Drugs Life.

di Margarinas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima. ***
Capitolo 2: *** Parte seconda. ***
Capitolo 3: *** Parte terza. ***
Capitolo 4: *** Parte quarta. ***
Capitolo 5: *** Parte quinta. ***



Capitolo 1
*** Parte prima. ***


Aprii le ante del mio armadio con un semplice e ampio movimento delle braccia. I miei vestiti erano tutti piegati e stirati sulle varie mensole e profumavano di marsiglia. Anche se, ormai, vivevo qui da tre mesi non ero abituata a quell'ordine. Mi dava anche un certo senso di fastidio.
 Cominciai a cercare le mie vecchie cose, quella felpa e quei pantaloni vecchi di anni, buttando tutto il resto per terra, alla rinfusa, creando un vero e proprio monte di vestiti. Presi anche una maglietta e mi cambiai in fretta, senza degnarmi di mettere a posto.
 Dal doppio fondo del cassetto prelevai i soldi, l'accendino e le sigarette. E anche... tutto il resto. Infilai tutto nella borsa e uscii in fretta dalla camera chiudendo la porta dietro di me. I miei genitori, in salotto, si accorsero di me, non ero certo la persona più silenziosa del mondo.
 «Dove vai?» chiese mia madre, allegramente.
 «Da Noemi» ovviamente era una balla che avevo inventato sul momento. Non potevo, no, dirle dove stavo andando realmente.
 «Chi è, una tua nuova amica?» chiese mio padre, anche lui, allegro.
 «La conosco da anni, papà» risposi con stizza.
 Mi chinai ad allacciarmi le scarpe, quando vidi, lì, sul tavolino una bella bottiglia di vino e due bicchieri colmi. Scostai una ciocca di capelli che mi era scivolata sul viso e assunsi la faccia più innocente del mondo.
 «Sta sera non torno a dormire. Lascio la casa a vostra completa disposizione.»
 «Grazie Tesoro» mamma sorrise. «Mi raccomando, chiama domani mattina se dobbiamo passarti a prendere!»
 «Certo mamma!» afferrai la maniglia della porta e poco prima di uscire sul viale, mi girai verso di loro.
 «Non entrate in camera mia!» ma ormai, non mi stavano più ascoltando.
 Camminai velocemente, quasi correndo, per fare il più in fretta possibile. Si stava facendo buio, i lampioni erano accesi e illuminavano il marciapiede con la loro luce spettrale. Volevo fare il più in fretta possibile e per non pensare cominciai a canticchiare una canzoncina a caso, sentita da una pubblicità o per radio. Non ricordavano.
 Non volevo pensare, non volevo ricordare. Non volevo pensare a cosa stavo facendo. Eppure lo stavo facendo davvero, dopo aver giurato di smettere. Sarebbe stato così semplice continuare così, ad essere una brava persona, vivere in casa dei genitori, andare al lavoro, uscire con gli amici al sabato, portare il nipotino al parco la domenica, se non fosse stato per Elena.
 Quella mattina mi ero svegliata con l'amaro in bocca senza nemmeno sapere il perché. Era ancora preso, avevo preso a girarmi e rigirarmi nel letto senza riuscire a prendere sonno. Alla fine mi ero arresa, mi ero alzata e avevo deciso che, per una volta, avrei preparato io la colazione per i miei genitori.
 Avevo camminato silenziosamente fino in cucina e avevo iniziato a preparare tutto, quando avevo notato il calendario. E avevo capito. Non sapevo per quanto tempo ero rimasta lì, in cucina, immobile artigliando i bordi del piano in granito senza riuscire a pensare a niente. Possibile che me ne fossi dimenticata? Eppure non era il fatto di essermene dimenticata a farmi quell'effetto, ma era il fatto che quel giorno maledetto, fosse ancora lì. Certo, sapevo che non si potevano cancellare giorni dal calendario per qualcosa di assurdo come quello, ma, se fossi stata in grado di farlo lo avrei fatto.
 Mi ero ripresa soltanto quando avevo sentito mia madre alzarsi e camminare sbadigliando strisciando le ciabatte rosa e pelose sul pavimento di parquet. Quando sulla soglia della cucina aveva sgranato gli occhi vedendomi in piedi, avevo assunto il mio più falso e convincente sorriso.
 «Mamma, vuoi del caffè?»
 Mi sentivo un po' in colpa, era vero. Loro, i miei genitori, nonostante tutto, credevano ancora in me e io, da brava figlia, stavo per rovinare tutto. Di nuovo. Ma era più forte di me. Ricordavo bene la sensazione che si provava, che avevo provato centinaia di volte negli anni passati, in quei fatidici dieci mesi di oblio della mia vita.
 Già, perché quello, lo sapevo benissimo, era un buco nero senza fine da cui non riuscivi ad uscire mai. Mai. Nemmeno con tutto l'aiuto del mondo, una parte di te ci sarebbe rimasta dentro per sempre. E anche se prima, nei primi mesi della mia riabilitazione, avevo creduto che avrei potuto uscirne, era tutto morto quella mattina, quando mi ero svegliata in prede all'agitazione e avevo guardato per ore il calendario appeso in cucina.
 Perché se la prima volta era stato facile non pensarci, per il troppo dolore del primo mese in quell'assurdo posto, che molti credevano "la vera salvezza", la seconda volta non sarebbe stato altrettanto semplice. E non lo sarebbero state nemmeno quelle successive, perché io, al contrario di Elena, ero ancora viva e con molte probabilità lo sarei stata ancora per molti anni. E per molti anni avrei sofferto quel fatidico 19 maggio.
 Raggiunsi il parco della città, e senza farmi notare, con nonchalance presi le vie tortuose e i piccoli sentierini che avevo percorso chissà quante volte. E chissà quante volte le aveva percorse Elena. A piccoli passi raggiunsi la parte "malfamata" del parco, anche se quando calava il buio, tutto il parco diventava un vero e proprio... schifo. Sì, perché era questo che facevano le persone che, calato il buio, si addentravano nel parco con bottiglie di birra, sigarette, erba, droga e chissà quante altre cose, facevano schifo. Me compresa.
 Scivolai a destra seguendo il sentiero. Mi fermai quando sentii dei rumori provenire da dietro una siepe che correva lungo il muretto di pietra. Di sotto ci scorreva il fiume. Sapevo che avevano messo quella siepe per evitare che i ragazzi ubriachi, colti improvvisamente da uno strano tipo euforia, salissero sul muro e poi cadessero di sotto, in acqua. Solo che, avevano sbagliato qualcosa nei calcoli e la siepe era stata posizionata troppo lontana dal muro e quindi, c'era abbastanza spazio per sdraiarsi sull'aiuola in mezzo alle due cose. Sapevo questo perché l'avevo scavalcata varie volte, per affacciarmi sul fiume e vomitarci dentro.
 Quello che sentii furono gemiti di piacere misti a gemiti di dolore. Qualcuno ci stava dando dentro, ma non mi interessava poi più di tanto, quindi scollando le spalle mi allontanai indifferente. Potevano fare sesso anche tutta la notte, io non li avrei interrotti. Mi inoltrai ancora di più verso il centro del parco, fino a che non intravidi le famigliari panchine e la famigliare cabina.
 Eccolo il ritrovo. Nonostante tutto, queste persone erano ancora qui. Avevo imparato a conoscerle, tutte, chi più chi meno, ma ricordavo ancora i loro nomi. Ricordavo ancora tutti i favori che mi avevano fatto nei primi mesi del mio inizio. Ricordavo ancora quante volte, a casa di uno o a casa dell'altra, ci eravamo fatti di questa o quell'altra roba, solo per provare quel brivido in più, solo per sembrare diversi agli occhi degli altri. Ma tra di noi, tra di noi non c'erano segreti, tutti avevamo un vuoto da colmare e, nonostante non ci dicessimo mai niente, tutti noi sapevamo questo, bastava solo una semplice occhiata, per rendersene conto.
 Erano solo le nove e mezza di sera, ma già la maggior parte aveva iniziato a far festa. Un sabato sera da manuale. Vidi Ale, la ragazza dai boccoli scuri ballare ubriaca attaccata ad un ragazzo con i vestiti completamente sporchi di fango. Davide, lo riconobbi. Vidi il solito Vincy con lo stereo sotto braccio, uno di quelli vecchio stile, degli anni 60, eppure faceva ancora la sua figura. La musica rap mi spaccò i timpani da quanto era altra, ma con il passare dei minuti, mi ci sarei abituata.
 Non volevo, però, parlare con nessuno di loro. Non quella sera. Quella sera non sarebbe stata di nessuno di loro. Sarebbe stata mia.
 Mia e di Elena.
 Senza farmi vedere mi avvicinai alla cabina, andai sul retro. La porta era socchiusa, vidi una luce accesa, così mi accinsi a bussare. La porta si aprì e io entrai.
 Era un posto angusto la cabina. Era una vecchia cisterna dell'acqua che non veniva usata da anni e Nik l'aveva trasformata nel suo piccolo "studio" personale. Nik, il mio vecchio balordo Nik. Nik, il ragazzo dai capelli scuri tagliati corti, senza un accenno di barba e perennemente vestito con pantaloni della tuta e una maglietta di qualche band famosa. Quel Nik, quello che era riuscito a trovare le chiavi della cabina chissà dove, il Nik delle storie assurde e della mille risorse. Nik, che mai era stato beccato e che si guadagnava da vivere come pusher, ma nessuno mai avrebbe sospettato di lui vedendolo in giro di giorno per il centro.
 Il Nik che non appena mi vide sgranò gli occhi, chiuse di scatto la porta, buttò nel posacenere la canna fumata a metà ed esclamò tutto d'un soffio il mio nome.
 «Elisa?!»
 Presi dal posacenere ciò che ci aveva buttato. Non fumavo quella roba da mesi. Rovistai nella borsa in cerca dell'accendino e la accesi. Non fu una sensazione nuova, però è così che la vidi. Il fumo mi riempì i polmoni prima che io lo lasciassi uscire. Soffiai tutto in faccia a Nik, che ancora incredulo mi guardava non sapendo cosa dire. Dopo il secondo tiro mi sentii un pochino meglio, ma non ero lì per quello, per quella. Ero lì per altro.
 «Non eri in comunità?» riuscì infine a ritrovare la voce. Mi sedetti su una delle sedie da giardino tutte arrugginite che fungevano da decoro e gli passai la canna. Fece un tiro e si sedette di fronte a me.
 «Come vedi, sono uscita» gli dissi. «Da tre mesi.»
 «Vedo che hai fatto progressi» mi guardò sollevando un sopracciglio. Mi ero dimenticata di questo lato di Nik. Sempre pronto a fare la predica, quando era lui la causa di tutto il nostro male, o almeno, una parte.
 «Non sono affari tuoi» sbottai. Lui alzò le mani in segno di scusa, ripassandomi la canna, io la finii e la spensi nel posacenere.
 «Allora, cosa vuoi?» fu così diretto che mi spiazzò. Ma in fondo, era ciò che volevo. Pura e semplice verità. Volevo solo andarmene in fretta da lì, con la mia roba per stare sola, sola con me stessa. Sola, con il ricordo di Elena.
 «Il solito» risposi. Lui si alzò, lo vidi prendere dirigersi verso un angolo della cabina e aprire un piccolo sportellino. Ci infilò la mano dentro e ne tirò fuori un sacchettino contenente una polvere bianca. Una polvere così famigliare...
 Me la mise in mano e con un cenno del capo mi disse di andarmene. Rimasi seduta al mio posto, senza muovermi. Fu la cosa più strana, perché Nik, nonostante fossimo in buoni rapporti, mai mi aveva dato qualcosa senza prima essere stato pagato.
 «Perché?» gli chiesi semplicemente.
 «Lo so» rispose lui, altrettanto semplicemente. Non ebbi bisogno di chiedergli altro. Mi alzai, mettendo la roba dentro al mio reggiseno. La plastica del sacchetto mi diede un po' di noia, ma presto non ci avrei più pensato.
 «Allora ci vediamo» gli dissi prima di uscire. Incrociai per un attimo il suo sguardo. Aveva le lacrime agli occhi.
 «Mi dispiace per Elena» fu l'ultima cosa che mi disse. Poi uscii, attraversai di nuovo il parco, e mi diressi in centro, verso il mio vecchio appartamento.


Innanzitutto scusatemi per gli errori di battitura, non lo faccio apposta, ma sono spesso sbadata mentre scrivo.
Secondo, chiedo scusa alle persone che conosco da una vita per aver usato i loro nomi per questa storia.
Sarà una storia molto corta, massimo cinque capitoli.
Ho voluto scriverla perché è un argomento, questo, a cui sono molto interessata e ho voluto provare a vedere cosa ne usciva fuori immedesimandomi in una (SPOILER) ex drogata ricaduta di nuovo nel vortice, anche se non so assolutamente niente di tutto ciò. È solo ed esclusivamente frutto della mia fantasia.

 Concludo con il dire che aggiornerò il più presto possibile, nel frattempo tutte le recensioni sono le benvenute, belle o brutte che siano.
 I biscotti sono in omaggio.
 -Marga.

 

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Capitolo 2
*** Parte seconda. ***


 Veloce. Veloce. Dovevo essere veloce.
 Poco dopo esser uscita dal parco densi nuvoloni neri si erano concentrati sopra la mia testa e in men che non si dica un immenso acquazzone si era riversato giù, sulla strada, sugli alberi, sui palazzi e su di me. Dopo pochi minuti ero completamente fradicia.
 I capelli bagnati mi si appiccicavano sulle guance e ad ogni passo le mie scarpe si inzuppavano sempre più. Ero vestita leggera, perciò tremavo anche dal freddo. Un freddo pungente, terribile, mi entrava fin dentro le ossa.
 Ma non era solo il freddo a farmi tremare. Con le mani incrociate sul petto, cercando di riscaldarmi il più possibile, ero finita con il schiacciare ancor di più il piccolo sacchetto che tenevo dentro al reggiseno. A farmi tremare era il pensiero di ciò che stavo per fare. Di ciò che ero convinta a fare, dopo aver promesso, ai miei genitori, alla gente che conoscevo, ma soprattutto a me stessa, di non farlo mai più.
 Eppure eccomi lì, a camminare di sera sotto la pioggia, da sola per i fatti miei, con una bustina di eroina nel reggiseno. Mi maledissi più e più volte quella notte, perché ero una stupida. Ed ero stata una stupida già molto tempo prima.
 Cominciai a correre, d'apprima lentamente, poi sempre più volece per arrivare a casa, la mia vecchia casa, la casa dove avevo iniziato. Era stata la casa di mia nonna, fino a che non era morte e poi mi ci ero trasferita io, finite le superiori. La vita da indipendente, a quei tempi, mi sembrava la cosa più bella del mondo. Andavo e venivo quando mi pareva, facevo quello che volevo, anche se c'era la scocciatura del farsi da mangiare e rifarsi il letto la mattina, ma presto mi ci ero abituata.
 E avevo trovato anche una routine. Lavoravo a giorni alterni, in una piccola casa editrice di scrittori emergenti, prendendo un discreto stipendo che mi permetteva di mantenermi egregiamente. La sera frequentavo un corso serale di primo soccorso, così da tenermi occupata. Invitavo amici e parenti da me ogni sabato sera e avevo deciso perfino di comprare una tartaruga per tenermi compagnia.
 Avevo conosciuto Elena al supermercato, così, per caso. Era un pomeriggio nuvoloso, e ne avevo approfittato per uscire a rifornire il frigo. Dopo aver finito la spesa mi ero diretta verso la cassa e mentre, per i fatti miei stavo mettendo la lattina di piselli nella borsa, uno strillo aveva catturato la mia attenzione.
 La cassiera teneva in mano un barattolo di purea di mela, una cosa che adoravo mangiare fin da piccola. Lei mi guardava sorridendo con quei luminosi occhi azzurri. Anche io avevo sorriso.
 «Lo mangio anche io!» aveva detto con la sua voce squillante. «Lo adoro!»
 E da lì, giorno dopo giorno avevamo iniziato a parlare, da un «Ciao» a un «I budini alla vaniglia sono scontati» eravamo passate ad una vera e propria conversazione. Non sapevo nemmeno come definirla, a quel tempo. Non era una mia amica, eppure quando nel nostro piccolo supermercato la incontravo per i corridoi o alla cassa le raccontavo alcune cose, non importanti ma interessanti, e a quel tempo, lei, non era nemmeno una conoscente sporadica.
 Non sapevo nemmeno il suo nome. La sua targhetta, appesa alla camicia da commessa, recava due semplici iniziali: E. B. Non mi ero mai soffermata troppo su come si chiamasse, mi piaceva come persona per le cose che diceva, come le diceva. Aveva un sacco di storie da raccontare, divertenti a volte, altre tristi, altre ancora senza un finale, perché, come appresi in seguito, ad Elena non piacevano i finali.
 E poi un giorno, mentre mi accingevo a prendere un vasetto di miele dallo scaffale in alto, mentre lei accovacciata a terra metteva a posto i succhi di frutta, interruppe il mio discorso.
 «Ti va di prendere un caffè più tardi?» fu quasi costretta ad urlare, per superare il mio poderoso timbro di voce, un po' roco.
 Sul subito rimasi spiazzata dalla sua domanda, e senza pensarci accettai. In effetti non c'era molto da pensarci, ci conoscevamo da settimane e io mi trovavo bene in sua presenza e per lei era lo stesso. Dal basso mi aveva sorriso, poi con un veloce cenno del capo era sparita, dicendomi di aspettarla fuori. E così avevo fatto, senza domande. Con la mia spesa in mano l'avevo vista uscire con un paio di jeans logori e una maglietta sgualcita di varie tonalità di rosso. Per guarnire il tutto, una sciarpa legata intorno al collo con un nodo. Ero scoppiata a ridere vedendola.
 Poi mi ci ero abituata. Il suo look, così sbarazzino, era molto spesso ripetitivo, ma mai stancante. Indossava spesso quella maglietta rossa e potevi vedergliela addosso anche due volte a settimana, ma Elena era così... così Elena, da farti dimenticare tutto il resto di lei, se non la sua voce, mentre ti stava parlando, o i suoi occhi, mentre ti stava ascoltando.
 Il primo pomeriggio passato insieme fu diverso da quelli passati nel negozio. Fu più intimo. Lei mi raccontò di sè, solo l'essenziale, solo quello che basta per non dire troppo e al tempo stesso non dire poco. Elena aveva questa dote naturale di affascinare le persone.
 Da quel giorno la considerai un'amica. Cominciammo ad uscire insieme, lei mie presentò i suoi amici e mi raccontò sempre più di sé. Mi raccontò della sua infanzia disturbata, dei maltrattamenti subiti dal padre, di quando a diciassette anni era fuggita e si era ritrovata senza un soldo e con un abbonamento della metro scaduto. Mi raccontò di come aveva conosciuto Aurora che le aveva offerto un tetto per dormire e le aveva trovato un lavoro.
 Quando Elena raccontava i suoi occhi si riempivano di un'antica tristezza, che nemmeno io avevo mai provato prima. Rimaneva lì, seduta sulla terrazza di casa mia a fumare una sigaretta dopo l'altra, con lo sguardo rivolto verso il sole al tramonto. I capelli neri oscillavano lentamente seguendo il ritmo del vento. E io rimanevo lì, a fissarla, ad ascoltarla perché altro non si poteva fare.
 Elena non aveva bisogno delle solite parole idiote di conforto, lei aveva bisogno di essere ascoltata. Così avevo fatto per giorni e giorni, guardando il tramondo, rimanendo in silenzio fino a che pure lei aveva smesso di parlare e il silenzio aveva riempito quei giorni. Con un sorriso, spegnendo l'ultima sigaretta, alzandosi dalla sedia rumorosamente, non era entrata in casa ad armeggiare con il mio antico bollitore.
 Ogni volta io ero rimasta lì, con una sigaretta in mano, respirando il suo fumo piano piano a vedere il sole morire, pensando. Elena era entrata nella mia vita come un raggio di sole solitario in un giorno di pioggia. Da quel momento Elena aveva illuminato i miei giorni, ad uno ad uno. Perché lei era stata il mio sole, e io le ruotavo intorno perché senza avrei finito con il morire. Era entrata nella mia vita come un uragano, strappandomi dalla noiosità con cui mi stavo circondando, trasformandola in una cosa migliore.
 Lei era il mio sole e per quel periodo, fui convinta, che sarebbe stato così per sempre.
 Arrivai sotto al portone del mio ex appartamento con il fiatone. Completamente fradicia, rovistai nella borsa in cerca delle chiavi che avevo sgraffiniato dal cassetto in camera dei miei. Aprii la pesante porta così famigliare ed entrai. La luce si accese non appena avvertì un movimento, presi l'ascensore e salii al quinto piano.
 Cominciai a svestirmi già prima di aprire la porta di casa. Odorava di chiuso, nonostante mio fratello ci avesse passato un weekend solo una settimana prima. Buttai i vestiti bagnati per terra e in intimo raggiunsi la terrazza. Tirai su la tapparella e spalancai le porte a vetri. L'aria fredda mi graffiò il viso, ma non ci feci caso. Camminai meccanicamente fino alla camera da letto.
 Entrai ed accesi la luce. Il letto era ancora lì, dove l'avevo lasciato l'ultima volta, solo con una coperta diversa. Nulla era cambiato se non che tutti i miei oggetti erano spariti. Aprii l'armadio e presi le prime cose che mi capitarono a tiro, vestiti puliti di mio fratello che teneva qui per ogni evenienza.
 Mi sedetti sul letto, tirando fuori il sacchetto e poggiandolo sul comodino. Nello stesso posto dove avevo appoggiato il primo sacchetto la prima volta. Andai a prendere la borsa in salotto e tornai in camera. Tirai fuori tutto il vecchio occorrente che ero riuscita a nascondere prima che mi portassero a disintossicarmi. Non sapevo nemmeno perché l'avevo fatto, forse ero troppo strafatta per fare qualcosa di lucido o forse l'avevo conservato per un'occasione come questa.
 Mi accorsi, però, di aver dimenticato l'accendino. Cercai ovunque, ma non lo trovai. Dovevo averlo, per forza, dimenticato da Nik. Imprecai infuriata. Non potevo tornare da Nik a quel punto. Rimasi dieci minuti a fissare il soffitto dopo essermi distesa sul letto. A pensare a niente, solo, a fissarlo.
 Ricordai. Il doppio fondo del mio cassetto. Lì, ci avevo messo un accendino, appunto, per le emergenze. Mi alzai di scatto e aprii il cassetto. Se mio fratello non lo aveva scoperto, sarebbe andato tutto bene. Alzai il doppiofondo e lo trovai. Lo presi in mano stringendolo forte.
 Non avevo più aperto quel doppiofondo dal 18 maggio di due anni prima. Come potevo saperlo? Non mi era neanche passato per la testa di provare a controllare in casa mia, non... non ci avevo pensato. Che stupida che ero stata! Mi schiaffeggiai da sola quando sentii le guance rigarmisi di lacrime. Era sua, per forza. Chi altri poteva fare una cosa del genere?
 Presi il pezzo di carta ripiegato accuratamente tra le mani. Aprii la lettera con piccoli e lenti movimenti, per paura. Di cosa non lo sapevo. Ormai non sapevo più niente. Tirai fuori i fogli bianchi riempiti di parole, di inchiostro scuro, nero. Riempiti di lacrime, qua e là, dove l'inchiostro era visibilmente sbavato.
 Lessi la prima riga e un singhiozzo mi strappo il respiro. Singhiozzai ancora e ancora, fino a che, non ebbi paura di aver cancellato ogni parola con le mie lacrime. Mi ripresi quel tanto che bastava per riuscire a leggere.
 E lessi.
       "Casa tua, 18 maggio. Ore 23.34
Cara Elisa,
ti scrivo questa lettera per...




Perdonate, di nuovo, gli errori ortografici, sono stata sveglia tutta la notte, ieri, e adesso sono un po' tanto stanca... perdonatemi.
All'inizio avevo strutturato questa storia un po' diversamente, ma poi mi sono accorta che sarebbe venuto tutto molto meglio in questo modo.
Ho parlato di Elena in questo capitolo, perché volevo far capire come e chi fosse e cosa contasse per Elisa.
Il prossimo capitolo sarà interamente dedicato alla lettera, quindi credo che sarà un capitolo corto.

Le recensioni sono bene accette, buona lettura.
-Marga, frabbricante di biscotti al burro.

Ps. ho guardato la settima stagione di Doctor Who, ieri notte. Reduce dalla rigenerazione di Eleventh, "GERONIMO"!
Capitemi...

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Capitolo 3
*** Parte terza. ***


Casa tua, 18 maggio. Ore 23.34
Cara Elisa,
ti scrivo questa lettera per un semplice motivo. Sono nella cucina di casa tua con un blocco di fogli di carta e una penna nera. Ho trovato questo blocco sul ripiano, di fianco al lavello. Spero non ti servano tutti i fogli, ne userò il meno possibile, sarò breve, anche se sai che io non lo sono mai. Non so se leggerai questa lettera, penso che molto probabilmente finirà tutto nel cestino.
 Scusami se sono andata via così; non è perché non mi stessi divertendo o stessi male, no. Semplicemente l'idea di te e di Nik di sopra a fare sesso è stata del tutto inconcepibile per me. Non fraintendermi, io voglio bene a Nik e non è gelosia nei suoi confronti quella che provo, ma nei tuoi.
 So che sei libera di stare con chi vuoi, però preferirei stessi con me, Elisa. Dal primo momento in cui ti ho vista, al supermercato, quel giorno di molto, molto tempo fa, ho iniziato a provare qualcosa per te. A poco a poco tu sei diventata per me ciò che si può definire indispensabile. Perché io ti amo, Elisa e non ho mai provato per qualcun altro quello che provo per te, ora. Sai che non sono mai stata timida, mai. Eppure non sono mai riuscita a dirlo apertamente, nemmeno a Nik o Aurora, nemmeno a te. Se l'avessi fatto so che sarebbe cambiato qualcosa in meglio per me, ne sono sicura. Ma ormai va bene così.
 In realtà no, non va bene così. Sai, Elisa, in momenti come questi, nei momenti come quelli sulla terrazza a guardare il tramonto, nei momenti in cui racconto di me, mi sento così piccola e insignificante, che mi chiedo cosa ci faccia io in questo mondo. Non ho uno scopo, non l'ho mai avuto. So di essere importante per te come tu lo sei per me, ma mi chiedo cosa ho fatto io per meritarti. Che cosa ho mai fatto per te?
 Tu mi hai salvato, Elisa. Tu e solo tu sei riuscita a rendermi di nuovo viva. So che senza di te sarei morta da tanto tempo, ormai. In uno dei periodi più bui della mia vita la tua mano ha afferrato la mia e mi ha condotto verso la luce. Ti ringrazio per questo.
 Ho deciso di smettere con l'eroina. Una volta per tutte. Da sempre so che quella non è la soluzione e non so spiegarmi perché io abbia deciso di iniziare. Non ricordo nemmeno com'è stato la prima volta, con il tempo è diventata una routine. Sei stata tu a farmi capire che, per vivere, non ho bisogno né di lei né dei rimpianti.
 Ci vorrà tempo, ne sono consapevole allo stesso modo in cui sono consapevole che tu sarai qui, ad aiutarmi. Voglio prendere in mano la mia vita, prima che sia troppo tardi, così come hai fatto tu. E non importa se tu non mi amerai mai come ti amo io, il tempo aggiusterà tutto. E poi, non si può mai sapere, no?
 È il 19 maggio, il mio compleanno!
 Grazie, Eli.
Tua, Эlena.

Ps. sono passata da casa tua per riprendere
lo sai che non mi piacciono i finali.




Ho scritto questo capitolo circa quattro volte prima di arrivare alla versione finale, cioè questa.
In tutte le vecchie versioni non mi piaceva come le parole di Elena colpevolizzassero Elisa, quando volevo dare a queste parole tutt'altro senso.
L'ispirazione mi è venuta oggi, durante l'ora di storia ed è stato riveduto e corretto dalla mia compagna di banco, che più e più volte ha ripetuto la frase -cito testualmente- 
«Questa frase non ha senso!».
Perciò questo capitolo è dedicato a lei.


Mentre aspetto recensioni fabbrico biscotti.
-Marga.

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Capitolo 4
*** Parte quarta. ***


 Quella mattina ero in ritardo, lo ricordavo bene. Mi ero svegliata con un gran mal di testa e lo stomaco sottosopra, nel letto, di fianco a Nik. Barcollando ero riuscita ad agguantare i miei vestiti sparsi per la camera e ad uscire da essa. Scavalcai un paio di persone addormentate profondamente sul pavimento o sulle sedie e mi diressi in bagno. Chiusa la porta dietro di me mi inginocchiai davanti al water e vomitai tutto quello che avevo ingerito il giorno precedente. Cibo, alcool, qualsiasi cosa.
 Mi vestii cercando di migliorare il mio aspetto guardandomi allo specchio. Mi pettinai i capelli con le dita e mi sciacquai il viso con l'acqua gelata. I vestiti erano un po' sporchi e tutti spiegazzati, ma quello era l'ultimo dei miei problemi. Le occhiaie scure sotto gli occhi erano fin troppo visibili. Uscii dal bagno, ripercorsi la stessa strada ed entrai in camera di Nik.
 Lui dormiva ancora, prono e nudo sul suo letto. Facendo il più piano possibile camminai verso l'altra parte del letto per prendere la mia borsa. Cercai il telefono a tentoni, mettendo da parte l'astuccio dei trucchi, il portafoglio e la sciarpa. Lo accesi e la sua luce potente mi fece chiudere gli occhi di scatto. La stanza era buia e per evitare di svegliare Nik uscii e mi diressi di nuovo in bagno.
 Seduta sul bordo della vasca lessi i vari messaggi. Uno di mia madre, uno di un'amica che non vedevo da anni, ma che per qualche arcano motivo mi invitava al suo compleanno, e uno di Elena.
 "Sono andata a casa presto perché mi sono ricordata di avere della roba da fare. Passa da me domani mattina!
 Portami un cornetto alla
 Elena."

 Sorrisi tra me e me. Quella sua mania di non finire le frasi. Mi truccai solo con uno strato abbondante di fondo tinta e uscii di casa. Scrissi a Nik così come aveva fatto Elena con me e mi diressi verso casa sua. Era una timida mattinata di primavera, tirava un leggero vento, ma il sole faceva capolino da dietro i palazzi illuminado la strada davanti a me e riscaldando l'ambiente.
 Non avevo la voglia di passare da casa mia per una bella doccia calda, l'avrei fatta da Elena. Passai però da un bar, trovato così per caso lungo la strada. Comprai due cornetti alla marmellata. Per la troppa fame, sperando che mangiando il mal di testa passasse, finii il mio camminando.
 Arrivai davanti casa di Elena. Sapevo che a quell'ora lei era sveglia da un pezzo, ma non suonai il campanello. Abitava in un piccolo quartiere di vecchie villette a schiera, al piano terra. L'entrata era divisa in due da una colonna smaltata di bianco, così per tutte le case fino in fondo alla strada e anche dall'altra parte. La casa di fianco era disabitata, perciò Elena poteva avere tutto il giardino sul retro per sè, l'unica cosa bella di quel piccolo bilocale pieno di spifferi.
 Avevo più volte cercato di convincerla a trasferirsi da me, casa mia era abbastanza grande per entrambe, ma lei più volte aveva declinato la mia offerta affermando di essere affezionata a quell'appartamento, che era il simbolo della bontà delle persone. Avevo capito, solo dopo, che quell'appartamento rappresentava, per Elena, il primo passo della sua nuova vita.
 Non avevo le chiavi di casa sua così come Elena aveva le mie. Bussai più volte senza avere risposta. Non mi preoccupai, probabilmente era sotto la doccia con lo stereo acceso, nonostante io non sentissi niente, ma pensai che fosse tutta colpa del mal di testa. Presi il cellulare e chiamai Aurora.
 Rispose al terzo squillo. Le chiesi dove fossero le chiavi di scorta e lei mi rispose, semplicemente, di alzare lo zerbino. Aurora si fidava ciecamente di me così come si fidava di Elena. Era stata la prima persona che avevo conosciuto. I capelli castani ondulati le incorniciavano il viso. Aveva sette anni in più di me ed era a capo degli affari di famiglia, per quello era spesso fuori città.
 Alzai lo zerbino, presi la chiave e aprii la porta.
 Silenzio.
 Tutto ciò che sentii fu silenzio. Né stereo né lo scrosciare dell'acqua. La luce filtrava attraverso le persiane verdi proiettando strani giochi di ombre sul pavimento. Mi tolsi le scarpe e poggiai la borsa sul divano nero logoro. Non c'era disordine in salotto né nella cucina. Poggiai il pacchetto contenente la brioches sul ripiano. Attraversai il piccolo corridoio poggiando l'orecchio alla porta del bagno per sentire se ci fosse qualcuno dentro.
 Possibile che Elena non ci fosse?
 «Elena?» chiamai, ma non ricevetti risposta. Il corridoio finì e io mi ritrovai in camera da letto.
 I pantaloni e le scarpe erano buttati alla rinfusa ai piedi del letto. Bottoglie di birra sul comodino e un piccolo rimasuglio di marijuana di fianco. Una cintura di cuoio era a terra, sotto ad una siringa bianca con dentro ancora qualche rimasuglio di eroina e di sangue. Rimasi immobile per un tempo che parve interminabile. Chissà come raggiunsi il bordo del letto e mi ci sedetti.
 Elena era fredda. Fredda come il marmo, ricordai che pensai così. Indossava la sua maglietta rossa e aveva lo sguardo perso verso il soffitto, verso chissà quale mondo lontano. Ricordavo bene che, lei, prima di addormentarsi si fumava sempre una canna, sdraiata sulla schiena a fissare il vuoto.
 Elena era morta. Morta per davvero, pensai di nuovo. Com'era potuto accadere non lo sapevo. Rimasi ferma anch'io, immobile, sul bordo del letto, vicino a lei, a pensare a niente, a fissarla soltanto. Chiamai l'ambulanza solo molto tempo dopo, quando, come un automa raggiunsi la mia borsa e piangendo la afferrai e la scaraventai a terra, rovesciandone il contenuto per tutta la stanza. Il telefono volò lontano e io lo inseguii come fanno i gatti con la lucina laser, lo afferrai e composi il numero in tutta fretta.
 «È morta» dissi soltando, o almeno è quello che ricordavo di aver detto. In qualche modo arrivarono e insieme a lei mi trasportarono in ospedale. Ero in stato di shock, mi dissero. Mi misero in una stanza e chiamarono i miei genitori. Non appena li vidi vomitai loro addosso per la disperazione e perché ne avevo bisogno. Era uno schifo. Io ero uno schifo e quella situazione era uno schifo. La morte era uno schifo.
 Non so chi fu ad avvertire gli altri, ma due settimane dopo Aurora organizzò un modesto funerale. Fu sepolta nel cimitero della famiglia di Aurora, visto che nessuno di noi sapeva da quale posto provenisse. Non si riuscirono nemmeno a trovare i suoi genitori, ammesso che fossero ancora vivi. Per Elena erano entrambi morti da molto tempo.
 Io mi vestii di nero, con un paio di jeans nuovi e con la felpa più sobria che avessi mai visto. Cinque minuti prima che uscii di casa mia madre mi raggiunse in camera e si sedette sul letto.
 «So che l'amavi» mi disse. Quella fu la prima e l'ultima volta che parlò di Elena. E mia madre aveva ragione. Io amavo Elena, l'amavo come si ama una sorella e una madre. L'amavo come un'amica e come una di famiglia. Perché Elena era diventata la mia famiglia e io ero diventata la sua.
 La cerimonia si svolse in fretta, tutti piangevano e avevano un aspetto orribile con il trucco sbavato e la birra che colava dagli angoli della bocca. Sembravano tutti far parte di un film horror.
 L'ultima volta che vidi Elena fu nella bara di legno scuro, con indosso la sua maglietta rossa e un paio di jeans blu, le All Star ai piedi. Fu l'ultima volta che le sue orecchie udirono le mie parole. Fu l'ultima volta di tutto. E non sarebbe dovuto finire niente così, mai.
 Avevo finito di leggere la lettera da, molto probabilmente, ore e io stavo lì, sul bordo del letto senza muovere un muscolo come quella volta. Non sapevo che cosa pensare. A che cosa dovevo pensare, in effetti? Alla morte di Elena ci avevo già pensato abbastanza, per molto e molto tempo ci avevo pensato. Ci avevo pensato ogni volta che mi ero iniettata quella roba nelle vene e non avevo mai risolto nulla. Sapevo bene qual era stata la causa della sua morte, overdose. Non sapevo a che cosa pensare se non ad Elena e al suo sorriso luminoso sulla mia terrazza, illuminato dal sole rosso.
 Mi alzai di scatto dal letto. Quasi correndo raggiunsi la porta della terrazza e la spalancai. L'aria fredda e l'odore di pioggia non mi diedero alcun conforto. Stringendo il sacchetto di eroina nella mano destra raggiunsi la balaustra e guardai di sotto, verso la città illuminata nella notte scura e fredda e solitaria.

Okay, ce l'ho fatta. Giuro, è tutta la sera che scrivo facendo diventar matta la mia amica, a cui dedico questo capitolo per aver letto tutti i miei strani messaggi e per essere stata con me nei vari momenti di blocco durati anche più di dieci minuti
Ho aggiornato così presto perché, odio quando devo avere una scadenza per far le cose, quando l'ispirazione chiama, chiama.
In questo capitolo ho parlato della morte di Elena e di come l'abbia vissuta Elisa, anche se l'ultimo pezzo è stato scritto velocemente, quindi perdonate eventuali errori e mancanze. So bene che è un pochettino lungo, ma visto quello precedente (giuro che scritto a mano era più lungo! Ve lo giuro!), sono contenta così.

Mi raccomando, aspetto recensioni.
-Margarina, ormai diventata un panetto di burro. (?)

 

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Capitolo 5
*** Parte quinta. ***


 Presi il telefono dalla mia tasca dei pantaloni. Scrissi un breve messaggio, semplice e conciso.
 "Raggiungimi.
Elisa"

 Sapevo che Nik avrebbe capito, non era stupido. Probabilmente, sospettai, doveva già essere per strada, quello che mi aveva detto quella sera, alla cabina, una frase a cui inizialmente non avevo dato importanza, celava, invece, molti più sentimenti, molti più segreti, molte più colpe.
 Perché gli scrissi non ne avevo idea, sapevo solo che non volevo stare sola e non sarei dovuta stare sola mai più. Ero rimasta in solitudine per molto, molto tempo, ormai. Se volevo davvero smettere di vivere sotto un eterno temporale, dovevo inziare al più presto, subito, ora, in quel momento.
 Da quando il mio sole si era spento non avevo mai, mai più trovato altro per cui valeva la pena vivere e non perché lei fosse la mia ragione di vita. Un po' lo era, era vero, ma quello che veramente mi stava distruggendo dentro, era il fatto di essere stata in parte responsabile della sua morte, lo avevo sempre saputo. Anche io avevo contribuito alla sua distruzione, anche se Elena si era uccisa da sola, io avrei dovuto capirlo, avrei dovuto farla smettere prima. Erano quelle le mie colpe.
 E ogni volta che mi risvegliavo nel letto mio, o di qualcuno che, nemmeno ricordavo chi fosse avevo maledetto il sole che filtrava attraverso le persiane, maledicendo anche me stessa per ciò che avevo fatto e anche per non essere morta la sera precedente. Me ne resi conto solo in quel momento, in realtà io avevo iniziato a drogarmi perché volevo morire anche io, come Elena. Ero io quella che doveva morire, non lei. La vita era stata fin troppo dura con Elena, mentre con me fin troppo clemente e quando, avevo avuto la mia possibilità di poter fare qualcosa di veramente importante, me l'ero lasciata scivolare tra le mani. Io avrei dovuto salvarla, ne ero convinta, ogni volta che infilavo l'ago sotto la mia pelle.
 E ne ero convinta anche in quel momento, sul mio terrazzo, con la bustina di droga in mano, solo che era una convinzione diversa. Io avevo cercato di fare il più possibile per lei e avrei fatto ancora tanto se il tempo me l'avesse concesso, ma io non potevo essere l'artefice della vita di Elena, era lei quella che doveva salvarsi. E doveva farlo da sola. Risollevarsi, con l'aiuto della mia mano, ma rimettersi in piedi da sola. E lei l'aveva capito, me l'aveva detto come sue ultime parole.
 Se quell'ultima dose non fosse stata fatale, lei ce l'avrebbe fatta a lasciare da parte il passato. Lei sarebbe rinata, ne ero certa. Elena ce l'avrebbe fatta a dispetto di tutti i mali che aveva subito, avrebbe avuto la sua ribalta seppur fra sofferenze e dolori. Sofferenze e dolori che anche io avevo provato. La disintossicazione non era facile, ma se avevi qualcuno vicino sarebbe stato tutto più semplice. Elena avrebbe avuto me. Ma il destino, quella notte decise diversamente e forse, dopo tutto, fu giusto così. Elena aveva finito di soffrire, non aveva avuto chissà quanto dalla vita, ma aveva, almeno per una volta, avuto qualcuno che l'amava. E che l'amava tutt'ora.
 Presi una sedia e l'avvicinai alla balaustra. Era poco più larga di venti centimetri, cadere di sotto sarebbe stato semplice, molto semplice. Ci salii sopra, il vento mi spinse indietro, ma io mi aggrappai al soffitto del terrazzo di sopra, così da non cadere indietro.
Guardai in giù, verso la città di notte, così piena di vita nonostante non fosse giorno, così piena di malvagità e di oscurità. Piena di tossici e di alcolisti, di assassini e di puttane, piena di gente che una volta ero stata io. Mi chiesi come ci fossero finiti lì, in piena notte, a girare in modo losco tra i vicoli, tutti avevamo qualcosa in comune nella nostra storia.
 Tutti noi meritavamo una seconda occasione, un'opportunità. Tutti prima o poi ci saremmo salvati. Io lo stavo per fare, stavo per salvare me stessa, una volta per tutte.
 Presi il saccetto dalla tasca dei pantaloni, ormai fradicia di nuovo, dalla testa ai piedi nudi sul freddo marmo, mi spinsi un po' più avanti. Aprii il sacchetto con una mano tremante, lo guardai lì, sul mio palmo con tutto il l'odio che riuscivo a dare, ma non era solo odio quello che provavo, era... un miscuglio di emozioni contrastanti, quale gratitudine e tristezza, perché nonostante l'eroina mi avesse fatto del male, nonostante le avessi permesso di farmi del male, mi aveva insegnato parecchie cose, era stato un capitolo importante della mia vita, indelebile in tutta la sua oscurità. E avrebbe fatto di me per sempre, lo sapevo e lo accettavo.
 Rovesciai la mano e la polvere cadde giù, poi il vento fece la sua parte e la sollevò, la trasportò via da me, lontano da me. Via per sempre. Era finita, avevo chiuso, questa volta avevo chiuso davvero.
 Rimasi lì a contemplare il temporale, il vento e la pioggia fino a quando non sentii due mani forti afferrarmi per i fianchi, tirarmi giù dalla balaustra e depositarmi a terra. Mi sbilanciai e finii contro il suo petto. Le sue braccia forti mi circondarono e mi strinse a se. Io sorrisi, aveva ancora la chiave del mio appartamento. Il mio Nik.
 Lo sentii singhiozzare e non potei provare un filo di tenerezza. Non sapevo se stava piangendo per me o per Elena, per ciò che era successo o per tutte e tre le cose, eppure stava piangendo. Il mio Nik che non piangeva mai, che faceva il duro con un'armatura spessa e impenetrabile. Non potei non smettere di sorridere, mi divincolai dalla sua stretta.
 «Cosa diavolo ci facevi lì sopra?!» il suo tono era arrabbiato, ma i suoi occhi lo tradivano, lo tradivano sempre. Mi prese il volto fra le mani e mi baciò. Mi baciò con tenerezza, con amore, piano. Solo un lieve bacio che durò poco più di tre secondi, ma era tutto ciò che avevo bisogno.
 «Ho buttato tutto» gli dissi solo, lui avrebbe capito, lo faceva sempre. «Ho finito con tutto questo, adesso basta.»
 Gli presi la mano e mi avvicinai alla balaustra. Inspirai un paio di volte l'aria fresca della notte, Nik di fianco a me a cingermi la vita con un braccio. Me ne resi conto in quel momento, Nik sarebbe rimasto lì con me fino a che io l'avessi voluto, era venuto lì per me e solo per me. E ci sarebbe rimasto, perché era così che volevo.
 «Cosa stavi facendo lì sopra?» mi chiese di nuovo in un sussurro, la sua bocca vicino al mio orecchio. Presi tutto il tempo del mondo per rispondere, c'era una sola spiegazione, due motivi, ma che erano uno solo. Presi un profondo respiro, l'aria mi riempì i polmoni e fu meglio di qualunque altra cosa.
 «Dicevo addio ad una vecchia amica.»


 E infine sì, siamo giunti alla fine (che brutto gioco di parole) di questa piccola storia.
Questo capitolo l'ho scritto di getto, non volevo più aspettare, quello che dovevo dire l'ho detto e ne sono felice.
Sono fiera di questa piccola storia, nonostante gli errori di battitura e forse qualche cosina tralasciata. È la prima storia che ho portato a termine, seppur piccola.
Voglio ringraziare tutti quelli che l'hanno letta, spero che vi sia piaciuta, io mi sono divertita un sacco a scriverla.

Voglio dedicarla ad un paio di persone, alle due protagoniste che, nonostante ne siano all'oscuro c'è molto di loro qui dentro; alla mia fedele compagna di banco, O. a cui non piacciono storie del genere, ma ascolta sempre i miei monologhi su di essa; a Laura, mia fedele lettrice e accompagnatrice serale, al suo fratellino e al ringo avvelenato.
Infine la dedico a mio padre e ai miei fratelli, ma soprattutto a mia madre.
Tra poco, il 19 sarà il suo compleanno, perciò fatele tutti gli auguri!

Vi ringrazio di nuovo tutti, non rompo con le recensioni questa volta.
-Margarinas.

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