Ars Amandae

di Clockwise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Philía ***
Capitolo 2: *** Éros ***
Capitolo 3: *** Agápe ***



Capitolo 1
*** Philía ***


Buon non compleanno a tutti!
Per i (s)fortunati che non avessero letto Aforismi e Trio, due paroline: Amanda è figlia di John e Mary; Mary è stata uccisa dalla rete di Moriarty, in una storia che ancora non ho scritto, e John ha scoperto il suo coinvolgimento in alcuni piani di Moriarty. 
A questo punto, divertitevi!
In fondo altre note inutili, 
-Clock 
 
Ars Amandae
 
 
 
Φιλία
(affetto, amicizia, amore)
 
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura d'aver alcun riposo,
salimmo su, el primo e io secondo,
tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l cielo, per un pertugio tondo;
e quindi uscimmo a riveder le stelle.
Dante Alighieri, Inferno, Canto XXXIV
 
 
 
Il 221b suonava stranamente silenzioso, dopo il frastuono della giornata.
Amanda, nonostante gli sforzi di Sherlock, non sembrava amare particolarmente le scene del crimine: si era addormentata fra le braccia di John nel mezzo di quello che Sherlock non aveva esitato a definire “il caso dell'anno”. E John, da quando erano saliti sul taxi, non aveva smesso un attimo di sghignazzare.
«Sveglierai la bambina...»
«Ma dai, voglio dire... Hai visto la faccia di Donovan? Era sul punto di strangolarti!»
Sherlock gli lanciò un'occhiata di rimprovero, che l'altro ignorò. Si strinse Amanda al petto e salì fino in camera di John, adagiandola nel lettino.
Il caso non era stato niente di troppo complicato, in effetti: solo una truffa, uomini dai capelli rossi, e un paio di begli inseguimenti. La parte migliore era stata, senza dubbio, la faccia oltraggiata di Donovan quando Sherlock le aveva scaricato Amanda fra le braccia senza troppi complimenti ed era corso ad inseguire il truffatore. O quella di Lestrade quando Sherlock era tornato, dopo che lui si era subito i piagnistei di Amanda e Donovan per quasi mezz'ora. Ma chi davvero aveva stupito ed emozionato Sherlock – per quanto solo la parola gli facesse storcere il naso – era stato John.
«Cosa fai, scendi? Io sto morendo di fame» sussurrò John, dalla porta. Sherlock sbatté le palpebre velocemente, come per dissipare i pensieri, e annuì, seguendolo.
«Quello di cui ho davvero voglia è un bel bicchiere di vino, in effetti... Oh, guarda ci sono anche un paio di panini... E questi cos- Cristo! Sherlock, di chi sono questi pollici?»
«Non gridare, Amanda dorme» lo redarguì il detective, flemmatico, sprofondando nella sua poltrona e osservandolo da sopra le dita giunte. «E comunque sono dell'ingegnere della scorsa settimana.»
John alzò gli occhi al cielo e fece una smorfia, richiudendo il frigorifero.
«Basta, ormai ci rinuncio. Finché rimangono nel loro ripiano, farò finta di niente...»
Sherlock sollevò un sopracciglio. Niente rimproveri, niente espressioni di disgusto, niente discorsi di “etica” e “morale”. Strano.
Il dottore riempì due generosi bicchieri di vino e ne offerse uno al detective, poggiando un piatto con due panini dall'aria quasi commestibile sul tavolino accanto a loro. Sprofondò nella propria poltrona e sollevò il bicchiere.
«A noi.»
Sherlock aggrottò le sopracciglia e non si mosse. John non si fece troppi problemi, e trangugiò un gran sorso. Sembrava già ubriaco.
«Dio, che giornata.»
Lasciò vagare lo sguardo per la stanza, sorridendo. Sherlock si era quasi dimenticato la forma e la consistenza dei suoi sorrisi – si erano fatti tanto rari.
«Ne avevo veramente bisogno. Grazie, Sherlock» disse, guardandolo negli occhi. Il detective abbozzò un sorriso.
«Sai, è... non è stato facile, per me, quest'ultimo periodo. Mary e...»
Sherlock chiuse gli occhi per un istante di troppo, perché non voleva davvero sentirne parlare – non voleva essere crudele, ma c'erano lui e John, in quel momento, e voleva che non ci fosse nient'altro.
John sembrò capire, perché deglutì e tacque.
“Sherlock” ed “empatico” non erano mai stati accostati nella stessa frase: Sherlock scomponeva e analizzava le persone, ma non le capiva né tantomeno era toccato da loro; John doveva essere la proverbiale eccezione a conferma della regola.
Perché Sherlock capiva John come se si trattasse di sé stesso – anzi, forse anche meglio. Vedeva come stesse ancora soffrendo per la morte di Mary, in un misto di senso di colpa, umiliazione e risentimento: aveva scoperto verità che sarebbe stato meglio lasciare inviolate, vista la sofferenza che ne era sprigionata. Vedeva con che dolore guardava Amanda, combattuto fra il naturale amore paterno e quel terribile miscuglio di emozioni che provava al pensiero di Mary.
John era perduto in un pozzo oscuro, nei meandri più tortuosi del suo animo, popolati di fantasmi; l'unica cosa che Sherlock poteva fare era portagli un po' di luce. Per questo accettava ogni tipo di caso, anche banali come quello dell'ingegnere – si era costretto persino ad uscire di casa, sebbene non ce ne fosse alcun bisogno, non appena aveva notato gli occhi di John spalancarsi un po' e animarsi all'improvviso –, cercava di tenere a bada le proprie crisi di noia, di suonare ad orari ragionevoli – aveva dovuto chiedere a Mrs Hudson quand'è che il suo violino fosse più fastidioso, perché lui non ne aveva la minima idea – e riduceva al minimo le intrusioni di Mycroft. Aveva persino confinato i suoi esperimenti ad un solo ripiano del frigo. Faceva il possibile, e si odiava perché erano solo sprazzi di luce qua e là, non era abbastanza.
«Amanda... dovrà iniziare la scuola, fra poco. Volevo iscriverla all'asilo» mormorò John, scrutando i fondi del suo bicchiere. Sherlock trattenne uno sbuffo: a lui non era mai piaciuta la scuola, così piena di gente insulsa e nozioni inutili. Avrebbe voluto tenersi Amanda a casa ancora per mesi. Non l'avrebbe mai ammesso, ma aveva perso la testa per quella bambina, stravedeva per lei.
Annuì, bevendo un sorso a sua volta. John lo osservava pensieroso.
«Non credo di aver ancora perdonato Mary. Suppongo di doverlo fare, prima o poi, per il bene di Amanda, ma ora...» scosse piano la testa, senza staccare gli occhi dal detective, che invece sembrava intento a dedurre il tappeto. «Che cosa provi per me, Sherlock?»
Sherlock sollevò di scatto la testa, il cuore che batteva furioso, il sangue nelle orecchie, la gola secca, la mente bianca – sintomi di cosa? Nessuna malattia nota, che gli stava succedendo?
Lo guardò, pregando il suo aiuto. John era un medico, lui poteva riconoscere i sintomi e fare una diagnosi accurata, quindi prescrivergli le medicine giuste, e Sherlock le avrebbe prese obbediente, perché non si trovasse più in quello stato.
Gli occhi di John erano indefinibili, in quel momento, per chi, come Sherlock, non conosceva i caratteri delle emozioni e la loro complessa grammatica.
Schiuse le labbra per parlare, senza sapere cosa dire. Per John era abbastanza.
«Grazie, Sherlock. Di tutto.»
Di cosa? Perché lo ringraziava? Cosa voleva dire?
Il detective si alzò bruscamente, incapace di sopportare ancora quegli occhi – indagatori, amorevoli, gentili.
«Vado a controllare Amanda.»
Lasciò John a vedersela con i fondi del suo bicchiere, perso nei suoi dubbi.
 
•°•
 
Sherlock fece le scale due a due e spalancò la porta della camera di John senza troppe cerimonie. Amanda si dimenava piangendo disperata, il viso rosso lucido di lacrime.
Sherlock prese la bambina in braccio, stupendosi di quanto gesti come quello gli venissero spontanei; lontani i tempi in cui respingeva ogni contatto umano, ormai era come se la parte di lui bambina, spontanea, più umana, emergesse da una crepa della sua armatura che andava allargandosi sempre di più – chi l'aveva provocata? Temeva di sapere la risposta, e temeva anche di stare dando al nemico tutte le armi per distruggere definitivamente la corazza.
La bambina seppellì il viso nella sua spalla, singhiozzante, ma più silenziosa. Sherlock le carezzò i capelli morbidi, chiedendosi perché John non l'avesse sentita. E la risposta gli giunse quando inquadrò John: sudato, il volto contratto in una smorfia di dolore, agitava braccia e gambe e mormorava frasi sconnesse – a Sherlock parve persino di udire il suo nome, ma era difficile a dirsi: un incubo.
Sherlock strinse la mascella, dimenticando per un attimo la bambina, il cui pianto era tornato a intensificarsi; perché quello che faceva non era abbastanza? Perché non riusciva ad uccidere, o almeno allontanare, i mostri di John?
Strofinò assente la schiena della bambina, mentre scendeva di sotto. La adagiò delicatamente sul divano, sistemandola fra i cuscini. Il labbro inferiore iniziava a tremarle pericolosamente, quindi Sherlock si affrettò a prendere il violino e posizionarlo sotto il mento. In piedi davanti alla finestra, chiuse gli occhi, lasciandosi andare alla ninna nanna più dolce che conoscesse, al sapore di sogno, infanzia e sonni bianchi, innocenza e purezza, condita di sorrisi e complicità, affetto e tenerezza – lontano dai mostri.
Quando le dita iniziarono a fargli male, si fermò e riaprì gli occhi. Il petto di Amanda si alzava e abbassava placido, nel sonno. Sorrise mesto e si accucciò accanto a lei, guardandola finché le palpebre non si fecero troppo pesanti.
E così John li ritrovò poco più tardi, svegliatosi da un brutto incubo che riassumeva tutti gli eventi della sua vita che avrebbe soltanto voluto dimenticare: accoccolati l'uno accanto all'altra, Amanda distesa tranquillamente in una reggia di cuscini che occupava metà divano e Sherlock raggomitolato scomodamente nell'altra metà. John sorrise teneramente, avvicinandosi. Si piegò a sfiorare con un bacio i capelli di sua figlia, nel petto una pioggia di emozioni contrastanti; quando si spostò sulla tempia di Sherlock, e i suoi ricci gli solleticarono le guance, il suo petto divenne un campo di battaglia. Strinse le palpebre, deluso e furioso con sé stesso – perché, perché non riusciva a capire? Dov'era il suo posto? Cosa doveva fare? Con Sherlock...
Si raddrizzò e premette forte i pugni chiusi sugli occhi. Poi scosse la testa, come per scacciare i pensieri, stese una coperta su Sherlock e sua figlia, e fece per tornare a letto, finché una voce non lo trattenne.
«Non volevo svegliarti.»
John trasalì e scosse la testa, sentendosi un bambino colto con le mani nella marmellata.
«Non fa niente, davvero. Tutto bene con Amanda?»
Sherlock, come suo solito, non sembrava turbato dalla situazione, e continuò a parlare a voce bassa con gli occhi ancora chiusi – al punto che John si chiese se fosse veramente sveglio.
«John, desidero che tu smetta di avere incubi.»
Il tono serio e quasi perentorio con cui lo disse fece sorridere John.
«Lo vorrei anch'io, Sherlock, ma non è semplice...»
«Fidati di me. Ho promesso che vi avrei protetti, tutti e tre; ho fallito con Mary, non voglio ripetere il mio errore. Lascia che ti aiuti, John.»
Il medico lasciò crollare le spalle, e con esse tutta la sua caparbietà, la sua voglia di combattere, la sua forza. Annuì, sconfitto, ma Sherlock non poteva vederlo.
Non parlò più, e John pensò che si fosse addormentato.
 
•°•
 
«Allora, guarda bene, Amanda: quello lì è Orione. Lo vedi? Le tre stelle vicine, eccole lì... E guarda, quelle sono le braccia, le gambe... Sai la storia di Orione? Era un arciere gigante, che Zeus mise in cielo...»
Sherlock scosse la testa, mascherando un sorriso.
«Perché vuoi riempirle la testa di nozioni inutili? È molto più istruttivo imparare a memoria la tavola periodica.»
John sorrise e si voltò verso di lui. Amanda, fra le braccia del padre, gridò «Sh'lock!» e allungò le braccia verso l'altro, che avanzò verso di loro, sul tetto del Bart's.
«Ho finito con Molly. Era come pensavo: polvere di mercurio nella cipria. Ho mandato un messaggio a Lestrade, il mio lavoro è finito. Andiamo a casa?» snocciolò rapido, lasciando che Amanda giocasse con la sua sciarpa, raccontandogli, a parole sue, tutte le storie di stelle che le aveva narrato John; questi, con sua sorpresa, scosse la testa.
«È una bellissima notte, si vedono addirittura le stelle. E stavo insegnando ad Amanda le costellazioni principali, è importante conoscerle per sapersi orientare.»
Sherlock roteò gli occhi, fingendosi annoiato; John gli tirò un pugno scherzoso sul braccio.
«Solo perché tu non sai se la Terra gira intorno al Sole, non vuol dire che non sia importante!»
Finalmente, una risatina sfuggì alle labbra di Sherlock e un sorriso complice si aprì su quelle di John.
«Ora, zitto e ascolta. La stella più importante di tutte è la Stella polare, nella costellazione... Sherlock, che costellazione?»
Il detective sollevò un sopracciglio, distogliendo gli occhi dalla volta celeste.
«Seriamente?»
John sorrise, malefico.
«È bello umiliarti, di tanto in tanto. Allora, Amanda, visto che Sherlock non lo sa, te lo dico io: è l'Orsa Minore...»
«Sono informazioni del tutto inutili...»
«Ignoralo, è solo invidioso e molto seccato...»
«A che serve conoscere le stelle? Non ho bisogno di loro per orientarmi!»
Il tono di Sherlock era serio. Il sorriso spensierato di John lasciò il posto ad un'espressione quasi spaventata, analoga a quella del detective. Si studiarono per istanti eterni, comunicandosi con gli occhi quello che le labbra non riuscivano a dire. Finché Amanda non emise un gridolino, annoiata.
Sherlock sollevò le labbra in un sorriso.
«Basta che le conosca il mio blogger
John sorrise, ringraziandolo silenziosamente, stringendosi un po' di più la bambina al petto.
Erano rare le volte in cui sbucavano le stelle, a Londra; da tenere ben strette.     







Il titolo è un gioco con l'Ars Amandi (letteralmente, "arte di amare") di Ovidio e il nome di Amanda (in latino, appunto, "colei che deve essere amata").
La storia dei pollici e dell'ingeniere è un riferimento a "L'avventura del pollice dell'ingeniere". 

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Capitolo 2
*** Éros ***


ἔρως
(amore, passione amorosa)
 
τοῦ ὅλου οὗν τῇ ἐπιθυμίᾳ καὶ διώξει ἔρως ὄνομα.
Al desiderio e alla ricerca dell'intero si dà il nome di amore.
Platone, Simposio



Si quis in hoc artem populo non novit amandi,
hoc legat et lecto carmine doctus amet.
Arte citae veloque rates remoque moventur,
arte leves currus: arte regendus Amor.
A Sherlock furono necessari appena sessantasette secondi per ritrovare il latino, seppellito sotto pile e pile di vocabolari polverosi in una delle stanze dell'ala Est del Mind Palace, e circa due minuti e venti per sfogliarlo abbastanza da poter tradurre.
Se qualcuno fra voi non conosce l'arte dell'amore, legga questi versi e, allora, sarà in grado di amare. Per arte, le navi veloci corrono a vela o a remi; per arte, corrono i carri leggeri: con arte va guidato Amore.”
Sherlock storse il naso: per l'ennesima volta gli si palesava il motivo per cui aveva rimosso – o per lo meno archiviato – qualunque nozione legata alla letteratura: frivola, sciocca, superficiale, perfettamente inutile.
Voltò il piccolo libro per leggere il titolo e l'autore, aggrottando le sopracciglia. Ovidio, Ars Amatoria, edizione tascabile con testo a fronte, una sterlina e novanta al banco delle occasioni, appena comprato, non per la scuola; sottolineature a matita sparse, opera di Amanda. Sfogliò rapidamente alcune pagine: cosa diamine ci trovava sua figlia nella volgare e inconcludente operetta latina di uno scrittore a dir poco libertino?
«Papà!»
Alzò appena la testa per guardare la ragazza, che lo fissava indignata con i pugni serrati e le guance imporporate.
«Perché stai sbirciando fra i miei libri, nessuno ti ha dato il permesso, sono faccende private...» iniziò, marciando verso di lui e riprendendosi il libro. Sherlock nascose un ghigno, sia per il suo evidente imbarazzo sia per l'ammirevole somiglianza con John – quante volte il medico aveva protestato per invasione di privacy e Sherlock l'aveva platealmente ignorato...
«Sono curioso di sapere con quali letture si diletta mia figlia nel tempo libero, è un mio legittimo diritto, in qualità di genitore acquisito...»
Amanda gli lanciò un'occhiata saettante, sedendosi alla scrivania.
«Non mi sei meno genitore di John, papà» mormorò, abbassando lo sguardo. Sherlock si lasciò scaldare da un sorriso tiepido – tanto lei non guardava. Quindi le riprese il libro.
«In ogni caso, com'è? Interessante? Istruttivo
Amanda assottigliò gli occhi al suo sarcasmo.
«È cultura.»
Sherlock roteò gli occhi, camminando a grandi passi per la stanza, tenendo il libro aperto davanti a sé con una mano, l'altra dietro la schiena.
«Un manuale sull'amore. Più inutile di così.»
Amanda si lasciò andare all'indietro sullo schienale, guardandolo, improvvisamente pensierosa.
«Papà, quando... Voglio dire, tu sai che ho un ragazzo, l'hai gentilmente dedotto davanti a mezza Scotland Yard... quando credi che noi... ecco...»
Sherlock voltò la testa quel tanto che bastava per registrare le orecchie rosse e le dita che si torturavano a vicenda. Piegò le labbra in una linea dispiaciuta.
«Non sono io la persona a cui chiedere» mormorò, più dolcemente possibile – a cos'era dovuta quella stilla d'amarezza nel petto?
Amanda annuì, abbassando il capo. Improvvisamente si sentì a disagio, come non le era mai capitato, con Sherlock.
Il loro rapporto era sempre stato molto naturale, all'insegna dell'onestà e della schiettezza – sarebbe potuto essere altrimenti, con Sherlock? Amanda gli confidava qualunque cosa, sebbene molto spesso non ne avesse bisogno perché lui intuiva tutto con un'occhiata; il detective apprezzava comunque che la ragazza volesse parlargli, e nonostante l'apparente aria distratta o occupata in altre faccende, l'ascoltava sempre, commentando di tanto in tanto. Con John, Amanda non riusciva ad esprimersi così, il loro rapporto era molto più silenzioso. Sapeva bene di non essere formalmente o biologicamente legata a Sherlock in alcun modo, ma forse proprio per questo riusciva ad essere totalmente naturale, con lui.
Ora però, si sentiva la bocca imbavagliata e al contempo un gran bisogno di sfogarsi.
«Ma non posso chiedere a papà, è troppo imbarazzante...»
«Perché no? È un medico, chi meglio di lui...» tentò di scherzare Sherlock, sempre senza guardarla, per allentare un po' la tensione che provava nel petto.
«Tu... Papà...»
Amanda aprì la bocca, poi la richiuse, imbarazzata. Le dita di Sherlock si strinsero in un pugno, per poi correre agitate come se stessero tamburellando un pianoforte immaginario. La ragazza abbassò lo sguardo sul libro.
«Perché non vai a trovare Molly? Non devi restituirle quel melenso romanzo che ti ha prestato?» domandò Sherlock, in tono neutro, apparentemente molto interessato alle venature del legno della porta.
Amanda sorrise del velato tentativo del padre di darle una mano, al limite delle sue possibilità, senza tuttavia darlo a vedere – era tutto sottinteso con Sherlock.
«Giusto, vado a riportarglielo. Orgoglio e Pregiudizio. Bah, uno schifo, avevi ragione, ma forse non è il caso di metterla proprio in questi termini, con Molly, le spezzerei il cuore...»
Sherlock innalzò un mezzo sorriso, che sostenne fino a che la ragazza non fu uscita. Quindi crollò supino sul divano.
Tu... papà...”
Quanto, quanto avrebbe desiderato poter completare la frase, dare un significato e un significante a sé e a John, chiarire e determinare il loro rapporto una volta per tutte.
Arte regendus Amor.
Stupida, insulsa letteratura.

 
•°•

John si stropicciò gli occhi e controllò per l'ennesima volta l'orologio. L'una meno venti. Dove diamine si era cacciato quel figlio di una buona donna di Sherlock, dannazione, neanche un messaggio...
Come se avesse ascoltato i suoi pensieri, la porta si spalancò.
«Per la miseria, Sherlock, sai che ore sono? Un messaggio, almeno un messaggio potevi mandarlo, ho i nervi a pezzi e...» si alzò dalla poltrona per fronteggiarlo. Tutta la sua rabbia e preoccupazione scoppiarono come una bolla di sapone. Un trionfante Sherlock gli sorrideva dalla soglia ricoperto dalla testa ai piedi di...
«È miele quello?»
Sherlock annuì e tese le braccia verso di lui, in una muta richiesta. John alzò gli occhi al cielo e lo aiutò a liberarsi dei vestiti appiccicosi, ostentando riluttanza.
«Non riusciremo mai a lavarli, dovremmo portarli in lavanderia... Ci vai tu, però, dopo l'ultima volta, quando ho allagato tutto, penso che se mi faccio rivedere mi cacciano a calci...»
«Solo tu sei in grado di manomettere lavatrici automatiche che sanno usare anche i bambini» sogghignò Sherlock. John gli tirò un pugno scherzoso sull'addome, mentre gli sbottonava la giacca.
«Vado a prenderti la vestaglia, lascia tutto in bagno e fatti una doccia. Attento a non sporcare, o Mrs Hudson ti farà vedere i sorci verdi» sospirò quindi alla fine, ad uno Sherlock in mutande e canottiera, che annuì ed eseguì, obbediente.
Il detective ritrovò John sul divano, davanti ad un televisore che ciarlava silenzioso per conto suo.
«Amanda non sarà vergine ancora a lungo.»
John spalancò gli occhi.
«Per la miseria, Sherlock! Sono fatti suoi, noi non dovremmo saperlo!»
«Me l'ha praticamente detto lei» alzò le spalle il detective, avvolgendosi in una vestaglia che giaceva sulla poltrona di John. Il dottore scosse la testa.
«Assurdo. Ma non stai dicendo sul serio, è troppo giovane...»
«Ha quasi diciotto anni. Tu l'hai fatto molto prima.»
John si imporporò, spalancando gli occhi ancora di più.
«E tu come fai a... No, non voglio saperlo.»
Sherlock sogghignò e si raggomitolò accanto a John.
«La nostra bambina. Sembra ieri che giocava con il tuo teschio e scarabocchiava sui muri...» mormorò John, con un sorriso nostalgico. Sherlock scivolò lentamente fino ad accucciarsi sulla spalla di John, lasciando che gli passasse le dita fra i capelli umidi, pensieroso, assente; sentiva ogni nervo attaccato ad ogni singolo capello fremere e vibrare e scuoterlo da dentro, in un impulso che partiva dalla testa e raggiungeva le piante dei piedi infreddoliti. Che pace...
«Sherlock.»
La voce di John gli giunse roca, ovattata, e non riuscì a capire se era perché stava lentamente scivolando fra le braccia di Morfeo o perché era effettivamente così.
«Mh» mugugnò in risposta, inarcando appena la schiena. Le carezze di John cessarono e Sherlock si tirò su, puntellandosi sulle mani per guardare l'altro bene in viso. John fuggì i suoi occhi, ma non poteva mentirgli: battito accelerato, rossore sul viso, mani strette a pugno per aumentare l'autocontrollo.
«Sherlock... tradiresti mai il tuo lavoro?»
Sherlock sollevò appena un sopracciglio, divertito.
«Spiegati.»
John si schiarì la gola, lasciando scivolare gli occhi sul viso dell'altro.
«Ecco, tu una volta hai-hai detto di essere... “sposato con il tuo lavoro”. Ed, ecco, è ancora così?»
Sherlock sollevò appena il mento, ponderando bene le parole.
«Il matrimonio è una pura convenzione. Se esiste qualcosa come l'Amore, non serve un matrimonio, né qualunque costume sociale, a definirlo.»
John finalmente lo guardò. Annuì piano, come se avesse raggiunto un accordo con sé stesso, poi chiuse gli occhi, si sporse in avanti, e all'ultimo istante trattenne il respiro – gli mancò il coraggio. Fu Sherlock, con un mezzo sorriso, a doverlo baciare per primo.
Era il loro primo vero bacio, eppure aveva il sapore caldo e dolce della consuetudine. Era come baciare un ricordo – Sherlock si ritrovò a sorridere, e stringere John per il maglione.
John si tirò indietro per primo, un'indefinibile quantità di tempo dopo; lo guardò per un istante con occhi tremanti, poi seppellì il viso nell'incavo del suo collo. Sherlock lo cinse con le lunghe braccia, rinchiudendolo dentro di sé.
«Mi dispiace, Sherlock. Mi dispiace davvero.»
«Per cosa, John?» chiese il detective, la voce ovattata e bassa; immerso in un tepore dorato, in una situazione che gli era tutto meno che familiare, esibiva una calma inesorabile.
«I-io non ci riesco, Sherlock, vorrei con tutto me stesso, m-ma...»
«Non importa. Va bene.»
«No, Sherlock, non va bene!»
L'ex soldato si tirò su per guardarlo bene in viso, le mani ancorate alla sua vestaglia, il viso contratto.
«I-io...» chiuse gli occhi e trasse un sospiro vibrante. Parlò con le palpebre ancora serrate, la voce che si alzava e si abbassava, si inceppava e poi riprendeva, come un ruscello scosceso.
«Un tempo, ti amavo, Sherlock.»
Si costrinse ad aprire gli occhi, pentendosene non appena quelli di Sherlock lo perforarono come lame di ghiaccio – Sherlock non credeva a tutte quelle metafore disgustosamente poetiche, eppure il cuore gli doleva, crepato, prossimo ad esplodere; John lo vedeva e soffriva per lui.
Ma il Capitano Watson prese il comando e non si arrese, pur sapendo che erano poche le probabilità di ritornare indenne.
«Un tempo, p-prima che tu cadessi, io ti guardavo e desideravo baciarti con tutto me stesso. Pensavo di essere impazzito, per mesi ho continuato a fare finta di nulla anche con me stesso, e poi a ripetermi che era solo una fase – Dio, che idiota – e poi che tu non mi avresti mai guardato, perché ero troppo stupido per te, ero solo un amico. E poi...»
Sherlock lo guardava con un dolore e un rimorso che John non riusciva a quantificare– sembrava sul punto di urlare.
«Sei morto. E io non sapevo più che fare di me stesso. Un mondo di... possibilità e d-desideri si era buttato dal Bart's insieme a te, e io ero solo un... involucro di pelle secca. E allora mi sono costretto a seppellirti per davvero, a lasciarti andare, a ricordare quanto di bello c'era davvero stato, e basta. E allora è arrivata Mary, e io ho quasi creduto che fosse tutto un sogno. Se non che faceva così male, Sherlock, baciarla senza pensare a te.»
Chiuse gli occhi, quasi vergognandosi. Trasse un respiro, riaprì gli occhi ma non lo guardò.
«Poi è passato, e le cose sono andate sempre meglio. Se solo avessi saputo allora chi era in realtà... Ma poi sei tornato, quando io credevo che la terra avesse ripreso a girare, e hai mandato tutto all'aria un'altra volta.
I-io amavo Mary, l'amavo davvero. Nonostante tutto. E questo non cambierà mai, le devo molto.
Quando amavo te... era un amore ancora acerbo, ancora giovane, e... il fiore è stato reciso prima che sbocciasse.
Io non lo so, adesso, Sherlock, ma è così difficile... È che ho paura. Ho paura di farmi male un'altra volta e rimanerci secco. E poi, non mi è rimasto più molto da dare. Anche Amanda, ormai, è già parte di te. Ma io...» la gola si chiuse, e lui non riuscì più ad andare avanti. Si nascose il viso con una mano, sentendosi un miserabile quando le dita si bagnarono.
Le mani di Sherlock, gentili ed impacciate, gli strofinavano la schiena. Poi artigliarono il suo maglione e John sentì il suo dolce peso fargli da rifugio, una coperta di rami di salice piangente.
«Non riesco ad amarti come meriteresti, Sherlock, e mi dispiace così tanto.»
Sherlock lo strinse.
«Non importa.»
«No, invece...»
«Sì, invece.»
Si allontanò, e l'improvviso cambiamento fu come uno schiaffo per il dottore.
«Sei rimasto con me più a lungo di chiunque altro. Sei ancora con me, qui e ora. Non importa se noi non... Io prediligo la mente, lo sai. Quindi va bene così.»
Non era da Sherlock esprimersi in questo modo, a frasi spezzettate, inconcludenti. John lo guardò cercando di leggergli le parole negli occhi, ma i ghiacci si erano ormai sciolti.
«Andiamo a dormire, John.»
Il medico chiuse gli occhi e annuì, sentendosi contemporaneamente stanco come un vecchio e impaurito come un bambino.
Le spalle di Sherlock erano appena curve, mentre sventolava una mano per augurargli buonanotte e spariva nella sua stanza con uno svolazzo della vestaglia.

 
•°•

Amanda salì le scale in punta di piedi. John era già uscito, ma Sherlock forse dormiva ancora.
Aprì la porta delicatamente su un soggiorno silenzioso, appena increspato dai primi raggi del mattino che filtravano attraverso le tende.
«Papà?»
Avanzò di pochi passi. Sherlock non si mosse, e lei sospirò. Andò in cucina, preparò il tè e dei toast alla marmellata. Si sedette sulla poltrona di John e lasciò il piatto e la tazza sul tavolino accanto a Sherlock.
«Avete litigato?»
Sherlock scosse appena la testa, lo sguardo vuoto fisso sulla parete di fronte. Amanda chinò il capo, impotente di fronte a un dolore troppo grande, che non poteva comprendere né contrastare.
Le labbra di Sherlock si contrassero appena, come chi tenti con tutte le forze di non urlare, o piangere.
Amanda si sporse in avanti e lo avvolse in un abbraccio, ma lui non rispose.
«Se ti può consolare, Ovidio non ha aiutato affatto neanche me» sussurrò. Quando si scostò, sul volto di Sherlock aleggiava un principio di sorriso, e i suoi occhi la ringraziavano.
Ma nella sua mente – o anima, o cuore, o come diavolo andasse chiamata – imperversava un uragano; non c'era modo di parlare.





La colpa di tutto è da attribuirsi unicamente ad Ovidio e alla mia noiosissima insegnante di latino.
Grazie gigante a chi legge/segue/preferisce e soprattutto recensisce =)
A presto, con l'ultima parte.
-Clock

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Capitolo 3
*** Agápe ***


ἀγάπη
(amore incondizionato, devozione)

 
E tu cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
d'implacato desio furor mi strinse,
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal.

Giacomo Leopardi, Ultimo canto di Saffo


 
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love 
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove.

William Shakespeare, Sonnet 116



Amanda, con molta discrezione, si era allontanata verso il cancello, per lasciarlo solo.
Lui si guardò intorno con circospezione e, quando fu sicuro di essere solo, abbassò gli occhi sulla lapide fredda, e un brivido gli corse lungo la schiena.
«Tutto questo è assolutamente inutile, lo so che non puoi sentirmi, ma non ho altro in cui sperare.»
Trasse un respiro profondo, chiudendo gli occhi un attimo.
«Vorrei pregarti di tornare da me, ma è già abbastanza irrazionale che io stia qui a parlarti, figurarsi un desiderio come questo. Anche se il tuo si era avverato, quindi chissà.»
Piegò le labbra in una smorfia così amara da far male a guardarla, infilando le mani in tasca.
«È così che ti sei sentito, allora? È stato così doloroso? Non avrei mai immaginato, all'epoca... Questa dev'essere la mia punizione.»
Tutto questo, tutta una vita di parole a metà e frasi non finite, di sentimenti a senso unico che non hanno mai...
Strinse la mascella e guardò lontano.

 
•°•

Amanda chiuse l'ultimo vasetto di miele e lo ripose nella credenza insieme agli altri. Sherlock doveva essere molto orgoglioso dei prodotti di quest'anno, di gran lunga l'annata migliore: ben venti vasetti di cinque gusti diversi – come avesse fatto, lo sapeva solo lui.
«Hai finito con quelli, tesoro?»
«Sì, papà» rispose, voltandosi verso John, sulla soglia della cucina. Trafficò ancora un po' con gli armadietti, come per evitarlo.
«Sherlock è...»
«Sul portico.»
«Ok.»
John fece per andarsene, ma esitò.
«Amanda, tesoro...»
Lei strizzò le palpebre, come se provasse una fitta dolorosa. Negli occhi, ancora la spiacevole, goffa conversazione avvenuta durante il pranzo. Avevano vissuto insieme per quasi quarant'anni, quei due, possibile che non avessero ancora un nome?
«Papà, per favore. Solo... Chiarisci, ok? Sono anni che rimandi, è ora che la facciate finita, una volta per tutte.»
Schiuse gli occhi lentamente, come temendo la reazione del padre, che invece le sorrideva benignamente. Ora più che mai, osservando il suo volto segnato, Amanda capì che aveva combattuto in più di un deserto.
«Ti voglio bene, tesoro.»
Gli occhi della giovane donna si riempirono di lacrime, mentre annuiva. John le sorrise e si diresse zoppicando appena verso il portico.
L'avevano fatto costruire l'autunno precedente, su insistenza di John, che voleva un posto dove mettere un paio di sedie e guardare il tramonto. Sherlock l'aveva preso in giro all'infinito, dicendo che stava diventando un vecchietto da manuale, ma alla fine John l'aveva spuntata.
L'ex-dottore si appoggiò alla solida ringhiera di legno scuro, sentendone la ruvida e confortante consistenza sotto le dita.

 
•°•

Serrò i pugni e si impose la calma. Si figurò John davanti a sé, sorridente e incoraggiante.
«Sei a Londra, nel caso non te ne fossi accorto. Non l'avevi specificato, quindi ho fatto di testa mia, ma era piuttosto ovvio che non avresti voluto stare da nessun altra parte.»
Si alzò il vento, muovendo i fiori davanti ai suoi piedi.
«Mary è dietro di te, alla tua sinistra. Credevo che vi avremmo messi vicini, l'usanza è questa, fra moglie e marito; mi ha stupito il testamento. Hai espressamente scritto di voler essere seppellito accanto a me.»
Chiuse gli occhi, commosso e addolorato, nonostante il tono leggero.
«Vicini anche nella morte, eh?»
Quanto, quanto vorrei raggiungerti in questo momento, John.
Riaprì gli occhi per vedersi la lapide di solido marmo tremolare davanti a lui – non stava davvero piangendo?
Non si rese conto di essere crollato in ginocchio se non quando avvertì il terreno duro sotto di sé.
Non aveva creduto in nessun Dio, né nel karma, né nelle coincidenze, o in altro che non fosse la propria mente, la propria ragione, per anni; dopo, aveva semplicemente creduto in John.
E questo è più di quanto io possa dire di chiunque.
Gli aveva lentamente fatto perdere la ragione, quel piccolo soldato, tant'è che ora si trovava lì a parlare ad una pietra – un tempo avrebbe riso sguaiatamente, se qualcuno l'avesse previsto. John era entrato nella sua vita in silenzio, con fermezza ma senza imporsi, e la sua presenza era diventata una costante a cui Sherlock non era stato in grado di rinunciare.
Caring is not an advantage, diceva Mycroft, quando un piccolo Sherlock piangeva disperato stringendosi addosso al suo cucciolo malato;
Caring is not an advantage, sospirava Mycroft, quando un affranto Sherlock adulto accettava senza fiatare le pesanti e possibilmente letali conseguenze del più avventato gesto d'amore che avesse mai compiuto;
Caring is not an advantage, mormorava Mycroft, quando Sherlock stringeva fra le braccia quel piccolo fagotto biondo che era stata Amanda, mentre John cedeva all'autocommiserazione nel buio della propria stanza;
Sentiment is a chemical defect found in the losing side, diceva Sherlock, e mai aveva avuto più ragione.
Perché è così semplice vivere soli, ciascuno chiuso nella propria bolla; preoccuparsi, amare qualcuno è deleterio in tutti i casi, farsi male è inevitabile; è sfiancante, una grande perdita di energie che potrebbero essere impiegate altrimenti – non a caso Sherlock si era professato sposato con il suo lavoro.
Amare John, in mezzo a tutte le intemperie, gli era costato, e costava ancora, un mare di dolore che non avrebbe mai immaginato. E si chiese, inginocchiato nella polvere, se ne fosse valsa la pena, a cosa fosse servito soffrire tanto. E allora capì che le stesse domande potevano essere poste sulla vita, e che non c'era vita degna di questo nome senza sofferenza, né senza amore – che esistenza vuota e inconsistente, altrimenti, più sottile della polvere.
Sì, aveva perso, era stato ferito, sanguinava ancora, ma c'era un calore, intorno al suo cuore, che nessuno gli avrebbe potuto rubare, e la consapevolezza di aver vissuto per qualcuno, non invano. Le gesta di Sherlock Holmes sarebbero, un giorno, diventate cenere; il sentimento che l'aveva legato a John Watson li avrebbe avvolti per l'eternità come li aveva uniti in vita.
Rialzò il capo e tirò su con il naso. Il severo Mycroft nella sua testa scuoteva la testa con riprovazione, come per farlo vergognare della sua debolezza, ma lui non se ne curò: era un vecchio uomo stanco, e aveva smesso da tempo di preoccuparsi di difendere la sua vulnerabilità.
«Suppongo di doverti ringraziare, allora, John» mormorò, carezzando con la punta dei polpastrelli la fredda pietra. «Per avermi fatto perdere la ragione, per tutte le cicatrici che porto: mi hai reso un uomo migliore.»
Ero così solo, e ti devo così tanto.
Raddrizzò la schiena, mentre un refolo di vento gli solleticava un ricciolo argentato.

 
•°•

Sherlock non ebbe bisogno di girarsi.
«Non credo che raccoglieremo altro miele, quest'anno.»
John annuì.
«Ne abbiamo raccolto parecchio. È più che abbastanza.»
Sherlock sollevò appena il mento, i ricci argentei – combattevano fieramente il bianco – riscaldati dal tramonto dietro la collina.
«Forse avremmo potuto fare di più, non solo miele; avremmo potuto raccogliere la cera, o la pappa reale.»
John abbassò il capo, accusando il colpo, consapevole delle delicate metafore nascoste dietro le parole.
«Forse. Ma chi dice che ci saremmo riusciti? E che avremmo raccolto tutto quel miele, e così dolce?»
Sherlock, non visto, sorrise della caparbietà del suo dottore che era andata solo peggiorando, con gli anni.
«John, quanto tempo credi ancora che vivremo?»
John raddrizzò appena la schiena, con proteste dalle sue ossa, accigliandosi.
«Ancora un pezzo. Prima di uccidere te dovranno passare sul mio cadavere, e fidati che sono un osso duro.»
C'era ancora una lama sottile di dolore sotto l'apparente celia – ancora, dopo tutti questi anni...
«Eppure accadrà, prima o poi. Se non sarà per mano di qualche criminale, sarà sicuramente vecchiaia e malattia, e Dio solo sa se mai avrei giudicato anche solo probabile morire per una delle due. O avere i capelli grigi, se per questo.»
«Bianchi» rettificò John, con un mezzo sorriso, avvicinandosi.
«Grigi. Invidioso» lo liquidò Sherlock, lanciandogli un'occhiata obliqua. John sorrise e si appoggiò alla ringhiera, di fianco a lui.
«Hai sempre avuto un rapporto migliore di me, con Amanda» esordì, stupendo sé stesso: non era affatto quello che aveva intenzione di dire. Eppure era calmo, lo sguardo fisso al sole morente.
«Non è così, anche lei...»
«Mi vuole bene, lo so, però con te è diverso. In un certo senso, le sei stato più vicino. E sei stato molto più franco con lei. Io non ci sono mai riuscito, non del tutto. Non lo sono mai stato neanche con te, o con me stesso.»
Voltò il capo verso l'altro, che però continuava ad aggrapparsi all'orizzonte.
«Il fatto è che tu sei un uomo di scienza: le definizioni sono un obbligo, per te. Io, non proprio. Le definizioni, anzi, mi spaventano. Perché, inevitabilmente, escludono qualcosa. E io non voglio escludere niente, voglio avere ogni possibilità, ogni sfumatura possibile.»
«Cerchi l'infinito.»
John annuì, grave, consapevole di sé stesso, dell'uomo accanto a sé e del loro immutabile ed imperituro posto, l'uno accanto all'altro, nell'impetuoso mare del tempo e della vita, l'interminabile panta rei, eterni nel sole morente.
«Sherlock, abbiamo condiviso la vita migliore che potessimo mai avere. Mela di Platone, anima gemella, come ti pare...»
«John, ti prego, non c'è bisogno di altro miele...»
«A me, è sempre andata bene così.»
C'era una sincerità disarmante, in quegli occhi scuri, e Sherlock si sentì improvvisamente sollevato, di anni più giovane: aveva cercato in lungo e in largo definizioni inesistenti, scatole per stelle e maree, senza sapere che le uniche risposte di cui aveva bisogno le aveva avute davanti a sé dal primo momento in cui i suoi occhi avevano riso con quelli di John. In un istante, ripercorse tutti i sorrisi che quegli occhi si erano scambiati, tutte le promesse e i patti; mai, neanche per un momento, si erano traditi: erano sempre stati l'uno al fianco dell'altro, ogni qualvolta ce ne fosse stato bisogno. Si erano trovati, semplicemente, per fortuna, e avevano condiviso la vita, sacrificandosi l'uno per l'altro in più e più modi.
Sherlock distolse finalmente gli occhi, per non ferirsi e mostrare quanto fossero diventati vulnerabili – e commossi e traboccanti di gratitudine.
«Pochi potrebbero ottenere miele migliore.»
Con la coda dell'occhio colse il sorriso di John, che si rifletté nel suo, complice, gemello.
Amanda li osservò dalla finestrella della cucina, sospirando sollevata. Si diede della sciocca: dopo tanti anni, avrebbe dovuto sapere che quei due avrebbero trovato un modo per uscirne, in ogni caso.

 
•°•

«Non esiste una parola per noi, John.»
Ti dirò che ti amo, e ti ho sempre amato.
«Tu sai che intendo.»
Si rialzò a fatica e, ricordatosi improvvisamente, infilò una mano in tasca.
«Guarda che ti ho portato, me l'ero quasi dimenticato...»
Si chinò e posò un barattolino di miele ai piedi della lapide, fra i garofani di Amanda – millefiori amaro, il preferito di John, dall'ultimo raccolto di cui si erano occupati insieme, il più felice di sempre.
Lo sguardo lontano, a giorni passati di un tempo che non sarebbe tornato, girò sui tacchi e fece per voltarsi, poi esitò.
«Oh, e per la cronaca: tua figlia si è messa a scrivere libri su due tipi che si chiamano William ed Hamish. Dimmi che non è il tuo spirito che si prende gioco di me, per favore.»
Un soffio di vento gentile gli carezzò la guancia e lui celò l'improvvisa ennesima ondata di malinconia, rimpianto, rimorso ed indicibile dolore dietro ad un mezzo sorriso.
«Ciao, John.»
Rialzò il bavero del cappotto con un gesto meccanico e incassò la testa nelle spalle, voltandosi verso Amanda che gli sorrideva piano, accanto al cancello. Si incamminò senza guardarsi indietro.
Che strano amore, quello fra lui e John: silenzioso, pieno di parole che erano solo musica, che non avevano troppo peso; senza nome, che nome non cercava. Infinito.


 
Fine.







Leopardi potrebbe essere un po' un pugno nello stomaco, lo so, ma io adoro quell'uomo. E Shakespeare – chi l'avrebbe mai detto, dopotutto non lo infilo in qualsiasi mio scritto, no no – non sono capace di tradurlo ed è così bello in originale che non mi va neanche, ma qui c'è una buona traduzione. 

E anche stavolta, siamo alla fine. Non è stato facile ma ce l'abbiamo fatta, più o meno. E, per la prima volta in quattro anni, il greco si è rivelato di qualche utilità – applausi alle libro di grammatica, grazie, grazie.
Grazie di cuore a chi è arrivato fin qui, alle belle personcine che hanno messo fra preferite/seguite/ricordate e a chi ha recensito <3
A presto (forse),
peace&love
-Clock

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