It'll clear up

di Soqquadro04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. I've loved you, I love you, I'll love you (Love) ***
Capitolo 2: *** II. Last night I dreamt that somebody loved me (Life) ***
Capitolo 3: *** III. Until the end of everything (Death) ***



Capitolo 1
*** I. I've loved you, I love you, I'll love you (Love) ***


Autore: Soqquadro04
Disclaimer: non mi appartengono in nessun modo e in nessun luogo.
Generi: Romantico, Angst, Fluff
Avvertimenti: Spoiler!teorie varie sul finale di stagione, What if?, death!Character,
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice:
Buonsalve, lettrici.
Diciamo che questa cosa che sto scrivendo è il mio modo di affrontare l'addio di Nina e il fatto che non avremo Elena durante la prossima stagione.
Il mio rapporto col suo personaggio è quanto meno complicato, ma era, è e sarà sempre la protagonista, non ci possiamo fare nulla.
Perciò mi sembrava giusto celebrarla con questa... cosa, che è una specie di raccolta dove esploro tre delle principali teorie sull'uscita di scena di Elena.
Il problema è che Damon ed Elena sono immensi. Ma veramente.
E in questa raccolta sono OOC, in questo primo capitolo soprattutto, e la cosa probabilmente mi sfuggirà di mano con gli altri due, ma tutto ciò è scritto non per essere completamente coerente con tutto il dolore che questa serie mi sta dando ultimamente, soltanto per sfogare l'ansia, per avere una prima ipotesi che per quanto irrealistica ci conforti un po', e la prima storia della raccolta è quella felice e quindi sono felici, maledizione. Almeno qui non dovrò preoccuparmene.
E niente, spero non sia così terribile.

A presto,
la vostra Soqquadro

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I. Love
I've loved you, I love you, I'll love you

[...]
I swore I saw you in a dream
all dressed in white and white smile.
You politely asked to take a walk with me,
and I married you there underneath the trees.
Can you feel the beat in my heartbeat beat through me?
Can you feel the beat in my heartbeat beat through?
I could make you happy, I could make you love me,
I could disappear completely,
I could be your love song,
I could be long gone, I could be a ghost in your eardrum.
When you sleep will it be with me?
[...]
Mary Lambert – When you sleep


Elena prega in silenzio che Damon stia dormendo, o leggendo un libro, o che sia fuori di casa, magari – sarebbe perfetto, davvero – perché altrimenti non c'è la minima possibilità che le riesca di sorprenderlo. Come se non fosse già abbastanza difficile.

Infila la chiave nella toppa, facendo meno rumore possibile, e tiene la gabbietta con una sola mano, cercando di non inclinarla per non disturbarne l'occupante – spinge la porta con la spalla e, dando prova di invidiabile coordinazione, la richiude senza far cadere né la gabbia né la busta, che tintinna traditrice ad ogni movimento.
L'appartamento sembra tranquillo, ma sa per esperienza che questo non significa nulla – ci sono sere in cui lui le arriva alle spalle tanto silenziosamente che è ancora capace di farla sobbalzare, quando riposa a volte neppure respira e quando lavora nel suo studio (e chi l'avrebbe mai detto che Damon Salvatore sarebbe finito a fare l'illustratore) può non parlare per ore.

Appoggia cautamente a terra entrambi i suoi carichi, si toglie le scarpe e poi si china per aprire lo sportello del trasportino. Resta immobile lì a fianco, senza azzardare gesti bruschi verso l'interno.
Qualche secondo dopo, la testolina scura della gatta fa capolino, il musetto curioso mentre si guarda intorno – è coraggiosa, così piccola e intrepida, ed Elena ha un novantanove virgola nove percento di probabilità che Damon la adori per questo.

Sbuffa, divertita, quando la piccolina muove un paio di passi in avanti, incerta sulle zampe dopo il viaggio in auto – sempre con movimenti lenti e misurati, per non spaventarla, le avvicina le dita e attende pazientemente che finisca di annusarla, poi la prende in braccio e le bacia il capo, prima di dirigersi verso la loro camera.

Entra in punta di piedi, ma si rende presto conto che è completamente inutile – Damon non c'è, e a questo punto esclude che sia in casa, l'avrebbe già sentita.
Si avvicina al letto e ci si arrampica sopra, sempre tenendosi stretta la gattina – si siede a gambe incrociate sulle coperte, lasciando che le si accoccoli in grembo.

Le accarezza distrattamente la schiena, e lei inizia a fare le fusa, gli occhi socchiusi – Elena si guarda intorno, sorridendo.

La stanza è diventata, in quei mesi, un curioso miscuglio di lei e Damon – non si sono portati dietro il letto di Mystic Falls, ma quello che ha scelto lui è altrettanto grande, e si è rifiutata categoricamente di mettere pannelli scuri ai muri e tende rosse alle finestre, quindi dopo un mese e mezzo di battibecchi si sono decisi per un azzurro chiaro che assomiglia in modo sospetto a quello dei suoi occhi –, come non aveva potuto essere del tutto in Virginia.
Certo, stanno ancora arredando ed è sicura che dovrà combattere altre mille battaglie – soprattutto perché no, non ha intenzione di creare una versione in miniatura del salone della pensione nel suo salotto –, ma non le importa. È troppo felice perché le importi, e ha quasi paura, Elena, perché anche se sembra davvero che tutto possa andare bene, ora, c'è sempre la remota possibilità che succeda qualcosa di orribile che li richiami indietro, nel pericolo e nell'incertezza e l'unica cosa che vuole veramente è poter vivere quell'eternità senza la paura che un giorno tutto crollerà di nuovo.

Non può, ovviamente. Si limita a sospirare, deliziando la micetta con un paio di grattini dietro le orecchie.
 

Quando Damon rientra, non ha idea di quanto tempo abbia effettivamente passato a carezzare il nuovo acquisto – potrebbero essere dieci minuti come un'ora, per quel che la riguarda.
Inclinano entrambe la testa di lato, incuriosite dal rumore – la piccola probabilmente anche dal nuovo odore sconosciuto, lei semplicemente divertita dallo stropiccio familiare della plastica. A quanto pare non è l'unica ad aver fatto compere – avrà deciso che alla fine fare la spesa non è poi così inutile.

È strano che Damon rincasi a quell'ora – a giudicare dalla luce saranno le sei o le sette, lui che torna quasi sempre prima di lei, quanto meno per non farla preoccupare.
Aggrotta la fronte, stupendosi che non abbia immediatamente notato le borse abbandonate sul pavimento, mentre ne segue mentalmente i movimenti – ora è in cucina, sta rovistando da qualche parte. Lo sente fermarsi per un secondo, probabilmente per cercare di capire se è in casa.

Lo fanno spesso, loro due – è quasi un gioco, il riuscire a riconoscere il respiro dell'altro, l'avvertire la sua presenza da tutti quei piccoli suoni che il resto del mondo può tranquillamente ignorare. Damon è molto più bravo di lei, ed Elena non saprebbe dire se si tratta di naturale predisposizione o se è dovuto al fatto che, anche come vampira, è tremendamente rumorosa.

Tenta di restare immobile, pregando che la palla di pelo non scelga di miagolare proprio adesso – grazie al cielo non lo fa, e poco dopo lui continua a fare quello che stava facendo.

Qualsiasi cosa sia.
Si trattiene dallo sbuffare, divertita, e si alza per raggiungerlo, sollevando con delicatezza la gattina.

 

Non è minimamente preparata alla scena che le si presenta davanti quando entra in salotto, né avrebbe dovuto vederla ora, suppone.
È quasi troppo buio, con le tapparelle abbassate, Damon le dà le spalle mentre sistema un paio di candele sul tavolino e sparse su ogni superficie disponibile ci sono qualcosa come trenta rose rosse.

Non sa cosa dovrebbe pensare, Elena, e a dire il vero non sa nemmeno come comportarsi – potrebbe schiarirsi la voce e farsi vedere, oppure indietreggiare con tutta la calma del mondo e fingere di non essersi accorta di nulla.
Ha già deciso per la seconda opzione, quando la gatta decide che è il momento ideale per starnutire.

Lui si volta di scatto, tanto velocemente da spaventarla, e lo sguardo che le lancia è qualcosa di assurdamente esasperato.

Ci sono momenti – certe notti esauste o pomeriggi afosi in cui oziano su un prato senza neppure parlarsi, godendo in silenzio della presenza dell'altro – in cui Damon la guarda e nei suoi occhi Elena vede loro. Solo loro due, come se tutte le volte che la sfiora riviva ogni sofferenza e ogni vittoria, e non può dargli torto, Elena, perché da quando ha riavuto i suoi ricordi non può fare a meno di soffermarsi su dettagli che nemmeno credeva di poter ricordare (ed era stato incerto e pericoloso e sì, Elena avrebbe preferito evitare di rivivere la perdita della sua migliore amica, ma lei doveva aver visto qualcosa, nel suo sguardo, la mancanza e il bisogno e il dolore – e l'occhiata che si era scambiata con Damon le aveva fatto pensare che sapesse qualcosa di cui lei era all'oscuro, invece).
Questo non è uno di quei momenti, in realtà.

Accenna un mezzo sorriso – se potesse arrossire, arrossirebbe –, e gli porge la gatta come un'offerta di pace.
Lui la studia con malcelata sorpresa, poi sospira e si passa una mano sul viso.

Elena non riesce a capire se stia cercando di trattenere una risata o se sia solamente molto perplesso.

«Non posso crederci.» ora sta ridendo davvero, di una risata strana, aperta, come non lo sente quasi mai fare – la risata delle belle notizie, dei giorni in cui tutti sopravvivono.
Un secondo e lui la sta abbracciando, il viso affondato nei suoi capelli – la gattina soffia, spaventata dal movimento repentino, e salta giù, andandosene impettita.
Lei quasi non se ne accorge, non con Damon che la tiene stretta in questo modo, come se dovesse trattenerla dall'andarsene anche quando sa benissimo che non potrebbe – che non vorrebbe mai – essere in nessun altro posto al mondo.
Nasconde un sorriso nell'incavo del suo collo, le braccia sulle sue spalle – gli arruffa i capelli e ride di rimando, sollevando il capo per lasciarsi baciare.

«E questo per cos'è?» mormora sulle sua bocca, senza smettere di ridacchiare – lui la bacia di nuovo, leggero, e alza gli occhi al cielo, prima di risponderle.
«È una serata speciale. L'avevo programmata in un certo modo, ma possiedi l'incredibile capacità di distruggere la maggior parte dei miei tentativi di sorprenderti.» incrina le labbra in un ghigno a metà fra il genuinamente divertito e il disperato, ed Elena si morde l'interno di una guancia, imbarazzata.

Lui scuote la testa, come a dirle che non importa, e lei sa benissimo che davvero non importa, ma le dispiace in ogni caso.
Non capisce comunque, però – hanno fatto un anno di anniversario solo un mese prima, quindi non può essere per quello.

«Cosa festeggiamo?» lui le sfiora la schiena con carezze circolari, rassicuranti, chinando il volto per sussurrarle all'orecchio.
«Beh... festeggiamo il giorno in cui mi sono innamorato di te.» un bacio alla base del collo, un brivido che le corre lungo la spina dorsale al sentire il suo sorriso impresso sulla pelle.

«E anche se avevo deciso di essere tradizionale, per una volta, per questa volta – perché so perfettamente che ci sono momenti nella vita delle persone, persino nella nostra, che dovrebbero essere perfetti – è evidente che non siamo fatti per le candele e le rose e le cene fuori.» Damon prende un respiro profondo, ed Elena ha quella sensazione alla bocca dello stomaco che le dice che avrebbe dovuto capirlo prima perché sta succedendo, davvero sta succedendo.

Nemmeno si accorge che lui ha portato una mano alla tasca dei jeans, non finché non si allontana e lei avverte un peso sconosciuto nell'incavo dei seni.
Si porta una mano alla gola, trovando il filo sottile di una catenella e, seguendolo, la compattezza circolare di un anello.

Le si spezza il respiro, e veramente vorrebbe dire che non sta per piangere, ma mentirebbe – lui la guarda (la guarda davvero, la guarda e rivede nei suoi stessi occhi tutto quello che sono stati e tutto quello che potrebbero essere) e sorride e non ci sarebbe nessun bisogno di dirlo, di chiederlo, ma perché fermarlo, ormai?
Non si inginocchia, Damon, ma le prende la mano sinistra e se la porta alle labbra, come aveva fatto quella prima – seconda – volta, e continua a guardarla negli occhi, lasciandole fra le dita ogni parte di lui.

«Elena Gilbert, ora che è stato confermato più e più volte che senza di te non saprei che farmene di questa eternità... vorresti concedermi l'onore di condividerla con me?» è senza respiro, per un attimo crede di non riuscire neanche a rispondergli – non perché non voglia farlo, è da quando ha cinque anni che aspetta questo momento e anche se quando aveva cinque anni aveva immaginato le rose e le candele, ora sa benissimo che non lo avrebbe voluto in nessun altro modo. Non sarebbe stato così lui, altrimenti, così loro, e non c'è nulla più perfetto della loro imperfezione.

Quindi ride, Elena, perché se non ridono quella notte non rideranno mai più – ride e gli getta le braccia al collo con tutta la forza che ha, e ride ancora più forte quando lui la solleva di slancio, come farebbe con una bambina entusiasta.
«Sì.» un bacio, i suoi occhi brillanti di quella che non è nient'altro che felicità – niente ombre, niente morte, quella notte, niente di sottinteso.

«Per sempre.»

 

Più tardi, quella notte, mentre Damon la culla fra le braccia, chiamando il suo nome fra le ciocche arruffate dei suoi capelli, la gatta ancora senza nome li raggiunge sul letto, miagolando di disappunto per essere stata ignorata tanto a lungo.
La fissano entrambi per un paio di secondi, poi Elena ride – di nuovo, perché è tanto felice che crede non smetterà mai più – e si allunga a trascinarsela in grembo.

Damon appoggia il mento alla sua spalla, sfiorandole la fronte con la punta delle dita, e quella gliele lecca senza nemmeno preoccuparsi di annusarlo.
Elena arriccia il naso, divertita, e gli bacia una guancia, sorridendo.

«Le piaci.» lui le lancia un'occhiata che dice tutto – come farei a non piacerle? – e si limita ad aggrottare la fronte.
Appoggia il capo sul suo petto, arricciando pigramente il pelo della micetta, e sorride di quel sorriso luminoso che vede solo lui, in quelle loro notti buie e segrete di gioie sussurrate.

«Ti amo.» dice, perché non c'è nient'altro da dire.

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Capitolo 2
*** II. Last night I dreamt that somebody loved me (Life) ***


N/A - Note dell'Autrice:
Buonsalve, lettrici.
Eccoci qui col secondo capitolo, che è decisamente meno ottimista del precedente ma ancora non è una tragedia - il che non l'ha reso meno facile da scrivere ma un po' ha aiutato, perché dopo la puntata ho questa totale malinconia addosso che mi rende ansiosa e agitata e non so sinceramente nemmeno io come mi sento.
Piccole note tecniche:
1. Il titolo viene dall'omonima canzone dei The Smiths, che vi consiglio vivamente di ascoltare perché è bellissima;
2. Nella mia testa la compulsione non ha funzionato perfettamente con Elena perché dopo aver preso la cura non è comunque più un essere umano e basta, è tornata indietro dall'immortalità alla mortalità, qualcosa dev'essere successo nel frattempo;
3. La confusione e la quasi totale assenza di punteggiatura nelle parti fra parentesi è totalmente voluta, per rendere la confusione dei sogni di Elena e il fatto che lei non li ricorda mai completamente, ma solo a spizzichi e bocconi.

A presto,
la vostra Soqquadro

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II. Life
Last night I dreamt that somebody loved me


Can you lie next to her,
and give her your heart, your heart

as well as your body?
And can you lie next to her
and confess your love, your love
as well as your folly?
And can you kneel before the king,
and say I’m clean, I’m clean?
[...]
A white blank page and a swelling rage, rage.
You did not think when you sent me to the brink, to the brink,
you desired my attention but denied my affections, my affections.

So tell me now, where was my fault
in loving you with my whole heart?

Oh, tell me now, where was my fault
in loving you with my whole heart?

Lead me to the truth and I will follow you with my whole life,
oh, lead me to the truth and I will follow you with my whole life.
Mumford and sons – White blank page

 

«Accidenti! No, no

La macchina ha un sobbalzo, il motore tossisce disperatamente cercando di tirare avanti un altro metro, ma senza molto successo – dopo un paio di borbottii si spegne definitivamente, il buio fuori dai finestrini che si fa improvvisamente troppo denso, senza più la luce solitaria dei fari.
La donna mastica una maledizione fra i denti, battendo il palmo contro il volante. Gira la chiave un paio di volte, ma quando non succede nulla si limita a sbuffare e slacciarsi la cintura, passandosi le dita fra i capelli. Rimane un istante a guardarsi intorno, cercando di distinguere qualcosa del paesaggio di fuori, poi sospira e si rassegna a uscire dall'auto.

L'aria della notte è gelida, l'odore di pioggia imminente fortissimo e penetrante. Le scarpe affondano nella terra impregnata di umidità mentre muove qualche passo, stiracchiandosi, voltando la testa da una parte e dall'altra – solo boschi, da entrambi i lati della strada, e giusto davanti a lei un cartello che la avverte che si trova a un chilometro da Mystic Falls.

L'aveva notato sulla cartina, quella mattina, un piccolo paesino della Virginia, tremila anime a dire tanto, due ore di viaggio da Richmond – si era fermata lì per visitare una mostra, una giornata soltanto, poi era ripartita, e oh, quel tizio gliel'aveva detto che avrebbe dovuto far controllare la macchina.
Non sia mai che ascolti un consiglio intelligente – è così da lei rimanere bloccata nel mezzo del nulla, a notte fonda, senza neppure un telefono funzionante, (il suo cellulare è morto circa mezz'ora prima, per una qualche punizione divina, suppone) che le verrebbe persino da ridere.

Elena Gilbert, l'avventuriera da due soldi.

Alla fine cede a un sorriso – fra sé e sé, piccolo, quasi invisibile, perché sa di sembrare pazza a sorridere in un momento del genere, quando potrebbe esserci chissà che cosa appostato fra i cespugli. Non che si aspetti effettivamente un assassino armato di ascia – probabilmente la cosa più minacciosa che abbiano mai visto a Mystic Falls è una volpe arrabbiata.

Mystic Falls – se lo ripete un paio di volte, voltandosi verso il cartello mentre s'incammina lungo la via principale, oscura e tranquilla.
Mystic Falls.

Il silenzio è immenso, lì in quel luogo che pare sospeso nel tempo, su quella strada fiancheggiata dagli alberi – del tutto irrazionalmente, si ritrova quasi ad apprezzare quel contrattempo. È una di quelle sere fredde che, da quando può ricordare, le mettono addosso una malinconia strana, dolorosa, una di quelle notti in cui nei sogni una voce che non è la sua la chiama da un punto nascosto della sua coscienza – chiama il suo nome con un tono strano (rimpianto e sofferenza e quella che le sembra ogni volta la dolcezza più amara al mondo), e sussurra qualcosa che lei non capisce, di persone che non esistono e di una famiglia che non ha mai avuto e di un uomo che non ha mai amato.

È orfana, Elena, una delle tante anime abbandonate di questa Terra, e nessuno l'ha mai presa con sé, e ce l'ha fatta da sola in questa sua vita – ha studiato e anche se avrebbe voluto diventare medico, da bambina, infine aveva optato per il giornalismo perché aveva anche voluto viaggiare, vedere il mondo per com'era, vedere la vita e conoscere gente (il che potrebbe anche essere ironico, per qualcuno, visto che nemmeno conosce se stessa).

Ora Elena ha ventotto anni, vive a New York, ha una gatta con cui va d'accordo un giorno no e l'altro anche e un rapporto complicato con gli uomini – ha sempre voluto dei figli, una famiglia, ma ogni volta che potrebbe davvero essere quella buona, se soltanto tentasse, qualcosa la frena e c'è una parte di lei che non riesce a pensare a nient'altro che al dolore che proverà se non lo fosse, o se succedesse qualcosa di orribile e astratto. Sa che la distruggerebbe, se si innamorasse per davvero e non per gioco, se si permettesse di lasciare ancora una volta che i sentimenti la guidino – ed è assurdo, perché Elena non ha mai sofferto così.

Ricorda un amore adolescenziale, finito senza drammi, e un paio di relazioni al college che non potrebbero nemmeno essere definite relazioni – nessun trauma, nessuna storia appassionata e travolgente, niente che avrebbe potuto lasciarla distrutta a tal punto. E dubita di aver dimenticato una cosa simile.

 

(Nei sogni delle notti limpide, Elena vede un uomo e le fiamme morenti di un camino – Elena sente il rumore di vetri infranti e risate d'estate e grida e sussurri
noi sopravviviamo sempre
ma noi chi, e la sua voce è così chiara, eppure lei non ne ricorda mai il volto.
Sa solo che è bello – bello tanto da fare male – e che è meglio così, che ricordare i suoi occhi potrebbe ucciderla).

 

Il gracchiare di un uccello – un corvo, pensa – la fa girare di scatto, strappandola brutalmente ai suoi pensieri.
Può avvertire il battito frenetico del suo stesso cuore fin nelle tempie, il respiro spezzato, ma scossa il capo e si dà della sciocca – l'adrenalina le scorre nelle vene e si sente così viva, come quando hai paura di morire, ma il perché Elena non lo sa. Non c'è niente di così minaccioso, è una notte come tante – forse solo l'oscurità sembra un po' troppo densa, nemica ancestrale degli esseri umani.

Sorride di nuovo, un altro sorriso minuscolo, mentre si volta, scrollando le spalle. Poi vede l'uomo.
È ancora lontano, forse una ventina di metri, forse anche venticinque – non riesce a vederlo in viso, non c'è abbastanza luce, solo il debole riflesso delle nuvole in cielo, e lui se ne sta seduto con noncuranza sul cofano di un'auto squadrata dalla carrozzeria di un inusuale celeste, parcheggiata accanto a un altro cartello, sotto la pozza luminosa di un unico lampione.


 

Benvenuti a Mystic Falls

 

C'è qualcosa di così dolorosamente familiare, in quella scena – se solo

 

(«Damon...»
dita intrecciate il riflesso del vetro nei suoi occhi
«Lo so.»).

 

ricordasse, se solo potesse ricordare perché a volte si sveglia con le guance umide e il bisogno di gridare che le si strozza in gola.

Un presentimento le fa irrigidire le gambe, quando lui si porta alle labbra una bottiglia – è buio e per strada non ci sono che loro due, un uomo ubriaco e una donna completamente indifesa –, ma continua a camminare, lentamente, fino a che non è troppo vicina perché possa fingere di non averlo notato.
Lui non le fa caso, come se non fosse poi strano incontrare qualcuno che passeggia tranquillamente, a quell'ora – si ferma di nuovo, appena fuori dalla chiazza di luce, e esita solo un istante prima di parlare.

«Scusami...» gli dà del tu istintivamente, e lui solleva la testa di colpo, proprio mentre fa un paio di passi avanti per mostrarsi.
Elena aggrotta la fronte, al vederlo in viso – è più giovane di lei e c'è così tanto dolore nei suoi occhi che sembra non sia mai stato felice

 

Sono felice.»
sole lenzuola carezze esauste

oh, ti ho amato, ti ho amato così tanto).

 

(non ha mai nemmeno pensato che sul volto di qualcuno potesse vedersi così tanto), e la guarda come si guarderebbe un miraggio, con l'immensa speranza che sia reale e la consapevolezza ancora più grande che non lo sarà mai.

«Elena.» dice, e lo dice in un sospiro frantumato che era partito come una domanda, forse, il suo tono si è alzato sulla sillaba di mezzo ma poi è ricaduto giù, come se gli avessero dato d'un tratto la risposta.
Deglutisce, nel panico – non comprende. Non ha mai messo piede a Mystic Falls, e non ha mai conosciuto un uomo con il rimpianto scolpito nella piega delle labbra. Eppure lui la conosce, evidentemente.

«Come sai il mio nome?» la sua espressione sorpresa, un baluginio sofferente sul fondo delle iridi pallide e poi si ricompone in una maschera cortese che non la inganna nemmeno per un secondo.

«Oh, leggo quasi tutti i tuoi articoli. Ogni tanto hanno pubblicato anche una foto.» sorride con solo metà della bocca, un sorriso incrinato. Sa che è vero eppure non gli crede, Elena – sente che c'è qualcosa che non sta dicendo, ma sceglie di lasciar correre perché è veramente troppo buio, quella notte, per svelare segreti.

Lui salta giù dal cofano, ma non prova ad avvicinarsi ed Elena gliene è grata.
Ha gli occhi azzurri, di un azzurro invernale, lucidi di un passato sconosciuto alla luce giallastra del lampione. Per un istante, nell'attimo proprio prima che lui sollevi la testa a guardare il cielo, Elena ci legge dentro una gratitudine macchiata d'amarezza – forse è solo il buio, la sua sagoma sottile che gli si riflette dentro, ma ha l'impressione che la conosca molto meglio di quanto chiunque possa mai arrivare a fare leggendo le pubblicazioni del giornale.

 

Rimangono fermi così per un tempo indefinito, troppo vicini per ignorare l'esistenza dell'altro e troppo lontani per iniziare una conversazione – o almeno lo sarebbero se fosse una notte come tutte le altre e quello fosse un uomo come tutti gli altri.
«Cosa ti porta qui nella nostra ridente cittadina?» lui ghigna, sarcastico, ed Elena sa perfettamente cosa dovrebbe dire – dovrebbe sorridere e spiegare del telefono e della macchina abbandonata un chilometro prima, e chiedere se nella ridente cittadina esista un posto dove può fermarsi per lasciar passare le poche ore che li separano dall'alba e dalla riapertura di un meccanico.

Non dice nulla di tutto questo.

«Non lo so.» sussurra, e mentre le parole le escono di bocca sa già che è la verità – avrebbe potuto scegliere un'altra via fra le altre cinque strade possibili per tornare a casa e non imbattersi mai in quello sperduto crocchio di case. Avrebbe potuto, ma non l'ha fatto, ed Elena crede nel destino.

Lui ride, una risata secca e stanca che le ricorda qualcuno, ma non saprebbe dire chi.
Fa un passo avanti, come se qualcosa d'invisibile nell'oscurità l'avesse spinta.

«Tu vivi in città?» conosce già la risposta, ovviamente, perché è abbastanza improbabile che siano due, i passanti persi, ma vuole sentirselo dire perché a guardarlo sembra che non appartenga a nessun posto, tanto meno a quello.

L'uomo riprende in mano la bottiglia e beve un sorso – poi la alza nella sua direzione come a brindare, come a dire che non importa.
Un altro passo verso di lui, piccolo, quasi casuale – ciò che la spinge dal buio si fa più insistente, un solletico sul fondo della sua coscienza.

Lui abbassa quel suo sguardo d'inverno sulle sue gambe, come se capisse che quel suo avvicinarsi è solo parzialmente volontario, ed è uno sguardo tanto fisico che può quasi sentirlo, morbido come la carezza di un amante – quando la guarda di nuovo in viso Elena vede un nuovo dolore, diverso ed identico, più fresco, insopportabile.
Sa di esserne la causa, ma non sa il perché.

 

(pioggia ricorda la pioggia
«Promettimi che questo sarà per sempre.»
e i suoi occhi
i suoi occhi e il suo
sorriso
quando
«Lo prometto.»)

 

Aggrotta la fronte, una domanda che sale da qualche punto nascosto della sua mente e continua a seguire quella scelta alternativa, quella sbagliata, insensata, anche, perché veramente aveva solo intenzione di chiedere indicazioni – non sa perché le dà voce, non ascolta mai quella parte di sé che a volte sembra solo svegliarsi da un torpore indotto (ha sempre pensato di essere pazza, in un certo modo, perché è abbastanza sicura che nessun altro al mondo dovrebbe svegliarsi certe mattine con la precisa percezione di stare vivendo la vita sbagliata).
Lo fa lo stesso, però, perché pare che per una volta sia destinata a non sapere e quindi tanto vale continuare.
«Come mai sei qui?» lui la scruta, un sopracciglio inarcato – può vederlo ponderare le parole dietro le palpebre socchiuse

 

(ancora odore d'acqua e tristezza e identici occhi macchiati di luce
anche allora per
la prima
volta
«Vuoi un amore che ti consumi. Vuoi passione, avventura... e anche un po' di pericolo.»
sorriso affilato di sogni distrutti
in quell'incontro fortuito di due differenti
solitudini).

 

ed inciampare su quelle più dure e difficili, troppo taglienti per essere pronunciate davvero – esita e per un attimo crede che non le risponderà, e in fondo non lo biasimerebbe se decidesse di non farlo perché è stata morbosamente curiosa e ora sì che ha il terrore di aver risvegliato qualcosa di più che doloroso, più che straziante, perché lo sconosciuto continua a guardarla e il suo sguardo è quello di un uomo in agonia.

La osserva come se dovesse imprimersi nella memoria ogni singola linea del suo volto, ogni imperfezione trattenuta con cura e baciata e amata, con la stessa amara dolcezza con cui la voce dei suoi sogni la chiama per nome.
Quando parla, finalmente, spezza il silenzio in modo tanto improvviso da farla sobbalzare.

«Aspettavo una persona.» sorride di un sorriso disilluso e intristito di sottintesi che non potrà mai comprendere, ed Elena ora è tanto vicino che se allungasse una mano potrebbe toccarlo.
Chiude la destra a pugno, piantando le unghie nel palmo per sopprimere l'istinto di abbracciarlo che le muove le membra, improvviso e irrazionale.

Lui non si muove, resta perfettamente immobile, gli occhi fissi sul suo volto – confuso e sofferente e sembra solo così stanco.

Si stringe le braccia al seno, strofinando i palmi sugli avambracci per tentare di scaldarsi – una parte di lei sa perfettamente che in realtà non fa freddo, è solo che il bisogno di stringerlo a sé, ora che può sentire il calore del suo corpo e il ritmo stesso del suo respiro, è tanto forte da spaventarla.

«Ed è arrivata?» fatica a riconoscere la sua stessa voce – la domanda suona fragile e inconsistente e inutile, inutile più di tutto, perché se così fosse lui non sarebbe certo lì con lei – sarebbe con questa persona, da qualche parte, a ridere e a costruire qualcosa di utile, non certo a parlare con una sconosciuta nel mezzo della strada.
Elena non si capisce, quella notte, né tanto meno capisce lui e le sue risposte strane che non sono risposte.

«In un certo senso. È passato tanto tempo, ormai, da quando se n'è andata.» l'uomo fa un passo indietro, come per scoraggiare qualsiasi proposito di conforto possa venirle in mente.

 

(«Dio, vorrei che non dovessi dimenticarlo.»
parole confessioni e il suo sguardo
il suo sguardo
quando l'aveva detto
solo due parole
e tutto era stato diverso
tutto cosa Elena non lo sa
ma aveva fatto male).

 

Si passa una mano sul volto, un gesto solo esausto, mormora fra le dita come se potesse trattenere le parole.

«Dieci anni.» alza gli occhi di nuovo su di lei, un abisso azzurro, una fossa oceanica – potrebbe perdercisi dentro, venire trascinata a fondo, annegare. E non si sente in questo modo da così tanto tempo che nemmeno lo sa più, la sua stessa presenza che le elettrizza la cute e le lascia formicolare le labbra, una calamita attratta dalla sua gemella.
«Oh, Elena.»

 

(«È questo che si prova a non avere paura?»
mani contro mani graffi incisi nella carne
e poi
calma e buio e respiri sincroni
lui non aveva risposto
lei aveva capito
e l'aveva
baciato).

 

Elena crede al destino – non sa nemmeno perché, sa soltanto che ci sono state troppe coincidenze nella sua vita perché possa ancora chiamarle così –, ma non crede ai colpi di fulmine.
Crede all'amore, anche se ha ventotto anni e non ha ancora trovato l'uomo che cerca – e crede davvero che certi amori non finiscano anche quando finiscono.

Certi amori come quello che legge nelle iridi azzurre dello sconosciuto dolorosamente familiare – certi amori che non ci sono più per qualche motivo eppure vivono ancora e sanguinano ricordi nei sogni.
C'è qualcosa, nel modo in cui lui dice il suo nome, nel modo in cui l'ha detto, proprio con quell'espressione e quella luce e quell'immagine – l'immagine di qualcosa (sogno o il ricordo di un sogno) che brilla fra i pensieri per il tempo di un respiro.

(Elena.
Elena.
Elena.
il suo nome solo il suo
nome
migliaia di volte
e non l'ha mai più sentito così
mai più
dopo).

 

Indietreggia lei, ora, e scuote il capo, brandelli di notti frantumate che si uniscono in schemi fumosi e un'idea, solo un'idea, un'esplosione nel buio, lontana, e se solo- se solo potesse capire.

Chiude gli occhi, le palpebre serrate, più che può, cerca di non lasciar svanire quel filo rosso anche se taglia come una lama, come un vetro infranto – sente le sue mani prima di qualsiasi altra cosa, pelle contro pelle, le sue mani a circondarle il viso.
Ci si aggrappa con tutta la forza che ha, e lui ripete il suo nome ed è un momento e

 

«Non sei sicuro che funzionerà.»
il viso di un uomo – il viso di Alaric – distorto dalla tristezza
«È umana. Andrà come deve andare.»
occhi azzurri d'inverno liquidi di dolore fissi nei suoi

no no no

«Di cosa stai parlando? Ric- Damon. No! Lasciami!»
no non dopo tutto quello che è stato no per favore

no
non di nuovo

«Non smetterò mai di amarti. Mai, Elena – mi hai capito? Mai.»
mani forti attorno al suo volto e l'odore di pioggia una voce distrutta.

«Damon, cosa stai dicendo? Cosa stai facendo? Damon, non – no! Lasciami! Non puoi farlo, io- troveremo una soluzione. Come sempre.»
lacrime solo lacrime dita che lasciano segni sulla pelle le sue ultime carezze per asciugare il suo pianto una stretta troppo debole.

 

i ricordi la investono come un'ondata o massi franati dal suo cuore o un uragano di vento gelido.
Scene spezzate si susseguono senza sosta nella sua mente, la sofferenza e il sollievo di poterlo stringere a sé e il suo nome che le brucia le labbra – dimenticare, l'ha fatta dimenticare, ma ora Elena ricorda anche se non avrebbe dovuto, mai più (non importa il perché, il come, il quando – importano solo le sue mani e lo sguardo nei suoi occhi quando riapre le palpebre e lo vede, lo vede per davvero, dieci anni di mancanza che le hanno scavato la carne e quasi spento l'anima, colori offuscati e una vita che non le era mai appartenuta davvero).

Dovrebbe dire tante cose, potrebbe farlo, potrebbe chiedergli se ha aspettato ogni notte e come ha fatto lui a non ammattire quando il solo pensiero di non averlo visto stretto amato per dieci anni la sta facendo impazzire di dolore – la sola idea di averlo dimenticato, di nuovo, proprio quando aveva riavuto tutto, tutto, è tanto immensa e terribile da impedirle di respirare.

Potrebbe, ma Elena crede al destino e crede all'amore e hanno tempo, avranno tempo, e ora l'unica cosa che deve fare è guardare in quegli occhi – quegli occhi che la amano e l'hanno amata – e per un attimo, solo per un attimo, prima che debbano comprendere di nuovo come scoprirsi e parlare e ricordare, ecco, solo in quell'attimo, mentre dice il suo nome e il sorriso che gli attraversa il volto è solo grato di una gratitudine immensa, Elena si sente a casa.

«Damon

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Capitolo 3
*** III. Until the end of everything (Death) ***


N/A - Note dell'Autrice:
... mi dispiace. Davvero.
E' che fa troppo male (perdonate la totale mancanza di coerenza col canon, ma questa ho iniziato a scriverla parecchio tempo fa e non avevo la forza di ricominciarla).
E anche questa avventura è giunta alla fine *se ne va nel suo angolino a piangere* *addio*

Grazie a tutte e a presto,
la vostra Soqquadro

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III. Death
Until the end of everything


I remember tears streaming down your face
when I said “I’ll never let you go”,

when all those shadows almost killed your light.
I remember you said “Don’t leave me here alone”,
but all that’s dead and gone and passed, tonight.
[…]
Don’t you dare look out your window, darlin',
everything’s on fire.

The war outside our door keeps raging on,
hold onto this lullaby.
Even when the music’s gone.
[…]
Just close your eyes,

the sun is going down.
You’ll be alright;
no one can hurt you now.
Come morning light,

you and I’ll be safe and sound.
[…]
Safe and sound – Taylor Swift


Quando rientra, Damon è in piedi davanti al camino, il volto illuminato dalle fiamme e un bicchiere in mano.
Si richiude il portone alle spalle, silenziosamente, ed è sicura che le si fermerebbe il cuore, se solo non fosse già fermo e se solo potesse davvero ricordare tutte le volte che l'ha trovato così, immobile a cercare qualcosa di invisibile fra le braci, forse a guardarsi dentro, le notti prima dell'attuarsi di una di quelle loro idee sempre pessime.

Gli si avvicina lentamente, un passo dopo l'altro, lo abbraccia e appoggia il mento alla sua spalla, voltando appena il viso per sfiorargli il collo con le labbra.
Lui intreccia le dita della mano libera con le sue, abbandonate appena sopra il suo stomaco, e stringe, forte ma senza farle male. Non ti lascio, le sta dicendo, senza spendere una parola, ed Elena solo sospira e lo bacia di nuovo, nello stesso punto.

È terrorizzata e non può farci niente, ma essere in due ad avere paura è quasi confortante, e per un attimo, mentre Damon si volta e la bacia davvero, le mani sui suoi fianchi e la bocca morbida sulla sua, può quasi illudersi che sia una sera come tante altre.
Quasi.

(Lo sarebbe se Damon non la stesse accarezzando baciando consumando così, con questa furia e questo terrore e se solo non sentisse lo stesso bisogno disperato di non lasciarlo allontanarsi neppure di un centimetro, ogni singolo lembo di pelle che non tocchi la sua è spazio sprecato, inutile, e il suo sguardo, i suoi occhi li ricorderà per sempre – per sempre e un giorno, gli promette mormorando sulle sue labbra, non importa quante vite dovrà vivere ancora, l'eternità è niente paragonata agli occhi di Damon, quella notte, è polvere e scrosci di pioggia, niente).

 

Più tardi, nel buio vellutato della camera da letto, si abbracciano senza poter dormire e giacciono così, fianco a fianco, immobili a studiare il viso dell'altro come per imprimersi nella memoria ogni insignificante particolare, conservarlo per i giorni a venire, lenti e incerti in quelle loro vite che stanno per crollare una volta di più.
Damon sospira sulla sua bocca, e forse è solo un'impressione, ma sente un tremito nella sua voce e l'ombra di un dolore immenso, devastante.
«Non fare niente di stupido, Elena. Ti prego.» vorrebbe poter chiedere spiegazioni, poterlo guardare come se fosse impazzito perché cosa mai potrebbe fare, lei?
Vorrebbe, ma Damon conosce ogni singola espressione del suo volto.

Gli stringe più forte la mano, e non risponde.

 

La cosa peggiore, Elena lo sa, è il silenzio.

Tutti loro non fiatano, sparsi fra i capannoni, aspettando immobili che Kai si faccia vedere. È lì, da qualche parte, se ne va in giro nascosto dall'occultamento e probabilmente li guarda sorridendo mentre decide chi uccidere per primo, e non possono fare assolutamente nient'altro che attendere e per un attimo è certa che potrebbe impazzirci, in quell'attesa.

Le mani le tremano talmente tanto che può sentirle anche se le tiene rilassate lungo i fianchi, e riesce a malapena a frenarsi quando l'improvviso impulso di gridare cerca di risalirle in gola – stringe i pugni tanto forte da ferirsi i palmi con le unghie, espira, inspira, si dice che non deve avere paura ma oh, non è così facile.

Pensa a Caroline, a Bonnie che è nascosta da qualche parte perché se la trovasse lui la ucciderebbe senza la minima esitazione, l'avevano capito tutti, a Stefan, persino a Enzo – pensa a Damon. Se si sforzasse potrebbe sentire ognuno di loro respirare e tremare in quella notte già calda.
E spera che scelga lei.

Spera che se quella notte qualcuno deve morire allora che sia lei, perché Stefan e Caroline hanno già perso troppo e hanno bisogno l'una dell'altro, perché Damon deve restare – restare per suo fratello e per Alaric e Jo e per il loro bambino (un bambino che merita tutto un altro futuro), restare perché se n'è già andato una volta e una seconda lei non potrebbe sopportarla.

Damon è forte, Damon potrà tenerli tutti insieme, tutti loro, come lei non potrà mai fare – se anche solo uno di loro morisse, Elena lo sa che non riuscirebbe a tenere insieme neppure se stessa, figurarsi la sua famiglia.
A dire il vero ci pensa già da un po', alla possibilità che succeda – andarsene davvero, nessun trucco, stavolta, è un'idea che la sfiora un po' troppo spesso da mesi, come se la morte stessa la stesse inseguendo, appena dietro di lei, pronta ad afferrarla se solo rallentasse un istante.

E ora sono lì, ad aspettare che un pazzo decida del loro destino, e l'idea che possa scegliere chiunque altro è molto più spaventosa di quella della morte – non c'è soluzione, non quando potrebbe stare avvicinandosi a Damon proprio in questo momento.
Respira, respira il più profondamente che le riesce – si porta una mano al volto e sente le lacrime, le guance umide, ma le asciuga con rabbia e solleva il mento e sussurra; il sorriso di Kai le compare davanti all'improvviso, un baluginio bianco nell'oscurità.

«Qui.» sussurra, piano, sottovoce, perché non capiscano subito, perché non accorrano all'istante anche se stanno ascoltando, e può giurare che lo stanno facendo.
Lui ha un paletto, se lo rigira fra le mani, quasi sovrappensiero – Elena pensa che Damon non la perdonerà mai e lo guarda, lo guarda bene, perché è ciò che la ucciderà. È di legno scuro, lungo e appuntito, quindi forse non farà troppo male, forse sarà solo un momento di sofferenza terribile e poi sarà come addormentarsi, lasciar spegnere i suoni del mondo e sentirsi scivolare via, fino all'oblio.

 

(Ti amo, pensa, ti amo.
A labbra chiuse affida le parole al vento e spera che le porti da lui, perché non sa se potrà mai più dirglielo prima che sia finita davvero e non può lasciarlo senza che lo sappia).

 

L'istinto le grida di combattere, quanto meno di scappare, ma lui è troppo vicino per lasciarle qualsiasi spazio di manovra.
Quasi non nota il movimento, ma lo sente – oh, lo sente, il contraccolpo che le riverbera fin nelle ossa e il legno che brucia come se fosse coperto di verbena – e si rende conto quasi immediatamente che non le permetterà di andarsene in fretta.

Cade in ginocchio, senza fiato.

È bloccato tanto vicino al cuore che non può respirare senza essere perfettamente consapevole della posizione di ogni scheggia, e il volto di Kai accanto al suo è una maschera divertita, gli occhi accesi da una scintilla di crudeltà e la follia che domina su tutto.
Vuole farli soffrire, lei e Damon, e quando sente i passi di corsa e le voci che la chiamano non fa nient'altro che sorridere di un sorriso spietato, e sollevare appena lo sguardo per capire chi stia arrivando.

Sa che è Damon prima ancora che giri l'angolo, anche se non lo vede, sa che ha iniziato a correre nel momento in cui l'ha sentita mormorare – non è solo, c'è qualcun altro, con lui, e dev'essere Stefan, perché è lui che vede scagliarsi contro Kai, Kai che ride anche se lo sta quasi soffocando (avrei scelto lui, ma abbiamo avuto una volontaria).

Dopo spariscono entrambi, il rumore del combattimento si fa più distante ma lei non li vede più, limitata da macchie nere di sofferenza che esplodono ai confini della sua visuale – carponi, cerca di riprendere fiato, gemendo, ma non può nemmeno pensare di riuscire a togliere il paletto, il dolore è accecante e tremendo, annegare non è nulla, in confronto.

E poi c'è Damon – Damon che le è accanto in un battito di ciglia, le sue mani la sua bocca i suoi occhi (oh, i suoi occhi – gli occhi di Damon sono l'ultima cosa che vedrà, e ne è felice perché chi vorrebbe morire in altro modo se non fra le braccia della persona che ama?).
Le si inginocchia di fronte, e si aggrappa più forte alle sue dita quando serra la presa attorno al legno – lo guarda e stringe i denti tanto forte da sentirli stridere, e grida quando sfila il paletto, carne muscoli sangue che sgorga.

La sua voce è fragile e spaventata ed Elena si chiede come può solo pensare di lasciarlo, mentre se la porta in grembo, con cautela, scostandole i capelli dal collo, e le bacia il capo e trema, trema.

«Shh, calma... andrà tutto bene, nessuno si occupa più di noi, siamo soli.» le accarezza la schiena, come per prepararla, ma Elena sa che sarà inutile.
La scheggia è uno zampillo di fuoco incastrato appena dietro lo sterno, tanto minuscola che quasi fatica a credere che sarà quella a ucciderla, eppure ogni volta che si muove si pianta più in profondità, e manca così poco, ormai.

Lui non riuscirà mai a prenderla, troppo piccola, in una posizione troppo pericolosa – Elena sa che non c'è più tempo.
Con uno sforzo immenso solleva una mano per posarla su quella di lui, per fermarlo, fargli comprendere.

Damon la guarda, le iridi di un colore insondabile che assorbono il buio attorno a loro, e poi capisce, perché Damon capisce sempre.

Non piange, ma le parla, le parla sottovoce, e entrambi ignorano la lotta lontana perché questo addio devono darselo – questo addio è l'ultimo e non ci sarà modo di tornare indietro.

«Andrà tutto bene, Elena. Te lo giuro. Kai morirà e non dovremo mai più preoccuparci, il nostro maggiore problema sarà il figlio di Ric e Jo che a un certo punto inizierà a chiamarci zii.» le passa le dita fra i capelli, lentamente, e vorrebbe davvero fargli sapere che non serve mentire, lo sa che non andrà tutto bene, ma poi capisce che Damon non sta mentendo a lei. «Ti ho promesso che saresti stata sempre al sicuro.»

Non singhiozza, Damon, si tiene dentro il suo dolore e respira solo un po' troppo forte, la stringe a sé come se potesse fisicamente trattenerla, e non può credere di doverlo lasciare, non può e basta.
Deglutisce, il petto le fa male – fa così male morire, fa sempre male, e dire addio è la parte peggiore.

«Promettimi...» deve interrompersi perché parlare la fa rimanere senza fiato, è come se ogni singolo osso del suo corpo stesse gridando, ma deve andare avanti, spiegare, domandare. «Promettimi che non lascerai... che li terrai insieme.» loro terranno insieme te, faranno meglio di come hanno fatto con me, è quello che vorrebbe dirgli davvero, ma non ci riesce e spera che lui colga il sottinteso.

«Ti amo.» dice lui, ma non risponde e ora piange davvero, sente il volto bagnato di lacrime non sue, «Ti amo.» lo ripete ancora e ancora, come se volesse scolpirlo tanto a fondo dentro di lei da lasciargliene il ricordo anche quando non potrà ricordare più nulla, ma l'ha già fatto – l'ha fatto ogni notte, con ogni bacio, ogni carezza sussurro giuramento.

L'ha già fatto.

Reclina il capo all'indietro e si lascia baciare, un bacio umido del loro dolore e della consapevolezza crudele che è l'ultima notte, l'ultima ora, l'ultimo minuto in cui potranno essere quello che sono – le labbra di Damon sulle sue sono salate e fredde (sente freddo ovunque, Elena, è tutto così freddo) e disperate, e questo la distrugge in tutt'altro modo perché anche se è giusto che sia lei ad andarsene il prezzo è troppo alto, a pagare non sarà solo lei e questo non sarebbe mai dovuto succedere, lui non lo merita, tutto quello che gli ha fatto passare (tutto quello che nemmeno ricorda più a causa del suo stesso egoismo).

La scheggia le sfiora il cuore ad ogni inspirazione e ogni volta che espira potrebbe essere l'ultima, e il suo corpo è pesante, come se già si stesse preparando a essere lasciato indietro.

«Promettilo.» ripete in un soffio strozzato, perché vuole esserne sicura e lui mantiene sempre le promesse – le aveva raccontato di loro nei pomeriggi sempre più brevi di quell'inverno e non aveva mai mancato a ciò che aveva detto.

Damon la guarda ed Elena vede che l'angoscia gli ha già scavato i lineamenti – non sembra un solo anno più giovane della sua vera età, la sofferenza non ha risparmiato nulla di quel suo viso irreale, le linee indurite e gli occhi esausti e infiniti sotto il peso del tormento, e in quello sguardo capisce che non crede di essere in grado di giurarle ciò che chiede.
Eppure Damon farebbe qualsiasi cosa, per lei.

«Lo prometto.» mormora, ed Elena sa che sta mentendo – con quelle poche forze che le rimangono stringe le sue dita e prega che Alaric lo trattenga dall'andare alla deriva, che permetta a Stefan di stargli vicino, che riescano a impedirgli di crollare in pezzi perché sa che non vale la pena aggiungere decenni di sensi di colpa a quelli passati, non per lei.

Vorrebbe dirgli tante cose – vorrebbe dirgli che non sarà solo, che un giorno lei non sarà niente più che un'eco lontana, che si perderà nei secoli e arriverà una mattina in cui non potrà neppure ricordare il suo nome, che ha fatto quel che ha fatto perché lei è sacrificabile, se questo significa la salvezza di tutti quelli che ama.
Vorrebbe davvero, ma il loro tempo sta scadendo – vede nero, Elena, ma sbatte le palpebre, una, due, tre volte, perché l'ultima cosa di cui vuole essere consapevole sono gli occhi di Damon e gli occhi di Damon sono azzurri (azzurro oceano, azzurri come il cielo di un altro giorno che non vedrà più).

Riesce a sorridere – sta morendo, ma riesce a sorridere solo un'ultima volta perché non può sopportare di vederlo soffrire – e anche se sente le sue lacrime premere a loro volta per uscire – lasciarlo, lasciarlo qui e ora, dopo tutto quello che hanno fatto per arrivare a questo punto, oh, la sola idea è inimmaginabile e ora sta succedendo – le ricaccia indietro e lo sforzo immane di sollevare una mano per accarezzargli il viso è gradito, significa che è ancora viva e presente e che ancora può sentirlo stringersela al petto e può ancora avvertire le sue labbra sulla pelle.

«Sarebbe stato per sempre.» dice, Elena, con un soffio di voce perché è tanto, tanto stanca, e non sta certo dicendo soltanto questo, ma non c'è più tempo, davvero non c'è, e Damon ha sempre capito tutto con uno sguardo.

 

Sarebbe stato per tutta la vita, per tutto quell'infinito di giornate che si svolgeva come un filo rosso davanti a noi, ogni istante, senza cedimenti o dubbi o domande senza risposta.
Sarei stata tua, avrei continuato a sfiorarti (accarezzarti baciarti amarti) e a tenerti in piedi quando pensavi non ce l'avresti fatta – sarei rimasta al tuo fianco, qualsiasi cosa fosse successa.
Avrei scacciato gli incubi e ti avrei stretto a me per calmare il tremito breve che ti prendeva a volte quando il passato si faceva troppo vicino – avrei sorriso ad ogni sorriso, e avrei cercato di curare le tue ferite, una per una, tutte le notti in cui il buio si fosse fatto troppo denso per soffrire in silenzio.

Ti avrei amato ogni singolo giorno di quella nostra eternità – ogni giorno, fino alla fine e oltre.

 

Respira, Elena, ed è il suo ultimo respiro – può sentire distintamente la scheggia conficcarsi nel cuore, e fa male, ma solo per un momento, come aveva sperato.
Gli occhi di Damon sono spalancati e pieni di dolore, e l'ultima cosa che sente è il suo nome – il suo nome in un singhiozzo, la stretta delle sue mani, l'odore di pioggia.

E poi c'è soltanto il vuoto.

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