Oltre il Tramonto

di Elfa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Gatto, la Strega e il Lettino ***
Capitolo 2: *** Un buon lavoro ***
Capitolo 3: *** Ultimatum ***
Capitolo 4: *** Non un sogno ***
Capitolo 5: *** Tutti in caccia ***



Capitolo 1
*** Il Gatto, la Strega e il Lettino ***


Prologo

Quando Gurthang aprì gli occhi si trovò a fissare il cielo azzurro. Era steso sull'erba, sotto un albero di salice dalla chioma fluente, coi rami chini a sfiorare un fiume tranquillo, dalle acque scure e lente. Si tirò a sedere, guardandosi attorno, confuso: era in mezzo a una battaglia, fino a poco fa. Che era successo?

Sembri confuso...” Una voce accanto a lui lo fece sobbalzare e voltare, fissando gli occhi su un enorme gatto tigrato grigio, dai penetranti occhi gialli. Inclinò la testa di lato, fissando il ragazzo, in attesa.

Gurthang rise piano, nervoso, scuotendo il capo.

No... non puoi aver parlato tu...” Si disse, alzandosi in piedi ed avvicinandosi all'acqua, restando a vedere il suo riflesso. Persino in quell'acqua torbida l'immagine che gli veniva restituita era quella di un ragazzino pallido, dai lunghi capelli neri e occhi azzurri e profondi, un po' allungati verso l'alto, a forma di goccia. Labbra sottili, stranamente scarlatte completavano il disegno di un volto dai tratti delicati, sottili, ma privi di freddezza o severità.

Perchè no?” Il gatto agitò la coda, avvicinandosi circospetto al ragazzo e all'acqua, fissandone la superficie come se temesse qualche scherzo.

I gatti non parlano.” Rispose l'altro, meccanicamente, tornando a guardare i movimenti sinuosi del felino, mordendosi poi le labbra. “Almeno... da quanto so io.” Si corresse, messo davanti all'assurdità della situazione.

Il gatto sorrise. Letteralmente. Mettendo in mostra in dentini affilati.

Sembra tu sappia male.” Si limitò a constatare, tornando a sedersi. “Immagini perché sei qui?” Domandò, invece, ricevendo in risposta uno scuotere del capo da parte del ragazzo.

Non so nemmeno dove sia qui...”

Il dove non è importante.” Commentò, il felino, cominciando a leccarsi pigramente una zampa, lasciando per un po' in sospeso il giovane. “In realtà è un non luogo. O un crocevia tra molti luoghi.” Spiegò ad un Gurthang sempre più confuso, osservandolo intensamente. “Non sai dove andare perché vuoi tornare indietro. Non preoccuparti. Coi giovani succede un sacco di volte.” Commentò, stiracchiandosi.

Sì... giusto, io devo tornare indietro!” Esalò, allontanandosi dalla riva e percorrendo veloce quello spiazzo erboso... fino a ritrovarsi al punto di partenza, col gatto davanti a fissarlo, tranquillo. Sbattè le palpebre, senza capire, fissando il felino. “Devo tornare indietro! Devo portare a Legolas la spada che...” Si bloccò, esitò, una mano a scendere sul ventre, tastando il punto dove c'era la ferita. Nulla. Eppure ricordava il sangue, il dolore e... Tornò a guardare lo strano gatto, comprendendo. “Io..”

Quello tacque, annuendo semplicemente, senza aggiungere altro, mentre il ragazzo cadeva in ginocchio, sopraffatto dalla notizia. Gli lasciò qualche minuto, prima di parlare di nuovo.

Se tu avessi ancora un corpo da riempire sarebbe più facile, ma stando così le cose...” Ancora si alzò, avvicinandosi di più all'acqua, indicando un piccolo molo, a cui era assicurata una barchetta a remi.

Dovrei salire su quella?” Il ragazzo si alzò in piedi, dubbioso, percorrendo il piccolo molo e salendo con circospezione sulla piccola barchetta sottile. Non c'erano remi né timone ed era assicurata alla rive solo da una corda argentata. “Non si può governare...” Protestò, debolmente, ma il felino fece un altro dei suoi strani sorrisi.

Non preoccuparti... alla fine del viaggio sarai esattamente dove vorrai essere.” Lo rassicurò, lasciando che scorresse ancora qualche minuto di stasi, prima che finalmente il ragazzo si decidesse a slegare la cima e a lasciarsi trasportare dalla corrente lenta. Gurthang rimase seduto sulla barca, ad osservare la sponda che si allontanava, mentre la barchetta si posizionava proprio al centro del fiume e il salice col molo e il grosso gatto si rimpicciolivano sempre di più, lasciando il posto ad una pianura attraversata dal fiume, che si stendeva a perdita d'occhio. Si stese sul fondo della barca, chiedendosi se sarebbe stato un viaggio molto lungo.
 

Cap. 1: Il Gatto, La strega e il Lettino
 

 

Qualcosa in bocca gli impediva di chiudere le mascelle. Fu la prima cosa che notò, ancora prima di rendersi conto di essere immerso in una specie di bara trasparente, riempita di un qualche liquido viscoso. Provò a gridare, ma quella cosa gli impedì di fare anche quello. Si agitò, premendo i palmi sul vetro, accorgendosi di avere aghi con attaccati sottili tubicini infilati nelle braccia e nelle gambe. Oltre il vetro vide diverse persone agitarsi, tutt'intorno a lui, gridare ordini che non giungevano attraverso il vetro. Preso dal panico, il giovane premette coi palmi sul coperchio di quella specie di bara, facendo forza fino a sentirlo scricchiolare. Si frantumò con un fracasso di sottili vetri rotti, mentre il liquido scrosciava fuori dalla bara e lui si staccava quel tubo trasparente che gli avevano infilato in gola con un gesto rabbioso. No, non era esattamente nel posto dove avrebbe voluto essere.

Cercò di uscire da quell'involucro, scivolando sul liquido e trovandosi a terra, senza forze. Intorno a lui la gente urlava ordini e correva in giro. Qualcuno lo afferrò, senza che riuscisse a reagire e avvertì una puntura sul braccio, poi più niente.

*

Quando il telefono suona alle 4 del mattino, in genere, non è mai una buona notizia, e questo Elanor lo sapeva bene, ma queando aveva risposto, la notizia l'aveva lasciata per un attimo basita, una cosa che non succedeva spesso.

La dottoressa Elanor Winter era una donna più vicina ai 50 che ai 40, alta e magra, dagli zigomi sporgenti, i capelli ormai bianchi tinti di un biondo slavato e tenuti raccolti in una coda alta, gli occhi verdi incorniciati da occhiali dalla montatura sottile e allungata. Il rumore dei tacchi bassi  lungo il corridoio teneva il ritmo del suo passo, mentre si dirigeva verso la galleria del laboratorio, un anello dai vetri a specchio che avvolgeva la sala circostante, come la galleria di una sala operatoria.

Si avvicinò ad un uomo e una donna, anche loro in piedi davanti alla vetrata. "Che è successo?" Iniziò, senza preamboli, osservando il ragazzo nella capsula aperta, sotto di lei.

"Non lo sappiamo." Quella risposta fece lanciare alla dottoressa un'occhiataccia in direzione della donna, che si affrettò ad aggiungere "I parametri sono saltati all'improvviso. Prima era tutto normale, e poi..." Lo sguardo di lei si spostò a sua volta sul ragazzo. "E poi si è svegliato. E ha fracassato una delle unità." Di nuovo deglutì, nervosa, nello spiegare all'altra quanto era successo. "Ha in corpo abbastanza sedativi da stendere un olifante, ma ha... parlato." Spiegò, fissando l'altra. "Pare cosciente di sè... dai nostri dati questo non sarebbe dovuto succedere e..."

Elanor alzò una mano, a interromperla, le labbra assottigliate in una smorfia interdetta: quella cavia non aveva ricevuto stimoli di nessun genere, non avrebbe dovuto nemmeno sapere di essere al mondo... figuriamoci parlare. Anzi... figuriamoci anche solo pensare.

"Scendo." Decise, alla fine. "Voglio parlare con lui."

*

Gurthang era confuso, sonnolento, disteso su una specie di lettino, con addosso quella che sembrava solo una camiciola leggera, aperta sul retro. respirava piano, cercando di riordinare pensieri sfocati, ricordi ancora avvolti nella nebbia.

"Parli l'ovestron?" Una voce femminile lo riscosse dai suoi pensieri, facendogli voltare il capo. cercò di mettere a fuoco la figura in piedi accanto a lui. Deglutì, ancora confuso dall'anestetico, annuendo.

"Dove sono...?" Chiese, con voce impastata, tenendo gli occhi aperti a fatica.

"Nell'Harad." Rispose quella, spingendo una sedia vicino a lui. Il ragazzo ne approfittò per osservarla meglio. Era una donna di mezza età, un'umana dai capelli chiari, di un biondo che ormai virava sul bianco, gli occhi incorniciati da una sottilissima mascherina di vetro e metallo che non le nascondeva il viso ed indossava una corta tunica bianca che le lasciava scoperte le gambe. "Sei in una base militare gondoriana." Continuò, la donna, spiegandosi meglio. "Quale è il tuo nome?" Chiese a sua volta la donna, accavallando le gambe.

"Harad..." Ripetè il ragazzo, ora chiudendo gli occhi, confuso. "Perchè... sono qui?" Chiese ancora, senza rispondere, lasciandosi poi andare ad un sospiro. "Mi chiamo Gurthang." Di nuovo tornò a guardare l'umana. "Dovrei... essere a Lasgalen... a nord..."

La donna tacque, fissandolo, seria, quasi livida: quella breve conversazione aveva appena tirato uno schiaffo alla logica della donna, che ora si ritrovava seduta in un laboratorio bio-genetico a parlare con quello che avrebbe dovuto essere un clone imbelle, e che invece parlava e si comportava come un personaggio storico defunto da ormai più di mezzo millennio. "Per la guerra, immagino..." Mormorò quella, assorta, mordendosi il labbro inferiore. Si alzò, la donna, senza aggiungere altro, muovendo alcuni passi per la stanza, nervosa. "Gurthang... ascolta." Cominciò, senza avvicinarsi, ma tornando a guardarlo. "La guerra è finita. E' finita sei secoli fa, in realtà. E avete vinto."

Questa volta fu il turno di Gurthang di impallidire.  

"Sei... sei..." Tacque, sentendosi mancare il respiro, come se fosse stato colpito da un maglio. Deglutì, realizzando d'un colpo la perdita di tante persone che aveva conosciuto... Himrak, Tìra, il nano Gimli... Sentì le lacrime pungergli i lati degli occhi e chiuse le palpebre, cercando di non scoppiare a piangere, la testa che pulsava tanto da fargli male.  

Di nuovo mandò giù saliva, cercando di ricomporsi e di mettersi a sedere, ma vuoi per la droga, vuoi per i muscoli atrofizzati, i suoi tentativi si rivelarono infruttuosi e ricrollò di nuovo giù disteso, con la donna che gli scoccò uno sguardo di disapprovazione. "Che è successo ad Anarion? E' mio fratello. E' il principe." Chiese, voltando il capo ad osservare i movimenti di lei. Pareva nervosa e il suo atteggiamento gli gettò addosso una sensazione di gelo alla bocca dello stomaco.

"Devi stare calmo." Preannunciò l'altra, tornando verso di lui, reggendo una specie di cilindro di vetro, pieno di un liquido trasparente, che non lo tranquillizzò affatto. "Ascolta... poco dopo quella battaglia  gli elfi se ne andarono... ad ovest..." Spiegò, in un sussurro, lasciando aleggiare la frase, mentre tornava ad avvicinarsi all'altro, ancora disteso.

L'ennesimo colpo si abbattè sul ragazzo, che di nuovo si ritrovò spiazzato, senza fiato, a fare i conti con la disperazione più nera, la solitudine più profonda. Avvertì distintamente il respiro spezzarsi e il gelo invadergli il corpo, mentre il cuore accellerava i battiti. Respirò convulsamente, mentre l'altra gli infilava un ago nel braccio senza che lui quasi se ne accorgesse, agitato, indifferente ora all'anestetico, sentendo qualcosa premergli dentro, togliendogli il respiro. Ci fu un rumore di vetri infranti, esplosioni e sfrigolii, mentre le apparecchiature andavano in pezzi e i vetri si frantumavano, compresa la siringa nella mano della dottoressa. La donna urlò, e anche Gurthang si sentì urlare, mentre il sangue gli martellava nelle tempie e il cuore pareva scoppiargli in petto, un fuoco ardente dentro. Chiuse gli occhi, ancora urlando, sapendo già che quella cosa veniva da dentro di lui, ma senza poter controllare nè potere nè dolore, semplicemente piegato, senza fiato, senza poter pensare, fino a che quella forza non consumò ogni sua energia, in una brevissima apocalisse di pochi secondi, che lo lasciò di nuovo esausto, supino in quella capsula senza copertura, perdendo conoscenza.

 

*

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Capitolo 2
*** Un buon lavoro ***


Cap. 2: Un buon lavoro


Alma posò il menù davanti a sé, scoccando un'altra occhiata all'elfo di fronte a lei, ancora intento a studiare la lista dei vini. Una figura alta, slanciata, innegabilmente bella. I capelli di un biondo chiarissimo erano pettinati all'indietro e stretti in una coda di cavallo, il naso dritto, le labbra sottili, occhi dalla forma allungata, di un limpido verdazzurro, sormontati da sopracciglia chiare e sottili, ben disegnate. Non dubitava che più di qualche ragazza e di qualche donna, in giro per la Terra di Mezzo, le avrebbe mangiato il cuore, se l'avesse vista, ma lei non era contenta di stare lì... nulla in quella situazione la faceva stare tranquilla. Del resto, quando qualcuno ti fa recapitare dall'altra parte del mondo un biglietto aereo, un abito costoso e una lettera con pochissimi dettagli e la proposta di un lavoro... la curiosità ti sale. E così era partita, nonostante fosse chiaro fin da subito che non avrebbe avuto alcun controllo della situazione. Lo ascoltò distratta mentre ordinava al cameriere un qualche piatto sconosciuto, accompagnato da un vino altrettanto sconosciuto. Lasciò che ordinasse anche per lei, tanto non aveva nemmeno guardato quali fossero le pietanze.
Il cameriere si allontanò e Alma potè notare come l'altro lo seguisse brevemente con lo sguardo, prima di tornare su di lei, serio. Unì le mani davanti alle labbra, facendo toccare solo i polpastrelli.
“Dunque...” Cominciò, ora mostrando un sorriso condiscendente. “Immagino vi stiate chiedendo perché io abbia voluto vedervi.” Lei non rispose, semplicemente annuendo, Lo sguardo a caderle, quasi per deformazione professionale, sull'anello che portava al dito. Non era una fede, sembrava un gioiello d'altri tempi, probabilmente antico, con una decorazione in rilievo, un sigillo, quattro piccole stelle cardinali intorno ad un cerchio. All'interno un altro quadrato, che sovrastava rami frondosi che andavano a lambire i perimetri del cerchio. Lo stesso sigillo che era stato posto a firma sulla lettera che aveva ricevuto meno di quattro giorni prima. Quindi se aveva ancora il dubbio se stesse o meno parlando davvero con un membro della famiglia reale, ora era stato prontamente fugato.  “Voi conoscete la Gurthang.”
Alma non potè impedirsi di sorridere: sì, conosceva bene quella spada... Un'arma di un metallo nero, spezzata a metà, ancora estremamente affilata, nonostante fosse così antica. Il suo primo furto su commissione in solitaria. “Cosa ve lo fa credere?” Domandò, cercando di tornare padrona di sé.
Quello sbuffò, infastidito dal rispondere di lei, agitando una mano come ad accantonare la questione. “Non insultate la mia intelligenza, Signorina Benharti. Ho fatto delle ricerche, prima di farvi recapitare quella lettera. Siete la miglior ladra su commissione vivente. Siete famosa tra i collezionisti d'arte, ma ora sono certo che voi non disdegnate anche incarichi più complicati, se ben retribuiti.” Si interruppe, mentre un cameriere portava loro il vino e riempiva i bicchieri. Aspettò che quello se ne andasse, prima di continuare, osservandola intensamente negli occhi. “Quello della Gurthang è stato un colpo da maestro, specie considerata la vostra giovane età di allora. Diciotto?” Chiese, prendendo un sorso di vino. Quattordici, avrebbe voluto rispondere l'altra, restando però in silenzio. L'ultimo colpo con suo padre, prima che un cancro al pancreas se lo portasse via. In realtà, lo aveva organizzato quasi tutto da sola, lui l'aveva lasciata fare, semplicemente aspettandola fuori. “Ma avete fatto un errore.” Concluse l'elfo, mentre arrivavano le loro ordinazioni.
“Ammesso che sia davvero stata io a rubare quella spada... quale sarebbe stato l'errore?” Domandò, piccata, inarcando un sopracciglio.
“Anguiel.” Rispose l'altro, ora sorridendo, mettendo in mostra una fila di denti bianchi e perfetti. “La Gurtang, o Anglachel, che dir si voglia, fa parte di una coppia, di cui Anguirel è l'altra metà.” Spiegò, serio, abbassando gli occhi sulla propria pietanza, iniziando a mangiare, tranquillo.
“E quindi?”
“E quindi se fossero state rubate entrambe lo avremmo preso per quel che non era, ovvero un furto d'arte, ma stando così le cose...” Lasciò la frase in silenzio, riprendendo a mangiare, gli occhi sul piatto.
“E voi mi avete fatta cercare per un furto avvenuto quasi quindici anni fa?” Chiese, sorpresa, inarcando un sopracciglio. Quello alzò lo sguardo, fissandola, serio, facendole pentire in un attimo quel tono brusco e scostante che aveva usato, forse perché infastidita dal suo stesso errore.
“Sapete... una particolarità degli esseri umani che ho notato da tempo è la brevità della vostra memoria.” Osservò, liberandola dai suoi occhi, riprendendo a mangiare, apparentemente rilassato. “Una cosa che per voi è leggenda, per me è un ricordo in prima persona. Vi intendete di storia, Signorina Benharti?”
“Qualcosa...” Ammise quella, quasi in un balbettio.
“Beh... io c'ero quando quella spada fu usata.” Un sorriso gli increspò le labbra. “So che i vostri libri di storia dicono che fu mio figlio Anarion a colpirlo. Non esattamente.” Strinse la mascella, serio, quasi arrabbiato. “C'era un altro ragazzo. Si chiamava Gurthang, e aveva quindici anni. Fu lui a uccidere Sauron.” Lo sguardo del re tornò sul piatto. “Morì nel farlo. Qui a Lasgalen tutti conoscono la vera storia.” Infilò un boccone in bocca, senza guardarla. Alma si accorse di non aver ancora iniziato a mangiare.
“Quindi... rivolete quella spada per una questione personale.” Dedusse, abbassando a sua volta lo sguardo sul piatto. Udì l'elfo posare le posate.
“No.” La sua voce era fredda e lei tornò a guardarlo. “No, Signorina Benharti. Io sono un re, non mi muovo per questioni personali. Io mi muovo per il mio regno. Io mi muovo quando una delle mie spie mi comunica che quella spada è stata trasportata in un laboratorio militare gondoriano.” Replicò, la voce bassa e gelida, una luce inquietante nello sguardo, come un'ombra sul viso, a smorzare quella luce che sembrava aleggiare intorno a lui fino a un attimo prima. Poi l'ombra svanì e Alma, che aveva trattenuto il fiato, riprese a respirare.
“E io cosa centro con questo?” Chiese l'altra, adesso sporgendosi in avanti, la voce più bassa. Si accorse che quella poteva essere un'ammissione. “Ammesso e non concesso che sia stata io a... a rubare quella spada... cosa vi aspettate che faccia? Cosa volete? Che ve la renda?” Chiese, gettando uno sguardo intorno, quasi sperando che qualcuno si avvicinasse.
“Non è la spada il problema. Il problema è... cosa se ne fa Gondor di una vecchia spada?” Chiese l'elfo, di nuovo calmo. “Stanno combinando qualcosa, Signorina Benharti, e io devo sapere cosa. Devo sapere se questa situazione può mettere in pericolo il mio regno e la mia gente. E in caso, porre rimedio.”
“Sono certa...” Replicò l'altrta, con più prontezza, stavolta. “...che avete qualcuno che...”
“Ma certo!” La interruppe quello, portando alle labbra un altro boccone, per poi prendere un sorso di vino, lentamente. Bevve in silenzio, senza che lei osasse parlare. Posò il calice e si pulì le labbra, prima di continuare. “Ma sono una persona all'antica. Una di quelle che pensa che chi ha cominciato una storia la debba anche finire.” Spiegò, lanciandole uno sguardo intenso.
“In pratica... mi sta dicendo che io ho creato il casino e che a me tocca ripulire...”
“Possiamo metterla in questo modo.” Concesse quello, senza smettere di cenare, tranquillo. Lei rimase a fissarlo, incurante del fatto che il suo pasto si stesse raffreddando, stringendo gli occhi, come se potesse studiarlo meglio, capirlo.
“E se rifiutassi?”
“Non lo farà.”
Lei alzò il mento, fissandolo, fredda, infastidita da quella sua supponenza.
“Cosa glielo fa credere?”
Quello alzò gli occhi, fissandola, le labbra ad incresparsi in un sorriso che pareva feroce.
“Non lascerebbe Lasgalen.” Spiegò, breve, sempre calmo. “Posso farla mettere in stato di arresto anche in questo stesso momento. Non le conviene.” Ne osservò la reazione, il viso farsi furibondo, mentre si rendeva conto di essere stata messa con le spalle al muro. La interruppe, prima che potesse cominciare ad urlare. “Inoltre... credo che dovrebbe controllare il suo estratto conto. Quello di Brea, intendo.” Il sorriso ferino era rimasto sulle labbra. “So essere generoso.”

*

Salì nella macchina dai vetri oscurati, mentre l'autista, un elfo in divisa, dai capelli castani tagliati corti, teneva aperta la portiera, che richiuse con un tonfo. Chiuse gli occhi, gettando indietro il capo e lasciandosi andare ad un sospiro, cominciando a slacciare la cravatta di seta grigia e aprendo poi il primo bottone della camicia.
“Vi porto a casa, Altezza?” La voce di Lindir, l'autista, lo fece raddrizzare, già abbandonato sul sedile posteriore.
“No.” Si sfilò l'anello dal dito. “Andiamo prima a palazzo. Devo restituire una cosa a mio padre.”
“Sì, Altezza.”
Silenzio, poi. Anarion giocherellò brevemente con l'anello.
“Altezza...” Di nuovo la voce di Lindir a distoglierlo dai suoi pensieri. Alzò lo sguardo, rispondendo con un “Mh?” distratto. “Se posso chiedere... come è andata con la ragazza?”
Anarion ridacchiò brevemente, udendo il sorriso malizioso nella voce dell'altro, senza correggere l'equivoco.
“Magnificamente, Lindir. Davvero magnificamente.” Spostò lo sguardo fuori, osservando il paesaggio onirico di Lasgalen, illuminata ora da luci elettriche e non da lampade e candele,gli appartamenti avviluppati intorno agli alberi più grandi, come i talan di Lothlorien. La modernità incassata nella natura. Un gioiello da proteggere. O almeno, così si ripeteva... la faccenda, in realtà, era più personale di quanto non desiderasse ammettere.
Sospirò, chiudendo gli occhi. Sì, con Alma Benharti era andata bene, ora si trattava solo di tornare a palazzo, mettere a posto il sigillo, tornare a casa e farsi una doccia e poi cercare il modo giusto per spiegare a suo padre che quindici milioni di corone per assoldare una ladra professionista potevano DAVVERO essere considerati una spesa necessaria alla sicurezza nazionale.

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Capitolo 3
*** Ultimatum ***


Cap. 3: Ultimatum



La sveglia digitale sul comodino segnava le dieci e quaranta passate. Questo voleva dire che suo padre doveva essere sveglio da un pezzo e doveva aver già avuto la settimanale riunione col ministro della difesa, che con ogni probabilità lo informato sui recenti movimenti di spesa. Quindi era lecito aspettarsi che ora il suo cellulare fosse rovente di tentativi di chiamata. Invece tutto taceva.
Anie si allungò ancora sul letto, afferrando lo smarthphone sul comodino, fissandolo vacuo per alcuni istanti. Niente chiamate nè messaggi.
Rimase steso sul grande letto, a pancia in sù e con solo i boxer addosso, la trapunta di piuma raggrumata ai suoi piedi per tutto quell'agitarsi inconcludente tra le lenzuola. Sbuffò, tirandosi a sedere e cercando nel cassetto il telecomando per aprire le tende. La luce fredda di un gelido primo mattino  invase la stanza, mostrando all'esterno la città di Lasgalen, bigia nei colori dell'inverno, gli abiti spogli e un cielo grigio che minacciava neve.
Anie non si prese il disturbo di vestirsi per scendere di sotto, dato che nell'appartamento faceva caldo. C'era un odore esotico, come di legno di sandalo e di incensi. C'era un sentore d'oriente, in quella casa, dei rimandi al Rhun, nei mobili, nelle foto e nei quadri alle pareti, negli odori e nei tappeti che lasciava respirare una malinconia mai sopita.
L'altro elemento ponderante dell'appartamento faceva a pugni, in certi casi, col resto dell'arredamento... vecchi film in locandina e gadget spuntavano un pò ovunque, al piano inferiore, un'intera parete era occupata da un televisore al plasma con annesso impianto audio e lettore dvd ultima generazione. Sugli scaffali erano impilati ordinatamente decine e decine di film, catalogati meticolosamente per genere e titolo, un armadio a parte conteneva le videocassette che aspettavano di trovare un altro supporto. Era l'unica zona ordinata della casa, almeno fino a venerdì, quando quella santa donna della domestica fosse tornata dalle ferie... Anarion si segnò mentalmente di darle un aumento, mentre ricordava che sul tavolino del salotto c'erano ancora una bottiglia di birra vuota e mezzo spinello, insieme ai vestiti della sera precedente, spiegazzati e appoggiati sul divano rosso che avvolgeva un grande tappeto antico di lana.
La televisione però era accesa... accigliato, Anie si affacciò all'arco che dal corridoio portava alla sala, osservando il profilo di suo padre, affossato contro lo schienale, coi capelli biondi pettinati all'indietro e trattenuti da una coda stretta e addosso un completo grigio scuro, camicia chiara, cravatta cashmere. Impeccabile. Come al solito, del resto.
"Te la sei presa comoda." Osservò, con calma, senza voltarsi verso di lui, solo abbassando gli occhi a guardare l'orologio al polso, prima di tornare a fissare lo schermo. Lo Hobbit, La Desolazione di Smaug, oltre lo schermo, un'improbabile Tauriel pomiciava con un nano. Legolas fece una smorfia, bloccando il film. "Pessima." Concluse, finalmente voltandosi verso il figlio.
"Non... piace nemmeno a me." Balbettò Anarion, passandosi una mano tra i capelli spettinati, in imbarazzo. Se anche si aspettava una cazziata, ritrovarsi il padre in casa a guardare un film sul suo televisore, vestito di tutto punto mentre lui si era appena alzato... beh, lo coglieva un pò impreparato. "Tutto il secondo film non è un granchè... è che volevo la serie completa." Spiegò, voltando gli occhi sulla sala, posandosi sul tavolino, dove c'erano ancora i resti del suo momento relax della sera prima. Troppo tardi per limitare i danni, in ogni caso.
"Già..." Un commento vago da parte del re, che si alzò in piedi, avvicinandosi al figlio. "Beh... di pessimo c'è stato anche il tuo scherzo, direi. E tanto perchè tu lo sappia, sappi che ho dovuto sopportare per l'ennesima volta una filippica di Turiel su quanto tu sia inaffidabile..."
"Non mi sorprende..."
"Quindi, come minimo, adesso mi devi spiegare dove sono finiti quei quindici milioni di ammanco e perchè." Concluse, freddo, lanciando all'altro un'occhiata gelida. "E spero davvero che sia un buon perchè."
Anarion sospirò, voltando le spalle al padre. "Vieni in cucina, ho bisogno di un caffè."
*
"E hai seguito quella spada fino adesso." Legolas ricapitolò così la situazione, stando seduto su uno degli sgebelli dell'isola della cucina, succhiando dal cucchiaino lo zucchero rimasto sul fondo della tazzina di caffè, mentre Anarion rimaneva appoggiato al frigorifero, dall'altro lato del bancone, con una mug in mano, avendo aggiunto al caffè una generosa dose di zucchero, latte e panna spray. C'era da chiedersi come osasse chiamarlo ancora caffè. "Anie, la tua sta diventando un'ossessione. Non avresti potuto fare nulla, e restare attaccato ad un cimelio non porterà indietro nessuno di loro." Concluse, posando la tazzina.
"Tu non mi ascolti." Sbuffò il più giovane, ingollando un altro sorso del bevarone. "Non dico che tu non abbia ragione, che io sia in fissa con questa storia, ma obbiettivamente parlando... che se ne fa di una spada l'esercito gondoriano?" Chiese, retorico, incalzando il padre. "Stanno combinando qualcosa."
Legolas tacque, tamburellando con le dita lubghe e sottili sul bancone, riflettendo, forse cercando intimamente una spiegazione logica e tranquillizzante, senza in realtà trovare nulla di plausibile.
"E' strano, te lo concedo." Ammise, alla fine, rialzando gli occhi sull'altro e incrociando le braccia al petto. "Ma non vedo come ingaggiare una ladra per recuperare la spada possa..."
"Non deve solo recuperare la spada." Lo interruppe, quasi di getto. "Le ho chiesto di scoprire che cosa stanno facendo i gondoriani con quell'oggetto e di passarmi ogni informazione a proposito."
Legolas fissò il figlio, serio, accigliato a dir poco. Aggrottò la fronte, serio, gli occhi chiari a fissare l'identito sguardo del giovane elfo.
"Anie... questo è spionaggio. Se quella donna si fa prendere rischiamo un incidente diplomatico da cui non sono affatto sicuro di riuscire a uscirne."
"Per questo..." Lo rassicurò Anarion, sorridendo da sopra il bordo della tazza."... sto usando qualcuno di esterno." Spiegò, per poi finire il caffè e lasciare la tazza nel lavello, mentre il re rifletteva, senza più guardarlo, gli occhi fissi sul marmo del bancone, assente, inseguendo i suoi pensieri.
"Vi do sei mesi." Conclse, alzandosi dallo sgabello, serio. "Spera di avere dei risultati per allora, Anie, altrimenti lascerai perdere tutta questa faccenda. E' chiaro?" Chiese, serio, dirigendosi vrso l'uscita, col figlio dietro. "Non intendo rischiare una guerra. C'è già un clima da guerra fredda che mi preoccupa abbastanza, non gettare benzina sul fuoco." Chiese, prendendo il cappotto lungo e cominciando a infilarlo.
"Ho capito, ho capito." Lo rassicurò l'altro, serio, osservandolo mentre si preparava a uscire.
"E avresti dovuto parlarmene."
"Me lo avresti lasciato fare?" Chiese stancamente l'altro, sostenendo per alcuni lunghi secondi lo sguardo del padre, che infine cedette, con un sorriso stanco.
"No." Ammise, aprendo la porta, lasciando entrare nell'appartamento ricavato da un antico talan l'aria fredda dell'esterno. Fuori si snodava una lunghissima scalinata, che scendeva lungo l'albero fino a terra, o fino al talan sottostante, dove si poteva prendere un moderno ascensore.
"Papà!" Anarion lo richiamò mentre già cominciava a scendere le scale, coperte da una sorta di porticato. "Non farò casini, fidati."
Legolas si voltò e sorrise, stringendosi il colletto del cappotto. "Mi fido, Anarion. Altrimenti non te lo lascerei fare... ma devo dire che questo vizio di famiglia di mettere la gente davanti al fatto compiuto è molto più irritante da questo punto di vista." Sogghignò, voltandosi e scendendo di sotto, attento a non scivolare.
Anie sospirò, richiudendo la porta e rientrando in casa. Dove aveva messo il cellulare? Tornò in sala, cominciando a spostare i cuscini, fino ad estrarre il palmare. Digitò il numero, addossandosi allo schienale del divano.
Una voce femminile e impastata di sonno rispose dall'altro lato.
"Anie?"
"Ciao Rin... ancora a letto?"
"E' l'alba."
"Sono passate le dieci."
"Appunto" Ci fu un grugnito e altri rumori non meglio identificati, mentre la ragazza si muoveva sul letto. "Che cosa ti serve?"
"Ricordi la persona che hai rintracciato?" Domandò Anarion, fissando il soffitto, assorto. "La ragazza, l'haradrim."
"Sì, ho capito. Come è andato l'incontro"
"Abbastanza bene, direi... ma mi serve che le stai col fiato sul collo."
La voce di donna dall'altro lato del telefono rise piano.
"Paura che scappi coi soldi?"
"Se succede mio padre mi appende per i piedi."
Un'altra risata.
"Vedo che combina e ti faccio sapere. C'è altro?"
"Sì. Ceniamo insieme?"

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Capitolo 4
*** Non un sogno ***


Cap. 4: Non un sogno

 

Nel silenzio generale della notte Alma camminava lungo il corridoio della base, con le scarpe che ticchettavano sul pavimento ad ogni passo. Non si apriva nessuna finestra e l'unica luce era data dalle lampade al neon che ronzavano sul soffitto.

Indossava la divisa militare della divisione scientifica, in quell'assurdo, deprimente verde oliva, con la gonna al ginocchio, giacca, camicia e cravatta. Femminile quanto un orco e maledettamente scomoda.

Si fermò davanti alla porta del laboratorio ed estrasse il badge di riconoscimento. Rubarlo ad uno degli assistenti della Winter era stato facile, ma farne un dublicato le era costato un sacco di soldi. Per sicurezza, aveva anche registrato la voce dell'assistente, giorni prima, ma se c'era un controllo della retina o delle impronte di gitali sarebbe stata fregata. Passò la scheda sul terminale e attese, fino a che la luce non passò da rossa a verde. Andata. E più facilmente di quanto sperasse.

Entrò nella sala, mentre la luce si accendeva di colpo, illuminando tre lunghe file di computer di ultima generazione, disposti davanti ad una vetrata, che dava su una specie di studiolo medico, con apparecchi che lei non aveva mai visto. Sedette davanti ad uno di quelli e digitò la lunga password, incrociando le dita: un computer ne creava una diversa ogni settimana. Accettata. Alma espirò, mentre osservava la lunga fila di cartelle numerate che apparirono sullo schermo. Collegò al computer quella specie di chiavetta usb che il suo datore di lavoro le aveva fatto avere e cominciò a scaricare quel materiale, fino al file n.13.

"Necessaria autorizzazione di livello 1. Digitare nuova password." Lesse, a mezza voce. Ecco... era troppo semplice. Estrasse il cellularte, componendo una lunghissima sequenza di numeri. Un altro consiglio del re, da usare solo in casi di necessità. A quanto ne sapeva lei, era il numero di un hacker di fiducia, che già aveva provato a entrare nei loro sistemi, ma a quanto pareva, la base aveva un circuito chiuso in cui non poteva infilarsi.

 

*

 

Earine Unduin era un elfo piuttosto strano: alta e magra, coi capelli tinti di blu, rasati sui lati e alzati in una cresta col gel, portava un numero ragguardevole di piercing alle orecchie, uno al naso, due sul sopracciglio sinistro, piccoli e d'argento, ad anello, e un altro sulla punta della lingua; La canottiera nera che portava sopra jeans vissuti era di due misure troppo larga e portava il logo di qualche gruppo punk-rock semi-sconosciuto. Il braccio sinistro era totalmente coperto dal disegno di un roseto su cui si affacciavano piccoli uccelli variopinti, attorno al suo collo e scendendo dietro la schiena si snodava una via lattea su cui navigava Earendil, in ultimo, sopra i seni erano tatuate due caffettiere fumanti.

Stava navigando pigramente su internet quando ricevette una chiamata sul cellulare che le aveva lasciato Anarion, la qual cosa la fece improvvisamnte cadere dalle nuvole. Rispose, impaziente.

"Quale è il problema?"

"Necessaria autorizzazione di livello 1. Digitare nuova password." La voce della ladra suonava calda anche attraverso la distorsione del telefono, proprio come Rin si era aspettata guardandola dalle telecamere di sorveglianza.

"Va bene, attacca il telefono al computer. Non credo sarà troppo difficile." La invitò, cambiando schermata e prendendo il controllo del computer remoto. Sorrise, tuffando la mano in un sacchetto di patatine lì vicino. "Si inizia..." Sussurrò, eccitata.

 

*

 

Alma rimase a guardare lo schermo, mentre la schermata cambiava, mostrando ora uno sfondo nero su cui apparivano e sparivano file e file di comandi in codice, mentre Rin, chiunque fosse, cercava di bypassare il sistema. Le ci volle meno di un quarto d'ora, per ritornare alla schermata iniziale.

"Alma? Ci sei?" La voce di donna crepità piano dal telefono senza vivavoce e la ladra portò di nuovo l'apparecchio all'orecchio.

"Sì." Rispose, smettendo di mangiucchiarsi la punta dell'indice. "Ci sei riuscita?"

"Due notizia. Una buona e l'altra cattiva. La buona, è che ho la password. La cattiva, è che appena comincerai a scaricare i dati i gondoriani lo sapranno. Posso bloccare il segnale per un pò, ma dovrai lasciare il cellulare collegato e anche così non posso darti più di sei minuti, dopo che avrai scaricato tutto. Hai modo di andartene in tempo?"

Alma non rispose subito, riprendendo a tormentare l'unghia.

"Bella rogna..." Mugugnò, e Rin rise.

"Già, ma non aspettarti ritocchi al tuo rimborso spese. Mi pare già più che adeguato."

"No, se mi mettono dentro."

"Nel caso ti presto il mio avvocato. Inserisco la pass o no?"

Alma sospirò, chiudendo per un momento gli occhi, riflettendo. Sì... volendo aveva un diversivo adatto. Infilò una mano in tasca, estraendo il piccolo detonatore, molto simile a un telecomando per cancelli. Era collegato a una piccola bomba, un ordigno compatto, he pure avrebbe fatto un bel pò di danni, dando ai militari altro a cui pensare.

"Sicura che riuscirò a scaricare tutto il materiale?"

"Di stretta misura ma sì, ho controllato."

"Allora inizia le danze."

Un'altra risata cristallina si udì dall'altra parte del telefomo.

"E allora Rock'n Roll, Baby!"

 

*

 

In quel bosco autunnale regnava la pace. Gurtangh aveva arrotolato i jeans fino a metà polpaccio, per poter immergere i piedi nel laghetto di acque scure, restando vicino alla riva e assaporando il contatto col fondo limaccioso tra le dita. L'acqua era fredda ma non gelida, poteva restare lì a lungo. Una foglia di quercia, ormai marroncina, si staccò da un ramo, finendo in acqua e mandando a quel contatto piccoli cerchi concentrici.

"E' qui che volevi stare?" Chiese il gatto, stando seduto sulla riva, a una certa distanza dal laghetto.

"Più o meno... questa non è Lasgalen vero? E' tutto un sogno. Sono ancora alla base." Rispose il ragazzo, allungando una mano a prendere la foglia, senza voltarsi verso il gatto.

"Qualcosa del genere..." Concesse quello, prendendo a passeggiare leggero attorno al laghetto.

"Dicevi che sarei stato dove volevo essere." Rispose l'altro, imbronciandosi e abbandonando la foglia per guardare di nuovo il gatto.

"Ci sono state complicazioni."

Gurtangh tornò verso riva, sedendosi sull'erba e srotolando i jeans. "Già... tipo il fatto che sono tutti morti o partiti." Fu il commento amaro del ragazzo. Il gatto non rispose, limitandosi a stringere gli occhi e a muovere pigramente la grossa coda cespugliosa.

"Comunque non qui." Appuntò il felino. Gurth lo guardò, assorto: ormai non poteva più catalogare quel gatto come un sogno, lo aveva visto troppe volte. Quello che non capiva era se era un parto della sua mente, nel qual caso avrebbe dovuto cominciare a preoccuparsi, se era una risposta del suo inconscio agli esperimenti che avevano fatto su di lui, e nemmeno questo lo tranquillizzava, o... cosa? Sospirò, rinunciando a capirci qualcosa e stendendosi indietro, sull'erba della riva, fissando il sole che giocava tra le fronde di quel bosco multicolore.

 

*

 

Un'esplosione lo svegliò, facendolo sobbalzare e mettere a sedere, confuso, mentre cercava di capire cosa fosse successo. Le luci d'emergenza si erano accese, illuminando la stanza di una luce azzurra e fredda, rendendo visibili i contorni spogli della sua piccola stanza all'interno della base.

Dall'esterno arrivavano i rumori di passi affrettati, ordini urlati e il gracchiare degli altoparlanti.

Gurthang scese dal letto, rabbrividendo al contatto dei piedi nudi col pavimento freddo, mentre si avvicinava alla porta automatica. Ovviamente non si aprì, doveva essere saltato l'impianto elettrico... la spinse a forza, aprendo uno spiraglio che gli permettesse di uscire.

Nel corridoio c'era agitazione, tutti correvano, le facce tese e un odore acre, come di plastica bruciata appestava l'aria.

Nessuno badò a lui mentre usciva dalla stanza, cominciando a muoversi incerto lungo il corridoio, indeciso su dove andare.

"Gurthang!" La voce della dottoressa Winter lo fece voltare di colpo. Aveva i capelli sciolti e spettinati ed indossava un improbabile pigiama rosa e infradito bianche da piscina. Gli venne incontro sciabattando, mettendogli una mano sulla spalla, cercando di guidarlo da una parte. "Vieni, c'è stato un incidente ed è scoppiato un incendio, dobbiamo andare da questa parte." Gli spiegò brevemente, tenendo un fazzoletto davanti alla bocca e spingendolo lungo il corridoio.

"Un incendio..?" Il ragazzo ripetè le parole della donna, seguendolo comunque, apparentemente docile, ma voltandosi indietro, fissando i soldati in tuta ignifuga che correvano dalla parte opposta alla loro.

"Di qua saremo al sicuro." lo invitò, continuando a tenere le spalle del ragazzo che la seguiva, docile. Del resto, perhè non avrebbe dovuto? Da una parte c'era il pericolo, dall'altra sarebbe stato al sicuro. Era quello che voleva, no? No? Gurthang si fermò di colpo, guardando ora alle proprie spalle, incerto. Cosa c'era da quella parte di così insormontabile? Il fuoco? L'ignoto? Ripensò alla sua prima fuga, una vita prima: era scappato per non essere usato contro la sua volontà e aveva affrontato ben più che un incendio e l'incertezza del futuro.

"Gurthang!" La voce della dottoressa Winter, impaziente, lo fece sobbalzare e tornare alla realtà. Si voltò a fissarla, fisso, come se la vedesse per la prima volta, prima di scuotere lentamente il capo e fare un passo indietro.

"No." Un mormorio gli lasciò le labbra, lasciando che le parole aleggiassero nell'aria solo per un secondo. Si volse di scatto, percorrendo veloce il corridoio nel senso opposto a quello che avrebbe dovuto. Udì la voce della dottoressa richiamarlo, stridula di incredulo panico, ma non ci badò, concentrandosi solo sul suono ritmico del proprio cuore e sul tamburellare dei piedi nudi sul pavimento.

Man mano che si avvicinava all'incendio l'aria diventava più pesante. Presto si trovò a camminare in un fumo acre che bloccava il respiro, costringendolo a procedere praticamente alla cieca, tossendo e con gli occhi che lacrimavano. Si mosse a tentoni, avvicinandosi ad un muro e lì fermandosi, cercando di capire dove si trovasse. La mano tastò la parete, come saggiandone la consistenza e quanto potesse essere spessa. Non che gli servisse... i suoi poteri più forti erano quelli mentali, bastava che riuscisse a vedere un oggetto, da qualunque distanza, per manipolarlo o distruggerlo, non c'era alcun bisogno di tirar giù la parete a pugni. Eppure, pur sapendolo benissimo, non potè trattenersi dal posare anche l'altra mano sulla parete.

Un passaggio.

Gli serviva un modo per passare.

Come se una lama avesse tagliato della tela, un taglio si aprì nel muro, per poi allungarsi abbastanza da permettere al giovane di passare. Gurthang si trovò in unastanza piena di cubitoli, minuscoli uffici divisi da separè, dove l'aria era appena più respirabile.

"Fin qui tutto bene..." Mormorò, rivolto a sè stesso, voltandosi a richiudere la parete. Non c'era nessuno a sentirlo, ma gli piaceva sentire la propria voce, quella corsa nel fumo gli sembrava irreale come un sogno. Deglutì. "Gatto?" Chiese, alla stanza vuota. Silenzio. Meglio così da una parte... voleva dire che era sveglio. "Dai, Gurth... muoviti, prima che qualche soldato entri qui dentro..." Mormorò a sè stesso, voltandosi e percorrendo il corridoio tra i cubicoli, il passo, svelto, ma senza correre. Quanto era lunga quella serie di ufficetti? Deglutì. Cammini, cammini e non arrivi da nessuna parte. Tipico dei sogni. "Gatto?" Chiese di nuovo, deglutendo. "Ti prego, fa che non sia un sogno." Supplicò, chiudendo per un attimo gli occhi.

Non lo era.

La parete di fondo. Niente più ufficetti, solo una parete, con delle piccole finestrelle poste in alto. Non grate di areazione. Erano persino più piccole, ma erano delle finestrelle chiuse da grate. Anche da lì poteva vedere un cielo lattiginoso. Era notte, ma le luci che illuminavano il cortile erano fortissime.

Lo sguardo azzurro intenso di Gurthang tornò a posarsi sulla parete compatta, aprendo di nuovo uno squarcio nella parete, permettendogli di uscire all'esterno, nel grande cortile.

Il cuore ebbe un sobbalzo mentre il passo si fermava sull'asfalto coperto da uno strato di sabbia, fissando davanti a sè. Troppa luce per vedere le stelle, ma la libertà era a portata di mano, solo oltre due file di recinzioni elettrificate e un muro di cinta sormontato da filo spinato. Sorrise. Corse. Raccolse le gambe e saltò, praticamente volando scoppiò a ridere mentre era in volo, e in quel momento una scarica di mitragliatrice gli squarciò il ventre.

Ricadde pesantemente sull'asfalto, senza nemmeno il fiato per urlare. Le torrette di controllo. Come aveva potuto dimenticarle?

Stringendo i denti per il dolore e la nausea, Gurthang riuscì a voltarsi supino, osservando il danno: la scarica gli aveva squarciato il basso ventre, facendo fuoriuscire le budella. La testa gli girò, disgustato, mentre fissava quel grumo di viscere rosa fuoriuscire come le spire di un serpente da una poltiglia rosso sangue che gli imbrattava la maglia bianca del pigiama. Con una mano cercò di spingersi nuovamente le interiora all'interno di quello squarcio, facendo una smorfia nel sentirle così viscide. Inspirò, trattenendo il fiato, mentre cercava di accellerare il processo di rigenerazione, visualizzandosi il suo corpo sano. A distrarlo ci pensarono dei soldati che, urlando e correndo, parevano intenzionati a venire a prenderlo. Strinse i denti. No, non sarebbe tornato indietro, non quando era così vicino.

Questa voltà riuscì quasi a sentire gli occhi pizzicare mentre usava il suo potere. Osservò i soldati e li respinse, spingendoli indietro. Si sollevarono in aria, come colpiti da un maglio pesantissimo, ricadendo diversi metri più indietro. Uno di loro atterrò proprio contro la recinzione. Gurthang fece una smorfia, osservando il suo corpo cortorcersi con grida orribili, e l'odore della carne bruciata arrivare fino a lui. Non stette a vedere le reazioni degli altri, rimettendosi in piedi. La ferita non era ancora chiusa completamente, ma almeno non rischiava di inciampare nel suo intestino mentre scappava. Di certo, comunque, non si azzardò a saltare, limitandosi piuttosto ad una cosa dolorante. Squarciò la seconda recinzione e ne spinse i lembi lontano per sicurezza.

I soldati si erano rialzati, a parte quello fulminato? Si trovò suo malgrado a sperare di no, ma non si voltò a controllare. Non riusciva a dosare bene la sua forza, aveva colpito per stordire, ma forse era stato troppo forte. O troppo poco. Aprì un'altra ferita nel muro, stavolta quasi distruggendolo, tanta era la sua agitazione, ma il succo era quello. Ora le dune del deserto dell'Harad si aprivano come onde di mare davanti a lui, e come il mare nere e bianche, nella strana luce di un plenilunio.

Corse fuori, lasciandosi la base alle spalle, senza voltarsi a guardare quella prigione di cemento grigio, i piedi che non affondavano che leggermente nella sabbia, fresca sotto alla luce della luna. Appena sarebbe sorto il sole le cose sarebbero state ben diverse, già lo sapeva, ma per il momento, non poteva fare altro che assaporare l'aria fredda della notte, il fresco della sabbia che gli solleticava i piedi. Un vento leggero si alzò, quando raggiunse la sommità di una duna. Meglio così, avrebbe contribuito a cancellare le sue impronte. Gurthang si volse un'ultima volta a osservare la base che si era definitivamente lasciato alle spalle. C'era movimento nel cortile, sembrava che già si organizzassero per cercarlo, eppure non potè fare a meno di lasciarsi andare ad un mezzo sorriso, mentre scendeva dalla parte opposta della duna, mettendo tra sè e i suoi inseguitori più passi possibili, correndo e scivolando sulla sabbia, senza più guardare alle proprie spalle, incontro al deserto.

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Capitolo 5
*** Tutti in caccia ***


Cap. 5: Tutti in caccia

Gurthang non si era fermato per tutta la notte, a tratti correndo, a tratti camminando, rendendosi conto ben presto che la sabbia non era certo compatta come la neve, affondando a tratti fin sopra la caviglia. Ora il sole stava sorgendo alle sue spalle, ne avvertiva già il calore sulla nuca, ma almeno ora era certo di muoversi verso ovest e quindi, sperava, verso il mare, anche se non sapeva bene se fosse la migliore delle idee andare da quella parte, ma era sempre preferibile che non inoltrarsi a caso nel deserto. Eppure, paradossalmente, perdersi in quel momento non era la principale delle sue preoccupazioni. Pensieroso, il ragazzo si grattò il polso sinistro. Sapeva che gli era stato impiantato qualcosa, un oggetto sottile e dalla forma quadrata, gli angoli smussati, che il giovane aveva la sgradevole sensazione si trattasse di un rilevatore o roba simile, il che significava che quella corsa era perfettamente inutile, se la dottoressa Winter sapeva esattamente dove stava andando. Non che quella fosse una certezza, ma bastava a mettergli una pulce nell'orecchio.
In cima ad una duna il ragazzo si fermò di colpo, fissando in basso, dove in una piccola conca si apriva uno specchio d'acqua color cielo quasi perfettamente circolare, circondato da palazzi bianchi e una striscia di alberi color verde scuro.
Il ragazzo si strofinò gli occhi, incredulo, rimanendo in piedi, a fissare quell'oasi da in cima alla duna. Deglutì, sentendo la gola secca e la lingua gonfia, le labbra screpolate. Si riscosse, cominciando a scendere, un po' correndo un po' ruzzolando giù per la duna, avvicinandosi veloce a quel complesso. I primi edifici che trovò parevano dei magazzini, ma non li osservò troppo a lungo, continuando a muoversi verso il lago, in cui entrò di corsa, muovendosi fino a quando l'acqua non gli arrivò alle ginocchia, prima di lasciarsi cadere in ginocchio e abbassare il viso a bere a grandi sorsate. L'acqua era fresca, anche se sapeva di pesce, ma non era in vena di preoccuparsi per il sapore. Bevve avidamente e si spruzzò d'acqua il viso e i capelli poi sfilò la maglietta sfilacciata e sporca di sangue, lasciandola fluttuare sulla superficie del lago mentre lui puliva con l'acqua fredda il petto e il ventre ancora sporchi di sangue incrostato.
Finalmente Gurthang alzò il capo ad osservarsi meglio attorno. Quel lago era molto grande e la maggior parte degli edifici si trovava sulla riva opposta, quelli che aveva passato erano probabilmente magazzini e anche rimesse per barche.
Uscì dall'acqua, senza recuperare la maglia squarciata, riguadagnando la riva e guardandosi attorno: poco distante da lui c'era un piccolo molo e una rimessa aperta, verso cui si diresse, gettando uno sguardo all'interno, dove si trovavano diverse imbarcazioni, forse danneggiate e in attesa di riparazione, il che avrebbe spiegato perché si trovavano lì, incustodite. Vi entrò, gustandosi l'ombra fresca, osservandosi attorno, studiando l'ambiente: c'erano degli armadietti, ma tutti chiusi a chiave e non gli sembrava il caso di scardinarli per frugare all'interno, su una panca qualcuno aveva abbandonato una cassetta per gli attrezzi. Aperta. Gurth non potè impedirsi di sorridere, mentre cominciava a frugare all'interno, fino ad estrarre un taglierino.
“Non uno strumento chirurgico, ma andrà bene...” Mormorò il ragazzo, parlando a sé stesso, mentre seduto sulla panca avvicinava la lama al braccio. Inspirò forte e strinse i denti, prima di incidere la pelle, ma all'inizio non fece nemmeno troppo male, cominciò a bruciare davvero solo quando il sangue iniziò ad uscire. “Ahi...” Il ragazzo gemette e strinse gli occhi, mentre infilava due dita nel taglio, a cercare quel quadratino metallico, quell'oggettino che praticamente scivolò fuori dalla ferita. Un semplice, sottile quadrato metallico, senza lucine o cose strane, poteva sembrare uno strano bottone. Il ragazzo si chinò a coglierlo da terra, tenendolo sul palmo per qualche istante, prima di alzarsi e uscire sul piccolo molo. Lo lanciò in acqua, mentre il sangue sul braccio già smetteva di uscire, mentre il suo corpo già rimarginava il taglio.
“Ben fatto.” Una voce lo fece sobbalzare e voltarsi di scatto, senza trovare nessuno alle sue spalle. “In basso.” Lo redarguì la voce, e il ragazzo ubbidì, abbassando le iridi blu chiaro sul gatto, seduto sul molo.
“Grandioso.” Sbuffò il giovane, roteando gli occhi verso l'alto. “Tutta questa fatica ed è un altro sogno...”
“Credevo avessimo appurato che non sono un sogno.” Fece quello, alzandosi sulle quattro zampe e guadagnando la riva. “Lavati il braccio.” Ordinò. “E poi seguimi, andiamo sull'altra riva. Hai bisogno di aiuto.”
“Oh, questo è sicuro.” Ammise il ragazzo, ubbidendo al gatto, lavandosi il braccio e poi seguendolo. “Ma cosa sei se non sei un sogno?” Chiese, standogli dietro, osservando quella coda cespugliosa ondeggiare davanti a lui.
“Tu cosa sei?” Rispose di contro il gatto.
Gurthang arricciò il naso. “Mia madre diceva che era maleducazione rispondere ad una domanda con un'altra domanda.” Replicò, imbronciandosi, quasi rischiando di inciampare nel gatto, quando questi si fermò di colpo, osservandolo con gli occhi gialli. Per qualche motivo, in quel momento al giovane quella creatura fece paura, ma ecco che poi gli rivolse uno dei suoi strani, inquietanti sorrisi.
“Qualcuno che conosceva tua madre. E tuo padre.”
“Legolas?”
“Sauron. Ma sì, anche Legolas.” Ammise il gatto, riprendendo a camminare. “Prima avevo un'altra forma. Molto diversa, in effetti.”
Gurthang tacque, continuando a seguire il gatto, senza osare, per il momento, fare altre domande, ma continuando a rimuginare, mentre aggiravano il lago.
“E conoscevi me? O Anie?”
Il gatto rise, o quantomeno emise un verso che Gurth interpretò come una risata. “No... voi siete un'altra generazione, non sono riuscito a conoscervi.”
Gurthang sbuffò, scuotendo il capo. “Non capisco perché non mi dici semplicemente il tuo nome. Devo continuare a chiamarti Gatto?”
“Un nome è solo un nome, Gurthang... E io ne ho avuti tanti. Gatto non è nemmeno il peggiore che ho portato.” Replicò quello, per poi restare in silenzio, senza aggiungere altro, continuando a camminare leggero, senza lasciare tracce del suo passaggio.

*

Lottie non era esattamente addormentata, diciamo che era più che altro lì lì per farlo, distesa a pancia in giù a bordo piscina, con gli occhiali a mosca che le coprivano gli occhi e i capelli rossi e ribelli costretti a forza in una treccia voluminosa fissata alla nuca, che sarebbe andata a puttane al primo bagno, ma almeno per quell'anno era decisa a non tornare a scuola con la schiena modello biscotto alla crema, con la panna tra due frolle scure. Sentì suo padre sbuffare, steso sullo sdraio accanto al suo, con un libro in mano e, lei ne era sicura, il fermo proposito di non divertirsi. Lo ignorò, sistemandosi meglio sulla sdraio, gli occhi chiusi. Lui sbuffò di nuovo e lo sentì alzarsi in piedi.
“Vado a fare una passeggiata, non riesco a star qui senza far niente. Tu vieni?” La chiese, e questa volta fu il turno di Lottie di sospirare.
“Papà, è l'ultimo giorno che passiamo qui. Non ti chiedo di divertirti ma per una volta vorrei evitare di tornare a scuola bianca come un lenzuolo!”
“Sei un elfo, Lottie.” Ghignò quello, osservandola. “Puoi stare al sole fino a rosolarti, ma sarai sempre abbastanza bianca da brillare nel buio.”
“Mezzo elfo.” Replicò lei, inacidita, senza alzare lo sguardo su di lui. Lo sentì ridere e allontanarsi. Lei sprimacciò inutilmente il cuscino gonfiabile e cercò di tornare a godersi la tintarella.
Forse si addormentò, perché non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato quando venne interrotta da qualcosa di peloso che le strusciava sui piedi. Sobbalzò, mettendosi a sedere e ritrovandosi a fissare un grosso gattone grigio bellamente seduto ai suoi piedi, la coda cespugliosa che si muoveva sinuosa nell'aria.
“E tu da dove spunti?” Sbottò, sorpresa, allungando una mano a carezzare il gattone dietro le orecchie, godendosi delle fusa piuttosto rumorose, guardandosi intorno, alla ricerca del proprietario.
“Gatto! Cavolo...” Era un ragazzo di forse un paio d'anni più giovane di lei, con arruffati capelli neri, scalzo e con addosso solo un paio di pantaloncini bianchi impolverati. Si avvicinò a lei, prendendo in braccio il gattone, che protestò pigramente smettendo di russare. “Scusa...” Borbottò il ragazzo. “Non so perché lo abbia fatto... non è così, di solito.” Le spiegò, tenendo in braccio l'enorme animale. Lei sorrise.
“Non c'è problema, mi piacciono i gatti. Come si chiama?”
“Gatto.”
“Originale...” Il ragazzino arrossì e lei ridacchiò. “Io sono Lothiriel. O Lottie, che è meglio. E tu sei...?”
“Gurthang?” Quella risposta sorpresa non arrivò dal ragazzo di fronte a lei, ma da una voce alle sue spalle, quella di suo padre, che stava dritto a qualche passo da loro, tenendo in mano due enormi bicchieri di frullato. Gurthang avvertì un'incredibile sensazione di anacronismo, mentre fissava Arwanar, in pantaloni e camicia di lino in stile esterling, coi capelli corti tagliati a spazzola che rossi com'erano gli davano l'aria di un fiammifero acceso. Sensazione che doveva condividere anche l'altro, considerato che lui stesso sarebbe dovuto essere morto. “Tu... tu...” Biascicò, riempiendo a grandi passi la distanza che li separava e rimanendo davanti al ragazzo, perplesso, con ancora in mano i due bicchieri, cosa di cui parve accorgersi solo in quel momento. Li posò sul tavolino tra le sdraio, senza parlare, voltandosi di nuovo verso Gurthang. E traendolo poi a sé, abbracciandolo, senza parlare.
“Mi... soffochi così, Arwanar!” Protestò il giovane, seguito dal gatto, che emise un lungo verso scandalizzato, trovandosi schiacciato tra i due. Arwanar rise forte, scostandolo da sé e prendendogli il viso tra le mani.
“Non sei cambiato... Come hai fatto a tornare? A farti mollare da Mandos?”
“Ora vorrei che mi mollassi tu.” Brontolò il ragazzo, allontanandosi di un passo. Arwanar lo lasciò, osservandolo mentre si muoveva nervosamente su un piede. “E' una storia un po' lunga...” Cominciò, esitante, lo sguardo a muoversi intorno, sulla gente che passava attorno a loro, apparentemente incurante di quei discorsi. “Renich Quenya, Arwanar?”

*

“Tu gli credi?” Lottie stava seduta sul letto, osservando il padre che rifaceva le valigie, mentre dal bagno arrivava lo scroscio dell'acqua della doccia.
“Non usare quel tono, Loth... anticipiamo la partenza solo di un giorno. Non mi sembra questa tragedia.”
“A te no di certo...” Masticò la ragazza, scontrosa, sciogliendo i capelli che teneva ancora sulla nuca. “Ma al di là di questo... un esperimento segreto dell'esercito?” Domandò retorica, alzandosi in piedi. “Una sfilata di cagate.”
“Linguaggio.” Brontolò l'altro, con un sospiro. “Conosco Guthang e conosco la sua storia. Dubito si inventerebbe una cosa del genere, tanto più che non ne vedo il senso.” Chiuse la valigia e la sistemò vicino alla porta. “Inoltre, e questa è un'arma che non uso spesso, sono tuo padre, quindi se dico che  torniamo prima e riportiamo Gurth a casa, si fa come dico io.” Tagliò corto, serafico, senza stupirsi quando lei uscì dalla camera d'albergo sbattendo la porta. Sospirò, scuotendo il capo, osservando per qualche secondo la porta chiusa, prima di accorgersi che il rumore dell'acqua era cessato.
“Mi dispiace darti problemi...” Il noldo sorrise alla voce del ragazzino, voltandosi verso di lui. Gurthang aveva ancora i capelli bagnati e un asciugamano sulle spalle, sopra una maglietta verde della squadra di rugby di Rohan un po' troppo grande, e dei bermuda tenuti su da una cintura, i piedi calzati in infradito ugualmente fuori misura. Arwanar ridacchiò piano.
“La tua fortuna è che i ragazzi di questo secolo si vestono sempre in maniera imbarazzante, Gurth.” Ghignò, per poi stringersi nelle spalle. “Comunque lascia stare: il carattere di Loth è pessimo e mi addosso tutta la colpa.” Spiegò, con una smorfia. “Non volevo essere come mio padre, ma temo che avrei dovuto usare il bastone un po' più spesso con lei.”
Gurthang non rispose subito, strofinandosi  i capelli con l'asciugamano e avvicinandosi a uno dei letti, pensieroso.
“Tu non vivi più a Bosco Atro, vero?” Chiese, assorto, senza smettere di asciugarsi. “Lei è mezz'elfa.” Osservò, sedendo sul giaciglio, mentre Gatto gli saltava in grembo. Sembrava aver deciso di comportarsi effettivamente come un animale, ma piuttosto che vederlo sparire e riapparire, il cambiamento non dispiaceva al ragazzo. Lo accarezzò, distratto.
“No.” Ammise il noldo, appoggiandosi alla parete, a braccia incrociate. “Mi hanno bandito da Lasgalen dopo che...” Non completò la frase, come in imbarazzo. “Ti ho fatto male?”
“Magari la prossima volta potresti puntare alla testa.” Propose il ragazzo, con un mezzo sorriso incerto, ma Arwanar rabbrividì.
“Mi auguro non ce ne sia il bisogno...”
“E... mio padre e mio fratello?” La voce di Gurthang era bassa, quasi un mormorio, ma stavolta il rosso gli sorrise.
“Stanno bene, tutti e due. Legolas è sempre piuttosto schivo, non appare spesso in pubblico. Ma Anarion...” Ridacchiò, andando verso il comodino del letto della figlia, la quale non aveva ancora nemmeno cominciato a radunare la sue cose, e prese una rivista patinata, che lanciò al ragazzino. “Tuo fratello è decisamente più mondano. Qualche settimana fa era a Minas, per il festival del cinema, una visita non ufficiale, ma negli ultimi anni è una presenza fissa. Lo hai mancato di poco.” Spiegò, mentre il ragazzo sfogliava la rivista, fissando le foto, con un sorriso vago a increspargli le labbra.
“Somiglia un sacco a papà...” Osservò, aggrottando poi la fronte. “Lei chi è? La sua ragazza?” Domandò, voltando la rivista verso Arwanar, mostrando una foto di Anie in compagnia di una donna in nero, coi capelli corti dalle punte tinte di blu. In quel momento, Gurthang si rese conto che, in effetti, Tìra non poteva essere sopravvissuta per sei secoli. Forse non era nemmeno sopravvissuta alla battaglia, ma non osava chiederlo.
“Ah, lei... nulla di ufficiale, solo pettegolezzi, ma pare di sì. Loth ha tenuto il muso per un sacco di tempo.” Ridacchiò, scuotendo il capo. “Ah, sono contento di non vivere più a Lasgalen... tuo fratello è deleterio per gli sbalzi ormonali di una sedicenne.” Arwanar scosse le spalle, raddrizzandosi. “Beh... sarà meglio che vada a cercarla... tu asciugati i capelli.” Uscì, lasciando gatto e ragazzo soli nella stanza.
Gurthang si voltò verso l'animale, confuso.
“Deleterio per... cosa?”

*

Rin sbadigliò, stringendo gli occhi, mentre dalle fessure della persiana filtrava la luce del sole. Aveva di nuovo passato una notte in bianco davanti al computer. E per nulla per giunta. Spinse indietro la sedia, scivolando sulle rotelle. Quello di cui aveva bisogno in quel momento era una buona colazione e qualche ora di sonno recuperato. Si avviò in cucina, senza troppa voglia di cucinare alcunché, limitandosi a riempire una ciotola di latte e cereali, ringraziando che per una volta non si era dimenticata il cartone del latte fuori dal frigo e sognando solo di buttarsi a letto, quando il computer, lasciato acceso come al solito, cominciò ad emettere un suono intermittente e fastidioso.
“Non ci credo!” Biascicò la ragazza, abbandonando la colazione e praticamente lanciandosi verso il computer, aprendo una delle finestre che aveva minimizzato, lasciando che il programma tornasse a riempire l'intero schermo. Il volto di Alma era incorniciato da un cerchio rosso, in mezzo a molte altre persone, catturata da una delle telecamere di sorveglianza all'aereoporto di Umbar. “Non ci credo...” Ripetè, con un vago tono tra l'incredulo e il vittorioso, infilandosi le cuffie e seguendola nel suo procedere lungo la hall, le dita che ticchettavano sulla tastiera.

Alma passò davanti ad alcune cabine telefoniche per le chiamate internazionali, fermandosi su una panchina proprio lì davanti. Uno dei telefoni squillò, insistentemente, senza che nessuno rispondesse. Forse il destinatario della chiamata non era arrivato all'appuntamento. La donna chiuse gli occhi, stanca, reclinando all'indietro il capo, sospirando rumorosamente, quando qualcuno le posò una mano sulla spalla, facendola scattare a sedere, sorpresa. Un uomo anziano la guardò, curvo, sbattendo le palpebre, prima di indicarle il telefono che suonava fino ad un attimo prima, con la cornetta sollevata poggiata sul ripiano al di sotto dell'apparecchio.
“E' per lei.” La informò, reggendo lo sguardo sorpreso di quella. “E' per lei.” Ripetè, scandendo bene le parole, forse credendo che quella non capisse la sua lingua. Alma annuì, avvicinandosi confusa all'apparecchio e portando la cornetta all'orecchi.
“Pronto?” Domandò, incerta, udendo dall'altra parte una risata.
“Cavolo, credevo proprio di averti persa!” La voce dall'altro capo del filo le era familiare, la stessa dell'hacker che l'aveva guidata all'interno della base. “Tutto bene?”
“Sì... sì.” Mormorò quella, trovandosi ad annuire. “E' andato tutto bene, nessun problema.” La rassicurò, prima di accigliarsi. “Come hai fatto a trovarmi?”
“Ah! Non è stato facile! Mi ci è voluto l'Occhio di Sauron!” Rise l'altra, allegra. “Ti spiego meglio quando ci vediamo. Stai tornando a casa, no?”
“Sì, ho appena preso il biglietto. Arrivo alle...” Si fermò, guardando il biglietto. “Diciassette. Mi mandi una macchina, così concludiamo in giornata?”
“Sento il gran capo che dice, ma penso non ci siano problemi. Allora ti richiamo io. Ciao.”
“A presto, allora.”

Rin riattaccò, togliendosi le cuffie come se scottassero, prima di attaccarsi al telefono di nuovo, febbrile, tanto che quando qualcuno rispose non gi diede nemmeno il tempo di parlare.
“L'ho ritrovata, Anie!” Esclamò, quasi urlando.
“Aspetta.” Le chiese. Ci fu un mormorio indistinto e il rumore di una sedia che veniva strusciata, poi silenzio. “Va bene, ci sono, hai ritrovato Alma?”
“All'aeroporto. Arriva nel pomeriggio, alle cinque. Sei libero o me ne occupo io?”
“Meglio che ci pensi tu... mio padre è rientrato nel periodo devi capire come si fa. Puoi farlo?”
Lei fece un verso di fastidio, roteando gli occhi in un gesto che lui non poteva vedere.
“Contatti umani... credevo di averne avuti abbastanza, per quest'anno.”
“Nerd.” Ridacchiò l'altro, sfottendola.
“Non sono io quella che ha il pupazzo di Yoda in casa.”
“Non è un pupazzo, è il costume originale.”
“Appunto. Comunque va bene, ma avanzo un tir di cioccolatini alla menta.”
“Vengo da te appena mi libero.” Promise il biondo, buttando giù la chiamata. Si addossò alla parete, passandosi una mano sul viso. Era quasi finita, finalmente... ora non restava che sperare che tutto quel balletto portasse a qualcosa di concreto. Qualcosa che potesse giustificare a suo padre il rischio e la spesa.

*

La dottoressa Winter si chinò sul piccolo quadratino di metallo che giaceva sul pavimento macchiato di sangue della rimessa.
“Allora?” Il generale Cassidy le arrivò alle spalle, fermandosi  dietro di lei, osservandola mentre studiava la trasmittente, il rilevatore che suonava come impazzito. La donna lo raccolse da terra, spegnendolo.
“Allora... il ragazzo non è qui.” Ammise, mostrando nel palmo della mano la minuscola trasmettente che avevano impiantato a Gurthang. “Almeno, non esattamente qui. Ma qui intorno c'è solo deserto... sarà ancora da qualche parte all'interno dell'oasi. Fate ispezionare  il luogo. Salterà fuori.” Si voltò verso il lago, osservandone la superficie pacifica, e le costruzioni sulla sponda opposta, stringendo la trasmittente nel pugno. “Almeno spero tu lo faccia...” Ammise, rivolta al vento, la voce bassa.

Il complesso era grande. Molto grande. Era evidente che controllarlo tutto non sarebbe stata questione di poco. La dottoressa pigiò il tasto del caffè espresso sulla macchinetta nell'area ristoro per i dipendenti e si passò una mano sul viso, mentre il distributore erogava il liquido scuro in un tristissimo bicchierino di plastica. I soldati ancora stavano perquisendo il villaggio turistico ma ormai la donna dubitava che fossero arrivati in tempo e nutriva maggior speranza nelle altre due squadre, addette l'una alla visione dei filmati di sicurezza e quella che interrogava ospiti e staff. Bevve il caffè caldo, scottandosi la lingua e senza sentire il sapore, allontanando il bicchiere dalle labbra con una smorfia, di umore pessimo: quella faccenda stava diventando una grossa gatta da pelare... anche solo le varie ambasciate avrebbero chiesto la testa di quell'idiota di Cassidy su un vassoio e lui avrebbe offerto quella di lei per salvarsi il sedere. Nell'ipotesi migliore, lei rischiava di vedere distrutto il lavoro di tutta una vita, e nella peggiore la Difesa non l'avrebbe coperta... l'avrebbero accusata di aver stornato fondi statali per le proprie ricerche illegali, sperimentazione umana su minori a fini bellici... ne avevano abbastanza persino per la corte marziale!
Strinse il bicchiere nel pugno, facendo scricchiolare la plastica scadente e poi lo gettò nel cestino con fare stizzoso.
“Dottoressa?” La donna si voltò al sentirsi chiamare, osservando un soldato semplice ritto sulla soglia della stanzetta. “Ho l'ordine di accompagnarla dal generale: hanno trovato qualcosa.”

Elanor fissò l'identikit dell'uomo che un inserviente aveva visto parlare con Gurthang. Un elfo, a dire la verità, Noldo a vederne i tratti, e con la fortuna che si ritrovavano, probabilmente non uno dell'ultima generazione.
“Sapete chi è?” Domandò la dottoressa, assorta, senza alzare gli occhi dal disegno.
“Non ancora.” Ammise Cassidy, aprendo una bottiglietta d'acqua e traendo un sorso. “Ho detto ai ragazzi di controllare i registri del complesso, ma ci vorrà tempo...” Fece una pausa, osservando la donna. “E noi tempo non ne abbiamo.” Puntualizzò, battendo il dito sul foglio che la donna ancora studiava. Lei sollevò lo sguardo sull'uomo, seria.
“Che mi state chiedendo, Cassidy?” Chiese, arricciando il naso. Quello sbuffò, impaziente.
“Data la situazione, io non mi fido di nessuno, Dottoressa, ma voi qui avete da perdere quanto e più di me. La mia domanda è... riuscite a trovarmi questo tizio in tempi brevi?” Chiese, spiccio. Elanor fissò il generale, poi di nuovo il disegno, annuendo piano.
“Sì... forse ho qualcosa.” Ammise, a voce bassa.
 

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