Solo un altro modo per uccidere.

di Kylu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Bianco.
Vuoto.
Un nulla lattiginoso in cui affogare. Inosservati, in silenzio.
Lotto contro quel briciolo di coscienza che cerca di riportarmi a galla.
Perché? Le chiedo. Perché dovrei riaffiorare, se questa è la pace?
Nessun pensiero, nessun dolore… Nessun ricordo.
Non posso calcolare il tempo che passa mentre mi crogiolo nell’assenza di realtà. Non è morte, forse, ma sicuramente non è vita.
Non ho un nome, non ho memoria, non ho età. Non ho parola ne pensiero.
La fitta nebbia bianca che mi circonda va mano a mano dissolvendosi, lasciando spazio a nuove percezioni.
Distinguo un flebile bip, distante, soffocato, ma ripetitivo. Mi ci aggrappo, e presto a questo si aggiungono altri appigli alla realtà che, ora ne sono consapevole, si concretizza appena fuori di qui.
Non sono sicura di volerla raggiungere.
Realizzo che il mio corpo non sta più fluttuando nel vuoto, ma che dev’essere appoggiato su di una superficie solida, morbida, che si adatta alle sue forme.
Avverto delle voci. No, una voce. Voce che so di dover riconoscere.
Distinguo parole, anche se non ne comprendo il significato.
“Una settimana! E’ il minimo. No, non m’interessa. Non mi fregerebbe nulla nemmeno se il caro popolo di Capitol City dovesse aspettare un secolo, chiaro? Sta male, è ancora incosciente, e voi mi dite che… Ah, al diavolo!”
Dei passi in avvicinamento. Ricordo di avere degli occhi, da qualche parte. Quando li trovo, li apro.
Davanti a me, in una visione ancora confusa, galleggia un volto scuro contornato da nere ciocche disordinate.
La mia mente formula un nome proprio. Lo collega a quel viso. In un lampo, ricordo.
Chi sono, da dove vengo, cos’ho fatto. Perché sono qui.
Con la consapevolezza, ricade su di me il vuoto dell’incoscienza.
Ma questa volta non è il bianco lattiginoso che mi accoglie, bensì il nero inchiostro della disperazione.
Perché io dovrei essere morta.
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Questa è la mia prima fanfic nel fandom di Hunger Games. Ho cominciato ad elaborare quest’idea da un bel po’ di tempo, ormai. Ho trovato i nomi dei personaggi, le loro caratteristiche fisiche e psicologiche, ho steso la trama. E ora pubblico il prologo (a cui seguirà il primo capitolo in serata o, al massimo, domani) sperando che riesca a coinvolgere qualche lettore.
A presto, quindi!
Kylu
 
 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 1 ***


~~CAPITOLO UNO

 

“Dadi, Dadi!”
Erwin si precipita in cucina attraverso la piccola porta di legno dalla vernice scrostata che da su quel microscopico fazzoletto verde che è il nostro giardino.
Il nostro piccolo paradiso segreto.
“Dadi! Ho un regalo per te! L’ho fatto io” mi dice con la sua vocina, tutto orgoglioso.
Appoggio il vestito liso dagli anni che stavo rammendando, mi giro e mi accuccio alla sua altezza.
A sei anni appena compiuti, Erwin è alto quanto un bottone, ma ancora più fragile. Gli scompiglio i capelli con tenerezza, mentre lui mi sventola qualcosa davanti agli occhi, tutto contento.
“E’ per te, regalo” mi ripete.
Tra le manine appiccicose dal cucchiaino di marmellata che ho permesso a lui e a Yohann di gustare questa mattina regge un pezzetto di corda sottile decorato con qualche schizzo di colore.
Ricordo ancora quando papà mi ha insegnato a preparare quelle pastelle colorate utilizzando i fiorellini che punteggiavano il giardino. Mi sono sporcata tutta la faccia di lilla, e lui ha riso di gusto.
Era ancora il periodo in cui sapeva sorridere.
Quando c’era ancora mamma, certo.
“E’ bellissimo, Erwin” dico al piccolo. Poi mi lego velocemente al polso sinistro quel braccialetto improvvisato, così ricco dell’affetto innocente che solo i bimbi sanno provare.
“Vai a chiamare Yohann, che dobbiamo prepararci!” gli dico poi, simulando allegria. Lui schizza via.
E’ giorno di mietitura.
Di quattro fratelli, quest’anno sono l’unica a doversi sottoporre al sorteggio mortale degli Hunger Games.
Jake, alla veneranda età di diciannove anni, è ormai al sicuro.
Non posso esprimere a parole il terrore che ho provato l’anno passato.
Jake non ha mai permesso a me di sobbarcarmi le tessere per la scorta di cibo, e con una famiglia di cinque persone da sfamare, a diciotto anni le letali striscioline di carta con il suo nome sono comparse un’infinità di volte.
Fortunatamente, la buona sorte in qualche caso può davvero essere a nostro favore.
Qui nel distretto undici, dove la popolazione è molto più numerosa che altrove, solo una parte dei cittadini è tenuta a presenziare durante il sorteggio.
A quanto pare la mia famiglia deve stare simpatica – o antipatica, punti di vista – a qualche autorità, perché da che io ricordi ogni anno il giorno della mietitura l’abbiamo passato in piazza vestiti a festa.
Erwin ricompare con un Yohann infangato dalla testa ai piedi.
“Siete proprio delle piccole pesti, voi due!” dico, spostando fino al centro della stanza un catino d’acqua tanto grande da contenere quasi i due bambini contemporaneamente.
“Noo, il bagno no!” cominciano a lagnarsi i piccoletti.
“Prima lui, è più grande!” dice Erwin.
“No, prima lui, prima lui!”
“Ma non è giusto!”
Io alzo gli occhi al cielo e continuo a sciogliere un poco di sapone nell’acqua tiepida, fino a quando Yohann con uno spintone manda a gambe all’aria il fratellino, che scoppia nell’immancabile pianto disperato.
Sempre la solita storia. Quei due bisticciano affettuosamente tutto il giorno e, giocando, capita che si facciano male a vicenda, ma in fondo si vogliono un gran bene.
A volte mi chiedo se, allevati da una vera mamma, sarebbero cresciuti più sereni.
Mezz’ora dopo entra Jake che, come sempre, finge di non riconoscere nessuno dei tre da quanto siamo puliti e ben vestiti. E’ un piccolo gioco che facevamo da piccoli con mamma quando lei, papà, Jake ed io eravamo ancora una vera famiglia.
Ci si diverte con poco, qui nell’undici.
Finisco di intrecciarmi i capelli mentre Jake solleva un piccolo per braccio e gira veloce su se stesso, tra i loro urletti di gioia.
E’ forte, Jake. Spesso scherzando gli ho detto che, se fosse stato estratto, avrebbe avuto buone probabilità di vincere.
Sento che manda i due fuori casa ad aspettarci e mi si avvicina.
Poso la spazzola di legno e mi giro per guardarlo negli occhi, d’un colore così fuori luogo nel nostro distretto. Un’altra stranezza che ci accomuna.
Mi poggia le mani sulle spalle, e la sua stretta è forte, solida, calda. Una stretta che sa di casa.
Rimaniamo un paio di minuti così, a comunicare come solo noi sappiamo fare, sguardo contro sguardo, grigio chiaro contro grigio chiaro, il mio perenne smarrimento contro la sua sicurezza.
Mi chiedo sempre come avrei fatto senza di lui in questi anni.
Da quando mamma se n’è andata e ci ha lasciato da accudire due fratellini orfani di madre e, a conti fatti, anche di padre.
“Le probabilità che esca il tuo nome sono bassissime. Lo sai” dice infine Jake, strappandomi dai miei pensieri tristi. “Ma non è quello il problema, vero?”
Scuoto la testa. Chiudo gli occhi, perché sento le lacrime che premono per uscire, e sono ormai passati i giorni in cui avevo il diritto di mostrarmi così vulnerabile.
“Come faccio, Jakie? Come faccio a guardare un altro anno due ragazzi innocenti andare al macello? Sono i nostri vicini, i nostri compagni di scuola, ragazzi che hanno lavorato ai nostri stessi frutteti, braccia amiche che ci hanno aiutato quando le ceste del raccolto diventavano troppo pesanti… Come facciamo a guardare e non fare nulla, anno dopo anno? Può anche non toccare a noi, a me, ma quest’incubo non finirà mai. E se anche Yohann ed Erwin usciranno incolumi da tutto questo, poi verranno i nostri figli, e i nostri nipoti…”
“Fa schifo” concorda lui senza mezzi termini. “Fa schifo. Ma fino a quando non avremo una possibilità di cambiare le cose, è inutili fare i martiri. Quindi su, un bel sorriso per le telecamere!”
“Ma…”
“Daisy Watson” mi riprende lui. Rafforza la presa sulle mie spalle, poi mi lascia andare.
“Vado a svegliare papà. Poi andiamo.”

     ***


La piazza è gremita di gente, eppure è avvolta da un silenzio talmente denso che sembra rallentare i movimenti.
Come sempre ci separano, ci schedano e ci suddividono per sesso ed età.
Se allungo il collo riesco a scorgere Jake oltre la recinzione che separa i ragazzi dai propri familiari. Tiene stretti Erwin e Yohann, protettivo.
Di papà invece non c’è traccia.
Penso che quest’anno per i miei piccoletti sarà meno terribile degli anni passati, quando erano soli ad affrontare il rischio di perdere non uno, bensì due fratelli.
Raggiungo alcune mie compagne di classe, pigiate nella calca qualche metro più in là.
Con gli straordinari a lavoro nei frutteti, una casa da mandare avanti, un padre depresso da tenere in piedi e due bambini da crescere, accudire e sfamare, il tempo che posso dedicare alle amicizie è davvero scarso.
Oltre le ore di lezioni obbligatorie fino ai diciotto anni e qualche compagno di lavoro non ho quasi nessun rapporto con i ragazzi della mia età.
In ogni caso, so di essere piena di persone che mi ritengono un’amica preziosa, che mi chiedono consiglio, che addirittura mi indicano come esempio ai fratelli minori.
Jake dice che è per la maturità che ho dovuto sviluppare così precocemente.
Io dico che non mi conoscono bene, perché matura è l’ultimo aggettivo con il quale mi definirei.
L’inno di Panem esplode nella piazza violentando quel silenzio dignitoso che è il nostro unico modo di dimostrarci contrari.
Sul piccolo palco approntato dai Pacificatori sale come ogni anno la tizia improbabile di Capitol City, Jannie Shussy.
Tutto in lei è eccessivo, come a sottolineare la firma della capitale, e questo negli anni ha portato la gente di qui a guardarla con odio e ilarità assieme.
Cammina su scarpe ridicolmente alte, quest’anno di un lezioso color rosa caramella. Le sue braccia sono ornate da righette orizzontali di qualche centimetro che, a quanto pare, cambiano colore in base al tempo (dal giallo squillante nelle giornate di sole al grigio pallido dei giorni ventosi!, recita la sua unica intervista mai passata in TV).
Le sue anonime iridi nocciola sono contornate da lunghe, orrende estensioni alle ciglia di un giallo canarino intonato ai capelli, rasati sulla nuca fino all’attaccatura delle orecchie, poi raccolti in un’onda iper-laccata e fermati sulla fronte con un vistosissimo fermaglio a fiocco.
Mi giro per cercare un contatto visivo con Jake.
Per tutta la durata del video proiettato sui maxischermi e dei soliti inutili discorsi ci guardiamo ridendo di nascosto.
Prendere in giro tutto e tutti è l’unico modo che da sette anni – dal primo anno di mietitura per lui – abbiamo trovato per sopportare tutto questo.
Mi riscuoto solo al trillo della Shussy che annuncia “prima le ragazze!” e comincia a ruotare la mano tra le migliaia di foglietti piegati su se stessi e riposti nella boccia di vetro.
Ne sceglie uno.
Lo estrae.
Ci giocherella qualche secondo, lo stropiccia con le dita.
Lo apre.
“Jasmeen Connel.”

Non sono io.

Non faccio in tempo a sentirmi sollevata che un urlo mi colpisce il cuore come uno schiaffo.
La massa di ragazze davanti a me si apre, e io la vedo.
Avrà pressoché la mia età. Pallida, tremante. Il suo cognome mi risulta familiare, ma non capisco perché.
Alle telecamere si presenta una scena straziante. A Capitol City saranno contenti. Loro ci sguazzano in queste cose.
Immagino che, vivendo nelle loro comode casette di bambagia, per loro sia facile divertirsi davanti ai drammi della povera gente dei distretti.
Quella che presumo essere la madre di Jasmeen si scaglia contro il recinto, urla il nome della figlia, più e più volte.
Tutto attorno è silenzio, un silenzio carico di dolore.
Non smette, no, Jasmeen no!, non ho mai visto una tale disperazione sul volto di qualcuno, la mia bambina, vi prego, la mia bambina, e in anni di Hunger Games dovrei intendermene ormai di dolore.
Quando iniziano a volare insulti diretti a Capitol City, i pacificatori intervengono e zittiscono la donna con la forza, ma non prima che la sua ultima domanda riecheggi sulla piazza.
Perché anche lei?

E allora ricordo.
Ricordo che se il cognome di Jasmeen mi è familiare è perché non più di due anni fa suo fratello è stato estratto per gli Hunger Games.
Di lui non è rimasto che un triste fantasma negli occhi di chi lo ha amato.
Ricordo che lo stesso anno, in questa stessa piazza, c’è stata una breve funzione per il padre di Jasmeen, morto per un incidente con i macchinari addetti all’imballaggio del raccolto.
Di lui non è rimasto nemmeno un corpo su cui piangere.

Ed è in questo momento che
il mio corpo
si muove.

Non so se per istinto, non so se per comando di qualcosa più grande di me.
Non penso a nulla.
In pochi passi sono da Jasmeen, la abbraccio brevemente, poi la scosto di lato.
Non penso a nulla.
Non penso alla parola "suicidio".
Tutto è semplicemente troppo.
Troppo ingiusto, troppo spaventoso, troppo terribile.
Non penso a nulla, ma in fondo lo so, so che è quello che cercavo, che ero in attesa spasmodica della goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.
Perché davanti a certe cose non si può stare fermi a guardare.
Bisogna fare qualcosa.
Per quanto suicida ed estremamente idiota questo qualcosa sia.

 

Nessun tremito nella voce.

“Mi offro volontaria come tributo.”

 

 

 


ANGOLO AUTRICE
Scusate per la lunghissima attesa. L’estate non è il momento migliore per mettersi a scrivere una nuova fanfic.
In ogni caso, ora che ho preso piede pubblicando il primo capitolo, spero (e prometto…) di aggiornare decisamente più in fretta.
Sarebbero molto gradite recensioni di ogni sorta, idee, consigli, critiche.
La mia immancabile e insostituibile Ayumi alias Hemmoshug mi consiglia di scrivere qui i miei dubbi. E allora vi scrivo che spero di non aver fatto passare Daisy come una scema masochista ritardata mentale che si offre a caso per una tizia a caso. Niente di più sbagliato. Ho provato a spiegare le sue ragioni; temo di non esserci riuscita.
In ogni caso, al prossimo capitolo (:
Kylu

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 2 ***


CAPITOLO DUE
 
Sono sola in una sala rivestita di legno scuro, seduta su un basso divano dalla fodera lisa e stinta.
Solo le mani tradiscono il mio tremore.
Respiro profondamente, raccolgo le gambe al petto e le circondo con le braccia.
Non voglio ancora pensare a quello che ho fatto.
Avrò tutto il tempo di affrontare me stessa nella solitudine dei giorni che verranno.

La scena è stata straziante.
Mentre a Capitol City inneggiavano il mio coraggio, la gente del mio distretto mi scrutava con pietà, incredulità e ammirazione assieme.
Nel tumulto generale, l’unica immagine che si è impressa tra i miei ricordi è Jake che cerca di trattenere i miei fratellini e le proprie lacrime.
E quelle urla, quel nome.
Il mio nome.
Suonava ancora più inquietante, perché le voci dei bambini non sono fatte per esprimere tanto dolore.
Ma qui dove gli Hunger Games equivalgono alla pena di morte persino i bimbi come Erwin e Yohann capiscono cosa mi succederà nel giro di qualche settimana.
La porta si apre di schianto ed entrano loro. La mia famiglia. I miei bambini, e la persona che amo di più al mondo.
Jake si ferma e lascia che i piccoli corrano singhiozzando verso di me. Mi inginocchio e apro le braccia per accogliere i loro corpicini scossi da ondate di lacrime. Non dicono niente, e va bene così.
Cosa ci sarebbe da dire?
Non li vedrò più. Mi basta passare tutto il tempo che mi è concesso ora stringendoli un’ultima volta.
“Daisy…” Jake si schiarisce la voce roca.
Scosto i piccoli, mi alzo e lo abbraccio forte. Lui mi tiene così stretta da farmi quasi male.
“Scusa, davvero, scusami!” comincio a piangere anche io.
Come sempre, posso lasciarmi andare alla corrente solo quando sono aggrappata alla mia roccia.
“Shh, shh. Tranquilla. Non perdere la speranza. A Capitol City hai già incantato tutti. Gli sponsor faranno la fila per te.”
“Jake.” Lo guardo negli occhi, sussurro appena per non farmi sentire dai bambini.
“Mi sono appena offerta volontaria al posto di una ragazza qualsiasi, e tu pensi che io possa riuscire a… uccidere delle persone?”
“Si, se c’è in ballo il poter tornare da Erwin, da Yohann… Da me.”
Mi guarda con convinzione. Non sta scherzando. Ci crede davvero.
Capisco che sta già elaborando il lutto, e una delle sue fasi è la negazione dell’evidenza: “Non può essere morta, non lo è davvero”. Non devi morire agli Hunger Games e non tornare da noi.
 
Ma io so già quali saranno le regole del mio gioco, e sopravvivere non rientra nel piano.
 
“Papà?” chiedo, e la mia voce risuona stranamente salda.
Non posso permettermi di stare male. Peggiorerebbe solo la situazione, farei pesare il distacco ancora di più ai miei fratelli.
“Non so se ce la fa” risponde Jake abbassando gli occhi.
Incasso il colpo con un mezzo sorriso di rassegnazione. Dovevo aspettarmela, conosco mio padre.
Non ce la fa, perché mentre noi perdevamo la mamma, lui perdeva il coraggio di vivere.
La porta della stanza geme sotto la spinta di un anziano pacificatore. Per qualche secondo ci fissa con uno sguardo strano.
“Ancora tre minuti” dice, poi la richiude.
Prendo in braccio Erwin e stringo la manina di Yohann, mentre Jake mi fissa con aria assente, senza vedermi davvero.
“Ascolta, Jake. Ascoltami!” dico più forte, quando non ottengo reazioni.
“Non fare come papà, okay? Non puoi lasciarti andare anche tu. Hanno bisogno di te. Ora più che mai.”
Finalmente pare riscuotersi. Annuisce. Un’unica lacrima gli riga il volto mentre mi accarezza una guancia.
“Provaci. Giura che ci proverai.”
Deglutisco. Chiudo gli occhi.
Non sono abituata a mentire, soprattutto a lui.
“Te lo prometto…” soffio.
Irrompono nella stanza tre pacificatori diversi facendo cenno che il tempo concesso ai miei familiari è terminato.
Ci abbracciamo tutti e quattro un’ ultima volta, la disperazione nelle nostre strette.
 
 
Il treno si muove sempre più veloce.
Riesco a catturare un ultimo scorcio del mio distretto e della mia gente.
Superiamo i filari di alberi. La mia mente evoca lo spettro delle schiene curve dei miei compagni di lavoro sotto il sole cocente del primo pomeriggio, immagini di ore passate tra i rami o a trasportare ceste.
Il pensiero corre a tutti i vicini, i compagni, gli amici, i conoscenti a cui non ho fatto in tempo a dire addio.
Dopo l’ultimo saluto alla mia famiglia, mi è stato concesso di incontrare solamente Jasmeen Connel, la ragazza a cui ho salvato la vita, nonostante, a detta sua, fuori dal palazzo si fosse accalcato mezzo distretto nella speranza di potermi salutare.
Non aveva parole per ringraziarmi.
Piangeva e basta.
Spero che sua madre stia bene: l’ultima volta che l’ho vista soccombeva sotto una decina di pacificatori.
Forse può essere solo questa la mia unica consolazione: dopo la mia morte nell’arena, sarò vista come l’eroina che si è sacrificata con coraggio e bontà.
E forse, grazie a questo, il distretto aiuterà Jake a prendersi cura dei miei bambini.
Oh, Jake.
Mi manca già.
Mi scosto dal finestrino e cancello con una manica del vestito l’alone lasciato dal mio respiro sul vetro.
Non devo pensare a loro.
Non devo pensare a niente.
Il mio destino è scritto.
 
Esco dal mio scompartimento tranquillo e raggiungo la carrozza adibita a sala da pranzo.
“Oh, cara, eccoti qui! La nostra eroina del giorno!”
La voce di Jannie Shussy mi urta i nervi. Come farò a sopportarla una settimana?
Ridacchio.
E’ probabilmente ridicolo che io stia qui a preoccuparmi di Jannie Shussy quando entro due settimane sarò morta.
“A Capitol City hanno già mandato in onda il tuo gesto eroico due volte, gli abitanti non stanno più nella pelle, tutti vogliono conoscerti!” trilla, sistemandosi nel fermaglio a fiocco un’inesistente ciocca fuori posto.
“Oh, che gioia! Non avevo altro desiderio nella vita se non quello di diventare la carne da macello preferita di Capitol City!” rispondo io imitando il suo tono.
Jannie s’imbroncia tutto d’un colpo e mi guarda malissimo.
Sono sorpresa. Pensavo che non fosse abbastanza intelligente da riconoscere il sarcasmo.
Sento uno sbuffo tra il divertito e l’esasperato, e per la prima volta mi giro verso il tavolo.
Incrocio gli occhi dell’altro tributo.
Non ho prestato molta attenzione alla mietitura del tributo maschio, concentrata com’ero a metabolizzare il mio gesto avventato e le sue conseguenze.
Ma ora il mio sguardo si sofferma sui suoi occhi scuri, sui suoi i capelli lunghi e spettinati, e lo riconosco.
Non ci ho mai avuto a che fare, ma ricordo di aver frequentato per anni il suo stesso Settore a scuola. Deve avere uno o due anni più di me, non ricordo.
Si chiama Lorery… Qualcosa. Tutti lo chiamano Sette per via della sua famiglia, che si occupa di falegnameria – come fa il distretto sette, appunto.
Lo osservo meglio. Spalle larghe, alto e dinoccolato. Fare parte di una delle poche famiglie le cui braccia sono sottratte all'agricoltura per permettere il funzionamento del distretto – e la comodità dei molti pacificatori stanziati – gli ha regalato un po’ più di cibo rispetto a noi altri e molta forza nei muscoli.
Lui mi scruta a sua volta.
Leggo la diffidenza e il biasimo nei suoi occhi.
Non capisco.
E sinceramente non mi interessa.
“Bene. Sono venuta solo a controllare che i nostri mentori non avessero cominciato a dare istruzioni senza di me. A dopo… sfortuntamente” dico.
Giro sui tacchi e me ne torno nello scompartimento in fondo al treno.
Nel tragitto, cerco di non prestare attenzione ai dettagli costosi che adornano il corridoio, al parquet di lusso, al legno lucido, ma nonostante questo sento montare la nausea.
Ostentare la ricchezza di Capitol City su un treno per tributi può avere l’unico scopo di ricordarci che noi siamo solo poveri schiavi mandati al macello.
Mi sbatto la porta alle spalle e mi siedo su una poltroncina.
Torno a guardare fuori dal finestrino, ma pochi minuti dopo vengo richiamata da un colpo di tosse.
“Posso entrare?”
E’ Lorey.
Annuisco; lui entra e si siede di fronte a me.
Non prova a presentarsi e non se ne esce con qualche frase di circostanza, e io gli sono molto grata per questo.
“E’ un regalo di tuo fratello?” mi chiede interrompendo il silenzio e indicando il mio polso.
Abbasso gli occhi e scopro di star giocherellando con il mio braccialetto di corda senza nemmeno essermene accorta.
Annuisco.
“Di… Erwin. Il più piccolino”.
Il solo nominarlo fa male.
“Il piccolino che hai appena abbandonato” osserva lui.
Incrocio il suo sguardo, di nuovo diffidente.
“Che problema hai?” gli chiedo.
Non ho nessuna intenzione di fare la gentile.
Forse il mio subconscio è convinto che, pungendo chiunque si avvicini e comportandomi come se non avessi un cuore, andarmene sarà meno doloroso.
“Problema? Nessuno. Mi chiedevo semplicemente come possa essere definita eroina una ragazza che abbandona il padre e i fratelli così, da un giorno all’altro” risponde lui.
Oh, nemmeno lui ha intenzione di fare il gentile. Armi pari, direi.
“Non penso che qualcuno come te possa capirlo. E io non ho intenzione di sprecare tempo e parole”.
“Ah, giusto. In effetti il tuo tempo è qualcosa di estremamente prezioso… Immagino tu abbia molto da fare qui”.
“Sicuramente di meglio da fare che parlare con te lo trovo, tranquillo”.
“Tipo… Riflettere su quale sia il modo migliore di morire?”
“Nah, quello lo lascio fare a te. Se vuoi apriamo il finestrino e ti aiuto a farla finita prima”.
A queste parole finalmente tace.
Si alza e se ne va sbattendo la porta.
Io non mi giro nemmeno.
Stringo il mio cordino colorato fino a farmi male e lo ringrazio in silenzio.
Ora ho capito.
 
Anche quando il destino è già scritto, possiamo scegliere come viverlo.
 
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Salve.
Non aggiornavo da un secolo; ma d’altra parte, se questa fanfiction non comincia ad avere qualcuno che la segue o la recensisce, temo che dovrò chiudere qua.
Il che mi dispiacerebbe molto perché, tra le mie long, questa è l’unica di cui conosco già perfettamente trama, personaggi e conclusione.
In ogni caso, per lo meno i prossimi due aggiornamenti saranno pubblicati in tempi brevi, prometto.
A presto,
Kylu

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