Survivor.

di CreepyGirl97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ricominciare. ***
Capitolo 2: *** Morte. ***
Capitolo 3: *** Viaggio. ***
Capitolo 4: *** Illuso. ***
Capitolo 5: *** Stanco. ***
Capitolo 6: *** Cambiare. ***



Capitolo 1
*** Ricominciare. ***


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Capitolo uno.
Ricominciare.
Era questo ciò che avevo intenzione di fare: ricominciare da capo. Ricominciare la mia attività, condurre una nuova vita. Finalmente avrei potuto fare il doppio dei soldi che producevo in Corea del Sud e avrei vissuto una vita felice accanto alla mia futura moglie, ma forse non era destino che dovesse andare tutto così a meraviglia.
 
Uno schizzo d'acqua fredda mista a cloro della piscina mi arrivò sulle gambe, facendomi lanciare un'imprecazione contro il quartetto di bambini dispettosi che da giorni mi attorniava di scherzi di pessimo gusto.
«Maledetti...» ringhiai tra i denti mentre mi allungavo verso il tavolino accanto alla sdraio su cui ero adagiato. Presi un asciugamano bianco con il logo del resort in cui alloggiavamo per le vacanze natalizie e tentai di asciugarmi alla bell'e meglio i piedi nudi, dopodiché lo passai anche sul retro del cellulare che stringevo tra le dita. Con le parole di disprezzo che ancora mi aleggiavano sulla punta della lingua, vidi con la coda dell'occhio qualcuno che si sedeva sulla sedia a sdraio accanto alla mia, lasciandosi scappare un sospiro.
«Proprio non ce la fai, eh, Yoongi?» mi domandò retorica la voce di Hana, la quale mi dava le spalle mentre frugava nella sua borsa da mare in cerca degli occhiali da sole.
«Sto solo controllando la casa che abbiamo venduto all'asta.» spiegai con un sorriso più splendente del sole che rendeva l'aria thailandese sempre più tiepida.
«La casa che hai venduto, vorrai dire.» puntualizzò con un pizzico di acidità, indossando un paio di Ray-Ban per ripararsi dalla luce mattutina. «Devi proprio controllarlo adesso?» chiese leggermente infastidita, dopo aver capito che non avrei risposto alla sua precedente provocazione.
«Si, devo farlo. E in ogni caso abbiamo un acquirente che sarebbe disposto a pagare il doppio del prezzo già proposto.» dissi sempre più eccitato, aspettandomi qualche reazione della ragazza.
«Grandioso.» commentò senza davvero pensarlo. Incrociò le braccia al petto, decidendo di non parlarmi per il resto della giornata, ma sapevo che non ci sarebbe mai riuscita. Perché si comportava così?
Cercai di dirle qualcosa per farla sciogliere, ma proprio in quel momento, prima che riuscissi ad aprire bocca, un pallone azzurro scuro grondante di acqua mi colpì in pieno viso, facendomi cadere dalle mani il cellulare. Imprecai per l'ennesima volta, notando un sorriso che provava a nascondere una risata formatosi sul viso di Hana.
I quattro bambini m'indicarono quasi piangendo dal ridere e, dopo che ebbi lanciato loro un'occhiataccia piena di odio, cercai con gli occhi qualcosa sul tavolino accanto a me ed afferrai una forchetta dal piatto di macedonia colorata che avevo ordinato per colazione. Passai un polpastrello sulle punte della posata, constatandone l'affilatezza, e di conseguenza le impiantai con forza nel pallone di gomma, sorridendo tronfio quando sentii il sibilo dell'aria che usciva e si disperdeva nell'ambiente. I quattro ammutolirono, fissandomi quasi spaventati, mentre Hana tentava di reprimere una risata.
«Stupido...» sussurrò scossa da un sorriso divertito.
«La prossima volta fareste meglio a pensarci di più prima di lanciarmi oggetti addosso.» quasi gridai ai ragazzini, passando loro il pallone sgonfio.
«Dai, poveri...» commentò Hana senza riuscire a nascondere una risatina. «Dovremo comprargli un'altra palla.» disse dolcemente, nel tentativo di persuadermi.
«Mai e poi mai. Non se la meritano.» insistetti, incrociando le braccia al petto. La mia fidanzata scosse la testa con un sorriso leggero, poi si alzò dalla sdraio, allacciandosi un pareo floreale alla vita, per velare le gambe nude.
«Dove stai andando?» le chiesi, ma senza ricevere risposta, perché ormai era troppo lontana da me per riuscire a sentire le mie parole. La vidi avvicinarsi al chiosco del resort con la sua andatura delicata ed appoggiarsi al bancone per richiamare l'attenzione del barista, il quale si mise subito a sua disposizione. Si scambiarono qualche rapida parola che purtroppo non riuscii a comprendere, dopodiché vidi il ragazzo chinarsi sotto il bancone e porgerle un pallone identico a quello trafitto dalla mia forchetta pochi minuti prima. Sogghignai in una velata soddisfazione quando mi accorsi che il quartetto mi fissava di sottecchi, temendo la mia prossima mossa. Notai la mia ragazza prendere la palla dalle mani del barman, per poi incamminarsi quasi saltellando verso i quattro odiati bambini. Aggrottai le sopracciglia vedendo Hana porgere il pallone ai miei nemici, con il suo sorriso persuasivo. Lessi dal suo labiale che si stava scusando, accennando con il capo verso la mia direzione, quasi a dire che anch'io ero dispiaciuto per l'avvenimento, nonostante non fosse la verità. Schioccai la lingua contro il palato - certo, come no - quando Hana tornò a sedersi sorridente sulla sua sdraio.
«Li hai spaventati.» disse ridacchiando divertita.
«Se lo meritavano.»
«Ma sono solo bambini...» rise girandosi nella mia direzione, nell'intento di riprendermi per il mio comportamento. «E in ogni caso avresti potuto almeno rompere qualcosa di loro, non il pallone del resort.» scherzò dandomi una pacca sulla spalla che mi fece sorridere leggermente. «Ora dovremo pure pagarla.»
Feci per ribattere, ma un'ombra scura eclissò il raggio di Sole che colpiva la mia testa, mentre viaggiava per raggiungere l'ovest. Roteai gli occhi, girandomi di scatto verso la persona corpulenta che bloccava l'arrossamento della mia pelle chiara sotto la luce solare. Hana diceva spesso che insieme sembravamo caffè e latte, dato che la carnagione della mia fidanzata era sempre e costantemente più scura della mia.
«Senti, puoi levarti dalle scatole?» chiesi sgarbatamente ed infastidito, ma maledicendomi ben presto della mia mancata gentilezza. «B-buongiorno, signor Carson...» dissi timidamente, con una vocina quasi acuta, accompagnando la mia gaffe con una risata imbarazzata.
«Buongiorno a lei, signor Min.» mi salutò a sua volta, con quella sua voce squillante ma composta. Tirai un sospiro di sollievo, perché probabilmente l'agente immobiliare non aveva sentito le mie imprecazioni. «Abbiamo già avviato le pratiche, sa?» mi informò la stessa persona, in un inglese con accento nordico. Era un uomo sulla cinquantina, brizzolato e ben curato. Si arricchiva viaggiando per il mondo, vendendo e comprando terreni a destra e a manca e probabilmente la Porsche nera che guidava con fierezza era una delle cose meno costose che avesse mai posseduto..
«Davvero?» chiesi per accertarmene, con uno sguardo talmente lucente da far invidia ad una  stella. «Grandioso.» commentai su di giri senza nemmeno aspettare una risposta.
«Certo, fantastico.» sentì dire acida la mia ragazza in sottofondo. Mi girai verso di lei, notandola a braccia incrociate, appoggiata allo schienale della sedia a sdraio con la mandibola serrata.
«Ehi, che cos'hai?» le chiesi senza capire cosa le prendesse, ma lei ignorò la mia domanda, rispondendomi con: «Vado nel parco.» e, detto quello, si alzò lasciando tutte le sue cose lì, indossando la sua canotta color sabbia e i pantaloncini di jeans. Alzai gli occhi al cielo per l'ennesima volta in quella mattinata e, dopo essermi scusato con il signor Carson e sua moglie, corsi dietro ad Hana.
«Si può sapere che diavolo stai facendo?» le domandai infastidito, quando la trovai a vagare tra orchidee colorate e plumerie profumate, mentre si stringeva nelle spalle, tentando di repellere gli insetti che vagavano nell'aria. Il parco, come lo chiamavano i lavoratori del resort, era una grande oasi vicino alla piscina, dove regnavano l'odore dolce dei fiori e quello acre del legno degli alberi tropicali.
«Lasciami in pace.» tentò di cacciarmi con poca convinzione.
«Mi stai facendo fare una brutta figura con il signore, Hana.» dissi duramente, afferrandole il polso e facendola voltare verso di me per la violenza che ci misi. «Lo vuoi quel pezzo di terra oppure preferisci cadere in rovina?»
«Devi ancora capire che a me del tuo pezzo di terra non frega niente, Yoongi!» sbottò strattonando con forza il polso nella mia mano nel tentativo di liberarsi e riappropriarsene.
«E allora perché ti comporti così?» chiesi roteando gli occhi, senza riuscire a trattenere una sfumatura di nervosismo.
«Perché a te importa solo del lavoro!» rispose girandosi verso il piccolo laghetto di carpe giapponesi del giardino, con il proprio polso in mano.
«È un acquirente importante, Hana. È naturale che mi preoccupi di quello.» ragionai tra i denti, iniziando ad innervosirmi.
«Il problema è che tu ci pensi sempre, Yoongi.» disse con voce leggermente tremolante. Odiavo quando mi parlava usando il mio nome di battesimo: lo faceva solo quando era davvero arrabbiata.
«Non è vero...» tentai di difendermi, mentre mi incupivo alla sua insistenza.
«Ah, no? "Oh, guarda quella bella spiaggia incontaminata, potrei costruirci un lussuoso hotel cinque stelle. Oppure quell'oasi, deve essere perfetta per un supermercato".» mi imitò baldanzosa, ma sull'orlo delle lacrime.
«Siamo venuti qui per questo...» sussurrai guardando dappertutto fuorché nella direzione di Hana.
«Per cosa? Per distruggere il mondo con la tua stupida mentalità materialista ed imprenditoriale?!» domandò retorica comprimendo i denti all'interno della bocca con abbastanza forza da poter essere comparata ad una bomba ad orologeria. «Io sono venuta qui solo perché mi hai obbligata tu, Yoongi. Me ne restavo in Corea, altrimenti.» disse abbassando la voce e rilasciando un po' di quella forza nucleare che le conficcava i denti nelle gengive.
«Mi dispiace.» tentai di scusarmi abbassando lo sguardo e fissandomi le dita dei piedi ancora nudi.
«Ti dispiace sempre, ma questa volta non ti perdonerò tanto facilmente.» continuò, affacciandosi alla staccionata che divideva la pozza d'acqua dalla terra del giardino. «E ora va'. Il tuo amico ti aspetta.»
«Non tornerò da lui senza di te.»
«E allora preparati a dormire qua fuori.» disse sgarbata, con una punta d'ira.
«Avanti, Hana, non fare la bambina, non hai tre anni.» la ripresi aggrottando le sopracciglia al suo comportamento. In  qualche modo avevo il sentore che stesse imitando il mio atteggiamento quando ero arrabbiato.
«Mi sto comportando esattamente come fai tu, Yoongi!» mi ammazzò con uno sguardo, stringendo con tale forza il palo orizzontale della staccionata da farsi sbiancare le nocche. Con il suo silenzio, era ancora più pericolosa di quanto potesse sembrare.
«Non voglio litigare con te.»
«Neanche io, ma è impossibile non farlo, ormai! Anche io ho un limite.» sbottò di nuovo, girandosi verso di me. «Siamo a Phuket, te lo ricordi? Siamo venuti qui per le vacanze, l'hai detto tu stesso che avresti pensato a divertirti e non al lavoro, come invece fai quando siamo a Bangkok. Perché sei diventato così ossessionato dai soldi?» mi chiese guardandomi con le lacrime agli occhi. «Potrei morire dissanguata sul pavimento del tuo ufficio e tu penseresti prima alla macchia di sangue che spaventerebbe i clienti!» continuò a tenere lo sguardo puntato su di me e, anche dopo che ebbi abbassato la testa, potei percepire i suoi occhi di fuoco trapanarmi il cranio.
«Guardati anche adesso. Abbassi la testa come un codardo.» la vidi scuotere il capo sprezzante. «Chiudere gli occhi non cambierà nulla. Niente scomparirà soltanto perché non puoi vedere cosa sta succedendo.» disse duramente, come se riuscisse a leggere gli impulsi nervosi che mi fecero abbassare le palpebre.
«"Non alzare la voce, migliora il tuo ragionamento".» recitai quasi meccanicamente una frase del suo libro più recente. Hana fece un minuscolo passo indietro, probabilmente presa in contropiede dal fatto che io leggessi le sue creazioni, poiché  mi reputava uno stupido insensibile a cui non importava niente all'infuori del denaro.
«Allora fallo.» si riprese subito dalla sorpresa. «Mostrami che i miei libri lasciano un segno nella vita delle persone.».
Feci per parlare e spiegare civilmente le mie ragioni, ma non ci riuscii. Non ne ebbi il tempo. Non potei scusarmi con lei, perché madre natura decise di punirmi proprio in quel momento.
 
La terra sotto ai nostri piedi iniziò a tremare violentemente assieme alle pareti fatte di vetro del resort. I fiori di plumerie e orchidee barcollavano precari, dando premonizioni poco allegre su quello che sarebbe successo di lì a pochi minuti. Mi voltai a guardare verso la piscina, intravedendo tra le foglie di alberi tropicali delle donne urlare e cadere a terra dopo aver perso l'equilibrio, mentre altri chiamavano aiuto svenendo poi sul pavimento. Sentii la stretta di Hana prendermi la mano per restare in piedi e, forse, anche per cercare conforto alla sua paura crescente.
«Yoongi, guarda...» sussurrò con voce strozzata, indicando terrorizzata verso il mare che riuscivamo a vedere splendidamente da quel punto. Ma quella volta non fu uno spettacolo guardarlo.
Sentimmo uno schianto al di là degli chalet con il tetto in paglia secca: una palma ne aveva distrutto uno cadendoci sopra.
 
Poi ci travolse. Senza avvertirci, un'onda con un'incredibile potenza investì qualunque cosa sul suo cammino: dai vetri del resort a quelli delle case costiere, dalle sdraio a bordo piscina ai meravigliosi arbusti che ricoprivano l'esterno dell'albergo. Non sentivo più la mano di Hana nella mia e quella sensazione di vuoto mi angosciò, ma senza durare troppo. Oggetti di ogni tipo mi venivano incontro, facendomi dimenticare per alcuni minuti della mia ragazza: tavoli, stoviglie, materassi, sdraio, ombrelloni e perfino automobili mi sfregiavano la pelle, disegnandomi lividi e ferite sanguinose sulla pelle lattea. L'acqua sporca mi trascinava dove preferiva, ma, nonostante ciò, riuscii a far riaffiorare la testa per prendere una boccata d'aria. Alzai le mani verso l'alto, nel tentativo di trovare qualcosa a cui aggrapparmi, ma non riuscivo a vedere cosa ci fosse attorno a me per via degli occhi irritati dall'acqua e per i capelli che mi restavano appiccicati alla fronte. Non potei curarmene molto, in quel momento, poiché le forze mi vennero meno.
Prima di abbassare definitivamente le palpebre, afferrai con le unghie un tronco di una delle tante palme precipitate, sperando di restarci fino alla fine del cataclisma per ricevere una sepoltura decente ed idonea alla mia persona. Poi mi lasciai andare e spirai il mio presunto ultimo respiro, con un dolore lancinante al ginocchio e al costato.
Ma, per mia sfortuna, quella volta non morii.

 
 

Capitolo uno. 

Ricominciare.

Era questo ciò che avevo intenzione di fare: ricominciare da capo. Ricominciare la mia attività, condurre una nuova vita. Finalmente avrei potuto fare il doppio dei soldi che producevo in Corea del Sud e avrei vissuto una vita felice accanto alla mia futura moglie, ma forse non era destino che dovesse andare tutto così a meraviglia.

 

Uno schizzo d'acqua fredda mista a cloro della piscina mi arrivò sulle gambe, facendomi lanciare un'imprecazione contro il quartetto di bambini dispettosi che da giorni mi attorniava di scherzi di pessimo gusto.

«Maledetti...» ringhiai tra i denti mentre mi allungavo verso il tavolino accanto alla sdraio su cui ero adagiato. Presi un asciugamano bianco con il logo del resort in cui alloggiavamo per le vacanze natalizie e tentai di asciugarmi alla bell'e meglio i piedi nudi, dopodiché lo passai anche sul retro del cellulare che stringevo tra le dita. Con le parole di disprezzo che ancora mi aleggiavano sulla punta della lingua, vidi con la coda dell'occhio qualcuno che si sedeva sulla sedia a sdraio accanto alla mia, lasciandosi scappare un sospiro.

«Proprio non ce la fai, eh, Yoongi?» mi domandò retorica la voce di Hana, la quale mi dava le spalle mentre frugava nella sua borsa da mare in cerca degli occhiali da sole.

«Sto solo controllando la casa che abbiamo venduto all'asta.» spiegai con un sorriso più splendente del sole che rendeva l'aria thailandese sempre più tiepida.

«La casa che hai venduto, vorrai dire.» puntualizzò con un pizzico di acidità, indossando un paio di Ray-Ban per ripararsi dalla luce mattutina. «Devi proprio controllarlo adesso?» chiese leggermente infastidita, dopo aver capito che non avrei risposto alla sua precedente provocazione.

«Si, devo farlo. E in ogni caso abbiamo un acquirente che sarebbe disposto a pagare il doppio del prezzo già proposto.» dissi sempre più eccitato, aspettandomi qualche reazione della ragazza.

«Grandioso.» commentò senza davvero pensarlo. Incrociò le braccia al petto, decidendo di non parlarmi per il resto della giornata, ma sapevo che non ci sarebbe mai riuscita. Perché si comportava così?

Cercai di dirle qualcosa per farla sciogliere, ma proprio in quel momento, prima che riuscissi ad aprire bocca, un pallone azzurro scuro grondante di acqua mi colpì in pieno viso, facendomi cadere dalle mani il cellulare. Imprecai per l'ennesima volta, notando un sorriso che provava a nascondere una risata formatosi sul viso di Hana.

I quattro bambini m'indicarono quasi piangendo dal ridere e, dopo che ebbi lanciato loro un'occhiataccia piena di odio, cercai con gli occhi qualcosa sul tavolino accanto a me ed afferrai una forchetta dal piatto di macedonia colorata che avevo ordinato per colazione. Passai un polpastrello sulle punte della posata, constatandone l'affilatezza, e di conseguenza le impiantai con forza nel pallone di gomma, sorridendo tronfio quando sentii il sibilo dell'aria che usciva e si disperdeva nell'ambiente. I quattro ammutolirono, fissandomi quasi spaventati, mentre Hana tentava di reprimere una risata.

«Stupido...» sussurrò scossa da un sorriso divertito.

«La prossima volta fareste meglio a pensarci di più prima di lanciarmi oggetti addosso.» quasi gridai ai ragazzini, passando loro il pallone sgonfio.

«Dai, poveri...» commentò Hana senza riuscire a nascondere una risatina. «Dovremo comprargli un'altra palla.» disse dolcemente, nel tentativo di persuadermi.

«Mai e poi mai. Non se la meritano.» insistetti, incrociando le braccia al petto. La mia fidanzata scosse la testa con un sorriso leggero, poi si alzò dalla sdraio, allacciandosi un pareo floreale alla vita, per velare le gambe nude.

«Dove stai andando?» le chiesi, ma senza ricevere risposta, perché ormai era troppo lontana da me per riuscire a sentire le mie parole. La vidi avvicinarsi al chiosco del resort con la sua andatura delicata ed appoggiarsi al bancone per richiamare l'attenzione del barista, il quale si mise subito a sua disposizione. Si scambiarono qualche rapida parola che purtroppo non riuscii a comprendere, dopodiché vidi il ragazzo chinarsi sotto il bancone e porgerle un pallone identico a quello trafitto dalla mia forchetta pochi minuti prima. Sogghignai in una velata soddisfazione quando mi accorsi che il quartetto mi fissava di sottecchi, temendo la mia prossima mossa. Notai la mia ragazza prendere la palla dalle mani del barman, per poi incamminarsi quasi saltellando verso i quattro odiati bambini. Aggrottai le sopracciglia vedendo Hana porgere il pallone ai miei nemici, con il suo sorriso persuasivo. Lessi dal suo labiale che si stava scusando, accennando con il capo verso la mia direzione, quasi a dire che anch'io ero dispiaciuto per l'avvenimento, nonostante non fosse la verità. Schioccai la lingua contro il palato - certo, come no - quando Hana tornò a sedersi sorridente sulla sua sdraio.

«Li hai spaventati.» disse ridacchiando divertita.

«Se lo meritavano.»

«Ma sono solo bambini...» rise girandosi nella mia direzione, nell'intento di riprendermi per il mio comportamento. «E in ogni caso avresti potuto almeno rompere qualcosa di loro, non il pallone del resort.» scherzò dandomi una pacca sulla spalla che mi fece sorridere leggermente. «Ora dovremo pure pagarla.»

Feci per ribattere, ma un'ombra scura eclissò il raggio di Sole che colpiva la mia testa, mentre viaggiava per raggiungere l'ovest. Roteai gli occhi, girandomi di scatto verso la persona corpulenta che bloccava l'arrossamento della mia pelle chiara sotto la luce solare. Hana diceva spesso che insieme sembravamo caffè e latte, dato che la carnagione della mia fidanzata era sempre e costantemente più scura della mia.

«Senti, puoi levarti dalle scatole?» chiesi sgarbatamente ed infastidito, ma maledicendomi ben presto della mia mancata gentilezza. «B-buongiorno, signor Carson...» dissi timidamente, con una vocina quasi acuta, accompagnando la mia gaffe con una risata imbarazzata.

«Buongiorno a lei, signor Min.» mi salutò a sua volta, con quella sua voce squillante ma composta. Tirai un sospiro di sollievo, perché probabilmente l'agente immobiliare non aveva sentito le mie imprecazioni. «Abbiamo già avviato le pratiche, sa?» mi informò la stessa persona, in un inglese con accento nordico. Era un uomo sulla cinquantina, brizzolato e ben curato. Si arricchiva viaggiando per il mondo, vendendo e comprando terreni a destra e a manca e probabilmente la Porsche nera che guidava con fierezza era una delle cose meno costose che avesse mai posseduto..

«Davvero?» chiesi per accertarmene, con uno sguardo talmente lucente da far invidia ad una  stella. «Grandioso.» commentai su di giri senza nemmeno aspettare una risposta.

«Certo, fantastico.» sentì dire acida la mia ragazza in sottofondo. Mi girai verso di lei, notandola a braccia incrociate, appoggiata allo schienale della sedia a sdraio con la mandibola serrata.

«Ehi, che cos'hai?» le chiesi senza capire cosa le prendesse, ma lei ignorò la mia domanda, rispondendomi con: «Vado nel parco.» e, detto quello, si alzò lasciando tutte le sue cose lì, indossando la sua canotta color sabbia e i pantaloncini di jeans. Alzai gli occhi al cielo per l'ennesima volta in quella mattinata e, dopo essermi scusato con il signor Carson e sua moglie, corsi dietro ad Hana.

«Si può sapere che diavolo stai facendo?» le domandai infastidito, quando la trovai a vagare tra orchidee colorate e plumerie profumate, mentre si stringeva nelle spalle, tentando di repellere gli insetti che vagavano nell'aria. Il parco, come lo chiamavano i lavoratori del resort, era una grande oasi vicino alla piscina, dove regnavano l'odore dolce dei fiori e quello acre del legno degli alberi tropicali.

«Lasciami in pace.» tentò di cacciarmi con poca convinzione.

«Mi stai facendo fare una brutta figura con il signore, Hana.» dissi duramente, afferrandole il polso e facendola voltare verso di me per la violenza che ci misi. «Lo vuoi quel pezzo di terra oppure preferisci cadere in rovina?»

«Devi ancora capire che a me del tuo pezzo di terra non frega niente, Yoongi!» sbottò strattonando con forza il polso nella mia mano nel tentativo di liberarsi e riappropriarsene.

«E allora perché ti comporti così?» chiesi roteando gli occhi, senza riuscire a trattenere una sfumatura di nervosismo.

«Perché a te importa solo del lavoro!» rispose girandosi verso il piccolo laghetto di carpe giapponesi del giardino, con il proprio polso in mano.

«È un acquirente importante, Hana. È naturale che mi preoccupi di quello.» ragionai tra i denti, iniziando ad innervosirmi.

«Il problema è che tu ci pensi sempre, Yoongi.» disse con voce leggermente tremolante. Odiavo quando mi parlava usando il mio nome di battesimo: lo faceva solo quando era davvero arrabbiata.

«Non è vero...» tentai di difendermi, mentre mi incupivo alla sua insistenza.

«Ah, no? "Oh, guarda quella bella spiaggia incontaminata, potrei costruirci un lussuoso hotel cinque stelle. Oppure quell'oasi, deve essere perfetta per un supermercato".» mi imitò baldanzosa, ma sull'orlo delle lacrime.

«Siamo venuti qui per questo...» sussurrai guardando dappertutto fuorché nella direzione di Hana.

«Per cosa? Per distruggere il mondo con la tua stupida mentalità materialista ed imprenditoriale?!» domandò retorica comprimendo i denti all'interno della bocca con abbastanza forza da poter essere comparata ad una bomba ad orologeria. «Io sono venuta qui solo perché mi hai obbligata tu, Yoongi. Me ne restavo in Corea, altrimenti.» disse abbassando la voce e rilasciando un po' di quella forza nucleare che le conficcava i denti nelle gengive.

«Mi dispiace.» tentai di scusarmi abbassando lo sguardo e fissandomi le dita dei piedi ancora nudi.

«Ti dispiace sempre, ma questa volta non ti perdonerò tanto facilmente.» continuò, affacciandosi alla staccionata che divideva la pozza d'acqua dalla terra del giardino. «E ora va'. Il tuo amico ti aspetta.»

«Non tornerò da lui senza di te.»

«E allora preparati a dormire qua fuori.» disse sgarbata, con una punta d'ira.

«Avanti, Hana, non fare la bambina, non hai tre anni.» la ripresi aggrottando le sopracciglia al suo comportamento. In  qualche modo avevo il sentore che stesse imitando il mio atteggiamento quando ero arrabbiato.

«Mi sto comportando esattamente come fai tu, Yoongi!» mi ammazzò con uno sguardo, stringendo con tale forza il palo orizzontale della staccionata da farsi sbiancare le nocche. Con il suo silenzio, era ancora più pericolosa di quanto potesse sembrare.

«Non voglio litigare con te.»

«Neanche io, ma è impossibile non farlo, ormai! Anche io ho un limite.» sbottò di nuovo, girandosi verso di me. «Siamo a Phuket, te lo ricordi? Siamo venuti qui per le vacanze, l'hai detto tu stesso che avresti pensato a divertirti e non al lavoro, come invece fai quando siamo a Bangkok. Perché sei diventato così ossessionato dai soldi?» mi chiese guardandomi con le lacrime agli occhi. «Potrei morire dissanguata sul pavimento del tuo ufficio e tu penseresti prima alla macchia di sangue che spaventerebbe i clienti!» continuò a tenere lo sguardo puntato su di me e, anche dopo che ebbi abbassato la testa, potei percepire i suoi occhi di fuoco trapanarmi il cranio.

«Guardati anche adesso. Abbassi la testa come un codardo.» la vidi scuotere il capo sprezzante. «Chiudere gli occhi non cambierà nulla. Niente scomparirà soltanto perché non puoi vedere cosa sta succedendo.» disse duramente, come se riuscisse a leggere gli impulsi nervosi che mi fecero abbassare le palpebre.

«"Non alzare la voce, migliora il tuo ragionamento".» recitai quasi meccanicamente una frase del suo libro più recente. Hana fece un minuscolo passo indietro, probabilmente presa in contropiede dal fatto che io leggessi le sue creazioni, poiché  mi reputava uno stupido insensibile a cui non importava niente all'infuori del denaro.

«Allora fallo.» si riprese subito dalla sorpresa. «Mostrami che i miei libri lasciano un segno nella vita delle persone.».

Feci per parlare e spiegare civilmente le mie ragioni, ma non ci riuscii. Non ne ebbi il tempo. Non potei scusarmi con lei, perché madre natura decise di punirmi proprio in quel momento.

 

La terra sotto ai nostri piedi iniziò a tremare violentemente assieme alle pareti fatte di vetro del resort. I fiori di plumerie e orchidee barcollavano precari, dando premonizioni poco allegre su quello che sarebbe successo di lì a pochi minuti. Mi voltai a guardare verso la piscina, intravedendo tra le foglie di alberi tropicali delle donne urlare e cadere a terra dopo aver perso l'equilibrio, mentre altri chiamavano aiuto svenendo poi sul pavimento. Sentii la stretta di Hana prendermi la mano per restare in piedi e, forse, anche per cercare conforto alla sua paura crescente.

«Yoongi, guarda...» sussurrò con voce strozzata, indicando terrorizzata verso il mare che riuscivamo a vedere splendidamente da quel punto. Ma quella volta non fu uno spettacolo guardarlo.

Sentimmo uno schianto al di là degli chalet con il tetto in paglia secca: una palma ne aveva distrutto uno cadendoci sopra.

 

Poi ci travolse. Senza avvertirci, un'onda con un'incredibile potenza investì qualunque cosa sul suo cammino: dai vetri del resort a quelli delle case costiere, dalle sdraio a bordo piscina ai meravigliosi arbusti che ricoprivano l'esterno dell'albergo. Non sentivo più la mano di Hana nella mia e quella sensazione di vuoto mi angosciò, ma senza durare troppo. Oggetti di ogni tipo mi venivano incontro, facendomi dimenticare per alcuni minuti della mia ragazza: tavoli, stoviglie, materassi, sdraio, ombrelloni e perfino automobili mi sfregiavano la pelle, disegnandomi lividi e ferite sanguinose sulla pelle lattea. L'acqua sporca mi trascinava dove preferiva, ma, nonostante ciò, riuscii a far riaffiorare la testa per prendere una boccata d'aria. Alzai le mani verso l'alto, nel tentativo di trovare qualcosa a cui aggrapparmi, ma non riuscivo a vedere cosa ci fosse attorno a me per via degli occhi irritati dall'acqua e per i capelli che mi restavano appiccicati alla fronte. Non potei curarmene molto, in quel momento, poiché le forze mi vennero meno.

Prima di abbassare definitivamente le palpebre, afferrai con le unghie un tronco di una delle tante palme precipitate, sperando di restarci fino alla fine del cataclisma per ricevere una sepoltura decente ed idonea alla mia persona. Poi mi lasciai andare e spirai il mio presunto ultimo respiro, con un dolore lancinante al ginocchio e al costato.

Ma, per mia sfortuna, quella volta non morii.

 

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Il mio spazietto: Oh, yeah, sono tornata (per vostra sfortuna e.e) con una nuova ff ~ E' da un sacco di tempo che ci lavoro e ho deciso di iniziare a postarla, visto che sono quasi giunta alla fine nello scriverla. Vi dico solo che non durerà molti capitoli, ma spero possa coinvolgervi in ogni caso ~ Fatemi sapere cosa ne pensate, sarò felicissima di rispondervi con i miei più sentiti ringraziamenti, indipendentemente dal tipo di recensione ~ Alla prossima ♥ (tutti i giovedì probabilmente, sì.)

 


 

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Capitolo 2
*** Morte. ***


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Capitolo due.
Il pensiero della morte non mi aveva mai colpito così violentemente. La sensazione di non farcela, di lasciarsi andare, di morire solo. Solitamente, quelle rare volte che ci pensavo, mi capitava di considerare solamente un semplice infarto ad ottant'anni, con mia moglie piangente al mio fianco, mentre i nostri giovani nipoti parlottavano tra loro dei bei ricordi che erano rimasti nei loro cuori, ma non tutte le volte funzionava in quel modo.
Quando mi trasferii con la mia fidanzata a Bangkok, oscuri presagi di morte iniziarono a tormentare i miei sogni, tramutati  in incubi con lo scorrere del tempo. Cominciai a realizzare che le possibilità e i modi per morire non erano poi tanto remoti o incredibili. Sarei potuto morire investito da un tir in piena città, oppure avrei potuto contrarre un cancro gravissimo ed incurabile al cervello o, ancora, sarei potuto finire trivellato da una mitragliatrice in una sparatoria in banca.
In quel momento, dopo la catastrofe, iniziai ad abbandonarmi all'idea di esalare il mio ultimo respiro in quel modo, solo come un cane. Ma purtroppo quella volta il mio cuore non decise di cessare di battere. Svenni, ma non morii. Mi risvegliai forse qualche ora dopo, ricordo soltanto che ero ancora precariamente aggrappato al tronco della palma e la luce del sole mi riempiva gli occhi, accecandomi con la sua intensità. Mossi pesantemente le palpebre e mi sgranchii lentamente le dita delle mani, prendendo man mano conoscenza di quello che mi stava accadendo. Avevo sete, la bocca impastata, e il mio stomaco ruggiva peggio che dopo una sbronza. La testa mi pulsava talmente tanto da farmi credere che mi stesse per esplodere il cervello con la forza di una bomba atomica.
«Ehi! Ehi, tu!» sentii una voce ovattata e lontana chiamarmi e mi chiesi se Dio fosse sempre così informale quando richiamava le anime in paradiso. Udii un'imprecazione e rimasi davvero colpito dalla scurrilità del padre eterno, fin quando mi accorsi che non era lui ad interpellarmi, ma un buon uomo dalle braccia forti, il quale mi intimò di allungare una mano verso le sue. Lo maledissi mentalmente, nonostante stesse cercando di salvarmi la vita, perché nello stato in cui mi trovavo in quel momento, mi era difficile anche solo respirare regolarmente. Con uno sforzo apparente minimo, ma in realtà immane, girai il viso verso la voce che mi chiamava, mentre la mia guancia veniva irritata dallo sfregare contro il tronco della palma.
Era un asiatico, difficile distinguere il suo paese di provenienza, lo riconobbi dalla linea dei suoi occhi a mandorla. Sembrava giovane, da quel poco che mi permettevano di vedere le mie pupille stanche. Tentai di allungare una mano verso di lui, ma non feci in tempo a raggiungere la sua, che mi sentii tirare verso l'alto da un paio di braccia attorno al mio busto. Quella persona mi adagiò a terra, in un punto più asciutto degli altri. Notai che il cielo era privo di nuvole e presentava un colore azzurro limpido, come se quello che successe la mattina fosse solo un remoto ricordo. Il livello dell'acqua era diminuito e, dove mi trovavo prima attaccato alla palma, non arrivava che al ginocchio. Sentii di nuovo un'imprecazione, ma non proveniva dalle stesse labbra di quello che mi aveva teso le braccia. Due visi sfocati mi si presentarono davanti agli occhi, chiedendomi se stessi bene. Riuscivo a malapena a distinguere la linea dei loro occhi orientali e il colore scuro dei loro capelli.
«Guarda, ha il polpaccio martoriato...» sussurrò uno all'altro con tono abbastanza alto affinché potessi sentire anch'io. Mi accorsi, dopo un minuto di sconcerto, che stavano parlando nella mia stessa lingua natia.
«Questo ti farà un po' male, amico.» mi disse uno dei due in un inglese quasi americano. Alzai lentamente la testa tentando di mettere a fuoco le mie gambe, ma, dopo aver visto qualcosa di rosso scuro nella parte inferiore del mio corpo, la riabbassai subito, accompagnato da un capogiro. Percepii delle mani sulle mie ginocchia e una pulsazione di dolore m'investì la testa, facendomi gemere per il dolore. Il rumore di uno strappo di stoffa mi riempì le orecchie e mi trafisse il cervello con un colpo ben assestato.
«Che diamine... state facendo?» domandai tra i denti, mentre le lacrime iniziavano a pizzicarmi gli occhi.
«Fermiamo l'emorragia, genio.» mi rispose sempre la stessa voce profonda e con accento americano. La parola "emorragia" mi portava a pensare al sangue e la mia mente calcolò lentamente che non doveva trattarsi di una cosa positiva. Dopo alcuni secondi sentii di nuovo le loro mani sulla mia gamba, ma questa volta urlai di dolore, poiché avvertii la stretta del nodo della striscia di stoffa che il ragazzo aveva strappato poco prima.
Il sangue iniziò a pulsarmi nelle tempie e mi morsi talmente forte il labbro inferiore per affievolire le mie grida che temetti di forarmelo con i canini. Le mie dita strinsero quasi di loro spontanea volontà la terra bagnata dove mi avevano adagiato, nel tentativo disperato di scaricare il mio male al terreno. Inarcai la schiena al dolore intenso, il quale persisteva in me e che mai avevo provato così forte in tutta la mia esistenza. Un lamento si levò involontariamente dalle mie labbra: «Basta...» pregai qualcuno nell'alto dei cieli di salvarmi da quell'atrocità, ma, a quanto pare, la mia poca fede mi si ritorse contro proprio in quel momento, lasciandomi a bocca asciutta.
«Ehi, calmati, non è niente.» usò una di quelle fastidiose frasi di circostanza e gli imprecai contro, come se in quella situazione potessi anche solo pensare di restare calmo. Le lacrime mi rigavano le tempie, fuoriuscendo copiose, rendendomi debole e vulnerabile agli occhi altrui. Alzai una mano sporca di terra bagnata e la richiusi a pugno, per batterlo di nuovo sul terreno, nel tentativo di distrarre il mio dolore, ma non riuscii nell'intento. Appena la mia mano toccò il suolo, qualcosa di appuntito si conficcò nella carne del bordo del palmo. Gridai di nuovo e mi portai la mano al petto, con la mente offuscata dal male.
«Per favore...» sussurrai di nuovo, stringendo i denti, ma nessuno, da lassù, sembrava curarsi di me, piccolo ed insignificante uomo infedele. All'ennesimo richiamo verso l'alto, iniziai a dimenarmi, alzando e picchiando a terra i palmi delle mani, muovendo la gamba sana per cercare di scappare da lì. Spostai la testa di lato, con la vista annebbiata dalle lacrime, ma, tuttavia, notai un ammasso di corpi a qualche metro di distanza da me. Tentai di imporre alla mia mente che quelle persone stavano bene, ma il pensiero della morte mi martellò di nuovo la testa.
«Non voglio morire...» dissi lamentoso, senza smettere di dimenarmi. Sentii uno dei due sbuffare ed afferrarmi i polsi con una stretta ferrea, bloccandoli a terra.
«Se non la smetti, sarò io ad ammazzarti!» mi ringhiò contro con uno sguardo torvo, il quale riuscii ad intravedere tra le lacrime. In qualche modo, quei lineamenti gentili e le labbra carnose del ragazzo mi intimorirono, perciò smisi di parlare e di muovermi concitatamente, tuttavia i singhiozzi non decisero di lasciarmi in pace. Dopo qualche secondo il ragazzo si stancò di placcarmi, perciò mi liberò le braccia.
«Senti... io non so chi tu sia, ma dobbiamo portarti in ospedale.» tentò di dirmi in un inglese più impastato della mia bocca. Non risposi subito, ma buttai indietro la testa, cercando di respirare regolarmente e di calmarmi.
«Dov'è Hana...?» chiesi con voce stentata. «Dov'è Hana?!» ripetei mettendomi ad urlare e tentando di tirarmi su facendo pressione sulla gamba dolente, ma due mani mi sbatterono di nuovo a terra. Boccheggiai al'impatto mentre le lacrime mi rigavano le guance ormai già levigate.
«Sta' zitto!» mi ordinò categorico il ragazzo con l'accento americano. «Non importa se non vuoi collaborare, noi ti porteremo in ospedale che ti piaccia o no. Ricevuto il messaggio?» domandò retorico la voce profonda. Io annuii passandomi le mani sul viso come un bambino piccolo che ha qualcosa di fastidioso negli occhi.
«Finalmente...» esultò a bassa voce, lasciandosi scappare un sospiro di sollievo. Li sentii alzarsi da terra, dopodiché due braccia mi fasciarono il busto e due mani presero le mie, aiutandomi a rimettermi in piedi. M'impuntai al suolo con il piede sano, cercando di non forzare troppo la gamba insanguinata, ma un lamento strascicato mi uscii dalle labbra in ogni caso.
«Forza...» mi incitò senza troppa convinzione il ragazzo dai lineamenti gentili. Aveva i capelli castano scuro e gli occhi color cioccolato, tuttavia non riuscii a notare più di questo per via della mia vista offuscata. Misi le braccia attorno alle loro spalle, con un leggero accenno di tosse.
«Dov'è Hana...?» chiesi per la terza volta con la voce un po' più roca del solito, la testa bassa.
«Non so nemmeno chi sia.» commentò senza mostrare neanche un filo di commozione. Il compare del ragazzo gentile era più mascolino rispetto a lui: indossava solamente dei bermuda color kaki, poiché la maglietta se l'era stracciata per avvolgerla attorno alla mia ferita. I suoi capelli neri come la pece facevano pendant con i suoi occhi, dello stesso colore. Il naso era leggermente schiacciato, mentre teneva la mandibola protesa in avanti, arrivando quasi ad assomigliare ad un gorilla.
«È la mia fidanzata...» sussurrai.
Nonostante stessi meglio di prima, i suoni e i rumori rimbombavano ancora nella mia testa. Quello alla mia destra, con i capelli neri, rise insolente scuotendo la testa. Gli chiesi perché lo stesse facendo e lui mi rispose: «Sarà già morta a quest'ora, amico.»
Quelle parole mi colpirono il cuore, lasciandomi un senso di agonia dentro ben peggiore del male che provavo al polpaccio.
«Idiota.» lo riprese quello gentile, dandogli uno scappellotto dietro la nuca.
«Ehi, è la verità!» si giustificò l'altro.
«La conosci la delicatezza, Namjoon?» domandò retorico.
«È un nome coreano...» bisbigliai schiarendomi leggermente la voce per attirare l'attenzione. Cercai di sembrare il più tranquillo possibile, nonostante i pensieri negativi che mi balenavano per la mente.
«Mh?» i due accanto a me si chinarono avvicinandosi, poiché probabilmente parlavo a voce troppo bassa per raggiungere i loro recettori uditivi.
«"Namjoon". È un nome coreano.» ripetei tentando di farmi percepire. «Mi chiamo Yoongi.» dissi nella mia lingua natia.
«Sono Namjoon.» si presentò il ragazzo facendomi un cenno con il capo.
«Puoi chiamarmi Jin.» disse quello alla mia sinistra con un sorriso che gli rimpicciolì le labbra carnose.
«Come facciamo a raggiungere un ospedale?» chiesi cambiando improvvisamente discorso, poiché c'erano cose più importanti di cui parlare rispetto alle nostre origini.
«C'è un gruppo di uomini non molto lontano da qui. Hanno un pickup, sono scesi dalle montagne dopo lo tsunami.» mi spiegò Namjoon, facendomi accendere dei dubbi nella mente.
«Li conoscete?» domandai guardandolo preoccupato.
«No, mai visti prima.» rispose Jin senza mostrare il mio stesso stato d'animo.
«E come farete a convincerli di portarmi in ospedale?» continuai a porre quesiti, preoccupandomi sempre più ogni secondo che passava.
«Qualche banconota riesce a smuovere anche i cuori più freddi.» disse sarcastico Namjoon, ricevendo un cenno di approvazione dall'altro ragazzo.
«Quindi è questo che volete fare? Corromperli?» chiesi con un tono più acuto del solito.
«Vedo che sei perspicace.» commentò il ragazzo a torso nudo. Sospirai e, con la testa bassa, continuai a camminare silenziosamente insieme ai due. La staticità dell'atmosfera era interrotta solamente dai miei soffocati lamenti di dolore, il quale si era preso possesso del costato e mi aveva anestetizzato la gamba. Anche solo il minimo sforzo mi faceva battere all'impazzata il cuore, rendendomi in grado di sentire persino il mio battito cardiaco nelle orecchie.
«Guardali, sono lì.» sentii la voce di Jin avvertirmi mentre mi dava una pacca sul petto per controllare il mio stato pietoso. Al mio silenzio, mi afferrò il viso con una mano e lo alzò, constatando con un sospiro la mia stanchezza. Alzai gli occhi ed incontrai i suoi, tentando di racimolare le mie ultime forze per non far rivoltare indietro le pupille. Faticavo a capire cosa stesse succedendo e mi resi conto della gravità della situazione solo quando, dal cassone del pickup, potei scorgere per la prima volta il disastro che ci circondava. Le case che prima costeggiavano le rive delle spiagge non si vedevano più e il resort floreale era stato inghiottito dall'acqua impetuosa insieme a tutto il resto. Lamenti sommessi simili ai miei riecheggiavano ai lati della stradicciola sgomberata dalle piante e dalle cianfrusaglie grazie ad alcuni volontari locali. Singhiozzi attorniavano le decine di persone decedute, mentre quelle ancora vive scrollavano i corpi lividi e martoriati dei loro cari con un barlume di speranza che andava a poco a poco scemando.
Prima che Jin e Namjoon mi costringessero a stendermi sulla lamiera del cassone per ridurre i miei capogiri, notai una donna con un corpicino mezzo nudo tra le braccia urlare disperata.
«Il mio bambino...» la sentii gridare tra i singhiozzi, mentre voltava il viso fradicio verso un ragazzo dietro di lei, il quale le si avvicinò e l'abbracciò tra le lacrime. Distolsi lo sguardo quando mi accorsi che il bimbo con il costume infangato non aveva la testa, era decapitato.
Mi prese un colpo al cuore nel momento in cui il pensiero che quello sarebbe potuto succedere anche ad Hana mi bussò alla mente. Mi sdraiai sfinito senza volerne sapere più nulla, ma non chiusi gli occhi. Non desideravo svenire, né dormire, né, peggio ancora, lasciarmi andare.
I due ragazzi si misero seduti accanto a me, tenendo gli sguardi fissi sulle loro ginocchia, attenti a non imprimersi nella memoria le immagini di morte che attraversavamo mentre il pickup ci portava verso il primo ospedale disponibile. Parlottavano tra di loro, ma non prestavo attenzione a ciò di cui blateravano. L'unico mio pensiero era salvarmi, in quel momento. Non volevo morire, ma soprattutto non volevo che la mia fidanzata morisse. Dovevo trovarla. Dovevo salvare Hana.




Il mio spazietto: Yeah, siamo di nuovo qui ^^ Questo è il secondo capitolo (*capitan ovvio mode: ON*) e mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensate! A settimana prossima ~

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Capitolo 3
*** Viaggio. ***


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Capitolo tre.
L'odore acre della morte aveva preso il posto di quello legnoso degli alberi da frutto tropicali, penetrando nelle narici dei presenti. Il pickup fece uno sbalzo, quasi inciampando contro qualcosa di corpulento a terra che non riuscii a distinguere, ma pregai con tutto il mio cuore che non fosse un cadavere, per quanto inutili le mie preghiere potessero essere. Mi lasciai scappare un lamento strascicato quando la coscia della gamba insanguinata sbatté leggermente contro il metallo, facendomi imprecare infastidito. La parte compresa tra il ginocchio e la punta dell'alluce non la sentivo più, era come anestetizzata ed insensibile.
«Quanto manca?» chiesi dopo qualche interminabile minuto di viaggio con una voce talmente bassa che mi stupii il fatto che mi sentirono.
«Non lo so.» mi rispose sconsolato Jin, mentre appoggiava il mento sulle ginocchia che aveva stretto al petto. Rivolsi la stessa domanda a Namjoon, ma ricevetti la medesima risposta e sospirai, fin quando un ennesimo grido lontano d'aiuto risuonò nell'aria, attirando più degli altri la nostra attenzione. Era diverso da quelli già uditi: aveva un timbro acuto, quasi simile a quello di un bambino, e non emetteva suoni sconnessi di dolore, pronunciava una parola ben precisa. Mamma. I due ragazzi alzarono la testa e restarono in ascolto per un lasso di tempo nel quale il grido si ripeté un altro paio di volte, sembrando sempre più vicino man mano che l'auto viaggiava. Namjoon gattonò attraverso il cassone e bussò sul pannello di plexiglass che divideva la cabina del guidatore dal resto del mezzo.
«Ferma la macchina.» gli ordinò ad alta voce continuando a picchiare le nocche sulla plastica trasparente. Il pickup iniziò a rallentare la sua corsa e si fermò dopo pochissimi secondi.
«Che c'è?» chiese l'autista quando aprì la portiera, permettendomi di vedere il suo viso attraverso il riflesso allo specchietto. Era biondo, con gli occhi azzurri, ma non sembrava particolarmente giovane. Non vi fu il bisogno di rispondere, poiché lo stesso grido d'aiuto si ripeté riempiendo di nuovo le orecchie dei presenti. Namjoon scese dal cassone con una fune piuttosto lunga tra le mani e, scambiato uno sguardo di tacito accordo con l'uomo occidentale uscito dal pickup, iniziarono a perlustrare la zona con gli occhi, tentando di cercare con l'udito l'emittente del grido.
«Ehi! Aspettate, dove state andando?» domandai mentre alzavo leggermente la schiena con l'ausilio dei gomiti.
«A salvare quel bambino.» rispose Namjoon riavvicinandosi al mezzo di trasporto per sporgersi sulla lamiera nel tentativo di recuperare qualcosa che lo potesse aiutare a trovare la voce.
«Ma dobbiamo andare all'ospedale.» dissi seguendo con le pupille le sue azioni.
«E quindi?» alzò un sopracciglio volgendo il suo fastidioso sguardo annoiato contro di me.
«E quindi...» iniziai a spiegare roteando gli occhi. «... potrei morire da un momento all'altro se non ci diamo una mossa.»
«E se fosse Hana?» domandò saltando fuori dal nulla con un quesito senza filo logico.
«Chi?»
«La persona che chiede aiuto. Se fosse Hana la salveresti, no?»
«Lei non ha quella voce.»
«Ma se lo fosse?» forzò l'ultima parola, cominciando ad innervosirsi visibilmente alla mia testardaggine.
«Sì, la salverei se fosse lei.» risposi con un sospiro, per quanto stupido ed illogico trovassi il suo ragionamento.
«E allora sta' zitto e lasciaci lavorare.» disse categorico, allontanandosi di qualche passo, senza aver recuperato nulla dal cassone del pickup. Poi si fermò, voltandosi un'ultima volta verso di me: «E comunque, ormai la gamba te l'amputeranno, quindi un minuto in più o un minuto in meno non fa differenza.»
«Namjoon!» lo rimproverò Jin guardandolo nello stesso modo di una madre con il figlio che ha detto qualcosa di inappropriato, mentre io spalancai le palpebre a quel commento.
«È la verità!» gli rispose urlando il ragazzo, allontanandosi a grandi passi, e vidi con la coda dell'occhio Jin scuotere la testa con un sospiro. Presi un respiro profondo, dopodiché ordinai al ragazzo gentile di aiutarmi a scendere dal pickup.
«Cosa?»
«Fammi scendere.» ripetei forzandomi sul ginocchio sano per tirarmi su a sedere.
«Ma la tua gamba...»
«Sì, sì, verrà amputata, giusto? Che differenza fa, ormai?»
«Touchè.» disse alzandosi e prendendomi un braccio per metterlo attorno alle sue spalle e caricarmi sulla sua schiena. Scendemmo a fatica e seguimmo lentamente i passi di Namjoon.
«Allora non sei così irragionevole come pensavo.» commentò quest'ultimo quando lo affiancammo. Non ci guardò, ma tenne lo sguardo puntato su un albero mediamente alto, uno dei pochi che aveva resistito all'acqua.
«È lì?» chiese Jin seguendo la direzione sulla quale erano puntati i suoi occhi. Namjoon annuì e poi sospirò, incamminandosi verso l'albero. Lo seguimmo con passo strascicato e potevo sentire gli ansiti di fatica di Jin mentre ci avvicinavamo, però non dissi nulla, poiché fui rapito da un paio di piccole manine aggrappate ad un ramo tra le foglie.
«Quella non è Hana.» dissi quasi deluso. Avevo creduto, per qualche stupido secondo, che sarebbe davvero potuta essere lei.
«Beh, se lo fosse stata mi sarei seriamente preoccupato della tua immagine sociale.» commentò Namjoon con il naso all'insù, intento a compiere un giro attorno all'albero per analizzare attento la situazione. «Avrà sì e no otto anni, saresti passato per un pedofilo.» continuò a parlare, ma non risposi, appoggiai solamente una guancia tra le scapole di Jin e sospirai mentre guardavo l'altro ragazzo lanciare la corda verso le frasche. La bambina afferrò la fune e la tirò verso di sé con la sua piccola mano.
«Legala attorno alla vita.» le ordinò dolcemente Namjoon, sorridendole rassicurante. Mi stupii il fatto che la ragazzina lo capì, nonostante lui le stesse comunicando in inglese. «E ora annoda l'altra estremità alla base del ramo.» disse scandendo bene le parole ed accompagnando il tutto con dei gesti eloquenti delle mani per facilitare la comprensione della bimba. Quest'ultima strisciò verso il tronco dell'albero, conficcando le unghie nella corteccia per non correre il rischio di cadere, e fece come le aveva dettato.
Chiusi gli occhi quando Namjoon le intimò di lasciarsi cadere tra le sue braccia, timoroso che la piccola potesse schiantarsi al suolo, ma lui non fu così stupido da mancarla nel suo salto. La bambina rilasciò un urletto strozzato quando colpì il petto di Namjoon, poiché la corda che aveva stretto attorno alla vita la strattonò quando scese.
Riaprii gli occhi solo quando, tornati sul cassone del pickup, mi rimisi sdraiato nella medesima posizione di poco prima, con Jin alla mia destra e Namjoon dall'altra parte, il quale era occupato a dialogare con la bambina. A quanto si poteva giudicare dal loro chiacchiericcio, i due se la intendevano alla grande, dato che parlavano entrambi un ottimo inglese.
«Come ti chiami?» le aveva chiesto mentre la invitava a salire sulla schiena prima di avviarsi al mezzo di trasporto, perché pensava che lei fosse stanca.
«Daw.» gli fece anche lo spelling, per farglielo capire meglio. In quel lasso di tempo, Namjoon aveva scoperto che il padre della nuova amica era britannico, per questo conosceva sia la lingua d'origine del padre, sia quella della madre, la lingua thai. La guardai mentre parlava. I capelli neri e lucenti che le arrivavano fin sotto le scapole riflettevano i raggi flebili del sole e la pelle olivastra le metteva in risalto gli occhi a mandorla, con le iridi castane. Sorrideva apertamente con le sue labbra sottili e la risata bambinesca che le apparteneva metteva tutta la compagnia di buonumore. Per quanto odiassi ammetterlo poiché avevo davvero pensato che potesse essere Hana, quella bambina rallegrava l'atmosfera con la sua presenza.
«Quanti anni hai?» le domandò Jin interrompendo i loro discorsi.
«Nove.» rispose girandosi verso di lui con un sorriso molto gentile.
«Stai bene? Sei ferita da qualche parte?» continuò in una dolce preoccupazione.
«No, sto bene.» disse con altrettanta delicatezza. Si sorrisero per qualche secondo, dopodiché attirai l'attenzione mettendomi a sedere e strisciando verso una sponda, accompagnato dalla solita fatica che mi aggravava il ginocchio. Daw mi guardò attentamente, scorrendo lo sguardo dal mio viso sfregiato, alle mie braccia livide, fino ad arrivare alle gambe e alle punte degli alluci.
«Dove sono i tuoi genitori?» le chiesi dopo qualche secondo, interrompendo la sua contemplazione. Rialzò lo sguardo sul mio viso e potei giurare di aver scorto di sfuggita qualche lacrima riempirle gli occhi, ma non ebbi il tempo di accertarmene perché lei abbassò la testa, fissando le sue gambe incrociate.
«Non lo so. Forse sono morti.» mormorò perdendo in un secondo tutta l'allegria che trasmetteva fino a pochi attimi prima. Sia Namjoon che Jin mi lanciarono uno sguardo fulminante che mi fece sentire piccolo e stupido.
«Non dire così, li ritroveremo.» tentò di rassicurarla Namjoon, accarezzandole paternamente i capelli. «Non hai delle loro foto? In questo modo sarà più semplice per noi riconoscerli.»
Tuttavia la bambina scosse la testa in segno di negazione. In quel momento un lampo mi attraversò la mente illuminandomi. Feci scivolare una mano in tasca e con fatica ne ricavai fuori il portafoglio di pelle scura che gocciolava acqua. Mi sorprese il fatto che l'avessi ancora e che non fosse uscito dai miei pantaloni durante la catastrofe. Lo aprii tremante e scoprii con mio grande sollievo che ciò che cercavo era ancora lì. Accennai un sorriso e tolsi da una tasca del portafoglio una piccola foto. Aveva i contorni sgualciti e scolorati come gocce d'acqua su un quadro ad acquerelli ancora bagnato, ma il sorriso di Hana era ancora ben visibile e mi contagiò per qualche secondo. I capelli neri di cui aveva tinto di colore blu le punte le ricadevano mossi sulle spalle, incorniciandole il viso asiatico con la pelle leggermente abbronzata. Sospirai amareggiato quando mi ricordai il giorno in cui l'avevo scattata. Ci frequentavamo da un mese appena, allora. Era mattino presto quando la conobbi e, appena mi rivolse la parola, fu come se tanti fiori colorati avessero iniziato a crescere nelle parti più oscure e deprimenti della mia mente. Era l'unica persona oltre me su quella spiaggia deserta e m'incuriosii il fatto che una ragazza tanto giovane  si fosse svegliata prima dell'alba per accoccolarsi sulla sabbia fredda e scrivere febbrilmente sul suo quaderno sgualcito, lottando contro la brezza mattutina che le scompigliava i capelli facendoglieli andare davanti al viso. Il sole stava facendo capolinea dall'orizzonte, tingendo con un'intensa luce arancione il mare leggermente scosso dalle onde. Gli scrosci dell'acqua salata contro gli scogli camuffavano gli scatti della mia macchina fotografica, impegnata ad immortalare una delle più grandi bellezze della mia vita. La fotografia era una delle mie passioni a quel tempo e una cosa che adoravo fare era scovare nuovi luoghi magici e segreti, solo che quella volta non fui l'unico a trovarlo.
«Posso posare per le tue foto?» mi chiese quando mi fermai davanti a lei dandole le spalle per avere una differente prospettiva del cielo. Mi girai sorpreso, fissandola con le labbra schiuse. Neanche una presentazione, un saluto, soltanto quelle cinque parole che mai avevo sentito pronunciare tanto sfacciatamente.
«Scusi?» chiesi incerto alzando un sopracciglio, con una faccia da ebete che la fece ridere.
«Le tue foto. Posso posare per te?» disse per la seconda volta con un sorriso che mi rapii e balbettai qualcosa in risposta, mentre lei chiudeva il suo quaderno con un colpo secco e lo teneva stretto al petto.
Non avevo mai utilizzato delle persone reali come soggetti delle mie fotografie perché la mia passione riguardava me e me solo, gli altri non avevano il diritto di intromettersi nella relazione che avevo con il mio obiettivo. Tuttavia con lei era differente.
Sebbene sapessi appena il suo nome, la tranquillità che trasmetteva con le sue parole profonde mi allontanavano dal trambusto ostico della metropoli, facendomi quasi dimenticare l'esistenza del tempo, che scorreva talmente veloce quando stavamo insieme da mozzarmi il fiato.
Mi divertivo ad immortalare la sua silhouette in controluce davanti al sole albeggiante e lei rideva ogni volta che cambiava posizione. Mai una risata era diventata il mio suono preferito.
Diventò quasi un'abitudine vederci tutte le mattine per cercare sempre un posto nuovo dove rilassarci insieme e da lì iniziammo a frequentarci sempre, di mattina, di pomeriggio, di sera e persino di notte, vivendo i momenti magici del primo bacio, della prima volta, dell'incontro con i genitori, della convivenza ed, infine, della proposta di matrimonio, che lei aveva accettato con un moto di allegria mista a dolcezza che le era durato per almeno una settimana. Ci trasferimmo dal cuore della città più popolata della Corea del Sud e andammo a convivere in una zona più tranquilla, ma non meno abitata, di Bangkok. Non scattammo più fotografie da allora: io dovevo lavorare e avevo la testa piena di calcoli semestrali, mentre Hana doveva scrivere per la casa editrice che l'aveva chiamata per pubblicare i suoi scritti. Relegammo la macchina fotografica su uno scaffale e a volte ci capitò di lanciarle occhiate nostalgiche, ma nessuno di noi due ebbe mai il coraggio di rispolverarla e proporla all'altro. Eravamo cambiati, io più di tutti, ma il mio amore per lei non lo fece mai. La amavo sempre, come se fosse la prima volta, anche se in alcune occasioni poteva sembrare il contrario.
 
Un'imprecazione seguita dal mio nome mi risvegliò da quei pensieri. Alzai gli occhi verso Namjoon, ma non lo trovai nella sua solita posizione alla mia sinistra. Era sceso dal pickup e mi stava tendendo una mano da terra, piuttosto infastidito dal mio torpore.
«Vuoi venire o no?» chiese con un leggero accenno di nervosismo.
«Cosa? Dove?» balbettai confuso, fissando con un'espressione idiota il ragazzo.
«In ospedale.» roteò gli occhi, parlandomi come se stesse avendo a che fare con uno stupido. «Non era lì che prima volevi andare con tanta insistenza?»
Distolsi lo sguardo da lui e lo passai all'ambiente circostante: un grande edificio bianco ed affollato si ergeva dietro alle spalle del ragazzo. Annuii e strisciai verso Namjoon, appoggiando il piede sano a terra sostenuto dalle sue braccia forti e, lentamente, ci incamminammo verso l'ingresso dell'ospedale, con Daw in braccio a Jin.
L'entrata era un inferno: decine di persone strillavano concitate, piangevano e strepitavano per entrare subito, senza nemmeno rispettare la fila. Uomini in uniforme civile tentavano di placare quell'onda di gente, urlando in thailandese che i posti scarseggiavano, quindi erano ammessi solo i più gravi, come ci tradusse Daw dopo alcuni secondi, notando il nostro sconcerto. Una coppia di vigili ci scrutò per qualche attimo, poi ci concesse di entrare, ma solo perché avevamo con noi una bambina che faceva gli occhi dolci per convincerlo.
Avanzammo tra la folla ed aprimmo la porta di vetro, trovandoci nella hall dell'ospedale. Non era vuota come ci si sarebbe aspettati, tante persone stavano sedute ai lati della stanza, sulle sedie attaccate alle pareti. Erano per la maggior parte feriti, più o meno gravi, che venivano assistiti da parenti in lacrime e freddi infermieri. Sembrava una grande sala comune, come se non esistessero neanche le stanze private. Ciò che mi restò più impresso nella memoria furono le grida sommesse di una ragazza con un panno bianco tra i denti. Non ebbi il coraggio di abbassare lo sguardo sulle sue gambe per scoprire il motivo delle sue urla disperate.
«Forza, andiamo.» disse frettoloso Jin, facendo nascondere il viso di Daw nell'incavo del suo collo, come per non renderla partecipe a quella situazione dolorosa.
«Aspetta.» sussurrai quando notai con la coda dell'occhio sulla bacheca di una parete tante colonne piene di nomi.
«Dobbiamo andare, Yoongi.» insistette Namjoon iniziando a tirare dritto, ma prontamente levai il braccio dalle sue spalle e, quasi inciampando a terra, mi lanciai in una corsa zoppicante verso le innumerevoli liste. Evitai per miracolo un anziano signore e per poco non mi scaraventai contro il muro.
«Attento, idiota!» mi urlò dietro la voce di Namjoon mentre mi correva appresso per sostenermi.
«Aiutami a cercare il nome di Hana.» gli ordinai perdendomi tra quella miriade di nomi e cognomi impronunciabili.
«Amico, non voglio essere duro, ma Hana sarà morta già da tempo, ormai.» disse con un sospiro dispiaciuto che mi infastidii: non avevo bisogno di compassione.
«Sta' zitto.»
«È la verità, Yoongi. E lo sai benissimo anche tu.»
«Aiutami a cercarlo e basta!» gridai lanciandogli addosso un'occhiata supplichevole. Sapevo quanto fosse illogico ciò che stavo facendo, ma non volevo arrendermi così facilmente. Non volevo che le persone mi compatissero, non desideravo la pietà degli altri. Ero determinato a riportarla indietro e riabbracciarla. Volevo almeno porgerle le mie scuse per lo stupido litigio della mattina. Sembrava passato un mese ed invece era accaduto solo poche ore prima. «Per favore...»
Lui sospirò roteando gli occhi, poi ascoltò quando gli dissi il nome completo della ragazza. Io iniziai a scorrere le prime righe della prima colonna: il fatto che non fossero in ordine alfabetico proprio non aiutava. Americani, giapponesi, inglesi, russi, cinesi, brasiliani. Tutte le nazionalità della terra popolavano quelle infinite file di parole. Poi eccolo. Kim Hana. Spalancai gli occhi quando lo lessi e dovetti indicarlo a Namjoon perché lo vedesse anche lui, giusto per essere sicuri di non star sognando.
«Frena gli entusiasmi.» disse il ragazzo senza mostrare la mia stessa gioia. Aggrottai le sopracciglia al suo tono funereo e lo guardai offeso, fino a quando mi indicò con un cenno del capo il titolo che torreggiava la bacheca. Era scritto in due lingue: thailandese ed inglese.
Obituary.
Necrologio.




Il mio spazietto: Yeah, siamo arrivati al terzo capitolo ^-^ Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate ~ ♥

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Capitolo 4
*** Illuso. ***


NOTE: Non so esattamente quante persone seguino questa ff, ma in ogni caso se qualcuno la leggesse mi scuso per non aver aggiornato, ma essendo che in pochi recensiscono/leggono, un po' la voglia mi passa. Ma in ogni caso ho deciso di aggiornare, visto che, oltre questo, ci saranno solo altri due capitoli. E niente, spero che vi piaccia ~ Alla prossima ♥
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Capitolo quattro

Morto. Senz'anima. Vuoto.
Ecco come mi sentivo.
Stupido. Solo. Illuso.
Ero solo uno stupido illuso. Così illuso da credere alla vita nel bel mezzo della morte. Avrei dovuto semplicemente ascoltare Namjoon. Lei era andata, ormai. Era la cosa più preziosa e se n'era andata. Anzi, ero io che l'avevo lasciata andare. Con un litigio, senza neanche una parola d'amore.
Sospirai su quel letto d'ospedale. Quando lessi il nome di Hana su quella lista, caddi a terra ripiegando le ginocchia. Mi ero sentito come schiaffeggiato dalla stupida realtà in pieno volto. E mi sentii così ingenuo, cavolo.
Fissai il muro ai miei piedi.
Anche prima avevo fatto lo stesso con la parete dell'ingresso, mentre le lacrime mi rendevano miserabile. Non ci provavo neanche, a fermarle. Nemmeno mi lamentai quando una fitta mi colpì il ginocchio.
Sentii le dita del ragazzo accanto a me scuotermi leggermente.
«Devi mangiare.» disse cautamente quella voce profonda.
«Non ho fame.»
Lui sospirò stanco.
«Ti devono operare e se non mangi sarai troppo debole.»
«Non importa.»
«Potrebbero riuscire a salvarti la gamba, se sarai collaborativo.» disse con la stessa pazienza che ci vuole con un bambino.
«Avevi detto che me l'avrebbero amputata.»
«L'ho detto solo per farti stare zitto, in verità.»
Rimasi in silenzio. Lui sospirò di nuovo. «Però potrebbe venirti un'infezione. Non sono sicuro che la mia maglietta fosse così sterilizzata ed igienica.»
Abbozzai un sorriso a disagio, ma non fiatai.
«Senti...» iniziò lui dopo qualche decina di secondi silenziosi, schiarendosi la voce. «Lo so che deve essere terribile perdere qualcuno di caro, ma almeno fatti operare. Starò zitto per sempre se lo fai. Per favore...»
«Perché ti importa così tanto?»
«Non mi piace che le persone soffrano, ne ho già conosciute troppe.» sussurrò e lo notai abbassare la testa.
«Di che parli?» chiesi spostando di qualche centimetro la testa sul cuscino poco imbottito.
«Lunga storia.» rispose cercando di tagliare corto.
«Ho tempo.» ribattei mettendomi a sedere sul letto ed avvicinando a me la ciotola di brodo che aveva poggiato sul comodino.
«Ti farai operare, quindi?» domandò mentre il suo pomo d'Adamo si alzava ed abbassava visibilmente tentando di deglutire.
«Non sviare l'argomento.» dissi calmo, fissando il mio piatto. Del brodo incolore con qualcosa di galleggiante al suo interno e del pane duro non erano il massimo dell'acquolina, ma immaginavo che il cibo fosse complicato da dividere in modo che ognuno ne avesse una porzione soddisfacente, quindi mi accontentai per una volta: meglio di niente.
«Non sto sviando l'argomento.» ribatté poco convinto.
«Guarda, lo stai facendo anche adesso. Rispondi alla mia domanda.»
«Non la ricordo più.» mormorò sottotono. Io roteai gli occhi: era addirittura più cocciuto di me. Presto, però, mi venne da sorridere debolmente, ricordando tutte le volte che Hana mi aveva ripreso per il mio essere testardo. Poi ci ripensai: lei non era più qui. E allora il sorriso mi morì sulle labbra, lasciando il posto ad un sospiro.
«La domanda era "Di che parli?".» ripetei voltando il viso per la prima volta verso di lui. Ricambiava il mio sguardo: aveva gli occhi leggermente arrossati e lucidi, mentre le sue iridi nere mi scrutavano in un misto tra incredulità e speranza.
«Davvero t'interessa?» chiese con voce tremante, come se tante volte avesse tentato di parlarne con qualcuno, ma fosse stato zittito ancora prima di iniziare.
«Se dobbiamo proprio crogiolarci nel nostro brodo, tanto vale farlo insieme.» risposi sorridendo leggermente per incoraggiarlo ad andare avanti. «Cioè, lo so che non ci consociamo, però a volte è più semplice confidarsi con un estraneo, perché non si può essere giudicati per quello che si è.»
«Non hai tutti i torti.» rispose accennando un sorriso triste.
«Quindi...? Me lo dici che hai fatto?» alzai le sopracciglia piegando gli angoli delle labbra. Restò in silenzio per qualche secondo, poi aprì la bocca per parlare e la richiuse almeno quattro volte, prima di sussurrare lentamente e cautamente: «Ho... ho ucciso la mia fidanzata.»
Distolse lo sguardo, ma io non lo feci. Il mio sorriso non sparì dal mio viso, mentre lui si mordeva il labbro inferiore, come se avesse il timore di qualcosa già accaduto.
«Cos'è, hai paura che me ne scappi urlando "Assassino!" per tutto l'ospedale?» chiesi retorico, ma lui non rispose. «In ogni caso non potrei correre, al massimo zoppicherei.»
Abbozzò una risata e ristabilì il contatto visivo con me.
«Nessuno lo sa.» sussurrò prudente.
«Cosa, che l'hai uccisa? Sei un qualche tipo di serial killer?» piegai la testa di lato. Non avevo paura. Tanto, in ogni caso, ero già morto dentro.
«No, non sono un serial killer.» ribatté a bassa voce. «Non l'ho uccisa come pensi tu. Niente sangue o coltelli o armi. O meglio, quelli c'erano ma non le ho inflitto io il colpo fatale. O forse sì, non lo so neanche io.» spiegò freddamente, poi riabbassò la testa mentre si torturava le mani.
«Non capisco. Perché dici di averla uccisa se non...?» chiesi aggrottando le sopracciglia.
«Te l'ho detto: lunga storia.» tentò per la seconda volta di tagliare corto, ma non demorsi.
«Anch'io te l'ho detto: ho tempo.»
«Non pensavo che tu fossi così cocciuto.» alzò lo sguardo su di me, fissandomi con aria strafottente.
«Pensavi male.» dissi voltando il viso verso il pane raffermo e ne strappai a fatica un pezzo con i denti, per poi masticarlo e mandarlo giù. «Parlane se hai voglia.»
Seguì i miei movimenti con gli occhi. Presi un cucchiaio di quei pezzi indefiniti di cibo, ma, dopo averli fissati per un attimo, li feci ricadere nella ciotola, rigirando svogliatamente la posata al suo interno. Lo sentii sospirare e schiudere le labbra, ma prima che potesse metter voce alle sue confidenze, una figura minuta si affacciò alla porta della stanza. Si schiarì la voce e ci girammo entrambi: dallo stipite facevano capolinea gli occhi insicuri di Daw.
«Posso...?» chiese timidamente e, con un nostro cenno d'assenso, s'avvicinò al mio letto e mi fissò per alcuni secondi.
«Posso sedermi, Yoongi?» domandò con una vocina bassa ed acuta. Sentire il mio nome pronunciato da lei era così strano, che mi fece sorridere debolmente, soprattutto per il suo accento mentre lo diceva.
«Certo.» risposi lasciando cadere il cucchiaio nella ciotola e chinandomi su di lei per prenderla in braccio. Non avevo mai abbracciato un bambino, di solito scappavano perché avevano paura di me e non ero attratto dai loro modi di fare, ma questa volta decisi di provare a farlo. Daw mi ricordava così tanto Hana, con quei capelli lunghi e neri, la pelle olivastra e quel sorriso che riscaldava sempre i cuori di tutti. Ne avevo bisogno, mi serviva immaginarla lì con me. La misi a sedere tra le mie cosce e le cinsi la vita con le braccia. Non sapevo se era solo soggezione, ma anche il profumo dei suoi capelli era simile a quello di Hana.
«Va tutto bene?» chiese Namjoon con un leggero sospiro.
«È già la settima volta che glielo chiedi e giuro che le ho contate.» commentai in inglese e Daw rise leggermente. Quella risata mi ricordava estremamente quella di Hana. Ormai non riuscivo più a capire se ciò che percepivo era vero oppure no. Strinsi Daw al petto ed appoggiai il mento sulla sua testa, azione che facevo tanto anche con la mia ragazza, che era molto più bassa di me.
«Va tutto bene, sì.» rispose lei con un sorriso indirizzato a Namjoon.
Improvvisamente la porta di spalancò senza preavviso e un paio di medici entrò accompagnati da una donna in barella. Non dissero nulla, come del resto nemmeno lei parlò, semplicemente altri due infermieri la presero e la poggiarono senza che la donna opponesse nessun tipo di resistenza. La spostarono con così poca fatica che sembrava essere fatta di carta velina. Anche la sua pelle ci assomigliava: pallida, secca, screpolata, sul punto di spezzarsi. Fissava il soffitto con un'espressione assente, come se non si fosse neanche accorta che l'avevano messa su un letto d'ospedale.
Daw teneva gli occhi fissi su di lei, quasi spaventata, mentre Namjoon torse il busto per voltarsi verso la donna di mezz'età con i capelli bruni e ricci.
«Buon pomeriggio.» la salutò agitando una mano verso di lei, ma non ero tanto sicuro che fosse ancora arrivata la sera.
Nessuna risposta.
«Come si chiama?» continuò lui schiarendosi la voce, ma di nuovo lei non rispose. Era come completamente ipnotizzata dall'intonaco bianco del soffitto.
Mi sentii tirare l'orlo della maglia e spostai lo sguardo sulla bambina, la quale mi disse qualcosa che non riuscii ad afferrare.
«Che hai detto?» chiesi a bassa voce aguzzando l'udito e lei sussurrò di nuovo: «Ho paura.»
«Va tutto bene, su. Non devi averne.» tentai di rassicurarla con un sorriso, ma lei sospiro ed abbassò la testa, appoggiando la nuca al mio petto, mentre io d'istinto le strinsi delicatamente la vita per tranquillizzarla.
Namjoon continuò a fissare la donna con un velo di preoccupazione crescente.
«È in stato catatonico...» mormorò senza girarsi verso di noi.
In quel momento una sottospecie di rantolo si levò dalle labbra della donna e sia io che Daw ci girammo simultaneamente nella direzione del rumore. Sentii la mano della bambina stringere la mia in cerca di protezione, mentre il petto della signora faceva un balzo accompagnato da un altro grugnito.
«Girala, Namjoon.» gli ordinai, aumentando l'attenzione su ciò che stava accadendo.
«Eh?»
«Girala di lato.»
«Perché?»
«Perché sta per vomitare. Si strozza così.» spiegai spazientito, mentre la donna sbalzava ancora con il petto producendo dei gorgogli preoccupanti. Diedi un'occhiataccia a Namjoon, il quale mi guardava come a chiedere perché dovesse farlo proprio lui, ma quella bastò a farlo sporgere con uno scatto su di lei. Proprio quando le prese la spalla sinistra per voltarla, il ragazzo fece un salto all'indietro a ciò che successe davanti ai suoi occhi.
Fiotti di sangue si riversarono sul pavimento e percepii Daw girarsi verso di me per affondare il viso nel mio petto. Fissai la macchia a terra con gli occhi spalancati e notai il liquido rosso scuro espandersi fin sotto il mio letto. La donna tossiva e tossiva, il sangue sembrava non finire più. Distolsi lo sguardo solo quando qualcosa di solido riaffiorò dalle sue labbra. Sentivo Daw piangere e singhiozzare tra le mie braccia e le poggiai delicatamente una mano sui capelli. Dopodiché alzai gli occhi, giusto in tempo per vedere Namjoon uscire dalla porta della camera, e li tenni fissi sul soffitto. Non abbassai mai lo sguardo. Non lo feci neanche quando arrivarono i dottori per prendere la donna e trasportarla d'urgenza da qualche altra parte. Nemmeno quando Namjoon mi mise una mano sulla spalla per dirmi che andava tutto bene lo feci. Il soffitto non era mai stato così interessante.
 
L'operazione passò in fretta, forse perché ero addormentato, forse perché era stata veloce per davvero. Non sapevo che cosa mi avessero fatto, non lo chiesi nemmeno, quando vennero a prendermi gli infermieri.
Una donna in divisa verde aveva indossato un paio di guanti bianchi e aveva tolto l'aria da una siringa con lo stantuffo, prima di iniettarmi l'anestetico alla base della schiena, il quale mi fece abbassare inesorabilmente le palpebre dopo neanche due secondi. Era l'unica cosa che ricordavo.
Mi risvegliai e mi sembrò di aver dormito per poco più di un minuto, ma, quando guardai fuori dalla finestra della stanza, il cielo si stava schiarendo dopo una notte intensa. Sbattei le ciglia un paio di volte, prima di rivolgere lo sguardo sulle mie gambe, le quali però erano coperte da un lenzuolo lavato senza ammorbidente dell'ospedale.
Il rumore ritmico dell'elettrocardiogramma risuonava alla stessa lentezza dei miei respiri profondi e solo quando Namjoon si presentò nel mio campo visivo, mi accorsi che il mio letto e le apparecchiature di cui necessitavo erano attorniate da una tenda di tessuto simile a quelle delle docce.
«Allora?» chiese il ragazzo appoggiandosi con la schiena al muro, accanto alla finestra.
«Va tutto bene, credo. La gamba ancora non la sento, ma almeno il ginocchio non mi fa più male come prima. Mica puoi controllare se me l'hanno amputata?» domandai più per farlo ridere, che per altro. Namjoon sorrise per una frazione di secondo, ma non disse né fece nulla.
«E tu, invece?» continuai notando il suo silenzio.
«Io sto bene, non mi hanno fatto nulla.» rispose senza capire.
«Intendo per la tua ragazza. Non mi hai più spiegato cos'è successo, alla fine.»
«Perché ti importa così tanto?»
«Non mi piace che le persone soffrano, ne ho già conosciute troppe.»
«Non copiarmi le battute.» accennò una risata, alzando finalmente lo sguardo su di me.
«Sei tu che hai cominciato.» ribattei quasi sollevato da quella debole risata, ma subito ritornai serio. «Davvero, però. Se ne vuoi parlare sono qui. Non sono di molte parole, perciò sono un buon ascoltatore.»
Lui sospirò e si staccò dal muro per affacciarsi alla finestra. La luce del sole stava facendo capolinea dall'orizzonte, illuminando il cielo con un avvolgente colore rosato, il quale s'insinuava tra le tende per entrare nello spicchio di stanza in cui ero relegato.
Quando Namjoon si decise ad aprir bocca, ormai il sole era quasi completamente visibile nel cielo.
«Si è suicidata...» sussurrò con un altro sospiro ed aspettò, ma la mia risposta non si fece sentire, per questo decise di continuare. «In seguito ad un aborto.» disse a voce ancora più bassa, ma il battito all'elettrocardiogramma non era così forte da impedirmi di sentire.
«Volontario?» alzai un sopracciglio guardando il suo profilo.
Lui annuì: «Voluto da me.»
«Perché?» fu l'unica domanda con un minimo di senso compiuto che mi venne da dire in quel momento. Si strinse nelle spalle, grattandosi la tempia con l'unghia dell'indice.
«Sarebbe morta se avesse partorito.»
«Lei cosa voleva fare?» chiesi tentando di mettermi seduto sul letto, strusciando contro i lenzuoli rigidi.
«Tenerlo.» rispose.
«E perché gliel'hai negato?» domandai con la massima delicatezza che mi permetteva il mio cinismo.
«Non volevo perderla.» fece una pausa come se fosse insicuro di dire qualcosa, ma poi continuò. «E lei non voleva perdere me, perciò mi ha accontentato, nonostante non ne fosse così felice.»
Abbassò lo sguardo mordendosi l'interno della guancia.
«Ingerì...» iniziò a sussurrare qualcosa con una voce incrinata dai ricordi, poi tossì per non dare a vedere le sue emozioni e ricominciò più duramente. «Ingerì troppe pillole insieme. E dopo si provocò due ferite profonde ai polsi, con un coltellino.» disse tirando furtivamente su col naso. «Come se non bastasse, dovevamo uscire a cena quella sera. Era il nostro secondo anniversario di fidanzamento.» mormorò girandosi completamente verso il sole, ma riuscii ad intravedere una lacrima cadergli dall'occhio destro. «Fallii tutti i miei ultimi esami per la laurea, da allora. Mi era così complicato concentrarmi sui libri; la sua assenza mi provocava una stretta così forte al cuore che mi sentivo morire anche solo annusando i suoi fiori preferiti. Lei voleva solo amare ed essere amata in cambio. Io invece l'ho ammazzata dentro.» fece una pausa per deglutire con fatica. «Lasciai gli studi e mi rinchiusi in casa, lontano da tutto e da tutti. A nessuno è mai davvero importato niente di me, né alla mia famiglia, tantomeno alla sua.»
Lo ascoltai ed aspettai qualche secondo prima di sporgermi su di lui per afferrargli la mano e stringerla leggermente. Mi accorsi solo in quel momento, quando tirai debolmente il suo braccio verso di me, che il suo polso era ricamato da un'intricata ragnatela di cicatrici, alcune sbiadite dal tempo, altre più vivide e recenti.
Namjoon, il quale aveva voltato il viso per guardarmi, scorse la direzione a cui andavano a puntare i miei occhi e frettolosamente si abbassò la manica della felpa azzurra che indossava.
Quando si era vestito?
Tolse con uno strattone debole la mano dalla mia ed incrociò le braccia al petto.
«Non è una bella cosa essere considerato pazzo dai propri genitori.» sussurrò restando lì fermo ed impacciato.
«Immagino.» dissi in un soffio. Fu l'unica parola intelligente che mi passò per la testa.
«Beh, ho finito adesso.» si schiarì la voce dopo un minuto di silenzio ricco di tensione.
«Non sei mai andato in... un centro specializzato?» chiesi soppesando le mie parole con estrema cautela.
«A farmi curare?» alzò un sopracciglio sogghignando.
Roteai gli occhi: «A farti aiutare, idiota.»
«Non sono un disabile, non ho bisogno di aiuto.» sospirò distogliendo lo sguardo. «E comunque ci sono già andato ed è stato inutile. Mi trattavano come un cretino.»
«Non è che semplicemente non volevi collaborare?»
Alzò le spalle mordendosi l'interno della guancia: «Forse.»
«Lo sai che non è tua la colpa, vero?»
«Non dire le stesse cose che dicono tutti, è diventato noioso ormai. Ti preferisco cinico. Se non l'avessi fatta abortire, non si sarebbe suicidata ora e non sarei qui, ma in Corea con lei.»
«Ti sei trasferito qui?» domandai e lui annuì. «Come mai?» chiesi poi.
«Dicevano che mi avrebbe fatto bene andare a farmi un giro. Stranamente li ho ascoltati.»
«Chi te l'ha consigliato?»
«I miei genitori.»
«Avevi detto che a loro non importava di te.»
«Ed infatti é così.» mi guardò negli occhi.
«Ma ti hanno consigliato di venire qui per prenderti una pausa...»
«Solo per togliermi dai piedi, cosa pensavi?»
«Secondo me c'è qualcosa che non mi stai dicendo.» azzardai incrociando le braccia al petto.
«Non sarebbero affari tuoi in ogni caso.» rispose con il suo solito tono di superiorità che poco mi era mancato.
«Oh, certo.» accennai una risatina insolente. «Mi hai praticamente descritto il corso della tua vita, ma i tuoi genitori non sono affar mio. Come preferisci tu, allora.»
Anche lui abbozzò una risata, poi continuai: «Il mondo è grande, però. Molto più grande del tuo cervello. Dovresti smetterla di vivere dentro la tua testa. So che può sembrare complicato, ma se tu morissi proprio adesso, saresti soddisfatto di come hai vissuto finora?» chiesi serio, aspettando che lui si girasse per guardarmi con il suo solito sorriso odioso. Ma non rispose.
«Vivere è così raro, ormai. La maggior parte delle persone esiste e basta. Vuoi davvero sprecare questa occasione?» domandai nel silenzio.
«Pensi sia così semplice?» finalmente si decise ad aprir bocca, con il suo ghigno fastidioso e il suo sguardo di fuoco. «Era l'unica donna che io abbia mai amato veramente in vita mia. Tenerla tra le braccia era più naturale di un mio respiro. Penso a lei sempre e costantemente, anche ora lo sto facendo. Credi davvero che sia facile passarci sopra?»
«Non ho mai detto questo. Ma se non la smetterai di vivere nel tuo mondo dove tutti ti odiano a morte, sarà ancora più complicato uscirne. Non vuoi essere felice?»
Non disse niente, ma quel suo sguardo infastidito fu come una conferma.
«Te lo dirò chiaramente, Namjoon. Se vuoi qualcosa, devi andarle dietro. E se non l'hai trovata, significa che non l'hai cercata abbastanza.»
«Dovresti smetterla di fregare le frasi da Internet.» commentò con aria di sufficienza.
«Idiota, non le frego da Internet. Al massimo le rubo alla mia ragazza.» risi e lui mi seguì. «Lei è una scrittrice.» dissi poi, quando entrambi ci calmammo. «Lo era, almeno.»
«Kim Hana...» Namjoon mormorò il nome della mia fidanzata, mordendosi l'interno della guancia pensieroso. «L'ho già sentita da qualche parte, in effetti.» ragionò dopo qualche secondo, dopodiché ci guardammo degli occhi. «Non sei triste per lei?» mi chiese piegando di lato la testa.
Alzai le spalle con un sospiro: «Certo che lo sono. Semplicemente non lo mostro troppo in giro, non mi piacciono le persone che piangono per ciò che è andato ormai.»
Namjoon annuì tra i pensieri: «Grazie.»
«E di cosa?»
«Di non essere scappato via.»
Sorrisi davvero, felice per una volta di essermi reso utile.
In quel momento, una figura maschile scostò con violenza la tenda bianca e ci ritrovammo davanti Jin con un fiatone capace di farlo piegare in due.
«Che è successo?» chiese Namjoon alzando un sopracciglio, ma il ragazzo non rispose, perché era troppo impegnato ad avanzare verso di me.
«Devi... devi venire con me, Yoongi...» disse in un soffio, mentre riprendeva fiato.
«Non posso alzarmi, idiota.» roteai gli occhi, credendo che mi stesse prendendo in giro.
«Per favore, Yoongi, è importante.» insistette invitando con gli occhi Namjoon ad avvicinarsi.
«Ma perché?» chiesi corrugando la fronte. Jin fece un respiro più profondo di quanto immaginassi potesse fare, poi mi guardò negli occhi mordendosi il labbro inferiore prima di pronunciare quelle quattro parole che mi fecero spalancare gli occhi, sia per l'incredulità, sia per la speranza e, ancora, sia perché pensavo mi stesse prendendo in giro.
«Lei...» iniziò con voce roca, poi se la schiarì. «Hana potrebbe essere viva.»

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Capitolo 5
*** Stanco. ***


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Capitolo cinque.
Mi sentivo così idiota e stanco. Stanco della situazione, stanco di essere preso in giro.
«Smettila di scherzare, per favore.» gli dissi con un sospiro quando, giunti in un'altra stanza d'ospedale, non trovammo nessuno all'interno. Jin insisteva comunque: «Era qui, Yoongi! Te lo giuro.»
«Te la sarai sognata, allora.» ribattei con poca convinzione, guardando il pavimento di linoleum. La gamba pompava sangue da pazzi e quegli sforzi inutili mi stavano mozzando il respiro. Avevamo praticamente corso lungo il corridoio vuoto, sperando che nessun infermiere ci beccasse fuori dalla nostra stanza. Mi stava quasi per venire un attacco cardiaco, per quel tanto che avevamo camminato velocemente. E a che scopo, poi? Solo per un'altra delusione.
Sospirai appoggiandomi con una mano al letto sfatto e, ben presto, mi ci ritrovai sopra sdraiato, sfinito com'ero. Volevo solo tornare a casa. Quanto era distante? Magari avrei potuto tornarvi a piedi.
Sentii Jin imprecare mentre camminava nervoso per la stanza bianca ed asettica.
«Era qui, diamine, ne sono sicuro. Era identica alla ragazza della foto che mi hai mostrato.» ragionava sommessamente con le mani nei capelli.
«Magari sei solo diventato pazzo.» commentai con un braccio sugli occhi per ripararmi dalla luce del neon al soffitto.
«Non dire sciocchezze.» ribatté e smisi di percepire i suoi passi affrettati che percorrevano, centimetro per centimetro, quella stanza. «E alzati da quel letto! A volte ho l'impressione che della tua ragazza non ti freghi proprio niente.»
Scattai seduto in un battito di ciglia e mi sembrò di vedere i due ragazzi sussultare: «Era su quella lista, Jin!» urlai mentre le lacrime mi pizzicavano gli occhi. Avrei mai avuto l'impressione di morire ogni volta che sentivo il suo nome, se non me ne fosse importato nulla? «Lei... lei non c'è più.»
«E se avessero sbagliato? Sbagliare è umano, soprattutto in una situazione come questa.» azzardò alzando la voce a sua volta. «E poi non è che la tua ragazza sia l'unica persona al mondo con quel nome. Esistono degli omonimi!»
«"Kim Hana" era scritto solo nella lista dei deceduti, però.» puntualizzò Namjoon, intromettendosi nella nostra discussione.
«Infatti ho aggiunto che potrebbe trattarsi di un omonimo.» ribadì Jin guardando l'altro per avere conferma e, difatti, quest'ultimo annuì. «In ogni caso, ci stiamo fossilizzando su un unico ospedale. Ce ne sono a centinaia in Thailandia...»
Sbuffai, ma non risposi.
«Quindi? Hai intenzione di alzare il sedere da quel letto per venire con noi o preferisci restare lì a rigirarti nel tuo brodo?!» Jin mi si avvicinò e mi prese la mano tirandola con forza per rimettermi in piedi.
«Vi odio.» borbottai guardandoli male.
«Sì, sì, ti odiamo anche noi.» disse sbrigativo Namjoon, seguendo le stesse azioni dell'altro con uno sbuffo di fatica. «Quand'è che prenderemo una sedia a rotelle per questi viaggi?» domandò sarcastico quando uscimmo dalla stanza.
«Sei tu che mi hai costretto ad operarmi.» gli rinfacciai con sguardo di sfida.
«Ripensandoci, con un gamba amputata saresti stato più leggero.» ironizzò con un sopracciglio alzato.
«Ehi, cane e gatto, collaborate.» ci riprese schioccandoci le dita davanti al viso. «Vecchi nonni bisbetici.» commentò dopo a bassa voce, ma Namjoon riuscì a dargli un colpetto dietro la testa.
«Chi sarebbe il nonno?» chiese agitandogli un pugno sotto il naso. Mi venne da ridere divertito, nonostante la miserabile situazione nella quale ci ritrovavamo tutti. Mi ricordavano i vecchi amici delle scuole superiori e dell'università. Era da un sacco di tempo che non li sentivo, né per telefono, né di persona. Mi ripromisi mentalmente che avrei almeno dovuto chiamarli al mio ritorno. Sempre se ce ne fosse stato uno.
«Ma allora un sorriso ce l'hai anche tu.» s'intromise tra i miei pensieri Namjoon con un'espressione fintamente sorpresa. Anche Jin rise divertito, ma poi ritornò serio: «Bene, ora che abbiamo rallegrato gli animi, possiamo continuare con il nostro obiettivo?»
Annuii e Namjoon fece lo stesso, aggiungendo: «Però... Daw dov'è?»
Jin sorrise rassicurante: «L'ho lasciata con un paio di donne anziane, prima di cercare Hana.» disse riprendendo a camminare con noi.
«L'hai... cercata?» alzai le sopracciglia, colpito da tale azione.
«Mi sembra il minimo che io possa fare.» ampliò il suo sorriso. Mai avevo pensato che una persona fosse disposta a tanto per me. E allora sorrisi a mia volta. Forse tenere il muso non serviva a nulla.
«È ancora con loro?» chiese Namjoon.
«Beh, immagino di sì.»
 
 
Daw non era più con quel paio di vecchiette gentili.
«È andata con altri bambini a giocare.» ci dissero quando, dopo tre corridoi perlustrati pieni zeppi di malati che si erano risvegliati dalla notte, le trovammo in una saletta spoglia e, a dir poco, minuscola.
Roteai gli occhi, mentre sentivo gli altri due sospirare. Quanto altro tempo avremmo dovuto passare a cercare quella bambina?
Fortunatamente la risposta mi arrivò subito, insieme al rumore proveniente dal cortile al di fuori dell'ospedale. Quel crocchio di ragazzini dalle più svariate età produceva un chiacchiericcio talmente alto da essere sentito fino all'ultimo piano.
«Giuro che, se dobbiamo fare altre scale dopo essere scesi, mi lancio dalla finestra.» si lamentò Namjoon con un fiatone da far paura. Avrei voluto controbattere, perché dopotutto ero io quello malato, ma il respiro non era dalla mia parte in quel momento.
«Ehi, fermatevi.» ci ordinò Jin, il quale fino ad allora era rimasto silenzioso. Ormai, nonostante ci conoscessimo da poco più di un giorno, avevo imparato a capire che quando il ragazzo non fiatava, spesso lo faceva perché meditava. Si tolse dalle spalle il mio braccio, facendomi improvvisamente perdere l'equilibrio. Di scatto, per non cadere a terra, afferrai il braccio libero di Namjoon, facendolo sussultare.
«Ma sei idiota?!» mi sibilò contro, tenendomi per la vita prima che potessi toccare il suolo. Il fatto che ci trovassimo sulle scale non aiutava la nostra discesa.
«Dove diavolo stai andando?!» gridò poi, questa volta dietro a Jin, che si era allontanato di qualche metro per ispezionare minuziosamente uno dei corridoi affollati, come se fosse in cerca di qualcosa.
«Ma mi ascolti?!» gli strillò di nuovo, pestando i piedi a terra quando non rispose. Un'altra conoscenza che avevo acquisito era che Namjoon odiava essere ignorato. «Jin!» urlò il suo nome condito con delle imprecazioni mai sentite prima, mentre rivolgeva uno sguardo assassino alla schiena del ragazzo, il quale sparì dietro ad una parete e tornò solo dopo avermi lasciato capire fino a quanto Namjoon potesse essere infastidito dalla sua indifferenza. Mi passò la voglia di ignorarlo.
«Dove diamine sei stato?!» gli chiese quando riapparve da noi. Un'altra pioggia di imprecazioni.
«Calmati, idiota.» lo guardò con un sopracciglio alzato. «Sono solo andato a prendere una carrozzella, visto che ti lamentavi tanto.»
Solo in quel momento i nostri occhi caddero su ciò che arrivava quasi al petto di Jin.
«Grazie a Dio, sì!» esultò Namjoon praticamente scaraventandomi sulla sedia.
«Possiamo continuare adesso? Abbiamo due persone da trovare.» puntualizzò Jin alzando gli occhi al cielo e scuotendo la testa. L'altro ragazzo sbuffò mentre si metteva le mani in tasca: «Però lo spingerai tu.» disse accennando a me. Jin annuì e diede un po' di forza al mezzo, però fermandosi subito quando sentì un altro sbuffo da parte di Namjoon.
«Che c'è ancora?» gli chiese con un sospiro a metà tra la stanchezza e il fastidio.
«Dovremo fare un altro piano di scale.» disse alzando entrambe le sopracciglia, mentre fissava i gradini con sguardo assassino.
«E quindi?»
«E quindi come hai intenzione di portarlo giù? Gli ascensori sono fuori uso!»
«Significa che dovrai aiutarmi.»
Il fatto che parlassero di me come se non fossi lì presente mi irritava non poco.
«E allora l'abbiamo presa a fare la sedia a rotelle?!» si ostinò a controbattere Namjoon.
«Smettila di lamentarti, per una buona volta! Aiutami e sta' zitto.» gli ordinò categorico, facendolo sbuffare annoiato ed infastidito. Quando lo voleva, Jin sapeva farsi rispettare.
L'altro ragazzo si chinò senza parlare sulla parte anteriore della carrozzella, per alzarla dal pavimento.
«Giuro che quando guarirai te la farò pagare con la tua stessa moneta.» mi minacciò con un filo di voce, sforzandosi di sembrare intimidatorio sotto quel peso che trasportava. Accennai una risata divertita e, per rincarare la dose, mi sollevai di qualche centimetro con la forza delle braccia e, dopo pochi secondi, sprofondai di nuovo nella sedia, sorridendo innocentemente quando sentii Namjoon imprecare peggio di un turco.
«Ci puoi giurare che te la farò pagare caramente.» ripeté, parlando più con se stesso che con noi due.
La nostra discesa durò qualche minuto che parve interminabile, ma fu alleggerita dai piani malefici contro la mia esistenza che Namjoon snocciolava ad ogni gradino superato. Quando le ruote della carrozzella toccarono il pavimento, il ragazzo si alzò con uno scatto improvviso e si stiracchiò in modo talmente esagerato da farmi roteare gli occhi.
Eravamo di nuovo nell'atrio, ma l'avevano sistemato, poiché sembrava essere diventata una grande camera d'ospedale, con tutte quelle tende usate come separé per regalare un minimo di intimità ai pazienti. Jin riprese a spingere la sedia a rotelle, ignorando pazientemente le azioni dell'altro ragazzo. Uscimmo tranquilli dall'atrio, ma evitai di dare uno sguardo al necrologio affisso alla parete.
Fuori il cielo si era avvolto di nuvole grigiastre, ma faceva comunque caldo abbastanza per indossare una maglietta a mezze maniche. Proprio davanti a noi correvano vivaci i ragazzini del gruppo, mentre si passavano un pallone quasi sgonfio con i piedi. Ridevano felici con la loro naturale spensieratezza. Daw non giocava con loro, però. Se ne stava in disparte, seduta su un muretto mentre faceva dondolare le gambe avanti e indietro.
«Che hai, piccola?» le chiesi con un sorriso, quando mi avvicinai a lei slittando veloce sulle ruote della carrozzella.
«Niente.» rispose in un sospiro, abbassando il volto verso il terreno.
«Come mai non giochi con gli altri bambini?» domandai alzandole il viso prendendole il mento tra l'indice e il pollice.
«Non ho voglia di giocare.» rispose con un leggero broncio che le conferiva un'aria sia triste che adorabile.
«E perché?» insistei dolcemente, tentando di non sembrare invadente. Lei fece spallucce e sospiro tristemente di nuovo: «Voglio mamma e papà.» sussurrò. «Voglio tornare a casa.»
«Ehi...» le sorrisi di nuovo, accarezzandole con un pollice la guancia paffuta. «Ci tornerai presto. Sono sicuro che domani... anzi no, questa sera, ti chiameranno per dirti che i tuoi genitori ti stanno cercando e poi potrai...»
«Loro sono morti.» Daw m'interruppe con voce strozzata e mi guardò negli occhi. Sbattei le palpebre preso in contropiede dalla sua bruschezza.
«Non è vero.» le mormorai con un sorriso rassicurante.
«Sì che è vero.» ribatté cominciando a tirare su con il naso.
«Questo lo pensi tu o lo dicono gli altri?»
«Lo penso io.»
«Beh, sai una cosa?» mi avvicinai di più con la carrozzella e le bisbigliai all'orecchio: «Non devi credere a tutti i pensieri che ti saltano per la testa.»
Parve pensarci davvero e poi disse sconsolata: «Ma... loro non posso essere vivi dopo ciò che è successo...»
«O magari sì. Io sono sopravvissuto; anche tutta quella gente è sopravvissuta. Perché non dovrebbero esserlo anche mamma e papà?»
Lei non rispose, a quanto pare l'unica cosa che ancora non avevo acquisito da Hana era il saper confortare le altre persone. Non conoscevo mai le parole giuste da utilizzare.
«Vuoi sapere una cosa, Daw?» le domandai e lei mi guardò: «Cosa?»
«Dobbiamo andare in un posto più tranquillo e silenzioso se la vuoi sapere.»
Annuì e scese dal muretto, camminando al fianco della mia sedia a rotelle. Sotto i richiami lontani di Jin e Namjoon, i quali ci chiesero dove stessimo andando, giungemmo nel giardino sul retro dell'ospedale. Era completamente deserto, per nostra fortuna, e il silenzio era garantito.
«Perché siamo qui?» chiese la bambina guardandosi curiosa attorno.
«Sdraiati a terra.» le dissi mentre cercavo di usare una sola gamba per scendere dalla carrozzella. Daw non fiatò, ma fece comunque ciò che le avevo ordinato. Prima si sedette a gambe incrociate e, quando mi stesi, lei seguì le mie orme.
«Pronta?»
«Sì.» sussurrò alzando le pupille verso il cielo.
«Chiudi gli occhi, adesso.» voltai il viso verso la bambina, per controllare che lo facesse e, quando lei abbassò le palpebre, io continuai: «Immagina che sia notte fonda e che proprio sopra di te ci sia un cielo carico di stelle lucenti. Ci sei?»
«Sì.»
Sorrisi sebbene non potesse vedermi: «Ora scegli la stella che ti piace di più.»
Dopo qualche secondo arrivò la risposta: «L'ho scelta.» vidi le pupille muoversi sotto alle sue palpebre. «È quella più luminosa.»
«Perfetto. Fissatela bene in mente, perché dovrai ricordartela. Quella stella ti seguirà sempre d'ora in poi. È tua.»
«Davvero?» sembrava elettrizzata.
«Certo. Quando sarai triste lei ci sarà sempre. Anche quando sarai felice sarà con te. Hana la chiama "una sicurezza in un mare di incertezze". E la tua stella sarà il tuo gancio in mezzo al cielo.»
«Anche tu hai una stella?» mi domandò aprendo finalmente gli occhi per guardarmi. Annuii sorridente e lei ricambiò felice. Era il sorriso più carino che avessi mai visto.
«Prima... prima ho visto Hana.» sussurrò incerta. Sbattei le palpebre sia perplesso sia sorpreso: «Davvero?»
«Sì.» bisbigliò.
«Quando?»
«Prima che arrivassi tu. Si è avvicinata a me e mi ha chiesto cos'avessi.» spiegò mettendosi a sedere sull'erba. Il cielo era diventato di nuovo grigiastro e nuvoloso.
«Poi mi ha detto che cercava te.»
«Stai dicendo sul serio?» quasi non ci credevo, ma il cuore stava per scoppiarmi di gioia.
«Ma certo.» rispose vivacemente e i suoi occhi diventarono delle piccole mezzelune scure da tanto che sorrideva. «Ti porto da lei. Conosco il numero della sua camera.»
«Grazie.» sussurrai tornando a sedermi sulla sedia a rotelle. Daw mi prese la mano e mi guidò in direzione dell'entrata sul retro dell'ospedale. Velocemente attraversammo un corridoio semivuoto, sbirciando in ogni camera per assicurarci che non fosse lì.
Poi la bambina sussultò felice e si fermò davanti ad una stanza: «Io aspetto qui.» disse con un sorriso, mentre si sedeva a terra con le gambe incrociate. Annuii riconoscente e diedi un debole calcio alla porta per aprirla ed entrare.
All'interno era normalissima, ma talmente piccola da poter contenere appena  un letto e una flebo.
Poi lei era lì, con le pupille rivolte al soffitto bianco e le mani sull'addome. Abbassò gli occhi solo quando mi misi ai piedi del suo letto. Spalancò leggermente le palpebre, si portò le mani alle labbra e, sebbene il suo volto fosse quasi completamente nascosto dalle dita, i suoi occhi erano scintillanti. Dopo che ebbe tolto la mano dal viso, sorrise, come se fosse la prima volta che vedeva il sole dopo un decennio di inverno.
Sicuramente avevo una faccia da idiota, ma era l'ultimo dei miei problemi, in quel momento. Gli sforzi che prima mi erano sembrati tanto vani, in quel momento ne valsero completamente la pena.
Mi alzai in piedi, dimenticandomi della mia gamba fasciata e dolorante, e zoppicai verso di lei. Quasi inciampai nei miei stessi passi e mi appoggiai velocemente alla sponda del letto per non cadere a terra. Accennò una risatina, ma si zittì subito quando le nostra labbra si incontrarono dolcemente. Fu come ripercorrere per intero la nostra storia. Una scarica di adrenalina e dolcezza pura mi arrivò al cuore e sorrisi a contatto con la sua pelle. Sentii le sue braccia cingermi la vita e io risposi stringendole i fianchi. Ricordai come il mio stomaco si ribaltò la prima volta che la baciai, perché così mi sentivo di nuovo. Mi sembrava di sollevarmi dal suolo per la felicità. Finalmente la mia stella, quella più importante, la più luminosa, era davanti a me, con le dita intrecciate alle mie, con il sorriso sulle labbra e gli occhi lucidi.
«Sei vivo...» sussurrò dolce passandomi una mano tra i capelli sporchi. Le sorrisi ed annuii: «Anche tu lo sei... è incredibile. Eri su quella lista, eppure adesso sei qui davanti a me.»
«Penso abbiano fatto qualche scambio di documenti.» spiegò mordendosi il labbro inferiore.
«Ho capito.» dissi guardandola negli occhi e facendo poi scorrere gli occhi lungo il suo corpo steso. «Ti sei fatta male?»
Scosse la testa per negare: «Mi hanno solo ingessato il braccio.» disse indicando il gomito destro con il mento. «Piuttosto sei tu quello che zoppica da far paura.» puntualizzò tentando di sbirciarmi le gambe.
«Non preoccuparti per me. Sto bene.» la rassicurai, ma Hana non sembrò convinta. Fece per parlare, ma venne subito interrotta dall'entrata silenziosa di un'infermiera molto giovane.
«Lei è un parente?» mi chiese cortesemente, rigirandosi tra le mani un paio di fogli battuti al computer.
«Sono il fidanzato.» risposi dondolando su un piede solo.
«Perfetto, allora le lascio queste.» disse avvicinandosi per porgermi quella che sembrava una cartellina medica. «Sono le analisi sul feto della signorina.» spiegò mentre prendevo ciò che mi aveva porto, con un punto interrogativo disegnato in volto.
«Feto?» mormorai confuso aggrottando le sopracciglia quando iniziai a sfogliare gli esami. Non riuscivo a capire. L'infermiera annuì: «Purtroppo non è sopravvissuto.» continuò la donna, accennando poi un inchino per congedarsi. Mi voltai istantaneamente verso Hana, alzando gli occhi dalla cartellina medica. La vidi sbiancare improvvisamente.
«Cosa significa questo? Eri incinta?» chiesi passando lo sguardo dalle ecografie al suo viso. Ce n'erano alcune che ricorrevano addirittura a mesi prima che andassimo in vacanza.
«Mi dispiace, Yoongi...» sussurrò mettendosi a sedere.
«Lo... sapevi?» domandai, ma non rispose. Abbassò lo testa e quel gesto valse più di mille parole. «Perché non me l'hai mai detto?»
«Non sapevo... come fare...» bisbigliò deglutendo.
«Con le parole, magari?»
Il sarcasmo mi usciva naturale in situazioni del genere.
«Non scherzare, Yoongi.» mi ammonì con uno sguardo. «Non era così semplice. Eri talmente concentrato sul lavoro e... io non volevo darti un dispiacere.»
«Come sarebbe potuto essere un dispiacere? Era un bambino, mio figlio!»
«Mi dispiace...» sussurrò reprimendo un singhiozzo. Sospirando, mi sedetti pesantemente sul letto, dando le spalle alla ragazza. Sentii le sue dita sfiorarmi la schiena, come per confortarmi. Dopo qualche minuto, ruppi il silenzio che era venuto a crearsi: «Quanti mesi aveva?»
«Quattro e mezzo.» disse facendo una pausa riempita con un sospiro. «Era un maschietto.»
«Ma come diavolo ho fatto a non accorgermene?» ragionai sommessamente. Stavo per avere un crollo mentale. «Mi sento un'idiota.» sussurrai con il viso tra le mani. «Anzi no, lo sono.»
«Non è vero, Yoongi.» bisbigliò mentre mi cingeva la vita con le braccia in un altro tentativo di conforto. «Abbiamo sbagliato entrambi. E ora insieme ricominceremo.»
«Non potrei ricominciare così facilmente, sapendo che non mi sono accorto proprio di nulla.»
«Ma era quello che volevi fin dall'inizio. Ricominciare, non te lo ricordi? Sposarci, condurre una nuova vita, guadagnare tanti soldi...»
«Non è semplice.»
«Ma certo che lo è.»
«Io non sono forte come te, Hana.» ribattei esasperato.
«Ma puoi diventarlo.» strinse di più l'abbraccio ed appoggiò la guancia sulla mia schiena. «È una tua scelta se essere forte oppure no.»
Sospirai e lei raggiunse le mie dita con la mano per stringerle: «Non vuoi ricominciare?» mi domandò poggiando il mento sulla mia spalla.
«Certo che voglio.»
«E allora facciamolo, no?» alzò le nostre mani intrecciate, in modo che potessi vedere i nostri anelli di fidanzamento che combaciavano perfettamente.
«Insieme?» la guardai finalmente negli occhi con un debole sorriso e lei annuì con uno sguardo talmente dolce da scaldarmi il cuore. Si avvicinò al mio viso e, prima di premere le sue labbra sulle mie, sussurrò: «Insieme.»




 Il mio spazietto: Evvai, siamo arrivati alla fine del capitolo e quasi alla fine della ff ^^ E si, ho caricato il capitolo prima del previsto, ma solo perché ero un po' impaziente di postare questa penultima parte. Fatemi sapere cosa ne pensate, per favore!

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Capitolo 6
*** Cambiare. ***


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Epilogo.
Fu una cosa divertente tornare a casa. Era tutto completamente uguale a come avevamo lasciato la nostra casa a Bangkok. Lo stesso odore familiare, lo stesso ticchettio fastidioso dell'orologio che mai mi era sembrato tanto rincuorante. Anche i fiori sul davanzale erano identici, forse solo un po' più appassiti di com'erano prima. Quella foto nella cornice sul mobiletto accanto al computer iniziai ad amarla, dopo averle rivolto tanto odio per via di quella faccia infastidita e allo stesso tempo stupida che avevo. Quando fu scattata, Hana aveva fermato un'anziana signora sul lungomare e, dopo almeno quattro tentativi andati falliti, potei riavere la mia macchina fotografica con una foto messa a fuoco, preceduta da una decina sfocate e un video di pochi secondi avviato per sbaglio.
Alzai lo sguardo verso quella stessa macchina fotografica che avevo relegato su una mensola della sala da pranzo. Prima di avvicinarmi, diedi un'occhiata all'orologio ticchettante affisso alla parete: le nove e venticinque del mattino. Forse sarei riuscito a sbirciarla prima che Hana si svegliasse con la bambina. Allungai una mano verso lo scaffale alzandomi sulle punte per raggiungerla e me la rigirai tra le dita per qualche secondo prima di accenderla. Sfogliai le ultime foto mordicchiandomi assorto il labbro inferiore.
La più recente risaliva a quasi un anno prima ed era stata scattata al profilo di Hana mentre aspettavamo di fare il checkin per viaggiare verso la Thailandia. Quasi undici mesi prima. Perché diavolo me ne ricordai solo in quel momento, dopo due mesi dal disastro?
Sospirai perché Hana aveva dannatamente ragione quando diceva che ero troppo ossessionato dal lavoro e io sapevo di essere nel torto, ma l'orgoglio non aiutava.
Sfiorai l'obiettivo e dopo averlo contemplato per quelle che mi parvero ore, qualcuno si aggrappò alla mia schiena con una risata forte e felice. Sussultai.
«Buongiorno, Yoongi!» sentii quella voce dolce e squillante salutarmi, mentre Hana assisteva con un sorrisone a quella scena. Poggiai la macchina fotografica sul tavolo e presi le manine della bambina per invitarla a scendere dalla mia schiena, mentre la ragazza fissava in un misto di incredulità e qualcos'altro di indecifrabile sia me che l'oggetto poggiato sul tavolo.
«Buongiorno, Daw.» la salutai a mia volta prendendola in braccio. Si allungò verso il tavolo di legno per prendere qualcosa. «Che c'è, vuoi quella?» chiesi sorridendo, mentre le spostavo una ciocca di capelli scuri dietro l'orecchio. Lei annuì vigorosamente e si sporse ancora di più per afferrarla. Gliela porsi sedendomi sulla sieda accanto ad Hana.
«Questi siete voi due?» domandò mentre schiacciava i tasti sulla destra per sfogliare le foto nella galleria. Annuii e la ragazza si chinò a sua volta per guardare.
«Avevi i capelli blu!» esclamò la piccola quando arrivò ad un'immagine che ritraeva Hana di profilo con le punte dei capelli colorate. La ragazza ridacchiò dolcemente e prese in modo garbato dalle sue mani la macchina fotografica, per arrivare ad uno scatto che mi fece arrossire per l'imbarazzo.
«Yoongi di solito se ne sta dietro all'obiettivo, ma per una volta sono riuscita a scattargli una foto senza che se ne accorgesse.» spiegò con un grande sorrisone sulle labbra, mentre zoomava sulla mia faccia interdetta rivolta alla lente della macchina.
«Mi hai sprecato dei megabyte importanti per quella foto schifosa.» commentai con aria di sufficienza.
«Invece è bellissima!» s'intromise Daw alzando le braccia in alto, mentre Hana correva divertita verso la cucina, passando accanto ad un'altra foto incorniciata alla parete, la quale però occupava gran parte del muro. Ci ritrovammo entrambi a fissarla sognanti.
«Anch'io voglio essere bella come Hana al mio matrimonio.» disse Daw fissando con le labbra socchiuse il pizzo e il tulle del vestito, il quale aveva un corpetto stretto sul busto, cinto dalle mie braccia coperte dallo smoking nero. Due boccoli dolci le attorniavano il viso a forma di cuore, mentre il suo sorriso inconfondibile esaltava i suoi occhi amorevoli.
«Quella persona dovrà passare sul mio cadavere prima di sposarti.»
Ridacchiò divertita, buttandomi le braccia al collo: «Ti voglio bene, Yoongi!» sussurrò stringendomi e stavo per risponderle che le volevo bene anch' io, ma il suono di uno scatto attirò la mia attenzione.
Alzai lo sguardo e vidi Hana con il sorriso più soddisfatto del mondo che ci mostrava una foto appena fatta: Daw tra le mie braccia.
«Questa sarà l'inizio della nostra famiglia.» bisbigliò felice, mentre gongolava per quell'impresa completata. Sorrisi e scossi la testa, venendo interrotto solo dal trillo insistente del campanello di casa. Daw saltò giù dalle mie gambe e batté tutti sul tempo per andare ad aprire la porta.
«Zio!» la sentimmo gridare eccitata, mentre una voce profonda rideva e diceva: «Quante volte devo dirtelo che non sono tuo zio?»
«Non importa, Namjoon! Sei mio zio comunque!» ribatté mentre gli teneva la mano per trascinarlo di corsa verso la sala da pranzo.
«Ehi!» un'altra voce si lamentò con disappunto dalla porta dell'anticamera. «Non mi calcoli nemmeno? Sono io quello che ha i regali!»
Hana scoppiò in una risata, mentre invitava l'altro ragazzo ad avvicinarsi.
«Scusa, zio due!» disse facendo il segno della pace e nascondendosi dietro le gambe di Namjoon. Jin la guardò incredulo: «"Due"?! Perché devo essere io il numero due?!» chiese mettendo un broncio adorabile, nel tentativo di intenerire Daw, la quale, probabilmente attratta dal suo charme che era come una grande calamita per donne e bambini, si avvicinò a lui abbracciandogli le gambe.
«Scusa... nonno!» disse ridendo e scappando via, mentre Namjoon dava un cinque alla bambina.
«Ti fai bagnare il naso da questa piccoletta, Jin? Dov'è andato a finire il tuo orgoglio?» lo prese in giro facendo ridere tutti.
Il ragazzo fece spallucce con aria di superiorità: «Significa che il regalo che avevo comprato per Daw lo darò a qualcun'altro.» disse incrociando le braccia al petto. Lei drizzò le antenne e ritornò ai suoi piedi, pregandolo di scusarla.
Jin allora la prese in braccio baciandole la guancia, fin quando la bambina disse: «Adesso dammi il mio regalo, però.»
Accennò una risata e la strinse in un abbraccio: «Questo era il mio regalo.» disse sorridendo, ma lei non sembrò capire e piegò la testa di lato.
«È il regalo peggiore del mondo.» commentò poggiando la testa sulla spalla del ragazzo.
Ridemmo tutti a crepapelle e, quando mi asciugai le lacrime dagli occhi, mi alzai dalla sedia.
«Andiamo al parco, vi va?» chiesi attirando gli occhi di tutti su di me.
«Con gli zii?» domandò Daw elettrizzata. Annuii.
«Faremo tante foto?»
Risi e le presi la mano: «Certo.»
«Evviva!» esultarono sia la bimba che Hana, mentre correvano felici e contente verso la camera da letto per vestirsi.
Niente era cambiato a casa. L'odore, le piante sul davanzale, il ticchettio insistente dell'orologio erano identici. Anche il rumore soffocato delle poche macchine che passavano davanti casa, le foto alle pareti, il gatto nero che sonnecchiava perennemente sulla mia poltrona preferita davanti al televisore erano gli stessi.
Tutto era uguale. Forse quello veramente cambiato, alla fine, ero io.

 


Il mio spazietto: Eeeee finalmente ho pubblicato l'ultimo capitolo, lol. Quindi siamo arrivati alla fine di tutto questo e spero davvero che vi piaccia. (qualcuno aveva anche previsto il finale è.è) Nulla, per favore ditemi cosa ne pensate. Non volete fare felice una piccola patata come me? *occhi dolci* Please ♥ 

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