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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Benvenuto a Chicago ***
Capitolo 2: *** L'indagine continua ***
Capitolo 3: *** La casa sul lago ***
Capitolo 1 *** Benvenuto a Chicago ***
CAPITOLO I: Benvenuto a Chicago
LOS ANGELES, 14/02/2008
GIOIELLERIA WEBSTER & SANDS
Un piccolo Yorkshire abbaiava rumorosamente allo stivale
di una delle due guardie giurate che controllavano l’ingresso
del negozio.
Sorridendo, l’uomo lo allontanò leggermente con il
piede. Il suo collega scosse leggermente la testa e con un cenno del
capo, gli suggerì di ritornare a sorvegliare
l’entrata.
All’interno un cartello, sagomato come un cuore trafitto da
una freccia, proclamava l'apertura dei saldi speciali sugli anelli.
Diverse coppie di fidanzati indugiavano davanti al bancone, mentre tre
commesse sorridenti mostravano loro le migliori scelte di anelli
nuziali.
“Non so” commentò una donna sulla
trentina, bionda, rivolgendosi a un uomo brunopiù o meno
della stessa età. “Mi sembrano un po’
troppo semplici…che ne dici?” L’uomo
sussurrò qualcosa al suo orecchio, facendola ridere di gusto.
Rivolgendosi alla commessa, l’uomo accennò agli
anelli con la mano. “A quanto pare, la mia futura sposa ha
deciso di prosciugare il mio conto corrente ancora prima del
matrimonio. “Stupido” commentò divertita
la donna “Può mostrarci qualcosa di più
raffinato, per favore?” chiese poi alla commessa
più vicina. “Ma certo”
replicò sorridendo quest’ultima.
La commessa si voltò verso lo scaffale alle sue spalle.
Improvvisamente serio, l’uomo fece un cenno alla sua
accompagnatrice, che diede uno sguardo al suo orologio da polso e
annuì.
“Ecco, questi modelli sono esatta-“
iniziò la commessa, prima di essere interrotta da un
rumoroso colpo di fucile. La vetrata del negozio era stata distrutta da
un colpo d'arma da fuoco, e i clienti iniziarono ad urlare.
Le due guardie giurate si precipitarono dietro a due colonne portanti,
estraendo le loro pistole. “Buttatele a terra”
ordinò una voce alle loro spalle. Girandosi, le guardie si
trovarono faccia a faccia con l’uomo bruno e la donna bionda
al bancone, che ora puntavano due pistole alle loro teste. La coppia
aveva decisamente perso l’aria scherzosa, e nei loro sguardi
c’era solo determinazione.
La guardie furono costrette ad obbedire., e lasciarono cadere
controvoglia le loro armi. “Calciatele via”
ordinò loro l’uomo bruno, impassibile. Con una
smorfia di disappunto, le guardie obbedirono di nuovo.
Tre uomini vestiti di nero entrarono dalla porta, puntando due
mitragliette e un fucile a pompa sui clienti. L’uomo con il
fucile a pompa si avvicinò all’uomo bruno.
Soddisfatto, gli diede una pacca amichevole sulla spalla.
“Ottimo lavoro, Steven” commentò.
“Anche il tuo, Terry” rispose Steven, a sua volta
soddisfatto.
Annuendo, Terry scavalcò il bancone e puntò il
fucile alla testa di una commessa. “Potrebbe aprire la
cassaforte alle sue spalle e consegnarmi l’uovo
Fabergè che contiene, per favore?” chiese con una
calma innaturale.
La commessa lo fissò smarrita. “U-uovo? Quale
uovo?” rispose, balbettando per la paura. “Non mi
piacciono i giochetti, signorina” continuò Terry,
sempre calmo. “La cassaforte prego. So che lei conosce la
combinazione.” Singhiozzando, la donna si sollevò
in piedi e premette una serie di tasti.
La cassaforte si aprì istantaneamente ,rivelando al suo
interno un gioiello a forma di uovo d’oro tempestato di vari
preziosi. “Magnifico” commentò Terry
“Veramente magnifico. Passatemi la borsa”
ordinò poi ai suoi . Uno degli uomini armati di mitraglietta
gli lanciò un bordone nero vuoto, che Terry
afferrò al volo. Terry afferrò l'uovo, lo ripose
accuratamente nella borsa e si avviò all’uscita.
“Steven, Rebecca, copriteci le spalle. Bill, Harper, con
me” ordinò poi. Prima di uscire si girò
verso le guardie disarmate e, con un sorriso ironico, le
salutò “E’ stato un piacere fare affari
con voi”
Il sorriso gli morì in volto non appena
attraversò la porta d’entrata. Sospinto
all’indietro da una forza invisibile, il rapinatore cadde a
terra, morto. Una ferita d’arma da fuoco sporcava di rosso il
suo abito nero.
“Ma che cosa-“ commentò Bill, il
più basso e corpulento dei due uomini con la mitraglietta.
“A terra, tutti quanti!” urlò
Steven,l'uomo bruno, lanciandosi dietro il bancone assieme a Rebecca,la
donna bionda mentre Bill e Harper, l'altro uomo armato di mitraglietta,
si posizionavano rapidamente dietro le colonne.
Improvvisamente una voce amplificata da un altoparlante
riecheggiò nel locale. “Sono il tenente Mills del
sesto dipartimento della polizia di Los Angeles. Siete circondati,
uscite dal locale disarmati e con le mani dietro la testa. Avete cinque
minuti per terminare tutto questo in maniera pacifica. Altrimenti,
saremo costretti a fare intervenire i tiratori scelti”
Bill puntò la sua mitraglietta a una delle automobili della
polizia ora visibili nella strada “Beccatevi questa,
porci” sussurrò. Un colpo di pistola alle sue
spalle lo bloccò: Steven aveva sparato a pochi centimetri
dal suo braccio. “Perché?”
urlò Bill, furioso. “Per non farci uccidere
subito, idiota! “ replicò Steven, con lo stesso
tono di voce. “Steven ha ragione, Bill “
commentò Harper, evitando lo sguardo omicida del suo
compagno. “Sarebbe stata una mossa veramente stupida.
Dobbiamo rimanere fermi, almeno per ora “continuò
poi, pensieroso. “Ci serve un-“ Uno squillo del
telefono del locale più vicino alle colonne lo fece
rabbrividire.
Lentamente, sotto gli sguardi sorpresi di Steven, Rebecca e Bill,
Harper raggiunse il telefono e alzò la cornetta.
“Se volete fare un patto-“ iniziò.
“Nessun patto” gli rispose una voce rauca, la voce
di un uomo sulla settantina “Anzi, voglio darti una
informazione gratuita. Ci sono poliziotti sia fuori che dentro questo
negozio.” “Cosa?” urlò Harper,
stupefatto.
“Non urlare, idiota. Capiranno di essere stati scoperti se
strilli come una vecchietta isterica. Comunque tu mi hai capito fin
troppo bene. I tuoi complici sono poliziotti. Steven e Rebecca sono
Steven Campbell, detective e Rebecca Goldman, agente scelto. Del sesto
dipartimento” concluse soddisfatta la voce. “ Che
prove ho che quello che mi dici sia vero?”
sussurrò Harper, sconvolto. “Nessuna che io possa
darti. Ma sono sicuro che troverai un modo per verificarlo da solo. In
ogni caso, perché credi che la polizia sia arrivata qui
così presto, senza nemmeno che nessun allarme fosse
scattato? “ rispose la voce “Usa questa
informazione come meglio credi” concluse poi,
concludendo la conversazione.
UN APPARTAMENTO VICINO ALLA GIOIELLERIA
Un uomo osservava la situazione nella vicina gioielleria
attraverso un binocolo nero. I suoi lineamenti erano in ombra.
“E così comincia” sussurrò a
sé stesso, rimettendo un cellulare nel suo taschino sinistro.
Ritraendosi dalla finestra, l’uomo abbandonò il
binocolo su di una sedia. Un raggio di luce illuminò il suo
taschino destro, svelando un distintivo dorata. Un distintivo della
polizia di Los Angeles, sesto dipartimento.
ALL’INTERNO DELLA GIOLIELLERIA
Harper, ancora sconvolto, stava fissando Steven come se
non lo avesse mai visto prima di quel momento. Sorpreso, Steven lo
fissò a sua volta. “Che ti hanno detto?”
gli chiese. “Cosa vogliono?”
Con uno sguardo indefinibile, Harper sollevò la sua
mitraglietta e la puntò alla testa di Steven.
“Getta la pistola” gli ordinò
freddamente.
“Harper, che diavolo fai? Sei impazzito?” chiese
Bill dalla sua colonna. Rebecca alzò a sua volta la sua
pistola , mirando alla testa di Harper. “Cosa stai facendo?
” urlò.
“Non mi sei mai piaciuto” commentò
Harper “Ma non avrei mai pensato che ci stessi
fregando.” Steven scosse la testa “Non capisco
nulla di quello che stai dicendo” rispose, aggrottando la
fronte . “Abbassa l’arma”
ordinò Rebecca a Harper. “Cosa
succede?-“ chiese di nuovo Bill, perplesso. "E' uno sbirro!"
lo informò Harper.
Approfittando di un attimo di perdita di concentrazione di Harper,
Steven puntò la sua pistola verso la testa di Bill.
“Posiamo le armi, tutti quanti” suggerì.
Lo sguardo di Bill vagava da un volto all’altro.
“Rebecca…Steven… Harper!
Non…cosa…insomma, facciamola finita!”
urlò. Innervosito, Harper urlò nella sua
direzione “Sono tutti e due sbirri, idiota!"
annunciò Harper, digrignando i denti.
“Che-“ commentò Bill, stupito.
“Poliziotti, imbecille. Sbirri. Rebecca e Steven ci hanno
fregato!” “Maledetti maiali”
sussurrò Bill, scioccato “Schifosi
traditori”. ebecca colpì il muro vicino alla sua
testa e rivolse a Bill uno sguardo minaccioso “Lascia la
mitraglietta” gli ordinò.
Steven scosse la testa. “Lasciamo cadere tutti le armi e
ragioniamo” propose. “Non c’è
nulla da ragionare. Siamo in trappola” replicò con
furia Harper. Il piccolo Yorkshire scelse proprio quel momento per
guaire. Nervoso, Bill allungò un calcio
all’animale, che corse fuori dalla porta
d’ingresso. Le pallottole dei tiratori scelti lo colpirono in
pieno, facendo sussultare anche Steven e Rebecca, che si scambiarono
uno sguardo preoccupato.
Per diversi istanti, nessuno osò muoversi. Gocce di sudore
scesero sulla fronte di Bill. Harper digrignava leggermente i denti,
arricciando le labbra. Steven faceva del suo meglio per apparire
impassibile. Rebecca muoveva lentamente il suo sguardo da Harper a
Bill, e da Bill a Harper.
La voce del tenente Mills spezzò la calma innaturale.
“I cinque minuti stanno per scadere. Arrendetevi“
annunciò. “Non spareranno se non usciamo,
vero?” commentò Harper “Non vorranno
uccidere i loro preziosi agenti sotto copertura”
“E’ finita, Harper” disse lentamente
Steven “Siete in trappola.” “Io non
credo” replicò il criminale, sorridendo
leggermente “Abbiamo degli ostaggi, qui. Posso minacciare di
uccidere un ostaggio ogni dieci minuti se non mi lasciano via
libera”
“Sei finito, Harper. Chiunque al tuo posto si sarebbe arreso.
Finchè noi siamo qui, non puoi fare nulla” gli
ricordò Rebecca. “Vero. Ma a questo si
può rimediare…” rispose Harper,
sorridendo e mettendo in mostra i suoi denti candidi.
Con un gesto rapidissimo, il criminale fece uscire dalla sua manica un
lungo coltello che scagliò verso il petto di Rebecca,
aprendo immediatamente il fuoco su Steven.
La donna poliziotto crollò con un gemito, mente il suo
collega si rifugiava dietro il bancone. Le pallottole di Harper e Bill
esplosero vicino alle sue orecchie.
Approfittando di una brevissima pausa dei criminali, che dovevano
ricaricare le loro armi, Steven si alzò in piedi e
centrò Bill alla tempia. Immediatamente dopo si
lanciò su Harper, strappandogli la mitraglietta di mano.
I due rotolarono sul pavimento. Harper morse la mano di Steven e
strisciò sul pavimento, cercando di recuperare la sua arma.
Un calcio del poliziotto glielo impedì. Steven
puntò poi la sua pistola al petto del criminale, ma una
testata di quest’ultimo gli fece perdere la mira.
Harper afferrò la pistola di Steven con forza, cercando di
togliergliela di mano. I due uomini lottarono per l’arma,
finchè Steven non afferrò un pugnale da
esposizione caduto lì vicino. Il criminale glielo tolse con
un manrovescio.
Il poliziotto comunque, grazie a questo diversivo, riuscì a
recuperare il controllo della pistola e sparò tre colpi al
petto di Harper. Con un ultimo sussulto, il criminale cadde
definitivamente a terra, immobile.
Abbandonando la sua arma, Steven corse dalla sua collega, che respirava
a fatica.
“Tieni gli occhi aperti, Rebecca. Ce la farai” la
esortò il suo collega. “Temo…che non
riusciremo a fare…quella cena” commentò
la donna, sorridendo debolmente. “La faremo, invece. Aragoste
e champagne-le migliori del mondo, ricordi?“ le rispose
Steven, teggendole la mano e scrutando la ferita che la sua partner
aveva al petto. Un brutto taglio,sicuramente il polmone era danneggiato.
“Respira piano” la esortò “Non
ti sforzare, e soprattutto non chiudere gli occhi. Me lo
prometti?” “Certo” rispose Rebecca,
sempre sorridendo debolmente. “Ce la farai” promise
Steven. Rebecca annuì debolmente, prima di tossire sangue.
La sua testa d’improvviso cadde di lato, e i suoi occhi si
chiusero. “No…no!” commentò
Steven , scioccato, tentando inutilmente di rianimare la collega.
“No..” sussurrò un ‘ultima
volta, lasciando cadere le sue braccia ungo i fianchi e chinando la
testa.
LOS ANGELES, 24/09/2008
PRIGIONE DELLA CONTEA DI KERN
“Quando potrò vederlo?”
chiese con impazienza un uomo bianco sulla sessantina a un
vice-sceriffo, un giovane ispanico dai folti baffi. “Anche
subito” rispose il vice, squadrando il suo interlocutore da
capo a piedi. Lo giudic più vicino ai settanta che ai
sessanta. Vestito bene, perfino troppo per una visita in prigione,
aveva un’indefinibile aria da ex-poliziotto o ex-militare. O
tutte e due.
“Non sarà un bello spettacolo. Lo abbiamo beccato
ieri sera, fuori da un bar. Ubriaco fradicio, il barista diceva che lo
aveva aggredito. Personalmente non credo che fosse in grado di
aggredire nemmeno un topo, puzzava di alcool peggio di una
cantina”.
“Ubriachezza molesta, quindi?” chiese
l’uomo anziano. “Aggressione”
replicò il vice-sceriffo, scrollando le spalle “Il
giudice era amico del gestore del bar. E’ nella cella
23” “Potrei vederlo da
solo?”domandò il visitatore. “Mi spiace,
ma il parlatorio individuale è attivo solo fino alle cinque.
Dovrò presenziare.”
L’uomo anziano allungò silenziosamente due
biglietti da dieci dollari al vice-sceriffo. Sogghignando, il
poliziotto accettò il denaro “Magari questa volta
chiuderò un occhio” commentò, lisciando
delicatamente le banconote fra le sue dita.
Il visitatore proseguì rapidamente verso la cella. Al suo
interno, un uomo si era raggomitolato sulla branda, la testa contro il
muro.
“Hai fatto davvero una pessima figura ieri, vero,
Steven?” gli chiese l’uomo anziano.
Steven Campbell sporse la testa fra le sbarre. Una barba di tre giorni
gli copriva il mento e i suoi occhi erano vitrei. Era quasi
irriconoscibile, rispetto al poliziotto che era stato solo pochi mesi
prima.“Chi sei?” chiese a bassa voce, quasi
mormorando. “Lasciamo indovinare: non sei un
assicuratore”
“Mi chiamo Daniel Weissman. O Dan, se non vogliamo perdere
tempo” rispose l’uomo anziano “E sono un
amico di tuo padre”
“Fantastico” commentò Steven, furioso,
volgendo la schiena al suo interlocutore “ E ora che hai
visto lo spettacolo del figlio del tuo amico in cella, cosa farai?
Chiami papà che mi mette in castigo? E’ un
po’ tardi, credo.” “So che no vedi tuo
padre da molto, Steven…” continuò
“Dodici anni” lo corresse Steven “Direi
più che da molto, da una vita intera.”
“E’ morto” replicò Dan
“Quattro anni fa”.
Per un attimo ci fu silenzio. “Bene”
commentò sommessamente Steven “Bene. E come mai lo
vengo a sapere solo ora?” “Avevate avuto i vostri
problemi, me ne aveva parlato. Ma mi ha fatto promettere di badare a
te, se ne avessi avuto bisogno” “Non ne ho bisogno.
Addio” rispose laconicamente Steven, sdraiandosi sul letto
della cella.
“Io credo di sì, Steven. So molte cose sul tuo
conto: sette mesi fa sei stato coinvolto in uno scontro che ha ucciso
una tua collega; ti sei dimesso dalla polizia di Los Angeles; hai
iniziato a bere e sei stato arrestato due volte per guida in stato di
ebbrezza, e altre tre per ubriachezza molesta…”
Furioso, Steven diede un pugno alle sbarre della sua cella, facendo
sussultare Dan. “Sono qui per aiutarti, Steven”
specificò quest’ultimo. “Non mi serve il
tuo aiuto…né le tue preziose analisi sulla mia
vita”ribattè Steven.
“Invece hai bisogno di aiuto,Steven. Tremendamente bisogno. E
io posso aiutarti. Dirigo un’ agenzia a Chicago, e ho bisogno
di un dipendente. Ho già pagato la tua cauzione.”
“Non voglio il tuo lavoro, e non puoi obbligarmi ad accettare
“ replicò Steven. “Posso, invece. Ti ho
fatto rilasciare a garanzia di controlli continui. I miei
controlli” “E io che credevo che lo schiavismo
fosse illegale” commentò poi, sferzante Steven.
“La scelta in realtà è tua”
replicò Dan. “Ma riconosco che non hai margini di
trattativa. Se non vieni con me a Chicago, dovrai rimanere qui. E non
c’è futuro per te a Los Angeles. Quanto
passerà prima del tuo prossimo arresto? Cosa speri di
ottenere qui? Ha un senso, questa vita?” concluse, guardando
l’ex-poliziotto dritto negli occhi. Steven non rispose.
“Tornerò qui domani mattina.” Concluse
Dan , allontanandosi a passi lenti della cella. Steven lo
osservò attentamente, senza dire nulla.
FLASHBACK
LOS
ANGELES, 23/01/2008
UFFICI DEL SESTO
DIPARTIMENTO DI POLIZIA
Steven
sedeva alla sua scrivania, senza nulla da fare. Per distrarsi, stava
piegando un foglio di carta.
“Ancora
qui?”gli chiese una voce femminile. Voltandosi, Steven
riconobbe Rebecca, stavolta in uniforme. Si scambiarono un sorriso.
“Mi serviva
del tempo per riavermi dallo shock.” Rispose. Rebecca scosse
la testa, squadrando la targa di metallo sulla scrivania del collega.
“Tu, promosso
a detective" annunciò, in tono falsamente preoccupato
“Dove andremo a finire di questo passo?”
“E’
quello che mi chiedo anche io, agente Goldman” rispose
Steven, imitando il tono scherzosamente tragico di Rebecca.
“Dove andremo mai a finire quando i sottoposti non
organizzano una cena al nuovo capo?”
“Una
cena?” domandò la poliziotta, divertita.
“Con te? Sognatela, bello”
“Guarda che
l’onore sarebbe tutto tuo” rispose Steven
,sogghignando. “Urgh, allora mi toccherà venire.
Spero almeno che il cibo sia buono” commentò
Rebecca.
Dopo un attimo di
silenzio , proseguì più seriamente “Sei
sicuro di volere questa cena proprio ora?” “Non
vedo momento migliore” replicò Steven, sempre in
tono falsamente cerimonioso.
“Sto parlando
sul serio, Steven. Sono passati solo due mesi da Claire
…sicuro che tutto sia a posto?”
Sospirando leggermente,
Steven replicò “No, Rebecca. Non sono
sicuro…ma non posso aspettare più prima di
ricominciare a vivere. Voglio solo una cena, ora, una semplice cena fra
amici. E la spalla non mi fa più male” aggiunse
poi, in tono più allegro. Rebecca si morse leggermente le
labbra, ma non aggiunse nulla.
Si rigirò fra
le mani l’aereo di carta che aveva costruito poco prima. Con
un gesto rapido,lo scagliò nel cestino.
“Bell’atterraggio” commentò
Rebecca.
CHICAGO, 25/09/2008
“Siamo atterrati” esclamò
asciuttamente Dan.
Steven riaprì gli occhi di scatto. Si massaggiò
il mento rasato di fresco e diede un’occhiata
all’ambiente in cui si trovava.
L’aereo su cui i due avevano viaggiato si stava lentamente
svuotando. I passeggeri recuperavano i loro bagagli a mano e si
avviavano verso l’uscita, dove una hostess giovane e carina
li salutava con un sorriso.
“Avrei preferito che mi svegliasse lei”
commentò Steven. “Comprensibile…ma
nella vita non sempre si ottiene ciò che si vuole”
rispose Dan, sorridendo leggermente “Non perdiamo tempo, in
ogni caso. Il mio taxi mi aspetta all’uscita del
terminal.” Steven annuì, alzandosi dal suo posto.
PIU’ TARDI
Il taxi si fermò di fronte ad un edificio
piuttosto basso, per la media di Chicago. Solo quattro piani. Steven
scese rapidamente dall’auto, ammirando la vista con un
sorrisetto sarcastico sulle labbra. Dan lo seguì, osservando
le sue reazioni. Dan, si avvicinò alla porta di ingresso
dell’edificio e premette un campanello.
“Weissman Investigations, discrezione ed efficienza al vostro
servizio. Avete un appuntamento?” rispose meccanicamente una
voce femminile dal citofono . “Jane, sono io”
replicò Dan “Oh, capo, finalmente! Ha portato i
rinforzi?” rispose la voce, più allegra.
“ Il rinforzo, Jane.”
“Uhm…spero che sia un bel biondone
californiano…proprio quello che mi
serve”commentò scherzosa la voce, mentre la porta
si apriva con uno scatto.
Dan invitò Steven ad entrare. Con una smorfia di disappunto,
l’ex-detective lo seguì.
WEISSMAN INVESTIGAZIONI-TERZO PIANO
La porta di ingresso dell’agenzia si
aprì a sua volta di scatto, rivelando a Dan e Steven una
ragazza sulla ventina, bionda, che indossava jeans e una maglietta
rosa. Sorridendo soddisfatta, la ragazza squadrò Steven da
capo a piedi “Beh, capo, non è biondo ma
è passabile” commentò.
“Steven Campbell, Jane Shelby” li
presentò Dan “La mia segretaria. Spero che
possiate lavorare bene insieme” Jane gratificò
Steven di un sorriso gentile e gli porse la mano, che
l’ex-poliziotto strinse con scarsa convinzione.
Un colpo di tosse trattenuto a stento fece girare Dan e Steven verso
l’interno dell’ufficio, da dove un’altra
donna, una mora sui venticinque anni, stava fissando Steven con
disgusto. Il suo tailleur blu scuro era reso ancora più
severo dalla sua posa dura, con le braccia incrociate.
“Patricia Lawford, il nostro avvocato” la
presentò Dan. La donna porse la mano a Steven con fare
professionale, ma in maniera estremamente rigida. Dopo la stretta,
Steven la vide pulirsi la mano sulla gonna. Sogghignando, le rivolse un
inchino ironico, ricambiato da uno sguardo carico d’odio.
Scrutando l’ufficio si soffermò sui quadri alle
pareti, una serie di visioni di Chicago eseguite a carboncino.
Osservò le tende blu, la carta da parati azzurra, e infine
il suo sguardo cadde su una scrivania con il suo nome. Era la stessa
vecchia scrivania del suo ufficio a Los Angeles.
“L’ho fatta trasportare qui perché ti
sentissi a tuo agio” proclamò Dan. “A
mio agio?” sussurrò Steven, furioso, proseguendo
poi ad alta voce “Bella mossa, davvero. Gentile da parte tua
ricordarmi la mia vita quando ancora non faceva schifo. Proprio quello
che volevo dimenticare”.
Dan si morse il labbro inferiore “Ero solo un modo per
aiutarti nel nuovo lavoro” iniziò.
“Credi che sia un gioco? Che cosa è, il Monopoli
del Buon Samaritano? Beh, caro mio, mi spiace dirti che hai
perso” urlò Steven “Ne ho abbastanza
delle tue cretinate” concluse, uscendo dalla porta
dell’ufficio.
Dan afferrò improvvisamente il suo braccio destro.
“Lasciami” gli sibilò in faccia Steven.
“No” replicò Dan, calmo ma fermo.
“Non posso. Non posso lasciare che il figlio di Carl muoia.
Non vengo mai meno alle mie promesse”. “Senti,
vecchio, o mi molli o ti sbatto a terra” “So che
non lo farai” rispose Dan ,fissando Steven senza battere
ciglio.
Per qualche secondo i due rimasero immobili. Poi, lentamente, Steven si
divincolò dalla stretta di Dan . “Non sei mio
padre” sussurrò “E, credimi,
è solo questo il motivo per cui non ho usato le maniere
forti”.
FLASHBACK
LOS ANGELES, 13/05/1996
Un giovane
Steven in uniforme completa strinse il braccio destro attorno al collo
di un uomo sulla cinquantina. “Butta il coltello,
Cummings” gli ordinò.
L’uomo
obbedì immediatamente.
“E questo
ragazzi, è il modo migliore per bloccare un avversario
armato” commentò Steven , raccogliendo il coltello
da terra e porgendolo a Cummings, che lo ringraziò.
“Ringraziamo il vostro insegnante Henry Cummings, che si
è prestato a fare da cattivo” Un applauso
seguì le sue parole. Il pubblico di ragazzini delle
elementari era visibilmente eccitato dalla lotta, e soddisfatto dalla
vittoria del “buono”. “Domande?”
Nessuno rispose, e
Cummings esortò i piccoli a uscire dalla classe.
Soddisfatto, Steven si pulì la fronte dal sudore con un
fazzoletto. “Bella esibizione” gli disse un uomo
sulla quarantina, anche lui in uniforme da poliziotto, sorridendo
mentre entrava nella aula. Aveva un distintivo in un taschino,
intestato a “Carl”, e diverse medaglie appuntate al
petto.
Steven
spalancò gli occhi. “Che cosa ci fai tu,
qui?” domandò seccamente. “Un padre non
può volere vedere il proprio figlio?”
commentò Carl, con un sorriso indefinibile sulle labbra.
“Non tu.” rispose Steven con rabbia “Tu
hai ben altro da fare, di solito. E le tue visite non hanno mai un fine
disinteressato, non prendermi in giro” “In effetti
hai ragione” commentò il padre di Steven,
sorridendo soddisfatto. “Mi trasferisco tra tre giorni. Via
da Los Angeles. Pensavo ti potesse interessare”.
“Dove?” commentò Steven , incredulo.
“Chicago. Pensavo che ti avrebbe fatto piacere,
così non vivrai più sotto
l’”ombra di tuo padre”. Non avrai
più scuse per la tua inefficienza, dovrai cavartela da solo,
finalmente” commentò il poliziotto cinquantenne,
sorridendo.
“Non mi
importa nulla di te come padre, ma, dannazione!, la mamma ha bisogno
del tuo dannato assegno mensile. E’ malata , non
può lavorare. Le servi, io non riesco a mantenerla da
sola!” urlò Steven. “Oh, non
preoccuparti, continuerò a mandarle dei soldi. Pura
curiosità: per “malata” intendi dire che
ha ricominciato a bere?” suggerì sarcasticamente
Carl. Scioccato, Steven non riuscì a trattenere la rabbia e
spezzò un pezzo di gesso nella sua mano destra.
“Non me ne
volere, Steven ,ma devi accorgerti che lei ti sfrutta. Quella donna
è un parassita. Non sa fare nulla, e si rifugia
nell’alcool per non essere costretta a vedersi per come
realmente è. Una volta era una bella donna, e guardala
adesso. Non riuscirebbe nemmeno a fare la “vita”
è conciata troppo male perfino per
quello…”
Il discorso di Carl fu
troncato da un pugno al mento di Steven. Scioccato, Carl si
afferrò il mento. “Vattene. Vai a Chicago, vai
dove diavolo vuoi, ma non farti più vedere. Altrimenti ti
ammazzo”gli sibilò in faccia suo figlio.
Carl , stupefatto,
scosse la testa ed uscì, frastornato dal pugno.
“Mai più” aggiunse Steven.
WEISSMAN INVESTIGATIONS-2008
Scuotendo la testa, Dan mormorò
“Steven, non puoi andartene. La tua libertà
condizionata è vincolata alla mia responsabilità
nei tuoi confronti. Se te ne vai, la mia azienda dovrà
affrontare una causa. E fallirò, probabilmente”
“Il tuo avvocato, Patricia come-si-chiama, ti
salverà in ogni caso, no? Vero, zuccherino?”
chiese sarcasticamente Steven, rivolgendosi a Patricia, che lo
ricambiò con un’occhiata di disprezzo.
Jane, nel frattempo, si era seduta al suo tavolo, scioccata. Rivolse a
Steven uno sguardo stranito.
Steven si divincolò dalla stretta di Dan e scese le scale,
allontanandosi rapidamente.
“Se ne è andato. Signore,mi dispiace dire che
l’avevo previsto” disse Patricia.
“Tornerà” rispose Dan. “Non ha
altra scelta” concluse, chiudendo la porta.
Jane si immerse nel suo lavoro, scuotendo la testa.
VICOLO
Steven si fermò contro il muro, smettendo di
correre. Furioso, diede un pugno conto il cemento.
“Capo, fai meno rumore. Io sto tentando di dormire”
brontolò un barbone che dormiva appoggiato
all’edificio.
Steven lo squadrò. Rapidamente , estrasse una banconota da
dieci dollari e la mostrò al mendicante.
“Prendi questa, OK? E vattene a dormire da un’altra
parte” Il vagabondo annuì e si alzò
rapidamente, afferrando la banconota con avidità.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Mentre Jane stava lavorando al suo computer con uno zelo
esagerato, Patricia tossì, attirando l’attenzione
del suo capo.
“Devo parlare, signore” chiese educatamente
“Fai pure” rispose Dan, chiaramente assorto nei
suoi pensieri. Patricia tossì ancora, accennando a Jane. Dan
annuì. “Jane, puoi andare. Sei libera fino alle
quattro.” “Davvero?” commentò
quest’ultima, stupefatta. “Certo. E non
preoccuparti, non ti detrarrò nulla dalla paga.”
Stupita, ma contenta della piega che le cose avevano preso, Jane si
alzò dalla sua postazione e si avviò alla porta.
“A domani” la salutò Dan.
“Certo,capo” rispose Jane ridacchiando.
Non appena se ne fu andata, Dan si sedette alla sua scrivania e
invitò a gesti Patricia a scegliersi una sedia.
Patricia prese quella di Jane e si accomodò.
“Sapete già come la penso, signore. Quel Campbell
sarà la nostra rovina, se non lo rimandiamo subito dove
merita di stare” esordì.
“Patricia, devi provare a capirlo. Otto mesi fa la sua
partner è morta. E’ ancora sotto shock. In
più , ho sbagliato approccio con lui. Ma non posso lasciarlo
perdere” replicò Dan.
Inspirando profondamente, Patricia commentò “La
morte della sa partner non è una scusa, semmai è
un aggravante. Secondo i rapporti ufficiali, il nostro
“nuovo” acquisto” fece una pausa,
calcando sulle sue ultime parole con disprezzo “ha continuato
a parlare di una misteriosa “telefonata” che
avrebbe rivelato la sua copertura. Ma nessuno ha telefonato a
quell’ora.”
“Io e te sappiamo bene quanto i rapporti ufficiali siano
spesso…imprecisi…” commentò
Dan.
Patricia si morse il labbro inferiore. Effettivamente, doveva
riconoscere che Dan aveva ragione. “Signore, è
comunque un elemento instabile…quanto tempo
passerà prima che sia coinvolto in una rissa?”
chiese a bassa voce.
VICOLO
“Hai soldi?” chiese un altro barbone a
Steven, con una brutalità ingiustificata. Steven,appoggiato
al muro, aprì gli occhi. “Allora, hai
soldi?” chiese un secondo mendicante. Ce ne erano quattro in
tutto, tutti tipi poco raccomandabili.
“Sono a secco” rispose Steven , sorridendo.
“Ma per voi poveracci anche le mie mutande valgono qualcosa,
per cui, sotto. Fatemi fuori…o almeno provateci” .
Sghignazzando, i quattro barboni si avventarono su Steven come un sol
uomo. Rapido come un fulmine, l’ex-poliziotto ruppe il naso
al primo con una sola mossa. L’uomo urlò per il
dolore.
“Sei pazzo!” ululò.
“Aah…dannazione, il mio naso, me l’ha
spezzato! Fatelo a pezzi!” ordinò agli altri.
Uno dei tre barboni ruppe una bottiglia a terra e avanzò
brandendo la bottiglia rotta come una clava. Steven schivò
facilmente i suoi colpi e gli afferrò il braccio con una
mano, torcendoglielo fino a fargli cadere di mano l’arma
improvvisata. Il mendicante bestemmiò dal dolore.
Ruggendo, gli altri due vagabondi si lanciarono su Steven come un solo
uomo. Agilmente,l’ex-poliziotto ruppe un braccio al primo con
un colpo di karaté, quindi sistemò il secondo con
un paio di colpi al torace. Mugolando, l’uomo
scivolò a terra.
Steven agguantò il capo della banda per i capelli e gli
bisbigliò all’orecchio “Penso che
sarebbe meglio farti un giro, non credi?” Il barbone
annuì , spaventato, cercando di pulirsi il naso dolorante
dal sangue. Fece un cenno ai suoi uomini, che si allontanarono
rapidamente, lanciando occhiate spaventate a Steven. L’uomo
rimase a fissarli per qualche secondo, quindi raccolse da terra il suo
portafoglio, caduto dalla sua giacca durante la lotta.
Una fotografia era parzialmente uscita dal borsellino: raffigurava
un’altalena rossa e una ragazza asiatica sui venti anni,
sorridente, seduta con le gambe leggermente sollevate. Steven la
osservò per un secondo,senza dire nulla.
Poi, metodicamente, la ridusse a brandelli, gettandone i pezzi a terra.
Scuotendo la testa, si avviò di nuovo verso
l’edificio che aveva appena lasciato.
Un uomo dal volto anonimo, vestito di nero, notò i suoi
movimenti e, non appena Steven rientrò nel palazzo della
Weissman Investigations, prese un cellulare da una tasca della sua
giacca e digitò un numero. “Tutto come
previsto” annunciò “Accetterà
il lavoro. Possiamo iniziare a liberare la strada che si
troverà a percorrere” concluse, chiudendo la
conversazione.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Sospirando, Steven rientrò
nell’ufficio. “Sia chiaro” disse,
interrompendo la conversazione fra Patricia e Dan “che non
appena la mia libertà vigilata scadrà, io me ne
andrò e non mi vedrai più. Ma per ora, un posto
vale l’altro”
“E’ un tuo diritto” rispose Dan
gentilmente. Patricia sembrava paralizzata dal disappunto.
“Scusatemi” disse poi alzandosi e dirigendosi
rapidamente verso la porta d’ingresso. “Signore, a
domani” salutò Dan.
Nell’uscire dalla porta si trovò di fronte Steven.
Inspirando, gli rivolse la parola bruscamente
“Spostati” “Per favore?”
suggerì Steven. Lo sguardo di Patricia dardeggiò
odio puro. “Se fosse per me, ti avrei lasciato marcire in
prigione. Sei solo un mezzo criminale ingrato”
sibilò.
“Se avessi saputo di trovare una compagnia così
piacevole qui, sarei volentieri rimasto in prigione” rispose
Steven sogghignando e facendosi finalmente da parte.
Dan rivolse a Steven uno sguardo severo, a cui
l’ex-poliziotto replicò con un inchino ironico.
“Le mie scuse, principessa” disse a Patricia. La
donna lasciò la stanza senza voltarsi.
“Guardami” gli disse con voce dura Dan
“Se vuoi ancora lavorare qui, dovrai smetterla con queste
battutine”
“Come vuole il boss” replicò Steven.
“E adesso , potresti dirmi dove potrai andare a dormire
stanotte?”
“Ti accompagnerà Jane più
tardi” rispose Dan “Non sarebbe una cattiva idea,
nel frattempo, occuparsi del tuo primo caso” Gli porse una
busta rigonfia.
“Che cosa è?” chiese Steven.
“Sparizione. Una ragazza di ventitrè anni, Paula
Cantrell. Un caso di alcuni mesi fa, probabilmente non scoprirai nulla
, ma i genitori ci tengono” spiegò Dan.
Steven aprì la busta e scrutò l’insieme
di fotografie e documenti all’interno. “Ci
vorrà tempo” mormorò “Certo
non posso fare molto questo pomeriggio”.
“Prenditi tutto il tempo necessario. Jane
ritornerà alle quattro, puoi sempre rivolgerti a lei se ne
hai bisogno”.
Annuendo, Steven scorse rapidamente le pagine dei rapporti sulla
scomparsa.
APPARTAMENTO DI PATRICIA LAWFORD
La pesante porta blindata si chiuse alle spalle di
Patricia, che girò rapidamente la chiave nella serratura,
spostando anche un chiavistello per rendere impossibile a chiunque
anche solo tentare di entrare in casa sua.
Sospirando, la ragazza si sciolse i capelli e si tolse scarpe e
orecchini. Superò l’atrio dipinto di blu ed
entrò in salotto. La splendida sala dalle pareti candide era
ordinatissima: non un mobile fuori posto, non una traccia di polvere.
Un telefono bianco appoggiato su una elegante plafoniera di mogano nero
emetteva una luce rossa intermittente.
Con un espressione di curiosità, Patricia si
avvicinò all’apparecchio e premette un tasto. Dopo
un rapido click, dall’altoparlante della segreteria
telefonica una voce giunse una voce femminile squillante.
“Ciao Pat, qui Mandy! Sono di nuovo in città. Le
Bermuda non sono un granché, dopotutto. Beh, chiami subito,
quando torni. Mi sei mancata- ma quando ti decidi a fare una vacanza
anche tu? Beh, comunque ci sentiamo!”.
Sorridendo, Patricia digitò un numero. Dopo alcuni secondi
lasciò a sua volta un messaggio su una segreteria telefonica
“Ciao Mandy, qui Patricia (non chiamarmi Pat…).
Domani da Dante’s Hack, d’accordo?”.
Rimettendo la cornetta al suo posto, si avviò verso il bagno.
In bagno, accese una piccola radio e si tolse la calze. Accese la
doccia, e mentre una rilassante romanza si sprigionava dalle casse,
fece scorrere l’acqua e tirò le tende.
In salotto si udì un piccolo schianto, seguito da un tonfo.
Patricia, già nella doccia, senza uscirne chiuse
l’acqua, afferrò un accappatoio e, uscita dalla
doccia, aprì rapidamente un cassetto e ne estrasse una
pistola. Facendo scattare il caricatore, ritornò nel salotto
tenendo l’arma ad altezza d’uomo.
Entrata nella stanza, si accorse che un pacchetto aveva rotto una
finestra ed era atterrato vicino al telefono. Patricia
abbassò la pistola e sollevò lentamente il
pacchetto. Una scritta sulla carta che lo ricopriva diceva
“Guardami”. Incuriosita, Patricia
strappò la carta e aprì il pacchetto, scoprendo
una cassetta intitolata “Svegliati, Alice”.
Scuotendo leggermente la testa, Patricia si avviò verso il
suo videoregistratore, inserì la cassetta, accese la
televisione e premette il pulsante di avvio.
Mentre il video le scorreva sotto gli occhi, e l’audio (un
lungo concerto di spari e urla, seguito da un mormorio quasi
impercettibile) rimbombava nella stanza, il volto di Patricia si
trasformò in una maschera di orrore “Oh mio
Dio” commentò sconvolta “Oh mio
Dio”.
WEISSMAN INVESTIGATIONS-18:00
Jane si alzò dal suo tavolo di lavoro,
avvicinandosi con aria insicura alla scrivania di Steven.
“Dovremmo chiudere” mormorò.
“Un momento soltanto” rispose tranquillamente
Steven “Devo controllare l’ ultimo
rapporto”
Jane aprì gli occhi per lo stupore. Sogghignando leggermente
alla sua reazione, Steven commentò “Non mordo, non
ad ogni ora del giorno, almeno. E non c’è molto
altro che io possa fare se non questo lavoro”. Concluse
stiracchiandosi sulla sedia. “Allora?” chiese poi,
con un accenno di impazienza.
“Allora cosa?” domandò Jane,
sinceramente stupita. “Dove devi scortarmi?”
domandò Steven.
“Scortarti?.. Ah, certo, il tuo appartamento! Me ne ero quasi
dimenticata” rispose Jane, battendosi una mano sulla fronte
“Potrei anche dormire in ufficio, ma non sarebbe una bella
pubblicità per la ditta. La gente ama gli investigatori
svegli e attivi, un babbuino addormentato alla sua scrivania non
è in” commentò Steven, facendo
sorridere debolmente Jane.
“Andiamo” tagliò corto l’uomo,
iniziando a scendere rapidamente le scale. Jane lo seguì con
un passo incerto .
PIU’ TARDI
Jane e Steven camminavano fianco a fianco. La donna, di
tanto in tanto, scoccava occhiate sospettose al suo accompagnatore.
“Buffo, l’ultima volta che ho controllato non avevo
tre teste” sbottò d’improvviso
quest’ultimo.
“Cosa?” chiese Jane, scuotendo la testa.
“Mi stavo chiedendo come mai tu continuassi a guardarmi in
quel modo.” rispose Steven “A meno che non sia solo
perché ti piace quello che vedi” concluse Steven,i
n tono leggermente canzonatorio.
Jane fece una finta smorfia indignata “Come ti
permetti?” scherzò “Sono una donna
onesta!”
Steven represse a sua volta una risatina. “In
realtà” continuò Jane più
seriamente “La tua scenata mi ha fatto quasi paura”
“Non c’era niente di cui aver paura”
rispose Steven “Al limite avrei strangolato il capo”
“Oh , non dovresti davvero! Dan è una persona
meravigliosa, aiuta sempre tutti. Ha aiutato anche me”
iniziò Jane prima di ritrovarsi di fronte a un edificio
grigio-scuro. “Eccoci” concluse “Numero
47. Terzo piano, scala a destra.” concluse Jane,porgendo a
Steven una piccola chiave.
“Perfetto. A domani” salutò Steven.
“Un attimo!” commentò rapidamente Jane.
Steven verso di lei. “E’ presto…non
resti fuori a fare quattro chiacchere? “suggerì
Jane, con un tono di discreto interesse non solo professionale.
“Un’altra volta, magari” rispose Steven,
salutando la segretaria ed entrando rapidamente nel’edificio
.Con un a leggera smorfia di disappunto,Jane salutò a sua
volta.
OTTAVO DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI CHICAGO- IL GIORNO SEGUENTE
Nella folla di agenti impegnati a compilare rapporti,
scortare i fermati o semplicemente chiaccherare sorseggiando
caffé, un agente basso e occhialuto sulla trentina si faceva
largo con difficoltà, continuando a guardare il suo orologio
e cercando di raggiungere al più presto il suo ufficio.
“Stavolta mi uccide” si disse l’agente
“stavolta mi uccide”. All' improvviso
l’agente si scontrò con un collega che stava
trasportando uno schedario. Le pagine volarono dappertutto.
“Dannazione, Frank, perché non guardi dove diavolo
vai?” gli chiese acidamente il collega, raccogliendo i fogli
da terra uno a uno. “Oh, Davis, sono in ritardo e senza
cravatta. E’successo che ieri sera George mi ha chiamato per
un caso di furto, arrivo lì e non c’è
nessuno. Allora aspetto tre ore e non arriva
nessuno…”
“Questa storia ha una fine?” chiese Davis.
“Ehi, ci stavo arrivando! Lasciami dargli un po’ di
suspance! Allora, ti dicevo, stavo aspettando e…”
“Agente Beaumont. Agente Davis. Che cosa state facendo
qui?” domandò bruscamente un uomo afro-americano
sulla cinquantina, squadrando i due.
Frank abbassò la testa con aria di scusa
“Luogotenente Bronson” lo salutò
“Ehm, stavo cercando di giustificare il mio ritardo.
L’agente George Sands ieri sera mi ha chiamato e-”
.”Basta così” lo interruppe il suo
superiore. “Davis, torni al suo posto. Beaumont, è
il terzo ritardo consecutivo in tre giorni. E dove è finita
la sua cravatta?” “E’ una lunga storia,
signore. E’ successo che stamattina in bagno, mi è
caduto l’anello di Batman nel tubo di scarico del lavandino,
e non avevo niente per riprenderlo, allora-”
Bronson scosse la testa “Beaumont, lei è il
peggiore agente di questo dipartimento”
“Sissignore” rispose umilmente Frank. “Il
peggiore della città, probabilmente”
continuò il suo superiore. “Sissignore”
rispose sempre Frank. “E la smetta di ripetere
sissignore”
”Sissign- Va bene,Luogotenente” replicò
rapidamente Frank. Alzando gli occhi al cielo, Bronson porse un faldone
al suo sottoposto “Questo è il tuo incarico per
oggi” Frank scorse le pagine, che contenevano varie
fotografie di una ragazza sui venti anni dai capelli rossicci e gli
occhi azzurri, assieme a una fitta serie di annotazioni e tabelle
orarie “La sparizione Cantrell?” rispose,
stupefatto.
“Non l’avevamo archiviata mesi fa,
signore?”
“Certo” rispose Bronson alzando di nuovo gli occhi
al cielo “Ma un detective privato è arrivato qui
oggi, con la richiesta di visionare i rapporti su questo caso per conto
dei genitori della ragazza sparita.” “Un detective
privato? Brutta razza…” rispose Frank, scuotendo
la testa. “In ogni caso, ha tutti i diritti di visionare il
materiale. Autorizzazione del procuratore e tutto il resto”
lo informò Bronson.
“Mi scusi, signore, ma il caso non era di competenza
dell’ FBI ? Mi ricordo che quel federale aveva sequestrato
tutto..” commentò Frank, aggrottando la fronte
“A quanto pare,no” commentò ironicamente
il suo superiore. “Il tuo incarico è assistere
l’investigatore e tentare di evitare fughe di notizie su
argomenti collegati all’indagine ma non essenziali per i
genitori della scomparsa…chiaro?”
“Farò del mio meglio, signore”
commentò felice Frank. Bronson lo fissò
preoccupato per qualche secondo, poi gli fece cenno di allontanarsi
“E’ tutto” concluse. Frank continuava a
leggere il rapporto. “Ho detto è tutto”
tuonò Bronson. “Certo, signore, vado”
rispose Frank, avviandosi a passi rapidi verso l’atrio
principale.
Attraversando gli uffici notò un paio di vagabondi fermati
di recente: avevano tutti e due cicatrici al naso e al mento.
Scrollando le spalle, Frank si avviò verso l’unica
persone nell’atrio priva di divisa: Steven.
“Salve. Sono l’agente Frank Beaumont. Sono qui per
aiutarla” si presentò, porgendo la mano al
detective privato, che la strinse senza molta convinzione. "Steven
Campbell" si presentò a sua volta.“Allora, da dove
iniziamo?” cominciò Frank allegramente.
Aggrottando le sopracciglia, Steven si schiarì la gola
“Paula Cantrell” disse “Giovane. Bella.
Scomparsa” concluse. “Wow, questa si chiama
sintesi” commentò Frank “Ehm…
sì, concentriamoci all’essenziale, vero?
Allora…”
Frank stava sfogliando il suo faldone , scombinandone le pagine , senza
trovare nulla di significativo. “Ha finito?” gli
chiese Steven, spazientito. “Magari potremmo controllare
l’archivio informatico…che ne dice?”
suggerì con un lieve tono di scherno. Frank
sollevò la testa dalle sue carte e si sbatté una
mano sulla fronte “Ma certo, ovvio…come mai non ci
ho pensato?” si disse.
“Chissà” commentò Steven ,
con del sarcasmo che andò completamente perso. Frank si
avvicinò ad un computer acceso e digitò la sua
password, cercando di nascondere lo schermo a Steven come meglio
poteva. Steven sorrise leggermente.
“Allora…” annunciò Frank
pochi secondi dopo “ecco qua. La scomparsa è stata
denunciata il 15 di febbraio, di quest’anno
ovviamente…niente precedenti…indizi: pochini, le
solite tre false segnalazioni…ecco, è
tutto” concluse. “Anche voi non scherzate in quanto
a sintesi” commentò Steven ironicamente.
“
“Signor Campbell, sa quanti casi di sparizione ci sono ogni
anno in questa città? Beh, a dire la verità
neanche io…ma sono tanti, davvero tanti. E senza indizi,
così, tirando alla cieca…” Frank
allargò le braccia.
“Vero.” Commentò Steven a denti stretti
“Ma questo non mi aiuta molto, no? Non posso certo andare dai
genitori della ragazza e dire “Ah, scusateci, ci sono tanti,
talmente tanti casi di sparizione a Chicago, che non ci siamo mossi
più di tanto”.”
“Giusto…” rispose Frank, mentre le sue
guance arrossivano “Non ha qualcosa almeno sui
testimoni?” gli chiese Steven, tamburellando con impazienza
sulla sua sedia. “Sicuro! Ehi, ma non ci vuole
un’autorizzazione del procuratore per queste
informazioni?” domandò preoccupato Frank.
“Stranamente, ho questa autorizzazione…”
commentò Steven , mostrandogliela.
“Ah” commentò Frank grattandosi la
testa. Digitò una nuova password. “Solo questo: la
sera prima di scomparire la ragazza era stata ospite di amici: i Polk.
Oliver e Tanis, 1344 Lexington Drive”
“Grazie per l’aiuto” commentò
Steven , avviandosi all’uscita. Frank lo rincorse
“Aspetti!” gridò.
Steven si voltò, irritato “Cosa
c’è?” “Pensava veramente che
la avrei lasciata indagare senza controlli? Ho il dovere di impedire
violazioni della privacy. Verrò con lei!”
“No” rispose seccamente Steven.
“Sì” insistette Frank
“Altrimenti dirò al mio capo che lei ha una
licenza irregolare” “Ma non è
vero!” sbottò Steven. “Se mi porta con
lei non dovrà spiegare nulla, e non perderà
tempo…” suggerì Frank, sorridendo.
“Vieni,allora.” Acconsentì malvolentieri
Steven “ma mettiamo bene in chiaro due cose: uno,sta zitto.
Due,non parlare. Chiaro?” “Cristallino”
rispose Frank soddisfatto.
APPARTAMENTO DI PATRICIA LAWFORD
Il telefono squillò rumorosamente. Patricia si
precipitò a sollevare la cornetta.
“Mandy?” chiese, incerta. “Non proprio.
Ti è piaciuta la cassetta?” le rispose una voce
roca maschile dall’accento messicano. Sentendola, Patricia
rabbrividì.
“Come…come hai fatto ad ottenere questo
numero?” urlò “Chi te l’ha
dato?” “Un uccellino” rispose soddisfatta
la voce. “Sai, quelli tutti colorati che
cinguettano…” proseguì.
“Sentimi, brutto porco, ho chiuso con te. Sono fuori da anni.
Non mi ricatterai più , hai capito? Sono fuori!”
continuò a urlare Patricia, mentre il suo viso si riempiva
di lacrime.
“Nessuno è mai veramente fuori, Pat. E
chissà cosa penseranno i vicini. L’avvocato
Lawford, quella donna così distinta, che urla al telefono
come un’ossessa…che caduta di stile. Non
è da te” proseguì soddisfatta la voce.
“A proposito, Patricia Lawford è un nome
splendido, ma io potrei chiamarti ancora Pat? Mi farebbe
piacere.” concluse, in tono falsamente cordiale.
“Cosa vuoi?” chiese bruscamente Patricia
“Chi ti manda stavolta? Jimenez o Starski? Puoi dire a tutti
e due ti andare all’inferno” “Oh, Pat,
che ragazza maleducata sei diventata. Non si fa, non si fa proprio,
cattiva. I vecchi amici vanno trattati bene, altrimenti si
arrabbiano” replicò la voce. “ E i nuovi
amici vanno trattati anche meglio…”
“Nuovi amici?” chiese Patricia, sarcastica
“Che cosa diavolo vuoi dire?”
“Oh, non preoccuparti, Pat, lo saprai presto. Per adesso,
tanti saluti, chica” concluse l’uomo al telefono.
Furiosa, Patricia scagliò la cornetta contro il muro.
1344, LEXINGTON DRIVE
Un’automobile presa a noleggio si
fermò davanti al numero 1344 di Lexington Drive, una
semplice villetta a schiera come migliaia di altre.
Steven e Frank ne scesero, e si avvicinarono alla porta principale.
“Ricorda…” sussurrò Steven
“Certo: tu parli, io sto zitto.” “Ottimo.
E già che ci sei, non guardare nemmeno.”
Steven suonò il campanello, attenendo pazientemente per una
risposta che tardava ad arrivare. Aggrottando le sopracciglia,
suonò di nuovo. Ancora, nessuna risposta. “Forse
sono fuori” suggerì Frank. “Se sono
fuori, come mai la porta è aperta?”
obiettò Steven. “Aperta?” chiese
stupefatto Frank, mentre Steven, annuendo, la spalancava.
“Ehi! Cercate i Polk?” chiese una voce alle loro
spalle. Voltandosi i due si trovarono di fronte un uomo sulla
quarantina, che indossava un paio di jeans sudici e una camicia
hawaiana che aveva sicuramente visto giorni migliori. Gli occhi
dell’uomo mostravano un misto di curiosità e
sospetto.
“Poliziotti?” domandò bruscamente.
“Più o meno” rispose Steven.
“Beh, gente, potete anche tornare a casa se volevate parlare
con i Polk. Con le tombe non si parla.” concluse, con una
risatina.
“Morti? Come e quando?” chiese Steven rapidamente.
“Un incidente, un mese fa. Un camion ha centrato in peno la
loro automobile sulla Mulholland Drive tre settimane fa. Poveracci,
così giovani. Quello del camion non l’hanno preso,
se l’è filata. Ci pensate, i pazzi che girano per
le strade?” rispose l’uomo.
“Per caso, prima della loro morte, è mai successo
qualcosa di insolito ai Polk?” domandò Steven,
mentre Frank continuava a riaprire e chiudere la porta, scuotendo la
testa. “Mi lasci pensare…ma certo, intende quella
ragazza, Paula, quella che avevano ospitato prima che scomparisse,
vero?” chiese l’uomo, grattandosi la testa.
“Precisamente” “Beh,
c’è poco da dire su quello. Per me, la ragazza se
ne è volata a Hollywood a fare l’attricetta, o
magari a Las Vegas a fare la ballerina” l’uomo
sghignazzò “Era uno schianto, e non aveva proprio
l’aria di una di quelle destinate a marcire qui. Ma voi siete
proprio sbirri…quante domande…”
“La ringrazio della collaborazione”
tagliò corto Steven. “Se ha qualcosa
d’altro da dormi, mi chiami qui” aggiunse,
porgendogli un biglietto da visita. Annuendo, l’uomo si
avviò in un vicolo vicino.
“Perché l’hai lasciato
andare?”sbottò Frank “E’ un
testimone!” “E’ un gran
bugiardo” replicò Steven “Non hai notato
che il vialetto è perfettamente pulito? E la porta aperta?
Altro che incidente un mese fa” concluse “Quindi la
cosa migliore è fargli credere che abbiamo abboccato e
pedinarlo.”
“Ehi…è vero!”
commentò Frank, stupito. “Tu resti qui”
gli comunicò Steven in tono asciutto.
“Cosa?” “Secondo te, perché la
porta è aperta? Controlla all’interno e chiama la
tua centrale. Anzi, diciamo che prima chiami la tua centrale e poi
controlli.” Concluse Steven, seguendo la via che
l’uomo aveva già percorso.
Sorpreso, Frank rimase immobile. Mentre Steven si allontanava si
riscosse dallo stupore. Afferrò il cellulare e
iniziò a digitare un numero. Improvvisamente si
bloccò: la curiosità aveva avuto il sopravvento.
Aprì la porta ed entro in casa Polk.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Lo squillo del suo cellulare fece alzare la testa a Dan
Weissman. Vagamente seccato,rispose alla chiamata, proveniente da un
numero privato.
“Pronto, chi sei?” iniziò , con voce
ferma. “Oh, capo, meno male che ha risposto! Sono rimasta
bloccata alla biblioteca pubblica .Questa città è
un tale caos!” rispose la voce di Jane. “La
biblioteca?” chiese Dan, leggermente stupito.
“Sì, Steven mi ha chiesto di cercare dati su una
sparizione, un nostro caso. Che tipo, vero capo? Pensavo se ne sarebbe
andato, dopo quella scenata, e invece si è messo sotto con
il lavoro…” “Che sparizione?”
tagliò corto Dan. “Paula Cantrell”
replicò Jane “il caso con priorità
assoluta, si ricorda…capo, è ancora in
linea?” chiese poi, preoccupata.
Dan aveva aperto un cassetto e stava fissando una fotografia che
raffigurava tre uomini in divisa: Carl (il padre di Steven) , Dan
stesso e un terzo uomo brizzolato che portava un paio di occhiali
spessi. Dan sembrava assorto nei suoi pensieri, ma dopo un attimo
replicò “Tutto bene, Jane. Sto solo diventando
vecchio. Torna in ufficio al più presto.”
“Va bene, boss” concluse Jane laconicamente.
Appoggiando il cellulare sul tavolo, Dan sospirò.
“La vita di tuo figlio è in pericolo per colpa
mia. Potrai mai perdonarmi?” chiese alla fotografia di Carl.
“Ho dovuto farlo…ma ti prometto che tuo figlio
rimarrà vivo. Farò di tutto perché
questo succeda” concluse, sussurrando.
CASA POLK
“C’è nessuno?”
chiese Frank con voce incerta, aprendo la porta della cucina. Nessun
rispose, ma il poliziotto notò immediatamente le due tazze
appoggiate sul tavolo, e la scatola di cereali rovesciata a terra.
Grattandosi la testa e scuotendo le spalle, si sedette su una seggiola
di legno vicino al tavolo.
“Mah..” mormorò., appoggiando il mento
sul gomito “Che cavolo è successo qui?”
si chiese. Scuotendo la testa, iniziò a dondolarsi sulla
sedia. D’improvviso perse l’equilibrio e cadde,
picchiando la schiena a terra. “Dannate sedie!”
imprecò da terra, prima di accorgersi di un sacco informe
sotto il tavolo. Con un lampo di curiosità negli occhi,
strisciò sotto il tavolo e afferrò il sacco.
“Quanto pesa” si lamentò, trascinandolo
fuori. Una volta uscito da sotto il tavolo, aprì il sacco,
tentando di rovesciarne il contenuto sul pavimento,senza riuscirci.
Sbuffando, decise di dare un’occhiata all’interno.
Una vista orribile si presentò ai suoi occhi: il sacco
conteneva il corpo senza vita di un giovane uomo bruno. Dalla gola
tagliata dell’uomo scendevano solo alcune gocce di sangue.
Con un gemito, Frank abbandonò il sacco e aprì la
porta del bagno. Ansimando pesantemente, si spruzzò
dell’acqua in faccia. Un rivolo rosso dalla doccia
risvegliò il suo orrore. Tendendosi una mano sulla bocca,
Frank aprì le tende della doccia.
Adagiata con la testa a terra c’era una donna bruna sulla
ventina, morta. Anche lei presentava un taglio alla gola da cui usciva
solo una riga di sangue.
Urlando di nuovo, Frank uscì dal bagno e si
precipitò attraverso la porta sul retro, anche essa aperta.
VICOLO
Steven seguiva l’uomo dai jeans sporchi con
circospezione, tentando di non farsi notare. L’uomo
svoltò a destra in una strada segnalata come senza uscita.
Aggrottando la fronte, Steven decise di passare oltre per non
insospettirlo, nel caso si girasse a controllare.
Lo scatto secco di un grilletto lo fece bloccare. “Stai
fermo.” gli ordinò un uomo che portava un
passamontagna, puntandogli un fucile alla testa. “Ti credi
furbo, vero? “ commentò “Non lo sei,
proprio per nulla. Facevi meglio a credere alla storiella
dell’incidente” concluse. “E getta la tua
pistola “ ordinò.
Lentamente, Steven estraette la sua pistola dalla fondina ascellare.
“A terra, ho detto!” ordinò bruscamente
l’uomo con il fucile.
Steven lanciò la pistola con forza contro di lui, colpendolo
alla testa. Barcollando, l’uomo abbandonò il
fucile. Steven glielo strappò di mano, prima di colpirlo con
forza al torace con un calcio. Mugolando, l’uomo con il
passamontagna cadde a terra.
Puntando il fucile contro l’uomo a terra, Steven lo
fissò attentamente. “Le parti si sono invertite, a
quanto pare” commentò “Credo che tu
abbia molte storie interessanti da raccontarmi”
continuò.
Proprio in quel momento un nuovo rumore metallico lo sorprese.
D’istinto, l’ex-poliziotto si lanciò a
terra, mentre l’uomo dai jeans sporchi sbucava
dall’angolo della strada senza uscita, puntando a sua volta
un’arma alla testa di Steven. “Butta il
fucile” gli ordinò energicamente.
Con un movimento rapido Steven fece saltare l’arma dalle mani
dell’uomo dai jeans sporchi, usando il fucile come una clava.
Stupefatto, ql'uomo rimase immobile per un secondo di troppo,
permettendo a Steven di colpirlo di nuovo, questa volta alla testa.
Due mani robuste immobilizzarono le braccia di Steven: l’uomo
con il passamontagna lo aveva afferrato alle spalle e tentava di
bloccarlo. L'ex-ploiziotto rispose assestandogli una testata che fece
perdere presa al criminale. Il criminale in jean sporchi, tuttavia,
aveva recuperato la sua arma e si avvicinava rapidamente. Steven lo
caricò al torace, sbattendolo a terra.
L’uomo si difese con il calcio della pistola. Scuotendo la
testa, l’uomo con il passamontagna si lanciò
sull’ex-poliziotto, ricevendo a sua volta un calcio nello
stinco destro.
Steven si rimise in piedi rapidamente. Adocchiando la sua pistola, si
lanciò di scatto a riprenderla, ma l’uomo con il
passamontagna, intuendo la sua mossa, la calciò lontano.
D’improvviso il detective si trovò a sputare
sangue: l’uomo dai jeans sporchi lo avevo colpito alle spalle
con tubo di ferro.
Steven crollò a terra, mentre l’uomo dal
passamontagna gli assestava un calcio. Sorridendo, l’uomo dai
jeans sporchi fissò il suo alleato. “Non sprecare
tempo a dargli calci ora” commentò
“Gliene potrai dare quanti ne vorrai quando lo porteremo al
campo base”. Annuendo, l’uomo dal passamontagna
raccolse la pistola del detective da terra.
L’improvviso rumore di un' automobile fece sobbalzare i due
criminali. Era Frank, alla guida dell’auto noleggiata da
Steven. Il poliziotto sembrava puntare direttamente sui due.
L’uomo dai jeans sporchi si tuffò nella strada
senza uscita, mente il criminale con il passamontagna puntava il fucile
contro l’automobile in avvicinamento.
D’improvviso, Steven lo spedì a terra con uno
sgambetto ,afferrando la sua gamba destra. L’uomo si
scrollò dalla presa e fuggì in un altro vicolo,
abbandonando la sua arma a terra.
Steven si alzò in piedi, alzando le braccia.
L’automobile si fermò a pochi centimetri dal suo
corpo.
“Miseria!” esclamò Frank, stupefatto,
uscendo dalla portiera destra dopo avere fermato l’auto.
“Sei conciato da fare schifo, amico!” disse a
Steven, che sorrise debolmente. “Seguilo”
sussurrò Steven al compagno. “L’uomo dai
jeans sporchi, di là!” aggiunse con impazienza
alla vista del viso stupito del poliziotto.
Frank si voltò verso la strada senza uscita , ma il
criminale era scomparso senza lasciare traccia. Probabilmente aveva
scavalcato il muro alla fine del vicolo.
“Sparito… ” commentò a
Steven. “Come hai fatto a trovarmi?” chiese
quest’ultimo? “Sono uscito dalla casa e non ti ho
visto. Poi ho sentito dei rumori…” “E
come mai sei uscito dalla casa?” domandò con voce
flebile Steven
”Tieniti forte: ci sono due tipi morti là
dentro!” riferì Frank,stupefatto, a Steven .
“Me lo aspettavo. Devono essere i Polk. L’unica
parte vera delle balle di quell’uomo era il fatto che fossero
morti.” mormorò quest’ultimo
“Ehi…ma tu sanguinando! Ti serve un
medico!” constatò Frank.“Brillante
deduzione, agente Beaumont!” commentò Steven
debolmente, con appena un filo di sarcasmo. “Hai allertato la
tua centrale?” aggiunse con un filo di voce.
“Oh, cavolo, me lo sono dimenticato!”
esclamò Frank, sbattendosi la mano sulla fronte e afferrando
il suo cellulare. “Scarico” commentò
,affranto. “Ti porto in ospedale”
annunciò a Steven, che scosse la testa leggermente.
“Usa il mio” propose a Frank, passandogli il suo
cellulare.
Annuendo, Frank digitò il numero della centrale.
“Qui agente Beaumont, numero di matricola- sei tu, Davis?
Devo denunciare un delitto. Duplice
omicidio!”annunciò, sovraeccitato.
“Cosa? No, non è uno scherzo come quando ho detto
di aver visto Michael Jackson assassinato in un motel!”
continuò, con rabbia. “1344 Lexington Drive. E
fate presto!” concluse.
PIU’ TARDI
“Nulla?” chiese un sergente di polizia
sulla trentina “Nulla. Zero. Nada. Come preferisci”
annunciò un agente ventenne, scuotendo la testa.
“Pulita come un cristallo”
“Beaumont, chi cavolo ti ha detto che qui c’erano
due cadaveri?” sbottò il sergente.
“E’ tutto a posto. Non c’è
l’ombra di un cadavere là dentro”
“Ma il ho visti!” replicò Frank, furioso
“Devono esserci, non se saranno volati via!”
Sergente ed agente si scambiarono un’occhiata significativa.
“Dovremo farti rapporto, se insisti con queste
buffonate” tagliò corto l’agente.
Stupefatto, Frank stava per rientrare nella casa dei Polk per un
sopralluogo più approfondito, quando Steven
afferrò il suo braccio, scuotendo la testa
“Inutile cercare, manda i tuoi colleghi a casa. Quelli che
abbiamo inseguito servivano a distrarci mentre qualcuno di sveglio
ripuliva il locale.”
“Ma come cavolo facevano a sapere che saremmo arrivati noi?
E’ come ci avessero aspettato..” si
domandò Frank.
“Bella domanda…davvero una bella
domanda…” rimuginò Steven, pensieroso.
“Non lo so: ma posso prometterti una cosa. Mi hanno quasi
ucciso, e per quanto la mia vita faccia schifo, non è
così che vorrei morire. Da questo momento in poi, il caso si
è fatto parecchio personale. Scoprirò ogni cosa
sul conto di chi è responsabile di tutto questo. E il giorno
in cui sarà in mano nostra…farò in
modo che se ne ricordi per sempre” concluse poi a bassa voce,
fissando il suo sguardo sul sole che stava tramontando nel Lago
Michigan.
STANZA BUIA
Un uomo dai lineamenti in ombra giocherellava con un distintivo del
sesto dipartimento della Polizia di Los Angeles, identico a quello
della “Voce” che aveva creato l’incidente
della rapina alla gioielleria Webster & Sands. La scarsa luce
che filtrava dalla finestra alle sue spalle creava strani riflessi.
D’improvviso, la porta della stanza si aprì. Un
uomo dal volto insignificante fece il suo ingresso.
“Ha preso contatto, signore. Tutto si è svolto
nella maniera migliore per il nostro piano”
annunciò.
“Ne ero certo” rispose l’uomo
seduto,confermando con il suo timbro rauco di essere realmente la Voce.
Dopo un attimo di meditazione, si alzò in piedi.
Il suo volto uscì dalle tenebre. Si trattava del terzo uomo
nella fotografia di Dan. Portava ancora gli occhiali spessi con cui
appariva nella vecchia immagine. Sorridendo, se li tolse e
iniziò a pulirli.
“Prepariamoci alla seconda fase” ordinò
al suo sottoposto. L’uomo annuì. “Ogni
contatto è stato attivato” confermò al
suo capo.
“Perfetto” commentò
quest’ultimo, con un sorriso soddisfatto
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Capitolo 2 *** L'indagine continua ***
CAPITOLO II L'indagine continua
STRADA BUIA
Il paesaggio spettrale della strada vuota e male illuminata era avvolto
in una calma inquietante. Il silenzio fu spezzato da un rapido
ticchettare di tacchi. Una giovane donna molto truccata e vestita in
maniera appariscente svoltò l’angolo, ansimando.
Per qualche secondo si fermò, terrorizzata e ansimante,
muovendo la testa da sinistra a destra, in cerca di una via
d’uscita. Svoltò a sinistra e si rimise a correre.
Si bloccò di nuovo di fronte ad uno stretto passaggio fra
due muri sudici. Correndo, si liberò dei sandali verdi dai
tacchi alti che portava ai piedi.
Dopo pochi passi si accorse del suo errore: il passaggio terminava con
un solido muro di mattoni, alto almeno tre metri.
“Dannazione” imprecò, voltandosi
rapidamente e correndo a piedi nudi sull’asfalto.
La ragazza si fermò di nuovo, smarrita. Decise di imboccare
il vicolo da cui era entrata. Inspirando profondamente, si
lanciò in una nuova corsa.
Uno sparo mancò di pochissimo la sua gamba destra.
“Testa a terra” le ordinò una voce
maschile dal tono autoritario, la stessa voce dell’uomo che
il giorno precedente, mascherato da un passamontagna, aveva minacciato
Steven . “Ti prego, non farmi del male.”
supplicò la ragazza. “farò qualsiasi
cosa, ok? Qualsiasi, tutto quello che vuoi, ma non
spararmi.”. “Ultimo avvertimento. A
terra” ordinò bruscamente la voce maschile. La
donna obbedì, singhiozzando.
Un uomo dal viso duro e dall’espressione decisa le si
avvicinò, puntandole una Beretta alla testa. “Ti
chiami Holly Valance, giusto?” le chiese in tono freddo. La
donna annuì. “Tre mesi fa”
continuò l’uomo “ti è
arrivata una lettera. La lettera conteneva una chiave e un indirizzo,
oltre a delle istruzioni su cosa nascondere nell’edificio
aperto dalla chiave. Voglio quella chiave e
quell’indirizzo.” “Non posso
darteli” rispose a bassa voce Holly.
L’eco dello sparo fu assordante. Pezzi di intonaco colpirono
la donna sulla schiena. L’uomo scosse la testa
“Chiave e indirizzo” ripeté.
“Non posso…non li ho con me!”
urlò Holly.
L’urlo si trasformò in un mugolio di dolore dopo
il terzo sparo, che colpì di striscio la ragazza alla gamba
sinistra.
“Sentimi brutto bastardo, non li ho con me! Li ho a casa, non
me li porto certo in tasca quando devo incontrare i clienti!”
piagnucolò la donna. “Gesù Cristo, mi
hai bucato! Non mi potrò muovere per una
settimana!” “Non ci siamo capiti. Sai che potrei
spararti alla testa?” commentò freddamente
l’uomo, facendola tacere. “Se quello che dici
è vero, mi serve la tua chiave di casa.”
“Devo alzarmi per dartela” mormorò
Holly. “Va bene. Ma niente scherzi”
replicò l’uomo, sempre tenendola sotto tiro.
La donna si alzò in piedi lentamente e infilò la
mano nella tasca destra del giubbotto metallizzato che stava
indossando. “Lanciami le chiavi. Lentamente” le
ordinò l’uomo. Holly annuì, ma con uno
scatto estrasse una pistola di piccolo calibro dalla tasca e fece
fuoco. L’uomo rimase interdetto per una frazione di secondo,
prima di rispondere d’istinto al fuoco.
Il colpo dell’arma della donna colpì
l’uomo di striscio al braccio, ma la pallottola uscita dalla
Magnum dell’uomo centrò Holly in mezzo agli occhi.
La donna si accasciò a terra, morta.
Mordendosi le labbra per il dolore, l’uomo estrasse un
cellulare dalla tasca sinistra della sua giacca nera. “Mi
serve appoggio” sibilò nell’apparecchio.
“Sono stato colpito”.
Respirando profondamente, l’uomo rimise il cellulare al suo
posto e si accese una sigaretta. Dopo alcuni istanti, una mano
calò sulla sua spalla. Voltandosi di scatto,
l’uomo riconobbe l’uomo dai jeans sporchi che aveva
ostacolato Steven il giorno prima.
“Hai poca fortuna con le donne, Kerman.”
commentò l’uomo. “Al diavolo le tue
battute, Taggart.” rispose Kerman “Dammi delle
bende e portami da bere. E avverti il capo: il bersaglio numero tre
è stato eliminato. ” Taggart annuì.
“Aspettami un minuto” annunciò,
allontanandosi.
Mentre il suo complice spariva dietro l’angolo, Kerman si
inginocchiò di fronte alla donna morta.
Estraendo un coltello dalla sua tasca sinistra, iniziò a
conficcarlo nei vestiti e nella carne del cadavere, fino a che non
incontrò una resistenza inaspettata nel reggicalze della
sfortunata Holly.
Con un sorriso soddisfatto, Kerman strappò
l’indumento dal corpo, recuperando un mazzo di chiavi
nascosto al suo interno. Il mazzo era attaccato a un portachiavi
etichettato come “PAULA CANTRELL-LOFT”.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Steven entrò dalla porta principale dell’agenzia,
spalancandola. “Dobbiamo parlare” chiese subito a
Dan, seduto dietro alla sua scrivania. Dan annuì e fece
cenno a Steven di sedersi. Il detective scoccò una occhiata
a Jane. Aggrottando le sopracciglia, Dan si schiarì la gola.
“Jane, scusami se ti interrompo, ma…”
“Ma devi prenderti un momento per parlare da solo con
Steven” completò Jane.
“Un giorno o l’altro mi stancherò di
quest’aria di mistero e comincerò ad
origliare…” proseguì scherzando. Mentre
passava vicino a Steven gli fece un occhiolino, a cui lui rispose con
un cenno della mano. Jane uscì chiudendosi la porta alle
spalle.
“Ieri sera sono quasi stato ucciso”
esordì Steven, fissando Dan dritto negli occhi.
“Due uomini hanno provato a spararmi, solamente
perché stavo cercando informazioni sul caso Cantrell. Due
cadaveri, i corpi di due testimoni, sono spariti. Ora ti chiedo: che
cosa sai tu di tutto questo?”.
Dan aprì la bocca incredulo. “Di che cosa stai
parlando?” chiese a Steven. Il suo nuovo sottoposto lo
fissò per alcuni secondi, valutando le sue reazioni.
“Mi vuoi spiegare cosa intendi con cosa ne so io?”
domandò Dan. Steven, dopo un breve attimo di silenzio,
scrollò le spalle. “Volevo solo vedere che cosa
sapevi del caso, nulla di più.” “Solo
ciò che ho letto nei rapporti ufficiali” si
schermì Dan. “Ma cos’erano quelle frasi
su un tentativo di omicidio? Stavi scherzando?”
“No” rispose Steven. “E‘ tutto
vero.” “Mio Dio” commentò Dan
“Hai denunciato il fatto alla polizia?”
“Questo è il bello, l’ho fatto, ma
quando i poliziotti sono arrivati, tutte le prove erano sparite. Niente
corpi, niente assassini, niente armi. Solo la mia parola e quella di un
agente di polizia che, a quanto pare, è affidabile come un
articolo sui coccodrilli nelle fogne. Curioso, vero?”
concluse.
Dan scrollò la testa “Non è
possibile.” commentò “E’ solo
un caso di sparizione.” “Mi chiedo anche io il
perché di tutto questo” rispose Steven, scuotendo
la testa “Sei sicuro di volere continuare
l’indagine?” chiese Dan.
“Più che sicuro” replicò
Steven. “ C’è qualcosa di grosso dietro
al caso, e per quanto riguarda i rischi, ci sono abituato. Questo
potrebbe essere una buona occasione per fare pubblicità
all’azienda , no?” Dan aggrottò le
sopracciglia. “L’agenzia non vale più
della vita dei miei dipendenti” ribattè.
“Di questo non devi preoccuparti, il caso è solo
mio. Terremo la tua segretaria e il tuo avvocato fuori da tutto
questo.” Dan annuì con convinzione. “ A
proposito, dove è quella simpaticissima ragazza?”
“Patricia non arriverà prima delle
undici” rispose Dan, con appena un accenno di rimprovero
nella voce. “Perfetto. Ho giusto il tempo necessario per
evitarla” concluse Steven, uscendo dall’ufficio e
chiudendosi la porta alle spalle.
Nel corridoio incontrò Jane, che lo salutò
allegramente. “Ehilà, come va? Ma che cosa avete
da dirvi tu e Dan di così misterioso ed importante? Non
sarà stata un’altra ramanzina, spero...”
Steven scosse la testa. “Cose da uomini”
commentò. “Tu piuttosto, torna al lavoro
subito.”
“Pensavo di fare un’altra ricerca per te,
Sherlock” rispose Jane, sorridendo. “O ti servivo
solo perché non hai una tessera della biblioteca?”
“Ragazzina, da questo momento le indagini le faccio sul
campo…” commentò Steven, scendendo le
scale. Jane scosse la testa. “A chi hai detto
ragazzina?” rispose ad alta voce, ricevendo in cambio solo
uno sguardo ironico.
ZOO DI LINCOLN PARK
Il clima già freddo e umido di fine settembre non invogliava
di certo molti turisti a visitare il vecchio giardino zoologico, che
quella mattina, un po’ per il tempo nuvoloso, un
po’ per la mancanza di bambini eccitati dagli animali,
sembrava spoglio e inospitale.
Patricia Lawford si fermò davanti alla gabbia delle
antilopi, indossando, per puro istinto protettivo, un paio di occhiali
da sole e soffermandosi ad osservare gli esemplari di antilope africana
appena arrivati dal Serengeti.
“Sorprendenti, non è vero?” le chiese
una voce dal lieve accento messicano alle sue spalle. Girandosi,
Patricia riconobbe un uomo sulla cinquantina, dal colorito scuro,
piuttosto basso e quasi privo di capelli, che portava un paio di
occhiali scuri molto simili ai suoi.
“Sei in ritardo” sussurrò Patricia.
L’uomo si strinse nelle spalle, osservando le antilopi.
“Le hanno portate via dal loro territorio, a migliaia di
miglia dalle loro case, eppure guardale. Sono le padrone di quel
recinto, con una grazia che noi esseri umani non potremo mai
avere” Sospirò rumorosamente, quasi
melodrammaticamente.
“Mi ricordano molto te. La stessa grazia, la stessa
capacità di adattamento, ma anche la stessa
fragilità. Sei nata antilope, Patricia, non leonessa. Il tuo
destino è scappare o accettare il recinto”.
“ Puoi anche lasciare perdere la tua filosofia da quattro
soldi” rispose Patricia, irritata “Penso proprio
che non siamo qui per parlare di animali” concluse.
“Quanta fretta. Bene, mi piacciono le donne che amano il loro
lavoro.” commentò allegramente l’uomo
“Patricia si irrigidì e tornò ad
osservare le antilopi. “Che cosa vuoi?” chiese,
sempre più irritata e nervosa.
“Hai fatto un ottimo lavoro per me ieri, passandomi le
informazioni sulle indagini del tuo nuovo collega ”
commentò l’uomo “Vorrei che continuassi
a farlo”. “Fino a quando? Quale è il
patto?” domandò Patricia, aggiustandosi i capelli.
“Patto, Patricia? Quale “patto”?
Ricordati che tutto quello che fai, lo fai solo per te stessa. Io non
guadagno nulla da tutto questo. Anzi, in realtà io potrei
benissimo fare a meno di te” annunciò poi , in
tono funebre. “E’ solo per la mia bontà
innata che ti aiuto: come farei a fare del male ad un visino
così bello?” concluse, sfiorando la guancia di
Patricia con la mano destra. “Toccami ancora e sei morto,
brutto porco” sussurrò la donna, stringendosi le
labbra fra i denti.
L’uomo rise fragorosamente, allontanandosi tuttavia di scatto
dalla donna. Due passanti si voltarono verso la coppia,ma, non notando
nulla di strano proseguirono, alzando le spalle. “Il tuo
collega è la chiave per arrivare alla tua
libertà. Tu continua ad informarmi su di lui, e un giorno,
quando te lo sarai meritato, l’originale di quella cassetta
sarà tuo.” concluse il messicano, avviandosi verso
l’uscita dello zoo. Patricia si tolse gli occhiali scuri,
rimanendo per alcuni secondi a fissare la schiena dell’uomo
che si allontanava lentamente.
OTTAVO DIPARTIMENTO DI
POLIZIA DI CHICAGO
“E poi, zap! Spariti! Come se non ci fossero mai
stati!” sentenziò Frank, accompagnando le sue
parole con uno schiocco di dita. “Uh uh” rispose il
suo interlocutore,l’agente Davis, senza sollevare lo sguardo
dal giornale sportivo che stava leggendo. “E non è
finita qui: anche i corpi che avevo trovato nella casa erano spariti!
Pazzesco, vero?” concluse Frank.
“Già, è pazzesco che i Bulls siano
riusciti a perdere contro i Dodgers. ” mormorò
Davis. “Ma tu non mi stavi ascoltando!”
sbottò spazientito Frank. “Eh?” rispose
Davis, senza smettere di leggere. “Senti”
continuò poi, sollevando lo sguardo sul viso di Frank
,arrossito dalla rabbia “mi hai raccontato questa storia
almeno una dozzina di volte. Ed è più ridicola
ogni volta che la sento” concluse. Frank aprì la
bocca per commentare, ma il gesto si mutò improvvisamente in
una smorfia di sorpresa.
Alle spalle di Davis, un uomo sulla quarantina dai capelli corti che
indossava degli occhiali spessi, vestito elegantemente in blu,esibiva
un distintivo dell’FBI a una donna poliziotto, che lo stava
indirizzando verso la scrivania di Frank. “Frank
Beaumont?” chiese l’agente FBI a Davis,
avvicinandosi ai due poliziotti. “Per carità,
no!” rispose l’agente. “E’
lui” commentò , indicando Frank con il pollice.
“Sono l‘agente Gall, FBI” si
presentò quest’ultimo,mostrando il suo distintivo.
“Gradirei rivolgerle alcune domande”
“Ehm, sì” rispose nervosamente Frank.
“Certo. Su che argomento?”. Con un sorriso
indefinibile, l’agente Gall aprì un piccolo
taccuino e afferrò una penna dalla scrivania di Davis.
“Quella sarebbe mia” protestò
quest’ultimo. “Ieri pomeriggio”
esordì Gall, senza degnare Davis di uno
sguardo“lei ha assistito un investigatore privato in una
indagine non ufficiale. A quanto pare, ha poi testimoniato di avere
ritrovato due cadaveri in una abitazione privata. Sbaglio?”
concluse. “Sì, è esatto, ma non
l’ho solo testimoniato, c’erano davvero, quei due
corpi, io li ho visti!” rispose Frank, sbattendo il pugno sul
tavolo.
“Risponda alle domande e non aggiunga elementi inutili, per
favore” replicò freddamente Gall.
“Inutili!?” esclamò stupefatto Frank.
“Sapeva che l’investigatore con cui ha collaborato
ha all’attivo tre denunce per aggressione e due per guida in
stato di ebbrezza?” continuò Gall, imperturbabile.
“No, ma è stato assolto,no? Altrimenti non avrebbe
la licenza di privato,non è vero? Cioè, siete voi
federali a decidere queste cose, voglio dire…”
rispose nervosamente Frank, colto di sorpresa. “Risponda alla
domanda, per favore” “No.
Però-” mormorò il poliziotto.
“Che cosa sta facendo?” tuonò una voce
alle spalle di Gall. L’agente FBI si girò di
scatto, incontrando lo sguardo deciso del luogotenente Bronson.
“Solo domande di routine, luogotenente” rispose
Gall, appoggiando la penna sulla scrivania di Davis. “Non nel
mio dipartimento, e non a quest’ora” gli
ordinò Bronson. Gall si alzò di scatto.
“Le devo ricordare che sul caso in questione è in
corso anche una indagine federale?” suggerì con
voce calma. “Ha un mandato per rivolgere domande al mio
agente? Se non lo ha, può anche lasciare subito il mio
dipartimento.” replicò Bronson, senza rispondere.
Gall si alzò e fissò il superiore di Frank negli
occhi, prima di scrollare la testa ed andarsene, uscendo dalla porta
principale.
“Beaumont, lei continui a lavorare sul caso”
ordinò Bronson. “Davis, lei sarà di
supporto all’agente Beaumont” proseguì.
“Voglio un rapporto per ogni giorno di indagine. Consegnerete
i vostri rapporti personalmente nel mio ufficio. Nessun
civile” aggiunse Bronson, squadrando Frank con aria di
rimprovero “dovrà essere messo al corrente dei
vostri progressi.” Davis, stupefatto, lasciò
cadere il suo giornale. “E’ tutto”
concluse il luogotenente , allontanandosi in fretta.
“Che ti dicevo? C’è qualcosa
sotto!” esclamò Frank, gongolante.
“Un’indagine con te? Ma perché
l’universo mi odia?” sbuffò Davis,
alzando gli occhi al cielo. Frank scrollò le spalle,
soddisfatto.
Quando il suo collega gli voltò le spalle Frank
afferrò il suo cellulare e inviò a un messaggio:
Vediamoci subito. Ho delle informazioni da darti. La risposta non si
fece attendere 13 Regent Street. Il mio appartamento. Tra
mezz’ora. .
Frank squadrò Davis, che stava mettendo in ordine ad un
cumulo di carte spiegazzate, e senza dire nulla si alzò
dalla sua scrivania e si avviò verso l’uscita.
FUORI DAL DIPARTIMENTO DI
POLIZIA
L’agente Gall prese il suo telefonino dalla tasca destra del
suo completo e digitò un numero. “Sono Gall,
signor Scott” si presentò. “Abbiamo un
problema. Campbell ha coinvolto nelle sue indagini un civile, un agente
locale. Il capo del dipartimento mi ha chiuso la porta in faccia, e non
ho elementi per richiedere un mandato e interrogare quel dannato
poliziotto.”
SEDE FBI DI CHICAGO
Scott, un uomo biondo e piuttosto massiccio, sedeva ad una scrivania,
tendendo un telefono premuto all’orecchio.
“Risolverò io questo problema, Gall”
rispose in tono asciutto “Tu preoccupati di gestire le nostre
indagini.” concluse, chiudendo la conversazione.
Riappoggiando la cornetta del telefono Scott premette un pulsante sulla
sua scrivania. Subito la porta del suo ufficio si aprì,
facendo entrare Kerman e Taggart, ovvero l’uomo con il
passamontagna e quello con i jeans sporchi. “Mi avete deluso
ieri” iniziò Scott. “Non mi avete
portato Campbell. Evidentemente è un lavoro troppo difficile
per voi due.” concluse in tono sarcastico. I due chinarono
semplicemente la testa. “Non importa. Le informazioni della
nostra talpa si sono rivelate affidabili, e per vostra fortuna avete
eliminato i tre bersagli e recuperato le chiavi. “ aggiunse
Scott.
“Niente più errori, o i vostri falsi certificati
di morte diventeranno una spiacevole realtà”
concluse in tono minaccioso. Kerman e Taggart annuirono di nuovo.
APPARTAMENTO DI STEVEN
CAMPBELL
“Ne sei sicuro?” chiese Steven, sedendosi
d’improvviso sul suo letto. “Sicuro come sono
sicuro che Miami Vice è il miglior telefilm mai apparso in
TV. O come lo sono del mio fascino inimitabile.” rispose
Frank, sbattendo un pugno sulla testiera. “Per
pietà” sibilò Steven fra i denti.
“Limita i paragoni…le mie orecchie potrebbero non
supportarne un altro.”
“Comunque, è interessante. Un indagine federale in
corso è un altro indizio che c’è
qualcosa di importante in questa sparizione. Significa anche che il tuo
aiuto mi è più che mai necessario. Un appoggio
ufficiale fa comodo in questi casi.” proseguì.
“Ehm, questo è un punto
dolente…” mormorò Frank. “Il
mio capo mi ha ordinato di non rivelare niente ai civili. In teoria non
dovrei nemmeno essere qui...però ci sono. Da solo non ce la
faccio, e il capo mi ha messo in coppia con un rompiscatole,
l’agente Davis. L’unico modo per scoprire la
verità è collaborare con te.”
“Gentile da parte tua dirmelo
ora…”sbottò sarcasticamente Steven.
“Ehi, cos’è tutto questo veleno? Me
l’ero semplicemente dimenticato!” “Se
scopre dove sei stato, il tuo collega ti farà rapporto,
genio! Tu sarai escluso dalle indagini e io perderò la mia
fonte di informazioni e sostegno ufficiale. Non venire più
qui. Comunicheremo via mail. Nessuno ci deve vedere insieme.”
concluse Steven, spingendo Frank fuori dalla porta.
“Io ti servo!” sbottò Frank deluso,
mentre la porta dell’appartamento di Steven si chiudeva alle
sue spalle. “Non puoi buttarmi fuori!”
urlò. “Non è la tua città!
Come farai senza di me, sul campo?” Per alcuni secondi Steven
non rispose, poi la porta si riaprì.
“Se ci rinchiudono per violazione della privacy, sei
morto” esclamò Steven, puntando un dito al petto
di Frank. “Non succederà, siamo i migliori. Non lo
verrà a sapere nessuno. Allora, cosa cerchiamo
oggi?” “ chiese Frank, con un sorriso soddisfatto.
Steven alzò gli occhi al cielo.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Jane bussò alla porta dell’ufficio.
“Posso rientrare ora, capo?” chiese ad alta voce,
senza ottenere risposta. Incuriosita, abbassò la maniglia ed
entrò. Non c’era nessuno, anche Dan sembrava
sparito. Sempre più curiosa, Jane si sedette davanti alla
sua scrivania, cercando di lavorare al suo computer.
La scrivania vuota di Dan attirava sempre di più la sua
attenzione. Dopo aver scosso la testa un paio di volte, Jane
sbuffò e si avvicinò alla sedia del suo capo e
aprì un cassetto. Si voltò per controllare che
nessuno la stesse osservando, ma l’ufficio era ancora vuoto.
“No” mormorò dopo una breve pausa,
scuotendo la testa.
La porta dell’ufficio di Dan si aprì di scatto e
il proprietario della Weissman Investigations ne uscì,
riponendo un cellulare nella sua tasca destra. Il suo sguardo
incontrò quello di Jane, che si morse le labbra.
“Qualcosa non va?” chiese Dan. “No,
signore, nulla. Mi stavo solo chiedendo dove fosse
finito…”
“Dovevo fare una telefonata importante” rispose
l’uomo, squadrando attentamente la sua segretaria.
Jane annuì debolmente. “Torno al mio
lavoro” proclamò. “Non è
necessario. Oggi chiudiamo a quest’ora” rispose
Dan. “Hai la giornata libera”. “Davvero?
Fantastico! Grazie, capo!” rispose Jane, prendendo la sua
borsa e appoggiando la mano destra alla maniglia.
“Jane” la fermò Dan “Si ,
capo?” rispose nervosamente la segretaria. “Volevo
chiederti come sta tua madre.” “A dire il vero
è da due giorni che non la vedo. Adesso che ci penso, devo
proprio farle visita. Arrivederci” lo salutò Jane
e uscendo dall’ufficio.
Dan si sedette alla sua scrivania e notò il cassetto aperto.
Lo chiuse con stizza e il suo volto si rabbuiò.
“Non tu, Jane. Almeno tu devi veramente restarne
fuori” mormorò tra sé e sé.
SOBBORGHI DI CHICAGO
L’automobile di Steven e Frank si fermò vicino ad
un motel. “La madre della ragazza abita qui?”
esclamò Frank, stupito. “Non tutti vivono in un
appartamento” replicò Steven. Frank si
slacciò la cintura e aprì la portiera.
“Aspetta” lo interruppe Steven “Ti
ricordi di quello che è successo l’ultima volta
che abbiamo provato a scendere senza prendere precauzioni?”
Frank deglutì e annuì leggermente, mentre Steven
estraeva una pistola dalla sua fondina ascellare. “Solo in
caso di necessità” suggerì a Frank, che
approvò annuendo di nuovo“Giusto.
Necessità”.
“Andiamo” concluse Steven , uscendo dalla macchina
e chiudendosi la portiera alla spalle. I due salirono la scalinata
esterna del motel fino al secondo piano e, voltando un angolo, si
avvicinarono alla camera 214. Steven bussò alla porta.
“Chi è?” chiese una voce roca e
assonnata dall’interno. “E’ la signora
Helen Cantrell?” domandò Steven a sua volta.
“Dipende. Chi mi cerca?” rispose la voce.
“Siamo della Weissman Investigations, vorremmo parlarle di
sua figlia”
Si udì il rumore di un catenaccio tolto e la porta si
aprì, rivelando una donna di mezz’età,
mora, che indossava un accappatoio verde macchiato di grigio. Doveva
essere stata una bella donna anni prima, ma le pesanti borse sotto gli
occhi, i capelli arruffati e un aria generale di degrado la rendevano
molto più vecchia di quanto non fosse.
“Che volete?” chiese in maniera sgarbata.
“Ho già detto tutto quello che sapevo su mia
figlia alla polizia quando ho fatto la denuncia di sparizione. La
vostra agenzia non la conosco nemmeno.” Steven e Frank si
scambiarono un’occhiata stupita. “Mi scusi, ma non
è stata lei a pagare la nostra agenzia?” chiese
Steven, scrutando la donna.
“Bello, se avessi i soldi per pagare dei poliziotti privati
non vivrei qui, non trovi? Deve essere stato quel fesso del suo
ragazzo.” rispose la donna, estraendo un pacchetto di
sigarette e un accendino molto sporco da una tasca. Si accese una
sigaretta e inspirò. “La avete ritrovata?
” chiese, aspirando avidamente il fumo.
Steven scosse la testa. “No, signora. Vorremmo sapere
qualcosa di più della vita privata di sua figlia. Sa, le
solite domande di routine” “Io non ne so
nulla” rispose la donna. “Non viveva più
qui da un anno. Se ne era andata così,
all’improvviso, senza nemmeno ringraziarmi di averla messa al
mondo. Trova un ragazzino ricco, mi promette un prestito, poi lo lascia
e sparisce. Sono sicura che se ne è andata di proposito.
Bella riconoscenza “ concluse amaramente.
“Ci potrebbe almeno dire chi è il suo fidanzato e
dove vive?” chiese all’improvviso Frank. Steven gli
diede un calcio nello stinco destro, facendolo mugolare leggermente dal
dolore. “Scusi l’impazienza del mio
collega” disse Steven, lanciando un’occhiataccia a
Frank “Certamente c’è anche qualcosa
d’altro che lei sa su sua figlia.”
“Il fidanzato è Harvey Krakowski, vive in Freemont
Street. Numero Tredici“ concluse la donna, rientrando nella
sua stanza e sbattendosi la porta alle spalle. “Signora
Cantrell! Scusi, ma non abbiamo finito le nostre domande!”
urlò Steven. La porta rimase chiusa.
“Complimenti.” sibilò Steven a Frank.
“Ehi, io ho fatto solo una domanda!” rispose Frank
“Non stavo chiacchierando con quella donna, stavo cercando di
ottenere delle informazioni!” sibilò Steven fra i
denti “Cosa che sarei anche riuscito a fare, forse, se tu non
le avessi regalato su un piatto d’argento la
possibilità di svicolare senza dirci nulla.”
Frank sbuffò. “Tanto non sapeva nulla.”
Steven non gli rispose, ma lasciò che fosse il suo sguardo a
parlare. “Andiamo” aggiunse poco dopo. I due
scesero le scale di fretta: Steven precedeva Frank di pochi passi.
“Non te la prendere troppo” commentò
Frank “Non è stato del tutto un buco
nell’acqua, almeno abbiamo l’indirizzo del
fidanzato. Gli agenti che avevano steso il rapporto non lo citavano,
chissà perché”
Steven si bloccò all’improvviso sul penultimo
gradino. Frank incuriosito, si sporse per vedere cosa aveva attirato
l’attenzione del partner.
Un agente di polizia sedeva sul cofano dell’automobile di
Steven e Frank.Indossava un paio di occhiali scuri, e sembrava scrutare
attentamente Steven e Frank.
“Non ci vorrà mettere una multa!”
sbottò Frank, superando Steven e dirigendosi rapidamente
verso l’agente. “Sono Frank Beaumont, Ottavo
Dipartimento” proclamò ad alta voce, sventolando
il distintivo sotto gli occhi dell’altro poliziotto.
“Sto indagando su di un caso di sparizione-”
continuò. L’agente puntò la sua pistola
alla testa di uno stupefatto Frank. “A terra!”
urlò Steven , estraendo a sua volta la pistola.
Frank obbedì rapidamente, proprio un istante prima che
Steven e l’agente facessero fuoco. Il proiettile di Steven
costrinse l’uomo in divisa ad abbassarsi. Il colpo della
pistola dell’agente mancò Frank di pochissimo.
Mugolando dalla rabbia, Frank afferrò le gambe del suo
avversario, facendogli perdere l’equilibrio. L’uomo
cadde a terra e perse la pistola. Steven corse giù per le
scale, tenendo il poliziotto caduto a terra sotto tiro, mentre Frank si
tuffò di lato, raccogliendo l’arma un attimo prima
che l’uomo riuscisse ad afferrarla.
“Via quegli occhiali e dicci chi sei e chi ti
manda” ordinò Steven, senza ottenere risposta.
Dopi un attimo di incertezza anche Frank puntò la pistola
alla testa dell’uomo a terra. “Questo non si fa,
fra colleghi. Decisamente un brutto punto sul tuo stato di
servizio.” commentò. L’uomo continuava a
tacere, respirando appena. “Facciamo così: o ti
togli gli occhiali, o ti sparo all’altro braccio”
suggerì Steven. Frank fissò il suo partner,
costernato.
“Non puoi farlo” mormorò.
L’uomo ignorò Frank e obbedì. Aveva un
viso piuttosto comune, e occhi marroni nei quali si leggeva un misto di
terrore e sconforto. “Bene. Ora facciamo una bella
chiacchierata.” continuò Steven. “Chi
sei? Perché ci volevi uccidere? Chi ti manda qui?”
L’uomo sospirò e scosse la testa di nuovo.
“Non vuoi parlare qui? Bene, in piedi, vediamo cosa dirai
quando ti porteremo dai tuoi colleghi.”
Gli occhi dell’uomo si spalancarono per il terrore.
“Non l’ho fatto per me”
sussurrò. “Per chi, allora?”lo
incalzò Steven. Senza preavviso, l’uomo
caricò Frank, gli strappò la pistola di mano, se
la puntò alla tempia e premette il grilletto.
Frank, inorridito, tentò inutilmente di afferrare la pistola
dalle mani dell’uomo. Steven scosse la testa:
“E’ morto” mormorò. Frank
rimase in silenzio davanti al cadavere, quasi inebetito da
ciò a cui aveva appena assistito.
“Aiutami a sollevarlo. Afferragli le caviglie.” gli
ordinò Steven. Il poliziotto si riscosse
dall’apatia in cui era caduto e obbedì. Ancora
sotto shock, rabbrividì al contatto con il corpo. Steven
aprì il bagagliaio dell’automobile e
afferrò il cadavere sotto le ascelle. “Non
dovremmo spostarlo” obiettò debolmente Frank
“E’ una scena del crimine”
“Dopo la bella esperienza di ieri, voglio fare in modo che
non sparisca” rispose Steven. “Forza, non fare
osservazioni inutili e aiutami. Lo porteremo direttamente alla Centrale
di polizia più vicina.”
“Cosa state facendo?” li interruppe una voce. Helen
Cantrell li stava osservando dal terzo piano, stupefatta. Steven si
morse la labbra. Improvvisamente la donna si mise a urlare
“Hanno ucciso un poliziotto! Fermateli!”
“No, no, signora , non urli! Ha capito male!
Quell’uomo si è sparato da solo!” si
mise ad urlare Frank.
Diversi inquilini del motel erano usciti dai loro appartamenti e
osservavano la scena. In molti si misero a strillare, altri
semplicemente si indicavano a vicenda Steven e Frank. Una ragazza dai
tratti asiatici afferrò il suo telefonino e
digitò un numero.
NORTHWESTERN HOSPITAL
Jane attendeva pazientemente nella sala d’aspetto del reparto
di Oncologia, leggendo una rivista vecchia di tre mesi e sbirciando, di
tanto in tanto, gli altri occupanti della stanza.
“Jane Shelby?” chiese un’infermiera sulla
quarantina, entrando nella sala. Jane sollevò la mano,
sorridendo. “Sua madre è sveglia. Mi
segua” ordinò l’infermiera, che portava
una targhetta appuntata al petto. “Come sta mia
madre” iniziò Jane, sporgendosi per leggere la
targhetta “Katie?”
“La signora Ginevra Shelby torna adesso da una seduta di
chemioterapia.” rispose Katie, con una freddezza che
sconcertò leggermente Jane.
L’infermiera scortò la ragazza fino alla porta
della stanza 56. “Faccia piano, è stanca e deve
riposare.” Jane annuì e spinse leggermente la
porta. “Entrate pure,non è una porta aperta di
scatto che mi manderà all’altro mondo”
commentò una voce all’interno.
L’infermiera aggrottò le sopracciglia e
seguì Jane all’interno della stanza.
Una donna sulla cinquantina le attendeva sdraiata su un letto.
Indossava un pigiama blu da ospedale e una cuffia dello stesso colore,
e sorrideva apertamente. “Ciao, mamma” la
salutò Jane. “Ciao, Jane. E’ bello
rivederti” rispose sua madre. “Mi dispiace non
averti visitato più spesso di recente” si
scusò Jane, mordendosi le labbra. “Non importa.
Hai il tuo lavoro, la tua vita. Non puoi essere sempre qui per
me” replicò la donna. L’infermiera Katie
rivolse a Jane uno sguardo di disapprovazione.
“Può lasciarci da sole, per favore?”
chiese la madre di Jane a Katie.La donna annuì freddamente e
uscì dalla stanza. “Robocop”
mormorò fra sé e sé la signora Shelby.
“Cosa?” chiese stupefatta Jane. “Non ho
niente da fare, così creo soprannomi per le
infermiere.” rispose allegramente Ginevra.”Quella
è Robocop: fredda, senza sentimenti, ma non la peggiore. Sei
stata fortunata: avresti potuto trovare quella svampita della Barbie
Rossa, oppure persino la Strega dell’Est. Quasi mi uccideva,
la Strega, con il suo alito pestilenziale.” Jane non
poté trattenere una risatina.
“Come vanno le cure?” chiese subito dopo. Ginevra
sbuffò “Chemioterapia, poi medicine, poi di nuovo
chemioterapia. Mi stupisco che non mi facciano girare sulla ruota come
un criceto. Ma in realtà” aggiunse in tono
confidenziale “resto qui solo per il dottor Nichols. Quello
sì che è un bell’uomo.” Jane
sorrise. “Come va per te al lavoro?” le
domandò Ginevra, sorridendo a sua volta.
“Dan ha assunto un nuovo detective. Un tipo strano ma carino
o carino ma strano, non so” “Come sta
Dan?” intervenne Ginevra. “Oh, adesso è
strano anche lui. Tutto è diventato misterioso, direi. Mi
piacerebbe sapere come mai.” rispose Jane. “Non
essere troppo curiosa. Non vorrei che Dan si arrabbiasse” la
ammonì Ginevra. “Non è facile trovare
un capo comprensivo come lui con i tempi che corrono”
“Non farò stupidaggini.” promise Jane,
prendendo la mano destra di sua madre fra le sue.
Ginevra le rivolse un altro sorriso, prima di socchiudere gli occhi.
“Scusami, tesoro, ma non riesco a rimanere
sveglia.” “Non ti preoccupare, mamma”
rispose Jane, mentre gli occhi le si inumidivano. “Ti voglio
bene” concluse. “Anche io te ne voglio”
sussurrò Ginevra, chiudendo completamente gli occhi.
Jane si allontanò in punta di piedi e uscì dalla
stanza. Mentre si stava avvicinando alla sala d’aspetto le si
avvicinò un infermiere in camice bianco . “Lei
è una parente della signora Ginevra Shelby?” le
chiese l’uomo. “Sono la figlia” rispose
Jane “Perché?” “Purtroppo le
devo riferire una brutta notizia: il linfoma di sua madre sta
degenerando. Le cure a cui la sottoponiamo sono risultate
inefficienti.”
Le lacrime che Jane aveva trattenuto di fronte alla madre le
scivolarono lungo le guance. “Quando?”
bisbigliò, non osando esprimere la sua domanda ad alta voce.
“Aspetti, non disperi. C’è ancora una
possibilità: possiamo mettere la signora Shelby in lista
d’attesa per una cura sperimentale.” la
rincuorò il paramedico. “L’unico
problema è che la lista è incredibilmente lunga.
A meno che lei non faccia ricoverare sua madre presso questa
clinica” concluse, porgendole un foglio verde, che portava
come intestazione “St. James’ Hospital”
La ragazza si asciugò rapidamente le lacrime ed
esaminò il volantino dell’ospedale St. James che
l’uomo le aveva passato. “Il costo di ammissione
è di ventimila dollari” esclamò
“Non ho tutti quei soldi!”.
L’uomo annuì. “Mi dispiace”
aggiunse. “Proverò a parlare con il primario, e a
vedere se riesco a farle ottenere una riduzione”
“Davvero lo farebbe?” lo implorò Jane
“Non so come ringraziarla.” L‘infermiere
fece un cenno con la mano destra. “Ma le pare. Se mi
dà il suo numero, posso avvertirla dei miei
progressi” annunciò.
Jane annuì e scrisse il suo numero su un foglio di carta che
consegnò all’uomo. “Arrivederci,
signorina Shelby” la salutò
quest’ultimo. “Arrivederci e sopratutto
grazie” rispose Jane con calore, uscendo rapidamente dal
reparto.
L‘uomo, quando fu chiaro che Jane non lo poteva
più sentire, prese il suo telefonino e compose un numero.
“Sono Parker. Il primo contatto con la seconda potenziale
talpa è stato effettuato” comunicò
freddamente.
SOBBORGHI DI CHICAGO
Frank e Steven si scambiarono un’occhiata preoccupata. La
folla minacciosa dei clienti del motel ormai li circondava, e, come se
non bastasse, erano intrappolati fra la folla da un lato e la polizia
in arrivo dall’altro.
Le sirene di un’automobile della polizia fecero sobbalzare
Frank. Helen Cantrell si mise ad urlare. “Sono qui!
Arrestateli!” strepitavano i suoi coinquilini. Due agenti di
polizia (uno alto e snello, l’altro basso e corpulento) si
fecero largo attraverso la folla e raggiunsero Frank e Steven.
“Andate via, non è uno spettacolo”
sbuffò l’agente basso , sventolando un manganello,
mentre il suo collega, notando la pistola di Steven, impugnò
la sua. Steven se ne accorse e appoggiò la sua arma sul
tettuccio dell’automobile, alzando le mani e invitando Frank
a fare altrettanto. “Fermi dove siete” li
minacciò l’agente slanciato.
“Sono un agente dell’ottavo dipartimento”
protestò Frank. “Lasciatemi spiegare.”
L’agente corpulento gli si avvicinò, mente
l’altro ,continuando a tenerli sotto tiro, controllava la
scena. “Zitto tu, sei in arresto. E anche tu” disse
l’agente tarchiato, indicando Frank e Steven.
“Se controllate il mio tesserino-”
iniziò Frank, prima che una gomitata nelle costole di Steven
lo interrompesse “E’ inutile spiegarlo a questi
due. Lasciali portarci alla loro centrale e potremo spiegare
tutto.” gli suggerì Steven , sussurrando.
“Avete il diritto di non parlare. Tutto ciò che
direte potrà essere usato contro di voi in tribunale. Avete
diritto ad un avvocato- se non avete uno , ve ne verrà
procurato uno d’ufficio” recitò
l’agente corpulento rapidamente, ammanettando Frank e Steven.
“Parrish, controlla la scena del crimine e chiama la
scientifica. Io li porto in centrale” aggiunse, diretto al
suo collega.
“Non serve, sono sotto la mia custodia” lo
interruppe una voce alle sue spalle. Gli occhi di Frank si allargarono,
riconoscendo l’agente Gall. “Eppure la aveva
avvertita sui rischi che correva affiancandosi a Campbell, agente
Beaumont” aggiunse Gall, in tono sarcastico.
“Lasciateli a me e tornate in centrale a stendere un
rapporto” concluse , rivolto ai due poliziotti. “E
lei chi è?” sbottò Parrish.
“Gall, FBI” rispose l’agente federale,
mostrando il suo tesserino. “Beh, agente Gall, con tutto il
dovuto rispetto, questi uomini li abbiamo arrestati noi”
ribattè il poliziotto basso e tarchiato. “Quindi
se vuole portarceli via contatti i nostri superiori”
concluse. “Ho visto quell’uomo stamattina, mi ha
fatto domando su di te” sussurrò Frank a Steven.
“Silenzio!” lo interruppe Parrish, rivolgendo poi
un’occhiata al cadavere a terra. L’agente si
lasciò sfuggire un gemito. “White”
mormorò al suo collega “Guarda il corpo.
E’ Malley”. L’agente White
aggrottò le sopracciglia. “Malley? Ma non era in
vacanza con la moglie?” domandò.
“Farete tutti i controlli necessari dopo che mi avrete
consegnato i prigionieri” li interruppe nuovamente Gall.
“Senta, agente Gall, può chiudere il
becco?” replicò White. “Sono un
rappresentante del governo federale. Non collaborare ad un indagine
federale è un reato, non serve che ve lo ricordi”
li avvisò Gall. White afferrò la sua pistola, ma
l’agente Parrish fece cenno al suo collega e
scrollò la testa.
“D’accordo, sono vostri”
ringhiò White, abbassando la sua arma “Ma dovete
firmarci un documento.” concluse , irritato. Gall
annuì e prese un documento dal suo taschino destro.
L‘agente Parrish gli porse una penna. “A
lei” disse Gall, porgendo il foglio a White, che
digrignò i denti.
Parrish e White spinsero Steven e Frank, disarmati, verso
l’agente Gall. Quest’ultimo annuì
soddisfatto e aprì la portiera della sua automobile. Steven
rivolse a Frank un rapido cenno di intesa, mostrandogli le mani.
Era riuscito ad aprire le manette senza che nessuno se ne accorgesse.
Frank rispose annuendo impercettibilmente. “Arrivederci,
signori” sentenziò sarcasticamente Gall, salutando
White e Parrish con un cenno del capo, mentre fra la folla erano in
molti a protestare a bassa voce.
“Un momento” lo interruppe Parrish, che aveva
appena terminato una rapida telefonata.”Ho controllato in
centrale, le serve un mandato per arrestarli” Gall si
leccò rapidamente le labbra. “Senta”
rispose “Possiamo stare qui a discutere di procedure per ore,
ma alla fine lei dovrà consegnarmi comunque questi due
uomini. Perché non ora?”
“Perché non più tardi?”
replicò in tono beffardo White. “Li lasci
andare”. “No” rispose Gall.
“Come vuole. Parrish, arresta anche lui”
ordinò White, puntando la pistola alla testa di Gall. La
folla ammutolì.
“Non lo faccia, agente Parrish, o ne subirà le
conseguenze” obiettò Gall. “Fallo,
Parrish” lo incalzò White. Parrish mosse la testa
dal suo collega all’agente federale. Sembrava non sapere a
chi obbedire. All’improvviso Gall puntò a sua
volta la sua arma contro White. Parrish, inspirando, alzò la
sua arma su Gall.
Steven , d’istinto, si liberò definitivamente
delle manette e colpì Gall allo stomaco. L’agente
FBI emise un gemito, e Parrish e White, stupefatti, agguantarono i due,
afferrarono la pistola di Gall e spinsero i tre arrestati contro la
loro automobile.
“Non ti avevo ammanettato?” chiese uno stupefatto
Parrish a Steven , che si limitò a sorridere. White, nel
frattempo, ammanettava Gall. “Questa me la paga.
Finirà a dirigere il traffico” sibilò
l’agente FBI minacciosamente. “Entra
nell’automobile e non fare storie”
replicò White.
Frank, Steven e Gall entrarono nell’automobile dei due
poliziotti, che chiusero la portiera alle loro spalle. White si mise
alla guida con Parrish al suo fianco.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Patricia fece il suo ingresso negli uffici vuoti, aprendo la porta di
scatto. “Dan?” chiamò il suo capo ad
alta voce, senza ricevere risposta. Innervosita, notò solo
in quel momento il cartello che annunciava la chiusura
dell’agenzia.
Mordicchiandosi il labbro inferiore uscì
dall’ufficio e si chiuse la porta alle spalle. Proprio in
quel momento Jane arrivò sul pianerottolo: le due donne si
trovarono faccia a faccia. “Come mai l’agenzia
è chiusa?” sbottò Patricia.
“Dan mi ha dato la giornata libera. Stavo giusto tornando per
parlargli” rispose Jane. “Non è
qui” ribattè seccamente Patricia. Calò
un silenzio nervoso.
“Visto che nessuna di noi due lo sa, perché non lo
aspettiamo al caffè qui davanti?” propose Jane.
Patricia aggrottò le sopracciglia, ma dopo un attimo di
silenzio annuì. Le due donne scesero lentamente le scale.
CENTRALE DI POLIZIA- SALA
INTERROGATORI
“E’ andata così” concluse
Steven. “Nell’altra sala abbiamo un agente federale
che giura di avere un mandato per arrestarti, ma stranamente non vuole
dirci dove è, o per quale motivo ti cerca. Qui ci sei tu,
che ci racconti una storia che è il trionfo delle
coincidenze. A chi dobbiamo credere?” rispose
l’agente White, che lo stava interrogando.
“Se avessi ucciso quel poliziotto, avrei approfittato del
casino che avete creato per scappare. Non l’ho fatto, anzi,
vi ho dato una mano. E il mio partner è un vostro collega.
Contattate l’ottavo distretto e ve lo
confermeranno” replicò Steven. “Queste
non sono prove” argomentò White. “Allora
attendete il rapporto della scientifica. Vi confermerà che
il vostro collega si è sparato da solo”
suggerì Steven, sempre calmo.
CORRIDOIO
Frank sedeva in un angolo del corridoio fra la sala interrogatori e le
celle, ammanettato e sorvegliato da Parrish. “Frank! Frank
Beaumont! Che ci fai qui, hai di nuovo fatto saltare in aria un bagno
pubblico?” lo salutò una donna poliziotto bruna
sulla quarantina, sorridendo divertita. “Ciao,
Harriett” la salutò Frank, rivolgendole un sorriso
stentato.
Parrish aprì la bocca, stupefatto. “Lo
conosci?” chiese alla donna, grattandosi la testa.
“Ma certo. Ero la sua istruttrice in accademia. Non mi
dimentico certo dell’allievo che per poco non arrestava il
figlio del sindaco per vagabondaggio.” proseguì
Harriett.
“E’ qui per un sospetto omicidio” le
spiegò Parrish. “Chi, Frank?
Impossibile” obiettò Harriett “Deve
essere un altro dei pasticci in cui si infila praticamente ogni
mese.” “Questa volta è un fatto grave:
la vittima è Malley” proseguì Parrish
in tono deciso. “Non l’ho ucciso!”
protestò Frank ad alta voce. “Si è
sparato da solo!”
Harriett annuì. “Parrish, toglili le manette.
Garantisco io per lui. Frank è incapace di recitare
così bene” “Ma signor
capitano-” si lamentò Parrish. “Niente
ma” rispose Harriett. L’agente si grattò
di nuovo la testa, pensieroso, ma sotto lo sguardo determinato della
sua superiore liberò Frank dalle manette.
CAFFE’ PASCUCCI
Il locale trasmetteva un senso di calore, forse per gli interni in
legno, forse per il soffitto rosso. Jane e Patricia si erano appena
accomodate ad un tavolo in un angolo.“Davvero non eri mai
stata qui?” chiese Jane a Patricia con decisa
incredulità. “Mai” rispose
l’avvocato “Non mi piace il
caffè” spiegò. “Ti
ricrederai. Il cappuccino di zio Al è la fine del
mondo” ribattè allegramente Jane. Patricia
alzò le spalle.
Un cameriere sulla cinquantina, piuttosto robusto, si
avvicinò alle due donne. “Che cosa prende la mia
signorina?” chiese sorridendo a Jane.
Aveva un pesante accento italiano. “Due cappuccini”
rispose Jane, sorridendo a sua volta. “Uno per me e uno per
la mia amica” Patricia aprì la bocca per
obiettare, ma l’uomo se ne era già andato.
“Servizio rapido” commentò in tono
asciutto. “Come mai eri tornata in agenzia?”
domandò dopo un breve attimo di pausa.
Jane si leccò le labbra e rimase in silenzio per un attimo,
prima di rispondere. “Mi servono soldi. Mia madre soffre di
cancro, le cure sono sempre più costose.” Patricia
rimase senza parole per alcuni secondi. “Mi
dispiace” mormorò a bassa voce. “Non
è colpa tua” ribattè Jane.
“Vorrà semplicemente dire che farò
molti straordinari”. “Se disposta a fare molti
sacrifici per tua madre." commentò seccamente Patricia.
“Anche tu lo faresti, per la tua” disse Jane in
tono naturale.
Patricia fece una smorfia. “Mia madre non può
ammalarsi. Una malattia è una cosa decisamente troppo umana
per un essere perfetto come lei” rispose in tono fra
l’amaro e il sarcastico. Jane la fissò incuriosita.
CENTRALE DI POLIZIA-SALA
INTERROGATORI
“Sei libero” annunciò White a Steven ,
dopo avere finito di leggere il rapporto della scientifica.
“Malley si è sparato, come dicevi tu. Resta da
capire il perché…tu puoi aiutarmi?”
“Non saprei cosa dirti. Diceva cose senza senso,
evidentemente delirava” replicò Steven.
“Posso lasciare questa sala o devo rimanere “a
disposizione”? “ concluse in tono solo leggermente
ironico.
“Terremo in consegna la tua arma, ma puoi andare”
rispose White “E può andarsene anche il tuo amico.
Abbiamo accertato che è un agente dell’Ottavo
Dipartimento”. Steven annuì e uscì
dalla stanza, incontrando Frank che stava discutendo animatamente con
Harriett. Parrish lo sorvegliava dall’altro lato del
corridoio. “Saluta i tuoi amici, si va…sempre che
tu abbia ancora voglia di seguirmi”annunciò Steven
. Frank annuì e salutò Harriett.
“Arrivederci, capitano.” “Arrivederci,
Frank. E non metterti in troppi pasticci questa volta.
Steven e Frank uscirono rapidamente dal posto di polizia. “Li
lasciamo andare così?” domandò Parrish,
stupito, a Harriett. “Naturalmente no. Seguili, penso che
questa volta Frank Beaumont abbia veramente fra le mani un caso che
scotta” replicò Harriett.
AUTOMOBILE DI STEVEN
“E’ strano che ci abbiano lasciati andare
così rapidamente, però.”
commentò Frank. Steven scosse leggermente la testa.
“Ci metteranno alle costole qualcuno e cercheranno di
scoprire il più possibile sulle nostre indagini”
rispose. “Allora che facciamo?” domandò
Frank con aria incerta. “Andiamo a trovare il famoso
fidanzato, Mr. Harvey Krakowski. Lascia che ci seguano, almeno
capiranno che razza di ginepraio è questa
indagine” concluse Steven, avviando l’automobile.
CAFFE’ PASCUCCI
La porta del locale si aprì di scatto, lasciando entrare
Dan. Jane sorrise al suo capo e lo invitò a sedersi.
“Sapevo che ti avrei trovato qui” iniziò
Dan “ma non mi aspettavo certo di trovare te,
Patricia”. “Jane mi ha
convinto”spiegò Patricia. “Diciamo pure
costretto, ma a fin di bene” commentò Jane.
“Sono contenta che tu sia venuto qui, capo, dovevo
parlarti” concluse.
“Spara pure, ma prima lasciami almeno sedere”
rispose Dan, accomodandosi su una sedia vicina. “Si tratta di
mia madre…Ginevra” iniziò Jane dopo
avere inspirato profondamente. “Come sta?” chiese
Dan quest’ultimo senza scomporsi. “Molto male. Le
servono delle cure speciali in una clinica privata. Ho pensato di
chiedere un prestito:farò molti straordinari”
rispose Jane, in tono forzatamente tranquillo.
“Dove dovrebbe essere ricoverata?” chiese Dan
appoggiando un braccio sul tavolo. “Al Saint James. Mi
servono ventimila dollari, ma ce la farò” rispose
con aria decisa Jane. Alle parole “Saint James” il
volto di Dan divenne bianco. Patricia notò un lampo di paura
negli occhi del suo capo, che non si seppe spiegare. “Volevo
solo chiederti un anticipo sullo stipendio. Ti ripagherò in
straordinarii” promise Jane. “Chi ti ha parlato del
Saint James?” le chiese Dan, tentando di dare alla sua voce
un tono naturale. “Un infermiere. Ma quale è il
problema?” replicò Jane. “Non
è l’ospedale adatto a tua madre. Sarebbe una spesa
inutile. Se servono delle cure più costose, non
c’è problema, può farle comunque al
Northwestern”.
“E’ una cura sperimentale”
affermò Jane scuotendo la testa. “Mi dispiace,
Jane, ma non credo che il Saint James sia una scelta adatta”
rispose seccamente Dan, alzandosi dal tavolo. “Ti
anticiperò lo stipendio solo se tua madre rimarrà
ricoverata al Northwestern.” “Perché?
Quale è la differenza?” esclamò Jane a
voce alta. “Spenderesti i tuoi soldi inutilmente. Non farti
tentare dalle false speranze. Mi dispiace” concluse Dan,
aprendo la porta del bar e precipitandosi fuori dal locale. Jane,
stupefatta, non ebbe modo di replicare. Patricia si alzò in
piedi e seguì Dan.
FREEMONT STREET, 13- CASA
DI HARVEY KRAKOWSKI
Steven e Frank erano già scesi dalla loro automobile e si
avvicinavano al villino al numero tredici. L’agente Parrish,
che li seguiva su un auto anonima, afferrò il suo cellulare
e si mise in comunicazione con Harriett.
CENTRALE DI POLIZIA
L’agente White passeggiava nervosamente nel corridoio.
Harriett, che teneva il suo telefonino premuto all’orecchio,
gli lanciò un’occhiata di rimprovero. “A
che numero?” mormorò nell’apparecchio.
FREEMONT STREET, 13
“Tredici, signora. Stanno per entrare, attivo il microfono
parabolico?” rispose Parrish, tamburellando con le mani sul
volante. All’improvviso notò Kerman e Taggart,
vestiti di nero, che si avvicinavano dall’altro lato della
casa. I nuovi arrivati erano entrambi armati di pistola. “Due
nuovi, armati, probabilmente ostili” riferì al
telefono Parrish. “Intervengo?”
CENTRALE DI POLIZIA
“Non ancora” ordinò Harriett
“Dobbiamo” iniziò, prima che una mano
muscolosa le strappasse di mano il cellulare. Stupefatta, Harriett si
voltò di scatto e si trovò faccia a faccia con
l’agente Gall. “Ridatemelo
immediatamente” esclamò. “Capitano
Hudson, vi consiglio di non complicare ulteriormente la vostra
posizione. L’agente White mi ha arrestato illegalmente, e voi
state interferendo in una indagine federale” rispose Gall,
sicuro di sé stesso. Harriett vide l’agente White
immobilizzato contro il muro da un uomo robusto che sventolava un
distintivo dell’FBI.
“Come può vedere, i miei colleghi sono venuti a
darmi una mano. Altri miei due uomini sono già sul
posto” continuò Gall, leggermente divertito.
“Agente Parrish” aggiunse portando il cellulare di
Harriett all’orecchio “ritorni alla centrale e
faccia arrestare Campbell e Beaumont dai miei colleghi” Non
vi fu risposta.
FREEMONT STREET, 13
Parrish aveva già lasciato l’automobile si era
diretto, pistola in mano, verso la casa. Steven e Frank avevano appena
suonato il campanello. Kerman e Taggart si arrestarono alla vista
dell’agente che avanzava verso di loro. “Mani in
alto!” tuonò Parrish.
Proprio in quel momento la porta si aprì e un ragazzo sui
venticinque anni si affacciò sul pianerottolo. Alla vista di
Steven e Frank, e soprattutto di Parrish che correva verso di loro con
la pistola spianata, il giovane si chiuse la porta alle spalle e si
rintanò all’interno. Kerman e Taggart
approfittarono della distrazione per aprire il fuoco.
Steven spinse Frank a terra e si tuffò a pancia in
giù a sua volta. Parrish, colpito alla spalla,
lasciò cadere la sua arma con un gemito di dolore. Taggart
sparò un paio di colpi che lo costrinsero ad arretrare
rapidamente verso la sua automobile. Steven strisciò verso
una finestra, si alzò improvvisamente in piedi, ruppe il
vetro con un calcio e la aprì, tuffandosi
al’interno della casa.
Il giovane lo guardò stupefatto “Non ho
niente!” urlò “Sono uno studente
universitario, i soldi ce l’hanno i miei!” Steven
gli fece cenno di tacere e aprì di scatto la porta,
trascinando Frank all’interno mentre Kerman e Taggart erano
impegnati in una sparatoria con Parrish.
“Chi siete? Chi sono quegli uomini? Cosa volete?”
balbettò in tono confuso il giovane. “Se
è per rapirmi, i miei possono pagare un riscatto in tempi
brevi.” Steven lo zittì con uno sguardo gelido,
quindi aiutò un altrettanto sorpreso Frank ad alzarsi in
piedi. “Sei Harvey?” gli domandò a
bruciapelo” Si, ma-” “La tua casa ha
un’uscita sul retro?” lo interruppe Steven.
“Sì, non la uso quasi mai.” Steven fece
un cenno a Frank e afferrò il braccio destro del giovane
“Seguici” gli ordinò. Frank prese a sua
volta il braccio sinistro del ragazzo e i tre i misero a correre
attraverso l’atrio. “E’ nel
corridoio” rispose il giovane allo sguardo interrogativo di
Steven.
L’investigatore privato annuì e, notando la porta,
la aprì con un calcio. I tre si precipitarono fuori.
“Ora statemi bene a sentire” iniziò
Steven “vado a riprendere la nostra auto. Voi rimanete qui e
se non torno entro cinque minuti, scappate” concluse,
strisciando lungo il muro della casa. “Fa sempre
così” si scusò Frank, porgendo una mano
ad un terrorizzato Harvey. “A proposito, io sono Frank
Beaumont” concluse con un sorriso orgoglioso.
VICOLO-VICINO AL
CAFFE’ PASCUCCI
“Mi avevi detto che la mia segretaria non sarebbe stata
coinvolta!” sbottò Dan al telefono. “Non
importa niente del fatto che lo abbiano fatto Loro, trova un modo per
tirarla fuori o il nostro accordo salta!” concluse, furioso.
Patricia lo raggiunse proprio in quel momento. “Devo
lasciarti, ci sentiamo più tardi”
mormorò Dan, concludendo la conversazione.
“Patricia, cosa ci fai qui?” esclamò
subito dopo, scrutando il suo avvocato.
“Signore, non pretendo di conoscere tutti i suoi segreti. Non
lo desidero nemmeno. Ma non ho potuto fare a meno di notare come il
nome “Saint James” la abbia sconvolto.”
iniziò Patricia, fissando Dan dritto negli occhi.
“Abbiamo tutti i nostri segreti, Patricia” rispose
Dan “Aiuterò Jane, ma sua madre non deve mettere
piede in quell’ospedale. Trova le parole giuste,
convincila.” Patricia annuì. “Un giorno,
molto presto, non ci saranno più segreti” promise
Dan. Patricia annuì di nuovo e si avviò verso il
locale.
Dan rimase a guardarla e sospirò. Riprese il suo cellulare e
compose un numero. Patricia lo osservò attentamente e prese
a sua volta il suo telefonino.”Sono io” si
presentò “Ho delle informazioni che ti potrebbero
interessare” “Che sorpresa” rispose la
voce del messicano che aveva incontrato allo zoo. “Che cosa
hai da dirmi sul tuo nuovo collega?” “Niente su di
lui. Ma il mio capo è rimasto sconvolto da un certo
“ospedale Saint James”. Spaventato come non lo
avevo mai visto. Ti interessa?”
Il messicano si mise a ridere. “Faresti qualsiasi cosa per
riavere quella cassetta, vero?” commentò
divertito. “Non mi dici niente che io già non
sappia. Il tuo capo è una pezzo importante nel nostro
gioco.” “Quale gioco?” domandò
Patricia spazientita. “Ti piacerebbe saperlo,
vero?” la stuzzicò il suo interlocutore.
“Ottimo lavoro comunque, così ti voglio”
concluse. Patricia non riuscì a rispondere e si morse la
labbra.
FREEMONT STREET, 13
Kerman e Taggart stavano ancora sparando a Parrish, che aveva appena
ricaricato la sua arma e rispondeva al fuoco, costringendoli a
ripararsi dietro l’angolo del villino. “Non
lasciargli tempo di chiamare rinforzi!” urlò
Taggart a Kerman, che annuì e sparò quattro colpi.
Steven, nel frattempo, stava strisciando alle loro spalle verso la sua
automobile. Parrish lo notò e aprì il finestrino
destro della sua automobile, puntando la pistola nella sua direzione.
“Fermo!” urlò, mentre Kerman si voltava
verso Steven sorridendo e prendendo la mira. Maledicendo Parrish,
Steven si tuffò dietro a una siepe e afferrò un
sasso.
Nel frattempo Taggart costringeva Parrish a rimanere nella sua
automobile con una raffica. Kerman si avvicinò alla siepe,
sempre sorridendo. “Giocare a nascondino non
servirà a molto” commentò ridacchiando.
Steven si alzò in piedi di scatto e lanciò il
sasso,colpendo Kerman in pieno petto. L’uomo si
accasciò con un gemito.
Steven ne approfittò e raggiunse la sua automobile. Taggart,
ancora impegnato a tenere a bada Parrish, non riuscì a
fermarlo. Steven avviò il motore, inserì la prima
e si lanciò nel giardino, passando sul retro della casa.
“Salite!” ordinò a Frank e Harvey. I due
non se lo fecero ripetere due volte e si tuffarono nella macchina, che
si allontanò a tutta velocità, costringendo
Kerman a tuffarsi nella siepe. Taggart tentò di bloccare
l’auto sparando alle gomme, senza successo.
FUORI
CITTA’-PIU’ TARDI
Steven parcheggiò l’automobile in una piazzola di
sosta. Harvey, seduto sul sedile posteriore vicino a Frank,
guardò fuori dal finestrino. “Non
c’è nulla qui” commentò, con
un accenno di paura nella voce. “E’ per questo che
ci fermiamo qui” rispose Steven. Frank annuì
soddisfatto.
“Cosa volete fare, torturarmi? Non so nulla, non ho
nulla!” si lamentò ancora Harvey. Frank
sbuffò “Noi siamo i buoni, razza di
testone!” esclamò “Non l’avevi
ancora capito? Ti abbiamo salvato la pelle! Vedi questo?”
aggiunse, sventolando il suo distintivo sotto il naso del povero Harvey
“Sai che vuol dire? Polizia, quindi buone notizie per te, a
meno che tu non sia uno dei cattivi della storia!” Harvey
annuì debolmente.
Steven si girò verso i sedili posteriori e fissò
il ragazzo dritto negli occhi. “Harvey, dici di non sapere
nulla, ma non è vero” cominciò
“Conosci una ragazza di nome Paula Cantrell?”
“Non ho mai sentito quel nome!” sbottò
Harvey. “E allora come mai sua madre ci ha detto che eri il
suo fidanzato?” chiese Steven in tono secco. “Si
sarà confusa con qualcun altro”replicò
Harvey, visibilmente nervoso. “Già, il numero
tredici di Freemont Street deve essere pieno di Harvey
Krakowski.” commentò Steven in tono sarcastico.
“Poche storie. Tu conoscevi Paula meglio di chiunque altro.
Di sicuro meglio di sua madre, che non se ne curava più da
anni.”
“Ti ripeto che non so di chi stai parlando” rispose
Harvey. “Era bella, non è vero?”
continuò Steven, ignorandolo “Talmente bella che
non riuscivi a credere che potesse stare con uno come te, e infatti era
una ragazza povera ma furba e tu uno stupido ragazzo ricco. Forse
quando è sparita lo hai capito e ti sei sentito preso in
giro, umiliato, la hai immaginata che rideva fra le braccia di un
altro.” “Basta!” sbottò Harvey
“Lei non è così!”
sibilò fra i denti. “Non è
così chi? Non dicevi di non conoscerla?”
rilevò Steven. Harvey si morse la labbra.
“La conosco” ammise dopo una breve pausa.
“Continua” lo esortò Steven.
“Era la mia ragazza. Frequentavamo lo stesso locale, il
“Greenwich”, è un posto piccolo , ma la
musica è molto buona. Lei era, cioè è,
fantastica. In tutti i sensi: sexy, simpatica e intelligente. E non le
importava niente dei miei soldi” aggiunse, in tono convinto.
Frank sorrise divertito “Beh, non puoi saperlo.
Magari…” iniziò, fermandosi quando
notò lo sguardo gelido di Steven. “Cosa sai sulla
sua famiglia?” domandò Steven in tono calmo.
“Non molto. La madre è una vecchia strega, fa
spavento. Non c’era un padre, o almeno Paula non sapeva
niente. Fratelli o sorelle non ne aveva. Mi aveva parlato di una zia
una volta, ma non me ne ricordo bene…”
“Perché non volevi parlarne?” chiese
ancora Steven. Harvey sospirò. “Io non so nulla
della sua scomparsa. Ci eravamo lasciati tre mesi prima. Lei non aveva
voluto dirmi perché, solo che non eravamo “fatti
per vivere insieme”. Ho sofferto come un cane, ma
è stato anche peggio quando è sparita. Mi hanno
fatto molte domande. Tutti: poliziotti, assistenti sociali, persino i
miei. Un poliziotto si era anche convinto che l’avessi uccisa
io.” “E l’hai fatto?” chiese
Frank facendo una smorfia. Steven alzò gli occhi al cielo,
ma non disse nulla.
“Vi ripeto che non so nulla di come se ne è
andata! Viveva con i suoi amici, i Polk, da un mese. Parlate con
loro” “I Polk sono morti”
ribattè seccamente Steven. “Non
c’è nulla di strano, di insolito diciamo, che hai
notato in Paula? Qualche mistero, qualche frequentazione particolare?
Magari un diario segreto?” “Diceva sempre di essere
troppo vecchia per avere un diario” rispose Harvey, scuotendo
la testa. “Non mi viene in mente nulla.”
“Fai uno sforzo” lo incitò Steven.
Harvey rimase in silenzio per qualche istante, prima di esclamare:
“Le due ore vuote”.
“Ore vuote? Che razza di linguaggio è, lo hai
inventato tu?” chiese Frank in tono leggermente beffardo.
Steven gli afferrò il posto e lo strinse, facendolo
smettere. “Ogni venerdì non la vedevo per due ore,
dalle due alle quattro. Mi aveva raccontato di passarle in piscina, ma
una volta ho avuto una botta di gelosia e l’ho seguita. Mi ha
seminato nella metropolitana, così non dove era diretta, ma
di sicuro non andava in piscina. Il giorno dopo ha detto di avermi
visto e mi sono vergognato come un ladro. Le ho chiesto dove era
andata, ma non mi ha risposto. Si è solo arrabbiata per la
mia mancanza di fiducia” Steven annuì.
“Niente altro?” domandò fissando Harvey
dritto negli occhi.
“Non mi ricordo altro” rispose Harvey, distrutto.
“Adesso mi arresterete, vero?” “Non ci
abbiamo mai nemmeno pensato” rispose Steven.
“Ascoltami: ti stanno cercando. Non so perché, ma
la tua ragazza scomparsa è roba che scotta. Hai visto che
c’è gente disposta ad uccidere per il suo segreto.
Il mio consiglio è uno solo: vattene. Hai amici da qualche
parte fuori Chicago?”
“No… a meno che non contiamo un’amica di
Paula. Si chiama Zoe qualche cosa Vive a Delavan, vicino al lago.
Andavamo da lei qualche volta…ha un loft e dava le chiavi a
Paula” Steven si immobilizzò e lo
scrutò incredulo. “Perché non me lo hai
detto prima?” “Non me lo avevi chiesto!”
sbottò Harvey.
“Bene. Allora i nostri piani cambiano. Si va tutti a Delavan,
e tu ci farai da guida” proclamò Steven.
“Cosa…perché?”
protestò il ragazzo. Frank sbuffò di nuovo.
“Capisco perché quella povera ragazza ti ha
lasciato: come computer saresti un Game Boy! Sei proprio tonto, non
capisci che se quella Zoe è amica di Paula forse sa
qualcosa?” “Ma io non posso andarmene
così…ho da fare… e poi non so
nulla!” si lamentò Harvey.
“Se preferisci rimanere qui e lasciare che i nostri amici ti
aprano un terzo occhio in mezzo alla fronte o ti spediscano in galera
per un paio d’anni, accomodati” commentò
Steven. “Se invece ci tieni alla pelle e alla
libertà, portarci a Delavan è un buon primo
passo” Harvey sospirò ancora e annuì.
“Delavan, arriviamo” commentò Frank,
mentre Steven avviava il motore.
NORTHWESTERN HOSPITAL
L’infermiera Katie vegliava nel corridoio dei lungodegenti,
mangiandosi le unghie. Un rumore sommesso di passi si fece sempre
più forte. Katie si girò di scatto, incontrando
Parker, il falso infermiere che aveva consigliato la clinica
“Saint James” a Jane. Katie scrutò il
nuovo venuto. “Non ti ho mai visto”
sbottò. “Che ci fai qui?”
“Sostituisco Collins. Si è preso un brutto
raffreddore” rispose prontamente Parker.
Katie si rilassò. “E’ stato un bel
gesto” commentò. “Ti vedo stanca, ti do
il cambio?” suggerì Parker. Katie
annuì, soddisfatta. “Il turno di Collins finisce
fra sei ore. Pensi di farcela?” commentò
sbadigliando. “Certo” rispose Parker, con un
sorriso indefinibile. Katie annuì. “Buonanotte,
allora”
La salutò Parker. Katie rispose con un mugolio.
Parker aspettò che Katie fosse uscita dal corridoio per
entrare nella stanza di Ginevra Shelby. Si avvicinò al letto
della malata e prese una siringa che conteneva un liquido giallo da una
tasca del suo camice bianco e ne controllò la
quantità. Stava per iniettarla nel braccio di Ginevra quando
Katie entrò nella stanza. “Che stai
facendo?” sussurrò.
Parker abbozzò un falso sorriso. “Do la medicina
alla paziente” Katie scosse la testa. “Mi avevano
messo in guardia su un possibile attacco alla signora Shelby”
mormorò. “Ora li chiamo”. Parker,
disperato, afferrò la siringa e la iniettò nella
gamba di Katie , che urlò per il dolore, svegliando Ginevra,
che si mise ad urlare a sua volta per la paura.
Preso tra due fuochi, Parker diede un calcio a Katie e
afferrò la sua pistola. Katie si rifugiò a fatica
sotto il letto e compose un numero. “Aiuto!Vogliono uccidere
la signora Shelby!” urlò al telefono e a tutto
l’ospedale. Innervosito, Parker riafferrò la sua
siringa e, tentando di tenere ferma Ginevra, le iniettò il
contenuto in una spalla. La donna urlò di nuovo e Parker la
stordì con il calcio della pistola, per poi applicare un
silenziatore, chinarsi sotto il letto e sparare Katie, uccidendola sul
colpo.
Un rumore di passi si faceva sempre più vicino. Disperato,
Parker prese il corpo di Katie e lo sollevò a fatica fino ad
una finestra. Con un ultimo sforzo lo fece precipitare di sotto, non
prima di avere lanciato un’occhiata a Ginevra, che ora
giaceva priva di conoscenza sul suo letto. Parker uscì
rapidamente dalla finestra, evitando per un pelo di essere visto dai
tre infermieri che erano accorsi alle urla e raggiungendo la scala
d’emergenza.
I paramedici si affannarono attorno al corpo di Ginevra, urlandosi
l’uno l’altro istruzioni. Parker scese rapidamente
la scala d’emergenza e recuperò il corpo
malridotto di Katie, trascinandolo fino alla sua automobile per poi
partire rapidamente.
CASA DI DAN WEISSMAN
Dan stava vestendosi rapidamente. Il messaggio vocale che aveva
ricevuto dall’infermiera che aveva pagato per sorvegliare
Ginevra era stato uno shock. Doveva assolutamente arrivare in ospedale
al più presto.
Il suo telefono squillò di nuovo. Sbuffando di impazienza,
Dan prese rapidamente la cornetta. “Il signor
Weissman?” chiese una voce maschile all’altro capo
della linea. “Sono io. Perché mi ha
chiamato?” rispose rapidamente. “Sono un infermiere
del Northwestern Hospital. Abbiamo tentato di avvertire la signorina
Shelby, ma è irraggiungibile, forse ha spento il telefonino.
Lei era il secondo nome della lista.” riferì la
voce. “Quale lista?” chiese Dan.
Un brivido gli percorse la schiena. “Ci dispiace disturbarla
a questa ora, ma la signora Shelby ha avuto un collasso qualche minuto
fa. Se vuole avvertire la figlia e portarla qui.”
continuò l’infermiere.
“Un collasso? Quanto grave?” si informò
nervosamente Dan. L’infermiere sospirò
“Signor Weissman, Ginevra Shelby è
morta.”
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Capitolo 3 *** La casa sul lago ***
NEI CAPITOLI PRECEDENTI:
“Secondo i rapporti ufficiali, il nostro
“nuovo” acquisto” Patricia fece una
pausa, calcando sulle sue ultime parole con disprezzo “ha
continuato a parlare di una misteriosa “telefonata”
che avrebbe rivelato la sua copertura. Ma nessuno ha telefonato a
quell’ora.”
“Io e te sappiamo bene quanto i rapporti ufficiali siano
spesso…imprecisi…” commentò
Dan.
***********
Mentre il video le scorreva sotto gli occhi, e l’audio (un
lungo concerto di spari e urla, seguito da un mormorio quasi
impercettibile) rimbombava nella stanza, il volto di Patricia si
trasformò in una maschera di orrore “Oh mio
Dio” commentò sconvolta “Oh mio
Dio”.
*********
“Scoprirò ogni cosa sul conto di chi è
responsabile di tutto questo. E il giorno in cui sarà in
mano nostra…farò in modo che se ne ricordi per
sempre” concluse Steven a bassa voce, fissando il suo sguardo
sul sole che stava tramontando nel Lago Michigan.
**********
Il suo volto uscì dalle tenebre. Si trattava del terzo uomo
nella fotografia di Dan.
**********
Con un sorriso soddisfatto, Kerman strappò
l’indumento dal corpo, recuperando un mazzo di chiavi
nascosto al suo interno. Il mazzo era attaccato a un portachiavi
etichettato come “PAULA CANTRELL-LOFT”.
**********
“Il tuo collega è la chiave per arrivare alla tua
libertà. Tu continua ad informarmi su di lui, e un giorno,
quando te lo sarai meritato, l’originale di quella cassetta
sarà tuo.” concluse il messicano, Patricia si
tolse gli occhiali scuri, rimanendo per alcuni secondi a fissare la
schiena dell’uomo che si allontanava lentamente.
************
L‘uomo, quando fu chiaro che Jane non lo poteva
più sentire, prese il suo telefonino e compose un numero.
“Sono Parker. Il primo contatto con la seconda potenziale
talpa è stato effettuato” comunicò
freddamente.
************
“Si chiama Zoe qualche cosa. Vive a Delavan, vicino al lago.
Andavamo da lei qualche volta…ha un loft e dava le chiavi a
Paula”
************
“Un collasso? Quanto grave?” si informò
nervosamente Dan. L’infermiere sospirò
“Signor Weissman, Ginevra Shelby è
morta.”
CAPITOLO III: La casa sul lago
SEARS TOWER, PIANO
42-INTERNO 8
QUATTRO
ANNI FA
L’ufficio, perfettamente arredato, era completamente vuoto.
La scrivania, di mogano purissimo, era stata girata in modo da godere
al meglio della splendida vista sul lago Michigan. Nonostante fosse
tarda notte, le luci della città garantivano una luce
discreta, che illuminava la sedia in pelle e gli scaffali di legno
pregiato, conferendo alla stanza un aspetto crepuscolare.
All’improvviso la porta dell’ufficio si
aprì di scatto, permettendo a due uomini di entrare. Il
più alto dei due era l’uomo della fotografia di
Dan, l’uomo che, molti anni dopo, avrebbe incastrato Steven.
L’altro era Dan in persona.
I due si fermarono vicino alla scrivania. Dan appoggiò i
gomiti sul mobile, sospirando profondamente. Il suo compagno,
decisamente più rilassato, si accese una sigaretta ed
inspirò lentamente il fumo, quasi assaporandolo.
“Non c’è niente di meglio di questa
sera” sentenziò “Una notte serena, un
amico con cui discutere, un pacchetto di sigarette.
Felicità, perfezione e pienezza di vita”.
Inspirò di nuovo. “Non sei d’accordo,
Dan?” Dan non rispose se non con una smorfia di scarsa
convinzione. “Potrei fare degli esempi diversi di quello che
intendo come felicità, ma sarebbero fuori luogo,
Virgil” commentò .
Virgil annuì lentamente, appoggiandosi alla finestra.
“Eppure è uno spettacolo magnifico. Mi ricordo
ancora di quando lo vidi per la prima volta: non riuscivo a credere ai
miei occhi” continuò, quasi estasiato
“Milioni di persone sotto di te, ignare, che vivono la loro
vita… Chi arriva qui è sopra ogni giudizio, al di
là di ogni possibile vendetta, o meschina ritorsione.
E’ così che si sente Dio, quando ci
osserva” concluse. Dan non obiettò: sembrava
nervoso e vagamente a disagio.
“La tua pistola, Dan” ordinò Virgil in
tono secco. “Prendila dalla tasca destra e appoggiala sulla
scrivania”. Stupefatto, Dan si bloccò per un
attimo. “Come hai fatto ad indovinare?”
mormorò. “Andiamo…”
obiettò Virgil, sorridendo. “Sapevo me la avresti
portata…lo fai sempre” Dan non rispose:
semplicemente, frugò nella sua tasca destra e
appoggiò una automatica sulla scrivania, togliendo il
caricatore che si infilò in tasca. Virgil premette un
pulsante e le luci dell’ufficio si accesero. La luce
improvvisa quasi accecò Dan, che si dovette riparare gli
occhi con una mano.
“Da quanto tempo ci conosciamo, Dan?”
domandò Virgil. “Dieci anni” rispose
Dan, senza riuscire a guardare negli occhi l'uomo a cui aveva risposto.
“E siamo amici, non è vero?”
continuò Virgil. Dan non rispose. “Dan, capisco
come ti senti. Mi sentivo anche io come te, due anni fa. Avrei voluto
piantare una pallottola in testa all'uomo che mi aveva introdotto nelle
Sequoie. Ma passerà, vedrai” concluse Virgil,
concedendosi una seconda sigaretta. “Quello che ti hanno
chiesto, ciò a cui hai rinunciato...non è nulla,
rispetto a ciò che riceverai” spiegò.
“Sei come un bruco che rimpiange il bozzolo che ha dovuto
abbandonare..ma non sa che diventerà una farfalla”.
“Voglio uscirne, Virgil. Lascio le Sequoie.”
rispose Dan, fissando il suo amico negli occhi per la prima volta
dall'inizio della conversazione. “Non si esce dalle Sequoie,
Dan” osservò Virgil, spegnendo la sua sigaretta in
un posacenere nero. “Non mi importa. Uccidetemi pure, se
volete” rispose Dan. “Non funziona
così.” obiettò Virgil “Non ci
sono punizioni per chi decide di abbandonarci...semplicemente, nessuno
può farlo. Te ne accorgerai”.
“E se domani mattina entrassi nel commissariato
più vicino, e rivelassi tutto ciò che so, Virgil?
Che cosa fareste?” chiese Dan, in tono provocatorio. Virgil
si limitò a scuotere la testa. “Chi ti
crederebbe?” si limitò a rispondere. Dan non
rispose. “Riposati, Dan” disse Virgil
“Hai già fatto abbastanza. Un giorno, quando
avremo bisogno di te, ti contatteremo di nuovo” concluse.
CASA DI DAN WEISSMAN
PRESENTE
“Signor Weissman, Ginevra Shelby è
morta.” Le parole dell'infermiere paralizzarono Dan, che si
riprese solo dopo alcuni secondi “Avverto subito la signorina
Shelby. Grazie per avermi chiamato” rispose Dan , in tono
meccanico, rimettendo la cornetta al suo posto.
Per alcuni secondi non reagì, rimanendo immobile, come se un
improvviso colpo alla testa lo avesse tramortito. All'improvviso
afferrò il telefono e compose un numero.
LUOGO SCONOSCIUTO
Virgil sedeva alla sua scrivania, osservando il suo portatile e
scuotendo la testa “Questo complica tutto”
mormorò fra sé e sé. Il suo telefonino
suonò le note dell'inno americano. Virgil lo prese in mano e
lo portò all'orecchio. “Hanno ucciso la madre
della mia segreteria” gli comunicò freddamente Dan
attraverso il cellulare.
Virgil aggrottò le sopracciglia “Strano, non
è nel loro stile” rispose. “Nel loro
stile?” urlò Dan, infuriato. “Una donna
innocente è morta, anche per colpa tua, e tu dici solo che
non è nel loro stile?” “Da quanto mi hai
detto, era una donna molto malata. Avrebbe potuto morire domani, o
dopodomani. E non l'ho uccisa io, Dan” obiettò
Virgil. “Così come non hai ucciso la partner del
mio nuovo detective, non è vero?”
ribatté Dan, urlando sempre di più.
“Lamentarsi non riporterà quelle due donne in
vita, Dan. Ovviamente non vorrei mai che queste cose accadessero, ma
quella che combattiamo è una guerra. I civili, purtroppo, a
volte rimangono uccisi.” spiegò Virgil, rimanendo
calmo. “Piuttosto, fossi in te licenzierei il tuo avvocato,
Patricia Lawford. Ha un passato..non proprio esemplare, diciamo...e
potrebbe essere facilmente ricattabile” Dan non rispose.
“Tu non lo sapevi, vero Dan?” insinuò
Virgil.
“Non sono cose che vi riguardano” rispose Dan in
tono brusco. “Hai un curioso senso della moralità,
Dan. Non accetti che degli innocenti muoiano, e assumi una donna come
Patricia Lawford pur sapendo ciò che ha fatto...”
osservò Virgil. . “Le consiglierò di
trovarsi un nuovo lavoro” rispose Dan dopo alcuni secondi.
“No, aspetta” lo interruppe Virgil “Se
lei sa che tu sai del suo passato, forse possiamo usarla”
“Le persone non sono manichini nelle nostre mani,
Virgil!” obiettò debolmente Dan. “Oh,
andiamo. So che tu preferisci chiamarlo un modo per rimediare ai tuoi
errori, ma tu manipoli le persone che ti circondano come e
più di me” concluse Virgil, leggermente divertito.
“Ecco cosa farai...” proseguì.
PRIVATE LIES
Starring:
Skeet Ulrich as Steven
Campbell
Jennifer Morrison as
Patricia Lawford
Philip Baker Hall as Dan
Weissman
And
Rainn Wilson as Frank Lee
Beaumont
Guest stars:
Sophia Bush as Zoe
Joel Gretsch as Taggart
Karl Urban as Kerman
Jack Coleman as Agent Gall
David Gallagher as Harvey
Krakowski
Cheech Marin as The
Mexican
Jessy Schram as Jane
Shelby
DELAVAN. SULLA RIVA DEL
LAGO
L'automobile di Steven e Frank percorreva una strada che costeggiava il
lago di Delavan. I fari illuminavano le poche case nei dintorni, tutte
ville ben arredate, circondate da giardini perfettamente curati.
All'interno dell'automobile, Frank continuava a lanciare occhiate
glaciali ad Harvey, che si ostinava a sbuffare e a torcersi le mani.
“Ho un esame domani” mormorò
l'ex-fidanzato di Paula in tono petulante. “Davvero non
capisco cosa ha potuto trovare una ragazza come quella in una mezza
cartuccia come te” ribatté Frank. Steven,sibilando
fra i denti, sterzò leggermente, facendo cadere Frank
addosso ad Harvey. “Sei impazzito?” urlò
stupefatto Frank. “Se non la smetti, ti faccio cadere nel
lago” obiettò Steven “Finiscila di fare
l'idiota e stai zitto. Sei il peggior partner con cui ho
lavorato.”
“Ah, sì, sai che ti dico, Hollywood? Che senza di
me, tu non andresti da nessuna parte!” rispose Frank, offeso.
Steven scoppiò a ridere. Frank alzò le spalle,
mettendo il muso. “Non ti meriti un partner come me...sono
sprecato con un californiano” continuò, mentre
Steven tentava a fatica di rimanere serio. “E'
laggiù! Quel capannone, dopo il canneto” li
interruppe Harvey, indicando un magazzino grigio che spiccava fra le
foglie degli aceri che circondavano il lago. Steven annuì e
accelerò leggermente.
L'automobile si fermò in uno spiazzo invisibile dalla
strada, nascosto come era dal canneto. Steven uscì
immediatamente, mentre Frank si trascinò dietro Harvey, che
sembrava decisamente riluttante. “E se la polizia e quei tizi
sono anche qui?” borbottò. “Mi hai detto
tu che nessuno sapeva di Delavan a parte te e Paula...e se hanno
cercato di catturarti, evidentemente non lo sapevano nemmeno
“Loro”...” replicò Steven in
tono asciutto, chiudendo le porte dell'automobile. Harvey
annuì, non molto convinto.
“Da dove si entra?” chiese Frank, esaminando il
magazzino. Harvey deglutì e si avviò verso
destra, seguito subito da Steven e Frank. Arrivato davanti ad una porta
rossa Harvey iniziò a battere il pugno secondo un ritmo
preciso. “E' così che ci presentavamo, io e
Paula” spiegò “Era una specie di
gioco...” “Direi piuttosto un codice”
obiettò Steven.
All'improvviso la porta si aprì scricchiolando.
“Zoe? Sei in casa?” chiese Harvey, affacciandosi
all'interno. Il magazzino era completamente buio. “Non
c'è..strano..” mormorò Harvey. Due mani
femminili lo afferrano per il collo, trascinandolo all'interno. Frank e
Steven si precipitarono a loro volta nel magazzino. Le luci si accesero
di colpo, rivelando tre sedie disposte attorno a un tavolo sporco, e un
po' di mobilia in cattivo stato. Una bella ragazza dai capelli scuri
teneva un fucile a canne mozze puntato contro di loro. Harvey stava a
terra, le mani dietro la testa. “Posate le armi a terra o vi
uccido!” urlò la ragazza. Harvey urlò
“Sono con me, Zoe! Ti puoi fidare!” La ragazza
sembrò non ascoltarlo.
“Armi a terra, ho detto!” urlò di nuovo,
agitando il fucile. Steven alzò la sua pistola sopra la
testa e la lasciò cadere. “Harvey sta dicendo la
verità, Zoe” disse Steven “Non vogliamo
farti del male” “Zitto!” gli
ordinò Zoe. “E a terra!”
Steven fece finta di chinarsi e si avvicinò a Zoe,
strappandole il fucile di mano e puntandoglielo contro. “Se
volessi ucciderti, ora potrei farlo” le spiegò.
Zoe deglutì, impaurita. Senza aggiungere nulla, Steven
lasciò cadere il fucile a terra. “Ora mi
credi?” chiese. Zoe annuì, lasciandosi cadere su
di una sedia. Harvey si rialzò timidamente, mentre Frank
riprendeva la pistola di Steven. “Che cosa volete,
allora?” mormorò Zoe. “Notizie su Paula
Cantrell. E' scomparsa, e delle persone, persone che non si fanno
problemi ad ammazzare gente innocente, la stanno cercando. Credo che tu
sai di chi parliamo...” iniziò Steven. Zoe scosse
la testa. “Paula mi aveva solo detto che ci sarebbero stati
uomini pronti a uccidere, o a torturarmi, per sapere tutto su di lei da
me. Non mi ha mai detto perché o chi”.
Steven si morse la labbra. “Non ti hai detto chi? E tu le hai
creduto?”chiese, in tono scettico. “Era la mia
migliore amica” rispose Zoe, aggressiva. “Non le ho
chiesto nulla, degli amici ci si fida e basta.” Frank
annuì, ma un'occhiataccia di Steven gli fece tornare il
muso. “Da quanto tempo la conoscevi?”
iniziò Steven sedendosi di fronte a Zoe. “Chi sei,
un poliziotto?” chiese Zoe, in tono di sfida. “Una
specie” rispose Steven “Ma siamo tutti nella stessa
barca. Gli uomini di cui hai paura hanno quasi ucciso me, il mio
collega e Harvey. Paula è scomparsa, noi vogliamo solo
ritrovarla e rimanere vivi, potendo”. Zoe annuì di
nuovo. Harvey tentò di sedersi sulla terza sedia, ma fa
preceduto da Frank, e fu costretto a sedersi per terra.
“La conoscevo da tre anni, ma avevamo legato come
sorelle” rispose Zoe, aggiustandosi i capelli e rivelando una
brutta cicatrice sopra l'orecchio destro. “Vedete questa? Me
l'ha fatta un porco a Chicago tre anni fa. Paula è
l'infermiera che mi ha curato, e che mi ha aiutato a denunciare quel
maiale, senza impicciarsi degli affari miei, o di come lo avessi
conosciuto, o del mestiere che facevo.” Harvey
spalancò la bocca, inebetito. “Il mestiere...tu
eri una prostituta?” biascicò sorpreso.
“Complimenti, Sherlock!” rispose Zoe, applaudendo
sarcasticamente. “A volte mi chiedo che cosa ci trovasse
Paula in te!” “Ce lo chiediamo tutti!”
aggiunse Frank, sorridendo. Steven incalzò “Paula
era un'infermiera, dunque? In che ospedale lavorava?”
“Prima al Memorial, quando mi ha aiutato, poi al Saint James.
Ma il Saint non le piaceva, così aveva smesso...poco prima
di incontrare quell'idiota.” concluse Zoe, indicando Harvey,
che non rispose. “Dove lavorava prima di
scomparire?” continuò Steven.
“Non lavorava” rispose Harvey all'improvviso
“Era tornata all'università, studiava nel mio
corso...” Zoe alzò gli occhi cielo, ma
annuì. “Aveva stoffa come segaossa e ci sapeva
fare con la gente. Mi aveva persino chiesto di venire a studiare con
lei” concluse, sorridendo all'idea. “Ma non si
diventa una dottoressa lasciando il marciapiede, succede solo nelle
favole. No, io ora vivo e lavoro qui, ho trovato un posto in un
negozio, mi aiutato Paula”
Steven annuì. “Sapevi nulla delle due ore che
Paula trascorreva da sola ogni settimana?” Zoe scosse la
testa. “La regola era nessuna domanda., lei non me ne aveva
mai fatte. Ma da quello che ho capito aveva per le mani qualcosa di
grosso.. da quando aveva mollato questo pollastro, mi diceva
continuamente di non aprire agli sconosciuti e di tenere delle armi a
portata di mano.”
Harvey si alzò in piedi. “Mi riportate a casa
ora?” si lagnò, ma nessuno gli rispose.
“Avevi dato delle chiavi di questo loft a Paula?”
chiese Steven. Zoe rise. “Sì, lei lo chiamava
“il loft”. Avevamo fatto delle chiavi gemelle, un
mazzo per me e uno per lei, e avevamo persino scritto i nostri nomi
sulle etichette. Paula adorava l'ordine, io invece sono una
sciattona”
“Sai nulla sulla sua sparizione?”
domandò ancora Steven. “Niente di niente..mi
piacerebbe...ma Paula è svanita dalla sera alla
mattina...gli sbirri sono persino venuti a parlarmi, li ha mandati qui
quel genio del suo fidanzato. A loro non ho detto nulla, ma tu potevi
farmi fuori e non lo hai fatto..e non sei uno sbirro, altrimenti mi
avresti mostrato un distintivo o roba del genere” concluse
Zoe, accavallando le gambe. Steven annuì, guardandosi
attorno. “Paula potrebbe essere rimasta qui da
te...” iniziò. “E' quello che pensano
anche gli sbirri, mi hanno perquisito la casa. Purtroppo non
è così, non so dove sia, ma sono sicura che
è ancora viva.” “Come fai a
dirlo?” domandò Frank.
“La stanno ancora cercando, no?” rispose con aria
tranquilla Zoe. “Volete un tè?” aggiunse
all'improvviso. “Di sicuro ci sono molte altre domande che
volete farmi..” Steven annuì, mentre Harvey
iniziava a mordicchiarsi le unghie.
MAGAZZINO
Parker attendeva impazientemente, tamburellando con le dita sul volante
della sua automobile, parcheggiata all'interno dell'edificio illuminato
solo da pochi tubi al neon. Un uomo gli si avvicinò: nella
penombra del magazzino i suoi tratti divennero gradualmente sempre
più chiari. Era Taggart.
“Hai portato a termine il tuo compito?”
domandò in tono asciutto a Parker, che scosse la testa a
malincuore. “Ho dovuto ucciderla...lo ho iniettato una
siringa intera: mi aveva visto far fuori un'infermiera pagata da
Weissman per sorvegliarla”. Taggart lo scrutò
attentamente. “Non mi piacciono le brutte notizie”
proclamò. Parker deglutì, terrorizzato.
“Possiamo ancora usare Jane Shelby” si
scusò. “Possiamo farlo, è
vero” commentò Taggart. Parker tirò un
sospiro di sollievo. “..ma tu, ora, sei inutile...”
concluse l'assassino. Il viso di Parker si trasformò in una
maschera di terrore: Taggart aveva acceso un fiammifero e nello
specchietto retrovisore l'uomo vide Kerman, che trasportava una carica
di benzina.
Disperato, Parker si tuffò fuori dall'automobile, ma fu
fulminato dai colpi delle pistole di Taggart e Kerman. “Ci
cascano sempre...hanno sempre paura di morire bruciati”
proclamò Kerman, soddisfatto. Taggart annuì.
Kerman trascinò il corpo morto di Parker in un angolo.
Aprì un portellone, rivelando una fornace all'interno del
piccolo spazio. Senza fretta infilò il corpo di Parker nella
fornace e richiuse il portellone.
Taggart, nel frattempo, ispezionava l'automobile. “Quel fesso
aveva un cadavere nel portabagagli. E' una donna, probabilmente
l'infermiera di cui ci aveva parlato” annunciò.
“Portala qui” ordinò Kerman.
“Gall ci ha assicurato che quei poliziotti non sono
più un problema, nemmeno quello che abbiamo catturato e
spedito noi da lui, ma è sempre meglio far sparire tutte le
prove al più presto”.
CASA DI JANE SHELBY
Le note di “Arms of an Angel” di Sarah Mclachlan
riempivano la piccola stanza da letto di Jane, che, vestita con un
pigiama rosa ,faceva zapping sdraiata sul letto, tentando di distrarsi.
Un'occhiata all'orologio alle sue spalle le rivelò che ormai
erano le due di notte.
Proprio in quel momento il telefono squillò. Jane
alzò il volume della sua radio, ignorando la telefonata. Il
telefono continuò a squillare. Spazientita, Jane
afferrò la cornetta e urlò: “Qui casa
Shelby. Attualmente siamo fuori servizio e molto nervose. Non rompete
più.” “Jane, sono io.” le
rispose la voce di Dan. La ragazza fece una smorfia di irritazione.
“Non mi importa delle sue antipatie in fatto di ospedali,
capo. Mia madre andrà al Saint James. E se questo vuol dire
che sono licenziata, beh, allora ritirerò la mia
liquidazione domani”.
“Jane, ti devo parlare proprio di tua madre”
continuò Dan, sospirando. “Devi venire subito
all'ospedale.” La ragazza si bloccò, stupefatta.
“Oh mio Dio...” mormorò. “Sono
in macchina e vicino a casa tua. Ti ci porterò io”
le annunciò Dan. Senza perdere altro tempo Jane rimise a
posto la cornetta e afferrò un cappotto. Si
lanciò fuori dalla porta, mentre le note della canzone
svanivano in un mormorio confuso.
CENTRALE DI POLIZIA-SALA
INTERROGATORI
L'agente Gall e i suoi due sottoposti dell'FBI controllavano Parrish,
White il capitano Harriet Hudson, tutti e tre ammanettati a delle
sedie, come dei criminali. “Non dovrebbe tardare
molto...” mormorò fra sé e
sé Gall, attendendo vicino a un fax. Dopo alcuni secondi un
rumore meccanico lo fece sorridere: “Dipartimento di
Stato” iniziò a leggere ad alta voce, quando
l'apparecchio stampò la prima pagina. “Brutte
notizie per voi” commentò, squadrando i suoi tre
prigionieri. “Mi è arrivata l'autorizzazione a
effettuare le indagine sulla morte dell'agente Malley, firmata da Eamon
Scott , capo dell'FBI di Chicago” proseguì,
sventolando il foglio sotto gli occhi dei tre poliziotti “Il
caso è stato classificato come estremamente grave e
potenzialmente pericoloso per la sicurezza nazionale. Ciò
vuol dire che posso trattenervi per ventiquattro ore senza formulare
accuse”
White non riuscì a trattenersi e sputò a terra.
“Sicurezza nazionale un corno” ribatté
“Malley si è sparato, lo dice la scientifica e lo
avevano confermato quei due che stavamo cercando di seguire..ma voi
federali avete voluto pasticciare tutto..” Gall
annuì. “E' vero, signor White” rispose,
in tono serio “il signor Malley si è sparato...ma
legga pure il documento “ concluse, adagiando il foglio
davanti a White “ se non mi crede”. Harriet Hudson
lanciò un 'occhiata gelida al suo sottoposto, suggerendogli
di rimanere zitto. White obbedì, non senza squadrare Gall e
la sua autorizzazione con profondo disgusto.
“Ora, questo spiacevole incidente si può chiudere
qui...e personalmente me lo auguro...se mi comunicate tutto
ciò che sapete su Campbell e Beaumont”
incalzò Gall, scrutando attentamente i due uomini e la
donna. White si limitò a ricambiarlo con uno sguardo truce,
Harriet chiuse gli occhi e iniziò a scuotere la testa, ma
Parrish, più nervoso dei suoi compagni, si leccò
le labbra. “Li abbiamo trovati poco prima di lei, una donna
ci aveva chiamato per l'omicidio di un nostro collega”
sbottò all'improvviso. White e Harriet lo guardarono,
sconcertati. Dopo un istante White sibilò “Razza
di Giuda...”
“Continui, agente Parrish, la prego” insistette
Gall. Parrish evitò di guardare i suoi colleghi e
continuò “Siamo arrivati sul posto e abbiamo
trovato un corpo a terra, Dopo alcuni secondi, l'ho riconosciuto: era
Malley.” “Nessun altro dipartimento è
stato avvisato?” chiese Gall “Il suicidio di Malley
è noto solo a voi tre?” Parrish annuì.
“Ottimo” proclamò Gall
“L'ultima cosa di cui la polizia di Chicago ha bisogno
è uno scandalo del genere..” White
fissò Parrish con disgusto.
“Ora, se accettate di firmare questo documento..”
disse Gall, porgendo ai tre poliziotti tre faldoni, mentre gli agenti
FBI liberano i due uomini e la donna dalle manette. “Di che
si tratta?” domandò Parrish, sempre più
nervoso. “Vi impegnate a non rivelare nulla di questo caso,
pena la reclusione in un carcere federale” spiegò
Gall, posando tre penne a sfera sul tavolo. “Vai
all'inferno” esclamò White “Non siamo in
Cina” Harriet annuì “Lei può
avere anche il Presidente dalla sua, per ciò che mi
riguarda” annunciò a Gall “Non siamo
obbligati a firmare” “Ovviamente no...era un favore
nei vostri confronti” replicò Gall.
Parrish firmò immediatamente, alzandosi in piedi e
dirigendosi verso la porta. “Stia seduto” gli
intimò Gall. Parrish scosse la testa “Ho firmato,
posso andare, no?” chiese, pulendosi la fronte dal sudore.
“Non prima che i suoi colleghi si decidano a
firmare” ribatté Gall “ o che le mie
ventiquattro ore scadano. Io non ho fretta. E voi?” concluse,
fissando White e Harriet.
DELAVAN- IL
“LOFT” DI ZOE
Harvey continuava a passeggiare avanti e indietro nella stanza, sempre
più nervoso. “Ti vuoi dare una calmata?”
lo rimproverò Frank. Harvey non lo ascoltò.
Zoe fumava una sigaretta, annuendo mentre Steven le finiva di
raccontare gli avvenimenti che lo avevano condotto al
“loft” “...e adesso siamo qui”
concluse Steven. Zoe annuì di nuovo e spense la sigaretta in
un posacenere di plastica nera. “Paula deve essere finita
all'interno di qualcosa di molto grosso” commentò
Zoe. Harvey all'improvviso uscì dal magazzino.
“Dove vai?” gli domandò Frank.
“Devo avvertire i miei professori... voglio farmi rimandare
l'esame” si lamentò Harvey. “Beh, puoi
farlo qui davanti a noi” propose Steven, scrutando
attentamente Harvey. “A meno che tu non intenda chiamare la
polizia...il che sarebbe una mossa davvero stupida, visto quello che ti
è successo”
“Voglio andarmene!” protestò Harvey
“Mi state tenendo qui contro la mia
volontà...” “Contro la tua
volontà?” sbottò Frank “Ti
abbiamo salvato la vita!” “Non mi avrebbero
ucciso..volevano solo parlarmi...dirò tutto e la faranno
finita!” continuò a piagnucolare il ragazzo.
“Tutto cosa?” chiesero quasi contemporaneamente
Steven e Zoe. Harvey si morse le labbra “Tutto quello che ho
sentito...” mormorò. Steven scosse la testa.
“Tutto cosa?” ripeté. Harvey mosse lo
sguardo da Steven a Frank, a Zoe. Tutti e tre sembravano poco disposti
a lasciarlo in pace.
CASA DI PATRICIA LAWFORD
Patricia non riusciva a dormire. Accoccolata sul divano davanti alla
televisione spenta continuava fissare lo schermo vuoto, avvolgendosi
nella sua camicia da notte e tentando disperatamente di calmarsi.
Lo squillo del telefono la fece sobbalzare. Patricia si
lanciò sulla cornetta e la afferrò di scatto.
“Pronto?” rispose in tono ansioso. “Ciao
Pat! Che razza di voce, ti è morto il gatto?” le
rispose in tono amichevole una voce femminile.
“Mandy..è bello sentirti” rispose
Patricia, asciugandosi il sudore dalla fronte con una manica della
vestaglia. “Meno entusiasmo, o potrei pensare che non hai
niente di meglio da fare che ascoltarmi” scherzò
Mandy.
“Mi dispiace, non ho più pensato alla nostra
cena” rispose Patricia “ “Non ti
preoccupare, non fa niente” rispose Mandy
“Però dì al tuo capo che se ti carica
di lavoro domani sera, sarò costretta a rapirti. Ti serve un
po' di divertimento, e se vuoi invitare qualche amico, non farti
problemi!”. Patricia sorrise. “Non c'è
il minimo rischio...”rispose. “Allora ne
porterò uno io” replicò Mandy in tono
scherzoso. “Ti serve un po' di compagnia maschile!”
“Uomini? Comincio a preferire i cani: puzzano di meno e non
sanno mentire” ribatté Patricia. “OK,
allora facciamo una bella serata solo per noi ragazze...a
domani” concluse Mandy. “Aspetta, non so
se-” iniziò Patricia. “Poche storie:
domani davanti a casa tua. Passo e chiudo” la
bloccò Mandy chiudendo la conversazione. Dopo pochi secondi
il telefono squillò di nuovo. Patricia abbozzò un
rapido sorriso e riprese in mano la cornetta.
“Volevo dirti che ho degli impegni extra, non se potremo
cenare domani” disse immediatamente. “Beh, non ti
avevo ancora invitato, ma grazie” rispose la voce del
Messicano in tono canzonatorio. Patricia raggelò.
“Stavi ascoltando la mia conversazione?” rispose in
tono duro. “Domani mattina fatti trovare allo zoo”
replicò il messicano senza rispondere. “Ci
conto...” concluse. Patricia rimase con la cornetta in mano
per qualche secondo.
NORTHWESTERN HOSPITAL
L'automobile di Dan si fermò all'improvviso nel parcheggio.
Jane si precipitò fuori dalla macchina, tuffandosi nella
reception senza nemmeno aspettare che Dan la seguisse. “Dove
è?” urlò ad una sconvolta infermiera.
“Signorina, mi scusi ma..” rispose la donna,
avvicinando una mano ad un segnale di allarme. Jane inspiro
profondamente. “Sto cercando mia madre. Ginevra Shelby.
Oncologia. Mi hanno parlato di un collasso, voglio sapere dove
è e cosa è successo, subito”
ordinò. L'infermiera si morse il labbro inferiore.
“Non è più in oncologia”
rispose. “In rianimazione, allora.”
esclamò Jane, mentre Dan entrava dalla porta alle sue spalle.
“Jane...” sussurrò l'uomo. La segretaria
si voltò verso di lui. “Mi hanno detto dove
trovare tua madre..ti ci accompagnerò io”
concluse, rivolgendo un'occhiata significativa all'infermiera, che
annuì. Jane, relativamente più calma,
seguì Dan. L'uomo premette il pulsante dell'ascensore ed
entrò, seguito dalla ragazza. All'interno della cabina Dan
premette il pulsante che conduceva al primo piano. Jane si morse le
labbra, impaziente. Le porte dell'ascensore si aprirono pochi istanti
dopo, e Jane e Dan si precipitarono verso il reparto di rianimazione.
Un medico sulla quarantina notò Dan e gli rivolse un cenno.
Dan annuì, fermandosi e lasciando avvicinare il medico.
“Signorina Shelby, signor Weissman” li
salutò “Sono il dottor. Hart. “
“Come sta mia madre?” chiese immediatamente Jane.
Il dottore si schiarì la voce e scambiò un rapido
sguardo a Dan. “Il cuore di sua madre, signorina Shelby, era
diventato molto fragile. Le condizioni di sua madre erano
già compromesse dalla malattia...non è riuscita a
superare il collasso, mi spiace” concluse.
Jane si lasciò cadere su una sedia, stordita dalla
rivelazione. “Non è vero” rispose Jane
all'improvviso. “Non è vero, vi siete
sbagliati” continuò “Non è
mia madre, mia madre non è morta...”
“Jane...” le disse Dan, in tono triste, ma
estremamente calmo “purtroppo è così.
Mi hanno avvertito per telefono, non sono riusciti a
trovarti” Jane scosse la testa, trattenendo a stento le
lacrime. “Non è vero, voglio vederla. So che non
è lei” Dan e il dottor Hart si scambiarono
un'occhiata. “Non so se-” iniziò Hart.
“La accompagno io” tagliò corto Dan.
Il dottor Hart annuì e condusse Jane e Dan verso le scale,
accompagnandoli fino alla camera mortuaria. Jane continuava scuotere la
testa, senza parlare. Il dottor Hart aprì la porta, e Dan e
Jane si trovarono di fronte al corpo di Ginevra. La morte aveva
rilassato i muscoli facciali di Ginevra: la donna aveva un aspetto
calmo, e in qualche modo la sua bellezza sembrava rifiorita. Jane
lanciò un urlo e si avvinghiò a Dan, iniziando a
piangere. L'uomo strinse la ragazza in un abbraccio paterno, mentre il
dottor Hart si allontanava senza fare rumore.
“E' colpa tua” annunciò all'improvviso ,
staccandosi da Dan. “Tu non hai voluto che fosse ricoverata
al Saint James. Tu l'hai uccisa!” urlò. Dan non
rispose, limitandosi a chinare la testa. Jane rivolse un'occhiata al
corpo della madre. “Tu l'hai uccisa”
mormorò. “Lasciami sola”
“Jane..” iniziò Dan. “Ti ho
detto di lasciarmi sola!” urlò di nuovo Jane. Dan
uscì silenziosamente dalla stanza , non senza rivolgere un
ultimo sguardo alla sua segretaria.
DELAVAN- IL
“LOFT” DI ZOE
La fronte di Harvey si riempì di gocce di sudore.
“Stiamo calmi, no?” propose. “Noi siamo
calmissimi. Sei tu ad essere nervoso” gli fece notare Steven.
Zoe scosse la testa e allungò la mano destra verso il suo
fucile. Steven la bloccò, scuotendo a sua volta la testa.
“Non serve” spiegò “Ora Harvey
ci dirà tutto..vero Harvey?” concluse fissando
l'ex-ragazzo di Paula con attenzione. Frank sbuffò
“Per me il fucile è una buona idea”
commentò.
Harvey aprì la bocca per un istante prima di tuffarsi
all'improvviso verso la porta. Steven si alzò in piedi e
riuscì ad atterrarlo con un calcio alle gambe. Harvey
ululò per il dolore, ma si sollevò subito,
aprendo la porta del magazzino e mettendosi ad urlare. Steven lo
afferrò di nuovo, ma era troppo tardi: due pescatori avevano
assistito alla scena e uno di loro aveva già estratto il
telefonino.
“Dobbiamo andarcene subito” annunciò,
ritornando nel magazzino e trascinandosi dietro Harvey, che farfugliava
parole incomprensibile “La polizia sarà qui fra
poco, grazie a questo imbecille. Hai un'automobile?'” chiese
Steven a Zoe, che annuì. “Allora useremo la tua.
La nostra è stata di sicuro segnalata”
spiegò.
“Frank, aiutami a salvare la vita a questo stupido”
aggiunse. Frank annuì, e i due imbavagliarono Harvey con un
fazzoletto, afferrandolo per le mani e le caviglie. Zoe
afferrò delle chiavi “Usciremo dal
retro” annunciò. “La mia automobile
è a cento metri.” Steven annuì, mentre
lui e Frank sollevavano Harvey, che tentava debolmente di divincolarsi.
I tre uomini e la donna uscirono dal magazzino, tentando i correre nel
canneto che circondava la costruzione. I due pescatori li notarono
subito ed iniziarono a sbraitare. Uno di loro afferrò
addirittura la canna da pesca, sventolandola come una clava. Zoe si
tuffò in mezzo alle canne con agilità, ma Frank e
Steven erano impacciati da Harvey che si contorceva nel tentativo di
liberarsi e vennero raggiunti dai due pescatori.
“Lasciatelo andare” urlò il
più alto, un uomo calvo vestito di verde. Harvey
iniziò ad urlare attraverso il bavaglio. Steven fece cadere
Harvey a terra e il ragazzo trascinò con sé anche
Frank, che iniziò ad imprecare. Steven approfittò
di un attimo di distrazione dei pescatori per estrarre la pistola.
Stupefatti, i due uomini fecero cadere a terra le loro canne da pesca.
“Filate via” ordinò in tono calmo. I due
pescatori non se lo fecero ripetere due volte. Zoe uscì dal
canneto e aiutò Frank a tornare in piedi. “Di
là!” urlò. Steven annuì e,
con l'aiuto di Frank, spinse Harvey davanti a sé.
I quattro raggiunsero una vecchia Ford parcheggiata vicino ad una
sterrata. Zoe aprì rapidamente la portiera anteriore e
accese il motore. Steven e Frank aprirono le portiere posteriori e
scaraventarono Harvey sul sedile dei passeggeri. Frank si
accomodò vicino ad Harvey, mentre Steven prese posto di
fianco a Zoe. La ragazza chiuse le portiere e mise in moto
l'automobile, che si allontanò rapidamente dal parcheggio.
“Mi sono sporcato i vestiti,
dannazione!”imprecò Frank, cercandosi di ripulire
la sua giacca dalle macchie di fango che la ricoprivano. Né
Steven né Zoe lo degnarono di una risposta.
“Dobbiamo decidere dove andare subito. Gli sbirri di Delavan
sono lenti, ma abbiamo perso tempo.” spiegò Zoe.
“Lo so” rispose Steven. “Per questo
motivo ritorneremo subito a Chicago.” Zoe fece una smorfia,
ma non rispose, concentrandosi sulla strada.
Il suono di una sirena fece trasalire Steven e Zoe. “La
stradale” annunciò Frank, voltandosi a destra.
“Ci fanno segno di accostare...”
“Accelera” ordinò Steven a Zoe, che
annuì, premendo sempre di più il pedale
dell'acceleratore e distanziando l'automobile della polizia.
“Cosa state facendo?” domandò Frank,
spostando Harvey a sinistra. “Dobbiamo fermarci e raccontare
tutto! Questi sono poliziotti locali, non possono avere i loro uomini
in ogni corpo di polizia del paese!” esclamò.
“No, grazie, non voglio essere arrestato per
“errore” un'altra volta”
replicò Steven.
L'automobile della polizia stradale di Delavan si fece più
vicina. Zoe diede un'occhiata nello specchietto retrovisore e
sterzò rapidamente a sinistra, facendo sbattere Frank contro
il finestrino. Harvey approfittò della caduta per liberarsi
del bavaglio e mettersi ad urlare. Frank gli rifilò una
gomitata nello stomaco, mentre Zoe sterzava rapidamente a destra.
L'automobile della polizia fu affiancata da un'altra volante. Un agente
corpulento afferrò un megafono e annunciò a voce
alta “Qui è il Dipartimento di polizia di Delavan.
Accostate immediatamente!” Zoe si voltò verso
Steven. “Dì al tuo amico di reggersi
forte” annunciò. Steven annuì
“Allacciati la cintura e cerca di allacciarla anche a
lui” spiegò a Frank. Il poliziotto, sbuffando,
immobilizzò Harvey, che continuava a lamentarsi, e
riuscì ad allacciargli la cintura.
Zoe inspirò profondamente e accelerò, ruotando
completamente il volante. La Ford si girò di 180 gradi e
passò esattamente fra le due automobili della polizia.
Harvey urlò. Zoe accelerò di nuovo, distanziando
di molto i poliziotti che non erano ancora riusciti ad invertire la
marcia. “Siamo contromano!” urlò Frank.
Zoe alzò le spalle. “Non passa mai nessuno in
queste strade” spiegò, imboccando, sempre
contromano, una sterrata sulla destra.
Un trattore si muoveva lentamente nella sterrata. Mordendosi le labbra,
Zoe fece fare alla Ford un altro rapido testacoda, passando a pochi
centimetri dal trattore e spaventando a morte il contadino alla guida,
che le rivolse una serie di imprecazioni.
L'imprevisto aveva fatto avvicinare le automobili della polizia, che
ora proseguivano affiancate. Zoe fu costretta a rallentare fino quasi a
fermarsi per evitare uno scontro frontale. I poliziotti fermarono le
volanti, facendole segno di accostare. Zoe fermò
l'automobile, ma non uscì.
“Abbiamo un'ultima possibilità”
esclamò girandosi verso Steven. “Tagliamo per i
campi”annunciò. Frank aprì la bocca per
obiettare, ma Zoe stava già ricominciando ad accelerare,
sollevando una nuvola di polvere che ricoprì un agente che
si stava avvicinando alla Ford e svoltando in un campo arato da poco,
per poi ritornare sulla strada principale, lontano dai poliziotti. Zoe
guardò lo specchietto retrovisore e sorrise.
CENTRALE DI POLIZIA
L'agente Gall diede un'occhiata soddisfatta agli agenti di polizia che
vagano per i corridoi, gestivano i fermi e scrivevano i rapporti. Nulla
indicava la presenza dei suoi uomini nella centrale, o l'assenza del
captano Harriet Hudson e dei suoi sottoposti. “Tutto procede
alla perfezione, signore” gli annunciò un agente
FBI basso e dai capelli a spazzola. “Eccellente”
commentò Gall. “Quando la Hudson e White si
saranno decisi a firmare li faccia portare davanti alla Commissione
Disciplinare. Si assicuri che vengano licenziati e li tenga sotto
controllo” “E Parrish, signore?” chiese
l'agente. “Ha collaborato”.
Gall alzò le spalle “Faccia licenziare anche lui,
non sa nulla di realmente utile” concluse. L'agente si
allontanò con un mezzo inchino. Gall afferrò il
suo telefonino e iniziò a comporre un numero. Prima che
potesse terminarlo, tuttavia, un altro agente gli passò un
foglio. “Signore, credo che li abbiamo trovati”
annunciò “La polizia di Delavan sta cercando
quattro fuggitivi su una Ford. Le descrizioni di tre dei fuggitivi
corrispondono a quelle di Campbell, Beaumont e Krakowski”
Il volto di Gall si illuminò. “Mi faccia preparare
subito un'automobile” ordinò “ Non
dobbiamo assolutamente lasciarli fuggire”.
MAGAZZINO
Il telefono del magazzino si mise improvvisamente a squillare. Kerman
stava sorvegliando la fornace e invitò Taggart a rispondere.
“Taggart” si identificò quest'ultimo,
alzando la cornetta. “Andate subito a Delavan”
ordinò la voce di Gall. “Campbell è a
bordo di una Ford con due uomini e una donna. Ricordate che voglio
Campbell vivo- e possibilmente, nessun altro in quella automobile deve
morire.” “Ricevuto” confermò
Taggart, chiudendo la conversazione.
“Si va a Delavan” annunciò Taggart a
Kerman, che si mise a sbuffare. “Detesto i lavori lasciati a
metà” spiegò. Taggart alzò
le spalle ed aprì la portiera anteriore dell'automobile di
Parker. “Potrai continuare a distruggere le prove
più tardi” suggerì Taggart.
“Ora dobbiamo catturare Campbell” Kerman
annuì e girò una manopola, spegnendo la fornace.
WEISSMAN INVESTIGATIONS
Dan sedeva dietro alla sua scrivania, immobile. La sua mano destra era
appoggiata sul tavolo, mentre la sinistra giocherellava con la maniglia
di un cassetto. La porta dell'ufficio si aprì, facendo
entrare Patricia. Dan si rilassò.
“Ho dato tre settimane di riposo assoluto a Jane”
annunciò Dan. Patricia annuì debolmente.
“La perdita di un genitore è difficile da
sopportare” continuò Dan. Patricia
fissò il muro senza rispondere. Dan sospirò e
incrociò le dita. Patricia aspettò dell'attimo di
distrazione di Dan e appoggiò le mani sulla scrivania del
capo, afferrando le chiavi del cassetto. “Signore, purtroppo
devo darle una brutta notizia” iniziò. Dan
sollevò la testa e le rivolse un'occhiata interrogativa.
“Il caso Waldheim occuperà tutte le mie energie
per diversi giorni. Con Jane a casa e il nostro
investigatore” Patricia fece una breve pausa, dando alla
parola “investigatore” una sfumatura di disprezzo
“ attualmente irreperibile, l'agenzia rimarrà a
corto di impiegati...” Dan annuì. “Le
suggerirei di contattare il signor Campbell al più
presto.” continuò Patricia in tono sostenuto.
“Da quanto tempo ci conosciamo, Patricia?” rispose
Dan, fissando la donna negli occhi. Patricia rimase interdetta e
riuscì solo a mormorare “Signore?” Dan
scosse la testa. “Nessuno ti conosce meglio di me. Eppure tu
insisti a darmi del lei e a chiamarmi “Signore”.
“ Patricia si morse la labbra. “Rispetto la tua
decisione” continuò Dan “ E credo di
averne capito i motivi...ma questo non vuol dire che tu non possa
confidarmi i tuoi problemi. Posso aiutarti...” concluse Dan.
“Nessuno può” rispose in tono secco
Patricia, alzandosi in piedi.
Sospirando, Dan annuì “Vai pure,
chiuderò io” dichiarò. Senza
rispondere, Patricia uscì dalla porta principale. Dan attese
un attimo e diede un'occhiata al cassetto. Il suo telefonino
squillò. “E' andata tutto bene.” rispose
Dan, afferrando il cellulare. “Come avevi previsto, mi ha
chiesto un permesso e mi ha rubato le chiavi. Ho fatto in modo che
passi a Loro le informazioni false che abbiamo preparato”
“Ottimo” replicò la voce di Virgil. Dan
si alzò in piedi, specchiandosi nel vetro di uno dei suoi
quadri. “Il bruco è diventato una farfalla, come
dicevi tu, Virgil...ma è una farfalla vecchia e stanca di
mentire.” Virgil non rispose: la conversazione era stata
interrotta. Sospirando, Dan uscì dal suo ufficio chiudendolo
a chiave.
FUORI DALLA WEISSMAN
INVESTIGATIONS
“Ho recuperato le chiavi, ti consegnerò tutto al
più presto” disse Patricia al telefono.
“Brava, Pat. Hai appena fatto un altro passo verso quella
cassetta...e verso la tua libertà” le rispose la
voce del Messicano. “Ora vai: anche io ti do una giornata
libera” concluse il messicano, in tono canzonatorio
“Oggi è tempo di caccia” concluse
ridacchiando. La conversazione finì. Patricia trattenne a
stento le lacrime.
Un rumore la informò di un messaggio ricevuto. Patricia
riprese in mano il cellulare e lo lesse: proveniva da
“Corjeag”, e diceva “Il dibattimento
è fra mezz'ora. Cerca di esserci.”Patricia si
asciugò gli occhi ed entrò in macchina.
OTTAVO DIPARTIMENTO DI
POLIZIA DI CHICAGO
“Dove diavolo è Beaumont?” si
informò Davis, sbuffando. Nessuno gli rispose, a parte
un'agente donna che si limitò ad alzare le spalle.
“Dovevamo lavorare sul caso Cantrell, ed invece ha pensato
bene di sparire” continuò a lamentarsi.
Proprio in quel momento il Luogotenente Bronson fece il suo ingresso
nel dipartimento. “Dove è Beaumont?”
chiese rapidamente a Davis. “Non lo so, signore, lo stavo
cercando anche io, ma a quanto pare oggi non si è
presentato” Bronson alzò gli occhi al cielo.
“Deve solo pregare di essere qui entro tre ore, altrimenti
è licenziato” esclamò Bronson. Davis
annuì, leggermente soddisfatto.
A VENTI CHILOMETRI DA
DELAVAN
L'automobile di Gall sfrecciava sulla corsia di sorpasso.
“Dove avete detto che vi trovate?” chiese Gall al
cellulare, mentre ordinava a gesti all'autista di non rallentare.
DELAVAN
Il poliziotto corpulento conversava con Gall mentre il suo compagno
teneva gli occhi fissi sulla strada “A due miglia sud della
città, signor Gall” spiegò.
“Li abbiamo intercettati seguendo una segnalazione: due
pescatori avevano assistito a un probabile rapimento. Siamo intervenuti
al più presto.”
A VENTI CHILOMETRI DA
DELAVAN
Gall si fece passare una cartina geografica da uno dei suoi uomini
seduto sul sedile posteriore e iniziò a tracciare dei
piccoli cerchi sulle strade che dirigevano verso Chicago.
“Avete detto che li avete persi in un campo ad est della
statale...” “Esatto, signor Gall” gli
rispose la voce dell'agente di Delavan. “Benissimo. Voglio un
blocco stradale sulla statale, sull'Interstate e sulle due strade
locali ad est di Delavan” ordinò Gall.
“Ma, signor Gall.. in questo modo lasceremo a quei
delinquenti la possibilità di entrare a Chicago da
nord...” si lamentò l'agente.
“Mi occuperò io di quella via di fuga,
agente” spiegò Gall. “Grazie per la
collaborazione” concluse, chiudendo la conversazione e
digitando un nuovo numero. Sono Gall. Dirigetevi immediatamente sulla
diciottesima” annunciò.
POCO FUORI CHICAGO
“Ricevuto” confermò Kerman.
“Diciottesima” ordinò a Taggart, che
annuì e iniziò ad accelerare.
NORTHWESTERN HOSPITAL
Jane attendeva nella camera mortuaria , senza riuscire a staccare gli
occhi dal cadavere della madre.
Una infermiera le si avvicinò, portandole una tazza di
caffè. “Grazie” le disse meccanicamente
Jane. “Si figuri” si schermì
l'infermiera. “Sta aspettando altri familiari?”
“No” rispose Jane “Non ho fratelli, e mio
padre è morto anni fa, prima che io nascessi”
“Mi dispiace” si scusò l'infermiera.
Jane non rispose.
“Quando potrò portarla a casa?” chiese
all'improvviso. L'infermiera si morse le labbra. “Se firma i
documenti per il rilascio, può portarla via fra sette
ore” Jane annuì di nuovo. “Mi porti quei
documenti” ordinò, sempre senza smettere di
fissare il cadavere della madre.
TRIBUNALE
Patricia scese rapidamente dall'automobile, chiuse la portiera si mise
a salire di corsa i gradini davanti al Tribunale. Una donna bionda
sulla quarantina la attendeva vicino alla porta, controllando il suo
orologio. “Per tua fortuna non sei in ritardo,
Lawford” la accolse. “Non lo sono mai,
Corjeag” replicò Patricia. “Credi di
potere dimostrare l'infedeltà del marito?” chiese
Corjeag, con una punta di scetticismo.
Patricia le rispose presentandole un faldone di fotografie
“L'abbiamo in pugno” annunciò
“Noi della Weissman non affrontiamo mai una causa se non
siamo sicuri di vincerla” Corjeag annuì.
“Belle, queste foto..chi le ha fatte?”
commentò. “Non lavora più per
noi” si limitò a rispondere Patricia.
“Ci serviranno molto” commentò Corjeag.
“Oggi è Batman a presenziare”.
Patricia alzò gli occhi al cielo: il giudice Wayne, noto fra
gli avvocati come “Batman”, era famoso come il
più puntiglioso giudice civile del Tribunale.
“Andiamo ora. La mia cliente ci aspetta
all'interno” concluse Corjeag. Patricia annuì e le
due donne entrarono nel tribunale.
DELAVAN
L'agente di polizia corpulento ordinò al suo compagno di
fermare l'automobile. “Sono loro!”
annunciò trionfante, indicando la Ford di Zoe,
apparentemente finita contro un guardrail. L'automobile della polizia
si avvicinò e i due agenti scesero impugnando le loro
pistole. “Non c'è nessuno!”
annunciò l'agente alla guida al suo collega corpulento, dopo
aver controllato l'automobile. “Non è
possibile..fatti da parte” gli ordinò il collega,
spalancando la portiera destra della Ford.
L'automobile era effettivamente vuota. I due agenti si fissarono a
vicenda, stupefatti. “Dove sono finiti?” chiese
l'agente magro all'altro. “Che io sia dannato se lo
so...” rispose quest'ultimo.
Proprio in quel momento l'automobile della polizia si rimise in moto,
lasciando i due agenti a piedi. “Fermatevi!” si
misero ad urlare i due, senza successo.
Nell'automobile della polizia Zoe si mise a ridere, osservando lo
specchietto retrovisore. Era l'unica persona a bordo, ma tre cappelli,
recuperati dal suo portabagagli e appoggiati su dei bastoni, davano
l'impressione che Steven, Frank e Harvey fossero assieme a lei. Dopo un
paio di chilometri si fermò accanto ad un fosso, scese
rapidamente dall'automobile della polizia e, inserendo la prima la
spinse nel canale. Dalla strada ora l'automobile si notava con
difficoltà.
I due agenti rimasti a piedi si misero a correre verso il telefono
più vicino. Steven, Frank e Harvey, ancora imbavagliato,
sbucarono dai cespugli vicini al guardrail. “Possiamo
andare” annunciò Steven.”La stazione
è a mezzo chilometro, Zoe ci raggiungerà fra
poco. Il furto di un automobile della polizia dovrebbe confonderli
quanto basta”. Frank annuì e diede una spinta ad
Harvey, costringendolo a cominciare a correre.
AUTOMOBILE DELL'AGENTE
GALL
“Vi hanno che cosa?” urlò Gall nel
telefonino. “Ci spiace, signor Gall, siamo stati
lenti” rispose la voce dell'agente corpulento. “Ora
sono in viaggio sulla nostra automobile, la numero
ventisette” continuò. “Va bene..va
bene” concesse Gall, calmandosi. “Farò
circolare immediatamente l'allarme. Restate dove siete.” li
ammonì, concludendo la conversazione.
“Sono su un automobile della polizia, la numero
ventisette” annunciò pochi secondi più
tardi, informando telegraficamente Taggart e Kerman. Uno degli agenti
di Gall, incuriosito, chiese timidamente “Con chi stava
parlando, signore?” “Servizi speciali
FBI” rispose Gall, leggermente infastidito. “Non
informa gli agenti locali?” chiese ancora l'uomo, stupito.
“Non sono tenuto a giustificare le mie azioni con
lei” annunciò gelidamente Gall.
“Acceleri, dannazione!” concluse, esortando
l'autista. Accorgendosi di non avere concluso la conversazione Gall
premette un pulsante, mordendosi le labbra.
AUTOMOBILE DI KERMAN E
TAGGART
“Sentito? Siamo dei servizi speciali dell'FBI ora”
commentò Kerman, sogghignando. Taggart abbozzò un
sorriso. “Se sono su una automobile della polizia li
individueremo subito” rispose dopo qualche secondo di
riflessione. “Hanno fatto una pessima mossa”
concordò Kerman “Quindi probabilmente si
fermeranno e proseguiranno a piedi, cercando di seminarci per i
campi”. Taggart annuì.
“Richiamalo” ordinò a Kerman.
“Lo sto già facendo” commentò
quest'ultimo.
VICINO ALLA STAZIONE DI
DELAVAN
Frank ansimava pesantemente, tenendosi le mani sulle ginocchia.
“Mai più” sentenziò.
“Sto morendo...” Steven scosse la testa, allungando
uno schiaffo ad Harvey, che si stava per sdraiare a terra.
“Ti toglierò il bavaglio, ora” lo
informò. “Ma se provi ad urlare, ti
spezzerò un braccio, visto che sei tanto stupido da non
capire quando devi salvarti la pelle”. Harvey
annuì.
“Non andiamo?” domandò Frank, tirando un
paio di sospiri profondi e guardandosi attorno. “Aspettiamo
Zoe” gli ricordò Steven. “Non a
lungo” precisò Zoe, uscendo dai cespugli dietro a
Steven, Non sembrava affaticata. “Come diavolo hai fatto? Non
sei nemmeno sudata” domandò Frank, pulendosi la
fronte con la manica destra. “Merito di una vita sana e di
molto esercizio” scherzò Zoe, squadrando Harvey.
“Credi sia prudente?” chiese a Steven, che stava
togliendo il bavaglio al ragazzo. “Ha già capito
che è nel suo interesse..vero Harvey?” chiese
Steven.
Zoe fece una smorfia di scetticismo.
AUTOMOBILE DELL'AGENTE
GALL
Gall annuì, tenendo il telefonino accanto all'orecchio
destro. “Ci avevo già pensato..”
mormorò, fermandosi all'improvviso. “Dove
è stata trovata la Ford?” chiese all'agente che
sedeva dietro di lui. “Qui, signore” rispose
quest'ultimo, evidenziando una curva su una strada secondaria.
Gall schioccò le dita. “Avverti la polizia
ferroviaria di Delavan” ordinò al suo sottoposto.
“Cercheranno di scappare in treno”
STAZIONE DI DELAVAN
“Quattro biglietti per Chicago” chiese Steven alla
donna nella biglietteria, un'afroamericana sulla quarantina. Dietro di
lui Harvey rivolgeva occhiate preoccupate a Zoe e a Frank, che lo
sorvegliavano attentamente. La donna contò lentamente i
biglietti, facendo infuriare Steven.
“Non si preoccupi, possiamo rimanere qui anche fino a domani
mattina” commentò l'investigatore, con un sarcasmo
che andò completamente perso. “Diciotto
dollari” annunciò la donna. Steven
infilò una banconota da venti dollari nell'apertura della
biglietteria e ritirò rapidamente i biglietti.
“Il suo resto” lo avvertì la donna,
spingendo due banconote da un dollaro attraverso l'apertura. Steven le
rivolse una smorfia di impazienza e afferrò i due dollari,.
“Arriva fra tre minuti” lo informò Zoe,
che aveva dato un'occhiata alla tabella dei treni. Steven si
rilassò leggermente.
UFFICIO DELLA POLIZIA
FERROVIARIA-STAZIONE DI DELAVAN
Un agente afroamericano stava bevendo una tazza di caffè,
fermandosi di tanto in tanto per osservare gli schermi su cui si
controllavano le attività della stazione. Il telefono
dell'ufficio si mise a squillare. “Ufficio polizia
ferroviaria di Delavan, desidera?” domandò con
voce affaticata. “Parla l'agente Gall, FBI. Deve bloccare
immediatamente tre uomini e una donna, stanno per fuggire dalla sua
stazione. Uno degli uomini è sulla trentina, piuttosto alto
e bruno, un altro è basso e porta gli occhiali, e il terzo
è biondo e giovane. Sono pericolosi, li fermi
immediatamente.”
L'agente iniziò a scrutare i monitor. “Li ho
trovati! Stanno per salire sul treno per Chicago. Li blocco
subito!” “Aspetti!” gli ordinò
Gall. “E' sicuro che stiano aspettando il treno per
Chicago?” “Ci stanno salendo proprio ora...lo
faccio fermare immediatamente” annunciò l'agente.
“Li lasci salire. Se il treno si ferma potrebbero
insospettirsi. Li bloccheremo noi a Chicago”
suggerì Gall, soddisfatto.
TRIBUNALE
“Vostro Onore, chiedo di poter presentare il reperto
C” annunciò Corjeag. La signora Waldheim, una
donna sulla cinquantina seduta al suo fianco annuì,
sospirando. “Accordato, avvocato Corjeag” rispose
il giudice Wayne, un ometto basso e dal naso aquilino. “Ma
spero che in questo caso si tratti di più che di semplici
illazioni”
Corjeag sorrise, voltandosi verso Patricia, che le porse il faldone.
L'uomo seduto al banco della difesa scosse la testa. Era completamente
calvo e decisamente in sovrappeso, e alzò lo sguardo verso
il volto del suo avvocato, che si limitò ad alzare le
spalle. “Signor Waldheim, la prego di rimanere
fermo” annunciò il giudice Wayne. Waldheim
annuì, asciugandosi la fronte.
“Come può vedere, Vostro Onore, in queste
fotografie il signor Waldheim è colto in flagrante
adulterio” La signora Waldheim singhiozzò
leggermente. “Lo vedo benissimo, avvocato
Corjeag...” commentò Wayne, strizzando gli occhi.
“Avvocato Lawford” aggiunse, rivolgendosi a
Patricia “ è pronta a testimoniare sotto
giuramento che le fotografie in questione sono state scattate da un
dipendente autorizzato della sua agenzia?”
“Certamente, Vostro Onore” rispose Patricia,
alzandosi in piedi e dirigendosi verso il banco dei testimoni.
“Giuri di dire tutta la verità, tutta la
verità, nient'altro la verità. Dica lo
giuro” gli chiese un agente del tribunale, porgendole una
Bibbia. “Lo giuro” proclamò Patricia,
con aria sicura. “Avvocato Lawford, da chi sono state
scattate le fotografie?” chiese Corjeag.
Patricia rimase a bocca aperta: il Messicano era seduto nell'ultima
fila dell'aula, e le rivolgeva un sorriso sarcastico.
“Avvocato Lawford, stiamo aspettando...” insistette
il giudice Wayne. Corjeag sussurrò “Che diavolo
stai facendo, Patricia?” Patricia si schiarì la
gola e rispose “E' stato il signor Seth Weissman, all'epoca
un dipendente della agenzia “Weissman
Investigations””.
“All'epoca? Perché è stato
licenziato?” chiese il giudice aggrottando le sopracciglia.
“Si è dimesso, Vostro Onore. Motivi
personali” rispose Patricia, socchiudendo gli occhi e
cercando di non prestare attenzione al Messicano. “Ha
problemi di congiuntivite, avvocato Lawford?”
domandò in tono sarcastico Wayne. “No, Vostro
Onore” rispose Patricia, leggermente sorpresa.
“Allora apra gli occhi, prego” commentò
Wayne.“Il signor Seth Weissman possedeva una regolare
licenza?” continuò Corjeag, rivolgendo
un'occhiataccia a Patricia.
Il Messicano tossì ed indicò a Patricia la
cassetta che teneva nella mano destra. “Avvocato
Lawford?” chiese Wayne, in tono seccato.
“Sì, la possedeva” annunciò
Patricia. “Non ho altre domande” si
congedò Corjeag, rivolgendo a Patricia uno sguardo che
significava “Non fare altre stupidaggini”.
“Avvocato Lawford, che può dirmi sul signor
Weissman?” iniziò l'avvocato di Waldheim.
“Obiezione. Non pertinente” disse Corjeag.
“Accolta” dichiarò Wayne “Si
attenga ai fatti, avvocato Morris” “Mi scusi,
Vostro Onore. Come sono state ottenute le fotografie, avvocato
Lawford?” continuò Morris. Il Messicano
indicò il suo orologio. Patricia rabbrividì.
“Avvocato Lawford, risponda” ordinò
Wayne. “La signora Waldheim si rivolse alla
“Weissman Investigations” perché
sospettava che il marito la stesse tradendo. Il signor Dan Weissman
incaricò Seth, suo nipote, di controllare il signor
Waldheim, e ottenne un'autorizzazione a fotografarlo dalla
procura” spiegò Patricia. Il Messicano si
alzò in piedi e iniziò a parlare con una guardia
del tribunale. Patricia mormorò “Non mi sento
bene, scusatemi” “La seduta è interrotta
per dieci minuti”annunciò Wayne.
“Avvocato Lawford, si vada a lavare la faccia”
Patricia annuì, alzandosi in piedi. Morris sorrise a
Waldheim, che annuì soddisfatto. “Che accidenti ti
è preso?” domandò Corjeag a Patricia.
“Non lo so...vado in bagno” si scusò
Patricia, uscendo dall'aula. La signora Waldheim rivolse un'occhiata
preoccupata a Corjeag, che inspirò profondamente.
Appena uscita fuori dall'aula Patricia scosse la testa. “Sei
molto brava come avvocato” le sussurrò
all'orecchio il Messicano. Patricia si irrigidì
“Vattene” sussurrò a sua volta
“Avevi detto che mi lasciavi una giornata di
riposo” “Lo so” rispose il Messicano
“Purtroppo ci sono stati degli imprevisti. Mi servono le
chiavi dell'ufficio del tuo capo e del suo cassetto, e mi servono
ora”. Patricia si voltò verso il Messicano e gli
rivolse un sorriso sarcastico.
“Non le ho” proclamò “ e anche
se le avessi, non ho intenzione di dartele” Il Messicano
rimase interdetto per alcuni secondi. “Cosa
diavolo..” iniziò. “Ho riflettuto.. e ho
capito che non finirà mai. Continuerai a chiedermi
“favori” e non avrò mai quella cassetta.
“ annunciò Patricia. “Sai cosa
succederà. “ la minacciò il Messicano.
“Siamo in un tribunale.. mi basta consegnare la cassetta a un
qualsiasi poliziotto e non uscirai mai più di
prigione...” “Fallo, allora.” lo
sfidò Patricia. “Ora non me ne importa
più nulla. Mi hai costretto a mentire al mio capo, a spiare
i miei colleghi...”
“Andiamo, Patricia, non sei il tipo di donna che difende i
suoi colleghi...” la stuzzicò il Messicano.
“Non mi conosci abbastanza, allora” rispose
Patricia, inspirando per farsi forza. “Non vuoi nemmeno
sapere a chi ho rubato questa cassetta?” le chiese il
messicano. “No” rispose Patricia “So bene
che sei un ladro” “Peccato..pensavo ti potesse
interessare il fatto che questa cassetta era di Dan, il tuo capo. Ti
aveva detto di averla distrutta...e stava mentendo”
mormorò il Messicano. Patricia rimase a bocca aperta.
“Stai mentendo” mormorò Patricia.
“Sarebbe stupido farlo..sappiamo bene che lui era l'unico,
oltre a me e te, a sapere” rispose il Messicano.
“Ci sono sempre Jimenez e Starsky” gli
ricordò Patricia. “Sono morti tre mesi fa.
Incidente d'auto, una gran brutta morte. Controlla, se non mi
credi” replicò il Messicano “ e credimi,
non avrei aspettato tre mesi prima di incontrarti se avessi trovato la
cassetta a casa loro”. Patricia non riuscì a
rispondere: sembrava paralizzata. “Ritorna dentro. Pensaci
su. Vedi se è il caso di proteggere un uomo che ti inganna
da sei anni” concluse il Messicano, salutando Patricia con la
mano.
STAZIONE CENTRALE DI
CHICAGO
Tre agenti dell'FBI esaminavano la folla che scendeva dal treno
proveniente da Delavan. “Non ci sono”
esclamò uno, dopo avere controllato tutti i passeggeri.
“Come sarebbe a dire che non ci sono?” rispose la
voce di Gall nel suo auricolare. “Controllate
meglio!” ordinò.
“Abbiamo visto tutti i passeggeri, signore. Non li abbiamo
trovati.” “Salite sul treno. Frugatelo da cima a
fondo se necessario. Devono essere lì dentro, non sono scesi
in nessuna delle stazione precedenti!” urlò Gall,
furioso.
STAZIONE DI ROCKFORD
Zoe, Steven, Frank e Harvey scesero dal treno proveniente da Delavan,
avviandosi verso l'uscita della stazione. “Li abbiamo
fregati, vero?” disse Frank, sogghignando. “Un
trucco geniale, salire sul treno in testa e scendere in coda. A
quest'ora saranno alla stazione centrale di Chicago..” Steven
alzò gli occhi al cielo “Non sei capace di stare
zitto?” lo rimproverò.
“Oh, andiamo! Non ci hanno beccati, è tempo di
festeggiare” continuò Frank. Steven
inspirò “La parte difficile arriva
adesso” annunciò. Zoe fissò Harvey, che
scosse la testa, come se si stesse risvegliando dopo un lungo sonno.
“La parte difficile?” mormorò.
“Se per te è facile ritornare in città
senza essere catturati, vai pure” rispose Steven. Harvey fece
una smorfia, ma non rispose.
“Perché dobbiamo ritornare in
città?” chiese Zoe, aggrottando le sopracciglia.
“Perché la chiave del mistero di Paula
è a Chicago, ne sono sicuro... e poi perché il
nostro simpatico Harvey” rispose Steven, rivolgendo
all'ex-fidanzato di Paula uno sguardo ironico “deve dirci
molte cose, e mostrarci anche dei luoghi...non è
vero?” concluse. Harvey annuì debolmente.
SEDE DELL'FBI DI CHICAGO
“Lei mi delude, agente Gall! Le ho assegnato un'intera
squadra, più due freelancer che, in teoria, non dovrebbero
nemmeno esistere, e lei non è riuscito a catturare
Campbell...” iniziò Eamon Scott, fissando il suo
sottoposto negli occhi.
“E da quanto ci ha riferito il nostro contatto”
continuò Scott “Patricia Lawford sta rifiutando di
collaborare. Lo sa cosa vuol dire tutto ciò?” Gall
non rispose, accontentandosi di annuire leggermente.
“Dobbiamo fare nuovi piani, utilizzare la nuova talpa,
rischiare molto di più. E tutto per colpa sua”
concluse Scott. “Cosa ha dire in sua difesa?”
“Signore” iniziò Gall “non
voglio essere polemico, ma il piano mi è sempre sembrato
troppo complicato. Perché non arrestiamo Weissman, visto che
sappiamo che è lui a spingere Campbell a indagare sulla
Cantrell?”
Scott gli rivolse uno sguardo glaciale. “Non possiamo
trattenerlo. Di cosa lo accusiamo, senza uno straccio di prova? Anche a
questo serviva Patricia Lawford. Doveva avere accesso ai file segreti
di Weissman...” ”Mi scusi ancora,
signore” continuò Gall, deciso a non cedere
“perché mi ha incaricato di catturare Campbell,
allora? Anche su di lui non abbiamo nulla...”
Scott scosse la testa. “Trattenere Campbell non ci creerebbe
troppi problemi: è solo un ex-poliziotto fallito. Ma
arrestare Weissman senza prove sarebbe la rovina per i nostri piani. Le
Sequoie userebbero il processo per dare pubblicità al caso
Cantrell, e questo è proprio ciò che noi non
vogliamo. Si ricordi per chi lavora” concluse Scott. Gall
annuì, chinando la testa.
“Ecco i suoi nuovi incarichi” annunciò
Scott, dopo un attimo di silenzio. “Sospenda la caccia a
Campbell, è stata controproducente finora. Si occupi di
eliminare ogni singola traccia su Paula Cantrell. Kerman e Taggart la
aiuteranno, e, se avremo successo con la seconda talpa, forse
riusciremo anche ad incastrare Weissman” Gall
annuì di nuovo.
“Eliminare..fisicamente?” chiese poi
“Devo far sparire tutti i testimoni sul caso Cantrell come i
due “freelancer” hanno fatto con i Polk?”
“Non necessariamente” rispose Scott. “Ma
si assicuri che Campbell non li possa interrogare. Può
andare ora” concluse Scott, congedandolo.
Gall chinò la testa e uscì dall'ufficio di Polk.
Uno dei suoi sottoposti gli si avvicinò “Abbiamo
ragione di credere che Campbell...” iniziò. Gall
lo zittì con un cenno della mano. “Campbell non
è più un nostro incarico”
annunciò, massaggiandosi le tempie. “Siete tutti
congedati” concluse.
CIMITERO DI MARYHILL
“Ginevra Shelby era una donna coraggiosa. Una donna che ha
lottato contro un male oscuro e incomprensibile: il cancro. Una donna
che non si è mai arresa, nemmeno quanto il male ha iniziato
a divorare i suoi organi, ma ha continuato a confidare in quel Dio che
è eterna salute ed eterna felicità. Una madre che
cresciuto sua figlia senza il conforto del marito, scomparso anni
prima...” Le parole del parroco della Chiesa Cattolica di
Maryhill facevano da sottofondo al funerale di Ginevra.
Jane era davanti alla tomba appena scavata, vestita di nero. A parte
lei e il sacerdote, c'erano solo alcuni amici della madre, fra cui Dan,
vestito di nero e con la testa chinata. Jane fingeva di non vederlo, e
cercava anche di evitare di osservare la corona di fiori che Dan aveva
fatto comporre.
“...perché la vita non ci è tolta, ma
trasformata. Riposa in pace, Ginevra Shelby” concluse il
sacerdote, mentre la bara veniva lentamente calata da due becchini.
Jane iniziò a piangere, nascondendo il suo volto in un
fazzoletto. I due operai del cimitero ricoprirono la bara di terra e
sistemarono la lapide. Si trattava di una semplice lapide di marmo, che
portava inciso il nome di Ginevra, la sua data di nascita, quella di
morte e nient'altro. I pochi partecipanti al funerale si avvicinarono a
Jane per porgere le loro condoglianze. Dan rimase in fondo alla fila e,
quando arrivò il suo turno, si limitò a fissare
Jane, che contraccambiò lo sguardo.
“Ho portato questa” si scusò, porgendo a
Jane una cassetta di mogano. “E' terra di Trieste, in Italia,
dove è nata tua madre. So che voleva portarsi una parte
della sua terra natale con sé” si
spiegò. Annuendo, Jane aprì la cassetta e sparse
il suo contenuto sulla tomba di Ginevra. “Perché
sei qui?” chiese Jane in tono gelido “Non ti ho
chiamato...” Dan sospirò profondamente.
“Glielo dovevo” spiegò. Jane
annuì di nuovo “Lei avrebbe voluto vederti
qui” ammise. “Ma questo non cancella il fatto che
non hai voluto aiutarla...” Dan scosse la testa.
“Jane...” iniziò
“C'è un motivo per cui non volevo che tua madre
fosse ricoverata al Saint James Hospital..e non è
perché non volevo aiutarla” “Allora
dimmelo”rispose Jane “Dammi una ragione, spiegami
perché non dovevo accettare quella cura...” Dan
sospirò di nuovo, trattenendo a stento le lacrime.
“E' complicato, Jane...” “Non mi
importa” insistette la segretaria “Abbiamo
tempo.”
“Diciamo che conosco quell'ospedale, e so che i suoi veri
proprietari sono persone malvagie, disoneste..ma non posso provarlo. Io
e un gruppo di miei..amici stiamo lavorando per trovare delle
prove” iniziò Dan “ma non è
facile.” concluse. Jane annuì. “Tutto
qui?” osservò. “Persone
malvagie?” “Non posso davvero dirti di
più, Jane” rispose Dan.,sconsolato.
“Non so se potrò fidarmi di te...ho bisogno di
tempo. ” accennò Jane. “Tutto il tempo
che vuoi” concesse Dan, allontanandosi “Ti prego
solo di riflettere” Jane annuì di nuovo, scrutando
Dan mentre si allontanava dal cimitero.
Il suo telefonino squillò. Jane lo portò
all'orecchio. “Sono nella cappella degli O'Donnell”
le rispose una voce. Jane annuì ed entrò
rapidamente nella cappella. “Ho riallacciato i contatti, come
mi hai detto tu” iniziò “Mi ha
raccontato la storia delle persone malvagie, proprio come avevi
previsto.” continuò, scrutando nella penombra
della cappella. “Vuole solo coprire le sue
responsabilità...” le rispose una voce maschile
“Ti ho fatto vedere i tabulati telefonici, ti ho fatto
sentire le registrazioni...tua madre era venuta a conoscenza di cose
che non avrebbe dovuto sapere, e lui non poteva rischiare che guarisse
e potesse denunciarlo..”
“Lo so...ma se non lo sapessi, gli avrei creduto”
esclamò Jane, scoppiando a piangere. “E' abile, ha
ingannato anche il governo, ha ingannato tutti” le rispose la
voce maschile. “Lo incastreremo. Vendicheremo tua madre
” promise. Jane continuò a piangere.
Uscendo dalla penombra, Taggart le porse un fazzoletto.
“Grazie” rispose Jane. “Di
niente” rispose Taggart. “Sei una ragazza molto
coraggiosa, Jane. Insieme, riusciremo a sconfiggere Dan
Weissman”.
CASA DI PATRICIA LAWFORD
Patricia passeggiava nel suo salone, scuotendo la testa. Corjeag le
aveva appena inviato un messaggio: “Abbiamo vinto, ma non
grazie a te. La prossima volta curati prima di venire in
tribunale”. Patricia lo aveva a malapena letto: la sua
attenzione era tutta rivolta al telefono e alle parole del Messicano.
All'improvviso l'apparecchio squillò
“Pronto?” chiese Patricia, afferrando la cornetta e
stringendola con forza. “Ma che vocione hai...” la
prese in giro la voce di Mandy. “Pronta per la grande serata
fra donne?” “Oh...” commentò
Patricia, stupita. “Te ne eri dimenticata, dì la
verità?” le chiese Mandy. “Non importa.
Tuffati dalla finestra e partiamo” “Non posso,
Mandy, sono in vestaglia..” rispose Patricia.
“Che problema c'è? Meglio, farai strage di
cuori..” replicò Mandy. “Avanti, posso
aspettarti...” Patricia scosse la testa. “Aspetto
una chiamata importante, mi dispiace..” “Allora
salgo io” annunciò Mandy, concludendo la
conversazione.
“Mandy, no!” rispose Patricia, accorgendosi
però di parlare al vuoto. Appoggiò delicatamente
la cornetta al ricevitore e si adagiò sul divano.
“Non dovevi venire..” sussurrò tra
sé e sé.
“Pizza a domicilio...doppia allegria al triplo
formaggio!” si annunciò Mandy poco dopo, bussando
alla porta di Patricia. “E' tutto in disordine...”
si lamentò Patricia. “Meglio, mi piace il
disordine” commentò Mandy. Sospirando, Patricia
aprì la porta. “Ciao, bellissima” la
salutò Mandy, una ragazza afroamericana piuttosto bassa e
dai tratti da diciottenne. “Ti serve una
ricarica...” commentò, scrutando l'aspetto di
Patricia e le borse sotto i suoi occhi.
“Mi dispiace, Mandy, ma te ne devi andare...Non posso farti
entrare, c'è questa telefonata...” Proprio in quel
momento il telefono squillò. Patricia si
precipitò a rispondere, mentre Mandy, approfittando
dell'imprevisto, si intrufolava in casa.
“Hai riflettuto su ciò che ti ho
chiesto?” chiese a Patricia la voce del Messicano.
“Sì” sussurrò quest'ultima.
“ E quale è la tua risposta?”
domandò ancora il Messicano. “Che puoi
and-” iniziò Patricia, interrompendosi quando vide
Mandy che la stava ascoltando. “E' no, come stamattina. Fai
come credi, io non ti aiuterò più”
concluse Patricia. “Peccato..” commentò
il Messicano. “Visto che ho sempre avuto un debole per te, ti
concedo altre ventiquattro ore...poi però tutti sapranno che
Patricia Lawford, quell'avvocatessa così distinta e capace,
in realtà è l'assassina del suo
patrigno.” concluse il Messicano.
Patricia rimase inebetita, senza rispondere. Mandy le si
avvicinò, posandole una mano sulla spalla “Va
tutto bene?” si preoccupò. “Erano brutte
notizie?” “No” riuscì a dire
Patricia. “Solo lavoro” Mandy annuì.
“Mi dispiace di essere stata di intralcio..”
“No, resta.” rispose Patricia. “Anzi,
visto che ci sei, perché non mi prepari un bel
tè?” concluse, con un sorriso forzato.
“Volo” rispose Mandy, ritornando allegra. Mentre
Mandy entrava in cucina, Patricia mormorò “Brutte
notizie, Mandy? Tu non sai quanto...non sai davvero quanto...”
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