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di mikchan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1-L'inizio dopo la fine ***
Capitolo 3: *** 2-Galeotta fu una macchinetta ***
Capitolo 4: *** 3-Nel mezzo di due vite ***
Capitolo 5: *** 4- Sapore di miele ***
Capitolo 6: *** 5-Incontri ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

"Lorenzo!".
"Gne gne gne".
"Lorenzo! Ridammi la mia bambola".
"Gne gne gne".
"Piantala. Rivoglio la mia bambola".
"E allora vieni a prenderla".
"Lo sai che la mia mamma non vuole che salgo sugli alberi".
"La tua mamma non c'è".
"Sì, ma rovino le scarpette nuove".
"Toglile".
"E poi come faccio a salire?".
"Ti aiuto io. Forza".
"Ma poi me la ridai la bambola?".
"Solo se sali fino a qui".
"Se cado mi prendi?".
"Non cadi, fidati."
"Ma se cado?".
"Va bene, stai tranquilla. Ora sali però".
Chiara si tolse le nuove scarpette di ginnastica che aveva comprato e che aveva voluto subito provare e le appoggiò accanto al tronco dell'albero. Fece un saltello per aggrapparsi al ramo più basso e, issandosi con le braccia e aiutandosi con i piedi, si mise a sedere.
"E ora?", chiese all'amico.
"Alzati in piedi e continua a salire. Ci sono i rami che ti aiutano".
"Ma sei troppo in alto. Puoi scendere un po'?".
"Non dirmi che hai paura!".
Chiara si morse un labbro, guardando l'amico e poi il prato sotto i suoi piedi. "No...".
"E allora sali. Ce la puoi fare".
"Davvero?".
"Certo. Ti ho vista l'altro giorno mentre eri in palestra e facevi quelle cose su quella cosa con due bastoni".
Chiara si accigliò, alzandosi in piedi e appoggiandosi contro il tronco. "Si chiamano parallele, stupido".
"Sì, sì, come vuoi. In ogni caso hai fatto quella capriola fantastica lassù, quindi puoi anche arrampicarti su un albero".
"Non era una capriola, ma... oh, tanto non mi capiresti comunque", borbottò tra sè. Si guardò intorno. "Lori, dove devo aggrapparmi?".
"Il ramo di là", rispose il bambino indicando con il dito la destra di Chiara, che annuì.
La bambina si allungò un poco e afferrò anche quel ramo. Come poco prima, si issò con l'aiuto delle braccia e rimase ferma per un attimo. Effettivamente era come dondolarsi sulle parallele che c'erano in palestra e, d'istinto, si piegò in avanti, svolgendo una capovolta. Si mise poi a sedere sul ramo e si alzò subito, aggrappandosi ad un altro per salire ancora di più. In poco tempo aveva raggiunto l'amichetto e gli sedeva a fianco, con il fiatone, ma con un enorme sorriso sulle labbra.
"Visto che ce l'hai fatta?", le disse Lorenzo porgendole la bambola.
Chiara l'afferrò contenta. "Grazie", rispose abbracciandola.
"Chiara", la chiamò l'amico. "Mi insegni a fare quella cosa che hai fatto prima?".
Lei lo guardò e annuì. "È facilissimo", si pavoneggiò.
Lorenzo si alzò in piedi e, afferrando il ramo sopra le loro teste, cercò di imitare i gesti dell'amica.
"Non lasciare mai la presa", lo avvertì Chiara quando lo vide issarsi sulle braccia.
L'amico annuì e, piegandosi in avanti, girò intorno al tronco per poi tornare alla posizione di partenza. "Urca, è bellissimo!", esclamò con un enorme sorriso, ripetendo quella capovolta ancora un paio di volte.
"Sì, ora scendi e vieni qui", lo richiamò Chiara, sbuffando. "Non sono salita fino a qui per vederti fare capriole".
Lorenzo appoggiò di nuovo i piedi sul tronco e si sedette accanto a Chiara. "Mi è venuta fame", disse poi prendendo lo zainetto e aprendolo. "Vuoi dividerla con me?", chiese a Chiara, mostrandole una merendina.
La bambina annuì e mangiarono in silenzio, dondolando le gambe in sincronia.
"È proprio proprio bello quassù", disse Chiara all'improvviso, guardando davanti a sé.
"Lo so, ci vengo spessissimo, sai?"
"Perché?".
Lorenzo scosse le spalle. "Quando mamma e papà urlano non mi va di ascoltarli. Quindi vengo fino a qui e mi porto qualche gioco".
"Posso venire anch'io quando mamma e papà urlano?", gli chiese Chiara.
Il bambinò annuì. "Certo. Magari possiamo costruirci anche una casetta. Come quella dei Simpson".
"Tu sei capace?".
Lorenzo fece per parlare, poi chiuse la bocca, scuotendo il capo. "Però possiamo chiedere al mio papà", affermò sicuro.
"E ci aiuterà?".
"Lo spero", disse Lorenzo, infilandosi lo zaino sulle spalle. "Forza", disse poi. "Dobbiamo scendere". "Lori, posso tornare domani?", gli chiese la bambina.
Lui si mise seduto, dondolando le gambe verso il tronco più basso. "Solo se porti tu la merenda", propose con un sorriso birichino.
Chiara annuì con forza. "Promesso".
Entrambi scescero dall'albero aiutandosi a vicenda e, quando finalmente toccarono il prato, sorrisero.
"Grazie albero", disse Chiara, accarezzando la corteccia come aveva visto fare in un cartone animato e chinandosi per prendere le scarpette.
"Chiara", la richiamò Lorenzo. "Ma noi saremo amici per sempre?".
"Certo. Che domande fai?".
"Anche se io non potrò più salire sull'albero con te?".
"E perché non puoi? Sei in castigo?".
"No, non sono in castigo. Ma devo cambiare casa", ammise.
"E perché?", ripeté Chiara. "La tua non ti piace più?".
Il bambino scosse la testa. "A me piace un sacco, ma mamma e papà vogliono andare via".
"E dove?".
"Non lo so", ammise Lorenzo.
"E io con chi salirò sull'albero?", mormorò mogia Chiara, stringendosi la bambola al petto.
"Saremo sempre amici?" chiese invece Lorenzo con tono apprensivo e urgente.
Chiara lo guardò e poi annuì. "Nel posto in cui vai trova un albero come questo. Quando tornerai faremo a gara di chi fa più capriole".
"Me lo prometti?".
"Promesso", disse la bambina, allungando la mano con il mignolo teso. Lorenzo la imitò e strinsero quella promessa guardandosi negli occhi.
Poi, senza dire più niente, si incamminarono verso casa, uno accanto all'altro, senza sapere che per entrambi il tempo di dondolarsi sugli alberi sarebbe finito molto presto.




Finalmente ho trovato il tempo, la voglia e lo spirito giusto per iniziare a pubblicare questa storia!

Sono mesi che l'ho iniziata, ma tra una cosa e l'altra, soprattutto con la maturità quest'anno, ho sempre rimandato questo momento. Ma ora ce l'ho fatta, ho sistemato gli ultimi dettagli ed ecco il primo capitolo della mia nuova storia.
Voglio avvisarvi subito che non sono proprio un'esperta in ginnastica artistica: quello che so, lo devo alle lezioni che ho preso quando ero piccola, alla mia adorata prof di ginnastica che ha creduto fin troppo in noi e l'ha messa nel programma e, soprattutto, a Ginnaste Vite Parallele (ebbene sì, ho perso un sacco di pomeriggi a guardare quel programma. Una cosa molto triste, ora che ci ripenso). Quindi, come al solito, se dico castronerie non esistate a correggermi e lo stesso vale per errori vari ed eventuali.

Pubblicherò presto il primo capitolo, anche perché questo prologo è davvero corto e poi ci sarà una scadenza settimanale, scuola permettendo.

Ah, mi piacerebbe avere un banner anche per questa storia, ma quando ho chiesto sul forum di EFP nessuna mi ha cagata perché evidentemente non sono abbastanza VIP per loro, quindi chiedo a voi, che siete umili mortali come me. QUALCHE ANIMA PIA, BRAVA CON I PROGRAMMI CHE NON SIANO PAINT (ovvero il massimo che io so usare) POTREBBE CREARMI UNA COPERTINA PER QUESTA STORIA?
Aspetto vostre notizie in massa

a presto

mikchan

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Capitolo 2
*** 1-L'inizio dopo la fine ***


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Grazie di cuore a Witchligh per la bellissima copertina!

1- L'INIZIO DOPO LA FINE



"Io vado".
Mi infilai velocemente le scarpe, sistemandomi poi la tracolla sulla spalla. Non feci un tempo a fare un passo verso la porta che mia madre comparve dalla cucina.
"Mi raccomando", disse sorridendo emozionata.
Alzai gli occhi al cielo. "Mamma, non vado in guerra", risposi scherzando.
"Lo so, però...".
"Va tutto bene, mamma. È solo il primo giorno di scuola".
"Lo so", ripeté mentre il labbro inferiore le tremava e gli occhi le si inumidivano. "Era da tanto che non ti vedevo così bella".
Il sorriso mi morì sulle labbra, capendo all'istante cosa volesse dire. "Sono come sempre", ribattei.
Lei prese un respiro profondo, cercando di trattenere le lacrime. "Lo dai un abbraccio alla tua mamma prima di andare?".
Non potei fare a meno di sorridere e annuire, avvicinandomi e lasciandomi stringere dalle sue braccia calde e profumate. Solo lì mi sentivo a casa e al sicuro, coccolata da quell'aroma che mi aveva accompagnata per tutta la vita e che mi tranquillizzava ogni volta. Mia madre era un po' svampita, decisamente emotiva e a volte rompiscatole, ma sapeva meglio di me quando avevo bisogno di uno dei suoi abbracci, così come quel giorno.
Potevo capirla, in fondo. Era dalle medie che non avevo un vero e proprio "primo giorno di scuola". Negli ultimi anni avevo sempre studiato da privatista e tornare in mezzo agli altri ragazzi, frequentare le lezioni, studiare, fare i compiti era qualcosa che, forse, scoinvolgeva più lei che me stessa. Io, in fondo, me ne ero fatta una ragione, ma sapevo che mia madre stava ancora soffrendo per quello che era successo la primavera prima e faceva sempre fatica ad accettare novità così grosse.
Ma, in fondo, era per quello che le volevo così bene.
Mi staccai dall'abbraccio, dandole un bacio sulla guancia. "Ci vediamo pomeriggio", le dissi con un sorriso.
Lei annuì, accarezzandomi i capelli. "Fai a vedere a tutti quanto vali, Chiara".
"Come sempre", affermai sicura, uscendo poi di casa dopo averla salutata con un gesto.
Fuori dalla porta mi fermai un attimo per prendere un grosso respiro.
Alzai gli occhi verso il cielo di inizio settembre, leggermente illuminato dal primo sole che stava sorgendo.
In quel momento iniziava una nuova parte della mia vita e dovevo farmene una ragione. Sarebbe stato difficile, avrei sofferto, ma non avrei mollato. E se un giorno avessi perso la speranza, mi sarei ricordata di mia madre, quella donna stupenda che aveva sempre assecondato ogni mia passione e che mi aveva supportato fino alla fine, forse anche oltre.
Sorrisi di nuovo e uscii dal vialetto di casa, chiudendomi il cancelletto alle spalle. Mi incamminai verso la fermata dell'autobus che distava meno di cinque minuti di cammino.
Cercai di non fare vagare i pensieri e mi concentrai su quello che mi trovavo davanti. Nonostante abitassi in un piccolo paesino e nonostante fossero appena le sette del mattino, le strade erano più trafficate di quanto mi aspettassi e, lungo la via, incontrai anche altri ragazzi che conoscevo solo di vista. In fondo, non avevo mai interagito molto con loro, non tanto perché fossi timida, ma perché negli ultimi cinque anni avevo passato praticamente tutta la mia vita in palestra.
Passai di fianco al parchetto dove andavo sempre da bambina e, d'istinto, lanciai un'occhiata al grosso albero sul quale avevo imparato a fare le capovolte. Avevo tanti ricordi legati a quel posto e troppi, purtroppo, erano qualcosa che ormai non possedevo più.
Scossi la testa per scacciare quei pensieri. Non potevo farmi contagiare dalla tristezza di prima mattina, soprattutto in una giornata così speciale.
In pochi minuti arrivai alla fermata e, preso il biglietto dal portafoglio, mi guardai intorno, incontrando lo sguardo curioso di alcune ragazze. Abbozzai un sorriso di saluto nella loro direzione, ma non dissi nulla. Sapevo benissimo cosa stavano pensando e, dopotutto, quello era il brutto di abitare in un piccolo paese. Tutti sapevano del mio incidente e, soprattutto, tutti sapevano della mia passione. Non me ne ero mai curata molto, ma sentire gli sguardi della gente addosso era davvero fastidioso. L'ultima cosa che volevo era essere compatita ed era esattamente ciò che quelle due ragazze stavano facendo.
"Ehi Chiara!". Mi voltai di scatto e sorrisi.
Greta era l'unica ragazza del mio paese con la quale avevo mantenuto un buon rapporto. L'avevo conosciuta in prima media e, nonostante l'anno dopo avessi lasciato la scuola, avevamo continuato a tenerci in contatto e potevo benissimo considerarla la mia migliore amica.
"Ciao", la salutai.
"Come va? Sei nervosa? Immagino di sì, in fondo non conosci nessuno a parte me".
Trattenni a stento una risata di fronte alla sua solita parlantina. Quello era un tratto caratteristico di Greta e adoravo la sua schiettezza, anche se a volte rasentava addirittura la maleducazione. Ma lei era fatta così: sincera fino al midollo, sempre, ed era l'unica che mi diceva le cose in faccia senza paura di offendermi. Quell'estate era stata proprio la sua presenza che mi aveva aiutata a risollevarmi e per quello le ero estremamente grata.
"Sono un po' nervosa, ma se non mi abbandoni andrà tutto bene".
"Tranquilla", disse lei facendomi l'occhiolino. "Ti starò attaccata come una sanguisuga".
Risi, mentre vedevo il pulman girare la curva e avvicinarsi a noi. Salimmo e seguii Greta verso il fondo. Si sedette accanto a due ragazzi, nei posti a quattro, e mi fece segno di imitarla.
"Ragazzi, lei è Chiara. Chiara, loro sono Filippo ed Elisa. Sono in classe con noi".
Li salutai con un sorriso, appoggiandomi la tracolla sulle gambe. Il pullman era piuttosto affollato e c'erano parecchie persone in piedi, quindi ringraziai mentalmente gli amici di Greta per aver lasciato liberi quei due posti.
"Hai sentito Lorenzo quest'estate?", chiese Elisa a Greta mentre il mezzo ripartiva. Lorenzo era il ragazzo di Greta, quello con cui faceva tira e molla da più di due anni e che io non avevo mai incontrato.
La mia amica annuì. "Sì, ma diciamo che avevo di meglio da fare", rispose, lanciandomi un'occhiata complice e un mezzo sorriso. Mi sentii un po' in colpa per quelle parole: Greta aveva passato l'estate con me e aveva trascurato il suo ragazzo per non farmi sentire sola.
"Tornerete di nuovo insieme?".
Greta fece spallucce. "Probabilmente", disse solo.
"Ma ti piace?", le chiesi io d'impulso. Nonostante la sua parlantina, Greta era molto riservata quando si trattava della sua vita privata e non mi aveva mi parlato molto della sua relazione con Lorenzo e quindi sapevo poco, sicuramente di meno di Elisa, che mi guardò sorpresa.
"Se le piace?" esclamò. "Dio, è completamente cotta".
Ridacchiai, mentre Greta arrossiva. "Non sono cotta di nessuno, io".
"Certo, certo", la zittì l'amica. "Però ogni volta che lo vedi gli fai gli occhi dolci come un pesce lesso".
"Non è vero", ribatté. "Chiara non crederle. Io non sono un pesce lesso".
"Oh, invece sì", continuò Elisa, facendomi l'occhiolino. "Lo vedrai tu stessa quando lo conoscerai".
Greta borbottò qualcosa, imbarazzata, mentre io ed Elisa ridevamo delle sue espressioni.
La mezz'ora di viaggio passò in fretta e, quando scesi dal pullman che si era fermato davanti al piazzale della scuola, mi trovai a pensare che non era stato per niente difficile fare amicizia e sperai che fosse così anche per il resto della classe.
Filippo ci salutò con uno sbadiglio e si incamminò a passo dondolante verso l'istituto; Greta ed Elisa, invece, si fermarono poco davanti il cancello e si accesero una sigaretta. Come ogni volta, lanciai un'occhiataccia alla mia amica, che si limitò ad abbozzare un sorriso. Certo, quella era una scelta sua e io forse ero troppo fissata su quelle cose, ma non mi piaceva proprio vederla fumare.
In ogni caso non dissi nulla, limitandomi a seguire il discorso delle due su qualche professore che non vedevano l'ora di incontrare. Ironicamente, presumevo.
Appena entrammo nell'istituto mi fermai davanti all'ingresso, sorpresa. La quantità di persone che vagavano nei corridoi era immensa, chi con aria assonnata e un caffé in mano, chi già pieno di energie, ma tutti sembravano piuttosto contenti di trovarsi lì, se non tanto per la scuola in se, proprio per le persone che avevano incontrato di nuovo dopo tre mesi.
Elisa e Greta andarono a controllare il numero della classe per quell'anno e, tornate da me, mi fecero fare l'intero giro della scuola prima di raggiungerla. Ovviamente ci avrei messo un po' ad ambientarmi, ma almeno avevo scoperto dov'erano i bagni, la segreteria e altri posti essenziali.
Quando arrivammo alla classe successe l'inevitabile: tutti si voltarono a guardarmi, sorpresi, e arrossii. "Ciao", mormorai, stringendo le dita attorno alla spallina della tracolla.
"Ragazzi, lei è Chiara, la mia migliore amica". Mi sorrise rassicurante. "Chiara, loro sono Alice, Claudia, Caterina, Filippo che hai già conosciuto, Luca, un'altra Chiara...".
Dopo i primi nomi mi ero già persa e li avevo scordati subito tutti. Avevo davvero una pessima memoria e sapevo già che avrei impiegato parecchie settimane a ricordarmeli tutti.
"Ehi, aspetta!", mi richiamò una ragazza.
Mi voltai verso quella voce e mi immobilizzai sul posto. Conoscevo quello sguardo e quel tono e, forse, sarebbe stato peggio di quanto mi ero mai immaginata.
"Ti riconosco, tu sei Chiara Fumagalli, quella in Nazionale Italiana di ginnastica artistica".
Strinsi le labbra, percependo addosso gli occhi di tutti. Sì, era decisamente peggio del previsto.
Greta mi si avvicinò, dispiaciuta e mi abbracciò mentre io rimanevo lì, immobile, incapace di agire. Cosa avrei dovuto rispondere? Sì, sono io?
No, io non ero più in Nazionale. Quindi no, io non ero "Chiara Fumagalli, quella in Nazionale Italiana", io ero semplicemente Chiara e avrei dovuto imparare ad accettarlo. Però... però in fondo Chiara era anche la "Chiara Fumagalli, quella in Nazionale Italiana" o, almeno, lo ero stata e non c'era alcun bisogno di nasconderlo.
Per questo sciolsi l'abbraccio e annuii. "Sì, sono io".
Era l'inizio di una nuova vita e non mi sarei fatta sconfiggere di nuovo. 

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Capitolo 3
*** 2-Galeotta fu una macchinetta ***


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2- GALEOTTA FU UNA MACCHINETTA


Le ore di ginnastica erano quelle che più avevo sempre apprezzato di tutto l'orario scolastico.
Non capivo proprio come le mie coetanee potessero lamentarsi di quei sessanta minuti in cui ci si poteva alzare dalla sedia e sgranchirsi gambe e schiena. Io faticavo a stare seduta per sei ore al giorno e, nonostante la pessima decisione di buttarle subito all'inizio del lunedì mattina, quelle due ore erano l'unico svago che mi potessi permettere.
Entrare in una palestra dopo così tanti mesi era stato meno traumatico di quello che mi sarei aspettata. Di fianco al nervosismo e ad un pizzico di paura, c'era anche l'emozione che aveva caratterizzato ogni mio allenamento passato, e forse fu grazie a quello che non mi misi a piangere quando vidi i vari attrezzi appoggiati ai muri. Prendendola come una sfida con me stessa, lasciai vagare lo sguardo prima di entrare nello spogliatoio. Nel lato più lontano c'erano le pertiche e le corde, dove fin da bambina avevo allenato i muscoli delle braccia; in un angolo avevo visto le parallele, da sempre il mio attrezzo preferito e, vicino alle spalliere, nascosta da un tappetone azzurro, non avevo potuto non notare la trave alta. Dentro di me c'era un desiderio contrastante: da un lato ne ero spaventata, soprattutto se ripensavo al mio incidente, ma dall'altro agognavo potermi avvicinare e toccare la superfice dura e rigida, salirci sopra e sentire quel brivido dato dall'altezza e dal poco spazio di appoggio, ma anche dalla consapevolezza di dover essere padrona del mio corpo, se volevo eseguire un esercizio perfetto. Con un brivido pensai che quello era esattamente ciò che non era accaduto più di sette mesi prima: ero stata una sciocca, troppo presa dall'eccitazione e il mio futuro era stato deciso da un errore stupido, ma fatale.
Scossi la testa, raggiungendo le mie compagne all'interno dello spogliatoio e incontrando subito lo sguardo comprensivo di Greta, che mi sorrise. "Tutto bene?", mi chiese mentre si infilava una maglietta piuttosto larga e lunga.
Io annuii, sedendomi al suo fianco e sfilandomi la felpa dalle spalle. "Pensavo peggio", ammisi.
"Beh, alla fine è quello il tuo mondo", disse appoggiandomi una mano sulla spalla.
"Lo era", precisai, sfilandomi i jeans per poi cambiarmi con un paio di leggins e una canottiera.
Greta non commentò le mie parole, limitandosi a guardarmi triste e stringermi la mano mentre uscivamo dallo spogliatoio. In fondo, lei non sapeva che non erano del tutto vere e un po' mi dispiaceva aver tenuto quel segreto con tutti, anche con i miei genitori. Ma era troppo doloroso pensare a quell'alternativa e sapere che non avrei mai avuto il coraggio di metterla in pratica, quindi preferivo fare finta di nulla.
Seguii Greta in silenzio e mi sedetti per terra al suo fianco, mentre aspettavamo che tutti uscissero. Guardai per un attimo quella che sarebbe stata la mia insegnante: era una donna sulla cinquantina, con i capelli grigi e lo sguardo simpatico. Speravo che non mi chiedesse di esibirmi o robe simili, perché oltre che imbarazzante sarebbe stato un vero colpo al cuore. Ma ogni dubbio scomparve quando facemmo l'appello e, alla vista del mio nome, lei si limitò a lanciarmi un'occhiata curiosa, per poi tornare al registro.
"Allora, ragazzi", disse poi alzandosi e sorridendo. "Spero che quest'estate vi siate tenuti in forma perché iniziamo subito con il test d'ingresso: fuori a correre", esclamò tra le lamentele comuni.
Un po' spaesata da quelle novità, in fondo quella era solo la mia prima normale lezione di ginnastica dopo anni, seguii i miei compagni in cortile e non mi sorpresi quando la prof mi fermò per parlare.
"Avevo sentito che ti eri iscritta al nostro istituto", disse sorridendomi gentile mentre cammiavamo. "Ma non avevo realizzato che saresti stata nella mia classe", ammise divertita. "Sono contenta di conoscerti".
Io abbassai lo sguardo, imbarazzata. "Sì, beh, non sono niente di che", borbottai.
"Tranquilla, non avrai favoritismi", disse facendomi l'occhiolino. "A proposito, sei sicura di poter fare tutto o hai qualche esonero particolare. Sai, ho sentito del tuo inci...".
"Nessun esonero", la interruppi. "Per quel che serve, il mio ginocchio sta bene", le spiegai. "Quindi posso fare tutto".
In realtà quella era una piccola bugia, perché la mia riabilitazione non era ancora finita e, se lo sforzavo troppo, il ginocchio finiva per farmi male, ma io ero una dannata testarda e non volevo davvero nessun favoritismo. Non ero speciale, in nessun modo, non perché ero stata in Nazionale Italiana e neppure perché ora non ci ero più. Volevo solo essere trattata come qualunque altra studentessa ed ero contenta che almeno l'insegnante di ginnastica lo avesse capito.
Quel giorno facemmo un breve allenamento per il test d'ingresso dei millecinquecento metri e poi rientrammo in palestra, dove ci aspettò l'allenamento anche per l'agilità e la forza.
Insomma, nonostante fossi abituata a sforzi ben peggiori, alla fine di quelle due ore ero senza fiato e sudatissima e mi resi conto di come il blocco improvviso di ogni attività fisica mi avesse resa tremendamente pigra. Mentre mi cambiavo, decisi che sarei andata a correre ogni giorno, per non vanificare gli sforzi di tutti quegli anni.
"Sapete cosa faremo durante l'anno?", stava chiedendo Anna, una delle mie compagne, mentre tornavamo in classe.
"La solita roba", rispose Emma sbuffando. "Pallavolo, forse basket, ginnastica artistica come l'anno scorso e atletica".
"No!", commentarono alcune. "Di nuovo ginnastica artistica. Ma io sono negata!".
Io, invece, mi ritrovai a guardare confusa Greta, che si limitò a scrollare le spalle. "Non chiedermi nulla. Per qualche strano motivo i prof credono in noi più di quanto non facciamo noi stessi e hanno deciso di inserire la ginnastica artistica come sport, per cambiare".
"Ah", mi limitai a rispondere. Quella davvero non me la sarei mai aspettata e per un attimo mi chiesi se il destino ce l'avesse con me: che senso aveva farmi abbandonare il mio sport, se poi dovevo replicarlo anche a scuola? Non sapevo come avrei reagito quando sarebbe arrivato il momento e ne ero un po' spaventata, ma decisi di non angustiarmi con quei pensieri: avrei affrontato giorno per giorno quello che sarebbe successo, come mi ero ripromessa. Era l'unico modo per tirare avanti.
"Vado a comprarmi una bottiglietta d'acqua", dissi rivolta a Greta quando entrammo in classe.
"Ti ricordi la strada?", mi chiese divertita.
"Ho una buona memoria", la rassicurai. Era passata una settimana dall'inizio della scuola ma avevo imparato in fretta ad orientarmi, anche se dovevo ammettere che, a volte, rimanevo disorientata davanti all'immensità di persone che riempivano i corridoi all'intervallo.
Pescai cinquanta centesimi dal portafoglio e mi diressi verso la macchinetta, che fortunatamente era vuota. Infilai la moneta e digitai il numero dell'acqua, aspettando pazientemente che la molla ruotasse. Notai distrattamente qualcuno alle mie spalle, ma la mia attenzione fu catturata dall'inquietante lucina rossa che si accese quando la bottiglia si incastrò, in qualche strano modo, tra il vetro e la molla.
"Ehi, dai", esclamai nervosa, schiaciando di nuovo il numero ma sbuffando quando quell'aggeggio infernale mi avvisò che non c'era credito.
"Vuoi una mano?", mi chiese il ragazzo dietro di me.
"Si è bloccata", borbottai indicando la bottiglietta.
"Lo fa sempre quel numero", disse lui sorridendo e avvicinando al fianco della macchinetta. Mi guardò un attimo e poi le tirò una spallata. "È scesa?", mi chiese.
Scossi la testa. "Non c'è bisogno che ti faccia male, ne posso comprare un'altra", mi affrettai a dire.
Lui ridacchiò. "Normale amministrazione", borborrò prima di tirare un'altra spallata, così potente da alzare da un lato la macchinetta. L'acqua si sbilanciò e finalmente scese, atterrando con un tonfo.
"Grazie", gli dissi prendendola.
"Di nulla", rispose con un sorriso. "Ricordati di non prendere più nulla da quel numero, però", aggiunse.
Io annuii, chiedendomi poi cosa si dovesse fare in quelle occasioni. Ero davvero una frana nelle relazioni sociali.
"Io sono Carlo", disse divertito, infilando una monetina nella macchinetta e schiacciando due numeri.
"Chiara", risposi osservandolo. Era un ragazzo carino, decisamente normale. Era abbastanza alto, con i capelli piuttosto lunghi e ricci, di un castano chiaro e gli occhi più scuri che avessi mai visto. Sembravano liquirizia.
"Sei nuova?", mi chiese mentre prendeva il suo Kinder Bueno.
"Sì", mi limitai a rispondere.
Lui annuì, sempre sorridendo. "In che classe sei?", continuò mentre apriva la merendina.
"Quarta C", dissi, chiedendomi perché non me ne fossi ancora tornata in classe. Forse erano i suoi occhi.
"Aula ventitre? Fantastico, io sono nella venti", esclamò. "Possiamo fare la strada insieme", aggiunse come se fosse la cosa migliore che gli fosse capitata quel giorno.
Io non sapevo davvero cosa rispondere e mi limitai, di nuovo, a sorridere incerta. Come ci si comportava in quelle situazioni? Cosa dovevo fare? Cosa dovevo dire?
Carlo iniziò a camminare e lo seguii, sempre in silenzio. Di sicuro stava pensando che ero un po' strana, chiusa nel mio mutismo e l'ultima cosa che volevo era offendere qualcuno, ma davvero non avevo idea di come relazionarmi con lui. Mi stavo comportando come una bambina, accidenti!
"Guarda che non ti mangio mica", disse lui all'improvviso.
Io arrossii, accorgendomi di stargli alle spalle di un paio di passi con le braccia intorno al petto. "Io... io, mi dispiace", ammisi, rendendomi conto di quanto sembrassi ridicola. Insomma, avevo diciassette anni suonati e mi imbarazzavo a parlare con un ragazzo! Che fine aveva fatto la Chiara che non aveva paura a salire su una parallela o che cercava sempre di fare il volteggio più alto possibile? Presi un respiro profondo, abbozzando un'altro sorriso. "Rincominciamo dall'inizio, ti va?", proposi.
Lui rise, annuendo. "Io sono Carlo", disse allungando la mano verso di me.
"Chiara", risposi stringendola con la mia e sentendo un brivido risalirmi la schiena.
"Vuoi un pezzo?", mi offrì.
"Certo", dissi, cercando di apparire più normale possibile. Insomma, stavamo solo parlando!
"Allora, Chiara della Quarta C a cui piace il Kinder Bueno, mi dai il tuo numero di telefono?".
Quasi mi soffocai con il pezzo di cioccolato che avevo in bocca ma non potei fare a meno di scoppiare a ridere davanti alla sua faccia da ragazzino biricchino. Senza una reale motivazione logica, mi ritrovai ad annuire. "Perché no?", risposi.
Lui allargò quel sorriso perenne che aveva in volto e tirò fuori il telefono dalla tasca. Gli dettai il mio numero e aspettai che mi facesse uno squillo per salvare il suo.
"Ci si vede in giro", mi salutò quando arrivammo alla sua classe.
"Magari all'intervallo", dissi io.
"Magari", rispose sorridendomi un'ultima volta ed entrando.
Io rimasi qualche secondo a fissare la porta e a chiedermi cosa mi stesse succedendo. Prima mi comportavo da ragazzina timida, poi accettavo il suo numero di telefono senza sapere nulla più che il suo nome. Era un comportamento assurdo, lo sapevo e mi stupivo della mia stessa idiozia.
Ritornai il classe velocemente e mi scusai con il prof di scienze che era già dentro, affrettandomi a sedermi accanto a Greta, che mi guardava sospettosa.
"Che c'è?", borbottai prendendo il libro dallo zaino.
"Sei tutta rossa", disse solo, alzando un sopracciglio.
"Abbiamo appena fatto ginnastica", provai a giustificarmi, capendo dal suo sguardo che non mi credeva. Sbuffando, mi lasciai scappare un sorriso. "Ho conosciuto un ragazzo", risposi a bassa voce. "Chi?", esclamò lei, forse a voce un po' troppo alta perché l'insegnante le lanciò un'occhiataccia.
"Si chiama Carlo ed è nell'aula numero venti".
Lei mi guardò delusa. "Un po' poco", borbottò.
"Beh, io...", la vibrazione del telefono nella tasca dei jeans interruppe la mia frase e, stando attenta a non farmi vedere, lo misi dietro l'astuccio, accorgendomi subito di un nuovo messaggio su Whatsapp. Sbloccai il telefono e mi sfuggì un sorriso quando riconobbi la foto della chat.
"Lui", dissi a Greta, mostrandole il telefono.
Lei annuì. "Ho capito chi è. È in Quinta A, scientifico, bocciato in seconda".
"Conosci tutta la scuola?", le chiesi divertita, rispondedo intanto al saluto di Carlo.
Lei alzò le spalle. "Di vista. E poi a Emma piace spettegolare. Lei sa davvero tutto di tutti".
Scossi la testa, incredula.
"Cosa ti dice?", mi chiese curiosa.
"Non ha ancora risposto. Ora stai attenta", le dissi dandole una gomitata.
Lei ridacchiò. "Come sei noiosa", borbottò aprendo il libro alla pagina giusta.
Io la imitai, fingendo di ascoltare fino a quando il telefono non si illuminò e sorrisi.
Parlai con Carlo tutta l'ora e anche per le tre successive. All'intervallo non ci incontrammo, anche perché c'era davvero troppa gente in giro per i corridoi, ma lo vidi all'uscita e mi salutò da lontano mentre parlava con i suoi amici.
Non sapevo cosa sarebbe successo o se sarebbe successo qualcosa, e in fondo non sarebbe servito a nulla fare previsioni sul futuro. Ma Carlo mi piaceva: era simpatico e solare e anche se solo attraverso i messaggi sembrava davvero un bravo ragazzo. Ma la cosa più importante, era che in quelle ore in cui avevo parlato con lui, non avevo pensato alla ginnastica o al mio incidente nemmeno una volta ed era una cosa che non mi era mai successa.
Mentre tornavo a casa in pullman rilessi i messaggi che mi aveva inviato e non riuscii a non sorridere, pensando che dovevo ringraziare una macchinetta difettosa e una bottiglietta d'acqua per quell'improvvisa felicità.



E finalmente riesco a postare il secondo capitolo.
È stata una settimana infernale e me ne aspettano altre due prima della fine della scuola, quindi non prometto niente sulla mia regolarità.
Insomma, con questo capitolo si inizziano a tracciare i fili della storia. Credo si sia capito ormai come è fatta Chiara: è una persona orgogliosa e testarda, ma al contempo molto sensibile, anche se non lo vuole mostrare. L'incontro con Carlo è stato molto da film, ne sono consapevole, ma spero che un po' vi sia piaciuto, come spero che vi affezionerete come me a questo personaggio. Non dimenticate Lorenzo, però, che tornerà, prima o poi!
Ne approfitto per ringraziare Witchligt e Amahy per le loro recensioni e tutti quelli che hanno iniziato a seguirmi.
A presto (scuola e tesina permettendo, aggiungerei)
Mikchan

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Capitolo 4
*** 3-Nel mezzo di due vite ***


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3- NEL MEZZO DI DUE VITE



Parlare con Carlo era diventata una routine.
Una tenera e pericolosa routine. Tenera perché Carlo era una persona fantastica: sempre allegro ed esuberante, con la battuta pronta sulla punta della lingua ogni volta che ci punzecchiavamo come due ragazzini. Mi faceva sentire bene la sua presenza, anche se la maggior parte delle volte era solo virtuale. Carlo rappresentava il mio nuovo mondo, così come Greta e Vera, la mia migliore amica della palesta, rappresentavano quello vecchio, e mi serviva sapere che, dopotutto, questa vita in cui ero stata catapultata non era così male. Tuttavia era anche pericolosa, soprattutto per due motivi: il primo, forse un po' stupido, era che quando messaggiavamo a scuola dovevamo stare attenti a non farci beccare con i telefoni, rischio che avevo già corso più di una volta; il secondo era che temevo di affezionarmi troppo e troppo in fretta. Forse, anzi probabilmente, era tutto solo nella mia mente, ma ero convinta che se fossi stata troppo precipitosa e troppo assillante, presto Carlo si sarebbe stancato di me e perdere il mio contatto diretto con la realtà, quel contatto che mi faceva sentire così viva e nuova, non avrebbe di certo giovato alla mia salute mentale.
Se mi piaceva Carlo?
Beh, mi ero posta questa domanda svariate volte nell'ultimo mese, ma non sapevo giungere a una risposta. Insomma, quanto tempo doveva passare per capire che l'amicizia si era trasformata? E cosa si provava quando ciò succedeva? Come potevo capirlo? Ma, soprattutto, perché continuavo a tormentarmi di domande? Tutto ciò mi vorticava nella mente come un uragano, mentre ripensavo alla risata contagiosa di Carlo, alle sue barzellette stupide, alla sua gentilezza, ma anche alla sua permalosità e alla sua testardaggine. Nel poco tempo che l'avevo conosciuto avevo imparato ad apprezzarlo, ma non sapevo se questo significava che ne ero innamorata. Forse il semplice fatto che continuassi a chiedermelo corrispondeva a un sì, o almeno Greta era di questo parere.
Ecco, parlarne a Greta non era stata esattamente un'idea geniale. Ad essere sinceri non avevo dovuto dire molto, le era bastato rubarmi il telefono dall'astuccio durante la mia interrogazione di storia e curiosare tra i messaggi per capire che la mia qualsiasi-cosa-fosse con Carlo stava andando più che bene. Lei era convinta che io mi fossi presa una poderosa cotta e aveva fatto comunella con Vera, un pomeriggio a casa mia, nel convincermi che anche a Carlo non ero indifferente.
Alla fine, stanca dei loro consigli non richiesti e del mio cervello confuso, avevo deciso che era decisamente troppo presto per decidere. Insomma, ci conoscevamo da appena un paio di mesi e già le mie due comare stavano organizzando il nostro matrimonio e il battesimo dei figli!
Alla fine, però, ero sicura che Carlo fosse un grande amico, e lo dimostrava il fatto che, in quel momento, ci trovavamo nella mia cucina intenti a capire qualcosa sulla pressione per recuperare il mio primo votaccio di fisica. Non era stato molto inaspettato, in effetti, considerato che avevo davvero faticato a capirci qualcosa, mentre la prof spiegava. Ma avevo voluto provare a cavarmela da sola e mi ero ritrovata a piagnucolare davanti alla mia prima vera grave insufficienza. Carlo, mosso da compassione, prima aveva riso della mia disgrazia e poi si era offerto di aiutarmi per la prossima verifica che sarebbe stata sul calore e qualcosa che c'entrava con i liquidi e il volume (sì, lo spazio nel mio cervello non era molto ampio), vantandosi della sua testa da scienziato.
Quindi ecco come ero arrivata a quel punto, mentre sbattevo confusa la testa sul tavolo e pasticciavo con la matita l'esercizio che non voleva uscirmi.
"Frena la tua mania suicida", mi prese in giro, sfilandomi la penna dalle mani e il foglio da sotto il naso.
L'obiettivo era riuscire a risolvere qualcosa da sola, dopo essere riuscita a infilare qualche regola in testa, ma continuavo a mischiare le formule e i concetti e, in qualche strano modo, ero riuscita a far dilatare un solido abbassandone la temperatura. Avrebbero dovuto darmi un nobel per la fantasia, comunque.
"Guarda qui", mi riprese colpendomi con la matita sulla testa e richiamando la mia attenzione. "Hai aggiunto un meno dove non ci andava e hai usato la formula della dilatazione dei liquidi invece che quella volumica".
"Ma sono uguali", mugugnai.
"No, invece. I gas si dilatano tutti allo stesso modo, quindi la costante è 3
L(*), mentre per i liquidi il coefficiente a cambia a seconda del materiale. Quindi le formule sono di conseguenza diversa. A te cosa serve, qui?".
"Ehm, quella volumica?", dissi, ripetendo le sue parole di poco prima.
"Ovvero?".
"Ehm", borbottai di nuovo, stringendo gli occhi come se potessero darmi un'informazione in più. Rinvangai nel mio cervello, poi sospirai. "Volume finale", iniziai, guardandolo annuire. "uguale a 3
L per volume iniziale per temperatura(**)", concusi, fissandolo speranzosa.
"Più?", disse lui, invitandomi a continuare.
"C'è un più?", esclamai.
Carlo sospirò. "Okay, ripartiamo dall'inizio".
"No, ti prego, basta!", esalai congiungendo le mani e pregandolo di risparmiarmi.
"Non puoi andare avanti se non sai cosa c'è prima", mi ripeté per almeno la millesima volta da quando avevamo iniziato.
"Lo so, ho capito", dissi sbuffando. "Ma ti propongo solo una pausa. Ci rilassiamo un attimo e poi continuiamo".
Lui sorrise, scuotendo la testa. "Se speri di tentarmi con del cibo...".
"Tu che ne sai che voglio tentarti con del cibo?", ribattei.
Carlo alzò un sopracciglio. "Vuoi tentarmi con qualcos'altro?" disse malizioso.
Lo guardai confusa, per poi spalancare gli occhi quando mi resi conto di quello che avevo detto. Arrossii e mi alzai in piedi. "E cibo sia", mugugnai sentendolo ridere.
"Cosa mi offri?", mi chiese alzandosi e raggiungendomi davanti alla dispensa.
Quelle parole nascondevano molti più significati di quelli che volevo scoprire e cercai di limitarmi a quelli culinari. "Nutella?", proposi prendendo il barattolino aperto.
"Questa sì che è una tentazione", disse felice, rubandomi il barattolo dalle mani.
Io scoppiai a ridere davanti alla sua faccia da bambino esaltato e scossi la testa, mentre prendevo due fette di pane e un cucchiaino.
"Dopo di te", dissi una volta arrivata al tavolo, porgendogli il cucchiaio e il pane.
Lui iniziò a spalmarsi una generosa quantità di Nutella mentre borbottava qualcosa sulla genialità dell'individuo che aveva inventato tale angelico cibo.
Mentre mangiavamo la nostra meritatissima merenda iniziò a squillarmi il telefono e iniziai a frugare sotto i fogli sparsi sul tavolo, cercando di mantenere in equilibrio sulle dita la fetta di pane. Ovviamente non fui molto fortunata, perché appena trovai il telefono e risposi alla chiamata, il pane mi cadde dalla mano, finendo inesorabilmente a faccia in giù.
"Merda", borbottai sottovoce, recuperandolo in fretta e osservando rattristata tutta la Nutella sul tavolo.
"Ehi, Chiara?", mi sentii chiamare.
Riavvicinai il telefono all'orecchio mentre Carlo scoppiava a ridere. "Sì?", mormorai.
"Ho una notizia grandiosa", esclamò la voce dall'altra parte, che riconobbi come quella di Greta.
"Ovvero?", chiesi, pensando che nessuna grandiosa notizia poteva riportare in vita la mia amata Nutella.
"Sabato sera sei mia perché devi conoscere Lorenzo".
"Ah, il famoso Lorenzo", dissi improvvisamente curiosa. "Finalmente si fa vedere".
"Sì", esclamò lei felice. "È tornato ieri dalla vacanza studio in Inghilterra e ha detto che vuole conoscerti anche lui".
"Mica non stavate insieme?", la presi in giro, ridacchiando.
"Beh, quello era il passato. Ora è qui con me. Ci vuoi parlare?", mi chiese esaltata.
Non feci in tempo a rispondere che la sentii urare il suo nome dall'altro capo della cornetta. Mentre aspettavo che il fantomatico Lorenzo arrivasse lanciai un'occhiata di scuse a Carlo, che scosse la testa, affondando il cucchiaino nel barattolo ed estraendo un'enorme quantità di Nutella, che poi si infilò in bocca tutto insieme, guardandomi soddisfatto.
Ridacchiai, mentre sentivo un borbottio strano nel telefono e poi la voce di un ragazzo che mi salutava.
"Ora so che non sei un'invenzione di Greta", dissi dopo aver ricambiato il saluto.
La mia amica borbottò un
"Ehi!" offeso e Lorenzo scoppiò a ridere. "Sono vero, tranquilla. Ma devo dire che anche io avevo iniziato a credere che fossi un'invenzione. Greta mi ha parlato molto di te".
"Allora è stata molto ripetitiva perché non c'è nulla da dire".
"Forse", disse telegrafico, facendomi alzare un sopracciglio. "Allora ci vediamo sabato, famosa Chiara".
"Certo, a sabato, famoso Lorenzo".
Salutai velocemente anche Greta e chiusi la chiamata, abbozzando un sorriso. Finalmente avrei conosciuto l'eterno ragazzo della mia migliore amica, colui che aveva sempre nominato, ma che non mi aveva mai presentato.
"Scusa", dissi a Carlo, appoggiando il telefono sul tavolo. "Greta è sempre molto puntuale nel disturbare".
Lui ridacchiò. "Tranquilla, ero in buona compagnia", disse mostrandomi il barattolo di Nutella e il cucchiaino.
"Non finirmela", lo sgridai, rubandogli il barattolo dalle mani e chiudendolo velocemente.
"Cos'è tutta questa fretta di tornare alla fisica?", mi chiese divertito mentre mettevo a posto i rimasugli della nostra merenda.
"Hai capito proprio male, mio caro. In realtà stavo per chiederti di finirla qua. Non ne posso già più", dissi tornando a sedermi al suo fianco.
"Oh, no! Non ti permetto di arrenderti così. Imparerai quelle formule, a costo di legarti alla sedia".
Alzai un sopracciglio, divertita. "Non la stai prendendo un po' troppo sul personale?", ridacchiai.
"Forse", rispose alzando le spalle. "E comunque non sei davvero capace di sviare il discorso. Ora mettiamoci all'opera".
Finimmo di studiare quasi due ore dopo, quando mia madre tornò dal lavoro e ci trovò intenti a risolvere un esercizio. Carlo se ne andò poco dopo, salutandomi con un bacio sulla guancia e lo guardai allontanarsi a bordo della sua macchina dalla finestra del soggiorno con un sorriso idiota stampato sulle labbra.
"Un amico?", mi chiese mia madre maliziosa.
"Mi ha aiutato con fisica", dissi semplicemente, sviando sulla questione delle definizioni.
"È stato molto carino", continuò lei, seguendomi mentre tornavo in cucina per prendere un bicchiere d'acqua. "Ed è molto carino", aggiunse.
"Mamma!", la ripresi con un'occhiataccia.
Lei scoppiò a ridere. "Che c'è di male?", esclamò.
"Niente, ma sarebbe carino", dissi, sottolineando l'ultima parola. "Se evitassi di farti viaggi mentali eccessivamente costosi".
"Chi si fa viaggi mentali?", chiese una voce dal soggiorno.
Alzai gli occhi al cielo. Fantastico, con mio padre come alleato mia madre avrebbe dato il meglio di sé.
"Oh, Riccardo", pigolò raggiungendolo con un sorriso a trentadue denti. "La nostra bambina è innamorata".
"Mamma", esclamai di nuovo, arrossendo.
"Chi è innamorata?", chiese invece papà, alzando un sopracciglio. "No, aspetta. Cosa vuol dire che è innamorata?".
"Non fare il papà geloso, ora", borbottai incrociando le braccia al petto. "E non sono innamorata!".
"Chi è?", ribatté invece lui.
"Non è nessuno perché non sono innamorata", ripetei al limite dell'imbarazzo. Mai mi sarei immaginata di affrontare una discussione simile, figurarsi con mio padre, che mi aveva sempre vista come la sua bambolina da proteggere da tutto e tutti.
"Ah, sì?", mi sfidò la mamma, mettendosi in posa da combattimento, con le mani sui fianchi e lo sguardo tagliente. "E chi era quel ragazzo molto carino che era in casa nostra poco prima?".
"Smettila con questo interrogatorio", sbottai. "Era un amico, che mi ha aiutata a studiare fisica. Punto".
"Cosa significa che era in casa nostra?", mormorò invece papà, sempre più confuso.
Sospirai. "Lascia stare le fantasie della mamma, ti prego".
"Maria non è che stai esagerando?", le chiese guardandola stranito, mentre finalmente si sfilava la giacca e la appoggiava sul divano.
"Che guastafeste che siete", borbottò lei. "Sono solo felice".
Ridacchiai, scuotendo la testa. Adoravo mia madre anche per quello. Era un'impicciona di prima categoria, ma era sempre molto, a volte troppo, interessata alla mia vita e voleva essere messa a corrente di ogni mia scelta, non per controllarmi, ma per gioirne o piangerne al mio fianco. E anche se quella volta aveva decisamente preso un'abbaglio, ero contenta di vederla così allegra dopo tutti quei mesi di lacrime e sofferenza. Il mio incidente aveva messo a dura prova la mia famiglia e i miei genitori avevano rischiato di separarsi davvero per sempre, ma fortunatamente tutto si era sistemato per il meglio e se per avere tutto ciò dovevo sopportare un poco la sua pazzia, allora l'avrei fatto ben volentieri cento e mille volte.
"Non farti mille storie, mamma", le ripetei, questa volta con il sorriso sulle labbra. "Io e Carlo siamo amici, davvero".
"Solo amici?", insistette lei.
E non seppi mentire davanti ai suoi occhi. "Non lo so", ammisi. "Ma vorrei scoprirlo".
Lei mi interruppe con un gridolino di gioia e corse ad abbracciarmi. Mentre la stringevo vidi papà sorridere e sospirare.
"Ora che abbiamo finito di ficcare il naso nella mia vita, che ne dici di preparare la cena?", le dissi sciogliendo l'abbraccio.
"Certo!", esclamò. "Stasera spaghetti con il mio sugo speciale, i tuoi preferiti".
"Perfetto, allora vado a farmi una doccia intanto", la avvisai mentre saltellava allegra in cucina.
Scambiai un'occhiata complice con mio padre e poi salii le scale e mi chiusi in camera.
Decisamente non ero pronta per affrontare un argomento simile con mia madre, ma in fondo ero contenta di averle rivelato che, forse, mi stavo prendendo una cotta per il mio insegnante di fisica preferito.
Insegnante di fisica che mi aveva scritto due messaggi quasi dieci minuti prima, che lessi con il sorriso sulle labbra.
"Mi sono divertito molto oggi.
L'ultima domenica di novembre ti va di venire a vedere la mia partita di calcetto? Giochiamo in casa, quindi non devi nemmeno trovare paesi improponibili. Fammi sapere".
Era un appuntamento, quello? No, decisamente no. Ci sarebbero stati i suoi amici e avrei di sicuro chiesto a Greta o a Vera di accompagnarmi. Ma ero contenta che mi avesse invitato, anche solo per guardare una partita di calcio tra ragazzi.
"Vengo di certo", risposi subito. "E anche io mi sono divertita molto oggi, nonostante la fisica".
Attesi impaziente che accanto ai miei messaggi apparisse il simbolo della visualizzazione e continuai così per tutta sera. Mi dimenticai addirittura della doccia, ma parlare con Carlo mi portava sempre su un'altro universo.
Tornai alla realtà solo quando dopo cena diedi un'occhiata veloce al calendario e mi accorsi di una nota segnata sul giorno seguente.
Il mondo mi cadde addosso e realizzai che cercare di separare le mie due vite, quella che stavo vivendo in quel momento, con Carlo e la scuola, e quella che avevo vissuto fino a pochi mesi prima, con la palestra e la ginnastica, era inutile e deleterio. Una non avrebbe cancellato l'altra e seppellire il passato non lo avrebbe di certo eliminato.
Non seppi dire in quel momento se quell'esatto pensiero mi intristisse o meno. Fino a nemmeno un anno prima ero certa che la mia vita sarebbe sempre girata intorno alla ginnastica, ma il brusco cambiamento che mi aveva travolta mi aveva fatto scoprire un mondo intero al di fuori della palestra. Eppure non riuscivo ancora a cancellare quella parte di me che agognava di poter allenarsi di nuovo e gareggiare, quella parte che voleva sentire l'adrenalina nelle vene e il sudore sulla fronte, ma non ero nemmeno certa che volessi fare finta che non fosse mai esistita.
La proposta che mi aveva fatto il mio allenatore mi rimbombò pesante nel cervello, più insistente che mai, e per la prima volta da mesi mi chiesi se davvero stessi facendo la scelta giusta, cercando di ignorare quell'opportunità.



(*) Allora, prendete molto con le pinze quello che dico qua, perché ho raggiunto la sufficienza in fisica per un miracolo divino, ma proverò a dare un senso a ciò che ho scritto sopra, giusto per non piantare qualcosa in giro senza poi raccoglierlo. Fondamentalmente, Carlo e Chiara stanno parlando di termologia e calorimetria e, in particolare, delle leggi di dilatazione. In breve, fornendo calore a un oggetto (ad esempio di ferro), questo si dilata nelle tre dimensioni. Quella più semplice è quella lineare, in cui un oggetto si dilata in lunghezza, mentre esiste anche quella volumica, in cui un oggetto, o meglio un materiale, si espande in modo diverso e a temperature diverse. Per i gas, però, questo coefficente di dilatazione (3L) è lo stesso.
(**) La formula di dilatazione volumica deriva da quella lineare e, come Chiara dice, anche se con un errore, è: Vfinale=Viniziale+3
L*Viniziale*temperatura.
Ora, io non so quanto voi abbiate capito. Io stessa credo di avere fatto un po' un pastrocchio, ma in linea generale è questo ciò di cui parlano. Poi magari non ve ne può fregare di meno (e vi do ragione), ma considerato che ne ho parlato nel capitolo, mi sembrava brutto non dare nemmeno un minimo di spiegazione. Indi, se qualcuna trova un errore o qualche stronzata in ciò che ho scritto, me lo dica subito!

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Capitolo 5
*** 4- Sapore di miele ***


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4- SAPORE DI MIELE



"Ehi, Chiara! Pomeriggio ti va di andare a fare un giro?".
Mi voltai verso Carlo, sorridendo mentre prendevo la mia merenda dalla macchinetta. "Mi dispiace, ma non posso".
"Dai", insistette lui, "È bel tempo oggi e non ho voglia di tornare a casa subito", mi pregò, esibendo una discutibile faccia da cucciolo bastonato.
"Ho già un impegno, davvero. Ho il treno alle due e mezza, subito dopo scuola", gli spiegai, mentre ci incamminavamo verso le nostre classi.
"Perfetto, ti accompagno in macchina!", esclamò lui e, senza lasciarmi nemmeno il tempo di rispondere, mi salutò e raggiunse alcuni suoi amici.
Sospirando, tornai in classe e mi sedetti al mio posto. "Il paradiso non è più così rosa?", mi prese in giro Greta, seduta al mio fianco.
Le lanciai un'occhiataccia. "Scema", sbottai. "È che Carlo...".
"Oh, Carlo!", esclamò lei, ridendo.
"State davvero bene, insieme", aggiunse Elisa sorridendomi dolce.
"Non stiamo insieme", borbottai ricordandomi la discussione del giorno precedente con i miei genitori. Ma perché cavolo tutti vedevano cose che non c'erano? Io e Carlo eravamo amici e ci comportavamo da tali, non capivo davvero perché la gente continuasse a ricamarci sopra.
"Sì, certo, per ora", mi zittì Greta. "Quindi che fate oggi? Altra sessione intensiva di studio?", mi chiese maliziosa.
Ignorai la sua battutaccia e sbuffai. "No, ho appuntamento dal fisioterapista", risposi lanciandole un'occhiata eloquente.
"Oh", si limitò a rispondere lei.
"Già, oh. Ma Carlo ha deciso che vuole andare a fare un giro con me senza nemmeno ascoltarmi. Lo picchierei quando si comporta così".
"Un appuntamento?", esclamò Elisa spalancando gli occhi luccicanti.
Sbuffai. "Non è un appuntamento perché non stiamo insieme. E soprattutto perché non usciremo insieme".
"Vai a parlargli", mi disse ovvia Greta.
"Sì, come se non ci avessi provato. Dopo lo tartasserò anche di messaggi, ma se ho capito qualcosa di Carlo è che ama decidere al posto degli altri. Imbecille", borbottai incrociando le braccia al petto.
Greta ed Elisa ridacchiarono, non convinte delle mie parole o, più precisamente, della faccenda dell'appuntamento. Avrei preso a sberle anche loro, se solo non fossimo state a scuola e se non fosse stato un gesto tremendamente infantile.
Sbuffai nuovamente, nervosa, mentre la campanella che segnava la fine dell'intervallo suonava. Sicuramente tutta quella tensione era dovuta al mio appuntamento per quel pomeriggio, ma decisamente anche alla sindrome premestruale che mi avvisava che in un paio di giorni mi sarei ritrovata a volermi strappare le ovaie a morsi. Di bene in meglio, insomma.
Come avevo detto alle mie amiche, che non avevano smesso un attimo di fare stupide allusioni e battutine, riempii Carlo di messaggi, ma alle due, quando suonò la fine delle lezioni, lui non ne aveva visualizzato nemmeno uno.
Mentre uscivamo dalla scuola lo vidi appoggiato al cancello, come tutti i giorni, con alcuni amici. Mi fece segno di raggiungerlo ma lo ignorai volutamente, decisa a non rivolgergli più la parola, o i messaggi, fino a quando non mi avesse chiesto scusa. Per cosa, esattamente, non avrei saputo dirlo: mi ero arrabbiata perché mi aveva incluso nei suoi piani senza nemmeno chiedermelo e, per giunta, aveva ignorato le mie richieste di una spiegazione. Forse era un po' stupido reagire in quel modo, ma non avevo alcuna intenzione di farmi comandare a bacchetta da nessuno, e nemmeno di farmi dare ordini da un cretino patentato.
Il cretino patentato in questione stava letteralmente strillando il mio nome per tutto il piazzale della scuola e, considerata la discreta fama che la ginnastica mi aveva attribuito e il fatto che ormai tutti sapessero chi fossi, ogni persona al mio fianco si voltò verso di me, guardandomi divertita.
Io continuai imperterrita a camminare, con lo sguardo alto davanti a me e le gote in fiamme. Stupido cretino patentato.
Non riuscii a fare però un altro passo verso la salvezza, ovvero il mio pulman, che mi sentii afferrare per la spalla e girare come se fossi una trottola senza volontà. Mi trovai davanti gli occhi neri di Carlo e il suo volto corrucciato, ma non mi lasciai ingannare.
"Devo andare", dissi tagliente.
"Ti avevo detto che ti avrei accompagnato io", ribatté lui, prendendo un grosso respiro. Era ancora più carino così, mi ritrovai a pensare, con gli occhi lucidi e i capelli scopigliati dalla corsa. Mi lasciai incantare per un attimo e lui continuò a parlare. "È successo qualcosa?", mi chiese quindi.
Alzai un sopracciglio. "Se non avessi ignorato i miei messaggi lo sapresti", sbottai.
"Mi è morto il telefono", disse semplicemente, tirandolo fuori dalla tasca e mostrandomelo spento. "Non l'ho messo in carica stanotte", commentò alzando le spalle.
"Devo comunque andare", ripetei. "Ho un treno da prendere".
"Ti porto io", ribatté lui, sicuro.
Incrociai le braccia al petto. "Potresti almeno chiedermelo, ti pare?", sbottai.
Lui rimase un attimo spiazzato. "Sì, beh, io ho dato...".
"Hai dato per scontato che avrei accettato", continuai per lui, interrompendolo. "Già", dissi solo, guarandolo ovvio.
"Merda", borbottò tra se, passandosi una mano tra i capelli. "Sono uno scemo".
"Stupido idiota patentato".
"Ehi", esclamò lui, sorpreso.
Lo guardai un attimo poi scoppiai a ridere. Carlo mi seguì a ruota, scuotendo poi la testa. "Scusa, Chiara. Accetti un mio passaggio?".
"In realtà", mormorai abbassando lo sguardo. Non mi vergognavo a dire che avevo bisogno di un fisioterapista, anche perché non ce ne era affatto motivo, ma ero restia a confessarlo a Carlo, principalmente per quella stupida convinzione che lui rappresentasse il mio nuovo mondo e non volevo mischiarlo con quello vecchio. Mi bastò però alzare gli occhi nei suoi per capire che era stupido pensarla in quel modo, perché la mia vita era una sola e la ginnastica ne avrebbe sempre fatto parte. "Ho un appuntamento con il fisioterapista", ammisi. "Per il ginocchio".
Lui si limitò ad annuire, senza guardarmi con quella pietà o quella compassione che riempiva lo sguardo di tutti quelli a cui accennavo quell'argomento. "Okay. Allora ti accompagno e poi ti aspetto, così andiamo a prenderci una cioccolata", mi propose, allungando la mano.
Io lo guardai incerta. Le mie sedute non erano sempre semplici e mi era spesso capitato di tornare a casa con il cuore pesante e gli occhi gonfi di lacrime e non volevo che Carlo mi vedesse così. Poi, sempre per un'illuminazione divina, mi resi conto che Carlo era proprio ciò di cui avevo bisogno per non cadere in quel baratro. Mi serviva sapere che la mia esistenza si stava allargando anche ad altri orizzonti ed era bello accorgersi quanto potessi rendere felice qualcuno anche solo con poche parole. Fino a poco tempo prima mi ero convinta che non sapevo fare molto altro, esclusa la ginnastica, ma riuscire a condurre una vita normale era diventato quel traguardo che forse mi avrebbe aiutata ad andare avanti e iniziare a vivere di nuovo.
Per questo accettai la sua mano con un sorriso, seguendolo poi verso la sua macchina. Per la prima volta, mi lasciai trasportare dalle mie sensazioni e mi resi conto di quanto fosse bello tenere stretta una mano così, semplicemente. Carlo aveva le dita lunghe e forti e avvolgevano le mie completamente, infondendomi una sensazione di calore e benessere. Sentii una scarica attraversarmi la schiena quando pensai ad altri usi che avrebbero reso giustizia a quelle dita ed avvampai, sorpresa da me stessa. Da quando facevo pensieri simili? Decisamente era l'influenza di Greta e delle sue confessioni e decisi che non le avrei più permesso di raccontarmi in quel modo le sue avventure con Lorenzo.
La maggior parte del viaggio in macchina fu silenzioso, ma non era quel silenzio pesante dato dall'imbarazzo. Eravamo semplicemente consci entrambi che le parole erano inutili e che significava molto di più la mia mano, ancora stretta nella sua, fissa sulla leva del cambio. Gli diedi le indicazioni per raggiungere l'ambulatorio e poi continuammo a fluttuare in quell'atmosfera tranquilla e pacifica.
Quando Carlo fermò la macchina nel parcheggio, istintivamente, lo invitai a salire con me, soprattutto per non lasciarlo da solo in macchina. Almeno, quello era ciò di cui mi convinsi.
Salutai Enrica, la donna all'accettazione e, sempre con le dita strette nelle sue, gli feci strada fino alla sala d'aspetto, dove mi sedetti, in attesa del mio turno. Carlo iniziò a muovere lentamente il pollice e, mentre lo guardavo ipnotizzata disegnare immagini senza senso sulla mia pelle, pensai che avrei voluto stringere quella mano per sempre.
"Quanto dobbiamo aspettare?", mi chiese.
Alzai le spalle. "In teoria sono la prossima, quindi non molto".
Lui annuì, pensieroso. "Mi aiuti con i compiti di inglese, allora?", mi propose.
"Certo!", acconsentii allegra.
Lui estrasse il libro dalla cartella e sentii come un senso di mancanza quando sciolse le nostre dita per prendere l'astuccio e la matita. Ma non dovetti aspettare molto, perché appoggiò il libro sulle sue gambe e, dopo averlo aperto alla pagina giusta, mi riafferrò la mano, lanciandomi un piccolo sorriso.
Io avevo il cuore che batteva all'impazzata e faticai a concentrarmi sulle sue frasi da completare, completamente persa nella sua stretta calda e rassicurante.
Poco dopo il dottor Calvani uscì dal suo studio e, di nuovo, dovetti lasciare la mano di Carlo. Lui mi guardò, sempre con quel sorriso dolce dipinto sulle labbra, ed entrai in quella piccola stanzina con la testa tra le nuvole e il cuore leggero. Mi sentivo come se potessi volare.
Il dottor Calvani, Giorgio per gli amici o per i pazienti di lunga data come me, mi guardò divertito, ma non disse nulla. Mi chiese del mio ginocchio e di altre cose che feci fatica a capire, con tutte quelle nuvole rosa intorno al mio cervello. Mancava solo l'unicorno bianco che cavalcava su un arcobaleno e sarei stata completamente fregata.
Come avevo immaginato, la presenza di Carlo nella stanza accanto e l'effetto che aveva su di me, mi aiutarono ad affrontare la visita in modo più tranquillo. Non ero spaventata, soprattutto perché sapevo che ormai ero quasi del tutto guarita, ma non potei fare a meno di irrigidirmi quando mi accennò a quella maledetta proposta.
"Non l'ho detto a nessuno", gli rivelai a voce bassa, mentre mi rivestivo.
Lui mi guardò comprensivo. "Capisco cosa provi, Chiara, ma dovresti provare a darti una possibilità".
"Io non ho più possibilità", dissi veloce e dura. Ed era vero, alla fine. La ginnastica professionale era ormai un mondo a porte chiuse, per me. Che senso aveva continuare a sperare di poterci entrare?
"Invece sì, e lo sai", ribatté lui, sospirando. "Ma è una scelta tua, ovviamente. Potresti parlarne con qualcuno di esterno a tutta questa faccenda. Quel ragazzo la fuori, ad esempio", aggiunse con un piccolo sorriso.
"Non sono pronta", mormorai, chiedendomi per un attimo se fosse vero o se stessi solo cercando di convincermene.
Lo guardai annuire, seriamente, mentre scriveva qualcosa a computer. Poi sentii la stampante accendersi. "Metti questa pomata quando ti fa male, ma cerca di non abusarne. Devi riabituare il ginocchio agli sforzi ed è normale che se fai qualcosa di eccessivo all'improvviso diventi un po' dolorante. L'importante, Chiara, è non pretendere troppo, lo sai".
"Sì", risposi solo, prendendo la ricetta dalle sue mani. "Grazie mille dottore", lo salutai poi.
"A presto, Chiara. E pensaci", mi ripeté prima che uscissi dalla porta.
Già, pensarci. Come se non avessi fatto altro negli ultimi mesi. Continuavo a ripetermi che forse era troppo presto, ma in realtà avevo solo paura. Una fottutissima, tremenda paura.
Ogni brutto pensiero, però, scomparve quando incontrai la figura di Carlo. Aveva riposto il manuale di inglese e ora teneva in mano un libro, in cui sembrava completamente immerso. Lo raggiunsi lentamente, memorizzando ogni dettaglio del suo volto così concentrato. Le sopracciglia arcuate sopra gli occhi scuri, i denti bianchi che mordicchiavano il labbro e i capelli che gli ricadevano sulla fronte. Perché all'improvviso mi sembrava di essere di fronte ad un angelo?
Mi tornarono in mente le parole del dottore ma scossi in fretta la testa per cancellarle. Ora volevo solo sorridere. Per questo mi sedetti di nuovo vicino a Carlo, che alzò una mano per avvertirmi di non interrompere subito la sua lettura. Finì probabilmente un paragrafo e poi alzò la testa, sorridendomi. "Finito?", mi chiese.
Annuii. "Cosa stai leggendo?", gli chiesi curiosa.
"Oh, una stupidata. Adoro i fantasy", si giustificò, mostrandomi la copertina.
"Hyperversum", lessi. "È bello?".
"Dipende. Ti piacciono i videogiochi e la storia?".
"I videogiochi non molto, lo ammetto; la storia sì".
"E allora potrebbe interessarti", disse chiudendolo e infilandolo nello zaino. "Te lo presterò", aggiunse.
"Credo che dovrà mettersi in lista con tutti gli altri libri che ho sempre voluto leggere ma che non ho mai avuto il tempo di aprire. Ora di tempo ne ho un sacco in più, quindi credo che ne approfitterò", dissi ridacchiando.
"Allora ti consiglio un paio di titoli", disse alzandosi e porgendomi la mano. "Cioccolata?", mi chiese poi.
Il mio sorriso si allargò e mi affrettai ad alzarmi, stringendo poi la mano nella sua. Il mio cuore perse un battito, poi continuò a battere tranquillo. Mi piaceva la sensazione che il suo tocco mi infondeva, forse perché era stranamente e terribilmente simile a quella che avevo provato la prima volta che avevo toccato le parallele quando ero bambina.
Carlo guidò verso il centro e questa volta riempimmo il silenzio parlando di libri. Ero contenta di aver trovato una passione in comune e soprattutto che Carlo non fosse uno di quei ragazzi che avevano paura di prendere fuoco soltanto a leggere qualche parola. Lo guardai incantata mentre mi raccontava la trama del libro che stava leggendo e, mentre parlava di videogiochi e viaggi nel medioevo, mi accorsi di quanto le sue labbra sottili e rosa fossero belle.
Avrei voluto baciarle.
Trasalii a quel pensiero, arrossendo. Cavolo, ma cosa mi stava succedendo? Mi sentivo una ragazzina stupida, ma non potevo fare a meno di sorridere davanti all'evidenza che mi stavo davvero prendendo una bella cotta per Carlo. E, decisamente, non era una cosa che mi dispiaceva.
Carlo parcheggiò vicino al bar e camminammo fianco a fianco, con le mani strette l'una nell'altra, continuando a parlare. Entrammo e ci sedemmo ad un tavolino appartato, ordinando subito due cioccolate calde con panna, il rimedio perfetto per il freddo di inizio novembre.
La nostra discussione si spostò sui film, sugli attori, sui posti nel mondo che avremmo voluto visitare. Eravamo immersi in una bolla, completamente isolati dal mondo, ma incapaci di smettere di sorridere. Era, almeno per me, una sensazione nuova e bellissima.
Non mi ero mai sentita così a mio agio con una persona che non fosse Greta o Vera e mi batteva forte il cuore al pensiero che anche Carlo apprezzava la mia presenza. Insomma, non ero mai stata eccessivamente bella, ero ordinaria, normale, una qualunque ragazza italiana. Ma davanti agli occhi di Carlo mi sentivo improvvisamente nuova e stupenda, a posto con me stessa e con il mondo.
Quasi non ci accorgemmo del tempo che era passato e fu il telefono che all'improvviso mi suonò in tasca che fece scoppiare la nostra bolla. Scoppiammo a ridere, mentre rispondevo velocemente a mia madre. Erano quasi le sette di sera e non mi ero fatta sentire per tutto il pomeriggio. Conoscevo abbastanza mia madre per sapere che dopo la ramanzina, avrebbe preteso di conoscere ogni dettaglio della mia uscita con Carlo e non volevo tornare a casa.
Ma proprio Carlo mi costrinse ad alzarmi, ricordandomi che la cena era l'unico momento in cui una famiglia si poteva riunire e parlare della giornata appena trascorsa. Mi stupii del tono con cui pronunciò quelle parole, così sincero e profondo, e pensai che dovesse avere una famiglia davvero fantastica


per anelare in quel modo il momento della cena.
Carlo mi accompagnò a casa e si fermò davanti al mio cancello, sorridendomi. "Ci vediamo domani", mi salutò, mentre frugava nella tasca della giacca e ne estraeva un paio di caramelle. "Vuoi una?", mi chiese prima che scendessi.
Io scossi la testa e mi incantai a guardarlo mentre la scartava e se la infilava in bocca.
"Carlo", lo chiamai, schiarendomi la voce. "Senti, ma quello di oggi è stato un...".
"Appuntamento?", concluse lui, ponendo la domanda che mi era ronzata in testa tutto il pomeriggio. Lui alzò le spalle. "Per me sì", ammise.
"Anche per me", mormorai, non riuscendo a trattenere un sorriso.Carlo strinse la mia mano, che aveva passato tutto il viaggio sotto la sua, sulla leva del cambio, e si avvicinò al mio volto. Avevo capito cosa volesse fare, ma smisi di farmi domande quando incontrai i suoi occhi. Chiusi i miei e spensi il cervello, facendo incontrare le nostre labbra.
Fu un bacio delicato e dolce e quando incontrai la sua lingua con la mia sentii il sapore del miele esplodermi in testa.
Se mi avessero chiesto una parola con cui descrivere quel bacio, credo che sarebbe stata quella. Miele. Come la caramella che aveva mangiato poco prima.
Non lo avevo mai adorato particolarmente, ma da quel momento divenne ciò che caratterizzava Carlo.
Dolce e deciso.
Un bacio al sapore del miele. 

Salve a tutti, popolo di EFP.
Mi scuso enormemente per il ritardo, ma queste ultime settimane sono state un inferno con la maturità e non sono riuscita a riprendere in mano seriamente la storia.
Ora sono finalmente tornata con il quarto capitolo e da oggi spero di essere più puntuale negli aggiornamenti.
Vorrei fare qui una precisazione sulla base della recensione di Amahy: mi rendo conto che molte scene sembrano banali e noiose, viste e riviste e che forse il personaggio di Carlo può apparire come il solito ragazzo trito e ritrito delle storie d'amore. La verità è che il mio intento non è raccontare una storia straordinaria, ma una normale e quotidiana storia d'amore, quindi gli avvenimenti, così come Carlo, sono ordinari, qualcosa che esiste nella vita reale che è, a conti fatti, la storia più rivista di questo mondo.
Insomma, vi prego di dare una possibilità a Carlo, che nella sua normalità ha molto da offrire o, almeno, spero di farvi percepire tutto il suo potenziale.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e ci rivediamo settimana prossima, speriamo!
A presto e grazie a tutti
mikchan

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Capitolo 6
*** 5-Incontri ***


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5- INCONTRI



Risata.
"Fammi capire: vi ha visti?".
Uno sbuffo da parte mia e un'altra risata da parte di Greta. "Smettila, non fa ridere", borbottai.
Lei mi ignorò, continuando a ridacchiare e a darmi della stupida. Insomma, cosa potevo farci io se mia madre era un'impicciona di prima categoria e amava spiarmi dalla finestra del soggiorno? Come potevo immaginare, soprattutto, che lei era nascosta lì, se avevo la testa completamente impegnata in qualcosa di più importante?
Un bacio al sapore del miele.
Arrossii al ricordo e non riuscii a trattenere un sorriso, che ovviamente non sfuggì a Greta.
"Ah, lo sapevo! Continui a pensarci. Che romanticona", esclamò guardandomi con gli occhi dolci.
Le guance mi si infiammarono ancora di più dall'imbarazzo.
Non avevo resistito e avevo raccontato tutto a Greta e, purtroppo, non me ne pentivo. Era la mia migliore amica ed erano anni che sognavo di potermi confidare con lei come vedevo nei film o nei libri, ma mi sarei dovuta aspettare una reazione del genere da parte sua. Quando le avevo rivelato che mia madre si era appostata dietro le tende era scoppiata a ridere e aveva continuato per minuti interi. Per fortuna eravamo a casa da sole e nessuno l'aveva sentita, altrimenti sarebbe stato doppiamente imbarazzante, considerato il terzo grado a cui ero stata sottoposta una volta entrata in casa.
Anche in quel momento, dopo una cena all'insegna di battutine con mia madre e riferimenti velati verso mio padre che non sapeva niente e non doveva assolutamente sapere, Greta continuava a rivangare l'argomento e l'avrei presa volentieri a padellate in faccia, se solo non avessimo dovuto incontrare il suo ragazzo da lì a quindici minuti.
Sdraiate sul mio letto, chiuse in camera come quando eravamo alle medie, le avevo confermato che mi ero davvero presa una cotta per Carlo e, fortunatamente, dopo qualche gridolino di gioia, si era limitata ad abbracciarmi e a dichiarare di essere immensamente contenta per me.
Proprio Carlo stavamo aspettando, mentre la playlist del mio computer continuava a scorrere, ed io ero tremendamente nervosa. Un po' perché avrei finalmente conosciuto Lorenzo, un po' perché mi erano finalmente arrivate le mie cose, ma soprattutto perché il mio ragazzo -ed era veramente strano poterlo definire così- era in ritardo di ben venticinque minuti.
"Tranquilla, Chiara. Tanto anche Lorenzo è sempre in ritardo", mi rassicurò Greta dopo l'ennesimo insulto.
Sbuffai. "Non vuol dire niente, abbiamo un appuntamento e odio arrivare fuori orario".
"Cosa dice Carlo?", mi chiese quindi.
Sbuffai di nuovo, per almeno la centesima volta durante quel sabato. "Arriva tra cinque minuti. E l'ha detto anche prima", le feci notare.
"Non preoccuparti", mi ripeté. "Arriveremo in tempo".
"Non dovevo chiedere a lui di passarci a prendere", borbottai stizzita.
"Lorenzo ha una moto e non ci saremmo state entrambe", mi spiegò tranquilla. "E nessuna delle due ha ancora la patente".
"Non vedo l'ora di compiere i diciotto anni", mi lamentai, mentre il telefono mi vibrava tra le dita. Lessi velocemente il messaggio e sospirai. "Andiamo, finalmente è arrivato", le dissi, alzandomi dal letto.
Ci infilammo le giacche e le scarpe e, salutati i miei genitori, uscimmo di casa. Davanti al mio vialetto c'era la macchina di Carlo, dove lui ci aspettava con un sorriso di scuse.
"Perdonatemi, ragazze, ho avuto un'enorme contrattempo", disse quando entrammo.
"Cos'è successo?", gli chiesi preoccupata, dimenticandomi di essere arrabbiata con lui.
Carlo si sbilanciò verso di me e mi diede un veloce bacio a stampo. Sentii un brivido attraversarmi la schiena a quel gesto tanto intimo quanto naturale e dovetti sforzarmi per trattenere un sorriso smagliante. "Questo pomeriggio mia sorella si è fatta male e ho dovuto accompagnarla al pronto soccorso. Siamo stati lì un'eternità e mi è morto anche il telefono nel frattempo", spiegò, mentre metteva in moto la macchina.
"Cavolo, sta bene?", esclamai preoccupata.
"Sì", annuì lui. "Solo una distorsione alla caviglia".
Rabbrividii, ricordando per un secondo quando era capitato a me, anni prima.
"Ma ora è a casa, tranquilla. Le è dispiaciuto non poter finire la partita, oggi", disse con un tono talmente tenero che mi fece sorridere.
"A cosa gioca?", gli chiese Greta, seduta sui sedili posteriori.
"Pallavolo. Non chiedetemi niente perché non saprei dirvi in che serie o roba del genere gioca", scherzò.
"L'importante è che non sia nulla di grave", dissi con un sospiro di sollievo.
Carlo annuì, voltandosi poi verso Greta. "Sai la strada?", le chiese. "Ho capito più o meno dove si trova, ma sarebbe meglio non perderci, considerato che siamo già in ritardo".
"Vai verso la scuola", disse lei. "Poi da lì ti guido io".
Carlo accelerò e mi ritrovai appiccicata al sedile. Non gli dissi niente, soprattutto perché gli avevo già fatto notare che non era molto sicuro giudare a quelle velocità in paesini piccoli come il mio, ma lui si era limitato a rassicurarmi che sapeva cosa stava facendo. Ero comunque contenta che, rispetto alle prime volte, aveva diminuito notevolmente la velocità.
"Sono così contenta che conoscerai Lorenzo!", esclamò poi Greta.
"Il tuo ragazzo?", le chiese Carlo, curioso.
"Finalmente", dissi io mentre lei annuiva. "Stavo iniziando a pensare che non esistesse nemmeno".
"Esagerata", rise lei. "È che non abbiamo mai avuto l'occasione di uscire tutti insieme. Poi lui quest'anno ha iniziato l'università ed è sempre impegnatissimo".
"Come si chiama di cognome?", si intromise Carlo. "Forse lo conosco".
"Fabbri. Veniva nella nostra scuola".
"Sì, ho capito chi è", rispose lui, mentre io rimuginavo su quel cognome. Aveva qualcosa di familiare, ma non riuscivo a ricollegarlo a nessun volto nella mia memoria.
"Ah, ora gira a destra", esclamò Greta, accorgendosi all'improvviso della strada.
Carlo eseguì e per il resto del viaggio si sentirono solo sue indicazioni per arrivare al piccolo bar dove avevamo deciso di incontrarci quella sera. Ci sarebbe stato Lorenzo con alcuni suoi amici, e avevo invitato anche Vera con il suo ragazzo, Alessandro.
Quando entrammo nel parcheggio riconobbi subito la mia amica e, appena scesa dalla macchina, corsi ad abbracciarla. Non la vedevo da settimane: lei era sempre impegnata in palestra, mentre io non avevo un mezzo di trasporto per poterla andare a trovare al suo paese, che distava quasi venti minuti dal mio.
"Sono felice di vederti", esclamò lei. "Pensavo non arrivassi più".
"Sì, Carlò è arrivato in ritardo", dissi indicando il ragazzo che intanto mi aveva raggiunto, accompagnato da Greta che continuava a guardarsi intorno.
"Ah, il famoso Carlo!", disse lei ridendo e allungando una mano per presentarsi. "Sono Vera".
"Il Famoso Carlo", si presentò invece lui, facendoci ridere tutti.
Vera presentò anche il suo ragazzo, ma fummo distratti da un urletto di Greta, che corse incontro a una macchina che era appena arrivata, per poi saltare letteralmente addosso a uno dei ragazzi che scese dalle portiere posteriori.
Quello, invece, doveva essere il famoso Lorenzo. Da lontano non riuscivo a vederlo bene in volto, ma era molto alto, forse anche più di Carlo, con due spalle enormi e le braccia muscolose. Dentro di me continuavo a ripetermi il suo cognome, ma fu solo quando si avvicinò e incrociai i suoi occhi che capii dove l'avessi già sentito.
All'improvviso mi sentii catapultata all'indietro nel tempo, mentre nella mia testa partivano immagini del mio passato in compagnia di un ragazzino che abitava vicino a me.
"Saremo sempre amici?".

"Finalmente ti conosco!", esclamò lui, allungando una mano verso di me e riportandomi alla realtà.
La strinsi, incerta, e cercai di sorridere. Mi aveva riconosciuta? Dal suo sguardo era chiaro che non aveva la minima idea di chi fossi e, per un attimo, mi chiesi cosa dovessi fare.
Prima che potessi decidere, tutti si incamminarono verso l'entrata del bar e mi ritrovai a seguirli automaticamente. Carlo mi prese per mano e mi lanciò un'occhiata interrogativa, alla quale risposi scuotendo la testa. Non era quello il luogo e il momento per rivelargli i miei trascorsi con Lorenzo.
Mi lasciai per un attimo distrarre dal posto: era un locale abbastanza piccolo e rustico, ma accogliente e informale, perfetto per una serata senza pretese tra amici. All'improvviso mi accorsi di non aver nemmeno sentito i nomi degli amici di Lorenzo e mi diedi della stupida e della maleducata. Erano due ragazzi e una ragazza, che camminavano con la sicurezza di chi conosce il posto, e ridevano tra loro come se si conoscessero da sempre.
"Ehi", richiamai Carlo, tirandolo per la mano. "Come si chiamano?", gli chiesi a bassa voce, mentre un cameriere ci portava a un tavolo.
Carlo abbozzò un sorriso. "La tipa si chiama Marta, i due ragazzi Giulio e Alberto", mi rispose. "Pensavo li conoscessi".
Scossi la testa. "Non esco spesso con Greta", gli rivelai, evitando di dire che recentemente non ero uscita spesso e basta.
Ci sedemmo a un tavolo rotondo ai lati della sala, vicino alle finestre. Mi trovai tra Carlo e Vera e, mentre scambiavo qualche parola con la mia amica, sentii Lorenzo rivolgersi al mio ragazzo. Evidentemente si conoscevano entrambi di vista, come aveva ipotizzato Carlo poco prima in macchina e, essendo seduti vicini, si trovarono a conversare per un po' sulla scuola e i vecchi professori.
Mi ritrovai a sorridere al pensiero che, forse, avrei potuto riallacciare la profonda amicizia che mi aveva legato a Lorenzo da bambini. Certo, eravamo entrambi cambiati molto, ma all'epoca gli avevo voluto bene e, anche se in quel momento Carlo ricopriva ormai quel ruolo, ero certa di provare ancora dell'affetto nei suoi confronti.
Ordinammo da bere e passammo la serata a chiaccherare tranquillamente. Scoprii che Marta e Alberto stavano insieme da anni e che i due ragazzi erano gemelli. La ragazza, inoltre, era simpaticissima con le sue battute spigliate e gli insulti verso i ragazzi, che trattava come se fossero la sua famiglia. Parlai anche un po' con Lorenzo, cercando di tenermi su un territorio neutro per capire se si ricordasse di me o meno, ma non riuscii a intuire cosa si nascondesse dietro i suoi occhi verdi. Quell'incertezza mi stordì al punto che Carlo mi trascinò fuori dal locale con la scusa di una sigaretta. "Si può sapere che ti prende?", mi chiese quando fummo fuori all'aria aperta.
Presi un grosso respiro per calmarmi. "Lo conosco", dissi. "Lorenzo, intendo".
Carlo agrottò le sopracciglia, mentre si accendeva la sigaretta. Poi si sedette su uno dei gradini e mi fece segno di imitarlo.
"Da bambini abitavamo vicini ed eravamo inseparabili, ma poi lui si è trasferito e non ci siamo più sentiti", gli spiegai.
"Sei sicura che sia lui?".
"Praticamente certa. Ha lo stesso cognome e gli stessi occhi. Non potrei mai dimenticare il suo sguardo", mormorai nostalgica.
"Devo essere geloso?", mi chiese Carlo ridacchiando e stringendomi le spalle con un braccio.
Sorrisi e scossi la testa. "No. Lorenzo era il mio migliore amico e non riuscirei mai a pensare a lui come a qualcosa di diverso di un fratello".
"Bene, perché stavo iniziando a preoccuparmi che mi avresti mollato per quel tipo".
Alzai un sopracciglio, guardandolo sorpresa dal basso. "Che stai dicendo?".
Lui buttò fuori il fumo e spense la sigaretta sotto la scarpa. "Sei strana da quando l'hai visto. Che ne potevo sapere, magari ti aveva fatto qualche incantesimo e ti eri innamorata di lui".
Scoppiai a ridere davanti a quella prospettiva che trovai inaspettatamente dolce e tremendamente tenera. "Sei carino quando sei geloso", sussurrai appoggiando di nuovo la testa sulla sua spalla.
Lui mi strinse di più a sé. "Sì, beh, però vedi di non innamorarti davvero", borbottò imbarazzato.
Io risi di nuovo, per poi allungarmi e dargli un piccolo bacio ad occhi aperti. "Sto con te, no?", gli chiesi retorica.
Lui annuì e mi rapì le labbra in un nuovo bacio, questa volta più profondo. Adoravo baciare Carlo: ogni volta mi perdevo tra le sue braccia e nel suo profumo, che si trasormava sempre in quello del miele del nostro primo bacio.
"Dovresti smettere di fumare", gli dissi quando ci staccammo, sentendo sulla lingua il sapore del tabacco.
Lui sospirò. "Sono anni che ci provo", mi rivelò. "Ma rinizio sempre quando sono nervoso".
"Io non ti vieto di fumare perché non sono tua madre e nemmeno te stesso. Però preferirei baciare una bocca che sa di miele, piuttosto di una che sa di fumo".
Lui annuì, comprensivo. "Hai ragione", disse, frugando nella tasca e estraendo una caramella al miele. Se la mise in bocca e poi mi guardò con un sorriso. "Ora posso?".
"Non dovresti nemmeno chiederlo", dissi piano, avvicinandomi di nuovo a lui.
Quella sera non dissi niente a Lorenzo, anche perché la passai tutta tra le nuvole al sapore di miele, ma decisi che avrei chiesto il suo numero a Greta e che lo avrei chiamato. Volevo riallacciare i rapporti con lui e il fatto che fosse il ragazzo della mia migliore amica semplificava enormemente le cose.
Non sapevo quanto fosse cambiato e cosa gli fosse successo in tutti quegli anni, ma ero certa che averlo di nuovo al mio fianco sarebbe stata la scelta giusta.

Dopo mesi infiniti ecco che finalmente riesco ad aggiornare. 
Vorrei scusarmi con le poche persone che mi hanno seguito e aspettato, ma tra l'ansia della maturità, l'eccitazione dell'estate e di nuovo l'ansia per l'università questa storia è passata in secondo piano. La finirò, prima o poi, ma non garantisco aggiornamenti puntuali. Anzi, molto probabilmente passeranno settimane tra un aggiornamento e l'altro e di questo vorrei scusarmi in anticipo. 
E ci terrei anche a fare una precisazione, facendo riferimento a un messaggio privato che mi è arrivato e che mi ha dato parecchio fastidio. Ho risposto lì alla diretta interessata, ma vorrei che questo fosse chiaro a tutti. Il fatto che lo scorso capitolo non abbia avuto molto successo mi ha fatto capire che la svolta presa dalla storia è diversa da quella immaginata da voi lettori, ma, e mi scuso se sembro cattiva, acida, mestruata o quello che volete, ma questa è la mia storia e decido io cosa fare succedere. E no, se c'è altra gente che se lo sta chiedendo, non ho intenzione di lasciare carta bianca ai lettori. Non è così che funziona, almeno secondo me. Quindi mi fa piacere se leggete la mia storia e mi fa ancor più piacere se lasciate un commento, ma, per favore, non venite a dirmi cosa dovrebbe succedere "per aumentare le recensioni". Non è per questo che scrivo, mi dispiace. E se la storia non è di vostro gradimento, potete sempre smettere di leggerla. 
Spero di avere chiarito ogni dubbio e mi dispiace per questo sfogo, ma davvero non riesco a tollerare queste cose. 
Nella speranza di risentirci presto, auguro buon inizio di scuola a tutti
Mikchan

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