La donna scozzese

di Alice Thoreau
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Grisandole Scott ***
Capitolo 2: *** Antelmo dei Bianchi ***
Capitolo 3: *** Lewin Blacksmith ***
Capitolo 4: *** Grisandole Scott ***



Capitolo 1
*** Grisandole Scott ***


Capitolo I. Grisandole Scott.
SCOZIA. ARROCHAR. Mercoledì 31 ottobre 1095.

Il pallido volto di Ysolde riluceva nel rosso crepitio del falò, scomparendo a tratti dietro il nugolo di fumo scuro. Le trecce corvine scendevano morbide lungo il consunto vestito di lino chiaro. Mi stava osservando. Uther fu il primo a gettare le ossa nel fuoco, seguito poi da Wallace e da Vortimer. A uno a uno, gli uomini e le donne di Arrochar si avvicinarono al falò per gettarvi le ossa delle bestie macellate in preparazione dell’inverno. Timidi sorrisi si intrecciavano a complici sguardi di intesa.
Era Samhain, il giorno che precede Ognissanti. Questa era la tradizione dei nostri padri e dei loro padri prima di noi. Uther si avvicinò nuovamente al falò per accendere la propria torcia. Il fuoco sacro avrebbe rinvigorito quello dei focolari domestici. Quaranta torce illuminavano il circolo magico e rischiaravano la buia notte senza luna. Senza proferire parola, gli uomini e le donne di Arrochar abbandonarono la sacra radura di Aegnor e iniziarono a discendere le pendici del monte Cobbler per fare ritorno alle proprie case.
Jeannette mi prese per mano e ci avviammo verso Arrochar. Arrochar era un luogo di rara bellezza sulle rive di Loch Long. Gli dei antichi e il Dio nuovo vegliavano su di noi, rendendo il villaggio uno splendido luogo in cui vivere. Jeannette era una donna di rara bellezza, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi color del cielo. Aveva circa venticinque anni ed era sposata con Tyree, il macellaio. I suoi tre splendidi figli le assomigliavano incredibilmente, e questo era un bene poiché una sera Jeannette mi aveva confidato di averli concepiti con Uriens. Le torce degli uomini e delle donne di Arrochar si divisero lentamente, mentre i capifamiglia e le loro donne facevano ritorno nelle loro case per ravvivare il focolare con il fuoco sacro di Samhain.
Io ero sola. Abboid, mio marito, era morto di gotta questa primavera lasciandomi sola e senza figli. La casa di mio marito si trovava al limitare del bosco, in disparte rispetto al resto del villaggio. Abboid amava la tranquillità del talamo e il dolce suono dello sciabordio lacustre che si infrangeva contro i ritti pali del molo. Non avrebbe mai sopportato di vivere al villaggio, per quanto piccolo fosse Arrochar. Salutai Jeannette e Tyree e mi diressi verso casa. Il sentiero che unisce la mia dimora al villaggio corre lungo la riva di Loch Long ed è segnato da imponenti pietre muschiose, che svettano acuminate contro il cielo. Sono stati i giganti a portarle lungo la mulattiera. E questa certamente è una storia vera, perché l’ha raccontata padre Angus in chiesa.
Fu allora che lo vidi. La pelle bianca come la neve. I capelli biondi come il miele. Gli occhi verdi come il prato della radura di Aegnor dove ormai il fuoco sacro stava spegnendosi. Era certamente il fantasma di un soldato, perché portava ancora indosso l’armatura. Il mondo dei morti è estremamente vicino al morto del vivi durante la notte di Samhain. Mi cadde la torcia di mano, la bocca spalancata in un grido silenzioso. Il fantasma mi osservava. Iniziai a correre verso casa, senza mai voltarmi.
Non dormii quella notta. La pallida sagoma del fantasma perseguitava i miei pensieri.

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Capitolo 2
*** Antelmo dei Bianchi ***


Capitolo II. Antelmo dei Bianchi.
FRANCIA. CLERMONT. Martedì 27 novembre 1095.

La chiara luce rosata del mattino penetrava i vetri colorati delle finestre, mutando come per magia in centinaia di sfumature di blu e rosso carminio. La sala conciliare era scandita da una processione di colonne di pietra bianca culminanti in capitelli con protomi leonine e volti di dannati. Da ogni arco pendeva un diverso arazzo raffigurante un particolare mese dell’anno. Alla mia destra pendeva Gennaio, con il dio Giano vegliante sui giochi dei villici e sulle mansioni dei contadini. L’aria era rarefatta. Le vesti purpuree dei cardinali accalcati attorno all’eccellente papa Urbano II e la giostra di berrette di galeri donavano al vibrante clima di attesa una sfumatura rosso sangue.
«Popolo dei Franchi, popolo d’oltre i monti, popolo come riluce in molte delle vostre azioni eletto ed amato da Dio, distinto da tutte le nazioni sia per il sito del vostro paese che per l’osservanza della fede cattolica e per l’onore prestato alla Santa Chiesa, a voi si rivolge il nostro discorso e la nostra esortazione».
Gli occhi scuri di Urbano II indagavano le variopinte reazioni dei cardinali e dei loro uomini d’arme. Papa Urbano II era un uomo dai lineamenti aspri, segnati dalla impietosa azione del tempo e dal peso della missione per la gloria di Cristo nostro Signore.
«Vogliamo che voi sappiate quale lugubre motivo ci abbia condotto nelle vostre terre; quale necessità vostra e di tutti i fedeli ci abbia qui, attratti. Da Gerusalemme a Costantinopoli è pervenuta e più d’una volta è giunta a noi una dolorosa notizia: i Persiani, gente tanto diversa da noi, popolo affatto alieno da Dio, stirpe dal cuore incostante e il cui spirito non fu fedele al Signore, ha invaso le terre di quei cristiani, le ha devastate col ferro, con la rapina e col fuoco e ne ha in parte condotti prigionieri gli abitanti nel proprio paese, parte ne ha uccisi con miserevole strage, e le chiese di Dio o ha distrutte dalle fondamenta o ha adibite al culto della propria religione. Abbattono gli altari dopo averli sconciamente profanati, circoncidono i cristiani e il sangue della circoncisione o spargono sopra gli altari o gettano nelle vasche battesimali; e a quelli che vogliono condannare a una morte vergognosa perforano l’ombelico, strappano i genitali, li legano a un palo e, percuotendoli con sferze, li conducono in giro, sinché con le viscere strappate, cadono a terra prostrati».
Il sangue ribolliva nelle mie vene. Maledetti Persiani, popolo malvagio e lontano dal vero Dio! Osservai il santo padre, le mani aggrappate al trono di legno intarsiato. Era agitato e io lo conoscevo troppo bene per non riuscire a cogliere quella strana espressione impettita che gli si era dipinta in volto. Ero stato suo umile servitore e uomo d’armi nella sua scorta fin dai vent’anni e ora che ne avevo trentasei ero pronto a seguirlo. La santa crociata contro gli infedeli saracini. Io ero pronto. Osservai le mie calze verdi spuntare da sotto le brache marroni. Sarei tornato alla taverna da Gaudenzia per avvisarla della mia imminente partenza. Il papa si alzò in piedi.
«Quando andrete all’assalto dei bellicosi nemici, sia questo l’unanime grido di tutti i soldati di Dio: “Deus vult! Deus vult!”».
Un interminabile secondo di silenzio precedette l’urlo unanime dei cavalieri e dei loro uomini d’arme. Deus vult! Dio lo voleva, e noi avremmo combattuto gli infedeli.

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Capitolo 3
*** Lewin Blacksmith ***


Capitolo III. Lewin Blacksmith.
SCOZIA, ARGYLL. Domenica 16 dicembre 1095.
 
L’incenso creava nubi bianche e basse all’interno della cappella gremita di gente. Il silenzio era interrotto solo dalle risate sommesse delle giovani dame che, nascoste dietro un pilastro scialbato a calce, mi osservavano. Una ragazza dai capelli rossi mi salutò con un breve cenno della mano. Irvine MacFarlane, il signore di questo imponente castello e capostipite del potente clan MacFarlane, non era solito ricevere ospiti al castello e in verità erano assai pochi i viaggiatori nelle Highlands. Io ero una novità per le giovani in età da marito.
«Dominus vobiscum».
«Et cum spititu tuo».
La dama coi capelli rossi mi osservava languidamente. Era di notevole bellezza, ma assai mediocre se confrontata con la dolce fanciulla che io vidi ad Arrochar due settimane prima. La mia attenzione era stata catturata dai rituali blasfemi che certi bifolchi del posto compivano sul monte Cobbler alla vigilia di Ognissanti. E poi avevo visto lei. I capelli più preziosi dell’oro fino, il sorriso più dolce del miele e di un favo stillante. Gli occhi azzurri come il cielo d’estate dopo un tremendo temporale. Aveva popolato i miei sogni ogni notte da quella notte. E io intimamente sognavo di poterla incontrare ancora. Arrochar si trovava a meno di una giornata di cavallo da Argyll e avrei forse potuto tornarvi tornando verso Londinium.
«Ite, missa est».
«Deo gratias».
La grande sala dei banchetti era stata allestita con pelli d’orso e tappeti orientali. Irvine MacFarlane brillava per munificenza e liberalità nel donare e la sua corte non aveva nulla da invidiare a quella di un raffinato conte del Sud. Il capoclan mi fece sedere alla sua destra.
«Gradite il cervo?»
«Oh no, in verità la molle carne del cervo è adatta solo alle donne e agli infanti. Io amo il cinghiale. Il cinghiale! Una bestia degna di un vero signore! E’ vero, il cervo è simbolo di Nostro Signore, ma nessun animale combatte come il cinghiale… Vero Ailbert?» disse Irvine MacFarlane.
Un uomo dalla folta barba bruna si alzò in piedi ridendo, il calice traboccante vino tra le proprie mani.
«Può giurarlo, mio signore!»
Riprese Irvine MacFarlane: «Lewin Blacksmith! Il vostro è un nome umile! Come siete diventato cavaliere?».
«Il duca di Cavendish mi prese come suo scudiero all’età di otto anni, e io lo servii per quindici lunghi anni. Poi Allister Cavendish morì e io iniziai a viaggiare di corte in corte per offrire i miei servigi» risposi io.
«E siete dunque qui per offrirmi la vostra spada?»
«Non propriamente. Re Gugliemo II ha ricevuto una lettera da Clermont nella quale papa Urbano II lo invitava ad unirsi a lui nella crociata contro gli infedeli. Ora io viaggio di corte in corte per raccogliere un drappello di nobili cavalieri che si uniscano a Goffredo di Buglione, che parte dal nord della Francia alla volta della Terrasanta».
Irvine MacFarlane era un uomo scaltro e ben sapeva che questa crociata avrebbe esteso la sua influenza anche sugli altri clan minori. I MacFarlane erano ben dotati di uomini e armamenti.
«Deus vult!». Come un boato la frase si infranse sui bicchieri, sulle stoviglie, sui trofei di caccia. Deus vult! Una volta, poi centinaia di volte sulle bocche di ciascuno, come un urlo senza fine. Deus vult!
 
Iniziai a sentire un leggero formicolio alle gambe. Cavalcavo verso Londinium da ormai sei ore e lungo la mia strada avrei incontrato altri capiclan per invitarli ad unirsi alla crociata. Era la mia missione. Non capivo il perché di quel formicolio. Ad un tratto, quando ormai mi ero deciso a smontare da cavallo e ad accamparmi all’aperto per la notte, la vista mi si annebbiò a caddi per terra. Quello che poi accadde è solo nebbia e pensieri offuscati. 

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Capitolo 4
*** Grisandole Scott ***


Capitolo IV. Grisandole Scott.
Scozia, Arrochar. Martedì’ 18 dicembre 1095.
I fiocchi di neve si posavano volteggiando sulla battigia, sciogliendosi quando le onde grigie li coprivano con il loro manto spumoso. Osservavo il mare dall’unica finestra dell’unica stanza della mia casa. Rinvigorii il focolare, poi presi la mantella blu scuro e mi avviai verso Arrochar. Avevo finito il vestito per la donna di Murthag, mi avrebbe pagato e con quei soldi avrei comprato la carne e le ossa per lo stufato.
Erano circa le tre di pomeriggio quando, stringendo tra le mani la scarsella gonfia del denaro sonante di Murthag, mi avviai verso la casa di Jeannette, che era la moglie del macellaio.
«Buonasera, Tyree»
Tyree era un uomo robusto, dalle spalle larghe e le mani sempre incrostate del sangue delle bestie macellate.
«Carne per due soldi»
«Donna, sai la novità? Da ieri quella bestia di mia moglie non mi fa dormire nel letto. Al mio posto sta un cavaliere che ha soccorso sulla strada per Argyll, con la febbre e…»
«Grisandole!»: strillò Jeannette lanciandomi le braccia al collo. «Tyree smettila di lamentarti per niente! La febbre è quasi passata, il nostro ospite si è svegliato qualche ora fa e entro domani ha intenzione di ripartire».
Tyree era l’uomo più ricco di Arrochar. La sua casa era molto spaziosa, ed era sempre intonacata a calce di un bianco iridescente. Jeannette mi fece segno di seguirla al piano superiore, per mostrarmi il misterioso ospite.
Il focolare scoppiettava nella camera da letto, invadendo il mobilio di lampi di luce gialla e rossa. Al centro della stanza troneggiava un grande letto a baldacchino, ma le pensanti cortine di raso erano state tirate lungo l’angolo del letto.
Era lui, il fantasma che avevo visto durante Samhain.
Sedeva a letto, il torace coperto da una casacca blu e la testa fasciata. Le gambe vacillarono. Asciugai le mani madide di sudore sulla gonna di lino.
«Lewin Blacksmith, per servivi»: si presentò il misterioso cavaliere.
I grandi occhi verdi dell’uomo si muovevano come l’erba del prato quando è mossa dal vento. Mi aveva riconosciuta. Jeannette scomparve al piano di sotto per preparare un infuso. Io ero rimasta in silenzio, come pietrificata.
«Le belle dame di campagna non salutano più?»: mi canzonò Lewin, scrutandomi con i suoi grandi occhi verdi. I capelli lunghi e biondi scendevano in boccoli disordinati sulle spalle, mentre la folta barba chiara rendeva la sua bocca poco più di una fessura.
«Gri-grisandole, Grisandole Scott»: balbettai.
Sentivo una strana sensazione dentro le viscere, come se avessi ricevuto una pugnalata allo stomaco. Mi sentivo nuda, come se quei grandi occhi verdi potessero leggere la mia anima.
«E le belle dame di campagna partecipano ai rituali pagani che tanto rendono infelice il nostro amato Signore?»
«Eravate voi, quella sera?»
Annuì. Mi chiese quale divinità stessimo onorando, e io gli parlai di Samhain. Lentamente la stretta allo stomaco scomparve e mi sedetti sulla panca accanto al focolare.
Ad un tratto mi interruppe: «Siete davvero bellissima! Per una donna come voi non è un peccato morire»
«Sono sposata…»: mentii, arrossendo violentemente.
«Nulla è per sempre»: mi sorrise.
 

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