Anabasi

di hikachu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo (Shion) ***
Capitolo 2: *** Galleggiando, alla deriva, in ogni direzione (Saga) ***
Capitolo 3: *** Un'eredità di solitudine (Kanon) ***
Capitolo 4: *** Quei giorni in cui credevi che il nostro addio fosse una bugia (Aiolos) ***
Capitolo 5: *** Il desiderio nacque presto, così come il rimpianto (Saga, Aiolos, Aiolia) ***
Capitolo 6: *** Il vento in un ragazzo (Shura, Aiolia) ***
Capitolo 7: *** Difficile morire, ancor più difficile nascere (DeathMask) ***
Capitolo 8: *** Nastri bianchi sulle braccia, o: cicatrici (Aphrodite, Saga, Aiolos) ***
Capitolo 9: *** Sebbene il mondo sia prigioniero della solitudine (Aphrodite) ***
Capitolo 10: *** Casa è dove noi non siamo (Milo, Aiolos, Saga) ***
Capitolo 11: *** Casa è dove noi non siamo II (Camus) ***



Capitolo 1
*** Prologo (Shion) ***


Prologo (Shion)
 
In una certa notte d’estate, dopo due secoli e più di sguardi ad una tela immacolata, il cielo esplode finalmente in fiamme e gli occhi di Shion si spalancano.

“Infine, le stelle discendono di nuovo tra noi.”

È solo sulla collina sacra, eppure una risposta senza parole, un caldo messaggio di approvazione, lo raggiunge attraverso miglia infinite: terre, monti, fiumi e laghi, e persone, tutti che disegnano una sola via, un singolo filo rosso che lega Shion alla sua giovinezza e all’altra parte del mondo.

Il cuore di Shion pesa col senso del dovere e coll’angoscia. Batte tuttavia veloce contro la cassa toracica e su verso la gola, doloroso e carico di speranza come il primo amore.

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Capitolo 2
*** Galleggiando, alla deriva, in ogni direzione (Saga) ***


 Galleggiando, alla deriva, in ogni direzione (Saga)



“Neppure Zeus Padre può sottrarsi al fato,” è una delle prime lezioni impartitegli dal Pontefice in persona. “La tragedia nasce, infatti, da null’altro che l’eccesso di sé. Dalla tracotanza che spinge contro il destino.”

Aiolos e Saga sono confusi e sollevano la testa come a cercare un chiarimento sulla maschera del Gran Sacerdote. Sono molto giovani, e molto piccoli, ma in un momento ricordano quel che gli era stato detto quando erano stati condotti davanti alle porte massicce dell’immensa sala delle udienze: in ginocchio e sguardo basso, a meno che il Pontefice vi ordini altrimenti. Aiolos e Saga sono troppo giovani, e piccoli, per capire tutto, per capire davvero, ma sentono che cedere all’istinto li ha resi colpevoli, che c’è un nesso con ciò che l’uomo antico assiso sul trono sta cercando di insegnare.

Sussultano, arrossiscono, e con l’espressione compita, quasi stoica, dei guerrieri invincibili e saggi che saranno, riabbassano lo sguardo. Dietro la maschera, non visto, Shion sorride con tenerezza.

“Eppure,” continua, “il fato non è una costrizione. Seguirlo significa vivere bene.” Ed è la verità, ma ora come ora Shion ha forse più a cuore rassicurare un poco quelle creature, che parlare di verità trascendentali. Questa potrebbe benissimo essere la prima e l’ultima volta che qualcuno tende loro una mano nel lungo percorso che li attende: questi bambini portano in sé le stesse stelle che dovranno seguire e non ci sarà tregua per loro.

Perché quella dei Saint è una storia che inizia assieme al Tempo, quando le persone non erano altro che una delle tante idee perfette in un mondo oltre il cielo. Essa inizia molto prima della loro nascita, e quella di madri e padri e degli avi, prima di Atene e prima di Achille e prima di Uruk, sull’altra sponda del Mare Nostro, e prima ancora della scrittura, dono-maledizione di Theuth; essa inizia col primo respiro del mondo, e gli sfugge dalle mani già al primo vagito: la costellazione si fa carne in loro e li protegge, ma detterà, anche, ogni respiro dei Santi. Deciderà in quale stagione e in quale luogo e sotto quale cielo esaleranno l’ultimo respiro.

“Ma, signore…” Saga incespica su parole che non sa trovare in una maniera che, tra non troppo tempo, diverrà inconciliabile con l’immagine del Santo perfetto, simile ad un dio. Rialza la testa e nei suoi occhi si legge che non è un’altra distrazione, e che lui sa che non dovrebbe, ma anche, si legge, che questo non è un atto di arroganza o insubordinazione: c’è dignità nell’espressione, nella schiena dritta, e soprattutto nella fede – in Atena e nel suo compito – che lo porta ad esprimere i propri dubbi fissando gli occhi inespressivi della maschera.

“Signore,” ritenta. “Non è forse il nostro compito di Santi, far sì che la storia degli uomini conosca il meno conflitti possibile? Anche quando questi paiono inevitabili.”

Aiolos scruta Saga con la coda dell’occhio e, pur senza sorridere, il suo viso si accende di un misto luminoso di ammirazione e quieta gioia. Non si conoscono da un tempo particolarmente lungo, ma c’è un’ammirazione reciproca, un osservarsi, un guardarsi, un essere insieme nello stesso luogo e allo stesso tempo consapevolmente, che li lega stretti, indissolubilmente, tra rivalità innocente e un’amicizia che sta ancora sbocciando e già si trascende.

Shion rivede in loro frammenti di una vita che una volta era appartenuta a lui e a qualcuno che, più di ogni altro, aveva saputo capirlo, e il suo sorriso si fa un po’ più dolce e un po’ più triste.

Shion guarda Saga e si chiede se questo bambino non nasconda la doppia natura di principe che conduce e Santo protettore.

Poi gli dice: “Vedi, giovane Saga, combattere per proteggere Atena e gli uomini, qualsiasi cosa accada, è parte stessa del vostro destino. Se riuscirete, come si spera, a rendervi degni delle Sacre Vestigia, ma veniste meno al vostro compito originale in futuro, ne ricevereste infamia voi; morte e dolore gli uomini. Se decideste di utilizzare la vostra forza per scopo altro da quello predestinato, ne seguirebbe solo disordine, e il fato provvederebbe a lavare via l’errore con il sangue, rendendolo un monito per coloro che verranno. Vedete,” Shion ricomincia con le mani aperte e i palmi volti verso l’alto soffitto, “siete giovani e i vostri arti vigorosi, e pertanto potete spingervi nuotando verso l’orizzonte di un’isola non troppo lontana. Tuttavia, nonostante la vostra gioventù, nonostante la vostra forza, nonostante le vostre abilità, se decideste di vivere come pesci… Capite?”

Capiscono, tutti e due. Piegano il capo in avanti, risoluti, e nei loro occhi si dispiegano già misteri che non hanno ancora appreso.

Shion sospira e pensa, per ora, che stupendi Saint diverranno queste creature.

“Questo,” dice infine, “significa seguire il fato per vivere bene.”

---


È piena estate e il sole di Atene cuoce i sassi, l’arena e i sentieri, la pelle di Aiolos e di Saga nella loro discesa tra i dodici templi deserti.

Marmo, roccia e mattoni cotti sono ormai polveri che si mischiano, indistinguibili; macinatisi nei millenni sotto i calzari di soldati, attendenti, e Santi. È un percorso pericoloso per chi non vi è abituato: attenti all’osso del collo, gli avevano detto la prima volta.

Entrambi guardano dritto davanti a sé, e il silenzio è naturale, in qualche modo intimo, tra loro. Gli unici bambini in questo luogo in cui il tempo si è fermato tra rovine che i viventi continuano a strappare ai fantasmi, in nome di Atena. La solitudine e lo smarrimento sono stati, dopotutto, il primo legame e la prima scintilla tra occhi incerti in una mattina di quasi quattro anni prima, sotto lo stesso sole, su quegli stessi gradini su cui oggi Saga procede, spalla a spalla con Aiolos.

Di tanto in tanto i loro gomiti rimbalzano dopo essersi urtati, e per qualche ragione a Saga torna in mente la mano che Aiolos gli aveva porto quel giorno. Era ancora morbida, e olivastra ma non scura come adesso.

Aiolos non sapeva allora, come non lo sa oggi, che anche in un’acropoli fantasma, Saga non ha mai condiviso la sua stessa solitudine; non sa che Saga non è che parte di un intero, che qualcuno vive nascosto tra la sua ombra e quelle della casa di Gemini.

È un pensiero che getta un velo sul viso di Saga, che non sa che quando maledirà per la prima volta le sue stelle – e se stesso, per aver deciso di affidarvisi come Shion auspicava – sarà perché esse non fecero sì che lui e Kanon nascessero come una cosa sola. Ad appena sette anni, Saga non sa che sarà il troppo amore per la giustizia, e per la dea, che lo consumerà e lo porterà a compiere i crimini più imperdonabili. Non sa che sarà per troppo amore verso di lui e verso di sé, che Kanon risveglierà un demone e ne diverrà uno egli stesso.

In questo momento, Saga è solo un bambino che, col suo primo amico, ha deciso di seguire un destino che poi tradirà entrambi.

---


“Hai il mare negli occhi,” Aiolos dirà a Saga, mesi e mesi dopo quell’udienza, mentre fissano l’Egeo in lontananza, appollaiati su uno scoglio.

“Hai il mare negli occhi.”

Aiolos è retto e nelle sue movenze è già chiaro che sarà uno splendido guerriero; diventerà il migliore, il modello, ma non sarà mai né poeta né adulatore.

La sua, ad otto anni e una primavera, sarà una semplice constatazione. Saga che, a sua volta, non lo avvertirà come un complimento, sbatte le palpebre e dice: “No davvero,” e poi si rende conto di non poter dire altro: è negli occhi di Kanon che c’è il mare, quello che mugghiava e inghiottiva i pescherecci del villaggio, ma Aiolos non sa di Kanon, il primo segreto e la prima verità taciuta di Saga.

Se Aiolos ne fosse a conoscenza, forse riuscirebbe a vedere che negli occhi di Saga c’è invece il cielo.

Un cielo di notte senza stelle.

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Capitolo 3
*** Un'eredità di solitudine (Kanon) ***


Un’eredità di solitudine (Kanon)

 
 
Il fico è ancora fresco tra le sue mani. È morbido e liscio come la guancia di Saga quando, a letto, premono i visi l’uno contro l’altro e si lasciano andare prima al reciproco calore e poi al sonno.
 
Il fico è però fragile: basterebbe scagliarlo con un po’ di forza contro la parete o – davvero – lasciarlo cadere in terra e si spappolerebbe. Bianco, rosso e tenero come le cervella di loro padre, scivolato giù dagli scogli per disincagliare una rete da pesca.
 
Che morte stupida, è tutto ciò che Kanon riesce a pensarne. Né una tempesta, né pirati, né una qualche creatura marina affamata: semplicemente, morire facendo quello che fai da una vita. Morire di pura stupidità.
 
Era piccolo – ancora più piccolo di adesso – quand’è accaduto e proprio non gli riesce di versare lacrime per un uomo di cui ricorda solo il nome e solo perché la sua vedova, negli anni, non ha mai smesso di invocarlo, come se i fantasmi potessero lasciarle dracme sul tavolo o riempire lo stomaco dei suoi bambini. Kanon ricorda solo il nome e un cranio fracassato: clic, l’immagine come una foto che non sbiadisce nella sua testa e non lascia spazio a nient’altro.
 
Finalmente, il fico gli sfugge dalle mani: splat. È un macello sul pavimento e, proprio come si aspettava, Kanon vi rivede suo padre come non saprà mai rivederlo nel volto di un essere umano.
 
Saga, pensa orgoglioso, di questo fico ha solo la morbidezza e solo per ora. Saga, come Kanon, non è né stupido né fragile come un pescatore che incespica sugli scogli viscidi in una bella giornata di agosto. Loro sono stelle fatte carne che con i propri pugni possono far tremare gli altri astri e tramutarli in polvere; possono far tremare la terra e fendere il cielo. Questo gli hanno detto, al loro arrivo ad Atene, e sin dal primo momento, Kanon ha sentito che era la verità.
 
Ma quello stesso giorno gli hanno anche spiegato: vi è solo un cloth per l’unico guardiano del terzo tempio. I gemelli ruminavano su quelle parole mentre il sole cuoceva la terra rossa dell’arena e le loro spalle.
 
“Tuttavia, gli astri hanno prescelto un individuo che vive in due corpi per quest’epoca—cosa tutt’altro che rara, per la costellazione dei gemelli,” era l’ultima cosa che Kanon aveva sentito prima che la voce dell’istruttore divenisse un ronzio lontano, che si dissolveva nel vento proveniente dal mare e nel rumore delle onde. Poi, Kanon ricorda l’odore salino, appena percettibile dal colle dell’Acropoli, e quello pungente della pelle di Saga scottata dal sole o forse della sua—non avrebbe saputo distinguere, non quando erano così vicini, fianchi e costati premuti assieme, tenendosi la mano di nascosto.
 
Non sono mai stati in competizione prima d’ora, se non per vedere chi finiva prima il pranzo per poter uscire di casa a giocare, o chi poteva arrampicarsi sul ramo più alto della quercia secolare appena fuori dalle mura decrepite del villaggio. Kanon capisce che nemmeno questa dovrebbe essere una competizione perché una donna può mettere al mondo una creatura sola per volta e anche tra gemelli c’è quello che viene prima e quello che viene dopo—che fintanto che Saga resterà forte almeno quanto lui ed in vita, le vestigia resteranno implicitamente sue. Kanon capisce che non c’è spazio per un conflitto, in tutto questo, che non sia quello silenzioso nel suo cuore.
 
Kanon capisce bene, ora, di essere diventato l’ombra nel momento stesso in cui ha deciso di seguire suo fratello. È un pensiero che lo riempie di rabbia; vergogna, quasi, come se si fosse lasciato ingannare, cogliere dal più insulso degli scherzi di cattivo gusto.
 
Ma Saga, che per una volta sembra incapace di leggergli lo sguardo e i pensieri, continua a porgergli la mano quando si allenano insieme e lui viene scagliato a terra. Kanon, che non sceglie sempre di afferrarla, aspetta quel gesto come la tacita conferma di un legame che non si è ancora spezzato, e continua ad offrire la sua quando è Saga a ritrovarsi con la polvere nei capelli e negli occhi.
 
Di notte, Saga si stringe a lui: gambe intrecciate, mani strette, fronti che si toccano e le punte dei loro nasi che si fanno un po’ umide col respiro dell’altro. Quando parlano, a volte, le loro labbra si sfiorano nello scivolare da una parola all’altra.
 
Kanon pensa che non sa che farsene di questo mondo sospeso nel tempo che li ha inghiottiti; gli sembra solo che la dea sia lontana come il dio di cui parlava sua madre e il sermone in chiesa, e che non garantisca giustizia. Ma il calore di Saga scende come melassa sui suoi pensieri e li spegne come stelle piccolissime. Saga potrebbe divorare il mondo, se volesse—è una rivelazione meravigliosa.
 
“Presto, fratello,” Kanon mormora pensando al cloth e al futuro che ha letto negli occhi del loro maestro.
 
Saga sospira e prega Atena di regalargli il sonno al più presto: non sta fuggendo; cerca solo pace, ma in qualche modo il rumore delle onde gli riempie la testa, si mischia al ronzio del suo sangue e quello di Kanon, e non gli dà requie. Saga conosce già il suo destino e ne è così certo che, a tratti, ogni altra cosa di sé gli sfugge. Farò ciò che è giusto, si promette e comanda. Però ora lasciami dormire, e non sa se si riferisca a Kanon o ad Atena o al mondo o a qualche altra parte di sé.
 
Un giorno non molto lontano, Kanon, che il mare lo ha negli occhi e nel cuore, realizzerà che Saga ha infine davvero dimenticato se stesso e il suo destino; che il sogno è diventato miraggio d’ambizione. Ma quel giorno, per Saga e Kanon stesso, sarà già troppo tardi.
 

---

 
Kanon ha quasi dodici anni quando decide di passeggiare per le vie del Santuario in pieno giorno. È una scelta impulsiva, insensata, che potrebbe addirittura far arrabbiare Saga—ma forse è proprio questo che Kanon vuole: l’emozione violenta sul viso di un dio, il riscoprire l’umanità in quella specie di statua sconosciuta.
 
Ricorda che sei anche mio fratello, Nobile Saga di Gemini. E cosa ne sa il Santuario, cosa ne sa il Pontefice; il Santuario avrà la tua carne, avrà il tuo cosmo, ma io sono stato con te dall’inizio: prima di loro, prima di nostra madre, prima del mondo. Io sono stato te, prima di diventare Kanon, prima che tu diventassi Saga. E cosa ne sa il Santuario, cosa ne sa il Pontefice, di tutto questo.
 
Cosa ne sa Atena.
 
Non sceglie le vie principali ma non fa nemmeno lo sforzo di nascondersi, ombra tra le ombre, come ha fatto per quasi tutta la sua vita. Semplicemente, segue i sentieri più tranquilli, che sono anche quelli più scoscesi e circondati da boschetti che, in alcuni punti, si sciolgono nella macchia mediterranea.
 
Ad un certo punto, alberi e arbusti si aprono come un sipario su un pendio roccioso, non troppo alto. Giù, alla base, Kanon vede un gruppo di scogli. Davanti c’è l’Egeo, immenso ed incredibilmente blu, ma i suoi occhi restano incollati sulla pietra, inviscidita dalle onde.
 
“Saga!”
 
C’è qualcuno – un ragazzo, nastro rosso sulla fronte, tra i capelli e nel vento – che corre verso di lui. Gli occhi di Kanon si spalancano, la bocca si secca, mentre il panico della sorpresa schiaccia la voglia di ribellione.
 
“Non pensavo fossi già qui!” Aiolos di Sagittarius ride quand’è abbastanza vicino da afferrare i polsi di Kanon.
 
La presa non è delicata, né propriamente gentile, ma c’è qualcosa di insolito in essa, qualcosa che Kanon non conosce, che non ha mai conosciuto nel tocco di un’altra persona. È qualcosa di segreto, realizza, un segreto che Saga gli ha taciuto.
 
Il profumo dei pini marittimi si fa nauseante, lo stordisce.
 
Kanon vorrebbe urlare perché è arrabbiato, perché è stanco, perché è confuso e non sa quale sia il suo posto in questo mondo segreto che gli ha rubato tutto; invece spinge via Aiolos e mentre corre lontano pensa, spero che tu sia caduto su quegli scogli.
 
Gli torna in mente il fico, spappolatosi sul pavimento anni prima, ma questa volta non vi rivede suo padre: Kanon non è sicuro se si tratti di Saga o di se stesso.
 
Cosa ne sa Atena.

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Capitolo 4
*** Quei giorni in cui credevi che il nostro addio fosse una bugia (Aiolos) ***


Quei giorni in cui credevi che il nostro addio fosse una bugia (Aiolos)

 
 
 
A quattro anni, l’unico amore che Aiolos conosce è quello immenso e trascendentale della dea.
 
È un cosmo che si spande fino ai limiti dell’universo, rischiarando ogni ombra e riempiendo di tepore ogni cuore, gli hanno detto, e Aiolos, che è piccolo e in tutto il mondo conosce solo Atene, il Santuario e il maestro, ascolta quella piccola stella dentro di sé, come essa risuona con i suoi pensieri e la natura tutt’intorno. Immagina quella luce e quella vibrazione – gentile, come lo sciabordio delle onde – moltiplicarsi all’infinito per cullare tutta l’umanità e si dice, che cosa stupenda sarà.
 
Sorride raggiante mentre aspetta Atena e impara a spaccare le montagne con i propri pugni. Talvolta, un’unghia cade, un dito si spezza, la pelle si fa: gialla, verde, blu. Talvolta, ma solo all’inizio, fermare le lacrime è impossibile, ma lui non grida mai, non si lamenta. Aiolos si rialza e lascia che gli apotecari cuciano insieme lembi di carne come si rammentano abiti vecchi e intanto ascolta, dentro di sé, la piccola stella che si allarga, si fa sempre più calda—cresce con lui.
 
Il maestro è fermo nei suoi insegnamenti ma ama sorridere. Quando parla del cosmo di Aiolos, il suo sorriso si allarga e allora lui dice: è come il sole, è un miracolo—no, presto tu sarai in grado di compiere miracoli nel nome di Atena, se continui così, piccolo Aiolos: braccio forte e cuore onesto.
 
Braccio forte e cuore onesto, Aiolos scolpisce le parole nella sua mente e annuisce. Ha gli occhi che brillano ma non c’è posto per l’orgoglio nel suo sguardo. Non c’è fame di lodi né sete di gloria; non c’è altro desiderio che quello di divenire un Santo che sia degno di questo nome. Prendetelo a modello, abbaiano gli altri istruttori, additandolo, e tanti bambini, futuri Santi e futuri soldati senza nome, fanno proprio questo.
 
A quattro anni, Aiolos non ha dimenticato cos’è una madre, la creatura morbida e gentile che ha lasciato per il Santuario. Una madre ricorda un po’ la dea. A modo suo Aiolos la ama ancora, anche a cinque, sei, sette, otto anni e più, ma inevitabilmente, il suo è un amore sbiadito, che sa principalmente di affettuosa nostalgia.
 

---

 
La prima volta che l’animo di Aiolos viene turbato è agosto, il quindici di agosto, mentre la Grecia prega e festeggia la Dormitio Virginis.
 
È da poco passata l’alba e lui ha osservato il sole nascere dal mare di Atene e risalire in cielo, seduto sugli spalti diroccati della vecchia arena. Dovrebbe correre, cercare qualcuno con cui allenarsi, magari nuotare fino al grande scoglio che si erge all’orizzonte, ma c’è una strana calma nell’aria, oggi, che gli appesantisce i muscoli e il pensiero, quasi come se non dormisse da giorni. Nemmeno il maestro l’è venuto a svegliare questa mattina; sembra essere stato inghiottito da qualche cosa, da qualche parte. Si alza una brezza leggera che fa ondeggiare arbusti, ortiche e denti di leone che crescono nelle crepe della roccia antica: accarezzano i polpacci di Aiolos, li solleticano e li pizzicano. Prude, pensa, eppure resta immobile.
 
Ma dopo qualche minuto Aiolos scatta, come una lucertola sorpresa a prendere il sole da un bambino che vuole catturarla. Scatta, finalmente, e salta in piedi quando l’ombra imponente del Pontefice lo ricopre come una nube.
 
“Signore…!” Aiolos rabbrividisce per la frescura improvvisa, per i sensi che ritornano: il mondo sembra essersi riacceso ed è tanto intenso da sconvolgerlo.
 
Dietro la maschera che luccica, Shion lo guarda intenerito. “Cosa fai qui, giovane guerriero?”
 
Ed Aiolos ricorda l’allenamento che ha saltato e il ricordo gli imporpora le guance. “Io… Io,” mormora.
 
Dovrebbe scusarsi, trovare le parole giuste per esprimere vergogna e pentimento, per spiegare ciò che è successo, quello strano stato d’animo, ma Aiolos trova che è impossibile: ha già dimenticato la sensazione che provoca il torpore; gli è tornata sconosciuta come lo era stata per una vita intera, seppur breve. Dovrebbe dire qualcosa, almeno, qualsiasi cosa, ma la mano del Pontefice, antica e fresca sulla sua spalla nuda, è come un incantesimo che lo persuade al silenzio.
 
“Non crucciarti,” comanda la voce senza tempo. “Sono stato io a chiedere al tuo maestro di non disturbarti per oggi: c’è qualcosa che vorrei mostrati.”
 
Aiolos sbatte le palpebre; non osa parlare, chiedere spiegazioni, ma Shion gli legge le domande negli occhi.
 
“Oh, forse avrei dovuto dire: qualcuno. C’è qualcuno che devi conoscere,” dice mentre iniziano la discesa. “È molto importante. Mi chiedo se tu non abbia avvertito nulla…?”
 
Aiolos abbassa la testa, sentendo di aver fallito per la seconda volta quel giorno. Sta per pronunciare un no, perché vuole ammettere la mancanza, perché un cuore onesto è parte della sua forza. Sta per pronunciare un no, quando qualcosa che rassomiglia una piccola esplosione, due stelle che si incontrano a metà cielo, gli scuote il petto.
 
C’è qualcuno a pochi metri da loro. Aiolos ne studia la schiena, i capelli, e decide che sembra infinitamente fragile. Che è qualcuno che non ha mai visto.
 
Nel suo cuore, ritorna quella calma assoluta ed innaturale.
 
È in quel momento che Shion ha la prima intuizione di quella che sarà un’amicizia come quelle di cui raccontava Aristotele; come quella che lui stesso ha condiviso in una gioventù che ormai sembra una vita passata: un’anima in due corpi, sì. Shion sarà anche l’unico ad aver visto e a ricordare gli occhi di Aiolos in quegli istanti: le pupille dilatate e la meraviglia, la curiosità, quasi l’avidità che si articola in un voglio conoscerlo che Aiolos neppure si accorge di aver pensato. Shion ricorderà tutto questo, fino alla fine, e proprio alla fine, questo sarà uno degli ultimi frammenti che vedrà passare davanti ai propri occhi, rimpianto di una verità che forse avrebbe dovuto rivelare per allontanare il calice di un destino troppo amaro.
 
“Saga,” chiama soltanto.
 
I capelli di Saga scintillano per un attimo, guizzando in un semicerchio mentre il suo corpo si volge verso gli altri due.
 
“Signore,” mormora a metà tra il reverente e il sorpreso. Aiolos si chiede cosa stesse osservando, tra gli alberi e le rocce, che lo avesse preso così tanto.
 
“Aiolos,” Shion pronuncia il suo nome con morbidezza. “Questo è Saga. Viene da uno dei piccoli villaggi sulla costa. Da oggi in avanti, verrà affidato ad un istruttore personale come te e sarà tuo compagno. Siate come fratelli, e siate forti, siate uniti, poiché siete entrambi predestinati e il vostro onere è immenso. Le stelle di Gemini proteggono il giovane Saga.”
 
In un eccesso di ingenuità che non sperimenterà mai più, l’unica risposta che Aiolos sa trovare è:
 
“Ma è piccolissimo.”
 
“Eppure,” il Pontefice ribatte con un sorriso che è quasi risata e ne colora la voce, “mi pare che tu abbia già avvertito il suo cosmo e te ne sia lasciato irretire, prima ancora di giungere qui.”
 
Più tardi, Aiolos scoprirà che, in realtà, Saga è più grande lui ed ha già compiuto cinque anni da quasi due mesi, che sul suo viso si alternano un’espressione tanto seria da sembrare severa ed uno sorriso quasi timido che a Rodorio definiranno essere quello di un angelo o di un dio misericordioso. Scoprirà che, quando ride o sbadiglia, Saga ha l’abitudine di coprire la bocca con le mani, e che con poche parole riesce ad infondere coraggio e ad ispirare fiducia.
 
Saga diventerà il rivale e l’ispirazione e Aiolos si lascerà cullare dal suo cosmo gentile negli anni che verranno, credendo che sarebbe durato per sempre.
 
Negli anni che verranno, in certi pomeriggi di sole, quando tutto è più lento, Aiolos ricorderà a Saga dell’espressione che aveva quel giorno, quando avevano solo quattro e cinque anni rispettivamente.
 
“Avevi quest’aria indignata,” gli dirà, una risata pronta a fiorirgli sulle labbra. “E cercavi di nasconderla a tutti i costi. Credo, volessi apparire assolutamente calmo di fronte al Sommo Sacerdote, ma in realtà sembravi uno scoiattolo con le guance gonfie di noci!”
 
E allora Saga replicherà, senza volere, quella stessa espressione, e cercherà di nascondere il viso in un papiro che stava decifrando, oppure tra le mani irruvidite dagli allenamenti, fino a che, stanco della risata di Aiolos, lo getterà a terra o contro una colonna sotto il proprio peso.
 
“Dicesti che ero piccolissimo, eppure adesso sono ben più alto di te,” dirà Saga con un sorriso che è affilato come una lama, e che solo Aiolos ha visto, e solo alcune volte.
 
Si guarderanno negli occhi per un tempo che sembrerà quasi infinito, in silenzio, come ad aspettare che qualcosa succeda o che l’altro faccia qualcosa e che tutto cambi: spesso, quando sono soli, la loro adolescenza si riduce all’attesa di un miracolo senza nome.
 
Spesso, Saga arranca, cercando la parola giusta, la chiave di questa rivoluzione. Ma anche a tredici, quattordici anni, Aiolos è come cieco e sordo, perché ancora convinto di non conoscere altro amore che non sia quello per la dea o per Aiolia.
 
E così spezzerà il silenzio, riderà di Saga, se stesso e quella strana tensione; ribalterà i loro corpi e decreterà senza crederci troppo: “Però, il più forte sono ancora io,” e Saga risponderà all’aggressione del proprio orgoglio con un altro attacco, dando vita ad una catena che si spezzerà solo quando saranno esausti e il tempo di Aiolos si fermerà per sempre.

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Capitolo 5
*** Il desiderio nacque presto, così come il rimpianto (Saga, Aiolos, Aiolia) ***


Il desiderio nacque presto, così come il rimpianto (Saga, Aiolos, Aiolia)

 
 
 
Addentano olive che scivolano via da dita gonfie e piene di lividi, quando Aiolos parla a Saga di Aiolia per la prima volta.
 
Le olive le hanno strappate via da alberi secolari e più giovani, ancora flessibili come bambù, senza smettere di correre verso il mare. Vediamo chi arriva prima, vediamo chi ne prende di più, era la sfida che si erano lanciati senza parlare.
 
Questa volta, Aiolos era saltato per primo sullo scoglio ma nella fretta aveva lasciato cadere un gran numero di olive. Saga le aveva osservate rotolare e impigliarsi tra le radici degli arbusti di rosmarino e salvia; altre erano cadute in acqua con un tonfo impercettibile.
 
“Siamo pari, siamo pari,” aveva riso Aiolos mentre stringeva il braccio più vicino al petto e le olive rimaste ballavano pericolosamente nella concavità.
 
Dall’alto dei suoi quasi nove anni, Saga scuote la testa. “Sei troppo disattento e impulsivo,” cerca di imitare l’espressione del maestro quando ha detto la stessa cosa a Kanon, l’altro giorno.

Come Kanon, Aiolos non si mortifica, ma non si arrabbia nemmeno: il suo sorriso si allarga e lui si protende in avanti per infilare un’oliva tra le labbra socchiuse di Saga, che ne ha le mani piene.
 
“Ma non in battaglia ed è questo che conta,” dice e suona troppo cordiale per essere un’altra sfida o una presa in giro. Aiolos è così. Non si arrabbia mai davvero e l’unica vittoria di cui gli importi è quella che potrebbe salvare la vita di innocenti.
 
“Eppure, oggi nell’arena…”
 
“Ah, oggi nell’arena! Mi darai la rivincita?”
 
“E se perdessi di nuovo?”
 
“Non sarà un problema, perché siamo futuri Santi, siamo fratelli. Saga non è un nemico che dovrò sconfiggere: vorrà dire che in guerra avrò una guardia invincibile a guardarmi le spalle!” poi si ferma a rimuginare su qualcosa. “E poi,” aggiunge con una scrollata di spalle. “E poi continuerò a crescere e ad allenarmi. Diventerò molto più alto, ancora più alto di te e più forte: forse verrà il giorno in cui potrò batterti.”
 
La verità è che nel giro di circa quattro anni Saga crescerà più in fretta, si farà più alto di Aiolos e di molti altri che poi diverranno loro compagni. I suoi arti saranno più poderosi e Aiolos non sarà più in grado di sollevarlo così, senza sforzo, come si solleva una specie di scricciolo che si indigna e dibatte fino a che non cadono tutti e due per terra. Non sapranno mai, in ultimo, chi fosse davvero il più forte o se Aiolos sarebbe ancora potuto diventare il più alto negli anni che li separavano ancora dalla fine dei tumulti adolescenziali, perché Aiolos avrà quattordici anni per sempre.
 
Ma per ora guardano il mare e mangiano olive con le dita gonfie e livide.
 
“A proposito di fratelli,” Aiolos rompe il silenzio all’improvviso e per un attimo, il cuore di Saga batte così forte che teme rimbombi tra gli alberi e gli scogli.
 
Poi il sorriso di Aiolos si fa più caldo e lui gesticola quasi come se l’avesse morso uno scorpione. Il cuore di Saga si calma quando inizia a parlare di Aiolia—che ancora non si chiama Aiolia, che Aiolos ancora non sa essere il suo fratellino o la sua sorellina, ma solo qualcuno che per ora dorme nel ventre di sua madre e che già ama tantissimo.
 
“Nascerà a luglio. Era scritto nella lettera.”
 
“Oh…” la voce di Saga è come sbiadita, lontana. “Tra poco, allora.”
 
Si domanda se la sua espressione, parlando di Kanon, se gli fosse mai permesso di parlare di Kanon, somiglierebbe anche un poco a quella di Aiolos, oppure se in lui c’è troppa amarezza per il destino che la nascita gli ha riservato e il silenzio impostogli, per poter parlare ancora di Kanon con il sorriso sulle labbra. Saga si sorprende nel realizzare quanto siano cambiate le cose da quando sono diventati parte del mondo segreto.
 
Il cuore gli torna in gola quando capisce di non sapere se un giorno perderà suo fratello o se, in qualche modo, non lo abbia già perso. Kanon che ormai, alle soglie dell’investitura, è come un gatto randagio, solo uno degli innumerevoli fantasmi che si aggirano tra le rovine del Santuario. Il fantasma personale di Saga: lo spettro delle sue incertezze e di tutte le cose care e perdute. Ogni tanto lo visita e porta con sé il profumo del mare che è quello di casa, quello della vita che sarebbe potuta essere e non potranno mai più avere.
 
Nelle notti – adesso rare – in cui dormono insieme, abbracciati l’uno all’altro, Kanon odora di rimpianti.
 
Saga scuote la testa e cerca di dimenticare, per ora: sa di aver intrapreso una strada che non gli permette soste o ripensamenti.
 
“Ma, una lettera dal mondo esterno… Come hai fatto ad averla?”
 
Non c’è spazio per queste cose, nella vita di un Santo: amici, famiglia, casa, ogni cosa va demolita e lasciata alle spalle. Saga ha capito subito, guardandosi attorno, che spesso, però la nostalgia non si dimentica e diviene una ferita costante e infetta; ha capito anche che sia il Pontefice che i maestri sono al corrente di questa diffusa debolezza, che fanno semplicemente finta di niente perché è una debolezza umana che non si elimina, e ciò che conta davvero è che tu sappia nasconderla.
 
Quante altre bugie nasconde il Santuario? Di quante verità taciute è fatta la pace?, domanda una voce che alle volte tiene Saga sveglio fino alle prime ore del mattino.
 
Aiolos sbatte la palpebre e lo guarda come se avesse appena realizzato la stranezza di tutto ciò.
 
“Il maestro…” farfuglia. “È stato il maestro a portarmela ieri sera.”
 
Ieri sera, si ripete come un’eco nella mente di Saga. Non saprebbe dire a chi appartenga la voce. È irragionevole eppure non sa fermarla. Ieri sera, e perché me lo dici solo ora?
 
I pensieri corrono.
 
C’è qualcosa, in lui, che brucia amaro come acido.
 
“Il Gran Sacerdote lo sa?”
 
“Certo che lo sa!” Aiolos, che è sempre calmo e bonario, per un momento è sul punto di urlare. “Il maestro non farebbe mai—”
 
Saga annuisce. Lui tace. Scusami, mormora, forse.
 
Saga sa, allora, che deve esserci un motivo, una ragione, un uso, perché non c’è misericordia per i Santi di Atena, non c’è balsamo per le ferite che nascondono sotto la carne. Non è concesso.
 
E non sei fortunato, tu che la tua metà puoi vederla e toccarla? Quanto è grande la tua debolezza, se anche così nutri rimpianto e rancore?, sono cose che Saga non vuole ascoltare. Non c’è rancore, dentro di me. No. Ma non sa negare la propria debolezza.
 
Forse Aiolos ha scorto l’ombra sul suo viso, quando decide di poggiargli un’altra oliva sulle sue labbra. Distratto, Saga apre la bocca e sulla lingua sente il sale della pelle di Aiolos.
 
“Oh,” pronuncia stupidamente intorno all’oliva. Si sente come sul punto di rabbrividire, nonostante sia giugno e l’aria appiccicosa. Vorrebbe ripetere il gesto; fare la stessa cosa ad Aiolos senza sapere se sarebbe per offrirgli quel sapore pungente, per ripicca, oppure perché vuole scoprire se la sua lingua sia ruvida come quella dei gatti contro i suoi polpastrelli. Invece, Saga resta fermo.
 
Aiolos ride.
 

---

 
Aiolia sarà, senza saperlo, il centro e l’origine di molti dei pensieri che Saga formulerà su Aiolos, così come per molti altri che ameranno in un modo o in un altro suo fratello.
 
Il suo primo incontro con entrambi avviene il sedici agosto: a poco più di due mesi da quando Aiolos ha ricevuto la lettera, ancora meno dall’ultimo compleanno di Saga. Il giorno dopo l’anniversario dell’arrivo di Saga al Santuario e della festa per una donna che può salire in cielo senza prima morire e che ha partorito senza prima sanguinare sul talamo. Rodorio non ha celebrato questa figura a metà tra favole e miracoli, ma porta in trionfo i giovani Santi appena investiti.
 
Sfilano per le vie del villaggio sorridenti e luminosi. Sono stelle diurne che riscaldano senza scottare. Sono la speranza di questa gente e di tutto il mondo. Sono – sebbene nessuno lo dirà mai ad alta voce – i veri agnelli sacrificali.
 
Lasciano che donne antiche col capo coperto gli prendano la mano, sfiorino le vestigia, gli mettano in braccio bambini che hanno solo pochi anni meno di loro.
 
Hanno tra i capelli petali e boccioli che alcune bambine gli hanno gettato addosso rincorrendoli. Aiolos le ha ringraziate ridendo; Saga ha carezzato le loro teste.
 
Inconsciamente, gli abitanti di Rodorio ringraziano Atena che i due sembrino così sereni ed invincibili, così più grandi di quanto realmente siano: sarebbe stato difficile festeggiare a cuor leggero la nomina a soldati, ad armi umane di una dea, di due bambini che non hanno ancora compiuto dieci anni.
 
Nessuno bada a come le incarnazioni di Gemini e Sagittarius si tengano vicine e si scambino sguardi nella ricerca continua di un appoggio ed una conferma. Nascondere a se stessi certe fragilità può essere semplice, quando la situazione lo richiede.
 
Osservano con ammirazione la dignità delle figure e la sacralità della scena. Qualcuno sta bruciando incensi profumati. I forni distribuiscono dolciumi alla folla. La folla è una cornice eterogenea e chiassosa.
 
Ed è sempre la folla che si getta ai piedi di Saga, aggrappandosi alle scanalature dell’armatura, al mantello, addirittura ai suoi capelli. Una, due, tre, prima un piccolo gruppo di persone poi sempre di più, abbastanza da separarlo da Aiolos.
 
Urlano e mormorano in coro con la voce rotta dall’emozione. A Saga sembra che stiano parlando una lingua sconosciuta. Cerca Aiolos con gli occhi, quasi disperato, e sul suo viso legge lo stesso sgomento. Non sono un’icona a cui chiedere grazie, vorrebbe gridare e per un istante sta quasi per ammettere, sono solo un bambino, ma la coscienza di un destino già deciso spazza via il pensiero prima che le parole prendano forma: Saga sa che deve fare qualcosa, che questo è il suo cammino. Se fallisce in questo momento deluderà queste persone e se stesso. Si infliggerà una ferita che manderà in cancrena i suoi dubbi, li renderà invincibili, e non ci sarà via di scampo per lui.
 
Capisce bene che i miracoli che questa gente chiede, i miracoli di cui ha davvero bisogno adesso, sono miracoli che lui non potrà mai realizzare. Non con i pugni, non con i calci, non facendo esplodere galassie. La magica vergine del Ferragosto sarebbe più adatta per queste cose, se non altro per creare l’illusione che tutto andrà bene.
 
Atena, cosa posso fare io?, chiede ad un punto imprecisato del cielo. Per favore, scendi presto tra noi. Abbiamo bisogno di te, pensa, io ho bisogno di te, e poi inizia ad immaginare come sarà quel cosmo divino, caldo e pieno di vita, rassicurante: la fine di ogni dolore.
 
È allora che Aiolos avverte di nuovo la calma che solo le stelle di Gemini sanno sprigionare: è diversa da quella che Saga sta evocando dentro di sé; è anch’essa rassicurante, sì, ma fredda, come il mare al largo o lo spazio profondo. La notte buia e senza stelle che è negli occhi di Saga.
 
Saga che sorride, dolce ma intrinsecamente fermo come le statue nelle chiese del mondo esterno. “Andrà tutto bene,” promette. “Presto, giungeranno gli altri Santi e con loro Atena dalle braccia bianche. Porterà la pace e noi faremo del nostro meglio per proteggerla assieme a questo mondo.”
 
È una vocazione, questa. Il parlare direttamente all’animo delle persone, sondandone i sentimenti e trovando la risposta giusta, la chiave per alimentare o assopire quelle fiamme. Non è oggi che Saga lo capirà, ma lo vedono chiaramente Aiolos e i loro maestri che li hanno seguiti in questa sfilata. Saranno entrambi a parlarne al Grande Sacerdote quella sera stessa, mettendo in moto ingranaggi di un fato più grande di loro.
 
È così che nasce la leggenda di Saga, il Santo simile ad un dio.
 
“Sei stato straordinario,” Aiolos gli mormora sincero all’orecchio, sulla via del ritorno. Non nasconde mai la sua ammirazione. Il suo unico orgoglio è quello di servire Atena.
 
Ma prima che Saga possa rispondere, un uomo che riconoscono come uno dei messaggeri del Santuario si avvicina loro. Prende Aiolos in disparte.
 
Aiolos non piange ma si scurisce e resta muto per tutto il tragitto. Saga non osa chiedere ma continua a camminargli vicino.
 
Al Santuario, li aspetta un fagotto piangente tra le braccia di una nutrice chiamata in fretta e furia dal villaggio.
 

---

 
È di nuovo piena estate. Saga ha undici anni. Da qualche anno le sue già esigue ore di sonno sono ulteriormente diminuite, tra l’arrivo dei nuovi apprendisti, i loro spiriti indomiti, e le notti trascorse sulla Collina delle Stelle, imparando a decifrare il linguaggio degli astri.
 
Quando il mondo è in pace le sue giornate si articolano tra allenamenti, quelli che ormai Aiolos e lui chiamano semplicemente i bambini, talvolta Rodorio e noiosissime (non che lui lo ammetterebbe mai) mansioni burocratiche.
 
Saga è diretto alla terza casa con un carico di tavolette, papiri, pergamene ed anche un più moderno blocco di carta di cellulosa tra le braccia: il nuovo incarico datogli dal Pontefice.
 
Mette piede nel tempio di Sagittarius e alza gli occhi verso il soffitto. L’importanza della formalità e dei costumi non gli è mai sfuggita ma con Aiolos la cosa gli sa quasi di ridicolo.
 
“Aiolos,” trattiene uno sbuffo: i bambini, no, i futuri Santi d’oro li prenderanno ad esempio, dopotutto. “Aiolos, ti chiedo il permesso di passare.”
 
Gli risponde un coro di risate.
 
Aiolos è gettato trasversalmente tra una pila di cuscini e un antico tappeto che racconta lo scontro tra Achille ed Ettore. Aiolia è aggrappato al suo braccio e Shura di Capricorn se ne sta inginocchiato su Ettore che corre attorno alle mura di Troia; osserva i fratelli timido, aspettando il momento in cui avrà il coraggio di unirsi ai loro giochi.
 
“Saga!” Aiolos pronuncia il suo nome con la voce che cavalca la fine di una risata. Suona intimo ed amichevole. “Perché non vieni a fare un pisolino con noi?”
 
Per un lungo istante, Saga sente su di sé lo sguardo dei bambini. Aiolia è apertamente ostile, gelosissimo di suo fratello e del tempo che può concedergli. Shura non osa tanto: non osa nemmeno sognare di poter monopolizzare quello che è palesemente diventato il suo idolo, non osa guardare Saga con astio perché lo rispetta e ne è intimorito come solo i bambini possono esserlo nei confronti di qualcuno che ha solo una manciata di anni più di loro; eppure, Saga sa che nemmeno Shura lo desidera lì.
 
“Guardami bene, Aiolos. Non posso,” dice con un sospiro e indica col mento la pila di documenti che minaccia di crollare da un momento all’altro.
 
Il sorriso di Aiolos sembra farsi un po’ stanco prima che annuisca e risponda: “Capisco.”
 
Aiolia ne approfitta per ridacchiare e gettare le braccia al collo del fratello. Preso nel mezzo di questa strana rivalità, Saga sente di non poterlo biasimare. In fondo lo capisce.
 
È un episodio, questo, che si ripeterà più è più volte nel corso degli anni che restano prima della fine.
 
Saga non accetterà mai.
 
Eventualmente, però, mettere un coperchio sulle ombre diventerà impossibile, e lui capirà che a suggerirgli il rifiuto non era mai stato davvero il dovere, ma la gelosia.

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Capitolo 6
*** Il vento in un ragazzo (Shura, Aiolia) ***


Il vento in un ragazzo (Shura, Aiolia)

 
 
 
Aiolia sarà, senza saperlo, il centro e l’origine di molti dei pensieri che Shura formulerà su Aiolos, così come per molti altri che ameranno in un modo o in un altro suo fratello.
 
Aiolia sarà il cardine del primo vero incontro e il cardine del peccato, delle incertezze. Sarà il senso di colpa che scruta Shura attraverso occhi che non sanno più fidarsi del mondo.
 
In una vita di rimorsi, Aiolia sarà l’ultima possibilità bruciata, l’ultima porta mai aperta, l’ultima scelta sbagliata.
 
Ma per ora, per Shura, Aiolia è una cosa preziosa.
 

---

 
Shura ha sei anni quando si arrampica sulle scale per la tredicesima casa la prima volta.
 
Il mondo segreto, pensa, ha un’aria che pesa di solennità. Si guarda intorno e vede colonne diroccate, nuvole di sabbia, statue di marmo che si rivelano nude e bianche dopo aver perso i loro colori. È un’epoca passata che quelli come lui si ostinano a preservare come una farfalla in una teca di vetro.
 
Dall’altra parte del velo, gli uomini scattano foto per preservare ricordi, guardano altri esseri umani a chilometri di distanza attraverso lo schermo bombato di una televisione, hanno conquistato il cielo e progettano di prendersi anche stelle e galassie. Eppure, non sapranno mai della forza immensa che si nasconde in loro, non sapranno mai risvegliarla; non sapranno mai che potrebbero leggere il proprio destino nelle stelle, né che le stelle possono farsi carne come gli dei che li disprezzano e colei che li ama più di se stessa.
 
Shura considera queste cose vagamente, senza averne una particolare opinione. Pensa solo alle differenze tra due modi di esistere paralleli e crede che sia giusto così, perché così è stato dalla notte dei tempi, perché è necessario che sia così per mantenere l’ordine delle cose. La fede di Shura, in questo senso, è incrollabile.
 
Sulle spalle ha un mantello di lana che sua madre aveva cucito per lui prima che la lasciasse per gli allenamenti. Si è fatto sottile e rigido come cartone fino, tra sangue, sudore ed intemperie. Il suo peso, però, è qualcosa che gli è troppo familiare perché se ne liberi. Anche quando si farà più alto, più robusto, e scivolerà dalla pelle di bambino dentro quella di adolescente e poi di adulto, continuerà a conservarlo in un cassetto.
 
Lontano dall’arena, su questo colle, regna il silenzio. Il silenzio, la morte e i ricordi sbiaditi che aleggiano in questo posto si fondono alla promessa di rinascita, del ciclo che si ripete e della salvezza che giungerà, a qualsiasi costo. È una sacralità che è misto di perdita, dolore inevitabile, ma anche di nuovi inizi, della certezza della giustizia. A Shura tornano in mente la chiesa dal soffitto alto, fredda e profumata, le veglie attendendo la resurrezione di Cristo su una panca scomoda, a fianco a sua madre che pregava, chissà per cosa, con gli occhi chiusi e le mani giunte.
 
Le sfuggiva, talvolta, un mormorio flebile, o una parola non pronunciata ma comunque facile da intuire sulle sue labbra. Se ne accorgeva dopo poco, inevitabilmente, e allora le sue dita si facevano un po’ bianche attorno al rosario; stringeva i denti dietro le labbra e ricominciava a pregare, chissà per cosa.
 
Queste cose tornano nei pensieri di Shura come misteri eternamente destinati a restare tali: curiosità infantili che negli anni si trasformano in consapevolezze, della paura e della fragilità dell’animo umano, che affliggono persino una madre. Una donna che mette al mondo un’altra creatura, tra sangue e sudore, non diversa in questo da un Saint, e che poi ha bisogno di affidarsi ad un dio distante e crudele che non risponderà mai. Cosa può mai spaventare una madre al punto tale da spingerla a quest’ammissione assoluta di impotenza? Cosa può desiderare così tanto e di così inarrivabile?
 
I Santi pregano Atena perché dia loro forza in battaglia, perché li osservi e ne sia orgogliosa, ma non le chiedono nulla. Forse, ipotizza Shura, è perché noi non desideriamo nulla, nemmeno la salvezza dalla morte se può servire a vincere una guerra. Sono pensieri senza tristezza, il risultato di un’infanzia trascorsa in gran parte ad ascoltare e a lasciarsi plasmare da un altro servo della dea. È la verità di Shura.
 
Ci sono troppi alberi qui, forse ad un certo punto ha sbagliato strada. Rami e foglie frusciano con una tale intensità da ricordare il rumore delle onde e Shura sente di dover sollevare lo sguardo. Ci sono piume che cadono lente ed in giravolte. Poi c’è Aiolia, che adesso però non è ancora Aiolia, ma soltanto un viso rotondo e dei ricci che appartengono agli affreschi della chiesa nei ricordi di Shura.
 
Un angelo?, si domanda scioccamente per un attimo, più con sincera curiosità che ammirazione. E cadono tutti e due a terra; è una fortuna che non rotolino giù per le scale.
 
“Un uccellino era caduto giù dal nido,” spiegherà Aiolia ad Aiolos, che li raggiungerà presto. Il suo viso impallidito ricorderà a Shura di sua madre quando temeva di avergli svelato il segreto delle proprie preghiere.
 
“Aiolia, sii più prudente; la prossima volta chiama me o Aiolos,” Saga, che ha seguito Aiolos, rimprovererà Aiolia con esasperazione e dolcezza nella voce.
 
Shura ha sentito di Saga e della sua natura divina quando era ancora sui Pirenei; ora che lo ha davanti, non vi è dubbio che questo ragazzo-uomo cammini tra le stelle, eppure, se un essere umano che assomiglia agli dei può davvero esistere, Shura sente che questi è Aiolos.
 

---

 
Fino ad un certo punto della sua vita, Aiolia non conosce nulla che non sia il Santuario, il suo destino di Saint e suo fratello. Ma d’altronde, suo fratello è tutto e lo sarà per anni, imprescindibile anche dal volto della dea poiché non ci sarebbe Atena, per Aiolia, se prima non ci fosse stato Aiolos a dirgli, diventa forte per lei: è la cosa giusta da fare.
 
Aiolos lo cresce, lo coccola, lo allena, lo sgrida e poi lo coccola di nuovo (Saga ama dirgli, quando crede che Aiolia non li stia ascoltando, che è troppo morbido nei suoi confronti, ma cosa può saperne, lui, di come ci si comporta con un fratello minore). Aiolos gli spiega cos’è una madre e gli regala quei pochi frammenti che ne conserva; Aiolia impara così ad amare un ricordo vago che non gli appartiene, senza doverne sentire la mancanza.
 
Il suo mondo inizia ad allargarsi a quattro anni con Milo e per estensione, con Camus; con Aldebaran e un po’ con Mu, talvolta Shaka, in un certo senso anche con DeathMask, ma prima di loro, prima di tutto e subito dopo Aiolos, c’è Shura.
 
“Anche tu vuoi bene a mio fratello, vero?” gli domanda un pomeriggio che dovrebbe essere dedicato agli studi, ma Aiolia non ne ha mai fatto mistero: delle imprese di Achille preferisce sentire dalla bocca di suo fratello piuttosto che di Omero, e crede fortemente che Aiolos possa descrivere la Persia meglio di Senofonte, anche se non l’ha mai vista. Aiolos sa tutto, Aiolos è tutto. Aiolia crede che Shura condivida questo pensiero e non sa cosa provare.
 
“Io…”
 
“Non mentire. Lo so che gliene vuoi,” certezze di bambino. Suona quasi come la dichiarazione di una colpa, una condanna.
 
Shura deglutisce, sentendosi un imputato davanti allo sguardo di Aiolia, ma anche della dea che si staglia contro il cielo con Nike nella mano.
 
Aspetta un’altra accusa, che sia più esplicita, forse degli insulti, il divieto di parlare ad Aiolos e seguire Aiolos anche quando lo invita a giocare con Aiolia, ma Aiolia resta muto e fino al tramonto non parlano più. A modo loro, diventeranno amici.
 
Shura non sa che se Aiolia non dice più nulla è perché non lo teme; non conosce le verità che Aiolia, così piccolo, più piccolo di lui, ha già intuito, pur senza poterle comprendere fino in fondo—non adesso, almeno, e forse mai.
 
Shura non sa che Saga di Gemini ha già preso tutto quello che resta del cuore di Aiolos, tutto quello che non è già consacrato ad Aiolia o alla dea, che Aiolos stesso lo sappia o meno.
 
Non ho più nulla da perdere aleggia tra loro, sospeso nel silenzio. Continuerà a governare la vita di Aiolia come un unico comandamento negli anni a venire, mentre Saga gli porterà via ogni cosa.
 

---

 
Un Santo non possiede nulla se non la fede nella dea e la forza nel suo braccio. Un Santo non possiede nulla, nemmeno la propria vita, che è solo uno strumento di giustizia. Shura l’ha sempre creduto. Rifletteva con fermezza su queste cose a sei anni, salendo le scale che serpeggiano tra i templi per la prima volta.
 
Eppure, a dieci anni, si ritrova a ripetere queste parole ad ogni passo, cercando disperatamente di ricordarne il significato e la fede cieca, l’abilità di vivere senza pretendere di poterlo fare felicemente o per un solo giorno più del dovuto.
 
Shura tenta e trova che è impossibile, perché ora che sta per perdere qualcosa ha preso a desiderarlo, vuole richiamarlo a sé.
 
A dieci anni, Shura impara a capire la paura e la fragilità dell’animo umano, il segreto che spinge una persona ad affidarsi ad un dio distante e crudele.
 
Atena, fa' che non sia vero, prega mentre alza il braccio e lo prepara ad abbattersi su Aiolos.
 
Atena non risponde.

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Capitolo 7
*** Difficile morire, ancor più difficile nascere (DeathMask) ***


Difficile morire, ancor più difficile nascere (DeathMask)

 
 
 
Il fatto che uno come lui fosse stato battezzato col nome di Angelo era una contraddizione senza equivoci.
 
L’avevano capito bene, la levatrice e le donne venute ad aiutare, che donna Catena dal ventre aveva cacciato un diavoletto; l’avevano capito nel momento stesso in cui avevano lavato via la placenta e il sangue ed ogni traccia di lotta e di fatica, e quello, per quanto lo scuotessero o lo battessero sul sedere, si rifiutava di piangere e già respirava come se qualche spiritello nell’aria gliel’avesse insegnato in segreto. E poi, scrutava le facce di quelle estranee con occhi di coniglio con un’intensità tale che pareva le stesse studiando, soppesandole una per una per decidere quale principe infernale mandargli contro.
 
Non è così che vengono al mondo i cristiani, aveva detto poi la levatrice quel giorno stesso a sua figlia, che aveva vent’anni e allattava il suo secondo pupo sorreggendolo con la sinistra, mentre con la destra rimestava la cena. Non è così che vengono al mondo i cristiani, si era detto nell’intimità della piccola casa e presto il sussurro si era sparso tra bar e panetterie e le vie coi sampietrini divelti e il fiume dove ci si riuniva a lavare i panni, a sbatterli contro le rocce lisce come polpi ostinati a non morire.
 
La scelta del nome era stata guardata con un certo sospetto e con tanto sdegno, ché sembrava quasi di calpestare la croce a chiamare quella creatura col nome di un messaggero alato. Ma donna Catena, che ne era pur sempre la madre, sperava di porre con quelle tre sillabe un sigillo sulla creatura misteriosa che ad un certo punto doveva essersi infilata tra le sue gambe per prendersi una creatura che, certo, fino ad allora doveva essere stata innocente come ogni altra.
 
D’altronde, donna Addolorata che viveva accanto le aveva spiegato che il suo bambino era nato nel giorno di San Giovanni, e che le donne che s’intendevano di filtri e pomate si mettevano all’opera in maniera sfrenata già tre giorni prima della notte delle streghe, e che non sarebbe stato dunque da sciocchi pensare che qualcuna – una donnaccia invidiosa, senz’altro – si fosse rivolta a queste che ne capivano di stregheria. Donna Addolorata, insomma, credeva che quel figlio, a donna Catena, gliel’avessero maledetto, che avessero pescato qualche satanasso dallu ‘nfernu e glielo avessero scagliato in corpo prim’ancora che venisse al mondo.
 
E a donna Catena, che di femmine maritate e col ventre arido ne conosceva, parve di ricordare come questa o quella le avesse rivolto uno sguardo un po’ strano o un sorriso un po’ così il tal giorno che c’era il mercato del pesce o poco dopo che aveva annunciato di essere incinta.
 
Donna Addolorata di certo doveva aver ragione, perché lei aveva imparato da sua madre, che aveva imparato da sua nonna e così via, a disfarle, le fatture, e se anche questa era roba che non si poteva disfare, restava comunque una battaglia da combattere: e dunque che la creatura riceva il nome di Angelo, che si battezzi al più presto ma in una mattinata favorevole; che porti al collo un’effige della patrona vergine ogni giorno ad ogni ora e che lo si educhi alla virtù più degli altri bambini.
 
Ma Angelo coi suoi occhi da coniglio continuava a squadrare il mondo con supponenza e odiava star fermo a messa e non capiva le mortificazioni della carne e anziché porgere l’altra guancia restituiva lo schiaffo con gli interessi.
 
Rosicchiava limoni come fossero arance e sapeva catturare lucertole prima che potessero lasciargli la coda in mano. Aveva la pelle cotta dal sole che era come cuoio al punto che le cicatrici lasciavano strisce bianche come latte perché di stare a casa non ne poteva, e più sua madre cercava di afferrarlo e più scappellotti riceveva, e più lui si faceva indomabile ed indisponente e se ne stava fuori, pure con la calura che c’era dopo pranzo, quando tutti chiudevano le imposte e dormivano per qualche ora.
 
Peggio dei cani randagi sei, gli urlava dietro donna Catena, ogni speranza di salvezza perduta, ed Angelo scrollava le spalle e muoveva un altro passo avanti, mentre cercava di decidere se andare a caccia di conigli per farsi un portafortuna e vendere gli altri o se menare il figlio del proprietario del pastificio che, quando l’aveva visto l’altro giorno, aveva sputato a terra.
 
Non capiva l’ostilità che gli era stata propinata sin dal primo istante, né ormai gli interessava comprenderla perché non aveva alcuna intenzione di passar sopra o perdonare. Angelo guardava i cani randagi a cui lo paragonavano scannarsi quando uno credeva che l’altro gli avesse invaso il territorio e non si meravigliava: se ti attaccano, difenditi, fa’ sì che non ti attacchino di nuovo. Ogni altra soluzione gli sembrava uno scherzo. Persino il suo stesso nome.
 
Che garanzia ti aspetti da una vibrazione nell’aria, qualcosa che si storce e deforma passando di bocca in bocca e non resta mai identica a se stessa? Che magia c’è in un nome quando non sa nemmeno imporre il silenzio come i pugni? Quale verità si cela nell’idea di un amore divino, assoluto, incondizionato, quando quello di una madre è soltanto precetti per legarti e modellarti secondo un’immagine che non sei tu?
 
In nome di cosa, lasciarsi spingere ed accettare di non essere mai scelto da un gruppo o da un altro quando si gioca con un Super Santos quasi sdrucito? Quale gratificazione misteriosa dà il lasciarsi martirizzare, il sacrificio senza senso e senza scopo, e perché lasciare che questo tesoro sconosciuto governi le azioni di una vita intera.
 
Quale risposta, quale deterrente, quale legge senza parole, se non quella della fine, della morte che toglie tutto e promette dannazione agli agnelli che si rifiutano di farsi sgozzare.
 
È la paura, Angelo ragionava, che genera la debolezza e ti fa pensare che non ci sia nulla di sbagliato nel lasciarsi morire giorno dopo giorno. Ma anche, Angelo pensava, questa è una cosa che ha senso solo per un cristiano qualsiasi perché cos’ha da temere uno che il diavolo ce l’ha già in corpo?
 
E così rosicchiava limoni come fossero arance e mentre catturava lucertole si diceva che presto o tardi lui di lì se ne sarebbe andato, che il mondo era suo perché lui non aveva paura di niente.
 
“Non ho paura di niente!” sbraita oggi contro l’orientale che lo addestra nelle camere ardenti e segrete dell’Etna, ed è naturale che dica così, a questo punto.
 
“Niente di niente!” ripete ed è come un segnale per il maestro che è di nuovo ora di scagliarlo tra le anime desolate ed indifferenti, là dove la luce dell’Eliseo è tanto lontana da sembrare nulla più che una diceria e un’invenzione.
 
Ed Angelo trema mentre si rialza, ed ha paura, ma non lo dice, perché fintanto che la verità gli resta dentro si può far finta che sia diversa.
 
Lui non morirà perché è una stella fatta carne, un prescelto, e poi pensa al Santuario dove non ha trascorso nemmeno un anno prima di essere sbattuto di nuovo sulle coste della Sicilia, e ricorda una creaturina bianca, quasi trasparente, che sembrava doversi sciogliere sotto il sole di Grecia da un giorno all’altro e che invece si aggrappava alla vita con un’ostinazione che era anche peggio dei cani randagi.
 
Non si muore facilmente quando si deve lottare per far valere il proprio diritto di stare al mondo. Non è facile uccidere un uomo e neppure un bambino che la morte la conosca già tanto bene.
 
“Non ho paura!” urlerà, Angelo, un giorno che i morti saranno suoi sudditi e la testa del suo maestro cadrà ad un cenno del suo dito.
 
Tornerà in Grecia col cloth sulle spalle e una testa quasi mummificata nella destra e la certezza dell’invincibilità nel petto. L’acredine dei limoni non gli lascia mai la bocca, però.
 
Tornerà in Grecia e vi ritroverà quel fantasmino pallido e insieme se ne cadranno all’Inferno.

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Capitolo 8
*** Nastri bianchi sulle braccia, o: cicatrici (Aphrodite, Saga, Aiolos) ***


Nastri bianchi sulle braccia, o: cicatrici (Aphrodite, Saga, Aiolos)



C'era un muretto che costeggiava parte del prato intorno alla sua Casa.

All'inizio, Aphrodite aveva creduto si trattasse di una protezione per le rose dalle suole di quelli che si arrampicavano su per il colle, diretti alla Tredicesima, ma un esame più attento gli aveva svelato le rimanenze di pilastri e la linea irregolare di mattoni mancanti o spezzati sotto i licheni, simile alla bocca marcescente di un uomo che ha perso tutto e inizia a disfarsi mentre ancora è in vita. Aphrodite conosceva bene quelle bocche sdentate e ancora di più conosceva quegli uomini disperati, accovacciati nell'angolo buio di una strada a cercare conforto in una bottiglia di liquore da quattro soldi, oppure vestiti eternamente a festa, a sorseggiare champagne da flauti che producono un suono quasi magico quando ne accarezzi l'orlo con un dito. Cercavano freneticamente un motivo per potersi dire gli uni migliori degli altri; volevano, insomma, la conferma della propria felicità nel constatare l'infelicità altrui, sebbene in segreto, forse anche a riparo dai loro stessi occhi, si invidiassero. Capitava infatti, quando Aphrodite passava tra le mani di quei signori impegnati in una specie di festival senza fine, che lo lasciassero spesso nei maglioni slabbrati e sbiaditi, decisamente troppo grandi per lui, che aveva raccattato per strada per difendersi dal freddo; ne ammiravano gli occhi e i capelli, e la pelle nascosta dallo sporco di giorni e giorni passati a dormire all'aperto; si intrattenevano in un gioco di indovinelli, dove il mistero da scovare erano le ossa sporgenti nascoste da strati di lana sudicia. Quanto peserà? Da quanto dici che non mangia? Se non gli diamo niente, riuscirà a sopravvivere la settimana? Beh, se vuol qualcosa dovrà imparare a chiedere. Farfugliavano dietro una mano mentre con eleganti bastoni da passeggio seguivano le linee dure dello sterno od un'anca. Erano mostri sfavillanti e Aphrodite desiderava che morissero tutti. Quando poi cadevano preda della noia, lo lavavano e lo vestivano e lo rimpinzavano di dolciumi di cui Aphrodite non avrebbe nemmeno conosciuto l'esistenza, altrimenti, e sembrava allora che avessero riscoperto in lui un gatto randagio, o qualche costoso cane di piccola taglia da accudire con amore. Talvolta invitavano degli straccioni con la promessa di un pasto caldo sotto la guisa di beneficenza, ma in realtà si divertivano a guardarne gli occhi che si riempivano di una fame diversa, ed invidia, quando si posavano sulla piccola sirena che sedeva, docile, sul grembo del padrone di casa. Talvolta, invece, lo avvolgevano in deliziosi abiti da bimba, con gonne vaporose e veli e delicato, bellissimo pizzo lavorato a mano in Italia. Erano quelli gli unici momenti in cui, guardandosi allo specchio, Aphrodite riusciva a pensare a se stesso oltre il presente, chiedendosi se crescendo sarebbe assomigliato a sua madre.

Di lei ricordava ben poco a dire il vero, eppure, l'impressione di un volto morbido e veramente bello era vivida nella sua memoria. Se glielo avessero chiesto, Aphrodite – che, in realtà, all'epoca non era ancora Aphrodite – non avrebbe saputo dire se avesse ereditato qualcosa da lei, eccetto per il neo sotto l'occhio che gli conferiva un'aria capricciosa e sofisticata anche dopo essere caracollato in una pozzanghera di fango durante una giornata particolarmente piovosa. Non sapeva con che nome l'avesse chiamato e non sapeva in che modo si fossero separati, ma siccome l'unica cosa che possedesse di lei, oltre alla consapevolezza che fosse bella, erano i ricordi vaghi di baci sui capelli e abbracci caldi e soffici, Aphrodite credeva fermamente che dovesse essere morta; forse, aveva fantasticato una volta o due, l'avevano uccisa perché lei si rifiutava di darlo via. Sua madre non l'avrebbe mai tradito, perché era la prima cosa veramente bella che avesse mai conosciuto in vita sua.

La seconda era Saga.

 
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“Il nuovo arrivato?” chiese Aiolos intorno ad un boccone di carne speziata. Parlava a voce bassa e non gli si addiceva, ma Aiolia era crollato nel suo letto, dopo gli allenamenti, e i templi sacri mancavano di porte e Aiolos non voleva disturbarlo.

Saga si lasciò cadere su una delle sedie di legno con un sospiro. “Dorme. A terra, sul marmo. Ho cercato di metterlo a letto, ma è sgattaiolato via di nuovo non appena ho fatto finta di allontanarmi.”

Aiolos rise. “Il cambio di clima è stato difficile anche per il piccolo Camus, ma vedrai che si abituerà.”

“Camus si sforzava di dormire nel proprio letto.”

“Sì, perché Camus ha sempre cercato di comportarsi più come un adulto che un bambino.”

Vi fu un momento di silenzio in cui Saga parve studiare il viso dell'altro, poi le proprie mani, ben aperte sul tavolo come farfalle da collezione, ferme per sempre su una tavoletta di sughero. Si sentiva impotente.

“Non è forse questo quello che chiediamo ad ognuno di loro?” disse infine.

Aiolos mormorò: Saga, ma non disse altro poiché sentiva che qualsiasi parola avesse lasciato le sue labbra in quel frangente sarebbe stata una menzogna.

“Gli ho detto...” Saga schiarì la voce, che suonava troppo debole, prima di riprendere: “Gli ho detto che qui sarebbe stato al sicuro, ma in lui vedo la stessa bellezza dei giovinetti del mito che finiscono inevitabilmente in tragedie più grandi di loro. In lui vedo Giacinto, di cui una volta mi parlò il Sommo Pontefice.”

“Oh sì, ricordo, ero lì anch'io.”

“E ricordi come finì?” domandò Saga, vedendo che Aiolos ancora sorrideva. Pensava, certo, ai giorni prima dell'investitura, in cui era loro concesso di ruzzolare per i colli come bambini e di ridere come bambini.

“Morì disgraziatamente, per caso.”

“No. Morì perché era bello, e Apollo non voleva altro che quella bellezza. Per lui Giacinto era un fiore da osservare, assaporare ed infine cogliere. Non ne pianse la morte perché non ve ne era motivo. Era, dopotutto, il momento che aveva permesso a Giacinto di sbocciare, l'apice di un estetismo a senso unico.”

“È come se nella tua bocca le parole si rimestassero e le vecchie storie fiorissero in qualcosa in qualcosa di molto più splendente e molto più tragico al contempo.”

“Per favore, Aiolos, considera seriamente ciò che dico.”

“Ma è perché ho grande rispetto per te e ciò che dici, amico mio, che questo tuo modo di parlare mi preoccupa. Tu sai bene che siamo stati chiamati dalle stelle a servire una causa, e che la nostra dea non ci chiederebbe mai il sacrificio delle nostre vite, sebbene questo sia imprescindibile dalla vita di un Santo.”

“Non ti accade mai di temere per Aiolia?” A Saga capitava di pensare a Kanon, alla vita di Kanon, uno strisciare furtivo di ombra in ombra, una vita a metà, e si sentiva colpevole e confuso perché, perché mai la Dea avrebbe permesso una cosa simile?

La luce sanguigna del tramonto disegnava ombre e forme sgargianti sul pavimento. Non vi erano finestre nella stanza; essa colava, languida, dal salone attiguo, come acqua che straripa da un calice già pieno. Aiolos sembrò scrutare quelle forme astratte per un po', come a volerle imprimere nella mente per chissà quale motivo. Saga lo conosceva abbastanza bene da sapere che un simile interesse per ciò che lo circondava non rientrava nella sua natura; Aiolos stava prendendo tempo. Avrebbe potuto dirlo ad alta voce, scoprire il compagno e metterlo in scacco, ma sarebbe stato troppo crudele, e meschino per di più. Prese allora un fico dal cesto al centro del tavolo. Era morbido e fresco nel suo palmo. Quando Saga l'addentò, la polpa rossa gli colò tra le dita e per un istante solo vide, nella sua mente, un'orribile immagine di morte, troppo sfuocata, però, perché gli fosse possibile capire se si trattasse un ricordo sbiadito o di un presagio futuro.

“Saga,” Aiolos disse infine. “Ricordi quando il Grande Sacerdote ci disse che seguire il proprio destino significa vivere bene? Se cercassimo di evitare tutto questo, finiremo come Edipo che inconsapevole realizza il fato tanto disprezzato: tragico, ma non solo. È innanzitutto miserabile.”

“Meglio perire al culmine di una vita onorevole che in disgrazia e tra ulteriori sofferenze, è dunque questo ciò che affermi?”

“E tu, pensi forse che potresti vivere serenamente, sapendo che migliaia di innocenti vanno incontro ad una morte che tu, con la forza degli astri, potresti evitare loro?”

A quella domanda, Saga sentì il respiro che veniva a mancare. Gli riuscì di soffiare un no, e poi null'altro. Consumò il resto del fico in silenzio; era insapore, ora, sgradevole perché si attaccava al palato e al fondo della lingua, pesante e viscido. Credette di aver in qualche modo inghiottito la poltiglia sanguinolenta che gli era apparsa di fronte agli occhi poco prima, e ci mancò poco che rigurgitasse sulle proprie vesti e il tavolo di Aiolos.

“Saga,” lo chiamò questi, con dolcezza, mentre si chinava in avanti. “Hai della polpa proprio qui,” disse, e con un dito gli sfiorò l'angolo della bocca, esitandovi in una maniera che era del tutto nuova ad entrambi.

Non vi era via di scampo, né da quella vita, né da Aiolos. Saga sorrise.


 
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C'era un muretto che costeggiava parte del prato intorno alla sua Casa, poi, un giorno di diversi anni fa, Aphrodite aveva scoperto che si trattava dei resti di quella che un tempo era stata un'altra costruzione: forse, un'estensione dello stesso sacro tempio dei Pesci. Aveva rinvenuto i capitelli degli altri pilastri tra le radici dei roseti e aveva lasciato che le rose continuassero a crescervi e a coprire, che l'età nuova soppiantasse quel che era stato prima di lui.

C'era stato un periodo in cui la calura greca non gli dava tregua e Aphrodite, a detta di qualcuno, pareva un fantasmino sul punto di svanire nell'immagine tremolante dell'orizzonte. Si accoccolava sul pavimento del tempio e dormiva lì, con la guancia premuta contro il marmo alla ricerca di un po' di sollievo, augurandosi sogni sereni. Di recente, invece, sognava la cerimonia d'investitura che si sarebbe tenuta di lì a poco. Sognava il potere e la sicurezza e le vestigia, e, talvolta, Saga.

Quando sognava Saga ricordava sempre di come l'avesse preso per mano e, con parole che l'Aphrodite dell'epoca non avrebbe potuto capire, aveva saputo rassicurarlo. Sognava dunque di ricordi, e poi sognava il futuro che non di rado si tramutava in incubi in cui il cloth lo rifiutava nell'arena gremita e Saga, che sedeva alla destra del Pontefice, si alzava e lasciava la platea senza mai voltarsi indietro per rivolgergli un ultimo sguardo.

Ma il Saga reale era lì, che scalava gli ultimi gradini prima della dodicesima casa e gli sorrideva orgoglioso.

“Mi concedi di passare, nobile Aphrodite dei Pesci?”

“Non è ancora ufficiale!” disse con una voce che si alzò e si spezzò in una maniera che lo fece suonare ben più giovane di quanto non fosse. Aphrodite se ne vergognò immediatamente, ma Saga non si scompose.

“Eppure lo sarà presto, no?”

Aphrodite chinò il capo: aveva le guance calde, certamente arrossate, e non voleva che l'altro le vedesse. Annuì come uno sciocco quando gli venne chiesto il permesso di attraversare il tempio per la seconda volta.

“Ti ringrazio. Mi faresti compagnia nella traversata?”

“Certo!” gridò senza ritegno, più Milo dello Scorpione che l'altero Aphrodite dei Pesci, e balzò sul muretto che era in realtà ciò che restava di un'altra costruzione, perché Saga era già tanto più alto di lui e Aphrodite desiderava, anche solo per un poco, di potergli camminare accanto come suo pari.

Non lo accompagnò sino all'inizio della scalinata per la tredicesima casa, poiché avrebbe significato ritornare coi piedi per terra, e lui voleva concedersi questo sogno, così diverso dagli incubi che lo attanagliavano di recente, quanto più a lungo possibile. Saga, il misterioso Saga, il saggio Saga, ne sembrava in qualche modo consapevole: si voltò rispettoso quando giunsero alla fine del muro, e posando una mano sulla spalla di Aphrodite – anziché sulla testa, come avrebbe fatto con uno dei bambini – gli augurò che il difficile cammino che si apprestava ad intraprendere gli fosse quanto più lieve possibile, e che egli potesse vivere tenendo sempre alta la propria testa, evitando le azioni ed i pensieri che avrebbero addolorato Atena.

Poi, Aphrodite restò immobile, in un equilibrio precario sui mattoni diroccati a fissare il bianco manto di Saga agitarsi nella brezza mattutina, fino a che la sua figura imponente non venne inghiottita dall'ingresso degli alloggi del Pontefice.

Prima ancora che la Dea, era quella schiena che avrebbe seguito, poiché Saga era la seconda cosa veramente bella che avesse mai conosciuto in vita sua. E sarebbe stata anche l'ultima.

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Capitolo 9
*** Sebbene il mondo sia prigioniero della solitudine (Aphrodite) ***


Sebbene il mondo sia prigioniero della solitudine (Aphrodite)



L'avevano afferrato un mattino, sulla via per l'arena, mentre calpestava i sassi consumati di una delle scalinate serpentine che collegavano i colli ed i luoghi sopraelevati al centro del Santuario – l'agorà e l'anfiteatro, dove tutto ciò che era importante accadeva – stringendo pugni e denti nella speranza di non scivolare. Era piccolo allora, piccolo come non gli sarebbe mai più stato permesso di essere una volta indossata la prima volta l'armatura; piccolo come, forse, non era mai stato prima che Saga lo prendesse per mano con la stessa cautela che si usa con un randagio fragile ed incattivito. Iniziava appena a parlare il greco con scioltezza ma il suo sangue, che era forte, già accettava il veleno delle rose come se davvero Aphrodite non fosse nato per altro che quello. Gli erano quindi stati fatti i dovuti avvertimenti per la sicurezza dei suoi compagni e dei soldati semplici e dei civili che di tanto in tanto venivano da Rodorio per portar merci o diventare servitori, e la cosa non aveva rattristato Aphrodite, che di essere preso e toccato ne aveva già avuto fino alla nausea, e a cui non interessava poi molto di stringere alcun rapporto con gli altri bambini: non sapeva d'altronde cosa farsene di un amico, lui che mai ne aveva avuti. E come avrebbe potuto? Ed era davvero necessario? Un essere umano perde forse di valore o perde la propria felicità, quando sente di bastare a se stesso? Talvolta, in quei giorni, Aphrodite fissava il volto di Saga, che si preoccupava per lui, e desiderava conoscere le parole giuste per potergli chiedere tutte quelle cose e trovare, forse, una risposta. Era certo che, se essa esisteva da qualche parte, Saga era l'unico che avrebbe potuto conoscerla.

Aphrodite guardò a terra, e vide i propri capelli nella polvere, avvolti intorno ai sassi e incagliati tra i fiori gialli e i denti di leone che crescevano nelle crepe della pavimentazione antica. Li poteva vedere in lontananza, oltre l'arco delle ginocchia piegate, dove non sarebbero dovuti essere, sfavillare sotto il sole. La schiena gli faceva male; c'erano sicuramente dei detriti che gli si stavano conficcando nella pelle, alla ricerca di un proprio spazio tra le sue vertebre. Era la terra che cercava di richiamarlo a sé; di mangiarlo, di inghiottirlo, ed un giorno, quello sarebbe stato senza dubbio il suo destino.

Cercò di alzarsi ma ricadde indietro. Lo avevano colpito dietro il collo e alla testa che ancora gli batteva, alla maniera dei vigliacchi senza onore. Lo avevano afferrato quel mattino: uno dei due che gli bloccavano le braccia gli aveva anche tappato la bocca; poi, Aphrodite era riuscito a calciare quello che aveva tentato di immobilizzargli le gambe da solo, ed erano stati costretti allora a chiamarne un altro prima che potessero cominciare a tagliargli i capelli con pezzi di vetro rotto. Riconobbe tra loro alcuni dei ragazzini che avevano aspirato alle sacre vestigia prima del suo arrivo e che, evidentemente, non l'avevano mai perdonato; gli altri erano perlopiù volti pressappoco anonimi, che forse aveva scorto di sfuggita nei larghi gruppi di adolescenti che si preparavano a diventare guardie. Aphrodite, che aveva vissuto tra uomini disperati ed annoiati della vita, riusciva a leggere senza difficoltà le linee irregolari dei sogni spezzati nei loro occhi, ed era abbastanza familiare con l'idea di se stesso che di solito le persone si prefiguravano, da sapere che l'insulto ulteriore, imperdonabile, era stato il suo viso.

Anche quando il greco era stato per lui poco più che un enigma fatto di suoni sconnessi, Aphrodite aveva sentito con chiarezza il 'femmina' che gli sibilavano dietro o che gli offrivano negli sguardi derisori lasciati a parlare da sé. Sembra proprio una bambina, erano soliti dire gli uomini vestiti eternamente a festa, come se lui non fosse nemmeno lì. Lo dicevano come un apprezzamento al proprio genio, alla propria trovata del prendere quel piccolo straccione e ripulirlo come si fa con un diamante grezzo. E lo dicevano con sorrisi maliziosi, gli occhi che si facevano piccole fessure a mezzaluna come sui volti di maschere crudeli: sembra proprio una bambina, dicevano, e non era una buona cosa, né una constatazione asettica; era affermare che c'è qualcosa che non va, che non è normale, che non dovrebbe essere. Era guardare all'Eden e alla mela che Eva doveva aver tenuto in mano attraverso un pallido riflesso nella forma di un ragazzino. Era dire, c'è qualcosa in te che fa ammattire le persone. Questo destino, questa vita, sono solo colpa tua.

Sotto il sole cocente di Grecia e con i capelli venti (in alcuni punti, dieci o cinque o sette) centimetri più corti, Aphrodite ricordava quegli sguardi e sua madre, sparita un giorno, chissà quale, nel nulla, e le bambine, intraviste con la coda dell'occhio, che avevano condotto un'esistenza simile alla sua—l'esistenza dei cani e dei gatti di lusso, degli uccelletti esotici, in mano a pessimi padroni, e che con ogni probabilità la conducevano ancora. Ripensò alla prima volta che aveva scorto le sacerdotesse e le giovani guerriere spaccare rocce con i propri pugni; allo scintillio abbagliante delle maschere che dovevano farsi bollenti quando il sole era alto. Ripensò a Saga che gli spiegava, sembrando appena un po' sovrappensiero, è affinché possano combattere alla pari degli uomini. Sebbene Aphrodite avesse visto le amazzoni sottoporsi agli stessi allenamenti e vivere la stessa esistenza frugale e severa degli altri guerrieri, era dunque cruciale che indossassero le loro maschere perché fossero riconosciute come degne combattenti.

Era questo essere 'femmina', allora? Non un fatto di nascita, ma neppure un fatto di scelta né di identità personale. Era il peso del difetto eterno che ti viene gettato addosso, la decisione arbitraria che sarai sempre un passo indietro a chi 'femmina' non lo è; che dovrai fare ammenda ogni giorno della tua vita. Perché Eva aveva mangiato la mela e perché Pandora aveva portato con sé tutti i mali, e Aphrodite sembrava proprio una bambina, con quei vestiti, così carino da far ammattire ogni uomo, e così era per le sacerdotesse, costrette a nascondere quella colpa che portavano sul volto con una maschera. Questo dicevano, le risate e gli sguardi e le restrizioni.

Ma mentre si leccava via il sangue dal labbro rotto, Aphrodite capiva che 'femmina' non era semplicemente essere Pandora; era decidere che la stoltezza di Epimeteo fosse colpa di Pandora.

Disgustoso, mormorò, e la voce gli morì in petto perché aveva la gola secca per tutte le urla di rabbia che aveva cercato di cacciare ed erano state soffocate nel palmo di una mano che Aphrodite non aveva mai voluto su di sé. Desiderò di nuovo, come lo aveva desiderato anni prima, che morissero tutti, e desiderava che Saga non lo vedesse mai così e desiderava che Saga spuntasse da dietro quel muro di mattoni rossi laggiù, che lo avvicinasse una seconda volta con la stessa cautela che si usa con un randagio fragile ed incattivito; che non lo guardasse mai come lo guardavano gli altri. Rimpianse di non aver speso quelle poche gocce di sangue che sarebbero bastate ad uccidere le reclute che l'avevano afferrato sulla via scoscesa per l'arena. Pensò, devo diventare più forte.

Aphrodite riprovò ad alzarsi, senza sapere dove andare o cosa fare, solo per sentirsi meno sconfitto, e avvertì di nuovo le ossa e i muscoli che traballavano sotto la pelle, ma questa volta, prima che potesse cadere, fu sollevato per i polsi.

Sollevò lo sguardo e DeathMask del Cancro era lì, con il suo solito ghigno sciocco sulle labbra, assieme a Shura del Capricorno, che teneva lo sguardo fisso su una colonna spezzata dietro le spalle di Aphrodite, come se si vergognasse di guardarlo negli occhi. Erano entrambi pesti e nelle mani libere stringevano gran parte dei capelli recisi di Aphrodite, quelli che le reclute avevano portato via come trofeo.

“Tieni,” gli disse DeathMask dopo che l'ebbero rimesso in piedi, e lasciò cadere i capelli tra le mani aperte di Aphrodite. A quell'epoca, l'accento siculo rendeva il suono del suo greco goffo, quasi come una buffa lingua inventata. Non se ne sarebbe mai liberato, ma con il passare degli anni la crescente aggressività nel suo atteggiamento avrebbe fatto passare quella caratteristica in secondo piano, cancellando definitivamente l'immagine di quel bambino sdentato che talvolta riusciva comico nei suoi tentativi di essere minaccioso. Gli unici a non scordarlo mai sarebbero stati Aphrodite e Shura e, da qualche parte nel suo cuore offuscato, Saga.

Shura imitò DeathMask senza dire nulla. Aphrodite osservò alcuni dei capelli fluttuare, lenti, fino al suolo, senza che gli riuscisse né di stringere le mani per evitare che continuassero a cadere, né di costringersi a gettarli tutti in terra in un gesto che significasse: non ho bisogno di aiuto—se di aiuto si poteva innanzitutto parlare. Perché quei due impiccioni si erano fatti malmenare a fatto già compiuto e cosa avrebbe dovuto fare, lui, con quei capelli tagliati? Eppure, rimase fermo.

“Andiamo,” bofonchiò DeathMask.

“Andiamo a casa,” mormorò Shura.

Stringendo forte gli occhi che minacciavano di lacrimare per la luce del mattino, Aphrodite trovò che non c'erano parole che volesse dire; forse, nulla con cui potesse rispondere, perché tutto in quella situazione era nuovo e, poco a poco, lui sentiva che persino riconoscere se stesso stava diventando sempre più difficile. Così, si lasciò condurre come una bestia addomesticata. Percorse la via per i templi sacri con lo sguardo incollato ai propri piedi, facendo attenzione di restare qualche passo indietro perché, alla fine, aveva veramente preso a piangere e temeva di doverne spiegare il motivo a se stesso o agli altri due, se l'avessero visto.

Se devo essere Pandora, allora terrò la speranza stretta tra le mie mani, solo per me, pensava Aphrodite e cercava di ignorare la flebile sensazione che forse, dopotutto, nemmeno lui era mai riuscito a bastare a se stesso.

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Capitolo 10
*** Casa è dove noi non siamo (Milo, Aiolos, Saga) ***


Casa è dove noi non siamo (Milo, Aiolos, Saga)



A quattro anni, Milo è un affarino che corre e salta sui sassi consumati di una delle scalinate serpentine che collegano i colli ed i luoghi sopraelevati al centro del Santuario, dove tutto ciò che è importante accade, senza curarsi dell'eventualità di una caduta o, peggio, di ginocchia e gomiti sbucciati. È probabile, d'altronde, che siano queste cose che fanno normalmente parte del quotidiano di un affarino selvatico—forse selvaggio. 

A quattro anni, Milo potrebbe averne tre o cinque perché, sull'isola, neppure i più anziani, quelli che conoscevano l'albero genealogico di ogni famiglia e sapevano citare l'anno in cui questo o quel melo imponente era stato piantato che sembrava ancora una mazza da scopa più che un albero, riuscivano a concordare sulla sua data di nascita. Non vi era però un'anima a Pollonia che non lo conoscesse, o che non avesse avuto, nella propria vita, l'onore di offrirgli un pezzo di cioccolato e quello di sgridarlo per una qualche marachella, e Milo, dicevano, accettava sempre tutto questo ridendo, più randagio che bambino.

Le case bianche ed i pescherecci avevano visto crescere Milo, che ha forse quattro anni, ma nessuno sapeva di preciso da dove fosse sbucato fuori, o quando. Chi l'avesse sorretto quando iniziava a slanciarsi verso il mondo e a voler camminare, era un mistero. Forse, scherzavano alcuni mentre lui scappava dalla lavandaia dopo aver buttato nella polvere tutto il bucato del giorno, era uscito dal grembo già capace di correre. Non sapevano chi gli avesse dato un nome e non era azzardato pensare che se lo fosse dato da solo, altrimenti. Ma, che fosse Milo come i frutti rossi che sfilava dalle ceste dei braccianti nel periodo del raccolto, o come l'isola che sembrava averlo messo al mondo da sé, neppure questo era dato sapere.

Nella sua breve permanenza a Pollonia, Aiolos aveva scoperto che la comunità aveva imparato ad accettare quella creatura come una domanda a cui non avrebbero mai trovato risposta, e dunque, rassegnatisi all'ignoranza, avevano lasciato che Milo divenisse parte dei loro giorni, trattandolo non troppo diversamente da quei gatti panciuti che si impossessavano di androni e pergolati altrui per sfuggire alla canicola senza dimostrare mai la minima esitazione o gratitudine; l'avevano quindi lasciato andare con la stessa passiva accettazione e la stessa vaga tristezza con cui avrebbero affrontato la perdita di uno dei gatti più vecchi e grossi. Forse, aveva senso per i locali che quel monello misterioso fosse in qualche modo più che umano, che avesse un destino altrettanto curioso ed incomprensibile cui adempire, eppure, quando Aiolos aveva preso Milo per mano e, soli, si erano imbarcati sul traghetto che li avrebbe ricondotti ad Atene, il sorriso del bambino era stato assolutamente sincero, aperto, privo di una qualsiasi ombra di tristezza o nostalgia che l'offuscasse. Gli era tornato in mente Aiolia, che non avrebbe mai conosciuto la loro madre al di fuori dei suoi racconti, ed aveva pensato al bellissimo bambino che Saga aveva portato dalla Svezia solo pochi giorni prima; a quello che aveva vissuto in una splendida casa con una splendida famiglia fino a poche settimane prima, quando un cavaliere di rango inferiore, trovandosi in Francia per una missione, era stato poi incaricato di recuperare uno dei candidati alle sacre vestigia d'oro. Aiolos aveva ricordato tutte queste cose, questi volti, queste storie, ed aveva immaginato quelle che sarebbero venute fino a che lo zodiaco non sarebbe stato completo, e poi ancora, nelle generazioni a venire, quando lui sarebbe stato polvere sotto una rozza lapide e così il suo successore. Aveva pensato ai rapporti umani e alla facilità con cui essi si recidono nella giusta situazione, con le giuste scuse. Stupidamente, si era ripromesso di impegnarsi di più, di non perdersi mai d'animo perché un Santo di Atena può di certo aiutare a costruire un mondo migliore di questo. E aveva deciso che questo sarebbe stato un pensiero solo suo—a meno che, scrutati gli occhi di Milo, Saga non gli fosse sembrato particolarmente triste e poi, se un giorno Aiolia avesse avvertito quella stessa amarezza che ora colorava il cuore di Aiolos.

Adesso Saga siede accanto a lui, insieme osservano Milo perdersi nei suoi giochi spericolati su sassi consumati e sentirei cotti da sole. Sta conoscendo il Santuario a modo suo, e Saga, dopo averne scrutato gli occhi, si è lasciato cadere sulla colonna riversa che era già lì quando lui e Aiolos avevano calpestato quelle vie polverose per la prima volta anni addietro; il ricordo tangibile di un attacco, di vite perse, del tempo che scorre, certo molto più antico di loro. Contrariamente alla sua risoluzione, Aiolos non riesce a dire nulla: gli appare con chiarezza, in questo momento, il sorriso amaro che piegherebbe le labbra di Saga mentre tace ma chiede con lo sguardo, quale mondo di pace si possa costruire con i pugni soltanto? Saga non è un rivoluzionario. Saga è orgoglioso del suo compito e del mondo di cui fa parte, ma Atena è lontana, come se non dovesse mai arrivare, e il male, la sofferenza e l'incertezza lo provano. Saga vuole darsi al Santuario, al mondo, alla Dea con abnegazione, ma ha bisogno di sapere che le sue scelte sono quelle giuste, le sue azioni quelle necessarie. Che non una goccia di sangue od una lacrima versata a causa sua sia invano. Saggezza ed empatia sono in fondo armi a doppio taglio, eppure, sebbene si tratti di un dolore che Aiolos vorrebbe fortemente risparmiare al suo amico, non è altro che quella sua capacità di capire il dolore altrui, a rendere Saga una buona guida, un ottimo paradigma, simile ad un dio.

Intanto, Milo corre un po' più in là, osserva gli allenamenti delle reclute e fiuta forse le stelle sotto la carne di Shura e Angelo quando li intravede perché scatta nella loro direzione con un entusiasmo che è del tutto nuovo. La gioia di riconoscersi finalmente in qualcuno che non sia il proprio riflesso, pensa Aiolos che nella mente ha il volto indignato di Saga al loro primo incontro.

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“È più randagio che bambino,” mormorerà Saga a qualche giorno di distanza, come se avesse letto tra i ricordi di Aiolos.

Milo gioca, ride, scherza, litiga, corre, come impaziente di assaporare ogni parte di questo mondo dimenticato, amando tutto senza davvero attaccarsi a nulla. Come sull'isola, come un randagio.

Aiolos scrollerà allora le spalle, cercando di dimenticare i propri se e ma, e dirà, “È vivace. Perfettamente comprensibile data la sua età e i suoi trascorsi. La cosa ti preoccupa, forse?”

“Non ancora, non del tutto. Dipenderà da chi si lascerà ammansire. Se si lascerà ammansire.”

Penseranno entrambi al fanciullo francese che aveva vissuto in una splendida casa con una splendida famiglia fino a poche settimane prima, a Milo che insiste nel parlargli per minuti interi agitando le braccia come un forsennato; come se quell'entusiasmo da solo bastasse ad abbattere la barriera di parole straniere. Soppeseranno queste cose contro le rinunce necessarie a divenire un buon Santo, si chiederanno – senza dirselo – se un affarino selvatico come Milo possa davvero farsi onere del destino di un'umanità di cui pare scordarsi quando i giochi sono finiti. Penseranno ad Angelo, a come domare questi bambini selvatici che sanno ascoltare soltanto i propri istinti.

Stanchi, senza risposte, e poco più che bambini a loro volta, lasceranno che la discussione si chiuda con una sentenza che Saga ha rubato al Pontefice, in una delle notti sul colle proibito: che senza dubbio, le stelle e le vestigia saranno giudici migliori di loro, no, di più, esse saranno infallibili. Saga dirà questo e cercherà di non pensare al fatto che persino un uomo antico come il Gran Sacerdote debba affidarsi a quegli astri tanto lontani. Atena, aveva chiamato quella notte, Atena, dove sei? Siamo così soli e così piccoli. E nessuno aveva risposto.

Non immagineranno mai, che un giorno sarà Camus a porre il proprio allievo prima della causa. Non immagineranno mai, che un giorno sarà Milo a stringere la mani attorno al collo dell'amico prediletto nel nome di Atena. Non immagineranno mai, se non quando sarà troppo tardi, che la devozione di un affarino selvatico può essere più incrollabile di quella di un animo pio e straziato.

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Capitolo 11
*** Casa è dove noi non siamo II (Camus) ***


Casa è dove noi non siamo II (Camus)




Ci sarà un giorno in cui, non più bambini, non ancora adulti, eppure più stanchi e più segnati e più vecchi dei propri anni, si guarderanno negli occhi, incerti, veramente smarriti per la prima volta nella loro vita.

Ci sarà un giorno, in cui una ragazzina verrà a reclamare per sé il nome di Pallade e il Pontefice urlerà ai Santi che il nome di Pallade proteggono, un editto di morte per la spergiura.

Milo abbasserà allora gli occhi, resterà immobile a pensare pensieri che non condividerà mai con nessuno; rialzato poi il capo, ci sarà la bestia nei suoi occhi e nel suo pugno; si dirà pronto a lavare l'onta col sangue e le sue saranno parole sincere, eppure.

Eppure, mai come allora il Pontefice gli parrà una sfinge: creatura imperscrutabile, maschera vuota. Si dirà, tuttavia, che non è suo compito riflettere su simili sciocchezze, né su qualsiasi altra cosa, ché il suo ruolo è quello di spaccare le montagne con i pugni qualora gli venga ordinato, da Atena o dal Sacerdote, le uniche due bocche che su questa terra siano in grado di scomporre in parole la giustizia, di comunicarla e ridurla alla cosa giusta da fare, all'istruzione per i semplici. Tuttavia, il Sacerdote, che fa le veci della Dea e scruta le stelle, quale giustizia scorge mentre Atena è così lontana?, la domanda come un fuoco d'artificio pronto ad esplodergli in testa se non sulla lingua, ma Milo è innanzitutto fedele, e quando, rialzato il capo, sposterà gli occhi su Camus, Camus rimarrà in silenzio, senza dirgli come al solito, sciocco, sei troppo avventato. Ebbene, sentenzierà in quell'istante Milo, ebbene, non vi è altro che debba esser detto, nient'altro che debba esser fatto: che il sangue dei traditori lavi l'onta; che possa essere la mia mano, a versare quel sangue.

Camus, che il dubbio l'aveva conosciuto tanti anni fa assieme alla Grecia, non si dispererà alla ricerca di una risposta, non in quel momento. Perché, vedi, aveva detto una volta, tanti anni fa, a Milo; vedi, fa male e fa paura perché cerchiamo un appiglio che non c'è. Siamo naufraghi dal momento in cui siamo concepiti. Il liquido amniotico nel grembo materno in realtà ci prepara all'incertezza che ci attende nel mondo esterno. Viviamo, giorno dopo giorno, cercando di creare punti fermi che reggono solo nelle nostre convinzioni.

Sii sicuro di te stesso, aveva ammonito Milo, sotto un tramonto che li vedeva tornare alle baracche per la sera, prima di una parca cena. Pensaci bene Milo, pensa bene a quel che credi sia giusto e tienitelo stretto, non chiedere e non aspettarti mai risposte da qualcuno che non sia te stesso. Erano cose che Camus aveva sentito da suo nonno, che era stato l'unica persona a prestargli veramente attenzione, ché sebbene avesse vissuto in una splendida casa con una splendida famiglia, Camus era l'ultimo di quattro figli, e il tempo dei suoi genitori non era mai sufficiente perché se ne dedicasse un po' anche a lui. Non era odiato, né visto con indifferenza, ma troppe cose erano state date per scontate; l'affetto che veniva riversato su di lui prendeva troppo spesso la forma di bigliettini lasciati accanto ad un pasto freddo o di un bacio della buona notte dato quando lui era già perso nei sogni. Restava, così, più una convinzione astratta che un fatto tangibile e Camus aveva imparato ad amare ed essere amato in una maniera distante, rarefatta.

Suo nonno materno si era trasferito a vivere con loro dopo la morte di sua moglie, in una stanzetta al secondo piano che sarebbe stata di Camus, se solo Camus fosse nato una manciata di anni prima: gli era stata invece assegnata la mansarda, ripulita e ammobiliata per l'occasione. Il nonno, che era burbero e bizzarro, ma non senza cuore, aveva annunciato che averebbe naturalmente lasciato la stanza al marmocchio, ma sua figlia si era opposta, ricordandogli dei reumatismi e l'umidità che d'inverno prendeva d'assalto la mansarda. Forse, era nata da qui una qualche specie di senso di colpa, un bisogno di compensare, che l'aveva portato a stare vicino a Camus come non aveva mai fatto con le tre nipoti più grandi. Forse, aveva avvertito in lui uno spirito affine, o forse aveva inconsapevolmente condizionato Camus ad essergli affine, con tutti i suoi discorsi. Forse, stava cercando di scacciare quel vuoto che aveva sempre avuto dentro e che si era ingigantito tra la pensione e la vedovanza, fino a rendergli impossibile la convivenza con i propri istinti nichilisti. Forse, si trattava di tutte queste cose insieme, perché il nonno di Camus non era poi tanto diverso da qualsiasi altro essere umano.

Si era laureato a pieni voti alla Sorbona, con una tesi che voleva rimettere in discussione le basi del concetto di intersoggettività nella fenomenologia hegeliana, facendo storcere il naso a non pochi dei suoi insegnanti, vetusti, romantici idealisti intrisi di germanismo; aveva continuato a guadagnarsi diversi nemici con quelle che erano state definite poco più che stravaganze marxiste, vacui tentativi di sovversione tipici della gioventù frustrata ed ignorante, ma c'era stato anche chi era pronto a scommettere su di lui e, a poco meno di quarant'anni, il nonno di Camus venne nominato professore e detentore della cattedra di filosofia morale nella sua stessa alma mater. Con ogni probabilità, quel giorno ebbe per lui molta più significanza che quello del suo matrimonio: aveva amato sua moglie, certo, ma la filosofia era stata la sua compagna da prima ancora che ne conoscesse il nome. Era la certezza dell'incertezza, il punto fermo che aveva cercato e trovato e che l'avrebbe accompagnato fino alla fine insieme con tutti i suoi dubbi. Oltre alla maniera distaccata d'amare della sua famiglia, Camus aveva ereditato quell'irrequietezza interiore che suo nonno aveva provveduto a nutrire nella manciata d'anni che avevano trascorso assieme. La separazione, la vita nuova e il mondo incredibile che aveva scoperto in Grecia avevano ulteriormente fomentato il suo spirito, indipendente al punto di essere solitario, oppure gli avevano reso necessario aggrapparsi alle incertezze, gli interrogativi che gli erano stati insegnati: ironicamente, le uniche cose che conoscesse davvero, così come era stato per suo nonno.

Il giorno in cui lo portarono via resta un susseguirsi di immagini più o meno sfocate, una pellicola cui mancano in realtà parecchi fotogrammi. Premesse e scene determinanti sono state tagliate via: non gli è stato permesso di conoscerle. Camus era in salotto e poi, ad un certo punto, non lo era più, non lo sarebbe stato mai più, perché lo portavano via, verso il suo destino. Se aveva pianto o protestato, se la sua famiglia l'aveva lasciato andare o qualcuno si era frapposto tra lui e il Saint che lo stava portando via, Camus, ormai adolescente ed ormai adulto per il mondo segreto, non avrebbe saputo dirlo. Talvolta, prima che possa fermare se stesso dal nutrire certi pensieri, l'ipotesi sibillina che tutti quei dettagli fossero stati rimossi e scolorati per sua stessa volontà si insinua tra le crepe delle massicce difese che circondano il cuore di Camus. Non desidera essere senza cuore: ha ben visto cosa ciò comporti osservando alcuni degli altri guardiani dei sacri templi, eppure, ritiene, senza dubbio alcuno, che rimpianti e sentimentalismi siano imperdonabili fragilità, per un Saint, per una creatura che ha rinunciato alla propria esistenza di uomo per poter vivere come la spada e lo scudo della Dea che ripudia le armi.

I ricordi di Camus bambino – un po' meno bambino di quando lo portarono via, ancora bambino per quel mondo cui era stato strappato, ormai adulto per il mondo segreto – sono popolati di macchie sfocate che gli parlano, lo abbracciano, lo sgridano, lo coccolano; in questo mare di fantasmi che nulla significano per la spada e lo scudo di Atena, le mani di sua sorella—di colei che era stata un tempo sua sorella maggiore, risaltano con una chiarezza surreale nei contorni delle dita fini e le unghie ovali, e il colore rosso, brillante come le ciliegie mature, con cui era solita dipingerle. Camus bambino, che sopporta coraggiosamente il peso delle vestigia di Aquarius, ricorda quelle mani anche se non dovrebbe, anche se non ha più senso, carezzargli la fronte bollente per la febbre, disporre blocchi di legno colorato in forme di case o animali davanti ai suoi occhi; vede quelle dita sottili che pizzicano la cerniera di un borsello nero e la tirano da parte a parte con un gesto secco, rivelando le meraviglie variopinte di ombretti, rossetti, matite e smalti. Aveva la cattiva abitudine di lasciare tutto sparso sul tavolo del salotto, quando si truccava prima di uscire; un'abitudine che non aveva mai corretto, nonostante i rimproveri infiniti da parte della donna che era stata la madre di Camus. Forse, era pigra, o forse non le interessava: per qualche motivo, Camus avverte con fermezza la nozione di uno spirito deciso e un po' ribelle, quando pensa a quelle mani. Forse, era stato per rubarle un po' di quel coraggio, che Camus aveva afferrato la boccetta di vetro smerigliato dal tavolo del salotto, prima di varcare l'uscio di casa per l'ultima volta. Forse, si dice altre volte, più spesso, si era trattato di un gesto involontario, avevo cercato di aggrapparmi a qualcosa ma avevo stupidamente afferrato un oggetto totalmente inutile.

Eppure, nelle notti insonni del viaggio verso Atene, Camus aveva fissato la luce che si rifrangeva sulle sfaccettature del vetro, coprendo il rosso ciliegia all'interno con piccole stelle color arcobaleno. Aveva preso, ad un certo punto, a dipingere le proprie unghie come aveva visto fare innumerevoli volte, per misurare il tempo, per ingannare l'attesa dell'ignoto e per dimenticare l'angoscia che gli attanagliava lo stomaco. Il Camus che non sarà mai più bambino ripete il rituale nella solitudine delle sue stanze, e si sforza di dimenticarne origine e significato. Milo, che di tatto ne possiede ben poco ed è ostinato al punto da riuscire intollerabile, alle volte, chiede perché e tace quando Camus scrolla le spalle, mormorando, abitudine. Ci sono momenti in cui Camus riesce a credere che Milo sia la sua metà migliore, se una cosa del genere davvero esiste.

Ci sarà poi un giorno in cui, non più bambini, non ancora adulti, eppure più stanchi e più segnati e più vecchi dei propri anni, si lasceranno finalmente dietro ogni vestigia d'infanzia; dimenticheranno il raro, tenue seme di normalità, di fiducia, di ciò di quanto più simile ad una famiglia delle creature sperdute come loro potessero avere, che colorava le giornate di pace al Santuario. Camus scivolerà via dalle fresche ombre dell'Undicesima Casa nella semioscurità di quella notte maledetta, rischiarata dai dodici fuochi fatui del grande orologio ed incupita dallo spettro del tradimento.

Camus correrà a perdifiato tra gli strapiombi e le rovine abbandonate; sfiorerà con la coda dell'occhio il grande campo incolto dove Saint e soldati sono sepolti senza distinzione di rango e penserà, con un macigno sul cuore e l'acido in gola, che, se riuscirà a raggiungerlo, non ci sarà posto per Aiolos, lì. Quale mano ti abbatterà, compagno d'armi, fratello, guida per noi tutti? Guidaci tu, Atena, pregherà Camus, ma Atena non risponde.

Camus abbasserà allora gli occhi, resterà immobile a pensare pensieri che non condividerà mai con nessuno; rialzato poi il capo, ci sarà lo sguardo di Aiolos puntato sul suo; Camus si dirà pronto a lavare l'onta col sangue e le sue saranno parole a loro modo sincere, eppure, la figura di Aiolos rifulge, nobile come le stelle che lo proteggono, anche nelle tenebre di quella notte d'inganni. Tra le sue braccia, la Dea è placida. Atena dorme, forse. Atena non risponde. Camus sferra allora il primo colpo, perché non vuole essere un traditore, ma Aiolos afferra il suo braccio, stringe le dita attorno al suo polso senza la minima difficoltà.

“Se non sei in grado di decidere per te stesso, non vivrai a lungo, Camus dell'Acquario,” e c'è qualcosa di così vicino alla pietà, nei suoi occhi, che Camus trema, si vergogna; ripensa al Pontefice che mai come allora gli era parso una sfinge: creatura imperscrutabile, maschera vuota, e poi ad Aiolos e alla natura duplice dell'uomo, e sentirà che il mondo intorno a lui sta crollando.

Guidaci tu, Atena. Guidami. Aiutami. Ma Atena non risponde. Camus è solo con i suoi dubbi.








 


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