Invaded

di difficileignorarti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** First. ***
Capitolo 3: *** Second. ***
Capitolo 4: *** Third. ***
Capitolo 5: *** Fourth. ***
Capitolo 6: *** Fifth. ***
Capitolo 7: *** Sixth. ***
Capitolo 8: *** Seventh. ***
Capitolo 9: *** Eighth. ***
Capitolo 10: *** Ninth. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ps: prima di leggere questa storia, vi invito a leggere "Gli stessi di sempre" altrimenti non capirete nulla di questa fanfiction.

******
 



Invaded


 
Dead all the pain that we shared
Dead all the glory we had
It’s over
It’s over
But I’ll always be
Lost in today and the past
Lost in the future we had
It’s over
It’s over
But I’ll always be invaded by you
 
 
 


 
 
 
Prologo.
 
 
Si rigirava tra le mani quei due anelli, senza sapere cosa pensare.

Era tornato a casa e li aveva trovati abbandonati, sul tavolino d’ingresso e di Emmeline non c’era più traccia: sembrava sparita nel nulla, proprio come aveva fatto lui l’anno precedente.

Non c’erano più i suoi vestiti e nemmeno quelli della bambina: aveva portato via tutto e se n’era andata e davvero non sapeva cosa pensare e fare.

Era il periodo di Natale, il periodo più bello dell’anno, Emmeline ne andava pazza, era come una bambina e le piaceva passarlo con lui, ma ora si ritrovava da solo in quella che era la loro casa, in California, a Los Angeles.

Erano passati quasi due mesi dalla scomparsa della loro piccola Arabella: la polizia aveva scoperto ben poco, sembrava davvero sparita dalla faccia della Terra, senza lasciare la minima traccia.

 
Stringeva una Emmeline sconsolata e piangente tra le braccia: non l’aveva mai vista così e anche Tom voleva piangere, ma non poteva, non voleva farsi vedere debole, doveva essere forte, per la donna che amava, per poter essere la sua ancóra di salvezza, per poter essere il suo bastone.

Si morse il labbro inferiore, trattenendo un singhiozzo, mentre copiose lacrime cominciarono a scendere dai suoi occhi scuri, bagnando le sue guance.

Arabella era nata da nemmeno un giorno, non se l’erano goduta per niente e già non c’era più: non voleva stare con le mani in mano ma, d’altronde, cosa poteva fare? Da dove poteva cominciare a cercare?

C’erano delle telecamere e la polizia ne stava controllando i filmati e in attesa, piangevano, sotto gli sguardi preoccupati dei loro genitori e dei loro amici.

«Abbiamo un riscontro» disse con sicurezza l’agente di polizia che si stava occupando del caso: Emmeline si fece attenta, senza abbandonare le braccia calde, forti e amorevoli del suo uomo. «Voi due sapevate che Liam Spencer è evaso dal carcere?» buttò quella domanda lì, così senza il minimo preavviso.

Il cuore di Tom perse diversi battiti e cominciò a sentire la rabbia montargli dentro.

«Come sarebbe a dire “è evaso dal carcere”?» sbottò il ragazzo, sentendo Emmeline tremare come una foglia tra le sue braccia.

«Ci dispiace, ma il mese scorso è evaso con l’aiuto di qualcuno da fuori e sembra sparito nel nulla» a quelle parole, il moro chiuse gli occhi cercando di calmarsi. «Dai video delle telecamere, si vede bene che è stato lui a rapire vostra figlia» disse, scuotendo la testa.

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.

«E voi dove cazzo eravate quando lui è evaso? Dove cazzo eravate quando ha cercato di uccidermi e ci ha dovuto pensare la mia ragazza a salvarmi la vita? Che cazzo state facendo adesso?» sbottò, inalberandosi come non aveva mai fatto nella sua vita, alzandosi di scatto, scagliandosi contro l’agente di polizia.

Non si era mai sentito così arrabbiato, infuriato, si stava facendo paura da solo.

«Tom!» lo richiamò Emmeline, spaventata a morte: non poteva alzarsi dal letto per via dei punti freschi, quindi doveva richiamarlo dal di li.

Lui si voltò, incrociando il suo sguardo e per la prima, Emmeline, lesse tutta la rabbia che provava: non l’aveva mai visto così.

«Signor Kaulitz, si calmi, faremo di tutto per riportare a casa vostra figlia» rimase fermo il poliziotto, osservando attentamente il ragazzo davanti a sé, senza lasciarsi spaventare dal suo tono arrabbiato.

 
Che motivo aveva avuto per andarsene? Perché non gli aveva detto niente? Perché?

Guardò una delle loro foto insieme appese al muro e sorrise tristemente: perché la donna che amava, che gli aveva dato una figlia, che doveva diventare sua moglie, era sparita così? Perché lo aveva abbandonato? Anche lui soffriva, amava sua figlia e saperla rapita, e chissà nelle mani di chi.

Sospirò e si alzò dal divano, con quei due anelli stretti nel pugno destro e si piazzò davanti a quel quadro: osservò la ragazza, la donna che amava da tanto e scosse la testa, col cuore spezzato.

Fece qualche passo indietro e lanciò con rabbia quei due anelli contro il quadro, distruggendone il vetro e poi crollò a terra, piangendo come un bambino che aveva perso la sua mamma al supermercato: e più o meno era così, aveva perso la donna che amava.

 
******

Uooo, sono tornataa, siete contente? :DD
Non ero del tutto convinta di postare così presto, a dir la verità non ne sono ancora sicura, ma avevo voglia di farvi leggere almeno il prologo di questo sequel. 
Sto iniziando a scrivere il secondo capitolo, quindi credo di non postare una volta alla settimana, almeno non per ora, magari poi lo farò veramente, chissà.
Allora, belle ragazzuole, cosa vi aspettavate da questo sequel? 
Per ora non posso dire molto, però aspetto con molto piacere le vostre opinioni e le vostre recensioni, per sapere cosa ne pensate, ovviamente.

Un bacio e un abbraccio,
difficileignorarti.

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Capitolo 2
*** First. ***


1.








 
San Francisco non era cambiata per niente: stessi vicoli, stesse strade, stesse persone, stessi locali, stessi negozi, eppure era passato quasi un anno, lei si era trasferita, aveva scoperto della gravidanza, aveva riavuto Tom nella sua vita, le aveva chiesto di sposarlo e lei aveva accettato, ed era nata la loro bambina che era stata rapita poco dopo, e secondo la polizia era stato Liam.

Strinse i pugni ai lati dei fianchi, talmente forte da farsi male, infilzandosi la carne con le unghie.

Se ne era andata, proprio come aveva fatto Tom in precedenza, si sentiva una merda, uno schifo vero e proprio, voleva sparire dalla faccia della Terra.

Non gli aveva lasciato un messaggio, nemmeno un post-it, non lo aveva chiamato, non gli aveva parlato, aveva abbandonato la fedina e l’anello di fidanzamento sul tavolino all’entrata: aveva pianto tanto quando aveva preso quella decisione, non voleva lasciarlo davvero, stava facendo il gioco di qualcun altro, voleva solo riportare a casa la sua bambina, la sua Arabella.

Voleva stringerla di nuovo tra le sue braccia e voleva vederla crescere, e sperava con tutto il cuore che Tom, in futuro, la perdonasse per aver preso quella decisione, e sperava di poter coronare il loro sogno: sposarsi e avere finalmente la loro famiglia.

Sarebbe stato un sogno, ma vedeva poche possibilità in quel momento, forse un dieci per cento, praticamente il nulla.

Nessuno sapeva che era li, a San Francisco: nemmeno i suoi genitori, nemmeno Simone, la madre di Tom, nemmeno Georg ed Ellen, nessuno.

Si asciugò una lacrima ribelle che era scesa sulla sua pelle, e riportò le mani in tasca, al caldo e al riparo da quel vento tagliente: osservava le luci della città da un’altura, sentiva il vento tra i capelli e le graffiava la pelle.

Era uno strano posto per darsi appuntamento, lontano da tutti e da tutto, ma da una persona strana e pazza c’era da aspettarsi di tutto.

«Vedo che hai preso la tua decisione» una voce maschile, roca, alle sue spalle la fece spaventare, ma non si voltò, aspettando di sentirlo al suo fianco. «Non pensavo avessi le palle per lasciare quello sfigato, ma mi sono ricreduto» dopo quasi un anno era li, a parlare come prima. «Ciao, Emmeline, è un vero piacere rivederti» sentiva il suo fiato sul collo, disgustoso come sempre.

«Cosa diavolo vuoi, Liam?» sbottò, allontanandosi da lui di qualche passo, senza, però, guardarlo in faccia.

«Innanzitutto, vedi di moderare i toni e i termini con cui mi parli, sono io ad avere il coltello dalla parte del manico, questa volta» le ricordò con il suo solito sarcasmo cattivo. «Sono felice di vederti qui, nella tua vecchia città, la tua adorata San Francisco» le disse poi, avvicinandosi di nuovo a lei. «Quando sono evaso, sono venuto a sapere che avevi accettato di sposare quel disgraziato di Tom, e pensavo che ti fossi bevuta il cervello, ma dico, sei matta?» sbottò, afferrandola per il polso, trattenendola con violenza al suo fianco. «E ci hai fatto un figlio, che di te non ha niente, non ti assomiglia affatto, è uguale a lui» sentiva il fiato del ragazzo sul collo e si ritrovò a chiudere gli occhi, disgustata da lui, dalla sua presenza. «Sai cosa voglio, sai cosa provo, e non potevo permettere di lasciarti fare una cosa del genere, e l’unica cosa che mi è venuta in mente, è stata quella di rapire la tua bambina» sussurrò al suo orecchio, baciandole una guancia: Emmeline cercò di ritrarsi, ma la stretta intorno al suo polso aumentò, tanto da farle male. «Se sei qui, è perché la vuoi rivedere, perché la vuoi riabbracciare, la vuoi vedere crescere, come è giusto che sia, sei sua madre» continuò, senza staccarsi da lei: la mora aveva smesso di respirare, non capiva dove volesse andare a parare. «Tu vuoi la tua bambina, ma farai quello che ti dirò, tutto quello che ti dirò» la minacciò, bloccandola contro di lui, con un coltello alla gola.

Emmeline sgranò gli occhi, stringendo il braccio di Liam, cercando di liberarsi: si sentiva soffocare, le mancava davvero il respiro, senza contare che aveva una lama puntata alla gola.

«Cosa vuoi?» disse  con voce strozzata,  continuando invano a cercare di liberarsi, ma Liam era troppo forte per lei, qualsiasi movimento lei facesse, lui riusciva a prevederlo e a bloccarla, facendole sempre più male: probabilmente si sarebbe ritrovata diversi lividi a ricoprirle la pelle.

«Troppo facile, piccola Em» sbottò lui, annusandole il collo, con avidità. «Questa sera non ti dirò niente, un po’ alla volta, okay, Emmeline?» mormorò lui, lasciandola libera, spingendola sul terreno, facendola cadere.

Si limitò ad annuire, spaventata a morte da quella situazione assurda in cui si era andata a cacciare: cosa voleva Liam? Soldi? Sesso? Una famiglia? Lei stessa?

Lui era un ricercato dannazione, l’avrebbero trovato, l’avrebbero arrestato di nuovo, a avrebbero buttato via la chiave, perché aveva rapito una bambina, e la stava minacciando, in tutti i modi possibili immaginabili.

Forse avrebbe dovuto chiedere aiuto a Gustav, di nuovo, magari l’avrebbe aiutata, avrebbe potuto ridarle la sua Arabella, avrebbe potuto fare qualcosa per lei, ma ancora non sapeva cosa volesse quel pazzo, quindi non sapeva esattamente come muoversi.

Si alzò e si osservò attentamente, gli abiti sporchi di fango, i capelli in disordine e sporchi, e proprio così si sentiva: sporca, proprio perché aveva fatto, o avrebbe fatto, un patto col diavolo, con Liam Spencer e chissà come ne sarebbe uscita.

Voleva Tom, aveva bisogno di lui, in tutti i modi possibili, lo amava e stava facendo un casino dietro l’altro: prima se n’era andata, abbandonandolo, come aveva fatto quando partì per la California, quando aveva bisogno di lei, dopo quello che era successo con Mark e Liam, e aveva ricommesso lo stesso errore, l’aveva abbandonato quando più aveva bisogno di lei, dopo la scomparsa della loro bambina.

Tirò fuori il cellulare dalla tasca e ne osservò lo sfondo, una foto che era stata scattata il giorno della nascita di Arabella, in ospedale, e ritraeva loro tre, la loro famiglia, quella che volevano e che avevano cercato: vedeva l’amore in quella foto, vedeva come Tom la guardava e come stringeva il frutto del loro amore tra le braccia.

Singhiozzò e una lacrima cadde sullo schermo del telefono che, prontamente, fu asciugata dalla mora.


 
Ti amo


Gli mandò quel messaggio senza pensarci, tra le lacrime: non si aspettava una risposta, non la cercava nemmeno, voleva solo farglielo sapere.

Era ridicola: prima lo abbandona e poi gli scrive che lo ama.

Salì in macchina e decise di tornare al motel dove alloggiava fuori città: non voleva farsi vedere in giro, non voleva che qualcuno la riconoscesse e cominciasse a sparlare, non voleva incontrare i suoi genitori, non voleva dare loro spiegazioni inutili e futili.

La sua stanza era piccola, un letto matrimoniale, una televisione antica, un telefono, il bagno piccolo e stretto, una lampada: le ricordava il suo vecchio appartamento, quello che condivideva con Tom.

Già, il pensiero tornava sempre li, sempre alla stessa persona, ma d’altronde come poteva non farlo, Tom era il centro dei suoi pensieri, del suo mondo.

Prese un paio di forbici e si chiuse in bagno: si guardò allo specchio, osservando come quella ragazza che conosceva bene fosse cambiata in quei due mesi di sofferenza; le occhiaie scure e violacee, i capelli arruffati e per i cavoli loro, l’aspetto trasandato, gli occhi stanchi di piangere.

Sorrise tristemente nel vedere i suoi capelli lunghi: giocò con una lunga ciocca, prima di deglutire pesantemente; era un’idea che le frullava nella mente da un paio di giorni e forse era ora di metterla in pratica.

Mezz’ora più tardi, la ragazza che si guardava allo specchio, non aveva più i capelli lunghi, no, quelli giacevano morti sul pavimento: davanti a lei, c’era una ragazza con un taglio a caschetto, una ragazza che sembrava diversa, quasi irriconoscibile.

A Tom piaceva giocare con i suoi capelli lunghi, gli era sempre piaciuto, dalla prima volta che s’incrociarono: glieli accarezzava spesso, si lasciava pettinare da lui, le piaceva quando lui giocava con i suoi capelli, la rilassava non poco.

Ora non ce n’era più motivo ed Emmeline doveva andare avanti: lei lo aveva abbandonato, e chissà se lui l’avrebbe perdonata, forse sì, forse no.

Forse.

Il telefono vibrò nella tasca della sua giacca, spaventandola a morte: era un messaggio, era la risposta che non si sarebbe mai aspettata, una risposta che le aveva fatto capire che, forse, c’era ancora una speranza.


 
Home, come home



******

 
Lo stavate aspettando? Eccolo qui, il primo capitolo ufficiale del sequel u.u
Bè, non ho molto da dire sinceramente, stasera sono a corto di parole, quindi le lascio a voi, alle vostre opinioni, recensioni, pensieri, quello che volete, mi fa sempre molto piacere.

Un bacio e un abbraccio,
difficileignorarti


 

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Capitolo 3
*** Second. ***







Los Angeles non sembrava più la stessa senza la donna che amava: stava pensando di andarsene anche lui, cambiare aria, cambiare città, cambiare addirittura Paese, magari sarebbe potuto andare in India, magari sarebbe stato meglio.

La sua routine era molto diversa da quella che aveva quando Emmeline lo aveva lasciato in ospedale, quasi un anno prima: si alzava, beveva caffè (sempre se gli andava di prepararlo), altrimenti beveva birra, sì anche di prima mattina, fumava, andava al lavoro, si infischiava degli sguardi insistenti, fastidiosi e maliziosi che le clienti del negozio gli lanciavano, mangiava quel che  capitava, fumava, tornava al lavoro, fumava, tornava a casa, usciva, andava per locali, fumava, e non si parla di sigarette qui, tornava a casa in qualche modo e si buttava a letto, ma non dormiva, no, non ci riusciva proprio, perchè gli occhi e il viso di Emmeline erano li, pronti a tormentarlo, a dirgli che quello che stava facendo era più che sbagliato.

Era arrivato a fumare più di un pacchetto di sigarette al giorno, quasi due.

Si appoggiò alla ringhiera della terrazza, evitando che la luce del Sole potesse entrare a contatto con i suoi occhi: non la sopportava, voleva solo il buio, ma non ne poteva più di stare in quella camera da letto.

Era troppo vuota e troppo piena di ricordi.

«Non ti ho sentito tornare ieri sera» la voce di Georg gli arrivò alle orecchie, forte e chiara, facendolo spaventare a morte. «Che cazzo!» si lamentò. «Era praticamente pieno il pacchetto prima!» disse riferendosi alle sigarette, accigliandosi per un momento. «Te le sei fumate tutte?» domandò esterrefatto e lanciò uno sguardo al posacenere accanto al moro, sospirando, poi, pesantemente.

Scosse la testa, incredulo, e forse non era nemmeno l’aggettivo giusto: Tom, il vecchio Tom, non avrebbe mai fumato una decina di sigarette nel giro di poche ore.

«Che ti prende amico? Sono arrivato qui ieri e ti riconosco a malapena» aggiunse, sperando di ricevere almeno un’occhiata da parte del moro  che, però, non arrivò. «E poi si può sapere, dove diavolo è Emmeline?» chiese e al suono di quel nome, Tom scattò, rivelando, così, l’aspetto pietoso e disastroso, spostando rumorosamente la sedia, che strisciò sul pavimento.

Per colpa del movimento brusco e improvviso, il posacenere e la tazza di caffè caddero, frantumandosi in mille pezzetti, un po’ come il cuore di Tom, e sporcando ovunque sul balcone.

Georg sgranò gli occhi alla vista dell’amico: era completamente sfatto, sciupato, diverso, gli occhi rossi e languidi, le pupille dilatate, le occhiaie profonde e violacee; stentava davvero a riconoscerlo.

Chi diavolo era il ragazzo che aveva davanti?

Spostò lo sguardo su tutto il suo corpo, cercando di trovare qualche segnale, positivo o negativo, ma sembrava normale, ma sicuro che si fosse fumato qualcosa nella serata precedente, e chissà a che ora fosse tornato.

«Tom, ma di cosa diavolo ti sei fatto?» mormorò, sconvolto.

Il moro aveva i pugni chiusi lungo i fianchi, le nocche bianche, una brutta, bruttissima cera, gli sembrava di essere tornato indietro negli anni, quando era un cazzone, che andava in giro a fare a botte, prima di incontrare Emmeline, e forse era quello il problema, l’assenza della ragazza.

«Non dire di nuovo il suo nome» mormorò Tom senza nessun sentimento nella voce, facendo preoccupare Georg. «La mia vita non è affar tuo, per cui non fare domande, perché non sono in vena» sbottò, lanciandogli un’occhiataccia.

Georg aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse, senza saper cosa dire, o forse non voleva dire niente, perché non voleva beccarsi un pugno in faccia, Tom era troppo prevedibile: senza Emmeline, Tom era una bomba ad orologeria, pronta a scattare ed esplodere in ogni momento possibile, proprio com’era quando erano al liceo.

«Tom, tu hai bisogno di aiuto, non puoi cadere nel baratro, non di nuovo» sussurrò lui, senza avvicinarsi, non voleva rischiare.

«Ah no?» sbottò il moro, arrabbiandosi ulteriormente. «Emmeline non è qui, se n’è andata, mi ha abbandonato, non mi ha dato spiegazioni!» scattò, urlando in faccia a quel povero Georg che non sapeva come aiutarlo. «Lei è la mia ancóra e senza di lei sono destinato a sprofondare» continuò, asciugandosi rabbiosamente le lacrime che avevano cominciato a scendere. «Mi ha restituito gli anelli, quindi sono solo, di nuovo» crollò sul pavimento, in un pianto disperato, non preoccupandosi di come sarebbe potuto sembrare agli occhi di Georg, si sentiva nudo, ma non gli interessava, quelli erano i suoi sentimenti, la sua rabbia, e doveva, in un modo o nell’altro, esternarli.

Georg s’inginocchiò al suo fianco, stringendolo in un abbraccio amichevole, che Tom ricambiò un po’ goffamente.

Doveva chiamare Emmeline, doveva sapere perché avesse deciso di abbandonarlo in quel modo, di nuovo, proprio quando aveva bisogno di lei, dopo che la loro bambina era stata rapita.


 
***


Quando aveva buttato le lunghe ciocche dei suoi capelli nel cestino, si era pentita amaramente di averli tagliati, si sentiva stupida, perché inizialmente pensava fosse una buona idea, ma in realtà si era rivelata una puttanata di prima classe.

Si osservava allo specchio continuamente, tanto non aveva molto da fare, a parte aspettare che Liam si facesse vivo: voleva rivedere la sua bambina, voleva riabbracciarla, ne aveva bisogno.

Cosa poteva volere da lei? Non li aveva già fatti soffrire abbastanza? Perché doveva continuare con quella tortura?

Sospirò, ripensando al messaggio che Tom le aveva scritto due giorni prima, chiedendole di tornare a casa, da lui: si pentiva di non avergli risposto, ma si sentiva in dovere di non farlo, voleva provare a combattere quella battaglia da sola, ma sapeva bene che non l’avrebbe vinta senza l’aiuto di qualcuno.

Quando il telefono alla sua destra vibrò, cacciò un urlo strozzato per lo spavento, e la saliva le venne a mancare quando lesse il mittente di quella chiamata: Georg.

Lo prese con mano tremante e pigiò sul tastino verde, rompendo una delle promesse che si era fatta: non rispondere a nessuna chiamata.

«Lo so che mi stai ascoltando, Emmeline» la voce arrabbiata, ferita e preoccupata del ragazzo, le arrivò dritta alle orecchie ancor prima di poter dire qualcosa. «Perché te ne sei andata?» le chiese e la mora si morse il labbro inferiore, non rispondendo. «Emmeline, non vuoi parlarmi? Bene, allora vorrà dire che mi ascolterai e vedi di aprire bene le orecchie» la minacciò, e lo sentì imprecare un momento, prima di udire un altro rumore e un suo sospiro. «Tom non vuole che ti cerchi o che ti chiami, non vuole che ti dica che sta male, che sta cadendo in un baratro e non riuscirà ad uscirne questa volta, te lo dico io» il respirò si bloccò, e sentì un macigno enorme all’altezza della bocca dello stomaco. «Ha ripreso a bere e, solo Dio sa di cosa si fa quando sta fuori casa» a quelle parole la ragazza sgranò gli occhi: non poteva credere alle sue orecchie e un piccolo singhiozzo lasciò le sue labbra. «Ho controllato, non ha buchi sulle braccia, ma chi mi dice che non sniffi cocaina? Oppure potrebbe fumarsi semplicemente dell’erba o della marjuana» lo sentì sospirare di nuovo. «Emmeline, torna a casa ti prego, fallo per lui, ha un dannato bisogno di te!» sbottò poi, concludendo quel discorso, aspettando, probabilmente, una sua risposta.

Emmeline lasciò che le lacrime salate cominciassero a segnare il suo viso.

«Non posso, Georg, non posso tornare» mormorò in modo strozzato, chiudendo la telefonata.

Si lasciò andare in un pianto disperato, appoggiandosi al lavandino del bagno, aveva bisogno di sfogarsi e, sicuramente, non pensava di piangere e soffrire per la maggior parte del tempo, non pensava che potesse essere così difficile.

Non poteva davvero credere alle parole di Georg, non poteva credere che Tom si facesse di qualcosa, non poteva davvero credere che la disperazione lo aveva portato a cercare aiuto nell’alcol e, peggio!, addirittura, nella droga: no, non poteva davvero pensare che facesse uso di qualche sostanza stupefacente.

Era colpa sua? Sì, e la sentiva, la colpa, che stava divorando il suo stomaco, ed era orribile.

Le veniva da vomitare e lo fece, non si trattenne, perché avrebbe dovuto.

Si guardò allo specchio un’ultima volta, dopo essersi sciacquata la bocca, e avrebbe preferito morire piuttosto che vedere la sua immagine riflessa in quel pezzo di vetro, perché non era lei, non si riconosceva.

Quando uscì dal bagno, per poco non cacciò un urlo, che anche in Giappone l’avrebbero sentita, ma, forse, pensandoci bene, avrebbe preferito morire d’infarto: Liam era seduto, tranquillo e beato e con un sorrisino idiota sulle labbra, sulla poltrona scadente accanto al letto.

L’espressione del ragazzo mutò radicalmente non appena vide Emmeline e il suo stato pietoso, così si alzò velocemente, avvicinandosi a lei.

«Che ti è successo?» le chiese, prendendole il volto tra le mani, e alla mora le parve quasi preoccupato. «Che hai fatto ai capelli? E perché stai piangendo?» continuò con il suo interrogatorio.

La giovane si liberò velocemente del suo tocco e delle sue mani, lasciandosi cadere sul bordo del letto, sfinita e distrutta.

«È una domanda retorica, Liam?» mormorò piano, senza guardarlo in faccia, fissando un punto indefinito sotto di lei. «Perché piango? Credo che la maggior parte della colpa sia tua, come sempre» continuò, cominciando a giocare con le sue dita. «Mi stai distruggendo, hai preso la mia vita, la mia esistenza e la stai accartocciando, strappandola in mille pezzi» alzò lo sguardo su di lui e lo vide con le sopracciglia aggrottate. «Mi hai sempre detto che mi amavi, che volevi vedermi felice, che avresti fatto di tutto per vedermi così, e allora perché mi stai uccidendo?» soffiò, fissandolo, anche se per colpa delle lacrime che scendevano incontrollate, non vedeva molto.

«Emmeline, io…» si bloccò, passandosi una mano tra i capelli e sedendosi sul pavimento, davanti a lei. «Volevo e voglio che tu sia felice con me, e basta» disse semplicemente, alzando le spalle: ogni traccia di rabbia, odio, cattiveria, sembrava sparita dai suoi occhi. «Lo vedo che soffri, e lo so che sono io la causa» il biondo deglutì, chiudendo gli occhi un momento. «Lo so che vorresti essere a casa tua, a Los Angeles, al caldo, a festeggiare il Natale, con il tuo fidanzato e vostra figlia, lo so, ma sono troppo egoista per permettertelo» la ragazza, riabbassò lo sguardo, non voleva più guardarlo in faccia.

«Sono stanca, Liam, di tutto, di questa situazione» borbottò, asciugandosi le lacrime in malo modo, sotto lo sguardo attento del ragazzo. «Hai cercato di uccidere Tom, di portarmi via l’uomo che amo, sei finito in carcere, ti hanno dato una misera pena, sei evaso e hai rapito mia figlia, a solo un giorno dalla nascita» ricominciò a piangere, ripensando al viso dolce e innocento della sua piccola Arabella e si alzò, cominciando a riprovare quell’odio e quel disprezzo nei confronti di Liam. «Come puoi essere così cattivo? È come se me l’avessi strappata dalle braccia, mi hai portato via la mia fonte di gioia, la mia vita!» urlò, e nel momento in cui lui si alzò di nuovo in piedi, Emmeline cominciò a prenderlo a pugni sul petto, liberandosi però della sua stretta, ogni volta che cercava di stringerla. «Tu devi morirci in quel carcere!» sibilò.

Liam non l’aveva mai vista così: lui conosceva la ragazza dolce e innocente che era, non si era mai accorto di come lei, invece, fosse cambiata negli anni, anche grazie a Tom, e ora vederla distrutta, a pezzi, e per colpa sua, si riusciva a vedere come un mostro, ma non per quello che era veramente: stava cercando di mettersi nei panni della ragazza, e provava a capire come si sentisse la mora, senza la sua bambina e l’uomo che amava.

Era egoista, la voleva per sé, ma sapeva di non poter esaudire quella sua voglia.

«Emmeline, io voglio che tua figlia torni tra le tue braccia, perché è lì che deve stare, ma voglio anche che provi a essere, un minimo, felice, con me, qui a San Francisco» la buttò li, come se fosse facile e come se fosse la stessa cosa che volesse Emmeline.

«Io non voglio stare con te, non sarò mai felice con uno come te, non dopo tutto quello che mi hai fatto» sputò con odio e acidità. «La polizia ti sta cercando e non credo proprio che sia così stupida da non pensarti qui a San Francisco, e spero tanto che ti riportino in cella, e che buttino via la chiave» si avvicinò di qualche passo, osservandolo dal basso. «Voglio che tu marcisca in prigione, che ti torturino e che, magari, ti condannassero alla pena di morte, non mi sentirei in colpa, forse riuscirei a essere di nuovo felice» disse e lo vide deglutire.

«Emmeline, modera le parole» la mise in guardia, tornando ad avere la cattiveria di sempre.

Forse soffriva di bipolarismo, si ritrovò a pensare la mora.

«Altrimenti? Vuoi uccidermi? O magari vuoi uccidere Arabella? O forse vuoi riprovarci con Tom?» lo provocò, sapendo bene di riuscirci e lo vide diventare più spigoloso, la mascella tesa, le vene del collo sporgenti, i pugni chiusi.

«Non farei niente del genere, né a te né a tua figlia» mormorò con durezza. «Mi farò vivo io uno di questi giorni, tu vedi di calmarti» la congedò con quelle parole, prima di uscire da quella stanza di motel.

Voleva sapere com’era riuscito a evadere. Voleva sapere perché la polizia, in due mesi, non era ancora riuscita ad arrestarlo. Voleva sapere chi lo aveva aiutato a portare via la sua bambina indisturbato. E, soprattutto, voleva sapere, da se stessa, perché era scappata via senza parlare di quel fottuto biglietto che aveva ricevuto, confidandogli tutti i pensieri e le opinioni.

Aveva fatto di testa sua, di nuovo, e avrebbe dovuto chiedere aiuto a qualcuno per vincere quella battaglia con Liam e lo avrebbe fatto, ma aveva paura.

Il telefono che aveva in tasca cominciò a vibrare insistentemente, così lo tirò fuori, e il suo cuore perse diversi battiti quando lesse il nome dell’uomo che amava: la stava chiamando davvero?

Smise di vibrare qualche secondo dopo, e altre lacrime cominciarono a rigarle nuovamente il volto: le faceva così male sapere che lui la stava ancora aspettando, sapeva che voleva convincerla a tornare a casa.

Il telefono le vibrò ancora tra le mani, ma quella volta era un messaggio, ma il mittente era sempre lo stesso.

 
Non mi rispondi nemmeno più? Em, sono sempre io, il ragazzo che ami, quello che ti ama e che ha bisogno di te.
 
 
Lo so.

 
Lo sai? Per quale cazzo di motivo te ne sei andata? Ti ricordi che hanno rapito nostra figlia, uhm? Tu sai che ho bisogno di te, sai quanto per me sia stato difficile, esattamente per come lo è per te, insieme possiamo farcela, noi due insieme, come abbiamo sempre fatto. Torna a casa, piccola, per favore.
 

Quel messaggio la fece piangere ancora di più: crollò sul letto, stringendosi al cuscino, cercando di nascondere i singhiozzi, ma con scarsi risultati.

 
È proprio per lei che me ne sono andata, Tom.

 
Che stai dicendo, Em? Sei coinvolta anche tu in questa storia, Emmeline Evans? Sei, per caso, complice di Liam?

 
Non gli rispose: quelle parole le fecero male.

Non aveva mai pensato che Tom potesse arrivare a pensare quelle cose, non poteva credere davvero che fosse complice di Liam, non poteva!

 
Prenderò questo tuo silenzio come un sì, Emmeline. Non volevo pensarlo davvero, ma è una cosa che mi frulla in mente da qualche giorno e, cazzo, Emmeline, non sai quanto vorrei urlarti in faccia in questo momento! In tutti questi anni, c’è stato un momento in cui mi hai amato veramente? O mi hai preso per il culo tutto il tempo? Anzi, non voglio nemmeno sapere la risposta, non voglio sapere più niente di te. È finita. Definitivamente.
 

Lesse quelle parole più volte, incredula: lo credeva veramente.

Decise di non rispondere più, era inutile, Tom non avrebbe mai cambiato idea, almeno non al telefono, sarebbe dovuta tornare a casa, a Los Angeles, con la piccola Arabella.

Tirò il telefono contro il muro e lo vide distruggersi in mille pezzi.



 
*********


Buonasera bella gente! Sono così contenta che sia giovedì per poter condividere con voi un nuovo capitolo!
Ed eccolo qui! Cosa ne pensate? La situazione sta degenerando, non trovate? So di essere cattiva, lo so c.c
Che ne dite di lasciarmi un piccolo commento/recensione/opinione? :D

un bacio e un abbraccio,
difficileignorarti.


 


ps. nel prossimo capitolo tornerà un personaggio a voi molto caro, ne sono sicura ;) (piccolo spoiler)

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Capitolo 4
*** Third. ***









San Francisco gli era mancata.

Tutto di quella città gli era mancato, dai colori ai profumi, ai locali scadenti a quelli lussuosi che non si era mai potuto permettere, e, sì, gli erano mancate persino le persone che ci vivevano, anche se la maggior parte di esse gli stavano sul cazzo.

Quando se n’era andato, era un ragazzino, mentre ora era cresciuto, era diventato un uomo, e quelle cose stupide aveva deciso di lasciarsele alle spalle.

Per quello era tornato a casa, ma non solo: anche per Emmeline.

Gli dispiaceva averla cacciata in quel modo quando era andata a chiedergli aiuto per il suo ragazzo, per incastrare Liam, ma soprattutto, sapeva che aveva bisogno di lui.

Era la sua migliore amica e non poteva permettersi di lasciarla sola: era venuto a sapere dell’evasione di Liam dal telegiornale, e qualche settimana dopo, sempre dal telegiornale, aveva saputo del rapimento della figlia della ragazza.

In quel momento aveva sentito la rabbia invadergli le vene: aveva fatto due più due, e aveva capito che lui c’entrava, come sempre.

Era così ossessionato da Emmeline e dal fatto che non ricambiasse i suoi sentimenti, senza contare l’odio profondo che provava nei confronti di Tom: anche lui lo aveva odiato, ma la mora aveva trovato del buono in lui e l’aveva trasformato, lo sapeva.

Anche lui era stato vittima del suo bullismo nei primi anni del liceo, ma ci era passato sopra, era cresciuto, si era lasciato tutto alle spalle, anche se i ricordi erano dolorosi.

Ma lui era il ragazzo della sua migliore amica, lui la rendeva felice, per quale motivo lui avrebbe dovuto odiarlo? Senza contare che non sarebbe mai voluto somigliare, nemmeno lontanamente a Liam Spencer.

Camminava per le strade dalla città e nessuno sembrava riconoscerlo: un sacco di ragazze gli si avvicinavano, ma lui sorrideva timidamente e proseguiva, lasciandole alle spalle.

Era avvolto in un lungo cappotto nero e una sciarpa di lana grigia gli copriva il collo: in città era caduta un po’ di neve e rendeva l’atmosfera natalizia ancora più bella e adatta, gli piaceva, amava quel periodo dell’anno.

Le luci colorate si riflettevano nella neve e lui si ritrovò a sorridere quando vide due bambini rincorrersi e tirarsi delle palle di neve, ridendo a crepapelle, e gli venne quasi voglia di tornare a essere un marmocchio rompiscatole.

Passò davanti alla pista di pattinaggio, trovandola piena di gente: era indeciso se rimanere lì a guardare qualcuno cadere e ridere di lui o continuare nel suo viaggio dei ricordi.

Scosse la testa e decise di continuare a camminare, ma proprio in quel momento una ragazza gli andò addosso: la prese al volo, prima che finisse per terra, e le raccomandò di stare più attenta, ma senza cattiveria; gli sembrava di averla già vista, ma non l’aveva per niente presente.

Si ritrovò davanti ad un vecchio bar, lo frequentava con Liam quando era uno stupido ragazzino e si meravigliò di trovarlo ancora aperto, non tanto per l’ora, ma perché era poco frequentato.

Ma quello che lo colpì e che lo convinse a fermarsi, era la figura piccola e scura in un vicolo poco illuminato: era seduta sui talloni, per evitare il contatto con la neve, aveva il cappuccio calato in testa, le mani a coprire il volto, probabilmente stava piangendo e singhiozzando, e una bottiglia appoggiata per terra, probabilmente whiskey.

Curioso e preoccupato, attraversò la strada e si avvicinò a lei: la afferrò per un braccio, allontanando con un calcio la bottiglia di vetro, che si ruppe, poi, contro il muro, mentre la ragazza si lamentò, imprecando piano, senza alzare il viso verso di lui.

Ma lui conosceva fin troppo bene quel profumo e si bloccò, lasciandole il braccio: la ragazza azzardò a lanciargli uno sguardo e se ne pentì subito dopo; sgranò gli occhi incredula ed indietreggiò, mentre lui continuava a fissarla scioccato, cosa ci faceva li? Perché era a San Francisco?

Emmeline continuava ad allontanarsi da lui, e poi la vide scappare via, nel buio e nel freddo.

Bill era così confuso e nella sua testa frullavano almeno un miliardo di domande, ma non riusciva a dare risposta a nessuna di essa.

Si era trasferita a Los Angeles con Tom, lo aveva saputo che aveva realizzato il suo sogno, perché, invece, si trovava in quella città che le aveva causato solo sofferenza?

Non solo era tornato a casa per se stesso, ma soprattutto per parlare con Gustav e avere notizie su Emmeline e della sua situazione: voleva aiutarla, e l’avrebbe fatto, nessuno gliel’avrebbe impedito.

Tirò fuori il cellulare dalla tasca e nonostante l’orario, compose un numero e si portò l’apparecchio all’orecchio, senza esitare un secondo.


 
***


Georg l’aveva portato in una palestra non molto lontano da casa: era quasi un anno che viveva lì e non se n’era mai accorto prima.

Aveva bisogno di sfogarsi, di prendere a pugni qualcosa e l’amico sembrava avergli letto nel pensiero e Tom non ci aveva pensato due volte ad annuire, senza, però, spiccicare una parola.

Aveva lasciato Emmeline, e il secondo dopo si era sentito una merda, si era sentito così male, come se qualcuno gli avesse portato via il cuore, e più o meno era così.

Non pensava davvero quello che le aveva detto, non pensava che fosse complice di Liam, era una cosa spregevole da pensare, ma lui l’aveva fatto e, peggio!, gliel’aveva detto! Ma la rabbia e la voglia di riaverla lì con lui, l’avevano accecato, e quando lei non gli rispose più aveva capito che forse era troppo tardi, che aveva esagerato e, che, probabilmente, Emmeline aveva pensato che fosse vero, che lui lo pensasse veramente.

Forse stava piangendo e soffrendo anche lei, forse era arrabbiata anche lei, con il mondo, esattamente come lui.

Non aveva molta voglia di indossare i guantoni, quindi si limitò a bendarsi le mani.

«I guantoni, Tom» gli ricordò Georg, ma il moro rispose con una scrollata di spalle, liberandosi della canotta, lanciandola in un angolo della stanza.
Non era di molte parole, ma sapeva fin troppo bene che con Georg si sarebbe aperto.

Il ramato gli lanciò un’altra occhiata che il moro considerò come un avvertimento, così decise di indossare anche i guantoni, prima di lanciarsi contro quel povero sacco.

Un colpo, uno dietro l’altro, senza troppo sforzo: si concentrava solo sulle cose negative che la sua vita stava affrontando, tutti i problemi e i pensieri che gli affollavano la mente, sembravano aver preso vita con quel sacco da boxe, che incassava i colpi senza lamentele.

Georg sembrava molto contento dell’amico: d’altronde lui lavorava in una palestra simile a quello e insegnava come prendere a pugni un sacco, ma Tom non aveva bisogno di nessun insegnamento.

Probabilmente il sacco aveva preso le sembianze di Liam Spencer, poiché i colpi aumentarono e diventarono molto più pesanti e forti.

Si appoggiò a quel sacco una mezz’ora più tardi, completamente sudato e sentendosi un po’ più leggero, ma l’assenza di Emmeline era sempre lì e stava pensando di dover far qualcosa, trovarla e implorarla di perdonarlo: Dio, certe volte era proprio una testa di cazzo che non ragionava.

«Ora che ti sei sfogato, mi dici che ti sta succedendo?» domandò Georg, passandogli una bottiglia d’acqua e un asciugamano che il moro accettò più che volentieri.

Si lasciò scivolare vicino al muro, aspettando che Georg si sedesse di fronte a lui.

Rovesciò metà contenuto di quella bottiglietta d’acqua sulla sua testa e si ritrovò a pensare che Emmeline l’avrebbe ucciso se l’avesse visto: scosse la testa e sorrise tristemente.

Si portò l’asciugamano intorno al collo e bevve, prima di iniziare a parlare: Georg stava attendendo paziente, studiando ogni sua singola mossa.

«Ho lasciato Emmeline» la buttò lì, come se fosse una notizia da poco.

Il ramato sbatté più volte le palpebre, cercando di capire se fosse vero o una stronzata, ma visto che non continuò, parlò lui.

«No, scusa, non è stata lei ad andarsene?» chiese confuso.

Tom soffocò una risata e Georg si sentì sempre più confuso: un paio di giorni prima era disperato e sull’orlo di un baratro, probabilmente fatto, perché se n’era andata e ora rideva?

«Sì, è vero, ma ieri sera l’ho lasciata io» si grattò la testa imbarazzato. «Ho fatto una stronzata, le ho detto cose impensabili, come che non mi hai mai amato davvero e che è complice di Liam per la sparizione di nostra figlia e della sua scomparsa, e che avevo chiuso con lei, in modo definitivo» buttò fuori tutto velocemente e al ramato gli ci volle qualche minuto per mettere a fuoco ciò che gli aveva detto.

«Ma ti sei bevuto il cervello?» domandò poi, alzando la voce di qualche ottava, attirando l’attenzione di un gruppo di ragazzi presenti.

«Non ero molto lucido a dir la verità» ammise sospirando, appoggiando la testa contro il muro e chiudendo gli occhi. «Io credo che non se ne sia andata spontaneamente, non l’ha fatto di sua volontà, no, me l’avrebbe detto altrimenti» cominciò a parlare, probabilmente più a se stesso che con Georg. «Io lo so che mi ama, me l’ha scritto, e quando le ho telefonato e non mi ha risposto, ho capito che l’ha fatto solo per non sentire la mia voce, per non soffrire ulteriormente, perché lo so che sta male» continuò piano, cercando di trattenere le lacrime. «Quando ero in quel bar, l’altra sera, ho rivissuto momenti che vivevo negli anni prima di conoscere Emmeline» ricordò poi. «Bere alcolici di tutti i tipi, fumare canne e sentirmi leggero e idiota, e prendere a pugni la gente» Georg si immobilizzò. «Ho visto un tizio che somigliava vagamente a Liam, l’ho preso a pugni, Georg, ma ero fatto e ubriaco, e come se non mi bastasse, ho distrutto una decina di bicchieri e un paio di bottiglie di qualche alcolico super costoso» aggiunse e sorrise. «Non mi sono sentito bene, per niente, quello che ho fatto è sbagliato, e so quanto ho bisogno di Emmeline, è la mia ancóra, il mio ossigeno, il mio tutto, e so che quel mostro di Spencer sta facendo del male alla mia famiglia, ne aveva già fatto in passato, ma il suo unico scopo è colpire me» riaprì gli occhi e guardò Georg, che si spaventò, vedendo quanta serietà e quanta rabbia erano presenti nello sguardo del moro. «Emmeline ha bisogno di me, Georg, mia figlia ha bisogno di me, io ho bisogno di loro, devo trovarle e riportarle a casa» sbottò, alzandosi in piedi.
Georg lo osservò attentamente, stentando a riconoscerlo: qualcosa dentro di lui era scattato, lui sapeva bene che sarebbe successo, Tom non è uno che si rammollisce e se ne sta con le mani in mano.

«Che c’è?» chiese poi il moro, scrutando il ramato. «Sei con me o no?» domandò poi, spazientito.

«Ieri sembravi uno zombie che camminava, che piangeva e si disperava, eri fatto come non so cosa, e oggi, guardati, sei pronto ad uccidere chiunque ti sbarri la strada» disse preoccupato, ma poi sorrise, balzando in piedi. «La risposta è più che ovvia» anche il moro sorrise, complice. «Riportiamo a casa le tue donne» s’incamminarono verso gli spogliatoi, sicuri di loro stessi, anche se ancora non sapevano cosa fare, ma già era un buon inizio il fatto di voler fare qualcosa. «Oh, non è che mi faresti un favore?» mormorò imbarazzato e Tom si voltò curioso. «Non è che mi faresti da testimone di nozze?»


 
***


Se ne stava a sedere sui gradini di quella villetta, in attesa: aveva suonato il campanello più volte ma nessuno gli aveva aperto, nessuno gli aveva risposto.

Era strano vedere scritto sul campanello Emmeline Evans, Thomas Kaulitz, quando quella ragazza non lo aveva mai sopportato; e non solo, ci aveva pure fatto una figlia.

Scoppiò a ridere da solo, pregando che nessuno lo sentisse, che nessuno lo vedesse.

Non era mai stato a Los Angeles, non poteva vagamente permettersi un paio di giorni nella Città degli Angeli, e sperava di andarci in circostanze diverse, ma per il momento si accontentava di respirare la stessa aria dei divi di Hollywood.

Non appena vide due figure alte avvicinarsi, balzò in piedi, aspettando con ansia e impazienza.

Riconobbe solo Tom, anche se era molto diverso, proprio come gli aveva detto Emmeline lo scorso anno: non c’erano più i dreadlocks, non c’erano i più i vestiti eccessivamente larghi, non c’era più quel ragazzo che faceva il duro, lo spaccone, il Dio della scuola, davanti a lui c’era un ragazzo adulto, con delle responsabilità e che, in quel momento, si trovava a scrutarlo incuriosito.

«Posso aiutarla?» chiese cortesemente, e Bill alzò entrambe le sopracciglia: non l’aveva riconosciuto veramente. «È casa mia questa» indicò l’abitazione con un dito, con fare ovvio, e il biondo si morse il labbro inferiore per non ridere.

«Non avrei mai pensato di rivederti, sinceramente, ti ricordavo più stronzo e scorbutico e maleducato» sorrise, infilandosi le mani in tasca, lasciandolo un ottimo sconvolto.

Georg spostò lo sguardo sulle due figure alte che si scrutavano: era convinto di aver già visto quel ragazzo, quegli occhi, ma non si ricordava dove.

«Ci conosciamo, tu ed io?» chiese a quel punto Tom, avvicinandosi di qualche passo, osservandolo attentamente. «Bill» mormorò poi, sgranando gli occhi, incredulo. «Se sei qui per vendicarti di tutto quello che ti ho fatto, ti prego, non è il momento, sto passando un brutto periodo» Bill quella volta rise, forte, una risata liberatoria.

Tom rimase scioccato, a dir poco, davanti alla sua reazione.

«Accidenti! Ma per chi mi hai preso, amico?» ridacchiò. «Non sono quel genere di persona, Kaulitz, sono qui per Emmeline» mormorò poi, abbassando la voce.

Il moro abbassò lo sguardo sulle sue scarpe, stringendosi di più nel suo giubbotto: a quel nome il freddo gli arrivò alle ossa e diversi brividi gli ricoprirono la pelle.

«Mi dispiace, ma non è qui, Bill» scrollò poi le spalle, rispondendogli con voce senza sentimenti, alzando lo sguardo, per guardarlo dritto negli occhi.

Non poteva credere che quel ragazzino mingherlino che era una delle sue vittime, ora fosse davanti a lui, cresciuto, completamente diverso, uomo.

Era sparito nel nulla anni prima, non lo aveva più visto, ed era rimasto un po’ stranito, non pensava di sicuro di rivederlo, anche se sapeva che era importante per Em, anche se lo aveva scoperto solo molto tempo dopo: sapeva che lo aveva aiutato con la storia di Liam l’anno precedente, forse avrebbe dovuto ringraziarlo, e magari scusarsi per tutto quello che gli aveva fatto passare, forse poteva essere poco e niente, forse poteva essere un inizio.

«Lo so, Tom» mormorò lui, dopo tanto, facendogli sgranare gli occhi. Come faceva a saperlo? «Mi ci sono imbattuto ieri sera» rispose alla sua domanda inespressa, come se potesse leggergli nella mente.

Cosa diavolo significava?

«Dove?» quella domanda uscì dalle labbra di Tom, ma sembrava più un suono strozzato.

Georg che era di fianco a lui, gli posò una mano sulla spalla, come a volergli dare forza.

Era convinto di una cosa: Bill era lì per dare loro una mano, e di sicuro non l’avrebbero rifiutata, non da una persona che conosceva Liam come le sue tasche.

«Possiamo entrare?» chiese Bill di rimando, ma non era per il freddo. «C’è troppo silenzio qui» continuò: era rimasto sempre lo stesso, aveva sempre paura che qualche uomo di Liam fosse in giro a spiarlo, a tenerlo d’occhio.

E probabilmente era davvero così.


 
***


Casa Kaulitz-Evans era molto bella e accogliente: Bill ne riconobbe il gusto e la raffinatezza di Emmeline e in modo spontaneo gli scappò un sorriso.
Georg non gli aveva ancora rivolto la parola, per questo ogni tanto gli lanciava degli sguardi, notando intento a fissarlo, seduto sul divano, attendendo pazientemente l’arrivo di Tom.

«Non fissarmi in quel modo, m’irriti» sbuffò Bill, sedendosi di fronte a lui, accavallando elegantemente le gambe: il ramato arrossì lievemente, colto sul fatto.

Tom scese lentamente le scale, come se al piano di sotto lo attendesse il patibolo o una condanna a morte completamente diversa.

Si stravaccò sul divano come suo solito, al fianco di Georg, così da poter guardare Bill tranquillamente in faccia.

«Bella casa» mormorò quest’ultimo, rivolgendogli un sorriso.

«Grazie» rispose semplicemente il moro, cercando di ricambiare il sorriso: in quel momento si sentiva strano, preoccupato, quando poche ore prima era pieno di vita e con la voglia di spaccare tutto. «Ma è così vuota e silenziosa senza Em» aggiunse, torturandosi le mani.

«Lo immagino, sì» rispose prontamente Bill. «Sta bene, Tom, non preoccuparti» continuò, ma si morse la lingua, perché non era propriamente vero. «Oddio, fisicamente parlando sta bene, ma penso sia distrutta, si vedeva che aveva pianto molto, e lo stava facendo anche in quel momento» gli comunicò e il cuore di Tom si strinse e per non piangere si costrinse ad abbassare lo sguardo.

«Aspetta, non ci hai ancora detto dove l’hai vista» lo fermò Georg, parlando con lui per la prima volta.

Bill alzò entrambe le sopracciglia, osservandolo.

«San Francisco» disse e Tom riportò l’attenzione sul biondo: cosa diavolo ci faceva lì? «Si è tagliata i capelli, era triste e non appena l’ho afferrata per un braccio, bè è scappata via» li informò, sospirando sconfitto. «Così ho buttato giù dal letto Gustav e mi sono fatto dare il vostro indirizzo» mormorò.

«Tu perché eri lì? So che te n’eri andato anni fa» chiese e constatò di nuovo Georg, cercando di avere altre notizie e informazioni.

Bill non era molto contento di quella domanda, non gli piaceva che gli altri si facessero troppo gli affari suoi, ma decise di essere educato e di rispondergli.

«Ci ho messo due mesi a decidermi a intervenire» confessò. «Quando ho saputo dell’evasione di Liam sono andato fuori di testa e ho distrutto il televisore quando al telegiornale hanno detto che avevano rapito vostra figlia e che lui era sospettato, il principale» grugnì infastidito e arrabbiato. «Voglio distruggere Liam Spencer, voglio rovinarlo, mandarlo al fresco per una volta per tutte e mi sono deciso a voler aiutare Emmeline, ma prima di venire qui, volevo passare qualche giorno nella mia vecchia città, da sconosciuto» raccontò e Tom lo osservò seriamente. «Io voglio aiutarti a riportare a casa Emmeline e vostra figlia» disse sicuro di sé e a Tom venne voglia di abbracciarlo. «Com’è che l’avete chiamata?» chiese dolcemente, cercando di alleggerire la tensione.

«Arabella» rispose dolcemente, sorridendo, ricordando il visino dolce e innocente della sua bambina: non vedeva l’ora di rivederla e stringerla tra le sue braccia e proteggerla da tutto e da tutti.

«Come la canzone degli Arctic Monkeys» constatò e poi ridacchiò. «È un gran bel nome» sorrise.

«Emmeline era in fissa con quella canzone, credo sia per quello che l’abbia chiamata così, io mi sono adattato» ricordò con un sorriso il moro, scuotendo la testa divertito. «Senti, quali sono le tue idee, supposizioni?» chiese, tornando al discorso di prima: lui doveva andare a prendere la sua donna e doveva farlo subito!

«Io credo che Liam non voglia fare niente a nessuna delle due, lui vuole arrivare a te, sei tu il suo obiettivo, Tom, vuole colpire te, e usa il tuo punto debole» mormorò con convinzione il biondo.

Il moro deglutì: perché non c’era arrivato prima?

«Torneremo a San Francisco nella mattinata, alloggeremo in un motel e studieremo un piano, troviamo Emmeline e troviamo Arabella, e facciamo il culo a quell’essere spietato» scrollò le spalle Bill, buttando il suo piano sul tavolino, mentre i due ragazzi di fronte a lui lo guardavano come se fosse impazzito.

«Mi sembra troppo semplice!» borbottò Georg, non trovandosi d’accordo. «Non sappiamo dove sia Emmeline, tantomeno dove Liam tiene nascosta Arabella» aggiunse gesticolando. «Nemmeno se ha degli uomini a disposizione, no è troppo semplice Bill» scosse la testa e Tom si voltò a guardarlo.

«Nessuno qui ha detto che sarà semplice, Georg» sbottò il moro, con una strana rabbia in corpo. «Io ci sto» disse semplicemente, tornando a guardare il biondo negli occhi.

Al suo fianco, sentì Georg sospirare pesantemente.

«Niente cose troppo violente, niente armi, niente coinvolgimenti strani, ho una fidanzata da dover proteggere e a cui pensare» mormorò imbarazzato e Tom si lasciò andare in una risata fragorosa dopo giorni.

«Figurati, la mia famiglia è nelle sue mani, direi che sono io a trovarmi nella merda» alzò un sopracciglio, scuotendo la testa.


 
***


Non aveva ancora preparato un borsone, non ne aveva avuta molta voglia, quindi avrebbe preso qualcosa a casaccio prima di partire.

Era sceso a prendere un bicchiere d’acqua e aveva trovato Bill aggrovigliato in una coperta, profondamente addormentato sul divano, di fronte al camino: aveva sorriso nel guardarlo, e aveva pensato che non gli aveva ancora chiesto scusa e detto grazie, e si sentiva un codardo assurdo.

Era tornato nella sua stanza e si era gettato nuovamente al caldo, sotto le coperte: si era voltato verso la parte di letto di Emmeline, e i suoi occhi avevano cominciato ad annebbiarsi.

Le mancava così tanto e quello che le aveva detto era così mostruoso e impensabile, ma no, lui gliele aveva dette lo stesso.

Il suo cellulare cominciò a vibrare, così allungò un braccio e lo afferrò, rispondendo, senza guardare chi fosse il mittente: chi poteva chiamarlo alle tre del mattino?

«Pronto?» mormorò mezzo assonnato, portandosi una mano sugli occhi, cercando di cancellare le lacrime. «Chi è?» mormorò ancora, non ricevendo risposta, cominciando a preoccuparsi. «Em, sei tu?» chiese, piano e speranzoso.

Una risata, maligna, lo fece rabbrividire, nonostante il calore della coperta.

«Ti piacerebbe, Tom» sgranò gli occhi a quella voce e per poco non si strozzò con la sua stessa saliva.

«Liam» mormorò piano. «Dove cazzo è mia figlia?» ringhiò alzandosi col busto, stringendo la coperta tra le mani. «Ti troverò Liam e ti ucciderò con le mie stesse mani, puoi starne certo» sbottò e lo sentì ridere di nuovo.

«Quella notte avresti dovuto rispondere tu al telefono, non Emmeline, dovevi esserci tu qui a San Francisco, non lei» gli rispose, cambiando discorso, totalmente. «Io ho un conto in sospeso con te, Emmeline doveva rimanerne fuori, sei tu che devi venire a riprendere tua figlia» continuò, lasciandolo perplesso. «Ma ha risposto lei a quella fottuta telefonata, al tuo fottutissimo telefono, e ora lei è qui e io non so come cazzo comportarmi!» ringhiò e Tom sospirò, abbandonando la testa contro il muro, chiudendo gli occhi.

Era colpa sua, cazzo, era solo colpa sua, se la sua donna era in quel grosso problema.

«Sarò a San Francisco, Liam, potremo affrontare le cose, e lascerai Em, fuori da questa storia» disse.

«Lei c’è dentro in pieno, Tom, è tardi» chiarì e il moro sentì una fitta al ventre: non l’avrebbe lasciata andare, non l’avrebbe fatto. «Finirò il lavoro che ho iniziato lo scorso anno, voglio ucciderti Kaulitz, e lo farò» chiuse la telefonata senza permettergli di rispondere.

Si alzò in fretta del letto e raggiunse l’armadio, tirandone fuori un borsone e ci buttò dentro qualcosa: avrebbe svegliato quei due dormiglioni e avrebbe guidato fino a San Francisco, voleva andarci subito.

Si bloccò quando trovò una vecchia scatola di legno: non ricordava di averla portata con sé a Los Angeles, non ricordava nemmeno di averla ancora.
Aveva una pistola sì, ma non l’aveva mai usata, ma forse adesso aveva l’opportunità di usarla: Liam l’avrebbe pagata.


 
***


Avevano affittato due stanze in un motel squallido nella periferia della città, mentre Georg era tornato a casa, dove Ellen lo stava aspettando.

Se ne stava al buio a pensare, ad aspettare magari una telefonata di Liam: ripensò al tempo che avevano passato in macchina.

Lui e Bill erano gli unici rimasti svegli a parlare, mentre Georg dormiva profondamente nei sedili posteriori: di tanto in tanto ridacchiavano, sentendo il ramato russare senza contegno.

Si era scusato con lui per tutto quello che gli aveva fatto passare negli anni della scuola e lo aveva ringraziato per quello che stava facendo e che avrebbe fatto. Lo aveva ringraziato anche per quello che aveva fatto nell’anno precedente, permettendo a Gustav di salvargli la vita. Lo aveva ringraziato per essere amico di Emmeline. E Bill si era limitato a sorridergli e a stringerli una spalla.

Alzò lo sguardo nel momento in cui vide una figura piccola passare davanti alla sua stanza e la mandibola quasi toccò il pavimento quando capì: quella figura era Emmeline, ne riconobbe il suo profilo.

Si precipitò alla porta, quasi inciampando nei suoi stessi piedi e nel tappeto davanti alla porta, ma non appena fu fuori, vide solo la sua figura di spalle allontanarsi: era lei, ne era convinto al cento per cento e in quel momento capì che alloggiavano nello stesso motel.

Sospirò, osservandola finché ne ebbe la capacità, non voleva seguirla e nemmeno spaventarla, già che la loro relazione era sul ciglio di un burrone, non voleva buttarla direttamente di sotto.

«Ciao, Tom» sobbalzò sul posto: quella voce non era di Liam e nemmeno di Emmeline, accidenti.

Quando decise a voltarsi, ricevette una forte botta in testa, che lo fece crollare sul pavimento.

Poi, il buio più totale.




 
*******
 
 
Okay ho un enorme ritardo e mi dispiace, spero di riuscire a farmi perdonare con questo capitolo piuttosto lungo.
Come avete notato c'è il ritorno di Bill, e in questo capitolo sono tutti nella stessa città. Emmeline è praticamente assente qui, ma tornerà nel prossimo, assieme a tante cose che, probabilmente, vi starete chiedendo: ad esempio, CHI ha colpito Tom, e COME Liam sia evaso. Le due cose sono più o meno collegate anche al rapimento della bambina. 
Okay, ho detto troppo.
Premetto che non credo di riuscire più a postare settimanalmente e in orario, purtroppo ho delle cose da fare, un lavoro da cercare e colloqui da fare, e tanta roba che mi frulla per la testa, quindi meno tempo per  scrivere e per dedicarmi totalmente alla storia.
Spero possiate capirmi e spero non abbandoniate la storia.
Okay, come sempre aspetto le vostre recensioni!

Un bacio e un abbraccio,
difficileignorarti

 



Ps (1): vi piace questo sequel? ve lo immaginavate diverso? credo che non avrà per niente il "successo" che ha avuto "Gli stessi di sempre".
Ps (2): a proposito, per chi sta leggendo per la prima volta, e non l'ha ancora fatto, vi invito a leggere "
Gli stessi di sempre", altrimenti non capirete un'acca di questa storia.

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Capitolo 5
*** Fourth. ***







Si risvegliò quando qualcuno gli buttò dell’acqua addosso.

Tom si sentiva stralunato, e non appena i suoi occhi riuscirono a mettere a fuoco il tutto, si ricordò che dopo aver visto la donna che amava, qualcuno gli diede una botta in testa.

Si rese conto di essere legato mani e piedi a una sedia e di non avere una maglia addosso: era una stanza buia, a parte una luce esageratamente forte sopra la sua testa, ma ce n’era un’altra, dall’altra parte della stanza, meno potente e che inquadrava bene ciò che c’era sul muro.

Sgranò gli occhi quando riconobbe la sua ragazza, o forse ex: c’erano centinaia di foto appese, non era lei da sola, c’era anche lui, c’era Ellen, i suoi genitori; erano tutte foto in bianco e nero, da angolazioni diverse, era più che chiaro che la facesse pedinare, quindi i suoi uomini erano ancora in giro.

Certi primi piani e sorrisi gli fecero bloccare il battito cardiaco: era così dannatamente bella, troppo per lui e si chiese, di nuovo, cosa avesse fatto per meritarsi quella ragazza e la loro bambina; lui era quello che era, un ragazzo di strada, pieno di difetti, che prendeva a pugni la gente, mentre lei era lei, perfetta nella sua semplicità.

«La consumerai a forza di guardarla» portò lo sguardo su Liam, esattamente davanti a lui. «Ma forse dovrei lasciartelo fare, perché sarà, probabilmente, l’ultima volta che la vedrai» disse minacciosamente per poi ridacchiare.

Ma Tom non venne toccato minimamente dalle sue parole, no, lui avrebbe lottato con le unghie e con i denti per le due donne che amava e sì, per loro avrebbe pagato con la vita, ma prima voleva vedere quel verme chiuso in una cella di sicurezza.

 «Questo è quello che vuole la tua mente, non quello che voglio io» lo provocò con un sorriso malizioso sulle labbra, facendo incazzare il biondo. «Cosa pensi di fare, Liam? Uccidermi?» continuò, osservandolo attentamente. «E poi cosa dirai ad Emmeline? Che hai ucciso il padre di sua figlia? Pensi davvero che le faccia così piacere?» disse, sfidandolo con lo sguardo. «A proposito, dimmi dov’è e facciamola finita, Liam» aggiunse.

Liam lo stava guardando e, per la prima volta, Tom lo trovò in difficoltà, glielo leggeva negli occhi, ma sapeva anche quanto fosse spietato e che niente e nessuno lo spaventava.

«Anzi, toglimi una curiosità, perché l’hai rapita? Perché l’hai strappata dalle braccia di sua madre a un giorno dalla nascita?» sbottò, incazzato come non mai, riprendendo il discorso. «Una bambina innocente e appena nata!» ringhiò, strattonandosi dalle corde che lo legavano, cercando di liberarsi, invano.

«Dovevo arrivare a te in un qualche modo» rispose con un’alzata di spalle. «È il tuo punto debole, Tom» aggiunse, incrociando le braccia al petto, scrutando con attenzione il ragazzo seduto di fronte a lui. «Non ti è mai passato per la testa che Emmeline si fosse messa con te solo perché hai un “bel faccino”?» domandò poi, cambiando totalmente discorso, com’era suo solito fare.

Tom aggrottò le sopracciglia, prima di scoppiare a ridere istericamente.

«Em non è così superficiale, Spencer» mormorò in risposta, riprendendosi. «E smettila di cambiare discorso» sputò. «Saresti dovuto venire da me, subito, non prendertela con una bambina che ha bisogno di sua madre ora più che mai e voglio, anzi, esigo, che torni lì, tra le sue braccia e il suo calore» gli disse duramente, la mascella serrata.

«Non ho tempo per questo, ora, Tom» lo liquidò con un gesto della mano. «Ma ti lascerò in buona compagnia» sogghignò, guardando oltre le spalle del moro. «Se ti andrà bene, tornerai in quello squallido posto in cui alloggi e se avrai fortuna potrai rivedere la tua amata» girò sui tacchi, lasciando il moro piuttosto perplesso, anche se sapeva bene, perché lo sentiva, che dietro di lui c’era qualcuno.

Passarono diversi minuti prima che i suoi occhi entrassero in contatto con una nuova figura: non era per niente nuova, lo conosceva quel ragazzo e si ritrovò a scuotere la testa.

«Ben» sputò.

«Ciao, Tom» il suo sorriso idiota, quello che aveva sempre, e che lo aveva irritato fin dal primo momento in cui l’aveva visto, aveva ripreso corpo sulle sue labbra. «È davvero un piacere rivederti» disse. «Soprattutto così impotente» aggiunse, ridacchiando appena.

«Cosa vuoi?» domandò il moro, osservandolo dal basso: Dio quanto lo odiava! Come avrebbe voluto prenderlo a pugni!

«Oh, sicuramente restituirti il favore!» Tom aggrottò le sopracciglia, non capendo. «Il pugno che mi hai tirato quella famosa sera, non vedo l’ora di restituirtelo» spiegò. «Ma prima voglio dirti che pensavo di essere l’unico ad odiarti, non solo per il pugno e per la minaccia, ma anche perché sei  così irritante e ti credi così superiore a tutti! Senza contare che una donna come Emmeline si accontenti di uno come te! La trovo così stupida!» disse, passandosi una mano tra i capelli, mentre Tom voleva semplicemente riuscire a liberarsi per poterlo uccidere.

«Non ti azzardare a parlare male di Emmeline!» gridò: non poteva tollerare che qualcuno offendesse e parlasse male della donna che amava.

«Ma non sono l’unico, anche Liam ti odia» continuò il suo discorso come se lui non esistesse. «Probabilmente ti farò passare un brutto quarto d’ora e ti darò anche tutte quelle botte che hai dato a lui anni fa, visto che lui vuole avere l’onore finale di piantarti una pallottola in testa» spiegò, piegandosi sulle ginocchia per essere alla stessa altezza di Tom. «E quando l’ho incontrato all’ospedale mentre guardavo vostra figlia, mi ha convinto a far parte di questo suo piano, e non ci ho pensato due volte a rapire la piccola Arabella» confessò e Tom non ci vide più: Ben era il colore rosso, e Tom era il toro.

Tirò con tutta la forza che aveva in corpo pur di cercare di liberarsi, ma quelle dannatissime corde lo tenevano piantato lì e in quel momento desiderò tanto di diventare come Hulk.

«Lo sapevo che eri un dannato psicopatico! Esattamente come il tuo amico!» sbottò.

Ben ridacchiò, scuotendo la testa e si alzò, prima di sganciargli un pugno in pieno volto.

Il primo di una lunga serie.


 
***


Faceva freddo, molto, troppo, e stringersi in un giubbotto pesante non stava servando a nulla, ma forse ne valeva davvero la pena rimanere li: stava aspettando Liam, forse avrebbe rivisto la sua bambina quel pomeriggio.

Nella serata precedente si era come sentita osservata mentre usciva, le era sembrato che Tom fosse li, si sentiva i suoi occhi, il suo sguardo indagatore e amorevole che gli bruciava sulla pelle, ma poi, quando si era voltata, non c’era nessuno e una fitta di delusione le aveva colpito lo stomaco: lei non avrebbe mollato, lei sarebbe tornata al suo fianco.

Si guardava intorno, non capendo il perché di quella scelta: era una zona piuttosto traffica e piena di gente e lui era un ricercato.

Aveva così tanta voglia di chiamare la polizia, ma aveva paura, allo stesso tempo, che lui non rivelasse il luogo dove si trovava la sua piccola.

Quindi aveva deciso di vedere come sarebbe andata, dove l’avrebbe portata e poi avrebbe chiesto aiuto a Gustav.

Dall’altra parte della strada vide una coppia felice, senza contare che era il periodo di Natale, il periodo che lei preferiva, e poi vide un passeggino. Perché lei non poteva essere felice come loro? Perché non poteva passare il Natale a casa, con l’uomo che amava e la loro bambina?

Le veniva da piangere, dannazione se voleva farlo, ma doveva essere forte e voleva tenere le lacrime per quando avrebbe rivisto e riabbracciato la sua bambina.

Si voltò dall’altra parte, asciugandosi quelle poche lacrime che erano scese sulle sue guance fredde e arrossate, continuando a stringersi nel suo giubbotto scuro.

Non appena sentí una macchina fermarsi dietro di lei si voltò, trovandosi davanti ad una Range Rover nera e dai vetri oscurati.

Non sapeva cosa fare: non sapeva se salire, non sapeva se doveva aspettare che qualcuno le aprisse la portiera.

E per colpa di tutti quei pensieri che le invasero la mente, non si accorse di avere Ben davanti: si strozzò con la sua stessa saliva e sgranò gli occhi, cominciando a tremare come una foglia e no, non era per colpa del freddo.

Ben le rivolse un sorrise malvagio, squadrandola da capo a piedi.

Gli facevano male le mani, si era sfogato per bene con Tom, e non appena gli aveva liberato mani e piedi e gli era saltato al collo, aveva capito che non l'avrebbe mai messo al tappeto con dei pugni; si era ritrovato con un grosso livido sullo stomaco.

Lo aveva riportato in quel motel schifoso e poi passò a prendere la ragazza, come da ordini di Liam: non aveva ucciso Tom, non ce l'aveva fatta, ma solo perché non aveva le palle per farlo.

«I capelli corti ti donano, Em» continuò a squadrarla con un sorriso strano sulle labbra.

Emmeline indietreggiò impaurita, ma lui la afferrò per un polso, non permettendole di fare un ulteriore passo.

Sotto le proteste e lamentele della ragazza, la costrinse a salire e le bendò gli occhi, per non mostrarle il tragitto.

La ragazza stava letteralmente morendo di paura e tremava continuamente.

Non gli rivolse la parola per tutta la durata del tragitto e non le fregava niente del fatto che potesse mostrarsi maleducata ed irrispettosa, ma stava pensando ad una serie d'insulti da potergli urlare in faccia non appena sarebbero arrivati a destinazione, ed anche un modo per colpirlo talmente forte e vederlo non alzarsi più.

Lui era un complice di Liam e, mentalmente, le veniva da ridere: possibile che su tre ragazzi con cui era uscita, l'unico sano di mente fosse proprio Tom? Che era quello più problematico e lei si era proprio innamorata di lui.

Dio, se lo amava.

«Sei silenziosa, non è da te» constatò Ben, osservandola dallo specchietto retrovisore, consapevole che lei non potesse vederlo. «Immaginavo che mi avresti riempito di insulti e che mi avresti messo le mani addosso» ridacchiò lui, anche se non c’era proprio niente da ridere.

Emmeline, da sotto la benda, alzò un sopracciglio: faceva lo spiritoso? Non era per niente divertente, e se avesse potuto lo avrebbe strangolato, ma sarebbe, tipo, morta anche lei: non era per niente una bella idea.

«Emmeline?» provò di nuovo lui, stavolta più serio.

«Cosa cazzo vuoi? Si può sapere?» grugnì lei infastidita, stupendosi del suo tono di voce e delle parole, pentendosene subito: si morse il labbro inferiore e pregò con le facesse del male, ma lo sentì semplicemente ridere.

Scosse la testa rassegnata dalla sua stupidità e decise di rimanere in silenzio per il resto del viaggio in auto.


 
***


Odiava la scuola, accidenti, se la odiava: odiava dover studiare materie che non sopportava che aveva scelto, per lui, il padre, odiava i suoi compagni di classe e quelli che incontrava nei corridoi, odiava ad essere al centro dell’attenzione e, qualcuno, Tom Kaulitz ce lo metteva continuamente. Lo insultava, si prendeva gioco di lui continuamente, se lo incontrava per i corridoi, lo appendeva agli armadietti e se capitava, lo riempiva di botte.

Ma non era solo la scuola e Tom Kaulitz, era la sua adolescenza in generale a fargli schifo: non aveva praticamente amici, però aveva un bel rapporto con le ragazze, insomma, fino a che non lo scaricavano per motivi futili o senza addirittura.

Ma non gli importava, anche se era all’ultimo anno del liceo, aveva messo gli occhi su una deliziosa morettina di un altro corso: sembrava un po’ come lui, se ne stava sulle sue, lontana dal mondo, anche se aveva delle amiche e no, non sopportava che avesse una sottospecie di rapporto con Tom, quello proprio non gli andava giù.

E non lo sopportava nemmeno ora e ci aveva provato così tante volte ad allontanarla da lui, ci aveva provato così tante volte a corteggiarla e a provarci, ma lui, Tom Kaulitz, le aveva completamente annebbiato la mente e il cuore.

E anche se avesse portato a termine il suo piano, uccidere il ragazzo, lei avrebbe fatto di tutto per ripagarlo con la stessa moneta: Emmeline amava Tom, ed era rimasto stupito quando se l’era trovata a San Francisco dopo quella telefonata, da sola, per poter riportare a casa la sua bambina, così dannatamente bella, anche se aveva preso tutto dal padre; Emmeline lo avrebbe ucciso, con le sue stesse mani, se solo avrebbe fatto del male a Tom o alla bambina.

Vaghi ricordi dell’anno precedente gli passarono davanti: l’aggressività, la rabbia, che provava verso di lui, l’odio più totale, e la paura e il terrore di perdere Tom, erano così palesi nei suoi occhi e lui si sentiva un mostro per averle procurato così tanto dolore.

Lui che diceva di amarla, la stava trattando nel modo più peggiore: come diavolo poteva pensare che lei si buttasse tra le sue braccia? Avrebbe dovuto rimanerne fuori fin dall’inizio, o nemmeno farsi coinvolgere: lei apparteneva a Tom, solo a lui.

Forse avrebbe dovuto lasciarla tornare a casa, con Arabella e con Tom e lasciarle vivere la sua vita, la sua famiglia, ma era troppo egoista per farlo, e voleva far soffrire un po’ Tom, ma non sarebbe mai arrivato a fare del male fisico a quella ragazza.

I pensieri di Liam furono interrotti dalla voce di Ben e dalla sua risata, mentre teneva Emmeline per un braccio, ancora con la benda sugli occhi, le labbra serrate, la mascella tesa, così come il resto del suo piccolo corpo.

«Toglile le mani di dosso, razza d’idiota!» sbottò il biondo, avvicinandosi pericolosamente ai due. «Non mi sembrava di averti detto che potevi toccarla e dovevi toglierle questa cosa non appena sareste arrivati!» continuò, incenerendo l’altro ragazzo con lo sguardo.

Non appena gli occhi di Emmeline tornarono in contatto con la luce, si ritrovò a fare una smorfia di puro fastidio e fece qualche passo indietro, allontanandosi dai due uomini: Ben la osservava con uno sguardo del tutto assente, mentre Liam le faceva la radiografia, come se non l’avesse mai vista.

Voleva andarsene da lì, si era pentita di aver accettato e di non aver chiamato la polizia: voleva essere con Tom, tra le sue braccia, a casa loro a Los Angeles.

Liam accennò un sorriso, porgendole una mano, invitandola ad avvicinarsi, ma lei rimase immobile, a osservare il suo braccio teso verso di lei, prima di negare con la testa e stringersi le braccia al petto.

Il biondo congedò Ben con un’occhiataccia, prima di riportare l’attenzione sulla ragazza di fronte a lui: la vedeva spaesata, spaventata.

«Non volevo che ti spaventasse ulteriormente, ti ha fatto del male?» le chiese, sorprendendosi lui stesso del suo tono di voce e della sua preoccupazione.

Emmeline negò con la testa: voleva rivedere la sua bambina e basta, e lui stava aumentando la sua sofferenza e il suo bisogno.

«Poche chiacchiere, Liam, voglio mia figlia» sbottò, indurendo lo sguardo, aggrottando le sopracciglia.

Il ragazzo le sorrise, invitandola a seguirlo in quella casa spoglia e tetra: la condusse lungo un corridoio sporco, pieno di ragnatele; aveva il sospetto che quella fosse una casa abbandonata a se stessa da anni.

Aprì una porta, rivelando tutt’altra cosa: c’era luce, era tutto pulito, sembrava un altro mondo; un nascondiglio dentro ad un altro.

Invitò Emmeline ad accomodarsi sul divano di pelle, facendole segno di aspettare.

Non appena un pianto liberatorio si diffuse nell’aria, la ragazza si sciolse totalmente, cercando di trattenere le lacrime, e stringersi le braccia intorno al corpo, come a volersi tenere insieme.

Non poteva piangere ancor prima di vederla e di stringerla tra le braccia.

Liam tornò, accompagnato da una signora che, non appena la vide, le sorrise affettuosamente, con la sua piccola tra le braccia.

E nel momento in cui la strinse al suo petto, iniziò a piangere come non aveva mai fatto prima, nemmeno quando le dissero del suo rapimento: era così cresciuta in quei due mesi, così bella.

Gli occhioni grandi e color cioccolato della piccola Arabella la scrutavano attentamente, ed Emmeline, in cuor suo, sapeva che l’aveva riconosciuta, sapeva che quella era la sua mamma: il profumo di una mamma rimaneva impresso nella mente di un bambino.

Cercò di controllare le sue emozioni, mentre se la stringeva addosso, lasciandole diversi baci sul volto, vedendola sorridere divertita: quella era la prima volta che la vedeva sorridere, era la prima volta, dopo due mesi, che vedeva la sua bambina, poteva toccarla, coccolarla e baciarla tutte le volte che voleva, niente e nessuno l’avrebbe fermata.

Lasciò che la sua piccola bambina portasse le sue manine sul suo viso, la lasciò osservarla, toccarla: era così simile a Tom, aveva preso tutto dall’uomo che amava, di lei aveva veramente poco, ma non gliene importava molto.

Liam si sedette al suo fianco, scrutando attentamente madre e figlia, osservarsi, toccarsi, e si pentì di aver fatto quello che aveva fatto, si pentì di avergli portato via Arabella, di averle fatte soffrire entrambe, quando lui voleva far soffrire una sola persona.

Sì, probabilmente soffriva anche lui, ma non come avevano sofferto loro due.

«È contenta di vederti» mormorò dolcemente, sorridendo appena, ma Emmeline non gli prestò minimamente attenzione: era concentrata su quel fagotto cresciuto che aveva portato dentro di se per nove mesi.

La bambina strinse un dito della madre, e poté vedere benissimo Emmeline scoppiare a piangere di nuovo, di gioia probabilmente.


 
***


Erano su quel divano da ore, forse, e la bambina si era addormentata cullata dalle braccia della ragazza che non smetteva di toccarla, di baciarla e di sussurrarle parole dolci.

«Mi dispiace» disse Liam, attirando, finalmente, l’attenzione della ragazza su di lui, che lo guardava confusa. «Non avrei dovuto portartela via, non era con voi che me la dovevo prendere» mormorò, chiudendo gli occhi e passandosi le mani sul viso. «Io volevo solamente attaccare Tom, spronarlo a fare qualcosa prendendomela con la sua famiglia, la vostra, ma lui ti è rimasto affianco in questi due mesi, rammollendosi, o forse trattenendosi non lo so» spiegò, lasciandola letteralmente a bocca asciutta. «Quella telefonata non era per te, mi sarei aspettato Tom, visto che era il suo telefono» le mandò un’occhiataccia, come a volerla rimproverare, ma Emmeline non si fece toccare da quello sguardo, spronandolo a continuare. «Io voglio, volevo, finire quello che non ho portato a termine, che nessuno ha portato a termine» aggiunse e Emmeline alzò una mano, bloccandolo.

«E questo a cosa ti porterebbe? Ti farebbe sentire meglio? Ti piacerebbe che Arabella ed io rimanessimo sole?» domandò velenosamente. «Tu sei troppo accecato dall’odio che provi per Tom e dell’amore che dici di provare per me, per ragionare lucidamente» disse duramente. «So della tua vita precedente, di quello che facevi, fai, e mi chiedo perché hai dovuto rovinare la tua vita in questo modo? Perché, Liam? Avresti potuto avere tutto, avevi tutto, potevi avere una donna che ti amava, potevi avere una famiglia, senza fare tutto quello che hai fatto!» aggiunse, abbassando il tono di voce, non volendo svegliare sua figlia.

Liam li fissò qualche istante prima di abbassare lo sguardo.

Emmeline aveva ragione.

«Non lo so» rispose con un’alzata di spalle. «Forse non avrei dovuto chiedere aiuto a chi mi doveva un favore, per farmi uscire di prigione, forse non avrei dovuto uccidere quella persona una volta fuori, forse non sarei dovuto venire a Los Angeles, forse non avrei dovuto conoscere e chiedere a Ben di rapire tua figlia, forse non dovevo rovinarti la vita» la ragazza rimase interdetta, ma non lo diede a vedere, non si fidava di Liam e di conseguenza non credeva nemmeno ad una parola che usciva dalla sua bocca.

Qualcun altro avrebbe potuto cascarci nella sua trappola, ma lei no, non l’avrebbe fatto, non di nuovo almeno.

Quando Ben comparve sulla porta, dal nulla, Emmeline si mise un po’ sull’attenti, e quando Liam si avvicinò per prendere Arabella, la sua stretta intorno a sua figlia s’intensificò maggiormente, invitandolo, con lo sguardo, a non avvicinarsi ulteriormente: si sentiva come una leonessa che voleva, che doveva, difendere i suoi cuccioli.

«Emmeline devi andare, mi dispiace» disse Liam, tornando al suo tono duro, arrogante e burbero. «Ma Arabella rimane qui con me» la sfido con lo sguardo, sottraendola dalle sue braccia, stringendosela al petto, come fosse suo padre.

Ben prese la ragazza per un braccio, invitandola, poco gentilmente, ad alzarsi dal divano, strattonandola verso la porta.

«Lei sa che tu non sei suo padre» sputò quelle parole con odio, rivolgendo un ultimo sguardo alla sua bellissima bambina addormentata, prima che Ben la tirò con sé.

«Emmeline?» Liam la richiamò e i due si fermarono. «Tom è molto fortunato ad avergli, ma digli che lo sarà ancora per poco» le disse, facendo aggrottare le sopracciglia alla ragazza.

«Tom ed io abbiamo chiuso» mentì e sperò che lui non se ne accorgesse, ma una risata le fece capire il contrario.

«Bugiarda» sibilò, spaventandola a morte. «Alloggiate nello stesso squallido motel, puoi dirglielo quando vuoi» la mora sgranò gli occhi: di cosa diavolo stava parlando?

Tom era a San Francisco? E Liam come faceva a saperlo?


 
***


«Cavolo, Tom, potevi reagire!» borbottò Georg, passando del disinfettante sulle ferite del moro, che digrignava i denti per non gridare ogni volta.

«Gliele ho date, non preoccuparti, ma prima ero legato mani e piedi, alla sua mercé» ringhiò, per niente contento di tutti quei lividi e quei tagli. «Se voleva uccidermi, non ci è riuscito» disse sprezzante, e si paralizzò di nuovo mentre Georg gli puliva un’altra ferita. «Hai notizie di Emmeline? L’hai vista?» spostò lo sguardo su Bill, seduto su una poltrona: la gamba destra appoggiata alla sinistra, il mento appoggiato alle mani, le sopracciglia aggrottate, gli occhi scuri.

Tom non l’aveva mai visto così, ne era sicuro.

Quando negò con la testa, semplicemente, sentì una morsa dolorosa alla bocca dello stomaco, mentre una tristezza infinita gli invase il corpo.

Tutti e tre sobbalzarono quando qualcuno bussò alla porta: il moro non si scomodò di alzarsi dal letto, esattamente come Bill che rimase nella stessa posizione.

Georg spostava lo sguardo sui due ragazzi, domandandosi mentalmente cosa fare, quando bussarono nuovamente.

Sospirò e si alzò, aprendo la porta e sgranando gli occhi, abbassandoli sulla piccola e minuta figura della ragazza, che ricambiò lo sguardo, incredula.

Lo spostò di lato, entrando in quella squallida stanza, identica alla sua, trovandosi faccia a faccia con Tom che, nel frattempo, si era alzato.

La mora sgranò ulteriormente gli occhi e anche la sua bocca si spalancò alla vista dei segni e i lividi sul suo corpo: cosa gli avevano fatto?

Non ci pensò due volte e gli gettò le braccia al collo, stringendolo, fottutamente felice di vederlo.

Si convinse a non stringere troppo, per non fargli male, visto i segni sul suo corpo, ma non appena sentì le braccia del ragazzo avvolgerla, stringendola con possessione e amore, si lasciò andare, scoppiando a piangere per la terza o quarta volta in quel giorno.

Le passò le mani tra i capelli corti affettuosamente, sussurrandole quanto la amasse.


 
**********

 
Sono tornata dopo secoli, scusatemi davvero!
Ogni volta che aprivo il foglio di word buttavo giù due righe, o non ne buttavo giù mezza: ho tante, troppe idee, ma non so mai come buttarle giù, se buttarle giù e allora non faccio niente, sono imperdonabile, lo so.

Spero di farmi perdonare con questo capitolo che mi sembra piuttosto lungo u.u
Non sono di molte parole, un pò come sempre d'altronde, però voglio augurarvi buon Natale, buone feste, e buon anno, perchè non credo che posterò di nuovo entro la fine dell'anno, quindi ci vedremo nel 2015, fisso.

Intanto, magari, vi chiedo di lasciare una piccola, anche piccolissima, recensione, mi accontento anche degli insulti questa volta, dato che è un mese che non posto.

Un bacio e un abbraccio,
difficileignorarti.

ps. di nuovo buone feste!

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Capitolo 6
*** Fifth. ***




Le braccia di Tom stavano continuando a stringerla, non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare, non proprio quando l’aveva ritrovata: Emmeline stava ancora piangendo, aggrappata alle sue spalle.

Bill li stava osservando dalla sua posizione: non poteva ancora credere che la ragazza se ne fosse andata, non poteva credere che avesse messo in pericolo la sua vita, quella di Tom e quella della loro bambina, e non solo, perché anche lui e Georg stavano rischiando grosso.

Si alzò, avvicinandosi ai due, ricevendo un’occhiataccia da parte di Georg: lo voleva invitare a non avvicinarsi, a non interrompere il loro ritrovo, ma Bill se ne fregò altamente, prendendo Emmeline per un braccio, staccandola dalle braccia di Tom con violenza.

«Tu forse non ti rendi conto del casino che stai combinando!» le gridò in faccia, spaventandola a morte: in tutti quegli anni, non l’aveva mai visto così arrabbiato e furioso. «Tu e la tua pazzia state mettendo a rischio la vita di tutti noi, compresa quella di tua figlia!» continuò, guardandola negli occhi.

Emmeline si portò una mano alla bocca, riprendendo a singhiozzare violentemente: chiuse gli occhi e si fece piccola, in un angolo di quella stanza, anche se lo sapeva, faceva male sentirselo dire.

Tom si mise davanti a lei, volendola proteggere dalle accuse di Bill e dal suo tono di voce troppo alto per i suoi gusti.

«Non ti permettere di alzare la voce in questo modo» disse con calma, tanta calma, guardandolo malissimo.

Il moro chiuse gli occhi non appena sentì un altro singhiozzo scappare dalle labbra della donna che amava: non appena li riaprì, guardò Bill, e con uno sguardo lo intimò a uscire.

Georg vedendo lo sguardo del moro, prese Bill per le spalle, costringendolo ad allontanarsi e a uscire: quando entrambi furono fuori, Tom si voltò verso Emmeline e la vide rannicchiata sul pavimento, le braccia strette intorno alle ginocchia, la testa nascosta tra le braccia.

Il cuore gli si fermò vedendola così, gli faceva così male vederla così.

Si abbassò sulle ginocchia, preoccupato, non sapendo come e cosa fare: posò l’indice sotto il suo mento, obbligandola, nel modo più dolce possibile, a guardarlo.

«Non piangere, piccola» mormorò piano. «Non ascoltare quello che ha detto Bill, non è vero, non è colpa tua, tu non c’entri niente» le disse, ma lei allontanò il suo tocco, e si alzò dal pavimento, appoggiandosi al muro.

«No, Tom! Bill ha ragione!» si passò una mano tra i capelli, fissandolo. «Anche tu dovresti essere incazzato con me! Non dovresti nemmeno essere qui!» gli disse e Tom fece una smorfia, scuotendo poi la testa.

«Ero incazzato con te quando te ne sei andata, ho passato dei giorni d’inferno, ti ho detto cose di cui mi sono pentito, e sono contento di essere qui, con te, dobbiamo riportare a casa la nostra bambina, non te lo lascerò fare da sola!» abbaiò, spaventandola. «Hai capito?» abbassò poi la voce, pentendosi di averle urlato contro, non avrebbe dovuto. «Mi dispiace, piccola» aggiunse piano, allargando le braccia, invitandola ad avvicinarsi: voleva stringerla di nuovo.

Ma lei non ci pensò nemmeno, non voleva: le faceva male vederlo così ferito, con tutti quei lividi, quei tagli, si sentiva in colpa.

«Emmeline, piccola, vieni qui» mormorò con voce strozzata, ad occhi sgranati, ma lei negò con la testa, appiattendosi ancora di più contro il muro. «Amore mio, per favore» provò con più dolcezza.

Nemmeno Emmeline sapeva perché si stava comportando in quel modo: il ragazzo davanti a lei era l’uomo che amava e lei lo stava guardando come se avesse paura, o lo evitava totalmente.

Chiuse gli occhi, volendosi lasciare scivolare giù, di nuovo, sul pavimento, ma Tom la bloccò prima, prendendola in braccio: la sentì fremere e gemere tra le sue braccia, come a voler protestare.

La portò in bagno e la fece appoggiare sul bordo della vasca, prima di aprire l’acqua calda e rovesciare del bagnoschiuma: spostò lo sguardo sul viso della donna che amava.

Aveva smesso di singhiozzare, ma i suoi occhi non smettevano di lacrimare: lo fissava, da vicino, come non faceva da tempo, si perdeva nei suoi occhi. Era così bello.

Portò una mano sul suo viso, passandola sul livido che si stava formando sulla sua guancia, ma la ritrasse ad occhi sgranati non appena lo vide chiudere gli occhi e trattenere un gemito strozzato.

«No» mormorò lui, riprendendo la sua mano: ne baciò le nocche, mantenendo lo sguardo bloccato nel suo. «Non sai quanto mi è mancato il tuo tocco nelle ultime settimane» continuò. «I tuoi baci, la tua sola presenza» aggiunse piano. «Mi sei mancata da morire e non voglio vederti mai più andare via» le sorrise dolcemente, vedendola ricambiare con una smorfia.

Chiuse l’acqua, e iniziò a spogliarla lentamente, senza mai abbondare i suoi occhi e poi la invitò ad entrare nella vasca, prima di liberarsi dei jeans e raggiungerla, mettendosi dietro di lei, stringendola al suo petto, donandole dei baci sulla nuca, cercando di evitare le fitte di dolore che sentiva nei punti in cui Ben lo aveva colpito: quel momento non poteva essere interrotto.

Appoggiò il mento sulla testa della ragazza, chiudendo gli occhi, beandosi del tocco leggere delle mani di Emmeline sulle sue cosce magre.
«Mi sento in colpa» la sentì mormorare dopo un tempo infinito. «Mi fa male vederti  con tutti quei segni addosso, perché so per certo che la causa sono io e non volevo» aggiunse subito dopo, mordendosi il labbro inferiore.

«Tu lo sai che per te morire, amore» sussurrò al suo orecchio con voce roca. «Tutto questo non è niente, è doloroso, sì, ma non m’importa» le disse.
La ragazza sospirò, lasciando cadere la testa sulla spalla del ragazzo, mentre lui la strinse a sé, con possessione e amore.

«La nostra bambina è bellissima e ti assomiglia sempre di più, lo sai?» gli disse e poté sentire bene il cuore del ragazzo battere più forte.

«L’hai vista?» mormorò con tono strozzato.

Lei si limitò ad annuire, sistemandosi meglio contro di lui, stendendo le gambe.

«Oggi, dopo due mesi» ricordò con un sorriso il viso della sua piccola. «E sono sicura che non vede l’ora di rivederti» voltò il viso, trovando quello di Tom inondato dalle lacrime e un sorriso aleggiava sereno sulle sue labbra.

Si spostò leggermente, per poter arrivare alle sue labbra e sussurrargli un semplice “ti amo”.


 
***


Le accarezzava distrattamente la schiena nuda da sotto la maglietta che stava indossando: l’aveva costretta a rimanere con lui, perché stare in due camere, quando potevano dividerne una?

Emmeline dormiva placidamente a pancia in giù, con il viso rivolto verso di lui: probabilmente era la prima notte che dormiva così a lungo e lui se ne stava lì a guardarla e ad accarezzarla.

Più la guardava e più s’innamorava. Aveva tagliato i capelli, ma era sempre bellissima, il suo viso non era cambiato per niente, era lo stesso di quando l’aveva conosciuta, di quando, per sbaglio, le aveva tirato quello schiaffo. E nonostante quello, lei si era innamorata, gli aveva dato una speranza, gli aveva fatto capire cos’era l’amore, come ci si sentiva ad essere importante per qualcuno, gli aveva fatto capire chi era veramente, gli aveva dato una nuova vita, gli aveva dato una figlia.

Si morse il labbro inferiore, cercando di trattenere le lacrime: spostò le carezze sul suo viso, spostandole i capelli, liberandole il viso. Sorrise tristemente, baciandole una guancia.

«Ti amo, piccola mia» mormorò sulla sua fronte. «Ti prometto che sarete al sicuro, sarete felici, vedrai» continuò, pregando che non lo sentisse.

Aveva una dannata paura, ne aveva davvero tanta, come non aveva mai avuta in tutta la sua vita: ma non aveva paura di morire, quello lo sapeva, soprattutto se poi la sua famiglia sarebbe stata al sicuro. Ma aveva paura di lasciarle sole, aveva paura per come sarebbe andata a finire quella storia, aveva paura di non essere quello che avrebbe battuto Liam, aveva paura di non essere abbastanza forte per batterlo. Aveva paura.

Si alzò dal letto, staccandosi dal suo corpo caldo, cercando di non svegliarla, voleva lasciarla riposare, e andò in bagno, chiudendosi piano la porta alle spalle: si appoggiò al muro e si lasciò scivolare sul pavimento, prima di piangere silenziosamente, cerando di trattenere i singhiozzi, cercando di non svegliare Emmeline, non voleva farla preoccupare ulteriormente, perché aveva già troppi pensieri per la testa.

Aveva bisogno di sfogarsi, di esternare le sue emozioni, le sue paure, tutto quello che sentiva e sapeva di non poterlo fare davanti ad Emmeline: voleva mostrarsi forte, senza paure, ma anche se in cuor suo immaginava che la ragazza sapesse che lui non era fatto di ferro, sapeva quanto in realtà fosse fragile dentro.


 
***  


Emmeline stava accarezzando distrattamente i capelli di Tom, addormentato su di lei: era aggrappato a lei, come se fosse la sua àncora, o perché non voleva che scappasse di nuovo, ma la mora non aveva nessuna intenzione di abbandonarlo di nuovo, non voleva e non l’avrebbe fatto.

L’aveva sentito piangere quella notte, anche se si era chiuso in bagno, lei si era svegliata non appena l’aveva sentito allontanarsi: le si era stretto il cuore e  si era morsa talmente forte il labbro per non scoppiare a piangere di nuovo.

Posò le labbra sulla sua fronte, baciandolo più volte, continuando a bearsi della sua stretta protettiva e possessiva.

Sussultò quando sentì qualcuno provare ad aprire la porta e cominciò a tremare violentemente, svegliando Tom: gli occhi socchiusi, cercando di capire cosa stesse succedendo, le sopracciglia aggrottate, mentre intrappolava il corpo di Emmeline sotto al suo.

Riconobbe il profilo di Georg, non appena la porta fu aperta, quindi tornò a rilassarsi sul corpo della ragazza, chiudendo nuovamente gli occhi, sospirando pesantemente.

«È solo Georg, piccola, rilassati» mormorò sulla pelle del suo collo, provocandole milioni di brividi, mentre cercava di tranquillizzare il respiro.

Fulminò Georg non appena entrò, ma quando si accorse della presenza di Bill, si fece piccola e cercò di nascondersi contro Tom: quello che le aveva urlato in faccia àncora le bruciava, le faceva male, anche se lei pensava le stesse cose.

Il ragazzo riaprì gli occhi, cercando di capire perché Emmeline si stesse nascondendo contro di lui, osservandola preoccupato, ma poi capì: quando il suo sguardo trovò quello di Bill, sospirò pesantemente.

Quello era il suo migliore amico e lei ne era praticamente spaventata: capiva come si sentisse in quel momento, sapeva che faceva male sentirselo dire, ma era inutile comportarsi in quel modo. In quel momento, soprattutto.

«Piccola, per favore, non nasconderti» mormorò al suo orecchio, passando una mano sulla sua schiena. «Non succederà nulla, vedrai, ci sono io con te» sussurrò, mentre i due ragazzi si accomodavano sul piccolo divano presente in quella stanza. «Chi ti ha dato le chiavi?» si rivolse poi a Georg, squadrandolo da capo a piedi.

Il ramato alzò le spalle, appoggiando un sacchetto sul pavimento.

«Le chiavi sono tutte uguali, quindi» si giustificò, mentre Emmeline grugnì contro la sua spalla: che razza di motel aveva le chiavi delle stanze tutte uguali? Non si poteva nemmeno stare sicuri in un posto come quello, accidenti! «Ma abbiamo portato la colazione! Caffè e ciambelle ripiene di cioccolato!» aggiunse con un sorriso, che solo Tom vide.

Il moro si distaccò dal corpo della sua ragazza e si alzò dal letto, non curandosi di indossare solamente un paio di pantaloni vecchi e usurati: raccolse il sacchetto e ne tirò fuori un bicchiere di caffè e un latte macchiato con cioccolato, più due ciambelle.

Soddisfatto ne addentò una, tornando a letto, lasciando il latte nelle mani della ragazza, assieme alla ciambella: Emmeline accettò volentieri, sentendo il suo stomaco brontolare rumorosamente, provocando le risate generali.

Azzardò a lanciare uno sguardo a Bill, che le stava sorridendo dolcemente e con gli occhi le stava chiedendo scusa: glieli sapeva leggere bene, erano come un libro aperto per lei.

«Mi dispiace, Em» mormorò poco dopo, cogliendola di sorpresa. «Mi dispiace di averti urlato contro, ma sai quanto ci tengo a te, e saperti in questa situazione, bè, mi ha spaventato e fatto arrabbiare allo stesso tempo» spiegò, scusandosi nuovamente.

Emmeline rimase zitta qualche istante, poi abbandonò il cibo che aveva tra le mani e si alzò, sentendo l’aria fredda colpirle le gambe nude e, velocemente, si avvicinò a Bill, accoccolandosi su di lui, lasciandosi stringere da quello che era il suo migliore amico.

Tom sorrise dolcemente osservandoli, anche se sentiva la gelosia crescere di minuto in minuto: sì, Bill era il migliore amico di Emmeline, ma era pur sempre un ragazzo quello che la stava stringendo e toccando e lui non lo tollerava.

«Piccola, vieni qua» brontolò, qualche istante dopo, facendo piegare in due dalle risate Georg, che si stava trattenendo. Anche Emmeline sorrise, passò le mani tra i capelli di Bill, sussurrandogli un “non preoccuparti” e si alzò, per tornare sul letto, al caldo, vicino a Tom, che avvolse le sue lunghe braccia intorno al corpo della ragazza.

«Cosa vi ha spinti a venire qui?» mormorò curiosa: nessuno glielo aveva ancora spiegato, anche se immaginava che qualcuno sarebbe andato a cercarla.

«Portare a casa te e vostra figlia, Emmeline, più semplice e chiaro di così» spiegò il biondo, sorridendole appena. «Quello che ha fatto un po’ di storie è stato Georg» lo indicò col pollice. «"Ho una fidanzata da proteggere"» lo scimmiottò, imitandolo, facendo ridere la ragazza, che si bloccò dopo qualche istante, ripensando a quello che aveva appena detto Bill.

«Fidanzata?» mormorò, assottigliando lo sguardo, puntandolo su Georg che deglutì. «Hai, per caso, chiesto a Ellen di diventare tua moglie?» continuò e il ramato alzò entrambi i pollici, in segno di approvazione, non sapendo, esattamente, come interpretare le parole della ragazza: sembrava così minacciosa.

«Oh mio Dio!» urlò, divincolandosi, di nuovo, tra le braccia di Tom: voleva stringere Georg in un abbraccio e ci riuscì alla grande, stritolandolo. «Sappi che voglio essere la damigella!» lo minacciò, puntandogli un dito contro. «Devo parlare con Ellen!» continuò elettrizzata: era felice come una bambina il giorno di Natale.

«E poi devi sposarmi» la voce di Tom la riportò sul pianeta Terra.

Si costrinse a voltarsi e a guardarlo, trovandolo seduto al centro del letto, con un sorriso dolce sulle labbra, quel sorriso che lei amava da impazzire, e nei suoi occhi poteva leggere tutto l’amore che provava.

Non ci pensò due volte e tornò tra le sue braccia, facendo unire le loro labbra in un bacio passionale, bisognoso, ma pieno di amore.

Nel momento in cui si staccarono, Em posò la fronte su quella del ragazzo, respirando il suo profumo, inalando il suo respiro, si morse il labbro inferiore e aprì gli occhi, trovandosi davanti a quelli color cioccolato di Tom.

«Non vedo l’ora» mormorò piano, sorridendogli.


 
***


Quando Tom andò ad aprire la porta, aveva ancora i capelli umidi dalla doccia, e non indossava nemmeno una maglia: Emmeline dal suo posticino vicino al termosifone, stava rabbrividendo per lui e si strinse ancor di più nella sua felpa abnorme.

Gustav dall’altra parte della porta, alzò un sopracciglio alla vista del moro: Tom lo invitò a entrare, prima di mettersi anche lui una felpa pesante.

«Quelli erano un bel regalo di benvenuto?» chiese il poliziotto, alla vista dei tagli e dei lividi. «Ciao, Emmeline» mormorò poi, lanciando un sorriso alla ragazza.

Emmeline alzò una mano, non aprendo bocca, però gli sorrise: da una parte era felice di vederlo, ma dall’altra, stava morendo di paura; cosa sarebbe successo?

«Una bella festa di benvenuto, già, mi fa ancora male tutto» mormorò Tom, accendendosi una sigaretta, stravaccandosi sul divano, affianco ad Emmeline che, con molta gioia, si strinse forte a lui, cercando il suo calore. «Ma erano mal organizzati, mi sono fatto valere lo stesso, Ben è stupido» disse e un sorriso nacque sulle labbra della mora.

«Ben?» chiese Gustav, sedendosi su una poltrona. «Volete raccontarmi qualcosa? Così posso aiutarvi meglio» spiegò.

«Fa strano non vederti in uniforme» ridacchiò Tom, contagiandoli. «Ben lavorava con Emmeline, a Los Angeles, ci provava con lei, ma poi sono tornato io, mandando all’aria tutti i suoi piani» la mora strinse la mano libera del ragazzo, sentendo poi le sue labbra sulla tempia. «E l’ho allontanato da lei, prima con le buone e poi con le cattive maniere, perché continuava a girarle intorno come una cagnolino e questo mi infastidiva parecchio» brontolò, mentre Gustav alzò un sopracciglio, osservandoli.

«In che senso?» chiese, aggrottando poi le sopracciglia.

«L’ho minacciato di morte e gli ho tirato un pugno, visto che con le parole non l’ho convinto abbastanza» sbottò, aspirando un altro po’ di nicotina: riusciva sempre a calmarlo.

Gustav ridacchiò, scuotendo la testa.

«Sta facendo squadra con Liam» mormorò Emmeline, appoggiandosi alla spalla di Tom. «Mi ha portata in una casa, ho rivisto mia figlia dopo due mesi» continuò.

«Una casa? Dove?» mormorò, tornando serio. «Da quanto sei in contatto con lui, Emmeline?» chiese duramente, facendo alzare lo sguardo a Tom: nessuno poteva rivolgersi così alla sua donna, non in sua presenza.

«Da un po’, a dir la verità» mormorò in imbarazzo. «Quel porco ha mia figlia da due mesi e io voglio solo riportarla a casa» continuò, portando lo sguardo sul poliziotto. «Ha chiamato, una notte, dicendo che se avessi voluto rivedere Arabella, sarei dovuta tornare qui e fare tutto quello che voleva» spiegò, ricordando quella telefonata. «Ci siamo incontrati su una collina, la prima volta che sono tornata, mi ha minacciata con un coltello, ma non mi ha mai detto quello che voleva» aggiunse, sentendo Tom stringerla più forte. «Ci siamo visti un altro paio di volte, mi diceva che ero una stupida a stare con lui» indicò Tom con un dito. «Mi diceva che nostra figlia non aveva niente di me, ma che era disposto a crescerla ugualmente, con me» chiuse gli occhi, tremando. «Lui vuole uccidere Tom, terminare quello che aveva provato a fare lo scorso anno» mormorò trattenendo le lacrime.

«Non succederà, Emmeline, non lo permetterò» le disse Gustav. «Puoi dirmi com’era la casa? Dove ti hanno portata?» le chiese.

«Ben mi ha bendata, non so dove siamo andati» disse, giocando con le dita del ragazzo. «Mi ha tolto la benda una volta dentro la casa, scura, vecchia, abbandonata, c ‘era polvere ovunque, non ne ho mai vista così tanta, era tutto buio» disse piano. «Ma quando mi ha portato da mia figlia, sembrava di essere in tutt’altro posto, tutto nuovo, ben arredato, pulito, luminoso» continuò. «Con lui c’era una donna, mora, di mezza età, non l’ho mai vista, non le ho chiesto chi fosse, volevo solo stringere mia figlia tra le braccia» scosse la testa, riappoggiandosi sulla spalla del ragazzo che, nel frattempo, si era acceso un’altra sigaretta: ne era proprio dipendente, accidenti!

«Okay, sì, lo capisco, è normale per una madre» le sorrise, rassicurandola. «Nel caso vi contatti ancora, fatemelo sapere, non aspettate, non fate niente da soli, non riporterete mai a casa Arabella» spiegò. «Manderò degli agenti in borghese per controllarvi, perché sono sicuro che, postati qui fuori, ci siano gli uomini di Liam, ben nascosti» spiegò e la mora si sentì morire dentro. «Non è per spaventarvi, ma è la realtà, Liam non è stupido» aggiunse.

Gustav si alzò, più o meno soddisfatto di quello che gli avevano raccontato.

«Faremo di tutto per riportare la vostra bambina a casa, avrete una vita felice dopo» sorrise loro, uscendo da quella camera.

«Ti amo, piccola mia» mormorò Tom, posandole un bacio dolce sulla guancia.

La mora non disse niente, rimase con lo sguardo fisso nel vuoto: si stava pentendo di tutto, tutto quanto, tutto quello che aveva fatto negli anni precedenti, tranne incontrare Tom, innamorarsi di lui e avere una figlia. Quello lo rifarebbe di nuovo, senza pensarci. Ma tutto il resto, conoscere Liam, farlo entrare nella sua vita, conoscere Ben, permettergli di avvicinarsi troppo a lei, quello vorrebbe cancellarlo. Come voleva cancellare tutto quello che c’era stato nella sua vita, tutto il dolore inutile che aveva provato, anche se l’aveva resa più forte.

Un pensiero la colpì velocemente, investendola: era tutta colpa sua, solo sua e di nessun’altro.


 
***


Liam stava guardando Ben con diffidenza: l’aveva preso a lavorare con lui, ma non si fidava per niente.

Spostava lo sguardo dalle foto che il ragazzo gli aveva portato, a Ben: Emmeline davanti alla stanza di Tom, un poliziotto che entrava e che usciva da quella camera.

«C’erano altri due ragazzi con Tom» sbottò Ben, lanciandogli un’altra foto che, Liam prese al volo, senza troppa preoccupazione e poi ridacchiò.

«Guarda, guarda, questo stronzo è ancora in circolazione!» ridacchiò, picchiettando l’indice sul volto di Bill. «Questo idiota non è voluto entrare in società con me, quando eravamo marmocchi, e se n’è andato, è sparito, ma ora è tornato» spiegò a Ben, come se poi gli interessasse qualcosa. «Si chiama Bill, era più una femminuccia che un maschio, ma sembrava sveglio, intelligente, mentre questo è Georg Listing, migliore amico di Tom, fidanzato ufficialmente con la migliore amica di Emmeline» sorrise maleficamente, alzando lo sguardo su Ben.

«Cosa vuoi che faccia?» chiese automaticamente.

«Ci sono degli sbirri appostati a quel motel, vero?» chiese e il ragazzo annuì. «Bene» si stese meglio sulla sua sedia girevole, sorrise in modo malvagio, prima di alzarsi di scatto, facendo saltare sul posto Ben. «Portami qui quella puttana di Emmeline, del resto ce ne occuperemo dopo» ringhiò.


 
***


Emmeline sospirò, appoggiandosi meglio alla spalla di Tom: cercava di non pensare troppo, ma non ci riusciva, era sovrappensiero da quando Gustav era uscito da quella camera, e il moro se n’era accorto, anche se stava zitto, solo, non voleva peggiorare la situazione.

Le carezzava un fianco con distrazione, fissando il muro davanti a lui, un braccio sotto la testa: anche lui voleva riabbracciare la sua bambina, proteggerla da tutto, renderla felice. Emmeline diceva che si ricordava di lui, ma in quel momento, Tom, ne stava dubitando altamente: due mesi che non lo vedeva, come faceva a ricordarsi? Ea così piccola. La sua piccola.

Si sporse per posare un bacio sui capelli della mora: voleva dirle così tante cose, ma non aveva il coraggio di parlare. La guardava rimanere immobile affianco a lui, mentre la sentiva tracciare dei disegni astratti sul suo petto nudo, e la sentiva pensare. Riusciva a percepire il rumore dei suoi pensieri e di tutto quello che le stava passando per la testa.

Non voleva disturbarla, così si limitava a coccolarla, a farle capire che lui c’era e che sarebbe rimasto con lei, sempre.

Quello che successe dopo, non se lo sapeva spiegare nemmeno lui: quattro uomini entrarono in quella stanza, distruggendo la porta, strappandogli Emmeline dalle braccia, prendendola di peso, mentre altri due lo tenevano fermo, immobile, con una mano sulla bocca, impedendogli di gridare.

Li guardò portare via la donna che amava. Li guardò portare via la madre di sua figlia come se fosse un sacco di patate. E lui era lì, immobile, impotente, senza la capacità di fare qualcosa.

Sentì le lacrime inondargli gli occhi e tutte quelle paure che sentiva addosso, ora si erano unite, erano diventate una e Tom la stava vivendo.





 
********

 
Buon anno e buona befana! 
Come avete passato le feste? Spero vi siate ingozzate per bene, ma spero anche che vi siate divertite (parlo al femminile, sì, non sono molto sicura che dei maschietti leggano questa storia o.o)
Le mie sono state feste tranquille, forse anche troppo: okay, non interessa a nessuno.
Questo è il capitolo, che ne pensate? Il ritrovo della coppia tanto amata a inizio capitolo, la separazione dei due a fine capitolo.
Ovviamente mi aspetto le vostre recensioni, anche per sapere cosa ne pensate: la scorsa volta sono stata molto sorpresa di trovare 3 recensioni, non succedeva da secoli, wow.
Mi scuso in anticipo se ci sono errori grammaticali o fonetici!
Comunque, direi che posso anche andarmene ora, spero che il capitolo vi piaccia e ci vediamo al prossimo! (non so quando, cercherò di non farvi aspettare troppo, però).

ps. in bocca al lupo a tutte quelle ragazze che domani ricominciano la scuola (non so se invidiarvi o meno)!

un abbraccio e un bacio,
difficileignorarti.

Se volete conoscermi, fare domande, se avete curiosità (su di me o sulla storia o su quello che voglio postare in futuro perchè, sì, ho delle idee) potete trovarmi qui, mi farebbe davvero piacere conoscere le mie lettrici! 


 
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Capitolo 7
*** Sixth. ***





 
Tom era rimasto nell’angolo di quella stanza, seduto per terra, le ginocchia al petto, la faccia nascosta tra esse: era praticamente mattina e lui non aveva la più pallida idea di che  cosa fosse successo, ma sapeva bene che dietro il rapimento di Emmeline, c’era Liam.

Era troppo bello per essere vero. Era troppo bello che loro due si fossero riappacificati, che fossero insieme a lottare per la loro bambina. Era troppo bello che Liam se ne rimanesse con le mani in mano, nonostante sapesse della polizia fuori dal motel e della visita di Gustav.

Non ce l’avrebbe mai fatta da solo, nemmeno con l’appoggio della polizia: Liam e i suoi uomini erano troppo forti e qualcuno si sarebbe fatto male, molto male e tutti avrebbero sofferto.

Si asciugò le lacrime e tirò su col naso, in modo poco elegante e raffinato, come quando era un bambino, quando qualcuno gli faceva male, o quando qualcuno gli rubava la merenda a scuola, o quando suo padre lo picchiava e sua madre non era in casa a proteggerlo.

Voleva tornare indietro nel tempo, voleva cancellare tante cose, tanti episodi, tante conoscenze: voleva essere una persona diversa, voleva essere nato in un’altra città, avrebbe voluto una vita diversa, in generale.

Solo Emmeline non verrebbe eliminata dalla sua vita: no, lei l’avrebbe fermata per strada, nei corridoi a scuola, si sarebbe innamorato di lei centomila volte.

Scoppiò di nuovo in lacrime, ripensando a come, la notte scorsa, gli uomini di Liam gliel’hanno strappata dalle braccia, portandogliela via.

Lui aveva giurato, aveva promesso, di prendersi cura di lei, di proteggerla da tutto e da tutti, e la notte scorsa non ne era stato in grado, come non era stato in grado di proteggere la sua bambina, evitando, magari, la situazione in cui si trovavano adesso.

Si sentiva un fallito, un rifiuto della società, esattamente come lo definiva Liam: e aveva ragione, dannazione, era proprio così che si sentiva.

Quando qualcuno aprì la porta di quella stanza, non ci fece nemmeno caso, non era dell’umore, e se qualcuno fosse andato a prenderlo, lui non ci avrebbe nemmeno fatto caso: magari l’avrebbero portato da Emmeline, magari avrebbe potuto difenderla, magari avrebbe potuto salvarla, in qualche modo.

«Tom?» la voce di Bill arrivò dritta alle sue orecchie, ma il moro rimase immobile, nascosto, lasciando il biondo ai suoi pensieri.

Bill si guardava intorno, trovando molte cose riversate sul pavimento, del sangue che macchiava le lenzuola e Tom rannicchiato in un angolo, nessuna traccia di Emmeline.

Si ritrovò a deglutire quello che doveva essere un masso, prima di avvicinarsi al moro e sedersi al suo fianco.

«Cosa è successo?» mormorò piano.

Tom alzò la testa, senza però guardarlo in faccia.

«Hanno rapito Emmeline, me l’hanno strappata dalle braccia» sussurrò, prima di scoppiare nuovamente a piangere.

Bill si congelò sul posto: non poteva credere alle sue orecchie.

Non avrebbero mai potuto vincere quella guerra da soli, non ce l’avrebbero fatta, Liam Spencer era troppo forte per loro, e con tutti gli uomini che potevano lavorare per lui, loro non avevano possibilità. Erano solo dei moscerini che potevano essere schiacciati in qualsiasi momento, e già aveva cominciato.

«Forse era meglio se non fossi entrato nella vita di Em, gliel’ho solo rovinata» Bill sentì quelle parole uscire dalla bocca di Tom e per poco non gli venne voglia di mettergli le mani intorno al collo e strozzarlo: quella era un’assurdità bella e grossa. «Magari ora potrebbe essere felice, a casa, o al lavoro, con un altro uomo, qualcuno che la ama e che può darle tutto quello che vuole» continuò e Bill gli mise una mano sul braccio, come a volerlo invitare a stare zitto.

«Tu non sai quello che stai dicendo, Tom» borbottò Bill, scuotendo la testa. «Conosco Emmeline da tanto, tantissimo tempo, e non l’ho mai vista felice come quando è con te» spiegò a bassa voce. «Anche se non vi foste conosciuti a scuola, vi sareste incontrati da un’altra parte e sarebbe, comunque, entrata nella tua vita, stravolgendola e cambiandola» aggiunse piano, guardando un punto davanti a sé. «Magari sareste finiti come amanti, o magari qualcos’altro, ma voi due siete destinati accidenti! Lei ti ama per quello che sei, con tutti i problemi che hai avuto e, nonostante Liam, c’è sempre stata e sempre ci sarà» il moro portò lo sguardo su Bill, colpito dalle sue parole. «Ora troviamole e portiamole a casa» concluse, alzandosi dal pavimento e porgendo una mano a Tom.

La accettò di buon grado.


 
***


Emmeline strattonò con forza, per l’ennesima volta, la corda che le legava le mani: per quella che aveva ai piedi, ci aveva rinunciato da un pezzo, non ci riusciva proprio.

Continuava a piangere da quando l’avevano portata in quel posto: era chiusa in una stanza buia, sporca e fredda. Le avevano tappato la bocca con dello scotch grigio.

Quella corda le  stava solcando i polsi, le stava facendo male, la pelle stava bruciando e aveva paura che da un momento all’altro avrebbero cominciato a sanguinare.

La porta della stanza si aprì con un cigolio, spaventandola: sgranò gli occhi nel buio, cercando di capire chi potesse essere, anche se, se lo immaginava. Si raggomitolò in un angolo della stanza, allontanandosi da quella persona.

«Emmeline» la voce di Liam le arrivò alle orecchie, pugnalandola al cuore: l’aveva davvero fatta rapire, l’aveva davvero fatta strappare dalle braccia del suo uomo. Non bastava il fatto che avesse rapito la sua bambina, non bastava il fatto che gliela stesse tenendo lontano e che stesse facendo soffrire un’intera famiglia. «Emmeline?» mormorò ancora, avvicinandosi a lei, accendendo poi la luce: la mora strizzò gli occhi, non abituata alla luce. Liam aveva un vassoio tra le mani e nel suo sguardo lesse tanto dolore e dispiacere.

Si avvicinò a lei, e cautamente le tolse lo scotch dalla bocca, permettendole di prendere altra aria: ne approfittò per accarezzarle una guancia e asciugarle le lacrime.

Emmeline girò il volto, evitando di guardarlo: come si permetteva? Prima la faceva rapire e poi le donava carezze? Chi si credeva di essere?

«Mi dispiace» sussurrò, accarezzandole i capelli.

«Smettila di toccarmi, ti prego» mormorò la mora, tra i singhiozzi e le lacrime che non smettevano di scendere copiose sulle sue guance.

Liam ritrasse immediatamente la mano: gli faceva male vederla così, e lui stava peggiorando la situazione. Non lo guardava in faccia, se ne stava rannicchiata in quell’angolo, a piangere.

«Perché?» chiese piano, continuando a fissare il muro, anche se non vedeva molto, aveva gli occhi pieni di lacrime, e il muro era sporco.

«Dovevo, Emmeline, e mi dispiace, dico davvero» rispose lui, scrutandole il profilo.

«No, l’unica cosa che devi fare è ridarmi mia figlia e lasciarmi andare» sbottò, voltandosi di scatto verso di lui. «Tu hai sempre detto di amarmi, che mi volevi al tuo fianco, e poi mi fai rapire, solo perché vuoi fare del male a Tom» ringhiò, muovendosi appena, bloccandosi non appena sentì la corda farle ancora del male. «Ma ne stai facendo anche a me e molto» abbassò la voce, poi, fissandolo dritto negli occhi. «Sono stanca di dirtelo, sono anni che te lo dico, non ne posso più» lo vide sgranare appena gli occhi, ascoltandola attentamente. «Io volevo solo un po’ di sana tranquillità, vivere la mia vita, vivere la mia relazione, ma tu…» si bloccò, riprendendo a singhiozzare.

Liam rimase zitto, forse per la prima volta nella sua vita, forse per la prima volta con lei, rimase fermo a guardarla piangere, mentre cercava di liberarsi, senza riuscirci.

«È stata la prima cosa che mi è venuta in mente» mormorò piano, sfiorandole un braccio, provocandole un gemito strozzato. «Ti sei tuffata di nuovo tra le sue braccia, avete contattato la polizia» scosse la testa, contrariato. «Quando sei arrivata a San Francisco, ti avevo chiesto di fare tutto quello che volevo, ma poi ho realizzato che io da te non volevo niente, ce l’avevo con Tom ed è con lui che me la prenderò, ma Emmeline, io non ti farei mai del male» sussurrò piano.

La mora si lasciò andare in una risata amara.

«Ah no?» mormorò, alzando le braccia, mostrandogli i segni rossi che si stavano formando sui suoi polsi, poi s’indicò le lacrime. «Questa crociata che stai portando avanti da anni deve finire, Liam, io non ne posso più!» gridò, lasciandosi andare del tutto. «Tanto vale farla finita, uccidici tutti, così sarai finalmente felice! Se Tom non può avermi, allora nemmeno tu dovresti!» urlò di nuovo, sfogandosi, ne aveva bisogno accidenti. «Hai mai pensato a quello che voglio io? Hai mai pensato che, forse, nella mia vita, sono io a dover decidere? Sono io che faccio le mie scelte, e nessuno, ripeto, nessuno può obbligarmi a fare o a scegliere qualcosa che non voglio!» Liam si alzò e fece qualche passo indietro, spegnendo la luce e chiudendo a chiave la porta. «Ecco, bravo, vattene!» gli urlò dietro, prima di riabbassare lo sguardo e appoggiare la testa al muro.

Non vedeva l’ora che tutto quello fosse finito, in un modo o nell’altro, ormai non le importava nemmeno più.

Sapeva solo che sua figlia doveva vivere, doveva crescere ed essere felice.


 
***


Ellen si sentiva presa in giro, così quella mattina aveva deciso di seguire il suo fidanzato. Georg era strano negli ultimi giorni, stava fuori praticamente tutto il giorno, non le parlava, deviava ogni discorso, senza contare che nemmeno Emmeline le rispondeva più: niente messaggi, niente risposte, niente mail, niente.

Georg camminava a testa bassa, velocemente, con le mani nascoste nelle tasche del giubbotto, mentre lei cercava di stargli dietro, senza farsi notare, senza inciampare o senza scivolare sulla neve e sul ghiaccio, doveva praticamente correre, Georg aveva il passo lungo. Non doveva perderlo di vista, altrimenti stava facendo tutto quello per niente.

Camminavano da un sacco di tempo e praticamente si trovavano nella periferia della città e questo le faceva paura: odiava quel posto, le faceva paura, le veniva ansia ogni volta che ci passava, anche se in macchina o in autobus.

Il ragazzo si voltò, guardandosi intorno e per poco non le venne un infarto: se l’avesse vista, si sarebbe trovata nei guai, e anche peggio.

Dopo essersi rivoltato velocemente, Georg si avvicinò a un gruppo di persone, che Ellen riconobbe come Tom, Bill, il migliore amico di Emmeline, e qualche poliziotto.

Aggrottò le sopracciglia, osservandoli meglio, stavano parlando, e più si guardava in giro, più vedeva poliziotti, ma non c’era traccia della sua migliore amica.

Senza pensarci, si avvicinò a loro, attirando l’attenzione del biondo, che sgranò gli occhi alla sua vista, e non appena Georg si voltò verso di lei, sentì che c’era qualcosa che non andava, qualcosa di grave.

Tom non la guardava nemmeno: se ne stava con lo sguardo basso, gli occhi coperti da un paio di occhiali da sole, i capelli nascosti da una berretta scura, e le mani nascoste nelle tasche dei jeans.

«Che ci fai qui?» mormorò Georg, prendendola delicatamente per un braccio, attirandola verso di lui. «Ellen, non dovresti essere qui» le disse poi, non molto elegantemente, ma lei non ci fece nemmeno caso, troppo occupata a fissare Tom, a cercare di capirlo, sembrava uno zombie.

«Dov’è Emmeline?» gli chiese, cercando di attirare l’attenzione del moro, senza ottenere risultati. «Tom, dove diavolo è la mia migliore amica?» sbottò, facendogli alzare lo sguardo.

I loro sguardi s’incatenarono e, nonostante, gli occhiali da sole, Ellen lesse tante emozioni diverse: paura, ansia, smarrimento.

Tom non le rispose, riabbassò lo sguardo sui suoi piedi, evitando di guardarla: non potevano coinvolgerla in quel casino.

«Signorina, non dovrebbe essere qui, ne rimanga fuori, per favore» le disse Gustav, intromettendosi, ma gli occhi della ragazza continuavano a essere puntati sul moro. «Lo dico per il suo bene, Ellen, torni a casa e ci rimanga» continuò e quella volta la bionda, lo fissò intensamente.

«E certo, signor poliziotto, lasciando il mio fidanzato e il fidanzato della mia migliore amica qui fuori con voi» sbottò, puntandogli un dito contro. «Voglio la verità e la voglio subito!» ringhiò.

Non ne voleva più sapere di sentire bugie e non voleva avere a che fare con persone che le mentissero, in ogni momento: voleva solo la verità.

Bill scosse la testa, dondolandosi sui piedi, mentre Georg bestemmiò mentalmente, chiedendosi perché la sua futura moglie era così insistente e testarda.

«È stata rapita questa notte» sussurrò Tom, cogliendo di sorpresa la ragazza: aveva la voce roca, probabilmente per il troppo pianto. «Da Liam Spencer» specificò. «Ora torna a casa, Ellen, non lasciarti coinvolgere da questa cosa, Emmeline e Arabella potrebbero aver bisogno di te in futuro» continuò serio.

Ellen sgranò occhi e bocca, incredula: Liam aveva fatto cosa?

«Sarai tu a prenderti cura della tua famiglia, Tom» mormorò lei, avvicinandosi a lui. «Non dire cavolate, ve la siete cavata più di una volta e ci riuscirete anche questa volta» aggiunse piano. «Liam non se la caverà» Tom le sorrise tristemente.

«Liam mi vuole morto, e se per liberare la mia famiglia io devo morire, bè, mi sacrificherò più che volentieri» le disse con una scrollata di spalle. «Va a casa, Ellen» le disse di nuovo.

La bionda era sempre più sconvolta: Tom si sarebbe sacrificato davvero, per amore l’avrebbe fatto. Ma non poteva essere l’unica soluzione e sicuramente non si sarebbe chiusa in casa ad aspettare qualche misera notizia, questo mai. Lei si sarebbe messa in gioco, per aiutare la sua migliore amica e la sua famiglia, non le avrebbe voltato le spalle, e non avrebbe permesso a Liam di rovinare quella famiglia.

Si voltò verso Gustav, sistemandosi al fianco del suo fidanzato e vicino a Bill e poi parlò.

«Non me ne andrò a casa e sono sicura che ci sia una soluzione, nessuno di noi deve rimetterci la pelle, lei non può permetterlo!» sbottò, spaventando i quattro ragazzi. «Per cui, faccia tutto il necessario» aggiunse più tranquillamente.


 
***


Ben si svegliò, sbattendo piano gli occhi: Emmeline aveva pianto anche tutta quella notte, si era lamentata, aveva singhiozzato violentemente, e lui aveva cominciato a pentirsi di aver preso parte a quel piano assurdo e malefico.

Lui non era così, lui era un bravo ragazzo, non rapiva le persone, tantomeno i bambini, non collaborava con i criminali, lui amava l’arte, proprio come Emmeline.

Si era lasciato fare il lavaggio del cervello da Liam, nonostante tutto quello che avesse letto su internet, sui giornali, nonostante quello che Emmeline gli avesse raccontato, e quello che Tom gli aveva accennato: lui si era lasciato intortare come uno stupido, e sarebbe finito in prigione, una volta conclusa tutta quella storia.

Probabilmente sarebbe morto prima, se lo sentiva: Liam non lascia testimoni, di nessun genere.

Due mesi prima era iniziato il suo calvario, se così si può definire: era in ospedale solo per vedere la figlia di una sua amica, o ex amica, e sul suo viso aleggiava un sorriso idiota, questo se lo ricordava bene, poi è comparso Liam, dal nulla, al suo fianco. E la prima cosa che gli venne in mente fu “io questo l’ho già visto”. Si pentì di aver accettato di rapire Arabella, esattamente, un paio di minuti dopo averlo fatto: era un mostro, una persona senza cuore. Ma aveva comunque accettato di farlo, forse per i soldi che gli erano stati offerti, o forse per vendetta nei confronti di Tom.

Ma aveva capito troppo tardi che era qualcosa di più grande, non era semplice vendetta, lui l’avrebbe ucciso seriamente, e probabilmente avrebbe eliminato anche Emmeline, sua figlia e la sua famiglia.

Con quei pensieri assurdi, si alzò dal letto controvoglia, per niente pronto per affrontare un’altra giornata in quell’inferno, infilandosi un paio di pantaloni sgualciti e uscì dalla stanza, recandosi nell’enorme salone, dove Liam stava facendo colazione mentre leggeva un giornale locale: era più che indifferente alla sofferenza di Emmeline.

«La senti?» gli chiese, riferendosi alla mora, mentre si versava un po’ di caffè in una tazza.

Liam chiuse il giornale con una lentezza disarmante e si voltò a guardarlo.

«Sì, non sono sordo» sbottò arrogantemente. «Ma di notte dormo come un angioletto, mi metto i tappi, sai» continuò, con un sorrisetto sciocco. «Può piangere e lamentarsi quanto vuole per quel che mi riguarda, almeno fino a quando non ho deciso cosa fare con lei, sua figlia e quell’idiota del suo uomo» sbottò.

Ben scosse la testa, sorseggiando il suo caffè, appoggiandosi al tavolo.

«Lasciale andare, Liam» mormorò piano, attirando, però, l’attenzione del biondo. «Non risolverai niente, loro soffriranno, ucciderai qualcun altro e, probabilmente, ti daranno la pena di morte» alzò le spalle non curante: quella era solo la verità.

«Con questo, cosa vuoi dire?» gli chiese stringendo i pugni e digrignando i denti, ma Ben se ne infischiò altamente, sarebbe morto ugualmente.

«Che mi sto pentendo di tutto questo, Liam!» sbottò, battendo forte la tazza sul tavolo, lasciandola distruggersi. «Il piano iniziale non era questo! Non era quello di ricattare Emmeline, dovevi prendertela con Tom!» gli puntò un dito contro. «E quella poveretta, assieme a sua figlia, sarà traumatizzata a vita!» sputò con odio, aggrottando le sopracciglia, avvicinandosi a Liam, più basso di lui di qualche spanna, che lo sfidava con lo sguardo.

«Non sei tu, qui, a decidere! Tu sei l’ultima ruota del carro, devi stare zitto e obbedire!» rispose a tono, fregandosene di essere sentito: nessuno doveva mettergli i bastoni tra le ruote, nessuno poteva sfidarlo, nessuno poteva dirgli quello che doveva, o non, fare. «Quella puttana mi ha mandato segnali confusi, poi è tornato quell’idiota ed io sono sparito, mi ha illuso, mi ha fregato, me la devo prendere anche con lei» spiegò, dato che, in precedenza aveva omesso quel dettaglio.

«Forse sei tu, ad averli interpretati nel modo sbagliato» puntualizzò Ben, alzando un sopracciglio, sfidandolo. «Fortuna che dicevi di amarla, che era tutto per te, il centro del tuo mondo, che non l’avresti mai sfiorata, nemmeno con un fiore, lei era preziosa. E ora? Cos’è, ora, Liam? Un ostaggio che deve stare lì alla tua mercé?» ridacchiò, scuotendo la testa, stupito, e stupido, ricordando le parole, alcune, che il biondo gli aveva detto quando si erano conosciuti. «E non credo che Emmeline meriti di essere chiamata in quel modo, non è mai venuta a letto con te, così come ha fatto con me…» non riuscì a finire la frase.

Cadde a terra, con una pallottola piantata al centro della fronte. Un Liam furente era di fronte al suo corpo, dominandolo dall’alto, con una pistola ancora fumante tra le mani.

«Tu parlavi troppo» sputò con odio.


 
***


Gustav aprì un paio di cartine sul tavolo presente nel salotto a casa di Ellen e Georg. La ragazza si era impuntata, non voleva lasciar perdere, e i quattro ragazzi si erano dovuti rassegnare. Tom se ne stava in silenzio, a osservare, probabilmente a rimuginare su tutto quello che era successo, mentre Georg, Bill e Gustav pensavano a voce alta, sovrapponendo migliaia d’idee, di pensieri. Ellen, nel frattempo, era stata convinta a preparare qualcosa da mangiare per tutti.

Non poteva fare altro, momentaneamente.

Mentre aspettava che la pasta cuocesse, si prese qualche istante per osservare Tom, seduto, quasi, composto in un angolo del divano, in silenzio, immobile, con lo sguardo fisso davanti a sé, lo sguardo di chi ha perso tutto, o che ha questa sensazione, lo sguardo di una persona piena di dolore, di sofferenza. Ellen aveva paura che gli potesse venire un infarto da un momento all’altro.

Sembrava isolato, come se stesse su un altro pianeta, non molto lontano da loro, ed era così che Tom si sentiva: o voleva sentirsi. Preferiva stare su Plutone, o magari in un altro Universo, piuttosto che vivere l’incubo che lo stava perseguitando. E non stava dormendo. E non ci aveva nemmeno provato, aveva il terrore di vedere il viso di Emmeline e di sentirla chiedergli aiuto. E lui non sapeva come e cosa fare. Si sentiva perso.

Quando il suo cellulare iniziò a vibrare sul tavolo, lui rimase nella stessa posizione, al contrario di Bill, che lo fissava, come a volergli dire di rispondere. All’esasperazione, fu proprio Bill a rispondere, o meglio, a schiacciare il tastino verde del cellulare, mettendo il vivavoce. Sicuramente era Liam.

«Non mi piace per niente il gioco a cui state giocando» e proprio la sua voce li fece trasalire, uno per uno, e fece risvegliare Tom dal suo profondo stato di coma vegetativo.

«Brutto lurido figlio di puttana!» scattò contro il telefono. «Cosa hai fatto a Emmeline?» domandò con rabbia: i pugni chiusi stretti vicino ai fianchi, le nocche bianche, la mascella contratta, le sopracciglia aggrottate, il fiato corto e grosso. Un déjà-vu.

Si sentiva come quando era un ragazzino, prima di conoscere Emmeline, quando faceva a botte con tutti, quando era sempre incazzato, quando l’unica cosa che lo rendeva felice era proprio pestare la gente, minacciarla.

«La tua dolce fidanzatina sta bene, per ora» ridacchiò maleficamente e la rabbia crebbe ulteriormente: la sentiva scorrere. «Stavo giusto pensando a cosa potrei farle» mormorò lentamente. «Ucciderla o lasciarla viva?» chiese, più a se stesso che a Tom, che fissava il telefono come se Liam fosse davvero lì, come se quel piccolo oggetto avesse le sue sembianze: voleva distruggerlo. «Ma per oggi ho già fatto un cadavere, magari domani» sussurrò.

Tom si sentì morire: il cuore si spezzò in mille pezzettini al pensiero che quel mostro avesse ucciso la sua bambina, il suo tutto, proprio come Emmeline.

«Che cosa hai fatto?» chiese il moro con la voce che tremava violentemente.

«Oh, non preoccuparti, non potrei mai fare del male a una così bella bambina» mormorò e Tom si sentì leggermente sollevato, anche se faticava a credergli. «Sto osservando il cadavere di Ben, anche tu lo trovavi troppo chiacchierone, Tom?» Gustav e Bill lo guardarono, e il moro aggrottò le sopracciglia. «Non m’interessa relativamente la tua risposta» aggiunse poco dopo. «E Bill, la checca, è ancora vivo? E scommetto che mi sta ascoltando» anche Bill incenerì il cellulare con lo sguardo.

«Che cosa vuoi, Liam?» sbottò Tom, cercando di attirare nuovamente la sua attenzione.

«Voglio mettere fine a questa storia, Kaulitz, e lo voglio fare al più presto, l’ho tirata avanti troppo per le lunghe, e ora sono stanco» disse seriamente. «Più tardi ti manderò i dettagli, non ti allontanare troppo nel frattempo» chiuse la chiamata così, senza aggiungere altro.

Gustav portò lo sguardo su Tom, cercando di leggere i suoi occhi o le sue espressioni facciali, e lo vedeva così arrabbiato, così nervoso, sembrava voler uccidere qualcuno da un momento all’altro.

Lo vide prendere il vaso di fiori che era sul tavolo e lanciarlo contro il muro, con violenza: Ellen saltò sul posto, spaventata da quel gesto, così improvviso e violento. Quel vaso di vetro contenente le rose che Georg le aveva regalato, era distrutto in mille pezzettini, sul pavimento.

«Io lo uccido quel figlio di puttana!» sbraitò con odio, prendendosi la testa tra le mani.

Ellen si avvicinò a lui, poggiando una mano sulla sua spalla, attirando la sua attenzione: Tom la guardò, cercando di trattenere le lacrime che minacciavano di uscire da un momento all’altro, e poi la abbracciò, stringendola a sé, scoppiando in un pianto disperato, aggrappato a lei.




 
*******


Sono tornata! Contente?
So di averci messo un'eternità e mi scuso per questo. Avevo detto che avevo un lavoro, bè l'ho lasciato, non faceva per me, quindi tornerò a scrivere regolarmente, almeno spero.
In ogni caso, vi piace il capitolo? Ve lo aspettavate?
Bè, vado un pò di fretta, ho delle cose da fare, voi intanto godetevi il capitolo, in attesa del prossimo, e se  vi va, potete lasciarmi una piccola recensione, ne sarei felice :))

un bacio e un abbraccio,

difficileignorarti. 



 
 

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Capitolo 8
*** Seventh. ***





Georg aveva convinto Tom a dormire qualche ora: non l’aveva mai visto in quelle condizioni. Lo conosceva da tantissimi anni e quella era la prima volta che perdeva la testa e il controllo. E la motivazione era più che semplice: si trattava della sua famiglia, della donna che amava e della loro bambina, e lo capiva benissimo, lui avrebbe fatto la stessa e identica cosa, senza ombra di dubbio.

Quello che non capiva era perché Tom volesse fare tutto da solo, non voleva l’aiuto di nessuno, non voleva che nessun fosse in messo pericolo, perché già troppe persone lo erano.

Ma lui non gliel’avrebbe lasciato fare: Georg avrebbe combattuto al suo fianco, l’avrebbe aiutato, l’avrebbe accompagnato, proprio come avrebbe fatto Bill. Nonostante Tom gli avesse urlato contro di lasciarlo andare da solo, loro avevano deciso di accompagnarlo, di essere al suo fianco.

Chiuse gli occhi, appoggiando la testa allo schienale del divano in pelle, sospirando pesantemente, mentre Bill se ne stava raggomitolato sulla poltrona, profondamente addormentato.

Ellen si accoccolò al suo fianco, appoggiando la testa sulla sua spalla, inspirando il suo profumo dolce e mascolino: lo amava talmente tanto e se erano insieme, era solo grazie ad Emmeline. Dovevano salvarla, lei era la sua migliore amica, la sorella che non aveva mai avuto, e doveva essere la sua damigella d’onore.

«Tutto bene?» le chiese dolcemente Georg, baciandole una tempia con affetto.

«Stavo pensando a Emmeline» scrollò le spalle, rivolgendogli uno sguardo triste e preoccupato. «Mi manca e saperla nelle mani di quell’essere schifoso e viscido, mi fa incazzare!» il ramato ridacchiò divertito alle sue parole, carezzandole la schiena.

«Noi le porteremo in salvo, piccola, te lo prometto» sussurrò, cercando le labbra della ragazza, che non tardò a trovare. Era così bello baciarla, stringerla e sentirla vicino: ed era solo grazie ad Emmeline. Se non fosse stato per lei, l’avrebbe osservata da lontano per tutta la sua vita, troppo preoccupato a chiedersi se potessero essere qualcosa. Georg alzò lo sguardo al soffitto. «Vorrei poter fare di più per Tom» mormorò. «Mi preoccupa il suo silenzio, il suo modo di fare, di comportarsi, la sua rabbia ingestibile» scrollò le spalle. «Mi sembra lo stesso Tom di qualche anno fa, il Tom che è stato nascosto per il bene di Emmeline, per darle quello che una ragazza può volere, per essere normale, per lei» spiegò, guardandola negli occhi. «E ora è incontenibile e ho paura di una sua mossa azzardata, che metterà in pericolo tutti» Ellen gli sfiorò la guancia, sorridendogli dolcemente.

«Tom non ragiona lucidamente quando si tratta di Emmeline e di Arabelle, è la sua vita, la sua metà, la donna che lo completa, è normale» mormorò, passando le mani tra i suoi capelli. «E poi lei è il suo punto debole, lo fa incazzare tanto saperla tra le grinfie di quel pazzo, e deve sfogarsi, e lo fa con quello che gli capita tra le mani, ma si risparmia, probabilmente per Liam» aggiunse piano.

Portò lo sguardo su Bill, ancora addormentato e sorrise: sembrava un bambino indifeso, e si chiese come potesse essere stato “amico” di Liam, negli anni precedenti.

«Tom ha una pistola, ma non ha il porto d’armi» le svelò Georg improvvisamente, facendole sgranare gli occhi. «Cosa dovremmo aspettarci? Non è più lui» scosse la testa, spostando dolcemente la sua ragazza. Si prese la testa tra le mani, cominciando a pentirsi di essersi immischiato, non era tanto per lui, ma per la donna che amava e per il loro futuro.

«Sono sicura, al cento per cento, che Tom sappia cavarsela, l’ha sempre fatto, anche negli anni passati, ha sempre saputo come difendersi e proteggersi» alzò le spalle, passando una mano sulla schiena allenata del ragazzo. «Tutti lo consideravano un criminale, te lo ricordi?» chiese e il suo fidanzato annuì. «Qualcuno dovrebbe mettere fine alla vita di quell’essere spregevole!» borbottò la ragazza, beccandosi un’occhiataccia dal ramato.

«Potrebbe finire in prigione, Ellen!» si lamentò, cercando di non svegliare Bill o di attirare l’attenzione di Tom al piano di sopra. «E io non voglio perdere il mio migliore amico! C’è Gustav, c’è tutta la polizia di San Francisco a nostra disposizione!» continuò, prima che le braccia della ragazza, lo stringessero in un abbraccio soffocante.


 
***


Tom sospirò pesantemente, appoggiando la testa al muro dietro di sé: aveva ascoltato ogni singola parola che la coppia, al piano di sotto, si era detta.

Non aveva chiuso occhio nemmeno quel giorno: Georg glielo aveva consigliato vivamente, ma lui non c’era proprio riuscito. Era rimasto sul letto a pensare e ripensare a quello che poteva e doveva fare, a quello che poteva e sarebbe successo con Liam.

Lui voleva riportare a casa le sue donne, voleva riabbracciarle e dare loro la possibilità di vivere felici e, soprattutto, di essere felici.

Poteva agire da solo o poteva affidarsi alla polizia e a Gustav, come aveva fatto Emmeline in precedenza, ma loro non conoscevano Liam come lo conosceva lui.

Si alzò dal pavimento senza far rumore e ritornò nella stanza degli ospiti, quella che gli era stata affidata e che, in realtà, doveva condividere con Bill.

Aprì il suo borsone, guardando i vestiti che aveva raccattato dall’armadio, e scavando più sotto, trovò la sua pistola: deglutì pesantemente, osservandola.

Chiuse gli occhi, indeciso se andarsene e usarla o aspettare la chiamata di Liam e mettersi in contatto con Gustav: ma poi nella sua mente gli apparvero delle immagini di Emmeline, sofferente, triste, con il viso inondato dalle lacrime, e tutto quello  che riuscì a fare, fu digrignare i denti, stringere la mascella e i pugni.

Voleva riabbracciare la sua bambina e l’avrebbe fatto, anche se, forse, sarebbe stata l’ultima volta. Voleva stringere tra la sue braccia la sua amata, dirle che sarebbe andato tutto bene, che sarebbe state felici e che, in un modo o nell’altro, sarebbero dovute andare avanti con la loro vita.
Lui non voleva morire, ma non sapeva cosa il destino avesse in serbo per lui.

L’avrebbe scoperto presto.


 
***


Liam aveva deciso cosa fare. Non sapeva esattamente con quale coraggio l’avrebbe fatto, ma gli avrebbe tolto la felicità, gliel’avrebbe tolta definitivamente.

Prima di mandare un messaggio a Tom, voleva fare un’ultima chiacchierata con Emmeline e non appena entrò in quella stanza buia, dopo giorni, la vide tranquilla e silenziosa: era stesa su quel sudicio materasso che le aveva procurato, aveva gli occhi aperti, fissava il soffitto, senza muovere un muscolo.

Le era stata portata la cena, ancora intatta sul vassoio: da quando l’aveva portata lì, non aveva toccato cibo, beveva a malapena.

«Dovresti avere fame» mormorò il biondo, prendendo una sedia, avvicinandola di poco a lei: manteneva le distanze, non voleva guardare quegli occhi che diceva di amare.

«Il mio stomaco è pieno di odio e rabbia nei tuoi confronti, Liam, non c’è spazio per il cibo» disse  con aggressività, senza rivolgergli uno sguardo. «E non scomodarti ad incazzarti, tanto probabilmente ucciderai anche me, come hai fatto con Ben, come hai fatto con Ria, e con chissà quante altre persone» sbottò, non interessandosi del tono di voce utilizzato.

Liam scosse la testa: lei non aveva idea di quante persone fossero morte per mano sua, non ne aveva idea.

«Stasera rivedrai Tom, sei contenta?» le chiese, cambiando discorso.

La sentì ridacchiare appena.

«E poi ci ucciderai tutti e tre, è questo che vuoi fare, non è vero?» chiese, voltando il viso verso di lui: fortunatamente per lui quella stanza era troppo buia, così da non poter vedere l’odio che c’era all’interno dei suoi occhi.

«Non svelo mai i miei piano, piccola» mormorò, alzando un angolo della bocca con fare malizioso. «Non hai idea di quello che mi frulla per la testa» continuò, alzandosi, muovendo qualche passo verso di lei. «In questo preciso istante, vorrei prenderti e sbatterti contro il muro, come non ho mai avuto la possibilità di fare» le disse, piegandosi sulle ginocchia, sfiorandole il viso con un dito, passando poi al braccio coperto da una maglietta consunta, spostandolo alla coscia destra.

Emmeline si ritrasse disgustata, rannicchiandosi nel suo angolino: non aveva paura, le faceva semplicemente schifo.

«Vuoi sapere cosa frulla nella mia di testa?» chiese, suscitando la curiosità nel ragazzo. «Forse quello che penso sempre, che sei un pazzo da manicomio, e dovrebbero rinchiuderti al più presto, lasciarti a marcire dentro una di quelle stanze» sbottò, ricevendo un forte schiaffo sulla guancia, tanto da farle voltare la testa.

Non era mai stata picchiata, fatta eccezione per quello schiaffo che Tom le aveva dato la prima volta che si erano conosciuti o parlati: forse se l’era cercato, si era messa in mezzo, ma quello che le aveva appena dato Liam era stato tutt’altro, era voluto e le aveva fatto un male cane.


 
***


«Tesoro, va a chiamare Tom, la cena è pronta» sorrise pigramente al compagno, sentendo Bill ridere.

Era incredibile. Bill si era rivelato alla mano, amichevole, dolce e piuttosto simpatico. L’aveva aiutata perfino a preparare la cena, ed era davvero bravo ai fornelli, al contrario di Georg che riusciva a bruciare, addirittura, la padella, per questo, solitamente, lo chiudeva fuori dalla cucina.

Georg aveva salito i gradini due alla volta, aveva una fame da lupo: erano almeno due ore che quei due cucinavano e ridevano, si era ingelosito un po’, ma poi aveva sentito il profumino che veniva dalla cucina e il suo stomaco aveva cominciato a reclamare il cibo.

Aprì la porta della stanza degli ospiti senza troppe cerimonie, pronto a svegliare il suo migliore amico con un bello scherzetto, ma quando accese la luce, il suo sorriso si spense. Tom non era nella lì: nella stanza immacolata c’era il suo borsone, e sul comodino affianco al letto aveva lasciato un bigliettino.

 
Non voglio che vi mettiate nei guai, più di quanto non lo siate già, quindi affronterò Liam da solo. Terminerò questa faccenda, riuscirò a ridare, in un modo o nell’altro, la libertà alla mia famiglia. Se mi dovesse succedere qualcosa, vi scongiuro, prendetevi cura di Emmeline e di Arabella, non abbandonatele.
Tom.
 

Lo lesse velocemente, e alla stessa velocità lo accartocciò, lasciandolo cadere sul pavimento, prima di tirare un pugno nel muro e urlare di rabbia.

Ellen e Bill lo raggiunsero velocemente. La ragazza si portò le mani alla bocca, non appena vide la mano del suo fidanzato sanguinare.

«Se n’è andato! Lo affronterà da solo!» gridò in preda alla disperazione il ramato.

«E quando sarebbe uscito?» chiese Bill, e i due ragazzi arrossirono violentemente. «Okay, non voglio sapere i dettagli, quindi mentre dormivo e mentre voi due vi accoppiavate come conigli, Tom ha pensato di tagliare la corda» borbottò, grattandosi la nuca, imbarazzando ulteriormente i piccioncini. «Dobbiamo trovare Tom, prima che lui trovi Liam» concluse, come se fosse la cosa più semplice del mondo. Per quello, Georg, scoppiò a ridere istericamente, avvicinandosi velocemente a Bill.

«E come cazzo pensi di fare?» sbottò, prendendolo per il colletto della maglia, con rabbia, facendo preoccupare Ellen, che li guardava, senza azzardare un avvicinamento. «Dimmelo, Bill! Noi non sappiamo niente di niente, non abbiamo niente in mano!» continuò, fuori di testa. Lui non avrebbe perso il suo migliore amico, e nemmeno Emmeline e Arabella, non l’avrebbe permesso. La sua vita era già stata abbastanza una merda in precedenza, non sarebbe peggiorata. «Chiama Gustav, fai in modo che mobiliti tutta la polizia della città, dello Stato, fagli chiamare i federali, FBI,   l'esercito, quello che ti pare, ma nessuno di noi dovrà finire in ospedale, o peggio, questa notte» spiegò lentamente, a bassa voce, guardandolo dal basso. Era dannatamente serio, nemmeno Ellen l’aveva mai visto così.


 
***


Aveva noleggiato una macchina. Non gli sembrava il caso di rubarne una. Fumava una sigaretta nell’oscurità di quella via poco traffica. L’ennesima sigaretta. Aveva praticamente finito l’intero pacchetto. Era fermo poco distante la casa dei genitori di Emmeline: voleva entrare, spiegare tutta la situazione, ma non ne aveva il coraggio. Suo padre l’avrebbe accusato di quello, l’avrebbe incolpato, e Tom non poteva sopportarlo. Sapeva che era colpa sua, non avrebbe mai dovuto permettere niente del genere.

Gettò il mozzicone della sigaretta dal finestrino, passandosi, poi, le mani sul viso, cercando di calmarsi. Ripensò al momento in cui era uscito dalla casa di Ellen e Georg, ne aveva proprio approfittato. Ridacchiò, nel momento in cui si ricordò di quello che la coppia stava facendo, ma si riprese subito. Anche lui voleva poterlo fare. Stringerla, baciarla, amarla, toccarla, e probabilmente non avrebbe più potuto farlo. Quando vedeva il suo migliore amico e la sua fidanzata insieme, intenti a coccolarsi, baciarsi, si sentiva geloso. Non riusciva nemmeno a guardarli, perché fino all’attimo prima anche lui poteva farlo, mentre l’attimo dopo era finito tutto nel cesso, perché un pazzo psicopatico aveva fatto rapire la sua famiglia.

Tirò un pugno al volante, reprimendo un urlo.

Non vedeva l’ora che quella storia fosse finita. In un modo o nell’altro.

Bill lo aveva chiamato almeno due decine di volte, mentre Georg gli aveva mandato dei messaggi: aveva ignorato e cancellato tutto. L’avrebbe fatto da solo.

Qualche minuto dopo il suo telefono vibrò di nuovo, ma il mittente, quella volta, era Liam.


 
***


«L’hai trovato?» chiese nuovamente Georg a Gustav. Quest’ultimo gli lanciò un’occhiataccia, evitando di rispondere. Il ramato sentiva di essere diventato vecchio tutto d’un colpo. Quello doveva essere un incubo. Voleva riavere i capelli lunghi solo per poter passarvi le mani e tirarli con tutta la forza che aveva. «Porca puttana, Gustav, a quest’ora potrebbe già essere successo il finimondo!» urlò preso dalla disperazione.

Tutti lo guardarono a occhi sgranati, preoccupati da quella sua reazione. In effetti, pure lui si sentiva strano. Da manicomio. Ci sarebbe finito se quella situazione non si fosse conclusa al più presto. Voleva chiudere l’anno, cominciarne uno nuovo, sposare la donna che amava, essere felice, e dimenticare tutta la merda che aveva contaminato la sua vita. Non chiedeva molto, in fondo, no?

Uscì sul balcone, non preoccupandosi di prendere una giacca, e si accese una sigaretta. Inspirò profondamente, chiudendo gli occhi, alzando il viso verso il cielo. Era freddissimo, e lì, in quel momento, si sentiva in pace. Non appena sentì le braccia della sua ragazza cingergli la vita, sorrise, poggiando le mani su quelle della donna che amava, stringendole e accarezzandole.

«Non dubitare» mormorò Ellen, appoggiando la guancia alla schiena ampia del ragazzo, inalando il suo profumo. Lo amava così tanto. «Non essere così teso, ti prego» continuò, mordendosi il labbro inferiore, cercando di non piangere. «Siamo tutti preoccupati, tu in particolare, ma così esageri» gli disse piano. «E, comunque, Gustav ha una pista» gli disse, finalmente, e Georg si rilassò visibilmente. «Ora aspettiamo» soffiò e Georg annuì, finendo di fumare la sua sigaretta.

«L’ho trovato!» l’urlo di Gustav attirò la loro attenzione.


 
***


Aveva salito di corsa le scale. Non voleva prendere l’ascensore, non avrebbe aspettato altro tempo. Il tetto di quel palazzo sembrava così lontano. Si sentiva così stanco.

Arrivò sul tetto, investito da un colpo d’aria fredda, gelida. Chiuse gli occhi, deglutendo, cominciando a pregare e a pentirsi di essersi presentato solo, senza aver detto niente a nessuno. Quando li riaprì e si voltò alla sua destra, il panico e la paura cominciò ad invadere il suo corpo: Emmeline era inginocchiata a terra, con la testa bassa e una pistola puntata alla testa. Liam stava sogghignando, come se fosse divertente puntare una pistola alla testa della donna che diceva di amare.

Qualcuno gli tirò un calcio dietro al ginocchio, obbligandolo a inginocchiarsi. Urlò dal dolore, attirando l’attenzione di Emmeline. La ragazza sgranò gli occhi, e solo allora Tom notò il viso inondato dalle lacrime. Era distrutta, stanca, deperita, sciupata, ma per lui era sempre bellissima.

«Tom» mimò lei con le labbra, mordendosi il labbro inferiore. Il moro le sorrise appena, ma poi iniziò a piangere, senza fare rumore.

«Finalmente la coppia è riunita» ridacchiò il biondo, avvicinando il viso a quello della ragazza. «Hai visto? L’uomo che ami è di fronte a te» le disse, annusando avidamente il profumo della ragazza, provocando tanto rabbia in Tom. «Ancora per poco» sussurrò in modo che solo lei potesse sentire.

«Allontanati da lei, porco schifoso!» urlò Tom, fuori di testa, ma uno degli uomini di Liam lo tenne fermo al suo posto, bloccandolo. «Cosa vuoi? Sono qui, porca puttana, dimmi ciò che vuoi!» gridò, puntando gli occhi sulla ragazza, che aveva, di nuovo, abbassato lo sguardo, come se sapesse già cosa potesse capitargli. «Dov’è mia figlia?» sbottò, domandando. Non la vedeva lì e voleva, assolutamente, essere sicuro che stesse bene. La sua piccolina.

Liam scoccò due dita, e un altro uomo si presentò con in braccio la sua bambina. Dopo mesi poterla rivedere era una sensazione bellissima. Quella bambina era sangue del suo sangue, carne della sua carne. Voleva stringerla tra le braccia, dirle quanto l’amava, e voleva dirlo anche alla donna che amava.

«Hai ragione, ti do dieci minuti di tempo da passare con loro, poi ti dico quello che dovrai fare» mormorò, avvertendolo. L’uomo dietro di lui lo obbligò ad alzarsi, spingendolo di fronte ad Emmeline, facendolo inginocchiare di nuovo. «Dieci minuti» ripeté, allontanandosi di qualche metro, con alcuni dei suoi uomini, dopo aver lasciato Arabella tra le braccia della madre.

Tom allungò le braccia, stringendole entrambe, affondando il naso nei capelli della donna che amava, singhiozzando. Era così bello tenerla stretta tra le braccia. Con una mano accarezzava la testolina piena di capelli di sua figlia. Sorrideva tra le lacrime, felice come non mai di vederla. Era così cresciuta: sembrava spaesata, piena di terrore, ma nonostante quello sembrava stare bene.

«Starete bene» mormorò all’orecchio della ragazza. «Ellen e Georg si occuperanno di voi e poi ci sono i tuoi genitori» sorrise tristemente il ragazzo, mentre negli occhi di Emmeline si leggeva la paura e la disperazione.

«No, Tom!» sbottò, stringendo il suo viso tra le mani, obbligandolo a guardarla. «Staremo bene tutti e tre, e torneremo a casa, a fare la nostra vita» disse piangendo, mentre lui scuoteva la testa, liberandosi dalle sue mani, per baciare sua figlia. «Dobbiamo organizzare il nostro matrimonio» sussurrò, avvicinandosi a lui, cercando le sue labbra, che trovò poco dopo. Era così bello sentire le sue labbra danzare con le sue, dopo tanto tempo. Approfondirono quel bacio senza troppe cerimonie. Forse poteva essere l’ultimo.

«Mi piacerebbe vederti in bianco, piccola mia» mormorò, senza lasciare le sue labbra, sfiorandole piano. «Saresti bellissima, come sempre» sorrise appena, toccandole una guancia con amore. Arabelle allungò un braccino verso il padre, riconoscendolo. Tom sorrise intenerito, baciandole con affetto la manina.

«Basta voi tre» successe tutto velocemente: tolsero la bambina dalle braccia di Emmeline e qualcuno lo allontanò da lei, mentre Liam puntò, nuovamente, la pistola alla testa della donna che amava. «Vuoi sapere cosa voglio?» mormorò il biondo, rivolgendosi a Tom. «Una scelta» continuò. La mora sgranò gli occhi, deglutendo, immaginando il peggio: le sembrava una scena da film. Quello era un incubo, ne era sicuro. «Chi ami di più tra le due? Chi sacrificheresti? Arabella o Emmeline?» il cuore della ragazza smise di battere. Non poteva averlo chiesto davvero. Non l’avrebbe fatto davvero. Non poteva essere così senza cuore.

Tom scosse la testa, a occhi sgranati: non avrebbe risposto. Non avrebbe assistito a una scena del genere. Non avrebbe mai permesso una cosa simile. La sua famiglia doveva vivere. Si sarebbe sacrificato volentieri per loro.

«Mai!» sbottò Tom, digrignando i denti, lanciandogli sguardi di puro odio.

«Allora le faccio fuori entrambe, togliendoti tutto» spiegò Liam, preparando l’arma. Emmeline gridò non appena quella pistola arrivò alla testa di sua figlia. Chiuse gli occhi, non poteva vedere. Sentiva Tom lottare per liberarsi, lo sentiva piangere. «Deciditi, cazzo!» urlò Liam. La mora riaprì gli occhi, puntandoli in quelli del ragazzo. Lo vide sussurrarle un “ti amo” e quello la fece piangere di più. Ormai anche Arabella aveva cominciato a piangere disperatamente. «10 secondi, Kaulitz, o le faccio fuori entrambe!» gridò nuovamente, cominciando a contare lentamente.

Tom chiuse gli occhi deglutendo.

Quei dieci secondi erano lunghissimi, e stava pregando che qualcuno, anche un intervento divino, potesse mettere fine a tutto quello.

«Mettete giù quelle pistole!» la voce che gli arrivò alle orecchie e che riconobbe come quella di Gustav, gli fece riaprire gli occhi. «Forza, Spencer, metti giù quella pistola!» urlò di nuovo, mentre altri poliziotti li circondarono. «Non lo ripeterò un’altra volta, metti giù quella cazzo di pistola!» Tom rabbrividì a quel tono di voce. Vide una poliziotta prendere sua figlia, portandola al riparo, al sicuro.

Tutto successe a rallentatore: due colpi di pistola partirono, provocando un rumore sordo. Uno colpì Liam e l’altro la ragazza.

Tom si liberò dell’uomo dietro di lui, precipitandosi da Emmeline, che aveva gli occhi chiusi, e perdeva sangue.

«Non mi lasciare» mormorò tra le lacrime. «Non ora che possiamo essere felici» sussurrò, stringendosela al petto.





 
*******
 
Ehm, ciao! *saluta timidamente con la manina*
So che sono mesi che non aggiorno, probabilmente non ci speravate nemmeno più, probabilmente avrete smesso di seguire questa storia e posso capirvi benissimo.
Non sono morta, non ho avuto problemi e no, non ho trovato un altro lavoro (la sfiga mi perseguita). Ho solo avuto un blocco, non riuscivo più a scrivere. Ogni volta che aprivo quel foglio di word non sapevo come e cosa buttare giù. Ma negli ultimi giorno ho ripreso a scrivere, anche se non sono molto sicura di questo capitolo, non mi convince fino in fondo.
Come sempre vi dico che non so quando riuscirò ad aggiornare, non tanto per mancanza di tempo. 
Se volete potete lasciare una recensione o solamente leggere, mi fa piacere uguale, ma sappiate che le vostre opinioni mi fanno sempre piacere. (Questa volta potete benissimo anche rimproverarmi, me lo merito).
Anche se non vi interessa, per il momento ho disabilitato il mio account faceboook per problemi vari, probabilmente lo riaprirò presto, non so quando, ma se volete parlare con me, vi lascio qualche indirizzo sotto.

Un bacio e un abbraccio,
difficileignorarti.



*torna a nascondersi nel suo angolino, in attesa*



 
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Capitolo 9
*** Eighth. ***




L’arrivo di Gustav e della polizia sembrava la risposta alle sue preghiere, ma era troppo presto per poter tirare un sospiro di sollievo. Liam era uno psicopatico criminale, doveva marcire in un manicomio e, invece, stavo puntando una pistola in testa a sua figlia e alla sua fidanzata. Come poteva, un uomo, fare del male a una bambina di soli pochi mesi?

Vide Liam poggiare la pistola sulla tempia di Emmeline. Vide la ragazza chiudere gli occhi, la vide mordersi le labbra. Poi sentì due spari, ma non ci aveva capito granché.

Gli avevano detto che Gustav aveva sparato a Liam, ma, nel frattempo, era partito un colpo anche dalla pistola del biondo, che aveva colpito la ragazza.

«Non mi lasciare» mormorò tra le lacrime. «Non ora che possiamo essere felici» sussurrò, stringendosela al petto.


Si vegliò di soprassalto, ricordando la sera precedente. Ma quell’incubo non era ancora finito: Emmeline era su quel letto d’ospedale, circondata da diversi macchinari, e quel bip assordante e fastidioso, gli ricordava che era viva.

Si passò le mani sul viso, cercando di svegliarsi. Si stropicciò un occhio, prima di afferrare una mano di Emmeline, fredda e immobile, e stringerla tra le sue mani calde. Le baciò il dorso della mano teneramente, appoggiandosi a quel materasso d’ospedale, nascondendosi tra le sue stesse braccia, prima di ricominciare a piangere.

Gli avevano raccontato che Liam era morto durante il viaggio in ospedale, e no, non gli era dispiaciuto per niente. Era quello che si era cercato fin dall’inizio. Finalmente potevano essere felici, doveva solamente aspettare che si svegliasse.

Tom voleva rivedere i suoi occhioni, voleva perdersi in quel colore simile al suo. Voleva stringerla di nuovo, baciarla, toccarla, amarla. Voleva che fosse sua per sempre, non vedeva l’ora di chiederle, di nuovo, di sposarla, di vederla in bianco. Quella ragazza lo aveva cambiato, e l’unica cosa che voleva fare davvero, era renderla felice. Se lo meritava davvero tanto.

Era stata colpita in un punto strano, tra il collo e la spalla. I medici dicevano che era stata fin troppo fortunata, che l’operazione era andata bene, ma le ore successive sarebbero state critiche. Non era ancora fuori pericolo.

La loro bambina stava bene. Era a casa con i genitori di Emmeline. Tom era rimasto con lei tutta la notte. E non aveva chiuso occhio. Non l’aveva vista per diversi mesi, e voleva osservarla in ogni minimo particolare. Era ancora piccolina, ma aveva il suo stesso naso, ma gli occhi e la bocca erano della mamma. Per lui era la bambina più bella del mondo, ma infondo era di parte, era la sua bambina.

Una mano si appoggiò, improvvisamente, sulla sua spalla, spaventandolo a morte. Saltò sulla sedia, girandosi. Bill era davanti a lui e gli sorrise imbarazzato, scusandosi con lo sguardo.

«Vai a casa a riposarti, rimango qui io con Em» gli sussurrò, sedendosi sulla sedia dall’altra parte del letto, di fronte a Tom, alla sinistra della ragazza. «Hai bisogno di dormire e Arabella ha bisogno di te» continuò piano, stringendo l’altra mano della ragazza. «Emmeline è fortunata ad averti» sorrise.

«Sono io quello fortunato, Bill» ridacchiò piano, baciandole di nuovo la mano. «Sai, lo scorso anno c’ero io su questo letto d’ospedale, e lei mi è sempre rimasta affianco, anche se non le era permesso di entrare» Bill sorrise. Se lo immaginava. «La sentivo la sua presenza, e voglio essere qui per lei, voglio esserci quando si sveglierà» giocò con le dita della ragazza. «Grazie» mormorò improvvisamente, attirando l’attenzione del biondo. «Voi avete evitato una strage» gli avevano raccontato che Bill e Georg avevano rotto talmente tanto i coglioni a Gustav per aiutare lui e la sua famiglia. Sarebbe stato in debito con loro per tutta la vita.

«L’avresti fatto anche tu» rispose Bill con una scrollata di spalle.


 
***


Ellen stava giocando con Arabella. Quella bambina era un amore, sorrideva continuamente, voleva costantemente giocare. Forse quel lato l’aveva preso dal padre. Aveva pochi mesi, era vero, ma era già una peste, birichina al massimo. Tale e quale al padre.

Georg le stava osservando dalla porta, sorridendo come un idiota. Quando era più giovane, non ne voleva sapere di avere dei figli, ma in quel momento, voleva prendere Ellen e concepire un bambino lì, seduta stante. Aveva visto Tom cambiare in quei mesi, anche durante la gravidanza. L’aveva visto anche esausto, era vero, ma l’aveva anche visto quando era nata sua figlia, sembrava un altro. Doveva essere una gioia immensa, e voleva provarla pure lui.

«Guarda chi c’è! Lo zio Georg!» mormorò Ellen, osservandolo dolcemente, con Arabella tra le braccia. Georg sorrise, avvicinandosi alle due, sedendosi sul pavimento, di fronte a loro. Arabella lo fissava, la faccina seria. Il ragazzo fece una faccia buffa, facendo sorridere la bambina. «Come sta Tom?» gli chiese, cercando di non ridere davanti alle sue espressioni ridicole.

«È distrutto» alzò le spalle. «Non vuole staccarsi da Emmeline, va fuori di testa quando i medici gli chiedono di uscire» ridacchiarono appena. «Ma lo capisco, sai? Io farei la stessa cosa» Ellen sorrise dolcemente, avvicinando il viso a quello del ragazzo, cercando un bacio, che non tardò ad arrivare. «Ti amo, piccola» sussurrò sulle sue labbra.

Ellen sorrise, commossa. Non glielo diceva spesso, e quando lo faceva, era sempre un’emozione unica sentirglielo dire.

«Voglio un figlio, piccola» mormorò anche, facendole sgranare appena gli occhi dalla sorpresa. «Lo voglio presto» sorrise.

«Su questo possiamo lavorarci» sorrise maliziosamente, contenta, prima di baciarlo di nuovo.


 
***


Era uscito per fumarsi una sigaretta. Forse due. I suoi nervi avevano bisogno di rilassarsi, distendersi. Si sarebbe fumato anche una canna. Erano anni che non se ne faceva una. Ma non gli sembrava il caso, aveva una figlia, una certa responsabilità, e la sigaretta sarebbe bastata.

Era la vigilia di Natale, e Tom se ne stava a fumare da solo, al freddo, davanti ad un ospedale, perché la donna che amava era su uno squallido letto, in condizioni critiche. Era contento che sua figlia stesse bene, che fosse a casa, al sicuro, al caldo, con le persone che la amavano davvero. La notte prima non l’aveva abbandonata un secondo, aveva vegliato su di lei. E già non vedeva l’ora di rivederla, stringerla e baciarla.

Tornò dentro l’ospedale, si prese un caffè e qualcosa da mangiare dalla macchinetta e tornò nella stanza, dove riposava Emmeline. Quella sedia era scomodissima, ma non c’era di meglio.

Era pallida, con le occhiaie ben visibili, ed era terribilmente fredda.

Le posò un bacio sulla fronte, sfiorò il naso della ragazza con il suo, e le stampò un bacio tenero sulle labbra. Non voleva piangere di nuovo, ma sentiva le lacrime pronte a uscire.

«Non ti ho preso un regalo, quest’anno» mormorò, sedendosi, bevendo un po’ di caffè caldo. «Ma ti ho riportato i tuoi anelli, la fedina e quello di fidanzamento, quello che non vedo l’ora di rimetterti al dito» sorrise appena, stringendo la mano della ragazza. «Ti amo, piccola mia, e voglio rivedere i tuoi occhioni» soffiò. «Voglio ricominciare la nostra vita insieme, con la nostra bambina» ricominciò a piangere. «Ti amo» le disse.

Appoggiò la testa sul lettino, non lasciando la mano della ragazza. Piangeva, ma voleva dormire. Si sentiva dannatamente stanco, le palpebre si stavano facendo troppo pesanti. Erano giorni che non dormiva e ne aveva davvero bisogno. Pensando al viso della ragazza, al suo sorriso e ai suoi occhi, cadde in un sonno profondo e travagliato.


 
***


C’era buio ovunque.

Le faceva male tutto, soprattutto tra la spalla e il collo, nella parte sinistra. Non si ricordava molto, non sapeva nemmeno chi le avesse sparato, ma forse poteva averne un’idea.

Sentiva una presenza al suo fianco, sicura che fosse Tom, sentiva il suo odore. Era contenta di averlo lì, non vedeva l’ora di vederlo, di perdersi nei suoi occhi. Voleva aprire i suoi di occhi, voleva vedere in che condizioni fosse, voleva accertarsi di non essere in gravi condizioni come diceva il medico.

Aveva sentito ogni cosa. I medici, Bill, Georg, Ellen, i suoi genitori, persino il pianto della sua bambina. Voleva sorridere e ridere allo stesso tempo e, invece, era immobile.

Emmeline lottò, cercando di muovere almeno un dito, sforzandosi di aprire un occhio, ma invece cadde in un sonno profondo. Nuovamente.


 
***


Si svegliò di soprassalto, c’era qualcosa che non andava. Il bip di uno dei macchinari non era più a intermittenza, era continuo.

Sgranò gli occhi, alzandosi dalla sedia così velocemente da farla cadere sul pavimento. Si precipitò alla porta spalancandola.

«Un medico!» gridò preso dal panico. «Qualcuno mi aiuti!» continuò, vedendo arrivare di corsa un paio d’infermiere e un medico. Probabilmente erano già stati allertati. Entrarono velocemente nella stanza della ragazza, obbligandolo a rimanere fuori. Avevano tirato le tende intorno al letto in cui stava Emmeline, così che nessuno potesse vedere quello che stava succedendo.

Ricominciò a piangere violentemente, non preoccupandosi di trattenere i singhiozzi. Scivolò sul pavimento, prendendosi la testa tra le mani. Le persone che passavano e lo guardavano, gli lanciavano sguardi preoccupati, straniti e compassionevoli. Era davvero disperato: non poteva perderla, non doveva.

Voleva gridare, voleva alzarsi e distruggere quella parete a suon di pugni. Aveva un dannato bisogno di sfogarsi. E senza dubbio voleva salvarla da qualunque cosa stesse succedendo lì dentro, anche se non sapeva dove mettere le mani.

Non si accorse nemmeno dell’arrivo di Georg. Il ramato era di fronte a lui, inginocchiato di fronte a lui, preoccupato come non mai. Voleva sapere cosa stesse succedendo, ma Tom rimaneva lì, rannicchiato su stesso, con il viso nascosto.

«Tom, dannazione, cos’’è successo?» chiese allarmato, scuotendolo per le spalle.

«Emmeline…» soffiò. Era a malapena udibile, ma Georg lo sentì forte e chiaro e sgranò gli occhi, pensando al peggio. Tom non continuò la frase e l’amico pensò all’unica cosa che gli venne in mente.

«Tom non mi dirai che…?» deglutì, non continuando, non aveva il coraggio di finire. Gli faceva terrore. Tom alzò lo sguardo, smettendo di singhiozzare. Non doveva nemmeno pensarlo.

«No!» sbottò, incenerendolo con lo sguardo. «Credo che abbia avuto un arresto cardiaco» mormorò, riprendendo a piangere. «Non escono e non dicono niente» continuò piano: stava passando troppo tempo. «Georg, ti giuro, sto diventando vecchio, e questa sensazione non mi piace per niente» il ramato sorrise amaramente.

Lo aiutò ad alzarsi, a sedersi su delle sedie, scomoda quanto il pavimento, ma almeno non sembrava un disperato.

«Arabella sta bene, ha preso tutto da te, non va bene questa cosa» mormorò Georg, cercando di sollevare l’animo all’amico. Infatti, Tom sorrise appena. La sua bambina. «Ellen se n’è innamorata, sai?» il moro si voltò verso di lui, trovandolo a sorridere come un idiota, con lo sguardo perso nel vuoto.

Alzò un sopracciglio, improvvisamente divertito. Si asciugò le lacrime con la manica della felpa.

«Tu vuoi un bambino» mormorò, poggiandogli una mano sulla spalla, vedendolo annuire. «E comunque Arabella piace a tutti, con due genitori come noi, mi sembra logico» ridacchiarono. «E se diventerà come la madre, dovrò preoccuparmi fin da subito» scosse la testa, mettendo da parte la preoccupazione per la donna che amava. Arabella era una bella distrazione.

Stava per aprire di nuovo la bocca per parlare, quando vide la porta della stanza spalancarsi. Le infermiere uscirono senza guardarlo in faccia e questo lo preoccupò non poco. Scattò in piedi, aspettando il medico, che non tardò ad arrivare. Si chiuse la porta alle spalle e gli poggiò una mano sulla spalla, sorridendo appena.

«È stabile» mormorò, e Tom riprese a respirare. Quello era un bel peso che si era tolto. «Il suo cuore aveva smesso di battere e fortunatamente se n’è accorto subito» spiegò. «Con un po’ di fatica siamo riusciti a riprenderla, ora sta bene, la terremo sotto controllo nelle prossime ore, ma dovrà rimanere tranquilla, quindi niente visite» a quelle parole il moro ci rimase di merda, ma non disse nulla. Si limitò ad annuire e a ringraziarlo con lo sguardo.

«Si riprenderà» sussurrò Georg, dandogli un paio di pacche sulla schiena. «Vieni, andiamo a mangiare qualcosa» sussurrò, ma negli occhi di Tom lesse il desiderio di rimanere lì, a sorvegliare comunque su di lei. «Starà bene, ma avrà anche bisogno di te nel momento in cui si sveglierà, quindi vieni a mangiare e non dire bau» mormorò, sorridendo appena. Tom forzò un sorriso e, con un ultimo sguardo alla porta, decise di seguire Georg da qualche parte.

Stava morendo di fame a dir la verità.


 
***


Era il secondo hamburger che divorava sotto lo sguardo felice di Georg. Doveva riprendere le forze, doveva riprendere quei chili che aveva perso in quelle settimane. D’altronde Emmeline e Arabella avevano bisogno di lui.

«Allora, avete deciso una data?» chiese Tom, pulendosi la bocca con un tovagliolo: Dio com’era buono quell’hamburger. Georg lo guardò, non capendo. Aveva la testa tra le nuvole. «Il matrimonio» sorrise.

«Oh» mormorò imbarazzato il ramato. «Bè, l’avevamo decisa sì, ma con questa storia abbiamo deciso di aspettare un po’» spiegò, mentre Tom annuì, capendo la situazione. «Vogliamo che ci siate anche voi, vogliamo una Emmeline in forze e felice» a quelle parole il moro annuì dolcemente. «Voi avevate in mente qualcosa?» quella volta, Tom scosse la testa.

«Avevamo pensato a un giorno dopo la nascita di Arabella, ma poi è successo questo casino, e abbiamo lasciato stare» mormorò piano. «Ma le rifarò la proposta al più presto e vorrei che succedesse tutto entro un paio di mesi, non posso aspettare ancora» sorrise tiratamente. «Voglio renderla felice, voglio che si dimentichi di tutto il male e il dolore che l’ha fatta soffrire negli ultimi mesi e negli ultimi anni, voglio la sua felicità, e voglio essere io a farlo, voglio essere il centro del suo mondo, quello che la protegge e tutto il resto» parlò così velocemente che Georg fece fatica a stargli dietro.

Sorseggiò la sua Coca Cola prima di rispondere.

«Tom, ma tu lo stai già facendo» rispose piano, guardandolo attentamente. «Tu la rendi felice, la proteggi, sei il centro del suo mondo, te l’avrà detto e ridetto almeno un miliardo di volte» gli disse, aggrottando le sopracciglia.

«No, Georg, non è vero» abbassò lo sguardo, giocando con il tovagliolo. «Se fossi stato in grado di proteggerla, adesso non sarebbe su quel letto d’ospedale, Liam non l’avrebbe rapita» puntò nuovamente lo sguardo negli occhi del ramato. «Dovremmo essere a Los Angeles, a programmare il nostro matrimonio, chissà, magari a cercare di dare un fratellino ad Arabella, e invece un cazzo!» sbottò, facendo saltare Georg sul posto.

«Ti senti in colpa» Georg diede voce ai suoi pensieri senza rendersene conto. «Tom, accidenti, non è colpa tua!» disse poi, alzando leggermente la voce. «Non farmelo ripetere mai più, per favore» mormorò il ramato.

Tom si limitò ad annuire, non molto convinto: aveva le sue idee e nessuno gliel’avrebbe fatte cambiare.


 
***


Ritornò in ospedale con la pancia piena. Aveva passato una buona mezz’ora a parlare con Bill al telefono. Sarebbe passato nella serata e avrebbe portato qualcosa da mangiare. Gli avrebbe fatto un po’ di compagnia. Anche Gustav l’aveva cercato, ma aveva evitato la telefonata: non voleva ancora parlare con lui. Avrebbe voluto fargli altre domande su due giorni prima, la sera dell’accaduto. Rabbrividì al pensiero. Non voleva proprio pensarci.

Voleva chiudere con il passato e pensare solamente al futuro. Quella era l’unica cosa importante per Tom. Il futuro.

Si bloccò davanti alla porta con uno stupido sorriso sulle labbra. Sua madre era al fianco di Emmeline e aveva portato con sé Arabella. La sua bambina era appoggiata alla sua mamma, a Emmeline, ed era la scena più bella che avesse mai visto negli ultimi mesi, nonostante la situazione. Entrò nella stanza, sorridendo appena a sua madre, che ricambiò con affetto. Le lasciò un bacio sulla nuca, prima di baciare teneramente la testa di sua figlia e la fronte di Emmeline.

«Ciao, mamma» sorrise, sedendosi al fianco della donna che amava e di fronte a sua madre. «Mi fa piacere vederti, e di vedere la mia splendida bambina» la bionda gli rivolse un sorriso carico d’amore.

«Ho pensato che portare Arabella qui, potesse fare bene a Emmeline» mormorò, osservandole. «L’amore che lega i figli ai genitori è immenso» sussurrò. Il ragazzo annuì, osservando Emmeline dormire profondamente, e Arabella addormentata sul petto della madre, con i pugni stretti. «Tom, tesoro» lo richiamò la madre, prendendogli la mano libera, attirando la sua attenzione. «Andrà tutto bene, i medici sono passati prima, hanno detto che sta migliorando, che è una donna forte» gli disse, sollevando un po’ il morale del ragazzo. Fece scorrere un dito sul braccio della ragazza, e vide la sua pelle rabbrividire. Sorrise, pensando che forse era davvero così: presto sarebbe tornata da lui.

«Grazie, mamma» sorrise, lanciandole uno sguardo.

«Figurati, tesoro» rispose. «Ora, Arabella ed io ce ne andiamo, siamo state qui tutto il pomeriggio, e forse vuoi rimanere da solo con la donna che ami» gli sorrise complice.

Arabella aprì gli occhi, puntandoli dritti sul padre. Tom sorrise, prendendola in braccio, donandole un bacio, e poi sfiorò il naso piccolo della bambina con il suo. La vide sorridere appena, muovendosi leggermente tra le sue braccia.

«No, mamma, mi fa piacere, non stare a preoccuparti» Simone scosse la testa, prendendo Arabella dalle braccia del padre. «Torneremo domani, o verrai tu a casa, non ci sono problemi, ma devi riposarti, hai un aspetto orribile» ridacchiò, facendolo sorridere divertito. «Ti voglio bene» mormorò, accarezzandogli una guancia.

«Anch’io te ne voglio, mamma» rispose dolcemente, prima di vederla uscire dalla stanza.

Sospirò, tornando a concentrarsi sulla mora. Strinse la sua mano, portandosela alle labbra, baciandone ogni dito con amore e tenerezza.

«Mi manchi da morire piccola, mi manca vedere i tuoi occhi, mi manca persino quando mi sbraiti contro perché faccio delle stronzate» sorrise amaramente. «Sai, Georg mi ha detto che vuole diventare padre ed io stavo pensando che magari, non subito se non vuoi, anche perché Arabella è ancora piccola, potremmo darle un fratellino o una sorellina» si ritrovò a sorridere come un’idiota. «Sai ogni tanto ripenso a quando mi hai detto che eri incinta, alla mia scenata disumana, per averti fatto soffrire, e non sai quanto mi sono pentito» le baciò nuovamente la mano. «Vedi? Mi ritrovo a parlare da solo» ridacchiò piano. «Voglio sentire la tua voce, voglio poter parlare di tante cose come abbiamo sempre fatto, anche le più stupide, parlare ore abbracciati nel letto» mormorò, trattenendo le lacrime. «Mi manchi amore mio» le ripeté, sfiorandole una guancia.

Emmeline, in realtà, era in uno stato di dormiveglia. Aveva sentito il peso della sua bambina, il suo calore, il suo odore. Avrebbe voluto stringerla al suo petto, con amore affetto e, a sua volta, essere stretta dalle braccia di Tom. Lui era lì, lo sapeva, gli stava stritolando una mano. Probabilmente, nemmeno se ne stava accorgendo.

Ricambiò piano la sua stretta, cercando di aprire gli occhi. Le dava fastidio la luce in una maniera assurda, e dovette strizzare gli occhi più volte prima di abituarsi. Tom non si era nemmeno accorto di niente. Le veniva da ridere, ma le faceva male tutto, quindi si trattenne, non volendo rischiare di peggiorare la situazione. Aveva già avuto un arresto cardiaco e no, non era stato per niente divertente.

«Mi stai frantumando una mano» gracchiò, chiudendo gli occhi. Tom sgranò i suoi, portandosi la mano della ragazza sulla guancia, allentando un po’ la presa, preoccupato, ma felice allo stesso tempo. La vide voltare appena la testa verso di lui, gli occhi semi-aperti e una sorta di sorriso sulle labbra.

«Ciao» la salutò Tom, felice di vederla. Sorrideva come un’idiota. Era davvero felice come il giorno di Natale, e mancavano poche ore. Il suo regalo l’aveva già ricevuto. «Come ti senti?» le chiese.

«Ho male ovunque, Tom» mormorò piano, deglutendo e bagnandosi le labbra. «Sto morendo di sete e devo andare in bagno» continuò. Il moro sorrise appena, sporgendosi per baciarle la fronte e poi le labbra. La ragazza non si tirò indietro, ricambiando il bacio. Era casto e dolce e puro. Era il loro marchio di fabbrica.

«Chiamo l’infermiera, okay?» chiese e lei annuì, sospirando appena. «Non ti muovere» le disse scherzando.

Emmeline alzò entrambe le sopracciglia, come a volergli domandare: dove dovrei andare?


 
***


«Le è andata bene, sa?» le disse il medico, una volta finito di visitarla. Emmeline lo guardò, ma non rispose. «Okay, signorina, la terremo qui qualche altro giorno, sotto osservazione, poi potrà tornare a casa» aggiunse, sorridendole appena. «Non si sforzi troppo, però» le puntò un dito contro, prima di voltarsi verso Tom, in un angolo, a braccia conserte. «Si prenda cura di lei» il moro annuì, prima di vederlo uscire.

«Ti prenderai cura di me?» chiese Emmeline piano, osservandolo attentamente.

Tom sorrise, avvicinandosi a lei, sedendosi sul letto al suo fianco, prendendole una mano, portandosela alle labbra.

«Sempre, piccola» mormorò, facendola sorridere. «Non ti lascerò in pace un secondo, non ti libererai mai di me» ridacchiarono appena. «Non voleva suonare come una minaccia, però» le strizzò l’occhio, divertito.

«Lo spero proprio» mormorò Emmeline, contenta. Era tutto quello che voleva. La sua famiglia, il suo uomo, la sua bambina. «Come ti senti?» gli chiese, sfiorandolo attentamente. Passò l’indice sul suo volto, tastando la sua pelle morbida.

«Stanco, ma felice» le sorrise. «Non sai quanto mi hai fatto preoccupare, piccola» mormorò, rattristandosi improvvisamente, avvicinandosi quanto più possibile alla ragazza. Passò una mano tra i capelli scuri e corti di Emmeline.

«Va tutto bene, Tom, è tutto finito» mormorò, piegandosi in avanti, appoggiando la testa sulla spalla del ragazzo, respirando il suo odore. Si sentiva a casa. «Staremo bene» continuò, mentre Tom avvolgeva il suo corpo tra le sue braccia, baciandole il capo con affetto. «Ti amo, tanto, tanto» mormorò, baciandogli il collo, chiudendo gli occhi.

Tom sorrise e avvertì un fremito corrergli lungo la colonna vertebrale nel momento in cui le labbra della ragazza toccarono la sua pelle.

«Ti amo anch’io, piccola, lo sai» rispose lui, continuando a stringerla. «Ma non provocarmi» mormorò, ridacchiando. Emmeline uscì dal suo nascondiglio, guardandolo dritto in faccia, chiedendogli scusa con lo sguardo. «No, non ce n’è bisogno, lo sai che ti adoro, amo vivere l’intimità con te, ma questo non mi sembra il momento adatto» la mora arrossì violentemente, cercando di liberarsi dalle braccia di Tom che, invece, rideva come un’idiota. «Non ti allontanare, non c’è bisogno di essere timidi, siamo una coppia è normale» continuò a sorriderle, vedendola così agitata e nervosa. «Ehi, calmati» le baciò una guancia.

Emmeline si sentiva così stupida. Non era la prima volta insomma, non sapeva perché fosse così imbarazzata. Scosse la testa, come a volersi riprendere e sorrise, avvicinando il viso a quello del ragazzo, cercando le sue labbra, trovandole poco dopo.

E con quel bacio si ripeterono quanto si amassero, quanto tutto quel dolore li avrebbe resi più forti e uniti. Erano di nuovo loro e con una bambina da crescere.



 
**********


Haloooo popolo di efp! 
Questa volta sono riuscita ad aggiornare prima del previsto: il mio cervello questa settimana sembrava una macchina da scrivere, quindi mi sono adattata. lol, a parte gli scherzi, qui c'è un nuovo capitolo. Stavo ragionando tra me e me e non so dirvi con precisione quanti capitoli manchino alla fine di questa storia, potrebbe essere il prossimo, come potrebbe essere fra quattro o cinque. Quindi aspettativi una probabile fine già dal prossimo (ma, ripeto, con questo non dico che il prossimo sia l'ultimo).
Vi è piaciuto il capitolo? :) 
Se volete potete lasciarmi una recensione, mi fa piacere leggere le vostre opinioni.

Un bacio e un abbraccio,
difficileignorarti.


 
 
 

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Capitolo 10
*** Ninth. ***





La sua stanza d’ospedale era stata riempita da fiori, palloncini, bigliettini vari e cioccolatini. Tutto quel profumo di fiori, di tanto in tanto, la faceva starnutire. Sorrise, mangiando un altro cioccolatino: ne aveva quasi finita una scatola, ma non gliene importava niente. Non aveva toccato cibo per giorni, così s’ingozzava come se non ci fosse stato un domani. Riportò lo sguardo sul computer portatile che aveva sulle gambe: stava guardando Dirty Dancing. Era uno dei suoi film preferiti, lo aveva visto almeno un centinaio di volte, sapeva tutte le battute a memoria, ogni cosa. Lo amava dall’inizio alla fine. Amava la storia che era nata tra Baby e Jonny. E doveva ammetterlo, all’inizio della sua relazione con Tom si sentiva esattamente come Baby: piccola e ingenua, mentre Tom era così esperto, sapeva così tanto.

Ridacchiò divertita, dimenticandosi del film: quanto lo amava. Era fortunata ad averlo al suo fianco, come ragazzo e, presto, forse, con un po’ di fortuna, sarebbe diventata sua moglie. E, Dio, non vedeva l’ora.

Tom entrò con molta disinvoltura nella stanza. Aveva un sorriso assurdo sulle labbra. Era fresco di doccia ed era, palesemente, riposato. Si avvicinò a lei, baciandola dolcemente sulle labbra, stringendola tra le sue braccia.

«Ciao, amore mio» mormorò, sfiorandole il naso con il suo. Emmeline sorrise intenerita, cercando nuovamente le sue labbra, trovandole e approfondendo il bacio. «Ehi» soffiò sulle sue labbra, aprendo gli occhi, osservando quelli della ragazza: erano felici e giocosi, non li aveva mai visti così. Lanciò uno sguardo al laptop e sorrise ironicamente. «Ancora Dirty Dancing?» le chiese, ridacchiando appena. Emmeline annuì energicamente, chiudendo il computer. «L’ultima volta che l’abbiamo visto insieme, non siamo arrivati a nemmeno metà film, troppo concentrati in altro» le ricordò, con un sorriso malizioso sulle labbra. Emmeline arrossì violentemente, alzandosi dal letto, allontanandosi da lui e dalle sue mani vaganti. «Dove vai!» rise divertito, ma non era una domanda.

«Ti piace imbarazzarmi, non è vero?» gli chiese, incrociando le braccia al petto. Non era arrabbiata, proprio per niente. Tom si avvicinò a lei, passando le braccia dietro la sua schiena, stringendola. Emmeline fu costretta a posare le mani sul suo petto per non cadere. Dio, quello era il suo posto preferito in assoluto. Stretta tra le sue braccia, avvolta dalla sua protezione, dal suo profumo: odore di casa, odore del suo uomo. «Sappi, Kaulitz, che con te guarderei ogni film, solo se poi ci concentriamo su altro» mormorò, passando le mani sulle sue spalle, scendendo lungo le braccia, ritornando sul suo petto.

«Come faccio a dirti di no?» le chiese retoricamente, abbassandosi di poco per poterla baciare di nuovo. «Mi eccita da morire quando mi chiami per cognome» sussurrò, facendola ridacchiare come una scolaretta. «Una volta mi sarei preoccupato» continuò alzando le spalle. «Vorresti ballare con il tuo uomo?» le chiese, cominciando a muovere qualche passo, mentre la mora cominciò a ridere come una matta, gettando la testa indietro. Come faceva a non divertirsi con un ragazzo così? Tom la osservò ridere e si sentì estasiato. Dio, quanto la amava. Si sedette sul letto, facendola accomodare sulle sue ginocchia.

«Voglio uscire da qui, Tom» si lamentò, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. «Voglio tornare a casa, voglio vivere la nostra vita, con la nostra bambina e voglio sposarti» sorrise, baciandogli una scapola, attraverso il tessuto della maglia scura che indossava. Anche se non poteva vederlo, pure il moro si ritrovò a sorridere come un idiota. Le baciò la nuca dolcemente.

«Arriverà presto quel giorno, te lo prometto» sussurrò, baciandole nuovamente la nuca.


 
***


Tom era in cucina, con un ridicolo grembiule addosso, mentre Georg, seduto al tavolo in cucina, stava tentando di non scoppiare a ridere istericamente. Era ridicolo vedere il suo migliore amico conciato così, ma sapeva bene che per la propria donna si fa di tutto e di più.

«Mi stupisco che i genitori di Emmeline ti lascino usare la cucina» mormorò, trattenendo a stento le risate. «Sono proprio sicuri che non brucerai la casa?» chiese e si liberò, cominciando a ridere davvero.

Tom si voltò, con una padella in una mano e un mestolo nell’altra: la perfetta casalinga disperata. Aveva gli occhi ridotti a due fessure e no, non metteva nessuna paura. Il ramato vedendo la reazione dell’amico, decise di darsi un contegno, sistemandosi le maniche della maglia.

«Emmeline sta tornando a casa, voglio fare qualcosa per lei» mormorò, appoggiando la padella con il composto dei pancake completamente bruciato. «Ma come vedi, non sono capace nemmeno di fare questi cosi, nonostante Em mi abbia insegnato» sorrise, togliendosi il grembiule della madre della sua donna, appendendolo al muro, per poi sedersi di fronte all’amico. «Come hai passato il Natale?» chiese, tracciando un disegno astratto sul tavolo con il dito.

«A casa di Ellen con i suoi genitori, una cosa tranquilla» rispose, sorridendo appena. Non voleva porre la stessa domanda a Tom, quindi decise di cambiare argomento. «Abbiamo deciso una data per il matrimonio» ammise orgoglioso e Tom gli lanciò uno sguardo curioso ma felice. «Il giorno di San Valentino» disse.

«Schifosamente romantico» mormorò Tom, ridacchiando. Lanciò un’occhiata al salone, dove Ellen si muoveva leggermente a destra e a sinistra, ballando su una musica leggera a lui sconosciuta, con Arabella tra le braccia, addormentata profondamente. «Ci sta prendendo gusto» soffiò, indicandola col dito. Georg sorrise intenerito osservando quella scena. «È una sensazione bellissima sapere che dentro il ventre della donna che ami, cresce il frutto di una notte d’amore, vederlo crescere, vederlo nascere, stringerlo tra le braccia» commentò, sorridendo dolcemente.

«Dovresti vederti» commentò il ramato. «Ne abbiamo parlato, e abbiamo deciso di provarci, di avere un bambino» ammise felice, e Tom ridacchiò, scuotendo la testa. «Senti, ma Bill che fine ha fatto?» chiese, prendendo il moro in contropiede. Non ci aveva pensato, ma il biondo era sparito da un po’. Se n’era, probabilmente, andato senza dire niente a nessuno, non aveva lasciato messaggi, non aveva chiamato. Si era affezionato a lui, tutti si erano affezionati a lui, gli era dispiaciuto.

Alzò le spalle, scrollandole. Non sapeva cosa rispondergli a dir la verità.

La serratura della porta di casa scattò, rivelando una famiglia: Emmeline accompagnata dai suoi genitori. Tom si alzò frettolosamente, correndo ad abbracciarla, stringendola tra le sue braccia, baciandole affettuosamente i capelli e la fronte, sotto gli sguardi contenti e dolci dei genitori della ragazza.

Emmeline sorrise, poggiando le mani sulla schiena di Tom, lasciandosi stringere, coccolare. Lanciò uno sguardo in giro, vedendo un cartellone con scritto “Bentornata a casa”, fiori ovunque e palloncini. Nascose il viso nell’incavo del collo del ragazzo, lasciando il via libera alle lacrime. Ma erano lacrime di gioia.


 
***


Era tornato a Fairfield senza dire niente a nessuno. Non l’aveva fatto per cattiveria, ma un po’ si sentiva fuori luogo. Era Natale, voleva stare con la persona che amava anche lui: si sentiva solo e vedere Tom e Georg in compagnia della loro donna. Anche lui ne aveva una, o forse gli piaceva semplicemente pensarla così. L’aveva abbandonata per aiutare Emmeline e sua figlia.

Se ne stava in macchina, fuori da casa di Beth: si erano conosciuti in un bar, in quello dove lei lavorava e tra loro era nata subito un’alchimia particolare. E quello che gli piaceva di più era stare con il figlio della ragazza, avuto da una precedente relazione. Non era scappato appena l’aveva saputo, era sorpreso, ma si era affezionato a quel bambino come se fosse suo. Gli aveva persino preso un regalo per Natale, ma aveva paura. Ma quella paura doveva essere affrontata, così scese dalla sua auto, avvicinandosi all’entrata dell’appartamento.

Suonò due volte il campanello e il piccolo Alex aprì la porta, abbracciandolo sorpreso. Bill si piegò sulle ginocchia, stringendolo a sé, sorridendo dolcemente.

«Ciao, scheggia» lo salutò amorevolmente, scompigliandogli i capelli affettuosamente.

«Alex, chi è? Lo sai che non mi piace che tu vada ad aprire la porta» la voce di Beth gli arrivò dritta alle orecchie e il suo cuore cominciò a battere forte, come impazzito, come se volesse uscire fuori dalla gabbia toracica da un momento all’altro. E quando la vide apparire sulla porta, con un semplice maglione rosso e i jeans, struccata, pensò che fosse la ragazza più bella del mondo. «Bill» soffiò piano.

«Ciao, Beth» rispose imbarazzato. «Posso entrare?» chiese e la ragazza negò con la testa, lasciandolo deluso, ma, infondo, se lo aspettava.

«Alex, tesoro, entra in casa intanto che Bill ed io facciamo due chiacchiere, okay?» mormorò al bambino che annuì e salutò il biondo con un sorriso enorme sulle labbra. «Sei tornato?» gli chiese la bruna, accostando la porta alle sue spalle, avvicinandosi al biondo di qualche passo, incrociando le braccia al petto.

«Mi dispiace di essermene andato così, ma la mia migliore amica aveva bisogno di me, mi dispiace» disse, ripetendo le scuse, abbassando lo sguardo imbarazzato. «Io ci tengo a te, lo sai, e adoro Alex, amo quello che c’è tra di noi, il rapporto e la complicità che abbiamo, e non voglio buttare tutto all’aria, non voglio farlo, Beth» le disse piano, osservandola attentamente.

«Anche noi ci teniamo a te, Alex non ha fatto altro che chiedermi di te in questo mese ed io non sapevo mai cosa rispondergli» gli disse, sospirando appena. «Lo so che Emmeline è importante per te, ma ci siamo anche noi ora, no?» gli chiese e Bill annuì velocemente.

«Voglio che tu la conosca, assieme alla sua famiglia» ammise. «Voglio te e voglio Alex nella mia vita, nessun’altro» le prese il viso tra le mani, riscaldandoglielo appena, sfiorando la sua pelle arrossata. «Ti concedo tutto il tempo che vuoi, tutto lo spazio che ti serve, sappi che quello che provo per te, non lo proverò per nessun’altra, tu sei l’unica, Beth» le sorrise dolcemente e quello che successe dopo proprio non se lo aspettava: la ragazza si avvicinò ulteriormente a lui, appendendosi alle sue labbra, stringendolo.

«Conoscerò i tuoi amici quanto tu imparerai a comunicare con me» soffiò sulle labbra, aprendo gli occhi, perdendosi in quelli color cioccolato del biondo: quanto li amava. «Non ho bisogno di tempo, nemmeno di spazio, ho bisogno di te, dell’uomo di cui mi sono innamorata, Bill» il ragazzo sorrise, sfiorando il naso della ragazza con il suo, felice di sentirsi dire quelle parole. «Ad Alex sei mancato molto» disse piano la giovane.

«Solo a lui?» chiese il ragazzo, provocandola. Beth scosse la testa ridacchiando. «Entriamo? Comincio a sentire freddo»  mormorò, rabbrividendo, e la giovane annuì, prendendolo per mano. «Buon Natale, piccola» le disse, poggiando nuovamente le labbra sulle sue, in un bacio dolce e soffice, cogliendola di sorpresa.

«Bleah!» il piccolo Alex si coprì gli occhi con le manine, mentre i due ragazzi ridacchiarono divertiti.

Bill si liberò del lungo cappotto nero e della sciarpa, piegandosi sulle ginocchia, invitando il bambino ad avvicinarsi, sotto gli sguardi attenti della madre. Il piccolo ridacchiò, correndo tra le braccia del biondo che, dalla tasca posteriore dei jeans, tirò fuori un piccolo pacchetto, che porse al bambino, rendendolo felice. Anche Beth era felice: guardarli insieme era sempre un piacere per gli occhi e lei non poteva proprio chiedere di meglio.


 
***


Tom stava pigramente imboccando la sua compagna: era appoggiato alla testiera del letto, Emmeline era tra le sue braccia, con un sorriso pigro e stanco sulle labbra, mentre Arabella dormiva placidamente sul petto della ragazza. Ogni tanto, appunto, Tom imboccava la giovane con un tipico dolce di Natale a lui sconosciuto, ma era buono.

«Hai intenzione di farmi ingrassare?» chiese divertita, rifiutando un’ennesima cucchiaiata di dolce. «Ho ancora diversi chili in più dalla gravidanza» si lamentò, prima di baciare delicatamente la testolina di sua figlia.

Tom sorrise dolcemente, baciandole la nuca, appoggiando la ciotola, vuota, sul comodino, stringendo affettuosamente le donne della sua vita in un abbraccio.

«Sei perfetta così come sei, non m’interessano i chili in più, lo sai» le disse. «Sei pronta per tornare alla nostra vita?» le chiese, cambiando discorso, osservando il soffitto. «Intendo a com’era prima che succedesse quello che è successo» mormorò, sovrappensiero. «Io sto cercando di lasciarmelo alle spalle, ho sofferto come un cane e non voglio più pensarci» le confessò piano.

Emmeline sospirò, scuotendo appena la testa.

«Io sono pronta ad andare avanti con la nostra vita, da qui, senza lasciarmi niente alle spalle» soffiò la mora. «È doloroso, il solo ricordo mi fa soffrire, soffro goni giorno se lo vuoi sapere» confessò. «Tutte le notti sogno quello che è successo, ma non intendo lasciarmelo alle spalle, perché fa parte di me, di noi» mormorò, sfiorando attentamente la mano del ragazzo, giocando con le sue dita. «Spero solo che Arabella non si ricordi di questa esperienza negativa, un’esperienza che le ha segnato la vita, come è successo con le nostre» voltò appena la testa per incontrare il viso di Tom, che la osservava, non capendo, ma allo stesso tempo curioso. «Non puoi dimenticare, amore» aggiunse.

Tom aggrottò le sopracciglia: Emmeline non aveva tutti i torti, infondo.

«Lo so, ma non voglio più ricordare, non voglio più parlarne» mormorò lui, sospirando pesantemente. «Io mi sento in colpa, piccola» confessò chiudendo gli occhi.

Emmeline sbarrò gli occhi, preoccupata. Non poteva credere alle sue orecchie. Non poteva credere che Tom si sentisse colpevole. Prese Arabella tra le braccia, profondamente addormentata e si alzò, solamente per sistemarla nella sua culla. Si voltò quasi subito verso il moro, che la guardava attentamente, in attesa di una sua reazione. Non capiva perché si fosse allontanata da lui in quel modo. La vide scuotere la testa, passandosi una mano tra i capelli, ravvivandoli.

«Non capisco» mormorò la mora, scrollando le spalle. «Tu non c’entri niente, non hai fatto niente» disse stranita, come se fosse ovvio.

«Appunto!» sbottò alzando la voce, spaventando la ragazza, che si voltò immediatamente verso la bambina, che continuava a dormire. «Scusami» mormorò subito dopo, alzandosi per raggiungerla. Posò le mani sulle spalle della ragazza, scendendo lungo le braccia, finendo per stringerle le mani dolcemente, baciandone i dorsi con affetto. «Io non ti ho protetto, non ho protetto nemmeno nostra figlia, ho permesso che quel porco vi facesse soffrire e per me è difficile» sospirò. «Per questo voglio dimenticare, per questo voglio andare avanti da dove la nostra vita è stata brutalmente interrotta, Emmeline» scosse la testa e la ragazza poté vedere le lacrime cominciare a scivolargli sulle guance.

La ragazza rimase immobile, interdetta e sconvolta dalle sue parole.

Si liberò delle sue mani e le portò sul suo viso, asciugandogli le lacrime, pregandolo di smettere: non sopportava di vederlo soffrire. Aveva un mal di testa assurdo, gli faceva male la spalla, ma in quel momento non gliene importava niente: voleva che Tom smettesse di piangere, che smettesse di soffrire, che smettesse di pensarci. Quello che era successo era il passato, e non sarebbe stato dimenticato, ma loro due dovevano pensare al futuro.
«Tom» mormorò, sentendolo singhiozzare. «Tom, per favore» continuò, preoccupata: avrebbe cominciato a piangere pure lei. «Tom, amore, per favore, guardami» lo pregò, costringendolo a guardarla. «Basta, ti prego, non piangere» soffiò e sentì la sua voce incrinarsi: sentiva quel magone tipico bloccarle la gola. «Noi due dobbiamo andare avanti, lasciarci alle spalle quello che è successo, ma non dimenticarlo, okay?» mormorò, mentre il moro continuava a piangere. «Abbiamo un matrimonio da organizzare» provò a cambiare discorso e vide un piccolo, piccolissimo, sorriso comparire sulle sue labbra carnose. «E poi, sai, ti ho sentito in ospedale» soffiò, mordendosi il labbro inferiore, incuriosendo il ragazzo che smise di singhiozzare, ma non di piangere. «Lo so che vuoi un altro bambino» mormorò, e lo vide scuotere la testa, sorridendole, poi, apertamente. «Il futuro, Tom, è l’unica cosa cui dobbiamo pensare, per noi, per Arabella, e chissà, magari per un altro piccolo Kaulitz» sorrise tiratamente, mentre lui portò le mani sulla schiena della ragazza, avvicinandola al suo corpo.

Scosse nuovamente la testa, poggiando la fronte su quella della ragazza, baciandola dolcemente.

«Sei la migliore delle medicine» soffiò, sedendosi sul letto e portandosela dietro: la fece sedere sulle sue gambe, baciandole affettuosamente il suo viso, la guancia, la mascella. «Riesci a farmi sorridere, a farmi stare meglio» mormorò, stringendole una mano, osservando le sue dita affusolate. «Devo rifarti la proposta» mormorò pensieroso, facendola ridacchiare.

«La risposta sarebbe sempre sì, lo sai» rispose lei, poggiando la fronte sulla sua spalla. «Basterebbe ridarmi l’anello» aggiunse.

Tom sorrise e si asciugò il viso bagnato, baciandole la nuca.

«Sei stanca?» chiese piano, lanciando uno sguardo alla culla. Emmeline annuì, accoccolandosi meglio su di lui. «Vieni, andiamo a dormire» suggerì, prendendola in braccio per poi depositarla sotto il piumone, baciandole la fronte, sfiorandole il naso con il suo, baciandola sulle labbra. Si coricò al suo fianco, spegnendo la luce e sospirò, portando le braccia dietro la testa, osservando il buio.

La mora si voltò, poggiando la testa sul petto del ragazzo che, istintivamente, portò una mano sulla sua schiena, stringendosela al petto affettuosamente.

«Tom?» chiamò Emmeline.

«Uhm?» rispose lui distrattamente.

«Buon Natale» mormorò lei, prima di crollare in un sonno profondo.

Tom sorrise, voltando il viso verso di lei, trovandola addormentata. Le baciò la fronte, inalando il suo profumo.

«Ti amo, piccola mia» sussurrò.


 
***


L’ultimo dell’anno era arrivato. La fine di quello precedente, lo stesso anno che aveva portato gioia, la nascita di Arabella, e tanto dolore e sofferenza. Ma quello nuovo sarebbe stato fantastico: si sarebbero sposati, Georg ed Ellen si sarebbero sposati, sarebbero, forse, diventati genitori, e chissà, forse pure loro avrebbero avuto un altro bambino.

Emmeline aveva ragione: non poteva dimenticare, non poteva lasciarsi tutto alle spalle, ma poteva andare avanti. E non appena sentì le braccia della ragazza stringerlo da dietro, si ritrovò a sorridere, mentre cercava di farsi il nodo alla cravatta, senza risultato.

«Non è necessaria la cravatta, amore» mormorò, prendendolo per un gomito, costringendolo gentilmente a girarsi. «La giacca e la camicia andavano benissimo» continuò, concentrata nel fare il nodo alla cravatta nera che il ragazzo portava intorno al collo, senza stringere troppo.

«Volevo essere elegante» rispose, mentre la ragazza gli lanciò uno sguardo curioso e divertito. Spostò lo sguardo lungo il corpo della ragazza, trovandola elegante e sexy allo stesso tempo: aveva un vestito bianco, non eccessivamente corto, nemmeno troppo scavato e scollato, una giacca bianca, lasciata aperta, le gambe fasciate da delle calze lavorate color carne e i tacchi. «Sei favolosa» soffiò, posandole le mani sui fianchi, avvicinandola a lui, baciandola dolcemente.

«Non devi fare colpo su nessuno» sussurrò e lui annuì, sorridendole.

«Sì, sulla mia donna» confermò serio. «La conosci?» chiese, facendola ridere, prima di tirargli un pugno scherzoso nello stomaco. «Ow» soffiò, divertito. «Come ti senti?» le chiese premuroso, scostandole una ciocca di capelli dal viso: non vedeva l’ora che si allungassero di nuovo, la preferiva di gran lunga con i capelli lunghi.

«Meglio» confessò Emmeline, sincera, con un sorriso dolce sulle labbra. «La ferita alla spalla ancora mi fa un po’ male, ma è buon segno» mormorò, scrollando appena le spalle, facendo ridacchiare Tom. «Comunque tu non me la racconti giusta» disse, prendendolo per la cravatta, costringendolo ad abbassarsi alla sua altezza. «Hai prenotato un ristorante elegante, hai invitato i miei genitori, tua madre, sei tutto in tiro ed è l’ultimo dell’anno» mormorò sulle sue labbra, provocandolo appena. «Cos’hai architettato?» gli chiese curiosa. Tom la osservava dolcemente, ma con lo sguardo malizioso: quella sera sarebbe stata speciale.

«Ti amo, piccola» rispose, baciandola di sfuggita, allontanandosi da lei ridendo appena, lasciandola interdetta.


 
***


Tom le stava accarezzando una spalla distrattamente, mentre parlava con suo padre di qualcosa a lei sconosciuto: non stava ascoltando. Le piaceva quell’atmosfera, c’era gioia nell’aria, erano in famiglia e stavano bene. Persino Arabella si guardava in giro, tra le braccia della madre, curiosa: tutti ridevano, tutti parlavano, eccetto loro due che guardavano, ma contente di essere lì. Sentì le labbra di Tom baciarle la spalla, cogliendola di sorpresa, ma non fece in tempo a dire nulla, perché la sua attenzione fu catturata da sua figlia, che strinse il dito del padre: era una scena bellissima, e non appena lo vide prenderla in braccia, baciandole il viso paffuto, pensò di sciogliersi e di piangere di gioia.

«Aww, guardate come le piace stare tra le braccia del padre» commentò emozionata la madre di Emmeline, Gemma. La mora sorrise, sorseggiando un po’ di acqua: voleva bere dello champagne, ma era ancora in fase di allattamento e non le era consentito. Anche Simone, la madre di Tom, sorrideva contenta nel vedere il figlio così felice, nel vederlo padre, nel vederlo innamorato.

Quella sera, tutti i presenti erano al corrente di quello che sarebbe successo. Tutti tranne Emmeline, ovviamente. Anche se in realtà, nessuno di loro sapeva come Tom avrebbe proceduto. Quell’anno sarebbe finito col botto, in tutti i sensi.

Il cameriere portò loro il dolce, ma Tom la bloccò prima che ne prendesse una cucchiaiata, lasciandola interdetta: voleva ingerire più cioccolata possibile. Il moro lasciò la bambina tra le braccia di sua madre e prese Emmeline per mano, dopo averle detto di indossare la giacca.

«Che succede?» chiese la ragazza, mentre uscivano dal ristorante. Le loro dita erano intrecciate, mentre passeggiavano, l’uno affianco all’altro. «Volevo il dolce» si lamentò, facendo ridacchiare il moro, che le lasciò la mano solo per posarle il braccio sulle spalle, stringendosela addosso.

«Dopo ti lascerò ingrassare» mormorò, posandole un bacio sui capelli.

Era una bella serata a parte il freddo s’intende: il panorama da quella collina era bellissimo, si vedevano tutte le luci della città. Si fermò improvvisamente, facendola girare dolcemente verso di lui, prima di baciarla dolcemente sulle labbra. Erano così morbide quella sera, sapevano di ciliegia e di quello che aveva mangiato. Le passò una mano tra i capelli, approfondendo il bacio, mentre Emmeline portò le mani sulla sua schiena, sotto la giacca, sentendo i suoi muscoli.

«Ti amo» sussurrò il ragazzo sulle labbra della giovane, facendola sorridere. Nello sguardo del ragazzo c’era tanta gioia, tanta speranza e, sì, c’era anche tanta voglia. «Ho pensato a una cosa formale questa volta» mormorò, staccandosi di poco da lei, ancora vogliosa delle sue labbra. «L’altra volta ho fatto le cose in grande, Malibu, una bella casa, una buona cena, tanti fiori, tante candele» continuò, voltandosi di poco per ammirare il panorama. La mano destra era nella tasca dei pantaloni, stringeva convulsamente la stessa scatolina in cui era chiuso lo stesso anello di fidanzamento. Indicò le luci della città, della loro città e sorrise, voltandosi verso una Emmeline piuttosto curiosa, sconcertata e innamorata. Forse aveva capito. «Abbiamo parlato di matrimonio, abbiamo deciso qualcosa, ma non siamo fidanzati» sussurrò, scuotendo appena la testa.

«Sì che lo siamo» rispose la ragazza, aggrottando le sopracciglia.

«No, non porti l’anello» rispose, tirando fuori la scatolina dalla tasca dei pantaloni, per poi riportare lo sguardo sulla ragazza che, commossa ed emozionata, si era portata entrambe le mani alla bocca. Un conto era immaginarsi una cosa, l’altro era vederla realizzarsi. «Non m’inginocchio questa volta» disse per sdrammatizzare, facendola ridacchiare tra le lacrime. «Ho pensato tanto a questa nuova proposta e non mi è venuto in mente niente di particolare» commentò Tom. «Quindi ho pensato di chiederti di nuovo di sposarmi nella nostra città» soffiò guardandola negli occhi, sorridendo. La gente che era lì fuori si era fermata a guardarli, curiosa probabilmente. «È la città che ci ha fatto incontrare, la città che ha visto nascere la nostra amicizia, il nostro amore, la città che l’ha consolidato, reso più forte, la città in cui siamo nati e cresciuti, la stessa città in cui abbiamo concepito nostra figlia» le disse, ormai anche lui con le lacrime agli occhi. «Quindi…» soffiò, aprendo la scatolina e prendendo l’anello. «… Emmeline Evans, vuoi sposarmi?» le chiese.

Tutto intorno a loro si fece improvvisamente silenzioso. Emmeline stava cercando di trattenere le lacrime: voleva rispondere, accidenti, non era nemmeno difficile farlo, l’aveva già fatto precedentemente. Si passò una mano sotto agli occhi, asciugandosi le lacrime e cominciò ad annuire, sorridendo come un’ebete, mentre Tom riprendeva a respirare. Sorrise emozionato anche lui, infilandole l’anello al dito, prima di stringerla tra le braccia. La gente intorno a loro scoppiò in un applauso, facendo aumentare i loro sorrisi.

Si scambiarono un bacio dolce, senza smettere un secondo di abbracciarsi.

«Sì, lo voglio» rispose piano al suo orecchio, chiudendo gli occhi felice.
 

 
I always be invaded by you

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Haloooo! Scusate se non ho postato prima!
Avrei dovuto postare domani, ma visto che sono buona, ho deciso di postare prima di uscire (a dir la verità sono ancora in pigiama ma è tutto normale!).
Non voglio dire molto, anche perchè sono di fretta, comunque voglio sperare che questo capitolo vi sia piaciuto! Voglio ringraziare tutte i lettori silenziosi e quelli che mi lasciano una piccola recensione ogni volta. Mi fa molto piacere!
Questo non è il capitolo finale, ma ci siamo quasi, uno o due capitoli ancora.
Da lunedì non so ogni quanto riuscirò a postare perchè (finalmente la ruota gira pure per me, daje) inizio a lavorare: fortunatamente ho degli orari piuttosto normali e decenti, quindi alla sera, forse, potrei buttare giù qualche cosa.

Comunque, ora vi saluto, buona lettura, buona serata e buon fine settimana!

Un bacio e un abbraccio,
difficileignorarti.


 







 

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