Pictures of You di Achernar (/viewuser.php?uid=431447)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The story of us all ***
Capitolo 2: *** The war that's never won ***
Capitolo 3: *** The soldier and his gun ***
Capitolo 4: *** The mother by the phone ***
Capitolo 5: *** Praying for the son ***
Capitolo 6: *** Remind me of what we used to be ***
Capitolo 7: *** High Up and Dry ***
Capitolo 8: *** Shaking Inside ***
Capitolo 9: *** All That Lies Between Us ***
Capitolo 10: *** Every Stolen Promise ***
Capitolo 11: *** The Scientists Inside the Lab ***
Capitolo 12: *** The First Sound of a Newborn Child ***
Capitolo 13: *** Pictures of You, Pictures of Me ***
Capitolo 14: *** For The World To See ***
Capitolo 15: *** For The World To See (II) ***
Capitolo 16: *** For The World To See (III) ***
Capitolo 17: *** Earthquake Weather ***
Capitolo 18: *** All That Lies Between You and Me ***
Capitolo 19: *** The Bells That Never Sing ***
Capitolo 20: *** The Clock Upon The Wall ***
Capitolo 1 *** The story of us all ***
E
la Ache riappare in sezione!
In genere preferisco non pubblicare una storia prima di averla finita,
stavolta però ho deciso di fare un'eccezione, sperando che
questo mi aiuti a scrivere più velocemente (ho una marea di
progetti da finire!), e poi era da un po' che desideravo scrivere una
storia molto dark su Yugi e Yami. Questa ficci è ambientata
in un postcanon diverso da quello a cui mi ispiro di solito. Sono
sicura che Yugi superi pacificamente il distacco da Atem per poi
diventare, come si vede in GX, grande e sicuro di sè. Ma
questa visione non avrebbe funzionato per questa storia,
perciò mi sono presa una piccola licenza poetica e ho deciso
di buttare giù la mia idea. Non so quanti capitoli verranno
fuori, credo sulla ventina ma è troppo presto per dirlo,
tutti quanti comunque saranno abbastanza brevi.
Ciò detto, buona lettura!
So
hard to let go, and I still hear the sound of your voice
singin’ in my head.
I
can’t surrender ‘cause the rope’s slowly
coming apart but hangin’ by a thread
4 giugno 1998,
Domino
Caro diario,
Non
riesco a credere che ce ne siamo andati davvero.
Prima
lui, poi noi.
È
tutto un continuo partire, e Anzu che dice che nessuno di noi ha a
disposizione un biglietto di ritorno. Vorrei che la smettesse con le
sue parole di sostegno e i discorsi sulla solidarietà e la
forza d’animo. Non aiutano. Per niente. Quando penso alla
Valle dei Re… sento le lacrime bruciare sotto le palpebre, e
ogni tentativo di fermarle è inutile. Ma poi mi rendo conto
che forse Anzu ha ragione e le sue parole mi fanno ancora
più male, e le odio perché sono vere. Non
torneremo più in Egitto. Io non tornerò in quel
posto, a scavare sotto le macerie della sua tomba come un terremotato,
alla ricerca di qualche brandello di ossa da dissotterrare.
Lasciare
l’Egitto è stato come scrivere la parola fine su
tutta la nostra avventura. Chiaro, a lettere pesanti, incise nel
piombo. Fine. Una scatola in cui chiudere due anni di vita, il soffitto
della sua tomba a farne da coperchio. Come il sigillo nel contenitore
del gioco del drago, a cui abbiamo rischiato la vita in uno dei suoi
primi giochi, quel sigillo che non va mai tolto. Anche la nostra storia
è stata sigillata per sempre adesso.
Il
mio nuovo compito ora è crescere e dimenticare. Questo
è quello che tutti si aspettano da me. E che tutti stanno
provando a fare. Ma io non ho intenzione neanche di provarci,
perché non voglio correre il rischio di riuscire
a dimenticare. Io non devo dimenticare mou hitori
no boku. È questo il mio compito, così come lo
è stato impedire a lui di dimenticare il suo passato.
Devo
solo trovare un modo per farlo.
Oggi
è il mio compleanno, e mou hitori no boku non era con me. Ne
abbiamo passati solo due insieme di compleanni, io e lui, eppure ho
sentito come se mancasse una parte fondamentale di me stesso, come se
al compleanno di due fratelli gemelli, uno dei due fosse assente. Non
si può festeggiare a metà, non ti pare, diario?
Mou hitori no boku mi ha lasciato proprio una manciata di giorni prima
del mio diciassettesimo compleanno. Era il primo giugno. Alle cinque di
sera.
Non
dimenticherò mai quella data.
Ma
devo trovare un modo per non dimenticare. E l’unico che mi
viene in mente è riavere qui mou hitori no boku. Non posso
dimenticare con lui vicino.
Devo
trovare il modo.
It’s
worth defending a tiny glimpse of what it would take to make us better
7
settembre 1998, Domino
Caro diario,
Non
posso più accumulare assenze, mio nonno mi ha praticamente
costretto a tornare a scuola. Dice che non ho il diritto di buttare vi
un intero anno scolastico, che mou hitori no boku vorrebbe che io
reagissi, che in fondo se ne è andato perché io
ero pronto a vivere per conto mio e che io dovrei comportarmi in modo
da renderlo fiero di me. Così adesso mi sento anche in
colpa…
Sono
tutti così, tutti a dirmi quello che lui
avrebbe voluto, quello che lui avrebbe detto.
Sono degli ipocriti. Oggi l’ho urlato in faccia a mio nonno
quando mi ha visto rifiutare la cena per l’ennesima volta. Mi
ha guardato con i suoi occhi viola scuro, mi chiedo da quando quelle
rughe abbiano cominciato a circondarli in quel modo… mio
nonno sembrava più giovane qualche mese fa… anche
il suo sguardo, era spento, addolorato… Ma siamo invecchiati
tutti nel giro di una sola estate, no? Perché dovrebbe
importarmi più di tanto… Loro non hanno idea di
cosa passasse per la mente di mou hitori no boku, non hanno idea di
cosa significasse essere lui, essere me.
Perché noi eravamo la stessa persona. E io adesso non sono
più completo. Se solo il puzzle esistesse ancora sarei
sicuro che per ricostruirlo dovrei costruire anche dei nuovi pezzi.
Metà di loro se ne sono andati via con mou hitori no boku.
Sono
passati solo tre mesi…
I
miei amici sembrano stare bene. Hanno superato il distacco da lui e
hanno superato il ricordo di tutto ciò che di brutto
c’è stato in questa avventura. Tutte le volte che
abbiamo rischiato di morire, tutte le volte che abbiamo rischiato la
vita, ci siamo macchiati noi stessi le mani… le mie
mani sono macchiate. È sangue, è
sudore, sono lacrime. Ma non mi importa se non sono mie ma di mou
hitori no boku. È come se appartenessero anche a me.
Perché noi eravamo la stessa persona. E ciò che
fa più male è che lui non l’abbia
capito. Quando mi ha detto che io ero l’unico Yugi Mutou al
mondo…
I
miei amici stanno provando ad andare avanti, il nonno sta andando
avanti e il mondo anche. È sempre così egoista il
mondo, sempre ad andarsene per la sua strada. Tutti quanti lo hanno
dimenticato. Ma io no, io non devo. E forse ho trovato il modo.
Oggi
in classe Jonouchi è entrato con un numero di una nuova
rivista, il titolo era in americano e purtroppo non riesco a
ricordarlo, ma ricordo benissimo un articolo all’interno del
giornale. Uno scienziato del Delaware dal solito nome impronunciabile
è in lizza per il Nobel per un’importantissima
invenzione: il primo microchip pensante. Se fosse vero, non riesco
neanche a immaginare la rivoluzione che questa scoperta potrebbe
portare al mondo intero. Mi interesso di tecnologia di tanto in tanto,
in genere solo per ciò che riguarda l’industria
dei giochi, che negli ultimi anni è progredita in maniera
spaventosa. Se solo mou hitori fosse ancora qui ci divertiremmo un
sacco a provare tutto ciò che la tecnologia ha da offrire.
Ma
ora penso di aver capito come fare. Per non dimenticare mou hitori no
boku… devo solo riportarlo indietro.
Commentino?
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Capitolo 2 *** The war that's never won ***
All
systems go, but the sun hasn't died deep in my bones, straight from
inside
31
marzo 1999, Domino
Caro
diario,
Non
ho avuto tempo di scrivere per mesi. Non ho avuto tempo di stare con i
miei amici, non ho avuto tempo per i giochi. Sono stato troppo occupato
a studiare. Mi sono iscritto a tutti quei corsi pomeridiani per
studenti dell’ultimo anno, sono stato in aula fino alle
undici di notte per ascoltare insegnanti privati che spiegavano, e
durante il weekend ho lavorato dalla mattina fino alla sera per potermi
permettere quegli stessi corsi. So che il lavoro del nonno e i soldi
che ci manda mio padre dall’America non sarebbero
sufficienti, e non voglio pesare ancora di più sulla mia
famiglia. Ma ne è valsa la pena. Oggi si è
concluso il nostro ultimo anno di liceo e pochi giorni fa sono
cominciati i test di ingresso per l’università.
Nessuno
avrebbe mai scommesso un soldo su di me, l’anno in cui ho
conosciuto mou hitori no boku ero fra i trenta allievi peggiori
dell’istituto. Tre anni dopo, più precisamentedue
settimane fa, il preside Tsunesaburo-sensei in persona mi ha affidato
il compito di pronunciare il discorso degli studenti
dell’ultimo anno. E oggi sono salito sul podio della scuola,
nell’aula magna dell’istituto, per leggere il mio
discorso a nome dei diplomandi, davanti a tutti gli studenti del Liceo
Domino. Perché io, Mutou Yugi, a quasi un anno dalla
scomparsa di mou hitori no boku, sono diventato l’allievo
numero uno dell’istituto. Con una media e una preparazione,
guadagnate con giornate e notti di studio passate sui libri, che prego
mi abbiano permesso di passare i test d’ingresso
all’Università di Tokyo. Per poter finalmente
realizzare il mio progetto.
Mentre
parlavo di duro lavoro e di determinazione davanti a tutte quelle
persone, ho visto mia madre asciugarsi gli occhi con un fazzoletto. E
mentre parlavo dei valori che i tre anni passati in questo liceo mi
hanno insegnato, i miei amici mi lanciavano occhiate incredule, eppure
compiaciute. E mio nonno sorrideva soddisfatto mentre parlavo
dell’importanza di avere al tuo fianco una famiglia e persone
da amare.
“Non
dimenticherò mai quello che i miei anni al Liceo Domino mi
hanno regalato”.
Ma
io non mi riferivo a loro. Per tutta la durata del mio discorso, il mio
unico chiodo fisso è stato l’articolo che Jonouchi
mi aveva fatto leggere a settembre, lo scienziato del Delaware, Arkell
Lonerwraith, che a dicembre ha vinto il suo premio Nobel, il test
d’ingresso della facoltà di ingegneria e
matematica che ho sostenuto due giorni fa e di cui domani
saprò i risultati. Le persone care che non vedo
l’ora di riabbracciare. Una persona in particolare.
Perché,
vedi, diario, anche se loro sono convinti che io mi sia immerso negli
studi per distrarmi dal pensiero di mou hitori no boku e che ora stia
finalmente incamminandomi verso il mio futuro, con le spalle rivolte al
passato, non potrebbero essere più in errore di
così. Il mio futuro è cercare di riportare
indietro il passato. Io so che è possibile. E se non
è possibile, io creerò un modo. Mi
procurerò i materiali, la conoscenza necessaria per
riportarlo indietro. Mou hitori no boku mi ha insegnato che nulla
è impossibile. Solo vivere senza di lui lo è. Ma
togliersi la vita prima di aver tentato con ogni mezzo di riaverlo con
me è semplicemente stupido. Questo
sarebbe qualcosa che lui non vorrebbe, lo so.
E
mentre scendevo dal palco, stringendo i miei appunti tra le dita non
più così tremanti per l’emozione,
mentre mi sistemavo una delle ciocche bionde dietro
l’orecchio, ho avuta la sensazione che lui mi stesse
osservando. E lo sentivo sorridere.
Lui
mi sostiene, ha fiducia in me. Posso farcela.
I'm
waking up, I feel it in my bones, enough to make my systems blow.
Welcome to the new age
2
Aprile 2001, Tokyo
Caro
diario,
Quel
giorno ce l’ho fatta, ho passato il test d’ingresso
con il massimo del punteggio. Da due anni sono uno studente
dell’università di Tokyo.
In
questi due anni sono successe molte cose. Mi sono dovuto trasferire,
perché Domino è troppo lontana dalla capitale e
io non potevo permettermi di perdere tempo a spostarmi in treno,
così come non posso permettermi di perdere tempo a casa e
farmi distrarre dalla famiglia o dai miei amici. I miei
amici…. È da parecchio che non li sento, da
Natale credo. Torno sempre a casa due volte l’anno, a Natale
e durante l’estate, giusto per non far preoccupare i miei
familiari più del necessario. Non sono soste troppo lunghe
però: devo studiare, non posso interrompere le mie ricerche.
So
che Anzu è partita per gli Stati Uniti un anno dopo il
nostro diploma. Ha dovuto sudare parecchio fra lavori non retribuiti e
gavetta, ma alla fine ha trovato una piccola compagnia che la
assumesse. L’impegno era tanto e il salario decisamente
basso, ma Anzu è una ragazza cocciuta e ha accettato
ugualmente, entusiasta all’idea di lasciare finalmente il
Giappone e cominciare la sua carriera da ballerina. Siamo tutti con
lei: so cosa vuol dire avere un progetto che faresti di tutto per
realizzare. Il lavoro duro non ha mai spaventato il nostro gruppo.
Anche Jonouchi ha deciso di abbandonare gli studi, sta passando da un
lavoro all’altro e occasionalmente continua a duellare, Honda
invece ha cominciato l’università a Domino. Dovrei
essere un amico migliore, ma davvero non riesco a ricordare che
facoltà faccia, scusami.
Quanto
a me, come ho detto ho appena finito il primo biennio alla Todai. Sono
tutti contenti per me, per i miei voti e per il mio impegno. Mi dicono
che sono ambizioso e che sto rendendo orgogliosa la mia famiglia. Mi
dicono che mou hitori no boku sarebbe fiero di me, e io sorrido un
sorriso senza spirito. Io non mi sentirò orgoglioso di me
stesso finché non riuscirò a portare a compimento
il mio progetto. Ma finalmente, da oggi, comincerò a
studiare quello che mi serve. Matematica, informatica, fisica,
tecnologia, ingegneria…
Non
che sia rimasto con le mani in mano in questi due anni: ho fatto le mie
ricerche, mi sono tenuto sempre il più informato possibile
su quello che accadeva nell’ambiente della tecnologia. Dopo
che la creazione di Lonerwraith si è rivelata funzionante,
le innovazioni si sono susseguite una dopo l’altra, a un
ritmo incalzante. Il primo microchip era solo un prototipo, ma era in
grado di distinguere fra due affermazioni e giudicarle come un essere
umano: scegliendo non quella più logica ma quella
più sensata dal punto di vista sociale. Eppure con la
precisione di un computer. Era la perfezione. Era il cervello e
l’infallibilità della macchina, la sua
lucidità e analiticità, finalmente combinati con
la capacità di noi esseri umani di empatizzare e
giustificare i comportamenti dei nostri simili.
Dopo
il primo anno di sperimentazioni, il Massachusetts Institute of
Technology ha avviato un programma sperimentale in cui un altro
microchip, del tutto simile a quello costruito l’anno
precedente, è stato inserito nella scheda madre di un macro
processore. A questo computer umano è stata affidata la
direzione di un carcere per diversi mesi, e anche se tutti si
aspettavano di veder fallire il progetto, di vedere il computer cedere
al suo lato cibernetico e abbandonare le insensatezze della
mentalità umana, l’esperimento si è
rivelato un successo. E poi è stata una valanga di
conseguenze, veloci come corrente che corre attraverso fili di rame. Un
anno fa il primo computer è stato messo a seggio di un
tribunale, il primo computer giudice, in grado di dare responsi
imparziali in qualunque causa venisse coinvolto. I programmi che sono
stati sviluppati per sostenere questa tecnologia sono ancora
terribilmente costosi, e nonostante i risultati incoraggianti, ancora
sperimentali. Ma io sono fiducioso. A quel punto, nessuno si
è più stupito della mia scelta di studiare
ingegneria: le innovazioni incredibili dell’ultimo biennio
hanno portato migliaia di studenti in più del solito a
intraprendere questo corso di studi, desiderosi di prendere parte a
quella che gli accademici chiamano già quarta rivoluzione
industriale. E ansiosi di stringere nelle loro mani questa tecnologia,
questo potere.
Lo
sono anche io, ma il mio scopo è totalmente diverso. Ho
passato notti in bianco a navigare su internet e a sfogliare decine di
articoli e interviste nella biblioteca
dell’università solo per mettere le mani su tutto
il materiale riguardante il professore e la sua equipe. Non
è un mistero che il governo si sia subito impadronito delle
sue scoperte per sfruttarle a scopo bellico. Gli esseri umani sono
sempre uguali. Esattamente come tremila anni fa: guerra, sempre
guerra… È la guerra che ha portato mou hitori no
boku via da me. Eppure, paradossalmente, è sempre la guerra
che lo ha portato a me in primo luogo.
Quattro
mesi dopo la sua scoperta e il premio Nobel, poco prima dei miei esami
di ammissione di due anni fa, Lonerwraith è sparito. Alcuni
dicono che sia stato rapito dall’esercito perché
aveva rifiutato di prestare assistenza ai militari, altri dicono che i
militari lo abbiano addirittura ucciso. Ma ovunque sia andato, non
è riuscito a portare in salvo le sue ricerche. La tecnologia
è stata fatta progredire da qualcun altro e quelli che ho
ricordato prima ne sono i risultati. Ma lui resta
il vero genio, la scintilla che mi serve per realizzare il mio intento.
E io dovevo trovare il modo di contattarlo.
Ho
passato così tante ore al computer che i polpastrelli delle
mie dita hanno cominciato a bruciare, e dopo mesi di letture ho dovuto
comprarmi un paio di occhiali, io che ho sempre avuto
un’ottima vista. Ma non mi importa perderla per mou hitori no
boku. Finalmente, ieri, sono riuscito a terminare un mio programma. Un
contro firewall così potente che credo che
all’esercito non dispiacerebbe metterci le mani. Ma dovranno
prima passare sul mio corpo. E il programma funziona: ho scoperto una
rete segreta di forum e siti internet in cui scienziati da tutto il
mondo si scambiano dati sui chip umani. E lì, ho trovato
alcuni account promettenti.
Credo
di poter rintracciare il professore, sto inviando messaggi
continuamente, spiegando il mio interesse e il mio progetto a ogni
profilo che risvegli il mio interesse. Ora, prego solo che lui sia uno
di questi.
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capitolo fra sette giorni
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Capitolo 3 *** The soldier and his gun ***
Questo
è uno dei motivi per cui non pubblico una storia prima di
averla finita: cambio il titolo almeno sette volte!
È un mio pet peeve: i titoli devono essere perfetti. Ma
adesso dovremmo avercela fatta (non uccidetemi se dovessi cambiarlo
ancora). Alla storia mancava qualcosa, il pizzico di emozioni che solo
un po’ di musica sa dare e per quanto provi ad evitarlo,
l’inglese torna sempre a battere alla mia porta e io non sono
capace di dirgli di no. Se avete bisogno di traduzioni (ne dubito) o di
delucidazioni sui lyrics che inserirò nella storia mandatemi
tranquillamente un messaggino. Aspettatevi una fic in italiese dalla
sottoscritta prima o poi.
Buona
lettura!
I’ll
give you all I’ve got to give.
I’m ready for one more battle scar ‘cause
this is still worth fighting for
20
luglio 2001, Domino
Caro
diario,
Purtroppo il mio corso di ingegneria non mi sta insegnando nulla che
non abbia già appreso per conto mio. Ma almeno
così ho più tempo per continuare le mie ricerche.
Senza contare il materiale e lo spazio, due cose che fino a questo
momento mi erano mancate.
Alla fine dell’anno sono riuscito a terminare un prototipo
del chip pensante partendo da zero, il che mi è valso le
congratulazioni del mio professore di elettronica applicata visto che
il modello di funzionamento del chip non è mai stato
divulgato al di fuori degli Stati Uniti. Gli americani detengono ancora
l’esclusiva di produzione, anche se la tecnologia e le
imitazioni si stanno rapidamente diffondendo in tutto il mondo. Il mio
professore mi ritiene uno dei suoi studenti migliori e mi ha offerto
una borsa di studio per il Massachusetts Institute of Technology, lo
stesso che dicono abbia rubato l’idea a Lonerwraith per poi
svilupparla per conto proprio. Ma il MIT non ha solo un’aura
di tradimento alle mie orecchie, nei forum che visito di notte girano
parecchie voci sul presunto nuovo progetto del MIT. E tra me e me ho
riso perché non riesco a pensare come non abbiano fatto a
pensarci prima, a pensare a quella che era stata la mia idea tutto il
tempo. Se questi chip di ultima generazione funzionano come il cervello
umano e sono in grado di giudicare e comprendere il nostro
comportamento, creare esseri umani artificiali era solo il passo
logicamente successivo. A essere sincero mi stupisco anche di tutta
questa segretezza.
Ma tanto non ci riusciranno. Sono ricerche fatte senza cuore, spinte
solo dal portafogli e dal freddo di una canna di pistola puntata contro
la tempia. Non possono riuscire. Comunque la borsa di studio era
un’occasione troppo ghiotta da rifiutare: al MIT investirei
sicuramente il mio tempo in modo migliore. Qui a Tokyo non
c’è nient’altro che possa imparare, il
mio futuro non appartiene più a questa città.
E poi mi ritroverei nello stesso paese del genio che sto cercando di
rintracciare da mesi, del genio che ha dato l’origine a tutta
questa rivoluzione. E se per qualche miracolo riuscissi a incontrarlo?
Lo so che è un’eventualità quasi
impossibile, ma perché non sperare? Infatti sto di nuovo
pagando per delle lezioni serali, stavolta di inglese: non voglio che
ci sia alcuna barriera tra me e il mio mentore, la lingua non deve
essere un problema. Io e mou hitori no boku abbiamo bisogno di lui,
deve visionare i miei progetti, darmi la sua opinione, aiutarmi a
portarli a termine.
I miei progetti…
Dal momento in cui hanno cominciato a prendere forma tre anni fa non ne
ho ancora parlato con nessuno. Nemmeno alle tue pagine, diario.
So che tu non mi giudicheresti, sei solo un mucchio di fogli di carta
in fondo, ma chi potrebbe leggerti lo farebbe, e il tuo lucchettino non
scoraggerebbe un visitatore inopportuno. Il lucchetto serve
più che altro a me per poterne portare la chiave al collo,
proprio come facevo con il puzzle del millennio. Perché ho bisogno
di portare qualcosa al collo, senza mi sentirei soffocare. Comunque, la
chiave è sempre ben nascosta dalla camicia e dalla cravatta,
d’obbligo qui all’università, e per mia
fortuna nessuno se n’è ancora accorto. Sto
diventando uno studente in vista però: troppa gente che mi
lancia sguardi curiosi nel corridoio, troppe pacche sulle spalle dagli
insegnanti, per parlare dei contratti che in questi due anni mi sono
già stati offerti da numerose aziende. Troppe volte che si
fa il mio nome sul giornale dell’università, o
sulla bocca delle persone in classe...
Non amo la pubblicità e la notorietà, non
l’ho mai fatto, e ora più che mai non la voglio.
Eppure mantenere un profilo basso è sempre più
difficile. Sono diventato sospettoso, ho cominciato a legare i capelli
per non attirare più l’attenzione di tutti, e sto
addirittura pensando di tingerli tutti di nero per dare ancora meno
dell’occhio. Forse sono diventato paranoico perché
non sono abituato a tutta questa popolarità e non
l’avevo prevista, ma ho paura che qualcuno possa entrare nel
mio appartamento (in cui vivo rigorosamente da solo) e scoprire i miei
progetti, i programmi che ho creato con il computer, giudicare quello
che sto facendo e portare mou hitori no boku via da me.
Un’altra volta. Proprio ora che sto riportandolo in vita.
Ma adesso che sono a Domino per le vacanze estive non ho paura che
qualcuno possa leggere quello che sto scrivendo. Per tutti quanti sono
semplicemente Mutou Yugi, il figlio di quel nonnetto che ha un negozio
di giochi, Il Mutou prodigio che studia alla Todai. Nessuno fa
ulteriori domande e la cosa mi fa sentire al sicuro. Qui a casa ricevo
solo sorrisi e incoraggiamenti, l’ansia e gli sguardi restano
a Tokyo e voglio che resti così. Per questo quando a fine
agosto lascerò Domino sarà per partire per
l’America, come ha fatto Anzu qualche anno fa, e
lì sarò uno dei tanti studenti stranieri che fa
parte di un programma di scambio culturale all’estero.
Nessuno dovrebbe notarmi e nessuno dovrebbe notare i miei progetti e il
mio diario.
Ho passato gli ultimi due anni a studiare informatica e tecnologia
della robotica, dalle nozioni più basilari di tutte alle
scoperte e teorie più moderne. Ho incominciato col capire
cosa significassero i segni più e meno sulla batteria del
telecomando e oggi so costruire da zero un macro processore, del tutto
uguale a quello che l’anno scorso è stato
impiantato nel carcere dell’esperimento. So dove comprare i
materiali, come accaparrarmi i migliori e come giudicarli, so leggere
come fossero la tabellina del due quelle formule di cui io e Jonouchi
ridevamo sempre per quanto sembrassero assurde.
Devo affinarla ancora un po’, ma adesso io ho la conoscenza
necessaria per fare il mio primo tentativo. Per quanto lo speri non mi
aspetto di riuscire subito perchè in scienza non succede
mai. Ma almeno sarà un punto di partenza per migliorare e
migliorare e migliorare, finché mou hitori no boku non
sarà di nuovo con me.
E con
questo dichiaro terminati i capitoli introduttivi!
Tantissimi
auguri di buon Natale in mostruoso ritardo a tutti quanti! E anche di
buon anno nuovo in anticipo visto che il prossimo aggiornamento cade un
po’ lontano da Capodanno…
Commentino? Ci
vediamo fra sette giorni, buone abbuffate a tutti
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Capitolo 4 *** The mother by the phone ***
Save
yourself from a life full of lies and a heart full of pain and sorrow
Save yourself from the choices I make, ‘cause nothing but
failure follows me
10
gennaio 2002, Cambridge (MA)
Caro diario,
È incredibile. Non avrei mai immaginato che un posto simile
potesse esistere. Ho imparato più cose in un semestre al MIT
che negli ultimi tre anni. Laboratori, progetti, materiali, assistenza,
conoscenza… qui c’è tutto. E non ho
intenzione di andarmene tanto presto. Per questo poco prima della fine
del semestre autunnale ho chiesto il trasferimento definitivo qui in
Massachusetts. Mia madre mi ha detto che sono un pazzo a lasciare la
Todai, che non c’è università
più prestigiosa in tutta l’asia e che uscito da
lì, con una media come la mia, troverei lavoro in un batter
d’occhio e sarei sistemato per il resto dei miei giorni.
Ma a che serve farsi una vita se si deve viverla da soli?
Come fa a non capirlo?
Io devo rimanere qui. Non riesco neanche a
contare le cose che ho imparato e che mi sono reso conto di sbagliare.
E ho scoperto che non è per nulla facile.
A dire il vero questo lo sapevo già in partenza, nulla che
abbia mai riguardato mou hitori no boku è mai stato facile.
Ma ho impiegato due mesi solo per trovare il giusto equilibrio fra le
componenti sintetiche e organiche per creare la giusta consistenza
della pelle, cioè: di un materiale che imitasse in tutto e
per tutto la pelle umana. Niente a che vedere con l’orrendo
silicone che usano in Giappone per i loro actroids: non
metterò mai una cosa del genere indosso a lui. Il mio
materiale è come epidermide vera: ha la stessa
elasticità, morbidezza, resistenza, sensazione…
Eppure in due settimane tutto ciò che sono riuscito a fare
con la mia scoperta è stato produrne a sufficienza per
ricoprire un solo dito di latta, e spaventare a morte Anzu. Per
ricoprire l’estensione di un intero corpo mi serviranno mesi
solo per produrre il quantitativo necessario di pelle…
E a proposito di Anzu.
Quando sono tornato a Domino l’estate scorsa è
arrivata in città anche lei, era inizio agosto. Abbiamo
passato parecchio tempo insieme prima che lei partisse di nuovo per
l’America e quando ha scoperto che anche io mi sarei dovuto
trasferire là per i miei studi era davvero al settimo cielo.
A quanto pare si sentiva sola nella sua compagnia di danza e mi ha
fatto promettere di andare a trovarla. Ci ho pensato, lo giuro. Ho
pensato tante volte di andare a trovarla, o di telefonarle. Esattamente
come desidero farlo con gli altri ragazzi del gruppo. Ma la
verità è che forse mi sto abituando a questa
solitudine e super lavoro e non voglio che nulla intralci i miei ritmi.
Perché mi sento solo anche io, e l’unico modo per
conosco scacciare via la solitudine è riportare mou hitori
no boku da me.
Ma ieri Anzu mi ha fatto una sorpresa e si è presentata alla
porta del mio dormitorio con un cartone di pizza e due latine
d’aranciata. E abbiamo passato la serata a parlare.
Anzu mi ha raccontato di come procede la sua carriera, qualcosa che non
mi aveva confidato durante l’estate. Dopo che essere partita
per l’America un anno dopo il diploma, è rimasta
sei mesi nella piccola compagnia che l’aveva assunta.
Dopodiché la compagnia è fallita e si
è sciolta. In quel momento è stato come se il
mondo le fosse crollato di nuovo addosso. Di nuovo, perché
lo aveva già fatto una volta e a me è bastato
guardare i suoi occhi azzurri un istante per capire di cosa, o meglio
di chi, stesse parlando. E devi credermi quando
dico che la capisco, con tutto il mio cuore.
Anzu ha cominciato a metter in dubbio tutta la sua vita e le sue
scelte, a provare a intraprendere una carriera diversa, ma non aveva
denaro e non aveva il cuore di chiamare a casa e farsene mandare di
nuovo. I suoi genitori non sono mai stati contenti all’idea
che lei diventasse una ballerina. Hanno sempre detto che una ragazza
intelligente come lei meritava di più dalla vita e doveva
puntare più in alto. Presentarsi a loro con un fallimento
sarebbe stata un’umiliazione troppo grande per lei. E in quel
momento mi sono sentito in colpa, perché mentre Anzu mi
raccontava dei dieci mesi che sono trascorsi dal momento in cui la
compagnia è fallita a quello in cui finalmente era riuscita
a trovarne un’altra che la assumesse, io mi sono reso conto
di quanto poco ci sia stato per i miei amici in questi anni. Sono
egoista, diario? Mou hitori no boku direbbe che sono egoista? ma la
verità è che mou hitori no boku non
c’è! È stato lui l’egoista,
lui ci ha abbandonati tutti e adesso non può rispondere alla
mia domanda. Ma glielo chiederò, gli chiederò se
mi reputa egoista una volta che sarà di nuovo qui...
You
can never understand my sickness
You
will never understand my sickness
Ma Anzu aveva anche un’altra cosa di cui voleva parlarmi.
Nonostante i due momenti in cui il mondo le era crollato addosso e io
non ero stato lì vicino per aiutarla, Anzu si era resa conto
che ciò che l’aveva aiutata a superare quei
momenti di difficoltà era il pensiero che anche io stessi
lottando duramente per costruirmi una vita. Perché se lei
amava mou hitori no boku, sì, queste sono stante le sue
parole, ed era riuscita a superare il distacco da lui, allora poteva
farcela ancora una volta. E perché se io amavo mou hitori no
boku, di nuovo, le sue parole, ma stavo lottando
per andare avanti, allora lei avrebbe seguito il mio esempio e non si
sarebbe arresa.
Eravamo entrambi soli, in ambienti completamente nuovi e sconosciuti,
ma avremmo tenuto duro in nome di un ricordo comune. Ed è
stato in quel momento che mi sono reso conto che anche lei aveva
tradito Atem, lo aveva lasciato andare. Un ricordo… quindi
è come se mou hitori no boku non fosse mai esistito, vero?
Lui appartiene al passato, lui è il
passato. Come ha potuto dire… ed è stato allora
che Anzu ha visto per la prima volta il dito di latta, poggiato sulle
pile di appunti sulla mia scrivania. Come era prevedibile ha urlato ed
è scattata in piedi.
“Yugi” ha detto “Credevo studiassi
ingegneria, non medicina! Che ci fa qui un dito umano?” era
letteralmente terrorizzata, e io ho riso, dicendole che non era un dito
umano, non proprio…
“È di latta” le ho detto porgendoglielo
“Senti?” con grande esitazione, Anzu ha finalmente
toccato l’oggetto con il dito e ha spalancato gli occhi
saggiandone la consistenza. Le grinze della pelle, la
plasticità, il calore… a detta sua sembrava un
dito umano in tutto e per tutto. Ho ridacchiato di nuovo, in fondo
avevo tutto il diritto di essere fiero: anni di studio e mai nessuno a
cui poter mostrare i miei risultati e poi finalmente, senza neanche che
lo avessi premeditato, Anzu arriva e si complimenta per il realismo
della mia ultima invenzione. Ero fiero della mia scoperta, e sentir
dire dalle sue labbra che sembrava vera non ha fatto che aumentare la
mia fiducia nei miei progetti. Ma sapevo che non poteva durare a lungo,
stupido io per non aver nascosto il dito in primo luogo.
“Yugi” ha detto “Ma cosa ci fa un dito
‘quasi’ umano in camera tua?”.
Sono stato uno stupido. No so a cosa dare la colpa, se
all’ora tarda, alla mia stanchezza, ad anni di segretezza, al
fatto che mi fidavo ciecamente di Anzu, alla nostra
chiacchierata… ma io dovevo dirlo a
qualcuno, era un peso troppo grande da portare ancora da solo.
“Voglio costruire un uomo, Anzu”
le ho detto.
Non credo che anche se avessi formulato la mia risposta diversamente la
faccia di Anzu sarebbe risultata meno scioccata. O inorridita.
“Quindi quello sarebbe… il suo dito?” e
io come uno stupido non mi ero ancora accorto che non era la sua
curiosità o il suo interesse a farle fare domande. Era
l’orrore.
“No, certo che no” ho riso “Non
costruirei mai un uomo di latta: si accartoccerebbe al primo soffio di
vento. Per una cosa simile direi che il titanio o una nuova lega di
metallo e resine sarebbe decisamente più indicata. Questo
è solo per fare una prova con la pelle”.
“Quella non è pelle vera
quindi…”.
“No, l’ho creata io. Forse dovrei darle un
nome… ne sono piuttosto fiero però, come hai
detto tu stessa è proprio uguale a della pelle
umana”. A quel punto, Anzu non mi seguiva già
più. Da quel momento in poi è stata una raffica
di domande, la voce di lei che tremava sempre di più a ogni
sillaba pronunciata. Come se lei sapesse, avesse
il presentimento giusto… è sempre stata dotata di
un grande sesto senso a dire il vero.
Che vuol dire?
Perché?
È un progetto dell’istituto, vero?
E’ per questo che studi qui?
Ci pensavi anche quando eri alla Todai?
L’idea ti è venuta qui?
Avrei dovuto mentirle. Ma io non so mentire. E non mi piace. Ecco
perché non dovevo dirlo a nessuno, stupido che sono!
Alla fine, con un sussurro, mettendo insieme i miei monosillabi, Anzu
ha ricostruito tutto.
“È stato il tuo piano tutto il
tempo…” ha sussurrato
“Perché? Cosa speri di ottenere?”. A
quello però non ho risposto, ho solo guardato il dito che
tenevo ancora fra le mani, e poi i miei progetti sulla scrivania.
“Rivoglio quello che mi è stato tolto”
ho mormorato.
“Yugi” mi ha supplicato “Lui non
tornerà, ti rendi conto che quello che dici è
folle? Io non posso credere che tu- che- non può
essere…” a quel punto stava trattenendo i
singhiozzi. Il nome di mou hitori no boku è sempre stato il
suo punto debole. Le sole sillabe del nome Atem riuscivano a mandare
Anzu in pezzi come le ballerine di vetro delle bomboniere. Valeva anche
per me comunque, non gliene faccio una colpa.
“Lo faccio per tutti: non sarebbe bellissimo poterlo
riabbracciare? Riaverlo qui fra noi?” ma Anzu non mi seguiva
più. Perché la gente non capisce?
“Ma lui è morto, Yugi. È
morto!” ormai le lacrime scorrevano senza più un
freno sulle sue guance, e lei scuoteva la testa freneticamente. Non
avrei dovuto alzare la voce, non avrei dovuto alzarmi di scatto dal
divano. Non avrei dovuto lasciare quel maledetto dito sulla scrivania.
“No, non è morto finché non lo dico
io!” ho urlato.
Non avrei mai dovuto lasciarlo andare.
Anzu ha rifiutato di provare a ragionare con me ancora. Ha afferrato il
suo giacchino e la sua borsa ed è scappata via.
So che non ne parlerà con nessuno, proverà a
sperare che io torni ‘sulla retta via’,
proverà a dimenticare. Esattamente come ha dimenticato lui.
E il senso di colpa che provavo nei sui confronti improvvisamente non
c’è più. È stato divorato
dalla rabbia.
Perché non capisce che quello che faccio è
giusto? Perché vuole dimenticare? Perché deve
distruggere tutte le mie speranze? Perché vuole distruggere lui,
prima ancora che ritorni?
È gelosa? È forse gelosa del mio
mou hitori no boku?
Beh,
in questo caso farà bene ad esserlo.
Sì, il piano di Yugi è decisamente
creepy, e le parti creepy e l'angst non faranno che aumentare *risata
malefica*
Colgo l’occasione per fare a tutti voi miei lettori
tantissimi auguri di Buon Anno! Spero che il rientro a scuola-lavoro
non sia troppo traumatico...
A proposito delle canzoni… grazie mille a Evee per avermelo
segnalato (sapevo che avrei dimenticato qualcosa) ma riporto qui in
ordine titoli e artisti dei brani inseriti nei capitoli precedenti:
Titolo della storia e dei capitoli: Pictures of You
dei The Last Goodnight
Capitolo 1: Still Worth Fighting For dei My
Darkest Days
Capitolo 2: Radioactive degli Imagine Dragons
(insieme a Pictures of You, e in minor misura King
and Lionheart, Radioactive
è la vera e propria Colonna sonora della storia)
Capitolo 3: ancora Still Worth Fighting For dei
My Darkest Days
Capitolo 4: Save Your Soul dei My Darkest Days
Commentino, domande? Ci vediamo (o meglio leggiamo)
giovedì per una sorpresina…
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Capitolo 5 *** Praying for the son ***
I'm
breaking in, shaping up, then checking out on the prison bus.
This is it, the apocalypse
27
Giugno 2002, Cambridge (MA)
Caro
diario,
Come avevo immaginato non più sentito Anzu una sola volta, e
sono già passati sei mesi. Ma sempre come avevo immaginato,
sono sicuro che lei non abbia parlato a nessuno della nostra
conversazione.
Sebbene la nostra chiacchierata con mi avesse quasi convinto a tagliare
definitivamente i ponti con tutto e tutti, mi ha anche fatto capire che
non sono capace di stare da solo. È per questo che voglio
riportare in vita mou hitori no boku in fondo, non ti pare? Quindi ho
finito per fare l’esatto opposto e ho ricominciato a
contattare Jonouchi e Honda. Ho perfino sentito Ryou una volta. Non me
lo sarei mai immaginato dopo tutto quello che gli è successo
a causa dell’Egitto e dello spirito dell’anello, ma
a quanto pare Ryou ha deciso di diventare un archeologo. Credo che mio
nonno sarebbe molto contento, in fondo aveva sempre sognato che un
giorno potessi essere io ad abbracciare quella professione. A suo tempo
la mia scelta l’ha lasciato a bocca aperta…
Eppure anche Honda ha intrapreso la mia stessa carriera, o quasi. Il
suo intento è diventare programmatore di computer, un
po’ troppo poco per quello che invece ho intenzione di fare
io. Imparare a programmare computer è stato solo il mio
primo passo: io ne sto costruendo uno, il più sofisticato e
perfetto dei computer pensanti mai creati finora. E a proposito dei
computer pensanti, ogni tanto leggo ancora notizie
sull’esperimento dei primi androidi intelligenti che
intendono costruire qui, e non posso fare a meno di sorridere. Sono
così indietro… per non parlare del fatto che non
hanno più Lonerwraith con loro. Lonerwraith che non riesco a
contattare in nessun modo e che sembra sparito dalla faccia della
terra. Sto cominciando a pensare che le chiacchiere siano vere questa
volta e che l’abbiano davvero ucciso. Senza un genio come
lui, di questo passo il governo riuscirà ad ottenere il
primo prototipo fra non meno di dieci anni, e ci saranno
così tante cose che non funzioneranno in lui che
servirà praticamente a nulla… Da quel poco che ho
visto posso già dire che stanno sbagliando i materiali,
l’approccio, il design… Ma che mi importa in
fondo? I loro errori potrebbero servirmi di lezione per non ripeterli,
la mia macchina invece sarà perfetta. Un vero essere umano.
Ma per tornare ai miei amici… mi sono reso conto che mi
mancano e non vedo l’ora di rivederli. Sento il bisogno di
cambiare aria dopo aver lavorato così tanto negli ultimi
mesi… e poi sono a tanto così da ottenere il
trasferimento. Anche il preside della Todai pensa che io sia pazzo, ma
alla fine non può negarmelo. Mi servono solo le solite
scartoffie e poi da settembre, per i prossimi due anni,
riuscirò a studiare qui. Fino a che non otterrò
una specializzazione in microelettronica e robotica. Non male no?
Per questo dopo anni, posso finalmente partire col cuore in pace. Ho
una nuova casa in cui tornare, progetti da ultimare, e sono arrivato a
un buon punto. Proprio ieri ad esempio ho finalmente sviluppato le
leghe giuste per le giunture. E poi titanio per le ossa, resine per i
muscoli, cavi rossi e blu per le vene… mancherebbe solo il
sangue. Ovviamente non gli servirebbe, ma vorrei fare qualcosa
perché fosse il più vivo possibile. Glielo devo.
Quindi stavo pensando di installare un impianto in più,
qualcosa che nell’eventualità la pelle venisse
danneggiata farebbe in modo di spingere un liquido del tutto simile al
sangue fuori dal punto di rottura.
Il corpo umano è la mia maggior ispirazione. Ho deciso di
procedere dall’interno, ricreando i vari apparati per poi
assemblarli pazientemente e una volta ultimato il corpo
penserò all’aspetto emotivo e psicologico. In
questo modo posso fare dei test prima che il mio progetto sia completo
ed evitare quante più possibilità di errore
possibile, affrettando i tempi. Anche se so che l’impazienza
è la maggior nemica della perfezione. Ad adesso ad esempio
sto lavorando a un meccanismo per dilatare e comprimere il petto per
simulare un respiro umano: voglio programmarlo in modo che regoli
automaticamente l’entità delle compressioni e
delle dilatazioni a seconda dello sforzo fisico richiesto,
perciò lo sto tarando sul mio ritmo di respirazione. In
fondo mou hitori no boku e io eravamo uguali no?
No: noi siamo uguali.
Così ho lavorato allo stesso modo per il cuore, registrando
la mia frequenza di battito cardiaco in diverse
situazioni: correre, camminare, dormire, essere arrabbiato, felice,
agitato… per far sì che l’organo
meccanico batta allo stesso modo se sottoposto agli stessi stimoli. Ho
così tante idee, e ogni volta che mi metto a sfogliare i
miei fogli di appunti e schemi mi tremano le mani e le dita fremono
perché voglio lavorare, voglio cominciare, voglio finire. Ma
devo cercare di essere paziente. Mou hitori no boku ha spettato tremila
anni nella sua prigione di scale. Non si arrabbierà
all’idea di aspettare ancora un po’… E
se lui può aspettare posso farlo anche io, nonostante la mia
impazienza e il desiderio incredibile di riaverlo qui con me.
Purtroppo non va tutto bene, sapevo che non sarebbe stata
un’impresa facile e sto incontrando diversi problemi. Per il
momento il più grosso è la questione del peso.
Qualcosa di così ovvio che ho finito per non prenderla in
considerazione. I miei organi artificiali sono quasi perfetti, ma il
loro peso sarebbe troppo grande perché possano essere
assemblati in un’unica struttura senza che questa collassi. E
poi, quale uomo di ventuno anni peserebbe due quintali? Mi verrebbe da
sbattermi in testa il mio stesso diario per non averci pensato. Se non
riesco a inventarmi qualcosa dovrò ricominciare da
capo…
Non vedo l’ora di tornare a Domino. Devo distrarmi e cercare
nuova ispirazione… magari passando del tempo con le stesse
persone con cui ho condiviso gli anni in cui mou hitori no boku era con
me mi verrà in mente qualcosa su di lui che potrà
aiutarmi.
Ma c’è anche un altro motivo per cui voglio
tornare a Domino. Mio nonno era molto invecchiato l’ultima
volta che l’ho visto, a Natale. Ho pensato che fosse un
accumulo di stress dovuto alla lontananza del suo unico nipote, unito
al fatto che ormai è molto avanti con gli anni…
non mi sono preoccupato per le sue condizioni di salute, forse
perché mi rifiutavo di ammettere l’esistenza di un
altro problema nella mia vita, proprio mentre stavo lavorando
così duramente per sistemare quello che mi tormenta da anni.
E poi ho sempre pensato che la supervisione di mia madre sarebbe stata
sufficiente. Quando ho avuto il morbillo ricordo che mi stava col fiato
sul collo ventiquattro ore al giorno, con due cucchiai di scorta
infilati nelle tasche dei jeans, alla stregua di revolver, pronta a
ficcarmeli in gola insieme a una buona dose di sciroppo al primo colpo
di tosse.
Ma con il nonno evidentemente è diverso. Lui è
cocciuto, più cocciuto perfino di me, e mamma mi ha detto
che anche se gli sono stati diagnosticati dei problemi al cuore, si
rifiuta di prendere le medicine che gli hanno prescritto. Sono due
giorni che è a letto adesso: dorme, respira a fatica. Il
negozio è chiuso. E io sono preoccupato: ho trascurato
così tanto mio nonno negli ultimi anni…
Devo parlargli… finché sono in tempo.
Lyrics da Radioactive (Imagine
Dragons)
Capitolo filler, meno interessante ma necessario per la trama. Nel
prossimo torneranno di nuovo i dialoghi.
Mi scuso per eventuali problemi di formattazione: purtroppo il mio
computer mi sta dando dei problemi e ho dovuto fare i salti mortali per
ripristinare (e soprattutto far funzionare) la connessione sul mio
vecchio pc, che al momento è letteralmente la mia ultima
spiaggia ç-ç (perchè la tecnologia mi
odia??)
Ahem, comunque grazie per aver letto fin qui. A giovedì per
il prossimo capitoletto della mia nuova raccolta (se vi piacciono le
drabble, se gli andaste a dare un'occhiatta rendereste un'autrice
contenta) e a... non so ancora quando in realtà ^^' (ma
sarà in settimana) per una nuova oneshot nel mio caro
vecchio English su ff.net!
Ache
|
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Capitolo 6 *** Remind me of what we used to be ***
E...
no, alla fine non ce l'ho fatta ad aggiornare ieri sera, spero comunque
che mi perdonerete visto il capitolo un po' più interessante,
Buona lettura!
Look
in my eyes, tell me I died, tell me I tried, to compromise
Tell
me you love me, tell me that I, don't give a fuck and can barely decide
1
luglio 2002, Domino
Caro
diario,
Sono arrivato a Domino qualche ora fa, dopo un volo interminabile
dall’America. Appena sceso dal taxi mi sono precipitato in
camera di mio nonno per vedere come stava, e non ti nascondo che mi
sono spaventato. Il nonno era nel letto e respirava appena, mia madre
mi ha poggiato la mano sulla spalla, raccomandandomi di non fare troppo
rumore. Odio quando fa così, quando si comporta come se si
fosse arresa, e odio il sorriso che mi ha mostrato. Un sorriso opaco e
fragile, di quelli che si frantumano come ghiaia sotto la pressione di
passi troppo pesanti. Poi mi ha lasciato da solo con lui.
Ho scacciato via il pensiero di mia madre e mi sono concentrato
solamente su mio nonno, un passo alla volta mi sono avvicinato al letto
e mi sono messo a sedere sulle coperte. Strano che il nonno ne avesse
bisogno in piena estate… o forse erano più che
altro un conforto, un modo per tenere stretto qualcosa, e a giudicare
da come le dita artigliavano le lenzuola, forse non ero molto lontano
dalla verità.
“Nonno…” ho sussurrato. L’ho
visto corrugare la fronte, come se non riconoscesse più la
mia voce. A quel punto ho corrugato la fronte anche io: la mia voce non
è cambiata più di tanto negli ultimi anni, e
certamente non negli appena sei mesi che sono trascorsi
dall’ultima volta che ho visto mio nonno. Perché
quella reazione? Gli avevo fatto male forse, avevo alzato troppo la
voce?
“Yugi?” ha sussurrato finalmente, e l’ho
visto aprire quei suoi occhi viola scuro. Quelle stesse rughe che ho
notato per la prima volta quando mou hitori no boku ci ha lasciati
erano ancora lì, e in compagnia di molte altre nuove
arrivate. Da quando i capelli di mio nonno erano diventati
così bianchi? Pendevano in ciocche rade sulle sue guance,
meno paffute di quanto le ricordassi. E che fine aveva fatto la sua
inseparabile bandana?
“Sono io, nonno. Come stai?” gli ho stretto la mano
sorridendo piano. Quando mi ha risposto ridacchiando stavo per
scoppiare a piangere per il sollievo.
“Non fare quella faccia” mi ha sgridato subito dopo
“Non sono morto ancora, uno non è neanche
più libero di dormire un po’? Sto
benissimo-“ gli avrei volentieri creduto se non fosse
scoppiato in una crisi di tosse proprio in quel momento. Mi sono
avvicinato per sostenerlo, sforzandomi di sorridere, ripetendo a me
stesso che non era niente e che se anche lo fosse stato, mio nonno
meritava di vedere suo nipote sorridere, non piangere, una volta tanto
che lo vedeva... Non meritava un altro peso sul suo cuore…
Nonostante le mie proteste perché rimanesse sdraiato si
è messo a sedere sul letto, da uomo ostinato qual
è, sempre ripetendo che il motivo per cui era a letto in
primo luogo era per via del suo riposino pomeridiano. Ho evitato di
fargli notare che era ormai ora di cena e il pomeriggio era passato da
un pezzo, piuttosto l’ho abbracciato stretto, ridendo anche
io per non piangere. Non lo avrei fatto davanti a lui. Nonno Sugoroku,
la persona che è stata per me un padre e un amico e il mio
più grande sostenitore, mi ha abbracciato a sua volta,
sorridendo.
“Come va lo studio, ragazzo? Stai bene?”. Ho
annuito staccandomi da lui e carezzandomi il braccio con la mano, un
gesto che mi sono accorto di fare di tanto in tanto, quando ho qualcosa
da nascondere.
“Benissimo, nonno. Tu piuttosto, mamma mi ha detto che ti
rifiuti di prendere le medicine e-“
“Ah, dovranno passare sul mio corpo prima che mi metta a
prendere certe schifezze” ha brontolato.
“Ma se continui così finirai solo per
peggiorare-“
“Yugi, ti prego, non schierarti anche tu dalla loro parte.
“Sono un uomo anziano e ho vissuto una vita lunga e
avventurosa. Tu e io lo sappiamo bene” ridacchiava ancora
sommessamente e io non ho potuto fare a meno di sorridere. I nostri due
anni di avventure sono come il nostro segreto.
Credo che il nonno fosse l’unico, a parte Anzu forse, ad
essere consapevole di quanto fosse profondo il mio legame con mou
hitori no boku. Ma a differenza di lei, il nonno ha un modo
così discreto di comprendere le cose... sempre che non
voglia essere più irruento, certo. In quel caso è
meglio stargli a una debita distanza, preferibilmente in silenzio, ma
per una questione delicata come questa ha sempre saputo che
l’attenzione da prestarci doveva essere sottile come fibra di
vetro. Quasi invisibile. Però c’era. E la
consapevolezza che lui fosse sempre lì pronto a prendermi se
fossi caduto era confortante. Magari mi avrebbe sgridato,
più probabilmente avrebbe fatto un paio di battute sul fatto
che avrei dovuto prestare più attenzione o sul fatto che ero
ancora il “piccolo Yugi”. Ma c’era.
Solo un’altra persona è mai riuscita a farmi
sentire in quel modo, al sicuro. Il pensiero che anche il nonno,
proprio come lui, possa lasciarmi non è uno scenario
possibile nella mia testa. È semplicemente irreale. Per
questo quando ha ricominciato a parlare mi sono rifiutato di
ascoltarlo: non è mai una buon segno quando tuo nonno
comincia a dirti che ‘ormai è anziano’.
Sapevo dove stava andando a parare e lo ringrazio per averlo reso il
discorso il più breve e leggero possibile. Ma anche adesso
non ne ricordo una parola: è stato come se le mie orecchie
si fossero tappate nel preciso momento in cui ha riaperto bocca. Non
può essersi rassegnato all’idea di andarsene. Non
così, senza lottare, senza avermi vicino…
Eppure ho forzato ugualmente un sorriso quando mi ha rivolto di nuovo
la parola.
“Ma basta parlare di me, non c’è nulla
di interessante in un vecchio giocatore pensionato. Dunque, Yugi, hai
detto che gli studi vanno bene?”.
“Sì, mi diverto, è molto
interessante” lui annuiva, carezzandosi la barba.
“Bene, bene… siamo tutti fieri di te, lo sai. Ma
penso che dovresti rilassarti un po’, ragazzo, cercare
qualcos’altro che tenga impegnata la tua giovane
testolina” ha detto battendo il pugno per scherzo sulla mia
nuca, mi sono messo a massaggiarla ridacchiando.
“Che intendi dire?” anche se una mezza idea
l’avevo già.
“Via, Yugi, sarò vecchio ma non ancora del tutto
rimbambito, sai? Allora, non hai ancora trovato qualcuno lì
in America? Come sono le ragazze lì?”. E
esattamente come si era andato a formare, il mio sorriso ha cominciato
a svanire a poco a poco dalle mie labbra.
“Sono ragazze…” quel che volevo dire era
che erano semplicemente ragazze: non avevano nulla di speciale solo per
il fatto di essere americane, esattamente come le giapponesi non hanno
nulla di speciale solo per il fatto di essere giapponesi. Sono tutte
ragazze. Niente di più, niente di meno. Cos’altro
si aspettava? Invece, purtroppo, ha capito l’esatto opposto
perché l’ho visto rabbuiarsi per un attimo, come
se fosse troppo perplesso o preso alla sprovvista per ribattere, e poi
i suoi occhi hanno ripreso a brillare giocosi esattamente come facevano
quattro anni fa, prima che tutto finisse. E a quel punto non sapevo se
la cosa dovesse rallegrarmi o spaventarmi…
“Uh,uh,uh” ridacchiava “E i ragazzi
invece?”. A quel punto credo che le mie guance siano
diventate di un rosso ciliegia intenso, ma mio nonno non mi ha lasciato
neanche un secondo per ribattere. “Certo è un
peccato, tua madre sperava tanto che tu e Anzu… insomma
anche io ho sempre desiderato dei nipotini-“
“Nonno!”.
“Ma glielo avevo già detto che non avrebbe
funzionato fra voi due: quella ragazza non è il tuo tipo,
credi a me… Ma prometti che adotterai comunque dei bambini?
Ho tanti di quei nomi che mi piacerebbe suggerirti per un
nipotino”.
“Nonno, non ho intenzione di avere dei figli”
categoricamente “Fine della discussione” sul serio,
come eravamo arrivati a parlare di prole?
“Che razza di nipote ingrato, dopo tutto quello che ho fatto
per te. Perché devo avere un solo nipote? E così
cocciuto per giunta…”così invece di
incolpare sé stesso per avere avuto un solo figlio, che gli
ha dato a sua volta un solo nipote, si è messo a incolpare
me perché non avevo intenzione di farlo diventare bisnonno.
Ho incrociato le braccia al petto.
“Adesso non mettere il broncio” mi sono lamentato.
Il nonno non sembrava troppo convinto ma che colpa ne ho io se lui
voleva una famiglia numerosa? Abbiamo scherzato per un altro
po’, il nonno aveva in mente dei nomi davvero assurdi per i suoi
poveri nipotini. Che quindi dovrebbero essere i miei figli.
Solo a pensarci mi sento male, poveri bambini. All’improvviso
però si è fatto di nuovo serio, la scintilla di
prima è scomparsa ancora dai suoi occhi.
“Yugi, promettimi che non passerai tutta la vita da
solo”.
“Nonno…”.
“Non voglio vederti buttare via la possibilità di
essere felice dietro al ricordo di qualcuno che non
c’è più e che non potrai mai
avere” ha detto lentamente. Come faccia ad essere sempre
così bravo a capire quello che provo non lo so, ma allo
stesso tempo sapevo che a quel punto, se gli avessi raccontato dei miei
progetti come avevo invece intenzione di fare, gli avrei spezzato il
cuore. Non potevo fare questo a mio nonno.
Mi serve dell’altro tempo…
Perciò gli ho risposto nell’unico modo che potevo.
“Nonno, posso assicurarti che non rimarrò solo
tutta la vita”.
Non è una bugia.
“Te
lo prometto”.
Ma neanche tutta la verità.
Lyrics da Radioactive-Remix (Imagine
Dragons & Kendrick Lamar)
Ancora altri due capitoli brevi, poi prometto qualcosa di
più sostanzioso (blocco dello scrittore permettendo
purtroppo...). A giovedì per una nuova drabble e grazie per
aver letto questa storia,
Ache
|
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Capitolo 7 *** High Up and Dry ***
*offre
fazzolettini*
Buona lettura
This
earthquake weather has got me shaking inside.
I'm
high up and dry
15 agosto 2002, Domino
Caro
diario,
Avevo promesso che avrei scritto. Mi sono guardato nello specchio e mi
sono costretto a giurare che mi sarei sfogato esattamente come ho fatto
quando mou hitori no boku se ne è andato. Ma è
difficile.
No, anzi, è impossibile.
E io non riesco a… Non posso crederci, non è
vero. Oggi non è esistito, non era vero, ieri e
l’altro ieri non sono mai esistiti.
Ma non è vero niente, sono tutte bugie. Bugie, bugie come io
che mi illudo che stringere la chiave che porto attorno al collo sia
come stringere il puzzle e che carezzandola mou hitori no boku
apparirà al mio fianco. Ma nessuno è mai al mio
fianco.
Mio nonno è morto.
Due giorni fa.
Insufficienza cardiaca hanno detto i medici, per quello che
può importare tanto...
Era stato ricoverato in ospedale non appena le sue condizioni si erano
aggravate, quando stava parlando con mamma ed è scoppiato a
tossire all’improvviso. Diceva che non riusciva a respirare e
abbiamo chiamato l’ambulanza. Ma nel momento in cui le
portiere dell’auto si sono chiuse, inghiottendo mio nonno, io
non c’ero già più. Ero perso in un
ricordo lontano, mi muovevo come in automatico, parlavo come una
marionetta. È così che dovrebbe sentirsi mou
hitori no boku quando tornerà? Non lo so, ma in questo
momento, per la prima volta in quattro anni, non mi importa. Non mi
importa di nulla.
Due giorni di coma, poi se n’è andato. Senza
neanche salutarmi. Non c’è stato nessun avviso,
nessuno ultimo discorso, nessune ultime parole sussurrate al mio
orecchio. Se ne è andato via nel silenzio, buffo visto che
la discrezione non faceva parte delle qualità di mio nonno.
E io oggi volevo rompere quel silenzio, frantumarlo a colpi di piccone
come una roccia. Urlare e correre da lui quando alla fine della
cerimonia hanno chiuso il coperchio della sua cassa. Volevo ribellarmi
e gridare che c’era un errore, che l’uomo
lì dentro, con quel viso sereno e le labbra appena ripiegate
in un sorriso, non poteva essere mio nonno e che loro si erano
sbagliati. Doveva essere così.
E poi il coperchio si è chiuso, imprigionando per sempre gli
occhi viola di nonno, le sue battute, i suoi capelli bianchi, il mazzo
di carte da gioco che mamma gli ha infilato nel taschino e il Drago
Bianco Occhi Blu strappato che senza
farmi vedere avevo nascosto
nel mazzo…
Ma alla fine non sono corso a scoperchiare la bara, a tirarlo fuori,
non ho nemmeno urlato. Anzi, per tutta la giornata non ho detto una
parola. È come se da quando il nonno ha smesso di parlare,
abbia deciso di smettere di parlare anche io. Anche se non è
stata una decisione consapevole: riesco appena a rendermi conto che lo
sto facendo, ma mi sembra... giusto forse. Non c’è
niente di importante da dire. E soprattutto non a lui.
Ho sentito l’ansia salirmi in gola, soffocandola fino a che
gli occhi non si sono riempiti di lacrime che mi rifiutavo di lasciar
cadere giù. Stavano portando via la bara, per bruciarla. Era
la stessa sensazione che ho provato quando mou hitori no boku se ne
è andato, perché non c’era
più nulla da stringere tra le mani, tutto si dissolveva.
Avrei voluto riportare indietro anche mio nonno oggi, invece
l’unica cosa che abbiamo riportato a casa è stata
una giara bianca con disegni blu e viola di draghi che mamma e
papà hanno comprato ieri. È un
bell’oggetto, ma non l’ho detto ai miei genitori,
voglio evitare di pensare a quello che contiene, e il silenzio ci ha
accompagnato durante tutto il tragitto. Ho lasciato mamma e
papà a parlare al piano di sotto, mentre lei decideva dove
sistemare la giara, probabilmente accanto a quella della nonna. Io
invece sono salito in camera mia, non voglio tornare di sotto.
Perché se n’è andato? Perché
tutte le persone che amo se ne vanno?
E le lacrime hanno cominciato a scendere una per volta, poi tutte
insieme. Scendono ancora adesso perché non sono tutte per
mio nonno e finalmente hanno una buona occasione per lasciarmi anche
loro. Le riesco a sentire: le lacrime per aver lasciato la mia
famiglia, le lacrime per aver lasciato i miei amici, le lacrime per
aver litigato con Anzu, le lacrime per mou hitori no boku e quelle per
me stesso. Le lacrime di rimorso per aver mentito a nonno.
Sono loro quelle che fanno più male: davvero volevo rivelare
a mio nonno di mou hitori no boku, volevo che sapesse il motivo per cui
me ne ero andato a Tokyo e poi in America. Ma in un modo o
nell’altro non era mai il momento buono per parlargli e
così gli ho mentito. Volevo il suo sostegno, avevo bisogno
che mi incoraggiasse ancora una volta ma adesso è troppo
tardi. I ricordi mi stanno intrappolando ancora una volta…
mi sento solo.
I'm
a crumpled up piece of paper lying here
'Cause I remember it all, all, all... too well
18
agosto 2002, Domino
Caro
diario,
Questa mattina sono sceso dalle scale cercando di ignorare ancora una volta la giara sulla
mensola del soggiorno. La sento che
mi guarda, che vuole la mia attenzione, ma io non sono pronto a
concedergliela, vorrei negare che tutto questo sia successo almeno un
altro po’. Ancora qualche giorno. Ma è difficile
visto che proprio oggi ho accompagnato i miei genitori dal notaio per
leggere il testamento. Il nonno deve aver pensato che gli affari di
papà all’estero gli impediranno di tornare in
Giappone in un ipotetico futuro, perché ha lasciato il
negozio a me, così come i suoi risparmi e la carta del Drago
Occhi Blu, quella che gli avevo infilato in tasca di nascosto e che
adesso è ridotta in polvere, dentro alla giara che non vuole
saperne di ignorarmi.
La
scomparsa di mio nonno cambia ogni cosa, il suo testamento e il mio
senso di colpa cambiano ogni cosa. Non posso più tornare in
America. Non riuscirei a separarmi di nuovo da questa casa, dai miei
amici… non posso più perdere altre persone.
Magari i contatti che ho agganciato online nel corso degli anni saranno
sufficienti per portare a termine il mio progetto e non avrò
più bisogno delle strutture del MIT. E poi in America
c’è Anzu. Forse non vuol più sapere
niente di me e forse è meglio che io me ne vada,
così non si sentirà obbligata a contattarmi: due
continenti diversi e un oceano sono una scusa sufficiente.
Devo rivedere i miei piani adesso: mi metterò a lavorare nel
retro del negozio, lo trasformerò in laboratorio. Potrei
persino tenere aperto il game shop, magari mi tornerà utile
per arrotondare… i componenti elettronici non sono mai stati
a buon mercato. E adesso che non posso più andare in America
dovrò trasferirmi all’università di
Domino, dove vanno anche Ryou e Honda, perchè non voglio
abbandonare gli studi proprio adesso. Potrebbe anche essere divertente,
di nuovo fra amici, e in confronto alla Todai o al MTI, sarà
come tornare di nuovo alle elementari.
Odio i piani di riserva, fino a un mese fa sembrava tutto
così facile… una volta tanto vorrei poter fare
una scelta senza dovermene pentire, ma immagino che non sia
così che funziona il mondo… Quando ho deciso di
trasferirmi credevo fosse giusto, e adesso sarebbe sbagliato, quando ho
deciso di tenere nascosto mou hitori no boku a mio nonno credevo fosse
per il meglio, adesso invece mi sento soffocare dai sensi di colpa.
Non so cosa fare, vorrei solo che qualcuno mi afferrasse per le spalle
e mi scuotesse fino a che non sia tornato di nuovo nel mondo reale, ma
non c’è nessuno a scuotermi. Provo a immergermi
nel lavoro e cerco di dimenticare questa estate ma è
inutile, e più mi impegno più i ricordi di
quest’anno si mescolano a quelli di quattro anni fa, si
mischiano e si sovrappongono e lavorare a mou hitori no boku non basta
più, non mi distrae. Perchè non riesco a
dimenticare, e ricordo ogni cosa...
Lyrics da Pictures of You (The Last
Goodnight) e All Too Well (Taylor Swift)
Fino all'ultimo sono stata indecisa se unire questo capitolo al numero
8 e fare un solo aggiornamento, perchè erano entrambi
piuttosto brevi oltre ad essere gli utlimi due della prima parte della
storia, ma credo che questo capitolo meritasse uno spazio tutto per
sè visto il tema di cui parla, sarebbe stato come sminuire
la morte del nonno e il suo effetto su di Yugi (oltre che comprimere
ancora peggio lo sbalzo temporale fra i due capitoli- 7 e 8- che
è invece piuttosto lungo. Colgo l'occasione per ricordare
che le date hanno un senso! E che a volte me la sono presa col
calendario perchè di mesi in anno me ne servivano ben
più di dodici...). Qualcuno ha ancora bisogno di
fazzolettini? *offre scatola*
Grazie per aver letto, a giovedì per una nuova drabble!
Ache
|
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Capitolo 8 *** Shaking Inside ***
I
curse myself
‘Cause the right thing is to give you up
22
febbraio 2003, Domino
Caro
diario,
Negli ultimi mesi ho cercato di immergermi nel lavoro per distrarmi dal
pensiero di mio nonno, e a volte vorrei ringraziarlo perché
forse, se lui non fosse mai scomparso, non avrei trovato il coraggio di
spingermi così oltre… Il mio più
grande sogno sta prendendo forma rapidamente, un microchip alla volta.
I primi giorni mi costringevo a lavorare, il cervello che si rifiutava
di cooperare, ma poi, lentamente, ho scoperto che avevo bisogno di
rinchiudermi ore e ore ogni giorno nel retro del negozio, il mio
piccolo laboratorio. È una medicina e allo stesso tempo una
malattia perché non posso smettere. Lavorare su mou hitori
no boku è… è indescrivibile, mi fa
sentire bene, utile, è come se fosse qualcosa che ho sempre
dovuto fare, come fosse il mio destino, e allo stesso tempo qualcosa
nei meandri della mia testa mi sussurra che è tutto
sbagliato. Ma non è un problema di etica.
È un problema mio, un mio blocco personale, qualcosa che
è dentro di me e che non riesco a superare. E quando mi
fermo ad ascoltare quella voce mi tremano le mani, il cacciavite e il
saldatore continuano a scivolarmi dalle dita.
Perché… è lui. È mou hitori
no boku che è lì davanti a me che prende forma,
in una fisicità che non mi ricordo di avergli mai visto
possedere, lui che era poco più di un fantasma. E invece
adesso posso toccarlo, letteralmente, addirittura crearlo, ed
è a questa intimità che non mi sono mai preparato.
E la voce mormora piano che è sbagliato perché
toccarlo in quel modo è come invadere la sua privacy
più profonda, non alza il tono perché allora
potrei spaventarmi e sentirmi in colpa al punto di smettere, e lei
questo non lo vuole, ma non la smette mai di dirmi quello che pensa.
Non hai idea di quanti pensieri mi frullano nella mia mente durante le
ore di lavoro, come tanti pipistrelli impazziti, sono ricordi, parole,
scrupoli, rimproveri, incoraggiamenti, domande… mi divorano
e i continui flashback mi fanno perdere quel poco di contatto con la
realtà che ho tentato in ogni modo di mantenere dopo che
anche il nonno se ne è andato. E ci sono anche idee, idee a
non finire su come completare mou hitori no boku, flash di delirio di
onnipotenza che risuonano con la prepotenza di uno slogan di
propaganda: crea l’essere umano perfetto, elimina i difetti,
assembla i pregi, non accontentarti. Allora in quei giorni afferro
blocchi di carta e matite e comincio a buttare giù brandelli
di idee, schizzi e disegni, elenchi puntati di promemoria e vantaggi.
Idee che appena le rileggo mi fanno arrossire per quanto sono stupide e
ingenue, altre che mi fanno sospirare e guardare nel vuoto.
Ma non posso dimenticare l’unica grande idea di fondo dietro
a tutto questo. Non posso fare di testa mia e servirmi di mou hitori no
boku per giocare al piccolo chimico: lui non è una bambola
da decorare. C’è lucidità dietro ai
miei progetti, se non ci fosse vorrebbe dire che Anzu aveva avuto
ragione a scappare via quella notte in America, mi sono assunto
comunque la responsabilità del suo gesto, ma ho dato la
colpa al fatto che non sono riuscito a spiegarmi, che non sono riuscito
a trasmetterle quello che credevo, ossia che mou hitori no boku non
è un giocattolo. Non sono un novello Frankenstein. E lei
è corsa via perché non sono riuscito a
spiegarglielo.
E mi resta sempre meno tempo per capire come fare a spiegarlo,
perché prima o poi lo verranno a sapere, non ci sono mai
stati segreti fra di noi e al pensando che ce ne sia uno adesso mi
sento soffocare. Pensare a cosa succederà quando mou hitori
no boku sarà di nuovo qui mi preoccupa. A volte perdo la
pazienza e allora mi convinco che non importa come provassi a mettere i
fatti, nessuno di loro potrebbe capire: né Honda,
né Ryou, né Jonouchi… e allora tanto
vale scappare via anche io, lasciare Domino appena Atem avrà
riaperto gli occhi e tagliare tutti i contatti che ho appena
ristabilito con i ragazzi. E quelle volte non voglio neanche scrivere
loro una lettera di addio, voglio solo sparire nel nulla come un
codardo e non tornare mai più. Non voglio dire nulla neanche
a mia madre, che adesso è tornata a vivere con
papà in America. Ma poi penso che lei non ha mai conosciuto
Atem e che se nessuno le rivela che cosa sia in realtà il
nuovo mou hitori no boku, forse non si accorgerebbe mai che non
è un umano a tutti gli effetti… forse lei e
papà potrebbero perfino accettarci come una
coppia…
Ma poi cambio idea e decido che Atem merita una chance, che io
ne merito una, e che non voglio passare la mia vita a nascondermi come
un ladro. Ma il discorso che vorrei fare ai miei amici non è
mai abbastanza convincente, lo provo e riprovo tutti i giorni nella mia
testa ma non funziona mai… e poi c’è
Atem. Atem che è finto ma che io voglio sia vero: non un
fantoccio ma una persona, e una persona deve essere in grado di
intendere e di volere, e libera di fare le sue scelte in base la
proprio passato: voglio che Atem abbia un
passato, che sappia chi è. Deve avere i miei racconti, i
miei ricordi di mou hitori no boku, ci deve essere un modo per
trasmettergli, la consapevolezza di non essere umano, la
libertà di essere disgustato da quello che ho fatto e
andarsene un’altra volta…
Non è una prospettiva che mi piace prendere in
considerazione, ma è quella giusta, lo so. Glielo devo.
Ma è ancora presto per questi pensieri e per fortuna posso
ancora ricacciarli lontano nella mia mente e preoccuparmi di un
problema per volta. Mancano almeno sei mesi al giorno in cui mou hitori
no boku dovrebbe riaprire gli occhi. E non sarebbe bellissimo se
fossimo tutti lì ad aspettarlo quel giorno? A festeggiare il
suo ritorno e a ricordare i vecchi tempi? So che manca anche a loro,
Anzu non era l’unica a volergli bene. E Jonouchi? Lui e Atem
era grandi amici, non potrebbe mai chiudergli la porta in
faccia… Sono sicuro che mancherebbe anche a nonno se fosse
ancora qui, e mi dispiace che non condividerà questo momento
con noi. Per ora mou hitori no boku è ancora un segreto, lo
nascondo dietro alla scusa dello studio e del lavoro al negozio,
nessuno pretende di sapere di più quando mi assento per
giorni interi e dico che sono rimasto a casa a scrivere la tesi.
Chissà se lo fanno perché si fidano di me o
perché vogliono che sia io a fare il primo passo…
Solo Jono a volte mi guarda scettico, parole che spera di non dovermi
dire nascoste dietro i suoi occhi, e credo che sospetti qualcosa, anche
se non è possibile che lui sappia che cosa
dover sospettare. Non può sapere di Atem, l’unica
persona oltre a me che sa della sua esistenza è Anzu. E lei
è ancora in America. Forse Jonouchi riesce sempolicemente a
leggermi dentro, sa che c’è
qualcosa di sbagliato, sa che Yugi non è del tutto sincero
quando dice di essere rimasto tutto il weekend in casa a studiare, ma
allo stesso tempo si fida di me e non vuole intromettersi nella mia
vita: è un periodo difficile per tutti, non è
passato neanche un anno dalla scomparsa del nonno. Jonouchi vuole solo
proteggermi, come un bravo fratello maggiore, ma i tempi dei bulli e
dei giochi delle tenebre sono passati e nemmeno lui può
proteggermi da me stesso. È combattuto perchè non
vuole lasciarmi andare, ma allo stesso tempo sa che non
c’è molto che possa fare. Inevitabilmente, sento
che ci stiamo allontanando e la colpa è solo mia. Non ho mai
voluto separarmi dai miei amici, anche quando ero in America o quando
ero alla Todai mi sono sempre mancati tantissimo, ma pensavo che la
lontananza fosse la cosa migliore: avrebbe protetto entrambi.
E adesso che sono tornato, ai loro occhi c’è uno
Yugi non più trasparente, non più bambino. Non so
se avrà voglia di imparare a conoscere questo nuovo Yugi, di
riuscire a trovare in lui il ricordo del suo migliore amico di un
tempo, ma se così non fosse, proprio come Atem, credo debba
avere anche lui il diritto di andarsene.
Lyrics da Save Your Soul (My Darkest
Days)
Non ci posso credere, l'ultimo capitolo della prima parte! se
escludiamo le raccolte, in quanto a capitoli questa storia è
la più lunga che io abbia mai pubblicato finora, e credo
proprio che supererà anche le raccolte... *dita incrociate e
scongiuri contro il blocco dello scrittore che persiste e impigrisce*
Anygays, dalla settimana prossima la lunghezza dei capitoli e il numero
di personaggi coinvolti aumenterà decisamente, sopportatemi
ancora un po' perchè la storia è finalmente
arrivata ^^
A giovedì con un'altra drabble, ciao!
Ache
|
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Capitolo 9 *** All That Lies Between Us ***
Avrei
dovuto aggiornare ieri ma mi sono *tossisce nervosamente*
più o meno addormentata sul computer, il sonno arretrato
è una brutta faccenda... Anyway! Ci siamo finalmente! La
seconda parte della storia!! E io sono indietrissimo coi capitoli!
Gioia...
Questo capitolo ha subito una drastica correzione nell'ultima settimana
e ho finito per accorciarlo di quasi 1000 parole; dopo anni di scuola e
temi consegnati a destra e a manca sono un'accanita sostenitrice del
'meno è meglio' (non sembra, ma lo sono). Con questo
comunque non intendo infrangere la promessa che avevo fatto riguardo ai
capitoli lunghi: d'ora in poi saranno
più sostanziosi. Spero comunque che le mie correzioni
abbiano reso migliore l'aggiornamento di questa settimana e come sempre,
Buona lettura!
There's
nothing that I'd take back, but it's hard to say there's nothing I
regret
1
Giugno 2003, Domino
Caro
diario,
Sapevo che era
solo una questione di tempo.
Ero
così eccitato per come stava procedendo spedito il mio
lavoro che ho passato l’intera settimana rinchiuso nel
laboratorio, a ultimare mou hitori no boku. Ma stavolta la scusa della
tesi non poteva funzionare: l’ho già consegnata,
le lezioni sono finite. Non c’è più
nulla che potrebbe costringermi a rimanere in casa a studiare, il
motivo doveva essere un altro allora, e a quanto pare i ragazzi lo
hanno cercato nel primo Giugno 1998. Un po’ strano che per la
prima volta in cinque anni stia avendo proprio adesso una ricaduta di
depressione, ma conosci la passione di noi uomini per le cifre tonde,
no? è quasi buffo a pensarci. Nemmeno dovessi festeggiare
l’anniversario del duello cerimoniale…
Al contrario
di quello che potevano immaginare, io ero tutt’altro che
depresso. Anzi, pensare che erano passati cinque anni mi riempiva di
gioia e di impazienza. Dopo tutto questo tempo sono finalmente a un
passo dal riabbracciare mou hitori no boku: dire che non vedo
l’ora non è abbastanza.
Ma i miei
amici erano comunque preoccupati e dopo una serie di telefonate,
Jonouchi ha deciso di farmi visita, se non per assicurarsi del mio
stato di salute mentale quantomeno di quella fisica. I pasti regolari
sono un lontano ricordo in fondo, così come le notti passate
a dormire. Qualcosa che Jono non perde l’occasione di
rinfacciarmi ogni volta che ci vediamo...
Stavo
richiudendo il petto di mou hitori no boku dopo aver sistemato un
piccolo malfunzionamento. Ero così concentrato nel mio
lavoro che ho sentito la voce di Jono che mi chiamava solo quando era
già entrato in casa. Da quando mamma si è
trasferita con papà sono rimasto da solo a vivere qui e
Jonouchi ha insistito per avere una chiave. Così, dice,
potrà venire ad aiutarmi in caso dovesse succedermi
qualcosa, era una richiesta legitima in fondo e mi fa sentire meno
solo. Adesso però, casa mia è diventata un
rifugio per quando suo padre diventa troppo violento. Purtroppo vivono
ancora sotto lo stesso tetto e anche se Jono si lamenta di lui, so che
non lo lascerebbe mai. Crede ancora di poterlo cambiare.
Avere Jonouchi
qui in casa di tanto in tanto ha reso più difficile per me
nascondergli dell’esistenza di mou hitori no boku e lui si
è fatto sempre più sospettoso, ma la
lealtà che nutre nei miei confronti gli ha impedito di
indagare più a fondo nella questione.
Appena mi sono
accoro di non essere più da solo in casa, ho avuto appena il
tempo di richiudere e coprire l’altro me e correre fuori dal
laboratorio per ritrovarmi faccia a faccia con il mio migliore amico.
Non ho più l’età per assumere
l’espressione del bambino beccato con le mani nella
marmellata, ma evidentemente quella reazione era stampata sul mio viso
lo stesso.
“Ehi”
senza il solito brio o la solita irruenza, Jonouchi mi ha salutato
sorridendo. A quel punto non sapevo se si sforzasse di essere gentile
perché rispettava il mio presunto lutto o perché
non sapeva più fino a che punto poteva fidarsi di me.
“Ehi”
ho risposto più o meno con lo stesso tono. Siamo rimasti a
fissarci per qualche secondo, poi lui ha sospirato.
“Come
stai, Yugi?” domande di rito. Ancora non se la sentiva di
arrivare al punto.
“Perché
me lo chiedi?” non ero sospettoso, non del tutto per lo meno.
Lui ha alzato le spalle, le iridi che si fissavano su ogni lineamento
del mio viso che non fosse gli occhi.
“Perché
oggi è… insomma… è stato
proprio cinque anni fa che…” non ne abbiamo quasi
più parlato da quel primo giugno. Durante i primi mesi Anzu
riusciva a riportare a galla l’argomento di tanto in tanto,
come per assicurarsi che tutti quanti l’avessero presa bene e
che si stessero riprendendo. È sempre stata un po’
la mamma del nostro gruppo, no? Ma parlarne tutti insieme è
diventato sempre più raro e con io che mi stavo allontanando
sempre di più da loro alla fine abbiamo smesso
completamente. Era un tabù, ma soprattutto ho capito che era
un tabù parlarne con me. Forse è
stato quello il nostro errore, nascondere le cose finisce solo per
peggiorarle: se non avessimo finto per cinque anni, forse a
quest’ora non sarei dove sono adesso. Al punto di non ritorno.
“Sono
passati già cinque anni…” gli ho fatto
eco, quella cifra aveva un suono strano sulla mia lingua
“Già…” ho ripetuto una
seconda volta, assimilando i fatti. Ho fatto per dirigermi verso la
cucina: avevo la gola secca. Ma Jonouchi mi ha afferrato per la spalla,
senza violenza ma con sufficiente energia da farmi girare verso di lui
per chiedere spiegazioni.
“Yugi…
non esci da giorni, siamo tutti preoccupati. Sei sicuro di stare
bene?” era una pugnalata al cuore vedere il suo viso
contratto in quello stato di apprensione, e faceva ancora
più male sapere che prima o poi gli avrei inflitto un altro
colpo.
“Certo”
ho annuito.
“Non
è per via… insomma, per via dell’altro
Yugi, vero? So che non lo abbiamo mai fatto ma possiamo parlarne se
vuoi, ho-“.
“No”
ho scosso la testa “Sto bene, davvero”.
“Beh,
perdonami amico ma mi sembri tutto fuorché bene. Sei
praticamente trasparente, hai delle occhiaie che potresti spaventare
quelli della famiglia Addams e non per essere scortese, ma da
quant’è che non ti fai una vera doccia? Non ho idea
di cosa ci sia dentro a quei tuoi capelli”.
Ho sorriso: ho
sempre ammirato Jou per la sua capacità di scherzare anche
nelle situazioni più serie. Sentivo il senso di colpa che
tornava a divorarmi da dentro, la sensazione di soffocare, di tradire.
La stessa che mi aveva costretto a confessare ad Anzu il mio piano. La
stessa mi avrebbe portato a raccontare tutto anche a mio nonno se ne
avessi avuto il tempo… “Dico sul serio,
Yugi” ha mormorato di nuovo Jonouchi, poggiandomi entrambe le
mani sulle spalle “Da quanto tempo è che non
mangi?”.
“Due
giorni” ho mormorato evitando il suo sguardo.
“Yugi,
non puoi andare avanti così. Non puoi lasciarti andare! Ce
l’avevi fatta, ti stavi riprendendo…”
Valeva la pena mentire ancora? Ho scosso la testa.
“Se
ti riferisci alla parentesi della Todai e del MIT, mi dispiace ma
resterai deluso…” nulla di tutto quello era per
voltare pagina: facevano tutti parte dei miei tentativi, sintomi del
fatto che non volevo abbandonare mai e poi mai il ricordo di cinque
anni fa. Jono ha cambiato argomento, fingeva di non capire.
“Starsene
qui a chiuderti in te stesso e isolarti dal mondo non serve a niente.
Non lo riporterai indietro disperandoti per quello che è
successo”.
Infatti.
“Hai
ragione, infatti non è così che intendo
riportarlo indietro…” Avevo paura. E se fosse
andata come con Anzu? Non potevo perdere anche Jonouchi. E se poi non
fossi mai riuscito a… e se mou hitori no boku non fosse mai
ritornato, se io avessi fallito, allora sarei rimasto
solo tutta la vita? Dovevo riuscire a spiegarmi, niente più
prove. Jonouchi doveva capirmi.
Le sue pupille
si sono dilatate per un istante, per poi ridursi a minuscoli puntini,
la presa intorno alle mie spalle si è allentata una frazione
di secondo. Poi è ritornata più forte di prima.
“Tu
cosa? Yugi no” scuoteva la testa ridendo “No, non
è… ok, farò finta di non aver sentito
quello che hai appena detto. Perché non è vero,
giusto?” io non ho risposto, le sue dita si sono strette
ancora di più intorno alle mie clavicole, il tessuto della
maglietta frastagliato in mille pieghe.
“Yugi,
e allora come…” io mi sono stretto nelle spalle,
sorridendo appena. “Perchè?”.
Già, era quella l’unica domanda che avesse senso.
Di risposte ne
ho formulate tantissime negli ultimi cinque anni. Ma non ne ho detta
nessuna. Jonouchi è rimasto in silenzio per qualche secondo,
forse pensando di nuovo al ‘come’, o cercando
indizi su quanto tempo era passato da quando avevo cominciato a pensare
a riportare indietro mou hitori no boku. E in qualche modo, ha fatto
due più due.
“Allora
l’università, tutta quella scienza…
“abbiamo annuito insieme “Era tutto fatto
apposta”.
Jonouchi mi
conosce come un libro aperto, Jonouchi è intelligente. I
pezzi del puzzle si incastravano velocemente fra le sue dita mentre i
suoi occhi diventavano sempre più cupi. Era decisamente
sulla strada giusta.
“Yugi,
non stai costruendo un piccolo Frankenstein vero?”. Già.
Ho sorriso
ancora una volta, scuotendo il capo.
“No,
Jonouchi” ho risposto “L’ho
già fatto”.
Certe cose
nascono per essere indescrivibili, è un limite a cui
chiunque accetti di usare una lingua deve sottostare. Ma forse non
è un difetto, forse il limite serve a proteggerci.
L’orrore sul volto di Anzu quella sera era una di quelle cose
che le parole non possono esprimere, la stessa categoria di cui faceva
parte l’espressione sul volto di Jonouchi. E anche mou hitori
no boku. Non sarei riuscito a descriverglielo, avrei sbagliato di nuovo
e Jonouchi sarebbe scappato via. Perciò l’ho
portato lì. Velocemente, prima che potesse protestare, prima
che potessi dire qualcosa di stupido o di avventato e mandare tutto
all’aria. Prima che il suo stupore si trasformasse in rabbia
e ribrezzo.
Ho aperto la
porta del laboratorio e ho sentito Jono emettere un piccolo gasp
strozzato. Il retro bottega è cambiato parecchio dai tempi
del liceo: adesso è un guazzabuglio di bulloni e metalli
luccicanti. Il regno delle macchine e proprio lì, al centro
della stanza, c’era il re, la macchina perfetta, quella a cui
stavo dedicando ogni minuto della mia vita. Jono è avanzato
lentamente verso di lui e io non ho fatto nulla per fermarlo: non era
una minaccia per mou hitori no boku, non Jonouchi. Avrei fatto di tutto
perchè non lo diventasse. Ha alzato una mano con esitazione
e si è voltato verso di me cercando con gli occhi il mio
permesso. E la certezza che quello che fosse sotto il telone era
davvero ciò che immaginava. Come ho abbassato la testa
annuendo, Jono ha sollevato il tessuto sintetico con un gesto veloce, e
poi si è come pietrificato.
Le orbite
vuote e scintillanti di Atem sembravano fissarlo con occhi che non
aveva, con una regalità che mi stava riportando
già indietro di anni, in un’altra vita.
Non era
finito, ma il faraone giaceva sul tavolo del mio laboratorio disteso
sulla schiena, le braccia strette vicino ai fianchi e le gambe appena
divaricate. La luce illuminava la scena come quando si faceva spazio
fra le colonne nei templi di Tebe millenni fa, ma invece di essere
composta da raggi di sole, quella che carezzava il mio Atem era luce
elettrica e fredda.
Non
c’era traccia del piccolo intervento che avevo terminato
prima che Jonouchi arrivasse, e i miei mesi di lavoro avevano dato i
loro frutti. Mou hitori no boku emanava la stessa compostezza e
regalità del sovrano che era stato e un silenzio
reverenziale avvolgeva il laboratorio, come se il minimo suono potesse
disturbare il sonno del faraone.
Jonouchi ha
fatto un passo indietro, intimorito dalla presenza di mou hitori no
boku‑ qualcosa che succede anche a me quando mi fermo a
fissarlo. Mi aspetto sempre di vederlo alzarsi
all’improvviso, di guardarmi col suo sguardo vuoto e
metallico, e in quei momenti mi viene voglia di chiedergli scusa e
permesso insieme per quello che gli sto facendo. Non era forse proibito
toccare la persona di un faraone tremila anni fa?
Poi,
così come era cominciato, l’incantesimo si
è dissolto con altrettanta rapidità e con un
gesto veloce Jonouchi ha ricoperto di nuovo mou hitori no boku. Si
è allontanato a grandi falcate dal centro della stanza,
mettendo quanta più distanza possibile tra lui e Atem, e
afferrandomi per un braccio mi ha portato fuori, sbattendo la porta.
Gli tremavano le dita. Aveva gli occhi lucidi.
“Jonouchi…”
ho mormorato io. Jono si è fermato lì in mezzo al
corridoio, scuoteva la testa mormorando qualcosa che non riuscivo a
capire.
“Jono,
ti prego…” gli ho afferrato le spalle anche io,
volevo che mi guardasse negli occhi, che mi parlasse, che mi dicesse
che non ero pazzo, che non ero un mostro, che mou hitori no boku non
era un mostro. Che non mi avrebbe abbandonato anche lui.
E poi Jonouchi
Katsuya ha cominciato a piangere gettandosi al mio collo. E in quel
momento non riuscivo a capire chi di noi due fosse più
fragile- il punto di rottura era così vicino…
forse lo avevamo superato entrambi e non ce ne eravamo accorti.
“Scusami,
scusami Yugi, ti prego-“.
“Perché…?”
“Dovevo
impedirti di partire, di fare tutte quelle cose stupide: e
l’elettronica, e le macchine, e la matematica… e
io che pensavo, pensavo che fosse per il tuo bene, che dovevi
distrarti, che dovevi cercarti un futuro…”
“Ma
era vero, era vero, Jono” era vero: mou hitori no
boku era
il
mio futuro.
“Dovevo
saperlo, dovevo essere lì per te. Dovevo, dovevo-“
Jono ha tirato su col naso allontanandosi da me, i capelli biondo
cenere a nascondere il rosso di un paio d’occhi che
strofinava insistentemente per nascondere le tracce del pianto. Certe
cose non cambiano mai…
Ho appoggiato
la mia mano sulla sua spalla. “Non era niente che tu e gli
altri poteste impedire” e a quel punto non sapevo se stessi
rassicurando di più lui o me stesso.
“Io… senza mou hitori no boku io non sono completo. Ti
prego…”
“No,
Yugi…”.
“Ti
prego, cerca di capirmi. Io ho bisogno di lui”.
“Ma
se n’è andato! Vuol dire che eri pronto a vivere
senza di lui, tutti noi eravamo pronti!”.
“Ma
io no! non era vero, erano tutte balle inventate dagli Ishtar per
portarlo via da me e mettersi in pace la loro stramaledetta coscienza
di protettori di tombe. Bella storia no? con una tomba crollata
c’è ben poco da proteggere no?”.
“Ora
non dare la colpa agli Ishtar!”.
Aveva ragione,
che senso aveva dare la colpa a loro? Ma allora di chi era la colpa?
Era mia perché l’ho battuto in duello, avrei forse
dovuto perdere? O è colpa di mou hitori no boku
perché lui ha deciso di andarsene? No, non può
essere così, lui… lui mi amava. Lui voleva rimanere con
me… allora…
“Hai
ragione, è colpa mia invece. Non avrei mai dovuto lasciarlo
andare…” e adesso ne pagavo le conseguenze. Mi
sono buttato a sedere sul divano del salotto, abbracciandomi le
braccia. “Mi sento solo, Jonouchi… così
solo…” ero troppo debole per piangere, ma qualche
lacrima è comunque riuscita a trovare la sua strada dai miei
occhi giù per le guance. Jonouchi si è seduto
vicino a me, un braccio attorno alle mie spalle nel modo protettivo che
aveva di essere il mio migliore amico.
“Ci
sono qui io, Yugi” ha mormorato “Sono
qui…”.
E io, mentre
lasciavo che mi stringesse, mi sono chiesto se quel ‘sono
qui’ avesse una data di scadenza. Quanto tempo sarebbe
passato prima che Jonouchi credesse che ero pazzo?
Lyrics da Silhouettes (Of Monsters and Men)
Colgo
l'occasione offertami dal mio angolo dell'autrice per ricordare a tutti
che questa è una storia puzzleshipping e blindshipping! Di
puzzleshipping (ahimè, one-way purtroppo) direi che fin'ora
ce n'è, resta da vedere cosa succederà con
l'altro pairing. Ma non me ne sono dimenticata! Tutto qui, ci leggiamo
giovedì per un'altra delle drabble della raccolta, grazie
come sempre per leggere e recensire le mie storie ^^
Ache
|
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Capitolo 10 *** Every Stolen Promise ***
Temo
che dovrò cambiare le date degli aggiornamenti
perchè mi sono accorta di non riuscire a rispettarli con la
mia schedule attuale. D'ora in poi Pictures of You verrà
aggiornata di martedì e la raccolta di drabble il
venerdì, sperando che così funzioni.
Anyway, ecco a voi il decimo capitolo.
Buona lettura!
There
is a title we can't win no matter
How
hard we might swing
4-5
Giugno 2003, Domino
Caro
diario,
Sono passati quasi quattro giorni da quando io e Jono abbiamo...
parlato.
Non è successo molto dal momento in cui ho avuto entrambi il
nostro breakdown. Jonouchi ha cercato di consolarmi, mi ha promesso che
non mi avrebbe abbandonato, che non avrebbe rivelato nulla a nessuno
finché non gli avessi dato il permesso di farlo... Non
è che non mi fidi di Jonouchi. È un amico leale,
il migliore che si possa desiderare dopo mou hitori no boku, ma sapevo
che non poteva durare. Jono vuole il mio bene, ne sono sicuro, ma il
bene che ha in mente lui è molto diverso da ciò
che potrebbe rendermi davvero felice. la normalità non
è qualcosa che ha mai caratterizzato nostro gruppo: un
gruppo fatto da un ragazzino posseduto da un fantasma che vive in un
gingillo di metallo maledetto da un dio maligno, un altro ragazzino che
indossa un altro gingillo di metallo maledetto dal dio maligno ma che
stavolta ospita uno spirito omicida e molto probabilmente
psicopatico… ok, non hai bisogno che ti racconti tutta la
storia, la conosci già…
Ma appunto per questo mi stupisco di come Jonouchi, e anche Anzu prima
di lui, non riescano ad accettare tutto questo. Lo sto facendo per
tutti. Erano suoi amici in fondo.
Oggi era il mio compleanno, e i ragazzi si sono presentati a casa mia
con una torta. Era un bel pensiero, davvero, ma in quel momento avevo
altro per la testa: stavo cercando di hackare il server
dell’anagrafe per inserire i dati di mou hitori no boku.
È un processo noioso, ma le scartoffie sono indispensabili
nel mondo moderno, fortunato l’altro me ad essere nato in
un’epoca in cui non c’erano.
Non li ho sentiti avvicinarsi, perciò immagino che gli altri
debbano essere rimasti ad aspettare all’ingresso o forse in
cucina dove infatti li ho trovati dopo, Jono invece è venuto
a bussare alla porta del mio laboratorio. Ero così nervoso
che non ho neanche riflettuto su cosa stessi dicendo quando ho grugnito
“avanti” senza neanche pensarci. Col senno di poi
è stato un miracolo che si trattasse di Jonouchi e non di un
altro di loro.
Stavo scrivendo freneticamente sulla tastiera mentre il ticchettio dei
passi di Jono sul pavimento pulito a specchio si faceva più
vicino. La pulizia è essenziale quando si tratta di
costruire componenti così piccoli. A volte mi definisco un
piccolo chirurgo, qualunque cosa pensi di me stesso,
l’aggettivo è sempre
‘piccolo’. Forse perché
all’ombra di mou hitori no boku io sarò sempre il
piccolo, il giovane Yugi. Anche se lui è morto a quindici
anni e io ora ne ho ventitré.
Il riflesso del petto di Jonouchi è apparso nel mio campo
visivo sul vetro del computer.
“Ehi” ha esordito, esattamente come
l’altra volta “Buon compleanno”.
Potevo sentirlo sorridere tra le sillabe, ho chiuso un paio di schede
da firefox e ho lasciato il computer a cuocere nel suo brodo di codici
e firewalls. Magari avevo davvero bisogno di distrarmi un
po’… Mi sono girato e mi sono passato una mano
sulla faccia per allontanare il sonno e le lettere fluorescenti di
pixel che ancora mi rimbalzavano davanti agli occhi.
“Grazie” ho sorriso anche io.
Jono cercava di sembrare il più naturale possibile accanto a
me, ma avrei potuto accorgermi anche al buio del modo in cui le sue
iridi fluttuavano nervosamente da un angolo all’altro della
stanza, incamerandone ogni particolare compresi agli introvabili
granelli di polvere, fino a fermarsi una frazione di istante
più del dovuto sul tavolo da lavoro di mou hitori no boku,
per poi tornare subito a fissarsi nelle mie, l’aria di un
bambino che non vuole farsi beccare quando sa di aver appena fatto
qualcosa che la mamma non vuole. Ma io non sono la madre di Jonouchi, e
forse lui avrebbe preferito che lo fossi in quel momento: chi
è che consola Jonouchi dopo che lui ha consolato noi? Da chi
va per ricaricare le batterie quando suo padre diventa una furia
dall’alito di whiskey e io sto lavorando a mou hitori no
boku? No, Jono, non sono tua madre, non potrei metterti in punizione
né sculacciarti, ma forse tu dovresti farlo con me.
“Ti abbiamo portato qualcosa per festeggiare, una torta
niente di che” ha detto stringendosi nelle spalle, lo sguardo
semplice da ragazzo di campagna che non è “Penso
che ti farebbe bene cambiare un po’ aria”.
So che si riferiva a mou hitori no boku, come se lui avesse una cattiva
influenza su di me, ma io ho annuito entusiasta, dandogli una pacca in
mezzo alle scapole.
“E io penso che tu abbia ragione, grazie Jou”.
“Di nulla, ti stai facendo vecchio eh?” ho
ridacchiato mentre mettevo in standby gli altri due computer e ci
avviavamo all’uscita.
“Vale anche per te sai?”.
“Touchè” ha ammesso allargando le
braccia in segno di resa e per un attimo è sembrato tutto
come ai vecchi tempi, un bagliore, una pagliuzza di passato. Ma
è stato quando eravamo alla porta, io con la mano
sull’interruttore della luce, che tutto è tornato
inesorabilmente al presente.
“C’è anche una sorpresa per te di
là che ti aspetta”.
“Cos’è?” ho chiesto io.
“Direi piuttosto chi”.
E mentre ero a un passo dalla cucina li ho intravisti con la coda
nell’occhio: capelli marrone castagna, striati da venature
chiare e scure come le assi di un pavimento di parquet- mai uguali a
sé stesse- raccolti in una disordinata treccia che
ondeggiava di lato al ritmo della loro proprietaria mentre questa si
abbassava per cercare un piatto d’alzata per la torta e poi
si drizzava nuovamente, stringendo il piatto fra le dita affusolate e
pallide come fosse un trofeo. La grazia di una farfalla, di un fiocco
di neve che cade. Di una ballerina.
Anzu.
È stato un attimo, al suono dei nostri passi Anzu si
è girata, il piatto ancora tra le mani, e i nostri occhi si
sono incrociati. Un po’ ironico a dirlo in questo modo: non
era uno di quegli incontri con l’anima gemella programmati
dal destino. Ma in un certo senso era ugualmente fatale. Davanti a me
si trovava la mia migliore amica, una persona che ero stato pronto a
cancellare completamente dalla mia vita e che credevo di aver
effettivamente visto per l’ultima volta quella sera di un
anno e mezzo fa. E che adesso era lì davanti a me. Venuta
apposta per me dall’altra pare dell’oceano per
festeggiare lo stupido compleanno del suo migliore amico pazzo in preda
alle manie di grandezza.
Anzu.
Anzu ha poggiato il piatto sul tavolo, portandosi una ciocca scura
dietro all’orecchio con un gesto della mano. Stava prendendo
tempo.
“Buon compleanno, Yugi” ha sorriso. Cosa avrei dato
per vedere il volto di Jou in questo momento: si erano parlati?
Perché Anzu era qui? Come aveva fatto ad arrivare, qual era
il vero motivo di quella visita? Cosa e quanto sapeva Jonouchi del
nostro litigio del 22 gennaio di un anno prima? Da quando?
“Grazie” ma non avevo modo di guardare Jonouchi
visto che gli stavo dando le spalle e non potevo non rivolgere la
parola ad Anzu. Forse ero diventato troppo paranoico, forse il vivere
da solo stava logorando i miei nervi e mi rendeva sospettoso anche
delle cose più care che avevo al mondo. Anzu era
lì, dopo che avevo accettato che fosse scomparsa dalla mia
vita per sempre. Forse non ero più solo, forse aveva
accettato mou hitori no boku e voleva che ci riappacificassimo. Forse
era ancora possibile che mi volesse bene. “Mi fa piacere che
tu sia qui” ho detto.
Honda e Ryou si sono uniti al coro degli auguri, apparentemente
indifferenti e non consci della tensione che aleggiava
nell’aria come elettricità statica, e forse era
meglio così. Anche io o deciso di lasciare correre per quel
pomeriggio, anche se fosse stato per quel pomeriggio soltanto- avevo un
brutto presentimento- ma per la prima volta in sette anni, ho deciso di
dimenticare mou htori no boku.
Abbiamo scherzato, abbiamo riso, abbiamo mangiato. Era da tempo che non
festeggiavo il mio compleanno col sorriso sulle labbra: in pochi minuti
eravamo tutti appollaiati sul divano, la maggior parte delle domande
erano dirette ad Anzu visto che era da molto tempo che gli altri non la
vedevano. Adesso era una professionista, aveva un posto fisso nel corpo
di ballo del New York City Ballet, e nonostante tutto aveva trovato il
tempo di venite a trovare il piccolo Yugi per festeggiare il suo
compleanno come ai vecchi tempi.
Il tempo è volato, prima che potessi rendermene conto era
già sera, Ryou e Honda hanno deciso di tornare a casa per
primi, Jono ha detto che li avrebbe raggiunti ma io ho offerto a
entrambi di rimanere a dormire da me: da quando il nonno se ne
è andato e mamma si è trasferita, le camere da
letto vuote abbondano qui in casa. I ragazzi hanno accettato con gioia.
Ho cercato un pigiama che potesse andar bene per Anzu fra le cose di
mia madre, Jono aveva già qualche vestito in casa,
rimasuglio delle volte che è rimasto a dormire qui negli
ultimi mesi.
Abbiamo parlato ancora, riso, scherzato. Era mezzanotte quando abbiamo
deciso di comune accordo di essere troppo stanchi per continuare
ancora, e siamo andati a dormire.
I numeri verde fosforescente sul display della mia sveglia segnavano le
due e un minuto quando ho sentito il rumore, come di una porta che
sbatteva, che mi ha svegliato.
Mi sono messo a sedere sul letto, guardandomi intorno: non
c’era nulla di strano in camera mia, dalla finestra filtrava
qualche pigro raggio di luce arancione dai lampioni e il buio avvolgeva
silenziosamente ogni cosa.
Un altro rumore. Veniva dal piano di sotto. C’era
qualcuno in casa?
“Jono,” ho chiamato scendendo dal letto e
avviandomi a passi veloci alla porta. “Anzu?”. Mi
sono avvicinato alla sua stanza ma dopo qualche secondo che provavo a
bussare e lei non apriva mi sono deciso ad abbassare la maniglia ed
entrare. Era vuota. Più velocemente mi sono precipitato
giù per le scale e ho spalancato la porta della camera di
Jonouchi. Era vuota anche quella.
“Jonouchi…”. Sono rimasto in silenzio
per alcuni secondi, attento a qualunque suono troppo ovattato dalla
notte che potesse vagare per la casa, e poi ho sentito una voce, quasi
un lamento, provenire dalla parte del negozio.
“Non può essere…”
“Te lo avevo detto”.
Mou hitori no boku.
“Jonouchi, Anzu!” ho gridato correndo verso il
retrobottega: la porta era stata forzata, la chiave era ancora in
camera mia e Jonouchi deve averla aperta a furia di spallate. La luce
biancastra delle lampadine illuminava la scena come quando ho mostrato
mou hitori no boku a Jonouchi per la prima volta, e infatti il faraone
era ancora lì, disteso nel suo sonno regale sul tavolo da
lavoro, il panno che lo ricopriva era fra le mani di Jonouchi e Anzu
fissava Atem con le mani sulla bocca, scuotendo la testa.
“Che cosa state facendo qui?” e io ero arrabbiato,
arrabbiato come forse non lo sono mai stato con i miei amici prima
d’ora.
“Yugi?”.
Jonouchi si è girato di scatto pronunciando il mio nome, il
tono della domanda era più che altro di esclamazione.
Insomma, mi è difficile credere che non si aspettassero di
vedermi comparire nel laboratorio!
Nel preciso momento in cui li ho visti entrambi nella stanza davanti a
mou hitori no boku sapevo che Jonouchi e Anzu si erano raccontati tutto
di quel 22 gennaio, che lei non aveva idea che il mio progetto fosse
così vicino dall’essere concluso, che aveva
sperato ancora, fino a quel momento, che io rinunciassi e tornassi
sulla strada della ragione, e che Jonouchi aveva deciso di mostrarle
Atem perché speravano di allontanarmi da lui. Anzu era da
sola quella sera di un anno e mezzo fa, adesso erano in due.
Jonouchi ha mai veramente accettato mou hitori no boku, come ha detto
quattro giorni fa? C’è qualcuno di cui io possa
fidarmi?
Come una mamma orsa che difende i suoi cuccioli, mi sono fatto strada
in mezzo ai due intrusi, andandomi a parare esattamente di fronte a mou
hitori no boku, il petto esposto e il mento in su, cercando di
conquistare una statura e un portamento che sapevo bene di non avere.
Ma non avrei permesso a nessuno di loro due di sfiorare il mio Atem
neanche con un dito. Lui era di più, era di più
del mio cucciolo, della mia creatura. Io non sono pazzo, non sono un
maledetto Frankenstein. In quel momento mou hitori no boku era
semplicemente tutto ciò che mi era rimasto.
Ho strappato via dalle dita di Jonouchi il panno che aveva ricoperto
Atem per riporlo di nuovo su mou hitori no boku come un lenzuolo. Anzu
mi ha afferrato il braccio.
“Yugi ti prego ascoltaci” ho scrollato via la sua
mano con una spallata, girandomi per incontrare i suoi occhi solo dopo
aver terminato il mio lavoro. Il mio sguardo si è subito
spostato su Jonouchi.
“Non me lo sarei mai aspettato da te…”
erano parole scelte per fargli male, ne ero consapevole,
perché io in fondo me lo sarei dovuto aspettare da Jonouchi
e dentro di me forse l’ho sempre saputo. Stava facendo
esattamente quello che avrebbe voluto fare quella volta che il Red
Clown era in fiamme e noi eravamo imprigionati nella stanza, il puzzle
del millennio ridotto a piccoli pezzi di oro bollente fra le mie dita,
frenetiche nel loro tentativo di ricomporlo. E mai abbastanza
velocemente. Quel giorno Jonouchi avrebbe voluto portarmi via da
lì con la forza: in una competizione fra me e mou hitori no
boku, l’altro me otterrebbe sempre il secondo posto nel suo
cuore, lo so bene. Dovendo scegliere fra lui e me, Jonuchi sceglierebbe
sempre il piccolo Yugi, a costo di sacrificare mou hitori no boku. Ed
era quello che stava facendo anche adesso.
“Yugi ti prego ragiona: tutto questo non è reale.
Non può esserlo è… è
fantascienza, è-”
“No, Jonouchi. Tutto questo è assolutamente reale.
Lui era reale, lo era tremila anni fa, lo era cinque anni fa, e lo
è ancora adesso. E non mi importa quello che proverete a
fare, ma lo sarà anche domani. Lo sarà di
nuovo-” eccole, mi erano mancate le mie lacrime. Potevo
sentire il liquido salato cominciare a pizzicare agli angoli dei miei
occhi. Anche Anzu aveva gli occhi lucidi.
“Yugi, Yugi calmati” non è scappata via
questa volta, mi ha stretto a sé come una sorella maggiore,
le dita che scorrevano fra i miei capelli disordinati.
“Vogliamo solo aiutarti…” sussurrava.
“Cosa avevate intenzione di fare stanotte?” ho
mormorato contro la sua maglietta, la rabbia che defluiva lentamente
via per far posto alla desolazione. Distruggerlo?
Nessuno dei due ha risposto, era quello che temevo.
“Sono quasi morto quando mi ha lasciato” mi sono
staccato da Anzu per poter osservare Jonouchi “Se uccidete
lui, ucciderete anche me” era un dato di fatto, non una
minaccia. Era la mia debolezza, la più grande, immensa
debolezza che avevo. Lo era sempre stata.
“Ragiona, Yugi” Jonouchi si è
avvicinato, una mano sulla spalla di Anzu, sembravamo stretti in
circolo. “Cosa farai una volta che avrai finito, hm?
È un robot, Yugi. Una macchina. Per quanto tu possa
lavorarci, per quanto possa provare a renderlo perfetto e infallibile
non sarà mai Atem”.
“I microchip pensanti-“
“Sono solo ammassi di silicio o di altre diavolerie
elettroniche che non conosco! Possono giudicare, possono agire come una
mente umana, ma non sono lui! Cosa ti fa pensare che riuscirai a
programmare un microchip per comportarsi e pensare esattamente come
Atem? Condividevate una mente e un corpo, ma neanche tu sapevi quello
che pensava il cento per cento delle volte. Nessuno può
sapere così tanto su una persona”. No, non volevo
sentire.
“E anche se ci riuscissi” il turno di Anzu
“Non pensi a come si sentirebbe lui? Un essere umano che
però è una macchina, priva di una sua
identità perché è finita per essere la
brutta copia di qualcuno che adesso non è più.
Una macchina senza uno scopo o obbiettivo nella vita, che esiste solo
per farti compagnia e per darti l’illusione che Atem non se
ne sia andato. Vuoi usarlo così? È questo che
vuoi? Pensi che Atem vorrebbe sentirsi usato in questo modo se quello
che stai costruendo fosse veramente lui?”.
“Atem mi amava…” mou hitori
no boku, mou hitori no boku falli stare zitti ti prego.
“Yugi, lo so che fa male” Anzu invece non aveva
intenzione di fermarsi “Lo amavo anche io. Esattamente come
lo amavi tu” no, mai quanto lo amavo io
“Ma arriva il momento in cui devi lasciar andare”. No,
mai.
“Ascoltaci Yugi, andare avanti per questa strada
finirà per distruggerti. Quando ti renderai conto che lui
non Atem, che non lo sarà mai, sarà come perderlo
una seconda volta, avrai buttato all’aria una vita, dovrai
ricominciare da capo”. E allora cosa suggerisci di fare, hm
Jonouchi? Prendere un martello e cominciare a colpire mou hitori no
boku finchè di lui non sarà rimasta un
po’ di poltiglia luccicante di cavi d’acciaio?
Questo mi farebbe stare meglio?
“Voglio solo riaverlo qui…” un
tentativo, uno soltanto. Se lui non torna… lo
raggiungerò io.
“No, Yugi. Non ti permetteremo di buttare la tua vita
così!”.
“Ma non c’è vita senza di lui, lo volete
capire!” perché queste discussioni finiscono
sempre fra urla e pianti? Perché deve essere tutto
così dannatamente complicato?
“Non dire queste cose…” no
Anzu, basta con le lacrime. “Ci sono tante altre
bellissime cose a questo mondo: la tua famiglia, i tuoi amici, hai una
mente brillante, potresti fare qualunque cosa, potresti tornare a
duellare, lavorare per Kaiba, tornare con me in America…
Trovare qualcuno che ti meriti, che rispetti il tuo dolore ma sappia
colmare il vuoto che lui ha lasciato” il calore di braccia
umane e non metalliche attorno alla mia vita, invecchiare insieme a
qualcuno che non conosci a tavolino e con cui ogni giorno è
una nuova scoperta. D’improvviso davanti ai miei occhi
è passato in rassegna tutto ciò che avrei perso e
a cui stavo consapevolmente rinunciando dedicandomi solo e soltanto a
mou hitori no boku.
Atem… Atem valeva tutto questo? Una macchina, la mia
macchina, poteva regalarmi la stessa felicità, se non
maggiore, di un essere umano in carne ed ossa? Ma chi allora? Ho
passato cinque anni a chiedermelo, ma non vedo nessun altro modo per me
di trovare qualcuno da amare. Non potrei amare nessun altro e mai nel
modo in cui amo lui.
No.
“Il mio posto è qui con lui…”
amici, famiglia, lavoro… tutte cose a cui non volevo
rinunciare. Non voglio essere solo. Ma se loro mi avessero abbandonato
a causa di mou hitori no boku, allora avrei fatto di lui la mia casa,
la mia famiglia, il mio amico. Il mio tutto.
“Yugi…” la voce di Jonouchi è
stata forse quello che mi ha fatto più male. Non era solo
una supplica, era il rifiuto di credere all’evidenza, di
abbandonare il suo migliore amico, di vedere che Yugi era
irrecuperabile. E lui non poteva farci niente. Era impotenza.
“Yugi ti prego…” ho stretto Anzu a me e
Jonouchi si è unito al nostro abbraccio. Vorrei che
potessimo avere queste scene in contesti più felici un
domani, ma non ho idea di cosa ci riserverà il futuro. Gli
unici piani che ho sono per l’altro me.
Ho
scosso la testa.
“Perdonatemi” ho mormorato, e mi dispiaceva, mi
dispiaceva nel più piccolo briciolo di me stesso
“ma mou hitori no boku è troppo
importante” ma io non potevo, assolutamente, lasciarlo andare.
Lyrics da Pictures of You
(The Last Goodnight)
Vorrei ringraziare Evee e tutte le persone che
hanno trovato il tempo di lasciare una recensione a questa storia:
è la prima volta che una delle mie ficci raggiunge le 20
recensioni e a parte saltellare per la stanza per i bellissimi *e
immeritati* complimenti vorrei davvero abbracciare ognuna di voi. E'
probabile che 'fermerò' questa storia per un paio di
settimane se non riuscirò a scrivere almeno un paio di
capitoli da qui a domenica ma voglio comunque assicurare a tutti che Pictures
of You verrà finita: le
multichapter sono la mia nemesi e io mi rifiuto di riporne nel cassetto
un'altra. Perciò, semplicemente grazie a tutti voi per
continuare a seguire il viaggio del piccolo Yugi nella follia: grazie a
chi recensisce, a chi ha aggiunto la storia fra le seguite, preferite
ecc., grazie a chi legge e basta *biscotti per tutti visto che
è pure mattina*.
E a venerdì per la drabble che doveva uscire
giovedì scorso ^^'
|
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Capitolo 11 *** The Scientists Inside the Lab ***
Capitolo
nuovo! Evvai! Non ho molto da aggiungere, solo che con i suoi 11
capitoli Pictures of You è adesso
ufficialmente la storia più lunga che abbia ma pubblicato,
Buona lettura!
And
as the world comes to an end
I'll be here to hold your hand
'Cause you're my king and I'm your lionheart
11
Luglio 2003, Domino
Caro
diario,
Quella sera ci
siamo addormentati nel laboratorio vicino a mou hitori no boku, eravamo
ancora stretti tra noi quando il giorno dopo ci siamo svegliati. Era
una sensazione… strana, allo stesso tempo fuori luogo ma
familiare. Quanto è rimasto di noi tre di quello che eravamo
un tempo?
Ci siamo
salutati senza neanche fare colazione, la torta del giorno prima non
ora avanzata e mancava quindi una buona scusa per costringere Jonouchi
a restare a mangiare. Probabilmente in dispensa c’erano solo
cereali e riso. E caffè. Tonnellate di caffè
solubile.
“Vi
informerò sui progressi di Atem” è
così che ci siamo salutati. Mi sarebbe piaciuto se anche
Atem potesse avere qualche ricordo della notte che abbiamo passato a
dormire nel laboratorio, chissà se si è accorto
di qualcosa...
Mi convinco di
sapere così tante cose su di lui, di aver previsto ogni
cosa, studiato ogni sfaccettatura, ma dentro di me so che ogni secondo
che vivrà e ogni sillaba che uscirà dalla sua
bocca sarà imprevedibile e imprevista e potremmo finire per
studiarci a vicenda come avversari nel corso di un duello. Un minuzioso
gioco di trova le differenze. E in tutto questo l’etica torna
a bussare alla mia porta quasi ogni giorno, e quando non passa
è perché mi rifiuto di riconoscere la sua
presenza. È giusto fornire ad Atem qualche conoscenza delle
continue discussioni che ho con i miei amici, merita di sapere che non
è il benvenuto? Che loro lo ritengono la brutta copia di
qualcosa che è stato? Non voglio ferire la sua autostima o
tradire i ricordi che gli fornirò di loro, ma allo stesso
tempo deve sapere quello che è cambiato e quello che
è rimasto uguale, o finirà per essere
intrappolato nel passato ancora una volta. Merita di giocare anche lui
al gioco delle differenze.
Progressi a
parte, mi sono comunque ripromesso di chiamare Jonouchi e Anzu quando
Atem avesse aperto gli occhi perché mi sono stancato di
nascondermi dietro a un foglio di carta, ed è lo stesso
motivo per cui ho chiesto loro di non raccontare a Honda e Ryou di mou
hitori no boku. Lo avrei fatto io stesso. E così
è stato, appena se ne sono andati ho afferrato la cornetta
del telefono, perché ormai sapevo di aver raggiunto il punto
in cui delle loro reazioni non mi sarebbe importato più di
tanto, non più di quanto mi importasse di mou hitori no
boku. Quel giorno ho deciso che non potevo e soprattutto non volevo
tornare indietro.
Sono venuti
entrambi e abbiamo pranzato insieme, i giri di parole non erano
necessari: ho detto loro esattamente quello che Anzu e Jonouchi
sapevano, che sapevo che non avrebbero approvato ma nonostante tutto lo
stavo facendo anche per loro. Ecco… forse è
questo l’unico giro di parole dietro al quale mi sono sempre
nascosto. Ma continuo, perché mi sono raccontato questa
bugia per così tanto tempo che forse ho cominciato a
crederci anche io… ma ormai mi è sempre
più chiaro che non c’è nessun altro per
cui io lo stia facendo se non per me stesso.
Fra i miei
quattro amici, quelli che ancora frequento dopo tutto questo tempo,
Ryou è stato il più comprensivo. Non è
saltato giù dal divano come Honda, afferrandomi per la
spalla e scuotendomi forte, come se potesse bastare quello per
svegliarmi dal mio sogno e farmi tornare con i piedi per terra- una
frase che mi ha gridato più volte nel corso di un pomeriggio
che assomigliava sempre di più a una soap opera di seconda
serata. C’era qualcosa di indecifrabile nello sguardo di
Ryou, nel modo in cui il marrone color caffè si è
fatto opaco e i cerchi neri attorno agli occhi sembravano di nuovo
visibili, le occhiaie che Bakura gli lasciava in regalo alla fine di
ogni suo giretto notturno. Ryou sa cosa vuol dire essere vicini al
punto di rottura, camminare sul baratro della follia come un funambolo
su un filo di nylon e scoprire con terrore che in fondo, il cadere
giù non sarebbe poi tanto male. Renderebbe tutto
più facile, tutto avrebbe finalmente un senso…
I minuti
scorrevano veloci mentre Honda cercava di capire cosa realmente stesse
succedendo, il tempo è cinico, e verso il tramonto mi ha
salutato con occhi lucidi, dopo che io avevo tradito le sue opinioni su
me stesso e sulla mia forza d’animo per cinque anni, e se ne
è andato trascinandosi oltre la porta, mormorando che aveva
bisogno di tempo per pensare. Suppongo abbia chiamato Jonouchi subito
dopo, e lo abbia assalito come una madre ansiosa perché lui
sapeva e non gli aveva detto niente. Ryou invece era ancora sul divano,
la testa poggiata nel palmo mentre fissava il tavolo con occhi vuoti.
Mi ha chiesto
se poteva vedere mou hitori no boku. Ed è rimasto a bocca
aperta.
Nei giorni
seguenti Honda, Jonouchi, Anzu e Ryou si sono alternati vicendevolmente
a casa a mia, a gruppi di due, di tre, una volta tutti insieme,
raramente da soli. Eppure non parlavamo che di piccole cose, a volte
vicino a mou hitori no boku perché se non sono nel mio
laboratorio, se non mi do l’impressione di stare facendo
qualcosa, mi sento inutile. E pateticamente solo. Qualche giorno dopo
siamo andati insieme in aeroporto per salutare Anzu che è
tornata in America alla fine di giugno, e da quando se ne è
andata le visite a casa mia sono diminuite a poco a poco. Jono viene
ancora a dormire di tanto in tanto, ma credo che la presenza di mou
hitori no boku gli faccia persino rimpiangere le urla di suo padre.
Ryou al contrario è diventato un frequentatore abituale del
laboratorio: ha cominciato a venire sempre più spesso e
quando mi osserva che lavoro ad Atem non lo fa con uno sguardo
disgustato. Mi studia, come se fossi uno dei documenti che gli danno da
decifrare in facoltà, e fa domande.
È
la prima persona ad aver superato l’idea che io sia diventato
completamente pazzo, ed è stata la prima persona a
congratularsi con me un giorno, quando avevo finito di spiegargli in
che modo Atem era diverso da una macchina- priva di emozioni e di
sentimenti. Mi ha detto che quello che stavo facendo era incredibile,
oltre ogni immaginazione, e che non avrebbe mai pensato che la scienza
potesse giungere a simili livelli. Nonostante
l’apprezzamento, sono ancora convinto che anche Ryou sostenga
che dovrei fermarmi finché sono in tempo: ho dimostrato al
mondo che sono in grado di costruire una persona, che posso cavarmela,
che sono brillante, ho trasformato una macchina in Atem e sto
trasformando Atem in una persona, aggiungendo emozioni e ricordi come
un alchimista aggiunge ingredienti alla sua pozione. Posso ritenermi
soddisfatto. Continuare ancora finirebbe per distruggermi.
Ma Atem
è la mia pietra filosofale, e io devo riuscire. Mi fa quasi
male vederlo qui accanto a me, che dorme sprofondato nel suo coma- un
sonno dal quale ho il terrore che potrebbe non risvegliarsi mai.
“Ti
sveglierai…” gli mormoro quasi ogni giorno,
cercando di rassicurare più me che lui, carezzando quegli
zigomi perfetti, soffici come pelle vera, passando le dita fra i
capelli neri screziati di rosso. “Te lo prometto” e
a volte mi aspetto che alle mie parole lui si giri verso di me, il
volto imbronciato perché ho interrotto il suo riposo, e apra
piano, pianissimo, dei bellissimi occhi rossi ammantati di sonno.
Parlare con
Atem è diventato normale ormai, così tanto che
non faccio più caso a quante volte mi ritrovo a rivolgergli
la parola o a commentare con lui qualcosa, e lo faccio così
naturalmente che mi stupisco quando non sento nessuna risposta e devo
ricordare a me stesso che non posso riceverne una.
“Questo farà un po’
male…” gli dico prima iniettare una piccola dose
di corrente per studiare le reazioni del suo cervello elettronico.
“Vorrei doverlo non fare, credimi” mi scuso mentre
invado di nuovo la sua privacy e con un piccolo cacciavite ripulisco le
sue viscere di titanio. “Sono stanco…”
gli racconto della mia giornata, dei miei progressi, dei miei passi
indietro, del suo passato…
Amo
raccontargli del suo passato e mi piace far finta che lui possa
sentirmi, mi piace immaginarmi Atem avido di racconti che mi prega di
continuare a parlare. E io racconto, passo le giornate al computer o al
microscopio e mi faccio compagnia con la mia stessa voce, a volte
parlando più piano, a volte mormorando o ridacchiando,
cambiando intonazione a seconda del mio stato d’animo e
dell’umore.
Parlo del
puzzle del millennio, parlo della scuola e della mia infanzia, parlo di
giochi delle tenebre, di antichi rituali, di palazzi vecchi di millenni
e sacerdoti bardati d’oro e candido lino, parlo di minacce e
di paura, di speranza, di amicizia e di promesse. Non parlo di amore.
Nel mio
delirio non sono ancora così pazzo da mettermi a parlare di
amore con Atem, e spero che l’euforia non mi farà
raggiungere quello stato quando lui sarà davvero in grado di
sentirmi. Lo forzerei a ricambiarmi, senza allo stesso tempo dargli la
possibilità di indagare la mia personalità e
capire quali siano davvero i miei sentimenti per lui. Qualcosa che in
fondo non conosco neanche io, perché io so che amavo mou
hitori no boku, ma non so chi sarà Atem. Per il momento
però mi accontento di fantasticare, sognare ad occhi aperti
è qualcosa che ho sempre fatto. Per ora è
abbastanza.
“Credi
che si sveglierà?”. Oggi era uno di quei giorni in
cui Ryou era nel laboratorio con me, se ne stava appollaiato sulla
scrivania con le gambe penzoloni, giocherellando con un cacciavite a
stella. Lo sguardo fisso sui movimenti delle mie mani.
“Passami
quella usb” gli ho risposto smettendo per un attimo di
scrivere sulla tastiera. La mia intenzione non era di ignorare la sua
domanda, piuttosto di accantonarla: preferisco non pensare al
fallimento prima del tempo, per il mio lavoro ho bisogno di conservare
intatto l’ottimismo. Ryou ha cambiato sapientemente argomento
porgendomi la chiavetta. Averlo nel laboratorio è perfino
utile oltre che piacevole, a volte mi chiedo come sarebbe stato avere
un assistente.
“Come
intendi svegliarlo?” ha domandato.
Le mie mani si
sono fermate a mezz’aria vicino la presa della periferica,
non potevo vedermi le guance ma sarei stato pronto a giurare che non
erano più totalmente pallide.
“Che
domanda è?” il tono che volevo usare per la
risposta era seccato, invece le parole che sono uscite dalla mia bocca
avevano più che altro l’aspetto di
un’esclamazione stridula, qualcosa di terribilmente colpevole
oltre che imbarazzante.
“E’
che non ho visto nessun pulsante di accensione o spegnimento”
Ryou si è stretto nelle spalle indicando Atem con il mento,
la sua espressione vagava dall’innocenza del ‘mi
sembra una domanda più che lecita’ al calcolatorio
del ‘cos’hai davvero in mente, Yugi?’.
“Perciò mi sono chiesto come hai intenzione di
svegliarlo. Pensi di fulminarlo come il dottor Frankenstein?”
“Volete
smetterla di paragonarmi tutti a Frankenstein? Non ho dissezionato
nessun cadavere, sono un ingegnere non un becchino!” ho
nascosto il mio imbarazzo dietro lo schermo dell’etica
professionale. L’idea dell’elettricità
non era del tutto sciocca, ma troppo traumatica. Mou hitori no boku
è delicato, quasi quanto un essere umano, non potevo
rischiare che un eccessivo voltaggio lo danneggiasse. Ma Ryou aveva
ragione: non c’era nessun tasto di accensione o spegnimento.
Da nessuna parte. Una volta acceso, l’unico modo per spegnere
Atem è ucciderlo, danneggiando l’equivalente della
sua unità centrale o facendolo a pezzi.
“Allora?”
il tono di Ryou si è fatto incalzante. Atem ovviamente ha un programma di
accensione, come tutti i computer, basta collegarlo al principale dei
miei tre pc, quello che contiene tutti i dati relativi alla ram di mou
hitori no boku, ed eseguire il programma prestabilito. Solo che il
programma e basta non sarebbe sufficiente… è
necessario un ultimo gesto che non può in alcun modo
provenire da un computer…
“C’è una piccolissima presa sotto il
rivestimento di pelle del retro dell’orecchio
sinistro” ho indicato verso mou hitori no boku con la stessa
mano che stringeva ancora la usb. “Basta sollevare il
rivestimento e collegare Atem a questo computer con un cavetto
compatibile. Il computer farà il resto e attiverà
il programma di accensione. Dopo un’ora circa
l’intero programma verrà eseguito, Atem
sarà sveglio e completamente funzionante”, e
pronto per ricevere l’ultimo, decisivo input, “E a
quel punto aprirà gli occhi”. Ryou ha annuito con
il solito sguardo affascinato, anche se probabilmente aveva sperato in
qualcosa di più pirotecnico.
“E
per spegnerlo?”.
“Non
puoi spegnerlo” mi sono spinto via dal bordo della scrivania
con le mani e la sedia girevole è schizzata lateralmente
verso di lui, cosicché io e Ryou fossimo in grado di
guardarci faccia a faccia.
“Un
essere umano non si spegne” ho continuato
“Perciò neanche Atem si può spegnere.
L’unica cosa che puoi fare è ucciderlo. Danni,
incuria, manomissione, orsi grizzly… fai tu. La violenza
può ucciderlo, anche se non credo che una pallottola
potrebbe scalfirlo, mentre altre cose che uccidono un essere umano, per
esempio l’acqua, non servirebbero a molto. Magari un forte
urto o temperature molto elevate potrebbero apportargli dei seri danni
ma…” mentre ero perso nel mio enciclopedico elenco
di 1000 modi per uccidere mou hitori no boku, Ryou ora fissava Atem.
Ryou non avrebbe mai cercato di ucciderlo, vero?
“Comunque,” ho concluso “Non esiste un
programma di spegnimento”.
Ryou
è rimasto a fissare mou hitori no boku ancora per un
po’, poi si è girato verso di me
un’altra volta, la testa inclinata di lato e gli occhi pieni
di... pena. Pietà… per Atem?
“E
se lui volesse
essere
spento?” ha mormorato lentamente. Ho deglutito a vuoto.
“Intendi…
se volesse morire?” cercavo di limitare l’uso del
linguaggio elettronico quando si parlava di mou hitori no boku: era
come se frapponesse una distanza spaventosa tra me e lui. Ryou ha
annuito.
“In
quel caso… se davvero, veramente e sinceramente desiderasse
morire, non potrei obbligarlo a restare con me. Dovrei creare un
programma di spegnimento e collegarlo di nuovo al computer, in
un’ora al massivo dall’avviamento del programma
potremmo dirci addio di nuovo” e stavolta per sempre.
Ryou sembrava
soddisfatto della mia risposta, forse lo ha rassicurato del fatto che
non avevo perso tutte le rotelle e che non sarei arrivato al punto di
forzare Atem a rimanere al mio fianco contro la sua volontà:
avevo dato a Ryou la conferma di essere ancora lucido. Si è
alzato dal suo giaciglio a cavalcioni della mia scrivania e mi ha
stretto affettuosamente la spalla con la mano, ha salutato me e Atem ed
è uscito dal laboratorio, lasciandomi solo con mou hitori no
boku, a pensare perché avevo programmato
l’accensione in modo che avesse bisogno di uno stimolo anche
dal mondo esterno per essere tale.
Il vero motivo
è… che ne ho bisogno io. Nell’ultimo
mese, man mano che i lavori progredivano, sono stato assalito dai
dubbi. Se mou hitori no boku mi chiedesse davvero di morire, se non si
ricordasse di me, se mi rifiutasse…
Come posso
definirlo senza farlo sembrare più infantile di quanto
già non sia? Un premio di
consolazione?
Lo stimolo per
il quale ho programmato il programma è un bacio sulle
labbra. So che è stupido. Ma sono anche consapevole che
potrebbe essere la mia unica possibilità di sentirmi di
nuovo così vicino a mou hitori no boku. Non lo faccio per
approfittami di lui... è qualcosa di cui ho bisogno, almeno
un’altra volta.
Credo che
questo farebbe di lui una Bella Addormentata agli occhi della maggior
parte delle persone ma… a me piace di più pensare
a lui come a Biancaneve. La favola in sè non
c’entra molto, ma è proprio la scena del bacio a
essere molto diversa. Quando la Bella Addormentata viene baciata dal
suo principe, lui si aspetta che lei si svegli,
è venuto lì apposta, non c’è
un altro motivo dietro al suo gesto: il bacio serve, è fatto
apposta,
per svegliarla. Biancaneve invece… è morta. O
comunque, tutti credono che lo sia, proprio come nel caso Atem. Per
tutti quelli che se ne stanno intorno alla bara Biancaneve non sta
dormendo. E il suo principe non la bacia nella speranza di svegliarla:
è guidato dal dolore e dalla disperazione. Eppure anche
nella morte non può fare a meno di amarla. È un
bacio di addio.
Sto sognando
ancora. Sono cinque anni che sogno ad occhi aperti, forse sette, anche
se gli anni trascorsi al fianco di mou hitori no boku mi sono sembrati
decisamente reali. Ma mi piace sognare, mi dà
forza… e voglio concludere il mio sogno con qualcosa di
speciale perchè non so cosa mi aspetta al risveglio.
E in fondo,
neanche mou hitori no boku potrebbe sapere quello che ho fatto.
Ho guardato
Atem un’ultima volta prima di alzarmi anche io dalla
scrivania. L’ho ricoperto con cura col suo telo, sussurrando
“Buonanotte” prima di uscire.
E
come ogni volta, non ho ricevuto nessuna risposta.
Lyrics da King and Lionheart (Of
Monsters and Men)
Ammetto di essermi lasciata influenzare da Zettai Kareshi per la storia
del bacio, ma non ho resistito.
Non so dire con esattezza quando potrò aggiornare di nuovo,
spero presto ovviamente, ma ormai non mi mancano molti capitoli da
scrivere prima della fine quindi gli aggiornamenti potrebbero tornare
settimanali tra poco.
Grazie mille per aver letto fin qui!
Ache
|
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Capitolo 12 *** The First Sound of a Newborn Child ***
Ahem
*schiarisce la voce timidamente spuntando da sotto la scrivania* salve?
Questo
capitolo è stato un parto (vedere fondo fic per ulteriori
delucidazioni), le ultime settimane sono state un parto, ma ho promesso
che in un modo o nell'altro questa storia sarebbe stata finita e per
premiare la vostra pazienza o adorabili lettori vi offro il capitolo
che tutti voi aspettavate ormai da secoli (notare il titolo, prego).
Perciò senza ulteriore indugio vi lascio nelle mani di Yugi,
sperando che le parole che seguono siano valse la lunga attesa (;
Buona lettura!
Pictures
of you, pictures of me
Remind
us all of what we used to be
29-30
Agosto 2003, Domino
Caro
diario,
Ho sbarrato
gli occhi dando un’occhiata all’orario:
l’1.46. Mi è capitato di rimanere alzato anche
più a lungo, è vero, ma rinchiuso nel laboratorio
non mi ero reso conto di stare lavorando da quasi diciotto ore.
Gli occhi mi
bruciavano, pizzicando imploravano una tregua da tutti quei flash di
luce artificiale a cui li sottoponevo di continuo, e il caldo e
l’umidità si erano condensate sulla superficie dei
miei occhiali come se stessi bevendo una tazza di tè
bollente. Le notti di Domino sono molto più calde di quelle
di Tokyo o della costa dell’Atlantico. Mi sono drizzato in
piedi, una mano appoggiata alla schiena per sostenermi, indolenzita per
tutte le ore in cui l’avevo costretta sempre nella stessa
posizione. Ho sorriso, mi sentivo un po’ come se avessi i
reumatismi, e non c’era letteralmente altro che avrei voluto
fare in quel momento se non sorridere. Era fatta.
Con la
soddisfazione che deve aver provato un pittore rinascimentale nel
posare il pennello quando il quadro è finalmente finito, ho
deposto i miei occhiali sul tavolo da lavoro, ormai sgombro di
qualunque utensile. Avrei potuto mettermi a cantare per quanto ne
sapessi. Erano le due del mattino di una delle notti più
torride che Domino avesse mai conosciuto e io, Mutou Yugi, avevo
finalmente portato a termine il progetto di una vita.
Di fronte a
me, addormentato con la testa inclinata sopra il cuscino e le ciocche
spettinate, giaceva mou hitori no boku. Atem. Atem Watanabe per la
precisione: cittadino dello Stato del Giappone di madre giapponese e
padre egiziano, nato a Luxor il 29 febbraio di ventiquattro anni fa.
Indosso porta una delle mie magliette bianche e jeans blu consumati, ha
gli stessi zigomi pronunciati della gente araba e condivide con me la
stessa statura che molta gente storcerebbe il naso a definire
‘altezza’. Atem.
Questa
è la storia raccontata dalla sua carta di
identità, che custodisco con cura nel cassetto fino al
momento in cui potrò consegnargliela. Ma la versione che
conosco io è diversa: Atem è l’unico
figlio del faraone Aknamkanon, incoronato appena adolescente durante il
Nuovo Regno e deceduto senza figli a diciassette anni, durante una
guerra. Con un sortilegio ha rinchiuso il suo Ba nel puzzle del
millennio per tremila anni e cinque anni fa ha deposto la sua spada,
perdendo un duello cerimoniale, e gli dei lo hanno finalmente accolto
fra loro nei Campi Laru. Mou hitori no boku.
C’è
una sottile, eppure fondamentale differenza fra queste due, o forse tre
persone: Atem Watanabe, Atem e mou hitori no boku. O forse solo occhi
allenati come i miei o dei miei amici potrebbero coglierla.
Perchè ora che Atem Watanabe dormiva di fronte a me non
potevo fare a meno di chiedermi, mentre pigiavo i tasti per avviare il
programma di accensione, a chi dei tre sarebbe assomigliato di
più. Se fosse stato Atem, allora non avrebbe avuto modo di
sapere chi ero e probabilmente io non avevo il diritto di risvegliarlo.
Se fosse stato mou hitori no boku... allora tutto sarebbe potuto
tornare come prima, avremmo potuto riempire gli spazi che sono stati
lasciati vuoti e vivere di nuovi e vecchi ricordi. Ma se fosse stato
semplicemente Atem Watanabe, un ibrido fra la persona che amo pur non
avendola mai conosciuta davvero e la persona che ho conosciuto e amato
più di chiunque altra, allora il nostro futuro
sarà ancora una volta impossibile da determinare.
Perchè io non so davvero chi sia Atem Watanabe, so solo che
ho provato con tutto me stesso a infondergli lo spirito di mou hitori
no boku e i ricordi di Atem.
La paura ha
cominciato a corrermi tra le dita delle mani, cavalcando sulle mie
membra come una colonia di formiche, irradiando consapevolezza come una
doccia fredda, e nonostante il caldo atroce mi sono ritrovato a tremare
mentre premevo il tasto invio per l’ultima volta. Girandomi
verso mou hitori no boku sulle rotelle della sedia mi è
venuto da chiedermi se non avessi vissuto in una bolla fino a quel
punto. Castelli di sabbia costruiti solo per tenermi impegnato e
impedire ai miei occhi di guardare e realizzare la realtà
che mi circondava. Cosa è meglio, un rimorso o un rimpianto?
Il senso del
proibito è come una droga, è delirio di
onnipotenza, estasi di potere. Fuga dall’impotenza, la mia fuga. Mi è
stato insegnato a non avere paura di fare quello che credevo fosse
giusto, qualunque fosse l’occasione. Un rimorso
può bruciare, ma un rimpianto è un macigno, ti
affoga... io non voglio affogare ancora.
Il bip
elettronico del computer mi ha risvegliato dall’ennesimo
sogno ad occhi aperti. Credo di essermi fatto più processi
in questi ultimi mesi di quanti non me ne abbiano scatenati contro Anzu
e Jonouchi. Mi sono alzato pesantemente dalla sedia e mi sono
avvicinato a mou hitori no boku. Ho staccato con delicatezza il
minuscolo cavo che lo collegava ancora al mio pc, l’unico
indizio della sua vera natura. Lui era sempre lì, da mesi,
immobile e in attesa e in quel momento ho pensato che non fosse giusto
che il suo petto non potesse alzarsi e abbassarsi al ritmo di un
respiro e che quell’uomo così dannatamente bello
meritava di poter aprire gli occhi e trovare la felicità in
un mondo che non aveva mai avuto il tempo di sperimentare fino in
fondo. Non era giusto che Atem non fosse vivo. Nè per me
nè per lui.
E prima ancora
che me ne rendessi conto, mi ero già chinato verso di lui,
il suo volto stretto piano fra le mie mani mentre carezzavo la sua
guancia con la cura che si riserverebbe a una bambola di porcellana. Ma
Atem non era la mia bambola, era il mio Atem e basta, mio, come io ero
suo. E smettendo per un attimo di pensare che fosse infantile e stupido
mi sono chinato ancora di più e l’ho baciato
perchè tutto quello che desideravo in quel momento era
vedere quegli occhi rossi aprirsi ancora una volta e splendere per me.
Erano morbide
le labbra di Atem, non fredde come mi sarei aspettato, forse era per
colpa della temperatura della stanza, e quando le ho lasciate sono
rimaste socchiuse appena, proprio come se stessero aspettando
finalmente di muoversi, dopo tanto tempo. Mi sono ritratto lentamente,
ancora ipnotizzato dal volto dell’altro me e dalla sua
espressione, e mettendomi a una distanza sufficiente da lui
perchè non si spaventasse una volta svegliato, ho aspettato.
I minuti
passavano ancora più lentamente del solito mentre io ero
perso di nuovo negli stessi pensieri di sempre, a metà fra
euforia e sensi di colpa. Eppure baciare Atem non era stato come
tradire mou hitori no boku, non era la stessa sensazione di baciare
qualcun altro: era sempre lui...
Sapevo che
l’impazienza rendeva la mia percezione del tempo ancora
più distorta del solito e che probabilmente i minuti stavano
scorrendo più velocemente di quanto non mi sembrasse, ma
quando ho lanciato finalmente un’occhiata
all’orologio le lancette mi hanno sbattuto in faccia i fatti
in tutta la loro gelida verità. I sessanta minuti necessari
per l’installazione del programmma erano passati da molto,
molto tempo, e io ero ancora davanti a una persona completamente
addormentata, con gli occhi chiusi, torace immobile e respiro assente.
Dov’era mou hitori no boku?
Sono corso al
computer e ho esaminato almeno tre volte ogni dettaglio del programma,
ho controllato la presa per essere sicuro che funzionasse, ho
controllato il cavo, ho controllato ogni cosa. Erano le quattro del
mattino. Erano cinque anni di lavoro e mou hitori no boku non si era
neanche mosso.
Per un lungo,
esasperante minuto, l’unica cosa che sono riuscito a sentire
era il battito sordo del cuore contro il mio petto. Il ritmo era
martellante all’inizio, poi si è fatto furioso,
delirava, premeva, picchiava contro le costole perché voleva
uscire e i respiri si facevano strada dalle mie narici umidi e
irregolari.
Ansimavo e mi
bruciava la gola. Non poteva, non poteva essere. Ero terrorizzato.
Volevo urlare e affondare la testa nell’incavo del collo di
mou hitori o boku, strillare contro di lui fino a che la mia voce non
fosse diventata un sussurro rauco, ma non riuscivo ad aprire la bocca,
c’era solo il mio cuore, i miei respiri, la
velocità, il panico, la solitudine, l’acido che mi
artigliava la gola, il disgusto. Non potevo muovermi.
Mi ero
sbagliato, lui era sveglio, mi ero sbagliato. Certo, doveva essere
così. Ho spostato gli occhi su mou hitori no boku, se mi
concentravo a sufficienza avrei potuto vedere il suo torace alzarsi e
abbassarsi perché lui era sveglio. Io ce l’avevo
fatta. Non era possibile, non era vero… c’era
qualcosa che mi ostruiva la vista e i miei occhi si sono annebbiati di
lacrime, i battiti attaccavano i miei timpani con la furia di martelli
di piombo, si sarebbero rotti, mi sarei rotto, sarei caduto in pezzi,
era finita. Mou hitori no boku…
Lentamente ho
fatto un passo indietro, non riuscivo a mandare giù, non
riuscivo più a respirare, era come se i miei battiti fossero
saliti su, fin sopra ai miei capelli, mi avvolgevano, mi soffocavano,
non c’era più spazio per l’aria,
c’era solo il mio cuore che tuonava e martellava e mi
impediva di pensare. Ho fatto un altro passo indietro, ho sentito il
freddo della porta contro le mie dita, l’immagine della
maniglia è apparsa davanti ai miei occhi e senza riflettere
l’ho abbassata con le mani ancora dietro la schiena,
perché io ero in trappola, bloccato in un incubo, il
peggiore degli incubi, e stavo affogando, affogavo da solo, le
pulsazioni del mio cuore erano l’unica compagnia che mi era
rimasta e battevano furiose contro le vene del collo e bruciavano la
gola, volevano scappare anche loro. Erano onde del mare, era una
tempesta, mi schiaffeggiavano il viso, mi soffocavano. In un secondo la
porta si è spalancata e io sono corso via, su per le scale
senza fermarmi fino a che non ebbi aperto e richiuso un’altra
porta dietro di me e lentamente sono crollato sul pavimento della mia
stanza. Mi sono lasciato scivolare lungo la porta, il pavimento era
freddo, l’acido che mi corrodeva la gola e i battiti stavano
allentando la presa. Provavo a pensare a respirare, non potevo
soffocare, ma qualcosa dentro di me voleva affogare, non voleva
aggrapparsi, si rifiutava di restare a galla. Ansimavo lentamente.
Dentro. Fuori. Dentro. Fuori. Ho nascosto la testa fra le mani
tremanti, afferrandomi i capelli con le dita, scavando solchi nella
cute con le unghie. No, no. No!
Ogni respiro
era rotto da un singhiozzo e finalmente mi sono reso conto di stare
piangendo, le lacrime mi rigavano il viso, cadevano sulle mie
ginocchia, lasciavano macchie scure sui pantaloni, lasciavano tracce di
sale nella mia bocca, tracce amare.
Atem
era morto, Atem non si era svegliato, era morto, era tutto finito, io
avevo fallito. Fallito. Ero morto, ero morto anche io. Ero solo.
Faceva caldo
ma io avevo bisogno di stringere qualcosa. Era una protezione, uno
scudo dal mondo, dalla realtà, era una distrazione. Per
riuscire ad addormentarmi avevo finito per cantilenarmi le parole
"andrà tutto bene" come un mantra, ancora e ancora, tanto
che avevano assunto il tono melodico di una ninna nanna e ormai avevano
perso qualunque significato. Andrà tutto bene. Domani
troverò l’errore dicevo e poi mi rigiravo
un’altra volta. Andrà tutto bene, sei solo stanco,
vedrai che andrà tutto bene. Ero quasi febbriciante quando
finalmente sono scivolato in un sonno senza sogni. Sentivo solo voci,
scricchiolii, ero nel limbo del dormiveglia, gli occhi socchiusi e il
cervello consapevole di stare sognando un grande spazio nero, il vuoto,
di artigliare le lenzuola come fossero un salvagente.
Non riuscivo a
distinguere quali suoni appartenessero ai miei sogni e quali invece
fossero reali: le auto che ogni tanto correvano sulla strada
c’erano davvero? Lo stridio del legno apparteneva alla mia
immaginazione? Scricchiolio, rumore di passi, erano nella mia casa o
nella mia testa? Era Jonouchi, che era tornato per portare via Atem?
Sarebbe stato contento di sapere che non doveva più
preoccuparsi di lui? Un tonfo. Ho aperto gli occhi, ho girato la testa
verso la porta: era stato reale, un rumore come di un bambino che cade
dalle scale. Nessun ladro sarebbe così imbranato da cadere
per le scale e c’era solo un’altra persona che
avesse qualche motivo per entrare in casa mia, quindi avevo ragione e
Jonouchi era davvero lì fuori.
Ho deciso che
avrei finto di dormire profondamente, non avevo la forza di parlare con
Jono questa notte e non credo l’avrei avuta per molto di
tempo. La maniglia si è abbassata con un sordo click,
lasciando che la porta si aprisse di uno spiraglio appena sufficiente a
farvi passare una testa. Le luci del corridoio non erano state accese,
il che spiegava il perché del tonfo. Chiunque inciamperebbe
sulle scale se fosse costretto a percorrerle al buio. Illuminato dal
grigio smorto di un cielo di prima mattina, un volto ha fatto
timidamente capolino dal pertugio.
“Yugi…?”.
Era una voce assonnata, stanca, smarrita, ogni lettera del mio nome era
avvolta da dubbio e paura, una voce che non conoscevo e che non
assomigliava a quella di Jonouchi. Ma tutto il resto della persona che
si era affacciata alla mia porta lo conoscevo bene. Ogni singolo
dettaglio.
Se non fossi
stato pietrificato dalla sorpresa sarei saltato giù dal
letto, non riuscivo a muovermi. Ma mou hitori no boku era lì
che aspettava una risposta.
“Tu…
prima non…” era un sussurro, erano le prime parole
che rivolgevo ad Atem dopo cinque anni di silenzio e non riuscivo
neanche a dirle. E mentre le parole si rifiutavano di uscire dalla mia
bocca, le domande cominciavano ad accumularsi nella mia testa a gruppi
di dieci, moltiplicandosi e proliferando in colonie e ramificazioni
lasciandomi ancora più intontito e io non riuscivo a
decidere da dove cominciare. ‘Yugi’ aveva detto:
lui sapeva…
“A-“
mi sono tagliato la lingua prima di pronunciare il suo nome: come avrei
potuto sapere cosa lui credeva di essere se gli avessi dato
un’etichetta io stesso? Non c’è nulla di
più importante di un nome e io l’ho imparato a mie
spese. Atem era ancora dietro la porta, mi studiava con occhi curiosi,
come se stesse cercando informazioni su chi fossi veramente per poter
smentire o confermare il fatto che un certo inspiegabile istinto lo
aveva spinto a cercare me e a chiamarmi col mio nome. Spiegazioni sul
come facesse a conoscermi.
“Sì,
sono Yugi” ho risposto finalmente, era difficile controllare
l’entusiasmo o il desiderio di corrergli incontro, ma adesso
Atem era come un bambino spaurito immerso in una realtà che
non poteva conoscere e che, inquietantemente, si era reso conto di
conoscere ugualmente. Qualunque gesto avventato poteva compromettere la
situazione. Avevo domande, miliardi di domande da porgli, ma per
conquistare la sua fiducia dovevo dimostrarmi pronto a fare qualcosa
per lui per primo. Ho fatto un gesto verso di me, per invitarlo a
sedersi sul mio letto. “Parliamo” ho mormorato
“Posso aiutarti?”.
“Sì,
grazie…” Atem ha lasciato la presa sulla maniglia
e spalancando un po’ di più la porta con la mano
ha mosso un paio di passi nella mia direzione. Con
un’espressione indecifrabile sul volto, allo stesso tempo
impassibile e terribilmente cocentrato, si è seduto di
fronte a me con le gambe incrociate, annuendo piano al flusso dei suoi
pensieri, che io non vedevo l’ora di conoscere. Abbiamo
passato qualche secondo a studiarci, poi io ho rotto il silenzio.
“Come
ti chiami?” gli ho chiesto. Senza battere ciglio, Atem ha
alzato la testa incrociando il mio sguardo, sorpreso dalla mia domanda.
“Atem”
ha esclamato immediatamente, come se fosse ovvio, subito dopo
però l’ho visto pensoso, la bocca si contraeva
come se volesse dire qualcos’altro o contraddirsi, ma dopo
qualche secondo che aspettavo non aveva ancora detto niente.
“Chi
sei?” ho incalzato ancora. Qualcosa mi diceva che avrebbe
volentieri risposto di nuovo ‘Atem’, ma la mia era
una domanda completamente diversa e lui lo sapeva. Per quanto mi
riguardava, era la domanda che mi sono posto ogni giorno per cinque
anni di fila pensando a lui, e non sono mai riuscito a darmi una
risposta.
Atem si
è preso la testa fra le mani, lentamente, chinando il capo
verso il petto mentre cercava di afferrare qualche ricordo lontano.
“Credo che il mio nome sia Atem” ha mormorato
alzando il capo, guardandomi negli occhi come se la risposta che
cercava fosse nelle mie iridi. “Ma non sono sicuro di essere
io Atem…” ha risposto finalmente.
Ho deglutito
piano cercando di nascondere la mia delusione, ma non ho potuto fare a
meno di distogliere lo sguardo da lui per un solo istante e Atem se ne
è accorto, perché, proprio come mou hitori no
boku, aveva un talento incredibile nel leggere le persone, anche quelle
che conosceva da pochi minuti. Mi sono girato per incontrare di nuovo i
suoi occhi. Quelli di mou hitori no boku radiavano potere, era un rosso
regale, pericoloso, che sbordava sul magenta profondo quando si faceva
prendere dalla rabbia. Ma gli occhi di Atem erano diversi,
erano… semplicemente rossi, non vuoti, non opachi, era un
rosso gentile, caldo e accogliente come il fuoco di un caminetto, ma
non brulicava di vita.
“Stai
bene Yugi?” non riuscivo a riconoscere neanche la sua voce,
ma a quello ero preparato: le registrazioni della voce di mou hitori no
boku durante i duelli trasmessi in TV non mi erano state di nessun
aiuto e avevo dovuto affidarmi all’istinto per cercare di
riprodurre il tono dell’altro me. Ma la voce di Atem mi
piaceva, era melodica e gradevole da ascoltare, lievemente
più profonda di quella di mou hitori no boku.
“Quasi”
ho mormorato forzando un sorriso, non avrei cominciato il nostro
rapporto mentendo ad Atem, e poi sarebbe stato perfettamente in grado
di sapere che non ero sincero. L’unico modo per non lasciarsi
andare alle emozioni era parlare, continuare a parlare e provare a
conoscere questo secondo Atem che mi sedeva davanti, in cui riuscivo a
vedere l’eco della persona che avevo amato e a cui cercavo
disperatamente di attaccarmi. “Sai qualcosa di
Atem?” ho domandato. E di me?
Ha annuito e
io gli ho fatto cenno di continuare a raccontare. “Atem era
un re… ti conosceva. Ma Atem è….
No… tremila anni fa… io…”
Atem sembrava confuso, evidentemente c’erano dei conflitti
all’interno della sua memoria e non riusciva a capire a quali
infromazioni dare la precedenza.
“Cosa
è successo tremila anni fa?” ho chiesto con
cautela “E’ successo qualcosa ad Atem?”.
Atem ha
annuito. “Mou hitori no boku…” ha
mormorato “Lui, se ne è
andato…” quelle erano le mie parole. Mi aveva
sentito? Come era possibile che mi avesse sentito?
“Erano
la stessa persona?” mi ha chiesto all’improvviso.
Ho annuito. “E’ complicato” gli ho
spiegato. Oh, incredibilmente complicato. Non credo di aver ancora
capito tutto nemmeno io. “Ti spiegherò dopo se
vuoi, ma prima finisci di raccontare per favore”. Atem ha
acconsentito chinando il capo, speranzoso di trovare una risposta alla
confusione dei suoi ricordi, di cui io ero l’unico colpevole.
“Raccontami di Atem”.
Lyrics da Pictures of You (The Last Goodnight)
L'attacco di panico! L'attacco di panico è stato il parto di
cui parlavo! La mia nemesi, la cosa che ho riscritto tre volte e per la
quale ho rotto le scatole a La_Fe10 per due settimane! Scusami honey e
grazie infinite per la pazienza, ma dopo tentativi e ricerche
finalmente è venito fuori qualcosa di decente (o almeno
spero).
Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno recensito questa storia
fino a questo punto: grazie mille per il vostro supporto e le
bellissime parole e analisi, non avete idea di quanto mi spronino ad
andare avanti e scrivere questa e altre storie (ebbene sì,
ne ho a dozzine in corso d'opera). Parteciperò a
CampNanowrimo questo Aprile e anche se spero di riuscire a finire
Pictures of You prima di cominciare, se non dovessi farcela
è probabile che la storia subirà un altro
rallentamento (ma è tutto a vostro vataggio amati lettori
perchè durante il camp proverò a finire un'altra
multichapter che ho intenzione di postare questa estate- dopo una
minuziosa revisione perchè ci sono più typos che
parole in questa prima draft. E sarà una storia
più allegra, lo prometto: garantisco l'happy ending!).
Anyways, visto che finalmente il nostro faraoncino è
redivivio ho intenzione di postare un capitolo a settimana fino almeno
al numero 16 visto che li ho già pronti, poi si
vedrà.
Grazie per la pazienza e grazie per aver letto, a domenica
(sì, ho cambiato la data di aggiornamento ancora una volta)
per il capitolo 13!
Ache
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Capitolo 13 *** Pictures of You, Pictures of Me ***
CampNano
è alle porte e la mia musa sembra essersi risvegliata come
per miracolo, queste sono le belle notizie della vita.
Ecco il secondo capitolo dal risveglio di Atem, piccola nota
dell'autrice: a volte le parole, le azioni o i gesti di Atem potrebbero
sembrare un po' artificiosi o innaturali. E' un effetto puramente
voluto, nella mia testa Atem è un po' un incrocio tra un
neonato e una macchina.
Altra nota: la prima parte di questo capitolo potrebbe confondervi un
po'. Yugi continua a fare paragoni fra l'altro se stesso e Atem, Atem
prova a ricordare quello che Yugi è convinto di avergli
inserito nella memoria e ogni volta che si riferisce ai propri ricordi
usa il nome 'Atem', questi ricordi vengono narrati da Yugi esattamente
come Atem li ha pronunciati, quindi sono pieni di incoerenze e
contraddizioni. Anche questo effetto di confusione è voluto,
comunque. Anyways, la seconda parte del capitolo è
più chiara: avevo promesso fluff e fluff avrete. Per ogni
dubbio potete chiedere nelle rece o mandarmi un messaggio (:
Buona lettura!
(Niente
lyrics questa settimana, la canzone che ho scelto è una
splendida piano cover, la trovate a questo link)
Ero
rapito dal modo di parlare di Atem. Cercavo inconsapevolmente di
ricollegare i suoi gesti e il suono della sua voce o il movimento delle
sue labbra al ricordo più sbiadito di quello che era stato
mou hitori no boku: era come un gioco.
Le braccia incrociate sul petto.
Mou hitori no boku.
Gli occhi rilassati.
Atem. No... mou hitori no boku, quando parlava con me...
La somiglianza era incredibile, o forse era colpa di tutto
ciò che avevo dimenticato negli ultimi cinque anni se non
riuscivo a cogliere le differenze fra i due Atem, eppure era
confortante... era sbagliato il fatto che non mi sentissi in colpa? E
intanto l’Atem che mi sedeva di fronte raccontava di un altro
Atem, che i ricordi confusi che gli avevo donato gli impedivano di
ricollegare a se stesso.
Atem era un re egizio, viveva all’interno di un puzzle, un
oggetto magico pieno di scale. Io avevo trovato
quell’oggetto, avevo liberato il re e vivevamo insieme: lui
era privo di ricordi e non conosceva il suo nome, perciò
arrivò mou hitori no boku. O forse... Atem
diventò mou hitori no boku. C’era stata una
battaglia e poi mou hitori no boku se ne era andato, senza ritornare
perché non c’era modo che potesse ritornare. Ma al
suo posto era arrivato Atem di nuovo e lui viveva nel
puzzle… no- Atem scuoteva la testa- Atem e mou hitori no
boku erano la stessa persona... lo avevo detto io prima quindi doveva
essere giusto. Ma allora perché uno se ne era andato e
l’altro no? Chi aveva i ricordi, Atem o mou hitori no boku?
Quali erano quelli giusti?
Mi sono accorto che cercare di ricordare non era
un’operazione piacevole per lui, perché non ci
riusciva: era umiliante dimostrarsi incapace di fare qualcosa che gli
avevo chiesto proprio io, come se tenesse a me e non volesse deludermi.
Metterlo in difficoltà non era stata la mia intenzione,
così ho deciso di lasciar perdere i suoi ricordi per ora,
finchè non avessi avuto tempo per pensarci davvero, anche se
le domande ricominciavano a fare a botte nella mia testa
perchè le ascoltasi e andassi a cercare loro una risposta.
Stringendogli piano il braccio ho provato a confortare Atem. Sono
qui.
“Ehi, ritroveremo i tuoi ricordi” l’ho
rassicurato. Parole che la mia bocca aveva già pronunciato,
quante volte ancora avrei dovuto fare promesse che sapevo di non voler
mantenere? Come se anche Atem potesse andarsene una volta ritrovati i
suoi ricordi… non avrebbe potuto farlo vero?
Perchè non avrebbe voluto… Lo speravo, volevo
questa certezza. Ma perché non sapeva di essere una
macchina? Io l’avevo programmato perché conoscesse
chi era… adesso dovevo ricontrollare tutto, magari
c’erano altri errori... Le domande non volevano saperne di
andarsene.
Ho cercato di nascondere il lampo di panico che ha attraversato i miei
occhi: in quel momento ero l’unica certezza che Atem aveva,
non potevo vacillare anche io.
Atem mi studiava, cercando di decifrare il motivo per cui non sembravo
contento di vederlo, forse il fatto di non riuscire a ricordare lo
faceva sentire in colpa. Si vergognava. Ma io non ero arrabbiato o
deluso, ero contento, per la prima volta da anni
addirittura felice, ma spaventosamente confuso, almeno quanto lui.
“Quindi… è vero? Il mio nome
è Atem?” con un’esitazione che non gli
apparteneva alla fine ha rotto il silenzio.
“Sì, è proprio Atem”. Ma Atem
non sembrava soddisfatto. Neanche io lo ero in fondo.
Ogni risposta scatena un’altra, due, tre domande, in una
catena infinita di domanda-risposta. È la base su cui si
fonda la scienza e la curiosità umana, e il paradosso
secondo cui più impariamo più diventiamo
ignoranti. Sapere, imparare… essenzialmente sono
attività inutili: non riusciranno mai a colmare la nostra
sete di risposte, a sentirci meno ignoranti, a rassicurarci che
possiamo raggiungere delle certezze. Ironicamente, potresti ritrovarti
a parlare di filosofia esistenziale con un contadino tibetano e
scoprire che lui sulla vita ha più sicurezze di te.
L’ignoranza protegge le persone… è una
cintura di sicurezza: non affacciarti al finestrino, potresti venir
rapito dalla bellezza del paesaggio, sporgerti troppo, cadere. Ma
allora a che serve sapere? Qual era il senso di scappare via
dall’ignoranza se era così sicura e accogliente?
Libertà… forse. Noia. Più probabile.
L’illusione di avere qualcosa di più grande da
fare, un progetto, una missione.
Atem scuoteva piano la testa, chissà se si stava facendo
anche lui queste domande, chissà quali domande si era fatto
pochi minuti prima, quando aveva aperto gli occhi per la prima volta e
non aveva trovato nessuno accanto a lui a dirgli dove fosse, come ci
era arrivato. E soprattutto perché. Ha poggiato le mani
sulle ginocchia, dondolandosi lentamente con il busto, la testa piegata
all’indietro come a guardare un immaginario cielo stellato.
Peccato che ad accogliere i suoi occhi ci fosse solo
l’intonaco bianco del soffitto.
“C’è qualcosa che non va?”.
Atem ha scosso la testa di nuovo alla mia domanda: era davvero
così orgoglioso da non voler chiedere e così
cocciuto da provare a trovare una soluzione da solo? Ma la sua risposta
ha contraddetto le mie ipotesi.
“E’ che non riesco a capire…”
ha mormorato “Io mi chiamo Atem e conosco la storia di Atem.
Eppure i ricordi sembrano… di qualcun altro, non so se io e
Atem siamo la stessa persona…” ridacchiava, lo
stesso timbro di mou hitori no boku. “Scusa, probabilmente ti
sembra assurdo” ma io ho sorriso, scuotendo la testa insieme
a lui. No, non era assurdo. Ridi ancora per favore.
“Non ricordo di aver mai vissuto quelle cose,
anzi… non ricordo nulla di me”
ha enfatizzato indicandosi il petto “Solo… solo
suoni, voci… tu” mormorava. Ho deglutito a vuoto
al ‘tu’. Probabilmente la prossima cosa che mi
avrebbe chiesto sarebbe stata chi era mou hitori no boku: se
lui e mou hitori no boku erano morti, come faceva Atem ad essere
lì in quel momento? Io invece ero passato a farmi domande su
quel ‘tu’: chi ero per lui? come mai trovava
così naturale il parlare con me? Perché era
venuto a cercare proprio me nel cuore della notte, sapendo che quella
era casa mia e che mi avrebbe trovato
lì, che io avevo le risposte, che di me si poteva fidare.
Oppure non lo sapeva, ed era stato tutto dettato dal caso? Eppure mi
aveva chiamato per nome, era entrato e mi aveva detto
‘Yugi’. C’era un modo per raccontargli la
verità senza ferirlo, una mezza verità
è ancora una verità? La consapevolezza
della sua identità lo avrebbe allontanato da me... avevo il
diritto di impedirglielo? Perché voglio a tutti i costi
essere una parte fondamntale della vita di questa persona che neanche
conosco? Perché mi sembra di conoscerla da sempre…
“Riesci a ricordare come è fatto Atem?”.
Atem si è rimesso di nuovo a sedere composto, lo sguardo ora
fisso sulle mani che teneva in grembo, pensava. Ancora una volta.
“Penso di sì… c’è
qualche immagine…” ha annuito.
Ho sorriso ignorando il modo in cui il sonno e le domande mi
annebbiavano la vista e mi sono alzato in piedi tendendogli la mano.
Atem l’ha stretta come se fosse la cosa più
naturale del mondo. E io ho capito che per non tradire la fiducia di
Atem non dovevo deluderlo. C’erano altre cose più
importanti per Atem da imparare: come vivere nel nostro mondo, su quali
persone poter contare... Ho sempre odiato mentire, e a lui non ho mai
potuto nascondere nulla, ma questa volta avrei fatto del mio meglio.
“Vieni con me allora”.
Senza fare domande, venendomi dietro come un bambino segue ciecamente
la mamma Atem mi ha seguito fuori dalla stanza e poi giù per
le scale, trottando con energia da un gradino all’altro. Con
più vita di quanto il corpo inconsistente di mou hitori no
boku avesse mai avuto. Si meritava l’illusione di una falsa
realtà: Atem meritava di vivere.
Assorto nei miei pensieri, il tragitto brevissimo dalla fine delle
scale al bagno mi è sembrato di una lunghezza esasperante,
ma finalmente ci siamo ritrovati circondati dalle mattonelle azzurro
pallido della piccola stanza, di fronte al lavandino e, più
precisamente, di fronte al grande specchio che mia madre
adorava. Lo leggevo nel modo in cui i lineamenti perfetti di
Atem si sono contratti per poi distendersi immediatamente dopo:
l’immagine di Atem, dell’altro se
stesso che aveva nei suoi ricordi, era identica alla persona
che vedeva ora riflessa nello specchio. Atem avrebbe creduto di essere
Atem. Lo credeva già. E quella consapevolezza mi
terrorizzava e riempiva di felicità allo stesso tempo.
“Ci assomigliamo” ha sorriso, il labbro inarcato a
destra. Ho sorriso anche io.
“Ce lo dicono in tanti...”
“Ce? Chi?”. Benvenuto
nella tua vecchia vita, nuovo Atem.
“I miei- i nostri amici: Jonouchi, Anzu, Honda, Ryou,
Otogi...” gli occhi di Atem non brillavano alla menzione di
nessuno di questi nomi, piuttosto si incupivano man mano che io andavo
avanti col mio elenco. Possibile che ricordasse solo me?
“Atem?” era la prima volta che mi riferivo a lui in
quel modo, senza parlare in terza persona, associando il ricordo di
Atem alla persona che mi stava vicino. E il nome scivolava con una
naturalezza imbarazzante dalla mia lingua: non c’era nessuna
fatica nell’atto di sovrapporre l’immagine di Atem
a mou hitori no boku. E volevo continuare a farlo perché
volevo sapere, non ne potevo più di vivere senza certezze.
Lui non era un estraneo per me, ma io? Cosa ricordava di me
Atem? “Tutto bene?”.
Atem era ancora confuso, il suo silenzio parlava per lui. Un discorso
che sapeva di delusione, rabbia, vergogna. Si sentiva impotente: non
ricordava.
“Ehi,” gli ho poggiato una mano sulla spalla,
toccandolo per la terza volta quella sera. Non credo potrei mai
stancarmi di farlo. “Vedrai che tutto si
aggiusterà, ti sei appena svegliato in fondo, è
normale che tu sia un po’ confuso, vedrai che col tempo le
cose miglioreranno”. Atem annuiva cercando di imitare il mio
sorriso, ma non era sincero. Atem, mou hitori no boku, voleva essere
sempre in controllo della sua vita e delle sue azioni, e adesso Atem
sarebbe stato costretto a guardarla scorrergli davanti agli occhi come
un film, a fare da spettatore finché non avesse ricordato
quale era il suo ruolo.
“Ti aiuterò io, piano piano riusciremo a
ricostruire il tuo passato, e se non ci riusciremo allora non importa,
vorrà dire che te ne costruirai uno nuovo: la vita
è piena di occasioni e il futuro è imprevedibile,
tu meglio di chiunque altro dovresti saperlo…” Per
quanto la nebbia gli avvolgesse la memoria, Atem è
parso cogliere il senso di quella mia ultima frase
perché le sue labbra si sono arcuate impercettibilmente
all’insù: non sapeva a cosa stessi facendo
riferimento precisamente, ma alle sue orecchie doveva avere un senso.
“Domani stesso andremo a trovare Jonouchi e gli altri,
partiremo anche per l’America se ti va, così tu e
Anzu potrete presentarvi a vicenda,” ho scherzato per poi
aggiungere dolcemente “Magari vedendoli ti verrà
in mente qualcosa…”.
“Forse” ha annuito Atem, credo fosse combattuto tra
il desiderio di non lasciare il mondo che conosceva, me,
e quello di scoprire cosa aveva perso del suo passato, i miei amici. Ma
mou hitori no boku era curioso di natura, perciò sapevo che
Atem non si sarebbe tirato indietro alla mia offerta…
“Grazie” ha mormorato, e subito dopo ho sentito
qualcosa di caldo sfiorarmi la mano, le sue dita che si stringevano
piano alle mie, carezzandole con dolcezza, delicate come il soffio di
un ricordo. Stavolta era stato lui a toccare me. Che cosa sapeva Atem
di me e mou hitori no boku? Cosa si aspettava dallo Yugi che gli stava
a fianco?
Trattenere le mie emozioni è passato dal difficile
all’impossibile in quel preciso momento, con quel contatto
fisico spontaneo e gentilissimo, di cui io non ero in alcun modo
l’iniziatore. Era stato lui, era partito da lui, avrebbe
potuto poggiarmi una mano sulla spalla, carezzarmi il braccio, annuire
e basta… invece no, Atem mi stringeva la mano, disegnando
piccoli cerchi sul dorso del palmo con il suo pollice, allacciando le
sue dita alle mie. Non aveva idea di cosa significasse per me. Ho
risposto alla sua stretta con quanta più energia potevo,
strizzandogli il palmo mentre il cuore mi schizzava in gola e le dita
mi formicolavano. Sorridevo come un bambino, i miei occhi persi nei
dettagli delle sue iridi vitree, radiavo adorazione, assorbivo la sua
presenza come una medicina, era il mio sole.
“Sono contento che tu sia qui” la voce di Atem era
un sussurro dolcissimo, si perdeva negli angoli della stanza come le
note di una nenia antica come il mondo. Riusciva a capire il valore
reale di quelle parole?
“Sono contento che tu sia
qui” gli ho fatto eco, la mia mano sembrava essere diventata
una cosa sola con la sua, non credevo sarei mai riuscito a separarle.
Ma in un modo o nell’altro devo avercela fatta
perché l’ultima cosa che ricordo sono state le mie
braccia stringersi intorno alle spalle di Atem e il mio mento affondare
nella sua clavicola. L’impatto del mio abbraccio ha fatto
vacillare entrambi, un’energia che il mio corpo aveva
dimenticato in tutti questi anni e che aveva riservato solo per lui,
nascosta da qualche parte che neanche io conoscevo.
Atem è indietreggiato di un paio di passi, ha cercato di
ristabilire il proprio equilibrio stringendo a sua volta le sue braccia
intorno alla mia vita. Sentivo le sue mani correre su e giù
per la mia schiena, carezzandomi lentamente, premuroso come un fratello
maggiore. Come mou hitori no boku.
“Ehi” la risata gli usciva debole dalle labbra,
lenta mentre io mi rendevo conto di quello che stavo facendo.
“Sto bene” mi ha rassicurato “Mi dispiace
di averti fatto spaventare, qualsiasi cosa mi sia successa…
ma sto bene, non me ne vado, te lo prometto”.
Ho annuito contro la sua maglietta mentre Atem si scusava di qualcosa
di cui non aveva la minima consapevolezza, cercando un perdono che in
realtà sarei dovuto essere io a implorargli. Ma non riuscivo
più a pensare coerentemente adesso, l’ondata di
emozioni che mi aveva investito era ancora troppo potente. Anzi, non
riuscivo a pensare e basta. “Promettimelo”. No,
Yugi, non puoi piangere adesso.
“L’ho già fatto” le sue mani
si erano spostate sui miei capelli, le dita passavano dolcemente fra i
vari nodi di una capigliatura che anche dopo anni di spazzole e code di
cavallo si rifiutava di essere domata. “Te lo
prometto”. Ho annuito ancora una volta, il viso premuto
contro il tessuto bianco. Atem odorava di me: era la mia maglietta, i
miei vestiti, il sudore della mia fronte, la polvere e il detersivo del
laboratorio, il caffè delle cinque tazzine che bevevo ogni
giorno. Ma il suo corpo emanava comunque calore, accogliente anche se
artificiale, e chiudendo gli occhi potevo immaginare dune di sabbia e
cieli sconfinati, gli orizzonti gialli e azzurri dell’Egitto.
E mentre le mie mani artigliavano ancora il cotone leggero della
maglietta inumidita e sgualcita dalla mia stretta, ho deciso di
dimenticare, dimenticare che non avrei mai respirato il deserto tra i
capelli di Atem e non avrei mai visto le ombre muoversi minacciose e
potenti nelle sue iridi. Ho deciso che lui era qui, era vero.
Ho tirato su col naso, scostandomi con riluttanza da lui mentre le sue
braccia mi lasciavano andare lentamente, assecondando i miei movimenti.
Sorridevo: non volevo ancora piangere, ma i miei occhi sono grandi, lo
so, e nascondere il fatto che fossero così lucidi era quasi
impossibile anche nella luce artificiale del bagno. Atem ha
adagiato le mani sulle mie spalle, si è avvicinato al mio
viso e mi ha poggiato un bacio sulla fronte.
Lui
era finto. Ma non lo sapeva. Perciò era vero, reale. Solo
questo contava.
Vi ringrazio per le bellissime recensioni, perdonami per
l'heartbreaking Masy ma la musa per questa storia è una
delle più dark che abbia mai avuto...... Scherzo ovviamente,
ho scritto di peggio...... ok, ho anche intenzione di scrivere
di peggio, godetevi il fluff finchè dura
perchè tra qualche capitolo il cavallo nero
tornerà a galoppare! Anyway, la predizione che avevo fatto
ai tempi del capitolo 1 si è rivelata corretta: Pictures of
You conterà 20 capitoli una volta finita. Siamo a
più di metà gente.
Un'ultima cosa prima di darvi appuntamento a Domenica (o più
probabilmente Sabato visto che Domenica è Pasqua): ho
finalmente terminato il fanmix per questa storia. Se volete entrare nel
mood e trovare quasi tutte le canzoni che ho linkato (e
linkerò) nella ficci, più alcune altre, vi invito
caldamente a cliccare qui.
Grazie a tutti per aver letto fin qui, buona Domenica e buona settimana
a tutti!
Ache
|
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Capitolo 14 *** For The World To See ***
Buona Pasqua e Buona Domenica
lettori e lettrici! Sono in piena atmosfera da CampNano, plot bunnies e
procrastinazione compresi *perchè se non procrastina fino
all'ultimo minuto la Ache non è contenta, troppo facile,
no?* e visto che la storia che sto scrivendo è in tema
sentimentale e fluffoso, mi sembra giusto regalarvi un altro pezzetto
di fanservice,
Buona lettura!
Vorrei dirti, vorrei,
Ti
sento vivere
30 Agosto 2003
Caro diario,
Non
so quanto tempo siamo rimasti nel bagno di casa mia. Dopo avermi dato
un bacio, l’ho stretto di nuovo a me, ancora più
forte di prima. Credo che dopo un po’ Atem volesse staccarsi,
ma sapeva che io non volevo e quindi è rimasto
dov’era, ricominciando a mormorare scuse e sussurrandomi che
andava tutto bene, che era tutto a posto, finché non sono
stato io per primo ad allontanarmi da lui.
Aveva
ragione, gli ho detto, mi sono scusato per il mio comportamento, ero
solo stato terribilmente preoccupato per lui, mi aveva fatto
spaventare, ma gli avrei spiegato tutto domani: adesso era meglio che
entrambi riposassimo un po’. Atem è stato
costretto a ricacciarsi le sue domande in gola, almeno fino al giorno
dopo, e mi ha seguito di nuovo in camera dove si è disteso
sul mio letto, addormentandosi subito dopo.
Addormentarsi…
sì, ricordo di averlo programmato anche per questo, ma non
credevo potesse riuscirgli così facilmente: Atem non
è quello che avevo previsto, in tutti i sensi.
Ho
aspettato che lui dormisse più profondamente e quando sono
stato sicuro che non potesse sentirmi, sono uscito dalla stanza e
scendendo le scale a due gradini per volta sono entrato nel
laboratorio. Era tutto come l’avevo lasciato, beh, meno la
presenza di Atem ovviamente. Evidentemente quando si è
svegliato era ancora molto confuso e non ha pensato di farsi domande su
dove fosse e su cosa gli fosse successo, è andato a cercare
direttamente l’unica cosa di cui avesse memoria: me.
È
un bene perché visto come stanno le cose, la cosa migliore
per Atem è che lui non sappia qual è la sua vera
origine, almeno fino a che non si fiderà di nuovo di me o
avrò trovato il modo giusto per dirglielo….
Facendo
attenzione a essere il più silenzioso possibile ho smontato
le attrezzature più ingombranti, rinchiudendole nei cassetti
e nello stanzino dove mio nonno teneva le scope e i rimasugli di
stagione: addobbi di natale per il negozio, vecchi scatoloni, giochi
invenduti… poi ho afferrato la coperta e il cuscino che
giacevano sul lettino e li ho trasferiti in soggiorno, poggiandoli sul
divano. In questo modo Atem avrebbe creduto di essersi svegliato
lì.
Gli
appunti erano ancora sulla scrivania ma non avevo tempo per catalogarli
e infilandoli nel cassetto a casaccio rischiavo di non riuscire
più a capire di cosa parlassero, qualcosa che avrei fatto
meglio ad evitare se avevo intenzione di studiarli di nuovo una sillaba
per volta per capire dove fosse il problema nel risveglio di Atem, e
soprattutto se ci fossero altre anomalie, magari pericolose.
Così
ho voltato le spalle alle carte, giocherellando con la chiave che
tenevo in mano per distrarmi, e ancora più silenziosamente
di come sono entrato sono uscito dal laboratorio chiudendo a doppia
mandata. Ho infilato in tasca la chiave, facendomi un appunto mentale
di appendermela intorno al collo insieme a quella del diario
perché ora più che mai non posso rischiare di
perderla, poi mi sono diretto in cucina. Un caffè forte mi
avrebbe aiutato a fare chiarezza su quello che dovevo fare. Anche se
non avevo la minima voglia di pensare.
Una
grandissima parte di me voleva semplicemente salire di nuovo le scale,
entrare in camera e andare a dormire stringendomi ad Atem, mandando a
quel paese scrupoli e piani complicati: mi sarei inventato qualcosa
prima o poi, perché non dovevo godermi quello che avevo?
Quanto tempo avevo aspettato per avere di nuovo mou hitori no boku qui
con me?
E
stavo per farlo, stavo per tornare di sopra prima ancora di riuscire a
entrare in cucina, mandando al diavolo tutti i miei pensieri, ma poi
proprio la cucina mi ha ricordato di un problema importante: Atem non
può mangiare. Non era qualcosa che potevo nascondergli a
lungo.
Tecnicamente
parlando, Atem può mangiare, ma quello
che mangia ovviamente non viene assimilato dal suo corpo e rimane
lì, nel suo stomaco, finché qualcuno non lo
rimuove. E il suo stomaco ha le sue dimensioni, non può
contenere tanto cibo prima di essere svuotato, e lo stesso vale per i
liquidi.
Magari
potevo armarmi di cacciavite e svuotargli lo stomaco mentre dormiva,
sperando che non se ne accorgesse. Ma se si fosse svegliato? Non ho
idea di quanto sia pesante il suo sonno elettronico o che cosa potrebbe
indurlo a svegliarsi: avrei dovuto fare dei tentativi. Ma nel frattempo?
La
tazza di caffè fumante che mi giaceva davanti mi osservava
in silenzio, il modo in cui gli sbuffi di vapore si alzavano dal
liquido nero mi ricordava il mio cervello in ebollizione per il troppo
lavoro. Buffo che avessi voglia di qualcosa di bollente con quel caldo
furioso. Vapore… cos’altro causava vapore oltre
alle idee che si accalcavano le une sulle altre surriscaldandomi il
cervello? Corrosione, acido… Gli ingranaggi da piccolo
chimico della mia calotta cranica si sono riattivati per la prima volta
da quando ho finito di scrivere la tesi: era possibile, forse potevo
corrodere quello che mangiava, come in un processo digestivo
artificiale…
Stringevo
la tazza con lo sguardo perso nel vuoto, soppesando le mie opzioni:
qualcosa di forte ma non al punto da danneggiare lo scheletro di Atem,
qualcosa che non lasci tracce, qualcosa di cui lui non possa accorgersi
mentre mangia e che sia abbastanza elementare da poterlo creare io in
casa… ma con lui intorno? Era un problema senza soluzione,
era impossibile, forse avrei fatto meglio a somministrare ad Atem un
sedativo, qualcosa che funzionasse anche con lui, e poi occuparmi del
problema mentre dormiva, oppure-
Il
rumore di una porta che si chiudeva mi ha fatto sobbalzare, la tazza di
coccio che tintinnava contro il piatto bianco. Atem? Mi sono girato
istintivamente verso l’orologio, ho strizzato gli occhi
vedendo la posizione delle lancette: davvero ero in cucina da
un’ora?
Ho
ingoiato gli ultimi sorsi di caffè e ho messo via
rapidamente tazza, piatto e ogni traccia del fatto che avessi ingerito
qualcosa: finché non avessi deciso, la cucina era off limits
per Atem e meno pensava al cibo meglio era. Magari non gli sarebbe
venuto in mente se non avesse visto me o altra gente che mangiava...
“Atem,”
ho chiamato chiudendo delicatamente la porta della cucina dietro di me
“Sei tu?”.
“Atem?” l’eco che
ho ricevuto in risposta era piuttosto scettica. “Yugi, devo
preoccuparmi? Parli anche da solo adesso?”.
Jonouchi.
Scherzava,
lo sapevo, eppure il suo tono non era del tutto spensierato: non
giocava quando si chiedeva se dovesse preoccuparsi per me.
“Jono!”
grazie al cielo. Non ero ancora pronto per avere un confronto con Atem.
Gli
sono corso incontro mentre Jonouchi si levava le scarpe lasciandole
all’ingresso: aveva in mano una busta della spesa. Mi ha
stretto le spalle come sempre, mentre io affondavo la fronte nella sua
clavicola: gli anni non mi hanno regalato molti centimetri in
più.
“Come
stai Yugi? Ti vedo... contento”.
“Già”
ho annuito piano prendendo al busta dalle sue mani e ritornando ancora
una volta in cucina: quella stanza sarebbe diventata la mia nemesi, lo
sentivo.
“Ne
sono lusingato, se la mia presenza ti fa questo effetto
vedrò di fartene dono più spesso” ha
ridacchiato. L’ho spintonato piano camuffando il gesto con la
scusa di dovergli passare davanti per aprire la credenza.
“Sempre
modesto...”
Jonouchi
si è sistemato comodamente contro il tavolo della cucina: la
schiena appoggiata al bordo, le braccia conserte e le gambe incrociate,
gli occhi di chi non vede l’ora di ascoltare una buona storia.
“Allora?”
ha chiesto invitandomi a parlare con i gesti delle sue mani
“Racconta, no?”.
Ho
richiuso lo sportello della credenza e infilato velocemente le birre in
frigo: Jonouchi si sentiva in dovere di fare la spesa in mia vece per
il solo fatto che ogni tanto veniva a dormire qui. Più gli
dicevo che non ne avevo bisogno, più lui tirava fuori storie
sulle botte che gli avrebbe dato Anzu se mi avesse trovato denutrito, e
sul fatto che comprare quattro cose per lui non era un problema. A quel
punto le uniche discussioni che abbiamo avuto sono state sulla scelta
dei cibi da comprare. Le birre ad esempio: sono sempre più
convinto che Jono si dimentichi la marca che preferisco di proposito.
Anche
se tiepide ne ho afferrate un paio prima di richiudere lo sportello
dell’elettrodomestico e gli ho detto di seguirmi in negozio,
il luogo più distante da Atem che mi veniva in mente in quel
momento. Non che avessi una gran voglia di bere: era mattina, avevo il
gusto bruciato del caffè sulla lingua e un sonno arretrato
che perfino la caffeina stentava a rimettere a posto. Ma Jono avrebbe
apprezzato.
“Devi
aprire il negozio? Credevo che di sabato non lavorassi”.
“Infatti”
ho annuito io, sistemandomi sul bancone. Jonouchi ha seguito il mio
esempio, afferrando sia le lattine sia la fiducia che in un modo o
nell’altro gli avrei spiegato tutto.
“Tutto
ok?”.
“Atem
è in camera mia”.
“Lo
hai spostato?” non amava parlare di Atem. “Non
è pericoloso? Cioè, non capisco
granché di robot o roba elettronica ma che ci fa in camera
tua-“
“No,
è salito lui da solo. È finito, Jono, si
è svegliato”.
Anche
il silenzio è una risposta: quello di Jonouchi parlava senza
che lui se ne rendesse conto. Parlava di terrore, e orrore, e paura,
diffidenza, eccitazione, curiosità,
incredulità... probabilmente nessuno dei miei amici credeva
che sarei davvero arrivato tanto lontano.
“Stai
scherzando?”.
“Non
scherzerei su una cosa simile” gli ho risposto severo.
“...
Cazzo...”.
E a
quel punto mi sono messo a ridere, perché il modo in cui
Jonouchi si era fermato col braccio a mezz’aria prima di
mandare giù un altro sorso dalla lattina mi ricordava quando
Mai lo prendeva in giro dicendogli che era solo un ragazzino. Ridevo
perché il modo in cui sembrava spaesato mentre mormorava la
sua imprecazione mi ricordava proprio un bambino a bocca aperta. Ridevo
perché non era qualcosa che Jono aveva davvero voluto dire, cazzo non è un
gran concetto, e lo aveva fatto solo per rompere l’atmosfera,
tirare entrambi su il morale. E adesso non c’era
più fatalità nell’aria, la paura aveva
ceduto il posto al ‘wow’.
“Lo
prendo per un complimento” gli ho detto.
“E
dov’è adesso?”.
“In
camera mia, te l’ho detto: sta dormendo”.
Gli
occhi di Jonouchi fremevano per chiedermi come fosse possibile per Atem
dormire, ma proprio come me ieri notte, le domande stavano facendo la
fila dentro la sua testa: accalcandosi per avere la precedenza.
“E...
lui com’è? Cioè, come...
com’è?”
Sorridevo.
Era così impacciato... A Jonouchi non piaceva forse, ma io
adoravo parlare di mou hitori no boku. Cioè, di Atem...
“Lo
hai visto già, è come Atem. Cavolo, è Atem. La somiglianza
ha lasciato a bocca aperta anche me: vederlo lì sul lettino
era una cosa, ma vivo...” ho deglutito ripensando al giorno
precedente, al terrore per il fatto che Atem non si alzava, alla voce,
a quando è entrato in camera mia. Sentivo che mi sarei
commosso prima o poi, le lacrime di ieri aspettavano ancora di
scendermi giù dalle guance. “E lui crede... crede
di essere mou hitori no boku”.
“Yugi!”
“Non
è stata colpa mia” invece lo era: lo avevo
costruito io in fondo. “Io ci ho provato! Doveva sapere di
non essere lui, di essere... di essere finto. Ma non lo sa, ha una
confusione terribile in testa...” il mio tono si è
addolcito, “Ricorda qualcosa di quello che avevo programmato,
ricorda me. Anche se non so ancora cosa di preciso si ricordi
di me”. Il mio sguardo adorante non è sfuggito
alle iridi esperte di Jonouchi.
“Devi
dirglielo, Yugi”.
“No!”.
Il
mio urlo ha colto entrambi di sorpresa, mi sarei dato
dell’idiota da qui fino a domani: Atem avrebbe potuto
sentirmi.
“Non
ancora, ti prego non ancora” all’improvviso
l’ansia di concludere quella conversazione prima che Atem ci
scoprisse ha trasformato le mie frasi in parole sconnesse, accozzate
fra loro in suppliche e giustificazioni. “Gli farebbe troppo
male, lo distruggerebbe. È convinto di aver perso la
memoria, è proprio come con Atem: gli diremo che ha avuto
un’amnesia, possiamo risolvere tutto”.
“Yugi,
non possiamo aiutarlo nascondendogli tutta la
verità”.
“No,
non tutta: gli racconteremo come sono andate le cose, ma solo fino a
quando mou hitori no boku se ne è andato. Gli diremo che era
ritornato, gli diremo che l’altro giorno ha avuto un
incidente, ha sbattuto contro un palo, è caduto dal letto o
una cretinata qualunque e ha perso la memoria. Si
affezionerà a noi, dopo un po’ non
vorrà più i suoi ricordi”.
“A
noi... o a te, Yugi?”
“Che
cosa...”
Jonouchi
ha sospirato pesantemente, passandosi una mano dietro il collo.
“Ascolta
Yugi, sei il mio migliore amico. Tutti noi ti vogliamo bene, neanche ti
immagini quanto, anche ad Atem, anche a lui volevamo tutti molto bene.
Io... voglio aiutarti, lo sai che
farei di tutto per farlo. Ma questa cosa non può finire
bene”.
“Ma
sì, ma sì che finirà bene: il peggio
è passato, lui è di nuovo qui. Questa dovrebbe
essere la parte facile, quella in cui le cose tornano come
prima”.
“Ma
lui non
è qui. Lo sai meglio di
me dove sia il vero altro Yugi”.
“Jonouchi,
ti prego...” sapevo che questa sarebbe stata solo la prima
delle discussioni con Jono e con gli altri, ma alla fine avrebbero
capito, ne ero sicuro...
“Yugi...”.
“Yugi?” Una voce proveniente
da dentro casa ha impedito a Jonouchi di andare avanti. Ci rimaneva
pochissimo tempo.
“Vuoi...
conoscerlo?”. Jonouchi ha scosso la testa.
“Magari
un’altra volta, grazie” ha mormorato.
“Jou...”.
È successo in fretta a quel punto: mi ha stretto la spalla
sorridendo piano, poi ha aperto la porta del negozio. “Grazie
per la birra” è uscito fuori dalla porta a vetri
portandosi due dita alla fronte come saluto, l’ha lasciata a
richiudersi da sola.
“Grazie
a te per averle comprate...”.
Ho
buttato entrambe le lattine nel cestino del game shop, anche se la mia
era ancora mezza piena, e sono uscito dal negozio: Atem era a
metà delle scale, la testa voltata dall’altra
parte. Il rumore della porta che si chiudeva lo ha fatto girare verso
di me.
“Yugi!”
ha esclamato. Ed era bellissimo poterlo vedere di nuovo aggirarsi per
la casa, senza bisogno del puzzle, senza bisogno del mio corpo, da
solo. Dove voleva lui.
“Buongiorno
anche a te” ho sorriso di rimando. “Hai dormito
bene?”.
Atem
ha annuito scendendo agilmente gli ultimi gradini, si muoveva con
l’eleganza di mou hitori no boku. Perché Jonouchi
non era voluto rimanere a scambiare due parole con lui?
“Sì,
credo di essere stato molto stanco ieri sera...” si guardava
intorno come se tutto fosse nuovo ai suoi occhi, ed era così
infatti, a meno che non ricordasse qualcosa dei minuti subito dopo il
suo risveglio, ma si voltava di qua e di là assorbendo
dettagli della casa come se uno di quelli potesse innescare una catena
di ricordi e restituirgli la memoria. Ho notato che fissava piuttosto
intensamente la coperta e il cuscino del laboratorio che avevo
trasferito sul divano. Sapeva che quello non era il loro posto?
“Cos’hai
sognato?”. Atem sembrava assaporare lentamente le parole
della mia frase, lasciandomi interdetto mentre mi domandavo cosa ci
fosse di strano in quello che gli avevo chiesto.
“Nel
senso di desideri? Beh, desidero ritrovare la memoria, no?”
Adesso ero io a fissarlo come uno studente fissa un problema di fisica. Desideri?
“Yugi,
tutto ok?”. Perché desideri? Io gli avevo chiesto
che cosa aveva sognato e... E Atem non poteva sognare. Certo. Ecco
perché non sapeva di cosa stessi parlando. Mi sono fatto un
appunto mentale per ricordarmi di questa conversazione e mi sono
avvicinando a lui sorridendo.
“Sì,
sì, scusa. Vedrai che tornerà prima o poi, adesso
vieni” Volevo portarlo da Ryou, fargli conoscere anche Honda
magari, se lui lo avesse voluto, chiamare Anzu...
“Dove?”.
“Su”
ho indicato con il dito il piano di sopra “Dobbiamo dire agli
altri che stai bene... avevi detto di volerli incontrare no? Ma prima
dobbiamo vestirci” e io dovevo avvertire Ryou e il telefonino
era rimasto in camera mia.
Con
mio enorme sollievo, Atem non mi ha chiesto come mai non ci fosse un
armadio con dentro i suoi vestiti, o
perché non avesse una camera o perfino una casa tutta sua.
Forse non era arrivato ancora a quel grado di comprensione della vita
domestica, oppure si era già trovato una spiegazione da solo
prima di doverla chiedere a me. In quel caso, avrei dato oro per sapere
cosa fosse.
Ho
aperto la cassettiera e tirato fuori un’altra maglietta
bianca, un po’ più curata, mi piaceva
l’effetto che quel colore aveva sulla pelle scura di Atem, e
un paio di jeans blu oceano comprati appositamente per lui qualche mese
prima. Ho afferrato il telefonino mentre Atem si cambiava, il mio
intento era di telefonare o mandare un messaggio a Ryou, ma non potevo
fare a meno di sbirciare di tanto in tanto. Atem ridacchiava fra se e
se.
“Se
vuoi una vista migliore, ti consiglio di mettere giù il
telefono”.
Splendido,
il senso dell’umorismo di mou hitori no boku...
“Non
so di cosa parli” ho mormorato componendo il numero di Ryou
per dimostrare che il telefono non lo stavo usando solo come paravento.
Ovviamente non ha funzionato. Atem si è avvicinato in jeans
scuri al letto dove ero seduto, la maglietta ancora stretta fra le
mani. Era magro e slanciato, come il vero Atem, ma era ugualmente
piuttosto attraente, e dall’espressione del suo viso
probabilmente ne era perfettamente consapevole. Si è
inginocchiato di fronte a me togliendomi il cellulare dalle mani e
poggiandolo sulla scrivania a lato del letto. Viso contro viso, mi ha
afferrato il mento fra le dita con la sua delicatezza possessiva e
prima che potessi pensare di arrossire ha premuto le sue labbra sulle
mie.
Vedendo
che io non rispondevo al gesto, si è scansato subito, un
lampo di preoccupazione nel suo sguardo color granato.
“Tu..
non- scusami, è che ricordo che noi due eravamo partner e
allora ho pensato... scusami” aveva iniziato balbettando
scuse, poi gli occhi si sono abbassati fino a fissare il pavimento
mentre mormorava ancora. Era… deluso? Ho stretto le sue mani
tra le mie: in fondo, in che altro modo avrebbe potuto interpretare la
parola partner? Era in casa mia, ricordava solo me, io non gli avevo
nascosto di apprezzare la sua presenza...
“No,
no: è tutto a posto” ridacchiavo per la situazione
in cui ci trovavamo “È che non mi aspettavo...
sì, siamo partner comunque” la mia risata si
è trasformata in un sorriso “Mi fa piacere che tu
te lo ricordi”.
Atem
sembrava ancora esitante, ho capito che odiava sbagliarsi, odiava non
sapere cosa fare e odiava essere senza ricordi, senza certezze... Mi
sono avvicinato a lui, gli ho scostato una ciocca di capelli biondi da
davanti agli occhi, sfiorandogli la guancia con le dita. Gli ho
restituito il bacio. Gliene ho regalato un terzo. Poi un quarto. Ho
spostato la mano sul suo collo, tirandolo a me.
Atem
ha chiuso gli occhi.
Lyrics da Ti
Sento Vivere (Max
Pezzali). *L'autrice adora questa canzone*
E questo è
quanto di più rosso troverete mai nelle mie storie *eco
della beta reader che sbraita in lontananza* Beh, accontentatevi! Il
resto è lasciato alla fantasia del lettore, in fondo le
fangirls sono famose per avere una fervida immaginazione, no?
Comunque sono fiera di
annunciare che gli aggiornamenti di Pictures of You resteranno settimanali
perchè dopo quattro lunghi mesi di typing frenetico e plot
bunnies scomparsi l'autrice *rullo di tamburi* ha finalmente FINITO di
scrivere la storia!! A quanto pare la maledizione delle
multichapter ha deciso di prendersi una tregua...
Detto questo, ringrazio
tutti quanti per aver letto fin qui e aver dedicato un po' del loro
tempo a questa ficci e vi do appuntamento a domenica prossima per il
capitolo 15,
Ache
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Capitolo 15 *** For The World To See (II) ***
Buona
sera e Buonanotte lettori e lettrici,
capitolo
fluffoso andante con angst per chiudere in bellezza la settimana. Nulla
di rilevante da aggiungere, vi lascio a Yugi,
Buona
Lettura!
Here
giving it my best shot, baby, I find that we can be free.
When
you're here, here with me.
Ho
sempre saputo di
essere stanco, che prima o poi il mio corpo avrebbe deciso di
abbandonarmi e
obbligarmi a recuperare tutto il sonno perduto negli ultimi anni. Ma
non era
qualcosa a cui avevo mai dato troppa importanza.
Il
ticchettio elettronico
della sveglia segnava spietatamente il pomeriggio inoltrato e mi sono
reso
conto di essermi addormentato che era piena mattina. E non da solo.
Stretto
saldamente
intorno alla mia vita c’era il braccio di Atem, mentre il suo
avambraccio era sotto le mie guance, a farmi da cuscino. Immagini di
quello che
era successo solo qualche ora fa si affollavano confuse dietro ai miei
occhi,
ora veloci, ora delicate, ora annebbiate, a tratti chiarissime. Un’intermittenza
di ricordi
e di azioni reciproche, se non premeditate allora pianificate in chissà
quale angolo remoto
della mia mente. Il
braccio di Atem era morbido sotto di me, lui era silenzioso,
stranamente
intatto e perfetto come una bambola di porcellana dalla pelle tutt’altro
che diafana. Solo i capelli, le ciocche con cui avevo
giocato tanto volentieri, erano sparpagliate disordinatamente sul suo
viso e
sul letto, appiccicaticce di umidità. Non di sudore. Avrei
voluto allungare una mano e scansarle dai suoi occhi, giocarci di
nuovo, ma non
ci riuscivo. Avevo la gola stretta in una morsa. Che cosa avevo fatto?
I
sensi di colpa mi
risuonavano nella testa con la prepotenza di una folla in rivolta.
Se
solo non avessi le mie
maledette emozioni, se solo non provassi niente, se fossi come Atem…
ma Atem ha delle
emozioni, le aveva questa mattina, le ha messe a nudo per
me, letteralmente. Era reale, era finto, lo era solo in parte…
tutto queste cose adesso non contavano più niente. Non avrei
più potuto andare piano
adesso, niente più piccoli passi. In neppure 24 ore avevamo
già colmato una distanza
tale che non saremmo potuti tornare al punto di partenza neanche
volendolo.
Cazzo di emozioni… Potevo azzardarmi a chiamarlo…
incidente? Chi ci avrebbe creduto? Non il mio riflesso nello
specchio, non Atem. Lui non lo avrebbe certamente detto a nessuno se
glielo
avessi chiesto, ma non era questo il punto. Atem non è qui
per soddisfare i miei bisogni repressi. Non è un giocattolo.
Tantomeno sessuale.
Lui
è il mio… il mio…
I
limiti del linguaggio
umano non c’entravano niente con la mia incapacità
di dare una definizione all’uomo, sì, uomo, che
dormiva accanto a me. Fidanzato? Di già? Eppure, non era così
che sarebbe sempre
dovuto essere? Una coppia… Era tutto così
complicato. Lo era sempre stato, ma le cose non sembravano mai
risolversi, i nodi non si scioglievano mai e diventavano più
inestricabili avventura dopo avventura.
Cosa
gli avevo fatto?
Ho
affondato gli zigomi
nella sua pelle, camuffando un gemito. Il suo braccio mi stringeva, mi
teneva a
sé, sicuro, casa, protetto, mou hitori no boku
che era fratello e
amico e amante insieme. La mia ancora, la mia sicurezza… Atem
era statuario in quel suo sonno senza sogni, volevo che il suo
petto si alzasse e si abbassasse al ritmo del mio stesso respiro,
volevo vedere
la vita scorrere dentro di lui, volevo che mi dicesse che era tutto a
posto. Fratello... amante. E bambino.
Sembrava un bambino mentre mi stringeva a sé come il suo
peluche
preferito, le guance morbide, le labbra appena appena dischiuse, i
lineamenti placidi. E ancora capelli, sparsi sul collo e sulle spalle,
lunghi, più lunghi di quelli di mou hitori no boku.
Scusami.
I
raggi che infiammavano
la stanza testimoniavano il calore atroce del sole in quel giorno di
fine
agosto, ma a me non importava. Mi stringevo ancora di più ad
Atem: il mondo era freddo, volevo assorbire il suo di
calore, anche se non ne aveva di vero da donare e finalmente le lacrime
di questa mattina, respinte già due volte, si sono
riaffacciate da dietro le palpebre.
Premevano e pizzicavano, appesantivano i miei occhi, mi costringevano a
chiuderli, non ne potevano più di aspettare. Non credo sarei
riuscito a
stringermi ad Atem più di quanto stessi facendo in quel
momento.
Scusa.
Macchie
umidicce
bagnavano la fodera del letto, bagnavano il suo braccio e la sua
spalla.
Piangevo in silenzio per non sembrare troppo diverso da lui, piangevo
meccanicamente.
E
poi una mano mi ha carezzato il mento bagnato e le guance,
spingendo il mio volto in su con reverenza. Atem non stava più
dormendo.
«Shhh»
niente domande, solo un
sussurro. Non avrei saputo rispondere comunque, perciò ero
contento. Ho aperto gli occhi di una fessura: lo sguardo di
Atem era annebbiato dal sonno e il mio dal liquido che continuava a
uscirmi
dagli occhi, ma volevo fissarlo lo stesso, incastonare il suo viso che
conoscevo alla perfezione nella mia memoria per sempre. Piangevo.
«Shhh, è tutto a posto». No, no non lo è.
Un singhiozzo che non sono riuscito a ingoiare.
«Ci
sono qua io». Atem mi ha stretto a sé, baciandomi
la fronte, poggiando le sue labbra sulla mia nuca.
Ero io il bambino piccolo adesso, lui era cresciuto di nuovo. Atem non
mi
avrebbe lasciato andare. Ho affondato il volto contro di lui,
stringendogli le
braccia con le mani fino quasi a fargli male. Il mio pianto non era più
silenzioso adesso e io scuotevo la testa fra i singhiozzi
mentre le mie lacrime gli inumidivano la pelle e i ciuffi colorati. Cosa
ho fatto, cosa ci ho fatto? Grazie,
scusa…
Non
avevo più idea del motivo per cui stessi piangendo.
Forte…
Mio nonno, Jonouchi, mou hitori no boku… mi hanno sempre
detto che io sono forte, più forte di tutti loro.
Che
io ci credessi o no,
questo era il momento di dimostrare a me stesso era vero
Mentire
ad Atem era
diventata un’abitudine. Nello spazio di neanche
ventiquattro ore.
«Una
moto. Il bastardo ti ha investito e poi è scappato via, non
sono neanche riuscito a prendere la targa».
I
miei gesti erano rallentati dallo sforzo di pensare a una
scusa credibile, di far incastrare tutti i particolari fra di loro
in modo coerente. Probabilmente avrei dovuto scriverli da qualche parte
prima
di finire per tradirmi. A mio vantaggio
giocava il fatto che Atem non sembrava particolarmente interessato alla
questione. Cioè, ovviamente lo era,
altrimenti non me lo avrebbe chiesto, ma se il suo interesse fosse
stato più profondo probabilmente mi avrebbe sommerso di
domande. Una
persona priva di memoria dovrebbe essere piena di interrogativi. E poi,
non era strano che di me invece si ricordasse? Era strano solo per me?
Io che dovevo ancora decidere se era un bene o un male?
A
quanto pare certe parti di me avevano già preso una
decisone. Le
guance mi si sono tinte di rosso mentre allacciavo il bottone dei jeans.
«E
in seguito all’urto ho perso la memoria…»
ha mormorato. Atem sedeva sul letto a processare le informazioni che
gli davo con lo sguardo perso nel vuoto, e poi, in pochi secondi, era
come se non contassero più nulla e le archiviava da qualche
parte nel dimenticatoio. In una manciata d'ore stavo imparando che Atem
non viveva nel passato.
Il presente per lui era tutto.
«Credo
ancora che dovremmo chiamare gli altri» ho cambiato
argomento, Atem non aveva bisogno che lo
rassicurassi per qualcosa che era già ovvio.
«Jonouchi,
Ryou e Anzu?» ha chiesto.
«E
Honda». Dovevo mostrarmi
sorpreso dal fatto che ricordasse i loro nomi con tale facilità
anche se io glieli avevo detti
una sola volta? Per di più mentre era distratto e si era
appena
svegliato? Perché io ero
sorpreso, anche se conoscevo il motivo di tanta accuratezza. Ma se il
mio stupore lo avesse
insospettito e avesse capito che ricordare certe cose non era qualcosa
che gli
altri umani fanno? Ho deciso di far finta di niente. Atem continuava a
parlare.
«Come
sono i tuoi amici?».
Probabilmente tutt’altro
che estasiati all’idea che tu sia qui.
C’era
una possibilità, abbastanza remota credo, che i ragazzi non
sarebbero stati, non dico contenti, ma comprensivi.
Honda in particolare. Nel momento in cui si fossero ritrovati faccia a
faccia
con Atem la prima volta avrebbero dovuto cominciare a mentire e fingere
anche
loro perché la messinscena reggesse. Avrebbero dovuto
confermare la mia versione dell’amnesia e avrebbero dovuto
annuire alle
inferenze che Atem avrebbe fatto su di loro in base a quei ricordi
confusi che
io avevo già confermato in loro vece. Anche se qualcosa mi
diceva che
Atem non avrebbe parlato loro dei suoi ricordi: ciò l’avrebbe
messo in una posizione di svantaggio
perché non ne aveva il completo controllo e non l’avrebbe
mai avuto, anche se non lo sapeva. Non ne ero ancora del tutto
certo neanche io. E ovviamente i ragazzi avrebbero dovuto accettare la
nostra relazione,
perché per Atem era un dato di fatto, qualcosa di
consolidato.
«Ne
abbiamo passate tante insieme» ho sorriso. Ecco una verità
che potevo rivelare
senza problemi.
«Atem…»
ho mormorato
avvicinandomi a lui.
«Mmh?».
«Devo
chiederti un favore».
«Tutto
quello che vuoi» ha ammiccato.
Potevo
decisamente aggiungere la façade del gentleman alle
dimensioni della sua personalità ormai.
«Almeno
per un po’… potresti non dire agli
altri che noi… cioè, preferirei che non lo
sapessero ancora».
«Era
un segreto?».
Ho
fatto un vago cenno
con la testa. «Più o meno. Ma vorrei che
non sapessero quello che è successo… prima».
Che io amassi mou hitori no boku lo avevano ormai capito e
accettato, che io amassi Atem probabilmente lo avevano previsto, ma che
lui
ricambiasse e che tutto ciò accadesse nello spazio di una
giornata non li
avrebbe lasciati contenti. Non appena avessero visto Atem, avrebbero
cominciato
a fargli delle domande: come si sentiva, come si trovava con me
eccetera, e
neanche io conoscevo tutte le risposte. Non credo di stare forzando i
suoi
sentimenti, lui era sembrato più che sincero, ma i ragazzi l’avrebbero
capito?
«D’accordo…»
il modo in cui mi ha carezzato la guancia trapelava delusione.
E se stesse pensando che avevamo fatto l’amore solo perché
ero così felice che lui stesse bene e non perché
era qualcosa che volevo davvero? Quanto potevo ferire Atem?
Qual era la sua sensibilità, quando si trattava di me?
«Andremo piano piano allora» sorrideva. Troppo
tardi, avrei voluto
contraddirlo, il tempo
del piano piano è
finito ormai, ma non ne valeva la
pena.
«Solo
un altro po’» ho sussurrato
dandogli un bacio leggero: dovevo rassicurarlo «Il
tempo che si abituino all’idea, ok?». Ero
stato uno stupido, ma almeno ero stato sincero quanto lui.
«Ok»
ha poggiato le sue
labbra sulla mia fronte, carezzandomi i capelli con le mani. E ancora
una volta
mi sono ritrovato a pensare quanto fosse strana la sua somiglianza a un
bambino
per quel suo modo ingenuo di venire a conoscenza delle cose e come
fosse strano
che poi mi ricordasse così tanto un fratello maggiore quando
mi stringeva, mi
toccava i capelli e mi stava vicino. Chissà se era
consapevole di
questa contraddizione…
Ho
sorriso e ho lasciato
che mi stringesse le braccia intorno alla vita mentre digitavo il
numero di
Ryou.
Non
era il contatto fisico in sé a darmi fastidio, Atem
era possessivo almeno quanto mou hitori no boku, ma non poteva
ascoltare la mia
conversazione.
«Atem,
perché non vai a farti una doccia mentre
chiamo Ryou? Così poi ti do il cambio».
Vedevo
gli ingranaggi
frullargli nel capo mentre ponderava attentamente le mie parole. Forse
intuiva
che c’era qualcos’altro dietro alla mia
richiesta, forse era davvero quella che sembrava: una scusa. Era
strano, a
volte dicevo qualcosa di semplice e Atem si perdeva nei suoi pensieri
per cercare
di interpretarla, altre volte parlavo di problemi più
complicati, e lui mi seguiva e precedeva con una facilità
sorprendente.
«Okay»
solo una parola. Scelta
fra chissà quante altre. Ma almeno la sua risposta
è stata quella di cui avevo bisogno. Ha lasciato la stanza
lasciando socchiusa la porta, l’ho seguito con lo sguardo
finché non ho visto la sua
ombra scomparire giù per le scale. Solo allora mi sono
deciso a
premere il tasto di chiamata.
«Ryou?».
«Yugi?
Come stai? È successo qualcosa?».
«Direi
di sì» ho ridacchiato sottovoce «Jono
non ti ha detto niente?»
«Cosa c’è
che
non so?».
«Atem
si è svegliato» probabilmente avrebbe
potuto capire che stavo sorridendo come un bambino anche attraverso lo
schermo
del telefono. La linea è rimasta silenziosa per qualche
secondo, nulla
che non mi aspettassi.
«Beh...
wow…» non
sono sicuro che la sua risata fosse di congratulazioni o semplicemente
nervosa.
Forse entrambe le cose. «Complimenti
Yugi, davvero. E lui com’è, come sta? Funziona?».
«Certo
che funziona! Si è svegliato ieri, abbiamo parlato, adesso
è in bagno a farsi una doccia».
«Alle
quattro di pomeriggio?». Perché i
miei amici dovevano
essere così attenti?
«Sì,
abbiamo parlato molto
stamattina…». Potevo praticamente vedere Ryou che
annuiva,
la mano sul mento e il peso scaricato su uno dei fianchi. Se non mi
credeva non
ha comunque fatto nulla per farmelo capire. O forse sono solo paranoico
e non c'era nulla di scettico in quella telefonata.
«E cosa
ha detto?» probabilmente si riferiva alla
nostra
conversazione sul fatto che Atem potesse chiedermi di essere spento. Ho
tirato
un sospiro profondo.
«Ryou
c’è... un problema. Atem...
lui non sa di essere una macchina» stavo sussurrando, il
terrore che Atem potesse sentirmi mi stava facendo sudare freddo, lui
non era in camera ma io avevo il
cuore in gola.
«Yugi
dimmi che non hai-».
«No!
No no no no no. Non è colpa mia» ok, magari lo
era «Non
era così che doveva andare. Lo sai che volevo che lo
sapesse. Ne abbiamo parlato,».
«Ma?».
«Ma...
invece lui non lo sa. È convinto di essere mou
hitori no boku, i suoi ricordi sono molto confusi ma non sembra che gli
importi. Si ricorda di me, per tutto il resto ha un’amnesia
profonda. Crede che stiamo insieme...».
«E
tu
gli hai detto la verità?».
«...
No».
«Yugi!
Non puoi trattarlo così! Cosa succederà
quando lo verrà a sapere! Come ti è
venuto in mente?».
«Non
potevo... dirglielo. Dovevi
vederlo, Ryou, gli avrei spezzato il cuore. Era smarrito, e privo di
ricordi,
e... e io ero l’unica cosa che aveva, non potevo-»
Ryou ha sospirato dall’altra parte del telefono.
Probabilmente si stava passando una mano tra i capelli. Non potevo
biasimarlo.
«Che
cosa gli hai detto?».
«Che
ha avuto un incidente d’auto- no, aspetta, che l’hanno
investito. Sì, con una moto, che ha
sbattuto la testa e ha perso la memoria. Non ha voluto sapere altro,
non è molto interessato al suo passato» stranamente.
«E noi
cosa dobbiamo dirgli?» Ryou arrivava subito al
punto, non mi aspettavo niente di
diverso. Lanciavo continuamente occhiate nervose all’orologio:
quanto tempo era passato dall’inizio della conversazione?
Quanto tempo avevo ancora prima che
Atem tornasse? Atem... aspetta, Atem era in grado di farsi una doccia?
«Yugi?».
«Sì,
scusa, pensavo. Ditegli quello che ho detto
io: che ha avuto un incidente due giorni fa, che è rimasto a
casa mia tutto
quel tempo, che siete suoi amici e lui ha perso la memoria. Non
ditegli, mai,
mai a
tutti i costi, che è una macchina».
«Preferirei
non dirgli proprio niente...».
«Allora
fa’ così, fa’ così Ryou, okay?»
probabilmente il mio
tono era più seccato di quanto avrebbe dovuto. L’ansia
che Atem potesse entrare in camera da un momento all’altro mi
stava facendo perdere la testa. «Ignoratelo, tanto lui ha me.
Di me si ricorda, lasciateci da
soli».
«Yugi,
non dire cose che non pensi. Non prendertela con me».
«È
che non... sono tante cose, tante, tante cose... sento che la
testa sta per esplodermi...» piagnucolavo quasi, la testa
stretta fra le
mani. «Possiamo passare da te dopo? Così, fate
conoscenza...» ho provato ad ammiccare
un sorriso.
«...
ok, portalo qui per cena».
«Ok»
ho annuito «Grazie».
«Di
niente, a dopo Yugi-kun».
«A
dopo».
Sospirando
ho poggiato il
telefono sulla scrivania e mi sono buttato di nuovo sul letto, a
guardare il
soffitto. Stasera... avevo circa tre ore per prepararmi
psicologicamente alla
presentazione ufficiale di Atem. Non avevo idea se Ryou avrebbe
invitato anche
gli altri, forse sì, forse no, non avrei detto niente in
proposito. Gli avevo detto che Jono sapeva, quindi Ryou aveva capito
che Atem
non era più un segreto. In fondo era una persona adesso,
le persone escono, fanno amicizie, hanno conoscenti... non potevo
tenere Atem
rinchiuso in casa. Vero? Perché il pensiero mi sembrava così
allettante? Il mondo avrebbe potuto rovinarlo, corromperlo,
distruggerlo... qui con me era
al sicuro, lontano da chiunque avesse intenzione
di fargli del male. Lontano dalla verità.
Delle
tre ore che mi separavano dall’ingresso in società
del mio fidanzato robot,
ne erano passate due e mezzo. A portarne i segni era ancora una volta
il letto,
letteralmente ricoperto di strati e strati di vestiti che io avevo
tirato fuori
alla rinfusa dai cassetti nel tentativo di trovare il perfetto outfit
per far sembrare Atem il più umano possibile. Atem
ovviamente lo ignorava e aveva registrato il mio interesse per la moda
come
qualcosa per la quale valesse semplicemente la pena prendermi in giro.
E ci stava
riuscendo perfettamente.
Non
che si rifiutasse di
collaborare, anzi, a volte era fin troppo accomodante, ma potevo vedere
che l'unico motivo per cui la
faccenda gli interessasse era il fatto che fosse una scusa
perfetta per ridacchiare ancora sotto i baffi. Una scena
che mi ricordava fin toppo un vecchio episodio... Quanto a me, Atem
aveva
insistito per un paio di jeans scuri e mi aveva concesso al libertà
di scegliere la maglietta che preferivo. Era una cena a casa di
Ryou, non un tè con la regina d’Inghilterra,
eppure in
questo momento mi sarei sentito molto più a mio agio di
fronte all’anziana Elisabetta. Magari con la sua vista
cadente non avrebbe
sospettato che in Atem c’era qualcosa di strano. A casa di
Ryou invece,
tutti gli occhi sarebbero stati puntati su di noi l’intera
serata, non sapevo neanche quante paia e così non potevo
nemmeno prepararmi a dovere per la battaglia. E per
la prima volta da quando era in casa mia, ho trovato il senso dell’umorismo
di Atem a dir poco irritante.
«Prova
questo!» gli ho lanciato
sbrigativamente l’ennesima maglietta mentre con l’altra
mano ammucchiavo i vestiti scartati nella sempre più alta
pila che si andava accumulando ai piedi del letto. A
questo punto non sapevo neanche più se mi interessasse
veramente quello che Atem indossava, forse era solo un modo per sfogare
la
tensione accumulata.
«Ma
questa l’ho già provata». Ho roteato gli
occhi senza farmi vedere.
Almeno poteva fare uno sforzo e collaborare no?
«Provala
di nuovo». Erano le sette meno un
quarto. Mi sono passato una mano sulla faccia, sospirando. Ho sentito i
passi
di Atem che si avvicinava da dietro. Mi ha abbracciato le spalle,
poggiando il
mento sulla mia clavicola.
«Respira,
Yugi» ha sussurrato «Va tutto bene».
Ho
sospirato di nuovo,
chiudendo li occhi, mentre mi abbandonavo alla sensazione di Atem
vicino a me,
dei suoi capelli contro la mia pelle. Ho steso le dita, le ho contratte
e poi
le ho distese di nuovo. Forse aveva ragione, forse dovevo lasciami
contagiare
dal suo ottimismo. Erano già andate storte parecchie cose,
anche se casa
di Ryou si fosse rivelata un disastro non sarebbe mai stato peggio di
quello
che avevo già affrontato. Giusto?
«Okay...»
ho mormorato. «Metti quello che vuoi, ti aspetto giù»,
sono sgusciato via lentamente dalle sue braccia e ho sceso le
scale trotterellando. Dopo neanche cinque minuti i gradini rimbalzavamo
di nuovo sotto il peso di un’altra persona e Atem
faceva il suo ingresso in salone: jeans consumati e maglietta nera a
stampe
indosso. Ho sfoggiato un mezzo sorriso di compiacimento, effettivamente
aveva
una mise perfetta per una serata tra amici.
In
fondo non era
irritante. In fondo amavo il suo ottimismo. Mi bilanciava, era una
certezza,
era quello di cui avevo bisogno.
Ho
chiuso a chiave la
porta e infilato le chiavi in tasca. Ci siamo guardati negli occhi,
fosse stato
per me avrei passato il resto della serata sul vialetto: all’improvviso
tutto l’entusiasmo si era
dissolto.
«Andiamo?»
ha chiesto finalmente
Atem, offrendomi il braccio. Ho annuito incamminandomi verso la
macchina, ma ho
rifiutato la sua offerta ridacchiando.
«Ricordi?
Avevi promesso...».
«Giusto,
scusa» ha sorriso. «Devo essermelo dimenticato»
e ha cominciato a
camminare al mio fianco.
Ma
io sapevo che non era
possibile: Atem non può dimenticare, me lo ha già
dimostrato. Ma le sue parole mi hanno fatto scoprire un’altra
cosa sul suo conto: Atem può mentire.
Lyrics da Best Shot (Birdy)
Nessuna idea sul
'vecchio episodio' a cui Yugi si riferisce? Indizietto: uno degli ep.
più divertenti della serie e uno dei pochi ad essere, a
parer mio, migliore nell'anime che nel manga.
L'appuntamento con Anzu!!
Peccato sia Yugi ad
essere nervoso questa volta, Atem sembra piuttosto rilassato all'idea
di dover impersonare il debuttante al ballo.
Grazie per aver letto
fin qui, grazie a chi ha lasciato recensioni nei capitoli precedenti e
a chiunque abbia appena dato una sbirciata a questa storia, nel
prossimo capitolo ritroveremo i minna e anche un'altra persona che non
si fa sentire da un po'... A domenica prossima!
Ache
|
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Capitolo 16 *** For The World To See (III) ***
Nessuna notizia di rilievo
neanche questa settimana, a parte il fatto che è un
periodaccio e non riesco più a trovare il tempo per
scrivere...
Vi lascio alla terza e
ultima parte del capitolo 14 (yep, succede tutto lo stesso giorno),
Buona lettura!
Let
me drink with all my friends.
I’m
gonna laugh until we cry, as we talk and reminisce.
Casa di
Ryou era ormai in vista quando un particolare mi ha improvvisamente
attraversato la mente.
«Yugi?».
Un particolare molto importante.
«Hum…»
la forza di formulare risposte coerenti si era come dissolta nel nulla:
tutte le mie energie erano concentrate sullo sforzo di non farsi
prendere dal panico e impedire alle mani strette sul volante di
tremare. Idiota.
«Stai
bene?».
«Perché?» ero
riuscito a non balbettare neanche una sillaba. Gli sforzi
stavano dando i loro frutti.
«Non
so… ti sei come bloccato sul volante… sembra
quasi che ti è venuto in mente qualcosa di brutto, oppure ti
senti male. Non ti senti male, vero?» Atem era sinceramente
preoccupato. Mi dispiace. Stare male… non sarebbe stata una
cattiva scusa, se avessi finto un improvviso capogiro Atem non avrebbe
fatto storie, saremmo tornati a casa subito e avrei avuto tempo per
decidere che cosa fare. Ma Ryou… ero stato io a insistere
per venire quella sera, ci conoscevamo troppo bene, non potevo
mentirgli ancora e mandare all’aria la cena. Tanto
più che prima o poi avrei dovuto dirglielo, non
potevo fargli una cosa simile.
«Stai
ancora pensando a stasera?» magari non era molto ricettivo
nei confronti di sé stesso, ma quando si trattava di me Atem
sembrava cogliere qualunque sbalzo di umore.
«...».
«Rilassati»
mi ha offerto un piccolo sorriso, stringendomi il ginocchio per
rassicurarmi.
«Andrà
tutto bene».
Dipendeva da quello che avrei deciso però… A quel
punto ho fatto l’unica cosa che mi è venuta in
mente, perché per quanto sospettosa, contavo sul fatto che
Atem si sarebbe fidato di quello che avrei detto più di
quanto avrebbe fatto Ryou.
«È
che mi sono ricordato che devo fare una telefonata».
«A
chi?».
«Per,
uhm, l’università. Devo assolutamente chiamare
prima che chiuda la segreteria ed è già tardi. Ti
spiace? Ci metto un secondo».
«Ok…».
Senza
aspettare che Atem formulasse una risposta più articolata ho
fermato l’auto e afferrando il cellulare mi sono precipitato
fuori dalla macchina, mi sono allontanato abbastanza perché
non potesse sentire la conversazione e ho cominciato a digitare
freneticamente le cifre del numero di Ryou.
Erano
le 19.05. L’orario in cui saremmo dovuti arrivare.
L’orario di cena. E Atem non può
mangiare. Come avevo fatto a dimenticare una cosa del genere?
Battevo
il piede sull’asfalto, al ritmo dei miei nervi. Rispondi
Ryou…
«Pronto?».
«Ryou
c’è un problema».
«Perché
queste parole non mi sorprendono?»
Ryou era stanco, non divertito. Sospirava. Sì, era
colpa mia, ma gli ultimi due giorni erano stati una sorpresa per tutti,
no? Dovevamo solo imparare a convivere con la novità, tutti
i cambiamenti richiedono tempo e i giapponesi odiano il cambiamento.
Era normale…
«È
Atem, lui non… aspetta ci sei solo tu in casa?».
«No,
Jonouchi è con
me. Non abbiamo detto niente ad Anzu e Honda se è
per quello che ti preoccupi».
«No,
no non è quello». Jonouchi. Meglio
così, sarebbe stato più facile dirlo ad Anzu di
persona, e il fatto che Honda non ci fosse mi confortava. Era stato il
più scostante fra i miei amici, il più restio ad
accettare mou hitori no e se non ricordo male non
l’aveva neanche mai visto. Negli ultimi mesi ci eravamo
parlati di rado, quasi sempre in presenza di Jono o Ryou e persino
frequentando la stessa facoltà ci evitavamo silenziosamente
nel corridoio. «Atem non può mangiare, Ryou, non
possiamo fare una cena».
«Non
può-»
Ryou si è fermato, evidentemente l’informazione
aveva senso per lui, in fin dei conti Atem non era umano:
perché avrebbe dovuto essere capace di mangiare?
Perché sapeva parlare e pensare e provare emozioni. Ecco
perché. Ma non avevo tenuto in conto che non fosse
consapevole del suo essere diverso. Altrimenti avrei fatto qualcosa,
era un handicap con cui non poteva vivere se era convinto di essere una
persona vera. «Ok, che vuoi fare allora?».
«Non
lo so, mettete via tutto, non parlate di cibo o di altre cose vicino a
lui, chiudete la cucina».
«Potremmo
giocare, o andare al cinema... Magari invitiamo Honda. Se restiamo a
parlare tutta la serata è
meglio che siamo in tanti, sarebbe strano non cenare altrimenti».
Già…
eppure mi sentivo troppo felice per affrontare Honda. Volevo rimandare
il più possibile. Era troppo presto perché tutto
andasse a rotoli e lui mi riportasse con i piedi per terra. Volevo
godermi Atem ancora un po’.
«E
se annullassimo? Se tu mi chiamassi e dicessi che stai male e non
possiamo più venire?».
«Yugi»
mi ha rimproverato «Non puoi nasconderti per
sempre. Prima o poi dovrai affrontare la verità,
anzi, prima o poi anche…
Atem dovrebbe affrontarla. Non puoi tenergli nascosto per sempre il
fatto che è un
robot. Non può
mangiare, lo hai detto tu! Quanto passerà
prima che si accorga che tutti gli altri setti
miliardi di umani attorno a lui mangiano? Credi che non lo capirà
mai? Pensi di tenerlo sotto chiave per impedirglielo?».
«Non
adesso! È troppo presto per pensare a queste cose! Pensiamo
a oggi, ok? Ti ho chiesto cosa pensi che potremmo fare».
«Te
l’ho detto, Yugi».
«Ok,
ok: chiama Honda. Ci vediamo da te fra poco. E ti prego, reggetemi il
gioco. È troppo presto… ho bisogno di
più tempo». C’è stata una
pausa dall’altra parte del telefono. Probabilmente Ryou stava
facendo a pugni con la sua morale, ma alla fine ha accettato.
«D’accordo,
a dopo».
«A
dopo Ryou».
Ero
ancora convinto che non fosse stata una buona idea ma speravo che la
presenza di Atem avrebbe messo a posto ogni cosa. I ragazzi non
l’avevano visto, non sapevano di cosa stavano parlando:
odiarlo era impossibile, non avrebbero trovato nessuna differenza.
Quando abbiamo fatto il nostro ingresso in casa di Ryou, Jonouchi e
Honda erano in camera di Ryou a parlare, molto probabilmente di mou
hitori no boku, il padrone di casa invece ci è venuto
incontro per aprirci la porta. Quando ha
visto Atem ha spalancato gli occhi e si è come pietrificato,
e per un attimo ho avuto paura che si lasciasse sfuggire qualche
commento. Invece è rimasto in
silenzio, ‘è bello rivederti’
è stato tutto ciò che ha mormorato, ma non mi
è sfuggito il sorriso che provava a nascondere. Ho dovuto
spiegare ad Atem chi fossero le persone che gli stavano davanti,
perchè lui dei miei amici conosceva solo il nome, ma mi
è sembrato accondiscendente e sinceramente lieto di fare la
loro conoscenza. Ha regalato piccoli inchini e sorrisi, indagato i loro
occhi alla ricerca di indizi, si è scusato perché
non riusciva a ricordare quei volti che io invece trovavo
così familiari. La tristezza era reciproca: Atem si sentiva
in colpa e responsabile per la sua incapacità di ricordare,
e probabilmente la cosa lo feriva, i ragazzi si sentivano in colpa nei
suoi confronti, anche se i sentimenti che provavano per mou hitori no
boku erano ben più profondi e contrastanti, e non sono
sicuro di volerli esplorare del tutto.
Variavano
da persona a persona, dallo sguardo scioccato e poi affettuoso, quasi
pietoso, di Ryou, a Jono che si schiariva la voce per prendere tempo e
non lasciarsi travolgere dalla sua solita irruenza, a Honda che ha
ricambiato meccanicamente l’inchino di un Atem che si scusavo
per non averlo riconosciuto. Debitamente istruito da Ryou e Jonouchi,
Honda è rimasto in silenzio, annuendo qua e là e
scuotendo la testa impercettibilmente ogni volta che Atem parlava.
E poi,
lo stupore ha lasciato lo spazio allo scetticismo, e lo scetticismo a
un colpevole senso di sollievo.
Dopo
circa un’ora, eravamo tutti e quattro in camera di Ryou, io e
Jonouchi seduti sul letto a gambe incrociate, Honda con la schiena
poggiata sulla scrivania e Ryou in ginocchio sul tappeto ai piedi del
letto. Era questo che ci era mancato, la presenza di Atem era tutto
ciò di cui avevamo bisogno per tornare ad essere un gruppo,
ed era incredibile. Parlando, abbiamo cominciato a rievocare i vecchi
tempi, un argomento della cui delicatezza, nell’eccitazione
generale, non ho fatto in tempo ad accorgermi. Atem ovviamente aveva
poco o niente da poter condividere con noi: le nostre avventure sono
una patina sbiadita all’interno della sua memoria, qualcosa
che purtroppo non potrà mai avere, così dopo aver
rinunciato a origliare per incamerare informazioni, girovagava per la
stanza osservando ogni oggetto come un turista, e a ogni battito i suoi
occhi sembravano scattare fotografie ora ai libri sulla mensola, ora al
vocabolario di greco antico spalancato sulla scrivania.
Il rosso scrostato della copertina sembrava imitare lo stile dei fogli
che giacevano sotto alle pagine pesanti: Ryou traduceva ancora testi
antichi, si stava specializzando nelle popolazioni del mediterraneo. I
segni misteriosi dell’alfabeto ellenico erano forse meno
indecifrabili dei nostri ricordi agli occhi di Atem. Certe cose si
possono imparare, altre bisogna viverle per conoscerle e una volta che
il tempo è passato non c’è
più nulla da fare.
Con
la coda nell’occhio ho intravisto Atem avvicinarsi
curiosamente a una vetrinetta, sul lato opposto della stanza, e al di
là del riflesso di mou hitori no boku nel vetro si
scorgevano macchie di blu e di rosso. Una figura dai capelli a punta,
un’altra vestita di rosa, un’altra che levava in
alto una spada, una chiazza di capelli marroni e infine una grossa
sagoma bianca. Le nostre figurine di quando abbiamo giocato con Ryou
per la prima volta.
A
parte Jonouchi, davano tutti le spalle ad Atem e non si sono accorti di
niente, ma anche Jono, che stava sostenendo una conversazione a
proposito di ragazze con Honda, non ha notato nulla. La mano di Atem si
è allungata per abbassare la maniglia di rame del piccolo
mobile, un click delicatissimo, impossibile da sentire per chiunque
tranne che per lui, e ha allungato il braccio per sfiorare la resina
ancora lucida del piccolo mago dai capelli bianchi. Era passato tanto
tempo, eppure le bambole erano in perfetto stato, solo gli occhi non
brillavano più come quel giorno. Adesso, le bambole non
erano vive.
La
mano di Atem ha indugiato un attimo sulle sagome di Jonouchi e Honda,
per poi essere rapita dal piccolo incantatore che dormiva
all’estrema sinistra di quell’ordinatissima fila.
Il mago Yugi aveva un’espressione pacata e docile, le grandi
mani distese lungo i fianchi e il piccolo mantello che giaceva placido
sulle sue spalle. Con curiosità, Atem ha raccolto la
figurina tra le mani.
Come se potesse sentire i miei occhi che bruciavano sulla sua schiena,
si è voltato verso di me incrociando il mio sguardo. Non
credo abbia pensato che la bambolina potesse avere un significato
particolare. Dietro la stessa vetrina ce ne erano altre decine, tutte
fatte a mano con paste sintetiche e minuscole pennellate di colore, e
in prima fila le figurine di me e dei miei amici, di Anzu, che Atem non
poteva aver riconosciuto. Mou hitori no boku ha messo via il pupazzo e
richiuso il mobile con cautela.
C’era
differenza tra lui e quelle bamboline?
20
settembre 2003, Domino
Caro
diario,
Le
stanze degli ospiti sono di nuovo piene, come quando ho festeggiato il
mio ventitreesimo compleanno.
A
dormire in camera di mio nonno c’è Atem, io ho
conservato la mia stanza, Jonouchi si è accontentato del
divano, e in camera di mia madre c’è di nuovo Anzu.
Siamo
andati a prenderla in aeroporto questa mattina, dopo che in un
messaggio veloce in risposta alla mia ennesima, lunghissima telefonata
per aggiornarla sulle ultime novità, mi ha scritto
“sono lì fra tre ore”. Sospetto che si
sia messa in viaggio appena ha attaccato il telefono l’altro
ieri. Da Manhattan a Domino sono ore di volo, deve aver fatto scalo da
qualche parte sulla costa occidentale. Non immagino quale scusa si sia
inventata per allontanarsi dal corpo di ballo, spero per lei che sia
bassa stagione ora che l’estate è quasi finita,
non vorrei che compromettesse la sua carriera.
Al
telefono due giorni fa, durante la nostra ultima telefonata, mi aveva
parlato con voce rotta ed euforica. Mi ha sommerso di domande ma non ha
voluto parlare con Atem né io gliel'ho offerto. Ci sono cose
che è inutile raccontare, soprattutto se si ha la
possibilità di sperimentarle di persona. Perché
distorcere la realtà?
I
capelli in uno chignon disordinato da cui pendevano i mozziconi di un
paio di forcine troppo lunghe e gli occhi segnati dal nero delle
occhiaie e della matita sbavata, Anzu aveva l’aspetto di una
donna che non dormiva da parecchie ore, eppure si trascinava dietro il
piccolo trolley rosa con l’entusiasmo e
l’impazienza di una bambina. Gli occhi blu che ispezionavano
freneticamente la folla alla ricerca di un volto noto. Ho agitato le
mani in aria per farmi notare nonostate la bassa statura e ho afferrato
Atem per il braccio indicandogli Anzu: la ragazza delle foto che gli
avevo mostrato, la fatina nella vetrinetta in camera di Ryou. Mou
hitori no boku l’ha riconosciuta velocemente e si
è unito a me nel chiamarla a gran voce, sperando che il
nostro piccolo coro potesse raggiungerla al di sopra del caos che anima
l’aeroporto di Tokyo il sabato mattina. Domino non ha un
aeroporto.
«Yugi!»
agitando finalmente la mano anche lei, Anzu si è diretta
verso di noi macinando le mattonelle del pavimento a grandi falcate,
con l’agilità regalatagli dalle converse e da anni
di attività fisica. Atem si è tenuto in disparte
mentre lei mi abbracciava con affetto, non si sentiva parte del rituale
dell’incontro tra due migliori amici. È normale
che lui si senta escluso, continuo a ripetermi, non è
passato neppure un mese dal giorno in cui ha aperto gli occhi, fra poco
si sarà perfettamente integrato e sarà
impossibile notare la differenza.
Dopo
i consueti come stai e le arruffate di capelli, Anzu ha finalmente
processato la presenza di Atem. Mou hitori no boku le ha offerto un
piccolo inchino, a disagio con il grado di formalità che ci
si aspettava che lui mostrasse. Anzu invece gli è saltata al
collo, abbracciandolo forte. Una scena un po’ buffa per via
della differenza di altezza fra i due.
«È…
è bellissimo riaverti qui» rideva e scuoteva la
testa, mormorando frasi rotte dall’emozione.
Le avevo parlato dei problemi che avevo avuto con Atem, le avevo detto
quello che sapeva e che non sapeva, le avevo addirittura mandato una
foto per prepararla e lei sapeva già chi si sarebbe trovata
davanti. Ma vederlo di persona era un’altra cosa, e mou
hitori no boku non può neanche immaginare cosa significasse
per lei. O per me.
Chiacchieravano,
Atem era molto curioso di sapere di più su Anzu, una persona
di cui gli avevo parlato molto negli ultimi giorni e di cui pensava di
ricordare qualcosa. E poi aveva saputo che era una ballerina e la cosa
lo affascinava moltissimo. Non avevo idea che nutrisse tutto questo
interesse per l’arte ma mentre mi trascinavo dietro di loro
con la valigia di Anzu appresso, sembravano davvero due amici di
vecchia data, tanto che questa volta ero io a sentirmi in disparte.
Siamo
saliti sul vagone, perché almeno di una stazione di treni
Domino è provvista. Seppur breve, il viaggio dalla
capitale a casa sarebbe stato più piacevole in compagnia di
una tazza di caffè fumante, io e Anzu ne avevamo davvero
bisogno, ma non avevo ancora finito di occuparmi del problema di Atem,
perciò il cibo era ancora off limits. Seduti sui morbidi
sedili di cotone della seconda classe, siamo sprofondati nel silenzio e
nei nostri pensieri mentre gli occhi di Anzu vagavano ora dal
finestrino ora al viso mio e di Atem. Non le è sfuggito il
fatto che lui avesse voluto sedersi vicino a me, anche se io non avevo
detto nulla in proposito, e non le sono sfuggite le occhiate che lui mi
lanciava di tanto in tanto, seppur con discrezione perché
rispetta ancora la promessa che mi ha fatto ad agosto. Anzu ha sorriso,
con l’aria di chi la sa lunga.
Eravamo
a metà percorso quando ho spostato gli occhi dal paesaggio e
ho visto che lei stava fissando intensamente Atem. Le gambe
rannicchiate contro il petto e le braccia che stringevano le ginocchia,
aveva il mento poggiato in mezzo alle gambe e lo guardava persa nei
suoi pensieri, in ricordi distanti anni luce. Quando si è
accorta che la fissavo, si è sbrigata a cambiare posizione,
stropicciandosi gli occhi. Ridacchiava, ma il dorso della mano era
lucido di lacrime. Eppure Anzu non ha pianto, né quando ha
visto la foto di Atem che le ho inviato via skype, né quando
ci siamo parlati al telefono o in aeroporto, né in treno o
quando ci siamo dati la buonanotte poco fa. Non davanti a me almeno,
Anzu è una donna forte. Ogni tanto le tremava la voce quando
Atem provava a farla ridere, e allora sentivo che dalla risata sarebbe
facilmente passata al pianto se non si fosse allenata a resistere alle
lacrime in tutti questi anni. Ma adesso non c’è
bisogno che lei pianga.
Siamo
tutti insieme, ancora una volta. Abbiamo ricominciato a passare le
giornate in negozio e a casa di Ryou, questa notte dormiamo in quattro
sotto lo stesso tetto: io, Anzu, Jonouchi, che ci è venuto a
prendere alla stazione, e Atem. Atem che si sta avvicinando alla mia
camera in questo momento. Riesco a sentire i suoi passi su per la
scala, ma spero che gli altri non se ne siano accorti.
È
difficile tenere un diario ora che la mia vita è cambiata, o
meglio, è ritornata come era prima che lui se ne andasse,
eppure non posso lamentarmi. Riporrò questo libro nel
cassetto tra pochi secondi, girerò la chiave del lucchetto
tre volte per poi sistemarmela di nuovo intorno al collo, il suo posto
da più di tre anni, e aprirò la porta ad Atem,
che esattamente come mou hitori no boku non entrerebbe mai nella mia
stanza senza il mio permesso. Abbiamo instaurato una nostra routine
ormai e i giorni si susseguono tranquilli, e quando mi sveglio la
mattina lui è lì, al mio fianco. Reale.
Lyrics da Living
Louder (The Cab)
Appuntamento a
domenica per un nuovo capitolo- non a caso il numero 17-
perché Pictures of You e Ache hanno ancora qualche
cartuccia da sparare.
|
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Capitolo 17 *** Earthquake Weather ***
Buona sera! Sono di corsa e sommersa di studio,
perciò vi lascio velocemente a Yugi.
Buona lettura e buona Domenica a tutti!
We keep this love in a photograph, we make
these memories for
ourselves
Where our eyes are never closing, our hearts
were never broken
And times forever frozen still
12
Dicembre 2004, Domino
Caro
diario,
il
mese di ottobre è
trascorso placidamente, scevro di avvenimenti davvero
importanti ma con Atem che ogni giorno mi rivelava qualcosa di più
su di lui, un tassello in più
che si andava a incastrare nel puzzle della sua
personalità,
e avendolo sempre in casa con me non sono
davvero riuscito a trovare un momento per scrivere. È
stata un’impresa
anche trovare il tempo di lavorare
al suo problema ma per la fine del mese ero riuscito a rimediare al mio
errore
e adesso Atem può
finalmente mangiare. Ho controllato
minuziosamente se ci fossero altri incidenti, se il fatto che i suoi
ricordi
fossero alterati fosse dovuto a qualche malfunzionamento nel cervello,
o a un
guasto, ma tutto era a posto: Atem è
in
funzione
da quasi quattro mesi e non potrebbe essere più
vivo... no, più
umano
di così.
Se
non fosse per alcuni
suoi comportamenti che mi fanno preoccupare...
Un
giorno in novembre ad
esempio pioveva a dirotto, le grosse gocce si accumulavano sul
davanzale della
finestra e l’acqua
penetrava lentamente attraversavano
le fessure del vetro, bagnando il pavimento. Non era la prima volta che
Atem
vedeva la pioggia, ma da qualche giorno prestava attenzione alle cose
in
maniera diversa. L’ho
visto fissare le gocce, contandole con
lo sguardo a una a una, e quando sono rientrato in camera sua, due ore
dopo,
Atem era ancora lì
che le guardava.
Gli
ho chiesto come mai
fosse così
pensieroso, e lui mi ha detto di lasciar
perdere. Era la prima volta che rifiutava di confidarsi con me e la
cosa mi ha
colto alla sprovvista. Gli ho chiesto se avessi fatto qualcosa di
sbagliato, se
fosse arrabbiato con me, e cosa ancora più
strana, Atem non ha negato nessuna di queste cose. Si è
semplicemente girato verso di me, guardandomi con occhi
vuoti: era perso, c’era
risentimento nel suo viso, ma allo
stesso tempo passività,
apatia. Atem... sembrava una macchina.
Ero
spaventato, ma ho
fatto finta di niente. Probabilmente il cambio di stagione stava avendo
delle ripercussioni sulla personalità
di
Atem: succede a moltissima gente, non solo ai metereopatici. Da quel
giorno però,
Atem ha cominciato a chiudersi in sé
stesso: non evitava la mia compagnia ma piuttosto
cercava di passare più
tempo da solo, a pensare mi diceva. Era
come se avesse scoperto qualcosa, qualcosa che aveva bisogno di
processare
lentamente dentro di se e che non voleva assolutamente dirmi. E io ero
troppo
spaventato per provare a indovinare cosa fosse.
Così
ho evitato di disturbarlo e anche il mese di novembre è
trascorso con una certa tranquillità.
Ma mentre provava a isolarsi da me e cercare nella
solitudine le risposte ai suoi problemi,
ho
visto Atem aprirsi di più
con i mie amici: li cercava, li
frequentava, faceva loro domande... come se loro potessero fornirgli
delle
risposte che io non avevo o se si fidasse più
delle loro che delle mie. Eppure neanche loro sono sinceri nei suoi
confronti, io lo so: sono stato io a chiedere loro di mentire, ma forse
è
un diverso tipo di bugie, è
una
realtà
in cui Atem riesce ad accettarle. In particolare l’ho
visto cercare la compagnia di Ryou. Ryou veniva a
trovarci almeno une volta alla settimana e restavano a chiacchierare
per ore,
così
a lungo che mi sentivo escluso e finivo per uscire dalla
stanza e lasciarli da soli. Quando chiedevo ad Atem di cosa parlassero
di così
importante, mi rispondeva sempre in modo vago, come se
fosse un segreto, e lo stesso valeva per Ryou. Così
ho origliato le loro conversazioni e ho scoperto che
Ryou gli racconta del suo passato, di Bakura, di cosa volesse dire
trovarsi
imprigionato in un corpo che non ti rispondeva, un corpo finto... Gli
parlava
di cosa si provasse a essere controllato da qualcuno, a perdere il
senso di essere vivo. Gli ha raccontato perfino del suo
tentativo suicidio-
qualcosa di cui Ryou non parlava mai-
e gli ha confidato che non lo aveva fatto
nella speranza di poter fermare lo spirito, ma semplicemente perché
non ne poteva più
di
non essere padrone di se stesso.
Ryou
era consapevole del
peso che quelle parole potevano avere su di Atem, potevano scatenare in
lui un’epifania
o nuove domande... eppure non la smetteva.
Continuava a raccontare e Atem lo guardava rapito ogni volta, la mente
che
viaggiava a cento all’ora
e io che non riuscivo a seguirla o a
capire dove stesse andando.
Così
una volta li ho interrotti, sono entrato in salone
chiedendo ad Atem di aiutarmi a sistemare degli scatoloni in negozio,
proprio
nel bel mezzo della loro conversazione. Ryou non ha detto nulla, ma
Atem era
contrariato: mi ha chiesto se potevo aspettare che Ryou finisse di
parlare, o se poteva aiutarmi più
tardi.
Ryou aveva capito al volo, l’ho
guardato negli occhi cercando aiuto. Non
c’è problema, ha detto
rivolto ad Atem, possiamo
parlarne un’altra
volta, tanto dovevo tornare a casa a quest’ora. Ma Atem non è
stupido,
mentre sistemavamo gli scatoloni in negozio il silenzio era gelido. Non
mi ha rivolto la parola per tutto il resto della giornata.
Il
giorno dopo ho deciso
di parlare con Ryou: dovevo chiedergli di smetterla di raccontare ad
Atem di
Bakura, o per lo meno di non perdersi in troppi particolari.
«È
per lui... potrebbero
venirgli strane idee in mente...».
«Idee
corrette magari?».
La
sua risposta è
stata tagliente, qualcosa che non mi sarei aspettato a
questo punto, e faceva male. Perchè probabilmente
aveva ragione. Ma io stavo solo cercando di proteggere Atem, di
preservare la nostra routine, la nostra vita. Era troppo chiedere che
per una
volta le cose non terminassero nella solita tragedia?
«Anche
se fosse, non voglio che lui lo
sappia. Sono stato già
molto chiaro su questo».
«Yugi,
non puoi continuare a fare la parte
della madre protettiva. Guardalo!»
mi
ha detto «Non
è
l’altro
Yugi, non è
nemmeno la minima parte di quello che era l’altro
Yugi. Ammetto che all’inizio
eravamo tutti colpiti perché
sono identici e anche se io non ho mai visto Atem non ho
dubbi che lui e... il tuo robot siano uguali».
«Non
chiamarlo robot».
Aveva esitato: non aveva più
idea di come rivolgersi ad Atem.
«Perché,
cos’è
secondo te? È
ovvio che è
una macchina, perfino tu avevi detto che
doveva sapere di essere una macchina, e adesso vuoi cercare di
convincerti che
non è
così?
Non ci crede neanche lui, non riesci a
vederlo? Atem non ne può
più:
non ha un passato, non ha un futuro, non ha nemmeno un presente perché
tutto ciò
che sa sono solo bugie. Lo tieni
prigioniero: se tu dovessi sparire non avrebbe più
niente, te ne rendi conto?».
E
infatti era vero, perché
sono un ipocrita: avevo detto che lo avrei lasciato
libero di andarsene, invece ora Atem è
incatenato a me.
«Ma
lui è
felice con me...».
«Come
lo sai? Glielo hai chiesto? Gli hai
mai chiesto se è
felice? Magari all’inizio
lo era, ma era confuso, te lo ricordi. Il primo
mese è
stato tutto un portarlo avanti e indietro, lo trattavi
come un turista, e adesso che ha finito di vedere tutto quello che hai
da
mostrargli cosa pensi di fare? Atem si annoia, Yugi, credi che possa
provare
emozioni, ma la verità
è
che
l’unica
emozione che vedo io è
lo
sconforto. Non sa cosa fare non ha una direzione-».
«Non
puoi dire queste cose, non lo conosci
nemmeno!».
«E
perché
tu
lo conosci? Quanto tempo passate a parlare di voi due? Lo aiuti mai? Se
lui ti
fa una domanda gli rispondi?».
«Certo-».
«Quando
ti chiederà
se è
un essere umano tu cosa gli risponderai?».
Quando. Non se.
«Perché
dovrebbe chiedermi una cosa simile-».
«L’altro
giorno,»
Ryou ha sospirato passandosi una mano tra
i capelli «L'altro
giorno mi ha parlato di come si sente. Dice che a
volte ... riesce come a vedersi vivere: tocca le cose e non avverte
nessuna
sensazione, non ha mai fame, non ha mai sete. E tu sia perché,
Yugi. Ma lui no e mi ha chiesto se fosse colpa dell’amnesia,
se fosse possibile che l’incidente
gli avesse danneggiato il cervello fino a
questo punto. E ringrazia che non sappia granché
del
sistema legale o sanitario, altrimenti ti avrebbe chiesto di vedere
almeno una
cartella medica».
Vedersi
vivere. Quando ci
ripenso mi tremano ancora le mani.
«E
tu che gli hai detto?».
«E’
questo che ti preoccupa, vero? Ti è
mai
importato di Atem, invece?».
«Certo
che mi importa! Sono cinque anni che
mi importa di lui!».
«Di
lui o di te stesso Yugi? Chiedilo a lui quello che ci siamo detti, io
non voglio più
avere a che fare con questa faccenda».
«Che
cosa-».
«Sono
tuo amico, Yugi, e ti voglio bene. Ma
ne voglio anche ad Atem, per quanto sia strano, e non ce la faccio ad
andare
avanti... non è
giusto, non chiedermi di continuare a
mentire. Se Atem ritorna da me gli dirò
come stanno davvero le cose».
Ryou
aveva promesso di
aiutarmi, di reggermi il gioco, di non abbandonarmi. Anche gli altri lo
avevano
fatto, ma non avevano su di Atem lo stesso ascendente che chissà
perché
Ryou esercitava. Eppure adesso Ryou mi
aveva detto che non mi avrebbe più
aiutato. L’unica
cosa che potevo fare era limitare il
più
possibile gli incontri fra i due, evitare che si
parlassero e che la verità
saltasse fuori.
All’inizio
ho cominciato mettendomi in mezzo durante le loro
conversazioni. Con me presente Atem evitava di fare domande su certi
argomenti,
e io mi sentivo ancora più
distante. Non so se questo suo chiudersi
in se stesso significa che sospetti che la responsabilità
di ogni cosa è
mia, magari vuole solo proteggermi, ha paura che i suoi dubbi
potrebbero farmi
preoccupare... ma allora non sarebbe stato così
ostile
verso di me. Credevo che Atem mi amasse, ma per lui ormai sono un
qualcosa da
evitare.
Forse
Ryou ha ragione,
forse lo tengo in gabbia, ma la gabbia è
per
proteggerlo: se venisse a sapere come stanno davvero le cose ne sarebbe
sconvolto, potrebbe decidere di andarsene, di morire... potrebbe
rivoltarsi
contro di me, in fondo è
colpa mia... in quel caso non saprei cosa fare. Non posso combattere
Atem.
Piano
piano, sono passato
dall’intromettermi
fra i discorsi di Ryou e Atem all’impedirli
del tutto. Piano piano ho fatto in modo che si
vedessero sempre più
raramente e ho cercato di recuperare la
fiducia di mou hitori no boku. Mi sono dimostrato più
aperto, ho incoraggiato le sue domande, sono stato
attento ai suoi stati d’animo
e ai suoi bisogni. Ho cercato di
diventare io quello che Atem vedeva in Ryou e ho provato a seguire il
suo
consiglio. E Ryou aveva ragione.
Atem
è
cambiato, in un modo che mi rifiuto di accettare. E non
so se è
cambiato adesso o è
sempre stato così
e
io non sono mai riuscito a notarlo perché
troppo preso dall’euforia
di riaverlo a fianco. È
malinconico, è
distante, le battute e i sorrisi che mi regalava i primi giorni ci sono
ancora...
ma non sono veri. E io ho paura.
4
gennaio 2004, Domino
Caro
diario,
Da
quando non può
più
parlare con Ryou, Atem si è
chiuso ancora di più
in
se stesso. Eppure lo sento più
vicino perché
è
con me che ora passa la maggior parte del suo tempo,
anche se contro voglia, e io sono diventato di nuovo il suo punto di
riferimento.
A
volte l’ho
trovato a parlare anche con Anzu, via Skype. Forse
preferirebbe la sua compagnia alla mia, ma la cosa non mi piace. Non si
tratta di gelosia, ma non so come potrebbe reagire Anzu a un contatto
così
prolungato con Atem visto quello che provava per mou hitori no boku...
non so se si accorgerebbe che lui e Atem non sono uguali, magari si
illuderebbe che questa differenza non c’è.
È
quello che faccio anche io in fondo, e che
dovrei smettere di fare. Per fortuna Anzu vive in America e ora che
le feste di natale sono finite le occasioni per sentirci più
spesso sono rare, e lo stesso vale per Ryou e gli altri.
Una
volta passata l’euforia
iniziale anche Jono e Honda hanno
cominciato ad allontanarsi, un po’
per
via del lavoro, un po’
per altri motivi. Da un parte mi dispiace
perché
è
come se Atem fosse privo di amici, ma dall’altra
è
l’unico
modo che ho per proteggerlo dalla verità.
Il
vuoto si sta aprendo anche intorno a me in fondo, e anche questa volta
sono io
ad alimentarlo. Forse avevano ragione quando dicevano che i vecchi
tempi non
sarebbero mai potuti tornare, ma adesso io ho Atem, e lui ha me. Ci
bastiamo.
Non ho bisogno degli altri.
Ora
che non ha più
Ryou, Atem ha cominciato a farmi delle domande più
mirate e per la prima volta da quando si è
svegliato mi ha chiesto del suo passato. Voleva sapere
chi era Bakura, il ruolo degli oggetti del millennio, chi era il
faraone. Chi
era lui. Ma sa che non è
un argomento di cui parlo volentieri e ha
preferito prenderlo alla lontana, permettendomi di girarci intorno. E
così
ho fatto.
«Perché,
tu
cosa ricordi?»
proprio come gli avevo chiesto quel giorno
di fine agosto, quando me lo sono ritrovato davanti per la prima volta.
Se
avessi saputo quanto della verità
potevo rivelare senza correre rischi sarebbe stato più
facile per entrambi.
Dopo
una pausa troppo
lunga si è
girato per guardarmi negli occhi, anche
oggi la pioggia cadeva fitta fuori dalla finestra, ma non con la stessa
irruenza di un paio di mesi fa. Era come se la pioggia e Atem
condividessero lo
stesso spirito, la stessa assenza di luce.
«Niente»
ha
scosso la testa. «Non
credo di ricordare più
niente. Invece di diventare più
chiari i ricordi stanno svanendo, perfino…».
Mi sono avvicinato a lui per stringergli la mano.
«Non
arrenderti, vorrà
dire che ne creerai di nuovi, ci sono io con te, ce la
faremo».
«Tu…»
ha
annuito distrattamente «Di
te mi ricordo invece…
ricordo la tua voce…
e
ricordo una stanza…».
«Una
stanza?».
La
stanza dell’anima?
La mia camera? Quella stanza?
«Non
è
da
molto che me ne ricordo, ma ho queste immagini di una stanza e...».
Ho aspettato che andasse avanti, ma Atem si era fermato
e non accennava a continuare. Erano ricordi preziosi? Non voleva
condividerli
forse? Oppure erano rischiosi e non voleva che io ne venissi a
conoscenza? Mi
sembrava di camminare su di un filo e il baratro era così
vicino, così
facile cadere giù.
Dondolavo paurosamente ma ormai non
potevo più
tornare indietro.
«E…
com’era
questa stanza?»
ho
deglutito. Avevo l’orribile
presentimento di conoscere la
risposta e anche se avrei preferito chiedermi come fosse possibile che
ricordasse la mia voce nel laboratorio perché
a
quei tempi era ancora spento non ci riuscivo, perché
l’angoscia
mi stringeva la gola come una
morsa e anche parlare diventava difficile. Se Atem avesse scoperto tutto…
io non avevo un piano di riserva, non avevo idea di cosa
fare. Vedevo solo il panico e un futuro privo di futuro.
«Non
lo so…
era
buio. Ma c’era
come un letto sotto di me, qualcosa che
faceva bip».
Ha ridacchiato sommessamente all’onomatopea.
«Forse
computer, probabilmente ce n’erano
parecchi. Era una stanza molto
piccola comunque. E spesso avevo…
un
lenzuolo, credo fosse un lenzuolo... addosso».
Buio. Certo. Atem aveva gli occhi chiusi. «Yugi,
stai bene?».
«Sì,
pensavo, scusa. E poi?».
«Te
l’ho
detto, non ricordo molto. Ma sono sicuro che fosse in questa casa perché
quando ho aperto gli occhi mi sono alzato e ho salito le
scale per entrare in camera tua. Ricordi quella sera vero?».
Ho annuito silenziosamente. «Ma…
quella stanza non può
essere qui perché
non
l’ho
mai vista. A meno che non sia quella che tu tieni
sempre chiusa a chiave, vicino al negozio. Ma non avrebbe senso no? Hai
detto
che è
solo un magazzino».
«Infatti,
ci sono solo ragnatele».
Sì,
probabilmente ce n’erano
parecchie ormai...
«Quindi
non ho davvero idea di cosa possa
essere…
forse ho sognato ma... era così
reale. Tu eri così
reale».
«E
io cosa dicevo?».
«Mi
confortavi, mi stavi vicino. Mi auguravi
la buona notte o il buon giorno. Ricordo che mi hai carezzato i capelli
una
volta, sussurrando che mi sarei svegliato...».
Da
quanto tempo Atem ricordava tutti quei particolari, quanto gli ci era
voluto
per trovare la forza di dirmeli? «Era
prima che mi riprendessi dal coma vero?».
«Già».
Ho
annuito ancora, ora capisco cosa provava Ryou: non ce la facevo nemmeno
io a
mentire più,
le bugie erano un macigno orribile, mi
tiravano giù,
dentro il baratro, il filo si spezzava
sotto il loro peso, ma non c’era
nient’altro
che potessi fare.
Pensavo
di provare a
sgomberare il laboratorio. Un giorno i flashback di Atem potrebbero
farsi più
frequenti, magari più
intensi, potrebbe davvero chiedermi di visitare il retro bottega, solo
per
curiosità,
e allora non potrei mostrargli tutto ciò
che nasconde. Perché,
ragnatele a parte, tutto è
ancora come era il giorno in cui Atem si è
svegliato. Sono stato così
stupido da non averlo mai sistemato. Forse potrei chiedere a
Jonouchi di
restare con Atem mentre io mi occupo della faccenda, ma ormai non mi
fido più
a lasciarlo da solo con i miei amici e io e Atem siamo
sempre insieme, se dovessi svuotare la stanza da solo o di notte se ne
accorgerebbe. Potrei farlo fare a Jonouchi, ma non credo accetterebbe.
Quando
gli ho parlato della nostra conversazione mi ha detto che secondo lui è
arrivato il momento che Atem scopra la verità,
qualcosa che io invece non sono ancora pronto a dirgli.
E probabilmente non lo sarò
mai.
Ci
sono i miei computer
nel laboratorio, e fogli su fogli di appunti e disegni, tutti gli
strumenti di
lavoro, i microscopi, i macchinari…
cosa verrebbe in mente ad Atem se li vedesse? Sono oggetti ingombranti,
non si
possono portare via come se niente fosse, non li posso nascondere. Devo
sperare
che non mi chieda mai di entrare in quella stanza, che dopo un po’
si stanchi dei suoi nuovi ricordi e si convinca che sono
solo sogni. Eppure Atem è
sempre più
malinconico. Lui crede a quelle
immagini, anche se quando glielo chiedo dice che non è
vero e che sono solo sciocchezze perché
non dubiterebbe mai di me. Stiamo cadendo tutti e due,
le bugie ci trascinano in basso, ci schianteremo e io non potrò
più
proteggerlo.
Lyrics
da Potograph
(Ed
Sheran)
|
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Capitolo 18 *** All That Lies Between You and Me ***
Buonsalve!
Phew, che settimana gente e se ne prospetta un'altra niente male, ma la
buona notizia è che sto lavorando a un'altra oneshot in
italiano (e un paio in inglese) e appena questa settimana del cavolo
sarà finita potrò riprendere in mano anche le
altre long, che sbraitano in lontananza per la mancanza di
attenzione...
Orbene
basta con gli indugi, vi lascio a Yugi,
Buona
lettura!
You will return to me.
You
will.
'Cause
if you don't, then this book is all lies.
If
you don't, then my plans would all be ruined.
And
if you don't, I just won’t
have a future anymore.
27 gennaio
2004, Domino
Me lo
aspettavo. Non posso dire che non me lo aspettavo o che era qualcosa
che non avrei mai pensato potesse accadere. Sin dal primo giorno,
quando Atem è entrato in camera mia, ricordi? Quando ho
capito che lui non aveva idea di cosa fosse successo, di chi fosse, del
perché esistesse, sapevo che sarebbe potuto succedere. Anzi,
era una realtà. Doveva
succedere prima o poi, solo che… speravo ancora di
sbagliarmi, che avrei potuto aggiustare tutto, proteggerlo, tenerlo con
me… Adesso Ryou pensa che Atem sia diventato il mio
animaletto: che io lo tengo in gabbia per proteggerlo dal mondo ma che
in realtà l’unica persona da cui dovrei davvero
proteggerlo sono io, io e tutte le bugie che continuavo a raccontargli
ogni giorno, e Ryou non si è più fatto problemi a
dirmelo, mi ha minacciato qualche tempo fa, ha detto che avrebbe
raccontato ad Atem ogni cosa se lui glielo avesse chiesto, e sono
sicuro che ha detto anche agli altri di fare così, ecco
perché non si fanno più sentire: non vogliono
correre il rischio di dover prendere una decisone, non vogliono avere
niente a che fare con me o con Atem, non più. E adesso sono
solo. Sapevo che sarebbe successo.
Ieri sera Atem mi ha parlato di nuovo dei suoi flashback, di come fosse
sicuro di riuscire a sentire la mia voce nei suoi ricordi, io che lo
chiamavo piano, che chiedevo scusa… Non prestavo mai davvero
attenzione ad Atem quando mi raccontava dei suoi flashback, sarebbe
stato come assecondarlo e quella era l’ultima cosa che
volevo: se gli avessi dato corda avrei potuto incoraggiarlo a ricordare
di più, a scavare di più nella sua memoria, e
allora non ho idea di cosa potrebbe arrivare a scoprire. Ma anche oggi,
dopo mesi che mi racconta di questi episodi, non riesco ancora a
spiegarmi come sia possibile per lui ricordare visto che a quel tempo
doveva essere spento. Non doveva
funzionare. Non poteva. Ma in fondo, nulla è mai andato come
mi aspettavo con mou hitori no boku, ogni volta che credevo di sapere
come sarebbe andata a finire mi sorprendeva, tranne quella volta,
quando ha deciso di lasciarmi. Sapevo che lo avrebbe fatto, ma fino
all’ultimo ho sperato, inutilmente, che ci ripensasse, che si
voltasse indietro, anche quando il mantello blu ha cominciato a
ondeggiare alle sue spalle mentre varcava la soglia del regno dei
morti, anche quando ha smesso di essere mou hitori no boku ed
è diventato Atem. Lui non si è girato, eppure io
sapevo che in quel momento stava sorridendo, e sorridevo anche io tra
le lacrime, perché lui era contento e se lui era felice
dovevo esserlo anche io. Non odio mou hitoi no boku per essersene
andato così come non odio Atem per non essere mou hitori no
boku. Io… amo tutti e due, in modo diverso.
Ieri i ricordi di Atem si sono soffermati sul laboratorio, o meglio,
sulla stanza dove era convinto che quei ricordi fossero avvenuti: lui
non aveva idea che fosse il laboratorio. ‘Aveva’…
questo tempo passato mi fa sorridere amaramente: adesso Atem ce
l’ha e come.
Ha descritto il laboratorio come una stanza completamente buia, diceva
di non poter aprire gli occhi, quindi sono arrivato alla conclusione
che Atem abbia raggiunto il grado di coscienza solo dopo che io li ho
ultimati e ricoperti di palpebre, richiudendoli, più o meno
una settimana prima di cominciare a lavorare alla sua memoria. E forse
è qui che le cose sono andate storte. Atem era già
funzionante, già vivo, per questo non ha accettato i
ricordi, in quanto completo li ha rigettati come si farebbe con un
organo non compatibile: al loro posto aveva già le proprie
percezioni, l’unica cosa che gli mancava era un nome, perfino
le macchine ne hanno sempre uno, computer, automobili, navette
spaziali… e ha deciso di accettare quello che io gli ho
imposto: Atem. Tutto il resto per lui non è mai stato vero,
non è mai esistito, e adesso lo ha finalmente capito.
Mi ha raccontato di essere sdraiato su una specie di lettino, di
sentire in continuazione i miei movimenti, io che lo toccavo, io che
parlavo, io che camminavo, uscivo, entravo nella stanza, io che
ticchettavo al computer, che imprecavo, che parlavo con
Ryou… Ecco perché è così
legato a Ryou, come un imprinting. Ryou gli è stato vicino
quasi quanto me, apparendo nella sua ‘vita’
più o meno nello stesso periodo in cui si è reso
conto di averne una. Non contava che io avessi passato quasi sei anni
accanto ad Atem, lui era consapevole solo di quelle ultime settimane, e
in quelle settimane c’era stato anche Ryou.
Nulla è mai stato prevedibile con Atem, non lo è
stato conoscerlo, non è stato guardarlo andar via, non lo
è stato cercare di riportarlo qui, non lo è stato
svegliarlo. Non dimenticherò mai il panico che ho provato il
giorno in cui ho visto le mie speranze demolirsi e ammucchiarsi per
terra come macerie: lui non aveva aperto gli occhi, io avevo
fallito. E poi, neanche un paio di ore dopo, eccolo
lì salire in camera mia, parlare con me, dirmi che si
chiamava Atem ma non che era Atem.
Era prevedibile che avrebbe scoperto
perché non era Atem prima o poi, ma ho
fatto di tutto per impedirlo. E adesso, quando stringo la mano intorno
al collo e l’unica cosa che sento attaccata alla catenina
è la chiave di questo diario, so di aver fallito
un’altra volta. L’altra chiave non
c’è più.
Non mi ha mai chiesto a che servissero le chiavi che ho al collo, non
so se mi abbia spiato per scoprirlo o se lo abbia semplicemente
intuito. Mi chiedo da quanto tempo dubitasse di me senza dirmi niente
per non ferirmi, o forse semplicemente per impedire che lo ostacolassi:
se io non sapevo non potevo nascondergli più di quello che
già gli nascondevo, no? Mi auguro che non abbia letto questo
diario, anche se ormai il danno è fatto e non penso che
cambierebbe le cose. A ogni modo, quando l’ho tirato fuori
era esattamente al suo posto, perfettamente in ordine e senza alcun
segno di essere stato toccato da giorni, esattamente come lo avevo
lasciato io. E poi, la sua chiave è ancora intorno al mio
collo, perché avrebbe dovuto rimettere a posto quella del
diario ma non quella del laboratorio? In fondo lui
non aveva idea che il mio diario esistesse, nel caso del laboratorio
invece poteva andare a colpo sicuro: c’era una sola porta
costantemente chiusa a chiave in casa. Deve aver capito quale
delle due fosse la chiave giusta e da lì è stato
facile introdursi nella stanza.
Non l’ho sentito stanotte mentre mi sfilava la chiave, non
l’ho sentito aprire la porta o scendere le scale, so solo che
questa mattina mi sono svegliato alla solita ora, ho tastato il
materasso sotto di me e lui non c’era. Un rapido giro per la
casa ha confermato i miei sospetti: Atem se ne era andato. La porta del
laboratorio era socchiusa.
La luce filtrava debolmente dentro quella stanza in cui avevo passato
così tante ore convinto di essere da solo, di essere con
qualcuno che non poteva avere alcuna consapevolezza
dell’ambiente che lo circondava e adesso avevo la certezza di
essermi sbagliato. Perché sarebbe entrato lì se
non perché sperava di trovare delle risposte?
Perché continuare a farmi tutte quelle domande se non
perché aveva decine di dubbi e ricordi annebbiati?
Ho spinto la porta in avanti, quel tanto che bastasse
affinché potessi entrare. C’era odore di
chiuso, sentivo i ciuffi di polvere attutire il suono dei miei piedi
man mano che mi inoltravo dentro, probabilmente i miei calzini avevano
già assunto un colorito bruno. Non era tutto come lo avevo
lasciato. I cassetti giacevano aperti, prolungandosi dalla scrivania
come le mani di chi chiede la resa, fogli e carte erano ammassati
disordinatamente sui tavoli; chissà quante volte erano stati
toccati e letti e rimirati e odiati e poi letti e letti di nuovo,
mentre lui scuoteva la testa disgustato, o incredulo. O colmo di odio.
I computer sembravano immacolati: la polvere sullo schermo era intatta,
fino all’ultimo granello, nessuna impronta sulla tastiera o
sull’unità centrale. Forse Atem ne era rivoltato,
forse le macchine sembravano guardarlo con crudele ironia. In fondo
qual era la differenza fra i due?
Mi sono precipitato in strada, pregando di essere ancora in tempo per
trovare Atem, che lui non fosse andato troppo lontano e che non mi
fossi svegliato troppo tardi per fermarlo. Ho preso la
macchina: se ero più veloce di lui magari avrei
potuto farcela ma poi mi sono accorto di quanto fosse stupido. Era come
cercare un ago in un pagliaio e Atem poteva essere
letteralmente ovunque e se avessi continuato a guidare come un
folle in quel modo, lasciandomi trasportare solo dall’ansia e
dal panico, non lo avrei mai ritrovato.
Mi sono fermato a pensare: cosa avrei fatto nei panni di Atem? Cosa
avrebbe fatto mou hitori no boku? Era solo, la vita che viveva da mesi
si era improvvisamente rivelata un mucchio di bugie appartenenti a
qualche realtà fantascientifica e Atem non aveva
più nessuno dove andare, di cui fidarsi. Probabilmente, deve
aver girato per la città per un po’, provato a
processare l’informazione, ad accettare… accettare
che non era una persona. Dio… come si fa ad accettare di
essere una macchina?
Atem era solo, aveva ancora bisogno di risposte e aveva ancora bisogno
di parlare e cercare conforto in qualcuno, avrebbe cercato una persona
che potesse fornirgliele, era la cosa più logica: sarebbe
andato da Ryou. Ho esitato un attimo prima di girare il volante e
prendere la strada per casa sua. Tamburellando nervosamente le dita sul
volante mi sono chiesto se avessi il diritto di presentarmi da loro
adesso: se Atem era scappato e non aveva voluto chiedere spiegazioni a
me, allora forse non voleva vedermi, magari non voleva vedermi mai
più, era furioso con me, io lo avevo tradito in fondo, e
poi… lo avevo creato io,
era tutta colpa mia, mia e di nessun altro, ero come suo padre eppure
dicevo di amarlo, lui, che era una macchina. Magari era disgustato da
me, non si sarebbe fidato di nessuna cosa gli avessi detto…
Ho artigliato il volante con esasperazione e ho deciso che avrei
pensato a queste cose dopo, quando sarei stato di nuovo a casa, adesso
l’unica cosa che volevo era ritrovare Atem, sapere che stava
bene, capire l’entità del danno, capire se
c’era ancora speranza, se potevo ancora riportarlo a casa. E
poi… dovevo chiedergli scusa.
Avevo salito i gradini fino alla porta di Ryou con agilità,
quasi correndo, eppure una volta di fronte all’uscio mi sono
paralizzato con la mano a mezz’aria fra il campanello e me:
Ryou non mi avrebbe chiuso la porta in faccia vero? Ero suo amico, ero
preoccupato per Atem, avevo il diritto di vederlo, avevo il diritto a
un’altra possibilità. E se fosse stato Atem ad
aprire invece? Lui mi avrebbe richiuso la porta in faccia? Che gli
avrei detto? Non avevo un discorso, non mi ero preparato niente eppure
ero lì davanti pronto a implorare perché mi
facessero entrare. E se Atem non fosse stato lì da Ryou? Se
mi fossi sbagliato… il panico stava per impossessarsi di
nuovo di me così ho suonato il campanello, il suo tintinnio
metallico mi ha distratto dai miei pensieri. Concentrandomi sulle note
squillanti potevo evitare di pensare, concentrandomi sui passi che
sentivo avvicinarsi dall’altro lato della porta potevo
fingere che fosse tutto a posto. Di chi erano quei passi? Di Ryou o di
Atem? Di chi volevo che fossero?
La porta si è aperta con un cigolio sinistro, quasi un
lamento, e il volto di Ryou ha fatto capolino, impassibile, da dietro
la porta. Ha letto la domanda nei miei occhi e ha annuito lentamente.
«È qui» ha mormorato. Ma ha alzato una
mano per fermarmi proprio mentre stavo per precipitarmi in casa.
«Ryou-».
«Non vuole
parlarti, Yugi».
«Ma io-».
«Non dovrei parlarti neanche io, gli ho promesso di non
aiutarti a trovarlo». Ryou ha tirato un sospiro appoggiandosi
le mani ai fianchi «Ma immaginavo che il mio aiuto non ti
sarebbe servito». Mi sono carezzato il braccio con la mano.
Se Atem era lì in casa magari poteva sentire le nostre voci,
potevo fargli capire che ero preoccupato, che per me lui era una
persona a tutti gli effetti, forse potevo ancora convincerlo a tornare
a casa.
«Da quanto tempo è qui?».
«È arrivato stanotte» Ryou evitava il
mio sguardo, la conversazione lo metteva a disagio.
«Lui…» un lampo di malinconia gli ha
attraversato il volto, gli occhi erano appesantiti dalle
occhiaie: appariva molto più vecchio della sua
età. Mi chiedevo in quale parte la responsabilità
fosse di Bakura e in quale mia. Ryou ne aveva viste così
tante. Troppe forse. Come me. Ha scosso il capo rimangiandosi le parole
che aveva intenzione di dirmi, un’altra promessa fatta ad
Atem? «Perché
sei qui?».
«Perché sono qui? Perché lui è
qui. Perché è colpa mia, perché voglio
parlargli, voglio riportarlo indietro!»
«Non credo sia più possibile per nessuno tornare
indietro, adesso si va solo avanti, lo sapevi».
«Che vuoi dire…».
«Lui non vuole vederti Yugi, è stato molto chiaro
su questo. Va’ via».
«Non me ne vado finché non gli avrò
parlato, ho il diritto di vederlo! Ero preoccupato a morte: quando mi
sono svegliato lui non c’era più! Poteva essergli
successa qualunque cosa! Come sta? Dimmi che sta bene». Ryou
ha emesso una debole risata.
«Tu come staresti al posto suo?».
«Non…».
«Sta bene, fisicamente è a posto… tu
stesso mi avevi parlato di quanto fosse resistente qualche tempo
fa». Non mi è sfuggito il fatto che
l’unico momento in cui Ryou era parso sussurrare le parole,
soppesandole, fosse proprio adesso. Atem stava sicuramente ascoltando
la nostra conversazione e Ryou stava evitando di ferirlo ricordandogli
che era una macchina. «Ma non vuole parlare con te, te
l’ho già detto».
«Ma devo vederlo Ryou, lui è il mio-».
«La tua creatura?».
«Smettila! Mi preoccupo per lui! Lo amo, non voglio che
soffra!».
«Se non avessi voluto che soffrisse avresti dovuto darmi
retta, avresti dovuto dare retta a tutti noi quando ti dicevamo che
questa era una pessima idea e che avrebbe finito per distruggere tutti
e due!».
«Non siamo distrutti, possiamo ancora-».
«No, Yugi, non potete».
Il tono di Ryou era lapidario e anche se normalmente avrei obiettato a
una risposta del genere, ho sentito la forza di replicare abbandonare
completamente le mie ossa.
«Perché…» ho chiesto
debolmente «Lui non, dimmi che…» sentivo
la sensazione di umido accumularsi agli angoli dei miei occhi, una
volta tanto desideravo
piangere, desideravo versare tutte le lacrime accumulate negli ultimi
mesi, sentirmi libero come quel primo giorno, accanto ad Atem, quando
ho pianto stringendolo a me.
«Mi ha chiesto… vuole che lo aiuti a morire. Dice
che parlerà con te solo per scoprire come fare. Ieri notte
dice di aver provato ma…» Ryou si è
passato una mano tra i capelli.
«Provato a fare cosa?» ho sussurrato, la voce
ancora miracolosamente ferma.
«Si è riempito le tasche di sassi, si è
gettato in acqua al molo. Dio…» Ryou sospirava
«Era ancora bagnato quando è arrivato qui, non ha
funzionato». Scuotevo la testa mentre un insano senso di
orgoglio mi riscaldava il cuore per un secondo: lo avevo costruito
troppo bene.
«Io non lo aiuterò a morire».
«E lui non parlerà con te» Ryou mi
rimise davanti i fatti, in tutta la loro cruda
semplicità. Ci siamo fissati per un secondo: Ryou non poteva
cedere, aveva già scelto il suo schieramento mesi fa, era un
uomo di parola.
«Voglio parlare con lui».
«Ha chiesto a me di ucciderlo».
«Ma tu non avrai-» adesso il mio tono si era fatto
minaccioso, non poteva… Ryou poteva tradirmi, poteva aver
raccontato ad Atem tutto quello che ancora non sapeva, poteva dirgli
che faceva bene a odiarmi ma non poteva, non poteva ucciderlo.
Non avrebbe osato.
«Non saprei come fare» quindi lo farebbe, se solo
lo sapesse lo farebbe, ucciderebbe il mio Atem.
«Voglio parlare con lui, Ryou» era una supplica,
l’ultima mano di una partita che era durata troppo a lungo.
Avrei dovuto accettare la sconfitta sei anni fa. «Digli
quello che vuole sentirsi dire, ma io devo parlargli. Non mi importa
quello che succederà dopo…»
«Ok» ha annuito con un sospiro lentissimo,
stringendomi la spalla in segno di saluto. «Gli
parlerò adesso, verrà lui da te».
«Ok».
«Ok».
Era un silenzio strano, c’erano tante cose da dire ancora:
cosa aveva scoperto Atem di preciso? Perché voleva morire?
Cosa c’entrava Ryou? Cosa potevo fare per fargli cambiare
idea? Cosa avrei fatto se Atem fosse morto? Ma nessuno di noi ha detto
niente, siamo rimasti lì, sul pianerottolo, per un minuto
buono, finchè, quasi in sincronia, non ci siamo girati: io
per dirigermi giù per le scale e Ryou per chiudere la porta.
Avevo il piede sul secondo gradino quando ho pensato di tornare
indietro e attaccarmi al campanello un’altra volta: magari
stavolta sarebbe stato Atem ad aprire, oppure avrei potuto attaccarmi
alla porta con l’orecchio, chissà cosa si stavano
dicendo lui e Ryou adesso… Ho messo il piede sul terzo
gradino, poi sul quarto. Chissà se Atem aveva ripreso in
mano le bamboline dell'RPG ora che era di nuovo in casa di Ryou.
Chissà se adesso gli parlavano in modo diverso, se si
sentiva… uno di loro.
Lyrics da You will. You? Will. You? Will. You? Will. (Bright Eyes)
Se solo per questa volta mi concedete un appunto sulla canzone? *Adoro*
il ritornello, ma come tutte le canzoni di Bright Eyes è
parecchio malinconica. Io consiglio di ascoltarla ugualmente
ovviamente, come le altre, ma Pictures of You può reggere
anche senza canzoni perciò non preoccupatevi se non
è il vostro stile. Colgo l'occasione anche per ricordare che
la maggior parte delle canzoni usate più qualche altra la
potete trovare qui,
accanto ai fanmixes delle mie altre WIP.
Anyway, grazie come sempre per il supporto e per continuare a seguire
questa storia: siamo quasi alle battute finali! Ci vediamo domenica per
uno dei miei capitoli preferiti,
Ache
|
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Capitolo 19 *** The Bells That Never Sing ***
Ed
ecco il sofferto capitolo 19, manca così poco alla fine...
*si commuove*
Buona lettura!
18
febbraio 2004, Domino
Caro
diario,
Eravamo
al nostro quarto
incontro. Ironicamente, ho fatto di tutto perché
si
verificassero quanto più
possibile di rado: Atem è
impaziente di andarsene, tutto ciò
che posso fare è
fornirgli il minimo indispensabile di informazioni ogni volta che ci
vediamo e
poi posticipare il prossimo incontro di giorni, fino a sfiorare il
limite del
sospetto. E infatti si sta
insospettendo. Ma ormai non si preoccupa più
neanche di nasconderlo, ha perso qualunque interesse nel mondo, si è
totalmente lasciato andare, non gli importa più
di niente. Di me…
La
prima volta siamo
rimasti in silenzio quasi tutto il tempo, a guardarci negli occhi a
tratti
perché
mentre io mi rifiutavo di staccargli gli occhi di dosso,
lui non voleva far vedere quanto in realtà
fosse interessato a me, al fatto che ero lì
e
che nonostante tutto non riusciva a odiarmi o a provare nei miei
confronti la
quantità
di indifferenza che desiderava. Così
i suoi occhi si posavano su di me per un istante, poi
fuggivano via di nuovo, attratti dalle forme dei piatti impilati sulla
credenza, oggetti che aveva visto e studiato tutti i giorni per mesi,
che
adesso gli sembravano solo gli addobbi vuoti di quella che più
che una casa era ormai quasi una prigione. E io il suo
carceriere.
Ci
siamo solo salutati,
un ciao da parte mia, un cenno del capo da parte sua, poi niente. Lui
aspettava
che io cominciassi a parlare, che mi giustificassi, che gli spiegassi
come
poteva mettere la parola fine a tutto questo per poi ringraziare con
finto
riconoscimento, uscire dalla porta e non fare mai più
ritorno. Invece io non ho aperto bocca: non sarei stato
io ad affrontare l’argomento,
Atem era tutto ciò
che avevo ormai e non avrei accettato che se ne andasse,
non senza lottare. Ammesso che ci fosse ancora qualcosa per cui lottare…
«Perché?»
lo aveva pronunciato così
piano, con così
tanto dubbio che non riuscivo a capire se
si trattasse di un’affermazione
o di una domanda. Quella
parola era intrisa di pensieri, di riflessioni alle quali non era
riuscito a
trovare una risposta. Non ho detto niente, ho sospirato e mi sono
chinato in
avanti, i gomiti puntati sulle ginocchia e la testa appoggiata sulle
mani. Poi…
le mie labbra si sono piegate all’insù,
gli occhi persi nei ricordi.
«Avevate
lo stesso sorriso».
Atem
si è
girato verso di me, uno sguardo indecifrabile negli
occhi: era sorpreso, infastidito, colto alla sprovvista, ferito…
chissà
cosa provava nei confronti di mou hitori
no boku, chissà
se avrebbe mai voluto somigliare a lui, se
per lui le mie parole sembravano un insulto. Avevano lo stesso sorriso.
Ho
alzato lo sguardo per incrociare quello di Atem. Ma non hanno mai avuto
gli
stessi occhi, e la realizzazione si è
riversata su di me come una doccia calda, una verità
che in fondo non faceva così
male perché
a
piccole dosi l’avevo
già
assaporata, ogni giorno, un boccone alla volta. Atem aveva occhi rossi.
Mou hitori
no boku aveva occhi vivi. Non sarebbero mai stati uguali.
«Scusa».
Quel giorno mi sono scusato con lui, gli ho chiesto perdono e lui mi ha
chiesto
per che cosa. Sono rimasto in silenzio perché
a
dire il vero ero ancora tropo egoista per essere sinceramente pentito
di quello
che avevo fatto, forse lo sono ancora adesso. Non chiedo scusa per
quello che
ho fatto a me stesso, posso sentirmi in colpa per aver rovinato la vita
dei
miei amici, per aver messo Atem in una situazione del genere, per
avergli mentito,
ma non per averlo…
per averlo creato. Sono ancora felice di
aver potuto passare del tempo con lui, anche…
se
quel tempo è
finito. Scusami per averti mentito, avevi
il diritto di sapere la verità,
di decidere se volevi continuare a vivere
al mio fianco o addormentarti di nuovo. La realtà
è
che era così
che
dovevano andare le cose ma ho avuto troppa paura per farcela: tu hai
aperto gli
occhi, non sapevi chi eri, eri uguale a lui, e io amavo
lui, lo amavo sul serio. Mi dispiace. E Atem mi ha guardato
negli occhi, ancora vuoti come quelli di una bambola.
«Hai
mai amato me?».
Amavo
il riflesso di mou
hitori no boku in Atem, amavo il fatto di poterlo guardare per ore
giocando a
trovare le differenze fra lui e l’altro
me, amavo i suoi capelli, amavo il fatto che lui c’era
sempre, che dipendeva da me, che non mi avrebbe
lasciato…
«E
tu?»
ho
risposto.
«Che
scelta avevo…».
Ho
risposto a tutte le
sue domande quel giorno, abbiamo passato il pomeriggio seduti sul
divano del
salotto mentre io mi sentivo come uno studente la mattina dell’interrogazione:
la domanda facile non arrivava mai, la
maestra era spietata, le risposte non andavano mai bene e quelle a
trabocchetto
erano sempre dietro l’angolo.
Per Atem non era mai sufficiente.
Voleva sapere di più,
ma allo stesso tempo si rifiutava di essere
ancora dipendente da me. Eppure c’erano
cose che neppure a Ryou poteva chiedere e, anche se odiava ammetterlo,
io ero
ancora importante per lui. Non gli ho chiesto nulla su Ryou, non mi
sembrava
giusto togliergli anche quel briciolo di privacy che si era ricavato.
Ma Atem
mi mancava, così
gliel’ho
detto. Ha sorriso, distrattamente, poi si è
alzato dal divano e si è
avviato alla porta.
Ci
siamo visti altre due
volte e poi la quarta, ieri. Già
dalla seconda volta abbiamo cominciato ad
affrontare la sua richiesta, e Atem era risoluto: non sono mai riuscito
a
smuoverlo di un millimetro, mai riuscito a fargli cambiare idea. Lui
era finto,
diceva, mentre io avrei voluto urlargli in faccia che era reale, lo era
per me.
Lui non sarebbe mai dovuto esistere, lui non aveva uno scopo, non aveva
nessuno, solo me. E io gli avevo mentito. Di me non si fidava. Non si
sarebbe
fidato più.
C’era
dell’altro
sotto quelle scuse, ne ero certo, ma Atem non me l’ha
rivelato. Mi ha chiesto perché
lo avevo creato, gli ho risposto perché
ero solo. Ha riso. Lui è
una
macchina, un automa, quando io invecchierò,
lui sarà
sempre uguale, quando io morirò
lui sarà
ancora lì,
per anni, secoli, potenzialmente per sempre. A lui non pensavo? Era lui
che
sarebbe rimasto solo.
E
dopo il terzo incontro
ho capito che non c’era
più
alcuna speranza, quando si è
rifiutato di parlare di nuovo di mou
hitori no boku, quando la sola menzione dell’altro
me era sufficiente per fargli saettare gli occhi e trafiggermi con lo
sguardo.
Si rifiutava di essere la brutta copia di qualcuno: non aveva un’identità,
non poteva sopportarlo. Mi sono scusato
ancora, ma stavolta Atem non ha ascoltato le mie scuse. Mi ha chiesto
di
aiutarlo a farla finita. Ha detto che Ryou aveva accennato a un
programma di
spegnimento. Mi ha detto di cominciare a lavorarci su, mi avrebbe
aiutato lui
se necessario, ma doveva andarsene, non ce la faceva più.
Tanto, ha detto ridacchiando amaramente, non andrà
a finire all’inferno
per via di un suicidio, le macchine non hanno un’anima.
Oggi,
quando ho aperto la
porta ad Atem, mi sono sentito stanco. Sono passati quasi sei anni da
quel
giorno di giugno, otto da quel giorno d’inverno,
sedici da quel quattro giugno in cui a otto anni ho stretto tra le mani
per la
prima volta il cofanetto contenente il puzzle. Era freddo tra le mie
dita, i
pezzi erano grandi per le mani di un bambino, raramente si incastravano
fra
loro, eppure ogni volta che lo facevano correvo da mia madre per
mostrarle i
miei progressi. Assemblare tre pezzi in un anno era una soddisfazione
incredibile per me. Lo è
stata anche incastrare l’ultimo,
umido pezzo dentro la piramide, lo è
stato entrarvi dentro, abitarla insieme al suo spirito.
Quei giorni sorridevo, ridevo, ridevamo tutti quanti, rideva mou hitori
no
boku. Amavo la sua risata. La amo ancora. Forse perché
non era qualcosa che sentivo spesso, non era qualcosa
che faceva davanti a chiunque, mi sentivo speciale quando riuscivo a
farlo
ridere: quel suono era solo per me, il mio premio.
Avevo
vissuto la mia
avventura, avevo provato a prolungarla, a evitare la parola fine, ma
stava
arrivando, forse era già
arrivata e io ho fatto finta di non
vederla. Non avevo più
niente da fare. Non c’era
più
niente da dire, basta. Ero stanco.
Atem
si è
seduto sul divano come le altre volte, gli ho detto di
aspettare un attimo, sono ritornato con un mucchio di appunti che ho
lasciato
sparsi sul tavolino. Il programma di spegnimento, gli ho spiegato. Mi
sono
sforzato di mantenere una voce ferma, ma la sentivo sul punto di
incrinarsi a
ogni momento. Lo stavo lasciando andare, era finita. Eravamo tutti
stanchi.
Atem
annuiva di tanto in
tanto, gli ho detto che avrei avuto bisogno di un po’
di tempo per portare a termine il programma, forse una
settimana, forse di più,
poi avrebbe potuto avviarlo. Non ho detto
avremmo. Atem non ci ha fatto caso.
Sono stanco, ma non lo aiuterò
a morire. Merito quello che sta
succedendo, mi sono fatto prendere dal fumo dei miei sogni, ho
scavalcato il
limite di ciò
che era permesso, è
giusto che paghi. L’unica
cosa che posso fare per Atem adesso è
lasciarlo libero. Io sono l’ancora
che lo tiene saldo a questa terra,
la persona che lo ha costretto a venirci in primo luogo: si sentirebbe
sempre
in dovere nei miei confronti, non riuscirebbe mai a staccarsi del
tutto. Ma
Atem può
essere autonomo. Merita questa possibilità,
l’ultima.
Invece per me sono finite. Non ha
più
senso prolungare gli incontri o vederci ancora, non
abbiamo più
niente da dirci: ho perso.
«E
poi... devo solo accendere il programma e
poi... morirò?»
non
riusciva a dire: mi spegnerò,
non riusciva a pensare a se stesso come a
un robot. Atem era umano, più
umano di quanto lui stesso si fosse
convinto di essere, e io credo che sia solo la mia presenza a
impedirgli di
capirlo, quando me ne sarò
andato potrà
finalmente vivere la sua vita.
«Il
programma partirà
dal computer, devi essere collegato al cpu perché
funzioni, c’è
un
cavo nel mio laboratorio, quello che ho usato l’altra
volta...».
Ha annuito, si fingeva impassibile.
«Quanto
ci vorrà?».
«Non
più
di
un paio d’ore...
dì
a
Ryou di venirti a prendere dopo, altrimenti il laboratorio resterà
così
come lo hai lasciato anche per anni».
«Perché,
non ci penserai tu a sistemare?».
«Ah
sì,
è
vero...».
No, non ci sarei stato io a sistemare. Non
volevo avere niente a che fare con la sua morte. Era un passo che
avrebbe fatto
da solo.
«Yugi...».
«Hm?»
anche lui era stanco, glielo leggevo dal modo in cui le palpebre
nascondevano
pesantemente metà
delle sue iridi.
«Mi
dispiace che debba finire così...
ma non posso
restare».
«Tu
puoi restare»
ho sospirato sorridendo appena «Ma
hai deciso che non vuoi».
«Non...»
«No,
ti ho promesso che avrei smesso di
cercare di farti cambiare idea. Ma voglio che tu sappia... insomma, non
devi. Non è
qualcosa che il mondo si aspetta che tu faccia. Tutti meritiamo di
vivere, Atem».
«Ma
io non vivo».
«Cosa
vuol dire per te vivere? Respirare,
uscire fuori strillando dall’utero
di una donna? Vedere i tuoi capelli
diventare bianchi e poi cadere uno a uno? Vedere i tuoi amici, la
persona che
ami, chiudere gli occhi per sempre e abbandonarti? Pff»
l’angolo
al lato della mia bocca si sollevava
appena mentre mi passavo le mani tra i capelli.
«Yugi,».
«È
qualcosa che a te sarà
risparmiato, Atem, potrai decidere di farla finita
quando vorrai, il programma sarà
sempre pronto, ti chiedo solo di non
prendere decisioni affrettate»
gli ho poggiato una mano sul petto, non si
è
ritratto al contatto, non si è scansato
ripugnato dal semplice fatto che io fossi vicino a lui, come era
successo la prima volta. C’era
il suo cuore artificiale lì,
il rumore di battiti registrati sulla mia stessa
frequenza, vibrazioni che non avrebbero mai pompato sangue in nessuna
arteria.
«Non
c’è
niente che batta lì...»
ha
sussurrato.
«No,»
No, hai ragione «Ma
questo non fa di te una non-persona, Atem, tu mi ami?
Puoi provare emozioni? Ti ho visto ridere, digrignare i denti, dormire,
ricordare, sospirare...».
«Solo
perché
sono programmato per farlo...».
«E
io no? Si chiama DNA Atem, decide tutto
quello che mi sarà
permesso di fare».
Ha sospirato pesantemente, si è
scostato una ciocca di capelli dal viso.
«Sono
stanco, Yugi. Ti prego...».
«Ok»
gli
occhi mi si riempivano di lacrime mentre cercavo di articolare quelle
poche
sillabe, ma non piangevo per quel che avevo perso. Lo avevo lasciato
andare
molto tempo fa: insieme a mou hitori no boku era morta anche una parte
di me,
era stato sciocco cercare di fingere che fosse ancora in vita. Volevo
piangere
perché
Atem meritava una seconda possibilità,
un futuro lontano da me, e invece non lo voleva,
credeva di essere lui il responsabile, voleva morire per mettere a
posto le
cose quando invece l’unica
persona che avrebbe dovuto pagare ero
io. E il modo in cui mi si chiedeva
di pagare era l’unico
che non volevo assolutamente
affrontare: non potevo lasciar andare anche lui. Qualunque altro modo,
ma non
quello.
«Posso...?».
Era
un sussurro rotto,
sapevo che Atem lo aveva sentito solo perché
l’ho
visto girarsi appena verso di me, una domanda stampata
nei suoi occhi. L’ho
stretto a me, l’ho
abbracciato come quella prima notte, quando ancora era
ignaro come un bambino e non aveva idea di come sarebbero finite le
cose. L’ho
abbracciato perché
mi
ricordava mou hitori no boku, un addio inevitabile e la consapevolezza
che a
volte un lieto fine non esiste. L’ho
abbracciato perché
gli volevo bene, anche a lui, e io avevo
bisogno di aggrapparmi di nuovo a qualcosa perché
ero
stanco di essere forte, tanto stanco, e prima di essere forte per un’ultima
volta volevo concedermi il lusso di essere debole
e spezzarmi.
Ho
cominciato a piangere,
in silenzio per paura di una sua reazione. Mi ha accarezzato la testa.
Sembrava
il tocco del nonno. Era rassegnazione, pazienza. Mi ha allontanato dopo
un paio
di minuti, asciugandomi le lacrime con il dito prima che potessi
scusarmi. Si è
avvicinato al mio viso, indugiando un attimo mentre
fissava le mie iridi annebbiate dalle lacrime e dai capelli che mi si
erano
appiccicati al volto. Ho sperato, ho sperato stupidamente un’ultima
volta in quell’istante,
solo per quell’istante,
che l’incantesimo
non si spezzasse, che lui non cambiasse idea.
La sua mano si è
poggiata sulla mia guancia, carezzandola
impercettibilmente.
«Non
posso farlo...»
ha mormorato con un filo di voce «Non
sarebbe giusto...».
«Ok»
ho
ingoiato un singhiozzo. Era giusto così,
dovevo accettarlo. «Ti
chiamo quando il programma sarà
pronto».
«Ok»
sussurrava anche lui. Forse le parole avrebbero fatto meno male se le
avessimo continuato
a pronunciarle a bassa voce. Era una forma di censura, di protezione. «Ci
vediamo fra qualche giorno allora...»
ha poggiato la fronte sulla mia, un secondo, poi si è
alzato e dandomi le spalle si è
avviato verso la porta, uscendo di casa. Non si è
mai voltato indietro. Le lacrime scendevano lentamente
dalle mie guance, rigandomi il collo, hanno continuato per ore. Ma io
ero
silenzioso. Non c’era
più
niente da dire.
All’inizio
ho pensato di andarmene. Partire.
Ho
dei parenti lontano, i
miei genitori vivono in America ormai e conosco gli Ishtar che invece
sono in
Egitto, sarebbe facile andare a chiedere ospitalità
a loro, ci separerebbero migliaia di chilometri: Atem
non dovrebbe più
preoccuparsi della mia influenza. Sparirei
dalla sua vita, definitivamente. Ma so che non sarebbe abbastanza.
Per
lui resterei sempre
uno spettro, qualcosa che potrebbe fare ritorno da un momento all’altro
e anche se io non lo farei, come potrebbe lui
fidarsi di me dopo tutto quello che gli ho fatto? Non gli ho raccontato
che
bugie, nessuno mi crederebbe. E poi il suo orgoglio non potrebbe
accettarlo: lo
farei di nuovo per proteggerlo, si sentirebbe ancora in gabbia. E in
quanto a
me... non so se avrei la forza di andarmene. Non perché
partire richiederebbe coraggio ma perché...
non voglio, non vale la pena partire e cercare di
ricominciare un’altra
volta, non ho la forza di farlo. Non
voglio ricostruirmi una vita: ci ho già
provato una volta e non ha funzionato, ed era l’unico
modo in cui avevo intenzione di provarci.
Spero
mi perdoneranno.
Mamma, papà,
Jonouchi, Anzu, Honda, Ryou... Atem. Se
deciderà
di restare.
Ho
provato ad andare
avanti, sul serio, ho provato, e mi
sono accorto di non farcela, l’unico
modo era tornare indietro, riportando
da me la persona che mi aveva abbandonato. Ora so che era sbagliato, lo
sapevo
da tempo, perché
non si può
vivere di ricordi. Ma io non ne sono capace...
Vorrei
potergli lasciare
qualcosa, un regalo, un simbolo, delle belle parole... ma mou hitori no
boku
era quello bravo a intavolare discorsi, io non sono in grado, parlare
in
pubblico mi spaventa, avere l’attenzione
di tutti su di me non mi piace e
non saprei che cosa dire. Le parole non basterebbero oppure sarebbero
troppo. Vorrei
solo che i ragazzi non odiassero mou hitori no boku, che dessero ad
Atem una
possibilità
quando io non potrò
più
dirgli come devono comportarsi con lui.
Cosa vuol dire essere umano? Cosa definisce l’umanità?
Compassione, empatia, coraggio, perseveranza, generosità,
amicizia... nulla di tutto questo gli manca, Atem ha
tutte queste qualità
e deve coltivarle, esattamente come tutti
gli altri. Atem è
una persona, senza di me lo diventerà,
potrà
essere quello che vuole, anche cessare di
essere se lo desidera: non gli ho mentito quando ho detto che avrei
preparato
il programma. Magari potrei fare come in quei film super drammatici,
scrivere
una lunga lettera piena di sentimento e appoggiarla sul tavolo del
laboratorio
per i posteri. Peccato che non abbia ancora idea di cosa scrivere, ma
forse mi
verrà
in mente qualcosa, forse riuscirei a far cambiare idea
ad Atem... E almeno avrei la possibilità
di
salutare tutti quanti.
|
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Capitolo 20 *** The Clock Upon The Wall ***
Buona
domenica lettori e lettrici! Non posso credere che siamo arrivati all’ultimo
capitolo di Pictures
of You. Credo mi mancherà
aggiornare questa storia, ma dopo un viaggio tanto lungo direi che
tutti voi vi
siete meritati un finale degno di questo nome. Ci vediamo a fondo fic
per le
note di rito e, ancora per una volta,
Buona
lettura!
Domino,
29 febbraio 2004
Atem
rimise in tasca il
cellulare non appena letto il messaggio.
Anche
il cellulare era un
regalo di Yugi. Ogni cosa che possedeva lo era. Persino se stesso. Ne
era
grato, certo, ma non fino al punto da cambiare idea.
Lo
schermo del telefonino
si spense da solo dopo qualche secondo, la luce elettronica smise di
filtrare
attraverso la tasca della felpa grigia e Atem ingoiò
un sospiro. Era passata una settimana da quando Yugi gli
aveva detto che avrebbe ultimato il programma per quella domenica e da
quel
giorno, Atem non lo aveva più
sentito. Sapeva di non aver bisogno di
rassicurazioni perché
anche se gli aveva mentito tutto questo
tempo, questa volta Yugi sarebbe stato sincero. Ryou, Anzu, tutte le
poche
persone con le quali avesse parlato non avevano fatto altro che
ripetere che
Yugi era la persona più
onesta che conoscevano. Peccato avesse
deciso di mostrare ad Atem un’altra
parte del suo carattere. In buona
fede, certo. Sapeva che era stato tutto in buona fede. Lui non odiava
Yugi. Non
più.
Gli
avrebbe fatto piacere
rivederlo un’ultima
volta, accomiatarsi…
in fondo avevano passato dei bei momenti, anche se Atem
non provava mai nulla di più
forte che la mera tentazione di sorridere
quando si soffermava sulle volte in cui aveva stretto Yugi a sé,
convinto che fosse la cosa giusta da fare. Non c’erano
farfalle nello stomaco, non c’era
calore che gli pizzicasse le dita. E non sapeva se
era per via di quello che non avrebbe mai provato per Yugi, o perché
erano cose che semplicemente non era stato programmato
per provare.
Programmato…
Non
l’avrebbe
mai saputo, preferiva concedersi il
beneficio del dubbio e andarsene con la convinzione di preservare
ancora un
briciolo di umanità,
anche se Yugi aveva insistito nel
ripetergli che ne possedeva ben più
di
quella che dava a vedere.
«Vieni
in laboratorio il 29. Se hai davvero deciso, porta Ryou con te. Ti
voglio bene».
Ripensò
per l’ennesima
volta all’sms
di Yugi. Non riusciva a spiegarsi perché
gli chiedesse di portare anche Ryou. Forse servivano due
persone per occuparsi di Atem una volta spento, e Yugi da solo non
bastava,
anche se era strano visto che la prima volta il ragazzo era stato da
solo…
Forse sarebbe stato semplicemente troppo scosso per
occuparsene, forse aveva bisogno dell’appoggio
di un amico. Anche non comprendendola completamente, Atem era cosciente
del
peso che questa seconda separazione avrebbe avuto per Yugi, e almeno
per questa
sua richiesta, lo giustificava.
In
fondo erano poche le
cose che Atem comprendeva, o che riusciva a provare, e fra queste non c’era
il rimorso. Non si sentiva egoista nel desiderare la
morte. Avrebbe messo le cose a posto, sarebbe stato il suo modo di
chiedere
scusa e di evitare di soffrire in futuro, di scoprire cosa volesse dire
non
essere vivo mentre le persone attorno a lui cadevano una a una col
passare
degli anni. Proprio come aveva detto Yugi: le persone si indeboliscono,
scompaiono a poco a poco, invece lui sarebbe stato risparmiato, ma Atem
non lo
voleva. A lui non sembrava una maledizione invecchiare, era una
possibilità
che avrebbe accolto con serenità.
Ti
voglio bene.
E
poi…
quelle parole. Perché
aveva sentito il bisogno di scriverle, dopo tutto quello che si erano
detti? Yugi
sapeva che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea, così
come sapeva che Atem non avrebbe risposto al suo
messaggio. Era stato Ryou a farlo infatti, aveva chiamato per chiedere
davvero
conferma: in sette giorni il programma sarebbe stato pronto.
Atem
non aveva idea di
come Yugi facesse a essere così
preciso con la data, ma preferì
continuare a ignorarlo: anche se si fosse trattato solo
di stime, gli avrebbe concesso due o tre giorni in più
se necessari, non avrebbero cambiato le cose.
Quello
che era strano era
invece l’aver
lasciato interamente ad Atem il
compito di chiedere a Ryou di venire: quando Atem aveva chiesto al suo
nuovo
inquilino se Yugi gli avesse domandato di fare qualcosa, il ragazzo dai
capelli
bianchi aveva scosso il capo con aria confusa. Era evidente che non
sapesse
nulla, ignorava che la sua presenza era stata richiesta durante la
procedura:
Yugi non lo aveva coinvolto ulteriormente, lasciando ad Atem tutte le
responsabilità
del caso. Poteva tirarsi indietro o
accettare, ma per farlo avrebbe avuto bisogno dell’aiuto
di qualcuno. Era un handicap studiato apposta per
ostacolarlo? Forse sì.
Neanche Atem ne era del tutto sicuro. Se
fosse stato abbastanza convinto delle proprie emozioni, se si fosse
fidato
abbastanza di loro, sarebbe stato pronto a giurare di aver un
presentimento. Ma
non si fidava di quello che gli dettava il suo cervello di titanio, così
lo ignorò.
Il
corridoio per l’ingresso
passava di fronte alla camera da letto di Ryou,
ora in università.
Neolaureato. Chissà
dove lo avrebbe portato il futuro. Magari in Egitto, l’oggetto
della sua tesi…
Ad
Atem non sarebbe dispiaciuto visitare l’Egitto,
gliene avevano parlato così
tante volte... Era una delle pochissime
cose delle quali avesse memoria, anche se quei ricordi non erano i
suoi, e si
chiedeva come sarebbe stato vedere le piramidi, vedere i luoghi che
avevano
segnato la vita della persona che prima di lui aveva portato il suo
nome, vedere
quello che Yugi non era riuscito a dimenticare.
Non
avrebbe mai avuto
occasione di ripensarci, sorrise debolmente, non esisteva alcun aldilà
per lui, alcun posto in cui tornare, c'era solo il
nulla, il vuoto, il nero. Le sue esperienze non contavano. Atem era
stato
creato per cancellare il passato, era condannato a un eterno presente e
non
esisteva nulla che potesse fare per cambiare quella realtà.
Salvo non accettarla. Salvo distruggersi.
Il
sole brillava con
insolito vigore per la stagione invernale, un mattino così
particolare, come la sua data, e i raggi bianchi
scintillavano sul vetro del piccolo mobile accanto al letto di Ryou,
fratturandosi in minuscole gocce di arcobaleno. Dietro, al di là
della superficie trasparente, giacevano ancora le
statuine del vecchio RPG, sul cui conto Atem non aveva mai osato fare
domande.
La figurina del piccolo incantatore somigliava fin troppo a Yugi, ma
questa
volta le sensazioni che Atem provò
guardandola furono ben diverse da quelle che gli avevano attraversato
la mente
mesi prima, quando l’aveva
presa in mano per la prima e unica
volta. Quel giorno stava cercando di ingannare il tempo perché
la sua mente era affollata da così
tante domande che non era in grado di intavolare una
conversazione coerente come gli altri, quel giorno si sentiva un
bambino
spaurito, abbandonato all’asilo
per la prima volta, il bambino che,
quando sua madre si ferma a parlare di cose da grandi con le amiche,
tira fuori
di tasca il giocattolo che si era portato da casa e aspetta
pazientemente che lei
finisca di chiacchierare e torni a prestargli attenzione.
Yugi
gliene aveva
prestata fin troppa. Yugi…
madre... Atem preferì
allontanare il pensiero non appena riaffiorò
di nuovo, presto sarebbe stato tutto finito, non c’era
bisogno di tormentarsi ancora la coscienza, sempre
ammesso che lui ne avesse una. Eppure le bamboline al di là
della vetrinetta sembravano guardarlo ancora e per un
secondo fu tentato di avvicinarsi, aprirla e tirarne fuori una per
portarla con
sé
a casa di Yugi. In un certo senso si sentiva identico a
loro. Vuoto. Magari Ryou ne avrebbe costruita anche una a sua immagine,
per
ricordo…
Ryou.
Ryou non sarebbe
venuto con lui in laboratorio: Atem aveva pensato di mandargli un
messaggio
poco prima che il programma di spegnimento venisse avviato, in modo che
potesse
raggiungerli più
tardi, a procedura conclusa, e aiutare
Yugi in qualunque cosa avesse bisogno di aiuto. Lo aveva già
salutato. La sera prima, quando Ryou gli aveva chiesto
conferma della data, e poi quella mattina stessa, prima che uscisse per
andare
in università.
Si
erano abbracciati,
Ryou aveva gli occhi lucidi, Atem si sentiva così
vuoto da non riuscire a piangere. Non aveva mai pianto. Non era neanche
sicuro
di esserne capace. Visto lo zelo di Yugi nel costruirlo però,
non lo escludeva. Ryou sembrava non averci fatto caso.
Si era asciugato gli occhi con il dorso della mano, e stringendo di
nuovo Atem gli
aveva confidato per la prima volta la sua opinione.
«Mi
mancherai».
Pietrificato
da quelle
parole, Atem era rimasto in silenzio, alla ricerca di una risposta con
cui
controbattere.
«Ma
io non sono lui»
aveva mormorato alla fine, un’obiezione
che sentiva il dovere di dover fare.
«Lo
so. Lo abbiamo sempre saputo. Ma eri una
parte del gruppo ormai…
eravamo tornati a sorridere…
Ma è
una tua decisone, è
quello che vuoi…
non
ti chiederò
di restare».
Ryou
aveva sorriso dolcemente,
poi gli aveva dato le spalle ed era uscito agitando la mano in segno di
saluto.
Atem non poteva credere che qualcuno, a parte Yugi magari, avrebbe mai
sentito
la sua mancanza. Mancanza per lui,
non
per quello che la gente vedeva in
lui. Non per l’altro
Yugi. Ma non sarebbe mai stato capace
di discernere da quale dei due derivassero i sentimenti delle persone
che lo
circondavano: anche ammesso che Ryou fosse sincero, che cosa dire degli
altri? Loro
non avrebbero rimpianto la sua
assenza. L’altro
Yugi se ne era andato. Atem era un
incidente di percorso.
Atem
non avvertiva il
freddo. La sua pelle diventava più
rossa o più
pallida a seconda della temperatura, ma
lui non era in grado di determinare cosa fosse caldo o cosa fosse
freddo. E l’aria
gelida di fine febbraio, contraddizione dei raggi di
sole che poco prima rimbalzavano sul vetro del mobile, non era nulla di
cui lui
avesse consapevolezza.
Camminava
con passo
sostenuto, rifiutandosi di pensare ancora, di elaborare scenari e
possibilità,
di cambiare idea. Era la scelta giusta, lo sapeva, era
meglio per Yugi e meglio per tutti. I morti devono restare tra i morti.
Era
una lezione che Yugi
ragazzo avrebbe dovuto apprendere alla vecchia maniera, forse ancora più
dolorosamente della prima volta. In fondo, non era
bastata…
Yugi
non aveva idea di quello che sarebbe successo da
quel momento in poi.
Non
c’era
modo di controllare
quello che sarebbe successo dopo, ma ad alleviare il suo cuore c’era
la consapevolezza di sapere che era giusto così:
non aveva più
diritto di controllare nulla nella vita di Atem, e tanto meno dei suoi
amici.
Ripose il diario nel cassetto, consapevole di non averlo concluso con
una vera
e propria fine ma, in fondo, lui non era mai stato uno scrittore. Quel
libro
così
simile a un’agenda,
dalla copertina
cobalto sbiadita, era stato il suo compagno durante quel viaggio. Ora
che il
viaggio era finito era giusto che riposassero entrambi. Eppure... chissà...
magari Atem sarebbe stato in grado di scrivere un degno finale.
Yugi
scosse la testa con un piccolo sorriso mentre
richiudeva a chiave il cassetto che aveva ospitato il diario per tutti
questi
anni, salvo i periodi trascorsi a Tokyo e al MIT. Si slacciò
la
catenina, sottilissima, dal peso quasi irrisorio come la chiave che da
essa
pendeva, e pure così
fine, la collana lasciò
attorno al suo collo ormai vuoto un senso di mancanza che lo colmò
di
sconforto. Era come perdere il puzzle ancora una volta. Perderne i
pezzi. Non
poterlo più
ricostruire.
Rimise
a posto la penna, ripiegò
con
cura la lettera. Anche quel gesto non era certo stato il lavoro di un
grande
artista della letteratura, ma piuttosto che sparire nel nulla, aveva
preferito salutare
un’ultima
volta i suoi amici. Ammesso che loro
lo considerassero ancora tale dopo quello che avrebbe fatto.
Si
alzò
dalla scrivania
riponendo con cura la sedia, si avviò
in bagno e afferrò
le
scatole di sonniferi, se le infilò
nelle tasche per poi
tornare ancora una volta nel laboratorio. Accese il computer
principale, aprì
il
programma, spense il monitor. Afferrò
la giacca e trasferì
le
pastiglie negli ampi scompartimenti di tessuto del cappotto.
Si
guardò
intorno un’ultima
volta, sospirando impercettibilmente. Richiuse la porta alle sue
spalle. E uscì.
L’insegna
infantile del Kame
Game Shop brillava di un giallo giocoso in lontananza, ma
Atem non affrettò
il passo. Il tempo, ora che sapeva che era contato,
scorreva con un fluire insolito, come se fosse in grado di dare valore
alle più
piccole frazioni di secondo o buttare via minuti interi
perdendoli nella noncuranza e nella fretta. Era una sensazione strana,
per la
prima volta da quando aveva scoperto chi fosse veramente si sentiva
padrone di
qualcosa. Padrone della propria morte.
Ripensò
alle giornate che aveva passato in negozio aiutando Yugi
a servire i clienti, di quel giorno che il ragazzo gli aveva insegnato
a
giocare a Duel Monsters, di quando
aveva insistito per cedergli una delle carte più
rare del proprio deck. Una carta che, aveva detto, era la stessa che un
caro
amico adorava. Adesso Atem sapeva chi fosse il caro amico a cui Yugi si
riferiva, sapeva cosa aveva voluto dire per lui separarsi da quel Mago
Nero.
Sapeva che era sbagliato, ma non lo sentiva.
Forse perché
non aveva mai conosciuto l’altro
Yugi. O forse perché
era
solo una macchina.
Anche
se all’ingresso
faceva bella vista un cartello bianco con la
scritta ‘chiuso’,
la
porta del negozio era aperta e Atem entrò
accolto dal tintinnio dei campanellini del piccolo scacciapensieri,
appeso
proprio sopra l’uscio.
Gli era sempre piaciuto quel suono.
Sorrise. Poi il suo volto si fece grave e impassibile di nuovo mentre
avanzava
verso il bancone. Si guardò
intorno alla ricerca di qualche segno che
gli dicesse dove fosse Yugi. Il ragazzo avrebbe dovuto aspettarlo nel
laboratorio, ma Atem non riusciva a sentire nessun suono proveniente da
quella
stanza e decise che, prima di controllare lì,
avrebbe fatto un ultimo giro per la casa alla ricerca del suo creatore
e di
qualche ricordo, ricordi diversi da quelli che avevano condiviso in
quei giorni
di ignoranza, ricordi del vero lui: del finto Atem.
La
scala gli parlava
proprio di questo, di continui bip elettronici che si affacciavano a
intermittenza nella sua mente man mano che il suo cervello eseguiva le
procedure di accensione.
Bip.
Scansione
ambiente
circostante.
Bip.
Registrazione
forme di
vita.
Bip.
Attivazione
memoria.
Bip.
"Yugi".
Poi
la scala. La camera
di Yugi. Il nome di Atem. I ricordi che non volevano saperne di
combaciare e
che adesso, sapeva, non l’avrebbero
mai fatto. Lo specchio. Il suo
viso. Il vuoto e il sentirsi inutili. Yugi che non lo aveva mai fatto
sentire
inutile. Yugi che si era fatto del male per lui, Yugi che si era illuso
fino a
questo punto.
Era
una bomba a
orologeria destinata ad esplodere, e lo avrebbe fatto con la stessa
serenità
degli stormi di kamikaze che si buttavano in picchiata
contro le navi da guerra americane.
Quando
decise che ne
aveva abbastanza, Atem tornò
finalmente in negozio e si decise ad
aprire la porta del retrobottega.
«Yugi-».
La
stanza era vuota. Le
sedie rigorosamente al loro posto. La superficie del tavolo immacolata.
Lentamente,
come immerso
in un sogno, Atem si avvicinò
alla scrivania.
Dov’era
Yugi? Avrebbe dovuto essere lì
ad accoglierlo, a provare a fargli cambiare idea un’ultima
volta magari, ad aiutarlo ad avviare il programma
di spegnimento per poi essere raggiunto da Ryou quando Atem non avesse
avuto più
modo di sapere cosa stava succedendo intorno a lui.
«Yugi?».
Le
sue parole gli
rimbalzarono contro come un’eco
e per un lungo minuto Atem rimase
immobile al centro della stanza, in attesa.
«Yugi!»
urlò
finalmente.
Ancora
una volta non
ricevette risposta.
Atem
sentiva la rabbia
cominciare ad accumularsi dentro di lui: Yugi era scappato, lo aveva
abbandonato per non doversi addossare la colpa della sua morte, l’ennesima
scusa per rimandare e non abbandonare il
passato.
Era
tentato di chiamare
Ryou e chiedergli se ne sapeva qualcosa, se poteva aiutarlo a cercarlo,
se
conosceva qualche altro modo per spegnere Atem. E poi i suoi occhi si
fermarono
su un foglio di carta piegato in due, a sinistra della tastiera del
computer
principale. E Atem si accorse che il pc non era spento, ma
semplicemente in
standby. Muovendo il mouse, lo schermo nero rivelò
una
schermata di cifre e pagine fittamente scritte, in un piccolo blimp
apparve un’icona,
chiedendo all’utente
‘Mutou’
di inserire il ‘cavo
nell’unità
ATM’
per avviare la procedura. Atem afferrò
il foglio e lo aprì:
magari conteneva istruzioni sul programma, magari avrebbe potuto fare
anche
senza Yugi. Forse lui non ce l’aveva
fatta ad assisterlo, ma almeno aveva
tenuto fede alla sua parola e aveva ultimato il programma. O almeno così
sperava.
Era
una lettera. Due
pagine di inchiostro fittamente scritto, nella calligrafia un po’
disordinata di Yugi. Una di esse cominciava con una
data, l’altra
era intitolata ‘procedura
di spegnimento’.
Mise
da parte quest’ultima
per concentrarsi sulla prima. Una parola alla
volta avrebbe letto tutto quello che c’era
da leggere.
27
febbraio 2004
Credo
che sarai tu il primo, e forse l’unico,
a leggere questa lettera, perciò
comincerò
così:
Caro
Atem,
Non
sono molto bravo con le parole, ma so di essere anche
peggio a gestire le mie emozioni, per questo preferisco non salutarti
di
persona.
Sai
già
quanto mi dispiaccia per
tutto quello che ti ho fatto, sai già
tutto quello che penso,
così
come io conosco tutti i tuoi pensieri. Ci
siamo già
detti tutto quello che c’era
da dire, e lo abbiamo accettato.
Ti
ho privato della libertà
nel momento stesso in
cui credevo di avertela concessa, quando hai aperto gli occhi per la
prima
volta, e finché
sei stato al mio fianco,
non sei stato mai veramente libero. Valeva anche per me, sai, sentivo
il dovere
di proteggerti, di starti vicino, ma non rimpiango di aver sacrificato
la mia libertà,
era una scelta che sono stato contento di fare. Ma, come ho detto, la
mia è
stata una scelta. A te non è
mai stata concessa la
possibilità
di scegliere.
Il
primo momento in cui sei stato libero è
stato il giorno che sei scappato da me, quando hai lasciato la mia
gabbia.
Eppure non lo eri ancora, neanche quando ti sei rifugiato a casa di
Ryou,
neanche quando ti sei rifiutato di parlarmi per tutti quei giorni,
neanche
quando hai deciso di morire. Nessuna di esse era una scelta libera.
Erano tutte
dettate dal fatto che io fossi sempre lì,
a pendere sulla tua
testa come una minaccia, un metro per misurare ogni tua azione, un
paragone di
cui non potevi fare a meno. Tu dipendevi da me. Persino nel morire hai
dovuto
chiedere il mio aiuto. E io te lo dovevo: ti ho mentito e tenuto
prigioniero,
ma sono stato sincero questa volta. Insieme a questa lettera troverai
un altro
foglio, contiene tutte le istruzioni per avviare il programma, il cavo
necessario è
nel secondo cassetto
della scrivania, puoi inserirlo da solo.
Spero
tu abbia detto a Ryou di venire, e se non lo hai ancora
fatto, sarà
meglio che tu lo faccia
prima di avviare la procedura perché,
anche se non sarai
completamente spento se non nel giro di un’ora,
non sarai più
in
grado di digitare un numero o parlare. Come avrai capito, io non sarò
lì
ad
occuparmi di te una volta che il programma sarà
eseguito. Non posso.
Ti
sto offrendo l’ultima
possibilità
che
posso offrirti, e non è
quella di morire. Ti
offro di essere libero. Senza di me potrai finalmente esserlo: non ci
sarà
bisogno che tu smetta di vivere per me. Lo farò
io. Non preoccuparti,
non intendo scappare un’altra
volta: non dovrai
preoccuparti che io possa rispuntare da un momento all’altro
e intromettermi di nuovo nella tua vita. Questo è
il mio addio.
Per
favore, saluta i miei amici da parte mia, io non ne
ho avuto il coraggio. Saluta Jonouchi, Anzu, Honda, Ryou, dì
loro di contattare la mia famiglia e dire a mia madre e a mio padre che
li amo
e che in cambio saluterò
per loro il nonno.
Ho
sempre voluto bene a tutti, anche a te, lo sai, è
per
questo che ti lascio. Non voglio fare ancora una volta una scelta al
posto tuo,
ti chiedo solo di pensare attentamente a ciò
che vuoi, nel profondo
del tuo cuore, e a ciò
che ti impedisce di
raggiungerlo, perché
potresti arrivare alla
stessa conclusione a cui sono arrivato io: tu sei Atem. Tu puoi vivere
come te
stesso.
Il
programma sarà
sempre qui per quando
avrai voglia di metterlo in funzione.
Non
ho idea di cosa mi aspetti da questo punto in poi, né
posso sapere quello che riserverà
a te e a voi tutti il
futuro, e credo che accoglierai con sollievo queste parole, significano
che non
deciderò
mai più
per te.
Sayounara
allora, e buona fortuna,
Yugi
Il
mondo dei morti è
un reame di assoluta luce.
La
luce è
così
tanta che non se ne va mai del tutto,
nemmeno quando il sole si addormenta al di sotto dell’orizzonte.
Allora è
notte, ma è
la notte di un’estate
polare, e la luce prova ancora a penetrare
attraverso il manto blu del cielo e le stelle sono come tanti piccoli
fori in
una trapunta scura. È
luce rassicurante eppure abbaglia e
circonda, soffoca a volte, e Yugi non riesce a spiegarsi come sia
possibile per
un luogo essere così
abbagliante e per i suoi occhi non esserne
perforati, accecati.
Eppure
lui vede. E sa
dove si trova. E sorride. Timidamente.
C’è
un desiderio che pizzica all’interno
del suo cuore, e Yugi non credeva fosse possibile
per lui avere ancora un cuore che batte e forse non è
davvero un organo ma solo il suo fantasma, eppure lo
sente agitarsi mentre il desiderio cresce e cresce, al punto che dopo
un po’
lo sente arrestarsi timorosamente: ha quasi paura di
venire più
a galla di così,
di farsi strada, perché
è
incredibile, eppure Yugi sa di
trovarsi nell’unico
posto al mondo in cui anche l’altro
se stesso può
esistere.
Perché
questo posto non si trova nel ‘mondo’.
Yugi
ha paura della
reazione di Atem, perché
sa di averlo deluso e ferito. Sa di aver
deluso tutti e di dover scontare le sue colpe, ma prima desidera
rivedere le
persone che ama, anche solo un istante, per accontentare il suo cuore
dopo anni
di lontananza. Yugi si assumerà
le sue responsabilità,
Yugi lo ha sempre fatto, ed è
per questo che è
convinto di aver preso la decisione giusta, di aver concluso l’avventura
col finale che meritava.
Yugi
sente qualcosa sfiorargli
la spalla, il peso incorporeo delle dita del vento, delle dita di uno
spirito
che conosce fin troppo bene. Si gira di colpo, i suoi gesti così
goffi e così
poco in linea con l’atmosfera
che si respira in quel luogo, col
contegno della persona con cui si ritrova a incrociare lo sguardo, un
abitante
di quel reame di luce ormai da molto tempo. Ma Atem ha anche una certa
dimestichezza con i ‘reami’,
Yugi
non è
sorpreso nel constatare che quel luogo si adatta a lui
alla perfezione.
Atem
sorride, la mano
ancora sulla spalla del suo vecchio partner. E Yugi non può
far a meno di perdersi nei suoi occhi, quel rosso vivo
che ormai aveva quasi dimenticato, e la luce che inonda il regno dei
morti è
così
folgorante da farli splendere come braci
di un fuoco. Braci scoppiettanti.
Yugi
sa di non meritare
quel sorriso, ma decide di ricambiarlo ugualmente perché
il desiderio che pizzicava all’interno
del suo cuore adesso si è
trasformato in una scintilla di felicità,
purissima come quel luogo, e non si accontenta più
di rimanere nascosta, ma avvampa, gorgoglia, viene a
galla e si manifesta nel sorriso più
dolce che Yugi abbia mai riservato a nessuno.
Non
c’è
bisogno di parole.
Il
regno dei morti è
il regno della libertà
assoluta. Le parole limitano le emozioni, la lingua frena i sentimenti
e la
voce trattiene la sincerità.
Ma Atem e Yugi si capiscono all’istante,
lo hanno sempre fatto in fondo, e, almeno per un
aspetto, il regno dei morti cessa di essere completamente nuovo agli
occhi del
più
giovane dei due.
Yugi
cerca la mano di
Atem, ancora perso nei suoi occhi. La stringe con forza, alito di vento
contro
alito di vento, ancora una volta un gesto poco regale, poco adatto al
mondo che
li circonda. Ma Yugi imparerà
come comportarsi in quel regno un’altra
volta.
Perché,
per la prima volta da quando si sono conosciuti, anni
prima, Yugi sa che adesso avranno tutto il tempo possibile.
Owari
Ed
è
con grande soddisfazione
che dichiaro di aver terminato finalmente una multichapter!
L’epilogo
è
doppio e semi aperto: preferirei che foste voi a decidere che cosa
succederà
ai
personaggi da questo momento in poi, ma potete sempre mandarmi un
messaggio o scrivermi
nelle rece per qualsiasi domanda concernente questa o altre storie. Ho
diversi
headcanons legati a Pictures
of You…
Un
grazie enorme per aver avuto la pazienza di seguire una
storia che va avanti da dicembre a tutti voi che state leggendo adesso
queste
parole: a tutti quelli che hanno letto ogni capitolo sin dalla prima
settimana,
a chi è
arrivato più
tardi e poi si è
appassionato, a chi ha letto tutto di fila, a chi lo ha fatto
lentamente, a chi
ha avuto il buon cuore di recensire, inviare messaggi, aggiungere la
storia fra
preferite, ricordate ecc., ai The
Last Goodnight per avermi dato l’occasione
di martoriare i cuori del fandom ancora una volta e a tutti gli altri.
Un
grazie enormissimo e speciale a La_Fe10 che ha
sopportato e supportato Pic of You
sin dai suoi primi vagiti, che si è
sorbita tutte le mie
pippe mentali su tutti i personaggi che nella mia furia omicida avrei
voluto
fare fuori, che ha corretto tutti i (troppi) accenti sbagliati e che ha
bocciato tutti quei plot bunny troppo lacrimosi perfino per me con
spietata e
ironica imparzialità.
Thank
you sweetie, really.
Per
chi non ne avesse ancora abbastanza di angst, eccomi
ad autosponsorizzare la mia nuova oneshot Nerofumo e il mio fanmix personale per Pictures
of You.
E adesso, off we go to new and crazier
angstier projects!
Ache
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