DUE
Continuai a seguirla
pensando che fosse diretta a casa sua. Invece, lei proseguì per le strade di
Barcellona fino a fermarsi di fronte a un ospedale. Entrò e rivolse un cenno di
saluto a due infermiere che incrociò all’ingresso. Continuò indisturbata fino
al terzo piano e aprì una delle porte che davano sul corridoio, senza neanche
bussare. All’interno, un uomo era steso sull’unico letto della stanza.
Rispettai la sua privacy – sentii la necessità di farlo – e rimasi fuori alla camera,
tenendomi a distanza. Tuttavia, la sua voce giungeva chiarissima a me
attraverso un piccolo spiraglio lasciato dalla porta socchiusa.
«Ciao Ric», salutò lei.
Nessuna risposta. «Oggi stavo per uccidere due uomini», disse. «Ramon mi aveva
affidato l’incarico, ma qualcosa è andato storto. Mi hanno sparato e ho creduto
che sarei morta», s’interruppe. Attese in silenzio per qualche istante, poi
ricominciò a parlare.
«Se potessi sentirmi
forse mi diresti di non farlo. Ma in effetti se potessi sentirmi non ce ne sarebbe
bisogno», rise piano, ma ebbi la sensazione che in realtà stesse piangendo.
«Farò sempre tutto il
necessario per prendermi cura di te», disse. «Te lo giuro.»
Avevo sempre saputo che
gli esseri umani erano pieni di contraddizioni, ma quella ragazza, Leya, era un
misto così ben riuscito di forza e fragilità che quasi mi spiazzò. Era…
interessante. Per la prima volta, un essere umano mi stava affascinando, al
punto che forse avrei scelto di seguirla anche se non mi fossi sentito
responsabile per la sua vita.
«Leya», la chiamò
un’infermiera. Non mi ero accorto del suo arrivo. «È tardi, credo che faresti
meglio ad andare.»
«Certo», disse lei. Dal
luogo in cui mi trovavo, all’angolo del corridoio, non riuscivo a vedere
l’interno della stanza, ma ero sicuro che neanche lei aveva sentito arrivare
l’infermiera, assorta com’era nel racconto della sua giornata.
Sentii il rumore di una
sedia che si spostava e quello di una porta che veniva chiusa con delicatezza.
Poi aspettai che i passi di Leya mi confermassero che stava scendendo le scale
e ripresi a seguirla.
Per un attimo, mi
sentii in colpa a pedinarla in quel modo, ma poi mi dissi che siccome non
poteva vedermi non avrei dovuto curarmene.
Uscì all’aperto e
rabbrividì, nonostante l’aria non fosse particolarmente fredda. Mi parve in
grado di percepire quel gelo che avevo creduto una mia semplice suggestione.
Riprese a camminare per
le strade di El Raval e procedette per quasi mezz’ora tra i vicoli bui. Ebbi
paura per lei e per me. Per lei, perché una ragazza che camminava da sola a
quell’ora di notte poteva facilmente essere aggredita da malintenzionati. Per
me, perché non potevo di certo permettere che le accadesse qualcosa di male,
anche a costo di trascinare dall’altra parte qualcuno che invece avrebbe dovuto
rimanere vivo. Avevo già infranto l’equilibrio spingendo lei verso la vita,
quindi non mi spaventava affatto l’idea di rifarlo per mantenere le cose come
stavano.
Per fortuna, non fu
necessario. Giunse sana e salva di fronte a un palazzo che sembrava sul punto
di crollare e si infilò nel portone. Io rimasi in strada con lo sguardo puntato
verso l’alto, aspettando che una delle finestre che affacciavano su quel lato
si illuminasse, sperando che casa sua non fosse dall’altra parte. Una luce si
accese al quarto piano e, senza fermarmi a riflettere, salii le scale
antincendio fino a raggiungerla e lanciai un’occhiata verso l’interno. La
finestra era leggermente aperta e dava su una piccola camera da letto. Da una
parte, una scrivania piena di libri occupava quasi tutta la parete, mentre dal
lato opposto c’erano una porta e un armadio.
Leya aveva appoggiato
lo zaino in cui c’era il fucile accanto al letto, poi era rimasta in piedi di
fronte a uno specchio per sciogliersi con le dita sottili i capelli intrecciati.
Fui assalito dal desiderio di toccarli. Mi guardai le mani. Più mi avvicinavo
ai vivi, più acquisivo i loro impulsi, i loro atteggiamenti. Perché ero salito
fin lassù per seguire lei? E perché avevo usato le scale quando non ne avevo
bisogno? Perché desideravo di non essere incorporeo, di poterla toccare?
Un movimento
all’interno della stanza attirò nuovamente la mia attenzione. Leya si stava
spogliando, sfilandosi prima la giacca e poi la maglietta.
Assurdamente, una parte
di me provò imbarazzo. Ancora più incredibilmente, un’altra parte di me provò
il desiderio di guardarla ancora. Ero… curioso. E interessato.
A un certo punto, si
voltò verso la finestra e vidi chiaramente un segno sulla sua spalla, proprio
nel punto in cui l’avevo colpita per farla tornare alla vita.
«Tu!», esclamò lei. Sollevai
lentamente lo sguardo verso di lei, poi mi voltai, aspettandomi di vedere
qualcuno dietro di me, ma non fu così.
«Puoi vedermi?», le
chiesi attraverso la finestra.
Lei boccheggiò. «Non
sono mica cieca», disse infine. Poi parve rendersi conto di essere nuda e
afferrò la giacca dal letto per coprirsi.
«Scusa per
l’intrusione», dissi, ma non mi mossi di un millimetro. «Credevo non potessi
vedermi.»
Come se questo mi
giustificasse per averla seguita fino a lì e averla fissata mentre si
spogliava.
«Chi sei?», mi chiese.
Evitai la domanda. «Ti
fa male?», chiesi a mia volta indicando il segno che aveva sulla spalla.
Lei si guardò e scosse
la testa. «Non mi ero neanche accorta di averlo. Sei stato tu?»
«A farti quello? Sì. Mi
dispiace.»
Lei inclinò la testa e
parve riflettere su qualcosa. Poi mi diede le spalle, si infilò la giacca che
aveva tenuto stretta al corpo fino al quel momento per coprirsi e la abbottonò.
Infine, tornò verso di me e aprì la finestra.
«Entra», disse. Obbedii
e lei richiuse la finestra alle mie spalle, tirando anche le tende. Spostò la
sedia che stava di fronte alla scrivania e la avvicinò al letto. Mi fece cenno
di sedermi e poi si sedette a sua volta sul bordo del letto.
«Chi sei?», ripeté
mentre io decidevo se sedermi o meno. Non ne sentivo il bisogno, ma in qualche
modo mi sembrava giusto farlo. Alla fine, feci come aveva detto, se non altro
per essere alla sua stessa altezza.
Leya stava ancora
aspettando la mia risposta. «Sono un mietitore», dissi.
Lei sobbalzò
leggermente, poi parve tranquillizzarsi, come se tutto fosse più chiaro dopo
quella rivelazione. «Sono morta?», chiese.
Io avrei voluto
rispondere che no, non era morta, che stava benissimo e aveva tutta la vita
davanti, ma non era la verità. «Sì», dissi, «se puoi vedermi significa che sei
morta. Ma non so come sia possibile che tu riesca ancora a interagire con i
vivi.»
Lei si fermò a
riflettere. Era affascinante il modo in cui inclinava la testa quando era
perplessa o sovrappensiero. «Quando una persona muore, tu cosa fai?», chiese
infine.
Sospirai. «Quando
un’anima lascia il suo corpo, io la porto dall’altra parte, ma solo se succede
qui a Barcellona. Nelle altre città ci sono altri mietitori.»
Lei sembrò affascinata.
«Cosa c’è dall’altra parte?»
«Non lo so», risposi.
«Non ci sono mai stato.»
«Hai detto che porti le
anime lì», fece notare lei. «Non hai mai visto com’è?»
Non ci avevo mai
pensato. Avevo sempre immaginato l’altra parte come qualcosa che in realtà non
c’era. Era la non esistenza.
«No», risposi. «Io sono
il tramite, ma le anime ci vanno da sole. Io resto a metà tra la vita e la
morte.»
«Come ti chiami?»,
chiese lei ingenuamente.
Sorrisi. «Sono solo un
mietitore», risposi.
«E se volessi
distinguerti dagli altri? Hai detto che ci sono altri mietitori nelle altre
città.»
Scrollai le spalle.
«Sono la Morte di Barcellona.»
Lei tacque e io lasciai
che riflettesse in silenzio.
«Vuoi uccidermi?»,
disse alla fine. «Cioè, portarmi dall’altra parte?»
«No, certo che no», mi
affrettai a dire. «Ti hanno sparato su quel tetto, avrei dovuto farlo in quel
momento.»
«E perché non l’hai
fatto?», chiese lei.
«Perché tu hai detto
che non potevi morire.»
«Immagino che lo dicano
in tanti», replicò.
«Veramente no. Non mi
era mai capitato che qualcuno mi rivolgesse la parola.»
Lei inarcò un
sopracciglio. «Perché?»
«Quando arrivano da me,
le anime di solito sono già… spente. Più morte che vive. Tu eri viva e non
volevi morire. Per questo ti ho spinto. Mi dispiace per quello», mi scusai
ancora indicando la sua spalla.
Lei scosse la testa.
«Devo ringraziarti, invece», disse. «Non potevo proprio permettermi di morire.»
Io sorrisi. «Non potevi
permettertelo?»
Lei annuì, ma non
aggiunse altro.
«Com’è possibile che tu
mi creda?», le chiesi. «Ho un aspetto umano, mi presento alla tua finestra
dicendoti che sono un mietitore… e tu mi credi. Com’è possibile?», ripetei.
«Io ho sentito di essere morta», rispose.
Rabbrividii a quelle
parole. C’era mancato così poco…
«Mi è facile crederti»,
concluse. Poi allungò una mano verso di me.
Il panico mi assalì.
«Non toccarmi!», gridai.
Lei si ritrasse
spaventata.
«Scusami», dissi. «Ho
solo paura di quello che potrebbe succedere se mi tocchi. Di solito quando
un’anima viene da me, mi basta toccarla per portarla dall’altra parte.»
«Ma tu mi hai rimandato
indietro», disse lei. «E per farlo mi hai toccato.»
«Non so come ci sono
riuscito», confessai. «Non sono sicuro di poterlo rifare.»
«Che mi succederà?»,
chiese.
Scossi la testa. «Non
lo so.»
«E quando morirò?»
«Non so neanche questo.
Non so nemmeno se morirai. Forse mi
sono giocato l’unica possibilità che avevo di portarti dall’altra parte»,
confessai con una nota di disperazione nella voce.
«Potrei vivere per
sempre?», chiese preoccupata. Era abbastanza saggia da sapere che non era un
vantaggio.
«No, la morte del corpo
arriva per tutti», la tranquillizzai.
«E la mia anima? Che
succede se non la porti dall’altra parte?»
«Rimane sospesa»,
risposi, «tra la vita e la morte.»
«Come te?», chiese lei.
«Sì, ma è molto diverso.
Io sono cosciente e posso muovermi, anche se sono incorporeo. Gli umani morti
che non vanno dall’altra parte svaniscono come fumo e restano sospesi per
sempre.»
«Ti è mai capitato?»
«Sì», risposi. «Qualche
volta è successo. Alcune anime si sono voltate a guardare il mondo che si
stavano lasciando alle spalle per troppo tempo, perdendo l’occasione di
afferrare la mia mano e andare dall’altra parte. Quelle sono svanite
semplicemente. Sono rimaste a metà.»
Ma perché le stavo
raccontando quelle cose? Probabilmente la stavo solo spaventando. Quando
sarebbe giunta la sua ora avrei fatto in modo che lei raggiungesse serenamente
l’altra parte. Fino a quel momento, il mio obiettivo primario sarebbe stato
tenerla al sicuro in vita.
«Succederà anche a
me?», chiese. «Di restare… sospesa?»
«No», risposi convinto.
«Non lo permetterò.»
Lei parve
tranquillizzarsi.
«Oltre a me, chi altro
può vederti?», chiese.
«Nessuno.»
«Devi sentirti molto
solo.»
«Non ci avevo mai
pensato prima d’ora», risposi sinceramente.
«Puoi aiutarmi?», mi
chiese alla fine. «A uccidere quelle persone.»
Il candore con cui
aveva pronunciato quelle parole contrastava incredibilmente con il loro
significato.
«Proveranno a farmi
fuori di nuovo, sono certa che uno degli uomini di Ramon fa il doppio gioco e
ha avvisato Juan che lui ha mandato me a dare la caccia a due dei suoi.»
«Perché lo fai?», le
chiesi. Lungi da me qualsiasi forma di moralità (restavo comunque un mietitore),
ma visto che stava rischiando la vita doveva avere un motivo più che valido per
farlo.
Lei distolse lo
sguardo. «Mio fratello è in coma, ha bisogno di cure molto costose», spiegò.
«Mi dispiace», dissi,
incapace di aggiungere altro.
Lei non replicò.
«Oggi ti ho vista in
ospedale. Sei andata a far visita a tuo fratello, giusto?»
«Sì», disse lei. «Ho
davvero bisogno di quei soldi. Mi aiuterai?»
Sospirai. «Come?»
«Puoi tenermi al sicuro
impedendo che mi uccidano?»
«L’unico modo sarebbe
quello di uccidere loro prima che feriscano te.»
E questo non avrei
esitato a farlo anche se lei non me l’avesse chiesto. Quella ragazza mi aveva
mandato completamente fuori di testa.
«Non vorrei arrivare a
tanto», dichiarò. «Ma non ho altra scelta che provarci. Il tempo scorre e la
vita di Ric è appesa a un filo.»
Non replicai. Qualunque
decisione avesse preso, io avrei seguito il mio proposito di tenerla al sicuro,
a qualsiasi costo.
«È meglio che ti lasci
riposare», dissi a quel punto, alzandomi dalla sedia su cui ero rimasto seduto.
«Se avrai bisogno di me ti basterà chiamarmi. Sarò qui nei paraggi.»
Lei sorrise. «Come
potrei chiamarti se non hai neanche un nome?»
Non ci avevo pensato.
Mi venne da ridere al solo pensiero. «Chiamami come vuoi.»
«Morte non mi piace.»
«Ma è quello che sono.»
«Per me sei stato la
vita.»
Mi lasciò senza parole.
Quanto avrei voluto poterla toccare…
«Resta qui e basta»,
disse lei.
«Hai bisogno di
dormire», replicai.
«Tu no?»
«No.»
Lei rimase in silenzio.
«Resta comunque», disse alla fine.
Sospirai e mi sedetti
di nuovo sulla sedia di legno. Le sorrisi. «Dormi.»
Lei sparì in bagno per
qualche minuto e ne riemerse con addosso una tuta, poi si infilò sotto le
coperte e spense la luce.
«Puoi vedermi?», chiese
lei al buio.
«Sì», risposi.
«Non è giusto», replicò
riaccendendola.
Sorrisi. «Devi dormire
e quando chiuderai gli occhi non mi vedrai comunque.»
«Promettimi di non
sparire», disse.
Come avrei potuto? Non
si rendeva conto di quanto aveva cambiato la mia esistenza?
«Te lo prometto»,
dissi.
Lei spense la luce.