Il primo sole primaverile si rifletteva nelle mille fontane di Rastea, ma pochi avevano tempo di godersi la bella giornata. Nella capitale tirava aria di guerra: da quando i Daathiani avevano sfondato i confini dell’est, due mesi prima, la federazione aveva emanato il coprifuoco e radunato i vessilli di guerra.
Le notizie di un cavaliere solitario arrivavano in massa dalle terre di confine, e la fantasia della gente aggiungeva numerosi particolari alla mistica disfatta del forte orientale.
Lo stato libero del Sidderith era stato fra i primi a reagire, inviando uno squadrone di duemila uomini per combattere i Daathiani; di questi solo trenta erano tornati a casa portando notizia di morte e devastazione.
Argorit passeggiava tranquillo nelle vie centrali: il suo turno d’addestramento era terminato poche ore prima, e poteva sperperare la paga della giornata in alcool e donne, come ogni venerdì sera, assieme alle reclute della sua squadriglia, nonostante questa volta preferì dirigersi al lungo molo di Rastea. Partirò, un giorno, su una di quelle lunghe navi dirette ad est, e combatterò per il mio popolo, per la mia famiglia, per la mia patria pensava ogni volta, ma non era convinto di tutto questo. Quella stupida guerriglia di confine che logorava la federazione da secoli era all’improvviso diventata qualcosa di più grande, ma nessuno fra gli abitanti della città, eccetto le alte sfere, aveva capito perché. C’erano troppe cose che non tornavano nella mente dei giovani, inviati dalle povere famiglie contadine di periferia ad ingrossare le fila dell’esercito della federazione, considerati poco più che carne da macello dal consiglio, vecchi decrepiti che nella mente di Argorit pensavano solo al proprio tornaconto.
La federazione era un paese corrotto, ormai chiunque al suo interno ne era consapevole, tuttavia a parte qualche attentato minore da parte di un gruppo di ribelli che si facevano chiamare “i separatisti”, nessuno era riuscito a rovesciare la solida aristocrazia che da centinaia di anni governava quelle terre.
All’improvviso un suono fendette l’aria, Argorit si guardò attorno, e vide la gente che si accalcava verso le decine di vicoli che davano sul molo; Le enormi navi da guerra ormeggiate al porto erano in fiamme, una cortina di fumo nero si sollevava da un punto non molto distante dalla decorata panchina sulla quale il giovane era seduto, immerso fino all’attimo prima nei suoi pensieri. Argorit si alzò, il suo dovere gli imponeva di andare a vedere cosa fosse successo, quando le vide. Lunghe navi nere si avvicinavano spedite alla città, a bordo enormi catapulte che sputavano palle di fuoco. Era guerra. La gente in preda al panico cercava in tutti i modi di rifugiarsi entro le solide mura della cittadella interna, mentre al di fuori si scatenava l’inferno.
Corni da guerra risuonarono nell’aria. Argorit non perse tempo, facendosi strada fra la folla tornò di corsa al quartier generale.
-Cosa diamine sta succedendo qui?-
-Ero al molo signore, siamo sotto attacco, vessilli Daathiani, ho contato una ventina di navi in avvicinamento-.
-Dannazione dovevamo prevederlo. Ottimo lavoro ragazzo, ricordami il tuo nome quando tutto questo sarà finito, sarai ricompensato, ora vieni con me-.
Il generale Craist indicò dopo un gruppo di soldati che avevano assistito alla scena.
-Prendi il comando di questi uomini e cerca di disperdere la folla, dì a qualsiasi uomo armato che incontrerai per la strada di raggiungere il resto delle truppe sulle mura esterne, riconquisteremo quel dannato porto-.
Argorit assentì e condusse il manipolo di uomini, a malapena una quindicina, alle porte della cittadella, dopodiché affidò il comando ad uno di loro e seguì Craist sulle mura esterne. Non aveva intenzione di restare a guardare mentre la battaglia infuriava.
Raggiunto il bastione gli si parò davanti agli occhi uno spettacolo orribile: orde di navi nere erano visibili all’orizzonte, potevano essere un centinaio. I proiettili infuocati volavano verso le mura, che tremavano ad ogni impatto. Nulla potevano le tredici catapulte contro le macchine da guerra Daathiane, la cui gittata, si accorse Argorit, non era tuttavia sufficiente a colpire le mura della cittadella. Centinaia di scialuppe cariche di uomini venivano calate dalle navi, dirette verso il molo, pronte a dare battaglia alla strenua resistenza Rasteana, gli uomini si battevano senza alcun riserbo, ma la superiorità nemica era evidente, e schiacciante.
Il generale si sforzava di mantenere l’ordine in tutto quel caos, fra corpi di soldati colpiti dalle centinaia di frecce scagliate dalle barche a remi Daathiane e pianti di disperati in cerca del loro posto in quell’inferno di fuoco e nebbia, quando si accorse di Argorit.
-Dobbiamo combattere, la nostra resistenza verrà organizzata all’interno della cittadella, fa’ chiudere tutti i cancelli, non c’è più tempo!-.
-Ma signore, gli uomini ancora al di fuori delle mura…-
-Il mondo è spietato figliolo, una macchina in movimento che non puoi fermare, sai anche tu quale sia la cosa giusta da fare-.
Argorit non protestò, in cuor suo sentiva che andava fatto, che l’ordine andava dato, condannando a morte centinaia di soldati, abitanti o semplici commercianti, che si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato; non c’era alcuna giustizia in questo, né logica. “Il mondo è spietato, figliolo”.
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