la folle storia della mia vita

di Gobbigliaverde
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** la nuova stagista ***
Capitolo 2: *** imitazioni e limiti (parte 1) ***
Capitolo 3: *** imitazioni e limiti (parte 2) ***



Capitolo 1
*** la nuova stagista ***


LA NUOVA STAGISTA

 

    Il mio futuro era li, me lo sentivo. Ero immobile subito dentro l’ingresso del Jeffersonian, e osservavo il viavai di persone indaffarate che inseguivano il ritmo dell’affannosa vita da lavoratori. Mi scappò un sorriso a pensare che nessuno di loro avrebbe notato la mia presenza a causa dell’enormità di quel posto, che era così grande da non poterne immaginare la fine. Strinsi forte la mia cartellina verde spento sotto il braccio, svampita come sono, sarei dovuta stare molto attenta a non perdere il mio curriculum e i documenti. Mi incamminai osservando il soffitto altissimo e luminoso. Dopo pochi passi però urtai qualcuno facendo cadere le sue cose e la mia cartellina da cui volarono tutti i fogli.
    «Mi scusi, sono troppo distratta, non ero mai stata qui prima d’ora, e non sapevo dove andare, io…» Ero davvero dispiaciuta, e senza nemmeno guardare in faccia la persona mi ero già gettata a terra a raccogliere tutte le provette e le cose che erano cadute a terra.
    «Non è successo nulla, stia tranquilla, io ero più distratto di lei, avrei dovuto guardare dove andavo!» Esclamò chinandosi sulle mie carte. «Sarah, giusto? Piacere di conoscerla!» Disse leggendo il nome sul curriculum.
    Era un ragazzo non molto alto, capelli biondi e con un sorriso di scuse stampato sulle labbra. Non fece in tempo a dirmi il suo nome, perché mi accorsi dell’ora che si era fatta guardando il suo orologio da polso e schizzai in piedi.
    «Mi scuso ancora, ma ora si è fatto davvero tardi, devo proprio scappare! Arrivederci!» Raccolsi quei fogli che rimanevano e scappai via cercando l’ufficio in cui mi avevano indirizzata.
    Arrivai in ritardo, il primo giorno. Bussai timorosa alla porta che portava la targhetta “Dott.sa C. Saroyan”. Una donna alta con i capelli corti e un sorriso caloroso mi accolse e mi invitò ad entrare.
    «Buongiorno, Lei deve essere Sarah Moore, la nuova stagista.» Mi osservava e sorrideva, anche se non ce ne era motivo.
    «Esatto, la nuova stagista.» Allungai la mano per stringerla, ma la donna mi mise in braccio il camice bianco da indossare, e uscì dalla porta facendomi cenno di seguirla.
    Camminava a passo svelto, quando un’altra donna ci corse in contro costringendoci a fermarci.
    «Dottoressa Saroyan, ho nuove notizie sul caso che le potrebbero interessare…» La dottoressa Brennan si era piazzata davanti a noi, e mi scrutava come se fossi stata uno dei suoi cadaveri da esaminare. «E lei? È la nuova stagista? Non mi sembra molto sveglia…»
    Iniziamo bene… Pensai. Era il mio primo giorno e la donna più geniale dell’istituto mi aveva già classificata come ‘poco sveglia’.
    «Temperance, per favore, non è un tuo problema, pensa al caso. Arrivo subito.» Sorrise la dottoressa Saroyan con un’espressione imbarazzata, cercando di salvarmi da qualche altro commento.
    Mi indicò una porta e mi disse di entrare, e che lei sarebbe arrivata entro pochi minuti. Bussai e aspettai una risposta. Nulla. Spinsi la maniglia, e mi accorsi che avevano lasciato la stanza aperta, così entrai e mi sedetti su una poltrona, aspettando il mio futuro capo. Mi trovavo nell’unica metà della stanza illuminata da un raggio di luce solitario che filtrava da una finestra. Come aveva detto, passarono solo pochi minuti prima che la dottoressa Saroyan ricomparve sulla soglia, accompagnata da uno dei geni più conosciuti nel mio campo.
    «Signorina Moore, le presento Angela Montenegro. Sono sicura che avrà molto da imparare da lei.» Con queste poche parole sparì dietro la porta lasciandomi con una completa sconosciuta.
    «Dottoressa Montenegro, io sono Sarah Moore, studentessa di arte forense e…» Allungai la mano, ma anche questa volta venni ignorata.
    «Tesoro, io non sono una dottoressa, chiamami pure Angela. Sono davvero molto, molto contenta di poter condividere il “mondo dei morti” con un’altra artista che starà qui a rovinarsi.» Sbottò tristemente. Poi, come riscossa da uno strano torpore, continuò sorridendo. «Comunque, vieni a sederti pure qui vicino alla mia scrivania, vorrei vedere il tuo curriculum e qualche tuo lavoro.»
    Io mi avvicinai timorosa e appoggiai sul tavolo in legno la cartellina verde, tirando fuori i fogli con schizzi e bozzetti. Angela non smetteva di osservarmi, e in più pareva essersi resa conto del mio imbarazzo. Non sono mai stata brava con le persone…
    «Puoi togliere quel camice quando siamo in questa stanza. Blocca le capacità artistiche!» Ridacchiò tra se, e afferrò i disegni, iniziando a sfogliarli. «Tesoro, sono una bomba! Sei pazzesca, perché vuoi venire a lavorare qui!»
    Stavo per aggiungere qualcosa, quando la porta si spalancò di colpo. Io mi girai di scatto, e vidi sulla soglia lo stesso ragazzo che avevo travolto in pieno a causa della mia distrazione, che mi salutò con un sorriso e un cenno della mano. A differenza mia, Angela non si scompose minimamente.
    «Wendell, esci, chiudi la porta e bussa.» Sentenziò con un tono piatto e vagamente disinteressato.
    «Ma…»
    «Ho detto che devi bussare, su, fuori.»
    Lei mi sorrise furbamente e sussurrò qualcosa del tipo “gli uomini hanno bisogno di essere tenuti a bada”. Il ragazzo rientrò bussando e, lanciando un’occhiata infastidita ad Angela, mi si avvicinò e mi consegnò un plico di fogli sorridendo.
    «Mi aveva lasciato questo, penso che le potrebbe essere utile. Comunque, piacere di averla conosciuta, io sono Wendell Bray.» Disse stringendomi la mano.
    Finalmente qualcuno che aveva questa strana usanza. Da queste parti probabilmente non era considerato normale. Guardai i fogli che mi stava porgendo. Il mio curriculum. Come avevo fatto a dimenticarlo? Era più importante dei disegni!
    «Grazie mille, ora le devo due favori!» Esclamai sorridendo imbarazzata per i miei disastri di quella mattina.
    «Ehm… Wendell, immagino che la Brennan stia aspettando te, cosa fai ancora qui? Corri!» Angela osservava il giovane di sottecchi mentre si fondava fuori della porta. «Torniamo a noi… Ecco, si, il curriculum vitae?»
    Lo appoggiai in cima alla pila di scarabocchi, e lei gli diede una scorsa veloce. Quando voltò l’ultima pagina, mi squadrò con un sorriso furbo.
    «È meglio che lo tieni tu, serve molto più a te che a me.» Uscendo dalla stanza mi strizzò un occhio. «Benvenuta al Jeffersonian!»
    Mi domandavo che cosa avesse voluto dire. Il mio curriculum serviva a me e non a lei? Non mi sembrava molto logica la questione. Conoscevo già il mio passato, a cosa mi poteva servire? Sfogliai le pagine velocemente, alla ricerca di qualche stupido errore di ortografia che avrebbe potuto scatenare reazioni simili, ma quando arrivai in fondo, scorsi in un angolo del foglio bianco una scritta in blu, che non era stata stampata dal computer:
    Scusa per gli inconvenienti, Wendell Bray. 345 2876490

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Capitolo 2
*** imitazioni e limiti (parte 1) ***


IMITAZIONI E LIMITI (parte 1)

 

    Stavo giusto salendo l’ultima rampa di scale del condominio quando mi accorsi di aver scordato le chiavi del mio nuovo appartamento in macchina. Scesi di nuovo quei quindici piani a piedi, sbuffando ogni volta che mi capitava di leggere su una delle tante porte dell’ascensore la scritta ‘GUASTO’. Cercai invano di aprire la macchina premendo quello stramaledetto tasto del telecomando a cui mi scordavo sempre di cambiare le batterie ormai scariche da mesi, senza alcun risultato, allora infilai la chiave nella serratura, con non poche difficoltà dato che in qualunque punto mi mettessi la mia ombra non mi permetteva di vedere nulla.
    Tirai forte la portiera mezza scassata un paio di volte prima che si aprisse, e mi tuffai nel disordine alla ricerca delle chiavi di casa. Stavo sgarfando tra i sedili posteriori completamente sdraiata dentro l’auto, arrampicata su quelli anteriori, perché la mia era una di quelle automobili a due porte (chiaramente quelli che devono sedersi dietro devono prima imparare a passare attraverso le cose).
    Nel momento meno opportuno, quando ero incastrata con il sedere tra il volante e il sedile anteriore, il mio cellulare iniziò a cantare ‘Somebody to love’ dei Queen. Era sera tardi del mio primo giorno nella Grande Mela, e non ero ancora entrata in casa che stavo già svegliando tutto il vicinato.
    Mi alzai di scatto nel tentativo di prendere il telefono dalla tasca, ma il risultato fu solo una botta in testa. Uscii dalla macchina e chiusi il portellone con uno scatto rabbioso, e cercando di restare più calma possibile risposi alla chiamata che ormai era diventato un messaggio in segreteria.
    Lassù c’è qualcuno che mi odia. - Pensai, rivolgendo uno sguardo al cielo, che lentamente si stava coprendo di nubi.
    «Ciao Tesoro, sono Angela! C’è stato un omicidio, e siccome sarebbe il tuo primo giorno di lavoro vogliono che partecipi anche tu al caso. Tra mezz’ora nel laboratorio della Brennan.»
    Ok, quindi non mi servivano neppure le chiavi di casa… Tentai di riaprire la macchina tirando la maniglia verso di me, anche se sapevo che non si sarebbe aperta perché, essendo un’auto distrutta, senza portiere posteriori, dove non c’era l’aria condizionata e nemmeno la radio con l’antenna degli anni ’30 del 700, ovviamente aveva la chiusura automatica della porta dopo 1 minuto.
    Ovviamente.
    Infilai una mano in tasca e presi le chiavi. Perché non funzionavano non lo capivo, ma a forza di tentativi credevo di aver distrutto la serratura, quando mi cadde lo sguardo sul sedile posteriore. Le chiavi della macchina erano li, e io avevo in mano quelle di casa. Stavo quasi per scardinare la porta dallo sconforto, quando mi balenò in mente il mio curriculum. Anche se poteva sembrare assurdo, stavo digitando quel numero, si, proprio quel numero, sul mio cellulare.
    Ti prego, rispondi… - pensavo.
    Dopo alcuni infiniti secondi, una voce molto familiare rispose al telefono. «Angela Montenegro, chi parla?»
    Mi stava per scivolare il telefono dalle mani. Questa proprio non me l’aspettavo. «Angela? Perché rispondi al telefono di Wendell?»
    «Perchè in questo momento ha le mani… come dire, “in pasta”… no, aspetta. TU perché chiami sul telefono di Wendell?»
    «È una lunga storia… Il punto è che non posso usare la mia macchina, potresti mandare qui qualcuno a prendermi?»
    «Certo, ti chiamo un taxi! La strada…?»
    «Ventiduesima tra Oxford street e…»
    «Ah, ho già capito… Condominio ‘Raggio di Giove’, vero? È l’unico che accetta di ospitare studenti a basso costo in quella zona! Lo chiamo subito!»
    Stavo per ringraziarla ma aveva già chiuso la chiamata. Un taxi, come avevo fatto a non pensarci? Era la soluzione più stupida di tutte, e io non c’ero arrivata. Ecco, adesso avevo fatto la figura della ragazzina viziata.
    Il taxi giunse in pochi minuti, e in altrettanti arrivai al Jeffersonian, dove mi fiondai nel laboratorio della dottoressa Brennan. Angela mi stava aspettando, e quando vidi quello che Wendell stava facendo compresi il suo gioco di parole. Stava facendo un calco di gesso ad un cranio la cui fronte sembrava sventrata.
    «Ehm… Ciao… cioè Buonasera…»
    «Ciao va benissimo, ora sei a tutti gli effetti parte del caso, e dare del lei a me o a Wendell, o chiunque altro in questa stanza oltre alla Brennan non volgerebbe di certo a tuo favore…» Sussurrò Angela.
    «Allora, ciao a tutti, potete spiegarmi cosa…» Non riuscii a completare la frase che il ragazzo attaccò a parlare senza staccare gli occhi dal complesso lavoro che stava facendo.
    «La causa del decesso sembra chiara, trauma da oggetto contundente all’osso frontale. L’arma deve essere penetrata da sotto la mandibola, e deve essere fuoriuscita da sopra, asportando il bulbo oculare sinistro e gran parte della corteccia prefrontale… Una morte non proprio veloce considerando che…»
    «Non ci interessano i particolari, Wendell.» Lo zittì Angela.
    A me ricordava vagamente qualcosa. O qualcuno. «Phineas Gage. Lo strano caso di Phineas Gage.»
    Il ragazzo si voltò stupito e ammirato verso di me. «Brava, non pensavo che… Cioè, non è molto conosciuto… Comunque sembrerebbe un caso analogo se non per il fatto che a differenza sua…»
    «Quest’uomo è morto mentre lui rimase in vita per molto tempo…?» Conclusi io sarcasticamente.
    «Dalle arcate sopracciliari e da quelle zigomatiche possiamo dedurre che era una donna, e dalla dentatura che aveva poco più di vent’anni. E in oltre quello di Gage fu un incidente. Questa donna è stata uccisa. Abbiamo trovato profondi segni di lotta sul resto del volto.» Precisò il giovane riprendendo il suo lavoro.
    «E non sappiamo nient’altro?» Chiesi.
    «Non abbiamo nient’altro. Solo il cranio e un cervello in poltiglia.» Aggiunse Angela con un’espressione alquanto schifata indicando verso il tavolo.
    «Dalla spettrometria di massa risulta che sui denti della vittima c’erano due DNA differenti: il suo e un altro, è molto, diverso quindi possiamo escludere i parenti dai sospetti. Ma c’è un problema, il DNA dell’aggressore non è registrato nessun database.» Dietro di noi era comparso Jack Hodgins, il cosiddetto ‘Re del laboratorio’.
    E in effetti lo era visto che era giunto ad un punto importantissimo in così poco tempo.
    «La vittima potrebbe aver morso l’aggressore prima che la uccidesse così brutalmente, quindi cerchiamo un uomo o una donna che hanno una ferita che combacia con la dettatura della vittima…» Ragionai io, osservando i denti molto rovinati per la sua giovane età.
    «Esatto… se posso chiedere, chi è questa intelligente fanciulla?» Chiese sorpreso il dottor Hodgins.
    «Amore, questa è la tirocinante di cui ti ho parlato, vedi? Ha buone potenzialità, lo dicevo, io! Ma ora voi dovete trovare un assassino, e per farlo avete bisogno che noi ritorniamo a dare un volto a questa donna.» Detto questo mi afferrò per il polso e mi trascinò via.
    Appena la porta dello studio di Angela si chiuse, lei iniziò con le domande. «Dove hai imparato tutte quelle cose? Sono stupita, la Brennan non ti dava nemmeno una lira!»
    «No, nulla… Mi è sempre piaciuto approfondire gli argomenti…» Ero visibilmente imbarazzata.
    «Ah si? Anche a me, sai? Quindi non ti dispiace vorrei approfondire il perché della chiamata sul telefono di Wendell. Potevi chiamare subito un taxi. Non mi sembri una ragazza tanto sciocca.»
    «Io… io… stavo… per chiamare il taxi, ma…» Inventarsi una scusa e mettere assieme una sequenza di parole con un senso logico contemporaneamente non era il mio forte.
    «Hai fatto colpo, sai? Con tutto quel parlare di ossa e…»
    «Davvero?» La interruppi io «Cioè, non che mi interessi, è un bene che la prima impressione, in ambito lavorativo si intende, sia buona…»
    «Si, si. Cambiamo argomento… allora, guarda qua. È semplice, tu inserisci i dati che ti vengono forniti in questo programma, dopo di che modelli il volto con la tavoletta grafica e… Ma è impossibile.»
    Sullo schermo davanti hai nostri occhi era comparso un volto troppo familiare.
    «Questa è…» Le parole mi morirono in bocca.
    «Si, sembrerebbe proprio lei. Ma Cam è nella stanza qui accanto, ha tolto lei il cervello dal cranio.»
    Pensai che Angela avesse sbagliato, ma un secondo dopo mi resi conto delle poche probabilità di un evento simile. Dovevo tornare da Wendell. Corsi su per le scale con il volto stampato sulla carta, e lo mostrai al giovane senza dire una parola. Lui prese in mano il foglio, lo osservò alcune volte, dopo di che staccò tutto il calco di gesso ormai indurito dal cranio e lo osservò un’altra volta.
    «Questi non sono segni di aggressione… Sono davvero troppo precisi…» Sussurrò.
    «La vittima è ricorsa alla chirurgia plastica?» Chiesi io, quasi sicura della risposta.
    «Si, il che rende tutto più facile.» Wendell segnò alcune precisazioni ai dati accanto alla foto. «Portalo ad Angela.» Asserì, e riprese il suo lavoro.
    Io afferrai la penna e feci manualmente le dovute correzioni. Se ero li, ero li per qualcosa. Avevo 25 anni e una spiccata intelligenza sopra la media che mi permetteva di fare i calcoli complicatissimi di un computer a mente.
    «Oh mio dio. Questa donna la conosco! Si fa chiamare Melissa… La pornostar, hai presente?» Esclamò lui guardando il mio disegno con ammirazione, prima di rendersi conto di quello che gli era scappato. «Cioè, io la conosco per sentito dire… Vuoi che a 29 anni guardi ANCORA quelle cose?»
    Io lo guardavo senza parlare. Volevo vedere fin dove poteva arrivare.
    «Intendo… Non che prima lo facessi… Oh, insomma!»
    «No, infatti… io non ti ho accusato di nulla…» Sorridendo mi voltai per portare il nuovo disegno all’agente Booth mentre lui continuava a parlare a vanvera.
    «Ehi, guarda che è normale per uno studente di medicina che ha solo tempo per lo studio e il lavoro!» Concluse cercando di giustificarsi.
    Dopo aver lasciato il foglio col riscontro sulla scrivania, mi accorsi che si era fatta l’una di notte, e tutti si stavano preparando a tornare a casa. E io non avevo una macchina. Mi sedetti sulla sedia e iniziai a giocherellare con alcuni documenti sul tavolo, cercando di pensare ad una soluzione migliore del Taxi. Una mano mi si posò sulla spalla.
    «Angela mi ha raccontato della tua machina, e delle chiavi e tutto il resto… Insomma… Non è mai perfetto il primo giorno di lavoro, fidati.» Mi voltai e vidi Wendell che mi sorrideva comprensivo.
    «Non è perfetto ma è stato comunque emozionante… non avevo mai partecipato alla risoluzione di un vero caso di omicidio, fino ad ora…» Sospirai.
    Era proprio la vita che faceva per me. Avrei ridato un volto a quelle persone.
    «Forza, andiamo. Ti accompagno io. Prendere il Taxi a quest’ora è costoso e pericoloso, oltretutto.»

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Capitolo 3
*** imitazioni e limiti (parte 2) ***


IMITAZIONI E LIMITI (parte 2)

 

    Che imbarazzo. Non avevo la minima idea di che cosa dire. Forse starsene in silenzio e non dire nulla sarebbe sembrato più intelligente che fare una delle mie solite figuracce. Ebbene, non andò proprio così.
    «Allora, ora puoi dire di aver visto tutto… Come ti sembra la Grande Mela?» Chiese Wendell con lo sguardo fisso sull’asfalto che scorreva veloce sotto le ruote della berlina scura.
    Quella si che era un’auto. La mia in confronto era un catorcio.
    «Grande…» Commentai io senza riflettere.
    La Grande Mela. Come diavolo c’eravamo finiti a New York? Ah si. Io avevo stupidamente detto che non c’ero mai stata, e in tre ore e mezza siamo arrivati lì. Di notte.
    «Quindi devo immaginare che tu venga da un posto sperduto, se grande è l’aggettivo più adatto che puoi dare ad una città.»
    «In effetti… forse il più adatto è “caotica”» Mi corressi sorridendo.
    Non era il momento migliore per parlare del perché mi fossi trasferita a Washington. Probabilmente non lo sarebbe stato mai. Il mio passato doveva rimanere nel passato.
    «E come mai hai abbandonato la vita di campagna per il caos della città?»
    Ecco. La domanda che non andava fatta. Ma in questi casi sapevo già salvarmi la pelle allora.
    «Forse perché in tutti i miei venticinque anni suonati non sono mai stata a una festa come si deve.» Commentai ironica.
    «A tutto c’è un rimedio… Conosco un posticino che farebbe al caso tuo.» Ridacchiò.
    Non replicai nulla. Non avevo idea di come si sarebbe conclusa la serata. Erano le quattro del mattino, e ancora stavamo girando per New York, sotto mia richiesta, perché non c’ero mai stata, e probabilmente nemmeno lui. In quel viaggio in macchina non ero ancora riuscita ad incrociare il suo sguardo, anche se ogni tanto, mentre guardavo la città dal finestrino, avevo la sensazione che mi osservasse.
    Non ricordo molto di quello che accadde dopo. Le uniche cose che mi sono rimaste impresse nella mente sono la musica forte, l’odore di alcool, e infine la visuale mozzafiato delle miriadi di luci di New York dal ponte di Brooklyn. Poi, buio totale.
    Erano le dieci quando ho aperto gli occhi. Non avevo mai bevuto così tanto in tutta la mia vita. I miei arti erano così pesanti che non sarei mai riuscita ad alzarmi, se non fosse stato per il mio cellulare. Sembrava come impazzito. Squillava di continuo. Nella mia testa volevo fermarlo, ma il mio corpo non rispondeva ai comandi. Rimasi distesa a faccia in giù ancora per qualche minuto, prima che la parte razionale di me mi obbligasse a spostarmi.
    Quando si dice un risveglio traumatico. Mi alzai in piedi e raggiunsi il comodino con la grazia di un ippopotamo. Avevo la vista appannata, e la testa mi doleva come se qualcuno mi avesse calpestato il cervello con i tacchi a spillo. A proposito di scarpe. Era curioso che io ne avessi indosso una soltanto.
    Raccolsi il telefono svogliatamente. - Dannazione.
    
Avevo sette chiamate perse da Angela. Rovesciai uno degli scatoloni del trasloco in cui ero certa aver messo qualche vestito, e indossai le prime cose che mi capitarono sotto mano.
    Il taxi arrivò più tardi del previsto, e io arrivai in ritardo galattico al lavoro. Secondo giorno. Quando irruppi nell’ufficio di Angela però, non sembrava affatto arrabbiata. Anzi. Era piuttosto preoccupata.
    «Tesoro, non sai quante volte ho provato a chiamarti. E… che brutta cera che hai… stai bene?» Chiese.
    Mai stata meglio. - Commentai con sarcasmo nella mia mente.
    Mi limitai a sorridere e fingere che non mi avesse posto nessuna domanda. Mi sentivo uno straccio, e non avevo ancora smaltito tutto quell’alcool. E in più non ricordavo nulla della sera precedente. E ciò mi turbava non poco.
    «Allora… Hodgins ha appena finito di ripulire le ossa, credo che la Brennan a questo punto sia a fare una chiacchierata con i parenti della vittima assieme all’agente Booth, e noi non abbiamo nulla da fare… Se vuoi possiamo prendere un caffè, magari ti sentirai meglio.» Disse con dolcezza.
    «Magari…» Replicai io con sguardo adorante.
    Un caffè. Era proprio quello che mi serviva. Arrivai di fronte alla macchinetta assieme ad Angela, per scoprire che era guasta. Guasta. 
    Come l’ascensore. - Pensai.
    Sconfortata mi sedetti ad un tavolino poco vicino, perché se fossi stata ancora cinque minuti in piedi sarei crollata a terra come un sacco di patate. Angela si sedette affianco a me, probabilmente con l’intenzione di fare conversazione, ma più mi parlava, più la sua voce mi rimbombava nella testa così forte da impedirmi di capire il significato delle parole.
    «Hai un’aspirina?» La interruppi ad un certo punto.
    Lei si riscosse e mi guardò con aria stranita. «È bello parlare con te, stai in silenzio e io posso andare avanti finché voglio.» Rise. «E no, non ho un’aspirina. Tranquilla, tra un po’ passa, anche io facevo festa la sera, prima di avere mio figlio. Ne so qualcosa.»
    Si vedeva così tanto? Diedi retta all’evidenza, e continuai a tacere in preda alla mia stanchezza.
    «Merda.» Dietro le mie spalle qualcuno stava imprecando contro la macchinetta del caffè.
    Come lo capisco. - Pensai.
    Mi voltai a guardare la scena e rimasi congelata all’istante. Wendell se ne stava immobile, con la schiena appoggiata alla superficie lucida della macchinetta, gli occhi chiusi cerchiati da due solchi neri, e probabilmente in uno stato peggiore del mio.
    «Aaaah, ora ho capito…» Sussurrò Angela, facendomi trasalire. Mi ero quasi scordata che era seduta affianco a me. «Tu e Wendell…»
    «Non dirlo neanche per scherzo. Non ci voglio pensare.» La interruppi io bruscamente, ma lei sembrava nutrire un certo interesse nei confronti di questa storia.
    «Siete andati a letto assieme?» Domandò, senza alcun riguardo per il mio malessere fisico e mentale.
    «Non ne ho idea, ecco.» Ammisi finalmente.
    «Allora non è andata così. Una notte con lui non si può dimenticare.» Commentò.
    Rabbrividii. Non ci volevo nemmeno pensare. Non lo conoscevo nemmeno da un giorno, e io non sono tipa da fare certe cose con gli sconosciuti. Mi voltai e sperai che non mi notasse. Pregai che se ne tornasse nel suo laboratorio esattamente come era arrivato fin qua. Ma Angela fu più veloce.
    «Ehi, Wendell! Vieni a sederti qua con noi, non abbiamo nulla da fare!»
    Maledetta. Ecco. Ora avevo un valido motivo per sotterrarmi. E lavoravo li da solo due giorni. Lui si voltò con aria perplessa. Si stava avvicinando a passo lento, quando fui salvata dall’arrivo della Brennan.
    «Abbiamo un altro cadavere, andiamo.» Disse gelida, trascinandolo via per la manica prima che potesse rivolgermi la parola.
    Forse questa giornata non fa poi così schifo.
    
Altro cadavere, altro identikit. Questa volta dovevo lavorare da sola, Angela era occupata, a quanto aveva detto. Non sono mai stata molto brava con i computer, anzi ci litigo spesso. Soprattutto con questo. E nel momento in cui Wendell entrò nell’ufficio con altri dati, io stavo insultando coloritamente la tastiera perché non faceva quello che volevo io.
    «Hai uno strano modo di usare la tecnologia…» Commentò con un sorriso tirato e stanco.
    «Ah si? Da cosa lo capisci?» Sbottai sbattendo con forza il mouse contro il tavolo.
    Lui mi fermò delicatamente la mano. Un brivido percorse il mio braccio. Mi ritrassi velocemente, come se mi fossi scottata. Lui mi osservò per qualche istante, i suoi occhi nei miei. Non ci eravamo mai guardati così a lungo, almeno, che io ricordi.
    Nessuno era abbastanza veloce a pensare, con tutto quell’alcool che avevamo ancora in circolo. Ma qualcuno doveva chiederlo.
    Che cosa è successo ieri sera? - Il mio cervello non riusciva a collegarsi alla bocca, e lui mi batté sul tempo.
    «Facciamo così. Tu prendi questo foglio di carta e questa matita e ci disegni sopra, esattamente come hai fatto ieri. Non ti serve un computer. Ti ho visto farlo una volta, e puoi farlo di nuovo.»
    Annuii senza aggiungere altro, e presi il materiale che mi porgeva stando bene attenta a non sfiorare di nuovo le sue mani. L’imbarazzo tra di noi era palpabile, ma nessuno aveva intenzione di parlarne. Meglio così.
    Completai il disegno in meno di una ventina di minuti, e lui era rimasto lì senza proferir parola per tutto quel tempo.
    «Anche questa la conosci?» Domandai scherzando.
    Lui si limitò a scuotere la testa e afferrare il foglio. Poi lo vidi scomparire dietro la porta. Non si fece più vivo per tutto il resto della giornata, fino a quando non ci furono sviluppi sul caso.
    L’agente Booth ci chiamò a raccolta tutti quanti. A quanto diceva, sembrava una questione piuttosto delicata.
    «L’omicidio di questa seconda donna, non ancora identificata, è lo stesso modus operandi. È stata uccisa con una sbarra d’acciaio, decapitata e nascosto il corpo. Si suppone che abbiamo a che fare con un serial killer. Ma, come tutti ben sapete, per affermare ciò, dovremmo avere almeno tre vittime. E suppongo che nessuno di voi voglia un cadavere in più.» Iniziò lui, freddamente.
    «Tecnicamente avremmo bisogno di più prove, perciò…» Obiettò la dottoressa Brennan.
    «Bones.» La bloccò lui.
    Il gelo era calato tra i presenti. Nessuno fiatava. L’agente dell’FBI tamburellava nervosamente le dita sulla scrivania e Angela era più bianca di un cadavere.
    Lance Sweets prese parola. «È altamente probabile, come aveva brillantemente fatto notare la nuova stagista, Sarah, che il killer stia imitando il caso di Gage. E questo, assieme ad altri indizi che abbiamo trovato sulla prima vittima, ci porta dritti all’Università della California, Los Angeles, che come dovreste sapere è tra le più importanti al mondo. È qui che il caso di Gage tuttora viene studiato.»
    «Per la precisione, per la prima volta, nel 2012, un team di ricercatori, di cui io facevo parte, ha simulato l'incidente per analizzare le lesioni della materia bianca che collega tra loro diverse parti del cervello.» Continuò la Brennan.
    «Bones, abbiamo capito quello che vuole dire Sweets.» La bloccò Booth. «Dobbiamo incontrare quel gruppo di scienziati e interrogarli.»
    «Questo è un lavoro da Roxy e Tony per caso?»
    «No, ti conoscono troppo bene, e si da il caso che conoscano anche me… Ci vuole qualcuno che sia appena entrato nella nostra squadra, ad esempio…» Concluse l’agente guardandomi dritta negli occhi.
    Arrossii violentemente. Tutta l’equipe mi stava fissando. Ero così stanca che avevo capito poco e niente di quello che stava accadendo, eppure mi stavano mandando a lavorare sotto copertura. Quando lo realizzai, il sangue mi si gelò nelle vene. Ma con tutti quegli occhi puntati su di me non riuscii a dire di no.
    «Va bene, sono pronta. Spiegatemi cosa devo fare e lo farò.»
    La dottoressa Saroyan cercò di rassicurarmi. «Avrai un collegamento con l’FBI, sarai sempre sorvegliata. Non devi preoccuparti di nulla.»
    Tranne che di un pazzo assassino che uccide le sue vittime con una sbarra di ferro e poi le decapita. - Pensai tra me, ma quello che diedi a vedere fu solo un sorrisetto spaurito.
    Era deciso. Mi ero guadagnata il posto di “vittima da macello”. E ribadisco il fatto che era solo il mio secondo giorno al Jeffersonian. Avevo il cuore in gola. Sarei andata a scovare un assassino in carne e ossa, quando fino ad ora mi ero occupata solo di identikit. Tutti se ne stavano andando, quando una voce espresse al meglio i miei pensieri.
    «Non può andare da sola! C’è un serial killer!» Obiettò Wendell.
    «Non sarebbe andata da sola, ma siccome si è offerto lei, andrà al posto di Booth. grazie signor Bray.» Sorrise la Brennan.
    «Che cosa?» Disse lui, ma ormai se n’erano andati già tutti.

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