Private Lies

di Corvero
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Benvenuto a Chicago ***
Capitolo 2: *** L'indagine continua ***
Capitolo 3: *** La casa sul lago ***



Capitolo 1
*** Benvenuto a Chicago ***


CAPITOLO I: Benvenuto a Chicago



LOS ANGELES, 14/02/2008

GIOIELLERIA WEBSTER & SANDS

Un piccolo Yorkshire abbaiava rumorosamente allo stivale di una delle due guardie giurate che controllavano l’ingresso del negozio.
Sorridendo, l’uomo lo allontanò leggermente con il piede. Il suo collega scosse leggermente la testa e con un cenno del capo, gli suggerì di ritornare a sorvegliare l’entrata.

All’interno un cartello, sagomato come un cuore trafitto da una freccia, proclamava l'apertura dei saldi speciali sugli anelli. Diverse coppie di fidanzati indugiavano davanti al bancone, mentre tre commesse sorridenti mostravano loro le migliori scelte di anelli nuziali.

“Non so” commentò una donna sulla trentina, bionda, rivolgendosi a un uomo brunopiù o meno della stessa età. “Mi sembrano un po’ troppo semplici…che ne dici?” L’uomo sussurrò qualcosa al suo orecchio, facendola ridere di gusto.

Rivolgendosi alla commessa, l’uomo accennò agli anelli con la mano. “A quanto pare, la mia futura sposa ha deciso di prosciugare il mio conto corrente ancora prima del matrimonio. “Stupido” commentò divertita la donna “Può mostrarci qualcosa di più raffinato, per favore?” chiese poi alla commessa più vicina. “Ma certo” replicò sorridendo quest’ultima.

La commessa si voltò verso lo scaffale alle sue spalle. Improvvisamente serio, l’uomo fece un cenno alla sua accompagnatrice, che diede uno sguardo al suo orologio da polso e annuì.

“Ecco, questi modelli sono esatta-“ iniziò la commessa, prima di essere interrotta da un rumoroso colpo di fucile. La vetrata del negozio era stata distrutta da un colpo d'arma da fuoco, e i clienti iniziarono ad urlare.

Le due guardie giurate si precipitarono dietro a due colonne portanti, estraendo le loro pistole. “Buttatele a terra” ordinò una voce alle loro spalle. Girandosi, le guardie si trovarono faccia a faccia con l’uomo bruno e la donna bionda al bancone, che ora puntavano due pistole alle loro teste. La coppia aveva decisamente perso l’aria scherzosa, e nei loro sguardi c’era solo determinazione.

La guardie furono costrette ad obbedire., e lasciarono cadere controvoglia le loro armi. “Calciatele via” ordinò loro l’uomo bruno, impassibile. Con una smorfia di disappunto, le guardie obbedirono di nuovo.
Tre uomini vestiti di nero entrarono dalla porta, puntando due mitragliette e un fucile a pompa sui clienti. L’uomo con il fucile a pompa si avvicinò all’uomo bruno. Soddisfatto, gli diede una pacca amichevole sulla spalla.

“Ottimo lavoro, Steven” commentò. “Anche il tuo, Terry” rispose Steven, a sua volta soddisfatto.
Annuendo, Terry scavalcò il bancone e puntò il fucile alla testa di una commessa. “Potrebbe aprire la cassaforte alle sue spalle e consegnarmi l’uovo Fabergè che contiene, per favore?” chiese con una calma innaturale.

La commessa lo fissò smarrita. “U-uovo? Quale uovo?” rispose, balbettando per la paura. “Non mi piacciono i giochetti, signorina” continuò Terry, sempre calmo. “La cassaforte prego. So che lei conosce la combinazione.” Singhiozzando, la donna si sollevò in piedi e premette una serie di tasti.

La cassaforte si aprì istantaneamente ,rivelando al suo interno un gioiello a forma di uovo d’oro tempestato di vari preziosi. “Magnifico” commentò Terry “Veramente magnifico. Passatemi la borsa” ordinò poi ai suoi . Uno degli uomini armati di mitraglietta gli lanciò un bordone nero vuoto, che Terry afferrò al volo. Terry afferrò l'uovo, lo ripose accuratamente nella borsa e si avviò all’uscita.

“Steven, Rebecca, copriteci le spalle. Bill, Harper, con me” ordinò poi. Prima di uscire si girò verso le guardie disarmate e, con un sorriso ironico, le salutò “E’ stato un piacere fare affari con voi”
Il sorriso gli morì in volto non appena attraversò la porta d’entrata. Sospinto all’indietro da una forza invisibile, il rapinatore cadde a terra, morto. Una ferita d’arma da fuoco sporcava di rosso il suo abito nero.

“Ma che cosa-“ commentò Bill, il più basso e corpulento dei due uomini con la mitraglietta. “A terra, tutti quanti!” urlò Steven,l'uomo bruno, lanciandosi dietro il bancone assieme a Rebecca,la donna bionda mentre Bill e Harper, l'altro uomo armato di mitraglietta, si posizionavano rapidamente dietro le colonne.

Improvvisamente una voce amplificata da un altoparlante riecheggiò nel locale. “Sono il tenente Mills del sesto dipartimento della polizia di Los Angeles. Siete circondati, uscite dal locale disarmati e con le mani dietro la testa. Avete cinque minuti per terminare tutto questo in maniera pacifica. Altrimenti, saremo costretti a fare intervenire i tiratori scelti”

Bill puntò la sua mitraglietta a una delle automobili della polizia ora visibili nella strada “Beccatevi questa, porci” sussurrò. Un colpo di pistola alle sue spalle lo bloccò: Steven aveva sparato a pochi centimetri dal suo braccio. “Perché?” urlò Bill, furioso. “Per non farci uccidere subito, idiota! “ replicò Steven, con lo stesso tono di voce. “Steven ha ragione, Bill “ commentò Harper, evitando lo sguardo omicida del suo compagno. “Sarebbe stata una mossa veramente stupida. Dobbiamo rimanere fermi, almeno per ora “continuò poi, pensieroso. “Ci serve un-“ Uno squillo del telefono del locale più vicino alle colonne lo fece rabbrividire.

Lentamente, sotto gli sguardi sorpresi di Steven, Rebecca e Bill, Harper raggiunse il telefono e alzò la cornetta. “Se volete fare un patto-“ iniziò. “Nessun patto” gli rispose una voce rauca, la voce di un uomo sulla settantina “Anzi, voglio darti una informazione gratuita. Ci sono poliziotti sia fuori che dentro questo negozio.” “Cosa?” urlò Harper, stupefatto.

“Non urlare, idiota. Capiranno di essere stati scoperti se strilli come una vecchietta isterica. Comunque tu mi hai capito fin troppo bene. I tuoi complici sono poliziotti. Steven e Rebecca sono Steven Campbell, detective e Rebecca Goldman, agente scelto. Del sesto dipartimento” concluse soddisfatta la voce. “ Che prove ho che quello che mi dici sia vero?” sussurrò Harper, sconvolto. “Nessuna che io possa darti. Ma sono sicuro che troverai un modo per verificarlo da solo. In ogni caso, perché credi che la polizia sia arrivata qui così presto, senza nemmeno che nessun allarme fosse scattato? “ rispose la voce “Usa questa informazione come meglio credi” concluse poi, concludendo la conversazione.

UN APPARTAMENTO VICINO ALLA GIOIELLERIA

Un uomo osservava la situazione nella vicina gioielleria attraverso un binocolo nero. I suoi lineamenti erano in ombra. “E così comincia” sussurrò a sé stesso, rimettendo un cellulare nel suo taschino sinistro.

Ritraendosi dalla finestra, l’uomo abbandonò il binocolo su di una sedia. Un raggio di luce illuminò il suo taschino destro, svelando un distintivo dorata. Un distintivo della polizia di Los Angeles, sesto dipartimento.

ALL’INTERNO DELLA GIOLIELLERIA

Harper, ancora sconvolto, stava fissando Steven come se non lo avesse mai visto prima di quel momento. Sorpreso, Steven lo fissò a sua volta. “Che ti hanno detto?” gli chiese. “Cosa vogliono?”
Con uno sguardo indefinibile, Harper sollevò la sua mitraglietta e la puntò alla testa di Steven. “Getta la pistola” gli ordinò freddamente.
“Harper, che diavolo fai? Sei impazzito?” chiese Bill dalla sua colonna. Rebecca alzò a sua volta la sua pistola , mirando alla testa di Harper. “Cosa stai facendo? ” urlò.

“Non mi sei mai piaciuto” commentò Harper “Ma non avrei mai pensato che ci stessi fregando.” Steven scosse la testa “Non capisco nulla di quello che stai dicendo” rispose, aggrottando la fronte . “Abbassa l’arma” ordinò Rebecca a Harper. “Cosa succede?-“ chiese di nuovo Bill, perplesso. "E' uno sbirro!" lo informò Harper.

Approfittando di un attimo di perdita di concentrazione di Harper, Steven puntò la sua pistola verso la testa di Bill.

“Posiamo le armi, tutti quanti” suggerì. Lo sguardo di Bill vagava da un volto all’altro. “Rebecca…Steven… Harper! Non…cosa…insomma, facciamola finita!” urlò. Innervosito, Harper urlò nella sua direzione “Sono tutti e due sbirri, idiota!" annunciò Harper, digrignando i denti. “Che-“ commentò Bill, stupito. “Poliziotti, imbecille. Sbirri. Rebecca e Steven ci hanno fregato!” “Maledetti maiali” sussurrò Bill, scioccato “Schifosi traditori”. ebecca colpì il muro vicino alla sua testa e rivolse a Bill uno sguardo minaccioso “Lascia la mitraglietta” gli ordinò.

Steven scosse la testa. “Lasciamo cadere tutti le armi e ragioniamo” propose. “Non c’è nulla da ragionare. Siamo in trappola” replicò con furia Harper. Il piccolo Yorkshire scelse proprio quel momento per guaire. Nervoso, Bill allungò un calcio all’animale, che corse fuori dalla porta d’ingresso. Le pallottole dei tiratori scelti lo colpirono in pieno, facendo sussultare anche Steven e Rebecca, che si scambiarono uno sguardo preoccupato.

Per diversi istanti, nessuno osò muoversi. Gocce di sudore scesero sulla fronte di Bill. Harper digrignava leggermente i denti, arricciando le labbra. Steven faceva del suo meglio per apparire impassibile. Rebecca muoveva lentamente il suo sguardo da Harper a Bill, e da Bill a Harper.

La voce del tenente Mills spezzò la calma innaturale. “I cinque minuti stanno per scadere. Arrendetevi“ annunciò. “Non spareranno se non usciamo, vero?” commentò Harper “Non vorranno uccidere i loro preziosi agenti sotto copertura” “E’ finita, Harper” disse lentamente Steven “Siete in trappola.” “Io non credo” replicò il criminale, sorridendo leggermente “Abbiamo degli ostaggi, qui. Posso minacciare di uccidere un ostaggio ogni dieci minuti se non mi lasciano via libera”

“Sei finito, Harper. Chiunque al tuo posto si sarebbe arreso. Finchè noi siamo qui, non puoi fare nulla” gli ricordò Rebecca. “Vero. Ma a questo si può rimediare…” rispose Harper, sorridendo e mettendo in mostra i suoi denti candidi.

Con un gesto rapidissimo, il criminale fece uscire dalla sua manica un lungo coltello che scagliò verso il petto di Rebecca, aprendo immediatamente il fuoco su Steven.
La donna poliziotto crollò con un gemito, mente il suo collega si rifugiava dietro il bancone. Le pallottole di Harper e Bill esplosero vicino alle sue orecchie.

Approfittando di una brevissima pausa dei criminali, che dovevano ricaricare le loro armi, Steven si alzò in piedi e centrò Bill alla tempia. Immediatamente dopo si lanciò su Harper, strappandogli la mitraglietta di mano.

I due rotolarono sul pavimento. Harper morse la mano di Steven e strisciò sul pavimento, cercando di recuperare la sua arma. Un calcio del poliziotto glielo impedì. Steven puntò poi la sua pistola al petto del criminale, ma una testata di quest’ultimo gli fece perdere la mira.

Harper afferrò la pistola di Steven con forza, cercando di togliergliela di mano. I due uomini lottarono per l’arma, finchè Steven non afferrò un pugnale da esposizione caduto lì vicino. Il criminale glielo tolse con un manrovescio.
Il poliziotto comunque, grazie a questo diversivo, riuscì a recuperare il controllo della pistola e sparò tre colpi al petto di Harper. Con un ultimo sussulto, il criminale cadde definitivamente a terra, immobile.

Abbandonando la sua arma, Steven corse dalla sua collega, che respirava a fatica.
“Tieni gli occhi aperti, Rebecca. Ce la farai” la esortò il suo collega. “Temo…che non riusciremo a fare…quella cena” commentò la donna, sorridendo debolmente. “La faremo, invece. Aragoste e champagne-le migliori del mondo, ricordi?“ le rispose Steven, teggendole la mano e scrutando la ferita che la sua partner aveva al petto. Un brutto taglio,sicuramente il polmone era danneggiato.

“Respira piano” la esortò “Non ti sforzare, e soprattutto non chiudere gli occhi. Me lo prometti?” “Certo” rispose Rebecca, sempre sorridendo debolmente. “Ce la farai” promise Steven. Rebecca annuì debolmente, prima di tossire sangue. La sua testa d’improvviso cadde di lato, e i suoi occhi si chiusero. “No…no!” commentò Steven , scioccato, tentando inutilmente di rianimare la collega. “No..” sussurrò un ‘ultima volta, lasciando cadere le sue braccia ungo i fianchi e chinando la testa.

LOS ANGELES, 24/09/2008

PRIGIONE DELLA CONTEA DI KERN

“Quando potrò vederlo?” chiese con impazienza un uomo bianco sulla sessantina a un vice-sceriffo, un giovane ispanico dai folti baffi. “Anche subito” rispose il vice, squadrando il suo interlocutore da capo a piedi. Lo giudic più vicino ai settanta che ai sessanta. Vestito bene, perfino troppo per una visita in prigione, aveva un’indefinibile aria da ex-poliziotto o ex-militare. O tutte e due.
“Non sarà un bello spettacolo. Lo abbiamo beccato ieri sera, fuori da un bar. Ubriaco fradicio, il barista diceva che lo aveva aggredito. Personalmente non credo che fosse in grado di aggredire nemmeno un topo, puzzava di alcool peggio di una cantina”.

“Ubriachezza molesta, quindi?” chiese l’uomo anziano. “Aggressione” replicò il vice-sceriffo, scrollando le spalle “Il giudice era amico del gestore del bar. E’ nella cella 23” “Potrei vederlo da solo?”domandò il visitatore. “Mi spiace, ma il parlatorio individuale è attivo solo fino alle cinque. Dovrò presenziare.”

L’uomo anziano allungò silenziosamente due biglietti da dieci dollari al vice-sceriffo. Sogghignando, il poliziotto accettò il denaro “Magari questa volta chiuderò un occhio” commentò, lisciando delicatamente le banconote fra le sue dita.

Il visitatore proseguì rapidamente verso la cella. Al suo interno, un uomo si era raggomitolato sulla branda, la testa contro il muro.

“Hai fatto davvero una pessima figura ieri, vero, Steven?” gli chiese l’uomo anziano.

Steven Campbell sporse la testa fra le sbarre. Una barba di tre giorni gli copriva il mento e i suoi occhi erano vitrei. Era quasi irriconoscibile, rispetto al poliziotto che era stato solo pochi mesi prima.“Chi sei?” chiese a bassa voce, quasi mormorando. “Lasciamo indovinare: non sei un assicuratore”

“Mi chiamo Daniel Weissman. O Dan, se non vogliamo perdere tempo” rispose l’uomo anziano “E sono un amico di tuo padre”

“Fantastico” commentò Steven, furioso, volgendo la schiena al suo interlocutore “ E ora che hai visto lo spettacolo del figlio del tuo amico in cella, cosa farai? Chiami papà che mi mette in castigo? E’ un po’ tardi, credo.” “So che no vedi tuo padre da molto, Steven…” continuò “Dodici anni” lo corresse Steven “Direi più che da molto, da una vita intera.” “E’ morto” replicò Dan “Quattro anni fa”.

Per un attimo ci fu silenzio. “Bene” commentò sommessamente Steven “Bene. E come mai lo vengo a sapere solo ora?” “Avevate avuto i vostri problemi, me ne aveva parlato. Ma mi ha fatto promettere di badare a te, se ne avessi avuto bisogno” “Non ne ho bisogno. Addio” rispose laconicamente Steven, sdraiandosi sul letto della cella.

“Io credo di sì, Steven. So molte cose sul tuo conto: sette mesi fa sei stato coinvolto in uno scontro che ha ucciso una tua collega; ti sei dimesso dalla polizia di Los Angeles; hai iniziato a bere e sei stato arrestato due volte per guida in stato di ebbrezza, e altre tre per ubriachezza molesta…” Furioso, Steven diede un pugno alle sbarre della sua cella, facendo sussultare Dan. “Sono qui per aiutarti, Steven” specificò quest’ultimo. “Non mi serve il tuo aiuto…né le tue preziose analisi sulla mia vita”ribattè Steven.

“Invece hai bisogno di aiuto,Steven. Tremendamente bisogno. E io posso aiutarti. Dirigo un’ agenzia a Chicago, e ho bisogno di un dipendente. Ho già pagato la tua cauzione.” “Non voglio il tuo lavoro, e non puoi obbligarmi ad accettare “ replicò Steven. “Posso, invece. Ti ho fatto rilasciare a garanzia di controlli continui. I miei controlli” “E io che credevo che lo schiavismo fosse illegale” commentò poi, sferzante Steven.

“La scelta in realtà è tua” replicò Dan. “Ma riconosco che non hai margini di trattativa. Se non vieni con me a Chicago, dovrai rimanere qui. E non c’è futuro per te a Los Angeles. Quanto passerà prima del tuo prossimo arresto? Cosa speri di ottenere qui? Ha un senso, questa vita?” concluse, guardando l’ex-poliziotto dritto negli occhi. Steven non rispose.

“Tornerò qui domani mattina.” Concluse Dan , allontanandosi a passi lenti della cella. Steven lo osservò attentamente, senza dire nulla.

FLASHBACK
LOS ANGELES, 23/01/2008

UFFICI DEL SESTO DIPARTIMENTO DI POLIZIA

Steven sedeva alla sua scrivania, senza nulla da fare. Per distrarsi, stava piegando un foglio di carta.
“Ancora qui?”gli chiese una voce femminile. Voltandosi, Steven riconobbe Rebecca, stavolta in uniforme. Si scambiarono un sorriso.
“Mi serviva del tempo per riavermi dallo shock.” Rispose. Rebecca scosse la testa, squadrando la targa di metallo sulla scrivania del collega.

“Tu, promosso a detective" annunciò, in tono falsamente preoccupato “Dove andremo a finire di questo passo?”
“E’ quello che mi chiedo anche io, agente Goldman” rispose Steven, imitando il tono scherzosamente tragico di Rebecca. “Dove andremo mai a finire quando i sottoposti non organizzano una cena al nuovo capo?”

“Una cena?” domandò la poliziotta, divertita. “Con te? Sognatela, bello”
“Guarda che l’onore sarebbe tutto tuo” rispose Steven ,sogghignando. “Urgh, allora mi toccherà venire. Spero almeno che il cibo sia buono” commentò Rebecca.
Dopo un attimo di silenzio , proseguì più seriamente “Sei sicuro di volere questa cena proprio ora?” “Non vedo momento migliore” replicò Steven, sempre in tono falsamente cerimonioso.

“Sto parlando sul serio, Steven. Sono passati solo due mesi da Claire …sicuro che tutto sia a posto?”
Sospirando leggermente, Steven replicò “No, Rebecca. Non sono sicuro…ma non posso aspettare più prima di ricominciare a vivere. Voglio solo una cena, ora, una semplice cena fra amici. E la spalla non mi fa più male” aggiunse poi, in tono più allegro. Rebecca si morse leggermente le labbra, ma non aggiunse nulla.

Si rigirò fra le mani l’aereo di carta che aveva costruito poco prima. Con un gesto rapido,lo scagliò nel cestino. “Bell’atterraggio” commentò Rebecca.

CHICAGO, 25/09/2008

“Siamo atterrati” esclamò asciuttamente Dan.
Steven riaprì gli occhi di scatto. Si massaggiò il mento rasato di fresco e diede un’occhiata all’ambiente in cui si trovava.

L’aereo su cui i due avevano viaggiato si stava lentamente svuotando. I passeggeri recuperavano i loro bagagli a mano e si avviavano verso l’uscita, dove una hostess giovane e carina li salutava con un sorriso.

“Avrei preferito che mi svegliasse lei” commentò Steven. “Comprensibile…ma nella vita non sempre si ottiene ciò che si vuole” rispose Dan, sorridendo leggermente “Non perdiamo tempo, in ogni caso. Il mio taxi mi aspetta all’uscita del terminal.” Steven annuì, alzandosi dal suo posto.

PIU’ TARDI

Il taxi si fermò di fronte ad un edificio piuttosto basso, per la media di Chicago. Solo quattro piani. Steven scese rapidamente dall’auto, ammirando la vista con un sorrisetto sarcastico sulle labbra. Dan lo seguì, osservando le sue reazioni. Dan, si avvicinò alla porta di ingresso dell’edificio e premette un campanello.

“Weissman Investigations, discrezione ed efficienza al vostro servizio. Avete un appuntamento?” rispose meccanicamente una voce femminile dal citofono . “Jane, sono io” replicò Dan “Oh, capo, finalmente! Ha portato i rinforzi?” rispose la voce, più allegra. “ Il rinforzo, Jane.” “Uhm…spero che sia un bel biondone californiano…proprio quello che mi serve”commentò scherzosa la voce, mentre la porta si apriva con uno scatto.
Dan invitò Steven ad entrare. Con una smorfia di disappunto, l’ex-detective lo seguì.

WEISSMAN INVESTIGAZIONI-TERZO PIANO

La porta di ingresso dell’agenzia si aprì a sua volta di scatto, rivelando a Dan e Steven una ragazza sulla ventina, bionda, che indossava jeans e una maglietta rosa. Sorridendo soddisfatta, la ragazza squadrò Steven da capo a piedi “Beh, capo, non è biondo ma è passabile” commentò.

“Steven Campbell, Jane Shelby” li presentò Dan “La mia segretaria. Spero che possiate lavorare bene insieme” Jane gratificò Steven di un sorriso gentile e gli porse la mano, che l’ex-poliziotto strinse con scarsa convinzione.

Un colpo di tosse trattenuto a stento fece girare Dan e Steven verso l’interno dell’ufficio, da dove un’altra donna, una mora sui venticinque anni, stava fissando Steven con disgusto. Il suo tailleur blu scuro era reso ancora più severo dalla sua posa dura, con le braccia incrociate.

“Patricia Lawford, il nostro avvocato” la presentò Dan. La donna porse la mano a Steven con fare professionale, ma in maniera estremamente rigida. Dopo la stretta, Steven la vide pulirsi la mano sulla gonna. Sogghignando, le rivolse un inchino ironico, ricambiato da uno sguardo carico d’odio.

Scrutando l’ufficio si soffermò sui quadri alle pareti, una serie di visioni di Chicago eseguite a carboncino. Osservò le tende blu, la carta da parati azzurra, e infine il suo sguardo cadde su una scrivania con il suo nome. Era la stessa vecchia scrivania del suo ufficio a Los Angeles. “L’ho fatta trasportare qui perché ti sentissi a tuo agio” proclamò Dan. “A mio agio?” sussurrò Steven, furioso, proseguendo poi ad alta voce “Bella mossa, davvero. Gentile da parte tua ricordarmi la mia vita quando ancora non faceva schifo. Proprio quello che volevo dimenticare”.

Dan si morse il labbro inferiore “Ero solo un modo per aiutarti nel nuovo lavoro” iniziò. “Credi che sia un gioco? Che cosa è, il Monopoli del Buon Samaritano? Beh, caro mio, mi spiace dirti che hai perso” urlò Steven “Ne ho abbastanza delle tue cretinate” concluse, uscendo dalla porta dell’ufficio.

Dan afferrò improvvisamente il suo braccio destro. “Lasciami” gli sibilò in faccia Steven. “No” replicò Dan, calmo ma fermo. “Non posso. Non posso lasciare che il figlio di Carl muoia. Non vengo mai meno alle mie promesse”. “Senti, vecchio, o mi molli o ti sbatto a terra” “So che non lo farai” rispose Dan ,fissando Steven senza battere ciglio.

Per qualche secondo i due rimasero immobili. Poi, lentamente, Steven si divincolò dalla stretta di Dan . “Non sei mio padre” sussurrò “E, credimi, è solo questo il motivo per cui non ho usato le maniere forti”.

FLASHBACK

LOS ANGELES, 13/05/1996

Un giovane Steven in uniforme completa strinse il braccio destro attorno al collo di un uomo sulla cinquantina. “Butta il coltello, Cummings” gli ordinò.
L’uomo obbedì immediatamente.

“E questo ragazzi, è il modo migliore per bloccare un avversario armato” commentò Steven , raccogliendo il coltello da terra e porgendolo a Cummings, che lo ringraziò. “Ringraziamo il vostro insegnante Henry Cummings, che si è prestato a fare da cattivo” Un applauso seguì le sue parole. Il pubblico di ragazzini delle elementari era visibilmente eccitato dalla lotta, e soddisfatto dalla vittoria del “buono”. “Domande?”

Nessuno rispose, e Cummings esortò i piccoli a uscire dalla classe. Soddisfatto, Steven si pulì la fronte dal sudore con un fazzoletto. “Bella esibizione” gli disse un uomo sulla quarantina, anche lui in uniforme da poliziotto, sorridendo mentre entrava nella aula. Aveva un distintivo in un taschino, intestato a “Carl”, e diverse medaglie appuntate al petto.

Steven spalancò gli occhi. “Che cosa ci fai tu, qui?” domandò seccamente. “Un padre non può volere vedere il proprio figlio?” commentò Carl, con un sorriso indefinibile sulle labbra. “Non tu.” rispose Steven con rabbia “Tu hai ben altro da fare, di solito. E le tue visite non hanno mai un fine disinteressato, non prendermi in giro” “In effetti hai ragione” commentò il padre di Steven, sorridendo soddisfatto. “Mi trasferisco tra tre giorni. Via da Los Angeles. Pensavo ti potesse interessare”. “Dove?” commentò Steven , incredulo. “Chicago. Pensavo che ti avrebbe fatto piacere, così non vivrai più sotto l’”ombra di tuo padre”. Non avrai più scuse per la tua inefficienza, dovrai cavartela da solo, finalmente” commentò il poliziotto cinquantenne, sorridendo.

“Non mi importa nulla di te come padre, ma, dannazione!, la mamma ha bisogno del tuo dannato assegno mensile. E’ malata , non può lavorare. Le servi, io non riesco a mantenerla da sola!” urlò Steven. “Oh, non preoccuparti, continuerò a mandarle dei soldi. Pura curiosità: per “malata” intendi dire che ha ricominciato a bere?” suggerì sarcasticamente Carl. Scioccato, Steven non riuscì a trattenere la rabbia e spezzò un pezzo di gesso nella sua mano destra.

“Non me ne volere, Steven ,ma devi accorgerti che lei ti sfrutta. Quella donna è un parassita. Non sa fare nulla, e si rifugia nell’alcool per non essere costretta a vedersi per come realmente è. Una volta era una bella donna, e guardala adesso. Non riuscirebbe nemmeno a fare la “vita” è conciata troppo male perfino per quello…”

Il discorso di Carl fu troncato da un pugno al mento di Steven. Scioccato, Carl si afferrò il mento. “Vattene. Vai a Chicago, vai dove diavolo vuoi, ma non farti più vedere. Altrimenti ti ammazzo”gli sibilò in faccia suo figlio.

Carl , stupefatto, scosse la testa ed uscì, frastornato dal pugno. “Mai più” aggiunse Steven.

WEISSMAN INVESTIGATIONS-2008

Scuotendo la testa, Dan mormorò “Steven, non puoi andartene. La tua libertà condizionata è vincolata alla mia responsabilità nei tuoi confronti. Se te ne vai, la mia azienda dovrà affrontare una causa. E fallirò, probabilmente” “Il tuo avvocato, Patricia come-si-chiama, ti salverà in ogni caso, no? Vero, zuccherino?” chiese sarcasticamente Steven, rivolgendosi a Patricia, che lo ricambiò con un’occhiata di disprezzo.

Jane, nel frattempo, si era seduta al suo tavolo, scioccata. Rivolse a Steven uno sguardo stranito.
Steven si divincolò dalla stretta di Dan e scese le scale, allontanandosi rapidamente.

“Se ne è andato. Signore,mi dispiace dire che l’avevo previsto” disse Patricia. “Tornerà” rispose Dan. “Non ha altra scelta” concluse, chiudendo la porta.

Jane si immerse nel suo lavoro, scuotendo la testa.

VICOLO

Steven si fermò contro il muro, smettendo di correre. Furioso, diede un pugno conto il cemento.
“Capo, fai meno rumore. Io sto tentando di dormire” brontolò un barbone che dormiva appoggiato all’edificio.
Steven lo squadrò. Rapidamente , estrasse una banconota da dieci dollari e la mostrò al mendicante.
“Prendi questa, OK? E vattene a dormire da un’altra parte” Il vagabondo annuì e si alzò rapidamente, afferrando la banconota con avidità.

WEISSMAN INVESTIGATIONS

Mentre Jane stava lavorando al suo computer con uno zelo esagerato, Patricia tossì, attirando l’attenzione del suo capo.
“Devo parlare, signore” chiese educatamente “Fai pure” rispose Dan, chiaramente assorto nei suoi pensieri. Patricia tossì ancora, accennando a Jane. Dan annuì. “Jane, puoi andare. Sei libera fino alle quattro.” “Davvero?” commentò quest’ultima, stupefatta. “Certo. E non preoccuparti, non ti detrarrò nulla dalla paga.” Stupita, ma contenta della piega che le cose avevano preso, Jane si alzò dalla sua postazione e si avviò alla porta. “A domani” la salutò Dan. “Certo,capo” rispose Jane ridacchiando.

Non appena se ne fu andata, Dan si sedette alla sua scrivania e invitò a gesti Patricia a scegliersi una sedia.
Patricia prese quella di Jane e si accomodò.
“Sapete già come la penso, signore. Quel Campbell sarà la nostra rovina, se non lo rimandiamo subito dove merita di stare” esordì.

“Patricia, devi provare a capirlo. Otto mesi fa la sua partner è morta. E’ ancora sotto shock. In più , ho sbagliato approccio con lui. Ma non posso lasciarlo perdere” replicò Dan.
Inspirando profondamente, Patricia commentò “La morte della sa partner non è una scusa, semmai è un aggravante. Secondo i rapporti ufficiali, il nostro “nuovo” acquisto” fece una pausa, calcando sulle sue ultime parole con disprezzo “ha continuato a parlare di una misteriosa “telefonata” che avrebbe rivelato la sua copertura. Ma nessuno ha telefonato a quell’ora.”

“Io e te sappiamo bene quanto i rapporti ufficiali siano spesso…imprecisi…” commentò Dan.
Patricia si morse il labbro inferiore. Effettivamente, doveva riconoscere che Dan aveva ragione. “Signore, è comunque un elemento instabile…quanto tempo passerà prima che sia coinvolto in una rissa?” chiese a bassa voce.

VICOLO

“Hai soldi?” chiese un altro barbone a Steven, con una brutalità ingiustificata. Steven,appoggiato al muro, aprì gli occhi. “Allora, hai soldi?” chiese un secondo mendicante. Ce ne erano quattro in tutto, tutti tipi poco raccomandabili.

“Sono a secco” rispose Steven , sorridendo. “Ma per voi poveracci anche le mie mutande valgono qualcosa, per cui, sotto. Fatemi fuori…o almeno provateci” .

Sghignazzando, i quattro barboni si avventarono su Steven come un sol uomo. Rapido come un fulmine, l’ex-poliziotto ruppe il naso al primo con una sola mossa. L’uomo urlò per il dolore.
“Sei pazzo!” ululò. “Aah…dannazione, il mio naso, me l’ha spezzato! Fatelo a pezzi!” ordinò agli altri.

Uno dei tre barboni ruppe una bottiglia a terra e avanzò brandendo la bottiglia rotta come una clava. Steven schivò facilmente i suoi colpi e gli afferrò il braccio con una mano, torcendoglielo fino a fargli cadere di mano l’arma improvvisata. Il mendicante bestemmiò dal dolore.

Ruggendo, gli altri due vagabondi si lanciarono su Steven come un solo uomo. Agilmente,l’ex-poliziotto ruppe un braccio al primo con un colpo di karaté, quindi sistemò il secondo con un paio di colpi al torace. Mugolando, l’uomo scivolò a terra.

Steven agguantò il capo della banda per i capelli e gli bisbigliò all’orecchio “Penso che sarebbe meglio farti un giro, non credi?” Il barbone annuì , spaventato, cercando di pulirsi il naso dolorante dal sangue. Fece un cenno ai suoi uomini, che si allontanarono rapidamente, lanciando occhiate spaventate a Steven. L’uomo rimase a fissarli per qualche secondo, quindi raccolse da terra il suo portafoglio, caduto dalla sua giacca durante la lotta.

Una fotografia era parzialmente uscita dal borsellino: raffigurava un’altalena rossa e una ragazza asiatica sui venti anni, sorridente, seduta con le gambe leggermente sollevate. Steven la osservò per un secondo,senza dire nulla.

Poi, metodicamente, la ridusse a brandelli, gettandone i pezzi a terra. Scuotendo la testa, si avviò di nuovo verso l’edificio che aveva appena lasciato.

Un uomo dal volto anonimo, vestito di nero, notò i suoi movimenti e, non appena Steven rientrò nel palazzo della Weissman Investigations, prese un cellulare da una tasca della sua giacca e digitò un numero. “Tutto come previsto” annunciò “Accetterà il lavoro. Possiamo iniziare a liberare la strada che si troverà a percorrere” concluse, chiudendo la conversazione.

WEISSMAN INVESTIGATIONS

Sospirando, Steven rientrò nell’ufficio. “Sia chiaro” disse, interrompendo la conversazione fra Patricia e Dan “che non appena la mia libertà vigilata scadrà, io me ne andrò e non mi vedrai più. Ma per ora, un posto vale l’altro”

“E’ un tuo diritto” rispose Dan gentilmente. Patricia sembrava paralizzata dal disappunto.
“Scusatemi” disse poi alzandosi e dirigendosi rapidamente verso la porta d’ingresso. “Signore, a domani” salutò Dan.

Nell’uscire dalla porta si trovò di fronte Steven. Inspirando, gli rivolse la parola bruscamente “Spostati” “Per favore?” suggerì Steven. Lo sguardo di Patricia dardeggiò odio puro. “Se fosse per me, ti avrei lasciato marcire in prigione. Sei solo un mezzo criminale ingrato” sibilò.
“Se avessi saputo di trovare una compagnia così piacevole qui, sarei volentieri rimasto in prigione” rispose Steven sogghignando e facendosi finalmente da parte.

Dan rivolse a Steven uno sguardo severo, a cui l’ex-poliziotto replicò con un inchino ironico. “Le mie scuse, principessa” disse a Patricia. La donna lasciò la stanza senza voltarsi.

“Guardami” gli disse con voce dura Dan “Se vuoi ancora lavorare qui, dovrai smetterla con queste battutine”
“Come vuole il boss” replicò Steven. “E adesso , potresti dirmi dove potrai andare a dormire stanotte?”

“Ti accompagnerà Jane più tardi” rispose Dan “Non sarebbe una cattiva idea, nel frattempo, occuparsi del tuo primo caso” Gli porse una busta rigonfia.
“Che cosa è?” chiese Steven. “Sparizione. Una ragazza di ventitrè anni, Paula Cantrell. Un caso di alcuni mesi fa, probabilmente non scoprirai nulla , ma i genitori ci tengono” spiegò Dan.

Steven aprì la busta e scrutò l’insieme di fotografie e documenti all’interno. “Ci vorrà tempo” mormorò “Certo non posso fare molto questo pomeriggio”.
“Prenditi tutto il tempo necessario. Jane ritornerà alle quattro, puoi sempre rivolgerti a lei se ne hai bisogno”.
Annuendo, Steven scorse rapidamente le pagine dei rapporti sulla scomparsa.

APPARTAMENTO DI PATRICIA LAWFORD

La pesante porta blindata si chiuse alle spalle di Patricia, che girò rapidamente la chiave nella serratura, spostando anche un chiavistello per rendere impossibile a chiunque anche solo tentare di entrare in casa sua.

Sospirando, la ragazza si sciolse i capelli e si tolse scarpe e orecchini. Superò l’atrio dipinto di blu ed entrò in salotto. La splendida sala dalle pareti candide era ordinatissima: non un mobile fuori posto, non una traccia di polvere. Un telefono bianco appoggiato su una elegante plafoniera di mogano nero emetteva una luce rossa intermittente.

Con un espressione di curiosità, Patricia si avvicinò all’apparecchio e premette un tasto. Dopo un rapido click, dall’altoparlante della segreteria telefonica una voce giunse una voce femminile squillante. “Ciao Pat, qui Mandy! Sono di nuovo in città. Le Bermuda non sono un granché, dopotutto. Beh, chiami subito, quando torni. Mi sei mancata- ma quando ti decidi a fare una vacanza anche tu? Beh, comunque ci sentiamo!”.

Sorridendo, Patricia digitò un numero. Dopo alcuni secondi lasciò a sua volta un messaggio su una segreteria telefonica “Ciao Mandy, qui Patricia (non chiamarmi Pat…). Domani da Dante’s Hack, d’accordo?”. Rimettendo la cornetta al suo posto, si avviò verso il bagno.

In bagno, accese una piccola radio e si tolse la calze. Accese la doccia, e mentre una rilassante romanza si sprigionava dalle casse, fece scorrere l’acqua e tirò le tende.

In salotto si udì un piccolo schianto, seguito da un tonfo. Patricia, già nella doccia, senza uscirne chiuse l’acqua, afferrò un accappatoio e, uscita dalla doccia, aprì rapidamente un cassetto e ne estrasse una pistola. Facendo scattare il caricatore, ritornò nel salotto tenendo l’arma ad altezza d’uomo.

Entrata nella stanza, si accorse che un pacchetto aveva rotto una finestra ed era atterrato vicino al telefono. Patricia abbassò la pistola e sollevò lentamente il pacchetto. Una scritta sulla carta che lo ricopriva diceva “Guardami”. Incuriosita, Patricia strappò la carta e aprì il pacchetto, scoprendo una cassetta intitolata “Svegliati, Alice”.

Scuotendo leggermente la testa, Patricia si avviò verso il suo videoregistratore, inserì la cassetta, accese la televisione e premette il pulsante di avvio.
Mentre il video le scorreva sotto gli occhi, e l’audio (un lungo concerto di spari e urla, seguito da un mormorio quasi impercettibile) rimbombava nella stanza, il volto di Patricia si trasformò in una maschera di orrore “Oh mio Dio” commentò sconvolta “Oh mio Dio”.

WEISSMAN INVESTIGATIONS-18:00

Jane si alzò dal suo tavolo di lavoro, avvicinandosi con aria insicura alla scrivania di Steven.
“Dovremmo chiudere” mormorò. “Un momento soltanto” rispose tranquillamente Steven “Devo controllare l’ ultimo rapporto”
Jane aprì gli occhi per lo stupore. Sogghignando leggermente alla sua reazione, Steven commentò “Non mordo, non ad ogni ora del giorno, almeno. E non c’è molto altro che io possa fare se non questo lavoro”. Concluse stiracchiandosi sulla sedia. “Allora?” chiese poi, con un accenno di impazienza.

“Allora cosa?” domandò Jane, sinceramente stupita. “Dove devi scortarmi?” domandò Steven.
“Scortarti?.. Ah, certo, il tuo appartamento! Me ne ero quasi dimenticata” rispose Jane, battendosi una mano sulla fronte “Potrei anche dormire in ufficio, ma non sarebbe una bella pubblicità per la ditta. La gente ama gli investigatori svegli e attivi, un babbuino addormentato alla sua scrivania non è in” commentò Steven, facendo sorridere debolmente Jane.

“Andiamo” tagliò corto l’uomo, iniziando a scendere rapidamente le scale. Jane lo seguì con un passo incerto .

PIU’ TARDI

Jane e Steven camminavano fianco a fianco. La donna, di tanto in tanto, scoccava occhiate sospettose al suo accompagnatore.
“Buffo, l’ultima volta che ho controllato non avevo tre teste” sbottò d’improvviso quest’ultimo.
“Cosa?” chiese Jane, scuotendo la testa. “Mi stavo chiedendo come mai tu continuassi a guardarmi in quel modo.” rispose Steven “A meno che non sia solo perché ti piace quello che vedi” concluse Steven,i n tono leggermente canzonatorio.

Jane fece una finta smorfia indignata “Come ti permetti?” scherzò “Sono una donna onesta!”
Steven represse a sua volta una risatina. “In realtà” continuò Jane più seriamente “La tua scenata mi ha fatto quasi paura”

“Non c’era niente di cui aver paura” rispose Steven “Al limite avrei strangolato il capo”
“Oh , non dovresti davvero! Dan è una persona meravigliosa, aiuta sempre tutti. Ha aiutato anche me” iniziò Jane prima di ritrovarsi di fronte a un edificio grigio-scuro. “Eccoci” concluse “Numero 47. Terzo piano, scala a destra.” concluse Jane,porgendo a Steven una piccola chiave.

“Perfetto. A domani” salutò Steven. “Un attimo!” commentò rapidamente Jane. Steven verso di lei. “E’ presto…non resti fuori a fare quattro chiacchere? “suggerì Jane, con un tono di discreto interesse non solo professionale.

“Un’altra volta, magari” rispose Steven, salutando la segretaria ed entrando rapidamente nel’edificio .Con un a leggera smorfia di disappunto,Jane salutò a sua volta.

OTTAVO DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI CHICAGO- IL GIORNO SEGUENTE

Nella folla di agenti impegnati a compilare rapporti, scortare i fermati o semplicemente chiaccherare sorseggiando caffé, un agente basso e occhialuto sulla trentina si faceva largo con difficoltà, continuando a guardare il suo orologio e cercando di raggiungere al più presto il suo ufficio.
“Stavolta mi uccide” si disse l’agente “stavolta mi uccide”. All' improvviso l’agente si scontrò con un collega che stava trasportando uno schedario. Le pagine volarono dappertutto.

“Dannazione, Frank, perché non guardi dove diavolo vai?” gli chiese acidamente il collega, raccogliendo i fogli da terra uno a uno. “Oh, Davis, sono in ritardo e senza cravatta. E’successo che ieri sera George mi ha chiamato per un caso di furto, arrivo lì e non c’è nessuno. Allora aspetto tre ore e non arriva nessuno…”
“Questa storia ha una fine?” chiese Davis. “Ehi, ci stavo arrivando! Lasciami dargli un po’ di suspance! Allora, ti dicevo, stavo aspettando e…” “Agente Beaumont. Agente Davis. Che cosa state facendo qui?” domandò bruscamente un uomo afro-americano sulla cinquantina, squadrando i due.

Frank abbassò la testa con aria di scusa “Luogotenente Bronson” lo salutò “Ehm, stavo cercando di giustificare il mio ritardo. L’agente George Sands ieri sera mi ha chiamato e-” .”Basta così” lo interruppe il suo superiore. “Davis, torni al suo posto. Beaumont, è il terzo ritardo consecutivo in tre giorni. E dove è finita la sua cravatta?” “E’ una lunga storia, signore. E’ successo che stamattina in bagno, mi è caduto l’anello di Batman nel tubo di scarico del lavandino, e non avevo niente per riprenderlo, allora-”

Bronson scosse la testa “Beaumont, lei è il peggiore agente di questo dipartimento” “Sissignore” rispose umilmente Frank. “Il peggiore della città, probabilmente” continuò il suo superiore. “Sissignore” rispose sempre Frank. “E la smetta di ripetere sissignore”

”Sissign- Va bene,Luogotenente” replicò rapidamente Frank. Alzando gli occhi al cielo, Bronson porse un faldone al suo sottoposto “Questo è il tuo incarico per oggi” Frank scorse le pagine, che contenevano varie fotografie di una ragazza sui venti anni dai capelli rossicci e gli occhi azzurri, assieme a una fitta serie di annotazioni e tabelle orarie “La sparizione Cantrell?” rispose, stupefatto.
“Non l’avevamo archiviata mesi fa, signore?”

“Certo” rispose Bronson alzando di nuovo gli occhi al cielo “Ma un detective privato è arrivato qui oggi, con la richiesta di visionare i rapporti su questo caso per conto dei genitori della ragazza sparita.” “Un detective privato? Brutta razza…” rispose Frank, scuotendo la testa. “In ogni caso, ha tutti i diritti di visionare il materiale. Autorizzazione del procuratore e tutto il resto” lo informò Bronson.

“Mi scusi, signore, ma il caso non era di competenza dell’ FBI ? Mi ricordo che quel federale aveva sequestrato tutto..” commentò Frank, aggrottando la fronte
“A quanto pare,no” commentò ironicamente il suo superiore. “Il tuo incarico è assistere l’investigatore e tentare di evitare fughe di notizie su argomenti collegati all’indagine ma non essenziali per i genitori della scomparsa…chiaro?”

“Farò del mio meglio, signore” commentò felice Frank. Bronson lo fissò preoccupato per qualche secondo, poi gli fece cenno di allontanarsi “E’ tutto” concluse. Frank continuava a leggere il rapporto. “Ho detto è tutto” tuonò Bronson. “Certo, signore, vado” rispose Frank, avviandosi a passi rapidi verso l’atrio principale.

Attraversando gli uffici notò un paio di vagabondi fermati di recente: avevano tutti e due cicatrici al naso e al mento. Scrollando le spalle, Frank si avviò verso l’unica persone nell’atrio priva di divisa: Steven.

“Salve. Sono l’agente Frank Beaumont. Sono qui per aiutarla” si presentò, porgendo la mano al detective privato, che la strinse senza molta convinzione. "Steven Campbell" si presentò a sua volta.“Allora, da dove iniziamo?” cominciò Frank allegramente. Aggrottando le sopracciglia, Steven si schiarì la gola “Paula Cantrell” disse “Giovane. Bella. Scomparsa” concluse. “Wow, questa si chiama sintesi” commentò Frank “Ehm… sì, concentriamoci all’essenziale, vero? Allora…”

Frank stava sfogliando il suo faldone , scombinandone le pagine , senza trovare nulla di significativo. “Ha finito?” gli chiese Steven, spazientito. “Magari potremmo controllare l’archivio informatico…che ne dice?” suggerì con un lieve tono di scherno. Frank sollevò la testa dalle sue carte e si sbatté una mano sulla fronte “Ma certo, ovvio…come mai non ci ho pensato?” si disse. “Chissà” commentò Steven , con del sarcasmo che andò completamente perso. Frank si avvicinò ad un computer acceso e digitò la sua password, cercando di nascondere lo schermo a Steven come meglio poteva. Steven sorrise leggermente.

“Allora…” annunciò Frank pochi secondi dopo “ecco qua. La scomparsa è stata denunciata il 15 di febbraio, di quest’anno ovviamente…niente precedenti…indizi: pochini, le solite tre false segnalazioni…ecco, è tutto” concluse. “Anche voi non scherzate in quanto a sintesi” commentò Steven ironicamente. “

“Signor Campbell, sa quanti casi di sparizione ci sono ogni anno in questa città? Beh, a dire la verità neanche io…ma sono tanti, davvero tanti. E senza indizi, così, tirando alla cieca…” Frank allargò le braccia.
“Vero.” Commentò Steven a denti stretti “Ma questo non mi aiuta molto, no? Non posso certo andare dai genitori della ragazza e dire “Ah, scusateci, ci sono tanti, talmente tanti casi di sparizione a Chicago, che non ci siamo mossi più di tanto”.”

“Giusto…” rispose Frank, mentre le sue guance arrossivano “Non ha qualcosa almeno sui testimoni?” gli chiese Steven, tamburellando con impazienza sulla sua sedia. “Sicuro! Ehi, ma non ci vuole un’autorizzazione del procuratore per queste informazioni?” domandò preoccupato Frank. “Stranamente, ho questa autorizzazione…” commentò Steven , mostrandogliela.

“Ah” commentò Frank grattandosi la testa. Digitò una nuova password. “Solo questo: la sera prima di scomparire la ragazza era stata ospite di amici: i Polk. Oliver e Tanis, 1344 Lexington Drive”
“Grazie per l’aiuto” commentò Steven , avviandosi all’uscita. Frank lo rincorse “Aspetti!” gridò.
Steven si voltò, irritato “Cosa c’è?” “Pensava veramente che la avrei lasciata indagare senza controlli? Ho il dovere di impedire violazioni della privacy. Verrò con lei!” “No” rispose seccamente Steven. “Sì” insistette Frank “Altrimenti dirò al mio capo che lei ha una licenza irregolare” “Ma non è vero!” sbottò Steven. “Se mi porta con lei non dovrà spiegare nulla, e non perderà tempo…” suggerì Frank, sorridendo.

“Vieni,allora.” Acconsentì malvolentieri Steven “ma mettiamo bene in chiaro due cose: uno,sta zitto. Due,non parlare. Chiaro?” “Cristallino” rispose Frank soddisfatto.

APPARTAMENTO DI PATRICIA LAWFORD

Il telefono squillò rumorosamente. Patricia si precipitò a sollevare la cornetta. “Mandy?” chiese, incerta. “Non proprio. Ti è piaciuta la cassetta?” le rispose una voce roca maschile dall’accento messicano. Sentendola, Patricia rabbrividì.

“Come…come hai fatto ad ottenere questo numero?” urlò “Chi te l’ha dato?” “Un uccellino” rispose soddisfatta la voce. “Sai, quelli tutti colorati che cinguettano…” proseguì. “Sentimi, brutto porco, ho chiuso con te. Sono fuori da anni. Non mi ricatterai più , hai capito? Sono fuori!” continuò a urlare Patricia, mentre il suo viso si riempiva di lacrime.

“Nessuno è mai veramente fuori, Pat. E chissà cosa penseranno i vicini. L’avvocato Lawford, quella donna così distinta, che urla al telefono come un’ossessa…che caduta di stile. Non è da te” proseguì soddisfatta la voce. “A proposito, Patricia Lawford è un nome splendido, ma io potrei chiamarti ancora Pat? Mi farebbe piacere.” concluse, in tono falsamente cordiale.

“Cosa vuoi?” chiese bruscamente Patricia “Chi ti manda stavolta? Jimenez o Starski? Puoi dire a tutti e due ti andare all’inferno” “Oh, Pat, che ragazza maleducata sei diventata. Non si fa, non si fa proprio, cattiva. I vecchi amici vanno trattati bene, altrimenti si arrabbiano” replicò la voce. “ E i nuovi amici vanno trattati anche meglio…”

“Nuovi amici?” chiese Patricia, sarcastica “Che cosa diavolo vuoi dire?”
“Oh, non preoccuparti, Pat, lo saprai presto. Per adesso, tanti saluti, chica” concluse l’uomo al telefono.
Furiosa, Patricia scagliò la cornetta contro il muro.

1344, LEXINGTON DRIVE

Un’automobile presa a noleggio si fermò davanti al numero 1344 di Lexington Drive, una semplice villetta a schiera come migliaia di altre.
Steven e Frank ne scesero, e si avvicinarono alla porta principale. “Ricorda…” sussurrò Steven “Certo: tu parli, io sto zitto.” “Ottimo. E già che ci sei, non guardare nemmeno.”

Steven suonò il campanello, attenendo pazientemente per una risposta che tardava ad arrivare. Aggrottando le sopracciglia, suonò di nuovo. Ancora, nessuna risposta. “Forse sono fuori” suggerì Frank. “Se sono fuori, come mai la porta è aperta?” obiettò Steven. “Aperta?” chiese stupefatto Frank, mentre Steven, annuendo, la spalancava.

“Ehi! Cercate i Polk?” chiese una voce alle loro spalle. Voltandosi i due si trovarono di fronte un uomo sulla quarantina, che indossava un paio di jeans sudici e una camicia hawaiana che aveva sicuramente visto giorni migliori. Gli occhi dell’uomo mostravano un misto di curiosità e sospetto.

“Poliziotti?” domandò bruscamente. “Più o meno” rispose Steven. “Beh, gente, potete anche tornare a casa se volevate parlare con i Polk. Con le tombe non si parla.” concluse, con una risatina.
“Morti? Come e quando?” chiese Steven rapidamente. “Un incidente, un mese fa. Un camion ha centrato in peno la loro automobile sulla Mulholland Drive tre settimane fa. Poveracci, così giovani. Quello del camion non l’hanno preso, se l’è filata. Ci pensate, i pazzi che girano per le strade?” rispose l’uomo.

“Per caso, prima della loro morte, è mai successo qualcosa di insolito ai Polk?” domandò Steven, mentre Frank continuava a riaprire e chiudere la porta, scuotendo la testa. “Mi lasci pensare…ma certo, intende quella ragazza, Paula, quella che avevano ospitato prima che scomparisse, vero?” chiese l’uomo, grattandosi la testa. “Precisamente” “Beh, c’è poco da dire su quello. Per me, la ragazza se ne è volata a Hollywood a fare l’attricetta, o magari a Las Vegas a fare la ballerina” l’uomo sghignazzò “Era uno schianto, e non aveva proprio l’aria di una di quelle destinate a marcire qui. Ma voi siete proprio sbirri…quante domande…”

“La ringrazio della collaborazione” tagliò corto Steven. “Se ha qualcosa d’altro da dormi, mi chiami qui” aggiunse, porgendogli un biglietto da visita. Annuendo, l’uomo si avviò in un vicolo vicino.

“Perché l’hai lasciato andare?”sbottò Frank “E’ un testimone!” “E’ un gran bugiardo” replicò Steven “Non hai notato che il vialetto è perfettamente pulito? E la porta aperta? Altro che incidente un mese fa” concluse “Quindi la cosa migliore è fargli credere che abbiamo abboccato e pedinarlo.”
“Ehi…è vero!” commentò Frank, stupito. “Tu resti qui” gli comunicò Steven in tono asciutto.

“Cosa?” “Secondo te, perché la porta è aperta? Controlla all’interno e chiama la tua centrale. Anzi, diciamo che prima chiami la tua centrale e poi controlli.” Concluse Steven, seguendo la via che l’uomo aveva già percorso.

Sorpreso, Frank rimase immobile. Mentre Steven si allontanava si riscosse dallo stupore. Afferrò il cellulare e iniziò a digitare un numero. Improvvisamente si bloccò: la curiosità aveva avuto il sopravvento. Aprì la porta ed entro in casa Polk.

WEISSMAN INVESTIGATIONS

Lo squillo del suo cellulare fece alzare la testa a Dan Weissman. Vagamente seccato,rispose alla chiamata, proveniente da un numero privato.

“Pronto, chi sei?” iniziò , con voce ferma. “Oh, capo, meno male che ha risposto! Sono rimasta bloccata alla biblioteca pubblica .Questa città è un tale caos!” rispose la voce di Jane. “La biblioteca?” chiese Dan, leggermente stupito. “Sì, Steven mi ha chiesto di cercare dati su una sparizione, un nostro caso. Che tipo, vero capo? Pensavo se ne sarebbe andato, dopo quella scenata, e invece si è messo sotto con il lavoro…” “Che sparizione?” tagliò corto Dan. “Paula Cantrell” replicò Jane “il caso con priorità assoluta, si ricorda…capo, è ancora in linea?” chiese poi, preoccupata.

Dan aveva aperto un cassetto e stava fissando una fotografia che raffigurava tre uomini in divisa: Carl (il padre di Steven) , Dan stesso e un terzo uomo brizzolato che portava un paio di occhiali spessi. Dan sembrava assorto nei suoi pensieri, ma dopo un attimo replicò “Tutto bene, Jane. Sto solo diventando vecchio. Torna in ufficio al più presto.” “Va bene, boss” concluse Jane laconicamente.

Appoggiando il cellulare sul tavolo, Dan sospirò. “La vita di tuo figlio è in pericolo per colpa mia. Potrai mai perdonarmi?” chiese alla fotografia di Carl. “Ho dovuto farlo…ma ti prometto che tuo figlio rimarrà vivo. Farò di tutto perché questo succeda” concluse, sussurrando.

CASA POLK

“C’è nessuno?” chiese Frank con voce incerta, aprendo la porta della cucina. Nessun rispose, ma il poliziotto notò immediatamente le due tazze appoggiate sul tavolo, e la scatola di cereali rovesciata a terra. Grattandosi la testa e scuotendo le spalle, si sedette su una seggiola di legno vicino al tavolo.

“Mah..” mormorò., appoggiando il mento sul gomito “Che cavolo è successo qui?” si chiese. Scuotendo la testa, iniziò a dondolarsi sulla sedia. D’improvviso perse l’equilibrio e cadde, picchiando la schiena a terra. “Dannate sedie!” imprecò da terra, prima di accorgersi di un sacco informe sotto il tavolo. Con un lampo di curiosità negli occhi, strisciò sotto il tavolo e afferrò il sacco.

“Quanto pesa” si lamentò, trascinandolo fuori. Una volta uscito da sotto il tavolo, aprì il sacco, tentando di rovesciarne il contenuto sul pavimento,senza riuscirci. Sbuffando, decise di dare un’occhiata all’interno.

Una vista orribile si presentò ai suoi occhi: il sacco conteneva il corpo senza vita di un giovane uomo bruno. Dalla gola tagliata dell’uomo scendevano solo alcune gocce di sangue.

Con un gemito, Frank abbandonò il sacco e aprì la porta del bagno. Ansimando pesantemente, si spruzzò dell’acqua in faccia. Un rivolo rosso dalla doccia risvegliò il suo orrore. Tendendosi una mano sulla bocca, Frank aprì le tende della doccia.

Adagiata con la testa a terra c’era una donna bruna sulla ventina, morta. Anche lei presentava un taglio alla gola da cui usciva solo una riga di sangue.

Urlando di nuovo, Frank uscì dal bagno e si precipitò attraverso la porta sul retro, anche essa aperta.

VICOLO

Steven seguiva l’uomo dai jeans sporchi con circospezione, tentando di non farsi notare. L’uomo svoltò a destra in una strada segnalata come senza uscita. Aggrottando la fronte, Steven decise di passare oltre per non insospettirlo, nel caso si girasse a controllare.

Lo scatto secco di un grilletto lo fece bloccare. “Stai fermo.” gli ordinò un uomo che portava un passamontagna, puntandogli un fucile alla testa. “Ti credi furbo, vero? “ commentò “Non lo sei, proprio per nulla. Facevi meglio a credere alla storiella dell’incidente” concluse. “E getta la tua pistola “ ordinò.

Lentamente, Steven estraette la sua pistola dalla fondina ascellare. “A terra, ho detto!” ordinò bruscamente l’uomo con il fucile.
Steven lanciò la pistola con forza contro di lui, colpendolo alla testa. Barcollando, l’uomo abbandonò il fucile. Steven glielo strappò di mano, prima di colpirlo con forza al torace con un calcio. Mugolando, l’uomo con il passamontagna cadde a terra.

Puntando il fucile contro l’uomo a terra, Steven lo fissò attentamente. “Le parti si sono invertite, a quanto pare” commentò “Credo che tu abbia molte storie interessanti da raccontarmi” continuò.
Proprio in quel momento un nuovo rumore metallico lo sorprese. D’istinto, l’ex-poliziotto si lanciò a terra, mentre l’uomo dai jeans sporchi sbucava dall’angolo della strada senza uscita, puntando a sua volta un’arma alla testa di Steven. “Butta il fucile” gli ordinò energicamente.

Con un movimento rapido Steven fece saltare l’arma dalle mani dell’uomo dai jeans sporchi, usando il fucile come una clava. Stupefatto, ql'uomo rimase immobile per un secondo di troppo, permettendo a Steven di colpirlo di nuovo, questa volta alla testa.

Due mani robuste immobilizzarono le braccia di Steven: l’uomo con il passamontagna lo aveva afferrato alle spalle e tentava di bloccarlo. L'ex-ploiziotto rispose assestandogli una testata che fece perdere presa al criminale. Il criminale in jean sporchi, tuttavia, aveva recuperato la sua arma e si avvicinava rapidamente. Steven lo caricò al torace, sbattendolo a terra.

L’uomo si difese con il calcio della pistola. Scuotendo la testa, l’uomo con il passamontagna si lanciò sull’ex-poliziotto, ricevendo a sua volta un calcio nello stinco destro.

Steven si rimise in piedi rapidamente. Adocchiando la sua pistola, si lanciò di scatto a riprenderla, ma l’uomo con il passamontagna, intuendo la sua mossa, la calciò lontano.
D’improvviso il detective si trovò a sputare sangue: l’uomo dai jeans sporchi lo avevo colpito alle spalle con tubo di ferro.

Steven crollò a terra, mentre l’uomo dal passamontagna gli assestava un calcio. Sorridendo, l’uomo dai jeans sporchi fissò il suo alleato. “Non sprecare tempo a dargli calci ora” commentò “Gliene potrai dare quanti ne vorrai quando lo porteremo al campo base”. Annuendo, l’uomo dal passamontagna raccolse la pistola del detective da terra.

L’improvviso rumore di un' automobile fece sobbalzare i due criminali. Era Frank, alla guida dell’auto noleggiata da Steven. Il poliziotto sembrava puntare direttamente sui due.
L’uomo dai jeans sporchi si tuffò nella strada senza uscita, mente il criminale con il passamontagna puntava il fucile contro l’automobile in avvicinamento.

D’improvviso, Steven lo spedì a terra con uno sgambetto ,afferrando la sua gamba destra. L’uomo si scrollò dalla presa e fuggì in un altro vicolo, abbandonando la sua arma a terra.
Steven si alzò in piedi, alzando le braccia. L’automobile si fermò a pochi centimetri dal suo corpo.

“Miseria!” esclamò Frank, stupefatto, uscendo dalla portiera destra dopo avere fermato l’auto. “Sei conciato da fare schifo, amico!” disse a Steven, che sorrise debolmente. “Seguilo” sussurrò Steven al compagno. “L’uomo dai jeans sporchi, di là!” aggiunse con impazienza alla vista del viso stupito del poliziotto.

Frank si voltò verso la strada senza uscita , ma il criminale era scomparso senza lasciare traccia. Probabilmente aveva scavalcato il muro alla fine del vicolo.

“Sparito… ” commentò a Steven. “Come hai fatto a trovarmi?” chiese quest’ultimo? “Sono uscito dalla casa e non ti ho visto. Poi ho sentito dei rumori…” “E come mai sei uscito dalla casa?” domandò con voce flebile Steven

”Tieniti forte: ci sono due tipi morti là dentro!” riferì Frank,stupefatto, a Steven .
“Me lo aspettavo. Devono essere i Polk. L’unica parte vera delle balle di quell’uomo era il fatto che fossero morti.” mormorò quest’ultimo “Ehi…ma tu sanguinando! Ti serve un medico!” constatò Frank.“Brillante deduzione, agente Beaumont!” commentò Steven debolmente, con appena un filo di sarcasmo. “Hai allertato la tua centrale?” aggiunse con un filo di voce.

“Oh, cavolo, me lo sono dimenticato!” esclamò Frank, sbattendosi la mano sulla fronte e afferrando il suo cellulare. “Scarico” commentò ,affranto. “Ti porto in ospedale” annunciò a Steven, che scosse la testa leggermente. “Usa il mio” propose a Frank, passandogli il suo cellulare.

Annuendo, Frank digitò il numero della centrale. “Qui agente Beaumont, numero di matricola- sei tu, Davis? Devo denunciare un delitto. Duplice omicidio!”annunciò, sovraeccitato. “Cosa? No, non è uno scherzo come quando ho detto di aver visto Michael Jackson assassinato in un motel!” continuò, con rabbia. “1344 Lexington Drive. E fate presto!” concluse.

PIU’ TARDI

“Nulla?” chiese un sergente di polizia sulla trentina “Nulla. Zero. Nada. Come preferisci” annunciò un agente ventenne, scuotendo la testa. “Pulita come un cristallo”
“Beaumont, chi cavolo ti ha detto che qui c’erano due cadaveri?” sbottò il sergente. “E’ tutto a posto. Non c’è l’ombra di un cadavere là dentro” “Ma il ho visti!” replicò Frank, furioso “Devono esserci, non se saranno volati via!” Sergente ed agente si scambiarono un’occhiata significativa.

“Dovremo farti rapporto, se insisti con queste buffonate” tagliò corto l’agente. Stupefatto, Frank stava per rientrare nella casa dei Polk per un sopralluogo più approfondito, quando Steven afferrò il suo braccio, scuotendo la testa “Inutile cercare, manda i tuoi colleghi a casa. Quelli che abbiamo inseguito servivano a distrarci mentre qualcuno di sveglio ripuliva il locale.”

“Ma come cavolo facevano a sapere che saremmo arrivati noi? E’ come ci avessero aspettato..” si domandò Frank.
“Bella domanda…davvero una bella domanda…” rimuginò Steven, pensieroso.
“Non lo so: ma posso prometterti una cosa. Mi hanno quasi ucciso, e per quanto la mia vita faccia schifo, non è così che vorrei morire. Da questo momento in poi, il caso si è fatto parecchio personale. Scoprirò ogni cosa sul conto di chi è responsabile di tutto questo. E il giorno in cui sarà in mano nostra…farò in modo che se ne ricordi per sempre” concluse poi a bassa voce, fissando il suo sguardo sul sole che stava tramontando nel Lago Michigan.

STANZA BUIA

Un uomo dai lineamenti in ombra giocherellava con un distintivo del sesto dipartimento della Polizia di Los Angeles, identico a quello della “Voce” che aveva creato l’incidente della rapina alla gioielleria Webster & Sands. La scarsa luce che filtrava dalla finestra alle sue spalle creava strani riflessi.

D’improvviso, la porta della stanza si aprì. Un uomo dal volto insignificante fece il suo ingresso.
“Ha preso contatto, signore. Tutto si è svolto nella maniera migliore per il nostro piano” annunciò.
“Ne ero certo” rispose l’uomo seduto,confermando con il suo timbro rauco di essere realmente la Voce. Dopo un attimo di meditazione, si alzò in piedi.

Il suo volto uscì dalle tenebre. Si trattava del terzo uomo nella fotografia di Dan. Portava ancora gli occhiali spessi con cui appariva nella vecchia immagine. Sorridendo, se li tolse e iniziò a pulirli.

“Prepariamoci alla seconda fase” ordinò al suo sottoposto. L’uomo annuì. “Ogni contatto è stato attivato” confermò al suo capo.

“Perfetto” commentò quest’ultimo, con un sorriso soddisfatto

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Capitolo 2
*** L'indagine continua ***


CAPITOLO II L'indagine continua


STRADA BUIA

Il paesaggio spettrale della strada vuota e male illuminata era avvolto in una calma inquietante. Il silenzio fu spezzato da un rapido ticchettare di tacchi. Una giovane donna molto truccata e vestita in maniera appariscente svoltò l’angolo, ansimando. Per qualche secondo si fermò, terrorizzata e ansimante, muovendo la testa da sinistra a destra, in cerca di una via d’uscita. Svoltò a sinistra e si rimise a correre.

Si bloccò di nuovo di fronte ad uno stretto passaggio fra due muri sudici. Correndo, si liberò dei sandali verdi dai tacchi alti che portava ai piedi.
Dopo pochi passi si accorse del suo errore: il passaggio terminava con un solido muro di mattoni, alto almeno tre metri. “Dannazione” imprecò, voltandosi rapidamente e correndo a piedi nudi sull’asfalto.

La ragazza si fermò di nuovo, smarrita. Decise di imboccare il vicolo da cui era entrata. Inspirando profondamente, si lanciò in una nuova corsa.

Uno sparo mancò di pochissimo la sua gamba destra. “Testa a terra” le ordinò una voce maschile dal tono autoritario, la stessa voce dell’uomo che il giorno precedente, mascherato da un passamontagna, aveva minacciato Steven . “Ti prego, non farmi del male.” supplicò la ragazza. “farò qualsiasi cosa, ok? Qualsiasi, tutto quello che vuoi, ma non spararmi.”. “Ultimo avvertimento. A terra” ordinò bruscamente la voce maschile. La donna obbedì, singhiozzando.

Un uomo dal viso duro e dall’espressione decisa le si avvicinò, puntandole una Beretta alla testa. “Ti chiami Holly Valance, giusto?” le chiese in tono freddo. La donna annuì. “Tre mesi fa” continuò l’uomo “ti è arrivata una lettera. La lettera conteneva una chiave e un indirizzo, oltre a delle istruzioni su cosa nascondere nell’edificio aperto dalla chiave. Voglio quella chiave e quell’indirizzo.” “Non posso darteli” rispose a bassa voce Holly.

L’eco dello sparo fu assordante. Pezzi di intonaco colpirono la donna sulla schiena. L’uomo scosse la testa “Chiave e indirizzo” ripeté. “Non posso…non li ho con me!” urlò Holly.
L’urlo si trasformò in un mugolio di dolore dopo il terzo sparo, che colpì di striscio la ragazza alla gamba sinistra.
“Sentimi brutto bastardo, non li ho con me! Li ho a casa, non me li porto certo in tasca quando devo incontrare i clienti!” piagnucolò la donna. “Gesù Cristo, mi hai bucato! Non mi potrò muovere per una settimana!” “Non ci siamo capiti. Sai che potrei spararti alla testa?” commentò freddamente l’uomo, facendola tacere. “Se quello che dici è vero, mi serve la tua chiave di casa.”

“Devo alzarmi per dartela” mormorò Holly. “Va bene. Ma niente scherzi” replicò l’uomo, sempre tenendola sotto tiro.
La donna si alzò in piedi lentamente e infilò la mano nella tasca destra del giubbotto metallizzato che stava indossando. “Lanciami le chiavi. Lentamente” le ordinò l’uomo. Holly annuì, ma con uno scatto estrasse una pistola di piccolo calibro dalla tasca e fece fuoco. L’uomo rimase interdetto per una frazione di secondo, prima di rispondere d’istinto al fuoco.

Il colpo dell’arma della donna colpì l’uomo di striscio al braccio, ma la pallottola uscita dalla Magnum dell’uomo centrò Holly in mezzo agli occhi. La donna si accasciò a terra, morta.

Mordendosi le labbra per il dolore, l’uomo estrasse un cellulare dalla tasca sinistra della sua giacca nera. “Mi serve appoggio” sibilò nell’apparecchio. “Sono stato colpito”.

Respirando profondamente, l’uomo rimise il cellulare al suo posto e si accese una sigaretta. Dopo alcuni istanti, una mano calò sulla sua spalla. Voltandosi di scatto, l’uomo riconobbe l’uomo dai jeans sporchi che aveva ostacolato Steven il giorno prima.

“Hai poca fortuna con le donne, Kerman.” commentò l’uomo. “Al diavolo le tue battute, Taggart.” rispose Kerman “Dammi delle bende e portami da bere. E avverti il capo: il bersaglio numero tre è stato eliminato. ” Taggart annuì. “Aspettami un minuto” annunciò, allontanandosi.

Mentre il suo complice spariva dietro l’angolo, Kerman si inginocchiò di fronte alla donna morta.
Estraendo un coltello dalla sua tasca sinistra, iniziò a conficcarlo nei vestiti e nella carne del cadavere, fino a che non incontrò una resistenza inaspettata nel reggicalze della sfortunata Holly.

Con un sorriso soddisfatto, Kerman strappò l’indumento dal corpo, recuperando un mazzo di chiavi nascosto al suo interno. Il mazzo era attaccato a un portachiavi etichettato come “PAULA CANTRELL-LOFT”.

WEISSMAN INVESTIGATIONS

Steven entrò dalla porta principale dell’agenzia, spalancandola. “Dobbiamo parlare” chiese subito a Dan, seduto dietro alla sua scrivania. Dan annuì e fece cenno a Steven di sedersi. Il detective scoccò una occhiata a Jane. Aggrottando le sopracciglia, Dan si schiarì la gola. “Jane, scusami se ti interrompo, ma…” “Ma devi prenderti un momento per parlare da solo con Steven” completò Jane.
“Un giorno o l’altro mi stancherò di quest’aria di mistero e comincerò ad origliare…” proseguì scherzando. Mentre passava vicino a Steven gli fece un occhiolino, a cui lui rispose con un cenno della mano. Jane uscì chiudendosi la porta alle spalle.

“Ieri sera sono quasi stato ucciso” esordì Steven, fissando Dan dritto negli occhi. “Due uomini hanno provato a spararmi, solamente perché stavo cercando informazioni sul caso Cantrell. Due cadaveri, i corpi di due testimoni, sono spariti. Ora ti chiedo: che cosa sai tu di tutto questo?”.

Dan aprì la bocca incredulo. “Di che cosa stai parlando?” chiese a Steven. Il suo nuovo sottoposto lo fissò per alcuni secondi, valutando le sue reazioni. “Mi vuoi spiegare cosa intendi con cosa ne so io?” domandò Dan. Steven, dopo un breve attimo di silenzio, scrollò le spalle. “Volevo solo vedere che cosa sapevi del caso, nulla di più.” “Solo ciò che ho letto nei rapporti ufficiali” si schermì Dan. “Ma cos’erano quelle frasi su un tentativo di omicidio? Stavi scherzando?” “No” rispose Steven. “E‘ tutto vero.” “Mio Dio” commentò Dan “Hai denunciato il fatto alla polizia?” “Questo è il bello, l’ho fatto, ma quando i poliziotti sono arrivati, tutte le prove erano sparite. Niente corpi, niente assassini, niente armi. Solo la mia parola e quella di un agente di polizia che, a quanto pare, è affidabile come un articolo sui coccodrilli nelle fogne. Curioso, vero?” concluse.

Dan scrollò la testa “Non è possibile.” commentò “E’ solo un caso di sparizione.” “Mi chiedo anche io il perché di tutto questo” rispose Steven, scuotendo la testa “Sei sicuro di volere continuare l’indagine?” chiese Dan.
“Più che sicuro” replicò Steven. “ C’è qualcosa di grosso dietro al caso, e per quanto riguarda i rischi, ci sono abituato. Questo potrebbe essere una buona occasione per fare pubblicità all’azienda , no?” Dan aggrottò le sopracciglia. “L’agenzia non vale più della vita dei miei dipendenti” ribattè.

“Di questo non devi preoccuparti, il caso è solo mio. Terremo la tua segretaria e il tuo avvocato fuori da tutto questo.” Dan annuì con convinzione. “ A proposito, dove è quella simpaticissima ragazza?” “Patricia non arriverà prima delle undici” rispose Dan, con appena un accenno di rimprovero nella voce. “Perfetto. Ho giusto il tempo necessario per evitarla” concluse Steven, uscendo dall’ufficio e chiudendosi la porta alle spalle.

Nel corridoio incontrò Jane, che lo salutò allegramente. “Ehilà, come va? Ma che cosa avete da dirvi tu e Dan di così misterioso ed importante? Non sarà stata un’altra ramanzina, spero...” Steven scosse la testa. “Cose da uomini” commentò. “Tu piuttosto, torna al lavoro subito.”

“Pensavo di fare un’altra ricerca per te, Sherlock” rispose Jane, sorridendo. “O ti servivo solo perché non hai una tessera della biblioteca?” “Ragazzina, da questo momento le indagini le faccio sul campo…” commentò Steven, scendendo le scale. Jane scosse la testa. “A chi hai detto ragazzina?” rispose ad alta voce, ricevendo in cambio solo uno sguardo ironico.

ZOO DI LINCOLN PARK

Il clima già freddo e umido di fine settembre non invogliava di certo molti turisti a visitare il vecchio giardino zoologico, che quella mattina, un po’ per il tempo nuvoloso, un po’ per la mancanza di bambini eccitati dagli animali, sembrava spoglio e inospitale.

Patricia Lawford si fermò davanti alla gabbia delle antilopi, indossando, per puro istinto protettivo, un paio di occhiali da sole e soffermandosi ad osservare gli esemplari di antilope africana appena arrivati dal Serengeti.

“Sorprendenti, non è vero?” le chiese una voce dal lieve accento messicano alle sue spalle. Girandosi, Patricia riconobbe un uomo sulla cinquantina, dal colorito scuro, piuttosto basso e quasi privo di capelli, che portava un paio di occhiali scuri molto simili ai suoi.

“Sei in ritardo” sussurrò Patricia. L’uomo si strinse nelle spalle, osservando le antilopi. “Le hanno portate via dal loro territorio, a migliaia di miglia dalle loro case, eppure guardale. Sono le padrone di quel recinto, con una grazia che noi esseri umani non potremo mai avere” Sospirò rumorosamente, quasi melodrammaticamente.

“Mi ricordano molto te. La stessa grazia, la stessa capacità di adattamento, ma anche la stessa fragilità. Sei nata antilope, Patricia, non leonessa. Il tuo destino è scappare o accettare il recinto”. “ Puoi anche lasciare perdere la tua filosofia da quattro soldi” rispose Patricia, irritata “Penso proprio che non siamo qui per parlare di animali” concluse. “Quanta fretta. Bene, mi piacciono le donne che amano il loro lavoro.” commentò allegramente l’uomo “Patricia si irrigidì e tornò ad osservare le antilopi. “Che cosa vuoi?” chiese, sempre più irritata e nervosa.

“Hai fatto un ottimo lavoro per me ieri, passandomi le informazioni sulle indagini del tuo nuovo collega ” commentò l’uomo “Vorrei che continuassi a farlo”. “Fino a quando? Quale è il patto?” domandò Patricia, aggiustandosi i capelli.

“Patto, Patricia? Quale “patto”? Ricordati che tutto quello che fai, lo fai solo per te stessa. Io non guadagno nulla da tutto questo. Anzi, in realtà io potrei benissimo fare a meno di te” annunciò poi , in tono funebre. “E’ solo per la mia bontà innata che ti aiuto: come farei a fare del male ad un visino così bello?” concluse, sfiorando la guancia di Patricia con la mano destra. “Toccami ancora e sei morto, brutto porco” sussurrò la donna, stringendosi le labbra fra i denti.

L’uomo rise fragorosamente, allontanandosi tuttavia di scatto dalla donna. Due passanti si voltarono verso la coppia,ma, non notando nulla di strano proseguirono, alzando le spalle. “Il tuo collega è la chiave per arrivare alla tua libertà. Tu continua ad informarmi su di lui, e un giorno, quando te lo sarai meritato, l’originale di quella cassetta sarà tuo.” concluse il messicano, avviandosi verso l’uscita dello zoo. Patricia si tolse gli occhiali scuri, rimanendo per alcuni secondi a fissare la schiena dell’uomo che si allontanava lentamente.

OTTAVO DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI CHICAGO

“E poi, zap! Spariti! Come se non ci fossero mai stati!” sentenziò Frank, accompagnando le sue parole con uno schiocco di dita. “Uh uh” rispose il suo interlocutore,l’agente Davis, senza sollevare lo sguardo dal giornale sportivo che stava leggendo. “E non è finita qui: anche i corpi che avevo trovato nella casa erano spariti! Pazzesco, vero?” concluse Frank.

“Già, è pazzesco che i Bulls siano riusciti a perdere contro i Dodgers. ” mormorò Davis. “Ma tu non mi stavi ascoltando!” sbottò spazientito Frank. “Eh?” rispose Davis, senza smettere di leggere. “Senti” continuò poi, sollevando lo sguardo sul viso di Frank ,arrossito dalla rabbia “mi hai raccontato questa storia almeno una dozzina di volte. Ed è più ridicola ogni volta che la sento” concluse. Frank aprì la bocca per commentare, ma il gesto si mutò improvvisamente in una smorfia di sorpresa.

Alle spalle di Davis, un uomo sulla quarantina dai capelli corti che indossava degli occhiali spessi, vestito elegantemente in blu,esibiva un distintivo dell’FBI a una donna poliziotto, che lo stava indirizzando verso la scrivania di Frank. “Frank Beaumont?” chiese l’agente FBI a Davis, avvicinandosi ai due poliziotti. “Per carità, no!” rispose l’agente. “E’ lui” commentò , indicando Frank con il pollice. “Sono l‘agente Gall, FBI” si presentò quest’ultimo,mostrando il suo distintivo. “Gradirei rivolgerle alcune domande”

“Ehm, sì” rispose nervosamente Frank. “Certo. Su che argomento?”. Con un sorriso indefinibile, l’agente Gall aprì un piccolo taccuino e afferrò una penna dalla scrivania di Davis. “Quella sarebbe mia” protestò quest’ultimo. “Ieri pomeriggio” esordì Gall, senza degnare Davis di uno sguardo“lei ha assistito un investigatore privato in una indagine non ufficiale. A quanto pare, ha poi testimoniato di avere ritrovato due cadaveri in una abitazione privata. Sbaglio?” concluse. “Sì, è esatto, ma non l’ho solo testimoniato, c’erano davvero, quei due corpi, io li ho visti!” rispose Frank, sbattendo il pugno sul tavolo.

“Risponda alle domande e non aggiunga elementi inutili, per favore” replicò freddamente Gall. “Inutili!?” esclamò stupefatto Frank. “Sapeva che l’investigatore con cui ha collaborato ha all’attivo tre denunce per aggressione e due per guida in stato di ebbrezza?” continuò Gall, imperturbabile.
“No, ma è stato assolto,no? Altrimenti non avrebbe la licenza di privato,non è vero? Cioè, siete voi federali a decidere queste cose, voglio dire…” rispose nervosamente Frank, colto di sorpresa. “Risponda alla domanda, per favore” “No. Però-” mormorò il poliziotto.

“Che cosa sta facendo?” tuonò una voce alle spalle di Gall. L’agente FBI si girò di scatto, incontrando lo sguardo deciso del luogotenente Bronson. “Solo domande di routine, luogotenente” rispose Gall, appoggiando la penna sulla scrivania di Davis. “Non nel mio dipartimento, e non a quest’ora” gli ordinò Bronson. Gall si alzò di scatto.

“Le devo ricordare che sul caso in questione è in corso anche una indagine federale?” suggerì con voce calma. “Ha un mandato per rivolgere domande al mio agente? Se non lo ha, può anche lasciare subito il mio dipartimento.” replicò Bronson, senza rispondere. Gall si alzò e fissò il superiore di Frank negli occhi, prima di scrollare la testa ed andarsene, uscendo dalla porta principale.

“Beaumont, lei continui a lavorare sul caso” ordinò Bronson. “Davis, lei sarà di supporto all’agente Beaumont” proseguì. “Voglio un rapporto per ogni giorno di indagine. Consegnerete i vostri rapporti personalmente nel mio ufficio. Nessun civile” aggiunse Bronson, squadrando Frank con aria di rimprovero “dovrà essere messo al corrente dei vostri progressi.” Davis, stupefatto, lasciò cadere il suo giornale. “E’ tutto” concluse il luogotenente , allontanandosi in fretta.

“Che ti dicevo? C’è qualcosa sotto!” esclamò Frank, gongolante. “Un’indagine con te? Ma perché l’universo mi odia?” sbuffò Davis, alzando gli occhi al cielo. Frank scrollò le spalle, soddisfatto.

Quando il suo collega gli voltò le spalle Frank afferrò il suo cellulare e inviò a un messaggio: Vediamoci subito. Ho delle informazioni da darti. La risposta non si fece attendere 13 Regent Street. Il mio appartamento. Tra mezz’ora. .

Frank squadrò Davis, che stava mettendo in ordine ad un cumulo di carte spiegazzate, e senza dire nulla si alzò dalla sua scrivania e si avviò verso l’uscita.

FUORI DAL DIPARTIMENTO DI POLIZIA

L’agente Gall prese il suo telefonino dalla tasca destra del suo completo e digitò un numero. “Sono Gall, signor Scott” si presentò. “Abbiamo un problema. Campbell ha coinvolto nelle sue indagini un civile, un agente locale. Il capo del dipartimento mi ha chiuso la porta in faccia, e non ho elementi per richiedere un mandato e interrogare quel dannato poliziotto.”

SEDE FBI DI CHICAGO

Scott, un uomo biondo e piuttosto massiccio, sedeva ad una scrivania, tendendo un telefono premuto all’orecchio. “Risolverò io questo problema, Gall” rispose in tono asciutto “Tu preoccupati di gestire le nostre indagini.” concluse, chiudendo la conversazione.

Riappoggiando la cornetta del telefono Scott premette un pulsante sulla sua scrivania. Subito la porta del suo ufficio si aprì, facendo entrare Kerman e Taggart, ovvero l’uomo con il passamontagna e quello con i jeans sporchi. “Mi avete deluso ieri” iniziò Scott. “Non mi avete portato Campbell. Evidentemente è un lavoro troppo difficile per voi due.” concluse in tono sarcastico. I due chinarono semplicemente la testa. “Non importa. Le informazioni della nostra talpa si sono rivelate affidabili, e per vostra fortuna avete eliminato i tre bersagli e recuperato le chiavi. “ aggiunse Scott.

“Niente più errori, o i vostri falsi certificati di morte diventeranno una spiacevole realtà” concluse in tono minaccioso. Kerman e Taggart annuirono di nuovo.

APPARTAMENTO DI STEVEN CAMPBELL

“Ne sei sicuro?” chiese Steven, sedendosi d’improvviso sul suo letto. “Sicuro come sono sicuro che Miami Vice è il miglior telefilm mai apparso in TV. O come lo sono del mio fascino inimitabile.” rispose Frank, sbattendo un pugno sulla testiera. “Per pietà” sibilò Steven fra i denti. “Limita i paragoni…le mie orecchie potrebbero non supportarne un altro.”

“Comunque, è interessante. Un indagine federale in corso è un altro indizio che c’è qualcosa di importante in questa sparizione. Significa anche che il tuo aiuto mi è più che mai necessario. Un appoggio ufficiale fa comodo in questi casi.” proseguì. “Ehm, questo è un punto dolente…” mormorò Frank. “Il mio capo mi ha ordinato di non rivelare niente ai civili. In teoria non dovrei nemmeno essere qui...però ci sono. Da solo non ce la faccio, e il capo mi ha messo in coppia con un rompiscatole, l’agente Davis. L’unico modo per scoprire la verità è collaborare con te.”

“Gentile da parte tua dirmelo ora…”sbottò sarcasticamente Steven. “Ehi, cos’è tutto questo veleno? Me l’ero semplicemente dimenticato!” “Se scopre dove sei stato, il tuo collega ti farà rapporto, genio! Tu sarai escluso dalle indagini e io perderò la mia fonte di informazioni e sostegno ufficiale. Non venire più qui. Comunicheremo via mail. Nessuno ci deve vedere insieme.” concluse Steven, spingendo Frank fuori dalla porta.

“Io ti servo!” sbottò Frank deluso, mentre la porta dell’appartamento di Steven si chiudeva alle sue spalle. “Non puoi buttarmi fuori!” urlò. “Non è la tua città! Come farai senza di me, sul campo?” Per alcuni secondi Steven non rispose, poi la porta si riaprì.

“Se ci rinchiudono per violazione della privacy, sei morto” esclamò Steven, puntando un dito al petto di Frank. “Non succederà, siamo i migliori. Non lo verrà a sapere nessuno. Allora, cosa cerchiamo oggi?” “ chiese Frank, con un sorriso soddisfatto. Steven alzò gli occhi al cielo.

WEISSMAN INVESTIGATIONS

Jane bussò alla porta dell’ufficio. “Posso rientrare ora, capo?” chiese ad alta voce, senza ottenere risposta. Incuriosita, abbassò la maniglia ed entrò. Non c’era nessuno, anche Dan sembrava sparito. Sempre più curiosa, Jane si sedette davanti alla sua scrivania, cercando di lavorare al suo computer.

La scrivania vuota di Dan attirava sempre di più la sua attenzione. Dopo aver scosso la testa un paio di volte, Jane sbuffò e si avvicinò alla sedia del suo capo e aprì un cassetto. Si voltò per controllare che nessuno la stesse osservando, ma l’ufficio era ancora vuoto. “No” mormorò dopo una breve pausa, scuotendo la testa.

La porta dell’ufficio di Dan si aprì di scatto e il proprietario della Weissman Investigations ne uscì, riponendo un cellulare nella sua tasca destra. Il suo sguardo incontrò quello di Jane, che si morse le labbra. “Qualcosa non va?” chiese Dan. “No, signore, nulla. Mi stavo solo chiedendo dove fosse finito…”

“Dovevo fare una telefonata importante” rispose l’uomo, squadrando attentamente la sua segretaria.
Jane annuì debolmente. “Torno al mio lavoro” proclamò. “Non è necessario. Oggi chiudiamo a quest’ora” rispose Dan. “Hai la giornata libera”. “Davvero? Fantastico! Grazie, capo!” rispose Jane, prendendo la sua borsa e appoggiando la mano destra alla maniglia. “Jane” la fermò Dan “Si , capo?” rispose nervosamente la segretaria. “Volevo chiederti come sta tua madre.” “A dire il vero è da due giorni che non la vedo. Adesso che ci penso, devo proprio farle visita. Arrivederci” lo salutò Jane e uscendo dall’ufficio.

Dan si sedette alla sua scrivania e notò il cassetto aperto. Lo chiuse con stizza e il suo volto si rabbuiò. “Non tu, Jane. Almeno tu devi veramente restarne fuori” mormorò tra sé e sé.

SOBBORGHI DI CHICAGO

L’automobile di Steven e Frank si fermò vicino ad un motel. “La madre della ragazza abita qui?” esclamò Frank, stupito. “Non tutti vivono in un appartamento” replicò Steven. Frank si slacciò la cintura e aprì la portiera.
“Aspetta” lo interruppe Steven “Ti ricordi di quello che è successo l’ultima volta che abbiamo provato a scendere senza prendere precauzioni?” Frank deglutì e annuì leggermente, mentre Steven estraeva una pistola dalla sua fondina ascellare. “Solo in caso di necessità” suggerì a Frank, che approvò annuendo di nuovo“Giusto. Necessità”.

“Andiamo” concluse Steven , uscendo dalla macchina e chiudendosi la portiera alla spalle. I due salirono la scalinata esterna del motel fino al secondo piano e, voltando un angolo, si avvicinarono alla camera 214. Steven bussò alla porta. “Chi è?” chiese una voce roca e assonnata dall’interno. “E’ la signora Helen Cantrell?” domandò Steven a sua volta. “Dipende. Chi mi cerca?” rispose la voce. “Siamo della Weissman Investigations, vorremmo parlarle di sua figlia”

Si udì il rumore di un catenaccio tolto e la porta si aprì, rivelando una donna di mezz’età, mora, che indossava un accappatoio verde macchiato di grigio. Doveva essere stata una bella donna anni prima, ma le pesanti borse sotto gli occhi, i capelli arruffati e un aria generale di degrado la rendevano molto più vecchia di quanto non fosse.

“Che volete?” chiese in maniera sgarbata. “Ho già detto tutto quello che sapevo su mia figlia alla polizia quando ho fatto la denuncia di sparizione. La vostra agenzia non la conosco nemmeno.” Steven e Frank si scambiarono un’occhiata stupita. “Mi scusi, ma non è stata lei a pagare la nostra agenzia?” chiese Steven, scrutando la donna.

“Bello, se avessi i soldi per pagare dei poliziotti privati non vivrei qui, non trovi? Deve essere stato quel fesso del suo ragazzo.” rispose la donna, estraendo un pacchetto di sigarette e un accendino molto sporco da una tasca. Si accese una sigaretta e inspirò. “La avete ritrovata? ” chiese, aspirando avidamente il fumo.

Steven scosse la testa. “No, signora. Vorremmo sapere qualcosa di più della vita privata di sua figlia. Sa, le solite domande di routine” “Io non ne so nulla” rispose la donna. “Non viveva più qui da un anno. Se ne era andata così, all’improvviso, senza nemmeno ringraziarmi di averla messa al mondo. Trova un ragazzino ricco, mi promette un prestito, poi lo lascia e sparisce. Sono sicura che se ne è andata di proposito. Bella riconoscenza “ concluse amaramente.

“Ci potrebbe almeno dire chi è il suo fidanzato e dove vive?” chiese all’improvviso Frank. Steven gli diede un calcio nello stinco destro, facendolo mugolare leggermente dal dolore. “Scusi l’impazienza del mio collega” disse Steven, lanciando un’occhiataccia a Frank “Certamente c’è anche qualcosa d’altro che lei sa su sua figlia.”

“Il fidanzato è Harvey Krakowski, vive in Freemont Street. Numero Tredici“ concluse la donna, rientrando nella sua stanza e sbattendosi la porta alle spalle. “Signora Cantrell! Scusi, ma non abbiamo finito le nostre domande!” urlò Steven. La porta rimase chiusa. “Complimenti.” sibilò Steven a Frank.

“Ehi, io ho fatto solo una domanda!” rispose Frank “Non stavo chiacchierando con quella donna, stavo cercando di ottenere delle informazioni!” sibilò Steven fra i denti “Cosa che sarei anche riuscito a fare, forse, se tu non le avessi regalato su un piatto d’argento la possibilità di svicolare senza dirci nulla.”

Frank sbuffò. “Tanto non sapeva nulla.” Steven non gli rispose, ma lasciò che fosse il suo sguardo a parlare. “Andiamo” aggiunse poco dopo. I due scesero le scale di fretta: Steven precedeva Frank di pochi passi. “Non te la prendere troppo” commentò Frank “Non è stato del tutto un buco nell’acqua, almeno abbiamo l’indirizzo del fidanzato. Gli agenti che avevano steso il rapporto non lo citavano, chissà perché”

Steven si bloccò all’improvviso sul penultimo gradino. Frank incuriosito, si sporse per vedere cosa aveva attirato l’attenzione del partner.
Un agente di polizia sedeva sul cofano dell’automobile di Steven e Frank.Indossava un paio di occhiali scuri, e sembrava scrutare attentamente Steven e Frank.

“Non ci vorrà mettere una multa!” sbottò Frank, superando Steven e dirigendosi rapidamente verso l’agente. “Sono Frank Beaumont, Ottavo Dipartimento” proclamò ad alta voce, sventolando il distintivo sotto gli occhi dell’altro poliziotto. “Sto indagando su di un caso di sparizione-” continuò. L’agente puntò la sua pistola alla testa di uno stupefatto Frank. “A terra!” urlò Steven , estraendo a sua volta la pistola.

Frank obbedì rapidamente, proprio un istante prima che Steven e l’agente facessero fuoco. Il proiettile di Steven costrinse l’uomo in divisa ad abbassarsi. Il colpo della pistola dell’agente mancò Frank di pochissimo. Mugolando dalla rabbia, Frank afferrò le gambe del suo avversario, facendogli perdere l’equilibrio. L’uomo cadde a terra e perse la pistola. Steven corse giù per le scale, tenendo il poliziotto caduto a terra sotto tiro, mentre Frank si tuffò di lato, raccogliendo l’arma un attimo prima che l’uomo riuscisse ad afferrarla.

“Via quegli occhiali e dicci chi sei e chi ti manda” ordinò Steven, senza ottenere risposta. Dopi un attimo di incertezza anche Frank puntò la pistola alla testa dell’uomo a terra. “Questo non si fa, fra colleghi. Decisamente un brutto punto sul tuo stato di servizio.” commentò. L’uomo continuava a tacere, respirando appena. “Facciamo così: o ti togli gli occhiali, o ti sparo all’altro braccio” suggerì Steven. Frank fissò il suo partner, costernato.

“Non puoi farlo” mormorò.
L’uomo ignorò Frank e obbedì. Aveva un viso piuttosto comune, e occhi marroni nei quali si leggeva un misto di terrore e sconforto. “Bene. Ora facciamo una bella chiacchierata.” continuò Steven. “Chi sei? Perché ci volevi uccidere? Chi ti manda qui?” L’uomo sospirò e scosse la testa di nuovo. “Non vuoi parlare qui? Bene, in piedi, vediamo cosa dirai quando ti porteremo dai tuoi colleghi.”

Gli occhi dell’uomo si spalancarono per il terrore. “Non l’ho fatto per me” sussurrò. “Per chi, allora?”lo incalzò Steven. Senza preavviso, l’uomo caricò Frank, gli strappò la pistola di mano, se la puntò alla tempia e premette il grilletto.
Frank, inorridito, tentò inutilmente di afferrare la pistola dalle mani dell’uomo. Steven scosse la testa: “E’ morto” mormorò. Frank rimase in silenzio davanti al cadavere, quasi inebetito da ciò a cui aveva appena assistito.

“Aiutami a sollevarlo. Afferragli le caviglie.” gli ordinò Steven. Il poliziotto si riscosse dall’apatia in cui era caduto e obbedì. Ancora sotto shock, rabbrividì al contatto con il corpo. Steven aprì il bagagliaio dell’automobile e afferrò il cadavere sotto le ascelle. “Non dovremmo spostarlo” obiettò debolmente Frank “E’ una scena del crimine” “Dopo la bella esperienza di ieri, voglio fare in modo che non sparisca” rispose Steven. “Forza, non fare osservazioni inutili e aiutami. Lo porteremo direttamente alla Centrale di polizia più vicina.”

“Cosa state facendo?” li interruppe una voce. Helen Cantrell li stava osservando dal terzo piano, stupefatta. Steven si morse la labbra. Improvvisamente la donna si mise a urlare “Hanno ucciso un poliziotto! Fermateli!” “No, no, signora , non urli! Ha capito male! Quell’uomo si è sparato da solo!” si mise ad urlare Frank.

Diversi inquilini del motel erano usciti dai loro appartamenti e osservavano la scena. In molti si misero a strillare, altri semplicemente si indicavano a vicenda Steven e Frank. Una ragazza dai tratti asiatici afferrò il suo telefonino e digitò un numero.

NORTHWESTERN HOSPITAL

Jane attendeva pazientemente nella sala d’aspetto del reparto di Oncologia, leggendo una rivista vecchia di tre mesi e sbirciando, di tanto in tanto, gli altri occupanti della stanza.
“Jane Shelby?” chiese un’infermiera sulla quarantina, entrando nella sala. Jane sollevò la mano, sorridendo. “Sua madre è sveglia. Mi segua” ordinò l’infermiera, che portava una targhetta appuntata al petto. “Come sta mia madre” iniziò Jane, sporgendosi per leggere la targhetta “Katie?”

“La signora Ginevra Shelby torna adesso da una seduta di chemioterapia.” rispose Katie, con una freddezza che sconcertò leggermente Jane.
L’infermiera scortò la ragazza fino alla porta della stanza 56. “Faccia piano, è stanca e deve riposare.” Jane annuì e spinse leggermente la porta. “Entrate pure,non è una porta aperta di scatto che mi manderà all’altro mondo” commentò una voce all’interno. L’infermiera aggrottò le sopracciglia e seguì Jane all’interno della stanza.

Una donna sulla cinquantina le attendeva sdraiata su un letto. Indossava un pigiama blu da ospedale e una cuffia dello stesso colore, e sorrideva apertamente. “Ciao, mamma” la salutò Jane. “Ciao, Jane. E’ bello rivederti” rispose sua madre. “Mi dispiace non averti visitato più spesso di recente” si scusò Jane, mordendosi le labbra. “Non importa. Hai il tuo lavoro, la tua vita. Non puoi essere sempre qui per me” replicò la donna. L’infermiera Katie rivolse a Jane uno sguardo di disapprovazione.

“Può lasciarci da sole, per favore?” chiese la madre di Jane a Katie.La donna annuì freddamente e uscì dalla stanza. “Robocop” mormorò fra sé e sé la signora Shelby. “Cosa?” chiese stupefatta Jane. “Non ho niente da fare, così creo soprannomi per le infermiere.” rispose allegramente Ginevra.”Quella è Robocop: fredda, senza sentimenti, ma non la peggiore. Sei stata fortunata: avresti potuto trovare quella svampita della Barbie Rossa, oppure persino la Strega dell’Est. Quasi mi uccideva, la Strega, con il suo alito pestilenziale.” Jane non poté trattenere una risatina.

“Come vanno le cure?” chiese subito dopo. Ginevra sbuffò “Chemioterapia, poi medicine, poi di nuovo chemioterapia. Mi stupisco che non mi facciano girare sulla ruota come un criceto. Ma in realtà” aggiunse in tono confidenziale “resto qui solo per il dottor Nichols. Quello sì che è un bell’uomo.” Jane sorrise. “Come va per te al lavoro?” le domandò Ginevra, sorridendo a sua volta.

“Dan ha assunto un nuovo detective. Un tipo strano ma carino o carino ma strano, non so” “Come sta Dan?” intervenne Ginevra. “Oh, adesso è strano anche lui. Tutto è diventato misterioso, direi. Mi piacerebbe sapere come mai.” rispose Jane. “Non essere troppo curiosa. Non vorrei che Dan si arrabbiasse” la ammonì Ginevra. “Non è facile trovare un capo comprensivo come lui con i tempi che corrono” “Non farò stupidaggini.” promise Jane, prendendo la mano destra di sua madre fra le sue.

Ginevra le rivolse un altro sorriso, prima di socchiudere gli occhi. “Scusami, tesoro, ma non riesco a rimanere sveglia.” “Non ti preoccupare, mamma” rispose Jane, mentre gli occhi le si inumidivano. “Ti voglio bene” concluse. “Anche io te ne voglio” sussurrò Ginevra, chiudendo completamente gli occhi.

Jane si allontanò in punta di piedi e uscì dalla stanza. Mentre si stava avvicinando alla sala d’aspetto le si avvicinò un infermiere in camice bianco . “Lei è una parente della signora Ginevra Shelby?” le chiese l’uomo. “Sono la figlia” rispose Jane “Perché?” “Purtroppo le devo riferire una brutta notizia: il linfoma di sua madre sta degenerando. Le cure a cui la sottoponiamo sono risultate inefficienti.”

Le lacrime che Jane aveva trattenuto di fronte alla madre le scivolarono lungo le guance. “Quando?” bisbigliò, non osando esprimere la sua domanda ad alta voce. “Aspetti, non disperi. C’è ancora una possibilità: possiamo mettere la signora Shelby in lista d’attesa per una cura sperimentale.” la rincuorò il paramedico. “L’unico problema è che la lista è incredibilmente lunga. A meno che lei non faccia ricoverare sua madre presso questa clinica” concluse, porgendole un foglio verde, che portava come intestazione “St. James’ Hospital”

La ragazza si asciugò rapidamente le lacrime ed esaminò il volantino dell’ospedale St. James che l’uomo le aveva passato. “Il costo di ammissione è di ventimila dollari” esclamò “Non ho tutti quei soldi!”.

L’uomo annuì. “Mi dispiace” aggiunse. “Proverò a parlare con il primario, e a vedere se riesco a farle ottenere una riduzione” “Davvero lo farebbe?” lo implorò Jane “Non so come ringraziarla.” L‘infermiere fece un cenno con la mano destra. “Ma le pare. Se mi dà il suo numero, posso avvertirla dei miei progressi” annunciò.

Jane annuì e scrisse il suo numero su un foglio di carta che consegnò all’uomo. “Arrivederci, signorina Shelby” la salutò quest’ultimo. “Arrivederci e sopratutto grazie” rispose Jane con calore, uscendo rapidamente dal reparto.

L‘uomo, quando fu chiaro che Jane non lo poteva più sentire, prese il suo telefonino e compose un numero. “Sono Parker. Il primo contatto con la seconda potenziale talpa è stato effettuato” comunicò freddamente.

SOBBORGHI DI CHICAGO

Frank e Steven si scambiarono un’occhiata preoccupata. La folla minacciosa dei clienti del motel ormai li circondava, e, come se non bastasse, erano intrappolati fra la folla da un lato e la polizia in arrivo dall’altro.

Le sirene di un’automobile della polizia fecero sobbalzare Frank. Helen Cantrell si mise ad urlare. “Sono qui! Arrestateli!” strepitavano i suoi coinquilini. Due agenti di polizia (uno alto e snello, l’altro basso e corpulento) si fecero largo attraverso la folla e raggiunsero Frank e Steven.

“Andate via, non è uno spettacolo” sbuffò l’agente basso , sventolando un manganello, mentre il suo collega, notando la pistola di Steven, impugnò la sua. Steven se ne accorse e appoggiò la sua arma sul tettuccio dell’automobile, alzando le mani e invitando Frank a fare altrettanto. “Fermi dove siete” li minacciò l’agente slanciato.

“Sono un agente dell’ottavo dipartimento” protestò Frank. “Lasciatemi spiegare.” L’agente corpulento gli si avvicinò, mente l’altro ,continuando a tenerli sotto tiro, controllava la scena. “Zitto tu, sei in arresto. E anche tu” disse l’agente tarchiato, indicando Frank e Steven.
“Se controllate il mio tesserino-” iniziò Frank, prima che una gomitata nelle costole di Steven lo interrompesse “E’ inutile spiegarlo a questi due. Lasciali portarci alla loro centrale e potremo spiegare tutto.” gli suggerì Steven , sussurrando.

“Avete il diritto di non parlare. Tutto ciò che direte potrà essere usato contro di voi in tribunale. Avete diritto ad un avvocato- se non avete uno , ve ne verrà procurato uno d’ufficio” recitò l’agente corpulento rapidamente, ammanettando Frank e Steven. “Parrish, controlla la scena del crimine e chiama la scientifica. Io li porto in centrale” aggiunse, diretto al suo collega.

“Non serve, sono sotto la mia custodia” lo interruppe una voce alle sue spalle. Gli occhi di Frank si allargarono, riconoscendo l’agente Gall. “Eppure la aveva avvertita sui rischi che correva affiancandosi a Campbell, agente Beaumont” aggiunse Gall, in tono sarcastico. “Lasciateli a me e tornate in centrale a stendere un rapporto” concluse , rivolto ai due poliziotti. “E lei chi è?” sbottò Parrish.

“Gall, FBI” rispose l’agente federale, mostrando il suo tesserino. “Beh, agente Gall, con tutto il dovuto rispetto, questi uomini li abbiamo arrestati noi” ribattè il poliziotto basso e tarchiato. “Quindi se vuole portarceli via contatti i nostri superiori” concluse. “Ho visto quell’uomo stamattina, mi ha fatto domando su di te” sussurrò Frank a Steven. “Silenzio!” lo interruppe Parrish, rivolgendo poi un’occhiata al cadavere a terra. L’agente si lasciò sfuggire un gemito. “White” mormorò al suo collega “Guarda il corpo. E’ Malley”. L’agente White aggrottò le sopracciglia. “Malley? Ma non era in vacanza con la moglie?” domandò.

“Farete tutti i controlli necessari dopo che mi avrete consegnato i prigionieri” li interruppe nuovamente Gall. “Senta, agente Gall, può chiudere il becco?” replicò White. “Sono un rappresentante del governo federale. Non collaborare ad un indagine federale è un reato, non serve che ve lo ricordi” li avvisò Gall. White afferrò la sua pistola, ma l’agente Parrish fece cenno al suo collega e scrollò la testa.

“D’accordo, sono vostri” ringhiò White, abbassando la sua arma “Ma dovete firmarci un documento.” concluse , irritato. Gall annuì e prese un documento dal suo taschino destro. L‘agente Parrish gli porse una penna. “A lei” disse Gall, porgendo il foglio a White, che digrignò i denti.
Parrish e White spinsero Steven e Frank, disarmati, verso l’agente Gall. Quest’ultimo annuì soddisfatto e aprì la portiera della sua automobile. Steven rivolse a Frank un rapido cenno di intesa, mostrandogli le mani.

Era riuscito ad aprire le manette senza che nessuno se ne accorgesse. Frank rispose annuendo impercettibilmente. “Arrivederci, signori” sentenziò sarcasticamente Gall, salutando White e Parrish con un cenno del capo, mentre fra la folla erano in molti a protestare a bassa voce.

“Un momento” lo interruppe Parrish, che aveva appena terminato una rapida telefonata.”Ho controllato in centrale, le serve un mandato per arrestarli” Gall si leccò rapidamente le labbra. “Senta” rispose “Possiamo stare qui a discutere di procedure per ore, ma alla fine lei dovrà consegnarmi comunque questi due uomini. Perché non ora?”
“Perché non più tardi?” replicò in tono beffardo White. “Li lasci andare”. “No” rispose Gall. “Come vuole. Parrish, arresta anche lui” ordinò White, puntando la pistola alla testa di Gall. La folla ammutolì.

“Non lo faccia, agente Parrish, o ne subirà le conseguenze” obiettò Gall. “Fallo, Parrish” lo incalzò White. Parrish mosse la testa dal suo collega all’agente federale. Sembrava non sapere a chi obbedire. All’improvviso Gall puntò a sua volta la sua arma contro White. Parrish, inspirando, alzò la sua arma su Gall.

Steven , d’istinto, si liberò definitivamente delle manette e colpì Gall allo stomaco. L’agente FBI emise un gemito, e Parrish e White, stupefatti, agguantarono i due, afferrarono la pistola di Gall e spinsero i tre arrestati contro la loro automobile.

“Non ti avevo ammanettato?” chiese uno stupefatto Parrish a Steven , che si limitò a sorridere. White, nel frattempo, ammanettava Gall. “Questa me la paga. Finirà a dirigere il traffico” sibilò l’agente FBI minacciosamente. “Entra nell’automobile e non fare storie” replicò White.

Frank, Steven e Gall entrarono nell’automobile dei due poliziotti, che chiusero la portiera alle loro spalle. White si mise alla guida con Parrish al suo fianco.

WEISSMAN INVESTIGATIONS

Patricia fece il suo ingresso negli uffici vuoti, aprendo la porta di scatto. “Dan?” chiamò il suo capo ad alta voce, senza ricevere risposta. Innervosita, notò solo in quel momento il cartello che annunciava la chiusura dell’agenzia.

Mordicchiandosi il labbro inferiore uscì dall’ufficio e si chiuse la porta alle spalle. Proprio in quel momento Jane arrivò sul pianerottolo: le due donne si trovarono faccia a faccia. “Come mai l’agenzia è chiusa?” sbottò Patricia. “Dan mi ha dato la giornata libera. Stavo giusto tornando per parlargli” rispose Jane. “Non è qui” ribattè seccamente Patricia. Calò un silenzio nervoso.

“Visto che nessuna di noi due lo sa, perché non lo aspettiamo al caffè qui davanti?” propose Jane. Patricia aggrottò le sopracciglia, ma dopo un attimo di silenzio annuì. Le due donne scesero lentamente le scale.

CENTRALE DI POLIZIA- SALA INTERROGATORI

“E’ andata così” concluse Steven. “Nell’altra sala abbiamo un agente federale che giura di avere un mandato per arrestarti, ma stranamente non vuole dirci dove è, o per quale motivo ti cerca. Qui ci sei tu, che ci racconti una storia che è il trionfo delle coincidenze. A chi dobbiamo credere?” rispose l’agente White, che lo stava interrogando.

“Se avessi ucciso quel poliziotto, avrei approfittato del casino che avete creato per scappare. Non l’ho fatto, anzi, vi ho dato una mano. E il mio partner è un vostro collega. Contattate l’ottavo distretto e ve lo confermeranno” replicò Steven. “Queste non sono prove” argomentò White. “Allora attendete il rapporto della scientifica. Vi confermerà che il vostro collega si è sparato da solo” suggerì Steven, sempre calmo.

CORRIDOIO

Frank sedeva in un angolo del corridoio fra la sala interrogatori e le celle, ammanettato e sorvegliato da Parrish. “Frank! Frank Beaumont! Che ci fai qui, hai di nuovo fatto saltare in aria un bagno pubblico?” lo salutò una donna poliziotto bruna sulla quarantina, sorridendo divertita. “Ciao, Harriett” la salutò Frank, rivolgendole un sorriso stentato.

Parrish aprì la bocca, stupefatto. “Lo conosci?” chiese alla donna, grattandosi la testa. “Ma certo. Ero la sua istruttrice in accademia. Non mi dimentico certo dell’allievo che per poco non arrestava il figlio del sindaco per vagabondaggio.” proseguì Harriett.

“E’ qui per un sospetto omicidio” le spiegò Parrish. “Chi, Frank? Impossibile” obiettò Harriett “Deve essere un altro dei pasticci in cui si infila praticamente ogni mese.” “Questa volta è un fatto grave: la vittima è Malley” proseguì Parrish in tono deciso. “Non l’ho ucciso!” protestò Frank ad alta voce. “Si è sparato da solo!”

Harriett annuì. “Parrish, toglili le manette. Garantisco io per lui. Frank è incapace di recitare così bene” “Ma signor capitano-” si lamentò Parrish. “Niente ma” rispose Harriett. L’agente si grattò di nuovo la testa, pensieroso, ma sotto lo sguardo determinato della sua superiore liberò Frank dalle manette.

CAFFE’ PASCUCCI

Il locale trasmetteva un senso di calore, forse per gli interni in legno, forse per il soffitto rosso. Jane e Patricia si erano appena accomodate ad un tavolo in un angolo.“Davvero non eri mai stata qui?” chiese Jane a Patricia con decisa incredulità. “Mai” rispose l’avvocato “Non mi piace il caffè” spiegò. “Ti ricrederai. Il cappuccino di zio Al è la fine del mondo” ribattè allegramente Jane. Patricia alzò le spalle.
Un cameriere sulla cinquantina, piuttosto robusto, si avvicinò alle due donne. “Che cosa prende la mia signorina?” chiese sorridendo a Jane.

Aveva un pesante accento italiano. “Due cappuccini” rispose Jane, sorridendo a sua volta. “Uno per me e uno per la mia amica” Patricia aprì la bocca per obiettare, ma l’uomo se ne era già andato. “Servizio rapido” commentò in tono asciutto. “Come mai eri tornata in agenzia?” domandò dopo un breve attimo di pausa.

Jane si leccò le labbra e rimase in silenzio per un attimo, prima di rispondere. “Mi servono soldi. Mia madre soffre di cancro, le cure sono sempre più costose.” Patricia rimase senza parole per alcuni secondi. “Mi dispiace” mormorò a bassa voce. “Non è colpa tua” ribattè Jane. “Vorrà semplicemente dire che farò molti straordinari”. “Se disposta a fare molti sacrifici per tua madre." commentò seccamente Patricia. “Anche tu lo faresti, per la tua” disse Jane in tono naturale.

Patricia fece una smorfia. “Mia madre non può ammalarsi. Una malattia è una cosa decisamente troppo umana per un essere perfetto come lei” rispose in tono fra l’amaro e il sarcastico. Jane la fissò incuriosita.

CENTRALE DI POLIZIA-SALA INTERROGATORI

“Sei libero” annunciò White a Steven , dopo avere finito di leggere il rapporto della scientifica. “Malley si è sparato, come dicevi tu. Resta da capire il perché…tu puoi aiutarmi?” “Non saprei cosa dirti. Diceva cose senza senso, evidentemente delirava” replicò Steven. “Posso lasciare questa sala o devo rimanere “a disposizione”? “ concluse in tono solo leggermente ironico.

“Terremo in consegna la tua arma, ma puoi andare” rispose White “E può andarsene anche il tuo amico. Abbiamo accertato che è un agente dell’Ottavo Dipartimento”. Steven annuì e uscì dalla stanza, incontrando Frank che stava discutendo animatamente con Harriett. Parrish lo sorvegliava dall’altro lato del corridoio. “Saluta i tuoi amici, si va…sempre che tu abbia ancora voglia di seguirmi”annunciò Steven . Frank annuì e salutò Harriett. “Arrivederci, capitano.” “Arrivederci, Frank. E non metterti in troppi pasticci questa volta.

Steven e Frank uscirono rapidamente dal posto di polizia. “Li lasciamo andare così?” domandò Parrish, stupito, a Harriett. “Naturalmente no. Seguili, penso che questa volta Frank Beaumont abbia veramente fra le mani un caso che scotta” replicò Harriett.

AUTOMOBILE DI STEVEN

“E’ strano che ci abbiano lasciati andare così rapidamente, però.” commentò Frank. Steven scosse leggermente la testa. “Ci metteranno alle costole qualcuno e cercheranno di scoprire il più possibile sulle nostre indagini” rispose. “Allora che facciamo?” domandò Frank con aria incerta. “Andiamo a trovare il famoso fidanzato, Mr. Harvey Krakowski. Lascia che ci seguano, almeno capiranno che razza di ginepraio è questa indagine” concluse Steven, avviando l’automobile.

CAFFE’ PASCUCCI

La porta del locale si aprì di scatto, lasciando entrare Dan. Jane sorrise al suo capo e lo invitò a sedersi. “Sapevo che ti avrei trovato qui” iniziò Dan “ma non mi aspettavo certo di trovare te, Patricia”. “Jane mi ha convinto”spiegò Patricia. “Diciamo pure costretto, ma a fin di bene” commentò Jane. “Sono contenta che tu sia venuto qui, capo, dovevo parlarti” concluse.

“Spara pure, ma prima lasciami almeno sedere” rispose Dan, accomodandosi su una sedia vicina. “Si tratta di mia madre…Ginevra” iniziò Jane dopo avere inspirato profondamente. “Come sta?” chiese Dan quest’ultimo senza scomporsi. “Molto male. Le servono delle cure speciali in una clinica privata. Ho pensato di chiedere un prestito:farò molti straordinari” rispose Jane, in tono forzatamente tranquillo.

“Dove dovrebbe essere ricoverata?” chiese Dan appoggiando un braccio sul tavolo. “Al Saint James. Mi servono ventimila dollari, ma ce la farò” rispose con aria decisa Jane. Alle parole “Saint James” il volto di Dan divenne bianco. Patricia notò un lampo di paura negli occhi del suo capo, che non si seppe spiegare. “Volevo solo chiederti un anticipo sullo stipendio. Ti ripagherò in straordinarii” promise Jane. “Chi ti ha parlato del Saint James?” le chiese Dan, tentando di dare alla sua voce un tono naturale. “Un infermiere. Ma quale è il problema?” replicò Jane. “Non è l’ospedale adatto a tua madre. Sarebbe una spesa inutile. Se servono delle cure più costose, non c’è problema, può farle comunque al Northwestern”.

“E’ una cura sperimentale” affermò Jane scuotendo la testa. “Mi dispiace, Jane, ma non credo che il Saint James sia una scelta adatta” rispose seccamente Dan, alzandosi dal tavolo. “Ti anticiperò lo stipendio solo se tua madre rimarrà ricoverata al Northwestern.” “Perché? Quale è la differenza?” esclamò Jane a voce alta. “Spenderesti i tuoi soldi inutilmente. Non farti tentare dalle false speranze. Mi dispiace” concluse Dan, aprendo la porta del bar e precipitandosi fuori dal locale. Jane, stupefatta, non ebbe modo di replicare. Patricia si alzò in piedi e seguì Dan.


FREEMONT STREET, 13- CASA DI HARVEY KRAKOWSKI

Steven e Frank erano già scesi dalla loro automobile e si avvicinavano al villino al numero tredici. L’agente Parrish, che li seguiva su un auto anonima, afferrò il suo cellulare e si mise in comunicazione con Harriett.

CENTRALE DI POLIZIA

L’agente White passeggiava nervosamente nel corridoio. Harriett, che teneva il suo telefonino premuto all’orecchio, gli lanciò un’occhiata di rimprovero. “A che numero?” mormorò nell’apparecchio.

FREEMONT STREET, 13

“Tredici, signora. Stanno per entrare, attivo il microfono parabolico?” rispose Parrish, tamburellando con le mani sul volante. All’improvviso notò Kerman e Taggart, vestiti di nero, che si avvicinavano dall’altro lato della casa. I nuovi arrivati erano entrambi armati di pistola. “Due nuovi, armati, probabilmente ostili” riferì al telefono Parrish. “Intervengo?”

CENTRALE DI POLIZIA

“Non ancora” ordinò Harriett “Dobbiamo” iniziò, prima che una mano muscolosa le strappasse di mano il cellulare. Stupefatta, Harriett si voltò di scatto e si trovò faccia a faccia con l’agente Gall. “Ridatemelo immediatamente” esclamò. “Capitano Hudson, vi consiglio di non complicare ulteriormente la vostra posizione. L’agente White mi ha arrestato illegalmente, e voi state interferendo in una indagine federale” rispose Gall, sicuro di sé stesso. Harriett vide l’agente White immobilizzato contro il muro da un uomo robusto che sventolava un distintivo dell’FBI.

“Come può vedere, i miei colleghi sono venuti a darmi una mano. Altri miei due uomini sono già sul posto” continuò Gall, leggermente divertito. “Agente Parrish” aggiunse portando il cellulare di Harriett all’orecchio “ritorni alla centrale e faccia arrestare Campbell e Beaumont dai miei colleghi” Non vi fu risposta.

FREEMONT STREET, 13

Parrish aveva già lasciato l’automobile si era diretto, pistola in mano, verso la casa. Steven e Frank avevano appena suonato il campanello. Kerman e Taggart si arrestarono alla vista dell’agente che avanzava verso di loro. “Mani in alto!” tuonò Parrish.

Proprio in quel momento la porta si aprì e un ragazzo sui venticinque anni si affacciò sul pianerottolo. Alla vista di Steven e Frank, e soprattutto di Parrish che correva verso di loro con la pistola spianata, il giovane si chiuse la porta alle spalle e si rintanò all’interno. Kerman e Taggart approfittarono della distrazione per aprire il fuoco.

Steven spinse Frank a terra e si tuffò a pancia in giù a sua volta. Parrish, colpito alla spalla, lasciò cadere la sua arma con un gemito di dolore. Taggart sparò un paio di colpi che lo costrinsero ad arretrare rapidamente verso la sua automobile. Steven strisciò verso una finestra, si alzò improvvisamente in piedi, ruppe il vetro con un calcio e la aprì, tuffandosi al’interno della casa.

Il giovane lo guardò stupefatto “Non ho niente!” urlò “Sono uno studente universitario, i soldi ce l’hanno i miei!” Steven gli fece cenno di tacere e aprì di scatto la porta, trascinando Frank all’interno mentre Kerman e Taggart erano impegnati in una sparatoria con Parrish.

“Chi siete? Chi sono quegli uomini? Cosa volete?” balbettò in tono confuso il giovane. “Se è per rapirmi, i miei possono pagare un riscatto in tempi brevi.” Steven lo zittì con uno sguardo gelido, quindi aiutò un altrettanto sorpreso Frank ad alzarsi in piedi. “Sei Harvey?” gli domandò a bruciapelo” Si, ma-” “La tua casa ha un’uscita sul retro?” lo interruppe Steven.

“Sì, non la uso quasi mai.” Steven fece un cenno a Frank e afferrò il braccio destro del giovane “Seguici” gli ordinò. Frank prese a sua volta il braccio sinistro del ragazzo e i tre i misero a correre attraverso l’atrio. “E’ nel corridoio” rispose il giovane allo sguardo interrogativo di Steven.

L’investigatore privato annuì e, notando la porta, la aprì con un calcio. I tre si precipitarono fuori. “Ora statemi bene a sentire” iniziò Steven “vado a riprendere la nostra auto. Voi rimanete qui e se non torno entro cinque minuti, scappate” concluse, strisciando lungo il muro della casa. “Fa sempre così” si scusò Frank, porgendo una mano ad un terrorizzato Harvey. “A proposito, io sono Frank Beaumont” concluse con un sorriso orgoglioso.

VICOLO-VICINO AL CAFFE’ PASCUCCI

“Mi avevi detto che la mia segretaria non sarebbe stata coinvolta!” sbottò Dan al telefono. “Non importa niente del fatto che lo abbiano fatto Loro, trova un modo per tirarla fuori o il nostro accordo salta!” concluse, furioso. Patricia lo raggiunse proprio in quel momento. “Devo lasciarti, ci sentiamo più tardi” mormorò Dan, concludendo la conversazione. “Patricia, cosa ci fai qui?” esclamò subito dopo, scrutando il suo avvocato.

“Signore, non pretendo di conoscere tutti i suoi segreti. Non lo desidero nemmeno. Ma non ho potuto fare a meno di notare come il nome “Saint James” la abbia sconvolto.” iniziò Patricia, fissando Dan dritto negli occhi. “Abbiamo tutti i nostri segreti, Patricia” rispose Dan “Aiuterò Jane, ma sua madre non deve mettere piede in quell’ospedale. Trova le parole giuste, convincila.” Patricia annuì. “Un giorno, molto presto, non ci saranno più segreti” promise Dan. Patricia annuì di nuovo e si avviò verso il locale.

Dan rimase a guardarla e sospirò. Riprese il suo cellulare e compose un numero. Patricia lo osservò attentamente e prese a sua volta il suo telefonino.”Sono io” si presentò “Ho delle informazioni che ti potrebbero interessare” “Che sorpresa” rispose la voce del messicano che aveva incontrato allo zoo. “Che cosa hai da dirmi sul tuo nuovo collega?” “Niente su di lui. Ma il mio capo è rimasto sconvolto da un certo “ospedale Saint James”. Spaventato come non lo avevo mai visto. Ti interessa?”

Il messicano si mise a ridere. “Faresti qualsiasi cosa per riavere quella cassetta, vero?” commentò divertito. “Non mi dici niente che io già non sappia. Il tuo capo è una pezzo importante nel nostro gioco.” “Quale gioco?” domandò Patricia spazientita. “Ti piacerebbe saperlo, vero?” la stuzzicò il suo interlocutore. “Ottimo lavoro comunque, così ti voglio” concluse. Patricia non riuscì a rispondere e si morse la labbra.

FREEMONT STREET, 13

Kerman e Taggart stavano ancora sparando a Parrish, che aveva appena ricaricato la sua arma e rispondeva al fuoco, costringendoli a ripararsi dietro l’angolo del villino. “Non lasciargli tempo di chiamare rinforzi!” urlò Taggart a Kerman, che annuì e sparò quattro colpi.

Steven, nel frattempo, stava strisciando alle loro spalle verso la sua automobile. Parrish lo notò e aprì il finestrino destro della sua automobile, puntando la pistola nella sua direzione. “Fermo!” urlò, mentre Kerman si voltava verso Steven sorridendo e prendendo la mira. Maledicendo Parrish, Steven si tuffò dietro a una siepe e afferrò un sasso.

Nel frattempo Taggart costringeva Parrish a rimanere nella sua automobile con una raffica. Kerman si avvicinò alla siepe, sempre sorridendo. “Giocare a nascondino non servirà a molto” commentò ridacchiando. Steven si alzò in piedi di scatto e lanciò il sasso,colpendo Kerman in pieno petto. L’uomo si accasciò con un gemito.

Steven ne approfittò e raggiunse la sua automobile. Taggart, ancora impegnato a tenere a bada Parrish, non riuscì a fermarlo. Steven avviò il motore, inserì la prima e si lanciò nel giardino, passando sul retro della casa. “Salite!” ordinò a Frank e Harvey. I due non se lo fecero ripetere due volte e si tuffarono nella macchina, che si allontanò a tutta velocità, costringendo Kerman a tuffarsi nella siepe. Taggart tentò di bloccare l’auto sparando alle gomme, senza successo.

FUORI CITTA’-PIU’ TARDI

Steven parcheggiò l’automobile in una piazzola di sosta. Harvey, seduto sul sedile posteriore vicino a Frank, guardò fuori dal finestrino. “Non c’è nulla qui” commentò, con un accenno di paura nella voce. “E’ per questo che ci fermiamo qui” rispose Steven. Frank annuì soddisfatto.

“Cosa volete fare, torturarmi? Non so nulla, non ho nulla!” si lamentò ancora Harvey. Frank sbuffò “Noi siamo i buoni, razza di testone!” esclamò “Non l’avevi ancora capito? Ti abbiamo salvato la pelle! Vedi questo?” aggiunse, sventolando il suo distintivo sotto il naso del povero Harvey “Sai che vuol dire? Polizia, quindi buone notizie per te, a meno che tu non sia uno dei cattivi della storia!” Harvey annuì debolmente.

Steven si girò verso i sedili posteriori e fissò il ragazzo dritto negli occhi. “Harvey, dici di non sapere nulla, ma non è vero” cominciò “Conosci una ragazza di nome Paula Cantrell?”

“Non ho mai sentito quel nome!” sbottò Harvey. “E allora come mai sua madre ci ha detto che eri il suo fidanzato?” chiese Steven in tono secco. “Si sarà confusa con qualcun altro”replicò Harvey, visibilmente nervoso. “Già, il numero tredici di Freemont Street deve essere pieno di Harvey Krakowski.” commentò Steven in tono sarcastico. “Poche storie. Tu conoscevi Paula meglio di chiunque altro. Di sicuro meglio di sua madre, che non se ne curava più da anni.”

“Ti ripeto che non so di chi stai parlando” rispose Harvey. “Era bella, non è vero?” continuò Steven, ignorandolo “Talmente bella che non riuscivi a credere che potesse stare con uno come te, e infatti era una ragazza povera ma furba e tu uno stupido ragazzo ricco. Forse quando è sparita lo hai capito e ti sei sentito preso in giro, umiliato, la hai immaginata che rideva fra le braccia di un altro.” “Basta!” sbottò Harvey “Lei non è così!” sibilò fra i denti. “Non è così chi? Non dicevi di non conoscerla?” rilevò Steven. Harvey si morse la labbra.

“La conosco” ammise dopo una breve pausa. “Continua” lo esortò Steven. “Era la mia ragazza. Frequentavamo lo stesso locale, il “Greenwich”, è un posto piccolo , ma la musica è molto buona. Lei era, cioè è, fantastica. In tutti i sensi: sexy, simpatica e intelligente. E non le importava niente dei miei soldi” aggiunse, in tono convinto. Frank sorrise divertito “Beh, non puoi saperlo. Magari…” iniziò, fermandosi quando notò lo sguardo gelido di Steven. “Cosa sai sulla sua famiglia?” domandò Steven in tono calmo. “Non molto. La madre è una vecchia strega, fa spavento. Non c’era un padre, o almeno Paula non sapeva niente. Fratelli o sorelle non ne aveva. Mi aveva parlato di una zia una volta, ma non me ne ricordo bene…”

“Perché non volevi parlarne?” chiese ancora Steven. Harvey sospirò. “Io non so nulla della sua scomparsa. Ci eravamo lasciati tre mesi prima. Lei non aveva voluto dirmi perché, solo che non eravamo “fatti per vivere insieme”. Ho sofferto come un cane, ma è stato anche peggio quando è sparita. Mi hanno fatto molte domande. Tutti: poliziotti, assistenti sociali, persino i miei. Un poliziotto si era anche convinto che l’avessi uccisa io.” “E l’hai fatto?” chiese Frank facendo una smorfia. Steven alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla.

“Vi ripeto che non so nulla di come se ne è andata! Viveva con i suoi amici, i Polk, da un mese. Parlate con loro” “I Polk sono morti” ribattè seccamente Steven. “Non c’è nulla di strano, di insolito diciamo, che hai notato in Paula? Qualche mistero, qualche frequentazione particolare? Magari un diario segreto?” “Diceva sempre di essere troppo vecchia per avere un diario” rispose Harvey, scuotendo la testa. “Non mi viene in mente nulla.” “Fai uno sforzo” lo incitò Steven.
Harvey rimase in silenzio per qualche istante, prima di esclamare: “Le due ore vuote”.

“Ore vuote? Che razza di linguaggio è, lo hai inventato tu?” chiese Frank in tono leggermente beffardo. Steven gli afferrò il posto e lo strinse, facendolo smettere. “Ogni venerdì non la vedevo per due ore, dalle due alle quattro. Mi aveva raccontato di passarle in piscina, ma una volta ho avuto una botta di gelosia e l’ho seguita. Mi ha seminato nella metropolitana, così non dove era diretta, ma di sicuro non andava in piscina. Il giorno dopo ha detto di avermi visto e mi sono vergognato come un ladro. Le ho chiesto dove era andata, ma non mi ha risposto. Si è solo arrabbiata per la mia mancanza di fiducia” Steven annuì. “Niente altro?” domandò fissando Harvey dritto negli occhi.

“Non mi ricordo altro” rispose Harvey, distrutto. “Adesso mi arresterete, vero?” “Non ci abbiamo mai nemmeno pensato” rispose Steven. “Ascoltami: ti stanno cercando. Non so perché, ma la tua ragazza scomparsa è roba che scotta. Hai visto che c’è gente disposta ad uccidere per il suo segreto. Il mio consiglio è uno solo: vattene. Hai amici da qualche parte fuori Chicago?”

“No… a meno che non contiamo un’amica di Paula. Si chiama Zoe qualche cosa Vive a Delavan, vicino al lago. Andavamo da lei qualche volta…ha un loft e dava le chiavi a Paula” Steven si immobilizzò e lo scrutò incredulo. “Perché non me lo hai detto prima?” “Non me lo avevi chiesto!” sbottò Harvey.

“Bene. Allora i nostri piani cambiano. Si va tutti a Delavan, e tu ci farai da guida” proclamò Steven. “Cosa…perché?” protestò il ragazzo. Frank sbuffò di nuovo. “Capisco perché quella povera ragazza ti ha lasciato: come computer saresti un Game Boy! Sei proprio tonto, non capisci che se quella Zoe è amica di Paula forse sa qualcosa?” “Ma io non posso andarmene così…ho da fare… e poi non so nulla!” si lamentò Harvey.

“Se preferisci rimanere qui e lasciare che i nostri amici ti aprano un terzo occhio in mezzo alla fronte o ti spediscano in galera per un paio d’anni, accomodati” commentò Steven. “Se invece ci tieni alla pelle e alla libertà, portarci a Delavan è un buon primo passo” Harvey sospirò ancora e annuì. “Delavan, arriviamo” commentò Frank, mentre Steven avviava il motore.

NORTHWESTERN HOSPITAL

L’infermiera Katie vegliava nel corridoio dei lungodegenti, mangiandosi le unghie. Un rumore sommesso di passi si fece sempre più forte. Katie si girò di scatto, incontrando Parker, il falso infermiere che aveva consigliato la clinica “Saint James” a Jane. Katie scrutò il nuovo venuto. “Non ti ho mai visto” sbottò. “Che ci fai qui?” “Sostituisco Collins. Si è preso un brutto raffreddore” rispose prontamente Parker.

Katie si rilassò. “E’ stato un bel gesto” commentò. “Ti vedo stanca, ti do il cambio?” suggerì Parker. Katie annuì, soddisfatta. “Il turno di Collins finisce fra sei ore. Pensi di farcela?” commentò sbadigliando. “Certo” rispose Parker, con un sorriso indefinibile. Katie annuì. “Buonanotte, allora”
La salutò Parker. Katie rispose con un mugolio.

Parker aspettò che Katie fosse uscita dal corridoio per entrare nella stanza di Ginevra Shelby. Si avvicinò al letto della malata e prese una siringa che conteneva un liquido giallo da una tasca del suo camice bianco e ne controllò la quantità. Stava per iniettarla nel braccio di Ginevra quando Katie entrò nella stanza. “Che stai facendo?” sussurrò.

Parker abbozzò un falso sorriso. “Do la medicina alla paziente” Katie scosse la testa. “Mi avevano messo in guardia su un possibile attacco alla signora Shelby” mormorò. “Ora li chiamo”. Parker, disperato, afferrò la siringa e la iniettò nella gamba di Katie , che urlò per il dolore, svegliando Ginevra, che si mise ad urlare a sua volta per la paura.

Preso tra due fuochi, Parker diede un calcio a Katie e afferrò la sua pistola. Katie si rifugiò a fatica sotto il letto e compose un numero. “Aiuto!Vogliono uccidere la signora Shelby!” urlò al telefono e a tutto l’ospedale. Innervosito, Parker riafferrò la sua siringa e, tentando di tenere ferma Ginevra, le iniettò il contenuto in una spalla. La donna urlò di nuovo e Parker la stordì con il calcio della pistola, per poi applicare un silenziatore, chinarsi sotto il letto e sparare Katie, uccidendola sul colpo.

Un rumore di passi si faceva sempre più vicino. Disperato, Parker prese il corpo di Katie e lo sollevò a fatica fino ad una finestra. Con un ultimo sforzo lo fece precipitare di sotto, non prima di avere lanciato un’occhiata a Ginevra, che ora giaceva priva di conoscenza sul suo letto. Parker uscì rapidamente dalla finestra, evitando per un pelo di essere visto dai tre infermieri che erano accorsi alle urla e raggiungendo la scala d’emergenza.

I paramedici si affannarono attorno al corpo di Ginevra, urlandosi l’uno l’altro istruzioni. Parker scese rapidamente la scala d’emergenza e recuperò il corpo malridotto di Katie, trascinandolo fino alla sua automobile per poi partire rapidamente.

CASA DI DAN WEISSMAN

Dan stava vestendosi rapidamente. Il messaggio vocale che aveva ricevuto dall’infermiera che aveva pagato per sorvegliare Ginevra era stato uno shock. Doveva assolutamente arrivare in ospedale al più presto.

Il suo telefono squillò di nuovo. Sbuffando di impazienza, Dan prese rapidamente la cornetta. “Il signor Weissman?” chiese una voce maschile all’altro capo della linea. “Sono io. Perché mi ha chiamato?” rispose rapidamente. “Sono un infermiere del Northwestern Hospital. Abbiamo tentato di avvertire la signorina Shelby, ma è irraggiungibile, forse ha spento il telefonino. Lei era il secondo nome della lista.” riferì la voce. “Quale lista?” chiese Dan.

Un brivido gli percorse la schiena. “Ci dispiace disturbarla a questa ora, ma la signora Shelby ha avuto un collasso qualche minuto fa. Se vuole avvertire la figlia e portarla qui.” continuò l’infermiere.

“Un collasso? Quanto grave?” si informò nervosamente Dan. L’infermiere sospirò “Signor Weissman, Ginevra Shelby è morta.”

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Capitolo 3
*** La casa sul lago ***


NEI CAPITOLI PRECEDENTI:

“Secondo i rapporti ufficiali, il nostro “nuovo” acquisto” Patricia fece una pausa, calcando sulle sue ultime parole con disprezzo “ha continuato a parlare di una misteriosa “telefonata” che avrebbe rivelato la sua copertura. Ma nessuno ha telefonato a quell’ora.”
“Io e te sappiamo bene quanto i rapporti ufficiali siano spesso…imprecisi…” commentò Dan.

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Mentre il video le scorreva sotto gli occhi, e l’audio (un lungo concerto di spari e urla, seguito da un mormorio quasi impercettibile) rimbombava nella stanza, il volto di Patricia si trasformò in una maschera di orrore “Oh mio Dio” commentò sconvolta “Oh mio Dio”.

*********
“Scoprirò ogni cosa sul conto di chi è responsabile di tutto questo. E il giorno in cui sarà in mano nostra…farò in modo che se ne ricordi per sempre” concluse Steven a bassa voce, fissando il suo sguardo sul sole che stava tramontando nel Lago Michigan.

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Il suo volto uscì dalle tenebre. Si trattava del terzo uomo nella fotografia di Dan.

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Con un sorriso soddisfatto, Kerman strappò l’indumento dal corpo, recuperando un mazzo di chiavi nascosto al suo interno. Il mazzo era attaccato a un portachiavi etichettato come “PAULA CANTRELL-LOFT”.

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“Il tuo collega è la chiave per arrivare alla tua libertà. Tu continua ad informarmi su di lui, e un giorno, quando te lo sarai meritato, l’originale di quella cassetta sarà tuo.” concluse il messicano, Patricia si tolse gli occhiali scuri, rimanendo per alcuni secondi a fissare la schiena dell’uomo che si allontanava lentamente.

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L‘uomo, quando fu chiaro che Jane non lo poteva più sentire, prese il suo telefonino e compose un numero. “Sono Parker. Il primo contatto con la seconda potenziale talpa è stato effettuato” comunicò freddamente.
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“Si chiama Zoe qualche cosa. Vive a Delavan, vicino al lago. Andavamo da lei qualche volta…ha un loft e dava le chiavi a Paula”

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“Un collasso? Quanto grave?” si informò nervosamente Dan. L’infermiere sospirò “Signor Weissman, Ginevra Shelby è morta.”

CAPITOLO III: La casa sul lago

SEARS TOWER, PIANO 42-INTERNO 8

QUATTRO ANNI FA

L’ufficio, perfettamente arredato, era completamente vuoto. La scrivania, di mogano purissimo, era stata girata in modo da godere al meglio della splendida vista sul lago Michigan. Nonostante fosse tarda notte, le luci della città garantivano una luce discreta, che illuminava la sedia in pelle e gli scaffali di legno pregiato, conferendo alla stanza un aspetto crepuscolare.

All’improvviso la porta dell’ufficio si aprì di scatto, permettendo a due uomini di entrare. Il più alto dei due era l’uomo della fotografia di Dan, l’uomo che, molti anni dopo, avrebbe incastrato Steven. L’altro era Dan in persona.

I due si fermarono vicino alla scrivania. Dan appoggiò i gomiti sul mobile, sospirando profondamente. Il suo compagno, decisamente più rilassato, si accese una sigaretta ed inspirò lentamente il fumo, quasi assaporandolo.

“Non c’è niente di meglio di questa sera” sentenziò “Una notte serena, un amico con cui discutere, un pacchetto di sigarette. Felicità, perfezione e pienezza di vita”. Inspirò di nuovo. “Non sei d’accordo, Dan?” Dan non rispose se non con una smorfia di scarsa convinzione. “Potrei fare degli esempi diversi di quello che intendo come felicità, ma sarebbero fuori luogo, Virgil” commentò .

Virgil annuì lentamente, appoggiandosi alla finestra. “Eppure è uno spettacolo magnifico. Mi ricordo ancora di quando lo vidi per la prima volta: non riuscivo a credere ai miei occhi” continuò, quasi estasiato “Milioni di persone sotto di te, ignare, che vivono la loro vita… Chi arriva qui è sopra ogni giudizio, al di là di ogni possibile vendetta, o meschina ritorsione. E’ così che si sente Dio, quando ci osserva” concluse. Dan non obiettò: sembrava nervoso e vagamente a disagio.

“La tua pistola, Dan” ordinò Virgil in tono secco. “Prendila dalla tasca destra e appoggiala sulla scrivania”. Stupefatto, Dan si bloccò per un attimo. “Come hai fatto ad indovinare?” mormorò. “Andiamo…” obiettò Virgil, sorridendo. “Sapevo me la avresti portata…lo fai sempre” Dan non rispose: semplicemente, frugò nella sua tasca destra e appoggiò una automatica sulla scrivania, togliendo il caricatore che si infilò in tasca. Virgil premette un pulsante e le luci dell’ufficio si accesero. La luce improvvisa quasi accecò Dan, che si dovette riparare gli occhi con una mano.

“Da quanto tempo ci conosciamo, Dan?” domandò Virgil. “Dieci anni” rispose Dan, senza riuscire a guardare negli occhi l'uomo a cui aveva risposto. “E siamo amici, non è vero?” continuò Virgil. Dan non rispose. “Dan, capisco come ti senti. Mi sentivo anche io come te, due anni fa. Avrei voluto piantare una pallottola in testa all'uomo che mi aveva introdotto nelle Sequoie. Ma passerà, vedrai” concluse Virgil, concedendosi una seconda sigaretta. “Quello che ti hanno chiesto, ciò a cui hai rinunciato...non è nulla, rispetto a ciò che riceverai” spiegò. “Sei come un bruco che rimpiange il bozzolo che ha dovuto abbandonare..ma non sa che diventerà una farfalla”.

“Voglio uscirne, Virgil. Lascio le Sequoie.” rispose Dan, fissando il suo amico negli occhi per la prima volta dall'inizio della conversazione. “Non si esce dalle Sequoie, Dan” osservò Virgil, spegnendo la sua sigaretta in un posacenere nero. “Non mi importa. Uccidetemi pure, se volete” rispose Dan. “Non funziona così.” obiettò Virgil “Non ci sono punizioni per chi decide di abbandonarci...semplicemente, nessuno può farlo. Te ne accorgerai”.
“E se domani mattina entrassi nel commissariato più vicino, e rivelassi tutto ciò che so, Virgil? Che cosa fareste?” chiese Dan, in tono provocatorio. Virgil si limitò a scuotere la testa. “Chi ti crederebbe?” si limitò a rispondere. Dan non rispose. “Riposati, Dan” disse Virgil “Hai già fatto abbastanza. Un giorno, quando avremo bisogno di te, ti contatteremo di nuovo” concluse.

CASA DI DAN WEISSMAN

PRESENTE

“Signor Weissman, Ginevra Shelby è morta.” Le parole dell'infermiere paralizzarono Dan, che si riprese solo dopo alcuni secondi “Avverto subito la signorina Shelby. Grazie per avermi chiamato” rispose Dan , in tono meccanico, rimettendo la cornetta al suo posto.

Per alcuni secondi non reagì, rimanendo immobile, come se un improvviso colpo alla testa lo avesse tramortito. All'improvviso afferrò il telefono e compose un numero.

LUOGO SCONOSCIUTO

Virgil sedeva alla sua scrivania, osservando il suo portatile e scuotendo la testa “Questo complica tutto” mormorò fra sé e sé. Il suo telefonino suonò le note dell'inno americano. Virgil lo prese in mano e lo portò all'orecchio. “Hanno ucciso la madre della mia segreteria” gli comunicò freddamente Dan attraverso il cellulare.

Virgil aggrottò le sopracciglia “Strano, non è nel loro stile” rispose. “Nel loro stile?” urlò Dan, infuriato. “Una donna innocente è morta, anche per colpa tua, e tu dici solo che non è nel loro stile?” “Da quanto mi hai detto, era una donna molto malata. Avrebbe potuto morire domani, o dopodomani. E non l'ho uccisa io, Dan” obiettò Virgil. “Così come non hai ucciso la partner del mio nuovo detective, non è vero?” ribatté Dan, urlando sempre di più.

“Lamentarsi non riporterà quelle due donne in vita, Dan. Ovviamente non vorrei mai che queste cose accadessero, ma quella che combattiamo è una guerra. I civili, purtroppo, a volte rimangono uccisi.” spiegò Virgil, rimanendo calmo. “Piuttosto, fossi in te licenzierei il tuo avvocato, Patricia Lawford. Ha un passato..non proprio esemplare, diciamo...e potrebbe essere facilmente ricattabile” Dan non rispose. “Tu non lo sapevi, vero Dan?” insinuò Virgil.

“Non sono cose che vi riguardano” rispose Dan in tono brusco. “Hai un curioso senso della moralità, Dan. Non accetti che degli innocenti muoiano, e assumi una donna come Patricia Lawford pur sapendo ciò che ha fatto...” osservò Virgil. . “Le consiglierò di trovarsi un nuovo lavoro” rispose Dan dopo alcuni secondi. “No, aspetta” lo interruppe Virgil “Se lei sa che tu sai del suo passato, forse possiamo usarla” “Le persone non sono manichini nelle nostre mani, Virgil!” obiettò debolmente Dan. “Oh, andiamo. So che tu preferisci chiamarlo un modo per rimediare ai tuoi errori, ma tu manipoli le persone che ti circondano come e più di me” concluse Virgil, leggermente divertito. “Ecco cosa farai...” proseguì.

PRIVATE LIES

Starring:

Skeet Ulrich as Steven Campbell
 
Jennifer Morrison as Patricia Lawford

Philip Baker Hall as Dan Weissman

And

Rainn Wilson as Frank Lee Beaumont
 
Guest stars:

Sophia Bush as Zoe

Joel Gretsch as Taggart

Karl Urban as Kerman
 
Jack Coleman as Agent Gall

David Gallagher as Harvey Krakowski

Cheech Marin as The Mexican

Jessy Schram as Jane Shelby
 
DELAVAN. SULLA RIVA DEL LAGO

L'automobile di Steven e Frank percorreva una strada che costeggiava il lago di Delavan. I fari illuminavano le poche case nei dintorni, tutte ville ben arredate, circondate da giardini perfettamente curati.

All'interno dell'automobile, Frank continuava a lanciare occhiate glaciali ad Harvey, che si ostinava a sbuffare e a torcersi le mani. “Ho un esame domani” mormorò l'ex-fidanzato di Paula in tono petulante. “Davvero non capisco cosa ha potuto trovare una ragazza come quella in una mezza cartuccia come te” ribatté Frank. Steven,sibilando fra i denti, sterzò leggermente, facendo cadere Frank addosso ad Harvey. “Sei impazzito?” urlò stupefatto Frank. “Se non la smetti, ti faccio cadere nel lago” obiettò Steven “Finiscila di fare l'idiota e stai zitto. Sei il peggior partner con cui ho lavorato.”

“Ah, sì, sai che ti dico, Hollywood? Che senza di me, tu non andresti da nessuna parte!” rispose Frank, offeso. Steven scoppiò a ridere. Frank alzò le spalle, mettendo il muso. “Non ti meriti un partner come me...sono sprecato con un californiano” continuò, mentre Steven tentava a fatica di rimanere serio. “E' laggiù! Quel capannone, dopo il canneto” li interruppe Harvey, indicando un magazzino grigio che spiccava fra le foglie degli aceri che circondavano il lago. Steven annuì e accelerò leggermente.

L'automobile si fermò in uno spiazzo invisibile dalla strada, nascosto come era dal canneto. Steven uscì immediatamente, mentre Frank si trascinò dietro Harvey, che sembrava decisamente riluttante. “E se la polizia e quei tizi sono anche qui?” borbottò. “Mi hai detto tu che nessuno sapeva di Delavan a parte te e Paula...e se hanno cercato di catturarti, evidentemente non lo sapevano nemmeno “Loro”...” replicò Steven in tono asciutto, chiudendo le porte dell'automobile. Harvey annuì, non molto convinto.

“Da dove si entra?” chiese Frank, esaminando il magazzino. Harvey deglutì e si avviò verso destra, seguito subito da Steven e Frank. Arrivato davanti ad una porta rossa Harvey iniziò a battere il pugno secondo un ritmo preciso. “E' così che ci presentavamo, io e Paula” spiegò “Era una specie di gioco...” “Direi piuttosto un codice” obiettò Steven.

All'improvviso la porta si aprì scricchiolando. “Zoe? Sei in casa?” chiese Harvey, affacciandosi all'interno. Il magazzino era completamente buio. “Non c'è..strano..” mormorò Harvey. Due mani femminili lo afferrano per il collo, trascinandolo all'interno. Frank e Steven si precipitarono a loro volta nel magazzino. Le luci si accesero di colpo, rivelando tre sedie disposte attorno a un tavolo sporco, e un po' di mobilia in cattivo stato. Una bella ragazza dai capelli scuri teneva un fucile a canne mozze puntato contro di loro. Harvey stava a terra, le mani dietro la testa. “Posate le armi a terra o vi uccido!” urlò la ragazza. Harvey urlò “Sono con me, Zoe! Ti puoi fidare!” La ragazza sembrò non ascoltarlo.

“Armi a terra, ho detto!” urlò di nuovo, agitando il fucile. Steven alzò la sua pistola sopra la testa e la lasciò cadere. “Harvey sta dicendo la verità, Zoe” disse Steven “Non vogliamo farti del male” “Zitto!” gli ordinò Zoe. “E a terra!”

Steven fece finta di chinarsi e si avvicinò a Zoe, strappandole il fucile di mano e puntandoglielo contro. “Se volessi ucciderti, ora potrei farlo” le spiegò. Zoe deglutì, impaurita. Senza aggiungere nulla, Steven lasciò cadere il fucile a terra. “Ora mi credi?” chiese. Zoe annuì, lasciandosi cadere su di una sedia. Harvey si rialzò timidamente, mentre Frank riprendeva la pistola di Steven. “Che cosa volete, allora?” mormorò Zoe. “Notizie su Paula Cantrell. E' scomparsa, e delle persone, persone che non si fanno problemi ad ammazzare gente innocente, la stanno cercando. Credo che tu sai di chi parliamo...” iniziò Steven. Zoe scosse la testa. “Paula mi aveva solo detto che ci sarebbero stati uomini pronti a uccidere, o a torturarmi, per sapere tutto su di lei da me. Non mi ha mai detto perché o chi”.

Steven si morse la labbra. “Non ti hai detto chi? E tu le hai creduto?”chiese, in tono scettico. “Era la mia migliore amica” rispose Zoe, aggressiva. “Non le ho chiesto nulla, degli amici ci si fida e basta.” Frank annuì, ma un'occhiataccia di Steven gli fece tornare il muso. “Da quanto tempo la conoscevi?” iniziò Steven sedendosi di fronte a Zoe. “Chi sei, un poliziotto?” chiese Zoe, in tono di sfida. “Una specie” rispose Steven “Ma siamo tutti nella stessa barca. Gli uomini di cui hai paura hanno quasi ucciso me, il mio collega e Harvey. Paula è scomparsa, noi vogliamo solo ritrovarla e rimanere vivi, potendo”. Zoe annuì di nuovo. Harvey tentò di sedersi sulla terza sedia, ma fa preceduto da Frank, e fu costretto a sedersi per terra.

“La conoscevo da tre anni, ma avevamo legato come sorelle” rispose Zoe, aggiustandosi i capelli e rivelando una brutta cicatrice sopra l'orecchio destro. “Vedete questa? Me l'ha fatta un porco a Chicago tre anni fa. Paula è l'infermiera che mi ha curato, e che mi ha aiutato a denunciare quel maiale, senza impicciarsi degli affari miei, o di come lo avessi conosciuto, o del mestiere che facevo.” Harvey spalancò la bocca, inebetito. “Il mestiere...tu eri una prostituta?” biascicò sorpreso.

“Complimenti, Sherlock!” rispose Zoe, applaudendo sarcasticamente. “A volte mi chiedo che cosa ci trovasse Paula in te!” “Ce lo chiediamo tutti!” aggiunse Frank, sorridendo. Steven incalzò “Paula era un'infermiera, dunque? In che ospedale lavorava?” “Prima al Memorial, quando mi ha aiutato, poi al Saint James. Ma il Saint non le piaceva, così aveva smesso...poco prima di incontrare quell'idiota.” concluse Zoe, indicando Harvey, che non rispose. “Dove lavorava prima di scomparire?” continuò Steven.

“Non lavorava” rispose Harvey all'improvviso “Era tornata all'università, studiava nel mio corso...” Zoe alzò gli occhi cielo, ma annuì. “Aveva stoffa come segaossa e ci sapeva fare con la gente. Mi aveva persino chiesto di venire a studiare con lei” concluse, sorridendo all'idea. “Ma non si diventa una dottoressa lasciando il marciapiede, succede solo nelle favole. No, io ora vivo e lavoro qui, ho trovato un posto in un negozio, mi aiutato Paula”

Steven annuì. “Sapevi nulla delle due ore che Paula trascorreva da sola ogni settimana?” Zoe scosse la testa. “La regola era nessuna domanda., lei non me ne aveva mai fatte. Ma da quello che ho capito aveva per le mani qualcosa di grosso.. da quando aveva mollato questo pollastro, mi diceva continuamente di non aprire agli sconosciuti e di tenere delle armi a portata di mano.”

Harvey si alzò in piedi. “Mi riportate a casa ora?” si lagnò, ma nessuno gli rispose. “Avevi dato delle chiavi di questo loft a Paula?” chiese Steven. Zoe rise. “Sì, lei lo chiamava “il loft”. Avevamo fatto delle chiavi gemelle, un mazzo per me e uno per lei, e avevamo persino scritto i nostri nomi sulle etichette. Paula adorava l'ordine, io invece sono una sciattona”

“Sai nulla sulla sua sparizione?” domandò ancora Steven. “Niente di niente..mi piacerebbe...ma Paula è svanita dalla sera alla mattina...gli sbirri sono persino venuti a parlarmi, li ha mandati qui quel genio del suo fidanzato. A loro non ho detto nulla, ma tu potevi farmi fuori e non lo hai fatto..e non sei uno sbirro, altrimenti mi avresti mostrato un distintivo o roba del genere” concluse Zoe, accavallando le gambe. Steven annuì, guardandosi attorno. “Paula potrebbe essere rimasta qui da te...” iniziò. “E' quello che pensano anche gli sbirri, mi hanno perquisito la casa. Purtroppo non è così, non so dove sia, ma sono sicura che è ancora viva.” “Come fai a dirlo?” domandò Frank.
“La stanno ancora cercando, no?” rispose con aria tranquilla Zoe. “Volete un tè?” aggiunse all'improvviso. “Di sicuro ci sono molte altre domande che volete farmi..” Steven annuì, mentre Harvey iniziava a mordicchiarsi le unghie.

MAGAZZINO

Parker attendeva impazientemente, tamburellando con le dita sul volante della sua automobile, parcheggiata all'interno dell'edificio illuminato solo da pochi tubi al neon. Un uomo gli si avvicinò: nella penombra del magazzino i suoi tratti divennero gradualmente sempre più chiari. Era Taggart.

“Hai portato a termine il tuo compito?” domandò in tono asciutto a Parker, che scosse la testa a malincuore. “Ho dovuto ucciderla...lo ho iniettato una siringa intera: mi aveva visto far fuori un'infermiera pagata da Weissman per sorvegliarla”. Taggart lo scrutò attentamente. “Non mi piacciono le brutte notizie” proclamò. Parker deglutì, terrorizzato. “Possiamo ancora usare Jane Shelby” si scusò. “Possiamo farlo, è vero” commentò Taggart. Parker tirò un sospiro di sollievo. “..ma tu, ora, sei inutile...” concluse l'assassino. Il viso di Parker si trasformò in una maschera di terrore: Taggart aveva acceso un fiammifero e nello specchietto retrovisore l'uomo vide Kerman, che trasportava una carica di benzina.

Disperato, Parker si tuffò fuori dall'automobile, ma fu fulminato dai colpi delle pistole di Taggart e Kerman. “Ci cascano sempre...hanno sempre paura di morire bruciati” proclamò Kerman, soddisfatto. Taggart annuì. Kerman trascinò il corpo morto di Parker in un angolo. Aprì un portellone, rivelando una fornace all'interno del piccolo spazio. Senza fretta infilò il corpo di Parker nella fornace e richiuse il portellone.

Taggart, nel frattempo, ispezionava l'automobile. “Quel fesso aveva un cadavere nel portabagagli. E' una donna, probabilmente l'infermiera di cui ci aveva parlato” annunciò. “Portala qui” ordinò Kerman. “Gall ci ha assicurato che quei poliziotti non sono più un problema, nemmeno quello che abbiamo catturato e spedito noi da lui, ma è sempre meglio far sparire tutte le prove al più presto”.

CASA DI JANE SHELBY

Le note di “Arms of an Angel” di Sarah Mclachlan riempivano la piccola stanza da letto di Jane, che, vestita con un pigiama rosa ,faceva zapping sdraiata sul letto, tentando di distrarsi. Un'occhiata all'orologio alle sue spalle le rivelò che ormai erano le due di notte.

Proprio in quel momento il telefono squillò. Jane alzò il volume della sua radio, ignorando la telefonata. Il telefono continuò a squillare. Spazientita, Jane afferrò la cornetta e urlò: “Qui casa Shelby. Attualmente siamo fuori servizio e molto nervose. Non rompete più.” “Jane, sono io.” le rispose la voce di Dan. La ragazza fece una smorfia di irritazione. “Non mi importa delle sue antipatie in fatto di ospedali, capo. Mia madre andrà al Saint James. E se questo vuol dire che sono licenziata, beh, allora ritirerò la mia liquidazione domani”.

“Jane, ti devo parlare proprio di tua madre” continuò Dan, sospirando. “Devi venire subito all'ospedale.” La ragazza si bloccò, stupefatta. “Oh mio Dio...” mormorò. “Sono in macchina e vicino a casa tua. Ti ci porterò io” le annunciò Dan. Senza perdere altro tempo Jane rimise a posto la cornetta e afferrò un cappotto. Si lanciò fuori dalla porta, mentre le note della canzone svanivano in un mormorio confuso.

CENTRALE DI POLIZIA-SALA INTERROGATORI

L'agente Gall e i suoi due sottoposti dell'FBI controllavano Parrish, White il capitano Harriet Hudson, tutti e tre ammanettati a delle sedie, come dei criminali. “Non dovrebbe tardare molto...” mormorò fra sé e sé Gall, attendendo vicino a un fax. Dopo alcuni secondi un rumore meccanico lo fece sorridere: “Dipartimento di Stato” iniziò a leggere ad alta voce, quando l'apparecchio stampò la prima pagina. “Brutte notizie per voi” commentò, squadrando i suoi tre prigionieri. “Mi è arrivata l'autorizzazione a effettuare le indagine sulla morte dell'agente Malley, firmata da Eamon Scott , capo dell'FBI di Chicago” proseguì, sventolando il foglio sotto gli occhi dei tre poliziotti “Il caso è stato classificato come estremamente grave e potenzialmente pericoloso per la sicurezza nazionale. Ciò vuol dire che posso trattenervi per ventiquattro ore senza formulare accuse”

White non riuscì a trattenersi e sputò a terra. “Sicurezza nazionale un corno” ribatté “Malley si è sparato, lo dice la scientifica e lo avevano confermato quei due che stavamo cercando di seguire..ma voi federali avete voluto pasticciare tutto..” Gall annuì. “E' vero, signor White” rispose, in tono serio “il signor Malley si è sparato...ma legga pure il documento “ concluse, adagiando il foglio davanti a White “ se non mi crede”. Harriet Hudson lanciò un 'occhiata gelida al suo sottoposto, suggerendogli di rimanere zitto. White obbedì, non senza squadrare Gall e la sua autorizzazione con profondo disgusto.

“Ora, questo spiacevole incidente si può chiudere qui...e personalmente me lo auguro...se mi comunicate tutto ciò che sapete su Campbell e Beaumont” incalzò Gall, scrutando attentamente i due uomini e la donna. White si limitò a ricambiarlo con uno sguardo truce, Harriet chiuse gli occhi e iniziò a scuotere la testa, ma Parrish, più nervoso dei suoi compagni, si leccò le labbra. “Li abbiamo trovati poco prima di lei, una donna ci aveva chiamato per l'omicidio di un nostro collega” sbottò all'improvviso. White e Harriet lo guardarono, sconcertati. Dopo un istante White sibilò “Razza di Giuda...”

“Continui, agente Parrish, la prego” insistette Gall. Parrish evitò di guardare i suoi colleghi e continuò “Siamo arrivati sul posto e abbiamo trovato un corpo a terra, Dopo alcuni secondi, l'ho riconosciuto: era Malley.” “Nessun altro dipartimento è stato avvisato?” chiese Gall “Il suicidio di Malley è noto solo a voi tre?” Parrish annuì. “Ottimo” proclamò Gall “L'ultima cosa di cui la polizia di Chicago ha bisogno è uno scandalo del genere..” White fissò Parrish con disgusto.

“Ora, se accettate di firmare questo documento..” disse Gall, porgendo ai tre poliziotti tre faldoni, mentre gli agenti FBI liberano i due uomini e la donna dalle manette. “Di che si tratta?” domandò Parrish, sempre più nervoso. “Vi impegnate a non rivelare nulla di questo caso, pena la reclusione in un carcere federale” spiegò Gall, posando tre penne a sfera sul tavolo. “Vai all'inferno” esclamò White “Non siamo in Cina” Harriet annuì “Lei può avere anche il Presidente dalla sua, per ciò che mi riguarda” annunciò a Gall “Non siamo obbligati a firmare” “Ovviamente no...era un favore nei vostri confronti” replicò Gall.

Parrish firmò immediatamente, alzandosi in piedi e dirigendosi verso la porta. “Stia seduto” gli intimò Gall. Parrish scosse la testa “Ho firmato, posso andare, no?” chiese, pulendosi la fronte dal sudore. “Non prima che i suoi colleghi si decidano a firmare” ribatté Gall “ o che le mie ventiquattro ore scadano. Io non ho fretta. E voi?” concluse, fissando White e Harriet.

DELAVAN- IL “LOFT” DI ZOE

Harvey continuava a passeggiare avanti e indietro nella stanza, sempre più nervoso. “Ti vuoi dare una calmata?” lo rimproverò Frank. Harvey non lo ascoltò.

Zoe fumava una sigaretta, annuendo mentre Steven le finiva di raccontare gli avvenimenti che lo avevano condotto al “loft” “...e adesso siamo qui” concluse Steven. Zoe annuì di nuovo e spense la sigaretta in un posacenere di plastica nera. “Paula deve essere finita all'interno di qualcosa di molto grosso” commentò Zoe. Harvey all'improvviso uscì dal magazzino. “Dove vai?” gli domandò Frank. “Devo avvertire i miei professori... voglio farmi rimandare l'esame” si lamentò Harvey. “Beh, puoi farlo qui davanti a noi” propose Steven, scrutando attentamente Harvey. “A meno che tu non intenda chiamare la polizia...il che sarebbe una mossa davvero stupida, visto quello che ti è successo”

“Voglio andarmene!” protestò Harvey “Mi state tenendo qui contro la mia volontà...” “Contro la tua volontà?” sbottò Frank “Ti abbiamo salvato la vita!” “Non mi avrebbero ucciso..volevano solo parlarmi...dirò tutto e la faranno finita!” continuò a piagnucolare il ragazzo.

“Tutto cosa?” chiesero quasi contemporaneamente Steven e Zoe. Harvey si morse le labbra “Tutto quello che ho sentito...” mormorò. Steven scosse la testa. “Tutto cosa?” ripeté. Harvey mosse lo sguardo da Steven a Frank, a Zoe. Tutti e tre sembravano poco disposti a lasciarlo in pace.

CASA DI PATRICIA LAWFORD

Patricia non riusciva a dormire. Accoccolata sul divano davanti alla televisione spenta continuava fissare lo schermo vuoto, avvolgendosi nella sua camicia da notte e tentando disperatamente di calmarsi.

Lo squillo del telefono la fece sobbalzare. Patricia si lanciò sulla cornetta e la afferrò di scatto. “Pronto?” rispose in tono ansioso. “Ciao Pat! Che razza di voce, ti è morto il gatto?” le rispose in tono amichevole una voce femminile. “Mandy..è bello sentirti” rispose Patricia, asciugandosi il sudore dalla fronte con una manica della vestaglia. “Meno entusiasmo, o potrei pensare che non hai niente di meglio da fare che ascoltarmi” scherzò Mandy.

“Mi dispiace, non ho più pensato alla nostra cena” rispose Patricia “ “Non ti preoccupare, non fa niente” rispose Mandy “Però dì al tuo capo che se ti carica di lavoro domani sera, sarò costretta a rapirti. Ti serve un po' di divertimento, e se vuoi invitare qualche amico, non farti problemi!”. Patricia sorrise. “Non c'è il minimo rischio...”rispose. “Allora ne porterò uno io” replicò Mandy in tono scherzoso. “Ti serve un po' di compagnia maschile!”

“Uomini? Comincio a preferire i cani: puzzano di meno e non sanno mentire” ribatté Patricia. “OK, allora facciamo una bella serata solo per noi ragazze...a domani” concluse Mandy. “Aspetta, non so se-” iniziò Patricia. “Poche storie: domani davanti a casa tua. Passo e chiudo” la bloccò Mandy chiudendo la conversazione. Dopo pochi secondi il telefono squillò di nuovo. Patricia abbozzò un rapido sorriso e riprese in mano la cornetta.

“Volevo dirti che ho degli impegni extra, non se potremo cenare domani” disse immediatamente. “Beh, non ti avevo ancora invitato, ma grazie” rispose la voce del Messicano in tono canzonatorio. Patricia raggelò. “Stavi ascoltando la mia conversazione?” rispose in tono duro. “Domani mattina fatti trovare allo zoo” replicò il messicano senza rispondere. “Ci conto...” concluse. Patricia rimase con la cornetta in mano per qualche secondo.

NORTHWESTERN HOSPITAL

L'automobile di Dan si fermò all'improvviso nel parcheggio. Jane si precipitò fuori dalla macchina, tuffandosi nella reception senza nemmeno aspettare che Dan la seguisse. “Dove è?” urlò ad una sconvolta infermiera. “Signorina, mi scusi ma..” rispose la donna, avvicinando una mano ad un segnale di allarme. Jane inspiro profondamente. “Sto cercando mia madre. Ginevra Shelby. Oncologia. Mi hanno parlato di un collasso, voglio sapere dove è e cosa è successo, subito” ordinò. L'infermiera si morse il labbro inferiore. “Non è più in oncologia” rispose. “In rianimazione, allora.” esclamò Jane, mentre Dan entrava dalla porta alle sue spalle.

“Jane...” sussurrò l'uomo. La segretaria si voltò verso di lui. “Mi hanno detto dove trovare tua madre..ti ci accompagnerò io” concluse, rivolgendo un'occhiata significativa all'infermiera, che annuì. Jane, relativamente più calma, seguì Dan. L'uomo premette il pulsante dell'ascensore ed entrò, seguito dalla ragazza. All'interno della cabina Dan premette il pulsante che conduceva al primo piano. Jane si morse le labbra, impaziente. Le porte dell'ascensore si aprirono pochi istanti dopo, e Jane e Dan si precipitarono verso il reparto di rianimazione. Un medico sulla quarantina notò Dan e gli rivolse un cenno. Dan annuì, fermandosi e lasciando avvicinare il medico. “Signorina Shelby, signor Weissman” li salutò “Sono il dottor. Hart. “ “Come sta mia madre?” chiese immediatamente Jane. Il dottore si schiarì la voce e scambiò un rapido sguardo a Dan. “Il cuore di sua madre, signorina Shelby, era diventato molto fragile. Le condizioni di sua madre erano già compromesse dalla malattia...non è riuscita a superare il collasso, mi spiace” concluse.

Jane si lasciò cadere su una sedia, stordita dalla rivelazione. “Non è vero” rispose Jane all'improvviso. “Non è vero, vi siete sbagliati” continuò “Non è mia madre, mia madre non è morta...” “Jane...” le disse Dan, in tono triste, ma estremamente calmo “purtroppo è così. Mi hanno avvertito per telefono, non sono riusciti a trovarti” Jane scosse la testa, trattenendo a stento le lacrime. “Non è vero, voglio vederla. So che non è lei” Dan e il dottor Hart si scambiarono un'occhiata. “Non so se-” iniziò Hart. “La accompagno io” tagliò corto Dan.

Il dottor Hart annuì e condusse Jane e Dan verso le scale, accompagnandoli fino alla camera mortuaria. Jane continuava scuotere la testa, senza parlare. Il dottor Hart aprì la porta, e Dan e Jane si trovarono di fronte al corpo di Ginevra. La morte aveva rilassato i muscoli facciali di Ginevra: la donna aveva un aspetto calmo, e in qualche modo la sua bellezza sembrava rifiorita. Jane lanciò un urlo e si avvinghiò a Dan, iniziando a piangere. L'uomo strinse la ragazza in un abbraccio paterno, mentre il dottor Hart si allontanava senza fare rumore.

“E' colpa tua” annunciò all'improvviso , staccandosi da Dan. “Tu non hai voluto che fosse ricoverata al Saint James. Tu l'hai uccisa!” urlò. Dan non rispose, limitandosi a chinare la testa. Jane rivolse un'occhiata al corpo della madre. “Tu l'hai uccisa” mormorò. “Lasciami sola” “Jane..” iniziò Dan. “Ti ho detto di lasciarmi sola!” urlò di nuovo Jane. Dan uscì silenziosamente dalla stanza , non senza rivolgere un ultimo sguardo alla sua segretaria.

DELAVAN- IL “LOFT” DI ZOE

La fronte di Harvey si riempì di gocce di sudore. “Stiamo calmi, no?” propose. “Noi siamo calmissimi. Sei tu ad essere nervoso” gli fece notare Steven. Zoe scosse la testa e allungò la mano destra verso il suo fucile. Steven la bloccò, scuotendo a sua volta la testa. “Non serve” spiegò “Ora Harvey ci dirà tutto..vero Harvey?” concluse fissando l'ex-ragazzo di Paula con attenzione. Frank sbuffò “Per me il fucile è una buona idea” commentò.

Harvey aprì la bocca per un istante prima di tuffarsi all'improvviso verso la porta. Steven si alzò in piedi e riuscì ad atterrarlo con un calcio alle gambe. Harvey ululò per il dolore, ma si sollevò subito, aprendo la porta del magazzino e mettendosi ad urlare. Steven lo afferrò di nuovo, ma era troppo tardi: due pescatori avevano assistito alla scena e uno di loro aveva già estratto il telefonino.

“Dobbiamo andarcene subito” annunciò, ritornando nel magazzino e trascinandosi dietro Harvey, che farfugliava parole incomprensibile “La polizia sarà qui fra poco, grazie a questo imbecille. Hai un'automobile?'” chiese Steven a Zoe, che annuì. “Allora useremo la tua. La nostra è stata di sicuro segnalata” spiegò.

“Frank, aiutami a salvare la vita a questo stupido” aggiunse. Frank annuì, e i due imbavagliarono Harvey con un fazzoletto, afferrandolo per le mani e le caviglie. Zoe afferrò delle chiavi “Usciremo dal retro” annunciò. “La mia automobile è a cento metri.” Steven annuì, mentre lui e Frank sollevavano Harvey, che tentava debolmente di divincolarsi.
I tre uomini e la donna uscirono dal magazzino, tentando i correre nel canneto che circondava la costruzione. I due pescatori li notarono subito ed iniziarono a sbraitare. Uno di loro afferrò addirittura la canna da pesca, sventolandola come una clava. Zoe si tuffò in mezzo alle canne con agilità, ma Frank e Steven erano impacciati da Harvey che si contorceva nel tentativo di liberarsi e vennero raggiunti dai due pescatori.

“Lasciatelo andare” urlò il più alto, un uomo calvo vestito di verde. Harvey iniziò ad urlare attraverso il bavaglio. Steven fece cadere Harvey a terra e il ragazzo trascinò con sé anche Frank, che iniziò ad imprecare. Steven approfittò di un attimo di distrazione dei pescatori per estrarre la pistola. Stupefatti, i due uomini fecero cadere a terra le loro canne da pesca. “Filate via” ordinò in tono calmo. I due pescatori non se lo fecero ripetere due volte. Zoe uscì dal canneto e aiutò Frank a tornare in piedi. “Di là!” urlò. Steven annuì e, con l'aiuto di Frank, spinse Harvey davanti a sé.

I quattro raggiunsero una vecchia Ford parcheggiata vicino ad una sterrata. Zoe aprì rapidamente la portiera anteriore e accese il motore. Steven e Frank aprirono le portiere posteriori e scaraventarono Harvey sul sedile dei passeggeri. Frank si accomodò vicino ad Harvey, mentre Steven prese posto di fianco a Zoe. La ragazza chiuse le portiere e mise in moto l'automobile, che si allontanò rapidamente dal parcheggio.

“Mi sono sporcato i vestiti, dannazione!”imprecò Frank, cercandosi di ripulire la sua giacca dalle macchie di fango che la ricoprivano. Né Steven né Zoe lo degnarono di una risposta. “Dobbiamo decidere dove andare subito. Gli sbirri di Delavan sono lenti, ma abbiamo perso tempo.” spiegò Zoe. “Lo so” rispose Steven. “Per questo motivo ritorneremo subito a Chicago.” Zoe fece una smorfia, ma non rispose, concentrandosi sulla strada.

Il suono di una sirena fece trasalire Steven e Zoe. “La stradale” annunciò Frank, voltandosi a destra. “Ci fanno segno di accostare...” “Accelera” ordinò Steven a Zoe, che annuì, premendo sempre di più il pedale dell'acceleratore e distanziando l'automobile della polizia. “Cosa state facendo?” domandò Frank, spostando Harvey a sinistra. “Dobbiamo fermarci e raccontare tutto! Questi sono poliziotti locali, non possono avere i loro uomini in ogni corpo di polizia del paese!” esclamò. “No, grazie, non voglio essere arrestato per “errore” un'altra volta” replicò Steven.

L'automobile della polizia stradale di Delavan si fece più vicina. Zoe diede un'occhiata nello specchietto retrovisore e sterzò rapidamente a sinistra, facendo sbattere Frank contro il finestrino. Harvey approfittò della caduta per liberarsi del bavaglio e mettersi ad urlare. Frank gli rifilò una gomitata nello stomaco, mentre Zoe sterzava rapidamente a destra.

L'automobile della polizia fu affiancata da un'altra volante. Un agente corpulento afferrò un megafono e annunciò a voce alta “Qui è il Dipartimento di polizia di Delavan. Accostate immediatamente!” Zoe si voltò verso Steven. “Dì al tuo amico di reggersi forte” annunciò. Steven annuì “Allacciati la cintura e cerca di allacciarla anche a lui” spiegò a Frank. Il poliziotto, sbuffando, immobilizzò Harvey, che continuava a lamentarsi, e riuscì ad allacciargli la cintura.

Zoe inspirò profondamente e accelerò, ruotando completamente il volante. La Ford si girò di 180 gradi e passò esattamente fra le due automobili della polizia. Harvey urlò. Zoe accelerò di nuovo, distanziando di molto i poliziotti che non erano ancora riusciti ad invertire la marcia. “Siamo contromano!” urlò Frank. Zoe alzò le spalle. “Non passa mai nessuno in queste strade” spiegò, imboccando, sempre contromano, una sterrata sulla destra.

Un trattore si muoveva lentamente nella sterrata. Mordendosi le labbra, Zoe fece fare alla Ford un altro rapido testacoda, passando a pochi centimetri dal trattore e spaventando a morte il contadino alla guida, che le rivolse una serie di imprecazioni.

L'imprevisto aveva fatto avvicinare le automobili della polizia, che ora proseguivano affiancate. Zoe fu costretta a rallentare fino quasi a fermarsi per evitare uno scontro frontale. I poliziotti fermarono le volanti, facendole segno di accostare. Zoe fermò l'automobile, ma non uscì.

“Abbiamo un'ultima possibilità” esclamò girandosi verso Steven. “Tagliamo per i campi”annunciò. Frank aprì la bocca per obiettare, ma Zoe stava già ricominciando ad accelerare, sollevando una nuvola di polvere che ricoprì un agente che si stava avvicinando alla Ford e svoltando in un campo arato da poco, per poi ritornare sulla strada principale, lontano dai poliziotti. Zoe guardò lo specchietto retrovisore e sorrise.

CENTRALE DI POLIZIA

L'agente Gall diede un'occhiata soddisfatta agli agenti di polizia che vagano per i corridoi, gestivano i fermi e scrivevano i rapporti. Nulla indicava la presenza dei suoi uomini nella centrale, o l'assenza del captano Harriet Hudson e dei suoi sottoposti. “Tutto procede alla perfezione, signore” gli annunciò un agente FBI basso e dai capelli a spazzola. “Eccellente” commentò Gall. “Quando la Hudson e White si saranno decisi a firmare li faccia portare davanti alla Commissione Disciplinare. Si assicuri che vengano licenziati e li tenga sotto controllo” “E Parrish, signore?” chiese l'agente. “Ha collaborato”.

Gall alzò le spalle “Faccia licenziare anche lui, non sa nulla di realmente utile” concluse. L'agente si allontanò con un mezzo inchino. Gall afferrò il suo telefonino e iniziò a comporre un numero. Prima che potesse terminarlo, tuttavia, un altro agente gli passò un foglio. “Signore, credo che li abbiamo trovati” annunciò “La polizia di Delavan sta cercando quattro fuggitivi su una Ford. Le descrizioni di tre dei fuggitivi corrispondono a quelle di Campbell, Beaumont e Krakowski”
Il volto di Gall si illuminò. “Mi faccia preparare subito un'automobile” ordinò “ Non dobbiamo assolutamente lasciarli fuggire”.

MAGAZZINO

Il telefono del magazzino si mise improvvisamente a squillare. Kerman stava sorvegliando la fornace e invitò Taggart a rispondere. “Taggart” si identificò quest'ultimo, alzando la cornetta. “Andate subito a Delavan” ordinò la voce di Gall. “Campbell è a bordo di una Ford con due uomini e una donna. Ricordate che voglio Campbell vivo- e possibilmente, nessun altro in quella automobile deve morire.” “Ricevuto” confermò Taggart, chiudendo la conversazione.

“Si va a Delavan” annunciò Taggart a Kerman, che si mise a sbuffare. “Detesto i lavori lasciati a metà” spiegò. Taggart alzò le spalle ed aprì la portiera anteriore dell'automobile di Parker. “Potrai continuare a distruggere le prove più tardi” suggerì Taggart. “Ora dobbiamo catturare Campbell” Kerman annuì e girò una manopola, spegnendo la fornace.

WEISSMAN INVESTIGATIONS

Dan sedeva dietro alla sua scrivania, immobile. La sua mano destra era appoggiata sul tavolo, mentre la sinistra giocherellava con la maniglia di un cassetto. La porta dell'ufficio si aprì, facendo entrare Patricia. Dan si rilassò.

“Ho dato tre settimane di riposo assoluto a Jane” annunciò Dan. Patricia annuì debolmente. “La perdita di un genitore è difficile da sopportare” continuò Dan. Patricia fissò il muro senza rispondere. Dan sospirò e incrociò le dita. Patricia aspettò dell'attimo di distrazione di Dan e appoggiò le mani sulla scrivania del capo, afferrando le chiavi del cassetto. “Signore, purtroppo devo darle una brutta notizia” iniziò. Dan sollevò la testa e le rivolse un'occhiata interrogativa.

“Il caso Waldheim occuperà tutte le mie energie per diversi giorni. Con Jane a casa e il nostro investigatore” Patricia fece una breve pausa, dando alla parola “investigatore” una sfumatura di disprezzo “ attualmente irreperibile, l'agenzia rimarrà a corto di impiegati...” Dan annuì. “Le suggerirei di contattare il signor Campbell al più presto.” continuò Patricia in tono sostenuto.

“Da quanto tempo ci conosciamo, Patricia?” rispose Dan, fissando la donna negli occhi. Patricia rimase interdetta e riuscì solo a mormorare “Signore?” Dan scosse la testa. “Nessuno ti conosce meglio di me. Eppure tu insisti a darmi del lei e a chiamarmi “Signore”. “ Patricia si morse la labbra. “Rispetto la tua decisione” continuò Dan “ E credo di averne capito i motivi...ma questo non vuol dire che tu non possa confidarmi i tuoi problemi. Posso aiutarti...” concluse Dan. “Nessuno può” rispose in tono secco Patricia, alzandosi in piedi.

Sospirando, Dan annuì “Vai pure, chiuderò io” dichiarò. Senza rispondere, Patricia uscì dalla porta principale. Dan attese un attimo e diede un'occhiata al cassetto. Il suo telefonino squillò. “E' andata tutto bene.” rispose Dan, afferrando il cellulare. “Come avevi previsto, mi ha chiesto un permesso e mi ha rubato le chiavi. Ho fatto in modo che passi a Loro le informazioni false che abbiamo preparato” “Ottimo” replicò la voce di Virgil. Dan si alzò in piedi, specchiandosi nel vetro di uno dei suoi quadri. “Il bruco è diventato una farfalla, come dicevi tu, Virgil...ma è una farfalla vecchia e stanca di mentire.” Virgil non rispose: la conversazione era stata interrotta. Sospirando, Dan uscì dal suo ufficio chiudendolo a chiave.

FUORI DALLA WEISSMAN INVESTIGATIONS

“Ho recuperato le chiavi, ti consegnerò tutto al più presto” disse Patricia al telefono. “Brava, Pat. Hai appena fatto un altro passo verso quella cassetta...e verso la tua libertà” le rispose la voce del Messicano. “Ora vai: anche io ti do una giornata libera” concluse il messicano, in tono canzonatorio “Oggi è tempo di caccia” concluse ridacchiando. La conversazione finì. Patricia trattenne a stento le lacrime.

Un rumore la informò di un messaggio ricevuto. Patricia riprese in mano il cellulare e lo lesse: proveniva da “Corjeag”, e diceva “Il dibattimento è fra mezz'ora. Cerca di esserci.”Patricia si asciugò gli occhi ed entrò in macchina.

OTTAVO DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI CHICAGO

“Dove diavolo è Beaumont?” si informò Davis, sbuffando. Nessuno gli rispose, a parte un'agente donna che si limitò ad alzare le spalle. “Dovevamo lavorare sul caso Cantrell, ed invece ha pensato bene di sparire” continuò a lamentarsi.

Proprio in quel momento il Luogotenente Bronson fece il suo ingresso nel dipartimento. “Dove è Beaumont?” chiese rapidamente a Davis. “Non lo so, signore, lo stavo cercando anche io, ma a quanto pare oggi non si è presentato” Bronson alzò gli occhi al cielo.

“Deve solo pregare di essere qui entro tre ore, altrimenti è licenziato” esclamò Bronson. Davis annuì, leggermente soddisfatto.

A VENTI CHILOMETRI DA DELAVAN

L'automobile di Gall sfrecciava sulla corsia di sorpasso. “Dove avete detto che vi trovate?” chiese Gall al cellulare, mentre ordinava a gesti all'autista di non rallentare.

DELAVAN

Il poliziotto corpulento conversava con Gall mentre il suo compagno teneva gli occhi fissi sulla strada “A due miglia sud della città, signor Gall” spiegò. “Li abbiamo intercettati seguendo una segnalazione: due pescatori avevano assistito a un probabile rapimento. Siamo intervenuti al più presto.”

A VENTI CHILOMETRI DA DELAVAN

Gall si fece passare una cartina geografica da uno dei suoi uomini seduto sul sedile posteriore e iniziò a tracciare dei piccoli cerchi sulle strade che dirigevano verso Chicago. “Avete detto che li avete persi in un campo ad est della statale...” “Esatto, signor Gall” gli rispose la voce dell'agente di Delavan. “Benissimo. Voglio un blocco stradale sulla statale, sull'Interstate e sulle due strade locali ad est di Delavan” ordinò Gall. “Ma, signor Gall.. in questo modo lasceremo a quei delinquenti la possibilità di entrare a Chicago da nord...” si lamentò l'agente.

“Mi occuperò io di quella via di fuga, agente” spiegò Gall. “Grazie per la collaborazione” concluse, chiudendo la conversazione e digitando un nuovo numero. Sono Gall. Dirigetevi immediatamente sulla diciottesima” annunciò.

POCO FUORI CHICAGO

“Ricevuto” confermò Kerman. “Diciottesima” ordinò a Taggart, che annuì e iniziò ad accelerare.

NORTHWESTERN HOSPITAL

Jane attendeva nella camera mortuaria , senza riuscire a staccare gli occhi dal cadavere della madre.
Una infermiera le si avvicinò, portandole una tazza di caffè. “Grazie” le disse meccanicamente Jane. “Si figuri” si schermì l'infermiera. “Sta aspettando altri familiari?” “No” rispose Jane “Non ho fratelli, e mio padre è morto anni fa, prima che io nascessi” “Mi dispiace” si scusò l'infermiera. Jane non rispose.

“Quando potrò portarla a casa?” chiese all'improvviso. L'infermiera si morse le labbra. “Se firma i documenti per il rilascio, può portarla via fra sette ore” Jane annuì di nuovo. “Mi porti quei documenti” ordinò, sempre senza smettere di fissare il cadavere della madre.

TRIBUNALE

Patricia scese rapidamente dall'automobile, chiuse la portiera si mise a salire di corsa i gradini davanti al Tribunale. Una donna bionda sulla quarantina la attendeva vicino alla porta, controllando il suo orologio. “Per tua fortuna non sei in ritardo, Lawford” la accolse. “Non lo sono mai, Corjeag” replicò Patricia. “Credi di potere dimostrare l'infedeltà del marito?” chiese Corjeag, con una punta di scetticismo.

Patricia le rispose presentandole un faldone di fotografie “L'abbiamo in pugno” annunciò “Noi della Weissman non affrontiamo mai una causa se non siamo sicuri di vincerla” Corjeag annuì. “Belle, queste foto..chi le ha fatte?” commentò. “Non lavora più per noi” si limitò a rispondere Patricia. “Ci serviranno molto” commentò Corjeag. “Oggi è Batman a presenziare”.

Patricia alzò gli occhi al cielo: il giudice Wayne, noto fra gli avvocati come “Batman”, era famoso come il più puntiglioso giudice civile del Tribunale. “Andiamo ora. La mia cliente ci aspetta all'interno” concluse Corjeag. Patricia annuì e le due donne entrarono nel tribunale.

DELAVAN

L'agente di polizia corpulento ordinò al suo compagno di fermare l'automobile. “Sono loro!” annunciò trionfante, indicando la Ford di Zoe, apparentemente finita contro un guardrail. L'automobile della polizia si avvicinò e i due agenti scesero impugnando le loro pistole. “Non c'è nessuno!” annunciò l'agente alla guida al suo collega corpulento, dopo aver controllato l'automobile. “Non è possibile..fatti da parte” gli ordinò il collega, spalancando la portiera destra della Ford.

L'automobile era effettivamente vuota. I due agenti si fissarono a vicenda, stupefatti. “Dove sono finiti?” chiese l'agente magro all'altro. “Che io sia dannato se lo so...” rispose quest'ultimo.
Proprio in quel momento l'automobile della polizia si rimise in moto, lasciando i due agenti a piedi. “Fermatevi!” si misero ad urlare i due, senza successo.

Nell'automobile della polizia Zoe si mise a ridere, osservando lo specchietto retrovisore. Era l'unica persona a bordo, ma tre cappelli, recuperati dal suo portabagagli e appoggiati su dei bastoni, davano l'impressione che Steven, Frank e Harvey fossero assieme a lei. Dopo un paio di chilometri si fermò accanto ad un fosso, scese rapidamente dall'automobile della polizia e, inserendo la prima la spinse nel canale. Dalla strada ora l'automobile si notava con difficoltà.

I due agenti rimasti a piedi si misero a correre verso il telefono più vicino. Steven, Frank e Harvey, ancora imbavagliato, sbucarono dai cespugli vicini al guardrail. “Possiamo andare” annunciò Steven.”La stazione è a mezzo chilometro, Zoe ci raggiungerà fra poco. Il furto di un automobile della polizia dovrebbe confonderli quanto basta”. Frank annuì e diede una spinta ad Harvey, costringendolo a cominciare a correre.

AUTOMOBILE DELL'AGENTE GALL

“Vi hanno che cosa?” urlò Gall nel telefonino. “Ci spiace, signor Gall, siamo stati lenti” rispose la voce dell'agente corpulento. “Ora sono in viaggio sulla nostra automobile, la numero ventisette” continuò. “Va bene..va bene” concesse Gall, calmandosi. “Farò circolare immediatamente l'allarme. Restate dove siete.” li ammonì, concludendo la conversazione.

“Sono su un automobile della polizia, la numero ventisette” annunciò pochi secondi più tardi, informando telegraficamente Taggart e Kerman. Uno degli agenti di Gall, incuriosito, chiese timidamente “Con chi stava parlando, signore?” “Servizi speciali FBI” rispose Gall, leggermente infastidito. “Non informa gli agenti locali?” chiese ancora l'uomo, stupito. “Non sono tenuto a giustificare le mie azioni con lei” annunciò gelidamente Gall. “Acceleri, dannazione!” concluse, esortando l'autista. Accorgendosi di non avere concluso la conversazione Gall premette un pulsante, mordendosi le labbra.

AUTOMOBILE DI KERMAN E TAGGART

“Sentito? Siamo dei servizi speciali dell'FBI ora” commentò Kerman, sogghignando. Taggart abbozzò un sorriso. “Se sono su una automobile della polizia li individueremo subito” rispose dopo qualche secondo di riflessione. “Hanno fatto una pessima mossa” concordò Kerman “Quindi probabilmente si fermeranno e proseguiranno a piedi, cercando di seminarci per i campi”. Taggart annuì. “Richiamalo” ordinò a Kerman. “Lo sto già facendo” commentò quest'ultimo.

VICINO ALLA STAZIONE DI DELAVAN

Frank ansimava pesantemente, tenendosi le mani sulle ginocchia. “Mai più” sentenziò. “Sto morendo...” Steven scosse la testa, allungando uno schiaffo ad Harvey, che si stava per sdraiare a terra. “Ti toglierò il bavaglio, ora” lo informò. “Ma se provi ad urlare, ti spezzerò un braccio, visto che sei tanto stupido da non capire quando devi salvarti la pelle”. Harvey annuì.

“Non andiamo?” domandò Frank, tirando un paio di sospiri profondi e guardandosi attorno. “Aspettiamo Zoe” gli ricordò Steven. “Non a lungo” precisò Zoe, uscendo dai cespugli dietro a Steven, Non sembrava affaticata. “Come diavolo hai fatto? Non sei nemmeno sudata” domandò Frank, pulendosi la fronte con la manica destra. “Merito di una vita sana e di molto esercizio” scherzò Zoe, squadrando Harvey. “Credi sia prudente?” chiese a Steven, che stava togliendo il bavaglio al ragazzo. “Ha già capito che è nel suo interesse..vero Harvey?” chiese Steven.
Zoe fece una smorfia di scetticismo.

AUTOMOBILE DELL'AGENTE GALL

Gall annuì, tenendo il telefonino accanto all'orecchio destro. “Ci avevo già pensato..” mormorò, fermandosi all'improvviso. “Dove è stata trovata la Ford?” chiese all'agente che sedeva dietro di lui. “Qui, signore” rispose quest'ultimo, evidenziando una curva su una strada secondaria.
Gall schioccò le dita. “Avverti la polizia ferroviaria di Delavan” ordinò al suo sottoposto. “Cercheranno di scappare in treno”

STAZIONE DI DELAVAN

“Quattro biglietti per Chicago” chiese Steven alla donna nella biglietteria, un'afroamericana sulla quarantina. Dietro di lui Harvey rivolgeva occhiate preoccupate a Zoe e a Frank, che lo sorvegliavano attentamente. La donna contò lentamente i biglietti, facendo infuriare Steven.
“Non si preoccupi, possiamo rimanere qui anche fino a domani mattina” commentò l'investigatore, con un sarcasmo che andò completamente perso. “Diciotto dollari” annunciò la donna. Steven infilò una banconota da venti dollari nell'apertura della biglietteria e ritirò rapidamente i biglietti.

“Il suo resto” lo avvertì la donna, spingendo due banconote da un dollaro attraverso l'apertura. Steven le rivolse una smorfia di impazienza e afferrò i due dollari,. “Arriva fra tre minuti” lo informò Zoe, che aveva dato un'occhiata alla tabella dei treni. Steven si rilassò leggermente.

UFFICIO DELLA POLIZIA FERROVIARIA-STAZIONE DI DELAVAN

Un agente afroamericano stava bevendo una tazza di caffè, fermandosi di tanto in tanto per osservare gli schermi su cui si controllavano le attività della stazione. Il telefono dell'ufficio si mise a squillare. “Ufficio polizia ferroviaria di Delavan, desidera?” domandò con voce affaticata. “Parla l'agente Gall, FBI. Deve bloccare immediatamente tre uomini e una donna, stanno per fuggire dalla sua stazione. Uno degli uomini è sulla trentina, piuttosto alto e bruno, un altro è basso e porta gli occhiali, e il terzo è biondo e giovane. Sono pericolosi, li fermi immediatamente.”

L'agente iniziò a scrutare i monitor. “Li ho trovati! Stanno per salire sul treno per Chicago. Li blocco subito!” “Aspetti!” gli ordinò Gall. “E' sicuro che stiano aspettando il treno per Chicago?” “Ci stanno salendo proprio ora...lo faccio fermare immediatamente” annunciò l'agente.

“Li lasci salire. Se il treno si ferma potrebbero insospettirsi. Li bloccheremo noi a Chicago” suggerì Gall, soddisfatto.

TRIBUNALE

“Vostro Onore, chiedo di poter presentare il reperto C” annunciò Corjeag. La signora Waldheim, una donna sulla cinquantina seduta al suo fianco annuì, sospirando. “Accordato, avvocato Corjeag” rispose il giudice Wayne, un ometto basso e dal naso aquilino. “Ma spero che in questo caso si tratti di più che di semplici illazioni”

Corjeag sorrise, voltandosi verso Patricia, che le porse il faldone. L'uomo seduto al banco della difesa scosse la testa. Era completamente calvo e decisamente in sovrappeso, e alzò lo sguardo verso il volto del suo avvocato, che si limitò ad alzare le spalle. “Signor Waldheim, la prego di rimanere fermo” annunciò il giudice Wayne. Waldheim annuì, asciugandosi la fronte.

“Come può vedere, Vostro Onore, in queste fotografie il signor Waldheim è colto in flagrante adulterio” La signora Waldheim singhiozzò leggermente. “Lo vedo benissimo, avvocato Corjeag...” commentò Wayne, strizzando gli occhi. “Avvocato Lawford” aggiunse, rivolgendosi a Patricia “ è pronta a testimoniare sotto giuramento che le fotografie in questione sono state scattate da un dipendente autorizzato della sua agenzia?” “Certamente, Vostro Onore” rispose Patricia, alzandosi in piedi e dirigendosi verso il banco dei testimoni.

“Giuri di dire tutta la verità, tutta la verità, nient'altro la verità. Dica lo giuro” gli chiese un agente del tribunale, porgendole una Bibbia. “Lo giuro” proclamò Patricia, con aria sicura. “Avvocato Lawford, da chi sono state scattate le fotografie?” chiese Corjeag.

Patricia rimase a bocca aperta: il Messicano era seduto nell'ultima fila dell'aula, e le rivolgeva un sorriso sarcastico. “Avvocato Lawford, stiamo aspettando...” insistette il giudice Wayne. Corjeag sussurrò “Che diavolo stai facendo, Patricia?” Patricia si schiarì la gola e rispose “E' stato il signor Seth Weissman, all'epoca un dipendente della agenzia “Weissman Investigations””.
“All'epoca? Perché è stato licenziato?” chiese il giudice aggrottando le sopracciglia. “Si è dimesso, Vostro Onore. Motivi personali” rispose Patricia, socchiudendo gli occhi e cercando di non prestare attenzione al Messicano. “Ha problemi di congiuntivite, avvocato Lawford?” domandò in tono sarcastico Wayne. “No, Vostro Onore” rispose Patricia, leggermente sorpresa. “Allora apra gli occhi, prego” commentò Wayne.“Il signor Seth Weissman possedeva una regolare licenza?” continuò Corjeag, rivolgendo un'occhiataccia a Patricia.

Il Messicano tossì ed indicò a Patricia la cassetta che teneva nella mano destra. “Avvocato Lawford?” chiese Wayne, in tono seccato. “Sì, la possedeva” annunciò Patricia. “Non ho altre domande” si congedò Corjeag, rivolgendo a Patricia uno sguardo che significava “Non fare altre stupidaggini”.

“Avvocato Lawford, che può dirmi sul signor Weissman?” iniziò l'avvocato di Waldheim. “Obiezione. Non pertinente” disse Corjeag. “Accolta” dichiarò Wayne “Si attenga ai fatti, avvocato Morris” “Mi scusi, Vostro Onore. Come sono state ottenute le fotografie, avvocato Lawford?” continuò Morris. Il Messicano indicò il suo orologio. Patricia rabbrividì.

“Avvocato Lawford, risponda” ordinò Wayne. “La signora Waldheim si rivolse alla “Weissman Investigations” perché sospettava che il marito la stesse tradendo. Il signor Dan Weissman incaricò Seth, suo nipote, di controllare il signor Waldheim, e ottenne un'autorizzazione a fotografarlo dalla procura” spiegò Patricia. Il Messicano si alzò in piedi e iniziò a parlare con una guardia del tribunale. Patricia mormorò “Non mi sento bene, scusatemi” “La seduta è interrotta per dieci minuti”annunciò Wayne. “Avvocato Lawford, si vada a lavare la faccia”

Patricia annuì, alzandosi in piedi. Morris sorrise a Waldheim, che annuì soddisfatto. “Che accidenti ti è preso?” domandò Corjeag a Patricia. “Non lo so...vado in bagno” si scusò Patricia, uscendo dall'aula. La signora Waldheim rivolse un'occhiata preoccupata a Corjeag, che inspirò profondamente.

Appena uscita fuori dall'aula Patricia scosse la testa. “Sei molto brava come avvocato” le sussurrò all'orecchio il Messicano. Patricia si irrigidì “Vattene” sussurrò a sua volta “Avevi detto che mi lasciavi una giornata di riposo” “Lo so” rispose il Messicano “Purtroppo ci sono stati degli imprevisti. Mi servono le chiavi dell'ufficio del tuo capo e del suo cassetto, e mi servono ora”. Patricia si voltò verso il Messicano e gli rivolse un sorriso sarcastico.

“Non le ho” proclamò “ e anche se le avessi, non ho intenzione di dartele” Il Messicano rimase interdetto per alcuni secondi. “Cosa diavolo..” iniziò. “Ho riflettuto.. e ho capito che non finirà mai. Continuerai a chiedermi “favori” e non avrò mai quella cassetta. “ annunciò Patricia. “Sai cosa succederà. “ la minacciò il Messicano. “Siamo in un tribunale.. mi basta consegnare la cassetta a un qualsiasi poliziotto e non uscirai mai più di prigione...” “Fallo, allora.” lo sfidò Patricia. “Ora non me ne importa più nulla. Mi hai costretto a mentire al mio capo, a spiare i miei colleghi...”

“Andiamo, Patricia, non sei il tipo di donna che difende i suoi colleghi...” la stuzzicò il Messicano. “Non mi conosci abbastanza, allora” rispose Patricia, inspirando per farsi forza. “Non vuoi nemmeno sapere a chi ho rubato questa cassetta?” le chiese il messicano. “No” rispose Patricia “So bene che sei un ladro” “Peccato..pensavo ti potesse interessare il fatto che questa cassetta era di Dan, il tuo capo. Ti aveva detto di averla distrutta...e stava mentendo” mormorò il Messicano. Patricia rimase a bocca aperta.

“Stai mentendo” mormorò Patricia. “Sarebbe stupido farlo..sappiamo bene che lui era l'unico, oltre a me e te, a sapere” rispose il Messicano. “Ci sono sempre Jimenez e Starsky” gli ricordò Patricia. “Sono morti tre mesi fa. Incidente d'auto, una gran brutta morte. Controlla, se non mi credi” replicò il Messicano “ e credimi, non avrei aspettato tre mesi prima di incontrarti se avessi trovato la cassetta a casa loro”. Patricia non riuscì a rispondere: sembrava paralizzata. “Ritorna dentro. Pensaci su. Vedi se è il caso di proteggere un uomo che ti inganna da sei anni” concluse il Messicano, salutando Patricia con la mano.

STAZIONE CENTRALE DI CHICAGO

Tre agenti dell'FBI esaminavano la folla che scendeva dal treno proveniente da Delavan. “Non ci sono” esclamò uno, dopo avere controllato tutti i passeggeri. “Come sarebbe a dire che non ci sono?” rispose la voce di Gall nel suo auricolare. “Controllate meglio!” ordinò.

“Abbiamo visto tutti i passeggeri, signore. Non li abbiamo trovati.” “Salite sul treno. Frugatelo da cima a fondo se necessario. Devono essere lì dentro, non sono scesi in nessuna delle stazione precedenti!” urlò Gall, furioso.

STAZIONE DI ROCKFORD

Zoe, Steven, Frank e Harvey scesero dal treno proveniente da Delavan, avviandosi verso l'uscita della stazione. “Li abbiamo fregati, vero?” disse Frank, sogghignando. “Un trucco geniale, salire sul treno in testa e scendere in coda. A quest'ora saranno alla stazione centrale di Chicago..” Steven alzò gli occhi al cielo “Non sei capace di stare zitto?” lo rimproverò.

“Oh, andiamo! Non ci hanno beccati, è tempo di festeggiare” continuò Frank. Steven inspirò “La parte difficile arriva adesso” annunciò. Zoe fissò Harvey, che scosse la testa, come se si stesse risvegliando dopo un lungo sonno. “La parte difficile?” mormorò. “Se per te è facile ritornare in città senza essere catturati, vai pure” rispose Steven. Harvey fece una smorfia, ma non rispose.

“Perché dobbiamo ritornare in città?” chiese Zoe, aggrottando le sopracciglia. “Perché la chiave del mistero di Paula è a Chicago, ne sono sicuro... e poi perché il nostro simpatico Harvey” rispose Steven, rivolgendo all'ex-fidanzato di Paula uno sguardo ironico “deve dirci molte cose, e mostrarci anche dei luoghi...non è vero?” concluse. Harvey annuì debolmente.

SEDE DELL'FBI DI CHICAGO

“Lei mi delude, agente Gall! Le ho assegnato un'intera squadra, più due freelancer che, in teoria, non dovrebbero nemmeno esistere, e lei non è riuscito a catturare Campbell...” iniziò Eamon Scott, fissando il suo sottoposto negli occhi.

“E da quanto ci ha riferito il nostro contatto” continuò Scott “Patricia Lawford sta rifiutando di collaborare. Lo sa cosa vuol dire tutto ciò?” Gall non rispose, accontentandosi di annuire leggermente. “Dobbiamo fare nuovi piani, utilizzare la nuova talpa, rischiare molto di più. E tutto per colpa sua” concluse Scott. “Cosa ha dire in sua difesa?” “Signore” iniziò Gall “non voglio essere polemico, ma il piano mi è sempre sembrato troppo complicato. Perché non arrestiamo Weissman, visto che sappiamo che è lui a spingere Campbell a indagare sulla Cantrell?”

Scott gli rivolse uno sguardo glaciale. “Non possiamo trattenerlo. Di cosa lo accusiamo, senza uno straccio di prova? Anche a questo serviva Patricia Lawford. Doveva avere accesso ai file segreti di Weissman...” ”Mi scusi ancora, signore” continuò Gall, deciso a non cedere “perché mi ha incaricato di catturare Campbell, allora? Anche su di lui non abbiamo nulla...”

Scott scosse la testa. “Trattenere Campbell non ci creerebbe troppi problemi: è solo un ex-poliziotto fallito. Ma arrestare Weissman senza prove sarebbe la rovina per i nostri piani. Le Sequoie userebbero il processo per dare pubblicità al caso Cantrell, e questo è proprio ciò che noi non vogliamo. Si ricordi per chi lavora” concluse Scott. Gall annuì, chinando la testa.

“Ecco i suoi nuovi incarichi” annunciò Scott, dopo un attimo di silenzio. “Sospenda la caccia a Campbell, è stata controproducente finora. Si occupi di eliminare ogni singola traccia su Paula Cantrell. Kerman e Taggart la aiuteranno, e, se avremo successo con la seconda talpa, forse riusciremo anche ad incastrare Weissman” Gall annuì di nuovo.

“Eliminare..fisicamente?” chiese poi “Devo far sparire tutti i testimoni sul caso Cantrell come i due “freelancer” hanno fatto con i Polk?” “Non necessariamente” rispose Scott. “Ma si assicuri che Campbell non li possa interrogare. Può andare ora” concluse Scott, congedandolo.

Gall chinò la testa e uscì dall'ufficio di Polk. Uno dei suoi sottoposti gli si avvicinò “Abbiamo ragione di credere che Campbell...” iniziò. Gall lo zittì con un cenno della mano. “Campbell non è più un nostro incarico” annunciò, massaggiandosi le tempie. “Siete tutti congedati” concluse.

CIMITERO DI MARYHILL

“Ginevra Shelby era una donna coraggiosa. Una donna che ha lottato contro un male oscuro e incomprensibile: il cancro. Una donna che non si è mai arresa, nemmeno quanto il male ha iniziato a divorare i suoi organi, ma ha continuato a confidare in quel Dio che è eterna salute ed eterna felicità. Una madre che cresciuto sua figlia senza il conforto del marito, scomparso anni prima...” Le parole del parroco della Chiesa Cattolica di Maryhill facevano da sottofondo al funerale di Ginevra.

Jane era davanti alla tomba appena scavata, vestita di nero. A parte lei e il sacerdote, c'erano solo alcuni amici della madre, fra cui Dan, vestito di nero e con la testa chinata. Jane fingeva di non vederlo, e cercava anche di evitare di osservare la corona di fiori che Dan aveva fatto comporre.

“...perché la vita non ci è tolta, ma trasformata. Riposa in pace, Ginevra Shelby” concluse il sacerdote, mentre la bara veniva lentamente calata da due becchini. Jane iniziò a piangere, nascondendo il suo volto in un fazzoletto. I due operai del cimitero ricoprirono la bara di terra e sistemarono la lapide. Si trattava di una semplice lapide di marmo, che portava inciso il nome di Ginevra, la sua data di nascita, quella di morte e nient'altro. I pochi partecipanti al funerale si avvicinarono a Jane per porgere le loro condoglianze. Dan rimase in fondo alla fila e, quando arrivò il suo turno, si limitò a fissare Jane, che contraccambiò lo sguardo.

“Ho portato questa” si scusò, porgendo a Jane una cassetta di mogano. “E' terra di Trieste, in Italia, dove è nata tua madre. So che voleva portarsi una parte della sua terra natale con sé” si spiegò. Annuendo, Jane aprì la cassetta e sparse il suo contenuto sulla tomba di Ginevra. “Perché sei qui?” chiese Jane in tono gelido “Non ti ho chiamato...” Dan sospirò profondamente. “Glielo dovevo” spiegò. Jane annuì di nuovo “Lei avrebbe voluto vederti qui” ammise. “Ma questo non cancella il fatto che non hai voluto aiutarla...” Dan scosse la testa.

“Jane...” iniziò “C'è un motivo per cui non volevo che tua madre fosse ricoverata al Saint James Hospital..e non è perché non volevo aiutarla” “Allora dimmelo”rispose Jane “Dammi una ragione, spiegami perché non dovevo accettare quella cura...” Dan sospirò di nuovo, trattenendo a stento le lacrime. “E' complicato, Jane...” “Non mi importa” insistette la segretaria “Abbiamo tempo.”

“Diciamo che conosco quell'ospedale, e so che i suoi veri proprietari sono persone malvagie, disoneste..ma non posso provarlo. Io e un gruppo di miei..amici stiamo lavorando per trovare delle prove” iniziò Dan “ma non è facile.” concluse. Jane annuì. “Tutto qui?” osservò. “Persone malvagie?” “Non posso davvero dirti di più, Jane” rispose Dan.,sconsolato.

“Non so se potrò fidarmi di te...ho bisogno di tempo. ” accennò Jane. “Tutto il tempo che vuoi” concesse Dan, allontanandosi “Ti prego solo di riflettere” Jane annuì di nuovo, scrutando Dan mentre si allontanava dal cimitero.

Il suo telefonino squillò. Jane lo portò all'orecchio. “Sono nella cappella degli O'Donnell” le rispose una voce. Jane annuì ed entrò rapidamente nella cappella. “Ho riallacciato i contatti, come mi hai detto tu” iniziò “Mi ha raccontato la storia delle persone malvagie, proprio come avevi previsto.” continuò, scrutando nella penombra della cappella. “Vuole solo coprire le sue responsabilità...” le rispose una voce maschile “Ti ho fatto vedere i tabulati telefonici, ti ho fatto sentire le registrazioni...tua madre era venuta a conoscenza di cose che non avrebbe dovuto sapere, e lui non poteva rischiare che guarisse e potesse denunciarlo..”

“Lo so...ma se non lo sapessi, gli avrei creduto” esclamò Jane, scoppiando a piangere. “E' abile, ha ingannato anche il governo, ha ingannato tutti” le rispose la voce maschile. “Lo incastreremo. Vendicheremo tua madre ” promise. Jane continuò a piangere.

Uscendo dalla penombra, Taggart le porse un fazzoletto. “Grazie” rispose Jane. “Di niente” rispose Taggart. “Sei una ragazza molto coraggiosa, Jane. Insieme, riusciremo a sconfiggere Dan Weissman”.

CASA DI PATRICIA LAWFORD

Patricia passeggiava nel suo salone, scuotendo la testa. Corjeag le aveva appena inviato un messaggio: “Abbiamo vinto, ma non grazie a te. La prossima volta curati prima di venire in tribunale”. Patricia lo aveva a malapena letto: la sua attenzione era tutta rivolta al telefono e alle parole del Messicano.

All'improvviso l'apparecchio squillò “Pronto?” chiese Patricia, afferrando la cornetta e stringendola con forza. “Ma che vocione hai...” la prese in giro la voce di Mandy. “Pronta per la grande serata fra donne?” “Oh...” commentò Patricia, stupita. “Te ne eri dimenticata, dì la verità?” le chiese Mandy. “Non importa. Tuffati dalla finestra e partiamo” “Non posso, Mandy, sono in vestaglia..” rispose Patricia.

“Che problema c'è? Meglio, farai strage di cuori..” replicò Mandy. “Avanti, posso aspettarti...” Patricia scosse la testa. “Aspetto una chiamata importante, mi dispiace..” “Allora salgo io” annunciò Mandy, concludendo la conversazione.

“Mandy, no!” rispose Patricia, accorgendosi però di parlare al vuoto. Appoggiò delicatamente la cornetta al ricevitore e si adagiò sul divano. “Non dovevi venire..” sussurrò tra sé e sé.

“Pizza a domicilio...doppia allegria al triplo formaggio!” si annunciò Mandy poco dopo, bussando alla porta di Patricia. “E' tutto in disordine...” si lamentò Patricia. “Meglio, mi piace il disordine” commentò Mandy. Sospirando, Patricia aprì la porta. “Ciao, bellissima” la salutò Mandy, una ragazza afroamericana piuttosto bassa e dai tratti da diciottenne. “Ti serve una ricarica...” commentò, scrutando l'aspetto di Patricia e le borse sotto i suoi occhi.

“Mi dispiace, Mandy, ma te ne devi andare...Non posso farti entrare, c'è questa telefonata...” Proprio in quel momento il telefono squillò. Patricia si precipitò a rispondere, mentre Mandy, approfittando dell'imprevisto, si intrufolava in casa.

“Hai riflettuto su ciò che ti ho chiesto?” chiese a Patricia la voce del Messicano. “Sì” sussurrò quest'ultima. “ E quale è la tua risposta?” domandò ancora il Messicano. “Che puoi and-” iniziò Patricia, interrompendosi quando vide Mandy che la stava ascoltando. “E' no, come stamattina. Fai come credi, io non ti aiuterò più” concluse Patricia. “Peccato..” commentò il Messicano. “Visto che ho sempre avuto un debole per te, ti concedo altre ventiquattro ore...poi però tutti sapranno che Patricia Lawford, quell'avvocatessa così distinta e capace, in realtà è l'assassina del suo patrigno.” concluse il Messicano.

Patricia rimase inebetita, senza rispondere. Mandy le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla “Va tutto bene?” si preoccupò. “Erano brutte notizie?” “No” riuscì a dire Patricia. “Solo lavoro” Mandy annuì. “Mi dispiace di essere stata di intralcio..” “No, resta.” rispose Patricia. “Anzi, visto che ci sei, perché non mi prepari un bel tè?” concluse, con un sorriso forzato. “Volo” rispose Mandy, ritornando allegra. Mentre Mandy entrava in cucina, Patricia mormorò “Brutte notizie, Mandy? Tu non sai quanto...non sai davvero quanto...”

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