Exogenesis

di indiceindaco
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Symphony Part I: Overture ***
Capitolo 2: *** Symphony Part II: Cross-Pollination ***
Capitolo 3: *** Symphony Part III: Redemption ***



Capitolo 1
*** Symphony Part I: Overture ***


Exogenesis
Symphony Part I: Overture
 
“I can't forgive you
And I can't forget
 
Who are we?
Where are we?
When are we?
Why are we?”
 
Muse, Exogenesis – Symphony Part I: Overture
 
 
Aveva un’indole malinconica, restia nel concedersi sorrisi, sempre misurata, distaccata. Solitaria perché abbandonata.
Non era solito articolare più di cinque o sei frasi nell’arco di un’intera giornata, non piangeva mai, neppure dopo una rovinosa caduta: si rimetteva in piedi, sotto gli occhi di nessuno, e proseguiva nel rincorrere le proprie fantasie.
 
Come tanti, cresceva al riparo di un luogo con più stanze di quante ne potesse conoscere, ed era silenzio ciò che chiamava casa.
Le sue giornate erano scandite da lenti passi sul marmo, ovattate, piccole carezze sottili senza affetto ed inquiete. Consumava i pasti, religiosamente composto, i gomiti stretti a quel piccolo busto ben dritto sulla sedia, quasi sempre da solo, a volte in compagnia di quel padre troppo spesso assente, intento ad inseguire i ricordi. L’uomo teneva sempre gli occhi bassi, e guardava di rado il figlio. Le rare volte in cui si assopiva ad osservare le piccole guance, il bambino sapeva che i suoi occhi non erano che persi a braccare qualcosa di invisibile.
 
Ogni domenica, il piccolo adagiava il palmo contro quella grande mano, e si faceva trasportare lì sulla collina. La collina non sembrava piacergli particolarmente, ma non aveva mai osato manifestarlo, semplicemente si limitava a seguire il padre, perché non conosceva altro modo per stare al mondo. Senza proteste, ogni domenica, lo scortava sulla collina, e sedeva con lui, di fronte ad una lastra bianca adorna di fiori. Non aveva mai chiesto cosa fosse, e perché dovesse star seduto lì, così a lungo, ascoltando la voce profonda, che raccontava storie di persone che non conosceva. Poi imparò a leggere, e non ci fu più bisogno di chiedere.
 
Pianse una volta, da quel che ricordava. Uno di quei pianti involontari, che ristagnano sul fondo degli occhi, e come un fiume in inverno, all’improvviso rompono gli argini. Se ne sorprese, portandosi una mano sulla guancia, e guardando le piccole dita candide. Era stato nella grande camera, quella che il padre non apriva mai. C’era polvere, e lenzuola bianche a coprire misteriose figure. Era una stanza dimenticata, di cui persino le chiavi fossero andate perdute. Si avvicinò al centro dell’ambiente ovale, guardandosi intorno, fino a raggiungere un grosso e curioso mobile nero, lievemente lucido, nonostante la polvere spessa.
 
Il mobile era grande, aveva tre grossi pilastri a reggerlo, come fossero i piedi di un’enorme sedia zoppa, e scuro, se non per una sezione bianca, dove la luce si rifletteva, luccicando impertinente. Lui si sporse di lato per indovinarne le forme, ma le curve sinuose erano difficili da seguire, così concave e convesse, ambigue. Mosso da una fredda curiosità, si mise in ginocchio sullo sgabello che stava di fronte allo strano mobile, supponendo che dall’alto fosse più semplice indovinare di che genere di mobile si trattasse. Non era un divano, non una credenza, e neppure una panca, nonostante avesse uno spesso coperchio semi aperto, dentro al quale non riusciva a spiare. Così si arrampicò sullo sgabello, aggrappandosi al bordo del mobile, su quella zona bianca e dentellata. E fu lì che accadde.
 
Un suono ruppe il silenzio, lacerandolo, come un lieve lamento di bestia ferita. Theodore ritrasse veloce la mano, osservando uno dei denti dell’animale, che adesso era ritornato al proprio posto, svanita la pressione delle sue dita. Con la mano tremante sfiorò di nuovo le fauci di quella strana creatura, premendo con più convinzione questa volta. Dalla carezza senza indulgenza scaturì un suono diverso questa volta, più cupo, mesto e doloroso. Theodore reclinò la testa di lato, perplesso, mentre con entrambe le mani, contratte come uncini, adesso, colpiva crudelmente quella superficie. Fu la prima volta che sentì il canto di quella belva, e quel canto si arenò da qualche parte dentro di lui, rimestando le gocce salate sul bordo delle proprie ciglia. La belva come a rispondere al suo attacco lo aveva morso dentro, lo faceva sanguinare degli occhi.
 
Suo padre lo trovò lì, le lacrime secche sulle guance, e le mani che adesso docili scorrevano in una baraonda di suoni che Theodore non riusciva a smettere di ammirare.
-Questo è un artefatto Babbano, Theodore. Lo rubai per tua madre, durante la Prima Guerra. Ne era affascinata, come lo sei tu.- disse poggiandogli una mano sulla spalla, cercando di imitare un fare paterno. Per quanto ci provasse, non sortiva mai alcun successo, e lasciava solo aridità nell’animo del bambino.
Theodore non lo guardò neppure, continuando a premere uno dopo l’altro i denti della belva, stupendosi di quanti versi riuscisse a fare.
-Pensava che i Babbani non meritassero questo bel canto. Non trovi anche tu?  Potrai giocarci se vorrai, ma adesso vieni, dobbiamo andare da lei, ci sta aspettando.
Theodore allontanò le mani dal mobile, poggiandole sulle ginocchia, inspirando gli ultimi docili versi, ancora fermi a mezz’aria.
-Non voglio giocarci.
L’uomo si curvò lievemente, la mano ancora sulla sua spalla, e con voce insolitamente bonaria sussurrò:
-La prossima volta che andrò a Diagon Alley, cercherò un libro che ti aiuti ad imparare. Così potrai esercitare anche la lettura, e non sarà solo un gioco, va bene?
- Voglio imparare ad usarlo.- disse il piccolo, con voce incolore, portando di scatto gli occhi sul padre, di fianco a lui.
-Oh, lo farai…

 
E lo fece. 
 
 
“Il mondo sarebbe diverso se i bambini nascessero ridendo.”
 
G. Soriano

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Capitolo 2
*** Symphony Part II: Cross-Pollination ***


Exogenesis
Symphony Part II: Cross-Pollination

 
“Rise above the crowd,
And wade through toxic clouds,
Breach the outer sphere,
The edge of all our fears,
Rest with you,
We are counting on you,
It’s up to you
 
Spread, our codes to the stars,
You can rescue us all,
Spread our codes to the stars,
You muse rescue us all,
Tell us, what is your final wish?
Now we know you can never return,
Tell us, what is your final wish?
We will tell it to the world”
 
Muse, Exogenesis - Symphony Part II: Cross-Pollination
 
 
 
Nelle tante missioni, Theodore ne era sicuro, avrebbe trovato quel che cercava. Ogni notte, quando il marchio bruciava, si lasciava inghiottire dalle tenebre che gli avevano avvelenato l’anima. Ogni notte con gli occhi che brillavano, accoglieva gli ordini, covando dentro di sé l’unica speranza che gli fosse mai stata concessa. Da quella notte, quando Lucius Malfoy aveva sputato fuori quel nome, Theodore ne era stato ossessionato. Eseguiva gli ordini, da bravo soldato del secolo nuovo, di un mondo pulito, ma il suo unico scopo, che lo lasciava inginocchiare ossequioso nei confronti di ideali corrotti e spuri, era trovarlo. E una volta trovato, annichilirlo.
 
Dare un volto a quel nome, a quella divisa da Auror che lo aveva spogliato di tutto, al punto da non lasciargli neppure il beneficio di immaginare l’abbraccio di una madre, i rimproveri docili di un padre. Così passava ogni notte, nell’estate dei suoi sedici anni, ad inseguire lo spettro della vendetta. Meccanicamente dava alle fiamme le case Babbane, dopo averne torturato i proprietari, fino a farli uscire di senno, invocando sempre la stessa preghiera.
 
Fa’ che venga anche lui, questa volta.
 
Aveva perso il conto delle maledizioni scagliate, senza neppure l’ombra di un possibile perdono. Non gli importava d’essere lodato, per il lavoro “pulito” e le missioni “magistralmente” portate a termine. Non gli importava lo affiancassero a Mangiamorte esperti, o ai suoi compagni di scuola. Non gli importavano gli sguardi d’approvazione della Lestrange, o l’orrore negli occhi di Pansy. Non gli importavano le parole di Blaise, le lusinghe di Greyback, né la ferocia delle suppliche di Draco. Non gli importava di vederli cadere a pezzi, né di ferirli. Era un uomo, ormai, e da sempre aveva nutrito, con i brandelli della propria anima, quell’unico scopo. Vendicare tutto ciò che di più caro gli fosse stato strappato via. Aveva abbracciato il marchio nero, e quell’ideale di giustizia, l’unica possibile: da pagare col sangue.
 
E quando quella notte lo trovò, in un campo di battaglia aperto, e lo guardò negli occhi, per un attimo Theodore sbirciò il proprio inferno. Per quanto tempo lo aveva atteso, aveva sperato di trovarlo fra le fila nemiche, aveva fantasticato sulle torture che gli avrebbe inflitto. Era quello il momento più esaltante: averlo di fronte in ginocchio, le labbra tremanti, gli occhi spalancati, in una penosa supplica. La punta della sua bacchetta era sulla gola dell’Auror, quando Theodore si sfilò la maschera candida. Negli occhi dell’uomo si accese una flebile speranza, che non poté far a meno di generare un ghigno spietato sulle labbra del ragazzo: ci credevano tutti, all’inizio, ne erano convinti…di poter sopravvivere. Era vergognosamente ripugnante, quella malsana natura umana che li spingeva a credere ci fosse salvezza. Com’erano fragili, quelle figure rattrappite, sospese tra la vita e la morte, schifosamente supplici di uno stato di grazia. Theodore le trovava vagamente buffe e infinitamente inutili.
 
-Ragazzo, metti giù la bacchetta…non devi farlo.
Avevano quelle vocette stridule, da bambini capricciosi, da animaletti terrorizzati, che Theodore trovava così nauseanti. Erano carne in putrefazione ma non si arrendevano all’evidenza.
-Sto solo ricambiando il favore. Non vorrai che mi privi di un tale onore.
Qualcosa palpitava sempre nelle pupille di quegli animali insulsi, a quel punto. Ma quell’Auror era diverso, probabilmente era stato addestrato per esserlo, per non mostrare paura, incertezze. Eppure, alla fine sarebbe morto, come tutti gli altri, più degli altri.
-Non ti ricordi di me, vero? No, non potresti. Non mi hai mai conosciuto, in effetti- disse Theodore, con fare accondiscendente e con una voce buia.
-Ragazzo, non sei costretto a farlo. So che stai solo eseguendo degli ordini, ma ci sono altre possibilità…
Sebbene si sforzasse, la voce dell’Auror era soffocata, atterrita, aveva forse già cominciato a smettere di sperare, solo un po’.
-Guardami bene in faccia. Non ricordi proprio, eh?
L’uomo lo scrutò attentamente, e Theodore riuscì a distinguere chiaramente il momento in cui venne riconosciuto: le pupille si dilatarono, e l’uomo aprì la bocca, emettendo un suono strozzato.
-Nott, sì. Non mi sorprende tu te ne sia ricordato solo adesso. Dimmi, ricordi anche il viso di mia madre? Io non l’ho mai visto, dicono le assomigli…tu che ne pensi?
Theodore affondò ancora un po’ la bacchetta nella giugulare dell’Auror, che adesso tremava, cercando invano di contenere il proprio terrore, nel contorcersi delle proprie budella. Gli occhi avevano abbandonato qualsiasi probabilità di sopravvivenza, e si stavano velocemente annacquando, rendendo lo spettacolo ancora più patetico sotto il feroce sguardo del ragazzo.
-Non farlo, ragazzo…vendicarti non ti ridarà tua madre. Non farlo, ti prego, io posso…
Theodore non seppe mai come finisse quella stupida preghiera, stroncata da un lampo di luce verde. Soddisfatto però, sentiva ancora le dolci parole supplichevoli:
Non farlo.

 
Invece, lo fece.
 
 

 
Troppi ne aveva visti, di morti, al punto di farne parte mentre era ancora vivo.
La guerra gli aveva insegnato a uccidere e gli aveva concesso di farlo
senza accusa e senza colpa per il semplice fatto di indossare una divisa.
G. Faletti
 

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Capitolo 3
*** Symphony Part III: Redemption ***


Exogenesis
Symphony Part III: Redemption
 
“Let's start over again
Why can't we start it over again
Just let us start it over again
And we'll be good
This time we'll get it, get it right
It's our last chance to forgive ourselves”
 
Muse, Exogenesis – Symphony Part III: Redemption
 
Quando entrò in quella stanza, vide Draco seduto sul bordo del letto, con la testa fra le mani, il viso nascosto, e le spalle che sussultavano in convulsi spasmi, scanditi da sommessi singhiozzi. Lo raggiunse, sedendoglisi accanto, in silenzio. L’altro non lo guardò, ancora tremante mentre si lasciava trasportare da quel pianto disperato, e silenzioso insieme, come fosse una ninnananna.
Theodore gli passò un braccio intorno alla vita, tirandoselo addosso, e Draco nascose il viso sul suo petto, bagnando con calde lacrime la sua camicia, senza accorgersi del sangue che, ormai secco, la macchiava.
-Sshhh…va tutto bene. Va tutto bene. Sono qui.
Al suono della sua voce, Draco proruppe in un pianto senza più costrizioni, aggrappandosi alle sue spalle, lasciandosi frustrare dai singhiozzi del senso di colpa. Poi Theodore gli prese il viso tra le mani, lo baciò docilmente.
-È tutto sbagliato…è tutto così orribile. E fa così male…
-Shhhh, ora passa, vedrai.
Lo spogliò lentamente, leccando via le lacrime da quel viso distrutto da un dolore invisibile. E lo amò come lo amava sempre, lavando via l’orrore, bruciando e marchiando tutto, per pulire le ferite inferte, per debellare quell’infezione, curandolo senza riguardi e senza dolcezze, proprio come quando si amputa via un arto in cancrena.
Prima di addormentarsi, contro il suo torace, Draco sussurrò:
-Vorrei che tutto questo non fosse mai accaduto. Vorrei poter perdonarmi, e perdonarti. E smettere di vedere quel neonato qui davanti ai miei occhi, smettere di vivere così…Vorrei potessimo andarcene, scappare lontano da questa guerra che…Non finirà mai.
Theodore gli accarezzò i capelli, prima di ribattere, più burbero di quanto volesse:
-Vedrai che finirà. Adesso mettiti a dormire.
Poi voltò la testa di lato, soffiando sulla candela abbandonata sul comodino, e guardando verso una finestra, scorse dei flebili fiocchi inseguirsi oltre i vetri.
 
Per lui era già finita, quella sua guerra. Aveva vendicato sua madre, il resto non aveva importanza. Avrebbe continuato ad eseguire gli ordini, perché è quello che tutti si aspettavano da lui, e avrebbe continuato a sostenere gli sguardi accusatori di Blaise, le lacrime di Draco e le labbra tremanti di Pansy. Avrebbe continuato a lavare via il sangue degli altri dalle proprie vesti, e avrebbe continuato a macchiarle con le torture. Doveva andare così.
 
Quella notte sognò un pianoforte, e una donna dai lunghi capelli scuri, seduta alla tastiera, che gli dava le spalle.
-Mamma…
Si sporse per toccarla, per costringerla a voltarsi, e guardarla in viso. Sussurrò qualcosa persino, non ricordava cosa. Raccontò in un instante infinito di tutte le fotografie bruciate, dei dipinti lacerati, dalla lapide spoglia, e di quel padre muto e cieco. Poggiata la mano su quella spalla esile, le disse orgoglioso di averla finalmente vendicata, le disse che voleva abbracciarla, che le era mancata, e che aveva bisogno di guardarla negli occhi.
La implorò di voltarsi con la voce del bambino che non era mai stato.
 
Ma lei non lo fece.
 


Ignoscas aliis multa, sed nihil tibi.
Publilio Siro
 
 



Note conclusive:
 
Auguri Wing, so che sono pessimo e che molto probabilmente non ho azzeccato la data, ma visto che la “sorpresa” è ormai sfumata…beh, questa è per te.
 
Sono solo tre spezzoni, il primo si colloca durante l’infanzia di Theo, al suo primo contatto con questo famigerato pianoforte, che la mia mente contorta gli ha affibbiato.  Il secondo ha a che fare con un Theo più adulto, adolescente, durante la guerra. Il terzo, invece è una specie di “14 dicembre” a rovescio, sotto il suo punto di vista, anziché quello di Draco.
 
Mi permetto di consigliare le tre canzoni abbondantemente citate, e di far notare che ciascuno dei tre spezzoni si lega indissolubilmente ad ogni sinfonia. Piccola nota sull’ultimo pezzo: è Chopin. Di nuovo, e chi legge “Les Choix” non dovrebbe sorprendersene.
 
Ancora auguri piccoletta, spero tu possa apprezzare questo disastro di persona che sono e che il regalo possa farmi perdonare! 

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