Il Figlio delle Tenebre

di My Pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il passato che ritorna ***
Capitolo 2: *** Lo spettro d'un uomo che fu ***
Capitolo 3: *** Riunioni ***
Capitolo 4: *** Possibili Soluzioni ***
Capitolo 5: *** Storie infondate o poco plausibili ***
Capitolo 6: *** Cuore di uomo, cuore di demone ***
Capitolo 7: *** Piani non detti e segreti tra fratelli ***
Capitolo 8: *** In fuga ***
Capitolo 9: *** Ombre di ricordi ***
Capitolo 10: *** Anime in tumulto ***



Capitolo 1
*** Il passato che ritorna ***


Il figlio delle Tenebre_Act 1 Titolo: Il figlio delle tenebre
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Long fiction
Personaggi: Un po' tutti
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale

Rating: Arancione
Avvertimenti: AU, Non per stomaci delicati, OOC, Shounen ai



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ATTO PRIMO. IL PASSATO CHE RITORNA



Sheerness, 1889

    «Vieni qua, razza di ladruncolo!»
    Richard Hughes si voltò incuriosito verso il grido che aveva udito provenire dalle bancarelle, e vide uno dei venditori afferrare per il polso un bambino dai capelli d'ebano, di forse quattro, cinque anni; teneva in entrambe le mani delle mele e cercava in tutti i modi di divincolarsi, strillando probabilmente insulti al suo indirizzo in una strana lingua.  
    Quando l'occhio color smeraldo si posò sul viso del piccolo, Richard sbiancò, spalancando le palpebre come se avesse visto un fantasma. Si avvicinò svelto al venditore e, poggiando una mano sulla sua che teneva stretta il polso del bambino, ricevette da lui uno sguardo interrogativo.
«Non credo sia il caso di prendersela così tanto, signore», disse pacato, ignorando l'occhiata che lo squadrava dall'alto in basso come per valutarlo. «E' solo un bambino, in fondo».
    L'altro mollò il polso, osservando il ragazzino con astio prima di massaggiarsi la folta barba nera, le sopracciglia corrugate in un'espressione minacciosa.
«Non è la prima volta che tenta di rubare», gli tenne presente, incrociando le braccia muscolose al petto. «Questo bambino è una vera spina nel fianco».
    «Ma questo non toglie il fatto che sia comunque un bambino», rispose Hughes, sollevando appena un angolo della bocca come a voler dar vita ad un sorriso privo d'entusiasmo; distolse poi lo sguardo per adocchiare il piccolo, che fissava ostinatamente e con finto interesse il terreno lastricato ai loro piedi. Si accovacciò accanto a lui e, puntellandosi sulle ginocchia, inclinò la testa di lato. «Dove sono la tua mamma e il tuo papà?» gli chiese piano per non spaventarlo ulteriormente, e il bambino alzò di scatto la testa prima di scuoterla energicamente per un qualche strano motivo.
    «Chan eil pàrantan agam [1]», mormorò poi in una lingua che lui aveva già sentito nei racconti di suo padre quand'era piccolo, ma che non conosceva appieno. Era la lingua delle Highland. Hughes si voltò quindi verso il venditore, ancora a braccia conserte.
    «Che cos'ha detto?» domandò con una strana inquietudine nella voce calma, ma lui si limitò a fare spallucce.
    «Nessuno lo capisce», fece semplicemente. «E' orfano, gironzola sempre qui in giro e raramente parla la nostra lingua. Più di questo non so dirvi».
    L'uomo stranamente annuì. «Me ne prenderò cura io, allora», disse, ricevendo dal venditore un'occhiata stranita. «E pagherò anche ciò che vi ha rubato, non si preoccupi», soggiunse, e a quelle parole lo sguardo del commerciante si fece interessato, tanto che non obbiettò minimamente quando l'uomo gli sventolò davanti delle banconote nuove di zecca prima di prendergli una delle mani possenti e posandogliele nel palmo. «Credo che questi bastino, vero, signore?» disse affabile, sorridendo al di sotto dei grandi baffi neri.
    Il venditore cominciò a contare i soldi, annuendo tra sé e sé; se li infilò poi in tasca senza commentare ulteriormente, dandogli un sacchetto con le mele. Fece poi loro cenno di andarsene mentre si premurava di andare da una donna che lo stava chiamando per comprare della frutta.
    Hughes sorrise maggiormente, abbassando lo sguardo verso il bambino che lo guardava con i suoi occhi color pece grandi e innocenti; lo prese per mano senza che lui facesse storie, portandolo con sé lontano dal mercato, e, mentre camminavano, non poteva non pensare che quel bambino così piccolo, un giorno, sarebbe diventato la rovina o la possibile soluzione a tutti i problemi della sua famiglia. Quegli occhi, quel viso. Non poteva sbagliarsi minimamente.
    Arrivati alla piazza, si sedettero entrambi su una delle panchine lì presenti; l'uomo aprì il sacchetto e gli porse una mela che lui, dopo aver guardato per un po', cominciò a mangiare a grandi morsi, affamato. Hughes sorrise, scompigliandogli i capelli.
«Quanti anni hai?» gli chiese in tono dolce, e ricevette uno sguardo curioso da quegli occhi scuri che splendevano appena sul quel viso sporco, mentre teneva la mela stretta fra le piccole mani. L'uomo sollevò le sopracciglia, accarezzandosi l'occhio cieco con fare distratto. «Capisci la mia lingua?» domandò ancora, vedendolo annuire piano. «Mi dici allora quanti anni hai?» ripeté delicato, e il bambino corrugò appena le sopracciglia prima di voltare la testa, come se non volesse rispondergli. Poi, dando un altro morso alla mela, lo guardò nuovamente. Contò sulle dita, mostrandogliene quattro.
    «Ceithir [2]», mormorò appena, e l'uomo sorrise ancora di più per mostrarsi rassicurante, prendendo dalla tasca un fazzoletto per pulirgli piano il volto.
    «Anche mio figlio ha più o meno la tua età, sai?» gli disse divertito, vedendolo storcere il naso quando vi passò sopra il fazzoletto per togliergli lo sporco depositato.  Finito il suo lavoro rimise il fazzoletto in tasca, inclinando la testa di lato mentre lo osservava finire di mangiare con gusto quel piccolo pasto e posare poi il torso della mela sulla panchina di pietra. «Vuoi bere qualcosa?» chiese ancora l'uomo.
    Il bambino, che stava cominciando a sentirsi a suo agio con lui da come tentava di avvicinarsi, annuì, concedendogli un sorriso con qualche dentino mancante.
«Bainne [3]», fece, e l'uomo sollevò ancora una volta un sopracciglio. Gli diede un buffetto sul naso, passandogli un braccio dietro alle spalle per attirarlo a sé. Non poteva ancora capacitarsi del fatto che quel bambino così innocente potesse essere realmente colui che avrebbe potuto causare danni ancor peggiori in una faida lunga secoli.
    «Non ti capisco, purtroppo», gli disse in tono basso e misurato, accarezzandogli delicato i capelli. «I tuoi genitori erano delle Highland, per caso?» Era quasi certo che fosse così, ma si stupì quando il bambino scosse la testa e fece spallucce. Non lo sapeva, quindi. E la cosa non fece altro che accentuare la sua ipotesi. Non aveva genitori, non conosceva le sue origini, era solo e parlava una lingua diversa dall'inglese. Purtroppo, una volta cresciuto, quel bambino avrebbe avuto un futuro avverso, ancor di più della sua infanzia non vissuta. «Sai parlare inglese?» gli domandò.
    Il bambino aggrottò la piccola fronte per la concentrazione, come se stesse cercando di decifrare bene le sue parole. Poi, ancora una volta, contò sulle dita, segnandogli il numero sette ripetuto tre volte.

    «Ventuno?» fece l'uomo, senza capire.
«Ventuno parole, forse?» chiese a mo' di conferma, vedendolo annuire.
    «Tha mi duilich [4]», mormorò, e dal tono sembrava dispiaciuto. Almeno quello riusciva a capirlo.
    Hughes si limitò ad annuire, stringendolo ancora un po' più a sé mentre osservava le persone camminare allegre, chiacchierare come se nulla fosse. L'unica cosa di cui lui non si capacitava era perché il bambino parlasse quella lingua come se fosse sua, quando in realtà, originariamente, avrebbe dovuto essere inglese antico.  Che fosse tutta opera Sua? Di quel che gli aveva fatto? Non era da escludere.
    Abbassò lo sguardo verso il bambino, che gli aveva stretto fra le manine la camicia e faceva scorrere il suo sguardo per tutta la città, quasi fosse impaurito da tutto quel movimento. Si soffermò ben poco sul suo abbigliamento così leggero nonostante il freddo che spesso si sentiva nella cittadina, trovandolo consunto, stropicciato. Anche le braccia esili, intraviste attraverso i fori della camicia fin troppo grande che indossava, rendevano il suo aspetto ancor più sciupato. Sospirò tristemente a quella scena. Quel bambino aveva bisogno dell'affetto di una famiglia, non poteva assolutamente abbandonarlo al suo destino. Anche se sapeva che era la cosa più giusta da fare.
    Mordendosi il labbro inferiore, Richard si portò una mano alla cintola e sfiorò la guaina in cui teneva il coltello, ma, incontrando gli occhi del bambino, così grandi e innocenti, si sentì un emerito verme. Con che coraggio avrebbe potuto... nay, non voleva pensarci. Magari, allontanandolo da quel luogo, sarebbe riuscito in qualche modo ad evitare che il suo fato si compisse, cambiando ciò che era già scritto. Forse, anche se non ci sperava pienamente. Così, allontanando la mano dal coltello, gli accarezzò i capelli, posandogli un bacio sul capo.
«Ti va di venire con me?» gli domandò, in tono dolce. «Ti insegnerò a parlare inglese, avrai una casa e un pasto caldo tutti i giorni... vuoi?»
    Per qualche secondo il bambino si limitò a guardarlo, come se stesse valutando quella proposta che gli aveva appena fatto l'uomo. Tutti i suoni che si sentivano provenivano dalle persone che attraversavano la piazza e dal mercato poco lontano da dove si trovavano loro; poi il piccolo gli rivolse un enorme e sincero sorriso, annuendo energico.
    L'uomo lo ricambiò, accarezzandosi i baffi.
«Benissimo, allora partiremo domani per il Nord di Sheerness», lo informò, scompigliandogli ancora i capelli. «Poi ce ne torniamo a casa». Pochi secondi dopo, sbatté la palpebra, come per riflettere. «Ora che ci penso, non so il tuo nome», soggiunse, sorridendo divertito. Ancor più divertito gli tese la mano, stringendo la piccola e delicata del bimbo nella sua, grande e forte. «Richard Hughes», disse in tono spassoso, ridacchiando quando il bambino guardò quella mano così grande che stringeva la sua.
    Il piccolo si lasciò sfuggire una risata quando la mano lo lasciò, e gettò le braccia al collo di quell'uomo guardandolo negli occhi, sorridente.
«Roy».


    Dieci anni. Dieci lunghissimi anni dalla morte di suo padre a causa di quelle creature. Del suo amico, poi, non c'era più traccia da altrettanto tempo. Ormai il Sindaco era diventato lui e, come ogni sera, teneva sempre d'occhio la situazione al villaggio. Ad una distanza di cinque o sette anni, il clima era tornato normale e le stagioni avevano ripreso a seguire il corso della natura, facendo sì che la calma si riversasse ancora una volta nella popolazione e la vita riprendesse a scorrere ordinariamente come suo solito.
    Adesso, però, com'era successo dieci anni or sono, erano ricominciate stranamente le piogge e le nevicate fuori stagione, e l'atmosfera tetra e malsana che si respirava metteva a disagio ogni membro della comunità. La sensazione negativa che avvertiva ormai da più di due mesi si era completamente impadronita di lui, mentre, vagando per le strade deserte e per i vicoli, illuminava il suo cammino con una lanterna. Aveva deciso di prendere a quattro mani il suo destino di cacciatore, e ormai da parecchio si teneva sempre pronto ad ogni eventualità. Di vampiri, però, non se ne vedevano da molto. Solitamente di creature del genere non se ne scorgevano, riusciva a cacciare solo qualche lupo mal cresciuto, più comunemente chiamato licantropo, uomini condannati da una maledizione che ad ogni plenilunio divenivano lupi famelici, pericolosi e aggressivi. Da quel che aveva imparato, su di loro le pallottole d'argento erano più che efficaci se si voleva mantenere una debita distanza, ma anche altre armi costituite dallo stesso materiale erano ottime.
    Quante teste di quelle bestie aveva dovuto tagliare, prima di seppellirle? Quanti, ancora in forma umana, aveva dovuto bruciare con il fuoco? Nemmeno se lo ricordava più, sebbene le orde di quei mostri sembravano essere diminuite progressivamente, forse a causa del freddo. O, forse, a causa del fiutato pericolo. Con i sensi molti più sviluppati degli esseri umani, probabilmente, erano riusciti a capire che in quel paesino maledetto c'era qualcosa che non quadrava affatto. Qualcosa da cui bisognava assolutamente tenersi alla larga.
    Il Sindaco stava per svoltare l'angolo quando la luce rischiarò il profilo di una giovane ragazza dai capelli biondo pallido, il cui volto era contratto in una smorfia di terrore mentre osservava, con gli occhi sgranati e le braccia strette al petto, un'ombra che si muoveva fra le ombre. «Winry!» esclamò scioccato, correndole svelto in contro per poggiarle una mano sulla spalla, sentendola rigida come un pezzo di ghiaccio. «Che succede, cos'hai?»
    Sopraffatta dalla paura, la ragazza non proferì parola, nascondendosi rapida dietro alle spalle del Sindaco e puntando un dito verso il vicolo. L'uomo spostò immediatamente il fascio di luce in quelle tenebre, illuminando una figura vestita con una semplice camicia bianca dal colletto di pizzo e un pantalone nero; a quella vista il sangue, senza che ne sapesse il perché, gli si gelò nelle vene. Non poteva crederci. Non era reale. I capelli, molto più lunghi di quanto ricordasse, gli cadevano disordinatamente sulle spalle, mentre gli occhi, completamente inespressivi, lo osservavano senza davvero farlo.
    Con il cuore che batteva a mille Hughes deglutì, forse nel tentativo di inghiottire la strana inquietudine che si era impossessata del suo animo. «Roy?» chiese in un sussurro, sentendo la gola secca. «Sei... sei davvero tu?»
    Un basso ringhio si levò dalla gola dell'ombra dai lunghi capelli neri quando lo sentì, il labbro superiore si ritrasse per scoprire i canini scintillanti che palpitavano. D'istinto, sia il Sindaco che la ragazza indietreggiarono sconvolti quando l'uomo, o meglio il giovane vampiro dalle fattezze del loro amato prete, fece appena un passo avanti, nei meandri dei suoi occhi d'onice si riusciva a scorgere un oscuro oblio iniettato di sangue.
    «Roy», bisbigliò il Sindaco, proteggendo la ragazza con il suo corpo. «Oh, Signore... cosa ti hanno fatto, quei bastardi». Si sentì tirare per la manica del giaccone e, con la coda dell'occhio, vide il viso spaventato di Winry, le cui polle cerulee erano dilatate dal terrore.
    «Sindaco Hughes, allontaniamoci da qui...» stava spasmodicamente ripetendo, mentre cercava con tutte le sue forze di tirarlo via. «...andiamocene». E, se non fosse stato immobilizzato dal terrore, Maes Hughes sarebbe scappato. Con sé non aveva assolutamente nulla. Da quando i lupi mannari non si erano presentati così spesso, portava con sé solo due pallottole placcate in argento nella pistola che aveva dovuto commissionare ad uno degli uomini che addestrava, ma che con le armi se la cavava meglio di lui. E tre pallottole non sarebbero bastate. Ma, soprattutto, probabilmente non sarebbe riuscito a sparare sapendo chi aveva di fronte.
    La mano sfiorò automaticamente la pistola che portava nella fondina. Non doveva tentennare. Se il prete avesse fatto anche solo una mossa azzardata, avrebbe sparato. Non poteva rischiare che altri venissero ancora una volta coinvolti dopo anni, ma, prima ancora che potesse anche solo pensare di estrarre l'arma, una bassa risata lo bloccò. Accanto a Roy, come staccatasi dalla parete stessa, emerse dalle ombre una seconda figura che, con le labbra incurvate in un sorriso, si mosse, facendo frusciare appena il mantello scuro che indossava. Rivolgendo uno sguardo divertito ad entrambi, abbracciò stretto da dietro il prete e gli tenne il viso sollevato con una mano, mentre l'altra vagava ad accarezzargli l'addome, quasi verso il basso ventre. Non staccò quei suoi occhi dorati dalla figura del Sindaco nemmeno per un secondo, leccando appena il collo del suo prigioniero sotto gli sguardi atterriti e sconcertati delle loro due prede.
    «È ancora presto», sussurrò dolce e spietato all'orecchio del vampiro moro, divertito come suo solito dal sentore di terrore che avvertiva nell'aria.  I lunghi capelli d'oro si scompigliarono appena ad una folata di vento, ed entrambi scomparvero lasciando solo fumo e polvere sotto lo sguardo basito e sbarrato del Sindaco e della ragazza.
    Hughes allontanò la mano dalla pistola, fissando la leggera nebbiolina che si erano lasciati dietro ad occhi sgranati. «Non è possibile», la voce incrinata era solo un mormorio sordo nella notte.
«L'hanno trasformato in uno di loro...» Si accasciò a terra, in ginocchio, tenendosi la testa fra le mani. Quella leggera e tremante della ragazza si posò su una sua spalla, e riuscì a sentire distintamente un suo singhiozzo soffocato.
    Il Sindaco poggiò a sua volta la mano su quella della ragazza, stringendola forte. Non aveva mai pensato che al suo fratello adottivo potesse accadere una cosa simile. Meglio morto, che vederlo trasformato in uno di loro. Che vederlo trasformato in uno di quei mostri.. Invece, adesso, uno dei loro nemici era proprio il loro parroco, l'uomo che li aveva sostenuti con i suoi sermoni, l'uomo che quasi li conosceva più di loro stessi... l'uomo che aveva lasciato andare quella notte di dieci anni prima, senza fermarlo. Non ci sarebbe mai riuscito a far fuori lui. Nel diario che gli aveva lasciato il padre aveva scoperto che la sua, sin dai tempi antichi, era sempre stata una famiglia di cacciatori che per sfuggire alla vendetta di un vampiro dell'alta aristocrazia era stata costretta a cambiare il proprio nome. Ed era per questo che il padre era morto. A causa di quel vampiro che era ancora in vita e bramava tutt'ora, dopo secoli, la vendetta contro la sua famiglia. Il prossimo sarebbe stato lui, adesso che erano tornati ancora una volta.
    Maes si girò verso la ragazza, rimettendosi in piedi e abbracciandola per cercare di calmare i suoi singhiozzi isterici. «Stai calma, Winry», mormorò, accarezzandole la schiena.
«Non ti faranno del male, stai calma... va tutto bene». Già dieci anni prima, la giovane che adesso stringeva fra le braccia aveva assistito alla tragica fine di sua madre per mano di quegli esseri. Le aveva visto la morte dipinta in volto. Non avrebbe mai potuto scordare i tragici eventi che si erano ritrovati a vivere in quei mesi oscuri, con la paura nascosta dietro ogni angolo. Ed ecco che, ad una distanza di dieci anni, quei mostri erano tornati a completare la loro opera. «Winry». Le alzò il viso per poterla guardare negli occhi. «Torna subito da tua zia, non guardarti mai alle spalle per nessun motivo... chiudetevi dentro, capito?»
    La ragazza, tremante, annuì. Si asciugò distratta le lacrime passando sul viso il dorso della mano, tirando su con il naso; guardò poi Hughes con un'espressione altamente impaurita. «E... e lei, Sindaco?» chiese titubante, quasi in un sussurro.
    Pochi attimi di silenzio, poi lui trasse un sospiro.
«Io ho un lavoro da fare», fu la sua sola risposta. Detto questo, seguì per un piccolo tratto di strada la ragazza, controllando che arrivasse a casa da lontano per poi fare un altro po' di strada ed entrare nell'edificio alla sua destra, nella locanda in cui erano radunati gran parte degli uomini della popolazione. Al suo ingresso, tutti si voltarono, e lui li salutò con un cenno del capo, facendo qualche passo avanti nell'ampia stanza del locale mentre li squadrava ad uno ad uno.
    «Ho bisogno che almeno un di voi mi segua», disse pacato, richiamando con un cenno della mano un ragazzo dai corti capelli biondi che stava fumando.
«Tu te la senti, Havoc?»
    Guardandosi ansioso intorno e vedendo che anche gli uomini lì presenti avevano in volto la medesima espressione sconcertata e incuriosita, lui annuì, spegnendo la sigaretta nel posacenere e alzandosi per raggiungere il Sindaco. Lo conosceva da molto tempo, ormai, e sentiva subito quando qualcosa non quadrava. Anche se, in quel momento, non capiva esattamente cosa. Lui e pochi altri uomini erano i soli al corrente del passato del loro Sindaco, ma era il solo ad aver quasi appreso le tecniche dei cacciatori. E, quando aveva quella faccia, qualcosa di oscuro si stava parando all'orizzonte.
    Senza dire una parola, né tanto meno spiegare la situazione, i due sparirono dalla locanda, uscendo svelti dal villaggio verso la Chiesa ormai abbandonata. Havoc seguiva obbediente il Sindaco, senza fiatare, mentre la notte buia si infittiva, oscurando loro stessi, tra le loro mani una piccola lanterna a segnare il passaggio. Entrarono in essa attraversando in fretta le panche impolverate per immergersi in un sotterraneo dal quale si accedeva tramite una porta segreta al di sotto dell'altare, e vide Maes prendere la sua pistola d'argento dal tavolino poco distante per fargli subito dopo cenno di uscire nuovamente. Si ritrovarono in breve nuovamente all'aria aperta, nel più completo silenzio della sera.  
    Solo quando i suoni notturni della foresta cominciarono a farsi sentire fu sopraffatto da uno strano senso d'ansia. Si guardava furtivo intorno, respirando l'aria fredda di quella strana stagione. Sentiva come se ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato, in tutta quella dannata situazione che stavano affrontando ormai da molti mesi. Spesso si recavano in quella Chiesa ormai in disuso, abbandonata dai monaci che la occupavano da quando il prete era scomparso, e al di sotto di essa, frequentemente, svolgevano la loro funzione di protettori, portando i corpi delle creature che uccidevano lì sotto. Non aveva mai pensato che quella Chiesa fosse stata innalzata in principio, non più di cinque o sei secoli or sono, proprio per quello scopo. Per esorcizzare creature come i licantropi. E, all'occorrenza, i vampiri.
    «Hai con te la tua pistola?» domandò la voce atona di Hughes, ridestandolo dai pensieri.
    Deglutendo e traendo un lungo sospiro, Havoc aumentò il passo per affiancarsi a lui, annuendo. Intorno a loro non tirava un alito di vento, non si sentivano nemmeno i caratteristici richiami dei rapaci notturni, quasi come se la foresta che stavano attraversando trattenesse il respiro. Era buio pesto e solo la luce della lanterna illuminava i loro passi, creando sinistre ombre che danzavano flebili nella densa oscurità. Il suono d'un ramo spezzato risuonò d'improvviso, facendo sussultare i due uomini.
    Havoc abbassò lo sguardo, notando che era stato lui stesso a provocare quel rumore. Traendo un lungo sospiro di sollievo, prese il coraggio a quattro mani e si avvicinò maggiormente al Sindaco, poggiandogli una mano sulla spalla e arrestando la sua corsa. «Posso sapere dove stiamo andando?» chiese, serio e preoccupato.
    Socchiudendo gli occhi e mordendosi il labbro inferiore, Hughes si voltò, nei suoi occhi verdi brillavano una svariata gamma di sensazioni contrastanti, e il suo basso sussurro si levò con una nota tremante e allarmante nel silenzio notturno.
«Al maniero».


ATTO PRIMO. FINE





[1] Non ho i genitori [ Gaelico scozzese ]
[2] Quattro [ Gaelico scozzese ]
[3] Latte [ Gaelico scozzese ]
[4] Mi dispiace [ Gaelico scozzese ]




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Capitolo 2
*** Lo spettro d'un uomo che fu ***


Il figlio delle Tenebre_Act 1
ATTO SECONDO. LO SPETTRO D'UN UOMO CHE FU


Nei pressi di Londra, 1612

    Era una delle poche mattine in cui il sole, dopo le solite piogge torrenziali, scaldava la cittadina e gli abitanti che, come loro solito, ghermivano le strade principali in cui stanziava il mercato o la piazza che sfociava poco lontano.
    Lui era seduto lì, su una delle panchine di legno, in compagnia del figlio maggiore che, annoiato, si rigirava di tanto in tanto intorno ad un dito le punte dei biondi capelli lasciati sciolti sulle spalle, attendendo l'arrivo della persona con cui suo padre avrebbe dovuto incontrarsi quel giorno. Avevano sfacchinato in carrozza per ore prima di giungere in un paesino vicino alla capitale, e ancora non capiva perché avesse dovuto seguire il genitore e non era invece potuto restare nel maniero che faceva parte dei suoi possedimenti nei pressi della cittadina di Sheerness, dove adesso si trovava anche suo fratello minore.
    Sbuffando, si sistemò il colletto dell'ampia camicia bianca che era stato costretto ad indossare a causa della pioggia, gettando appena una fuggevole occhiata all'uomo seduto al suo fianco. Assolutamente tranquillo e paziente, questi sfogliava distrattamente uno dei suoi soliti libri come se la situazione per lui fosse più che normale. Il ragazzo sbuffò ancora, quasi esasperato.
«Perché non hai portato Alphonse al mio posto, padre?» domandò, poggiando entrambe le mani sul bordo della panchina in modo da sostenere il suo peso.
    L'uomo girò una pagina con non curanza, quasi piegando la copertina ormai consunta.
«Perché in quanto primogenito un giorno sarai tu a succedermi», rispose semplicemente. «Devi imparare come amministrare gli affari di famiglia».
    «Ma, padre... lo sai che non mi interessa», bofonchiò il biondino, incrociando le gambe sulla panchina e abbandonando i palmi delle mani sulle caviglie. Ricevette un'occhiata ammonitrice dal genitore, a quel dire e a quel fare.
    «Comportati in modo consono alla tua posizione sociale, piuttosto. Non lagnarti come un paesano qualsiasi», ribatté, sondando con lo sguardo la sua postura. «E siediti per bene», soggiunse, scuotendo debolmente la testa. D'un tratto, poi, sentendo qualcuno chiamarlo, alzò lo sguardo e posò il libro sulla panchina, sorridendo.
    Il ragazzo dapprima non capì, ma, vedendo suo padre salutare due uomini che si stavano avvicinando e vedendolo poi alzarsi, fece lo stesso, seguendolo verso i nuovi arrivati. Uno dei due era un uomo molto alto sui quarant'anni o poco più, dai capelli neri brizzolati e folti baffi scuri; l'altro invece era un giovane, forse appena diciottenne, con i lunghi capelli d'ebano come quelli dell'uomo e un taglio d'occhi orientale. Più unico che raro, lì in Inghilterra.
    «Spero che il viaggio non sia stato spossante», disse l'uomo, stringendo la mano a quello che poco prima era seduto, gettando uno sguardo al biondo come se fosse incuriosito dalla sua presenza.
    «Nay, è stata una splendida passeggiata», replicò quasi divertito l'altro, ricambiando la stretta con un sorriso. «Immagino che lui sia suo figlio», soggiunse poi, guardando il ragazzo moro che, per educazione, era rimasto in silenzio, osservando però interessato il biondino.
    «Immagina bene», fece in tono altrettanto spassoso il nuovo arrivato, dando una pacca sulla spalla al giovane e ricevendo da lui un'occhiata. «Avanti, Roy, dove sono finite le buone maniere?»
    Il ragazzo chinò appena il capo, allungando una mano verso l'uomo e stringendo la sua con un vago sorriso che accentuò il taglio obliquo dei suoi occhi.
«E' davvero un piacere conoscerla, signor Hohenheim», disse con una voce calda, morbida e ovattata, osservando con la coda dell'occhio il biondino.
    «Il piacere è mio, Roy», rispose l'uomo, e una volta sciolta la presa si girò a sua volta a guardare il figlio, silenzioso e a braccia conserte accanto a lui. Aprì la bocca per presentarlo ai due uomini, ma lo stupì non poco il gesto del moro, che si era chinato a mezzo busto e gli aveva delicatamente preso una mano per baciargliela come un galantuomo. Gesto che fece accigliare non poco il biondino, che osservò quella chioma nera perplesso quanto il padre, a differenza dell'altro uomo che, data l'espressione tranquilla, lo riteneva probabilmente un comportamento normale.
    «Incantato», mormorò il ragazzo con i capelli scuri, alzando lo sguardo per sorridergli e ammiccare, e il biondo si accigliò ancora di più, nonostante quel sorriso gli piacesse anche se non capì propriamente il perché. Con la mano libera lo indicò, guardando il padre.
    «Tha e gòrach, Athair [1]», disse calmo, in una lingua che gli altri due non capirono.
    L'interpellato lo ammonì con lo sguardo.
«Non essere scortese», replicò, poggiandogli una mano sui capelli per scompigliarglieli con fare paterno, guardando divertito il moro che sbatteva le palpebre quasi confuso. «Temo tu abbia frainteso, ragazzo mio», sghignazzò nel vedere l'espressione che si era dipinta sul volto dei due uomini, che si osservarono perplessi. Difatti il moro lasciò la mano del biondo, guardando attentamente suo padre per una frazione di secondo prima che fosse proprio il biondino a richiamare la loro attenzione con un colpetto di tosse, quasi innervosito.
    «Sono un maschio», sbottò, già stizzito di suo per essersi dovuto mettere in viaggio, prendendo poi la mano del moro e stringendola con fin troppo vigore, tanto che all'altro formicolarono le dita quando la mollò. «Mi chiamo Edward».
    Il ragazzo moro si portò una mano alla bocca prima di sgranare gli occhi scuri, sentendo le risate del padre del biondino, alle quali si aggiunsero presto quelle di suo padre. Si sentì invaso da un vago senso di imbarazzo mentre si grattava con finta non curanza dietro al collo, quasi fosse a disagio.
 «S-Sono desolato», si scusò sulla difensiva. «E’ che hai un viso così carino che pensavo fossi una fanciulla. Perdona l’insolenza».
    Edward non poté non arrossire, proprio come una ragazza. Nessuno gli aveva mai detto che era carino, tanto meno un... beh, tanto meno un uomo. Cercò di non dare a vedere che quella constatazione era ben gradita, ricomponendo la sua aria distaccata e incrociando le braccia al petto.
 «Devo considerarla un'offesa alla mia virilità, questa, o un complimento?» ribatté arcigno, ricevendo una poderosa pacca sulla schiena dal padre. Si voltò a guardarlo, notando la sua espressione divertita.
    «Placa gli ardori, Highlander. Non essere così acido», fu la sua risposta spassosa, mentre faceva cenno all'altro uomo di accomodarsi sulla panchina. «Vai a fare due passi, dobbiamo parlare di affari».
    «Vai anche tu, Roy», rincarò la dose il padre del moro.
    Il biondo, che sapeva fin troppo bene quanto fossero noiosi quei discorsi, lanciando un'occhiata in tralice quasi truce al ragazzo dai capelli scuri e sbuffando, prese a camminare per la piazza fino a sbucare in una delle strade principali, seguito dall'altro che gli trotterellava dietro.
    «Senti, mi dispiace», lo sentì dire, ma non gli diede peso, continuando la sua traversata come se nulla fosse, come se lui non avesse aperto bocca. Più lo teneva lontano da sé, meglio era. Non sapeva perché.  «Non volevo dubitare del fatto che sei un uomo, sul serio», riprese quello, insistente, avvicinandosi a lui in sole quattro falcate. «Ma è vero che sei carino, non scherzavo affatto su quel punto».
    Edward si fermò di botto, arrossendo ancor più vistosamente. Ma perché arrossiva, maledizione? Che razza di potere ammaliante aveva su di lui, quel moro?  
«Anche tu lo sei», si ritrovò a confessargli senza un motivo preciso, pentendosene subito e tappandosi rapido la bocca. Nay, quello non era un ragazzo. Era un ammaliatore o qualcosa di simile, se gli faceva dire quelle cose.
    «Oh, beh, sono lusingato», lo sentì dire, in tono stranamente divertito. «Che ne dici di dimenticare quel piccolo disguido e ricominciare da capo?» Senza che potesse dire una parola o controbattere, il ragazzo se lo ritrovò al suo fianco, e in breve la sua mano stringeva nuovamente quella del moro, che sembrava sorridergli seducente. «Piacere, Roy», fece spassoso, come se fosse un gioco.
    Il biondo guardò le loro mani unite e poi quegli occhi a mandorla, di un colore tendente all'onice, e dovette ammetterlo a se stesso. Quel ragazzo non era solo carino, era bellissimo. E anche maledettamente furbo e ingegnoso. Se non fosse stato così alto, l'avrebbe scambiato per un Wee Folk
[2]. Ma gli regalò comunque un sorriso stiracchiato, ricambiando la stretta. «Edward», disse, sentendolo ridacchiare, e gli piacque, quella risata. Un po' titubante tenne stretta la mano del moro, arrossendo ancora una volta quando quello sguardo scuro si posò su di lui e, a disagio, si grattò una guancia, limitandosi a stringersi nelle spalle.
    «Lo considero un gesto d'affetto?» sghignazzò il moro, ricevendo una mezza occhiata dal biondo, che abbassò prontamente lo sguardo sul terreno lastricato.
    «Consideralo come vuoi», replicò, stupendosi di non essere stato sgarbato come avrebbe voluto sembrare in quel preciso momento.
    «Ma dai, dimmelo tu», fece ancora il ragazzo dai capelli d'ebano, sorridendo sensuale a quello strano ragazzo. Lo vide alzare lo sguardo ancora una volta, prima che una delle fine sopracciglia bionde fosse sollevata appena, come ad indicare un inconfutabile scetticismo, ma lo vide sorridere, come fosse divertito.
    «Tienilo a mente, mai discutere con uno scozzese».


    Nel maniero, nemmeno una fiaccola illuminava le grandi sale e la quiete regnava sovrana, spezzata di tanto in tanto da qualche urlo disumano o dal risuonare sinistro dei vetri infranti.
    Con la testa fra le mani, Padre Roy cercava con tutte le sue forze di scacciare quell'anima malvagia che si annidava nel suo cuore e che cresceva ogni giorno di più, divenendo sempre più potente. Ormai, però, le sue preghiere erano diventate inefficaci da anni. I primi mesi aveva quasi sperato di essere riuscito a placare la sete di sangue che gli attanagliava le viscere; si era persino ridotto a mordere se stesso per non cedere a quell'inarticolato desiderio, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stato solo iniettarsi veleno del tutto inutile su di lui, e la sua sete era aumentata sempre più d'intensità, martoriandolo nel profondo, in quel frammento d'anima umana che gli era ancora rimasta e che si aggrappava spasmodicamente al suo cuore per non sparire del tutto.
    Voleva morire. Combatteva contro se stesso da dieci anni: la transizione in lui, per qualche strana ragione, non era ancora completa, e questo poteva considerarsi un suo punto debole o la sua quasi totale invulnerabilità. Di solito, come gli aveva spiegato il vampiro che l'aveva trasformato, non ci volevano più di un paio di giorni per completare il passaggio, ma la sua forza di volontà non aveva permesso che si compiesse né lo faceva tutt'ora, e la sofferenza era maggiore. Mille volte maggiore di quanto fosse mai immaginabile. Dentro di lui il fuoco che ardeva non si spegneva mai, era come le fiamme dell'Inferno che bruciavano per l'eternità, senza consumare il corpo di chi era stato dannato. Come lui.
    C'erano attimi in cui, come in quel momento, tornava ad essere quasi umano, lucido, cosciente della sua situazione, e disperato abbatteva in continuazione le vetrate del maniero, tentando di ferirsi, urlando per quel fuoco che non lo abbandonava. A tali momenti si alternavano vuoti oscuri in cui percepiva quel che gli accadeva intorno, ma il suo corpo si muoveva senza rispondere ai comandi della sua mente, vagando come uno spettro per il bosco che circondava il maniero e attaccando qualsiasi cosa da cui percepisse lo scorrere della vita. E a quel punto, mentre i canini affondavano contro la sua volontà nel collo di chi si era perso tra la boscaglia, con il sangue della sua vittima che gli colava agli angoli della bocca, i suoi occhi d'onice vacui e privi d'ogni emozione lasciavano cadere lacrime che nessuno avrebbe mai visto. Per questo, ogni sera da più di dieci anni, tentava di auto-mutilarsi per non patire più quella vita, se così poteva definirsi.
    Ci provava e ci riprovava, senza successo. Un vampiro giovane, appena nato, non poteva fare un granché senza dipendere bene o male dal vampiro che l'aveva fatto risorgere a nuova vita. I poteri erano deboli, non sviluppati, l'unica cosa che lo rendeva diverso, e tremendamente più forte degli altri esseri umani, erano le zanne che gli spuntavano dalle labbra, la sua forza sovrumana e la capacità di rigenerarsi. Senza contare la continua e lasciva sete di sangue e il mai soddisfatto desiderio carnale. Per non parlare poi delle continue immagini che la sua mente registrava proprio come aveva fatto pochi attimi prima, facendogli provare un dolore ancor maggiore, un dolore a cui non riusciva a dare una spiegazione, un dolore che gli sembrava quasi sfociare nella nostalgia.
    Aveva il terrore di se stesso, in quei momenti. Sentiva voci su voci che si accavallavano le une alle altre, occhi che si accostavano ad altri, momenti di cui sentiva la mancanza. Quando tutto diveniva dannatamente doloroso,ciò che i suoi occhi riuscivano a vedere attraverso l'oscura foschia color pece che smussava i contorni era il polso del suo signore, quel polso candido che si macchiava del sangue di cui lui si nutriva per placare almeno in parte la terribile sofferenza, e la sua mente si concentrava unicamente sulla mano gelida e delicata che gli scorreva sulla pelle nuda e fredda, in quell'atto di eccitante e spaventoso erotismo. Quelli, però, erano gli unici attimi in cui riusciva a riacquistare un barlume di se stesso. E a quel punto lo allontanava
immediatamente da sé, come disgustato dai suoi gesti, sotto lo sguardo ambrato del giovane vampiro che, senza dire una parola, gli copriva il corpo nudo con un lenzuolo leggero e lo lasciava solo. Solo con le sue strazianti urla nel realizzare cos'era successo. Urlava e urlava finché la gola non cominciava a bruciargli, rannicchiato su se stesso con le mani convulsamente strette fra i capelli scompigliati, con le gambe al petto, avvolto in quelle lenzuola e seduto su quel materasso completamente sporco di sangue e di un liquido vagamente rassomigliante a sperma.
    D'un tratto, abbandonando quei pensieri, si guardò intorno con gli occhi neri completamente dilatati, come qualcuno che venisse tenuto costantemente sotto controllo, il respiro ansimante gli faceva alzare e abbassare il petto a ritmi sempre più irregolari, mentre la sete di sangue cresceva senza limiti. Qualcosa gli sfiorò una spalla; drizzò la testa, si voltò. Dinanzi a lui si ritrovò uno dei servi di sangue presenti in quella casa.
    In un lampo, gli fu addosso prima ancora che potesse muoversi o urlare, afferrandolo per le spalle e martoriandogli la carne con dita ormai divenute artigli, senza badare alle sue urla mentre si spostava verso l'addome. La testa si reclinò all'indietro, il volto si chinò poi fino a snudare le zanne; le affondò nel suo collo prima di squarciargli completamente la gola, sentendo il suo sangue caldo colargli lungo il mento. E a quell'odore penetrante di ruggine, il fu Padre Roy scattò serpentino all'indietro, restando seduto su quel pavimento freddo ad osservare allarmato e ad occhi sgranati lo scempio che aveva appena compiuto. Interiora, sangue.
    Una morsa gli attanagliò lo stomaco, come se stesse trattenendo un conato di vomito. Si affrettò a puntellarsi sulle ginocchia per rimettersi in piedi, barcollante, tentando di non guardare le proprie mani, sporche di sangue quasi fino al polso. Puntò lo sguardo verso le finestre, al cielo scuro fiocamente illuminato dalla luna.
«Perdona questo peccatore, Signore», sussurrò, anche se invano. Quella fede fittizia che gli era rimasta era l'unica cosa che gli permetteva di non impazzire. O almeno non del tutto.
    Gettò un'ultima veloce occhiata al corpo esangue a cui aveva appena tolto la vita, sentendo un vuoto attraversargli il petto.
Un mostro, ecco ciò che era diventato. Solo e unicamente un mostro. E, abbattendo l'ennesimo pugno contro un vetro - con i frammenti che gli si conficcavano nella carne già immediatamente guarita, con i lunghi capelli neri che gli ricadevano sulle spalle e sul viso dalla fronte imperlata di sudore a coprirgli frattanto gli occhi scuri -, levò un ringhio acuto che rimbombò sulle pareti del lato ovest, arrivando alle orecchie del padrone di casa. Quest'ultimo alzò appena gli occhi dal libro che stava leggendo, gettando uno sguardo ai suoi due figli prima di stornare poi lo sguardo verso gli altri tre o quattro vampiri che in quegli anni di forzato ozio era riuscito a richiamare. Anche loro, assolutamente immobili, osservavano i loro padroni.
    Hohenheim si sistemò con fare stanco gli occhiali sul naso, voltando distrattamente pagina.
«Ogni sera la stessa storia», borbottò pacato, quasi con svogliatezza, sistemandosi anche il colletto della camicia di pizzo e stando attento al piccolo opale scarlatto che quasi gli cingeva la gola. «Proprio non riesce a starsene buono».
    Trasse un lungo respiro, accavallando con disinvoltura le gambe e cercando di riconcentrarsi come meglio poteva sulla sua lettura. Bevve un sorso del the che uno dei suoi servi di sangue gli aveva portato pochi minuti prima, posando nuovamente la tazza per riprendere a leggere, ma un altro ringhio lo deconcentrò, ed esasperato si massaggiò una tempia. «Sapete bene quello che dovete fare
», fece poi rivolto ai suoi due figli, vedendoli con la coda dell'occhio immobili al loro posto, come se la questione non li riguardasse. Chiuse il libro con uno schianto secco, risistemandosi ancora una volta gli occhiali prima di fulminarli entrambi con lo sguardo. «Muovetevi, invece di poltrire», ordinò, senza voler ammettere repliche.
    I due vampiri si guardarono appena e, sbuffando, sparirono poi in un batter di ciglia, ritrovandosi a camminare senza alcun risuonar di passi per i corridoi impolverati, insinuandosi in uno sulla destra e sbucando nella sala musica, dove il piano con cui si dilettava a suonare la loro defunta madre era stato rovesciato e scagliato in un moto di rabbia contro il muro, scivolando sui vetri che imperversavano sul pavimento come piccoli diamanti grezzi scintillanti.
    Il più giovane trattenne un'imprecazione, voltandosi verso il fratello.
«Spero tu sia contento adesso, Edward», sbottò innervosito, con gli occhi verde ambra ardenti di collera mal celata. «Dieci anni e ancora cerca di contrastare il tuo cosiddetto veleno... distruggendo frattanto gli oggetti di nostra madre». Distolse immediatamente lo sguardo quando incontrò le polle assolutamente scure del maggiore, infervorato quasi più di lui. Il suo disappunto si poteva fiutare nell'aria.
    «L'ho punito più volte, per questo», gli tenne presente, cominciando a scendere tranquillamente le scale che li dividevano dalla sala, seguito dal compagno.
    «Ma sembra non abbia capito la lezione, dato che se n'è andato in giro senza il tuo permesso», fece in risposta l'altro.

    «Forse avrei dovuto farlo trasformare da nostro padre, almeno si rendeva utile in qualche modo, quel vecchio vampiro», disse tra sé e sé come se stesse intrattenendo un monologo, inclinando la testa di lato per evitare un frammento di vetro che il prete gli aveva appena scagliato contro. «A quanto pare, il mio veleno agisce troppo lentamente».
    Alphonse sbuffò, gettando un'occhiata a Edward.
«Non avrebbe mai esaudito un tuo capriccio, lo sai», lo informò, inarcando un sopracciglio, ma ci guadagnò appena uno sguardo truce.
    «Penso di sì, invece. Me lo doveva», replicò con fare fin troppo ovvio, avvicinandosi maggiormente al prete.
«Ma in questo modo Roy avrebbe ubbidito a lui, essendo originariamente umano».
    Entrambi fecero scorrere lo sguardo nella sala, trovando riverso in una pozza di sangue uno dei loro servitori, con le mani completamente abbandonate, immobili ed esangui, sul pavimento, rivolte verso il camino spento. Degnandolo di una sola occhiata, Edward scosse la testa come se ancora non se ne capacitasse, concentrandosi sul prete che se ne stava in piedi a pochi passi da lui, con le mani convulsamente serrate sul bordo di una delle piccole scrivanie, i capelli scuri gli ricadevano sulle spalle confondendosi con il mantello che indossava.
    Gli si avvicinò piano e provò a sfiorarlo, ma quest'ultimo si ritrasse di scatto con un ringhio sommesso avendo avvertito la sua presenza, mostrandogli le zanne. Il fuoco divampò in un guizzò d'oro e arancio nel camino come se fosse stato acceso da mani invisibili, un fulmine squarciò immediatamente il cielo e in lontananza si udì un ululato, mentre i due vampiri si squadravano, chi sopraffatto solo e unicamente dal disgusto, chi assolutamente indifferente alla collera che sentiva scaturire dall'altro.
    Fu qualche attimo, e il moro gli si gettò contro spinto solo da quell'istinto terrificante che lo animava, come se rivoltarglisi contro potesse servirgli a qualcosa. Lo afferrò per il colletto della camicia con entrambe le mani, costringendolo in questo modo ad alzare di poco il mento, le zanne palpitanti fra le labbra, mentre gli occhi, così scuri che nemmeno le pupille sarebbero state distinguibili, erano fissi solo ed unicamente sul suo volto.
    Il biondo non fece una piega, guardandolo a sua volta con fare saccente. Trasse un sospiro, alzando lentamente un braccio per far cenno al fratello di non intervenire, avendolo visto con la coda dell'occhio flettere il corpo, pronto all'attacco. Una delle sue mani si posò poi su quelle che il moro aveva stretto intorno al suo collo, e con uno scatto repentino lo costrinse a lasciarlo, piegandogli così velocemente il braccio dietro la schiena che l'altro nemmeno se ne accorse. Un altro ringhio
disumano che si trasformò in un urlo sfuggì dalle labbra del moro, che tentò di voltare la testa verso di lui per opporre in qualche modo resistenza, divincolandosi.
    Edward gli piegò maggiormente il braccio, come se volesse spezzarglielo, forzandolo ad inginocchiarsi davanti a lui e ignorando i suoi mugolii di dolore.
«Vedi cosa mi costringi a fare, Roy?» gli sussurrò languido, chinandosi in modo da potergli sfiorare un orecchio con le labbra. «Non voglio farti del male, ma se continui ad opporti in questo modo...» scese piano, lento, saggiando la pelle del collo. «...tutto il dolore che provi non farà altro che aumentare». Accanto a lui c'era solo la debole presenza del fratello, che sembrava assentire in silenzio nonostante il velo di potere che si sentiva scaturire ancora intorno a lui a causa dello scontro evitato al quale avrebbe, probabilmente, voluto partecipare.
    «Lasciami andare, figlio di puttana!» ringhiò il prete, scrollando le spalle come se volesse liberarsi, e i capelli gli ricaddero dinnanzi al viso, nascondendogli parzialmente gli occhi scuri.
    Una piacevole risata aleggiò fra loro, nonostante lo sguardo di Edward fosse divenuto indecifrabile.
Erano dieci anni che andava avanti così. Probabilmente suo padre aveva ragione. Non era realmente lui. Lo lasciò bruscamente, vedendolo indietreggiare con una mano convulsamente stretta a pugno, tremante di collera e non solo. «Parole molto pesanti, per un uomo di Dio», disse in un sussurro, come se volesse farglielo notare appena. «Och, dimenticavo che non lo è più da anni», soggiunse poi, facendo qualche passo verso di lui per piegarsi appena sulle ginocchia, le mani abbandonate sulle cosce.
    Il moro si allontanò maggiormente,
incontrando con i suoi occhi d'onice dilatati per la sete, il terrore e la rabbia, quelli dorati del vampiro dinnanzi a sé, che erano unicamente un oblio ambrato. Quante volte si era perso in quegli occhi? Quante volte, quando perdeva il concetto del suo essere e diventava un vampiro per quei pochi attimi in cui la sete prendeva il sopravvento, godeva di ogni singola attenzione che quella creatura sapeva dargli? Quante volte lasciava che il suo corpo gli appartenesse? Ne aveva perso il conto, ormai.  La sua integrità di prete era scomparsa dieci anni prima, quand'era diventato un vampiro. Ormai conosceva la lussuria, il piacere... tutto a causa di quell'essere, che approfittava di lui quand'era più debole e assetato, accondiscendente, e tutto ciò che gli faceva gli piaceva tremendamente. Ciò che gli restava era quel briciolo di fede che ancora era riuscito, chissà come e con chissà quale forza, a preservare. E, come se non bastasse, il mostro che aveva dinnanzi non faceva altro che ricordargli la sua triste situazione.
    Indietreggiò ancora, seduto su quel pavimento impolverato, spostando il suo sguardo
verso il più giovane per catturare solo in seguito l'immagine del servo che aveva ammazzato. Terrorizzato ancora una volta dal suo stesso gesto, si sfregò velocemente le mani sul pantalone scuro, come a volerle ripulire del peccato che aveva commesso. I canini, appena scoperti, sporgevano dalle labbra quasi livide «In nome di Dio, di Satana, di chi è il vostro protettore. Lasciate che me ne vada», bisbigliò concitato, riportando la sua attenzione sul volto d'alabastro di colui che aveva dinnanzi. «Lasciatemi libero. Non voglio più uccidere».
    Le labbra di Edward si sollevarono in un sorriso, vagamente triste nel ricordare il lampo d'eccitazione che intravedeva nelle perle nere del prete quando uccideva, lo stesso lampo che aveva riscontrato in quegli stessi occhi quasi trecento anni prima. Desiderio, passione... anche se per poco, era riuscito a vederlo. «Ti ricordo che il nostro compito non è ancora concluso, Roy», replicò tranquillo.
    La pupilla nera si ridusse ad un puntino scuro. «Non potete chiedermi di farlo, non voglio», sussurrò piano, guardando seriamente gli occhi dorati del vampiro. «Non potrei mai... è come un fratello, per me. Non voglio uccidere né lui né altri».
    «Non ti farai più tutti questi scrupoli dopo mezzo secolo, te lo assicuro», mormorò comprensivo Edward, rialzandosi in piedi prima di avvicinarsi a lui. Si chinò ancora una volta, accostando le labbra all'orecchio
per sussurrargli divertito: «Sarà lui la prossima vittima... Maes Hughes».


ATTO SECONDO. FINE





[1] Papà, questo qui è stupido [ Gaelico scozzese ]
[2] I Wee Folk sono creature tipiche del folklore scozzese (Quasi equivalenti ai nostri folletti) caratterizzate dalle minuscole (Wee) dimensioni.




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Capitolo 3
*** Riunioni ***


Il figlio delle Tenebre_Act 1
ATTO TERZO. RIUNIONI


    Lo stormire tra le fronde diveniva man mano più ovattato, più la notte si infittiva e più loro si avvicinavano al maniero, insinuandosi fra i boschi silenziosi e cupi.
    Serpeggiarono scansando i rami bassi che ostruivano il loro passaggio, dilaniati dalla sgradevole sensazione di mille occhi puntati su di loro. In poco arrivarono dinnanzi alla magione, le cui grandi porte, stranamente, erano spalancate, come ad invitarli ad entrare, ed i due uomini trovarono l'ingresso in condizioni più catastrofiche di quando l'avevano visto dieci anni prima. Il dipinto era stato bruciato, così come la maggior parte degli oggetti lì presenti, vetri e mobili erano ridotti a pezzi, e gran parte dei frammenti erano stati scaraventati da una parte all'altra del salone.
    Senza capire chi fosse stato a compiere quel putiferio, il Sindaco e l'unico uomo della sua scorta cominciarono a perlustrare il primo piano della casa, sorpresi di non trovarvi i presunti abitanti a quell'ora di notte. Che fossero usciti a caccia? Il solo pensiero fece accelerare i battiti dei loro cuori mentre avanzavano spediti in ogni stanza, sorpassando ogni ostacolo, salendo o scendendo ogni scala.
    Sbucarono in un piccolo studio ormai in disuso, i cui scaffali erano stracolmi di vecchi libri impolverati, l'unica scrivania presente era anch'essa ricoperta da uno spesso strato di polvere, e un paio di tomi antichi erano ordinatamente riposti sulla destra, insieme a vari fogli e stilografiche; oltrepassarono la soglia guardandosi attentamente intorno e coprendosi le spalle a vicenda, controllando ogni anfratto, gettando occhiate furtive alle finestre che si affacciavano nella lugubre foresta immersa nelle tenebre.
    Maes fece ad Havoc un piccolo cenno con il capo e con due dita, intimandogli di seguirlo nuovamente nel corridoio scuro, ed entrambi ripresero a camminare inondando di luce le pareti con la lanterna che avevano con sé, puntando in ogni angolo le pistole che impugnavano, con l'ansia che si faceva sempre più strada nei loro cuori; al secondo piano, uno di loro poggiò una mano su una porta alla loro sinistra, rivelando una piccola stanza quasi completamente spoglia, dall'arredamento spartano dove c'era la sola presenza di un letto e una cassettiera accanto ad esso. E quando lo sguardo di entrambi si posò sul lenzuolo che copriva il materasso, Hughes sgranò gli occhi, facendo un passo indietro senza un motivo apparente.
    Havoc gli lanciò un'occhiata e, con la lanterna ben alta ad illuminare la stanza, si avvicinò al letto per toccarne la coperta, sporcandosi i polpastrelli delle dita di sangue. Fresco. Voltandosi verso il Sindaco, vide che era sbiancato. Si ripulì le dita sul cappotto nero, gettando un altro sguardo alla stanza.
«Hughes, tu credi che questo sangue sia...?» chiese appena, senza terminare la frase. Avrebbe voluto chiedere se fosse di chi credevano, ma non ne aveva il coraggio. Sembrava non voler avere realmente una risposta.
    Il Sindaco scosse la testa, tenendo lo sguardo basso mentre, senza proferir parola, usciva silenzioso come un'ombra dalla stanza, tornandosene nel corridoio. Havoc l'osservò sparire insieme alla scia della luce della lanterna che sorreggeva e, con un piccolo sospiro, si affrettò a seguirlo, guardando un'ultima volta le lenzuola. Sorpassate un altro paio di stanze, le cui finestre erano state coperte e chiuse da pesanti tendaggi di seta nera, tanto che persino i muri davano l'impressione di essere del medesimo colore, come se in quelle camere non entrasse la luce del sole da secoli, si ritrovarono in un grande atrio coperto da una cupola in vetro che si sorreggeva su intelaiature in fine metallo e pilastri completamente avvolti da edera.
    Hughes si guardò intorno, con la lanterna ad illuminargli la zona. Quando si erano ritrovati in quel maniero, dieci anni prima, lui e gli altri si erano limitati solo a controllare i paraggi o il primo piano di tutta la casa, era stato suo padre ad esplorare accuratamente la villa. Si stupì non poco, quindi, nel vedere come aveva vissuto un tempo quella famiglia. Voltò la testa verso Havoc, che si guardava nervosamente intorno mentre, posata la pistola, frugava nelle tasche, forse alla ricerca del suo solito pacco di sigarette; lo trovò e se ne accese una, tirandone una bella boccata, agitato. Si stava sfregando le dita dell'altra mano, mentre con l'altra avvicinava e allontanava la sigaretta dalle labbra, ispirandone il fumo fino in fondo ai polmoni. Ricevette da lui una fuggevole occhiata prima che, deglutendo quasi simultaneamente, riprendessero a camminare in quel grande atrio dal pavimento di marmo, con i loro passi che risuonavano sinistramente nel silenzio e nel vuoto.
    Scesero ben presto nuovamente ai piani inferiori, e anche qui, ad attenderli, c'era solo il nulla, avvolto nelle ombre sempre più fitte della notte. Dopo un lungo tragitto attraverso grandi corridoi bui, giunsero in un'altra stanza, così grande che avrebbe potuto benissimo ospitare una cinquantina di persone o poco più, arredata da una buona parte di scaffali impolverati dalle cui mensole sporgevano volumi e libri di ogni dove, qualche poltrona dal tessuto rosso consunto e un caminetto spento incassato alla parete.  La biblioteca del padrone, probabilmente.
    Un brivido corse lungo la schiena del Sindaco man mano che il suo sguardo si posava su quei frammenti di una vita passata in un'epoca a lui sconosciuta. I quadri lì presenti rappresentavano scene di caccia o i probabili antenati della famiglia - i tratti del viso allungati e spigolosi, i capelli biondi castigati in alte code, le espressioni austere e degne di chi era conscio del potere che possedeva -, mentre un grande arazzo prendeva gran parte della parete a nord, vicino alle grandi porte-finestre spalancate e dalle quali, di tanto in tanto, entrava un flebile e gelido alito di vento che smuoveva le tende scure.

    Uscirono da quella stanza e ripresero ad esplorare i dintorni del maniero, con una sempre più crescente agitazione che gravava nei loro cuori e nei loro animi; si spostarono verso il lato ovest del maniero, percorrendo l'unico lungo corridoio lì presente, dove il gelo sembrava quasi concentrarsi in una bolla d'aria. Piccole nuvolette di vapore uscivano dalle loro labbra quando respiravano, l'estenuante sensazione che avevano provato appena giunti ai cancelli del maniero era quasi sul punto d'intensificarsi, mentre continuavano la loro lenta, e vigile, traversata. D'improvviso, in un lampo azzurro e violaceo, le torce ai lati del corridoio guizzarono e si accesero, irradiando di luce il luogo in cui si trovavano. Si schermarono gli occhi per l'intensità, quasi storditi.
    «Che diavolo...?!» esclamò uno di loro, abbassando le palpebre per massaggiarle, accecato. L'altro intanto stava facendo lo stesso, intontito quasi quanto lui se non di più. Chinò il capo e anche la lanterna, sbattendo più volte le palpebre per abituare gli occhi a quella luce violenta e carica d'energia che aveva investito entrambi così fulminea, istantanea, poggiando la schiena contro il muro di destra per riprendersi almeno parzialmente. «Tutto okay, Hughes?» sentì chiedere, e scosse energicamente la testa alzando lo sguardo verso di lui.
    «Potrei stare meglio», rispose, aprendo lo sportellino della lanterna per spegnerla, dato che la sua luce era ormai inutile. «Ma non perdiamo altro tempo, muoviamoci».
    Havoc si limitò ad annuire, seguendolo per quel corridoio dove le fiamme delle torce creavano danze azzurrognole e infuocate sulle pareti dal colore giallognolo stinto e invecchiato.
Dopo minuti interminabili di cammino, sbucarono in un'ampia stanza, anch'essa completamente immersa nella penombra, se si escludeva la luce che proveniva dal corridoio. Fecero qualche passo avanti sporgendosi oltre il parapetto della ringhiera, gettando un'occhiata nella sala adiacente, inghiottita dall'oscurità. Solo verso sinistra, dove una fievole luce arancione sembrava riscaldare l'ambiente, un piccolo fuoco scoppiettante riusciva a dare un fuggevole assaggio di come la sala si presentasse. Qui, a differenza delle altre sale che avevano esplorato poco prima, regnava il più completo caos, persino sulle scale a chiocciola che davano nella stanza sottostante erano presenti frammenti di vetro e pezzi di legno appartenenti probabilmente a tavoli e sedie.
    Cautamente, stando vigili per non inciampare in nulla, scesero nella sala, osservando con minuziosa attenzione ogni particolare e facendo scorrere lo sguardo su tutto l'arredo disastrato lì presente, sul cadavere ancora riverso a terra che fece loro deglutire nuovamente, spostando poi lo sguardo e soffermandosi soprattutto sul piano ribaltato. E proprio lì, avvolto in un mantello nero rischiarato appena dalle fiamme, lo videro. Si stringeva convulsamente le braccia al petto, dondolandosi avanti e indietro senza tregua, la sua voce bassa e sommessa dava vita a parole dette in una lingua incomprensibile. D'un tratto si zittì e si fermò, voltando lentamente la testa verso di loro con uno strano sorriso amaro ad increspargli le labbra appena rosate.
    «Maes...» sussurrò languido, con voce cadaverica. «Maes... sei venuto a prendermi, finalmente».
    I due uomini osservarono impalliditi quel volto dai lineamenti delicati ma decisi, di una bellezza e di una giovinezza quasi impossibile, appena incorniciato da ciuffi di setosi capelli neri raccolti ora in una bassa coda. I canini, acuminati e bianchissimi, luccicavano sinistramente al di sotto delle sue labbra livide appena schiuse, alla luce del fuoco, e gli occhi, completamente neri come due pezzi di carbone, fissavano entrambi, immoti e vuoti.
    «Roy», disse Hughes in un bisbiglio sommesso, deglutendo ed avvicinando di qualche passo. «Mi... mi riconosci, adesso?» soggiunse, sebbene fosse una domanda retorica. Ma quando le labbra si stirarono in un piccolo sorriso privo d'emozione, scoprendo ancor di più le zanne, fu tempestivamente tirato indietro da Havoc. Gli lanciò un'occhiata come per capire che gli fosse preso, e lo vide trarre fuori dalla tasca una grande croce d'argento, quella che si erano premurati precedentemente di benedire in Chiesa.
    «Non muoverti, Hughes», gli intimò solo, avvicinandosi al vampiro. Si piegò sulle ginocchia, con la croce ben in vista, e alla vista di quella reliquia il moro si ritrasse con un guaito, come fosse un cane spaventato. Gli occhi d'onice si dilatarono e le narici presero ad annusare spasmodicamente l'aria, come se sentisse qualcosa di sgradevole aleggiare intorno a lui. Forse per effetto della croce, o di quella che doveva essere acquasanta che adesso gli bagnava la pelle del braccio, sfrigolando, il prete lanciò un sibilo stridulo, simile al lamento di un animale morente.
    Perché su di lui la croce faceva effetto? Eppure ricordava distintamente che con il vampiro di nome Edward non aveva funzionato. Forse perché lui non aveva ancora completato la transizione? Era mai possibile? Ritrovò un po' di sollievo solo quando l'uomo allontanò la croce e lo vide gettare uno sguardo alle sue spalle, dove incontrò le iridi smeraldo di Hughes, che osservava la scena esterrefatto, turbato. Si avvicinò subito, posando una mano sulla spalla di Havoc.
    «Non fargli del male, Havoc...» sussurrò, guardando il prete. «...sembra sia confuso».
    Lui gli allontanò piano la mano, scuotendo la testa.
«Confuso o meno, non possiamo rischiare», mormorò, tirando un lungo sospiro. «L'hai detto tu mentre venivamo qui che non è più umano, o sbaglio?» Si portò una mano alla cintola, pronto ad afferrare la pistola caricata con proiettili d'argento, ma si irrigidì quando, ancora una volta, la mano del Sindaco si posò sulla sua spalla.
    «Non puoi sparargli a bruciapelo», disse in tono basso, mentre sentiva gli occhi scuri del prete puntati su di lui.
    «Hughes, ragiona
», cominciò, riponendo la croce in tasca. «I vampiri sono non-morti, giusto?» lo sentì deglutire sonoramente. «Quante speranze hai, allora, di riportare tuo fratello com'era prima?»
    Cadde un sottile velo di silenzio. Si udivano solo i loro flebili respiri e quello quasi agitato del prete, che si stringeva ancora nel mantello nero, con il petto che gli si alzava e gli si abbassava come se il suo cuore battesse impazzito. Il pensiero comune era uno solo. Ucciderlo adesso o aspettare. Non capivano, inoltre, come mai la casa fosse vuota, come mai non ci fossero i vampiri che l'avevano occupata per chissà quanto tempo. Perché, se erano tornati dopo anni, non ne approfittavano per farlo fuori lì, nella loro tana? Cosa diavolo stavano aspettando quei mostri? La situazione era ancor più complicata di quanto fosse stata all'inizio.
    Il Sindaco sospirò tristemente, abbandonando le sue supposizioni.
«Non lo so, Havoc», sussurrò concitato. «Davvero, non lo so», lo guardò, gli occhi color smeraldo esprimevano supplica. «Ma cerca di capirmi. Tu avresti mai il coraggio di abbandonare qualcuno della tua famiglia?»
    Il biondo abbassò lo sguardo, non riuscendo a sostenere il suo. Nay, lui non ce l'avrebbe mai fatta. Ancora adesso sognava di quel terribile giorno in cui aveva perso la sua fidanzata. Avrebbero dovuto sposarsi non più di un mese dopo, se non fosse morta a causa di quelle creature. Ben capiva, quindi, quale sofferenza potesse essere per Maes Hughes abbandonare quel prete, quel prete che era stato per lui come un fratello sebbene non ci fossero mai stati legami di sangue tra loro. Ma potevano rischiare così tanto, mettendo in pericolo la popolazione?
«Comprendo cosa provi Hughes, però...» disse piano, sentendosi a disagio. «Non dovremo...»
    «Maes...» si fece sentire la voce del prete, interrompendo Havoc e osservando con i suoi occhi d'onice, scuri e dilatati, il suo amico.
«Ti supplico, portami via da qui».
    I due uomini lo guardarono increduli. Era diverso da come il Sindaco l'aveva visto nel vicolo, così privo d'ogni emozione e silenzioso, come fosse una marionetta nelle mani di un burattinaio. Ora, invece, quasi gli ricordava l'amico e il fratello che aveva imparato a conoscere. Cosa poteva significare? Che ci fosse ancora qualcosa di umano, in lui? Ma era mai possibile?
    Il prete si mise in ginocchio, guardandolo con in volto una smorfia di puro terrore. «Portatemi via prima che non sia più me stesso», prese a sussurrare, stringendo spasmodicamente le fredde mani attorno al cappotto dell'uomo.
«Ti prego».
    Deglutendo al contatto per una qualche strana ragione che lui stesso non capiva, il Sindaco sollevò con mani tremanti il viso del prete, lo smeraldo dei suoi occhi incontrò quell'onice vacuo. «Che vuoi dire con questo?» gli chiese sgomento, deglutendo ancora.
«Che intendi con... te stesso?»
    Il giovane vampiro moro abbassò lo sguardo, atterrito. Sembrava stesse cercando le parole giuste per spiegarglielo. Ma, precisamente, per spiegargli cosa? «Ci sto provando
», disse in tono flebile, respirando quasi affannoso. «Ci sto provando da dieci anni a combattere, ma...» le mani abbandonarono il cappotto, per raggiungere la testa, che iniziò a dolergli e la scosse con forza. «Non ci riesco, Maes! Non ci riesco! E' troppo... troppo potente!»
    Il Sindaco gli lanciò uno sguardo obliquo prima di trarre un lungo sospiro, gettando un'occhiata di sottecchi anche ad Havoc, che era rimasto in disparte. Riportò la sua attenzione sul moro, chinandosi verso di lui.
«Ce la fai a camminare?» gli domandò a bassa voce.
    Senza parlare, Roy annuì piano, poggiando entrambe le mani sul pavimento per acquistare equilibrio. Una volta in piedi fece esitante qualche passo, come nel tentativo di far rispondere le gambe ai suoi comandi, e una volta esserci riuscito seguì gli altri due su per le scale senza badare al putiferio che lui stesso aveva creato
, avvolto da uno strano gelo che sembrava scaturire dal suo stesso corpo.
    Il silenzio regnò fra loro anche nel corridoio ancora illuminato dalle torce, mentre il moro si stringeva sempre di più in quel mantello che gli nascondeva il corpo coperto da un leggero pantalone nero e una camicia bianca, gettandosi ansiosi sguardi intorno come se temesse di essere tenuto d'occhio. Sussultò quando sentì il suo amico cingergli delicatamente i fianchi e, senza volerlo, snudò le zanne candide, emettendo un basso ringhio.
    Hughes si ritrasse svelto e Havoc si portò subito una mano alla cintola prendendo la pistola per puntarla al capo del prete che, nel frattempo, realizzato ciò che stava per fare, aveva sgranato gli occhi e chinato il capo, facendosi scorrere le mani su e giù sulle braccia in una bizzarra imitazione di chi cerca di scaldarsi.
    «Mi dispiace tanto, Maes... mi dispiace», sussurrò il prete, azzardandosi ad alzare lo sguardo verso i due uomini che camminavano al suo fianco ma che si tenevano a debita distanza.
    Tentennando e facendo cenno al biondo di abbassare la canna dell'arma, il Sindaco fece qualche passo verso il prete e, con attenzione, allungò piano una mano per posarla sulla sua spalla, sentendolo sussultare ancora una volta.
«Non ti preoccupare, Roy», sussurrò a sua volta, con voce incrinata. «Vedrai, sistemeremo tutto».
    A quelle parole, ricevette uno sguardo quasi assente dal prete che, annuendo piano e respirando appena dalle labbra schiuse, chinò il capo, stringendosi ancora un po' nel mantello.
«Taing cuidich, Maes [1]», gli mormorò, nella stessa lingua che aveva usato quella sera di dieci anni prima, quella sera in cui era morto e... rinato come vampiro.
    A Maes si serrò il cuore e chiuse gli occhi, con in volto un'espressione rassegnata. Li riaprì guardando il volto diafano del suo amico, mentre
dall'altro uomo, che sembrava non credere a ciò che si erano detti data la sua espressione più che scettica, si guadagnò un'occhiata stranita, ma proprio lui non aprì bocca, si limitò a seguire Hughes e il prete per le zone che avevano già visitato in precedenza, sentendosi di tanto in tanto gli occhi dell'ormai vampiro puntati su di lui, sentendosi quasi avvolto in una nuvola gelida che gli percorreva il corpo. Perché aveva un brutto presentimento? Cosa si nascondeva, in realtà, in quelle polle d'onice senza emozione che lo fissavano? Più ci pensava, più temeva di venir a conoscenza della risposta. E, nervoso, tirò nuovamente fuori dal taschino il suo pacchetto di sigarette, accendendosene un'altra per scaricare la tensione accumulata in quella notte.
    Sentì ancora una volta lo sguardo del prete addosso, e dopo aver tirato una profonda boccata, gli lanciò a sua volta un'occhiata, vedendo che i suoi occhi scuri erano puntati sulla sigaretta che teneva fra le dita, e le narici dilatate annusavano l'aria intorno a lui. Deglutì, distogliendo lo sguardo. Quegli occhi neri gli mettevano soggezione.
    Ben presto uscirono tutti e tre dal maniero
, portando fuori il prete nell'oscurità che imperversava, osservati intanto mentre si allontanavano, come al solito, da due figure che sorridevano compiaciute. Erano fuori, su uno dei balconi, con il vento freddo che scompigliava appena i capelli di entrambi. Uno dei due era intento a guardarsi distratto una mano, a differenza dell'altro che, a sguardo basso ma assolutamente concentrato, non perdeva di vista il suo piccolo tesoro che era adesso nelle mani di colui che cacciavano.
    «Splendido», fece la prima giovane voce, divertita.
«Queste sue doppie personalità ci torneranno davvero utili, a quanto sembra».
    L'altra figura rise. Una piccola risata, quasi lugubre, che sembrò risuonare nella foresta. «In un certo senso è un bene che il mio veleno agisca in questo modo», mormorò piano, con gli occhi d'ambra che fissavano persi il sottobosco.
    «Un modo come un altro per avvicinarci al nostro obiettivo, giusto?» chiese ancora la prima voce, facendo qualche passo avanti per poggiarsi di schiena alla ringhiera.
    «Aye», sussurrò, poi lo guardò con un cipiglio sarcastico, prima di gettare uno sguardo agli alberi dietro di lui.
    Il fratello minore stette ad osservarlo per un po', ritrovandosi poi a sollevare un sopracciglio.
«Ma non sarebbe stato più semplice farlo fuori adesso? Era nelle nostre mani», gli fece notare subito con disappunto, provocando lui solo un'altra debole e sinistra risata.
    «La vendetta, come ci ha insegnato nostro padre, è un piatto che va servito freddo», lo scrutò lentamente da capo a piedi, percorrendo con gli occhi la sua postura.
    Alphonse sollevò maggiormente le sopracciglia e alzò il mento, quasi infastidito da quell'attenzione.
«E da quando segui i suoi insegnamenti?» sbottò, lanciando appena uno sguardo al sorriso che era andato ad increspare le labbra di Edward, e quel sorriso non prometteva nulla di buono.
    «Quando mi fa comodo, ad esempio», disse, nel tono calmo e piacevole di chi intrattiene una splendida conversazione.
    La constatazione non fece altro che farlo accigliare maggiormente.
«Che intenzioni hai?» chiese, incuriosito e sbalordito.
    Il frusciare degli alberi e un lampo nel cielo attirò la sua attenzione, e annusando l'aria cominciò ad avvertire le prime tracce d'umidità, simbolo che il fratello stava progettando qualcosa che non gli sarebbe piaciuto affatto.
«Non lo immagini, Alphonse?» sussurrò mefistofelico.
    A quella sua affermazione, stranamente, al più giovane corse un brivido lungo la schiena. E il suo timore divenne più fondato quando lo vide sorridere.
«Stai ancora pensando a quella follia, vero?» domandò ancora, e il suo tono assunse un timbro preoccupato. Fin troppo, preoccupato.
    «Vuoi ancora sottostare a lui?» chiese di rimando Edward, guardandolo di sottecchi con i suoi occhi ambrati.
    L'altro boccheggiò un po', come se non sapesse cosa rispondere. Il rancore del fratello era così profondo che l'aria intorno a loro sembrava essersi raggelata, inghiottita persino dal buio che li circondava.
«Ti rendi conto che ha radunato gli altri, vero?» cercò di farlo desistere. In vita, trecento anni prima, erano stati due fratelli inseparabili. Le cose erano quasi capitolate da quando erano diventati vampiri. Solo di tanto in tanto ritornavano ad essere quelli di un tempo, ma non più di tanto.
    «So cos'ha fatto, e conto anche su quello», gli confessò, poggiando entrambe le mani sulla ringhiera che si ghiacciò al suo tocco. «Non si rivolteranno mai contro di me».
    «Ma neanche contro di lui», gli tenne presente Alphonse, allontanando la schiena dalla ringhiera.
    Edward lo guardò appena, senza il minimo entusiasmo, portandosi due dita alle labbra. Sembrava pensoso, mentre rifletteva sulle sue parole.
«Vero anche questo, ma il gioco vale la candela». Un ampio e impudente sorriso gli increspò le labbra, sotto lo sguardo stupito del più giovane. Si sporse verso di lui, avvicinandosi al suo orecchio.
    «Cosa credi di poter fare così, mo bhràthair?» bisbigliò concitato.
    Edward strinse brevemente le labbra, soffermando il suo sguardo sulla ringhiera ghiacciata che sembrava quasi brillare alla debole luce che filtrava attraverso le nubi sopra di loro.
«Se non fossimo diventati ciò che siamo, io sarei stato Laird al posto di nostro padre, e avrei vissuto come un normale essere umano...» sospirò triste. «...accanto a chi amavo».  I suoi occhi riflessero i frammenti di ghiaccio che fece esplodere con la forza della mente e che vorticarono docili intorno a lui come un mulinello. «E invece guarda cosa ci ho guadagnato... un'effimera immortalità a capo di una schiera di vampiri. Proprio il sogno di una vita, eh?» concluse con amarezza. La forza che l'aveva animato scemò a poco a poco, e i frammenti di ghiaccio caddero ai suoi piedi in una pioggia di brina che impolverò tutto di bianco. «Ma possiamo solo continuare ad andare avanti», riprese, osservando di sottecchi il giovane fratello che fino a quel momento era rimasto in silenzio. «Anche se spesso mi viene voglia di espormi alle prime luci del sole solo per sentire l'odore del mio corpo che brucia».
    «Spero tu stia scherzando», disse serio Alphonse, ma ricevette uno sguardo che gli sembrò quasi sfociare nella pazzia.
    «Per adesso sì», ridacchiò Edward, con le labbra spiegate in un sorriso obliquo. «Un vero peccato che non possiamo ancora andare in giro di giorno come nostro padre». Si lasciò sfuggire un sospiro quasi cadaverico. «Abbiamo a nostra disposizione solo l'ultima ora del tramonto, prima di una notte che sembra infinita».
    «Non dire cose del genere, mo bhràthair», sussurrò. «Ormai non possiamo più tirarci indietro».
    Regnarono attimi di silenzio prima che Edward sbuffasse ilare.
«Alea iacta est [2], giusto?» recitò in latino, guardandolo di sbieco. «Ma se potessi scegliere, Alphonse, non ti piacerebbe poter tornare indietro?»
    Per un po' lo guardò a sua volta, quasi confuso come non lo era mai stato. Tornare indietro... a quando erano umani? Gli sarebbe piaciuto, certo, ma sapeva che non era possibile.
«Aye, mi piacerebbe», confessò tristemente. «Adesso però basta rivangare il passato».
    Sfuggì un sospiro dalle labbra livide del fratello maggiore. «Già, basta», mormorò. Ancora una volta, nel freddo della notte, il silenzio la fece da padrone aleggiando sinistramente fra i due fratelli, che si lanciavano di tanto in tanto qualche sguardo obliquo e anche dei mesti sospiri o sorrisi nel pensare ancora al passato, mentre la pioggia cadeva lentamente sulle loro teste. Poi alle spalle dei due, simile ad un fantasma, comparve la figura del padre, accompagnata come suo solito da uno dei suoi vampiri. Gli si avvicinò leggiadro e silenzioso, osservandolo appena.
    «Spero tu sappia cosa fai, Edward», gli disse, con la solita voce pacata. Sembrava, fortunatamente, che non avesse sentito nemmeno una parola del loro discorso, e le labbra del giovane si stirarono in un mesto sorriso.

    «Non si preoccupi, padre, ho un buon piano», sussurrò. E il suo piano, in quel momento, gli sembrava assolutamente perfetto. L'avrebbe fatta finita, finalmente. Dopo ciò di cui aveva parlato con il fratello Alphonse, era più intenzionato di prima a mettere la parola fine a quella sua inutile situazione.
    «Ma sembra che il nuovo Sindaco e quel suo amico conoscano alcuni trucchetti che potrebbero essergli utili», riprese il padre, e la voce gli si affievolì appena. «E ormai manca molto poco, lo sai».
    Edward si azzardò a voltarsi, facendo scorrere il suo sguardo ambrato dal volto diafano del padre a quello del suo accompagnatore. Ricevette da lui un'occhiata, e stirò maggiormente le labbra in un sorriso. Lui sarebbe stato sicuramente il primo, ad appoggiarlo.
«Me ne rendo conto, padre, ma non sono così sprovveduto», disse, prima di interrompersi per qualche secondo, come ad assaporare un qualcosa di oscuro. «Si ricordi solo della promessa che mi ha consesso, al resto ci penserò io».
    Un piccola risata si levò dal petto di Hohenheim.
«E come dimenticarla, tale promessa». mormorò, falsamente smielato. «Ma non riceverai nulla, se non andrà come previsto».
    «Ve l'ho ben detto, il mio piano è infallibile... difatti conto sulla sua sete di sangue», il sorriso così spietato che gli si disegnò sulle labbra era in contrasto con il suo volto. «L'odore sarà molto forte... cederà senza dubbio alcuno».
    «Tu credi davvero che lo porteranno al villaggio?» si intromise il fratello, e lui lo degnò appena di uno sguardo, tornando a far vagare la sua attenzione sul bosco sottostante.
    «Non esattamente», rispose pronto.
«E' probabile che lo portino prima in terra consacrata».
    «Nella sua Chiesa?»
    «Aye», scoppiò in una sonora risata, alquanto inusuale per lui.
«Per adesso lo terrò d'occhio, vedrò dove lo porteranno in seguito».
    Gli altri tre vampiri, incapaci di capire le sue intenzioni, si gettarono delle occhiate, come per interpretare qualcosa che era loro sfuggito. Gli occhi ametista di uno si posarono sul volto del suo padrone, prima di guardare la schiena del figlio, i cui capelli d'oro venivano lievemente scompigliati dal vento.
«E poi, signorino?» si azzardò a chiedere, dato che nessuno fiatava. I loro sguardi si fusero quando lui si voltò, e vedendolo sorridere l'aria intorno a loro quasi sembrò svuotarsi di tutto l'ossigeno presente, divenendo pesante e densa, quasi oleosa.
    «Se andrà come dico io, avremo uno dei nostri nella loro tana», mormorò, godendo dell'aria stranita che si era dipinta sul suo volto quasi nascosto dai lunghi capelli scuri.
    Il più anziano dei vampiri si concesse il lusso di un sorriso soddisfatto a quelle parole, ignaro delle vere intenzioni del figlio, senza prestar attenzione al suo servitore, che aveva invece solo una vaga idea, di ciò che il giovane avesse in mente. Si diresse lento e ancora una volta nella biblioteca del maniero, dove nei suoi meandri stava ancora avendo luogo la riunione con i suoi simili. «Perfetto».


ATTO TERZO. FINE





[1] Grazie (dell') aiuto, Maes [ Gaelico scozzese ]
[2] Il dado è tratto [ Latino ]




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Capitolo 4
*** Possibili Soluzioni ***


Il figlio delle Tenebre_Act 4
ATTO QUARTO. POSSIBILI SOLUZIONI


Nei pressi di Sheerness, 1889

    Fuori, in ogni strada del paesino, gli abitanti decoravano le vie con rami di pino e fiori selvatici, le cui fragranze serpeggiavano ovunque miste all'odore del vino che lambiva i boccali.
    I popolani festeggiavano il ritorno del loro Sindaco, tornato dopo cinque mesi d'assenza. Lui, dopo essersi liberato della sacca da viaggio, era stato letteralmente sequestrato e stava parlando animatamente con alcuni di loro, mettendoli al corrente di ciò che aveva visto e presentando loro il bambino che aveva adottato a Sheerness; lo teneva per mano e lui, il quale non faceva altro che guardarsi intorno come se fosse spaventato, si aggrappò forte al cappotto dell'uomo, cominciando a tremare senza un motivo apparente.
    Il Sindaco abbassò lo sguardo verso di lui e, sorridendo, si chinò a mezzo busto per prenderlo in braccio, rivolgendo un cordiale cenno del capo agli uomini che aveva dinnanzi.
«Adesso se volete scusarmi, signori, devo andare da mio figlio», si rivolse loro in tono gentile, facendo un altro cenno cordiale prima di dirigersi fin dentro al villaggio, verso la sua casa. Era poco illuminata e sulla soglia, ad aspettarlo, c'era la governante a cui aveva affidato suo figlio, una donna grassoccia e un po' severa ma dall'animo più che gentile.
    Appena lo vide, quest'ulrima gli rivolse un sorriso radioso, abbassando in modo referenziale la testa e scostandosi, in modo da permettergli di entrare.
«Ben tornato, Signor Hughes», gli disse. «Maes sarà felice di rivedervi». Poi, una volta rialzato lo sguardo, la sua attenzione si appuntò sul bambino che teneva fra le braccia, e il sorriso divenne ancor maggiore. Seppur severa, era una donna a cui piacevano molto i bambini. «E lui?» domandò divertita, vedendo il bambino nascondere il viso nel petto dell'uomo.
    Il Sindaco ridacchiò, issandoselo meglio in braccio prima di accarezzargli i capelli mentre attraversava l'ingresso per sbucare nel salotto.
«Lui è Roy, Rosberta», le rispose, scostando un po' il bambino da sé per guardarlo. «Non ti fa niente, non spaventarti», sghignazzò, e il bambino si arrischiò a voltarsi verso la donna. Lei aveva incrociato le braccia al seno prosperoso, e adesso lo osservava con un cipiglio divertito sul volto paffutello e roseo. Preso coraggio, rivolse lei un piccolo sorriso.
    L'uomo non poté evitarsi di ridacchiare, guardando a sua volta la donna, per poi guardarsi attentamente intorno come se stesse assaporando il momento del suo ritorno a casa.
«Mio figlio?» le chiese, e lei riappuntò la sua attenzione su di lui, abbandonando le braccia lungo i fianchi per ridacchiare a sua volta.
    «Credo sia nella sua camera», lo informò, gettando un altro sguardo al volto del bimbo, che l'uomo aveva ora adagiato sul piccolo divano. «Vado subito a chiamarlo». In men che non si dica, nonostante la mole massiccia, la donna sparì di gran carriera su per le scale, e prima che potesse scendere a sua volta, fu superata da un bambino dai capelli scuri che corse immediatamente in salotto strillando come un matto.
    «Papà!» esclamò sorridente, saltando subito al collo dell'uomo. «Mi sei mancato!»
    Il Sindaco lo strinse a sé abbracciandolo, scompigliandogli i capelli e baciandogli la fronte.
«Anche tu mi sei mancato, Maes», gli mormorò, strofinando il naso contro il suo. «Hai fatto il bravo, in mia assenza?»
    Il bambino alzò il mento e drizzò la schiena, nel tentativo di imitare suo padre, battendosi fieramente una mano sul petto.
«Io sono sempre bravo, anche quando ci sei», informò al genitore, che subito rise, divertito dall'innocenza del figlio.
    «Giusto, ormai sei un ometto», fece, scompigliandogli ancora una volta i capelli. Poi si chinò a mezzo busto per fargli poggiare i piedi a terra, sorridendogli al di sotto dei baffi neri, vedendolo osservare con uno sguardo incuriosito il piccolo divano; si voltò a sua volta, sorridendo maggiormente. Puntellandosi sulle ginocchia, passò un braccio dietro alle sue spalle, facendo cenno all'altro bambino di alzarsi e farsi più vicino. Lui si morse il labbro inferiore e, tentennando, scese dal divano avvicinandosi all'uomo, che si sedette a terra picchiettandosi le cosce, come a volere che i due bambini si sedessero su di esse. Guardandosi appena, loro ubbidirono.
    «Maes, lui è Roy», disse al figlio, divertito da come si squadravano.
«Roy, lui è Maes», fece poi, guardando l'altro bambino prima di spostare lo sguardo del suo unico occhio nuovamente sul volto del figlio, picchiettando le cosce di entrambi per farli alzare e alzarsi a sua volta, pulendosi con una mano i pantaloni. «Parla poco la nostra lingua, ma la capisce». Scompigliò i capelli di entrambi, sorridendo per l'aria curiosa che si era dipinta sui volti di entrambi, che si guardavano attentamente negli occhi. «Io devo tornare un attimo nella piazza del villaggio», li informò. «Non litigate, mi raccomando». E detto questo lì lasciò soli nel salotto, immobili l'uno di fronte all'altro.
    Il piccolo Maes, passato l'attimo iniziale di curiosità, rivolse all'altro un enorme sorriso, i grandi occhi smeraldo brillarono dietro alle lenti. Roy invece, ancora intimidito, fece un piccolo passo indietro, abbassando lo sguardo.
«Vuoi diventare il mio fratellino?» gli chiese innocente, inclinando la testa e piegandosi un po' sulle ginocchia per guardare il volto del moretto, vedendolo arrossire appena.
    Lui alzò poi titubante lo sguardo, incrociando con i suoi occhi d'onice quelli smeraldo di lui.  Fece per aprire la bocca, ma ci ripensò, ricordando le parole che l'uomo gli aveva detto durante il viaggio di ritorno, e cioè di non parlare in quella strana lingua. Si sforzò quindi di cercare di parlare in inglese, come gli aveva insegnato il Sindaco in quei pochi mesi in cui erano stati insieme, ma, non ricordandola esattamente, si limitò ad annuire piano, con un piccolo sorriso sulle labbra. Un sorriso portava ad un altro sorriso, e quindi anche l'altro bambino gliene rivolse uno, sporgendosi verso di lui e prendendolo per mano per condurlo fuori.
    «Ma è vero che non sai parlare inglese?» domandò ancora Maes, lanciandogli uno sguardo mentre lo portava per la piccola cittadina, come a volergliela mostrare.
    Roy scosse la testa, corrugando per la concentrazione la fronte. Chiuse gli occhi d'onice e poi li riaprì, stringendo più forte la mano dell'altro bambino.
«Lo so, ma... poco», rispose, soddisfatto di essere riuscito a ricordare alcune parole. Ricevette una piccola risata da Maes, che si fermò accanto ad un arbusto che sorgeva nel centro della piazzetta, per voltarsi verso di lui con un sorriso.
    «Allora ti aiuterà il mio papà ad impararlo», gli disse, quasi fiero. «Lui sa fare tante cose». Gli occhi d'onice dell'altro bambino si fecero interessati, mentre lo osservava sbattendo di tanto in tanto le palpebre. Ancora una volta, Maes gli sorrise raggiante. «Quanti anni hai?» chiese, prendendolo nuovamente per mano. «Io ne ho quasi cinque», lo informò riprendendo a camminare per il piccolo paesino. Alcuni abitanti gettavano loro occhiatine divertite, mentre finivano di sistemare la città per la festa della sera o di riempire le botti di vino.
    Il piccolo Roy cercava di stare al suo passo, provando nel contempo a parlare la lingua che gli aveva un po' insegnato il Sindaco.
«Quattro», disse poi, avvicinandosi di più all'altro.
    Un'altra risata cristallina e infantile scappò dalle labbra di Maes, che rallentò un po' la sua andatura in modo che l'altro potesse affiancarglisi.
«Sono più grande, allora», gongolò, muovendo divertito la testa. E continuarono a camminare un altro paio di minuti sotto il calore del sole del mezzogiorno, per quelle strade adornate e addobbate a festa dove sui lati erano state riposte delle panche con ogni cibo, prima di arrivare ai limitari del villaggio, mano nella mano, con il volto rivolto verso la Chiesa che sorgeva poco lontano dalla cittadina.
    Maes lo guardò con i suoi occhi verdi, sorridendogli per l'ennesima volta.
«Ti proteggerò io da tutto, fratellino».


    Hughes ed Havoc si trovavano adesso nei meandri dell'Antica Abbazia, le cui fiaccole appese ai muri illuminavano le pareti in pietra, con le fiamme che creavano sinistre ombre che si confondevano sinuose e bieche nella triste luce arancione. Sotto suo tacito consenso, avevano legato Padre Roy ad una sedia con una corda spessa, e adesso si osservavano senza dire una parola, l'aria opprimente condensata fra il vasto spazio di pietra.
    Durante tutto il tragitto, il Sindaco non aveva fatto altro che pensare a quando si erano incontrati, a ciò che lui gli aveva detto in quel giorno di chissà quanti anni prima e a come le cose a quei tempi sembrassero obiettivamente più facili, e non poteva non sentirsi peggio di quanto avesse mai creduto possibile. Aveva detto che l'avrebbe protetto da tutto, ma non c'era riuscito. Non c'era mai riuscito, in realtà. Era stato il suo stesso amico a proteggere lui nell'andare in quella radura, e quella era una colpa a cui non si poteva fare ammenda.
    Maes gettò uno sguardo al prete, il quale aveva continuato a far saettare le pupille nere prima su di lui e poi su Havoc, senza fiatare. Non si riusciva a capire ciò che pensasse o ciò che stesse architettando, dato che la sua espressione era vuota come quella d'una statua; d'un tratto, come se si fosse trattato di una bambola, i suoi occhi si fermarono sul volto del Sindaco. Il suo sembrava lo sguardo cupo e vacuo di un folle.
    «Ho acconsentito a farmi legare, Maes, ma ho una certa sete», disse, forse non in sé, abbozzando un sorriso dal quale fece lampeggiare le zanne, e a quelle parole uno strano brivido corse lungo la schiena del Sindaco, il quale gettò un'occhiata interrogativa ad Havoc; lui se ne stava con la testa fra le mani, come se stesse cercando una soluzione a sua volta, ma lo vedeva fremere, quasi volesse farla finita e sparare. «Mi ha sentito, signor Sindaco?» riprese il prete, con un tono tra il sarcastico e il divertito, mentre ironizzava sul titolo che aveva ereditato dal padre.
    «Ricordi cosa mi hai detto in quel maniero, Roy?» chiese invece Hughes, alzando lo sguardo per osservare seriamente le sue labbra. Sapeva fin troppo bene che non bisognava mai guardare un vampiro negli occhi.
    Forse stupito, lui sbatté le palpebre, come se non avesse capito, poi reclinò la testa all'indietro, scoppiando in una sonora risata che rimbombò contro le pareti di pietra, riecheggiando nella sala e nelle loro menti.
«Io non ho mai detto niente!» esclamò tra sbuffi di risa. «Anzi, non capisco nemmeno perché mi trovo in questo postaccio, in questo momento!»
    I due uomini si scambiarono un'occhiata, senza capire. Persino la sua voce sembrava diversa, forse d'un'ottava più alta. Lo videro gettarsi un'occhiata intorno come se cercasse qualcosa, la lingua svettava di tanto in tanto fra le labbra, simile a quella d'un serpente che assaggia l'aria. La sua attenzione si riconcentrò su di loro, gli occhi quasi parvero lampeggiare sinistramente.
    «Non so cosa speriate di fare, ma...» Scosse appena la testa, in modo che i lunghi capelli oscillassero al suo movimento. «...la vostra è solo una perdita di tempo».
    Il volto del Sindaco acquistò un colorito biancastro, a quel tono e a quelle parole. «Non sei tu che parli, Roy, ti hanno condizionato», sussurrò, intimorito dallo strano luccichio che vedeva in quei pozzi neri.
«Tornerai come prima, te lo giuro», gli promise, ma riuscì solo a farlo ridere di più.
    «Farmi tornare come prima?» ironizzò, inarcando un sopracciglio. «E ditemi, Sindaco, com'ero prima?» Aveva persino smesso di chiamarlo per nome. Anche i suoi occhi, in quel momento, erano vuoti quanto il suo viso.
    «Non puoi non rammentare nulla della tua vita, o almeno di ciò che mi hai detto poche ore fa», provò Hughes, con la voce più supplichevole che riuscì a trovare.
    Il vampiro lo guardò vacuamente, poi spostò la sua attenzione sulle fiamme che guizzavano sulle pareti di pietra, come se le trovasse molto più interessanti.
«La mia vita...» ripeté pensoso, toccandosi con la lingua il labbro inferiore. «Ora che mi ci fa pensare, Sindaco, non credo di aver mai avuto una vita».
    «Che cosa stai dicendo, Roy?»
    Un altro sguardo veloce, un guizzo negli occhi scuri. «Sacrifici e rinunce», mormorò inconsapevolmente. «Sacrifici e rinunce, già. Una vita che non era vita, passata nella piccola Chiesa d'un villaggio senza provare i piaceri della carne, e ancor prima un'infanzia senza saper nulla di chi l'ha messo al mondo né tanto meno da dove venisse», continuò a testa china, prima di puntare velocemente il suo sguardo sul volto stranito del Sindaco. «Non mi sembra se la passasse poi così bene, questo prete».
    Era voluto, quel suo modo di parlare? O c'era forse qualcun altro, in quel corpo? Questo si domandava Hughes mentre continuava a fissarlo sconvolto.
Si alzò per avvicinarsi a lui, tenendosi una mano alla cintola per precauzione. Era sempre meglio tenersi pronti. Chi gli assicurava che non sarebbe riuscito a liberarsi dalle corde che lo imprigionavano? «Non capisco di cosa stai parlando», farfugliò Maes, agitato e non poco. «Sei stato tu a scegliere la via del Signore, Roy, non ricordi neanche questo?»
    Un'altra risata si levò dal petto del vampiro, i suoi occhi d'onice lo fissarono, scintillanti di un qualcosa che non gli aveva mai visto.
«Mi conosco abbastanza bene da assicurarle che non l'avrei mai fatto, Sindaco», replicò, con un cipiglio cordiale tipico degli uomini dei tempi andati. Persino Havoc, che fino a quel momento se n'era stato in disparte, lo fissò perplesso. Vide la sua lingua serpentina accarezzate le labbra livide, il corpo flettersi come in procinto di attaccare, impedito però dalle corde che lo tenevano ben fissato alla sedia. «Lasciate perdere, qualsiasi cosa abbiate in mente. Tra non molto lui, il mio Signore, tornerà a prendermi», mormorò con devozione assoluta, leccandosi ancora le labbra in un gesto inconsapevolmente erotico. «Aye, a prendermi».
    A quelle parole, Havoc recuperò la croce dal tavolino e si avvicinò a grandi falcate al prete, il quale ringhiò alla vista della reliquia argentata, con il corpo che si contorceva nel tentativo di liberarsi. Dalla fondina, il biondo tirò fuori la pistolae la puntò dritta alla sua testa, il cui sguardo era ancora fisso e immoto sulla croce. Sibilava e soffiava come un gatto, mentre sfregava le braccia contro le corde.
«Non mi costringa a sparare, Padre», gli disse pacato Havoc, gli occhi azzurri erano animati da una ferocia simile a quella del vampiro. «Da questa distanza, le spappolerei il cervello», sembrò sorridere con sadica soddisfazione, «e mi sporcherei inutilmente i vestiti».
    Un altro basso ringhio, simile ad una risata, attraversò la gola del prete, prima che quello sguardo d'onice, inespressivo quanto quello di un serpente, si puntasse su Jean.
«Non ne avresti comunque il coraggio», lo sbeffeggiò divertito, senza smettere di leccarsi le labbra con desiderio. Un colpo risuonò d'improvviso vicinissimo al suo orecchio, e le iridi d'onice si dilatarono dalla sorpresa; la pistola che Havoc reggeva tra le mani rilasciava appena il fumo dell'aver fatto fuoco.
    «Come vede, Padre, il coraggio ce l'ho eccome». La voce era inespressiva, e sembrava desideroso di volerla fare finita con quella storia il prima possibile. «Renda le cose più facili ad entrambi, la smetta di sparare cazzate». 
    «Havoc, per favore», lo richiamò il Sindaco, intimorito. «Lascialo stare».
    Il biondo si voltò appena, come a volerlo fulminare con lo sguardo.
«Non ti intromettere, Hughes», sbottò schietto, riportando la sua attenzione sul prete. «L'affetto che nutri per lui ti offusca la ragione», fece per sparare nuovamente, ma la mano di Hughes, stretta sulla sua spalla, glielo impedì. Si era avvicinato a lui in silenzio, bloccandolo.
    «Non. Sparare», gli intimò, e, a quell'ordine travestito da richiesta, Havoc sollevò le sopracciglia.
    «Sei o non sei un cacciatore, Hughes?» chiese sarcastico. «Devo ricordarti che molte persone, e persino tuo padre, sono stati uccisi da uno di quei mostri?»
    Maes trattenne un imprecazione, serrando un pugno lungo il fianco.
«Roy non c'entra nulla», si sforzò di restare calmo. «E' anch'egli una vittima di quelle creature», asserì, ma la risata del prete richiamò la loro attenzione. Gli occhi vuoti e scuri fecero tremare entrambi. Deglutirono all'unisono; Havoc stringeva ancora nella mano destra la pistola e la teneva puntata al petto del vampiro, il dito vicinissimo al grilletto. Il Sindaco gli fece abbassare l'arma, senza staccare lo sguardo dal suo amico.
    La sonora risata che scaturì nuovamente dal petto del prete li fece trasalire e li costrinse a fare qualche passo indietro, mentre lo vedevano flettere il corpo come se tentasse di avvicinarsi.
«Queste sono il genere di cose che divertono il mio Signore», sussurrò sghignazzando, muovendo le braccia dietro alla schiena. «Vedere le persone in disaccordo è il suo passatempo preferito».
    Il volto di Jean si storse in una smorfia di puro disgusto. Quel mostro, una volta, era stato davvero il prete che l'aveva confortato tante volte, persino al funerale della sua fidanzata? A vederlo adesso stentava a crederci. Era possibile che fosse cambiato tanto, in quei lunghi anni? Dov'era quella voce ovattata e comprensiva con cui parlava ai suoi fedeli? Dov'erano quei dolci occhi neri che sembravano sempre sorridere? Non era più lui, il suo amico Hughes doveva farsene una ragione. Così come se l'era fatta lui.
«Suppongo lei sia diventato un schiavo, Padre, non è così?» chiese senza nessun tono di voce. «Chissà che poteri funesti ha su di lei questo cosiddetto Signore, quella piaga che l'ha costretta a diventare così», ottenne dai lui un basso ringhio, quasi simile a quello di un cane che difendeva rabbioso il suo osso.
    «Non ti permetto di parlargli in questo modo irrispettoso», rispose Roy con un brontolio minaccioso, sollevando le spalle come se si stesse preparando ad un balzo.
    Havoc lo guardò privo d'espressione, facendo un passo indietro per ogni evenienza. Non aveva la minima intenzione di rischiare.
«Non credo che una creatura simile meriti rispetto, Padre», replicò pacato, vedendolo digrignare maggiormente i denti.
    «Tu non lo conosci, non puoi saperlo», sibilò, come se sapesse ciò che diceva. Mostrò le zanne e allungò il collo verso di lui, gli occhi color pece lampeggiarono d'ira e rifletterono il fuoco delle fiaccole appese al muro; molte di esse si spensero all'improvviso e un vento gelido cominciò a vorticare furiosamente nei meandri di quel sotterraneo, spazzando ogni cosa.
    I due uomini si coprirono gli occhi per proteggerli dalla polvere che si alzava dal pavimento roccioso, cercando frattanto di non perdere di vista la figura del prete attraverso quella foschia. Tutto ciò che era lì stipato esplose in un lampo di fiamme guizzanti,
gocce d'acquasanta e frammenti di vetro si sparpagliarono in giro e uno di essi ferì Hughes al viso, lasciandogli un taglio netto che sanguinò immediatamente lungo la guancia.
    La forza che animava il vampiro scemò d'un tratto quando alle narici gli giunse quell'odore inebriante di ruggine; annusò l'aria, boccheggiando, puntando i suoi occhi vacui verso il volto del Sindaco, che si era frattanto coperto con il palmo la ferita. Con uno scatto felino, Roy incassò la testa nelle spalle e guizzò in avanti, spezzando con un unico movimento fluido le corde che lo legavano per avventarsi contro di lui.
    Colto alla sprovvista, l'unica cosa che Maes riuscì a fare fu portarsi le mani al volto per proteggerlo, sentendo solo vagamente lo scatto della sicura della pistola che teneva il suo compagno. Un colpo risuonò nella sala di pietra, un guaito gli fece eco subito dopo; la mano di Havoc scattò rapida verso il coltello d'argento per immergerlo in un liquido color sangue, e
la lama, calata di netto sulla pelle del vampiro, riuscì a ferirlo.
    Lui sibilò e ringhiò, sentendo un intenso dolore nel punto in cui era stato colpito, dove piccole venature scarlatte cominciarono a crearsi tutt'intorno, disperdendosi al di sotto della sua pelle diafana; storse il collo e portò una mano su di esso come se gli mancasse il fiato, contorcendosi sul pavimento mentre teneva stretta l'altra sul braccio, dove il foro d'un proiettile spiccava vivido dalla camicia strappata. Sibilò ancora una volta, allungando il viso verso Havoc nel tentativo di morderlo, ma si sentì debole a poco a poco, come se il suo corpo stesse reagendo in modo negativo a quel liquido vermiglio che veniva assorbito; gli occhi gli si chiusero di colpo, facendolo accasciare in avanti senza emettere suono.
    Lanciandosi sguardi terrorizzati, i due uomini deglutirono all'unisono, senza fiatare. Facendo attenzione, Havoc fece qualche passo avanti, allungando titubante un braccio verso il corpo immobile del vampiro, quasi temesse di vederlo muoversi, ma, anche quando lo scosse, rimase nella stessa posizione. Sembrava stesse dormendo, data l'espressione immota che aveva imporvvisamente assunto.

    Jean sospirò. C'era mancato veramente poco. Gettò uno sguardo al volto pallido del Sindaco, il quale non faceva altro che fissare ad occhi sgranati la figura di quello che una volta era stato suo fratello. Gli si avvicinò e gli diede una leggera pacca sulla spalla, ricevendo da lui uno sguardo velato di panico.
    «Perché ha reagito a quel modo?» sussurrò Hughes con voce incrinata, il respiro ansimante mentre deglutiva a fatica.
    Havoc sospirò ancora.
Proprio non voleva capire. Fin quando si era trattato di licantropi, non aveva esitato un attimo a premere il grilletto, ma, adesso che si trovava di fronte ad un vampiro, era diventato un codardo e non si capacitava della situazione in cui si erano cacciati. Forse solo perché quel vampiro aveva le sembianze di colui che, un tempo, era stato un suo amico e il suo unico fratello. «Non è più l'uomo che conoscevi», fece calmo. «E' solo una di quelle sporche creature, adesso». Che il prete fosse cosciente o meno della sua situazione, poco gli importava. Nemmeno gli importava che non fosse stato lui ad uccidere la sua Riza. Riza. Eliminando uno di loro, avrebbe compiuto metà del suo dovere. La vendetta completa sarebbe avvenuta presto.
    Un altro sguardo di Hughes bastò a riportarlo alla realtà. Lo vide deglutire ancora una volta, con l'espressione che aveva in volto sembrava non voler credere a quanto era appena successo.
«Non può essere cambiato così tanto», mormorò sottovoce, avvicinandosi piano al fratello e inginocchiandosi accanto a lui. Delicato, gli scostò i neri capelli dal volto, ravvivandoglieli dietro alle orecchie prima di passargli un braccio dietro la schiena, in modo da sollevarlo a mezzo busto; restò a guardarlo in silenzio, sentendo su di sé lo sguardo ceruleo del biondo, e proprio lui sbuffò, infastidito.
    «Invece sì, da quanto hai visto», sentenziò, scuotendo la testa.
«Ma ti rendi conto o no che voleva ammazzarti?» soggiunse, raggiungendolo accanto al vampiro.
    Hughes alzò la testa per incontrare i suoi occhi, riabbassando subito dopo gli occhi per osservare nuovamente il volto diafano del moro. Fece poi scorrere lo sguardo tutt'intorno alla sala, soffermandosi sul disastro che in poco si era creato. Non credeva possibile che fosse capace di una tale potenza. Possedeva una forza spaventosa.
 «Cerca piuttosto di non guardare mai un vampiro negli occhi», replicò schietto, evitando accuratamente di rispondere a quella domanda, che gli parve più un'affermazione. Voleva ammazzarlo, e allora? Dopo che l'aveva consegnato a quei mostri solo perché non voleva fare i conti con ciò che erano stati i suoi avi, non gli avrebbe dato torto. Ma era meglio tenere tali congetture per sé.
    Accarezzò per un'ultima volta quei fili d'ebano, rialzandosi per far cenno ad Havoc di aiutarlo a trasportarlo su per la scala tortuosa che dava all'interno di una delle sale dell'Abbazia; risalendo piano nell'oscurità, con i loro passi che riecheggiavano nella mezza oscurità delle pareti di pietra all'unisono con le gocce d'acqua che cadevano dalle stalattiti, e con il peso ben bilanciato del prete caricato sulle spalle dal quale non avvertiva respiro, fecero ritorno nello stanzino segreto che avevano scoperto grazie al diario del Sindaco Bradley; spostarono la piccola statuetta di marmo riposta sullo scaffale, riemergendo al di sotto dell'altare.
    Gettando uno sguardo fra le panche, Hughes fece cenno ad Havoc di seguirlo, attraversando in silenzio la cappella e percorrendo i corridoi per giungere alle porte dell'Abbazia, dove uscirono nell'aria ovattata al cui chiarore nebbioso si distinguevano appena le case del villaggio; scesero il sentiero che li separava dalla cittadina, dirigendosi però verso sinistra, dove, solitaria tra gli alberi, sorgeva una piccola stalla abbandonata, proprio accanto al granaio. Dopo qualche resistenza, le vecchie porte cedettero con una leggera spallata, girando quasi silenziosamente sui cardini di cuoio, ed entrando, l'odore della paglia e del fieno li avvolse, così come l'odore di muffa, umidità e polvere. Le poche aperture per la ventilazione erano semplici feritoie che non lasciavano passare abbastanza luce, solo sottili fasci riuscivano ad insinuarsi all'interno. Luogo più che perfetto per tenere sotto chiave un vampiro.
    «Leghiamolo qui», esordì il Sindaco, indicando l'enorme colonna che faceva da sostegno alla stalla, aggirando i box vuoti.
«Quando riprenderà i sensi, non potrà fuggire».
    Havoc squadrò per un po' la colonna, pensoso, poi si strinse nelle spalle e scosse la testa. «Ma con uno strattone potrebbe far crollare il sostegno», rispose pronto.
    Il Sindaco ridacchiò.
«Ho pensato anche a questo», gli gettò svelto le corde, e Havoc poté sentirle umide sotto il palmo della mano. «Sono imbevute d'acquasanta. Anche con tutta la sua nuova forza da vampirom non potrà spezzarle o far crollare il sostegno. Per questo voglio legarlo».
    Havoc inarcò un sopracciglio, incredulo. «Ammazzarlo sarebbe stato più facile», gli fece notare, ma Maes lo guardò di sbieco e adagiò il vampiro svenuto contro il palo, inginocchiandosi accanto a lui.
    «Non voglio», disse schietto, cominciando a legare il prete. «Quando l'ho incontrato in quel vicolo avrebbe potuto benissimo attaccare sia me che Winry». Trasse un sospiro. «Ma non l'ha fatto. E' rimasto a fissarci finché non è comparso l'altro vampiro e sono spariti insieme». Fece un nodo stretto prima di rimettersi in piedi e ripulirsi i pantaloni dal fieno. «Voglio credere che ci sia ancora qualcosa di umano, in lui. Roy è forte, ha resistito dieci anni... non abbandoniamolo».
    Havoc lo fissò, traendo un profondo respiro. Decise di assecondarlo, ben sapendo che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Sapeva che, ormai, sarebbe stato inutile. Quando si metteva in testa una cosa la faceva e basta, esattamente come suo padre. Che senso aveva, quindi, continuare a dirgli di ammazzarlo? Nessuno. Si sfilò la croce d'argento dalla tasca e la legò ad una trave in alto, davanti al prete, in modo che fosse ben visibile; diede poi una pacca sulla spalla al Sindaco, passandogli un braccio intorno alle spalle e portandolo fuori dalla stalla, con il giorno non ancora lontano. Un'ora. Almeno un'ora, mancava all'alba. L'avevano portato lì dentro appena in tempo. Chissà se la luce del sole aveva davvero effetto come si diceva in giro.
    «Assumitene la responsabilità, Hughes», disse pacato, riscuotendosi da solo dai suoi pensieri sconnessi.
«Se tutto ti sfugge dalle mani, non dire che non ti avevo avvisato».
    Hughes gli rivolse un sorriso tirato. Era costato molto, ad Havoc, starlo a sentire. Se fosse stato per lui, non avrebbe esitato ad ammazzare il suo amico.
 «Logico che me ne assumo la responsabilità, sono il vostro Sindaco», scosse la testa. «Non posso mettervi in pericolo solo per capriccio», un mesto sospiro gli sfuggì dalle labbra. «Ti ho esposto anche troppo stanotte, chiedendoti di seguirmi».
    L'ombra di un sorriso illuminò il volto stanco di Jean.
«Se c'è da dar fuoco a qualche vampiro io sono sempre pronto, lo sai», mormorò, ed entrambi sparirono poi alla volta del villaggio, ignari di due frammenti ambrati che, nascosti fra le ombre, osservavano ogni loro movimento con un basso e rauco ringhio a rompere il silenzio.


ATTO QUARTO. FINE




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Capitolo 5
*** Storie infondate o poco plausibili ***


Il figlio delle Tenebre_Act 5
ATTO QUINTO. STORIE INFONDATE O POCO PLAUSIBILI


Nei pressi di Sheerness, 1612

    Se ne stava seduto dietro la scrivania nello studio del padre, a leggere tomi su tomi di storia mentre sbadigliava e si grattava distratto la testa, cercando di concentrarsi inutilmente sui suoi studi.
    Sbuffando, si scostò
i capelli dal viso a causa del caldo e voltò distrattamente pagina prima di lanciare uno sguardo fuori dalla grande finestra, la quale affacciava sulla foresta che circondava la loro dimora. Avrebbe volentieri passato il suo tempo lì fuori, se solo non avesse dovuto studiare. Gettò uno sguardo intorno per controllare che il suo maestro non fosse nei paraggi, guardando ancora una volta fuori e trovandolo in uno dei giardini sottostanti in compagnia di una delle cameriere, a civettare con lei come un ragazzino.
    Inarcò un sopracciglio biondo, scettico. Lui era lì al chiuso mentre quel vecchietto se la spassava. Sbuffò ancora, cercando di riconcentrarsi sulla lettura di quel tomo che aveva catalogato come gigantesco, aggrottando la fronte nel tentativo di capire ciò che leggeva. Ci rinunciò ben presto, però. Chiuse il libro, stiracchiandosi ben benino sulla sedia.
    «Che studente modello», lo rimbeccò divertit
a una voce, facendolo sussultare. Si voltò di scatto verso colui che era appena entrato, arrossendo di botto e afferrando stupidamente la camicia che aveva gettato sulla sedia libera per sistemarsela sulle spalle.
    «Che ci fai qui?» chiese, infilandosi una manica della camicia.
    Il suo inaspettato ospite rise, facendo qualche passo verso di lui per sedersi a cavalcioni sull'altra sedia, con le braccia poggiate sullo schienale.
«Avevo voglia di vederti», gli rivelò, sorridendo per il suo viso arrossato. «Ma, a quanto vedo, probabilmente ho fatto male a venire».
    «Non è questo», mormorò concitato, lanciando una rapida occhiata verso la porta. «E' di mio padre che mi preoccupo».
    L'altro ridacchiò, agitando distratto una mano come se la cosa non gli importasse affatto.
«Tuo padre per un po' sarà impegnato a parlare d'affari con mio padre», disse divertito, vedendolo spalancare la bocca per lo stupore prima che corrugasse le sopracciglia, offeso.
    «Non sei solo, allora», ribatté imbronciato, provocando all'altro un ennesimo scoppio d'ilarità.
    «Avrei voluto esserlo, però», gli sussurrò con una punta di seduzione, sporgendosi un po' verso di lui per fondere i loro respiri, senza un vero contatto. Ritrasse svelto il viso, godendo del rossore che aveva imporporato le guance del biondo. L'attenzione gli cadde poi sui volumi di storia e inarcò una delle sopracciglia scure, divertito. «Non pensi sia ora di spassartela un po'?» chiese ironico, gettandogli uno sguardo.
    Ricevette un'occhiataccia, vedendo poi il ragazzo biondo alzarsi e prendere i tomi sotto braccio per dirigersi verso lo scaffale dal quale li aveva presi, rimettendoli a posto prima di voltarsi a guardarlo, con le braccia dietro alla schiena in una comica imitazione di un uomo d'affari. Prima che potesse dirgli qualcosa, però, nello studio entrò anche un altro ragazzino biondo, che gettò uno sguardo ad entrambi, incuriosito. 
    «Ti servono ancora i libri di storia?» gli chiese, avvicinandosi allo scaffale.
    Scuotendo la testa, il biondo li riprese per porgerglieli, con un vago sorriso ad illuminargli il volto; si avvicinò poi alla scrivania
per tirare per un braccio l'altro ragazzo, trascinandolo verso la soglia e voltandosi a guardare il fratello minore. «Se ci cercano siamo a cavalcare, okay?» gli disse divertito e, senza guardarlo o parlare, l'altro annuì, muovendo al contempo la mano libera.
    Lasciandosi sfuggire una piccola risata, il fratello più grande portò con sé il ragazzo fino alle scuderie, trovando nel frattempo strano il fatto che non avesse aperto bocca. Si fermò a pochi metri da esse, mollandolo e voltandosi verso di lui imbronciato.
«Che cos'hai?» gli chiese, facendo esitante qualche passo avanti per poggiargli le mani sulle spalle.
    L'altro scosse la testa come se nulla fosse.
«Niente, mi chiedevo solo se tuo fratello sapesse di noi», rispose a mezza voce, vedendo il biondo sussultare dalla sorpresa. Notò che guardava a terra, adesso, e si tormentava i capelli. «Non lo sa», concluse ovvio il moro, afferrandogli delicato il mento con due dita per sollevargli la testa, in modo da poterlo guardare in quegli strani occhi ambrati che l'avevano profondamente colpito appena li aveva visti, sin dal principio. Occhi che non si potevano riscontrare in altre persone perché speciali, speciali come il ragazzo che aveva davanti. «Guarda che per me non è un problema, sai?» gli disse, incurvando le labbra rosee e piene in un lieve sorriso. «L'importante è che né mio padre né tuo padre lo scoprano».
    Non potevano rischiare che i loro genitori venissero a conoscenza della loro relazione. Un po' per il mondo in cui vivevano, un po' per le loro posizioni. Il figlio di un Laird scozzese e quello di un semplice commerciante... che futuro avrebbero mai potuto avere insieme? Sentì le braccia del ragazzo stringerlo a sé, il suo volto affondato nel petto, mentre strofinava come un gatto una guancia contro di lui.
    «Tha gaol agam ort [1]», sussurrò in tono dolce, e il suo compagno ridacchiò, ricevendo uno sguardo dorato.
    «Traduzione, prego?» fece divertito.
    Anche l'altro rise e, guardatosi intorno, avvicinò a lui il suo volto, baciandogli castamente le labbra prima di allontanarsi. Lo guardò, sorridendo.
«Ti amo».


    I suoi occhi d'onice, appena riaperti, registrarono a poco a poco il luogo in cui era stato rinchiuso, senza che ricordasse però come c'era arrivato.
    Tutto ciò che la sua mente stordita rammentava erano i volti dei suoi due compagni e alcune delle loro parole mentre lo portavano fuori dal maniero, nel bel mezzo della radura dove l'atmosfera era man mano diventata gelida. Poi, più niente. Solo un vivido vuoto, solo un enorme caos. Gli si era annebbiata la vista, quello lo ricordava, la testa aveva cominciato a dolergli e a girargli, e l'aveva scossa per schiarirsi la mente dove i suoni e le voci erano diventati troppo forti, mostrandogli per l'ennesima volta immagini su immagini. Da quel che ricordava, il suo campo visivo si era ridotto appena ad un unico puntino scuro e, sebbene non avesse proprio perso i sensi, non era sicuramente cosciente di se stesso né di dove si trovava. Proprio come quando diventava un vampiro. Come quando aveva bisogno di bere il sangue del suo Signore per riprendersi.
    Si guardò debolmente intorno, sbattendo confuso le palpebre, convinto in un primo momento di trovarsi nel suo feretro, accanto al suo Signore. Tentò di rimettersi in piedi ma non gli fu possibile e, osservandosi, notò che era legato con delle corde ad un palo di legno ed era circondato da cumuli di paglia e balle di fieno. Sbatté perplesso le palpebre, senza capire a pieno la situazione. Una stalla? E perché era legato? Cos'era successo in quel lasso di tempo in cui aveva perso se stesso?
    Roy si leccò le labbra, sentendole fin troppo secche; la bocca impastata da uno strano sapore, come se non avesse fatto altro che dare di stomaco fino a quel momento, la pelle del braccio e quella all'altezza del collo gli pizzicavano appena. La debole luce rossastra che filtrava dalle aperture gli diede modo di lanciarsi un'occhiata, e notò delle pallide cicatrici che stavano scomparendo velocemente, aiutate dal risveglio dal suo sonno diurno che aveva appena superato il corpo.
    Confuso, cercò di ricordare senza successo. Provò a muovere le spalle, ma un fastidioso dolore al braccio gli lasciò sfuggire un gemito dalle labbra. Guardò il punto che gli faceva male e notò che la camicia era bucata; intorno al foro, grande quanto quello di un proiettile, il bianco lasciava posto ad uno strano grigiore, come se qualcuno l'avesse sparato a distanza ravvicinata. Perplesso, l'unica cosa che riuscì a fare fu sbattere in continuazione le palpebre. La lingua sfiorò i canini e ritrasse d'istinto le labbra, scoprendo un ringhio. Si sentiva esattamente come quando tornava da una caccia, solo più stanco. Sentiva una strana inquietudine appena percepibile, come se fosse in astinenza da sangue. Del suo sangue. E la cosa gli fece ribrezzo. Non voleva ammetterlo a se stesso, ma aveva assoluto bisogno del sangue del suo Signore.
    «Che abbia perso il controllo?» mormorò in tono concitato, rivolto al vuoto. Sentì poi come se qualcosa di pesante lo stesse opprimendo. Guardò in alto e, legato alle travi di legno, poté scorgere una croce d'argento, che fissò quasi con immenso timore, come se gli stesse ferendo gli occhi e il corpo. Lui, che era sempre stato un uomo di Chiesa più che devoto al suo Dio, da quando aveva acquistato l'aspetto di un vampiro temeva quella sacra reliquia, un tempo simbolo della sua incrollabile fede. Forse era per quel motivo che a lui faceva del male, a differenza di quegli altri vampiri.
    Debolmente, Roy vide uno spiraglio di luce arancione in direzione della porta, dalla quale entrarono subito dopo, seguiti da un uomo corpulento, il Sindaco e Havoc. I tre lo squadrarono per un po', avvicinandosi piano, e lui si ritrasse, soffiando involontariamente come un gatto; mostrò le zanne, come in procinto di attaccare, nel notare tra le braccia dell'uomo svariate armi in argento, pallottole e una pistola, più una lampada ad olio.
    Ringhiò senza volerlo fare davvero, sentendo i canini palpitare. La sete stava crescendo. Doveva fare attenzione a ciò che poteva succedere.
«Che hai intenzione di fare, Maes?» chiese quasi in un sibilo, rivolto all'indirizzo del Sindaco. La sua, adesso, era la solita voce. La sua voce. Sebbene fosse ancora un po' rauca.
    Hughes non si prese la briga di rispondere, sedendosi sulla paglia di fronte a lui a gambe incrociate, facendo poi cenno all'uomo nerboruto di posare ogni oggetto lì accanto. Havoc fece lo stesso restando in piedi, come un'ombra alle sue spalle.
Gettatagli un'occhiata veloce, il Sindaco sospirò, rivolgendo la sua attenzione al vampiro, che sembrava osservarlo di sottecchi. Si spostò poi verso l'uomo nerboruto. Non voleva che vedesse anche lui o che sentisse altro. «Puoi andare, Armstrong, ci penso io», disse calmo, e, nonostante la nota allarmante che si era dipinta sul volto dell'uomo, senza proferir parola e con un cenno del capo si congedò, uscendo svelto dalla stalla.
    Con l'ombra muta di Havoc a fargli da guarda spalle, Maes trasse un lungo sospiro, osservando attentamente il prete. Quasi gli sembrava quello di sempre, adesso, con la sola differenza che il suo volto, era più giovane di quanto ricordasse. Come se fosse ancora un diciottenne, quel diciottenne puro e innocente che era una volta. «Sono stato obbligato a legarti», gli tenne presente, sospirando ancora. «Eri diventato pericoloso».
    Roy spostò la sua attenzione da lui al biondo, sbattendo le palpebre. Vedendo che non capiva, Hughes trasse un altro sospiro, portandosi lentamente una mano al volto e toccando il cerotto che adesso gli copriva il taglio sulla guancia. Guardandolo, il volto del moro si atteggiò ad un'espressione sconcertata e dolorosa.
«Sono... sono stato io?» sussurrò con voce incrinata, gli occhi color pece sgranati dalla meraviglia e dal terrore del suo gesto. «Ti ho... fatto del male?»
    Un altro sospiro sfuggì dalle labbra del Sindaco e, non sentendolo rispondere, il moro sentì il cuore stringersi in una morsa. Stava per fare ciò che quei vampiri gli avevano comandato. Stava
per... ucciderlo. Abbassò lo sguardo, con i capelli scuri che gli ricaddero davanti agli occhi e i canini che sporgevano appena dalle labbra schiuse.  
    «Perdonami, Maes», bisbigliò, senza avere il coraggio di guardarlo. «Ormai perdo il controllo troppo spesso, soprattutto quando...
» si interruppe, mordendosi il labbro inferiore, affondandone il canino nella carne. «...quando comincio ad avere sete».
    L'attenzione del Sindaco si appuntò solo sul vampiro che teneva lo sguardo basso, evitando accuratamente di incrociare i suoi occhi smeraldo, come se si sentisse in colpa, ma era lui che avrebbe dovuto. Lasciandolo andare, dieci anni prima, l'aveva consegnato nelle braccia di quei mostri. E il bersaglio, in realtà, era lui. Stolto com'era, a quel tempo, l'aveva persino accusato di essere lui la causa della comparsa di quelle creature. Se avesse saputo sin dal principio come stavano le cose, non gli avrebbe mai permesso di esporsi, sarebbe stato lui stesso a dirigersi al maniero per far sì che tutto si concludesse alla svelta. Nessuno avrebbe più sofferto, e quei mostri, forse, se ne sarebbero andati. E invece...
    Guardò il suo amico con comprensiva dolcezza.
«Te l'ho detto, Roy, non preoccuparti», mormorò. «Troveremo una soluzione».
    Il prete, a quelle parole, sorrise amaro. Era rimasto il solito ingenuo di sempre, lo stesso ingenuo di quand'era piccolo.
Non era affatto cambiato, Maes Hughes. «Non c'è nessuna soluzione», bisbigliò mesto. «Credi che non abbia provato?» fece, scuotendo debolmente la testa. «Ho tentato persino di ammazzarmi con le mie mani».
    Maes gli poggiò una mano sulla spalla, come ad interromperlo. Non riusciva davvero a vederlo così. Era troppo vulnerabile, emotivamente.
«Non mi avresti chiesto di portarti via se ti fossi arreso», disse con fare ovvio, e il volto del prete si alzò di scatto, la coda in cui erano legati i capelli gli ricadde in avanti su una spalla, nei suoi occhi color pece brillava ora appena un puntino di luce.
    «Non volevo morire da solo, laggiù... è per questo che te l'ho chiesto», si mosse un po', la paglia sotto di lui frusciò appena.
«Sei un cacciatore... voglio che sia tu ad uccidermi, Maes».
    Hughes sgranò gli occhi, deglutendo.
«Come puoi chiedermelo, Roy?! Come?!» sbraitò allarmato. Come se si fosse scottato, ritrasse la mano, indietreggiando sulla paglia. Non poteva chiedergli davvero una cosa del genere. Non era riuscito a farlo al maniero, come poteva mai farlo adesso?
    «Perché potrei essere io ad uccidere te!» esclamò Roy, spaventato al solo pensiero.

    I volti di entrambi gli uomini, che s'erano gettati sguardi nervosi, divennero maschere indecifrabili. Respiravano e deglutivano sonoramente, cercando di evitare di specchiarsi nelle polle scure del moro, che sembrava sussultare come se stesse piangendo. Un lamento gli sfuggì dalle labbra quando reclinò la testa all'indietro, e si lasciò andare quasi docilmente contro il palo che sosteneva il tetto della stalla, abbassando le palpebre.
    «Pater Noster qui es in cælis...[2]» sussurrò in latino, iniziando lentamente a ciondolare sotto lo sguardo sconcertato di Hughes e Havoc, i quali si fissarono senza capire. Un vampiro che recitava una preghiera? Quale subdolo trucco era mai quello? Anche osservandolo attentamente, non si riusciva a capire quale fosse il suo stato d'animo. Mormorava soltanto con voce smussata quella preghiera, ripetendola in continuazione con ritmo sempre più calzante e disarticolato, incerspicandosi a volte nelle parole come se non le ricordasse con esattezza.
    Sconcertato, Jean picchiettò la spalla dell'amico, facendogli cenno d'alzarsi e di seguirlo. Lasciando il prete ai suoi flebili singhiozzi e sussurri spezzati, lo portò lontano da lui, quasi sulla soglia della stalla; g
li afferrò bruscamente il volto fra le mani per costringerlo a guardarlo, mentre gli scrutava il volto quasi spaventato senza liberarlo dalla sua presa.  I suoi occhi verdi sembravano vuoti, inespressivi. «Ehi, vedi di riprenderti», sbottò a bassa voce, imperativo. «Sapevi benissimo che sarebbe andata in questo modo, piangerti addosso non servirà a nulla». Maes provò a distogliere lo sguardo, ma l'altro non glielo permise. La presa divenne più salda, gli occhi azzurri si ridussero a due fessure. «Non puoi continuare a sperare che sia ancora se stesso, non puoi», sussurrò, scorgendo la disperazione sul suo volto. «Anche ieri, quando ha cercato di ucciderti, te ne ha dato la prova tangibile. Non può controllarsi, non sa più distinguere il bene dal male».
    Stavolta l'attenzione del Sindaco si riappuntò su di lui, nonostante il velo di indomabile terrore che sembrava offuscargli la vista. Portò le mani su quelle dell'uomo che ancora gli reggevano il volto, facendogli delicatamente mollare la presa, così da indietreggiare un po'. Tra loro aleggiava solo il sentore della paglia umida e i mormorii indistinti a cui stava dando vita il prete, che si era portato le gambe al petto e si era raggomitolato su se stesso, come per proteggersi.
    Hughes chiuse gli occhi, scuotendo debolmente la testa.
«Ne sono consapevole, Jean», mormorò, chinando la testa e coprendosi gli occhi, come se volesse nascondere possibili lacrime. «Purtroppo ne sono consapevole».
    Leggero, un braccio dell'altro gli cinse appena i fianchi, attirandolo a sé, facendo così in modo che poggiasse la fronte sulla sua spalla. La mano libera andò ad accarezzargli i capelli, lentamente.
«Quello che dobbiamo fare, adesso, è provare a carpire delle informazioni da lui», bisbigliava, come se non volesse farsi sentire. «Non potremo riportarlo com'era prima, ma forse riusciremo a porre fine a quest'insensata lotta che ti grava sulle spalle».
    Maes aveva annuito piano, in silenzio, e adesso gli stringeva convulsamente la stoffa della manica destra in una mano, come un bimbo che si sentiva solo e sperduto.
    «Parlerò con gli altri di questa storia», riprese Havoc in un mormorio sordo, con voce flebile e accorata, delicata proprio come quando si parlava ad un bambino. «Ci aiuteranno anche loro, vedrai».
    «Non voglio coinvolgerli», fece in risposta Hughes, scuotendo la testa sulla sua spalla.
    «È una cosa che interessa tutti, non solo la tua persona», replicò, allontanandolo un po' per guardarlo attentamente in volto. «Dobbiamo sostenerci a vicenda, no?» soggiunse, abbozzando un piccolo sorriso per provare a rassicurarlo, e, seppur gli occhi verdi risultassero un po' gonfi e arrossati, Hughes annuì ancora, alzando appena un angolo della bocca in un mesto sorriso.
    «Ieri mi sembrava che avessi detto che dovevo assumermi le mie responsabilità», disse in un sussurro, cercando di rendere il tono leggero e sarcastico, ma la voce era appena incrinata, pronta a divenire spezzata e flebile.
    Havoc sorrise ancora di più, stanco. Gli diede una pacca sulla spalla, facendogli forza per quanto poteva.
«Parlo a vanvera, lo sai», ribatté, ricevendo un'altra occhiata di ringraziamento. Si squadrarono come se fossero complici di chissà quali misfatti, ed era accaduto tutto sotto lo sguardo attento del prete, che aveva smesso di mormorare senza che loro se ne fossero accorti.
    Un fuggevole lampo solcò quegli occhi scuri come la notte, il lampo d'un qualcosa d'indefinibile che passò immediatamente com'era arrivato, inabissandosi nelle polle d'onice. L'ombra d'un sorriso gli incurvò le labbra prima che anch'esso sparisse senza lasciar traccia.
Le cose non sarebbero potute andare meglio.


ATTO QUINTO. FINE





[1] Ti amo [ Gaelico scozzese ]
[2] Padre Nostro che sei nei cieli [ Latino ]




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Capitolo 6
*** Cuore di uomo, cuore di demone ***


Il figlio delle Tenebre_Act 6
ATTO SESTO. CUORE DI UOMO, CUORE DI DEMONE


Nei pressi di Sheerness, 1891

    «Coraggio, Roy, questo testo non è molto difficile», lo invogliò comprensivo il Sindaco, nascondendo un sorrisino al di sotto dei folti baffi neri.
    Seduto al tavolo della cucina, fra tomi, fogli e stilografiche, squadrava il volto concentrato del bambino che aveva adottato e che, a due anni di distanza da quando era stato portato nel villaggio, aveva fatto notevoli progressi per quanto riguardava lo studio dell'inglese. C'erano ancora alcune lacune, certo, ma riusciva ad intrattener un discorso senza dover richiedere l'aiuto del Sindaco o di suo fratello, che spesso gli insegnava a sua volta qualcosa. Adesso si trovavano tutti e tre seduti lì, chi intento a ridacchiare e chi invece a far vagare distratto lo sguardo sulla cucina, osservando la governante che si affaccendava per preparare la cena.
    Ad un certo punto, il moretto sbuffò, abbandonando la stilografica e poggiandosi con il viso sul bordo del tavolo e i fogli, guardando con i suoi occhi d'onice quello verde del Sindaco.
 «Non lo riesco a traducere», borbottò, sentendo intorno a sé delle risate.
    Il fratello scese dalla sedia e gli si accostò, poggiandogli le mani sulle spalle e il mento sulla testa, come per vedere ciò che c'era scritto sui fogli.
«Si dice tradurre», lo corresse divertito, ridacchiando come il padre. «E poi hai saputo leggere cose più difficili, perché con questa non ci riesci?»
    Si aggiunse alle risate generali anche la governante, che rigirava lo stufato mentre cercava di contenere l'ilarità, lasciando per poco il mestolo per tagliare le cipolle e le carote. Non mise voce in capitolo, troppo divertita dalla piccola baruffa che si era creata fra i due fratelli, che si prendevano in giro dimentichi ormai dello studio. Furono ben presto richiamati dal Sindaco, che li ammonì con lo sguardo, ma si scorgeva una nota divertita anche nel suo occhio verde.
    «Maes, tu riconcentrati sul latino», disse al figlio in tono spassoso. «E tu, Roy, leggi ad alta voce il testo e traducilo, forza»., asserì, ottenendo da entrambi uno sbuffo indicante la loro noia.
    «Che lingua inutile, il latino», si lagnò Maes, ritornando ciondolante alla sua sedia per immergersi nuovamente nel suo studio sulle declinazioni. Un'altra occhiata lo ammonì, ma lui rispose con una linguaccia.
    Il signor Hughes alzò gli occhi al soffitto, sconsolato, riportando la sua attenzione sul moretto che mazzicava qualche parola muovendo appena le labbra, come se non fosse sicuro di ciò che stava leggendo o della pronuncia. Dopo varie prove e correzioni, giunse a fine lettura, passandosi frustato una mano fra i capelli scuri scompigliandoseli, guardando con le sopracciglia corrugate il Sindaco.
    «È troppo lunga...» si lamentò, ma lo sguardo dell'uomo non ammetteva repliche. Così, sbuffando ancora una volta, e premurandosi che si sentisse bene il suo disappunto, prese con due mani il libro portandoselo dinnanzi agli occhi, come per leggere meglio. Assottigliò lo sguardo, la fronte concentrata. «“Trascorsero la nottata... fra gli alberi, da uno dei quali Don Cosciotte...”»
    «Chisciotte, Roy, Chisciotte», ridacchiò il Sindaco, correggendolo subito. Il bambino gonfiò le guance, arrossendo fin sopra alle orecchie mentre sentiva che anche gli altri due proruppero in sonore risate che lo fecero vergognare ancora di più.  «Dai, continua», lo spronò l'uomo, con un sorriso.  Nonostante lo sguardo d'onice vagasse imbarazzato tutt'intorno, una volta incassata la testa nelle spalle lui ricominciò a tradurre il testo, stando attento a non alzare in nessun modo lo sguardo.
    «“...da uno dei quali Don Chisciotte...”» riprese, calcando di proposito il nome. «“...strappò un ramo... secco... che poteva far l'uso di lancia, e vi... vi applico?”» domandò interrompendosi, cercando aiuto nell'occhio del Sindaco.

  Lui sorrise maggiormente, sorreggendo il mento sui dorsi delle mani.
«Applicò», concesse, vedendo il moretto annuire.
    «“...vi applicò la punta di ferro che... tolse... a quella che gli si era rotta...”»
Continuò a leggere e a tradurre fino all'ora di cena, sbagliando solo qualche parola e provocando di tanto in tanto piccoli scoppi d'ilarità ai presenti, che lo correggevano divertiti.
    Quando finalmente i piatti furono serviti abbandonò i libri andando con gli altri in sala da pranzo, dove si sedettero tutti, governante inclusa, a consumare la cena, spesso ridendo e scherzando. Passarono ben presto le undici, e alzandosi, il Sindaco sbadigliò sonoramente, guardando i due bambini che quasi sonnecchiavano. La governante stava radunando i piatti sporchi, canticchiando silenziosa un vecchio motivetto della sua gioventù, arzilla come nel pomeriggio.
    «A dormire, bambini, coraggio», disse loro l'uomo, dando una piccola e leggera pacca sulle schiene di entrambi, accompagnandoli fino alle scale. «Domani riprenderemo gli studi, ora riposate».
    «Non possiamo evitare di studiare almeno domani?» chiese Maes, alzando lo sguardo verso di lui per guardarlo, gli occhi smeraldo brillavano speranzosi.
 A dargli man forte si aggiunse anche il moretto, quasi sbattendo graziosamente le ciglia, e a quegli sguardi, il Sindaco non seppe resistere. Annuì divertito, sentendo subito gli strilletti dei due bambini, che gli si avvinghiarono alle gambe.
    «Grazie, papà!» esclamò Maes, sorridendogli.
    «Grazie, grazie!» fece a sua volta Roy, stringendosi ancora di più.
    Ridendo, l'uomo fece mollare delicatamente la presa ad entrambi, scompigliando i capelli di uno e dell'altro con fare affettuoso.
«Ora a letto, però, prima che cambi idea», disse, con un cipiglio falsamente ammonitore.
    I due bambini risero e annuirono, tirandogli l'orlo della camicia per farlo chinare, e gli baciarono le guance prima di correre su per le scale, verso la camera che dividevano. L'uomo li seguì con lo sguardo finché non sparirono dalla sua vista, traendo un lungo sospiro mentre ritornava mesto nella sala da pranzo, il volto cupo e pensante. Pensava a quel lontano giorno in cui aveva accolto con sé il moretto che adesso si trovava ai piani superiori, pronto ad addormentarsi insieme al figlio. Era stata una buona idea, la sua, quella di portarlo con sé? Più ci rifletteva, più credeva che lo fosse, anche se spesso aveva il terrore di specchiarsi negli occhi del bambino, troppo scuri per essere innocenti. E anche quando lo trovava a borbottare in un'altra lingua si spaventava senza una ragione.
    Aveva passato due mesi ad andare e venire da Sheerness, nel tentativo di incontrarsi con alcuni suoi compagni cacciatori e parlarne con loro, cercando di capire se fosse mai possibile che una Sua vittima potesse rinascere dopo secoli e portare scompiglio. Non avevano saputo aiutarlo più di tanto, e i consigli che riceveva erano sempre gli stessi. Ucciderlo prima che arrivasse ai diciott'anni, l'età in cui era spirato prematuramente secoli addietro. Ma come poteva anche solo pensarlo, ora che gli si erano affezionati tutti? Era soltanto un bambino, in fondo. Chi sarebbe mai stato quel mostro che avrebbe ucciso un bambino innocente che non aveva mai fatto del male a nessuno? Non voleva essere lui, no di certo. Avrebbe trovato il modo per farlo sfuggire da quella vita, avrebbe fatto sì che la maledizione non si compisse e lo lasciasse libero di vivere, qualsiasi scelta avesse mai fatto.
    Fu l'occhiata incuriosita dalla governante
che reggeva gli ultimi piatti fra le grandi mani a ridestarlo parzialmente dai suoi pensieri. «Qualcosa l'angustia, Sindaco?» chiese, inclinando infantilmente la testa di lato. «Ha quasi una faccia da funerale, adesso.»
    Lui le sorrise stanco, sedendosi su uno dei piccoli divanetti presenti nella sala.
«Tra pochi giorni partirò per un altro dei miei viaggi», le disse, guardandola di sottecchi. «Bada tu hai bambini, e mi raccomando, attenta a Roy».
    «Ci penserò io alla sua istruzione, non si preoccupi».

    «Non mi riferivo solo a questo», quasi si ritrovò a confessare, scuotendo piano la testa. «Cerca di tenerlo d'occhio, se succede qualcosa di strano manda subito qualcuno a Sheerness. Sarò alla solita locanda, sarà facile trovarmi».
    «Ma perché dovrebbe succedere qualcosa, Sindaco?» domandò ancora una volta lei, sbattendo accigliata le palpebre, come se non capisse l'angoscia che traspariva adesso dal suo viso.
    L'uomo non rispose, si limitò solo a sospirare nuovamente. Scosse piano la testa mentre si alzava, andando verso la soglia della sala da pranzo.
«Te lo spiegherò a tempo debito», mormorò solo, con voce spenta. «Vado a distendermi un po' per adesso, buonanotte».
    Lei annuì, con i piatti ancora fra le braccia.
 «Buonanotte, Sindaco», rispose a sua volta, andando verso la cucina.
    Il Sindaco
le gettò appena un'occhiata, dirigendosi a passo mogio all'ingresso per salire poi le scale e attraversare il corridoio del piano superiore, passando per la camera dei bambini. Era socchiusa e l'aprì un po', vedendo la testolina scura del figlio balzare fuori dalle coperte, mentre il moretto era invece in piedi, accanto alla finestra. Guardava fuori, pensieroso, il volto sorretto nel palmo della mano destra. Alla luce della luna che filtrava, la sua pelle sembrava d'alabastro, pallida e argentata, quasi irreale.
    Richard dilatò gli occhi, incapace di crederci, e ci mancò poco che lanciasse un grido quando il bambino si voltò verso di lui. L'onice che caratterizzava i suoi occhi era opaco, spento, come se stesse dormendo in piedi. Sembrava sonnambulo. Il bianco del suo volto era innaturale, le strane luci che giocavano fra i suoi capelli d'ebano creavano un'illusione di movimento non indifferente, come se un alito di vento si fosse librato nella stanza. Ma durò solo un attimo; difatti sbatté le palpebre, guardandosi intorno. Localizzata la sua figura oltre la porta, Roy si accigliò, strofinandosi il dorso della mano sul viso; t
Tornò al suo letto senza dire una parola, coricandosi come se nulla fosse successo.
    L'inquietudine del Sindaco, però, non scomparve. Quell'immagine perdurò nella sua mente per tutta la notte, persino il mattino seguente sul suo volto si scorgevano le tracce dello stupore e quasi dello spavento. Guardò i due bambini fare tranquilli colazione mentre chiacchieravano, ma non mise parola nei loro discorsi, nemmeno quando tentavano di coinvolgerlo. Era troppo preso a squadrare il volto del moretto, che appariva quello di un qualsiasi bambino. Perché allora, la sera addietro, gli era apparso una creatura ultraterrena? La risposta ben sapeva che era semplice, ma non voleva fare i conti con la realtà.
    La consapevolezza gli piombò addosso come un macigno quando, una volta usciti, lo salutarono allegri come al solito mentre correvano dai compagni di gioco. Nell'incontrare per pochi attimi gli occhi scuri del bambino, e nel perdersi in quel dolce quanto funesto sorriso che gli illuminava innocentemente il volto, non poté non sentire una stretta al cuore.
    Alzò lo sguardo al cielo, l'occhio cieco fissò l'azzurro pallido del mattino senza davvero farlo, mentre le sopracciglia si corrugarono dalla preoccupazione.
«Oh, Signore, che cosa ho fatto».


    Hughes riaprì piano gli occhi, scoprendo di trovarsi sotto le lenzuola del suo letto, nella sua camera. Si drizzò a sedere e si ravvivò i capelli all'indietro, allungando a tentoni un braccio verso il comodino per rimettersi gli occhiali sul naso, in modo da veder meglio le figure.
    Accanto a lui c'era la figura ancora placidamente addormentata della moglie, con i corti capelli ad incorniciarle il viso sprofondato nel mite torpore del sonno. Sorrise appena, scostando piano le coperte per poggiare i piedi oltre il bordo del materasso, sondando con lo sguardo la sua stanza per trovare gli abiti da indossare. Una volta trovati, si rialzò, recuperandoli per andare al catino e darsi una sciacquata.
    Vestito di tutto, con le sue armi ben accordate alla cintola, gettò un'altra occhiata al viso della sua bella Glacier, riavvicinandosi per baciarle fuggevolmente una guancia quando si fu chinato su di lei. In silenzio, senza far rumore, attraversò il corridoio che lo separava dalla camera della figlia, lanciando uno sguardo all'interno e trovando anche lei addormentata. Un altro piccolo sorriso gli solcò le labbra mentre scendeva lentamente le scale di casa e, aperta la porta d'ingresso, uscì nella placida brezza del primo mattino che portava con sé l'odore d'umidità.
    Si guardò circospetto intorno e, dopo aver appurato che ancora nessuno aveva lasciato le proprie case per cominciare la giornata lavorativa, si incamminò su per la stradina sterrata e un po' tortuosa, alla volta dell'Abbazia. Avevano portato il prete lì non più di qualche ora prima, lasciandolo legato su una delle panche dinnanzi all'altare, in modo che vedesse sempre la grande croce in legno sopra di esso. Più volte, durante la notte, aveva ripetuto a se stesso che era stata una crudeltà, ma aveva preferito ascoltare Jean Havoc piuttosto che il suo cuore. Forse perché, inconsciamente, anche lui cominciava a credere che ciò che stavano facendo era tutto vano.
    Giunse ben presto alle porte borchiate della Chiesa, poggiando entrambe le mani sui due portoni in quercia per aprirli lentamente, facendo entrare un guizzo di luce seguito da un sinistro cigolio prima che se li richiudesse alle spalle. Lui era ancora lì, assolutamente immobile come l'avevano lasciato. Avvicinandosi, gli vide le mani legate abbandonate in grembo, il busto stretto dalle corde e fissato alla panca era rilassato, nonostante i muscoli visibilmente in tensione; aveva gli occhi chiusi, che tremavano lievemente sotto le palpebre come se fosse sul punto di svegliarsi. Il volto era ancor più pallido del giorno addietro, e le guance d'alabastro sembravano quasi scavate, nell'imitazione d'un uomo che non mangiava da molto. A completare il tutto, i lunghi capelli neri gli ricadevano lisci sulle spalle, quasi a sfiorare le mani immote, dalle unghie semi trasparenti e vitree.
    Si sentì un emerito verme, vedendolo ridotto in quello stato. E nonostante il gelo che irradiava quel corpo immortale e le stesse tenebre che sembravano avvolgerlo, gli picchiettò appena una spalla, forse nel tentativo di svegliarlo. Ebbe appena una reazione, ma non si mosse. Il riposo diurno? O astinenza da sangue? Quanto tempo poteva resistere un vampiro, senza il suo nutrimento? Non sarebbe riuscito ad azzardare un'ipotesi, ma qualcosa nella sua mente si mosse.
    Hughes trasse un lungo sospiro, sfilando il coltello dal fodero che aveva appeso alla cintola; avvicinata la lama ad un dito, ne incise la carne, facendo così in modo che una stilla di sangue fuoriuscisse dal taglio, sporcandogli immediatamente la pelle. Incurante del debole dolore che si stava espandendo nel suo corpo, avvicinò il polpastrello al volto del vampiro sopito, assicurandosi che inspirasse a fondo quel sentore di ruggine. Colpì in pieno anche i suoi sensi, ma cercò di non dare di stomaco e di non dargli peso. Dopo poco, sentì un fremito sempre più crescente da parte di quel corpo che sembrava senza vita, un piccolo spasmo quasi involontario che lo riportò nel regno degli umani.
    Un annusare insistente, un altro brivido; la piccola lingua rosea del moro guizzò fra le sue labbra e cominciò a lappare piano, con colpetti minuti e quasi insicuri come quelli d'un cucciolo di gatto, il sangue che stillava dalla ferita, avvolgendo ben presto il dito con frenesia.
    Il volto di Hughes divenne un'indecifrabile maschera d'emozioni, mentre assisteva. Quello che dapprima era un fievole approccio era diventato quasi un contatto intimo, erotico e lussurioso, un intenso succhiare che sembrava non voler avere fine. E quel senso di drammaticità che provava raggiunse presto il suo culmine massimo quando il vampiro cominciò a mordicchiare fugacemente la pelle, sfiorandola appena con i canini. Ritrasse immediatamente il dito non appena avvertì un ammorbidimento da parte di quelle labbra, osservando il sangue slavato che gli macchiava la pelle e la sottile scia di saliva come se non si capacitasse lui stesso di quel che era successo. E se il sangue, per i vampiri, era come il vino? Di quest'ultimo, se è d'ottima annata se ne assaggia ancora. Era così anche per il sangue? Non voleva nemmeno provare a chiederglielo.
    Maes ricevette finalmente uno sguardo, nonostante gli occhi d'onice completamente neri e assenti, come se quel poco sangue che gli aveva appena donato non fosse abbastanza. Si ritrovò a deglutire nell'osservare il suo volto, nell'osservare qualche goccia del suo stesso sangue che gli macchiava appena le labbra, donandogli colore.
    «Perché l'hai fatto?» chiese il moro in un bisbiglio, facendolo deglutire.
    Stando attento a non perderlo d'occhio, Hughes aggirò lui e la panca, sedendosi al suo fianco anche se parecchio distante per evitare sorprese.
«Il motivo sfugge a me quanto a te», si sentì in dovere di dirgli, alquanto a disagio. «So solo che, anche se in questa forma, resti pur sempre mio fratello».
    Un senso di vuoto calò nel petto del vampiro, che ebbe la sensazione del suo viso in frantumi. Mosse appena le braccia, con lo sguardo puntato sulle mani legate.
«Ti supplico, Maes, non dire certe cose», mormorò, quasi inespressivo. «Mi fai stare solo più male».
    «Che dovrei dire o fare, allora?» domandò l'altro, accorato. «Dovrei abbandonarti al tuo destino?»
    Roy non rispose. Si limitò a detergersi via con la lingua il sangue che gli macchiava le labbra, gustandone inconsciamente, e quasi con lussuria, il piacevole sapore. Un sapore imperfetto in quanto umano, ma perfetto nella sua imperfezione. Non avrebbe saputo dargli una definizione migliore. Emise un gemito languido, come se non stesse solo assaggiando del sangue; compiuto quel gesto all'apparenza semplice e innocuo, voltò appena la testa in direzione del Sindaco, rivolgendogli un sorriso tirato ma al contempo così luminoso, che sembrò far risplendere le vetrate della Chiesa e i candelabri spenti da anni.
«Non so nemmeno io qual è il mio destino», sospirò mesto. «Guardami», soggiunse, sorridendo ancor di più, amaramente. «Per anni ho seguito la strada del Signore, e alla fine mi sono ritrovato a vivere la dannazione eterna... è un supplizio che non ha né un inizio né una fine, Maes».
    «La colpa è mia, Roy, solo mia».
    «Sono stato io ad andarmene, quella notte», andò in sua difesa, chinando la testa. «Non ho voluto ascoltarti, ho preferito accontentare la voce supplichevole che sentivo».
    «Quale voce?» chiese stranito l'altro, sbattendo le palpebre. «Non mi hai mai parlato di voci».
    Un ennesimo sospiro sfuggì dalle labbra del vampiro.
«Sentivo delle voci, dieci anni fa», confessò, sempre senza guardarlo. «Le sentivo allora come le sento tutt'oggi... considerami pazzo, ma è stata una di quelle voci, a spingermi in quella radura e... beh, a rendermi ciò che adesso sono».
    Calò d'improvviso un silenzio imbarazzato, nella vuota cappella. Nessuno dei due parlava né si guardava negli occhi. Erano come in una sorta di bizzarra intesa che realmente così non era, come se le parole aleggiassero fra loro in muti quesiti. Più guardava il moro, più Maes Hughes si sentiva impotente. Si ritrovò a domandarsi ancora una volta che sarebbe successo se invece del prete fosse andato lui stesso, dieci anni prima, in quella radura.
    «Probabilmente non sarebbe cambiato nulla», rispose il moro, come se gli avesse letto nel pensiero. Gli gettò una rapida occhiata e, notando lo sguardo color smeraldo del Sindaco confuso e accigliato, si affrettò a voltarsi e a guardare altrove con finto interesse, stando attento a non soffermarsi sulla grande croce di legno posta sopra l'altare. «Mi dispiace, a volte mi succede inconsapevolmente», si scusò, sulla difensiva. «Non violerò più l'intimità della tua mente, perdonami».
    Spiazzato da quella nuova rivelazione, il Sindaco sbatté più volte le palpebre, come se non se ne capacitasse. Ci mise un po' per riacquistare la sua solita calma, e si arrischiò a sporgersi verso di lui per poggiargli una mano sulla spalla, rivolgendogli un piccolo e stiracchiato sorriso stentato.
«Devo stare attento a quello che penso, allora», buttò lì, cercando di scherzare, e si sentì anche un perfetto idiota. Sebbene fosse suo fratello, quella creatura che aveva davanti, non doveva assolutamente dimenticare che era pur sempre un vampiro, un figlio delle Tenebre. Stava amabilmente chiacchierando con lui come se nulla fosse. Ci mancava solo che lo invitasse a prendere il the delle cinque.
    Scosse stupidamente la testa, ridiventando di colpo serio. I suoi occhi smeraldo tradivano nervosismo e timore.
«Sto per farti una domanda che forse ti metterà in conflitto con l'altro te stesso, Roy, ma cerca di rispondere», disse, con un tono che quasi non ammetteva repliche. Come stordito da un colpo ricevuto, il vampiro moro ci mise un po' per capire le sue parole. Difatti annuì a fatica, quasi boccheggiando senz'aria. Hughes trasse un altro lungo sospiro prima di rialzarsi in piedi, cominciando a camminare avanti e indietro sul pavimento di marmo impolverato, con i suoi passi che risuonavano nell'immensità della cappella. «Voglio sapere come distruggerli, e voglio conoscere il luogo del loro riposo diurno», fece, schietto e risoluto.
    Gli occhi color pece del moro si dilatarono dalla sorpresa. Se avesse avuto le mani libere, se le sarebbe sicuramente portate entrambe alla bocca. Cominciò ad agitarsi, respirando affannosamente, lo sguardo ancora dilatato per la sete che non placava completamente da due giorni e che lo stava martoriando.
«Non posso, Maes, non posso», bisbigliò, accorato e quasi spaventato. «Comprendimi, non posso rivelartelo... non posso». Sempre più inquieto, prese a sfregare l'intero corpo contro le corde ancora intrise d'acquasanta, nel vano tentativo di liberarsi, come se volesse fuggire via da quel luogo.
    «Devo saperlo, Roy. Lo faccio per tutti quelli che sono morti», riprese il Sindaco, ferreo. «Ti ho lasciato scegliere di dirmelo di tua spontanea volontà, ma ti estorcerò le informazioni che voglio con qualunque mezzo, se non vuoi collaborare».
    «Da quando sei diventato così?» Una domanda sussurrata, gli occhi ingigantiti dalla confusione.
    «Da quando ho visto tutte quelle persone, e persino mio padre, morire», rispose prontamente l'altro. «Da quando mi è piombata addosso la consapevolezza di ciò che erano i miei avi. Quindi parla», soggiunse imperativo, con il volto inespressivo.
    Un oscuro oblio solcò le polle scure del vampiro. Il labbro superiore si ritrasse; i canini spuntarono oscenamente, luccicando.
«Non posso dirtelo, cazzo!» ruggì, imprecando inconsapevolmente, lasciando che dalle sue labbra scaturisse un urlo disumano e gutturale che infranse le grandi e antiche vetrate, facendole cadere sotto forma di pioggia violenta sul pavimento di marmo.
    Il grido sembrò trapassare le orecchie di Hughes, che strinse gli occhi portandosi le mani contro i timpani, nel tentativo di proteggerli dall'eco che si protendeva ancora. Il respiro d'entrambi era accelerato per motivi differenti e i cuori sembravano battere all'unisono, quasi all'impazzata: nessuno dei due però, sembrava consapevole della forza e del potere che rivaleggiava riecheggiando per il controllo, della strana tensione che era salita dalle viscere della terra stessa. Poi, pian piano, tutto cessò e il grido s'affievolì, e persino il prete parve calmarsi, tanto che si accasciò in avanti sulla panchina, e sarebbe sicuramente caduto, se non fosse stato legato.
    «Non posso, non posso», ripeté in un mormorio sordo, gorgogliante. «Perché non capisci. Non posso, lui non me lo perdonerebbe mai».
    Hughes ci mise un po' per riprendere il controllo e per capire che aveva parlato. Si massaggiò le orecchie, in cui sentiva un fastidioso e prolungato fischio, guardando parzialmente il volto immoto del vampiro.
«Non fai altro che ripeterlo», disse, quasi disgustato. «Lui, lui, lui. Aveva dunque ragione Jean, sei diventato uno schiavo o un servo di sangue?»
    Uno sguardo stranito sondò il viso del vampiro, prima che parlasse.
«Il mio Signore non beve spesso il mio sangue», rispose con semplicità inaudita, come se non si rendesse conto di ciò che diceva. «Spesso è lui stesso ad offrirmi il suo».
    Il volto del Sindaco si contrasse, a quelle parole.
«Dio, Roy, ma ti senti?!» esclamò d'un tratto, incredulo. «Con quale calma puoi dire una cosa del genere?! Con quale calma puoi dire che ti nutri del sangue di quella creatura dannata?!»
    «Perché ormai sono un mostro anche io, Maes! Solo e unicamente un mostro!» tuonò, ferendo ancora una volta con la sua possente voce l'aria circostante. «Lussuria, piacere, peccati, assassinii! Fanno tutti parte del mio essere, non c'è più nulla che io possa fare per cambiare questa mia natura!»
    I battiti ripresero veloci, il suo respiro sembrava quello rombante d'un cavallo al galoppo. Per non guardare Hughes si concentrò intensamente su una delle panche di legno, cercando di calmare l'opprimente angoscia che sentiva invadergli il petto da quando era stato svegliato dal suo sonno diurno. Avrebbe voluto riposare, magari accanto al suo Signore, come capitava di rado, ma per lui non c'era pace nemmeno in quell'Inferno.
    «Mi hai strappato al mio riposo, Maes», disse d'improvviso, con un tono di voce pacato e distaccato, quasi inespressivo. «Mi hai strappato al mio riposo e pretendi di carpire da me i segreti dei miei padroni... la punizione non è la morte per chi rivela certe ubicazioni, sai?» Gli occhi scuri guizzarono rapidi verso la sua figura, guardingi e quasi febbrili, con lo sguardo vacuo e spaventoso d'un folle. «Se ti farai ammazzare, dopo che li avrai scovati, sarò io a partire secoli di tormenti senza poter trovare una qualsiasi sorta di pace... non tu», concluse sibillino.
    Sorpreso da quel modo di parlare, così freddo e distante, così diverso dal tono ovattato e quasi dolce che era solito usare quand'era ancora umano e che aveva usato all'inizio, Hughes non riuscì a spiccicare una parola. Boccheggiò come un pesce fuor d'acqua, deglutendo, e più fissava quelle polle scure che lo incatenavano allo sguardo, più sentiva il respiro venir meno. Vide il lampo di terribili immagini solcare i suoi occhi verdi, il sangue che scorreva a fiumi e corpi maciullati d'esseri umani, persino folli e proibiti baci da bocche munite di zanne; vide lapidi e bare, occhi dorati che passavano con un guizzo, vite vissute in epoche lontane; croci d'argento appese a colli bianchi che sfrigolavano sui petti marmorei e nudi, tombe mortali inchiodate da catene di ferro e argento e...
    «Smettila», intimò, stringendosi nelle spalle e portandosi entrambe le mani alle braccia, strofinandole furiosamente su di esse come se avesse freddo, il corpo scosso da brividi incontrollati.
    Un piccolo sorriso, privo d'espressione, dardeggiò sulle labbra del moro, che dopo poco si lasciò sfuggire una risata così limpida che parve come l'acqua sgorgante d'un ruscello.
«Questo è solo un assaggio», mormorò, ammaliante. «I giochi con il mio Signore sono molto più interessanti di questi scherzetti innocui. Sangue e passione non hanno mai limite, in sua compagnia».
    Hughes restò muto a guardarlo, perso nel contemplare quei profondi occhi scuri. Il vampiro aveva ormai sostituito l'uomo, ma lui sembrava quasi non farci più caso. Quella che aveva dinnanzi era diventata solo una creatura splendida, una creatura che invocava il suo sangue a gran voce. Prometteva lussuria e dolcezza, tormento e terrore.

    “Vieni da me, Maes. Vieni da me. Posso darti cose che nemmeno immagini... La sua voce sondò la sua mente come se stesse parlando, nonostante non avesse minimamente mosso le labbra, ancora atteggiate ad un sorriso bonario.
    Incerto e non, Hughes mosse qualche passo verso di lui dimentico del mondo circostante, di tutto ciò che era mortale. Voleva solo abbandonarsi al piacevole tepore che quella muta voce gli stava offrendo, voleva essere stretto in quel suo abbraccio fatale, voleva assaporare con lui mille peccati.
Lo chiamava silenzioso promettendogli tutto e niente, adescandolo con quegli occhi scuri che rassomigliavano a due perfette perle nere; e sarebbe sicuramente caduto nel tranello se un pugno non l'avesse colpito in pieno viso.
    Sbatté smarrito le palpebre, quasi carponi sul pavimento. Alzando lo sguardo, vide gli occhi cerulei di Havoc, accompagnato dal quasi inseparabile amico Breda, i cui fulvi capelli erano scompigliati, forse dalla brezza di fuori. Era intento a fissare il prete, come se fosse incredulo.
«Com'è che dicevi? Mai guardare negli occhi un vampiro?» lo canzonò il biondo, porgendogli una mano per aiutarlo a rialzarsi.
    Dopo una fuggevole occhiata al moro, il cui volto aveva quasi assunto un cipiglio indispettito, l'afferrò, tenendosi la testa senza dar peso al formicolio che si stava propagando dalla guancia colpita.
«Quest'attimo di disattenzione poteva costarmi caro», si incolpò, dando le spalle a tutti, forse per riprendersi dallo stato in cui era caduto. Avrebbe dovuto rendersene conto prima, che stava provando ad ammaliarlo.
    «Ci pensiamo noi qui, torna a casa», gli disse Breda con voce stanca. «Non credo possa muoversi, legato in quel modo».
    Un'aspra e crudele risata galleggiò nella cappella quando il vampiro udì quelle parole, una risata che fece accapponare la pelle dei tre uomini. Li squadrò tutti con i suoi occhi color pece, sorridendo.
«Lasciatemi al mio riposo diurno e tornate alle vostre faccende mortali», disse, con voce struggente e sensuale, simile a quella d'un amante comprensivo. «Prima che faccia completamente buio, probabilmente sarò già sparito».
    «Sta bluffando», fece Havoc in risposta, seppur angosciato, e, nonostante stessero eseguendo involontariamente il suo ordine controllandolo con la coda dell'occhio mentre si allontanavano, la sensazione che quella muta minaccia s'avverasse imperversò in loro, divampando come una pira alimentata dalla legna.
    Il vampiro avrebbe trovato un modo per liberarsi, qualcosa gliene dava la certezza. E lui doveva evitarlo.



ATTO SESTO. FINE



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Capitolo 7
*** Piani non detti e segreti tra fratelli ***


Il figlio delle Tenebre_Act 7
ATTO SETTIMO. PIANI NON DETTI E SEGRETI TRA FRATELLI


Londra, 1612.

    «Roy! Ehi, Roy!»
    Erano appena le dieci del mattino. Per le strade della Capitale il chiacchiericcio allegro dei popolani riempiva il silenzio e il via vai di gente tra una bancarella e l'altra arrestava la corsa di un giovane ragazzo dai lunghi capelli biondi, legati in una coda alta, che cercava di farsi largo tra quella calca di persone.
Gli occhi, di uno strano colore dorato, non perdevano di vista la figura di un altro giovane che, tranquillo, continuava a passeggiare, non riuscendo ad udirlo a causa di quel baccano.
    «Roy! Fermati, maledizione!»
    Vedendo che non si fermava e che non lo ascoltava minimamente, imprecò fra i denti, scansando con un balzo un piccolo carretto con una ruota rotta che si era parato dinanzi a lui e dal quale erano cadute parecchie mele che si erano riversate sul terreno lastricato; con il fiato grosso, cominciò a correre più forte, e quando giunsero entrambi nella piazzetta centrale, quasi completamente sgombra, riuscì a raggiungere l'altro con un ultimo scatto in avanti, fermandosi davanti a lui e annaspando alla ricerca d'aria. Non era abituato a correre così tanto, e nessuno avrebbe potuto biasimarlo per questo, data la famiglia in cui era cresciuto.
    «Ti sto... chiamando da mezz'ora... stupido!» gli urlò contro, guardandolo imbronciato.
    L'altro ragazzo, dai lunghi capelli neri legati in un basso codino e con la frangetta tirata all'indietro in modo da tener scoperti gli occhi scuri, gli sorrise divertito, passandogli con non curanza un braccio dietro alle spalle.
«Scusate, Milord, non vi ho sentito», disse semplicemente, ma, vedendolo ancora imbronciato, si accigliò, allontanando il braccio. «Qualcosa non va?»
    Il biondino scosse la testa, facendo spallucce.
«Lo sai che detesto quando mi chiami Milord o Laird», fece, attorcigliandosi la fine della coda intorno ad un dito. «Te lo sto ripetendo da sei mesi che devi chiamarmi Edward».
    Roy abbozzò un sorrisetto.
«D'accordo... Edward», gli scompigliò amorevolmente i capelli. «Ma dato il titolo che detieni, anzi, che deterrai, dovresti comportarti in cotal modo».
    «Odio quel tipo di vita, nessuno può saperlo meglio di te».
    «Tuo padre ti striglierebbe, se ti sentisse», sghignazzò divertito. «E, in particolar modo, non vorrebbe tu ti trovassi qui».
    Edward guardò indifferente il lastricato ai suoi piedi.
«Non me ne frega niente di quel vecchio», borbottò, ricevendo dal moro un'ammonizione.
    «È pur sempre tuo padre, trattalo con più rispetto».
    «Aye, certo, certo», timidamente, poi, guardandosi attento intorno, si allungò verso il suo volto per baciargli castamente le labbra e poi allontanarsi, facendo ridacchiare l'altro.
    «Questo lo manderebbe letteralmente in bestia», gli fece notare. «Comunque, come mai qui a Londra? Pensavo fossi nei pressi di Sheerness, nella tua residenza estiva», si grattò distrattamente il collo. «Non avevi detto che seguivi lì le tue lezioni?»
    «Beh... in realtà, avrei dovuto essere in viaggio per Edimburgo»,sussurrò piano, abbassando lo sguardo come se se ne vergognasse, e l'espressione di Roy mutò radiclmente, divenendo preoccupata.
    «Edimburgo?!» chiese accorato. «Così lontano?»
    «Già... mio padre voleva raggiungere la sua tenuta per detenere il suo titolo di Laird».
    Una strana ansia si impadronì del petto di Roy nell'osservare con sguardo triste la lunga chioma bionda del ragazzo di fronte a sé.
«Quindi... non... ci vedremo più?» domandò in un bisbiglio flebile, come se non volesse fare i conti con la realtà. In fondo lo sapeva, l'aveva sempre saputo. Era il figlio del signore di una tenuta, non poteva restare in eterno lontano da casa. Già sei mesi erano troppi. Contemplò per minuti interminabili il capo chinato del biondino che, ad un certo punto, alzò di colpo la testa, guardandolo con quegli occhi dorati che brillavano agguerriti.
    «Non permetterò che mi separi da te», disse, più deciso che mai. «In fondo ha già deciso di intrattenersi più del dovuto», gli rivolse un sorriso così dolce e carico d'amore che parve come il sole caldo del mezzogiorno. «Riuscirò ad impormi e a restare qui con te. Sono nell'età che occorre per una moglie, posso benissimo iniziare a vivere la mia vita», fece qualche passo avanti per trovarsi ad una spanna dal petto del moro. «E la voglio vivere con te... non sei felice?»
    Ancora una volta il moro si rilassò, lanciando uno sguardo intorno e guardando poi il giovane così vicino a lui, accarezzandogli con dolce lentezza il volto.
«Felicissimo», sorrise a sua volta, spostandosi verso le labbra. «Ma ciò non toglie che dovresti essere a lezione», soggiunse per spezzare la tensione, provocando ad Edward una sonora risata.
    «Tu sei molto più interessante delle lezioni del professor Grumman!» esclamò, dandogli una pacca sulla spalla. «E poi, tu puoi insegnarmi cose che quel vecchietto non può insegnarmi...» Il sorriso malizioso che era andato ad incurvargli le labbra fece imbarazzare non poco il moro, che si grattò la testa, distogliendo lo sguardo.
    «La mia influenza ti fa davvero male. Eri molto più innocente, prima», bofonchiò, guardandolo di sottecchi. «Ancora fatico a credere che tu non conoscessi nulla, di queste cose. A diciott'anni la maggior parte dei ragazzi, qui, è già sposata».
    «Lo sai da che famiglia vengo. Ho passato gli anni chino sui libri, non ho mai avuto tempo per queste cose...» lo guardò, un po' rosso in viso. «...prima di incontrare te, ovvio».
    Il moro capì esattamente a cosa stava pensando il ragazzo, e sospirò, socchiudendo gli occhi.
«Edward. Mio padre qui tratta affari con il tuo, lo sai bene», disse a bassa voce «Loro credono ci frequentiamo come amici e...» si interruppe prima di continuare. «...e non posso farti provare quelle sensazioni. Non ancora», continuò mesto prima che potesse aggiungere altro, sebbene ne fosse più che tentato. «Noi non dovremo nemmeno stare insieme».
    «È per questo che non te l'ho mai chiesto», mormorò triste, abbassando lo sguardo. «Non voglio farti finire in prigione o condannare».
    «Però ti amo, Edward, ed è questo che conta».
    «È reciproco», replicò lui, provocando uno scoppio ilare al suo interlocutore. «E adesso che hai da ridere?» chiese, accigliato e imbronciato. «Io ti dico che provo lo stesso e tu ridi?»
    Roy sventolò una mano, trattenendo le risate.
«Quanto si vede che sei inesperto», sghignazzò. «Se ti dico Ti amo tu dovresti rispondermi Anch'io». Si coprì la bocca con una mano. «Non ho mai sentito un innamorato dire E' reciproco».
    Il biondino corrugò le sopracciglia sottili, offeso. Senza dire una parola, gli diede le spalle, percorrendo a grandi falcate la piazza, seguito dalle grida confuse del moro, e se lo ritrovò accanto subito dopo, dispiaciuto.
    «Dai, Edward, scherzavo», mormorò, scostandogli dal viso alcune ciocche di capelli che gli erano ricadute sugli occhi, cercando di stare al passo al contempo. «Non volevo prenderti in giro, dai».
    Il ragazzo si fermò di botto, guardandolo stizzito. «Ma lo hai fatto!» esclamò. «Lo sai che non ho mai avuto nessuno, che non conoscevo i baci e le carezze, prima di te!» Scosse con impeto la testa. «Non c'è bisogno di dirmi che sono inesperto, ne sono consapev-...!»
    Lo scorrere delle sue parole fu bloccato dalla bocca del moro premuta contro la sua. Sembrava bisognoso di un contatto più profondo, come non lo era mai stato. Quando sentì la lingua del moro tentare di farsi spazio nella sua bocca sussultò, separandosi da quel bacio, da quella novità, poggiandogli entrambe le mani sul petto per scostarlo un po' da sé. Sentì il moro deglutire, e lo guardò, rosso in volto.
    «Che stavi cercando di fare?» chiese nervoso. Cos'era quella strana voglia che sentiva crescere in lui? Perché si sentiva così? Come se volesse di più?
    Roy si portò una mano alla testa per ravvivarsi i capelli all'indietro, ma evitò accuratamente di incrociare il suo sguardo.
«Scusami, Edward», mormorò, con voce un po' roca. «Non sei abituato a... questo, perdonami». Si sentiva ancor più stupido ed imbarazzato del biondo, a dire quelle cose. In sei mesi che si frequentavano gli aveva sempre baciato a timbro le labbra, senza mai cercare di approfondire nulla, fra loro. Sapeva da che famiglia proveniva e in che società vivevano, arrischiarsi anche solo a farsi vedere in pubblico sarebbe stato considerato un atto d'indecenza. E se pensava al padre del ragazzo, poi...
    «Cosa volevi fare?» chiese ancora il giovane, distogliendolo dai suoi pensieri.
    «Volevo solo...» non sapeva bene cosa dire. «Beh, ecco, vedi... volevo solo un contatto più... intimo».
    «Ah...» Edward incurvò le labbra in un sorriso stiracchiato. «Questo non me l'avevi insegnato, però», disse, sebbene un po' di imbarazzo persistesse sul suo volto. «Quindi... rimediamo, vero?»
    Roy lo guardò un po' accigliato, ma poi sorrise a sua volta. Quel ragazzo era veramente incredibile, per lui. Gli prese le mani fra le sue, portandolo in un angolo ben nascosto in modo da non esser visti, accostando poi le labbra alle sue e poggiandoci sopra la punta della lingua. Quando il ragazzo gli diede il permesso, iniziò ad esplorare la sua bocca, con una passione che non aveva mai sentito, intrecciando le loro lingue in una danza che quasi sembrò una lotta per la rivalsa, finché l'ossigeno tra loro non cominciò a venir meno.
    Con un piccolo mugolio, il biondino si scansò, respirando a grandi boccate, con le guance in fiamme mentre cercava in tutti i modi di non guardare l'altro negli occhi. Ma proprio quest'ultimo, con un sorriso, gli ravvivò i capelli dietro alle orecchie prima di prendergli il mento fra pollice e indice, costringendolo a voltarsi verso di lui. Sorrise ancor di più quando gli vide le gote squisitamente imporporate di rosso.
    Edward distolse frenetico lo sguardo, poggiando le mani chiuse a pugno sulle ginocchia, corrugando appena le sopracciglia, ma anche sulle sue labbra era comparsa l'ombra di un sorriso.
«E' così allora che...» cominciò, lievemente imbarazzato. Si interruppe grattandosi con non curanza dietro al collo, voltando di poco la testa per incrociare gli occhi incuriositi del suo interlocutore. Titubante, gli si avvicinò maggiormente, poggiando la fronte contro il suo collo. «E' così che ci si bacia, vero?» chiese, flebile ma ben udibile, e l'altro si limitò a ridacchiare, scompigliandogli amorevolmente i capelli con una mano.
    Roy lo attirò maggiormente a sé, avvolgendogli le braccia intorno ai fianchi. Per un po' restarono in silenzio, o almeno finché Edward non alzò lo sguardo verso di lui, quasi cercasse con gli occhi di chiedergli qualcosa, ma non sapeva come chiederglielo. Fu lui stesso ad andare in suo aiuto, come se gli avesse letto nel pensiero.
«Dè a tha thu ag iarraidh, Edward [1]?» gli chiese nella sua lingua, stupendolo non poco nonostante la pronuncia non propriamente perfetta. Riuscì però in quel modo ad alleviare il velo di imbarazzo e tensione che si era creato fra loro, e Edward lo guardò con un sopracciglio biondo appena sollevato, quasi fosse incuriosito.
    «Wow», fece, soffocando un'altra piccola risata. «Sei migliorato parecchio».
    Fiero di sé, il moro si batté una mano sul petto, indietreggiando di un passo per fare scena con un piccolo inchino.
«Beh, grazie», ribatté spassoso, a testa china. «Ma ancora non mi hai risposto», soggiunse, rialzando lo sguardo per incatenare le sue iridi d'onice a quelle ambrate del ragazzo.
    Con un piccolo sorriso ad incurvargli piacevolmente le labbra, Edward si avvicinò a lui a passo felpato, poggiandogli entrambe le mani sulle spalle prima di sporgersi verso di lui. Ad una spanna l'uno dall'altro, sfiorò appena l'orecchio dell'altro.
«Tha mi ag iarraidh pòige [2]», sussurrò sensuale, sentendo una sua risata. Si allontanarono di poco solo per fondere i loro respiri, baciandosi sempre con più crescente passione quasi senza volersi staccare, assaporando più volte ognuno il sapore dell'altro, separandosi e ritrovandosi, ridacchiando di tanto in tanto.
    Quel giorno, però, non potevano immaginare che tutto sarebbe presto cambiato.



    Il silenzio regnava fra i corridoi bui fiocamente illuminati dove lui vagava senza meta, come un fantasma in cerca di una pace che non riusciva a trovare.
    Era rimasto fuori tutta la notte per tener d'occhio il suo prezioso tesoro, avvolto solo in un leggero mantello nero che l'aveva perfettamente confuso con le tenebre che l'avevano circondato, rendendolo un'ombra tra le tante mentre ispezionava con non curanza i dintorni della cittadina e i loro abitanti addormentati nelle case. Non era purtroppo riuscito a scacciare la malinconia che in quegli ultimi giorni l'aveva colto per la mancanza del moro, e adesso si trovava a fronteggiare per l'ennesima volta la verità dei fatti: tempo due o tre notti, e poi avrebbero dato il via al loro folle piano. L'aveva sempre saputo, dopo tutto.
Era quella la sua vita. La sua inutile e fittizia esistenza.
    Si ritrovò nella stanza con l'atrio e la cupola, avvicinandosi alla grande vetrata del piano superiore del maniero, poggiandovi una mano sopra e gelando all'istante la finestra, dove si creò gradualmente un sottile strato di brina. Restò a fissarla vacuamente per pochissimo, spostando di tanto in tanto la mano e guardando le increspature che vi si creavano al passaggio, con un sorriso amaro ad incurvargli le labbra sottili; fece un passo indietro con un sospiro, inoltrandosi fra le ombre delle colonne per ripararsi dalla luce del sole che stava appena sorgendo debolmente all'orizzonte, osservandone le lingue di fuoco e i raggi che avrebbero riscaldato tutto il paesaggio e le creature diurne. Quando la luce troppo forte minacciò di colpirgli un braccio, indietreggiò ancora, scomparendo alla volta dei sotterranei, dove non sarebbe stato minacciato da nessuna luce se non quella di lanterne o candele. Non avrebbe potuto vagare indisturbato, quel giorno. Il sole era sorto e non era nascosto dalle nuvole, e lui era obbligato come il fratello a restare confinato nell'oscurità dei sotterranei.
    Mentre scendeva le scale tortuose per raggiungere le stanze anguste del sottosuolo, incrociò la figura di altri due vampiri e di suo padre che, senza degnarlo di uno sguardo a differenza dei servitori che lo guardarono referenziali, scomparve in direzione dell'ingresso, forse per uno dei suoi soliti giri a vuoto. Il giovane si limitò a sbuffare, continuando la sua strada fino a giungere nella camera improvvisata dove stanziava il fratello, diligentemente tenuto d'occhio da un altro vampiro. Più volte aveva provato a rituffarsi a capofitto nelle ombre del villaggio, nel tentativo di ricreare il caos che lui stesso aveva portato dieci anni prima. Quando entrò, si voltarono simultaneamente verso di lui, e il fratello sorrise, divertito e ironico.
    «Ti sei degnato di rientrare, mo bhràthair», disse con un sorriso sarcastico, accavallando disinvolto le lunghe gambe. «Nostro padre non la smetteva di fare domande, non sono ancora riuscito a riposare come si deve».
    Edward trasse un lungo sospiro, avvicinandosi a passi lenti verso di lui, sedendosi su una delle poltrone di pelle consunta lì presenti, con i gomiti abbandonati sulle cosce. Squadrò il fratello quasi con fare non curante, anche se la sua espressione ricordava vagamente una smorfia di dolore.
«Ho bisogno anch'io di qualche attimo d'intimità, Alphonse», gli disse, calmo e serio, vedendolo inarcare le sopracciglia.
    «Ah! Intimità!» ironizzò, portandosi una mano alla tempia. «Un vampiro che cerca intimità!»
    Lui gli lasciò continuare quella messa in scena, guardando di sottecchi la creatura dagli occhi ametista che, con un sorriso dipinto in volto, ascoltava i loro discorsi come se si stesse piacevolmente divertendo; si tenne il viso sul palmo della mano,
comodamente seduto sulla sedia con in volto un'espressione quasi annoiata, come se non gli importasse di niente e di nessuno. Cominciò distrattamente ad accarezzarsi i lunghi capelli sciolti che gli arrivavano ben oltre metà schiena, passandosi lentamente le dita affusolate fra le ciocche, senza badare ai borbottii che si stava lasciando sfuggire suo fratello Alphonse. «Envy», richiamò svogliato, utilizzando il suo pseudonimo. «Vieni qui».
    Ricevette uno sguardo d'ametista, quasi lontano e distante, ma quest'ultimo attraversò tranquillamente la grande sala dirigendosi a passo cadenzato verso uno dei suoi padroni, fermandosi a pochi passi da lui. Con un lieve spostamento della mano, il biondo gli fece cenno di avvicinarsi maggiormente, e gli poggiò una mano sul braccio, portandoselo vicino al viso e cominciando ad accarezzargli i muscoli sodi dell'avambraccio, ad occhi chiusi.
    «Sistemami i capelli», gli ordinò, rilassandosi sulla poltrona. «Voglio riposare, sono molto stanco».
    L'Invidia fece un piccolo passo indietro, chinando il capo come suo solito prima di dar vita ad un sorriso che avrebbe potuto significare qualunque cosa, facendo balenare fra le labbra la punta delle zanne. «Questa sua spossatezza ha come motivo il fatto che ha perso parecchio tempo a controllare il suo nuovo giocattolo, Signorino», mormorò con voce sobria e pacata, lisciandogli delicato ogni ciuffo di quei fili biondi che scorrevano morbidamente fra le sue pallide mani. Li pettinò con le dita, quasi languidamente, dividendoli in tre grosse ciocche per cominciare a creare la treccia, sotto lo sguardo attento quanto distaccato del vampiro più giovane. Stancatosi di osservarli, sbadigliò sonoramente e si rimise in piedi, sgranchendosi il collo.
    «Ti vedo troppo strano, mo bhràthair», disse, cominciando a camminare avanti e indietro per distendere anche le membra delle gambe. «Non hai mai perso un riposo per nulla».
    «Sto solo controllando ciò che è mio di diritto», fece di rimando Edward, assorto nei tocchi fuggevoli che l'Invidia gli stava donando quasi con passione. La sua voce aveva quasi assunto un tono minaccioso. Difatti intorno a loro, le ombre più scure presero sinistramente a danzare alla luce delle lanterne e delle candele, unica fonte di luce in quel mondo sotterraneo.
    Alphonse gli lanciò uno sguardo, concentrandosi per qualche attimo sul via vai di due vampiri che avevano portato loro da bere, e che si stavano affaccendando un po' in giro, prima di lasciarli nuovamente soli ai loro discorsi. Ritornò a guardare il fratello, con un sopracciglio sollevato.
«Quando usi quel tono sei terrificante», gli tenne presente, cercando di dimostrarsi sicuro, come se la cosa non lo sfiorasse.  Vide di sfuggita l'altro vampiro lasciarsi sfuggire una piccola risata mentre continuava il suo lavoro, prima di incrociare a vece del suo padrone il suo sguardo, che sembrava quasi distaccato.
    «Anche voi siete molto terrificante, signorino», replicò, sorridendo. «Suppongo sia una qualità acquisita con i secoli, nevvero?»
    La constatazione strappò al giovane una piacevole e sonora risata. Scrollò le spalle lasciandosi cadere seduto sul bordo del suo feretro scoperchiato, restando a contemplare con un vago sorriso i volti di entrambi, che si erano voltati a guardarlo. «Dovresti saperla bene, tale misera cosa», ribatté in tono spassoso, irradiando quasi calore. «Sei molto più antico di noi». soggiunse, distogliendo lo sguardo per spostarlo all'interno della bara. Allungò distratto una mano e prese ad accarezzare con non curanza l'imbottitura vellutata e setosa, leccandosi appena le labbra come se non attendesse altro che il momento di coricarsi.
    «Ha perfettamente ragione, signorino», rispose l'Invidia, con toni misurati ma comunque divertiti, mentre il sorriso si allargava pian piano sulle sue labbra. «Quasi cinque secoli di vita donano una certa conoscenza profonda, del mondo che ci circonda».
    «Smettetela di parlare, mi fa male la testa», si intromise Edward, con un mezzo sorriso stampato in volto, come se le sue stesse parole gli sembrassero divertenti.
    «Proprio tu non dovresti aver voce in capitolo», sghignazzò il fratello minore, osservando con la coda dell'occhio il vampiro completare la treccia e legarla con un sottile nastro nero. «Pochi giorni fa andavi a caccia con quel prete e ogni volta che tornavate ero io a dovervi sentire».
    «Se perdi tempo ad ascoltarci vuol dire che ti piace, Alphonse», soggiunse poi divertito, con quel falso sorriso bonario dipinto sulle labbra sottili. Il minore tacque e sgranò gli occhi, mentre dietro di lui l'altro vampiro si permise il lusso di una piccola risata, chinandosi verso di lui, quasi a sfiorargli l'orecchio con le labbra.
    «In verità è difficile non sentirvi», replicò con bislacco divertimento.
    Edward si voltò, gettando un'occhiata alle sue polle d'ametista. Allungò disinvolto un braccio per sfiorargli una guancia, allontanando così velocemente la mano da provocargli un piccolo taglio, dal quale subito deterse il sangue, leccandoselo via dalle dita quando l'avvicinò alla bocca. E tutto senza che il vampiro avesse fatto una piega.
«Allora convieni con me che Roy ha una gran bella voce, nevvero?» chiese, divertito quasi quanto lui.
    Il vampiro annuì piano, continuando a far scorrere le mani fra le lunghe ciocche bionde.
«Indubbiamente», lo assecondò, baciandogli poi le punte. «Ma la sua voce quando è in preda all'estasi è di gran lunga molto più eccitante, signorino».
    Dalle labbra di Edward scappò una risata squisita. «Puoi sentirla quanto vuoi, la mia voce», ribatté, lasciandosi sfuggire un gemito languido quando il vampiro gli sfiorò il collo con le zanne. «Ma non sarà mai esclusivamente per te».
    «Mi accontento di poterla ascoltare». Cominciò, sotto tacito consenso del suo padrone, a far danzare le dita sulla pelle ormai scoperta del collo, giocherellando con l'altra mano con la treccia ormai compiuta. E tutto sotto lo sguardo indifferente di Alphonse che, ancora seduto sul bordo del suo feretro, assisteva alla scena in silenzio, come se si aspettasse qualcosa. Catturò ben presto lo sguardo del fratello maggiore, che con un gesto svogliato della mano interruppe le carezze del suo servo, carezze che stavano diventando pian piano più audaci.
    «Lasciaci soli, Envy», disse subito, forse percependo qualcosa nell'aria.
    L'interpellato chinò il capo e indietreggiò verso la porta, sotto lo sguardo attento d'entrambe le creature, una di loro tamburellava distratta con le dita sul bordo del cataletto. Congedandosi, si richiuse la porta alle spalle, cosicché i due fratelli poterono squadrarsi. Ormai nell'aria aleggiava un lieve miasma di malinconia, ma allo stesso tempo denso come il fumo e la nebbia che si intrecciavano in striscioline che si agitavano poi come serpenti prima di dissolversi e creare una nuova danza. Si ritrovarono a guardarsi intensamente negli occhi, e il più giovane si limitò a grattarsi con non curanza il collo, guardando subito altrove.
    Ciò che aveva intravisto negli occhi del fratello non prometteva nulla di buono. Aveva quel sottile velo di terrificante mistero che gli aveva visto non più dieci anni addietro, e stava cominciando a temere che stesse pensando ad altro, in quel momento. Così, decise di concentrare la propria attenzione su altro, guardandosi con distratta consapevolezza la mano destra, prima il palmo, e poi il dorso.
«Sai, mi sono sempre chiesto cosa ci trovi di piacevole a portarti a letto uno del tuo stesso sesso», buttò lì, stringendosi appena nelle spalle. «Da quando c'è quel prete mi sembri quasi... umano».
    Il sorriso che andò ad incurvare le labbra del fratello maggiore gli raggelò il sangue nelle vene.
«Lo considero un complimento, Alphonse», disse mesto, ma alquanto divertito da quella semplice constatazione. «Io mi sento solo e unicamente un mostro».  Il tono della sua voce cambiò radicalmente, divenendo ovattata.  Quasi nostalgica, si sarebbe potuto aggiungere. «Quando sto con lui, il bisogno di sesso e il bisogno di sangue raggiungono una linea di separazione fin troppo sottile», confessò, voltando la testa per osservare le candele accese su uno dei tavolini. Poco dopo, entrarono ancora una volta due vampiri, reggendo fra le mani due tazze. Ne posarono una sul tavolino accanto alla bara del vampiro minore, l'altra invece la porsero referenziali al maggiore, congedandosi con un piccolo inchino.
    Alphonse guardò di sbieco la tazzina e ciò che conteneva, allungandosi poi per prenderla e bere giusto un sorso, storcendo la bocca. La posò immediatamente, sorridendo sarcastico verso l'altro, squadrandolo dall'alto in basso.
«Och, è sempre un piacere sapere certe cose sulla tua cosiddetta vita sessuale», constatò ironico, con un piccolo sbadiglio. «Tu, almeno, qualcuno con cui ti diverti ce l'hai, io l'ho prosciugato quasi la settimana scorsa».
    Incredibilmente, e anche con suo immenso stupore, il vampiro biondo scoppiò in una sonora risata, che vibrò contro le pareti di pietra, rimbombando sinistramente.
«Vedrai, una volta attuato il mio piano sarà tutto finito... tutto», sussurrò spietato, sorridendo con soddisfazione. «Sia la follia di nostro padre, che quella di quei cacciatori».
    «Non vorrai sul serio rivoltare il suo esercito contro di lui, vero, mo bhràthair?» cominciò allarmato, prima di deglutire e ritornare, come ogni qual volta che era nervoso, alla sua lingua. «Chan eil e gòrach, ar n-athair, e-fhèin tuig ro mhath [3]...» Il suo tono stridulo riuscì solo a far ridere Edward ancora di più, tanto che si portò un dito alle labbra per imporgli silenzio, impedendogli di continuare. Le fiamme delle candele tremolarono e si innalzarono stagliandosi contro il soffitto, mentre quelle delle lanterne si spensero del tutto, lasciando solo il penetrante odore dell'olio bruciato.
    Edward restò a guardare il volto sconcertato del fratello per attimi che parvero interminabili, prima che si alzasse in piedi e si dirigesse a passo sicuro verso la porta per lasciarsi a sua volta sprofondare nel riposo diurno. Poggiò una mano contro lo stipite, voltandosi appena, sorridente.
«Ricorda... è un segreto».


ATTO SETTIMO. FINE





[1] Cosa vuoi, Edward? [ Gaelico scozzese ]
[2] Voglio un bacio [ Gaelico scozzese ]
[3] Nostro padre non è stupido, lui stesso sa bene... [ Gaelico scozzese ]




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Capitolo 8
*** In fuga ***


Il figlio delle Tenebre_Act 8
ATTO OTTAVO. IN FUGA


Sheerness, 1892

    Pioveva a dirotto, quella notte.
    I lampi solcavano il cielo illuminandolo a giorno, le chiome degli alberi frusciavano sinistramente al vento che si era alzato e che, fra le vie della cittadina, faceva lievemente sbattere le ante delle finestre delle case e delle taverne. Solo una di esse era illuminata dalla fioca luce delle candele, come se quel rudimentale sistema potesse in qualche modo preservare l'intimità di cui tre uomini, seduti al tavolo d'uno studio, avessero bisogno. Le loro voci erano solo accorati sussurri nella mezza oscurità, le loro parole frasi proibite che solo pochi avrebbero potuto ascoltare o capire.
    Richard reggeva fra le mani una tazza fumante, ascoltando in religioso silenzio come se temesse d'aprir bocca e interrompere così qualche oscuro rito. Un lieve tintinnio d'acciaio echeggiò in quella sala, seguito poi subito dopo da quello d'altri bicchieri che con grazia vennero adagiati sul pregiato tavolino di legno; altre mani s'allungarono ad afferrarne l'estremità prima di portarne il bordo alla bocca e bere giusto un sorso, fermando in un momento di stasi quel discorso che andava ormai avanti da un bel paio d'ore.
    «Tutto ciò che ci hai raccontato non ha alcun senso», disse infine un uomo, con una voce bassa e profonda che sembrò tagliare la quiete in cui la casa aveva fin'ora regnato. Qualche movimento un po' nervoso, un'altra voce che si levava nell'immane silenzio notturno rotto solo dal ticchettio della pioggia contro le finestre.
    «Ero restio a crederci anch'io, almeno finché non mi è stato mostrato ciò di cui vi ho parlato», fu la pacata risposta a quell'affermazione, nonostante il tono sembrasse agitato e frettoloso.
    «Non ti stiamo accusando di mentire, ma comprendi le nostre perplessità».
    Ci fu ancora qualche attimo di silenzio, dopo quelle parole. Ognuno dei presenti parve concentrarsi con meticolosa attenzione sul liquore che lambiva tazze e bicchieri, come se all'infuori di esso non ci fosse null'altro d'interessante. Sfuggì un altro sospiro dalle labbra sottili, prima che quegli occhi incredibili si rivelassero ancora. Un lato del viso era nascosto da ribelli ciuffi di capelli che ricadevano lunghi anche sulle spalle, offuscando alla vista un fitto reticolo di bianche cicatrici che solcavano il lato destro di quel volto quasi segnato dagli anni.
«Tale fenomeno è raro quanto impossibile», riprese lui, rendendo vagamente il tono più alto d'un ottava. «Forse la tua è solo paranoia trasmessa dai tuoi avi, Bradley».
    Richard sussultò, ma fu abbastanza bravo da non darlo a vedere.
«Ti pregherei di non usare il mio nome in luoghi cittadini, Lawrence», ribatté, senza staccare quel suo unico occhio color smeraldo dal viso deturpato del suo interlocutore. «Puoi considerarmi monomane, ma ho le mie buone ragioni per esserlo», s'interruppe un attimo, come se cercasse le parole adatte. «Anch'io ero perplesso quanto voi, ma so cos'ho visto. E quel bambino non era umano».
    «Perché l'hai preso con te avvicinandolo alla tua famiglia, dunque?»
    Una domanda posta così, a brucia pelo, dal terzo uomo che fino a quel momento era rimasto in emerito silenzio. L'occhio verde del Sindaco parve roteare per un attimo, nervoso.
«Di primo acchito, alla somiglianza, il mio pensiero è stato d'ucciderlo», ammise, sentendosi subito dopo un verme. Ben sapeva che loro non l'avrebbero considerato tale, ma per lui era così.
    Una risata priva d'ironia o divertimento si librò per la stanza, simile ad un vento leggero. Lawrence si era lasciato andare ad un breve scampanellio.
«Avresti dovuto farlo», ribatté sicuro, senza alcuna sfumatura nella voce profonda, come se quella fosse stata la voce d'una marionetta.
    Il Sindaco scosse la testa, chinando il capo.
«Ha quasi l'età di mio figlio. E' stato questo a frenarmi».
    «Questo tuo modo d'agire prima o poi ti condurrà alla tomba, Hughes», calcò di proposito il suo falso nome, quasi con scherno, ma lui non vi badò, decidendo d'ignorare quella nota dispregiativa.
    «Non sono venuto qui per chiederti consigli di vita», ribatté schietto. «Voglio sapere se c'è un modo per evitare che la sventura si abbatta su lui e noi».
    Altri attimi carichi di silenzio. Da qualche parte, poco al di fuori dalla cittadina, cadde un fulmine preceduto dal rombo potente d'un tuono e, anche il cielo, parve trattenere il fiato prima che la pioggia riprendesse scrosciante.

    «Su questo non posso aiutarti», si sentì finalmente dire.
«L'unica cosa di cui sono sicuro è che se lo uccidi ora potresti evitare guai in futuro. Hai già concesso troppo tempo a quel bambino».
    «Ti ho ben detto che non voglio arrivare a tanto».
    «Allora goditi questa fittizia semplicità con i tuoi due figli. Ma non dire poi che non ti avevo avvertito». Lo congedò con quelle semplici parole che avrebbero potuto significare tutto o niente.
    Ritornato nella locanda in cui aveva affittato una camera, dopo aver attraversato quasi mezza cittadina fra le strade bagnate e sferzate dal vento, attese il giorno che sarebbe presto giunto con una sorta di bizzarro timore. Avrebbe cercato di trovare una soluzione, sebbene ancora non capisse quale fosse, ma si ripromise che avrebbe salvato a tutti i costi quel bambino.
Per lui era divenuto troppo importante.


    La giornata divenne pian piano uggiosa, satura di pioggia.
    Il debole sole che faceva capolino dalle nuvole, affacciandosi sulla cittadina e rischiarando i contorni di case ed edifici, illuminava fiocamente le stradine dai ciottoli bianchi e le gocce di rugiada delle piante circostanti, mentre fornai e commercianti imperversavano tra le vie, avendo già cominciato tranquillamente la loro giornata di lavoro.

    Non pioveva ancora, ma come di solito accadeva da quelle parti, l'umidità nell'aria non era poca, e le vetrine dei piccoli negozi ai lati delle stradine apparivano lievemente appannate, anche se lasciavano intravedere l'interno e rispettivi bottegai che si affaccendavano dietro i banconi per servire la poca clientela del tardo pomeriggio. L'odore del pane caldo appena sfornato si diffuse nell'aria misto a quello dolce ed ebbro del vino, il profumo dell'erba umida aleggiava tra le strade insinuandosi nelle case, e gli abitanti che le popolavano si apprestavano a preparare la cena per la sera. Quei pochi contadini che vivevano al villaggio erano usciti di primo mattino dal focolare domestico con zappe e cappelli di paglia per proteggere la testa dal possibile sole che poteva presentarsi, insinuandosi a loro volta fra i viottoli per dirigersi ai frutteti o ai campi di grano. Anche i locandieri avevano già aperto bottega da molto, e gli uomini che avevano preso posto ai tavoli chiacchieravano sommessamente tra loro di ciò che poche sere addietro era successo.
    Girava il pettegolezzo che le spaventose creature che avevano portato morte e terrore nella cittadina fossero ricomparse, ma erano pochi coloro che credevano a tale voce, ma altrettanti avevano udito le parole di chi li aveva incontrati in quei giorni: c'era chi diceva di averli visti nei campi e addirittura chi li aveva visti aggirarsi tranquillamente fra le strade buie, senza far il minimo rumore. Si vociferava d'apparizioni e di spettri, di urla gutturali che si sentivano provenire dalla vecchia Chiesa al limitare del villaggio, persino di macchie di sangue intraviste fra la vegetazione. Tali voci erano subito state messe a tacere dal Sindaco, che sembrava intenzionato a non lasciar assolutamente trapelare la notizia.
    Nonostante le dovute precauzioni, però, erano ancora in molti coloro che aizzavano l'argomento, soprattutto a causa dell'aria sconvolta della figlia dei defunti Rockbell e delle parole che ripeteva in continuazione da quando era successo. Non aveva voluto parlare con nessuno di ciò che aveva visto, ma aveva solo continuato a mormorare
«E' tornato» senza riuscire a dare spiegazioni ad anima viva. Per quanto ci fosse il divieto assoluto di parlarne, l'argomento trattato da quegli uomini nella locanda era esattamente quello. Vampiri.
    A quell'ora, su per giù le sei e mezza, le sette, la sala
principale della piccola locanda era affollatissima, calda e rumorosa, confortevole riparo per chi voleva proteggersi da un possibile acquazzone o per chi aveva voglia di sparlare di creature della notte. La locanda ospitava interessi di svariato tipo, da semplici persone che si intrattenevano per bere un bicchiere in compagnia dei propri amici ad uomini che chiacchieravano sottovoce di quella strana situazione, stando attenti che nessuno li sentisse.
    Quando la porta della taverna s'aprì per l'ennesima volta, molte teste si voltarono curiose per capire chi era entrato, e d'un tratto si zittirono per evitare richiami.
Il nuovo arrivato si fece spazio con la sua scorta in mezzo alla ressa della taverna, dove andò dritto al suo solito tavolo seguito dal suo accompagnatore. Squadrò, attraverso gli occhiali, i presenti per pochi secondi, quasi cercando di scrutare dentro di loro. Se li sistemò poi con un gesto svogliato della mano poggiando appena il dito indice sulla montatura, dirigendosi poi al bancone senza degnar più gli altri di uno sguardo.
    Il locandiere l'osservo quasi con un cipiglio divertito, mentre puliva distratto uno dei bicchieri.
«Il solito, Sindaco?» fece in tono spassoso, ricevendo uno sguardo smeraldo quasi assente. Quest'ultimo si strinse nelle spalle, annuendo e sorridendo appena.
    «Fa' portare qualcosa di caldo da Rose», rispose invece, mentre con la coda dell'occhio non perdeva di vista la figura dell'altro, che si era frattanto accomodato al tavolo. «Fuori si gela, ne avremmo davvero bisogno».
    «Lo consideri già fatto», replicò il locandiere, osservandolo allontanarsi e spostare la sedia per accomodarsi di fronte al biondo, che stava già bevendo un po' di whisky. Restarono entrambi in emerito silenzio fino a quando una ragazza, di vent'anni o poco più, con i lunghi capelli scuri legati in una coda e un grembiule a cingerle i fianchi, portò loro da mangiare non più di dieci minuti dopo.
    Per un po' si concentrarono sui bassi mormorii che si accalcavano al lato opposto della taverna, dove un uomo corpulento agitava svogliatamente una mano grassoccia in direzione altri due che lo ascoltavano attenti, lanciandosi di tanto in tanto sguardi obliqui. Ritornarono in breve a rivolgere la loro attenzione sulla ciotola
che avevano davanti, affondandovi i cucchiai quasi in contemporanea.
    «Che faremo, adesso?» chiese Havoc, assaggiando appena il suo porrige. Una domanda che anche il Sindaco si stava ponendo da quella mattina, ma che solo lui ebbe il coraggio d'esprimere a parole.
    Hughes lo squadrò un po' senza aprir bocca, poi scrollò le spalle.
«Davvero non lo so», fece semplicemente, inzuppando una fetta di pane nella sua ciotola prima di dargli un bel morso. «Potremo provare a farlo collaborare con la forza, ma non sono sicuro che questa sia la soluzione migliore».
    «Nessuna è la soluzione migliore, in realtà», gli tenne presente, fissando con finto interesse il suo cibo; sospirò amaramente, con il tepore del fuoco che si diffondeva in tutto l'ambiente in cui si trovavano riscaldando piano anche lui. Allungò distratto un braccio per prendere la caraffa di vino e riempirsi il bicchiere, bevendo un lungo sorso mentre faceva vagare lo sguardo sulla taverna, vedendo altre persone entrare, avvolte nei cappotti scuri e umidi. Quando lo posò, riprendendo a mangiare piano, rivolse un piccolo sguardo anche al Sindaco. Intorno a loro, da quella mattina, si era creata una bizzarra sorta di tensione che si increspava sempre più come un'onda anomala. «Mi spieghi perché vuoi tenerlo in vita?» gli bisbigliò, la voce chiara e udibile nonostante il brusio che regnava nella locanda. «Non vuoi ucciderlo ma vuoi torturarlo? È assolutamente privo di senso, il tuo ragionamento. E' una cosa inumana».
    Rigirando distratto la zuppa che ancora troneggiava nella sua scodella, Hughes trasse un lungo sospiro abbandonando ancora una volta il cucchiaio, gettandosi un'occhiata intorno prima di ritornare ad osservare attentamente lui.
«L'ho creduto morto per dieci anni, Jean», mormorò pacatamente, quasi sottovoce, scuotendo debolmente la testa. «Quando l'ho rivisto... non so cosa ho provato. Qualsiasi cosa sia diventato adesso, non riuscirei davvero a sparargli al cuore e vederlo diventare polvere sotto i miei occhi».
    «Lo sai che ciò che stai ritardando succederà comunque, vero?» fece quasi con voce ovvia il biondo, restando poi in silenzio ad osservare il volto vacuo dell'amico, aspettando che si decidesse a dire qualcosa o a ribattere le sue parole, ma non aprì bocca per un po', così si limitarono solo a guardarsi di tanto in tanto, intenti a finire il loro cibo mentre il caldo e il chiacchiericcio sommesso delle persone lì presenti si diffondevano piacevolmente intorno a loro.
    Guardatosi intorno, Havoc trasse un lungo sospiro, prendendo dal taschino del cappotto il suo solito pacco di sigarette, non trovandone nemmeno una.
 Aveva davvero bisogno di un tiro. «Cazzo», imprecò fra i denti abbandonando ben presto il pacchetto, lanciandolo sul tavolino; cercò nelle tasche l'accendino, facendolo scattare di continuo prima di provare ad accendere la piccola fiammella che non si accese. Lanciò anche quello sul tavolino, alzando esasperato lo sguardo al soffitto. «È anche finito il gas», si lagnò, vedendo con la coda dell'occhio Hughes sollevare ironicamente un sopracciglio. Sventolò poi una mano, sistemandosi con l'altra gli occhiali sul naso.
    Presto, Maes si riconcentrò distratto sul suo piatto rigirando il porrige nella ciotola con scarso entusiasmo, scansandolo poi lontano da sé per allungare un braccio e riempirsi un bicchiere di vino. Lo ingollò tutto senza nemmeno gustarlo, chiedendosi distrattamente se le cose fossero state diverse, se avesse cambiato tutto dieci anni prima, conoscendo ciò che era. Non avrebbe lasciato che suo padre vagasse da solo per la foresta, prima di tutto. L'avrebbe invece aiutato a liberarsi di quei mostri e, in particolar modo, il suo amico e fratello non avrebbe subito quel destino. Chissà se sarebbe mai riuscito a farlo tornare la persona che era stata una volta. Quell'uomo che si imbarazzava nel parlare di argomenti per lui, in un certo qual senso, proibiti.
    Un altro flebile sospiro gli sfuggì dalle labbra, giusto qualche attimo prima che la porta della locanda si aprisse nuovamente facendo entrare un vecchio e un altro uomo, che riconobbero come Breda non appena si fu avvicinato maggiormente. Li salutò con un gesto distratto della mano, scansando la sedia per accomodarsi a sua volta.

    «Sera», fece mesto, guardando quasi con interesse uno dei bicchieri di vino. Non chiese nemmeno, afferrò quello del biondo e lo ingollò tutto sotto il suo sguardo accigliato, contornato da un sopracciglio sollevato.
    «Prego, Heymas, fai pure», replicò sarcastico, poggiando un gomito sul bordo del tavolo.
    Il ramato gli lanciò un'occhiata, e dopo aver posato nuovamente il bicchiere, si leccò le labbra, rilassandosi sullo schienale.
«Grazie tante, ci voleva», ironizzò a sua volta, prendendolo in giro e guadagnandoci un'occhiataccia a cui non diede peso. «Bando alle ciance, comunque, dovete spiegarmi questa storia», soggiunse, assottigliando la voce per evitare che altri sentissero.
    I due interpellati si lanciarono uno sguardo che avrebbe potuto dire tutto, ma fu il Sindaco a parlare, dopo aver tratto un lungo sospiro.
«Hai ben visto chi abbiamo prigioniero, giusto?» bisbigliò, sporgendosi appena verso di lui.
    Breda annuì nervoso, gettandosi un'occhiata intorno per assicurarsi che i presenti si stessero dedicando ai loro affari e non prestassero loro attenzione.
«E' questo che non mi spiego... com'è possibile che sia proprio lui?» chiese in risposta.
    «Nemmeno io riuscirei a dare una spiegazione plausibile», rispose, stringendosi nelle spalle. «So solo che lui forse potrebbe esserci in qualche modo d'aiuto».
    «È un vampiro, Hughes», gli fece notare, con velato sarcasmo. «Come può una simile creatura esserci d'aiuto? Quello che può fare è ammazzarci tutti, non aiutarci».
    «È quello che continuo a ripetergli anch'io», si intromise Havoc nel discorso, riprendendo il suo bicchiere per riempirlo ancora un po' di vino.
    Il Sindaco non gli prestò la minima attenzione, lanciandogli appena uno sguardo d'ammonimento.
«Sa dove quegli esseri riposano», spiegò pronto a Breda. «Ci sono momenti in cui appare confuso e altri invece in cui non sembra neanche umano, ma sa qualcosa».
    «Non è detto che te lo riveli, o sbaglio?» replicò ancora una volta Heymas, scuotendo debolmente la testa per tutta quella situazione.
    Hughes restò in silenzio, con lo sguardo puntato sul bicchiere mezzo vuoto.
Prese poi a mangiare ancora un po' limitandosi ad inghiottire qualche morso di pane casareccio evitando di guardare negli occhi entrambi, a disagio e non poco.
    «La colpa è del prete», buttò lì tranquillo Havoc, e Hughes scattò subito in piedi, squadrando il biondo con uno sguardo indecifrabile.
    «Maledizione, Jean, Roy non c'entra nulla!» esclamò, richiamando l'attenzione di un bel po' di uomini. Questi ultimi cominciarono a borbottare fra loro lanciandogli di tanto in tanto degli sguardi, come per capire perché, dopo tanti anni, il nome del prete - che sapevano essere morto - sfuggisse dalle labbra del loro Sindaco.
    Havoc lo ammonì con lo sguardo, fulminando tutti gli altri che si voltarono e fecero finta di nulla.
«Maes, siediti», quasi gli ordinò, chiamandolo per nome. «Cerca di mantenere la calma, non risolvi nulla alzando la voce a quel modo».
    Il Sindaco deglutì, cercando di non dare a vedere il suo nervosismo. Poi, annuendo pian piano, ritornò a sedersi, con le mani abbandonate in grembo. Per minuti che parvero interminabili si limitò a squadrarli, per trarre poi un profondo sospiro. «Hai perfettamente ragione, scusami», disse, con in volto l'espressione di chi era stato costretto ad inghiottire un rospo. «Ma non sopporto che gli si venga affibbiata una colpa che è solo mia». Gli altri due gli lanciarono sguardi confusi e quasi compassionevoli, indecisi se parlare a meno. Uno di loro deglutì, poggiando entrambe le mani sul bordo del tavolo prima che il Sindaco continuasse il suo piccolo monologo. «Sarei dovuto andare con lui e fermarlo, non dovevo lasciarlo andare da solo», mormorò, con voce inconsapevolmente sussurrante. «Quei mostri l'hanno preso solo per colpa mia. Anche mio padre ha subito un destino impervio per colpa della mia ignoranza».
    «Non angustiarti così, Hughes», lo ammonì sottovoce Breda, con la fronte corrugata dalla preoccupazione. «Non potevi sapere ciò che eri, a quel tempo».
    «Questa non è una cosa che possa discolparmi».
    Non fiatarono oltre. Presero solo a concentrarsi sul loro cibo, riflettendo per un bel po' di tempo su ciò che avrebbero dovuto fare adesso, ma nessuno di loro avrebbe saputo cosa fare, in realtà. Ucciderli sarebbe stato facile se li avessero scovati? O sarebbero stati loro stessi, a perire sotto quelle mani immortali?

    Nemmeno loro seppero dire quanto tempo rimasero al caldo nella piccola locanda, ma quando uscirono, videro che il tempo s'era annuvolato e aveva cominciato a piovere a dirotto. L'aria era quasi sul punto di riempirsi di nebbia, che aveva cominciato a riversarsi nella valle dalle cime delle montagne che sorgevano a nord.
La gente presente nelle strade e nel mercato cominciò ad affrettarsi ad abbandonare le vie più in fretta che potevano con un chiacchiericcio sommesso e sciabordioso, con l'acqua che scendeva gorgogliante lungo i canali ripulendo le strade e diffondendo nell'aria umidità e pulizia, sebbene il frastuono dei primi tuoni sovrastasse qualsiasi altro rumore. I ritardatari cercavano riparo al di sotto dei piccoli portici delle altre case sguazzando anche nelle pozzanghere che in breve cominciarono a crearsi, quasi rischiando di impantanarsi negli spiazzi verdi e fangosi disseminati un po' dappertutto.
    Lui, invece, si stava recando insieme ad Havoc e Breda verso la stradina sterrata e fangosa, a coprirli solo i loro giacconi che non riscaldavano affatto. Per pochi minuti, furono accompagnati nella loro traversata persino da un cane che cercava riparo, vedendolo di sfuggita sfrecciare come un'ombra nera dinnanzi a loro e scomparire verso punti sconosciuti della cittadina. Gettando sguardi ai suoi compagni, Hughes si portò una mano a coprire il capo, i capelli completamente inzuppati gli si incollavano alla fronte gocciolando lungo il colletto della camicia, confondendosi con i rivoletti creati dalla pioggia, facendogli correre continui brividi lungo la schiena. Tossendo e starnutendo, si strofinò il naso con una mano umida e bagnata, ottenendo solo di bagnarsi maggiormente il volto. Sentiva persino l'acqua inzuppargli le scarpe. Era la prima volta che si ritrovava in un acquazzone del genere.
    Tremando dalla testa ai piedi, con i vestiti completamente zuppi, giunsero finalmente dinnanzi agli enormi portoni dell'Abbazia, che in quel crepuscolo uggioso appariva tetra e spaventosa quasi quanto il maniero in cui si erano ritrovati sere addietro. Quando vi entrarono, videro che la pioggia si era riversata sulla pavimentazione marmorea mescolandosi con le vetrate colorate che quella stessa mattina si erano infrante, e stava ancora continuando incessantemente a scrosciare all'interno della Chiesa. Il grande altare e la croce erano completamente umidi, ed entrambi rassomigliavano a piccole cascate che traboccavano quasi pigramente creando pozze tutt'intorno.
    Con il cuore in gola per l'ennesimo incontro che lo aspettava con il vampiro, Hughes fece cenno agli altri di seguirlo più silenziosamente possibile, anche se lui stesso sapeva che sarebbe stata inutile, tutta quella cautela. Colui che aveva l'aspetto di suo fratello era capace di leggere nei pensieri delle persone, e sarebbe stato pronto a scommettere che poteva anche udirli benissimo; ma si arrestarono tutti non appena si avvicinarono maggiormente alle panche disposte sul lato destro e sinistro della grande sala, gli occhi di tutti sbarrati e stupefatti.
    Havoc si accostò di corsa alla prima fila, restando immobile ad osservare le corde ridotte a brandelli che giacevano a metà tra il pavimento di marmo e la panca di legno.
«Lo sapevo, dannazione!» imprecò, passandosi furente una mano fra i capelli bagnati, scompigliandoli e facendo schizzare goccioline ovunque. «Quel vampiro è sparito!»
    Anche Hughes e Breda si mossero fulminei avvicinandosi, senza proferir parola mentre si guardavano ansiosi e quasi sconvolti intorno, alla vana ricerca del moro. Vagarono con gli occhi per ogni angolo della Chiesa, sondando le colonne e alzando lo sguardo per controllare le nove arcate e le volte a vela, nel tentativo di scorgere un minimo movimento, un'ombra più scura delle altre, ma non c'era nulla. Assolutamente niente.
    L'attenzione di Breda ritornò angosciata sul volto di Hughes e quello di Havoc, che si era chinato a raccogliere le corde e le fissava con uno sguardo indecifrabile, come se non credesse ai propri occhi.
«Come diavolo ha fatto?» domandò stupidamente, conscio che come lui, i suoi due compagni non avevano una risposta plausibile.
    Il silenzio regnò fra loro per minuti interminabili, a riempirlo c'era solo l'insistente scrosciare della pioggia e i rombi indistinti dei tuoni in lontananza.
 Assolutamente immobili dov'erano, non facevano altro che far scorrere lo sguardo sulla zona circostante o sul loro aspetto scarmigliato, dove i rivoletti d'acqua scorrevano ancora pigramente fra i loro capelli e sul loro viso. Poi, d'improvviso, una fioca risata rimbombò tra le vaste arcate della cappella, esplodendo ben presto in un tumulto d'acqua e vetri infranti. Persino la cupola che era sopra di loro si ridusse in frantumi, e dovettero portarsi le mani a coprire la testa per proteggersi dalla pioggia di vetri che si era creata e confusa con quella circostante.
    Gli occhi dei tre scattarono serpentini verso l'alto quando essa terminò e, precisamente tra l'architrave e il ballatoio, accucciato come un grosso gatto, lo videro.
Sorrideva sensuale e incantatore, i capelli gli ricadevano bagnati sul viso e sulle spalle, la camicia leggera che indossava gli si era incollata alla pelle, mettendo così in risalto la muscolatura slanciata che aveva ottenuto in quegli anni.
    Le iridi e le orbite erano completamente nere, tanto che sembrava osservarli attraverso pezzi di carbone assolutamente vuoti e senza vita, mentre un'altra flebile risata gli sfuggiva dalle labbra pallide e quasi rosate e si librava leggera nell'aria. Stregò tutti i presenti con quella risata, sedendosi disinvolto sul ballatoio. Con le mani poggiate sul bordo di esso, sostenne il suo intero peso senza sforzo
alcuno, accavallando le gambe e inclinando amabilmente la testa di lato, su una spalla. Sembrava un bambino che si apprestava tranquillo a giocare.
«Avete perso qualcuno, per caso?» chiese con voce ammaliante, alzando quasi svogliato un braccio per portarsi i lunghi capelli dietro alle orecchie, in modo che non gli dessero fastidio.
    Nell'osservarlo, i cuori dei presenti parvero accelerare inesorabilmente i battiti, e fiutando la loro paura mista allo sgomento, il vampiro non poté far altro che ridere ancora. Quella risata cristallina guizzò nella cappella fin sopra l'altare, dove lui stesso si ritrovò subito dopo con un balzo felino, una figura nera e immobile come una statua di marmo. Ma ciò che rendeva la scena suggestiva, non era solo il suo aspetto incantatore, ma tutto l'insieme degli strani eventi che si stavano susseguendo: i capelli fluttuavano intorno al suo viso come se avessero vita propria, docili e leggiadri, mentre l'acqua, che fino a poco prima scorreva dall'altare di marmo, era bloccata in un momento di stasi, come in un dipinto. Persino la pioggia che entrava dalle vetrate era immobile, si riuscivano a scorgere le goccioline di cristallo che riflettevano come piccoli specchi gli occhi scuri e il viso immacolato del prete. O meglio, del vampiro.
    Fu Hughes il primo a riprendersi parzialmente da quella scena mozzafiato. Si arrischiò a fare un passo avanti, stando attento a non avvicinarsi troppo all'altare. «Roy, vogliamo solo aiutarti!» esclamò con voce rassicurante, nel tentativo di farlo scendere da quel suo piedistallo per legarlo ancora una volta. Le sue parole, però, gli provocarono un'altra profonda risata.
    Il moro allargò le braccia e mise in mostra i muscoli sodi che guizzavano al di sotto della camicia ormai aderente, sorridendo con più crescente passione mentre si alzava in piedi sull'altare e puntava lo sguardo verso la grande croce di legno, che sembrava non temere più.
«E cosa potreste mai fare?» chiese con voce calda e sicura, gorgogliante. «Cosa vi da la convinzione di riuscire a salvare un'anima come la mia? Non ci è riuscito nemmeno il Dio a cui ero tanto devoto, come potreste mai farlo voi? Volete per caso sostituirvi a lui?»
    «Non dire così, ti prego!»
    «Maes, Maes, Maes», lo ammonì tranquillo il vampiro, agitando distratto un dito mentre scuoteva al contempo la testa. «C'è qualcosa, qualcosa d'oscuro in me che non comprendo. Ma quando ci riuscirò, forse capirò anche perché mi hanno risparmiato, perché non ho fatto la stessa fine di molti che li hanno incontrati tempo addietro».
    «Roy... ti supplico», riprovò Hughes, sentendo le lacrime minacciare di rigargli il volto. Da quella mattina era cambiato moltissimo, quasi non sembrava più nemmeno lui.
    «Non supplicarmi, Maes», disse sorridendo. «Non sono Dio».
    Roy si lasciò andare ad una risata liberatoria, dopo aver pronunciato quella frase. Flettendo il corpo, sembrò racchiudersi in se stesso, con la testa incassata inverosimilmente nelle spalle, prima che si gettasse in avanti e artigliasse le travi che sorreggevano il ballatoio, guardando in basso in precario equilibrio. Rise ancora nell'incontrare l'espressione sconvolta di quei volti, allentando la presa e lasciandola poi del tutto, voltandosi di schiena a braccia aperte. E prima che il suo corpo si schiantasse contro la pavimentazione, si girò atterrando su entrambi i piedi, quasi in ginocchio, proprio in mezzo a loro.
    Nell'impatto, la pavimentazione si era incrinata e sollevata, rompendo gran parte delle mattonelle e costringendo i tre uomini a scattare rapidi all'indietro per evitare i frammenti che si disperdevano furenti insieme alle gocce di pioggia e alla polvere, senza che scalfissero minimamente il vampiro. Lui li guardò con gli occhi d'onice innocenti quanto vuoti, prima di sparire completamente alla loro vista come risucchiato dall'oscurità.
    Fuori, finalmente, inspirò a fondo l'odore dell'umidità che circondava lui e la vegetazione, l'odore della terra bagnata dalla pioggia, spostandosi rapido e con un balzo aggraziato su uno dei tetti in legno delle sobrie case, favorito dalle tenebre che imperversavano sul paese. Un piacevole sorriso si fece largo sulle sue labbra, mentre faceva vagare lo sguardo d'onice sui dintorni di quella cittadina che gli sembrava vagamente familiare. Sotto di lui, le voci indistinte degli uomini che aveva appena seminato.
    Si ritrovò a ridere alle parole che pronunciavano e che riusciva ad udire perfettamente, come se fosse lì giù, accanto a loro. Divertito si lasciò cadere seduto sul tetto, con la testa sorretta appena su una mano mentre l'altra era abbandonata su un ginocchio, gli occhi scuri puntati giù, verso le stradine. Uno degli uomini, quello con i capelli rossi, stringeva fra le mani una pistola d'argento e
, nonostante il suo odore fosse quello d'un uomo terrorizzato, sembrava più che intenzionato ad usarla. Quando li sentì parlare di sé e del suo Signore, assottigliò lo sguardo facendo vibrare e tremare le assi di legno del tetto sul quale era seduto, serrando una mano lungo il fianco e mordendosi nel contempo il labbro inferiore.
    L'insanabile impulso di balzare tra loro e squarciare quelle gole per berne il sangue serpeggiò malevolo nel suo animo, ma a trattenerlo fu l'anima pia che ancora non era riuscito a scacciare e che lo costrinse a restare immobile su quel tetto, ad osservarli.
«Basta», intimò a se stesso, chiudendo gli occhi scuri. «Lasciami in pace, vattene». Ma quel qualcosa che si agitava in lui non accennava a scomparire. Artigliò una delle travi di legno, strappandola dalla sua postazione con uno schianto secco che risuonò come lo spezzare d'un osso, e che richiamò l'attenzione degli uomini nelle vie.
    «È lassù!» sentì gridare da uno di loro, e riaprì di scatto gli occhi, rimettendosi in piedi giusto qualche attimo prima che una pallottola lo colpisse al braccio sinistro.
    Mostrò le zanne a chi aveva sparato, vedendo il suo viso deformato in una maschera di sagacia. Era il biondo che non vedeva l'ora di piantargli un proiettile in corpo.
«Non farmi fare cose che non vorrei, Havoc!» tuonò inconsapevolmente, dissolvendo la pioggia insistente che ancora cadeva, come se fosse avvolto in una bolla di vapore. Li vide tapparsi le orecchie e contrarre i volti in smorfia di dolore, forse feriti da quell'urlo disumano che si era lasciato sfuggire.
    Tutto parve passare in un lampo, e un altro colpo risuonò vicinissimo al suo orecchio.
Le polle d'onice si infiammarono di furia selvaggia, mentre snudava le zanne e fletteva l'intero corpo in giù, vero il suo obiettivo, che stava già impugnando l'arma pronta a far fuoco. Balzò giù dal tetto e gli si avvicinò così velocemente che né Havoc né gli altri poterono fare qualcosa; il primo dilatò gli occhi per la sorpresa quando sentì un qualcosa d'acciaio artigliargli ferocemente il braccio, che prese a sanguinare copiosamente sotto il suo sguardo sbarrato e confuso. Non ebbe nemmeno il tempo di gridare per il dolore, tanto il colpo era stato fulmineo.
    Stornò bruscamente lo sguardo vedendo la mano del vampiro sporca del suo sangue, e indietreggiò sul terreno con il fucile puntato verso la creatura, che si stava ripreparando ad attaccarlo; ma, inverosimilmente, gettando un altro sibilo e fissando tutti con quegli occhi inespressivi, spiccò un salto deciso e veloce verso la foresta, lasciandoli lì
ad affogare nella loro sofferenza. Schivò un ramo con un balzo leggiadro di lato, riprendendo la sua traversata con slanci felini e sicuri, sfrecciando come se nulla fosse fra quelle fronde che al suo passaggio si muovevano lievi come mossi da un flebile vento, e che si richiudevano quasi con delicatezza dietro di lui, frusciando appena.
    Qualcosa, però, gli dardeggiò d'improvviso dinanzi agli occhi.
Atterrò pesantemente al suolo, con le mani poggiate sul terreno umido, quasi artigliandolo, puntellandosi su un ginocchio. Il suo corpo tremò e fu percorso da continui brividi e spasmi, la colonna della gola si contrasse, gli occhi fissarono un punto indefinito oltre il bosco. Cominciò a gettare sguardi disorientati fra la vegetazione, con una mano premuta contro la tempia, e prese a sussurrare tra sé e sé parole incomprensibili, sicuro che quella che sentisse fosse paura. Tentò di rimettersi in piedi e si guardò intorno con occhi vacui e lontani, mentre le gengive cominciavano a fargli sempre più male, e il sangue gli pulsava contro le tempie doloranti. Fu colto da una contrazione allo stomaco che lo costrinse a piegarsi in avanti con un rantolo sommesso, stringendo i denti.
    La testa aveva cominciato a dolergli in maniera indescrivibile; l'addome prese ancora una volta ad attorcigliarsi, e scosso da brividi violenti e dai crampi, sferzò l'aria con un braccio, nel tentativo di scacciare le sagome che vedeva dinnanzi a sé, solo entità fatte di fumo e nebbia che imperversavano nei suoi occhi. I sussurri della notte gli giunsero da punti lontani, mescolati d'improvviso con le solite voci che sentiva da più di dieci anni, e ancora una volta sentì quello strano dolore che gli colpiva il petto e il collo, quel freddo pungente che lo avvolgeva in un perpetuo ed eterno gelo, mentre polle d'ambra si facevano largo nelle tenebre che vedeva davanti agli occhi e il braccio si muoveva da solo in avanti, come a voler afferrare qualcosa che non c'era...

«La morte rende tutto più bello».

    Ringhiò in preda alle vertigini.
Si lasciò docilmente cadere a terra, completamente in ginocchio, mentre le mani artigliavano sempre di più il terreno bagnato e alle narici gli giungeva quell'odore penetrante d'umidità. Gli parve di star rivivendo quel momento. Conosceva quella radura, conosceva il freddo che gli avvolgeva il corpo, e anche il sentore improvviso della ruggine gli era familiare. Era il suo stesso sangue quello che sentiva!
    In preda al panico, gettò un'occhiata al suo corpo, cominciando a privarsi della camicia che indossava, lacerandola con mani ormai divenute artigli; sondò con lo sguardo ogni muscolo, ogni lembo di pelle, non trovando nulla. Nemmeno una ferita, solo la pelle bianca e marmorea bagnata dalla pioggia. Respirò a pieni polmoni, deglutendo mentre si lasciava cadere disteso all'indietro abbassando le palpebre, incurante dell'erba bagnata dietro alla schiena nuda. Quando aprì pian piano gli occhi, il battito del suo cuore era tornato stabile, e persino le vertigini e quello strano dolore si erano affievolite. Non sentiva neanche l'odore del sangue.
    Roy si rimise debolmente in piedi
, guardandosi intorno come se non capisse. Cosa diavolo gli era successo? Scosse con impeto la testa decidendo di riprendere svelto a correre per raggiungere colui che avrebbe saputo dargli una spiegazione, divenendo una sagoma scura che sfrecciava solitaria tra la boscaglia, lontana da ogni forma d'umanità.
    Fruscii e flebili rumori notturni si innalzavano dal sottobosco al suo passaggio, e le foglie bagnate dalla pioggia che era caduta in quei giorni si accartocciavano sotto i suoi passi sempre più veloci, sempre meno percettibili agli abitanti che popolavano quella foresta, ora nascosti per l'aver fiutato il possibile pericolo nell'aria. La brama di sangue aleggiava intorno alla creatura che non arrestava la sua corsa, spiccando balzi sia fra gli alberi che sul terreno, mentre la notte sempre più fitta inghiottiva tutto il resto nel suo manto oscuro puntellato di frammenti di stelle.



ATTO OTTAVO. FINE



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Capitolo 9
*** Ombre di ricordi ***


Il figlio delle Tenebre_Act 9
ATTO NONO. OMBRE DI RICORDI


Nei pressi di Sheerness, 1612

    Le sue palpebre ebbero un momentaneo tremito prima di riaprirsi.
    Vedeva tutto sfocato a causa del sonno ma, quando una delle sue mani sfiorò il corpo che occupava il lato destro del suo letto, aprì di scatto gli occhi, registrando l'immagine di Roy che, con le labbra schiuse e i lunghi capelli scuri sparpagliati sul bianco cuscino, ronfava beatamente con in volto un'espressione serena.
    Edward deglutì e si sedette sul materasso, guardandolo ad occhi sbarrati. Che ci faceva lì, in camera sua, nel suo letto? La camera in cui avrebbe dovuto stanziare con suo padre quella notte era ai piani inferiori, verso il lato ovest del maniero dove poco distante c'erano quelle della servitù... perché era ai piani superiori? Voleva chiederglielo, ma aveva il timore di svegliarlo, quindi si limitò ad osservare la sua figura dormente: piacevolmente rilassato e con un sorrisino dipinto sulle labbra, il moro era perfettamente immobile sul suo letto, le forme sinuose del suo corpo erano nascoste dal lenzuolo leggero.
    Edward sentì una strana inquietudine e allungò titubante un braccio verso di lui, scostandogli delicato i capelli dal viso; lo vide sorridere maggiormente e muovere un po' la testa, come se cercasse di strusciarsi contro di lui. Così immerso nel regno dei sogni sembrava davvero indifeso. Quasi stentava a credere che fosse il ragazzo sfacciato che si rivelava essere da sveglio. Poggiò un gomito sul materasso in modo da sorreggersi il volto sul dorso della mano per guardarlo meglio, mentre con l'altra si curava di lisciargli quei fini capelli di seta nera che molto raramente scioglieva quand'era in pubblico. E, doveva ammetterlo, era la prima volta anche per lui vederli ricaduti sulle sue spalle.
    Edward stava per scendere ad accarezzargli una guancia quando vide le palpebre dell'altro tremare e aprirsi, per rivelare quei profondi pozzi scuri dei suoi occhi; ritrasse immediatamente la mano, rialzandosi a sedere così in fretta che persino lui avrebbe stentato a credere alla sua velocità.
    Un sorriso incurvò le labbra di Roy e, in silenzio, si drizzò a mezzo busto per far sì di avvicinare i loro volti e le loro labbra, sfiorandole appena. Notando lo sguardo confuso e sconcertato del compagno, che ancora cercava di ricomporre la sua solita espressione, ridacchiò
, sedendosi sul materasso e stiracchiandosi tranquillo. Sempre con quel sorriso che non gli abbandonava quasi mai le labbra si grattò distratto dietro al collo, prima di lanciargli un'occhiata obliqua che accentuò il taglio dei suoi occhi a mandorla.
    «
Buongiorno», si limitò a dire in tono divertito, senza perdere di vista la mimica facciale del biondino, il cui volto tendeva vagamente al porpora. «Parlando con i vostri domestici ho scoperto che appena sveglio ti piace coccolarti con del cioccolato», sghignazzò dolcemente sulle sue labbra, prima di allontanare il viso e guardarlo negli occhi con un sorriso. «Proprio come se fossi una ragazzina», continuò, sempre più divertito dall'espressione del biondo. «Ma, in mancanza di cioccolato, ci sono io a coccolarti». Cominciò a mordicchiargli delicato le labbra come se cercasse di spronarlo, premendogli una mano dietro al capo per attirarlo maggiormente verso di sé, approfondendo il contatto, ma non vedendolo contraccambiare e sentendolo rigido come un pezzo di ghiaccio, si allontanò corrucciato incrociando braccia e gambe sul materasso, con le sopracciglia aggrottate. «Come sei freddo, stamani», borbottò, ma il tono era vagamente spassoso.
    Riscossosi dalla confusione iniziale, Edward indietreggiò nuovamente sul materasso, guardandolo come per cercare di capire qualcosa che lui stesso non riusciva a comprendere esattamente. Già quando si era svegliato e l'aveva trovato accanto a sé si era sentito strano, nel guardarlo. Non aveva nemmeno resistito ad accarezzargli i capelli. Figurarsi se avesse provato a far altro. Se si fosse avvicinato, provando a baciarlo... e lui si fosse svegliato? Non sarebbe riuscito a guardarlo più in volto, poco ma sicuro. Non tanto per il bacio, ma forse per il gesto. Nemmeno lui sapeva esattamente perché.
    Si distolse dai suoi pensieri solo quando lo vide alzarsi dal letto per rimettersi in piedi e stiracchiarsi, e lo sguardo gli cadde quasi involontariamente sul suo corpo, passando dalle spalle possenti coperte da una leggera camicia bianca per scendere verso le cosce muscolose e ben proporzionate, arrossendo ancor più vistosamente quando lo vide solo in intimo.
«E... e i calzoni?» chiese flebile, ricevendo un'occhiata.
Roy squadrò il proprio corpo confuso e perplesso, ritornando a guardare il ragazzo con un sopracciglio scuro finemente inarcato.
«Tutto qui quello che hai da dirmi?» replicò, facendo il finto offeso. In realtà sapeva bene quanto fosse timido quel ragazzo biondo che adesso stava squadrando, più timido persino di una fanciulla illibata, avrebbe osato dire.
    «M-Ma sei in... intimo!» ribatté Edward, e l'altro si trattenne dal non ridere, limitandosi appena a sollevare un sopracciglio.
    «Non sono mica nudo», fece con un'alzata di spalle, sbattendo perplesso le palpebre. «E anche se lo fossi, che cambierebbe? Tu ti vedi nudo tutti i giorni».
    «Non c'entra assolutamente nulla!» balbettò. «Il discorso è ben diverso!»
    A quelle parole, ci guadagnò un sorriso. Un sorriso dolce, divertito. Vide il moro scostandosi con non curanza i lunghi capelli scuri dal viso, ravvivandoseli dietro alle orecchie prima di sorridere maggiormente. Dal taschino della sua camicia poi, il moro tirò fuori un elastico legandoseli in una bassa coda, portandosi quei pochi ciuffi ribelli all'indietro, in modo da tenere la fronte scoperta.
«Quanto sei carino quando arrossisci in quel modo», mormorò con dolcezza, tornando a sedersi sul materasso per sporgersi di poco verso di lui. Fece per sfiorargli nuovamente le labbra ma poi ci ripensò, limitandosi a sorridergli.
    Regnò tra loro uno strano silenzio, rotto soltanto dal respiro di entrambi, anche se il biondo era quasi convinto che si potesse udire anche il suo cuore che batteva stranamente agitato nel petto. Fu proprio lui a spezzare del tutto quella quiete, abbassando lo sguardo mentre si ravvivava distrattamente i capelli dietro alle orecchie.
    «Scusa», bisbigliò, senza un motivo apparente. «Ti sto dando l'impressione di essere una ragazzina insicura, lo so, ma mi succede solo quando ho paura di esporre troppo i miei sentimenti e... e poi la colpa è anche tua, non ci si infila nel letto di altri a tradimento!» soggiunse quasi esclamando, con le mani chiuse a pugno sulle ginocchia e lo sguardo rivolto verso la soglia della sua camera. «E se fossero venuti i domestici a svegliarmi?!»
    Roy rise e gli cinse la vita, il respiro che gli solleticava il collo talmente era vicino.
«Volevo soltanto farti una sorpresa», gli sussurrò in tono mieloso, facendogli risalire lentamente le mani dietro alla schiena, quasi con dolcezza.
    Il biondino fu scosso da un piacevole e squisito brivido che non capì, ma che gli piacque molto. Si abbandonò completamente a quelle carezze, poggiando la testa contro il petto del moro, che canticchiava in tono basso tra sé e sé una di quelle uniche melodie che gli aveva insegnato nella sua lingua, come se con quella dolce nenia cercasse nel contempo di calmarlo. Entrambi poi si sdraiarono sul materasso, il ragazzo dai lunghi capelli scuri abbracciò l'altro da dietro sentendolo sussultare appena per il contatto, e gli poggiò quindi una mano sulla testa lisciandogli i capelli, come per rassicurarlo.

    «Quanto mi piacerebbe restare così per sempre», mormorò, baciandogli la chioma, e l'altro sorrise, stringendogli le mani che aveva poggiato sul suo ventre.
    «Aye, per sempre».


    Silenzio. Udiva solo quello da quando aveva riaperto gli occhi.
    Il soffitto in pietra della sua camera sotterranea gli sembrava immenso, ancora sdraiato com'era. Voltò appena lo sguardo per fissare il morbido velluto bianco del suo feretro, allungando pigramente un braccio per poggiare la mano delicata sul bordo, in modo da potersi drizzare a sedere nella larga e confortevole bara.
    Quando i suoi occhi d'ambra, ancora parzialmente annebbiati e vuoti nel torpore della morte, si posarono sulla figura che occupava un lato del letto poco distante, si fecero attenti e quasi incuriositi, mentre con l'altra mano si scostava la lunga treccia sfilacciata per farla ricadere sul petto nudo. Svogliato, si alzò in piedi scavalcando
il feretro, dirigendosi verso l'altra bara vuota per sorpassarla e andare verso la sedia, sulla quale riponeva i suoi abiti mortali, senza degnare di uno sguardo la presenta che l'osservava attento. Anzi, fece persino finta che fosse solo. Prese non curante i calzoni da cavallerizzo infilandoseli disinvolto, sistemandosi anche la camicia e il panciotto nero rifinito in quello che ricordava vagamente l'oro.
    «Come mai è qui, padre?» si degnò finalmente di chiedere, voltandosi appena verso di lui con i guanti in pelle abbandonati fra le mani. «È raro che attenda il mio risveglio».
    Hohenheim, in un frusciar di seta, abbandonò la sua postazione per avvicinarsi di poco al figlio, il volto privo di qualsiasi emozione mentre gli sfiorava non curante i capelli biondi. Ricevette un'occhiata dorata che non avrebbe saputo definire, prima che il giovane decidesse d'ignorarlo nuovamente per sistemarsi sulle spalle il giaccone nero in stile vittoriano, che terminava con maniche orlate di trina nera, a nascondergli parzialmente le mani ora fasciate dai guanti scuri. Si apprestò a cingersi il collo con un solino di seta al quale appuntò un piccolo opale in rubino, disfacendosi poi la treccia per lasciare i capelli sciolti sulle spalle. E il padre glieli accarezzò ancora, attorcigliandosi alcune ciocche intorno ad un dito.
    «
Sei molto debole, figlio mio», mormorò, con velata perfidia. «E anche il mio corpo ormai si appresta a compiere gli ultimi sforzi... sai bene ciò che potrebbe succedere se non vedrò compiuto il mio piano e la mia vendetta, nevvero?»
    Edward non rispose, nonostante l'espressione che aveva assunto il suo volto. Rassomigliava a quella d'un uomo furioso, ma sfociava vagamente nel viso sofferente d'una donna.
I canini palpitarono e furono ben in mostra mentre ringhiava sommessamente, con un rombo che gli risaliva flebilmente su per la gola e che cresceva ogni secondo di più. Cercò d'ignorare la sensazione negativa che imperversava nel suo animo, chinandosi per indossare gli stivali neri con le fibbie in oro che completavano la sua tenuta d'equitazione, quasi la stessa che indossava quand'era ancora ragazzo. «Lui non deve toccarlo, padre», sibilò, raccogliendo i capelli in un piccolo fermaglio, legandoli giusto al di sotto delle scapole, in modo che sembrassero voluminosi. «Non si azzardi assolutamente a toccarlo».
    Una mano gli si posò sulla spalla costringendolo a voltarsi, incrociando così gli occhi dorati del padre, così simili ai suoi ma così diversi.
«Questo non posso assicurartelo», mormorò tranquillo, quasi mellifluo. La sua solita voce calma non fece altro che scatenare l'ira del giovane vampiro.
    Le mani di Edward scattarono fulminee afferrando il padre per la camicia bianca, quasi volesse alzarlo di peso da terra, scuotendolo in malomodo. I suoi occhi dorati non riflettevano altro che un agitato tormento e rabbia repressa. Avrebbe perso il controllo di lì a poco. «Ti ammazzo con le mie stesse mani se succede qualcosa a Roy!» esclamò fuori di sé, snudando maggiormente le zanne. «Non voglio perderlo ancora a causa tua!»
    Impassibile, Van scansò in un unico movimento serpentino le mani del figlio, dandogli su una guancia un sonoro ceffone che risuonò nella stanza. Le fiammelle delle candele accese sui doppieri poggiati sulla modesta mobilia tremolarono per un breve istante, prima di spegnersi del tutto e lasciare solo un sottile fil di fumo e un odore di cera bruciata. Furono immersi completamente nel buio per attimi che parvero interminabili, poi una lanterna posta sulla scrivania si accese d'improvviso, rivelando il volto del padre trasfigurato da una smorfia d'irritazione, mentre teneva stretto in una morsa il polso del figlio, i cui occhi dorati erano appena dilatati per lo stupore e la sorpresa.
    Hohenheim guardò la mano che puntava ad artiglio verso il suo cuore per pochi attimi, prima che portasse la sua attenzione sul viso diafano del figlio maggiore, che confuso sembrava boccheggiare; gli storse il braccio dietro la schiena costringendolo a dargli le spalle, fiammeggiante d'ira.
«Volevi approfittare del buio per colpirmi, Edward?» sussurrò al suo orecchio, senza mollare o allentare la presa. «Dovresti lasciar perdere certi giochetti».
    Sentendo la rabbia ribollire sempre più dentro di lui, a quelle parole, il giovane si divincolò dalla presa del padre con uno strattone, e quando si girò di scatto la cera delle candele ormai spente si sparpagliò furente intorno a loro, esplodendo e macchiando le pareti. Gli occhi d'ambra, infiammati di rabbia, non perdevano di vista quelli del padre, che continuava a fissarlo saccente senza dire una parola. Quando poi il figlio snudò ancora una volta le zanne e con un ringhio che gli attraversò la gola si gettò verso il padre, quest'ultimo socchiuse appena le palpebre, riaprendole giusto qualche istante prima che i canini perlacei gli sfiorassero la pelle del collo.
    Fu un attimo, e il giovane si ritrovò dall'altro lato della stanza, sbattendo la schiena contro il muro e accasciandosi sulla scrivania tranciata a metà, dove fogli ingialliti e vecchi libri la ricoprivano completamente, sparpagliandosi anche sul pavimento per la forza d'urto sprigionata.

    L'anziano vampiro lo squadrò a lungo, prima di sospirare e sistemarsi in un gesto distratto gli occhiali sul naso, ravvivandosi nel contempo i biondi capelli all'indietro.
«Non mostrarmi mai le zanne, Edward. Non minacciarmi», disse severamente, osservando il giovane mentre cercava di rimettersi in piedi, gli occhi dorati ardenti di collera. «Ti ho donato la lunga vita e la giovinezza eterna. Non puoi ripagarmi in questo modo».
    Edward gli lanciò un'occhiata rabbiosa, dopo aver sentito quelle parole. Si puntellò più velocemente che poté sui gomiti spostando con un braccio gli ingombri che gli erano ricaduti addosso drizzandosi a fatica sulle gambe, serrando i pugni lungo i fianchi.
«Io non ci volevo nemmeno diventare così!» sbraitò subito di rimando, facendo vorticare l'aria intorno a loro come se fosse percossa da elettricità statica.
    Si squadrarono a lungo senza proferir parola, tra loro la tensione sembrava poter essere sentita a pelle e persino sfiorata, talmente era satura di malvagità. Poi Hohenheim distolse lo sguardo, puntandolo verso una delle piccole feritoie, portandosi le braccia dietro alla schiena come se fosse assolutamente tranquillo in quelle circostanze. Come se non temesse nessun attacco da parte del figlio, in quel momento.
    «Era inevitabile, essendo mio figlio», riprese, e dalle labbra sfuggì un sospiro mentre guardava distratto il feretro in legno d'ebano.
«Ti ho solo risparmiato il dolore della transizione, mille volte più terribile di quello che ti ho procurato io anticipando i tempi». Con la coda dell'occhio, vide le polle dorate del figlio fissarlo con astio. Lo stesso sguardo che gli aveva rivolto quando aveva ucciso il suo uomo. Gli aveva perdonato molte cose in passato, ma il punto di rottura c'era stato quando aveva raggiunto l'età per la sua transizione, ed era poi andato ad eliminare l'unico ostacolo che ancora lo teneva costantemente legato al mondo degli esseri umani.
    Non avrebbe mai potuto scordare il modo in cui era rimasto a disperarsi accanto a quel corpo immobile per tutta quella notte di pioggia torrenziale, rifiutandosi di tornare al maniero prima dell'alba. Era stato lui stesso a trascinarlo nuovamente al suo interno, nonostante cercasse di restare lì in quella piccola radura ad urlare il suo nome. E c'era riuscito solo perché era ancora debole per la transizione, altrimenti sarebbe stata necessaria la presenza di altri. E quello sguardo, da quel momento, non l'aveva più abbandonato. Persino quando lo costringeva ad uscire di notte per procacciarsi il cibo doveva lottare contro quello sguardo che sembrava ricordargli la colpa di cui si era macchiato.
    Il ringhio del figlio richiamò la sua attenzione distogliendolo una volta per tutte da quei pensieri di trecento anni prima, e vide ancora una volta le zanne scoperte.
«Non mi interessa se hai anticipato i tempi razza di padre degenere!» sbraitò il giovane, e risuonarono nell'aria i rombi dei tuoni. «Se tu non avessi mai sposato la mamma... se te ne fossi rimasto nascosto tra le ombre che ti hanno generato io...»
    «...avresti potuto avere una vita normale?» concluse per lui il padre, con il volto diafano privo di qualsiasi emozione, mentre i capelli, ricaduti davanti, gli coprivano appena gli occhi. «Amavo tua madre, lo sai», soggiunse, e il suo tono di voce divenne quasi nostalgico, sebbene la stanchezza gli si scorgesse in viso. «Ma quando ha scoperto che ero un vampiro non è riuscita a reggere la notizia, con il fisico già provato che si ritrovava da quando vi aveva messi al mondo».
    Il volto del giovane divenne una maschera d'indecifrabile disgusto.
«Non scaricare la colpa su di noi, adesso!» tuonò, facendo vibrare l'aria e i vetri delle piccole finestrelle. «Sei tu che ti sei divertito a volere una famiglia!»
    A quel vociare tonante e ruggente, i vetri finirono in frantumi, sparpagliandosi ovunque e lasciando che la poca pioggia che riusciva a giungere sin laggiù cominciasse a scendere ed entrasse nella stanza. Tuoni e lampi poi, imperversarono in cielo, quasi seguissero la rabbia del giovane vampiro. Strinse le labbra livide in una linea sottile, serrando al contempo la mascella, mentre le bionde sopracciglia si corrugarono in un'espressione di assoluta furia.

    Furono investiti entrambi da una rabbia cieca scaturita dal giovane, che stava facendo vorticare in un turbine le gocce d'acqua e i fogli, che scagliati in una danza selvaggia tagliavano tutto ciò che capitava loro a tiro, non scalfendo minimamente i due vampiri. Persino i frammenti diamantini dei vetri si unirono a quel tornado di potenza, forando i fogli contro cui si scontravano e conficcandosi persino nella cera delle candele, tranciate di netto dai fogli che continuavano a vorticare selvaggiamente.
    Hohenheim trasse un altro sospiro, scansando con svogliatezza un foglio che gli era finito sul volto, bloccando quel turbinio così in fretta che tutto finì riverso a terra, immobile; gli diede del tutto le spalle e cominciò
a camminare non curante per la stanza, con le braccia dietro alla schiena, a passo tranquillo e sicuro mentre osservava con distratta attenzione le goccioline di pioggia e i vetri infranti sul pavimento, spostando la sua attenzione sul volto del giovane vampiro. «Cerca di startene buono per un po', Edward», sussurrò mieloso, increspando appena le labbra in un piccolo sorriso. «Ti ho ben promesso la libertà, sia per te che per il tuo sciocco amante, ma devi ancora aiutarmi».
    Quelle ultime parole aleggiarono intorno a loro come un'allarmante nota definitiva mentre si allontanava per lasciarlo solo a respirare quasi affannosamente, nel tentativo di riportare parzialmente l'aria nei polmoni.
Guardò la confusione che regnava nella sua camera mortuaria, lanciando un ruggito rabbioso. Investì in questo modo tutto ciò che era rimasto intorno a lui con un turbinio di violenza, dando il via ad una serie d'esplosioni a catena, e non si calmò finché qualcuno non gli poggiò una mano sulla spalla, tranquillizzandolo parzialmente.
    Edward si voltò debolmente verso il nuovo venuto, vedendo due vampiri farsi indietro e chinarsi formalmente, con una mano poggiata sul petto.

    «Ci perdoni per l'irruzione nella sua camera, signorino», disse uno dei due, scansandosi un ciuffo di capelli d'ebano che gli era ricaduto su un occhio ceruleo, mentre alzava pian piano lo sguardo per indietreggiare ancora un po'.
    «È stato vostro padre a mandarci», soggiunse una donna, flettendo il corpo sinuoso.
    Respirando a pieni polmoni, il biondo liquidò la questione agitando distratto una mano, sorridendo però con un lampeggiar di zanne mentre risistemava i suoi abiti.
«Quasi mezzo secolo che siete via, e ancora gli ubbidite», ironizzò, non riuscendo a nascondere l'amarezza che quella constatazione gli provocava. «Ne ho davvero abbastanza di questa storia».
    «Posso ben capirla, signorino», replicò l'altro assolutamente calmo, ricevendo un'occhiata color rubino dalla donna accanto a lui.
    «Ricorda solo qual è il tuo compito», ribatté il biondo, con tono a sua volta tranquillo. Vide con la coda dell'occhio, mentre si sistemava anche i capelli, il vampiro chinare referenziale il capo, con un luccichio sinistro nei suoi occhi quasi di ghiaccio.
    «Lo prendo molto sul serio, signorino», la sua voce risultava solo un mormorio sommesso.
    Uno sguardo dorato lampeggiò nella sua direzione, prima che Edward guardasse il pavimento con un sorriso che non prometteva nulla di buono.
«Se non riusciremo a prenderlo di sorpresa non avremo altre possibilità di vittoria Greed, tienilo bene a mente», sussurrò con quella sua voce mielosa e densa. «Se avrà il tempo di richiamare gli altri non risparmierà nessuno di noi tre», soggiunse, e la voce divenne gorgogliante come le acque di un ruscello.
    «Ce ne rendiamo perfettamente conto», fu la risposta della donna, che si era prontamente immischiata nel discorso. «Se ce lo consentite, recupereremo noi stessi la preda».
    «Di questo non devi preoccuparti, Lust», mormorò il giovane, alzando lo sguardo topazio per fondere i suoi occhi con quelli color rubino di lei. «Ho già provveduto a mandare qualcun altro».
    «Come meglio crede, signorino», si limitò a dire quell'altra creatura, chinando referenziale ancora una volta il capo, il ciuffo laterale di capelli neri gli ricadde su uno degli occhi socchiusi, nascondendoglielo quasi.
    «Bene», disse solo, prima di dirigersi verso la porta. «Pensa tu al mio giaciglio, Lust», soggiunse voltandosi appena a guardarla, mentre usciva dalla sua stanza per cominciare a risalire lento dalle viscere della terra seguito dall'altro vampiro. Ed entrambi, una volta ritornati nell'ampio ingresso, trovarono anche gli altri lì radunati, apprestandosi poi a salire le scale per raggiungere le stanze del padrone.
    Il più giovane, seduto su una delle scale con il mento poggiato sul palmo della mano, alzò lo sguardo nella sua direzione, sorridendo quasi ironico.
«Hai intenzione di andare da nostro padre?» sghignazzò, rivolto al maggiore; ci guadagnò appena un'occhiata, prima di vederlo continuare ad avanzare come se nulla fosse. Stava difatti salendo i primi gradini seguito dal vampiro che sondava con i suoi occhi socchiusi i volti di ognuno, ma dovette fermarsi quando sentì una sua mano afferrargli il pantalone scuro. Abbassò lo sguardo verso di lui, con un sopracciglio inarcato.
    «Lasciami, Alphonse», lo minacciò con voce ferrea.
    Lui, però, aumentò la stretta, scuotendo la testa. Aveva solo una vaga idea di cosa volesse fare il fratello, in quel momento, e non gli sembravano propriamente delle buone intenzioni. Il suo volto abbandonò ogni sorta di divertimento, e divenne una maschera indecifrabile.
«Nay, Edward», fece schietto. «Sto solo cercando di non farti fare pazzie».
    Con un ringhio rabbioso, che fece sussultare e zittire il fratello, Edward si chinò appena a mezzo busto strattonandosi il pantalone, facendogli mollare con ben poco garbo la presa della sua mano su di esso. Era calato il silenzio anche sugli altri vampiri presenti, che appuntarono su di lui la loro più completa attenzione, restando in un silenzio referenziale e assorto. Stava per ammonirli tutti
e rispondere a tono al fratello minore quando una delle porte in quercia del maniero si spalancò d'improvviso, sbattendo contro il muro.
    Accigliati e confusi, si voltarono tutti simultaneamente, scorgendo la figura bagnata e dal petto nudo del moro, rischiarata dai lampi che spesso solcavano il cielo. Freddi e inespressivi, quegli occhi d'onice s'appuntarono sulla figura del giovane fermo sulle scale di marmo, prima che le zanne luccicassero sinistramente fra le sue labbra.


ATTO NONO. FINE




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Capitolo 10
*** Anime in tumulto ***


Il figlio delle Tenebre_Act 10
ATTO DECIMO. ANIME IN TUMULTO


    Gli occhi scuri di Roy scattarono serpentini sui volti di tutti i presenti, sondandoli ad uno ad uno con saccente distacco.
    Avanzò verso Edward a zanne snudate, con i lunghi capelli d'ebano che fluttuavano intorno a lui, aiutati sia dal vento che filtrava da fuori sia dall'energia sprigionata dal suo stesso corpo. Il rombo d'un ringhio imperversava nella sua gola ad ogni passo, mentre un sinistro crepitio vibrava nell'atmosfera circostante, come avvisaglia d'un temporale carico di lampi. Emanava inverosimilmente calore, tanto che più d'un vampiro si ritrovò ad indietreggiare quando fu ad una distanza abbastanza considerevole.
    Un movimento veloce, uno scintillio; scattò rapido in avanti come una freccia scoccata da un arco, afferrando il biondo per il vestiario che indossava prima di issarlo da terra, con una forza maggiore di quanto lui stesso ricordasse. Più d'un'esclamazione sorpresa si levò intorno a lui, prima che lo accerchiassero. Qualcuno gli artigliò persino una spalla nuda, forse nel tentativo di fargli mollare la presa.
    «
Sta al tuo posto, schiavo!» ringhiò al suo orecchio uno dei vampiri, strattonandolo all'indietro; ma il moro lo spintonò via facendo scattare il braccio libero, incurante del dolore che serpeggiò in lui e che si estese dalla spalla ferita. Si limitò solo a far vagare lo sguardo sui vampiri che lo circondavano, distante. Spalancò maggiormente la bocca allungando le zanne, poi, come per provare ad intimorirli. Sembrava quasi incutere un referenziale timore, in quel momento. Difatti quasi tutti indietreggiarono di poco, senza però perderlo di vista.
    Roy perse ben presto interesse per loro, riappuntando l'attenzione dei suoi occhi d'onice sul volto diafano del vampiro biondo che, fino a quel momento, non aveva praticamente aperto bocca. Era solo rimasto ad osservarlo con quelle due perle d'ambra imperscrutabili.
    Edward alzò di poco una mano come per interrompere la nuova avanzata degli altri vampiri, continuando a fissare gli abissi oscuri del moro prima di stirare le labbra in un sorriso, a metà tra l'amaro e il sarcastico.
«Ti consiglio vivamente di lasciarmi, Roy», gli disse con voce pacata e calma, ma quelle parole e quel sorriso ebbero solo l'effetto contrario. Venne maggiormente issato da terra, quasi ad osservare il moro dall'alto. Il ringhio che vibrava nella sua gola si accentuò, divenendo assordante.
    «Spiegami che cosa mi sta succedendo!» esclamò in un impeto violento. «Spiegamelo, maledizione!» Lo scosse con forza, quasi volesse costringerlo a parlare. Quando fu sul punto d'attaccarlo, però, altre mani lo strattonarono malamente all'indietro, costringendolo stavolta ad allentare la presa al collo del biondo, che ricadde a terra in ginocchio.
    «Mo bhràthair!» lo soccorse subito Alphonse, chinandosi su di lui per aiutarlo ad alzarsi, ma fu delicatamente allontanato da una mano di lui, che sembrava un po' respirare a fatica. Si portò l'altra al collo, dove si potevano vagamente scorgere i segni d'ustioni. Il corpo lo sentiva riarso, inaridito. Gli occhi, divenuti parzialmente scuri, si appuntarono prima sul volto preoccupato del fratello che osservava la pelle della sua gola, poi su quello del moro, preso di mira dagli altri vampiri lì presenti.
    Quello che accade poi fu confuso. Tra loro e Roy iniziò una battaglia fatta di zanne e artigli; uno dei vampiri s'avventò in un moto famelico contro di lui, riuscendo ad artigliargli la schiena prima di provare a colpirlo anche al petto, forse nel tentativo di strappargli il cuore.
Con un balzo felino, però, il moro schivò il colpo, atterrandolo, per poi issarlo di peso e scaraventarlo con inaudita forza al di là della vasta sala, facendo lo stesso con altri due o tre vampiri, perfettamente consci che lui fosse in preda ad una furia omicida e incontrollata. Ringhiò ancora una volta facendo scattare lo sguardo dall'altro lato della sala, nel fugace tentativo di capire in quanti erano rimasti.
    Non perse altro tempo a rifletterci; fece un salto all'indietro venendo però colpito ad un fianco prima di avventarsi poi contro la gola di uno e squarciargliela quasi voracemente, sentendo il sangue colargli abbondantemente lungo il collo. Se lo ripulì con la manica della camicia leccandoselo poi via dalle labbra, tornando rapido all'attacco nel tentativo di prendere di mira Edward, ancora in ginocchio accanto al fratello minore.
Fletté il corpo spiccando un balzo nella sua direzione, venendo però bloccato da un altro vampiro che gli artigliò le spalle. Si divincolò come poté, colpendolo ad un braccio, facendo lo stesso con un altro che si era appena slanciato verso di lui centrando l'addome, quasi esportandogli gli organi interni per la furia dell'attacco. Lanciò un'occhiata al viso di marmo registrando le punte dei suoi canini scintillare per un attimo, prima che scomparisse nuovamente in quell'Inferno.
    Contro di lui, s'avventò la donna dagli occhi color rubino, che con uno scatto felino gli artigliò il petto, strappandogli un urlo di dolore; ma, prima che potesse terminare la sua opera, vide quegli occhi d'onice dilatarsi appena per poi ridursi a due fessure, e Roy fletté 
il corpo con un movimento felino e aggraziato per balzare dall'altro lato della stanza, accovacciandosi fra una delle arcate del maniero immerso nella penombra. Gli si lanciò contro afferrandolo per il collo, gettandolo nuovamente nel bel mezzo della sala, in balia dei vampiri restanti. Quello dagli occhi ametista gli strinse le mani attorno alla gola, inchiodandolo al pavimento. Lo osservò con un sorriso sardonico dipinto in volto, pronto ad azzannarlo.
    «Basta così!» tuonò una voce e, quasi in simultanea, ogni vampiro si voltò nella sua direzione, interrompendo per quel breve attimo ogni ostilità. Gli occhi di Edward erano ardenti d'ira, e fulminò con lo sguardo ognuno dei presenti. Li ammonì a zanne snudate di non muovere un muscolo, avanzando con la sua solita cadenza aggraziata verso il corpo del moro, riverso a terra. A cavalcioni su di lui, si trovava il vampiro dagli occhi ametista che continuava a sibilare ad una spanna dal suo viso, come se si stesse trattenendo dal morderlo.
    «Lascialo, Envy», ordinò imperativo Edward, ottenendo però solo un grugnito sommesso. Assottigliò lo sguardo, continuando ad avanzare, vedendo il moro afferrare i polsi dell'altro per tentare di allontanare le mani dal suo collo. Stringeva gli occhi e boccheggiava, ma non per mancanza d'aria. Cercava di avvicinare il viso a quello del vampiro sopra di sé, così da poterlo attaccare con le sue zanne e squarciargli la gola. «Lascialo», ripeté con voce più gutturale. «Non fartelo ripetere una terza volta».
    Forse grazie al tono utilizzato riuscì a farsi ubbidire, tanto che l'Invidia mollò la presa e si rialzò in piedi, togliendosi però la soddisfazione di dare un ultimo calcio tra le costole del moro riverso a terra prima di allontanarsi. Si voltò verso il padrone, chinandosi a mezzo busto e abbassando nel contempo il capo. La mano era abbandonata sul petto, come al solito.
«Perdoni la mia irruenza e la mia condotta, Signorino», s'affrettò a dire, senza alzare in nessun modo lo sguardo. «Nella foga del momento non...»
    La frase fu troncata proprio da Edward, che agitò distratto una mano come se la cosa per lui non avesse la minima importanza. Senza dargli più peso si avvicinò ancor di più al moro, annaspante e ferito. Il petto mostrava tre profondi solchi che stavano guarendo con inaudita lentezza, a differenza di quelli presenti su una spalla e dietro la schiena. Pressoché illeso a parte qualche macchia di sangue non suo, il viso mostrava una maschera vagamente sofferente e disgustata. All'avvicinarsi del biondo alzò di poco gli occhi scuri su di lui, non avendo però la forza di fronteggiarlo in qualche modo. Prima che qualcuno potesse aprir bocca si presentò, in tutta la sua maestosità, il vampiro più anziano che, con i suoi occhi color topazio, duri e perfetti come la pietra, sondò con lo sguardo ogni anfratto del salone semi distrutto. Inarcò con scetticismo un biondo sopracciglio qualche momento dopo, soffermandosi di poco sul volto del figlio maggiore prima di spostarsi su quelli degli altri vampiri lì presenti e su quello del figlio minore.
    «Cos'è successo qui?» domandò con blanda curiosità, vagamente cortese e accondiscendente, come un padre che beccava il figlio a compiere qualche marachella.
    Più d'uno sguardo si cercò, concentrandosi poi senza proferir parola sulla causa di quel disastro: il moro che, incrociati a fatica gli occhi del più anziano, sgranò per un motivo a lui sconosciuto i suoi. Quello sguardo distaccato e freddo, senza che ne capisse la ragione, sembrava tormentarlo.
    In un primo momento, Roy cercò di capire la provenienza della bizzarra emozione che si era impadronita del suo animo, non trovandola; ma bastò quello sguardo ad inondarlo d'un profondo sentimento d'ira nei confronti di quell'antico vampiro. Tutto ciò che imperversava in lui era vago e confuso, ma fu necessario per riaccendere l'odio sopito qualche istante prima.
Qualcosa, in quegli occhi, non lo rendeva affatto tranquillo. Si levò un altro ringhio dalla sua gola mentre cercava di alzarsi in piedi e di schiarire nel contempo i pensieri. Quelle polle dorate non lo abbandonarono nemmeno per un attimo, squadrandolo con quel cipiglio distante e superiore.
    «Ci scusi per il frastuono, mio Signore». La voce d'uno dei vampiri  presenti lo richiamò alla realtà, cancellandogli parzialmente quell'insano desiderio di vendetta che si era stranamente annidato in lui, mentre ricadeva all'indietro sul pavimento bagnato e crepato.
    «Che non si ripeta mai più», sentì dire dall'anziano con voce quasi soffusa prima che abbassasse le palpebre.
    Qualcuno lo issò da terra come se fosse una piuma, e quasi avrebbe giurato di sentire il lieve ma possente battito d'un cuore. Dei passi veloci, uno scalpiccio insistente.
    «Dove credi di portarlo?» Ancora la voce del più antico dei vampiri, ma in risposta si sentì un breve ringhio.
    «Il suo riposo lo attende». Una risposta sussurrata con voce spietata, come se stesse sfidando il suo interlocutore a contraddirlo in qualche modo.
    Qualche altro passo risuonò nel grande salone, due presenze s'accostarono lottando.
 «Non affezionarti troppo a questo cucciolo, Edward».
    Stavolta non ci fu risposta, ma solo il rumore di stivali sul marmo. Riecheggiarono contro le pareti di pietra quando l'aria divenne densa e carica d'umidità, simbolo che erano scesi entrambi nei sotterranei. Pochi istanti dopo una porta venne aperta con malagrazia, prima che il corpo del moro venisse adagiato su una morbida consistenza, forse apparentemente all'interno d'un feretro o su un materasso. Alzò debolmente le palpebre, scorgendo la sagoma sfocata del biondo accanto a due bare, realizzando solo in un secondo momento che una di quelle apparteneva a lui. Era tornato al maniero, vero. Come aveva fatto a dimenticarlo?
    Con lentezza, Roy si issò a sedere, toccandosi i tagli quasi cicatrizzati sul suo petto, proprio nell'esatto momento il cui Edward si voltò verso di lui. Si perse in quelle iridi color miele, cercando di capire cosa fosse successo. Doveva trovarsi in Chiesa, se ben ricordava. Doveva trovarsi al villaggio. La testa gli scoppiava. Si portò la mano insanguinata alla tempia, socchiudendo nuovamente gli occhi. Sentì subito dopo il peso d'un altro corpo sul materasso, venendo poi sfiorato da dita ghiacciate che parvero in qualche modo calde. Una strana nostalgia lo colse, e fu quasi inconsciamente che portò l'altra mano su quella del biondo, stringendola forte. E un piccolo sussulto percorse il corpo di quest'ultimo come una scossa elettrica, quasi non s'aspettasse un simile contatto. Avrebbe tanto voluto lasciarsi andare a quelle sensazioni umane. Avrebbe voluto piangere, stringerlo a sé, fare mille altre cose... ma non fece nulla. Se ne restò solo immobile in quell'attimo d'etereo passato.
    «Io non dovrei essere qui», sussurrò il vampiro moro, distraendolo, e appuntò l'attenzione dei suoi occhi su di lui, vedendolo ancora con le palpebre semi abbassate. Tremavano appena, come le livide labbra. Gliele sfiorò gentilmente, il biondo, sentendo scaturire da lui un fremito.
    «Non dovremmo esserci entrambi, mo dubh [1]», mormorò a sua volta senza trattenersi, sentendosi precipitare addosso come un macigno la consapevolezza di quei secoli. Non ci faceva i conti da tanto, ormai. Era strano che si ritrovasse a pensarci proprio in quel mentre. Ricevette finalmente un'occhiata da quegli oscuri oblii che appartenevano al moro. Non irosa come quella che fin'ora gli aveva rivolto. Ma spaventata, terrorizzata. Proprio come la prima volta.
    «Perché io?» chiese, il vampiro ora sostituito dal prete. «Perché proprio io?»
    Un'altra carezza gli sfiorò il viso mentre un sospiro aleggiava fra loro. Le labbra che osservava si sollevarono appena per dar vita ad un sorriso. Ma Edward non parlò. Gli scostò solo i lunghi capelli scuri dalla fronte, cingendogli i fianchi con le braccia prima di poggiare la fronte contro la sua spalla insanguinata sulla quale la ferita era scomparsa. Inspirò a fondo il suo odore di morte e sangue, sentendo lui fare lo stesso. Era quel gesto a portare il nome d'affetto? Nemmeno se lo ricordava più. Vagamente, forse, ma non del tutto. Cos'era però l'altro sentimento che gli stava straziando senza ritegno quel misero cuore immortale che possedeva? Rassomigliava al dolore, alla tristezza, ad un qualcosa di soffocante. Nostalgia, forse? O semplicemente amore? Dirlo sarebbe stato difficile, per uno come lui.
    Roy inspirò maggiormente l'odore del moro, inondando a fondo le narici dell'inebriante e peccaminoso profumo del suo sangue. Si leccò inconsciamente le labbra, sentendo da parte dell'altro un gemito. Il dopo fu tutto così sfocato e rapido che quasi lo colse alla sprovvista.
Pur senza volerlo davvero, i canini palpitarono e si allungarono, affondando nel collo del vampiro moro, nella carne sopra l'arteria. Cominciò a berne il sangue mentre stringeva la mano del moro tra la sua, che si lasciava sfuggire appena qualche gemito. La strinse ancor più forte ritrovandosi in ginocchio sul materasso, il lenzuolo leggero che lo copriva scivolò via cadendo sul pavimento impolverato.
    Alle orecchie di Edward, giunsero gemiti sempre più crescenti, mentre continuava a inghiottire e deglutire quel sangue. La necessità di nutrirsi stava però lentamente lasciando posto ad altro, i muscoli dell'addome presero ad attanagliarsi in spire. Solo quando sentì un altro doloroso gemito s'allontanò piano, sfiorando quel collo diafano macchiato di sangue. Era sul punto di leccarlo via quando fu il moro a chinarsi verso di lui, facendo guizzare la lingua fra le labbra. Accarezzò con colpetti delicati la mascella sporca di sangue, la giugulare, succhiandogli la pelle come un bambino che si attaccava al seno della madre.
    L'espressione di Edward divenne indecifrabile, a quelle attenzioni. Persino quando, simile a fuoco vivo sulla sua pelle, le mani marmoree e delicate dell'altro vampiro cominciarono a prendere in rassegna il suo corpo non si mosse, inarcando inconsapevolmente la schiena e abbandonandosi completamente ai suoi tocchi sempre più insistenti.
Troppo preso da quella novità, nemmeno si accorse che le zanne del moro gli stavano mordicchiando piano la pelle del collo, torturandoglielo con dolce rudezza. Come due lame acuminate, poi, affondarono nel suo collo facendogli sgranare gli occhi dorati. Il risucchio insistente che invase la stanza quasi sembrò lasciarlo senza fiato. Sempre di più, sempre più rumoroso, come se il moro volesse prosciugarlo.
    Roy si allontanò da lui, 
con il sangue che rendeva traslucide le sue labbra livide, scivolando lentamente lungo il collo. E quando incontrò gli occhi del biondo capì ciò che aveva fatto. Un guaito gli sfuggì dalle labbra tinte di sangue mentre indietreggiava, impaurito e allarmato, ma Edward lo attirò nuovamente a sé, intrappolandolo in una stretta possessiva.
    «Continui a fuggire da ciò che sei, per questo sei tormentato», gli sussurrò, pacato ma con la solita cadenza mielosa. «Basterebbe affrontare la tua natura per porre fine una volta per tutte alla sofferenza che senti». Lui stesso aveva dovuto farlo secoli addietro. Vi era stato costretto.
    L'altro cercò di sciogliersi dalla presa, forse per fuggire ancora.
«Non ne ho il coraggio», fu la sua risposta, prima che riuscisse a liberarsi e si alzasse in piedi. Osservò il biondo con uno sguardo sofferente, come se ciò lo facesse star male. Tagliare i ponti con il suo passato equivaleva tagliare i ponti con tutto. E, anche se una parte di lui cercava di fare in modo che non accadesse, certe volte non poteva assolutamente evitarlo. «Non forzatemi più di così», mormorò ancora, venendo subito interrotto prima che potesse proferire ancora parola.
    «Ti disgusto?» Una domanda posta a bruciapelo, un argomento totalmente diverso dal precedente.
    Per qualche istante il moro sbatté le palpebre, allontanandosi di più. Qualcosa si stava però agitando in lui, qualcosa che non capiva.
«Dovresti... sei un vampiro», rispose, come se quello spiegasse tutto.
    Amaro, però, Edward sorrise. 
«Anche tu», fece ovvio, ma Roy scosse con impeto la testa, indietreggiando ancora.
    «Nay, io non...
»
    «...non sai cosa sei», concluse per lui l'altro con ovvietà.
    «Smettila di confondermi».
    Edward rise sonoramente nonostante la sua risata suonasse aspra, arida. Come se fosse solo uno scoppio d'ilarità di circostanza.
«Stai facendo tutto da solo», ribatté, divertito adesso dall'espressione che si era dipinta sul volto diafano del moro. Il viso si era contratto in una smorfia mentre si intrecciava le dita fra i capelli d'ebano.
    Roy scosse ancora la testa, come se non capisse o non se ne capacitasse.
«Non dovevo tornare qui», mormorò, più rivolto a se stesso che a terzi. «Sarei dovuto restare al villaggio... Maes doveva uccidermi».
    Un'espressione trionfante comparve sul volto di Edward, a quella confessione. Si alzò a sua volta, avvicinandosi a passi felpati.
«Ora capisco», disse, enfatizzando ogni parola. «Sei il prete, adesso», asserì, ricevendo uno sguardo velato e spento.
    «Non so di cosa parli».
    «Och, lo sai bene, invece», riprese gorgogliante. «Colui che cerco è davvero lì... ma sei tu ad ostacolarlo con la tua presenza e la tua fede».
    «Cosa stai...» Non poté concludere la frase che le labbra del vampiro bloccarono le sue. Sgranando gli occhi tentò di allontanarsi, ma gli fu impedito. Quel bacio divenne ben presto un qualcosa di furente e passionale, uno scambio di morsi sanguinosi e zanne acuminate finché, consumato in quel lasso di tempo quell'attimo di lussuria, si divisero guardandosi entrambi negli occhi. Il moro distolse i suoi, sentendo un qualcosa attanagliargli il petto. Ma l'altro lo costrinse ad alzare il viso, sorridendogli.
    «Non temere, mo brèagha dubh [2]». Un sussurro, il suo, prima che lascivo gli accarezzasse il viso.  «Ci vendicheremo».


ATTO DECIMO. FINE





[1] Moro (Nero) mio [ Gaelico scozzese ]
[2] Mio bellissimo moro [ Gaelico scozzese ]




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