Steel Pointe

di DonnaEliza
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Prima Posizione ***
Capitolo 2: *** 2 - Cambré ***
Capitolo 3: *** 3 - À terre ***
Capitolo 4: *** 4 - Allegro ***
Capitolo 5: *** 5 - Exercices au milieu ***
Capitolo 6: *** 6 - Pas de Deux ***
Capitolo 7: *** 7 - Coupé ***
Capitolo 8: *** 8 - Penché ***
Capitolo 9: *** Intermezzo: Steel Pointe artwork! ***
Capitolo 10: *** 9 - Off Balance ***
Capitolo 11: *** Grand Jeté ***
Capitolo 12: *** Reverènce ***



Capitolo 1
*** 1 - Prima Posizione ***




Sei nata nel distretto di Stohess, all’interno del muro Sina. La tua famiglia era benestante e hai preso lezioni di danza, un vezzo comune per le ragazze della tua estrazione sociale. Quando hai deciso di farne una professione, però, i tuoi genitori si sono opposti; per tutta risposta, sei scappata di casa e ti sei unita al corpo di ballo dell’Accademia cittadina sotto falso nome. Avevi quattordici anni. Due anni dopo, un Titano ha sfondato il Muro nel distretto di Shiganshina, all’interno del Muro Maria. La tua compagnia era in tourneé nella cerchia di mura esterna, e tu eri nel distretto con una tua compagna; eravate state mandate a comprare un sacchetto di pece greca per le scarpe da punta. Non è stato un Titano a colpirvi, ma una sezione di muro cadutavi addosso mentre correvate per i vicoli del distretto: un edificio fatiscente è crollato per la pura violenza delle vibrazioni del terreno, scosso dai passi dei giganti. Il blocco di pietre e malta si è accasciato nello stretto spazio del vicolo, incastrandosi in diagonale, come una tettoia. Tu sei finita nello spazio libero sotto la parte rialzata del muro. La tua compagna è stata schiacciata a terra dall’altra estremità del blocco; l’addome e le gambe sono state polverizzate, mischiate alla nuvola di calcinacci. Il busto, proiettato dalla violenza del colpo, ti è atterrato addosso insieme a una confusione di schegge di pietra e legno, buttandoti a terra. La sua testa, con la violenza di un proiettile, si è abbattuta sul tuo piede, fratturandoti le ossa. Ti ricordi tutto perfettamente. Sei rimasta immobile per un tempo indefinito, finché hai riconosciuto le voci dei soccorritori nel trambusto impossibile che riempiva l’aria; allora ti sei arrischiata a strisciare fuori. Per tutto il tempo hai continuato a stringere il sacchetto di pece tra le mani, con tanta violenza da lacerarlo; quando ti hanno avvicinato eri coperta di scaglie dorate e ti hanno dovuto aprire le mani a forza per separarti dai brandelli di carta del sacchetto. Sei stata trasportata in lettiga su una delle chiatte che lasciavano il distretto via fiume, e curata in uno dei tanti ospedali di fortuna all’interno della cerchia di mura intermedia. Il tuo piede sarebbe guarito; la tua carriera era finita.

Ti sei arruolata nella Milizia appena sei stata di nuovo in grado di camminare. L’hai fatto per la semplice ragione che ti sembrava di avere il fisico adatto per la carriera militare: come ballerina, sei stata addestrata ad avere un equilibrio eccellente e a sostenere sforzi prolungati. Hai avuto occasione in passato di vedere i membri della Legione Esplorativa sfrecciare nell’aria agganciati ai loro Dispositivi di Manovra Tridimensionale e hai sempre pensato che fosse la cosa più simile al volo che l’uomo potesse raggiungere. Doveva essere bello, potersi muovere con tanta libertà. Non l’hai mai confidato a nessuno, però, perché pensare cose simili del pericoloso mestiere dei legionari ti sembrava troppo frivolo. Durante il periodo di addestramento ti sei mossa come una sonnambula. Lo shock di aver visto una persona che ti era amica esplodere e morire davanti ai tuoi occhi, addosso al tuo corpo, ha come spento diversi interruttori nel tuo cervello, e tu osservi le cose accadere, e riesci a prenderne parte, ma tutto accade come a qualcun altro. I compagni del tuo corso ti sembrano degli strani animali esotici: Eren e i suoi strani scatti di rabbia, che sembrano accadere al di fuori da ogni contesto; Mikasa e la sua maniacale ossessione per il fratellastro; Sasha, che sembra di gran lunga troppo interessata al cibo per essere davvero concentrata sull’addestramento. Connie e Jean sono rumorosi e strafottenti come se fossero sempre in una taverna, impegnati a gareggiare su chi ce l’ha più lungo; hai conosciuto fin troppi ragazzi così. Per contro, individui come Armin, Christa o Marco ti sembrano anche troppo equilibrati e gentili per essere persone che hanno passato quello che tutti avete passato. Ti sfugge la motivazione di quasi tutti, e ti dimentichi che neanche tu sei mossa da chissà quali elevati intenti. Dell’addestramento ricordi specialmente il disagio: d’inverno tutto è umido e freddo, dagli stivali che assorbono il fango del suolo e non fanno in tempo ad asciugarsi durante la notte al cibo che, versato dai pentoloni della cambusa nelle vostre gamelle di latta, congela in un secondo. D’estate le zanzare vi divorano tutti, il sudore vi incolla addosso gli abiti già sudici di polvere e vi fa bruciare gli occhi. Le cinghie del Dispositivo di Manovra Tridimensionale segano la pelle e lasciano piaghe che bruciano come scottature. I cavalli puzzano, le coperte dei dormitori puzzano, tutto puzza di sudore stantìo e muffa.

Come prevedevi, tu e il DMT vi siete innamorati a prima vista. Il tuo senso dell’equilibrio è stato lodato perfino dal capo istruttore Shadis, che non risparmia insulti a nessuno; tuttavia, neppure nove anni di danza classica hanno potuto preparare la tua schiena al micidiale colpo di frusta che i cavi infliggono quando strappano il corpo dal suolo per trasportarlo in alto. Durante le prime due settimane tutti vi aggiravate per il campo come tanti anziani afflitti dall’artrite, ed è sbocciato un fiorente commercio di unguenti e impiastri medicamentosi. Ma lanciarsi nell’aria… è una sensazione inimmaginabile. Tutto si annulla, la tua testa si riempie di cielo e vento, le tue braccia spalancate avvolgono il mondo. Il problema è il combattimento. Distratta dall’euforia del volo dimentichi di prendere la mira, non estrai in tempo le lame e ti lasci cogliere di sorpresa troppo facilmente. Il primo mese di addestramento la tua valutazione è appena sufficiente. E’ Mikasa a trarti d’impaccio; un pomeriggio, mentre state riponendo l’attrezzatura, ti si avvicina e, seria come una scolaretta, dichiara:
-Devi impegnarti di più nel combattimento. Questa non è una scuola per acrobati; se non sei in grado di concentrarti sul bersaglio i tuoi compagni possono morire. Anche cittadini innocenti potrebbero morire.
La fissi esterrefatta; questa è forse la prima volta che Mikasa ti rivolge la parola per qualcosa di diverso dal chiederti di passarle il sale, e lo fa per rimproverarti.
-Beh, grazie tante, Mikasa. Sono sicura che ora che mi hai rimproverato tu sarà tutto diverso.
-Sono venuta per aiutarti – replica lei. – Sono la migliore del nostro corso, credo di poterti dare una mano.
Non puoi darle torto.
Per settimane, tu e Mikasa vi allontanate di nascosto dai vostri quartieri dopo che le luci vengono spente e vi dirigete al bosco in cui già si svolgono gli addestramenti durante il giorno. Per tre, quattro ore ogni notte Mikasa ti attacca senza pietà, alla debole luce delle stelle e di una scarna luna calante. Non usate lame: lei ti colpisce a calci e pugni, e tu simuli i fendenti brandendo l’elsa della spada regolamentare, a cui non hai applicato la lama. I commilitoni cominciano a chiacchierare sui misteriosi lividi che sembrano sbocciarvi addosso da un giorno all’altro, senza apparenti ragioni. L’unico che è a parte del vostro segreto è Armin: sembra che nessuno riesca a tenere un segreto con lui, è come se emanasse una potente aura di affidabilità. Puoi raccontargli qualunque cosa: lui comprenderà, non ti giudicherà e non lo racconterà in giro. Sei a tuo agio con lui, ma non gli racconti il tuo passato, non per quanto riguarda l’incidente. Quel ricordo ti rimane piantato in gola, e non vuole uscire.
Nemmeno Eren sa dei vostri incontri notturni: Mikasa sa che vorrebbe seguirvi, e non vuole che si stanchi più di quanto già non faccia. Quei due hanno uno strano rapporto, ma nessuno, nemmeno Jean, riesce a farci sopra qualche battutaccia. Per quanto contorto, il loro legame è al di sopra del biasimo comune.
Quando il mese arriva alla luna nuova, i tuoi progressi nel combattimento aereo sono soddisfacenti, e tu e Mikasa potete tornare a dormire un numero ragionevole di ore per notte. Non siete diventate amiche: non sembra possibile che Mikasa si apra con qualcun altro oltre ad Armin e Eren, è come se avesse esaurito lo spazio a disposizione per le amicizie. Ma avete imparato a rispettarvi, e vi imbarcate in lunghe conversazioni sulle tattiche di combattimento tridimensionale; lei è affascinata dalla tua flessibilità e tu le insegni come stirare i muscoli per aumentare la scioltezza. A volte riuscite anche a chiacchierare di argomenti futili, come il rancio o la difficoltà di trovare un pezzo di sapone per lavarsi che non si sciolga tutto appena immerso in acqua, ma tutto ritorna inevitabilmente all’esercito. La vita esterna non esiste più. Per molti di voi, è meglio non ricordarla affatto.

La persona con cui hai legato di più è stata Annie: vederla pestare Eren e Reiner come uva da vendemmia è stato esilarante, e non hai resistito ad avvicinarla, quando si è allontanata dalle due sagome a terra. Le sei letteralmente corsa dietro, mentre lei camminava con le mani sprofondate in tasca e l’espressione da cane da combattimento sempre stampata in faccia.
-Leonhardt!
-Ah, Valeshka. Cosa vuoi?
-Devo, devo farti i complimenti per come hai ridotto quei due. E’ stato il momento migliore della mia settimana, e se per te è stata ordinaria amministrazione, allora le tue settimane devono essere spettacolari!
-Ma guarda, - ghigna lei. –Non sapevo che sapessi parlare così a lungo. A volte mi dimentico che esisti.
-Lo prenderò come un complimento. Puoi insegnarmi a picchiare così?
Si ferma e si volta a guardarti, sempre con le mani in tasca. -Ti dirò quello che ho detto a Jaeger: questo addestramento è inutile. Il combattimento corpo a corpo non ti servirà a nulla contro i giganti. Sempre che tu non voglia invece entrare nella milizia cittadina.
-Non voglio entrare nella milizia, voglio arruolarmi nella Legione Esplorativa.
-Allora risparmia tempo e forze; fai finta di combattere quando ti guardano e sfrutta le ore di combattimento per qualcosa di utile. Cercare di farti ricrescere i capelli, per esempio. Di spalle ti si scambia per Springer, è imbarazzante.
-Non mi interessa il combattimento a scopi militari- ribatti, strofinandoti con una mano la stoppa di due centimetri che ti ricopre la testa. –Sarò onesta con te: non credo di essere una persona particolarmente simpatica, e la gente come me prima o poi finisce per litigare con qualcuno. Visto che quel qualcuno potrebbe essere un simpaticone come Jean, voglio essere sicura di poterlo sbatacchiare come un cuscino nel caso se lo meritasse.
Annie si concede una risata. Ha un sorriso accattivante, quando si degna di condividerlo con gli altri.
-Questa è probabilmente la migliore risposta che chiunque potesse darmi. Niente male, Valeshka: ti insegno volentieri.

La base su cui poggia lo stile di combattimento di Annie è semplice: sfrutta quel che sai fare meglio. La danza ti ha dato grande forza nelle gambe, quindi ti insegna a tirare calci per ogni occasione; questo ti torna doppiamente utile dal momento che tenere la guardia non ti viene naturale e i calci sono il modo migliore di tenere a distanza l’avversario. Le lezioni di combattimento con Annie sono divertenti e permettono a entrambe di fare una bella figura durante l’addestramento, anche se causano grande disappunto agli avversari di entrambe quando Shadis vi costringe a fare coppia con qualcun altro a parte voi due. Armin finisce regolarmente col culo all’aria (ci sarebbero altri modi di far atterrare l’avversario, ma questo è troppo divertente) e a te dispiace troppo infierire sul poveretto; è molto meglio quando fai sparring con Connie o Sasha, che prendono tutto come uno spasso e si fanno grandi risate anche mentre volano in aria. A volte Shadis fa un giro di sparring a turno con ciascuno di voi, nel qual caso tutti mangiano la polvere; hai però la sensazione che Annie lo faccia vincere per partito preso, per proteggere un qualche ordine naturale delle cose.

Agli esami finali ti sei diplomata quattordicesima. La cosa ti va bene: non avresti comunque voluto unirti alla Polizia Militare, e avresti solo rubato posto per qualcun altro. La serata di festeggiamenti è stata allegra e rumorosa; Eren non è riuscito a tenere a bada i nervi e si è lanciato in un’invettiva contro tutti quelli che non credono realmente nella battaglia contro i Titani. Gli animi di molti si sono infiammati, nell’ascoltarlo. E’ sorprendente il carisma che acquista quel ragazzetto scarno e non molto alto quando viene preso dalla foga: diventa trascinante se sta incoraggiando qualcuno e terrificante se si arrabbia. Lo ascolti, nel silenzio generale, e pensi che ha ragione; pensi che sei d’accordo con lui, e che gli esseri umani potrebbero riprendersi il mondo aperto. Pensi che dev’essere bello, anche se terribile, essere divorati da un fuoco come quello di Eren. Tu non provi niente di simile. Non hai mai visto un Titano da vicino: quando è scoppiato l’inferno, a Shiganshina, hai fatto in tempo a vedere solo le sagome sfocate delle teste oltre ai tetti, nel polverone, prima di girarti e cominciare a correre; è stata questione di minuti prima che il muro ti crollasse addosso, e poi ci sono stati solo suoni, le urla terrorizzate della gente e gli schianti spaventosi dei passi dei giganti. Per la prima volta, mentre resti in piedi immobile in mezzo alla gente che riprende a chiacchierare e a bere dopo che Eren ha terminato il suo discorso ed è scappato fuori dalla baracca, ti rendi conto che non hai idea di cosa ti aspetta. Poi Sasha ti si avvicina e ti chiede se intendi finire il pezzo di formaggio che tieni in mano, perché nel caso lei lo mangerebbe volentieri. Così hai ripreso a bere, hai scherzato con gli altri e cantato canzonacce da taverna seduta sui tavoli del refettorio. Hai salutato Annie, che entrerà nella Polizia Militare e ti ha regalato una coppia di forcine di madreperla per i capelli, ordinandoti di lasciarli crescere abbastanza da poterle usare, un giorno. Hai scherzato anche con Eren, quando è rientrato nella baracca. Ti ha detto che, visto come combatti, non sa se desiderare che tu e sua sorella dividiate la stessa camera o che stiate più lontane possibile l’una dall’altra. Durante l’ultima notte al campo addestramento, le luci sono state spente alla solita ora, e tutti siete andati obbedientemente a letto, ma il buio nella camerata è stato pieno del respiro di molte persone che fissavano il soffitto, chiedendosi cosa il futuro avrebbe riservato loro. 

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Capitolo 2
*** 2 - Cambré ***


Vi hanno rimandato a Trost per l’assegnazione definitiva. I carri che viaggiavano verso il Quartier Generale del distretto erano pieni di cadetti col doposbornia, dalla pelle verdastra e le palpebre a mezz’asta; in diversi si sono sporti oltre le sponde per vomitare lungo la strada. Tra quelli che conosci meglio puoi contare Marco, Connie e Sasha, che rimane affacciata a contemplare malinconica la sua colazione che si allontana per sempre da lei, spiaccicata sulla terra battuta in una pozzanghera decisamente poco attraente.
Fortunatamente al Quartier Generale sembrano essere ben a conoscenza dello stato dei neo diplomati, e non mancano tazze di caffè per tutti; l’atmosfera generale è piuttosto leggera, ci sono moltissimi membri della milizia che non risparmiano a nessuno battute bonarie. E’ una bella giornata, il cielo è punteggiato di pecorelle che muovono la luce del sole in chiazze e sprazzi. L’aria è pulita. Avete tutti una ridarella nervosa per la combinazione di scarso riposo, caffè e nervosismo.
C’è grande movimento sia in caserma che per le strade, perché pare che l’élite della Legione Esplorativa stia tornando da una missione e i membri presenzieranno alla vostra Cerimonia di Assegnamento. Vi viene dato il permesso di assistere al rientro della missione e vi sparpagliate per le strade, sgomitando con la folla che si accalca sempre di più via via che si avvicina alla porta nelle mura. Quando gli alti battenti si aprono cigolando, la calca è tale che non riesci a vedere niente, a parte i capelli biondi del Comandante Erwin. La folla entusiasta lancia urrà e grida di saluto. Anche tu hai sentito parlare dei membri della milizia più famosi, ma ti rendi conto, ascoltando i commenti delle persone accanto a te, che questi legionari sono delle vere e proprie celebrità. E tu stai per unirti a loro. Una sensazione di orgoglio ti avvolge: sei entrata a far parte di quel ristretto numero di persone che possono fare la differenza tra la vita e la morte della popolazione. Persone che verranno ricordate; persone che verranno ringraziate per le azioni che hanno compiuto anche se avranno fallito.
All’improvviso non ti interessa più riuscire a vedere i volti dell’élite della Legione: tra poco li conoscerai di persona. Tra poco, cavalcherai con loro. Con il petto in fuori e il morale alle stelle, volti le spalle al corteo mentre un coro di voci isteriche acclama il passaggio del Soldato Più Potente del Mondo.
-Il Caporale Levi!
-Siete la nostra speranza, Caporale!
-Ma è una specie di nano!
-Mi sa che ti ha sentito, Jean.
-…Cazzo.
Ottimo! Pensi, mentre Jean ti sorpassa, battendosela a tutta velocità. Se la speranza dell’umanità è un ometto basso, allora anch’io ho qualche possibilità.

-Dai, Ymir, non è il caso di prendersela tanto – sorride Christa, conciliante. – In fin dei conti, è il nostro dovere.
Ymir è seduta sul bordo di una cassa piena di palle di cannone. La cassa è dotata di ruote per essere facilmente manovrabile, e Ymir si sta spingendo con i piedi, lasciando che il carrello vaghi qua e là.
-Figurati se non me lo ricordo- ribatte rabbiosamente. –Ci riempio un secchio con tutte le volte che mi ricordano qual è il mio dovere! Ma che ci mettano di servizio anche poco prima della Cerimonia di Assegnazione è una stronzata! Darci una giornata libera non avrebbe ammazzato nessuno.
Siete in cima al Muro Rose. Siete stati tutti spediti a fare manutenzione ai cannoni che coronano la cerchia di mura; fin dove riesci a guardare, la sommità bianca di pietra è punteggiata dalle sagome dei cadetti che si affaccendano come formichine. Ma Ymir non ha alcuna intenzione di affaccendarsi: è irritata e non intende farsela passare tanto presto, nemmeno dietro richiesta di Christa, che in genere riesce a ridurla alla ragione.
-E basta, Ymir!- Sbotti, correndole dietro per raggiungere le palle di cannone che devi impilare accanto ad ogni pezzo di artiglieria. –Stai rallentando tutti. Prima finiremo, prima ci riposeremo, quindi datti una mossa e smettila di lagnarti.
Ymir si rivolta come una vipera.
-Stai zitta, Valeshka, di che t’impicci? Neanche sei entrata nella legione e già fai la prima della classe?
-Di sicuro non mi beccherò una reprimenda solo perché a te pesa il culo, Ymir!
-Smettila di chiamarmi per nome! Odio quando mi chiami per nome!
-Non sfogare la tua sindrome premestruale su di me!
-Ragazze, basta! –S’intromette Christa, disperata. –State esag-

A quel punto si è scatenato l’inferno.
Un urlo si è alzato tutto intorno a voi, un urlo che diventava più assordante man mano che più persone si giravano a guardare cosa l’aveva provocato.
Una nuvola di polvere si sprigionava dalla sommità delle mura, a un mezzo chilometro da voi, verso est. Con la potenza di una valanga, l’avete vista spazzare soldati giù dal muro, a decine, come briciole di pane. Un Titano, impossibilmente grande, sporgeva di tutta la testa oltre la cima del Muro. Senza pelle come uno studio anatomico, lucido, fumigante, vivo. Qualcuno lo stava attaccando –non sei riuscita a capire chi, da quella distanza- e mentre il colosso agitava le braccia per intercettarlo la luce del sole si rifletteva sulle fasce scarlatte dei muscoli, mandando barbagli rossi a danzare sul muro, sulle macerie, sui cannoni sparpagliati in disordine.
Poi, con un botto assordante anche a quella distanza, è scomparso.
A quel punto, tutti intorno a te si sono risvegliati e si sono precipitati sul luogo dell’apparizione. Voi tre non ci siete mai arrivate, però: un ufficiale della Polizia Militare con i gradi di Sergente vi ha intercettate e spedite al Quartier Generale a prendere ordini.
Lungo la strada, li hai visti da vicino.
Sono enormi.
Si muovono in modo scoordinato, come se le parti del loro corpo non comunicassero tra di loro.
Hanno la pelle rosea, enormi occhi da neonato che non guardano niente in particolare. Alcuni sorridono. Sorridono continuamente.
Ti fanno schifo.

Vi hanno spronato a dirigervi al Quartier Generale più in fretta possibile, senza farvi distrarre da niente, ma Christa lancia un grido di avvertimento. Un Titano è seduto in mezzo ad un incrocio a gambe spalancate, come un bambino sul pavimento della sua stanza dei giochi. Allungando le gambe,  ha sfondato un caseggiato con un piede, e adesso raccoglie le persone che ne sciamano fuori e se le caccia in bocca, con calma. Lo vedi masticare un corpo con aria assente mentre ficca una mano in una finestra rovistando all’interno della casa e ne cava una donna con in braccio un bambinetto di pochi anni. Pazza di paura, la donna lancia il bambino lontano da sé per non lasciarlo al gigante. I tuoi occhi seguono la caduta del bambino da un’altezza di almeno quattro metri. Sei troppo lontana per sentire il rumore che fa quando si schianta al suolo, ma lo immagini. Il Titano si è ficcato in bocca anche la donna e la mastica meccanicamente, insieme all’uomo che adesso sembra solo un mucchio di stracci bagnati di sangue.
Ti pieghi in due e vomiti un fiotto di bile, in piedi sul tetto su cui vi siete fermate, incapaci di proseguire. Alla tua destra, Christa singhiozza istericamente senza neanche accorgersene, le labbra tirate in un rictus sardonico. Ti rimetti dritta, tiri un respiro così profondo da sentir male al petto e all’improvviso la rabbia di assorda: un grido àtono e bestiale ti riempie le orecchie e ci metti un attimo prima di capire che sei tu a gridare.
Ti lanci dal tetto un secondo dopo Ymir; ci vuole una decina di secondi a piombare sul titano. Alza pigramente le braccia per afferrarvi in volo e nell’aprire le mani mostra i palmi impiastricciati di sangue e capelli. E continua a sorridere.
Ymir arriva per prima alla nuca e lo elimina. Cade in avanti, sfondando con la testa il palazzo in cui stava frugando. Quando Christa vi raggiunge, una volta riscossasi dallo shock, state calando a terra i sopravvissuti dai piani alti. Vi tempestano di benedizioni, balbettii incoerenti, domande: cosa devono fare, ora? Dove devono dirigersi? Avete visto la moglie, il fratello, il figlio?
Ti gira la testa. Ti brucia lo stomaco. Non hai risposte. Christa riesce a mettere insieme qualche parola di conforto, la richiesta di mantenere la calma fino al ritorno delle autorità. Vi faremo sapere qualcosa appena possibile; manderemo subito qualcuno; non fate niente di stupido. Dovere, dovere…

Lungo il tragitto eliminate altri due Titani, uno tu e uno Ymir. Vedi altri corpi maciullati, altre rovine fumanti; tutti gridano, piangono, corrono… Arrivate al Quartier Generale, ti senti invecchiata di vent’anni, e il peggio deve ancora cominciare.

Le ore rotolano una dietro l’altra: le cose succedono a velocità vertiginosa, una dietro l’altra, si accavallano, eppure il tempo non passa mai, la situazione rimane disperata senza mai precipitare o migliorare. Arrivano notizie, bollettini passati di bocca in bocca: Tomas Wagner, caduto in azione; Mina Carolina, caduta in azione; Eren Jaeger, caduto in azione… Sei intontita, l’enormità delle informazioni ti lascia inebetita; Tomas, morto? Ma se avete diviso una sigaretta poche ore fa! E come può essere morto anche Eren? Nessuno odia i Titani quanto lui. Mikasa lo sa? Diventerà una furia! Non sarà mica morta anche lei?
Non possiamo morire! Ci hanno addestrato! Abbiamo l’equipaggiamento, conosciamo la strategia militare. Non possiamo morire noi. Si suppone che siamo quelli che difendono la popolazione. Dovremmo essere quelli più forti.
Dicono che siano entrati in azione anche i membri dell’élite. Bene, bene. Loro sono i migliori, la situazione migliorerà presto.
Dicono che sia comparso un Titano che sta attaccando altri Titani. Li fa a pezzi, dicono.
Ah, pensi. Siamo già alle frottole inventate per sollevare il morale. Allora forse non è vera neanche la notizia della squadra di Erwin.

Passa altro tempo. Siete stremati. Hai visto Ymir piangere di rabbia. Hai visto cadetti, maschi e femmine, acquattarsi a pisciare negli angoli all’interno dell’edificio per la paura di mettere il naso fuori.
Eppure, lentamente, l’agitazione cala. Soldati rientrano da varie zone della città, vivi! Arrivano carri che trasportano miliziani feriti e vengono allestiti i primi soccorsi. Tornano Jean, Reiner, Annie… I portoni del cortile interno vengono aperti, tutto il Quartier Generale si popola di soldati stanchi, confusi, con il viso grigio. Guardi Jean attaccarsi ad una borraccia e ti rendi conto di non aver mangiato né bevuto per tutto il giorno. Ti fa male la testa e ogni respiro ti raschia le pareti del naso. Quando risuona un colpo di cannone e vedi Annie e altri partire per investigare, gli tieni dietro senza pensare, tetto dopo tetto, con la testa vuota e nelle orecchie il rumore metallico dei cavi del DMT che si agganciano e si riavvolgono, si agganciano e si riavvolgono…

Poi vi fermate. Sotto di voi, un plotone improvvisato, lame sguainate, cannoni puntati. A cinquanta metri di distanza, in una buca come quelle lasciate dalle granate spunta il torso di un Titano, parzialmente decomposto e già fumante. Tra le costole dell’ abominio, Armin e Mikasa. Armin sta gridando qualcosa al Comandante della Polizia Cittadina; il sole si riflette su molte coppie di spade puntate verso la buca. Il loro riverbero di ferisce gli occhi. Alzi una mano a proteggerli. I barbagli ci sono ancora. La voce del comandante della guarnigione si accartoccia su se stessa come un disco su un fonografo difettoso e nessuno ci fa caso. Ti giri verso i tuoi compagni per vedere se se ne sono accorti e perdi i sensi.

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Capitolo 3
*** 3 - À terre ***


Riprendi i sensi nell’alveare di gemiti e mugugni dell’infermeria. Resti qualche minuto a guardare il soffitto adorno di ragnatele secolari aspettando, come ad ogni risveglio, che il riassunto dei recenti avvenimenti della tua vita ti scuota del tutto.
I recenti avvenimenti non ti deludono: scatti a sedere con tanta violenza da rischiare di darti una ginocchiata in fronte. Intorno a te, almeno un centinaio di feriti sistemati su letti, tavoli, coperte distese in terra. Ai feriti lievi è toccata una sedia. Ogni pochi secondi, la porta a due battenti si spalanca di nuovo e viene portato un nuovo ferito; la disposizione dei giacigli viene cambiata continuamente per cercare di ricavare più spazio per i nuovi arrivi. Infermiere controllano periodicamente tutti gli incoscienti per poter liberare tempestivamente i letti dai cadaveri.
Ti alzi, ti rimetti gli stivali e l’imbracatura di cuoio e ti avvii verso l’uscita. Ancor prima di aver raggiunto la porta senti una voce esclamare “Mettetelo qui, c’è un posto libero a terra!”

Vaghi per portici e corridoi in cerca di qualcuno che conosci. Ti rendi conto di aver perso conoscenza, ma non sai perché, né per quanto a lungo. Forse ti è arrivata una botta in testa, visto che ti fa un gran male.
Trovi Reiner, Jean, Sasha e Annie ai piedi della scala che porta al piano degli alloggi.
-Guardate: ella vive!- annuncia Reiner vedendoti arrivare.
-Così pare- replichi. –Qualcuno sa cosa mi sia successo? Mi hanno colpito in testa, per caso? Non mi ricordo un granchè.-
-Come no, è stata una vera imboscata- ti schernisce Annie. –No, a quanto pare hai fatto tutto da te: l’infermiera ha detto che ti sei sforzata troppo per essere a digiuno e senza aver bevuto…
-Vuoi dire che sono svenuta perché avevo un po’ di fame?!?
-Per quello, e perché sembra che tu ti stringa troppo le cinghie sul torace. Hanno detto che magari non te ne accorgevi nelle normali attività, ma con l’agitazione e la fatica di oggi ti stavi praticamente asfissiando.
Consideri attentamente le informazioni in tuo possesso prima di parlare di nuovo.
-Perciò… sono svenuta perché avevo sete e anche perché sono un’INCAPACE che non sa indossare a dovere l’uniforme regolamentare?
-Proprio così! – Interviene allegramente Jean. Sasha si sposta alle tue spalle e ti allenta la cinghia del pettorale, “per sicurezza”.
-Voialtri potreste anche spassarvela di meno – aggiunge rivolta agli altri due. - L’avete lasciata su quel tetto per quasi un’ora prima di riportarla indietro.
-Ah, grazie…
-Non hai idea di cosa stava succedendo- ti interrompe subito Annie. –Eren…
-Attenzione, reclute!- La voce appartiene ad un Caporale della Polizia Militare. Tutti scattate sull’attenti. Il Caporale procede ad informarvi che è necessario formare delle squadre che si occupino di perlustrare le strade del distretto per indirizzare eventuali civili fuori dalla zona pericolosa ed eliminare i Titani rimasti mentre la breccia nel Muro viene richiusa. Vi divide subito in pattuglie e vi ingiunge di partire immediatamente. 

Sasha ti ragguaglia su quello che ti sei persa mentre vi muovete sui tetti della città: il Titano che attacca gli altri Titani non è una frottola. Eren non è morto. Eren è il Titano che attacca i Titani. In questo momento è in corso un tentativo di tappare la breccia nel Muro Rose: Eren, sotto forma di Titano, dovrà chiudere il varco con un macigno.
Tempesti Sasha di domande: Eren può trasformarsi a comando? Come hanno fatto a capire che era lui invece di abbatterlo? Riesce a comunicare con le persone, in quella forma? E con i Titani?
Sasha non lo sa. Nessuno di voi ne sa un granché. Conoscete soltanto il vostro dovere: individuare sopravvissuti, scortarli al sicuro, individuare Titani, eliminarli.
Rientrate al Quartier Generale a notte fonda. Mentalmente, hai cominciato a tenere il conto di quanti Titani hai abbattuto. Sei a quota tre. Però non lo dici a nessuno, hai paura che sia una cosa troppo indelicata.

In refettorio hanno lasciato ceste di pane, formaggio e boccali di birra leggera per permettere a tutti i militari di rifocillarsi; una coppia di soldati, feriti in modo leggero, sorveglia che nessuno prenda più cibo degli altri. In fondo a un tavolo, in ombra, scorgi Armin. Sei seduta quasi all’altro capo del refettorio; vorresti parlargli, vorresti chiedergli che diavolo sta succedendo perché Armin, anche quando non ha risposte, sa sempre spiegare la situazione… Ma lui sembra così stanco: guarda il cibo davanti a sé e sembra non avere la forza di alzare il braccio per portarselo alla bocca; allora pensi che potresti sederti accanto a lui e tenergli semplicemente compagnia, senza assillarlo. Solo fargli capire che non è da solo.
Ma sei seduta quasi all’altro capo del refettorio, e alla fine devi ammettere che non ti avvicini a lui solo perché sei troppo stanca. Mangi il tuo formaggio senza più guardare Armin.

Non era previsto che così tanti militari alloggiassero al Quartier Generale: oltre al 104° Squadrone di Addestramento e alla Squadra Operazioni Speciali della Legione di Esplorazione sono state richiamate pattuglie da ogni distretto. Non ci sono letti per tutti, perciò dormite dove vi capita. Gli zaini con gli effetti personali di ogni recluta sono stati tutti ammassati nel magazzino del Quartier Generale per evitare furti, quindi non avete niente di vostro; le coperte servono ai malati d’infermeria, quindi tutti si sdraiano dove capita, sotto i mantelli d’ordinanza. Dormi per quella che ti sembra una mezz’ora, poi ti svegliano di nuovo. Un’altra ronda cittadina. Il tuo conteggio di Titani abbattuti sale a tre uccisioni personali e due assistite. Torni al Quartier Generale. Altro pane stantìo. La birra è finita, vi danno dell’acqua. Ti è venuta una piaga sulla schiena per gli strattoni delle cinghie quando ti agganci con il DMT. La breccia è stata richiusa, è sulla bocca di tutti; Eren Jaeger è stato preso in consegna dalla Legione Esplorativa, ma la Polizia Militare lo vuole morto, quindi gli faranno un processo. Ti addormenti con la fronte sul tavolo della mensa. Sogni di avere braccia enormi piene di feriti che devi portare in infermeria, ma pesano troppo e non riesci a trascinarli.
Il giorno dopo, dovete di nuovo uscire per le strade. Lasciate l’attrezzatura per il DMT in caserma, perché non vi servirà: il vostro compito è di identificare i cadaveri, qualunque cadavere che siate in grado di riconoscere.
Fa caldo, la primavera si avvia verso l’estate. Le strade sono invase di mosche. Vi danno delle pezze da legarvi su naso e bocca e delle compresse di foglie di menta da incollare con un grumo di pece sotto il naso, per l’odore. Funzionano per un paio d’ore.
C’è una squadra che porta via i corpi dei soldati e un’altra per quelli dei militari. Capita che qualcuno riconosca il corpo di un commilitone perché l’ha conosciuto nei giorni scorsi, ma che non si ricordi il suo nome. Allora vengono chiamati a raccolti tutti i commilitoni a portata d’orecchio e parte una grottesca gara d’ipotesi: si chiamava Micheal, mi pare. No, no, si chiamava Mitchell, ne sono sicuro, il cognome era qualcosa che aveva a che fare con la stoffa, con la sartoria… Mitchell Fabric? Mitchell Cloth? Dannazione, non mi ricordo.
Riconosci l’usciere del teatro in cui hai ballato in una delle date della tourneé. Te ne ricordi perché portò una rosa per ciascuna ballerina della compagnia. La moglie aveva un negozio di fiori, aveva detto, quindi non gli costavano niente. “Un fiore per un fiore!” L’aveva detto ad ognuna di voi. Era gentile, un uomo alto ma con il viso di un ometto gracile.
Non sai come si chiama, non ricordi il nome del teatro, sei in piedi da tredici ore. Quindi, non dici niente. Lo identificherà qualcun altro.
Marco è morto. Jean è sconvolto. Tutti lo piangono, anche tu. Perché? Non era un soldato straordinario, non era talentuoso,  né particolarmente brillante; non era il tipico ragazzo che non si dimentica facilmente. Ma che ti stai inventando? Certo che lo era: Marco era una persona buona. Era il tipico ragazzo che non si dimenticherà mai.

L’ispezione dei cadaveri va avanti per due giorni.

Poi, è finita. La breccia è chiusa, i cadaveri sono stati rimossi, i feriti sono sotto controllo. Le case verranno ricostruite. Avete vinto.
Nessuno festeggia.
Eren è scampato all’esecuzione, è stato preso in custodia da quello che chiamano lo “Squadrone Levi”. L’hanno portato non sai dove, a fare non sai cosa. Non t’interessa. Sei stanca. Vi danno il giorno libero e dormi per undici ore di fila.

La notte dell’Assegnazione il Comandante Erwin, un bell’uomo alto con occhi da gatto, fa un discorso appassionato sulla necessità di nuove reclute nella Legione Esplorativa. Non addolcisce la pillola: la pillola è amara, nera e grande come un pugno. La percentuale di morti, nella Legione, è altissima. La posta in gioco è la conoscenza sul mistero dei Titani. Non la pace, non la salvezza, non la promessa di una vita libera nel mondo esterno: solo la conoscenza, e da lì si parte da zero.
Quando ha finito di parlare, rimanete in pochi. Una ventina, forse meno. In molti hanno l’aria di non sapere cosa li stia tenendo inchiodati sul posto. Il Comandante, visibilmente commosso, scatta sull’attenti in rispetto alla vostra decisione e tutti rispondete all’unisono, con le spalle scosse dai singhiozzi, gli occhi gonfi di sonno e lacrime, il pugno piantato nel petto. Il saluto dell’esercito: il mio cuore per te.

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Capitolo 4
*** 4 - Allegro ***


Un paio di giorni dopo la Cerimonia di Assegnazione le vostre uniformi sono pronte, e passate una giornata a pavoneggiarvi nei vostri mantelli con lo stemma delle Ali della Libertà. Il mantello è di uno speciale tessuto resistente ai fluidi corrosivi dei Titani e, se da un lato è un comodo impermeabile, dall’altro è mortalmente pesante da portare con il clima mite d’inizio estate; ma la vanità la vince su tutto, e nessuno di voi rinuncia a sfoggiarlo per le strade di Trost nel giorno di libertà.
La vostra routine è scandita dalle normali incombenze della vita militare: ronde notturne, turni di guardia sulle mura, servizio di cambusa, pulizia del Quartier Generale. Sasha è un pericolo pubblico in cambusa, quindi cercate sempre di farvi assegnare in coppia con lei per menarle mestolate sulle mani quando cerca inevitabilmente di intascare vettovaglie; Jean, invece, tende a fare il gradasso durante le ronde e nessuno vuole stare in servizio con lui. Tu soffri di attacchi di noia soporifera in cima alle mura, e hai autorizzato chiunque a somministrarti sonore sventole alle orecchie quando ti appisoli.
Oltre alle regolari corveé, è iniziato anche l’addestramento per la missione di riconquista del Muro Maria che intraprenderete quando sarà di ritorno lo Squadrone Levi: lezioni di strategia militare e di equitazione si uniscono alle consuete esercitazioni al combattimento corpo a corpo e con il DMT. Avete tutti problemi con la strategia militare: sulla lavagna, gli schemi di formazione non sono che noiosi diagrammi di frecce e figure geometriche. Metterle in pratica a cavallo è ancora più astruso; Armin si affanna a darvi ripetizioni quando vi ritrovate tutti insieme a mensa, usando pezzi di pane e croste di formaggio come modellini di riferimento. Il fatto che Sasha ne mangi qualcuno sovrappensiero non aiuta.

Un bel giorno, la Squadra Operazioni Speciali torna al Quartier Generale. L’adrenalina vi sale alle orecchie di botto. Eren viene sommerso di abbracci, pacche sulle spalle, domande sulla sua condizione, sulla spedizione imminente, sulla vita nella legione. Questo, finché Jean non lo attacca al muro, domandandogli senza mezzi termini se valga la pena, per tutti voi, scommettere la vita su di lui.
Povero Eren: non avete mai legato un granché, ma ti sembra che aggredirlo a questo modo sia eccessivo. Tutti voi siete provati, forse segnati per sempre, dall’invasione dei Titani nella vostra vita; Eren, che forse li odia più di qualunque altro, è stato anche tradito dal proprio corpo. E’ abitato dalla forma che più detesta al mondo, e ora è costretto non solo a farci i conti, ma anche a prendersi la responsabilità di una missione costruita praticamente sulla sua pelle, senza precedenti, senza alcuna garanzia di successo. E’ pallido, tirato e spettinato, con l’aria di una pianta tenuta al buio.

Eravate convinti che, rientrata la Squadra Operazioni Speciali, la missione sarebbe partita in un paio di giorni. Invece, la sera del suo ritorno, Eren vi informa che ci sono ancora parecchi ingranaggi da oliare prima che si dia il via effettivo.
-Quindi ci toccano ancora chissà quanti turni alle latrine- commenta cupo Berthold, seduto sul pavimento della sala comune in cui vi siete tutti riuniti per aggiornarvi sugli avvenimenti più recenti.
-Ti dico, Fubar: li farei tutti io, i tuoi turni, tanto per cambiare- gli risponde Eren con un sorriso stanco. Anche lui è seduto sul pavimento. Seduta su una sedia alle sue spalle, Mikasa si dà da fare con un pettine sui suoi capelli, borbottando di quanto sia dimagrito e di come vorrebbe dirne quattro al Comandante Erwin.
-Non è colpa sua, Mikasa! Erwin neanche c’era, è rimasto qui tutto il tempo. Le cose erano in mano al Capitano Levi e al Caposquadra Hanji, e la pulizia personale a loro non interessa un granchè… cioè, non ad Hanji, almeno.
-E’ vero, ho sentito dire che questo Levi sia un po’ fissato col pulito- osservi.
-E’ un eufemismo- risponde Eren con una smorfia. –La base in cui ci hanno stanziato è un castello abbandonato. Un castello. Levi ce l’ha fatto pulire tutto. Due volte.
-Ha un’aria molto ordinata- commenta timidamente Christa. –Non mi dispiace guardare un uomo che non sembri passare tutte le notti in una stalla, ogni tanto.
-Questo la dice lunga sul tuo gusto in fatto di uomini- interviene Jean, sbracato su una sedia in quella che ritiene una posa virile e noncurante. –Scommetto che il Capitano Nano si improfuma più delle dame di corte.
-Io scommetto che si ricorda ancora di averti sentito chiamarlo “specie di nano”- ridacchia Armin. Jean si ricompone, a disagio.
-In effetti, le camicie che porta sono sempre bianchissime- dice Eren. –Dicono che se le lavi e stiri da sé; soprattutto la fusciacca che ha al collo.
-Un vero uomo, niente da dire- non resiste Jean. –E si ricama anche le iniziali sulla biancheria?
-Basta, Jean!- Sbotta Berthold. –L’abbiamo capito: non ti piace. Io voglio sentire altro! Eren: come sono gli altri membri della legione?
Eren si stringe nelle spalle, incerto –Sono… strani. Sono tutti gentili, più o meno, ma… Beh, immagino che con me non si comportino comunque in modo naturale. Ma, è come se li avessero riuniti per… beh, tenere tutti i soggetti pericolosi nello stesso posto.
-Di bene in meglio- ringhia Jean.
-Voglio dire- seguita Eren. –Va bene, il Capitano Levi è strano. Ma poi c’è il Caposquadra Hanji: lei è addetta a studiare i Titani, e fin qui niente di male. Insomma, qualcuno deve farlo. A lei però… sembra che i Titani piacciano. Sembra che gli voglia bene. Quando hanno ucciso i soggetti di studio… era disperata, piangeva.
-E noi siamo stati messi sotto inchiesta- mugugna Reiner.
-Gli vuole bene?!?- Non te ne capaciti. Niente in vita tua ti ha disgustato più ferocemente dei Titani; ti sembrano l’unico motivo dell’invenzione del termine “abominio”.
-Non ne sono sicuro, sia chiaro!- Si affretta a schernirsi Eren. –Ma di certo li studia con una grandissima passione. E indubbiamente è uno scienziato e un militare di grande talento. Anche gli altri membri dello Squadrone: sono la crema dell’esercito, le loro imprese le conoscono anche i bambini. E’ una fortuna che l’esercito possa contare su di loro…
-…ma? – Incalza Reiner.
-…ma a volte sembrano un po’ invasati. Se il Capitano Levi ha detto di fare così, allora faranno tutti così; se il Capitano Levi ha detto cosà, allora tutti dobbiamo credere cosà – sospira. –Magari sono io, magari non ho abbastanza spirito di squadra.
-O magari sono una manica di pazzi in mano a un pazzo- conclude Jean. –Un pazzo basso.
-Siamo rovinati- esala Sasha reclinandosi a terra.
-Eren,- interviene Mikasa per la prima volta, mettendo via il pettine e accarezzandogli i capelli. –C’è anche un’altra possibilità.
-Ovvero?
-Magari sanno quello che fanno. E andrà tutto bene.

Il giorno dopo, l’influenza del capo carismatico della Legione Esplorativa comincia a farsi sentire. Subito dopo la tromba della sveglia, Jean viene chiamato nell’ufficio del Capitano Levi. Jean si avvia, pallido in volto, e voi vi recate al rancio mattutino chiedendovi cosa vi racconterà al suo ritorno. Non avete occasione di scoprirlo, però, perché i servizi giornalieri vi sparpagliano tutti chi per la città, chi in caserma. A pranzo ti rivedi con Eren, ma neanche lui ha ancora rivisto Jean, e a breve sarà di nuovo tra le grinfie di Hanji.
Nel pomeriggio ti tocca un’esercitazione di combattimento aereo. Stavolta è Mikasa a mancare, ma il sergente istruttore non fa commenti. Due ore dopo, mentre stai riponendo l’attrezzatura per il DMT, un soldato della Polizia Militare ti annuncia che devi recarti nell’ufficio del Capitano Levi. Mentre ti avvii, attraversando la piazza d’armi nella luce densa del tramonto, ti aggiusti al meglio l’uniforme, ancora in disordine e chiazzata di sudore per l’esercizio nella calura pomeridiana e speri ardentemente che non si tratti di un’ispezione personale.
L’ufficio è al piano più alto dell’edificio; il soldato che ti ha scortata dà un colpetto alla porta chiusa e si rimette di guardia, schiena al muro.
-Avanti.

Superi la soglia di un passo, la richiudi e ti metti sull’attenti. Il Capitano Levi Ackerman, Speranza dell’Umanità e Più Potente Soldato del Mondo, è in maniche di camicia, seduto su una sedia piazzata davanti alla finestra. Di fronte a lui, su uno sgabello, è posato un catino di acqua saponosa in cui galleggia qualcosa di bianco. Quando sei entrata, Ackerman stava controllando controluce un rettangolo di stoffa pescato dal catino, con un’espressione di intensa concentrazione.
Rimani immobile, attendendo il permesso di rompere il saluto. Levi intinge di nuovo il panno nel catino e lo strofina meticolosamente tra i pollici, interrompendosi per esaminare la stoffa da vicino. Poi la alza di nuovo controluce. Poi la immerge ancora. Emette un “m-m-m” basso e secco, a labbra chiuse. Non ti presta la minima attenzione e tu cominci a sentirti a disagio. Forse potresti fingere un colpo di tosse.
-Sto lavando i miei fazzoletti da collo- annuncia all’improvviso, senza guardarti. –E tanto per risparmiare tempo a te e agli altri pivelli: sì, lavo personalmente anche le mie camicie e le rammendo, anche. Mi rilassa e sembra che nessuno a parte me sappia fare un punto decente.– Si alza, si asciuga le mani con un fazzoletto immacolato che teneva piegato sulla coscia e si porta dietro la scrivania. Ti fa cenno di avvicinarti e ti squadra, poi si siede e dà un’occhiata a dei fogli ordinatamente impilati davanti a sé.
-A quanto pare, sei l’ultima che mi mancava. Ringraziamo il cielo per questi piccoli miracoli. Soldato Valeshka… mi risparmio il tuo nome di battesimo. I tuoi genitori dovevano proprio avercela con te.
Non dici nulla. Levi alza lo sguardo su di te. E’ annoiato. Tutti parlano di quanto sia basso, ma la cosa che ti colpisce di più di lui e l’espressione di noia secolare che gli tiene le palpebre perennemente a mezz’asta.
-Siediti, Valeshka. Ora faremo un semplice esercizio; credi di poter eseguire un semplice esercizio?
-Sì, signore.
-Bene- sbadiglia, sistemando di fronte a sé un foglio pulito. –Adesso ti leggerò, in ordine alfabetico, i nomi dei tuoi compagni diplomati. Per ogni nome, devi dirmi la tua opinione su ognuno di loro, senza starci troppo a pensare. Non ti preoccupare di essere troppo diretta, le informazioni rimarranno riservate. Cominciamo: Ackerman, Mikasa.
-Perdonate, signore: dev’essere un’opinione personale o professionale?
Levi emette un lungo, lento, sofferto sospiro.
-Avevi detto che ci saresti riuscita, Valeshka. Io avevo detto che era un esercizio semplice, e tu avevi detto di poterci riuscire. Mi stavi mentendo, Valeshka?
-No, signore.
-Sei idiota, Valeshka?
Deglutisci.
-Solo rispetto a certa gente, signore.
Levi stringe gli occhi.
-La tua dannata opinione. Sui tuoi dannatissimi commilitoni. Ackerman, Mikasa.



L’elenco non è molto lungo; Levi non ti permette di articolare troppo le risposte per mantenere il ritmo serrato. Quando avete finito, asciuga l’inchiostro con un tampone e mette il foglio in cima agli altri. Poi si alza e si dirige all’uscita dell’ufficio; apre la porta e richiama l’attenzione del soldato di guardia.
-Prendi queste valutazioni dei cadetti della Legione Esplorativa e appendile nella sala comune. Ben visibili.
Ti vengono i sudori freddi. Mentre il soldato si allontana e Levi torna a sedersi alla scrivania, non riesci a trattenerti.
-Avevate detto che le informazioni sarebbero rimaste riservate, signore!
-Lo so. Era una balla.
Boccheggi, in cerca di qualcosa da dire che non ti costi la carriera o la testa, ma Levi ti anticipa.
-Lascia che ti sveli una grande, scomoda verità, Valeshka: tu e i tuoi compagni siete un branco di coglioni. Non avete spirito di squadra, non avete coesione, non avete dialogo. Riuscite a portare a termine un’esercitazione guidata e credete di avere esperienza; fate fuori un paio di Titani cagandovi nei pantaloni e vi convincete di avere un’intesa potente; e quando vi vengono le mestruazioni, vi insultate come un gruppo di pescivendole e vi raccontate di non avere peli sulla lingua. Sono cazzate: non avete idea di cosa state facendo e non vi conoscete affatto. Io non ho tempo da perdere per darvi modo di buttare alle ortiche le vostre cazzate personali e conoscervi come è necessario in uno squadrone militare. Se pensate che un collega abbia una debolezza e vi imbarazza dirvelo, quel soldato può morire. Non posso permettermi di perdere altri uomini, neanche del vostro infimo rango.
“Perciò vi ho cavato d’impaccio: su quei fogli ci sono le vostre opinioni più crude e istintive su ciascuno di voi. Tutte le carte in tavola. Discutete, scannatevi, non mi interessa. I segreti sono pericolosi, specialmente in mano ai pivelli.

Bussano alla porta. E’ Petra Ral, forse il braccio destro del Capitano. Ha con sé un vassoio di tè. Lo posa sulla scrivania del Capitano, che ti sta ancora fissando con le narici dilatate. Petra ti dà un’occhiata: sei impietrita sulla seria e ti sei dimenticata di chiudere la bocca. Lei fa un piccolo sorriso rassegnato.
-Vi ha fatto scrivere le valutazioni, non è vero? Non preoccuparti, Cadetto: l’ha fatto anche con noi. Vi aspettano un paio di giorni duri, ma è un metodo davvero efficace di instaurare spirito di gruppo – spinge la tazza di tè più vicino al Capitano, per distrarlo da te, e se ne va. Levi ti spedisce via con lei.

Fili diritta alla Sala Comune: meglio togliersi il dente. Ci sono diversi soldati, non solo del vostro squadrone, che leggono divertiti il contenuto dei fogli affissi al muro. Cerchi il tuo nome di foglio in foglio, per scoprire cosa pensano di te i tuoi compagni.
Secondo Mikasa sei eccellente nell’utilizzo del DMT, ma una combattente mediocre. Per Sasha sei “a posto, credo”; Reiner ti considera un po’ pigra nei servizi di caserma; Armin crede che ci sia qualcosa che blocca il tuo potenziale; e Jean ha dichiarato: “Con il DMT vola come un angelo, ma è una mezza ritardata”.
-Una mezza ritardata?!?-
-E sai una cosa? Quasi mi sentivo in colpa ad averlo detto, ma adesso sono proprio contento! Hai detto che sono uno che si fa più grosso di quel che è! Questa te la faccio pagare, Valeshka!
-Jean, ma che bisogno c’era di dire che ho i capelli di una bambinetta?- Interviene Armin.
-Ho anche detto che a parte quelli hai un gran cervello!- Si difende Jean.
-Io non penso solo al mangiare!- Sta gridando Sasha.
-Mikasa, praticamente hai criticato tutti!- Osserva Christa.
-Ho pensato di fare critica costruttiva- replica lei tranquillamente. –A differenza di Ymir, che non ha trovato di meglio da dire che ho la puzza sotto il naso.
-Ti sfido a trovarne uno che non la pensi come me.
-Ma veramente…
-Tu non fai testo, Arlert.
“Un paio di giorni duri”, ha detto Petra…

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Capitolo 5
*** 5 - Exercices au milieu ***


L’estate arriva e vi si rivolta contro: al caldo crescente a cui vi stavate abituando fa seguito una teoria di piogge torrenziali. La pioggia scroscia nel fresco pungente del mattino; si adagia nel pomeriggio, poco più che nebbia, mentre il sole dietro le nuvole tinge tutto di oro pallido; si infuria nuovamente la sera, rendendo l’aria pesante e facendo dolere la testa.
Le lezioni teoriche e di strategia diventano una battaglia tra la sonnolenza e l’umidità che entra nelle ossa e fa battere i denti. Il quartier generale è un edificio vecchio, e le aule sono stanze dagli alti soffitti in cui non è mai stato emesso un fiato che non si sia trasformato in una nuvoletta. Le attività pratiche sono anche peggiori: se prima temevi i turni di guardia sulle mura per paura di addormentarti dalla noia, adesso sono diventati un supplizio di ore passate a sbirciare tra i rigoli d’acqua che ti scorre dal bordo del cappuccio. A qualunque ora del giorno e della notte siete umidi, quando non siete fradici. Scoppiano epidemie di raffreddori e febbriciattole alle quali vi tocca tener testa: non si assegnano licenze per così poco, certamente non ai nuovi cadetti della Legione Esplorativa. Per voi ci sono marce al mattino presto, esercitazioni a sorpresa durante la notte, combattimenti simulati in tutte le salse. Eren è l’ombra di sé stesso, passa dal servizio ordinario agli esperimenti di Hanji, che sta cercando in tutti i modi di provocare in lui una mutazione a comando.
-Ho il terrore che un giorno mi trasformerò in Titano e me la mangerò solo per l’esasperazione.- Sospira.
Avete fatto conoscenza con tutti i membri della Squadra Operazioni Speciali: dal giorno del loro rientro vi esercitate con loro. Sono tutti combattenti micidiali, e i combattimenti simulati sono una strage. Hanno l’abitudine di osservare in disparte mentre fate sparring di corpo a corpo, e poi improvvisamente uno o l’altro di loro si gettano nella mischia e attaccano qualcuno a caso. Erd, in particolare, piomba come un maglio sul malcapitato di turno, con tutto il peso della spalla. Anche quando riuscite a vederlo arrivare, resistere all’impatto è quasi impossibile, e lo scontro finisce inevitabilmente con lui che ti si siede sul petto e ti punta il pugnale di legno alla gola, con un sorriso quasi intenerito.
Petra, invece, è veloce e aggraziata in ogni sua mossa: si acquatta e scatta in aria come una molla. I suoi attacchi sono rapidi e silenziosi, come quelli di un gatto, e quando viene atterrata afferra un piede dell’avversario e vi sbilancia. In breve, vi ritrovate di nuovo pesti e doloranti come nei giorni dell’addestramento. Levi partecipa raramente alle esercitazioni, e quando lo fa, combattere con lui e morire d’infarto sono la stessa cosa: non lo si sente arrivare, non lo si vede colpire. Semplicemente, uno sente un dolore lancinante e cade a terra. Gli piace particolarmente colpire il muscolo del deltoide, tra collo e spalla; gli altri membri anziani della squadra mirano principalmente a sbilanciarvi e sottomettervi. Invece Levi colpisce per far male. Sempre. Poi volta le spalle e si allontana. “Da capo”, ordina.
Anche nelle esercitazioni con il DMT segue lo stesso schema: i combattimenti si tengono in un bosco artificiale a un paio d’ore a cavallo dal Quartier Generale. Grosse sagome di legno, delle dimensioni delle varie classi di Titani, sono disseminate per il territorio e quelli di voi non impegnati nel combattimento hanno il compito di rizzarle all’improvviso e ruotarle sul loro asse per mezzo di corde e pulegge mentre gli ingaggiati sfrecciano tra gli alberi. Conoscete queste sagome, ce n’erano anche al campo d’addestramento. Quello che capita è che, mentre siete impegnati nella messa in atto di questo o quel piano strategico, Levi piombi da chissà dove e affetti la nuca della sagoma. “Troppo lenti ”. Poi, con un colpo di reni, si riporta in alto e sparisce tra i rami. Ha anche l’abitudine di menare calci agli agganci dei cavi mentre siete in volo, per scalzare gli arpioni che non sono ben fissati. Se chi sta cadendo ha la prontezza di riavvolgere i cavi e trovare un altro appiglio al volo, bene; altrimenti, una volta a terra, Levi atterrerà accanto a te e ti menerà un pugno sulla testa.
Ma non riuscite ad odiarlo. Non abbastanza, ad ogni modo, perché vedere Levi in azione è qualcosa che toglie la parola. E’ una scheggia, preciso, silenzioso, pulito. E anche se siete intimamente –e sconsolatamente- sicuri che non riuscirete mai ad eguagliarlo, quantomeno pensate che se c’è qualcuno che può permettersi di esigere di più da voi è proprio lui.

Solo Mikasa è immune al suo magnetismo: dal giorno del processo di Eren, Mikasa odia Levi con un ardore inestinguibile, reso ancor più visibile dal fatto che è l’unica in grado a tenergli testa sul piano tecnico. E’ stata l’unica, finora, che è stata capace di intercettare l’affondo alla spalla di Levi e piegargli il braccio dietro la schiena. La reazione del Capitano è stata quella di scattare indietro e caderle addosso con tutto il peso; tutto il corpo dei cadetti ha trattenuto il fiato e per la prima volta nella storia della Legione qualcuno ha temuto per la vita di Levi. Gli occhi di Mikasa stavano per schizzarle dalla testa dall’odio. Ma è rimasta a terra e non ha reagito, neanche quando Levi si è rialzato a sedere su di lei con tutta la flemma del mondo. Quando siete rientrati in caserma, quella sera, Mikasa tremava ancora di rabbia, e nessuno ha avuto il coraggio di rivolgerle la parola.
-Se fossi in Levi, mi sbrigherei a scoparmela prima che mi ammazzi.- Commenta Jean, ben lontano dalle orecchie di Mikasa.
-Che ragionamento sarebbe?- chiede Christa.
-La tensione è tensione- replica lui. –Rabbia e sesso sono molto simili, e io preferirei metterla buona a letto, prima che decida di rompermi il culo a calci.
-Jean, sei volgare.- Commenta Armin. Però non smentisce.

Non partecipi molto a queste discussioni. In questi giorni hai un problema più grave: le tue articolazioni sono a pezzi. La professione di ballerina spinge il corpo a movimenti innaturali, al limite delle possibilità del corpo umano, e dopo diciassette anni di pratica sei fortunata a non avere ancora l’artrite come è già successo ad altre come te. Ma questo tempo umido e piovoso ti sta uccidendo, le ginocchia scricchiolano come se fossero piene di ghiaia, le anche e le spalle mandano schiocchi sonori se le muovi troppo in fretta.
Così, per riuscire a tenere il passo con gli altri, ogni mattina ti alzi un’ora prima della sveglia. Non è ancora l’alba, ma il cielo estivo, anche se coperto di nuvole, è abbastanza chiaro da vederci. Scalza, scendi dal letto ed esci in punta di piedi dalle camerate. I primi passi, giù dal letto e fuori dalla porta, sono quelli di una vecchia; corti, rigidi, incerti, le dita dei piedi rattrappite. Un passetto dopo l’altro attraversi la piazza d’armi, di un azzurro livido nel primissimo mattino, e raggiungi la palestra per gli allenamenti al chiuso, un ambiente enorme, con attrezzi ginnici e ballatoi lungo le pareti, a tre metri d’altezza dal pavimento. Ti porti al centro esatto della stanza, respiri a lungo. E cominci.
Ruoti il busto, lo inclini. Ti allunghi in alto, ti chini a toccare con i palmi in terra. Ancora. Ancora. Ancora, finchè non senti abbastanza caldo da poterti togliere la lunga camicia da notte in lana grigia, in dotazione all’esercito.
C’è uno specchio, in fondo alla sala, sporco e annerito. Lo si usa raramente, per controllare gli esercizi. Ti scorgi a malapena in lontananza, una sagoma appena rosea. Sai di avere pochi fianchi, poco seno, pochi capelli: meglio vedersi da lontano, meglio non vedersi affatto.
Alzi le braccia in primo port de bras e puoi cominciare gli esercizi al centro: pliès, degagès, battemant tendu… quanti nomi. Te li ricordi ancora tutti, e se qualcuno ti chiedesse cosa significano non sapresti spiegare, solo mostrare, alzarti sulle punte e danzare.
Développè. Tieni l’equilibrio. La tua gamba si alza, precisa, diritta, fino alla testa. Respira, bilanciati, abbassa. E ripeti. Ancora. Non danzi più. Questi movimenti non sono più musica, sono una ginnastica, ripetitiva, stancante, senza la quale non saresti in grado di infilarti gli stivali senza grugnire.
Failli, dal primo arabèsque; braccia in seconda, quarto arabèsque. A volte, quando hai finito e i muscoli sono finalmente fluidi, accenni qualche passo. Ma non c’è musica ad accompagnarti, nemmeno il vecchio pianoforte della tua prima scuola, con quel paio di tasti che non ne volevano sapere di accordarsi. C’è solo il ritmo del respiro, il tonfo dei piedi quando atterri da un salto e quella sagoma rosea nello specchio lontano. Ti vergogni. Ti rivesti e torni alla chetichella ai vostri quartieri.
All’adunata, sei sempre la prima.

Un’altra giornata piovosa; un altro combattimento corpo a corpo. La piazza d’armi è piena di pozzanghere, l’acciottolato del lastrico è scivoloso e infido, a volte qualcuno scivola. Gunther, Levi e il Comandante Erwin supervisionano i vostri movimenti. Sei nervosa alla vista del Comandante, perché una volta ti è sembrato di vederlo sul ballatoio mentre facevi i tuoi esercizi. Da allora cerchi di alzarti ancora prima per non farti scoprire.
Sei in coppia con Connie. Ti piace sempre fare sparring con Connie, perché l’assenza di competizione che c’è fra di voi vi consente di dare il meglio a mente sgombra; inoltre, lui lavora principalmente di braccia e tu di gambe, il che rende il lavoro più interessante. Combattere con lui è come essere due cuccioli che si azzuffano.
Pugnale in mano, fa una finta al tuo fianco destro, scarta e cala un fendente dall’alto. Lo schivi senza spostare i piedi, ti acquatti e falci in direzione delle sue caviglie con un calcio girato rasoterra, ma lui salta la tua gamba e lo slancio ti porta a fare un giro su te stessa. E alle tue spalle c’è Levi col pugnale alzato. Scatti in piedi sulla gamba d’appoggio, mentre imprimi nuova spinta alla gamba che stava ruotando per alzarla in verticale e calciare via il pugnale dalla mano del Capitano.
-L’ho disarmato!- Escalmi, completamente incredula. Esulti per poco tempo: senza perdere un secondo, Levi ti afferra la caviglia alzata e spinge verso terra. Pieghi il ginocchio per attutire la caduta e lo trascini a terra con te. Sei sdraiata con la gamba sinistra piegata sotto di te, e Levi ti spinge fino a portarti le spalle a terra. Ti monta addosso e continua a spingerti indietro la caviglia finchè la punta del tuo stivale tocca il selciato dietro la tua testa.
-Capitano, così la rompe!- Non riesce a trattenersi Connie. Levi non gli bada. Si china verso il tuo orecchio e sibila:
-Non voglio che i miei uomini sprechino ore di sonno e siano distratti quando ho bisogno di loro. Puoi fare piroette nel tuo giorno libero, ballerina.- Ti imprime uno scossone mentre si rialza e se ne va, tirandosi il cappuccio sulla testa. Connie ti aiuta a rialzarti.

Passi la notte a rigirarti. Se il Capitano ti prende di mira, la tua vita diventerà un inferno, e intendi letteralmente il resto della tua vita, che potrebbe essere molto breve, peraltro. Quando la luce dietro i vetri piombati delle finestre comincia a schiarire, strisci sconsolata fuori dal letto. Non riesci a dormire comunque, tanto vale andare in palestra: le giunture ti fanno doppiamente male per l’umidità e il combattimento del pomeriggio precedente. Infili un paio di calze per proteggere i piedi dalle pietre fredde del pavimento e arranchi fino alla porta, sperando che gli scricchiolii delle tue ginocchia non sveglino nessuno.
Fuori dalla porta della vostra stanza, appoggiato al muro dirimpetto del corridoio, c’è il Capitano Levi. Ti guarda senza dire una parola, ma le sue sopracciglia si sollevano sempre di più ogni secondo che passa.
Richiudi piano la porta e torni a letto.

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Capitolo 6
*** 6 - Pas de Deux ***


-Cadetto, modera i termini!
Chiedi scusa tra i denti ai soldati di turno in lavanderia: agitando il bastone da bucato per mescolare i panni nel mastello di acqua bollente te ne sei schizzata un po’ addosso e hai lasciato partire una sonora bestemmia. La corveè di lavanderia non è male, di regola; soprattutto d’inverno o di sera, quando l’energia scema, è piacevole starsene per qualche ora con le braccia nella saponata calda. Ma è estate, e anche se piove fa caldo: il clima nella lavanderia è soffocante. Inoltre, sei in consegna per tutto il giorno lì dentro, quindi il lavoro ti risulta doppiamente sgradevole.
Come temevi, Levi ha deciso di tenerti d’occhio: negli ultimi tre giorni sei stata ripresa, rimproverata e schernita e ogni mattina, quando hai provato a mettere il naso fuori dalla porta della camerata, il Capitano era appoggiato al muro di fronte, pronto a farti un sarcastico cenno di saluto.
Le giunture ti fanno impazzire: te le fasci strette, ma questo impaccia i movimenti quel tanto da renderti imprecisa nei movimenti, il che scatena altri commenti taglienti. Se prima ti sentivi umiliata e vergognosa che il tuo passato gettasse un’ombra sulla tua carriera militare, adesso ti senti seriamente presa per i fondelli. La scorsa notte, esasperata e resa insonne dal dolore alla schiena, alle spalle, alle ginocchia, sei uscita dalla camerata quando era ancora buio fitto. Come speravi, il tuo aguzzino non aveva ancora montato la guardia e sei riuscita a raggiungere la palestra della caserma. Le torce ardevano ancora nella piazza d’armi quando hai aperto la porticina ritagliata negli imponenti doppi battenti dell’edificio e sei scivolata dentro. I tuoi occhi non  si erano ancora abituati all’oscurità della palestra non illuminata, e hai fatto un salto di mezzo metro quando qualcosa di duro ti ha colpito all’addome, rimbalzando in terra in una serie di colpi sordi.
-Visto che dormire ti annoia così tanto, vediamo di mettere a frutto il tempo sprecato.
Ancora prima di mettere a fuoco cosa ti circondava, hai riconosciuto la voce di Levi.
-Raccogli la spada. A meno che tu non preferisca insegnarmi a ballare la giga.
Ti irrigidisci e prendi un profondo respiro.
-Capitano, dovete ascoltarmi…
Una sagoma indistinta spicca la corsa verso di te. D’istinto ti abbassi, trovi a tentoni la spada di legno da allenamento e alzi la guardia appena prima che un colpo ci si abbatta contro.
-Non devo fare proprio niente, Valeshka – Levi mena un fendente e pari anche quello, mentre le tue braccia protestano a gran voce. –Sei insubordinata- un altro colpo. –Arrogante. E sprechi. Il mio. Tempo.
I colpi piovono. Ansimi, impacciata dal camicione da notte, frastornata dalla sagoma bianca che ti balla intorno: un lembo di camicia, un taglio di luce su uno zigomo, il colpo di un tacco sul pavimento e ti arriva una botta alla spalla. Indietreggi alla cieca. Hai paura che ti pesti i piedi scalzi; conoscendolo, potrebbe farlo di proposito.
-Ci vedi così male, al buio? Potrebbe essere un problema. Forse è meglio che lasci l’esercito. Forse dovresti tornare a casa a farti ingravidare!
Si abbassa mena un fendente alle gambe. Lo salti, ma atterri sull’orlo della camicia da notte e cadi all’indietro. Batti la testa, vedi le stelle.
-Annoda la camicia.
Ti tiri a sedere. Levi, ancora una macchia biancastra nell’oscurità, raccoglie la tua spada e te la porge.
-In piedi. Da capo.
-NO!
Silenzio. Levi si accoscia al tuo livello.
-“No” è una cosa fottutamente stupida da dire al tuo Capitano, Valeshka.
-Quello che faccio quando non sono in servizio è affare mio. Non ho interferito con niente, non ho nuociuto a nessuno e se voi avete deciso di sorvegliarmi durante la notte non è una mia responsabilità!
-RACCOGLI QUELLA CAZZO DI SPADA. SUBITO!
Avete continuato a combattere. Hai fatto un nodo alla camicia da notte per non inciamparci più. Sei riuscita a non farti pestare le dita dei piedi. Levi ha lasciato che si sciogliessi le fasce alle ginocchia e alle caviglie senza fare domande.
Lentamente, è diventata una cosa impersonale. Le palpebre del Capitano si sono riabbassate al livello abituale. Ha cominciato a darti indicazioni come durante un qualunque allenamento: “Abbassa quella spalla. Gira il polso. Se chiudi troppo la guardia, lasci scoperta la schiena”. Giureresti che si è scordato di essere arrabbiato con te. Ma poi ti chiude in una chiave articolare bloccandoti le braccia nei gomiti e spingendoli la testa in avanti e ti ridacchia all’orecchio: “Questo succede a non dormire abbastanza”.
-Neanche voi dormite, però!- Tiri una pedata all’indirizzo del suo ginocchio e lo sbilanci abbastanza da scagliarlo in avanti e rovesciarti su di lui, ma lui fa in tempo a chiuderti i polsi in una mano.
-Mai stato un dormiglione- ribatte rapido prima di schiacciarli in terra sotto tutto il suo peso. Malgrado il dolore, riesci a girare un calcio verso il suo collo. Per evitarlo, è costretto a lasciarti andare, ma fa in tempo a raccogliere anche la tua spada e puntartele entrambe contro.
-Hai perso.
Sei coperta di sudore e polvere e ammaccata in una dozzina di punti diversi. I polsi ti fanno così male da avere le mani intorpidite.
-Sissignore.
-Sei morta.
-Questo no, signore.
Levi si tira indietro i capelli bagnati di sudore, poi si dà un’occhiata alla mano con aria disgustata.
-Sta per suonare la sveglia. Raccogli quelle bende e passa a mettere la divisa. Sei consegnata in lavanderia per tutta la giornata.

Otto ore più tardi, le tue mani sono carne da bollito. Straordinario, pensi, come nell’esercito anche lavare i calzini sia qualcosa che ti spacca la schiena.
Avresti dovuto essere fuori con gli altri. Ora sei rimasta sicuramente indietro e verrai derisa di nuovo.
-Non te la prendere, Cadetto- ti consola un altro soldato mentre, finalmente, vi togliete i grembiuli e li appendete alla rastrelliera. –C’è gente che viene spedita qui direttamente dalla cambusa perché Sua Signoria ha trovato una ditata su un bicchiere.
Non è la stessa cosa, pensi.

Avete perso il rancio serale, ma vi hanno lasciato qualcosa da parte in cambusa. Gli altri soldati spazzolano tutto e ripartono verso le camerate, ma tu sei troppo stanca, e mangi lentamente. Il sonno mancato si fa sentire. Rabbrividisci: non hai avuto modo di lavarti, stamattina e il sudore ti si è freddato addosso. Poi, in lavanderia, hai sudato di nuovo, e ora ti sei raffreddata ancora. Sei sporca, appicicaticcia e puzzi.
Vuoi un bagno. Non ne fai uno da quando ti sei arruolata. All’improvviso senti che morirai se non riuscirai ad immergere il tuo intero corpo nell’acqua calda almeno un’altra volta, prima di diventare la merenda di un Titano.
La cambusa è vuota, ma il fuoco nella stufa viene tenuto acceso tutta la notte per risparmiare tempo. La pompa è nell’orto, oltre la porta sul retro. C’è un enorme mastello per mettere a mollo le verdure.

Mezz’ora dopo, il mastello è pieno d’acqua fumante. Le tue orecchie sono talmente tese verso i rumori della caserma che vorresti potertele staccare e mandarle di guardia fuori dalla porta, ma tutto tace. Ti liberi dell’uniforme e hai già un piede nell’acqua quando senti dei passi svelti, e la porta della cambusa si apre.
E’ Sasha.
-Cosacifainudaincucina?!?
-Sasha, ti prego! Ti supplico, ti scongiuro, sono già abbastanza nei guai, non dire a nessuno che sono qui.- la implori, mentre ti tuffi nel mastello per sottrarti allo sguardo sconcertato di lei.
-Ma sei matta? Se ti scoprono? Se mi scoprono con te?
-Neanche tu dovresti essere in cucina a quest’ora, mi pare.
-Eh… ma io…- balbetta lei.
-Ascolta: c’è un piatto di avanzi di carne nella ghiacciaia. Ce li hanno dati stasera, domani ci faranno il brodo. Bastano per comprare il tuo silenzio?
Basteranno: Sasha è già alla ghiacciaia. Staccando bocconi da una braciola dura come una scarpa, si siede sul lungo tavolo di legno annerito che corre in mezzo al locale.
-Mi hanno detto che sei stata consegnata, oggi non ti s’è vista.
-Sì,- sospiri. –Levi mi ha presa di mira.
-Ma no, quello ce l’ha con tutti. Ha già dato punizioni a metà della nostra squadra: io ho lucidato tutti gli stivali dello squadrone ieri, ricordi? Perché ho agganciato male la bombola al DMT.
-Sì, per poco non cade in testa a Berthold. Ma io non ho infranto nessuna regola, tecnicamente.
-E che hai fatto?
-Diciamo che per i suoi gusti non dormo abbastanza.
Sasha diventa vagamente rossa
-Mmm… stai dicendo che…?
-Ma no, niente di quello che puoi pensare. Mi alzo prima del tempo per allenarmi, ecco. E a lui non piace.- Brontoli, strofinandoti vigorosamente con il blocco di sapone per i piatti.
-In effetti… dovrebbe essere una cosa positiva che ti alleni anche per conto tuo. Ma il Capitano è un maniaco del controllo: se tutto non viene fatto come vuole lui e quando vuo…
D’improvviso la voce di Sasha si affievolisce fino a scomparire. Ti giri a guadarla allamata e scopri che ha perso colore e ha gli occhi sbarrati.
-Sasha? Che succede?
In quella, dei passi si avvicinano alla porta.
-…mi sono ricordata perché ero venuta in cucina.- Pigola Sasha.

Levi entra sbattendo la porta: “Braus, non credevo che fossi così idiota da non saper preparare un tè”.
Tu e Sasha scattate in piedi sull’attenti. Levi si blocca. Sasha ti guarda. Levi ti guarda. Ti reimmergi lentamente nel mastello.
Levi si appoggia alla porta chiusa e si pinza la base del naso con le mani, aggrottando le sopracciglia.
-Braus,- dice infine, con voce pericolosamente controllata. –Fuori di qui.
Sasha scappa dalla porta sul retro. Tu rimani a fissare le tue ginocchia che spuntano dall’acqua.
Levi rimane zitto per diverso tempo, senza aprire gli occhi e senza togliersi la mano dalla faccia.  Alla fine, dice:
-E va bene, Valeshka: stamattina mi ha detto che dovevo ascoltarti. Ti ascolto. Spiegami per quale cazzo di motivo ti ostini a scappare dal letto; spiegami perché stai facendo il bagno in cambusa. Spiegami perché non dovrei prenderti a calci in culo per una settimana.
Presa questa risoluzione, si stacca dalla porta e si porta alla stufa. Lo senti mettere a bollire dell’acqua.
-Sono stata una ballerina professionista per nove anni, signore.
-Questo significa che vuoi anche un mazzo di rose e un camerino personale?
-La danza rinforza i muscoli, ma rovina tutto il resto. Se il tempo è freddo, o umido, le giunture mi fanno male. Molto male. Non voglio che questo interferisca con le mie prestazioni, per questo mi alzo prima del tempo: quegli esercizi mi permettono di muovermi senza dolore.
-Hmmm.
-Mi basta farli solo al mattino, signore. Poi sono a posto.
Levi fa il giro della stanza e si porta dal tuo lato. Con la tazza di tè in mano, si appoggia al tavolo. Soffia sul liquido per qualche secondo. Non sembra essere disturbato dalla tua vista, mentre tu cerchi discretamente di fare più schiuma che puoi per coprire la superficie dell’acqua.
-Quindi eri una ballerina.
-Sì, signore.
-Credevo che le ballerine dovessero essere bellissime.
Il commento non ti tocca.
-Sul palco lo diventavo, signore. Sapete anche voi come funziona.
-Davvero?
-Voi siete molto basso, ma quando combattete diventate immenso.
Ti lancia un’occhiata in tralice.
-Sei piuttosto insolente, Valeshka.
-Può darsi, signore, ma è vero che siete basso.
Questa volta si gira a considerarti. Cerchi di sprofondare nel mastello più che puoi.
-Stai cercando di dimostrare che non ti faccio paura?
-Ho paura di non avere il vostro rispetto, signore, ma non ho paura di voi. Spero che non fraintendiate.
-Illuminami.
Cerchi di raccogliere le idee. L’acqua si sta raffreddando, ti sta venendo la pelle d’oca. Levi se ne accorge e senza dire nulla recupera il bollitore con il resto dell’acqua calda e la versa nel mastello.
-Grazie, signore.
-Sto aspettando, Valeshka.
-Sono una ballerina, signore.
-Il concetto mi è chiaro abbastanza.
-Una ballerina viene giudicata duramente fin dalla più tenera età. Ci si aspetta la perfezione da te in ogni movimento, anche il più piccolo. Una bambina di quattro anni può sentirsi chiamare “vacca incapace” anche venti volte al giorno. E se sbagli qualcosa, la rifai finché non viene perfetta. Se nel frattempo ti sanguinano i piedi o ti rompi un dito, pazienza. Quindi sono abituata, signore: agli insulti e alle punizioni. Anzi, l’esercito è meglio, in un certo senso: almeno qui dobbiamo essere perfetti per una ragione seria.
-Allora ballare non ti piaceva.
-No, signore: adoravo ballare.
-…adoravi ballare.- Ripete. Lo sbirci: sembra molto assorto. –Perché l’esercito?
-Un incidente durante l’invasione di Muro Maria. La mia carriera era finita. Mi sono arruolata.
-Un lavoro come un altro, eh?
-All’inizio, signore. Signore, posso…? L’acqua è gelata.
Levi si volta mentre esci e ti asciughi con un canovaccio da cucina. Mentre ti rivesti, ti chiede:
-Poi, cos’è successo?
-Poi ho visto un Titano da vicino.
Lui non replica.
-Conoscevo una ragazza,- continui – che aveva il terrore delle cavallette. Diceva che non sopportava come si muovevano, che la terrorizzava il fatto che non sapesse mai in che direzione stessero per saltare. Ma la cosa strana è che quando vedeva una cavalletta, anche se ne aveva paura, lei non scappava: doveva ucciderla. Diventava una furia. Per me è una cosa simile.
-Posso voltarmi, ora?
-Sì, signore.- Ti stai infilando la maglia nei calzoni. Levi ti osserva, con la tazza ancora in mano. Quando ti sei infilata la giacca, posa la tazza sul tavolo e senza una parola ti pareggia i risvolti delle maniche e ti aggiusta i baveri. Ti accorgi che stai facendo caso al suo odore.
-Valeshka.
-Signore?- Alzi gli occhi a guardarlo. Siete alti uguali.
-Ti permettevano di ballare con quei capelli?
-Ah, no, signore. Li ho rasati il giorno in cui mi sono arruolata. Li sto facendo ricrescere, ma è lunga…
Getta uno sguardo critico ai ciuffi che ti stanno ritti in testa.
-Perché rasarli?
-Erano la cosa più da ballerina che avevo, signore.
-Quelli, eh?- Levi si allontana e sciacqua con cura la tazza, poi la mette a scolare.
-Bene,- conclude –puoi tornare a fare i tuoi balletti mattutini.
-Grazie, signore. Non sono balletti, signore.
-Ma mettiti qualcosa addosso, per quando ti togli la camicia da notte. Gli spifferi sono pericolosi.
Vorresti strapparti gli occhi per la vergogna.
-Un’altra cosa.
-Signore?
-Usa l’acqua del mastello per annaffiare le piante dell’orto, oltre la porta sul retro. Non vogliamo sprechi. Poi torna qui e asciuga il pavimento.
Ti cascano le braccia. –Sarò sporca da capo, una volta finito.- commenti sgomenta.
-Già.- Commenta lui uscendo. -È una cosa che mi manda ai matti.-

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Capitolo 7
*** 7 - Coupé ***


Solo la pioggia porta la salvezza.
Non ricordi chi lo diceva sempre, forse una delle donne di servizio nella casa in cui sei cresciuta. Hai la vaga memoria di una voce anziana, forse un po’ querula, che non ti permetteva di lagnarti del tempaccio. Qualcosa a proposito della neve che nasconde la verità, e del sole che rende gli uomini peccatori. Massime contadine, forse; pretesti per non lamentarsi di una vita comunque faticosa.
Stanotte, in piedi sotto un cielo risolutamente sereno, ti torna in mente quella frase e le dai ragione.

Tre giorni fa, il tempo ha cominciato a migliorare. I preparativi per la missione verso il Muro Maria sono ricominciati, dapprima esitanti, poi sempre più serrati man mano che le nuvole lasciavano il cielo più risolutamente. La mattina prima della partenza, la caserma brulicava di attività: venivano preparate provviste, i cavalli venivano ferrati, le attrezzature controllate e ricontrollate. Vi hanno sottoposti a una rivista meticolosa durante la quale Levi ha criticato lo stato dei vostri stivali e ogni minima piega delle vostre camicie, mentre il Comandante Erwin, alle sue spalle, esibiva un’espressione di divertita esasperazione. Tutte le reclute del 104° hanno cominciato a sperimentare manifestazioni di nervosismo: tic facciali, irritabilità, stomaco chiuso. Christa non dorme, Sasha –incredibilmente- non mangia, Jean si lamenta a gran voce che non va di corpo. Siete stati dispensati dalle esercitazioni quotidiane per ripassare ancora e ancora il piano della missione, e la forzata inattività vi rende ulteriormente frustrati. La sera prima della partenza, nella Sala Comune i soldati della Guardia Stazionaria si mantengono a distanza di un metro dal vostro gruppo, che ha preso possesso di un divano in un angolo. Ci entrerebbero solo tre persone, ma ci siete ammucchiati sopra e intorno come se vi impedisse di affogare. Nessuno parla: Christa è seduta sulle ginocchia di Ymir, che le tiene il naso affondato nei capelli con aria assente. Seduto sul bracciolo tra Ymir e il muro, Berthold torreggia sul gruppo, la testa incassata nelle spalle mentre rilegge una lettera dall’aria sgualcita. Reiner, al centro del divano, è stato inghiottito tra i due cuscini, ma riesce lo stesso a far ballare una gamba incontrollabilmente. Ogni tanto Connie, al suo fianco, gli abbatte una mano sul ginocchio per fermarlo, ma dopo un secondo Reiner ricomincia.
-Basta, Reiner! Guarda che te la taglio!
-Non tentarmi. Mi sto ripetendo che devo tenere duro, ma un congedo per invalidità adesso sembra così allettante…
Tu sei seduta sull’altro bracciolo, alle spalle di Reiner, e osservi il terzetto ai tuoi piedi: Armin, Eren e Mikasa sono sul pavimento, in cerchio. Armin ha in mano un foglio di carta su cui ha schizzato il diagramma della formazione che dovrete tenere domani, e lo studia da quando si è seduto; Mikasa ed Eren, seduti uno di fronte all’altro, si guardano senza fiatare da un tempo interminabile, le fronti che quasi si toccano. In questo gruppo di persone furiosamente chiuse in sé stesse, ciascuno con la propria paura, il dialogo silenzioso tra quei due è come una potente corrente di energia. E’ un’immagine troppo intima, e distogli lo sguardo: ai piedi di Berthold, la schiena contro il muro, Sasha cava di tasca un cartoccetto e lo svolge lentamente. Contiene qualche zolletta di zucchero.
-Beh, dovrei chiederti dove hai preso quelle, Sasha, ma francamente sono sollevato che tu sia tornata in te: non vederti mangiare era troppo strano.- Commenta Connie. Sasha scuote la testa, senza guardarlo.
-Non sono per me, sono per Andalus. Sai che è un po’ ombroso, e ho pensato che se mi porto qualche zolletta andremo più d’accordo… non voglio essere disarcionata fuori dalle mura.
Connie annuisce approvando. Torna il silenzio. Non ne puoi più: devi allontanarti da questo gruppo muto che ti ricorda in ogni secondo che domani uscirete dalle mura, che potreste incontrare dei Titani, che potreste morire. Salti giù dal divano e vagabondi fuori dalla Sala comune.
Ti aggiri nei corridoi, occhieggiando occasionali soldati che chiacchierano a voce bassa e ti affacci in refettorio. Lo stanzone, illuminato solo dal taglio di luce che arriva dal corridoio, è un’ oasi di penombra e largo respiro. Cammini lentamente tra i lunghi tavoli deserti, ascoltando il secco rumore dei tacchi che colpiscono il pavimento. Cerchi di renderlo più pulito e preciso possibile, controllando l’equilibrio mentre cammini. Concentrarti sui rumori, sul respiro, ti calma. Il refettorio è come un teatro vuoto, la lama di luce gialla che viene dall’esterno si stempera nel chiarore azzurrino che si spande dalle grandi finestre che danno sul cortile interno, scrupolosamente pulite. I tavoli gettano lunghe ombre sul pavimento; una familiare pulsione ti spinge ad immaginarti su uno dei tavoli, girare in fouettés in quella luce tenue e serena. Dai anche un’occhiata critica ai tavoli, per scegliere quello migliore.

C’è Jean.

E’ seduto a un paio di tavoli di distanza da te. Dà le spalle alle finestre e la sua ombra taglia la superficie del tavolo e cade nell’oscurità oltre il bordo. Ha la testa tra le mani, ma non capisci se abbia gli occhi aperti o chiusi, o che espressione abbia: è troppo buio, e lui è controluce.
Non è possibile che non ti abbia sentito entrare, ma non fa un gesto al tuo indirizzo. Sta solo seduto con le mani tra le ginocchia, una sagoma scura ritagliata nella finestra.
Rimani ferma a guardarlo a lungo; abbastanza a lungo perché capisca che non te ne andrai se non te lo dirà lui. Quando ti avvicini, lo fai lentamente e deliberatamente, dandogli tutto il tempo di fermarti. Ogni passo che fai ti fa sentire troppo rumorosa, indiscreta, ma lui non reagisce e tu guadagni la panca di fronte a lui, ti siedi e non succede niente, perché non siete persone che comunicano, che si aprono; perché non siete amici e avete ancora strada da fare prima di diventare anche solo camerati. Siete due soldati che domani andranno in missione, e adesso è buio, e avete paura. Jean alza gli occhi. Ti ricordi di quando è tornato con la notizia che Marco era morto, e lo sguardo che aveva. Ti ricordi che tutto ciò che riusciva a ripetere era che “si vedevano i denti”. Poi riabbassa lo sguardo e non vi guardate più, restate solo seduti in silenzio.
 
(Ho paura. Ho tanta paura. Domani potrei morire e solo voi vi ricorderete di me. E quando morirete anche voi, cosa sarà rimasto? Ho vissuto così poco. E’ troppo presto, ancora.)
 
C’è un rumore fuori dalla finestra: uno stalliere conduce un cavallo in tondo per il cortile, per controllare che sia stato ferrato bene. Ripensi agli zuccherini di Sasha, e decidi prenderne anche tu, tanto per fare qualcosa, per non restare ferma al buio ad aspettare che altra paura venga a prenderti.
Scivoli in cambusa badando più a non far scivolare la porta che a controllare che sia vuota, e quando ti giri e incontri lo sguardo di Petra Ral fai un salto. Ti scusi precipitosamente e fai marcia indietro, ma lei ti ferma.
-Entra pure, Valeshka, non ti preoccupare.
-Scusatemi, non dovrei essere qui, ma…
-Ha! Sarei proprio un’ingenua se ignorassi che i cadetti sgattaiolano in cambusa a tutte le ore del giorno e della notte,- ridacchia lei –e per fare le cose più strane.- Ti fa l’occhiolino.
-Oh, allora lo sapete.- Commenti, sgomenta.
-A volte il Capitano Levi è un po’ pettegolo.- Fa lei con un sorrisetto. E’ seduta sul tavolone del locale, di fronte alla stufa. Sul fornello c’è un bollitore che comincia appena a fumare.
-Dovreste essere tutti in branda da un pezzo,- sospira. –Domani partiremo presto.
-E’ difficile addormentarsi, siamo molto nervosi.- Confessi.
-L’immagino. Lo siamo anche noi: l’esperienza aiuta solo fino a un certo punto.
-Invece voi sembrate così tranquilla…-
Petra fa una risatina stanca: -E’ perché casco dal sonno! Non vedo l’ora di godermi un meritato riposo.- Getta un’occhiata al bollitore, da cui comincia a provenire un tenue brontolio.
-Portate il tè al Capitano?
-Eh già: l’ultimo compito della giornata.- Ma lo dice sorridendo. Hai sentito le chiacchiere sul rapporto tra il Capitano e il Soldato Scelto Petra Ral: qualcuno li vuole amanti. I più insinuano che lei lo ami da lontano, senza aspettarsi un ritorno. Tu sai solo che, se Levi non favorisce apertamente Petra, di certo non trova niente da ridire sul suo operato, e a ragione: il Soldato Scelto Ral è efficiente, discreta, sempre all’altezza della situazione. Entra naturalmente nelle grazie di chiunque la conosca perché è semplicemente amabile e degna di rispetto. E tu ti rendi conto improvvisamente di essere invidiosa di lei. Invidiosa. Gelosa. In competizione.
Ignara della tua epifania interiore, Petra sta versando l’acqua nella teiera. Sistema la tazza, il cucchiaino, una piccola zuccheriera, un tovagliolo di stoffa piegato a triangolo. Gesti tranquilli, abituali. Premurosi.
-E’ un gesto scaramantico?- Butti là, tanto per dire qualcosa.- Portargli il tè tutta le sere?
-Scaramanzia? No, solo un’abitudine, direi. Levi ha… bisogno di un certo ordine intorno a sé.
Lo chiama per nome.
-Posso portarglielo io, se voi volete andare a dormire. Visto che siete stanca.- Perché l’hai detto? Ti interessa tanto, toglierle questa piccola consuetudine? Cosa ti sei messa in testa? Però è vero che sembra stanca: ha gli occhi cerchiati. Ti aggrappi a questa frottola altruista per tenere a bada la coscienza mentre resti in attesa della sua risposta.
Petra ti fissa per un attimo. E’ davvero un pugno di secondi, ma il suo sguardo ti centra, si tuffa in profondità e riemerge con la risposta che cercava prima che tu riesca a fare niente per fermarlo. La sua espressione si addolcisce, appena un po’ malinconica. Ti sorride.
-Ma sì, portaglielo tu. Gli farà piacere.
Solleva il vassoio e te lo passa. Lo prendi con la sensazione di aver fatto qualcosa di brutto. Vorresti ringraziarla. Vorresti chiederle scusa. Invece le auguri la buonanotte e te ne vai, con l’ultimo tè che Petra Ral avrà mai preparato per il Capitano Levi.

Bussi alla porta dell’ufficio tenendo il vassoio in equilibrio su una mano e pregando di non rovesciare niente.
-Entra pure.
Si aspetta che sia lei. Non aspetta nessun altro. Non capisci perché ti stai fissando su queste cose.
Levi non sta guardando, quando entri nella stanza: ha la faccia tra le mani e si sta massaggiando vigorosamente gli occhi chiusi.
-So che sei indulgente verso i pivelli, ma mi vengono in mente almeno dodici modi in cui potrebbero mandare tutto così a puttane, domani, che dovrai darmi una botta in testa per non farmeli ammazzare uno ad uno.- Sospira in modo teatrale e si tira indietro i capelli. Allora, ti vede. Si blocca e solleva un sopracciglio.
-Non potresti somigliare di meno al Soldato Scelto Ral. Che cosa credi di fare?
-Ehm. Il Soldato Scelto Ral mi ha chiesto di portarle il tè; era molto stanca ed è andata a letto.- Questa è una balla! Che bisogno avevi di dirlo? Levi non la beve, si vede benissimo. Tuttavia, ti fa cenno di posare il vassoio sulla scrivania. Esegui e ti rimetti sull’attenti.
-Buonanotte, signore.
Un altro sopracciglio sollevato.
-Non ti ho congedato. Devi restare qui.- Ti indica una sedia. Ti siedi, confusa. –Per riportare indietro la teiera.- Aggiunge, a titolo informativo.
-Oh. Certo, signore.
Levi dispiega il tovagliolo e lo infila nel bavero. Versa il tè e aggiunge due zollette. Mescola. Il cucchiaino non tocca mai il bordo della tazza, si sente solo lo sfregamento leggero sul fondo di ceramica. Cerchi di non guardare niente in particolare per non sembrare indiscreta, ma lo sbirci di sottecchi. Non sembra particolarmente stanco, ma forse è perché non sembra mai particolarmente riposato. E’ in ordine, come sempre: l’uniforme è immacolata, il taglio di capelli preciso, la barba fatta alla perfezione. Anche le unghie sono curate, più delle tue. Belle mani.
-Il Caposquadra Ness mi dice che non brilli particolarmente, come cavallerizza.
-Ho dovuto imparare nell’Esercito, Signore. Non avevo mai montato, prima.
-Oh? Credevo che una ballerina non avesse problemi a tenersi in sella.
-Infatti non sono mai caduta, signore.
-Male- ghigna lui. –Dicono che bisogni cadere almeno sette volte, per imparare a cavalcare.
-Quindi voi siete caduto sette volte? E’ difficile da immaginare. Voglio dire… Vi ho visto combattere…- Ti impappini e decidi di tacere prima che pensi che gli stai leccando il culo. Lui si concede un altro sorriso storto.
-Forse neanch’io ho ancora imparato a cavalcare.
Levi posa la tazza e si sfila il tovagliolo. Ne usa un angolo per asciugare una goccia di tè sul vassoio. Poi getta un occhio all’orologio da tavolo sulla libreria alle sue spalle e aggrotta le sopracciglia.
-Non dovresti essere ancora in piedi.
-E’ vero signore, ma è difficile dormire. C’è molta agitazione. Soprattutto tra noi cadetti.
-Posso immaginare.- Si allunga ad abbassare il lume della lampada ad olio sulla scrivania fin quasi a spegnerla, poi si alza e si porta alla finestra. Sono uscite molte stelle, e anche se la luna è già calata ci si vede bene.
-Dunque, se pronta per domani?
-Quanto posso esserlo, signore.- E’ la migliore risposta che puoi dargli.
-Hai paura?- Ti sta dando le spalle. Guarda fuori, giù nella piazza silenziosa.
Non ha senso darsi delle arie. –Abbastanza, signore. Direi… direi proprio di sì. Spero di non deludervi, con questo.
Levi sospira, e si gira a guardarti brevemente, ancora seduta sulla sedia. La tua prima reazione è quella di pettinarti più che puoi i capelli con le dita. Sono lunghi una quindicina di centimetri e non riesci proprio ad averne ragione: sono ancora troppo corti e troppo lisci perché le forcine che ti ha regalato Annie servano a qualcosa, e per la maggior parte del tempo rinunci a combatterci. Levi fa un sorrisetto. Raggiunge in due passi la libreria accanto alla scrivania e prende qualcosa, che poi ti porge: è un barattolo di latta con un’etichetta che non riesci a leggere per via del buio.
-E’ una pomata per i capelli- ti informa. –Il Comandante Erwin mi ha costretto a comprarla per le occasioni ufficiali, quando occorre mettersi in ghingheri; apparentemente non apprezza il mio taglio di capelli. Fortunatamente non devo usarla più di poche volte l’anno, la detesto. Immagino che a te faccia più comodo che a me.
-Uhm, grazie signore.- Sviti il coperchio e annusi cautamente. L’odore è buono. Ti chiedi se ci troverai qualche capello di Levi, alla luce del giorno. Ti chiedi anche che effetto ti farebbe trovarceli. –Signore, se i capelli impomatati non vi piacciono, ehm… mi devo aspettare parecchie battute finchè la userò?-
Vedi i suoi denti balenare mentre sogghigna. –Credimi, Valeshka: poche cose potrebbero peggiorare l’aspetto di quei capelli. Accoglierò con gioia anche una testa impomatata.
-Grazie ancora, signore. La userò domani.
Levi si è di nuovo voltato verso l’esterno. Si china in avanti e appoggia la spalla nella finestra incassata, le braccia conserte. Prende un altro profondo respiro.

-Vorrei poterti dire di non avere paura, Valeshka: vorrei dirti di non avere paura perché sarai nella mia squadra e sotto la mia tutela, e io sono eccellente.
“Ma, tu non sarai nella mia squadra.
“Vorrei poterti dire di non metterti a fare l’eroe e attenerti a seguire il piano. Ma il piano include la possibilità che sia necessario fare gli eroi. Questi sono tempi disperati.
“Vorrei almeno ordinarti di non fare cazzate. Ma tu sei giovane, e i giovani sono stupidi. Non ho molta fiducia nei giovani.
Si gira a guardarti di nuovo, e adesso è molto stanco, molto magro. Anche tu vorresti potergli dire qualcosa.
-Cercherò di non essere giovane, signore.- Tenti.
Ti sorride.
-Lo apprezzo molto. Puoi andare, se lo desideri.
Ti accorgi di non desiderarlo particolarmente, ma ti alzi e raccogli il vassoio. Prima di andartene, chiedi:
-Signore, se posso… Credete che questa missione abbia una possibilità?
Levi si appoggia di schiena al muro. Corruga le sopracciglia e guarda pensosamente il soffitto.
-Se ti chiedi se riusciremo a raggiungere il mitologico e misterioso scantinato di casa Jaeger, sì: ci sono concrete possibilità di successo. Ma se mi stai chiedendo se da questa missione possa nascere la speranza di una nuova vita per l’umanità, non ho risposte da darti. Io non sono un filosofo, Valeshka, né uno studioso di etica e morale. Sono un militare, non vado oltre la strategia. Non mi interesso del resto. Se cercavi un nobile condottiero, ti ho deluso.- Chiude gli occhi e sospira. –Buonanotte, Valeshka.
-Buonanotte, signore.

Quella notte, nelle camerate avete tenuto le finestre aperte, tanto l’aria era mite e pulita. Il giorno dopo siete stati svegliati da un sole glorioso nel cielo di un azzurro perfetto. Il ritratto dell’estate da manuale.
E tutto è andato nel peggiore dei modi, perché solo la pioggia porta la salvezza.

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Capitolo 8
*** 8 - Penché ***


Quando gli eroi partono per un’impresa, il loro contegno è esemplare: le loro schiene sono dritte, le loro teste levate; nei loro occhi c’è la calma di chi ha già accettato il proprio destino.
Quando gli eroi partono, ritti sullo scafo della nave che solcherà le onde ignote, i loro capelli si agitano al vento e il sole si specchia nelle loro armature.
C’è folla, quando partono gli eroi: chiasso ed acclamazioni li accompagnano ad ogni passo, finché scompaiono all’orizzonte. Donne innamorate gettano loro fiori e pegni di devozione; gli anziani, silenziosi, indirizzano loro cenni di benedizione, di rispetto.

La folla c’era davvero, quando siete usciti, in colonna, dai cancelli della caserma fino al cancello del Muro Rose: persone di ogni età vi hanno salutato, hanno chiamato i vostri nomi e vi hanno augurato ogni fortuna. I bambini vi hanno fatto ciao con la mano, le ragazze vi sorridevano, e poi si nascondevano dietro le schiene degli astanti, ridacchiando emozionate. C’era anche la banda della città.

Nessuno di voi può sentirsi meno eroico di così: siete terrorizzati. Siete eretti sulle selle, è vero, ma le vostre spalle sono così contratte dall’ansia da toccarvi le orecchie. Qualcuno trema e ci sono molti occhi sbarrati. Non avete armature scintillanti, ma l’uniforme della Legione Esplorativa: stoffa e cuoio, e i pesanti elementi del DMT che vi pendono dai fianchi sono di acciaio satinato, perché la luce che ci batte non vi dia fastidio agli occhi. Niente luccica, sotto il sole che continua a fare nascondino con le nubi. C’è vento oggi, e le nuvole viaggiano veloci. Con i tuoi capelli impomatati ti sembra di avere un casco in testa. Non avevi mai usato della pomata, prima, e ne hai messa troppa: si è seccata in una massa lucida e troppo profumata. Jean, incrociandoti fuori dai dormitori, ha riso tanto da mandarsi la saliva di traverso. Quando ha smesso di tossire, ti ha spiegato che avresti dovuto inumidire la testa, prima di applicare la pomata.
-Vieni- ha detto. –Ti sistemo io.-
Prima che potessi reagire, ti ha preso per un braccio e ti ha trascinato ai lavatoi, dove ti ha piegato la testa sotto l’acqua corrente gelata. Una serie d’insulti strozzati ti è uscita di bocca e hai anche bevuto più di quanto non avresti voluto, ma Jean non si è lasciato impietosire e ti ha sfregato la cute con le sue mani grandi e dure. Poi ha chiuso il rubinetto e tu sei rimasta piegata sul bordo della grande vasca di pietra, mentre dalla punta dei tuoi capelli incollati veniva giù una cascatella d’acqua.
-Jean, e adesso come mi asciugo?
-Giusto. Bel problema - ti ha dato una pacca sulla schiena. –Beh, io vado a sellare il cavallo.

Il collo della tua blusa è ancora umido, mentre i cavalli percorrono al passo le vie del distretto di Trost. I tuoi capelli non sembrano più un elmetto, ma te li senti comunque strani e rigidi.
La processione sembra interminabile: la apre il comandante Smith con i quattro capisquadra, poi segue la Squadra Operazioni Speciali e i soldati semplici a cavallo. In coda, i carri dei rifornimenti e la loro scorta. Un centinaio d’anime in tutto e la folla ha trovato fiato per acclamare fino all’ultimo, che fossero figli, sposi o sconosciuti tutti i soldati hanno ricevuto un pezzetto di speranza, di coraggio, di fiducia dai cittadini di Trost, e voi sapete che non ne hanno abbastanza neanche per sé, ma a voi nessun onore è stato negato:
Tornate vittoriosi!
Contiamo su di voi!
Siete la nostra salvezza!
Grazie! Grazie! Grazie…


Grazie, ancora e ancora, fino alle porte del distretto e ancora mentre il cancello veniva aperto e lo sentite ancora mentre i cavalli rompono al galoppo e vi lasciate il Muro Rose alle spalle. Quando siete abbastanza lontani da non sentirlo più vi sentite tutti lontani da casa.

Attraversate le zone abitate a tutta velocità, perché non potete mettervi in formazione tra le rovine delle case nelle vie cittadine. Sono passati cinque anni da quando il distretto è stato evacuato e la vegetazione si è già ripresa quello che era suo: senza più traffico per le strade, tra le pietre del lastrico sono spuntate alte erbacce; le piante nei vasi, sui davanzali delle case abbandonate, sono morte e altre, selvatiche, hanno preso il loro posto. Rampicanti salgono sui muri, e gli uccelli sfrecciano dentro e fuori dagli edifici attraverso le finestre sfondate.

Cambiate spesso direzione, allontanandovi dalla strada principale, a causa delle macerie che ingombrano le vie. Dopo il disastro, non c’è stato tempo di sgombrarle. I varchi lasciati dalle case crollate lasciano vedere scorci di altre vie, altre mura, altre piante e tetti crollati, come finestre inaspettate. Gli zoccoli dei cavalli rimbombano sonori sull’acciottolato. Nessuno parla. Vi guardate attorno continuamente, ansiosi.
Senti delle grida lontano, alla tua destra, mentre attraversate una zona di campi incolti e casolari: è stato avvistato un Titano. Parte un razzo rosso, altri lo seguono, man mano che le squadre ricevono il messaggio e lo trasmettono. Vi ordinano di proseguire, lasciarlo alle pattuglie più vicine. Da quel momento ti aspetti che ne appaiano altri da un momento all’altro, ma la situazione resta calma. Viene ordinata una tappa per ricomporre la formazione.
Vi distribuiscono un pasto leggero, al sacco. Non hai fame, ma mangi lo stesso; a giudicare dalle facce che ti circondano, tutti stanno pensando la stessa cosa. Si vedono un sacco di mascelle masticare a fatica. Ti chiedi se anche Sasha avrà lo stomaco chiuso. Ti chiedi come mai non sei con nessuno dei tuoi compagni. Ti senti isolata, nel fianco destro della formazione. Non conosci neanche il capo divisione.
Viene fatto un appello, per controllare eventuali dispersi. Ci siete ancora tutti. Non ci sono feriti. Bene.
Ti accorgi di stare sperando che succeda qualcosa, qualunque cosa che interrompa la missione, che vi faccia tornare indietro. Non sei ancora pronta; non è possibile affrontare una cosa come questa. Quale addestramento, e quanto lungo, può preparare un essere umano alla prospettiva di buttarsi in campo aperto, nel territorio dei Titani? Come fanno i veterani? E’ davvero possibile abituarsi all’idea di poter morire ad ogni missione? Guardi le facce che ti circondano e ti chiedi in quanti desiderino segretamente ritirarsi. Quanti codardi come te ci sono, nella Legione Esplorativa?

Ripartite. Occorre attraversare una vasta zona rurale per arrivare al distretto di Shingashina. La formazione si allarga; presto ti sembra che a cavalcare per i campi ci siate solo tu e la ventina di  persone che compongono l’ala destra. L’aria sa d’estate, di erba e frumento selvatico scaldate dal sole, della torba tiepida che gli zoccoli dei cavalli sollevano al galoppo dal suolo, ancora umido dalle piogge dei giorni scorsi. Riesci a sentire il ronzio degli insetti al di sotto del rumore ritmato del galoppo: finimenti sbattuti contro la pelle tonica del cavallo, il respiro roco della bestia e il rimestare del morso nella sua bocca, contro i denti. Schiuma di bava equina vola in aria in brevi spruzzi e ti sfreccia di fianco. Ti fissi sulle orecchie appuntite del tuo cavallo, guardi come le inclina, come le ruota per seguire i rumori, come le appiattisce quando qualcosa lo spaventa.

Qualcosa lo spaventa.

I cavalli della Legione sono selezionati per mantenere la calma.

Accade in fretta, almeno all’inizio. Ti sembra che la gente cominci a gridare dopo che Lei è comparsa, e forse è vero, perché andava così veloce.
Un Titano femmina. Sai che ce ne sono, anche se sono molto rari e tu non ne hai mai visti, ma sei sicura che questa sia comunque diversa dalle altre. E’ senza pelle, come il Titano colossale che hai visto il giorno della breccia nel muro di Trost. E’ proporzionata, possente, senza i tratti infantili e grotteschi degli esemplari che hai visto finora. Corre. Corre come un’atleta, a lunghe falcate controllate, le braccia piegate a dare slancio ad ogni passo, il busto proiettato in avanti. E’ bionda in maniera abbagliante. E’… bella. Bella, distante e spaventosa come la statua di una dea. Passa tra le vostre file, gettando un’ombra terrificante sui cavalli, sui carri. Passa in un attimo. Uno schianto, e polverizza sotto un piede un carro di rifornimenti. Non l’ha nemmeno fatto apposta: era solo sul suo cammino.
C’è trambusto, i cavalli scartano, qualcuno viene disarcionato, partono razzi d’avvertimento. Razzi neri: non c’è dubbio che questo sia un Titano Anormale. Il caposquadra grida di mantenere la formazione, non perdere la calma e non fermarsi. Sproni il cavallo. Quando senti la terra tremare speri che sia la paura che ti romba nelle orecchie. Invece è il disastro.

Una frotta di Titani vi sta correndo addosso, dalla stessa direzione da cui è venuto il Titano Femmina. Alcuni saltellano, altri caracollano in avanti, le braccia tese come bambini che corrono incontro alla mamma. Tutti hanno la bocca spalancata, tutti hanno tanti, tanti denti.
Fai in tempo a contarne cinque, prima che si avventino su di voi. Il primo che vi raggiunge fa un passo all’interno della formazione e si accoscia, schiacciando la testa di un cavallo sotto di sé. Ti è passato alle spalle, perché sei all’estremo esterno del gruppo e hai superato i Titani, ma fai marcia indietro, al pari di tutti quelli con te, senza nemmeno pensare. E’ così che vi hanno addestrato, e per un momento tutto fila liscio, i tuoi sentimenti scompaiono sotto la programmazione e segui automaticamente gli ordini. Punti sul Titano che, piegato sulle ginocchia, allunga le braccia per afferrare i tuoi compagni, che spronano i cavalli per tenersi fuori portata. Ti alzi sulle staffe e molli le briglie, afferri le else delle spade e ti prepari a sganciare i cavi del DMT verso la spalla del gigante. Forse altri arriveranno prima di te. Non importa. Non c’è più ordine nella formazione, ognuno cerca di agire al meglio che può. Il Titano accosciato ha già un corpo nella mano che si sta portando alla bocca. Cerchi di non guardare. Ancora pochi metri.
Poi un’ombra invade il tuo campo visivo da sinistra. Senti un forte spostamento d’aria, un botto sordo e voli in aria insieme al tuo cavallo.

Tutto passa davanti ai tuoi occhi come se sfogliassi un album illustrato: immagini ferme, che ritraggono attimi consequenziali. Vedi la criniera del cavallo piegarsi a destra e a sinistra nell’ascesa. Poi vedi il terreno, lontano sotto di te, inclinato come un soffitto storto; senti tutto il peso del corpo sulla testa, l’aria ti romba nelle orecchie. Vi capovolgete ancora e batti duramente il viso contro il collo del cavallo.
Devi sganciarti, sfilare i piedi dalle staffe prima di cadere e farti schiacciare dal cavallo. Scalci alla cieca mentre agiti la testa per trovare l’orientamento. I tuoi stivali si liberano e quasi nello stesso momento vedi il corpo del Titano che vi ha investiti. E’ enorme: un Classe Quindici Metri, probabilmente. Scorgi con la coda dell’occhio il corpo del tuo cavallo che ti sorpassa precipitando e lanci i cavi verso il Titano. Non t’importa dove lo prendi, purché possa frenare la tua caduta. Gli arpioni fanno presa. Il vento urla nelle tue orecchie mentre spingi disperatamente sul meccanismo di frizione per rallentare la discesa. Il Titano continua a muoversi e tu voli in arco come su un’altalena, i muscoli della schiena tesi allo spasimo per riportare la testa in alto. Senti che ti si seccano le gengive perché stai digrignando i denti da chissà quanto. Cominci a riavvolgere i cavi. Sali all’impazzata fino a che i tuoi stivali toccano le costole del gigante. Liberi un getto di gas dalle bombole, sganci i cavi, ti dai la spinta con le gambe e lanci gli arpioni verso il collo. Corri all’impazzata in verticale, i cavi d’acciaio ti graffiano gli zigomi quando ondeggi da un lato all’altro. Il fetore del Titano ti riempie le narici; ha un odore acido, di fermentazione. La pelle scotta tanto che la senti attraverso la suola degli stivali. Ti lacrimano gli occhi per le esalazioni. Spari di nuovo i cavi verso la nuca. La prendi, ci sei. Con un colpo di gas voli al di sopra del ganglio grasso e roseo; sotto di te il campo di battaglia è un formicaio scoperchiato da un bambino crudele, ma tu non senti alcun rumore. Atterri e affondi le lame nello stesso momento.
Un getto di sangue caustico ti investe come un geyser. D’istinto, getti la testa indietro e chiudi gli occhi; senti la gola e il mento bruciare, i guanti di pelle s’inzuppano e fumano, tutto diventa un turbine di vapori. Tossisci e barcolli, cieca, mentre il Titano cade in ginocchio. Non riesci a liberare gli arpioni, non riesci ad aprire gli occhi e vieni trascinata giù con lui mentre cade bocconi, aggrappata ai cavi come  fossero redini. Quando la testa colpisce il suolo, il contraccolpo ti proietta in avanti. Voli agitando gambe e braccia per un attimo prima di colpire il terreno. Rotoli, ingarbugliandoti nei cavi che non hai fatto in tempo a riavvolgere e che ti frustano le braccia e il viso. Sassi e sterpi ti bucano le mani. Ti rialzi immediatamente perché se riesci a rialzarti vuol dire che non sei ferita. Ti guardi intorno, occhi sbarrati e bocca spalancata. Brandisci ancora le spade, senza accorgerti che le lame sono spezzate.
Sono rimasti due Titani, sul campo: girando su te stessa, ne vedi due che hanno ripreso la loro corsa scoordinata, proseguendo verso destra. Intorno a te, l’erba è appiattita dai piedi dei giganti. Un cavallo morente urla, trascinando le zampe posteriori fracassate. Ci sono due carri, uno sfondato e un altro rovesciato, entrambi senza stanghe: i cavalli sono riusciti a spezzarle e scappare. Dal carro sfondato cola del sangue: qualcuno si era rifugiato al suo interno. Non ci sono molti cadaveri. Non ci sono molti sopravvissuti. Vedi una gamba, qualche metro alla tua sinistra; è calzata e fasciata nei calzoni dell’uniforme. Il sommo della coscia, tranciato di netto, imbeve di sangue il terreno.
Senti delle grida: un paio di soldati stanno dando l’assalto a uno dei due Titani rimasti, che passeggiano per il campo senza fretta. Vuoi correre da loro, ma non ti muovi. Il corpo non ti risponde affatto: continui a stare impalata, a gambe divaricate e con la bocca aperta. Provi a parlare e non ci riesci, e allora ti accorgi che non stavi tirando il fiato. E non ci riesci. Ti prendi a pugni il petto, la bocca dello stomaco: niente. Il panico ti sommerge. Il tuo addome è duro come una tavola, niente entra; niente esce. Ti butti in ginocchio e ti sbatti letteralmente a terra con tutto il busto. Batti la tempia e senti i denti sbattere tra di loro, ma funziona: qualcosa si sblocca e succhi un lungo respiro che sa di sale. Poi la bocca ti si riempie di bava e sputi conati schiumosi in terra. Ti senti le gambe bagnate e ti accorgi di esserti pisciata addosso. Cominci a tremare.
Senti uno schianto e giri gli occhi per vedere il Titano cadere su un fianco, ma di due che l’avevano attaccato vedi solo un soldato allontanarsi dalla sagoma che comincia a fumare. Sono ad un centinaio di metri da te, ma l’uomo è una tale maschera di sangue che non lo riconosci. Gira intorno al corpo del mostro caduto e scompare alla tua vista, ma le sue grida ti raggiungono. Chiama il compagno: dev’essere rimasto schiacciato dal gigante. Si chiamava Amos; lo impari nei minuti che il sopravvissuto spende a ripeterlo, gridandogli di resistere, pregandolo di rialzarsi, implorando le Mura di salvarlo. Ti imbamboli a fissare la sagoma del Titano che lentamente si sgretola, cullata dalla litanìa di grida, e quasi non ti accorgi dell’ultimo gigante rimasto sul campo, che viene attratto dalle urla e punta sul soldato nascosto ai tuoi occhi.
“Attento!” gridi, ma lui non ti sente, o forse non gridi forte come pensavi. Continui a chiamarlo, mentre il Titano si avvicina, e senza smettere ti alzi, puntando la testa in terra e spingendo con le gambe, corri piegata in due, scavalchi il corpo del Titano e la carne cede sotto i tuoi stivali; affondi fino all’inguine, i tuoi calzoni fumano e si corrodono. Ti districhi, sperando che le cinghie del DMT non si corrodano e continui ad avanzare, sempre gridando; piombi giù dal costato enorme a pochi passi da quel che resta di Amos: un braccio e una gamba che spuntano da sotto il torace del Titano. Riconosci il soldato: si chiama Kirk; si stringe nelle braccia e continua a gridare. Ha una mano rotta, le dita puntano nelle direzioni sbagliate. Lo prendi per le spalle e lo scuoti violentemente, poi la mano enorme del Titano cala su tutti e due voi. Senti una tremenda pressione alla testa e tutto diventa buio.

Vedi steli d’erba vicinissimi e gialloverdi. Minuscoli insetti si muovono a scatti nel microcosmo sotto di te. Senti solo il frinire delle cicale. Dovrebbe far caldo. Richiudi gli occhi.

Ti svegli di nuovo, perché hai sete e c’è rumore, delle voci, ma quando apri gli occhi l’erba ondeggia come prima. Tendi l’orecchio.

-Allora, ci sono sopravvissuti?
-Ne abbiamo trovati due, finora. Feriti.
-Dannazione, tre Titani hanno spazzato via un’intera squadra…

Non erano tre, pensi. Sei sdraiata bocconi. Hai la bocca aperta contro il terriccio; giri la testa e sputi, e questo riesce a farti dolere tutto il corpo. Hai la gamba sinistra piegata, il ginocchio ti schiaccia una mano. Sei ricoperta di qualcosa di soffice. Una coperta? Non riesci a girarti abbastanza da vedere…

-Dobbiamo sbrigarci, non possiamo restare ancora a lungo. Fate un altro giro e riportate i feriti al campo base.

Non possono lasciarti qui! La luce è cambiata, tra poco il sole tramonterà. Non puoi restare qui sola di notte!
Cerchi di tirarti in piedi; ti puntelli sui gomiti e sulle ginocchia e una morsa di dolore ti serra il corpo bloccandoti dove sei. La cosa che ti copriva si smuove e ti cade di dosso. E’ cenere. Cerchi di gridare e dalla tua bocca secca escono latrati rauchi. Non riesci ad alzare la testa per quanto ti fa male il collo e continui a mugolare, più forte che puoi, terrorizzata al pensiero che nessuno ti trovi, che essere sopravvissuta non sia servito ad altro che a lasciarti abbandonata fuori dalle Mura.

-Ce n’è un altro, quaggiù!

Delle braccia ti cingono, ti sollevano. Il tuo corpo è completamente imbrattato di terra, sangue, urina, cenere; non si capisce dove finiscono gli stivali e dove iniziano i calzoni. Il tuo DMT è ancora agganciato e pesa una tonnellata. Qualcuno te lo slaccia e ti parla senza interruzione, ti esorta a tener duro, ti dice che hai fatto un buon lavoro, te la sei cavata bene, guarda: braccia e gambe sono ancora al loro posto! Ce la fai a camminare? Brava… no, va bene, aspetta qui, ti portiamo  una lettiga.
Afferri la manica del tuo soccorritore, non vuoi essere lasciata sola. Lui è costretto a chiamare aiuto da lontano. Svieni di nuovo.
Continui a svegliarti e ricadere nell’incoscienza per tutto il tragitto fino al campo. Ti danno dell’acqua da bere, ma te la tolgono troppo presto per paura che vomiti. A volte batti i denti dal freddo. A volte parti del corpo a caso ti fanno male da urlare per qualche secondo, poi il dolore sparisce misteriosamente. Al campo, ti stendono insieme ad altri sul prato, in attesa che il dottore faccia il giro di tutti. Ti puliscono le ferite esposte, ma non possono spogliarti per esaminare cos’altro hai. Ti fasciano la testa perché hai un brutto taglio alla cute che avrà bisogno di punti e ti spalmano una pomata contro le bruciature sul collo, il petto e polsi, dove ti ha colpito il sangue del Titano. Poi ti caricano su un carro coperto.
Rispetto al luminoso cielo estivo, nel carro è buio pesto. Qualcuno piange, piano. Senti la gente parlare, fuori. Il Titano Femmina ha raggiunto il centro della formazione. Le hanno teso una trappola per catturarla nella foresta di alberi giganti.
-E ci sono riusciti?- chiede qualcuno.
-Macché. Pare che abbia spazzato via tutto lo squadrone di Levi.
Batti le palpebre. Tutti, sono morti? Tutti? Le voci si allontanano, non riesci a sentire di più. Non riesci a calcolare lo scorrere del tempo. A volte ti riaddormenti, o svieni; non capisci la differenza. Nel carro c’è un puzzo bestiale; forse non sei l’unica ad essertela fatta addosso.
Ti risvegli ancora quando senti chiamare il tuo nome; riconosci la sagoma controluce di Sasha affacciata sul carro.
-Sei viva! Avevano detto che il fronte destro era stato tutto sterminato! Meno male!
-Ci siamo salvati in tre – bofonchi. Hai le labbra spaccate e le parole escono strane.
-Noi siamo tutti salvi! Riesci a crederci? Noi del 104°, intendo. Per il resto… è stato un macello. Torniamo indietro, al Quartier Generale. Levi e Erwin hanno dato l’ordine poco fa.
-Oh. Allora è vivo… Avevo sentito…- anche controluce vedi Sasha fare una smorfietta.
-E’ vivo; tutta la sua squadra è stata sterminata, però. Ma tranquilla, il tuo prezioso Capitano ha sette vite come i gatti. O nove. Non ho mai capito quante ne avessero. Ehi! Sai che Eren è stato mangiato dal Titano femmina? Ma poi Levi l’ha tirato fuori. Ormai è un’abitudine quella di farsi mangiare, secondo me.
Sasha continua a chiacchierare mentre il convoglio si mette in moto; ha dovuto lasciare il cavallo a un soldato ferito e si nasconde nel carro per non farsela a piedi. Ti chiedi come faccia a mantenere alto lo spirito dopo un fallimento e una carneficina simili. Dal fondo aperto del carro vedi i superstiti incolonnati dietro il carro, con i volti grigi e inespressivi. Qualcuno ha lacrime che rigano lo sporco sulle guance.

Non è per la causa: siete tutti nati dentro le Mura, e in pochi sognano davvero il mondo esterno. Quel che vi atterrisce è la nuova conferma della vostra impotenza. Siete umani, piccoli e inermi. Commestibili.
Nessuno parla, mentre sfilate di ritorno per le strade di Trost. Neanche Sasha.

Al Quartier Generale, in infermeria, ti hanno spogliato e la tua uniforme è venuta via a pezzi. Solo gli stivali si sono salvati. Con quattro colpi di spugna hanno tolto il grosso dello sporco e ti hanno spennellato di disinfettante che bruciava e ti ha macchiato di giallo la pelle. Ha tagli e lividi dappertutto. Ti ricuciono lo scalpo e uno squarcio all’avambraccio, poi ti rimandano alle camerate.
Ti lavi sotto la doccia cisterna nei grandi bagni della caserma, e sembra che nessuna quantità d’acqua riuscirà mai a portar via tutta la terra che ti è rimasta nei capelli. Allo specchio, sopra i lavatoi comuni, vedi un viso stravolto: i capelli incollati dall’acqua ti fanno due occhi enormi e gialli. Hai un brutto taglio alla base del naso, le labbra bianche, la gola e il petto rossi e coperti di vescicolette. Di più non riesci a vedere, è uno specchio piccolo.
Ti metti sui capelli la pomata che ti ha dato il Capitano Levi e ti senti a disagio: Levi non è tornato in caserma con le truppe. La gente bisbiglia: dicono che sia distrutto per la perdita della sua squadra. Dicono di averlo visto parlare con il padre di Petra Ral. Dicono che fossero fidanzati, che si dovessero sposare. E tu ti senti triste e stupida.

E’ calata una notte calda e immobile, e tu ti senti ancora più stupida di prima: sei acquattata nell’ombra sotto i portici della piazza d’armi e tieni d’occhio il cancello d’ingresso.
Levi non è tornato per tutta la sera, è mancato a cena e nessuno l’ha più visto dal vostro rientro in città, e tu non sai darti pace. Devi trovare qualcosa da dirgli, anche solo fargli le condoglianze. Qualcosa che ti riqualifichi ai suoi occhi, ma soprattutto ai tuoi, come soldato fedele. Come soldato e basta. Nella tua mente, una vocetta virtuosa afferma che sei dispiaciuta per lui e vuoi solo essere a disposizione per confortarlo in questo momento difficile. Un’altra voce, ben più forte, non si spreca in chiacchiere e ride a crepapelle delle frottole dell’altra.
Alzi lo sguardo: affacciata alla finestra del dormitorio, Sasha ti saluta allegramente con la mano: ti ha visto scendere per le scale con gli stivali in mano e ti ha bisbigliato “tranquilla, ti copro io”. Non provi nemmeno a convincerla che si è fatta un’idea sbagliata: sospetti piuttosto che ci abbia visto molto più lontano di te.
Indossi solo la camicia da notte e gli stivali, che hai lasciato afflosciati alle caviglie: la tua uniforme è stata danneggiata in maniera irrecuperabile, e domani ne avrai un’altra. Per stanotte, comunque, è piacevole sentire l’aria fresca sulla pelle, specie quando la pelle è coperta di tagli e bende. Appoggi la guancia alla pietra fredda della colonna. Mentre i tuoi occhi perdono il fuoco sul cancello d’ingresso, ti ricordi di una delle storie che Armin raccontava sul mondo esterno: il mare, la grande distesa d’acqua salata che circonda il mondo, veniva solcata da grandi navi che lasciavano i porti verso l’ignoto anche per mesi. Le mogli dei naviganti, ogni giorno, si recavano al porto a pregare per il ritorno degli uomini. Per un attimo, senti di capire quelle donne, senz’altro potere che quello della speranza. Ma qui non c’è il mare, e tu non sei la moglie di nessuno.

Forse ti sei addormentata in piedi, perché quando senti il “chi va là” dato dalle guardie al cancello e le porte vengono aperte ti riscuoti di soprassalto. Aguzzi lo sguardo e nel cerchio di luce delle torce riconosci la snella figura di Levi che entra nella piazza d’armi, il cappuccio tirato in testa e il mantello che nasconde la parte superiore del corpo. Dalla sua finestra, Sasha si sta sbracciando per attirare la tua attenzione; quando la guardi fa una serie di gesti d’incoraggiamento e poi indietreggia di un paio di passi per non farsi vedere.
Aspetti che Levi sia ben lontano dal cancello d’ingresso prima di mostrarti. Quando è stato quasi inghiottito dalle stesse ombre in cui tu ti nascondi, fai un passo fuori dal portico e lo chiami piano.
Levi si ferma di botto. Nonostante il cappuccio, vedi la sua testa ruotare lentamente verso di te. Poi viene verso di te a grandi passi, com’era entrato.
Non ti viene incontro, ti viene addosso; ti investe con tutto il corpo e continua ad avanzare. Non ti esce una sillaba di gola, mentre incespichi all’indietro cercando di mantenere l’equilibrio. Non riesci a distinguere la sua espressione, sotto il cappuccio, e quando questo scivola indietro siete ormai nel buio fitto del loggiato e tu non lo vedi più. Senti solo il suo respiro, basso e secco, e il suono degli stivali sulle pietre. Ti spinge contro il muro e preme forte, tenendo le gambe salde. Non ti guarda: tiene la testa oltre la tua spalla; senti le sue ciglia farti il solletico all’orecchio. Alza una mano e la chiude sulla manica della tua camicia da notte; la tira in basso con uno strattone e ti scopre la spalla. Senti l’altra mano sulla vita, ti avvolge un’anca e ti tiene ferma contro il muro. Lo senti mordersi le labbra, vicinissimo alla tua pelle. Il cuore ti sta scoppiando e sei certissima che lo sentano in tutto il Quartier generale.
Non ti bacia: senti il suo fiato sul collo per un secondo, poi chiude un morso nello stesso punto in cui vi pugnala durante le esercitazioni. Gli esce un ringhio dalla gola. Vedi le sue spalle muoversi al ritmo del respiro. La sua mano sinistra ti lascia il fianco e scende a stringerti il polso. E’ la prima volta che senti le sue mani, e sono più ruvide di quanto pensassi. I morsi salgono sotto l’orecchio, tutti forti, tutti dolorosi. Ti tira la camicia sopra i fianchi, bruscamente. Lo senti armeggiare con la cintura, con i calzoni. Realizzi cosa sta per succedere da una grande distanza. I suoi respiri ti entrano in testa. Hai i suoi capelli negli occhi; sbirci le stelle attraverso.
Porta le mani dietro le tue cosce e ti alza di scatto, una gamba per parte, sempre tenendoti ferma con i denti. Gli pianti le dita nelle spalle e sbarri gli occhi mentre ti trova a tentoni e spinge, e fa male, fa male!

E poi, si ferma. Tutto, di scatto. La sua bocca allenta la presa, lentamente. Ti rimette a terra, piano. La camicia da notte scende di nuovo lungo le tue gambe e adesso ti guarda. Vedi il bianco dei suoi occhi, larghi come la tua mano. Non ti ha lasciato andare: ti tiene le mani sulle spalle, ma non stringe più. Ci mette tanto a chiedertelo.
-…Sei vergine.- In realtà, non lo chiede nemmeno.
Non gli hai ancora detto una parola e di sicuro non ci riesci adesso. Non volevi abbassare lo sguardo, ma la vergogna e l’imbarazzo ti annientano. Guardando fisso i gradi sulle sue spalline, annuisci.
Qualcosa si spezza in Levi. Prende un lungo respiro tremante. Quando alza le mani e ti prende il viso, vedi che tremano anche quelle. Senza una parola, ti preme le labbra sulla fronte e resta fermo. Lentamente, tutto il suo corpo comincia a tremare sempre più forte. Resti paralizzata mentre i singhiozzi lo scuotono con colpi duri che lo fanno sussultare a lungo. Vorresti toccarlo, ma trovi il coraggio solo di stringere un lembo del suo mantello nel pugno.
Dura tutto un pugno di secondi. Presto i tremiti cessano, il respiro ritrova il suo ritmo regolare. Levi si stacca da te e si ricompone. Fa per dirti qualcosa, invece gira sui tacchi e se ne va. Conti fino a cento e rientri anche tu, a testa bassa.

-Psst, Valeshka - bisbiglia Sasha più tardi, a letto.
-Che c’è?
-Ti ha baciato?
Ci pensi un attimo prima di rispondere.
-No – ammetti. Dopodiché, con tuo grande disappunto, scoppi a piangere.

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Capitolo 9
*** Intermezzo: Steel Pointe artwork! ***


Una parentesi di stupideria prima delle ultime battute di questa storia: qualche disegno sparso sulle vicende della nostra Valeshka. Siccome faccio l'illustratrice, nel tempo libero mi sono divertita a scarabocchiare la nostra sfortunata eroina. 

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Capitolo 10
*** 9 - Off Balance ***


-Che cosa ti ha fatto?
Alzi lo sguardo dalla farinata d’avena della colazione che stai rimestando col cucchiaio e all’altro lato del tavolo c’è Mikasa che ti fissa. La sua solita espressione impenetrabile è incrinata dagli occhi stretti; anche le sue mani sono serrate sul bordo del tavolo.
-Ti ho sentita, ieri notte, quando sei rientrata - continua lei. –So che ha a che fare con Levi.
-Ma io…
-Per favore, Valeshka - ti interrompe lei. – Lo sappiamo tutti che gli muori dietro.
Non sai se sei il tipo che arrossisce, ma di sicuro le orecchie adesso ti bruciano. Mikasa si protende verso di te e insiste:
-Ieri notte sei rimasta fuori ad aspettarlo, con solo la camicia da notte addosso e quando sei rientrata ti sei messa a piangere. Che cosa ti ha fatto? Ti ha violentato?
-Mikasa, abbassa la voce! – Esclami.
-Allora è vero! – Mikasa si alza in piedi di scatto. Vieni presa dal panico: diversa gente si è girata a guardare, incuriosita dal trambusto.
-Siediti! – Sibili. –La gente si metterà in mente chissà cosa… Non ha fatto niente del genere – borbotti, mentre Mikasa torna a sedersi con espressione dubbiosa.
-Qualcosa ti ha fatto – insiste. –Ti sei dichiarata e lui ti ha respinto? Non mi sembri il tipo che piange tutta la notte per una cosa del genere.
-Non lo sono, infatti – brontoli, colpita nell’orgoglio. –E non abbiamo praticamente parlato. Sì, l’ho aspettato… ero preoccupata per lui, lo ammetto. Volevo dirgli qualcosa per confortarlo, ma lui non mi ha fatto parlare. Mi ha… insomma, è un uomo brusco. Lo sanno tutti.
-Ti ha picchiato?
-Mikasa, no! E vuoi smetterla di gridare così?
Mikasa ti osserva ancora per un secondo, poi senza dire una parola si alza di nuovo, fa il giro della tavolata e ti raggiunge. Ti prende per un braccio e ti trascina con sé. Barcolli per non cadere scavalcando alla meglio la panca su cui eri seduta e le tieni dietro, seguita da Armin e Sasha, che hanno visto la mala parata e vi hanno seguito in tutta fretta.
La sala comune è vuota all’ora di colazione. Mikasa ti lascia il braccio e ti fronteggia, mentre Armin, alle tue spalle, chiude silenziosamente la porta.
-Lo stai difendendo – sentenzia.
-Non lo sto difendendo – ribatti. –Ho solo le idee confuse. Non so cosa volevo realmente, e lui dopo era dispiaciuto, quindi…
-Ehm, forse dovresti dirci che cosa ti ha fatto – interviene Armin. –In questo modo, non so voi, ma a me vengono in mente le cose peggiori – Sasha annuisce approvando.
Sei sicura che le tue orecchie mandino fiamme alte fino al soffitto. Ti mordi le labbra e cerchi di trovare un modo di fare uscire le parole, ma non ci riesci.
-Non… non ce la faccio – sbotti. –Io non so parlare di queste cose, non ho nessuna esperienza di… faccende di cuore, o come volete chiamarle.
Mikasa ti afferra per le spalle.
-Ascolta: non importa che cosa ti ha fatto, non ce lo devi dire per forza. Ma se ti ha fatto qualcosa di sbagliato, lo devi denunciare. Non può approfittarsi di te solo perché è un tuo superiore!
-Ma non si è approfittato di me! – scatti. –Posso anche farmi visitare per provarlo.
Stavolta sono Armin e Sasha a diventare positivamente rossi fino ai capelli.
-E non intendo denunciare proprio nessuno – continui. –Rischia la carriera militare, e l’esercito ha bisogno di lui! E comunque anch’io avrei dovuto lasciarlo stare, in una così brutta giornata.
Mikasa fa un passo indietro. Sul suo volto inespressivo si disegna il disprezzo.
 –Non credevo che un soldato dell’esercito potesse comportarsi come una qualunque donnetta che difende il marito che torna a casa ubriaco.
Questa è la goccia che fa traboccare il vaso dei tuoi nervi scossi. La vergogna, l’imbarazzo e l’amor proprio cedono il passo ad una rabbia velenosa.
-‘Fanculo, Ackerman! – abbai. –Come se te ne importasse qualcosa di me! Cerchi solo un pretesto per attaccare il Capitano perché lo detesti per conto tuo. Se non avesse picchiato tuo fratello durante il processo non te ne sarebbe fregato niente neanche se mi avesse dato fuoco in mezzo alla Piazza d’Armi!
Ti piazzi sotto il naso di Mikasa. Sai che se la facessi arrabbiare sul serio e ti mettesse le mani addosso non avresti possibilità di vincere, ma non stai assolutamente riflettendo.
-Non ti azzardare a cercare di manipolarmi per i tuoi interessi personali. E non ti permettere mai più di insultarmi.
Mikasa non batte ciglio. Ti studia per qualche secondo, il mento affondato nella logora sciarpa rossa che porta sempre.
-Pensavo che avessi bisogno di aiuto per prendere una decisione difficile. A questo punto credo che ti meriti quello che ti vai a cercare-  si volta ed esce dalla stanza.
Ti tremano le mani e la testa ti scoppia per il pianto e il poco sonno. Hai gli occhi gonfi e ti fanno male i punti delle ferite. Senti una mano che si infila nella tua. E’ Armin. Ti fa sedere sul divano.
-Hmm…- esita Sasha. –Dovremmo prepararci, tra poco c’è l’adunata…
-Arriviamo subito- risponde Armin. Si siede accanto a te, le mani tra le ginocchia. Non vi guardate. Sai che Armin dirà qualcosa di buonsenso, e vorresti che non lo facesse, perché sai che il tuo comportamento è irragionevole, quindi non può venirtene niente. Come puoi difendere il fatto che Levi ti ha sbattuto contro un muro aspettandosi che ti facessi scopare senza dire una parola? Il ricordo che ti torna in mente più spesso non è quello, ma come ti teneva il viso tra le mani quando ti ha baciato la fronte. Non hai spiccicato parola con Sasha, ieri notte. Come confessare che piangevi perché ti vergogni di essere ancora vergine? Che avresti voluto non esserlo, per lui? Ha ragione Mikasa: non meriti simpatia.
-Valeshka – neanche Armin riesce a chiamarti per nome. Ci ha provato, nei primi giorni, ma te ne sei scelto uno davvero troppo ostico. –Stai attenta al Capitano Levi.
Sospiri pesantemente, sperando di non rimetterti a piangere.
-Accidenti, Armin – cerchi di scherzare. –Contavo tanto su di te: riesci sempre a trovare il buono nelle persone… Se non ce la fai neanche tu, sono proprio in un bel pasticcio.
-Non sto dicendo che il Capitano sia una persona cattiva – precisa lui. –Non lo credo affatto. Ma ho paura che non si ricordi più come si fa ad essere buoni. E tu… sei così persa di lui che siamo tutti preoccupati.
-Ma insomma! – esclami a disagio. –Fino a ieri non ero sicura neanch’io di cosa provavo! Com’è che tutti avete deciso che…- non riesci a finire la frase per l’imbarazzo. Armin si gira a guardarti con un sorriso.
-Già, forse tu non te ne sei nemmeno accorta! E forse non se n’era accorto neanche lui, ma era evidente per tutti gli altri. Vi annusate come i cani – si concede una risatina mentre tu avvampi. –Però, Valeshka: il carisma di quell’uomo è pericoloso. Credo che non se ne renda neanche conto. La gente è pronta a morire, per lui. La gente è già morta, per lui. Non diventare un’altra…
Un’altra Petra Ral, pensi, ma la porta della sala si apre e Levi si porta sulla soglia. Fa un cenno ad Armin.
-Fuori, Arlert. Sono stufo di aspettare che usciate uno alla volta, ci mettete un secolo.
Armin si lancia praticamente fuori dalla sala comune mentre la sua faccia passa di nuovo attraverso diverse sfumature di rosso. Levi entra, chiudendosi la porta alle spalle. Zoppica. Hai saputo che è stato ferito nello scontro con il Titano Femmina, ma ieri non te ne sei accorta.
-Riposo – Ordina, dal momento che sei ancora sull’attenti. –Siediti, per l’amor del cielo, mi metti il nervoso, impalata così.
Piombi di nuovo sul divano, senza sapere dove guardare. Levi si lascia cadere accanto a te. Sei così tesa che se cominciasse a sanguinarti il naso per la pressione interna non ti sorprenderesti.
Levi resta per qualche momento reclinato contro la spalliera, braccia conserte e gambe accavallate, guardando il soffitto. Per reazione, incastri i gomiti tra le ginocchia e ti chini in avanti più che puoi per evitare di guardarlo. Alla fine, prende un profondo respiro e si gira verso di te.
-Valeshka… guardami, maledizione, il pavimento non è così interessante. Valeshka: il mio comportamento di ieri notte è stato inqualificabile. Imperdonabile. Ti prego di accettare le mie scuse; io…
-No, signore! – lo interrompi precipitosamente. –Non ce n’è bisogno signore. Voglio dire, vi ringrazio, ma capisco perfettamente: eravate sconvolto e stavate cercando solo, ehm… una specie di conforto, immagino…
La voce ti muore in gola: ad ogni parola, l’espressione di Levi si è indurita sempre di più. Al momento, i suoi occhi potrebbero tagliare il vetro come burro. Si alza dal divano e ti guarda dall’alto.
-Dimmi una cosa, Valeshka – ti dice, mentre si toglie un fazzoletto di tasca e si sfrega le mani. –Sai quanti bordelli ci sono a Trost?
-…Signore? – balbetti costernata.
-Ci sono cinque bordelli, nel distretto di Trost – continua lui. –Parlo solo di quelli di discreto livello; naturalmente ci sono un’infinità di disgraziati che affittano camere ad ore per le puttane di bassa lega, ma i bordelli propriamente detti sono cinque. Ogni militare li conosce e ogni militare in vena di scopare preferirebbe una professionista con due belle tette ad una recluta che si è tagliata i capelli con le forbici da giardino. Sei d’accordo con me, Valeshka?
-Non saprei, signore – risponde, con la bile che ti esce dagli occhi. –Non sono un militare in vena di scopare.
-Però sei arrogante come sempre – sorride amaro lui. Intasca il fazzoletto.  –Ti garantisco, Valeshka, che se ieri avessi voluto una scopata consolatoria avrei potuto farmi il giro di tutti i bordelli di Trost due volte senza un soldo di danno, e lo dico per esperienza personale, perché per il fottuto Capitano Levi offre la casa. – porta il viso al tuo livello. –Ti assicuro che non stavo cercando una puttana ieri sera, Valeshka. E non stavo cercando una scopata.
-Non capisco, signore.
Sui suoi lineamenti passa un’ombra. Non fai in tempo a decifrarla. Poi perde ogni espressione. Si raddrizza.
-… in effetti, non stavo cercando nemmeno una stupida.
Salti in piedi e lo fronteggi.
-Non capisco perché, – insisti –se non stavate cercando una scopata, quando mi avete vista mi avete fatto… quasi fatto… quelle cose. Sarò anche stupida, signore, ma voi siete quantomeno contraddittorio.
-Ti ho già chiesto scusa per il mio comportamento – ribatte lui, contrariato.
-Io vi sto chiedendo una spiegazione!
-Cazzo, Valeshka, eri nel fianco destro! – scatta Levi. –Non ci sono stati sopravvissuti. I feriti sono morti durante il trasporto. Questo era quello che sapevo. Non avevo idea che fossi viva. E quando sono rientrato al Quartier Generale e mi sei venuta incontro… diciamo che non sono un tipo da mazzi di rose- conclude con aria di sfida.
-Che c’entrano adesso i mazzi di rose?
-Ma allora sei stupida! – esclama Levi.
-Capitano Levi, per l’ennesima volta: non insultare i Cadetti. Non insultare le persone -
La voce pacata del Comandante Erwin lo precede fuori dalla porta. Scatti sull’attenti automaticamente, mentre lui entra e getta uno sguardo interrogativo sulla scena.
-Confido che stessi informando il Cadetto Valeshka della missione a Stohess – prosegue.
-Ci stavo arrivando – risponde lui tra i denti.
-Me ne incarico io. Tu vai avanti, gli altri stanno aspettando. 

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Capitolo 11
*** Grand Jeté ***


Stai morendo di caldo.
Mentre, in carrozza, venivi trasportata oltre il Muro Sina, credevi che il caldo non avrebbe mai trovato posto tra i tuoi pensieri: appena convalescente, sei stata spedita in un’ulteriore missione, potenzialmente suicida, contro il Titano Femmina, che molto probabilmente è Annie, una delle persone che avevi sentito più vicine. Questo, il giorno dopo che il Capitano Levi ti aveva sbraitato addosso qualcosa di simile ad una confusa dichiarazione d’amore, a sua volta il giorno dopo averti sbattuta contro il muro con intenzioni meno che cavalleresche. Avresti detto di avere abbastanza cose a cui pensare da dimenticarti di tutto il resto del mondo.
Invece, seduta al tavolino di un caffè accanto a un Reiner non meno taciturno di te, non pensi ad altro che al caldo: ci sono una quarantina di membri della Legione Esplorativa appostati in borghese dai cancelli del Muro Sina al passaggio verso i sotterranei in cui Armin, Mikasa ed Eren intendono tendere una trappola ad Annie. Tu sei uno di questi: vi hanno fatto vestire con gli abiti civili che indossavate prima di arruolarvi nell’esercito. Agli uomini sono stati dati mantelli sotto cui nascondere il DMT, mentre le donne lo tengono sotto le gonne; tutti avete l’imbragatura sotto i vestiti, pronti ad agganciarlo in caso servisse.

Non riesci a credere di aver portato quegli abiti con disinvoltura fino a poco più di un anno fa: sono una quantità impossibile di strati inutili. L’uniforme della Legione è semplice, adatta al movimento. Adesso stai soffocando nel corpetto attillato dell’abito intero che indossavi il giorno in cui ti sei presentata al posto di arruolamento. Hai deciso almeno di non indossare il corsetto: il vestito non si chiude sulla schiena, ma hai indosso una mantellina che nasconde i lacci allentati. Tanto meglio, alla bisogna lo toglierai più in fretta. Sotto indossi i calzoni della divisa, gli stivali e la comoda maglia di cotone d’ordinanza, le cui maniche lunghe imbottiscono in modo grottesco quelle dell’abito. Ti sembra di essere un panino farcito, tutto prude e tira ad ogni movimento. Hai sperato di poter fare a meno delle sottovesti, ma hai dovuto indossare quella inamidata, perché la gonna ti pendeva addosso floscia e hai già il tuo daffare a non calpestarla, senza i tacchi alti delle scarpe con cui la portavi sempre. Hai anche un cappellino in testa, perché la gente non si accorga dei tuoi strani capelli corti, che non somigliano a nessuna delle pettinature in voga tra le signore perbene. Reiner ti fa smorfie di continuo, nascosto dietro il boccale di birra che non ha il permesso di bere, ma che deve tenere a portata di mano per nascondere il viso nel caso in cui Annie, passando, guardi nella vostra direzione; a te, per lo stesso scopo, hanno dato un ventaglio.

Siete appostati da quasi due ore: siete partiti in largo anticipo rispetto al convoglio che trasporta Erwin, Levi e Jean, mascherato da Eren, e le vostre carrozze hanno viaggiato a scaglioni molto distanziati, per non dare nell’occhio. L’ultima a partire è stata quella di Armin, Mikasa ed Eren. C’è un complicato piano di spostamenti che porterà tutti voi a disporvi a raggera intorno al luogo dell’imboscata. A voi del 104° sono toccati i punti più esterni della formazione, per evitare di farvi riconoscere, ma siete stati comunque convocati nell’eventualità in  cui occorresse far ricorso al dialogo, perché tutti conoscevate Annie. Tutto è stato calcolato, previsto o ipotizzato. 

La carrozza con il finto Eren è entrata nelle Mura quaranta minuti fa, stando ai piani. Tu e Reiner avete avuto tutto il tempo di raccontarvi la vostra vita per filo e per segno, anche se tu ti sei mantenuta il più possibile nell’ambito degli aneddoti della tua vita di ballerina. Non hai ancora raccontato apertamente a nessuno di essere originaria di Stohess: temi di essere etichettata come una molle ragazzina viziata, anche adesso, a distanza di anni da quando hai lasciato la casa dei tuoi genitori. Sei già stata in questo caffè: la tua bambinaia aveva una tresca con uno dei camerieri, e quando ti portava a passeggio si fermava a chiacchierare con lui. Dopo, comprava il tuo silenzio con qualche dolciume.
-Al diavolo – Reiner interrompe il flusso dei tuoi pensieri. – Questa birra è diventata brodo. Siamo qui da due ore e abbiamo ordinato solo una cosa a testa, e non l’abbiamo nemmeno consumata.
Veramente, tu hai bevuto il tuo tè. Reiner fa seguire i fatti alle parole, ingoiando metà boccale in un colpo e passandoti ciò che resta.
-Tieni: rendiamo credibile la nostra copertura.
Butti giù la birra senza riflettere: è calda e sgasata, amara. Reiner ne ordina altre due.
-Reiner… non dovremmo farlo. Rischiamo un richiamo.
-Non preoccuparti: col caldo che fa, la suderemo tutta prima che possa farci alcun effetto. E poi, lo sai anche tu: è molto probabile che non succeda niente. Ce ne staremo qui fino a sera a morire di noia, e poi torneremo indietro. L’importante è non mostrare ai superiori che abbiamo bevuto, perciò se ti senti brilla fila in un vicolo e ficcati due dita in gola.
-Ma che schifo – Reiner non ti risponde: sta ridacchiando tra sé e sé.
-Che c’è di buffo?
-“Non dovremmo farlo…” lo dici anche al Capitano Levi?
Gli tiri in testa la scorza di limone del tuo tè proprio mentre arrivano le birre. Reiner sta ancora sghignazzando e coprendosi il petto con le mani con comico pudore quando la cameriera se ne va con la tazza e il boccale vuoto.
-E smettila. Non c’è niente che non abbiamo fatto. No! Volevo dire che non c’è niente che non dovremmo fare… accidenti. Non abbiamo fatto niente e basta. La vuoi piantare?
Reiner ha affondato il naso nella schiuma della birra, ma i colpi di risa spediscono spruzzi spumosi in tutte le direzioni.
-Però! Mezza birra e siamo già alle confessioni intime… - riesce a dire mentre riprende fiato. E’ il tuo turno di nasconderti nella birra.
–Piuttosto – cambi discorso. -Tu non credi che Annie sia il Titano che stiamo cercando, vero?
-Tu sì? – ribatte Reiner senza distogliere lo sguardo dal boccale.
-Non so – sospiri. –Di sicuro non voglio che lo sia. E non vedo perché una persona che si trasforma in Titano dovrebbe arruolarsi proprio nell’esercito. Beh, certo: c’è anche Eren, ma lui non sapeva di avere questo potere, e comunque l’ha usato da subito contro i Titani. Invece il Titano Femmina attacca gli uomini.
-Allora secondo te non è lei.
Prendi un altro sorso prima di rispondere.
-Non ridere di me, ma… in effetti… le somiglia. Sì, l’ho vista di sfuggita e al momento non ci ho pensato, ma quando il Comandante Smith ha fatto il suo nome mi sono accorta che sono davvero molto, molto simili.
Reiner alza le spalle.
-Non vuol dire niente – dice. –Eren non si somiglia, quando è trasformato.
-Ah no? Non l’ho mai visto.
Rimanete in silenzio per un  po’, sorseggiando la birra fresca. Probabilmente l’alcool sta agendo in combutta con il caldo, perché ti senti vagamente euforica, nonostante la noia dell’appostamento e la tensione per gli ultimi avvenimenti. Sei stranamente compiaciuta che tutti diano per scontato che hai una storia con Levi e ti accorgi di avere una gran voglia di poter raccontare tutto a qualcuno, benché non a Reiner, potendo scegliere. Sei cosciente che dovresti sentirti in colpa per stare a gingillarti con questi pensieri invece che concentrarti sulla missione; vorresti sentirti in colpa, ma lui ha parlato di rose…

Una figura si avvicina in fretta al vostro tavolo. E’ Christa: è talmente minuta che sulle prime hai creduto che fosse una bambina, anche a causa della cuffietta che indossa. Quando vi vede bere alcoolici, incrocia le braccia con espressione di rimprovero.
-Non dovreste bere in servizio!
-Che diavolo hai in testa? – chiede Reiner ad occhi sgranati.
-E’ una cuffietta – si schernisce subito Christa. –Mi piace e poi mi fa più alta.
-Sei adorabile, Christa! – le sorridi nel delicato alone di buonumore che ti circonda. –Sembri una bambolina.
-Grazie! Oh, ma stai bevendo troppo! Smettetela tutte e due – prende in consegna i vostri boccali. –Sto facendo la staffetta per avvertire che Annie è arrivata al passaggio, quindi dovete tenervi pronti. Reiner, tu vieni in postazione con me. Valeshka, tu devi raggiungere Connie e Berthold, passare la notizia e mandare Berthold al prossimo appostamento.
-Prima vado a fare pipì – annunci allegramente.
-Io pago il conto – fa eco Reiner.
E’ complicato urinare con due strati di gonne, i calzoni della divisa e il DMT da sganciare e riagganciare alle cinghie, e quando esci dalla toilette Reiner e Christa sono già scomparsi. Ti affretti verso la tua destinazione, sperando di non dare nell’occhio a causa della strana andatura che ti causa il tuo carico nascosto. Si avvicina l’ora di pranzo e le strade si stanno svuotando, le ombre sono corte e nere al sole di mezzogiorno.

Non credevi di essere sovrappensiero, ma quando senti l’esplosione fai un salto dallo spavento.
Vorresti avere il beneficio del dubbio, ma hai già sentito un suono simile, sulle mura di Trost, ed è inconfondibile. Ti volti a controllare: la polvere dei detriti si leva alle tue spalle, oltre la linea dei tetti. Da terra, è impossibile indovinare a che distanza.
La calma sonnolenta della scena si rompe immediatamente: persone si affacciano alle finestre, si sporgono in strada, si chiamano le une con le altre chiedendo informazioni sull’accaduto. Già si sente gridare dal luogo dello schianto, fra poco le strade saranno invase di gente in fuga. Alzi lo sguardo: Il cielo si popola di figure in controluce, lanciate in aria dai cavi del DMT. Alcune cercano un punto d’osservazione più elevato, altre si precipitano subito verso l’origine del rumore.
Combatti per toglierti il vestito, mentre risuonano altri scoppi: edifici che crollano. Il giromanica dell’abito di rigido taffetà verde è talmente stretto che duri fatica ad afferrare le spalline e tirare; il corpetto viene giù con uno strappo sinistro. Probabilmente lo dovrai buttare. Ti sembra di scuoiarti come un coniglio mentre sgusci fuori dalle maniche aderenti, ma arrivata alla gonna ti accorgi di essere nei guai: devi sfilarti l’abito dalla testa. La strada si è riempita di gente che ti spintona da ogni lato, e sei impacciata dal DMT. La gonna è troppo voluminosa e non riesci ad infilare le mani al di sotto per slacciare le fibbie dell’imbracatura. Cerchi di fermare una donna per farti aiutare, ma nessuno ti dà retta, sono tutti pazzi di terrore e badano solo ad allontanarsi da quel punto, nascosto dietro i palazzi, in cui tu invece devi a tutti i costi arrivare.
Dopo l’ennesima spallata di un passante, perdi la pazienza: estrai alla meglio una spada dal fodero e tranci la stoffa del corpetto tutt’intorno alla tua vita, poi raccogli la stoffa della gonna in ampie manciate e fai a pezzi anche quella prima di accanirti sulla crinolina come se potassi un cespuglio. Lanci il cappello al vento e spari i cavi del DMT direttamente da dove ti trovi verso il tetto più vicino, mentre una nuova detonazione riempie l’aria. Poggi i piedi sulle tegole in tempo per vedere la sagoma del Titano Eren che si gonfia, emergendo da un ammasso di detriti a qualche centinaio di metri da te. E’ una visione surreale: fasce muscolari si allacciano tra loro; i tendini luccicano, bianchi. Vedi folti capelli castani spuntargli dal cranio che ancora s’ingrossa. Anche se ti dà le spalle lo senti schioccare forte la mascella, saggiare i denti. Poi allunga il collo e urla, un suono gutturale straordinariamente sonoro che ti fa vibrare la bocca dello stomaco. Un suono zuppo di rabbia, un grido che ha fame di sangue. Ti si rizzano i peli alla base del collo mentre il suono continua, ancora e ancora, spinto fuori da quel corpo possente che scoppia d’odio. Quando si lancia in corsa, i tonfi dei suoi passi fanno staccare parecchie tegole, e devi accucciarti per mantenere l’equilibrio sul tetto. Una tegola slitta sotto la suola del tuo stivale; stormi di piccioni decollano in fuga dai loro nidi sotto i cornicioni, nelle grondaie. I tetti sono pieni delle grida di soldati che si ragguagliano sulla situazione.
Senti il sudore accumulato nelle ore calde di attesa gelartisi sulla pelle mentre voli all’inseguimento di Eren, insieme a decine di altri militari vicini e lontani. Vedi i capelli biondi del Titano Femmina. Di Annie. Corre in direzione della grande piazza in cui sorge la Chiesa del Muro Sina. E’ la più grande chiesa del culto, un edificio ogivale le pareti coperte di giri di loggette e un campanile bianco costituito di piani e piani di arcate cieche. Sei stata in quella chiesa: i tuoi genitori, come quasi tutti all’interno del Muro Sina, sono devoti alla religione delle Mura. Da piccola, anche tu hai creduto che il Muro avrebbe tenuto lontano ogni pericolo. Adesso, mentre ti lanci oltre i comignoli con il vento che ti fa lacrimare gli occhi, vedi la chiesa sbriciolarsi sotto il corpo di Annie. Sai che ci sono persone, lì dentro. Forse la tua famiglia. Annie si rialza abbattendo altre mura, i suoi piedi sicuramente stanno calpestando corpi umani. Immagini le braccia di tua madre, chiuse in pudiche maniche lunghe, le macchioline dell’età sulle mani nascoste dai guanti di filo, spezzate dal tallone di Annie. Quando si rimette a correre, con ogni passo schiaccia qualcuno che conoscevi: tuo padre; il tuo fratellino; la tua bambinaia. I suoi passi distruggono la tua vita passata. Si dà alla fuga per le strade con Eren alle calcagna, sfondando file di palazzi mentre corrono. I palazzi che conoscevi, per le vie che percorrevi.
Lei era la tua compagna preferita.
Tra tutti i cadetti del corso d’addestramento, quella con cui hai legato di più è l’abominio che distrugge i luoghi della tua infanzia. Questo che cosa dice, di te?
Una vampata di vergogna ti sale alla faccia. Ti senti imbrogliata da Annie, umiliata per averle voluto bene e un senso di colpa nero pece di assale perché senti che niente, nella tua carriera militare, ti ha mai ferito quanto veder distruggere qualcosa che era tuo. Hai visto radere al suolo le case di centinaia di persone, povera gente che ha dovuto seppellire i propri cari sapendo di non avere più un posto in cui tornare, dopo il funerale, ma quello che ti fa infuriare è vedere rovinati i giardini in cui la tata ti portava a passeggio. Sei una ragazzina ricca e viziata e Annie te lo sta ricordando.
Quando arrivi alla chiesa, la piazza in macerie brulica di soldati, soccorritori e sopravvissuti. Molti barbagli dorati occhieggiano tra le rovine: le pesanti collane di piastre d’oro dei fedeli, schiacciate tra le pietre, macchiate di sangue.

Ti getti a scavare, alla cieca; sposti pietre con le mani, afferri un paio di gambe per tirare qualcuno fuori dalle macerie. Non riconosci nessuno, e allora passi al prossimo. A volte, sollevare una lastra d’intonaco rivela al di sotto un cranio schiacciato, una zuppa di denti, sangue e capelli; a volte, il braccio che tiravi da sotto una trave crollata viene via da solo, senza un corpo attaccato. Guardi i tessuti, gli anelli alle dita dei corpi sfigurati. Sollevi le lenzuola che coprono le salme, chiedi ai feriti se conoscono i tuoi genitori, li descrivi. Nessuno li conosce, e tu non conosci nessuno; la scena diventa surreale. Davvero hai vissuto in quel distretto per quasi tutta la tua vita? Dov’è la tua famiglia?
A casa.

Non sai se il gas ti basterà per tutto il tragitto: l’hai aperto al massimo per andare più veloce. Voli sulle strade distrutte e ti sembra che il percorso dei giganti in lotta segua esattamente la strada per casa tua. Sarà ancora in piedi, quando arriverai? Magari i tuoi genitori sono scappati, magari sono vivi.
Li hai lasciati con un biglietto. Da quando ti sei unita al corpo di ballo, non sei mai tornata a trovarli. Hai scritto loro lettere, senza un indirizzo a cui avrebbero potuto risponderti. Dal momento in cui ti sei arruolata, non gli hai scritto affatto. Hai presunto che non fossero preoccupati per te perché tu non lo eri per loro. Hai dato per scontato che amassero la loro vita più di quanto amassero te. Che, essendo ricchi, fossero al sicuro. Immortali. Li hai abbandonati, e hai stretto amicizia con il mostro che forse li ha già uccisi.

Quando avvisti Annie ed Eren non sei ancora arrivata a destinazione: Annie sta voltando le spalle a un cumulo di detriti, una slavina di calcinacci che si apre sulla facciata di un palazzo. Si dirige verso la piazza del mercato sotto le mura.
Nessun velo rosso ti cala sugli occhi quando decidi di seguirla: un interruttore si accende nella tua testa, un comando che cancella ogni tuo altro pensiero.
La vuoi tu, Annie.
Le dai dietro, accompagnata dal sibilo delle bombole, senza staccarle gli occhi di dosso se non per mirare al prossimo appiglio per i cavi. Guadagni terreno, gli occhi fissi sulla nuca. Ancora troppo lontana, ancora qualche metro. Annie non si è accorta di te; quando un nuovo frastuono esplode alle vostre spalle si gira a guardare e i suoi occhi passano oltre senza vederti. Tu non perdi tempo a controllare, invece: siete quasi arrivate all’arco che corona lo sbocco della via sulla piazza. Prendi le misure: con un ultimo colpo di gas ti lanci di piedi verso il pilone che sovrasta l’arco; lo userai per darti la spinta verso il collo di Annie. Sganci i cavi e ti prepari all’impatto. Controlli un’ultima volta la posizione di Annie.
E’ in quel momento che vedi Eren, una sagoma annerita e avvolta dai fumi, piombarle addosso. Prende Annie in piena schiena e la butta contro l’arco di pietra. Anche in aria avverti lo schianto propagarsi lungo la struttura dell’arcata, raggiungere i piloni, continuare oltre il tuo sguardo.
Non hai più dove atterrare: i tuoi piedi scompaiono nella nuvola di calcinacci del pilone che crolla e un attimo dopo anche tu ne vieni inghiottita. Spari i cavi alla cieca mentre una miriade di proiettili di pietra e legno ti colpiscono le braccia, la testa, le gambe. Il rombo è assordante. Qualcosa ti strattona per la cintura e ti trattiene mentre la luce scompare in un crescendo di schianti. Quello che sembra essere un quintale di ghiaia ti piove sulla schiena, non capisci più qual è il sopra e quale il sotto; l’aria è piena di polvere e non riesci a respirare, tutti i rumori esterni sono scomparsi. Il sudore ti cola negli occhi e te li fa bruciare. Ansimi e tossisci, lanci grida rauche d’aiuto agitando le braccia a caso, cercando un appiglio, qualcosa. Le tue gambe annaspano nel vuoto, intorno a te l’aria è buia e densa come una zuppa.
Passa del tempo; le tue gambe formicolano in maniera insopportabile. Lanci un grido, poi riprendi fiato e la polvere ti fa tossire; quando la tosse passa, lanci un altro grido. E così via.
Poi, qualcosa frana, in alto. Un raggio di luce fende la penombra. Vedi tutte le particelle di polvere affrettarsi verso l’uscita e vorresti seguirle. Insieme alla luce, entra anche una voce: un torrente di bestemmie.
-Cazzo cazzo porca puttana no, no, NO. No, mi hai capito? Merda, mi senti? Mi devi rispondere, cazzo… –
L’apertura si allarga ancora e nuovi calcinacci franano all’interno. La luce ti acceca e la voce continua imperterrita come se non si aspettasse una risposta. Un braccio s’infila all’interno, tastando intorno. E’ ad un paio di metri da te. “Ehi”, gridi in risposta, ma ti esce solo uno squittio e la tosse lo spegne subito; la voce però si arresta, in attesa.
-Sono qui – tenti di nuovo. La tua voce è un gracchio, ma riesci a farti sentire.
-Merda. Porca puttana – la luce si oscura per un attimo del tutto, e capisci che ha accostato il viso all’apertura. –Va bene, Valeshka, ti vedo. Porchissima troia. Non ti muovere, mi senti? Mi hai capito?
-Capito – rispondi senza fiato. Non è tutta colpa della polvere: hai capito a chi appartiene la voce.

La breccia nelle macerie si allarga dell'altro, cullata dalla sinfonia d’improperi che accompagna tutto il procedimento. Levi striscia all’interno sui gomiti, contorcendosi nello spazio ristretto. Si sdraia su un fianco e allunga le braccia verso di te; ti allunghi anche tu e il petto ti scoppia di dolore. Ti accartocci mentre un nuovo accesso di tosse peggiora la situazione.
-Che ti prende?
-Qualche costola… credo… rotta, forse – rispondi tra un colpo di tosse e l’altro.
-‘fanculo le costole, Valeshka! Devi uscire di lì: prendimi le braccia, forza! -
Digrignando i denti per il dolore, ti estendi al massimo e gli afferri i polsi. Levi ti tira a sé e comincia a strisciare a marcia indietro nel buco che ha aperto. Le tue braccia sono le prime a sbucare all’aperto; ti protendi verso l’aria aperta e prendi un avido respiro mentre Levi continua a tirarti fuori.
…e poi, qualcosa ti trattiene. Un paio di strattoni robusti causano solo un coro di sinistri scricchiolii all’interno del cumulo di detriti.
-Sono incastrata! – gridi, frenetica all’idea di essere bloccata a pochi palmi dalla libertà. Punti i gomiti e spingi all’impazzata, ma ti accasci con un guaito mentre le tue costole protestano a gran voce.
-Ferma, ferma; se ti agiti potresti far crollare qualcosa – Levi si inginocchia e getta uno sguardo oltre la tua spalla, nel tunnel improvvisato. La polvere di calcina gli fa i capelli di un vecchio e gli imbianca le ciglia; ti rendi conto che il tuo aspetto non deve essere molto diverso.
-E’ un cavo del DMT – è il referto di Levi. –Sei appesa in qualche modo, dev’essere incastrato tra i detriti. Devi slacciarti l’imbracatura. Infila le braccia dentro -
Non reagisci: le braccia sono l’unica parte di te che è fuori…
-Andiamo, Valeshka. Non cagarti sotto proprio adesso – ti sprona lui, brusco. Poi, più dolcemente, aggiunge: -Ci sono io, tranquilla.
Reinfili le braccia nel buco e armeggi con le fibbie; l’imbracatura si sfila e senti le pesanti custodie delle lame e delle bombole che scivolano verso il basso, seguiti dalle valvole del gas. Poi, tutto il blocco piomba nel vuoto e ti strappa via con sé: hai dimenticato di slacciare le cinghie che collegano l’imbracatura alle gambe, staffate negli stivali. Venticinque chili d’acciaio ti tirano di nuovo nel vuoto. Non fai nemmeno in tempo a urlare.
Levi si tuffa dietro di te e ti afferra per i gomiti; nuovo dolore ti esplode nel petto, espelli tutta l’aria dai polmoni e resti a bocca aperta, con gli occhi sbarrati.
-Togliti gli stivali!
Scalci, cercando di ubbidire; tutto il peso del DMT è appeso alle tue gambe, e gli stivali sono alti sopra il ginocchio. Strappi via il primo, ma sfilare l’altro col piede scalzo è difficilissimo. Ondeggi nel vuoto, appesa per le braccia che bruciano di dolore; senti i tendini che schioccano. Levi grugnisce per lo sforzo, trascinato per metà nel cumulo di macerie. Quando anche l’altro stivale viene via, il contraccolpo vi scaglia fuori dal buco, sulla schiena, ancora agganciati per le braccia. Levi si rialza a sedere e ti tira fuori del tutto, afferrandoti per le spalle. La testa contro il suo petto, ti guardi intorno, respirando dalla bocca.
-Stai bene? – senti la sua voce all’orecchio. Si sposta per guardarti in faccia, ti prende il viso tra le mani. –Valeshka, mi senti? Rispondimi, stai bene? -
Metti di nuovo a fuoco: Levi è bianco come un mimo; sulla sua guancia e sulla sua camicia ci sono larghe chiazze di sangue. Quando ritira le mani vedi che sono macchiate anche loro; lui segue il tuo sguardo e fa una smorfia.
-Sei un macello. Ti si devono essere riaperti i punti sulla testa – estrae un fazzoletto e ti tampona la fronte, poi ti pulisce la faccia. Poi gli getta un’occhiata e lo butta via con una smorfia.
-Valeshka, per favore – continua. C’è una nota ansiosa nella sua voce. –Capisco che sarai sconvolta, lo shock e quant’altro, ma devi provare a rispondermi, d’accordo? Dimmi che stai bene. O che stai male, ma cazzo, di’ qualcosa! -
-Sì – bofonchi finalmente. –Sto bene. No, non tanto, ma… insomma, hai capito. Avete capito – ti correggi.
Levi chiude gli occhi e prende un profondo respiro. Si sporge, e poggia la fronte sulla tua. Resta così per il tempo di un altro respiro. Chiudi gli occhi anche tu; vorresti sentire il suo odore, ma senti solo quello fresco e asciutto della pietra e della calce. Siete due persone di pietra.
Poi, Levi si stacca, ti prende per le spalle e la sua faccia è tornata quella di sempre.
-Adesso ascoltami, io devo andare. Non ti muovere, non fare niente: ti mando io dei soccorsi, hai capito? -
-Ho capito – alzi una mano e gli tocchi la guancia sporca di sangue. Gli mostri le dita tinte di rosso.
-Grazie – fa lui, strofinandosi con la manica della camicia. Si alza, raccoglie il mantello e lo indossa, poi si gira un’ultima volta.
-Fatti trovare –ti intima. Si lancia col DMT giù dalla pila di macerie.

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Capitolo 12
*** Reverènce ***


La porta si è aperta senza fare rumore.
L’infermeria non è mai realmente al buio, di notte: al velo azzurrino di luna e stelle si aggiungono i lumi delle infermiere di guardia; tenuti al minimo per non disturbare il sonno dei malati vagano come grandi lucciole, galleggiando a mezz’aria lungo la ronda della guardia di notte, o riposano ai piedi delle seggiole su cui le infermiere sonnecchiano, non viste dai superiori. A volte il loro russare leggero si unisce al respiro pesante dei convalescenti e ai misteriosi rumori che fuoriescono dai piccoli padiglioni di tende, in fondo alla corsia, che nascondono i feriti gravi.
Ti sei abituata a quest’atmosfera da acquario di profondità: hai passato le giornate sonnecchiando durante le ore diurne, spossata dal caldo, dalla febbre e dall’etere che ti hanno dato per il dolore. Ti risvegli durante la notte, rinfrancata dalla frescura. Senza visite o svaghi, segui l’andirivieni delle lampade ad olio delle infermiere, come una falena. Stanotte, il rettangolo nero che si apriva sulla porta che girava sui cardini ha attratto i tuoi occhi più della luce.

I ricordi dei primi giorni dopo che il convoglio dei feriti ti ha riportata in caserma sono vaghi e fumosi. Non ricordi di esserti addormentata, ma i due soldati della Milizia Cittadina che ti sono venuti a prendere ti hanno svegliata al loro arrivo. Ricordi di aver insistito per scendere con le tue gambe dalla pila di detriti, alta tre metri, che ti aveva quasi seppellita e su cui ancora giacevi. Prevedibilmente, debole e scalza com’eri hai messo un piede in fallo e sei rotolata giù per metà percorso. Ti hanno portata in fondo sorreggendoti, un braccio sulle spalle di ciascuno, e scortata al carro che ospitava diversi altri militari feriti, perlopiù a causa del crollo di edifici, come te.
Durante la strada respirare è diventato più difficile; hai creduto che fosse un effetto dello spavento provato, poi di aver respirato troppa polvere di calce e mattoni; al momento dell’arrivo in infermeria non pensavi più a niente, ti ingegnavi soltanto a tirare dentro aria con più energia possibile, la lingua di fuori come un cane. Non sei stata in grado di alzarti da sola per scendere dal carro, ti hanno portata giù a braccia e messa su una lettiga. In infermeria, un medico ha fatto un cenno brusco all’infermiera che lo assisteva, e quella ha tirato in fretta le tende tutt’intorno al letto. Non ti hanno rivolto la parola, non ti hanno chiesto cosa fosse successo: con un paio di forbici hanno aperto i tuoi vestiti dal collo alla cintura, tagliando in un colpo solo la maglia e gli indumenti intimi. Hanno auscultato e picchiettato il tuo torace, poi ti hanno tirato a sedere e hanno fatto lo stesso con la schiena. Poi, hanno chiamato altri due infermieri, uomini.
La maschera con l’etere è stata pronta qualche momento troppo tardi: hai fatto in tempo a vedere il dottore mentre disinfettava le tue costole, sul fianco destro, mentre un’infermiera accanto a lui reggeva un bisturi. La maschera di metallo, panneggiata di un tessuto lanuginoso come fiocchi di neve e impregnata d’etere dall’odore pungente, è calata sul tuo viso mentre il bisturi passava di mano e i due aiutanti convocati al tuo capezzale si abbassavano con tutto il peso sulle tue braccia. Non ricordi altro.
Sai di aver avuto la febbre perché te l’ha detto un’infermiera. Sai di aver avuto un tubo di caucciù che ti sporgeva dal torace per giorni e che hai cercato di strappartelo più volte nel delirio. Ti hanno detto che ti hanno dovuto legare al letto per qualche ora perché, tra i fumi dell’etere e la febbre alta, cercavi di graffiarti la faccia. Per tre giorni ti hanno fatto mandare giù acqua e zucchero a cucchiaiate e ti hanno avvolta in lenzuola bagnate per farti scendere la temperatura. Quando la febbre è scesa, hai dormito per due giorni senza quasi svegliarti. In realtà di notte eri sveglia, ma non hai mai chiamato nessuno: hai passato la prima notte a raccapezzarti su dove ti trovassi e come ci fossi finita, e la seconda a tastare sotto il lenzuolo per capire che ferite avessi. Hai sentito i punti sul tuo fianco, un grumo in rilievo sotto le tue dita sulcostato che duole neanche ti avessero preso a bastonate. Se muovi le gambe sotto le lenzuola senti prudere o bruciare in cinque o sei punti diversi; ogni mano, poi, ha scoperto sul braccio opposto una quantità di lividi e abrasioni. Se aggrotti la fronte, senti nuovi punti tirare sul tuo scalpo.
Oggi sei stata sveglia per quasi tutto il giorno: hai mangiato il cibo da malati di cui tutti, dai letti accanto al tuo, si lamentano, ma che tu hai trovato gustosissimo e hai finalmente saputo dal medico cosa ti è successo da quando ti hanno ricoverato: forse in seguito a un colpo violento, il tuo torace si era riempito di liquido, e ti hanno aperto un buco tra le costole per drenarlo. Poi, ti è venuta la febbre per le ferite. Ora sei fuori pericolo, ma devi aspettarti una certa debolezza nei giorni a venire, perché non hai mangiato praticamente niente per quasi una settimana. Da domani avrai dei visitatori, oggi devi solo riposarti e nutrirti. Sei rimasta sveglia fino a dopo pranzo, poi la digestione e la canicola ti hanno ricacciato nella sonnolenza.

Le infermiere devono essersi addormentate tutte e due, perché nessuno ha badato a questa porta apertasi nel cuore della notte.  Sei troppo lontana per distinguere bene le forme nella semioscurità, ma sei affascinata da questa sagoma nera che si è come ritagliata da sé nel muro; è in un certo qual modo familiare come un sogno e altrettanto surreale, soprattutto perché non ne emerge nessuno: il rettangolo buio resta immoto e invariato; potresti dimenticare che prima c’era una porta al suo posto.
Che ne è stato, di Annie? Non hai saputo nulla dell’esito della missione: se anche qualcuno è venuto a trovarti, tu non te ne ricordi. L’avranno presa? Si sa che cosa l’ha spinta a fare quel che ha fatto? I tuoi compagni saranno tutti vivi? Nella penombra della notte non hai riconosciuto nessuna delle sagome allettate che ti circondano. E Levi? Era ferito, prima della missione per catturare Annie, eppure è comparso a salvarti, in uniforme. Non avrebbe dovuto prendere parte alle operazioni…
-Valeshka.-
Hai pensato a lui, nel delirio della febbre. Hai chiamato i tuoi genitori, questo te lo ricordi. Ricordi anche di aver litigato col tuo maestro di danza perché pretendeva da te un entrechat douze.  Hai accusato Annie di averti tagliato i capelli mentre dormivi. E speri, speri con tutte le tue forze di non aver parlato con Levi a voce alta, ma sai di aver sognato di intrecciare le tue dita bollenti di febbre alle sue, fresche e asciutte. Hai sentito quelle mani sulla fronte, sulla nuca, succhiare via il fuoco che ti bruciava viva. Gli hai chiesto scusa dello stato in cui ti trovavi, della puzza che emanavi, del sudore in cui marinavi. Potresti giurare di aver sentito la sua voce rimproverarti di non dire scemenze. Hai imparato ad amare quella voce. Hai imparato il suo odore. Sa di bucato.
-Valeshka.-
Ma è basso, santo Cielo. Come hai finito per innamorarti di un uomo così basso? Ed è volgare, brusco e sembra che gli manchino i muscoli per sorridere. I suoi occhi fanno paura, ha il viso di un bambino e gli occhi di uno che è già morto da un pezzo… Ha un modo strano di tenere la tazza da tè, la tiene dal bordo, con la mano a coppa. Ha le sopracciglia troppo sottili. Quando si siede, accavalla le gambe come una donna. E quanti anni ha? Sarà vero che si doveva sposare con Petra? Lei era così adorabile, e tu… tu sei solo un soldato mediocre, che è riuscito a finire in infermeria dopo ogni singola missione. Un soldato scarso e una ballerina senza più futuro, e in quanto alla donna che c’è dietro… a volte ti sembra di essere a malapena una persona: anni ed anni passati a pensare con le punte dei piedi, a misurare tutto in battute, passi e posizioni. Non solo sei ancora vergine, ma non ti sei mai innamorata; non hai mai cucinato un pasto; non sei mai entrata in una banca. Non hai avuto altri interessi che la danza, e dopo l’incidente non ne hai avuti affatto: entrando nell’esercito li hai rimpiazzati con gli ordini da seguire. Come può, Levi o chiunque altro, innamorarsi di te?
Ti risvegli con uno scossone; non ti eri accorta di esserti assopita. Il cuscino è umido di sudore, senti le lenzuola come una pellicola sulle gambe, sul petto. Senti i passi dell’infermiera tra le file dei letti; hai la bocca secca, quando arriverà al tuo letto le chiederai un bicchier d’acqua. Ti porti una mano alla fronte; è calda e sudata, ma non capisci se hai la febbre o meno. I passi che si avvicinano al letto ti cullano e sei di nuovo in dormiveglia quando una mano ti scosta i capelli fradici e si posa a sua volta sulla tua fronte.

-No, non hai la febbre: è solo un caldo fottuto -
Spalanchi gli occhi. Levi è chino sul tuo letto con un’espressione non dissimile da quella del medico che ogni mattina ti scruta in gola dopo averti abbassato la lingua con un cucchiaio. Indossa la solita maglia di cotone chiaro e i pantaloni della divisa che tutti portate quando non siete in servizio. Non ha il fazzoletto al collo, e vedi il pomo d’Adamo muoversi mentre inghiotte. Sembra perfettamente solido e reale. Ti arriva anche un lieve sbuffo del suo odore, leggermente salso di sudore. Ti accorgi che lo stavi guardando a bocca aperta e cerchi qualcosa da dire, ma lui ti ferma con un gesto sbrigativo, si china e ti solleva, lenzuolo e tutto.
Nessuno lo ferma mentre ripercorre la strada fuori dall’infermeria buia, attraverso i corridoi deserti dal soffitto a volte. Ti trasporta come se non avessi peso, un braccio sotto le tue ginocchia, l’altro intorno alle tue spalle. Non ti guarda e non parla, e tu rimani sigillata in un silenzio attonito, timorosa che parlare possa fermarlo, spezzare lo strano incantesimo d’invisibilità che sembra circondarvi nella notte afosa.
Passo dopo passo, i corridoi intonacati di bianco sfilano via. Gli stivali di Levi risuonano sui pavimenti di pietra, ti sembrano tanto forti da svegliare tutti dai loro letti, eppure non incontrate un’anima. Non hai idea di che ore siano. Appoggi la testa alla sua spalla e aspetti.

Il principe azzurro, pensi. Il principe azzurro è alto e biondo, e indossa un’armatura scintillante. Strappa la fanciulla al suo crudele destino e la porta in braccio fino al suo bianco destriero, e la fanciulla è serena e sollevata perché sa di essere salva; posa il capo sul suo petto e attende il lieto fine. Tu, invece, sei avvolta in lenzuola sudate, tra le braccia di un uomo basso e bruno che ti ha portato via dal luogo in cui ti stavano curando e non hai la minima idea di cosa stia per succedere.
Non ci sono destrieri in programma: quando capisci dove ti sta portando, un sorriso incredulo ti sboccia sulle labbra.

La cambusa è uguale all’ultima volta in cui l’hai vista; è stata tirata a lucido a fine giornata e le stoviglie luccicano quietamente dai loro scaffali alla luce delle lampade. Il mastello di legno è già pieno d’acqua; sul grande tavolo di legno ci sono dei panni piegati, una saponetta, una spugna e un pettine. Accanto al mastello c’è uno sgabello. Levi ti fa scendere con i piedi nell’acqua, si porta alle tue spalle e ti svolge il lenzuolo di dosso, gettandolo da parte. Indossi il camicione dell’ospedale, nient’altro che una federa di tela con buchi per le braccia e la testa. Lui ti fa alzare le braccia e te lo sfila senza dire una parola. L’emozione ti gonfia la gola e non sei capace di muoverti, resti con le braccia sollevate, lo sguardo fisso davanti a te.
Le sue dita ti sfiorano i lividi sul petto, passano come un filo d’aria sul filo da sutura dei punti e gli sfugge un sospiro preoccupato. Ti abbassa piano le braccia e chiude per un attimo le mani sulle tue spalle; senti il suo respiro tra le scapole, poi ti lascia e lo senti sedersi. Non riesci a guardarlo, la familiare vampata di imbarazzo ti sale alla gola. Ti abbassi nell’acqua cercando di fare meno rumore possibile.
Levi si allunga oltre la vasca da bagno improvvisata per prendere spugna e sapone, li immerge entrambe nell’acqua e comincia a lavarti. Nessuno di voi due parla; l’unico rumore è quello dell’acqua che gocciola, delle piccolissime bolle di sapone che scoppiano sulla tua pelle. La spugna passa, delicata ma decisa, fregando più volte questo o quel punto, sfiorando appena le ferite e insistendo altrove.  Non trascura alcun punto della tua persona: il retro delle orecchie, le ascelle, le dita dei piedi. In silenzio, fate conoscenza nella cucina della caserma addormentata. Levi si rimbocca le maniche per immergere le braccia nell’acqua e ripescare le tue mani: ti insapona le unghie più volte, sciacquando spesso e avvicinandole a sè per controllare bene. Lo guardi, e sul suo viso c’è l’espressione che potrebbe avere lucidando un’arma: è serio, assorto. Ha delle piccole rughe all’angolo degli occhi, un’altra più marcata tra le sopracciglia. Sul suo naso c’è un’ombra che potrebbe diventare una macchia di lentiggini, esposta al sole. Le sue labbra sono sottili e molto rosa, strette in una linea severa. Alza gli occhi a guardarti e il cuore ti fa un salto senza che tu possa farci assolutamente niente. Ti guarda intensamente, senza sorridere, senza affettazione: i suoi occhi grigi si aggirano sui tuoi lineamenti, sulla tua fronte troppo alta, sui piccoli tagli disseminati sui tuoi zigomi, sulle tue ciglia. Quando arriva agli occhi e vi fissate vedi le sue sopracciglia distendersi, le labbra socchiudersi; il suo viso si ammorbidisce come non credevi possibile e ti sembra giovane, una persona appena arrivata al mondo. Allunga le braccia e ti circonda, ti sovrasta mentre ti reclina nell’acqua; con gli occhi socchiusi e il profumo del sapone nel naso lo senti accarezzarti una guancia prima di affondare le dita fra i tuoi capelli e massaggiarti la cute con la saponetta. Ti lava i capelli a lungo, mettendo le mani a coppa per risciacquarti la fronte, riparandoti gli occhi con una mano. Quando si abbassa per tirarti fuori infila le braccia nell’acqua fino alle spalle, inzuppandosi le maniche e ti guarda, ti guarda per tutto il tempo mentre appoggia tutto il tuo peso sul suo petto e ti tira in piedi, stretta tra le sue braccia, tenendo una mano nei tuoi capelli bagnati. Ti solleva fuori dal mastello e ti cala a terra facendoti poggiare i piedi sui suoi stivali perché non tocchino il pavimento freddo. Ti bacia come alla fine di un lungo inverno.

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