e, con un’indifferente sicurezza, lei li confermò tutti quanti, dal primo all’ultimo. Si trattava di reati minori facilmente collegabili al circolo della prostituzione che erano stati già scontati nel riformatorio della città. Nulla di sufficientemente interessante per causare una pena vera e propria.
-Allora, Tracy – disse Morgan, stancamente, - conoscevi il tuo rapitore?
Hotch, dall’altra parte del vetro, fece una smorfia di disapprovazione: non bisognava mai avere un atteggiamento così diretto nei confronti della vittima di un trauma, soprattutto se si vogliono ottenere delle dichiarazioni accurate. Era necessario, e l’agente lo sapeva bene, farla partire dall’inizio, raccontando anche il dettaglio più insignificante che però poteva essere utile alla cattura del vero killer.
Ai presenti, infatti, sembrava ormai quasi certo che l’uomo catturato non era il loro S.I.
La ragazzina, intanto, deglutì sonoramente: -Sì.
-Sai dirci come si chiama? – chiese lui ancora.
-Paul Smith. Fa il fattorino – disse la ragazzina.
Morgan alzò lo sguardo, e la guardò per un attimo. –Potresti descriverlo un attimo? Carattere, il modo in cui l’hai conosciuto, quante volte lo hai visto… - alzò con noncuranza le spalle - … cose così.
In silenzio, Emily approvò quella tattica: quando si aveva a che fare con testimoni molto giovani, trattare la confessione come qualcosa di poco conto, dall’importanza ridotta, faceva sentire chi aveva subito un crimine molto più a proprio agio.
Fu quello che accadde. Mentre Eva prese posto, la ragazza prese a cercare dettagli nella propria memoria al fine di essere il più accurata possibile.
-Allora… ehm… la prima volta che lo vidi era in strada, qualche anno fa. Cercava compagnia. Il giorno dopo Pat, la ragazza con cui era andato, mi disse di evitarlo, perché si arrabbiava facilmente. Da allora ho cambiato quartiere, ma è diventato mio cliente lo stesso. Si comportava bene, ma era maniaco di un sacco di cose.
Morgan si fece interessato: -Che tipo di cose?
Tracy alzò le spalle. –Io e la stanza dovevamo essere pulite, in ordine. Dovevamo profumare di lavanda, quello era obbligatorio… delle volte il profumo me lo dava lui. Delle altre, portava delle parrucche bionde di varie misure, e insisteva che me le mettessi. E poi il peso.
-Il peso? – chiese Eva, disgustata dal fatto che la ragazza e una camera di motel fossero considerate più o meno con lo stesso valore.
Tracy annuì, guardandola appena. –Sì. Se ingrassavo o dimagrivo se ne accorgeva subito, e mi sgridava. Da quando sono rimasta incinta abbiamo smesso di vederci: non gli andavo più bene. 
-E… - continuò Morgan, con esitazione minima nella voce, - … ha mai aggredito seriamente qualcuna di voi? In strada, negli alberghi… nei vicoli.
Tracy annuì di nuovo, deglutendo per la seconda volta
-È successo la scorsa primavera. Robin, una mia amica, era dimagrita moltissimo in quel periodo. Era…rimasta incinta anche lei, ma non le avevano lasciato tenere il bambino. È stata dura fargliela passare.
-E Robin era una delle ragazze frequentate da Smith? – chiese ancora.
-Sì. Piuttosto abitualmente. Quando le ha visto le costole, ha cominciato a gridare, o almeno così mi ha raccontato. Poi l’ha colpita, più di una volta, con un coltello a serramanico; non l’ha uccisa per un pelo.
-Come mai non avete denunciato il fatto?
La ragazzina rise, con un suono aspro. –Lei dovrebbe sapere che questo genere di incidenti sono all’ordine del giorno, agente. E la buoncostume non guarda in faccia nessuno, nemmeno una donna agonizzante, quando si tratta di arresti.
Morgan sollevò appena le sopracciglia, sorpreso, ma la sua espressione ridivenne una maschera subito dopo. Il trucco da lui usato era servito per vedere se l’interrogata stesse dicendo o meno la verità: ovviamente una prostituta non poteva concedersi il lusso di una denuncia, soprattutto con un protettore violento alle spalle.
Eva osservò con una sorta di smarrimento gli occhi vacui e vagamente annoiati della ragazza. Aveva uno sguardo così disilluso da far male; la tipica occhiata che solo le persone anziane reduci da una vita di amarezze potevano concedersi.
-Cos’è successo stamattina, Tracy? – intervenne Eva, per la prima volta da quando l’interrogatorio era cominciato. Se avesse detto “tesoro” invece del suo nome, il tono avrebbe avuto lo stesso suono dolce e rassicurante.
L’interessata la fissò dritta negli occhi, senza ostilità. Parlò con voce ferma.
-Paul venne stamattina dal pappa della zona, Glenn. Nessuno sa il suo cognome. Gli disse di aver bisogno urgentemente di una ragazza, ma a quell’ora era praticamente impossibile: erano finiti i turni già da un bel pezzo.
Come Eva aveva precedentemente spiegato alla squadra, durante un momento di apparente calma, le prostitute lavoravano solo in determinate ore del giorno. Ognuna aveva degli orari differenziati, ma in genere si cominciava dalle nove di sera per terminare, nei casi fortunati, alle cinque della mattina. Le ore che intercorrevano fra quelle “lavorative” erano inviolabili, e servivano alle ragazze per riposarsi e dormire.
-La richiesta – continuò Tracy, con marziale precisione, - gli era sembrata molto strana, visto che aveva appena finito una serata con Regina, che ancora non si era vista. Per questo Glenn si è insospettito, e l’ha cacciato via dallo studio in malo modo.
-Come mai tu hai assistito? – volle sapere Morgan.
-Giorno di paga – disse, con un vago sorriso, prima di continuare il racconto.
-Comunque, Paul sembrava davvero molto nervoso. Tremava, non l’avevo mai visto così. Ha cominciato a dire cose senza senso, a minacciare Glenn e a parlare di “necessità”, “cose che lui non poteva controllare”. Ha tirato fuori una pistola; neppure Glenn era disarmato, ma non voleva problemi: era uscito da poco per possesso di stupefacenti, e non voleva tornare dentro.
Fece una piccola pausa.
-Il resto è successo in fretta. Glenn ha alzato le mani, ma Paul è stato più veloce: mi ha afferrata per un braccio e mi ha puntato la canna alla tempia, dicendo che io potevo andare bene lo stesso. Glenn ha cercato di fermarlo, ma ormai mi aveva già trascinata giù e caricata in macchina. Anche lì dentro continuava a tenermi sotto tiro e a blaterare, ma non lo stavo ascoltando. Urlavo; poi alla fine è stato fermato e… - si strinse nelle spalle, -… e il resto lo sapete.
-Grazie, Tracy – disse Eva, sorridendo. Sembrava un po’ abbattuta, come se si fosse appena trovata sull’orlo di una crisi di nervi.
La ragazza spostò di nuovo l’attenzione su di lei, senza dire niente. La guardava, la scrutava, ma senza accenni di astio. Era semplice curiosità. Le sorrise, ma sembrò solo una smorfia vuota, vista la concentrazione che usava per continuare ad analizzare il suo volto.
-Chi è il padre del bambino, Tracy? – chiese Morgan, a bassa voce, interrompendo la scena.
A malincuore, la ragazzina spostò la propria attenzione su di lui. Sembrava fosse diventata più pallida.
-Glenn – mormorò, in un soffio.
Dall’altra parte del vetro, Prentiss sospirò, e Rossi scosse leggermente il capo. Forse un “non lo so” sarebbe suonato meglio: avere come madre una prostituta minorenne e come padre un protettore tossicodipendente ed ex galeotto non assicurava un futuro luminoso.
 -E lui lo sa? – continuò Derek, con delicatezza.
-No! – esclamò, trafelata, la ragazzina. Poi abbassò il tono: -No. No, e non deve saperlo per nulla al mondo.
Scosse la testa, improvvisamente spaventata. –Non sapete cosa sarebbe capace di farmi, se lo sapesse.
-D’accordo, d’accordo – assicurò l’agente. –Quest’informazione non uscirà di qui, promesso.
-Promesso – ribadì Eva.
-Adesso – disse Morgan, spingendo improvvisamente verso la ragazza un block notes con fogli gialli e una matita, - dovrai scrivere qui sopra tutto quello che hai appena detto. Più cose ti ricordi, meglio è. Questa sarà la tua versione ufficiale… se non te la senti, lo faremo dopo.
  Tracy annuì. Sembrava molto più fragile rispetto a prima, e aveva cominciato a giocherellare nervosamente con uno dei suoi molti braccialetti.
-Posso avere un po’ d’acqua? – chiese, con un filo di voce.
-Naturalmente – si affrettò a rassicurarla l’uomo, facendo un cenno oltre il vetro perché si adoperassero a portargliela.
Hotch, rianimandosi dopo una completa immobilità, incrociò le braccia e corrugò le sopracciglia.
-Paul Smith? – chiese solo, con voce tetra.
-Garcia sta già controllando. Mi ha detto che avrebbe inviato i risultati entro un paio di minuti – disse Prentiss.
-Direi di spostare la nostra attenzione su di lui, adesso – suggerì Rossi, - visto che la ragazza non sa dire nient’altro. Può benissimo darsi che Smith sia implicato, magari persino materialmente, ma la mente è qualcun altro.
-Come fai a dirlo con certezza? – volle sapere JJ.
L’uomo più anziano alzò le spalle. –Intelligenza media, crollo emotivo, era conosciuto da tutti nel quartiere ed era facilmente identificabile. Non è uno che vive nell’ombra come il nostro S.I., non ha le capacità necessarie per fare quello che l’altro ha fatto fino in fondo, ed è troppo disorganizzato; la sua arma è la pistola, non il coltello. E sarebbe seriamente capace di stuprare una donna anche senza l’uso di mezzi estranei.
-Sono tesi sufficienti – concordò Hotch, - ma dubito che ne verrà fuori qualcosa.
Detto questo, uscì dalla stanza con il cellulare già attaccato all’orecchio. Prentiss stava per dire qualcosa, ma Rossi la interruppe con un cenno.
-Lascia stare. Gli passerà.
 
*
 
 
Reid era stato l’unico a non dire niente per tutta la durata dell’interrogatorio. L’unica cosa per cui si era affrettato, ed era un dettaglio che non era stato trascurato, era stato il portare un bicchiere alla ragazzina, prima che tutti la lasciassero sola con i suoi fogli.
Tranne Morgan: avendo stabilito un contatto con lei, era rimasto al tavolo per assicurarsi che stesse bene e potesse fare l’ordine necessario nella sua testa per scrivere tutto. Non aveva nemmeno chiesto un legale, nessuno.
Eva, stremata, si era appoggiata alla parete, chiudendo gli occhi. Lampi confusi di episodi del passato le stavano torturando gli occhi, e fece di tutto per togliersi dalla testa quelle immagini lugubri.
Da ormai mezz’ora, Prentiss e Rossi erano chiusi nella stanza con quel Paul, ma il mutismo di uno e il nervosismo dell’altro prevedevano altrettanto tempo per una qualsiasi informazione. La “Regina” nominata da Tracy era stata effettivamente scomparsa, così come il fantomatico Glenn: a causa dei debiti di gioco si era volatilizzato nel giro di un paio d’ore.
-Caffè? – chiese una voce dolce vicino a lei, e questo la fece sussultare.
Era Laure Dawson. Le stava porgendo un piccolo bicchiere di plastica marrone. Con un sorriso stanco, la ragazza lo prese.
-Ho sentito che avete già interrogato la ragazza – esordì.
Eva annuì. –Giusto. Sembra che adesso abbiamo una pista su cui lavorare.
La risata della donna non si fece attendere. –Non mi sembra molto convinta.
-Sa, non sono la persona più indicata per rispondere a questo. Per me di indizi ce ne sono sempre in abbondanza, e faccio un po’ fatica ad individuare delle strade da percorrere.
L’altra annuì. –Capisco come ci si sente. Sommi questa sensazione ad essere la figlia dello sceriffo e avrà il mio lavoro di ogni giorno servito su un vassoio d’agento.
-Non dev’essere facile – osservò Eva, con una smorfia.
La donna scosse la testa: -Non lo è. Però, se si ha la passione dalla propria parte, allora anche le maldicenze possono diventare sopportabili.
La ragazza sorrise. –Lo penso anch’io.
La donna ricambiò, sorseggiando il suo caffè – macchiato, dall’odore -, e non disse più nulla. In quello stesso istante Hotch, che era scomparso, arrivò in tutta fretta nel corridoio.
-Buongiorno, signorina Dawson – salutò. Attese il cenno del capo dell’interessata prima di continuare: -Eva, prima di incontrare i singori Granger devo parlarti. Questione di dieci minuti.
-C…certo – disse. –Arrivo.
Salutò con un gesto del capo la donna, che rimase nel corridoio, e seguì il proprio capo all’interno dell’ufficio provvisorio, fissando con un leggero sgomento il tavolo ingombro di fascicoli.
-Ho bisogno di te per ri-analizzare tutte le scene del crimine – disse, passando subito al sodo.
-Cosa dobbiamo cercare, in particolare? – chiese, buttando via il resto del caffè acquoso con tanto di bicchiere.
L’uomo scosse la testa: -Qualsiasi cosa: discrepanze, uguaglianze, punti in comune…tutto.
Eva si fece più attenta. Lui aveva usato la parola discrepanze. Nel lavoro di un assassino organizzato come quello che stavano cercando non ce n’erano.
-Mi sta dicendo che sospetta la presenza di due serial killer? – interrogò, leggermente stupita.
Hotch abbassò lo sguardo su un foglio, scorrendo le righe con imparziale urgenza. Sollevò il primo foglio per concentrarsi brevemente sul secondo. Alzò lo sguardo un attimo.
-Ce n’è la possibilità.
Quella frase, come la ragazza intuì subito, era a doppio taglio: da un lato implicava una maggiore mole di lavoro e una modifica del primo profilo, nonché la creazione di una seconda e dettagliata descrizione, dall’altro anche la contraddizione con le forze dell’ordine locali che avevano fretta di chiudere il caso e lo sconvolgimento della popolazione.
-Ok… - balbettò, dopo un attimo di stupore.
“Come primo giorno oggi non è stato niente male” pensò sarcasticamente. Prese il primo fascicolo e l’occhiata vitrea della prima vittima, Elise Granger, le restituì lo sguardo. Gli schizzi di sangue erano identici a come li ricordava.
-Dimmi tutto quello che vedi – le disse Hotch.
La ragazza strinse gli occhi a fessura: -Allora… un vicolo, con doppia uscita. Affianco l’insegna di un negozio di scarpe, dall’altro lato una ferramenta. Pochi metri più indietro, l’insegna della discarica.
Prese la seconda fotografia: -Fil di ferro lasciato sul collo, numerose ferite da taglio sul torace, testa rivolta verso la strada.
Passò all’altra vittima: -Ecco la successiva. Mani incrociate sul petto, sempre nel vicolo fra due negozi, nei pressi della discarica. Fil di ferro attorno ai polsi. Numerose ferite da taglio sull’addome, vestiti sgualiciti, gonna sventrata a metà. Testa rivolta verso al muro.
Terza foto, altro sangue e corpi dilaniati.
-In questa, non è presente il fil di ferro ma ci sono tracce di legamento sui polsi, come la precedente. Lesione da arma contundente alla testa, anche qui moltissimi segni di arma da taglio sull’addome, alcune nell’area genitale. La biancheria intima è stata squarciata e buttata a terra. Testa rivolta verso la parete di uno dei due negozi del vicolo.
-Basta così – tagliò corto, evidentemente soddisfatto. –Considerazioni?
Eva rimase interdetta. Aveva immaginato che il capo volesse un’opinione da lei, ma immaginava che si trattasse di un intervento durante una riunione collettiva. Essere presa singolarmente in esame le dava una certa agitazione, poiché se diceva qualcosa di sbagliato o di impreciso ci sarebbero stati solo gli occhi freddi del suo capo a correggere lo sbaglio, e non l’opinione bonaria di Rossi o magari le osservazioni intelligenti di Prentiss.
Lei deglutì.
-Ecco… alcune vittime sono state legate, tenute ferme. Questo lascia immaginare una persona con problemi di controllo, magari con un fisico debole, o una menomazione. L’arma è la stessa in tutti gli omicidi, solo che colui che lega le vittime ha la premura di nascondersi, mentre l’altro non teme di farsi vedere. Inoltre, sulle ragazze con segni di legamento ci sono state percosse e indici di forte misogninia.
Si stupì dell’aver già cominciato a pensare come se si trattasse di due killer distinti.
-Ottimo. A mio parere, quello più disorganizzato ha cominciato gli omicidi per un impulso personale, per poi vedersi soffiata l’attenzione dal secondo S.I.
-E la questione del peso? – chiese Eva, - Le vittime si assomigliano in modo incredibile, hanno delle caratteristiche praticamente identiche.
-Essendo un infinetesimale dettaglio, forse il secondo killer manifesta il disprezzo per il primo prestando particolare attenzione anche per una cosa del genere – ipotizzò Hotch.
Entrambi si accorsero che sembrava una motivazione debole, ma era l’unica che avevano, per il momento. Eva si mise a rimuginare su quanto il capo le aveva detto, ma le sue riflessioni furono spezzate dall’arrivo improvviso nella stanza da parte di Laure Dawson. Aveva l’espressione mortalmente seria e la pelle era così pallida da farla sembrare malata.
-C’è stata un’altra vittima – esordì solamente, con una vaga traccia di accusa nella voce.
Reid, che era sopraggiunto in quel momento, divenne serio di colpo. Hotch, invece, aveva nello sguardo un’espressione del tutto neutrale, anche se preoccupata.
Eva, invece, si mise le mani nei capelli e fu presa dall’impulso di vomitare. Si sentiva come se l’avesse uccisa lei, con le sue stesse mani.  

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Capitolo 11
*** Una lunga notte ***


Tesoro, stai ferma. Non muoverti. Se provi ad urlare ti ammazzo, hai capito?

All’improvviso, nella lugubre tenebra della stanza, una luce affiorò laddove doveva esserci una porta. Faceva poca differenza, in effetti: rimanendo sempre chiusa da un pesante catenaccio, era praticamente impossibile schiodarla, e di certo un’adolescente denutrita come non sarebbe riuscita a farlo.

Smettila di scalciare, tanto è inutile! Stupida puttanella, se non la pianti subito con queste scenate ti chiuderò qui dentro per un mese, chiaro?

Anche se era in punizione, non poteva impedirsi di cercare di liberarsi. Non riconoscendosi colpevole delle colpe a lei riconosciute, le pareva che tutta quella manfrina fosse solo una grande ingiustizia per giustificare le voglie violente e sadiche del suo aguzzino.

Adesso basta! Dirò a tua madre di gettare via la chiave!

No, no… ti prego, farò la brava bambina, te lo prometto!

Vuoi che chiuda? Eh? Vuoi che chiuda?!

No! No, ti prego, no! Faccio la brava, faccio la brava!

Bene, così va bene. Vedi che sai fare la bambina ragionevole, quando vuoi?

 

Eva si svegliò di soprassalto, madida di sudore. Si portò le mani al collo, poiché le pareva di soffocare, ma lo sentì nudo ed esposto in modo rassicurante.

Chiuse gli occhi; odore di sigaro stantio e di muffa, umide chiazze sul pavimento di cemento e una lavatrice rotta in fondo alla stanza.

Persino le palpebre tremavano. Il terrore gelido stava allungando i suoi artigli sul suo corpo ancora una volta.

“Respira” si disse. “Quell’uomo non può più farti del male”.

Cautamente, riaprì gli occhi. Davanti a lei, c’era la sagoma di un comodino e quella più imponente di un armadio a due ante, mentre la lampadina nuda del bagno, penzolante dal soffitto, brillava a scatti illuminata dalla luna.

Si voltò alla sua destra, e scoprì la fonte della luce: aveva lasciato la finestra aperta. Lentamente, i ricordi del giorno prima si fecero tiepidamente strada nel suo corpo e riprese a respirare con regolarità.

“Sono a Bergen, nel New Jersey, con la squadra per cui lavoro. Stiamo cercando di risolvere un caso di omicidio plurimo e qualche ora fa le autorità locali ci hanno messo a disposizione delle camere d’albergo”.

Appreso questo, si calmò. L’ondata sconvolgente di ricordi si era presentata sottoforma di patchwork di suoni, odori, sensazioni e situazioni. Quando quell’uomo la metteva in punizione, e le veniva regolarmente a fare visita, provava la stessa sensazione terribile che aveva sperimentato nuovamente sulla propria pelle.

Era stata un’esperienza terribile anche solo da sognare di nuovo, ma era passata. Anche solo sapere di essere finalmente lontana da lui la faceva stare meglio e, per pura precauzione, si mise a regolarizzare il respiro con una tecnica yoga che aveva visto fare in TV.

La sveglia sul comodino battè le tre e mezza spaccate. Eva sospirò, massaggiandosi il collo e sapendo che non sarebbe riuscita ad addormentarsi a breve.

Non andava bene così; era da quando si era trasferita che attacchi di panico così violenti non tornavano a spaventarla, e si era goduta la rigenerante tranquillità come se fosse stata una ventata di aria fresca. Il fatto che i suoi disturbi tornassero proprio mentre era sotto pressione per il nuovo lavoro, lasciava intendere sia una causa che un problema.

La prima era sicuramente dovuta alla carica di immagini terrificanti che aveva dovuto guardare per tutto il giorno, e il secondo derivava dall’assicurata mancanza di riposo che ne sarebbe derivata, viste le sue difficoltà a dormire persino nella sua prima nottata.

Con un sospiro, si alzò dal letto e si chiuse nel bagno. Aveva bisogno di pensare. Immerse due volte le mani nell’acqua gelida del rubinetto e se le spruzzò in faccia, poi legò i capelli in una coda alta e si rassegnò davanti al bisogno di uscire.

Quella sera, quand’erano arrivati all’albergo, una cameriera anziana si stava lamentando con una più giovane del fatto che le lavanderie si trovassero all’ultimo piano, attigue al tetto; forse, con un po’ di fortuna, sarebbe riuscita ad accedere alla terrazza anche solo per un breve momento.

Era rischioso e stupido, ma d’altra parte era un agente federale (in prova) e aveva una certa autorità (una volta completati i corsi), uniti anche al rispetto che si doveva dare ad una persona che lavorava per il governo (in via informale) con una carica anche di riguardo (consulenza non specializzata in crimini generici), e sicuramente le avrebbero permesso quella piccola trasgressione.

Quel pensiero era deprimente, ma cercò di ignorarlo. Agguantò il suo distintivo piuttosto spoglio, che le permetteva solo di entrare e uscire dalla struttura senza essere arrestata, e se lo ficcò nell’ampia tasca del pigiama. Poi, con passi furtivi, uscì dalla camera d’albergo assicurandosi di essere sola.

Per motivi di praticità, tutti gli agenti avevano occupato un solo piano. La sua camera era posta fra quella di JJ e Prentiss, entrambe sfinite. Non aveva dubbi circa il fatto che fossero crollate subito dopo aver toccato le lenzuola.

Il problema principale sarebbe stato Hotch poiché, come immaginava, da sotto la sua porta brillava fiocamente una luce.

“Che sia rimasto alzato fino ad adesso per studiare il caso?” si chiese. Scartò subito l’ipotesi: con il cervello già affaticato da ore e ore di veglia sarebbe stato decisamente troppo poco produttivo mettersi lavorare in quel momento. Forse si era semplicemente dimenticato di spegnere la luce, chi lo sa.

Una volta superato con successo anche l’ultimo ostacolo, attese l’ascensore (fortunatamente attivo anche a quell’ora), e premette il pulsante per il piano più alto. Aveva ragione di credere che dalla lavanderia si accedesse direttamente al tetto, anche perché era quella l’altezza massima che il cilindro metallico potesse raggiungere.

Non dovette aspettare molto per scoprirlo, comunque: arrivò a destinazione pochi secondi dopo.

Dovette ammettere che la vista sul piano deserto un po’ la intimorì, ma non si lasciò scoraggiare; aveva sinceramente bisogno di una boccata d’aria, e non si sarebbe fermata davanti ad un interruttore rotto.

Una porta molto simile a quelle delle camere per gli ospiti annunciava l’entrata alla sala asciugatrici, ma la giovane agente passò oltre. Superò un altro paio di scritte e, aggirando quello che pareva un brusio di una caldaia, spinse la porta antincendio e si ritrovò davanti ad una scaletta in cemento che si affacciava sull’aria della notte.

Si lasciò sfuggire un’esclamazione soddisfatta e, avendo cura di lasciare aperto uno spiraglio per rientare, salì i gradini e posò i piedi nudi su una piattaforma gelida.

La dolce brezza nottura le scompigliò i capelli, e lei se ne colmò i polmoni con lenti respiri. Il freddo le schiariva le idee e la riportava alla calma anche nelle situazioni più critiche, e già sentiva i pensieri farsi ordinati in lunghe file nella sua mente, lasciandole uno spazio completamente vuoto dove trovare un attimo di pace.

Si lasciò riempire dall’ambiente deserto ad occhi chiusi, gustandosi la solitudine. Le piacevano gli ambienti privi di esseri umani, perché avevano quella rara bellezza che può essere colta solo da un paio d’occhi alla volta. Non aveva senso rinchiudersi in stanze affollatissime senza neppure riuscire a respirare; non era molto meglio rifugiarsi su di un tetto abbandonato per guardare la luna?

-Eva?! C…cosa ci fai qui?!

La magia fu spezzata con uno schiocco secco. Sobbalzando, la ragazza si ritrovò in controluce la figura alta e allampanata di Reid, appoggiato alla balaustra.

-Santo cielo! – esclamò, colta con le mani nel sacco. I battiti accellerarono come un treno in corsa.

Dovette persino riprendere fiato, e si appoggiò con i palmi sulle ginocchia per cercare di elaborare la situazione in modo razionale. Cosa non facile, viste le circostanze.

-Mi…mi hai spaventato! – lo accusò.

“Dunque è questo il risultato dei miei sforzi mentali?” si chiese, sarcastica.

-Io… non volevo, è solo che… ti ho vista sbucare all’improvviso e… - il ragazzo si crucciò, -… non è stata colpa mia, sei tu che mi hai spaventato!

Capendo che rispondere a tono non avrebbe avuto alcun senso logico, la ragazza mostrò il palmo con fare conciliante.

-D’accordo, diciamo che abbiamo entrambi preso un colpo. Ho solo bisogno di una boccata d’aria, poi torno dentro.

Reid annuì, brevemente, stringendosi le braccia attorno al petto e chiudendo le mani sotto le ascelle. Vedendolo in ombra, sembrava quasi la sagoma di uno spaventapasseri.

La ragazza si avvicinò al punto di osservazione di lui e capì il motivo di tale scelta: da quel lato c’era meno luce artificiale ed era possibile guardare con maggiore attenzione la volta stellata sopra di sé.

Anche Eva si protesse con le braccia, ma non disse nulla. Non aveva voglia di fare conversazione, era troppo stanca; nonostante gli apparenti sviluppi, infatti, quella giornata si era rivelata piuttosto infruttuosa, e non era emerso nulla di grande interesse nemmeno dall’interrogatorio di Smith. Avevano letteralmente le ore contate, visto che il giorno dopo l’uomo sarebbe stato trasferito al penitenziario per affrontare, in seguito, un processo, e non potevano perdere tempo con quello che sarebbe stato il suo avvocato d’ufficio.

-Nottata difficile, eh? – commentò Spencer, all’improvviso.

Lei annuì mestamente. –Già.

-Sei ancora convinta a trasferirti? – domandò, sommessamente.

Eva fece un mezzo sorriso. –Allora è questo che ti preoccupa?

Il ragazzo sospirò. –Rispondendo ad una domanda con un’altra domanda, in genere, si vuole assentire.

-Non analizzare il mio comportamento, ti prego – lo pregò la ragazza, scuotendo il capo. - Sono stata sotto esame per tutto il giorno, e non mi piace l’idea di essere sezionata anche da te.

-Scusami, io… non era mia intenzione. Mi dispiace – farfugliò.

Eva alzò le spalle, come per fargli capire che era tutto a posto.

-Ne hai già parlato con Hotch?

-No. oggi era molto stressato…la Strauss continuava a chiamarlo per chiedergli di me. Sai, avrei scatenato un secondo S.I. se gliene avessi parlato.

Spencer fece uno sbuffo divertito. Si misero entrambi a pensare al numero dei killer nella città, visto che ormai era noto a tutti i membri della squadra che si trattava di due persone distinte.

Evitarono quasi di comune accordo l’argomento, però, visto che ne avevano entrambi abbastanza del lavoro e, entro tre o quattro ore, avrebbero dovuto ricominciare daccapo.

-Mi mancherai, comunque – continuò il ragazzo. –È bello lavorare con te.

Lei sorrise. –Anche a me piace molto.

-E allora… - lui deglutì, - … e allora cosa ti spinge ad andartene?

Eva ci pensò un po’ su, fissando la luna intensamente quasi come se potesse arrivare a toccarla. Era perfettamente tonda, bianchissima e pareva pulsare; era uno spettacolo decisamente bellissimo, anche se spaventoso.

-Vedi, Spence, ti ricordi che dovevo essere affidata ad una famiglia di Atlanta? – chiese, a voce bassa.

Lui annuì, confuso.

-Ecco, era la famiglia sbagliata – fece una risata priva di gioia. Lui si sentì gelare.

-Il padre era un pervertito, e la madre così sottomessa da non muovere mai un dito. Dopo la morte del loro unico figlio, prima che arrivassi io, le cose erano peggiorate terribilmente. Non so come fecero ad ingannarre gli assistenti sociali, davvero non riesco a capirlo.

Assunse un’aria malinconica e assente. –Però ci sono riusciti.

Reid si sentì come se ogni singola goccia di sangue nel proprio corpo fosse diventata un cristallo di ghiaccio. Nelle sue vene si ammassavano strati su strati di neve condensata, come se lui fosse un pupazzo esposto in un giardino e non un comune essere umano.

Nel suo lavoro doveva trattare casi simili ogni giorno. Uomini squilibrati che tenevano in pugno la propria famiglia e costringevano ogni suo componente ad essere un osservatore passivo dei propri misfatti erano casi molto più comuni di chiunque pensava.

Tuttavia adesso, trovandosi di fronte a questa possibilità orribile, gli pareva che tutto il mondo fosse solo un immenso abominio, un inferno di corpi contorti e perversi, continuamente aggrovigliati in un’oscena danza di disonore e falsità. Com’era possibile che una persona dovesse vivere così tanti dispiaceri, in una vita sola?

Il suo altissimo Q.I. non lo aiutava in situazioni del genere, così come la razionalità l’aveva del tutto abbandonato. Si sentiva solo, e sconvolto. Era la sensazione più brutta del mondo.

La ragazza deglutì, senza guardarlo. Sembrava non averne la forza, e continuava a fissare la luna. E poi riprese, lentamente, con il suo racconto, con il tono di voce di un’anima che si confessa senza avere troppa speranza nel potersi sentire meglio una volta finito.

-Lui le chiamava “punizioni”. Si inventava un pretesto qualsiasi durante la settimana e mi rinchiudeva in cantina, legandomi con un catenaccio al muro. Mi veniva a trovare spesso, e stava con me per delle mezz’ore. Spesso anche due volte in un giorno. Quand’era frustrato, tre. Era sempre terribile, come puoi immaginare.

-È questo, il motivo – aggiunse poi, anche se era una spiegazione superflua.

La totale mancanza di emozioni nella sua voce sconvolse Reid molto più a fondo di quanto avrebbe immaginato. Tante volte, nella sua vita, si era chiesto cosa ne fosse stato della sua amica, della sua unica confidente, ma la sua immaginazione mai sarebbe arrivata a quel punto.

Si era illuso per tanto tempo che Eva avesse finalmente trovato una brava famiglia, un caldo ambiente in cui crescere serenamente e che il suo potenziale sarebbe stato finalmente sfruttato nel modo giusto, ma in fondo al cuore aveva quasi immaginato che non sarebbe andata così.

In quel momento, comunque, gli pareva quasi che il cuore gli si stringesse in una morsa e che si stesse liquefacendo sul pavimento. Indietreggiò di un passo per una sorta di istinto condizionato, con gli occhi sbarrati.

-Eva… m…ma… - cominciò, tuttavia lei lo interruppe con un gesto della mano.

-Lascia stare, ti prego. Non voglio che tu mi compatisca, e non è assolutamente colpa tua. Toglitelo dalla testa; dal momento che tu sei molto importante per me, ho capito che prima o poi avrei dovuto dirtelo e… basta, semplicemente questo.

-Ne hai mai parlato con qualcuno? – lui si schiarì la voce. Aveva bisogno di pensare razionalmente, di lasciare che la cortina di nebbia nella sua testa si diradasse.

Lei fece un sorriso triste, guardandolo da sotto in su per la prima volta.

-Ne sto parlando con te.

Con un trauma così violento, per altro perpetrato da colui che avrebbe dovuto garantirle un futuro stabile, era difficile continuare la propria vita senza ferite sanguinanti. La frase che la ragazza aveva appena pronunciato lasciava capire che, nonostante tutto quello che aveva passato, non si era mai rivolta a nessun esperto qualificato o qualcuno che potesse darle un sostegno.

Spencer era a pezzi. La piccola, dolce Eva, la prima persona che avesse mai amato in vita sua, aveva dovuto subire tutto quello solo per una crudeltà del destino. La vita era così tremendamente… ingiusta.

Di slancio, senza pensarci troppo sopra, Reid l’abbracciò.

Non aveva mai preso spontaneamente il contatto con qualcuno, in vita sua, come per timore di essere respinto. Ma, quando le braccia magre di Eva circondarono le sue scapole tese, si pentì di non averlo mai fatto. Era una sensazione davvero bellissima: il corpo di lei sembrava davvero minuscolo in confronto al proprio che, nonostante l’altezza, era comunque molto magro.

Il respiro della ragazza si incrinò quasi subito, ma il sollievo nel cuore del ragazzo, tormentato dalla pena, non scomparve comunque: gli pareva finalmente di aver scovato un modo per poter avere l’anima della ragazza messa direttamente in contatto con la propria.

E poi, anche se Eva stava piangendo calde lacrime di vergogna e umiliazione insieme, riuscì a trarre un lieve conforto dalla presa sempre meno esitante del giovane uomo. Nonostante gli anni passati, riuscì a capire che lui non le avrebbe mai e poi mai fatto del male.

Reid avrebbe voluto sussurrarle all’orecchio che l’amava, e che così era sempre stato, ma non ne ebbe il coraggio. Rimase così, in piedi, a stringerla e a cercare di far fluire la propria vita in quella di lei, ma l’unica cosa di veramente sincera che riuscì a dirle fu “mi dispiace”.

Gli dispiaceva, gli dispiaceva eccome. Non trovava altri modi per dirlo, e sapeva che lei avrebbe capito. Lei capiva sempre tutto.

Essendo lui troppo goffo nei rapporti con le ragazze e lei troppo stanca per reagire, rimasero fermi in quella posizione per molto più tempo del necessario. Eva smise di piangere e Reid riprese a pensare lucidamente.

Quando l’alba cominciò a rosseggiare all’orizzonte, convennero nel doversi ritirare. Ma qualcosa era cambiato, fra loro, anche se non avrebbero saputo dire che cosa.

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Capitolo 12
*** Evoluzioni ***


Nel cuore della notte, il sospettato per omicidio plurimo Paul Smith chiese un bicchiere d’acqua. La guardia, notando che la cena era rimasta intatta nel vassoio, aveva fatto ritorno con l’oggetto richiesto. Mezz’ora più tardi, la scena si ripetè.
L’agente di turno, la mattina seguente, dichiarò che il sospettato appariva pallido ed emaciato come se stesse male, e urinava frequentemente. Prese a tossire attorno alle tre del mattino e poi, “con lo stesso aspetto di  un fantasma”, chiese un blocco per scrivere e una penna.
Sotto sorveglianza di due poliziotti poco inclini a gentilezze a quell’ora del giorno, il sospettato stilò un resoconto preciso di quello che era successo e poi, di proprio pugno, lo firmò. Infine, aggiunse una postilla in cui confidava di essere malato terminale di cancro e di non voler finire la propria vita in prigione.
-Che cosa? – chiese Hotch, sbalordito.
Lo sceriffo Dawson non si scompose. –Proprio così. Il bastardo ha confessato tutto.
Eva coprì discretamente uno sbadiglio con la mano. La sera prima era riuscita a dormire ben poco e in quel momento, incredula di fronte alla possibilità che il caso fosse già risolto, desiderava ardentemente un caffè.
JJ, nel frattempo, prese a massaggiarsi le tempie. –Abbiamo bisogno di una conferenza stampa?
Di solito, come la nuova arrivata aveva potuto osservare, l’agente aveva ben chiaro quello che doveva fare, ma una confessione così improvvisa e la rivelazione che il sospettato fosse in punto di morte sconvolgevano decisamente il corso dell’indagine.
-Io suggerirei di aspettare – intervenne Emily, conciliante. –Non abbiamo ancora provato la credibilità di quanto afferma.
Lo sceriffo Dawson sollevò le sopracciglia cespugliose. –Non è tutto.
Morgan sospirò, ma non intervenne. Considerò saggio non rendere la situazione ancora più complicata di quello che era.
Lo sceriffo, infatti, da scettico si era dimostrato ora completamente ostile. Non aveva mai riposto particolare fiducia nella squadra intervenuta in loro aiuto, ma essendo stato avvisato del fatto che Smith non andava considerato come l’esecutore materiale, si sentiva ingannato. Quella dichiarazione firmata in un tribunale sarebbe parsa molto più credibile di un cumulo di supposizioni, e questo lo sapevano tutti.
Reid arrivò in quell’esatto momento, e porse ad Eva una tazza di caffè bollente. Lei lo fissò, sorpresa, ma il giovane stava fissando il viso dello sceriffo, con l’evidente intenzione di non farle commentare la cosa.
In quelle poche ore trascorse dal loro incontro sul tetto, il ragazzo sembrava molto cambiato. Forse più stanco del giorno prima per la mancanza di sonno, ma anche stranamente soddisfatto e sereno. Non era stata l’unica ad accorgersene, però: nemmeno a Rossi passò inosservata quella piccola gentilezza.
“È snervante essere circondata da profiler”, pensò la ragazza, esasperata, “hanno mille occhi, si accorgono di ogni cosa!”
-Potrebbe essere più preciso? – come al solito, fu Hotch a riportare tutti alla realtà.
L’uomo sfogliò il raccoglitore che teneva in mano, rileggendo il rapporto.
-Citando testualmente la confessione scritta: “Due settimane fa, poco dopo aver scoperto di essere malato di cancro, feci la conoscenza che cambiò del tutto il mio modo di vedere il mondo. Quell’uomo mi insegnò molti lati che avevo sempre preferito trascurare della natura umana e, sotto la sua guida, ho cominciato ad apprezzare la bellezza insita in ogni azione violenta. Sono il diretto responsabile di parte degli omicidi di cui sono accusato”
Le reazioni furono contrastanti. Eva e Reid spalancarono gli occhi, una con la tazza ferma a mezz’aria e l’altro con la bocca semi-aperta dallo stupore. Hotch si passò una mano sul viso, visto che la situazione si complicava ulteriormente; Rossi, invece, si mantenne imperturbabile, sedendosi sul bordo di una scrivania là vicino. JJ, con un paio di fogli in mano, chiuse gli occhi e sussurrò qualcosa a mezza voce. Morgan trasse il cellulare dalla tasca con sguardo tagliente.
-Questo presuppone che il nome del secondo S.I. non sia esplicitato, giusto? – osservò Rossi, ironicamente.
-Esatto – confermò Dawson. Fece un sospiro. –Abbiamo tredici agenti sul campo, al momento; quattro stanno perquisendo l’abitazione di Smith e due hanno appena portato l’auto nella rimessa della centrale.
-Non troverete niente – osservò pacatamente Rossi, ancora una volta. –Le parole che Smith ha usato sono fuori dal suo vocabolario usuale; non sono opera sua. Sicuramente è stato imbeccato, e aveva paura di dover passare tutto il suo tempo rimanente in cella.
-Il secondo S.I. ci sta provocando – disse Hotch. –Tramite l’arrestato ci comunica che vuole essere trovato da noi, e che nuovi omicidi sono in programma.
-Ma non poteva compierli prima? – domandò lo sceriffo, apertamente dubbioso.
-No – spiegò Reid, - se l’avesse fatto, Smith sarebbe sembrato innocente e rilasciato.
-Per lui, Smith non significa niente – intervenne Emily, - è stato solo un mezzo per raggiungere più facilmente il suo fine.
-Ovvero? – chiese Dawson.
-Ovvero – disse Hotch, - quello di eliminare quante più prostitute possibili e dare inizio ad una caccia all’uomo.
Detto questo, agguantò il telefono e scomparve nell’altra stanza. Eva si chiese a chi stesse telefonando con tanta insistenza, ma le parve fuori luogo dirlo in quel momento.
-Forse – espose timidamente, - il mentore potrebbe essere l’uomo ipotizzato in precedenza, un datore di lavoro. Smith fa il fattorino, giusto? Potrebbe aver incontrato così il dominante.
-Sottomesso anche nel posto di lavoro all’S.I..  Assoluta dipendenza da lui, sia finanziaria che morale. Negli omicidi, nel lavoro, nella vita era completamente succube di lui – ipotizzò Morgan. 
-Controllo totale – disse Emily, con una smorfia. –Non ci dirà mai il suo nome.
-Non importa, possiamo scoprirlo – disse l’agente di colore. Prese il proprio cellulare e compose il numero di Garcia. L’agente informatica rispose al primo squillo.
-Dimmi tutto, zuccherino! – cinguettò.
-Ti ho messo in vivavoce – l’ammonì l’uomo di colore. Posò il telefono al centro della scrivania in modo che tutti sentissero la conversazione. –Garcia, dovresti fare una ricerca.
-Sono nata per questo – gli ricordò. In sottofondo, già si sentiva il rumore dei tasti che venivano premuti con grande velocità.
-Il nostro sospettato, Paul Smith, ha un mentore. Probabilmente, l’uomo in questione ha un controllo assoluto sulla sua vita, e ipotizziamo sia il suo datore di lavoro. Quando ha cominciato a lavorare come fattorino?
-Due anni fa, circa – rispose la donna, - ad intermittenza, per un negozio di ferramenta. Sospeso a causa dei numerosi richiami disciplinari, licenziato e poi riassunto in seguito ad un arresto per ubriachezza molesta, scontato poi con i domiciliari.
Morgan scosse la testa. –No, Smith non si sarebbe mai comportato in modo scorretto con il dominante, lo venera. Cerca qualche rapporto di qualsiasi tipo che sia iniziato due settimane fa.
Dopo qualche secondo, Penelope manifestò il proprio disappunto.
-Non c’è… niente. Niente di niente. Nessuna spesa, nessuna telefonata, nessuna multa, zero assoluto. È come se nell’arco di questo tempo Smith non sia esistito affatto.
-L’S.I. ha provveduto a cancellare le tracce – riflettè Rossi. Poi si rivolse direttamente alla collega. –Cerca qualsiasi cambio di domicilio nell’ultimo mese.
-Ecco… Smith si è trasferito nell’ex appartamento di una vecchia zia, morta recentemente senza stilare le proprie ultime volontà. Lui era l’unico erede. Nel condomio vivono… tre famiglie e due uomini single, più un’anziana signora.
-Cosa sai dirci dei due uomini? – chiese Morgan.
-Uno, Richard Duly, divorziato con tre figli. Arrestato tre anni fa per violenza domestica e tentato omicidio, con precendenti per aggressione e guida in stato d’ebrezza. Attualmente ricoverato in una clinica di disintossicazione. L’altro, Glenn Michaels, possessore di due appartamenti nello stesso palazzo. Recentemente uscito di prigione per possesso di stupefacenti, ha precedenti per spaccio e induzione alla prostituzione, ma nell’ultimo caso le accuse sono cadute.
-Glenn Michaels – mormorò Eva, impallidendo. –È il protettore di Tracy.
Derek le lanciò uno sguardo d’assenso. –Garcia, quando è stato scarcerato Glenn?
-Due settimane fa. L’ultimo periodo ha dovuto passarlo ricoverato nella clinica St. Louis per una ricaduta. Hey, aspettate un attimo… i referti medici di Smith vengono dallo stesso ospedale!
Nella stanza, tutti si guardarono.
-Grazie, bambolina – grugnì Derek, chiudendo la comunicazione.
-Glenn Michaels è il proprietario di un secondo appartamento – intuì Reid, - forse lo stesso usato per commettere le torture. Inoltre possiede un furgone, l’ho visto in un dossier; l’ideale per trasportare le vittime ancora vive.
Rossi sembrava nauseato. –Sicuramente il lavoro di Glenn rendeva più facile per entrambi avere delle prede. Smith è rimasto succube dell’altro in un momento di debolezza, e insieme hanno sfogato le loro pulsioni.
-Smith dipende completamente da Glenn: sicuramente l’uomo avrà provveduto a saldare tutti i suoi conti a proprio nome – disse Reid.
-E perché avrebbe dovuto farlo? – intervenne lo sceriffo, dopo un lungo silenzio.
-Perché così Smith si sarebbe convinto che la sua devozione era ricambiata dalla fiducia – spiegò Morgan, - e Glenn si assicurava che l’adepto non facesse errori o non avesse scontri violenti con i creditori per attirare l’attenzione.
-E perché farsi arrestare? – chiese lo sceriffo, di nuovo. –Perché non continuare questo perverso giochetto fino a quando Smith non ci avesse rimesso le penne?
Fu Emily ad intervenire. –Smith non è affatto il complice ideale. Non è sufficientemente intelligente e non è affatto discreto e, inoltre, è incline ad ubriacarsi. Molti farmaci per le terapie contro il cancro, opportunamente lavorati, possono diventare sostanze eccitanti. In più, Glenn ha delle manie di onnipotenza: avere un solo seguace non gli avrebbe dato la fama che lui voleva.
-Ma venire arrestato e portarsi nella tomba anche qualche poliziotto sì – spiegò Rossi.
-Maledetto bastardo… - sibilò lo sceriffio Dawson.
Si voltò e abbaiò qualche ordine ad un paio di agenti lì nella centrale: -Sullivan! Raduna una squadra e fai mettere posti di blocco ad ogni uscita! Quel maledetto figlio di puttana non riuscirà ad uscire vivo da questa città!
Hotch, che era appena tornato, non commentò quanto appena visto. Morgan, velocemente, gli espose la situazione.
-Dunque non abbiamo bisogno di un secondo profilo – la sua, più che una domanda, pareva un’affermazione. Derek annuì ugualmente.
-Bene, allora – commentò il capo. –Morgan e Rossi, con me. Reid: stai qui in centrale e riferisci ogni singolo spostamento sospetto. JJ, invece, prepara una conferenza stampa per allertare la popolazione.
Gli agenti, uno dopo l’altro, annuirono e si sbrigarono a seguire le proprie faccende, andando chi in una stanza, chi nel parcheggio esterno per accendere il motore del SUV.
-E… noi, signore? – chiese Eva, con un certo disappunto.
Hotch si voltò verso di lei quel tanto che bastava per non fermare il proprio passo di marcia e, quindi, sprecare tempo prezioso.
-I signori Granger stanno ancora aspettando – disse, senz’ombra di seccatura nella voce, - tu ed Emily cercherete di scoprire cosa aveva attirato Michaels proprio verso la loro figlia.
Congedate con quelle parole, le due donne si guardarono.
-Non preoccuparti per tutta questa fretta – si premurò di dirle Prentiss, - è solo che è costantemente messo sotto pressione. La Strauss non gli sta dando tregua… ogni sviluppo deve passare attraverso di lei.
-Comprese le lame delle armi del delitto? – osservò Eva, sarcastica.
La collega, dopo qualche attimo, realizzò la battuta e fece una risata con sbalordita complicità.
-Se te lo stai chiedendo – disse la ragazza, - ho già avuto modo di parlare con l’angelo di donna, e l’impressione che mi ha fatto non è stata delle migliori.
Emily annuì, comprensiva. –È sempre molto stressante quando ci sono modifiche o nuovi arrivi nella squadra. Ha l’illusione che se non allenta la presa qualcosa possa andare storto.
Mentre lo disse, arrivarono davanti ad una stanza abbastanza appartata nella centrale. Ogni angolo, infatti, brulicava di agenti in uniforme che si spostavano da un telefono all’altro con un marasma di fogli stretti in mano, preda del nervosismo generale.
-Eccesso di zelo – chiese Eva, con tono pensieroso, aprendo la porta ad Emily, - oppure distruttiva curiosità?
La donna non rispose, ma le lanciò un’occhiata divertita. Eva aveva imparato con il tempo che puntare sulle antipatie comuni può essere un ottimo modo per attaccare bottone e far sentire i propri colleghi a proprio agio. Era come se la condivisione comune di opinione fosse un universale metodo per stare meglio nel proprio posto di lavoro.
-Buongiorno, signori Granger – salutò Prentiss, entrando. Assunse subito un’espressione composta e professionale. –Io sono l’agente Emily Prentiss, e lei è la nostra consulente, Eva Arcangeli.
Il cognome venne pronunciato in modo scorretto, ma Eva era sicura che i genitori, sconvolti e stanchi, non vi avrebbero fatto caso. Il padre, con la barba di due giorni a corprire il mento, i capelli aggrovigliati e un paio di occhiaie rossastre, allungò stancamente una mano e la strinse ad entrambe.
La moglie, invece, rimase seduta a tamponarsi le guance con un fazzoletto sgualcito, usato già molte volte. Il trucco sbavato era stato miseramente contenuto con l’uso di un qualche latte detergente, ma l’unico effetto ottenuto era un viso provato e arrossato, con la pelle ammorbidita dalle lacrime.
-Sono stati… sono stati due giorni d’inferno – spiegò la donna, tirando su col naso.
-Lo possiamo immaginare, signora – disse Eva, rassicurante. Le si accomodò davanti mentre Emily, silenziosa, si spostò dal lato del tavolo dove non aveva nessuno di fronte.
In quello stesso istante, Eva capì che quello era un esame, l’ennesima prova da superare: Hotch aveva incaricato segretamente la donna di tenere d’occhio la nuova agente e testare le sue capacità in un incontro con i parenti delle vittime e, anche se quello era un campo in cui era in grado di muoversi senza difficoltà, rendersi conto di essere analizzata in ogni minima mossa la metteva piuttosto in ansia.
-Inanzitutto – esordì, - siamo venute qui per cercare di conoscere meglio  vostra figlia. So che è doloroso parlare di certe cose, ma avremmo bisogno di sapere quante più cose possibili su di lei.
Fu la madre, soprendentemente, a prendere la parola.
-  La nostra Elise era una ragazza per bene. A scuola aveva tutti ottimi voti, non ci diede mai nessun motivo di preoccupazione. Eccelleva nell’equitazione e ha sempre vinto un sacco di premi. Però… all’università le cose sono cambiate…
Il tono, da orgoglioso e un po’ tremolante, si fece quasi desolato.
L’attenzione di Eva aumentò. –Potrebbe, per favore, spiegarsi meglio?
Il marito intervenne. –Venne ammessa all’università migliore della città. Voleva diventare veterinario, era la migliore del corso. Solo che… lo stress da esami l’ha avvicinata al mondo della droga.
La moglie ebbe un singulto, e il consorte abbassò lo sguardo. Il tono dell’agente si addolcì, sotto lo sguardo vigile di Emily.
-Qual era la sua materia preferita? – domandò.
I coniugi si scambiarono un’occhiata, confusi. Poi lei, con un lieve sorriso, rispose: -Anatomia. Aveva ottimi voti.
-E anche biologia – intervenne l’uomo. La moglie assentì con un gesto del capo.
-Aveva una macchina tutta sua, vero? – chiese ancora Eva, dimostrando una certa complicità.
-Gliel’avevamo comprata per il suo ventesimo compleanno – giustificò l’uomo, piuttosto sorpreso,  - visto che aveva completato il semestre nel migliore dei modi. E poi la metro era scomoda, non c’era una stazione vicino all’università.
-Doveva sempre fare circa quindici minuti di strada a piedi – confidò la donna.
-Scommetto che fosse un’ottima atleta – commentò Eva.
-Lo era – sorrise la donna.
L’agente rispose al sorriso. Emily la stava osservando, stavolta piuttosto incerta su cosa pensare. Lo si leggeva dal suo volto; la nuova arrivata aveva dimostrato una grande abilità nel far sentire a proprio agio i genitori e, al tempo stesso, scoprire qualcosa di lei.
Lo sguardo di Eva si fece improvvisamente triste e, con voce partecipe del loro dolore, parlò sommessamente.
-Dopo… dopo la sua caduta nella dipendenza, vi siete rivolti ad una clinica? Ad uno specialista?
Il signor Granger, per la prima volta durante l’interrogatorio, strinse la moglie circondandole le spalle con un braccio, in un gesto di conforto. Si presero qualche attimo prima di parlare apertamente.
-Noi ci eravamo accorti che Elise aveva un problema. Era assente, strana… stava via sempre più spesso, e quando le facevamo domande era schiva, riservata.
Fu la moglie a continuare: -Un giorno le abbiamo detto che avevamo trovato delle pillole nella sua borsa. Lei si infuriò e disse che non potevamo capire, che lo stress la stava uccidendo e che… che… - la voce le mancò e si concluse in un singhiozzo.
Il marito la strinse più forte e completò il racconto.
-Da allora scappò di casa. Provai io stesso a cercarla, ma non avevo idea di dove avrebbe potuto essere… non sapevo dove andare. Eravamo disperati. Denunciammo la scomparsa alla polizia, e loro ci dissero che era stata… che era stata arrestata.
La signora si asciugò le lacrime con lo stesso fazzoletto umido di prima, prendendo forza.
-Pagammo la cauzione e la portammo a casa. La facemmo mangiare, ci sforzammo di trovarle un lavoro. Ma una settimana dopo era già sparita di nuovo.
-Questa volta per sempre – mormorò l’uomo, affranto.
Eva non disse nulla per un lungo momento, limitandosi ad osservarli. Erano sinceri, su questo non c’erano dubbi, e questo confermava il rilascio in seguito allo stato di fermo per adescamento registrato nella fedina della vittima. Forse era entrata nel giro di Glenn Michaels fin dai tempi dell’università, e questo poteva poi giustificare la successiva serie di eventi.
-Sono sinceramente dispiaciuta per la vostra perdita, signori Granger. Elise aveva l’aria di essere una ragazza davvero meravigliosa.
-Avete… avete già un sospettato? – domandò l’uomo. Sembrava stesse per ricominciare a piangere.
L’agente abbassò il capo, ma parlò con delicatezza. –Questo purtroppo non posso dirlo, per quanto io voglia, ma sarete i primi ad essere informati degli sviluppi nelle prossime ore.
In quello stesso istante, il cellulare di Emily prese a ronzare discretamente. La coppia, fortunatamente, parve non accorgersi di nulla, ma Eva scambiò con la collega un’occhiata d’assenso.
-Signori – annunciò, il più gentilmente possibile, - vi ringraziamo sentitamente per la vostra collaborazione, ma adesso dobbiamo andare. Provvederò personalmente a farvi riaccompagnare a casa. Desiderate un caffè, un po’ d’acqua?
-Io sì, grazie – mormorò la donna, distrutta. –Un caffè, per favore.
-Glielo porto subito – promise Eva. Poi uscì dalla stanza seguita dall’altra donna.
-Era Hotch – spiegò subito, senza troppi convenevoli. –I posti di blocco non hanno rivelato nessun movimento, e le stazioni di treni, autobus e aereoporti non hanno portato a niente. Non sta cercando di fuggire, questo è certo.
- È assurdo – disse Eva, confusa. –Il profilo dice che necessita di una caccia all’uomo in grande stile, deve averla per soddisfare il proprio ego!
Emily scosse piano la testa, mormorando una fatale domanda: -Cos’altro potrebbe dargli la stessa ebrezza di un inseguimento?
Un pesante silenzio assorbì l’interrogativo. Ad un tratto, la ragazza più giovane sollevò la testa, allarmata. Corse velocemente lungo il corridoio e si affacciò nella stanza dove c’era un agglomerato impressionante di scrivanie incastrate fra loro, come una brutta copia dell’open-space che avevano all’FBI.
-Sceriffo Dawson! – gridò. – Faccia sgombrare l’appartamento del sospettato Michaels! Immediatamente!
L’uomo, sentendosi interpellato, posò una mano sulla pistola, chiusa nella fondina, il passo immobile fuori dalla porta del proprio ufficio.
-E perché mai? – urlò di rimando, per sovrastare il brusio dall’altro lato della stanza.
La ragazza tradì il proprio nervosismo mordendosi il labbro.
-Perché c’è una bomba!
 

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Capitolo 13
*** Brutte notizie ***


Eva non si mise a riflettere su quanto stava facendo, semplicemente, agì.
Indossò in fretta e furia il proprio giubotto antiproiettile, mise una pistola nella fondina e si assicurò di avere in tasca il proprio tesserino. Non era ancora un’agente a tutti gli effetti ma, grazie al suggerimento di Hotch di seguire ugualmente dei corsi preparatori, lo sarebbe diventata presto, e aveva già affrontato i primi esami al poligono di tiro, in modo da aver raggiunto una certa dimestichezza con le armi.
Sperò che la pistola che aveva preso non fosse stata l’arma di servizio di una qualche matricola, altrimenti si sarebbe sentita doppiamente in colpa di quella presa in prestito a sorpresa.
Incontrò Emily nel corridoio, e accellerò il passo. La collega la guardò ad occhi spalancati, ma si riebbe presto dallo stupore: quasi correndo riuscì a starle dietro senza nessuna difficoltà.
-Eva?! Si può sapere dove pensi di andare?
La ragazza sospirò impercettibilmente. Sicuramente, quando le aveva detto che andava al bagno, Emily non si sarebbe mai aspettata una cosa del genere. Le dispiaceva rischiare di mettere nei guai anche la sua nuova amica, ma valeva la pena rischiare; si sarebbe presa tutta la responsabilità.
-Non posso stare ferma a guardare – disse, superando una porta e attraversando un ennesimo corridoio, - devo fare qualcosa. Se gli agenti sono ancora dentro all’appartamento, allora è possibile che sia già troppo tardi.
-Hotch è stato molto chiaro, su questo punto – le ricordò l’altra, - aveva detto che noi dovevamo rimanere in centrale.
La ragazza sbuffò sonoramente. –A fare che cosa? C’è un serial killer con una bomba in mezzo ad nugolo di agenti, Emily! Cosa possiamo fare di utile rimanendo qui?
La collega, con lo sguardo, ammise che Eva aveva ragione. Forse era stata troppo impulsiva, magari pure scorretta, ma non aveva tutti i torti, e l’ordine di Dawson sarebbe sicuramente arrivato in un momento fatale, e ci sarebbe voluto un po’ prima che gli uomini lasciassero la casa. Poteva benissimo darsi che fossero morti da pochi minuti, o forse appena messo piede nella casa.
D’altro canto, però, Prentiss non sapeva se dare completa fiducia alla nuova arrivata. In fondo, come aveva potuto capire che era stata messa una bomba senza tentennare nemmeno un secondo? E se si fosse rivelato tutto un grosso sbaglio?
Combattuta, Emily la trattenne per un braccio, richiamandola alla ragione.
-Eva… fermati. Non puoi risolvere niente, facendo così. Dawson ha diramato l’allarme tramite ricetrasmittente, è solo questione di minuti prima che qualcuno risponda all’emergenza.
Gli occhi castani di Eva brillarono in modo poco rassicurante. L’italiana abbassò il capo, mestamente, parlando in un sussurrato mormorio.
-Lo so, ma…
Non concluse la frase, angosciata; era l’incarnazione della disperazione, e fu questo ad intenerire l’altra agente: anche lei in quel momento si sentiva impotente, e avrebbe voluto fare qualsiasi cosa pur di fermare uno scempio che sembrava inevitabile. Hotch e Morgan erano schizzati via dalla centrale con uno dei SUV, ma non avevano ancora ricevuto nessuna notizia da loro.
Era terribile dover stare in attesa, girandosi i pollici, con una situazione tanto drammatica come scenario, ma Emily aveva imparato che raramente era consigliabile disobbedire agli ordini di Hotch, soprattutto perché lui li dava pensando come prima cosa al benessere dei suoi sottoposti. Mai una sua decisione si era rivelata azzardata in modo catastrofico, in tutta la sua carriera, e questo la portava ad un’incondizionata fiducia nei suoi confronti.
Addolcì il tono, convinta di averla persuasa. –Dài, vieni, togliti questa roba di dosso.
La donna annuì, pianissimo, e l’amica l’accompagnò al bagno. Appena la porta si richiuse alle sue spalle, però, Eva elaborò una strategia. Le dispiaceva aver finto di aver capito davanti ad Emily, ma il tempo e l’obbedienza erano lussi che non poteva permettersi, non in quell’istante.
Analizzò l’intera stanza con occhi critici, e alla fine si convinse a trascinare uno sgabello sotto alla finestra, poco più grande di una feritoria per l’aria, di forma rettangolare. Sbirciò al di fuori, e notò un muro di fronte per delimitare il claustrofobico vicolo, con tanto di cassonetto posto appena sotto al suo naso. Calcolò approssimativamente che le sue spalle ci sarebbero potute passare, anche se scomodamente.
Slacciò il giubbotto, buttandolo oltre il vetro aperto, e lo sentì atterrare con un tonfo sui rifiuti. Velocemente, posò incerta un piede sul ripiano traballante, e prese lo slancio.
Fu doloroso; sbattè la spalla sinistra contro la cornice appuntita e rovinò la camicia, ma sgusciando e ignorando la botta al fianco potè allungare le mani dall’altra parte e puntellarsi sul cassonetto. Forse uscire  con la testa davanti non era stata una buona idea, ma non poteva più tornare indietro.
Si morse violentemente il labbro: piegando il ginocchio l’aveva sbattuto contro l’apertura, rischiando di rompere il vetro. Diede un’ultima spinta, e cadde sul cumulo di sacchi neri e maleodoranti. Rimase ferma per qualche secondo, stordita. Il mondo girava vorticosamente davanti ai suoi occhi, nelle tempie rombava il sangue affluito alla testa, e le sue membra erano tutte ammaccate.
Distesa su quel suo malgrado comodo giaciglio, capì fino in fondo cosa volesse dire essere gettate nella spazzatura: il dolore, la puzza, le sensazioni, la vergogna, l’umiliazione. Era come se qualcuno l’avesse trasformata in una bambola rotta, inservibile, e sentì quasi di meritarsi quell’involontario castigo.
Farsi forza non fu facile. Fu il pensiero di Reid, che la aspettava in un ufficio non troppo lontano da quel vicolo, a convincerla ad uscire da lì. Tastò intorno ai propri fianchi e recuperò il giubotto antiproiettile: aveva un odore pestilenziale e una buccia di banana spalmata sulla scritta FBI, ma per il resto non sembrava essere troppo lurido per essere indossato. Trattenne il fiato e se lo agganciò addosso.
Uscire da lì divenne un’impresa titanica, ma ritrovandosi con i piedi per terra riprese a pensare più lucidamente. Per prima cosa, controllò che nelle tasche ci fossero ancora il tesserino e le chiavi del SUV, che Morgan le aveva dato appena arrivati con la frase “me le terresti un attimo mentre telefono a Garcia?”. Evidentemente si era dimenticato di chiedergliele indietro.
“Bene” pensò, sopresa di tanta fortuna. Zoppicò fino al parcheggio: le auto federali erano tutte uguali, e non si ricordava la targa.
-Merda – esclamò, a denti stretti. Il suo sguardo volò da un veicolo all’altro ma, a parte quelli della centrale, era impossibile indovinare quale fosse dei due il fortunato possessore della chiave che aveva in mano.
Provò a schiacciare il bottone di apertura automatica, ma il comando doveva essere scarico, visto che non ci furono reazioni visibili. Tentò una seconda volta, ma nulla.
Imprecando ancora, si diresse verso l’altro e inserì la chiave nella chiusura della portiera del guidatore. Fallendo miseramente, trovò la fortuna nell’altro.
Era una guidatrice abbastanza abile, ma non le piacevano le macchine grandi, e non ne aveva mai guidata una. Le pareva che star seduta sopra a quel sedile sproporzionato fosse innaturale, per un guidatore; il volante le sembrava minaccioso.
“Hai già perso abbastanza tempo, stupida!” si disse, e mise in moto. Partì senza accendere i lampeggianti, visto che ignorava come si facesse, e sfrecciò fuori dal parcheggio nell’esatto momento in cui Emily, preoccupata, bussava alla porta del bagno.
 
//
 
-Come sarebbe a dire, tesoro? – chiese Garcia, preoccupata.
Eva sospirò per l’ennesima volta, portandosi il telefono più vicino alle labbra. Aveva sottovalutato la botta all’anca: continuava a dolerle anche stando seduta, e da sotto alla camicia si intravedeva una macchia violacea.
-Garcia, è importante – ripetè, svoltando – lo so che potrà sembrare strano, ma ho bisogno di sapere l’indirizzo di un magazzino, un capanno, una casa sull’albero, qualsiasi cosa che appartenga a Michaels o che sia intestata a lui. Per favore.
L’informatica lasciò passare un lungo silenzio. Non era per effettuare la ricerca, poiché le tastiere in sottofondo non emmettevano nessun ticchettio, bensì sembrava piuttosto un tipo di pausa riflessiva, ansiosa, tipica di chi è in pena per la sorte di un proprio famigliare.
Eva non poteva continuare a girare a vuoto, ne era consapevole, e aveva bisogno immediatamente di un punto di riferimento. Se non si era diretta al condominio, era perché aveva avuto il presentimento che il profilo non fosse completo; Glenn non era un kamikaze, non era un suicida. Non sarebbe mai morto neppure per ribadire la propria superiorità, visto che avrebbe voluto gustarsi fino in fondo la gloria delle proprie azioni.
Questo l’aveva portata a pensare che si trovasse fuori città, in compagnia della vittima, e in quel caso ci sarebbero state poche speranze di trovare la ragazza viva. Sicuramente la bomba era dentro casa sua, ma questo non voleva necessariamente dire che anche lui fosse presente.
Alla fine, l’altra donna si decise a parlare, combattuta. –Tesorino, non so davvero se…
-Garcia – la interruppe, usando un tono di voce molto pacato, - mi dispiace davvero tanto doverti chiedere una cosa simile, ma non lo farei se non fosse urgente. Un folle ha fra le mani una ragazza innocente, e Dio solo sa cosa può averle fatto fino a questo momento; sono sicura al cento per cento che non si trovi lì, in quella casa, adesso, e ora potrebbe già essere troppo tardi. Mi prendo tutta la responsabilità di questa cosa, davvero. Però ho bisogno di avere un riferimento.
L’informatica non disse nulla, e la giovane agente pregò di aver toccato le corde giuste. Era sicura che lo spirito altruista di Penelope avrebbe preso il sopravvento sul protocollo, e sperava di averla rassicurata dicendole che se ne sarebbe caricata le conseguenze; d’altronde, ma questo lei non poteva saperlo, appena possibile avrebbe lasciato la squadra, e quindi uno sgarbo al sistema di quel genere avrebbe avuto ripercussioni su di lei fino ad un certo punto.
Sicuramente Garcia stava ponderando la situazione da un punto di vista il più oggettivo possibile, ma non c’era tempo; era ovvio che Michaels sapeva di essere stato identificato, ed era altrettanto certo che avrebbe fatto di tutto per eliminare i fardelli inutili, come ad esempio una ragazza terrorizzata.
Prima che dovesse ricordarle di avere poco tempo a disposizione, la donna si mise al lavoro. Si sentì un fruscio dall’altro capo del telefono e il rumore di tasti freneticamente premuti. Garcia tirò su con il naso.
-Glenn Michaels è un nome fittizio – esordì, - o meglio, non è nato chiamandosi così. Il verme, prima, era Glenn Randall, ma dopo la morte del padre ha assunto il cognome da nubile della madre; se ti stai chiedendo perché, posso solo dire le parole-chiave “ospedale” e “maltrattamenti”, improvvisamente cessati con la scomparsa del signor Randall.
Eva fece una smorfia, ma non disse niente.
-C’è… un posto. È abbastanza isolato, ma non saprei dirti la sua funzione precisa; era del padre, diversi anni fa, ma dopo è stata acquistata da una terza persona… Michaels se ne è riappropriato pochi mesi fa.
-Quando sono cominciati gli omicidi – riflettè Eva. Trovava straordinario come tutti i tasselli andassero al proprio posto.
-Potresti descrivermi il posto, per favore? – chiese subito dopo.
-Assomiglia ad una baracca, ma vicino ci sono dei magazzini a noleggio; ultimamente l’attività è fallita, e quindi la proprietà è rimasta completamente isolata. È uno spazio poco più grande di un garage costruito con i rimasugli dei materiali di produzione della ditta. È soprendente che qualcuno abbia addirittura pagato per averlo.
Sicuramente, il viso della collega era contratto in un’espressione disgustata. Nella sua mente, la giovane agente cercò di visualizzare il posto, e ci riuscì con sorprendente chiarezza.
-Chi era quello che ha comprato il posto da Randall? – domandò.
Un nuovo zampettare, un breve silenzio assorto. Poi, Eva udì un “non è possibile” sussurrato a mezza voce, accompagnato da un’esclamazione indefinibile di sorpresa.
-Garcia? Tutto a posto? – chiese, preoccupata.
Sentì la donna annuire. –Non ci crederai mai: era di Laure Dawson.
La ragazza ebbe una folgorazione improvvisa. Non seppe descrivere precisamente cosa la fece arrivare alla conclusione, ma era stata una consapevolezza così nitida e fulminea che le pareva impossibile non reputarla vera a priori.
Adesso, le cose, assumevano un senso, nonostante non avrebbe saputo esprimere a parole il disegno che aveva costruito nel proprio cervello. Fece inversione bruscamente, rischiando un frontale con un altro SUV, mentre Garcia scandiva un indirizzo appena superato.
-Grazie, Penelope! – esclamò, eccitata. Prima che l’altra potesse risponderle, però, aveva già scaraventato il telefono sul sedile del passeggero, accanto alla pistola, e si stava dirigendo a tutta velocità verso il capanno del signor Randall.
 
//
 
-Come sarebbe a dire sparita? – chiese Hotch, duramente.
Emily si mise le mani nel capelli e imprecò. –Non lo so! – articolò, - Era in bagno e dopo dieci minuti già era scomparsa!
Il capo non disse nient’altro, ma la sua collera era evidente dalla piega severa delle labbra. Tornato in centrale assieme a Morgan, visto che gli artificieri avevano fatto un ottimo lavoro, aveva avuto l’amara sorpresa: ora, con un potenziale killer a piede libero e una vittima tutt’ora dispersa, la perdita di un’agente non sembrava davvero una buona notizia.
Rossi si accarezzò pensosamente la barba ispida. Quando aveva visto quella strana luce negli occhi della ragazza, aveva subito immaginato che il protocollo le sarebbe stato stretto. Non che agisse spinta dal desiderio di insorgere contro le regole, al contrario, ma aveva quest’animo così profondamente legato alla giustizia che, almeno secondo il suo parere, doveva per forza agire sul campo, invece che stare a guardare.
Fu l’unico che non si dimostrò adirato dalla novità, ma che osservasse con un minimo di raziocinio la cosa in termini pacati.
-Ha stoffa, Hotch – disse, - ha capito che l’assassino non era in casa ancor prima di noi.
-Questo non cambia la sua trasgressione – gli ricordò il superiore, - e, anzi, aggrava solo le cose; adesso abbiamo due possibili ostaggi in mano a Michaels e non sappiamo nemmeno da dove cominciare.
-Perché vi trattate come se foste tutti incompetenti? – sopraggiunse Laure Dawson.
Emily si voltò, sopresa, perché non l’aveva sentita arrivare. Sembrava tranquilla e composta come sempre, anche se al posto del maglione indossava una giacca leggera con una piccola macchia accanto al taschino.
Visto che nella stanza nessuno aveva ribattuto nulla, la donna spiegò: -Non sapete da dove cominciare a cercarli? Mi sembra impossibile; siete i migliori profiler d’America e, se una vostra agente ha avuto un’intuizione prima di voi, allora forse dovreste solo fare uno sforzo di immaginazione. Da quanto lavora per voi? Due giorni?
C’era una punta così freddamente cinica che stridette con l’immagine di persona tranquilla e devota al senso del dovere, ma fu solo un attimo; tornò la persona ragionevole di sempre, con il viso velato da un mezzo sorriso perenne, nell’arco di un secondo.
-Miss Dawson ha ragione – intervenne Morgan. Incorciò le braccia appoggiandosi ad una scrivania.
-Dobbiamo rivalutare la situazione. Il profilo non è cambiato, gli mancava solamente una parte. E questa parte è la pochissima voglia di Michaels di immolarsi per la propria causa.
-Avremmo dovuto pensarci – ammise Emily, abbassando il capo.
Non si sentiva affatto ingannata da Eva, anzi, al suo posto avrebbe agito allo stesso modo. Condivideva con lei il disagio dell’ultima arrivata, del membro più recente della squadra, e spesso, nonostante la cordialità di tutti gli altri agenti, aveva avuto l’impressione di essere un pesce fuor d’acqua, e per questo poteva comprendere meglio degli altri cosa avesse mosso la ragazza.
Tuttavia capiva il rischio di quello che aveva appena compiuto, e si sentiva stupida per non aver riflettuto davvero sulle azioni che avrebbe potuto compiere una volta lasciata da sola. Aveva rispettato la regola del non fare il profilo ai colleghi e aveva comunque fallito. Per questo era una sua priorità ritrovarla viva, ovunque essa fosse.
Perdere un’agente era l’ultima delle cose che avrebbe fatto bene ad Hotch, soprattutto con tutte le pressioni della Strauss. Erano tutti perfettamente consapevoli di quello che stavano affrontando, e di dover procedere con la necessaria cautela.
-Lo stiamo facendo adesso – le ricordò Morgan, prima di cominciare a spremersi le meningi per risolvere la situazione.
-Se non usava il secondo appartamento per uccidere le vittime, allora aveva sicuramente bisogno di un altro covo – intervenne timidamente Reid.
Da quando Eva era sparita si era fatto da parte, e se ne stava pensoso in un angolo, con le mani a coprirgli la bocca in una posa riflessiva. Non aveva spiccicato parola nemmeno davanti alla notizia, e sul suo volto imperturbabile si era scavato un solco spaventato fra le sopracciglia, e aveva osservato le conseguenze con occhi spauriti.
Emily lo osservò attentamente, ma era troppo stanca per arrivare ad una conclusione accettabile, così lasciò subito perdere.
-Giusto – convenne Rossi. –In questo caso sarebbe meglio chiedere a Garcia.
-Ma certo! – esclamò Morgan, battendosi una mano in fronte. –Anche Eva deve aver chiesto a lei dove recarsi, altrimenti come avrebbe potuto saperlo? Sicuramente Garcia sa già dove sta andando adesso.
Prese il cellulare in mano, ma l’atmosfera della stanza fu bruscamente spezzata da un trillo proveniente da una scrivania. Laure Dawson, che era la più vicina, guardò l’apparecchio con lo stesso sguardo che avrebbe rivolto ad una creatura aliena, e tenne le braccia incrociate. Osservando il suo profilo, sembrava davvero molto più vecchia della sua età effettiva, nonostante il viso visto frontalmente la facesse apparire, al contrario, molto giovane.
Hotch lanciò un’occhiata significativa ai membri della propria squadra. Si avvicinò al telefono: numero sconosciuto. Comunicò quest’ultima informazione con una smorfia eloquente e, nell’immobilità generale, alzò la cornetta con studiata lentezza.
JJ, mentre il capo si posò l’oggetto all’orecchio, colse il guizzo muscolare che aveva fatto fremere Spencer. Sembrava sinceramente in ansia e, se prima era impossibile indovinare cosa stesse pensando, adesso era evidente che era angosciato.
-Agente speciale Aaron Hotchner – disse l’uomo, freddamente.
Dall’altro capo del telefono ci fu un lungo silenzio. Il pulsante dell’altoparlante brillava di una luce rossa poco rassicurante.
Prima che le parole arrivassero, i loro animi si colmarono di greve attesa. Ognuno si aspettava una frase diversa, e nel silenzio immobile della stanza sembrava quasi di poter udire i pensieri l’uno dell’altra. Alla fine, però, trionfarono le preoccupazioni peggiori che avessero mai potuto avere, pronunciate con una voce distorta e canzonatoria.
-Agente Hotchner, credo proprio che per la sua Eva oggi sia un giorno molto, molto sfortunato.  
 

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Capitolo 14
*** Momenti Fatali ***


La penombra della stanza le faceva ricordare la Cantina.
"Ricordare", che strano verbo; saltava sempre fuori al momento meno appropriato.
C'era un uomo che parlava, e le sembrava il suo patrigno. Non si stava rivolgendo a lei, ma pareva piuttosto essere impegnato in una vivace conversazione telefonica; anche se non capiva il senso delle parole, sentì subito il tono concitato e decise di non ascoltare, poiché la confusione e il dolore martellante erano già due presenze sufficienti nella sua testa.
Si accorse di avere le mani legate; niente di nuovo. Nella Cantina era sempre legata. Più che una cinghia, sui suoi polsi ebbe l'impressione di avere della corda ruvida. Nella confusione di suoni e odori poté nettamente avvertire lo sfregamento terribile dello iuta contro i polsi.
Provò a muoversi, ma capì subito che era stata una cattiva idea: l'anca le pulsava in modo terribile e la testa sembrava un'incudine ciondolante attaccata al suolo. Mugugnò: fra i denti digrignati sentì un fazzoletto intriso di saliva.
Attorno ai suoi occhi, la sua visuale si fece ancora più confusa e traballante, incerta. Ebbe l'impressione di guardare il mondo al di sotto di una superficie d'acqua, poiché le pareti non sembravano solide e dei grandi cerchi concentrici si allargavano davanti al suo viso.
Poi, con un movimento appena accennato, scorse una figura nell'angolo. All'inizio le sembrò soltanto uno scherzo della propria testa, il preludio di uno svenimento che era ormai certa di dover sopportare, ma i bordi si fecero definiti e assunsero il profilo di un corpo magro, rannicchiato fra l'incontro dei due muri di legno marcio.
L'altro prigioniero si era accorto della sua presenza, e la stava guardando con occhi sbarrati. Si mosse leggermente, facendo tintinnare dei braccialetti al polso. Quel suono formò un riverbero assordante, che si espanse fra le pareti del suo cranio spaccandole il cervello a metà.
Eva cercò di allungarsi verso di lei, ben sapendo di essere totalmente incapace di fare qualcosa di utile, ma quel rumore cigolante le mozzò il respiro e si ritrovò a rimanere immobile, con un dolore lancinante convogliato in tutto il corpo a partire dalle tempie, a fissare la sua terrorizzata compagnia.
Stava dicendo qualcosa. Muoveva le labbra e scandiva un messaggio.
Le immagini si sovrapposero, gli odori nauseanti divennero quelli di un tempo.
"Aiutami" mimò l'altra persona.
Uno sparo.
"Aiutami".
E poi il buio.

**

Reid, inaspettatamente, decise di mettersi alla guida al posto di Morgan.
-Non c'è tempo! - esclamò -Non c'è più tempo!
Finì di sistemare la chiusura del giubbotto antiproiettile e si sedette di slancio davanti al volante, mettendo in moto prima che il collega salisse.
-Calmati, Reid! - protestò il collega, salendo di corsa e chiudendo lo sportello mentre erano già in movimento.
Il più giovane si passò una mano sulla fronte, scalando forsennatamente la marcia.
-Calmarmi, Morgan? Non mi sembra proprio il momento. Ci sono un'agente federale e una possibile vittima in mano ad un sadico in preda a deliri di onnipotenza, armato e in una zona disabitata...come credi possa calmarmi?
L'altro scosse la testa. Aveva ragione, aveva maledettamente ragione.
Se quel caso si era svolto con quella flemma, con quella lentezza, e si stava ora per concludere con un esito drammatico, era solo a causa della tensione nell'aria, dello spaventoso nervosismo di Hotch di fronte all'ennesimo cambiamento della formazione della squadra, che stava mettendo tutti alla prova.
Eva era una ragazza giovane, con del potenziale; lavorava all'unità da qualche giorno soltanto e, anche se aveva commesso un gesto avventato, non era giusto rischiasse una fine del genere. Era loro compito riportarla a casa sana e salva.
Estraendo il cellulare vibrante dalla propria tasca, Morgan azionò il vivavoce.
-Morgan? Siamo appena arrivati all'abitazione di Laure Dawson - disse la voce metallica di Rossi -Hotch, Emily e JJ sono rimasti in centrale per mobilitare tutte le unità operative e trattenere lo sceriffo. Sembrava impazzito.
-Non dev'essere facile accettare l'idea che la propria figlia è una serial killer sociopatica - borbottò l'agente di colore.
-Già - assentì l'uomo, truce. - Stiamo tenendo d'occhio l'entrata, ma non sembra esserci nessuno all'interno. Prima di fare irruzione lanceremo un avvertimento, a quanto pare la Dawson è a casa con il marito ed è armat...
In sottofondo si sentì distintamente il suono di uno sparo e di sirene della polizia.
-Ti richiamo! - urlò Rossi, e la linea cadde precipitosamente.
"Merda!" Imprecò mentalmente il giovane. Con Reid in quello stato, una simile telefonata non sembrava di certo un toccasana.
Come previsto, infatti, il dottore calcò con maggior forza il piede sull'acceleratore e si lanciò sulla strada a tutta velocità, prendendo le curve in maniera decisamente preoccupante, a sirene spiegate. Non aveva mai avuto un'espressione così seria, mai il sul viso era stato così tirato: sicuramente le sorti di Eva dovevano stargli molto più a cuore di quanto gli avesse confidato.
-Morgan, dobbiamo sbrigarci - disse all'improvviso, - se non arriveremo in tempo, lui potrebbe...
Non continuò la frase, e strinse il volante con ferrea decisione, tanto da far sbiancare le nocche.
Quando, in centrale, Michaels aveva concluso la telefonata con una risata beffarda dopo aver dato il suo laconico e derisorio messaggio, il ragazzino sembrava non riuscire a trovare pace. Si era fiondato fuori, all'ingresso, e aveva preso le chiavi del SUV posate sul tavolo con mano tremante.
Era spaventato, terribilmente spaventato. E Morgan non sapeva che cosa dire per rincuorarlo, se davvero fosse stato possibile renderlo meno agitato di quanto non fosse.
-Vedrai, ce la faremo - lo incoraggiò.
Gli pneumatici dell'auto stridettero contro la strada dopo l'ennesima curva azzardata.
-Lo spero - pronunciò il collega a denti stretti.
Il luogo del delitto si avvicinava sempre di più.

**

-Laure Dawson, esca subito dalla sua abitazione con le mani bene in vista! - esclamò la voce metallica dell'altoparlante. - Ripeto, esca subito con le mani bene in vista!
Ci fu uno stridio secco quando l'agente tolse il dito dal pulsante del microfono, tanto che Rossi fu costretto a tapparsi le orecchie con le dita.
Hotch, appena giunto sul posto, si stava sistemando l'auricolare per le comunicazioni interne. Nonostante avesse detto che sarebbe stato più utile per lui rimanere in centrale, nemmeno due minuti dopo aveva raggiunto il grosso delle volanti verso la casa della Dawson, sguainando la pistola di ordinanza e facendosi subito mettere a conoscenza delle mosse da seguire durante l'irruzione.
Lo sceriffo aveva lasciato il permesso di procedere solo a condizione che fossero i suoi uomini, e non gli agenti federali, a guidare le operazioni, sperando in una maggiore clemenza nei confronti della figlia; era stato un calcolo errato. Per i componenti della squadra, la Dawson era soltanto l'ennesima doppiogiochista che infrangeva la legge, ma per i suoi colleghi si trattava di una donna che, avendo conquistato difficilmente il potere in un mondo tipicamente maschile e avendo sempre detto di amare la giustizia e di voler abbattere i pregiudizi, si trattava di un oltraggio personale. Sembravano una muta di cani da caccia in procinto di catturare la preda.
Dopo lo sparo, Rossi non era molto sicuro che la tattica di dare ancora degli avvisi alle persone all'interno della casa si sarebbe potuta rivelare utile, tuttavia non poteva fare nulla per cambiare il corso degli eventi. Tirò fuori a sua volta la pistola e attese, ritirandosi in disparte.
Nonostante non vedesse l'ora di intervenire personalmente per fermare una lunga serie di mosse sbagliate, il suo giuramento di obbedienza nei confronti del suo superiore costituiva una museruola troppo coriacea per essere divelta da una singola tentazione; era ovvio che a quella massa di zotici non importava un fico secco se una giovane ragazza dell'FBI stava rischiando la vita in quello stesso momento: per loro era decisamente più importante ristabilire la propria virilità ferita mettendo le manette su una persona che non avevano mai sopportato.
-Hotch - disse, appena lo vide avvicinarsi - tutto questo è assolutamente ridicolo.
L'uomo annuì con severità, mentre in sottofondo l'agente ripeteva il proprio avviso, senza nessuna reazione, come la prima volta.
-Se solo facessero le cose nel modo giusto... - cominciò a dire, ma non concluse il discorso.
Volse lo sguardo verso il lato ovest della casa, e vide lo spettacolo desolante di uomini in tenuta antisommossa costretti a stare mollemente appoggiati al loro furgone blindato, senza aver ricevuto un solo comando sulle azioni da svolgere.
Hotch scosse la testa. -Se Laure Dawson è sola in casa con il marito può benissimo darsi che l'abbia ucciso.
-Ma per quale motivo?
-Non abbiamo nemmeno fatto un profilo su di lei, non avevamo il minimo sospetto. Se è vero, come abbiamo ipotizzato, che si tratta di una sociopatica, allora il matrimonio doveva essere solo una facciata.
Rossi appoggiò la schiena ad una volante della polizia, incrociando le braccia con aria meditabonda.
-Ma noi le abbiamo fatto il profilo, Hotch - gli ricordò. Il superiore lo squadrò con interesse.
-Il secondo complice - spiegò. - Non si trattava di Paul Smith, lui era solo un esecutore materiale della fase finale, il trasporto; in caso di processo si sarebbe preso tutte le aggravanti, un comportamento da manuale. Il vero complice era lei.
Hotch lo fissò intensamente, comprendendo all'istante. -Credi che si sia uccisa?
Rossi fece un mezzo sorriso. -Non lo pensi nemmeno tu.
In quello stesso istante, un giovane poliziotto si affiancò ai due federali con sguardo truce e una mano sulla fondina della pistola d'ordinanza. 
-Pronti all'irruzione - latrò, cupo, prima di passare oltre ad avvisare i colleghi.
Rossi sospirò. -Finalmente.
Controllò il caricatore ma rimase al suo posto: presto ci sarebbe stata una carneficina.

** 

In un primo momento tentò di scalciare, di ribellarsi alla costrizione delle corde grezze sui polsi ma, alla fine, aveva capito che sarebbe stato tutto inutile e aveva ceduto, poggiando la schiena contro il divano a fiori e fissando con odio sincero ogni sua singola mossa.
Lanciando appena uno sguardo verso la sua "dolce metà", chiuse con evidente soddisfazione la conversazione telefonica.
Nel buio del soggiorno, i profili degli oggetti erano scheggiati dalle lame di luce che oltrepassavano le veneziane. Bagliori circolari rossi e azzurri spezzavano l'aria buia e silenziosa dell'interno. Da quando la sua singolare preda aveva smesso di mugolare, il silenzio si era fatto denso e rassicurante, intervallato soltanto da qualche inutile richiamo dell'altoparlante e di uno scalpiccio concitato sul vialetto davanti al garage.
Guardò velocemente fuori dalla finestra: drappelli di uomini in uniforme si stavano vicendevolmente scambiando le armi e sistemando i propri auricolari.
"Era ora" pensò.
Tutto procedeva secondo i piani e la fine, inevitabile, appariva ancora più dolce di quanto avesse inizialmente pensato. Avevano calcolato tutto quanto, insieme, e non avevano fallito. Era stato il giusto prezzo da pagare per quel periodo di armonia, brutalità e pace interiore.
Raccolse la pistola fumante da terra, controllando i colpi rimasti. Sei; sarebbero stati più che sufficienti.
Si chinò lentamente verso la figura accovacciata e si accostò al suo orecchio. Era incredibile che, nonostante tutti gli anni passati assieme in quella stessa casa, ora stesse facendo di tutto pur di sottrarsi alla sua bocca.
Sussurrò poche parole, con un lieve sorriso, scostando i capelli perché sentisse meglio.
-Ci siamo quasi, amore mio.
Al suono del secondo sparo, la porta d'ingresso venne divelta con un calcio. 
Ma nessuno di coloro che entrò nella stanza si sarebbe potuto dire preparato a ciò che sarebbe stato costretto a vedere.


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Capitolo 15
*** La resa dei conti ***


Dal rapporto di Emily Prentiss:
(…) Alle ore 21.45, ovvero quattro ore dopo l’inizio delle operazioni, ebbe luogo l’irruzione nella casa della sospettata per complicità in omicidio Dawson Laure, figlia e perciò parente prossima dello sceriffo Dawson Geoffrey.
L’agente Hotchner Aaron e l’agente Rossi David erano presenti, ma non sono intervenuti nelle operazioni.
Parteciparono all’operazione un totale di agenti del posto pari a quindici uomini armati, tre agenti in tenuta anti-sommossa alla presenza dei due agenti federali sopracitati.
All’interno, poco prima dell’intervento effettivo, esplosero due colpi di pistola in rapida successione, e a questi suoni viene attribuita l’origine di quanto trovato nella casa.
 
**
 
Nell’aria gelida della notte, si sentì potente, meschino e in pace con sé stesso.
Per tutta la vita, tutta, non avrebbe potuto dire di aver mai provato una sensazione simile. Allargò le braccia e inspirò a fondo: il gelo inaspettato, se considerato il periodo estivo, aveva lo stesso sapore di una premonizione, e scalfiva i polmoni allo stesso modo.
Era libero, finalmente. Strano che, però, non avrebbe potuto godersi a lungo quel momento.
Tuttavia si consolò con la consapevolezza che nulla era destinato a durare, e con il passare del tempo le cose si sarebbero sfaldate, sarebbero andate inevitalmente in rovina.
Però, che estate! Chi l’avrebbe mai detto che lui, il gracile Glenn Michaels, il piccolo ragazzino di periferia, celava dentro di sé un animo tanto violento, tanto passionale? Era sempre stato l’ultimo a sospettare che nel suo intimo vi fossero simili istinti, e aveva scoperto tutto solo e soltanto grazie a quella persona speciale.
Morto, sarebbe morto! Morto senza conoscere nulla di tutto ciò. Il sapore del sangue, le grida, il piacere! Come avrebbe potuto, come, farne a meno, quando era così palese che faceva tutto quanto parte di un disegno ben al di sopra di sé stesso, di tutti quanti, e che nessuno poteva muovere un dito per cercare di cambiare le cose?
Ecco perché il quell’istante si sentiva così bene, pensò. Perché adesso aveva in mano il dominio puro e semplice. Persino l’FBI lo temeva, tutta Bergen aveva paura di lui! I genitori tenevano in casa le figlie a causa di quel terrore senza nome, non c’era madre che non guardasse i figli con apprensione, non c’era donna che non si sentisse schiacciata da quella minaccia incombente, illimitata, insidiosa e inesorabile!
Lui voleva che loro morissero, ed erano morte. Era forse così che si sentiva Dio, ogni singolo giorno? No, forse anche meno bene di così.
Sollevò il capo, fissò le stelle. Le contò tutte; il cielo era un’immensa cupola senza nome, muta, che non risplendeva più.
Era bastata una telefonata per dirsi addio, non c’era mai stato bisogno di troppe infiocchettature per suggellare la loro passione. Era successo, ma non sarebbe finito; quel sentimento sarebbe durato per sempre, anche dopo la sua morte carnale.
In un certo senso, conoscendo quell’angelo amorevole aveva svelato sé stesso. E un ringraziamento non sarebbe stato abbastanza. L’amore non offuscava la sua vista, tantomeno la devozione; era solo la forza del sentimento che nutriva nei suoi confronti a renderlo vivo.
Il pensiero che appena chiusa la comunicazione forse la sua vita sarebbe già stata lì, fra quelle stelle, faceva male. Era un dolore diverso da ciò a cui era preparato, però, e si presentava molto più pungolante di quanto si sarebbe potuto aspettare.
Era paura, forse? Probabile; tuttavia un po’ lo seccò il fatto che sarebbe morto spaventato. Impaurito, certo, ma non dalla morte: il pensiero che forse non si sarebbero mai più incontrati era decisamente più assoluto, formava un abisso incolmabile, e avrebbe saputo saltare per colmarne le distanze?
Strinse le dita intirizzite contro il metallo ghiacciato. Ma certo che ce l’avrebbe fatta, che domande. Non era la prima volta che uccideva qualcuno, in fondo, e il fatto che questa volta toccasse ad egli stesso, che differenza faceva? Pur sempre un essere umano, cenere alla cenere.
Sentì le sirene in lontananza, e la volta nera sopra alla sua testa si tinse di altri bagliori. Sorrise: era il momento.
Lanciò un ultimo sguardo alle stelle; sentì la forma della canna contro la tempia, ed era più fredda di quanto avesse immaginato.
Che estate.
 
**
 
Rossi guardava apprensivamente lo schermo del telefono. Aveva cercato, invano, di mettersi in contatto con JJ, ma evidentemente la donna non aveva la possibilità di parlare con lui.
E se JJ non era reperibile, allora voleva dire che la situazione era sfuggita completamente al di fuori del loro controllo e si sarebbe entrati in un limbo vischioso, sanguinario, sgradevole e apatico dove l’unica cosa che avrebbero potuto fare sarebbe stata guardare.
Cercò di fissare la casa, ma non ci riuscì; le luci accecanti dei fari la rendevano invisibile, avvolta da un’aureola surreale. I paramedici sfilavano ordinatamente, senza fretta, procedendo sui gradini, ed entravano in quell’ossimorico paradiso con l’assoluta indifferenza dei peccatori. Ormai non c’era più nessuno da salvare.
Hotch, dall’altro lato del giardino, stava cortesemente chiedendo ad una casalinga curiosa di mettere a letto i figli, che non c’era nulla da vedere. Sarebbe stato impossibile rifilare loro la solita balla che non era successo niente, si trattava soltanto di una questione irrisoria, perché era palese che la situazione fosse grave.
La zona perimetrata, poi, non lasciava spazio a dubbi. Aveva aiutato personalmente a mettere le strisce gialle e nere di divieto, anche sulla parte posteriore della casa (aveva imparato per esperienza che la curiosità umana non conosce nessun limite).
All’improvviso, mentre stava per ricomporre il suo numero, il cellulare cominciò a ronzare insistentemente.
-JJ? Sei tu?
-Sì – rispose la donna. La voce metallica gli arrivava a bizze, e in sottofondo si sentiva un fastidioso crepitio. –Mi senti?
-Non molto – ammise. –Cerca di ascoltarmi quanto puoi, qui l’affare è più serio di quanto pensassimo.
Dall’altro capo della comunicazione, la sentì sospirare. Era un chiaro segno di frustrazione e di stanchezza; raramente JJ si lasciava andare a simili manifestazioni di disappunto, o di fatica. Si sentiva sempre in dovere di mostrarsi il membro incrollabile del gruppo per il contorto ragionamento di essere quella a rischiare di meno, anche se non era affatto così.
Ormai pronto a nuovi, tetri sviluppi, Rossi si tappò l’altro orecchio con un dito e si appartò quanto più possibile.
-Cosa sta succedendo, JJ?
Ci fu una pausa. – Non posso dirtelo per telefono, Rossi. Qui c’è…troppa gente. Sappi solo che è essenziale che tu e Hotch arriviate qui al più presto, e che siate preparati al peggio.
L’uomo annuì brevemente, accantonando i propri timori per darci maggiore spazio al momento opportuno.
-Emily è lì con te?
Altra pausa. –Sì. Ma non credo possa parlare, in questo momento.
Rossi preferì non commentare. La salutò brevemente e chiuse la telefonata. Rivolse un ultimo sguardo alla casa, o ai contorni a malapena visibili che sbucavano da quell’alcova redentrice.
-Hotch! – chiamò.
Lo vide alzare la testa verso di lui; sembrava altrettanto impegnato in una conversazione telefonica, ma chiunque ci fosse a reclamare la sua attenzione, David sapeva di avere la priorità. Mai un caso aveva rischiato di spingersi così oltre e, quando era successo, le conseguenze non si erano mai fatte attendere; non si trattava soltanto di salvaguardare la vita dei civili, in simili casi, ma anche la propria. E temeva davvero che questa volta avessero fallito.
-Cosa c’è? – il capo gli si avvicinò, riponendo il cellulare in tasca. Aveva uno sguardo tagliente.
-Ho chiamato JJ. Non c’è tempo, dobbiamo tornare – disse.
L’altro lo fissò. –Ti ha spiegato cosa…
-No – lo interruppe. –Ma da quel che ho capito è una cosa seria; qui non hanno più bisogno di noi, ormai. Torniamo in centrale.
Hotch lanciò uno sguardo a quell’abitazione maledetta. Fu l’ultimo.
-Andiamo.
 
**
 
-Glenn Michaels si è suicidato – disse JJ, appena li vide entrare dalle porte trasparenti della hall.
Il brulichio incessante dell’ufficio si era intensificato in quelle ore frenetiche, ma quell’attività alacre non sembrava portare da nessuna parte. Telefonate bisbigliate, fascicoli trasferiti fra cassetti e cassetti diversi, computer accesi, auto della polizia allertate… non avrebbero comunque risolto nulla, pur dedicandosi così fervidamente alle loro solite occupazioni.
Hotch si passò le dita sugli occhi, come nel tentativo di schiarirsi le idee.
-Reid e Morgan?
La ragazza si incupì all’improvviso, tanto che la sua voce professionale si incrinò. – È questo il problema. Non riusciamo a contattarli.
-E come fate a sapere di Michaels, allora? – domandò Rossi.
La donna sollevò una mano, mostrando un foglio chiuso in una busta trasparente. Non c’era nessun indizio che lo facesse sembrare una lettera, ma due piegature lo spezzavano orizzontalmente.
Sopra erano state scarabocchiate diverse righe storte, che si allungavano verso il basso. Grafia tipicamente maschile.
-“Questa vita ha acquistato il suo senso grazie al mio angelo amorevole. Ora che ha smesso di esistere, ritorno cenere com’era in origine” – recitò.
-È firmato – notò Rossi. Era una sua qualità quella di riuscire a rimanere impassibile quando gli altri membri della squadra si facevano prendere alla sprovvista.
-Il suo “angelo amoroso” non era la Dawson – concluse Hotch, seccamente. –Bensì il marito, Louis Brennan.
-Cosa? – esclamò JJ.
David annuì brevemente. –Michaels era un omosessuale latente; incontrò Brennan nella clinica di disintossicazione, e insieme raggirarono Smith per servirsi di lui. Quest’ultimo non sapeva dell’esistenza dell’altro, ma dubito che a questo punto sia un dettaglio rilevante.
-Quindi sono tutti…?
-Esattamente – spiegò. –Omicidio-suicidio. La Dawson è stata trovata legata e imbavagliata accanto al divano; è stata una complice inconsapevole sui documenti ufficiali, visto che ogni transazione del trio era intestata a suo nome.
-Dobbiamo contattare Morgan e Reid – tagliò corto Hotch, - perché se è vero che Michaels si è suicidato allora dovrebbero già essere tornati in centrale.
-Abbiamo mandato dei rinforzi – spiegò JJ, - ma in quella zona non c’è campo, e così non sappiamo se sono stati raggiunti o se… - non concluse la frase, e la lasciò piombare nel silenzio.
David le posò una mano sulla spalla con fare paterno, sforzandosi di fare un sorriso. –Vedrai, JJ, adesso li troviamo.
La ragazza mormorò qualcosa, ma non c’era più tempo per ascoltarla.
 
**
 
L’oscurità, a dispetto dell’ora, era assoluta. In quel periodo dell’estate, solitamente, il tramonto doveva appena essere passato, ma a quanto pareva delle nubi scure avevano del tutto oscurato quella parte di cielo e, fra uno spiraglio e l’altro, erano visibili delle nebulose stelle.
Nel silenzio tombale si sentiva lo sporadico verso dei grilli, discontinuo e gracchiante. Derek l’aveva sempre odiato, sin da quando era bambino.
Reid gli stava camminando davanti, circospetto, con la pistola sguainata tra le mani, la canna abbassata come il muso di un cane da caccia pronto ad azzanare una lepre.
Ne vedeva solo la schiena ossuta, gonfiata, dall’oscurità, dal giubotto antiproiettile, ma nulla di più; avanzava con i passi lenti e cauti tipici di un’ispezione. Nell’assoluto silenzio, era Morgan a seguirlo, e non il contrario; nella condizione psicologica in cui il più giovane si trovava, lo sapeva, era un rischio farlo avanzare senza nessun blocco, ma d’altra parte se si fosse opposto avrebbe rischiato un’iniziativa del tutto inappropriata del dottore, viste le circostanze.
La capanna era lì, contro di loro. Il fianco di Morgan stava scivolando contro il legno marcio. Alla fine, avevano optato per passare da dietro, ma lo spesso strato di fango secco sul suolo e sulle pareti, presente in egual misura, si era dimostrata una barriera più coriacea del previsto.
Non si sentiva un solo respiro. Dall’interno, nessun suono: aveva l’impressione che fosse deserta.
Eppure era lì, ne era certo. Ne era sicuro. Non poteva essere da nessun’altra parte e, se la sua esperienza in menti criminali gli dava ragione, allora non si sbagliava.
Solo che, quella notte, non aveva affatto la tipica sensazione di respirare la stessa aria dell’omicidia, di star calpestando le sue stesse impronte. Era un’agitazione che non sapeva spiegare, una sorta di viscida adrenalina che lo colmava inesorabilmente, senza che lui potesse opporsi.
Ma quella volta, nulla. Il suo animo era piatto come la superficie del mare in una giornata senza vento.
Vide Spencer fare un passo oltre l’angolo della capanna e, per riflesso, si acquattò contro la parete marcia respirando piano, guardandolo assumere la posa difensiva con la pistola puntata in avanti. Niente.
Gli fece un cenno di assenso e proseguì; Morgan lo seguì a ruota.
Avevano mosso solo un paio di passi che, all’improvviso, la quiete della notte fu squarciata da uno sparo. Fu un suono violento, e lo fece sussultare.
Reid, sentendolo, cominciò a correre, seguendo un istinto del tutto irrazionale. Morgan scattò dietro di lui.
-Reid! – urlò. Ma il ragazzo era ormai sordo ai suoi richiami; in un attimo si trovò davanti alla porta, la scardinò come un calcio.
-FBI! – esclamò il dottore, facendo sfoggio di un’audacia che non gli aveva mai visto prima.
-Reid, fermati, maledizione! – gridò di nuovo il collega. All’interno l’oscurità era fitta e pastosa, umida, e il caldo era quasi intollerabile. Mosse pochi passi guidato dallo scintillio della pistola di Reid, ma ben presto, nonostante lo spazio ridotto, ebbe bisogno di appoggiarsi al muro instabile per non perdere l’equilibrio; lo sbalzo repentino di temperatura gli fece vorticare la testa.
-FBI, giù le armi! – ripetè Reid, ma sembrava evidente ad entrambi, ormai, che non c’era nessuno.
Stava per dirgli di stare zitto, maledizione, che se continuava ad urlare fra quelle quattro mura non sarebbe riuscito a pensare, ma all’improvviso con la punta della scarpa toccò qualcosa. Qualcosa che non si mosse.
-Spencer… - mormorò.
Spinse il piede leggermente più avanti. Era un ostacolo solido, ma non irremovibile. C’era qualcosa di strano che lo avvolgeva, come dei filamenti…capelli, forse?
Il dottore gli puntò subito la pistola addosso, nel buio.
-Accendi la luce!
Ci fu tramestio ma, incredibilmente, il ragazzo più giovane riuscì a trovare un interruttore e l’intero ambiente venne irradiato da una luce fortissima che lo lasciò accecato per qualche momento. Vide degli sprazzi rossi e alcune chiazze più chiare.
Strizzò le palpebre; mai si era sentito così debole e affaticato. Il suono delle sirene in lontananza gli sembrò irreale.
-Eva! – esclamò Reid.
Finalmente Morgan riuscì a focalizzare l’ambiente circostante: il viso del collega era sconvolto; nell’angolo c’era una sagoma rannicchiata, fasciata in una maglia gialla sgargiante che spiccava nella fioca penombra. Era una ragazza, altrimenti completamente nuda. Sembrava morta. Le sue pupille vuote, opache e spalancate lo fissarono dritto negli occhi.
Guardò per terra. Stava pestando una ciocca di capelli scuri e lucidi. All’attaccatura di esse c’era un viso familiare, pallido e striato di sporcizia. Una camicia bianca intrisa di sangue, le gambe scomposte, le mani legate, la bocca imbavagliata.
Reid si era già inginocchiato a terra e spostò malamente il collega per prenderle la testa fra le braccia.
-Respira! – urlò, con gli occhi lucidi. –Respira, Morgan! Chiama qualcuno!
Il collega non si mosse per qualche secondo. E poi, in un istante, lo spazio fu gremito di uomini in divisa, e le parole del giovane si fusero con quella dei poliziotti mentre, lentamente, il mondo tornava ad essere il luogo nitido e brutale che era sempre stato.
 
**
 
Dal rapporto di Aaron Hotchner:
(…) Pertanto, considerando le cause sopra elencate, l’agente Reid Spencer si recò in ospedale per assistere la collega Arcangeli Eva, una volta appurata la morte dell’esecutore materiale del gesto, tale Michaels Glenn.
All’interno furono rinvenuti utensili collocabili ai delitti nonché la vittima scomparsa sopra citata, deceduta in seguito alle sevizie sopportate.
L’agente Morgan Derek rimase sulla scena del crimine e gli allegati 15, 17 e 24 vennero raccolti da lui stesso. In seguito, circa alle ore 23.15, fece ritorno alla centrale ed espose dettagliatamente al resto della squadra l’accaduto dalle ore 21.45 alle ore 23.00.
Arcangeli Eva risulta tutt’ora ricoverata all’ospedale cittadino, in condizioni di prognosi riservata.
Il bilancio attuale comprende vittime, carnefici e vittime collaterali.
In allegato, le copie dei referti del coroner e le fotografie scattate ai luoghi del ritrovamento.
 
Aaron Hotchner.
 

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Capitolo 16
*** In ospedale ***


Reid stava curvo sulla sedia addossata al muro, immobile. Teneva fra le mani un bicchiere di plastica colmo di caffè senza zucchero portatogli da Morgan quasi un'ora prima, ma non se l'era nemmeno portato alle labbra.
Garcia aveva telefonato per avvertire che Hotch, JJ e Rossi erano arrivati sani e salvi a Quantico: nonostante avessero voluto rimanere con gli altri tre agenti, la Strauss era stata lapidaria nell'esigere spiegazioni faccia a faccia, ed era stato solo per puro senso di solidarietà che non avevano lasciato partire Hotch da solo (visto che non era stato l'unico ad aver ignorato le chiamate della donna).
Fissando per l'ennesima volta la figura del dottore, però, Morgan si pentì di non averli seguiti. Preferiva di certo prendersi una lavata di capo dalla Strauss piuttosto che stare a guardare il dilaniamento interiore dell'amico, senza per altro poter intervenire.
Il giovane dottore, infatti, senza dire una sola parola aveva rifiutato qualsiasi contatto umano: si era seduto lontano dai due colleghi, aveva abbassato la testa e, talvolta, si strofinava gli indici contro le tempie. Durante il viaggio in auto per arrivare all'ospedale non aveva spiccicato parola, stando passivamente a sentire quello che veniva trasmesso al suo auricolare e senza fare nessun commento, evitando persino di rispondere alle domande fattegli da Emily.
La donna, alla fine, aveva capito l'antifona; quando vide Derek in procinto di portare a Reid un caffè fece una smorfia, ma lo lasciò andare. Non che questo gesto avesse portato dei cambiamenti significativi, del resto: aveva destato solo un lieve ciondolio del capo e un rauco ringraziamento.
Morgan scosse la testa, distogliendo lo sguardo. Odiava sentirsi così impotente di fronte allo smarrimento del giovane. Quando se ne era andato Gideon aveva visto la stessa identica scena, la stessa feroce apatia che il dottore usava per nascondere il dolore. Reid non aveva avuto paura di piangere in pubblico, di urlare, ma quella volta era stato diverso: quell'allontanamento non era paragonabile alla morte per il semplice fatto che, per quanto fosse ugualmente definitivo, era stato dettato dalla spontanea volontà di Gideon.
- Notizie di Eva? - chiese Emily, all'improvviso, avvicinandosi.
Il collega scosse la testa. - Ormai sono quasi dieci ore che è in sala operatoria.
La donna si passò una mano sul viso. - Ho chiamato Rossi; dice che sono arrivati in centrale e che aspettano notizie.
- Hotch? - chiese Morgan.
Prentiss fece un'alzata di spalle. - Nervoso, ma controllato. Come suo solito.
Nel silenzio che seguì, Morgan accennò a Reid con il mento.
- Guardalo, Emily: si sta torturando. È lì da ore, non si muove; non si sta mangiando le unghie, non sta bevendo caffè, non sta leggendo compulsivamente, non straparla; niente. Immobile come una statua.
Dall'espressione di lei, Morgan capì che il suo pensiero era condiviso. Quell'atteggiamento era decisamente anomalo.
- Qualche giorno fa - riprese lui, - mi ha detto che lui e Eva erano amici di infanzia, ma che si sono persi di vista per colpa del lavoro di lui qui, a Quantico.
Quelle parole bastarono ad Emily per capire quanto il giovane si sentisse colpevole. Quello era un tassello della storia che le mancava, e che ora faceva quadrare i conti; infatti, senza quella piccola informazione, non si sarebbe altrimenti spiegata come mai Reid sembrasse tanto sensibile riguardo alle sorti di Eva.
Il gesto della nuova arrivata era stato insensato, e stupido. Non si può andare spontaneamente nel covo di un serial killer con una pistola di ordinanza, le spalle scoperte e una semplice intuizione come addestramento. Sicuramente, l'uomo doveva averla stordita con un colpo appena varcata la soglia, e poi non doveva essere stato difficile legarla e buttarla in un angolo. Quella conclusione era fin troppo prevedibile, e si stupiva che una ragazza sveglia come la collega non se ne fosse subito resa conto; cosa sperava di fare, senza rinforzi né manette, in una zona isolata? Ovviamente la conclusione sarebbe stata quella che avevano davanti agli occhi.
Altrettanto sicuro era il fatto che, avendo messo a repentaglio non solo la reputazione dell'intera squadra, ma anche l'esito del caso, la giovane avrebbe pagato caro il peso delle sue azioni (e qualcosa le faceva pensare che la Strauss non vedesse l'ora di flagellare gli agenti). Per non parlare di Hotch, poi, che aveva assunto quella ragazza senza neppure saperne le credenziali, bensì pescandola in un vecchio archivio dove figurava il suo nome accompagnato dalla nota di merito di un insegnante universitario. Lo stress di quel periodo non era equiparabile alla mole di lavoro che avevano avuto in passato, tuttavia l'atmosfera non era per questo meno pesante oppure meno carica di nervosismo. Vedere il proprio capo barcollare sotto il peso delle proprie responsabilità metteva tutti a dura prova. Inoltre, se il capo in questione era Hotch, diventava frustrante persino guardarlo reprimere tutto sotto un'espressione impassibile e un numero esorbitante di straordinari.
Anche lei si ritrovò a guardare Reid, oltre il cornicione del corridoio che separava la triste sala d'attesa dal resto dell'ospedale. Li avevano confinati in una bolla solitaria; non c'era nessun altro, lì dentro, e gli unici segni di una qualche presenza umana erano dati da un camice verde da infermiere buttato su una sedia arancione nell'angolo e, sparpagliate su un tavolino basso al centro della stanza, una serie di riviste vecchie di anni con gli orli sgualciti e sudici. Si chiese come facesse una persona che sta per apprendere le sorti di un proprio caro a concentrarsi sul gossip.
- Non possiamo permettergli di continuare così, Morgan - bisbigliò Emily.
L'uomo scosse il capo per l'ennesima volta. - Credi che non lo sappia? Lo sto fissando da un'ora ed è tanto se l'ho visto sbattere le palpebre.
Lei lasciò passare un lungo silenzio. - Dev'esserci qualcosa di più oltre a quello che ti ha detto.
- So perfettamente anche questo. È anomalo reagire così per le sorti di una vecchia compagna di classe sparita per quasi vent'anni.
Prentiss sospirò. - Non mi piacciono tutti questi misteri. Non sto affatto dicendo di trovare Eva sgradevole, nonostante tutto quello che è successo, ma è avvenuto tutto troppo in fretta: l'hanno inserita nella squadra e siamo subito volati per risolvere un caso senza nemmeno il tempo per le presentazioni. E se è vero che il passato di Eva è così delicato come Hotch ha lasciato intendere, non sarebbe stato meglio dirci qualcosa, almeno a grandi linee?
Nonostante Morgan concordasse con lei e condividesse il suo stesso ragionamento, non volle prendere una posizione. Il discorso della collega era, come sempre, sensato; infatti, anche lui si trovava a disagio a parlare con la nuova arrivata perché, nonostante la schiettezza di lei invitasse alla conversazione, aveva sempre paura di toccare involontariamente tasti dolenti. Quell'atmosfera di parole non dette gli dava altamente fastidio; in quel momento, tuttavia, sentiva nel petto solo la preoccupazione per le sorti della giovane.
Alla fine decise di mettere Prentiss al corrente dei suoi pensieri: - Emily, so che hai ragione, ma non riesco a pensarci adesso. Dieci ore, capisci? Dieci ore sotto ai ferri. E nessuno è ancora uscito da quella maledetta porta per qualsiasi dannato motivo.
Si passò una mano sul viso, frustrato.
Lei gli posò delicatamente una mano sul braccio con espressione comprensiva. - Hai ragione, non è il momento per certe cose. Ed è altrettanto vero che non si può continuare ad aspettare in questo modo, sto andando fuori di testa. Vado a vedere se passa qualcuno, torno subito.
Detto questo, Derek la guardò girare l'angolo e ne seguì con l'udito i passi lungo il corridoio, fino a quando non la sentì aprire la porta a vetri che separava i vari reparti e non gli fu più possibile distinguere cosa stesse facendo.
Ben sapendo che quella ricerca si sarebbe rivelata inconcludente, ne approfittò per entrare nella sala d'attesa, allontanandosi dalla porta, e prendere posto abbastanza vicino a Spencer. Era rimasto in piedi tutta la notte, senza riuscire a chiudere occhio, e sentiva le gambe indolenzite; l'addestramento, per quanto ferreo, non aveva nessun valore quando si trattava di domare la stanchezza fisica.
Allungò pigramente un mano per prendere qualche rivista: se ne pentì non appena scorse i titoli. "Matrimonio principesco per la giovane stellina del porno", "Gravidanza smentita nel mondo della musica", "Scopri i colori dell'estate!". Guardò le date: oscillavano dal gennaio 2003 al marzo 2007. Rassegnato, le rimise dov'erano prima.
- Che ore sono? - gracchiò Reid, dal suo angolo.
Morgan, sorpreso, si finse impassibile. Guardò il proprio orologio da polso.
- Le dieci e un quarto.
Il dottore non rispose, ma raddrizzò un po' la schiena e si strofinò gli occhi con la mano libera. Lo vide posare stancamente il bicchiere a lato della propria sedia.
- Grazie per prima - disse, accennandovi.
Il collega fece un'alzata di spalle per dirgli che non importava. Nulla importava, ormai.
La preoccupazione, la sonnolenza e la fame avevano lasciato il posto alla più totale e assoluta forma di abnegazione che avesse mai sperimentato. Ogni singola sensazione fisica che stesse provando passò in secondo piano, e nel silenzio dei suoi pensieri gli parve di poter udire il tuonare del cuore nel petto.
- Cosa succede se... - cominciò a dire il dottore, con un filo rauco di voce - ...se l'operazione non va a buon fine? - deglutì sonoramente.
Morgan chiuse gli occhi.
- Non pensarci - rispose.
Suo malgrado, si sentiva più a proprio agio ora che Emily si era allontanata; nonostante la donna condividesse le sue ansie e i suoi pensieri, ora che poteva ragionare nella propria solitudine sentiva la confidenza che aveva con Reid farsi più acuta; ebbe l'impressione, per l'ennesima volta, che la loro amicizia ne sarebbe uscita più robusta, dopo quelle ore e, anche se era terribilmente egoistico da pensare, fremeva dalla voglia di uscire da quell'ospedale per occuparsi di questioni che poteva controllare.
Il legame che sentiva di star cominciando a nutrire nei confronti della collega gli aveva impedito di andare a Quantico, ecco la verità: era come se la giovane italiana avesse una sorta di magnetismo impossibile da ignorare che l'aveva costretto a rimanere lì, a farle forza con il pensiero.
- Come faccio a non pensarci? - mormorò flebilmente Reid. - È impossibile. Mi sto sforzando da ore, Morgan, ore, di pensare ad altro, ma il mio cervello rimane fisso su quello che è successo. 
Il collega voltò il viso verso di lui. - Non provare nemmeno per un attimo a darti la colpa di questa storia.
Spencer si morse il labbro inferiore: ecco cos'era che lo tormentava.
- Reid, ascolta: anche arrivando prima, non avremmo concluso nulla lo stesso; Eva era già partita, d'accordo? Era arrivata lì molto prima di tutti quanti. Anche guidando a sirene spiegate non saremmo mai riusciti a raggiungerla in tempo.
Il ragazzo scosse veementemente la testa, alzando finalmente gli occhi lucidi e arrossati verso di lui. Il viso pallido, smagrito dalla luce al neon, era cadaverico, e due vistose occhiaie scure lo facevano apparire più vecchio di almeno dieci anni. Tremava.
- No, Morgan, avrei dovuto capirlo! - esclamò. - Io la conosco, avrei dovuto sapere che avrebbe agito d'istinto, l'ha sempre fatto! Se solo...se solo...
- Reid, smettila - lo interruppe Morgan, con tono fermo. - Come avresti potuto prevedere quello che è successo? Per quanto bene tu la conosca devi avere la capacità di comprendere che ciò che è avvenuto in quel tugurio non poteva essere impedito allora così come non può essere cambiato adesso. Guarda in faccia alla realtà, Reid! Il nostro intervento è stato il più tempestivo possibile, e l'abbiamo portata in salvo. Punto.
- In salvo, Morgan? - disse, con espressione disperata. - In salvo? Dieci ore di operazione al cervello non sono "in salvo"!
L'altro sospirò. - Non è torturandoci così che riusciremo a superare questa storia, lo sai bene quanto me.
Il dottore si bloccò di colpo. Spalancò gli occhi castani, rabbrividendo, e lo fissò dritto in faccia. In quello stesso momento Morgan si accorse del proprio madornale errore. Superare questa storia.
"Merda".
Reid rimase a lungo in silenzio.
- Quindi tu pensi che morirà - nonostante lo sguardo deciso, la voce era incrinata.
- Non ho detto questo...
- È come se l'avessi fatto, invece! 
Si alzò in piedi di scatto, passandosi entrambi le mani sui capelli scarmigliati.
- Io...mi dispiace. Sto impazzendo, non riesco a reggere un minuto di più. Troppo... - sembrò voler cercare il termine adatto, ma poi si arrese. - ... Troppo, capisci?
Abbozzò un sorriso stanco, prima di risedersi nella posizione iniziale.
Morgan sapeva che se l'avesse lasciato marcire nel proprio silenzio avrebbe ottenuto una nuova chiusura emotiva in Reid e, sebbene si rendesse conto di aver portato la situazione all'estremo per propria stupidità, cercò di non far scivolare Reid nel baratro in cui era calato.
- Non devi scusarti - disse, a voce bassa. - Siamo tutti stanchi. Sono sicuro che non ci vorrà ancora molto, Reid. Dobbiamo solo avere fiducia.
L'altro annuì, poco convinto. Cercò di cancellare dalla propria testa le immagini del ritrovamento, del sangue che macchiava il terriccio, degli occhi vitrei di Eva che fissavano a vuoto l'oscurità.
Ma non ci riuscì.

**

Prentiss sbuffò. - No, nessun'infermiera, a quanto pare.
Rossi, dall'altra parte del telefono, emise un sospiro sconfitto. - Quanto pensi ci voglia ancora?
- Sinceramente? Non ne ho idea. All'inizio pensavo che passare tutta una notte in sala fosse più che normale, soprattutto per un intervento così delicato. Ma dieci ore? E ancora nessuna notizia! Niente di niente! È questo che mi fa ammattire!
- Ti capisco perfettamente - rispose l'uomo. - È logorante anche per me che, bene o male, sono riuscito a dormire due ore.
Quell'accenno al sonno la fece rendere conto di quanto in realtà fosse stanca. Appoggiò la schiena al muro, esausta per il dover continuare a girare a vuoto: in quella decina di minuti aveva amaramente scoperto che quel piano sembrava davvero disabitato, nonostante fosse già mattina inoltrata.
- Hey, Rossi, sai per caso che ore sono?
L'uomo accennò ad una risata. - Emily, non vuoi davvero saperlo.
Anche lei si abbandonò ad un sorriso stanco.
- Hai ragione, non voglio. Ma sono così preoccupata, Rossi. Non riesco a pensare a nient'altro, siamo tutti presi allo stesso modo, qui.
- E Reid?
Il sospiro di Prentiss fu molto eloquente. - Non parla, non reagisce. L'ho lasciato un po' da solo con Morgan, non so se abbia fatto progressi. Come se non bastasse l'ansia nei confronti di Eva, poi.
Ebbe come l'impressione che Rossi stesse scuotendo la testa, nell'altra linea.
- Povero ragazzo. Chissà cos'ha di tanto misterioso da nascondere, riguardo ad Eva.
- Un ennesimo carico morale da sopportare, a quanto pare. Spero davvero che tutto si risolva in meglio.
Il collega più anziano non disse nulla per un po', cosa che non le fece affatto piacere.
- Scusa Emily, devo andare. A quanto pare è arrivato il mio turno e, a giudicare dalla faccia di JJ, non sarà piacevole. Ci sentiamo più tardi.
Prentiss annuì. - Va bene. Fammi sapere.
Chiuse la comunicazione con un ultimo sospiro.
Ascoltando silenzio che regnava là intorno, ebbe l'impressione che l'attesa sarebbe stata ancora molto, molto lunga.

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Capitolo 17
*** Passato, presente e futuro ***


Il medico osservò, impassibile, il gruppo che aveva davanti: una donna dall'espressione costernata, un gracile ragazzino tremante e un grande, grosso afro-americano di bell'aspetto, il cui volto era però distorto dalla rabbia.
- Adesso lei ci spiega per quale motivo siamo stati per dieci ore in un'ala deserta di questo maledetto ospedale - disse quest'ultimo. Stranamente, la sua voce suonava perfettamente calma.
Prentiss si affrettò a posargli una mano sulla spalla. - Morgan, lascia perdere; ci pensiamo dopo.
- Pensarci dopo?!
Il medico fu sollevato da quell'improvvisa esplosione d'ira, in un certo senso: aspettare una reazione che non arrivava era di certo molto più stressante. Un uomo arrabbiato è un uomo prevedibile; un uomo controllato è un uomo pericoloso.
- Prentiss, sapevano che c'era un'agente dell'FBI sotto ai ferri e non si sono nemmeno presi la briga di controllare dov'eravamo finiti, maledizione!
- Morgan...Morgan, ascoltami: abbiamo sbagliato reparto. Ricordi? L'infermiera all'ingresso ci aveva detto che la sala era al terzo piano, e noi dobbiamo aver sbagliato direzione. Eravamo stanchi, Morgan. E arrabbiati - la donna lo scosse leggermente con voce conciliante, ma l'uomo sembrava non voler sentire ragioni.
Il medico era abituato a quel tipo di reazioni: aspettare di conoscere le sorti di una persona cara logorava i nervi e distorceva il carattere delle persone.
Ad un tratto vide il più giovane fra i tre avvicinarglisi; sembrava sconvolto, spaventato, ma si stava sforzando di non darlo a vedere.
- Mi scusi...le dispiace se ci allontaniamo?
L'uomo annuì e, in silenzio, gli fece strada.

***

Reid ascoltava, ma non era sicuro di sentire. Era come se gli avessero premuto dell'ovatta dentro alle orecchie. Vedeva le labbra del chirurgo muoversi, ma il suono giungeva solo molto tempo dopo, e distante.
- Le lesioni riportate sono gravi - stava dicendo l'uomo, - il proiettile è rimbalzato nel cranio e ha danneggiato il lobo temporale. Ha perforato l'osso ma, fortunatamente, è uscito.
"Fortunatamente?", pensò. Quando un proiettile entra, rimbalza ed esce, di solito, provoca danni così estesi da far sprofondare il paziente in uno stato vegetativo.
- Si è salvata per miracolo, se avesse perso anche solo una goccia di sangue in più non ci sarebbe stato più nulla da fare.
Reid, a fatica, tornò al presente.
- Mi sta dicendo che è viva?
L'espressione del dottore si fece preoccupata. - Adesso, sì. Ma non possiamo prevedere come reagirà ai farmaci, né se potrà mai riprendersi del tutto. C'é la concreta possibilità che rimanga un vegetale.
Ovviamente, il dottor Reid l'aveva immaginato; era stato il suo primo pensiero, addirittura prima ancora di realizzare di dover chiamare un'ambulanza: Eva respirava, certo, ma questo non significava che sarebbe sopravvissuta. Aveva un buco in testa ed era stesa su un lago di sangue: era già abbastanza sorprendente che avesse resistito all'operazione.
Ma Spencer, quella piccola ed irrazionale parte di lui, non voleva arrendersi. Non voleva pensare al fatto che l'unica donna che avesse mai ricambiato il suo affetto rischiasse - a causa sua - di passare il resto della propria esistenza attaccata ad un respiratore.
Si sentì nauseato da se stesso quando pensò cosa avrebbe fatto lui se Eva non si fosse svegliata mai più.
L'avrebbe assistita, certo. Avrebbe chiesto il trasferimento ad un ospedale di Quantico, le sarebbe stato vicino ogni volta che gli fosse stato possibile, avrebbe addirittura pagato le spese mediche - d'altronde, i suoi risparmi giacevano inutilizzati in banca, visto che non spendeva mai molto per sé. Ma solo ad immaginare il confronto con quel viso muto ed immobile gli annodò lo stomaco, e dovette appoggiarsi ad una parete per non svenire.
Non mangiava e non dormiva da quasi un giorno intero, ed era stanco. Esausto. L'attesa l'aveva provato più di quanto immaginasse, e la preoccupazione gli stava rosicchiando il fegato.
Con uno spiccato senso pratico, il dottore lo fece sedere su una sedia e fece per andare a prendergli un bicchiere d'acqua, ma Reid lo trattenne.
- Posso vederla?
L'altro scosse il capo. - Non ora, mi dispiace. Le farò sapere quando sarà possibile.
Detto questo, lo guardò allontanarsi.
Si prese la testa fra le mani. Era impotente: non era riuscito a salvare la donna che amava. In quei giorni, troppo preso dal caso e dalle indagini ostacolate sempre da mille problemi, non si era dato il tempo di guardarla, di accudirla come desiderava fare. Un incontro del genere capitava una volta su un milione: l'amica d'infanzia che viene assunta nella stesso posto di lavoro. Era sicuramente un'opera del destino.
Ma a che scopo? A che scopo farla tornare nella sua vita per poi allontanarla così crudelmente? Se si trattava di una punizione per lui, sarebbe stata doppiamente crudele, visto che coinvolgeva un'innocente.
"Saremo amici per sempre?", gli aveva chiesto. E lui non aveva risposto.
Si portò una mano alla bocca. Morse con tutta la propria forza.
- Reid!
Sentì una presa energica all'altezza delle spalle, ma ebbe qualche difficoltà a mettere a fuoco ciò che gli stava davanti. La spossatezza l'aveva assalito tutta nello stesso istante, facendolo ciondolare come se fosse privo di volontà; aveva bisogno di dormire, maledizione. Non gli importava dove, ma gli avrebbe fatto piacere se quelle mani enormi gli avessero lasciato appoggiarsi da qualche parte e cedere al sonno.
- Reid, dannazione, svegliati!
Morgan lo schiaffeggiò, ma il collega si rianimò appena. Imprecando fra i denti, colpì l'altra guancia con una forza leggermente superiore: gli avrebbe spaccato la mascella se necessario.
Era furioso con se stesso e vedere Reid in quello stato non fece che aggravare il suo stato d'animo.
Visto che il dottore sembrava seriamente intenzionato a crollare, lo trascinò di peso fino al bagno più vicino e, senza darsi troppa pena di essere delicato, aprì il rubinetto e gli ficcò la testa sotto al getto. Questa volta, il viso di Spencer si rianimò all'istante.
- Ma che diav...Morgan?! - il ragazzino emerse tossendo e sputacchiando.
- Buongiorno - ribatté, truce, appoggiandosi al muro con la schiena.
Con una smorfia, il più giovane esaminò la guancia arrossata, ma non disse nulla. Prese dei tovaglioli di carta e cercò di detergersi il viso come meglio poteva.
L'agente, guardandolo, non poté impedirsi di ripensare a poco prima, quando avevano finalmente incontrato un'inserviente, dopo ore che per quel corridoio non passava nessuno. Al solo pensare allo sguardo interrogativo della donna, Morgan sentì nuovamente la furia animarlo in ogni recesso del suo corpo. 
Aveva detto loro che quell'ala dell'ospedale era stata svuotata per dei lavori di ristrutturazione. Aveva detto loro che gli operai sarebbero arrivati nel primo pomeriggio. Aveva detto loro che era impossibile ci fosse una ragazza in sala operatoria, perlomeno non lì.
La cosa che lo faceva più imbestialire di tutta la storia era che era stata colpa sua; era stato lui a decidere la direzione da prendere. Ripensandoci in quel momento, si chiese per quale arbitrario motivo avesse deciso di mettersi in testa al corteo, dal momento che non aveva nemmeno idea di cosa stesse facendo. Ma certo che è questo il corridoio giusto, Prentiss, fidati di me: e così erano passate dieci ore.
Che idiota! Era assolutamente ridicolo, e avvilente: bloccati in una zona vuota, in apprensione per una donna che, probabilmente, non si sarebbe nemmeno mai più svegliata.
Patetico. Tutta l'oppressione che aveva provato pensato ad Eva, in quel momento si condensò all'altezza del petto, mischiandosi all'umiliazione del suo orgoglio ferito.
- È viva, Morgan - disse Reid, stancamente. Si strizzò un ciuffo di capelli.
- È viva, ma forse non ancora per molto. Il danno è grave ed esteso, è stato un miracolo farla respirare di nuovo; il medico ha detto che c'è la possibilità che rimanga in coma per sempre.
Morgan sospirò. - I medici dicono un sacco di stronzate.
Spencer non commentò. Appallottolò le salviette e le gettò nel cestino.
- Ho bisogno di dormire. Io...non riesco più a pensare lucidamente. Prima, in corridoio, ho chiaramente sentito il mio corpo cedere, Morgan; ero arrivato al limite, e non reagire mi stava facendo sentire meglio. Mi stavo accasciando e non mi importava affatto.
L'agente si passò una mano sul cranio rasato.
- Ti senti in colpa, e ti capisco. C'è qualcosa che devi dirle, ma non hai mai avuto il coraggio di farlo. Pensi di aver perso la tua occasione per sempre, adesso; hai persino pensato di starle vicino in qualunque caso, vero?
L'altro abbassò gli occhi.
- Ascoltami, Reid: non c'è niente che possiamo fare. Capito?
- Grazie per avermelo ricordato, Morgan - replicò l'altro, storcendo la bocca.
L'amico scosse la testa. - Devi cercare di riposare, hai bisogno di pensare ad altro.
Reid sapeva che era la cosa più saggia. La mancanza di sonno lo stava torturando da ore, ma finché la preoccupazione aveva prevalso, non si era accorto di quanto sentisse la mancanza di un letto caldo.
Senza dire altro, il dottore uscì dal bagno e cercò l'angolo più appartato che c'era nella sala d'attesa; in quella dov'erano prima, non c'era davvero nessuno e quasi rimpianse di non averne approfittato. Ora c'erano un paio di uomini, una signora di mezza età e un bambino di sì e no quattro anni.
Si rannicchiò sulla sedia arancione, spostò la cartella e si sforzò di chiudere gli occhi.
Questa volta, le immagini di Eva non tornarono a torturarlo e, con un sospiro di colpevole sollievo, si abbandonò ad un lungo sonno senza sogni.

***

L'ufficio di Erin Strauss era intrappolato in una perenne penombra. Hotch si chiese se la donna lo facesse apposta per intimorire l'interlocutore, o se si trattasse di un effetto collaterale creato dalla presenza dei mobili scuri.
Davanti a lui, la burocrate teneva entrambe le mani giunte posate sulla scrivania, e lo fissava; dopo le continue telefonate negli ultimi due giorni, Hotch sentì di detestarla dal profondo del proprio cuore.
- Considerazioni, agente Hotchner? - chiese infine, dal momento che l'uomo non diceva una parola.
La tattica che lei aveva cercato di usare era appena fallita. Hotch conosceva bene questo tipo di trucchi, e non era intenzionato a cedere, o anche solo a darle la soddisfazione di reggere la buffonata: voleva esasperarlo con un lungo silenzio e avrebbe preferito che fosse lui ad iniziare il discorso, ma il profiler non si era lasciato turbare.
- I colpevoli si sono tolti la vita, ma nelle nostre mani abbiamo uno degli esecutori materiali, e quel poco che gli resta da vivere lo passerà in prigione. Il caso è stato risolto.
- Avete quasi perso un'agente - replicò lei, tagliente.
Ecco, dunque, dove voleva arrivare. Era prevedibile, si disse, nulla di insolito. Ovviamente lui conveniva che il caso era stato un successo solo per modo di dire, ma era anche consapevole che la sua squadra aveva lavorato al meglio: in silenzio, fece pesare una tacita accusa (che mai avrebbe potuto esprimere, se teneva al suo lavoro) contro la Strauss e il suo improvviso bisogno di controllo.
- Eva Arcangeli è in ospedale, e ci sono buone probabilità che sopravviva - era un'esagerazione, ma sperò di cadere sul morbido - quindi, Miss Strauss, la squadra non ha perso nessun componente.
Le labbra sottili della donna, tirate sui denti, si corrucciarono.
- Resta il fatto che l'agente Arcangeli non sarà un grado di prestare servizio per molto tempo, e avrà davanti a sé una lunga convalescenza. Sempre che riesca a superare l'intervento.
Hotch diede segni di impazienza, si mosse sulla sedia come se stesse per alzarsi.
- La signorina Arcangeli non è un'agente, Miss Strauss; stava ancora seguendo dei corsi preparatori per essere autorizzata ad usare un'arma in caso di necessità, e non aveva nessuna intenzione di frequentare l'accademia. Come si è premurata di avvisarmi prima della sua assunzione, Miss Strauss, si tratta di una consulente.
La donna lo guardò a lungo. - Lei sa cosa voglio dire, agente Hotchner.
L'altro la fissò di rimando. La propria esperienza di profiler gli forniva indicazioni precise sul gioco che la sua superiore stava giocando: voleva intimidirlo, metterlo a disagio, far pesare la propria autorità, costringerlo ad umiliarsi e a rimettersi alla sua decisione.
Sicuramente il fatto che una donna inserita nella sua squadra, come agente o meno, avesse finito per rischiare la vita sul campo, senza peraltro esserne autorizzata, non giocava a suo favore. E l'insubordinazione della giovane era un fatto grave che, stando alla malignità della Strauss, poteva ricadere persino sul suo superiore: quando un capo non era in grado di tenere controllo i suoi sottoposti, poteva ancora essere considerato efficiente?
All'improvviso, Hotch si sentì stanco. Aveva dormito pochissimo, il caso gli aveva tolto ogni energia, e la questione che riguardava Eva aveva pericolosamente assorbito la sua attenzione. Non lasciò trasparire nulla per forza dell'abitudine, ma se avesse potuto avrebbe sospirato.
- Vuole la verità, Miss Strauss? Questa storia ha provato me, e tutti i miei agenti. Questo, però, non ha impedito alla squadra di rimanere efficiente durante tutta la durata della trasferta. L'improvvisa decisione di Eva Arcangeli è stata dettata da motivi a noi ancora sconosciuti, ma se vuole che io ammetta la mia parte di responsabilità, allora me lo dica esplicitamente.
Era stato più duro di quello che desiderava, ma le sue parole ebbero l'effetto sperato. La Strauss si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi per un istante.
- Entrambi sappiamo chi sia lei, eh? - raro episodio di umanità; Aaron decise di non reagire.
La donna proseguì: - Figliastra di un serial killer, sopravvissuta per miracolo, quoziente intellettivo fuori dalla norma...un genio dannato, per così dire. Anche se devo ammettere che assumere una persona non qualificata mi abbia sorpresa, devo riconoscere che ha fatto una buona scelta, agente Hotchner; dettata dalla necessità, certo, ma intelligente.
"Necessità" non era il termine corretto; la Strauss, un mese prima, aveva stabilito che la squadra aveva bisogno di un nuovo elemento, e gli aveva permesso di selezionare, fra vari fascicoli, dei candidati.
Eva Arcangeli gli era rimasta impressa per vari motivi: aveva fornito una consulenza esterna sul suo caso, ma non l'aveva mai incontrata. Eppure, nonostante non l'avesse mai vista di persona, aveva avuto il sentore che fosse una personalità interessante, e per questo su di lei era ricaduta la sua scelta. Quei due giorni avevano confermato alcune delle sue sensazioni, compreso l'episodio dell'insubordinazione, che gli aveva però fatto capire quanto un carattere caparbio e risoluto come il suo fosse, a tutti gli effetti, un'arma a doppio taglio.
Dal momento che la ragazza non aveva nessun parente in vita e si stava ancora riprendendo dallo shock delle sevizie subite, l'aveva sorpreso il fatto che avesse accettato subito l'incarico. Forse troppo in fretta, visto quello che era successo, ma era stata preziosa: era stato anche merito suo se avevano risolto il caso.
Eva, inoltre, gli aveva fornito la possibilità di evitare che la Strauss sguinzagliasse nella sua squadra marionette manipolate da lei. Non poteva sapere se avesse cercato di istruire la ragazza sui comportamenti da seguire, ma lei non gli aveva dato l'impressione di una persona facilmente malleabile.
- I suoi agenti sono a conoscenza del suo...passato?
L'uomo scosse la testa. - No, signora. È stata lei stessa a chiedermi di tacere.
Le sopracciglia della donna si sollevarono impercettibilmente. - Beh, non è poi così incomprensibile, dopotutto.
Hotchner non capiva il senso di quel colloquio. L'aveva convocato per esprimere delle considerazioni personali, voleva licenziarlo oppure imporgli un nuovo agente nella squadra?
- Non ritiene tuttavia opportuno che gli agenti sappiano con chi hanno a che fare?
La domanda non era stata posta con un tono insinuante, ma Hotch decise di misurare attentamente le parole.
- Purtroppo non c'è stato il tempo di familiarizzare più a fondo con i componenti della squadra, visto che è stato necessario partire immediatamente, ma se la signorina Arcangeli pensa che le sue vicende personali debbano rimanere segrete, io non ho nessuna voce in capitolo.
- Capisco... 
Eva Arcangeli non era un'agente dell'FBI, e mai lo sarebbe stata; allora perché il suo fascicolo era stato posato sulla sua scrivania? Per lavorare nella squadra era necessario far parte dell'ente governativo, avere una speciale autorizzazione oppure essere dichiarati idonei ad andare sul campo.
La ragazza non aveva nessuno fra questi requisiti. Si trattava di una "consulente", l'avevano presentata in quel modo, e lui era stato ben felice di sceglierla fra gli altri anche per questo particolare. E se si fosse trattato, invece, di una mossa che la sua superiore si aspettava lui compiesse?
- Agente Hotchner - stava dicendo la Strauss in quell'istante, - mi aspetto di ricevere i rapporti sul caso al più presto. Non mi è ancora stato possibile parlare di persona con l'autorità di Bergen, ma spero di poter contattare lo sceriffo nei prossimi giorni...non mi è molto chiara la faccenda riguardo Laure Dawson.
- Si trattava di un test, vero? - domandò, all'improvviso, Hotch.
Gli mancava un dettaglio fondamentale di quella vicenda, non riusciva a darsi pace. Perché Eva? Perché avevano fatto in modo che si unisse a loro proprio per quel caso?
La donna dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di accettare l'idea di essere stata interrotta.
- Come, prego?
- Lei ha fatto in modo che Eva Arcangeli ci seguisse perché sapeva che avrebbe disobbedito agli ordini e messo a rischio la squadra - disse, la voce dura, seguendo il proprio ragionamento. - Avrei dovuto immaginarlo...obbligata a prostituirsi dal patrigno, e coinvolta in un caso che trattava di prostitute morte.
- Non capisco di cosa stia parlando...
- Lei sperava che la squadra si sgretolasse una volta per tutte - suonò come un'accusa, invece che come una semplice considerazione.
Nonostante tutti gli anni in cui si fosse imposto un severo autocontrollo, Aaron non poté impedire alla rabbia di ribollirgli dentro. Erin Strauss valutò in pochi secondi cosa fosse più saggio fare: appoggiò con cautela la schiena alla sedia e strinse gli occhi a fessura con circospezione.
- Agente Hotchner, si sieda.
Hotch non si era accorto di essersi alzato in piedi, ma non aveva nessuna intenzione di obbedire. Nonostante gli sembrasse un quadro ridicolo, più ci pensava meno poteva ignorare il proprio istinto.
Erin Strauss aveva fatto in modo che lui scegliesse un soggetto instabile fra tutti gli altri candidati perché facesse fallire la squadra, o mettesse a repentaglio il loro lavoro. Così facendo, la Strauss probabilmente sperava di sgretolare una volta per tutte l'unità...ma perché ci teneva così tanto che la cellula più rinomata della sezione analisi comportamentale venisse annientata? Cosa la spingeva ad ostacolare in ogni modo il loro operato?
- Agente Hotchner, lei se ne rende conto meglio di me. Questo suo comportamento è inammissibile...stia pur certo che le conseguenze non mancheranno!
Nonostante l'autorità che ancora cercava di mantenere, la donna sembrava in difficoltà. Non sembrava preoccupata da quanto Hotch stesse facendo ma più che altro sussultava ogni volta che apriva bocca. Lui, nonostante non fosse affatto calmo, non era intenzionato a fare una scenata ma, in quanto profiler, doveva arrivare in fondo alla questione.
La sua conoscenza dell'animo umano, questa volta, dovette essere accompagnata dalla sua esperienza di burocrate.
- Lei non stava mirando alla squadra - disse, lentamente. - Lei voleva rovinare me.
La Strauss sbatté il palmo sulla scrivania. - Non dica sciocchezze! Si può sapere cosa le è preso?
- Se io fossi stato retrocesso a causa della mia negligenza sul campo, la squadra sarebbe stata di sua diretta competenza...avrebbe potuto nominare un nuovo supervisore, disporre di ogni singolo agente, e si sarebbe ricoperta di gloria per aver ridato efficienza all'unità...
Lo sguardo colpevole di Erin Strauss fu costretto ad abbassarsi. - Non ho idea di cosa voglia dimostrare.
Hotchner sfilò con estrema calma la pistola dalla fondina e la posò sulla scrivania.
- Lei ha sempre temuto che io cercassi di scavalcarla, Miss Strauss, e l'unico modo per neutralizzarmi era prendere il mio posto. Ma per retrocedermi avrebbe avuto bisogno di un valido motivo.
- Agente Hotchner, si rende conto della gravità... - cominciò lei, ma l'altro la interruppe.
Si tolse il distintivo dalla tasca interna e lo mise accanto alla pistola.
- Non posso permettere che i miei agenti risentano delle sue ambizioni personali, Miss Strauss.
La donna lo fissò dritto negli occhi. Il lieve tremore che attraversava la sua mano destra fu inutilmente celato: era appena stata scoperta. Era sempre stata una donna che puntava in alto, e aveva dovuto faticare non poco per raggiungere la sua posizione; ma ciò che l'agente davanti a lei stava per fare avrebbe gettato fango sulla sua coscienza per tutto il resto della sua vita.
Quando si trattava di minare grazie alla propria influenza l'azione della squadra, era pronta a scendere a patti con la propria morale, ma in quel momento, in un confronto diretto, era pressoché impossibile. Aaron Hotchner era un capo efficiente, aveva esperienza, sapeva trattare con le autorità locali e aveva un curriculum di tutto rispetto che avrebbe potuto aprirgli qualsiasi porta. Come avrebbe potuto spiegare lei, Erin Strauss, i motivi delle sue dimissioni ai suoi superiori senza compromettere la propria posizione?
Decise di giocare l'ultima carta con la forza della disperazione.
- Agente Hotchner - esclamò, ancora trafelata per quanto accaduto ma decisa a nascondere i propri veri pensieri, - lei verrà sospeso per tre settimane a causa della sua condotta inammissibile. La sua posizione come supervisore dell'unità verrà discussa al suo ritorno.
Impassibile, l'agente tolse anche la seconda pistola che portava alla caviglia e, come se non l'avesse sentita, lasciò l'arma accanto al resto. Le fece un cenno educato con la testa e, dopo essersi lisciato la cravatta, uscì dall'ufficio.

***

Eva era in piedi sotto al getto caldo della doccia.
Era una sensazione piacevole, ma notò che l'acqua le scendeva solo dal petto in giù; per qualche strano motivo, la testa non doveva essere toccata. E nemmeno il collo, o il viso.
Si insaponò lentamente, poi guardò la schiuma turbinare nello scarico fra i suoi piedi nudi.
- Sei proprio cresciuta - disse una voce maschile, dietro di lei.
Senza scomporsi, Eva uscì dalla cabina e si avvolse un ampio telo attorno al corpo.
- Sono passati anni dall'ultima volta che mi hai visto, dopotutto.
Lui se ne stava appoggiato alla parete del bagno, con estrema nonchalance. Era esattamente come lo ricordava: capelli brizzolati, sorriso lupesco, mascella scolpita e fisico asciutto. Il ghigno si allargò quando le fissò le gambe e, risalendo con lo sguardo, arrivò fino al volto.
- Ti sono mancato?
Eva lo conosceva troppo bene per essere ancora preda di questi giochetti e, inoltre, sentiva di non avere tempo da perdere. Le sembrava che tutto il periodo antecedente a quell'istante fosse solo una nube grigia. Ma c'era una cosa che doveva assolutamente ricordare o, in particolare, una persona: doveva impedirsi di lasciarla scivolare nell'oblio.
- Credevo fossi morto.
Lui fece spallucce. - Lo pensavo anch'io. Ma, a quanto pare, tutto è possibile.
Lei scosse il capo, spazientita, e le sembrò di avvertire una fitta.
- Cosa sei venuto qui a fare, papà?
L'uomo incrociò le braccia sul petto, e rise di gusto. Nel suo passato non riusciva a ricordare nessun dialogo del genere fra loro: non c'era mai stata confidenza e lei non si sarebbe mai sognata di chiamarlo "papà" (anche perché, a conti fatti, un mostro simile era tutto tranne che quello).
- Oh, bambina, è da così tanto tempo che non ci vediamo e mi tratti con così tanta freddezza? - disse, senza smettere di sorridere.
Eva fece un smorfia.
- Mi sei mancata, lo sai?
- Tu, invece, non mi sei mancato per niente - sistemò l'asciugamano sulla scollatura per impedirgli di vedere più di quanto volesse mostrare. - Allora? Cosa vuoi?
L'uomo non cambiò atteggiamento ma, come aveva imparato ad osservare quando ancora vivevano insieme, una tensione sottile scattò sotto alla sua pelle e gli fece vibrare ogni muscolo; se l'avesse provocato ancora, la molla sarebbe scattata. E allora sarebbe subentrata la violenza, l'aggressione fisica, il turpiloquio, lo schifo.
- Sai, tesoro - disse, con voce pacata, il suo patrigno - a quanto sembra, non riesci proprio a dimenticarti di me. Non ho deciso io di venire da te, mia cara. Ma non preoccuparti, restare non mi dispiace affatto.
Eva aveva l'impressione che il suo tempo stesse per scadere. Doveva farsi tornare alla mente quella persona, altrimenti non sarebbe potuta rimanere tranquilla; c'era una cosa che doveva farle sapere. Poteva sentire un sentimento forte che la legava a quella figura nebulosa persa nella vaghezza dei suoi ricordi, e fece di tutto per aggrapparsi a quel filo conduttore per rintracciare l'oggetto delle sue ricerche, ma le sue mani erano scivolose e continuava ad essere spinta lontano.
- Non ho molto tempo - Eva era risoluta, e parlò con voce sicura. - Non so perché, ma ho l'impressione che io stia per andarmene. Ma se tu sei qui vuol dire che c'è un motivo.
L'uomo fece spallucce. - Credi che ne sappia più di te? Forse una volta era vero; forse, all'epoca in cui tu ed io vivevamo sotto allo stesso tetto, ero davvero io il più forte. Ma chi si ricorda? Sembrano millenni fa!
La stava prendendo in giro. In realtà, lui sapeva benissimo che lei non avrebbe mai dimenticato di come, rifugiatasi ad Atlanta per sfuggire alla furia di una madre single alcolizzata, si fosse ritrovata nella tana del lupo: sevizie, torture, punizioni. Lunghe, interminabili ore segregata nella Cantina, dove lui si prendeva il proprio piacere ogni volta che lo desiderava. E come dimenticare, poi, l'umiliazione di ciò che l'aveva costretta a fare?
"Sù, bambina, va' a battere per strada come la puttana che sei!"
In un attimo, la stanza da bagno si distorse e assunse le stesse sembianze della piccola cella dove, appena quindicenne, rimaneva rinchiusa anche per giorni. La figura del suo patrigno le fu addosso, con la stessa espressione animalesca a cui era abituata.
- Non ti libererai mai di me - le sussurrò, portando la bocca vicina al suo orecchio.
Con un moto di disgusto, Eva si dibatté e urlò, ma il panico la paralizzava. Stordita da quel torrente di sensazioni, cercò di portarsi una mano alla fronte, ma si bloccò immediatamente: non poteva toccarsi la testa. Non ricordava perché, ma non poteva assolutamente farlo, altrimenti il dolore sarebbe stato atroce. Fece violenza a sé stessa, ma alla fine la mano si posò di nuovo a terra.
Il corpo dell'uomo la schiacciava al suolo, lei faticava a respirare a causa della paura. Sapeva, tuttavia, che stavolta qualcosa era diverso: c'era Lui. C'era la persona che amava.
Il mostro non avrebbe più potuto farle del male.
"Per ricordare quello che devo fare e la persona che amo, devo dimenticarmi di tutto questo."
Con uno scatto, Eva sollevò il braccio e premette la mano sul viso del patrigno, strinse le dita sulla carne e la sentì distorcersi come se fosse fatta di cera.
- Non è vero! - gridò. - Posso ancora vincere su di te!
Proprio mentre le sembrava di essere sul punto di trionfare, la scena cambiò: erano di nuovo nel bagno. L'unica differenza, questa volta, era che lo specchio era chiazzato di sangue.
Il suo patrigno si allontanò con un grugnito e si massaggiò le guance.
Eva aveva il respiro affannoso. Ormai non c'era più tempo, lo sentiva: la sua pelle formicolava e i bordi degli oggetti tremolavano come se fossero sul punto di dissolversi.
"Pensa, Eva, non puoi dimenticarti di lui. Non puoi farlo!"
- Ho vinto - ansimò.
Lui la guardò senza capire. Nel medesimo istante, la fece cenno di guardarsi allo specchio.
- Non sopravviverai - le disse. - Non con una ferita simile. Guardati la testa, Eva: sei maciullata. Irriconoscibile. Sai che cosa vuol dire questo? Che anche se mi dimenticherai, non servirà a nulla. Io e te moriremo insieme.
La ragazza si voltò e scoprì un viso che non le apparteneva. Un occhio era tumefatto, bluastro e gonfio, e rivoli di sangue le imbrattavano le guance e il collo. Sulla fronte si apriva un foro perfettamente circolare, scuro e profondo, e attorno la carne era bruciata.
Nonostante l'orrore, sapeva di non potersi permettere di sprecare altro tempo.
- Non mi interessa, scelgo di dimenticarti; se non lo farò, non potrò mai ricordarmi di lui. E ora, sparisci!
Non seppe dire dove trovò la forza, ma sferrò un calcio dritto al petto dell'uomo che le stava davanti il quale, il viso più sorpreso che sofferente, la fissò per un lungo attimo prima di venire scaraventato oltre la porta. Sentì il colpo vibrare lungo tutta la gamba, le ossa scricchiolarono e, con quel gesto, sentì uno strano senso di liberazione dilagarle nel petto.
A causa della forza d'urto la porta si richiuse, ma prima che la serratura scattasse Eva ricordò.
Sorrise. "Spencer..."
Poi tutto fu buio.


NOTICINA FINALE:
Buonasera a tutti!
Ci tenevo a dirvi che quando cominciai a scrivere questa storia il personaggio di Erin Strauss era ancora fortemente negativo, quindi vi prego di perdonarmi questa piccola sua versione. 
Piccola informazione di servizio: la storia sta per concludersi, mancano pochi capitoli (non so ancora con esattezza quanti, ma vi avviserò sicuramente prima della fine).
Grazie mille per la vostra attenzione!
Dark kisses.

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