With Heaven Above You, There’s
Hell Over Me.
01 – Home.
«Temo di non aver capito bene».
Kuroko sapeva bene che fingere di non aver compreso la
questione sarebbe stato inutile quanto perdere il controllo, eppure non riuscì
a fare a meno di mormorare quelle poche parole, forse perché una piccola parte
di sé davvero non riusciva a capacitarsi di tutto quello.
All’improvviso le pareti chiare del salotto, la morbida
imbottitura del divano su cui l’avevano fatto sedere e l’immobilità diventarono
soffocanti e impossibili da sopportare; si alzò in piedi, cominciando a
misurare la stanza ad ampi passi, benché ciò sfogasse solo in minima parte
tutto ciò che sentiva.
Era la seconda volta nella sua vita in cui sentiva le dita
fremere per il desiderio di distruggere qualcosa – la prima, dopo l’ultima
partita del campionato, alle medie – ma ormai era un vero professionista
dell’autocontrollo, quindi era perfettamente in grado di esternare il proprio
disagio solo per mezzo di quell’infinita marcia su e giù per il salotto di casa
sua.
«Tetsuya» lo chiamò la madre, quasi supplice, «Per favore,
non rendere le cose più difficili di quanto già non siano».
Non si fermò, non ne era fisicamente in grado, ma ebbe un
secondo di esitazione nel compiere il seguente passo, per poi tornare alla
consueta andatura. «Credo di non essere in grado di immaginare come le cose potrebbero essere rese più difficili di
quanto non siano già» mormorò.
La sua voce sembrava atona come sempre, ma Shizue Kuroko
riuscì a scorgerne un lieve tremore e allora si alzò e bloccò il figlio,
poggiandogli le mani sulle spalle. Provò ad accarezzargli il viso, ma Tetsuya,
seppur con infinita delicatezza, le scostò la mano, per poi sfuggire al suo
controllo e riprendere a camminare.
Doveva essere un incubo, non c’erano altre spiegazioni, a
breve si sarebbe svegliato nel proprio letto e tutta quella faccenda sarebbe
finita nel dimenticatoio. Suo padre non poteva in nessun modo essere davvero Masaomi Akashi, era troppo assurdo, lui un padre già lo
aveva e non lo avrebbe cambiato per nulla al mondo.
«Tetsuya» questa volta a chiamarlo era stato proprio suo
padre, Junichi, «Capisco come ti senti, ma devi mantenere la calma».
E se era lui a dirlo, non aveva il diritto di obbiettare.
Junichi probabilmente sapeva la verità da sempre eppure mai gli aveva dato modo
di intuire alcunché, era sempre stato un genitore premuroso e anche in una
situazione del genere riusciva a mantenere la calma, forse proprio per essere
in grado di sostenerlo.
Con un sospiro, Tetsuya decise che se Junichi poteva restare
calmo, ce l’avrebbe fatta anche lui, perché essere genitori non era un fatto
solo biologico e quello che aveva davanti era a tutti gli effetti suo padre.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente per qualche
secondo. Quando riaprì le palpebre, il suo sguardo era tornato quieto, svuotato
di qualsiasi emozione. Tornò a sedersi.
“È mio padre. È mio
padre e nulla potrà cancellare ciò, non ho motivo di preoccuparmi, no?”
«Quindi cosa dobbiamo fare?» domandò, tormentando con
discrezione l’orlo della propria maglietta; per quanto la voce fosse risuonata
piatta, non poteva celare del tutto la preoccupazione.
Shizue si concesse un sospiro, in parte grata al marito per
essere riuscito a calmare Tetsuya, «Non possiamo fare nulla, non ne abbiamo i
mezzi. Ma tra quattro anni tu sarai maggiorenne e…» lasciò la frase in sospeso,
perché concludere con “e sarai libero” sarebbe stato troppo da sopportare pure
per lei.
«Quattro anni» ripeté Tetsuya a bassa voce, «Sono lunghi, ma
posso farcela» aggiunse, nonostante non ne fosse eccessivamente convinto.
Andare avanti era tutto ciò che poteva fare, piangere sul
latte versato avrebbe solo fatto durare di più quei quattro anni.
[…]
Tetsuya, con l’immediato senno di poi, si disse che l’essere
stato mandato a prendere da una limousine era stata una premura quasi beffarda,
come se il lusso ostentato dagli Akashi potesse in qualche modo gettare fango
sulla sua vera famiglia. Si disse che, pur avendo sempre detestato la
maleducazione, un paio di cosette le avrebbe volentieri dette al suo “nuovo
padre”.
Venne scortato all’interno dell’immensa villa dall’autista
che sembrava temere che lui gli scappasse da sotto il naso da un momento all’altro
– “Non sai quanto mi piacerebbe” –, per
poi venire accolto da due fotocopie adulte di Akashi-kun. Gli occhi del più
alto erano glaciali almeno quanto i suoi e, se possibile, riflettevano lo
stesso accenno di ostilità alla situazione attuale; gli occhi dell’altro,
invece, erano furbi e animati da una strana vivacità.
“Se dovessi
scommettere” si disse Kuroko, valutando con attenzione entrambi, “a rendermi la vita impossibile sarà lui,
nonostante l’altro sembrerebbe preferire accogliere in casa sua un cumulo di
spazzatura al posto mio”.
«Be’, benvenuto, Tetsuya».
«Kuroko».
«Cosa?»
Tetsuya si schiarì appena la voce. «Kuroko. Chiedo scusa, ma
mi sento a disagio nell’essere chiamato per nome da persone che non conosco,
quindi vi pregherei di utilizzare il cognome» disse, accennando un inchinò che,
nonostante non fosse intenzione di Tetsuya renderlo tale, non poté non sembrare
beffardo nel contesto.
«Da adesso è Akashi il tuo cognome, ragazzo» rispose, secco,
il più alto, storcendo appena il naso. Probabilmente avrebbe preferito dare il
suo cognome sempre al famoso cumulo di spazzatura di cui sopra.
«Temo che il mio nome resterà Kuroko Tetsuya» mormorò, per
poi spostare lo sguardo sull’uomo dall’aria più scaltra, «Dopo sedici anni
passati ad essere chiamato “Kuroko”, potrei inavvertitamente non prestare
attenzione a chiunque mi chiami in modo diverso. L’abitudine».
L’uomo scoppiò a ridere, dando una pacca sulla spalla all’altro,
«Che ti dicevo? È forte», poi si rivolse nuovamente a Tetsuya, «Io sono tuo
zio, Masamune. Lui è tuo padre, Masaomi».
Kuroko dovette mordersi a sangue il labbro inferiore per
fermarsi dal dire che suo padre era e sarebbe sempre stato Junichi.
Masamune lo valutò con lo sguardo per diversi secondi, per
poi arrivare alla conclusione che per quel giorno il loro incontro poteva
concludersi così. Fece un cenno all’uomo che aveva scortato Tetsuya in casa. «Umeshi ti mostrerà la tua stanza», lo congedò.
Solo allora Tetsuya si azzardò a guardarsi bene attorno, i
colori predominanti erano un bianco glaciale, contrapposto ad i caldi toni del
legno del mobilio, degli infissi e delle scale. Tutto aveva un’aria troppo
occidentale, vittoriana, per i suoi gusti; decise che la cosa non gli importava
granché, dal momento che era una situazione temporanea. Masaomi
sembrava quasi più infastidito di lui dalla situazione, quindi forse sarebbe
bastato contrariarlo il più possibile per essere finalmente rispedito a casa
sua.
“Già, ma il fratello
sembra fin troppo entusiasta di me” si disse. Come pronosticato, sarebbe
stato Masamune a procurargli più grane.
Si permise un sospiro e seguì Umeshi
per le ampie scale della villa, al termine delle quali percorsero un lungo
corridoio fino ad arrivare, finalmente, a quella che sarebbe stata la sua
stanza.
“Per il minor tempo
possibile, spero”.
Quella giornata era solo all’inizio e già si sentiva
esausto, desiderava solo chiudersi in camera nel buio più totale e fingere di
essere ancora a casa propria.
Congedò l’uomo e si chiuse la porta alle spalle, si trascinò
fino al letto dal materasso fin troppo alto e ci si buttò sopra senza troppo
complimenti.
Non passò neanche un minuto, prima che qualcuno bussasse
alla porta. Si mise seduto e mormorò tra i denti un “avanti” per nulla
convinto.
Tutto in lui, dallo sguardo alla postura, si ammorbidì nel
vedere Seijuurou entrare velocemente nella stanza.
Finalmente una faccia amica.