L'amore infame

di Thingsthinker
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Insegnami ***
Capitolo 2: *** Non dimenticare. ***
Capitolo 3: *** Nella nostra polvere (I°) ***
Capitolo 4: *** Nella nostra polvere (II°) ***
Capitolo 5: *** Ipocrisia ***
Capitolo 6: *** La cosa giusta ***
Capitolo 7: *** Non puoi salvare tutti ***
Capitolo 8: *** Quella notte ***
Capitolo 9: *** Le anime che partono ***
Capitolo 10: *** Lula ***
Capitolo 11: *** Gratitudine e bisogno ***
Capitolo 12: *** Il Caos ***



Capitolo 1
*** Insegnami ***



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L'AMORE INFAME è un racconto ideato e scritto da Lee, cioè me. Se vi servirà come fonte di ispirazione mi farebbe piacere che me ne parlaste.
Se me lo copiate vi spezzo le gambine. ^_^




1.
«INSEGNAMI»
 
Il ragazzetto smette di correre. La guarda. I suoi occhi azzurri sembrano accarezzarla.
Le dita rosee della bambina sfogliano le pagine di quel vecchio libro cosunto che le ha prestato la professoressa. Rinuccio l’ha sentita con le sue orecchie dirle che quel libro non doveva sporcarlo, doveva trattarlo bene.
Invece Nina ha disobbedito e ha portato quel libro nella polvere del campo da gioco, per stare appresso ai suoi fratelli più piccoli.
Rinouccio di anni ce ne ha dodici, Nina nove.
Le ha tirato i sassi qualche volta fuori da scuola. Spera che lei abbia capito che era un segno d’amore.
Però Rinuccio la notte, nel suo letto, piange; piange piano, perché se suo padre lo becca gliele suona perbene. “Un maschio non piange, Rinù, un maschio s’incazza!” griderebbe in dialetto. Ma Rino piange per Nina e perché lei non potrà mai amarlo.
Nina è intelligente. Sua sorella Maria sta nella sua stessa classe e gli dice che la maestra prende sempre Nina accanto a lei e la loda, dice quanto è brava. Gira voce che quando finirà quest’anno Ninetta andrà alle medie.
Le donne la fermano per strada. “Ninè, Ninè! Come sei brava, bambina, come sei bella! Magari anche i miei figli, quei disgraziati, fossero come te! Saluta la tua mamma, mi raccomando.”
Nina è intelligente, però è pure bella.
Così bella che fa invidia al sole, pensa Rinuccio.
Però non è una che te lo fa pesare, né che è bella, né che è intelligente. Quei pochi che sotterrano l’onore e le chiedono una mano per i compiti vengono accolti con benevolenza, li fa sedere accanto a lei e comincia a scandire piano le sillabe. Rinuccio pagherebbe per ascoltarla parlare per ore, e giorni, e anni. Però starebbe zitto, per paura di fare brutta figura. Quando lo guarda con quegli occhi scuri che gli scavano dentro, si sente a disagio.
E un uomo non dovrebbe mai sentire questo quando sta con una donna.
 
Rino fa il muratore già da un anno e sulle donne dice oscenità da muratore con altri muratori. Ma è come se quelle oscenità non potessero toccare Nina, perché Nina è sopra, sopra a tutto.
Lei esce da scuola e lui le tira i sassi, poi ognuno va a casa sua.
Qualche giorno lui la vede al campo da gioco che controlla i fratelli con un occhio e con l’altro, invece, studia. Lui sta al cantiere là vicino e ogni tanto trova una scusa per andare da lei, ci parla: più che altro lascia parlare Nina e cerca di assorbire tutto come una spugna.
 
Non lo sa che anche Nina piange.
Nina piange perché sente tutto compresso nel suo cervello, non sente di poterne parlare con nessuno.
Quando parla con Rino però sta bene. Lui è ignorante, ma non stupido. Se è per questo è pure bello, le ha detto una volta Giulietta, con quegli occhi azzurri come il mare che non ce li ha nessuno! Quando parlano con Nina, quegli occhi si fanno più grandi.
Lei parla, parla, parla, e lui vuole capire, fa domande, teme di sembrare molesto. Se rimangono troppo tempo seduti vicini arriva qualche occhiata di Lino che minaccia di dirlo al padre di Nina, e Rinuccio si allontana.
 
Così entrambi piangono, lui perché intrappolato nella sua ignoranza, lei costretta nella sua intelligenza.
Quando Rino era piccolo sognava che l’avrebbe sposata, appena fosse diventata più grande. Ma ora Rino è cresciuto e sa che Nina non si sposerà mai a sedici, diciassette, diciotto anni, come fanno le altre ragazze del quartiere – uno dei più poveri della città.
Rino è convinto che Nina crescerà sempre più bella e intelligente, e girerà il mondo, e si circonderà di uomini che la ameranno invano, perché lei sarà sempre troppo.
Poi un giorno si sposerà con uno più bello e più intelligente e soprattutto più ricco di lui, Rino. Saranno felici e Rinuccio li odierà per sempre, perché quell’uomo non è lui.
Nina alza gli occhi dal libro, lo vede e gli fa ciao-ciao con la mano. Quanto è bella. Il sole estivo batte sul selciato e solleva una calura pesante, un vento fievole che le smuove i riccioli bruni. Un giorno gli ha confessato che vuole scrivere un libro. E lui lo sa che un giorno vedrà il suo nome – non “Nina”, proprio Giovanna – sulla copertina rossa di un libro. Per questo si esercita a leggere.
Risponde al saluto, poi volta le spalle e va verso il cantiere.
Nina lo guarda allontanarsi con quella sua figura di ragazzetto cresciuto troppo in fretta, il bacino stretto, le spalle larghe, muscoli tesi sotto le braccia magre.
 
E’ così bello. Certe volte, prima di addormentarsi, si immagina di dargli un bacio. Allora arrossisce e il viso le si scalda e ha paura che sua sorella Lella, che dorme con lei, se ne accorga.
Una volta ha provato a dirlo a Giulietta, una volta, ma lei le ha risposto, con la cattiveria che hanno solo i bambini: “Lascialo sta’ a quello, Ninè, è un porco ignorante e tu sei troppo bella e troppo intelligente! Quello tiene dodici anni e fa il muratore, tu sei la gioia di tutte le mamme! Ma le senti le porcate che dice? E poi quello è uno che cerca le donne fatte, mica noi.”
“Le donne fatte” per Giulietta sono ragazzine di un paio d’anni più grandi che passano tutto il tempo a badare alla casa e si sentono importanti perché escono la sera.
Quando Giulietta ha detto quelle cose, anche più brutte, Nina non ha risposto.
 
Anche Rino ha detto di quelle cose a suo fratello Cristiano.
“Gennà,” è stata la risposta in un dialetto stretto “Quella è una cervellona e appena può da sto posto di merda se ne scappa e va a fare i soldi. Te lo dico io. Perché non guardi quelle come Giulietta, come Mimma?”
“Perché sono stupide.”
“Già. Come me e te e tutti gli altri che conosciamo. Non fa lo stronzo, ragionaci. Non si può fare.”
Anche Rino è stupido e in quanto tale deve sposare una donna stupida.
Il ragionamento di Cristiano non fa una piega.
 
“Non sei stupido” gli dice Nina un giorno “Ma non hai studiato”.
E la risposta a Rino viene di getto:
“Ti prego, Ninè, insegnami tu.”



 


Comincio col dire che questa è una storia a cui tengo moltissimo, perchè amo molto i protagonisti.
Spero vi sia piaciuto questo primo capitolo, spero che andrete avanti e spero vi innamorerete di Rinuccio e Ninetta, che poi sono i miei piccolini :3
Vi prego, non infrangete TUTTE le mie speranze!
Criticate (anche aspramente, accetto ogni genere di critica) e ditemi cosa ne pensate!
Un bacio grande,
Lee

PS: il banner sopra l'ho fatto io, se vi piace e avete bisogno di uno per una vostra storia chiedete pure, per me è uno svago :)

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Capitolo 2
*** Non dimenticare. ***


NOTA: cercherò di non dare a questa storia un'ambientazione. L'ambientarla in un borgo di Roma per me sarebbe come annullare la possibilità che la stessa identica storia accadesse in un quartiere industriale di Dublino in Irlanda, in una zona malfamata di Città del Messico, in un rione Napoletano. Quello che voglio trasmettere è che queste storie - dove la classe sociale soffoca i sentimenti - succedevano (e succedono ancora) un po' ovunque.
PS: l'epoca va dagli anni '40 agli anni '60.

 

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L'AMORE INFAME è un racconto ideato e scritto da Lee, cioè me. Se vi servirà come fonte di ispirazione mi farebbe piacere che me ne parlaste.
Se me lo copiate vi spezzo le gambine. ^_^



2.
NON DIMENTICARE

 

Nella penombra dello scantinato, qualcosa si muove.
La luce fievole che filtra dal vetro sporco della finestra illumina dapprima un ragazzo. E’ alto, bruno, robusto. La pelle butterata da tagli e cicatrici, le mani ruvide di un lavoratore che, però, impugnano un carboncino. Ancora più strano è che quel ragazzo stia eseguendo correttamente degli esercizi di matematica.
Non appena si sposta un poco, però, il mistero è svelato. Nella sua ombra, quasi protetta dalla sua mole di diciassettenne molto cresciuto, c’è una ragazza. Ha i capelli castani folti e un po’ spettinati, le labbra piene, le forme morbide. Le sopracciglia folte corrugate in un’espressione di concentrazione mentre controlla l’esercizio.
“Bravo” dice alla fine “Sei molto più portato per la matematica di quanto lo sia io.”
 
Hanno cominciato l’anno prima a studiare insieme. In un anno, Rino si è portato allo stesso livello di lei. Studia le materie base: italiano, matematica, un po’ di scienze.
Si vedono durante il suo giorno libero dal lavoro, il sabato, e poi lei gli affida compiti per tutta la settimana. Libri da leggere, di solito; quelli che lei affitta alla biblioteca scolastica e finisce in un paio di giorni.
Ora che Nina ha cominciato il liceo Rino la vede sempre più stressata, spesso ha crisi di pianto di fronte a quegli strani simboli di quella lingua antica. Non capisce perché una ragazza come lei debba impazzire su quei testi di vecchi cazzoni filosofi, per di più morti.
Quel giorno però sembra andare meglio, è già a buon punto della sua traduzione.
Di quegli incontri non sa nessuno, tranne Giulietta e Cristiano. Studiano soltanto, chiusi nello scantinato di casa di Giulietta. L’hanno ovviamente invitata ad unirsi a loro, ma solo perché sapevano che si sarebbe stufata presto, e infatti così è stato. Ogni tanto scende e butta un’occhiata qua e là con un astio sul volto così evidente da farle tenere la fronte perennemente corrugata. Si sente esclusa e a Nina dispiace, ma nemmeno poi tanto.
Rino guarda l’orologio.
“E’ quasi ora di pranzo, Ninè, dobbiamo andare”
Nina annuisce, chiude i libri e affida a Rino un foglio con qualche espressione di matematica, un paio di esercizi di italiano.
“Stai ancora leggendo quel libro che ti ho dato?” chiede.
Rino la guarda ed è terribilmente bella, almeno per lui. Chi se ne frega se gli altri dicono che ha troppi capelli, che non si dipinge mai le labbra, che c’ha i vestiti sformati. Per lui è bella, con quegli occhi grandi e quelle labbra piene ma screpolate: è bella quando corruga le sopracciglia e si concentra, quando legge e si rilassa e si attorciglia una ciocca castana attorno al dito, è bella quando è nervosa e si mordicchia le labbra.
L’altro giorno ha quasi menato Duccio perché ha detto che “Nina è poco donna, pure se c’ha le tette”. Solo perché non va in giro scollata, non si trucca, non si acconcia.
Ma Rino sa qual’è la verità. Sa che i ragazzi della sua età odiano Nina e insieme l’amano: l’odiano perché non parla quasi più in dialetto, perché è magnetica senza essere bella, provocante senza essere scoperta, perché non volendo riesce a essere sexy più di tutte le altre e se ne accorge quando è troppo tardi, quando qualcuno già osa delle avances; la odiano anche perché dice cose che loro non possono capire, ma che capiscono essere molto intelligenti: la odiano anche perché non li discrimina mai e non gli dà motivo per odiarla.
Come molti Rino l’ama, l’ama di più di tutti gli altri. Ma lei, anche se forse lo sa, a lui non ha mai detto nulla. Gli altri spesso lo dicono: dicono che è una stronza.
Però l’amano, alla fine, l’amano o la invidiano tutti.
 
Giulietta per prima.
Eccola che scende le scale con quel suo corpo flessuoso, ancheggia quasi fino a sembrare ridicola. Nina la guarda, si accorge del suo comportamento, abbassa gli occhi mentre l’amica comincia a civettare con Rino.
Si dice che non può competere, che lei è cervello e Giulietta è bellezza: e in questa gara, se il giudice è un uomo, il cervello non vince mai.
Che non sarà mai come lei è una sicurezza: Giulietta ha gli occhi chiari proporzionati al viso, la pelle liscia, le mani sottili.
Nina raccoglie in fretta le sue cose, a testa bassa, ma non può non notare gli sguardi languidi che Rino lancia all’amica, e subito dopo quelli penetranti che rivolge a lei. Sta facendo il confronto, si dice, meglio andarsene prima che si accorga definitivamente di come sta sprecando il suo tempo.
 
Saluta velocemente, poi imbocca le scale in penombra.
A metà della rampa si ferma e si volta: Giulietta sta ancora parlando, ma ora Rino sembra annoiato. Intravede un luccichìo sulla gonna della ragazzina.
E non può contenere la lingua, le parole le scattano fuori come coltelli affilati.
“Giuliè, si vede la spilla con cui hai fatto diventare la gonna più corta.”
Giulietta si volta e la fulmina con lo sguardo, Rino ridacchia, Nina corre fuori.
Sono stata un’idiota invidiosa. Si pente immediatamente di quello che ha fatto e si allontana velocemente cercando di scomparire nel cappotto, stringendo al petto i libri.
Il quartiere d’inverno sembra ancora più povero e decadente, il freddo raziona il cibo e ammala i bambini. Le palazzine sembrano quasi abbandonate, senza il brulicare polveroso nella calura dell’estate. Nina sogna di quando andrà lontano in una grande città, forse persino fuori dall’Italia, e avrà una casa grande a tre piani e si abituerà a farsi chiamare Giovanna, non Nina. In quella casa a tre piani scorrazzeranno i suoi bambini, bambini puliti, bambini perbene, bambini che non scorrazzano fra la polvere del rione e che non gridano oscenità alle femminucce. Bambini che non crederanno neanche al fatto che un tempo, alla loro età, gli amici di mamma già lavoravano. E Giovanna si sarà dimenticata il vero nome di Rino e anche quello di Giulietta, forse non ricorderà più i loro volti.
Ma per ora è ancora Nina del Quartiere e Rino e Giulietta e tutti gli altri se li ricorda benissimo.
 
Si sente strattonare, si volta. Rino la guarda col suo sorriso sghembo.
Poco tempo prima si è accorto che forse a Nina potrebbe importare di lui. Ha quattordici anni, non sa ancora bene come funziona il mondo. Tra massimo un anno riderà dell’idea di loro due insieme, ma per ora forse un po’ di bene gli vuole.
La trascina in un vicoletto secondario perché nessuno li veda. Non fanno nulla di strano, ma se qualcuno li vede parlare e lo dice ai genitori di Nina sono guai. Non vedono Rino di buon occhio, lui è un poveraccio e loro si spaccano la schiena per comprare i libri e far studiare la figlia.
“Non sai proprio stare zitta, eh?” ridacchia lui. Lei lo fissa truce, continua a camminare a passo svelto: “No.”
“Ehi, non volevo offenderti.”
“Già.” anche stavolta non riesce a frenarsi. Ha uno scatto brusco del volto, i capelli le finiscono davanti agli occhi e lei li soffia via prima di sibilare: “Guarda che si vede che tu e Giulietta vi piacete.”
BAM. Eccoli di nuovo, pensa Rino: quei grandi occhi scuri che da bambino lo spaventavano, quegli occhi così ostentatamente cattivi da non poterlo neanche sembrare per davvero, quegli occhi che sembrano leggergli dentro. Ora Rino si è abituato a quella sensazione, ogni volta gli viene da sorridere, da stuzzicarla. Gli piace pensare che guardi così soltanto lui.
Non risponde per un po’.
Lei si volta e continua a camminare ancora più velocemente, ma lui ha le gambe più lunghe e la raggiunge in fretta.
“Non mi piace.” ammette però. E’ più forte di lui, la sincerità è il suo punto debole.
Lei fa un sorriso cattivo, cattivo verso se stessa “Non negare l’evidenza”
“Non parlare difficile, non capisco.”
“Hai capito benissimo.”
“Non mi piace.”
“Piantala, dì la verità. Sono tua amica, a me puoi dirlo.” Nina queste parole le ha lette in un libro e infatti non sono sue. Prenderle in prestito da altri sembra la scelta migliore.
Continuano a discutere, entrambi sinceri, entrambi convinti, la ragazza scarmigliata e il ragazzo bruno, lei correttamente, lui in un dialetto rapido. Lo fa apposta, sa che la fa arrabbiare.
“Se proprio non vuoi ammetterlo…” sospira lei, fintamente divertita. Sente un dolore nel petto. Lo sa che quando uno non vuole ammettere una cosa è perché è più vera del vero.
“Perché dovrebbe piacermi?” sbotta lui, al limite. Se insiste così tanto per trovargli una donna è perché ha capito che le vuole bene e vuole staccarselo di dosso.
“Piace a tutti.”
“E’ stupida.”
“E’ bella.”
“Tu sei più bella.”
Silenzio. Si fermano.
L’ha detto. Rino l’ha detto e gli è piaciuto dirlo, quindi lo dice di nuovo.
“Si, Nina, sei bella. Sei bella. Bella, bella, bella.” continua a ripeterlo.
Lei lo guarda a bocca aperta, le lacrime agli occhi. Un libro di latino cade sul marciapiede e nessuno lo raccoglie. E lui continua.
Che vadano a farsi fottere tutti gli altri, lo studio, l’età, il matrimonio.
“Non importa quello che dicono gli altri, per me sei bella. Sei la più bella del quartiere e del paese e anche del mondo. Io il mondo non l’ho visto ma sono quasi sicuro che di belle come te non ce ne stanno.”
Nessuno le ha mai detto una cosa così, anzi. Nella sua scuola è quella povera, quella sciatta, quella cessa.
Vorrebbe dire a Rino che dice così solo perché non è mai uscito dal rione, vorrebbe dire “non è vero”, ma il sussurro non le esce. E pensa che anche se non è vero, se si sta sbagliando, se qualcuno può sentirli, non importa.
Non è una dichiarazione d’amore, non esplicita, quello non si può.
Non si può ed è un peccato, non si può perché lui è Rino e lei è Nina, non si può.
Però si può essere felici, e Rino e Nina stanno facendo questo.
Stanno ritagliando un frammento di felicità dal loro angolo di mondo.
 
Ormai Nina piange, piange a dirotto, in silenzio. Rino ha smesso di parlare.
Il vento smuove i capelli di lei e quelli di lui, il gelo di Febbraio le gela le lacrime prima che possano scivolarle via dalle guance.
Lui non si pente di quello che ha fatto, il cuore gli batte forte, ficca le mani nelle tasche della vecchia giacca. Sorride.
“Ti ho messo così tanta paura?”
Nina scuote la testa e scoppia a ridere. Ride anche lui, ride di cuore: un cuore che ora è più leggero. Non si abbracciano perché non si fa, rimangono a qualche metro di distanza, anche se i loro sguardi annullano lo spazio.
Nel freddo, nel grigio, i loro cuori battono forte, i loro sorrisi illuminano il giorno.
Però Rino torna serio. E, per la prima volta, non parla più in dialetto:
“Ora ascoltami, Ninè, devi farmi una promessa. Io non so chi ti sposerà, ma sicuramente sarà tra molto tempo. Beh, Ninè, sposa solo qualcuno che ti dice una cosa come questa, che ti fa piangere così, che ti fa fare questo sorriso con le lacrime. Fallo per te e se non vuoi fallo per il mondo.” ride. “Credimi, Ninè, questo sorriso illumina il mondo.”
 
Silenzio. E Nina piange ancora, non è triste, però piange.
Anzi triste lo è, perché anche se l’ha detto in un modo strano, ha detto chiaramente che a sposarla non sarà lui. Lui punta quei begli occhi chiari nei suoi, le sorride.
E quel sorriso è contagioso, Nina smette di piangere.
Raccoglie il libro di latino e quando si rialza lui è ancora nella stessa posizione.
“Prometti.”
E le sfugge un sussurro impercettibile.
“Prometto.”
“Eh?”
“Ho detto che prometto. Te lo prometto, Rino.”
Lui sorride e fa un cenno con la mano.
 
Nina lo guarda scomparire, le spalle larghe che si notavano già da piccolo si dissolvono nella nebbia.
E ora ha la certezza concreta che anche nella sua grande casa a tre piani con i suoi bei bambini, anche in una vita futura, ci sarà sempre una persona di cui l’adulta Giovanna non dimenticherà né nome né volto.


 


*saltella e agita la mano e rovina tutta l'atmosfera*
Ma che bello che siete ancora qua.
Lo so che questo capitolo era stralungo, però è stata colpa loro perchè mi hanno costretta a scrivere tanto.
(Colpa di Rino e Nina, intendo)
Qui li vediamo molto più cresciuti, ovviamente. Lascio a voi le osservazioni, però.
Dico solo che amo moltissimo questi due personaggi e ho sempre il terrore di renderli piatti o banali, le loro parole scontate, le loro frasi già sentite.
Ditemi se questo capitolo vi è piaciuto più, meno o quanto il precedente, come ho già detto ci tengo molto e voglio rimediare se ci sono errori!
Un bacissimo
Lee, Rino e Nina

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Capitolo 3
*** Nella nostra polvere (I°) ***



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L'AMORE INFAME è un racconto ideato e scritto da Lee, cioè me. Se vi servirà come fonte di ispirazione mi farebbe piacere che me ne parlaste.
Se me lo copiate vi spezzo le gambine. ^_^



3.
NELLA NOSTRA POLVERE (I°)

Nina ha superato il quarto ginnasio con la media dell'otto.
Quando torna a casa, quel giorno, con la pagella in mano, sua madre è sulla soglia: le ha detto che se non avrà buoni voti smetterà di pagarle i libri. Nina le consegna la pagella con un sguardo di sfida mentre è ancora sulla soglia, le spalle alla tromba delle scale. 
Guarda sua madre mentre strizza gli occhi: non sa leggere, ma capisce i numeri.
Dicono che fosse bella, sua madre. Ora ha quarant'anni, ma il lavoro e i cinque figli le hanno succhiato via la giovinezza. Sembra l'involucro di un albero a cui è stata tolta la linfa, nulla più che un incarto di cartapesta con niente all'interno, un'indole tutta schiaffi e rimproveri che una vita grama le ha affibbiato. Ha la bocca screpolata contratta, rughe profonde sulla fronte, le manca qualche dente e i capelli sono striati di bianco. 
Nina la osserva scorrere i voti, lanciarle un'occhiata assassina alla vista del sette in matematica - non è mai stata brava, con tutto l'impegno - mentre regge in braccio sua sorella Rosa, che ha due anni. Ad un certo punto sgrana gli occhi e Nina capisce che ha visto il dieci in italiano, ma sua madre non le dice niente. Le restituisce il foglio.
- Hai fatto il tuo dovere. E sono contenta che questa stronzata è finita, era ora che badi un po' ai tuoi fratelli. - 
Le molla la sorellina e rientra in casa sbattendo la porta.
Nina sospira, caccia indietro le lacrime. Hanno prospettive diverse. Quella stessa cosa che per Nina assume il significato di futuro, per sua madre è una stronzata.
Ma decide di ignorarla, come ha sempre fatto. Ha tante persone da incontrare ed è sicura che almeno una le darà soddisfazione. Scende a rotta di collo le scale della palazzina con la bambina in braccio che lancia gridolini eccitati.
Quella bambina è nata due anni prima, quando sua madre l'ultima cosa che voleva era un figlio, e sebbene Nina non ci sia mai, le due sorelle si amano moltissimo.
Nina si chiede come sarà il destino di Rosa, se avrà la forza come lei di tirarsi fuori da quella merda, o se finirà sposata prima del compimento dei diciotto anni. Lei sta impiegando tutte le sue energie nel distaccarsene: vuole dimenticarlo, quel posto.
Si sente crudele e forse lo è, ma l'odio per la sua nascita si infittisce quando va nella sua bella scuola del centro, impegnata politicamente, e vede le vetrine e la gente che si saluta cordialmente. E poi ripiomba in quell'inferno di polvere e dialetto, dove i ragazzi un po' più ricchi si trascinano in macchina le ragazzette senza un padre che venga a prenderli a mazzate.
Nina quel posto se lo vuole scordare per sempre.

Giugno ha aggredito il rione con la sua afa pesante, il terreno secco e polveroso delle strade che alza grandi nuvole di terra se ci passa qualche macchina. Nina, con la bella pagella che le scalda il cuore in una mano e la bambina coi riccioli bruni in braccio, cammina rapida. Raggiunge il campo da gioco, fa un fischio ai suoi fratelli. 
Le vengono incontro gridando il suo nome e sbracciandosi. 
Per prima Lella, con quei suoi capelli neri neri e le gambe secche e lunghe, il seno praticamente nullo anche se ha quasi quattordici anni. Non hanno mai litigato, lei e Nina: ognuna ha osservato la vita dell'altra come dietro una teca di vetro, troppo diversa, troppo distante dalla sua.
Lella la scuola la odiava ed è stata felice quando ha smesso, tre anni prima. Sta diventando quel che rimarrà per sempre: parla sboccata, ride sguaiatamente per attirare l'attenzione maschile, gesticola esageratamente. Si trucca di nascosto, imbottisce con delle pezzette il reggiseno, si occupa dei fratelli in modo violento ma efficace. Sembra vecchia nel suo corpo piccolo e quasi da bambina: il volto secco e scavato anche se mangia, le mani piene di croste e vesciche a forza di lavare i panni e passare lo straccio per terra. Porta i segni di una vita passata e futura, sempre uguale, sempre faticosa.
Nina e Lella, Giovanna e Raffaella, non si riconoscono l'una nell'altra ma si vogliono bene, si studiano con una sorta di incredulità attenta e bonaria. Lo sanno entrambe che prima o poi le loro strade saranno così lontane che non si vedranno più, si sentiranno al telefono una volta al mese, e penseranno all'altra con uno strano misto di orgoglio e delusione. 

Dietro Lella corrono i maschietti, Peppe e Mario. Peppe ha undici anni e questo per lui è stato l'ultimo anno di scuola. A differenza di Lella a lui la scuola piaceva, ma i voti non sono stati abbastanza buoni e poi il padre ha bisogno di una mano con il lavoro, quindi da Agosto Peppe lavorerà con lui alla calzoleria. 
Nina da la buona notizia a tutti, Peppe gli fa i complimenti e la abbraccia forte, Mario la guarda in uno stato di ammirazione completa, Lella le dice "brava" ma ci crede poco.
Poi Peppe e Mario corrono a giocare, Lella si siede con Nina su uno dei muretti su cui da piccola la maggiore controllava i fratelli mentre studiava. 
Nina la ascolta raccontare delle amicizie, di chi si è messo con chi, di quello che ha detto male di quell'altro allora dei terzi l'hanno riempito di mazzate. Ascolta senza sorpresa di come Lella le dice in un dialetto stretto che ieri Alfio Marchi ha provato a portarsela in macchina mentre tornava a casa con la spesa.
"E tu che gli hai detto?" chiede, sempre in dialetto, mentre con un occhio controlla Rosa che, seduta a terra, fa dei pupazzetti di fango secco.
"Che poteva andare a farsi fottere."
"E lui?"
"Ha detto che fottere non era divertente senza di me. Io gli ho detto che doveva andare a fanculo."
"Brava." Nina non è disgustata, solo infastidita dal suo stesso accettare quella realtà con cui convive fin  da piccola.
"Poi lui ha girato la macchina e se n'è andato. Forse ha preso la strada per fanculo."
Lella ride sboccata, si ravvia con un gesto esagerato i capelli nerissimi, Nina sorride per non farla restare male. In quel momento, Lella si accorge che Rosa si sta ficcando in bocca della terra. Le sposta in malo modo la mano dalla bocca, le molla un ceffone sulla guancia paffuta, poi la sgrida urlando.
La pelle della bambina si arrossa velocemente, Rosa scoppia a piangere.
Nina la prende in braccio e fissa truce l'altra sorella.
"Quanto sei violenta, mi sembri nostra madre."
Lella fa una risata cattiva che spaventa la maggiore: è la risata delle donne del rione, la risata di chi è abituata a inventare rapidamente insulti fantasiosi gonfiati di parolacce per rispondere male al vecchio ubriaco che ti tocca il culo. E' la risata cattiva di chi attacca per difendere.
"Violenta?" dice "Ma vaffanculo, nostra madre ci riempie di botte da quando siamo piccole. E pure papà. Anzi no, a te no."
Nina sta in silenzio, perchè alla verità non può ribattere.
Lui se le ricorda, le litigate dei genitori, anche se aveva solo quattro anni. Quelle cose non te le dimentichi. 
Quando lei era nata, suo padre non ci era rimasto male più di tanto. Desiderava un maschio, ma era il primo figlio, non era grave, sua madre era giovane. Poi era nata Lella, poi un'altra femmina che avevano chiamato Addolorata, detta Ada.
E lì erano cominciati i guai. Nina li sentiva dalla sua camera minuscola, con Lella stretta al petto e Ada nella culla.
"Solo femmine sai darmi!" diceva suo padre, calmissimo, senza urlare. Però poi Nina sentiva i tonfi, le botte, il rumore di oggetti che cadevano. E le grida arrabbiate di sua madre, senza paura, con l'unico scopo di farlo arrabbiare di più.
Due mesi dopo Ada era morta, e suo padre era parso sollevato.
Ma aveva cominciato a picchiare Lella: non forte, però continuamente. Finchè una volta, mentre salivano le scale, lei era caduta e lui l'aveva trascinata per tirarla su, tanto da farle un livido sul braccio. Allora sua madre gli aveva detto che se toccava un'altra volta una delle sue figlie lei se ne andava con tutte e due, oppure lo ammazzava. Non l'aveva più picchiata tanto - ovviamente qualche schiaffo, anche a Nina - ma le botte per sua madre non erano mai diminuite, anzi: lei sembrava provocarlo apposta.
L'anno dopo, sua madre aveva messo al mondo Giuseppe, e dopo altri due anni Mario. Rosa - Rosaria - era stata solo l'ennesima fatica.

E ora Nina in Lella vede sua madre ben oltre la somiglianza fisica. La vede nei gesti, nel modo di pensare, nelle cattiverie volgari che le scaturiscono dalle labbra: vede Lella fra tre anni già sposata, fra cinque con figli. Però allo stesso tempo vede che Lella ha i paraocchi: che non vuole nessun futuro al di fuori di quello perchè quello è l'unico che conosce.
Così Nina si limita a cullare Rosa finchè non smette di piangere.



 
 
Ho diviso questo capitolo in due parti altrimenti era troppo lungo, se ce la faccio pubblico anche la seconda parte, altrimenti l'avrete domani.
Ci vediamo all'altro, ciau  C:

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Capitolo 4
*** Nella nostra polvere (II°) ***



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L'AMORE INFAME è un racconto ideato e scritto da Lee, cioè me. Se vi servirà come fonte di ispirazione mi farebbe piacere che me ne parlaste.
Se me lo copiate vi spezzo le gambine. ^_^



3.
NELLA NOSTRA POLVERE (II°)


Pochi minuti dopo Nina si lascia alle spalle il campo da gioco e i suoi fratelli, in mano la pagella che ormai è diventata un po' sgualcita, e attraversa le strade del quartiere. Sulla via principale, vicino l'alimentari, incontra Giulietta.
Sono ancora amiche: anche se Nina preferisce spesso la compagnia delle compagne di scuola non può non ammettere che con Giulietta - che ora si fa chiamare Lula - si trova meglio. Hanno in comune un passato e un presente che scorrono vicini e intrecciati, si sorreggono l'un l'altra, così lontane nei pensieri astratti quanto vicine in quelli concreti: sono colonnine che sorreggono la miseria che le circonda, se si appoggiano a vicenda ce la fanno meglio.
Lula è cresciuta e ha messo un po' di curve, indossa un vestito povero ma pacchiano che però sembra piacerle molto.
"Dove vai" le chiede, ma la sua non sembra una domanda.
"Da Rino." risponde Nina senza problemi. Lula sa del loro rapporto di "amicizia", anche se disapprova. Infatti si rabbuia, poi si piega ad aggiustarsi il vestito e i capelli biondi le coprono il viso. Quando si rialza, gli occhi chiari sono freddi.
"Dovresti smetterla di perdere tempo con quello zotico, Ninè. Quello fa finta di ascoltarti ma ti guarda le tette, credi a me, di quello che dici non gliene fotte un cazzo. Tanto non lo capisce, come non lo capisco io."
Quelle cattiverie la colpiscono in pieno petto come un martello. Perchè lo dice? Nina non capisce. La conosce da sempre, non ha mai capito questo suo esplicito discriminare Rino, questo suo odio profondo verso di lui. La guarda: gli occhi sono gelidi, lo sguardo la trafigge e la fa star male, le labbra sono contratte in una linea sottile. 
"Tu ti stai a fa un futuro bello, luccicante:"dice, accorgendosi del dolore negli occhi di Nina "a noi lasciaci qua con le nostre case e la nostra polvere, che ci gestiamo benissimo. Non vogliamo vedere come è là fuori, qua dentro ci stanno già abbastanza casini."
Nina non risponde, vorrebbe solo scappare, lasciarla indietro con tutte quelle mezze verità dolorose. Lula riattacca a parlare del più e del meno, poi d'un tratto assume un tono confidenziale. 
"Ninè, ti dico un segreto."
"Dimmi."
"Mi sto vedendo con Sandro."
"Sandro il figlio del falegname?" dice Nina, un po' stupita, e per abitudine usa l'italiano. Poi si corregge e ripete in dialetto. Lula l'italiano ovviamente lo capisce, ma le fa fatica parlarlo e non le piace. Dice che il dialetto le appartiene e l'italiano no.
"Si, proprio lui. Però non sono più falegnami. Ora hanno aperto il nuovo mobilificio in un quartiere in centro e stanno facendo molti soldi."
"Certo, però c'hanno i debiti con i criminali."
Lula la guarda male e Nina lo sa, lo sa che sta demolendo tutto, ma non le importa: Lula ha messo a nudo la verità di Nina e Nina sta spogliando la sua.
"E' vecchio" aggiunge.
"Sono solo cinque anni, che vuoi che sia."
"Ha ventuno anni, quindi sono sei. Tu ne hai quindici."
"Stessa roba. Però, Ninè, sapessi quanto è bello."
"Dicevi che aveva il nasone."
"Macchè, è fascino. E poi che fisico!"
"Dicevi che era tutta pancia."
"Non l'ho mai detto. Ma mi fa così ridere, oh, Ninè!"
"Dicevi che le sue spiritosaggini erano stupide e volgari."
Lula finalmente scoppia.
"E chi se ne fotte di quello che dicevo, ero una ragazzina insensata e molto stupida! Lui mi vuole bene, mi fa tante gentilezze e si prenderà cura di me!" Nina sta per dire qualcosa ma Lula la trascina in un vicoletto in malo modo.
"Tu fra un po' te ne vai, capisci?" dice sibilando "Tua madre mi ha detto che vai a vivere da una conoscente in città. Brava. Io no, capisci?! Io non ce l'ho il supercervello, e nemmeno i soldi tengo. Io rimango dentro a questa merda e siccome da sola non ne posso uscire mi serve qualcuno che mi tira fuori. Tu avrai una bella vita con chissà chi, io devo pensare a trovarmi un marito che mi dia meno botte degli altri!" grida a bassa voce, quasi con un rantolo. Ha gli occhi lucidi di rabbia e le braccia strette contro il corpo con i pugni chiusi, quasi a trattenersi dal picchiarla. 
Nina rimane dritta di fronte a lei, lo sguardo duro ma incerto.
"Questa è la mia vita, Ninè, a sta merda ci sono affezionata. Sono i miei muri e le mie strade. Fuori da qui non sono niente."
Nina la fissa.
"Ti voglio un bene che non lo sai." le dice forte, in dialetto, e poi la abbraccia. La abbraccia stretta. E mentre stanno abbracciati, Lula piange.
Piange perchè Nina, la verità, non la saprà mai.

C'è ancora una persona che Nina deve vedere, e quasi corre mentre raggiunge il cantiere. 
Lei e Rino hanno continuato a vedersi ma non troppo, quasi a prendere le distanze: un tentativo forse di limitarsi ad un'amicizia distaccata che però funziona male.
Nina si ferma vicino le impalcature dove lavorano gli operai.
"Ue, bellezza, che cazzo ci fai qua?" dice un uomo grosso dall'aria bonaria. In quel momento si gira un ragazzo con la barba nera:
"Ei, Ninè!" non è Rino ma Cristiano, suo fratello. "Aspetta qua, ti chiamo Rino."
E Rino poi arriva, coperto di polvere bianca, con una vecchia salopette e qualche pezzetto di intonaco fra i riccioli bruni. Nina lo guarda e non può fare a meno di sorridere al suo sorriso.
"Ti aspettavo." dice "Allora, com'è andata?" 
Nina gioisce. Se lo ricorda, lo sapeva che quel giorno le davano la pagella. Se n'è ricordato. 
Gliela mostra. Rino sa ancora leggere e quando ha tempo prende anche dei libri, anche se dei suoi studi Nina non sa più niente ed è convinta che abbia mollato da tempo. 
"Dieci?" dice, alla fine. "DIECI IN ITALIANO? Dio, sei la persona più intelligente che abbia mai conosciuto. Cristiano!" grida "Cristià! Questa ci fa il culo a tutti! Ninetta ha preso dieci in italiano!"
Nina è pervasa da un senso di gioia, di soddisfazione: nulla avrebbe potuto farla più felice di quella frase un po' volgare, urlata in dialetto. Forse, se fosse lucida, noterebbe che Rino, nella polvere del cantiere in cui lavora da sei anni, ha usato un congiuntivo. Un congiuntivo, che è raro nel rione quasi quanto i soldi puliti.
Cristiano si gira. "Brava" urla, poi si volta e riprende a lavorare. 
"Anche io devo dirti una cosa."
"Vai."
E Rino comincia. Un fiume di parole un po' in italiano e un po' in dialetto, incasinate, che si accavallano fra loro. Ma Nina è strabiliata: Rino, a sua insaputa, ha frequentato un corso per corrispondenza di economia base, e ha preso il diploma.
Nina è così felice, così contenta, molto più di quando ha visto il suo misero dieci, che ora le pare inutile accanto al diploma di Rino; Rino che ha lavorato tutta la vita, che ogni sera tornava e con una candela studiava statistica ancora sporco di calcinacci.
E si accorge di una cosa. Si accorge che vedere felice lui rende più felice lei, e viceversa. E questo - sebbene impossibile, sebbene strano, inutile, sbagliato - non fa che aumentare la sua felicità. 
Fa una cosa che non aveva mai fatto: si alza in punta di piedi, e lo abbraccia.

Quando Cristiano si gira di nuovo i due stanno ancora parlando e si scambiano un rapido, rigido abbraccio. Continuano a parlare.
Cristiano smette di guardarli. Gliel'ha detto tante volte, "lasciala stare quella, ti rovini il cuore con st'amore infame", ma lui niente.
Suo fratello era sempre stato un po' pazzo, e ora era anche suicida.




 




Lalalala ve l'avevo detto che ero puntuale...
...no scherzo, non è vero.
Per prima cosa voglio dire che so che "primo" e "secondo", se scritti in numeri romani, non necessitano del pallino in alto a destra. Ma l'ho messo lo stesso perchè avevo paura che potesse sembrare una I. 
Detto questo, in pratica questa qui è la seconda parte del capitolo precedente.
Nina, Lella e gli altri fratelli, Lula, stanno cambiando e stanno crescendo. Se Lella non condivide i pensieri di Nina Lula (il cui stesso cambiamento di soprannome indica la crescita), che prima trovava stupido tutto quel faticare di Nina secondo lei inutile ora in qualche parte di lei sta rimpiangendo di non averne avuto nè la capacità nè i mezzi.
Tutte e tre le ragazze si stanno accorgendo che devono crescere, e rapidamente.
Ma ora lascio a voi le osservazioni e mi dileguo, ho già detto troppo.
Un grande bacio e grazie per aver letto
Lee

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Capitolo 5
*** Ipocrisia ***


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4.
IPOCRISIA

 
Nina è contenta, pervasa da quella felicità maliziosa che si impadronisce dei suoi pensieri e non la lascia essere razionale.
Ma Nina ha quindici anni, e preferisce essere felice e maliziosa, che razionale.
Accanto a lei, vicino quel che basta per sfiorarla con il braccio ad ogni passo, sta Eliseo. 
Eliseo va alla sua scuola, è stato il primo che si è accorto di lei davvero, che non ha fatto battute sulle sue origini. Dice che la gente ricca non è affatto migliore della gente povera, e quando lo dice a Nina si scalda il cuore.
Le sembra carino, Eliseo, anche se ha le lentiggini e i denti un po' sporgenti: le piacciono i suoi vestiti raffinati, costosi ma non pacchiani. Quel suo modo di camminare spensierato, come se gli oggetti e le persone dovessero spostarsi per farlo passare; non come i ragazzi del rione, che calcano il terreno pesantemente, quasi a lasciare un'impronta sul mondo per fare in modo che non si dimentichi di loro. 
Le piacciono quelle sue mani sottili e non piene di vesciche, tagli, bruciature, calli e graffi di ogni genere: le piacciono quelle mani che non hanno mai lavorato, la cui più grande fatica è stata tenere in mano una penna. 
E le piace come la guarda. La guarda con desiderio, inutile negarlo. Le guarda il seno e la bocca e il sedere, ma Nina è contenta. E' a suo agio con la malizia, con l'essere desiderabile: al rione questo la spaventa, una volta su due - se è senza un uomo - qualcuno le grida oscenità, prova a toccarla. Persino con i suoi amici si comporta poco femminilmente, loro ci andrebbero pesanti, come sono abituati a fare. E Nina credeva che fosse normale. In città ha imparato a tenere lei il coltello dalla parte del manico. Ha imparato a dosare la sensualità, a decidere quanto farsi desiderare e da chi. E inconsciamente, lo sente come il primo passo verso l'autonomia. 
Decide di farsi lasciare al confine del rione, non vuole mostrargli la sua casa. Come apparirebbero ai suoi occhi le palazzine con i muri scrostati, i bambini zozzi che gridano parolacce, gli uomini violenti, le donne volgari, le ragazze con la lingua rapida, i cani randagi, l'alto tasso di criminalità? 
Apparirebbero per quello che sono, e Nina non vuole.
"Grazie mille per avermi accompagnata." sorride, è in estasi. 
"Sicura che non vuoi che ti accompagni fino sotto casa?"
"No, tranquillo, è qui dietro l'angolo." mente.
E allora, Eliseo fa una cosa che Nina non si sarebbe mai aspettata. La prende per mano e la porta nell'incavo di un muro che un tempo doveva essere stata una porta. E la bacia.
Nina sente il contatto delle sue labbra, sono sottili e fresche, e dapprima piacevoli.
Poi si fanno più insistenti, e Nina prova a respingere il ragazzo. Un bacetto basta e avanza. Ma lui ancora le sue mani ai fianchi di lei e continua a baciarla, sempre più insistentemente, quasi con entusiasmo. Nina capisce che è anche il suo primo bacio: non sa baciare, le labbra si muovono quasi a scatti, c'è troppa saliva.
"Lasciami" mormora. "Lasciami." ripete più forte. 
Lui non la ascolta. Lei gli dà uno spintone che gli fa perdere l'equilibrio.
"E dai, Ninetta, non lo sai? E' così che si fa."
Lo vede tornare verso di lei e viene presa dal panico. Ha il suo sapore in bocca e d'un tratto la disgusta, lo trova repellente; lo vede avanzare e capisce che non ce la farà a respingerlo di nuovo perchè è comunque più forte, dovrà subirsi i suoi baci inesperti e schifosi.
Ma mentre pensa a questo, d'un tratto non vede più Eliseo.
Perchè di fronte a lei c'è qualcun altro. Le da le spalle, spalle larghe. Ricci bruni.
Il nome le esce con un soffio di sollievo e di ansia insieme.
Rino.
 
Ma non fa in tempo a sentirsi sollevata che viene presa dall'ansia.
Rino li ha visti? Ha visto Eliseo fare quello che stava facendo? 
E la risposta le è chiara quando Rino sferra il pugno. E' forte, preciso, non indugia neanche un secondo. Nina è sempre alle sue spalle quando vede Eliseo cadere all'indietro, la casacca grigia sporca di sangue vermiglio.
Il suo sguardo è atterrito, confuso, terrorizzato: il naso storto innaturalmente gli provoca una smorfia di dolore. Non è abituato a queste cose, probabilmente non è mai stato colpito in vita sua: al rione un bambino di sette anni prende più botte di quante ne prenderà lui nella sua intera vita.
E Nina d'un tratto ne ha pena. Con uno scatto che sorprende lei stessa si porta davanti a Rino, le spalle ad Eliseo.
Sente quella frazione di secondo come una grottesca metafora della sua vita: da una parte il rione - violento, irrazionale, ignorante, ma che combatte per lei -, dall'altra la città bene, il suo futuro.
Ma capisce che è nei guai, quando guarda Rino negli occhi.
Non è lui. Ha gli occhi grigi annebbiati da una furia cieca, il volto deformato dall'ira. La camicia bianca troppo larga lascia intravedere i muscoli tesi alimentati dall'adrenalina violenta che gli scorre nelle vene.
Si para davanti a lui, ma mentre lo fa capisce che per Rino non è ancora finita.
"Smettila." dice "Basta."
Rino sembra non sentirla. La guarda negli occhi per una frazione di secondo, poi la scansa. Afferra Eliseo per il collo della giacca, lo tira in piedi sgocciolante di sangue.
"Se la tocchi di nuovo" ringhia "Quanto è vero Dio, io ti ammazzo."
Rimangono qualche secondo così, la tensione palpabile, gli sguardi che uccidono. Poi Rino allenta la presa, e Eliseo fugge incespicando per la strada. 
 
E' silenzio. 
Nina lo fissa con rabbia: umiliata, disperata. Piange silenziosamente.
Ma lo sguardo di Rino la fa piangere ancora di più. E' uno sguardo duro, però quasi remissivo, accondiscendente: è il mare dopo la tempesta, che sembra quasi più bello di prima.
"Come ti sei permesso?" grida lei, in italiano. "Come hai potuto fare questo" indica il sangue a terra "Ad un mio amico? All'unica persona a cui importa - importava - di me, dell'intera scuola?"
E lo sguardo di lui diventa ancora più duro, sarcastico.
"Oh, lui era sicuramente tuo amico, ma non mi sembrava che tu fossi così d'accordo."
"Sono cazzi miei."
 
Lui ride ed è una risata cattiva. Di una cattiveria ostentata ma allo stesso tempo giusta: è la cattiveria della sincerità, che è crudele perché non può essere messa in dubbio.
"Hanno ragione gli altri, sei proprio una stronza."
E quello si, la impietrisce. La lascia immobile ma fragile, quasi che un soffio di vento potesse fare di lei milioni di pezzi. Nina pensa che sarebbe più facile: diventare niente più che un mucchietto di frammenti di vetro lì nella strada deserta.
E' da quell'insulto freddo che capisce che ne hanno parlato di lei, gli altri, e anche tanto. Il tono di Rino le fa intendere che lui si era sempre opposto, l'aveva sempre difesa, ma ora no: ora tutti, persino lui, sono d'accordo su un fatto inconfutabile.
Ninetta è una stronza.
"Io, stronza?"
Mentre lei rimane immobile senza muovere un passo, lo sguardo fisso su di lui, Rino si appoggia ad un muro e si accende una sigaretta. Quella tranquillità serena la fa star male, la colpisce come un destro nello stomaco.
Lui non è affatto turbato da quello che le sta dicendo, non prova nessun sentimento. Tira una boccata e poi farlo, la voce estraniata dal fumo: 
"Stronza, e pure ipocrita."
Ipocrita. Quella parola elaborata suona così strana, inserita nel dialetto volgare che sta usando.
"Perchè preferisci un pezzo di merda come quello, uno che ti bacia di forza e ti molesta, pure se è brutto, perchè è un signore. Io, io che non t'ho mai torto un capello, che t'ho sempre ascoltata mentre parlavi dei tuoi grandi progetti per il tuo merdoso futuro, io che t'ho sempre creduta la più brava, la più bella, la più intelligente, io che mi so' ammazzato di lavoro e di studio perchè ti credevo - 'studiare è il futuro, avremo una vita migliore' - , io no, io ti faccio schifo."
 
Nina se ne sta là, impietrita dal dolore e dalla colpa, i muscoli del viso immobilizzati: ha smesso persino di piangere. Non piange perchè questo dolore è troppo forte. 
Ma Rino ormai continua, freddo e implacabile, alimentato da una forza nascosta, e quello che dice ha il sapore di qualcosa che si è tenuto dentro per troppo tempo, qualcosa che a forza di essere soffocato poi è esploso. E ogni parola è una lama di spada, ogni suono fumoso emesso con tranquillità è una bruciatura.
"E allora vaffanculo, Ninè, quale futuro e futuro. Contano i signori, quelli coi soldi; mo' hai finito con i sogni da bambina e te ne stai accorgendo pure te. Sai la cosa peggiore? Per un periodo pure io mi sono sentito migliore, ho detto: c'ha ragione Ninetta mia, è vero, sarò un uomo migliore di mio nonno e di mio padre e di tutti i miei fratelli, perchè io studio. E allora non fare l'ipocrita, Ninè. Dillo: 'Rino, mi fai schifo perchè sei un poveraccio, un ignorante, un muratore volgare senza una lira, e non sei niente e non sarai niente per tutta la vita.’ Dillo. Voglio sentirtelo dire."
 
La guarda ma Nina ormai non è più Nina. Nina vola lontano, la sua testa vuole staccarsi dal corpo perchè ha paura che tutte quelle cose la faranno crollare. Però quell’ultima cosa la risveglia: la risveglia, perchè è l'unica cosa sbagliata che Rino abbia detto.
Lo guarda e si accorge che lui vuole davvero che lei lo dica, per averne una certezza. Perchè vuole essere così arrabbiato da potersi non accorgere di quanto le sta facendo male. 
"No." e il suo è un sussurro quasi muto. "Non lo dirò mai."
Rino tira un'altra boccata della sigaretta ma non le stacca gli occhi di dosso. "Vigliacca."
Si costringe a guardarla, a guardarla soffrire, spiazzata, ferita: si costringe a farlo, perché così può soffrire quanto lei.
E una parte di lui vorrebbe prendersi a pugni in faccia, correre ai suoi piedi e chiedere perdono, stringerla fra le braccia. Vorrebbe asciugarle con i baci quelle lacrime che le ha fatto scendere, abbracciarla forte per non farla rompere in mille pezzi.
Ma non può. Quello che dice è vero, se l'è tenuto dentro per troppo tempo.
"Tutto quello che hai detto è vero." dice lei, la voce innaturalmente controllata. "Sono una stronza, e un'ipocrita, e ho tanti sogni merdosi. Ma non penso di te quello che hai detto, e non lo penserò mai. E vuoi sapere una cosa, Gennaro? Almeno io ci provo. Io sogno. Io studio."
"Mentre tu sogni" ribatte lui grondante sarcasmo, abbassando gli occhi "Io mi spezzo la schiena a spostare mattoni, mi uccido lavorando anche dieci ore. E tu? Tu sogni."
Si alza in piedi, butta a terra la sigaretta, si dà una pulita ai pantaloni.
"Ciao, Ninè." e si allontana.
Ma lo sforzo che fa per non voltarsi indietro lo uccide, il senso di colpa comincia già ad agire, e lui ha dalla sua parte solo la sincerità: ma non è abbastanza, se come avversario ha un amore infame, logorante, che dura nel tempo e non si spegne mai, si ravviva con l'assenza di Nina quanto con la sua presenza.
E quest'amore combatte, combatte per farlo voltare e quando sente i singhiozzi quasi ci riesce. Si ferma per un attimo, poi l'ha di nuovo vinta e continua a camminare.
Più veloce, però.
Si vergogna di quello che ha detto così tanto che si prenderebbe a pugni.
 
E' quel "Ciao, Ninè." che la fa crollare.
E Nina crolla, fisicamente. Deve sedersi a terra, e piangere. Piange, piange tanto, lascia che i singhiozzi escano forti e frequenti, che le lacrime le bagnino persino dei ciuffi di capelli e glieli appiccichino alle guance. 
Si stringe le ginocchia al petto e per non strillare, per non colpirsi, si morde il labbro e si conficca le unghie nei palmi.
Perchè Rino ha ragione. Ha ragione. E Nina lo odia, lo odia perchè se persino lui, lui che era sempre dalla sua padre, lui che l'adorava, dice che è una stronza, allora deve essere vero.
Nina piange forse per mezz'ora, in una stradina secondaria.
Poi si alza, si dà una sistemata al vestito, riprende la cartella. Si allontana a passo sostenuto e sente di aver lasciato in quel vicolo una parte di se, la stessa che pensava alla casa a tre piani con i bei bambini, eccetera eccetera.
Ha lasciato nel vicolo la Nina che nel presente pensava al futuro.
Ne è uscita quella che costruirà il suo futuro vivendo il presente.

 
 
*si inchina e arrivano i pomodori*
Avete visto come sono stata brava e veloce?
Okay, a parte gli scherzi, questo capitolo è stato tosto.
Volevo trasmettere tutto a 360°, Nina ferita, Rino combattuto, Eliseo che sembra venire da un altro mondo.
Spero di esserci riuscita, questo capitolo è molto importante.
Ringrazio Anan, Graeca, mary028, raffaellaallaguerra (a lei un grazie speciale per le sue recensioni meravigliose, tivubì <3 ), Viandante_ e Anna che hanno messo la storia fra le preferite.
Un grazie enorme anche a tutti i lettori silenziosi, spero di non perdervi!
Un bacio,
Lee

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Capitolo 6
*** La cosa giusta ***


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5.
LA COSA GIUSTA

 
Chissà cosa ci sarà da festeggiare.
Rino li ha invitati tutti in pizzeria, con la scusa che “c’è da festeggiare”.
Per Nina è un periodo buio, festeggiare è l’ultima cosa che vuole. Ora ha sedici anni, frequenta la prima liceo e vive da una sarta conoscente di sua madre, che le affitta una stanza a poco prezzo.
La solitudine nella sua vita è ormai così presente che le fa quasi compagnia.
Dal giorno in cui Rino la distrusse è passato un anno; un anno in cui si sono visti e salutati per strada con sorrisi di circostanza: lui sempre aperto, solare, cordiale; lei fredda, con una scorta infinita di sorrisi falsi e sguardi accorati. Non si sono più parlati e guardati come parlavano e si guardavano prima, sono rimasti conoscenti. Entrambi hanno messo nel dimenticatoio le emozioni che l’altro gli ha dato, sperando che un giorno potranno tornare a tirarle fuori, anche se ci credono poco.
Nina non viene più invitata alle uscite della “banda”, nemmeno quando torna al rione nel finesettimana. Gli altri la evitano, al massimo le sorridono dall’altro lato della strada. Non c’è più quell’odio invidioso di qualche tempo prima, è il semplice accettare un fatto indiscutibile: sono troppo diversi.
Si vede solo ogni tanto con Lula: sono uscite brevi che lasciano l’amaro in entrambe, che le rendono malinconiche, affette dal sentimento di mancanza per come erano prima. Ora fanno a gara a chi ha la vita più bella, a chi ha vinto, e la situazione, sul momento, è paradossalmente a favore di Lula: Nina studia lingue morte e non ha idea di cosa farà dopo – forse l’università, forse no -, appare lontana all’orizzonte l’ombra di un libro che vuole scrivere; Lula si sposerà il prossimo anno con un uomo fatto che possiede due mobilifici in città, il suo futuro più prossimo è ben delineato, ha linee e contorni, niente spazi vuoti da riempire con cataste di libri.
Ma ora Rino li ha riuniti tutti, anche Nina, per festeggiare.
 
Nina è andata a prendere Lula sotto casa, così faranno la strada insieme.
Nina vede Lula e la vede strana, volgare: è truccata pesantemente, gli occhi cerchiati di nero e le labbra vermiglie, dimostra almeno mezza dozzina di anni in più, stretta in quel vestito di un rosa vivo che le mette in mostra i seni piccoli in modo innaturale e quasi ridicolo.
Lula vede Nina e la vede strana, sprecata: niente trucco, capelli sciattamente acconciati, un vestito comprato in città ma che è di una semplicità imbarazzante, niente decori, niente pizzi, niente ricami. Gli occhi cerchiati da occhiaie, arrossati, ma stranamente brillanti nel buio ai limiti del possibile. Uno scialle blu da vecchia a coprirle le spalle, eppure sembra solo più ragazzina.
“Come stai bene” dicono entrambe, poi ridono insieme per la falsità che gli riesce così naturale.
Si avviano insieme per la strada, Lula si mostra molto eccitata per il matrimonio. Nina ascolta educatamente mentre l’amica le ripete per l’ennesima volta tutti i dettagli della proposta di Sandro, dove (nella vecchia falegnameria), come (in ginocchio), quando (due mesi prima) è stata fatta.
Nina prova a raccontarle dello studio, le dice della città, delle vetrine. Enfatizza il tutto con quella sua capacità innata di rimescolare le parole per esaltare i fatti. Perché in fondo Nina, anche se si dice che non le importa niente di quelle stupide gare a chi ha la vita migliore, vuole far  vedere quello che ha, quello che si sta conquistando.
E per un attimo vede gli occhi di Lula brillare dietro tutto quel trucco, rivede la ragazzina furba che rubava le bambole alle altre, quella che a scuola era brillante ma sfotteva la maestra.
E vede che la fa soffrire, tutto questo suo esporre quel che lei non ha avuto, perciò lascia cadere l’argomento.
 
Quando giungono in pizzeria sono già tutti là, seduti ai tavoli miseri ma essenziali di un locale poco fuori dal rione.
C’è Duccio, alto e secco, che lavora all’alimentari con il padre, e sua sorella Teresina, bella, piccola, una brunetta quindicenne dagli occhi sagaci e la lingua svelta. C’è Lino, che Nina conosce bene perché le loro madri sono amiche, con i capelli un po’ lunghi e le braccia forti per portare il carretto dell’arrotino, che le sorride e le dice “Vieni qua, Ninè, guarda quanto sei bella”. C’è Paolo, che parla poco e nessuno capisce mai quello che pensa, ma con un cenno della testa può affidarti la sua vita.
E poi, ovviamente, c’è Rino.
Si siedono e ordinano, fanno rumore, parlano forte. Nina non c’è più abituata, per i primi minuti si sente a disagio. Ma d’altronde tutti, nella pizzeria, urlano così.
Parla poco. Parla poco perché ha troppo da dire.
Su ogni cosa che i suoi amici dicono avrebbe da fare una battuta ironica, un riferimento ad uno scrittore o ad un filosofo, un collegamento con un fatto di cronaca. Ma loro la guarderebbero spiazzati, ci sarebbe qualche attimo di silenzio, riprenderebbero a parlare.
Non scambia con Rino nemmeno una parola perché lui è dall’altra parte del tavolo, però lo osserva: è cambiato molto dal pestaggio di Eliseo. Ora è più adulto, quasi che i famosi diciotto anni l’abbiano cambiato davvero: osserva i suoi amici con una sorta di benevolenza pacata, sorride alle loro stronzate e poche volte mette in discussione le loro osservazioni politiche scorrette sotto tutti i punti di vista.
Però lancia a Nina occhiate che dicono molto, alzate di sopracciglia, mezzi sorrisi furbi.
Ma Nina non risponde. Bruciano ancora sulla sua pelle le parole dell’anno prima; parole crudeli, cattive, vere.
Lui lo sa e ha perennemente uno sguardo di cane bastonato: occhi che chiedono scusa, cenni impercettibili della testa, sorrisi timidi che Nina cancella serrando le sue, di labbra.
Ma non le sfuggono nemmeno le gentilezze che fa a Teresina, seduta accanto a lui: è più piccola di lei di un anno ma sa già muoversi come una donna, ha le dita sottili, i riccioli neri, gli occhi vispi.
Alla fine della pizza, Rino si alza in piedi.
“Vi siete chiesti perché vi ho invitato a cena” dice, in dialetto.
“Nah, a noi basta mangiare.” risponde Duccio forte, e gli altri ridono. La sorella gli fa cenno di stare zitto.
“Comunque” riprende Rino “Volevo dirvi che mi hanno promosso. Ragà, sono caposezione della ditta!”
Si alza un’ovazione generale e persino Nina sorride, piacevolmente sorpresa, e batte le mani.
Eccola di nuovo, quella sensazione.
Quella maledetta felicità speciale che è derivata e direttamente proporzionale alla felicità di Rino.
Quella felicità che è sbagliata ma è la più bella di tutte.
 
“Ninè.” Lino si rivolge a lei, si poggia il mento sulle mani dalle dita intrecciate. Non è un gesto da rione, Nina lo trova strano. “Non ti scocci?”
“In che senso?”
Lino sorride come uno che la sa lunga, si passa una mano sul volto e Nina vede i tagli che si fa affilando i coltelli.
“Forza, ammettilo. Guardati un po’: ora sei una di città, sei fine, non ti pastrocchi la faccia, non ti importa niente di apparire. Di sicuro nella tua testa ci sono tante belle cose intelligenti e libri, e gente famosa che pensa cose ancora più intelligenti delle tue. Però stai qua con noi e fingi di essere come noi, non dici tutte le belle cose che potresti dire, ti fai bastare la nostra compagnia.”
Nina sorride cautamente. Lino non si è mai mosso dal rione e la sua intelligenza si è sviluppata secondo le esigenze del posto: è perspicace ma schietto, ti studia per un po’ e poi ti rigetta addosso quello che ha visto. Nina non lo sa se le sta facendo un complimento o se sta cercando di metterla spalle al muro:
“Ma quale fingere e fingere, Linù. Io sono del rione più di voi, ci sono nata qua, questa è terra mia quanto vostra.”
Lui ride.
“Nina, non ci credi davvero. Non sei quello che nasci, sei quello che diventi. E sono contento che la nostra Ninetta diventi qualcos’altro.”
 
 
Rino ha insistito  per accompagnarla a casa. E Nina, che voleva e non voleva, ha dovuto dire di si.
Ora sono loro due soli che percorrono una strada di terra e di ciottoli alla fievole luce dei lampioni.
Nina sta rigida, le braccia conserte sotto il seno, lo scialle di lana stretto addosso per proteggersi dal freddo settembrino, gli occhi che fissano la strada e si costringono a rimanere freddi, impassibili, insofferenti.
Rino non fa la camminata strascicata che ha di solito, con i suoi amici. Cammina piano, come se volesse guadagnare più tempo possibile, con le spalle curve e i riccioli neri che gli ricadono sulla fronte. Guarda Nina di sottecchi.
“Lo so che sei ancora arrabbiata.”
Nina sorride, sardonica e sincera.
“Avevi ragione.”
“Questo non vuol dire che tu non sia arrabbiata.”
“Anche se fosse?”
“Allora fai bene.”
E’ una risposta inaspettata, quella. Nina si aspettava che sminuisse il tutto, che dicesse che lei esagerava sempre. Invece ha ammesso la propria colpa.
“Mi stai chiedendo scusa?”
“Se lo facessi, mi perdoneresti?”
“La sincerità non è una colpa.”
“Quella non era sincerità.”
“Si.”
“No.”
Nina si para di fronte a lui, in mezzo alla strada. E Rino pensa che non l’ha mai vista così bella.
Con i capelli smossi dal vento, gli occhi lucidi e brillanti alla luce dei lampioni, un’espressione determinata ad uscire dalla confusione della sua mente.
“E allora spiegami.”
Rino le si avvicina, le mani in tasca, lo sguardo rassegnato. Rassegnato perché sarà difficile dire a voce alta quello che, per anni, ha fatto fatica ad ammettere a se stesso.
“Cosa vuoi che ti spieghi? Cosa posso spiegarti? Posso spiegarti che in quel momento, dicendoti quelle cose, stavo soffrendo anch’io? Posso forse spiegarti che non te le meritavi, ma vederti con quello stronzo mi ha riempito di una furia cieca? O posso forse spiegarti che ti desidero e non posso?”
La strada è vuota. Nina trema ma non per il freddo, si stringe ugualmente nello scialle. Il vento le soffia sul volto una ciocca di capelli bruni.
“Vorrei poterti spiegare che da bambino sognavo di sposarti, e ora c’ho diciotto anni e quel sogno non mi dispiace. Solo che è così strano, Ninè. Strano perché se anche tu mi dicessi di si – e lo so, lo so che per il tuo bene non lo farai mai – io forse non vorrei. Ti voglio e non ti voglio, Nina, cos’è questa maledizione che mi affligge?”
Nina scuote la testa e sorride. E’ un sorriso dolce, accompagna Rino nella sua confusione, perché è la stessa che sente lei. Sono nati come anime gemelle – forse -, o come cotta infantile, ma il destino – se c’è – li ha trascinati sempre più lontano. Ora possono soltanto guardarsi e parlarsi, da due parti di mondo opposte e ugualmente diverse.
“Non lo so.” gli si avvicina piano, con passi misurati, i tacchi delle scarpe basse risuonano sul selciato.
E gli è sempre più vicina. Allunga una mano e comincia a giocherellare con un lembo del maglione di lui, che è logoro e bucherellato.
“Forse” dice, con un’ironia sottile nella voce “E’ la stessa che affligge anche me.”
 
Lui vorrebbe baciarla.
In questo momento, ora, sotto la luce fredda del lampione, sul selciato grigio di una strada fra due palazzine, Rino vorrebbe baciarla.
Sotto un cielo di stelle curiose e assorte, testimoni di un amore sbagliato, Rino vorrebbe baciarla.
 
E lei si farebbe baciare.
Con i topolini dei cassonetti come unici spettatori, Nina si farebbe baciare.
Alzandosi sulle punte, si farebbe baciare.
 
Si bacerebbero, ma chi lo sa se saprebbero fermarsi? Con che faccia si saluterebbero nei giorni a seguire, con quali parole riempirebbero le conversazioni di sere future? E con quali rimorsi, con quali rimpianti, si avvierebbero verso il loro futuro?
Lo sanno entrambi che non ce la farebbero. Il baciarsi, qui e ora, trascinerebbe lei giù, sbalzerebbe lui in alto facendogli dimenticare chi è e da dove viene.
Quindi fanno entrambi, insieme, un passo indietro. Costa molto a tutti e due, come se venissero privati di una parte del loro stesso corpo, ma la consapevolezza che stanno facendo “la cosa giusta” rende il dolore sopportabile.
Rino le poggia un braccio sulle spalle.
“Vieni, Ninè, ti accompagno a casa.”


 


Ciao lettori, grazie per essere sopravvissuti fino a qui, attraverso questo interminabile capitolo.
Ho notato che le recensioni stanno diminuendo, se è colpa della storia fatemelo sapere, così che io possa capire cosa c'è che non va. 
Spero di non essere ricaduta nei soliti e banali clichè romantici, e spero che abbiate ancora voglia di leggere, perchè ne accadranno di cose, nei prossimi capitoli.
Un bacio,
la vostra
Lee

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Capitolo 7
*** Non puoi salvare tutti ***




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L'AMORE INFAME è un racconto ideato e scritto da Lee, cioè me. Se vi servirà come fonte di ispirazione mi farebbe piacere che me ne parlaste.

 
6.
NON PUOI SALVARE TUTTI

Nina si guarda. Si osserva soddisfatta – o forse no - nello specchio a figura intera.
Eccola, Nina: diciassette anni compressi in un vestito azzurro carta da zucchero con la vita stretta e la gonna larga, la scollatura quadrata che mette in mostra il collo lungo e il seno pieno. Diciassette anni di capelli bruni raccolti all’indietro, di mani che d’un tratto sono divenute sottili, di scarpe dal tacco basso.
Diciassette anni di lavoro per una vita migliore; oltre ai libri scolastici, per acculturarsi Nina ha preso libri di vari autori dalla biblioteca vicina. Filosofi greci ma anche tedeschi, psicologi, professori, ma anche grandi romanzieri.
Quella piccola stanzetta affittata è stracolma di libri ammucchiati a terra, sulla scrivania, persino in cima al piccolo armadio. Vicino alla testiera della brandina, sul muro, Nina ha attaccato una foto: sono lei e Alberto. Berto è all’ultimo anno e ha dei begli occhi verdi. Stanno insieme da qualche tempo. E’ un ragazzo timido ma le vuole un gran bene, e anche Nina gliene vuole.
“Già, dopo un po’ di tempo si vuole bene anche a un pesciolino rosso.” ha commentato la sua amica Laura qualche tempo prima, ma Nina ha liquidato l’affermazione con un gesto della mano.
Comunque eccola, Nina: ha diciassette anni, una camera in affitto, e sta per andare al matrimonio della sua migliore amica.
 
Sandro e Lula si sposano in una piccola chiesa del rione.
Nina siede sulla terza panca, durante la cerimonia, ascolta poco ma osserva molto.
Osserva il sorriso sornione di Sandro, quello felice di Lula nel suo vestito bianco pieno di fronzoli; osserva i movimenti dei due sposi – quelli di lui maldestri e sbrigativi, quelli di lei assorti e dubbiosi -, ma soprattutto osserva la gente.
C’è tutto il rione. C’è Paolo, che poi è il cugino di Lula, che con quel suo solito sguardo trasparente ma indecifrabile siede ritto insieme ai familiari. Ecco Lino, la smorfia ironica accompagnata da cenni del capo quasi impercettibili.
Nina si accorge con astio che i suoi occhi stanno cercando una persona sola, una persona che dovrebbe ignorare con assoluta nonchalance. Cosa che non succede affatto quando lo vede.
Anche lui la vede, sorride con quel suo mezzo sorriso e si stravacca sulla panca della chiesa. Poi indica l’altare con la testa e alza gli occhi al cielo.
Nina fa lo stesso.
 
Il ricevimento è allestito in un grande ristorante pacchiano, in un grande giardino con una fontana al centro. Tutto è troppo, per i gusti di Nina: troppe decorazioni, troppe persone, troppo cibo.
Vede sua sorella Lella, sedici anni e poche speranze, ubriaca marcia fasciata in un vestito verde con le paillettes. Ride sguaiatamente circondata da ragazzi con sorrisi di scherno e da ragazze nel suo stesso stato.
Lei è seduta ad un tavolo con sua madre e i suoi fratelli più piccoli.
E non potrebbe essere più depressa. Osserva quasi con un compatimento assorto quello che si sta lasciando fortunatamente indietro: le mani di suo fratello Peppe, quattordici anni e già piene di calli da calzolaio, o quelle di Lino Morra, piene di tagli da arrotino. E’ nata in un posto dove il lavoro che fai ti lascia cicatrici indelebili sul corpo. E vale anche per le donne.
Le guarda, quelle sue simili, ad una ad una: quelle un po’ più ricche, quelle un po’ più povere; se non l’hanno sul viso, il segno delle percosse del marito e dell’insoddisfazione, l’hanno negli occhi. E ridono sguaiate, gesticolano, i volti già vecchi, sformati, arrossati dal vino; le dita rovinate strette intorno a calici d’alcool.
Poi guarda Lula. Il volto di bambina, un guizzo irrequieto negli occhi chiari. Nello sguardo, una percezione così con creta del fatto che “qualcosa non va” che mette ansia anche a Nina.
E in quel momento, Nina si ritrova a pensare che Lula sarà bambina ancora per poco. Quella notte, sotto il corpo pesante di Sandro, Lula non avrà più niente di Giulietta.
Diventeranno due entità distinte: la bambina bionda furba e razionale di nome Giulietta lascerà il posto ad un’adulta che si costruirà da sola sulle poche macerie di se stessa che le rimangono, un’adulta che raggiunge a tentoni un futuro che non vuole.
Nina guarda Sandro, ventidue anni e i capelli già radi, i denti storti e un po’ neri, e quell’immagine la fa stare così male che deve uscire.
Si ritrova nel grande giardino, vicino alla fontana, il vento che le disfa l’acconciatura e Nina che lo lascia fare: prega che le spazzi via tutta quella volgarità appiccicosa; quella misera, falsa allegria indotta dall’alcol che la circonda.
Sente dei passi alle sue spalle e sorride. Lo sa che è lui. Conosce il suo passo quasi come il proprio.
“Bello schifo, non trovi?” dice. Rino sorride ironico a quella volgarità che cancella per un attimo la Nina da liceo e riporta indietro la bambina che si trascinava Lella e Peppe fino ai giardinetti, sbuffando perché avrebbe rovinato il libro della biblioteca con la polvere.
“La vedi troppo brutta. L’ha fatto tua nonna, tua madre, tua zia. L’ha fatto Lula, Giulietta. E lo farà tua sorella Lella, e poi Mimma, e Teresina. E tutte le altre che conosciamo. Perché deve essere uno schifo?”
Nina si volta e lo guarda. Lo vede cresciuto, bello, con una consapevolezza un po’ struggente negli occhi grigioazzurri. Nina l’ha sempre pensato: quegli occhi hanno il colore del vento.
E capisce che sta tentando di tirarla su di morale. Vuole farle capire che il suo punto di partenza è troppo alto, come le sue aspettative.
“Ci sono tanti tipi di felicità, Ninetta. Certe persone sono fatte per conoscerne solo uno, altre qualcuno, ci sono persone fortunatissime che riescono a conoscerli quasi tutti. Qualcuno non ne conoscerà mai neanche uno.”
E Nina guarda l’acqua della fontana e in quelle sue ultime parole sente che sta parlando di se stesso, di Rino, di Gennaro.
“Non sei felice, Rino?”
Lui scoppia a ridere. Non c’è risposta a quella domanda, lo sanno entrambi.
Quando smettono, Rino si passa una mano sul volto e fa quasi per allungarla verso Nina, ma poi si blocca e la lascia ricadere lentamente.
Con un sguardo, Nina dà il suo permesso. Rino le prende una ciocca di capelli e gliela sistema dietro l’orecchio. Nina sorride. Il contatto della sua pelle è piacevole, fresco nell’aria tiepida di Maggio. Abbassa gli occhi.
“Ho paura per Lula. Cosa sarà la sua vita?”
“Sarà una vita normale, come la mia. Niente di speciale. Non puoi salvare tutti, Nina.”
Non fa in tempo a pensare che il cespuglio di rose non li copre abbastanza. Non pensa che sua madre potrebbe vederli, o forse sua sorella. Nina non pensa. Lo abbraccia, lo abbraccia perché è la cosa di cui ha più bisogno al mondo.
Poggia la testa sul suo petto, il contatto della camicia bianca contro il volto. Inspira il suo odore quasi a farlo arrivare al cervello per non scordarlo più, per lasciarlo impresso lì. Lui la stringe forte ma con delicatezza, quasi fosse di cristallo. Sente il suo odore leggero, le sue braccia sottili allacciate al collo, il seno contro il petto.
Dio, che cosa darebbe per rimanere così per sempre.
Nina si stacca a malincuore, fa due passi indietro.
“Grazie, Rino. A nessuno posso dire queste cose.”
Lui ridacchia, quasi a sminuire il peso di quella grande confessione che neanche lui può capire quanto lo renda felice.
“Di niente, Ninè. Parlare con te mi nutre il cervello. E’ come se ogni volta mi regali un po’ di intelligenza.”
“Prima o poi finirà” ride lei, una risata amara “E sarò stupida.”
“Questa cosa qua” le picchietta l’indice sulla fronte “non finisce. Non finisce mai.”
 

***

 
La famiglia è tornata a casa. Il padre sorregge la madre, che sghignazza oscenità dettate dall’alcol, e Nina trascina una Lella ubriaca ma arrabbiata. Peppe, Mario e la piccola Rosa dormono nella stanzetta accanto.
Nina lascia cadere Lella su una sedia e va a sistemare la brandina che le farà da letto, lì in cucina.
Nessuno parla, nella stanza solo lo sferragliare del padre che prepara l’altro lettuccio per Lella, la madre che tamburella sul tavolo. Ad un tratto si alza la voce di quest’ultima, impiastricciata, appiccicosa:
“Ti ho visto.” Nina sussulta, fa finta di niente:
“Già, ti vedo anch’io, ma’, e con questo? Guarda come sei ridotta…”
“Non fare la cretina. Ti ho visto con l’operaio, quello là.”
“Ti sarai sbagliata, ubriaca come sei.”
“T’HO DETTO CHE T’HO VISTO!” grida la donna, e con tutta la sua figura esile si slancia verso Nina, malferma sulle gambe. La figlia le tiene testa: più giovane, più piena, più bella. E forse è quel confronto che fa perdere le staffe alla donna, definitivamente.
“Mi spacco la schiena per farti studiare.” sibila davanti ad un padre allibito e ad una Lella interessata e sogghignante; “Non ho intenzione di vederti sposata ad un poveraccio come quello là, mi hai sentito? Preferirei che non avessi mai studiato, tu sei marcia dentro, come tutti noi.”
Le sferra uno schiaffo. Forte, ha il sapore della rabbia e dell’umiliazione.
E’ troppo.
Nina le volta le spalle, e anche se accelera il passo la madre tenta di riacciuffarla. Il padre trattiene la donna, e quando Nina è ormai sulla porta si volta e fissa sua madre negli occhi. E in quello sguardo c’è il conflitto di una vita, l’astrazione contro la materialità, l’ambizione contro l’insofferenza, il passato con il futuro.
“Stai tranquilla ma’, quello a sposarmi non ci pensa nemmeno.”
E’ vero. E’ vero ed è meglio così. Per lei, per lui. Per tutti.
E al suono di “non andare in giro di notte, sembrerai una puttana!” Nina si chiude la porta alle spalle e scende le scale, decisa a non risalirle mai più.



 
Questo capitolo è stato difficile da scrivere, e non ne sono nemmeno pienamente soddisfatta.
E' un capitolo di passaggio, è incentrato sulla grande spaccatura fra Nina e Lula, il quartiere, la famiglia, l'ignoranza.
Mi aspetto dure critiche dalle mie lettrici/lettori.
Ringrazio Black (Flavia) e Graeca, che mi seguono e amano la mia storia.
Ringrazio chiunque recensisca o dica qualcosina sul mio racconto.
Ringrazio anche i lettori silenziosi a cui piace ciò che scrivo.
Un bacio,
Lee
(e si, ho cambiato nome da stardust312 a Thingsthinker)

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Capitolo 8
*** Quella notte ***


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L'AMORE INFAME è un racconto ideato e scritto da Lee, cioè me. Se vi servirà come fonte di ispirazione mi farebbe piacere che me ne parlaste.

7.
QUELLA NOTTE

 
Quella notte deve essere importante e lo sarà.
Quella notte è una notte di Maggio e Nina ha diciotto anni.
Corre il 1961 e sta finendo il suo ultimo anno di scuola. E’ la più brava della classe, ha un nuovo gruppo di amici, le cose con Berto vanno bene, anche se ora lui fa l’università a Venezia. Nina abita ancora dalla sarta che ormai la tratta come una figlia ed ha ridotto al minimo l’affitto della stanza. Torna spesso al rione, ma solo dalla mattina alla sera.
Quella notte la donna che la ospita non c’è, è a trovare un’amica fuori città.
Quella notte la casa è vuota e ci sono solo Nina, e Berto.
Quella notte, Nina farà l’amore.
Ha preparato tutto, si è sforzata di cucinare qualcosa di presentabile, ha indossato la sua camiciola più bella e ha accolto un Berto provato dal viaggio in treno ma felice.
Ora siede davanti a lui, raggiante al punto da illuminare la tavola quasi più della lampada. Lo osserva mangiare di gusto nella stanza modesta, con lo sfondo buio e puntellato di luci della città fuori dalla finestra. La zazzera di capelli chiara e spettinata, gli occhiali che gli scivolano continuamente su naso, quel suo fisico alto e sottile.
Nina non è innamorata di lui, lo sa perfettamente, però gli vuole bene.
Lui le sorride, le prende la mano. Lui, forse, è innamorato.
“Sei bellissima.”
Nina arrossisce. Berto è l’unico che gliel’abbia mai detto. Anzi no, prima c’era Rino. Ma è stato anni prima, e poi non conta.
Finiscono di mangiare, Berto si offre di lavare i piatti mentre Nina sparecchia. Poi si siedono sul divano, cominciano a parlare. Nina non si stuferebbe mai di parlare con Berto: è sempre così interessante, così colto, così istruito. Ha sempre qualcosa di nuovo da raccontarle per stupirla e interessarla. Nina ascolta rapita, si sforza di fare commenti brillanti, si trova in imbarazzo quando Berto si dilunga troppo su argomenti di cui Nina non sa nulla, e poi ride di lei bonariamente quando fa affermazioni sciocche.
Ad un certo punto la ragazza lo bacia a metà di una frase. Un po’ perché non ne può più di sentirsi inferiore, e un po’ perché il vino le ha messo in corpo un po’ di coraggio.
Continuano a baciarsi, lei si mette a cavalcioni sulle sue ginocchia. Lui comincia a farle scorrere le mani sotto la camicia, a contatto con la pelle di lei, e le slaccia il reggiseno.
Si spostano nella camera di Nina e, alla luce dell’abat-jour, continuano a toccarsi.
Lui le sussurra belle parole, lunghe frasi che suonano quasi finte, tratte da qualche libro. Per un attimo Nina desidera la franchezza di Rino, la sua forza gentile, le sue parole semplici che però le fanno brillare gli occhi. Poi torna in sé, guarda Berto.
“Sono pronta.”
 
Non era proprio così che se l’aspettava.
Giace nuda un po’ accanto e un po’ sopra Berto, estremamente scomoda nel lettuccio cigolante. Lui dorme della grossa, un sorriso ebete e felice sul volto.
Nina è rimasta delusa. Ha provato un bel po’ di dolore e pochissimo piacere. Dal momento in cui i loro corpi si sono congiunti, Berto ha smesso di pensare a lei e si è dedicato solo al proprio piacere. E’ stato estremamente lento, anche fastidioso. A Nina veniva da piangere per la delusione, quindi ha chiuso gli occhi, si è morsa la lingua e ha aspettato che tutto finisse. Dopo l’amplesso Berto ha annodato il preservativo, l’ha gettato in un angolo e le è crollato addosso come un peso morto, le ha dato un bacio sull’orecchio e le ha sussurrato un “Grazie”.
Grazie. Come se gli avesse fatto nient’altro che un favore.
Frustrata, Nina si alza e esce dalla stanza, infilandosi le mutande e buttandosi addosso la camicia di Berto. Si sente addosso il suo odore, un odore lieve, tutt’altro che spiacevole. Fra le gambe un fastidio e un dolore leggero che si fa sentire ad ogni passo.
Va in cucina, si fa un tè.
Si siede al tavolo e, guardando fuori dalla finestra, piange.
Piange ma non è triste, tutt’altro. E’ un connubio di sentimenti che le smuovono le lacrime; si sente inesperta, e ha paura di non essere stata abbastanza brava. Si sente strana e pensa di avere qualcosa che non va, perché non è riuscita a provare piacere. Ama Berto di un bene tranquillo, sicuro, conciliante. E allora perché sente che non è abbastanza?
Sorseggia il tè e guarda la città di fuori e si sente piccola e sola e spaurita. Ci sono momenti in cui si è sentita forte, forte di cambiamenti e decisioni prese, forte di una forza che le viene dal rione e dal mondo insieme, dalla semplicità e dalla cultura unite. Ma ci sono anche momenti, come quello, in cui tutte queste cose sembrano non incastrarsi più bene insieme, rivoltarsi le une contro le altre, rendersi spigolose, farle male.
Nina si asciuga le lacrime, si tira su i capelli e li ferma con una matita.
In quel momento, un furioso scampanellare alla sua porta le giunge alle orecchie. Guarda l’orologio: l’una e quaranta di notte.
Confusa e sospettosa si avvicina alla porta con una camminata lenta – il dolore fra le gambe non è ancora del tutto passato - e scruta attraverso lo spioncino.
Non crede ai suoi occhi.
 
“Che ci fai qua?”
“Ti scongiuro; fammi entrare.”
Silenzio.
“Fai piano però.”
 
Nina apre la porta e Rino entra. Ha i ricci neri corti, il naso sanguinante, un labbro spaccato, la voce affannosa. Eppure, anche in quelle condizioni, per Nina ha un che di rassicurante.
Non può crederci. Proprio in quel momento, quella notte, è arrivato Rino.
“Che cazzo hai fatto?” sbotta ricorrendo ad un dialetto aggressivo che nasconde l'ansia, a bassa voce.
Lui non risponde e lei vede il desiderio lampante nei suoi occhi (misto anche a confusione, a dolore e a qualcos’altro). Si accorge quindi di essere ancora in mutande, arrossisce violentemente.
“Sta buono qua, torno subito.”
Si infila un paio di pantaloni di tela e torna in cucina. Rino tiene una mano sotto al naso in modo che non sgoccioli sangue sul pavimento. Nina lo porta in cucina, gli dà della carta e gli fa sciacquare il volto. Rino ama il tocco lieve ma deciso delle sue mani, la freschezza della sua pelle.
“Ora mi dici che cosa ti è successo?”
“Solite cose, Nina. Eravamo fuori con degli amici, un gruppo di fasci* di merda ha cominciato a dare fastidio, li abbiamo massacrati di botte. Poi quelli ne hanno chiamati altri, e li è stato tutto un bordello di gente che scappava. Sapevo che abitavi qua e sono corso, mi dispiace disturbarti, davvero.”
Nina per un po’ non risponde, sollevata dal fatto che sia scampato al peggio.
“Odio la violenza. Ce l’hanno insegnata da quando siamo bambini, dovresti avere la forza di rifiutarti.”
“Non è violenza, è politica.”

“Politica violenta.
“Quelli sono fascisti, non capiscono con le buone.”
“Quindi usi i loro stessi mezzi?”
Rino non risponde. E’ infastidito e insieme ammirato dalle sue considerazioni e dalle risposte pronte. Si ripete che Nina del suo mondo non sa nulla, non può capire.
La ragazza bagna una pezza e gliela poggia sul labbro tumefatto. Sono davvero vicini ora, Rino può contarle le ciglia che ornano gli occhi scuri. Si trattiene dal dirle quello che vorrebbe dire.
“Eri sveglia?”
“Non riuscivo a dormire.”
Gli si siede di fronte, determinata a finire in pace il suo tè – senza pensare a come reagirebbe Rino se sapesse di Berto nell’altra stanza, senza pensare a come farà a mandarlo via. Rino sta in silenzio e cercando di non farsi scoprire lascia cadere ogni tanto lo sguardo sul seno di Nina, appena visibile sotto la camicia.
“Piantala di fissarmi .”
Rino, sogghignando, si sposta per tenere meglio la pezzetta sul labbro e lancia un gemito.
“Che hai, ora?”
“Niente, tranquilla.”
“Ti fa male la spalla?”
“Devono avermi colpito con qualcosa, niente di grave.”
Nina gli si avvicina, gli sbottona la camicia di flanella cercando di restare indifferente.
“Mh, come sei audace.”
“Piantala.”
Però ha ragione. Nina cerca di non guardare i muscoli dell’addome, il petto ampio. La sua pelle emana un calore incredibile. Gli sposta la camicia per lasciare scoperta la spalla destra. Un grosso livido giallo-violaceo scende dalla clavicola alla spalla, decorato da taglietti sottili che perdono poco sangue.
“Con cosa ti hanno colpito?” dice, la voce tremante ma neanche tanto.
Ha l’imprinting del rione e di ciò che succedeva. Non sarà mai una ragazza come le altre, non si impressionerà mai davanti al sangue e alla violenza.
“Potrebbero averlo fatto con un bastone ricoperto di filo metallico.”
“Fantastico.” dice lei, ironica. “Vado a prendere una pomata.”
Scuote la testa e si chiede, allontanandosi, per quale assurdo scherzo del destino Rino sia dovuto piombare lì e imporsi ancora una volta nella sua vita, rovinare la sua notte d’amore.
Rino aspetta pazientemente che Nina torni e dimentica il dolore fisico. La sua presenza lo fa stare bene, gli fa dimenticare di essere Rino. Mentre osserva assorto il salotto modesto della sarta, Rino sente un rumore. Le molle di un letto che cigolano nella stanza accanto, l’inconfondibile borbottio di qualcuno che sogna.
E in quel momento, sentendosi incredibilmente idiota per non esserci arrivato prima, Rino realizza.
Nina mezza svestita, qualcuno che dorme nella stanza accanto – e che, poco ma sicuro, non è l’anziana sarta.
Quando poi le torna verso di lui con la pomata camminando a gambe leggermente divaricate, la cosa gli è così chiara che vorrebbe darsi una botta in testa per tornare ottuso come due minuti prima.
Sente una rabbia cieca montargli dentro, soffocare il dolore fisico, accendergli le iridi chiare.
“C’è qualcuno, di là?” chiede, in dialetto.
Nina non cerca nemmeno di prendere tempo: ricorre ad una verità rapida e schietta, forse errata. “Si, c’è Berto. Il mio fidanzato.”
Quella parola arriva alle orecchie di Rino come dolce e sbagliata insieme. Meravigliosa pronunciata dalle labbra di Nina, stridente perché accanto ad un nome che non è il suo.
Si impone di stare calmo: non stanno insieme, non saranno mai più che conoscenti, Nina è libera di vivere la sua vita e lui deve lasciarla essere libera.
Si impone di stare calmo, di stare zitto, di fare finta di niente. Non ci riesce.
“Ci hai fatto sesso?” la aggredisce in dialetto, volgare, rabbioso. Nina si irrigidisce, lascia salire la bile.
“Non sono cazzi tuoi.”
“Quindi ci hai fatto sesso.” ripete, a denti stretti. Una punta di scherno nelle sue parole diluisce la rabbia, ma soprattutto il dolore. E’ come quattro anni prima, con Eliseo: Rino cerca di ferirla con la verità, ma ferisce se stesso più di chiunque.
Ma Nina non ha più quattordici anni. E’ cresciuta, ha imparato a difendersi e soprattutto ad individuare il dolore nelle persone, soprattutto in Rino. E in quel momento il ragazzo ha uno sguardo avvilito che la prega di continuare a mentire, di non dire la verità.
“Piantala.”
“Ci hai fatto sesso.”
“No, Rino. Ci ho fatto l’amore.” sbotta. E’ pienamente cosciente della potenza di quelle parole, di come lo lasceranno distrutto. Ha distolto l’attenzione dal rapporto carnale, gli sta parlando del suo cuore. Gli sta dicendo che con Berto c’è amore. E l’amore, a Rino, (anche se vuol far credere il contrario) - il suo amore - interessa molto più del sesso.
Infatti Rino boccheggia, impallidisce, diventa rigido. Si alza dalla sedia e getta la pezza sul tavolo con una sorta di rassegnazione verso una grande ingiustizia. Si avvia verso la porta, e Nina legge nei suoi gesti una sofferenza incredibile. Si pente di quello che ha detto, lo prega di lasciarsi almeno mettere la pomata.
Rino non l’ascolta, ma si ferma appena prima della porta. Si volta verso di lei e i suoi occhi sono insieme arrabbiati, delusi, sofferenti e cattivi.
“Pensavo fosse una cosa importante, per te.”
“Lo era. Lo è.”
Lui ride della risata cattiva che fa per non gridare di rabbia. La gelosia lo divora, sente che potrebbe distruggere la casa a mani nude, uccidere quel pezzo di merda, lasciare in piedi solo Nina in quell'apocalisse. 
“Non è vero, evidentemente.” le risponde, in un italiano sorprendentemente corretto e fluente.
“Non sta a te decidere con chi avrei dovuto perdere la verginità.” si altera lei, alzando la voce. “Non hai nessun diritto per decidere della mia vita, hai capito bene? Chi cazzo sei tu, eh? Vieni qui e credi di potermi dire che tutto quello che ho fatto è sbagliato? Beh, credi male.”
Rino la guarda, fuori controllo come poche volte nella sua vita. La guarda e non può far altro che immaginarla nuda, nuda e bellissima, ma sotto il corpo di un altro, che professa il suo amore ad un altro. Immagina qualcuno che le porta via la purezza e immagina Nina regalargliela con il sorriso più bello del mondo, sorriso che però non arriva a lui, non è per lui.
Quella visione lo stravolge.
Non si regala l’amore al primo che passa, così dicevi. Invece eccoti. Sgualdrina che non sei altro.”
Lo schiaffo è stranamente doloroso, mirato, umiliante e dettato dall’umiliazione. Nina lo guarda con rabbia, gli occhi pieni di lacrime. Rino rimane immobile, la guancia che va arrossandosi, un minuscolo sorriso di scherno – scherno di sé, di Nina, di Berto - all’angolo della bocca.
“Io ho fatto l’amore con il mio fidanzato dopo due anni e sono una sgualdrina. Tu chissà quante ragazze hai avuto, protetto dalla notte e dalla reputazione, eppure ti reputi perfetto. Va’ a cagare, Rino, non sei nessuno per decidere di me.”
Lui abbassa lo sguardo, poi lo fissa negli occhi profondi di lei.
“Ci credi, Nina, che non ho mai dormito con nessuna? Di certo mi sono spinto più in là del bacio" ride "ma non sono mai andato fino in fondo. Per chi? Per te. Pensa che coglione, Nina. Io aspettavo te e tu ti chiavi questo qua. Ma hai ragione. Chi sono io per te? Chi siamo noi insieme? C’ho ventun’anni e non ho mai scopato. Però non preoccuparti per me, riparerò stanotte stessa.”
Si volta e si allontana, scende le scale del palazzo. Nina sente il portone in vetro vibrare quando Rino vi sferra un pugno.
Chiude la porta e scoppia in lacrime. Spegne le luci e a tentoni entra nel letto stringendosi a Berto. E’ incredibile, ha continuato a dormire nonostante le loro voci non proprio sussurrate. Sente il fisico ossuto del suo fidanzato e vorrebbe che fosse più grande, più solito, così da proteggerla sempre. Vorrebbe che fosse Rino, anche se in questo momento lo sta odiando.
“Abbracciami, Alberto” mormora, anche se lui dorme; “abbracciami forte, che mi fa male il cuore.”
 
 
Quella notte Rino non pensa a Nina neanche per un momento da quando entra nella stanza di Didi – la puttana del quartiere – a quando ne esce, l’esaltazione che però non basta a coprire la rabbia.
E’ come se volesse tenerla lontana dai pensieri – e dalle azioni – impure. Andiamo, si dice, le hai dato della sgualdrina.
Si odia e odia lei, odia il quartiere e la città e il mondo; aveva immaginato quel momento tante volte, i loro corpi vicini; l'odore della sua pelle ovunque, persino nel cuore; le sue curve morbide e i suoi occhi che guardavano lui. Sarebbe stato attento, non le avrebbe fatto male, le avrebbe sussurrato parole che l'avrebbero fatta piangere di gioia.
Sapeva che era impossibile, ma la speranza è l'ultima a morire.
 
Quella invece notte Nina piange ancora per un po’ e poi si addormenta, sfiancata dalle tante delusioni di quella notte che non è andata come sarebbe dovuta andare.




 



Salve a tutti!
Questo capitolo l'ho scritto d'impulso, quasi in una sola sera, e poi non l'ho neanche rivisto troppo.
Vengono tirate in ballo molte emozioni e io l'ho scritto così, emozionandomi.
[Spero di non aver ecceduto nella volgarità dei termini, serviva a rendere il tutto più realistico, ma avvertitemi se vi risulta particolarmente spiacevole]
Piccole note: come avete letto ormai siamo negli anni sessanta, le ragazze sono più libere (Nina infatti indossa i pantaloni, e anche il fatto di fare l'amore prima del matrimonio era considerato inconcepibile, prima del matrimonio), cominciano le lotte politiche (*il termine fascio, usato in alcuni dialetti, è un sinonimo di "fascista").
Ringrazio Raffaella e mi scuso perchè in questo capitolo il suo alter ego manca (:'D);
Ringrazio le 24 persone che seguono la storia
e come al solito tutti i lettori silenziosi che fanno anche loro la loro parte: 
grazie di seguirmi e recensirmi, di darmi la fiducia in me stessa che mi porta ad aprire la pagina di Word e a cominciare un nuovo capitolo.
Un grande abbraccio,
Lee

 

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Capitolo 9
*** Le anime che partono ***


 
Le onde del mare bagnano la sabbia nerastra e la luce indaco del crepuscolo.
Il sole bacia stanco sei anime alla deriva; sei anime sulla soglia del futuro con un piede già dall’altra parte e l’altro troppo pesante per essere schiodato.
Una di quelle anime partirà per sempre e andrà più lontano di quanto hanno fatto tutte le altre, con la prospettiva di tornare indietro e migliorare le cose.
Un’altra anima partirà, non andrà poi così lontano, ma ci andrà per non tornare più indietro e dimenticare tutto.
Due anime simili e opposte rimarranno dove sono, ferme nelle loro idee, uguali nella loro pochezza di ambizioni.
Un’anima rimarrà dov’è perché non può fare altrimenti.
Un’altra è troppo incomprensibile per svelarsi, anche solo a se stessa.
 
Duccio e Lino sono in acqua, le teste brune che ogni tanto riemergono dal mare ancora caldo dei raggi del giorno. Vogliono arrivare fino alla boa: amano le sfide che li mettono in pericolo.
Teresina, seduta sull’asciugamano, lascia scivolare la sabbia tra le dita, lo sguardo assorto, mentre il vento le spettina i riccioli bruni. Paolo non parla, come al solito, e ascolta la ragazza cianciare degli argomenti più inutili, sulle labbra un sorriso sornione.
Nina e Rino non si parlano, stanno seduti su di due asciugamani distanti e si ignorano. E’ difficile, però.
Ma Teresina non è stupida: è sagace, astuta, un po’ maligna.
“Pà” dice in dialetto stretto al ragazzo seduto vicino a lei “Mi sembri un morto vivente. Vieni, andiamo a fare una passeggiata, così magari resusciti.”
Lo tira su con una mano e gli porge il braccio. Nina li osserva allontanarsi, il ragazzo magro, scarno, e la brunetta ancheggiante con il costume a righe con i volant.
Rimangono in silenzio. Nina vorrebbe potersi alzare e allontanarsi. Rino è capace di rimanere in silenzio per ore, di somministrarle questa lenta tortura senza mai lasciar fuoriuscire una parola; lei no.
Nina deve parlare, sempre. Parla spesso, tanto e bene, ma è solo perché le serve. Le serve parlare, dire le cose come stanno. Le cose non dette le fanno paura, la angosciano, le mettono ansia. Ha bisogno di sentire nell’aria il suono limpido delle voci, ha bisogno di sentire le parole e i pensieri con le orecchie, anche se a volte fa male. Ha paura di chi ha troppi segreti.
 
“Parto.”
Nina era sovrappensiero, pensava al suo non parlare e Rino, invece, parla.
“Cosa?”
“Hai capito.” Rino guarda il mare, gli occhi grigi riflettono le onde e stridono con la pelle abbronzata del torace.
Nina improvvisamente si scopre vuota. E non pensa nulla. Non è felice, non è triste: non malinconica, arrabbiata, stufa, sollevata, sorpresa, angosciata, stupita, elettrizzata, delusa. Nina non è niente.
“Torni?”
“Pensavo mi avresti chiesto se vado lontano, che lavoro farò, o solo perché.” Rino fa una piccola pausa, scuote la testa sorridendo – non davvero. “Mi sorprendi sempre. Comunque non lo so, se torno.”
“Oh.” E questa volta Nina, Nina che parla sempre, è senza parole. Deglutisce a vuoto, si spazzola un po’ di sabbia via dal costume sformato. “Vai lontano?”
“Si.”
“Quanto lontano?”
“Abbastanza.”
“Oh beh, se proprio non vuoi dirmelo lascio stare, potrò vivere senza.” risponde Nina, infantile e indispettita. E’ stufa di cavargli a forza le parole di bocca, è stufa di intavolare da sola conversazioni dolorose.
“Ma certo, Nina, che potrai vivere senza.” dice lui, e la ragazza non riesce a capire se è serio o se la sta prendendo in giro: “Comunque vado a Londra.”
“A Londra?! In Inghilterra? Che ci fai a fare, a Londra?”
Nina è sorpresa. E’ lei quella intelligente, quella che ha faticato tanto per andare via: faticosamente, un pezzo per volta, con costanza. E ora BAM. Rino con un balzo la supera. Supera lei e la Svizzera, la Francia, la Germania, lo stretto della Manica.
Rino si passa una mano fra i capelli, lasciando granelli di sabbia un po’ ovunque, e finalmente la guarda. La guarda e la vede fragile, fragile più che mai. In sogno ha visto il suo volto molte e molte volte, ma era sempre sorridente, a volte arrabbiato, altre innamorato. Ma fragile, mai. Nina è forte di natura, vederla fragile sconvolge le regole base del mondo di Rino.
“A lavorare. Ho trovato un lavoro in un caffè e da lì, poi, si vedrà…”
Rino senza la polvere del quartiere. Il quartiere senza la voce di Rino.
 
“Parto anch’io”
Sorpresa.
Rino si volta di scatto. Niente Nina ad accoglierlo quando tornerà. Perché lui ne è sicuro, tornerà.
“Dove vai?”
“A Roma. Ho ottenuto una borsa di studio per una buona università di Lettere.”
“E dopo?”
“Dopo si vedrà.”
Nina senza la sua brillantezza nell’ignoranza del mondo. L’ignoranza del mondo senza Nina.
 
“E’ così, forse, che deve andare.” Il ragazzo sospira, si sdraia sulla sabbia poggiandosi sui gomiti.
“Credi l’abbia deciso qualcuno?” dice Nina, stendendosi sul suo asciugamano. Gabbiani divoratori di spazzatura si alzano dai secchioni vicini e volano urlanti verso il cielo viola.
“E tu? Pensi davvero che non ci sia nessuno a regolare le nostre vite? Credi che ogni uomo o donna sia abbandonato a se stesso, terribilmente solo? Se questa è la tua visione della vita, la tua vita non deve essere facile.” Sorride e volta la testa verso di lei.
Sorride ed è così bello e Nina non può fare altro che allungare una mano e stringerla alla sua; perché brama il calore della sua pelle, brama la sua voce, desidera un suo abbraccio più di qualsiasi altra cosa.
“Non è Dio.” dice, piano. “E’ un Grande Forse.”
Lui ridacchia, poi si sposta di lato e le si avvicina. “Credo che questo Grande Forse ci odi un po’.”
“Già, decisamente.”
Sono distesi vicini, la testa di lei all’altezza della spalla di lui, le loro dita intrecciate, i respiri a tempo. Rino la desidera più di qualsiasi altra cosa. Potrebbe morire in quel momento e morirebbe con il sorriso.
“Parto Lunedì.”
“Va bene.”
“Lasciati chiedere una cosa soltanto.”
Nina sa già. E mentre lui prova a dire: “Un bacio, Nina, soltanto un bacio..” Nina lo sta  già baciando.
Le loro labbra si avvicinano fino a toccarsi, a combaciare perfettamente. Nina schiude lievemente le sue ed ecco, è la magia.
Rino e Nina, e il sole e la spiaggia e i gabbiani di spazzatura e il mare.
Ed è quello che avrebbe dovuto essere da anni, solo quello. Solo le loro labbra unite e le mani intrecciate, e gli occhi chiusi di Rino – che si aprono ogni tanto per controllare di non star sognando – e quelli grandi di Nina - quasi sempre aperti, nel tentativo di fotografare l’immagine degli occhi suoi così vicini, e delle piccole efelidi scure alla base del naso.
Rimangono così quasi per un minuto, poi Nina si stacca.
Si allontana fisicamente, prende posto di nuovo sul suo asciugamano. Rino rimane sdraiato, quasi passivo, ad osservare i gabbiani che volteggiano.
“Lo sai, Nina, forse è anche per questo che parto.”
Nina lo sa benissimo e non può farci niente.
Corre a tuffarsi in mare, a cancellare dalla pelle il tocco delle sue mani.
 
Teresina trattiene Paolo dietro un canneto, ansiosa di godersi gli ultimi minuti di quella scena.
“Hai visto, Pà? Te l’ho detto che si amano, te l’ho detto, si o no?”
Paolo annuisce, alza le spalle.
“Non parli proprio mai, eh?” sta un po’ in silenzio. “Partono tutti, Paolè. Noi non possiamo partire. Però sta tranquillo, con te il mio segreto è al sicuro.”
Lui si irrigidisce, toglie la mano da quella di lei. “Che segreto? Che cazzo dici?!”
“Te l’ho detto. Io le vedo, le persone che si amano.” si smuove i riccioli, di fronte ad un Paolo interdetto si abbassa il costume e fa vedere il seno. “Vedi? Non succede niente.” si ricompone, tranquillissima.
“E poi,” aggiunge, “Come lo guardi tu, mio fratello Duccio, non lo guarda nessuno.”



 


Terribilmente in ritardo, ma ce l'ho fatta.
E finalmente SI BACIANO *ovazioni e grida di "finalmente"*
Ma se pensate che ora andrà tutto liscio vi sbagliate. Vi sbagliate davvero :)
Perchè a me piace farvi soffrire :) TANTO, really, DAVVERO TANTO.
La parte finale di Paolo e Teresina non era essenziale, ma ho voluto inserirla per mostrare che non solo Rino e Nina,
ma anche altri devono nascondersi a causa dei pregiudizi.
Saluto la dolcissima Elvs con la sua bella recensiore, Graeca che mi è vicina sempre, Black che è come me e Raffaella, lettrice fedele e acuta (^_^).
E saluto anche tutti gli altri, un grande bacio ai 500 e passa lettori silenziosi.
Ciau

Lee
 
IMPORTANTE  CERCO UN NUOVO BANNER. SE NON RIESCO A FARNE IO UNO DECENTE (COSA MOLTO PROBABILE) SI ACCETTANO PROPOSTE. 

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Capitolo 10
*** Lula ***


Rino è partito una settimana prima. E’ partito ed è andato lontano; con un treno, poi un altro, un altro ancora, un traghetto e un altro treno, è andato più lontano di quanto Nina avesse mai potuto immaginare.
Nina partirà tra due giorni. Calca le strade polverose del quartiere con nel petto la malinconia prematura di chi non è ancora partito eppure già brama la terra dove è nato. Una parte di lei spera di non doverci tornare più; spera che le sue orecchie non debbano più sentire gli apprezzamenti volgari dai vecchi seduti ai tavolini del bar, gli insulti delle casalinghe che si mandano a cagare da un terrazzo all’altro mentre stendono i panni. Spera di non doversi più trovare a chiacchierare con volti ridacchianti ma tumefatti dalla violenza, con bambini sporchi che corrono in strada.
Eppure lo sa, che quello è anche in lei. L’andare via di lì non laverà mai tutta la polvere dalla sua pelle, tutti gli insulti dai suoi ricordi. Non dimenticherà mai come si fa ad insultare in dialetto o in che modo bisogna piantare un coltellino svizzero nell’avambraccio dell’ubriaco che ti molesta alle otto di sera.
Nina il quartiere l’ha cucito nella pelle, è in lei sempre e comunque.
 
E’ troppo diversa per rimanere lì, se ne accorge mentre avanza lungo la strada principale. La gente la squadra, le donne bisbigliano, gli uomini ghignano, i ragazzi sfottono. E’ diventata una sorta di fenomeno da baraccone, un pappagallo in una piccionaia. Non la vogliono lì, la gente colta. Non vogliono chi si crede tanto e li fa apparire inferiori.
Nina si sforza di non pensarci, mentre svolta a destra in una strada lastricata male. Il sole di Settembre batte sui vetri opachi delle finestre, sul metallo rugginoso del cancello. Nina entra in un cortile interno, osserva i panni stesi che ondeggiano pigramente al vento; un cane di strada sgranocchia qualcosa all’ombra di un cespuglio. Suona al citofono, nessuno risponde ma il portone viene aperto.
Nina fa un bel respiro, imbocca una rampa di scale dove l’odore di chiuso è così forte che sente i polmoni contrarsi pur di non respirarlo. Sale due piani di scale, poi si ferma.
Lula la sta aspettando in piedi, praticamente aggrappata allo stipite della porta. Il fisico sottile sembra essersi quasi prosciugato per nutrire il bambino che alloggia in lei. La schiena si piega sotto il peso della pancia, il volto pallido, sudato e incavato e la prova delle continue nausee. Eccola, Lula: diciotto anni e la vita che tutti si aspettavano.
“Ehi!” la saluta, ma Lula non risponde. Nina non capisce; è da tanto che non sono più amiche come un tempo, ma Lula aveva sempre mascherato il tutto sotto una falsa benevolenza. Ora invece la squadra con astio, le labbra sottili aspramente serrate.
“Sei venuta.” borbotta.
“A quanto pare…”
Nina ora è di fronte a lei, e non può evitare di fare il confronto; lei bruna, snella ma forte, florida e sana. Lula è pallida e provata dalla vita formata da sette mesi nel suo corpo troppo acerbo, i capelli biondi secchi e sfibrati tirati all’indietro con un mollettone.
A malincuore si sposta dalla porta e avanza barcollando lungo il corridoio spoglio. Nina la segue incerta; la casa è piccola e semivuota, ma non eccessivamente povera. Il mobilificio di Sandro sembra non andare poi tanto bene. I pochi soprammobili sono pacchiani ma non molto costosi, le tende appariscenti ma di scarsa qualità. Lula la scorta in una piccola cucina-sala da pranzo e si lascia cadere pesantemente su una sedia.
“Te ne vai?”
Nina è sorpresa dalla domanda, non se l’aspettava. Il tono brusco la disorienta, ma pensa che forse è colpa della gravidanza e degli ormoni.
“Si.” risponde. “Vado a Roma.”
Lula sospira, si fa aria con un vecchio ventaglio gettando la testa all’indietro. La pelle del collo si tende e Nina può vederle le clavicole sporgenti. La bellezza angelica di un tempo è stata risucchiata dalla forza, dalla necessità di sopravvivenza. E’ magra non perché sta attenta, ma perché vomita qualsiasi cosa ingoi. E’ fragile non perché delicata, ma perché è così debole che potrebbe spezzarsi al minimo impatto con qualcosa di solido. Come, per esempio, Nina.
Esala un respiro fievole, tira le labbra screpolate in un sorriso amaro e scopre i denti bianchi.
“Se solo te ne fossi andata prima, forse non se ne sarebbe andato lui.” sussurra, quasi stesse parlando a se stessa.
“Che cosa hai detto?” Nina si sporge verso di lei, incredula, e in quel momento il volto di Lula ha uno scatto, si irrigidisce, sbarra i grandi occhi chiari. Ora è vigile come un gatto, dritta sulla sedia, con le iridi sfavillanti al sole.
“Hai sentito. E’ per colpa tua che se ne è andato.”
“Non capisco.”
Lula ride, si tiene il ventre con le mani.
“Sei tanto intelligente eppure di persone, tu, non ne hai mai capito un cazzo.”
“Se devi insultarmi, posso andarmene.”
“Non te ne andrai. Non te ne andrai, Nina, perché la verità ti incuriosisce. E il fatto che è sempre stata sotto i tuoi occhi ti incuriosisce ancora di più. Ti credi tanto intelligente, ma non capisci. Lo sai perché ho sposato Sandro?” si indica un livido sull’avambraccio, dove si distingue chiaramente la presa ferrea di tre dita forti “Tu hai pensato che io mi rassegnavo a non trovare niente di meglio. Hai pensato forse che io non meritavo di trovare l’amore, che solo la gente intelligente come te lo trova. Beh, hai pensato male. Io l’avevo trovato, era lui che non trovava me. Lui aveva te. Te, Nina. Brillante, intelligente, divertente. Come potevo io competere?”
Nina si porta una mano davanti la bocca, gli occhi le si fanno lucidi. Lula piange. Piange lacrime di odio e dolore, lacrime di rassegnazione aspra ma tranquilla. Una rassegnazione che il tempo ha freddato ma consolidato.
E ora Lula, con la sua scarsa proprietà di linguaggio, con i suoi vocaboli semplici, sa esattamente cosa dire. Sa quali sono le parole che faranno più male, sa quanto in là spingersi, quanta verità rivelare – tutta.
Lo sa perché ci ha pensato per anni.
“Non me l’hai mai detto.” bisbiglia l’altra, la voce incrinata dal senso di colpa.
“Ho cercato di fartelo capire. Ma comunque a che scopo? Lui amava te, tu lo amavi ma eri una stronza, cosa sarebbe cambiato? Rino non avrebbe mai sposato qualcuna che non fossi tu. Ma non sentirti in colpa, Nina, ho avuto la mia piccola rivincita. Avrai anche per sempre il suo amore ideale, del pensiero, come dite voi intelligenti? Insomma, quello. Avrai sempre il suo amore puro, Nina, ma quello carnale sono riuscita a prenderlo. L’amore della pelle contro la pelle, della bocca sulla bocca, quello l’ho avuto io. Dopotutto, chi le vuole tante belle parole?” domanda, il volto scarno inondato di lacrime amare, gli occhi più grandi del normale mentre mente a se stessa. “Chi vuole sentirsi dire sei bellissima? Quello che conta è la carne, Nina. Il corpo. E forse non credi alle tue orecchie, ma Rino è stato il mio amante. L’amante di Lula, quella stupida; di Giulietta. Forse ti pensava, ma lì c’ero io. Io.”
 
Nina sta immobile. Piange anche lei, protesa verso Lula come per bloccare il flusso di parole. E non può crederci. Aveva ovviamente pensato che Rino avesse avuto altre donne, ma per lei erano sempre state sconosciute. Invece eccola, una di quelle donne, proprio davanti ai suoi occhi. Una donna giovane quanto disperata, costretta ad accontentarsi di un uomo brusco e poi a giacere per amore con uno che amava un’altra: un’altra che, casualmente, era la sua amica d’infanzia.
Nina avrebbe voluto confortarla, forse confortare se stessa, eppure l’unica cosa che fece fu guardare immobile la pancia di Lula.
“Sta tranquilla.” sibilò lei “Non è suo. E’ di Sandro, puoi starne più che certa. E spero che sia un maschio, o patirò le pene dell’inferno.”
“Mi dispiace. Per la storia di Rino, intendo. Non ne sapevo niente.”
“Fai bene a dispiacerti. Ora non potrò nemmeno accontentarmi del suo corpo, sei riuscita ad allontanarmi anche da quello.”
“Non se ne è andato per colpa mia!” Nina alza la voce.
Non può essere, non è vero… Oh, sai che lo è.
“Si invece!” grida Lula, ricominciando a piangere “Era il dolore di vederti e non averti che l’ha spinto lontano e ti giuro, ti giuro che lo capisco! Ma tu no, Nina, tu no. Perché sarai pure intelligente ma sei una stronza, lo sarai sempre. E ti auguro che un giorno potrai soffrire così, perché te lo meriti! Tutti ti amano e tu non ami nessuno, non ti importa di nessuno, esisti solo tu! Ma certo. Nessuno ti merita, sei troppo brillante per tutti.”
“N-non è così.” balbetta Nina, spiazzata dal dolore che Lula sta esternando.
“Oh si, invece. E ora esci da questa casa, mi rovini il bambino.”
Nina si alza, come in un sogno. Attraversa il corridoio come se qualcun altro lo stesse facendo al posto suo, apre la porta come telecomandata.
“Mi dispiace, Giulia.” dice, troppo piano perché possa sentirla “Mi dispiace davvero.”


 
 

ZAN-ZAAN.
Mi prendo gioco dei vostri poveri feels agonizzanti, si.
*sadica Lee*
Anyway, vedo che siete davvero in molti e per questo vi ringrazio e vi esorto ancora a lasciare un piccolo commento, se davvero siete arrivati fino a qui nella lettura.
Grazie a tutti ^_^
Lee

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Capitolo 11
*** Gratitudine e bisogno ***



Rino ha imparato a memoria la disposizione dei tavolini, l’orario di alcuni clienti, il clangore delle tazzine gettate nel lavandino. Ha imparato una nuova lingua nello stesso modo in cui ha imparato come la gente non parli forte, come gesticoli poco, come abbia più spesso un ombrello che una giacca. Ai cambiamenti ci si abitua e trovare lavoro al Coffee Corner, vicino Brick Lane, è stato un vero e proprio colpo di fortuna.
Di giorno lavora molto, di notte si chiude nel bilocale in Marlow Street e studia. Legge. Ha pensato a lungo a questa scelta, e dopo mesi di riflessioni ha deciso che la cosa che gli riusciva meglio era difendere i poveri e gli indifesi, quindi perché non farne un mestiere? Gli hanno detto che “l’avvocato dei poveri non guadagna niente”: di solito risponde che l’avvocato dei poveri, se è povero pure lui, è anche meglio.
Studierà un anno per diventare “barrister”, così li chiamano a Londra, per corrispondenza e frequentando saltuariamente dei corsi al college vicino. Poi, se tutto va bene, farà un anno di apprendistato presso un altro avvocato.
E’ un progetto impegnativo eppure Rino, per la prima volta nella sua vita, sente che sta facendo una cosa dannatamente giusta.
Al lavoro è svelto ed efficiente, dopo cinque mesi di soggiorno parla un’inglese fluente che arricchisce con espressioni dialettali, divertendo i suoi colleghi che provano a ripeterle. Il giovane bell’italiano con i ricci bruni e gli occhi azzurri è ormai parte del Coffee Corner tanto quanto i poster dei Rolling Stones alle pareti.
Lavora di giorno, studia di notte, legge quando ha tempo per arricchire la sua cultura davvero minimale, e poi... beh, poi c’è Hailey.
Hailey è la novità tra le novità. Con gli enormi occhi verdi come una bandiera nel giorno di St. Patrick, i ricci rossi e le migliaia di efelidi sul volto, è l’incarnazione vivente dell’Irlanda del Sud. E’ una ragazza alla mano, con una determinazione ferrea ma una mente poco incline ad accettare opinioni diverse dalle sue. Una volta lei e Rino hanno litigato riguardo i genitori di lei, e Hailey gli ha rovesciato una birra in testa. E’ semplice, Hailey, estremamente semplice: ride quando è felice, piange quando è triste, quando è arrabbiata corruga le sopracciglia inesistenti. Semplice, ma prevedibile. Le cose con lei vanno bene, persino meglio di quello che si sarebbe aspettato.
Tutto sta andando meglio di quanto si sarebbe aspettato.
 
E allora perché Rino quella mattina si alza, e deve scrivere? Non scrivere in generale, non è uno scrittore, lui; deve scrivere a qualcuno di preciso.
Perché sente che ha bisogno del suo odore? Gli sembra un bisogno istintivo, irrazionale. Lo è.
Eppure si alza, si siede al tavolino di lamiera illuminato dalla luce grigia del pallido sole della periferia di Londra. Prende carta e penna. Guarda Hailey, i ricci color carota sparsi sul cuscino, il corpo bianchissimo fra le lenzuola, e sente una fitta di senso di colpa. Ha ancora sulla pelle ambrata l’odore di quella di lei, delicata e algida.
Non stai facendo nulla di male. Stai solo scrivendo una lettera.
Ecco ciò che sta facendo. Mentre scrive, Rino si mantiene distaccato, freddo. Tenta di mantenere una sorta di gentilezza cordiale così poco da lui, una gentilezza un po' finta che nei loro discorsi non c'è mai stata. Ma sono cinque mesi che non si vedono, e non ha nessuna intenzione di aprirsi con lei, se poi lei non lo farà. Ma prova nei confronti di Nina, della brunetta molto più che corpo e cervello, una profonda gratitudine.
Poi chiude la busta, sospira, esce nel rigido freddo inglese e la imbuca nella cassetta delle lettere più vicina, dopo aver comprato in tutta fretta un francobollo.
Si pente nel momento stesso in cui le sue dita mollano la busta e quella piomba nella cassetta insieme alle altre.
Oh-oh. Troppo tardi.
 
Cara Nina,
ti fai ancora chiamare così? O ormai, all’università, tutti ti chiamano Giovanna?
Qui in Inghilterra le ragazze che studiano Letteratura sono tutte occhiali, casa e chiesa. Mi hanno chiesto se fossero così anche in Italia, ma io ho detto di no, perché io conosco solo te, e tu non sei così. Almeno, cinque mesi fa non lo eri.
Cinque mesi. A dirlo non sembra vero. Il grigio dell’Inghilterra a volte sbiadisce persino il sole e la polvere del rione.
Mi manca il sole dell’Italia. A Londra il cielo è grigio tutto il giorno, tanto che a volte la notte sembra luminosa; però è… ordinata. Già, ordinata. Molto più del quartiere, o di tutto il paese.
I Londinesi amano solo tre cose: la Regina, la birra e il rugby. Hanno davvero una regina. E’ una vecchietta con una faccia simpatica: niente a che vedere con quelle storie di re britannici che tagliavano la testa alle mogli.
Lavoro nel solito Caffè e studio da avvocato. Voglio poter difendere chi non si difende da solo. Lo so che al quartiere dicevamo che gli avvocati erano delle sanguisughe, ma dicevamo così tante stronzate che non mi preoccupa.
Come va la vita?
Roma deve essere bella, molto. Tra un paio di mesi, a Marzo, dovrei tornare per un breve periodo. Vorrei passare a salutarti nella Grande Capitale, se non ti dispiace.
Del rione che mi dici? Ho saputo che Paolo ha sposato Teresina. Strana cosa, strana davvero. Ho sempre pensato che paolo fosse… diverso. E i tuoi fratelli, come stanno? Lella, Peppe, Mario e la piccola Rosa. Mia madre mi ha detto che è brava a scuola quasi come eri tu.
Ti devo ringraziare, Ninetta. Perché è grazie a te se sono qui. Mi sembra ieri che stavamo nello scantinato di Giulietta e mi facevi l’alfabeto davanti gli occhi. E’ passato così tanto tempo, probabilmente quando torno mi troverai cambiato. Però, se non fosse stato per te, starei ancora a fare il muratore.
Grazie, Nina, per avermi dato la possibilità di volare via.
Mi mancate tutti.
Con affetto,
Rino
 
 
***
 
Roma ha un fascino disordinato, una bellezza per niente funzionale che ammalia Nina ogni giorno di più. Secoli di arte e bellezza accumulati uno sopra l’altro che danno vita ad un puzzle sconnesso e ancora più bello, ancora più segreto, perché non potrai mai vederlo chiaramente.
Nina ama Roma quasi quanto ama l’università. Dell’università ama i corridoi luminosi, la grande statua nel giardino, l’immensa biblioteca dove ogni giorno lascia un pezzetto della sua anima. Ama la mensa e l’ombra degli alberi, la fontana e le grandi aule. Ma soprattutto, dell’università, Nina nota le persone.
I professori eccentrici, scrittori o filosofi mancati che vogliono far pagare a chiunque il loro mancato successo. I figli dei ricchi, per cui la quota è così bassa che posso permettersi di ripetere l’anno due o tre volte.
Nina spende le notti immersa fra grandi scrittori, china sulla scrivania sommersa da enormi tomi ingialliti, mentre nell’altra stanza sente le focose notti d’amore della sua coinquilina. Tempo prima, se non aveva un esame il giorno dopo, si vendicava e portava a casa Lorenzo.
Lorenzo era tutto ciò che Nina avrebbe mai potuto desiderare. Altissimo e misterioso, con i capelli biondastri, come se avessero il colore del sole ma fossero oscurati.
La chiamava sempre Giovanna, elogiava la sua intelligenza e la esortava a sfruttarla e a “renderla tridimensionale”. Per lui, il tempo impiegato a studiare era sprecato. E la sua era una battaglia sempre in atto, sempre a scontro diretto; suo padre era il professore di filosofia di Nina, e i due non sono mai andati d’accordo. Lorenzo aveva cominciato l’università per laurearsi in Storia dell’Arte, ma aveva mollato, perché il suo sogno era diventare cantautore.
Estremamente colto, incredibilmente brillante, con un sorriso ammaliatore e il dono del “bel parlare”: lo stesso che aveva anche Nina. Solo che Lorenzo, sulla vastità degli argomenti, la batteva decisamente.
Nina sorride e il suo cuore si inacidisce. Il volto da angelo vendicatore di Lorenzo ora le suscita solo fastidio, e un odio più profondo, una vergogna intensa per l’amore che ha provato, una disapprovazione estrema per il guaio in cui si è andata a cacciare.
 
Nina si alza quel giorno e le sembra di svegliarsi in un corpo che non le appartiene. Trova la forza di muovere un passo dopo l’altro, finché non crolla su una delle sedie del tavolo della cucina.
Una ragazza bionda e sottile le poggia davanti una tazza bollente di caffè nero.
- Non credi faccia male? – chiede Nina. Marta, la sua coinquilina, scrolla le spalle.
- Il caffè è la soluzione a tutti i mali. Ah, è arrivata una lettera per te. –
Nina alza gli occhi sulla ragazza e le sorride riconoscente. Leale, fidata, con la battuta pronta, la coinquilina pugliese studentessa di Fisica Astronomica è stata una delle persone migliori che Nina abbia incontrato durante la sua vita.
La cui lista, dopo la brusca eliminazione di Lorenzo, si è ristretta a due soli nomi, Marta compresa.
Nina prende la busta, e il francobollo inglese le fa tremare le mani.
- Cazzo. – mormora.
Marta la guarda assorta mentre Nina legge, divorando il contenuto della lettera, scritta in una grafia sottile ma chiara.
- E’ lui, vero? – dice la bionda, portando alle labbra un cornetto di un paio di giorni prima.
- Lui chi? –
- Ti brillano gli occhi. Ma si, dai, quel ragazzo del tuo quartiere. Ti brillano gli occhi come sempre quando parli di lui. –
Nina arrossisce, poi si prende la testa fra le mani. Quando guarda di nuovo Marta, gli occhi scuri sembrano enormi, due pozzi neri nel bianco cinereo del volto.
- Vuole venire. Non posso farmi vedere da lui in questo stato. Faccio pena. Ho fallito, Marta, ho fallito in tutto. –
- Non dirlo. Non dirlo nemmeno per scherzo. –
Prova a consolarla, senza successo. Nina si mette a braccia conserte e fissa fuori dalla finestra, osservando le finestre di fronte. Chissà come vivono, quelle persone. Chissà se sono tristi, o felici, se gridano di rabbia o piangono di gioia. Chissà quanto le loro vite sono diverse da quella di Nina.
Marta la saluta e esce velocemente.
Nina indugia per un quarto d’ora, prende tempo. Poi si dice che tanto, prima o poi, lo sapranno tutti, quindi meglio cominciare subito.
La ragazza raccoglie i capelli, prende una penna, e comincia a scrivere alla persona numero uno della sua lista. Lascia subito cadere quella sorta di gentilezza formale con cui le ha scritto lui: Nina è una scrittrice e può scegliere diversi stili. E scrive come si sente: scrive diretto, schietto ma fragile.
 
Caro Rino,
non sai quanto vorrei dirti che va tutto bene. Ma sono così patetica che non riesco a mentirti nemmeno via lettera.
Comincerò parlandoti degli altri, perché non voglio sembrare egoista – anche se in realtà sappiamo tutti e due che un po’ lo sono.
Lula ha avuto la bambina. Quel pezzo di merda di Sandro non è stato molto contento, ma ho parlato con Teresina e lei mi ha garantito che se dovesse diventare troppo violento ospiterebbe lei Lula e la bambina – l’ha chiamata Maria – per qualche giorno.
Riguardo Paolo e Teresa, la situazione è un po’ delicata. Preferirei parlarne quando ci vediamo.
Mia sorella Lella si è fidanzata con quello che gestisce la sala giochi, sai, quello che finanzia gli incontri di lotta. Non ho nemmeno provato a dirle che erano soldi sporchi, sai com’è fatta. Basta che somiglino ai soldi, ed è fatta.
Ma quella che sta messa peggio di tutti, Rino, sono io.
Mi credevo tanto brava. Tanto intelligente, tanto studiosa: credevo che bastasse questo a far di me la persona che volevo diventare, credevo che bastasse a farmi diventare una bella persona. Quanto sono stata stupida, se ora ci penso voglio piangere.
Lo so cosa stai pensando, e hai ragione: torno sempre a piangere da te. Ma forse è perché non mi piace farmi vedere debole dagli altri. Di te mi fido, ma se non vorrai vedermi, dopo tutto quello che ho fatto, ti capisco.
Però lasciati chiedere di tornare, per favore, anche solo per un giorno.
Mi basterà vederti un giorno.
Ho probabilmente rovinato la mia vita, e ho bisogno di te. Ho bisogno di vedere che almeno una, delle cose a cui tengo, è rimasta salda. Ho bisogno che tu mi illustri come sono veramente le cose.
Io pensavo di andare bene e ho sbagliato tutto; tu che sei sempre stato buono, onesto, coraggioso, tu sei davvero volato via. Però ti chiedo di tornare, solo per poco.
Ho bisogno di te, Rino.
Ti prego, torna.
Con affetto,
tua
Nina
 
***
 
 
Cara Nina,
parto domani mattina. Sarò in Italia per la sera, ci vediamo dopodomani.
Arrivo, non piangere.
 

 
 

(ORA STARO' MOLTO ATTENTA A NON SPOILERARE)
Lo so, lo soh. Sono in imperdonabile ritardo.
Ma sono stata molto presa da altre cose, tra cui un nuovo abbozzo di LONG chiamata Newcastle's Kids (se volete passare, mi fate felice! ^_^)
Questo capitolo è stato tosto. L'ho riscritto da capo almeno cinque volte, e non sono pienamente soddisfatta del risultato. Spero non abbia fatto calare la vostra opinione della storia. Siete fantastiche, davvero, soprattutto voi che lasciate delle bellissime recensioni :)
Vi invito ancora a farmi notare eventuali errori o passaggi che non vi sono piaciuti molto (con una ragione, però)
Vi amo tanto tanto
Lee
 

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Capitolo 12
*** Il Caos ***


Non c’è parola per definirla meglio, Roma.
Caos.
Un caos di sole che scivola sulle fontane e di gente benvestita che trascina le parole, di bar affollati e viuzze strette, rimbombanti di sampietrini neri, che sfociano in strade così larghe da sembrare piazze. La gente và di fretta, beve il caffè in piedi, parcheggia le macchine di sbieco, urta gli estranei per strada senza nemmeno scusarsi.
Roma è caos, e Rino ne viene investito completamente. E’ dura per lui farci l’abitudine, lui che è passato dalla miseria statica di un quartiere del sud alla compostezza grigia della capitale anglosassone.
Si orienta con difficoltà lungo una strada così lunga che pare incredibile attraversi la città, con palazzi modesti allineati come soldati sull’attenti.
Osserva più volte l’indirizzo sbiadito sul foglietto che tiene in mano, stretto stretto per paura che voli via. Il quartiere dove abita Nina si chiama San Giovanni, è a mezz’ora di metro dal centro; Rino legge negli occhi dei suoi abitanti la stessa pragmaticità socievole della gente che vive al rione.
Svolta a sinistra e si trova in una via più stretta, i marciapiedi fiancheggiati da una fila di macchine ognuno, due bar che si fissano ai lati opposti della strada, una merceria dall’insegna azzurra.
Rino sta cercando il numero del portone, quando la vede.
Che strana, Nina, a vent’anni. Bella, si, come sempre. Bella ma senza la naturalezza dell’infanzia, senza la spensieratezza dell’adolescenza.
Se ne sta china su un libro, seduta al tavolino di uno dei due bar, i capelli scuri tirati indietro da un fermaglio che luccica al sole. Indossa un vestito sbracciato a piccoli pois bianchi che continua ad aggiustarsi sul seno e più in basso, sulla pancia. Quando arriva il cameriere, Nina sorride e annuisce quando quello le chiede se sta aspettando qualcuno.
Rino si risveglia ed accelera il passo, attraversa, la strada, giunge al bar.
Nina lo vede, e succede una cosa strana. Il suo viso sembra rischiararsi di sollievo, le labbra si tendono sul principio di un sorriso. Ma i suoi occhi, oh, i suoi occhi no. Rimangono seri, vigili, come pronti a mettersi sulla difensiva in attesa di un giudizio.
E mentre Rino si chiede quale tipo di giudizio si possa aspettare, Nina si alza in piedi.
Lui impietrisce, sulla bocca un saluto che gela prima di essere pronunciato. Quasi senza accorgersene, Rino fa un passo indietro.
Incredibile.
C’è un bambino, nella pancia di Nina.
Quanti mesi? Quattro? Cinque? Sette? Rino non saprebbe dirlo.
Sa che un bambino, là dentro, c’è sicuramente; un bambino che – indovina – non è il suo.
Sente i nervi tesi, il sangue scorrere più velocemente.
- Hai visto, eh? Che cazzo di casino. –
Non è sicuro di come si sente. Vorrebbe voltare i tacchi e non rivederla mai più: ha combinato l’ennesimo guaio e solo ora si ricorda di lui. Vorrebbe lasciarla sola, libera di addossarsi le proprie responsabilità.
Invece, siede al tavolo.
Stanno un po’ in silenzio, si studiano.
Nina lo osserva, il viso pallido a cui manca il sole del sud, le braccia con l’ombra dei muscoli di quando era un muratore sottopagato e non un aspirante avvocato di Londra.
- Sei stata al Rione, ultimamente? –
Nina lo trova un buon modo di iniziare la conversazione. Le servirà un po’ di tempo, prima di raccontargli tutto. Ha bisogno di sapere che quello è il Rino che si ricorda, e non un altro, non qualcuno a cui la scalata sociale ha dato alla testa.
Annuisce.
- Ho saputo che Lula ha fatto l’ecografia, ora aspetta un altro figlio, – gli racconta – ma non mi ha permesso di accompagnarla. E’ un maschio, comunque. Teresina mi ha detto che se fosse stata un’altra femmina avrebbe abortito.
Rino l’ascolta, ancora diffidente, distaccato.
- Cosa significa che non ti ha permesso di accompagnarla? Eravate buone amiche. –
Nina ridacchia, lo guarda in un modo strano. Una via di mezzo tra la tristezza e la compassione.
- Non ci capisci molto di donne, eh? –
- Non sono affari miei i vostri litigi. – replica lui, punto sul vivo.
- Considerando che non mi vuole più vedere perché secondo lei ho fatto espatriare il suo amante, direi che un po’, almeno un po’, sono affari tuoi. –
Rino rimane interdetto, giusto il tempo di assimilare quelle parole.
- Non c’è mai stato niente. – replica.
- Niente a parte il sesso. –
- Niente amore. –
- Non da parte tua, di certo. –
Lui la guarda incredulo, Nina si accende una sigaretta per dargli il tempo di pensare la prossima domanda. E’ una battaglia. Botta e risposta, accusa e replica. Ne usciranno entrambi feriti, forse nessuno vincitore.
- Da quando fumi? – chiede, resistendo alla tentazione di prenderne una anche lui.
- Più o meno da qualche mese. Più o meno da quando mi ha mollata il mio ragazzo, quando sono stata espulsa dall’università, quando mia madre mi ha urlato insulti al telefono. Forse è stato quando mio fratello Mario (te lo ricordi, Mario? Adesso ha tredici anni ed è un perfetto aspirante criminale) mi ha detto che sono una puttana. Lula ha constatato che ho buttato una vita al cesso e sono finita proprio come lei, solo senza marito. – aspira, butta fuori il fumo - Forse è stato a quel punto, che ho cominciato a fumare.
- Non dovresti fumare in gravidanza. –
L’ha detto. Gravidanza. Nina alza le spalle, non risponde. Porta una mano al ventre, quasi che così possa coprire la vergogna.
- Davvero ti hanno buttata fuori? Dall’università? –
- No. Ho mollato io. Avrei comunque dovuto farlo quando sarebbe nato, tanto valeva non buttare inutili mesi a studiare. Lavoro in una libreria vicina e nel frattempo studio per conto mio. Ma presto non basterà più. Tornerò al rione, Rino. –
Quella notizia lo sconvolge, forse più del bambino. Nina che torna al rione? Questa ritirata la ucciderà, la renderà lo zimbello del quartiere. Sarà costretta a chinare la testa per amore di suo figlio, a sopportare le dicerie e le infamie. Costretta a sentirsi ripetere ogni giorno che ci ha provato e non ce l’ha fatta; che alla fine, poi, non era meglio di nessuno di loro.
- In che senso torni al rione? Non puoi, Nina. –
- Se non mi vorranno, basterà dire che sono stata una stupida arrogante. La mia umiliazione gioverà loro così tanto che non potranno fare a meno di avermi tutti i giorni sotto gli occhi. –
- Non puoi farlo. Non puoi arrenderti, Cristo. – Rino è disperato, come se gli fosse crollato tutto addosso da un momento all’altro.
Si era ripromesso di non farsi coinvolgere, di restare distaccato. Non è più la tua Nina, si era detto.
Invece quella lì è proprio Ninetta, che piange limpide lacrime per la dignità perduta. Come quando a quattordici anni piangeva di rabbia, perché non si sentiva abbastanza per il suo difficile liceo del centro.
Piange in silenzio, poche grandi lacrime. E quelle lacrime sanno di sconfitta, e di coraggio inutile, e di vile ritirata.
Il cameriere li guarda preoccupato.
- Cosa posso fare? – chiede – Potrò girare con la carrozzina per i corridoi dell’università? E chi manterrà me e il bambino? E’ finita, Rino. E’ strano, sai? Come se avessi sempre saputo che sarebbe finita così, ma mi fossi goduta il mio piccolo sogno. Non poteva durare molto, invece è durato anni. E’ stato bello, ma è finto.
- Non era un sogno, dio santo. Era la tua fottuta vita. – sbotta, cercando di contenersi subito dopo. – Hai pensato ad… insomma, sai, no? –
- Aborto? – Nina si asciuga le lacrime con un tovagliolo. – Si. Ma poi ho pensato che qui – si indica il ventre – C’è una piccola cosa viva. E questa cosa potrebbe essere una piccola parte di me, e fra qualche anno potrebbe darmi la mano per strada, e avere una voce simile alla mia. Sentirei che la mia vita, alla fine, è servita a qualcosa.
E Rino, per la prima volta, pensa ad un bambino vero. Un bambino che sarebbe Nina per metà. Si trova combattuto tra la gelosia di non essere l’altra metà e il desiderio di avere davvero una piccola copia del genere.
- Il… padre? – come suona male quella parola – Dov’è?
- E’ il ragazzo di cui ti ho parlato prima. Un coglione patentato. Vuole fare il musicista, lui! – stringe le labbra dal sarcasmo, inarca la sopracciglia. Più ne parla, più sente che quel veleno acido le defluisce dal sangue, smette di inquinarle le vene: - Testa di cazzo. E’ scappato appena gliel’ho detto. Giusto il tempo di raccattare la sua chitarra del cazzo e i suoi brani merdosi, poi ha infilato la porta e se n’è andato. In tour. Non ha neanche una macchina e non conosco nessuno che pagherebbe per ascoltare quella merda. –
Rino sorride, suo malgrado.
- Vai a sentirlo. – dice, ironica – Lorenzo Mendaci. Sarà in qualche pub del cazzo.
- Okay okay, basta parlare di questo stronzo. – dice Rino, ma intanto prende nota mentalmente. – Gli altri, come stanno? –
- Teresina e Paolo si sono sposati. Paolo è sempre stato un po’ strano, ricordi? Tu notasti che fissava sempre Duccio, e lo dicesti davanti a tutti. Quella notte qualcuno lo fracassò di botte vicino casa sua. Nessuno pensò a niente di strano: era il rione, succedeva sempre. Dio, se ci penso ora. Come facemmo a non accorgercene? –
- Non ti seguo, Nina. Accorgerci di cosa? –
- Omosessuale. Paolo lo è sempre stato. Tutti sospettavano e nessuno diceva. –
- Io non sospettavo nemmeno. –
Nina sogghigna – Mai stato troppo perspicace, tu. Comunque, quando lui e Teresina hanno annunciato il fidanzamento, io sono rimasta incredula. Le ho parlato, e lei mi ha fatto un discorso che mi ha lasciato a bocca aperta. Mi ha detto che avevano un accordo: lei chiedeva un matrimonio con un uomo che non fosse violento (al rione, sarebbe più facile chiedere un sicario) e un figlio; lui voleva poter far l’amore con chi voleva. Così è stato. Sono una delle coppie più felici che io conosca. Teresina aspetta una bambina, la chiamerà Rosella, e da loro vive momentaneamente un bel ragazzo di nome Vincenzo, che si spaccia per cugino di Paolo. –
Nina sorride ambiguamente, Rino ascolta rapito le storie della vita che ha lasciato. Quante cose di cui non si è accorto – Paolo, Lula, Teresina – e quante cose che perderà. E’ questo che gli manca, lì a Londra. Il cuore. Il cuore italiano, il cuore del sud; svergognato, sincero, complesso, passionale. Non che gli inglesi non ce l’abbiano, un cuore; ma Rino, al rione, ha conosciuto persone con un cuore così grande da morirci.
- E la tua famiglia? –
Nina sospira, fa per accendere un’altra sigaretta ma la ripone nel pacchetto. E’ di quel gesto che Rino si innamora, per l’ennesima volta. Di un ripensamento, di uno sbaglio, dell’ammissione di un errore. Rino si innamora, di nuovo, ancora e ancora.
E dire che pensava gli fosse passato.
- Mia madre non mi parla. Ha smesso di comunicare anche con Rosa, perché le ricorda troppo me. Ha nove anni e a scuola va benissimo, è la migliore della sua classe. Mio padre sta invecchiando, Peppe lo aiuta con la bottega. –
Sospira ancora, come se si stesse liberando di tante cose che le turbinavano in mente.
- E tu? –
- Io cosa? –
- La vita. –
- Te l’ho detto. Lavoro in un caffè, studio da avvocato. Mi va bene, la vita. –
- Come fai? –
- A fare cosa? –
- A capire sempre quando va bene e quando va male. A capire qual è la cosa giusta da fare, e come rimediare alle cose sbagliate. Come ci riesci? –
Rino scuote la testa, sorridendo.
- Ho fatto così tante cose sbagliate, forse, che ora le so distinguere. –
- Quello anche io – commenta Nina – e rimanere incinta a vent’anni non mi sembra esattamente una cosa fantastica.
Se ne stanno un po’ in silenzio, finalmente ordinano al cameriere sospettoso.
Nina prende a fissare la copertina del suo libro – che Rino scopre essere Il Ritratto di Dorian Gray -, come se potesse cavarne un significato segreto. I capelli folti e scuri le ricadono sulla fronte, e lei li sposta indietro con un gesto frettoloso della mano, come quando era bambina.
Nina è cresciuta. Per un attimo, Rino pensa che forse dovrebbe cominciare a chiamarla Giovanna. Forse è rimasto l’unico a chiamarla Nina, forse l’unico a ricordarsela com’era al rione. Chissà cosa pensa la gente che la vede ora. Chissà cosa immaginano della sua infanzia.
E’ cresciuta, Nina, ora è anche più bella.
Si chiede se sia mai stato innamorato davvero. Forse è stata una grande cotta che si è ingigantita con il tempo, e non c’è mai stato nessun amore. Non dovrebbe pensarci, dovrebbe essere un capitolo chiuso.
- Ho una ragazza. – prorompe, come per frenare i suoi stessi pensieri.
Nina alza gli occhi dal libro, e dopo un attimo di sorpresa sorride. Le suonano strane, quelle parole, ma si convince che non la disturbino più di tanto. Cosa ti aspettavi, si disse, che stesse in ritiro mentre tu rimanevi incinta?
- Inglese? – chiede, maliziosa.
- Irlandese. – dice Rino, e si sente orgoglioso, quasi che sia un punto a suo favore. Ho vissuto anch’io.
- Sono contenta. – e da una parte è vero. Dall’altra, però, la gelosia punge fastidiosamente.
- Abbiamo in progetto di sposarci – mente. Perché lo dice? La reazione di Nina quando ha menzionato Hailey non gli è bastata. E’ sbagliato, forse, ma Rino ha bisogno di vedere che le importa ancora.
Infatti Nina si irrigidisce, sfodera un sorriso falso, e la voce le esce un po’ troppo alta. Una cosa era Hailey, la fidanzatina. Un'altra è Hailey la moglie.
Più del rifiuto brucia la sconfitta. L’aver perso su tutti i fronti. Lavoro, studio, amore. Vita. Le brucia l’aver faticato tutta la vita, e non essere stata mai abbastanza.
Le brucia che anche l’unico che l’abbia mai amata – di un amore incerto e adolescenziale, certo, ma pur sempre amata -, l’unico che abbia avuto il coraggio di starle vicino, se ne sia andato. Si sia arreso, di fronte ad una causa persa.
E questo, essere una causa persa, le brucia più di tutto.
- E’ meraviglioso. – dice, un po’ troppo rigida. – In Italia o a Londra? –
Rino si pente della sua affermazione: non gli piace vederla soffrire, anche se lei gli ha fatto di peggio.
- A Londra, credo. –
Nina guarda l’orologio del bar, finisce in un sorso il suo caffè.
- Mi dispiace, è tardi, credo di dover andare. Passerai al rione? – aggiunge mentre sistema le sue cose nella borsa, con lo sguardo basso. Quando lo alza di nuovo, Rino si accorge che ha gli occhi lucidi.
- Ehi, tutto bene? –
- Lascia perdere, gli ormoni. Ci andrai? –
Rino annuisce, un po’ sbigottito: - Passerò a vedere il mio nipotino. Cristiano mi riempie di sue foto, ha due anni e non l’ho nemmeno mai visto.
Nina annuisce, si alza in piedi. Sorride, si passa due dita sotto gli occhi per non far colare il trucco.
- Odio essere in questo stupido stato. Invitami al matrimonio, eh! –
E prima che Rino possa essersene accorto, la ragazza incinta col vestito a pois sparisce tra la gente.



 


*BA DUM TSS*
No! A quanto pare non sono morta. Ho rischiato la mia preziosa vita negli oscuri meandri di un luogo pericoloso chiamato Liceo Classico, ma sono ancora viva.
Ci ritroviamo, dopo tanto tempo (indovinate come chi)!
Lo so, sono una ritardataria terribile e mi odierete.
A mia discolpa posso dire che questo capitolo è lungo più di tutti gli altri, so... E tra l'altro è ambientato a Roma, che è la città in cui vivo e che amo più di ogni altra
Lo sto pubblicando senza nemmeno correggerlo, è probabile che sia pieno di errori.
Vi invito come al solito a contattarmi/recensirmi per qualsiasi richiesta o critica, se ancora fra di voi c'è qualcuno a cui la storia piace!
Io non finisco quasi mai le mie storie, ma con questa mi sto impegnando, grazie a voi!
Un bacio, siete meravigliosi *si atteggia a VIP e non ci crede nessuno*
Lee

PS: Il cognome di Lorenzo (Mendaci), viene da mendax, mendacis - che è latino - e per chi non lo sapesse significa bugiardo.

 

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