Policromia

di zappolo70
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap.I ***
Capitolo 2: *** Cap.II ***
Capitolo 3: *** Cap.III ***
Capitolo 4: *** Cap.IV ***
Capitolo 5: *** Cap.V ***
Capitolo 6: *** Cap.VI ***
Capitolo 7: *** Cap.VII ***
Capitolo 8: *** Cap. VIII ***
Capitolo 9: *** Cap. IX ***
Capitolo 10: *** Cap. X ***
Capitolo 11: *** Cap. XI ***
Capitolo 12: *** Cap. XII ***



Capitolo 1
*** Cap.I ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

 

I – 14 Luglio 1788

I gomiti mollemente appoggiati alle ginocchia, le mani giunte a reggere lo stelo del bicchiere già mezzo vuoto, lo sguardo fisso davanti a se sembrerebbe intento ad osservare la crepa che corre lungo la parete portante, seguendone il percorso contorto di meandri sinuosi, quasi fosse un’antica mappa pronta a svelare arcani tesori a colui in grado di interpretarla.

Ingannerebbe un osservatore poco attento forse, di certo non lui, cui non sfuggirebbe la rigidità delle spalle tese, seppure un poco curve in avanti, o il tremore quasi impercettibile delle mani che stringono il bicchiere a increspare la superficie del poco liquido rimasto in minuscole onde concentriche.

Ma non deve preoccuparsi di lui, non ancora.

Sa che tornerà tardi, a notte fonda, come suo solito ultimamente. Avrà tutto il tempo di ricomporre la solita maschera, mai così pesante come questa sera eppure mai così indispensabile alla buona riuscita dell’atto finale di una recita dolorosa quanto inevitabile.

Nell’immobilità della calura estiva, il frinire ostinato e insistente di una cicala la riscuote, riportandola improvvisamente alla realtà della stanza in cui si trova e che ora prende a osservare distrattamente. Lascia vagare lo sguardo Oscar, a posarsi, quasi ad accarezzarli, sui tasti lucidi del pianoforte a coda lasciato aperto a troneggiare al centro della stanza. Pensa a come la netta dicotomia del bianco e del nero riesca sorprendentemente a ricomporsi in un’armonica alternanza. Indugia ancora un poco su questa immagine che inspiegabilmente pare restituirle un barlume di serenità, poi lo sguardo riprende a frugare inquieto alla ricerca degli oggetti conosciuti ritrovando appena poco distante il tavolino di legno rotondo col suo ceppo intagliato di foglie e fiori e la scacchiera intarsiata sul piano ben levigato.

Come rispondendo a un richiamo, si protende allungando il braccio fino a raggiungere il bordo. Allora chiude gli occhi e lascia che le dita scorrano sulla superficie liscia. Le labbra si increspano in un sorriso appena accennato nell’anticipazione di ciò che sa bene troverà. Non ha bisogno di riaprire gli occhi per sapere che si tratta dell’asperità irregolare di una scheggiatura nell’angolo inferiore del terzo riquadro nero sulla seconda fila dal basso, conseguenza indelebile di una mal digerita vittoria del suo avversario una notte di una vita fa.

La pervade una piacevole malinconia che non dura però se non lo spazio di pochi istanti, giusto il tempo di percepire una nota stonata, un elemento estraneo che troppo stride con l’intimità del ricordo lontano.

Dal punto in cui si trova lo sguardo può correre diagonalmente fino ad incontrare l’arco che separa l’ampia anticamera dall’ambiente più raccolto della camera da letto. La luce fioca delle poche candele accese che occhieggiano dalle bugie, lascia appena indovinare la sagoma del letto e le colonne del baldacchino, con il suo drappeggio impalpabile scostato appena un po’ di lato a mostrare lenzuola candide ben tirate e cuscini rigonfi mollemente adagiati. Uno scorcio fin troppo familiare, non fosse per l’ammasso vaporoso e disordinato abbandonato con noncuranza sul pavimento lì accanto. Una macchia di colore informe che non può non catturare l’occhio nell’ambiente altrimenti così ordinato nell’essenzialità delle linee rigorose.

Si interrompe bruscamente l’immobilismo della serata quando d’istinto si alza dalla poltrona in un moto rabbioso, che la porta in poche decise falcate a raggiungere ed afferrare il groviglio di tessuto comprimendolo poi con tutte le sue forze in un fagotto, le nocche bianche dallo sforzo, quasi a volerlo far scomparire. Allunga una mano ad aprire l’anta del guardaroba lì di fianco pronta a buttarcelo dentro e a farcelo rimanere per sempre insieme a tutto ciò che esso rappresenta.

Ma è troppo tardi. Il freddo che percepisce sotto le dita non è già più quello del pomello in bronzo della pesante anta di legno, ma quello del marmo liscio e perfettamente levigato della maestosa fontana antistante il Salon de Mars. Solo poche ore prima, al mormorio quieto delle sue acque limpide aveva confidato il fallimento del suo piano e aveva pianto lacrime silenziose nella consapevolezza di ciò che sarebbe venuto poi.

Ingenua. Maledettamente ingenua. L'aveva riconosciuto quello sguardo cupo di amore e passione che lui aveva rivolto alla sua regina già da loro primo incontro, e l'aveva voluto per se, su di se. Allora sapeva di prendersi in giro, ma con l'andare del tempo aveva finito per crederci. Aveva bisogno di crederci per non perdersi e si era aggrappata a quell'idea come un naufrago alla zattera, per quanto malconcia. Si era convinta che se lui le avesse rivolto quello stesso sguardo, avrebbe potuto riassaporare la sensazione di pienezza che già una volta le avevano regalato altri occhi, che l'avevano bruciata fino in fondo all'anima, che l'avevano fatta fremere nella carne. Sarebbe stata finalmente libera, avrebbe potuto ricominciare a vivere. Come una donna.

E lei alla fine l'aveva avuto per se quello sguardo. Eppure si era ritrovata lì, le braccia tese sul bordo di una fontana e il capo chino sulla superficie dell'acqua disturbata dallo zampillio discreto dei getti che non erano però riusciti ad impedirle di vedere riflessa tutta la sua delusione. Non l'aveva riconosciuta che alla fine. Non l'aveva riconosciuta nemmeno dopo averla stretta tra le braccia e averla fatta danzare. Per lo spazio di qualche ballo era stata una donna ai suoi occhi, per poi tornare a essere "il suo migliore amico" nella versione di sé fasciata nei pantaloni di un'uniforme. Quasi che fosse l'abito a determinare l’identità di una persona. In fondo non si era aspettata nulla di diverso, non da lui quanto meno. A quel punto era corsa via, non c'era più nessun motivo per restare.

Aveva indugiato a lungo fissando la sua immagine riflessa senza in realtà vederla. Pensava al corso che avrebbe potuto prendere la sua vita se quello sguardo le avesse fatto vibrare l'anima, se il suo tocco l'avesse infiammata fin nelle viscere. Ma non aveva sentito nulla di tutto ciò ed era stato inevitabile sentirsi sollevata, come quando si comprende di aver scampato un serio pericolo. Scoppiò in una risata liberatoria nell'immaginarsi a maneggiare con grazia un ventaglio disquisendo dell'ultima moda in fatto di acconciature con qualche dama a corte.

Non più donna soldato.

Nell'opinione dei più la parte del soldato era meramente il ruolo impostole dal padre, eppure quel pianto ostinato nel racconto della propria nascita che Nanny ogni volta teneva a sottolineare, era sicura fosse stato il proprio modo di implorarlo a non condannarla ad una vita così contraria alla sua indole libera e ribelle. E qualsiasi fossero state le ragioni che lo spinsero a tale decisione, non aveva mai abbandonato la convinzione che, inconsciamente, lui avesse sentito il suo richiamo in una comunicazione muta quanto profonda.

Una donna con una vocazione da soldato. Essenza naturale della propria identità per lei, una dicotomia impossibile da ricomporre agli occhi degli altri, inaccettabile per qualsiasi uomo. Quasi. Inaccettabile per chiunque tranne che per lui, l'unico che non può permettersi.

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Capitolo 2
*** Cap.II ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

II - 14 Luglio 1788

E' finito il tempo. Si spengono a una a una le stelle e la notte si fa man mano meno buia, come un pesante sipario che si alzi sul palco del teatro con indolente lentezza, quasi opponendo resistenza alla messa in scena dell'ultimo atto di una tragedia che per definizione non potrà avere il lieto fine che taluni auspicherebbero.

Si passa le mani sul viso ad asciugare le lacrime, vestigia della notte tribolata, una veloce occhiata alla sua figura riflessa nello specchio sopra la toeletta cambia il dubbio in certezza: lui non impiegherà che uno sguardo per capire che qualunque cosa lei si aspettasse da quel ballo, il risultato si è rivelato molto lontano dalle aspettative.

Sente le gambe vacillare. Nel tentativo di darsi un contegno, cerca il sostegno della poltrona sulla quale si lascia cadere mollemente, il capo reclinato all'indietro e gli occhi chiusi, in attesa. Non deve rimanere in ascolto a lungo prima di sentire l'inconfondibile scalpiccio degli zoccoli del cavallo che risalgono al passo lo spiazzo di ghiaia antistante le stalle. Le sembra un ritmo stanco, quasi che per osmosi la povera cavalcatura avesse assorbito lo stato d'animo del suo cavaliere.

Poi sono i suoi passi incerti negli stivali di cuoio, quasi strascicati, quelli che sente lungo lo scalone di marmo che porta dritto davanti alla camera di lei, all'imbocco del corridoio che prosegue a sinistra verso l'ala del palazzo adibita agli alloggi della servitù. Benché dia le spalle all'ingresso, non le è difficile cogliere la sua presenza oltre la porta, lasciata volutamente socchiusa, non appena il rumore del suo incedere scomposto cessa di colpo. Allora lo chiama.

«Andrè...»

Si era sforzata di usare un tono normale, ma la voce era uscita strozzata assumendo un suono a metà fra la supplica e l'imposizione.

Lui indugia perplesso. Istanti interminabili, amplificati dal silenzio assoluto del palazzo assopito. L'urgenza nella voce di lei nel pronunciare il suo nome lo ha messo in uno stato di allerta. Poi la curiosità ha la meglio.

«Vieni Andrè, entra pure, devo parlarti».

Il tono è quasi carezzevole ora e lui fiuta sempre più il pericolo. Troppo tardi. Si dirige a passi insicuri verso l'ampia finestra, guidato dalla luce fioca delle poche candele e dal flebile chiarore che comincia a filtrare dall'esterno. La percepisce sprofondata nella poltrona, di spalle, i capelli scomposti che ricadono oltre lo schienale. La oltrepassa senza voltarsi fino ad arrivare al grande camino, solo allora solleva lo sguardo a cercare quello di lei. E lo trova.

Rimangono a fissarsi per attimi interminabili, in una conversazione che racconta tutto all’uno della serata dell’altro, nel linguaggio muto che condividono da sempre, finché è lui a rompere il silenzio dopo averle rivolto un cenno impercettibile a voler significare di aver compreso tutto quello che c'era da comprendere.

«La tua serata non è andata come speravi».

Nonostante lei se lo aspettasse e l’avesse previsto, riesce sempre a sorprenderla quella sua capacità di leggerle dentro.

«Non è di questo che volevo parlarti».

E’ la conferma che il pericolo è reale e lui si sente stretto all’angolo. Deve assolutamente trovare il modo di andarsene da lì al più presto.

«Oscar… sono molto stanco oltre che molto ubriaco, ne parleremo domani. Io vado a dormire»

Un tentativo disperato di svincolarsi, ma lei non mollerà la presa. Lui lo sa, conosce bene la sua caparbietà e sa che quando si mette in testa qualcosa niente e nessuno riuscirebbe a distoglierla dal suo obiettivo, qualsiasi esso sia.

E stasera il suo obiettivo è ucciderlo. Oramai gli è chiaro, come gli è chiaro che niente e nessuno verrà a salvarlo. Il dubbio si era insinuato già prima di entrare ma poi….poi l’aveva guardata e quello che aveva percepito non era ciò che si era aspettato di trovare. Aveva visto negli occhi di lei ancora gonfi di pianto, tutto il dolore del rifiuto dell’altro, ma c’era di più, c’era una sorta di risolutezza ma anche di paura, un sentimento che si faceva fatica ad associare ad Oscar. Eppure c’era, era lì, quasi palpabile, reso ancora più evidente dal suo tentativo di nasconderlo dietro a un atteggiamento di ostentata sicurezza che non le aveva fatto ancora distogliere lo sguardo da quello di lui.

Lei aveva preferito offrire il fianco, lasciare che lui vedesse il dolore e la delusione, e soprattutto lasciargli credere che fosse dovuto all’impossibilità di essere ricambiata dallo Svedese. Un’interpretazione ben lontana dalla realtà, ma a quale altra conclusione avrebbe mai potuto arrivare lui? Lui che non aveva idea dell’altra verità, quella che lei aveva scelto di tacergli e che invece tante volte avrebbe voluto urlargli, tanto faceva male tenersela dentro, come adesso.

«Perché esci e torni ubriaco quasi tutte le sere, Andrè? »

Come se lui potesse risponderle.

«E come faresti a saperlo? Mi controlli? E tu? Perché sei andata a quel ballo Oscar? »

Le rende pan per focaccia, sa che anche lei non può rispondere. Semplicemente ci sono domande che non si fanno, è sempre stato così tra loro, e ora entrambi sono consapevoli di aver contravvenuto ad una regola non scritta che rischia di portarli su un terreno insidioso ed entrambi sanno che non è il caso di addentrarvisi.

Lei si alza dalla poltrona e fa qualche passo fino a raggiungere la vetrata dell’enorme finestra. Preferisce dargli le spalle, guardarlo ora le toglierebbe il coraggio di continuare.

«Volevo informarti che lascerò la Guardia Reale. Domani comunicherò la mia decisione alla Regina e rimetterò a lei l'assegnazione a un nuovo incarico»

«Come vuoi tu Oscar. Come dicevo sono molto stanco, andrei a letto. Buonanotte.»

«Aspetta, non ho finito. Qualunque sarà l'incarico che mi verrà assegnato, ho deciso di fare a meno del tuo aiuto Andrè. Voglio imparare a reggermi sulle mie gambe, bastare a me stessa».

Gira appena la testa verso di lui e resta in attesa di una replica che tarda ad arrivare. La stanza è pervasa da un silenzio assordante. Dopo attimi interminabili, è una risata sguaiata e nervosa quella che rompe il silenzio.

«Dio mio Oscar, la tua serata deve essere andata davvero storta. Forse un abito non è l'arma di seduzione che più ti si addice, avresti dovuto invitarlo a battersi a duello con la spada piuttosto. Non avrebbe avuto scampo, credimi, del resto io ne so qualcosa, no?».

Voleva provocarla, ferirla come si era sentito ferito lui dalle sue parole, un paio di frasi concise che suonavano come una condanna. Aveva sputato la sua risposta tutto d'un fiato, a pugni serrati e ad occhi chiusi tentando di addomesticare la rabbia senza in realtà volerlo veramente.

Quando riapre gli occhi se la ritrova davanti, a un passo, gli occhi sgranati e increduli, solo allora realizza la portata di ciò che ha detto e capisce di aver oltrepassato il limite. Da quando era successo il fatto, tredici anni prima, non aveva mai neanche accennato all'accaduto, glielo aveva imposto lo sguardo di fuoco che lei gli aveva rivolto subito dopo. Doveva fingere che nulla fosse successo, aveva compreso fin troppo bene che in caso contrario lei l'avrebbe allontanato da sé. Per restarle accanto aveva finto per tutto quel tempo, assecondando la sua muta richiesta, soffocando i propri sentimenti ogni giorno. Per non perderla, per averla nell'unico modo possibile. E ora stava accadendo ugualmente. Nonostante lui avesse tenuto fede al "patto", lei lo voleva fuori dalla sua vita, come una cosa che ha fatto il suo corso e che non serve più. Perciò non aveva più motivo di tacere, in fondo non era servito a nulla. Allora glielo aveva voluto ricordare cos'era successo, con quella frase vomitata addosso con rabbia, voleva farle sapere che lui non aveva mai dimenticato.

La sua reazione è fulminea e lui sente la guancia bruciare tanta è stata la violenza dello schiaffo. E' un crescendo la rabbia di lei che ora lo afferra per il collo della camicia e lo strattona con veemenza «Non avresti dovuto dirlo, non avresti dovuto! Vattene!».

Poi, come la risacca dell'onda che infrangendosi contro gli scogli perde potenza trasformandosi in innocua spuma, l'impeto si placa davanti alla mancanza di reazione di lui che ora pare altrove, immerso nella dimensione di un ricordo lontano e lei non può fare altro che raggiungerlo laggiù, nel pomeriggio di un giorno di primavera di tredici anni prima.

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Capitolo 3
*** Cap.III ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

III – 8 Aprile 1775

«Oscar, fa un caldo insopportabile, se proprio vuoi che ci alleniamo con la spada, prima io andrei a rinfrescarmi un po’ al fiume. Tu vieni?

Distesa sullo spiazzo erboso nella frescura dell’ombra pomeridiana proiettata da un imponente salice, i gomiti puntati a terra a mantenersi appena sollevata, i piedi scalzi e i pantaloni arrotolati fino al ginocchio, gli rivolge uno sguardo di finto disappunto.

«Se proprio devi … vedi di non metterci tutto il pomeriggio, o dovrò concludere che temi il confronto!»

Lui, in piedi davanti a lei, le braccia conserte, si esibisce nella migliore espressione offesa che gli riesca.

«Oscar, abbiamo appena finito di mangiare, mi pare più che normale, soprattutto con questo caldo opprimente, che uno si senta appesantito e un duello alla spada non sia in cima alla lista dei desideri, non ti pare?»

Gli fa eco la risata divertita di lei.

«Appesantito? Mi pare un eufemismo. Diciamo pure che con quello che hai ingollato si sarebbe potuto sfamare un intero reggimento!»

«Non mi risulta che godere di ottimo appetito sia diventato un delitto. Di contro qualcuno - non io, ben inteso - troverebbe piuttosto disdicevole una donna che lasciasse scoperte le gambe nude fino al ginocchio in presenza di un uomo!»

La guarda serio lui, poi fa scivolare lo sguardo verso il basso e volutamente indugia sulle lunghe gambe snelle, quasi ad accarezzarle. Infine risale al viso per godersi la reazione imbarazzata di lei, che le colora le guance in un modo che trova irresistibile e le fa sgranare appena gli occhi in un moto di stupore.

Pago dell’efficacia della sua vendetta, si gira incamminandosi verso il fiume e ormai al riparo dalla sua vista, non riesce a trattenere un sorriso sornione.

Appare disorientata Oscar, ancora sorpresa dalla sua stessa reazione, così poco da lei, così femminile quando ha percepito lo sguardo intento di lui su di sé. Le è capitato spesso ultimamente che la vicinanza del suo amico di sempre provocasse in lei emozioni sconosciute quanto inequivocabili. Si è anche ritrovata spesso a guardarlo non vista, a studiarne le fattezze, a trovarlo decisamente bello, a chiedersi che effetto farebbe la consistenza dei suoi muscoli al tatto. Come adesso. Adesso che lo osserva a una ventina di passi da lei, di spalle, l’acqua a lambirgli le cosce fasciate nel calzoni, e lui chino a tuffare appena la testa per poi rialzarla di scatto, disegnando nell’aria un arco quasi perfetto di gocce sospese. Le ciocche bagnate e lisce, aiutate dalle mani di lui a scompigliarle vigorosamente per privarle dell’eccesso di acqua, tornano a formare riccioli scomposti.

Da quella distanza non può vederlo, ma immagina l’acqua residua che si raccoglie sull’estremità delle ciocche formando gocce che si gonfiano e si appesantiscono con estenuante lentezza fino a quando, non potendosi più opporre al richiamo della gravità, finiscono per cadere ricongiungendosi in rigagnoli che corrono sulla schiena nuda. Pensa che in quel momento desidererebbe poterne seguire il percorso sinuoso con un dito, osservarle mentre acquistano velocità nella loro inesorabile discesa verso il basso, fino a scomparire, assorbite dalla stoffa del bordo dei calzoni, linea di demarcazione oltre la quale non possono spingersi, dove lei invece involontariamente si avventura, ritrovandosi a disegnare nella mente la simmetria delle natiche e la muscolatura armoniosa delle gambe.

Quando lui si gira per riguadagnare la riva e recuperare la camicia che ondeggia dalla fronda bassa di un albero lì vicino, lei distoglie lo sguardo repentinamente, troppo in verità, tanto da farle temere che lui l’abbia colta sul fatto. Il solo pensiero le provoca istantaneo fastidio, nonché imbarazzo.

Per la durata dei pochi passi che ancora li separano, lei cerca di nascondere dietro a un’espressione neutra e noncurante tutti i pensieri indicibili che ha avuto su di lui fino a poco prima.

Ma lui ha fatto in tempo a intercettarlo il suo sguardo, appena prima che deviasse altrove, e ora si sta chiedendo da quanto tempo lei lo stesse osservando e se le fosse piaciuto farlo. Gongola nell'eventualità. Si dirige a passi decisi verso di lei senza però dare l'idea di affrettarsi, vuole vedere se sul suo viso ci siano i segni di emozioni che ultimamente intuisce, senza darle il tempo di cancellarle. E’ da un po’ che va avanti questo gioco al gatto e al topo, fatto di sguardi rubati pensando che l’altro non se ne accorga e di contatti casuali, che di casuale hanno poco, almeno per quanto lo riguarda.

Le si para davanti fingendo indifferenza, non gli sfugge che lei elude il contatto visivo, poi si accorge che in realtà il suo sguardo è fisso sulla sua camicia che ha indossato sul corpo ancora umido aderendo all'ampio torace senza lasciare molto all'immaginazione.

«C'è qualcosa che non va nella mia camicia forse ?».

Un modo come un altro per farle intendere che ha capito dove fosse rivolta la sua attenzione. Le gote di lei s'infiammano e lui se ne compiace.

«E' bagnata fradicia. Hai forse fatto il bagno vestito?».

«Mi sono solo dato una rinfrescata. I vestiti umidi addosso mi daranno sollievo per un po', almeno il tempo sufficiente a batterti spero!».

Lei si alza con un movimento agile e fluido e recupera le spade di entrambi appoggiate al tronco del salice poco dietro, gli rende la sua e si mettono finalmente in posizione.

«Allora cominciamo. In guardia!».

«Come vuoi tu! Comunque, se davvero avessi voluto farmi un bagno non avrei potuto evitare di farlo vestito, non trovi? L'alternativa sarebbe stata denudarmi davan...».

Lo zittisce con un primo fendente che lui intercetta appena in tempo e capisce che lei è piccata e farà sul serio. Lo vuole punire per la sua impertinenza, gli toccherà impegnarsi. E la raduna si riempie e risuona dello sferragliare delle spade che si oppongono, dello stridere del ferro contro ferro nei respingimenti, delle grida liberatorie con cui ciascuno accompagna i colpi portati all'avversario. Nella dinamica del duello si allontanano e si avvicinano come in una sorta di strana danza che ha un che di sensuale nei corpi che si sfiorano, nei respiri che accelerano e si mischiano. Agilità ed eleganza contro forza e potenza. Lui è chiaramente in svantaggio e tenta il tutto per tutto con una serie di affondi veloci che la costringono ad indietreggiare. Lei mantiene comunque un buon controllo, poi è un attimo e perde contatto col terreno. Il piede d'appoggio è finito in un avvallamento più profondo che la fa sbilanciare all'indietro, è un lampo capire che la caduta è inevitabile. Molla la presa sull'arma per avere le mani libere e cercare di attutire l'impatto, incredula guarda il suo avversario, l'angolo della bocca piegato all'insù nell'accenno di un sorriso irriverente di chi ha capito di aver ormai guadagnato la vittoria. Allora cambia idea e protende le braccia in avanti, fino a raggiungere un appiglio, un lembo della camicia di lui che tira a sé con tutta la sua forza destabilizzandolo e costringendolo a seguirla nella rovinosa discesa al suolo. Per non dargliela vinta. Lui sgrana gli occhi per la sorpresa di una mossa che non si aspettava per poi chiuderli forte in attesa dell'impatto, avendo cura all'ultimo momento di portare il braccio dietro la testa di lei nel riflesso incondizionato, quasi ancestrale, di proteggerla.

«Oscar, stai bene? Sei ferita?».

Glielo ha chiesto tenendo gli occhi ancora chiusi, ma l'assenza di una risposta che non arriva lo costringe ad aprirli. Trova quelli di lei che lo guardano con un'intensità che non le aveva mai visto prima. La chiama di nuovo, piano, e le rifà la stessa domanda, quasi sottovoce. Non vede sangue né ferite, ma vuole sentirselo dire da lei.

Lei che continua a guardarlo senza rispondere. E lui che sente crescere la paura e che adesso la implora.

«Dio Oscar, ti prego, dimmi che va tutto bene».

E lei finalmente glielo dice. A modo suo. Accostando le labbra alle sue, in un bacio appena sfiorato. Lui rimane immobile, incredulo. E lei lo fa di nuovo, e ancora, e ancora. Finché lui non ha più dubbi sul desiderio che le legge negli occhi, e allora è lui a catturare le sue labbra in un contatto più profondo, ad inviarla a offrirgli il sapore della sua bocca. E lei lo segue e lo assaggia allo stesso modo. Finché il respiro accelera e la passione li rende consapevoli della vicinanza del corpo dell'altro, del petto di lui appoggiato al suo, della virilità di lui che le preme contro. Ed è ancora lei, senza mai abbandonare le sue labbra, ad afferrare la camicia di lui all'altezza della vita e a strattonarla per liberarla dai calzoni e lasciar scorrere le mani al di sotto, risalendo la schiena lentamente, a palmi aperti, ascoltando il tremito dei muscoli e la pelle bollente e i suoi sospiri di piacere che le danno un senso di potenza mai provato prima.

«Oscar, io ti voglio. Ti voglio adesso».

Il suono della voce resa roca dal desiderio, il verde dei suoi occhi divenuto cupo come le onde del mare in tempesta, sarebbe così facile lasciarsi travolgere e portare via. Invece all'improvviso le mani di lei premono sul suo petto a spingerlo via, gli occhi a implorarlo di fermarsi. Lui per tutta risposta le ruba un ultimo interminabile bacio, pregno di tutta la passione che non si è mai potuto permettere di mostrarle, prima di arrendersi a un messaggio di rifiuto inequivocabile.

Si solleva lentamente dal suo corpo, quasi a voler ritardare il momento del distacco e aspetta che lei si ricomponga prima di tornare a guardarla con occhi feriti che parlano di un dolore più grande di quanto si può dire, presagendo l'amara conclusione di una caduta che non ha lasciato segni sulla pelle ma che ha inciso ferite profonde in ciascuno di loro, impossibili da rimarginare.

«Tutto questo non è mai successo. E non succederà mai più».

Lo sguardo che accompagna le parole è altrettanto eloquente, poi si gira incamminandosi verso Caesar, monta in sella e parte al galoppo senza aspettarlo.

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Capitolo 4
*** Cap.IV ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

IV – 14 Luglio 1788

Non c'è più aria nella stanza, sembra essere stata completamente risucchiata da una forza misteriosa. Si fronteggiano trattenendo il respiro, ciascuno scorgendo negli occhi dell'altro tracce di un ricordo che ha assunto la consistenza di emozioni mai sopite, maldestramente ricacciate in angoli reconditi della coscienza.

Il viso di lui, contratto in un'espressione di infinita tristezza, si sovrappone a quello che tanti anni prima le ha lacerato il cuore. Incontenibili scorrono lacrime silenziose sulle gote di lei, lacrime che non può spiegare, non senza abbattere l'ultimo baluardo a guardia del suo segreto. Così si prepara ad accogliere su di se l'onda di piena, disarmata. Sa che la tristezza di lui lascerà presto il posto alla rabbia, rinvigorita dal ricordo di fatti che gli suggeriscono una sola lettura.

Lei coglie immediatamente i sintomi del cambiamento, come segni su un pentagramma che cambiano la dinamica da mezzo-piano a fortissimo, così vede la mascella irrigidirsi, le labbra serrarsi in una linea sottile, gli occhi chiudersi preludendo a ciò che verrà.

Deve attendere solo un attimo prima di sentire entrambi i polsi stretti nella morsa feroce di lui che ora la guarda con occhi fiammeggianti. Poi, con un movimento deciso quanto repentino, inverte le loro posizioni. Ora la schiena di lei è schiacciata contro la parete, le braccia alzate sopra la testa, i polsi ancora imprigionati dalle sue mani forti. Si sente percorrere da brividi che la scuotono, non sa dire se sia per il freddo della parete o per il corpo bollente d'ira di lui che le preme contro o ancora, per paura delle parole di condanna che pure si aspetta.

Lui la sovrasta in tutta la sua statura, ma tiene il capo chinato a cercare il suo sguardo. La vuole guardare negli occhi mentre le descrive il suo inferno personale.

«Vedo che anche tu ricordi ciò che pretendi non sia mai successo. Mi hai tolto il diritto di chiederti spiegazioni, e mi sono adeguato. Ma ora mi stai chiedendo di uscire dalla tua vita, e non ho più motivo di non chiedertene conto. Perciò Oscar, se hai qualcosa da dirmi, questo è il momento. E bada bene, non mi accontenterò di un "mi dispiace"!».

«Così mi fai male, Andrè».

Lui allenta un poco la presa senza smettere di guardarla.

«Allora? Sto aspettando Oscar».

Lei, che finora ha retto il suo sguardo, gira la testa verso sinistra in un gesto di diniego, e rimane così, muta, lo sguardo perso lontano.

«Come immaginavo. Non mi darai nessuna risposta. Troppo orgogliosa per ammettere di avermi usato solo per toglierti un capriccio. Vorrà dire che ascolterai quello che ho da dire io, Oscar. Ma voglio che mi guardi, almeno questo me lo devi».

Lei, annientata, solleva il viso con riluttanza, guardandolo come la preda braccata guarda il cacciatore implorandolo di risparmiarla.

«Per anni ho sperato che il tuo rifiuto di allora non fosse altro che la paura di affrontare i tuoi sentimenti. Per anni mi sono illuso che un giorno avresti trovato la forza e il coraggio di farci i conti e saresti tornata da me. Sono un servo tracotante Oscar, e come Icaro ho volato troppo vicino al sole. Perché questo sono per te, alla fine dei conti, un servo. Uno con cui un giorno hai deciso che potevi toglierti la curiosità di sapere com'è un bacio, senza peraltro chiederlo perché non è necessario chiedere a un servo, semplicemente prendendoti ciò che volevi».

Lei ha gli occhi sgranati dall'orrore che suscita la cruda ricostruzione dei fatti, che non dà scampo, che non offre lo spiraglio di un'attenuante. Vorrebbe avere le braccia libere, per portarsi le mani alle orecchie e rifiutarsi di ascoltare oltre, o per stringerlo in un abbraccio che avesse il potere di fargli capire il suo cuore.

«Una volta soddisfatta la tua curiosità, hai girato i tacchi e hai proseguito per la tua strada imperterrita, lasciando me a raccogliere i cocci del mio cuore a brandelli. Perché a me tu non ci hai mai pensato, vero? Si è trattato di me solo perché ero accessibile. Invece io non ho potuto fare a meno di pensarci ogni giorno da allora, e ti ho guardato innamorarti di lui senza poterti dire che anch'io ti amavo, che ti amo».

L'ha sempre saputo lei, ma è la prima volta che glielo sente dire e l'effetto è devastante. Apre la bocca nell'atto di dire qualcosa, qualsiasi cosa che possa cancellare tutto quel dolore, che è anche il suo. Ma nessuna parola viene in suo soccorso, perché forse nemmeno le parole servirebbero più. Lui è un fiume in piena che ha rotto gli argini ed è ormai incontrollabile.

«Allora ti dissi che ti volevo, quello che non sai, o forse sì, è che ti volevo da prima e che ti ho voluto ogni giorno dopo. Che ti voglio anche adesso. Perché la differenza tra l'amicizia e l'amore sta tutta qui Oscar. Perché il rispetto, la lealtà, la complicità sono comuni a entrambi, ma il desiderio è proprio solo dell'amore e non può esistere l'uno senza l'altro. Ed io ti amo Oscar, credo di averti sempre amato. Hai preteso di sapere qual è il sapore di un bacio, cosa si prova a sentirsi desiderati. Ma lascia che ti dica una cosa, Oscar».

Le libera i polsi, lei abbassa le braccia intorpidite ma non si muove, né oppone resistenza quando lui le prende il viso tra le mani e si china a lambirle l'orecchio con le labbra come per confidarle un segreto.

«Non esiste il sapore di un bacio. Quello che hai conosciuto è il mio sapore, quello che hai sentito è il mio desiderio e qualsiasi cosa tu abbia provato, l'hai provata per me».

Non ha altro da aggiungere Andrè, ma nessuno dei due accenna a volersi muovere. Lei, annientata dalle sue parole, trova solo la forza di premere la guancia contro quella di lui che indugia ad inspirare un'ultima volta il profumo buono dei sui capelli. Infine si ritrae, le sue mani a incorniciarle ancora il viso, il pollice che ora disegna il contorno delle sue labbra. Sa che è l'ultimo contatto, un addio.

Ma vuole che sia a modo suo, vuole prendere anche lui senza chiedere. Ed è già sulle sue labbra, con la voracità di chi ha digiunato troppo a lungo, si appropria della sua bocca e si sorprende nel sentirla rispondere con altrettanta foga. E' un bacio disperato il suo, che ora scende con la mano sul seno di lei, a saggiarne la consistenza da sopra la stoffa della camicia. Sa che non può andare oltre, che è il momento di lasciala andare, ma il desiderio morde la carne e lui fatica a contenersi. Chiude la mano sulla stoffa della camicia di lei in un pugno chiuso, le nocche bianche dallo sforzo di trattenersi, di trovare il coraggio di allontanarsi.

Poi succede, non le è più addosso. Il capo chino, le braccia lungo i fianchi, fra le dita un brandello di morbida seta che ha strappato in un gesto liberatorio nell'atto di staccarsi da lei.

Lo lascia cadere e lo guarda fluttuare prima che si posi distrattamente sul pavimento. Non torna a guardarla. Si gira e si incammina verso la porta. Ha già la mano sulla maniglia quando, senza voltarsi, le rivolge le ultime parole.

«Non temere Oscar, non sarei mai andato oltre. Benché ubriaco, non mi sarei mai preso con la forza ciò che mi è già stato rifiutato una volta. Ora, se vuoi scusarmi, ho una sbornia da smaltire e le mie cose da raccogliere. Domattina sarò fuori dalla tua vita come desideri».

Il tono è rassegnato, stanco, non c'è più traccia dell'animosità di prima. La porta si richiude con un tonfo sordo e lei rimane sola nella stanza. Non si è ancora mossa, ma ora si sente come svuotata, a stento si regge sulle gambe. Lascia scivolare la schiena lungo la parete, fino a ritrovarsi accovacciata sul pavimento. Si porta le mani alla testa premendole forte, a zittire la voce di lui che ancora le rimbomba dentro col suo "ti amo" a straziarle il cuore. E il dubbio di aver sbagliato tutto si insinua prepotente. Ha rinunciato a lui per salvarlo, proteggerlo, per dargli la possibilità di essere felice, ma quello che ha visto questa notte è l'antitesi di ciò che voleva ottenere.

Senza nemmeno accorgersene si ritrova a ripercorrere i passi che l'hanno portata alla sua decisione, tanto tempo fa. Cosa è andato storto? Dove ha sbagliato? Non era forse la cosa più sensata da fare dopo aver compreso ciò che avrebbe comportato seguire il suo cuore?

Ricorda che era stato in primavera, verso la fine di Marzo, perché faceva ancora freddo, ma non molti giorni dopo le rose avevano già messo i boccioli.

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Capitolo 5
*** Cap.V ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

V – 25 Marzo 1775

Ricorda tutto come fosse ieri. Era scesa nelle cucine che albeggiava, il profumo fragrante del pane appena sfornato l’aveva investita già nel corridoio facendole pregustare la baguette accuratamente spalmata di confettura di fichi, la sua preferita, che aveva tutta l’intenzione di concedersi prima di lanciarsi in una lunga cavalcata solitaria con Caesar.

Accadeva di rado in verità che non invitasse Andrè ad accompagnarla, ma la sera precedente avevano fatto tardi e ci erano andati giù pesante con il Bordeaux, come peraltro succedeva spesso nelle loro serate casalinghe.

Una cavalcata ristoratrice era quello che le ci voleva dopo una sbornia, non altrettanto si poteva dire del suo amico che - sapeva bene - avrebbe preferito smaltirla indugiando quanto più possibile sotto le coperte, ragione per cui per questa volta aveva evitato di coinvolgerlo, lasciando che si concedesse qualche ora di riposo in più. L’avrebbe comunque raggiunta più tardi per recarsi a Versailles, impeccabile come sempre nella sua straordinaria capacità di recupero.

Giunta in prossimità dell’arco in pietra che dà accesso alle cucine, si era sorpresa di non udire l’allegro tramestio delle stoviglie che solitamente animava questa parte del palazzo a tutte le ore, connotandolo di fatto ai suoi occhi come il cuore pulsante della casa.

Ma era davvero molto presto, l’alba non era ancora fatta, e anche per la servitù la giornata non era ancora incominciata, seppure non doveva mancare molto a che il vocio concitato che si accompagnava all’operosità delle mani impegnate nelle varie incombenze si riversasse nell’ambiente.

Eppure c’era qualcuno, nella luce fioca di poche bugie e del grande camino, riusciva chiaramente a distinguere il chiacchiericcio sommesso di due voci, una delle quali avrebbe riconosciuto ad occhi chiusi, l’altra sconosciuta.

Stava giusto per varcare la soglia quando aveva sentito pronunciare il nome del suo amico di sempre, nipote di lei, con un tono un po’ troppo accorato, che l’aveva messa sul chi va là e le aveva imposto di fermarsi.

Non vista, si era appiattita come poteva contro l’ampia rientranza della parete alla sua sinistra e si era soffermata ad ascoltare.

La posizione le offriva una visuale solo parziale del tavolo da lavoro in legno massello che dominava la stanza con la sua imponenza. All’estremità sedeva Nanny, mentre rimaneva nascosta alla vista l’identità del suo interlocutore del quale riusciva solo a scorgere le mani femminili, benché segnate dall’età. Mani intente, come quelle di Marie, a sgranare fagioli secchi che sentiva tintinnare allorché, privati del baccello in un unico abile gesto, venivano lasciati ricadere nella capiente ciotola di rame sui cui bordi opposti poggiavano i polsi di entrambe.

«Ti ringrazio della visita Therése, ma non è affatto necessario che mi aiuti».

«Non dire sciocchezze Marie, sai che non è nella mia indole starmene con le mani in mano, altrimenti cosa ci farei nella tua cucina a quest’ora del mattino? In fondo mi conosci, abbiamo lavorato anni insieme prima che tu prendessi servizio a Palazzo Jarjayes, sai come sono fatta. Ma non voglio parlare di me, lo trovo un argomento noioso, come noioso è tutto ciò che riguarda la vecchiaia. Piuttosto, mi stavi parlando di tuo nipote. Si chiama Andrè se ricordo bene, vero?».

«Già, Andrè. L’ultima volta che l’hai visto avrà avuto cosa, tre anni forse? S’è fatto uomo ormai il mio ragazzo, e vedessi che pezzo d’uomo!».

«Beh, non fatico a crederlo avendo conosciuto tuo figlio. Suppongo gli somigli molto».

Lei aveva fissato lo sguardo davanti a se, assorta, le mani che si erano arrestate a mezz'aria nello sforzo di richiamare alla mente immagini dai contorni sbiaditi che si facevano via via più vivide e definite fino a restituirle i visi amati con una nitidezza che l’aveva commossa.

«Si, ha molto di suo padre. Da lui ha preso l'altezza e la prestanza fisica, i lineamenti del viso e senza dubbio il senso dell'ironia. Mio figlio era solito condire la vita con l'ironia, anche nei momenti più duri. Diceva sempre che la vita è una cosa seria, ma che non serve un’espressione seria per viverla. Mi manca sai. Ma in Andrè c'è anche molto della madre. Il colore incredibile degli occhi e la dolcezza dello sguardo sono gli stessi che ho sempre visto in lei».

A lei, che ascoltava dal suo nascondiglio, si era aperto il cuore nel riconoscere ognuna delle qualità che la nonna attribuiva al nipote, e pur sentendosi in un certo qual senso un'intrusa nell'intimità di quel momento, aveva pensato che fosse stata una fortuna poterlo condividere.

«Chissà quante ragazze gli gireranno intorno allora!».

Nanny ridacchiava mentre passava ripetutamente l'avambraccio sulla superficie liscia del tavolo in movimenti fluidi a radunare i baccelli ormai vuoti in un mucchio che poi sospingeva con attenzione e precisione oltre il bordo del tavolo per raccoglierli nel secchio di legno ai suoi piedi.

«Praticamente non c'è inserviente qui a Palazzo che non si contenda le sue attenzioni. Fanno a gara ad avvicinarlo, si può dire che gli girino attorno come api sul miele. Poi lui è sempre molto gentile, del resto l'ho educato io, e qualcuna a volte scambia la sua gentilezza per interesse e si illude, e lui si imbarazza. Sophie, per esempio. Sia chiaro, non sono cose che mi vengano riferite direttamente, ma dietro ai miei occhiali spessi gli occhi ci vedono ancora bene».

"Sophie". Rammenta che non era riuscita a trattenersi dal ripetere sottovoce quel nome, per ricordarselo. Si era fatta un appunto mentale di scoprire chi fosse questa Sophie innamorata del suo amico.

«Vuoi dire che fra tutte quelle che gli ronzano intorno non gli interessa nessuna? Se non ricordo male dovrebbe avere circa vent’anni, l'età giusta per cominciare a guardarsi in giro».

Oscar non era riuscita a reprimere un istantaneo moto di antipatia verso quest'ospite che d'un tratto trovava estremamente invadente. La distrazione durò poco più di un attimo, poi un pianto sommesso di singhiozzi soffocati attirò la sua attenzione tanto da indurla a sporgersi un pochino oltre la parete.

Marie si era tolta gli occhiali e strofinava le lenti con una pezzuola che doveva aver trovato a portata di mano, e che poi aveva portato al viso ad asciugarsi una lacrima solitaria.

«Cosa succede amica mia? Se ho detto qualcosa che ti ha offesa, ti prego di perdonarmi. La mia linguaccia a volte non ha freni».

Oscar aveva osservato prima il braccio dell'ospite misterioso protendersi e appoggiarsi sulla spalla di Nanny in un gesto protettivo, poi fu l'intera figura a entrare nel suo campo visivo. Era una donna più anziana di Nanny, minuta, il viso solcato da rughe profonde che testimoniavano una vita di duro lavoro, la statura ridotta dall'evidente incurvatura della schiena. La luce della bugia appoggiata sul tavolo rivelava un'espressione di autentico dispiacere per il dolore dell'amica, qualunque esso fosse, e Oscar ricorda di essersi sentita improvvisamente in colpa per il giudizio poco lusinghiero azzardato poco prima.

«Ti prego Marie, siediti e cerca di calmarti. Ora ti preparo un infuso mentre tu raccogli le idee e mi racconti cosa ti angustia tanto. Le buone amiche servono a questo no? Anche quelle impiccione tornano utili sai?».

Seguirono minuti di silenzio, inframezzati solo dal rumore discreto di poche stoviglie che l'anziana signora aveva trovato con la dimestichezza di chi nelle cucine doveva aver passato gran parte della propria vita. Infine fu Nanny a ritrovare la parola.

«Lui ha ventun anni. E sono preoccupata Therése».

L'altra era rimasta in silenzio in un tacito incitamento a proseguire.

«Come sai, anche lui è a servizio qui a Palazzo. E' l'attendente personale dell'ultima figlia del Generale Jarjayes. Madamigella Oscar».

«Certo. E' la figlia che il Generale ha scelto di crescere come un maschio. Ne hanno parlato tutti. Ho saputo che è a capo delle Guardie di Sua Maestà la Regina Maria Antonietta. La ragazza deve avere della stoffa e non può che essere una donna molto intelligente per essere riuscita a farsi largo in un contesto esclusivamente maschile».

Marie l’aveva guardata sorpresa, probabilmente non si sarebbe aspettata un giudizio così fuori dagli schemi da una donna persino più anziana di lei.

Oscar, dal canto suo, non aveva nemmeno ascoltato le parole di Therése. Aveva capito che Marie era seriamente preoccupata per suo nipote e l'unica cosa che le importava era scoprire che cosa fosse successo di tanto grave da ridurla in un tale stato di prostrazione.

«E' anche molto bella, Therése. Dovresti vederla per capire. Ha solo un anno in meno del mio Andrè e sono cresciuti insieme da quando l'ho portato qui con me, aveva sette anni».

Si era presa una pausa, lasciando alla perspicacia dell’amica il tempo di elaborare i pochi indizi e giungere all’inevitabile conclusione.

«E una volta cresciuto si è innamorato di lei, non è vero?».

Oscar, gli occhi sgranati e la bocca aperta senza fiato, era restata quasi sospesa, fissando il volto di Marie in attesa, finché l’aveva vista annuire lentamente. Allora la portata di quella rivelazione l’aveva investita come un pugno in pieno volto, facendola vacillare. Le gambe avevano ceduto ed era stata costretta ad appoggiare i palmi aperti alla parete dietro di lei per mantenersi in equilibrio. Avrebbe voluto avere il potere di fermare il tempo, come Orfeo al suono della sua lira, per poter fuggire da lì e non ascoltare oltre. Ma quello che fino a un attimo prima era stato un punto di osservazione privilegiato che le aveva regalato emozioni piacevoli, ora era divenuto un nascondiglio angusto in cui si sentiva prigioniera. Non poteva permettersi di farsi scoprire.

Almeno Nanny aveva smesso di piangere, come se condividere il peso del suo segreto con l'amica l'avesse in qualche modo sollevata. L’aveva sentita sospirare prima di proseguire.

«Lui non me lo direbbe mai. Ma io non sono nata ieri. Lui vive nella sua ombra, le offre una dedizione totale».

«E lei? Si è accorta dei suoi sentimenti? Pensi che li ricambi? Forse le cose non sono poi così drammatiche. Se lei non prova le stesse cose, tutto si ridimensionerà a un'infatuazione passeggera. Prima o poi si deciderà a volgere lo sguardo altrove. Nessuno può resistere per sempre senza essere corrisposto».

L’altra le aveva restituito un sorriso amaro.

«Tu non conosci mio nipote. E' caparbio come un mulo e le poche volte che mi sono arrischiata a metterlo in guardia senza espormi esplicitamente, ha sempre trovato il modo di sviare il discorso, come se sapesse già dove volevo arrivare. Non ho motivo di credere che Oscar provi gli stessi sentimenti per lui. Non ancora almeno. Ma temo che prima o poi succederà ed è la cosa che mi spaventa di più. Perché allora sarà troppo tardi e le conseguenze inimmaginabili».

Therése aveva posato una tazza fumante di fine porcellana di fronte all’amica, poi aveva provato a mitigare la drammaticità dei toni.

«Marie, non ti sembra di esagerare? Stai precorrendo i tempi, nemmeno tu puoi sapere cosa succederà. Non ci sono ricette che regolino gli affari del cuore».

L’altra aveva scosso energicamente la testa.

«Vorrei poter condividere il tuo ottimismo Therése, ma tu non li hai mai visti insieme. Io invece li ho sotto gli occhi tutti i giorni, e li vedo capaci di parlarsi senza parole in una complicità che può derivare solo da un affetto profondo. E Oscar è ormai cresciuta e andrà incontro, se non è ancora successo, ai turbamenti tipici della sua età. Quanto pensi che le ci vorrà perché arrivi a dare un nome diverso all’affetto che prova per mio nipote? Non dimenticare che vive una vita complicata, atipica, divisa tra l’uniforme e la sua natura, difficile da accettare per la maggior parte degli uomini, ma una condizione che per Andrè è assolutamente naturale, perché è sempre stato così da che si conoscono».

Aveva immerso il cucchiaino da tè nel barattolo di miele e l’aveva portato alla tazza guardandolo colare lentamente, il colore ambrato che veniva inghiottito dal liquido più scuro, quasi torbido, della bevanda.

«Nonostante le mie reprimende perché mantenesse le distanze che si convengono nel rapporto tra servo e padrone, quando sono insieme sono semplicemente loro stessi, Oscar e Andrè, senza titoli né posizioni. Alla mia età ne ho viste di cose, concedimi una certa esperienza nelle faccende umane, a maggior ragione quando si tratta dei miei bambini, perché li ho cresciuti io e li conosco come le mie tasche».

Therése rimase assorta, impegnata ad assorbire le dinamiche di quella relazione così speciale che l’amica le stava dipingendo. Non riusciva a fare a meno di sentirsene affascinata.

Oscar dal canto suo aveva pianto lacrime silenziose, e si era sentita pervadere da una paura crescente che le aveva provocato un dolore quasi fisico, le mani premute all’altezza dello stomaco che sentiva chiuso in una morsa.

«Però dimmi amica mia, proprio perché uno dei pochi vantaggi della nostra veneranda età è di poter dire di conoscere le cose del mondo, se anche tra tuo nipote e madamigella accadesse ciò che temi, non sarebbe la prima volta che lo vedi succedere, mi sbaglio? Di questi tempi è quasi una consuetudine per le nobildonne intrattenere relazioni amorose con membri della servitù e nessuno se ne scandalizza granché. Se poi questa relazione in particolare fosse animata da sentimenti sinceri più che da semplici pruriti della carne, non farebbe grande differenza agli occhi del mondo che tende solitamente a fermarsi alla sintassi dei fatti».

L’espressione sconsolata di Marie si era accompagnata al movimento nervoso delle mani che teneva in grembo torturandosi l’orlo del grembiule, nell’attesa che il decotto si freddasse un pochino.

«Se quello che dici succedesse tra Andrè e una qualsiasi altra figlia del generale, sarei portata a darti ragione. Come hai ben detto, non siamo nate ieri per ignorare come va il mondo. E c’è stato un momento in cui questa mi è parsa una possibilità. Del resto Hortence, maggiore di Oscar di appena due anni, non ha mai nascosto una certa attrazione per il mio ragazzo. Delle sei, è sempre stata la più disinibita. Ma qui si tratta di Oscar, che il generale ha investito della gravosa responsabilità di portare alto il buon nome del casato. Se mai dovesse scoprire una relazione tra loro due, peserebbe solo la macchia del disonore e del tradimento. Per quanto io gli sia affezionata, è sempre stato alquanto ottuso in fatto di comprensione dell’animo umano e delle sue dinamiche. Ne è la prova il fatto stesso che abbia messo mio nipote accanto a sua figlia per tutti questi anni senza avere nemmeno mai pensato all’eventualità che la loro vicinanza potesse avere certe conseguenze».

Si era portata infine la tazza alle labbra a sorbire un sorso cauto, saggiando la temperatura. Lavanda, anche se l’olfatto aveva già preceduto il gusto nel riconoscere l’aroma familiare. Davvero brava Therése a ricordare ancora le sue preferenze dopo tanti anni.

«Intendiamoci, non è un uomo cattivo, è capace di grande generosità ed è una persona leale. Gli sarò eternamente grata per quanto ha fatto per me e per mio nipote, accogliendolo in questa casa e offrendogli privilegi che alle persone del nostro rango sono preclusi. Ha riservato a lui un'educazione identica a quella della figlia, ed è merito suo se il mio ragazzo ha ricevuto un’istruzione di tutto rispetto, che la gente del popolo non potrebbe nemmeno sognare. Paradossalmente, questo li ha resi più simili di quanto le loro rispettive posizioni nella società vorrebbero, ne ha assottigliato le distanze, permettendogli di percepirsi pari in tutto e per tutto».

La tazza produsse un tintinnio discreto quando venne posata ormai vuota sul piattino.

«Ma il generale è anche una persona molto rigida, che vive secondo i suoi principi, sbagliati o giusti che siano, da cui non prescinde. Vivo in questa casa ormai da molti anni e ti posso assicurare che se Oscar dovesse macchiarsi di disonore, non esiterebbe ad alzare la spada su di lei. Credi che riserverebbe un trattamento diverso a un semplice servo? Non risparmierebbe nessuno dei due, Therése, no…nessuno dei due. E purtroppo sappiamo bene che la prudenza non va mai a braccetto con l’impetuosità dell’amore. Prima o poi finirebbero per fare un passo falso e farsi scoprire».

Era scoppiata in un pianto accorato la povera Marie, mentre Therése aveva sussultato a quelle parole lapidarie, cominciando a convincersi della fondatezza dei timori dell’altra.

«Marie, mi dispiace molto. E mi spiace ancor più per questi due ragazzi che mi pare ormai quasi di conoscere, così puri nel loro volersi un bene dell’anima, ciascuno a modo suo, avulsi dalle dinamiche crudeli di questa società. Se davvero fossero destinati ad innamorarsi, dovrebbero essere liberi di poterlo fare. Ma non viviamo in un mondo perfetto, questo te lo concedo, e capisco che tu abbia motivo di essere preoccupata. Vorrà dire che se e quando dovesse accadere, faremo tutto il possibile per tenere all’oscuro il generale, per proteggerli. Ti aiuterò anch’io, non so come, ma potrai contare su di me. Non so dirtene la ragione, ma il destino di questi due ragazzi ora sta a cuore anche a me. Più di questo non possiamo fare, amica mia».

«Ti ringrazio Therése, sei molto cara e confidarmi con te mi ha dato sollievo. Poter dividere il peso del mio tormento con qualcuno è già molto. Non farmi aspettare troppo prima di tornare a trovarmi».

Therése si era alzata dalla sedia mentre Marie aveva aperto la porta sul retro e aveva atteso l’amica reggendo il secchio con i baccelli vuoti. Un refolo d’aria gelida investì la stanza facendo tremolare le fiamme basse del camino che ritrovarono vigore e si innalzarono in una danza disordinata. Anche il bastone da passeggio, appeso al bordo del tavolo per l’impugnatura, prese a dondolare pigramente, come un metronomo che scandisca un tempo lento, finché la mano della padrona non lo raggiunse, interrompendone bruscamente il ritmo. L’anziana donna, dopo aver recuperato il pesante scialle di lana adagiato allo schienale della sedia, si diresse verso l’uscio con passo sicuro e battagliero tenendo il bastone sollevato da terra, di traverso, sotto lo sguardo attonito di Marie che, una mano al secchio e una mano al battente della porta a mantenerla aperta, l’aspettava per cederle il passo.

Non sfuggì alla donna lo sbigottimento dell’amica.

«Sai, questo me lo porto più che altro per difendermi da eventuali malintenzionati. Non si sa mai che a qualche mascalzone venisse in mente di attentare alla mia virtù».

E si lasciò andare a una risata che divenne contagiosa, facendo salire le lacrime agli occhi di entrambe.

«Visto? Sono riuscita a farti tornare il buon umore. Verrò a trovarti presto, vedrai. D’altronde l’insonnia non mi dà scampo e io a che porta potrei mai bussare a quest’ora del mattino se non alla tua che ora come allora ti ostini a sfornare il pane tutta da sola facendone quasi una questione d’onore?».

«Ho il mio tornaconto sai? Mi è sempre piaciuto avere le mani in pasta e poi questo è l’unico momento della giornata in cui posso stare sola a indugiare nei miei pensieri, a volte piacevoli, a volte meno».

E così dicendo si allontanarono insieme mentre la porta si richiuse con un cigolio e nella stanza ritornò a regnare il silenzio.

Oscar dovette usarsi violenza per obbligare i muscoli a muoversi. Le costò fatica mettere un piede davanti all’altro, ma imboccò il corridoio in senso contrario e si incamminò diretta alle sue stanze prima con passo incerto, poi quasi correndo. Si richiuse la porta della camera alle spalle e raggiunse il grande letto nell’ambiente attiguo. Vi si lasciò cadere pesantemente, prona, coprendosi poi la testa con un cuscino con il desiderio di estraniarsi dalla realtà che stava assumendo i contorni di un incubo ad occhi aperti.

Il cuore batteva ancora all’impazzata per le emozioni confuse e contrastanti annodate in un groviglio che le riusciva impossibile districare.

Dentro sentiva una cacofonia di voci discordi che gridavano nel tentativo di prevaricarsi senza che nessuna riuscisse ad avere il sopravvento, quasi che il suo io si fosse disaggregato in una moltitudine di sé, ciascuna alle prese con uno stato d'animo diverso, fino agli antipodi.

Si perse in questa moltitudine, fino a non riuscire più a ritrovarsi. Come avrebbe potuto ricomporre la propria integrità in quell'accozzaglia di sentimenti così disparati? Faticava a riconoscersi, lei sempre così netta, quasi rigida si potrebbe dire, nei suoi giudizi e nella valutazione delle situazioni, finanche delle persone.

Una cosa è giusta o sbagliata, bianca o nera, una persona è buona o malvagia, una strategia adeguata o inefficace. Non era masi stata brava coi mezzi termini lei, le veniva più semplice racchiudere ogni cosa in categorie ben definite.

Non come lui. Lui era diverso, sempre a farle notare le sfumature che a lei sfuggivano cercando di mitigare il sue essere sempre così drastica.

«Un ladro è un ladro Andrè! Una persona disonesta che merita di essere punita!».

«Hai ragione Oscar. Ma un ladro può essere anche un padre di famiglia disperato che non riesce a mettere in tavola abbastanza da sfamare la propria famiglia e ruba perché costretto a scegliere tra la sopravvivenza dei suoi figli e la propria onestà. Ci hai mai pensato?».

Ricorda che allora aveva incassato il colpo in silenzio, non aveva saputo ribattere. Non poteva che essere d'accordo con lui, ma non voleva certamente dargliela vinta, e aveva preferito tacere. Lui l'aveva interpretato come un momento di riflessione e si era sentito intitolato a reiterare il concetto.

Si era alzato e aveva colto una mela dall'albero sotto il quale stavano riposando in un pomeriggio ozioso. Le si era inginocchiato di fianco con il frutto maturo in bella mostra sul palmo della mano.

«Di che colore è?».

L'aveva guardato disorientata e un po’ divertita pensando a uno dei suoi soliti scherzi.

«Com'è Grandier? Hai forse problemi di vista? E' rossa naturalmente. Ora posso mangiarla?».

Aveva allungato la mano per prenderla ma lui gliel’aveva scostata con un buffetto neanche troppo delicato.

«Non ancora. Guarda meglio Oscar, sei sicura della tua risposta?».

Gliel’aveva portata a un palmo dal naso.

«Cosa vorresti farmi dire? E' rossa, non ci sono dubbi. E' una bella mela rossa matura… Così va meglio?».

«Io invece direi che sembra rossa, perché il rosso è il colore prevalente. Ma se tu la guardassi più attentamente, ne vedresti altri. Per esempio è costellata di minuscoli puntini bianchi e giallognoli, qui invece, intorno al picciolo, ci sono le sfumature del verde e del marrone. Se poi te la rigiri in mano, noterai che il rosso è più intenso da un lato, significa che da quella parte è rimasta più esposta alla luce del sole».

«Quindi ora dovrei chiederti se mi lasci mangiare quella mela rossa dai puntini bianchi e giallognoli e striature verdi e marroni? Non ti sembra un po’ troppo complicato?».

«Esatto Oscar, è troppo complicato, quindi per semplificare la definiamo una mela rossa. E va bene. Ma non dovremmo dimenticarci di tutti gli altri colori. I dettagli fanno la differenza. Sfumature diverse identificano varietà di mela diverse, per esempio. Perciò tutti i colori sono importanti, anche quando a predominare è uno solo. Si chiama policromia. La compresenza di più colori».

Lei aveva raccolto la mela dalla mano di lui e l’aveva addentata. Aveva capito benissimo dove voleva arrivare e cosa stava cercando di dirle, ma cercava di minimizzare, per non essere costretta a dargli ragione.

«Insomma, è una mela complicata. Però è buona lo stesso».

Lui l’aveva guardata sconsolato, scuotendo la testa e alzando le mani in segno di resa.

«Volevo solo farti capire che spesso le cose non sono ciò che sembrano, così come le persone o le situazioni che a volte liquidiamo frettolosamente con un giudizio sommario sulla base della prima impressione, senza sforzarci di andare oltre, senza cogliere tutte le sfumature».

Si era lascia scappare una risata quasi isterica. Policromia. Avrebbe voluto vedere lui al suo posto in quel momento, che cosa ci avrebbe fatto con tutti questi colori, così antitetici tra loro che le pareva impossibile anche solo accostarli!

Aveva perso la cognizione del tempo. Non avrebbe saputo dire quanto ne fosse trascorso, ma il sole stava già sorgendo, l'alba era passata da un pezzo e sapeva che di lì a non molto lui sarebbe venuto a cercarla. Aveva provato un'agitazione crescente all'idea. Sarebbe stata costretta a farci i conti stavolta con la varietà delle proprie sfumature, avrebbe almeno dovuto decidere quale fosse il suo colore prevalente.

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Capitolo 6
*** Cap.VI ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

VI – 26 Marzo 1775

Aveva passato in rassegna uno a uno i colori che avevano dipinto il suo cuore nel corso di quella strana notte, alcuni lasciando segni tenui, altri imprimendo solchi profondi, fino a graffiarle l'anima. Il risultato assomigliava a uno dei quadri di quel Fragonard tanto in voga a Parigi negli ultimi tempi. Un paesaggio dai contorni sfumati, indefiniti, dove la bellezza dei colori predominava sul disegno rubandogli la scena.

Bianco. La sensazione di armonia scaturita dalla genuinità delle immagini dei genitori di lui evocate con tanta delicatezza da Marie, un acquerello senza tempo che le aveva parlato di persone semplici e autentiche.

Verde, come il fastidio provato nell'apprendere di tale Sophie, che bramava il suo amico mentre lei fino a poc'anzi ne ignorava persino l'esistenza. Gelosia? E' questo il nome che avrebbe dovuto dare al sentimento strisciante che le si era insinuato dentro?

Giallo, il senso di tradimento e di rabbia cieca verso Hortence. C'era davvero stato un tempo in cui lei avrebbe voluto fare del suo amico il proprio amante? Proprio lei, quella che sentiva più affine, quella con cui riusciva - se non a confidarsi - ad avere un dialogo che andasse oltre la superficie, non le aveva mai fatto intendere nulla. Quando era successo? Se lo sarebbe preso senza farne parola se non fosse intervenuto il matrimonio che il padre aveva combinato per lei? Come se fosse scritto da qualche parte che bisognasse chiedere il permesso a lei per avvicinarsi a lui. Lui che non era suo. Oppure si? Perché doveva ammettere con se stessa che ad averlo saputo avrebbe fatto di tutto per tenerla lontana, per mettere tra loro quanta più distanza possibile. E non avrebbe esitato a rinfacciarle qualunque sguardo o gesto equivoco avesse osato rivolgergli. Ma non sarebbe stata sincera sulle proprie motivazioni, le avrebbe derubricate camuffandole coi panni delle buone intenzioni di chi, affezionato ad entrambi, avesse solo l'obiettivo di proteggerli dalle conseguenze di un gesto sconsiderato. Ora invece, nella solitudine della propria stanza, non poteva mentire a se stessa. Gelosia. Di nuovo. L'avrebbe allontanata per gelosia, né più né meno.

Rosso, come rosso è il sangue che aveva preso a scorrere più veloce fino a farla avvampare in viso, fino a farle contrarre il ventre in uno spasmo languido quanto violento, quando aveva scoperto che lui la voleva. Quasi che il desiderio di lui l'avesse raggiunta e contagiata nella carne trovandovi un'inaspettata corrispondenza e si fosse propagato in ogni fibra del suo essere. Lui che non cedeva alle lusinghe delle altre perché voleva lei. Si era sentita potente. E debole. Debole come le gambe divenute molli che non l'avevano più sorretta; debole perché si era percepita del tutto vulnerabile di fronte al sentimento di lui che l'aveva trovata senza difese da opporre, pronta a lasciarsene travolgere.

Ancora rosso. Come il pericolo insito nella sua stessa reazione inappropriata. Avrebbe dovuto sentirsi tradita da lui, che aveva travestito l'amore coi panni dell'amicizia, ingannandola. Avrebbe dovuto essere arrabbiata con se stessa, perché i segni c'erano tutti perché lei li leggesse, ma aveva ogni volta distolto lo sguardo, non aveva avuto il coraggio di guardarli per ciò che erano. Segni di un amore inconfessabile. Sarebbe stata una reazione più adeguata e meno pericolosa di questa strana vibrazione che le faceva battere forte il cuore in un ritmo impazzito e incontrollabile.

Blu. Come la naturalezza e l'innocenza delle immagini che avevano preso a scorrerle davanti agli occhi scandendo i richiami di Marie alla loro vita insieme ai tempi della loro formazione. Le ore di studio col precettore, intervallate da altre dedicate all'apprendimento dell'uso delle armi, gli allenamenti, le corse a cavallo che si trasformavano ogni volta in gare a chi arrivava primo. E poi ancora le marachelle, le conseguenti punizioni di cui spesso si faceva carico lui, prendendosi tutte le colpe, e lei che poi gli portava di nascosto la sua parte di dolce, per ringraziarlo, perché a parole le riusciva difficile, facendogli credere di averla rubata dalle cucine anziché avervi rinunciato, unico modo per indurlo ad accettare. Al ricordo le si riempì il cuore di tenerezza, un sorriso a incresparle il viso ancora umido di pianto. Pensava che forse non si poteva chiamare ancora amore allora, ma che ci assomigliava già molto.

Grigio, come la tristezza che le avevano trasmesso le lacrime di Marie e la presa di coscienza che lo stesso sentimento può rendere qualcuno ebbro di felicità e gettare altri nello sconforto. Grigia tristezza perché, anche volendolo, non avrebbe saputo recarle alcun conforto. Non avrebbe potuto confutare l'infondatezza delle sue paure ora che, suo malgrado, si ritrovava a condividerle. Paura per la naturalezza e la forza con cui reazioni illogiche avevano soppiantato ogni ragione, imponendosi e piegando il corpo a brividi sconosciuti.

E poi il nero. Il nero che si ciba di tutti gli altri colori, privandoli della luce e annientandoli, come il buio inghiotte la luce del giorno. Come la paura sorda che ha cancellato in un battito di ciglia tutte le altre emozioni. La paura di perderlo nella maniera più funesta. La paura nel riconoscere che la battaglia tra il nero e il rosso non ha un esito scontato, perché il rosso non si lascerà fagocitare senza opporre resistenza e userà il suo calore innato per dissuadere l'altro dalle proprie intenzioni. Paura per la consapevolezza che il rosso avrebbe trovato in lei un alleato condiscendente, mentre il nero avrebbe durato fatica a convincerla.

Tre colpi decisi alla porta interruppero all'improvviso il travaglio delle sue riflessioni.

«Oscar, sei pronta?».

La risposta si era fatta attendere, mentre lei cercava di ritrovare la voce senza sapere cosa dire.

«Oscar, sei lì?».

Lei si era imposta di ostentare una calma che non provava nella speranza che il tono non la tradisse. 

«Sono quasi pronta Andrè, precedimi pure a far colazione, ti raggiungerò tra un attimo».

«D'accordo. Mi sa tanto che il Bordeaux non ha fatto sconti neppure a te!».

Lo sentì allontanarsi ridacchiando e pensò di aver guadagnato appena qualche minuto. Non poteva più procrastinare oltre il momento in cui avrebbe dovuto affrontare il suo sguardo alla luce di una nuova verità. Con passo fintamente sicuro aveva imboccato la scalinata, concentrandosi sul ritmo del proprio incedere nel tentativo di congelare i propri pensieri e ammansire il battito del cuore fuori controllo.

Lo aveva trovato seduto al grande tavolo che troneggiava nelle cucine, occupava lo stesso posto a cui era seduta Nanny fino a poche ore prima. Tornare in quel luogo, insieme a lei muto testimone della notte appena trascorsa, pregna di emozioni, le aveva fatto uno strano effetto. Non sembrava neppure più la stessa stanza, inondata com’era di luce naturale che filtrava dalle ampie finestre, così come erano cambiati gli attori ora che il locale brulicava di inservienti che si avvicendavano in un vai e vieni senza sosta. Pareva non essere rimasta nemmeno una lontana eco delle confidenze che vi erano state scambiate. Scrutò le superfici dei piani di lavoro, finché un particolare catturò la sua attenzione. Una tazza ormai vuota faceva ancora bella mostra di sé in un angolino appartato, rivendicando a sé una realtà che Oscar sperava ancora di poter ricacciare nell'illusoria dimensione di un sogno.

Senza proferire parola aveva preso il posto che era stato di Therése, accanto a lui. Ne aveva osservato il profilo regolare mentre era intento a spalmare il burro su una fetta di pane tostato, senza ancora incontrare i suoi occhi, poi era stato lui ad intercettare il suo sguardo. Si fissarono per un lungo momento in cui si concesse di perdersi in quel verde che ora sapeva non vedere altre che lei. Lui di contro si sentì disorientato da quell'indugiare più del necessario.

«Si, lo so, lo so, oggi non sono bello come al solito. Guarda che però anche tu non scherzi, hai certe occhiaie! La prossima volta mi sa che è meglio se ci fermiamo alla prima bottiglia».
Lei non aveva replicato, ma un sorriso involontario le aveva incurvato un angolo della bocca.
«Oscar, tu finisci con calma, io intanto vado a sellare i cavalli».

Gli aveva restituito un cenno affermativo mentre aveva continuato a sorseggiare il tè. Non appena la porta si era richiusa dietro di lui, si accorse di un capannello di cameriere impegnate in un chiacchiericcio serrato mentre asciugavano le stoviglie con dei canovacci. Le pareva che le mani e le bocche si muovessero all'unisono in un ritmo frenetico. Non poteva sentire cosa dicessero perché avevano usato l'accortezza di parlare sottovoce, ma non riuscì a fare a meno di domandarsi se tra loro ci fosse anche quella Sophie e se tutto quel parlottare potesse riguardare lui. Aveva tergiversato rigirando la tazza ormai vuota tra le mani, osservando ora l'una ora l'altra nella speranza di cogliere un indizio. Infine aveva desistito e si era alzata avviandosi verso le stalle. Aveva già imboccato l'uscio quando aveva udito un rumore di cocci in frantumi. Poi una voce imperiosa si era innalzata sopra le altre costringendola a fermarsi in ascolto dietro il battente chiuso.

«Sophie! Quante volte ti ho detto che devi fare più attenzione?».

E fu il giallo della gelosia che le fece tirare un poco la porta a sé, aprendo un pertugio attraverso il quale poterla cercare con lo sguardo.

La voleva vedere.

«Io...mi dispiace Gerard, non volevo, io.…».

La individuò nel suo fare contrito, sembrava mortificata e teneva lo sguardo basso sul grembiule immacolato che stropicciava nervosamente con le mani. Una folta capigliatura rosso rame era raccolta sotto la cuffia da cui sfuggivano ciocche ondulate ad accarezzarle le guance rosse di vergogna. Era molto giovane e minuta, pensò che le arrivava si e no alle spalle, ma diversamente da lei aveva forme morbide, generose. Alzò il viso per dire qualcosa senza trovare le parole. Aveva occhi grandi e scuri come la notte. Non sapeva cosa si fosse aspettata Oscar, ma ora che l'aveva vista le pareva soltanto una ragazza come tante, coi suoi sogni di ragazza che le parve ingiustamente crudele colpevolizzare.

«E' mai possibile che tu non capisca più nulla ogni volta che lo vedi? Eppure dovresti averlo capito oramai che quello lì vola alto! Se poi si vola troppo alto, quando si cade ci si fa molto male. E quello è destinato a cadere! Faresti meglio a guardare altrove Sophie, dai retta a uno stupido».

Nero. Come la paura. Inequivocabili le parole di Gerard, lasciavano intendere che i sentimenti di Andrè non erano un mistero per nessuno e la chiosa finale era suonata come un monito per lei e una condanna per lui.

Se ne era andata Oscar col cuore in tumulto e un senso di angoscia che le attanagliava le viscere. Aveva attraversato a grandi passi l'ampio spiazzo erboso; era giunta quasi a metà quando aveva sentito chiamare il proprio nome da una voce che non durò fatica a riconoscere.

«Madamigella Oscar, com'è che quello sfaccendato di mio nipote non è con voi? Non ditemi che è rimasto a letto perché è la volta buona che gli faccio assaggiare il mestolo di prima mattina!».

Le aveva parlato con le mani sui fianchi che le davano un'aria più buffa che minacciosa, mentre alle sue spalle svolazzava un ampio lenzuolo accuratamente fissato al filo teso che conferiva un che di teatrale alla scena. Non era rimasto nulla del tono grave e ansioso di poche ora prima, eppure l'espressione degli occhi mal si accordava con la voce squillante e le battute di spirito che generosamente le aveva offerto nel tentativo di apparire quella di sempre. Oscar si era domandata quante volte Marie avesse dovuto dissimulare la propria angoscia a loro beneficio, e il grigio della tristezza la colse nuovamente.

«No Nanny, a dire il vero Andrè sta già preparando i cavalli. Sono io piuttosto che stamattina non riuscivo a staccarmi dalla tua deliziosa confettura di fichi. Non dovresti farla tanto buona, o prima o poi mancherò ai miei doveri pur di finirla in una volta sola!».

Dissimulò a sua volta in uno sforzo supremo con l’intento di regalare alla povera donna una parvenza di serenità. Poi l’aveva salutata con un cenno della mano e si era incamminata nuovamente.
Aveva trovato l'enorme portone spalancato con la luce che colpiva violenta ogni cosa all'interno facendo sembrare il manto dei cavalli, già strigliati a dovere, ancora più lucido. Lui era chino a controllare lo zoccolo anteriore sinistro del suo baio, le maniche arrotolate fino a metà braccio, la giacca di fustagno marrone appesa a un chiodo che sporgeva da una delle travi basse che sostengono il fienile. Si era girato nel percepire la presenza di lei sulla soglia, ma era stato costretto a ripararsi gli occhi con la mano. Dall'interno l'effetto della luce risultava opposto, disegnava Oscar come una sagoma nera e slanciata che si stagliava contro la cornice accecante della porta a doppia altezza.

«Sei tu Oscar? Ho quasi finito. Caesar è già pronto. Ho dovuto sostituire il ferro anteriore sinistro ad Alexander perché era troppo consumato, rischiava di perderlo. Ancora due minuti e sono da te».

«Fai con calma Andrè, ti aspetto qui».

Lo aveva guardato  armeggiare abilmente con gli attrezzi da maniscalco. Aveva osservato i muscoli degli avambracci tendersi nel maneggiare la tenaglia tira chiodi e poi quella da pareggio. Rosso. Aveva finito il lavoro in pochi movimenti fluidi e decisi, si era rialzato e aveva gratificato il cavallo accarezzandone la mascella ripetutamente, sussurrando parole che lei non era riuscita a carpire ma che Alexander sembrò apprezzare, poiché avvicinò il muso alla spalla del suo cavaliere e poi prese a strusciare la guancia contro la sua come un gatto che facesse le fusa. Blu.

Nella girandola dei suoi colori lui era proprio così, rosso e blu, era forza, sicurezza e desiderio, ma anche calma, pace e armonia. In lui il rosso e il blu erano colori comprimari in perfetto equilibrio.

Le venne incontro coi due cavalli ai lati che lo seguivano al passo, le porse le redini di Caesar e le loro mani si sfiorarono in un breve contatto che la fece sussultare, lasciando lui perplesso.

«Andrè, abbiamo fatto tardi stamattina, forza, cerchiamo di recuperare».

Lui stava ancora montando in sella che lei aveva già spronato Caesar al galoppo lasciandolo un po’ indietro e pensando che avrebbe avuto bisogno di stare da sola a schiarirsi le idee, piuttosto che dover affrontare una giornata a Versailles, per di più insieme a lui.

Però si dovette ricredere. Era sorprendente come il suo senso del dovere riuscisse ad imporsi su tutto il resto e a renderle quasi facile calarsi totalmente nel proprio ruolo. Rimanere concentrata nell'adempimento dei propri compiti aveva rappresentato una parentesi di sospensione preziosa, una distrazione temporanea concessa al suo cuore stanco.

Ma il cielo si era fatto liquido di striature rosse, arancioni e gialle come pennellate che un pittore distratto aveva steso in maniera bizzarra, lasciando che si sovrapponessero in mille sfumature calde e indistinguibili che si stagliavano sul blu della tela. Assomigliava al garbuglio dei suoi colori di cui non riusciva a venire a capo, e preannunciava la fine della tregua. Era tempo di tornare a casa.
Il ritmo del ritorno era stato un ritmo lento, scandito da poche parole e silenzi densi. Varcarono infine i cancelli della tenuta fino a raggiungere le stalle. Prima di affidargli Caesar, aveva recuperato la voluminosa cartella di cuoio portadocumenti sciogliendo le cinghie cui l'aveva assicurata.

«Oscar, vuoi che venga da te dopo cena?».

«Non stasera Andrè. Ho ancora del lavoro da sbrigare, più che altro rapporti da redigere».

Aveva fatto cenno al pesante involto che teneva sottobraccio.

«Penso che chiederò a Nanny di portarmi la cena in camera, vorrei terminare il prima possibile e concedermi una buona notte di riposo. Dopo ieri sera credo ne avresti bisogno anche tu».

«Questa è un'ammissione della tua vulnerabilità al Bordeaux!».

Aveva riso di cuore lui, anche per scacciare quella punta di delusione che aveva sentito pungere al rifiuto di lei, seppure ben motivato.

«D'accordo. Ci vediamo domani mattina allora».

Lei si era accorta dell'ombra fugace che per un attimo aveva attraversato il suo sguardo. Le era dispiaciuto essere stata costretta ad escluderlo, ma si sentiva allo stesso tempo compiaciuta dalla sua reazione.

Gli aveva sorriso con gratitudine prima di girare i tacchi diretta ai propri appartamenti.
Si era tolta giusto la giacca, le calze e gli stivali impolverati, che come sempre qualcuno avrebbe avuto cura di farle trovare lustri l'indomani, prima di sdraiarsi sul letto. Aveva avuto la lucidità di portarsi a casa un plico di documenti raffazzonati a caso dal suo ufficio e crearsi così un pretesto credibile per restare sola.

Le gambe incrociate all'altezza delle caviglie, le mani dietro la testa e gli occhi chiusi che in realtà avevano ripreso a scrutare nel caleidoscopio dei suoi colori.

Pensò a quanto paradossalmente la conversazione tra Marie e Therése le fosse stata fatale. Le loro parole l’avevano inconsapevolmente forzata a dare un nome a sensazioni conosciute da tempo, sulle quali si era sempre guardata bene dal soffermarsi, sospendendo il giudizio. Non era stata noncuranza la sua, piuttosto la percezione istintiva di un pericolo dai contorni indefiniti che l’aveva ogni volta prevenuta dall’addentrarsi troppo in quelle emozioni che scaturivano repentine e prepotenti alla vicinanza di lui.

Le aveva sbrigativamente liquidate come i capricci di un corpo che manifestava oramai la propria natura in barba alle attitudini maschili che lei opponeva, divenute del tutto inefficaci a negarla.
Ma questa definizione risultava ora più che mai inadeguata. Il loro rapporto, sviscerato in maniera tanto accurata da Nanny, parlava di molto altro che non una mera attrazione fisica.
Raccontava di un rapporto simbiotico in cui le rispettive caratteristiche, finanche contrapposte, fungevano da collante in una dinamica di compensazione continua, che portava ciascuno a prendere dall’altro ciò che a lui difettava, mantenendo entrambi in equilibrio, rendendosi reciprocamente indispensabili.

Erano la riflessività e la calma di lui a mitigare l’impulsività e l’irruenza di lei riuscendo a prevenirne l’avventatezza, e viceversa era l’impetuosità dell’una a scuotere la pacatezza dell’altro, presentandogli la realtà coi toni accesi della passione che metteva in ogni cosa, e rendendogli praticamente impossibile non sposarne le cause e combatterne le battaglie.

C’era solo una parola adeguata a sintetizzare tutto quanto loro riuscivano ad essere insieme, una parola scomoda che nello spettro dei colori raccoglie tutta la gamma dei rossi. Amore. Amore profondo e leale, amore irruento e passionale.

Ma questa notte lei si era scoperta “il peggior nemico del suo migliore amico”, la spada di Damocle che pendeva sulla sua testa.

Ancora una volta Marie l’aveva stupita per la profondità con cui era in grado di sondare l’animo delle persone a lei care, il suo piccolo mondo di affetti che dimostrava di saper leggere come un libro aperto.

Se Oscar avesse almeno potuto trovare qualcosa da obiettare al suo personale ritratto del Generale, non sarebbe stata assalita dall’angoscia più nera e dalla paura paralizzante che l’aveva inchiodata là, in quell’anfratto nascosto, incapace di qualsiasi movimento.

Ma il Generale era esattamente così come lei l’aveva dipinto, anch’egli non riconducibile a una sintetica monocromia.

E come Marie, anche lei aveva di che essergli grata. Le aveva regalato una vita indubbiamente molto più libera - seppure ancora tenuta all’osservanza delle convenzioni sociali - di quella destinata alle altre donne. In virtù del proprio ruolo aveva potuto rapportarsi e confrontarsi con gli uomini al loro stesso livello.

Aveva potuto esplorare il mondo nel modo a lei più congeniale, libera da busti, corsetti e crinoline, libera di arrampicarsi sugli alberi, di sentire la sabbia fine delle spiagge di Arras sotto i piedi, libera di esagerare col vino, di frequentare le bettole veraci di Parigi, libera di avere un uomo al suo fianco per una vita intera, libera di vivere l’intimità in un rapporto costruito intorno alla confidenza del “tu”, quando era “voi” per tutti gli altri, sua madre compresa. E chi, come Marie insieme a tante, giudicava una costrizione il suo indossare le fasce, non aveva capito proprio nulla: c’avessero provato loro ad andare a cavallo senza e avrebbero finalmente capito quale fosse il sollievo e quale la tortura.

Le aveva risparmiato l’abominio di andare in sposa appena più che bambina, come era stato per le sue sorelle, a un uomo che avrebbe probabilmente avuto il doppio dei suoi anni e a cui avrebbe dovuto concedersi nell’intimità del talamo nuziale senza peraltro abbandonare la forma di cortesia, che le pareva un’assurdità al solo pensiero. Ché se la ricordava bene l’espressione ferita delle sue sorelle il giorno dopo le nozze, e il loro stoico e rassegnato mutismo che trasudava dolore e delusione. Non c’era dubbio che avessero derubricato il sesso coi rispettivi mariti dal pur corto elenco delle gioie femminili, relegandolo piuttosto alla voce “dovere coniugale”.

Dietro l’imprescindibile espressione austera, suo padre era anche capace di atti generosi e affatto impersonali, come quando le aveva regalato Caesar il giorno del suo tredicesimo compleanno, allora poco più che un puledro allo stato brado. Ma aveva capito come lei gli avesse messo gli occhi addosso e aveva chiesto in segreto ad Andrè di domarlo, per conservare intatta la sorpresa. Quella volta avrebbe voluto abbracciarlo forte, anziché limitarsi al contegno di un

«Vi ringrazio tanto, padre».

cui era seguito un cenno d’assenso da parte sua.

Ma c’era anche tutto il resto. C’era la sua fede cieca nei valori e nel codice militare, che anteponeva a qualsiasi altra cosa e a cui aveva dedicato la sua intera esistenza. E c’era l’orgoglio smisurato per il proprio casato che avrebbe fatto di tutto per onorare, fiero che appartenesse a quella parte della nobiltà più in vista a corte e presso i Sovrani. Rispettoso del rango e convinto sostenitore della divisione della società in classi che distinguevano, esattamente come nell’esercito, chi contava da chi ricopriva una posizione subalterna, come era giusto che fosse, giacché non si poteva concepire un mondo dove tutti comandassero o viceversa dove tutti fossero alla pari senza che nessuno fosse investito del potere di tenere le redini.

Anche lei non aveva avuto dubbi: il generale gli avrebbe fatto pagare con la vita l’affronto se si fosse preso sua figlia di nascosto, in casa sua, senza averne il titolo, tradendo il rapporto di lealtà tra servo e padrone che vorrebbe quest’ultimo magnanimo fintanto che l’altro rimanesse entro i confini ben delimitati del proprio ruolo determinato alla nascita.

E probabilmente avrebbe riservato la stessa sorte anche a lei, carne della sua carne, non avrebbe esitato a sacrificarla sull’altare dei propri principi.

Sentì la gola secca, il battito accelerato e solo allora si accorse che le proprie mani avevano artigliato il lenzuolo in una morsa stretta da far male. Si sentiva come un fascio di nervi teso fino allo spasimo. Si alzò e prese a camminare nervosamente a piedi scalzi fino a infilare la porta senza neppure rendersene conto. L’orologio a pendolo posto a decorazione del mezzanino segnava le quattro del mattino. Non aveva una meta. Voleva solo vagare fino a seminare i pensieri che la inseguivano.
Invece si era ritrovata davanti alla porta della camera di lui. Non aveva motivo di essere lì, non sapeva esattamente come ci fosse finita, se non che le gambe ce l’avevano portata come mosse da una memoria propria. Ma non voleva parlargli. Non avrebbe potuto. Né avrebbe potuto chiedergli consiglio, non questa volta. Avrebbe forse dovuto demandare a lui di scegliere se rischiare la vita per averla o salvarsi per morire dentro? Perché questo era il dilemma con cui lei avrebbe dovuto fare i conti quella notte, e non avrebbe augurato a nessuno di trovarsi nei suoi panni, tanto meno a lui.

Rosso o nero?

Una leggera pressione sulla maniglia e il battente si era aperto verso l'interno mentre lei era rimasta ferma sulla soglia. La vista aveva faticato ad adattarsi alla poca luce proveniente dalle braci ormai morenti nel piccolo camino che ancora emanavano deboli bagliori di un arancione soffuso e dal magro spicchio di luna che faceva capolino dietro i vetri della finestra libera dalle tende che non erano state accostate. Individuò il letto parallelo alla porta e poco distante. Ci volle qualche attimo perché la mente assimilasse in un tutt'uno i particolari che mano a mano emergevano dalla messa a fuoco lenta e progressiva. Quando infine emerse la visione d'insieme anche il cuore cambiò ritmo, colto alla sprovvista e impreparato alla scena.

Il corpo di lui era prono, abbandonato al sonno, il braccio sinistro infilato sotto al cuscino, l’avambraccio del destro che ricadeva oltre il bordo del letto con la punta delle dita che arrivava quasi a sfiorare l’assito del pavimento.

Il viso, girato di lato nella sua direzione, appariva disteso, non fosse che per una piega verticale appena accennata sopra il naso a corrugare lievemente la fronte in un’espressione concentrata, le labbra piene lievemente socchiuse spiccavano sui lineamenti regolari del volto incorniciato da riccioli ribelli del nero dell’ardesia che ricadevano disordinatamente sul guanciale di un bianco candido, rendendo il contrasto assoluto.

Nonostante fosse cominciata solo da poco la primavera, si era coricato completamente nudo, solo un lembo di lenzuolo copriva parzialmente le natiche, che rimanevano per lo più esposte alla vista; come un sinuoso declivio da un versante del quale si dipartivano le lunghe leve leggermente divaricate, il ginocchio destro proiettato verso l’esterno in una flessione rilassata che accentuava al tempo stesso la curvatura del gluteo. La schiena sembrava opera di un abile scultore nella perfezione delle sue proporzioni: le spalle larghe anticipavano l’ampiezza del torace per finire poi nei fianchi stretti e ben torniti. L’immagine nel suo insieme trasmetteva una sensualità dirompente.
E il richiamo della carne diventò insostenibile. Il rosso acceso del desiderio la fece fremere fino al midollo.

«Oscar…».

Il suo nome che uscì dalla bocca di lui nel tono arrochito dal sonno e da chissà cos’altro, fu un richiamo irrinunciabile che la spinse a compiere un passo in avanti all’interno della stanza. Doveva essersi sentito così Ulisse nello sforzo sovrumano di resistere al canto ammaliatore delle sirene.

Adesso gli era così vicina da sentire il ritmo lento del suo respiro. Alzò una mano mimando una carezza immaginaria che partisse affondando nella massa scura dei capelli, per proseguire lungo le spalle a saggiare la consistenza dei muscoli, sentire il calore della pelle e poi giù a tracciare languide scie sulla schiena fino alla rotondità dei glutei possenti. Si chiese come sarebbe stato sdraiarglisi accanto, far aderire il proprio corpo al suo, pelle contro pelle, e sentirlo rispondere al suo tocco. E il rosso si fece della tonalità più intensa cui riuscisse a pensare.

Si prese il tempo necessario per raffigurarsi nella mente l’immagine di loro due insieme e le parve sublime.

Poi un rumore di passi proveniente dal corridoio la mise in allarme. Venne sopraffatta dal panico quando comprese che, chiunque fosse, si stava avvicinando proprio a quella stanza. In un barlume di lucidità riaccostò piano la porta rimanendo all’interno e spostandosi a destra lungo il muro, dalla parte opposta al senso di apertura del battente.

Questione di pochi istanti e la vide riaprirsi nuovamente, mentre lei si era portata entrambe le mani alla bocca per impedirsi di emettere suono. Non poteva vedere chi vi fosse sulla soglia, ma il suo pensiero andò immediatamente a Sophie.

Con suo grande sollievo fu invece il borbottio sommesso di Marie che udì. Evidentemente non rinunciava ancora a vegliare sul nipote come fosse ancora un bambino, il suo bambino.

«Ma guarda tu se ci si può mettere a letto in questo modo e senza chiudere la porta per giunta. Screanzato senza pudore».

Il calpestio dei passi le giunse sempre più fievole all’orecchio fino a scomparire del tutto. Il conforto dello scampato pericolo durò però solo un istante, il tempo di realizzare che se avesse ceduto alla propria tentazione, sarebbe stata una scena ben più conturbante quella che Nanny si sarebbe trovata davanti. E se poi al posto di Marie ci fosse stato il Generale? Non era poi un’ipotesi così remota, dato che qualche volta capitava che il padre fosse convocato d’urgenza nel cuore della notte e fosse quindi costretto ad andare personalmente a tirare Andrè giù dal letto affinché gli preparasse il cavallo in fretta e furia.

Riuscì quasi a vederla la faccia di suo padre alla vista di loro due nudi e allacciati come aveva rischiato di trovarli Marie.

E la paura più nera tornò per non darle scampo, per annientare qualunque anelito, qualunque gemito di piacere, seppure solo immaginato.

Il rosso doveva cedere le armi al vincitore e battere in ritirata. Non c’è colore che si possa opporre al ricatto del nero quando questo minaccia di prendersi la vita della persona più cara.
Non poteva far altro che arrendersi, rinunciare a lui, a loro e sperare di essere in grado di proteggerlo da se stesso, da lei e dal rosso che sarebbe sempre stato in agguato tra di loro.

Tornò nelle proprie stanze in un silenzio mesto.

Pensò che seppure il nero aveva dato dimostrazione della propria forza, il suo colore predominante era un altro.

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Capitolo 7
*** Cap.VII ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

VII – 27 Marzo – 8 Aprile 1775

I giorni seguenti furono i più duri di sempre, nemmeno lontanamente paragonabili al più sfiancante degli addestramenti, nonostante l’atteggiamento nell’affrontarli fu proprio quello della disciplina più ferrea. Dovette fare appello a tutta la propria forza di volontà per mettere a tacere le ragioni del cuore e far sì che prevalessero quelle della ragione. Fu indicibilmente difficile trovare l’equilibrio perfetto fra le azioni, divenute orfane di qualunque contatto fisico, e le parole, che dovevano farla sembrare quella di sempre agli occhi del mondo, soprattutto ai suoi.

Si era ritrovata ad anelare la solitudine delle proprie stanze dove soltanto la notte, come un pesante sipario che segni la fine dello spettacolo, le concedeva di non dover nascondere l’infinita tristezza che la scavava dentro, lasciandola svuotata. 

Ma ogni nuovo risveglio si accompagnava all’inizio di un nuovo atto, imponendole la recita di un ruolo assegnatole dal più crudele dei drammaturghi. E l’attore accusava la pesantezza degli abiti di scena, quando rispondeva alle battute ficcanti di lui forzando un sorriso, quando insieme svuotavano un bicchiere di troppo nell’intimità raccolta del salottino e i pensieri andavano dove l’autocontrollo proibiva, quando prendeva le redini dalle sue mani senza sfiorarle, quando incrociava il verde dei suoi occhi e nelle sfumature cupe non era più l’amicizia di un tempo quella che vedeva riflessa. 

Come un funambolo, si era sentita costantemente in bilico sopra il baratro, consapevole che la più piccola distrazione sarebbe bastata a minare l’equilibrio precario e che la caduta non avrebbe lasciato scampo. 

Curioso come all'esterno la vita si ostinasse a proseguire inesorabile nella sua scadenzata quotidianità, mentre all'interno si imponeva una narrazione completamente diversa, dominata dalle tinte fosche dei suoi tormenti che stridevano con l'apparente leggerezza dell'ordinarietà.  

Come quel giorno quando, come ogni mattina, era seduta al solito tavolo della cucina con lui e come al solito lo aveva guardato imburrare una generosa fetta di pane abbrustolito, mentre lei intingeva la sua, spalmata della solita confettura di fichi, nella tazza di tè fumante che come di consueto Marie le aveva preparato.

Tutto come sempre, eppure niente era come prima.

 Nanny dava loro le spalle e in punta di piedi armeggiava con due tazzine di fine ceramica che stava cercando di riporre sul ripiano più alto della scansia affinché non si rischiasse di urtarle e farle cadere.

 «Ah Madamigella, quasi dimenticavo! Vostra sorella Hortence ha mandato ad avvertire che verrà in visita domani. Vostra madre mi ha riferito che si tratterrà giusto il tempo di affidarci Loulou che lascerà qui a palazzo un paio di giorni mentre lei accompagnerà il signor Conte in un breve viaggio d'affari nei suoi possedimenti in Borgogna. Ha espresso il desiderio di incontrarvi. Dice che è da troppo tempo che non fate due chiacchiere voi due».  

Hortence. Fare due chiacchiere con Hortence. Trattenne una risata amara. Alla domanda di rito - come sta’ la mia sorellina? - avrebbe forse dovuto rispondere secondo il copione? Avrebbe dovuto ignorare l'altra domanda, quella che le bruciava dentro? Mordersi la lingua e non chiederle quand’è che le era venuta l'idea di portarsi a letto Andrè? Soprattutto, se ne poteva davvero parlare al passato? Oppure non avrebbe disdegnato una parentesi extraconiugale con lui? Le battute esplicite con cui era solita metterlo in imbarazzo erano fini a stesse, un gioco innocente frutto della sua ironia innata, o celavano ben altro significato? Un invito malcelato?

Una conversazione utopistica che non sarebbe mai potuta avvenire, ma non avrebbe desiderato averne una diversa. Avrebbe preferito sottrarvisi piuttosto. E tenere Andrè lontano da lei.  

«A dire il vero per domani avevo pensato che io e Andrè avremmo potuto andare al fiume ad allenarci. E' da molto tempo che non mi veniva concessa una giornata libera dagli impegni a Versailles e preferirei non rinunciarvi. Ma se conosco bene mia sorella, il suo "non trattenersi a lungo" significa che quando saremo di ritorno lei non sarà nemmeno a metà del rendiconto dettagliato che obbligherà nostra madre a farle di qualunque pettegolezzo o aneddoto abbia avuto luogo a Corte. Sono sicura che avremo modo di incontrarci comunque». 

In realtà aveva sperato ripartisse prima del loro ritorno, anche se il pretesto appena accampato non era affatto una possibilità da escludere: la loquacità di Hortence era davvero proverbiale.  

Invece Andrè l'aveva guardata perplesso, perché lui di quel programma per il giorno seguente non era stato messo a parte e gli parve quanto meno inusuale che lei non l'avesse consultato. Di regola, decidevano di comune accordo come trascorrere le rare giornate libere da impegni, avanzando ciascuno la propria proposta. Gli era sembrata piuttosto una decisione estemporanea e repentina, come se avesse voluto trovare una scusa per evitare Hortence. Si diede dello stupido non appena il pensiero aveva preso forma nella sua mente: di tutte le sorelle, Hortence era l'unica con cui Oscar aveva un legame profondo. I modi diretti e il senso dell'umorismo con cui riusciva sempre a sdrammatizzare qualunque situazione era un incastro perfetto con lo spirito pratico e la concretezza di Oscar che con lei si trovava a suo agio. Osservandola mentre erano insieme la vedeva perdere a poco a poco la sua compassata rigidità, lasciando presto il posto a una rilassatezza che sfociava in risate aperte che le battute di Hortence riuscivano a strapparle.  

Doveva essersi semplicemente dimenticata di informarlo, o forse era addirittura convinta di averlo fatto. Ultimamente aveva lavorato a ritmi decisamente sostenuti, un momento di défaillance ci poteva stare tutto. 

Ma spesso la percezione giusta arriva dall'istinto. Non si era sbagliato Andrè, si era trattato puramente di un escamotage, un banale espediente che si sarebbe rivelato gravido di conseguenze.

Non avrebbe potuto prevederlo Oscar che un sotterfugio partorito sui due piedi per evitare un confronto indesiderato avrebbe cambiato la loro vita per sempre e stravolto la sua per la seconda volta in una manciata di giorni. 

L'indomani avevano accolto ignari il primo tepore primaverile come il migliore degli auspici, mentre conducevano i loro cavalli al piccolo trotto in direzione della radura attigua al fiume. E senza ombra di dubbio il luogo aveva un che di paradisiaco con la luce radiosa che filtrava tra le fronde folte degli alberi come spade di luce e accarezzava la superficie dell'acqua rifrangendosi in mille riverberi luccicanti. 

Eppure per tutto il tempo non l'aveva abbandonata un senso di inquietudine, come un infausto presentimento che le aveva costretto i sensi in allerta. Le fu presto chiara l'origine di questa sensazione di pericolo quando, al primo battibecco scherzosamente provocatorio, lui aveva risposto insinuante accompagnando le parole con lo sguardo che aveva deliberatamente lasciato indugiare sulle sue gambe nude per metà. Era arrossita lei, non potendone più ignorare il significato recondito nascosto sotto toni scanzonati. 

Era stato allora che aveva preso coscienza che il pericolo stava proprio nel trovarsi lì, in quello scorcio idilliaco, lontano da tutto e da tutti, soli. Allora le venne il dubbio che la furbizia con cui aveva scansato la sorella e di cui si era tanto compiaciuta con se stessa, fosse in realtà l'idiozia più grande che avesse potuto commettere. 

Poi tutto andò storto. Come quando si spiega a un bambino che una certa cosa non la si deve fare perché è pericolosa e si infarcisce la spiegazione con tutti i perché e i per come e lui assicura di aver capito, giura che non lo farà, che si comporterà bene, croce sul cuore, ma poi il gusto del proibito prende sempre il sopravvento e lui non resiste alla curiosità di verificare di persona se è veramente come gli hanno detto, e finisce puntualmente col cedere alla tentazione di toccare con mano.  

Così Oscar si era ripetuta nella mente fino allo sfinimento che sarebbe stata attenta, misurata nei gesti e nelle parole, non si sarebbe concessa di scivolare, si sarebbe tenuta saldamente aggrappata alle ragioni del buon senso. Se lo stava ancora dicendo, e già il suo sguardo vagava sul corpo di lui rilucente d'acqua, trascinandosi dietro la mente che, fuorviata e corrotta da tutti e cinque i sensi, prendeva a interrogarsi sulla consistenza dei muscoli tesi, sul sapore e il calore della pelle lievemente abbronzata. Né era riuscita ad impedirsi di ammirare il petto ampio che si intuiva ben disegnato sotto la camicia bagnata dalla pelle ancora umida quando lui era ormai tornato a un passo da lei, facendosi scoprire. Inequivocabile il sorriso sornione che le aveva rivolto. 

Con il senno di poi non saprebbe dire se l'invito a brandire le armi senza altro indugio fosse stato l'estremo tentativo di restare ancorata all'ultimo brandello di resistenza o, al contrario, la necessità inconfessabile di trovarsi ancora più vicino a lui, di carpirne l'odore inconfondibile, il pretesto per poterlo toccare in modo fintamente fortuito. Di certo, qualsivoglia fosse stata la ragione all'origine, l'epilogo travalicò qualunque intenzione. 

Non ricorda più con precisione come fosse successo, la dinamica troppo veloce del duello le concede solo una vaga reminiscenza di un piede messo in fallo, del proprio braccio proteso in avanti alla ricerca di un appiglio, un lembo di stoffa strattonato, il buio degli occhi serrati fino allo spasimo, il vuoto. Poi se l'era ritrovato addosso, il suo torace ansante contro i suoi seni, il profumo buono dei suoi capelli sul viso, il tono allarmato della sua voce che invocava il suo nome come una preghiera. 

Incapace di articolare suono, gli occhi aperti ma lo sguardo perso, lontano, come lontana era lei, rintanata in un angolo della propria coscienza, impegnata nell'ultimo immane sforzo di redarguire il bambino prossimo alla disubbidienza. Quando infine era tornata in sé, la certezza dei suoi convincimenti si era sgretolata come un castello di sabbia investito dalla risacca di fronte alle labbra piene di lui così vicine. Il respiro si era fatto corto mentre la voce del bambino disobbediente le suggeriva di coglierle, che non poteva esserci niente di male a desiderare di conoscerne il sapore almeno una volta, che le conseguenze non potevano essere così gravi come l'altra voce nella sua testa voleva farle credere, e in ogni caso poi avrebbe sempre potuto promettere di non rifarlo mai più, poi avrebbe potuto essere giudiziosa, comportarsi come si deve, croce sul cuore. 

E allora le aveva sfiorate appena con le sue quelle labbra e immediatamente aveva maledetto quella voce di bambino ribelle con il quale aveva condiviso per un attimo di troppo l'ingenuità illusoria che le sarebbe bastato assaggiarle una volta sola, una soltanto. Invece non era la sazietà di una mela succosa che aveva provato, piuttosto la smania che si sente di fronte a un cestino di lamponi, quando quasi senza pensarci si assapora il primo e ci si accorge che si è arrivati all'ultimo troppo tardi per evitarsi un gran mal di pancia. Che poi non si spiega perché la volta successiva il mal di pancia ce lo si ricorda benissimo, eppure non si riesce ad evitare la medesima conclusione (¹). 

E così aveva rinnovato il contatto in un bacio leggero, e poi ancora e ancora. Aveva continuato finché lo aveva udito pronunciare il proprio nome con una voce roca che non gli aveva sentito mai, facendole aprire gli occhi a incontrare i suoi per scoprirli increduli e incupiti da indicibile desiderio, lo stesso che si scioglieva liquido in lei che gli aveva offerto la sua bocca e si era inebriata del sapore di quella di lui, desiderio che non le aveva fatto provare nessuna vergogna quando gli aveva liberato con urgenza la camicia dai pantaloni per poterlo finalmente toccare, le mani che avevano percorso prima leggere la sua schiena per poi premerselo contro, per sentirlo di più, per ascoltare i battiti dei loro cuori impazziti mescolarsi in un ritmo solo. 

Quando le disse che la voleva lo vide magnifico e si sentì bellissima, la più bella di tutte.  
Ancora adesso non sa dove avesse trovato la forza di fermarlo quando tutto in lei urlava perché continuasse, perché si prendesse lì e subito tutto ciò che voleva di lei, perché lei avrebbe voluto tutto di lui.  

Invece si era ritrovata a guardare negli suoi occhi più tristi di sempre, che da soli erano bastati a darle la misura della ferita che gli aveva inferto, del danno irreparabile cui non sapeva se sarebbe mai stato possibile porre rimedio. Per la seconda volta maledisse il bambino disubbidiente che pretendeva di poter rimettere le cose a posto semplicemente giurando di non ripetere l'errore. Ci sarebbe voluto ben altro, il dono della dimenticanza per esempio, l'oblio. Roba da mitologia greca purtroppo, nella realtà si poteva al massimo far finta che non fosse mai successo, che è di per sé una contraddizione in termini perché implica la consapevolezza di ciò che si intende negare. Praticamente un'impresa impossibile. Ma anche l'unica via percorribile, per quanto strampalata. 
Perciò aveva usato il tono più imperativo di cui fosse capace quando gli aveva imposto di rimuovere l'accaduto, così che la negazione avrebbe precluso qualunque spiegazione. Non avrebbero mai potuto parlare di qualcosa che non era mai successo. 

Se ne era andata subito dopo, al galoppo, con le lacrime sferzate via dal vento, il cuore in frantumi e un senso di colpa che se fosse stato pane avrebbe potuto sfamare l'intera Parigi per secoli a venire. 

Era arrivata a palazzo all'imbrunire, constatando con allarme e fastidio che la carrozza con lo stemma dei Blanchard sostava davanti all'ingresso principale. Hortence era dunque ancora lì, probabilmente aveva rimandato la partenza all'indomani mattina. L'aveva aspettata, e questo era un guaio. 

Era riuscita a raggiungere le proprie stanze passando inosservata, usando l'ingresso secondario sul retro, quello più accessibile dalle stalle.

Doveva trovare il modo di ricomporsi prima di andare a bussare alla porta di Hortence, si sarebbe trattenuta il minimo indispensabile prima di accampare una scusa, la stanchezza, o magari un gran mal di testa, o entrambe, poi le avrebbe chiesto di scusarla se le riservava solo un saluto frettoloso, ma aveva davvero bisogno di coricarsi.                               

Si era seduta sul ciglio del letto, il cuore un tumulto di emozioni ingovernabili, il desiderio di lui che nemmeno il senso di colpa era riuscito a sopire, e poi tristezza, infinita tristezza per il male che era riuscita a fargli, e la rabbia che le ribolliva dentro per non essere riuscita ad addomesticare il proprio cuore, rabbia verso il suo corpo che l'aveva tradita preferendo dare ascolto alla voce suadente delle proprie pulsioni, e la paura come ancora non l'aveva mai provata, paura di non essere in grado di prevedere le conseguenze del suo gesto, paura di affrontarle senza averne i mezzi, il terrore allo stato puro di non intravedere alcuna soluzione.

Con le braccia spalancate si lasciò cadere all'indietro, simulacro di un'altra caduta, ma furono soltanto le coltri gonfie ad accogliere il suo peso, non la mano di lui dietro la sua nuca, né trovò la resistenza del suo corpo quando si strinse le braccia intorno in un abbraccio orfano del suo calore. 
Da quanto tempo lui l'amava? Anni? Come era stato possibile che fosse riuscito a reprimere i propri sentimenti così a lungo mentre lei era capitolata dopo appena una manciata di giorni?

Le ombre lunghe proiettate dagli arredi sul pavimento di marmo lucido si erano confuse e poi dissolte in una penombra diffusa che segnava la fine del crepuscolo e del tempo a sua disposizione.

Si rialzò a sedere sul bordo del letto per poi dirigersi con passo stanco verso le stanze che ospitavano la sorella. Tre tocchi leggeri per annunciarsi.

«Hortence...allora non sei partita».

«Non potevo certo andarmene senza averti nemmeno salutato. Eppure non mi sembri particolarmente entusiasta».

«Non fraintendere Othénse, mi fa sempre piacere vederti. E' che oggi sono particolarmente stanca e ho un fastidioso mal di testa, perciò mi scuserai se non mi tratterrò a lungo, avremo occasioni migliori».

«Mi dispiace per il tuo mal di testa. Immagino abbia un nome, non è vero?».

Hortence la fissò con intensità senza distogliere lo sguardo, alla ricerca di un indizio sul volto dell'altra che confermasse i suoi sospetti. Oscar si schermì dietro una risata che risuonò troppo nervosa.

«E perché mai il mio mal di testa dovrebbe avere un nome? E' solo un gran brutto mal di testa, tutto qui».

Il sorrisetto storto e le sopracciglia alzate di rimando, le fecero intendere che ad Othénse non la si faceva tanto facilmente.

«Cosa è successo tra te e Andrè?».

Dritta al punto, come una freccia scoccata ad arte contro il bersaglio. Tipico di lei.
Oscar sgranò gli occhi in un moto di stupore, "come è possibile che lei sappia...", poi si girò muovendo tre passi in direzione della vetrata, gemella di quella che rischiarava la propria camera, in modo da sottrarsi al suo sguardo indagatore. 

«Proprio nulla Hortence, non è successo proprio nulla tra me e Andrè».

«E com'è che questo nulla provoca a te un gran mal di testa e rende lui l'ombra di se stesso? E' rincasato tardi, da solo. Sembrava portare tutto il peso del mondo. Ha messo un grande sforzo nel salutarmi come si conviene. Ha chiesto il permesso di ritirarsi quasi subito, guarda caso anche lui si sentiva "particolarmente stanco". Non ci sono cascata. A giudicare dallo sguardo triste come non glielo avevo mai visto, la sua stanchezza mi è sembrata tutt'altro che fisica. D'altronde è difficile concepire che una giornata di svago - Marie mi ha riferito il tuo messaggio - vi riduca entrambi in questo stato». 

Quello che seguì fu un silenzio denso e troppo prolungato perché Hortence non lo interpretasse come una risposta eloquente. Si accomodò sul divanetto in velluto e fissò la schiena della sorella, nella penombra intuì le spalle leggermente curve, una postura che non le si addiceva.

«C'è stato un tempo in cui l'ho voluto per me».

Come previsto, la reazione fu istantanea e vide Oscar girarsi di scatto con un'espressione incredula dipinta in viso. Ora era sicura di avere la sua attenzione.

«Lo volevo per me perché è forte, buono, leale, gentile e naturalmente bellissimo. Da mozzare il fiato. Non capivo perché non potevo avere lui e dovevo invece prendermi per forza quell'altro, uno sconosciuto di cui ignoravo tutto tranne il titolo, l'unica cosa che pareva contare e bastare a nostro padre. 
Me lo fecero incontrare appena pochi mesi prima delle nozze, e scoprii che non era nemmeno piacente.

Mi rifugiai in camera di Andrè, lui era con te, lo aspettai per ore. Frugai fra i suoi libri, me ne vergogno, ma non sapevo cos'altro fare per ingannare l'attesa. Teneva una copia de "La Nouvelle Heloise". Un libro bandito. Quando lo aprii incuriosita, da dietro il risguardo scivolò fuori un foglio di cartoncino bianco. Lo girai e vidi voi due. Meravigliosi. Era un disegno a carboncino, ritraeva te in uniforme in cima a una scogliera, la chioma al vento, lo sguardo verso l'orizzonte. Bella e fiera. Lui era appena dietro di te, ti sfiorava quasi col suo corpo e ti sovrastava realisticamente di tutta la testa, ma non guardava il mare. Lo sguardo era fissato in un punto a metà fra la tua spalla e il collo, aveva un'espressione dolce e al tempo stesso intensa. Sembrava in attesa che tu ti girassi. Con una mano ti cingeva la vita in un gesto intimo e protettivo. Rimasi a lungo a contemplare quel particolare, la mano disegnata in maniera mirabile rendeva l'effetto delle dita che premevano sulla stoffa della tua camicia. 

Riposi il disegno e il libro dove li avevo trovati non appena udii i suoi passi avvicinarsi. 
Lo accolsi in lacrime e gli chiesi di stringermi forte mentre gli raccontavo il mio dramma e gli confessavo che volevo lui, non quell'altro. Gli rubai un bacio impacciato, il mio primo bacio, e lo implorai di farmi sua, perché sapevo che sarebbe stato gentile e delicato. Si sottrasse subito al mio assalto. Mi guardò dritto negli occhi e disse solo due parole».

«Non posso».

«Gli chiesi se era perché non ero abbastanza bella, ma lui giurò che no, non era per quello, mentre mi scostava una ciocca di capelli dal viso e mi rivolgeva uno sguardo pieno di dolcezza.
Allora gli chiesi se era per la sua posizione, e lo rassicurai che se era per quello nessuno lo sarebbe mai venuto a sapere, sarebbe stato il nostro segreto.

Lui rimase in silenzio a lungo prima di chinare il capo e rispondere, quasi che la risposta fosse di per se un'ammissione che non voleva condividere con me».

«No, non è per questo».

«Non ebbi bisogno di chiedergli altro. Ritornai alla sua mano stretta alla tua vita. Possesso. Ecco qual era il significato che la mia mente aveva carpito ma a cui non ero riuscita a dare un nome. Possesso. Non aveva potuto imputare alla sua condizione di servo l'avermi rifiutata quella notte. Non aveva voluto usare quella motivazione, aveva scelto di essere sincero. Ero semplicemente la sorella sbagliata.

Lui era già tuo allora. 

Sono passati cinque anni, allora ne avevo appena diciassette, lui diciotto, e non c'è stato giorno che io non abbia pensato di tradire il suo segreto, di rivelarti i suoi sentimenti.
Non lo feci mai per rispetto della fiducia che aveva voluto accordarmi, rivelandomi - pur senza farlo - il suo cuore.

Non so dirti se mi fossi davvero innamorata di lui, alla fine non lo conoscevo a fondo quanto te. Di certo ho sperato che tu ti accorgessi di lui, della fortuna che ti era toccata in sorte nel poterlo avere accanto una vita intera. Perché io avrei comunque potuto averlo per me una notte soltanto, il mio destino era già segnato, la strada tracciata, ma per te sarebbe stato diverso. Nessuno ti avrebbe imposto mai di sposarti, avresti potuto conoscere l'amore vero anziché un matrimonio imposto come è toccato a tutte noi. Certo non avrebbe potuto essere alla luce del sole, ma sarebbe stato vissuto ed è questo ciò che conta alla fine.

Per quanto mi riguarda, non sono stata troppo sfortunata. Mio marito si è rivelato una persona gentile e rispettosa. E mi ha dato Loulou. Gli sono affezionata e col tempo ho imparato a volergli bene. Certo l'amore e la passione come li si legge nei libri sono altro, ma in fondo non ho di che lamentarmi.

Rispetto la tua scelta di non condividere con me ciò che è successo tra voi, ma credo di non aver tradito il segreto di nessuno stasera perché non c'era più alcun segreto che potesse essere violato e ho voluto dirti apertamente qual è il mio pensiero a riguardo.

Ti voglio bene Oscar, e ho desiderato con tutta me stessa che tu trovassi il coraggio di cogliere un’occasione di felicità che a me è stata preclusa».

Senza attendere alcuna replica che, sapeva bene, non sarebbe arrivata, si alzò incamminandosi verso la stanza da letto attigua all'anticamera. Sentì i passi di Oscar muoversi in direzione della porta e fece appena in tempo a udire le sue poche parole prima che la porta si richiudesse alle sue spalle.

«Non farò mai di lui il mio amante. Mai».

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Capitolo 8
*** Cap. VIII ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

 

VIII – 9 Aprile 1775

L’indomani mattina mi attardai nei miei appartamenti oltre il dovuto, con il chiaro intento di eludere Hortence. Credo che anche lei non si aspettasse di vedermi, sapeva bene di avermi colpita e affondata. Sapevo che le sue parole non erano state mosse da malizia o cattiveria ma solo da profondo e sincero affetto per me. Eppure, anche se il suo intento era lungi dal ferirmi, le sue parole si erano dimostrate più taglienti di un rasoio, capaci di colpire nel segno meglio di una spada affilata che, con precisione chirurgica, va dritta al punto. Aveva letto il mio cuore come fosse per lei un libro aperto. La verità raccontata con tono assertivo che non lascia spazio a dubbi, incontrovertibile, mi aveva fatto desistere dal tentativo di obiettare alcunché.

Nuda. Mi ero sentita nuda e vulnerabile, battuta. Così avevo preferito assistere alla sua partenza dal porto sicuro della mia camera, seminascosta delle pesanti tende che avevo avuto cura di non tirare nonostante il sole, seppure timido, fosse già sorto. Non potevo affrontare il suo sguardo indagatore che avrebbe cercato nel mio la muta risposta che si aspettava e che io non ero in grado di darle. Sapevo cosa avrebbe voluto per me, ed era in attesa di un segno di rassicurazione, una parola, un gesto, un cenno, uno sguardo che le facesse capire che le sue parole non erano state vane, che avrei trovato il modo di prendermi la felicità che meritavo. Mi spiace Hortence, non ho potuto darti questo conforto, proprio non ho potuto.

Avevo osservato Gerome terminare di sistemare i tuoi bagagli sulla carrozza che ti attendeva nello spiazzo antistante il palazzo e ti avevo vista uscire, accompagnata da Nanny che camminava al tuo fianco e da Andrè che vi seguiva due passi dietro. Nanny ti aveva preso le mani nelle sue mentre, con gli occhi che ho immaginato lucidi, ti bisbigliava chissà quali raccomandazioni. Poi l’avevo vista salutarti e frettolosamente rientrare in casa a passo svelto, come se si fosse ricordata di aver lasciato una pietanza incustodita sul fuoco.

Andrè ti si era avvicinato per aiutarti a salire in carrozza e tu gli avevi porto la mano per facilitargli il compito, poi di scatto ti eri fermata e ti eri girata a guardarlo. Anche lui aveva fissato il suo sguardo nel tuo e senza proferire parola avevi allargato le braccia invitandolo in un abbraccio che mal si confaceva al tuo ruolo e al tuo rango, ma che parlava di una complicità nata una notte di cinque anni prima.

Lui si era chinato appena il giusto perché il tuo viso arrivasse sopra la sua spalla. E’ a questo punto che mi ero accorta di aver inavvertitamente scostato un poco di più la tenda che mi offriva riparo, rischiando di rivelare la mia presenza. Eppure non avevo desistito e avevo indugiato sulle tue labbra che avevo colto distintamente muoversi e sussurrargli qualcosa all’orecchio. La mia mano si era aggrappa al tessuto della tenda a cercare un appiglio perché avevo sentito d’improvviso le gambe cedere. Paura. E’ paura quella che mi aveva pervaso, che aveva paralizzato il mio corpo divenuto incapace di rispondere alla mia volontà. Cosa gli avevi detto Hortence? Non potevi avergli rivelato il mio cuore, non te lo avrei mai perdonato.

Come in un muto richiamo, ho visto il tuo viso poggiato sulla sua spalla volgersi verso la mia finestra e trovarmi. E mi sono sentita di nuovo nuda e vulnerabile di fronte a te. Da quella distanza non avrei saputo dire se tu fossi in grado di leggere la paura che mi attanagliava, ma dev’essere stato così perché, quando il tuo sguardo aveva incontrato  il mio, era stato un sorriso rassicurante quello che mi avevi rivolto e un’impercettibile cenno del capo come a dirmi di stare tranquilla, prima di sciogliere l’abbraccio e salire in carrozza senza indugiare oltre.

Eri già oltre il cancello della tenuta, eppure Andrè era rimasto lì, immobile e mi era sembrato di vedergli le mani chiudersi in pugni lungo i fianchi. Cosa gli avevi detto Hortence? Quando infine si era girato per tornare alle sue mansioni avrei voluto indugiare sul suo viso per riuscire a leggervi un qualunque indizio, ma sarebbe stato troppo pericoloso e avevo desistito, abbandonando la finestra per il letto sul quale mi ero lasciata sprofondare mollemente, le braccia allargate e le ginocchia a penzoloni. Mi sentivo esausta, nel corpo e nello spirito, la notte appena trascorsa non mi aveva regalato che un’ora di sonno disturbato. E non aveva portato consiglio.

Un tuono in lontananza e lo svolazzare delle tende mosse da un refolo di vento freddo preannunciava un cambio repentino della giornata altrimenti primaverile. Non trascorse che qualche minuto e il temporale esplose in uno scroscio d’acqua improvviso che mi costrinse a chiudere la finestra in fretta e furia. Da dietro il vetro il panorama che quella stessa mattina restituiva un insieme variegato di colori brillanti ora era incorniciato da un cielo plumbeo e pareva quello di una giornata qualsiasi in pieno autunno. Lo interpretai come una metafora calzante della mutevolezza della vita, tutto può cambiare in pochi istanti, oramai ne sapevo più che qualcosa.

Decisi di mancare ai miei doveri, avrei inviato un messo a Versaille ad avvertire della mia assenza per indisposizione. Era la prima volta che lo facevo, che poi non era esattamente una scusa, anche se l’indisposizione d’animo dubito sia contemplata dal regolamento militare.

Ero a un bivio, e la decisione non poteva essere procrastinata oltre. Dovevo fare una scelta. Rosso o nero. Di nuovo al punto di partenza.

Ripensai alle uniche parole che avevo proferito la sera prima, a chiosare il monologo di Hortence.

Erano uscite d’istinto, non ricordo nemmeno di averle pensate prima di averle pronunciate.

«Non farò mai di lui il mio amante».

E allora mi divenne chiaro ciò a Hortence era sfuggito: la mia felicità non poteva coincidere con la sua.

Cosa avrei avuto da offrirgli? Una vita fatta di attimi rubati nell’ombra e menzogne inscenate sul palcoscenico della quotidianità. Lui che nell’ombra - la mia ombra - viveva da sempre, meritava altro, meritava di più. Meritava di essere amato alla luce del sole, non certo di nascondere i propri sentimenti quasi fosse un atto criminale. Che poi il quasi si sarebbe potuto tranquillamente omettere. Condannato a ricordarsi ogni giorno di essere il servo che non poteva ambire al cuore del padrone.

La paura per la reazione di mio padre in realtà si inseriva in un contesto più ampio, nessuno avrebbe capito, nessuno ci avrebbe accettato per ciò che siamo, un uomo e una donna, tutti avrebbero giudicato ciò che noi non abbiamo mai sentito di essere, un padrone e un servo.

Triste. Eppure vero.

Mi risolsi a prendere l’unica strada che mi pareva possibile avendo ben chiaro che, una volta imboccata, non avrei più potuto tornare indietro.

E mi resi conto che fu proprio questo ad avermi fatto tentennare, perché non si trattava semplicemente di rinunciare a lui, ma di rinunciare a lui per sempre. Per sempre è una misura troppo grande persino per essere concepita dalla mente umana. La mia doveva essere una scelta senza ripensamenti.

Non ci sarebbero stati vinti né vincitori fra il rosso e il nero, solo un compromesso incolore che avrebbe impedito al nero di esultare e al rosso di ardere liberamente.

Chiusi il mio cuore in un cassetto a doppia mandata concedendo alle lacrime di bagnarmi il viso mentre gettavo via la chiave.

Ti avrei aiutato ad essere felice senza di me, avrei convinto me stessa di poter sopravvivere senza di te.

La mia indole militare mi suggerì il bisogno di una strategia, un piano che riuscisse a distogliere il tuo cuore da me.

Fu in questo preciso istante che il nome di Fersen fece capolino nella mia mente: farti credere di essere innamorata di un altro ti avrebbe fatto desistere dal continuare ad amarmi? Non sapevo quanto tempo ci sarebbe voluto, ma ho creduto di si, ho creduto che nessun sentimento potesse resistere troppo a lungo se non corrisposto, così aveva detto Therese a tua nonna. Sarebbe dipeso tutto da me, la mia recita avrebbe dovuto essere più che convincente.

Non mi soffermai nemmeno a domandarmi perché io avessi pensato proprio a Fersen. Non ne avevo avuto bisogno, conoscevo già la risposta: il suo cuore era già irrimediabilmente di un’altra, niente poco di meno che la mia regina, non avrei corso il rischio di ingannare il cuore di un altro uomo.

Presi un altro poco di tempo per ricompormi prima di presentarmi a Nanny annunciandole la persistenza del mio mal di testa e chiedendole di mandare un messo a Versailles ad avvisare della mia assenza. Dopo essersi accertata che non avessi la febbre tastandomi la fronte, mi disse che mi avrebbe preparato un buon tè e me l’avrebbe fatto portare in camera, dove mi rintanai in tutta fretta, consapevole che il mio passo svelto si confaceva più a un ladro che a una persona indisposta. Ma nonostante la risoluzione presa, non volevo rischiare di incontrarlo, non ancora per lo meno. Dopo l’accaduto l’avevo visto salutare mia sorella Hortence dalla distanza di sicurezza della mia camera, ma non ne avevo ancora incrociato lo sguardo e temevo il momento in cui sarebbe inevitabilmente accaduto. Non ero pronta a vedere di nuovo la delusione e quell’infinita tristezza nei suoi occhi, non volevo essere divorata dal senso di colpa più di quanto già non lo fossi.

Immersa com’ero in questi pensieri mi accorsi solo all’ultimo che qualcuno aveva bussato alla porta  e ricordai il tè che mi aveva promesso Nanny, del quale non avevo bisogno e men che mai voglia.

Invitai ad entrare con un piatto “avanti”, rimanendo seduta schiena alla porta sul divanetto antistante il camino, contemplando le fiamme morenti terminare una ad una la loro danza sensuale.

«Annette, sei tu? Lascia pure il vassoio sul secretaire, e ringrazia Nanny da parte mia».

Il tintinnio della fine porcellana in equilibrio precario sul vassoio sorretto da mani evidentemente tremanti fu tutto ciò che udii. Nessun cenno d’assenso, nessuna parola, solo un silenzio assordante a rivelarmi chi fosse in realtà la persona alla mie spalle.

Pochi passi decisi a fendere l’aria e mi fu davanti, chino a ravvivare il fuoco nel camino senza guardarmi.

«Non dovresti lasciar spegnere il fuoco, la giornata si è fatta fredda. La nonna mi ha detto che hai un brutto mal di testa ...» prima di continuare si girò a cercare il mio sguardo rimanendo accucciato di fronte a me «niente che un po' di riposo e una buona notte di sonno non possa risolvere».

Ricordo che, pur volendo, distogliere lo sguardo dal suo mi fu impossibile. Il baluginare delle fiamme tornate ormai ad ardere alte alle sue spalle screziava i suoi riccioli neri di mille sfumature e il verde dei suoi occhi non mi era mai parso così intenso. Per un attimo fui di nuovo in quella radura inchiodata spalle a terra da quel verde pregno di passione. Durò lo spazio di un respiro, poi vi scorsi qualcosa di diverso, di nuovo. Determinazione fu ciò che vidi. E rabbia. Trattenuta. Cosa gli avevi detto Hortence? Anche lui aveva compiuto una scelta e sperai che andasse nella stessa direzione della mia: sperai che si fosse risolto a dimenticare, a dimenticarmi, a domare il suo cuore.

Provai sollievo a quel pensiero, almeno finché, una mano già alla porta, lui parlò di nuovo.

«Sono contento di non averti dovuto accompagnare a Versaille oggi. Sai, anche io non mi sento granché bene. Magari bastasse anche a me una buona notte di sonno e un po' di riposo per sentirmi meglio ...» 

Quando mi girai in direzione della porta, lui non c’era già più. Fu il primo e ultimo accenno al male che gli avevo fatto. Fu il primo di tutti i giorni a venire in cui io non riuscii più a dimenticarmene.

 

Angolo dell’autrice:

Chi non muore si rivede. Eravate arrivati fino al capitolo precedente. Non merito i commenti splendidi che avete voluto lasciarmi. Non c’è cosa che mi infastidisca di più di una storia non portata a termine. Tanto più che sono scomparsa senza una spiegazione né un saluto. Mi dispiace. Non pubblicherò mai più nulla che non abbia già terminato di scrivere. Non è onesto nei confronti di chi investe parte del suo tempo a leggermi. Il racconto è ora completo e composto da 12 capitoli, ma avviso chi vorrà avventurarsi di nuovo nella lettura che ho dovuto rimaneggiare anche tutti i precedenti.

Un saluto.

Veronica 

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Capitolo 9
*** Cap. IX ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

 

IX – Aprile 1775 – Aprile 1779

 

Così erano andate le cose. Questa era stata la genesi del suo piano. Ma persino la saggezza degli anziani non è infallibile, e il suo amore per lei si era dimostrato inossidabile pur nella  convinzione – e come poteva essere altrimenti ? – di non essere corrisposto.

Tredici lunghi anni, tanto era durato l’inganno. Attuarlo era stato relativamente facile, seppure oltremisura doloroso. Era bastato assicurarsi che lui la vedesse mentre lei guardava l’altro ora rapita, ora sognante, spesso malinconica. L’aveva lasciato trarre le sue conclusioni. Lei dal canto suo metteva in scena una finzione per metà: tanto le sue espressioni erano genuine quanto lui ne travisava il significato. Si perché ora che la forza dell’amore e l’impeto della passione non le erano più sconosciuti, guardava con sincero trasporto gli occhi di colui che ne era tormentato capendo fin nel midollo cosa stesse provando. Non erano sguardi d’amore i suoi, semplicemente manifestavano una profonda empatia per quelle due anime che condividevano con lei e Andrè un destino tanto simile. E così la malinconia che talvolta traspariva dagli occhi di Fersen diventava anche un po' la sua. E la passione. E la tristezza. Li aveva osservati da vicino, aveva visto il loro legame crescere e l’amore divampare al punto da non poterlo più contenere, fino ad obbligarli a rispondere al richiamo della carne che reclama la carne. E loro avevano obbedito. Avevano fatto una scelta diversa dalla sua. Giurerebbe persino di aver capito esattamente quando fosse successo, perché la mattina seguente gli occhi di entrambi brillavano di una luce nuova, che non gli aveva mai visto.

Paradossalmente doveva essere avvenuto proprio la notte in cui aveva obbligato il conte a ballare con lei tutta sera, in alta uniforme, per dissipare i pettegolezzi che cominciavano pericolosamente a circolare a corte. In altre parole per proteggerla. Era stata una sua idea. Aveva voluto mostrare a Fersen quale sarebbe stata la strada più saggia da percorrere, la stessa che aveva imboccato lei stessa, proteggere l’altro a costo della propria infelicità.

Ma loro avevano scelto altrimenti e lei ricorda di essersi sentita confusa. Quale amore poteva dirsi davvero tale se era disposto a mettere in pericolo l’altro? Eppure … aveva percepito un senso di ineluttabilità che l’aveva fatta vacillare. Quella sera, mentre volteggiavano nella sala delle grandi feste sotto gli occhi di tutta la nobiltà riunita, aveva visto da vicino il dolore del conte nello sforzo sovrumano di tenere gli occhi nei suoi, mentre avrebbe voluto cercarne altri per farle sapere  che lui era ancora suo, che niente avrebbe potuto dividere due anime nate per essere unite.

E quella notte stessa deve averglielo dimostrato.

Oscar ne rimase impressionata. Mise a lungo in discussione la bontà della propria scelta, arrivò quasi ad invidiare la pienezza della felicità che leggeva sui volti di entrambi, frutto di una complicità nuova, un’intimità che lei aveva invece voluto precludere a se stessa. Forse il rosso poteva riuscire ad ingannare il nero dopotutto.

Poi arrivò l’annuncio. Erano i primi di Aprile del 1779, e Fersen le confidò che sarebbe partito per l’America. Le disse che non poteva più restare accanto alla sua regina, che i pettegolezzi sussurrati, erano diventati cattiverie dapprima asserite e poi urlate ai quattro venti.

Si sentì investire da una tristezza infinita. Aveva sperato potesse esistere un’altra possibilità con un epilogo diverso, aveva sperato un giorno di poter cambiare strada, invece la sua si era rivelata alla fine l’unica soluzione possibile e anche Fersen aveva dovuto capitolare e adeguarsi. 

Quella sera chiese ad Andrè di portarla in qualche bettola di Parigi a bere.

Lo voleva vicino, ma si avvide subito dell’errore. L’equivoco era prevedibile, gli occhi mesti di lui erano quelli di chi si era trovato costretto contro la propria volontà a guardare impotente la propria donna soffrire per non essere corrisposta da un altro.

Bevve quanto più poté per stordirsi, perché la vista le si annebbiasse e non fosse costretta a distinguere così nitidamente l’espressione ferita di lui, le spalle leggermente incurvate, gli occhi bassi sul calice mezzo vuoto.

Si diede della stupida per l’errore grossolano. La rabbia che sentì salire trovò facile sfogo quando un avventore si lasciò andare a un commento di troppo. Fu come un invito a nozze, pugni e calci volarono insieme a seggiole e sgabelli. Ne presero tante e ne diedero altrettante, fino a ritrovarsi esanimi pancia a terra sul pavimento di legno sporco e maleodorante.

Stava imponendo a se stessa di rimettersi in piedi, quando si era sentita sollevare da braccia forti, quelle di lui di cui riconobbe il profumo, che la prese in braccio e se la strinse contro più che poteva. Le venne da piangere, commossa da quel gesto che diceva tutto il suo amore che nemmeno la presenza di un altro uomo nel suo cuore era riuscito a scalfire.

Finse di essere addormentata e si accoccolò meglio contro il suo petto forte, in ascolto dei battiti del suo cuore contro la sua guancia. Non gli era più stata così vicina da allora. Poi lui si fermò di colpo e lei pensò che fosse esausto e che l’avrebbe svegliata per farla proseguire sulle sue gambe. Invece furono le sue labbra morbide quelle che sentì premere sulle sue in un bacio casto, ma di una tenerezza inaudita. Quanto avrebbe voluto rispondere a quel bacio e allacciargli le braccia intorno al collo, invece fu come dirgli addio una seconda volta. Giunta a casa, nel suo letto, pianse per davvero. Pianse per lui, pianse per Fersen, per la regina e pianse per se stessa.

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Capitolo 10
*** Cap. X ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

 

X - Aprile 1779 -  14 Luglio 1988

La dipartita del conte contribuì in realtà a cambiare la dinamica tra loro. La messinscena di Oscar risultò meno gravosa, essendo rimasta orfana di un attore, seppure inconsapevole, a cui non doveva più rivolgere sguardi furtivi o parole d’ammirazione. Dal canto suo Andrè si sentì in un certo qual senso sollevato dall’uscita di scena di Fersen e cercò cautamente di accorciare le distanze, tornando a interpretare il ruolo dell’amico di sempre. Oscar accolse di buon grado questo nuovo equilibrio che, sia chiaro, non era nato dall’oggi al domani, piuttosto era frutto di anni trascorsi al ritmo alternato di cavalcate liberatorie, risate condivise, bevute tristi, tanti silenzi e poche parole.

Nove anni per la precisione. Tanto impiegò il conte a fare ritorno dalla sua regina.

Un altro cuore che si era rifiutato di piegarsi alla ragione.

In quegli anni Oscar si era augurata che quel compromesso tra lei e Andrè, giocato su un delicato equilibrio, potesse durare in eterno, rappresentava l’unico modo di poterlo avere vicino pur non avendolo veramente. Ma ultimamente si era resa anche conto che così lui non sarebbe mai stato libero, avrebbe continuato a vivere nella sua ombra senza darsi la possibilità di essere amato come meritava. Da un’altra.

Il ritorno di Fersen le offriva la possibilità di scrivere l’ultimo atto di una pantomima durata fin troppo, avrebbe significato infliggere un colpo mortale al suo cuore già ferito, come un cacciatore che mettesse fine all’agonia della sua preda. Straziante il solo pensiero. Ma inevitabile.

Quando le corse incontro per salutarlo con tutto l’entusiasmo che era stata capace di fingere, la luce del tramonto non le impedì di cogliere la reazione di Andè, che vide cercare sostegno nel tronco della grande quercia, guardandola correre incontro all’altro con un sorriso che da troppo tempo mancava sul suo viso.

Lei invitò il conte a rimanere a palazzo qualche giorno e trascorse quanto più tempo poté con lui, mentre Andrè li osservava in disparte. Consumarono i pasti insieme e conversarono amabilmente. Quando lo invitò a battersi con lei alla spada Andrè, seduto sul bordo della fontana, affondò una mano nell’acqua stringendola a pugno, la mascella serrata.

Più tardi Fersen le confidò che l’indomani si sarebbe recato in visita a Versailles, per rivederla, perché la lontananza da lei era stata l’esperienza più dolorosa della sua vita, che lui ci aveva provato a dimenticarla, ma il suo cuore non ne aveva voluto sapere.

Oscar conosceva già il motivo del suo ritorno e non ne rimase sorpresa.

Decise che gli avrebbe impedito di commettere lo stesso errore una seconda volta. Di lì a qualche giorno si sarebbe tenuto un ballo a Versailles alla presenze dei regnanti a cui lui avrebbe sicuramente partecipato: la tensione palpabile tra loro sarebbe stata sotto gli occhi di tutti. E stavolta un passo falso avrebbe potuto essere fatale a entrambi. Decise che l’avrebbe obbligato a danzare di nuovo per tutta la sera con lei che questa volta si sarebbe presentata sotto mentite spoglie.

Forse lui l’avrebbe guardata con occhi diversi. Aveva udito Nanny dipingerla bellissima a Therese. Forse avrebbe distolto la sua attenzione dalla regina, forse l’avrebbe guardata con desiderio, forse quel desiderio avrebbe acceso qualcosa anche in lei, forse sarebbe stati salvi. Tutti e quattro.

Quando scese la grande scalinata di palazzo fasciata nell’abito da sera che Nanny aveva confezionato per lei se lo ritrovò davanti, muto, gli occhi sgranati per un istante che si abbassarono immediatamente al pavimento. Non proferì parola. Nell’aiutarla a salire in carrozza le strinse la mano appena un po' più del necessario. Non le disse che era bellissima, i suoi occhi avevano già parlato per lui. Per la prima volta in tanti anni non l’accompagnò.

Lo vide superare la carrozza in sella al suo cavallo lanciato al galoppo e superare i cancelli della tenuta in una nuvola di polvere per poi scomparire alla vista.

«Perdonami» sussurrò lei al vento mentre si asciugava una lacrima che non aveva saputo trattenere.

Al ballo non durò fatica a farsi notare dal conte che dopo qualche sguardo d’intesa ruppe gli indugi e la invitò a danzare.

Colse un tremito sulle labbra della regina che li osservava ostentando indifferenza, non fosse stato per la mano chiusa a stringere un lembo dell’abito vaporoso che tradiva tutt’altro stato d’animo.

Oscar non fece fatica a riconoscere negli occhi dell’altro i segni del desiderio e al momento se ne compiacque, ma non vide altro che desiderio fisico e delusa constatò che lei non aveva provato neppure quello.

Addirittura la mano di lui poggiata alla sua vita la infastidiva, non avrebbe saputo dirne la ragione. Poi le venne in mente un’altra mano, una mano che non aveva mai visto ma che sapeva esistere impressa su un cartoncino bianco nel risguardo di un libro proibito. Una mano posata in vita a significare inequivocabilmente possesso, almeno secondo Hortence.

Non stava già più ascoltando le parole che lui le stava rivolgendo, qualcosa a proposito della somiglianza tra lei e “il suo migliore amico”, quando Oscar comprese l’assurdità del proprio piano. Non avrebbe mai potuto essere quello il suo posto, si divincolò dalle braccia del conte in un movimento troppo repentino che la fece incespicare nei propri passi e rischiò di farla rovinare a terra se non fosse stato per lui che la sorresse facendole ristabilire l’equilibrio. Si scambiarono un ultimo sguardo, fu certa che lui l’avesse riconosciuta, prima che lei riprendesse la sua corsa verso l’esterno, oltre le enormi finestre fino a ritrovarsi alla fontana antistante il salone delle feste. 

Ansimante appoggiò i palmi sul marmo freddo del bordo e si sporse a guardare il proprio riflesso disturbato dell’interferenza di piccoli centri concentrici là dove le lacrime salate si erano mischiate all’acqua dolce.

Raccolse alla bell’e meglio la stoffa ingombrante delle gonne e si mise a sedere sul bordo, il capo rivolto all’indietro, lo sguardo al cielo pieno di stelle.

«E adesso?».

Così assorta non si avvide della presenza dell’altro che le si era seduto accanto, i gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate poggiate alla fronte.

«Perchè Oscar? Cosa vi ha portato tra le mie braccia stasera?».

Un sospiro.

«L’amore».

In un moto di stupore si girò a cercarla ma lei aveva ancora lo sguardo rivolto verso l’alto.

«Io non mi sono mai accorto che ...»

«Non per voi Fersen. Non potrei mai amarvi, non mi è mai stato più chiaro di così».

Lui rimase palesemente confuso.

«Allora perché? Se non provate nulla per me …. perché proprio io?».

Lei infine lo aveva guardato ed era rimasta a lungo in silenzio prima di parlare.

«Perché noi dobbiamo proteggerli. Volevo impedirvi di commettere una sciocchezza. Mi sono finta innamorata di voi perché lui capisse che è tempo di volgere il suo cuore altrove. Per un momento ho anche pensato che io e voi avremmo potuto colmare la solitudine che ci accomuna, ma solo ora mi avvedo di quanto ridicola fosse quest’idea. Ad ogni modo Fersen, dovete rinunciare a lei, datemi retta. Per Dio, lei è la Regina di Francia e ...»

«E lui?»

Lei abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe che disegnavano segni incomprensibili nella ghiaia.

«Lui non ha un titolo».

«Capisco. Dunque anche voi soffrite per un amore impossibile. La vostra rivelazione d’altro canto non mi stupisce. Ho sempre pensato che tra voi ci fosse un rapporto speciale». Perspicace.

«Già».

«Non vi ho mai ringraziato apertamente per l’amicizia che mi avete sempre dimostrato, ma più di ogni cosa vorrei ringraziarvi perché da voi non mi sono mai sentito giudicato, nonostante sapeste di noi sin dall’inizio.

Ma permettetemi di dissentire: nove anni fa sono fuggito da lei come un ladro, senza nemmeno salutarla, soprattutto senza metterla a parte della mia decisione. L’ho fatto per proteggerla, proprio come dicevate voi poco fa. Anche a me era sembrata la cosa più saggia da fare. Sono tornato perché in tutti questi anni non c’è giorno che io non abbia sentito di averla in qualche modo tradita. Le ho tolto la possibilità di decidere. Ognuno dovrebbe essere messo in condizione di poter scegliere. E’ il libero arbitrio a distinguerci dagli animali. Ditemi Oscar, dareste la vita per lui non è vero?».

«Si». Lo aveva affermato senza esitazione lei, mentre lui aveva annuito.

«Allora dovreste accettare che lui possa fare la medesima scelta. Morire per voi piuttosto che vivere senza di voi».

«Per quanto ne so io, l’amore porta solo a una lenta agonia», gli risponde lei laconica.

«Non voglio credere che lo pensiate veramente, scambierei tutto il resto della mia vita per i pochi momenti rubati vissuti con lei. Datemi retta Oscar, chiedete a lui quale strada sceglierebbe e imboccatela insieme».

«Lui non lo sa. Non l’ha mai saputo».

Lui aveva sussultato. «Volete forse dire che non gli avete mai rivelato i vostri sentimenti? Da quanto tempo gli nascondete il vostro cuore?».

Lei aveva annuito impercettibilmente. «Tredici anni».

«Amica mia, non so come siate riuscita a portavi dentro un peso così grande per tutto questo tempo. Avreste potuto aprirvi con me, avrei custodito gelosamente il vostro segreto, come potete star certa farò ora che mi avete accordato la vostra fiducia. Ma promettetemi di riflettete su quanto vi ho detto. Se dopo così tanto tempo il suo amore per voi è ancora immutato, credete davvero che la farsa che avete inscenato questa sera sarà sufficiente a farlo desistere?».

Quella stessa notte lo aspettò alzata. Arrivò che albeggiava, ubriaco come l’aveva visto poche volte, triste come ormai lo vedeva sempre più spesso. Lui non aveva omesso di ricordarle il fallimento della sua serata, per ferirla. Ma lei l’aveva ucciso comunicandogli che da allora in avanti avrebbe fatto a meno di lui. E lui l’aveva uccisa a sua volta, vomitandole addosso tutta la sofferenza che aveva dovuto sopportare, straziandola con un ultimo bacio pregno dell’amore che non era mai stato libero di dire e infine comunicandole che quella mattina stessa sarebbe uscito per sempre dalla sua vita. L’obiettivo era raggiunto, il cuore in frantumi.

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Capitolo 11
*** Cap. XI ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

 

XI - 14 Luglio 1988

E’ ancora lì, accovacciata sul pavimento, la schiena appoggiata alla parete fredda. Non sa quanto tempo sia trascorso, le pare di aver passato in rassegna tutta la sua vita, la loro vita.

«Domattina sarò fuori dalla tua vita come desideri».

Già. Ma cosa ne poteva sapere lui di cosa desiderasse lei se aveva passato gli ultimi tredici anni a tenerlo all’oscuro? Dal giorno che aveva posato le proprie labbra sulle sue non aveva mai più fatto ciò che desiderava, solo ciò che a parer suo andava fatto.

A parer suo. Gli aveva tolto ogni possibilità di scelta, libero arbitrio aveva detto Fersen. E forse aveva ragione. Aveva alterato la percezione della realtà di Andrè operando come il più spietato dei censori, come gli avesse fatto leggere un libro strappandone le pagine salienti.

Tutto ciò che aveva fatto l’aveva fatto per il suo bene, ma il risultato non aveva nemmeno la parvenza della felicità sul volto di lui, distrutto da troppo dolore, da troppo amore.

Allunga la mano a raccogliere il lembo strappato della camicia rigirandoselo tra le dita.

E se anche Fersen avesse avuto ragione, metterlo in condizione di scegliere avrebbe voluto dire rivelargli di averlo ingannato per gli ultimi tredici anni della loro vita. Come avrebbe potuto perdonarla?

No, il perdono non era ciò a cui poteva ambire, ma avrebbe quanto meno potuto mettere fine alle menzogne. Se ne sarebbe andato comunque, ma sarebbe stato più sopportabile che fosse per l’inganno che aveva perpetrato ai suoi danni piuttosto che lasciargli credere che lei fosse di un altro.

Si risolve ad alzarsi dal pavimento, non si cura di cambiarsi la camicia, infila la porta e si dirige verso la stanza di lui, a piedi scalzi, senza fare alcun rumore.

Rimane ferma sulla soglia, il battente è solo socchiuso e produce un leggero cigolio quando lei lo spinge per entrarvi e per chiuderselo poi alle spalle.

Impossibile che lui non l’abbia sentito, eppure rimane immobile. Ne scorge la figura stagliata contro la finestra che filtra la luce dell’alba, la fronte e i palmi aperti appoggiati contro il vetro freddo, la schiena nuda, leggermente protesa in avanti.

Sul pavimento accanto al letto una borsa da viaggio ancora semivuota.

Fa un passo nella sua direzione.

«Cosa ci fai qui? Cos’altro vuoi?». Ha capito che è lei, non c’è nessun altro sveglio a palazzo.

Nessuna risposta. Un altro passo.

«Se sei venuta ad accertarti che io mantenga la parola puoi stare tranquilla. Me ne andrò tra un paio d’ore, aspetto che mia nonna si svegli per salutarla».

Ancora nessuna risposta. Altri due passi.

«Parla Oscar, dì quello che devi dire e lasciami solo. Sono ancora ubriaco, sono stanco, ho una valigia da fare e sono un po' giù di corda, per usare un eufemismo».

Lei fa un ultimo passo, poi l’abbraccia, preme una guancia sulla sua schiena e le mani sul suo petto.

Lo sente irrigidirsi, i muscoli contrarsi al suo tocco.

«Ti prego Oscar, non così. Ti prego, lasciami. Non ce l’ho con te, non sono arrabbiato con te, non è colpa tua se tu non mi...».

«Ti volevo anch’io. Ti volevo più di qualunque cosa. Ci sei sempre stato solo tu. Lui non è mai stato nei miei pensieri, né nel mio cuore».

La risposta di lui ha il tono di una supplica, non c’è traccia della rabbia di prima. La voce arrochita dalle emozioni di un contatto che il suo corpo non può ignorare.

«Perché mi dici queste cose? Non ti accorgi del male che mi fai? Non sei credibile Oscar, non è quello che ho visto io in questi anni. So che mi vuoi bene, so che vorresti che io rimanessi, ma non posso più fingere di essere ciò che non sono. L’amico che vorresti al tuo fianco non c’è più da molti anni ormai. Se mi tocchi così mi uccidi».

Lei sta piangendo lacrime silenziose, le sente bagnargli la schiena e pensa che è la prima volta che usa un tono tanto dolce con lui.

«Tu hai visto ciò che io volevo farti vedere. Hai passato una vita intera a proteggermi, per una volta ho voluto farlo io, ma ho sbagliato tutto».

Adesso ha tutta la sua attenzione. Non capisce il senso delle sue parole. Fa per girarsi, lei oppone resistenza, lo stringe più forte a sé ma lui non ha intenzione di continuare questa conversazione dandole le spalle. Le prende le mani ancora appoggiate al suo petto e scioglie dolcemente l’abbraccio girandosi poi a fronteggiarla. Lei ha portato le braccia lungo i fianchi, ha ancora indosso la camicia strappata, il volto è rigato di lacrime e lui pensa di non averla mai vista tanto indifesa.

«Cosa stai cercando di dirmi Oscar? Proteggermi da cosa?».

Lei allarga le braccia e lo guarda dritto negli occhi.

«Da me. Da noi. Ho dovuto farti credere di essere innamorata di un altro».

Lui comincia a capire. Serra i pugni lungo i fianchi, ma si sforza di mantenere la voce calma.

«Perché?».

Lei percepisce il cambiamento, è preparata.

«Era pericoloso. E’ pericoloso. Troppo. Tua nonna, la servitù intera, persino Hortence. I tuoi sentimenti non sono un segreto per nessuno qui a palazzo. Nessuno tranne mio padre. Ti amo Andrè, credo di averti sempre amato. Volevo solo proteggerti».

Lui fatica a metabolizzare la portata di quella rivelazione: lei lo ricambia da sempre, così dice, ma non si è fatta scrupolo di ingannarlo per anni. Per anni l’ha guardato spegnersi un poco alla volta, giorno dopo giorno, sotto il peso di un sentimento che aveva sempre creduto a senso unico.

Non sa se ha più voglia di farci a pugni o farci l’amore. No, vorrebbe schiaffeggiarla, decisamente. Ma non alzerebbe mai un dito su di lei, nemmeno sull’onda della rabbia che ora sente montare dentro, incontenibile.

Porta un braccio al fianco di lei e, con un movimento brusco, la scosta dalla traiettoria che lo porta oltre la soglia della stanza, prima con passi malfermi, poi correndo lungo il corridoio e fuori dalla porta di servizio che porta alle stalle.

Lei non lo ferma, non fa una mossa. Sapeva che se ne sarebbe andato comunque. Sapeva che aveva il diritto di farlo. Si siede sul letto quando capisce che le gambe non la reggono più e si porta le mani al viso. E’ uscito dalla sua vita solo da pochi istanti e il vuoto che sente è già incolmabile. 

Si scopre il viso e si guarda intorno nella stanza come a voler imprimere nella mente ogni particolare di quell’ambiente, per tanti anni il loro rifugio, da oggi simulacro di ciò che non è più.

Osserva le tre mensole di legno stipate di libri, ma non trova ciò che cerca, che era sicura di trovare. Poi un altro particolare nella stanza cattura la sua attenzione. La borsa da viaggio giace ancora sul pavimento, mezza vuota. Le si accovaccia accanto, solleva un lembo di stoffa bianca, una sua camicia. Prima di riporla se la porta al viso e ne ispira l’odore buono di lui. C’è anche una scatola di legno intagliata, dentro i risparmi di una vita. Infine lo vede: La Nouvelle Héloise, accoccolato sul fondo. Ne accarezza la copertina rigida e ne gira il risguardo, dietro vi trova esattamente ciò che si aspettava di trovare. Loro due visti con gli occhi di lui, bellissimi. La mano di lui là dove Hortence le aveva raccontato, a cingerle la vita.

Non può essersene andato senza nulla. Forse non tutto è perduto. Forse non è troppo tardi.

L’alba sta lasciando spazio al giorno e lei si accorge di indossare ancora la camicia strappata e di essere scalza. Indossa velocemente la camicia di Andrè che le va decisamente larga e l’ampio scollo lascia intravedere più di quanto la decenza comandi. Infila il disegno nella fusciacca dei pantaloni e si avvia verso l’uscita di servizio che porta alle stalle. E’ sicura che rimedierà un paio di stivali che possano calzarle. Solitamente lei e Andrè ne tengono in stalla un paio di scorta per quando tornano troppo inzaccherati per entrare a palazzo senza farsi sgridare da Nanny.

Impiega più di quanto ci metterebbe lui a sellare Caesar e posizionare i finimenti, poi lo sprona al galoppo e lo dirige senza esitazione verso un punto preciso, là dove tutto è cominciato.

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Capitolo 12
*** Cap. XII ***


Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

 

XII – 14 Luglio 1988

E’ una corsa a perdifiato, il vento che le scompiglia i capelli e le accarezza il viso in un effluvio di lavanda che si alza dalle spighe disturbate dagli zoccoli di Caesar. Lascia il cavallo libero, a riprendere fiato un po' distante dalla sua meta e ora procede a piedi, scostando le fronde degli alberi che nascondono la radura adiacente il fiume.

Se lo trova davanti, in piedi, la schiena appoggiata al tronco della grande quercia, le gambe incrociate e le braccia conserte. Accanto a lui due spade conficcate nel terreno morbido le comunicano che la stava aspettando. Dopotutto non stava scappando da lei.

Quando alza il viso nella sua direzione sa che dovrà lasciargli combattere la sua personale battaglia tra odio e amore, tra rosso e nero, a modo suo.

Vola la spada che va a conficcarsi con calcolata precisione a un passo dalla punta dei suoi stivali. Prima di impugnarne l’elsa, se li sfila con calma misurata, senza abbandonare lo sguardo dal suo, apparentemente impassibile: è a piedi nudi, i calzoni arrotolati al polpaccio e se deve misurarsi con lui vuole farlo alla pari.

Senza anteporre alcuna parola, è lui ad attaccare per primo con un fendente che incontra la resistenza del filo della spada di lei, che dura fatica a respingerlo tanta è la forza impressa nel colpo. Si ritrovano di nuovo lontani, per poco, perché adesso è lei a portare un affondo che lui prontamente para con una battuta sul ferro. Lei si copre correggendo la posizione del braccio in modo da non offrirgli un bersaglio facile, ma è costretta ad indietreggiare non essendo in grado di opporre uguale forza nella contesa fino a che la sua schiena non incontra la corteccia ruvida di una grande quercia. Le spade incrociate all’altezza dei loro volti che ora si fronteggiano in un dialogo orfano di parole, le braccia e le spalle di entrambi tese allo spasmo nel tentativo di avere la meglio sull’altro. Lui non sembra offrirle via di fuga e il tempo sembra dilatarsi mentre la tiene inchiodata lì e ne approfitta per avvicinarsi di un passo, lasciando che i loro corpi quasi si sfiorino.

«Non avevi il diritto di scegliere per me!»

Il tono a metà tra la rabbia e la tristezza.

«Tredici anni Oscar! Per tredici anni mi hai costretto in un mondo parallelo, un mondo fittizio che mi ha riservato solo sofferenza. E’ stato questo il tuo modo di proteggermi? Dimmi Oscar, hai mai visto felicità nei miei occhi mentre ti guardavo inerme credendoti innamorata di un altro?».

Lei accusa il colpo che ferisce più della spada, ma non si sottrae al suo sguardo ferito né intende arginare la sua rabbia che, come l’onda del mare in tempesta, ha bisogno di gonfiarsi e travolgere ogni cosa sul suo cammino prima acquietarsi e scemare.

Lui la percepisce arrendevole e se ne rammarica. Arretra di due passi lasciandola finalmente libera e si mette in posizione di attesa, incitando l’iniziativa d’attacco del suo avversario che non tarda ad arrivare quando questo capisce che lui non si accontenterà di una vittoria facile. Vuole che lei gli opponga le sue ragioni, le vuole sentire, vuole confutarne la logica, dimostrarle l’enormità del suo errore, l’irreparabilità delle conseguenze. Come avrebbe potuto restituirgli tredici anni di una vita vissuta a metà?

Gli si scaglia contro in un attacco di battuta che termina nuovamente nello stridore delle lame che si incontrano in un equilibrio precario di forze che non si equivalgono e che presto vede nuovamente lei soccombere al suo respingimento.

«Ho impiegato troppo tempo a capire di aver sbagliato. Mi dispiace, vorrei poter tornare indietro e cambiare il corso degli eventi, delle nostre vite, ma non posso. Non posso ridarti ciò di cui ti ho privato, ma credimi se ti dico che è stato ugualmente penoso per me rinunciare a te, a noi. Ingannarti giorno dopo giorno mi ha straziato l’anima, ma dimmi Andrè, sei così sicuro che al mio posto non avresti vacillato? Saresti stato pronto a correre il rischio di vedermi morire per mano di mio padre?».

Sgrana gli occhi colpito dalle sue parole. Non che non ci avesse mai pensato, ma aveva sempre ritenuto che l’unica cosa che contasse davvero fossero i sentimenti di Oscar per lui, nemmeno la nobiltà per nascita l’avrebbe persuaso a chiederne la mano: non l’aveva mai voluta a ogni costo, voleva innanzi tutto essere amato da lei. Aveva sempre pensato che se ciò fosse avvenuto, per tutto il resto avrebbero trovato una soluzione.

Poi gli vennero in mente le parole che gli aveva rivolto poco prima, in camera sua:

“Tua nonna, la servitù intera, persino Hortence. I tuoi sentimenti non sono un segreto per nessuno qui a palazzo. E’ pericoloso. Troppo”.

Come un incubo ad occhi aperti non fatica ad immaginare il generale nell’atto di alzare la spada sulla carne della sua stessa carne. E percepisce tutto il nero della paura. Allora le ragioni di lei non gli paiono più così facili da demolire e la rabbia lascia spazio alla tristezza più grigia.

«Sono solo un servo...». Il tono piatto di una constatazione che suona come una condanna.

«Non per me. Non lo sei mai stato. Ma per tutti gli altri saremmo sempre e solo questo, servo e padrone. Non sarò mai libera di mostrarti al mondo con l’orgoglio che sento. Il nostro sarebbe un amore che si nutre nell’ombra, che non vedrebbe mai la luce del sole. Pensavo tu meritassi di più».

«Avresti dovuto dirmelo. Non mi sarebbe importato rimanere nascosto agli occhi del mondo, mi sarebbe bastato che mi vedessi tu, come ti vedo io».

Ancora ansante dallo sforzo, brandisce la spada nuovamente e la sfida in uno scambio serrato di affondi ed incroci, finché nell’impeto dell’azione la punta della spada incappa inavvertitamente nella resistenza del nodo della fusciacca di lei, là dove si annoda sul fianco, facendo perdere l’equilibrio a lei e a lui la presa sull’arma che cade a terra in un tonfo attutito dall’erba morbida.

Il braccio si muove in un movimento riflesso guidato da una memoria antica e la mano si allunga alla ricerca di un appiglio conosciuto che si manifesta sotto le sue dita come la stoffa leggera del colletto della camicia di lui, che trascina con sé nell’eco di un’altra caduta. Sopra di loro un foglietto bianco, sfilatosi dalla fusciacca allentata di lei, volteggia portato dalla brezza mattutina, fino a posarsi lieve a un palmo dai loro visi. Lui gli rivolge la sua attenzione, curioso, poi ne riconosce il soggetto e il tratto. Le rivolge uno sguardo interrogativo.

«Siamo bellissimi». Mentre lo dice le si dipinge un sorriso dolce sul viso, che lentamente si fa supplica di una risposta che attende ma che non vuole forzare.

E’ consapevole delle proprie mani ancora strette alla sua camicia, così come del suo corpo che le grava addosso, del respiro trattenuto di lui e della luce nei suoi occhi che si sono fatti cupi di desiderio trattenuto. Libera una mano che porta in una carezza leggera alla sua guancia e rimane in attesa, come un condannato in attesa della lettura della sentenza.

E il verdetto infine arriva dolce sulle labbra, a restituirle un sapore mille volte maledetto, mai dimenticato, troppe volte agognato. Interrompono il bacio e restano a guardarsi, il fiato corto, in un silenzio emozionato, denso di parole che non hanno bisogno di essere pronunciate. C’è gratitudine negli occhi di lei, per una scelta che non dava per scontata, che ora sa averla salvata da una vita insipida, orfana del suo sapore. C’è un senso di ineluttabilità negli occhi di lui, che parla di un sentimento antico da cui non può e non vuole prescindere, di una battaglia vinta contro il suo orgoglio ferito cui non permetterà di frapporsi fra loro e la felicità che ancora li aspetta.

Non sono necessari altri chiarimenti. Riprende la danza sensuale delle loro bocche che si esplorano audaci, lasciando che la dolcezza lasci presto spazio alla frenesia e le mani cerchino la pelle, liscia e calda sotto all’impedimento dei vestiti, e i muscoli tesi nell’emozione di potersi finalmente toccare.

«Staremo attenti, nessuno ci scoprirà mai. Ci daremo delle regole». Le sussurra lui con la voce arrochita.

«Mai a palazzo». Gli risponde lei.

«Non siamo a palazzo ora» - le fa notare lui - «e io ti voglio Oscar. Ti voglio ora come allora»

Accosta il viso al suo orecchio, respirando il profumo buono e inebriante dei suoi capelli.

«Fai l’amore con me, adesso». Una preghiera.

Per tutta risposta lei fa scivolare le mani sotto alla sua camicia e percorre la schiena a ritroso, a palmi aperti portandosi dietro la stoffa fino a fargli alzare le braccia e a sfilarla, poi gli prende le mani e se le porta in vita invitandolo a fare lo stesso con la sua.

Il contatto della pelle sulla pelle accende in entrambi la passione a lungo coltivata solo nei loro sogni e mai sopita, e sono bocche che si divorano e suggono, e mani che impazienti accarezzano e stringono la carne che anela mischiarsi con la carne.

«Dimmi che non mi fermerai...». Una supplica.

«Fai l’amore con me Andrè, amami adesso».

E lui la ama con pazienza e devozione e mentre osserva il viso di lei trasfigurarsi nel piacere che riesce a donarle pensa che gli amplessi consumati alla disperata ricerca di una tregua per il suo cuore provato dal peso della sofferenza non sono nemmeno l’eco sbiadita di questo momento.

Fra gemiti e sospiri si donano l’uno all’altro con una naturalezza che bandisce il pudore, si annullano i confini dei rispettivi corpi mentre sperimentano insieme il piacere della carne e l’unione di due anime affini destinate a completarsi, ma che l’ottusità dei più vorrebbe divise da etichette buone solo a generare infelicità.

Pochi saprebbero riconoscere la verità nella visione conturbante dei loro due corpi avvinghiati in un unione completa e indissolubile: un uomo e una donna, né servo né padrone, solo un uomo e una donna che rincorrono a grandi passi una felicità troppo a lungo negata.

Si stringe forte al corpo vigoroso del suo uomo Oscar, con una mano gli scosta una ciocca corvina dalla fronte e trova nel verde dei suoi occhi una luce nuova, che non gli aveva mai visto, che le riempie il cuore e sa di felicità. Pensa che se l’avesse potuta vedere prima non avrebbe mai privato entrambi di tutto questo, per nessuna ragione al mondo.

«Scambierei tutto il resto della mia vita per i pochi momenti rubati vissuti con lei».

Così aveva detto il conte. Allora non aveva afferrato il significato profondo di quelle parole che ora le pare chiaro e cristallino.

Pensa che, almeno per oggi, è scacco matto al nero.

«Andrè». Richiama la sua attenzione.

«Penso che chiederò a Nanny e Therese di aiutarci».

Le rivolge uno sguardo interrogativo. «Therese? Chi sarebbe questa  Therese?».

Lei gli sorride «Te lo spiegherò quando mi dirai cosa ti disse quel giorno Hortence».

 

*** Fine ***

 

Angolo dell’autrice:

 

Se siete arrivati fino a qui significa che avete soprasseduto a quattro anni di iato e mi avete di nuovo accordato la vostra fiducia. Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno voluto leggere e recensire questa storia (che è stata per me un parto difficile). Davvero un grande grazie a tutti.

Veronica.

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